Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

TERZA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2020, consequenziale a quello del 2019. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un Giro di …Giostra.

Nudi e crudi.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

Coppie che scoppiano.

Le scazzottate dei divi.

Gli acciacchi della Star.

Hall of Fame 2020.

Cinema e Musica Italiana da Oscar.

Grande Fratello Vip, perché i Big si (s)vendono così?

AC/DC.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Chechik.

Adriana Volpe.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Agostina Belli.

Ai Weiwei.

Aida Yespica.

Al Bano.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alex Britti.

Al Pacino.

Alena Seredova.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Cantini.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.

Alessandro Preziosi.

Alessia Marcuzzi.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amandha Fox.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sartoretti.

Andrea Vianello.

Andrew Garrido.

Andy Luotto.

Angelica Scent.

Annalisa.

Anna Galiena. 

Anna Pepe.

Anna Valle.

Anna Falchi.

Anne Moore.

Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonio Ricci.

Antonello Venditti.

Antonio Zequila.

Arisa.

Asa Akira.

Asia Argento.

Asia Gianese.

Asia Valente.

Asmik Grigorian.

Autumn Falls.

Baby Marylin.

Bar Refaeli.

Barbara Alberti.

Barbara Bouchet.

Barbara Costa.

Barbara De Rossi.

Barbara D'Urso.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta Porcaroli.

Benji & Fede.

Bianca Balti.

Bianca Guaccero.

Billie Eilish.

Billy Cobham.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brigitte Bardot.

Brigitte Nielsen.

Brunori Sas.

Bugo.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cameron Diaz.

Carla Bruni.

Carla Vistarini.

Carlo Conti.

Carlo Verdone.

Carol Alt.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina Collovati.

Caterina Guzzanti.

Caterina Piretti: Katiuscia.

Catherine Spaak.

Cécile de France.

Charlie Sheen.

Checco Zalone.

Chiara Ferragni e Fedez.

Chrissie Hynde.

Christian De Sica.

Claudia Gerini.

Claudia Galanti.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bergamin.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Clementino.

Clint Eastwood.

Cochi e Renato.

Costantino della Gherardesca.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Daisy Taylor.

Dalila Di Lazzaro.

Dana Vespoli.

Daniela Martani.

Daniela Rosati.

Danika e Steve Mori.

Danny D.

Dante Ferretti.

Dario Argento.

Dario Brunori.

David Guetta.

Davide Livermore.

Davide Mengacci.

Davide Parenti.

Demi Moore.

Diego Abatantuono.

Diego «Zoro» Bianchi.

Diletta Leotta.

Domiziana Giordano.

Donatella Rettore.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Duffy.

Ed Sheeran.

Edoardo ed Eugenio Bennato.

Elena Sofia Ricci.

Elena Sonzogni.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Daniele.

Elettra Lamborghini.

Elio Germano.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stockholma.

Emma Marrone.

Emis Killa.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Nigiotti.

Enrico Remigio: il milionario.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Iacchetti.

Enzo Ghinazzi-Pupo.

Enzo Salvi.

Erjona Sulejmani.

Eros Ramazzotti.

Eva Henger.

Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Evan Seinfeld.

Eveline Dellai.

Ezio Bosso.

Ezio Greggio.

Fabio Canino.

Fabio Rovazzi.

Fabio Volo.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fasma.

Fausto Leali.

Federico Buffa.

Federico Zampaglione.

Ferdinando Salzano.

Ficarra e Picone.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fiorello Catena.

Fiorello Rosario.

Flavio Briatore.

Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Calissoni.

Francesca Cipriani.

Francesca Sofia Novello.

Francesco Baccini.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Nero.

Franco Simone.

Franco Trentalance.

Fred De Palma.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gegè Telesforo.

Gemma Galgani.

Gene Gnocchi.

Georgina Rodriguez.

Gerardina Trovato.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gialappa’s Band.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianfranco D' Angelo.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Gianna Dior.

Gianna Nannini.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi Proietti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giobbe Covatta.

Giorgio J. Squarcia.

Giorgio Moroder.

Giorgio Panariello.

Giovanna Civitillo.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Ralli.

Giovanni Allevi.

Giovanni Benincasa.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Veronesi.

Giuliana De Sio.

Giulia Di Quilio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Cionfoli.

Giuseppe Povia.

Giuseppe Vetrano.

Gue Pequeno.

Gwyneth Paltrow.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hitomi Tanaka.

Hoara Borselli.

Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Imen Jane.

Imma Battaglia.

Ines Trocchia.

Irene Ferri.

Isabella De Bernardi.

Isabella Orsini.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivan Gonzalez.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo D’Emblema.

Jake Lloyd.

Jamie Lee Curtis.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

Jason Momoa.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Jim Carrey.

Joaquin Phoenix.

Joe Bastianich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Jon Bon Jovi.

Jonas Kaufmann.

Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Julija Majarcuk.

Julio Iglesias.

Junior Cally.

Justin Bieber.

Justin Timberlake.

Justine Mattera.

Katia Follesa.

Katia Ricciarelli.

Keanu Reeves.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kristen Stewart.

Lacey Starr.

Lady Gaga.

Lando Buzzanca.

Laura Pausini.

Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Led Zeppelin.

Lele Mora.

Le Las Ketchup.

Le Lollipop.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Levante.

Liana Orfei.

Ligabue.

Liliana Fiorelli.

Lillo&Greg.

Lino Banfi.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Battistello.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lory Del Santo.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

Luca Ferrero.

Luca Guadagnino.

Luciana Turina.

Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Luigi Mario Favoloso.

Luisa Ranieri.

Lulu Chu.

Luna Star.

Macauley Culkin.

Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Madonna.

Maitland Ward.

Malcolm McDowell.

Malena Mastromarino.

Manila Nazzaro.

Manlio Dovì.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marcia Sedoc.

Marco Bellocchio.

Marco Carta.

Marco Castoldi, in arte Morgan.

Marco Giallini.

Marco Giusti.

Marco Masini.

Marco Mazzoli.

Marco Milano.

Marco Predolin.

Margherita Sarfatti.

Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Teresa Ruta.

Marianna Pizzolato.

Mario Salieri.

Marilena Di Stilio.

Marina La Rosa.

Marina Mantero.

Marino Bartoletti.

Mario Biondi.

Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Laurito.

Marta Losito.

Martina Colombari.

Martina Smeraldi.

Massimo Boldi.

Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ghini.

Massimo Giletti.

Matilda De Angelis.

Matt Dillon.

Matthew McConaughey.

Maurizia Paradiso.

Maurizio Battista.

Maurizio Costanzo.

Maurizio Ferrini.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Felicitas.

Max Giusti.

Max Pezzali e gli 883.

Mel Gibson.

Mia Khalifa.

Mia Malkova.

Michael Stefano.

Michela Miti.

Michele Bravi.

Michele Cucuzza.

Michele Duilio Rinaldi.

Michele Mirabella.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosè.

Mika.

Mick Jagger.

Milly D’Abbraccio.

Milva.

Mina.

Mingo De Pasquale.

Mirko Scarcella.

Myss Keta.

Myrta Merlino.

Monica Bellucci.

Monica Leofreddi.

Monica Setta.

Monica Vitti.

Morena Capoccia.

Morgana Forcella.

Nadia Bengala.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Noemi Blonde.

Naomi Campbell.

Niccolò Fabi.

Nicola Di Bari.

Nicola Savino.

Nicole Grimaudo.

Nicoletta Mantovani.

Nicolò De Devitiis.

Niko Pandetta.

Nina Moric.

Ninetto Davoli.

Nino Formicola.

Nino Frassica.

Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ottaviano Dell'Acqua.

Pamela Anderson.

Paola Barale.

Paola e Chiara.

Paola Ferrari.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino.

Paola Turci.

Paolina Saulino.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Conticini.

Paolo Jannacci.

Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Sorrentino.

Paolo Virzì.

Pasquale Panella.

Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Patrizia De Blanck.

Patrizia Mirigliani.

Patti Smith.

Paul McCartney.

Peppino Gagliardi.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Pif.

Pilar Fogliati.

Pino Donaggio.

Pino Scotto.

Pino Strabioli.

Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Placido Domingo.

Plinio Fernando.

Pooh.

Quentin Tarantino.

Raffaella Carrà.

Rancore.

Raoul Bova.

Red Ronnie.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Righeira.

Ringo.

Ringo Starr.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Pavone.

Rita Rusic.

Robert De Niro.

Roberta Beta.

Roberta Bruzzone.

Roberto Benigni.

Roberto Bolle.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocco Steele.

Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Rockets.

Rosanna Lambertucci.

Roy Paci.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvo Veneziano.

Samantha De Grenet.

Sandra Milo.

Sara Croce: "Bonas".

Sara Tommasi.

Sarah Slave.

Sean Connery.

Selena Gomez.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sergio Sylvestre.

Sergio Staino.

Sfera Ebbasta.

Shannen Doherty.

Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Sharon Mitchell.

Sharon Stone.

Silvia Rocca.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O'Connor.

Skin.

Sofia Siena.

Sonia Bergamasco.

Sophie Turner.

Sylvie Lubamba.

Spice Girls.

Stefania Sandrelli.

Stefano Bollani.

Stefano Fresi.

Stella Usvardi: Kicca Martini.

Steve Holmes.

Susanna Messaggio.

Suzanne Somers.

Tazenda.

Taylor Mega.

Taylor Swift.

Tecla Insolia.

Teo Teocoli.

The Kolors.

Tinto Brass.

Tiromancino.

Tiziano Ferro.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Tommaso Zorzi.

Tony Binarelli.

Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Tony Dallara.

Tony Sperandeo.

Tony Vilar.

Tosca Tiziana Donati.

Traci Lords.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ursula Andress.

Valentina Nappi.

Valentina Pegorer.

Valentina Sampaio.

Valentine Demy alias Marisa Parra.

Valeria Curtis.

Valeria Marini.

Vanessa Incontrada.

Vasco Rossi. 

Vera Gemma.

Verona van de Leur.

Veronica Maya.

Victor Quadrelli.

Victoria Cabello.

Vincenzo Mollica.

Viola Valentino.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Wanda Nara.

Willie Garson.

Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Zaawaadi.

Zucchero.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

70 anni di moda e glamour in mostra.

Sanremo 2020, le 10 canzoni più bizzarre mai presentate in gara.

I Comizi di Sanremo.

Sanremo in salsa Leopolda.

Finalmente Sanremo…oltre le polemiche.

Il Debutto.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

L’ultima Serata.

Pronti per Sanremo 2021.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le competizioni stravaganti.

Gli Spartani: i masochisti dello sport.

I Famelici.

Quelli che…Lottano.

Quelli che l’Atletica.

Quelli che…le Biciclette. 

Quelli che…il Calcio.

Quelli che…la Palla a Volo.

Quelli che…il Basket.

Quelli che…Il Rugby.

Quelli che…i Motori. 

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…le Lame.

Quelli che…sulla Neve.

Quelli che…il Biathlon.

Quelli che …in Acqua.

Quelli che…lo Skate.

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

TERZA PARTE

 

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        J-Ax.

"Io, anarchico libertario né con Salvini ma neppure con il Pd". Il rapper canta per la legittima difesa delle donne violentate. «A Sanremo polemiche da poveretti». Paolo Giordano, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Ricordate il J-Ax degli anni Novanta, considerato il maranza arricchito con gli Articolo 31? Scordatelo. Oggi Alessandro Aleotti detto J-Ax è uno dei pochi cantautorap che parlino chiaro e che sappiano argomentare posizioni difficili senza scadere nel qualunquismo più becero. Ora pubblica il nuovo disco ReAle con un titolo che «gioca con l'abitudine rap di definirsi Re e con il mio nome». Non saranno reali, ma queste diciotto canzoni hanno testi agili, spesso divertenti (Mainstream e Il terzo spritz ad esempio), sempre molto focalizzati. Lui scrive bene, bisogna ammetterlo. In più il disco è pieno di featuring, da Enrico Ruggeri, che rappa come se fosse il suo mestiere, ad Annalisa, Boomdabash, Pezzali e Paola Turci. «È un classic Ax», lo definisce lui, milanese 48enne, rapper della prima ora, creativo e coraggioso e vittima (come i migliori artisti) del «complesso dell'impostore» che gli fa credere di non meritarsi quello che ha ottenuto. Risultato: è condannato a migliorare sempre. In poche parole, a cinque anni dal suo disco Il bello di esser brutti e dopo la sua collaborazione con Fedez in Comunisti col Rolex esce il suo miglior disco di sempre e, come spiega lui, «non sono un comunista con il Rolex come disse Salvini, anzi: vivo a Milano in zona Maciacchini dove ci sono italiani non di origine italiana e vado in giro tranquillo».

Però conserva sempre il senso dell'ironia. In Mainstream (la scala sociale del rap) elenca i 20 passaggi tipici del rapper dai «commenti con odio agli artisti emergenti» fino al numero 1 che «vuol dire che sei morto». J-Ax in che posto è?

«Sono al numero 2, ossia un artista a tutto tondo, il popolo ti ama ma la gente più alla moda ti dà dello stron..».

Una nuova lettura della famosa definizione di Arbasino su giovane promessa, solito str... e venerato maestro.

«Eh sì, al numero uno in Italia ci arrivi solo se schiatti».

In Beretta giustifica la legittima difesa di una donna ormai esperta a «coprire i lividi con il trucco».

«Credo nella legittima difesa di una donna che subisce abusi per anni e che non viene protetta dallo Stato. Anche se i giornali danno contro a chi si fa giustizia da solo, giustifico il gesto della signora in questione con una pistola Beretta che fuma sul tavolo in cucina di fianco a lattine vuotate imbottite con i mozziconi di siga. Anche in Italia non è difficile avere una Beretta (lui è un ottimo tiratore - ndr), non so se sia colpa della pistola, ma sono sicuro che lui non la picchierà più. Di sicuro sono un anarchico libertario che si aspetta leggi più morbide sulla legittima difesa».

Un testo forte.

«Almeno Salvini la smetterà di dire che sto con il Pd».

Magari le risponderà via social. Spesso vi siete beccati.

«In realtà mi aspetto più critiche dalla sinistra».

Ma è femminista?

«Esistono anche uomini che subiscono violenza, quasi sempre psicologica. Non so se sono femminista, magari lo sono ma non mi definisco così. L'uomo che si definisce femminista mi ricorda più uno zerbino che lo dice per farsi mettere like sui social dalle tipe».

Nel disco c'è una alternanza tra brani impegnati e brani... come dire?

«Cazzoni?».

Ecco.

«Lo faccio per farmi perdonare i testi più pesanti».

Ad esempio Quando piove, diluvia?

«Racconta della settimana dopo l'uscita dalla società Newtopia, nella quale mi è successo di tutto: da un controllo della Finanza a uno scherzo delle Iene sulla mia attività con la cannabis light legale. Scherzo peraltro mai andato in onda perché fondato su presupposti sbagliati, ma che angoscia!».

Poi era appena uscito da Newtopia la società con Fedez. Si considera «un traditore»?

«Basta chiedere in giro per sapere com'è andata».

Allora chiediamo a J-Ax cosa pensa delle polemiche sul rapper Junior Cally a Sanremo.

«Una polemica da poveretti, allora un rapper non dovrebbe mai andare da nessuna parte. Tanti anni fa Eminem è stato invitato a Sanremo quando in una canzone raccontava dell'assassinio di una madre. Ma la polemica era solo sul suo compenso. Almeno Junior Cally va in gara e non si è fatto pagare 400mila euro».

ANTONELLA LUPPOLI per Libero Quotidiano il 23 gennaio 2020. Che J-Ax fosse uno dei paladini del politically (s)correct era cosa nota. E viva Dio che c' è ancora qualcuno che si vanta di non essere perbenista. Ma la virata tutta «à droit» del rapper milanese sorprende. J-Ax è quello di Maria Salvador (e per Maria non s' intende Nostra Signora della Tv). È quello di Comunisti col Rolex. Ed è (diventato) anche quello di Beretta - la pistola sì - titolo della traccia numero 4 di ReAle, il nuovo progetto musicale (targato Sony Music) da domani sul mercato discografico. «Sono un libertario e sono a favore di leggi più morbide sulla legittima difesa» ha spiegato l' artista a chi ha domandato chiarimenti sul cambio di rotta (politica). Da sinistra a destra, s' intende. «Così Salvini la smette di dire che sono del Pd» ha affermato sornione. Il segretario della Lega commenterà via social? «Non credo, la mia posizione non sottolinea la sua narrazione. Sicuramente arriverà qualche critica dalla parte sinistroide» ma tant' è. legittima difesa Poi, è tornato serio e ha proseguito: «Non sono per dogma contrario alla legittima difesa, ho una visione grigia che shifta di giorno in giorno sull' argomento molto complesso». Il brano in questione parla di violenza domestica: una donna vessata e picchiata dal marito - l' ennesima verrebbe da dire, ndr - sceglie di affidare a una Beretta che «fuma sul tavolo della cucina» la sua giustizia. «Se chiedi aiuto e nessuno riesce a dartelo, se subisci continui abusi fisici e psicologici e non vedi differenza tra la fede al dito e le manette, perché ti senti comunque in gabbia, allora, nella mia testa, la legittima difesa non dovrebbe essere limitata» ha tuonato il cantante. Qualcuno penserà che ci mancava solo l' animo femminista di J-Ax. «Non lo sono, è una cosa da zerbino per prendere i like delle tipe. Esiste anche la violenza sugli uomini». E, affronta in parte l' argomento nei versi di Pericoloso, pezzo in feauturing con Chadia Rodriguez, nato da una ricerca sul mondo degli incel (celibi involontari). A proposito di partecipazioni, nel disco ce ne sono molte. Da Annalisa e Luca Di Stefano, a Enrico Ruggeri, il Pagante e i Boomdabash, solo per citarne alcuni. «Odio gli artisti che si sentono intoccabili e non vogliono collaborare» ha spiegato annunciando che arriverà più avanti anche un duetto con Iva Zanicchi, già giudice di All Together Now, programma tv a cui l' ex Articolo 31 ha preso parte. Se dunque J-Ax è sempre aperto a lavori a quattro mani, si può dire invece decisamente archiviata la partnership con Fedez. «Non voglio parlarne anche a costo di fare la figura del cattivo, almeno la smettiamo con questa storia dello zio Ax (ride, ndr)» ma nel disco quell' esperienza riecheggia nel brano Quando piove, diluvia che narra di una settimana da incubo vissuta proprio subito dopo la rottura con il signor Ferragni. Non mancano ovviamente nell' album pezzi alla "J-Ax maniera". Scanzonati, cazzoni. «Ho messo giù una tracklist che alterna un pezzo serio a uno più leggero. Per farmi perdonare quello serio». Il terzo spritz gli dà ragione. È politically (s)correct, dicevamo all' inizio. Lo dimostra pure sulle polemiche sanremesi legate alla presenza di Junior Cally. «Se hai bisogno del genere rap perché tira, non ti puoi lamentare. Di cosa parliamo? Nel 2001, Eminem è stato superospite è la polemica su di lui fu imbastita sul cachet e non sul fatto che aveva appena fatto una canzone in cui raccontava a sua figlia come aveva ucciso sua madre. Una canzone è una canzone, come un film è un film».

·        Jacopo D’Emblema.

G. Mattia Pagliarulo per Dagospia l'11 ottobre 2020. Jacopo D’Emblema è un giovane ragazzo nato 24 anni fa a Novara, città in cui vive ancora oggi; una realtà provinciale che a quanto pare inizia a stargli stretta. Il fanciullo piemontese ha conseguito lo scorso luglio la laurea triennale in Scienze motorie e sportive con votazione 84/110 presso l’Università degli studi di Torino discutendo la tesi "Benefici di alcune tecniche di meditazione e di rilassamento in preparazione a una competizione sportiva", ma da quando era un pischello di 17 anni sognava di seguire le orme di Rocco Siffredi. 

D. Jacopo, anzi dottor D’Emblema, qual è stato il suo primo approccio con il sesso?

R. L’autoerotismo. Sin dal primo approccio con la masturbazione, all’età di 11 anni, ho iniziato a capire quanto fossero intense ed introspettive le mie sensazioni legate al piacere sessuale. E andando avanti con l’età la mia passione per il sesso è cresciuta ed ora è pronta ad esplodere con il porno.

D. Chi sono le icone dell’hard per Jacopo D’Emblema?

R. La pornostar internazionale Asa Akira ha sempre rappresentato per me il massimo e sogno di incontrarla. Parlando di profili italiani, mi piacciono molto Martina Smeraldi e Valentina Nappi. Ammiro tantissimo Martina Smeraldi per il modo e il coraggio che ha avuto ad entrare nel mondo del porno data la sua giovane età e proprio per queste sue caratteristiche la stimo molto, poiché anche io aspiro a diventare un punto di riferimento per i giovani che si vogliono affacciare al mondo del porno. La Nappi è un mito, è la donna mediterranea per eccellenza!

D. Una donna dello spettacolo con cui passerebbe una notte di passione?

R. Non ho nessun dubbio: Federica Masolin, giornalista di Sky Sport 24; io amo questa donna! È la perfezione fatta a persona, è la Madonna! Ci accomunano tante cose, lei è una giornalista sportiva, io mi sono laureato in scienze motorie e la sento molto nelle mie corde, potrebbe esserci feeling, anzi se legge questa intervista mi piacerebbe inviarla a cena! 

D. Di Rocco Siffredi invece cosa ne pensa?

R. Rocco Siffredi è stato, ed è tuttora un grande profilo italiano ed internazionale. Il mondo del porno rispetto a 20/30 anni fa è cambiato ed è in continuo cambiamento, per questo ritengo che ci sia bisogno di un ricambio generazionale al passo coi tempi. E’ impensabile che oggi non ci sia nessun grande profilo maschile italiano moderno. Io credo di avere tutte le carte in regola per esserlo e sono pronto a dimostrarlo. Anche perché Rocco non potrà avere “forti erezioni” ancora per molti anni, poi anche il suo amico la sotto chiederà un po’ di quiete.

D. Cosa ama fare di più nel sesso e quali limiti invece si pone?

R. E’ importante sottolineare che, al principio, bisogna avere una grande conoscenza del proprio corpo e una buona consapevolezza di se stessi. Solo nel momento in cui si conosce il proprio corpo si può pensare di poter conoscere il corpo e la mente di un’altra persona. Personalmente il se sesso rappresenta empatia, complicità e fisicità. Amo la donna in tutto e per tutto e con lei amo il sesso a 360° rivestendo ogni tipo di ruolo senza limite. Il mio sogno erotico, per esempio, è quello di interagire con due donne ricoprendo un ruolo sia attivo che passivo con entrambe, proprio per essere stimolato sotto tutti gli aspetti. Amo essere uomo alpha e possedere come amo in ugual modo essere sottomesso e sodomizzato diventando un giocattolo della donna. Molti mi chiedono perché non vado con uomini...nessun pregiudizio, ma non mi danno nessun tipo di eccitazione, zero. Tornando al mondo femminile sostengo che ogni donna, indipendentemente dall’età e dalla provenienza, sia unica ed è proprio per questo che sono molto stimolato nel confrontarmi e nel conoscere una donna fino in fondo, sono in grado di fare sesso con una donna di qualsiasi età e fisicità, perché ogni donna è bella a modo suo.

D. Cosa si aspetta da questo mondo a luci rosse? 

R. Come ho accennato precedentemente, il mio desiderio è quello di essere un punto di riferimento e una fonte di ispirazione per tutti quei ragazzi e per tutte quelle ragazze che, come me, hanno intenzione di entrare in questo mondo. E’ arrivato il momento che questo settore venga visto, se non in maniera positiva, quanto meno in maniera normale, e non più analizzato con pregiudizio e superficialità. Io sono un neo laureato e continuerò a studiare per il master ma questo non vuol dire che non possa dedicarmi alla mia passione, e così come me non è giusto che tanti giovani possano essere spaventati dalle conseguenze. Indipendentemente dall’ambiente a cui si ambisce arrivare e dal sogno che si insegue, è importante credere nei propri mezzi affinché quel sogno si realizzi. Non mi aspetto qualcosa in particolare, ma mi aspetto tanto da me stesso. Ora che mi sono laureato sono finalmente pronto a questo grande passo chiamato porno. 

D. Nel caso andasse male, qual è il suo piano B?

R. Non ho un piano B. Ho un piano A e un sogno: avendo già conseguito la laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive, il piano A consiste nel proseguire i miei studi facendo la laurea magistrale portandola a termine. Il sogno è quello di diventare una pornostar.

·        Jake Lloyd.

Fabio Fusco per movieplayer.it l'1 febbraio 2020. Jake Lloyd, l'ex attore che a 10 anni interpretò il piccolo Anakin Skywalker, futuro Darth Vader, in Star Wars ep. I - La minaccia fantasma è ancora ricoverato in una clinica psichiatrica dove viene seguito per la sua schizofrenia paranoide. La madre dell'attore ha aggiornato i fan sulle condizioni di salute del figlio, rivelando ulteriori dettagli. Lisa Lloyd ha spiegato in un comunicato ufficiale che suo figlio Jake Lloyd è ricoverato in una struttura psichiatrica dal 2016, e da allora sta facendo qualche progresso, tanto che c'è la speranza che torni "divertente e simpatico come prima" in breve tempo. Jake Lloyd, che oggi ha 30 anni, era stato arrestato nel 2015 a Charleston, nella Carolina del Sud, per guida pericolosa e senza patente e per resistenza a pubblico ufficiale. Nel tentativo di sfuggire agli agenti che volevano fermarlo, era stato inseguito a lungo, fino a quando non aveva perso il controllo della sua auto, uscendo fuori strada e andando a sbattere contro degli alberi. Nelle ultime settimane Jake è stato trasferito in una nuova struttura più vicina alla sua famiglia, dove ha ricevuto un'altra diagnosi. "Vogliamo ringraziare tutti i fan per le loro parole gentili e il loro sostegno" - ha aggiunto la madre del ragazzo - "Jake soffre di schizofrenia paranoide, ma sfortunatamente gli è stato diagnosticato un altro disturbo, l'anosognosia, che gli impedisce di riconoscere di essere malato". Un problema che rende il percorso verso la guarigione ancora più complesso, considerato che la situazione si era fatta ancora più difficile con la morte della sorella di Jake Lloyd, Madison. La ragazza è morta nel sonno due anni fa, a soli 28 anni, e questo episodio è stato uno shock per tutta la famiglia. Jake Lloyd aveva iniziato la sua carriera nel 1996, con un'apparizione in quattro episodi di E.R. Lo stesso anno apparve accanto ad Arnold Schwarzenegger in Una promessa è una promessa e poi fu scelto per l'iconico ruolo di Anakin Skywalker in Star Wars ep. I - La minaccia fantasma. Dopo essere apparso altri due film, Jake decise di ritirarsi dal cinema, pur restando legato al mondo di Star Wars sia partecipando alle convention di fan che prestando la sua voce ai videogiochi legati alla saga. Nel 2012 ha rivelato di essersi ritirato dal mondo del cinema dopo essere stato vittima di bullismo a scuola: "Altri ragazzi erano davvero cattivi con me: ogni volta che mi vedevano passare imitavano il suono della spada laser. Era una cosa folle. Tutta la mia vita scolastica è stata un inferno". Secondo alcune indiscrezioni, dopo essersi ritirato dal cinema Jake avrebbe distrutto tutti gli oggetti e memorabilia di Star Wars in suo possesso.

Star Wars, l’amaro destino del piccolo Anakin: ora è chiuso in una clinica psichiatrica. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Valerio Cappelli. È il lato oscuro dei bambini di Hollywood. Lo riconosci dagli occhi. Già da piccolo, all’epoca in cui a 10 anni interpretò Anakin Skywalker in Star Wars, lo sguardo di Jake Lloyd era increspato da un velo di inquietudine. Ora, col pizzetto mal cresciuto, i capelli rapati quasi a zero, quello sguardo così spaesato nella durezza rispecchia in maniera grottesca il titolo del suo film della saga: La minaccia fantasma. «Il mio Jake soffre di schizofrenia paranoide», ha detto la madre dell’attore, Lisa Lloyd, fornendo lei stessa n bollettini medici con una serie di dettagli che sono abituali in America ma lontani dalla mentalità europea. «Sfortunatamente, gli è stato diagnosticato un altro disturbo, l’anosognosia, che gli impedisce di riconoscere di essere malato». La baby star è diventata schizofrenica. I guai per Jake erano cominciati nel 2015, l’anno prima di essere ricoverato era stato arrestato a Charleston per guida pericolosa e senza patente, e per resistenza a pubblico ufficiale. Lo stesso reato di cui si macchiò, nel 2006, Lindsay Lohan, che due settimane dopo finì nuovamente ammanettata per possesso di cocaina. Ma aveva 30 anni. Haley Joel Osment ne aveva 18 quando finì nei guai, dopo che nel 1999, a soli 11 anni, ricevette una nomination agli Oscar come migliore attore non protagonista ne Il sesto senso (prima era apparso come il figlio di Tom Hanks in Forrest Gump). Fu costretto dal giudice a entrare in un programma di riabilitazione per alcolisti dopo che a un controllo della polizia risultò anche lui in stato di ebbrezza e condannato per la marjiuana in tasca. Un’altra giovane stella precipitò dalla collina di Hollywood. Sotto il peso delle pressioni, di un successo arrivato troppo presto perdono l’equilibrio. Haley Joel Osment, che apparve imbolsito, irriconoscibile, nel 2017 in X-Files, disse che è stato «molto difficile crescere, trovare ruoli da adulto, dopo il mio grande successo da bambino». Nell’infanzia bruciata di Hollywood trovano posto Drew Barrymore e Judy Garland. Poi entrano in campo i genitori divorati dall’ambizione o dalle loro frustrazioni, da quello che non sono riusciti a fare, dilapidano i patrimoni dei figli, com’è successo a Macaulay Culkin dopo Mamma ho perso l’aereo: magrissimo, tentò di rilanciarsi come cantante. Indietro nel tempo, Anissa Jones aveva i boccoli biondi e il viso punteggiato di lentiggini. Dopo il grande successo in tv, bambina prodigio in Tre nipoti e un maggiordomo (ebbe un provino da Martin Scorsese in Taxi Driver per il ruolo che poi andò a Jodie Foster), oppressa da una madre che la voleva famosa («mi ossessionava perché sperava di continuare a vantarsi di avere una figlia famosa», diceva), si perse tra cattive compagnie e morì a 18 anni di overdose. Controversa è la storia di Jimmy Bennett, del quale si erano perse le tracce fino a quando, sul New York Times, accusò Asia Argento di molestie sessuali in una camera d’albergo in California, quando di anni ne aveva 17 anni, molto tempo dopo avere partecipato al film di Asia Ingannevole è il cuore più di ogni cosa: l’attrice ha negato e ribaltato l’accusa. Vennero fuori foto dei due insieme, sms, ricatti, soldi, detective: la vicenda si intorbidì. In queste storie di innocenza perduta, ritroviamo Erin Marie Moran. Era la sorella minore di Richie Cunningham, soprannominata Sottiletta, in Happy Days, da adolescente si era fatta notare nelle pubblicità. Ma smise di lavorare presto, spinta dall’indigenza, viveva nella roulotte della suocera in un camping dell’Indiana. Morì a 56 anni, nel 2017, dopo un’infanzia senza infanzia.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. È il lato oscuro dei bambini di Hollywood. Lo riconosci dagli occhi. Già da piccolo, all' epoca in cui a 10 anni interpretò Anakin Skywalker in Star Wars , lo sguardo di Jake Lloyd era increspato da un velo di inquietudine. Ora, col pizzetto mal cresciuto, i capelli rapati quasi a zero, quello sguardo così spaesato nella durezza rispecchia in maniera grottesca il titolo del suo film della saga: La minaccia fantasma. «Il mio Jake soffre di schizofrenia paranoide», ha detto la madre dell' attore, Lisa Lloyd, fornendo lei stessa n bollettini medici con una serie di dettagli che sono abituali in America ma lontani dalla mentalità europea. «Sfortunatamente, gli è stato diagnosticato un altro disturbo, l' anosognosia, che gli impedisce di riconoscere di essere malato». La baby star è diventata schizofrenica. I guai per Jake erano cominciati nel 2015, l' anno prima di essere ricoverato era stato arrestato a Charleston per guida pericolosa e senza patente, e per resistenza a pubblico ufficiale. Lo stesso reato di cui si macchiò, nel 2006, Lindsay Lohan, che due settimane dopo finì nuovamente ammanettata per possesso di cocaina. Ma aveva 30 anni. Haley Joel Osment ne aveva 18 quando finì nei guai, dopo che nel 1999, a soli 11 anni, ricevette una nomination agli Oscar come migliore attore non protagonista ne Il sesto senso (prima era apparso come il figlio di Tom Hanks in Forrest Gump ). Fu costretto dal giudice a entrare in un programma di riabilitazione per alcolisti dopo che a un controllo della polizia risultò anche lui in stato di ebbrezza e condannato per la marjiuana in tasca. Un' altra giovane stella precipitò dalla collina di Hollywood. Sotto il peso delle pressioni, di un successo arrivato troppo presto perdono l' equilibrio. Haley Joel Osment, che apparve imbolsito, irriconoscibile, nel 2017 in X-Files, disse che è stato «molto difficile crescere, trovare ruoli da adulto, dopo il mio grande successo da bambino». Nell' infanzia bruciata di Hollywood trovano posto Drew Barrymore e Judy Garland. Poi entrano in campo i genitori divorati dall' ambizione o dalle loro frustrazioni, da quello che non sono riusciti a fare, dilapidano i patrimoni dei figli, com' è successo a Macaulay Culkin dopo Mamma ho perso l' aereo : magrissimo, tentò di rilanciarsi come cantante. Indietro nel tempo, Anissa Jones aveva i boccoli biondi e il viso punteggiato di lentiggini. Dopo il grande successo in tv, bambina prodigio in Tre nipoti e un maggiordomo (ebbe un provino da Martin Scorsese in Taxi Driver per il ruolo che poi andò a Jodie Foster), oppressa da una madre che la voleva famosa («mi ossessionava perché sperava di continuare a vantarsi di avere una figlia famosa», diceva), si perse tra cattive compagnie e morì a 18 anni di overdose. Controversa è la storia di Jimmy Bennett, del quale si erano perse le tracce fino a quando, sul New York Times , accusò Asia Argento di molestie sessuali in una camera d' albergo in California, quando di anni ne aveva 17 anni, molto tempo dopo avere partecipato al film di Asia Ingannevole è il cuore più di ogni cosa : l' attrice ha negato e ribaltato l' accusa. Vennero fuori foto dei due insieme, sms, ricatti, soldi, detective: la vicenda si intorbidì. In queste storie di innocenza perduta, ritroviamo Erin Marie Moran. Era la sorella minore di Richie Cunningham, soprannominata Sottiletta, in Happy Days , da adolescente si era fatta notare nelle pubblicità. Ma smise di lavorare presto, spinta dall' indigenza, viveva nella roulotte della suocera in un camping dell' Indiana. Morì a 56 anni, nel 2017, dopo un' infanzia senza infanzia.

·        Jamie Lee Curtis.

Sara Frisco per "Il Giornale" il 5 luglio 2020. Ci voleva una pandemia per far rallentare Jamie Lee Curtis. A sessantun anni e dopo un periodo più rilassato in cui si è dedicata a scrivere libri per ragazzi, l'attrice è infatti tornata a provare prepotente la necessità di frequentare i set cinematografici che ha calcato sin dall'infanzia, quando a lavorare erano i genitori, Tony Curtis e Janet Leigh. Gira una media di tre film all'anno e ha all'attivo un'ottantina di titoli, fra cui capolavori della commedia come Un pesce di nome Wanda, ma anche pietre miliari del genere horror. Ha ereditato le doti comiche dal padre e la capacità di terrorizzare il pubblico dalla madre, che i cinefili ricordano per essere stata la protagonista di Psycho, di Alfred Hitchcock. Quando il Covid-19 ha colpito e chiuso i set cinematografici a Hollywood, Jamie Lee Curtis stava per iniziare le riprese del settimo e ultimo capitolo (dal titolo definitivo: Halloween Ends) del famoso franchise del terrore iniziato nel 1978, quando John Carpenter la diresse, non ancora ventenne, per la prima volta nei panni di Laurie Strode, in Halloween - La notte delle streghe. «Certamente si farà, altrimenti quest' ultima trilogia non risulterebbe finita dice il regista David Gordon Green, che ha diretto gli altri due ultimi capitoli mentre Carpenter ha fatto da produttore solo, non si sa ancora quando riusciremo a iniziare la produzione». Il sesto film, Halloween Kills, è già stato girato ma non è ancora uscito. È atteso nei cinema per ottobre, pandemia permettendo, mentre il quinto primo di questa ultima trilogia - dal semplice titolo Halloween, è ora fruibile su Amazon Prime Video, insieme ad un altro film che vede la Curtis protagonista: Cena con delitto - Knives Out, crime-comedy nominata agli Oscar per la sceneggiatura originale, di chiaro sapore hitchcockiano. «Mia madre sarebbe orgogliosa. Non ho molti ricordi di lei quando era giovane, non parlavamo molto del suo o del mio lavoro, però ricordo i suoi incoraggiamenti quando ho girato il primo Halloween». Jamie Lee Curtis appartiene alla nobiltà, quella hollywoodiana grazie ai genitori e quella inglese grazie al marito, il barone Christopher Haden-Guest, con cui ha adottato due figli. Recentemente, all'edizione americana di Vanity Fair, l'attrice ha raccontato i suoi problemi con la dipendenza da farmaci: «Subii un piccolo intervento chirurgico e mi dettero degli antidolorifici, ne rimasi succube. Ne voglio parlare perché purtroppo non è un problema solo mio, ormai gli oppiacei rappresentano una vera e propria emergenza. Io ne sono uscita dopo dieci anni, quando mi sono accorta di aver toccato il fondo rubando farmaci dalla borsa di mia sorella. Ancora oggi frequento meeting di supporto». Una volta superato il problema, l'attrice ha sentito di nuovo, prepotente, il richiamo del set. Per la Curtis far ridere e fare paura sono due facce della stessa medaglia: «Ma forse è più facile far ridere. La saga di Halloween può essere faticosa, sia fisicamente sia psicologicamente». Cena con delitto fa parte di entrambi i generi, è una commedia ma anche un giallo e racconta di una cena della festa del Ringraziamento finita con un omicidio. Per qualche ragione, quando c'è Jamie Lee Curtis sullo schermo c'è una festività di mezzo. «Halloween, Ringraziamento e Natale... Ho sentito che ogni anno, durante le feste, in Italia torna in tv Una poltrona per due. Anche io lo adoro, è un film senza tempo, una di quelle sceneggiature perfette». La nostalgia per il passato però non le appartiene. «Mi piace vivere il momento. Anche con me stessa ho un migliore rapporto oggi. Quando guardo i film che ho fatto a vent' anni penso a questo: allora non sapevo di avere un bel corpo. Ora sì. Ora lo so, l'avevo. Avevo un corpo incredibile e non me ne rendevo conto». Su Twitter si ritrae indossando una mascherina sulla quale è impresso il volto del suo nemico storico, Michael Myers, il terribile cattivo di Halloween. «Lui indossa una maschera per terrorizzare - me soprattutto - ma non c'è nulla di più terrificante di questo attuale aumento dei casi di Covid-19... Io e il mio nemico siamo d'accordo su una cosa: usate la mascherina!».

·        Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

CAZZI E CAZZOTTI CON SERGE GAINSBOURG, COSÌ JANE BIRKIN DIVENTÒ UN SIMBOLO DI LIBERTÀ SESSUALE DEL ’68. Dagospia il 7 gennaio 2020.

1 - Serge Gainsbourg: “L'erotismo è il contrario della libertà sessuale. È il contrario della nudità, è il secreto, il mistero dell'alcova, la sottoveste, il senso del tabù, il gusto del peccato. È la cosa più importante della mia vita. Montherlant si è suicidato perché aveva perso la vista. Io mi suiciderei se perdessi il senso dell' erotismo’’.

2 - Serge Gainsbourg: “Je t' aime... moi non plus: “La ragazza in un momento di passione dice ti amo. Il ragazzo, più rigoroso, dice di non crederle, l' amore fisico non è sufficiente, ci vuole anche altro. È la canzone più morale che abbia mai scritto”.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 7 gennaio 2020. Quando si conoscono nel 1968, a un provino per il film Slogan, l' aspirante attrice Jane Birkin capisce due o tre parole di francese e fraintende il nome della star, un cantante che non ha mai sentito nominare, Serge Gainsbourg. Ma Jane capisce Serge Bourguignon. Nato nel 1928 a Parigi da genitori ebrei ucraini, Gainsbourg è già famoso non solo per le sue canzoni ma anche per le sue donne, Brigitte Bardot soprattutto. La Birkin, nata Londra nel 1946, ha avuto una parte in Blow Up di Michelangelo Antonioni e poco altro. Anche lei è nota per il suo uomo, il compositore John Barry, una storia precoce ma importante, con nozze a 19 anni, comunque ormai finita. In ogni caso quel Bourguignon le sembra un vero stronzo: arrogante e riservato, trasmette un senso di superiorità umiliante. Alla fine però è Serge a volere nel cast Jane Birkin, al posto di Marisa Berenson. Fuori infuria il maggio 1968. L' interesse di Gainsbourg per gli avvenimenti è nullo. Serge è indifferente al Maggio (...) (...) francese, diventerà famoso anche per uno sberleffo al regime comunista di Tito e per i suoi gesti spettacolari contro le tasse, come bruciare banconote in televisione. Anticonformista, sì. Ma lontano dalla contestazione che a lui, quarantenne figlio di ebrei perseguitati prima dai comunisti e poi dai nazisti, sembrava uno sfogo da «ragazzini senza armi». Aggiungerà con sarcasmo di aver seguito i cortei dall' Hotel Hilton, in televisione, con l' aria condizionata. Suo malgrado però partecipa dello spirito di quegli anni. La coppia Jane e Serge diventa simbolo della libertà sessuale in un Paese ancora bigotto, anche grazie al successo mondiale della spregiudicata canzone Je t' aime... moi non plus nella quale Jane si esibisce nella realistica simulazione di un orgasmo. Tutto questo, e molto altro, si legge In Munkey Diaries. Diario 1957-1982 (Edizioni Clichy) di Jane Birkin. Amore a prima vista? Sì. La prima serata è un tour della Parigi notturna, da un locale all' altro, che finisce nella camera di Serge all' Hilton. Jane lo descrive così nel suo diario: «Dolce e tenero e così forte al contempo e sensuale e sessualmente meraviglioso e tuttavia sento che è molto più di un uomo sexy, è brillante e unico». La complicità è totale. Jane vuole andare in un bordello, per giocare a fare la puttana. Scelgono il più sordido di Pigalle, a Parigi. Rischiano di essere picchiati dalle prostitute che scambiano Jane per una di loro che ha sconfinato nel quartiere sbagliato. Salgono in camera. Appena iniziano a rilassarsi fa irruzione il proprietario, convinto che Serge sia un maniaco assassino. Seguono le scuse: «La ragazza, capisce, sembra così giovane. Non posso permettermi che in questa settimana avvenga un altro omicidio». La vita non è mai banale. Ci sono film, album, successi di vendite (La Décadanse) e artistici (Histoire de Melody Nelson). Ci sono amici e colleghi come Michael Caine, Alain Delon, Jean-Louis Trintignant, Gérard Depardieu, Catherine Deneuver. Ci sono figlie, scazzottate, viaggi, bevute. Spesso lavorano assieme e c' è da ridere. In Jugoslavia recitano il ruolo di eroici partigiani in Le Traître di Milutin Kosovac. Con i soldi del film Serge si compra un Rolls Royce del 1928. Jane: «Lo divertiva il fatto di potersela pagare con del denaro venuto dai comunisti». E allora cosa succede? Cos' è quella insoddisfazione che comincia a trasmettersi per contagio da lui a lei? Lui sembra diventare indifferente. Lei si sente un cadavere perché non è desiderata dall' uomo che ama. Jane incomincia a desiderare a sua volta e a chiedersi: come sarebbe essere sedotta? Serge è tutto un «io, io, io». Jane chiede che le venga consacrato del tempo, ha bisogno di sentirsi necessaria. Gainsbourg è sempre ubriaco. Esce da solo, torna la mattina, impartisce ordini. È severo nell' educare alle buone maniere, lui, che in vena di sciocchezze salta sulle scarpe da lucidare lasciate nel corridoio dell' albergo dagli altri ospiti. Il salotto di rue de Verneuil 5 è una specie di museo dove Serge raccoglie oggetti, esposti con cura maniacale, che nessuno ha il permesso di toccare e tanto meno di spostare, anche di un millimetro. Jane è il disordine fatta donna. Soprattutto Serge spaventa Jane: «L' alcol è il mio incubo. Lo trasforma in una persona diversa e che fa paura. E a volte dice che ora che ha la gloria, il denaro, la celebrità, la sola cosa che non conosce è uccidere, non parlava mai così prima». Lui passa dal distacco alla scenata di gelosia per Roger Vadim durante le riprese di Una donna come me, film dove Jane recita con l' ex grande amore di Serge, Brigitte Bardot. Jane è confusa. Le serate alcoliche non aiutano. Jane tira un buffetto a Serge, lui reagisce con uno schiaffo e le fa un occhio nero. Ancora peggio. Jane lancia una torta in faccia a Serge. Lui esce dal locale, offeso. Lei lo rincorre, lo supera e si getta nella Senna. La salvano i pompieri. Il vero inizio della fine è questa frase rivolta a una Jane che prova a spiegare la sua insoddisfazione: «Hai vitto e alloggio». Serge precipita. Non si lava per mesi, ha i piedi neri. Soffre di cuore ma fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Jane gli regala una bambola gonfiabile. Lei stessa si sente una bambola, con le sue «qualità di bambola, ma completamente riproducibili con un materiale migliore del mio». Jane si sente al centro di una messinscena, Serge non c' è mai, tutto va bene con o senza di lei. Non è indispensabile. Un giorno il regista Jacques Doillon inizia a corteggiare Jane. È poco più vecchio di lei, nonostante sia trattato come un ragazzino. In confronto a Serge, forse lo è. La Birkin quasi non ci crede: «Sono sbalordita dall' essere soltanto amata, che il dolce ragazzo mi trovi realmente interessante, mi sembra un sogno». Non gli dà speranze ma neppure rinuncia alla parole d' amore: «E pensare che ho trentatré anni e che presto sarò vecchia ed ecco qualcuno così innamorato di me che posso a malapena resistere al desiderio di sapere che effetto fa essere amata a tal punto». Nel 1980, Jane trova il coraggio di separarsi. Jacques, da qualche tempo, è il suo amante. Gainsbourg è sconvolto e sbanda ancora più paurosamente. È ferito. Incredulo. Forse capisce di aver dato per scontate troppe cose che non lo sono. Tra l' altro, Jane è ancora innamorata di lui. Rispetta Jacques ma si scopre a pensare in continuazione a Serge, di notte gli scrive lettere d' amore appassionate, che getta nel cestino della spazzatura. Alla fine, Serge, pur di non perderla del tutto, si accontenta del ruolo di amico. Lei continua ad amarlo ma tace perché capisce che gli amanti perfetti, a volte, non sono fatti per restare assieme tutta la vita.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 7 gennaio 2020. Esce ora in Italia Munkey Diaries. Diario 1957-1982 (Edizioni Clichy, pagg. 376, euro 19) di Jane Birkin. L' attrice inglese racconta anno per anno avventure e disavventure nel mondo del cinema e della musica, con un occhio di riguardo per la vita privata. Nata a Londra, nell' elegante quartiere di Chelsea, nel 1946, si sposa a soli diciannove anni con il compositore John Barry, padre della figlia Kate, morta suicida nel 2013. Barry è un uomo maturo e all' apice del successo, in particolare tutti conoscono le colonne sonore che hanno contribuito a rendere James Bond un' icona della cultura pop. Poi c' è la storia travolgente, ma anche dolorosa, con Serge Gainsbourg. Jane Birkin si reinventa cantante sotto la guida del suo uomo, che la coinvolge nella lavorazione di Je t' aime... moi non plus, hit mondiale, e del capolavoro Histoire de Melody Nelson. Ma la Birkin inizia anche una carriera da solista. Serge continua a scrivere per lei anche dopo la separazione. L' apice della produzione è considerato l' album Baby Alone in Babylone (1983). La Birkin ha anche fatto una prestigiosa carriera come attrice. Ha lavorato con Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Alan Resnais, James Ivory e molti altri maestri. La Birkin, specie in coppia con Gainsbourg, si trova a essere una icona della liberazione sessuale, pur evitando di partecipare ai movimenti tipici degli anni Sessanta. La bellezza sbarazzina e l' abbigliamento sexy, per non dire dell' orgasmo simulato in Je t' aime... moi non plus, le valgono copertine che diffondono l' immagine della ragazzina emancipata e provocante. Eppure, nei diari Jane sembra insicura della propria bellezza e in fondo narra come la strada verso l' emancipazione sia stata più complessa di quanto appare. Da un lato la Birkin non vuole essere considerata una appendice dei suoi uomini, dall' altro si descrive come tale, mettendo al centro il loro sguardo, il loro giudizio, i loro sentimenti. La ribellione all' amatissimo ma alcolizzato Gainsbourg è il primo, vero passo verso la libertà e coincide con una «revisione» dell' immagine pubblica resa possibile anche dai film realizzati col futuro marito Jacques Doillon. Ora la Birkin si presenta come donna matura, consapevole del proprio talento e della propria sensualità. Lei cambia, il successo resta.

·        Jason Momoa.

Silvia Bizio per “la Repubblica - Robinson” il 13 gennaio 2020. La premessa della serie See è di quelle tipiche del filone post-apocalittico: un virus ha sterminato quasi tutta l'umanità e gli unici sopravvissuti sono ciechi. Sono passati 600 anni e la Terra è tornata praticamente all'età della pietra; in Canada si vive nel gelo coperti da pellame e per supplire alla cecità l'udito si è sviluppato in maniera esponenziale: campanelle, fili, sussurri, sono gli unici mezzi per orientarsi nel buio totale. Ma si scopre che ci sono due vedenti, due gemelli, figli del leader della comunità, interpretato da Jason Momoa (Aquaman); a loro viene affidato il futuro dell'umanità. See, disponibile su Apple Tv +, è una delle serie più ambiziose del nuovo network streaming, con combattimenti, suspense, senso del tragico, folle di desperados, con in più la ricostruzione di un mondo deforestato. Un panorama epico in un futuro distopico. Per la serie hanno chiamato a raccolta i più importanti attori non vedenti d'America mentre consulenti non vedenti sono stati sul set per supportare gli altri interpreti, che hanno passato mesi a Vancouver tra panorami mozzafiato, laghi e fiumi. Sul set di See gli attori hanno usato il "circolo del suono", un insieme di schiocchi di dita, movimenti di braccia, un linguaggio che ha unito attori vedenti e non. Sono lezioni di "addestramento sensoriale" che tutti hanno seguito per mesi per prepararsi a girare come se davvero non vedessero, molti con lenti a contatto che appannano gli occhi. Nato alle Hawaii nel 1979, Jason Momoa è di padre hawaiano-polinesiano e madre dell’lowa ma di origine tedesca. Ne è venuto fuori un bel mix. Un metro e 93 di altezza, 40 anni, sposato con l'attrice Lisa Bonet, 12 anni più di lui, due figli.

Momoa, ci parli del pianeta Terra raccontato in questa serie.

«La Terra è guarita dopo 600 anni di epidemie, traumi e malattie. Ora è di nuovo incontaminata. Chi ci abita non può più distruggerla. Non avrebbero comunque i mezzi e gli strumenti per ferirla Sono rimasti circa due milioni di abitanti in tutto il pianeta, dai sette miliardi di oggi, e il mondo ha rimarginato le sue ferite. Il cancro è stato debellato».

«No, come ai bei vecchi tempi».

Cosa l'ha attratta di questa storia?

«Prima di tutto lavorare con persone non vedenti è stata un'esperienza fenomenale, per me senza precedenti. So di essere stato scritturato perché appaio un po' selvaggio di natura. E me ne compiaccio! A parte la cecità, sembra che il mio aspetto si addica a una forma di primitivismo futurista, qualsiasi cosa significhi. Mi ritengo fortunato».

Un hawaiano che si ritrova a lavorare al freddo.

«Amo il Canada, ci ho lavorato spesso. Qui ho girato anche Aquaman e Stargate: Atlantis. Ho potuto anche avere qui con me moglie e figli, che sono ancora piccoli, hanno 9 e 10 anni. 11 lavoro negli ultimi anni mi ha portato dappertutto e mi è mancato molto non poter mettere a letto i figli,  o svegliarmi con loro».

Com'è stato recitare in "See" senza poter vedere?

«Ho recitato davvero cieco, con gli occhi coperti da invisibili strati. Piano piano ho sviluppato anche io capacità auditive e sensoriali che non usiamo quando ci affidiamo alla vista. Si può davvero lottare basandosi solo suoi suoni? Sì, si può. Un trip incredibile.  Ho combattuto lupi e orsi, ammaestrati, sì, ma veri!»

Che rapporto ha avuto con il personaggio della sciamana Paris, interpretata da Alfre Woodard? 

«Alfre è come una zia per me. Il mio personaggio non sopporta il rumore della violenza. E Alfre gli insegna altri suoni, quelli della compassione e dell'unione. E lei che mi conduce all'illuminazione».

Lei ha mai provato sensazioni simili?

«Sì, in Tibet. Ci sono andato quando avevo 21 anni, subito dopo essere stato a Roma, in Vaticano: ero molto interessato alla religione, allora. Studiavo i testi sacri quando facevo trekking in giro per il mondo, prima di diventare attore. Avevo sempre un libro di religione nel mio zaino. Ma il Tibet e la sua cultura mi hanno sconvolto in senso positivo. Un mondo incredibile. Bambini che giocavano con bastoncini e pietre, nient'altro. Ed erano felici. Una vita semplice che mi ha insegnato tanto. Meno cose hai, più ci vedi chiaro».

·        Jennifer Lopez.

Da huffingtonpost.it il 14 gennaio 2020. Nonostante gli obiettivi raggiunti dal punto di vista professionale e personale, Jennifer Lopez ha ancora una voce da spuntare nella lista dei desideri: trasferirsi in un piccolo paesino in Italia e vivere una vita tranquilla. È quanto ha rivelato, in una lunga intervista, a Vanity Fair. “Vorrei vivere al di fuori degli Stati Uniti, in una piccola città in Italia, oppure dall’altra parte del mondo, a Bali - ha affermato l’artista -. Vorrei vivere una vita più semplice e sana in un luogo in cui magari posso andare in bicicletta, comprare il pane e metterlo nel mio cestino e poi tornare a casa e metterci la marmellata sopra, e mangiare e dipingere e sedermi su una sedia a dondolo davanti ad una bellissima veduta di un albero di ulivo o di una quercia e semplicemente sentirne l’odore. Ho fantasie come queste”. Dalla musica al cinema, dal business alla danza: Jennifer Lopez sembra aver avuto decine di carriere diverse e tutte di successo. “Potrei dire che la danza e la musica sono state i miei primi amori, ma recitare è l’amore della mia vita - ha ammesso la cantante nel corso dell’intervista -. C’è sempre un primo amore e l’amore della nostra vita e recitare è l’amore della mia vita. Ogni volta che interpreto un ruolo, sento di diventare qualcuno che non sono. Quando gli spettatori mi guardano, non vedono JLo: è una sfida per me, ma è anche eccitante”. A Vanity Fair la cantante ha parlato anche del “jungle dress”, il vestito che di recente “ha rotto internet”, indossato a vent’anni di distanza dalla prima volta. Stando a quanto racconta Jennifer Lopez, è stata la stessa Donatella Versace a invitarla ad indossarlo di nuovo: “Mi ha detto: "Sai, quest’anno il jungle dress compie vent’anni". E io ho detto di no, non lo sapevo. E lei: "Penso che farò un intero show su questo, verrai?". E io ho risposto: "Certo, chiamami”. Così è stato: Donatella l’ha chiamata e le ha chiesto di indossare lo stesso vestito. “Indossarlo è stato potente - ricorda la cantante -. Vent’anni sono passati e sapere che puoi mettere lo stesso abito fa effetto. Come dire: ‘Sapete, la vita non finisce a vent’anni’”. 

Jennifer Lopez: «Vorrei vivere in Italia, in una piccola città». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Dopo aver raggiunto il successo planetario nella musica prima e nel cinema poi, Jennifer Lopez ha però ancora una voce da spuntare sulla sua lista dei desideri. La 50enne star sogna infatti di trasferirsi in Italia (dove fra l'altro viene spesso in vacanza, come si vede anche su Instagram) o a Bali, per vivere una vita più tranquilla e meno frenetica rispetto a quella che conduce negli States, godendo di semplici piaceri come mangiare pane e marmellata seduta su una sedia a dondolo, ammirando il paesaggio circostante. «Mi piacerebbe trasferirmi in un posto diverso dagli Stati Uniti, in una piccola città in Italia oppure dall'altra parte del mondo, a Bali - ha confessato infatti JLo in un'intervista a "Vanity Fair" che l'ha messa in copertina insieme con Eddie Murphy e Renee Zellweger - per vivere una vita un po' più semplice in mezzo alla natura. Fantastico di andare in bicicletta a comprare del pane, metterlo nel cestino, tornare a casa, spalmarci sopra la marmellata e mangiarlo mentre dipingo oppure mentre sono seduta su una sedia a dondolo, da dove posso godere la vista di un olivo o di una quercia e sentirne l'odore». Un'immagine bucolica che stride però parecchio con la Lopez tutta musica, ballo ed energia a cui siamo abituati da tre decenni, anche se la cantante ammette che la sua vera passione è fare film. «La danza e la musica sono i miei primi amori - ha spiegato - ma recitare è l'amore della mia vita». E malgrado l'Academy l'abbia snobbata per la candidatura all'Oscar per la sua interpretazione in «Hustlers», JLo giura che rinunciare a fare film non sia un'opzione per lei contemplabile. «Una volta che ho iniziato a recitare, ho capito che era quello che avevo sempre voluto fare - ha concluso la star - . Era questo o niente, non c'erano altre opzioni, perché è proprio quello che amo fare».

Jennifer Lopez: «Vorrei vivere in Italia». Immediato il corteggiamento dei sindaci: «Vieni da noi». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlotta Lombardo. «Mi piacerebbe vivere in un posto fuori dagli Stati Uniti, in un paesino in Italia, oppure dall’altra parte del mondo a Bali. Vorrei iniziare un’altra vita che sia un po’ più semplice e organica, andare in bicicletta e comprare del pane e metterlo nel mio cestino. Quindi andare a casa, metterci sopra un po’ di marmellata e mangiarlo...». Un futuro votato alla semplicità, almeno nei desideri «bucolici» dell’attrice più pagata al mondo (75 milioni di dollari secondo la lista di People With Money): Jennifer Lopez, che in un’intervista rilasciata a Vanity Fair America rispondendo a cosa mancasse ancora da spuntare nella sua «lista desideri» immagina un futuro lontano dagli Stati Uniti. Le proposte non si sono fatte attendere, scatenando il «corteggiamento» da parte dei sindaci alla conquista della bella e potente JLo. «Cara Jennifer, ho io la soluzione che fa per te», ha assicurato il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu invitando la cantante e attrice a trasferirsi nel capoluogo dell’isola, «città perfetta». Che «non è proprio piccola», ma con tutto ciò che serve: «La possibilità di riprendere gli spazi della propria vita, camminare per le vie del centro senza improbabili scocciatori, a contatto con gente discreta e attenta a non oltrepassare la privacy altrui». Non solo, ha precisato il sindaco, «c’è sempre un aeroporto efficiente che permette di spostarsi tranquillamente ovunque, e luoghi dove, invece, nascondersi, riposarsi, dedicarsi a se stessi evitando i ritmi frenetici delle grandi città». «Da noi l’Italia che Jennifer Lopez sta cercando», ha rilanciato, direttamente dal Comune, San Quirico d’Orcia, il celebre borgo del Senese. Marco Bartoli, vice sindaco e assessore alla cultura e turismo, ha invitato la star statunitense a vivere «nel paesaggio più bello del mondo». «Siamo un piccolo, ma bellissimo, paese d’Italia; abbiamo oliveti a perdita d’occhio che modellano le colline ed un paesaggio che è stato riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco; abbiamo ottimi forni che producono un buon pane e possiamo offrire il relax e la riservatezza che una star internazionale del suo calibro sta cercando. Per cui non ci resta che invitare Jennifer Lopez da noi, nel cuore della Val d’Orcia, per farle ammirare con i suoi occhi la bellezza del nostro territorio, la tranquillità del nostro centro storico e la cordialità della gente. Se il desiderio di J-Lo è quello di staccare dalla mondanità e dalla vita frenetica, siamo quello che fa per lei. Il nostro invito è partito». Immediata anche la risposta di Luigi Lucchi, sindaco di Berceto. «Vieni qui nelle Terre Alte, a Pelerzo, la casa gliela regaliamo noi (come vogliono diversi miei concittadini), lei ha mezzi appropriati per recuperarla, restaurarla e potrebbe riportarla al suo antico splendore invece di lasciarla cadere in rovina. Berceto è una bellissima e amatissima piccola Patria. Veniamo definiti l’Amazzonia della Padania... Se Jennifer viene a Palerzo mi impegno a ripristinare il laghetto anche se debbo convincere oltre 30 proprietari».

·        Jerry Calà.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 4 maggio 2020.

Anche in quarantena una qualche libidine c' è? O è tutto calma piatta?

«Io che sono già nottambulo, quando vanno tutti a letto, mi piazzo sulle piattaforme digitali e mi sparo intere serie».

Jerry Calà non si piange addosso. Pure in lockdown, che sta passando con moglie e figlio, cerca di regalare una risata. Anche due. È stato diligente?

«Sono stato previdente, mi ero già messo il primo marzo in clausura, l' ultima sera che sono uscito è stata quella del 28 febbraio. Ho fatto spettacoli fino al 21 febbraio: in mezzo alla gente, vengono a chiederti autografo, ti abbracciano, ero un po' preoccupato. Ma ormai sono passati due mesi e sto benissimo. La mia famiglia mi ha rispettato, anche mio figlio di 17 anni non è più uscito, nemmeno mia moglie».

Da oggi cosa cambia secondo lei?

«Il pericolo è che molti interpretino male, come un "liberi tutti e via". O che qualcuno, anche mosso da problemi economici gravi e di indigenza, possa avere reazioni diverse da quelle indicate».

Il mondo dello spettacolo è in difficoltà come tanti altri. Lei cosa può dire?

«Io mi ritengo fortunato e non ho problemi. Parlando con amici americani, loro sono tranquilli perché dopo una settimana hanno ricevuto i soldi sul conto. Qui pretendono che la gente sia buona e zitta anche se non ha quattrini per mangiare. Ho paura che scoppi un bubbone se non trovano la maniera di aiutare tanta gente».

Conosce situazioni drammatiche nel suo settore?

«Il mondo della ristorazione è colpito. Quello della notte non se lo sta filando nessuno: discoteche, club, centinaia di migliaia di persone lavorano, tanta gente a prestazione: musicisti e pianisti di piano bar».

Nella sua famiglia ha avuto qualche lutto?

«Nella famiglia di mia moglie, zio e cugino non ce l'hanno fatta. All' inizio vivevo la situazione un po' depressivamente, lasciavo passare le giornate ciondolando e guardando film e serie. Mi aveva preso così. Ero in un momento al massimo della progettazione.

Poi, attraverso i social, mi sono ringalluzzito, quasi ogni giorno faccio dirette Instagram e Facebook, vado a sorpresa a casa della gente per sapere come vivono il momento. Mi permette di conoscere realtà diverse. Mi collego con amici, Smaila, Mara Venier, Elisa Isoardi, Giovanni Vernia. Qualche risata ma affrontiamo anche i problemi».

E le dirette di Giuseppe Conte le guarda?

«Le puntate del decreto? Ha una voce soporifera, allora meglio guardare i riassunti dei tg. Non è colpa sua, ma non è avvincente».

La fa arrabbiare?

«Non penso siano tutte sue le responsabilità, non mi intendo tanto di politica. Nessuno è contento, personalmente sono incazzato perché mi manca il mio lavoro. Ho un' orchestra ferma. L' agenzia che mi procura gli spettacoli pure. Io faccio più di cento serate all' anno, do lavoro a una ventina di persone, e non sono Vasco Rossi con cui magari lavorano cento persone. Per non parlare della situazione dei teatri».

Per i suoi 50 anni di carriera è previsto un maxi concerto all' Arena di Verona. Cosa ne sarà?

«Lo voglio fare, spero nel miracolo, sono positivo che questo virus con l' estate vada anche lui in vacanza. La serata è programmata il 10 settembre, prodotta dalla Fondazione Arena e Rtl 102.5 , ancora non è stata cancellata, magari con dovute precauzioni si potrà fae. Si chiama 50 anni di Libidine - Jerry Cala e Friends, con amici e artisti fatto parte mia vita e carriera. Cerco di essere positivo, nel senso buono».

Guardando indietro nel tempo, qual è stato il momento più bello?

«Quando ho visto il mio nome, da solo, sopra il titolo di un film. "Gerry Calà in Vado a vivere da solo". Finalmente ero arrivato ad essere io solo dopo un periodo passato con il gruppo che mi ha dato tantissimo. Bella soddisfazione. Rividi me stesso da bambino quando mio padre mi portava a vedere al cinema Corso di Verona i film con Ciccio Ingrassia. Ho pensato: ce l' ho fatta».

Il momento più brutto, invece?

«Proprio quando ho lasciato il gruppo per avviarmi alla carriera da solista, lasciare quegli amici che continuano ad essere anche oggi un punto di riferimento, tanto è vero che come per andare a colmare un senso di colpa che mi sono portato per tanti anni, due anni fa ho girato un film con loro, Odissea nell' ospizio, che abbiamo presentato con un grande successo a Milano, distribuito su Chili Tv. È stato doloroso perché sapevo che li avrei messi in difficoltà. In quell' atroce distacco mi ha accompagnato Bud Spencer. Stavo girando un film con lui ma contemporaneamente, di nascosto, andavo a fare serate. Alle 4 di mattina me lo sono trovato con braccia conserte e sguardo minaccioso: "Non puoi andare avanti così". Stavamo girando Bomber, mi ha dato un sacco di coraggio e lo ricordo sempre, Carlo Pedersoli».

Mara Venier, sua ex, racconta che era un mattacchione. Conferma?

«Sì è vero, sono stato birichino. Ci siamo messi insieme che ero nel momento più alto del mio successo, ero ricercato e corteggiato. Lei aveva ragione a stare attenta. È un gioco che facciamo volentieri perché sappiamo che il pubblico si diverte. Anche domenica scorsa, in tv, lei ho cantato "Gente come noi che non sta più insieme ma che ancora si vuol bene". Una raccomandazione a tutte quelle coppie che si lasciamo male e si odiano. Anche se l' amore di coppia finisce si può restare amici».

Per dirla alla Conte, siete affetti stabili.

«Esatto. Con gli amici diciamo: uno deve mostrare una foto per capire che è un amore stabile? O il fidanzato che mostra l' anello?».

Ha voglia di tornare al cinema?

«Certo. In questo periodo ho ricevuto una bella proposta cinematografica come attore, sto lavorando a distanza sia con sceneggiatori e produttori. Una bella idea per un film da ridere, che dopo questo periodo ci vuole proprio. Sono gasato. Spero che tra ottobre novembre ci sia apertura definitiva. Oppure facciamo un film con le mascherine». 

·        Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Dagospia il 4 aprile 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Ho dovuto chiudere il mio club, ma le coppie scambiste sono nel pallone. Mi sembra di essere il telefono amico. Mi chiamano continuamente perché non sanno come fare, vogliono consigli, è gente abituata a fare orge, coppie col marito che guarda e improvvisamente si ritrovano in casa”. A La Zanzara su Radio 24 l’ex pornostar Jessica Rizzo, che adesso gestisce un locale per coppie a Roma, parla del mondo dello scambismo e del sesso trasgressivo investito dall’emergenza coronavirus. “Ci sono coppie voyeur – dice - e loro giustamente cosa si inventano? Possono usare internet e le videochiamate, ma non è la stessa cosa. Poi nessuno vuole correre il rischio di lasciare tracce. Stanno tutti nel pallone, stanno impazzendo. A una coppia esibizionista con lui cuckold ho suggerito di fare il gioco della finestra. La moglie fa lo strip tease sulla finestra con la tenda semi aperta ed il marito poi si eccita al pensiero che gli altri la stanno guardando”. Come fanno le coppie di scambisti ad incontrarsi ora?: “Solo con internet, oppure devono avere un po’ di fantasia. Io capisco che andare sempre con la moglie dopo venti, trent’anni, oppure eccitarsi nel vedere la moglie che fa le orge con tanti uomini e poi trovarsi da soli...infatti dicono che non si tromba più. Questo mi dicono. Mi dicono che purtroppo stanno in astinenza, perché con i propri compagni o compagne e si eccitano con determinate fantasie e adesso non possono. Consiglio anche di fare il gioco della telefonata separata. Il marito in una stanza, la moglie nell’altra, e lei si mette in contatto con altri uomini col volume alto. Ma non sempre si può fare per la presenza dei figli. Sono favorite dunque le coppie senza prole”. “A volte – racconta ancora - faccio la regista al telefono. Per esempio c’era una coppia che aveva molta paura e volevano mantenere la distanza di sicurezza. Guarda, gli ho detto, se vuoi mantenere la distanza puoi fare solo il gioco del pissing. Insomma, bisogna inventarsi dei giochi diversi. Poi c’è la coppia bisex. Ho detto a lui di vestirsi da donna e la donna da uomo. Così c’è uno scambio di ruoli. Ho tante chiamate tutti i giorni e mi dicono che si stanno annoiando e non sanno cosa fare”.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 18 gennaio 2020. Una donna normale, la classica donna della porta accanto che è diventata Star quasi per caso: questa è l’avvincente e trasgressiva storia di Eugenia Valentini alias Jessica Rizzo, 54enne originaria di Fabriano che vanta 13 premi Oscar del porno vinti, 250 film di genere all’attivo e centinaia di spettacoli hard calcando i palchi dei più importanti locali del settore a luci rosse a livello internazionale.

Signora Rizzo, lei è una delle pornostar italiane più apprezzate e riconosciute a livello internazionale, com’è cominciata la sua carriera nel mondo dell’eros?

«Parto con il risponderti che mai nella vita avrei pensato di diventare pornostar, ero una donna riservata che amava trasgredire e vivere la sessualità in maniera libera, ma non avevo nessuna intenzione di espormi principalmente per la mia educazione familiare. Verso la fine degli anni 80’ con mio marito amavano riprenderci con una telecamera mentre facevamo sesso, ci eccitava quasi di più riguardarci che fare sesso, anche riguardandoci si riaccendeva la voglia e facevano ancora sesso, era un circolo vizioso. Dopo di che abbiamo iniziato a riguardarci non più da soli ma in compagnia di amici scambisti; questi amici ci informarono che un regista cercava coppie per girare dei filmini amatoriali, così io e mio marito Marco muniti di parrucche e mascherine per camuffarci ci siamo lanciati in questa avventura per puro esibizionismo e divertimento, mai ci è passato per la testa di far diventare tutto ciò una professione».

Poi però qualcosa andò storto e come un fulmine a ciel sereno è esplosa la notizia, e lei si ritrovò sulla bocca di tutti.

«Esattamente. Correva l’anno 1991 e nel cinema porno della mia città natale Fabriano venne esposta una locandina con un primo piano del mio viso per la promozione di un mio film amatoriale, avevo la mascherina e la parrucca bionda e liscia ma ugualmente mi riconobbero tutti. Mia madre mi chiamò sconvolta per sapere se ero veramente io, negai l’evidenza! La notizia in tempi record diventó un caso nazionale e non si limitò solo a chiacchiere di paese. Presi mio marito da parte e gli dissi che non potevamo più nasconderci, era giunto il momento di gettare maschere e parrucche e palesarci, così arrivarono le copertine dei giornali, centinaia di articoli, ospitate televisive, eventi e da lì diventai Jessica Rizzo. Io lavoravo come ragioniera nei giorni feriali e come cantante nei giorni festivi, facevo parte dell’orchestra di 12 elementi “Giancarlo e i notturni” ed eravamo sempre in giro tra feste di piazza, balere e sagre paesane, quindi per cause di forza maggiore lasciai tutto e mi buttai a capofitto nel mondo del porno».

Che ricordi ha di Moana Pozzi? Altra colonna portante di questo mondo...

«Di Moana ho bei ricordi, la ricordo come una donna molto triste, qualcosa in lei è nella sua vita non andava, era a mio avviso in carenza affettiva. Era una donna intelligente ed è del segno zodiacale del Toro come la sottoscritta, noi siamo dei grandi lavoratori, precisi, meticolosi. Trattò malissimo mio marito sul nostro primo set professionale, sapendo che era alle prime armi gli disse: “io non ho tempo da perdere, fattelo diventare duro subito perché io non ho voglia di perdere tempo con te, devi essere bravo!” Lui rimase terrorizzato, ma io l’ho aiutato. Moana e mio marito dovevano girare una scena all’aperto sul cofano della macchina, io mi nascosi dietro ad un cespuglio e iniziai a masturbarmi, so che lui impazziva per questo, così mentre scopava Moana guardava me, era eccitatissimo ed in tiro, la scena andó benissimo e Moana gli fece tanti complimenti. Nonostante le chiacchiere penso che Moana sia morta, negli ultimi mesi prima di sparire era uno scheletro...mi ero molto spaventata a vederla così, andai subito a farmi mille analisi, pensavo fosse una malattia venerea a ridurla così e che ci avesse contagiati tutti, invece ero sana come un pesce quindi capii che soffriva di una malattia non infettiva ma molto grave, mi è dispiaciuto molto vederla in quelle condizioni».

Valentine Demy, Luana Borgia, Cicciolina, Barbarella, Milly D’Abbraccio, Eva Henger e Rossana Doll sono insieme a lei le indiscusse storiche dive dell’hard, ci parli di loro a ruota libera...

«Non le conosco, ci incontravamo ad eventi e ci salutavamo, non ci siamo mai frequentate. Cicciolina la incrocio ogni tanto al supermercato...tutte loro facevano parte dell’agenzia di Riccardo Schicchi, io ero per conto mio quindi nemmeno volendo c’era il modo di vedersi. La “Jessica Rizzo Communication” era mia, io facevo la produttrice, la regista, l’attrice, mi occupavo in toto di tutto».

E con Rocco Siffredi ha mai lavorato?

«Si, quando era un attore come tanti, non era il colosso e l’icona di oggi. Era agli inizi della sua carriera, lo ricordo educato, gentile e a modo, poi con lui non ho più lavorato».

Lei ha inventato anche il genere amatoriale nel porno, le piaceva di più girare film professionali o filmini amatoriali?

«Il professionale non mi ha mai entusiasmato, troppo costruito, troppo freddo. Io amo l’amatoriale così posso godere e fare ciò che voglio. Io ho inventato come giustamente hai detto il genere amatoriale, filmini senza una vera e propria trama con protagoniste casalinghe e persone della porta accanto senza tagli in cui davo la massima libertà di godere in maniera naturale e non impostata, nessuno ci scommetteva una lira, invece questo genere ebbe un successo clamoroso!»

Cosa pensa delle pornostar emergenti che entrano nel mondo nell’hard in questi anni?

«Che non conosceranno mai il “divismo”! Non diventeranno mai icone come lo siamo state noi della vecchia scuola, saranno delle meteore. Il mondo dell’hard è scaduto, internet ha ammazzato il mercato, poi il mondo del porno attuale non mi interessa, non lo seguo».

Come vive il passare del tempo su di lei? Qualche ruga in più sul viso, qualche kilo in più sono un problema?

«Lo vivo con serenità, io sono di natura positiva. Sono più interessata al cervello che al corpo, quello mi spaventa di più che invecchi. D’altronde non si può avere sempre vent’anni, uno fa quel che può per tenersi su al meglio, non sono contro la chirurgia estetica sia chiaro, sono contro gli abusi della stessa. Io non bevo, non fumo...ma alla cioccolata non rinuncio per niente al mondo!»

Cosa ne pensa della moda del big bamboo e della moda delle cougar e milf?

«Siamo messi male in Italia se le donne devono andare in Africa a cercare il big bamboo, qui in Italia ce n’è di materia prima buona, basta cercare...però se sono soddisfatte così fanno bene! Per quanto riguarda la moda milf-cougar penso che a questi ragazzini che vanno in cerca della donna matura manchi o sia mancata la figura materna, le famiglie odierne sono sempre più disgregate. Io questa voglia dei giovani di scoparsi le donne di una certa età non la vedo come una cosa normale, penso che tra coetanei ci si capisce di più, io con un ventenne non saprei che farci!»

Riuscirebbe a vivere senza sesso?

«No! Oramai mi sono abituata troppo bene, più lo faccio e più voglio farlo. Con mio marito siamo una coppia apertissima, facciamo sia le cose insieme sia le cose per conto nostro. Gli uomini e le trans mi piacciono, le donne invece non mi eccitano, mi ritengo una delle poche eterosessuali rimaste. Ho fatto tante scene lesbo nei miei film, circa 500, quindi posso rispondere con certezza che le donne non mi piacciono!»

Chi è l’uomo ideale per Jessica Rizzo?

«Il mio uomo ideale è senza alcun dubbio Alain Delon nonostante non sia più di primo pelo. Poi vorrei trovare un uomo bello come Gabriel Garko e intelligente come Maurizio Costanzo! Sarebbe fantastico!»

Di cosa si occupa oggi e cosa vorrebbe fare che in quasi 30 anni di carriera ancora non ha fatto?

«Attualmente sono la direttrice artistica di un club privè bellissimo a Roma che si chiama Il Mondo di Atlantis; il locale è molto elegante ed è frequentato da un ceto medio alto, per la maggior parte vengono a trovarci liberi professionisti. Ho due sogni nel cassetto: scrivere un libro sulla mia vita e perché no, prendere parte come concorrente ad un reality show televisivo. Ho parlato con amici che hanno partecipato a L’Isola dei Famosi e mi hanno detto che è durissima, ma accetterei la sfida, ne approfitterei per perdere qualche chiletto...»

·        Jim Carrey.

Mauro Donzelli per "comingsoon.it" il 5 luglio 2020. Jim Carrey è pronto a dire tutto su Hollywood, ma a suo modo, satiricamente, addirittura in maniera distorta, come lui stesso ha detto presentando il suo libro di memorie Memoirs and Misinformation al New York Times. Scritto insieme a Dana Vachon, sarà nelle librerie americane a luglio, dopo ben otto anni di lavoro di scrittura a quattro mani. Viene raccontata la storia di una versione di finzione di Jim Carrey che si muove per Hollywood in cerca di senso, dopo anni di successo come attore. Viene definito “un romanzo semi-autobiografico” intento a creare una sorta di Hollywood parallela, l’unico bizzarro modo in cui Carrey ha voluto declinare la sua versione di memoir. “Non c’è niente, a questo punto della mia vita artistica, di più noioso dell’idea di scrivere fatti reali della mia vita in qualche forma di ordine cronologico”, ha detto l’attore. “Cercare di espandere il mio brand: non troverete niente di simile, in questo libro. Jim Carrey è un avatar di chiunque si trovi nella mia posizione: dell’artista, della celebrità, della star. Quel mondo con tutti gli eccessi e la voracità, la vanità, l’essere autoriferiti. Alcune cose sono molto vere, ma non saprete cosa è vero e cosa non lo è, ma anche gli aspetti di finzione del libro rivelano una verità”. Il primo incontro con Jim Carrey nel libro ce lo presenta come un attore solitario sommerso dal privilegio e dalla ricchezza. È a un punto della sua carriera in cui “sta scegliendo fra il ruolo di protagonista in un biopic su Mao tse-tung e un film di studio basato su un giocattolo per bambini”. Una seconda possibilità a Hollywood gli arriva dopo aver incontrato una giovane ragazzina ingenua di nome Georgie, facendo squadra con lo sceneggiatore Charlie Kaufman per un “nuovo film che si spinge oltre i limiti”. Come noto, Carrey ha realmente lavorato con Kaufman in Se mi lasci ti cancello. La particolarità del libro Memoirs and Misinformation è la presenza di versioni di finzione di grandi star del cinema come Gwyneth Paltrow, Nicolas Cage o Anthony Hopkins, fra gli altri. Sempre parlando con il New York Times, l’attore ha detto di aver mandato una lettera di spiegazione a ogni persona citata nel libro, spiegando cosa intendesse fare con il suo romanzo. “È satira e parodia, ma fatta anche con reverenza. La maggior parte delle persone presenti nel libro sono persone che ammiro molto”. Qualche esempio? Nicolas Cage, pensate, è addirittura un collezionista di teschi di dinosauro, nonché nella finzione migliore amico di Carrey. I due si sono molto parlati durante la scrittura, rassicura Carrey, e Cage ha avuto solo parole di incoraggiamento per il progetto. “Non hai idea, Jim, sono molto onorato, amico”, ha risposto una volta saputo, mentre Carrey gli ha assicurato di avergli riservato “le battute migliori”. Poi però c’è la questione Tom Cruise, che viene citato come "Laser Jack Lighting” per ragioni legali. “Si fa tutto per divertimento”, ha aggiunto Carrey al Times, anche se non è proprio sicuro al 100% che Cruise la prenderà bene. “Si tratta semplicemente di prendere in giro la litigiosità di Hollywood. Conosco Tom Cruise, potrebbe picchiarmi, ma prenderò le botte per un’opera d’arte. Penso invece che lo amerà”. Memoirs and Misinformation sarà disponibile dal 7 luglio, anche in una versione audiobook letta da Jeff Daniels, compare di Carrey in Scemo e più scemo.

·        Joaquin Phoenix.

Oscar 2020, Joaquin Phoenix e l’omaggio al fratello River, morto per overdose. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it. «Corri verso il rifugio con amore e la pace seguirà». Joaquin Phoenix ha citato queste parole in chiusura del discorso con cui ha accettato l’Oscar come miglior attore per «Joker». Si tratta di una frase del fratello maggiore River Phoenix, morto nel 1993 per un’overdose quando aveva solo 23 anni, e scritta quando ne aveva appena 17, ha detto Phoenix, visibilmente commosso. Non accade spesso che l’attore 45enne parli del fratello scomparso, anche se di recente si era soffermato sull’argomento durante un’intervista per l’emittente televisiva americana Cbs: «Sento come se praticamente in ogni film che ho fatto ci fosse una qualche connessione con River - aveva detto - e penso che tutti noi abbiamo sentito la sua presenza e la sua guida nelle nostre vite in numerosi modi». Giovane promessa del cinema americano fra gli anni 80 e i primi anni 90, River Phoenix ha avuto un ruolo determinante nello spingere il fratello più piccolo verso la carriera da attore. Ma ancor prima, sembrava lui stesso destinato a brillare nel firmamento di Hollywood: nato nel 1970, aveva iniziato a recitare da bambino in spot pubblicitari e ruoli televisivi. Si era imposto all’attenzione del pubblico giovanissimo, con film come «Stand by me», «Nikita - spie senza volto», oppure «Vivere in fuga», per cui fu candidato agli Oscar come miglior attore non protagonista a 19 anni. Biondo, affascinante, aria tormentata, River Phoenix vinse poi la Coppa Volpi per «Belli e dannati» di Gus Van Sant, interpretato insieme all’amico Keanu Reeves. Un ruolo più adulto e complesso, con cui riuscì a staccarsi dall’immagine di ragazzino. Mentre la sua carriera cinematografica decollava, River sognava anche la musica e, innamorato di John Lennon e dei Doors, portava avanti in parallelo anche l’attività di chitarrista e cantautore. Militò nei Aleka’s Attic, band di cui faceva parte anche la sorella Rain, con cui aprirono un concerto dei Sonic Youth, suonarono al mitico CBGB di New York e incisero «Too many colors», brano inserito nella colonna sonora di «Belli e dannati». E River Phoenix era anche un attivista impegnato per l’ambiente e su diversi fronti umanitari. Ma insieme al successo, per River arrivarono anche i problemi con le droghe e l’alcol, che lo stroncarono nel giro di pochi anni. La sua morte avvenne la notte fra il 30 e il 31 ottobre del 1993 mentre era al Viper Room, club di Hollywood in parte di proprietà di Johnny Depp: prima di arrivare al locale, stando alla ricostruzione, l’attore aveva partecipato a una festa in hotel assumendo vari tipi di droghe. Assunse altre sostanze anche dopo, in un mix che si rivelò letale. Si sentì male nel club, dove erano presenti anche il fratello Joaquin e la sorella Rain, oltre che Flea e John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, il frontman degli Slipknot Corey Taylor, attori fra cui Leonardo DiCaprio e vari altri amici del mondo dello spettacolo. Fu Joaquin a chiamare i soccorsi, una volta capita la gravità della situazione, ma l’ambulanza non arrivò in tempo.

Da donnemagazine.it l'11 febbraio 2020. River Phoenix era il fratello di Joaquin ed è morto a soli 23 anni per una overdose di droghe. Conosciuto come il James Dean Vegano, aveva davanti a sé una carriera davvero promettente. Non era soltanto di una bellezza disarmante, ma era anche un bravo attore e un discreto musicista.

River Phoenix: chi era. River Jude Phoenix è nato il 23 agosto del 1970 a Madras, in Oregon. Fratello degli attori Rain, Joaquin, Liberty e Summer, ha avviato la carriera nel mondo dello spettacolo quasi per caso. Ha iniziato come musicista di strada per aiutare la famiglia e così, quando aveva soltanto dieci anni, è stato notato da un talent scout che l’ha ingaggiato per qualche pubblicità. Dopo gli spot sono arrivate le prime serie tv e film televisivi e, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Phoenix era già riuscito ad imporsi come uno degli attori più promettenti della sua generazione. Non a caso, nel 1986, era stato inserito da John Willis nella lista delle “dodici promesse del cinema”. River non aveva portato a termine gli studi, ma aveva comunque una grande voglia di apprendere. Tra le tante pellicole che gli hanno concesso di farsi notare ci sono: Stand by Me – Ricordo di un’estate, Mosquito Coast, Nikita – Spie senza volto, Vivere in fuga e Indiana Jones e l’ultima crociata. Successivamente ha recitato in film più complessi come: Belli e dannati (con cui vinse la Coppa Volpi come migliore attore e un Independent Spirit Award), Dogfight – Una storia d’amore, Silent Tongue, Quella cosa chiamata amore e Dark Blood. Quest’ultimo è rimasto incompiuto a causa della sua morte improvvisa ed è stato portato a termine solo nel 2012. Oltre all’attività cinematografica, Phoenix è stato anche cantante e chitarrista della band Aleka’s Attic, fondata assieme alla sorella Rain. Ha lottato per i diritti degli animali e dell’ambiente ed è stato un portavoce di PETA che, nel 1992, lo ha premiato con l’Humanitarian Award.

La morte. Phoenix è morto la sera di Halloween del 1993 quando aveva soltanto 23 anni. La sua carriera è stata bruscamente interrotta da una overdose di eroina e cocaina. River si trovava con amici, con la sorella Rain e con il fratello Joaquin al Viper Room, il locale di Johnny Depp, perché si sarebbe dovuto esibire. Purtroppo, però, un cocktail micidiale di alcol e droga ha avuto la meglio. I medici che l’hanno soccorso non hanno potuto fare altro che constatarne la morte. Successivamente, i dottori che hanno eseguito l’autopsia hanno rivelato che nel suo sangue c’era una dose di cocaina otto volte superiore al limite e una di eroina maggiore di quattro. Al Toronto Film Festival del 2019, il fratello Joaquin, quando l’hanno premiato per Joker, ha dichiarato: “Quando avevo 15 o 16 anni mio fratello River Phoenix è tornato a casa dal lavoro con il VHS di un film intitolato Toro scatenato. Mi ha fatto sedere e mi ha fatto vedere il film. Il giorno dopo mi ha svegliato e me lo ha fatto rivedere. Poi mi ha detto: ‘Devi ricominciare da capo a recitare, devi fare così’. Non me lo ha chiesto, me lo ha detto. E io gli devo la mia carriera e la vita incredibile che mi ha fatto avere”.

Davide Turrini per ilfattoquotidiano.it il 21 gennaio 2020. Joaquin Phoenix contro Leonardo DiCaprio. Leo vinceva sempre, ma ora non più. Ha fatto molto sorridere il discorso di Phoenix che, nel ritirare il SAG Awards 2020 come miglior attore, battendo Taron Egerton, Christian Bale, Adam Driver e Leonardo DiCaprio, ha ricordato un aneddoto sui casting andati a vuoto quando era un ragazzino. “Di solito eravamo io e un altro paio di ragazzi in competizione per il ruolo e perdevamo sempre a favore di quest’altro”, ha raccontato il Joker dopo un piccolo sogghigno e un ditino appoggiato sul labbro superiore come prima di fare una marachella. “Nessun attore pronunciava il suo nome, ma tutti i direttori del casting sussurravano: È Leonardo! È Leonardo!”. Al raccontino, che DiCaprio seduto al tavolo di C’era una volta ad Hollywood ha seguito, ripreso in primo piano, non proprio con grande entusiasmo, si è aggiunto il ringraziamento di rito: “Sei stato d’ispirazione per più di 25 anni, sia per me che per tante altre persone. Ti ringrazio davvero tanto”. Ma la frittata, a livello diplomatico, oramai era stata fatta. Per una volta che Joaquin vince un premio importante, ed è oramai certo che si ripeterà nella notte degli Oscar, battendo proprio Leo, ci è venuta la curiosità di sbirciare quali possono essere stati i casting dove il selezionatore sussurrava “È Leonardo”. Intanto entrambi gli attori sono classe 1974. Quindi sono coetanei soprattutto per i direttori di casting. L’esordio ufficiale di Phoenix risale addirittura al 1982 come Leaf Phoenix in una serie tv. Impegno professionale che si ripete parecchie volte per altri quattro anni facendo diventare Joaquin un viso noto della televisione americana. Nel 1986 l’esordio al cinema con Space Camp, poi un paio di miniserie tv, e ancora nel 1989 Parenti, amici e tanti guai dove incontra da quattordicenne, e ancora come Leaf, un set all star: Steve Martin, Tom Hulce, Rick Moranis e un appena maggiorenne Keanu Reeves. Quindi, se si guarda bene la carriera di Joaquin Phoenix c’è un lungo stop per almeno quattro anni, fino a quando nel 1994 con Da Morire di Gus Van Sant diventerà vero co-protagonista di un film importante. In quell’interregno tra i 15 e i 20 anni (1989-1994) Joaquin sembra faticare un po’ ad affermarsi, anzi praticamente scompare. Così se si gira pagina e si segue la carriera di DiCaprio vediamo che proprio tra l’89 e il ’91 Leo comincia a farsi conoscere parecchio in tv (l’esordio ufficiale è nell’89 con due episodi del telefilm Lassie), nel ’91 esordisce al cinema con Critters 3 e nel 1993 si afferma definitivamente come ragazzino diciottenne in film come Voglia di ricominciare (1993) e soprattutto Buon Compleanno Mr. Grape (1993). Insomma, se l’aneddoto di Phoenix è reale, i film dove i direttori di casting suggerivano sottovoce il prescelto (“è Leonardo!”), bruciando la candidatura di Phoenix, paiono proprio essere quello di Michael Caton-Jones e quella sorta di cult diretto da Lasse Hallstrom in cui Leo recita con un altro divo leggermente più avanti con l’età come Johnny Depp.

Simona Marcjhetti per corriere.it il 15 Gennaio 2020. Sono stati giorni piuttosto movimentati per Joaquin Phoenix: venerdì scorso è stato infatti arrestato insieme ad altre 147 persone (e immediatamente rilasciato) per aver partecipato ai Fire Drill Fridays, l'iniziativa settimanale di protesta sul cambiamento climatico lanciata dall'attrice Jane Fonda, mentre lunedì è stata ufficializzata la sua nomination all'Oscar per il film Joker. In mezzo ai due avvenimenti c'è però stata l'intervista fatta domenica con il giornalista Anderson Cooper per la trasmissione «60 Minutes» della Cbs, nella quale il 45enne attore ha parlato - e capita piuttosto di rado - del fratello River, morto 27 anni fa di overdose fuori dal locale Viper Room a Hollywood. «Sento come se praticamente in ogni film che ho fatto ci fosse una qualche connessione con River - ha detto Phoenix, che nel suo curriculum vanta pellicole come "Il Gladiatore" e "Quando l'amore brucia l'anima" - e penso che tutti noi abbiamo sentito la sua presenza e la sua guida nelle nostre vite in numerosi modi». Non a caso è stato proprio River a spingere implicitamente Joaquin a diventare un attore. «Un giorno mio fratello è arrivato a casa e mi ha detto tutto eccitato "ecco questo film" - ha continuato Phoenix, spiegando che il film in questione era "Toro scatenato" di Martin Scorsese con Robert De Niro - e penso che questo abbia risvegliato qualcosa in me, perché improvvisamente ho potuto vederlo attraverso i suoi occhi». La morte di River Phoenix fu uno choc per tutti: all'epoca il talentuoso attore aveva appena 23 anni e sembrava destinato a una lunga e luminosa carriera, ma la sua scomparsa ha cambiato l'intero scenario e inevitabilmente scombussolato anche la vita dei suoi familiari. «Eravamo così lontani dal mondo dello spettacolo - ha sottolineato ancora Joaquin riferendosi a lui e al resto della famiglia, peraltro presente all'intervista - perché non guardavamo le trasmissioni di intrattenimento né avevamo riviste di quel tipo in casa. River era un attore davvero notevole ma, di fatto, noi non lo sapevamo nemmeno e la sua morte così pubblica è stata destabilizzante per tutti noi. In quel periodo in cui eravamo così vulnerabili avevamo gli elicotteri che volavano sopra casa e gente che tentava di intrufolarsi nella nostra proprietà e per quanto mi riguarda mi sono sentito come se mi fosse stato impedito di elaborare il lutto».

DAGONEWS il 16 gennaio 2020. La presentatrice Wendy Williams è stata costretta a scusarsi dopo aver parlato della cicatrice sul labbro di Joaquin Phoenix, nato con il labbro leporino. Durante il suo programma la donna stava parlando del look insolitamente attraente dell’attore e dei suoi occhi penetranti, prima di parlare del suo labbro leporino, infilandosi un dito in bocca per simulare la malformazione. Le sue scuse sono arrivate in risposta al calciatore canadese Adam Bighill, che era stato critico nei confronti della presentatrice, sentendosi chiamato in causa visto che il figlio Beau soffre di palatoschisi ed è stato sottoposto a un intervento per “ricucire” la parte superiore del labbro. Anche Cher si è scagliata contro Williams con una serie di post al vetriolo. Dopo cinque giorni in cui era finita nella bufera, Williams si è scusata e ha promesso di donare soldi a Operation Smile e all'American Cleft Palate-Craniofacial Association per aiutare le famiglie con bimbi con labbro leporino. Una bufera che ha travolto Williams, ma non ha sfiorato il candidato al premio Oscar che non è mai intervenuto sulla vicenda.

·        Joe Bastianich.

Joe Bastianich in concerto a Roma: «Ero uno sfigato cicciottello, chitarra e musica una fuga dalla realtà». Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Cucinotta e Sabina D’Oro. «Un ragazzo cicciottello, con capelli improponibili, abiti di seconda mano, preso in giro dai coetanei, escluso da tutti. Il classico sfigato, ma con grandi, grandi sogni. La chitarra e la musica rappresentavano una fuga dalla realtà». E quella sei corde e le canzoni sono state uno dei tantissimi sogni che quel ragazzino è riuscito a realizzare. Un adolescente diventato Joe Bastianich, uno degli imprenditori più importanti al mondo nell’ambito della ristorazione e un personaggio televisivo che supera ogni schema con la sua schiettezza e sincerità. A 51 anni Joe non ha smesso di sognare e ha coronato uno dei più grandi desideri del sé adolescente: pubblicare un disco e suonare le proprie canzoni in tutto il mondo. Un tour che lo ha portato anche a Roma a Largo Venue. «Aka Joe», questo è il titolo dell’album, è un ritratto intimo e senza filtri di Bastianich. «Ho suonato tutta la vita, la musica è stata la mia emozione principale. Da figlio di immigrati, il rock era la fuga da una realtà dura e per me è stato sempre sinonimo di libertà assoluta di espressione». Un modo per rivelare la propria reale essenza, al di là dell’immagine che appare attraverso i format televisivi. «Il Joe che avete visto in televisione per anni, è il Joe ristoratore, l’imprenditore. Nel disco e nei live emerge il vero Joe, che purtroppo pochi conoscono. Una persona super-sensibile, dolce, che ha cura degli altri. Le parole delle canzoni sono personali, parlano della mia vita, mi spoglio attraverso quello che dico. Con la musica c’è poco da nascondere». Aka Joe, però, non è soltanto un disco intimo, ma anche un album che non ha paura di prendere posizione contro tematiche sociali scottanti, come la diffusione delle armi da fuoco negli USA. «Twenty Snowflakes» parla del massacro della Sandy Hook Elementary School di New York. «Quando hai l’opportunità di esprimerti devi prendere in considerazione la tua responsabilità sociale. Questa canzone prende una posizione chiara contro la violenza e la diffusione delle armi da fuoco in America – spiega Bastianich -. Ci sono altri problemi come la tendenza al nazionalismo e la paura dell’immigrazione contro i quali il mondo deve rispondere in maniera unita. Vedo, però, che la tendenza sia negli USA sia in Italia è quella di tirarsi indietro. Io non ho una soluzione, ma cerco di affrontare il problema».

·        Johnny Depp.

Antonello Guerrera per "repubblica.it" il 2 novembre 2020. Sì, era tutto vero: Johnny Depp “picchiava sua moglie”. È la sentenza dell’Alta Corte di Londra nel processo civile per diffamazione chiesto dall’attore americano contro il tabloid britannico The Sun (insieme al suo gruppo editoriale News Group Newspapers), che nel 2018 lo aveva definito “wife beater” nel titolo di un articolo, ossia “picchiatore di sua moglie”, allora Amber Heard, l'attrice texana di 37 anni. Ciò che aveva scritto il quotidiano “era sostanzialmente vero”, ha dichiarato il giudice Andrew Nicol nel tribunale della capitale britannica. Secondo il 57enne celebre attore americano, invece, quel titolo del Sun era scorretto e non corrispondente alla realtà. In teoria, Depp avrebbe la possibilità di fare appello, ma non è ancora chiaro se ciò accadrà. Il caso ha generato scalpore e scandalo, a Londra e in tutto il mondo, negli ultimi mesi. Oltre alle gravissime accuse contro l’attore che l’Alta Corte di Londra ha sostanzialmente confermato, durante le udienze Depp e Heard hanno infatti rivelato al mondo i dettagli shock, privati e talvolta sordidi della loro relazione, devastando le loro reputazioni. Un dramma familiare e personale di due star di Hollywood, per quello che è stato il processo per diffamazione dell’anno. Depp ne è venuto fuori come un picchiatore seriale, che prendeva droghe di ogni sorta in un matrimonio in pezzi. Heard ha accusato Depp di averla aggredita più volte, mostrando anche le foto delle contusioni e i lividi sul volto, soprattutto quando beveva e assumeva droghe, diventando un “mostro”: l’attrice ha persino condiviso l’immagine del tavolo dell’ex marito la mattina, tra cocktail alcolici e strisce di cocaina. “Ho temuto di morire”, aveva confessato Heard. Secondo Depp, era Heard che in realtà picchiava lui, tanto che una volta “mi ha spento una sigaretta sulla guancia”. "Le sue accuse sono assurde e folli!", aveva spiegato, "Amber mi ha rotto un dito con la bottiglia di vodka!", mentre Heard aveva risposto che quella sua reazione è stata scatenata da "tre giorni in ostaggio di Johnny". Sono state pubblicate anche alcune trascrizioni di litigi tra i due, che si registravano a vicenda, per accusarsi. Heard lo avrebbe fatto affinché Depp "si rendesse conto di quello che diceva e faceva quando era ubriaco o drogato", lui perché "subiva umiliazioni da lei” come quando “Amber defecava nel nostro letto". In una conversazione, l'attrice a un certo punto urla a Depp: "Ti ho colpito ma non ti ho steso, sei un bambino del cazzo!”. La battaglia legale tra i due ex è iniziata subito dopo la fine della relazione nel maggio 2016 quando l'attrice aveva già accusato il marito di violenza e ottenuto 7 milioni di dollari poi donati in beneficienza. Il caso Depp-Heard non è finito comunque: perché l’attore di Donnie Brasco, Pirati dei Caraibi, Blow e La fabbrica di cioccolato ha denunciato Heard anche negli Stati Uniti, in un’altra causa per diffamazione: in questo caso, Depp chiede all’ex moglie 50 milioni di dollari di risarcimento per un editoriale di quest’ultima sul Washington Post in cui raccontava le violenze subite. Possibile che il verdetto di oggi influenzi anche il processo americano. “Le vittime di violenza domestica non devono mai essere messe a tacere”, ha commentato il tabloid Sun dopo la sentenza, “ringraziamo i giudici di Londra e Amber Heard per le sue coraggiose testimonianze in tribunale”.

DAGONEWS il 2 novembre 2020. Johnny Depp passa al contrattacco. Dopo aver perso la causa per diffamazione contro il tabloid “The Sun” per essere stato bollato come picchiatore di moglie, il suo legale fa sapere che impugnerà la decisione del giudice: “la sentenza è tanto iniqua quanto sconcertante. La cosa più preoccupante è il fatto che il giudice abbia fatto affidamento sulla testimonianza di Amber Heard, disprezzando la montagna di contro-prove da parte di agenti di polizia, medici, del suo ex assistente, di altri testimoni e una serie di prove documentali che minano le accuse, punto per punto. Tutto questo è stato trascurato. La sentenza è talmente viziata che sarebbe ridicolo per il signor Depp non impugnare questa decisione».

Antonella Rossi per "vanityfair.it" il 2 novembre 2020. Johnny Depp e Amber Heard, protagonisti di una burrascosa separazione, e di una vita matrimoniale poco idilliaca, continuano a far parlare di loro. E dopo settimane in tribunale è arrivato il primo verdetto, quello concernente il processo contro il The Sun, che l’attore aveva denunciato per via del modo poco edificante in cui il tabloid l’aveva definito dopo che erano state diffuse una serie di fotografie che ritraevano la Heard con il volto tumefatto: «Picchiatore di mogli». Il giudice dell’Alta Corte di Londra che ha esaminato il caso, Andrew Nicol, ha defnito «sostanzialmente vera» l’accusa del tabloid, respingendo così la denuncia dell’attore, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti, anzi, ha a sua volta accusato la moglie di violenze. «Ho raggiunto questa conclusione avendo esaminato nel dettaglio 14 episodi presentati dalla difesa (del tabloid, ndr) a giustificazione di quanto scritto su Depp, oltre che sulla base di alcune ammissioni sostanziali fatte dallo stesso “denunciante”». Nicol ha affermato che su questi 14 episodi la Heard sarebbe stata picchiata 12 volte, a partire dal 2013, quando per la prima volta l’attore le aveva dato uno schiaffo, reazione al commento di lei su un tatuaggio. Sono state invece respinte due accuse fatte dall’attrice riguardanti fatti del 2014 e del 2015, anche se in questo caso il giudice ha sottolineato di non poter essere in grado di dimostrare la falsità della donna.  Gli imputati, insomma, hanno avuto la meglio, perché non è stato difficile dimostrare che tutto ciò che avevano scritto era sostanzialmente vero. Johnny Depp aveva citato in giudizio i giornali del gruppo News Group, a cui appartiene anche il The Sun, e un giornalista, Dan Wootton che nel 2018 aveva scritto delle sue presente violenze ai danni della moglie. Un verdetto arrivato a diversi mesi dall’inizio del processo, che ha suscitato un’attenzione mediatica non da poco, per via della popolarità delle parti in causa. Pe Johnny Depp la sconfitta non è solo personale ma anche economica, gli costerà due milioni di sterline, mentre Amber Heard, trionfa: «Sono sollevata ma non sorpresa», ha commentato. La resa dei conti, però, non è ancora alle sue battute finali, perché anche negli Stati Uniti ci sarà presto una causa. Dopo che l’attrice aveva scritto un articolo sul Washington Post in cui raccontava di essere stata vittima di violenze domestiche, Depp aveva contrattaccato duramente, accusandola di diffamazione. «Ci impegniamo a ottenere giustizia per Amber Heard presso il tribunale degli Stati Uniti e a difendere il suo diritto alla libertà di parola», hanno fatto sapere dal team legale dell’attrice. In ballo, in questo caso, c’è un risarcimento da 50 milioni di dollari. Ed ora che Depp ha perso a Londra la strada è tutta in salita. Non resta che attendere la prossima convocazione in aula, prevista per il 2021.

Paola Caruso per Corriere.it il 28 luglio 2020. Tre settimane di accuse pesanti, retroscena raccapriccianti e panni sporchi lavati in pubblico, tra droga, litigi, case distrutte e foto di lividi e tumefazioni. Si concludono oggi, martedì 28 luglio, le udienze del processo intentato da Johnny Depp, 57 anni, contro il «Sun» che lo ha accusato di essere un «picchiatore della moglie» (con l’ex moglie Amber Heard, 34 anni, come principale testimone a favore degli imputati). E anche se per la sentenza occorre aspettare ancora qualche settimana, lo scenario che si è rilevato nelle diverse udienze alla Corte di Londra è quello che le persone ricorderanno, indipendentemente dal verdetto. L’attore ha deciso di procedere contro il tabloid, come ha detto l’avvocato della star David Sherborne nell’arringa finale, perché l’etichetta di «violento» «distrugge la sua reputazione e pone fine alla sua carriera a Hollywood», mentre la difesa del tabloid nel discorso conclusivo dell’avvocato Sasha Wass insiste sul fatto che prima del divorzio Depp «abusasse regolarmente e sistematicamente di sua moglie», di conseguenza la ricostruzione pubblicata dal giornale nel 2018 è stata accurata.

Il dibattito. Nelle varie fasi del processo in aula si è detto di tutto. Il divo di «Pirati dei Caraibi» ha ammesso l’abuso di droghe e di aver colpito per sbaglio l’ex moglie nel tentativo di difendersi da un pugno, mentre nega di aver alzato le mani sulla Heard nei 14 episodi che sono stati sviscerati in aula. Depp ha detto che le foto dei lividi di Amber, usate come prova, fanno parte di un dossier falso, costruito per diffamarlo. Nega di aver minacciato di uccidere l’ex moglie, e accusa Amber di essere stata «irascibile e infedele».

Il patrimonio dilapidato. Quello che ne esce è un ritratto comunque poco edificante per Depp, non solo per le ammissioni che l’attore ha fatto sul banco dei testimoni — dove è stato sentito più volte come se fosse lui l’imputato — ma anche per il racconto di come è riuscito a dilapidare una fortuna (650 milioni di guadagni quando è entrato nel cast dei «Pirati dei Caraibi»), indebitandosi con il fisco per 100 milioni di dollari perché i suoi consulenti non hanno pagato le tasse per 17 anni.  Vita dorata, soldi spesi senza criterio (5 milioni solo per mandare nello spazio le ceneri del suo scrittore preferito, Hunter S. Thompson, morto nel 2005), jet set e case distrutte, come la villa che la coppia Depp-Heard ha preso in affitto in Australia, danneggiata per oltre 100 mila dollari durante un litigio, e persino un letto di casa sporco di escrementi (secondo Depp è stata lei, secondo Heard il cane).

La causa contro la moglie. Alla fine, anche se Depp dovesse vincere la causa, dopo tutto quello che si è sentito, non è detto che riesca a «ripulire la sua reputazione per ritornare sul set». Troppo clamore sulla vicenda può danneggiare una carriera in modo irreparabile o portare alla ribalta una stella in declino, come insegna la modella Kate Moss che dopo le accuse di droga è ritornata in passerella, super pagata, come se nulla fosse. Da notare che nell’ultima giornata in aula Depp è stato fotografato con in mano un orsacchiotto di peluche, probabilmente il dono di qualche fan che lo rivedrebbe volentieri sul grande schermo. Ma gli appuntamenti in tribunale non sono finiti per l’attore: Johnny, infatti, ha fatto causa all’ex moglie per diffamazione (attraverso un articolo del Washington Post che parla di abusi domestici) chiedendo 50 milioni di dollari di risarcimento e il nuovo processo dovrebbe tenersi negli Stati Uniti nel 2021. Se Depp dovesse vincere questo round, la seconda disputa legale in programma potrebbe trarre vantaggio, e forse è proprio questo il punto su cui il divo fa affidamento.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2020. Il divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard, ufficializzato nel 2016 con un accordo da 7 milioni di dollari (a lei) e un' ordinanza di allontanamento per violenza domestica (a lui), è passato alla storia come uno dei peggiori di Hollywood. Scherzi a base di sangue e feci, mobilia sfasciata, lividi su lividi: come hanno fatto a vivere così infelicemente due che 15 mesi prima si erano sposati su un' isola alle Bahamas? La causa che si dibatte ora a Londra, e per le prossime settimane, vede Depp come parte lesa contro il tabloid The Sun , che lo ha definito «un picchiatore di mogli»: in aula c' è anche Heard, chiamata dall' editore del giornale a testimoniare contro l' ex marito. Di certo, dopo tre giorni di udienze, c' è per ora un fatto: protagonisti assoluti del matrimonio sono stati alcol, oppiacei e cocaina. In un' intervista del 2018 Depp si sentì chiedere se spendesse, in quel periodo, 30 mila dollari di vino al mese. «Sono offeso», ribattè. «Spendevo molto di più». Amber Heard e Johnny Depp si erano conosciuti nel 2009 girando The Rum Diaries - Cronache di una passione : lui era l' attore più pagato di Hollywood, lei era reduce da una commedia sporcacciona dal titolo Strafumati . La trama dei Rum Diaries è quasi profetica: lui è un giornalista alcolizzato, lei la bionda stupenda il cui amore lo redime. Nella realtà, però, il finale non è all' altezza. Lui nel 2012 lasciò la compagna Vanessa Paradis La relazione con Amber Heard divenne pubblica qualche mese dopo. Il matrimonio arriva a febbraio 2015, quando Depp è al picco di un biennio di dipendenze: nella memoria depositata da lei al processo è datato appena un mese dopo uno dei litigi più violenti della coppia. Sono in Australia, lui vuole che lei firmi un accordo post-matrimoniale, avendo già rifiutato di firmarne uno preliminare, lei non vuole, c' è una colluttazione in cucina (danni per 150 mila dollari) e a lui, con i cocci di una bottiglia di vodka, si mozza una falange. Depp «usò» il sangue che sgorgava dal dito per imbrattare tutte le pareti della casa, su cui disegnò anche un pene. Datati dicembre 2015 i reperti di una nuova lite: foto di lei con gli occhi pesti «per essere stata presa a testate». Lui si difende così: «Lei mi stava colpendo alla schiena, mi sono girato per fermarla e ci siamo scontrati». Resoconti che parlano di schiaffi e pugni quotidiani. «Ho capito già in Australia», racconta lui, «che ci saremmo sfasciati». Lei sembra averlo capito più avanti, invece, in una mail in cui gli scrive «Non sono tenuta a sopportare questo e io non sono pagata per stare con te». E poi, più dolce: «È come se convivessero in te Jekyll e Hyde. Metà di te io la amo follemente, l' altra metà mi terrorizza». Tracce di amore emergono però in un' altra lettera, inviata da lui alla mamma di Amber: «Tua figlia è andata molto più in là che il prendersi cura di questo povero vecchio drogato», ha scritto, definendo i suoi sforzi «eroici». «È stata Amber e solo Amber che mi ha aiutato a superare quel momento». Oggi lui ritratta anche questo: «Scrivevo così per compiacerla». E la incolpa di non averlo «mai aiutato a disintossicarsi». «E in una vacanza alle Bahamas mi nascose i farmaci contro l' astinenza». Accuse, recriminazioni, ritrattazioni. Le udienze continueranno per altre due settimane. Gli avvocati di Depp hanno portato la causa contro il Sun all' Alta Corte, invece di accordarsi in via extragiudiziale com' è più comune in contenziosi di questo tipo, sperando che una sentenza a suo favore potesse giovare all' immagine del divo. Comunque vada, sembra difficile.

Londra, Johnny Depp a processo contro il "Sun". In tribunale anche l'ex moglie Amber Heard. Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da Antonello Guerrera su La Repubblica.it. In un articolo di due anni fa il tabloid inglese aveva definito l'attore americano "picchiatore di donne". Lui nega tutto: "Era lei che picchiava me". Botte, droghe di ogni sorta, un matrimonio in pezzi, l'infanzia difficile, Hunter Thompson e Marilyn Manson, i ricordi scomodi. C'è un dramma familiare e personale di due star di Hollywood, in scena da oggi a Londra, per quello che al momento in Regno Unito è il processo per diffamazione dell'anno. Johnny Depp contro il tabloid inglese "Sun", ma anche contro la sua ex moglie e attrice texana Amber Heard, presente come lui in tribunale nella capitale britannica. Dove, al primo giorno di un procedimento che durerà almeno qualche settimana, hanno già fatto scalpore e, per alcuni, dato un triste spettacolo. Depp, presentatosi in aula con occhiali da sole a goccia e mascherina nera alla moda, vuole farla pagare al "Sun" e al suo direttore Dan Wootton che in un articolo di due anni fa lo ha definito un mostro "picchiatore di donne", "per aver malmenato" l'allora moglie Amber Heard, 34 anni. L'attore americano di "Donnie Brasco", "Pirati dei Caraibi", "Blow" e "La fabbrica di cioccolato" sostiene che sia tutto falso, che il tabloid britannico gli ha rovinato la reputazione e quindi vuole i danni. Il "Sun", tramite la sua società editoriale, News Group Newspapers (Ngn), ha chiamato a testimoniare Heard. Il ritratto che ne viene fuori è quello di una relazione esplosiva tra i due, estremamente complicata e anche violenta. Secondo il 57enne Depp, era Heard che in realtà picchiava lui, tanto che una volta, nel 2006, in viaggio su un aereo privato ha dovuto dormire in bagno. "Le sue accuse sono assurde e folli!", ha spiegato, "Amber mi ha rotto un dito con la bottiglia di vodka!", mentre Heard ha risposto che quella sua reazione è stata scatenata da "tre giorni in ostaggio di Johnny". Sono state pubblicate anche alcune trascrizioni di litigi tra i due, che pare si registrassero a vicenda, per accusarsi. Heard lo avrebbe fatto affinché Depp "si rendesse conto di quello che diceva e faceva quando era ubriaco o drogato", lui perché "subiva umiliazioni da lei". In una conversazione, l'attrice a un certo punto urla a Depp: "Ti ho colpito ma non ti ho steso, sei un bambino del cazzo!". La vicenda è così seria che diversi attori di Hollywood saranno chiamati a testimoniare, tra cui anche altre due ex di Depp come la cantante francese Vanessa Paradis e l'attrice Winona Ryder, che dovrebbero difenderlo. Heard, da parte sua insieme ai suoi avvocati, sta cercando di dimostrare che Depp sia un alcolizzato e un drogato e che i suoi presunti comportamenti maneschi siano dovuti all'abuso di sostanze. Di fronte alle domande degli avvocati del "Sun" e di Heard, Depp ha ammesso di "aver fatto uso di ogni tipo di droga, ma è tutto sotto la luce del sole", di "averlo fatto per due volte insieme alla rockstar Marilyn Manson", di "aver preso oppio perché amavo la controcultura e Hunter Thompson era un mio eroe" e di aver iniziato a bere quando era molto giovane a causa di una situazione familiare molto dolorosa e della madre depressa. Ma ha sottolineato di non aver mai picchiato Heard, anche se nel 1994 durante un litigio con Kate Moss ha distrutto una camera d'albergo. La causa a Londra s'era aperta con un'udienza preliminare a febbraio, ma poi la crisi del coronavirus e il lockdown hanno rinviato tutto. Parallelamente, c'è un altro procedimento in corso tra i due negli Stati Uniti. La sentenza del processo di Londra è attesa per fine luglio. 

Irene Soave per "corriere.it" il 5 luglio 2020. Riprendono a Londra le udienze del processo per diffamazione di Johnny Depp contro il tabloid The Sun, che lo aveva definito un «picchiatore di mogli» e aveva pubblicato decine di suoi messaggi violenti nei quali Depp si diceva pronto a «ammazzare e bruciare» l’ex moglie Amber Heard, di 23 anni più giovane, da cui ha divorziato nel 2016. L’amore tra i due, durato 5 anni, e iniziato sul set della commedia The Rum Diaries, è finito tra accuse reciproche di violenza; a processo l’editore del Sun difenderà il contenuto di un articolo del 2018, in cui si parlava di Depp come un «picchiatore di mogli». Heard non è tra i contendenti, ma il processo londinese potrebbe avere ripercussioni su quello — in corso negli Stati Uniti — in cui accusata di diffamazione è lei, per un articolo sulla violenza domestica scritto nel 2018 sul Washington Post.

Il processo a Londra. Nessun accordo extragiudiziale: il processo, che potrebbe costare anche un milione di sterline di spese legali a Depp, e viceversa fruttargli un risarcimento massimo di poche decine di migliaia di euro, è arrivato fino all’Alta Corte, che si occupa in prima istanza di casi «di alto valore». E serve alla star per tentare di arrestare la slavina di danni d’immagine che le accuse di violenza da parte di Amber Heard, suffragate da messaggi e registrazioni che sono quasi tutti diventati pubblici proprio sulle pagine di tabloid come il Sun, lo sta travolgendo. Allo scopo, sul banco dei testimoni pro-Depp potrebbero comparire anche le sue ex, Vanessa Paradis e Winona Ryder, che si sono già schierate in suo favore, definendolo «sempre estraneo a comportamenti violenti».

I processi per diffamazione. L’articolo del Sun, uscito nel 2018, era una sorta di appello alla scrittrice J. K. Rowling: era tranquilla, chiedeva l’autore del pezzo, a sapere che nel cast del film Animali fantastici e dove trovarli, tratto da un suo libro, c’era un noto «picchiatore di mogli»? Nelle udienze preliminari del processo, celebrate a fine febbraio — e poi sospese per il lockdown — erano venuti a galla 70 mila tremendi messaggi di Depp a un amico in cui l’attore si augurava di poter «uccidere e bruciare» Heard. «Bruciamo Amber. Anzi, prima la anneghiamo e poi la bruciamo. Poi mi occuperò del suo cadavere». Messaggi scritti probabilmente sotto l’effetto di droghe, usciti dal telefonino dell’attore (questo era per l’amico e collega Paul Bettany) e finiti «per errore» e chissà come nelle mani degli avvocati del Sun. «La signora Heard», scrivono gli avvocati di Depp, «non è mai stata una vittima di abusi, la violenta era lei». Lei stessa aveva scritto sul Washington Post un articolo sulla violenza domestica in cui lui, mai citato, era però «chiaramente diffamato»: per questo articolo è in corso un processo negli Stati Uniti — lui le chiede 50 milioni di dollari di risarcimento — e un’eventuale sentenza britannica a favore di Depp potrebbe influenzarne significativamente il corso, contribuendo a riabilitarlo.

Da buon marito a «The Monster». Nel 2012 Depp aveva lasciato la mamma dei suoi due figli, la cantante francese Vanessa Paradis, dopo 14 anni di convivenza. L’accordo raggiunto era stato amichevole, e lui aveva lasciato loro metà del suo patrimonio, cioè 150 milioni di dollari. Cosa è successo poi per trasformare un generoso ex-marito in «the Monster», così Amber Heard lo chiama nelle memorie agli atti? Il matrimonio fra i due è stato costellato di violenze: a solo un mese dalle nozze, durante un viaggio in Australia — viaggio già noto alle cronache per l’incidente dei loro due cani, che portarono nel Paese senza dichiararli, e per questo furono costretti a girare una goffissima pubblicità progresso — una lite fra i due a colpi di bottiglie rotte e bicchieri si concluse con lui in ospedale per un dito mozzato. Lei compariva ripetutamente in pubblico con lividi e graffi («Se li disegnava», ha sempre messo agli atti lui, chiamando a testimoniare anche l’attore James Franco) e quando chiese il divorzio ottenne anche un ordine restrittivo per Johnny Depp. Lui la controdenunciò e con una registrazione di alcune sedute di terapia (finite anche queste in mano a un tabloid) dimostrò che pure lei lo colpiva, tirandogli «pentole, padelle e vasi». Il matrimonio fra Depp, oggi 57 anni, e l’attrice Amber Heard, 34, è durato meno di 15 mesi, tra febbraio 2015 e maggio 2016; il loro divorzio, pure ufficializzato ad agosto 2016 con un accordo da 7 milioni di dollari, pare non finire mai.

Da "amica.it" l'8 luglio 2020. Non solo Amber Heard e il loro tumultuosissimo rapporto. Davanti all’Alta Corte di Londra, Johnny Depp (57 anni) svela tutti i suoi demoni… Violenze, alcol, droga: «Ho iniziato molto presto, da ragazzino», ha detto. Ieri è cominciato il processo che la star hollywoodiana ha intentato contro il tabloid inglese Sun. Non sono un picchiatore di mogli, dice lui. Il giornale lo scrisse nel 2018. La moglie picchiata doveva essere Amber Heard. A Londra, mascherata come lui, è arrivata anche lei. Si è messa in galleria a seguire il processo in cui non è direttamente parte in causa, però. Nel primo giorno delle udienze, Johnny Depp ha confermato la sua tesi. Non è lui ad aver fatto violenza contro la donna. Ma lei contro di lui. Ha mostrato un video in cui si vedono le ferite. La sua controparte ne ha mostrato un altro in cui lui distrugge la cucina, beve e la minaccia. Poi, Johnny Depp, ha parlato della sua rabbia. E delle sue dipendenze. Ha anche ringraziato Elton John che, a più riprese, l’avrebbe aiutato a uscirne. Ed è tornato indietro nel tempo. L’avvocato del Sun gli ha chiesto se è vero che lui ha iniziato a usare droghe e alcol quando era ragazzino. Lui ha risposto di sì: «Ero molto giovane. Non era un momento particolarmente stabile della mia vita famigliare. Mia madre mi chiedeva di andare a prendere le sue pillole per i nervi. Avevo circa 11 anni. Quelle pastiglie la calmavano e così ne presi una. Il mio uso di droghe è cominciato così. Scoprii presto che droga e alcol erano le uniche cose che mi facevano tenere sotto controllo il dolore». Ha rivelato anche di aver fatto fumare marijuana alla figlia Lily-Rose quando lei aveva solo 13 anni. Già nel 2019, l’aveva dichiarato: «Non ho mai tenuto segreto questo aspetto della mia vita e le mie dipendenze. Ho iniziato da piccolo e parlarne non mi ha mai imbarazzato. Ma anche sotto il loro effetto non ho mai commesso atti violenti contro nessuno». Il riferimento è ad Amber che lui accusa, anzi, di non averlo supportato abbastanza nei suoi tentativi di uscire dalle dipendenze.

"Ha defecato nel nostro letto": Johnny Depp contro Amber Heard. Dichiarazioni scioccanti e filmati compromettenti hanno caratterizzato la prima udienza del processo per diffamazione, promosso dall'attore contro il tabloid inglese "Sun", che ha visto scontrarsi in aula Depp e la sua ex moglie. Novella Toloni, Mercoledì 08/07/2020 su Il Giornale.  Si è ufficialmente aperto a Londra il processo per diffamazione promosso da Johnny Depp contro il quotidiano inglese "Sun" e come molti si aspettavano non sono mancati i colpi di scena. In aula l'attore e la sua ex moglie hanno messo in piazza, per l'ennesima volta, il loro dramma familiare, fatto di violenze, litigi, episodi choc e dichiarazioni imbarazzanti. L'attore americano ha citato in giudizio il tabloid britannico "Sun" e il suo direttore per averlo definito - due anni fa - un "picchiatore di donne", rovinandogli la reputazione. Ma in aula a sorpresa, chiamata a testimoniare in difesa del quotidiano, è arrivata l'ex moglie di Depp, Amber Heard con la quale, da anni, è in atto una guerra mediatica senza esclusione di colpi. L'attrice è così tornata a parlare della loro relazione "malata" fatta di violenze psicologiche e fisiche, litigi e accuse, droga e alcool. Se da una parte gli avvocati dell'attrice e del quotidiano hanno cercato di disegnare il profilo di uomo, Johnny Depp, violento e dedito alla droga e alle violenze, dall'altra l'attore americano non si è risparmiato il racconto di episodi imbarazzanti legati al suo matrimonio con la 34enne texana. Il tutto per screditare le parole dell'ex moglie, sposata nel 2015 e dalla quale ha divorziato solo un anno dopo le nozze, un periodo da lui definito "incredibilmente infelice". A far inorridire i presenti in aula è stato soprattutto il racconto di quanto fatto da Amber Heard contro l'ex marito, colpevole di essere arrivato in ritardo alla festa del 30esimo compleanno dell'attrice: "Ha defecato nel nostro letto e poi incolpato il nostro cane". Un episodio surreale, raccontato con dovizia di particolari, che avrebbe portato Depp a mettere la parola fine al loro matrimonio. Insomma, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Lunghi minuti di discussione in aula per capire chi e perché avesse lasciato escrementi nel letto coniugale. Mentre Johnny Depp incolpava l'ex, lei si discolpava puntando il dito contro il loro cagnolino, con problemi intestinali, salvo poi virare il tutto suo uno scherzo di pessimo gusto. A confermare la versione fornita dall'attore di Hollywood, però, sarebbero state le dichiarazioni della governante della coppia all'epoca dei fatti che, dovendo ripulire il disordine il giorno seguente, avrebbe spiegato che gli escrementi erano troppo grandi per provenire dal piccolo cane. Incidente, scherzo o minaccia, Johnny Depp non ha utilizzato parole clementi verso l'ex compagna, definendola: "Una donna dalla personalità borderline calcolata e diagnosticata; lei è sociopatica; lei è una narcisista ed è completamente ed emotivamente disonesta".

 DAGONEWS il 9 luglio 2020. Il terzo giorno in tribunale per il processo di Johnny Depp contro il Tabloid “The Sun” continua senza esclusione di colpi. Ed emergono nuovi dettagli inquietanti. L’aggressione in aereo Tra i vari episodi citati in tribunale contro Depp c’è la presunta aggressione su un volo da Boston a Los Angeles nel maggio 2014. In quell’occasione Heard ha raccontato che l’attore era sotto effetto di cocaina, aveva ingerito alcune pillole e aveva bevuto whisky e champagne. A far esplodere la rabbia di Depp sarebbe stata la scoperta di una presunta relazione tra Heard e quello che lui avrebbe definito “lo stupratore” Franco. La donna ha anche registrato “le urla animalesche” di Depp e gli insulti che le sono stati rivolti davanti ai membro dell’equipaggio prima di perdere la testa e picchiarla. Depp ha risposto che la sua rabbia era contenuta e che mentre parlava stava in realtà facendo degli schizzi su un quaderno. In relazione alla definizione di “stupratore” data a Franco, Depp ha risposto: « Mi aveva detto molte cose molto negative riguardo James Franco. Disse che aveva provata a baciarla, a fare delle avance sessuali durante la lavorazione del precedente film in cui avevano lavorato insieme. Disse che lui era inquietante e uno stupratore. Disse che era stato molto aggressivo nel suo rapportarsi a lei. Sono parole saltate fuori riguardo l’atteggiamento di James Franco, come mi è stato descritto dalla signora Heard». “Ha scritto ti amo con il sangue” Un altro episodio di violenza terribile raccontata da Heard è stato il viaggio in Australia cinque anni fa durante il quale lei racconta di essere stata costretta a chiudersi in una stanza dove è stata tenuta “in ostaggio per tre giorni”. La donna ha raccontato che Depp le ha strappato la camicia da notte, l’ha spinta su un tavolo da ping pong e ha provato a soffocarla contro un frigorifero. Durante il presunto attacco, Depp si è tagliato un dito. Heard sostiene di avergli lanciato una bottiglia di vodka, ma lei ha detto che si era ferito rompendo un telefono contro il muro. «Con il suo dito insanguinato ha scritto ti amo sullo specchio del bagno». Sullo specchio c’erano altre scritte: «Chiama Carly Simon, lei lo dice meglio, babe»: un riferimento alla canzone “ You're So Vain” che Depp sostiene abbia scritto Heard.

I messaggi a Paul Bettany. Sono emersi una serie di messaggi choc che Depp ha inviato a Paul Bettany. In uno scriveva: «Bruciamo Amber. È una strega». Bettany rispondeva: «Non credo che dovremmo bruciarla. È una compagnia deliziosa ed è un bel vedere. Inoltre, non sono sicura che sia una strega. Potremmo prima fare un test di annegamento. Idee? Ho una piscina». Depp, allora, ha risposto: «Facciamola affogare prima di bruciarla. Dopo fotterò il suo cadavere bruciato per assicurarmi che sia morta. È una strega».

Johnny Depp: «Amber Heard non mi dava i farmaci per disintossicarmi, piangevo come un bimbo». Paola Caruso per “corriere.it” il 9 luglio 2020. Terzo giorno del processo che vede protagonista Johnny Deppall’Alta Corte di Londra nella causa intentata dall’attore, 57 anni, contro il «Sun» (l’editore di News Group Newspapers, e il direttore esecutivo Dan Woottonche) che lo ha definito «picchiatore di donne». A parlare in aula il 9 luglio è ancora il divo di Hollywood, alla presenza dell’ex moglie Amber Heard che nella causa di divorzio ha dichiarato di essere stata picchiata (mostrando foto con lividi in faccia) da un marito violento. Depp, di nuovo alla sbarra, risponde alle domande dell’avvocato del «Sun» Sasha Wass che prende in esame quello che è successo nella villa alle Bahamas nel 2104, un anno prima del matrimonio con la Heard, mentre la star cercava di disintossicarsi dall’ossicodone. «È vero che lei ha picchiato Amber Heard in quell’occasione?», parlando di spinte, calci e capelli tirati. Depp risponde: «Non ero in condizioni di farlo, soffrivo molto, piangevo come un bambino sul pavimento. È stato il punto più basso della mia vita». In preda a sparmi incontrollati e singhiozzi, Depp nega tutto, accusando l’ex moglie di non avergli dato i farmaci prescritti per la disintossicazione che lo avrebbero fatto stare meglio: «Non mi dava le medicine che avrebbero potuto alleviare il dolore, è stata una delle cose più crudeli che lei abbia mai fatto». E insiste: «No, non l’ho picchiata», precisando che la sua rabbia l’ha scagliata contro gli oggetti e non le persone. Ammette di avere avuto dei blackout, ma di quei momenti conserva piccoli frammenti di memoria ed è sicuro di non aver picchiato l’ex moglie che quindi lei racconterebbe bugie.

L’episodio in aereo. Un altro episodio di violenza sviscerato in aula sarebbe accaduto in aereo nel 2014, sul volo da Boston a Los Angeles. In quel momento Depp preso dai fumi dell’alcol e di altre sostanze avrebbe di nuovo perso il controllo. Qui, c’è un messaggio inviato dalla Heard all’amico attore Paul Bettany (tra i prossimi testimoni): «Johnny urla oscenità e se la prende con chiunque si avvicini». Depp controbatte sull’argomento: «Potrei aver fatto cose che non ricordo, certamente non sono una persona violenta, un picchiatore di donne». E poi un altro episodio di rabbia con percosse quando lui ha accusato lei di avere una relazione con James Franco. E come prova del fatto che l’attore sia una persona violenta, l’avvocato del «Sun» ha pure letto una lettera scritta da Depp alla Heard nel 2103, mai inviata, nella quale lui confessa di essere «come dottor Jekyll e Mr. Hyde. Per metà ti amo follemente, mentre l’altra metà mi spaventa».

«Umorismo distorto». L’attore nega ancora di aver colpito la Heard per averlo deriso per uno dei suoi tatuaggi e di aver minacciato seriamente di mettere il cane nel microonde. «Il cane era uno scherzo — sottolinea il divo — forse ho un senso dell’umorismo un po’ distorto». Questi argomenti, insieme all’abuso di droghe iniziato in tenera età, li ha confessati già nella seconda udienza dell’8 luglio. Più che un processo al tabloid sembra un processo a lui che è chiamato a rispondere davanti alla Corte.

Gli altri testimoni. La causa in tribunale va avanti e durerà almeno per tre settimane: devono essere sentiti la Heard, Paul Bettany e poi i testimoni di Depp, l’ex Vanessa Paradis e Wynona Ryder. E dopo questo processo ce ne sarà anche un altro. Infatti, Depp ha fatto causa alla Heard per 50 milioni di dollari per diffamazione in un articolo del Washington Post che parla di abusi domestici. Ma questo nuovo processo si svolgerà negli Stati Uniti, probabilmente l’anno prossimo.

DAGONEWS il 14 luglio 2020. Nuova udienza, nuovi dettagli allucinanti del tormentato matrimonio tra Johnny Depp e Amber Heard. Come testimone in favore dell’attore è intervenuto Stephen Deuters, suo ex assistente, che prima ha negato di aver mai visto o sentito Depp insultare o picchiare la moglie e poi ha dovuto ammettere davanti all’evidenza di aver più volte insultato lui stesso Amber. In diversi messaggi inviati a Depp, Deuters si riferiva ad Amber come una “sociopatica”, definendo il suo comportamento machiavellico. In altri entrambi si riferivano a lei come una “puttana” e una “cagna”. Dai messaggi è emerso anche l’arresto di Amber del 2009 per aver strattonato e colpito l'allora fidanzata Tasya Van Ree. All’epoca  Amber fu arrestata e accusata di violenza domestica, le fu presa la foto segnaletica e fu invitata a presentarsi il giorno seguente in tribunale. Ma il giudice fu clemente e l’accusa decadde.

Maria Teresa Veneziani per "corriere.it" il 14 luglio 2020. E’ la guerra dei Roses edizione 2020. Protagonisti, ovviamente, il divo di Hollywood Johnny Depp e l’ex moglie, l’attrice Amber Heard. Nel quinto giorno del processo per la causa intentata dalla star contro il tabloid britannico Sun (e alla sua casa editrice, la NGN) — che lo aveva definito violento e picchiatore — Johnny Depp ha negato ancora una volta davanti all’Alta Corte di essere mai stato violento nei confronti della ex moglie, neppure dopo aver scoperto di essere stato depredato dei risparmi ottenuti dal suo manager. Due anni vissuti pericolosamente, senza esclusione di colpi. Come quando lei lo fotografa semisvenuto con un gelato rovesciato sulle gambe durante un volo privato, per poi mostrargli le immagini il giorno successivo e dirgli: «Guarda cosa sei diventato ... guardati, sei patetico». Heard, 34 anni, e il suo ex marito Depp, 57 anni, erano su un volo da Boston a Los Angeles nel maggio 2014: l’ex Pirata dei Caraibi avrebbe bevuto molto e consumato un cocktail di droghe.

Le foto rubate. Adesso lui ha parlato delle foto, affermando che aveva lavorato sul set per 17 ore al giorno e che aveva già concordato con la sua compagna che sarebbe andato alle Bahamas proprio per disintossicarsi. L’attore ha poi ricordato che Amber Heard aveva già intentato una causa contro di lui durante i loro due anni di matrimonio, conclusisi con un divorzio devastante nel 2017: secondo lui la donna lo avrebbe fatto pensando alla sua carriera a spese del marito.

«Mai colpita». Depp ha presentato tra i suoi testimoni, Stephen Deuters, che ha contraddetto il racconto di Heard a proposito di un incidente durante un volo in aereo privato da Boston a Los Angeles nel maggio 2014. Secondo l’attrice Depp in seguito a un attacco di collera, l’avrebbe schiaffeggiata e presa a calci nella schiena perché credeva che avesse una relazione con l’attore James Franco. Deuters ha definito l’episodio una partita gergale di «oscenità urlate» da parte di entrambi, ma senza mai atti di violenza da parte di Depp. Continuando la sua testimonianza l’attore ha quindi affermato di non sarebbe davvero stato in grado — nel marzo 2015, a Los Angeles — di afferrare i capelli di lei con una mano e di colpirla con l’altra (come la Hard aveva sostenuto), poiché aveva una mano praticamente inutilizzabile a causa di una medicazione: un cerotto speciale che gli sarebbe stato applicato dopo che proprio la Heard gli aveva semi tranciato la punta di un dito lanciandogli contro una bottiglia durante una discussione in Australia dove stava girando.

Da accusatore ad accusato. Johnny Depp è stato interrogato su 14 presunti episodi di violenza domestica che sarebbero avvenuti a causa delle sue dipendenze e del suo stile di vita sfrenato, con tanto di pubblicazione di messaggi privati, foto e testimonianze accusatorie; tanto che a tratti è sembrato più l’accusato che l’accusatore.

Il padre: «Mia figlia ha problemi di umore». Ha però affermato che tutti gli addebiti rivoltigli sono privi di qualsiasi fondamento e ha negato risolutamente sia di aver picchiato l’ex moglie sia di essere una sorta di «dottor Jekyll e mister Hyde». Secondo lui sarebbe invece stata proprio Amber ad attaccarlo nel dicembre 2015 e lui le avrebbe afferrato le braccia nel tentativo di fermarla: un incidente in cui le loro fronti «potrebbero essersi scontrate». A prova del suo comportamento non violento, ci sarebbe anche un messaggio ricevuto poco dopo dal padre dell’attrice, David Heard, in cui il genitore ammetteva che la figlia aveva problemi di umore, come Johnny Depp con droghe e alcol. «Ma ti amo ancora come un padre o un fratello», scrisse David Heard. La star ha negato di essere stato troppo aggressivo anche in occasione di una discussione avvenuta dopo la festa per il trentesimo compleanno di lei, nell’aprile 2016. «Ero arrivato in ritardo dopo aver saputo che il direttore amministrativo della mia società mi aveva sottratto i 650 milioni di dollari guadagnati con gli incassi dei film Pirati dei Caraibi», si è giustificato; riconoscendo che, sì, aveva fumato cannabis per rilassarsi, e che quindi – proprio in virtù di quell’effetto calmante - non avrebbe potuto avere manifestazioni rabbiose.

Niccolò Di Francesco per "tpi.it". il 14 luglio 2020. Nuovo colpo di scena nel processo che vede imputato Johnny Depp, accusato di aver picchiato l’ex moglie Amber Heard: secondo un test, infatti, a picchiare l’attrice sarebbe stato l’imprenditore e fondatore di Tesla Elon Musk e non l’interprete della saga Pirati dei Caraibi. A suggerire questa tesi sono stati due membri del personale, che lavoravano nell’esclusivo edificio dell’Eastern Columbia dove Johnny Depp viveva con l’ex moglie Amber Heard in un attico al 13° piano. I due testimoni, Alejandro Romero e Trinity Esparza, hanno dichiarato sotto giuramento di non aver visto ferite sul viso di Amber Heard dopo il 21 maggio, giorno in cui l’attore avrebbe lanciato il suo cellulare contro l’ex moglie ferendola. La signora Esparza, in particolare, ha affermato di aver visto l’attrice per tutta la settimana successiva il presunto attacco di Depp e di non aver mai notato né tagli né ferite sul volto dell’interprete. Secondo la donna solo il 27 maggio, la Heard avrebbe avuto un taglio rosso sotto l’occhio e alcuni lividi intorno all’occhio. La testimone, inoltre, sostiene di aver visto nuove ferite sul volto dell’attrice il 4 giugno, due settimane dopo che Johnny Depp aveva lasciato l’attico. Alla domanda su dove si trovasse l’attore in quel periodo, la testimone ha risposto: “Fuori dal Paese”. Quando le è stato chiesto con chi Amber Heard avesse interagito in quel periodo, la signora Esparza ha risposto: “Elon Musk”. Dopo le dichiarazioni della signora Esparza, Adam Waldman, avvocato di Johnny Depp, ha dichiarato: “Johnny Depp ha lasciato il Paese dopo la più famosa bufala sugli abusi nei confronti della signora Heard, la quale ha affermato che lui le ha lanciato un telefono nell’occhio destro. Eppure due settimane dopo, il capo portineria dell’edificio ha testimoniato di aver visto la signora Heard con un livido sotto l’altro occhio, lividi a forma di dito sulla gola e un braccio bendato. È stato Elon Musk a recarsi all’attico del signor Depp durante la sua assenza di due settimane”. Il signor Romero, responsabile della sicurezza dell’edificio, ha dichiarato che Elon Musk si è recato da Amber Heard “più volte alla settimana” mentre Johnny Depp era fuori per le riprese di un film. Ha anche aggiunto che il fondatore di Tesla solitamente arrivava intorno alle 23 e non sarebbe mai andato via prima che il suo turno finisse, ovvero all’1 di notte. Alla domanda se Depp fosse presente durante le visite di Musk, il signor Romero ha risposto: “No”.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 18 giugno 2020. Nella guerra infinita tra Amber Heard e Johnny Depp con tanto di causa da 50 milioni di dollari intentata dall'attore contro l'ex moglie, emergono alcuni nuovi dettagli piccanti. Stando alle rivelazioni esclusive del Daily Mail pare infatti che la bella Amber avesse una relazione a tre con Cara Delevingne e Elon Musk ai tempi in cui risalirebbero le accuse di violenza domestica che lei ha rivolto contro Depp. Il trio di vip usava riunirsi nell'attico di Depp nel centro di Los Angeles verso la fine del 2016, poco dopo che la Heard si era separata dalla star di "Pirati dei Caraibi". L'informazione, così conferma una fonte vicina a Depp, potrebbe servire all'attore per raccogliere ulteriori testimonianze a sostegno della sua causa esplosiva contro la Heard, iniziata dopo che l'attrice ha rilasciato nel marzo dello scorso anno un'intervista al Washington Post, dalla quale emergeva che fosse una "sopravvissuta alle violenze domestiche dell'ex marito". Accuse che Depp ha sempre definito "bufale" ma che gli sono costate la perdita del suo prezioso ruolo come Capitano Jack Sparrow, nella saga "Pirati dei Caraibi". Da allora i suoi avvocati hanno cominciato a raccogliere dichiarazioni a favore  del divo hollywoodiano, tra cui quella di Josh Drew, che in passato era stato sposato con la migliore amica di Heard, Raquel 'Rocky' Pennington. Drew avrebbe confermato che la moglie Rocky gli aveva rivelato della relazione a tre tra Amber, Cara Delevingne e Elon Musk mentre la Heard era ancora sposata con Depp. A quanto afferma Musk invece il ménage, solo con la Heard,  sarebbe nato solo dopo che la separazione tra i due attori era già avvenuta, ovvero nel maggio 2016. Dal canto suo Depp sostiene invece che il magnate della Tesla si sia incontrato di notte con Amber già nel 2015 mentre Depp era in trasferta. Sia a Musk sia alla Delevingne gli avvocati di Depp hanno chiesto di produrre tutte le informazioni, messaggi, e-mail, lettere o comunicazioni scambiate con la Heard durante il suo matrimonio con Johnny, che menzionassero presunti episodi di violenza domestica e in particolare modo riguardanti il litigio scoppiato nel maggio 2016 durante il quale Depp le avrebbe lanciato oggetti e l'avrebbe picchiata.

DAGONEWS il 10 luglio 2020. Emergono nuovi dettagli del disastroso e turbolento matrimonio tra Amber Heard e Johnny Depp. La donna ha portato una registrazione in aula in cui si sente l’attore dire: «Ti ho colpito sulla fottuta fronte, non ti ho rotto il naso». Davanti ai giudici Depp ha ricostruito i fatti avvenuti nel dicembre del 2015, dicendo di aver colpito “accidentalmente” l’ex moglie mentre lo picchiava e si dimenava davanti a lui. «Si agitava pericolosamente davanti a me. Mentre mi allontanavo mi ha colpito al collo, all’orecchio e alla schiena. Mi sono girato per coprirmi la testa, lei si agitava selvaggiamente. L’unica cosa che potevo fare per cercare di fermarla, era afferrarla, abbracciarla per farla smettere di prendermi a pugni. C’è stato un contatto molto stretto, ma non uno scontro fisico. Lei urlava che io le avevo rotto il naso ed è scappata via. Le foto dell’aggressione mostrano due occhi neri e non sono compatibili con il tipo di accusa che mi viene rivolta». Riferendosi a un altro episodio avvenuto a marzo, Amber lo ha accusato di aver peso la testa e di averle pure strappato una ciocca di capelli quando lei ha scoperto che il marito la tradiva con un’ex fidanzata.

DAGONEWS il 10 luglio 2020. Johnny Depp ha minacciato di "tagliare" il pene a Elon Musk quando ha scoperto che la moglie Ambert Heard aveva una presunta relazione con il fondatore di Tesla. L'attore 57enne ha accusato l’ex moglie di avere una "relazione extraconiugale" con il miliardario che ha sempre negato, dicendo di aver iniziato la relazione con Amber un mese dopo il loro divorzio. In una serie di messaggi inviati nell’agosto del 2016 a Christian Carino, l’ex fidanzato di lady Gaga, Depp scriveva: «Gli mostrerò cose che non ha mai visto prima come l'altra parte del suo cazzo quando lo taglierò». In altri messaggi definita la moglie una “cercatrice d’oro” e una “spogliarellista da 50 centesimi” che aveva praticato sesso orale a “Mollusk”, quello che per molti è un chiaro riferimento a Musk. «Vuole un’umiliazione globale. La avrà. Ha succhiato il pene del Mollusco e lui in cambio le ha dato alcuni avvocati – si legge in uno dei messaggi inviati da Depp tre mesi dopo aver deciso di divorziare da Amber - Non ho pietà, nessuna paura e non un'oncia di emozione per quello che una volta pensavo fosse amore per questa cacciatrice d’oro». L’attore è anche accusato di aver messo in piedi una raccolta di firme per cancellare la presenza di Amber dal film “Aquaman”. «Il signor Carino era molto interessato a diventare il mio agente in quel momento – si è difeso Depp - Quella petizione credo sia stata presentata anni dopo. Non l’ho orchestrato io». Musk ha anche respinto le accuse di un triangolo amoroso con Heard e Cara Delevingne. Poco tempo fa era stato rivelato che i tre si incontravano nell’attico di Depp quando ancora la coppia era sposata. 

Johnny Depp e Amber Heard, amore incubo: dita tagliate, droga, lividi e crudeltà. Irene Soave su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. Al processo l'infinita carrellata di accuse reciproche. La causa è stata intentata dall'attore contro The Sun che lo ha definito un «picchiatore di mogli». Il divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard, ufficializzato nel 2016 con un accordo da 7 milioni di dollari (a lei) e un’ordinanza di allontanamento per violenza domestica (a lui), è passato alla storia come uno dei peggiori di Hollywood. Scherzi a base di sangue e feci, mobilia sfasciata, lividi su lividi: come hanno fatto a vivere così infelicemente due che 15 mesi prima si erano sposati su un’isola alle Bahamas? La causa che si dibatte ora a Londra, e per le prossime settimane, vede Depp come parte lesa contro il tabloid The Sun, che lo ha definito «un picchiatore di mogli»: in aula c’è anche Heard, chiamata dall’editore del giornale a testimoniare contro l’ex marito.

Alcol e cocaina. Di certo, dopo tre giorni di udienze, c’è per ora un fatto: protagonisti assoluti del matrimonio sono stati alcol, oppiacei e cocaina. In un’intervista del 2018 Depp si sentì chiedere se spendesse, in quel periodo, 30 mila dollari di vino al mese. «Sono offeso», ribattè. «Spendevo molto di più».

Il film profetico. Amber Heard e Johnny Depp si erano conosciuti nel 2009 girando The Rum Diaries — Cronache di una passione: lui era l’attore più pagato di Hollywood, lei era reduce da una commedia sporcacciona dal titolo Strafumati. La trama dei Rum Diaries è quasi profetica: lui è un giornalista alcolizzato, lei la bionda stupenda il cui amore lo redime. Nella realtà, però, il finale non è all’altezza. Lui nel 2012 lasciò la compagna Vanessa Paradis La relazione con Amber Heard divenne pubblica qualche mese dopo.

La falange mozzata. Il matrimonio arriva a febbraio 2015, quando Depp è al picco di un biennio di dipendenze: nella memoria depositata da lei al processo è datato appena un mese dopo uno dei litigi più violenti della coppia. Sono in Australia, lui vuole che lei firmi un accordo post-matrimoniale, avendo già rifiutato di firmarne uno preliminare, lei non vuole, c’è una colluttazione in cucina (danni per 150 mila dollari) e a lui, con i cocci di una bottiglia di vodka, si mozza una falange. Depp «usò» il sangue che sgorgava dal dito per imbrattare tutte le pareti della casa, su cui disegnò anche un pene.

Le «testate». Datati dicembre 2015 i reperti di una nuova lite: foto di lei con gli occhi pesti «per essere stata presa a testate». Lui si difende così: «Lei mi stava colpendo alla schiena, mi sono girato per fermarla e ci siamo scontrati». Resoconti che parlano di schiaffi e pugni quotidiani. «Ho capito già in Australia», racconta lui, «che ci saremmo sfasciati».

Droga e accuse. Lei sembra averlo capito più avanti, invece, in una mail in cui gli scrive «Non sono tenuta a sopportare questo e io non sono pagata per stare con te». E poi, più dolce: «È come se convivessero in te Jekyll e Hyde. Metà di te io la amo follemente, l’altra metà mi terrorizza». Tracce di amore emergono però in un’altra lettera, inviata da lui alla mamma di Amber: «Tua figlia è andata molto più in là che il prendersi cura di questo povero vecchio drogato», ha scritto, definendo i suoi sforzi «eroici». «È stata Amber e solo Amber che mi ha aiutato a superare quel momento».

I farmaci nascosti. Oggi lui ritratta anche questo: «Scrivevo così per compiacerla». E la incolpa di non averlo «mai aiutato a disintossicarsi». «E in una vacanza alle Bahamas mi nascose i farmaci contro l’astinenza».

La reputazione del divo. Accuse, recriminazioni, ritrattazioni. Le udienze continueranno per altre due settimane. Gli avvocati di Depp hanno portato la causa contro il Sun all’Alta Corte, invece di accordarsi in via extragiudiziale com’è più comune in contenziosi di questo tipo, sperando che una sentenza a suo favore potesse giovare all’immagine del divo. Comunque vada, sembra difficile.

Erika Pomella per "ilgiornale.it" il 5 maggio 2020. Non si fermano le dichiarazioni shock di Johnny Depp che continuano a prendere di mira l'ex moglie Amber Heard per la causa di diffamazione da 50 milioni di dollari che dovrà essere discussa in Virginia, non appena si sbloccherà la situazione sanitaria negli Stati Uniti. La reputazione della Heard, inoltre, è già stata duramente colpita dopo che sono stati resi noti degli audio in cui l'attrice ammetteva durante una terapia di coppia di aver più volte colpito il marito. Mentre Amber Heard assumeva un investigatore privato per scavare nel passato di Johnny Depp e trovare del fango, l'ex interprete di Jack Sparrow stava raccogliendo tutte le testimonianze utili a provare che durante la sua relazione con Amber Heard era lui la vera vittima, soprattutto a livello psicologico, descrivendo Amber Heard come una vera e propria manipolatrice. Sentimento, questo, che emerge con forza dalle ultime dichiarazioni choc ottenute da The Blast, in cui Johnny Depp avrebbe raccontato che una volta, prima del matrimonio, Amber Heard avrebbe falsificato il sangue utilizzando lo smalto rosso. Il racconto dettagliato dell'evento è stato fatto da Josh Richman, uno dei più vecchi amici di Johnny Depp. L'uomo ha raccontato: "Johnny mi ha raccontato che una sera lui e Amber hanno avuto una discussione. A quel punto Amber andò in bagno e tornò con un fazzoletto macchiato di rosso, accusandolo di averle rotto il naso e di averlo fatto sanguinare. Tuttavia, subito dopo l'incidente, lui recuperò il kleenex che dovrebbe avere ancora oggi. E su quel fazzoletto non c'era sangue, ma smalto rosso". Il racconto continua, con Richman che afferma quanto gli amici intimi di Johnny Depp fossero contrari al matrimonio. Ecco quello che ha detto: "Sebbene all'epoca non conoscevamo ancora tutti i dettagli, l'impressione che io e gli altri amici di Johnny abbiamo avuto è che Amber Heard fosse emotivamente abusiva, che tormentasse Johnny, tagliandolo fuori dalla vita dei suoi veri amici e che fosse davvero crudele con lui. Johnny sembrava vivere costantemente nella paura di sapere come lei avrebbe reagito se lui avesse mai provato a rompere con lei. La sua famiglia, i suoi amici, io stesso... noi tutti avevamo l'impressione che Johnny avesse accettato di sposare Amber solo per questa ragione"

Luigi Ippolito per il ''Corriere della Sera'' il 21 luglio 2020. La politica, diceva l'ex ministro socialista Rino Formica, è sangue e merda: ma anche il matrimonio fra Johnny Depp e Amber Heard non sembra essere stato molto altro. Dita mozzate, pugni, schiaffi, lui che scrive oscenità sui muri col proprio sangue, lei che per sfregio va a defecare nel letto nuziale: questo e peggio di questo sta venendo fuori nell'aula del tribunale di Londra dove i due attori americani stanno lavando in pubblico da dieci giorni i panni sozzissimi del loro rapporto malato. Ieri è stato il turno di Amber a deporre: lei è lì in qualità di testimone, perché il procedimento vede Depp citare in giudizio per diffamazione il tabloid inglese The Sun , che aveva definito l'attore un «picchiatore di mogli». Allora il giornale ha chiamato a propria difesa Amber Heard, ex coniuge di Depp, per dimostrare che lui era davvero un marito violento. E lei, ieri, ci ha dato dentro con foga e piacere. Ha accusato Johnny di averla minacciata di morte più volte, di aver provato a strangolarla, di aver detto di volerle tagliare la faccia così che nessun altro potesse più desiderarla, di averla tormentata per mesi col suo «comportamento estremamente intimidatorio». La coppia si era sposata nel febbraio del 2015, ma Amber aveva chiesto il divorzio appena un anno dopo. «Lui era violento fisicamente e verbalmente», ha accusato lei, attribuendo le sfuriate di Johnny al copioso uso di droghe cui lui era assuefatto, assieme all'alcol e a medicinali vari. «La violenza fisica - ha continuato Amber - includeva pugni, schiaffi, calci, testate, soffocamenti, mi tirava i capelli o mi schiacciava a terra. Mi scagliava oggetti contro, specialmente bottiglie di vetro». Il risultato, dice l'attrice, fu un «grave declino» della sua salute fisica e mentale: «Alcuni incidenti erano così gravi che temevo mi avrebbe ammazzato, intenzionalmente o perché perdeva il controllo: ha esplicitamente minacciato di uccidermi più volte». Ma le violenze sarebbero cominciate già prima delle nozze. Amber ha sostenuto che Johnny le si era inginocchiato sulla schiena e l'aveva colpita alla testa durante una lite sul loro accordo pre-matrimoniale in un hotel di Tokyo. E già nel 2014, durante un volo, l'aveva presa a calci nella schiena e insultata, dicendole che «quando atterriamo, chiamo un po' di fratelli neri» così che potessero stuprarla. Johnny era estremamente geloso, particolarmente quando lei doveva girare scene sexy. Ma soprattutto la accusava di andare a letto praticamente con tutti i suoi partner cinematografici, ai quali lui si riferiva con nomignoli derisori: Leonardo di Caprio, per esempio, era «testa di zucca». Perché Amber si sia messa con un tipo così, resta un mistero. Ieri in aula lei ha raccontato di quanto all'inizio lo avesse trovato romantico e affascinante: prima di essere costretta ad affrontare il «mostro» che era in lui. Ma anche lei non emerge dal processo come una vittima innocente: Depp non solo nega tutti gli addebiti, ma sostiene che la violenta era in realtà Amber. E in effetti ieri i legali dell'attore hanno fatto ascoltare in aula una registrazione presa di nascosto da lui durante una delle loro liti: e si sente Amber ammettere di aver preso a pugni Johnny, dopo di che lei lo insulta chiamandolo «grosso fottuto bambino» e cose simili. L'attrice ha anche dovuto confessare di aver scagliato vasi e pentole contro il marito: ma sostiene di averlo fatto solo per difendersi da lui. Depp ha chiamato a testimoniare in sua difesa anche le ex partner: e sia Vanessa Paradis che Winona Ryder hanno detto di non averlo mai trovato violento. Insomma, la cosa è più complicata del solito copione uomo sadico/moglie vittima: è una storia sordida nella quale nessuno può proclamarsi innocente. Vedremo come andrà a finire.

Francesco Malfetano per il Messaggero il 20 luglio 2020. IL CASO «Wino forever». Ubriaco per sempre. Il tatuaggio più famoso di Johnny Depp, l' attore bello impossibile di Hollywood, ora sembra assumere un tono beffardo. Dagli strascichi del processo per maltrattamenti che sta affrontando dopo le accuse dell' ex moglie Amber Heard, sono emersi tanti curiosi dettagli. In particolare l' attore classe 1963 avrebbe speso per anni 30 mila dollari al mese in vino. «Un investimento» si è giustificato, spiegando di aver dilapidato in tutto 750 milioni di dollari, vale a dire quasi tutti i suoi guadagni da inizio 2000. Ad esempio ha speso 3,5 milioni di dollari per un' isola privata con sei spiagge nelle acque di Tahiti e 75 milioni per un numero imprecisato di proprietà immobiliari tra appartamenti a Los Angeles, fattorie nel Kentucky e tenute nelle campagne francesi poi rivendute per appianare i debiti.

CATTIVI CONSIGLIERI. Alcuni ex consiglieri dell' attore, gli stessi che ora Depp accusa di aver mal gestito il suo patrimonio non pagando le tasse per 16 anni, sostengono che per tutto il 2017 Depp avrebbe speso 2 milioni di dollari al mese in opere d' arte (Warhol, Basquiat e Modigliani), automobili, piccoli oggetti di lusso e arredamento. Ben 7mila dollari ad esempio, l' ex capitano Jack Sparrow della saga Pirati dei Caraibi, li avrebbe sborsati solo per un banalissimo divano che sua figlia Lily Rose aveva visto in una serie tv. Spese pazze che parrebbero aver trascinato l' attore in una sorta di circolo dell' autocompiacimento che fa pensare ad una sindrome da acquisto compulsivo. Una vera e propria malattia che, nonostante se ne parli poco perché non ancora definita a livello ufficiale, affligge già milioni di persone nel mondo. «Modernamente è classificato tra le nuove dipendenze - spiega lo psicologo e psicoterapeuta Stefano Lagona - una categoria diagnostica ancora in definizione. Ma sicuramente è una patologia che peraltro con le tecnologie a disposizione, e ora anche con il lockdown, colpisce un numero sempre maggiore di persone». In particolare, in Italia, secondo le stime ne soffrirebbe «circa il 5% delle donne e degli uomini tra i 30 e i 40 anni».

INSTABILITÀ. Persone comuni che, come spiega Roberto Pani, psicoterapeuta bolognese che tra i primi si è occupato del tema nella Penisola, «spesso vivono situazioni di instabilità notevole per ragioni che può essere impossibile individuare. Comprare oggetti, spesso costosi, li fa sentire vivi». L' acquisto diventa una forma di «autocompiacimento che genera un senso di euforia e libera delle endorfine». Un piacere momentaneo che cede subito il passo ad angoscia e senso di colpa che però, per essere placate, «portano a tornare in negozio e spendere 3 o 4 volte di più - dice Pani - È il modo che queste persone trovano per non dare valore all' acquisto fatto in precedenza». L' incidenza del fenomeno peraltro, «sembra aumentare in maniera preoccupante», aggravandosi nella sua estensione digitale. «Online si perde il contatto fisico con il denaro - dice Lagona - e soprattutto, restando dietro ad uno schermo, si riesce a sfuggire allo sguardo altrui vivendo il proprio disagio in intimità e finendo in una spirale difficile da superare». Nonostante non ci siano ancora dati ufficiali più recenti infatti, il lockdown ha avvicinato allo shopping digitale una grossa fetta di popolazione. «Dal punto di vista economico è senza dubbio interessante - conclude l' esperto - da quello sanitario potrebbe però creare grossi problemi a lungo termine».

F. Mal. Per il Messaggero il 20 luglio 2020. Al culmine della sua dipendenza è arrivato a chiedere un finanziamento da diverse migliaia di euro per continuare con gli acquisti compulsivi. È la storia di un 40enne torinese, libero professionista, sposato ma senza figli, che in pochi anni ha dilapidato non solo il patrimonio familiare ma si è anche indebitato. In particolare l' oggetto del desiderio erano orologi. Sportivi, classici, più o meno rifiniti. Tutti diversi ma con un elemento in comune: il costo elevato. Beni di lusso che l' uomo ha acquistato per almeno 2 anni a ritmo serrato, fino ad indebitarsi appunto, con l' unico fine di rimarcare il proprio prestigio sociale e trarre piacere dall' affare. «Collezionismo» ha detto la prima volta che ha parlato con il suo psicoterapeuta, rifiutandosi di riconoscere di avere un problema.

DAL POLSO AL CASSETTO. Solo che quegli orologi di pregio, terminato rapidamente l' entusiasmo per la ricerca e la contrattazione, sono finiti presto in un cassetto. Né venivano portati al polso né mostrati ad alcuno. «Il piacere sta nell' acquisto e non nell' oggetto in sé» spiegano infatti tutti gli esperti di questa particolare patologia «una volta comprato, diventa secondario. Anzi si tende a nasconderlo per non alimentare il proprio senso di colpa». Dalla sindrome da shopping però, si può guarire anche se spesso è complicata da altri tipi di disturbi. «La nostra vittoria è stata aver compreso che la sua non era una collezione - spiega lo psicoterapeuta che l' ha avuto in cura - ma un sintomo che qualcosa nella sua vita non avesse funzionato».

Johnny Depp, il divorzio da Amber Heard e i messaggi choc in tribunale: «Affoghiamola e bruciamola». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Federica Bandirali. I toni accesi e violenti nella causa di divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard sembrano non avere fine: sono stati infatti resi pubblici una serie di messaggi che l’attore avrebbe inviato al collega Paul Bettany, nel novembre 2013 quando ancora era sposato con la Heard. «Bruciamo Amber. Anzi, prima affoghiamola e poi bruciamola. Poi mi occuperò del suo cadavere». Stando alle indiscrezioni riportate dal Sun, sono veri e propri messaggi choc quelli emersi durante l’udienza preliminare per la causa intentata da Depp contro lo stesso tabloid britannico Sun, accusato di aver pubblicato un articolo in cui sosteneva che l’attore avesse usato più volte violenza nei confronti dell’ex moglie. Per spiegare queste affermazioni è intervenuto, rispondendo a una richiesta di Yahoo Entertainment, l’avvocato di Depp, Adam Waldman, ha dichiarato: «I media non riferiscono solo che di un singolo messaggio infelice di un abuso immaginario a un amico estrapolandolo dal contesto, ma Johnny confida anche all’amico, sempre nella stessa serie di messaggi, che in realtà non avrebbe mai potuto fare del male ed esprimere la sua rabbia sulla persona che ama». Depp, circa un anno fa, davanti alle autorità, aveva dichiarato di non aver mai alzato le mani contro Amber Heard che, a detta del divo, «si presentava in tribunale con lividi dipinti per ottenere ordini restrittivi, ma la vittima ero io». A sostegno proprio di questa tesi, pochi giorni fa, è spuntata una vecchia registrazione di una seduta di terapia di coppia dei due in cui Amber ammette di aver colpito e picchiato Depp: «Mi dispiace non averti preso in faccia con un vero schiaffo, ti stavo colpendo, ma non ti ho dato un pugno» si sente in questo documento audio. Un divorzio, il loro, che è sicuramente tra i più violenti e più controversi di tutta la storia di Hollywood.

Valentina D'Amico per "movieplayer.it" il 18 marzo 2020. Amber Heard ammetterebbe di aver sbattuto una porta sulla testa di Johnny Depp in una delle registrazioni audio presentate dagli avvocati dell'attore nella causa di diffamazione contro l'ex moglie. Nella registrazione l'attrice 33enne specificherebbe di aver colpito la star dei Pirati dei Caraibi sulla mascella scusandosi dell'accaduto. Ecco le sue parole: "Mi dispiace così tanto ... ricordo di averti colpito come risposta a quella cosa della porta. Mi dispiace davvero di averti colpito con la porta e di averti colpito in testa. Non era mia intenzione." Gli avvocati di Johnny Depp hanno fatto sentire la registrazione ad Amber Heard nell'agosto 2016 mentre lei stava realizzando una deposizione video per la causa di divorzio. Nell'audio si sente Johnny Depp esclamare: "Sono stato colpito in testa con un fottuto spigolo della porta... E poi mi sono alzato e tu mi hai colpito." Lei replica: "Non ho fatto questa cosa con la porta... non volevo colpirti." Nella deposizione, dopo aver ascoltato l'audiotape, Amber Heard ripete più volte che non l'ha fatto apposta a sbattere la porta sulla faccia di Johnny Depp: "Stavo cercando di scappare da una stanza in cui Johnny mi stava attaccando. Stavo cercando di uscire dalla porta e lui cercava di tenermi dentro nonostante i miei tentativi di uscire." Per quanto riguarda le scuse rivolte all'ex marito, l'attrice commenta: "Era chiaro che ero dispiaciuta di averlo colpito con la porta quando è entrato nella stanza in cui mi trovato e da cui cercavo di scappare." Amber Heard aggiunge poi nella deposizione che la registrazione audio "non rappresenta adeguatamente la situazione in cui mi trovavo, con lui che cercava di entrare nella stanza e io che cercavo di tenerlo fuori." Gli audiotape - realizzati come parte di una terapia di coppia - sono riemersi quando Johnny Depp e Amber Heard si sono preparati a recarsi in tribunale dopo che l'attore ha citato l'ex moglie per diffamazione chiedendo 50 milioni di dollari di risarcimento dopo che lei ha raccontato la sua esperienza di vittima di violenza domestica in un'intervista sul Washington Post senza però nominati Depp.

Carlo Lanna per "ilgiornale.it" il 28 febbraio 2020. La vicenda che riguarda Johnny Depp e Amber Heard si arricchisce di particolari a dir poco macabri e scabrosi. Il divorzio tra i due divi di Hollywood in poco tempo si è trasformato in un vero e proprio caso di violenza fisica e domestica, un caso che ha regalato molti colpi di scena, accuse e recriminazioni da parte di entrambi. Ora come ha riportato il The Sun, in un articolo di quale ora fa, pubblicato proprio il 27 febbraio, è stato rivelato il testo di un messaggio di Johnny Depp inviato all’attore Paul Bettany. Un testo che non lascia presagire nulla di buono, e che getta un’ombra oscura su un divorzio di per sé molto tormentato. "Bruciamo Amber. Facciamola affogare prima di bruciala", si legge dal messaggio di testo. Sarebbe stato proprio l’attore a scrivere di suo pugno queste parole in un sms inviato poi a un suo amico e collega di set. E il testo è stato letto in aula, a Londra, nel corso del processo di Depp contro il The Sun, celebre tabloid scandalistico. L’attore ha intentato una causa contro il magazine, accusando i "piani alti" di aver pubblicato diversi articoli in cui lui stesso veniva accusato di comportamenti violenti e discriminatori nei confronti di Amber Heard. I messaggi che sono stati letti durante il processo non sono recenti, anzi risalgono al 2016, poco dopo che la lite tra i due ha iniziato a prendere forma. Come riporta il tabloid, a questi messaggi così forti, sarebbe susseguito anche una nota vocale altrettanto agghiacciante. In quell’audio si acuisce ancora di più la situazione di Johnny Depp, dato che si intuisce molto chiaramente le aggressioni verbali che la Heard avrebbe subito. Una vicenda però che è così complessa e difficile da sbrogliare che, sia l’accusa che la difesa, non riescono a comprendere dove finisce la bugia e dove inizia la verità. Durante tutto questo tempo Depp si è sempre difeso ammettendo di non aver mai aggredito la sua ex, rivelando che la stessa Heard avrebbe montato un caso mediatico solo per attirare l’attenzione su di lei, ma anche in questo caso, tutto è ancora da verificare. Sta di fatto che la separazione tra i due ha complicato le rispettive carriere in campo cinematografico. La Heard ad esempio, co-protagonista nel film di "Aquaman", potrebbe essere estromessa dal sequel.

Luana Rosato per ilgiornale.it il 3 febbraio 2020. Il matrimonio tra Amber Heard e Johnny Depp è finito dopo 18 mesi e l’attrice aveva accusato l’ex marito di averla ripetutamente picchiata nel corso del loro legame. Quelle dichiarazioni le erano valse una denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento danni pari a 50 milioni di dollari. Depp aveva deciso di agire legalmente in seguito all’intervista rilasciata dalla Heard al Washington Post nel 2018, in cui lei parlava di ripetuti abusi e violenze domestiche che, secondo gli avvocati dell’attore, erano falsi e finalizzati solo a favorire la carriera della donna. Ad oggi, però, sembra che la situazioni si sia completamente ribaltata in seguito ad alcuni audio pubblicati dal Daily Mail in cui Amber Heard, parlando con Johnny Depp, ammette di essere stata lei ad avere usato violenza nei confronti dell’ex marito. In un eccesso d’ira, l’attrice parla di lancio di “pentole, padelle e vasi”, ma anche di pugni mancati e spintoni. Dopo lo sfogo avvenuto la sera precedente, la Heard contatta telefonicamente Depp e parla di quanto avvenuto tentando di minimizzare l’accaduto. “Mi dispiace non averti colpito in faccia con un vero schiaffo, ti stavo colpendo ma non ti ho dato un pugno. Tesoro, non sei stato preso a pugni – si ascolta nell’audio - . Non so quale sia stato il movimento della mia mano, ma stai bene, non ti ho ferito, non ti ho dato un pugno, ti stavo colpendo”. L’attrice, dunque, parla all’ex marito dello scontro avvenuto la sera precedente, mentre lui appare abbastanza affranto per ciò che è successo tanto da utilizzare il termine “scena del crimine”. “Sono partito ieri sera. Onestamente, te lo giuro, perché non riuscivo a sopportare l’idea di un altro scontro fisico, di altri abusi fisici fra noi – replica Johnny Depp nell’audio pubblicato - . Perché se avessimo continuato sarebbe andata fottutamente male. E piccola, te l’ho già detto. Sono spaventato a morte, in questo momento siamo una fottuta scena del crimine”. A queste preoccupazioni, lei risponde ammettendo di non essere certa che, quanto successo poche ore prima, non potrebbe verificarsi ancora una volta. “Non posso prometterti che non arriverò di nuovo alle mani. Dio, a volte mi arrabbio così tanto da perdere il controllo”, commenta ancora lei. Gli audio pubblicati sul quotidiano e forniti da una persona a conoscenza dei fatti verranno inseriti come prove a favore di Johnny Depp nel processo in corso contro la ex moglie.

Gli audio che incastrano Amber Heard: picchiava Johnny Depp. Audio shock incastrano Amber Heard: nei vocali pubblicati dal Daily Mail, l'attrice parla di violenze nei confronti dell'ex marito Johnny Depp. Luana Rosato, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Il matrimonio tra Amber Heard e Johnny Depp è finito dopo 18 mesi e l’attrice aveva accusato l’ex marito di averla ripetutamente picchiata nel corso del loro legame. Quelle dichiarazioni le erano valse una denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento danni pari a 50 milioni di dollari. Depp aveva deciso di agire legalmente in seguito all’intervista rilasciata dalla Heard al Washington Post nel 2018, in cui lei parlava di ripetuti abusi e violenze domestiche che, secondo gli avvocati dell’attore, erano falsi e finalizzati solo a favorire la carriera della donna. Ad oggi, però, sembra che la situazioni si sia completamente ribaltata in seguito ad alcuni audio pubblicati dal Daily Mail in cui Amber Heard, parlando con Johnny Depp, ammette di essere stata lei ad avere usato violenza nei confronti dell’ex marito. In un eccesso d’ira, l’attrice parla di lancio di “pentole, padelle e vasi”, ma anche di pugni mancati e spintoni. Dopo lo sfogo avvenuto la sera precedente, la Heard contatta telefonicamente Depp e parla di quanto avvenuto tentando di minimizzare l’accaduto. “Mi dispiace non averti colpito in faccia con un vero schiaffo, ti stavo colpendo ma non ti ho dato un pugno. Tesoro, non sei stato preso a pugni – si ascolta nell’audio - . Non so quale sia stato il movimento della mia mano, ma stai bene, non ti ho ferito, non ti ho dato un pugno, ti stavo colpendo”. L’attrice, dunque, parla all’ex marito dello scontro avvenuto la sera precedente, mentre lui appare abbastanza affranto per ciò che è successo tanto da utilizzare il termine “scena del crimine”. “Sono partito ieri sera. Onestamente, te lo giuro, perché non riuscivo a sopportare l’idea di un altro scontro fisico, di altri abusi fisici fra noi – replica Johnny Depp nell’audio pubblicato - . Perché se avessimo continuato sarebbe andata fottutamente male. E piccola, te l’ho già detto. Sono spaventato a morte, in questo momento siamo una fottuta scena del crimine”. A queste preoccupazioni, lei risponde ammettendo di non essere certa che, quanto successo poche ore prima, non potrebbe verificarsi ancora una volta. “Non posso prometterti che non arriverò di nuovo alle mani. Dio, a volte mi arrabbio così tanto da perdere il controllo”, commenta ancora lei. Gli audio pubblicati sul quotidiano e forniti da una persona a conoscenza dei fatti verranno inseriti come prove a favore di Johnny Depp nel processo in corso contro la ex moglie.

Valentina D’Amico per movieplayer.it il 6 febbraio 2020. La causa legale tra Johnny Depp e Amber Heard a una svolta dopo la diffusione di un audio, reso pubblico dal Daily Mail, in cui l'attrice prende in giro l'ex marito sostenendo che nessuno lo crederà mai vittima di violenza domestica. La relazione burrascosa tra Johnny Depp e Amber Heard avrebbe avuto svolte impreviste in un audio telefonico del 2017 diffuso dal Daily Mail in cui l'attrice ammette di avere accessi di rabbia e di essere stata più volte violenta nei confronti di Depp. Non è chiaro se la Heard sia consapevole di essere registrata nel corso della telefonata. L'audio fa riferimento, tra le altre cose, alla lite avuta in Australia da cui Depp è uscito con un dito lacerato da una bottiglia rotta. Secondo la testimonianza della Heard, Depp si sarebbe ferito mentre era sotto l'effetto dell'ecstasy e avrebbe continuato a scrivere sms con il dito sanguinante, ma dall'audio messo agli atti Amber Heard ammetterebbe la violenza contro l'attore esclamando: "Dì alla gente che è stata una lotta pari. Dì al mondo, Johnny Depp, io Johnny Depp, un uomo, anche io sono vittima di violenza domestica. Vediamo quanti ti crederanno" Ma Depp interrompe la discussione esclamando: "Non importa. Lotta pari un corno". Amber Heard prosegue: "Perché sei più alto e più forte di me. Perciò se dico che pensavo che potessi uccidermi, non conta che tu hai reagito perdendo quasi il tuo dito. Non sto cercando di attaccarti, sto solo cercando di farti capire perché volevo chiamare il 911. Perché avevi le tue mani su di me dopo che mi hai gettato il telefono in faccia. La situazione è degenerata nel passato, e devo fermare questa follia prima di farmi male sul serio." Johnny Depp sembra infastidito da questa ricostruzione dei fatti e replica "Oh mio Dio. Credi davvero a tutto questo Amber? Ci credi?" per poi chiedere all'ex moglie: "Ci credi che sei violenta? Che mi hai fatto violenza?" Facendo riferimento a un incidente occorso tra i due, Amber Heard si rivolge al marito dicendo: "Mi dispiace di non aver messo la mano nel modo giusto, con uno schiaffo, ma ti stavo colpendo, non ti stavo dando un pugno. Babe, non ti ho dato un pugno".

·        Johnny Dorelli.

Roberta Scorranese per il Corriere della Sera il 15 settembre 2020. Questa è la storia di un musicista che da Meda, comune brianzolo, un giorno partì per l' America. Era l' ottobre del 1946, la guerra era finita da un anno ma in Italia non c' era da mangiare. Specie per il signor Giovanni Guidi, detto Nino D' Aurelio, cantante e padre di Giorgio, un bambino di nove anni che si stava per imbarcare sulla nave Sobieski. Destinazione: Nuova York, anche se nonna Pasquina piangeva disperata perché pensava che l' America fosse in Africa. Il cammino che porterà il piccolo Giorgio a diventare Johnny Dorelli è raccontato in «Che fantastica vita», la prima autobiografia del musicista, attore e conduttore oggi ottantatreenne, scritta assieme a Pier Luigi Vercesi.

La sua vita, a leggerla, sembra un film: l' America degli anni 40 e 50, i teatri di Broadway, la gavetta.

«Sono un uomo felice: ho sempre fatto tutto quello che ho ritenuto giusto».

Per dirla con Frank Sinatra, «I did it my way».

«Divertente. Ma Sinatra non l' ho conosciuto bene, ho frequentato molti altri come per esempio Giuseppe Di Stefano, grande tenore, purtroppo rovinato dal gioco».

Non solo. Lei racconta una scena incredibile: una cena con Lucky Luciano.

«A pensarci oggi mi sembra una cosa assurda, ma andò così: avevo 13 anni e fummo costretti a tornare in Italia, passando per Napoli. Qui viveva Igea Lissoni, un' amica della mamma, che ci invitò a cena. A tavola riconobbi subito Luciano: viveva lì, estradato da New York nel 1946 dopo essere stato graziato, a patto di lasciare il territorio americano, per i "servizi" resi durante la Seconda guerra mondiale».

E in America aveva conosciuto anche Joe Barbàra.

«Ce lo presentò "don" Paolino Palmeri a cui venimmo affidati dopo la morte dell' agente di papà. Insistette per farmi guidare una costosa auto ma quando cercai di parcheggiarla la sfasciai. "Non preoccuparti, mi disse, si fa aggiustare"».

Tornato in Italia, iniziò per lei una lunghissima gavetta. Non tutti sanno che uno dei maggiori ostacoli alla sua carriera è stata la «r» moscia.

«Eccome! All' epoca non c' era tutta questa fascinazione per l' esotico che c' è oggi e quello era un difetto, punto. Giulio Razzi, direttore della musica leggera radiofonica di allora, arrivò a spezzare in due i miei dischi quando gli arrivavano in mano e non faceva "passare" le mie canzoni».

E come risolse il problema?

«Allora non c' erano logopedisti, dunque si andava dagli attori più vecchi che avevano risolto il problema. Io ne consultai tre. Il metodo più efficace era quello di imparare a pronunciare la "r" sostituendola con la "d": "rincorrere" diventava "dincoddede"».

Poi due vittorie consecutive al Festival di Sanremo, assieme a Domenico Modugno, nel 1958 e nel '59.

«Ricordo il debutto: mi venne la febbre per l' emozione, ero deciso a non salire sul palco. Allora Modugno mi si avvicinò, mi mollò un ceffone e mi trascinò sul palcoscenico».

La canzone era «Nel blu, dipinto di blu», di Modugno e Migliacci.

«Pochi immaginano le battaglie che si combattevano e che si combattono ancora oggi dietro le quinte del festival. Ricordo bene quanto si batté Ladislao Sugar, grande editore e produttore discografico, per aiutarmi a emergere».

Una volta lei Sanremo lo ha pure presentato.

«Sì e non dimenticherò mai la bravura di un' artista straordinaria come Mia Martini».

Leggere la sua vita è come ripercorrere anche la storia del gossip. Le hanno attribuito ogni tipo di flirt.

«Con tanto di scenate da parte di nonna Pasquina: per lei, o sposavo una ragazza di Meda, o nessun' altra poteva andare bene. Temo ne avesse puntata una di Seregno. Figuriamoci quando scrissero che avrei sposato Connie Francis!».

Però poi, dopo Lauretta Masiero e Catherine Spaak, è arrivata Gloria Guida.

«Stiamo insieme da quarantuno anni, abbiamo una figlia e questo è tutto quello che dico sulla mia vita privata».

Può dirmi che padre è stato Johnny Dorelli?

«Ho avuto tre figli (Gianluca, Gabriele, e Guendalina, ndr ). Sono stato spesso via per lavoro, ma non credo di essere stato un cattivo padre.

In ogni caso, bisognerebbe chiedere a loro».

E a quale delle sue canzoni ripensa con maggiore struggimento?

«L'arrotino. Anche perché vuoi vedere come viene con la "r" moscia?».

Anticipazione da “Tv Sorrisi & Canzoni” il 15 settembre 2020. Il prossimo 22 settembre uscirà per Mondadori l’autobiografia di Johnny Dorelli “Che fantastica vita”. Così Sorrisi l’ha intervistato in anteprima e in esclusiva (nel numero in edicola il 15 settembre) per farsi raccontare direttamente gli episodi più curiosi e interessanti di una carriera straordinaria: «Ho sentito il desiderio di parlare. Ho detto solo la verità, non ho inventato nulla». Tra gli incontri più importanti quello con Mike Bongiorno a New York quando entrambi lavoravano alla radio Whom: «Mike era l’unico che riceveva “La Gazzetta dello sport". Io ero molto giovane rispetto a lui, malgrado questo la “Gazzetta” gliela rubavo lo stesso». Ma non è tutto. Nell’intervista a Johnny ci sono anche le storie dei suoi amori con donne bellissime tra cui Lauretta Masiero da cui ebbe il primo figlio, Gianluca: «Non era facile nell’Italia di allora. Non mi sentii di sposarla: aveva dieci anni più di me». E poi ancora il suo rapporto con Domenico Modugno, l’avventura al cinema e il ricordo di quella volta in cui si ritrovò a cena con un gangster italoamericano…

·        Jon Bon Jovi.

Bon Jovi: il rock è politica. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi. Bon Jovi come JFK. Sulla copertina di «Bon Jovi 2020», nuovo album della band in arrivo il 15 maggio, c’è uno scatto in bianco e nero del rocker con un paio di occhiali da sole in cui si riflette la bandiera americana e sullo sfondo il tribunale di New York. «È un omaggio a una foto di Kennedy che ho visto in un negozio di occhiali e che poi ho comprato e appeso in casa. Lui è pensieroso e nel riflesso delle lenti si vede la folla cui stava per parlare: perfetta ispirazione per un disco meditativo come questo».

La bandiera, il riferimento all’anno delle elezioni, il duetto con l’ex principe Harry per gli Invictus Games, le Olimpiadi dei veterani di guerra... si butta in politica?

«Nel titolo c’è un riferimento facile e ironico all’anno elettorale, ma quello che voglio dire è che adesso ho una visione chiara, 20/20 (il corrispettivo del nostro dieci decimi ndr). Ci sono arrivato dopo il periodo complicato da cui erano nati i dischi precedenti, quelli nati in un periodo complicato fra l’abbandono di Richie Sambora o la lite con la casa discografica, e cose personali come il tentativo non riuscito di comprare una squadra di football...».

La copertina sembra un manifesto elettorale. Se diventasse presidente?

«Parlerei di “noi”, parola che stiamo perdendo dal vocabolario, e non di “me”. L’America di oggi è tutta un “me”, siamo divisi e temo che da qui alle elezioni lo saremo ancora di più, ma c’è un’opportunità per qualcuno fra i democratici di dare vita a una piattaforma che unisca».

JFK e Trump?

«Non voglio tirare pietre a quel tipo perché sarebbe troppo facile... JFK, come il fratello, voleva cambiare il mondo una volta per tutte e farci sognare. Trump è un autocrate».

Fra ballad romantiche e i classici inni rock da stadio è un album in cui l’agenda politica entra nei testi...

«Ma senza schierarsi. Cerco il dialogo, non la lite».

«Lower the Flag» fa riferimento alle stragi di massa...

«Anche in questo caso non voglio litigare ma fare una domanda: se accadesse nella tua famiglia? È nata dopo le stragi di El Paso e Dayton di quest’estate, una il giorno dopo l’altra. Sarebbe facile spegnere la tv e dimenticare, ma mi è rimasto qualcosa dentro».

«Blood in the Water» parla di un altro argomento che divide: i migranti e chi li vorrebbe rimandare indietro.

«I migranti che vengono in Italia o quelli che arrivano in America dal Messico cercano una vita migliore. Eppure sentiamo commenti ignoranti, “non me ne frega nulla, rimandiamoli indietro”. Sulla Statua della libertà c’è scritto: “datemi i vostri stanchi, i vostri poveri” e in passato l’America li ha adottati. Il mio trisavolo ha lasciato l’Italia per venire in America. Il New Jersey dove sono cresciuto sarebbe vuoto oggi se non fosse per gli italiani e gli irlandesi».

Si sta abituando a lavorare senza Sambora, chitarrista e suo partner storico?

«Sono al terzo album e a circa 180 concerti senza di lui. Non è stato facile. Ho scoperto di avere la forza di due uomini e la natura selvaggia di dieci. Ho scritto canzoni da solo anche prima, quello che mi è mancato è stata l’amicizia Mi ha aiutato vedere qui a Londra un concerto organizzato da Mick Fleetwood per omaggiare Peter Green, il vecchio compagno nei Fleetwood Mac. Con lui sul palco c’erano Pete Townshend che ha visto morire Moon e Entwistle, Gilmour che non parla più con Waters, Steven Tyler che ha avuto i suoi alti e bassi con Joe Perry: tutti sono passati da quello che ho vissuto io eppure li ho visti divertirsi ancora».

Vi ha dato fastidio non essere stati mai considerati cool dalla critica musicale?

«Oggi l’abbiamo superato e siamo rispettati, ma negli anni 80 c’è stato un momento in cui nella categoria hard rock dei Grammy vincevano i Jethro Tull e non “Slippery When Wet”, nostro disco da 20 milioni di copie... Per questo con “New Jersey” volli dimostrare cosa fossimo capaci di fare. Adesso sento di non dover dimostrare più nulla. Nei mesi scorsi ho invitato Springsteen e McCartney nel mio studio per fargli sentire “Lower the Flag”, così, voce e chitarra. Parlo di musica a tu per tu con i miei miti: ce l’abbiamo fatta».

·        Jonas Kaufmann.

Giuseppina Manin per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2020. «Ho sempre sognato una pausa lunga, un periodo tutto per me. Sono stato esaudito. Anche se in modo esagerato». Scherza al telefono Jonas Kaufmann, numero uno tra i tenori, il più conteso nei teatri del mondo. Eppure, come tutti, anche lui ora si ritrova con l' agenda piena di cancellature e punti di domanda.

L' ultima volta che è andato in scena?

«Lo scorso dicembre qui a Monaco con Die tote Stadt. Mai avrei immaginato che la città morta dell' opera di Korngold sarebbe diventata da lì a poco proprio la mia. E in più moltiplicata all' infinito. È stato impressionante vedere le piazze più famose, da San Marco al Colosseo, dalla Concorde a Trafalgar Square, totalmente deserte. Senza più tracce di vita. Quel titolo è stato un presagio».

E quando è scattato il lockdown, cosa ha fatto?

«Mi sono chiuso in casa! Una scorpacciata di famiglia con mia moglie (la regista Christiane Lutz) e nostro figlio Valentin, che ha un anno. Il più felice di tutti. Con i genitori sempre in giro per lavoro, non gli è parso vero».

Nel frattempo lei non si è fermato. Ha registrato un album di «Christmas Songs» che ascolteremo a dicembre.

«Un dono di Natale per il mio bimbo e per tutti i bimbi del mondo. Dovrei presentarlo in un tour europeo, ma il condizionale è d' obbligo».

Sempre per Sony, è in uscita il cd di «Otello», nuova registrazione con Santa Cecilia diretta da Pappano.

«Un' altra tappa del mio lungo viaggio dentro il cuore nero del Moro. Nel 2017 il debutto a Londra con Pappano, l' anno dopo a Monaco con Petrenko. Poi il dvd, il cd Otello è cresciuto dentro di me, mi ha svelato la sua fragilità. È uno straniero, un musulmano, un uomo di colore. Il suo successo militare, l' aver sposato la figlia di un senatore veneziano, sono i pilastri del suo ruolo sociale. Ma il piedistallo è d' argilla, una goccia del veleno del dubbio e tutto va a pezzi».

Mettere in risalto la complessità dei personaggi è una sua costante.

«Persino con i giganti wagneriani. Mi piace cercare la parte segreta di Lohengrin, di Parsifal. Il lato macho mi fa sorridere, non mi piacciono i supereroi. Gli esseri umani sono molto più interessanti».

E con «Otello» non finirà qui.

«La prossima stagione tornerò nel ruolo a Napoli, una nuova edizione per l' apertura del San Carlo. Maria Agresta sarà Desdemona, Michele Mariotti sul podio e l' allestimento di Mario Martone. Lo ammiro, sono impaziente di conoscere quale sarà il suo sguardo».

Di un suo «Otello» si era parlato anche alla Scala...

«Pereira dev' essersi confuso, ha annunciato qualcosa che non aveva in tasca».

Il primo impegno «live»?

«A Napoli a fine luglio, il 28 e il 31. Nella scenografica e vastissima piazza Plebiscito, distanze di sicurezze garantite per tutti. Canterò Aida in versione di concerto diretta da Michele Mariotti, voci femminili Anna Pirozzi e Anita Rachvelishvili. Un'idea del sovrintendente Lissner per far ripartire l'opera».

Riaperture solo all'aperto.

«Non necessariamente. A settembre sarò all' Opera di Vienna con il Don Carlos versione francese, e al castello di Schönbrunn con i Wiener. Un concerto per 100mila persone. Open air, ma comunque tante».

Sotto le stelle anche il suo primo appuntamento italiano, all' Arena di Verona il 17 agosto 2021.

«Doveva essere quest' estate ma abbiamo deciso di rimandare. È una vita che sogno di cantare in Arena e vorrei fosse piena, vorrei vedere tutte le fiammelle illuminate per me. Mi avevano chiesto un programma tutto wagneriano, ma non mi sento così tedesco. Wagner ci sarà, ma con Verdi e Puccini».

Lei ha fatto molti concerti in streaming a sostegno dei cantanti senza lavoro. Quale futuro per la musica?

«Sarà una catastrofe. Non ci saranno mai soldi per ricostruire tutto. I più a rischio sono i giovani artisti: molti cambieranno mestiere. E tra una decina d' anni non ci sarà una generazione nuova a sostituire noi "vecchi". E le regie? Torneranno agli anni '70 quando ognuno cantava per conto suo, lontano dall' altro anche nei duetti d' amore? Di certo si vedranno meno stravaganze. Forse non sarà male».

Pensando positivo, a quando un suo ritorno alla Scala?

«Con il sovrintendente Meyer ci siamo incontrati a Vienna. Ci sono progetti in corso, ne stiamo parlando. Ho molta voglia di tornare a Milano con un titolo italiano».

·        Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Cristina Antonutti per ilgazzettino.it il 30 gennaio 2020. Jordan Jeffrey Baby 23, il trapper lombardo che a dicembre ha promosso il suo singolo sputando e saltando sull’auto dei Carabinieri, ha dichiarato «guerra» alle istituzioni. Il proclama lo ha postato su Instagram da Pordenone. Sì, da Pordenone. Perchè è il questore Marco Odorisio, dopo aver visto i filmati pubblicati sul social contro la Polizia di Stato, che lo ha diffidato dal tornare in città per i prossimi due anni. La reazione del trapper, Jordan Tinti il suo vero nome, identificabile dalla rete metallica tatuata in volto, è diventata virale. Ha postato una serie di foto e video che sono stati visualizzati da migliaia di persone (ha 40mila follower su Instagram). Il trapper alloggiava in un bed&breakfast di Pordenone e, contrariamente al regolamento, ha portato una persona in stanza. È stato controllato da una pattuglia della Squadra Volante, sono spuntati 2,65 grammi di hascisc e la serata è finita in Questura per il verbale di rito. Poteva finire lì, ma il giovane una volta uscito dalla Questura ha cominciato a mettere su internet brevi filmati contro polizia, bed& breakfast e la stessa città. «Sarà sempre la trap a vincere - dice - pure me piglio un’altra stanza, che cazzo me ne frega... Brooklyn (il suo singolo, ndr) è fuori da meno di due giorni e ha superato le 30K. La prossima esce un singolo nuovo che spacca tutto». Poi parla del bed&breakfast: «... ho preso una piotta per una camera... mi hanno sfrattato perchè gli sbirri sono venuti a fare irruzione in camera mia». Poi mostra mentre urina sui verbali appena sottoscritti negli uffici della Squadra Volante commentando: «La prossima volta che salgo in piedi su una gazzella non chiedetemi il perché». Per il questore è troppo. Quei verbali il trapper li ha mostrati anche sul web, con i nomi dei poliziotti ben leggibili. Quale sia stata la conseguenza del suo gesto, è lo stesso Jordan Jeffrey a raccontarlo. Sempre su Instagram. Si filma mentre esce per la seconda volta dalla Questura, il cappellino rosso in testa e in mano la diffida del questore Odorisio. Mostra il verbale è sbotta: «Ooooh... certo che siamo in un paese di somari, di asini... diffidato da Pordenone raga, mi dispiace non suonerò ma live in questa città perchè per ogni grammo ho preso un anno di diffida». Il giovane trapper ha comunque obbedito al questore, perchè ha lasciato la città assicurando che «non mi ferma una denuncia (no) neanche un’altra. Non diffidi un Jeffrey, oramai sono comunque in tutta la nazione». Ha esibito il foglio di via su internet, poi sul water di un treno che lo porta lontano da Pordenone adagia i verbali della diffida, vi fa pipì sopra e cerca di bruciali. A dicembre, quando a Napoli è salito sull’auto dei Carabinieri per promuovere il suo brano intitolato Brooklyn, con la sua provocazione ha avuto una risonanza enorme. Il video, infatti, era stato ripreso su Twitter da Matteo Salvini. Il leader della Lega condannava il trapper, ma le visualizzazioni del video hanno avuto un’impennata.

·        Julija Majarcuk.

Dagospia il 22 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2. Julija Majarcuk è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice, nata in Ucraina e arrivata giovanissima in Italia, ha raccontato: "Quando ho scoperto che avrei voluto recitare? Da bambina, da quando ero piccola facevo sempre gli spettacoli in parrocchia o a scuola. Cercavo sempre di primeggiare, la voglia di palcoscenico l'ho sempre avuta e fortunatamente ci sono riuscita. L'arrivo in Italia? Avevo 19 anni e sono arrivata a Napoli. Napoli è una città che ha delle caratteristiche diverse dalle altre. La prima cosa che mi ha colpito moltissimo è il traffico. Avevo paura ad attraversare la strada. Mi stupì anche l'invadenza simpatica dei napoletani, che dal primo momento che ti conoscevano volevano conoscere tutto della tua vita". Gli incontri più importanti della carriera: "Un incontro affascinante che non ha avuto sviluppo è stato con Giuseppe Tornatore. Mi ha colpito molto. Un'altra persona che è stato un piacere incontrare è stato Vincenzo Salemme. Un grande signore, con enorme cultura. Comico, regista e autore che stimo moltissimo e con cui ho lavorato tanto". Sul set con Tinto Brass, con cui ha girato 'Trasgredire': "Sono ancora grata a quella occasione, se dopo tanti anni faccio ancora questo lavoro è merito di quella occasione. Tinto Brass era preceduto da una fama scandalosa. Ero la protagonista del film, molto coccolata dalla produzione. C'erano delle scene di nudo, ma col mio corpo ho sempre avuto un rapporto di grande serenità. Ho affrontato quel lavoro con grande tranquillità, Tinto era una persona molto seria, di grande cultura, accompagnato sempre dall'onnipresente moglie. Lui e la moglie erano molto uniti, le persone da fuori non lo sanno, Tinto aveva un personaggio col quale giocava. Tra noi c'era complicità, ma io ho messo subito le cose in chiaro. Lui aveva l'abitudine di dare la pacca sul sedere alle attrici, ma io dissi che con me non doveva farlo e lui ha rispettato questo accordo".

·        Julio Iglesias.

Francesco Olivo per lastampa.it (INTERVISTA DEL 2017). Tra una partita di calcio, la programmazione di un concerto, un tg spagnolo e una carezza al cane trova il tempo di fare una telefonata in Italia: «Sono Julio Iglesias, potrei essere suo nonno, ma non lo sono. E poi mi creda: mi sono svegliato stamattina sentendomi un ragazzino». La chiamata arriva da Miami, dove il più grande cantante latino di tutti i tempi, lo dicono le cifre, ha appena pubblicato Mexico & Amigos, il suo primo album fatto interamente da duetti.  

A 73 anni ha ancora voglia di fare cose nuove?  

«Certo. Per sopravvivere devo respirare aria nuova. È stato bellissimo fare duetti. In carriera ho cantato con Sinatra, Stevie Wonder e Sting, ma ero io che interpretavo loro pezzi. Ora è il contrario».  

Si metta nei panni dei colleghi: può creare imbarazzo duettare con una leggenda vivente.  

«Ma sono io che dovrei essere in imbarazzo. Lo sa come canta bene Joaquin Sabina? Crede che Placido Domingo sia il primo che passa? Non direi». 

C’è anche Eros Ramazzotti, lo conosceva?  

«Sì, è un grande artista». 

Perché il Messico?  

«Le canzoni messicane tra gli Anni 50 e 60 sono il massimo esempio di musica latina. So che a voi italiani dicono poco, ma è sbagliato avere solo un’idea folkloristica di quello che sono stati i mariachi».  

Vedendo un suo nuovo album, il pubblico si può chiedere: a 73 anni Julio Iglesias canta ancora bene?  

«Mille volte meglio». 

Dice sul serio?  

«Sì. Prima ero un cantante mediocre. Ora sono più interessante». 

Come mediocre? Mezzo mondo compra i suoi dischi da 50 anni.  

«Lo so, ma ho la prova di quello che dico: ora nei miei concerti canto Caruso di Lucio Dalla. Se ci avessi provato a trent’anni, nemmeno da ubriaco ci sarei riuscito. Ora viene molto bene, anzi Caruso è la cosa che mi fa sentire finalmente un cantante». 

Insomma, lei non era bravo: dobbiamo avvertire milioni di fan. Ma lei è modesto?  

«Se fossi modesto sarei un cinico. So quello che rappresento per molte persone». 

Per esempio un seduttore, oltreché un artista. Le dà fastidio l’etichetta?  

«Discorsi del passato, ora seduco solo il mio cane. Deve vedere come mi sta guardando ora». 

E ha trovato una definizione?  

«Significa dire le cose al momento giusto, basta un secondo e addio seduzione». 

Si dirà: è tornato Julio Iglesias.  

«Non me n’ero mai andato».  

Viene spesso in Italia?  

«Non quanto vorrei. Ma la cosa che più fa piacere è che in Australia o in Sud America è capitato spesso che degli italiani mi fermassero per dirmi: “Julio, siamo italiani come te”. Non potevano immaginare che l’interprete di Se mi lasci non vale non fosse italiano». 

Lei ha cantato per tutti i potenti, leader democratici e dittatori. Ha mai fatto distinzioni?  

«Davanti alla musica i potenti sono persone normali, talvolta anche più deboli». 

Quando se n’è accorto?  

«Una volta stavo a Punta Cana e ricevo una telefonata da Caracas. Il presidente cinese era in visita da Hugo Chávez e all’inizio della cena gli aveva chiesto: “Vorrei vedere Julio Iglesias”. Non concepiva come in un Paese dove si parla spagnolo io non ci fossi. Così ho preso un aereo e sono arrivato mentre erano al dolce. Abbiamo rimediato un pianoforte e una chitarra, quando ho intonato ’O sole mio Chávez e il presidente cinese si sono alzati e abbiamo cantato tutti e tre insieme. Sembravano due ragazzini».  

Trump le piace?  

«L’ho molto criticato, ma ora ha un altro compito e dovrà cambiare».  

Lo ha mai conosciuto?  

«Sì, quando ho cantato nei suoi casinò».  

Quale musica ascolta?  

«Sento di tutto, ma funziona come per i vini: amo quelli che hanno più di vent’anni. Nei nuovi si sente troppo zucchero, fra qualche anno quello che oggi vale due euro varrà duemila». 

Ce l’ha con suo figlio Enrique?  

«Lui è bravissimo». 

Cosa la colpisce della musica di oggi?  

«La gente che balla ai concerti. Prima non succedeva». 

Lei non balla?  

«Mai fatto. Ed è per questo che, sciatica a parte, sto benissimo. Se avessi ballato, oggi non starei in piedi». 

E invece?  

«E invece sono stato fermo ed ecco che faccio concerti bellissimi. Per la sciatica mi tocca prendere un po’ di cortisone, ma la vera medicina è il palco. Quando vedo che la gente ha fatto i chilometri per sentire me, si è vestita bene, si è pettinata al meglio, io mi sento bene. È una medicina, davvero non è retorica».  

C’è una data per il ritiro?  

«È la gente che mi deve cacciare. Sua zia mi ascolta ancora?». 

Direi di sì.  

«E allora resto».  

·        Junior Cally.

Mirko Polisano per “il Messaggero” il 12 febbraio 2020. Dal palco dell'Ariston al campo del calcio dilettantistico del Fiumicino 1926. L'ultima trovata, Junior Cally la dedica alla sua città. Ieri pomeriggio il rapper di Focene ha firmato il tesseramento con la società tirrenica che milita nel girone A del campionato di Promozione. Ebbene, sì: il cantante reduce - tra le polemiche - dal festival di Sanremo appena concluso indosserà la maglia dei rossoblù e scenderà in campo: debutto fissato per domenica 23 febbraio in casa contro il Tolfa. «L'ho fatto per la mia città - dice a poche ore dall'ufficializzazione Antonio Signore, alias Junior Cally - sono molto legato a Fiumicino e a Focene. Quando i dirigenti della squadra mi hanno detto che i tifosi paganti allo stadio erano solo 28 mi sono detto che dovevo fare qualcosa, magari giocando la gente viene allo stadio e così la società può guadagnare qualcosa, magari da investire in stipendi per gli altri calciatori che al momento non percepiscono nemmeno un rimborso». Un atto d'amore, dunque, per la sua Focene. «Voglio ribadire - aggiunge il rapper mascherato - che non sono un calciatore e che il mio mestiere è quello di essere un cantante ma se posso fare qualcosa per il mio quartiere sono sempre pronto». La piazzetta, il bar dove la mattina va a fare colazione e dove la settimana scorsa si sono ritrovati amici e sostenitori per la finale del festival, gli scogli dove di notte trova ispirazioni per le sue canzoni. «Focene è bellissima», aggiunge. Eppure Junior Cally un passato da calciatore lo ha avuto, un sogno cresciuto nel mito del Milan e di Shevchenko. «Il rigore segnato a Buffon nella finale di Champions è qualcosa di indelebile, ho i brividi a ripensarci». Quel sogno che anche lui ha sfiorato per un attimo. «Da bambino volevo diventare un calciatore. Ero bravo e ho sostenuto una sorta di provino con osservatori di Parma e Perugia. Alla fine quest'ultimo mi selezionò, al momento delle visite mediche però mi diagnosticarono una malattia che in un primo momento sembrava essere leucemia ma che poi si è rivelata meno grave ma che all'epoca mi costrinse ad abbandonare il mio sogno». Eppure non mancano le polemiche. La città di Fiumicino si è divisa fin da prima del festival. In molti si sono schierati contro il cantante per i testi di alcune vecchie canzoni. Un senatore della Lega arrivò anche a minacciare di togliergli la residenza. «È molto più facile attaccarmi che starmi vicino - conclude Junior Cally - soprattutto pubblicamente ma in privato ho ricevuto tante attestazioni di incoraggiamento. Io ho sempre vissuto il territorio e il prossimo aprile gestirò anche un chiosco sulla spiaggia. Lo stesso dove da ragazzo ho iniziato a lavorare facendo lo spiaggino». «Noi siamo primi in classifica - racconta invece Simone Munaretto, presidente del Fiumicino Calcio 1926 - con l'entrata in squadra di Junior Cally speriamo di poter riempire lo stadio. Lui lo ha fatto per gli altri calciatori, molti dei quali sono suoi amici. Speriamo che in tanti ora vengano a supportarci. Le polemiche? Il rapper è sempre contro corrente. Eminem a mio avviso - conclude Munaretto - nei suoi testi dice anche cose peggiori». E c'è chi ora spera che Cally a Fiumicino faccia parlare di sé solo per i gol.

Rita Vecchio per leggo.it il 4 febbraio 2020. Lungomare di Sanremo. Ore 9,25. Il mare è piatto. Vola un gabbiano. C’è chi sorseggia un caffè, chi porta il cane a passeggio, chi va in bicicletta. Passano due ragazzi che fanno jogging: pantaloncini corti e felpa con cappuccio. Uno dei due ha un tatuaggio evidentissimo sulla mano destra: è l’occhio di Junior Cally, il rapper di Focene che ha infiammato il Festival ancor prima di esibirsi. Corre sulla ciclabile come un Rocky di periferia. Lo chiamo: «Junior Cally?». Non risponde. Lo richiamo: «Junior Cally?». Niente, continua, anzi accelera. «Certo che, se è vero che ti droghi, corri veloce». Inchioda. Si gira. «Io non mi drogo. Non mi sono mai drogato. La droga mi fa schifo». Si abbassa il cappuccio, torna indietro. Eccolo Antonio Signore, 28 anni, in arte Junior Cally. Al suo fianco il suo inseparabile amico, il videomaker Sebastiano.  Mai, mai?

«Qualche cannetta da ragazzo. Ma ora nulla. Non ho mai usato droghe pesanti, sono mai stato un tossicodipendente».

E perché dicono il contrario?

«Non lo so perché. Forse per i tatuaggi, forse perché sono un rapper. È un marchio pesante che mi porto da quando sono piccolo. All’epoca i tatuaggi erano cose da carcerati, da poco di buono. Pensa che mio fratello fa pure il tatuatore, è uno bravo, ha lo studio a Garbatella. A Focene ci guardavano come fossimo i figli di Satana (gli scappa un sorriso, ndr). Mi ricordo che un imprenditore vietava al figlio di frequentarmi perché diceva che ero drogato. Oggi io canto e il figlio è tossicodipendente». 

Il primo tatuaggio?

«Dopo che ho superato la prova più dura della mia vita. Avevo 14 anni, avevo fatto il provino di calcio per giocare nel Perugia ma alle visite mediche mi diagnosticarono una forma di leucemia. É stato devastante. Ho vissuto quattro anni tra un ricovero e un altro. Ma non avevo nulla. Nulla!».

Adesso è sessista, violento, da squalificare, da toglierli la cittadinanza di Focene. Ti hanno detto di tutto. 

«Assurdo, per quattro strofe di una canzone di tre anni fa, Strega. Sono scosso». 

In che senso? 

«Mi sono svegliato una mattina e mi sono trovato sbattuto in prima pagina con parole come “pedofilo”, “misogino”. Sui social mi hanno massacrato: messaggi come “tua madre dovrebbe vergognarsi di avere partorito un essere diabolico come te”, “ci auguriamo che tua madre venga stuprata”. E potrei continuare».

Continua.

«Questi sono i commenti dell’italiano medio, che parla senza sapere, senza conoscere. E il brano che porto in gara a Sanremo è proprio contro l’italiano medio».

Non vorrai negare che le parole di quella canzone siano violente?

«Possono urtare la sensibilità. Ma non inneggio alla violenza. Non dico di umiliare, di violentare, di ammazzare. Se si legge bene il testo è l’esatto contrario. Uccido il concetto. Non certo la donna. Canto che bisogna farsi rispettare con le parole che sono più forti di ogni cosa». 

Perché ci si scandalizza allora? 

«Perché è una canzone. Un film può avere immagini forti. La musica, no. Ma io in quella canzone raccontavo quello che vivevo».

Spiegati meglio.

«Guarda qui. (mostra sul cellulare i messaggi privati di Instagram, foto hot di ragazze, ndr). In quella canzone racconto uno spaccato di società che di solito non si vuole raccontare anche perché è più vicino di quanto si pensi. Racconto una generazione schiavizzata dai cellulari. E racconto anche di mio padre, tre infarti e vivo per miracolo, che i medicinali se li è sempre dovuti comprare da solo. Canto di una politica che non esiste. Di una tutela che non c’è».

Politica anche nel brano in gara (applauditissimo dalla critica ieri alla prova generale): l’attacco a Salvini e a Renzi è più che esplicito. Sta con i Cinque Stelle? 

«No, nemmeno con loro».

Per chi ha votato l'ultima volta?

«Ok. Ho votato per i cinque Stelle, ma non lo rifarei mai. Sardine tutta la vita».

Parliamo di musica, parliamo ancora di “No, grazie”.

«È un brano ultra rap. Anti populista. Che critica proprio i luoghi comuni. E dove non si parla assolutamente di donne».

Già, le donne. Quali sono quelle della tua vita?

«C’è la mia fidanzata Valentina, e mia madre Flora».

Che dicono? Come stanno loro?

«Mi appoggiano. Mi hanno dato quel calore che negli ultimi giorni dall’esterno non ho avuto. Mia madre, donna dal cervello pensante, ex insegnante di scuola elementare, capiva anche i brani vecchi e ha 59 anni. Valentina, fa la dj, sui social hanno attaccato anche lei».

Come ha iniziato con il rap?

«Ascoltando Caparezza, Eminem, Fabri Fibra. Oggi li consideriamo grandi rapper, ma sono stati demonizzati anche loro. In Cuore di Latta, Fibra parla con crudezza di Erika e Omar, del fatto di cronaca nera che scioccò l’Italia. Ma di certo non si è mai pensato di emulare il delitto. Conta l’educazione all'ascolto. Il rap è un racconto, un canovaccio su cui un teatrante recita. Questo si fa da anni. Il rap ora è diventato il nuovo pop e così in tanti reagiscono male e scrivono “muori”, “fai schifo”, “ammàzzati”. Io, invece, non auguro a nessuno la morte, non dico a nessuno fai schifo, non inneggio al suicidio».

E perché la maschera? 

«Per poter vivere la mia vita da rapper senza, almeno all’inizio, dover subire il pregiudizio. A Focene, frazione di Fiumicino con quattro case e qualche migliaio di abitanti, ero visto come lo sfigato, mi prendevano in giro: “Tuo padre lava le vetrine dei negozi e tuo vuoi fare il rapper?”. Con la maschera li ho fregati».

Cioè?

«È stato divertente vedere chi mi derideva, ascoltare Junior Cally in macchina senza sapere che era Antonio Signore».

Ma non era più facile andar via da Focene? Lasciare l’Italia come hanno fatto tanti?

«A me piace l’Italia. A me piace Focene, e mi manca tanto. Mi hai trovato a correre sul lungomare perché mi fa pensare a Focene».

Il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, ti ha chiamato?

«No». 

Colleghi solidali?

«Anastasio, Rancore, J-Ax e Irene Grandi. Bugo, invece, mi hanno detto che sui social mi ha criticato». (Più tardi Fiorello in conferenza stampa ha detto: «Lo invito a cantare alla cresima di mia figlia»). 

Il commento più brutto? 

«Quelli contro mia madre. Dirle di avere partorito un demone è di una crudeltà infinita». 

Quello più bello?

«Un’amichetta d’infanzia che non vedo da anni ha scritto “Conoscetelo”». 

Giovedì, nella serata delle cover, hai scelto “Vado al massimo” di Vasco. Perché?

«Vasco arrivava da outsider».

Non ti vorrai paragonare a Vasco.

«No, assolutamente. Ma nel mio piccolo mi sento un outsider anche io. Duettare con i Viito (quelli di “Bella come Roma, stronza come Milano”, ndr.) sarà molto divertente. Vedrete».

Che aspettarsi da Sanremo?

«Di vivermi quello che ho sudato da anni», si apre la felpa e spunta una maglietta con la scritta “Chi è Junior Cally?”.

Ops, chi è Junior Cally?

«Un ragazzo di Focene che non ha i “superpoteri”, (come canto nella canzone in gara). Ma che ha già vinto il suo Festival con la convocazione da parte di Amadeus. Fino a poco tempo fa stavo a Campo de’ Fiori a lavare le vetrine con mio padre. È la rivincita di Antonio nei confronti di quelli che gli davano del fallito, come la mia ex. Lei voleva che lasciassi il rap e andassimo a lavorare in ambasciata. Io oggi faccio il rap e lei non lavora all’ambasciata. Ho vinto contro tutti coloro per cui Junior Cally non sarebbe mai esistito».

·        Justin Bieber.

Justin Bieber: «Soffro della malattia di Lyme, ma ho combattuto e vinto». Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. «Sono stati due anni molto difficili». Justin Bieber ha scelto Instagram per svelare ai fan il problema di salute che combatte da tempo: la malattia di Lyme, un’infezione cronica trasmessa dalle zecche di cui soffrono anche altre star come Bella Hadid (e la madre Yolanda Foster) e Avril Lavigne. Bieber ha aggiunto di aver sofferto per le notizie circolate sui social dopo la diffusione di foto in cui appariva malato, con macchie sulla pelle. «Qualcuno ha ipotizzato che fossi sotto l’effetto di metanfetamine, senza sapere che invece soffrivo di una forma grave della malattia di Lyme, con problemi alla pelle, alle funzioni cerebrali, alla salute in generale: ero senza energia». Bieber ha spiegato ai fan che grazie alle cure le sue condizioni sono migliorate e che la vicenda sarà narrata in un documentario che verrà pubblicato su YouTube: «Saprete quanto ho combattuto e che sono riuscito a vincere! Tornerò più forte di prima». La malattia di Lyme è provocata dal batterio Borrelia burgdorferi che infesta le zecche e può essere trasmesso all’uomo: i sintomi sono mal di testa, dolori articolari, debolezza, disturbi cardiovascolari e neurologici. I casi sono in aumento in tutto il mondo: negli Stati Uniti la Borreliosi di Lyme rappresenta la seconda malattia infettiva dopo l’Hiv, con più di 300mila nuovi casi stimati ogni anno. In alcuni soggetti i disturbi si protraggono per diversi anni.

(LaPresse 9 gennaio 2020) - "Mentre molte persone continuavano a dire che Justin Bieber sembra una merda, sotto amfetamine, ecc, non si sono resi conto che mi è stata recentemente diagnosticata la malattia di Lyme". Lo scrive Justin Bieber su Instagram. "Non solo, ho avuto una grave mononucleosi cronica che ha colpito la mia pelle, la funzione del cervello, le mie energie e la salute in generale. Spiegherò tutto in una docu serie che metterò su YouTube a breve... saprete tutto ciò che ho combattuto e superato!! Sono stati un paio d'anni difficili, ma con il giusto trattamento che aiuterà a curare questa malattia tornerò e meglio che mai. Senza limiti", aggiunge la popstar star canadese.

Maria Rizzo per ilgiornale.it il 9 gennaio 2020. La malattia di Lyme è spesso giunta agli onori della cronaca per aver colpito personaggi famosi, tra cui Avril Lavigne, Bella Hadid, Richard Gere e Ben Stiller. Negli Stati Uniti conta oltre 300.000 nuovi casi ogni anno e anche in Italia è in aumento: ecco quali sono le caratteristiche dell'infezione, quali le zone più colpite dello Stival, nonché i trattamenti che permettono di sconfiggerla. Conosciuta anche come borreliosi di Lyme, poiché l'agente patogeno che la causa si chiama Borrelia, può essere trasmessa all'uomo attraverso la puntura di zecca: per questa ragione, primavera ed estate rappresentano i periodi di massimo rischio, poiché si trascorre più tempo all'aperto aumentando la probabilità di imbattersi nel parassita. L'incontro con una zecca può infatti rappresentare l'inizio di un incubo: "Il morso della zecca non è di per sé pericoloso, i rischi dipendono dalla possibilità di contrarre infezioni trasmesse da questi animali in qualità di vettori. Le zecche possono infatti essere infettate con alcuni batteri e quindi trasmetterli all’uomo nel momento del morso": così spiega in un'intervista Stefano Veraldi, direttore della Scuola di specializzazione in dermatologia e venereologia dell'Università di Milano. In passato, le zone d'Italia a rischio erano l'Emilia Romagna, il Trentino, il Veneto, il Friuli e la Liguria ma, come segnalato dall'Associazione Lyme Italia e co-infezioni, oggi tale patologia si è diffusa in tutto il Paese. Vari i sintomi della malattia: all'inizio si manifesta con una macchia rossa sulla cute che si espande lentamente, ma entro qualche settimana il soggetto colpito può sviluppare disturbi neurologici con artralgie, mialgie, meningiti, polineuriti, linfocitoma cutaneo, miocardite e disturbi della conduzione atrio-ventricolare. Non è comunque detto che basti un morso di una zecca per ammalarsi: il parassita potrebbe infatti non essere portatore del batterio o, ancora, non essere in grado di trasferirlo all'uomo. Per proteggersi ed evitare di contrarre la malattia, la raccomandazione degli esperti è quella di visitare le zone a rischio con abbigliamento adeguato; inoltre mantenere le distanze da animali come roditori, caprioli, cervi, volpi e lepri, poiché potrebbero essere infestati dalle zecche.

Justin Bieber: «Mi drogavo appena mi svegliavo: sono guarito grazie all’amore». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo De Carolis. Justin Bieber è innamorato. «Alzi la mano chi in sala non è sposato, non ha un compagno o una persona speciale...Wow, ragazzi, prego per voi». Il matrimonio, dice, «è la cosa più bella che ci sia, anche se bisogna impegnarsi, coltivarlo ogni giorno. Il pensiero che per il resto della mia vita avrò mia moglie al mio fianco mi fa venire i brividi di gioia». A cinque anni da Purpose, Bieber torna con un nuovo album, Changes, cambiamenti, un titolo che riassume un iter personale che gli ha permesso «di mettere ordine» nella sua vita. Basta eccessi, basta droga, basta, spera, crisi: «Ci capitano cose che non possiamo cambiare. Ciò che possiamo controllare è come reagiamo a questi cambiamenti». A Londra per la presentazione europea del disco, ha sfoderato il fervore di un nuovo adepto: «Dio ha creato tutti noi. Dio è buono. Succedono cose ce ci fanno dubitare questa realtà. Anch’io in passato me la sono presa per quello che mi capitava. Ma bisogna avere fiducia. Alla fine tutto si sistema. Il dolore non dura per sempre». È lui, il ragazzo più Googlato del mondo, idolo di una generazione, l’adolescente scivolato con il successo in un tunnel di autodistruzione? Il suo è un pubblico fedelissimo (con un nome, i Beliebers), che lo ha reso il primo musicista a superare la soglia di 50 milioni di abbonati sul web. La serie-documentario Seasons, che ha debuttato il 31 gennaio, su YouTube ha fatto record di visioni: quasi 33 milioni per il primo episodio. A giudicare dalla folla accorsa a Londra per una breve esibizione di qualche brano del nuovo album, è adorato: ragazzi giunti dall’Argentina, dalla Spagna, dal Cile, dall’Olanda con le lacrime agli occhi per l’emozione. «Ti voglio bene. Se sono viva oggi lo devo a te», gli dice una fan francese. «Sono orgogliosa del tuo impegno per la salute mentale». «Anch’io ti voglio bene», le risponde Bieber. «Tutti noi incontriamo difficoltà. Lo nascondiamo e siamo anche bravi a farlo, ma sotto sotto tutti abbiamo momenti difficili. Ricordatevi, non siete soli». Per Bieber, oggi, i temi che importano sono l’amore, la salute, l’equilibrio fisico e psicologico, la squadra leale che ha attorno. Lo ripete presentando Changesbrano per brano, un album «superdedicato alla moglie Hailey». For ever, per sempre, «è una delle mie canzoni preferite», spiega. Take it out on meè il suo modo «di dire a Hailey che lui sarà sempre al suo fianco, anche nei momenti bui. That’s what love isè un inno al fatto che «l’amore, quello vero, è molto diverso dall’attrazione fisica». Quando canta Changes nasconde il viso tra le mani e si commuove. A 25 anni, ha voglia di mettersi a nudo: nei filmati di Seasonsnon nasconde le difficoltà. Ha cominciato a drogarsi a 13 anni. Ha passato anni «terribili, in cui gli addetti alla sicurezza entravano in camera mia per controllare se ero ancora vivo», ammette. «E appena mi svegliavo la prima cosa che facevo era ingoiare una manciata di pillore e fumare droga». Hailey è la dimostrazione che è cambiato.A conferma, cerca di chiamarla in diretta, lei a Los Angeles dorme e non risponde. Bieber si sta curando, precisa, perché ha scoperto di essere affetto dalla malattia di Lyme, una patologia batterica che per un periodo lo ha lasciato spossato e depresso. Come ne sta uscendo? Vita sana, sport, lavoro, Dio e, of course, Hailey. Assieme a lei — conosciuta in chiesa — vuole aiutare gli altri. E così il brano Intentionsè dedicato a Alexandria House, un rifugio per donne e bambini di Los Angeles. È lì che Bieber ha girato il video per la canzone, prendendo spunto dalle storie di tre donne dai trascorsi difficili, Barhi, Marcy e Angela.Per il rifugio ha creato una fondazione con 200.000 dollari. Il video ha generato donazioni per altri 10.000 dollari. E a maggio parte in tournée, negli Usa: l’ultimo tour era stato bruscamente interrotto. Bieber non aveva retto al ritmo, ma ora è diverso. «Sto bene, voglio tornare dai fan, ringraziarli». Justin Bieber torna, insomma, in versione sana, buona e innamorata. È una fase che durerà? Glielo auguriamo.

·        Justin Timberlake.

Justin Timberlake: «Una volta mi tirarono bottiglie di urina sul palco, fu un vero trauma». Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Una delle prime esibizioni da solista che Justin Timberlake non dimenticherà mai è stata quella in occasione del concerto di beneficenza per la SARS che si è tenuto a Toronto nel 2003, non fosse altro per le bottiglie di urina che gli hanno tirato sul palco mentre si esibiva. Ancora oggi considerato il più grande show della storia canadese (vi parteciparono infatti 500 mila persone), il concerto aveva in cartellone gente come Rolling Stones, AC/DC, The Guess Who e Rush «e poi c’ero io – ha raccontato l’ex cantante degli NSYNC ospite di Graham Norton – e mi ricordo che prima di salire sul palco ho detto alla band “non credo che andrà bene”, ma non avevo ancora la minima idea di quanto davvero brutto sarebbe poi stato… Siamo saliti sul palco e all’improvviso dalle prime due file hanno cominciato a lanciare delle bottiglie di urina. Ragazzi, non è proprio stato un bel momento…».

Vista l’accoglienza decisamente poco calorosa da parte del pubblico, gli organizzatori del concerto offrirono la possibilità a Timberlake di accorciare la sua performance, ma lui decise di andare avanti come previsto. «Nella prima canzone dovevo cantare e muovermi allo stesso tempo – ha continuato il 39enne artista, marito dell’attrice Jessica Biel - così cercavo di schivare i doni indesiderati del pubblico ed ero davvero impressionato da me stesso per come riuscissi a farlo. Il secondo brano però era “Senorita” e lo dovevo fare al pianoforte, quindi improvvisamente ho pensato fra me e me “oddio, sono fermo”, invece non è successo niente e delle due, l’una: o avevano finito la faccia tosta, perché sapevano che sarei rimasto lì o avevano finito l’urina». Qualunque sia stata la motivazione, Timberlake riuscì comunque a portare a termine la sua session. Per la cronaca, secondo MTV quel giorno il pubblico non si limitò all’urina, ma lo prese di mira anche con bottiglie di acqua, carta igienica e muffin. «E dire che eravamo a Toronto e che i canadesi sono persone storicamente pacifiche - ha concluso divertito il cantante – . Di certo, ancora oggi ho un sacco di traumi legati a quel giorno».

·        Justine Mattera.

Dagospia l'1 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Justine Mattera è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La showgirl ha raccontato la sua quarantena: "Io sto bene, in realtà non ho mai passato così tanto tempo a casa negli ultimi anni. Così ho rivalutato tantissime cose, ho seguito i bambini con i compiti, messo in ordine la casa, ho riscoperto la famiglia. Ho trovato un nuovo mondo dentro, ho iniziato ad allenarmi in casa, con un attrezzo usato dai ciclisti professionisti per allenarsi durante l'inverno quando fuori piove. Un ottimo allenamento, almeno fisicamente uscirò più forte di come sono arrivata. L'anno scorso è stato difficile per me, sono caduta durante il giro d'Italia, sono stata infortunata per mesi, ho avuto una lesione che non mi ha permesso di nuotare e quando fai lo sport che faccio io è una cosa difficile". Sui figli: "Non hanno una grande voglia di studiare, quando gli hanno detto che non sarebbero stati bocciati si sono gasati. Poi gli insegnanti hanno iniziato a dare una barca di compiti, ma veramente tantissimi. A me piaceva studiare, loro invece sono anti-secchioni, gli serve qualcuno che li aiuti. Ho trovato due ragazze bravissime che ogni tanto gli danno delle ripetizioni online. Così riescono a fare tutti i compiti". Sulla vita di coppia: "Io e mio marito abbiamo sempre viaggiato tanto, quindi questa quarantena è stata una prova. Ci siamo trovati bene, fortunatamente a casa abbiamo la possibilità di avere delle zone per noi. A me non piace essere sciatta, nemmeno in casa. Mi trucco, faccio i capelli, indosso la mia lingerie preferita e mi vesto come se dovessi andare in giro. Cerco di prendere tutto con ironia e con il sorriso, spero che alla fine tutto andrà bene. Seguiamo le regole, restiamo calmi e in qualche modo andremo avanti. Ho un sacco di amici a New York che si sono ammalati, qui in Italia no, in America sì. Poi sono guariti per fortuna. I miei genitori invece vivono abbastanza isolati, quindi per ora non hanno avuto problemi". Sui follower più spinti su Instagram: "In questo momento di quarantena i social sono diventati ancora più importanti. Dirette a raffica, all'improvviso sono diventati tutti conduttori. Un fenomeno interessante da seguire. Io spero di non aver annoiato troppo i miei follower, pensare a fare contenuti sempre diverse è importante. Io ho raccontato un po' di quello che facevo o pensavo, senza entrare troppo nel dispiacere del momento, provando sempre a essere ottimista. I feticisti? Ci sono sempre! E' incredibile, magari stai facendo una diretta serissima ma i messaggi di chi ti chiede di fargli vedere i piedi arrivano sempre. Oppure gente che chiede che intimo indossi". 

Justine Mattera confessa: "I social mi hanno fatta ​riemergere". La showgirl italo-americana ci ha raccontato il suo rapporto con il web e con i follower, tra una strizzata d’occhio ai commenti negativi, la voglia di tenere al riparo dai social i figli e la grande visibilità che il web le sta regalando. Novella Toloni, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. Sono lontani i tempi in cui Justine Mattera era la compagna di Paolo Limiti e la sosia di Marilyn Monroe. Oggi la showgirl italo-americana ha conquistato il suo spazio nello showbiz italiano, stregando centinaia di migliaia di fan che la seguono sui social network. Lei, che spesso è oggetto di critiche e feroci commenti degli odiatori del web, non lascia passare e controbatte. "Quando mi fanno un commento non riesco a non rispondere, provo a fargli capire che per me è diventato un lavoro che non dura per sempre e che voglio sfruttare adesso", ha spiegato di recente in un’intervista a Storie Italiane, confermandolo nell’intervista che ci ha rilasciato.

Sei un personaggio molto amato, nel bene e nel male, ti sei mai chiesta perché?

"Io dico sempre che il mio pubblico se era il pubblico di Paolo Limiti adesso su Instagram avrei 15 milioni di follower. Provo a essere fedele a me stessa nel bene e nel male. Sono molto coerente con quello che sono sempre stata e questo viene apprezzato oppure no".

Sui social sei spesso bersaglio di commenti negativi, come ti fa sentire questa cosa?

"A volte la gente che ti accusa è frustrata, è triste e in qualche modo sta accusando se stessa dicendolo a te. Molte volte provo a fare la psicologa (senza pretendere di esserlo), provo a mettermi nei loro panni pensando "avrà avuto una brutta giornata", "forse un suo amico o la fidanzata ha fatto un commento". Io dico, questa sono io, puoi anche non seguirmi, mica è obbligatorio, però se sei qua a commentare, qualcosa allora l’ho ispirato in te e questa è già una grandissima cosa. Perché non c’è niente di più brutto che l’indifferenza. Che tu mi odi o mi ami va bene purchè io ti abbia fatto provare qualcosa".

Ti senti vittima di cyberbullismo?

"Ma sai, provo a mettermi nei loro panni, ma a volte ci puoi rimanere male lo stesso. Perché sono fatta di carne anche io, ci rimango male se qualcuno prova a renderti insicuro e in qualche modo, a volte, ci riescono. Anche io ho delle giornate no e magari qualche commento può buttarmi giù".

Non condividi spesso foto coi tuoi bambini. Cerchi di tenerli al riparo dai social?

"Sì, io e mio marito non siamo d’accordo sul fatto di mettere le foto dei figli. Non è il loro posto, sono minorenni e anche se loro vogliono e gli piace, non lo vedo giusto. Specialmente perché io ho un profilo abbastanza per adulti e la gente farebbe in un attimo a dire: "Ok, se tu sei una madre allora non puoi fare questo", che è una grandissima ca***. Per proteggere loro preferisco tenerli lontani, anche se sono sempre con te, li porto a scuola, li vado a riprendere, siamo in vacanza insieme. Loro sono la cosa più importante della mia vita".

In questo momento stai lavorando molto sui social. Ti manca la televisione, un tuo programma?

"I social mi hanno aiutato a riemergere e mi aiutano a lavorare tantissimo. Avendo i bambini per me, a questo punto, fare un reality sarebbe molto difficile e non ci sono tante altre cose. In Italia poi è anche molto difficile fare delle fiction. Devi trovare la parte dell’americana, con l’accento americano. La mia nazionalità non ti dà molto; io dico sempre che se fossi stata di un altro paese avrei potuto avere ruoli come la colf o la put**** (ride ndr) ma purtroppo è un mio limite".

La tua vita è fatta di tanti capitoli dall’amore con Paolo Limiti e il successo in tv alla maturità e lo sport. Hai mai pensato di scrivere un libro?

"Ho ricevuto delle offerte di scrivere un’autobiografia oppure per fare un libro di foto. Chi lo sa, magari sì, sicuramente avrei tanto da scrivere".

·        Katia Follesa.

Gabriele Principato per corriere.it il 30 ottobre 2020. «Un po’ troppo gnocca per fare la comica». «Sembri quasi bona». « Wow che taglio! Scherzo stai veramente bene». Sono solo alcuni dei commenti comparsi sotto un post di Katia Follesa. L’attrice comica — conduttrice del programma Cake Star insieme al pastry star Damiano Carrara (qui l’intervista a Cook)— aveva pubblicato su Instagram una foto che la ritraeva seduta su un divano con un lungo abito da sera fucsia. Fra le frasi comparse sotto lo scatto c’è anche chi non «ironizza», ma argomenta. «Perdonami....un po’ mi dispiace Katia che tu sia diventata così... magra (certo anche così bella!) perché eri l’esempio di come si possa essere degli ottimi professionisti e lavorare in tv pur con qualche chilo di troppo». Come se perdere peso fosse una colpa: facesse smettere di essere un’icona di chi è in sovrappeso e quindi autorizzasse le persone a colpire e accusare con odio o scherno. «Stai dimagrendo troppo per i miei gusti!! E la tua simpatica ciccia dov’è?», scrive qualcun altro. E questo concetto, esternato da decine di utenti, è sintetizzato bene da un’affermazione lapidaria e tagliente di un follower: «Quasi... quasi...non fai ridere...». Come se l’aspetto fisico avesse a che fare con la professionalità o capacità di mandare dei messaggi ai propri spettatori. Agli hater Katia Follesa ha risposto con la sua consueta spontaneità con una stories, ponendo una domanda semplice che apre un tema sempre attuale: ma davvero qualcuno pensa che se un’attrice comica è sovrappeso e dimagrisce non può far più divertire? Un quesito non banale. Basti pensare a un altro caso recente che ha coinvolto l’attrice Rebel Wilson. La star hollywoodiana che a fine luglio ha postato su Twitter una foto in bikini in cui appariva molto più magra di come i suoi follower la ricordassero nel celebre film «Non è romantico?». Anche in questo caso commenti sul fatto che essere “sexy” annullasse la sua capacità di far divertire non si sono fatti attendere. E non sono mancate neanche accuse di lanciare — con questo cambio di forma fisica — messaggi contro le persone sovrappeso. La stessa cosa successe ad Adele, la cantante fu addirittura accusata di body shaming dopo aver pubblicato una foto in cui mostrava di aver perso circa trenta chili. Forse bisognerebbe domandarsi se è ancora tollerabile questo feticismo legato al fisico che, tanto nella vita online, quanto in quella reale, spinge le persone ad additare con commenti e domande chi si impegna per cambiare il proprio corpo. E, ancora, se è accettabile che le capacità professionali siano giudicate usando come filtro l’aspetto fisico. Quesiti sempre attuali e irrisolti. Che si dovrebbero porre non solo i leoni da tastiera, ma anche coloro che desiderano fare un complimento sul corpo di qualcuno. Perché spesso commenti che vorrebbero essere positivi risultano più grotteschi e sgradevoli di un insulto. «Mamma mia! Non sembri nemmeno più te! Hai cambiato anche l’espressione del viso.. non so se mi abituerò», si legge ancora sotto il post di Katia Follesa. E, ancora. «Porca miseria sei dimagrita un botto....basta dolci eh». «Sempre più bella e sexy, anche se ti preferivo un po’più in carne». «Adesso però puoi fare shopping con la scusa che non ti va bene niente e con più soddisfazione (meglio in meno che in più)». «Sei rientrata nella tua taglia S». «Come sei bellaaaa....lo eri anche più pienotta...». E, a questi involontari hater, si aggiungono i tanti che ossessivamente e scioccamente chiedono informazioni sulla dieta: come se per spiegare un regime alimentare bastassero poche frasi su un social network. «Sei stupenda!!! Perché non rispondi a chi ti chiede che tipo di dieta stai seguendo?». «Katia, dillo anche a me come ci sei riuscita». O, ancora. «Sei dimagrita? Ma sei dimagrita davvero o è un’impressione... se non è un’impressione dicci come hai fatto....». «Quanto sei calata?!! Come hai fatto a ritornare in forma dacci delle dritte». Non c’è nulla di nuovo in questi commenti. Sono una storia già vista. Ma, forse, ancora una volta dovrebbero far riflettere.

·        Katia Ricciarelli.

Francesca D' Angelo per “Libero quotidiano” il 2 giugno 2020. La posta del cuore è un appuntamento notoriamente stucchevole. Ma non se c' è lei. Katia Ricciarelli è infatti una donna che va dritta al punto: agli aspiranti tenori, che non hanno talento, dice chiaramente di lasciar perdere («inutile buttare soldi per niente, visto che chi è bravo inizia a guadagnare non prima dei 25 anni») e a noi, quando incominciamo a parlare di terza età, avvisa: «State attenti a dare della vecchia a chi ha più di 70 anni...». La Regina della lirica promette insomma di portare un' iniezione di vitalità nella nuova stagione di Io e te, al via oggi su Rai Uno alle ore 14.

Quale sarà il suo ruolo?

«Lo capirò bene quando andremo in onda (ride, ndr). So solo che affiancherò Pierluigi Diaco all' inizio e nella rubrica dedicata gli animali, per poi rispondere alla posta dei lettori: non ci sarà un copione vero e proprio e la cosa mi piace molto perché non amo essere telecomandata...».

Perché aggiungere una rubrica sugli animali in uno show dedicato all' amore?

«Beh, direi che se lo meritano eccome! Io per esempio non sarei riuscita a superare facilmente i due mesi di isolamento senza la mia cagnolina Ciuffi».

Nel programma si parlerà anche di nonni che, oggi più che mai, sono "genitori di ritorno": questo nuovo ruolo sociale è una conquista o un preoccupante segno dei tempi?

«Per le persone anziane è fondamentale sapere che qualcuno, come i propri figli o i nipoti, ha ancora bisogno di loro. Molte persone si spengono quando vanno in pensione, quindi ben venga avere delle responsabilità. A patto però di non approfittarsene: non va bene chiedere troppo ai nonni».

In questi mesi molti genitori si sono accorti che è impegnativo avere figli: Possibile che questa consapevolezza arrivi solo ora?

«Eh, il Covid-19 sarà una cartina tornasole per molte famiglie. Probabilmente in molti divorzieranno... Il fatto è che prima del lockdown i genitori lavoravano tutto il giorno e di fatto a seguire i figli erano i nonni o la tata. È in queste situazioni che i bambini si sentono trascurati e crescono come non dovrebbero».

Il virus ha messo in crisi anche il mondo della lirica. Come si rialzerà il settore?

«Siamo davanti a una tragedia perché i cantanti lirici sono morti senza il pubblico. La prima cosa infatti che ci chiediamo quando siamo sul palcoscenico è: "Piacerò? Arriverò al pubblico? Darò qualcosa?". Gli spettatori sono il nostro motore, altrimenti è come avere una Ferrari e guidare in uno spiazzo di 100 metri. Si soffre e lo streaming non è certo una alternativa reale: dopo due/tre mesi ci stuferà».

Il settore rischia lo stallo?

«I più penalizzati saranno sicuramente i giovani che non hanno le spalle larghe come noi. Faranno letteralmente la fame perché non avranno di cosa campare. Per il settore il rischio è un buco generazionale: non dimentichiamo che i giovani tenori sono i divi del domani...».

Crede che il governo stia facendo troppo poco?

«Pare che al momento il governo abbia altre priorità. È un peccato perché il melodramma è un prodotto made in Italy, che ci invidiano in tutto il mondo. Andrebbe quindi tutelato al pari della moda o dei prodotti gastronomici. All' estero c' è più attenzione verso la musica: in Germania, per esempio, hanno capito che la lirica è una forma di cultura».

Grazie ai talent molti giovani stanno scoprendo la lirica: quanto la tv sta giovando al suo rilancio e al ricambio generazionale?

«Riesce a fare il nome di un giovane cantante lirico famoso che fa melodrammi? Ecco, ho detto tutto».

C' è dunque tenore e tenore?

«Diciamo che il tenore che fa le canzonette è un' altra cosa. Per carità, anch' io le canto ma adesso, non a inizio carriera. Non è un particolare da poco: sono cresciuta come lirica, a 13 anni volevo fare il melodramma e nient' altro. Il processo opposto è invece rischioso perché la voce è uno strumento che va sviluppato e allenato. Se puoi fare i 2mila metri ma decidi di correrne sempre 50, c' è poi il rischio di non poter fare di più: le corde vocali si atrofizzano».

Katia Ricciarelli: «Volevo farmi suora. Poi ho tentato il suicidio». Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Katia Ricciarelli è una donna abituata a non girare attorno a quello che vuole dire. Ed è in questo modo, con questa schiettezza, che ha raccontato a Silvia Toffanin, ospite del suo «Verissimo», un episodio della sua vita importante e traumatico. Tutto riale a quando era una studentessa al Conservatorio di Venezia e un monaco Benedettino la notò per la sua voce, che gli parse adattissima per il canto gregoriano. «Un giorno è venuto un benedettino che cercava voci per il coro. Scelse me e gli dissi di stare al suo posto, non venga a dire che io devo andare in chiesa: lei si faccia gli affari suoi che io mi faccio i miei», ha spiegato, dal momento che, all’epoca, non era per nulla religiosa «non volevo proprio saperne». Quindi, la svolta con l’incontro con il monaco: «Il canto gregoriano mi aveva stregata al punto che mi vedevo già in un convento, a insegnare canto alle suore, per di più di clausura. Per una prova mi ero messa anche il vestito. Mi piaceva. Insomma, mi vedevo proprio ad insegnare». Una decisione che pareva presa, nonostante la mamma: «Era distrutta. Mi diceva: ma ti rendi conto?». Ma la cantante era convinta. Poi, la rivelazione: «Mi accorsi che questo signore, questo religioso, voleva tirarmi via dal mondo perché se non poteva avermi lui, così non avrebbero potuto avermi nemmeno gli altri: quando me ne accorsi, quando mi accorsi che lui mentiva, allora mi crollò il mondo». Ed è lì che, nella sua mente, scattò l’idea di compiere un gesto folle e togliersi la vita: «Per me quello fu un trauma pazzesco. Sono rimasta distrutta da questa cosa, dopo un’infanzia come la mia, senza un padre, mi ero convinta che quella fosse la mia strada. Per me è stato un dolore enorme. Però, quando poi venne a trovarmi in ospedale, e mi disse: “Come stai angelo mio?”, gli diedi un ceffone che gli fece girare la faccia. Quella fu una grande liberazione».

Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 3 febbraio 2020. L'intoppo è dietro l' appellativo. "Lo so, tra gli artisti non c' è il femminile di 'maestro', e spesso le persone si arrampicano per scovare la soluzione giusta". Qual è? "A volte mi chiamano 'dottoressa', e mi viene da ridere; 'maestra' no perché è legato alla scuola". Quindi? "Si rifugiano nel rassicurante 'maestro', e in quei momenti mi sento molto virile". Austera può sembrare, Katia Ricciarelli; austerità data anche dalla sua professione, dai ruoli interpretati, dall' ambiente frequentato, dove le regole sono dogmi e si tramandano da generazioni, teatri e sipari; salvo poi rivelare lati del carattere molto più pratici e inaspettati per parole e atteggiamenti, così all' improvviso, magari durante un argomento serio, gira la testa e le sfugge un "guarda che sta a fa' sto fijo de 'na mignotta". Dopo un secondo di incertezza, diventa chiaro il soggetto in questione: è il cane indisciplinato. Da questa sera e per tre domeniche su Rai 1, la Ricciarelli sarà tra le protagoniste di Come una madre, un giallo-dramma su una donna (Vanessa Incontrada) in fuga insieme a due bambini orfani di una madre uccisa in circostanze da chiarire; e la Katia nazionale interpreta una cantante lirica diventata barbona. "Ovvio, in gran parte sono io".

In gran parte.

«Non ero e non sono un' attrice di cinema o televisione, posso avvicinarmi a certi personaggi se affini a me stessa».

In compenso al suo esordio ha vinto un Nastro D' Argento.

«Grazie a Pupi Avati e neanche ci pensavo: uno non diventa attore a 50 o 60 anni, è un lavoro da intraprendere ben prima».

E invece

«Allora ha vinto la curiosità e la capacità di coinvolgermi di Pupi, poi ci metto del mio, quindi caparbietà e curiosità».

La definiscono precisa e pignola.

«Sul lavoro lo confermo, nella vita tutto il contrario, e a casa mica pretendo le pattine: quando parto lascio un disordine bestiale».

Aggiungono: schietta.

«Non so se è un difetto o un pregio, forse più un difetto, però non offendo mai nessuno».

Ad Andrea Bocelli ha sconsigliato la lirica per questioni di vista.

«E lo confermo, una cosa è il palco per un concerto e un' altra è l' Opera».

Lui non ci sarà rimasto bene.

«Ancora non era famoso, non aveva debuttato a Sanremo; vennero da me e dopo averlo sentito cantare, gli espressi il mio pensiero: "Nella lirica è fondamentale vedere il direttore d' orchestra e mantenere un contatto visivo pure con i colleghi".

Diretta.

«Ma è basilare! Altrimenti è come voler guidare una Ferrari».

Tipo "Profumo di donna".

«Esatto! Ciò non toglie nulla alle grandissime capacità di Andrea, che poi ha espresso».

Daniele De Rossi si è cammuffato per vedere il derby in Curva Sud. Lei per cosa si travestirebbe?

«Una rapina in banca».

Eh?

«(Ride a lungo) Vabbè, scherzo, ma non ho questa necessità di andare in qualche posto senza farmi riconoscere; comunque a volte vorrei tramutarmi in uccellino per ascoltare cosa dicono di me».

(Il cagnolino abbaia).

Ha spesso parlato della sua Dorothy.

«Le ho dato il nome della moglie di Caruso, l' ho salvata dalla strada, quando aveva pochi mesi. È morta dopo 18 anni, un dolore terribile; quando sono in macchina controllo sempre dal finestrino, ho paura di investire un animale».

Vegetariana.

«Non del tutto, evito solo gli animali piccoli; una volta ho chiamato i Vigili del fuoco per salvare una rondine, e sono venuti».

Torniamo ad Avati.

«Mi ha insegnato l' a-b-c della recitazione, prima di far parte del cast de La seconda notte di nozze avevo solo partecipato a L' Otello di Zeffirelli, ma con Franco bastava seguire la musica, navigavo nelle mie certezze, per dire "ti amo" ci mettevo un tempo infinito perché cantato, mentre il cinema vero è diverso (sorride), pure lento».

Cosa?

«Per girare un minuto impieghi un tempo impossibile, devi farla e rifarla, fino all' esaurimento».

Noioso.

«Io sono per la spontaneità».

Sempre.

«Certo, e grazie alla spontaneità mi è andata bene pure sul grande schermo, e poi con Pupi c' è ironia, anche se l' argomento è serio».

Come Shakespeare con i suoi "buffoni".

«La regola è sempre quella, serve a mantenere la concentrazione del pubblico, e Falstaff ne è l' emblema. Ah, il mio difetto era quello di recitare e gridare».

Perché?

«Abituata al teatro: sul palco è necessario mantenere un tono sempre forte per arrivare fino alle ultime file, mentre Pupi mi ha spiegato che con il cinema è il contrario: se uno abbassa i toni, obbliga lo spettatore a cercare di capire».

Un maestro.

«Quando giravamo stava tutto il tempo in ginocchio per seguire i passaggi; anche Franco (Zeffirelli) mi ha aiutata tantissimo».

Un suo grande amico.

«Oltre: un fratello. Mi ha insegnato a gesticolare di meno, a ridurre la mimica facciale, "non servono tutte queste smorfie, non stai all' Opera". Ma su un palco uno deve caricare ogni aspetto per arrivare pure alle file in fondo».

"Come una madre"

«Sì, lì in gran parte sono io. Con quel turbante nero, tutta truccata In gran parte. E ci vuole tutta la mia ironia per mostrarmi così, perché una come la Tebaldi non avrebbe mai accettato; mi sono commossa».

Davvero?

«Diventare grandi in questo ambiente non è semplice, all' improvviso arriva il tempo a portarti via lo scettro. Ci vuole dignità».

Non è semplice, dice.

«Per niente; anche per Mazzacurati ho interpretato un ruolo con sfumature non facili (La sedia della felicità). Ero una parrucchiera».

Ultimo film di Mazzacurati prima di morire.

«Persona meravigliosa, un poeta».

Fabio Testi ha raccontato al "Grande Fratello" di una storia tra di voi.

«Se c' è realmente stata, non ha avuto molto successo, perché di questo flirt non ricordo niente».

Dolore.

«Mi hanno chiamato per riportarmi le sue parole: l' ho trovato inelegante e non è la prima volta».

Con Testi?

«No in generale, oramai ne sento di tutti i colori, forse perché sono sola».

E con Sordi?

«Alt, qui è vero, ma ero giovanissima, lui già un divo, e persona molto divertente. Quando lo seppero le sorelle, arrivò la loro benedizione: "Lei va bene, ha un lavoro"».

Allora era tirchio.

«No, mi ha offerto la cena».

Ha un' ossessione?

«Neanche una, ma ho la passione per la musica, che è ben diverso, e alla musica sono riconoscente perché grazie a lei mi sono permessa tutto ciò che sognavo da ragazza (cambia discorso)».

E questa storia del Coronavirus?

«Bel guaio Io insegno a tantissimi cinesi e coreani, metterò la mascherina».

La Incontrada è stata bersagliata per il peso

«Sul set ne abbiamo parlato, e mi ha detto di essere felice così, purtroppo rompono con i social, ed è per questo che non ci sono, non intendo prestarmi a certe scenette, e non voglio sentire neanche certe frasi rivolte a me».

Teme?

«Ho i miei chiletti in più, e sono quasi sempre stata così: mi piacciono e sono normali per la mia professione».

Quando ha vinto il Nastro, gli altri attori come l' hanno presa?

«Hanno rosicato tanto, e quando l' ho ritirato ero quasi imbarazzata, quasi mi vergognavo. E li capivo».

È una dei pochi artisti da sempre dichiarata di destra.

«Però non ho mai avuto problemi sul lavoro, perché sono un' artista e ora lo dico in maniera chiara.

Cosa?

«I veri artisti appartengono al mondo, non a una parte, e chi crede il contrario è un povero deficiente».

Quindi è successo.

«Recentemente ho partecipato a uno spettacolo dedicato alla Shoah: tre serate meravigliose, e sono stata brava, e sono arrivata alle lacrime per quanto ho sentito il tema. Eppure c' è stato uno che ha protestato in quanto di destra».

È scaramantica?

«Un tempo lo ero sotto molte forme, anche le più classiche come il gatto nero; adesso no, al massimo mi concedo il segno della croce».

Superenalotto?

«Mai giocato. Preferisco le slot machine».

È giocatrice.

«Mi piacciono quelle con il poker, amo stare da sola davanti a loro, non amo giocare con altri, con il vociare, il nervosismo, e tutto il corredo; mi piace stare lì e vivermi in solitaria l' adrenalina offerta (resta zitta)».

Qui c' è un "ma".

«I tempi sono cambiati, secondo me le hanno truccate, perché non vince più nessuno, ci hanno tolto anche questo divertimento, ma nonostante questo ho più vinto che perso e a volte ho portato a casa dei bei colpi».

Di cosa ha paura?

«Di niente, neanche della vecchiaia, e se posso scegliere, preferisco morire di un colpo secco».

Cos' è la felicità?

«Quella non esiste più; quando non avevamo niente potevi sognare e magari raggiungere i tuoi obbiettivi; adesso no, ci hanno svuotato, al massimo uno deve puntare alla serenità».

A proposito di serenità, hanno raccomandato di non nominarle Baudo.

«Davvero?»

Sì.

«E perché? Oramai ci parliamo, ci siamo rivisti, non ha senso restare con il muso, troppa inutile fatica. Come dicevo prima, conta la serenità».

Giovanni Terzi per “Libero Quotidiano” il 24 febbraio 2020. La vita, sin da bambina, l' ha firmata nella sua più aspra durezza; cresciuta con la mamma e la sorella ha presto imparato come sia complicato stare al mondo e quanto ci si debba impegnare per resistere alle fatiche ed alle prove della vita. Katia Ricciarelli è uno dei più importanti soprano della storia della lirica; l' ho raggiunta telefonicamente dopo qualche giorno di attesa dovuto ad un piccolo malanno di stagione, una leggera bronchite. «Il mal di gola per una cantante è ancor più invalidante che per qualsiasi altra persona", esordisce così Katia Ricciarelli.

Lei ha avuto una infanzia difficile?

«Credo che di questo se ne sia parlato in continuazione e forse anche io sono stanca di ripetere sempre le stesse cose».

Il carattere di Katia Ricciarelli è forte e determinato e quando parla il suo racconto è reale, autentico e non fa sconti a nessuno.

Mi parli della figura di suo padre. Le è mancato?

«Come fa a mancarmi qualcosa o qualcuno che io non ho mai visto e che non ha fatto parte minimamente della mia vita. Mia madre faceva anche da padre e ha supportato la nostra famiglia in modo meraviglioso. È stato grazie a mia madre che non ho sentito l' assenza di mio papà».

Mai? Nemmeno in qualche momento particolare della sua vita?

Katia sorride. «Guardi una volta sì e sa quando?».

Mi dica, alla festa dei diciotto anni?

«Assolutamente no. Una volta litigai con una bambina ed eravamo alle elementari; mi arrabbiai e ci fu una colluttazione».

Era manesca?

«Mi faccia terminare. Venne il papà di questa bambina e mi mollò un ceffone forte, in quel momento capii che un padre mi sarebbe stato comodo ma ...».

"Ma" cosa?

«Ma arrivò mia mamma che ne diede uno al padre della bambina; lei capisce quando dico che mia madre è stata anche un padre per me».

Capisco benissimo. Lei andò in fabbrica a lavorare da giovane?

«A tredici anni iniziai a lavorare in fabbrica, ho sempre pensato di dover diventare subito il capofamiglia, mi sentivo molto protettiva nei confronti di mia mamma. Mio papà se ne andò via con una "mascalzonata" ed io volevo essere quella che sosteneva le economie della casa».

Quella che lei chiama "mascalzonata" di suo papà, ha poi influito nel suo rapporto con gli uomini?

«Non lo so. Certo io ho sempre pensato di dovermela cavare da sola, di essere autonoma economicamente. Credo che i calzoni però in casa li debbano portare gli uomini non le donne. Da una parte sono protettiva (ed ho sempre trovato uomini da proteggere) dall' altra sono molto femminile».

Lei adesso è sola?

«Diciamo che vivo da sola e ne sono felice. È difficile convivere e questo l' ho capito man mano che la vita passava».

Perché dice questo?

«Io ho i miei orari e le mie abitudini; anzi ho i miei "non orari". A volte mi sveglio alle 5 e alle 11 mangio una pasta in bianco. Alle 17 faccio la cena e alle 21 sono a letto. Ma a volte cambia tutto ed è difficilissimo farlo capire alla persona che ti sta accanto. Dovrei trovare un amico più che un amore».

La sua storia con Carreras?

«Una bellissima storia d' amore, lavoravano assieme e questo era molto bello. Lui era un farfallone amoroso, era letteralmente perseguitato da quelle che io chiamo fanatiche. Era molto bello e poi il tenore rappresentava qualcosa di speciale nell' immaginario di molte fan».

Lei ha ancora rapporti con Carreras?

«Siamo rimasti ottimo amici ed è stato un ricordo bello della mia vita».

E con Pippo Baudo?

«Siamo stati insieme diciotto anni ed è stato l' unico matrimonio. Un amore vero che poi si è concluso con tanto dolore. Oggi il nostro rapporto si è recuperato e siamo diventati amici».

Quando l' ha rincontrato?

«L' estate scorsa all' Arena di Verona per la Traviata, fece un gesto di attenzione nei miei confronti molto affettuoso».

Quale?

«Stavo andando in diretta su Rai 1 e mi disse di stare attenta ad uno scalino pericoloso».

Come è stato il vostro matrimonio?

«Emozionante, non avevamo fatto inviti e ci furono quindicimila persone a Militello».

Baudo amava l' opera?

«Sì, è sempre stato un grande melomane e la passione per la lirica ci univa».

Pensa che Baudo l' abbia mai tradita?

«Penso di no . Io ero molto gelosa e sono certa che sia stato sempre rispettoso del nostro sentimento».

Lei ascolta la musica leggera? Quali cantanti ama?

«Amo le voci graffianti come Zucchero o Cocciante ed anche Renato Zero. Faccio fatica a capire le persone che, magari partendo dalla lirica vogliono fare musica leggera e sono un po' in una terra di mezzo».

Mi faccia qualche esempio?

"Sono grandi cantanti ma non fanno impazzire me, quindi è un giudizio soggettivo; Tiziano Ferro o il Volo sono bravi ma non il mio genere».

Ha mai cantato con qualche artista leggero?

«Albano, che apprezzo per la personalità, Massimo Ranieri e di internazionali Michael Bolton».

Nei momenti difficili della sua vita ha trovato sostegno da colleghi che sono diventati amici?

«Ho sempre avuto amici al di fuori dal lavoro. Anche al Conservatorio, quando studiavo, amavo uscire con gente diversa. Amo fare esperienze e conoscere. Sono curiosa come una scimmia».

Un ricordo bello della sua vita professionale ed umana?

«Professionale, il concorso del 1971 in Rai che ci si è mi apri le porte della mia professione. Umano è certamente il matrimonio con Pippo Baudo».

Quando ha capito di avere un talento, la sua voce?

«A otto anni scappavo tra gli alberi perché pensavo che il dono della voce fosse un difetto. Invece è stata la mia salvezza».

Ultimamente Fabio Testi, nel Grande Fratello Vip condotto da Alfonso Signorini, ha raccontato di avere avuto una relazione con lei. È vero?

«Ho trovato questa uscita inelegante e villana. Conosco Fabio Testi e siamo delle stesse zone ma non c' è mai stata alcuna relazione tra noi».

Katia Ricciarelli si ferma e aggiunge: «E anche se ci fosse stata non ricordo nulla il che, non depone a favore dell' uomo».

·        Keanu Reeves.

Keanu Reeves il dolore, l’amore: «Sì, i 50 si sentono, però non ho rimpianti». Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesca Scorcucchi. L’attore Keanu Reeves con la compagna Alexandra Grant «M’immergo in un caldo bagno di dolore /nella mia stanza della disperazione/con la mia candela dell’infelicità che brucia /lavo i miei capelli con lo shampoo del rimpianto /dopo essermi pulito con il sapore del dolore». La poesia Questa sopra è la prima strofa della poesia Ode alla felicità di Keanu Reeves, uno dei personaggi più anomali, deliziosi, inquieti e fuori dal coro che l’industria del cinema abbia mai saputo concepire. Cinquantacinque anni di cui trentacinque passati sul set, l’attore, da sempre, prende cazzotti. Al cinema e nella vita. Keanu Reeves si piega ma non si spezza. Cade e si rialza, determinato e instancabile, come Neo di Matrix, come John Wick, forse i suoi due personaggi più famosi, che nel 2021 ritroveremo entrambi al cinema. Keanu, nel linguaggio delle Hawaii, terra delle sue radici, significa vento fresco che soffia sulle montagne. Nomen omen, e quel nome gentile deve aver determinato il suo destino e la sua capacità di sorridere, nonostante i colpi bassi. Il primo di questi schiaffi dalla vita l’attore, nato a Beirut in Libano, l’ha ricevuto a tre anni, quando la famiglia, che si era trasferita in Australia, si separò. La madre, Keanu e la sorella maggiore Kim andarono a vivere a New York. Il padre rimase a Sydney e conobbe persino il carcere, per spaccio di eroina. Si persero per sempre. «Ci vuole la patente per guidare, per avere un cane, persino per pescare ma non servono licenze che impediscano a un verme di diventare padre», dice l’attore nel film Parenti, amici e tanti guai, del 1989. Quel monologo era così convincente da andare oltre la recitazione. La seconda mazzata della vita arriva in gioventù, a ventinove anni quando perde per un’overdose di eroina il migliore amico, River Phoenix, il magnifico giovane attore di Stand by Me - Ricordo di un’estate. Si erano conosciuti sul set di Belli e dannati di Gus Van Sant. La terza è datata 1999 quando la compagna Jennifer Syme perde il loro bambino dopo una gravidanza durata otto mesi. Due anni dopo muore anche Jennifer, in un incidente stradale - e siamo a quattro -, la quinta botta sarebbe arrivata qualche anno dopo, quando l’adorata sorella Kim verrà colpita dalla leucemia. Se Keanu Reeves è diventato più pessimista di Leopardi, insomma, non è successo senza ottime ragioni. Eppure l’artista non ha mai perso i suoi modi gentili e la sua serenità interiore. Le avversità non sono riuscite a scalfire la sua anima bella. Nell’ambiente a Hollywood è conosciuto come «the nicest guy in the world», il ragazzo più gentile del mondo. A conferma circola su Internet un video che lo vede seduto in metrò, prima di cedere il posto a una signora. Già il fatto che prenda la metropolitana dovrebbe far notizia. Dei soldi non gli importa. Del suo ingaggio per Matrix, il film che nel 1999 lo rese famoso, ha regalato 80 milioni di dollari (su 114) in beneficenza: «Con quello che ho già guadagnato potrei vivere le prossime 100 vite», dice. A chi gli chiede il perché di tanta generosità risponde: «Perché mi va». E non gli importa neppure dell’aspetto fisico, lui che ha i lineamenti di un principe asiatico e che sembra non invecchiare. In rete circola la teoria della sua immortalità, per la somiglianza ai ritratti di Carlo Magno e dell’attore del diciannovesimo secolo Paul Mounet. Da qualche anno a questa parte Reeves nasconde il volto dietro una zazzera lunga e una barba incolta, nerissime entrambe e forse è questa - la probabile tinta - il suo unico vezzo. Un contrasto evidente con la chioma di quella che, nelle pagine di cronaca rosa, è descritta come la sua nuova fidanzata, l’artista Alexandra Grant, 47 anni. L’argento dei capelli della donna è stato oggetto di feroci critiche. Persino il fatto che fra i due passino “solo” otto anni, che Reeves non faccia come il collega DiCaprio che sostituisce la fidanzata - sempre ventenne e bionda - a ogni cambio dell’armadio, ha suscitato commenti e critiche. Per fortuna né a Reeves né alla Grant, donna che non ha bisogno di legittimazioni maschili, importa nulla di quello che pensano gli altri e questa è una meravigliosa libertà per una coppia. Era ora che, a 55 anni, Keanu Reeves ricevesse dalla vita un meritato spicchio di felicità. Lui e Alexandra Grant si conoscono e sono amici da anni. Era stato proprio quel primo volumetto, Ode alla felicità, a farli incontrare. Alexandra aveva illustrato le poesie di Keanu, con disegni così annacquati che sembravano sciolti dalle lacrime. Però lui spiega: non era tristezza vera. «Era solo sarcasmo e voglia di fare ironia. Ricordo l’attimo esatto in cui scrissi quelle poesie, ero nella cucina di un’amica, la radio passava canzoni tristi, ci scherzammo su e mi misi a comporre versi strappalacrime. Più erano deprimenti e più si rideva». Nel 2015 lui e Alexandra Grant collaborano a un secondo volume, Shadow, e l’anno seguente fondano insieme una casa editrice di libri d’arte, la X Artists’ Books. A lavorare insieme si finisce per odiarsi. O per amarsi. L’amicizia fra Keanu e Alexandra si trasforma in amore e, anche se l’unione non è mai stata ufficializzata, i due si presentano mano nella mano sul tappeto rosso dei LACMA Art + Film Gala, lo scorso novembre. Erano vent’anni che non veniva attribuito un flirt con qualche fondamento di verità all’attore libanese. Si era parlato di una storia fra Reeves e Sandra Bullock ma la realtà è che i due sono sempre stati grandi amici, dai tempi di Speed, il film del 1994 che li fece conoscere. «Avevo una cotta per lei e forse lei l’aveva per me, ma non sono stato abbastanza sveglio da accorgermene», ha recentemente dichiarato l’attore, ospite di una trasmissione televisiva. Per molto tempo Reeves ha mantenuto la sua vita privata nel più totale riserbo e ha focalizzato le sue attenzioni sulla carriera. Non molto portato agli studi, anche a causa della dislessia che lo affligge dall’infanzia, a 16 anni aveva annunciato alla madre di voler lasciare la scuola, a 20 era partito per Hollywood. «La mia fortuna è stata quella di avere le idee chiare su quello che volevo fare da grande, e quello che volevo fare era recitare». I riconoscimenti arrivano presto. A 24 anni ha già ottenuto una candidatura all’Oscar, per il film Relazioni pericolose, di Stephen Frears; cinque anni dopo, era il 1993, interpreta Siddartha nel Piccolo Budda di Bernardo Bertolucci. Il 1999 con Matrix è l’anno della consacrazione nell’Olimpo di Hollywood. «Di quel film ho mille ricordi incredibili: il senso di meraviglia della prima volta che ho letto il copione, l’incontro con i registi (i fratelli Wachowski, ora Lana e Lilly Wachowski ndr ), quello con i coprotagonisti, Laurence Fishburne e Carrie-Anne Moss, e poi ricordo di quando ho avuto a che fare con la reazione del pubblico. C’era chi non lo aveva capito e mi chiedeva spiegazioni, chi lo aveva capito subito e chi, magari anni dopo, mi ha spiegato che Matrix gli aveva cambiato la vita. A quelle persone ho sempre risposto che Matrix aveva cambiato anche la mia». Nel 2003 arrivano The Matrix reloaded e The Matrix Revolutions. Una decina di anni dopo, è il 2014, inizia la saga di John Wick, personaggio nato dagli schermi di un videogioco, che non riesce a trascorrere un minuto senza prendere o dare cazzotti. «Ogni anno che passa diventa sempre più difficile per il mio fisico», confida, «certe volte esco dal set con talmente tanti dolori da non riuscire a salire le scale di casa». Il tempo che scorre inesorabile è fonte di riflessioni: «La decade dei cinquanta si sta facendo notare. È iniziata con campanelli fisici, a un certo punto non ero più così flessibile, e poi ho iniziato a pensare che un giorno non sarò più parte di questo mondo. Prima non ci avevo mai pensato. Non ho rimpianti però, quelli vengono solo quando non vivi appieno la vita e allora in occasione della crisi di mezza età ti compri un’auto sportiva». In realtà, Keanu Reeves la crisi di mezza età l’aveva già subita un decennio prima. Compiuti i 40 si era comprato una Ferrari, poi una Porsche: «Le avevo anche dato un nome, si chiamava The Sled, la slitta, ma mi è stata rubata». Ama le gare di Formula Indie e le motociclette, con le quali non è raro vederlo sfrecciare per le strade di Los Angeles. Su una di queste ebbe anche un incidente piuttosto serio, uno scontro con un’auto che gli provocò la rottura di un incisivo e una ferita alla gamba destra. «Era così profonda che si vedeva l’osso. Non avevo idea che il bianco delle ossa fosse così tanto bianco». È anche un bravo meccanico. All’amico Laurence Fishburne ha promesso che costruirà una moto. «Ne abbiamo parlato, l’abbiamo anche disegnata. Un giorno succederà. Farò una moto su misura per Laurence Fishburne». Nel frattempo i fan aspettano il 21 maggio 2021 quando, lo stesso giorno, usciranno Matrix 4 e John Wick 4. Su Twitter è stata creata la pagina “Keanu Reeves Day”. Il countdown segna poco più di 500 giorni di attesa.

·        Kevin Spacey.

Gennaro Marco Duello per cinema.fanpage.it il 2 gennaio 2020. Kevin Spacey vince la battaglia legale, ma solo perché il suo accusatore è morto. La causa che era stata presentata dal massaggiatore che lo accusava di molestie sessuali è stata archiviata nell'ottobre 2016. L'attore si era sempre dichiarato innocente, ma con la morte del massaggiatore le accuse non possono essere dimostrate perché, si legge, manca "la testimonianza della vittima". L'archiviazione è stata rivelata dal New York Times che cita i documenti ufficiali del Tribunale di Los Angeles, ma era stata già anticipata da "The Hollywood Reporter" nel settembre 2019. Per Kevin Spacey resta una vittoria, "una rinascita" per usare le parole del suo avvocato, Jennifer L. Keller: "Non ha pagato alcuna cifra per chiudere la causa". Era noto processualmente con il nome di "John Doe", nome che viene utilizzato nel gergo giuridico statunitense quando si vuole indicare un uomo la cui identità reale è sconosciuta e tale va mantenuta. L'uomo aveva denunciato l'attore di "American Beauty", "I soliti sospetti" e "House of Cards" per aver ricevuto carezze e toccatine ai suoi genitali durante un massaggio avvenuto due anni prima, nell'abitazione dell'attore a Malibu. Kevin Spacey è uscito pulito anche da un altro processo, quello contro il cameriere di un ristorante di Nantucket. Anche in quel caso, i procuratori hanno lasciato cadere ogni accusa ma questa volta l'accusatore dell'attore è tuttora vivo e vegeto. Il ragazzo, stando alla sua iniziale ricostruzione, avrebbe approcciato l’attore sperando in un selfie, ma Spacey avrebbe finito per indurlo a bere molto quella sera, almeno 5 birre e 3 whisky, fino ad arrivare a palpeggiarlo nelle parti intime, come lo stesso ragazzo aveva dichiarato. Il ragazzo non si è però presentato al processo e il caso è stato archiviato. L'attore, 60 anni, era apparso solo pochi giorni fa in un video natalizio in cui diceva: "Se qualcuno vi attacca, uccidetelo con la gentilezza". 

Andrea Parrella per tv.fanpage.it il 25 dicembre 2019. Kevin Spacey torna a farsi vivo e di nuovo nel giorno della vigilia di Natale, esattamente come accaduto lo scorso anno, quando l'attore era ricomparso dopo mesi di silenzio proprio con un video pubblicato su Youtube, in cui interpretava di fatto il ruolo di Frank Underwwod, soppresso da House of Cards dopo l'emergere degli scandali sessuali legati all'attore. Se quello dello scorso anno fu un video discusso e visualizzato da milioni di persone, anche quello del 2019 potrebbe far discutere, perché consolida una specie di tradizione. Anche quest'anno Spacey parla come fosse Frank Underwood, lo vediamo vicino ad un caminetto, mentre racconta l'anno che è appena trascorso e che lui definisce "abbastanza buono". L'attore si dice "grato di aver riottenuto la salute" – e qui è chiaro il riferimento ad Underwood e alla fine della sua esistenza in House of cards, prima di svelare alcuni cambiamenti per il futuro. Il discorso di Spacey è un continuo intreccio tra vita personale e quella riferita al personaggio interpretato nella serie prodotta da Netflix, ma nel messaggio di quest'anno appare meno risentito e animato da un maggiore spirito natalizio. L'attore, chiedendo a tutti di seguirlo in questa direzione, si ripromette di dare il proprio voto per avere più bontà in questo mondo e, a dispetto della natura subdola del personaggio di Underwood, specifica: "Sono serio da morire. E non è difficile, credetemi. La prossima volta che qualcuno fa qualcosa che non vi piace, potete attaccarlo. Oppure, potete resistere e fare qualcosa di inaspettato: ucciderlo con la gentilezza". Sono trascorsi ormai due anni dallo scandalo sessuale che travolse Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali da più persone. Serie di accuse che ha fatto sì l'attore venisse estromesso da tutti i progetti cui stava lavorando, da House of Cards al film sulla vita di Paul Getty, Tutti i soldi del mondo. Nel frattempo lo scorso luglio, con il ritiro della denuncia da parte di William Little, il 18enne che lo aveva accusato di molestie, sono decadute le accuse nell’unico processo penale a carico dell’attore, accusato da circa 30 uomini dopo l’esplosione dell’enorme vicenda mediatica legata all’onda #MeeToo. Tutte le altre denunce sono troppo datate per essere perseguite ed essere definite reati.

Archiviata inchiesta contro Kevin Spacey perché il massaggiatore che lo accusava è morto. La conclusione decisa dal procuratore: "Le accuse non possono essere dimostrate senza la testimonianza della vittima". La Repubblica l'1 gennaio 2020. L'attore statunitense Kevin Spacey vince, seppure a tavolino, una nuova battaglia legale. La causa presentata da un massaggiatore che lo ha accusato di violenza sessuale nell'ottobre 2016 è stata archiviata per la morte del querelante. Spacey si era dichiarato innocente. L'avvenuta archiviazione è stata rivelata dal New York Times che cita documenti del Tribunale distrettuale di Los Angeles. Jennifer L. Keller, l'avvocato di Spacey, ha precisato che "contrariamente ad alcune notizie Spacey non ha pagato per chiudere la causa". A ottobre, l'ufficio del procuratore distrettuale della contea di Los Angeles ha anche affermato che Spacey non avrebbe dovuto affrontare accuse penali nel caso di violenza sessuale perché "le accuse non possono essere dimostrate senza la testimonianza della vittima". L'attore a luglio era uscito indenne da un altro processo. Kevin Spacey, che ha compiuto 60 anni a luglio ed è riapparso in pubblico lo scorso agosto a Roma per la prima volta dopo due anni dalla denuncia per molestie del 2017, era stato accusato anche da un cameriere di un ristorante a Nantucket ma il processo è stato annullato lo scorso luglio quando i procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione.

Suicida Ari Behn,  lo scrittore che accusò  di molestie Kevin Spacey. Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Corinna De Cesare. Si è suicidato all’età di 47 anni Ari Behn, lo scrittore norvegese, genero del re Harald, che nel 2017 aveva denunciato di esser stato molestato 10 anni prima da Kevin Spacey. La notizia è stata confermata dal suo agente, Geir Hakonsund. Behn aveva pubblicato il suo primo romanzo nel 1999 ma era diventato famoso nel 2002 quando sposò Martha Louise, la primogenita del re norvegese Harald V da cui ha avuto tre figlie e da cui si è separato due anni fa. Pittore e autore di tre romanzi e di un’opera teatrale, la sua ultima fatica, «Inferno», in cui raccontava la sua lotta contro il disagio mentale. Nel 2017 era stato tra gli accusatori di Kevin Spacey, il 60enne attore due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. «Magari più tardi», sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in «House of Cards», raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L’attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l’accusatore di un terzo processo è morto.

Da repubblica.it il 25 dicembre 2019. E' morto suicida a 47 anni lo scrittore norvegese Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Lo ha annunciato con "grande tristezza" il suo agente, Geir Hakonsund, "a nome dei suoi più stretti parenti". Il suo primo romanzo venne pubblicato nel 1999 ma Behn acquisì notorietà nel 2002 quando sposò la primogenita del re norvegese Harald V: i due, insieme, scrissero anche un libro sulle nozze, 'From heart to heart'. Genitori di tre figli, annunciarono il divorzio nel 2016. Due anni più tardi, uscì il suo ultimo libro 'Inferno', in cui descriveva la sua battaglia contro la malattia mentale. "Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi", ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota. Behn nel 2017 è stato anche tra gli accusatori di Kevin Spacey il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l'attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L'attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l'accusatore di un terzo processo è morto.

Norvegia, morto suicida lo scrittore Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Nel 2017 aveva accusato Kevin Spacey di averlo molestato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace. La Repubblica il 26 dicembre 2019. E' morto suicida a 47 anni lo scrittore norvegese Ari Behn, ex marito della principessa Marta Luisa. Lo ha annunciato con "grande tristezza" il suo agente, Geir Hakonsund, "a nome dei suoi più stretti parenti". Il suo primo romanzo venne pubblicato nel 1999 ma Behn acquisì notorietà nel 2002 quando sposò la primogenita del re norvegese Harald V: i due, insieme, scrissero anche un libro sulle nozze, 'From heart to heart'. Genitori di tre figli, annunciarono il divorzio nel 2016. Due anni più tardi, uscì il suo ultimo libro 'Inferno', in cui descriveva la sua battaglia contro la malattia mentale. "Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi", ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota. Behn nel 2017 è stato anche tra gli accusatori di Kevin Spacey il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo MeToo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l'attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L'attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l'accusatore di un terzo processo è morto.

Ari Behn, morto suicida lo scrittore reale norvegese: accusò di molestie Kevin Spacey. Libero Quotidiano il 26 Dicembre 2019. Si è suicidato all’età di 47 anni Ari Behn, lo scrittore norvegese che era stato il genero del re Harald e che nel 2017 aveva denunciato di esser stato molestato 10 anni prima da Kevin Spacey. La notizia è stata confermata dal suo agente, Geir Hakonsund, che non ha fornito dettagli su come si sia tolto la vita. Behn aveva pubblicato il suo primo romanzo nel 1999 ma era doventato famoso nel 2002 quando sposò Martha Louise, la primogenita del re norvegese Harald V da cui ha avuto tre diglie eda cui si è separato due anni fa. Pittore e autore di tre romanzi e di un’opera teatrale, la sua ultima fatica, Inferno, in cui raccontava la sua lotta contro il disagio mentale. Nel 2017 era stato tra gli accusatori di Kevin Spacey, il 60enne attore omosessuale due volte premio Oscar finito nello scandalo metoo per presunti abusi. Behn denunciò che nel 2007 l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. "Magari più tardi", sarebbe stata la sua imbarazzata risposta. Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte di Behn, Spacey aveva postato un video di auguri natalizi in cui, nei panni del presidente Frank Underwood da lui interpretato in House of Cards, raccontava che ora la sua salute va meglio e che sta cambiando vita. L’attore ha sempre negato gli abusi sessuali e ora non è più incriminato dopo che a luglio sono state archiviate due denunce nei suoi confronti e l’accusatore di un terzo processo è morto. Il video a Natale è diventata una tradizione per Spacey, da quando è finito al centro dello scandalo metoo ed è stato estromesso dallo star system. Il 25 dicembre 2018, sempre in un video su Twitter intitolato Let Me Be Frank (in un gioco di parole tra il nome del suo personaggio in House of Cards e la franchezza), l’attore aveva postato tre minuti pieni di doppi sensi. Nel video si difendeva dagli attacchi, rivendicava il suo personaggio fuori dalle righe e dalle regole, ed evocava il suo ritorno. In fondo, ricordava, non si era vista la sua morte, l’uscita di scena che era stata architettata dagli sceneggiatori di House of Cards per estrometterlo dopo che erano venute alla luce diverse accuse nei suoi confronti. Accuse in parte cadute: l’estate scorsa, la procura del Massachussetts ha deciso di chiudere un caso contro Spacey, accusato di molestie sessuali nei confronti di un 18enne in un presunto adescamento avvenuto nel 2016, dopo che il testimone chiave ha scelto il silenzio.

·        Kim Kardashian.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 24 ottobre 2020. Per i suoi 40 anni, compiuti mercoledì (Bilancia ascendente Sagittario, cioè senso estetico e determinazione), Kim Kardashian ha scartato «il regalo più bello mai ricevuto»: un Monopoli su misura per lei , intitolato «Kimopoly». Lo ha mostrato su Instagram ai suoi 190 milioni di seguaci (tradotto, ogni giorno seguono le sue gesta il doppio degli spettatori di un Super Bowl). Nelle carte «Occasioni» ci sono alcuni snodi della sua vita straordinaria: il reality che l' ha lanciata, il matrimonio con Kanye West, i quattro figli, la laurea in Legge che forse prenderà. Non sono pochi, per una donna che è stata a lungo considerata l' emblema della fama fine a se stessa: «famosi per essere famosi» è l' epiteto che da sempre accompagna i Kardashian. Glielo ha rivolto anche David Letterman, 73 anni, nell' intervista «alla carriera» che le ha tributato nella sua trasmissione su Netflix Non c' è bisogno di presentazioni: uscita strategicamente il giorno del compleanno, è quasi una cartella stampa/bignami sulla Kim adulta. Che ha annunciato da poco la fine del reality Al passo con i Kardashian dopo 13 anni; e ha iniziato a studiare Legge e a spendersi per svariate cause, dalla grazia chiesta a Trump per una bisnonna di Memphis in carcere da 21 anni, (e poi ottenuta) all' indipendenza del Nagorno-Karabakh, a cui ha da poco donato un milione di dollari essendo di origini armene. «Lo ammetto, io ero tra quelli che ti prendevano in giro in passato», esordisce Letterman, 73 anni. E attacca: voi Kardashian, famous for being famous «Spero proprio di non offenderti, David», ha replicato lei serafica al conduttore tv più celebre degli Stati Uniti. «Ieri ho detto alle mie sorelle Kendall e Kylie (24 e 23 anni, ndr ): ragazze, vado da Letterman. E loro mi hanno chiesto: e chi è?». La puntata è stata registrata a marzo: allora Kim aveva 162 milioni di follower, 30 milioni meno di oggi. «Siamo in transizione verso una comunicazione tutta social», dice lei, anticipando l' addio alla tv che ha poi annunciato a settembre. «Ci credo», abbozza Letterman. «I numeri della tv comparati ai tuoi sono minuscoli. Io non sapevo cosa fosse l' intimo modellante, poi tu su Instagram ne lanci una linea (Skims, ndr ) e in un giorno vendi quattro milioni di pezzi». Lei sorride dell' ovvietà. Il suo patrimonio personale, stimato da Forbes , è di 900 milioni di dollari. Chi è più ricco tra lei e il marito rapper Kanye West? In un eventuale divorzio, che qualcuno dice imminente, non litigherebbero sui soldi. «Siamo perfettamente pari», risponde lei. Letterman glissa pietosamente sulla candidatura di Kanye alla Casa Bianca, ventilata in estate; lei sulla domanda «chi voterai?» (ma le sue battaglie legali l' hanno notoriamente avvicinata a Trump). Ora, a quarant' anni, Kim è praticamente Re Mida. Anche al contrario: nel 2018 le bastò twittare «Ma qualcuno va ancora su Snapchat?» per far perdere al social 1,3 miliardi di dollari. Eppure, dice, «nel mio primo appartamento a volte non arrivavo a pagarmi l' affitto». Ed è vero: prima che il suo reality partisse, nel 2007, Kim era solo la stylist semi-sconosciuta di Paris Hilton. Fu la madre Kris, che dopo il matrimonio con Bruce Jenner si trovava otto figli sotto lo stesso tetto senza che il clan fosse davvero ricco, a capire che toccava monetizzare (e da allora prende il 10% degli incassi di ciascun figlio). Convinse il produttore Ryan Seacrest a dedicare ai Kardashian un reality, format su cui la tv di allora puntava tutto; il trucco fu usarlo per mettere in scena una vita più capricciosa e ricca di quanto potessero davvero permettersi, e diventare così influencer ante litteram. Ora l' azienda Kardashian ha un brand per tutti i gusti, dalla body positivity dei vestiti di Khloè ai trucchi di Kylie. Zero costi di marketing: fanno tutto dai social. «Sembrarlo significa diventarlo», che per molti è il segreto della fama di Kim, è soprattutto la spiegazione della sua ricchezza.

·        Kristen Stewart.

Marzia Nicolini per "vanityfair.it" il 10 ottobre 2020. Kristen Stewart si è lasciata alle spalle i tempi in cui per tutti era la Bella di Twilight e si accompagnava al collega di set Robert Pattinson. L’attrice e modella californiana, 30 anni, ha fatto coming out una decina di anni fa, dichiarando ai media di essere queer, aggettivo che dal punto di vista delle preferenze sessuali indica il non voler essere racchiuso né nell’etichetta di eterosessuale, né in quella di omosessuale. Libertà di scelta, insomma. In copertina sul numero di novembre di InStyle, Kristen Stewart ha rilasciato un’intervista molto intima a Clea Duvall, la regista che l’ha diretta nel nuovo film Happiest Season, raccontando quanto sia stato complicato per lei affrontare i paparazzi e le copertine dei giornali quando, verso i 20 anni, ha iniziato a frequentare ragazze. Per sentirsi a proprio agio e fare pace con l’attenzione morbosa dei media alla sua vita sentimentale e, soprattutto, al suo orientamento sessuale, l’attrice ha raccontato di aver impiegato anni e anni, non senza fatica. «La prima volta che sono uscita con una ragazza, mi è stato subito chiesto se fossi lesbica. E dentro di me ricordo di aver pensato: “mio Dio, ho appena 21 anni”. A volte mi è sembrato di aver ferito le persone con cui sono stata. Non perché mi vergognassi di essere apertamente gay, ma perché non mi piaceva offrire un’etichetta al pubblico.  C’è stato un periodo in cui ho preferito restare un passo indietro, essere cauta nelle dichiarazioni. In fondo, anche nelle mie precedenti relazioni eterosessuali, abbiamo sempre fatto tutto il possibile per non essere fotografati mentre eravamo in momenti intimi, solo nostri. A un certo punto si è aggiunta la forte pressione di rappresentare un gruppo di persone, di rappresentare l’essere queer. La sentivo su di me, questa pressione, ma non capivo l’importanza delle mie dichiarazioni», ha spiegato l’attrice nel corso della lunga intervista. Aggiungendo: «anche se i miei genitori erano perfettamente ok con il mio frequentare ragazze, non posso affatto dire sia stato facile. È stata dura. È stato strano. E so che è così per tutti».

·        Lacey Starr.

Barbara Costa per Dagospia il 19 dicembre 2020. Io di menopausa so niente, non ho idea di cosa mi succederà, spero non mi venga la voce da maschio, però ci metterei la firma per viverla la metà della metà di come se la vive la signora Lacey Starr. Mrs. Lacey Starr è una donna inglese che il 1 gennaio 2021 compirà 61 anni e che fino ai 53 ha rigato dritto: nata a Cambridge, master in psicoterapia e in art therapy, un marito, 3 figli, 5 nipoti. Quasi 3 decenni passati a insegnare, e a seguire i suoi pazienti in ambulatorio. Tutto questo fino al 2013, quando si è ritrovata “beatamente… divorziata!”. Lacey tradiva il marito già da 8 anni, con uomini più giovani, coi quali faceva sesso di nascosto in hotel, in auto, sesso che “mi ha rigenerata: mi sono scoperta ancora desiderabile. Il sesso con i ragazzi ti dà fiducia”. Liberatasi da un matrimonio sessualmente basico, noioso, Lacey si è regalata 2 vibratori cominciando a ogni giorno masturbarsi con loro e/o con video porno di cui ignorava l’esistenza. Tuttavia non è rimasta single per molto, fidanzandosi con un uomo che le ha fatto conoscere le gioie del sesso a tre, di gruppo, scambista. Sebbene Lacey, alla prima proposta di fare entrare qualcun altro nel loro letto, al nuovo fidanzato abbia risposto “con un pugno in faccia”, ha presto cambiato idea, rivelandosi pure bisessuale. A 53 anni, Lacey ha capito che sesso e amore possono essere realtà distinte, e si è messa a organizzare feste scambiste a casa sua. In uno di questi affollati appuntamenti, Lacey ha fatto amicizia con una coppia che le ha proposto di esibirsi hot, nuda, in cam, e non nonostante l’età, ma "per" la sua età. Lacey lo ha fatto, per gioco e, dopo una settimana di camming, le è arrivata una mail di uno studios porno olandese, che la invitava a girare per loro. Lacey ci ha pensato su 2 giorni, è volata in Olanda, si è ritrovata in una casa “dove tutti erano carini, gentili, mi hanno presentato il mio partner di scena, un ragazzo bellissimo e dotatissimo”. Lacey ha girato con lui “e questo stallone mi ha fatto godere, davanti, dietro, oralmente. Non mi ero mai sentita così libera, e così a mio agio. Lì l’unico problema era la lingua”, e va inteso come idioma! Tornata in patria, Lacey si è licenziata in tronco, buttandosi nel porno “e non sono più tornata indietro”. Un po’ con incoscienza, molto in serietà e faccia tosta, in 7 anni Lacey si è conquistata un posto di prim’ordine nel porno inglese, e non ci pensa affatto a smettere: ha fondato "Lacey Starr Productions", che distribuisce i suoi lavori anche negli Stati Uniti, ha girato a oggi circa 600 porno “per 10000 orgasmi, con 1000 partner, uomini e donne, dai 19 ai 70 anni”, ci tiene a precisare. Lacey gira, filma, produce, è un nome di punta di "TelevisionX", canale top del porno UK, e i suoi fan la adorano, la seguono sui social, anche se Instagram l’ha bannata 5 volte, e Twitter una. Al momento Lacey ha due profili twitter (vari sono quelli gestiti dai fan), ha intenzione di aprirne uno con relativo sito di "porn boobs", di porno incentrato sui seni, la parte del suo corpo che riscuote maggiore entusiasmo in chi la guarda e la sceglie per briosi onanismi. E infatti, zero scuse: Lacey Starr è tra le poche nel porno a mostrare – filtri a parte – fisicamente la sua vera età, è intatta chirurgicamente, i suoi seni non sono pompati, i suoi glutei sono mosci e cellulosi, e Lacey ce l’ha a morte con un sito che le ha "tagliato" le grinze su cosce e pancia. Il figlio più piccolo di Lacey ha scoperto che la mamma aveva cambiato lavoro ritrovandosela sui siti porno di cui era (è?) utente; gli altri figli erano però già stati informati della novità. Lei dice che l’hanno presa bene. Ignoro se i suoi nipoti abbiano già l’età idonea per essere edotti sull’avere una nonna talmente speciale! Il porno fa emergere una attrazione per il "vecchio" che in verità c’è sempre stata: è nata con la nascita dell’umanità. I siti porno ne danno evidenza, e legittimazione. Inutile nascondersi: tra i fan di Lacey – e delle altre porno-nonne – ci puoi essere tu, io, c’è la gente comune. Ci sono coloro che si scaricano "Dr. Lacey Sex Therapist" o "Granny Butt Fuck", per godere vedendola godere analmente sottomessa. Ci sono di sicuro tutti quegli uomini che via social le mandano le foto dei loro peni in erezione a omaggio del suo lavoro, e per chiederle giudizi della loro "prestanza". Giudizi che Lacey dà, lei che non si offende ad essere oggetto di sexting spinto, lei che però serve pareri spesso taglienti. Tra chi spasima per lei c’è chi, pre-pandemia, riempiva i form di casting su Laceystarr.com: "Fuck-a-Fan" è una sezione lanciata da Lacey per trovare fan da far partecipare ai suoi video bukkake e di gang-bang (sì, li fa, non c’è porno-pratica che Lacey disdegni!). La signora Lacey Starr non è un fake, non si vergogna di com’è e di quello che fa, ne è orgogliosa e si bea se la chiami nonna, anche se lei ama definirsi “una ragazza matura”: su di lei puoi dire tutto, sapere tutto, tranne quanto pesa – informazione top secret! – lei che per prima ammette che “non è così che dovrei comportarmi stando vicino alla pensione, però mi sto divertendo così tanto che la pensione può attendere!”. Lacey ha un solo, grande rimpianto: “Avere iniziato col porno a 53 anni, e non a 23. Quanto tempo e quanti orgasmi mi sono persa?”.

·        Lady Gaga.

Mattia Marzi per "Il Messaggero" il 22 settembre 2020. Certe sue fragilità erano venute a galla già tre anni fa nel documentario Gaga: Five Foot Two, su Netflix: le telecamere di Chris Moukarbel l'avevano ritratta come una popstar insicura e instabile, alle prese con seri problemi di salute (la fibromialgia di cui soffre, che causa dolori muscolari diffusi in tutto il corpo, la spinse nel 2017 a stoppare la tournée legata all'album Joanne) e disturbi comportamentali causati dallo stress. Lady Gaga è tornata a mettersi a nudo in un'intervista concessa domenica a Lee Cowan durante il programma Sunday Morning della Cbs, raccontando stavolta il lato oscuro del successo, come prima di lei hanno fatto tante star del pop e del rock internazionale (lo scorso luglio era toccato al cantautore britannico Ed Sheeran: «Cocaina e alcol mi facevano stare bene, poi mi ammalai»). E rivelando di aver avuto pensieri suicidi.

IL SINGOLO 911. Quello che ha spinto la 34enne popstar statunitense - 30 milioni di dischi venduti in tutto il mondo - a lasciarsi andare è stata l'uscita del singolo 911 (è il numero unico per le emergenze negli Usa), accompagnato da un video in cui la cantante racconta in maniera metaforica i suoi disturbi mentali.

LA NEMICA. «La mia più grande nemica? È Lady Gaga. Da quando sono diventata famosa non posso andare a fare la spesa o cenare al ristorante con la mia famiglia, perché sono sempre al centro dell'attenzione e i fan si avvicinano per chiedere foto e autografi. Vado nel panico e comincio a sentire dolori in tutto il corpo. Mi sento un oggetto, non una persona. Per Lady Gaga ho rinunciato completamente a me stessa», ha detto Stefani Germanotta - è il suo vero nome - alle telecamere dell'emittente americana. La fama le ha presentato un conto altissimo: «C'è stato un periodo in cui ho odiato essere famosa. Non è sempre facile mostrarti agli altri se hai problemi mentali. Pensavo: Perché dovrei continuare a vivere?. Non trovavo altre ragioni per essere viva se non per la mia famiglia. Per un paio d'anni sono rimasta chiusa in casa, con persone che mi sorvegliavano per assicurarsi che fossi al sicuro». Uscire dal tunnel della depressione, combattuta assumendo farmaci antipsicotici, non è stato semplice.

IL SOCCORSO. Alla fine la musica è venuta in suo soccorso («La mia voce è la mia forza», dice d'altronde in italiano, la lingua dei suoi nonni, che dalla Sicilia emigrarono negli States all'inizio del Novecento, nello spot che ha realizzato per la nuova fragranza firmata Valentino): «Mi sono messa al piano e le nuove canzoni mi hanno aiutata a ritrovare il modo per tornare ad amare me stessa».

·        Lando Buzzanca.

Anticipazione da “Oggi” il 16 gennaio 2020. I figli di Lando Buzzanca, Massimiliano e Mario, come rivelato dal settimanale «Nuovo», si sono rivolti a un giudice tutelare per nominare una persona scelta da loro o dallo stesso giudice che gestisca il patrimonio del padre. «Questa cosa mi fa stare molto male. Certo, sono anziano… ma ragiono ancora bene… Ho deciso di vendere la mia casa perché ci sono troppi ricordi legati a mia moglie; qualche anno fa voleva acquistarla la compagna di mio figlio Massimiliano ma io ho rifiutato. E adesso, di colpo, sono diventato rimbambito», dice a OGGI Lando Buzzanca. Nell’articolo, che OGGI pubblica nel numero in edicola, l’attore conclude: ««Tutto andrà a finire che gli darò la casa e io me ne andrò tranquillo». Mentre il figlio Massimiliano dà la sua spiegazione, ben diversa: «Nessuno della famiglia, ma proprio nessuno, ha mai minimamente pensato di voler interdire papà … Abbiamo chiesto al giudice tutelare che gli sia assegnata una persona di fiducia che possa amministrare al meglio le sue proprietà. Lui non è mai stato abituato a occuparsi delle questioni economiche, lo faceva mamma. E le cose sono peggiorate da quando ha avuto un’ischemia nel 2014… a me, sinceramente, dei soldi di papà non me ne può fregare di meno. È giusto che se li goda, cerchiamo solo di tutelarlo».

·        Laura Pausini.

Laura Pausini: «Così racconto a mia figlia dei nostri veri eroi negli ospedali, contro il coronavirus». Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Pausini. In tutta la mia vita non ho mai pensato neanche per un momento che avremmo potuto vivere in una situazione come questa. Negli ultimi ventisette anni sono salita e scesa da aerei praticamente ogni giorno, ci sono stati momenti in cui nello stesso giorno mi trovavo la mattina in Italia, il pomeriggio in Francia e la sera in Spagna. Lo scorso anno ho fatto un concerto la sera a Cuba e il giorno dopo ero a Madrid per la finale di The Voice. Tutto questo è sempre stato normale per me, l’ho sempre considerato un mio dovere per cercare di restituire la fiducia che il pubblico mi ha dato, pensando che «se mi fermo non mi merito ciò che ho». Stare una vita in viaggio però non è semplice, specialmente quando diventi mamma e tua figlia inizia a fare le elementari, così quest’anno mi ero decisa di passarlo a casa, con la mia famiglia e senza viaggiare ma adesso che sono qui ferma, in una situazione sicuramente di privilegio ma comunque rinchiusa, mi sembra tutto assurdo. Cerco di spiegare a Paola, che adesso ha 7 anni, quello che sta succedendo perché le sue domande sono diventate sempre più insistenti, come credo quelle di ogni bambino che si trova a dover comunicare con i compagni e gli insegnanti tramite lezioni via internet. Mi chiede: «Quando tornerà tutto come prima?» e mi spiazza. Non è facile trasferirle che il mondo dei suoi supereroi, che siamo noi adulti, non è ancora riuscito a fermare un piccolissimo essere microscopico che sta uccidendo migliaia di persone. Non è facile cercare di tenere solida la sua fiducia per un futuro che noi genitori vediamo sempre più complesso. Le parliamo sempre con dolcezza, anche usando le favole, ma da sempre la trattiamo come un essere umano intelligente e sveglio quale è. Le diciamo tutto, sarebbe una delusione per lei scoprire che le stiamo nascondendo la realtà. Le spieghiamo anche cosa significa avere un virus, come si può curare e il perché gli scienziati, i virologi, i dottori e tutto il personale sanitario sono i nostri veri eroi. È una situazione assurda per il nostro Paese, con un numero altissimo di contagi, ma io voglio credere che uniti e rispettosi delle regole ce la faremo a superare anche questo momento. Siamo italiani e di difetti ne abbiamo, ma le virtù di questo nostro Paese sono tante, è arrivato il momento di portarle in scena come solo noi sappiamo fare. Per far vedere a tutti che siamo un’unica bandiera che sventola nei balconi delle nostre finestre chiuse, che si aprono per cantare e mandare messaggi d’amore, unione e speranza. Siamo quelli che fanno turni di lavoro impossibili negli ospedali per non lasciare indietro nessuno. Siamo quelli che di fronte alle calamità naturali ci siamo fatti coraggio, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo veramente ricostruito il Paese. Siamo quelli che aiutano i nostri padri e i nostri nonni, perché siamo capaci di amare senza riserve. Noi, siamo pieni di contraddizioni come tutte le forme d’arte più speciali che abbiamo creato: siamo i disegni dei quadri, le parole delle poesie e siamo i portici, le chiese e le mura dalla scultorea bellezza. Siamo capaci di perdere la pazienza, ma siamo anche un popolo perseverante. Quando le altre nazioni raccontano di noi, parlano di gente che fa casino, ma siamo anche l’obbedienza e molti moltissimi di noi, lo stanno dimostrando: siamo diventati un esempio, e credetemi io mi sento lusingata quando mi chiamano i miei amici da Londra, o da Parigi, da Madrid o da New York, dal Messico e dal Brasile, mi mandano le foto di Venezia, mi scrivono frasi di affetto in italiano e inviano video di ringraziamento con immagini dei nostri medici. E sono proprio loro a farmi sentire orgogliosa di essere italiana. Ma d’altronde come può non essere cosi? Se io fossi straniera vorrei essere italiana, e quando vinco un premio ovunque io sia il mio primo pensiero è per la mia terra, e ne vado fiera. Dobbiamo essere fieri di noi stessi, perché il «nostro dopo» sarà un nuovo Rinascimento, il nostro «poi» sarà favoloso, perché noi saremo i più bravi del mondo a ricostruirlo. Dobbiamo ricordarcelo bene questo senso di vicinanza, questo desiderio che ci scoppia dentro al cuore di abbracciare le persone che amiamo. Dobbiamo ricordarci questo sentire che ci accomuna tutti, dobbiamo ricordare questa voglia di fare, di aiutare, di donare, di vivere i drammi di tutti come propri. Io ad esempio ho scelto la Croce rossa dell’Emilia-Romagna per stare vicino alla mia regione, ma tantissimi stanno facendo dei gesti straordinari, ognuno come può. È questo sentimento, questa grande generosità, questa passione, che ha reso l’Italia il posto più incredibile della terra. Un uomo senza piedi non resta in piedi, e il mondo senza il suo Stivale può anche continuare a ruotare, ma non avrà mai la forza di trovare una direzione e una stabilità. Ha bisogno dell’Italia, e l’Italia siamo noi.

·        Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

VI RICORDATE ROMINA E DEBORA, LE RAGAZZE DEL “CALIPPO E DELLA BIRA” PER SFUGGIRE AL CALDO?

DAGO-TRASCRIZIONE il 9 luglio 2019. Giù l’asciugamano, con la birretta in mano, tutti incastonati sembra un tetris disumano, sul lettino del vicino, Calippo è il paradiso, come dalla D’urso e il suo salotto (???) L’estate ci chiama, la gente ci ammira, siamo pronte a far festa, andiamo fuori di testa. Portame al mare, o ‘ndo te pare, pijame na bira che ‘ncho na lira.

Da tiburno.tv il 5 agosto 2020.

Debora vorrei tornare indietro di dieci anni, a quel video che ha reso te e Romina famose.  Ogni tanto lo riguardi?

«No, no a meno che qualcuno non me lo faccia rivedere»

E quando te lo fanno rivedere che pensi?

«Che disagio»

Perché? 

«Beh diciamo che era nato un po’ tutto per scherzo. Ero in spiaggia e ho visto Nicola Veschi con la telecamera allora ho detto “namo là e se famo fa’ un’intervista”. Romina l’ho conosciuta quel giorno. Eravamo nella stessa comitiva ma io ero partita con un’altra ragazza che era una mia amica. Quando ho visto il giornalista e le ho chiesto di andare a farci intervistare lei si vergognava, quindi Romina si è proposta di venire con me. Ma era per fare le cretine. E così è stato, ci è riuscito bene. Da lì siamo diventate amiche. Per fortuna, anche perché altrimenti non avremmo mai fatto tutte quelle cose insieme»

Quanto è rimasto della vecchia Debora e quanto invece sei cambiata e cresciuta?

«Sono maturata tanto. È rimasta quella parte un po’ più scema di me che però vedono solo gli amici più stretti. Che con gli altri tendo a nascondere. Quella parte un po’ bambina che abbiamo tutti. Dall’altra parte però sono consapevole di essere una persona adulta, soprattutto in ambito lavorativo. E poi sono mamma, devo stare dietro alla bambina, alla scuola»

Sei mamma? Complimenti!

«Sì, si chiama Jennifer. A settembre fa otto anni»

Com’è il tuo rapporto con lei?

«Abbiamo un bel rapporto, lei ha un carattere uguale al mio quindi ci scontriamo spesso. Poi lei è molto quadrata. Mamma non fare così, mamma non dire così, sempre a farti le foto. Oppure mi prende in giro e mi sgrida quando mangio la banana con la nutella. Dice che faccio la cicciona. E poi dice che a scuola ero un’asinella mentre lei è brava».

Visto che ti rimprovera sulla dieta, lei fa sport?

«Ha fatto karate, danza classica e ora reggaeton»

Chi ti aiuta co lei quando sei a lavoro?

«Mia mamma o l’altra nonna, per fortuna sono molto presenti».

E il padre? 

«Anche lui è molto presente, anche se non stiamo più insieme mi dà sempre una mano con Jennifer»

Adesso sei fidanzata?

«No, felicemente single!»

E il tuo ragazzo ideale come dovrebbe essere?

«Ride ndr. Non lo so, io ho una calamita per i disagiati. Infatti mi dico sempre “mo apro una casa famiglia e li metto tutti là dentro!”»

Che intendi per disagiato?

«Fino ad adesso mi sono capitati tutti casi umani. L’ultimo ragazzo, Samuele, all’inizio sembrava il principe azzurro. Poi invece con il tempo ho scoperto che aveva qualche problema con l’alcol. Fino a poco tempo fa ancora mi scriveva, un tormento. Veniva anche sotto casa mia. Per farti capire che tipo è, una volta stavamo tornando a casa e si è fermato davanti alla chiesa di Quintiliolo perché voleva sposarmi a tutti i costi. È entrato con la birra in chiesa, ci mancava che io entrassi col calippo! Il prete era sconvolto. Gli ho fatto l’occhiolino come per dire “assecondalo, non sta bene con la testa”. Quindi il prete ci ha dato le catenine con la madonnina e Samuele voleva per forza decidere una data di matrimonio. Ha scelto il 15 luglio. Quindi nella sua testa noi circa due settimane fa ci siamo sposati»

Dove lavori?

«Lavoro come onicotecnica al Tempio del Sole, a Villalba. Non sembra, ho ‘ste unghie un po’ brutte. Ma si sa, il calzolaio va in giro con le scarpe rotte»

Lavori tantissimo, per programmare questa intervista ci abbiamo messo del tempo.

«Sì, però non mi pesa perché faccio un lavoro che amo. Poi ho un bellissimo rapporto con le mie clienti. Una di loro mi ha invitata al suo matrimonio. Quando sono in negozio a volte entrano e magari sto servendo già un’altra cliente, però loro comunque vengono da me e mi chiedono “insomma, com’è andata con quel ragazzo ieri sera?”. Secondo me vengono più per sapere il seguito dei miei racconti che per sistemarsi le unghie»

Oltre al lavoro, quali sono i tuoi hobby e le tue passioni? 

«Le mie passioni sono il mio lavoro, mia figlia e passare il tempo libero con i miei amici. Mangiare poi è il mio passatempo preferito. Mi piace di tutto, questa sera andrò a mangiare fuori con un’amica. Inizialmente eravamo orientate sul sushi, poi abbiamo cambiato programma e abbiamo deciso per un panino da “Pippo”. Probabilmente ricambieremo idea nel tragitto per andare lì»

Quando vai in giro la gente ti riconosce?

«A volte sì. Qualche giorno fa una ragazza mi ha riconosciuto dalla voce. Sono cambiata tanto esteticamente, però la voce è rimasta quella. Vabbè comunque la gente quando mi riconosce si diverte, fa vedere il video a tutti»

Il Calippo lo prendi ancora?

«L’ho ripreso ultimamente dopo un sacco di tempo perché avevo il trauma»

Trauma? Hai brutti ricordi di quella esperienza?

«No, è stata una bella esperienza. Tra alti e bassi, perché c’è la gente più pesante ma anche la gente tranquilla che si fa una risata. Come in tutte le cose ci sono pro e contro, però io l’ho sempre vissuta bene»

Debora Russo in tre parole.

Solare. Ritardataria – tranne che sul lavoro – infatti le mie amiche mi aspettano sempre le ore sotto casa. Stanno lì a fa’ la muffa. E poi spensierata. Vivo nel mio mondo, non penso tanto ai problemi ma rido sempre. Se il mondo cade, io mi sposto».  

Su Instagram insieme a Romina hai un profilo che si chiama “Le Calippe”.

«Non la stiamo usando più, però la pagina c’è ancora»

Avete fatto anche uscire un video musicale.

«Sì. Ci ha scritto un ragazzo che fa il dj e ci ha proposto di fare una canzone, visto che era appena uscita la canzone di J-Ax “Ostia Lido”. La nostra canzone si chiama “portame al mare”. Però ha fatto tutto lui perché io e Romina non semo mica capaci a fa’ niente. Noi ci abbiamo messo solo la faccia. Però ci siamo divertite un sacco, abbiamo conosciuto molta gente. Poi J-Ax ci ha anche contattate e ci ha invitate al suo concerto»

Tu e Romina siete ancora amiche, qual è il vostro segreto?

«Credo che il fatto che non ci vediamo spesso. Lei adesso è fidanzata, ha il ragazzo in Calabria quindi fa su e giù. Anche lei lavora, in un negozio di abbigliamento»

Oggi cosa rimane del successo che avevate dieci anni fa?

«In realtà non molto. Ma io l’ho sempre vissuta in modo molto tranquillo. Non mi sarebbe piaciuto e non mi piacerebbe tutt’ora lavorare in televisione. Non mi piace quel mondo. La gente è strana. Quando sono stata ospite di Barbara D’Urso con Romina per esempio c’erano persone che in sala trucco non ci consideravano, poi una volta arrivate in studio ci parlavano ed erano gentili. Ma che problemi hai!?»

Siete state da Barbara D’Urso?

«Sì, due volte. Ma niente di particolare. Ci ha chiesto del nostro successo, se ce lo aspettassimo. Poi c’era anche un altro ragazzo, Denis Dosio, e mi ha fatto ballare con lui. Abbiamo preso questa esperienza per quello che era, una cosa poco seria e molto autoironica. Mi sono anche insultata da sola in trasmissione».

·        Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Silvia Provvedi rompe il silenzio dopo l’arresto del fidanzato Giorgio. Notizie.it il 26/06/2020. Per Silvia Provvedi non è un periodo molto facile. La gioia e l’amore per la nascita della figlia Nicole, si sono subito trasformate in paura e panico. Giorgio, il famoso Malefix del Grande Fratello Vip, infatti, è stato arrestato. Tanti sono state le critiche e gli attacchi che sia Silvia che Giulia hanno subito. Le due ragazze sono state costrette a bloccare i commenti sotto le loro foto. Per qualche giorno, l’ ex fidanzata di Fabrizio Corona, ha preferito la riservatezza e si è allontanata dai social. Solamente oggi, 26 giugno 2020, ha rotto il silenzio. Del resto, mai come in questi giorni, Silvia ha bisogno di affetto e di amore non solo per lei ma anche per la sua piccola Nicole. La cantante si è limitata a commentare con un piccolo cuore sotto la sua ultima foto. Silvia non ha voluto minimamente accennare alla questione di Giorgio per dedicarsi interamente alla piccola Nicole. Ha pubblicato una tenerissima foto, in bianco e nero, con la piccolina nata qualche giorno prima. Del resto, la delusione é tanta. Dopo molti anni passati con Fabrizio Corona, Silvia era convinta di aver finalmente trovato la persona giusta con cui condividere il resto della sua vita. Così non è stato. Il parto non è stato semplice. Silvia ha raccontato di aver subito un taglio cesareo. Adesso, grazie alla figlia, tutto sembra essere passato. Il futuro di Silvia Provvedi é quanto mai incerto. Non si sa cosa sarà del suo rapporto con Giorgio. Quel che è certo è che Nicole le sarà sempre vicino.

Bruno Palermo per “il Messaggero” il 25 giugno 2020. «Fidanzato da oltre un anno con Silvia Provvedi, che in un famoso reality (Il Grande Fratello Vip) trasmesso nell'autunno del 2018, lo ha sempre indicato con il soprannome di Malefix». Questo è quanto scrivono gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria nella informativa che compone l'ordinanza di custodia cautelare della Direzione distrettuale antimafia reggina nei confronti di 21 persone, tra i quali appunto Giorgio De Stefano, il fidanzato di Silvia Provvedi del duo Le Donatelle che, dicono subito gli investigatori è «totalmente estranea all'inchiesta». Giorgio De Stefano già Condello Sibio, è figlio dello storico boss del rione Archi di Reggio Calabria, Paolo De Stefano, al quale dal 2017 è stato riconosciuto il cognome del padre. Per gli inquirenti «è da ritenersi il più valido rappresentante delle propaggini operative della cosca De Stefano a Milano, dove si è trasferito negli ultimi tempi». Ed è a Milano che Giorgio e Silvia diventano una coppia, frequentando il jet set della movida e gli ambienti vip della capitale della moda. La loro relazione è talmente felice che da poco tempo sono diventati genitori di una bimba. Ma la storia sentimentale di Silvia Provvedi sembra maledetta e costellata di bad boys. Una storia che conduce sempre alle porte del carcere e ai tribunali. Era stata lei, infatti, ad accompagnare in quasi tutte le udienze e ad andare a prendere il suo fidanzato dell'epoca, Fabrizio Corona, all'uscita dal carcere di San Vittore oltre due anni fa. Una storia d'amore travagliata che finì in malo modo. Ora un'altra volta il carcere, quello che ha chiuso le porte alle spalle dell'attuale compagno, Giorgio De Stefano, le cui accuse sono pesanti, a partire dall'associazione a delinquere di stampo mafioso. È una misura cautelare al momento, ma Silvia potrebbe rivivere ancora le aule dei tribunali e le sale colloquio dei carceri. Malefix è il nome dell'operazione. Secondo la Procura antimafia di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, potrebbe aver in qualche modo frenato un nuovo conflitto di ndrangheta, visti i tanti tentativi di scissione da parte di una famiglia soprattutto, i Molinetti, che le indagini della Squadra Mobile e dello Sco hanno rivelato. Propositi di un nuovo conflitto di ndrangheta che, con tutta probabilità, era stato anche rallentato dall'emergenza Covid-19, ma che gli investigatori sono riusciti a monitorare anche nei mesi dell'emergenza sanitaria. Tra le maglie dell'inchiesta sono finiti elementi di vertice, luogotenenti e affiliati alle potenti cosche dei De Stefano-Tegano e Libri che operano nella città di Reggio Calabria, ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione mafiosa, diverse estorsioni, detenzione e porto illegale di armi, aggravati dal metodo e dalla agevolazione mafiosa. 

Alessia Candito per "repubblica.it" il 24 giugno 2020. Ventuno persone, tutte appartenenti all'élite dei clan di Reggio Calabria, le famiglie De Stefano-Tegano e Libri, più i quadri alti del clan Molinetti, sono finite in manette fra Reggio Calabria, Milano, Como, Napoli, Pesaro, Urbino e Roma. Fra loro non ci sono solo noti boss, ma anche chi ha - quanto meno formalmente - vestito i panni di un rampante imprenditore, pur continuando a comandare da giovane boss. Si tratta di Giorgetto De Stefano, il "Malefix" compagno di Silvia Provvedi, del duo "Le Donatella", ex di Fabrizio Corona appena diventata mamma. Lui è figlio illegittimo del boss Don Paolino, riconosciuto come "di famiglia" dai fratellastri che in tarda età gli hanno anche consentito di prendere anche il cognome dello storico boss e un ruolo di peso negli affari criminali di famiglia. E nelle guerre. Al centro dell'indagine della procura antimafia di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri, gli assetti e gli affari dei clan nella città di Reggio Calabria, terremotati dai tentativi di scissione che hanno creato tensioni tali - hanno rivelato le indagini della Squadra Mobile e dello Sco - da far temere un nuovo conflitto, disinnescato forse solo dal lockdown imposto dalla pandemia di Covid 19. In manette o raggiunti da nuove accuse in carcere ci sono tre generazioni criminali, dai capi storici del clan De Stefano Tegano, i "signori" di Archi con un posto da sempre riservato nel direttorio strategico che governa tutta la 'ndrangheta in Calabria e non solo, ai giovani e rampanti boss. Quelli come Mico Tegano (indagato e già in carcere perché protagonista di un'altra inchiesta antimafia), tenuti a casa a vigilare sulle strade ed esplorare le frontiere più avveniristiche del business criminale, come il mondo delle scommesse on line, e quelli come Giorgetto De Stefano, spediti al Nord Italia per far girare i soldi di famiglia e smettere di dare nell'occhio, ma pienamente integrati nelle dinamiche mafiose "di casa". Lontano da indagini e parenti, Giorgetto De Stefano da tempo era stato spedito a Milano. Sotto la Madonnina faceva la bella vita, frequentava il jet set, si presentava come giovane e rampante imprenditore, fra i proprietari del noto ristorante "Oro" frequentato da vip e calciatori. Negli ultimi tempi era diventato anche "l'ossessione" dei rotocalchi di cronaca rosa, tutti a caccia delle sue immagini mano nella mano con Silvia Provvedi, già concorrente del Grande fratello vip e componente di un duo musicale insieme alla gemella Giulia. I due hanno appena avuto una figlia, Nicole, di cui mamma e zia annunciano la nascita su Instagram. Li hanno beccati solo poche volte, l'ultima a Dubai, mentre la comprensibile riservatezza del suo lui, allergico a social e riflettori, ha impedito alla starlette il consueto book di foto su instagram e facebook. Per molto tempo anche il nome della nuova fiamma della Provvedi è rimasto un mistero, poi svelato dai giornali di gossip. Quando lei partecipava al noto programma televisivo lo chiamava "Malefix" e professava grande amore, mentre lui organizzava passaggi aerei sulla casa per manifestarle i suoi sentimenti. Di lui, Silvia Provvedi ha detto "è una persona molto speciale". Ma Giorgetto "speciale" lo era soprattutto per la famiglia. Quando il clan chiamava, tornava a vestire i panni del giovane boss, per conto dei De Stefano incaricato a sedare tensioni, imporre accordi, dettare regole. Poteva farlo grazie al peso del casato mafioso di cui è arrivato a portare il nome. È stato lui, insieme al fratellastro Carmine De Stefano, a spegnere le velleità di emancipazione della famiglia Molinetti, storicamente braccio armato del clan, con ansie di nuovi spazi. Complici arresti e processi che hanno spedito, anche per lungo tempo, dietro le sbarre capi e quadri dello storico casato mafioso, i Molinetti avevano iniziato ad avanzare pretese, pretendere pezzi di territorio - come il periferico quartiere di Gallico, teatro di omicidi e frizioni negli ultimi anni - ruoli di vertice, quote di profitto. Nati come gruppo di fuoco dei clan di Archi durante la seconda guerra di 'ndrangheta, hanno iniziato a pretendere di più dalla casa madre. Un problema che Giorgetto De Stefano ha risolto personalmente. Per qualche giorno ha abbandonato salotti e starlette per tornare a vestire ufficialmente i panni del figlio di don Paolino e incontrare da pari Alfonso Molinetti, fratello del capo storico Luigi, in soggiorno obbligato fuori dalla Calabria. Forte dell'investitura pubblica e ufficiale ricevuta come "erede" del potere dei fratellastri, con l'anziano boss ha fatto valere il peso del proprio casato. Tutti passaggi documentati minuziosamente dagli investigatori della Squadra Mobile e dello Sco, che adesso raccontano una storia diversa del misterioso "imprenditore dagli occhi di ghiaccio" che ha fatto dannare i rotocalchi con la sua riservatezza. Adesso a parlare di lui è un'ordinanza di custodia cautelare, notificata nella notte a lui e ad altre 20 persone, tutte accusate a vario titolo di associazione mafiosa, diverse estorsioni in danno di imprenditori e commercianti, detenzione e porto illegale di armi, aggravati dal metodo e dalla agevolazione mafiosa. Pagine in cui non si contano le estorsioni, le violenze, le periodiche riunioni per definire modi e metodi del rastrellamento condiviso del pizzo a Reggio Calabria. Pagine di un romanzo criminale, che per Giorgetto De Stefano finisce dietro le sbarre di una cella.  

 “Foto scambiate, non sono un boss”: la rabbia dell'ex di Silvia Provvedi. Le Iene News il 27 giugno 2020. In passato Federico è stato fidanzato con Silvia Provvedi, la showgirl del duo “Le Donatella”, neomamma e da qualche giorno nella bufera dopo l’arresto per ‘ndrangheta del suo attuale compagno. Alcuni media, sbagliando clamorosamente, hanno diffuso la sua foto scambiandolo per l’uomo arrestato: “Ora ho paura e sto male, questo errore mi ha rovinato anche sul lavoro”. Uno scambio di persona in foto da parte dei media sta costando molto a un giovane dj argentino, Federico Chimirri, volto noto per la partecipazione a “Uomini e Donne” ed ex fidanzato di Silvia Provvedi. Federico ci ha mandato il video che vedete qui sopra per raccontarci tutto. Nel 2018 è stato fidanzato appunto per un breve periodo con la showgirl del duo “Le Donatella”. Ora è stato scambiato in foto per Giorgio De Stefano, attuale fidanzato di Silvia Provvedi finito in questi giorni in mezzo a una bruttissima storia di ‘ndrangheta. Giorgio De Stefano, all’anagrafe Giorgio Sibio Condello, è stato stato appena arrestato infatti nell’ambito di una operazione della Direzione distrettuale Antimafia che ha fermato, nell’operazione “Malefix”, 21 persone che sarebbero tutte legate a vario titolo ai clan di Reggio Calabria De Stefano-Tegano e Libri. Federico, che da anni vive e lavora come dj a Formentera, è ovviamente completamente estraneo a tutta questa vicenda ma la sua foto, abbracciato a Silvia ai tempi del loro amore, è stata pubblicata da alcuni media come se si trattasse di Giorgio: per lui è scoppiato il finimondo. Potete vedere qui sotto una di queste foto, con tanto di didascalia sbagliata..."Tantissimi giornali, blog, pagine Instagram hanno pubblicato la mia foto con il titolo ‘arrestato boss della ‘ndrangheta’”, ci racconta Federico. “Sono iniziati da quel momento una serie di problemi, per me e per quanti collaborano con me. Io lavoro con la mia immagine, faccio il dj ed è successo che centinaia di persone hanno iniziato a scrivermi e a chiedermi informazioni e ho perso anche tantissime date di lavoro. Se molte testate, soprattutto blog, hanno fatto immediata rettifica dopo che sono state contattate dal mio legale, altri giornali continuano a lasciare in pagina la mia fotografia e neanche rispondono alle mie email. Mi lamento per la superficialità di alcuni giornalisti che senza nemmeno verificare rovinano l’immagine di una persona, che è anche la fonte del suo lavoro. Questa situazione mi ha causato anche un sacco di stress: lo dico per farvi capire il potere della stampa, soprattutto quando commette errori di questo tipo. Io non mi fermo: con il mio legale andremo avanti a tutelare la mia immagine. Voglio ringraziare Le Iene per questa possibilità”.

Silvia Provvedi parla dopo l'arresto del compagno: "A lui rinnovo il mio amore e la mia vicinanza". Silvia Provvedi ha rotto il silenzio dopo l'arresto del compagno attraverso un post su Instagram nel quale continua a sostenerlo, rinnovandogli sempre di più il suo amore. Francesca Galici, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. Dopo lunghi giorni di silenzio, Silvia Provvedi ha rotto il silenzio sull'arresto del compagno Giorgio De Stefano con l'accusa di essere a capo di una 'ndrina insieme a suo fratello. La metà delle Donatella è intervenuta su Instagram condividendo un post che la vede cullare tra le braccia la sua bambina, nata pochi giorni prima dell'arresto del padre. Sono stati giorni concitati per Silvia Provvedi e per sua sorella Giulia, che adesso dovranno rimboccarsi le maniche per dare alla bimba tutta la serenità di cui ha bisogno, mentre la giustizia lavorerà per accertare la verità. "Ritengo doveroso dire due parole alle tantissime persone che mi vogliono bene e che mi stanno esprimendo solidarietà. Vi ringrazio di cuore, davvero tutti", ha esordito Silvia Provvedi sotto la foto in bianco e nero che la ritrae insieme alla bambina. "Non parlerò più di questa triste vicenda, che ha coinvolto me e tutta la mia famiglia, fino alla conclusione delle indagini, perché penso che sia una mancanza di rispetto nei confronti di una magistratura in cui ho sempre creduto e credo tutt'ora", prosegue la ragazza, che adesso dovrà fare i conti con una realtà inaspettata. Gli uomini della Squadra Mobile di Milano hanno prelevato l'uomo giovedì mattina attorno alle 4, quando De Stefano e la sua famiglia si trovavano a casa di Silvia Provvedi. Pare che l'impianto di condizionamento non fosse funzionante quel giorno nella loro abitazione e così, per dormire serenamente e per garantire alla bambina il miglior clima, hanno deciso di trasferirsi momentaneamente a casa della gemella di Giulia, che li ha accolti a braccia aperte. "Sono venuti a prendermi", avrebbe detto De Stefano quando è suonato il citofono prima dell'alba. Da quel momento sia Giulia che Silvia Provvedi, che condividono lo stesso profilo Instagram, si sono chiuse nel silenzio in atesa degli accertamenti. Giorgio De Stefano pare fosse un esponente di spicco dell'omonima famiglia, una delle più potenti della zona di Reggio Calabria. A Milano gestiva uno dei ristoranti del centro più alla moda, frequentato da tantissime celebrità. Il suo nome ha iniziato a circolare quando ha deciso di mandare un aereo alla sua fidanzata durante la partecipazione al Grande Fratello Vip. Una frase romantica e una firma, "Malefix", che è stata poi utilizzata per nominare l'operazione condotta dalla Dda di Reggio Calabria, che l'ha portato in carcere. Silvia Provvedi non ha abbandonato il suo uomo ora che lui si trova in difficoltà ma, anzi, continua a sostenerlo: "Al mio compagno Giorgio rinnovo sempre di più il mio amore e la mia vicinanza".

·        Led Zeppelin.

Chiusa la battaglia legale per "Stairway to heaven". Hanno vinto i Led Zeppelin. Pubblicato martedì, 06 ottobre 2020 da Ernesto Assante su La Repubblica.it. Il bassista degli Spirit, Mark Andes, assieme agli eredi di Randy California, morto nel 1997, aveva lanciato una azione legale per violazione del copyright perché sosteneva che il brano fosse troppo simile alla loro "Taurus". La lunga battaglia legale che ha visto al centro uno dei brani cardine della storia del rock, Stairway to heaven è finita: La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di non riaprire il caso, chiuso con la vittoria dei Led Zeppelin contro gli eredi del musicista e leader degli Spirit, Randy California. Quindi, secondo la legge, Jimmy Page e Robert Plant non hanno copiato Taurus, brano degli Spirit scritto da Raqdny California. La controversia era arrivata fino alla Corte Suprema dopo una vicenda giudiziaria iniziata nel 2014, quando il bassista degli Spirit, Mark Andes, assieme agli eredi di Randy California, morto nel 1997, aveva lanciato una azione legale per violazione del copyright contro Page e Plant e un'ingiunzione per bloccare ogni pubblicazione dell’album, IV dei Led Zeppelin. Lo scopo era quello di ottenere la firma di California sul brano, il cui arpeggio introduttivo di chitarra assomigliava a quello di Taurus.  Se l’azione legale avesse avuto successo gli eredi non avrebbero comunque ricevuto nulla dei passati guadagni della canzone, stimati attorno ai 550 milioni di dollari, ma solo i compensi relativi ai diritti per i profitti futuri. Nell’aprile del 2016 il giudice di Los Angeles Gary Klausner decise che le somiglianze erano sufficienti per andare a processo e per dare modo a una giuria di decidere. La giuria il 23 giugno successive stabilì che non c’erano sufficienti elementi di somiglianza per dare ragione agli eredi e votò all’unanimità in favore dei Led Zeppelin. Nel 2017 ci fu la richiesta di appello, accolta nel 2018. Nello scorso marzo la Corte d’Appello di San Francisco sentenziò ancora a favore dei Led Zeppelin, ma  lo scorso agosto, gli eredi hanno presentato un procedimento per il riesame degli atti processuali chiedendo alla Corte Suprema degli Stati Uniti di intervenire, cosa che la corte ha deciso di non fare, non riaprendo il caso e chiudendo in maniera definitiva la controversia. Il caso è stato sotto i riflettori non solo per la fama della canzone, uno dei cinque brani più popolari dell’intera storia del rock, ma anche perché avrebbe aperto un grande fronte di battaglie legali tra autori che hanno usato gli stessi giri di accordi per centinaia se non migliaia di altre canzoni, creando un’importante precedente nel campo del diritto d’autore, com’è stato già per un'altra sentenza controversa, quella di Blurred Lines di Pharrell Williams e Robin Thicke, in cui i giudici diedero invece ragione agli eredi di Marvin Gaye ravvisando la somiglianza con Got to give it up del grande autore afroamericano, più nelle atmosfere e nei suoni che non nella reale sostanza del brano. Nel caso degli Zeppelin c’è lo stesso giro di accordi, arpeggiato in maniera leggermente diversa, e un “clima” simile, ma le canzoni, secondo i giudici americani, non hanno abbastanza elementi di somiglianza per definire un plagio.

·        Lele Mora.

Lele Mora, la terribile confessione: "Tentai il suicidio sigillandomi naso e bocca con i cerotti che tenevano insieme l'abat-jour rotta". Libero Quotidiano il 19 luglio 2020. Anche Lele Mora ha dovuto fare i conti con la giustizia italiana. L'ex agente dei vip ha raccontato uno dei momenti più bui della sua vita: il carcere. "Premesso che sono contrario a qualunque droga e che l’unica polvere bianca è quella sui mobili di casa, sono stato condannato per evasione fiscale, bancarotta e favoreggiamento della prostituzione nel processo Ruby - racconta a L'Arena -. Passai 13 mesi di completo isolamento in un cubicolo nel carcere di Opera, controllato a vista, con 40 gradi d’estate, senza un ventilatore". Una situazione complicata perché come lo stesso Mora descrive le condizioni erano pessime: "Niente fornello per cucinare. Mangiavo solo tonno. Frutta e verdura dovevo tenerle al fresco nel lavandino in cui mi lavavo. La finestra con doppie sbarre era priva di vetri, per impedirmi atti autolesionistici. D’inverno la temperatura scendeva quasi a zero. Ottenni un piumone solo grazie al certificato dello psichiatra". Ma un atto autolesionistico a quei tempi ci fu: "Sì - confessa - tentai il suicidio sigillandomi naso e bocca con i cerotti che tenevano insieme l’abat-jour rotta. Mi risvegliai in infermeria. Ma non parliamone, è un ricordo terribile", liquida il brutto ricordo aggiungendo però che ora la depressione fa solo parte del passato.

Stefano Lorenzetto per “L’Arena” il 19 luglio 2020. Quello di Lele Mora più che un racconto è un romanzo d’appendice a puntate, degno di “Guerra e pace” almeno per la lunghezza dell’atto di nascita – Dario Giulio Alessandro Gabriele – che gli attribuisce Wikipedia, «assolutamente falso», smentisce l’interessato, «sono registrato all’anagrafe come Dario e battezzato Gabriele per volontà di mia madre, due nomi soltanto». Conobbi Mora nel 1989 a Verona, nello studio dell’avvocato Roberto Scaravelli, in lungadige Matteotti. Era reduce dal cosiddetto «processo per la coca dei Vip». Mi affidò il memoriale delle sue allegre serate con Patty Pravo, Diego Armando Maradona, Claudio Caniggia, Gustavo Delgado. E ottenne così la sua prima copertina su un settimanale nazionale. Ora, al nostro quarto incontro, scopro che ha vissuto in un convitto di Adria retto dalle orsoline e dalle francescane angeline, che ha studiato per cinque anni dai gesuiti, come Jorge Mario Bergoglio, e che diventò amico del futuro cardinale Pietro Parolin, attuale segretario di Stato vaticano. Per fortuna ha cambiato strada, altrimenti la Chiesa avrebbe potuto ritrovarsi con un papa Lele I. Si è accontentato di essere il pontefice massimo della tv, «l’80 per cento dei palinsesti dipendeva da me», arrivando in 40 anni di attività a diventare l’agente di oltre 500 star dello spettacolo e dello sport fra le più amate dal pubblico. Abbiamo tutti creduto che avesse cominciato come parrucchiere. Invece mi spiega che ha insegnato all’Istituto tecnico alberghiero di Bardolino per tre anni, dopo averlo frequentato fino al diploma, e che, ben prima dei ristoranti di Milano (uno in società con Simona Ventura), ha gestito la trattoria Il Capriolo a Quinto di Valpantena, nell’hotel dismesso usato di recente dalla prefettura per alloggiarvi 40 immigrati.

Lele Mora – «l’unico italiano immune dal Corona virus, nel senso di Fabrizio», si prende in giro – nasce a Bagnolo di Po (Rovigo) il 31 marzo 1955 da genitori contadini. Il padre si chiamava Arno, «perché fu partorito sull’omonimo transatlantico che riportava in Italia mio nonno e la moglie, una brasiliana conosciuta a San Paolo, dov’era emigrato in cerca di fortuna». La madre, Almerina Pavan, era originaria di Castagnaro. «Da quando è morta, nel 2017, non rivolgo più la parola alle mie due sorelle, offeso dal modo in cui hanno amministrato i suoi risparmi».

I Mora ebbero sei figli. Uno morì di broncopolmonite a 18 mesi dalla nascita. L’agente dei divi si sposò il 3 ottobre 1974 con Maria Giovanna Girardi, napoletana. Dal matrimonio nacquero Diana, 44 anni, e Mirko, 40.

La coppia divorziò nel 1982. «Manteniamo un rapporto meraviglioso. Mia moglie era gelosissima, senza motivo. No, non delle attrici stupende che frequentavo: di Barbara, un’amica». Mora è già bisnonno: Giulia, la primogenita di Diana, l’anno scorso ha partorito Rachele. È toccato a Mirko Mora, sposato con una modella, tenere alti i vezzi alfabetici del padre: i figli Lorenzo, 4 anni, e Ludovica, 3, hanno consentito di perpetuare il monogramma LM che dava il nome all’agenzia di famiglia. Il manager dello spettacolo se l’era fatto dipingere persino sulla coda del suo aereo, un Falcon 5 da 10 posti, confiscatogli dai giudici.

Ma il jet era a noleggio?

«No, mio. Tenevo due piloti e una hostess a libro paga. Per portare gli ospiti nella sua villa in Sardegna».

Un po’ esagerato.

«Per la verità, le ville a Cala Granu di Porto Cervo erano due, costruite a mia immagine e somiglianza, con le piscine che s’intrecciavano. E l’aereo mi serviva anche sulle rotte internazionali. I vip non usano i voli di linea. Mandai a prendere Dustin Hoffman negli Stati Uniti e Leonardo DiCaprio a Parigi, mentre stava girando “La maschera di ferro”. A farmi conoscere Leo fu il marito della giornalista Chiara Geronzi, figlia di Cesare, il banchiere».

Come divenne agente dei vip?

«Il mio amico Paolo Rossi, il Pablito del Mundial 1982, mi presentò Giampiero Malena, manager di Pippo Baudo e Beppe Grillo, il quale mi aprì la strada dicendomi: «Sei paziente, educato, premuroso. Perché non ti cimenti nel lavoro che faccio io?». Così mollai l’Istituto alberghiero per dedicarmi a Patty Pravo, Loredana Bertè e Nilla Pizzi. Senza rimpianti per la cattedra. Insegno ancora. Ho tenuto corsi in Scienza della comunicazione allo Iulm di Milano, alla Ca’ Foscari di Venezia, all’Università Roma Tre e alla Federico II di Napoli. Ma non serve la laurea? Ne ho sette ad honorem».

Non doveva diventare prete?

«Si trattava di una generica vocazione a fare del bene, nata vedendo mio padre che dopo ogni mietitura regalava sei sacchi di grano ai gesuiti. A 18 anni capii che era meglio se mi sposavo. Mi trasferii a Verona. Una bellissima signora, vedova e senza figli, abitante in vicolo Disciplina 10, mi affittò una delle tre camere dove ospitava gli studenti. Mi mantenevo lavorando in Bra, al ristorante Pedavena. Dopo le nozze, andai ad abitare in vicolo Tre Marchetti e poi a Madonnina di Prabiano, tra Villafranca e Valeggio. Dove ospitava Patty Pravo, Maradona, la Bertè da poco sposata con il tennista Björn Borg, e il figlio di Alain Delon, Anthony. Eh, ho perso il conto di quelli che venivano lì: Sylvester Stallone, Fiorello, Ornella Vanoni, Fred Bongusto, Jovanotti, Eros Ramazzotti, Ornella Muti, Pamela Prati, tutte le ragazze di “Non è la Rai”, Pierre Cosso, il protagonista del “Tempo delle mele”, e Clayton Norcross, il Thorne di “Beautiful”. Ogni giorno era un set diverso».

Come riusciva ad attovagliare così tante vedette?

«Me le portava una cara amica, Giannina Facio, la ex di Julio Iglesias, attuale compagna di Ridley Scott, il regista di “Blade Runner” e “Il gladiatore”. Aveva addirittura preso il domicilio fiscale a casa mia».

Ma che motivo avevano costoro di venire in campagna da lei?

«Era un eden. Cucinavo per loro i polli ruspanti e le verdure dell’orto. O li portavo a mangiare i tortellini sul Mincio. Allora perché ha abbandonato il paradiso terrestre? Mentre partecipavo a una serata con Elenoire Casalegno, irruppero i banditi armati di pistole. Cercavano la cassaforte. I miei genitori si spaventarono a morte. Poi si scoprì che uno dei rapinatori era un carabiniere. Bibi, un mio amico, fungeva da palo. Così nel 1998 decisi di traslocare a Milano».

Quanto incassava dai divi?

«Se erano famosi, il 10 per cento del loro cachet. Se lo erano un po’ meno, il 20. Se li creavo io, arrivavo al 50. Oggi continuo a fare il talent scout, ma non ho più una mia agenzia. Mi occupo di star internazionali. Nel 2019 ho portato Madonna all’Eurovision. Lavoro con i Gente de Zona. Sa chi sono?» 

Confesso la mia ignoranza.

«Un gruppo musicale cubano, quello di “Bailando”. Hanno raggiunto 25 miliardi di visualizzazioni su Youtube. Sono venuti all’ultimo Festival di Sanremo. Due anni fa un capo di Stato di cui non posso fare il nome voleva invitare Lady Gaga a una cena riservata in Cecenia. Gli organizzatori si rivolsero a me: accontentati. Ho trascinato Paris Hilton e Pamela Anderson a Kiev per l’elezione di Miss Ucraina. Lì però ho mandato mio figlio Mirko, perché ho una pecca: parlo francese, tedesco e spagnolo, ma non spiccico una parola in inglese».

Ma dopo le varie condanne non si era convertito al volontariato?

«L’ho fatto per due anni mentre ero in affidamento ai servizi sociali nella comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Aiutavo la mensa dei poveri della Chiesa ortodossa e la onlus Pane quotidiano. Sto mettendo in piedi un centro di ippoterapia per bimbi Down. Fare del bene è l’unica cosa che mi riempie di gioia. Non dovrei parlarne».

Che ha combinato con Irene Pivetti e le mascherine antivirus?

«Non c’entro. È una montatura giornalistica costruita su una vecchia intercettazione telefonica in cui parlavo con l’ex presidente della Camera di un prestito di 80.000 euro che mi aveva chiesto. Irene è una donna molto ingenua. Si è fatta fregare da un fornitore cinese e si ritrova indagata per frode».

In quanti processi è stato coinvolto, dopo il primo per la coca?

«Premesso che sono contrario a qualunque droga e che l’unica polvere bianca è quella sui mobili di casa, sono stato condannato per evasione fiscale, bancarotta e favoreggiamento della prostituzione nel processo Ruby. Passai 13 mesi di completo isolamento in un cubicolo nel carcere di Opera, controllato a vista, con 40 gradi d’estate, senza un ventilatore. Niente fornello per cucinare. Mangiavo solo tonno Rio Mare. Frutta e verdura dovevo tenerle al fresco nel lavandino in cui mi lavavo. La finestra con doppie sbarre era priva di vetri, per impedirmi atti autolesionistici. D’inverno la temperatura scendeva quasi a zero. Ottenni un piumone solo grazie al certificato dello psichiatra».

Una camera di tortura.

«All’entrata, il 20 giugno 2011, pesavo 118 chili. Quando uscii, l’1 agosto 2013, ero 48. Mia figlia aveva organizzato un concerto per i detenuti: mi fu impedito di parteciparvi. Il primo volto amico che vidi fu quello del cardinale Loris Capovilla, già segretario di Giovanni XXIII. In precedenza mi era apparso in cella padre Pio».

Nientemeno.

«Sono molto affezionato al santo di Pietrelcina. Alla vigilia della pandemia, sono stato a pregare sulla sua tomba a San Giovanni Rotondo. Era devoto alla Beata Vergine del Pilastrello, quella che piangeva nel santuario di Lendinara. Anche. Quando torno a Bagnolo Po, passo sempre ad accendere una candela e a comprare i rosari da regalare agli amici. E pure a Benito Mussolini. È l’altra mia religione».

Soffre ancora di depressione?

«No, l’ho curata».

In cella tentò il suicidio.

«Sigillandomi naso e bocca con i cerotti che tenevano insieme l’abat-jour rotta. Mi risvegliai in infermeria. Ma non parliamone, è un ricordo terribile».

La salvò l’agricoltura.

«Il direttore mi autorizzò a coltivare un orto nella discarica del carcere. I miei figli mi spedivano per posta le sementi. Non potendo avere il concime, mi fu concesso di allevare 20 quaglie in gabbia. Usavo il loro sterco come fertilizzante. Regalavo verdura a tutti».

Teme di ritornare in galera?

«Più della morte. Dovrebbero andarci solo gli assassini, i pedofili e i mafiosi»

Come conobbe Fabrizio Corona?

«Me lo presentò nel 1998 un photoeditor. Si qualificava come press agent, in realtà comprava immagini dai paparazzi e le vendeva ai giornali. Gli ho insegnato tante cose belle, lui ha fatto tante cose brutte. Simona Ventura mi disse: «O ti stacchi da Corona o ti lascio».  Non la ascoltai e lei cambiò manager. Lo mollai nel 2010».

Che definizione ne darebbe?

«Molto furbo. Non intelligente, ma brillante. Affetto da smania di protagonismo e bramosia di denaro. Gli regalai otto auto di lusso, l’ultima una Bentley, e gli diedi i soldi per comprarsi l’appartamento di via De Cristoforis a Milano, poi sequestratogli dalla magistratura. Al cuor non si comanda».

Lei rivelò che eravate amanti.

«Mai detto. Gli ho voluto molto bene, lo consideravo un figlio adottivo. Quanto al sesso, lo faccio a casa mia, a porte chiuse, non sui giornali».

Però non querelò chi lo scrisse.

«Seguo i tre consigli della mia mamma. Primo: non prendertela per nulla, perché sono due fatiche, una ad arrabbiarti e una a fartela passare. Secondo: non uccidere la gente, perché muore da sola. Terzo: non spazzare mai la neve, perché poi viene il sole e si scioglie».

Nel 1975 aprì a Verona, in via Unità d’Italia 98, il Lele club, primo locale gay della penisola.

«Prima era chiamato «il bar delle mutandone». Lo gestivano due sorelle che mostravano gli slip quando si arrampicavano sugli scaffali per prendere la grappa. Un posto un po’ perverso, ma dove non si faceva sesso. Lo frequentavano politici, giornalisti, imprenditori, calciatori e pure qualche prete, attirati dai militari di leva della vicina caserma Duca di Montorio, giovani e belli».

Era frequentato da trans. Ava, Iva e Stefania.

«Tutti morti, poverini».

Il Dipartimento per le Pari opportunità vieta l’uso del maschile.

«Beh, ora della fine erano uomini, o no? La prima aveva più di 70 anni, era stupenda. Si credeva Ava Gardner. La seconda si era rifatta il naso per sembrare Iva Zanicchi. La terza la tolsi dal marciapiede: batteva a Porta Nuova. Federico Fellini venne con Giulietta Masina a Madonnina di Prabiano e restò incantato: «Ma qui siamo in un film! Questa non è “La dolce vita”: è “La grande vita”».

Anni fa lei mi disse: «I gay presto diventeranno maggioranza». Mi sa che aveva ragione.

«Quando arriveranno al 51 per cento, gli invertiti sarete voi».

E il sesto comandamento? Lo chiedo al prete mancato.

«Lo modificherei così: fa’ quello che vuoi, ma non fare quello che faccio».

Ma lei non portava le donne da incanto a Silvio Berlusconi?

«Sì. Aveva la mania delle cene tricolori. Dall’antipasto pomodoro, mozzarella, basilico al gelato pistacchio, limone, fragola. Mai il secondo. Si rideva e si scherzava. Andati via i cortigiani, di notte il re si ritrovava da solo con i suoi soldi. Mi pare umano che cercasse di svagarsi. Ma non si è mai permesso di chiedermi il numero di cellulare di una ragazza».

Però le regalò 3 milioni di euro.

«Per non farmi fallire. La metà se la trattenne Emilio Fede che intercedette a mio favore. Nella lettera c’era scritto che avrei restituito il prestito, senza interessi. Me lo impedì la giustizia, facendomi fallire».

Fatturava 100 miliardi di lire l’anno, possedeva due Bentley e due Porsche, organizzava feste per 2.000 persone in Costa Smeralda. Com’è potuto accadere? 

«Non lo so, non ho mai tenuto i conti. Adesso posso vivere con 1.000 euro al mese o anche con 100».

Errori ne avrà pur commessi.

«Uno: aver aperto a Riccardo Iacona e alla troupe di “Tutti ricchi”, mandata da Michele Santoro, le porte delle mie ville in Sardegna. Mi sentivo un dio. Sbagliai a mettermi in mostra. È da lì che cominciarono i miei guai».

Le è rimasto qualche amico?

«Gli amici sono come i meloni: devi aprirne 100 per trovarne uno buono. Mi resta Massimo Scolari, uno svizzero che organizza eventi. Spesso viaggiamo insieme, ma io non ho i soldi per seguirlo nei Paesi esotici che frequenta».

Dalla sua vita movimentata che cosa ha imparato?

«È meglio stare con la famiglia. Gli altri ti usano, soprattutto quelli a cui fai del bene».

·        Le Las Ketchup.

Le Las Ketchup, dal tormentone «Aserejé» a Sanremo, fino al disastroso concerto di soli 22 minuti. Il trio spagnolo, one-hit-wonder nel 2002, è ancora in attività e ha un tour europeo in programma. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Barbara Visentin. Pilar, Lola e Lucia: tre sorelle spagnole, figlie d’arte, nei primi anni Zero hanno dato vita alle Las Ketchup. Un gruppo che ha avuto fortuna con una sola canzone, «Aserejé», grande tormentone dell’estate 2002 con ritornello scioglilingua e relativo balletto, che le ha rese una one-hit-wonder. Ma il trio, a dispetto degli scarsi risultati discografici, è ancora in pista e sarà in tour anche nel 2020.

Il nome. Le tre sorelle Las Ketchup hanno scelto questo nome per ricollegarsi idealmente al padre, Juan Muñoz, un importante chitarrista di flamenco il cui nome d’arte è «El Tomate», il pomodoro. E il loro disco di debutto, quello che contiene anche «Aserejé» si intitola proprio «Hijas del Tomate», figlie del pomodoro.

Il balletto. Vi ricordate la coreografia? Con il suo mix di flamenco ed Europop, «Aserejé» era anche accompagnato da un video che illustrava le mosse per ballare la canzone in gruppo, un po’ come una nuova Macarena. Fu quello uno dei motivi che resero il brano così popolare nell’estate del 2002, facendolo andare al primo posto delle classifiche in tantissimi paesi e vendendo più di 7 milioni di copie.

A Sanremo. Nel 2004 le Las Ketchup calcarono anche il palco dell’Ariston: furono invitate come coriste da Danny Losito, in gara a Sanremo con il brano «Single». La canzone raccontava di un uomo abbandonato a cui manca la lasagna cucinata dalla sua ex: Losito e Las Ketchup si classificarono ventesimi, cioè terzultimi della gara.

La parentesi in quattro. Due anni dopo, nel 2006, le Las Ketchup hanno rappresentato la Spagna all’Eurovision Contest in una formazione a quattro a cui si era aggiunta la sorella Rocío. La canzone, «Un Bloodymary», rimaneva sul tema «pomodoro», ma non ottenne grande successo: le ragazze arrivarono 21esime e anche il loro secondo album, intitolato proprio «Un Bloodymary», non incontrò il favore del pubblico.

Un concerto di 22 minuti. E oggi? Dopo una lunga pausa e qualche apparizione sporadica, le Las Ketchup hanno ripreso a calcare i palchi, nuovamente in tre. È del 2018 la notizia di un loro disastroso concerto in Finlandia, durato solo 22 minuti e cominciato con quasi tre ore di ritardo: la scaletta, come si vede sul sito setlist.fm, consisteva di un brano iniziale, della hit «Aserejé» e poi di nuovo del loro tormentone ripetuto come bis, per un totale di tre canzoni eseguite. Ma il trio non si dà per vinto e attualmente sul proprio account Instagram ha pubblicato una lunga file di date anche per il 2020.

·        Le Lollipop.

Le Lollipop, girl band italiana: dal boom alla brutta avventura a Sanremo fino alla reunion. Nate grazie a un talent show televisivo nel 2001, sono diventate famose con la hit «Down down down». Barbara Visentin il 25 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera.

Una girl band nata in tv. Erano considerate le Spice Girls italiane, la nostra girl band nazionale: ricordate le Lollipop? Cinque ragazze che sono diventate un gruppo grazie alla vittoria del talent show «Popstars» nel 2001, programma condotto da Daniele Bossari su Italia 1. Anche il nome del gruppo viene scelto dal pubblico. Marta Falcone, Dominique Fidanza, Marcella Ovani, Veronica Rubino e Roberta Ruiu, imponendosi su molte altre aspiranti popstar, iniziano la loro avventura musicale e ottengono successo immediato.

Le Spice Girls italiane. La canzone per cui le Lollipop sono più conosciute è «Down down down»: brano in inglese che viene pubblicato proprio al termine del talent show televisivo di cui sono trionfatrici. La canzone vola al primo posto della classifica italiana, ottiene prima il disco d’oro e poi il disco di platino. Dopo questo debutto fortunato, le Spice Girls italiane pubblicano il primo disco «Popstars» e si imbarcano in un tour.

I fischi a Sanremo. Nel 2002 le Lollipop partecipano al Festival di Sanremo con il brano «Batte forte». La loro performance sul palco dell’Ariston, però, non è fra le più memorabili. Fra fischi e stonature, si classificano penultime e vengono stroncate dalla critica. «Sanremo fu per me un disastro psicologico spaventoso», dichiarò in un’intervista Dominique Fidanza, una delle cinque componenti.

Lo scioglimento. Dopo un secondo album «Together», pubblicato nel 2014, l’avventura del quintetto arriva al capolinea: il gruppo si scioglie, fra risultati al di sotto delle aspettative, litigi e incomprensioni che iniziano a minare l’equilibrio interno delle cinque ragazze. Ogni pop band, però, ha le proprie reunion, insegnano i colleghi internazionali. E anche le Lollipop non sono da meno.

Come sono oggi. Nel 2013 c’è un primo tentativo di ritorno delle Lollipop in una formazione a quattro. Ad abbandonare definitivamente la band è Dominique Fidanza che si sposta in Francia e prosegue tuttora lì la propria carriera, fra musica e pittura. Dopo un nuovo stop, le Lollipop ricompaiono nel 2017 come trio e nel 2018 presentano il singolo «Ritmo Tribale». A lasciare, questa volta, è anche Roberta Ruiu, che dopo alcune esperienze in televisione, si dedica alla moda.

·        Leo Gullotta.

Dagospia il 2 gennaio 2020. Da “I Lunatici - Radio2”.  Leo Gullotta è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attore ha raccontato: "Il 2019 dal punto di vista sociale e politico è stato pesantissimo. E' stato un anno brutale. Ma c'è stata una speranza in arrivo, grazie alle sardine, che hanno riempito le piazze. Questo mi ha fatto molto piacere, ravviva il concetto di libertà, serenità, dialogo, accoglienza. Sono state un capitolo positivo. Il 2020? Spero che ci sia la salute. Il 9 gennaio compirò 74 anni, sarò in giro per l'Italia, lavorando. Spero, per il 2020, che ci sia tanta speranza. Guai se mancasse, nonostante i problemi. In generale, vedo sempre più maleducazione. Ma negli spettacoli che ho fatto negli ultimi due anni, non ho riscontrato molta maleducazione. A parte le luci dei cellulari che disturbano gli attori".

Sugli anni passati: "Ricordo i Natali del boom economico. Le feste. C'era un continuo incontro, si lavorava molto, ma sempre col sorriso. Mi ricordo questo. Quei Natali erano semplici, si lavorava di fantasia, non c'erano soldi. Era una festa quando si comprava un pastore nuovo da mettere nel presepe o si comprava la nuova carta con disegnato un cielo di stelle. C'era la semplicità, sia nella stalla che in ciò che volevi rappresentare. Non c'era la follia commerciale di oggi".

Sui diritti civili: "Due anni fa mi sono sposato con il mio compagno. Non ne parlo spesso, la mia vita privata è privata. Sui diritti civili c'è ancora tantissimo da fare. Però qualcosa si è fatto. Se ne è parlato, oggi ai giovani non interessa più di tanto. Certo, negli ultimi anni temi come fobia, odio, fomentazione della parte più debole del Paese, quella in cui pesa la mancanza scolastica, stanno tornando. Purtroppo c'è chi parla alla pancia della gente. Ma il concetto di diversità è ricchezza".

·        Leonardo DiCaprio.

Simona Marchetti per corriere.it il 9 gennaio 2020. Da eroe cinematografico in «Titanic» a eroe nella vita vera: il 30 dicembre Leonardo DiCaprio ha contribuito a salvare la vita di un uomo che, dopo essere caduto da una nave da crociera Club Med al largo di St. Martin, nel mar dei Caraibi, ha passato 11 ore in acqua, prima di essere ritrovato proprio dal 45enne attore e tratto in salvo sul suo yacht. A raccontare l'avventura a lieto fine del malcapitato (e ubriaco) marinaio francese disperso in mare e di cui si conosce solo il nome - ovvero, Victor - è stato il Sun. «Leonardo ha avuto un ruolo fondamentale nel salvataggio di quest'uomo che, secondo il capitano della nave, aveva una probabilità su un miliardo di sopravvivere - ha raccontato un'anonima fonte al tabloid - perché la sua barca era la sola che lo stesse cercando». Quando è arrivata la chiamata di Mayday, DiCaprio (che era a bordo del suo lussuoso yacht insieme con la sua ragazza, la modella Camila Morrone e alcuni amici) ha accettato di deviare la rotta per cercare il naufrago al largo dell'isola di St Barts e alla fine l'uomo è stato individuato dall'equipaggio dello yacht vicino all'isola di Saba.

La dinamica. Una volta in salvo sull'imbarcazione dell'attore, dove gli hanno dato cibo, acqua e vestiti, Victor, ancora visibilmente sotto choc, è scoppiato in lacrime. «Potevo morire», ha detto fra i singhiozzi, prima di essere prelevato dalla guardia costiera. «Il marinaio è caduto dalla nave Club Med a causa del troppo alcool e dei bagordi di quella notte - ha detto ancora l'insider - e quando è stato ritrovato era fortemente disidratato e a un passo dall'annegare, ma ha avuto la forza di agitare le braccia per farsi individuare. Gli è andata davvero bene, perché stava calando la sera e c'era pure un temporale in arrivo, quindi sarebbe stato spacciato. E quando ha realizzato di essere stato salvato da una delle persone più famose del mondo, ha pensato che lo stesse in realtà sognando».

·        Levante.

Levante, ballerino la attacca: “Ballerini dei suoi video pagati poco”. Redazione Notizie.it il 07/02/2020. Levante attaccata sui social da un ballerino professionista: la cantante avrebbe sottopagato i danzatori che compaiono nel video del brano di Sanremo. Levante è stata attaccata da un ballerino professionista che l’ha accusata di pagare poco o nulla i ballerini che compaiono nei suoi videoclip. L’insinuazione è stata pubblicata su Instagram da Angelo Recchia, ex ballerino professionista di Amici. Levante è fra i BIG di Sanremo 2020, con il suo brano Tiki Bom Bom. La cantante è nota per i suoi pezzi di denuncia sociale, proprio come la canzone sanremese, che invita gli ascoltatori ad uscire dalla logica mainstream proposta dalla società. Ma è proprio il videoclip del brano che in questi giorni sta suscitando polemiche. Angelo Recchia, ex ballerino professionista di Amici, che ora lavora all’estero, ha pubblicato alcune Instagram Stories in cui accusa la cantante. La critica mossa a Levante è quella di “predicare bene ma non razzolare allo stesso modo”. Secondo il ballerino, la cantautrice avrebbe dato ai danzatori del video solo un minimo rimborso spese di 100€ per il loro lavoro. Alcuni, definiti “semi-professionisti”, non sarebbero proprio stati pagati. L’ex ballerino di Amici ha espresso allo stesso tempo la sua ammirazione per la cantante e i messaggi che trasmette con la sua musica. Ma proprio per questo si è detto deluso dal comportamento di Levante nei confronti dei suoi collaboratori. “Mi sento in dovere di difendere l’industria in cui ho investito tutta la mia vita”, ha commentato Angelo Recchia. In conclusione il ballerino ha lanciato un appello ai suoi “colleghi” nel mondo della danza: “Per tutti i danzatori che ancora oggi si ostinano ad accettare un tale trattamento, magari per la gloria di un first plan in un music video, auguro un po’ di amor proprio e di rispetto per quello che dovrebbe essere il vostro cazzo di lavoro”.

·        Liana Orfei.

Maria Berlinguer per "la Stampa" il 20 dicembre 2020. «Quando sono stata invitata a capodanno da Umberto Agnelli e da sua moglie Allegra ho capito che di inarrivabile esiste solo Dio. Persone alla mano, gentilissime, a casa mia eravamo più montati». Dal tendone del circo al jet set internazionale, da Grace e Ranieri di Monaco a Fellini, Risi, Totò e De Filippo.  

E già, perché l' incredibile vita dell' 84enne Liana Orfei, stella degli Anni 60, comincia proprio con Fellini, come racconta l' autobiografia Romanzo di vita vera ( Baldini e Castoldi): è Natale, Liana ha vent' anni, un matrimonio felice con un artista e una bambina di pochi mesi, Cristina, quando la chiama l' agente di Fellini.

E quindi?

«Fellini ti vuole incontrare, mi dice. Ma io non ci pensavo proprio. Mi fece un provino che non andò bene perché disse che avevo una faccia troppo da ragazzina ma il solo fatto che Fellini si fosse interessato a me scatenò tutto. Copertine, offerte di lavoro, agenti che litigavano per avermi. E pensare che io avevo orrore del cinema. Il nostro era un mondo severo, pieno di sacrifici, un mondo povero. Prima di diventare un artista lavori anni, ti rompi le ossa e forse non diventi neanche bravo. Non è come cantare o recitare, noi siamo abituati al pericolo. Il trapezio, i leoni, le tigri... Ho perso due amici, uno per gli orsi grizzly e uno per i leoni. L' errore però è quasi sempre umano».

Non era interessata al cinema ma ha lavorato in più di 40 film, Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Orson Welles, chi le è rimasto nel cuore?

«Intanto Dino Risi, ho fatto due film con lui, Il Profeta e I nostri mariti. Bello, gentile non mi sono innamorata di lui solo perché ero già innamorata. A Tognazzi che era irresistibilmente attratto dalle donne, diedi un sonoro ceffone per avermi baciato davvero sul set. Non se l' è presa. Anzi siamo diventati amici. Welles con me era gentilissimo perché gli piaceva il circo ma odioso con la troupe. I geni, quelli veri non sono tutti modesti, sono pieni di sé. Pesava 140 chili quando abbiamo girato I Tartari. Con Mastroianni ho girato nella gabbia dei leoni, ero terrorizzata, facevo di tutto per non far sentire ai leoni che avevo paura. Ero curiosa di vedere come se la sarebbe cavata lui.

Stupefacente. Ha recitato con una naturalezza incredibile, come se i leoni non fossero a pochi metri. Ho pensato o è un incosciente o è davvero coraggioso. Alla fine gli ho fatto i complimenti. Ci siamo scambiati quello che è passato come il bacio più lungo della storia. Mi chiesero come era stato baciare un uomo così desiderato dalle donne e io per imbarazzo risposi che era stato come baciare un cartone. Gran signore, quando l' ho rivisto ha fatto finta di niente».

E di Totò che ricordo ha?

«Un vero principe, galante con tutte le donne, gentilissimo con la troupe. Era interessatissimo ai clown, mi chiedeva come erano nella vita, se erano tristi. E io "principe, sono persone come tutte le altre, qualcuno è triste qualche altro no". Però insisteva. Forse voleva che gli dicessi che sì erano tristi nella vita. Oggi gli risponderei così, per fargli piacere. Ho conosciuto tanti principi ma i signori come Totò sono rari».

Con Fellini però il rapporto è stato più intenso.

«Federico amava il circo e con sua moglie Giulietta Masina veniva sempre a trovarci quando eravamo a Roma. Con lui ho lavorato tanto e anche a un film abbastanza profetico, I clown, che finiva con la morte del circo. Fellini però negava questa interpretazione. Le mille e una notte, il più bello spettacolo che abbiamo fatto, è nato da una sua idea, ci ha dato il premio Oscar Danilo Donati per i costumi e le scenografie. Imprese faraoniche, oggi una cosa del genere non se la può permettere neanche Berlusconi».

Il circo è finito per questo?

«Il circo non è finito per niente, è finito quel tipo di circo. Anche il Barnum non c' è più, è rimasto il nome. Ma che rimpianti... Quando volavo sull' ippogrifo e sentivo il pubblico. Una sensazione incredibile. Arturo Brachetti mi ha confessato che vedendo Le mille e una notte ha deciso di fare l' artista. Non si può avere avuto un regno e non avere più niente ».

Quanto hanno contato i movimenti animalisti nel declino dei circhi?

«Di sicuro non ci hanno aiutato. Il circo senza animali è come l' opera senza musica. Certo ci sono animali che soffrono e non possono lavorare nei circhi come le giraffe ma la gente del circo ama gli animali, li tratta come figli, molto meglio che in certe case, gli ultimi due cani che ho avuto li ho trovati legati con il fil di ferro e pieni di zecche. Chi abbandona gli animali è un criminale ma il circo senza animali non è circo. Il mio amatissimo Cirque du Soleil ci ha provato, sono falliti».

·        Ligabue.

Francesco Persili per Dagospia il 12 novembre 2020. Perché Ligabue ha deciso di fare il cantante? Per la figa. Estate 1982, concerto di Franco Battiato a Correggio. Era uscito da qualche mese l’album “La voce del padrone”, primo disco in Italia a superare il milione di copie vendute, il Maestro scatenava ormoni e desideri inconfessabili. Sul palco volavano reggiseni e mutandine. Un paio di gnocche osarono l’inosabile: “Quanto è bono”, “Io me lo farei qui davanti a tutti”. Fu in quella circostanza che Liga tagliò la testa al toro: “Ok, qui c’è proprio da fare il cantante”. La storia è raccontata nell’autobiografia “E’ andata così” scritta con Massimo Cotto e pubblicata da Mondadori. Un viaggio nella trentennale carriera del rocker che rischiò di morire tre volte nei primi 5 anni di vita. In occasione di un’operazione alle tonsille fu salvato grazie alla trasfusione del sangue di una suora: “E questo spiega le mie dosi massicce di senso di colpa”. Ma chi gli ha fatto le carte, lo ha chiamato vincente. Una zingara, incontrata in autogrill, gli predisse un grande futuro. Lo storico manager Claudio Maioli ancora ride: “Le hai dato pure dei soldi cosa pensavi che ti dicesse, che avresti fatto una vita di merda?”.  E allora via lungo le strade d’Emilia, “dove c’è sempre un posto in cui suonare”, a “spolmonare” notti, sogni, delusioni, canzoni tenendo sempre a mente le parole del padre (“I musicisti sono tutti dei morti di fame”) e le fughe e i ritorni di Tondelli, anche lui di Correggio. Esserci e andare, ma restare sempre legati alle proprie radici. La via Emilia come porta dell’altrove mentre dai finestrini passa “odore di mare diesel morte vita”. Urlando contro il cielo, troppo facile. Ma prima altre canzoni. “Cento lampioni” (stanno a dì de no?) fu la prima, non memorabile, dedicata a una prostituta, poi venne “Maria e il colore bianco” che raccontava non di candeggi ma di una ragazza tossica, allegria. E poi ancora gli aneddoti sui primi concerti, la prima canzone del suo primo album "Eroi di Latta" che diventò “Balliamo sul Mondo”, l’esperienza da consigliere comunale come indipendente nelle file del Pci (“ma diedi le dimissioni dopo la seconda seduta”), le battute sui gilet maculati e su quel mullet che neanche a David Bowie si è mai perdonato, la verità sull’incontro con Gabriella Ferri all’Ariston: “Fermate un po’, ‘ndo vai? Fatte vede’. Adesso sentimo che sa ffà questo qua de cui stanno così tanto a parlà”. Stadi e studi di registrazione, sale prove, stanze d’albergo. Tra palco e realtà, altri ricordi, "che sono come i rutti e come i rutti tornano su" (Jannacci dixit). Pavarotti che nascondeva salami e caciotte mentre cercava di dimagrire da Chenot a Merano, Guccini che si fa pagare in vino per la sua prova d’attore in Radiofreccia, Bono Vox che lo ringrazia per aver scaldato “pure troppo” il pubblico prima di un concerto degli U2. Ma anche sputi, insulti, minacce di morte. Accadde al concerto per i festeggiamenti del Venezia-Mestre che aveva riconquistato la serie B. I Pitura Freska, amici e beniamini degli ultrà della squadra, si rifiutarono di esibirsi. I tifosi se la presero con Ligabue. Invece di mutandine e reggiseni, sul palco in quell’occasione volarono accendini, monete, bottiglie di plastica, panini e sputi, “una specie di raduno di lama”. “Alcuni mi facevano il segno che mi avrebbero tagliato la gola. Dopo tre canzoni, la pioggia di oggetti e sputi cessò completamente. Quelli che minacciavano divennero sempre di meno e quelli che ballavano sempre di più, finché non ne restò solo uno, in prima fila, che continuava a mimare il gesto del taglio della gola. Dopo un po' però il servizio d'ordine sembrò dirgli: 'Sei rimasto solo tu, lascia stare…”. Quello fu uno dei suoi concerti più belli.

Ligabue rompe il silenzio: "Il bacio gay? Non sono io, se inizio a fumare ve lo dico". Mentre sul web continua la caccia al protagonista dello scatto misterioso di Dagospia, il cantante ha detto la sua a margine della presentazione del suo ultimo libro respingendo ogni insinuazione. Novella Toloni, Martedì 13/10/2020 su Il Giornale. Il mistero di Dagospia continua a rimanere tale. La foto pubblicata dal portale - che mostrava un misterioso cantante baciarsi con un altro uomo - continua a far discutere sui social network, ma intanto uno dei cantanti tirati in ballo dal popolo del web ha rotto il silenzio. Luciano Ligabue è intervenuto per mettere a tacere le voci sul suo conto a margine di un evento a Correggio. L'immagine del bacio gay pubblicata sul popolare portale ha scatenato una vera e propria caccia alle streghe sul web. Chiunque ha detto la sua sulla possibile identità del cantante misterioso pizzicato dai paparazzi mentre bacia un uomo alla Stazione Centrale di Milano. Gli indizi forniti dallo scatto (un anello, il colore dei capelli e i bracciali) avevano fatto pensare agli internauti che si potesse trattare di Nek, Francesco Gabbani e addirittura Luciano Ligabue. E mentre gli altri hanno preferito tacere sulla vicenda, Ligabue ha parlato per la prima volta dei fatti a margine della presentazione del suo ultimo libro. "Massimo se comincio a fumare ti avviso prima", ha scherzato sul palco del Teatro Asioli di Correggio Luciano Ligabue insieme a Massimo Cotto, coautore del libro "E' andata così". Il rocker emiliano e il giornalista si sono lanciati in una gag che ha riportato l'attenzione sulla tanto chiacchierata fotografia pubblicata da Dagospia. In molti su Twitter, infatti, avevano associato per abbigliamento, dettagli e capigliatura quello scatto a Ligabue, ma a "stonare" in quell'immagine era proprio quella sigaretta, decisamente lontana dallo stile di vita del rocker. Un dettaglio che non è sfuggito ai suoi fan e sostenitori e sul quale è tornato anche il cantante. A quel punto Cotto si è rivolto esplicitamente al cantante: "Quindi non sei tu quello nella foto?", lasciando a Ligabue la tanto attesa replica: "No, non sono io, se comincio a fumare ti avviso prima". Nessun coming out a sorpresa dunque per il cantante di "Piccola stella senza cielo", ma l'occasione per tornare a parlare di credibilità e immagine personale, la stessa che lui ha messo nel suo ultimo libro in cui - insieme a Massimo Cotto - ha ripercorso trent'anni della sua carriera musicale tra dischi, concerti, successi, momenti difficili e aneddoti.

Ligabue si racconta in un libro (e dal vivo) in esclusiva su Repubblica.it. Il cantautore di Correggio presenta in diretta live il volume autobiografico "È andata così - Trent'anni come si deve", scritto a quattro mani con Massimo Cotto, al quale ha affidato storie, aneddoti e, promette, verità. La Repubblica il 12 ottobre 2020. È andata così - Trent'anni come si deve ripercorre la straordinaria parabola artistica di Luciano Ligabue, disco per disco, concerto per concerto e hit dopo hit, svelando aneddoti, retroscena e dettagli creativi completamente inediti. Il racconto di Luciano Ligabue e Massimo Cotto è accompagnato da un ricco apparato fotografico di 360 foto, con un'appendice che contiene tutta la discografia del cantautore corredata delle copertine dei singoli, degli album, dei cofanetti, persino delle vhs. E proprio questo volume è il tema dell'incontro video con Ligabue che Repubblica.it vi permetterà di vedere, in esclusiva, in streaming. Ligabue e Cotto si ritrovano lunedì 12 ottobre alle 21 sul palco del Teatro Asioli di Correggio per l'unica presentazione del libro di fronte a un numero limitato di persone, ma in diretta su Repubblica.it, per provare a raccontare 60 anni di vita e 30 di musica. Per scrivere il libro, i due si sono rifugiati a Ca' di Pòm, la palazzina dove Ligabue ha scritto, nella famosa Stanza rossa, la maggior parte delle canzoni di Buon compleanno Elvis. Una giornata a ricordare e registrare, a sbobinare ricordi e accumulare materiale. Ma, proprio in quel momento, è accaduto l'imprevedibile. La situazione in Italia peggiora e, dal giorno successivo, è necessario stare chiusi in casa, in lockdown. Impossibile vedersi. Il libro va comunque avanti, cambia solo il metodo: i racconti verranno inviati via mail. Sembra un ripiego, invece è una bellissima scommessa, un modo diverso di confessarsi. In È andata così - Trent'anni come si deve per la prima volta Ligabue racconta come sono andate davvero le cose, spazza via leggende metropolitane e racconta la verità. "Un viaggio bellissimo, una storia unica, una parabola lucente nel periodo più brutto - l'isolamento, la paura, il Covid - è nata la cosa più bella", promettono gli autori.

·        Liliana Fiorelli.

FEDERICA MANZITTI per il Corriere della Sera - Roma il 2 luglio 2020. «A un certo punto mi sono accettata multi-potenziale». Dopo anni passati a non saper bene come rispondere alla domanda «cosa farai da grande?» Liliana Fiorelli ha preso coscienza che la sua è una risposta multipla. Imitatrice con una stagione di Quelli che il calcio appena conclusa, attrice al cinema come in Confusi e felici di Massimiliano Bruno o Fortunata di Sergio Castellitto, qualche volta a teatro, spesso sul web, ad esempio con il gruppo Le Coliche, infine autrice di testi comici e soggetti. Ma ancora non bastava. Pochi giorni fa la ragazza nata a Monte Mario nel 1990 ha tirato fuori dal cappello un'identità di musicista pubblicando il singolo Giorno Zero . «Orgogliosamente pop» sottolinea durante le riprese del videoclip che, promette, sarà come la canzone: un inno alla felicità delle piccole cose. L'idea di incidere un brano è arrivata durante il lockdown? «Il testo è nato negli ultimi mesi, ma il mio rapporto con la musica risale a molto prima, quando bambina cantavo nell'armadio per non farmi sentire. A 7 anni, giurando a me stessa che non avrei mai cantato, ho capito di essere molto connessa con la musica». Un giuramento rotto a metà quando ha interpretato la caricatura di Levante e di altri artisti indie. Era per ridere, ma adesso fa sul serio. Cosa è successo? «Durante il lockdown ho aperto un regalo non ancora scartato: un ukulele. Ho cominciato a suonarlo, ho mandato il vocale a un musicista vero, Alessandro Forte, e come in un film lui ha deciso di produrlo». Domani a Fiano Romano riceverà il premio Giuseppe De Santis come attrice emergente. L'ultimo film in cui ha recitato, «Il Regno» di Francesco Fanuele è uscito sulle piattaforme pochi giorni fa. Stanca? «Entusiasta. Alla rassegna "Lo schermo è donna" sarò insieme a colleghi del cinema che stimo. Il De Santis non solo è prestigioso, è un riconoscimento importante per una carriera versatile come la mia. Domani lo dirò: il premio è in buone mani, sono orgogliosa del mio percorso e so che è d'ispirazione per le nuove generazioni che non vogliono chiudersi in un ruolo prestabilito». Quindi la comicità è un capitolo chiuso? «Apertissimo. Dopo il programma con Le Coliche a Comedy Central, il canale dedicato di Sky, sta per uscire I predatori , film d'esordio di Pietro Castellitto (figlio di Sergio, ndr ). La commedia è una grande palestra». Ha fatto sentire il suo singolo a Levante? «Non ancora. Scherzi a parte, la stimo davvero. Da bambina nell'armadio cantavo i Nirvana e le Spice Girls. Il pop è una grande cosa, ha onorato molte donne e io mi candido per essere la prossima popstar italiana (ride)». C'è qualcos' altro che vorrebbe fare? «Ho tante canzoni nel cassetto. Quando hai gli ingredienti ti viene voglia di preparare una torta. Potrei fare un disco con l'etichetta con cui ho firmato un contratto, Rivoluzione Dischi. Farei volentieri un musical, tipo un La La Land italiano. Le canzoni che scrivo vengono fuori come immagini, piccole storie da raccontare. Sarebbe bello portarle sul palco. L'esigenza di sentirmi totale è innata, ma mi ispiro anche alla formazione ricevuta a Los Angeles da Lee Strasberg. Lì devi dare corpo alle tue abilità, lavorare in team. Come l'arcobaleno: è bello perché ha tanti colori».

·        Lillo&Greg.

Chiara Maffioletti per corriere.it il 25 novembre 2020. «Adesso, rispetto come sono stato, sto in paradiso». La voce di Lillo Petrolo è calma, serena. Dopo quasi un mese è guarito dal Coronavirus, passando però per un lungo ricovero e la terapia intensiva. Finalmente è a casa: «Per fortuna sto recuperando».

Come ha capito di essere malato?

«All’inizio ho avuto dei sintomi influenzali, infatti speravo si trattasse di influenza. Ma quando ho perso olfatto e gusto ho capito e il tampone ha confermato: ero positivo. Dopo poco ho cominciato ad avere febbre molto alta, anche a 40. E piano piano sono arrivati i problemi di respirazione. Il 26 ottobre sono stato ricoverato, sono uscito giovedì».

In un suo post aveva detto di sapere come si è contagiato. Come?

«In un modo banale ma per questo è giusto che si sappia. Semplicemente ogni tanto mi capitava di abbassare la mascherina per respirare meglio. Giusto un attimo, ma lo facevo anche quando c’era altra gente. Una cosa che ora non farei assolutamente più: se uno ha bisogno di aria allora deve allontanarsi da tutti e poi abbassarla. Basta veramente poco: è un virus super contagioso».

Come era prima di ammalarsi? Il Covid le faceva paura?

«Cercavo di non avere paura, ma ho sempre rispettato le indicazioni perché ero convinto di una cosa che poi ho visto confermata sulla mia pelle: è un virus imprevedibile. Su ogni individuo si comporta diversamente: su un organismo si accanisce e su un altro magari no».

Si riferisce all’idea diffusa che possa fare male solo a soggetti deboli, anziani o in chi ha già patologie?

«Ecco, non è vero nulla. Io ero un uomo sano. In terapia intensiva ho visto 35enni intubati. Sicuramente se hai patologie sei svantaggiato, ma non è una regola, nel senso che puoi essere sano e sviluppare comunque una grave polmonite. La terapia intensiva era piena...».

Come è riuscito a non cadere nello sconforto?

«Per fortuna non sono mani andato sotto il casco, mi sono fermato al momento prima: avevo l’ossigeno al massimo e lì ho capito che era l’ultimo passo. Lì mi sono spaventato. Poi, dopo due giorni lì, la polmonite ha iniziato a regredire».

Si dice che il tempo in terapia intensiva scorra molto più lento.

«Sei in una stanza con dei vetri a fianco dai quali vedi gli altri malati. I miei vicini erano tutti e due intubati. Uno era più giovane di me. Tutto questo mette una certa angoscia. I dottori e gli infermieri fanno un lavoro pazzesco: non stanno mai fermi ma non perdono lo spirito umano. Sono incredibili. Mi dicevano: dai che ce la fai. Mi davano la forza, erano energia pura anche nei momenti di sconforto».

In ospedale è stato solo, senza la possibilità di avere delle visite...

«Ringrazio la tecnologia: in quei giorni il telefonino è stato fondamentale. Leggere i messaggi di tutte le persone che mi scrivevano, sentire mia moglie tutti i giorni, vederci anche tramite le videochiamate mi hanno salvato. Puoi anche impazzire altrimenti. Ho ricevuto tante energie positive, sono importanti, ti danno la forza di vivere».

Ha sentito anche Greg?

«Sì, quasi tutti i giorni. Mi è stato vicino, cercando anche di sdrammatizzare quando poteva. Ci siamo un po’ presi in giro. Mi diceva: dai che è la volta che finalmente dimagrisci... in effetto ho perso sei chili, speriamo di mantenere almeno quello».

Ha detto che la prima cosa che ha fatto quando le hanno staccato l’ossigeno è stata ballare.

«Un po’ per scaramanzia... però sì, quando il medico mi ha detto che potevo tornare a respirare da solo, senza ausilio, ho messo le cuffiette e ho cominciato a ballare piano piano, lentamente. Volevo musica allegra; ho scelto un pezzo dei Rolling Stones bello rock, “Doom and Gloom”».

Come è stato rivedere sua moglie, non in videochiamata?

«Un momento molto emozionante, per forza. Lei aveva tenuto duro tutto il tempo ma in quell’attimo è crollata, poverina: avrà dormito penso otto ore in un mese... anche io dormivo poco per i dolori. È stata una situazione di stress per tutti e due. Ma stiamo recuperando: sono due giorni che dormiamo 15 ore».

E con Greg si è già rivisto di persona?

«Non ancora, ma sabato prossimo riprenderemo il nostro programma in radio, 610. Quando mi telefona mi prende in giro: ho 58 anni, ne abbiamo solo uno di differenza ma mi dice che devo stare attento e riguardarmi perché sono anziano, di un’altra generazione... Non vedo l’ora di rivederlo e anche di ritrovare il pubblico».

È vero quello che si dice, che da un’esperienza così ci si ritrova cambiati?

«Sì. Sembra retorico ma è la pura verità. Se sei una persona positiva non puoi che prendere la parte bella di questa esperienza... si dirà: “Ma ci può essere una parte bella?”. Per me si, ed è la saggezza che ti ritrovi che ti spinge a rivedere l’importanza che dai alle cose. In questi giorni sto apprezzando tutto: anche prendere il caffè con due biscotti la mattina, con mia moglie, è un momento di vera felicità. Tante piccole cose che prima nemmeno notavo, che davo per scontato. Ma che adesso riconosco come pura felicità. Penso davvero che sia migliorato tutto il mio modo di vivere».

Michele Sciancalepore per Avvenire  il 28 Gennaio 2020. Centinaia di persone vivranno in media 7-8 anni in più. Avranno meno problemi di ipertensione, meno malattie cardiovascolari, un sistema immunitario più attivo con un aumento dei preziosi linfociti killer, non più stitichezza, ottima digestione, non conosceranno ansia, né depressione e saranno invasi da ondate di endorfine, gli «ormoni della felicità». Chi sono questi soggetti fortunati? Cavie umane sottoposte a innovative e intensive cure in centri sperimentali di eccellenza medica? No, sono coloro che hanno visto in questi giorni Gagmen al Teatro Olimpico di Roma di e con Lillo&Greg e hanno riso, tanto. Ed è scientificamente provato che tutti i benefici sopra riportati sono gli inoppugnabili effetti della risata. Si ride di cuore e di pancia in questo varietà che propone una sequenza di sketches alternando alcuni intramontabili cavalli di battaglia a novità assolute. C' è innanzitutto un prologo con il dichiarato obiettivo di far definitivamente luce sull' annosa questione e confusione fra chi è Lillo e chi è Greg, un divertissement in forma di canzone per elencare i reciproci tratti somatici e caratteriali. In tutto lo spettacolo si attinge al repertorio classico teatrale, televisivo e radiofonico, dagli spiazzanti "provini" alla seduta dallo psicanalista in cui incalzanti e incessanti cambi di ruolo creano effetti spassosi, dal trasformista più lento del mondo al becero talk che ospita simultaneamente il «caso pietoso» e il «comico pecoreccio», dalla parodia nonsense delle comunità new age al mitico «Che, l' hai visto?» con l' esilarante, surreale identikit di un figlio disperso. Tra le novità primeggiano i «super-eroi», ma con qualità e poteri molto singolari, da "Amnesy" a "Pentothal" a "Normal Man". «L'idea è scaturita dalla nostra atavica passione per i fumetti», spiega Lillo. «Ci hanno sempre affascinato alcune astruse aporie - aggiunge Greg - ad esempio a Superman bastava mettersi gli occhiali per non farsi riconoscere o anche il fatto che ogni supereroe insieme ai super poteri acquisisse anche quelli di sarto e costumista perché immediatamente lo si ritrovava vestito di tute fantastiche. Inoltre questi personaggi hanno sempre mutuato i loro talenti straordinari dagli animali con cui entravano in contatto, Spiderman dal ragno, Antman dalla formica; allora abbiamo pensato a un supereroe che entrasse in relazione con un bradipo e da lui attingesse la sua peculiarità diventando così straordinariamente lento». La parte del leone in questa kermesse di nuovi e sorprendenti eroi la fa però "Normal Man": «Lui parte svantaggiato - svela Lillo - perché è una persona 20 volte più stupida e più debole della media, ma quando viene investito dai super poteri diventa normale, comunque va rispettato anche perché in effetti io mi sento un po' "Normal Man"». Il super potere di Greg invece è indubbiamente l' ironia: «Io da ragazzo ero un nerd, ero spaesato, isolato dai miei compagni e anche parecchio vessato, non mi piaceva il calcio né fare a botte, ovvero tutte quelle tipiche attitudini adolescenziali maschili, mentre mi piaceva la musica e il disegno, pertanto ero tendenzialmente emarginato; ma avevo un grande senso dell' umorismo e questa era la mia arma contro i loro attacchi». «Io invece - puntualizza Lillo - l' umorismo lo usavo solo ed esclusivamente per fare colpo sulle ragazze visto il limite del fisico». La dote che però accomuna entrambi è la vis comica, in apparenza leggiadra, in realtà frutto di un geniale artificio intellettuale sofisticato ma non sofistico: il paradosso temporale, metanarrativo, linguistico e il lavoro semantico che scardina dall' interno il meccanismo della frase eliminando il lato figurato. Nulla di ermetico, anzi gli esempi che l' inossidabile coppia spontaneamente elabora riguardano la vita quotidiana: «L' ascensore ascende ma discende anche - osserva Lillo - quindi dovrebbe chiamarsi discensore quando scende». «E l' interruttore interrompe la corrente dal circuito continuo quando spegni - incalza Greg - ma quando la accendi non è più un interruttore ma dovrebbe essere un adduttore. Altro esempio: È distante? Domanda insensata perché è sempre distante, forse non molto ma lo è. Oppure: ci sarà traffico oggi? Il traffico c' è sempre, magari poco ma c' è». Insomma una comicità intellettuale che evoca senz' altro quella storica dei Monty Python ma anche funambolica alla Bergonzoni o caustica alla Antonio Rezza. Sicuramente lontana da quella corriva e lasciva che passa in certa tv di cui non avvertono il fascino sin dal 1986, quando erano ancora Claudio Gregori e Pasquale Petrolo e si incontrarono in una casa editrice di fumetti. Cosa ricordano del loro primo incontro? Un' enorme cavalletta che si appoggiò su un cassonetto dell' immondizia. «Un presagio», dice Lillo. «L' ottava piaga», soggiunge Greg. Senz' altro da ormai 34 anni il loro sodalizio artistico non conosce cadute e si fonda, come amano ironicamente ripetere spesso all' unisono, sul ricatto reciproco: «Conosciamo ciascuno dei segreti tremendi e inconfessabili sull' altro e questo ci vincola e ci lega indissolubilmente ». Al di là di questa fantomatica coercizione c' è un rispetto vicendevole che esalta le loro differenze temperamentali: Greg è nottambulo, Lillo un pantofolaio, Greg ha una sensibilità artistica fuori dal comune ma è anche un ritardatario cronico, Lillo è un archivio vivente ma è pigro. Comunque sul palco la sintonia e l' intesa sono lampanti e concrete a vantaggio di Gagmen che si rivela spettacolo fluido e vorticoso grazie anche all' affiatamento con alcuni storici colleghi (la sempre impeccabile Vania Della Bidia e il puntuale Marco Fiorini) e agli interventi musicali dell' eclettico Attilio Di Giovanni. Non resta che augurare dunque lunga e salutare vita a chi potrà beneficiare della comicità della storica coppia in occasione della tournée che terminerà il 26 aprile a Torino e invitare gli stessi Lillo&Greg a continuare a divulgare quell' umorismo che, come finemente definisce Moni Ovadia, è "strumento poderoso contro l'ossificazione del pensiero".

·        Lino Banfi.

Dagospia il 29 gennaio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Lino Banfi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Banfi ha raccontato: "Il mio 2020? E' iniziato bene, all'insegna di un altro anno che è passato. Più avanti si va con l'età, più ci si rende conto di come corra il tempo. Il passare degli anni lo vivo con serenità, credo di aver fatto quello che sognavo di fare, mi auguro di fare ancora qualcosa, per non star fermo, per far vedere che sono ancora attivo. Ecco perché noi di una certa età quando andiamo in tv o facciamo qualche film cerchiamo posture che non sono nelle nostre corde". Tra passato e futuro: "Vorrei fare un film diverso dal solito, con un Banfi che non abbia bisogno di dire “porca puttena”. E poi vorrei vincere qualche premio, anche un coniglio di peluche. Se c'è pregiudizio nei confronti di Lino Banfi? Sì! Credo di aver fatto quello che sognavo di fare, cioè abbinare nello stesso film e nella stessa fiction sia il drammatico che il comico. Ho dimostrato che posso far ridere e piangere insieme. Ho saputo aspettare, molti giornalisti si sono ricreduti nei miei confronti. Molti radical chic dicono che oggi devono ricredersi nei miei confronti. Alcuni dicono che andavano a vedere i miei film di nascosto, come se fossero dei film pornografici. Non ho mai capito perché. Ma mi fa piacere che molti lo abbiano confessato. Prima chi lavorava a Repubblica o al Corriere della Sera quasi non poteva dire che andava a vedere Banfi". Sui film passati: "Vieni Avanti Cretino? Quel film è tutto improvvisato. Abbiamo scritto qualcosa giusto per ricordarci, dettavo tutto io, erano scene che avevo fatto nell'avanspettacolo. Oggi usano quel film per far ridere i malati di Parkinson che non usano i muscoli facciali, è una cosa che mi riempie d'orgoglio. Il politicamente corretto? Oggi molte cose non si potrebbero fare. Se avessi fatto oggi un film con i sottotitoli in arabo mi avrebbero massacrato. Oggi ogni cosa sembra che ti porti contro qualcosa". Sulle elezioni in Emilia Romagna: "Era molto interessata la Puglia, visto che il nostro governatore si chiama Emiliano. Scherzi a parte, era tutto prescritto, che qualunque cosa succedesse tutti dicevano di aver vinto, convinti di continuare così, che vanno bene".

Da gianlucadimarzio.com il 27 maggio 2020. Dal 7 agosto di nuovo in libreria la vita del protagonista de “L'allenatore nel pallone”. Dal film che l'ha reso famoso all'adolescenza turbolenta. Urs Althaus ha vissuto molte vite, la più importante dietro lo schermo. Aristoteles è stato l’icona pallonara degli anni ’80, il centravanti brasiliano scovato dal nulla che salva la Longobarda di Oronzo Canà all’ultima giornata. Lino Banfi è finito sul Guardian, omaggiato dagli inglesi 36 anni dopo l’uscita del film, mentre Urs Althaus ha deciso di raccontarsi in un’autobiografia, - Io, Aristoteles, il Negro svizzero - andando oltre il film. Uscita nel 2009, verrà ripubblicata da "Bibliotheka edizioni". Molte vite vissute: da promessa del calcio a primo uomo di colore a posare per GQ. Dall’incontro con Lina Wertmüller alla fiducia di Sergio Martino, per il film che l'ha reso famoso. Attore, modello, imprenditore. Una biografia nuda e cruda in cui vengono toccati vari temi, dall'infanzia all'adolescenza. Papà nigeriano (mai conosciuto), madre svizzera, Urs Althaus è diventato famoso per "L’allenatore nel pallone", ma è stato molto di più. E l’ha raccontato: la droga, il sesso, gli amori, il gossip, gli affetti, le delusioni, il razzismo e lo show business. Il libro uscirà il 7 agosto con la prefazione di Ciccio Graziani, ex attaccante di Roma e Torino, Campione del Mondo con la Nazionale nel 1982. Per conoscere tutte le sue vite, stavolta in un libro, e per sapere che dietro Aristoteles c'è molto di più.

Lino Banfi (Oronzo Canà): «Il mio film di 35 anni fa sembra girato ieri». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Maria Volpe. «Ha combinato un casino ‘sta cosa! Mi chiama il mondo intero, pure un amico di New York». Con l’immediatezza che lo contraddistingue Lino Banfi risponde così al telefono. Il prestigioso quotidiano britannico The Guardian ha dedicato una pagina al suo film, ormai davvero mitico, «L’allenatore nel pallone» del 1984 dove lei interpreta l’allenatore Oronzo Canà. Un elogio a lei e ai messaggi positivi di quel film, come l’anti-razzismo nel calcio, in tempi non sospetti. «E’ stato come ricevere un premio oggi. Mi sento di dire grazie di tutto cuore a questa giornalista, Nicky Bandini, che l’ha scritto. Ma non so l’inglese. Spero le arrivino i miei ringraziamenti».

Pensare che un film italiano di 35 anni fa, allora forse considerato non proprio un capolavoro, oggi sia così rivalutato fino a occupare una intera pagina di un illustre giornale..

«Certo che fa piacere. Però devo dire che da un po’ di anni Oronzo mi dà soddisfazione. L’hanno visto quasi tutti i calciatori nel mondo. Mi ricordo quando Ancelotti - che io conoscevo bene e frequentavo a Trigoria - andò ad allenare il Paris Saint Germain: gli scrissi un telegramma in francese “Mister ricordati il 5-5-5”. Lui appese il telegramma e tutti i giocatori ridevano come matti perchè si ricordavano che quello era lo schema di gioco di Oronzo».

Perché un film leggero e divertente sul calcio (racconta la storia dell’allenatore Oronzo che nonostante gli sporchi giochi del mondo del calcio riesce inaspettatamente a far restare in serie A la sua squadra, la Longobarda) entra nella storia dello sport?

«Perché è antico e moderno insieme. Sembra un film girato ieri: dagli sfottò, al razzismo, passando per gli imbrogli. Sono felice che la giornalista inglese abbia colto tutti questi spunti. Nicky ha avuto ragione a sottolineare la gioia dello spogliatoio, lo sponsor, la moglie del presidente che se la fa col giocatore bello, il giocatore emarginato e solo che ha nostalgia di casa. Tutte cose vere. Certo nessuno immaginava che dopo 35 anni fossimo ancora qui a parlarne.»

Ma come è nato davvero «L’allenatore nel pallone»?

«Su un aereo Roma-Milano, una domenica sera, sedevo di fianco al grande Nils Liedholm. Lui sapeva che io ero romanista sfegatato e parlavamo spesso di calcio. Mi disse con quel suo accento tipo don Lurio: “Hai mai pensato di fare un film su un allenatore di calcio?”. E io dissi: “No. Sono pure grasso. Come faccio?”».

Effettivamente...

«Liedholm mi spiegò che dovevo farlo proprio perché assomigliavo a un vero allenatore, Oronzo Pugliese, molto buffo. Sotto l’impermeabile aveva una gallina e se la sua squadra segnava, la lasciava libera in campo».

Un’occasione ghiotta per uno come lei.

«Sì. Proposi il film al regista Sergio Martino e cominciammo. Ma posi una condizione. Nome Oronzo, cognome Canà. Perchè? Perchè così mia moglie Mara sarebbe diventata Mara-Canà e noi potevamo andare in Brasile a girare il film. Se no quando mai l’avrei visto lo stadio Maracanà a Rio de Janeiro, io?». E così volaste in Brasile. E con voi tante comparse di giocatori famosi. «Sì tanti. Fu un film davvero divertente. Ricordo Graziani che sfotteva la mia pelata e io gli dissi: “Tu diventerai più pelato di me”... E infatti.., dice che gli ho mandato la “maledizione”. E poi il grande goleador De Sisti, detto Picchio. Mi diceva sempre: “Ho fatto un sacco di cose nello sport e la gente si ricorda di me per quella stron... che ho fatto nel film».

Lei ama il calcio e il mondo del calcio ama Lino Banfi.

«Sì, mi hanno regalato un diploma di allenatore di calcio internazionale. Bearzot, Lippi tutti mi salutavano e mi salutano chiamandomi mister. Ricordo quando arrivò in Italia, per giocare nella Roma, il giocatore brasiliano Toninho Cerezo. Io ero già amico di Falcao che frequentava casa mia, anche perchè gli piaceva mia figlia . Cerezo mi raccontò che appena arrivato in albergo gli avevano dato la cassetta del mio film da vedere».

Però Banfi il mondo del calcio non ha più nulla a che fare con quella storia che ha raccontato lei . E’ tutto un altro «film» purtroppo.

«Vero. Il Presidente deve essere della stessa città della squadra. Deve andare negli spogliatoi e parlare la stessa lingua. Da quando la Roma viene guidata da presidenti stranieri, non ho piu affetto. E poi non c’è più l’attaccamento alla maglia».

Come ha vissuto questa pandemia ?

«Pandemia canaglia.. In casa chiuso. A guardare tutte quelle facce in tv di virologi, professori, esperti, epidemiologi, primari, dottori. Non è che hanno tutti le facce simpatiche, ma più che altro mi ha colpito che quando parlava uno, gli altri non annuivano. Anzi l’espressione era come se il collega stesse dicendo fesserie. Allora dico io, noi siamo già incasinati per fatti nostri, se fate così chi avrà ragione?».

Lei che è così attento al sociale sicuramente ha pensato qualcosa in epoca di Coronavirus.

«Mi ha chiamato Pierpaolo Sileri, vice ministro della Salute, per chiedermi di essere testimonial di uno spot per non dimenticare mai di usare le mascherine. E mi ha detto: “ Devi essere il creativo di te stesso. Devi essere tu”. Mica facile: non volevo essere triste e non volevo rivolgermi solo agli anziani. Alla fine sono soddisfatto. Ho realizzato uno spot che farà sorridere con garbo e misura. Ma soprattutto ho posto una condizione».

Ha messo una condizione su uno spot che invita a usare le mascherine?

«Quando l’ho detto si sono spaventati tutti. Hanno cominciato a dire: ma il budget... E io: ma quale budget, non avete capito un chezzo. Posso mai pretendere soldi per una cosa che riguarda la salute? Prima di tutto sono un italiano. Ho chiesto a Sileri di pensare a un disegno di legge, un disegnino, per poter dare 20-30 mascherine gratis a chi ha tra i 65 e i 105 anni. Tutti noi nonni saremo 12 milioni, non tutti sono bisognosi. Almeno la metà se la possono comperare, altri sono molto anziani e non escono, ma almeno a 3 milioni di nonni regalategliele, solo per il fatto di aver raggiunto una certa età. Ve lo dice un Membro dell’Unesco».

Eh già, altro che Oronzo, siamo davanti a un membro dell’Unesco...

«E non ho ancora cominciato a dire la mia. Voglio che venga convalidato il ruolo del “nonno d’Italia” come patrimonio dell’Unesco perchè un nonno vale più di un museo. E’ una esperienza familiare che voglio rivalutare».

Ma quando sarà completamente finita la pandemia che farà, come festeggerà?

«Vorrei che tutti gli italiani, dopo aver cantato l’Inno di Mameli, escano sui balconi a cantare “E’ finita la quarantena , porca puttena”».

Oronzo Canà e «L’allenatore nel pallone» conquistano l’Inghilterra: il Guardian gli dedica una pagina. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Carlos Passerini.

Da trash a cult. La rimonta, va detto, era già partita molti anni fa. Ora sì però che la rivincita può definirsi realmente compiuta. Una promozione sul campo, praticamente. Da B (movie) a serie A. «L’allenatore nel pallone», film con Lino Banfi e regia di Sergio Martino del 1984, è finito nientepopodimeno che sul prestigiosissimo Guardian. Non un tabloid scandalistico, bensì uno dei più diffusi e autorevoli quotidiani al mondo. Ma come è che su un grande giornale filolaburista, raffinato e very chic come il Guardian apre la sezione sportiva di oggi dedicando una pagina intera al film di Lino Banfi e alla sua leggendaria Bi-zona col 5-5-5?

Col presidente Borlotti. Ovviamente un po’ c’entra il Covid. Bisogna dirlo: se non ci sono le partite, se non c’è lo sport giocato, bisogna andare alla ricerca di qualcosa d’altro. Succede in Italia, succede in Inghilterra. Nell’articolo firmato da Nicky Bandini il film con Banfi-Canà viene definito come una specie di ispiratore di una pellicola inglese dal titolo «Mike Bassett: England Manager», del 2001. La storia è simile, cambia solo il contesto. Protagonista però è sempre un improbabile allenatore che sbuca dal nulla e arriva a guidare squadre di alto livello. La Longobarda nel caso di Banfi, la nazionale inglese per mister Bassett. «Prima di Mike Bassett, c’era Oronzo Canà» scrive Bandini. Film inevitabilmente diversi, accomunati però dal fatto di essere entrambi due azzeccatissime parodie del calcio, dei suoi eccessi e dei suoi difetti. Il calciomercato, le partite truccate, i soldi in nero, gli affari loschi («la ricordate la scena del commendator Borlotti? «Sono riuscito ad avere i tre quarti di Gentile e i sette ottavi di Collovati, più la metà di Mike Bongiorno. In conclusione, noi abbiamo ottenuto la comproprietà di Maradona in cambio di Falchetti e Mengoni»), i procuratori avidi, i giornalisti spietati, i brocchi e i campioni.

Con Aristoteles. Ma c’è di più. La lettura che dà il Guardian al film italiano è estremamente positiva. Si va oltre la celebrazione della caricatura. «Entrambi i costituiscono una piccola parte del mio patrimonio culturale, e fino a poco tempo fa ne conoscevo solo uno - scrive Bandini - . A nessuno dei miei genitori importava molto del calcio, e la piccola collezione Vhs che abbiamo sembrava riflettere principalmente l’entusiasmo di mio padre, italiano, per Goldie Hawn. Ho conosciuto il film di Banfi molto più tardi, dalle pagine della Gazzetta dello Sport. Se c’è qualcosa di veramente sorprendente nel film è la frequenza con cui si fa riferimento alla stampa sportiva italiana. Il film cerca, nel suo modo goffo, di inviare anche messaggio positivo sul razzismo. Il personaggio di Aristoteles viene ostracizzato dai suoi nuovi compagni di squadra, che rifiutano di condividere una stanza d’albergo, ma Canà lo tratta teneramente e non batte ciglio quando il giocatore inizia una relazione con sua figlia. Nonostante tutti i suoi difetti (e ci sono pezzi di cui avrei fatto a meno) non posso negare di essere rimasta incantata quando l’ho rivisto. Era un film del suo tempo, ma in un certo senso era anche avanti, nel portare i calciatori dentro la sfera dello spettacolo, in un modo che raramente si era visto prima».Insomma, ora anche gli inglesi impazziscono per Oronzo Canà. E hanno ragione: «L’Allenatore nel pallone» era avanti anni luce. Perché ha saputo raccontare il calcio meglio del calcio stesso. È la rivincita definitiva di Canà: ingaggiato per perdere, «preso per un cogl..» (cit.), alla fine trionfa, alla faccia di tutti.

·        Lo Stato Sociale.

CHIARA MAFFIOLETTI per il Corriere della Sera l'11 giugno 2020. La foto è un po' sgranata, porta i segni degli anni che sono passati da quando è stata scattata. Il sorriso di Lodo Guenzi, però, è luminoso e divertito: lo stesso di oggi. Solo che allora, in quella immagine, non c'era ancora un cantante famoso, ma un ragazzino un po' pallido («Sono nato in estate ma la odio - aveva detto in un'intervista -. Ricordo le mie da bambino, in Romagna, come tremende: odiavo il caldo, la sabbia nel costume, la crema solare...»), biondino e esile. «Troppo esile», come ha fatto sapere ieri sul suo seguitissimo profilo Instagram (282mila follower), svelando qualcosa in più su di lui, nella speranza di essere d'aiuto a tanti altri. «È la prima volta che lo scrivo - ha spiegato -. Ho pensato molto se avesse senso e sì, ha senso. Da ragazzino sono stato bullizzato. Ecco, l'ho detto. Non credo sia successo solo a me, ma è così». Non è successo solo a lui, ma non sono molti quelli che, raccontandolo, hanno la possibilità di innescare un dibattito come quello che è partito dalle sue parole. In tanti, ieri, hanno voluto condividere la propria esperienza, dicendo di essersi sentiti meno soli. Molti di più lo hanno ringraziato per aver parlato della sua. Ma succede adesso, che le persone cantano a memoria le canzoni del suo gruppo (Lo Stato Sociale). Allora però, all'epoca della foto, gli rivolgevano ben altre attenzioni: «Troppo esile, effeminato, biondino», erano alcuni degli epiteti a cui era abituato. Il racconto di Guenzi ha riavvolto il nastro fino agli anni passati tra i banchi: «A dire il vero, almeno, ero in una classe in cui se la prendevano con un ragazzetto italiano e non con il compagno pakistano o bengalese, che sono sempre stati i miei migliori amici». Non solo offese e parole pesanti. Anche «qualche botta, un pomeriggio in un bidone e un'eterna insistenza sulla mia presunta omosessualità che, devo dire, già allora come ipotesi non mi dava fastidio. Mi chiamavano Cinzia, come il nome di una bici da donna. Curiosamente, le uniche che mi piace guidare adesso». Ferite travestite da coincidenze. Segni difficili da cancellare, ma su cui si può iniziare a costruire, come ha fatto anche Guenzi. «Credo che gran parte della mia smodata fame di fare cose grandi sia nata lì - ha ammesso -. O forse dal rimpianto per aver chiesto aiuto e cambiato scuola, cosa che ancora mi fa sentire un vigliacco». Ancora. Nel frattempo, però, era arrivata la musica. E quindi il successo. I palazzetti stracolmi con quel gruppo nato nel 2009, Sanremo (nel 2018 «Una vita in vacanza» è arrivata seconda, ma ancora adesso la cantano tutti), il concerto del Primo Maggio condotto con Ambra, il bancone di «X Factor». Che, guardacaso, lo consacra come giudice gentile. Oggi quell'ex ragazzino troppo esile è tra i personaggi dello spettacolo più apprezzati, prima simbolo di quell'onda indie che ha cambiato faccia alla musica italiana degli ultimi tempi, poi volto tv spigliato e trasversale, portatore sano di una bolognesità fresca e ironica che lo candidano a eterno ragazzo (Morandi insegna), nonostante i 34 anni che compirà, appunto, nella tanto odiata estate. Oggi, insomma, quell'ex ragazzino è una persona di successo. E «quando adesso incontro qualcuno dei miei bulli mi trattano come una star. Io faccio un gran sorriso e so che da bambini è un casino per tutti e neanche se ne saranno accorti. Ma non riesco a non odiarli, eh vabbè...». Ma la morale di tutto per Guenzi non è questa. Se ha condiviso un momento tanto complesso è stato per un'altra ragione, «per dirti una cosa: ti hanno fatto del male, peggio che a me. Ma se la tua vita va avanti, allora gli stronzi hanno perso». Che la sua vita sia andata avanti è evidente a tutti. Anche ai bulli che lo chiamavano Cinzia, e che se lo incontrano oggi si fanno più piccoli di quanto fossero allora.

·        Loredana Bertè.

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 22 dicembre 2020. Il suo concorrente, Erminio Sinni, ha vinto la prima edizione di The Voice Senior . Lei, Loredana Bertè, la coach, ha conquistato il pubblico con l' ironia e la voglia di mettersi in gioco. Oggi ha trovato l' autostima, dopo che per anni ha fatto la "casalinga disperata". È sempre una donna rock.

Loredana, tutti parlano di lei a "The voice". Se l' aspettava?

«È stata letteralmente una scommessa per tutti.... Che posso dire? A chi non farebbe piacere vincere una scommessa?» .

(...)

Gli uomini l' hanno molto amata, forse non come voleva. Sarebbe pronta per un nuovo rapporto?

«Con l' amore ho già dato... "L' amore invade e finisce" come dice Djavan».

Ha più risentito Borg?

«Non ci siamo mai più visti né sentiti, a ripensarci mi sembra un' altra vita proprio. Io che ho fatto "la casalinga disperata" a Stoccolma per sei anni».

Aveva partecipato ad "Amici": meglio i giovani o chi ha i capelli bianchi?

«Un paragone assolutamente improponibile. Sono due realtà diverse: a The Voice sono una coach ad Amici un giudice. Poi ad Amici i talent cercano, e spesso ottengono, una vera e propria carriera musicale. Qui si parla di ottenere un piccolo /grande riscatto personale. È un "mood" totalmente diverso».

Se non avesse avuto successo si sarebbe rimessa in gioco anche lei a "The voice"?

«Nella vita mi sono sempre rimessa in gioco...Ogni volta che sono caduta mi sono rimboccata le maniche e in qualche modo mi sono rialzata... Ma non so se non avessi avuto la fortuna che ho avuto, cosa avrei fatto... Chi può saperlo? Mi sarebbe piaciuto, per esempio, fare l' archeologa o l' architetto».

Tanti festival di Sanremo: è davvero così importante andarci?

«Se mi invitassero ci tornerei volentieri come super ospite. Con l' ultimo che ho fatto in gara nel 2019 credo di aver dato tutta me stessa. E il pubblico mi ha ripagata davvero: le tre standing ovation dell' Ariston e i cori da stadio li porterò per sempre nel mio cuore».

Cosa le fa paura?

«Il buio. Dormo sempre con una piccola luce accesa».

Da "leggo.it" il 20 settembre 2020. Loredana Bertè domani compie 70 anni e, per una volta, decide di festeggiare il proprio compleanno. La leggendaria cantautrice lo fa nello studio di Verissimo, dove racconta diversi aneddoti della propria vita, compresi i più drammatici. «In genere non festeggio il compleanno, ma domani è anche il compleanno di Mimì e della mia carissima amica Asia Argento. Dicono che i 70 siano i nuovi 50, per una volta festeggerò anche io», spiega Loredana Bertè, con un pensiero anche alla sorella Mia Martini. La cantautrice racconta anche la sua adolescenza, fatta di serate al Piper, di una grande amicizia con Renato Zero, ma anche di un episodio assolutamente drammatico: «Avevo 16 anni, facevo serate con le collettine ed eravamo in giro per l'Italia. Ero l'unica vergine del gruppo e tutte mi dicevano di decidermi. C'era questo tizio che mi riempiva di fiori ogni sera, così alla fine dopo un mese ho deciso di uscire con lui. Mi portò in un appartamento scannatoio e quando ho sentito che chiudeva la porta col lucchetto mi sono spaventata. Ero terrorizzata, mi ha violentata e riempita di botte, sono riuscita ad uscire per miracolo, con tutti i vestiti strappati. Mi reggevo in piedi a malapena, un taxi mi portò in ospedale. Non avevo potuto dirlo a nessuno, specialmente a casa, altrimenti le avrei prese anche da mia madre. Le uniche con cui mi sono confessata furono le mie amiche, ho tenuto tutto per me e non lo denunciai. Fu uno sbaglio, perché, care donne, al primo schiaffo bisogna denunciare». Loredana Bertè, poi, racconta il primo, grande amore della sua vita: quello con Adriano Panatta. «Fu un vero e proprio colpo di fulmine: appena lo vidi, pensai "Lui è mio". E lui aveva pensato la stessa cosa. Per me è stato il primo amore, forte, passionale, puro, positivo» - spiega la cantautrice - «Poi però mi lasciò per sposare una ragazza che poi è ancora la mia migliore amica. Ci eravamo lasciati da pochi mesi, io stavo tornando in aereo dal Kenya, dove avevo scattato la copertina di "Sei bellissima", e lessi sul giornale che si erano sposati. Comunque Rosaria è una donna eccezionale, siamo amiche da sempre, la saluto con affetto». Si torna poi a parlare di eventi drammatici ma poco conosciuti al grande pubblico, come la perdita di Leonardo Pastore, uno dei migliori amici, ucciso dall'Aids. «Si era ammalato, andammo in ospedale a Parigi da Luc Montagnier. Allora nessuno conosceva l'HIV, c'era tanta ignoranza e si pensava che il contagio potesse avvenire anche solo stringendo la mano» - tuona Loredana Bertè - «Montagnier è stato un figlio di puttana, si rifiutò di curarlo dicendo che gli sarebbe rimasto solo un mese di vita o poco più, invece Leonardo visse altri quattro anni. Ho cercato di far curare Leonardo nei migliori ospedali del mondo, ma nessuna compagnia aerea voleva trasportarlo. Poi Benetton mi ha dato l'aereo privato, da Parigi ho preso Leonardo e l'ho portato alla Madonnina: Benetton è stato un angelo, lo ringrazierò in eterno. Leonardo per me era un confidente, un amico».

·        Lorella Cuccarini.

"Taci, stronza", Zorzi insulta Cuccarini. E lei lo gela con un post sui social. Dopo gli insulti ricevuti nella Casa per le sue posizioni sul mondo Lgbt, Lorella Cuccarini si è difesa su Instagram esponendo le sue ragioni e dichiarandosi non omofoba. Francesca Galici, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Questo pomeriggio, la parole di Tommaso Zorzi al Grande Fratello Vip contro Lorella Cuccarini sono state a lungo al centro di un dibattito social, tanto da far diventare il tema di tendenza nazionale tra i più discussi del Paese su Twitter. L'influencer ha apostrofato la nota conduttrice con epiteti poco lusinghieri in riferimento alle sue posizioni sul mondo Lgbt, nonostante il tentativo di Stefania Orlando di ritabilire l'equilibrio e difendere la sua collega. Parole che non sono piaciute a Lorella Cuccarini, solitamente lontana dalle polemiche, che stavolta ha voluto replicare a Tommaso Zorzi con un lungo post su Instagram. "Una stronza! Ma poi si è espressa contro i diritti gay 150mila volte", ha detto Zorzi prima di rincarare la dose: "A me dà fastidio questa gente che deve aprir bocca per disseminare odio, piuttosto taci e fai più bella figura". Parole pesanti da parte dell'influencer, che conosce molto bene le dinamiche dei social e sa che esprimendosi così incontra il favore di una certa parte di utenti che vorrebbero imporre il pensiero unico nel Paese, abolendo qualunque libertà di opinione in favore di un'unica idea. Tuttavia, proprio per i modi avuti da Tommaso Zorzi, che ha chiuso qualunque via di discussione presupponendo che il suo fosse l'unico e il giusto pensiero, altri utenti non hanno faticato a contraddire il concorrente del Grande Fratello Vip. Insultata, Lorella Cuccarini stavolta non è rimasta in silenzio: "Sono una persona onesta, l’ipocrisia non fa parte del mio Dna. Quando esprimo un’opinione, non è mai contro qualcuno, quindi sentire un concorrente del Grande Fratello dire che sono 'contro gli omosessuali' (più una serie di insulti che faccio finta di non aver sentito) è qualcosa che mi ferisce profondamente e che non credo di meritare". La conduttrice, ballerina e showgirl ha ricordato come abbia lavorato con tantissime persone nel corso della sua lunga carriera, senza pregiudizio alcuno su orientamento sessuale e provenienza, esaltando di ciascuno le singole peculiarità. "Non sono sempre allineata al 'politicamente corretto': se mi si chiede un’opinione sulle adozioni o sulla pratica dell’utero in affitto, posso pormi delle domande e non essere a favore. Questa non è e non sarà mai una dichiarazione contro la comunità Lgbt e i diritti delle persone che vi appartengono e che, anzi, rispetto profondamente. Si può non essere d’accordo su tutto senza assolutamente essere omofobi", ha ribadito Lorella Cuccarini difendendo il suo pensiero. La conduttrice, poi, si difende dall'insinuazione di Tommaso Zorzi: "Non c’è un etero che abbia mai ballato ‘La notte vola’ da quando è nata quella canzone". L'influencer in questo modo lascia intendere che gran parte del successo di Lorella Cuccarini sia da imputare alla comunità Lgbt ma la conduttrice ci tiene a mettere i puntini sulle i: "Io non ho mai “strizzato l’occhio” al pubblico omosessuale perché se lo avessi fatto, non ne avrei avuto rispetto. Sono grata immensamente a tutte le persone che mi hanno sostenuto in questi anni, ma non voglio piacere a tutti i costi. Mentendo a me stessa. Voglio che le persone mi conoscano per come sono veramente". Lorella Cuccarini, nel finale del suo post, ristabilisce il normale ordine delle gerarchie, ricordando a Tommaso Zorzi di avere qualche anno in più di lui, che ha l'età di sua figlia e che, probabilmente, della conduttrice conosce solo ciò che ha letto, senza informarsi poi troppo sul suo conto. Per questo motivo, una volta finita l'esperienza al Grande Fratello, lo invita per un caffè, per provare ad andare oltre le apparenze di quanto viene riferito.

Lorella Cuccarini: Solitamente non rispondo alle provocazioni, ma in questa occasione il silenzio potrebbe essere interpretato come un assenso e non posso permetterlo. Sono una persona onesta, l’ipocrisia non fa parte del mio DNA. Quando esprimo un’opinione, non è mai contro qualcuno, quindi sentire un concorrente del Grande Fratello dire che sono “contro gli omosessuali” (più una serie di insulti che faccio finta di non aver sentito) è qualcosa che mi ferisce profondamente e che non credo di meritare. La mia vita parla da sé: ho condiviso tante gioie esaltando il talento di compagni di lavoro, senza barriere di alcun tipo. Sfido chiunque ad aver mai ravvisato un comportamento irrispettoso o discriminatorio contro chiunque. Detto questo, non sono sempre allineata al “politicamente corretto”: se mi si chiede un’opinione sulle adozioni o sulla pratica dell’utero in affitto, posso pormi delle domande e non essere a favore. Questa non è e non sarà mai una dichiarazione contro la comunità LGBT e i diritti delle persone che vi appartengono e che, anzi, rispetto profondamente. È semplicemente il mio punto di vista su alcuni aspetti della vita. E lo esprimerei anche se avessi un figlio gay , che - sia chiaro - amerei profondamente come qualsiasi altro figlio. Si può non essere d’accordo su tutto senza assolutamente essere omofobi. Io non ho mai “strizzato l’occhio” al pubblico omosessuale perché se lo avessi fatto, non ne avrei avuto rispetto. Sono grata immensamente a tutte le persone che mi hanno sostenuto in questi anni, ma non voglio piacere a tutti i costi. Mentendo a me stessa. Voglio che le persone mi conoscano per come sono veramente. Caro Tommaso, hai l’età di mia figlia Sara, probabilmente mi conosci solo per quello che leggi di me. Ti considero un ragazzo intelligente. Se vorrai, quando uscirai dalla casa, mi piacerebbe prendere un caffè insieme e vedere se riusciamo ad andare oltre le apparenze...

 Alberto Dandolo per Dagospia il 26 giugno 2020. Redazione della Vita in diretta sotto shock dopo aver letto la surreale missiva scritta da Lorella Cuccarini in cui, senza mai avere il coraggio di citarlo, si scaglia contro il collega Alberto Matano facendone un ritratto assai lontano dalla realtà per chi, come chi vi scrive, conosce bene il giornalista. L'ex showgirl parla di un Matano maschilista, bugiardo e prevaricatore e lo fa con un tempismo anomalo. Eh sì, la Cuccarini proprio ieri è stata ricevuta dal direttore di Rai 1 Coletta che le ha comunicato ufficialmente il benservito. L'ex ragazza più amata dagli italiani, che si è portata 400 mila euro a casa per condurre il programma, ha aspettato quindi 10 mesi per dire ciò che pensa del collega. Perché solo ora? Ah, NON saperlo...

Domenico Zurlo per leggo.it il 26 giugno 2020. L’addio di Lorella Cuccarini a La Vita in Diretta, praticamente ufficiale, adesso fa discutere. Oggi pomeriggio su Raiuno andrà in onda l’ultima puntata del contenitore pomeridiano dell’ammiraglia del servizio pubblico, che tornerà a settembre ma senza "la più amata dagli italiani" in conduzione. Infatti, in studio ci sarà il solo Alberto Matano. Infatti, Matano è considerato molto vicino al M5S, partito di maggioranza relativa in Parlamento e conseguentemente molto influente nella rete ammiraglia rai, è uno dei conduttori di punta di viale Mazzini, in grande ascesa. La decisione era nota, i giornali l'avevano ampiamente anticipata. Oggi, però, la svolta: Lorella Cuccarini in una lettera inviata ai colleghi che hanno lavorato con lei in questi mesi si sfoga - senza mai nominarlo - contro il collega Alberto Matano con cui il rapporto non è mai decollato: la Cuccarini, nel testo della lettera, lo accusa di «maschilismo» e parla di «prevaricazioni». Una sorpresa anche per molti redattori del programma che pensavano che il rapporto tra i due si fosse "normalizzato" dopo alcune incomprensioni degli scorsi mesi. Una lettera esplosiva. «Cari compagni di viaggio, è arrivato il momento dei saluti, ma prima vorrei condividere con voi ciò che questa avventura ha rappresentato per me - scrive la Cuccarini nella sua lettera - È stata la mia prima volta in un programma quotidiano così complesso. Di programmi televisivi ne ho fatti tanti, ma una ‘macchina infernale’ come quella di VID non l’avevo mai guidata. La prima volta (e speriamo l’unica) in cui abbiamo dovuto convivere con il dramma di una pandemia devastante. A proposito, grazie per il vostro coraggio. La professionalità la diamo per scontata, il coraggio no…», scrive. Poi la lunga parte su un "lui" mai nominato che non si fa fatica ad identificare con  Matano, di cui però non fa mai il nome. «C’è una "prima volta" alla quale non ero preparata: il confronto con l’ego sfrenato e - sì, diciamolo pure - con l’insospettabile maschilismo di un collega di lavoro - scrive Lorella - Esercitato più o meno sottilmente, ma con determinazione. Costantemente. Talvolta alternato ad incredibili (e mai credute) dichiarazioni pubbliche di stima nei miei riguardi. So che tutto questo non devo certo ricordarlo a voi che eravate qui. E se si volesse cercare il perché di tutto questo, non sarebbe certo necessario rivolgersi alla Bruzzone». Per la cronaca, la trasmissione ha sempre avuto buoni ascolti, anche durante la pandemia e il lockdown, e Lorella con i colleghi e la redazione ha avuto un ottimo rapporto: per alcuni di loro questo saluto è stato una sorpresa, perché non pensavano che il rapporto tra i conduttori fosse così burrascoso come descritto dalla Cuccarini. Il cui addio, di cui si era parlato già nei mesi scorsi, arriva anche a causa delle sue posizioni sovraniste dello scorso anno. «Ora la missione è compiuta e saluto il programma», scrive rendendo chiaro il messaggio. «Malgrado tutto, mi ritengo fortunata per due motivi: perché in questi mesi ho avuto il privilegio di poter fare vero Servizio Pubblico e perché, in tutta la mia vita, ho conosciuto prevaricazioni di questo tipo solo ora, a 55 anni. Niente al confronto di molte donne che hanno sperimentato questa realtà fin da subito senza avere neppure la forza di opporsi o di parlarne. Malgrado tutto però è stato bello condividere questi mesi con voi - conclude la ex ‘più amata dagli italiani’ - Non so dove, non so quando, magari ci ritroveremo… Grazie di cuore a tutte le anime belle che ho incontrato. Vi abbraccio, Lorella Cuccarini».

Alberto Dandolo per Dagospia il 26 giugno 2020. Dagospia può pubblicare la lettera inviata dalla redazione della ''Vita in Diretta'' a Lorella Cuccarini, in risposta alla durissima missiva pubblicata stamattina: Cara Lorella, dopo aver letto la tua mail, arrivata a ridosso dell'ultima puntata del programma, abbiamo provato smarrimento e incredulità per le tue parole. Abbiamo trascorso mesi durissimi e difficili in cui abbiamo lavorato insieme, con te e con Alberto, con impegno e dedizione, per gli stessi obiettivi e non ci aspettavamo una conclusione come questa. Fare finta di niente sarebbe la soluzione più semplice ma sentiamo il bisogno di dover dire la nostra, da donne. Abbiamo lavorato per tutta la stagione invernale in questo programma e siamo sorprese e amareggiate e, stentiamo ancora a credere, alle accuse di maschilismo rivolte ad Alberto. La nostra esperienza di lavoro con lui è stata caratterizzata da rispetto e riconoscimento professionale. Da grande giornalista, Alberto ha saputo valorizzare ognuno di noi nel proprio ruolo, con passione, generosità e intelligenza, avendo sempre come obiettivo la qualità del programma. In bocca al lupo!

Maria Graziano, Maria Teresa di Furia, Elena Martelli, Ilenia Petracalvina, Shaila Risolo, Raffaella Longobardi, Lucia Loffredo, Lucilla Masucci, Simona Giampaoli, Sonia Petruso, Erika Tuccino, Mara Pannone, Sara Verta, Donatella Cupertino.

Lorella Cuccarini contro Matano, l'autrice e inviata Antonella Delprino non ha inviato la lettera delle donne della Vita in diretta. Libero Quotidiano il 28 giugno 2020. Una inviata e autrice storica de La Vita in diretta si tira fuori dalla rivolta pubblica contro Lorella Cuccarini. Ha fatto molto rumore la lettera di 14 donne protagoniste dello show di Raiuno che si sono schierate con Alberto Matano e contro le accuse di "maschilismo" rivolte dalla Cuccarini all'ormai ex collega conduttore. Lorella è stata silurata dalla Rai (pare perché troppo orientata verso un sovranismo di stampo leghista), mentre Matano (molto vicino, si dice, a Rocco Casalino e al M5s) resterà al comando dello show del pomeriggio di Raiuno. Ma in quella lettera mancava la firma di un volto assai noto ai telespettatori, quello di Antonella Delprino, Che su Twitter ha spiegato a una fan il motivo del suo gesto "controtendenza": "Perché sapevo che quella risposta sarebbe diventata pubblica. Sono all’antica. Lorella e Alberto riceveranno la mia risposta. Non voi".

Il post di Mario Adinolfi pubblicato su Facebook il 26 giugno 2020. Con la rimozione di Lorella Cuccarini, immensa icona pop della tv italiana ma con la sfortunata condizione di essere una mamma di famiglia di molti figli e di idee cattoliche, Raiuno completa il processo di omosessualizzazione dei conduttori simbolo dei programmi di quella che una volta era la rete ammiraglia sotto il totale controllo della Dc. Oggi alla guida del principale contenitore quotidiano della rete rimane solitario il grande amico del duplex di Palazzo Chigi Casalino-Spadafora, Alberto Matano. Gay dichiarato, sostenuto nella sua battaglia per impadronirsi de La Vita in Diretta dal M5S di governo (che rifiutava la lottizzazione solo quando a farla erano gli altri), Matano ha giocato sporco contro la Cuccarini che andandosene gli ha riservato parole durissime. A tenere in caldo il posto a Matano durante la versione estiva del principale programma di Raiuno (va in onda tutti i giorni per più di due ore al giorno) sarà Beppe Convertini, anche lui conduttore gay che ha rilasciato in queste ore un’intervista di “in bocca al lupo” alla Cuccarini che l’avrà fatta infuriare ancora di più. A fare il traino a La Vita in Diretta il mitico nuovo direttore giallorosso di Raiuno ha piazzato un programma imbarazzante per colonizzazione Lgbt, ovviamente condotto da un gay: Pierluigi Diaco. Il programma si intitola Io e Te, è bruttissimo, raffazzonato, scritto male e guidato peggio, non riesce ad arrivare manco al 10% di share, con momenti in cui letteralmente ci si vergogna per chi lo conduce come quando si dà spazio a tal ospite fisso Santino Fiorillo, che manco in una tv provinciale di terza categoria potrebbe aprire bocca e invece su Raiuno ha trovato il suo reddito di cittadinanza grazie ovviamente alla palese appartenenza alla nota lobby. Ora, Raiuno manda in onda tutti i giorni Santino Fiorillo e caccia Lorella Cuccarini. Poi dicono pure che sono discriminati e vogliono la legge Zan per mandarci in galera. Fino a quando pensano che sopporteremo tutto questo?

Eleonora D'Amore per fanpage.it l'8 luglio 2020. Momento delicato in Rai, a ridosso della presentazione dei nuovi palinsesti 2020/2021, che si terranno il 16 luglio tra le sedi di Milano e Roma. Tempi in cui sembra che gli animi siano particolarmente esagitati e il clima dentro e fuori studi piuttosto teso. Dal caso Insinna a quello Venier, sollevati da Antonio Ricci a Striscia la Notizia, che hanno messo in vetrina presunte realtà poco edificanti di entrambi i conduttori con i loro collaboratori, si è passato allo scontro frontale tra Lorella Cuccarini e Alberto Matano. I volti della fascia pomeridiana della rete ammiraglia sarebbero arrivati ai ferri corti, almeno stando alla lettera inviata dalla conduttrice uscente alla vigilia dell’ultima puntata di questa stagione. Si parlava di sessismo e di ‘ego smisurato’ con i quali avrebbe dovuto fare i conti, portando a termine un ‘mandato’ di appena un anno, concluso a suo dire molto a fatica. Di tutta risposta Matano ha optato per il silenzio. Al suo posto sono corse in soccorso le firme della redazione al femminile de La vita in diretta, che hanno preso le distanze dai toni accesi della Cuccarini. Ma c’è un fatto: la lettera ‘con cui le inviate e autrici de La vita in diretta rispondono per le rime, schierandosi in difesa di Matano”, per come è stata pubblicata da Dagospia e dai maggiori quotidiani nazionali, non avrebbe dovuto essere diramata riferendosi alla pluralità delle donne che ci lavorano. Fanpage.it infatti ha appreso da una fonte interna al programma che le firmatarie, 14 in tutto, deficitavano del consenso scritto di altre 37 collaboratrici, tra le quali la regista (Nicoletta Chiadroni, ndr), alcune inviate principali, redattrici e autrici. “È più un fatto di coscienza che altro” ci dicono “la lettera è stata considerata, non si sa se per errore o volutamente, delle ‘donne della vita in diretta’ e invece non è così. Erano solo poche colleghe, tante altre non hanno voluto perché o non interessate ad aderire alla polemica, essendo estranee ai fatti, o perché ignare della missiva o per motivi personali. Il fatto è che quelle sono 14 firme e ce ne sono 37 che non hanno voluto firmare o che non sono state proprio informate”. La precisazione è legata alla volontà di chiarificare un passaggio ritenuto fondamentale, ovvero quello che avrebbe in maniera erronea delineato due divisioni nette: una rappresentata dalla Cuccarini contro Matano e l’altra dalle donne della redazione contro la conduttrice e in difesa di Matano. La fonte aggiunge: Probabilmente non c’è stata nemmeno la loro volontà (quella delle firmatarie, ndr) di far passare quella come la lettera delle donne della vita in diretta perché hanno firmato singolarmente. È successo tutto in un attimo: la Cuccarini ha mandato la lettera la mattina dell’ultima puntata e subito dopo è stato improvvisata questa lettera di risposta con chi c’era e non informando tutte, aspettando le adesioni. A quel punto purtroppo i grandi giornali hanno riportato la notizia e non c’è stata la prontezza di intervenire per chiarire per bene come sono andate le cose. Già Antonella Delprino, storica autrice del programma, si era dissociata dalla lista di firme circolata a poche ore dalla lettera della Cuccarini, mentre Emma D'Aquino aveva subito spezzato una lancia in favore dell'ex collega ai tempi del Tg. E ora, dato che negli ultimi giorni si sono ricorse voci, in parte confermate, riguardo un acceso confronto verbale avvenuto fuori gli studi Rai, che ha visto Pierluigi Diaco contro Matano in difesa dell'amica Lorella, pare che il sipario fatichi a chiudersi su questa turbolenta stagione de La vita in diretta, che avrebbe potuto congedarsi dal pubblico con un sorriso in più dopo il successo di ascolti che ne aveva richiesto il prolungamento fino a fine giugno.

Lorella Cuccarini: “Milioni di italiani mi volevano nuda”. Redazione de Il Giornale Off il 27/01/2020. Lorella Cuccarini ospite nel video "Italiani" di Daniele Stefani.   L’ultima sua uscita è stata: “Non sono l’ultima starlettina raccomandata. Heather Parisi? Non so di chi tu stia parlando”. Al di là dello storico scontro fra le due soubrette, non possiamo non dire che “la più amata degli italiani” non metta dei filtri. Recentemente non l’aveva mandata a dire sui nuovi programmi TV della rivale. Vi proponiamo questa intervista off alla più pepata degli italiani, dove di mostra qualora ve ne fosse bisogno che lei ama andare controcorrente. Ha definito il blocco dei flussi migratori come “sacrosanto” e si è dichiarata “la più sovranista degli italiani”. La svolta filo governativa di Lorella Cuccarini con la sua intervista al settimanale “Oggi” ha suscitato parecchi commenti e critiche, al punto che in molti l’hanno definita ironicamente la “ballerina sovranista”. Dichiarazioni, le sue, non solo pro governo giallo verde ma anche contro: contro l’Euro, il Papa e il femminismo. Un fiume in piena, un outing bello e buono e, evidentemente, molto inaspettato. Le sue frasi, diventate virali, sono queste: “Bloccare l’immigrazione è sacrosanto”, “Sono la più sovranista degli italiani”, “Papa Francesco non deve esprimersi solo sui migranti”, “Non sono mai stata femminista e sono contraria alle quote rosa”. Fra le reazioni, quella della “nemicaamatissima” (è dagli anni ’90 che si contendono lo scettro di showgirl d’Italia) Heather Parisi. In attesa di sapere come andrà a finire, vi riportiamo la sua intervista cult. “Sono favorevole alle unioni civili ma i figli non sono un diritto. E non si comprano. Punto.” Così scrisse su Twitter la più amata dagli italiani. La frase ha destato scalpore e non è stata presa bene da tutti. L’opinione di Lorella a riguardo era stata già espressa in forma più piena in quest’intervista cult realizzata da ilgiornaleoff.it

Lorella, mi racconti un episodio off degli inizi della tua carriera?

«Ricordo uno dei miei primissimi lavori fatti, ero giovanissima, avevo sedici anni. La mia scuola di danza mi selezionò per fare spettacoli di folklore per gli stranieri in visita a Roma. Li ricordo come un appuntamento molto divertente, non solo per l’eccitazione delle prime volte, ma anche per il contatto con le altre culture. Per una ragazzina agli inizi fu un’esperienza davvero eccitante».

“Chi lo sa com’è che ho mosso i primi passi” cantavi in una tua sigla storica, e tu li muovi nella scuola di Enzo Paolo Turchi.

«In realtà cominciai con il fratello Flavio Turchi, il mio primo maestro e  punto di riferimento umano. Quando mio papà se ne andò di casa io ero molto piccola. Per cui per me oltre a essere una scuola di danza quella fu una scuola di vita, e Flavio una figura fondamentale».

Figura sicuramente importante per te quella di Pippo Baudo. Ma è vero che devi il vostro incontro ad una convention di gelati?

«Sì (ride), un’esperienza veramente strana. Mi offrirono di far parte del corpo di ballo di quell’evento di cui coreografi erano Brian & Garrison. Si lavorava molto e si guadagnava poco, ma mi dissi “Perché no?” e accettai. Scoprii solo poco prima delle prove che la convention sarebbe stata presentata da Baudo. Alla fine della serata, l’agente di Pippo mi prese da parte e mi disse che il giorno dopo avrebbero avuto piacere di incontrarmi. Io mi presentai e ci scambiammo i contatti. Lì per lì, pensai che il mio numero di telefono sarebbe rimasto chiuso in un cassetto. Invece poi arrivarono una telefonata, e l’incontro con Franco Miseria. E fu “Fantastico”».

Proprio Pippo, qualche settimana fa al telefono con me, ha sorriso nel ricordare che tu a quell’appuntamento ti presentasti con mamma al seguito.

«(Ride, n. d. r.) Ero cresciuta convinta che nel nostro ambiente ci fosse un circuito di serie B pericoloso per le giovanissime emergenti. Poi ripensandoci mi dissi: “cavolo, mi ha chiamato Pippo Baudo, non uno sconosciuto!”, ma all’epoca ero ancora molto acerba, giovane e probabilmente un po’ sprovveduta».

Lori, perché secondo te la TV si sta dimenticando di Pippo?

«Questo paese dimentica in fretta tante cose. Purtroppo non riusciamo mai a onorare sufficientemente le persone che hanno scritto pagine importanti. Succede in molti ambiti, non solo nello spettacolo. Pippo per me è stato veramente una figura di riferimento importantissima, con lui ho imparato molto più che in quindici anni di palestra. E’ una persona con i piedi ben piantati a terra, a differenza di tanti che hanno avuto successo in pochissimi mesi e sembra volino a dieci metri da terra in un delirio di onnipotenza».

Permettimi di raccontare un aneddoto: due anni fa ero tuo ospite dietro le quinte di Domenica In, e mi ha colpito vederti durante la riunione di scaletta, dedita, preparata, attenta, con grandissimo amore per quello che fai, e soprattutto con un rispetto e un affetto verso macchinisti, tecnici, che sicuramente “dietro altre quinte” difficilmente si trova.

«Io credo che il nostro sia un lavoro di gruppo, e questo lo devo a Pippo. Noi siamo la punta di un iceberg. Penso che il massimo rispetto per tutte le figure intorno a te sia fondamentale e dovuto, anche per il successo del progetto stesso».

Torniamo a “Fantastico”. “Fantastico 6″, poi l’anno dopo torni in coppia con Alessandra Martines, ed è in termini di ascolto il successo dell’anno. Nella sigla di chiusura, cantate “L’amore è”, però… non fu proprio un idillio fra voi.

«Con Alessandra il rapporto umano fu inesistente. Non sempre tutte le ciambelle possono uscire col buco (ride), anche se quasi sempre ho legato con i colleghi con cui ho lavorato. Io non amo i protagonismi, ma a volte capita di incontrare persone che la pensano in maniera diversa, e che rendono il rapporto molto distante e formale. Con Alessandra fu così».

Un grandissimo successo lo hai poi con il passaggio a Fininvest: prima “Festival” nell’87 e poi “Odiens”, che regala a te, ma soprattutto a noi, la sigla più sigla di tutte le sigle: “La notte vola”.

«Anche quello  un progetto nato per caso, scoppiato in mano senza volerlo. Che il pezzo fosse forte e con una grande energia lo avevamo intuito sin dall’ascolto del primo provino. Ciliegina sulla torta, poi, fu che la rete e il regista di “Odiens” si appassionassero alla canzone al punto da chiamare Renzo Martinelli – all’epoca regista quotatissimo nelle grandi pubblicità – per farne il videoclip, il primo in assoluto nella storia delle sigle tv . Dopo 25 anni “La notte vola” piace universalmente, sia ai ragazzi degli anni ottanta sia a quelli di oggi

Ecco, moltissimi locali gay però hanno deciso di non passare più le tue canzoni in seguito alla polemica sulla questione matrimoni. Io sono stato tra i primi a difenderti, sostenendo la tua posizione per nulla omofoba, ma semplicemente cattolica».

Vogliamo fare pace col mondo gay? 

«Secondo me non si può parlare di mondo gay, ma di una parte di mondo probabilmente ottuso. Io frequento quotidianamente tanti gay che la pensano come me. Purtroppo, ci sono persone aperte mentalmente e illuminate, e altre che invece vogliono ascoltare solo quello che gli fa più comodo. Io preferisco comunque essere sempre sincera e aperta al confronto».

E io sono totalmente d’accordo con te. Ma se ti dicessi invece Marco Columbro?

«Marco è una persona con cui ho condiviso alcune delle pagine più belle della mia storia televisiva, e quella con cui sono cresciuta maggiormente come conduttrice. Pippo è stato un insegnante fondamentale per la crescita e la formazione professionale, ma Marco è stato il compagno con cui ho probabilmente fatto i passi più importanti, dalle Buone Domeniche alle nostre Paperissime. Sono stati anni fondamentali, tutti gli anni ’90, vissuti insieme sino all’esperienza drammatica  fortunatamente a lieto fine della sua malattia».

Grandissima nostalgia per quegli anni: andare a Mediaset e sapere che non ti si incontra nei corridoi ammetto che fa un certo effetto.

«Sicuramente è stato un pezzo di vita reale. Un pezzo di cuore è rimasto lì con tutte le maestranze dello studio 10, dello studio 11. Abbiamo vissuto quattordici anni di soddisfazioni, gioie e successi. Ricordo quei momenti come se fossero ieri. Un’esperienza importantissima che ha segnato la mia crescita maggiore: la vera gavetta è quella che ho fatto negli anni di intrattenimento a Mediaset».

Accennavi alla malattia di Marco: in realtà anche tu hai avuto un momento doloroso della tua vita che hai superato proprio grazie al teatro. Con “Sweet Charity” sei tornata dal pubblico e ad essere la Lorella più amata dagli italiani.

«Quando si cresce e si diventa grandi capita che ti arrivi qualche schiaffone. Poi, guardando con sano distacco, ti accordi che le esperienze difficili sono quelle che ti formano di più, dandoti una prospettiva di vita diversa, e facendoti ristabilire la tua scala di valori. Sono momenti che ti fanno crescere sul serio».

Grandi musical: “Grease”, “Sweet Charity”, “Il Pianeta Proibito”. Parlando de “Il Pianeta Proibito”, sai che la tua performance al Festival di Sanremo, tratta dallo spettacolo, e in cui sei nuda e coperta solo da una chitarra, ha incollato alla tv 16 milioni di italiani?

«Lo so, lo so! (ride) Tutti volevano vedere “la più amata dagli italiani” nuda! Quello era il punto di partenza, poi invece hanno visto uno spettacolo incredibile. In tournée, alla fine di ogni replica, le persone che venivano a salutarmi mi dicevano: “quel momento vale la spesa del biglietto! Anche se avessimo visto solo quello, saremmo usciti soddisfatti”. Certamente “Fever” era un momento di grande innovazione. Luca Tommasini è stato un vero genio, al punto che anche Beyoncé si è poi ispirata in maniera molto forte a noi».

Nel 2002 sei tornata in Rai. Poi nel 2004 nonostante il tuo contatto di esclusiva, Fabrizio Del Noce ti parcheggia. E il tuo pubblico si chiede ancora perché.

«Me lo chiedo anch’io, per dirti la verità (ride). Anzi no, non me lo chiedo più. Mi sono data la semplice risposta che gli allenatori che scelgono le squadre da mettere in campo, devono essere liberi di fare le loro valutazioni. Purtroppo in quel momento a me è toccata la panchina. Può capitare in quasi trent’anni di carriera ci siano anche momenti bassi. Penso per esempio alla mia trasmissione radiofonica, “Citofonare Cuccarini”, chiusa dall’oggi al domani. Certo, sono esperienze che a caldo fanno, soprattutto se hai sempre creduto in un rapporto umano prima che professionale».

Hai citato “Citofonare Cuccarini” , un programma radiofonico bello, fatto bene e condotto con la professionalità che ti contraddistingue da sempre, ingiustamente chiuso da Flavio Mucciante.

«Solito discorso, cambiano i direttori cambiano le squadre. Questo è assolutamente legittimo, ma non posso non contestarne i modi. Io ho saputo da una mail in copia conoscenza della cancellazione del programma. Siamo stati chiusi come se fossimo dei ladri, e questo francamente credo che non lo meritassimo, io tutto il gruppo di lavoro che è stato al mio fianco e gli ascoltatori».

Ti cito una tua frase: “Curo molto il mio corpo, mi alleno. Lo faccio anche per far felice mio marito, è un dovere dopo tanti anni essere ancora desiderabile. Il sesso è un ottimo alleato: due volte alla settimana”. L’hai detto?

«(ride) Non che io stia con il conta…passi ma, se dovessi pensare all’equilibrio ottimale di una coppia secondo me un paio di volte a settimana… certo, l’eccitazione non è come le prime volte, ma il fatto che cambi non vuol dire che per forza peggiori. Anzi, può migliorare qualitativamente, anche se cala dal punto di vista numerico. Verissimo che curo il mio corpo, per mio marito e soprattutto per me stessa, perché mi voglio bene».

Ma se ti chiedessi il tuo Pianeta Proibito?

«Io non ho un Pianeta Proibito, e non m’interessa nemmeno averlo, sai?»

Bellissima risposta.

«Credo che in una coppia non ci siano proibizioni. Quando c’è un rapporto di totale simbiosi perché ci dovrebbe essere un Pianeta Proibito?»

Lori, grazie per questa chiacchierata. Ti auguro davvero di cuore di tornare presto con un tuo programma, che sappia ripagarti di tutto quello che hai dato e dai al tuo pubblico.

«Ricordati che tutti siamo utili e nessuno è indispensabile, è un detto che mi ricordavano sempre mia nonna e mia mamma, ed è una grandissima verità. A parte questo, lo spero molto anch’io molto, soprattutto perché ho tanta voglia ancora di fare. Ecco Gabriele, ti ricordi la “voglia di fare” che cantavo nel mio disco?»

Come faceva quella canzone?

«“Che ci sia voglia di fare, che ci sia voglia di dare” (canta). Ecco, così, io non sono cambiata di una virgola».

·        Lorenzo Battistello.

Grande Fratello, che cosa fa oggi l’ex concorrente Lorenzo Battistello? Notizie.it il 26/06/2020. Lorenzo Battistello, concorrente della prima edizione del Grande Fratello, oggi lavora all'estero e ha lasciato alle spalle la carriera televisiva. Sono passati 20 anni da quando Lorenzo Battistello ha partecipato alla prima edizione del Grande Fratello. E oggi, dopo quell’intensa esperienza, ha deciso di abbandonare il piccolo schermo, e in generale il mondo dello spettacolo, per coltivare in silenzio la sua passione: la cucina. In una recente intervista rilasciata a Radio Cusano Tv Italia, l’ex gieffino ha raccontato la sua vita dopo la grande popolarità data dal reality show più longevo italiano. Oggi, ha 46 anni, vive a Barcellona con la moglie ed è un imprenditore e chef affermato. Infatti, vanta nel suo armamentario una notevole quantità di ristoranti. E non ha intenzione di fermarsi qui o forse no. Purtroppo anche il Battistello ha dovuto fare i conti con l’emergenza Coronavirus. Il suo scopo era quello di aprire un altro ristorante ma, appunto, per via del virus ha dovuto sospendere tutto. Il suo, come assicurato, è solo uno stop momentaneo e riprenderà al più presto i lavori di ristrutturazione per avviare un altro suo importante traguardo. Oltre ai momenti belli, però, l’ex gieffino ha dovuto affrontare anche momenti brutti come quello del tumore. Un tumore maligno che però non ha di certo fermato il 46enne che ha continuato la sua vita riuscendo, alla fine, a sconfiggerlo. Non solo sulla salute: i problemi, però, son arrivati anche in campo economico. In particolare, alla fine della sua esperienza nella casa del Grande Fratello. Infatti, una volta uscito il successo è stato tale che sia i concorrenti stessi che le agenzie di comunicazione non sono riusciti a gestire il tutto sopratutto il denaro. Proprio questa difficoltà nella gestione di soldi “facili” lo ha portato a sperperare tutto il suo patrimonio vinto com’è successo anche a un’altra concorrente della prima edizione: Marina La Rosa. La televisione non sembra proprio essere nei piani di Lorenzo che vuole dedicarsi totalmente alla sua attività imprenditoriale. Non è sicuramente il primo né l’ultimo a essere sparito dal piccolo schermo e ad aver preferito la vita dell’anonimato come un altro amatissimo personaggio la favolosa cubista di Uomini e Donne Angela.

Dagospia il 25 giugno 2020. Da radiocusanocampus.it il 26 giugno 2020. Lorenzo Battistello, il cuoco che partecipò alla prima edizione del Grande Fratello, è intervenuto ai microfoni di Emanuela Valente su Radio Cusano Tv Italia (ch. 264 dtt). Riguardo la sua attività oggi. “A gennaio stavo per aprire un ristorante a Barcellona, poi ci siamo ritrovati nel bel mezzo della pandemia e del lockdown –ha affermato Battistello-. Da un lato posso ritenermi fortunato, in quanto non avevo ancora assunto persone, ho solo dovuto sospendere i lavori di ristrutturazione del locale e poi riprenderli un po’ alla volta. La Spagna sta vivendo fasi diverse, ad oggi Barcellona è nella fase 2 e sta passando nella fase 3 che è la stessa italiana. I ristoranti possono riaprire anche all’interno, con i dovuti protocolli di sicurezza. L’unico problema che hanno in Spagna è quello delle autonomie che sono molto più forti rispetto all’Italia e lo scontro tra governo e regioni è stato molto più forte”.

Sull’esperienza al Gf1. “A Barcellona la comunità italiana ancora mi riconosce per strada. La nostra edizione è stata talmente forte a livello sociale che forse è stata il primo esperimento di social network se consideriamo il lato della condivisione della propria quotidianità. All’epoca questo non esisteva. Quindi non è stato solo il primo reality che ha cambiato la storia della tv, ma ha cambiato anche il modo di vedere la propria privacy. Se all’epoca ci fossero stati i social, oggi di professione farei l’influencer. Calcolando che l’ultima puntata del Gf1 è stata vista da 16 milioni di persone, ad oggi mi ritroverei sicuramente con un milioncino di follower e avrei potuto campare di rendita così. Fino ad allora era impensabile che una persona dal nulla andasse a condurre, presenziare qualsiasi programma televisivo se non avesse fatto degli studi o gavetta, grazie o per colpa GF, si trovano ormai programmi con conduttori mai visti prima, che stanno lì solo perché hanno milioni di follower su instagram, prima era impensabile. Abbiamo cambiato il modo di fare tv e di vedere le persone e la privacy”.

Un ricordo di Pietro Taricone. “Il 29 giugno saranno 10 anni dalla scomparsa del caro Pietro. Volevo mandargli un mio pensiero personale molto forte. La serata dell’ultima rimpatriata con i ragazzi del GF è un ricordo molto bello che porto dentro di me. Con Pietro non c’è stato il tempo di conoscersi profondamente, però lì ho percepito il rispetto che lui aveva per me. Questo mi ha lasciato il ricordo di una persona vera, buona, che voleva solo stare bene”.

Su Rocco Casalino. “Casalino era presente nella chat su whatsapp con i concorrenti del GF1, dove ci scriviamo spesso. Quando è scoppiata la pandemia molto saggiamente ci ha scritto un messaggio per dirci: ragazzi, non posso avere distrazioni in questo periodo, quindi esco dalla chat perché devo rimanere concentrato su una situazione molto importante. Io ho seguito la sua prima carriera in tv quando ha iniziato a Tele Lombardia, era molto determinato a far carriera nel mondo del giornalismo e delle comunicazioni. Conoscendolo, sapevo che da qualche parte sarebbe arrivato. Non mi aspettavo a questi livelli, ma non sono sorpreso. Se lo merita di più proprio per questo, perché quando hai un’etichetta così commerciale e così denigratoria quando si parla di cose serie, è difficile. Io nel mio piccolo ho trovato le stesse difficoltà quando mi trovavo a parlare con altri ristoratori, ti guardano sempre come per dire: tu non sei un cuoco vero, non sei un ristoratore, sei solo un ex concorrente del GF. Quindi se lo merita doppiamente Rocco, perché non è facile convivere con questa etichetta, ogni volta che dici o fai una cosa, c’è qualcuno che ti dice: ma parli tu che sei spogliato al GF. Se uno vale, vale. Allora la Carfagna non avrebbe mai dovuto fare il deputato, così come Luxuria. Conte ha detto che scegliendo i suoi collaboratori ha scelto i migliori e secondo lui Rocco in quel momento era il migliore, non è stato a guardare il suo passato. Rocco non è il premier, è il portavoce, è chiaro che ha le sue responsabilità, però non penso che abbia fatto errori clamorosi. Non si può imputare a Rocco il fatto che sia stata applicata una legge che non serve, Rocco non approva leggi. Per quanto riguarda la comunicazione non ho notato errori clamorosi. Rocco è rimasto lo stesso, non si è montato la testa, mi ha stupito perché una volta raggiunto questo incarico era difficile per me rapportarmi con lui, invece è stato proprio lui a dirmi che siamo amici e che non dovevo farmi problemi a parlare con lui come avevo sempre fatto. Qualche giorno fa ho trovato una foto di me e lui 20 anni fa, gliel’ho mandata e lui mi ha risposto: madonna, quanti anni sono passati! A parte questo si chiacchiera, ma non è che gli scrivo per chiedergli del suo lavoro”.

Dagospia il 29 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Lorenzo Battistello, il cuoco che partecipò alla prima edizione del Grande Fratello, è intervenuto ai microfoni di Emanuela Valente su Radio Cusano Tv Italia, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Ora vive a Barcellona, ma quando torna in Italia per strada lo riconoscono ancora. “Devo dire che mi riconoscono in molti, magari non si ricordano il nome, però mi guardano come per dire: ti conosco ma non so come –ha spiegato Battistello-. Mi sono successe anche cose un po’ divertenti. Una volta sono andato a fare una visita in ospedale, ero in ascensore con un’infermiera che mi ha guardato un po’ con curiosità e mi ha detto: ma io ti conosco. Più che altro la gente pensa di avermi già visto per strada o da qualche altra parte, ma non mi associa più al Grande Fratello, poi quando gli spieghi allora gli torna in mente”. Sull’esperienza alla prima edizione del Grande Fratello nel 2000. “Ricordo che in me c’era incoscienza e scarsa consapevolezza di ciò che si andava a fare. Mi ricordo anche lo stupore dei miei amici, quando prima di entrare in casa gli raccontai che sarei andato al GF e loro non capivano che tipo di programma fosse. Non c’era proprio consapevolezza di cosa fossero i reality, considerando che all’epoca non c’erano neanche gli smartphone, non c’era la diffusione di internet così capillare come adesso. Quando provavo a spiegare che sarei entrato in una casa, spiato dalle telecamere 24 ore su 24, la gente non capiva. Essendo la prima edizione c’era incoscienza da parte nostra, ma anche da parte degli stessi autori che non avevano un’esperienza tale nel settore da capire esattamente cosa dovessero fare. Il regolamento prevedeva che non potessimo neanche leggere un libro, perché si voleva evitare a tutti i costi che qualcuno si isolasse dagli altri. La cosa che mi mancava di più infatti nella casa era la solitudine. Io sono un abitudinario su alcune cose, ad esempio mi piace bermi il caffè da solo al mattino, mi piace ritagliarmi dei momenti in solitudine, ma lì non ce l’avevo. Se tu ti sedevi da solo in giardino, arrivava un altro concorrente e ti iniziava a parlare. Era un esperimento molto interessante, tanto che moltissimi ragazzi dopo quell’edizione mi hanno contattato per delle tesi di laurea perché comunque era uno studio sociologico”. Sull’attuale edizione del GF Vip a cui partecipano due ex concorrenti della prima edizione: Sergio Volpini e Salvo Veneziano. “Le edizioni immediatamente successive alla prima le ho seguite, anche perché ero ancora nel mondo dello spettacolo. Poi non ho più seguito il programma. Quest’anno, proprio perché c’erano Sergio e Salvo, ho seguito l’edizione del GF vip, per curiosità, per fare anche due chiacchiere perché comunque ci sentiamo tramite messaggi con gli altri ex concorrenti della prima edizione. Sergio e Salvo purtroppo sono usciti prematuramente quindi dopo la loro uscita ho smesso di guardarlo. La squalifica di Salvo per frasi sessiste? Ho seguito tutto e mi sono anche confrontato con lui dopo questo episodio. Salvo lo conosco da 20 anni, forse è uno di quelli che ho sentito più spesso in questi anni. Lui è sempre stato un giocherellone, uno che ha sempre cercato di crearsi un’immagine simpatica, anche esasperando alcuni modi di dire. Noi ex concorrenti del GF1 un po’ l’avevamo avvisato prima di entrare, gli avevamo detto di stare attento perché i suoi modi di dire e di fare in alcune situazioni  possono non essere compresi  e rischiano di mandare un messaggio negativo. Sicuramente è stato un cretino in quell’occasione perché non doveva dire quelle cose. Però è una persona molto fedele con la famiglia, una persona buona. Ha fatto un errore, purtroppo ha abbassato la guardia, preso dalla voglia di mettersi un po’ in mostra forse ha esasperato troppo i toni cercando di fare il simpatico. Penso sia consapevole del suo errore. Mi ha stupito la reazione della sua famiglia perché se io mi fossi solo permesso di fare un complimento ad una ragazza, mia moglie il giorno dopo avrebbe chiesto il divorzio. Ciò fa capire che la famiglia è consapevole del suo modo di fare, che è solo un modo per scherzare e basta, perché altrimenti penso che una moglie non l’avrebbe perdonato”. Un mio ritorno al GF. “Non nego di averci pensato. Sicuramente se fosse arrivata una proposta l’avrei valutata, ma solo da un punto di vista economico. Ormai ho la mia vita in Spagna, sono fuori dagli interessi del mondo della tv quindi avrei valutato la proposta solo per un interesse economico. Sono anche consapevole che fare un GF a 46 anni, sposato, con tanto di famiglia allargata, significa stare molto allerta perché il GF va a cercare le tue debolezze”. Marina La Rosa ha dichiarato di aver sperperato tutti i guadagni del post GF. “Tutti noi all’epoca fummo catapultati in un mondo nuovo, anche a livello economico. Ci sono arrivati soldi facili, all’epoca si facevano molte ospitate. Sicuramente c’è chi ha messo via di più, chi ha messo via di meno, anche io ho sperperato soldi per incapacità, però va detto che anche gli addetti ai lavori non erano preparati a gestire il nostro successo. Eravamo in un momento di popolarità immenso, se giravo per strada con Fiorello la gente fermava me piuttosto che lui. Eppure quel momento non è stato sfruttato perché anche le stesse compagnie di marketing non sapevano come gestire la cosa, non sapevano se un concorrente del GF, seppur popolare, potesse essere un bene o un male per sponsorizzare un marchio. La finale ha fatto 16 milioni di ascoltatori, se all’epoca ci fossero stati i social io oggi avrei milioni di follower, cosa che mi permetterebbe di guadagnarci sopra. Va detto anche che noi abbiamo fatto il GF nel 2000, abbiamo avuto la grande popolarità nel 2001, quando c’era la Lira e poi c’è stato il passaggio all’Euro. Quindi abbiamo incassato molto in Lira e con l’Euro il guadagno si è dimezzato”. Sul flirt con Marina La Rosa. “Con Marina c’è stato e c’è tuttora un ottimo rapporto che ci lega profondamente. Ovvio che lei cercava un appoggio su una persona con più esperienza, ci siamo conosciuti, frequentati, anche perché cercavamo di difenderci da questo tornado mediatico che ci ha avvolto. Da lì si è rinforzato il nostro legame, finchè ognuno è andato per la propria strada. Tutt’oggi ci sentiamo, come ci sentiamo con tutti gli altri ex concorrenti. Non è che ci scambiamo messaggi di vita quotidiana, è più un far capire che ci siamo”. Su Pietro Taricone. “Con Pietro c’è sempre stato un rapporto di enorme rispetto, io sono rimasto molto colpito dal suo modo di parlare di me. Quando fui eliminato dalla casa, tutti avevano gli occhi puntati su Marina che piangeva e le altre ragazze della casa che erano triste. Io però non avevo notato che il più triste di tutti era Pietro. Gli autori del GF mi han fatto vedere delle immagini in cui Pietro andava in giardino e mi chiamava. Lui è stata la prima persona che poi è andata in confessionale a parlare di me e a farmi gli auguri per il mio compleanno. Una volta mi disse: siamo come due cervi nello stesso branco, ci scorniamo ma ci rispettiamo. Lui aveva visto in me l’antagonista, perché a lui piaceva lo scontro, però una volta usciti la notorietà non ci ha permesso di ritrovarci e sentirci spesso. Finchè un giorno non abbiamo deciso di rivederci tutti e abbiamo organizzato una cena di nascosto. Eravamo in 6-7. Pietro ci teneva molto ad esserci e abbiamo passato una giornata splendida. Poi a fine serata mi ricordo che Pietro mi ha dato un passaggio in albergo con la sua Smart e da lì abbiamo fatto un giro per la città. Un po’ brilli ci siamo per la prima volta confrontati e raccontati, fuori da quello che ci stava succedendo, dalle maschere che la tv ci aveva messo addosso. Pietro era una persona molto insicura e combatteva la sua insicurezza con lo studio, la preparazione e il suo modo di fare. Era una persona fragile, ma con una forza dentro che gli permetteva di combattere questa fragilità dimostrandosi forte. E’ riuscito ad arrivare al cuore delle persone con la sua semplicità”. Riguardo la sua malattia. “Ho avuto un tumore. Oggi sto benissimo, sono stato fortunatissimo. Non ho raccontato spesso pubblicamente la mia storia. Voglio ringraziare mia moglie e con questa intervista voglio anche cercare di promuovere la prevenzione. Al giorno d’oggi tutto si può curare, la forza mentale, i progressi della medicina e la prevenzione possono aiutare a curare qualsiasi cosa. Io sono stato fortunato perché, grazie all’attenzione di mia moglie alla prevenzione, ho fatto tutte le visite possibili. Io ho un tatuaggio che ha 15 anni. Questo tatuaggio nel 2017 mi si è infiammato. Io ho pensato: sarà il sole. Mia moglie invece mi ha detto di andare dal dermatologo. Il dermatologo mi ha fatto una biopsia e mi ha detto che probabilmente il corpo umano aveva creato una forma di reazione allergica a degli inchiostri dell’epoca, ma non ha escluso la possibilità di una sarcoidosi. Mi ha mandato dalla pneumologa che mi ha fatto gli esami e mi ha detto: non ho trovato nulla ma per sicurezza ogni 6 mesi facciamo nuovi esami. Una mattina, dopo aver fatto un test, la pneumologa mi ha comunicato che casualmente il tecnico della tac aveva aperto l’immagine e aveva trovato una macchia sul mio rene destro. La pneumologa allora ha passato il mio caso a una fondazione di oncologia specializzata in reni. Dopo aver fatto le analisi, mi hanno detto che era un tumore maligno e bisognava operare togliendo il rene. Ho fatto l’operazione con un oncologo bravissimo di Padova, che ha deciso di operarmi con il Da Vinci per non togliermi il rene. Questo ha permesso di pulire il rene senza toglierlo. Poi mi ha detto che era un carcinoma maligno ma che era fiducioso. Alla vigilia di Natale mi ha chiamato e mi ha detto che il tumore era a bassa aggressività e che grazie al fatto che era stato trattato allo stato iniziale, potevo considerarmi guarito”.

·        Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Ray Banhoff per themillennial.it l'8 maggio 2020. Percularlo per ore, fargli le pernacchie quando passa, giocare con lui a carte o a nascondino e barare per farlo perdere e umiliarlo. Questo mi ispira la visione di Jovanotti in bicicletta in Cile o dove cazzo è. Attualmente su Raiplay si può assistere al suo viaggio in Sudamerica. Fermo Lorenzo non può stare e nemmeno il suo conto corrente, quindi la Rai ha ben pensato di fargli fare un viaggio epico. Un uomo da solo in bici in Cile. Si chiama Non voglio cambiare pianeta e lo pagano con i nostri soldi. Ma va bene, c’è sicuramente di peggio.

La trama di Non voglio cambiare Pianeta. Ma cosa è sto programma? Una roba tipo flusso di coscienza del tuo maestro di tarocchi e yoga preso strabene che svalvola per ore e ore mentre pedala. In salita sulla Panamericana parla di Terzani, di Pantani, urla “buongiooooornoooo”, “buenos diaaaaaas”. Parla tutto il tempo e devo stare attento perché mi tira fuori il bullismo e non voglio mettere in giro un brutto karma. Non voglio essere gratuito. Non voglio parlare male di Jovanotti. Non sono Scanzi. Voglio solo fare una riflessione. Come essere umano gli voglio pure bene a Lorenzo, ma penso sia lecito analizzarlo. Mi spinge a chiedermi: ma come mai mi fa salire la bestia, questo qui? Perché è brutto provare certe cose. Ripeto non scrivo su The Vision e quindi non sono uno che se la tira e parla male a priori, ma Cristo, con tutta l’autoanalisi del mondo: Jovanotti mi fa bestemmiare in aramaico.

Dopo tutto, chi è Jovanotti? Jovanotti è una figura centrale del mondo culturale italiano. Provo costantemente a fidarmi dei consigli di magazine, amici, intellettuali che lo incensano come “il numero uno, un genio”. Quindi boh, metto su un pezzo o un suo video… Ma poi non ce la faccio mai, non riesco a prenderlo sul serio, a vederlo come qualcosa di genuino. Per me Jovanotti è come Renzi, qualcuno che recita una parte. Mi rendo conto che lui stesso crede alla versione di sé che vuole proporre al mondo. Questo mi irrita di lui, che si vede che ci crede. Altrimenti lo rispetterei. Tutta l’arte può essere una grande truffa messa in piedi per permettere agli artisti e chi gli stanno dietro di fare soldi, godersi la vita e fottersene di quei disgraziati incasinati che li elevano a idoli. È giusto così. Ma Jovanotti non è un artista, è un progetto di marketing perfetto, una roba completamente creata a tavolino.

I versi di Jovanotti sono come frasi dei biscotti della fortuna. Lorenzo Cherubini è il figlio di un mercato che lo tiene in piedi e lo usa come distillato spirituale per persone che hanno bisogno di sentirsi dire esattamente quella cosa che lui gli canta. Lorenzo è come le frasi nei biscotti della fortuna: talmente generiche e ovvie che sono perfette per tutti. Per scrivere queste poche righe mi sto ascoltando la sua musica in modalità anonima su Spotify perché non voglio che i miei contatti sappiano che lo ascolto. Mi vergognerei. Jova mi fa vergognare. Il deserto culturale nell’arte italiana è talmente in secca che Jova ha investito il mercato. Ci sono lui, Saviano… e basta. Parlo di idoli culturali pop. Roba che conosce anche mi’ madre. Quindi è un artista o lo strumento dell’industria dell’intrattenimento che lo svuota come una carcassa per continuare a vendere aria fritta a tutti i mangiatori di tofu e acquirenti di incensi (come me, oltretutto)?

Se Jovanotti proponesse mutande con la sua faccia venderebbe uguale. Non voglio parlare in questa sede della sua musica perché credo sia ridicolo anche il discorso di affrontare quello che fa come un prodotto intenzionale. Forse glielo fanno credere, gli dicono: siii, il disco è una bombaaaa. Ma la verità è che se vendesse mutande con la sua faccia venderebbe uguale. Ormai è un brand. La musica è lo strumento che usa per vendere il prodotto vero: lui. Il guru. L’uomo gentile che ti comprende. Il colto che tutte vorrebbero come suocero, cognato, marito, amante, fratello, babbo. Vegetariano spirituale colorato vestito bene bellino con la barbina la musichina i quadri la figaggine la magrezza le collanine i vestiti stilosi il presobenismo perenne il tono da guru motivazionale il buonismo l’ambientalismo Greta Terzani Mandela Obama new age l’aspetto da tizio adatto a posare per riviste di moda. È un’accozzaglia di tutti i luoghi comuni dell’universo culturale di sinistra. Lo hanno eletto a guru. Sposa la gente ai suoi concerti. Sposa. La gente. Ai suoi concerti. Lo hanno fatto posare per Nan Golding in quella che è stata la prima cover di una magazine nella vita di quella grande artista. Sorpresa? La foto fa cagare. È vuota, non c’è niente. C’è chi ipotizza che l’abbia scattata un assistente. Io sostengo che la colpa sia del soggetto. Secondo me anche Lorenzo è vittima di questo meccanismo. Nessuno lo critica mai, nessuno gli dice: sto disco fa cagare. Crozza ormai è considerato innocuo, ma la sua caricatura di Lorenzo è spietata. Il migliore come al solito fu Checco Zalone, che lo prese in giro sul palco, cantando una parodia jovanottiana che trovate su YouTube. Lorenzo ride ma è incredulo, come se qualcosa dentro di lui scattasse, come se per un attimo realizzasse: allora è anche così che la pensa la gente? Sì Lorenzo, alcuni la pensano così.

Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più/ Dicono che è vero che ogni grande amore/ Naufraga la sera davanti alla tv/ Dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione/ Dicono che è vero sì, ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione. Lorenzo Cherubini

Malcom Pagani per vanityfair.it il 29 aprile 2020. L’uomo chiamato cavallo non cerca scuse. Viene dall’Italia. Ha una bandierina tricolore a poppa e l’infinito a prua. Trotta e sbuffa, arranca e pedala. Incontra lama, balene, foche e militari. Supera le frontiere. Osserva saline estese come ghiacciai e cespugli trascinati dal vento. Suda. Si ustiona. Dubita. Decide. Orienta la mappa dell’immaginazione sull’unica rotta che conosce: la libertà. Punta la sveglia all’alba e avanza fino al tramonto. E’ solo per migliaia di chilometri dagli Appennini alle Ande. E pensa. «Si pensa alla vita quando si viaggia» dice Lorenzo Jovanotti su un letto di fortuna davanti all’Oceano Pacifico: «Ma non sono mica un letterato, vado in bicicletta, canto le canzoni e ogni volta dopo la fatica piove la magia. Ti fai un gran culo, ma vieni ripagato». Mentre il mondo stava per chiudersi a chiave, Lorenzo lo attraversava libero. Come un animale. Per 4000 chilometri. Da Isla Damas fino alle vette in cui il pensiero si confonde, l’aria manca e respirare è un esercizio fideista. In pianura, nella giungla, tra palme, laghi e piante di tabacco e a 5.000 metri dove Marte non sembra più così lontana. Tenendo l’esistenza intera in una bici. Pasteggiando sui marciapiedi. Sdraiandosi sulle pietre per sognare ad occhi aperti. Dormendo in stanze improvvisate o in tenda. Con otto ore di sonno e quindici di silenzio. Ristabilendo le proporzioni. Scoprendo lo stupore del vento già esplorato da Attilio Bertolucci. Trovando ispirazione dalla bellezza. Nelle parole. Nella poesia di Pablo Neruda, Mariangela Gualtieri, Bukowski, Hugo Pratt, Pierluigi Cappello e  Jorge Andrade. Consapevole che le conclusioni non servono a niente. È solo essere sulla strada, come un Kerouac qualunque, fuori tempo e fuori latitudine, senza più misura, giorni e orizzonti certi, a contare davvero. Conta perdersi. Conta abbandonarsi. Conta arricchirsi di una moneta senza conio. La Panamericana, San Pedro de Atacama, Jujuy. Il Cile, l’Argentina, Salta. La Bolivia e la Colombia a portata di binocolo e l’altra parte della luna sotto i piedi. Con i ricordi a fondersi con le visioni. Con i viandanti che sono sulla sella da un anno e mezzo e ai mutamenti, come in quella vecchia canzone, si adattano senza pretendere di stravolgere il flusso delle stagioni. Con ciò che ci precede e ci sopravviverà. Sotto il cielo che ci fa sentire piccoli. Con la nostalgia. Con Teresa. Con Francesca: «Perché in certe occasioni avere persone che ti amano ti salva il culo». Con immanente e trascendente. Leggerezza e filosofia. Ridendo e cantando nel nulla, attraverso le onomatopee delle città (Taltal, Antofagasta, praticamente una canzone di Paolo Conte), sotto la pioggia e sotto il sole. Grato alla vita, come Violeta Parra. Mangiando uova da un tegame, banane e panetti di burro. Depredando panini dai buffet di alberghi ancora dormienti e riempendosi le tasche. Mettendosi in marcia all’alba, come i ladri. Perché c’è tanto da rubare e poco tempo- l’abbiamo capito- da perdere. Trattando con poliziotti cattivi e doganieri buoni. Dando le spalle all’inquietudine e ai cactus «che sembra ti facciano il dito medio». Dividendo un breve ma intenso tratto di avventura con Augusto, il sosia di Serse Cosmi, l’amico romagnolo che del sangue che impasta la terra, del grasso delle catene e dell’assemblaggio di una bicicletta è maestro. E mentre la ruota gira, a Lorenzo passano accanto il Tropico del Capricorno e la Pampa. I pinguini e le allucinazioni. I santuari improvvisati. I paesi semiabbandonati. Le proteste contro i politici dipinte su un muro sbreccato dal vento e i mercati in cui tutto si vende perché non esiste più niente, neanche la speranza, da barattare. Una volta, quando era ragazzo, acquistava dai banchetti jeans usati e sverniciava mobili per avere mille lire in tasca. Adesso, a 53 anni, ha capito che la solitudine è una maniera di portare alla luce quello che non riusciamo a confessarci e l’unica economia possibile è mettere in banca il segreto dell’ispirazione. Per alimentarla, Lorenzo dimentica i numeri. Tira i dadi. Parte. Gamba, destra, Gamba sinistra. La catena delle bicicletta lo scioglie lentamente da ogni vincolo. Gli fa visita la memoria. «Con una bici, da bambino, potevo andare in capo al mondo» dice ed effettivamente, là dove il mondo finisce e il vagabondaggio dà forma ai sogni, Lorenzo va. Riflette sulla sua esperienza: «Questa cosa somiglia alla musica, è come esser dentro una cosa, immergersi completamente e al tempo stesso osservarla». Parla da solo: «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Parla con uomini e donne che gli ricordano sua madre e suo padre in città minerarie che sembrano tratte da una pagina di Soriano: «Il mì Mario che i comunisti non poteva vederli, ma erano al tempo stesso i suoi migliori amici». Scherza con la GoPro, il suo Wilson da Cast Away, la via di fuga per sfogarsi, imprimere i pensieri, non smettere di giocare: «Dove sei?» gioca con la barba sempre più lunga e i capelli smarriti in un nodo gordiano, in un roveto, in un groviglio inestricabile «In culo al mondo, ma il mondo, va detto, ha un gran bel  culo da guardare». C’è tutto Lorenzo in questo periplo. Mentre inizia Sanremo, lui da ballerino che aspetta su una gamba lo spuntare del sole, intona altre note. «Avevo voglia di chiudere la saracinesca». L’ha fatto. Sei mesi fa faceva ballare l’Italia su una spiaggia. Oggi parla con i cani e mette gli occhi «sul negativo fotografico di quella storia». Entra ed esce da sé per ritrovarsi e innaffiare la meraviglia. Da Pirata, da corsaro come il suo amico Pantani o come l’altro bucaniere che gli aveva scritto tanti anni fa, Tiziano Terzani, che certo «è un peccato aver perso quella sua vecchia mail» ma ci sono cose, a iniziare dai decenni non trascorsi invano, che neanche i mancati trasferimenti cancellano del tutto. C’è di più nel secondo tempo. Molto di più.

·        Lory Del Santo.

Dagospia il 4 novembre 2020. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. Lory Del Santo e quell'invito a cena di Donald Trump. La showgirl, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, oggi ha raccontato di quella volta in cui, nella Trump Tower di New York, si ritrovò in ascensore con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Una storia che, ad ascoltarla proprio oggi, col mondo in attesa di conoscere il nome del vincitore delle elezioni americane, ha dell'incredibile. Una storia che risale ad anni fa, quando Lory Del Santo abitava nello stesso grattacielo del tycoon.

“Vivevo nel suo stesso palazzo e di solito c'era un ascensorista che ti portava direttamente nel tuo appartamento. Non avevi bisogno nemmeno di premere il bottone per arrivare del tuo piano. Una volta però vado in ascensore e questa persona non c'è, e in quel momento entra Donald Trump, ai tempi già famosissimo”.

Lei come ha reagito?

“Io sono entrata in confusione, non mi pareva possibile aver incontrato così Trump e mi sono dimenticata di premere il bottone per arrivare il mio appartamento. Così lui mi ha anticipato e ha premuto quello per andare a casa sua”.

E poi cosa è successo?

“L'ascensore è arrivato all'ultimo piano, e Trump mi ha detto: "signorina, dove sta andando? Questo è l'ultimo piano, o scende qui o non ho capito dove debba andare". Io gli ho chiesto scusa, abbiamo iniziato a parlare e mi ha chiesto se volevo visitare casa sua”.

Lei ha accettato?

“Certo, ha una casa stupenda, con vista su Central Park. Però non ci ha provato, assolutamente,  mi ha chiesto solo il mio telefono. E, il giorno dopo, mi ha chiamato”.

Per dirle cosa?

“Se volevo fare un giro con lui in città, con la sua limousine. Ma io ero a casa con degli operai e non potevo andare. Così è venuto lui da me”.

A casa sua, con gli operai?

“Si, è arrivato e gli operai non lo hanno riconosciuto, lo hanno scambiato per mio marito e gli hanno chiesto il suo parere su come stavano andando i lavori”.

Come ha risposto Trump?

“Gli ha fatto i complimenti per l'ottimo lavoro. Poi però mi ha chiesto cosa pensavo delle sue ex donne e mi ha invitato a cena. E io ho accettato....”, ha raccontato la Del Santo a Un Giorno da Pecora. Tornando all'attualità, ovvio che lei preferisca vinca Trump e non Biden? “Biden non si ricorda nemmeno chi è l'altro, lo scambia per Bush. Io preferisco Trump, mi piace, è brillante, sa cantare, sa ballare...”

Da "liberoquotidiano.it" il 29 ottobre 2020. "Amedeo Goria ci ha provato con me, mi ha detto cose intime". La rivelazione arriva da Lory Del Santo, ospite a Pomeriggio Cinque nel salotto di Barbara D'Urso, allibita per le dichiarazioni della showgirl. Nello spazio del programma dedicato al gossip, si è tornati a parlare del Grande Fratello Vip e del rapporto tra la concorrente Guenda Goria e i genitori Maria Teresa Ruta e Amedeo. In studio, tra gli ospiti c'era anche la Del Santo. Tutto è partito da un filmato in cui Guenda, nella casa, confida alla madre che il padre potrebbe ancora essere innamorato di lei. Subito dopo la clip, lo scoop: "Anni fa, Amedeo Goria ci provò con me due volte, una a Roma e una a Milano. Io ho rifiutato perché aveva delle tecniche di approccio troppo avanzate per me... Mi disse che aveva delle doti nascoste, molto nascoste. Ma io non ho verificato". A questo punto, la padrona di casa è stata costretta a fermarla: "Non ho capito e non voglio capire". Alla fine, però, la conduttrice ha chiesto alla showgirl in studio se questo presunto corteggiamento fosse avvenuto primo o dopo il divorzio con Maria Teresa Ruta. Ma la risposta è stata evasiva: "Non ricordo...".

Dagospia il 24 ottobre 2020. Da I Lunatici Radio2.Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte da mezzanotte alle sei del mattino. Lory Del Santo ha raccontato come sta passando questo periodo: "Sto bene, ho fatto tutti i test, sono negativi. Dicono sempre che nella vita bisogna essere positivi per andare avanti, in questo caso è vero il contrario. Comunque, battute a parte, va tutto bene. Io rispetto le regole, ma non mi informo molto sulla situazione. Sono una solitaria, scelgo di frequentare poche persone, sono tranquilla, ma dal punto di vista economico si soffre tantissimo. Vedo il baratro. Se prima non si cade, comunque, è inutile allarmarsi. Sto pensando di ritirarmi, avevo pensato di andare in pensione, non si sa mai qual è l'età giusta per andare in pensione per i lavoratori dello spettacolo. Medito il ritiro, però quando mi chiamano non resisto. Lavorare per me è come una droga". Sui miliardari che una volta finita la loro relazione con una ragazza chiedono indietro i regali o i soldi che hanno speso per loro: "E' successo anche a me. Possono fare causa solo se hanno fatto un prestito e c'è un contratto dove si indica chi ha ricevuto dei soldi. Altrimenti i regali indietro non si chiedono. E' capitato anche a me. Un fidanzato mi aveva fatto un sacco di regali, a un certo punto ha detto che sono stata con lui solo per interessi e mi ha richiesto indietro tutto. Io sono stata così ingenua che gli ho ridato tutto. Tornassi indietro, non lo rifarei.  Un uomo di una certa età come può far breccia su una giovincella molto appariscente? Il regalo è la via più breve per arrivare a ciò che si desidera, non si restituisce nulla. Un uomo provò proprio a comprami. Erano gli anni '90, una persona mi offrì 10 milioni al mese per fare la sua fidanzata. Io ho sempre lottato per avere qualcosa, nessuno mi ha mai davvero aiutato. Ci ho riflettuto, ma non ci sono riuscita. Non mi piaceva fisicamente, non mi ispirava intellettualmente. Oggi mi corteggiano tantissimi uomini giovani, tra i 25 e i 35 anni. Anche sono fidanzata, la schiera non diminuisce. Credo sia una questione di carattere, ispiro fiducia, sensualità e poi sono molto protettiva, metto le persone a loro agio". Lory Del Santo, poi, ha raccontato di aver subito una violenza: "Mi sono tenuta dentro questo segreto. Non ho denunciato perché avevo paura di subire vendette e ritorsioni. Non dico che è sbagliato denunciare, ci mancherebbe altro. Ma quando è capitato a me, ho preferito chiudermi tutto dentro, per paura di vendette. Per fortuna sono riuscita a fuggire sana e salva, anche se avevo la faccia gonfia. Bisogna denunciare quando si subiscono certe cose, io non ce l'ho fatta. Ogni caso ha la sua particolarità, non si può generalizzare. Questa persona era amico di una mia amica. Ci eravamo conosciuti al ristorante, si rideva, si scherzava, tu pensi sempre che se una persona ti viene presentata da qualcuno che conosci sia una persona perbene.  Lui mi disse che aveva dimenticato una cosa in hotel e mi invitò a salire. Io dissi di no, ma poi ha insistito. Mi ha pregato di accompagnarlo, mi ha detto che doveva prendere una cosa e fare una telefonata, mi ha detto che non voleva farmi aspettare, che poi saremmo andati a cena, che avremmo raggiunto i nostri amici. Ho sbagliato, non dovevo andare in quella stanza, mi sono fidata. Sembrava una persona carina, educata, mi è stata presentata da una amica. Mi sono fidata anche perché mi sentivo più sicura, pensando che mi trovavo in un albergo. L'incubo è durato tutta la notte, questa persona era pazza, mi ha picchiato, abusato, poi mi ha fatto fare il bagno con i petali di rose. Ho pensato che a un certo punto si sarebbe addormentato, così è stato. Appena ho visto che dormiva sono scappata. Lui se ne è accorto, mi ha rincorso, ma io sono scappata via verso l'uscita. Ho subito una violenza fisica e psicologica. I petali di rose, il profumo nell'acqua, era un pazzo: Immaginavo di scendere e trovarmelo davanti come nei film. Una volta uscita dall'albergo, invece, mi sono sentita libera. E' stata una cosa strana, era l'alba, ho deciso di non denunciare, di dimenticare". Sul momento che stanno vivendo le donne: "Adesso secondo me siamo arrivate alla parità dei sessi, ma ci sono tante donne che usano il loro potere in maniera negativa verso gli uomini. Li trattano in un modo che non mi piace. Li usano e li gettano. Si sono rovesciati i ruoli. Non m piace come cosa. Bisogna sempre essere rispettosi verso il genere umano".

Dagospia il 5 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino dal lunedì al venerdì notte.

La Del Santo ha raccontato: "Di notte vengo spessa assalita dagli incubi. Rivivo tutti i momenti traumatici che ho passato. Credo che di notte abbiamo una vita parallela, una sorta di altro strato dell'esistenza. Per questo preferisco restare sveglia. Ho avuto per tanto tempo l'incubo ogni notte di essere derubata, ad esempio. E nella vita mi è accaduto, mi ha derubata la mia donna di servizio. Mi derubava sempre con molta calma, mi ha fatto venire un tale incubo che ogni notte per un anno e mezzo mi svegliavo pensandoci. Recentemente mi è passato questo incubo. E' stato un dramma. Mi stava molto simpatica, le volevo anche bene, le facevo molti regali. Credo purtroppo che rubare sia insito nella natura. Mi ha rubato soldi, usava le mie carte di credito, faceva sparire le cose che portavo in lavanderia, da casa mia sparivano molte cose. Era bugiarda, ha fatto sparire addirittura un ferro da stiro. Avevo un appartamento in cui ospitavo persone, lei lo ha usato per farci dormire un uomo, illegale, a mia insaputa. Andava a fare la spesa, comprava cose praticamente solo per lui. Gliele cucinava e gliele portava. Lei era filippina. Ma ne ho avuto anche una italiana che mi ha fatto causa accusandomi di averle fatto venire una brutta malattia per colpa degli insulti che le rivolgevo. Voleva duecentomila euro, per fortuna il giudice mi ha dato ragione. Io le ho passate tutte, potrei trattenervi per tutta la notte con questi racconti".

Sul lockdown: "Questi mesi li ho vissuti preparando un trasloco, ho cambiato casa con grande dispiacere, abitavo lì a Milano da molti anni, mi sono trasferita in una casa più piccola, ho dovuto pianificare il restringimento di tutti i miei averi. Da quattro armadi sono passata ad uno. Ho regalato tante cose, la palestra l'ho regalata a Giacomo Urtis, avevo lo step, la bicicletta, diverse cose. Bisogna regalare, a me non piace buttare. Regalare a chi è contento di avere certe cose ed io di persone felici ne ho trovate molte. Le mie scarpe? Alcuni feticisti mi scrivono che vorrebbero comprarle usate. Io ho sempre usato tacchi chilometri. C'è un sacco di gente fissata con i piedi, ma io le mie scarpe cerco di piazzarle a donne con il mio stesso numero, ma devono essere abbastanza giovani, perché io per un certo periodo non andavo neanche al bagno senza tacchi. Secondo me quella dei feticisti magari è anche un'invenzione che usano per attrarre l'attenzione".

Sull'amore: "Un uomo a cui ho detto no e poi me sono pentita? Donald Trump! Mi è dispiaciuto poi, tornassi indietro avrei voluto fare un esperimento. Ci penso ogni tanto, ma perché gli ho detto no? Ad un certo punto se uno ti corteggia è perché gli piaci, quindi devi decidere, un corteggiamento non può essere troppo lungo. Trump sa corteggiare, è bravo, tutti gli uomini quando sono ricchi ti dicono vieni da me, lui invece è generoso in questo, ti raggiunge. Molti uomini danno direttamente appuntamento in una stanza da letto, Trump invece è uno che per ottenere si concede. Gli ho detto di no perché in quel periodo stavo chiudendo una storia e non ero liberissima. Io non tradisco. E invece a volte bisogna anche tradire per sperimentare. Ma io non sono capace. Tradimenti subiti? Certo che ce ne sono stati. Ma a me non piace soffrire. Ho pianto tanto per amore, fiumi di lacrime, ma quando ti accorgi che le lacrime sono sprecate, smetti di piangere".

Dagospia il 19 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La Del Santo ha detto la sua su Achille Lauro: "Lo conosco, mi è capitato di incontrarlo in una trasmissione a Napoli. Abbiamo fatto amicizia, ci eravamo promessi di rivederci. Già all'epoca, anche se non era ancora affermato come oggi, era interessante. Ci sta mettendo dello stile, questo per me è importante. Serve creare in chi ti ascolta un immaginario, soprattutto se non hai una voce incredibile. Ha un'immagine prepotente, approvo assolutamente quello che ha fatto. Approvo il suo look anche perché a Sanremo ho visto tanti vestiti sbagliati. Anche le donne hanno smesso di osare. A parte Elodie. Achille Lauro è stato l'unica stella che ha brillato". Lory Del Santo, poi, ha raccontato: "Io ho conosciuto David Bowie a New York. Era molto interessante. Non mi sono neanche fatta la foto con lui, anche se avevo la macchinetta in borsa, solo perché c'era anche Eric Clapton. Eravamo in una Limousine io, Eric, Bowie e una ragazza di playboy. Fu un incontro incredibile, David era un oratore affascinante, pazzesco. Non ho potuto approfondire la conoscenza perché ero impegnata. Cercava di convincere Eric di fare l'attore, ma lui non voleva saperne. C'era un'alchimia tra di noi credo. Amavo il suo modo di parlare, la sua apertura all'arte nel senso proprio del termine. Mi aveva conquistato". Poi sulle donne: "Per arrivare a una parità c'è ancora molto da fare, spero nella prossima generazione. Ancora oggi ci sono troppi uomini che pensano di avere il possesso della donna. Soprattutto sulle mogli o sulle fidanzate. Prima o poi questa mentalità arretrata si eliminerà. La cultura del possesso va abolita. Bisogna smetterla di dire sei mia o sei mia per sempre. Il per sempre non esiste. Si sta insieme, si condivide, ma non si deve considerare una persona come una proprietà".

·        Luca Argentero.

Anticipazione da Oggi il 28 ottobre 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, dedica la copertina a Luca Argentero, protagonista della fortunata serie “Doc – Nelle tue mani” di Rai 1, per il cui successo qualcuno ha scomodato persino Montalbano. Dice Argentero a OGGI: «Non credo esistano paragoni possibili con un personaggio come Montalbano. Ma siamo felici di aver iniziato bene con questa storia e che le persone si siano affezionate». Su OGGI le foto esclusive dell’attore con la compagna Cristina Marino e la loro bimba, Nina Speranza. E qualche rivelazione sulla vita domestica dell’ex concorrente del «Grande fratello»: «Sono bravo con le faccende domestiche… Non sono uno chef e non diventerò un maestro pasticciere, ma mi piace cucinare e prendermi cura della mia casa e della mia famiglia. Cucino quando ho il tempo per farlo, di solito quando sono in campagna. Non preparo ricette speciali. I piatti del cuore li ritrovo a casa di mamma. Io e Cristina cerchiamo di mangiare in modo semplice: una buona pasta e tante verdure. E sicuramente nostra figlia respirerà queste abitudini».

·        Luca Barbareschi.

Giulio De Santis per roma.corriere.it il 13 novembre 2020. «È andata bene»: sono state le prime parole pronunciate da Luca Barbareschi, assai emozionato, una volta ascoltata la decisione del gup Chiara Gallo che l’ha prosciolto dall’accusa di essersi approfittato del dissesto finanziario della precedente proprietà del Teatro Eliseo per entrare in possesso delle loro poltrone e condizionatori dal valore stimato di 813 mila euro. «Perché il fatto non sussiste» è stata la formula cui è ieri ricorso il gup per spiegare il proscioglimento del direttore artistico dell’Eliseo, difeso dall’avvocato Paola Balducci. La vicenda risale al marzo del 2016. La contestazione formulata dalla Procura era violazione della legge fallimentare. «Non avevo dubbi sull’esito del procedimento, sono soddisfatto», ha detto Barbareschi con gli occhi lucidi e un sorriso raggiante. La tensione accumulata l’ha sfogata tra i corridoi del Tribunale per lanciare un appello a favore del Teatro Eliseo: «Vorrei che ora si capisse la grande difficoltà di gestire questo teatro simbolo della Capitale. Stimolo il ministro della cultura Dario Enrico Franceschini a rivedere il meccanismo delle sovvenzioni. L’Eliseo, infatti, fa parte del Tric, cioè è un teatro di rilevanza italiana culturale. Eppure non prende soldi dal Comune, non prende soldi dalla Provincia e gli vengono versate due lire dalla Regione. Gli altri teatri, come l’Opera e l’Argentina, ricevono dieci volte le sovvenzioni ottenute dell’Eliseo. I miei dipendenti hanno ricevuto solo un mese di cassa integrazione. Noi facciamo tutto da soli. Ma io credo nell’Eliseo, altrimenti non l’avrei acquistato». Proprio le difficoltà affrontate nella gestione del teatro hanno determinato la prima iscrizione dell’attore-imprenditore nel registro degli indagati. La Procura gli ha contestato il traffico d’influenze per ottenere quattro milioni di fondi dalla Finanziaria del 2017, reato per il quale Barbareschi è stato rinviato a giudizio a novembre del 2019: in questo caso il proprietario dell’Eliseo è sotto processo.

Luca Telese per “la Verità” il 29 giugno 2020.

Barbareschi, come hai vissuto il lockdown?

«Per me è stata una stagione fortunata. Per il Paese, invece, una catastrofe su cui ho diversi dubbi».

Cominciamo dalla prima affermazione, che è stupefacente.

«Il periodo, per me che sono ebreo, ha coinciso con due festività importanti».

Quali?

«È iniziato poco prima della Pasqua ebraica, e si è chiuso con i 49 giorni dell'Omer. Da tanti anni, ormai, li passo a studiare sul Talmud».

E quindi?

«Per noi non è causale che sia successo in questo periodo».

In che senso?

«Anche se Giuseppe Conte ha sostenuto che la Pasqua ebraica festeggi il ritorno in Egitto, per noi è l'esatto contrario, la fine della schiavitù».

E invece quando parli dei tuoi dubbi sul lockdown a cosa ti riferisci?

«Ai numeri che non tornano».

Quali?

«Quelli dei morti. Tu sai che sono un assoluto sostenitore della necessità dei vaccini, sai che credo alla scienza, che nulla è più lontano da me della dietrologia cospirativa, ma...».

Cosa?

«I numeri assoluti sul Covid non tornano con quelli della narrazione ufficiale: addirittura meno morti dello scorso anno, per influenza, e anche in numeri assoluti».

E quindi?

«Vuoi che te lo dica con una battuta? Il vero vincitore di questa pandemia sarà Big Pharma».

Le case farmaceutiche, intendi.

«È un fatto, e non c'è neanche nulla di malvagio. Ma il lockdown pare la più straordinaria campagna pubblicitaria della storia mai fatta a favore di un vaccino coatto».

Vuoi dire che sarà obbligatorio? (Sorride)

«Nel clima che si è instaurato mi pare molto difficile l'impresa di chi volesse dire: "Io non voglio vaccinarmi"».

Cosa non ti piace di come è stata gestita questa epidemia?

«Le scuole ancora chiuse. L'anima di una certa Italia un po' pantofolaia che si unisce nel coro struggente del "Restate a casa!"».

E la soluzione Barbareschi invece quale sarebbe?

«Modello israeliano».

Luca Barbareschi spiazza sempre. In un momento parla da attore, in un altro da produttore, prosegue come «padre di sei figli», si avvia all'atto maggiore come «intellettuale disincantato», chiude da impresario teatrale, ovviamente «disgustato» per quella che lui definisce «la scelta di far fallire il teatro Eliseo» nel tempo del Covid.

Ripartiamo dalla quarantena degli italiani.

«Mi ha fatto venire in mente una bellissima espressione del grande Karl Kraus, "il balbettio di un uomo ubriaco"».

Cioè? Chi sarebbe l'ubriaco?

«Eravamo tutti in una sorta di catalessi collettiva. Sei chiuso in una casa, devi pensare, devi fare i conti con te stesso. Qualcuno ha parlato di trauma collettivo. Di certo privato, se mi riferisco a me stesso».

Cioè?

«Essendo nell'autunno della mia vita, da ultrasessantaquattrenne, sapevo già che - se Dio mi benedice - ho ancora dieci anni di vita cosciente e attiva, prima della fine».

Non essere così pessimista.

(Ride) «Questa era la prospettiva ottimistica. Durante il lockdown, nella neolingua della virologia, ho scoperto di essere un anziano a rischio, e potenzialmente non intubabile».

La cosa sembra ti diverta: humour nero yiddish?

«No, semplice constatazione. C'è la morte senza il dramma, è una nuova consapevolezza: Zoom ci ha distrutto la vita».

Ah ah ah... adesso rido io. Non sei contento dello smart working?

«Siamo matti? È l'esperienza più simile alla schiavitù, con l'unica dissimulazione della scelta volontaria. Raffica di interviste, impegni, conversazioni, terrificanti "call" lavorative a due, a tre, a quattro, la connessione che fatalmente cade proprio nell'unico momento in cui dovrebbe tenere, e poi lui: il mostro!».

Zoom, la app?

«Chi se no? Stai finendo una riunione, che segue un'altra riunione, e ne precede una nuova. Quando capisci che tra 40 secondi inizia la nuova zoommata e non hai nemmeno il tempo di prendere il caffé, o andare in bagno, ti viene nostalgia irrefrenabile di quando ci si vedeva "in presenza" e ti godevi il lusso dei tempi morti».

Ma cosa hai combinato per zoommarti così tanto?

«Sono il primo che ha aperto, ben tre set dopo l'epidemia». 

Dicono che non si possa fare più cinema.

«Si può, si può. Basta pagare la nuova tassa sul Covid».

Cioè?

«Una lauta assicurazione obbligatoria su tutto il set».

Che già c'era.

«Ma che con il Covid è diventata enormemente più alta. I premi sono quasi raddoppiati».

Quanto?

«Per una serie siamo arrivati a 200.000 euro».

E non la stipuleresti?

«Assolutamente, senza non si campa. Anzi, ne farei anche un'altra, oltre che sulla vita degli attori, sulla vita dei personaggi».

Scherzi?

«Affatto: prova a pensare a Dallas senza J.R., ovvero Larry Hagman. Oltre all'attore muore tutto il progetto».

Pirandelliano ma innegabile.

«Il vero costo non è la malattia ma l'interruzione di un set. Sulla lunga serialità l'assicurazione è sacra. Io voglio l'assicurazione sulla vita dell'attore e su quella, creativa, del personaggio».

Vedo che parli di possibili decessi senza tensioni liriche.

«La possibilità che ti muoia un attore è abbastanza marginale. Però si possono perpetrare altri misfatti».

Quali?

«Basta uno che va sul set senza mascherina e finisco in carcere. Ti pare possibile?».

Non credi al distanziamento sociale?

«Dal momento che vivo a Roma, e ora sono a Fregene, il punto è che non lo vedo. O meglio: constato che non esiste più, in certe spiagge-carnaio uno sull'altro, come ai bei tempi».

Al mare.

«Perché, altrove? Ma questi sono mai saliti su un autobus a Roma? O sulla Tuscolana quando c'è l'assalto alla metro?».

Quindi meglio la soluzione israeliana? Uscire fuori?

«Mio nonno, che aveva fatto la prima e la seconda guerra mondiale, diceva: "Alla fine, dalla trincea, qualcuno deve pure uscire". Come in un Un anno sull'altopiano, il capolavoro di Emilio Lussu, chi resta in trappola è comunque morto».

Cosa ha funzionato a Tel Aviv?

«È un modello cazzuto: ci si prende il rischio, con responsabilità, e si torna a vivere. Non è meglio della enorme pantofola italiana di cui sopra?».

Non pensi alla vite salvate?

«Ci hanno ridotto a dei fuchi obbedienti».

Molti lo fanno per paura.

«Incontro sempre più persone, sopratutto in America, che mi raccontano entusiasti, di essersi fatti trapiantare il chip sottocutaneo».

Dicono che salvi vite, sopratutto dagli infarti.

«Meglio salvarsi e diventare un big data? Per me no».

Così preoccupato per la privacy?

«Tutti questi dati sono condivisi, venduti: a me non piace».

Quindi più coraggio, meno distanziamento.

«Immagino questo modello: ma noto lo scarto della politica. Buonista ma senza morale. E sempre bugiarda. Fanno credere di essere mago Zurlì. Ma io, con i miei figli, sono più rispettoso di loro con i cittadini».

Addirittura?

«Sognavo di avere otto soldati, mi ritrovo otto anarchici».

Consigliamo un libro importante per questi tempi.

«Non sono ancora tradotti, ma io direi: Non nel nome di Dio, o Morality, del rabbino capo di Londra, Jonathan Sacks. Aggiungerei il nuovo film di Brizzi».

Qualcosa ti rattrista?

«Sono l'unico italiano che ha messo di tasca sua 6 milioni per ristrutturare due teatri. Ma l'Eliseo chiuderà nel silenzio della politica».

Volevi aiuti speciali?

«Gli stessi che hanno dato a 19 teatri "di rilevanza culturale" come il mio, che prendono 12 milioni. Io ricevo solo 400.000 euro, ci pago a malapena i pompieri, otto, che girano per il teatro».

Hai avuto solidarietà, però.

«Quella degli spettatori. Tutti i miei colleghi, invece, zitti e pavidi. Non hanno speso una sola parola per paura di contraddire Dario Franceschini».

Cosa ha fatto?

«Ha aperto la trattativa, però non l'ho mai visto».

Ti sta antipatico?

«Al contrario, mi sta simpaticissimo. Gli presentavo i libri da narratore, a Ferrara. Ma Beppe Sala mi ha detto: "Se a Milano chiudesse il Piccolo ci sarebbe la rivoluzione"».

Non hai più visto il ministro?

«Quando ho vinto il Leone di Venezia, è corso a farsi la foto. Poi non l'ho più visto».

Grande film: L'ufficiale e la spia. Cosa hai in cantiere?

«Sto preparando il prossimo Roman Polanski, il prossimo Emir Kusturica. Ma non dico una parola: segreti industriali».

Consegniamo un'ultima battuta per chiudere il sipario.

(Ride) «Eccola: "Voglio più di tutto vivere. Ma se per vivere devo morire, lo farò". Non è un gran bel finale?».

Da “Italiani Coraggiosi” il 12 maggio 2020.

Luca Barbareschi, qual è secondo lei una figura di italiano coraggioso della storia?

«Ho l'imbarazzo della scelta nel senso che, contrariamente alla narrazione terribile, cattocomunista e pietista che ci presenta come un paese di servi, invece siamo un Paese pieno di persone coraggiose e forti. Io dedicherei il primato a chi ha fatto la Prima Guerra Mondiale e la Seconda Guerra Mondiale, a quelli che hanno combattuto, come mio padre e mio nonno e tutti i loro compagni di battaglia. Gente che usciva dalla trincea nella prima guerra mondiale, e alla fine l'hanno vinta, sarebbe una bella metafora per oggi, no? Invece di stare fermi in trincea ad aspettare, si esce come hanno fatto loro. […]»

Oggi chi è, secondo lei, un italiano coraggioso?

«Ma sono tutti i lavoratori che subiscono le fesserie, in questo momento, di un governo di incapaci terribili. Quelli dell’uno vale uno… E’ stata la dimostrazione che un analfabeta non può diventare un ministro di qualsiasi dicastero.  […] Quando uno non si sente rappresentato, quando uno è su un pullman guidato da un cieco, ci vuole un grande coraggio per stare seduti e sperare che il pullman non vada in un burrone e rassicurare i propri figli ogni mattina. Gli italiani in questo momento sono molto coraggiosi anzi sono fin troppo pazienti secondo me».

E Barbareschi è un italiano coraggioso?

«Io sono un incosciente, più che coraggioso perché solo un sognatore poteva mettere sette milioni per comprare un teatro, anzi due teatri, e altri sette per rimetterlo a norma. Questo è un teatro che prendeva soldi dallo Stato quando era fuori norma, non appena io l'ho messo a norma lo Stato mi ha punito. Il ministro Franceschini, non appena ha saputo che ho comprato il teatro Eliseo, ha incominciato a farmi guerra, una guerra che dura da 4 anni. Io sono stato un sognatore, e lo sono tutt’ora, ho fatto una restituzione affettiva alla città con coraggio e ancora oggi ci credo, ci credono molti miei collaboratori che sono in telelavoro. Credo che questa sia la prova che lo Stato spesso è inutile, no? […] Se Franceschini farà morire l'Eliseo, andrà incriminato per genocidio culturale, sarà il responsabile della morte del luogo in cui Di Vittorio ha fatto nascere la CGIL, Pannunzio il pensiero liberale, Stravinskij ha diretto l'Uccello di Fuoco, De Chirico presentava i suoi quadri, Berlinguer ha fatto i suoi primi discorsi».

La chiusura potrebbe riguardare tanti luoghi di cultura, nei prossimi mesi.

«C'è una totale miopia, una totale non attenzione sul mondo della cultura, […] In Italia non c’è alcun progetto. Abbiamo un pensiero museale sulla cultura. Ci si fa le foto davanti al Colosseo, davanti ai monumenti cose fatte 2000 anni fa, per cui del tutto irrilevanti per la proattività di quello che può essere il pensiero culturale da qui ai prossimi 500 anni.  Venezia progettò la cultura dei prossimi 500 anni invece noi ci facciamo fotografare, facciamo della pornografia comunicativa, facendo dei selfie davanti a dei monumenti che ci guardano, come diceva Tomasi da Lampedusa, come fantasmi muti. […] Dobbiamo ripartire dalla formazione e dalla cultura. Non facendo questo noi stiamo uccidendo definitivamente la narrazione del nostro paese che è fatta da un rapporto con i nostri grandi eroi della storia, dell'imprenditoria, dello sport».

Secondo lei le scuole devono riaprire subito?

«Guardi io ho una teoria molto coraggiosa. Io sono pronto, e lo dichiaro continuo a dirlo, a morire di coronavirus piuttosto che a vedere morire di fame i miei figli. Sono un soggetto a rischio, sto per compiere 64 anni, mi fa molto ridere, ma sono fra gli anziani da tutelare, anche se non mi sento anziano proprio per nulla. Ho voglia di combattere, come mio nonno che usciva dalla trincea nella prima guerra mondiale, rischiando di prendere i proiettili. Io sono pronto a ricominciare ad aprire tutto. Credo che i numeri veri di questa pandemia siano infinitamente inferiori a quelli di altre malattie. […] La possibilità che io muoia di coronavirus sono ancora inferiori a quelle di morire per incidente domestico. Sono molto più a rischio a casa, soprattutto alla mia età, ed essendo uno che notoriamente inciampa. […] Io sono per riaprire anche con una certa incoscienza, in certi casi. […] Io ho avuto un morto in casa, la mamma di mia moglie è morta, per cui non appartengo ai cospirazionisti che dicono <non c’è niente>. Ci sono dei rischi, però mettere in ginocchio l'economia, secondo me, fa parte di un piano molto raffinato che ci porterà ad essere solo più servi e più schiavi».

Lei ha lavorato con Roman Polanski di recente, tra l’altro su un film dedicato all’affaire Dreyfus. Parla, anche, di un uomo recluso ingiustamente. Anche gli italiani sono stati e in parte sono ancora reclusi ingiustamente?

«Gli italiani sono stati trattati come dei deficienti, cioè come persone incapaci di intendere e volere, sono stati presi in giro, vengono tutt'ora presi in giro. Ci raccontano che sono arrivati i soldi, che le banche stando dando i soldi. Io ho 300 dipendenti e non arriva nessuna cassa integrazione, le banche non danno i soldi perché rischiano una denuncia per frode perché il decreto, essendo stato scritto male, ha messo in difficoltà anche le banche. Dunque io non so come poter pagare i dipendente né lo stato li ha pagati. Adesso è arrivata questa fanciulla dall'Africa che c'è costata €4 milioni […] Appena è scesa dall'aereo di un volo privato ha dichiarato di essere islamica e che tornerà subito là. Quindi finanziamo i terroristi, come abbiamo fatto già in passato».

Da uomo di teatro, come valuta il modo in cui si è comportato il premier Conte? Si è voluto prendere un ruolo da protagonista…

«Sai, io posso fare anche Amleto però se non reggo il coturno, cioè non reggo bene il ruolo… Berlusconi me lo spiegò molto bene: se io lo mando in televisione o lo metto su una copertina per 100 volte di fila, chiunque è una star. Infatti diventarono star Columbro, Gerry Scotty, chiunque perché il popolo si affeziona. Io stesso sono diventato famoso non per aver tradotto Mamet, Shepard eccetera, ma per aver fatto "C'eravamo tanto amati". Non certo per i film, forse un po’ per le fiction, ma non certo per il teatro. […] "C'eravamo tanto amati" però non va rinnegato. Fu una cosa…Una cosa meravigliosa! Da "Cannibal Holocaust" fino Polanski tutto mi è servito a crescere. Per me dai film di Vanzina a Polanski non c'è differenza, da ognuno ho imparato qualcosa, soprattutto a non essere snob. Tornando a Conte, il problema più grosso è che abbiamo un premier che non è adatto, che non è capace. E’ uno che pensa che la Pasqua ebraica celebri il rientro in Egitto, Dio Abbia pietà di lui, che non sa quello che dice. E’ la fuga dall'Egitto, non ha visto neanche i film con il Mar Rosso che si apre…»

Fabio Rossi per “il Messaggero” il 7 febbraio 2020. «Il mio appello è questo: non votate perché siete eterodiretti da qualche logica. L'Eliseo non è un problema politico. Ognuno deve votare con la propria coscienza, per decidere se questo teatro deve morire o no».

Luca Barbareschi, dal 2015 direttore del Teatro Eliseo, lancia l'appello per la salvezza per la struttura di via Nazionale, appesa al Milleproroghe.

«Mi auguro che molte persone pensanti, e bastano due voti del Pd che si aggiungano a quelli del centrodestra, abbiano la coscienza di esprimersi per salvare un bene della società».

Teme un agguato politico?

«Il gruppo che lavora qui è altamente boicottato dal mondo dello spettacolo, perché è un mondo ideologico. Se fossimo organici al partito degli amici degli amici non ci sarebbe problema. Tanto è vero che questo teatro prendeva soldi quando era chiuso, fallito e senza agibilità da vent'anni, e ora che è stato tutto sistemato no».

I fondi assegnati negli anni passati non sono sufficienti?

«La macchina costa 5,6 milioni. Il primo anno della mia direzione non ci hanno dato fondi, il secondo anche, il terzo e quarto per fortuna hanno fatto una legge bipartisan, il quinto se la sono dimenticata, il sesto, se va così, falliamo».

E fino a oggi come ha fatto?

«Io ci ho messo 6 milioni per rifarlo. Poi l'ho comprato, ma non con i soldi del ministero come qualcuno scrive: 2 milioni li ho messi io, in contanti, e gli altri 5 arrivano dal finanziamento di un pool di banche. Non ho mai preso un euro per il mio lavoro qui, vivo di altri emolumenti».

Perché l'ha comprato?

«C'era un trucco di uno dei soci, legato a qualcuno del ministero e a qualche forza politica, che ha fatto questo ragionamento: Barbareschi l'abbiamo messo nel sacco, ha restaurato il teatro. Ora gli aumentiamo l'affitto, tagliamo i fondi e riportiamo l'Eliseo alla cordata degli amici nostri. Quando l'ho comprato, i detrattori sono impazziti».

Tornerebbe in politica?

«Domani. Sognerei di fare il sindaco di Roma anche se ne avrei molta paura, perché fare il sindaco è la cosa più faticosa, soprattutto in una città come la Capitale. Il problema a Roma è ricreare un senso di comunità. Come diceva Flaiano, è come una serie di villaggi in attesa di qualcosa che non accadrà mai».

Anche questo teatro potrebbe chiudere nella rassegnazione.

«Non penso che la gente scenderebbe in piazza per l'Eliseo. Accetterà con rassegnazione l'ennesima chiusura in questa città. Ma la politica deve vivere di lungimiranza».

Luca Barbareschi: "Violentato da un prete, non mi sono ribellato". Luca Barbareschi racconta a Peter Gomez di essere stato violentato da un prete e spiega: "Non ricordo di essermi mai ribellato". Luana Rosato, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Ospite di Peter Gomez a La Confessione, Luca Barbareschi è tornato a parlare di un triste episodio della sua infanzia che lo ha particolarmente segnato: la violenza sessuale subita da un prete. Già in una intervista a Verissimo, Barbareschi aveva rivelato di essere stato violentato da un prete quando aveva solo sette anni e di essere riuscito a perdonarlo proprio in età adulta, avendo con lui un confronto diretto. “Sono stato abusato per due anni da un sacerdote in collegio. Avevo sette anni e lui si è approfittato della mia condizione, ero contento delle sue attenzioni perché ero un bambino solo – raccontava anni fa alla Toffanin - . Qualche anno fa sono andato a trovarlo per perdonarlo. Lui sosteneva di non ricordarsi di nulla, ma io ho voluto fare questo gesto per rompere questa catena di errori e orrori. Il rancore non porta nulla, l’unica cosa che funziona è l’amore”. Nel salotto di Peter Gomez, quindi, Luca Barbareschi è tornato a parlare di questo momento buio della sua vita. “In quegli anni un bambino solo, con già delle voragini emotive, non poteva che attirare le attenzioni di chi ha delle malattie, perché la pedofilia è una malattia terribile – ha spiegato lui ai microfoni di Nove - . E devo dire che, quando uno è nella situazione di un bambino come me, è pericoloso perché cerchi affetto e attenzioni”. “Lui ha proprio abusato di me – ha continuato Barbareschi - .Sì, io sono stato violentato”. Ritornando a quei momenti, però, l’ospite de La Confessione ha ammesso di non essersi mai ribellato davanti a quegli abusi. “Violentato è una parola grossa perché non ricordo di essermi mai ribellato e questa è la cosa peggiore della pedofilia perché, chi è vittima di cose pedofile, si sente in colpa – ha concluso Luca Barbareschi - , pensi di essere stato tu ad aver creato quella situazione”. Come rivelato anni fa a Verissimo, poi, Barbareschi è riuscito a superare il trauma grazie alla moglie Elena e all'aiuto di uno psichiatra. "Per tutta la vita pensi di essere tu ad essere il colpevole, io l’ho pensato fino a 10 anni fa - aveva detto su Canale 5 - . Penso che vedrò il mio psichiatra tutta la vita, perchè non si guarisce mai dall’autodistruzione".

·        Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

CANDIDA MORVILLO per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2020. Luca Bizzarri è, con Paolo Kessisoglu la metà del duo Luca & Paolo. Insieme, sono stati Iene in tv e hanno fatto film e programmi di successo, e in proprio, Luca è presidente della Fondazione Palazzo Ducale di Genova e ha un milione e mezzo di follower su Twitter, collezionati randellando politici. Ora, non pago, debutta come romanziere, con un thriller, Disturbo della pubblica quiete , edito da Mondadori. L'indole è inquieta. In videochiamata, fa su e giù per casa e dice: «Ormai, ho capito che la mia vita è come in American Psycho quando pensi di avercela fatta e invece arrivi a una porta dove c'è scritto: questa non è un'uscita. Ecco, passi la vita cercando una porta che, se l'oltrepassi, sarai realizzato. Ma, se hai la fortuna o la bravura di arrivarci, ti accorgi che ce n'è un'altra e un'altra ancora e non c'è mai l'uscita. Non so se anche quando hai una famiglia o un figlio. Quella porta ancora mi manca».

Le manca perché non l'ha trovata o non l'ha cercata?

«L'ho evitata, ma non abbastanza accuratamente. Ho avuto storie importanti, ma non mi sono avventurato in cose che forse non avrei saputo tenere vive e credo sia stato un bene per chi mi stava vicino. Però, non è che ho deciso di non avere famiglia o figli. Nel 2021 avrò 50 anni, qualche possibilità ancora ce l'ho».

Ora, perché un romanzo?

«Era una storia che avevo in testa da anni, l'inizio mi era stato raccontato da un amico poliziotto: due agenti incontrano un personaggio che vuole essere portato in galera ma non ha fatto niente e loro non sanno come liberarsene. Mi sembrò una bella foto del nostro menefreghismo davanti alle seccature. Questi due poliziotti, se seguissero le procedure, finirebbero sommersi dalle scartoffie. Quindi, cercano di sfilarsi all'italiana, scaricando su qualcun altro, e finiscono per creare un problema molto più grande».

La polizia ne esce male.

«Non ci sono buoni e cattivi, ma ogni personaggio ha una spinta ad agire giustificabile e molto umana. E io non potrei essere contro la polizia, essendo figlio di carabiniere».

Però, Kessisoglu sostiene che, in gioventù, lei era un mezzo delinquente.

«Ho avuto un'adolescenza inquieta, però è passata. Alla fine, siamo il risultato di quello che abbiamo fatto. E io fatto mille errori che non rifarei». Il più grave? «Perdere tempo. Dai 14 ai 20 anni non ho studiato, ho solo bighellonato in giro».

Delinquendo quanto?

«Con gioia di mamma e papà, ero diventato amico di un marocchino che vendeva sigarette di contrabbando in centro, a Genova. Passavo le sere con lui a parlare e vendere sigarette. Era stato un professore universitario di nome Zbir. Mi ha ispirato il boss del romanzo. Furono sere belle».

Pure lei vendeva sigarette?

«Quando Zbir stava per finirle, andava a prendere le altre e io rimanevo a tenere il banchetto. Per cui, capitava».

Chi le somiglia di più? L'immigrato che vuole essere arrestato o i poliziotti?

«Rossetti, l'agente più giovane, che è appena stato disilluso: pensava di diventare il più forte del mondo, si è accorto che la vita non è il sogno che hai da ragazzo, ma il lavoro di tutti i giorni».

Lei sarebbe disilluso?

«Ho realizzato il sogno di vivere facendo l'attore,ma ogni sogno raggiunto vale meno di quanto credevi».

Come mai tanti tweet contro i politici?

«Mi piace punzecchiare e indicare il pistolino del re». Ha inventato una telenovela, con Luis de Mayo detto Giginho, Alejandro de Baptista, Zingaretto, Salvinho... «La storia di questo governo, con Giginho che tradisce Salvinho, Salvinho col mojito, se metti i nomi sudamericani, è una telenovela anni 80».

Perché da giorni twitta forsennatamente a favore della cannabis light?

«Ci sono centinaia di aziende e migliaia di famiglie in regola che non sanno se il loro lavoro diventa illegale. Una forza di sinistra come il Pd e una antiproibizionista come i 5 Stelle fanno una cosa più proibizionista di Salvini». Lei fuma cannabis? «Solo quella legale».

Che ci faceva con la mascherina a una manifestazione no mask a Roma?

«Mi ci sono trovato per caso. Io della pandemia ho paura, ho i genitori anziani. Il Covid l'ho fatto ai primi di marzo, tre giorni di febbre, poi l'ho scoperto facendo il sierologico, ma nessuno sa dirmi se posso riprendermelo. Vivo mascherato, sanificato e, per fortuna, avevo una vita sociale vicina allo zero anche prima: alle undici sono a letto, alle feste già non mi invitavano più, vado sempre negli stessi quattro ristoranti con non più di tre persone. Le cene dove a un tavolo si parla di due argomenti già le detesto».

Roberta Scorranese per corriere.it il 20 giugno 2020.

«Guardi, secondo me i fondi per la cultura non dovrebbero arrivare dal ministero dei Beni Culturali».

E da dove allora?

«Dal ministero della Salute. Essere colto e informato significa essere sano, vuol dire fare le scelte giuste, come i vaccini. Ha visto la foto che ho postato giorni fa?».

Il bambino sdraiato davanti alle Ninfee di Monet a Palazzo Ducale?

«Sì, ecco perché io siedo davanti a questa scrivania, per momenti come quello».

La scrivania in questione si trova nell’ultimo piano di Palazzo Ducale, a Genova. È quella della presidenza, carica che Luca Bizzarri, 48 anni, ricopre dall’agosto del 2017. L’ultima (anche sua) idea: esporre in una stanza isolata un dipinto — uno della serie delle Ninfee — di Monet e fare entrare una persona alla volta o una famiglia alla volta a guardarselo in pace per una manciata di minuti.

In carica dal 2017. Ed è ancora qui. Lo avrebbe detto allora?

«Ma no, anzi, sono arrivato che mi sono detto “mi faranno fuori subito”. E me lo ricordo bene il giorno che sono arrivato, il 14 agosto. Vengo qui e che vedo? I sigilli dei Carabinieri e sulla scrivania dell’allora direttore la prima pagina del “New York Times” che ci descriveva come un covo di falsari. Mi venne la pressione a mille».

Ah sì, l’estate dello scandalo Modigliani.

«Ma non solo: io sono ancora il custode legale dei quadri, noi paghiamo una cifra per tenerli fermi e chissà quando finirà questa storia. Che cosa mi ha insegnato? Che l’arte è un mondo complicato. Però che meraviglia quando vedo i bambini che si incantano davanti a Monet. Oppure tutte quelle persone che vennero a vedere i quadri di Rubaldo Merello. Mica ho detto Picasso, ho detto Merello».

Quando fece quel post su Facebook in cui invitò tutti ad «alzare il c...o» e a venire alla mostra?

«Ma perché mi devo trasformare in quello che non sono? Io, come molti, moltissimi altri, non avevo idea di chi fosse Merello e così lo venni a vedere. Rimasi senza parole. E lo dissi a modo mio. Sa che cosa penso? Che questo mondo sia come il Festival di Sanremo: una messa cantata, dove appena provi a uscire dalla liturgia...».

Però la gente venne. E sta venendo anche ora a vedere Monet.

«È quello che conta, no? Se riuscissi a far capire ai ragazzi che Banksy è come Monet verrebbero a frotte a vedere Monet. A proposito, abbiamo fatto anche la mostra di Banksy e quando sul sito dell’artista ho visto la nostra mostra tra quelle “fake” mi è salita di nuovo la minima. Poi ci hanno detto che lui fa sempre così. Io boh».

Lei pensava che il teatro fosse un mondo di tipi strani e invece.

«L’arte è peggio! Ho conosciuto il direttore del museo Picasso, un tipo assurdo ma geniale. Io qualche volta mi sento un underdog, eppure mi piace sedere qui, sbalzi di pressione a parte. E una cosa l’ho capita: in Italia nell’arte girano troppi soldi o troppo pochi. Nel teatro, invece, quasi niente, cosa di cui nessuno parla in questo periodo così duro. Sa che cosa mi fa incazzare?»

Che cosa? (occhio alla minima)

«Vedere i calciatori che in campo si abbracciano e pensare che nei teatri gli attori si stanno arrangiando con i monologhi e praticamente senza pubblico. Certo, dopo questa intervista mi farò molti amici».

«Non hanno un amico» è uno dei suoi tormentoni sui social quando prende di mira i politici.

«Ma è vero. Il problema della nostra politica è la comunicazione, che è senza una bussola, che ammicca alla pancia, che punta a sganciare le parole dalla realtà. Ora dirò una cosa che la farà sussultare: io qualche volta sono anche d’accordo con quello che dice Salvini».

Non ci credo.

«Finisco: posso essere anche d’accordo su qualcosa di quello che dice, ma quando chiede se può togliersi la mascherina per parlare con una signora e Floris gli risponde “eh no, se non sta a un metro e mezzo, no”, come si fa a non cadere nello sconforto? Eppure quello è il vero Salvini. Io mi deprimo quando qualche politico si mette a litigare con me su Twitter: non dovrebbero farlo! Non dovrebbero parlare con un comico! Non dovrebbero scavarsi la fossa così. Loro dovrebbero essere migliori di me».

È il gioco dei social.

«Per me i social sono un topolino che si crede un elefante».

Ma la politica la corteggia eccome.

«Altroché. Ogni tanto arriva qualche telefonata. La cosa bella è che arriva ora da una parte ora dall’altra, perché non sono inquadrabile. Naturalmente rispondo sempre “no, grazie”. Non riuscirei a infilarmi in una campagna elettorale continua, alla ricerca solo del consenso. Ah, lo sa che io siedo qui con i voti di Lega e Forza Italia?»

Non ci credo — bis.

«Non solo. Sono anche nell’assemblea del Teatro Stabile, voluto da Cinque Stelle e Pd. Non ci crede, eh?»

Più che altro perché lei a volte picchia duro con le critiche.

«La dico tutta. Questa continua campagna elettorale alla ricerca del consenso potrebbe portare a una deriva autoritaria: ad un certo punto si sentirà il bisogno di dire “ok, per cinque anni fermiamoci e teniamoci questi”.

Io avrei detto di sì ad un impegno politico solo se me lo avesse chiesto Massimo Bordin. Una delle persone che ho più ammirato in tutta la mia vita. Come Gaber. Lo incontrai che ero da poco riuscito a entrare alla Scuola dello Stabile di Genova. Fumammo una Marlboro dietro l’altra e alla fine mi disse “Non stare ad aspettare che ti chiami questo o quello, vai nelle pizzerie e fa’ quello che sai fare. In sintesi, mi disse “Arrangiati”».

Luca, lei dov’era durante il G8 di Genova?

«A Riccione, per scelta. Non mi piaceva quello che stava succedendo, la città trasformata in una caserma e proteste che travalicavano il giusto dissenso».

Che tipo di ribellione ha coltivato negli anni?

«Da ragazzino io, figlio di carabiniere, davo una mano ad un amico nordafricano nel contrabbando di sigarette. Sapesse che gioia per i miei. Ma comunque, quando scoppiò la prima guerra del Golfo chiesi a questo amico da che parte stava. Lui mi diede una risposta fantastica: “Je suis pour la logique”. Anche io da allora sono sempre stato dalla parte della logica, non dell’ideologia tout court».

Quando cadde il ponte Morandi però lei era qui.

«Per tre giorni non ebbi la forza di fare nulla, letteralmente. Chiuso in casa, a letto. Poi commisi un grave errore: presi la Vespa e andai a vedere. Fu terribile. Qui a Palazzo Ducale abbiamo raccolto i racconti dal ponte e poi facemmo una serata incredibile. Io non ebbi il coraggio di leggerli prima, piangevo come un bambino».

Lei piange spesso o sbaglio?

«Sempre, sono un frignone. Ma la cosa bella è che piango nei momenti sbagliati. Per dire, se guardo le Olimpiadi piango quando alle premiazioni. Non riesco a vedere un film emozionante senza frignare. E pure se rivedo le vecchie puntate di “Scherzi a parte”: quando svelano che è tutto uno scherzo io comincio a lacrimare».

È stato a «Scherzi a parte» che lei ha parlato con Berlusconi, vero?

«Ci avevano affidato (assieme a Paolo Kessisoglu, ndr) una puntata speciale con scherzi vecchissimi. Chiesti a Fatma Ruffini di intercedere per me per portare Silvio in trasmissione ma lei mi rispose che non ci pensava nemmeno a disturbarlo per così poco. Allora entrai in redazione e dissi ad alta voce: “ma insomma, vorrei tanto Silvio come ospite ma come ci arrivo?”. All’epoca con noi lavorava una ragazza tanto brava quanto bella. Tempo mezz’ora e lei me lo passò al cellulare. Alla fine non venne, comunque».

Luca, lei è stato per dieci anni uno dei volti delle «Iene». Nessuna autocritica?

«Ero solo un presentatore ma questo non vuol dire che non potessi esprimere dissenso per qualche servizio. E l’ho fatto. Per me sono stati una famiglia e con alcuni ci sentiamo regolarmente, però, sì, a volte hanno esagerato. Per dire, non amo quel modo di guardare la droga con attenzione morbosa, dal buco della serratura. Non ho amato certi servizi sulle presunte cure anti-cancro. Detto questo, hanno fatto più bene che male alla televisione. Il tampone ai politici è un colpo di genio».

In generale, di che cosa ha paura?

«Ma di tutto. Io vivo nelle paure, vivo terrorizzato, ma sono anche uno che se le va a cercare. Mi piace mettermi nei guai per poterne uscire. Una volta accettai di correre con la macchina, la Sei ore di Misano Adriatico. Quando scesi piansi a dirotto. Sono uno che ama mettersi nei casini. Solo in un pasticcio ho sempre evitato di infilarmi».

Quale?

«La paternità. Perché va bene tutto, ma fin lì non riesco ad arrivare».

·        Luca Ferrero.

Barbara Costa per Dagospia il 29 novembre 2020.

Luca Ferrero, tra i pornostar numeri uno in Europa. Un nome, una garanzia, di sublimi orgasmi porno. Signori, un applauso a questo grande pistonatore d’esportazione!

«Grazie, grazie, onorato, troppo buoni!»

Luca, tu sì che ci dai soddisfazioni! Hai visto cosa dicono di te sui social e nelle porno-chat?

«A dire il vero… no».

Come no?

«Io sui social promuovo il mio lavoro, non interagisco…»

Ma Luca, te se ama! In tutte le lingue del mondo! Guarda qua: “Luca, che super maschio alfa!”; “Luca, la vera porno eccellenza italiana”; E non ti so tradurre quelli scritti in lingue diverse dall’inglese…

«Mi fa molto piacere. Io lavoro tanto e…»

È vero, tu porni per i più grandi studios europei, ti dividi tra Praga, Budapest, e la Liguria, dove abiti…

«Sì, sono ligure, ma mio padre è originario di Salerno, mia madre è metà danese».

Gli occhi sono della mamma?

«No, di mio nonno materno».

Quanti centimetri misura il tuo “compagno” di lavoro?

«Non è poi così grande…»

Ma smettila!

«Più di 20 cm di lunghezza, e 20 di circonferenza…»

…20 di circonferenza?!? Salute!

«Ok, ho un bel cazzo, è innegabile».

Tu hai 42 anni, e hai debuttato nel porno nel 2012.

«Sì, con Mario Salieri».

Senti, Luca, la posso dire la verità? Tu, Mario Salieri…

«Io Mario Salieri manco sapevo chi fosse!»

Salieri dirige porno d’autore da 40 anni!

«Vabbè, ma io non sono mai stato un consumatore di porno…»

Tu non guardavi porno prima di fare porno?

«No, per niente».

E come lo hai conosciuto Salieri?

«Ho preso un caffè nei suoi studi perché un mio amico, che conosceva Salieri via Facebook, voleva conoscerlo di persona. Salieri mi ha chiesto se fossi interessato a fare un provino, ed eccomi qua».

Luca, tu quando hai iniziato, eri sposato…

«Lo sono tuttora!»

Sempre con la stessa?

«Ma certo! Siamo felicissimi, abbiamo un bambino!»

Scusa, fammi capire: tu hai detto a tua moglie che iniziavi a fare porno, e lei, che ti ha risposto?

«“Vai, amore, provaci…”»

Ma come? Non ha fatto storie?

«No. Ha voluto lasciarmi provare. E poi, che dovevamo fare? La ditta edile per cui lavoravo era fallita, soldi ce n’erano pochi…»

Tu però all’inizio facevi sia porno, sia lavori “normali”…

«Sì, giravo poche scene, 3, 4 al mese. Nel porno, solo quando ti fai un nome, e acquisti esperienza, lavori a livello professionale in modo quantitativo, e guadagni bene».

Ma tua moglie non è gelosa?

«No, quello geloso sono io! E parecchio! Se lo vuoi sapere, quando ho lasciato i lavori "normali" per il porno, qualche problema ce l’ho avuto coi miei familiari».

Non l’hanno presa bene, eh?

«No, erano preoccupati, io all’inizio nemmeno volevo dirglielo però ho dovuto, perché nella mia città d’origine, che io facessi porno lo hanno scoperto tutti, subito».

Lo sapevano perché anche i più insospettabili guardano il porno. Luca, ma tu sei un marito fedele?

«Sono monogamissimo, tranne le donne che mi scopo per lavoro».

Quello non è tradimento, e il tuo è un lavoro invidiato. Tanti ragazzi mi chiedono come fare, come iniziare, come entrare nel porno. Rispondere di mandare una mail a Siffredi, per entrare nella sua Academy, è giusto?

«La realtà è questa: se un ragazzo italiano vuole fare sul serio porno professionale, deve fare le valigie e trasferirsi a Budapest o a Praga. Lì deve investire denaro su se stesso, e tempo per farsi conoscere dalle grandi produzioni. Lo dico senza mezzi termini: o ti fai un nome, o nessuno ti c*ga. L’Academy di Rocco Siffredi è un’ottima esperienza, ma l’esperienza te la puoi fare anche nel porno amatorial, dove però guadagni zero, al massimo, se ti va di c*lo, ottieni un rimborso spese».

Meglio bypassare agenti, e agenzie?

«Meglio dire che, al contrario degli Stati Uniti, qui in Europa non funzionano come dovrebbero. In Europa vale il fai-da-te e oggi è sui social che ti fai conoscere, è sui social che ti possono contattare per un porno. È rimanere nel porno che è difficile. Noi uomini lavoriamo in pochi, e sempre gli stessi, perché da noi si pretende esperienza e affidabilità. Un produttore che ci mette i soldi vuole un risultato garantito e di qualità, così non si affida a un debuttante. La mia porno-gavetta è durata anni».

Quanto vale porno-promuoversi coi video fatti in casa su Pornhub o su OnlyFans? È questo il futuro del porno?

«Mah! Se non sei un nome è dura farci soldi. È complicato dare una risposta certa. Il porno oggi è un settore molto variegato, ci sono le produzioni ultramilionarie, e ci sono altre, che pagano (poco), e dove puoi trovarci chiunque, dagli studenti universitari ai camerieri ma pure inaspettati professionisti: non tutti cercano la fama, per qualcuno è un modo di arrotondare con una seconda entrata, altri soddisfano il proprio narcisismo».

Tu sei su OnlyFans e hai il tuo canale Pornhub…

«Sì, mi rendono qualcosa, ma non ci punto molto, a differenza di altri miei colleghi: oltre a fare porno per grandi studios, io punto e guadagno su miei video prodotti e venduti in esclusiva a grandi canali di distribuzione».

Il lavoro di un attore porno è molto diverso da quello di un’attrice porno: sui set, è lui ad avere la responsabilità della riuscita della scena, la sua parte è più difficile, è più  faticosa. Un pornostar è tale perché mette in azione la sua testa, il suo cervello, per far funzionare il suo pisello.

«È proprio così. Una scena porno – specie se "gonzo", ovvero il porno senza trama, senza tagli, che è oggi il porno più girato – viene guidata dall’attore che ha esperienza, nei movimenti, nelle posizioni. Anche perché il ricambio di attrici è continuo, giri con ragazze sempre nuove che, su un set, davanti alle telecamere, sono inesperte. Se giri con le professioniste, è diverso: ti aiutano a raggiungere un risultato il migliore possibile».

Ma ci sono trucchi per mantenere un’erezione a lungo e a comando?

«Sicuramente l’esperienza sui set aiuta, ma non ci sono trucchi: mantenere un’erezione è un fattore psicologico, e l’ansia è il nemico numero uno del nostro pene. Gli aiuti chimici esistono e sono utili se, su un set, devi fare sesso per molte ore di seguito. Ogni pornostar può avere una giornata no, ma è sbagliato pensare che gli aiutini siano la soluzione per fare questo lavoro».  

Te la ricordi la tua prima volta sul set?

«E come no! Mi ricordo l’attesa! Stavano girando una scena prima della mia, e a me sembrava non finissero mai. La mia prima scena aveva anche un copione: io entravo in un (finto) studio medico, c’erano 2 attori, uno che faceva il medico e una ragazza, che interpretava la mia fidanzata, appena "visitata" dal dottore. Me la dovevo scopare mentre l’altro ci guardava e si masturbava. Recitazione, erezione, prestazione: tutto mi è riuscito alla perfezione! Ho iniziato così».

Io però so una cosa…

«Quale?

Tu sui set a erezione sei infallibile, e però, solo una volta hai avuto una seria défaillance, e quella volta è coincisa col tuo primo giorno di lavoro per Rocco Siffredi…»

«È vero.

Che ti era successo, e come l’hai risolta?

«Ero pieno di ansia per problemi fuori dal set. Ero in crisi nera, avevo investito tanto denaro su me stesso, sulla mia riuscita nel porno, ma a risultati stavo a zero. M’era presa la voglia di mollare tutto e tornarmene da mia moglie in Italia. Stavo quasi per farlo, quando mi ha contattato un grande studios, e la mia carriera nel porno ha preso il volo».

Come fai se ti capita di girare con una straf*ga che però è antipatica, se la tira, nel sesso è una statua di marmo?

«Regola numero uno con le partner: trovare una connessione mentale, una qualunque, anche minima. Concentrarsi su un aspetto del suo corpo per eccitarsi. O su un pensiero erotico che ti garantisce l’erezione. Se sei sfortunato e ti capita la str*nza tra le str*nze, o l’imbranata totale… pillola! Ma è rarissimo per me non "riuscire" naturalmente sui set».

Qual è la scena più bizzarra che hai girato?

«Bizzarra? Che intendi? Per me è quotidianità girare gang bang, pissing, anali e vaginali doppi e estremi! Ti dico però che un vero spasso sono state le scene-party in discoteca, con 30 attori e 30 attrici, tutti amici professionisti, a scopare, per ore, in orge!»

Luca, ho sentito che fai pensieri di porno-pensione. Dimmi che non è vero!

«Tranquilla, non vado in pensione però sai bene che il lavoro di un pornostar non può durare per sempre. Ormai ho capito come funziona, dove e come si guadagna: voglio concentrarmi sulla produzione, girando il porno che mi frutta più soldi».

Credi sia impossibile qui in Italia rimettere in piedi una industria del porno, vuoi per le tasse troppo alte, l’asfissiante burocrazia, per le leggi poco chiare?

«Impossibile tornare indietro. Impossibile ricreare la realtà di 20, 30 anni fa. Il porno gira tutto intorno ai colossi del freetube. Le produzioni sono quasi tutte loro, le altre girano comunque intorno a loro. Come fai a batterli? Come fai a reggere i costi?»

Tu mai hai lavorato negli USA, sebbene giri qui in Europa anche per compagnie americane (da ultimo hai girato per BangBros). Te ne sei pentito?

«Sì e no. Ho tanto lavoro qui, tante chiamate, ormai ho raggiunto un livello per cui posso scegliere cosa girare e cosa no. Sinceramente vorrei provare a fare qualcosa in America, quel che mi frena è la mia famiglia: sto già tanto tempo lontano da casa, ho un figlio piccolo, andare negli Stati Uniti significherebbe stare lontano da lui e da mia moglie ancora più a lungo».

Ci sono scene che rifiuti di girare? E perché?

«Sì, preferisco non fare scene lunghe, io faccio soprattutto gonzo, dove tra foto di scena e girato in 2, 3 ore massimo di lavoro ho finito. Un pornostar deve sapersi dosare. Io conosco il mio corpo: dopo 3 ore di set non posso dare il massimo. Sono stanco».

Ti sei “stancato” in “Creampie for Marica Chanel” e in “Veronica’s Squirting Anal”?

«Sono tra i miei ultimi lavori. Marica Chanel e Veronica Leal sono due ragazze di una bellezza unica: che altro vi serve per andare a vederci?»

Dì un po’: ch’hai “combinato” ultimamente con Valentina Nappi? E prima, con Martina Smeraldi? E prima ancora, con Eveline Dellai? E solo per rimanere alle italiane…!

«Sono tutte attrici straordinarie, e partner dei miei ultimi porno per "Letdoeit". Guardateli, non ve ne pentirete! Prima di iniziare i “giochi”, in ogni video io prima le intervisto, e poi le…Lo spoilero io! A Eveline chiedi quando si sente più eccitata, e lei risponde quando ha il ciclo…e il resto i miei Dago-lettori se lo vanno a vedere! Luca, a me fai bagnare quando le dici “Ok, fuck!”. Mi piace come glielo dici!»

E quello che facciamo dopo l’intervista, non ti piace?

«E me lo chiedi? Eveline mica è l’unica dannatamente arrapata, a mestruazioni in vista!»

·        Luca Guadagnino.

Dagospia il 12 settembre 2020. Un documentario a Venezia su Salvatore Ferragamo, “Salvatore, Shoemakers of Dreams”; una serie in arrivo in questi giorni in America su HBO e a ottobre in Italia su Sky, ''We are who we are'', prodotta da Lorenzo mieli per The Apartment e da Mario Gianani per Wildside, entrambe del gruppo Fremantle; un thriller con John David Washington e Alicia Vikander, “Born To Be Murdered”, che ha prodotto per la regia del suo ex-fidanzato, Antonio Cito Filomarino; mille progetti, a cominciare da uno “Scarface” ricchissimo per la Universal, Luca Guadagnino si guadagna una pagina sul “The New York Times” del 10 settembre: “Con ‘We Are Who We Are,’ Luca Guadagnino vuole che tu interroghi te stesso” a firma di Kyle Buchanan.

Dago-traduzione dell'intervista del ''New York Times'' a Luca Guadagnino: "Cosa intendi per essere un provocatore?" chiede Luca Guadagnino via Zoom. "Parliamone un momento." Stavamo discutendo di Sarah, un personaggio secondario interpretato da Chloë Sevigny nella sua nuova serie della HBO “We Are Who We Are”, ma stavamo anche parlando, in modo indiretto, dello stesso Guadagnino. Sarah è un personaggio pieno di contraddizioni: come nuova comandante di una base dell'esercito americano in Italia, ha il compito di mantenere l'ordine, e come madre, Sarah è dispettosa e persino trasgressiva, spesso pungolando il figlio di 14 anni Fraser (Jack Dylan Grazer) per smuoverlo. Sarah non è come la maggior parte delle madri ma, ho notato, è come la maggior parte dei registi, che devono essere taskmaster e provocatori in egual misura. La stessa cosa può riferirsi a Guadagnino? Potrebbe, ma prima vuole assicurarsi che non ci siano fraintendimenti: la parola "provocatore" non è un peggiorativo per lui, ma piuttosto una vocazione più alta. "Penso che essere un provocatore, nel senso buono, significhi sfidare lo status quo - e lo status quo cambia continuamente", dice Guadagnino. "Devi sfidarlo, se sei un artista e un creatore sincero." In quel senso, potrebbe relazionarsi a Sarah, ma anche al biondo ossigenato, irriverente Fraser, che è più interessato alla moda che alle fatiche e il cui arrivo alla base fa scalpore tra i suoi adolescenti. Guadagnino, 49 anni, è sedotto da estranei che provocano quasi senza volerlo, come Oliver (Armie Hammer) nel suo film “Call Me By Your Name” (2017), che stravolge il languido idillio estivo di una famiglia con il suo sex appeal, o Susie (Dakota Johnson), la nuova ballerina nel suo remake di “Suspiria” (2018), il cui talento fa esplodere più di poche teste nella sua accademia. La presenza stessa di questi personaggi trasmette increspature attraverso lo status quo, ma non possono essere incolpati per come le persone reagiscono al loro arrivo. C'è solo qualcosa nella loro natura. Loro sono chi sono. E forse questo genere di cose è innato anche per Guadagnino. Ragazzo solitario e ossessionato dal cinema cresciuto a Palermo, in Italia, ha convinto con successo la madre a comprargli una telecamera Super 8, quindi ha cercato di realizzare il suo primo cortometraggio, un omaggio al regista horror Dario Argento. Il giovane Guadagnino ha immerso un pezzo di carne di mucca in un bicchiere d'acqua e ha pianificato di filmarne la decomposizione nel tempo, ma l'odore del marciume ha raggiunto il suo pubblico prima del previsto, prima che quella visione sanguinosa potesse mai realizzarsi. “Mia madre ha buttato via la carne”, ci dice con orgoglio, “così non ho mai finito il mio film. Ma quello è stato il mio primo film!" Nel 1999, Guadagnino ha debuttato nel lungometraggio con “The Protagonists”, accolto altrettanto visceralmente, guadagnandosi un giro di fischi alla Mostra del Cinema di Venezia. La sua visione grandiosa e imperturbabile inizierà a conquistare la critica con film successivi come "Io sono l’amore" (2009) e "A Bigger Splash" (2015). Dopo che "Chiamami col tuo nome" è diventato un film da Oscar, a Guadagnino è stata anche offerta la possibilità di dirigere grandi film in studio, riempiendo la sua lista di remake con "Il signore delle mosche" e "Scarface". Tuttavia, i film più grandi richiedono budget più grandi, e dopo che Guadagnino ha avuto problemi ad assicurarsi abbastanza soldi per fare “Blood on the Tracks”, un film costellato di star adattato dall'omonimo album di Bob Dylan, è invece passato alla televisione. Il produttore Lorenzo Mieli aveva suggerito uno spettacolo che esplorava la fluidità di genere nei sobborghi americani, ma Guadagnino voleva dare a "We Are Who We Are" la sua interpretazione.  "Non ero troppo interessato agli 'argomenti' e non ero troppo interessato allo spirito del tempo", ci dice. "Invece, quello che ho ritenuto interessante era una narrazione televisiva non dal punto di vista dell'azione e della trama, ma più dal punto di vista del comportamento". Il risultato è una serie di otto episodi che deve meno alla pesantemente stilizzata “Euphoria”, l'altro grande serial per adolescenti della HBO, e più al naturalismo concreto del dramma di Maurice Pialat del 1983 “À Nos Amours. " Guadagnino era entrato nel progetto con piani dettagliati per distinguere ogni episodio con obiettivi diversi e tecniche di ripresa elaborate, ma ha iniziato a ripensare alle sue intenzioni quando i giovani attori dello spettacolo sono arrivati la scorsa estate sul set fuori Padova, in Italia. "Che senso ha lavorare con attori, o artisti in generale, se non ti affidi a loro come forze creative?" spiega Guadagnino, che ha chiesto a Grazer e alla nuova arrivata Jordan Kristine Seamón un input su come i loro personaggi avrebbero pensato, parlato e si sarebbero comportati. "Hanno iniziato a darmi un'incredibile ispirazione, e quello che volevo era sentire e toccare il respiro della vita proveniente da queste persone", dice. "Tutte le mie costruzioni su cui ho passato molti, molti mesi, le ho buttate via in un momento: 'No. Seguiremo i personaggi.'"  "Che senso ha lavorare con attori, o artisti in generale, se non ti affidi a loro come forze creative?" dice Guadagnino. Il cast ha imparato a muoversi con lui. "Fondamentalmente, non sapevamo nemmeno cosa stavamo facendo ogni giorno, dipendeva dalla luce", ci dice Chloë Sevigny. “Teneva tutti gli attori lì e avevano già costruito il set, così poteva girare qualunque cosa volesse girare, in qualsiasi momento. Quanti registi arrivano a questo lusso? " Sebbene Guadagnino affermi di non essere ispirato da argomenti caldi, molte questioni contemporanee si snodano ancora nello spettacolo. Mentre il personaggio di Seamón, Caitlin, esplora i confini della sua identità di genere, il suo padre conservatore Richard (interpretato dal rapper-attore Kid Cudi) indossa un cappello "Make America Great Again". "Era qualcosa per cui dovevo davvero scavare in profondità", ammette Cudi. "Perché questo personaggio è totalmente diverso da quello che sono e dalle cose che rappresento." È probabile che a far esplodere ancor di più la cosa sia la cotta del giovane Fraser per un grosso marine di 20 anni (Tom Mercier) che fa poco per dissuadere il suo interesse. I personaggi di "We Are Who We Are" spesso si addentrano in territori pericolosi, ma Guadagnino non è interessato al moralismo. Il punto è convincerti a parlarne e arrivare alle tue conclusioni. "Potremmo giudicare il comportamento di un amico e aiutare l'amico", spiega Guadagnino. "Ma dobbiamo giudicare i personaggi?" Lui scuote la testa. "Se iniziamo a disinfettare i nostri personaggi dalla provocazione delle domande etiche, è meglio che smettiamo di fare quello che facciamo." "Quello che ho ritenuto interessante era una narrazione televisiva non dal punto di vista dell'azione e della trama, ma più dal punto di vista del comportamento", ha detto Guadagnino. Guadagnino  ha finito le ultime riprese di "We Are Who We Are" a febbraio, solo due settimane prima che l'Italia entrasse in blocco per far fronte all'epidemia di coronavirus. Nonostante sia rimasto impegnato in quarantena, realizzando un cortometraggio che sarà presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, gli ultimi mesi sono stati strazianti: il padre di Guadagnino è morto a maggio, e poi è stato lasciato dal suo compagno di 11 anni, il regista Ferdinando Cito Filomarino. Milano, dove vive Guadagnino, ha cominciato a riaprire, ma è ancora un luogo solitario, e anche lui al suo interno. "Sono una figura in questo paesaggio di vuoto, onestamente", ci dice. "Sogno ogni giorno mio padre e ogni giorno il mio partner, e porto con me quei sogni nel vuoto della città". "Non voglio sembrare patetico", aggiunge. "Ma questo è quello che sono, e non posso non essere sincero." Per Guadagnino e per il pubblico, l'estate incontaminata di "We Are Who We Are" suonerà in modo leggermente diverso ora. La serie si diletta in piaceri che sono stati portati via dall'inizio della pandemia, come la cena in un ristorante pieno di scoppi o, nel quarto episodio, una festa che si protrae fino a quando i personaggi, ubriachi e svuotati, si sentono abbastanza vulnerabili da mettere a nudo le loro anime. Se le cose fossero andate secondo i piani, "We Are Who We Are" sarebbe stato presentato in anteprima come un'avventura di otto ore al Festival di Cannes a maggio, dando il via a un tour stampa di un mese che alla fine avrebbe riunito Guadagnino con il suo cast negli Stati Uniti. Il regista invece è bloccato a casa. "Non sarei comunque in grado di festeggiare", ci dice. "Posso restare sveglio tutta la notte solo se giro." Anche se gli manca il suo cast, "nella vita reale, quando non sto facendo un film, penso che sarei così noioso per loro". Anche i provocatori devono riposare. Su Zoom, Guadagnino è brillante e professorale; il prossimo anno compirà 50 anni e ha detto che gli attori adolescenti del cast lo guardavano come fosse uno zio o un nonno. Quando ho parlato con Grazer e Seamón, erano per lo più affascinati dalla sua volontà di evitare la comodità moderna di un iPhone per un Nokia rosa con cerniera che non può nemmeno inviare o ricevere foto. Il suo regista guarda ancora scettico l'iPhone. "Questa piccola cosa non ti serve", dice. "Sei tu che servi a lui." Quando chiedo a Guadagnino come sarebbero state diverse le cose se fosse cresciuto oggi, pensa che il suo io moderno da adolescente sarebbe stato più collegato alla tecnologia, o anche alle persone: "Penso che sarei solo, e leggerei molti libri." In un primo momento, sono rimasto sorpreso dalla sua dichiarazione, dal momento che Guadagnino mi aveva appena detto: "Non voglio inchiodarmi a un senso di me che è inamovibile". Ma mentre "We Are Who We Are" è un amorevole tributo al potenziale infinito delle persone di cambiare, crescere e sorprendere, il suo creatore è semplicemente più determinato nei suoi modi. E ha imparato a convivere con questo. "Può un leopardo cambiare le sue macchie?" ha detto Guadagnino. “La tua identità è la tua identità. La tua natura è la tua natura. Più di quanto ammetto che lo sia."

·        Luciana Turina.

Mattia Pagliarulo per Dagospia l'8 novembre 2020. Luciana Turina, “la Lucianona nazionale” è un personaggio del mondo dello showbiz che ha sempre destato simpatia, allegria ed abbondanza.Ma dietro al sorriso per esigenze di copione non si nasconde di certo una donna dalla vita facile; si celano grandi delusioni professionali, occasioni musicali a cinematografiche mancate e serie difficoltà economiche. La gente la ricorda per aver vinto nel 1965 il Festival di Castrocaro e aver partecipato l’anno seguente al Festival di Sanremo, per i suoi ruoli come caratterista ad alcuni film, lungometraggi e programmi Rai come “Settimo Anno” con Lando Buzzanca o “Che Patatrac” con Gianni Boncompagni; l’ultimo suo lavoro importante è stato nel 2008 affiancando Aldo Giovanni e Giacomo nel film “Il cosmo sul comó”. Una carriera nella musica e nel cinema che è andata man mano a sbiadirsi. Una delle poche note non stonate della sua vita si chiama Emerico, una storia d’amore che dura da più di vent’anni che Luciana sogna di coronare con il matrimonio, appena la pandemia dovuta al Covid-19 lo permetterà. Oggi in questa intervista ci racconterà tutto di sé, o quasi...e si toglierà qualche sassolino (o macigno) dalla scarpa.

D. Luciana innanzitutto come sta?

R. Rassegnata, dimenticata, amareggiata, delusa ed emarginata  dal mondo dello spettacolo a cui ho dato anima e cuore, e pensare che quest’anno ho festeggiato 55 anni di carriera. Però nella mia vita semplice e con i miei 550€ di pensione sto bene, con qualche piccolo acciacco e qualche problema di salute ma tengo duro, in fin dei conti ho 74 anni. Per fortuna ho il mio compagno Emerico che mi ama e mi sta accanto, lui lavora e viviamo a Palermo in una piccola casa in affitto...se non fosse per lui non so dove potrei essere! È il mio angelo. In passato ho veramente conosciuto la depressione e tentato il suicidio. Rifiuto di prendere gli psicofarmaci, prendo solo qualche goccia per dormire.

D. Dopo i numerosi appelli televisivi in cui chiedeva di lavorare, qualcuno concretamente l’ha aiutata?

R. Ci sono state due persone molto famose in questo mio deterioramento professionale ed artistico che mi hanno aiutato. Io non ho chiesto nulla perché ho il difetto di non chiedere mai aiuto a nessuno. Soprattutto una di queste due persone mi ha aiutato tanto per anni, è un nome grosso dell’ambiente di cui non svelerò il nome per rispetto.

D. Si sente dimenticata anche dalla gente?

R. La gente mi ama, mi ferma ancora per strada e mi riconosce. In tanti mi chiedono perché non faccio più dischi, film o televisione, io devo sempre giustificarmi dicendomi che non dipende da me ma dagli addetti ai lavori che non mi ingaggiano. Una volta conoscevo molti capi struttura e avevo i contatti diretti per lavorare, ora sono tutti morti! Degli addetti ai lavori di adesso non conosco nessuno!

D. All’inizio della sua carriera ha posato in maniera sexy e provocatoria sia su Playmen sia su Playboy, che ricordo ha?

R. Un ricordo stupendo! È stato bellissimo e mi sono divertita a posare, anche se non si vedeva quasi nulla. Il fotografo era Angelo Frontoni, sono stata quasi una settimana a casa sua a scattare, mi dava da mangiare solo pane e mortadella perché era un po’ tirchio ma era una brava persona. Per me è stato come girare un film!

D. La sua fisicità prorompente e giunonica l’ha più aiutata o ostacolata nella sua carriera artistica?

R. Decisamente mi ha penalizzata questa mia fisicità esagerata: mi ha ostacolato tantissimo. Svariati uomini mi scrivevano lettere dicendomi che erano attratti dalle donne grosse pregandomi di incontrarli di persona, li mandavo a fare in culo!

D. Cosa vorrebbe fare lavorativamente oggi ?

R. Io farei qualsiasi cosa perché so fare veramente tutto, dal canto alla recitazione, la mia voce blues è ancora bella come nel 1965 quando ho vinto il Festival di Castrocaro cantando la cover di “Come ti vorrei” di Iva Zanicchi. È da quando ho 18 anni che faccio tra alti e bassi questo mestiere.

D. Sarebbe disposta a partecipare anche ad un reality show?

R. Eccome! Basta che non mi facciano nuotare in mare aperto perché non lo so fare o buttare da un elicottero perché ho paura! Al Grande Fratello Vip parteciperei subito, potrei cucinare per tutti quei ragazzotti perché sono un ottima cuoca, poi ho un bel caratterino come si è visto qualche anno fa in televisione in cui dissi a quella specie di opinionista di nome Karina Cascella “ti attacco al muro”; sono un personaggio che in un reality show funzionerebbe. Alfonso Signorini lo adoro, come adoro tutti gli omosessuali che con me hanno sempre avuto un gran feeling e dei grandi rapporti di amicizia vera e profonda. Anzi dirò di più: Signorini ho sentito che i primi di dicembre fate entrare 7/8 nuovi concorrenti della casa del GF Vip, io ho già le valigie pronte! Chiamami e non ti deluderò, spero che almeno tu mi ascolti e mi fai lavorare perché ne ho veemente bisogno, avere da parte dei soldi per la mia vecchiaia mi farebbe stare più serena.

D. Cosa pensa delle unioni civili e dell’apertura che in questi ultimi tempi ha dato il Papa al mondo gay?

R. Questo Papa non è solo buono ma è anche molto intelligente. Io sono cattolica ma non bigotta. Come ho detto prima io amo il mondo gay e il mondo gay ama me da sempre. Ci voleva un passo in avanti così dalla Chiesa perché gli omosessuali devono essere trattati esattamente come tutti, anche se non è così per tante persone, ancora c’è molta ignoranza. Sono assolutamente favorevole alle unioni tra persone dello stesso sesso!

D. Qualche tempo fa in una trasmissione domenicale è stata accusata di giocarsi la pensione al Bingo, come replica a queste accuse?

R. Si sta parlando del 2018 e la trasmissione era Domenica Live condotta da Barbara D’Urso su Canale 5. Come mi gioco la pensione al Bingo che prendo poco più di 500€ mensili? Andavo al Bingo una o due volte al mese con la madre anziana del mio compagno a giocarmi massimo 20€ proprio per distrarmi e fare qualcosa di diverso e per uscire un po’ di casa. Il mio compagno è da mesi e mesi che scrive all’autore di riferimento della signora D’Urso perché mi dia il diritto di replica e la possibilità di difendermi da queste accuse infamanti, ma lui non ha mai risposto ai nostri messaggi, mai! Vi sembra un comportamento corretto? Mi sono sentita spremuta come un limone ed umiliata alla mia veneranda età!  Chissà se dopo questa intervista mi daranno la possibilità di parlare dopo quasi due anni sarebbe anche ora perché ho sofferto tantissimo per essere stata trattata così dopo più di mezzo secolo di onorata carriera! Io sono pronta al confronto, vediamo se anche la D’Urso e il suo autore lo sono!

D. È vero che vuole sposarsi non appena passerà questa pandemia?

R. Si, è un nostro desiderio dopo ben 22 anni di fidanzamento, siamo insieme dal 1998 io ed Emerico. Sperando che questa brutta pandemia passi in fretta e che non muoia prima! (ride)

D. Come si vede Luciana Turina tra 15/20 anni?

R. Domanda molto difficile! Solo il buon Dio può rispondere, chissà quando mi verrà a prendere! (ride nuovamente)

·        Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Me contro Te, gli youtuber dei record: «Ecco come abbiamo battuto Zalone». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Se non avessero continuato a caricare i loro video su YouTube — «e all’inizio non li guardava proprio nessuno» —, oggi Luigi Calagna sarebbe un farmacista e Sofia Scalia una studentessa di medicina. Ma a uno di quei bivi davanti a cui la vita più o meno inconsapevolmente ci pone, questa coppia di fidanzati siciliani ha scelto la strada della perseveranza. Ed è così che oggi, Luì e Sofì sono i Me contro Te, youtuber dei record: il loro primo film ha superato gli otto milioni di incassi e schiere di giovanissimi fan non vedono l’ora di ascoltare il loro primo disco, Il Fantadisco dei Me contro Te, in uscita il 14 febbraio. «Tutto questo fa impressione, ma non è un’esplosione — spiegano —. Abbiamo lavorato sodo e i nostri numeri sono questi da anni. Non ci siamo ritrovati di colpo famosi, l’abbiamo metabolizzato nel tempo». Perché avete iniziato a pubblicare i vostri video? «Per puro hobby: eravamo fidanzati da due anni e ce li mandavamo tra di noi. Volevamo creare una sorta di nostro archivio dei ricordi. Per diverso tempo hanno fatto zero visualizzazioni...».

Oggi arrivate a diversi milioni.

«Ne carichiamo uno al giorno, facendo nel mentre progetti paralleli, come i libri, il disco, il film...».

I vostri progetti paralleli sono i sogni di una vita di molti altri.

«È vero, ma di fatto anche per noi. Il film è un grandissimo sogno, il disco quasi un’utopia, specie per Luì che da ragazzo suonava in una band».

Il vostro film al debutto ha superato «Tolo Tolo» negli incassi.

«Non ce lo aspettavamo, anche se Tolo Tolo era già in sala da alcune settimane. Abbiamo avuto il piacere di conoscere Checco Zalone, per noi è un mito. Scherzava su questa cosa, diceva: ma tanto questo non è un vero film, no? Non è che ora resta in sala...».

Quando avete realizzato che la vostra vita era cambiata per sempre?

«Forse quando è arrivato il primo progetto extra: una serie tv con Disney Channel, Like me. Ci siamo ritrovati ad avere un pubblico di giovanissimi ma non è stata una cosa meditata, piuttosto una conseguenza di quello che facevamo. Ce ne siamo resi conto leggendo i commenti: spesso avevano errori di ortografia. L’unica cosa che cambiata dopo averlo realizzato è il senso di responsabilità e la consapevolezza di influenzare una massa enorme di piccoli».

La vostra coppia ha risentito di tutto questo?

«Un po’ si è adattata. Ora viviamo assieme: da un paesino in provincia di Palermo siamo arrivati a Milano. Ma appena possiamo torniamo in Sicilia, dove frequentiamo gli stessi posti di prima, gli stessi amici».

Si spiegano quello che vi è capitato?

«Cosi cosi, sono un po’ increduli. Le madre di Luì dice che le sembra di vivere in un sogno». «Sì, lei non realizza bene... mia nonna invece non ha proprio capito nulla, ma il bello è anche questo: il web ci ha fatto arrivare qui partendo dalla nostra cameretta in Sicilia».

Altrimenti avremmo un farmacista e un futuro medico: un’altra passione che vi lega. L’avete archiviata o non escludete torni nel vostro futuro?

«Chissà. Un po’ nei nostri video c’è della farmacia, della chimica... ad esempio nel creare lo slime. Facciamo degli esperimenti scientifici: siamo scienziati dentro. Sperimentiamo, sporchiamo e puliamo: un incubo».

Perché i bambini di oggi amano lo slime?

«Perché è la sostanza più bella del mondo. Da piccolo giocavo con la terra e l’acqua: se avessi avuto lo slime con i glitter e i colori sarei impazzito».

Domanda da un milione di views: perché avete sfondato voi e non altri?

«Perché non interpretiamo dei ruoli: noi siamo davvero così, con una essenza spensierata e giocherellona. Divertirci non ci fa sentire la stanchezza».

Il disco esce il 14 febbraio, data non causale.

«Per due innamorati è perfetta. Il disco ha canzoni super romantiche».

Quale è il più bel regalo che vi siete fatti?

«Lui mi ha portata a Disneyland: era il mio sogno nel cassetto. Io? Una chitarra».

Pensate mai che non vi potete lasciare? Che il vostro è già un matrimonio?

«E con milioni di figli poi! Dopo con chi starebbero? No, no non ci possiamo lasciare, ma perché stiamo bene. Certo la vita è piena di sorprese: a noi ne ha già regalate tante. Ma per ora siamo molto felici e insieme ci completiamo: è la nostra forza. Per i figli nostri c’è tempo».

Siete di novelli Al Bano e Romina...

Sofi: «Sì, la conosco perché mio nonno è super fan. L’altro giorno me ne ha parlato per tutto il pranzo: li ho cercati, non sapevo chi fossero... cioè, sapevo di Al Bano ma non della coppia. Loro con canzoni amate dai bambini come Felicità e Il ballo del qua qua sono rimasti nella storia della musica».

Vi augurate succeda lo stesso a voi?

«Più che altro riflettiamo sul fatto che quando i piccoli di oggi avranno 20, 30 anni, saremo per loro quello che per noi è la Melevisione o Art attack. O, per i genitori di chi ci segue, Bim bum bam. Ci ha fatto tanto piacere ricevere i complimenti di Giovanni Muciaccia, di Tonio Cartonio (volto della Melevisione), di Cristina D’Avena... persone che potrebbero rappresentare quello che oggi siamo noi per i più piccoli. Questa cosa ci mette i brividi... e ci è anche già capitato che qualche 15enne, 12enne ci dicesse: siete stati la mia infanzia».

Il web corre in fretta...

«Chi si ferma è perduto. Oggi si trova presto una alternativa. Cerchiamo di non dimenticarlo e lavorare sodo. A malincuore non siamo potuti andare ospiti a Sanremo perché siamo in pieno tour. Andare in gara? Mah, ci mette un po’ ansia: vediamo la musica come uno dei nostri progetti ma non siamo cantanti... nemmeno attori o scrittori. Ci vediamo più come degli intrattenitori».

Non siete cantanti, attori o scrittori, eppure avete successo in ogni campo. Specializzarsi non conta più?

«In realtà abbiamo avuto la lucidità di capire che con la crescita dei numeri sui social doveva esserci anche una crescita artistica: ci siamo messi a studiare canto, recitazione... Il boom di popolarità può svanire in pochi giorni se non è accompagnato dalla sostanza. Quindi sì, in quello che facciamo si può dire che siamo bravi».

La prima volta che vi hanno fermati per un autografo?

«Stavamo facendo una passeggiata ad Alcamo e ci hanno chiesto una foto e un autografo. Abbiamo detto: eh? Oggi ne facciamo in media tre o quattro al giorno. Spesso ci sono genitori che ce lo chiedono, dicendo: non ho idea di chi siate ma mio figlio vi ha riconosciuti».

·        Luigi Mario Favoloso.

Da ilfattoquotidiano.it il 16 gennaio 2020. Di Luigi Mario Favoloso, ex fidanzato di Nina Moric ed ex concorrente del Grande Fratello, si sono perse le tracce ormai dal 29 dicembre scorso. Anche Federica Sciarelli si è occupata di questa sparizione a Chi l’ha Visto. E ieri una novità è arrivata ma negli studi di Pomeriggio 5. Favoloso ha telefonato a Barbara D’Urso: “Luigi Mario Favoloso ha chiamato Pomeriggio 5 e ci ha rivelato che è all’estero, in una località segreta, che a noi ha chiesto di non riferire. Lui avrebbe smentito la versione di Nina Moric. Dice di essersi allontanato per un motivo grave, che poi spiegherà”. Secondo la conduttrice del contenitore pomeridiano di Canale5, Favoloso si è detto molto dispiaciuto per la madre, che non sapeva nulla. Ma a quale versione di Nina Moric fa riferimento la D’Urso? A Domenica Live l’ex modella croata aveva raccontato: “Mi ha messo le mani addosso tante volte. Ho continuato a stare con lui perché in questi casi si innesca un meccanismo psicologico malato per il quale ti dai la colpa. In questi anni è stato violento, sia in senso fisico che psicologico. Si è sfogato su di me in una maniera molto forte per l’ennesima volta. Purtroppo una volta anche Carlos ha subito lo stesso atteggiamento. Andavano anche d’accordo insieme, c’era armonia ma lui ogni tanto aveva questi black out. E una sera in particolare ha avuto uno scatto e si è sfogato su mio figlio. Io mi sono messo davanti, ho urlato ma è riuscito a fare del male a mio figlio. Carlos mi ha detto che lo perdonava ancora oggi gli vuole bene però questa storia è chiusa per sempre. Mai più“. La ex compagna aveva poi aggiunto: “Lui sicuramente sta benissimo, è in Italia. Credo che questa scomparsa sia una finzione costruita sin dall’inizio, da lui insieme ai suoi amici e la sua famiglia”.

Da today.it il 16 gennaio 2020. Luigi Mario Favoloso sta bene: gli aggiornamenti di Barbara d’Urso. Barbara d’Urso ha raccontato al pubblico il contenuto della telefonata che Luigi Favoloso ha fatto al programma di Canale 5 con una scheda telefonica non italiana: l’ex fidanzato di Nina Moric ha detto di trovarsi all’estero e di non voler far sapere il luogo esatto che però è stato rivelato alla redazione. “La telefonata è durata mezz’ora. Luigi sta bene e non è in Italia. Noi sappiamo dov’è ma ci ha pregato di non dire la località per non essere rintracciato”, ha spiegato la conduttrice.

Luigi Mario Favoloso è scappato dall’Italia per un grave motivo. “Luigi ha assicurato che tutto quello che è stato detto dai media italiani è falso e ci ha dato tutta un’altra versione rispetto a quella raccontata da noi”, ha aggiunto ancora Barbara d’Urso riportando il contenuto della telefonata di Luigi Favoloso: “La madre non sapeva nulla e lui è dispiaciuto perché la gente pensa che non sia così”. L’intenzione dell’ex fidanzato di Nina Moric è quella di restare nascosto ancora per qualche tempo, sostenendo di aver fatto perdere le sue tracce per un motivo molto grave che, a quanto pare, non corrisponde a quello raccontato dalla modella  a Domenica Live. “Tornerà a spiegarci il motivo di questo gesto”, ha assicurato la conduttrice lasciando in sospeso una vicenda che senz’altro sarà tanto approfondita dai suoi programmi.

Alberto Dandolo per Dagospia il 19 gennaio 2020. La finta e arraffazzonata scomparsa di Mario Luigi Favoloso, ex fidanzato di Vagina Moric, appare quasi più "comica" della surreale fuga di Corona in Portogallo per sfuggire all'arresto ma con GPS dell'auto usata per eclissarsi che funzionava alla perfezione! Che non fosse un caso da Chi l' ha visto e nemmeno da denuncia alle forze dell'ordine era cosa ovvia, chiara e scontata sin dall'inizio. E dal principio era più che palese il nucleo comico e teatrale, seppur dilettantistico e ai margini del reato penale, di questa storiella di serie B che serviva e serve solo a riempire qualche blocco di qualche contenitore tv. E col passare dei giorni più che domandarci se Favoloso fosse in Val Brembana da amici con giacca a vento argentata e glitterata o se fingesse di essersi nascosto a Capo Verde, ad attirare la nostra attenzione è stata la vera, unica, inimitabile star di questa fiction al babba' con rum e crema chantilly. Stiamo parlando della bombastica Loredana Fiorentino, madre di Favoloso e attrice protagonista della nuova soap opera messa in piedi per far crescere i social di Mario Luigi e qualche curva nera dell'Auditel. Lei che nella vita recita nei mejo teatri tra Ercolano e Torre del Greco e che e' una danzatrice acrobatica (pare con ambizioni circensi) è diventata la prima donna della vicenda che sta tenendo incollati alla TV gli amanti delle repliche notturne di Centovetrine su Canale 5. La panterona di Resina, cotonata e impellicciata come Wanda Fisher alle prese con un suo concerto a Paullo, ha fatto e disfatto, detto e non detto, ritirando però la denuncia di scomparsa che aveva depositato e rifiutandosi, ovviamente, di fare un appello da Federica Sciarelli. E' lei la più gettonata dei salotti tv in questi giorni e stasera sarà in esclusiva (of course! ) di ''Live - Non è la D'Urso'' (percepisce un cachet?), con l'ex fidanzata Nina in studio, mentre Favoloso senior sta pattugliando in questi minuti gli studi di ''Domenica Live'' (aspettiamo il collegamento coi cugini di secondo grado). Amante dei tacchi 15, delle scarpe fetish e dei tatuaggi, la FAVOLOSA Lory ha una passione per i suoi glutei che cura con impegno e sacrificio. Il suo culo sodo e rampante e' infatti spesso protagonista dei suoi post. Ama il buon cibo, il ballo e il cinema. Il suo film preferito? "L'ANACONDA"... manco a dirlo!

Nina Moric contro la suocera: "Si vergogni, non nomini più Carlos". Scontro aperto sui social tra Nina Moric, Luigi Favoloso e sua madre Loredana che continuano a pubblicare commenti e messaggi l'uno contro l'altro, mettendo nel mezzo anche il giovane Carlos. Novella Toloni, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. È guerra aperta tra Nina Moric e il suo ex fidanzato Luigi Favoloso. Dopo la bufera mediatica scatenatasi in seguito alle pesanti accuse di violenze mosse dalla showgirl croata contro l'ex - e smentite con forza da Favoloso a "Live! Non è la D'Urso" - oggi tengono banco alcuni commenti social della suocera, Loredana Favoloso. Questa sera nello show di Barbara d'Urso Luigi si dovrà confrontare con sua madre e forse anche con la sua ex, ma nelle ultime ore la vicenda ha preso una piega inaspettata che ha coinvolto anche il figlio di Nina, Carlos Maria Corona. Che tra Nina e Loredana non corresse buon sangue lo si era capito due settimane fa, quando le due si erano pesantemente accusate nel salotto serale della D'Urso durante le fasi concitate della presunta scomparsa di Favoloso. Tra le due non c'è più stato un confronto diretto ma la diatriba si è spostata sui social network. Nelle corse ore Loredana Favoloso ha commentato un post di Nina Moric, facendo intendere di sapere cose di Carlos che non svelerà mai ma che, se dette, mostrerebbero un altro lato del giovane, diverso da quello che tutti siamo abituati a vedere. Una follower della Moric ha elogiato l'educazione, l'intelligenza e l'estrema serenità di Carlos Maria nonostante tutto ciò che la sua famiglia stia vivendo. Loredana ha però risposto con parole sibilline: "Io sò cose di Carlos che nessuno sà e che non dirò mai!". Una frase choc che ha messo in discussione la serenità del giovane e che ha scatenato le ire di Nina Moric che, per tutta risposta, si è scagliata contro l'ex suocera. Nelle storie del suo profilo Instagram, la Moric ha condiviso lo screenshot del commento e della risposta, invitando la donna a tacere e a "vergognarsi": "Carissima signora Loredana Favoloso, prima di "offendere" un adolescente meraviglioso si faccia un esame di coscienza! Non deve mai più nominare mio figlio! Ad arrivare a questo punto si commenta da sola". La questione finirà con ogni probabilità nella discussione di questa sera a "Live", come tutte le chat e i messaggi ambigui di Favoloso pubblicati da Nina negli ultimi giorni sui social. Intanto la bella modella confessa di essere in cura da uno specialista per affrontare i suoi problemi e di voler cambiare per il bene di Carlos. Nel rispondere a una follower su Instagram, ha spiegato: "Sono in cura da uno psichiatra da ormai due mesi per tutto quello che ho subito. Essendo un personaggio pubblico non significa che non soffro ma cerco di stare positiva per il bene di mio figlio. Lui si merita solo serenità e amore".

Il figlio di Nina Moric: "Mia madre è stata picchiata". Caros Maria Corona, figlio di Nina Moric e Fabrizio Corona, conferma che la madre ha subito violenze fisiche e psicologiche da Luigi Mario Favoloso. Luana Rosato, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. Dopo la misteriosa scomparsa – e riapparizione - di Luigi Mario Favoloso, accusato da Nina Moric di violenze fisiche e psicologiche, parla per la prima volta Carlos Maria Corona. Il figlio della Moric e di Fabrizio Corona che, come raccontato dalla madre in un’occasione sarebbe stato anche lui vittima di violenze da parte di Favoloso, ha confermato la versione di Nina. Dopo l’ultimo confronto tra la modella e la madre di Luigi Mario a Live! Non è la d’Urso, Carlos Maria si è sentito in dovere di prendere le parti della mamma e spiegare che, quanto raccontato da lei in diretta tv, corrisponde a verità. Secondo Luigi Mario Favoloso, infatti, le prove portate da Nina che attesterebbero le violenze subite dall’ex compagno non sarebbero veritiere. L’uomo, infatti, ha invitato la d’Urso e gli esperti ad analizzare attentamente la foto in cui la Moric mostra dei lividi sui fianchi e sul fondo della schiena sostenendo che, a differenza di quanto dichiarato da lei, quei segni corrispondano ad una mini liposuzione cui si sarebbe sottoposta la modella. A questo punto, dunque, Carlos Maria Corona ha deciso di dire la sua tramite un video pubblicato nelle Instagram story di Nina Moric. “Volevo chiarire la questione tra me, mia mamma e Luigi. Deve essere ristabilita in modo chiaro perché attualmente, dato che la verità non si è espressa in televisione, è una verità parziale – ha iniziato a spiegare il 17enne - .Perché? Le violenze su mia madre, sia di tipo fisico che psicologico, ci sono state. Io lo posso affermare, ma dato che molti sono scettici servono le prove tangibili. In ogni caso c’è stato un episodio di violenza”. Il figlio di Nina Moric e Fabrizio Corona, dunque, conferma la versione della madre e ribadisce che episodi di violenza tra Luigi Mario Favoloso e la donna ci sono stati e lui, a quanto pare, ne è stato testimone. Infine, il giovane ha voluto fare una precisazione riguardo i ritocchi estetici cui la madre si sarebbe sottoposta e le accuse nei suoi confronti da parte dei genitori dell’imprenditore partenopeo. “Inoltre un ultimo ragguaglio: volevo dire che le parole espresse da Michele e Loredana non sono inerenti al caso di mia mamma – ha concluso Carlos Maria - ,perché la maniera in cui lei è esteticamente è perché ha caratteristiche genetiche di questo tipo, dunque modificazioni del suo corpo non sono inerenti a mia mamma. Di conseguenza, c’è stata un’attribuzione che può corrispondere a qualcosa di altro”. Davanti alle dichiarazioni del figlio di Nina Moric, però, Luigi Mario Favoloso non è rimasto in silenzio e, attraverso un post sui social, ha fatto sapere di essere dispiaciuto per come la ex compagna stia manipolando un' "anima pura" come Carlos. "Mi dispiace vedere un'anima pura, un ragazzo d'oro, minorenne, buttato così in pasto ai social - ha scritto l'ex della Moric - , spero che qualcuno capisca la gravità di quello che sta succedendo e li aiuti entrambi".

Live Non è la d'Urso, Nina Moric contro tutti. I lividi sono compatibili con una liposuzione. Torna a Live non è la D’Urso Nina Moric per mettere un punto definitivo alla brutta vicenda che l’ha vista coinvolta anche nella sparizione di Luigi Mario Favoloso. Ma si scopre che quelle che dovevano essere lividi da percosse sono invece compatibili con una liposuzione. Roberta Damiata, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Ha detto che questa è l’ultima volta che parlerà in tv. “Questa non è cronaca rosa, è un argomento molto delicato e si stanno anche prendendo in giro i magistrati che stanno lavorando su questa storia”. Così Nina Moric arriva in studio a "Live Non è la d’Urso" per parlare della storia infinita del suo ex Luigi Mario Favoloso, scomparso per oltre un mese e poi tornato, che ha accusato di averle messo le mani addosso. Al contrario lui in diretta aveva rivelato che non si trattava assolutamente di questo, ma del fatto che Nina fosse una autolesionista. Quando entra, visibilmente dimagrita e molto agguerrita dice la sua. Ad ascoltarla anche la mamma di Luigi Mario Favoloso. Nina nega assolutamente di essere autolesionista e leggendo nervosamente sul telefonino mostra un’immagine dei suoi polsi pubblicati da Luigi Mario nel 2015 in cui si vedono dei tagli che Nina dice essersi procurata da piccola perché solo in giovane età ha avuto problemi di autolesionismo. È molto agitata, nervosa e cerca costantemente risposte tanto da venir ripresa dalla d’Urso che in maniera molto decisa le chiede se lei è stata autolesionista o meno.

La versione di Favoloso. Luigi Mario Favoloso, viene intervistato davanti al tribunale dove è andato a depositare una denuncia, cosa che "Mi costa tantissimo fare questa cosa - dice - anche se continua a sostenere la sua versione, quella di non aver mai picchiato Nina, ma di averla protetta contro se stessa -Sono convinto che dietro il comportamento di Nina ci sia qualcuno che sta orchestrando tutto. Se invece le volesse bene dovrebbe farla ragionare e magari anche convincerla a scusarsi per la brutta figura che sta facendo in tutta questa vicenda".

Le cinque sfere. Intanto sono state invitate le cinque sfere ad entrare tra cui c'è anche la madre di Favoloso che è la prima a parlare. La sua domanda è molto forte e chiede a Nina come si sente nei confronti delle donne che subiscono davvero violenza. La Moric è ancora molto nervosa dice che ha subito lei stessa quella violenza e che non ha potuto parlare perché aspettava che le ridessero il figlio, che era la cosa più preziosa della sua vita. Ma la madre contrattacca e ci va giù pesante dicendo ad esempio che quando si è fatta un lifting e si è rotto un punto lei si è fotografata per far vedere che era una ferita e per questo è una bugiarda anche per quanto riguarda i lividi che lei ha spacciato come percosse.

Il papà di Favoloso. Arriva anche il papà di Favoloso in collegamento e Nina lo attacca immediatamente dicendo che è ai domiciliari. Il padre si arrabbia e minaccia denuncia prendendosela anche con la d’Urso. Ma nonostante l'attacco il dibattito continua.

I lividi della Moric. Punto focale è appunto la famosa foto con i lividi che Nina ha allegato nella denuncia per percosse da parte di Luigi Mario, mentre lui sostiene che si tratti di liposuzione. Le foto vengono quindi fatte periziare e anche Nina viene visitata da un chirurgo plastico. Il primo medico nota due piccoli fori simmetrici proprio nella zona in cui sono stati fotografati i lividi e che potrebbero trattarsi di aghi o di piccolissime cannule che hanno lasciato il segno. E anche gli altri due chirurghi plastici che controllano la foto trovano compatibili i lividi con un intervento di microliposcultura.

Cosa ne pensano le sfere?. Alessandra Mussolini scende in campo e dà ragione a Nina Moric, mentre Enrica Bonaccorti è convinta del contrario, il tutto mentre la Moric mostra a tutti i due buchi nella schienata che i chirurghi hanno definito da liposuzione sostenendo che sono sa sempre sulla sua schiena, creando anche un po' di ilarità tra il pubblico.

Carlos la vera vittima. Il discorsa arriva inevitabilmente al figlio di Nina Moric ed è proprio lo psichiatra Meluzzi che consiglia alla Moric di pensare solo a lui perché, e della stessa idea è anche il giornalista Gianluigi Nuzzi, è lui la vera vittima di tutto questo.

Le verità di Luigi Mario Favoloso: “Non ho mai picchiato Nina Moric è lei che vuole distruggermi”. Dopo la sua presunta scomparsa, Luigi Mario Favoloso, torna a parlare a "Live Non è la d'Urso" e racconta la verità sul suo allontanamento e sulla relazione con Nina Moric. Roberta Damiata, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Era il più atteso di tutti, Luigi Mario Favoloso, ex concorrente del "Grande Fratello" ed ex di Nina Moric che è tornata dopo giorni in cui di lui non si sapeva più nulla. Dopo la segnalazione di un fotografo, la madre aveva fatto una denuncia per scomparsa. Lo avevano poi avvistato il Svizzera, in Germania e anche in altri paesi, fino a che con una telefonata alla redazione di Barbara d’Urso, Luigi Mario racconta di star bene e quindi la sua scomparsa, diventa allontanamento volontario. A “Live non è la d’Urso” è tornato per affrontare le pesanti accuse legate alla sua scomparsa, come quelle di aver picchiato la sua ex compagna Nina Moric e il figlio di lei e di Fabrizio Corona, Carlos. Accuse urlate a gran voce dalla Moric durante un’intervista con Barbara d’Urso, e difese da parte della madre di Luigi Favoloso punto focale di tutta questa vicenda. Favoloso si siede davanti ad una Barbara d’Urso molto seria, che le chiede prima di tutto dove è andato in tutti questi giorni. Luigi Mario racconta che ha viaggiato in nove paesi e che lui, cosa fondamentale, non è mai sparito. Si è solo allontanata e il motivo è molto semplice: “In un secondo il 20 di dicembre ho capito di non avere più una famiglia e di aver perso un amico. Ho letto un sms sul telefono di Nina che diceva: "Ci siamo amati e desiderati" e Nina le ha risposto: "Ci siamo amati anche se siamo diversi". Io ho controllato e ho scoperto che una volta che lei era partita e mi aveva detto che andava via per lavoro in realtà i biglietti del treno glieli aveva fatti lui, questo mio amico con cui io dovevi fare un lavoro molto importante in Africa”. Così Luigi Mario racconta di aver fatto le valigie ed essere andato a casa della mamma, che dal suo racconto aveva avvertito che il 26 dicembre non avrebbe passato capodanno con lei perché sarebbe nuovamente andato via. Una faccenda che si complica quando a sorpresa Luigi Mario dice che non parlerà mai più con la madre accusandola di aver fatto molti errori in questa vicenda, uno dei più gravi aver finto, a suo parere, di aver ricevuto una sua mail in diretta a “Mattino Cinque”, quando lui in realtà gliela aveva inviata due giorni prima. Ma la cosa che lascia più interdetti è che a suo parere lui non sarebbe mai scomparso, in realtà lui si è solo voluto allontanare e non ha portato via il telefono e le carte di credito, per non farsi trovare da Nina Moric. “Io volevo andare via, l’unico errore che non ho fatto è stato quello di non aver avvertito mia madre che lasciavo carte di credito e telefono a casa volontariamente. Quando ero in Polonia un ragazzo mi ha fermato e mi ha detto che mi stavano cercando e solo in quel momento sono venuto a conoscenza che tutta Italia mi stava cercando. Così sono andato io in un internet caffè e ho inviato la mail a mia madre dicendo che stavo bene, ma di non andare più in tv”. Inoltre ammette di essere stato lui a chiamare i paparazzi per far poi pubblicare le foto che lo riprendevano in Svizzera, perché a corto di contanti: “Mi sono autovenduto, hanno fatto tutti i soldi su di me. Durante questo viaggio tutti quelli che mi hanno aiutato ci hanno poi guadagnato. La mia non era una fuga” ammette candidamente. Ma è sulla questione di Nina Moric che si concentra l’attenzione. Nina che lo aveva denunciato di averla più volte picchiata e di aver picchiato anche suo figlio Carlos. Ma su questo si cerca di fare molta attenzione anche perché ci sono delle denunce in corso. Però una cosa Luigi Mario la dice, che Fabrizio Corona uscito dal carcere lo ha abbracciato ringraziandolo di prendersi cura di Carlos, questo a dimostrazione che lui non lo ha mai toccato. E delle presunte aggressioni? “Io ho assistito a delle testimonianze -racconta Favoloso alla d'Urso - in cui si parlava di spintoni di botte ma io voglio dire che è vero che io ho avuto una mano ferità, è vero che a volte mi sono fatto male, ma l’ho fatto per proteggere Nina da se stessa. Ho dovuto bloccarla, strattonarla, ma non le ho mai dato uno schiaffo o un pugno”. Ci sono però delle immagini che la Moric ha inviato alla redazione che mostrano alcune ferite alla mano, al volto e soprattutto, una molto evidente, su un fianco. “Quelle sono state fatte a Nina dalla mamma il giorno che hanno portato via Carlos, quindi non sono recenti- spiega Favoloso - lei vuole distruggermi perché io l’ho lasciata, è un autolesionista. E’ un modo per continuare una specie di relazione malata con me. Io non sarei mai tornato, se l'ho fatto è per spiegare la mia posizione. Nina sta dicendo tutto questo per continuare questa relazione malata. Invece dovrebbe farsi seguire da una persona seria”. Arrivano poi gli sferati che sono tutti agguerriti e contro Luigi Mario. Tutti tranne uno, lo psichiatra Alessandro Meluzzi che è anche intervenuto sulla vicenda di Nina Moric quando cercava di riavere suo figlio Carlos, per qualche tempo affidato alla nonna. Alessandra Mussolini lo attacca soprattutto per quello che ha detto su sua mamma, ma Luigi punto per punto replica, sopratutto sulla vicenda della Moric facendo capire che lui non l’ha mai toccata, piuttosto difesa. Ed è Barbara d’Urso che che spiega quello che Favoloso non osa dire: “Quello che vuole dire Luigi, è che avrebbe cercato di evitare che Nina si facesse male da sola”. “Queste sono cose molto serie -interviene Meluzzi- e ha fatto bene a venir a chiarire dice a Favoloso - perché con le attuali leggi si rischia molto grosso”. “Ed è per questo che sono venuto qui a parlare", replica Favoloso, la cui sicurezza confonde tutti, persino i telespettatori che votando il “sentiment”, ovvero il colore verde o rosso di gradimento o meno, a Luigi Mario decreta entrambi.

Andrea Conti per ilfattoquotidiano.it il 27 gennaio 2020. Luigi Mario Favoloso è tornato in Italia, dopo essere sparito per 29 giorni. La sua assenza ha fatto molto discutere soprattutto dopo che l’ex fidanzata Nina Moric l’ha accusato di violenza e percosse. Anche la madre del modello, Loredana, ha difeso nel talk di Barbara d’Urso il figlio dalle accuse di Nina Moric, denunciandone la scomparsa. Denuncia che poi è stata ritirata, dal momento che Luigi Mario Favoloso dall’estero avrebbe mandato una mail alla madre, spiegandole che stava bene. C’è chi ha mosso anche delle accuse a Favoloso di aver architettato con la madre una farsa, che ha messo in allarme le forze dell’ordine, facendo scattare così l’ipotesi del reato per procurato allarme. Il diretto interessato ha respinto tali ipotesi, prendendo le distanze dalla madre. “Mia madre ha simulato in diretta di aver avuto una mail da parte mia, in diretta da Federica Panicucci, quando gliel’avevo inviata due giorni prima. – ha l’ex concorrente del ‘Grande Fratello’ a ‘Live Non è la d’Urso’ – Non la perdonerò per questo, è stato un errore da parte sua, non avrebbe dovuto farlo. Non capisco perché l’abbia fatto. Io non sapevo niente della denuncia di scomparsa. Quando ha saputo che stava succedendo sono entrato in un Internet Caffè, ho scritto a mia madre e lei ha ritirato la denuncia”. Favoloso conferma di essere andato all’estero e di essersi fatto fotografare dal settimanale “Chi”, mentre era in viaggio in Svizzera perché aveva bisogno di contanti. Poi è ricomparso sui social mentre era in Armenia. Durante il talk sono state mostrate anche delle immagini delle telecamere di videosorveglianza, che smentirebbero Luigi Favoloso e la madre che aveva dichiarato che il figlio era uscito da casa per poi scomparire. Nelle sequenze non c’è alcuna traccia di Favoloso, il quale ha spiegato che in realtà quel giorno è entrato e uscito da casa per ben tre volte. Ma il vero motivo per cui Luigi Mario Favoloso è rientrato in Italia ed è intervenuto su Canale 5 è stato per respingere tutte le accuse rivolte da Nina Moric. “Il 19- 20 dicembre scopro una cosa terrificante- ha raccontato -. In un messaggio mandato a Nina, da parte di un mio amico, c’era scritto ‘ci siamo amati’. Ho perso in un attimo non solo la mia famiglia (perché Nina e Carlos erano la mia famiglia) anche una somma importante di soldi, perché c’era il progetto di investire in Africa. Ho perso tutto e volevo andare via”. E sulle foto mostrate dalla Moric in cui si vedono alcuni lividi, Favoloso respinge tutto: “Ho dovuto cercare di salvare Nina da se stessa, non le ho mai fatto del male. Spiegherò tutto nelle opportune sedi, vorrei non dire altro. La verità è che Nina non può accettare il fatto che io l’abbia lasciata, vuole continuare questa relazione malata, anche in tribunale, è un modo per non lasciarmi andare. Se non ci fosse stata questa denuncia io non sarei mai tornato”. 

Luana Rosato per ilgiornale.it il 27 gennaio 2020. La partecipazione di Luigi Mario Favoloso a Live! Non è la d’Urso ha scatenato la reazione di Nina Moric, che ha deciso di pubblicare sui social alcune chat che incastrerebbero l’ex fidanzato e lo renderebbero colpevole di violenze nei suoi confronti. La scelta di condividere su Instagram gli screenshot di alcune chat con Favoloso nasce dalle ultime dichiarazioni di quest’ultimo che, come spiegato ai microfoni di Canale 5, ha rigettato qualunque accusa di violenza e maltrattamento nei confronti di Nina Moric e del figlio Carlos Maria Corona. “Ho dovuto bloccarla, strattonarla, ma mai uno schiaffo o un pugno – ha detto lui nel salotto di Live! – [...] Lei vuole distruggermi perché io l’ho lasciata, lei è un autolesionista. E’ un modo per continuare una specie di relazione malata. Io non sarei mai tornato, sono tornato per spiegare. Nina lo sta facendo per continuare questa relazione malata. Nina dovrebbe farsi seguire da una persona seria”. Luigi Mario, dunque, ha sostenuto di non aver mai picchiato la Moric, ma di averla bloccata con forza per arginare alcuni suoi atteggiamenti, per impedirle di farsi del male da sola, mentre, riguardo le foto che testimonierebbero le violenze di Favoloso nei confronti della ex, lui non ha avuto problemi nel dire che i lividi “soni stati fatte dalla mamma di Nina il giorno che hanno portato via Carlos quindi non sono recenti”. L’imprenditore napoletano si è dichiarato innocente e ha spiegato di essere rientrato dal viaggio che aveva deciso di intraprendere per difendersi dalle pesanti accuse della modella. Davanti alle parole dell’ex fidanzato, però, Nina ha scelto di replicare e, dopo aver chiamato in diretta Barbara d’Urso, ha deciso di condividere sui social una parte delle chat intercorse tra lei e Luigi Mario in cui lui sembrerebbe confessare le violenze e invocare il perdono per quanto avvenuto. “Hai ragione. Ti chiedo scusa. Ma quei messaggi mi hanno fatto perdere la testa, non trovo più me stesso, non trovo più la luce – si legge in uno screenshot di una chat tra Nina e Luigi Mario - .Da quando li ho letti è cambiato tutto. Ho rischiato di ucciderti e forse potrei ancora riprovarci”. Le conversazioni tra i due, poi, sono andate avanti ed in un altro post pubblicato dalla Moric, Favoloso spiegherebbe i motivi della “sparizione” dall’Italia. “Fingermi morto, cambiare identità e faccia, ma non per uccidere il dittatore cattivo. Per averti di nuovo, per farti innamorare di una persona nuova – scrive lui alla Moric – [...] Avevo addirittura trovato già un passaporto e un medico che mi rifacesse alcune cose per essere diverso. Poi è arrivata la tua freddezza (che, ndr) [...]mi ha convinto che forse morire davvero per dimostrarti i miei sentimenti sarebbe la cosa giusta da fare”. Infine, Nina ha pubblicato una serie di messaggi in cui l’ex fidanzato invoca il perdono rifacendosi ad alcune citazioni tratte dal Vangelo.

Volano stracci tra Nina Moric e la madre di Luigi Favoloso. Primo vero incontro scontro tra Nina Moric e Loredana, la madre di Luigi Favoloso, accusata dalla modella di aver architettato insieme al figlio il suo allontanamento. Roberta Damiata, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. È scomparso da 22 giorni, ma se ne parla talmente tanto che forse Luigi Mario Favoloso è più presente in tv ora di quando era insieme a Nina Moric. Ed è proprio l’ex compagna, Nina Moric, che per la prima volta stasera a “Live Non è la d’Urso” ha la possibilità di incontrarsi insieme alla ex “suocera”, Loredana con cui non corre assolutamente buon sangue tanto che a parlare è prima la mamma di Luigi mentre Nina ascolta tutto dietro le quinte. In studio con Loredana c’è Alessandra Mussolini e anche Luigi Nuzzi di “Quarto Grado” trasmissione che, come molte altre, si è interessata alla scomparsa (ormai acclarato volontaria) di Luigi Mario Favoloso che proprio pochi giorni fa ha chiamato la redazione della d’Urso per comunicare che si trovava in un posto segreto all’estero e che il suo allontanamento era dovuto ad un tradimento avuto dalla sua ex Nina Moric. Della stessa idea è sua madre Loredana, accusata nei giorni scorsi da Nina Moric di essere connivente in questo allontanamento, e che subito si scontra con la diffidenza di Luigi Nuzzi. "Che mio figlio è scomparso da casa è reale, che io sia andata dalla polizia preoccupata è un fatto. Nina può accusarmi di ciò che vuole. Lei si sveglia al mattino e decide di accusare qualcuno come nulla fosse. Io ho una voglia matta di vederlo e sto iniziando anche ad essere un po’ arrabbiata con lui”, ha detto. Nuzzi dice di credere alla sua buona fede, ma lo scontro fa alzare i toni sulle telecamere che non avrebbero mai ripreso Favoloso a casa della madre come dichiarato da lei, i cui filmati sarebbero stati acquisiti dalla polizia. La madre alza la voce contro il giornalista che si difende e risponde per le rime: “Noi abbiamo il dovere delle persone che scompaiono, sono 60mila l’anno, drammi veri, non di un ragazzo che si nasconde dietro la foglia di fico“. Ma non è il solo ad attaccare Loredana, anche la Mussolini sentito il racconto che la Moric ha fatto dalla d’Urso in precedenza, non crede nella bontà di Favoloso, e soprattutto non crede che, come sostiene la Moric non abbia alzato le mani su di lei e solo una volta su Carlos, il ragazzo avuto dall’unione con Fabrizio Corona. E a questo punto interviene la Moric che sostiene di dire la verità anche quando la mamma di Favoloso fa ascoltare un audio in cui la modella croata parlando con Loredana che le chiedeva se sapesse dove fosse finito il figlio le dice che forse è a casa di un amico. “Cosa c’entra?”, replica la Moric e per entrare in studio chiede che Loredana esca. Ma lei non ci sta e la attacca parlando anche del padre di Nina che a suo parere l'avrebbe picchiata. "Io dico la verità perché non sarei qui a parlare di me e mio figlio. Lei non sa cosa significa - dice la modella all’ex suocera - Tu hai sporto la denuncia dicendo che era sparito il fidanzato di Nina Moric. Tutto questo teatro è stato fatto perché lui era il fidanzato di Nina Moric, con che coraggio? Io, mio padre non lo sento da 15 anni per queste stesse motivazioni e magari c’è un motivo per cui ho perdonato tuo figlio. Non ti permettere di nominare mio padre”. Entrando in studio la modella croata racconta poi le sue motivazioni: “Non ho fatto la denuncia alla polizia, perché deve essere fatta da un legale, deve contenere tutte le prove, le testimonianza. Ho dato mandato al mio avvocato, quindi dal momento in cui presento la denuncia la Procura apre un fascicolo. Il pubblico ministero comincia con le indagini, diventa un segreto istruttorio e quindi la denuncia non può essere divulgata, perché è un reato - la denuncia è stata depositata assicura - quindi io non ho nulla da temere“. E per finire il pensiero va al figlio Carlos, che è insieme al padre Fabrizio Corona: “Sono loro la mia vita vera, il resto è niente”. E così dicendo racconta che Fabrizio è cambiato, almeno in parte, e di questo lei è felicissima perché il figlio Carlos lo adora.

Luigi Favoloso rompe il silenzio: ​"Su di me solo un mare di cazzate" Luigi Favoloso, dopo settimane di silenzio, è tornato sui social per svelare dove si trova, smentendo tutto ciò che è uscito su di lui fino ad oggi. Novella Toloni, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Luigi Favoloso si trova in Armenia. Ma solo per il momento, tra poche ore infatti si troverà in un altro paese come lui stesso ha confermato in alcuni video pubblicati, poche ore fa, sul suo profilo Instagram. Dopo settimane di silenzi e le accuse di violenze mossegli dall’ex compagna, Nina Moric, Luigi è tornato a mostrarsi pubblicamente sul web, cercando di smentire tutte le notizie uscite fino a oggi sul suo conto. Nelle ultime ore erano iniziate a circolare indiscrezioni sul luogo dove si nascondeva. Prima in Svizzera, poi in Germania, ogni ipotesi era aperta. Difficile capire dove stia andando l’imprenditore e neanche la telefonata in diretta a Pomeriggio Cinque da Barbara d’Urso lo ha chiarito. Certo dietro a tutta questa strana vicenda ci sarebbero le pesanti accuse mosse dalla sua ex sulle violenze fisiche subite negli ultimi tempi della loro relazione. Poche ore fa però Luigi Favoloso ha utilizzato i social network per dare qualche spiegazione ai suoi follower, ma soprattutto alla stampa a cui si è rivolta in modo diretto e ironico. Un primo video senza audio e dove non si capiva dove si trovasse è stato subito rimosso dalle storie del suo account Instagram. Ma poco dopo Luigi Favoloso ha condiviso tre brevi filmati in cui si è mostrato in volto (parzialmente coperto dallo schermo) e ha svelato dove si trovava: "La mia domanda è, ma non avete paura che i timbri sul mio passaporto inchiodino le vostre ca***te? E soprattutto non pensate che una persona che resta così tranquilla in viaggio è perché non ha nulla da temere e nulla da nascondere? Visto che nemmeno se ve lo faccio vedere riuscite a capire dove sono, ve lo dico. Questa è Erevanla capitale dell’Armenia. Ve lo faccio vedere soltanto perché stanotte sarò già in un’altra nazione e in un’altra città". L’uomo mostra con il cellulare una piazza e un edificio, l’oscurità della notte ma la qualità del video non è però delle migliori. Luigi Favoloso, che negli scorsi giorni aveva inviato messaggi contraddittori a sua madre, dopo aver mostrato il luogo in cui si trovava al momento della registrazione video, ha voluto ribadire che quanto scritto e detto nelle ultime settimane sul suo conto non sarebbe la verità: "State dicendo un mucchio di cazzate. Offro mille euro al primo giornalista che dice una cosa vera".

·        Luisa Ranieri.

Anticipazione stampa da “Oggi” il 27 febbraio 2020. In un’intervista al settimanale OGGI, Luisa Ranieri supera la sua proverbiale riservatezza («Mi annoia parlare di me stessa… sono molto timida e questo pregiudica tutto») per raccontarsi, menage famigliare compreso. «Le mie figlie sanno che mamma e papà fanno un mestiere che amano... Sentiranno certamente la mancanza, ma uno dei due c’è sempre a casa. È un’organizzazione scrupolosa la nostra: prima di accettare un film, io e Luca cerchiamo di capire chi di noi due sarà a Roma in quel periodo: “Tu ci sei? Posso farlo questo film, allora?”». Del marito Luca Zingaretti dice: «Luca è una certezza. Qui e ora». E di sé tratteggia questo ritratto: «Sono molto fricchettona… Non sono formale, sono sempre pronta, non mi preoccupo dei “se.” Ho amici squattrinati con cui scherzo sempre, e visto che non sanno dove passare le vacanze rispondo loro che le passeranno da me al mare. Sono accudente e disinvolta». Infine, sul coronavirus dice: «Fa paura il contagio, ma fa anche paura quello che il panico può fare… Alle mie bambine di 8 e 4 anni non nascondo quello che sta succedendo, ma cerco di raccontarglielo con equilibrio».

Luisa Ranieri: “Sì, direi ancora: Antò, fa caldo!”. Edoardo Sylos Labini il 02/03/2020 su Il Giornale Off. Lei è l’attrice del celebre “Antò, fa caldo”, lo spot della Nestea che è stato il tormentone del’estate 2002: Luisa Ranieri,  allora 27 anni, aveva fatto parte anche dei cast di alcuni film di Pieraccioni e Antonioni. La ritroviamo oggi al cinema con “La vita segreta di Maria Capasso”, di Salvatore Piscicelli e in tv con “La vita promessa” di Ricky Tognazzi. Si è raccontata l’altro giorno a un noto settimanale, fra lavoro (la fiction su Rai 1) e vita famigliare (il marito Luca Zingaretti, con cui è sposata dal 2012). Sul coronavirus che preoccupa gli italiani ha detto. “Fa paura il contagio, ma fa anche paura quello che il panico può fare… Alle mie bambine di 8 e 4 anni non nascondo quello che sta succedendo, ma cerco di raccontarglielo con equilibrio”. OFF vi propone l’intervista cult di Edoardo Sylos Labini con il quale divise il set di quel famoso spot tormentone che la lanciò al grande pubblico aprendole la strada per una fantastica carriera (Redazione). 

Ci racconti un episodio OFF degli inizi della tua carriera?

«Ero al Teatro Colosseo di Roma con Donne di una certa classe, lo spettacolo che mi ha permesso di iniziare la carriera dopo una serie di esperienze off a Napoli. Andavamo in scena subito dopo Fiesta di Fabio Canino che a differenza nostra riempiva la sala. E noi speravamo che qualcuno di quel pubblico pazzesco restasse a vedere anche noi!» (ride n.d.r.)

È importante la cantina, partire da zero facendo la classica gavetta…

«Sì, e per certi versi è anche la parte più interessante. È una fase sperimentale in cui ti puoi permettere di fare tutto. Inutile negarlo, il nostro percorso artistico è legato da uno spot del 2001…Devo moltissimo a quello spot, così come al regista Alessandro D’Alatri e al nostro incontro. Noi due siamo stati una coppia che ha funzionato moltissimo, e non solo in Europa: perfino in Papuasia si diceva “Anto’ fa caldo!”».

Rifaresti quello spot? O pensi sia stata un’etichetta ingombrante per la tua carriera?

«Lo rifarei cento volte! Credo che sia stata una grande chance per far emergere il mio lato ironico».

E da lì iniziò anche il paragone con Sophia Loren…

«Toccare la napoletanità equivale sempre a essere paragonati a lei. Ma è inimitabile nella sua essenza, la Loren è la Loren».

Nel 2004 sei stata diretta da Michelangelo Antonioni in “Eros”. Che cos’è per te l’eros? Cosa è sensuale in un film?

«Il vedo-non-vedo. Mi piace molto di più una scena di attrazione rispetto al sesso esplicito. Nel  film di Ferzan Ozpetek che ho interpretato, per esempio, c’era una scena d’amore bellissima carica di erotismo che non lascia vedere nulla. Solo energia fra due animali che si annusano».

Un’attrice come interpreta la sensualità?

«La sensualità è innata, non può essere interpretata. È un modo di essere fatto di piccoli dettagli. Può essere sensuale una donna che si tocca i capelli, che si siede, che parla. Può esserlo il modo in cui muove la bocca…»

La Mangano ha detto di te “mi piace il suo sguardo intelligente e malinconico, mi affascina quell’umanità dolente”.

«Sfatiamo il tabù che l’attrice sex symbol deve essere vuota. Io credo che una sex symbol non possa essere vuota, l’appeal è un qualcosa che risuona e va oltre il dato estetico».

Hai interpretato nel 2002 in una miniserie per la tv diretta da Giorgio Capitani un ruolo molto importante e impegnativo: “Maria Callas”. Come hai preparato quel ruolo?

«Ero terrorizzata e per avvicinarmi al personaggio ho iniziato col prendere lezioni di canto. La Callas era una sorta di Medea, di Anna Magnani della lirica, era doveroso un primo approccio tecnico. Poi pian piano ne ho scoperto insicurezze, paure, fragilità. Era una donna che aveva molto bisogno di essere accettata, come ogni bambina non amata. La madre l’aveva sempre trattata come una figlia dotata di un talento da esibire».

Quanto è importante per un’attrice il rapporto con la propria madre?

«Fondamentale, perché denota l’autostima e quel bisogno di amore alla base del nostro mestiere. Noi artisti abbiamo una voglia di riconoscimento molto forte che sicuramente risale all’infanzia. Io dico sempre: per fare questo lavoro bisogna essere matti. Mettersi con serietà in gioco ed essere sempre pronti a farsi giudicare da qualcuno dimostra come di fondo ci sia qualcosa di anormale!»

Sei sposata con Luca Zingaretti e avete due figlie, Emma e Bianca. Rinunceresti al lavoro per la famiglia?

«Finora non mi sono ancora trovata al punto di dover fare una scelta, anche se quando accetto i ruoli da interpretare, rispetto a prima, tengo conto soprattutto delle esigenze delle mie figlie. È ingiusto privare un figlio dell’infanzia».

Si sa che le donne hanno una passione per le scarpe…

«Posso anche essere vestita di stracci, ma le scarpe mi fanno impazzire! Pensa che prima che escano nei negozi le compro on line! Non esco sempre in ghingheri, nella quotidianità porto spesso scarpe da ginnastica e Huggs, ma per una cena con mio marito una bella scarpa è d’obbligo».

Si parla sempre più di violenza sulle donne.  Spesso personaggi famosi ricevono complimenti che poi si rivelano avances pericolose. So che hai avuto problemi con una stalker donna. Come si ci comporta in questi casi?

«È meglio dare poca importanza. Nel mio caso quando mi sono resa conto del suo comportamento anormale ho evitato ogni tipo di contatto. Mi aveva fatto credere di aver bisogno di aiuto per i bambini disabili, poi ho scoperto che la disabilità era solo una scusa. Mi ha anche pedinata ma le ho fatto capire che se avesse continuato l’avrei denunciata, e così è sparita».

Se dovessi scegliere fra cinema e teatro?

«Bella battaglia. Amo il cinema, è come essere nel quadro di un pittore. Ma mi manca molto il teatro. Grazie al palcoscenico la parola ti permette di avere un tuo punto di vista. E poi la parola è in bocca all’attore, non è filtrata dal montaggio in cui coi tagli tutto diventa in funzione del regista. Oggi è sempre più difficile trovare testi teatrali adatti alle donne. Viaggio molto per cercarli nella letteratura inglese, americana».

C’è una drammaturgia italiana che andrebbe valorizzata?

«Sì, e anche nella mia città ci sono persone di grande talento e cultura teatrale».

Prima di andare in scena hai un gesto scaramantico?

«Una cosa molto volgare! (ride). Ho iniziato ad essere scaramantica durante la mia prima tournée importante. Tutti gli attori in compagnia sputavano sul palco, e così ho cominciato a farlo anche io. Visto il successo dello spettacolo, da allora sputo sempre».

Galeotto per te e Luca fu il set di “Cefalonia” …

«In realtà è stato solo il set che ci ha fatto conoscere. Lui mi corteggiava ed io facevo la finta ritrosa. L’ho fatto suda’ un bel po’».

Ma qual è la frase d’amore più bella che ti ha detto Luca?

«Non te la dirò mai.

E come diresti oggi “Antò fa caldo”?

«Dopo 16 anni sempre uguale! “Antò fa caldo!”».

(E noi aggiungiamo ” Perchè la vera femminilità non ha tempo”.

·        Lulu Chu.

Barbara Costa per Dagospia il 14 dicembre 2020. "Choosy Dads Choose Chu!": e tu, che fai, la scegli Lulu Chu? Io dico di sì, io ti stuzzico a dire sì, anche perché, così, metti da parte le pene di questo virus, almeno per 44 minuti, il tempo che dura il porno di questa baby-sitterina che mette a santa nanna i pupi per diabolicamente sollazzarsi i padri, e ottenerci extra monetari a suon di prestanze orali necessarie, scoppi di bombe spermatiche troppo a lungo trattenute. Guardi Lulu Chu e scordi le tue pene ma poi subito te le rammenti, e nei tuoi incubi te le riporto io, adesso che ti svelo da dove viene tale bocconcino qui: Lulu Chu è di Wuhan, sicuro, la città divenuta il mostro, di pestilenza generatrice e propagatrice. Però Lulu Chu di Wuhan sa nulla, lì vi è nata da cinese padre ignoto che l’ha abbandonata in pancia di una cinese da lui messa incinta e che partorisce Lulu per lasciarla in un cinese brefotrofio. A un anno d’età, Lulu è adottata da una famiglia americana, e lascia Wuhan e la Cina senza farci più ritorno. Cresciuta in Oklahoma, Lulu si diploma, compie 18 anni e una settimana, e va via dai suoi genitori adottivi, scassapalle e opprimenti al massimo: trattasi infatti di 2 cattolici ultra-integralisti che le vietavano persino di uscire di casa se non per andare a scuola. In tale ambiente claustrofobico, Lulu perde la verginità a 17 anni, e senti come e con chi: “Uno visto su Instagram, un mio coetaneo, l’ho contattato, sono andata a casa sua: "dopo" non l’ho voluto più vedere né sentire”. Lulu dall’Oklahoma si trasferisce a Los Angeles, mantenendosi come baby-sitter (non porno!) ma più come cam-girl nonché attrice di amatorialissimi porno girati in camera da letto col suo ragazzo, o sul divano dell’appartamento diviso con una coinquilina che non partecipa ai giochi ma lascia fare indisturbata, seduta lì accanto, i due a cam-copulare sul divano, lei intenta a guardare la tivù. Per Lulu, il salto nel porno professionale è avvenuto entrando in "East Coast Talents", tra le agenzie più grandi del porno USA. A fare da calamita, le sue esibizioni in cam e il suo corpo naturale super-minuto: 147 cm per 41 chili di peso. Lulu Chu non ha nemmeno 20 anni (li fa a gennaio, e senti, caro Pornhub, dai, correggi la data di nascita sulla scheda di Lulu, e togli che è nata negli USA e, già che ci sei, metti 2 cm in più alla sua statura), ha all’attivo non tante ma buonissime scene, per studios rinomati, e ora io ti dico pure che Lulu ha fatto porno lesbo non avendo mai fatto sesso lesbo prima, nella vita reale, fuori dai set (“Come me la sono cavata? Ho letto testi erotici, a tematica lesbo, e sul set ho messo in pratica ciò che ho capito meglio!”). La mamma adottiva di Lulu Chu, in Oklahoma, piange per la scelta porno della figlia, il padre sta incazzato a biscia, nel frattempo la porno-cinesina si è iscritta all’università, studia Sistemi informatici di gestione, vuole pagarsi gli studi col porno, laurearsi, e poi, magari col porno smettere, o magari no, magari fare altro, magari la porno-regista. Ma lei pensa pure di tornare a Wuhan, alla scoperta delle sue radici, e alla ricerca della sua madre biologica. Per il momento, il porno la paga bene: sono poche le ragazze asiatiche nel porno USA di alto livello, le cinesi sono ancora meno, e quelle che sono cinesi e che nel porno ci sanno fare, sono una rarità! Così il porno la cerca, la incensa, col suo consenso la feticizza in video pieni di cliché etnici: stereotipi che la vedono stesa, in doggy-style, presa da dietro, insultata per la sua "razza", che mangia in sadomaso dominazione cibo cinese da una ciotola. Porno stravisto e che ha scatenato le social grida delle femministe e femministi e degli antirazzisti i più scontati e politicamente corretti. Il bello è che Lulu se ne stra-impipa, lei risponde a tutti così: “È grave essere e sentirsi feticizzata come persona, nella vita vera, che sui set porno, dove tutto è finzione. Il mio esotismo, i miei tratti asiatici, in questo lavoro sono la mia fortuna: io ne approfitto, la concorrenza è minima”. Sapientoni, cultori del bene, paladini del conveniente e giusto sempre, per tutti e comunque, avete letto la scritta che troneggia sui social di Lulu? “I need money, not feelings”: quanto mi piacciono le f*ghe decise, rasenti il cinico! Cari miei, nel porno professionista nulla si pensa e si gira senza previa approvazione e permessi firmati dagli attori. Il porno USA è talmente sopra, avanti, oltre ogni ondata moralista e conformista che i tópoi razziali li prende anche in giro, e pure li enfatizza apposta, per titillare quanto di più empio nell’animo di chi li guarda c’è, esiste ed è compresso e giustamente vi si prova vergogna. Lulu Chu al porno ha posto un divieto: no a peni di 30 centimetri! Ma è tutta manfrina, infatti eccome se i 30 le sono andati bene, infilati benissimo, in "So Deep"! Un altro pregiudizio vuole che le asiatiche abbiano una vagina più stretta e delicata: però quella di Lulu Chu si apre e si estende a penetrazioni mirabili. A proposito di cinesi: la Cina è il più grande esportatore di sex-toys al mondo, ok, ma tu lo sapevi che durante il primo (nostro) lockdown, tali sue esportazioni sono aumentate del 50 per cento, e che tra i primi posti, tra gli acquirenti, ci sono USA, Francia e un terzo Paese che, indovina qual è? Inizia con I…

·        Luna Star.

Barbara Costa per Dagospia il 9 febbraio 2020. Non le piace il suo nome d’arte, eppure se l’è scelto lei, in effetti nel porno le "Lune" abbondano, le "Star" pure, però i quasi 2 milioni di follower che la seguono su Instagram non confondono "questa" Luna Star con nessun’altra, anche perché, dì un po’: chi altra ha culo e tette così appetitosi? E visto che siamo in tema di domande importanti, tu che dici: pornostar si nasce o si diventa? Dubbio amletico, io lo risolvo così: ci sono persone con una fame di sesso dentro, insaziabili, voraci, persone a cui piace il sesso e sperimentarlo il più possibile, gente a cui col sesso garba esibirsi, e quale palcoscenico migliore di quello garantito da contratti a più zeri firmati in esclusiva? Così ti risponde Luna Star, stella porno di nome e di fatto, lei brilla davvero per video girati e fama derivante. Luna Star, bellezza ambrata, meraviglia latina, nello specifico cubana, donna che sessualmente ti divora, e mica per scherzo: Luna confessa candidamente di essere in privato una mistress, una dominatrice, e vuole uomini da comandare a letto. Comandare in posizione cow-girl con lei che li cavalca e li fissa, comandare stabilendo lei quando farli venire, e dove, e spesso e preferibilmente sulla sua pancia. Tempo fa, Luna diceva: “Nella vita personale, ho uno schiavo. Ho una personalità soggiogante. Adoro essere obbedita”. Chissà che fine ha fatto tale schiavetto, di certo si sarà divertito, Luna dice che se non trova il tipo giusto sta bene da sola, piacere e orgasmi se li procura con le dita, sotto la doccia, o meglio sui set: single, si porna meglio! Dominante ma con pretese basiche: Luna, cosa bisogna fare per farti godere? “Puoi avere un cazzo grosso o piccolo, non m’importa, sta tutto in come mi tratti. Se mi fai star bene, mi eccito a tal punto che puoi mettermi un dito dentro, muoverlo appena, e farmi venire. Sono stata 8 mesi con un ragazzo con un pene davvero piccolo, ma me la leccava, me la mangiava così bene, e così a lungo! Un uomo che mi piace, e mi fa questo, può – anzi deve – venirmi in bocca”. Luna Star, 30 anni, nel porno dal 2012, e sempre a prendere come valida la sua biografia ufficiale: su certi siti Luna la puoi trovare con 10 anni di più sulla carta d’identità, ma è una bugia, utile a far vendere i porno che gira da milf. Luna è entrata nel porno dopo essersi laureata in economia: proprio così, questo schianto ha un cervello matematico, e ha scelto il porno perché stufa di passare da un lavoro sottopagato a un altro. Ha svoltato a 23 anni, rifacendosi le tette per mostrarle e mostrarsi nuda in shooting di sesso simulato: da qui è passata alla BangBros., girando la sua prima scena porno, un foursome con due ragazzi e una ragazza. Luna ha poi proceduto per gradi. Non tutto e non immediatamente, farsi porno desiderare in questo ambiente può rivelarsi carta vincente, e se desiderare lo intendi con il non dare il culo subito, amico, hai fatto centro! Luna si è data, cioè, ha accettato più cazzi davanti, e poi dietro, a seconda del contratto firmato, delle strade lavorative che suddette scene le aprivano, e della somma che ingrossava il suo conto in banca. Se per certi versi è vero che nel porno non girano le cifre di un tempo, è pur vero che ti devi dotare di intuito e cinismo da vendere, se vuoi sopravvivere e fare soldi e diventare una Star in un settore altamente competitivo come è il porno statunitense. E però alla prima, allettante ossia munifica, scena anale, Luna Star ha opposto un No convinto: “Fa male, ma se riesco a malapena a mettermi un dito nel culo!”. Vi sono stati partner che le hanno  analmente fatto cambiare idea, e oggi Luna arriva a orgasmi anali “la sensazione più strana di sempre!”. “Mio padre non sa quello che faccio, in famiglia sono così severi, sono cattolici ferventi, e praticanti. Mia madre ha visto qualche mia foto hot, basta, non vuole parlarne”. Saranno religiosissimi e timorosi di Dio, sicuro, però mamma e papà Star non disdegnano il denaro che la loro figliola col porno guadagna, denaro "porno-sporco" ma che li fa vivere bene, e vogliamo parlare delle "rimesse porno" che Luna invia al resto della famiglia rimasta a L’Avana? Luna Star ha vissuto a Cuba fino ai 15 anni, e se le chiedi del suo passato ti parla con rabbia dei chilometri a piedi che era costretta a fare visto il divieto per i cubani di possedere una macchina e la difficoltà di muoversi con i mezzi pubblici che passavano quando Fidel voleva (cioè aspetta e spera!). Di bello, Luna ricorda i ditalini che iniziò a farsi di gran lena intorno ai 13 anni, e il primo porno visto a 16 anni, già approdata in Florida, a Miami, e col primo computer tra le mani. Luna Star fa l’aggressiva ma è una femmina minuta, 163 cm per 51 chili di peso: ovvio che a guardarla gli occhi ti vanno subito al suo lato B, prosperoso, generosissimo, sembra lipofillato in stile Kardashian ma a quanto pare è tutto naturale: c*lo cubano da perderci il senno, culo sviluppatosi così tondo nell’adolescenza quando, stando ai diretti racconti di Luna, era ammirato senza ritegno dai suoi professori al liceo. Luna Star, bisex a tendenza etero, è un tipetto scatenato, fa escursionismo, paracadutismo e boxe. In privato non disdegna il sesso di coppia, nel senso dei sandwich che mette su con coppie sposate, e le piace pure fare sesso in pubblico. E a te, Luna come piace di più, mora o bionda? Io dico che sta meglio mora, e comunque, prendi nota: Luna Star ascolta jazz, Rihanna e Jennifer Lopez ma, importantissimo, è vegana. Non dimenticartelo se vuoi invitarla a cena! Se vede una fettina panata, comincia a strillare come la Martani.

·        Macauley Culkin.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2020. La fama ha un costo, soprattutto quando arriva troppo presto. Da Macauley Culkin a Drew Barrymore, la storia del cinema è piena di bambini-prodigio che crescendo hanno avuto qualche difficoltà. Emerge ora che la magia di Harry Potter non ha protetto Daniel Radcliffe, protagonista della versione cinematografica della serie. Se i libri di J.K. Rowling hanno avvicinato milioni di ragazzini alla lettura, l' ultima pellicola della serie ha coinciso per l'attore con la scoperta dei poteri anestetizzanti dell' alcool. In parte la causa è stata «il panico», ha raccontato l'attore alla Bbc. «Stava finendo l' avventura e non ero sicuro di cosa avrei fatto dopo». Un' incertezza comprensibile, forse, dato che la saga potteriana ha occupato l' attore e i coprotagonisti, da Emma Watson a Rupert Grint, per gran parte dell' adolescenza, dagli undici ai 21 anni. Come si cresce sotto la luce dei riflettori? «Non ero a mio agio con me stesso, o con la versione sobria di me - ha ricordato -. Così bevevo. Anche gli eccessi, però, venivano visti attraverso il prisma della fama: «Se uscivo e mi ubriacavo la gente mi guardava con interesse e curiosità, perché non ero semplicemente una persona un po' brilla, ero pur sempre il ragazzo di Harry Potter ». Lo sguardo divertito e ironico del pubblico peggiorava la situazione. «Non mi piaceva essere osservato a quel modo, così bevevo di più, mi ubriacavo ancora. Per alcuni anni sono andato avanti così». Un circolo vizioso dal quale è uscito con l' aiuto dei genitori - il padre e la madre non bevono ma l'alcolismo, ha ammesso Radcliffe, ha segnato diverse generazioni della sua famiglia - e grazie alla determinazione a smettere. «Alla fine sei solo tu a poter decidere di dire basta». Ci sono voluti «tempo e più di un tentativo», nonché molta fortuna. «Ho incontrato persone meravigliose che mi hanno aiutato, altri attori che mi hanno dato consigli molto importanti». Adesso non tocca alcool: «Bere non mi manca. Quando penso al caos che era la mia vita allora, sono felice di stare meglio». Ha domato l' alcol ma forse non il trauma. Scritturato ad appena 10 anni, Radcliffe diventò in poco tempo tra gli attori più conosciuti e pagati nel mondo. L' ultimo film risale a quasi dieci anni fa eppure Radcliffe sarà sempre Harry Potter. Come si volta pagina? «Sono molto affezionato al ruolo e agli anni che ho passato assieme ai miei amici e colleghi». Ma c' è un dubbio che non sparisce: «Se non fosse per Harry Potter sarei riuscito a diventare un attore? E oggi, le parti che mi vengono offerte mi arrivano perché sono stato Harry Potter o perché sono bravo?». È la maledizione del successo, nonostante il lavoro e il plauso dei critici non manchino. Radcliffe è protagonista al cinema di Escape from Pretoria , film di Francis Annan su tre attivisti contro l' Apartheid in Sudafrica, mentre a teatro è stato all' Old Vic di Londra al fianco di Alan Cummings e Jane Horrocks in Endgame, di Samuel Beckett, sino a quando il Covid-19 non ha portato alla cancellazione di tutte le repliche. Prima ha interpretato Equus, pièce di Peter Shaffer, l' avvocato Arthur Kipps in The woman in black , Allan Ginsberg in Kill your darlings . Il teatro, e Londra, lo hanno aiutato moltissimo. «C'è poca tolleranza per chi si dà arie.

Per un periodo sono stato a Los Angeles e credevo di impazzire - ha sottolineato -. Non riesco a immaginare cosa possa significare crescere lì, soprattutto perché quando sei piccolo, o molto giovane, non sai esattamente chi sei e credi all' immagine che gli altri hanno di te. Non sempre hai la forza di rimanere fedele a ciò che sei. Alla fine - ha concluso - devi farti delle domande esistenziali: cosa vuoi dalla vita? Ho capito che la mia passione è fare l' attore, che l' avrei fatto anche senza fama e senza soldi. Così vado avanti».

·        Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Da liberoquotidiano.it il 24 novembre 2020. "Elisabetta Canalis? Non l'ho più vista". Per qualche settimana Maccio Capatonda, da fenomeno emergente della tv comica lanciato dalla Gialappa's Band, è diventato protagonista del gossip per la sua relazione con la bellissime ex velina di Striscia la notizia. Oggi Marcello Macchia, vero nome all'anagrafe dell'attore e regista, ripercorre a modo suo quella storia dedicando un capitolo del su libro (titolo: Libro) proprio alla Canalis (titolo: La Canalis). Si parla di un fantomatico contratto di fidanzamento: "'Devi firmare un contratto se vuoi continuare a interagire con Eli', mi disse un tizio vestito da Lele Mora... 'Qualora venisse rivelata una sola informazione sulla vita di Elisabetta dovrà pagare una penale di 67 euro'. Firmai". Spazio anche all'ultimo incontro: "Mi affacciai alla finestra e la vidi andare via ma dopo pochi passi inciampò e, cadendo, finì all'interno di un settimanale di gossip. Da quel giorno non l'ho più vista, se non dentro il giornale". Sarà vero? Nel dubbio, si ride.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2020. I tanti convinti che Maccio Capatonda sia un genio, avranno una conferma nel titolo del suo primo libro: Libro . «È anche un modo per vendere di più, basta che qualcuno entri in libreria e dica: "Vorrei comprare un Libro". E questo lo è, non ci sono dubbi». In realtà, quello in uscita domani non è solo un libro, ma una autobiografia. «L' ho scritto nella massima onestà: è tutto vero, al netto delle cose soprannaturali e certe derive surreali». Che non sono poche e che fanno davvero ridere. Ma gli aneddoti reali non sono da meno. Come le sue fissazioni da bambino, tra cui il dado da cucina: «La scoperta di questo alimento è stata una rivelazione: era come una caramella però pienissima di sapore». Ora, giura, non lo mangia più, «ma quando lo uso mi si staglia un sorriso sul ginocchio destro». Il racconto si concentra sull' infanzia del comico, caratterizzata dal rifiuto della realtà: «L' ho sempre vista noiosa: mi sono rifugiato nella fantasia. È comune a molti comici una visione del mondo un po' cinica che si manifesta nella voglia di prenderlo in giro». Ma l' idea di diventare un comico non era nei sogni di Marcello Macchia, che Maccio Capatonda lo è diventato solo nel 2004, dicendo a caso una raffica di nomi assurdi («non pensavo che me lo sarei portato dietro»). «Avevo capito che il cinema poteva essere un rifugio: mi vedevo regista». Rivelatorio, Ritorno al futuro : «Con quel film ho avvertito che esisteva la possibilità di evadere dalla realtà. Lo vedevo tre volte al giorno. Ho scritto una lettera a Michael J. Fox: avevo trovato il suo indirizzo su un giornale. Dopo cinque anni è arrivata la sua risposta: sono impazzito. Era il mio idolo, il motivo per cui faccio questo lavoro». Altrimenti cosa avrebbe fatto? «Il tassista, perché sono molto bravo con le strade, mi oriento benissimo. Ho il dono innato del tassismo. Oppure il golfista: ma in Abruzzo (è cresciuto a Chieti, ndr ) non c' erano campi da golf». La sua voglia di evasione, per anni si è scontrata contro un muro invalicabile: la scuola. «Mi sembrava incredibile che una persona potesse essere obbligata ad andare a scuola tutti i giorni. Quando ho finito le superiori mi sentivo leggero come una piuma: un giorno sono stato tre ore fermo a casa di mia nonna, in piedi, in corridoio, per il gusto di perdere tempo». Nel libro - già in vetta alle classifiche prima del debutto - tante di queste vicende sono documentate con foto. Presto, tra le mani di quel bambino in fuga dalla realtà, compare una telecamera. «Pensavo di fare il videomaker: mi ero trasferito a Milano e lavoravo in Filmaster. Ero lanciato, ma sono stato chiamato per il servizio civile». Alla fine del quale, il suo posto era di un' altra persona. Che però era amica di Carlo Taranto, della Gialappa' s: «Gli ha fatto vedere i video comici che facevo per hobby e mi hanno chiamato». Da lì ad essere considerato da molti «un genio», il passo è stato breve: «Me lo dicono, scrivono. Io cerco solo di andare fuori dagli schemi: sono il mio primo spettatore e non voglio annoiarmi. Sento l' empatia che provano le persone per me e la zero empatia che io provo per loro: non li conosco. Sono sempre diviso tra la voglia di abbracciarli e quella di dire "scusa chi sei?"». Un capitolo si intitola «La Canalis», con cui ha avuto una relazione. Racconta, prendendo in giro il fantomatico contratto di fidanzamento della showgirl con Clooney, il primo incontro: «"Devi firmare un contratto se vuoi continuare a interagire con Eli", mi disse un tizio vestito da Lele Mora... "Qualora venisse rivelata una sola informazione sulla vita di Elisabetta dovrà pagare una penale di 67 euro". Firmai». Il capitolo si chiude con la fine della storia: «Mi affacciai alla finestra e la vidi andare via ma dopo pochi passi inciampò e, cadendo, finì all' interno di un settimanale di gossip. Da quel giorno non l' ho più vista, se non dentro il giornale». Cinico quanto basta. «Ma il cinismo è fondamentale, se no diventerei Paolo Brosio. Il bene non fa ridere».

·        Madonna.

DAGONEWS il 14 ottobre 2020. Madonna sta scrivendo la sceneggiatura del suo film autobiografico con Diablo Cody e sta filmando su Instagram alcuni momenti del lavoro. Ed è in un nuovo video, con quella che sembra una sceneggiatura finita, che viene fuori l'argomento del consumo di droghe. E Madonna confessa a Cody: «Non ho mai preso niente. Non bevevo né prendevo droghe».

Concetta Desando per "iodonna.it" il 14 ottobre 2020.

Irriconoscibile. Non c’è altro modo per definire Madonna negli ultimi selfie condivisi sul suo profilo Instagram nei quali la regina del pop appare con hair look rosa e lineamenti del viso decisamente troppo tirati. Foto che non sono passate inosservate al popolo della Rete, nonostante Lady Ciccone sia ormai nota per il suo look stravagante e fuori dagli schemi.

Capelli rosa…Un bob ondulato, prima raccolto con qualche ciocca che le cade sul viso, poi sciolto con le onde rosa in bella vista: così si mostra Madonna negli ultimi post social condivisi su Instagram. Che la tonalità pink sia uno dei trend più in voga del momento in fatto di capelli non ci sono dubbi. È plausibile, dunque, che la star abbia deciso semplicemente di seguire la moda. A sorprendere, però, non è solo il suo hair style, ma anche il suo viso.

…E zigomi alti. Madonna infatti, appare con gli zigomi molto pronunciati, al punto che il viso sembra quasi deformato. Un ritocchino eccessivo? In realtà potrebbe essere l’effetto di un filtro social, oppure la capacità della cantante di maneggiare la videocamera in modo da alzare gli zigomi con effetto ottico sorprendente. A completare il look dell’irriconoscibile Madonna, ci sono eyeliner marcato sugli occhi, rossetto ben delineato, occhiali e colletto bianco con fiocco su golfino blu.

Look con un segreto. Un look, questo, che la regina della musica ha sfoggiato sui social per diffondere un messaggio ben preciso: votare per il nuovo presidente Usa. Dunque un messaggio ben lontano da quello che potrebbe suggerire la sua immagine. «Le tre facce di una donna che ha appena votato» ha scritto nel post accanto alle foto pubblicate, condividendo l’hashtag #bidenharris2020 e svelando così a chi andrà il suo voto. Poi, si è rivolta ai suoi follower invitandoli a fare altrettanto: «Uscite e assumetevi la vostra responsabilità». Ma forse solo in pochi hanno prestato attenzione al suo messaggio, attratti da altro.

Torna l’appuntamento settimanale con “Mi ritorni in mente”, in cui Massimo Cotto ricorda gli incontri più memorabili della sua carriera di giornalista con le grandi star del mondo dello spettacolo. Articolo di Massimo Cotto pubblicato da “il Messaggero” il 28 giugno 2020. Mi preparo al ritardo, anche se il discografico americano mi dice che sbaglio. Madonna è sempre puntualissima, quando si tratta di lavoro. Siamo a Los Angeles, è il 1996, l'anno di Evita, il film su Evita Perón che Madonna ha voluto disperatamente al punto di scrivere al regista Alan Parker una lettera di otto pagine per ottenere la parte. Madonna arriva all'ora stabilita. L'intervista si allargherà al privato, ma parte dal fascino che esercita su di lei Eva Duarte de Perón. «Mi riconosco nel suo percorso, anche se sono diventata solo Madonna e non una santa come lei. Era una ragazza di provincia che in pochi anni riuscì a diventare l'eroina dei descamisados, come lei stessa chiamava i diseredati argentini, e che morì all'età di Gesù Cristo, a 33 anni, distrutta da un cancro. All'inizio, il suo Paese era scettico, proprio come il mio quando mi affacciai alla musica. Poi ha creato una leggenda che è durata anche oltre la morte. Si dice che gli ufficiali dei servizi segreti trascinino la sua bara in giro per il mondo per relegarla nell'oblio e impedire che diventi oggetto di culto e meta di pellegrinaggi. Si dice anche che tutti loro, prima o poi impazziscano, rimangano sfigurati in misteriosi incidenti, muoiano in circostanze atroci. Come una punizione divina». Negli ultimi mesi di lavorazione del film, la piccola Lourdes scalciava nella pancia come una rockstar. E Madonna mi confessa di aver avuto paura. «Non era la prima volta, ma mai l'aveva provata in modo così forte e terribile. Di notte avevo incubi continui, due ricorrenti. Il primo credo sia comune a molte donne incinte: andavo a farmi visitare e la dottoressa mi diceva che la bambina era morta perché mi ero spinta troppo in là, avevo esagerato. Nel secondo, io ero al capezzale di mia madre e le chiedevo: Mamma, dimmi se questo sarà anche il mio destino: avere bambini e poi morire di tumore al seno. Ma lei moriva prima di rispondermi». Le propongo di abbozzare un autoritratto. Riflette, prima di rispondere. «Sono una donna coraggiosa e forte, ma estremamente vulnerabile. A volte sovversiva, a volte perversa, ma non nel senso che puoi intendere la gente, perché quello è un modo convenzionale. Mi piace allontanarmi da quello che la gente pensa che io possa fare. È bello sfidare le convenzioni. Forse la miglior definizione di Madonna è contraddizione vivente. Ma non per scelta o per voglia di stupire a tutti i costi, solo perché sono fatta in questo modo. È sempre stato così, fin da piccola». Per la prima volta durante l'intervista, Madonna finalmente sorride. E racconta un episodio della sua infanzia. «Ero bambina e, d'estate, mio padre ci portava in macchina da mia nonna, in Pennsylvania. Era un viaggio lunghissimo, così almeno sembrava a noi. A metà strada mio padre fermava l'auto e ci faceva entrare tutti in un negozio di dolciumi, dove ne compravamo a volontà. Una volta tornati in macchina, i miei fratelli e sorelle scartavano immediatamente i dolci per divorarli. Io niente, aspettavo. E solo verso la fine del viaggio, quando tutti avevano finito la loro razione, tiravo fuori i miei dolci e li mangiavo, molto lentamente, invidiata da tutti. E guardavo i miei familiari, gustandomi ogni morso. Ero anticonvenzionale fin da allora, ma con un forte senso della disciplina. Resistevo, avevo il coraggio e la voglia della sfida tipica degli adulti. Non sopporto di fare una cosa solo perché la fanno tutti gli altri». Mi affido a domande rapide, le chiedo di rispondere di getto. L'emozione più grande. «Il mio primo concerto vero. Sono salita sul palco e ho sentito il ruggito della gente, un boato immenso. Non ho più provato una sensazione simile, anche se il mio successo è aumentato, anche se dopo quella sera mi è capitato di suonare davanti a centomila persone». La domanda più stupida che le hanno fatto. «Non credi di essere andata un po' troppo oltre?. Ma oltre che cosa? Il buon gusto, il buon senso, il perbenismo, la vergogna, i miei meriti, la fortuna? Non si va mai oltre, nella vita si va. A testa alta». La cosa più eccitante. «Dare ordini. O ubbidire. Esercitare o subire il comando sono le cose più vicine all'orgasmo che abbia mai conosciuto». La ferita. «Il fatto che la gente preferisca vedere le celebrità cadere nella polvere piuttosto che gli sconosciuti salire nell'Olimpo». Parliamo anche di gossip. Di Antonio Banderas («Mi presi una cotta per lui e feci l'impossibile per farlo innamorare di me, ma era sposato») e di John John Kennedy a cui si diceva avesse leccato burro d'arachidi dal petto. «Senta, potrei capire la cioccolata, il miele, il latte. Ma non trovo niente di eccitante nel leccare burro d'arachidi dal corpo del proprio partner. Ho imparato a ridere del gossip. Più le storie sono strane, più rido. Lascio tutto dietro le spalle e non me ne curo. Visto che non è possibile fermare quel che si dice su di me, faccio il possibile per non impazzire». E poi, l'amore per l'Italia. I luoghi e il cinema. «Il neorealismo. Bacio la terra dov'è passato Pasolini, un genio. Avrei voluto essere al posto di Anna Magnani in Mamma Roma. Apprezzo anche il primo Bertolucci, Fellini, Rossellini, Visconti. Ho sempre un film nella mia testa, quando scrivo o quando canto». Alla fine dell'intervista, prima dei saluti, le chiedo se è sempre sincera nelle risposte. Ride. «Ovviamente no. Non sono mica stupida. Solo agli amici veri racconto tutta la verità, nient'altro che la verità. La maggior parte della mia vita, per come l'ho raccontata ai giornalisti, è pura invenzione». Ultima domanda: come vorrebbe essere ricordata? «Come una puttana. No, scherzo. Non ci voglio proprio pensare. Mi basta essere diventata una leggenda da viva».

Da corriere.it l'1 maggio 2020. «Diario della quarantena, 14esimo giorno». Con un video su Instagram che porta questa didascalia la cantante Madonna, 61 anni, annuncia a tutti, davanti una macchina da scrivere di essere stata contagiata dal Coronavirus. Il tutto mentre sembra che stia scrivendo una lettera. «Ho fatto un test l’altro giorno e ho scoperto di avere sviluppato gli anticorpi del virus» ha spiegato la star che non dà altri dettagli sulla sua situazione di salute. Non è chiaro se sia stata malata, se abbia avuto sintomi lievi oppure se sia stata una persona positiva asintomatica. Si sa, invece, che sta passando la quarantena dal 16 marzo in California con i figli. Inoltre, nei giorni scorsi si è preoccupata di fare una donazione da un milione di dollari destinata all'emergenza.

«Sono immune». Le altre sue parole riguardano la voglia di libertà di chi sembra aver superato il momento critico e ora sta bene. E così Madonna, che è convinta di essere uscita dal tunnel e di essere diventata immune, dice: «Domani (oggi, ndr) andrò a fare un lungo viaggio in macchina, tirerò giù il finestrino e respirerò l’aria del Covid-19. Speriamo ci sia un bel Sole. E intanto penserò a cosa scrivere e dire». La star parla anche del fatto che ultimamente si è dedicata molto alla scrittura, insomma, vuole comunicare. Ma poi torna sui suoi passi e commenta: «Perché sprecare parole, le persone non sono pronte ad ascoltare». Migliaia i commenti e i «mi piace» dei follower alla notizia, pubblicata 15 ore fa, la sera del 30 aprile.

Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2020. La bambola si è rotta. O quantomeno deve andare in «riparazione» e c' è bisogno che qualche pezzo venga sostituito. Nei giorni scorsi Madonna ha dovuto cancellare l' ennesimo concerto per motivi di salute. E siamo a quota 14 dall' inizio del «Madame X Tour», partito a settembre da Brooklyn. Una caduta in scena a Parigi, causata da qualcuno che le ha «letteralmente tolto una sedia da sotto per errore e sono atterrata sul coccige», così l' ha raccontata la popstar sui social, l' ha obbligata allo stop. «Questa bambola rotta, tenuta assieme da colla e scotch, deve stare a letto e riposarsi un po' di giorni così da poter finire il tour con il sorriso e intatta», ha confessato la popstar. Non ci sono immagini dell' incidente perché nell' era socializzata dei telefonini puntati su tutto e su tutti, il tour di Madonna è smartphone free: vietato fare riprese e security pronta a intervenire appena spunta un cellulare.

New York, Boston, Miami, Lisbona, Londra e ora Parigi...La «X» del titolo del tour (e dell' album) sta diventando quella delle date cancellate lungo il tracciato dei suoi show. «Come sapete ho dolori che mi hanno flagellato dall' inizio del tour, ma devo ascoltare il mio corpo e mettere la salute dinnanzi a tutto», aveva detto nelle scorse settimane la diva. Il problema clinico pare essere alle gambe. «Eccomi qui, in carne e ossa. Se solo le ginocchia non fossero andate in rotazione, la cartilagine non si fosse strappata, non ci fosse stato dolore e le lacrime non fossero uscite... Invece ahimè è accaduto e grazie a Dio per averci ricordato che siamo umani. Ce l' ho fatta a finire lo show ma solo perché odio deludere», ha raccontato ancora la popstar dopo lo stop parigino. Umana come gli altri, pur con milioni di dischi e biglietti venduti in una carriera che ha segnato la musica e il costume a partire dagli Anni Ottanta come è riuscito a pochi altri nella storia. Madonna abbandonata da quello che l' ha trasformata in leggenda. Non c' è stato tour, dai 40 anni in poi, in cui i commenti del pubblico e della critica non sottolineassero la sua forma fisica, la sua preparazione atletica e le sue prestazioni spettacolari paragonandole a quelle di chi aveva 15-20 anni meno di lei. Madonna tradita da uno dei suoi punti di forza. Non è invincibile, non è eterna, madre natura non le ha concesso tutto. «Mi considero una guerriera. Non mollo mai, non mi arrendo mai, non mi do mai per vinta», aveva detto a fronte dell' ennesimo bollettino medico che le consigliava riposo assoluto. Una guerriera pronta però a confessare le sue debolezze: il dolore che la porta alle lacrime durante le circa due ore di show, le continue visite con i medici, il bastone per appoggiarsi mentre cammina, le terapie per alleviare la sofferenza, tre ore prima del concerto e tre ore dopo, come l' immersione in una vasca da bagno piena di acqua e ghiaccio documentata con un video sui social. È una storia, travagliata quella di «Madame X», il suo ultimo album, quattordicesimo in carriera, pubblicato a giugno dello scorso anno. Alla sua prima esibizione dal vivo, all' Eurovision di Tel Aviv, la performance vocale era stata così poco intonata da convincerla a caricarne una versione ripulita dalle stecche su YouTube. Sono poi arrivate le critiche e le minacce di cause legali da parte dei fan americani delusi dai ritardi capricciosi della diva che arrivava in scena anche due ore oltre l' orario annunciato sul biglietto. A Londra il Palladium le ha pure chiuso il sipario in anticipo una sera mentre lei gridava alla censura e mandava qualche colorito insulto alla direzione. Delusione anche per le cancellazioni last minute, come quella di Parigi, annunciate poco prima dell' inizio dello show con i fan che le rinfacciano viaggi e alberghi da buttare e che avrebbero preferito vederla comunque esibirsi, anche da seduta. A 61 anni Madonna scopre che l' anagrafe ha bussato alla porta. E oltre alla bambola un pezzo dei favolosi Eighties va in briciole.

Madonna cade sul palco a Parigi e scoppia a piangere davanti ai fan. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. Non bastavano i problemi di salute che lo scorso anno non le hanno dato tregua: ora Madonna deve fare i conti anche con gli imprevisti che possono accadere sul palco, nel caso specifico quello del Le Grand Rex di Parigi. Durante il suo show del 27 febbraio è infatti caduta rovinosamente ed è riuscita, non senza difficoltà, a portare a termine la perfomance: la popstar, come hanno raccontato i presenti, è scoppiata in lacrime per il dolore (presumibilmente anche per la frustrazione) e si è vista costretta a cancellare altre tappe del Madame X Tour.

Colpa di una sedia. Tutta colpa di una sedia, spostata al momento sbagliato: «Mi è stata letteralmente tolta da sotto per errore facendomi cadere sul mio osso sacro - ha spiegato Madonna in un lungo post su Instagram pubblicato in occasione dell’annullamento del concerto dell’1 marzo - Ho portato a termine lo show l’altra notte ma soltanto perché odio provocare disappunto». Tutta colpa di una sedia.

«Devo riposarmi». «Grazie Dio per questo importante promemoria: siamo umani», ha ammesso la regina del Pop, che ha annunciato la necessità di prendersi un momento di riposo: «Questa bambola rotta, tenuta insieme con colla e nastro adesivo, ha bisogno di stare a letto e riposare alcuni giorni così da riuscire a portare a termine il tour con il sorriso e tutta intera. Grazie per la comprensione, Parigi».

Da ilfattoquotidiano.it il 2 febbraio 2020. Dopo 10 date annullate Madonna riprende il suo Madame X Tour e torna sul palco del Palladium di Londra in grande spolvero, senza risparmiate domande piccanti e provocazioni al pubblico. “Come definireste un uomo con un pene piccolo?”, ha chiesto la popstar tra un brano e l’altro. Domanda retorica a cui risponde lei stessa: “Non vorrei mai saperlo, non sono mai stata con uomo che ce l’aveva piccolo… Le dimensioni contano, non fate finta di non saperlo…”. Impossibile non pensare ai suoi ex celebri: il regista Guy Ritchie, con cui è stata sposata 8 anni, l’attore Sean Penn, con cui ha condiviso 4 anni di matrimonio e poi Warren Beatty, Tony Ward, il rapper Vanilla Ice e una serie di toyboy come il modello portoghese Kevin Sampaio, 31, il ballerino francese Brahim Zaibat. Madonna, scatenata, ha poi preso la bottiglia di birra di una persona nelle prime file, ne ha preso un sorso e, restituendola, ha detto: “Abbiamo appena condiviso le malattie sessualmente trasmissibili.” Nel corso dello show la regina del pop, che oggi ha 61 anni, si è lasciata andare anche a confessioni più dolorose, come i problemi di salute che l’hanno costretta a diradare i concerti e a cancellare alcune date. Ma anche qui non ha perso l’occasione per “stuzzicare” il pubblico vantandosi delle sue abilità sessuali: “Sono molto brava sulle ginocchia, riesco a stare piegata anche venti minuti”.

Da ilfattoquotidiano.it il 2 febbraio 2020. Dopo 10 date annullate Madonna riprende il suo Madame X Tour e torna sul palco del Palladium di Londra in grande spolvero, senza risparmiate domande piccanti e provocazioni al pubblico. “Come definireste un uomo con un pene piccolo?”, ha chiesto la popstar tra un brano e l’altro. Domanda retorica a cui risponde lei stessa: “Non vorrei mai saperlo, non sono mai stata con uomo che ce l’aveva piccolo… Le dimensioni contano, non fate finta di non saperlo…”. Impossibile non pensare ai suoi ex celebri: il regista Guy Ritchie, con cui è stata sposata 8 anni, l’attore Sean Penn, con cui ha condiviso 4 anni di matrimonio e poi Warren Beatty, Tony Ward, il rapper Vanilla Ice e una serie di toyboy come il modello portoghese Kevin Sampaio, 31, il ballerino francese Brahim Zaibat. Madonna, scatenata, ha poi preso la bottiglia di birra di una persona nelle prime file, ne ha preso un sorso e, restituendola, ha detto: “Abbiamo appena condiviso le malattie sessualmente trasmissibili.” Nel corso dello show la regina del pop, che oggi ha 61 anni, si è lasciata andare anche a confessioni più dolorose, come i problemi di salute che l’hanno costretta a diradare i concerti e a cancellare alcune date. Ma anche qui non ha perso l’occasione per “stuzzicare” il pubblico vantandosi delle sue abilità sessuali: “Sono molto brava sulle ginocchia, riesco a stare piegata anche venti minuti”.

Sandra Rondini per il Giornale il 29 dicembre 2019. "Anche se l’ho adottato è David il figlio che ha ereditato i miei geni, la mia ambizione e volontà. I miei due biologici no". Così lo scorso maggio in una intervista a British Vogue Madonna parlava del rapporto meraviglioso che la lega a David Banda, 14 anni, adottato con l’ex marito Guy Ritchie, da cui ha avuto il figlio Rocco. Proprio David e Rocco furono al centro di una disputa penale durante il divorzio della coppia nel 2008, con i problemi principali derivanti dal fatto che Rocco di stare con la madre non aveva nessuna voglia, preferiva stare con il padre e la sua nuova mogli e figli, al punto da avere per sua madre solo parole durissime. David, invece, è rimasto volentieri con Madonna, rivelando di essere un asso del calcio al punto che gioca nelle giovanili dello Sporting Lisbona, città dove Madonna ha vissuto per anni perché il figlio adottivo si potesse allenare con una squadra di livello. E con chi ha passato le Feste Madonna? Naturalmente con David che al pianoforte le ha dedicato "Your song" di Elton John, dimostrando una buona vocalità e di saper suonare bene il piano. La clip con il ragazzino che suona per la madre è stata postata con orgoglio da sua madre, fiera del suo ragazzo ‘oro, quando invece tutti gli altri si sono limitati a chiamarla per gli auguri, evitando però di passare le Feste con lei. Nella didascalia ha scritto: "Il miglior regalo di festa che una madre potrebbe mai sognare di ricevere”. L'ennesima frecciatina ai due figli naturali? Se Rocco ha passato le Feste in Inghilterra con la nuova famiglia del padre, legatissimo ai sui nuovi fratellini, solo Lourdes Maria, protagonista qualche settimane fa di una falsa orgia a Miami per Art Basel, ha incrociato in quei giorni sua madre che alloggiava nello stesso albergo con il suo nuovo toyboy, il ballerino 26enne Ahlamalik Williams. Madonna e l'ex marito Guy Ritchie hanno adottato insieme il figlio David in Malawi nel 2006 e poi lei da single, dopo il divorzio, ha adottato Mercy, ora 12enne e le gemelle Esther e Stella, 7 anni. Quindi Madonna, oltre a David, era in compagnia delle sue altre tre figlie adottive di cui, però, non parla mai. David è il solo figlio per cui stravede e come disse a British Vogue: "Quello che David ha è concentrazione e determinazione e sono abbastanza sicura da chi le abbia prese… Lui è il figlio con cui ho più cose in comune. È incredibile, non è vero? Non è mio figlio biologico ma è il solo ad aver ereditato il mio vero Dna”. Il video, come riporta The Blast, non è stato postato solo per mero spirito natalizio e orgoglio materno, ma arriva subito dopo che l'ex Guy Ritchie di Madonna si è precipitato in tribunale proprio prima delle vacanze. Il 23 dicembre scorso, infatti, il regista di "Sherlock Holmes" ha presentato una mozione contro la popstar accusandola di impedirgli di avere ogni rapporto con David che è anche suo figlio adottivo. A motivare Ritchie è il sentimento che lega i due fratelli, Rocco e David, che vanno molto d'accordo e non possono frequentarsi quanto vorrebbero a causa della turbolenta situazione famigliare. La cantante ha risposto alle accuse dell'ex coniuge postando il video che vede il figlio felice con lei al punto da dedicarle una canzone e per nulla sconsolato dal fatto di non poter passare le Feste col padre e con Rocco. "Sembra che si stia vendicando per Rocco", sostengono in molti sui social, mentre per altri "ormai di Rocco, come anche della primogenita Lourdes Maria, non le importa più nulla, sta puntando tutto su David. È la sua creatura, lo sta crescendo come un vincente e non intende condividerlo con l’ex marito". In tanti concordano e scrivono: "L’hanno adottato insieme, ma è come se fosse solo suo perché in quel ragazzo rivede se stessa e la sua fame di gloria di quando era giovane" e altri aggiungono che: "È triste vedere i figli manipolati in una coppia divorziata, ma se David vuole restare con la madre allora che Ritchie si rassegni, in fondo il suo vero figlio ha già scelto lui". Su British Vogue del figlio Rocco non volle parlare, mentre si scagliò duramente contro la sua primogenita, Lourdes Maria, definendola "inutilmente piena di talenti che non sa sfruttare perché non ha nessuna ambizione. La sua scusa preferita per i suoi fallimenti è che parlano male di lei per colpire me. È cresciuta con i soldi e con una madre, tutte cose che io non avevo, ma non ha proprio spina dorsale". Dopo queste parole, secondo molti insider, i rapporti tra le due, da freddi che erano, pare si siano congelati del tutto. Madonna ha occhi solo per David e per la sua custodia dovrà tornare a combattere in tribunale contro l’ex marito. Il giudice ha fissato la prima udienza per il prossimo 1 gennaio. Il 2020 non sembra davvero iniziare sotto i migliori auspici per Madonna che, però, certamente sarà pronta a combattere per il suo figlio preferito.

Da liberoquotidiano.it il 29 dicembre 2019. Dalla bocciatura in tv ad Amici 11 al riconoscimento pubblico di stima e affetto da parte di Madonna. La favola del ballerino Daniele Sibilli, eliminato quasi subito nel 2012 dal talent di Maria De Filippi ha continuato ad esibirsi in Italia e nel mondo e oggi raccoglie i frutti di tanto sacrificio. Due anni fa aveva conquistato la popstar americano durante un party privato, oggi è diventato uno dei suoi ballerini nel mastodontico Madame X Tour. Di fatto, una incoronazione professionale mondiale, a cui è seguita qualche ora fa quella personale e privata: Miss Louise Ciccone ha voluto regalargli una carezza direttamente dal proprio seguitissimo profilo Instagram, ringraziandolo per il suo supporto in questi "momenti difficili". Il riferimento è all'infortunio al ginocchio che ha costretto Madonna ad annullare diverse tappe del suo tour, che il prossimo 16 gennaio salvo ulteriori imprevisti di salute sbarcherà in Europa. E Sibilli potrà finalmente diventare "propheta in patria". Una bella rivincita per chi lo ha preceduto in tv e oggi è rimasto nell'ombra. In fondo, il suo maestro all'epoca di Amici, Garrison Rochelle, gli aveva profetizzato una carriera brillante. Ma così, è addirittura esagerata.

·        Maitland Ward.

Barbara Costa per Dagospia il 4 ottobre 2020. Attrice sì, troia no. Le danno della disperata, dicono che lo faccia per soldi, i più maligni le imputano di aver perso ogni di donna rispettabilità. Chi le dà qualche chance, è sicuro che comunque non durerà, che il suo è un successo illusorio. Eppure è un anno, che Maitland Ward ce la fa vedere. È da un anno che vediamo quante dita e lingue e peni fanno gioire il suo clitoride, entrano e escono dal suo sesso (dal suo ano no, ma l’anal-debutto pare imminente) come pure dalla sua bocca, fino a esplodergli dentro. Ha aspettato di superare gli anta, Maitland Ward, e di rifarsi le tette, prima di buttarsi nel porno quello più estremo, BDSM di dominazione, lei che dai suoi quasi 180 cm di altezza si dimostra una mistress perfetta. Ma non è per il suo fisico stupendo, il suo trionfo nel porno (ne ha girati pochissimi, ma uno, "Drive", le ha fruttato subito un Oscar, come miglior attrice non protagonista), il suo boom social (1,4 milioni di follower su Ig, mezzo milione su Twitter), nemmeno i soldi accumulati spogliandosi su OnlyFans (15mila abbonati, e aumentano) dove per vederla in video privati nuda, che si fa la doccia, pagano e pagano… no: non è per questo che la signora è attaccata, e disapprovata. È perché ha infranto un tabù, ha fatto quello che ogni altra attrice si rifiuta di fare, se ne schifa, adombra, offende: Maitland Ward ha avuto l’audacia di passare dalle fiction pulite e mainstream… al porno! Lasse Braun, maestro del porno, ha chiuso la sua autobiografia sognando il corpo di Martina Stella spogliato e pornato a dovere, lui diceva che il futuro del porno stava in questo salto, in questa normalizzazione, in questo passaggio dai set non porno a quelli porno e viceversa. Maitland Ward l’ha fatto, lei che ha recitato in film "giusti", e in soap-opera come Febbre d’Amore e Beautiful, in serial quali Crescere che fatica!, Quell’uragano di papà, lei che è stata un volto Disney. Da un anno ha mandato tutto al diavolo per il porno, lo ha fatto riuscendo nello switch opposto a ciò che molte pornoattrici ambiscono e non riescono: se ci sono pornostar che ci provano, a mollare il porno per il cinema "normale", e qui fanno un buco nell’acqua, in primis perché non sanno recitare (dacché i porno dove si recita sono una nicchia, la maggior parte oggi è "solo" performance) a Maitland Ward è riuscito l’azzardo contrario e lei non ci pensa, a tornare indietro, anche perché non glielo permetterebbero: ragazzi, Hollywood e il mondo del cinema in generale resta conservatore, al limite del bigotto. Il sesso, se lo mostri, totale, com’è, nei suoi impulsi, orgasmando davanti a una telecamera…niente da fare, non te lo perdonano! Maitland Ward lo dice a viso (e sesso) aperto: perché si è attrici serie e valide fino a che non si recita il porno? Perché se io, attrice, passo ad altro, se, per esempio, faccio film drammatici, e voglio cambiare, mettermi alla prova nella commedia, nell’horror, lo posso fare, mentre se voglio fare il porno vero, con penetrazione e fellatio e bukkake e squirting, mi stigmatizzate e divengo in automatico una ex attrice che ora sullo schermo fa la troia? E soprattutto: perché se a fare questa metamorfosi è un attore maschio, non è toccato dallo stesso biasimo? Azzarda Maitland: perché nel cinema mainstream è accettata la recitazione della violenza, e quella del sesso esplicito, no? Perché in un film non XXX posso rappresentare l’orrido, la cattiveria più sadica, posso (finto) uccidere, staccare teste, mangiarle, essere blasfemo, e invece, se faccio porno, sono confinato in serie Z, e marchiata, se donna, puttana? Maitland tocca nervi scoperti, ma il problema non sta nel cinema, sta nella società. E infatti: se liberi la sessualità della donna, la donna non è più proprietà di un uomo. La sessualità maschile è sempre stata celebrata e tutt’oggi, un pene che passa da figa a figa è dote di un playboy, una figa che passa da pene a pene è la figa di una mignotta. Le donne sono educate a tenere sotto controllo la propria sessualità, a darle un valore, a cominciare dall’integrità dell’imene. Sono educate a vergognarsi delle loro voglie. A ritenerle dannose. Guai a rovinarsi la reputazione! Il porno manda in frantumi questi atavici concetti e di conseguenza è deplorato: qui ci sono donne "pericolose", donne che mettono in scena una sessualità libera dalle catene sociali. Ma c’è di più: c’è che Maitland, entrando nel porno, ha visto quanto il porno sia oltre la parità di genere: a differenza di altri posti "rispettabili", nel porno le donne con posizioni di potere – registe, manager, produttrici, agenti – sono tante, come non mancano trans, queer. Senza nessuna lotta o rivendicazione, né vittimismi da povera figa discriminata. La "transizione" di Maitland Ward è un modello possibile? Lei ne è convinta, e si fa forza su questa oggettività: i bambini che anni fa la seguivano su Disney Channel oggi ingrossano le file dei suoi fan, divenuti adulti col web, e col porno. Sono una generazione innegabilmente unica, che vede nel consumo di porno parte – anche importante, quotidiana – della vita. Maitland conta sul loro sostegno: “È tempo che il porno diventi mainstream, e che il mainstream accetti il porno”. È troppo presto? Siamo pronti? 

·        Malcolm McDowell.

Filippo Brunamonti per “la Repubblica” il 27 ottobre 2020. «Io sono ancora qua». Esordisce così Malcolm McDowell, 77 anni, occhi da pistolero e bandana rossa legata al collo. Da marzo è chiuso in casa a Santa Barbara. «È come se, a forza di accarezzare lo scenario distopico di Burgess, ci fossi caduto dentro». Il riferimento è al semi-lockdown della California e al controverso Arancia meccanica, il romanzo di Anthony Burgess adattato da Stanley Kubrick nel '71. McDowell interpretava Alexander "Alex" DeLarge, capo della banda criminale dei Drughi che picchiava a suon di Singin' in the rain: «Per nove mesi Stanley mi ha sottoposto ogni giorno a ore di film e immagini ultraviolente: campi di concentramento, corpi accatastati». L' insolente principe degli anni Settanta, nato nello Yorkshire, ha più di 300 produzioni alle spalle ma, confessa, «tendo a dimenticare tutto quello che ho fatto nella vita». In Se... di Lindsay Anderson dava il via a una rivoluzione dentro una scuola inglese; con Caligola di Tinto Brass entrava nel mito erotico di Penthouse accanto a Helen Mirren. La sua nuova scommessa si chiama Truth Seekers, serie dal tono soprannaturale creata, tra gli altri, dall' incorreggibile duo Nick Frost e Simon Pegg ( L' alba dei morti dementi e La fine del mondo), su Amazon Prime Video dal 30 ottobre.

Di lei dicono sia un attore brechtiano. Ci si ritrova?

«Lindsay Anderson era convinto che lo fossi. Diceva: il pubblico sa che stai recitando eppure ti credono. Non sono affezionato ai ruoli naturali, da documentario. Gli americani sono fissati con il "metodo". Io preferisco il teatro.  Con Arancia meccanica ho superato i confini della recitazione anche se avevo meno di trent' anni e non pensavo di esercitare un' influenza su Kubrick. Fino a quando non gli mostrai la mia tuta bianca da cricket: da lì nacque lo stile di Alex. In Truth Seekers interpreto Richard, suocero irascibile, isolato dal mondo e chiuso in casa con Gus (Frost). Con la pandemia, chissà quanti padri rompiscatole della mia età si potranno riconoscere in lui. Non fa altro che dire a Gus: "Esci anche oggi? Mi lasci qui tutto solo?"».

La sua prima apparizione in "Truth Seekers" è su un montascala. Sembra un poltergeist.

«Quell' entrata dice tutto del personaggio. Usa la sua vecchiaia per attirare l' attenzione. Non mi somiglia proprio: sono sempre stato autonomo e lo sarò fino alla fine. Ho lavorato in una fabbrica di noci, poi ho fatto il rappresentante di una ditta di caffè, l' autosufficienza è importante. Venivo da una famiglia operaia, mia madre faceva l' albergatrice e mio padre gestiva un pub. Non avevo tempo di vivermi la fanciullezza, non ho neanche una storia di fantasmi da condividere perché fin da piccolo ero un cinico incallito. L' aldilà è qualcosa che non mi ha mai affascinato. Noi arriviamo dal nulla e ci torneremo».

Il cinema è il suo fantasma?

«No, il cinema è lavoro e basta. Ho bisogno e voglia di lavorare. Nella mia carriera ho girato anche robaccia ma non importa. Work! è l' imperativo. A 77 anni sono pieno di passione, mi sento come un olimpico del cinema. Laurence Olivier, Ralph Richardson, John Gielgud, Peter O' Toole sono i miei esempi. Finché c' è salute, non ci si può tirare indietro. Guardate Christopher Plummer: 90 anni e un talento inarrestabile. In Tutti i soldi del mondo ha dato l' anima. "Sei un modello per un giovane attore come me" gli ho detto agli Oscar. È scoppiato a ridere. La mia fortuna è stata far presto pace con gli anni Settanta. Ero il ribelle inglese dell' epoca d' oro. Dopo L' uomo venuto dall' impossibile, in cui interpretavo lo scrittore Herbert George Wells, le cose cambiarono in fretta. Gli anni Novanta sono stati più clementi con me anche se accettare la parte del Dr. Tolian Soran, ricordato da tutti come "l' uomo che assassinò il Capitano Kirk in Star Trek: Generations", mi è costata qualche minaccia di morte».

A cosa sta lavorando?

«Durante il lockdown ho pensato spesso al film-scandalo Caligola. Erano altri tempi, il '79. Tinto Brass aveva una sua visione d' autore e il fondatore del magazine erotico Penthouse, Bob Guccione, era deciso a finanziarla. Una volta terminate le riprese i produttori tornarono a Roma e girarono scene hardcore da montare nel film. Sto pensando a un modo alternativo di raccontare segreti e aneddoti della lavorazione, recuperando brandelli inediti della sceneggiatura di Gore Vidal o immagini di Franco Rossellini, nipote bellissimo di Roberto. Mi piacerebbe incontrare il pubblico in un teatro, fare uno spettacolo su Caligola, riprendere tutto e usare il materiale come narrazione di un film».

Che ricordo ha di Tinto Brass?

«Un regista molto intelligente. Un brav' uomo. Mi piacerebbe coinvolgerlo nella mia versione di Caligola. Cult chiama cult».

·        Malena Mastromarino.

La pornostar Malena rivela: “Ho fatto carriera nel Pd grazie al mio culo…” Redazione giovedì 16 Marzo 2020 su Il Secolo d'Italia.  “Entrare nell’assemblea nazionale del Pd? È stata una questione di c…”. La dichiarazione choc arriva della ex dirigente del partito di Renzi, la pornostar Malena La Pugliese. Una frase destinata a lasciare il segno e arrivata nel corso della trasmissione Emigratis 2 di Italia Uno. “Malena l’hai data a qualcuno del Pd?” E lei allude…La pornostar pugliese, attualmente concorrente dell’Isola dei famosi, è balzata agli onori delle cronache per avere lasciato l’attività politica ed essersi buttata nella carriera porno, girando film con l’attore e produttore, Rocco Siffredi.  I conduttori pugliesi Pio e Amedeo chiedono alla loro conterranea come abbia fatto ad entrare nel partito. «È vero che hai militato nel Pd?» «Sì, è vero», la risposta. «E come hai fatto? L’hai data di sicuro a qualcuno». Malena prova a non rispondere. Poi la frase destinata a fare parecchio rumore: «Ma sì, non è stato per questo faccino che sono entrata nel Pd, ma per il mio culo». I due provano invano ad incalzarla: «A chi l’hai data? A Bersani? A Renzi? A Fassino? A Emiliano? A D’Alema?». Malena, però, si guarda bene dal rispondere. Filomena Mastromarino, 33 anni di Noci (provincia di Bari), è stata una dirigente del Partito democratico. E non un’esponente minore: la giovane, renziana doc, era stata eletta addirittura nell’assemblea nazionale del Pd. Le sue gesta politiche sono ancora reperibili sul web. Alle primarie del dicembre 2013 Filomena Mastromarino, nel nome delle tanto decantate quote rosa, venne eletta a furor di popolo. Arrivando all’elezione all’assemblea nazionale del Pd nel Collegio Bari 2. A dire il vero, non erano mancate le polemiche per la presunta inadeguatezza della candidata. Già all’epoca le ironie si erano sprecate sulle effettive qualità della eletta. A tal punto che la stessa Mastromarino per difendere i suoi titoli di merito, era ricorsa a una lunga intervista su un canale locale. Ora la battuta sulla carriera grazie alle sue doti fisiche riapre il discorso sul criterio di selezione del partito di Renzi. Sempre ammesso che fosse una battuta e non una voce dal sen fuggita.

Malena per mowmag.com il 29 agosto 2020. Un vecchio adagio dice che se vuoi fare innamorare veramente un uomo, c'è una pratica che devi saper fare bene: il pompino. Chiamatela fellatio, sesso orale, chinotto o con il termine che più vi piace, ma sempre quello è. E allora mi sono chiesta: ma cosa significa saperlo fare bene? Per me farlo bene, significa che la mia bocca deve fare fisicamente l'amore con il membro: è solo questo. Molto semplice e naturale: fare l'amore, ma con la bocca. Gusto, amore e passione, però inumiditi con la lingua. Sinceramente è una delle pratiche sessuali che meglio so fare e più apprezzo. Sono una fan dell'assaggiare, leccare, ingoiare... potrei farlo per ore e ore. Sempre ammesso che... lui resista! E non parlo di performanti attori professionisti sui set cinematografici: in realtà, la cosa che a me piace di più, è sentirlo prendere forma nella mia bocca. Mi gusta la variazione di consistenza: sentirlo gonfiarsi e sentirlo crescere, riempirsi di piacere. Davvero non c'è soddisfazione maggiore che assaggiare il proprio risultato. Ma per praticare sesso orale, non basta riempirsi il palato: la parte che utilizzo di più sono gli occhi. Lui deve essere concentrato sul mio sguardo, che gli parla, profondo e penetrante, mentre lo delizio nella mia bocca, accogliente e umida. Molte donne mi domandano qual è la tecnica perfetta per il pompino. Ma secondo non c'è un unico metodo generale: il trucco è mettere tutta la passione e tutto l'amore che si ha da dare, in quel gesto e in quel preciso momento. Creando il legame con sguardo e occhi, non solo con bocca, lingua e saliva. E senza dedicarsi al solo protagonista: ogni tanto è meglio dare una leccata anche... alle ciliegine sulla torta! E il pompino, inteso come sesso orale tra adulti consenzienti, non lo considero un gesto maschilista, o egoista o di sottomissione. Ma è anzi l'esatto opposto: è l'uomo a essere dominato, ingoiato, mangiato. E con me non diventa solo innamorato, si trasforma in un vero schiavo della mia bocca... ne diventa dipendente e non ne può più fare a meno. Per me saperlo fare bene è appagante, eccitante e molto potente.

Barbara Costa per Dagospia l'1 luglio 2020.

Malena, cosa ci fai, nuda e bellissima, a dimenarti tra corpi e sessi e enormi sex-toys che ti straziano di piacere?

«Ci faccio l’ultimo porno che ho girato con Rocco Siffredi prima che fermassero le riprese, e appena uscito: "The Game of Whores"!»

Tu splendi nei primi tre episodi, e con te ci sono pure Lady Blue e Martina Smeraldi.

«Nel primo, c’è Rocco, e io e Martina legate, e poi oliate. Ci scateniamo in threesome, rimming, e in deep throat. Nel secondo, il tema è Joker, e c’è l’orgia con me, Martina, Anna De Ville e 4 uomini, e non mancano doppie anali: sicuramente la mia più bella doppia anale! Nel terzo, fisting, squirting, io e Martina e Anna siamo schiave "bagnate" adoratrici di Mike Angelo. Giuro: qui ho dato tutta me stessa. Lady Blue è nel quarto episodio, e non ho scene con lei. Però, lasciami dire che questo porno è speciale per una ragione tanto, tanto personale…»

Quale?

«È l’ultimo film con Gabriele Galetta, cugino di Rocco, che ci ha lasciato all’improvviso lo scorso marzo, per un infarto».  

Gabriele era il braccio destro di Rocco…

«Rocco e Gabriele erano più che fratelli, lavoravano insieme da 32 anni: Gabriele era il suo co-regista. Ed io se oggi sono una pornostar, tanto lo devo a Gabriele, anzi tantissimo: il nome d’arte scelto insieme, il mio percorso, il mio esser donna in questo mondo chiamato PORNO. Lui era il mio più grande amico».

Prima di “The Game of Whores”, con Rocco hai girato “Rocco e Malena su e giù per l’Italia”, un porno particolare: è un po’ un documentario…

«Sì, io e Rocco siamo andati in giro per l’Italia e ci siamo immersi nel vero mondo dello scambismo. È un porno, ma è al tempo stesso uno specchio reale sul mondo scambista italiano. È uno dei film più apprezzati dai fan».

Ma è vero che tu eri una scambista, nella tua vita privata, ben prima di iniziare col porno?

«Certo che è vero, io sono stata scambista per più di 10 anni».

Io non mi sono mai scambiata, e però nemmeno vivo il rapporto di coppia. Tu dici che sul serio scambiandosi si riaccende la voglia, dopo anni che si sta insieme?

«Io il mondo dello scambismo l’ho frequentato, a lungo, e ho visto coppie, di ogni età, anche coppie mature, scambiarsi, e così riscoprire la propria sessualità. È un rimettersi in gioco».

Ti scambi e ti rinnovi pure se stai insieme da tanto tempo, e quindi si conosce tutto (o quasi) l’uno dell’altro?

«Sì, perché alcune coppie è proprio tramite lo scambismo che sperimentano trasgressioni mai provate prima».

È vero che il Covid ha stoppato il tuo porno-sbarco in America?

«Eh, purtroppo! A gennaio a Las Vegas ho incontrato Mark Spiegler…»

Spiegler?!? Lui è un pezzo grosso, è tra i migliori agenti in circolazione! Se entri nella sua agenzia e diventi una Spiegler-girl, sei al top del top!

«Stavo preparando i documenti per gli Stati Uniti, poi la pandemia ha bloccato tutto. Così ho passato la quarantena a pornare in remoto sul mio canale OnlyFans, e a perfezionare il mio inglese online».

Quanto c’è di vero nella voce di un tuo porno con Rocco Siffredi e Valentina Nappi?

«Rocco in un live ha proposto a Valentina di fare un film con me, e non nascondo che mi piacerebbe…»

È la prima cosa che dovete girare appena ripartono i set! Ma tu da attrice porno, hai colleghe che segui con interesse?

«Seguo Angela White. È la mia preferita, e girerei subito con lei».

Malena, io sono convinta che tu sia molto invidiata perché hai avuto il coraggio di fare quello che la maggior parte degli italiani si limita a sognare: lasciare la sicurezza di un lavoro “onesto” per un salto nel buio, e puntare tutto su ciò che si vuole davvero fare.

«Più che invidiata, io mi sento amata, e amata specialmente da tutte quelle donne che vogliono "voltare pagina" in ogni ambito: lavoro, famiglia, sesso».

Però il tuo esempio, quello che hai fatto, mette in crisi una delle spine dell’Italia: il conformismo. E meno male che lo fa!

«L’unica forma di conformismo che conosco è quella di essere conforme a me stessa».

Quello che traspare dai tuoi video, e che mi ha colpito fin dal tuo esordio, è la tua determinazione. Come se fare porno fosse per te una liberazione dalla vita che facevi prima. Sbaglio?

«Con il porno non ho fatto altro che affermare liberamente la mia sessualità ma soprattutto ho realizzato il mio sogno più grande: fare eccitare milioni di uomini e donne attraverso la mia immagine e le mie performance sessuali».

Malena, diciamo qualche verità sul porno. Primo: una donna che fa porno lo fa per sua liberissima scelta.

«Certo, tutto quello che una donna fa nel porno, lo fa assolutamente perché lei lo vuole fare. Fare porno è una scelta libera, consapevole, ed è un lavoro dove le donne sono pagate di più dei colleghi maschietti».

Secondo: il porno emancipa, soprattutto in mentalità!

«Quando il porno non è solo una scelta lavorativa ma una scelta di vita, come nel mio caso, il porno è e ti dà libertà.

Terzo: basta rompere le palle alle donne che fanno – o scrivono – porno. Siamo donne, facciamo porno, poiché non imponiamo a nessuno di guardarci, nessuno ha il diritto di malgiudicarci.

«Io ho sempre detto: Chi mi ama mi segua, e potrei omettere la U!»

Tu prendi David Parenzo: a “La Zanzara” sta sempre a scocciare te e le altre pornoattrici sulla famiglia: “E che ne pensano i tuoi di quello che fai… e non sono contenti… ti avrebbero voluto diversa…”. La prendo molto sul personale, tali litanie sono insopportabili.

«Sì, ma io alle litanie non faccio più caso. E poi l’amore di un genitore verso un figlio, e viceversa, si prova a prescindere dalle proprie scelte di vita».

Hai ragione, io ci rimugino troppo, l’unica è fregarsene.

«Sfatiamo questo altro tabù: fare porno, sui set… è una fatica! È un’enorme fatica!»

Ma è vero che tu non fai palestra?

«Prima di fare porno ero un’assidua frequentatrice di palestra, e da bambina ho studiato danza classica per 7 anni. Invece ora alla palestra dedico poco tempo, certi periodi quasi zero, ma sul set…altro che palestra!»

Ho seguito il “video-scontro” tra Rocco e Nacho Vidal su chi ce l’ha più lungo. Tu hai “provato” tutti e due. Dimmi: chi vince?

«Io sul set non vado mai col metro in borsetta!»

Brava, risposta furba! Io dico che ce l’ha più lungo Nacho, ma non batte Rocco in circonferenza. Senti, approfitto della tua esperienza, per farti una domanda interessata…

«Vai…

Io ho questo problema: non riesco a fare la deep throat. Non riesco a gestire il reflusso. Mi sto convincendo che dipenda dalla conformazione della mia bocca, che in effetti grande non è. Tu che dici?

«La deep throat è TUTTA una questione di respirazione: serve tanto allenamento per gestire il reflusso…in realtà è come un’apnea!»

Il guaio è che a me fare sesso orale a un uomo piace da morire, e però giù in gola no, non ce la faccio.

«Ti svelo un segreto: quando io faccio un pompino è come se la mia bocca facesse l’amore con il pene. E poi vabbè…ti devi allenare. Tra un reflusso e un altro…si fa! Sullo squirting gira una confusione pazzesca. Mi aiuti a far chiarezza? Innanzitutto, lo squirting che si vede nei porno spesso è artificiale».

Io sul set ho fatto e visto solo squirting veri.

«Ci sono scene di squirting vero, e scene di squirting “aiutato”, e questo per esigenze tecniche, perché il porno è genere cinematografico dove non si simula il sesso, ma si trucca dove serve, anche dove è richiesto più show squirtante. Nella realtà, non tutte squirtano perché non tutte hanno le ghiandole di Skene sviluppate al punto da squirtare: alcune le hanno meno spesse e queste, anche se stimolate, non producono squirting. Nella realtà, tutte le donne possono squirtare: ok le ghiandole, ma una donna va toccata (e nella masturbazione deve toccarsi) nel punto giusto, e mentalmente deve essere in uno stato di A-S-S-O-L-U-T-O relax: perché la sensazione è lasciarsi andare!»

Ma è vero che tu riesci a squirtare analmente?

«Io sì, ma solo con un pene "a banana"!»

Tu hai girato “Manuel’s Euro Tour: Paris”, con Manuel Ferrara. Saprai bene che Manuel è adorato dal pubblico porno femminile. Malena, facci sognare, e rosicare. Com’è scoparsi Manuel?

«J’adore Manuel! Lui è il sesso in persona, capace di farti eccitare solo con il suo accento francese. Ti tocca, ti prende, ti stringe, ti bacia senza respiro: ogni donna meriterebbe una scopata con Manuel Ferrara.

Capito, uomini? Guardate i video di Manuel, e imparate! Almeno a baciare! Malena, se vai negli States, con quale uomo ti piacerebbe lavorare? Io da fan tifo te con James Deen, ma io con Deen sono fissata…

«Ti avrei dato esattamente la stessa risposta!»

Da iene.mediaset.it il 14 maggio 2020. Dopo aver trascorso qualche giorno di quarantena con Malena, la pornostar ha accettato l’invito di Alessandro Di Sarno e di Roberto Di Stasio Lepre: insieme abbiamo messo all’asta a busta chiusa un suo pelo. Il ricavato verrà devoluto all’associazione “Il giardino delle idee” che aiuta anziani, giovani e famiglie bisognose. Abbiamo chiesto a Malena un suo pelo da mettere all’asta a busta chiusa per devolvere il ricavato a un’associazione benefica. Lei ha accettato e ora tocca a voi inviare la vostra offerta a ilgiardinodelleidee@live.it. Il giardino delle idee è un’associazione di Torino che si occupa di aiutare anziani e famiglie con problemi economici, per esempio facendo per loro la spesa in questo momento difficile. Il pelo lo riceverà solo chi si dimostrerà davvero generoso e il termine massimo per presentare la propria offerta è sabato a mezzanotte. Dopo la chiusura dell’asta chi avrà offerto di più, riceverà direttamente dall’associazione le coordinate bancarie per il versamento. Loro poi invieranno il pelo più unico che raro e incorniciato con tanto di autografo di Malena! Questa idea è venuta al nostro Alessandro Di Sarno che ha trascorso qualche giorno di quarantena con Malena, come potete vedere nel servizio qui sopra. Appena Conte dà il via libera alle visite ai congiunti, ci presentiamo a casa sua. Rompiamo il ghiaccio con un tutorial su come favorire lo squirting in una donna. A questo punto siamo entrati in confidenza e le chiediamo quanto guadagna una pornostar: “Non si parla più di film, ma a scene. Un’attrice sconosciuta può andare da 200/300 euro fino a 1.500/2.000, però il mercato più pagato è in America”. E ci dice anche che in base a ogni tipo di scena c’è un tariffario ben preciso: “La doppia anale è in assoluto la più pagata, io ho debuttato così”. A questo punto Alessandro Di Sarno le confida di voler continuare la quarantena con lei anche per tutta la notte. Ma non ha né il pigiama, né le mutande “perché mi sono cadute le palle”, dice. Così per sdebitarsi dell’accoglienza le consegna un piccolo regalo: un rossetto vibratore. “Nonostante la quarantena ancora non faccio utilizzo di dildo, sto conservando tutto”. Si è fatta una certa, dopo averci mostrato succhiaclitoride, stimolatori e anelli vibranti ci mettiamo a letto con lei: è il momento delle confidenze. “Le attrici che fanno questo lavoro è perché non hanno vissuto bene il rapporto con il padre. Si sono sentite abbandonate dalla figura principale. Così diventa quasi una vendetta verso gli uomini che diventano oggetto per il proprio successo”. La notte trascorre ma non come tutti speravano. Al risveglio è il momento di fare sport. Ci dice che lei proprio non è sportiva, allora le proponiamo qualche posizione del kamasutra. Ci racconta tutti i suoi segreti, anche per i preliminari come lo schiaffo sulle chiappe che si deve sentire, ma non fare male. Finalmente le possiamo dire il motivo della nostra visita. In questo periodo di coronavirus, tanti hanno dato il loro contributo. Anche noi vogliamo fare altrettanto con lei, le proponiamo di mettere all’asta un suo pelo, più unico che raro. Il denaro raccolto andrà in beneficenza all’associazione “Il Giardino delle idee”, che aiuta anziani, famiglie e giovani in difficoltà.

Gisella Desiderato per Novella 2000 il 14 maggio 2020. Malena è una pornostar molto nota, anche se ha iniziato a fare la pornostar solo quattro anni fa, a 33 anni. Prima era un’agente immobiliare di Gioia del Colle, provincia di Bari, poco più di 27,6 mila abitanti. All’epoca il papà era già andato negli Stati Uniti per lavoro. A casa la mamma, oggi sessantenne, con cui ora Malena è in isolamento. Insoddisfazione galoppante, il provino con Rocco Siffredi, le si sono spalancate le porte dell’hard. «La rinascita», la definisce oggi perché è un lavoro che ha scelto, le piace, anche se le è costato, e le costa, pregiudizi e sofferenze. «È un dono», dice, «mi ha dato la libertà di essere me stessa». E quando spiega questo concetto, col suo forte accento barese, dà una lezione di vita a tutti: «Molti, soprattutto molte donne, fanno una vita che non vorrebbero fare, magari si vergognano di dire che hanno fantasie erotiche. Non c’è nulla di male, si può amare il sesso, anche trasgressivo, rimanendo semplici e perbene». E quasi filosofeggia quando dice di sentirsi un po’ dottor Jekyll e Mr Hyde perché in lei convivono sia Milena (come la chiamano in famiglia), la ragazza normale che sa stare educatamente seduta a cena senza creare scalpore, sia Malena l’affamata di sesso che si vede sui set porno. «Per essere rispettato, devi rispettare», dice, «sono rispettata come Malena, perché, quando non sono sul set, mi comporto da Milena». E ora che è in isolamento da oltre sessanta giorni non ha problemi a dire che l’astinenza è sofferenza.

«Il sesso mi manca. Certo posso fare da me, ma il sesso è sesso. È fatto di tante sfumature, ci sono odori, sensazioni, io amo sentire l’odore dell’altro. Non sono fidanzata, ma ho persone non fisse con cui intraprendo rapporti».

I mitici trombamici insomma.

«Eh, non so se sul giornale si può dire. Comunque sì. Due, tre, non dieci. Finora non ho potuto vederli. Non è che abbia una vita sessuale privata molto intensa, preferisco far sesso con un compagno con cui ho un rapporto e, viaggiando molto per lavoro, non è facile avere “amici”. Quelli che ho, mi mancano tantissimo».

Ora in isolamento come fa?

«Videochiamate, almeno una volta al giorno, mi diverto molto. Un sex toy solo per me stessa non va bene, ho bisogno di essere guardata. Il sesso è anche sentirsi apprezzata, un’iniezione di orgoglio».

Con sua mamma a Gioia del Colle come procede?

«È dal 29 febbraio che sono qui a casa con lei, mi sembra di essere tornata ragazza. Con mamma ho un buon rapporto, però passare dai tuoi ritmi, a quelli materni, pranzo e cena, è difficile».

Il lavoro è bloccato.

«L’ultimo set hard l’ho concluso il 23 - 24 febbraio con Rocco Siffredi a Budapest, scene bellissime, poi basta. Quando ne ho parlato con Rocco, ci siamo fatti un sacco di risate. Dopo quel set, quando sono tornata in Italia, avevo la febbre a 38. Paura! Temevo di avere il Covid 19. Sono stata ricoverata due giorni al Policlinico di Bari, mi hanno fatto il tampone: negativo. Per fortuna era solo influenza. Ora per fortuna sto bene. E sto continuando a lavorare da casa».

Cioè, cosa fa?

«Sono su una piattaforma on line, dove c’è la possibilità di interagire con me con performance hard e videochiamate. È la prima volta che do la possibilità ai fan di interagire, di solito il pubblico, durante le mie serate, si limita a guardare, fare foto».

Ora fa videochiamate hard?

«Durano 15 - 20 minuti al massimo. Le situazioni sono diverse, l’altro giorno sono stata tutto il tempo solo a chiacchierare. I fan sono curiosi, mi chiamano “dea”, vogliono sapere chi è il personaggio Malena».

E sua mamma è nella stanza accanto. Non è imbarazzante?

«No. Abbiamo una casa grande. Non le dico quello che faccio, lei sa che sono al computer».

Qualcosa magari la immagina.

«Non credo. La generazione di mia madre non concepisce questo modo di fare sesso, quindi neanche riesce a immaginarlo. Con mia madre c’è un equilibrio fondato su un patto: io accetto il suo modo di pensare, lei accetta il mio lavoro, di cui comunque non parliamo. Va bene così. A casa con lei sono Milena e basta».

Lei sa chi sono gli uomini con cui fa videochiamate? Magari sono mariti che si chiudono in bagno con la moglie in cucina.

«Sì, la maggior parte è impegnata, con partner in casa. Ma questa cosa non va giudicata male, come un tradimento, l’uomo che mi cerca sa bene che non mi potrà mai avere, vive un sogno. Me l’ha spiegato una ragazza».

Cioè?

«Prima del lockdown, durante una serata, s’è avvicinata una ragazza. “Guarda sono gelosissima del mio fidanzato”, mi ha detto, “te lo presento perché sei l’unica donna che lui non potrà mai avere”. Per lui ero l’impossibile, un sogno appunto. Guardi che moltissime mie fan sono donne».

Le Malenite, un gruppo molto attivo anche sui social.

«Una grande fortuna. Siamo sempre in contatto. In questo periodo il sabato sera organizziamo sui social la “serata contest”, a tema, ad esempio tutte col tacco, col rossetto, senza pigiama insomma, per sentirsi belle nonostante l’isolamento. Di solito una donna si fa bella per l’uomo. Invece bisogna farsi belle per se stesse. Ecco, considero un mio grande merito l’aver stravolto il concetto di porno».

Cioè?

«Ho affermato che alle donne piace il porno. Sono riuscita a far capire che non sono solo un’attrice hard, ma sono una donna cui piace il sesso. Ho fatto capire che il mio mondo è bello. E anche le altre donne possono raggiungere la stessa bellezza, senza doversi nascondere. Le fan vedono in me una che è riuscita ad affermare i suoi desideri, che ha stravolto la sua vita, che ha sofferto perché la mia famiglia non accettava questa mia scelta, ma che, a furia di parlare e spiegarsi, ce l’ha fatta».

Emancipazione.

«Libertà. La cosa più bella che provo da quando faccio questo lavoro è il senso di libertà. Non perché faccio sesso spesso, ma perché sono me stessa. Voglio che le donne siano se stesse. Cioè: non è che ti devi vestire in un certo modo perché tuo marito vuole così. Neanche gli imponi il tuo gusto, ma ne parli, ne discuti, raggiungi un equilibrio. Ai primi di marzo ho avuto un lutto importante, è morto il cugino di Rocco (Siffredi, ndr), Gabriele, che per me è stato un padre sia nella carriera, sia a livello personale. L’ultimo messaggio che mi ha scritto è stato: “Hai vinto tu”. Perché mi sento apprezzata per il mio lavoro e integrata in famiglia». 

Lo vorrebbe un fidanzato stabile?

«Non lo cerco. Ma se arriva la freccia, mi faccio pungere felicemente. Credo che le cose capitino al momento giusto, quando uno è maturo per viverle».

Il lavoro che fa probabilmente spaventa un uomo.

«Sì, non si sentono all’altezza. Ragionano in termini di misure, performance, durata. Ogni volta che trovo un ragazzo interessante, dopo le uscite a cena, puntualmente dice: “Ma tu sei Malena, sei abituata a Rocco”. Mi crolla il mondo addosso».

Rocco Siffredi è mito del suo campo. In effetti è difficile il paragone.

«Lo dico sempre a Rocco: “Tu mi hai condannata”. Lui scherza: “Pensavo di averti agevolata”. Tutti si spaventano. Con me non possono neanche vantarsi di fare acrobazie, perché se le dici, poi le devi fare. E molti, stringi stringi, non le fanno. Dovrebbero pensare al contrario: proprio perché sono questa, ho tanto da insegnare, sono matura, quindi consapevole, avermi è una fortuna. A me piace anche la défaillance. Tanto la compenso io, nessun problema». 

Questi problemi capitano anche con partner Vip?

«Ne ho conosciuti tanti, tra sport, musica, spettacolo. Ma mi sono stufata. Poi non si volevano far vedere in giro con me per “problemi di immagine”. “Essere visto accanto a una pornostar no”, dicevano. Ma non faccio beneficenza. Con molti Vip ho chiarito, ma non è che mi cerchi solo per chiuderti a letto, poi non si può uscire a cena insieme. Se è così, preferisco gente comune». 

Lei sarebbe gelosa se il suo uomo la tradisse?

«Prima del porno ho avuto relazioni importanti, sono stata molto gelosa. Bisogna intendersi sul concetto di tradimento. La scappatella può capitare. Ma se il mio lui ha una vera relazione, di testa anche, con un’altra, per me è finita. Appoggio tutte le forme di libertinaggio, ma nella coppia voglio sentirmi unica. E la coppia c’è solo se si è amanti, amici, fratelli».

Cosa pensa degli uomini che fuggono da lei?

«Che sono uomini fragili. Anche quello in apparenza più rude, nasconde debolezze. Attualmente l’unico Vip che potrebbe reggere un rapporto con me è Vittorio Sgarbi. Siamo molto amici, lo adoro. È un amante della bellezza, comprende realmente chi fa il mio lavoro. Mi ha detto: “Avrai grandi difficoltà a trovare un uomo, ma se lo troverai, si renderà conto che sei capace di un amore più profondo».

Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 4 aprile 2020. Marlena torna a casa, cantano i Maneskin. E per Malena, pornostar internazionale ed ex membro dell' assemblea nazionale del Pd, è effettivamente così: "Sono in Puglia con mia madre, ed è un dato positivo, non accadeva da anni. Mi sento come ai tempi della scuola".

Niente set.

«Sarà un problema, tutti i performer sono stranieri; prima dello stop ero a Budapest da Rocco (Siffredi) e l' attore francese non riusciva a tornare nel suo paese (ci pensa). E poi gli Stati Uniti».

Cosa?

«Non accettano più contenuti registrati in questo periodo, temono cause legali se poi uno degli attori dovesse risultare positivo».

Soluzione?

«Inseriranno un altro test».

Abituata.

«È obbligatorio ogni venti giorni, e sono quelli immediati».

E poi l' igiene.

«Anche qui, nulla di nuovo: sono esperta, il mio lavoro mi ha reso più attenta e responsabile».

Denunciano il crollo dell' eros.

«Davvero? Con le Malenite (sono le sue fan) ci teniamo compagnia e condividiamo le impressioni sulla quarantena.

Quindi?

«Sono disperate».

Che succede?

«L' ho detto a Rocco (sempre Siffredi): le single perché single, poi c' è chi ha il fidanzato a distanza e chi ha bambini dentro casa».

Si soffre.

«Le donne mi mandano messaggi d' allarme, non sanno con chi sfogare questi ormoni (pausa) Chissà dopo cosa accadrà!»

Gli uomini?

«Sono più mentali e in generale risentono delle preoccupazioni».

I ragazzi?

«Non si placano: sto lavorando molto sul web, e gli adulti stanno scoprendo il sesso virtuale».

Sesso virtuale?

«È il mio smart working».

Non c' è sua madre di là?

«Sì, ma ho i miei spazi. E poi ho 37 anni, non sono una bambina».

Giusto.

«Più che altro mi domando: ma gli uomini che si collegano, non hanno le mogli nell' altra stanza?»

Ancor più giusto.

«In realtà sono rimasta male da alcune ragazzine».

Cosa succede?

«Stanno pubblicando dei video tutorial volgarissimi. Sembrano delle disperate, non dobbiamo dimenticare che su Instagram vanno pure i minori».

A casa fa le pulizie?

«Certo, sono una donna del Sud».

Cucina.

«Con mia madre, l' ho messo su Internet; però non stiro, indosso solo tute e pigiama».

Tuta e pigiama, e crolla l' eros.

«Ma solo pigiami di seta!»

Resta la tuta.

(Le scatta un tono come a dire "povero ingenuo") «Non sono tute normali, ma leggins di pelle».

Cosa le manca?

«I tacchi. Questa settimana ho indossato le autoreggenti e mi sono fotografata: mai trascurarsi».

E il sesso fisico?

«Ovvio, ma evito le tentazioni: sono una professionista, so controllare gli impulsi». (ride)

Che succede?

«Mi arrivano in continuazione messaggi di ex e amici che mi dicono: "Appena tutto questo sarà finito, vediamoci"».

E i politici?

«Quelli no, hanno paura».

Dagospia il 24 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “L’altro giorno ho detto a Rocco: non ci crederai ma l’ultimo cazzo che ho preso è proprio il tuo sul set. Orami è passato quasi un mese, eravamo a Budapest alla fine di febbraio. Ci siamo messi a ridere, ma alla fine è quasi un mese che non scopo. Tutte le produzioni sono bloccate”. Così Malena Mastromarino, detta Malena la pugliese, attrice hard, a La Zanzara su Radio 24. “Dopo le scene girate con Rocco – racconta Malena – ho fatto appena in tempo a rientrare in Puglia ed ho chiuso le gambe con la serranda. Qui vivo con mia madre, che devo fare? L’ultima volta che ho fatto sesso è stato per completare un film a tre con Rocco e Martina Smeraldi. Erano le ultime scene da fare”.

Malena si masturba? “Ma certo. Ma non riesco a fare la masturbazione da sola, dev’essere condivisa, e allora ieri mi sono fatta una bella videochiamata con un mio amico e gli ho detto:  guardami adesso. Ma non lo faccio tutti i giorni, non sono seriale. Perché ho sempre questa fissazione che devo essere guardata. Non mi masturbo da sola, ho bisogno di qualcuno che mi guarda. Oppure faccio un video e lo mando a qualcuno che in quel momento non può guardare. Ma la cosa indispensabile è essere guardata”. Stai pensando a quando tornerà la vita normale?: “Sono fortemente preoccupata, perché i miei scopamici sono già scatenati con messaggi pazzeschi. Quindi mi sa che quando torneremo tutti alla vita normale, io dovrò rinchiudermi e scomparire”.

Ma quanti ne hai di questi scopamici?: “Due o tre  con cui periodicamente…non vario molto”. Facci sognare un attimo. Ma è vero che il vero orgasmo tu lo provi col sesso anale?: “Ho fatto un video che sta spopolando. Con la penetrazione in vagina arrivo al punto massimo dell’eccitazione, riesco anche a venire, però poi sento che c’è qualcosa che mi manca e quindi va completato l’atto. Se voglio avere l’orgasmo più completo e coinvolgente...lo devo prendere dietro, nel culo”.

Anche sul set riesci a provare orgasmi?: “Beh, devo dire che se ho un partner molto coinvolgente e non ci sono molte interruzioni, succede”. Una curiosità, ti piace il premier Conte?: “A me no, non arrapa. Ma ho un gruppo Telegram di ragazze, le Malenite. Ovviamente abbiamo il divieto di mandare foto hard e quant’altro. E devo dire che Loro sono tutte fans di Conte, ma tutte. Ogni volta che Conte fa un video, gli ormoni del gruppo esplodono a mille”.

·        Manila Nazzaro.

Verissimo, il dramma di Manila Nazzaro: "Il tumore quando ho scoperto che il mio ex aspettava già un altro figlio". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2020. Un'intervista toccante, drammatica, quella di Manila Nazzaro a Verissimo, il programma di Silvia Toffanin in onda su Canale 5 sabato 17 ottobre. L'ex concorrente di Temptation Island ha raccontato un momento molto difficile della sua vita, dalla separazione dall'ex marito, Francesco Cozza, alla malattia. "Ho scoperto un carcinoma all'utero", ha rivelato. Una malattia che la ha colpita "quando ho scoperto che lui", il suo ex marito, "aveva avuto un altro figlio. Ho scoperto di avere un principio di carcinoma all'utero. La prevenzione mi ha salvato. Ho perso anche il lavoro a Mezzogiorno in Famiglia. Il 2017-2018 è stato un anno durissimo. L'ho superato grazie ai miei figli e al mio compagno Lorenzo Amoruso. Ora sono felice, mi ha chiesto di sposarmi", ha raccontato. Sulla separazione, con occhi lucidi, ha spiegato: "Quella con Francesco è stata una storia molto bella, sono nati due bambini. Tutto accade per un motivo. Il momento più doloroso è stato realizzare che in realtà c'erano tante bugie alla base. Sono stata male, nel 2016 il giorno del mio compleanno lui non venne e io l'ho lasciato. Poi ho scoperto che mentre eravamo in fase di separazione, lui aveva avuto già un altro figlio". Insomma, un momento davvero difficile, drammatico, ma che ora Manila Nazzaro è riuscita a mettersi alle spalle.

·        Manlio Dovì.

Stefano Bini per “Libero quotidiano” il 23 giugno 2020. Manlio Dovì, classe 1964, è stata una colonna del Bagaglino. Uomo di destra, satira pungente e gran cultura, a Dovì si devono le storiche imitazioni di Cossiga, Carlo d'Inghilterra, Sgarbi, Fassino e, di recente, Giuseppe Conte. In teatro, ha trovato la sua nuova dimensione. In ottobre ritorna con la commedia La stranissima coppia, insieme a Patrizia Pellegrino.

Stranamente non imiterà nessuno, in che ruolo la vedremo?

«In realtà, mi è stata sempre un po' stretta l'etichetta d'imitatore e, quando ho potuto, ho cercato di farlo come un attore che si cala nella parte di un personaggio immaginario. Ricordo che in un articolo, il compianto Beniamino Placido, scrisse di me "Dovì non imita solamente voce e gestualità dei suoi personaggi, ne ruba l'anima!". In questa commedia cinica e divertente, il regista Diego Ruiz mi ha affidato il ruolo di Diego, un cinquantenne divorziato che, nonostante le delusioni prova ancora a ricorteggiare una donna con tutti gli inconvenienti del caso. Non vedo l'ora!».

Lo spettacolo sarà al Manzoni di Roma, vicino al delle Vittorie dove nel 1986 esordì con Fantastico di Baudo.

«Esatto! Quando allora si facevano i provini, che erano banchi di prova durissimi con signori autori come Broccoli, Torti, Zavattini e via dicendo. Un grande show e, in cuor mio, ero sicuro che stavo partecipando ad uno spettacolo irripetibile, la storia mi ha dato ragione».

Dal Bagaglino alle ospitate, dai film alle commedie teatrali, ha ancora sogni nel cassetto?

«Il mio cassetto è sempre pieno di sogni! Sogno di fare mille film, commedie e canzoni. Non nascondiamoci dietro una maschera, anzi, visto i tempi, una mascherina. Un attore vorrebbe fare e immaginare tutto. Massimo Dapporto, mi raccontava, durante le riprese di 365 giorni all'alba che, da piccolo, si faceva le interviste da solo. Per cui si vive in un mondo parallelo, forse anche di pura fantasia, lo ammetto, ma a volte più vero e affascinante di quello reale».

Com' è stato l'isolamento?

«Sono uno scarsissimo fruitore e frequentatore di social, non me ne vogliano gli influencer, e cerco d'impegnare il mio tempo diversamente. Per esempio, in questo periodo di isolamento forzato, ho accettato di leggere una videofiaba per i bambini costretti a stare a casa, e l'ho fatto a modo mio, e cioè curandomi di tutto: regia, soggetto, dialoghi, disegni, musiche e naturalmente voci. Speriamo piaccia!».

Come pensa si metterà in moto lo showbusiness e cosa si augura per il futuro dell'Italia?

«Vorrei vedere più arte, creatività all'insegna del buongusto e comunicatività, meno ripetitività ed ovvietà. Soffro come tutti questo decadentismo culturale, come se la nostra storia fosse cancellata. Mi mancano i De Sica, i Monicelli, i Moravia e così via...».

Non ha mai nascosto di essere un attore di destra. In passato gliel'hanno fatto pesare o è filato tutto liscio?

«Quando decisi di intraprendere questa carriera mio padre mi disse: "vuoi fare l'attore? Bene, sappi che è difficile. E poi, dimmi: sei di sinistra?". Risposi di no e lui controbattè con un sonoro "Allora è doppiamente difficile". Ed anche Florestano Vancini, per il quale ho avuto l'onore d'interpretare il protagonista del suo ultimo film E ridendo l'uccise, mi confessò che trovò mille difficoltà proprio perché non ero "schierato" dalla parte giusta. In realtà, la sinistra ha sempre sfruttato tutti i settori dell'intrattenimento e della comunicazione, coccolando i propri "pupilli" (non me lo sono certo messo in braccio io Berlinguer), con l'incomprensibile pretesto che la cultura sia di sinistra, e chi non lo è si ritrova a gareggiare, in Formula 1, con i go-kart».  

·        Manuela Arcuri.

Anticipazione da “Oggi” il 17 giugno 2020. Ha “congelato” la carriera per il figlio Mattia («È il mio tutto») ma ora è pronta a tornare in tv e con un ruolo «da cattiva». Lo dice Manuela Arcuri in un’intervista che OGGI pubblica nel numero in edicola da domani: «Se c’è una cosa che la maternità mi ha regalato, è proprio la capacità di organizzare il tempo. Ho acquisito un ordine mentale che prima non avevo. Programmo tutto e facendolo riesco a vivere al meglio quello che faccio. So che saprò lavorare senza far sentire la mia assenza». Che ruolo vorrebbe interpretare nel prossimo film? «Quello della cattiva. Mi piacerebbe mostrare un altro registro», dice. E alla domanda se non sia più facile continuare con ruoli “da bonazza” risponde: «Potrei ancora farla, ma ci sono giovani attrici ben più belle di me. Alla mia età rischierei di sembrare ridicola, non crede? Sono sempre stata felice della mia fisicità, e ho anche sempre ammesso che è stato un bel biglietto da visita, ma credo proprio che ora i registi per i ruoli sexy sceglierebbero altre». E del compagno, Giovanni Di Gianfrancesco, dice: «Sposarmi resta uno dei miei sogni e lo faremo. Giovanni è l’uomo della mia vita, ma ci siamo sentiti una famiglia fin da subito, senza fede al dito».

Anticipazione da “Verissimo” il 14 novembre 2020. In un’attesa intervista, Manuela Arcuri racconta per la prima volta in tv, a Verissimo, la sua verità in merito alla sua storia d’amore con Gabriel Garko: “Forse sono caduta anch’io nella rete di qualcosa di organizzato a tavolino. Non so se per lui sia stata una storia finta, ma per me è stata vera. Sentendo le sue dichiarazioni mi viene da pensare che forse anch’io sono una vittima e mi dispiacerebbe tantissimo. Anni fa – prosegue - abbiamo avuto una relazione durata qualche mese e non posso dire fosse una cosa falsa e organizzata. Ero innamorata e tra noi c’era una grande attrazione fisica, ci piacevamo tantissimo. È durata poco, però per quel breve periodo lui era il mio fidanzato: per me è stata una storia vera”. In merito al coming out di Gabriel Garko, l’attrice confessa: “Non mi ha mai detto nulla, c’erano delle voci, avevo forse dei dubbi, ma non ho mai avuto certezze. Con me non si è mai aperto e forse ha sempre mantenuto una maschera fingendosi eterosessuale. Immagino quanto abbia sofferto, nascondersi sempre non dev’essere stato facile e mi dispiace tantissimo. Non ci sentiamo da un po’ di tempo, l’ho cercato durante il lockdown ma non sono riuscita a parlagli. Forse perché già stava cominciando a pensare di dire la sua verità e si sentiva un po’ in difetto nei miei confronti”. A Silvia Toffanin, che gli chiede se tornerebbe a lavorare con Garko, rivela: “Certo che lo farei. Mi dispiacerebbe se mi avesse preso in giro per apparire quello che non era, ma sono passati tanti anni. È stato il mio collega più fedele. Abbiamo lavorato tantissimo insieme e per me non è cambiato niente. Tornerei a recitare con lui con una verità in più”. Manuela Arcuri parla poi anche del suo passato professionale con il mondo Ares: “Lavorando con loro ho solo avuto benefici. Mi hanno dato tantissimo, sono stati come una famiglia, erano delle persone che ti davano consigli, che ti aiutavano e ti indirizzavano: mi hanno fatto solo del bene e non posso dire niente di male. Li ringrazierò per sempre, persone meravigliose e generosissime. Mi hanno trattato come una star, ma trattavano tutti allo stesso modo, ospitavano gli attori in questa casa meravigliosa e non gli facevano mancare niente. Mi dispiace sentire dopo anni queste cose: perché queste cattiverie non sono state dette nel periodo d’oro ma sono uscite solo ora quando l’Ares è finita? Questa cosa non mi va giù. Tra me e Alberto Tarallo è rimasta una bellissima amicizia e lui è molto amareggiato per quello che ha sentito. Non riesce a capire il motivo di tutta questa cattiveria e non riesce a spiegarsi la non riconoscenza”. Sulle parole di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra dette nella casa del Grande Fratello Vip, dichiara: “Li ho conosciuti durante le mie ultime fiction, ho lavorato con loro e penso sia grazie ad Ares se hanno avuto la possibilità di andare al Grande Fratello. Quando li ho frequentati sul set mi sembravano persone felici della loro carriera e di quello che stavano facendo, non ho visto nessun malessere”.

·        Mara Maionchi.

"Come mai in Rai ci sono tanti gay?". E Mara Maionchi si infuria con il marito. Baruffa social tra Mara Maionchi e suo marito Alberto Salerno per le parole scritte dal produttore su Facebook e poi cancellate dopo la "ramanzina" pubblica della Maionchi. Novella Toloni, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. "Gay: argomento eliminato. Se tutto va bene mi restano: l’ippica e lo yoga", così ha replicato Alberto Salerno alla polemica scoppiata, poco prima, in seguito a un suo post provocatorio duramente criticato dal popolo del web sui gay. Anche la moglie Mara Maionchi, nota producer musicale e amatissimo giudice di X Factor, lo ha ripreso pubblicamente, invitandolo a rimuovere il post. Peccato però che tutto fosse già stato immortalato (con tanto di screenshot) dal sito Gay.it. A scatenare la bagarre sul web un post provocatorio pubblicato sulla sua pagina Facebook dal produttore discografico: "Ma com’è che su Rai Uno ci sono un sacco di gay? Che è cambiato qualcosa?". Una considerazione personale che ha sollevato un vero e proprio polverone, con tanto di richiesta di scuse da parte delle associazioni vicine alla comunità LGBTQ. Ad alimentare la polemica sono stati non solo i tweet e i commenti indignati degli internauti, ma anche la secca risposta del portale Gay.it alle parole di Salerno. È stato lo stesso sito a pubblicare le parole scritte dal produttore su Facebook (e i successivi chiarimenti all'indignazione dei follower), anche dopo che queste sono state rimosse. Lo scontro peggiore si è però consumato tra le mura domestiche. Poco dopo aver scritto il post Facebook, infatti, la moglie Mara Maionchi si è duramente scagliata contro il compagno, minacciandolo di cancellargli tutti i profili: "Ma cosa cazzo dici, ti tolgo i social!". La bacchettata pubblica inferta virtualmente da Mara Maionchi al marito ha prodotto l'inevitabile post di scuse, giunte in serata e pubblicate da Salerno sul suo profilo (post poi rimosso). Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, la replica di scuse recitava: "Nella mia vita ho avuto modo di conoscere tanti gay, alcuni molto talentuosi e intelligenti, alcuni dei veri signori, altri meno. La nostra casa non ha mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ora che io, per uno stupido post, debba sentirmi accusare di essere omofobo non mi fa incazzare, mi procura un grande dispiacere e per questa sera la chiudo qui". Dopo la cancellazione del post, però Alberto Salerno è tornato sui social network per togliersi qualche sassolino dalla scarpa per la censura ricevuta: "Politica: argomento eliminato, Extracomunitari: argomento eliminato, Rom: argomento eliminato. Gay: argomento eliminato. Se tutto va bene mi restano: l’ippica, la scuola di cucito e ceramica, i corsi yoga, il cibo e la musica. Opterei per le ultime due cose se è ancora consentito".

Dal Corriere della Sera il 2 luglio 2020. Questa volta non gli ha lanciato un piatto di peltro (che per la cronaca, ai tempi, regalò al consorte un ematoma a forma di ariete). Ma il siluro è arrivato lo stesso, via Twitter: otto parole con cui Mara Maionchi ha messo una pietra tombale sull'infelice uscita del marito Alberto Salerno a proposito di una presunta lobby gay su Rai Uno: «Ma cosa cazzo dici, ti tolgo i social!». Il resto se lo vedranno da soli in casa, come hanno fatto in quasi quarantaquattro anni di matrimonio, cento, mille, un milione di liti, urlando come pazzi, senza risparmiare parolacce e insulti. Ma non poteva non intervenire in pubblico l'ex giudice di X-Factor e di Italia' s Got Talent , icona della schiettezza e peraltro già testimonial per Gay Help Line di uno spot contro le malattie sessualmente trasmissibili: una che alla comunità LGBT è vicina. Il pasticcio, però, lo aveva fatto il marito, «ex autore di canzoni, ex produttore, ex editore, ex discografico, ora coltiva la passione per la cucina» (è la sua bio su Twitter). Il paroliere di titoli entrati nella storia della musica italiana, dall'Isola di Wight a Io vagabondo , da Terra promessa a Donne, due giorni fa su Facebook aveva chiesto: «Ma com' è che su Rai Uno ci sono un sacco di gay? Che è cambiato qualcosa?». Per poi lasciarsi andare a commenti del tipo: «E poi dicono che la lobby gay non esiste»; «Non si può più manco parlare? Osare dire una cosina?»; «Me ne sbatto i c... è la verità». Sul sito Gay.it ci sono ancora gli screenshot . Uscite indifendibili. Di qui la replica (pubblica) di Mara, cui immaginiamo sia seguita una gragnuola di improperi (privata). Perché per capire la natura del sodalizio tra i due basta leggere Il primo anno va male, tutti gli altri sempre peggio , che la coppia ha pubblicato nel 2016 con Baldini+Castoldi. Un matrimonio di pane, amore e musica profetizzato da un consulto astrologico e cementato da due figlie, Giulia e Camilla, e tre nipoti, Nicolò, Mirtilla e Margherita. Un legame non immune al tradimento, scoperto dalla più banale delle ricevute d'albergo dimenticate nel taschino. Quanto basta per far dire a lui: «La colpa è di Mara. Non è corretto rovistare tra le cose di un uomo». Ma il vero deterrente, da lì in poi, non fu l'essere stato scoperto, quanto ciò che ne seguì. «Mara ce la mise tutta per rendermi la vita difficile. Mi dissi che, se per un'avventura di una notte, senza alcuna importanza, me la doveva far pagare tanto a lungo, allora mi conveniva esserle fedele». Anche l'ironia li ha tenuti insieme. Sul Corriere lei ammise: «Io lavoro tutto il giorno, lui è un nullafacente felice». Il dubbio, a onor del vero, venne anche alle maestre di Giulia quando raccontò: «Mamma esce ogni giorno e va a lavorare, invece papà non fa niente perché è sempre a casa». Vai a spiegare che aveva appena vinto Sanremo con Eros Ramazzotti. Qualcuno, ora, tenta di smorzare le uscite su Facebook dicendo che il profilo era privato e quelle frasi non sarebbero dovute diventare pubbliche. E qui viene in soccorso Mara, in chiusura del libro già citato: «Salerno dice un sacco di cazzate, sostiene di saperci fare con tecnologia e balle varie, ma secondo me non ne capisce nulla».

·        Mara Venier.

Anticipazione da “Oggi” il 14 ottobre 2020. «Non mi rendo ancora conto di essere arrivata a 70 anni, dentro mi sento sempre una ragazza di 30. Sono serena, non ho mai basato la mia vita sull’avvenenza. Ed essere nonna è la cosa che più di tutte mi riempie d’orgoglio. Niente mi ha dato gioia, nella vita, come quelle due sillabe lì, “non-na”, pronunciate dai miei nipoti Giulio e Claudio». Mara Venier festeggia i suoi primi 70 anni sulla copertina di OGGI, in edicola da domani. E, dopo aver ripercorso le tappe della sua vita e della sua carriera, dalle colonne del settimanale fa una promessa al marito Nicola Carraro: «Nicola, ti giuro che questa è la mia ultima Domenica In. Dall’anno prossimo sono tutta tua».

Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per la Repubblica il 17 ottobre 2020. «Sono settanta, e non me li sento. Sono rimasta la hippy di Campo de' Fiori, il posto delle fragole. Ma non è un periodo facile, ho paura del Covid. Non potrò festeggiare, quanti bisogna essere a casa? Sei? Otto?». Il 20 ottobre Mara Venier compie 70 anni: da Mestre a Roma, dal cinema («Non ho lasciato il segno»), alla tv, primadonna a Domenica in. Non è pronta per la pensione, ma ripete: «È l' ultimo anno».

Mara, lo dice tutti gli anni.

«Ha ragione ma stavolta è vero, penso seriamente di lasciare. Lavoro da una vita, ho un' età e voglio dedicarmi a Nicola (Carraro, il marito, ndr). Quest' anno con l' emergenza Covid è uno stress: lo studio vuoto, la paura di ammalarmi. Stiamo vivendo un periodo complicato».

Torniamo indietro: l' arrivo a Roma?

«A vent' anni, per separarmi dal mio ex marito(Francesco Ferracini, ndr) che voleva fare l' attore e m' aveva lasciato a Mestre con una figlia di due anni senza un soldo. Prima abitavamo a Venezia, dove papà vendeva la frutta a Rialto, poi fu assunto nelle Ferrovie e ci siamo trasferiti. Una tragedia per mia madre. Con i primi soldi volevo comprarle una casa per riportarla a Venezia, ma non ha voluto: "Troppi ricordi"».

Pensare che Berlusconi le chiese di candidarsi sindaco di Venezia.

«La vita è incredibile». (...)

Cenerentola senza principe. Almeno all' inizio.

«Sposata a 17 anni, poi nozze con Jerry Calà per allegria. Avrei voluto sposare Arbore, ma non ci ha mai pensato. Poi è arrivato Nicola, l' amore della vita. Mi sono fatta da sola, ho cominciato col cinema per sbarcare il lunario, senza credere in me».

E il negozio di abiti usati a Campo de' Fiori?

«Si chiamava "Il tempo perso", per fare il verso a Giorgio Sammartin, che a Piazza Farnese aveva aperto la libreria "Il tempo ritrovato". Tutti intellettuali di sinistra, il padre di mio figlio Paolo, Pier Paolo Capponi, Gian Maria Volontè. La mia grande amica era Gabriella Ferri. Io mi sentivo sempre un po' fuori posto».

Difficile credere che fosse timida.

«Giro Testa o croce con Pozzetto e Manfredi, Nanni Loy mi manda a promuovere il film a Domenica in con Nino. In studio scena muta. Alla fine Baudo chiede: "A chi fate gli auguri di Natale?". E io nel panico: "Al presidente Pertini". Pippo saluta Manfredi: "Bella la Venier, peccato non parli».

Le ultime parole famose.

«Nei dodici anni con Arbore ho capito che la tv è improvvisazione e divertimento. Ringrazio Maria De Filippi perché con Tú sí que vales mi sono liberata: ero me stessa. E sono tornata a Domenica in davvero libera: sono quella che sono, non ho più niente da perdere. Ho vissuto nove vite, con dignità. In amore poco fortunata».

Cosa voleva?

«Il matrimonio. Mi commuovo ancora quando Nicola dice "mia moglie". Quando mi corteggiava ero un po' impaurita, voleva farmi conoscere la famiglia a palazzo Rizzoli: "Sei sicuro? Guarda che sono una pesciarola". All' inizio non è stato facile ma dopo vent' anni siamo ancora qua, più uniti che mai. Mi ha presa per quella che sono, gli altri volevano cambiarmi. Renzo non accettava il mio modo di essere».

Era geloso?

«Altroché. Adoravo Sean Connery, un' amica organizza una cena con lui. Arbore era in tour, lo chiamo: "Vado dal mio idolo". Gelo: "Se esci mi arrabbio". E io, scema, non sono andata. Dopo due mesi ci siamo lasciati. Nicola giocava a golf con Connery, e mi invita. Non m' importava più». (...) 

Da "liberoquotidiano.it" il 12 ottobre 2020. Simpatia e un po' di imbarazzo tra Mara Venier e Renzo Arbore. Il grande musicista e presentatore pugliese è stato ospite a Domenica In e il siparietto con la padrona di casa, di cui è stato un grande amore e compagno per molti anni, ha divertito i telespettatori. "Ti ho sentito con Maria De Filippi che hai raccontato un fatto personale", l'ha pizzicata Renzo riguardo al fatto di aver trascurato un po' Mara in certe fasi della loro relazione. "Ma è vero che ogni tanto ti dimenticavi di me. Hai sempre detto ‘due passi indietro’ a una donna", gli ricorda la Venier. Arbore è evidentemente imbarazzato, e quando invita la sua ex a cambiare discorso lei lo stuzzica ancora: "Tu sei sempre stato un grande signore. Ma perché ci siamo lasciati?". Mistero. Gran finale con l'ultima battuta di Mara: "Complimenti, sei sempre abbronzato...". MI sono auto-truccato, in Rai non c'è trucco e parrucco".

Mara Venier, la confessione del marito Nicola Carraro: "È ossessionata, mi sveglia alle 6 per farlo". Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. Mara Venier, questa volta parla il marito. Nicola Carraro, un’intervista concessa a Nuovo, ha raccontato tutti i dettagli della sua relazione con la conduttrice di Domenica In. “Quando la vidi, mi ricordai che anni prima Jerry Calà mi aveva detto che sapeva cucinare bene pasta e fagioli - ha esordito il produttore cinematografico -. Così glielo dissi. Mi guardò malissimo e le restai antipatico per il resto della serata“. L'antipatia però sembra essere durata ben poco visto che dopo i due si sono sposati: “Mara è una donna irripetibile e meravigliosa e la amo come all’inizio“, ha continuato per poi rivelare l'ossessione della moglie: “Mara mi tormenta con le pulizie di casa. Mi sveglia alle 6 per farlo. Non gliene importa nulla se io ancora sto dormendo. Spesso prepara il pranzo addirittura alla nostra colf!“. Insomma, la Venier non si ferma mai, proprio come in tv.

Da "Libero Quotidiano" il 6 agosto 2020. Mara Venier inarrestabile. La conduttrice di Domenica In, nonostante i numerosi successi, non evita di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. "Chi avrebbe mai potuto dirlo? Mi avevano rottamata, detto esplicitamente che ero vecchia. Vale per tutto quello che mi è accaduto, non bisogna mollare, la rivincita arriva sempre. Ma ho passato l’inferno, inutile girarci intorno”, tuona in riferimento alla Rai in una lunga intervista al settimanale Oggi. Poi la Venier ricorda i difficili momenti trascorsi durante il coronavirus. La pandemia l'ha costretta anche a fermare la diretta: “Era sabato pomeriggio quando ho deciso. Avrei avuto 13 ospiti in studio e un’intervista a Sileri che però era risultato positivo. La settimana prima ero stata da Vespa con Nicola Zingaretti, non me la sono sentita. Il mio avvocato ha chiamato Stefano Coletta e gli ha detto "Mara non se la sente, ha paura". Ha capito”. Ma il ritorno in studio non si è fatto attendere: “Ci ho pensato un po’, ho chiesto tutte le garanzie di sicurezza possibili e poi ho detto sì. Io devo tanto al mio pubblico, non potevo sottrarmi in un momento così delicato. Avevo già in mente l’intera puntata, come arrivare al cuore della gente”. Ed ecco fatto, visto lo share pare che la conduttrice ci sia proprio riuscita.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 27 giugno 2020. A pochi minuti dall'uscita di scena di un ospite importante, il fisioterapista, e a una manciata di ore dall'arrivo di un invitato ancora più di pregio, il nipotino Claudio (detto Iaio), Mara Venier risponde al telefono con la voce di una leonessa in gabbia: «Sto a letto, e dove dovrei stare?», ruggisce, la tv in sottofondo e il marito Nicola Carraro che ridacchia da lontano. «'Sto cuboide fa un male cane, è l'osso che tiene su tutto. Speriamo che mio nipote non ci salti sopra». Vittima a fine maggio di una caduta dalle scale, che non le ha impedito di saltare una sola domenica in diretta, domani Venier chiuderà l'edizione di Domenica In più fortunata delle ultime stagioni, con punte del 22% di share.

Come sta?

«Insomma. Devo stare ferma a letto per altri dieci giorni, poi ho sei settimane di recupero con le stampelle. È una brutta frattura. Mi muovo solo per Domenica In, ma è una faticaccia. Ho attico e superattico: la casa è bellissima, ma è piena di scale».

Non le conveniva restare a letto?

«Solo il covid mi ha fermata per una settimana».

Chi le ha fatto cambiare idea?

«Fabrizio Salini (l'ad Rai, ndr) mi ha chiamata e mi ha detto: ora tu sei la Rai. Mi ha convinta, ma avevo paura perché mio marito ha problemi ai polmoni. Tornavo a casa dopo il programma e mi spogliavo sul pianerottolo. Entravo nuda in bagno, ho preso tutte le precauzioni. È stata dura. E poi cado dalle scale. Potevo fermarmi? No? Col cavolo. Una frattura non è nulla in confronto a una pandemia.».

Lei, Carlucci, Clerici: tutte le soldatesse Rai sono nate tra gli anni '50 e '60. Cosa avete in più?

«La verità è che crescendo si migliora. Il treno giusto per me è passato a 42 anni, quando ho iniziato con la tv».

Il tetto ai compensi non scoraggia i giovani?

«Io non ho mai fatto una questione di prezzi e infatti credo di essere la meno pagata in azienda. I giovani non devono guardare al denaro, ma alla qualità: se il programma è interessante, la chance va presa al volo. Anche gratis».

Lei ha mai lavorato gratis?

«Una volta mi hanno pagata con pomodori, olio d'oliva e mozzarelle. Era un programma carino, si chiamava Di che pasta sei: soldi non ce n'erano, provvedeva lo sponsor. Però è stato il programma che mi ha insegnato a fare le interviste».

Delle giovani chi le piace?

«Delogu ha carattere e personalità. Fatima Trotta ha ritmo, è ironica. Non mi faccia dire di più che poi mi odiano».

Si è fatta molti nemici?

«Qualcuno. Ma alla mia età sono stufa di combattere contro le persone che ti accoltellano alle spalle. Li vedo e li allontano. Chi mi fa del male lo caccio».

Le è capitato di recente?

«No, il gruppo me lo sono scelto bene».

E per valorizzare Venier? Un Sanremo al femminile?

«Chissà. Prima o poi lo faranno. È già successo con Raffaella Carrà, Simona Ventura e soprattutto Antonella Clerici. Il suo Sanremo è stato un successo clamoroso. Ecco, con lei farei volentieri qualcosa».

Per le donne è ancora difficile emergere?

«Dobbiamo faticare il doppio per imporci, ma rispetto a prima è meglio. Ora ci sono donne che hanno incarichi importanti».

Una se n'è appena andata dalla Rai, Tinny Andreatta: che ne pensa?

«Sono molto dispiaciuta. Non ne ha mai sbagliata una».

Venier dirigente: ci si vede?

«No, non mi vedo in ruoli di potere, sono poltrone troppo pesanti. Credo che finirò con Domenica in e poi arrivederci».

Mi sta dicendo che dopo la prossima Domenica In lascia?

«Ma quanto volete farmi lavorare? Io la mia bella soddisfazione me la sono già presa quest' anno, e mi basta. Alla faccia di chi mi aveva mandata via dicendo che ero vecchia».

Adesso, uno sfizio. Quale?

«Un'altra casa. Ho la più bella terrazza di Roma, amo il centro, ma ora vorrei abitare in un posto più tranquillo, per godermelo col mio amore. Domenica sarà il nostro anniversario di matrimonio».

Cinema?

«Claudia Mori diceva di avere una fiction per me, tratta da una serie di libri gialli. Purtroppo non mi ricordo il nome. Ma come facevo con Domenica In? Mi piacerebbe un film con Ferzan Ozpetek. Siamo amici. In una vita precedente siamo stati marito e moglie. O fratello e sorella».

Come sarà la prossima Domenica In?

«Avevo pensato di rifare il gruppone, come le mie prime edizioni. La prossima settimana cominciamo le riunioni, qui a casa mia. Non ho ancora le idee chiare, anche se una cosa l'ho capita: il format sono io. Mi piacerebbe avere dei compagni di viaggio, non un cast fisso ma amici con cui condividere qualche domenica. E manterrò le interviste».

Chi vorrebbe con lei? Almeno un nome.

«Stefano De Martino, una vera rivelazione. Lui lo voglio».

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” l'11 maggio 2020. Mara Venier galoppa verso la fine di una stagione bellissima ma faticosa di Domenica In, su Raiuno. Risate, interviste, gaffe memorabili, ma anche puntate senza pubblico e senza abbracci. Ieri pomeriggio in diretta la conduttrice ha confermato i rumors: «Il direttore di rete Coletta e il direttore generale Salini hanno chiesto di andare avanti fino al 28 giugno. E allora se tutto va bene noi saremo con voi fino al 28 giugno».

Il Covid ha segnato questa edizione. Secondo lei, il peggio è passato?

«Mah, dobbiamo vedere questa riapertura come va. Sono trepidante in attesa delle due settimane, che sono molto importanti. Siamo in una fase molto delicata dove dobbiamo essere responsabile di noi stessi e per gli altri. Esco pochissimo, solo la domenica, e c' era pochissima gente».

A Milano, invece, sono tutti fuori.

«Me l' hanno detto. Invece bisogna essere attenti. Se salgono i contagiati, richiudono tutto. Sembra che le cose vadano meglio, qualcuno dice il virus ha perso la forza di prima».

Lei si è fermata una sola domenica.

«Quella famosa in cui è scoppiato tutto. Il vice ministro Sileri era risultato positivo, dovevo averlo ospite, mi sono molto spaventata. Avevo tredici persone in studio. Da quella giornata gli ospiti in studio non ci sarebbero più stati. Ho pensato sinceramente di fermarmi. Poi, parlando, con il direttore di rete Coletta e il direttore generale Salini, ho cambiato idea. Mi hanno dato la forza di tornare. Ero molto spaventata per me, faccio parte dell' età a rischio. Ho fatto una puntata sugli abbracci che ha fatto piangere mezza Italia. Ogni due per tre mi si stringeva un nodo in gola e mi veniva da singhiozzare. Non era la difficoltà di non avere più gli ospiti e l' orchestra. Sull' improvvisazione sono forte, è cosa mia. Era la paura. Lo shock».

Come si lavora in tv in epoca di Covid?

«Mascherina e guanti, addio trucco, parrucco, sarta. Niente. Vado in onda così».

C' è qualcosa nella gestione del virus che l' ha fatta arrabbiare?

«No, mi rendo conto delle difficoltà, mi dispiacciono le polemiche con la regione Lombardia dove è arrivato uno tsunami, ora bisogna andare avanti e stare uniti. Poi, certo, le mascherine che non si trovavano, qualche problema c' è stato. Ma abbiamo dimostrato che noi italiani siamo un grande popolo. Da Nord a Sud, siamo stati tutti solidali e responsabili, uniti e compatti. Chi si aspettava una cosa così?».

Tra i virologi super star, chi segue di più?

«Tutti, non dimentichiamo che all' inizio alcuni dicevano che in Italia non arrivava e le mascherine non servivano. A Domenica In il prof. Le Foche parla chiaro e non va da nessuna parte se non da me. Personalmente ho vissuto male la lontananza dal nipotino, sono scoppiata in lacrime il giorno di Pasqua. Non voglio entrare in polemica con la professoressa Capua, ma quando ha detto che tra nonni e nipoti il rapporto non sarebbe stato più lo stesso, ci ha fatto molto male».

Secondo lei ne usciremo migliori? Secondo alcuni filosofi e psicologi, no.

«Questi due mesi e mezzo hanno indebolito e infragilito tutti. Siamo segnati per sempre. Non so se ne usciremo migliori. Come vivremo? Gli anziani, i nonni che sono a casa da soli, sono i più fragili. L' amore dei nipoti a volte prevale sui figli. Il mio Giulietto l' ho visto con mascherina, a distanza. Si è messo sul divano e mi ha detto: "Nonna mia, qui!"».

Un nonno si è suicidato.

«Anche un commerciante di Napoli, 56 anni, che non vedeva spiragli. L' economia è in una situazione tragica».

In questo momento riesce a fare progetti o è tutto azzerato?

«Io non riesco».

Non fa piani neppure per la prossima stagione televisiva?

«Non ci penso, non penso a nulla. Il mio contratto con la Rai scade nel mese di maggio. Abbiamo deciso le cose giorno per giorno. Il prossimo anno? Vedremo. Questa è stata stagione fortunata, Domenica In è entrata nel cuore. Ringraziando Iddio, anche questa nuova versione così difficile, così complicata, funziona. Mi siedo e penso: come farò adesso, che mi invento? Devo dire che gli ospiti, tutti amici, sono stati generosissimi».

Neppure con suo marito Nicola Carraro pensa al futuro?

«Nicola ha avuto una polmonite molto grave a dicembre. Era a Santo Domingo. Ha cominciato con febbre, poi è andato in ospedale. Il professore del Gemelli ha visto la lastra, ha detto che era grave. Facevo Domenica In ed ero distrutta. Ma lui ce l' ha fatta, l' ha superata. È tornato a Roma prima di Natale e siamo andati al Gemelli. Ma adesso, con il senno di poi, penso: non è che ha avuto il coronavirus?»

Crede che sia plausibile?

«Non si capisce quando è arrivato. Alcuni professori mi hanno detto che a novembre c' erano già tanti casi di brutte polmoniti. Dopo tanto tempo, dunque, io e mio marito viviamo una quotidianità diversa. Per fortuna abbiamo la casa su due piani (ride,ndr). Io non faccio altro che cucinare e mangiare, ho preso otto chili, ma me ne frego. Prego tanto».

La irrita il fatto che le messe siano state bandite per molto tempo?

«Non critico nessuno, non è facile la gestione. Mi risulta che in alcuni posti ci siano sempre state. Ho amici a Torino che regolarmente vanno a messa in una piccola chiesa con poche persone. Penso che piano piano si possa aprire, magari ricevendo la comunione con i guanti».

Cosa pensa della questione "affetti stabili": i parenti di sesto grado si possono vedere ma gli amici no.

«Personalmente, quando vedo figli e nipoti, va bene così. Per ora non ce la sentiamo ancora di vederci con gli amici. Ho proposto di farci tutti insieme il tampone, così tra "tamponati" ci si può incontrare».

Suo marito ha fatto una battuta sui social. Ma è vero che vi volete risposare?

«Ma no. L' idea era quella di fare un anniversario a Santo Domingo, una bella festa con tutti gli amici. Va bene così, bisogna avere i piedi per terra. Nessun matrimonio caraibico».

 

Mara Venier prende a calci Staffelli dopo la consegna del Tapiro. La conduttrice ha ricevuto il premio simbolo di Striscia per il deepfake in cui prende a calci un koala, ma dopo la consegna ha provato a malmenare l’inviato. Novella Toloni, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Mara Venier è finita ancora una volta nel mirino di Striscia La Notizia. Questa volta però la protagonista della gaffe che le è valsa il Tapiro non era lei ma la sua sosia Francesca Manzini. L’ultimo deepfake realizzato da Striscia la Notizia su Mara Venier che prende a calci un koala (di peluche) ha fatto seriamente arrabbiare il popolo australiano. Valerio Staffelli ha così raggiunto la presentatrice - quella vera - per consegnarle di persona l’ennesimo tapiro. Negli scorsi giorni è andato in onda su Striscia lo sketch realizzato da Francesca Manzini, l’imitatrice rivelazione del talent “Amici Celebrities”, che fingendo di essere la Venier prende a calci un koala di peluche ed esclama: "Se ero un canguro te pigliavo a calci nel culoo. Mi ha preso un capezzolo, qualcuno se lo prenda". L’incredibile somiglianza fisica e vocale della Manzini con Mara Venier ha fatto il resto. In molti hanno infatti creduto che il deepfake del tg satirico di Ricci fosse la vera Mara Venier che “maltratta” un koala, scatenando le polemiche. La presentatrice, alla vista di Valerio Staffelli, ha subito precisato le cose: "Ma perché lo date a me?? Ma io voglio tanto bene a voi e voglio tanto bene agli animali, ma gli australiani mi vogliono ammazzare per colpa vostra, ricevo un sacco di messaggi. Ditelo che non sono io, è un deep, come si dice? È un deepfake!". La tecnica rivoluzionaria del deepfake (che mix sapientemente realtà virtuale e machine learning) proposta da Antonio Ricci nel suo tg satirico è una delle novità della stagione di Striscia e sta conquistando consensi tra il pubblico. Questa volta però ha messo nei guai la popolare conduttrice che, seppur in toni ironici, ha confessato di aver ricevuto messaggi minatori sui social. Dopo la consegna del Tapiro quando l'inviato ha fatto credere di aver spento le telecamere, Mara Venier si è voluta vendicare di Staffelli. "Abbiamo finito? Hai chiuso? Mi tenete la borsa" ha detto la conduttrice prima di prendere a calci Valerio Staffelli e provando a colpirlo con il premio. Un fuori onda tra il comico e il serio che è stato trasmesso interamente.

Intervista di Pierluigi Diaco a Mara Venier – “Io e Te Di Notte” – Rai Uno il 12 gennaio 2020.

VENIER: È bello essere qua a questa tarda ora. Un bacio a tutti (ndr saluta il pubblico).

DIACO: … Anche perché domani ti svegli come al solito alle 5 perché hai Domenica In.

VENIER: Devo dire che la domenica mi sveglio ancora prima... sono molto agitata la notte. Mi preparo la domenica mattina per cui a volte mi sveglio anche alle 4. Comincio a leggermi tutto. Non ho nulla di scritto... tu sai bene come lavoro Io! nel senso che mi preparo. Leggo tutto dell’ospite, ma non ho mai nulla di scritto. Non seguo un gobbo, non seguo un copione etc… cerco di avere più notizie possibili. E poi da quelle notizie, proprio come è tra noi due in questo momento, tutto esce fuori dal cuore, dalla pancia.

DIACO: La cosa che secondo me ti rende unica rispetto alle tue colleghe è che hai portato dentro la televisione  il tuo percorso di vita… hai vissuto la vita come un’avventura. Hai rischiato, hai preso porte in faccia, ti si sono riaperte, hai mantenuto una tua tempra. c’è la sensazione che l’avventura e il rischio ti accompagnino sempre. è così o no?

VENIER: Beh, io dico sempre che ho avuto tante vite diverse…penso di aver avuto come i gatti varie vite, vari periodi di vita. Il primo periodo è quello della figlia del ferroviere, di Toto. Una bambina senza grandi ambizioni, che abitava a Mestre nella casa dei ferrovieri. Non sono mai stata una donna ambiziosa, né da ragazza né adesso. Tutto è arrivato abbastanza per caso. Ma partiamo da quel periodo di vita che mi porta poi a Roma. A 16 anni mi innamoro di un ragazzo bellissimo di Venezia. Lui aveva grandi ambizioni, voleva fare l’attore. Mi sposo a 17 anni perché sono incinta di mia figlia Elisabetta… ti devo dire che son rimasta incinta e non sapevo neanche come si rimaneva incinta! A quest’ora si può dire? Sono capitata a Roma per amore. Lui aveva deciso di fare l’attore ed io sono partita per Roma per inseguire lui! Sempre l’amore… 

DIACO: in famiglia il tema dell’amore, dei rapporti interpersonali come l’hai vissuto? Che esempio sono stati i tuoi genitori?

VENIER: Beh, io ho avuto dei genitori molto comprensivi. Sai, in quegli anni lì - parliamo veramente di tanti tanti anni fa, parliamo del 68 - una ragazza di 17 anni che rimane incinta… io mi sono sposata, ma per sposarmi hanno firmato i miei genitori, cioè io da minorenne non avrei potuto scegliere di sposarmi, perciò hanno firmato loro. In seguito, dato che non è andata bene, in tanti mi hanno chiesto: “Ma perché non chiedi l’annullamento? Si potrebbe chiedere l’annullamento per vizio di consenso”. Ma questa è una cosa che non ho mai voluto… mi sono separata, divorziata, e ho cominciato altri capitoli della mia vita, però quello è stato il mio primo amore! Avevo 16 anni e mi sono innamorata perdutamente. Quell’amore mi ha dato la maternità anche se ero molto giovane… non ho pensato all’annullamento perché quel matrimonio è stato un matrimonio d’amore e anche se poi non è andato bene, non posso dimenticare quello che è stato il mio primo amore,  il papà di Elisabetta, che adesso non c’è più.

DIACO: (…) A proposito di Elisabetta, un’altra cosa che negli anni mi ha colpito ne nostro rapporto di amicizia è sentirti raccontare come sei riuscita, con meticolosità e facendo autocritica, a ricostruire un rapporto con i tuoi figli. avete un rapporto incredibile…

VENIER: Beh, c’è stato tanto lavoro per arrivare a questo. Nulla mi è stato regalato. C’è stato anche tanto dolore, però io credo che l’amore di una madre per i propri figli è talmente forte che magari si può anche discutere… Sai, sono diventata mamma a 17 anni per la prima volta e la seconda a 22…

DIACO: C’è stata un’amica all’epoca che ti è stata vicina, che ha condiviso con te questa fase o eri proprio sola?

VENIER: No, sono sempre stata sola! Nel senso che io ho una mia solitudine dentro di me. Si pensa che il successo possa colmare certe lacune, ma non è vero! Il successo ti può dare altre cose: l’amore, l’affetto del pubblico… però dentro di me, e credo che parta proprio da quel periodo della mia vita, c’è un velo di malinconia e solitudine che ancora mi accompagna. A volte lo nascondo bene e altre volte no, o perché non me ne frega niente di nasconderlo o perché se ho le mie malinconie, soprattutto se sono con gli amici  - e tu lo sai molto bene perché sei come un fratello per me -  non cerco neanche più di nasconderlo. Ce l’ho, alti e bassi.

DIACO: La tua solitudine è curiosa… dicevo in apertura che tu conosci il dono della compagnia come dice fossati…

VENIER: Ma io sono una compagnona! Mi diverto moltissimo con gli amici. Mi piace avere la casa piena di amici, cucino… questo c’è in me, però c’è anche questa vena di malinconia e questo senso di solitudine che io ho sempre avuto, sempre avuto! Per cui questi miei momenti li vivo pienamente, non cerco di nasconderli. Ognuno ha nella vita alti, e bassi. Io sono un essere umano, e anche se sono un po’ bionica perché lavoro troppo, non è che poi il lavoro compensa! Il lavoro va bene perché mi riempie la giornata, mi riempie la vita. Se poi le cose vanno bene hai l’affetto del pubblico, ma questo è un di più. Un programma di successo e il successo non ha mai colmato certe mie malinconie.

DIACO: Tra l’altro tu difendi e preservi (…) la tua solitudine è avvolgente. è una compagna per te, è una parte di te che ti fa compagnia?

VENIER: Sai, negli anni io ho cercato di colmare questo senso di solitudine pur avendo tutto…il lavoro, gli amori, i compagni di vita! Però questo è qualcosa di molto profondo che è radicato dentro di noi e quando stai così purtroppo nessuno ti può aiutare, ne esci lentamente, da sola. Poi improvvisamente mi sveglio la mattina… e per me è un po’ come aprire una finestra. Si ricomincia! Ricomincio, e ritorno alla vita!

DIACO: Questo che dici è molto profondo perché è un modo per essere grati all’esistenza. Siccome dopo parleremo di gratitudine voglio chiederti che rapporto hai con la mancata gratitudine altrui. Intendo dire, tu sei stata una che oltre ad amplificare il tuo talento, hai dato tante occasioni amplificando il talento degli altri…

VENIER: Sì, ancora adesso con Domenica In cerco di aiutare i giovani. Mae West, una famosissima attrice americana diceva: “Io la mia fetta di torta me la sono mangiata. adesso condividete quest’altra torta e mangiatela voi”. Io ho avuto molto di più di quello che potessi mai aspettarmi… e credo che noi che siamo arrivati, che abbiamo avuto sicuramente una carriera, dobbiamo in qualche maniera dare la possibilità ai più giovani di esprimersi. Io cerco di farlo. Nel corso della mia lunga carriera, ho fatto 12 Domenica in, ho dato tante possibilità a tante persone. È vero, alcuni mi hanno tradito e ci sono stata molto male, però vado avanti per la mia strada. Non ho rancori, non riesco ad averne.

DIACO: Non conosci l’invidia… dimentichi in fretta tu!

VENIER: No, non sono invidiosa. Io non sono mai stata invidiosa di nessuno… di che devo essere invidiosa? Io ho avuto talmente tanto e ho talmente tanto! Non conosco l’invidia e non conosco il rancore, ma riconosco alla lunga chi mi ha fatto del male. Ho perdonato, ho cercato di perdonare. Poi mi hanno rifatto del male, e allora a quel punto mi sono allontanata. Mi sono allontanata perché quando hai 20 anni, 30 anni, 40 anni butti tutto dietro le spalle, ma andando avanti con l’età diventi più vulnerabile, più fragile. Per cui, qualche anno fa, ho deciso di non permettere più a nessuno di farmi del male!

DIACO: E lo so bene! Mara, (…) so che hai un rapporto molto personale e anche molto pudico con la fede…

VENIER: Beh, io sono una che ha fede, magari non vado a messa tutte le domeniche però ti posso dire che quando avevo con me Don Mazzi a Domenica in, ogni domenica, e poi soprattutto a Natale e a Pasqua, facevo dire messa a Don Antonio. C’era una parte, la sala prove dove si esibivamo i ballerini, che di domenica diventava una piccola chiesa. Era un momento molto bello. Eravamo tutti, tutto il mio gruppo di lavoro, era davvero un momento di comunione. Eravamo tutti quanti lì, tutti insieme, tutti uguali… molto bello!

DIACO: Quando ti appelli a lui, alla provvidenza, ti capita più di ringraziare o di chiedere?

VENIER: Io chiedo solo per la salute delle persone alle quali voglio bene. Quello che più mi destabilizza, mi rende vulnerabile, mi manda in crisi… fuori di testa, è quando qualche persona alla quale voglio bene non sta bene. Ultimamente è successo che mio marito non è stato bene e son andata un po’ fuori di testa perché lui era lontano. Tu lo sai molto bene perché lo hai vissuto con me poche settimane fa. A quel punto una domenica dopo Domenica in sono andata nella mia chiesetta dietro il vaticano, e lì ho chiesto: “ti prego…”

DIACO: E Nicola sta benissimo… abbiamo passato domenica scorsa una serata insieme.

VENIER: Ci ha fatto morir di paura!

DIACO: Pochi giorni fa su instagram hai pubblicato la copertina di un mensile delle ferrovie di cui sei la protagonista. il ricordo è molto sentito perché tuo padre era un ferroviere.

VENIER: Sì, mio papà era ferroviere. Fare la copertina di quel magazine che mettono su tutti i treni, mi ha veramente molto commosso. Sono molto orgogliosa perché penso che papà essendo ferroviere ne sarebbe molto orgoglioso, no?

VENIER: Quanto era bella mamma, eh? Un’attrice…

DIACO: Devo dire di una bellezza incredibile! che rapporto aveva tua mamma con la bellezza?

VENIER: No… io provengo da una famiglia molto modesta. Mamma era sarta quindi sono cresciuta con la sua macchina da cucire. Faceva le divise per i ferrovieri, e quando faceva delle modifiche mi chiedeva di andare a fare le consegne perché abitavamo nelle case dei ferrovieri. Mi diceva: “Vai, consegna il pantalone e questo è il conticino”. Io le rispondevo: “Mamma, io porto tutte le cose, ma il conticino no!” Mi vergognavo… ma la verità poi è che aspettavamo solo che quello pagasse… non è che avevamo tanto.

DIACO: Mi dai l’occasione di salutare tutte le donne (…) che come mia madre e la tua hanno fatto le sarte. è un mestiere molto pesante, che ha mandato avanti molte famiglie italiane. (…) voglio mandar loro un abbraccio enorme. a mamma elsa e a mamma Giovanna.

VENIER: A tutte!

DIACO: Mara, ho trovato un filmato… a me il rapporto con tua mamma mi contagia, mi devi dire tu… io vorrei mandarlo in onda…

VENIER: Che filmato è?

DIACO: È un filmato de “La vita in diretta”…

VENIER: No, no!

DIACO: Lo capisco…

VENIER: No, ti prego! Sennò mi ci vuole un mese per riprendermi. Non sono mai più ritornata a Venezia…

DIACO: Ecco, non sei mai più ritornata a Venezia…

VENIER: No, non sono mai più ritornata a Venezia. Non c’è più… e non sono in grado di vedere quel filmato che abbiamo fatto insieme a Venezia, me lo ricordo molto bene.

DIACO: E io lo rispetto, e vado avanti. 

DIACO: Guardate la bellezza di Mara a 15 anni… ma che figa!

VENIER: Ma va… mica tanto! Sono magra magra magra! 

DIACO: Sembri la leader di un gruppo punk tedesco degli anni 70.

VENIER: Sembro un maschiaccio. Non avevo tette. Non so come mi son venute tutte ‘ste tette poi perché ero proprio senza, completamente senza! La maternità… tutta roba vera, eh!

DIACO: Mara, col senno del poi…

VENIER: … col seno del poi…

DIACO: Col senno del poi, cosa diresti a quella ragazza là?

VENIER: Ero così sprovveduta, così ingenua! Ero una ragazzina per bene. E già allora ascoltavo solo il mio cuore. E da lì è partito tutto. Ho sempre ascoltato il cuore, non ho mai ragionato con la testa. Se avessi ragionato con la testa probabilmente la mia vita sarebbe stata diversa. Credo che nonostante tutto ho avuto tantissimo. Ho avuto tante gioie ma ho avuto anche tanti dolori. E credo che se sono quella che sono, è perché ho imparato di più dai dolori che dalla gioie. Mi sono serviti di più i grandi dolori: per migliorarmi, per cercare di capire di più la vita, per accettare quello che accade, per dare importanza alle grandi cose, anziché alle piccole cose. I grandi dolori ti fanno capire questo.

DIACO: Che consapevolezza! (…) a proposito di ascolto, a casa tua si ascolta innanzitutto Battisti, si va a casa di Mara, si imbraccia una chitarra…

VENIER: Domenica scorsa eravamo tutti lì!

DIACO: C’è un testo di Battisti che penso rappresenti la tua vita...

DIACO: Questo amore per Battisti da dove nasce?

VENIER: La nostra generazione l’ha amato tantissimo! Battisti è quello che insieme a Modugno ha portato l’innovazione nella musica. Nelle serate a casa tra amici Battisti è un classico… quando inizi a suonare Battisti tu sai che si forma il gruppo!

DIACO: Domenica scorsa dopo cena ci siamo ritrovati in cucina con due nostri amici che lavavano i piatti e tu a un certo punto ti sei messa a lavare i vetri… una follia! tutto questo alle 11.30 di sera

VENIER: (ndr ridendo) a mezzanotte!

DIACO: Senti Mara…

VENIER: (ndr cantando) quello che potremmo fare io te…

Cuciniamo, cantiamo, suoniamo la chitarra, ci raccontiamo la vita…

DIACO: Se avessi avuto altre passioni ti avrei corteggiato non poco…

VENIER: In un’altra vita…

DIACO: Beh, anche in questa!

VENIER: Scusa, tu non sei sistemato?

DIACO: Sì, adesso sì! sono sposato infatti se non ci fosse stato Alessio, e Nicola…

VENIER: Premetto che Nicola adora Alessio…

DIACO: Qualche settimana fa con un gruppo di amici abbiamo giocato a fare un programma di Mara su Raiuno in questa fascia oraria. a un Mara night show c’hai mai pensato?

VENIER: Sai chi ci aveva pensato? Gianni Boncompagni. Gianni diceva: “dovremmo fare un programma a casa tua di notte in diretta”. Ma io dicevo: “ma io vado a dormì alle nove e mi sveglio alle 5!”. Gianni aveva proprio questa idea e ci teneva tantissimo a fare un programma a notte fonda. Lo voleva chiamare a casa di Mara. 

DIACO: Su radio 2 dopo tanti anni torna un programma fondato da Luciano Rispoli, il primo programma di dialogo con il pubblico. si chiamava Chiamate Roma 3131. dopo tanti anni torna e si chiamerà Chiamate Mara 3131.

DIACO: Che ritorno… che bello!

VENIER: No, è la prima volta che faccio radio, un debutto! La prima volta… sono un’incosciente, pazza! Ma mi sono un po’ innamorata delle persone che me l’hanno chiesto… il direttore di Radio Rai, Roberto Sergio, Paola Marchesini. Devo dire che sono stata conquistata da loro. Non pensavo mai di poter fare anche la radio. Dico sempre Domenica in mi basta e mi avanza! Ho fatto questo programma serale, La porta dei sogni ma erano soltanto 3 puntate! È andata bene. Sai, io mi impegno sempre tanto in tutto quello che faccio. Sembro un po’ cazzara – si può dire a quest’ora, no? - ma io non sono cazzara per niente, sono una  secchiona! A Domenica in sembra tutto improvvisato. E una una buona parte lo è, però quando poi faccio le interviste, mi preparo tanto, do una logica a tutto quello che dico. Pensavamo a questo progetto e io mi son ricordata di questo programma storico chiamato chiamate Roma 3131, e ho detto: “ma perché non lo chiamiamo Chiamate Mara 3131? Mi sono portata Stefano Magnanensi, che sarà con me sempre in diretta, tutti i giorni. Da qualsiasi parte sia devo trovare uno studio e andare in diretta perché amo la diretta, mi piace l’imprevisto, quello che può succedere. Sarà una diretta col pubblico con le telefonate.

DIACO: Sono 27 anni che faccio la radio e devo dire che per me è il mestiere più bello che esiste.

VENIER: Allora dammi qualche consiglio…

DIACO: Ma figurati! il consiglio è essere te stessa. ti divertirai, impazzerai di divertimento e impazziranno gli ascoltatori che ti chiameranno in onda.

VENIER: Sì, sì, possono chiamare in diretta 06 3131, possono chiamare e parlare con me.

DIACO: La radio ha una forza incredibile perché a differenza di altri mezzi si avvale esclusivamente della voce. tant’è che ho sempre pensato che quando una persona sale in cielo ciò che rimane dentro il nostro mondo interiore è la sua voce. voglio fartene ascoltare una che secondo me coabita ancora dentro di te.

VENIER: Nanni Loy! Ti ringrazio per questo. Bisognerebbe ricordarlo di più perché è stato un grande, un innovatore vero. Ha portato le candid camera, ha fatto dei film meravigliosi. Per me, che ho perso mio padre quando ero molto giovane, lui è diventato un fratello maggiore. Ha preso un po’ il posto di papà insieme a Don Mazzi che mi accompagna ancora adesso nel mio percorso di vita. Devo tantissimo a Nanni Loy. Ho cominciato col cinema ed ero di una timidezza terribile… con lui avevo già fatto un film: Testa o croce con Pozzetto. Un giorno mi chiama e mi dice: “io faccio una serie di candid camera, tu te la senti di farle?” e mi propone questa roba assurda! Credo che se poi sono riuscita a superare la mia timidezza e il mio imbarazzo lo devo molto a Nanni Loy. Mi manca molto.

DIACO: Un gentiluomo del cinema e della tv italiana, tra l’altro un grandissimo autore.

VENIER: Posso dirti un’altra cosa? Amo la radio, ma da ascoltatrice… nel ’70, ’71,  appena arrivata a Roma ho preso l’epatite virale e mio marito mi ha mollato da sola in questa casa a via Aurelia con un amico medico che mi veniva a fare le flebo tutti i giorni. Sono rimasta 40 giorni isolata. Ricordo che avevo una piccola radiolina e la mia unica compagnia, l’unica persona che mi comunicava amore e affetto era Maurizio Costanzo, che conduceva Buon pomeriggio con Dina Luce. Ringrazio ancora Maurizio per questo perché per me quelli sono stati 40 giorni di profonda solitudine.

·        Marcella Bella.

Marcella Bella contro Amadeus: «Ha rifiutato  il brano scritto con mio fratello, colpito da ictus». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra. Lo sfogo della cantante esclusa dal Festival di Sanremo: «Lo ha ascoltato ma non l’ha voluto».

Anche lei delusa da Amadeus?

«E come faccio a dire no?».

Si sarà chiesta perché non è in gara.

«Ormai c’è una certa incompatibilità tra me e il Festival di Sanremo. Non arrivo da un reality, non ho una delle grandi case discografiche alle spalle. Mi ha consolato vedere la lista degli esclusi: penso che abbiano fatto uno scherzo ad Amadeus e l’abbiano sostituita con l’altra...».

Marcella Bella non abdica alla fama di persona schietta. «Dico sempre la verità, non ho ancora imparato... Fin da quando dissi a Teddy Reno che avevo 13 anni, e non i 15 necessari per essere ammessa al Festival degli sconosciuti di Ariccia, nonostante avessi vinto le selezioni». Chiacchiera volentieri e non mette mai paletti davanti a un caffè nel centro di Milano. Ha una pelle bellissima, nessun ritocco, una erre sicula molto divertente che ogni tanto irrompe senza chiedere il permesso. Solo alla fine dell’intervista ammetterà che l’esclusione da Sanremo è stato proprio un dolore. E allora, adesso, ripartiamo da lì.Perché un dolore?

«Non per me, ma per mio fratello Gianni. Avrei voluto partecipare con la nuova canzone che abbiamo scritto tutti insieme noi quattro fratelli: io, lui, Antonio e Rosario. Si intitola “Un amore speciale”. Amadeus l’aveva sentita e mi aveva detto che era una canzone importante. Evidentemente non abbastanza».

Ci dica lei perché è importante.

«Gianni nel 2010 ha avuto un ictus che gli ha paralizzato metà del corpo. È sempre stato il mio idolo, ma persino dopo quell’evento mi ha dato l’ennesima lezione di vita. Avrebbe potuto diventare depresso, egoista, si sarebbe potuto incattivire. Tutte cose legittime. E invece ha affrontato l’ictus con dignità. Nei primi tempi, quando mi scoraggiavo preoccupata, mi dava un colpetto con la mano sinistra sulla coscia, come per dire: guarda che sto bene».

Gianni non parla più. Come avete fatto a scrivere la canzone?

«L’ictus gli ha colpito la porzione di cervello delegata alla parola, ma non quella alla musica. Quando lo chiamo, io parlo come un fiume e lui dice sì, sì, no, no. Poi comincia a farfugliare e allora mi faccio passare sua moglie che è una interprete bravissima. Dopo l’ictus aveva paura di riavvicinarsi al pianoforte, teme lo stress. Però canticchia, emettendo dei suoni. Una volta ha improvvisato una melodia, l’ho registrata con il telefonino e ho coinvolto gli altri due fratelli per metterla in musica e scrivere il testo. Quella è la nostra canzone».

Lei è sempre stata l’anti-Bertè della canzone italiana. Mai uno scandalo.

«Ma io e Loredana andavamo d’accordo proprio per questo! Mi divertivo a guardare le cose che faceva lei, a me sarebbe mancato il coraggio».

Da più di quarant’anni sta con la stessa persona, suo marito Mario Merello. Avete tre figli: Giacomo, Carolina e Tommaso.

«Quando mi dicono che sono stata fortunata mi arrabbio: non è fortuna, ho sempre avuto chiaro cosa volevo essere e ho dato priorità alla mia famiglia».

È una donna passionale. Liti memorabili?

«Una, ma ero giovane e insicura...».

Non mi lasci così!

«Giacomo era piccolo, stavo preparando il biberon con i biscotti. Mio marito era al telefono da venti minuti e intuisco con una donna. Gli chiedo chi è e lui bofonchia: la parrucchiera. Allora gli scaglio contro il biberon, lui lo schiva con il mignolo e va a spaccarsi sul muro. Il bambino quella sera non ha cenato e ha pianto per un’ora...».

Se le chiedo il momento più brutto della sua vita?

«A parte l’ictus di Gianni? Un altro è stato lo tsunami del 2004, sono una sopravvissuta».Racconti.

«Eravamo alle Maldive. Quando ho sentito la prima scossa di terremoto, nessuno mi credeva. Ma mio marito ormai era allertato, così quando è arrivata la seconda si è preoccupato. Alla terza gli ho detto di correre a mettere in salvo i nostri figli, che dormivano in un altro bungalow, e io mi sono messa a cercare i passaporti e l’orologio del nonno di mio marito, il suo portafortuna. Quando sono uscita per raggiungerli ho visto l’onda alle mie spalle. Poteva uccidermi, invece mi ha spinta verso la piscina, nel centro dell’isola. Mio marito mi dava già per morta».

È stato l’orologio del nonno!

«Non lo so... Però oggi ho ancora paura...».

La prescrizione per aver sottratto al Fisco due milioni e mezzo di euro?

«Guardi che non c’è stata nessuna prescrizione perché non ho commesso alcun reato, anzi ho ricevuto le scuse da parte di chi mi aveva accusata ingiustamente di evasione. Mio marito, invece, ha avuto dei problemi fiscali che ha sanato».

Chiudiamo con la musica. Si ricorda tutti i testi delle sue canzoni?

«Leggo sempre il gobbo, ma solo per essere più sicura. Sono molto emotiva. Quando salgo sul palco e vedo il pubblico mi viene una paura irrefrenabile di non piacere».

E se le dico di cantarmi «Montagne verdi» in giapponese?

«Nikitàki potùkusàki... Non so se era proprio così: mi scrivevano la pronuncia degli ideogrammi e io la leggevo!».

·        Marcia Sedoc.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 25 ottobre 2020. Molti di voi ricorderanno con nostalgia il programma televisivo condotto da Renzo Arbore con la partecipazione di Nino Frassica “Indietro tutta!”, storica trasmissione di intrattenimento andata in onda tra il 1987 ed il 1988 nella seconda serata della seconda rete di mamma Rai. I telespettatori più attenti (e maliziosi) ricorderanno sicuramente le splendide ragazze di colore che affiancavano Arbore denominate “Le Cacao Meravigliao” ; a capitanare questo tropicale tripudio di bellezza femminile c’era la bombastica Marcia Sedoc, allora modella ventisettenne dalla pelle color ebano originaria della Repubblica del Suriname ma naturalizzata olandese, che con il suo fascino latinoamericano, il suo sorriso lucente e le sue forme straripanti ha turbato le notti insonni di molti italiani. Oggi dopo ben 32 anni dal suo esordio televisivo e dopo essersi un po’ defilata dalla prima fila del mondo dello spettacolo la rincontriamo per questa intervista.

D. Marcia, lei è entrata come un’esotica bomba sexy nelle case degli italiani alla fine degli anni 80’ nel programma di Arbore “Indietro tutta” , che esperienza è stata?

R. È stata un’esperienza indimenticabile, un’ avventura lavorativa che mi ha consacrato al grande pubblico e mi ha fatta diventare un sex symbol come giustamente hai detto tu, ero il sogno erotico di molti telespettatori. Nessuno di noi si era reso conto del successo di questo varietà, i fans ci aspettavano fuori dalla Rai per una foto o un autografo. Erano tutti straordinari, fatta eccezione per Amina Fofanà, una delle Cacao Meravigliao. Quando facevamo i balletti faceva di tutto per coprirmi impallando le telecamere, ad uno show mi nascose il microfono, lo ritrovai nella sua borsa...non ho mai capito perché ce l’avesse così con me! Con alcune delle mie colleghe mi sento ancora oggi ogni tanto! Sarebbe bello fare una reunion televisiva!

D. Cosa si provava ad essere considerata un oggetto del desiderio di così tanti uomini?

R. Credo che piaccia ad ogni ragazza essere desiderata e considerata un sex symbol: a me piaceva moltissimo.

D. Sono passati più di 30 anni dal successo, che via via è andato scemando, cosa fa oggi per mantenersi alla soglia dei 60 anni di età?

R. Continuo nel mondo dello spettacolo, la mia vita è questa. Faccio teatro, canto come solista e con una band mi esibisco live in svariati locali, organizzo defilé di alta moda e mostre d'arte presso il Menotti Art Festival a Spoleto. Inoltre con la mia associazione Fajaloby Italia Olanda Suriname scovo e promuovo talenti emergenti. Faccio la speaker radiofonica presso Ciadd News e conduco la mia trasmissione in lingua italiana e olandese dal titolo “A Tu per Tu con Marcia Sedoc”. Da circa un anno sono vicepresidente del Brasil Sport Club con una squadra femminile di calcio a cinque e una squadra con ragazzi speciali affetti dalla sindrome di down. La vera novità, Covid permettendo, riguarderà il 2021, sarò in tour in Cina per venti giorni con le nuove Cacao Meravigliao che selezionerò personalmente a Rio De Janeiro nei prossimi mesi.

D. La televisione si è dimenticata di lei, ne soffre?

R. Un po’ mi dispiace ma come ho detto pocanzi non mi sono mai fermata, ho creato il mio mondo perché amo il mio lavoro. Alla tv di oggi potrei dare tanto, amo i giovani che sono il futuro e che hanno bisogno di amore, affetto e umanità. E poi un reality o un talent non lo rifiuterei di certo...

D. Al proposito della tv di oggi, cosa ne pensa della vicenda successa al GF Vip che ha visto protagonista il cantante Fausto Leali squalificato dal reality per aver utilizzato la parola “negro”?

R. Sono molto arrabbiata! È una vergogna che abbiano trattato così un personaggio come Fausto Leali amato in tutto il mondo. Negro per noi non è un offesa, io sono una donna negra. Lui ha ragione: il nero è un colore e negro è una razza, la razza negroide. Non capisco perché il fratello di Balotelli  si sia offeso.

D. Secondo lei è più difficile per una donna di colore affermarsi e trovare il così detto “posto fisso” nel mondo della tv, del cinema o del teatro in Italia?

R. Decisamente si! Anche se io sono stata fortunata perchè nella mia carriera ho spaziato in tutto. Ma parliamoci chiaro: in Italia i ruoli per le donne negre sono cameriere, badanti o prostitute, e basta. Non c’è una donna negra che conduca un telegiornale o un programma televisivo, questo deve farci riflettere. L’Italia in questo a differenza di molti altri paesi è ancora arretrata, speriamo che tra un po’ di anni sia pronta a questo cambiamento.

D. So che ci teneva a dire due parole su Alberto Tarallo, l’Ares-Gate e tutti i personaggi che ruotavano attorno a quel mondo, mi dica!

R. Io la mia fortuna la devo ad Alberto Tarallo, è lui che mi propose al programma di Arbore, è lui che mi fece fare centinaia di copertine di giornali che conservo ancora nella mia scatola dei ricordi. Con me si è sempre comportato bene e nessuno è mai stato obbligato a fare ciò che non voleva. Non ci parlo da anni per un piccolo fraintendimento, lui se l’era presa con me...spero a distanza di anni di poter chiarire!

·        Marco Bellocchio.

L'intervista al regista. “Cesare Battisti ha ragione, il carcere non può essere un inferno”, parla il regista Marco Bellocchio.

Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Di violenza, non violenza, storie difficili hanno sempre parlato i film di Marco Bellocchio. Il regista, Leone d’Oro alla carriera, è da sempre attento ai diritti degli ultimi. Una sensibilità che lo ha portato, dopo aver conosciuto Pannella, ad avvicinarsi alla galassia radicale tanto da candidarsi in parlamento con la Rosa nel Pugno. Non a caso, mentre i suoi colleghi sono presi tra gli ingranaggi della mostra del cinema di Venezia, Bellocchio è l’unico a dedicare un pensiero originale alla protesta nonviolenta di Cesare Battisti, al terzo giorno di uno sciopero della fame e delle cure a oltranza. «Una protesta legittima», ha detto, soprattutto perché «contraddice la condotta violenta della sua militanza terroristica. Per questo ha una sua nobiltà, in quanto non violenta». «Essere in carcere con l’ergastolo e chiedere un trattamento più umano con una protesta non violenta come lo sciopero della fame di Gandhi e Pannella è una manifestazione di resistenza umana», dichiara al Riformista. «Una prova che nobilita chi, sbagliando, ha usato la violenza nel passato e oggi ammette la superiorità della non violenza. Un gesto che non ha bisogno dell’approvazione di nessuno, e tanto meno della mia, ma che non merita neanche la condanna che leggo».

È la prima volta che parla di Cesare Battisti. La colpisce la pena all’isolamento diurno, che sta scontando nel carcere di Oristano?

«Mi colpiscono, anche se non sono cattolico, le conversioni. Cesare Battisti era un violento che diventa un non violento. Non voglio entrare nel merito della sua vicenda, né della condanna e del modo in cui vedo che la pena viene inflitta. Altri possono commentarlo meglio di me. E faccio presente che non l’ho mai appoggiato, negli anni che furono. Neanche quando tanti intellettuali lo appoggiavano. Non ho mai detto che la giustizia su di lui ha sbagliato. Penso però che il carcere debba essere un luogo umano e non infernale, tutto qui».

L’occhio del regista è attento alla sofferenza. Lei la ha analizzata in tutte le sue opere, da Pugni in tasca in avanti.

«La sofferenza appartiene a ciascuno di noi, e tutti siamo attenti a scansarla e a negarla. Ma poi la viviamo, e quasi speriamo di scansare la nostra addossandola a qualcun altro. Penso che in questi tempi di pandemia e di angoscia diffusa la paura dell’altro sia aumentata. Abbiamo paura dell’altro al punto da temere che la sua sofferenza possa trasmettersi a noi, come un contagio».

A quali categorie dell’altro sta pensando?

«L’altro che soffre e ci fa paura: gli immigrati, su tutto. I poveri. Gli anziani. I malati. E i detenuti, appunto. Come se la pandemia riguardasse gli ultimi, che hanno difficoltà a curarsi, più che i ricchi. Cosa falsa oltre che sbagliata. Ed è falso e sbagliato cavalcare il populismo di chi pensa che trattare male i carcerati possa far parte della pena, come una integrazione di sofferenza suppletiva. Non bastano gli anni in carcere, o meglio ancora l’ergastolo. Bisogna che siano vissuti con tutte le difficoltà e le pene possibili, nella maniera più afflittiva possibile».

Un supplemento afflittivo funzionale a fogare la rabbia e la paura?

«La gente guarda a problemi reali più vicini e più immediati, ma quando viene a conoscenza delle condizioni di vita in carcere, si gira dall’altra parte. Ma c’è qualcuno che cavalca la sofferenza, ne ricava un vantaggio elettorale, mostrando i muscoli. Si fa il contrario di quel che dovrebbe farsi, e cioè si disarticola la società piuttosto che compattarla, riannodarla».

La vede spaccata? In che modo?

«La nostra è una società sempre più aggressiva. E c’è anche un altro tema, generazionale. Vecchi e giovani è un tema mai risolto. Si richiede ai giovani un tipo di responsabilità che esige una grande solidarietà. Si richiede sicurezza sanitaria, prudenza in tutti i comportamenti, sobrietà nelle relazioni, distanza fisica. Ma i giovani vogliono vivere. Peccato che in questa Italia trascinata gli intrecci famigliari sono ancora così importanti, tanto che ci sono continui contatti tra nonni e nipoti, tra chi porta a casa la pensione e chi aspetta l’argent de poche per uscire la sera. È sbagliato per i giovani e sempre più pericoloso per gli anziani».

Nei suoi film ha indagato la violenza, la brutalità. È colpito dall’omicidio di Willy, a Colleferro?

«Penso che in troppi, non solo tra i giovani, vivano oggi troppo alla leggera. Si parla e si agisce senza pensare, senza freni. Ecco, si vive tutto senza freni».

Come fosse tutta fiction?

«È come se la sovraesposizione alle immagini avesse reso tutti attori. Chiunque si sente un attore sulla scena, anche nella vita di tutti i giorni. Tanta televisione, tanti video, tanti social network portano le persone a comportarsi in modo irrazionale. Anche nelle semplici espressioni: si passa subito all’offesa, all’insulto, alle minacce e all’aggressione verbale, che poi può diventare fisica. Ci si esprime in pubblico senza più ritegno, senza vergogna».

Colpa della rete? È un effetto, come dice Sartori, della videocrazia?

«La rete ci rende disponibile un oceano di informazioni, in cui tutti dicono tutto – spesso scambiando il falso per il vero – e sono permesse le cose più orrende. Sui social network le parole escono in libertà, le conversazioni trascendono immediatamente. E forse anche la televisione ha le sue colpe».

Quali?

«Aver dato appunto a tutti la presunzione, la falsa illusione di potersi trasformare in attori. La cosa riguarda anche il mondo dell’informazione: appena succede qualcosa a un cittadino, che scompare o muore, ecco che la televisione ne mostra tutte le foto personali, prese appunto dai profili social. Abbiamo tutti una seconda immagine, quelle della vita privata. La televisione ha abbattuto un filtro, mostra la vita privata di chiunque senza filtri, tanto che chiunque si sente il potenziale protagonista di un momento pubblico».

Come diceva Andy Warhol. A ognuno un quarto d’ora di celebrità…

«E questo rischia di trasformare la percezione della realtà. Perché il bisogno di arrivare alla notorietà televisiva rischia di trasformare ad esempio qualche giovane sfaccendato in un antieroe».

Anche la politica è diventata un arte performativa?

«Sì perché senza la televisione non esiste il consenso. Chi ha il potere va in tv, chi va in tv ha il potere. E chi non va in tv per qualche settimana scompare dalle agende della politica. Poi ci sono anche figure che hanno un rapporto diretto con il territorio, il collegio e hanno meno bisogno di essere presenti mediaticamente. Ma è come se il passaggio televisivo certificasse il potere».

Lei non va mai in tv. Come mai?

«Appunto perché riconosco di non essere adatto a parlare di tutto. Se esce un mio film, vado a parlarne. Poi niente più. C’è invece una compagnia di giro in Italia, fatta da cinquanta o sessanta persone che sono sempre costantemente in televisione. Fanno spettacolo, come Sgarbi. Ha quel ruolo. È come nel casting di un film, ciascuno viene selezionato per interpretare un personaggio che piace a una fetta di pubblico. E così ecco Mughini, Cacciari, Salvini e perfino Renzi e Calenda. Trovano il loro palcoscenico. Alzano i toni, chiamano l’applauso. Ma quando nei talk show va via l’uno e parla l’avversario, tutti applaudono lo stesso. Perché celebrano il momento performativo, non le idee nello spessore del loro contenuto».

A inventare la televisione di massa come la conosciamo oggi è stato Silvio Berlusconi, che oggi lotta per guarire dal virus.

«Nel bene e nel male ha sdoganato l’immagine, come abbiamo detto, e l’ha resa pubblica. Ha portato il video nelle case di ciascuno. Giudicherà la storia. Oggi voglio solo augurargli ogni bene, una totale guarigione e lunga vita. Anche perché abbiamo quasi la stessa età».

·        Marco Carta.

Marco Carta (condannato dal tribunale del popolo) non ha mai rubato quelle magliette. Il Dubbio il 7 ottobre 2020. Il cantate accusato di aver rubato due magliette alla Rinascente è stato assolto per la seconda volta. “Ma il danno d’immagine resta…” Due sentenze di assoluzione, in primo e in secondo grado, hanno messo un punto fermo sulla vicenda che ha coinvolto il cantante Marco Carta, ma c’è voluto un anno e mezzo per decretare che l’ex vincitore di Sanremo non è colpevole di aver rubato sei magliette del valore di 1.200 euro alla Rinascente di Milano. Il fatto risale al 31 maggio 2019, quando il cantante fu fermato insieme all’amica Fabiana Muscas nei pressi del grande magazzino: l’arresto avvenne in flagranza, perchè le magliette erano state trovate nascoste nella borsa dell’amica. Le indagini, condotte dalla polizia locale di Milano, su delega del pm Nicola Rossato, avevano portato ad un processo finito il 31 ottobre con l’assoluzione di Carta in primo grado davanti alla sesta sezione penale del Tribunale di Milano (giudice Stefano Caramellino). Dall’altro lato la Muscas si era addossata tutta la colpa del furto e per questo da gennaio di quest’anno si trova all’istituto di messa alla prova. Era stata poi la procura generale a chiedere l’avvio di un secondo giudizio, a dicembre 2019, contro l’assoluzione per il cantante. E’ bastata però soltanto un’udienza d’appello, oggi, per confermare il primo grado, e per rigettare la richiesta del sostituto pg Celestina Gravina, che voleva per Carta una condanna a 8 mesi. I giudici d’Appello hanno dunque accolto le ragioni della difesa, condotta dall’avvocato Simone Ciro Giordano: secondo la memoria difensiva presentata davanti alla Corte, era da considerare inattendibile la testimonianza chiave, quella di Fabrizio Presti, coordinatore degli addetti all’accoglienza clienti del grande magazzino. Fra i punti contestati anche la permanenza del cantante nel camerino per oltre 30 minuti: un elemento sospetto per l’accusa, che i legali hanno spiegato così: “Carta, per ogni maglietta provata, si dirigeva, anche più volte, verso lo specchio posto a distanza dal camerino, si fermava a farsi osservare dall’amica per commentare il capo di abbigliamento indossato, sceglieva di volta in volta le magliette da indossare a seconda del colore e, prima ancora di uscire dal camerino, verificava egli stesso la vestibilità del capo, essendo particolarmente vanitoso”. Ed è stata proprio l’amica Muscas a commettere il furto e a dichiararne il fine: fare un regalo a Carta per il suo compleanno, avvenuto 10 giorni prima. “Sono felicissimo”: è stato questo il commento del cantante alla notizia della conferma in appello della sua assoluzione. Le parole sono state affidate all’avvocato. Che ha chiosato: “Oggi con la sentenza di rigetto della Corte d’Appello alla richiesta di condanna del procuratore generale abbiamo avuto l’ennesima conferma della sua estraneità ai fatti. La questione ora è definitivamente archiviata anche se il dolore e il danno d’immagine subiti restano e non potranno mai essere ripagati”.

Il caso. Dalla gogna alla "liberazione", Marco Carta assolto per la seconda volta per il furto alla Rinascente. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. La Corte d’appello di Milano ha confermato l’assoluzione per Marco Carta. Lo hanno detto gli avvocati Massimiliano Annetta e Simone Ciro Giordano, che assistono il cantante accusato di aver sottratto il 31 maggio 2019 dalla Rinascente 6 magliette del il valore complessivo di 1200 euro. L’ex vincitore di Sanremo e Amici, da quanto è emerso, era in compagnia di un’amica che si è addossata tutte le responsabilità. In aula insieme al cantante c’era l’avvocato Giordano, che lo ha seguito fin dalle prime fasi della vicenda. “Posso solo confermare l’assoluzione del nostro assistito anche in secondo grado”, ha detto l’avvocato Annetta all’agenzia LaPresse. In aula accanto al cantante questa mattina c’era solo l’avvocato Simone Ciro Giordano, perchè, a quanto ha spiegato lo stesso difensore, l’avvocato Massimiliano Annetta (a differenza di quanto scritto in precedenza, ndr.) nella ultime ore ha rinunciato al mandato. “Sono molto soddisfatto – ha spiegato l’avvocato Giordano, raggiunto telefonicamente da LaPresse – perchè i giudici hanno respinto le richieste del Pg che aveva sollecitato a una condanna a 8 mesi per il furto delle magliette”. “I giudici hanno riconosciuto per la seconda volta la totale estraneità del mio assistito”. Il cantante “era felicissimo e mi ha molto ringraziato, dicendo che gli ho salvato la vita. Ha riconosciuto il buon lavoro svolto per chiarire pienamente la sua posizione”. Carta quando è stato bloccato dalla sorveglianza della Rinascente e poi è stato arrestato – e subito rilasciato – insieme ad un’amica che era con lui, l’infermiera 53enne Fabiana Muscas. L’addetto alla sicurezza aveva trovato nella borsa della donna sei magliette non pagate per il valore di circa 1200 euro. La donna si è assunta tutte le responsabilità, spiegando che la sua intenzione era quella di fare un regalo di compleanno al cantante. Il 20 gennaio scorso è stata condannata a 12 mesi di servizi sociali e per lei è stata disposta la messa alla prova.

Marco Carta assolto: «Ho avuto ripercussioni sulla salute mentale e fisica» Claudia Morvillo su Il Corriere della Sera il 9/10/2020. Il cantante parla dopo essere stato assolto, anche in Appello, per un furto di sei magliette alla Rinascente: «Quella sera ho pensato di essere su Scherzi a parte, invece era un incubo. É stato un trauma».

Marco Carta, come e dove ha aspettato il verdetto della Corte d’Appello di Milano che rischiava di condannarla a 8 anni di carcere per il furto aggravato di sei magliette?

«A casa. Sapevo che il responso era alle due del pomeriggio, mi hanno chiamato un po’ prima e avevo ancora la suoneria bassa. Non ho risposto. Ero pure in ansia, non stavo aspettando altro… La comicità è che, quasi quasi, facevo prima a scoprire dai siti dei giornali che ero stato assolto. Per fortuna, ho sentito la vibrazione del telefono. L’avvocato mi ha detto: è andata come doveva andare. E io: e quindi? Lui tentennava… Abbiamo un rapporto giocoso. Alla fine, mi fa: è ovvio, ti hanno assolto!».

Che cosa la faceva stare in ansia?

«Ero preoccupato a prescindere. Questa vicenda mi ha insegnato che la vita è imprevedibile. Io ero già stato assolto in primo grado con formula piena, estraneo ai fatti. Ed è molto raro, mi dicono, che la Procura ricorra in appello per un furto di magliette. Era una mossa che non mi aspettavo, perciò ora ci tengo a sottolineare che sono stato assolto “anche” in secondo grado».

Cosa le ha fatto più male in questi 16 mesi di processo?

«Che sia stato un caso così mediatico e l’accanimento dei leoni da tastiera che mi hanno insultato mischiando le accuse di essere ladro con insulti omofobi pesanti. Ma ora è passata e voglio fare anche io dei meme sulla mia disavventura. Prima, non era il caso: rischiavo di sembrare uno sbruffone che sfidava il sistema e non è così che sono».

Si è mai visualizzato in carcere?

«Mai. Non ho mai creduto che la giustizia italiana potesse sbagliare fino a questo punto. “Male non fare paura non avere” è stato il mio mantra ogni mattina. Non è che vivessi nella paura, ma sempre con una piccola nube. La paura è esplosa tutta insieme la mattina del processo. Prima, è stato un viaggio che ho cercato di fare sereno, anche se accompagnato da un incubo, un mostro, un sogno».

I commenti sui social oggi sono migliorati?

«Gli haters sono spariti del 90 per cento. Ma ho letto poco perché sto lavorando sul singolo che uscirà a breve. Mescola pop e elettronica, spero che farà ballare e divertire la gente».

Quale è stato il momento più difficile?

«Gestire la preoccupazione di mia nonna per il processo: è morta ad aprile ed è la donna che mi ha cresciuto quando ho perso mia madre e mi sono trovato solo, a 10 anni. Era viva quando ho vinto in primo grado, ma ha fatto in tempo a sapere che il Pm aveva fatto ricorso. Diceva: ma quando finirà? Questo era il mio incubo al quadrato».

La nonna è mancata di Covid?

«Di tumore, ma era in ospedale da sola e, per le misure anti Covid, nessuno ha potuto starle vicino. Io ero sotto la sua finestra, pregavo di farmi entrare, ma non mi hanno fatto entrare. Ho pregato di lasciarmela vedere in obitorio. Sono riuscito a salutarla lì. Farla morire da sola era l’ultima cosa che avrei voluto per lei, che temeva solo due cose: il buio e la solitudine. Infatti, casa nostra a Cagliari è detta “la casa del sole” perché c’è sempre luce e gente».

Ci sono persone che si sono allontanate in questi mesi?

«Un paio e va bene così. E ho perso delle occasioni di lavoro. Avrei apprezzato più coraggio. Io ne ho avuto. Sono stato molto male. Ho avuto ripercussioni sulla salute mentale e fisica, non voglio entrare nei dettagli, ma lo stress si è fatto sentire. Quella giornata e quello che ne è seguito sono stati un trauma».

Che cosa ricorda di quel giorno in Rinascente a Milano?

«Una serata spensierata. C’era tantissima gente, faceva caldo e avevo una cena la sera e invece sono tornato a casa alle quattro di notte, dopo essere stato trattenuto per ore. Ricordo che, prima, avevo fretta di fare la spesa, era una serata normale, una di quelle in cui non può succedere niente di brutto: stai facendo shopping, sei sereno, gli amici e il fidanzato ti aspettano a casa… Invece mi sono trovato in un incubo. Ho pensato di essere su Scherzi a parte, era troppo assurdo».

Non si è accorto che la sua amica aveva rubato delle cose?

«Ma mai. Se no, l’avrei impedito. Non per me, ma per quest’altra persona che non cito».

Con Fabiana Muscas ha rapporti così pessimi che non la cita?

«Proprio non c’è rapporto».

Non teme un ricorso in Cassazione?

«Nooo, quelli spero li facciano per omicidio o rapina a mano armata e, comunque, i filmati non possono mentire. Quelli delle telecamere di sicurezza hanno già detto la verità in due processi».

All'amica di Carta i lavori sociali. Magliette rubate alla Rinascente, dodici mesi in una onlus sarda. Paola Fucilieri, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Fabiana Muscas, la 53enne accusata insieme all'amico e cantante Marco Carta del furto di sei magliette alla Rinascente di Milano il 31 maggio scorso, svolgerà lavori di pubblica utilità per 12 mesi in una onlus Caritas di Cagliari. Lo ha deciso ieri il giudice della sesta sezione penale del tribunale, che ha ammesso la donna all'istituto della messa alla prova, come chiesto dal suo difensore, l'avvocato Giuseppe Castellano. Al termine di questo periodo, se il programma andrà a buon fine, il giudice potrà dichiarare estinto il reato. La Muscas si è impegnata a lavorare per 4 ore la settimana, per un anno. Accolta anche la sua richiesta di aggiungere due ore settimanali extra «a riprova della sua resipiscenza». Come era emerso nelle motivazioni dell'assoluzione dell'ex vincitore di «Amici 2008» e di «Sanremo 2009», Muscas si è assunta fin da subito tutta la responsabilità del furto sostenendo di volere fare un «regalo di compleanno» al suo amico che da poco aveva compiuto 34 anni. Per il giudice Stefano Caramellino, al contrario, la prova fornita dall'accusa della colpevolezza di Carta sarebbe «insufficiente e contraddittoria». Diversa la ricostruzione del pm Nicola Rossato, che nelle scorse settimane ha impugnato la sentenza di assoluzione ricorrendo in appello. Per la Procura, infatti, Carta va condannato a 8 mesi e 400 euro di multa perché «contribuì al furto rimuovendo «le placchette antitaccheggio nascoste poi nel bagno». Tante sono le cose che non tornano per il magistrato. Il pm spiega «quante volte gli imputati hanno mentito» nell'interrogatorio di convalida anche sulla base, poi, della visione dei filmati di videosorveglianza». Malgrado ciò, si legge nel ricorso, il giudice ha ritenuto di «dare la prevalenza nella ricostruzione degli eventi al narrato degli arrestati rispetto a quello del teste oculare». E ciò anche se «la genuinità delle relative dichiarazioni» dei due «è ovviamente inficiata dal rapporto di amicizia e dalla preoccupazione della Muscas per le conseguenze mediatiche» che la vicenda poteva causare a Carta. Il cantante, spiega ancora Rosato «nega il proprio coinvolgimento, ma non riesce a spiegare quando e in che modo la Muscas avrebbe preso i capi di abbigliamento da lui indossati nel camerino».

Dagospia  il 2 febbraio 2020. PIERLUIGI DIACO  INTERVISTA MARCO CARTA – IO TE DI NOTTE.

DIACO: mi fa molto piacere incontrarti. Ci siamo visti qualche anno fa a Trastevere e avevamo un pregiudizio reciproco, ci siamo seduti  davanti ad un bicchiere di vino a cena.

CARTA: Non c’era un pregiudizio… Forse il mio caratterino a volte può sembrare più tosto di quello che è… Però è stata una bella cena, poi c’era una bella brezza forse era estate o quasi estate.

DIACO: Mi fa molto piacere chiudere questo percorso di Io e te di notte con te.

CARTA: Ci tenevo a venire qua.

DIACO: Io ci tenevo ad averti… tu sei popolarissimo, sei amatissimo dal tuo pubblico ma c’è una parte del pubblico televisivo, una parte della discografia, una parte della radiofonia, una parte degli addetti ai lavori che il tuo successo non l’ha mai digerito. Ti sei mai domandato il perché e ti sei mai dato una risposta?

CARTA: La domanda me la faccio ogni giorno, la risposta varia a seconda del giorno. Ad oggi non ho trovato una vera e propria risposta. Forse in realtà una risposta c’è: le mie piccole battaglie ogni giorno le conduco per arrivare dove voglio io e cioè l’avere il giusto riconoscimento. Talvolta però dietro le quinte il mondo cambia e si palesa in tutta la sua ipocrisia. Ma non importa.

DIACO: Tu sei nato in un programma televisivo. Questo pregiudizio, che immagino tu lo abbia sentito prepotente per molti anni, lo senti ancora?

CARTA: Devo essere sincero: lo sento molto di meno. Questo grande pregiudizio è avvenuto perché sono stato il primo dei grandi nomi nati in un programma televisivo. Amici non era pronto a tutto questo: sono stato il primo caso discografico, nonostante io abbia fatto Amici 7. Quindi solo dopo 7 anni è scoppiato questo fenomeno. L’anno dopo quando sono andato a Sanremo ero insieme a tantissimi big. Non si diceva ma strideva un po’ il fatto che un ragazzo di un talent potesse partecipare a Sanremo. Vedevo che qualcuno mi guardava con occhi storti, non tutti in realtà. La gente a casa era l’unica pronta a tutto questo, erano loro a volerlo. Non si era però ancora pronti all’idea che un ragazzo proveniente da un talent potesse farcela.

DIACO: Tu eri pronto?

CARTA: Assolutamente no. Ma non sono ancora pronto. Ogni giorno imparo qualcosa.

DIACO: Pensi di aver concesso troppo di te e della tua vita privata ai media?

CARTA: Penso che da una parte mi sia servito per essere più capito. Ci sono persone che non hanno la necessità di essere capite, per loro l’importante è essere capiti da se stessi. A me essere compreso piace perché sento un po’ il mio posto nel mondo. Forse ho bisogno di essere capito. Non che lasci le mie parole fraintese mai… Però mi dà una sorta di tranquillità, di senso di protezione.

DIACO: In questa fase della tua vita, c’è una persona con cui riesci a condividere le cose più belle e meno belle della tua esistenza.

CARTA: Io ho un compagno ed è la persona con cui condivido più cose, anche se ogni tanto gliene nascondo qualcuna. Faccio qualche esempio per non creare fraintendimenti: quando rompo qualcosa - sono un po’ maldestro - non glielo dico. La classica scena è come se cercassi di riattaccare un piatto con la colla e poi appena lo prende in mano si spacca. Ogni tanto mi bacchetta ma alla fine forse questa cosa un po’ mi piace. Mi piace essere un po’ sgridato perché mi sento un po’ un mattacchione.

DIACO: È una fase della tua vita quindi di costruzione.

CARTA: È regressione questa.

DIACO: Lo dici con il sorriso il che significa che ti ha regalato una serenità interiore che non credo tu in passato abbia avuto.

CARTA: No, perché trovare l’amore non è facile, soprattutto non è facile trovare la compatibilità. A volte c’è l’amore ma non la compatibilità. E se questa viene a mancare sono problemi.

CARTA: Questa foto è stata scattata un mesetto fa, era il primo dell’anno. C’è stato un momento di coccole. Non è mia abitudine abbracciarlo in pubblico perché sono un po’ timido però è stato un bel momento. Noi ci abbracciamo spesso, non ci nascondiamo le coccole. Nonostante forse non sembri, io sono un super coccolone.

DIACO: Ti capita che tua mamma ti venga a visitare in sogno?

CARTA: Mi è capitato ma non capita più da tanto tempo e mi dispiace perché è l’unico momento in cui mi illudo che ci sia ancora. Nei sogni non mi rendo conto che lei non c’è più. Quando capisco che è solo un sogno mi sveglio. Questo però non succede da qualche anno ma prego sempre che avvengano questi momenti perché sono dei momenti bellissimi. Dove riesco quasi a pensare che tutto sia vero. Sono dei brevissimi momenti in cui sembra che nulla sia cambiato.

DIACO: Che effetto ti fa rivedere a qualche giorno dall’inizio della 70esima edizione quelle immagini? Perché tu sei nella storia del Festival.

CARTA: Mi fa sempre un effetto bellissimo e mi piacerebbe tanto rifarlo. È stato figo perché era tutto così inconsapevole e per questo è stato unico. Mi piacerebbe fare un “prima” e un “dopo” ossia rifarlo ma con più consapevolezza.

DIACO: Ti sei divertito?

CARTA: Molto. È stato molto divertente ma anche faticoso. Carlo mi ha chiesto di fare Tale e quale per tre anni. Io all’inizio dissi di no perché avevo paura di non riuscire, ero terrorizzato da Tale e Quale. Allo stesso tempo mi sarei voluto divertire così tanto, finché ad un certo punto mi sono detto: “ma perché vivere con l’ansia continua di piacere o non piacere? Ma buttati”. Infatti così ho fatto e devo dire che mi sono divertito tantissimo.

CARTA: Mia Martina è un colosso secondo me. È un colosso gigantesco, inestimabile. Mi ci ritrovo molto in quello che ha detto e cioè che siamo molto soli. Siamo veramente tanto soli. Tutti siamo un po’ soli ma chi fa questo lavoro spesso lo è di più perché i rapporti si riducono tanto, sono tutti molto fugaci. Oggi ancora di più abbiamo una vita che ci porta ad essere continuamente di corsa e avere sempre altre cose in testa, quindi lo spazio si riduce. A volte ci si ritrova a parlare con delle persone e come automi ascoltare e non ascoltare. Anche io lo faccio e poi ci ripenso e mi dico: “ma che impressione avrò dato, non stavo veramente ascoltando”.

DIACO: Maurizio Costanzo in un suo famoso programma chiedeva ai suoi ospiti… Cosa c’è dietro l’angolo?

CARTA: Spero non un altro angolo. A me piacerebbe che ci fosse una bella curva, non con una discesa ripida… Dove devi pedalare con la pedalata assistita stavolta. Un po’ come gli anziani che hanno la pedalata assistita. Per un periodo della mia vita mi piacerebbe fare cose un po’ più facili, non mi vergogno a dirlo.

·        Marco Castoldi, in arte Morgan.

Francesca Galici per "ilgiornale.it" il 16 ottobre 2020. Marco Castoldi, in arte Morgan, ha accettato la sfida di Vittorio Sgarbi per la candidatura a sindaco di Milano. Tutto nasce dal critico d'arte che, in radio a Un giorno da pecora, ha avanzato l'ipotesi di una sua candidatura come sindaco di Roma sotto la lista "Rinascimento". Questa lista, nelle intenzioni di Vittorio Sgarbi, proporrà un candidato sindaco in tutte le principali città del Paese e per Milano sarebbe stato scelto proprio Morgan: "Sono intenzionato a candidare a Milano Morgan, il cantante, gliel'ho detto ieri. Lui mi ha detto che preferirebbe Milano a Napoli, dove ancora non so chi ci sarà come candidato". Dopo la rivelazione del critico d'arte, i conduttori di Un giorno da pecora hanno contattato Morgan, che ai loro microfoni ha confermato quanto detto da Vittorio Sgarbi: "Se è vero che ho accettato la proposta di Sgarbi di candidarmi con la lista "Rinascimento" a sindaco di Milano? L'ho accettata, mi piacciono le sfide e amo la mia città. La proposta mi è arrivata a tarda notte". Nel programma radiofonico, Morgan ha abbozzato anche un elenco di personaggi noti e influenti della cultura di cui vorrebbe circondarsi nel caso di elezione: "Mi piacerebbe avere con me uomini intelligenti. Ad esempio il professor Alberoni, così come Eugenio Finardi". Il cantante non si è tirato indietro nemmeno davanti alla domanda sul suo schieramento politico, dando una risposta in puro stile Morgan: "Sicuramente più di sinistra che di destra, ma non mi piace fare questo ragionamento. Sono di formazione libertaria, più vicino alla sinistra, ma non è destra né sinistra". Coerentemente con questo ragionamento, successivamente ha aggiunto: "Salvini non mi dispiace, ha dei tratti positivi. Vedo più le persone che gli schieramenti, oggi i partiti non è che siano proprio portatori di ideali. Non si può credere in un partito come ai tempi di Berlinguer e Almirante". Dopo la chiacchierata radiofonica, Morgan ha confermato la sua inedita discesa in campo con un post condiviso sul suo profilo Facebook, nel quale spiega le ragioni della sua decisione. "Amo profondamente questa città, ci vivo e ci sono nato, la considero un luogo intelligente e dalle infinite potenzialità. Vorrei valorizzare la profondità culturale intendendo la cultura e l’istruzione la base sulla quale si fonda un’economia e non viceversa. Vorrei dare spazio a progetti di giovani ingegnosi e pieni di energia e creatività per togliere il grigiore deprimente", esordisce il cantante, prima di annunciare che, se verrà eletto, vorrebbe riaprire "le vie d’acqua di Leonardo e renderle luoghi belli, piacevoli, adatti a bambini, cittadini turisti e commercio". Ma quello esposto da Morgan nel suo profilo Facebook non sarebbe un vero e proprio programma ma un elenco di sentimenti. "La realtà è complessa ma ci sono tante persone intelligenti e propositive con cui collaborare per un progetto condiviso di vera rinascita", ha concluso il cantante.

GIOVANNI TERZI per Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. Una telefonata che si trasforma in un' intervista; Morgan è così, sempre. Un fiume in piena capace di passare dalla musica alla cultura al sociale in un batter di ciglio approfondendo con un punto di vista terzo ogni argomento.

Marco, pochi giorni fa è mancata una persona importante del mondo della cultura italiana, un suo amico, Philippe Daverio. Che ricordo ha di lui ?

«Daverio è il professore, l' uomo di lettere e di divulgazione, poco tempo dopo Giulio Giorello se ne va un altro pilastro della cultura italiana. Con lui condividevo la passione per i papillon che lui chiamava rigorosamente cravatta, perché aveva una precisione lessicale sbalorditiva. La cravatta non è quella cosa lunga che hanno tutti, ma un oggetto d' abbigliamento da annodare che ha una forma di farfalla e che oggi nessuno sa più fare perché le vendono già annodate chiamandole farfallino».

Tu ami il papillon così come Daverio?

«Negli ultimi tempi ci scambiavamo le cravatte, così appagavamo la nostra vanità come bambini. Temo che sarà dura trovare un amico di pari livello perché Philippe aveva collezionato la cultura in modo non convenzionale, proprio come la cravatta, e si era trovato ad essere uno scrigno di etimologie e di svelamenti. Milano e l' Italia lo ricorderanno sempre con nostalgia ed orgoglio».

Daverio, come lei, non era un amante del linguaggio dei social...

«I social sono semplicemente il mainstream, lo standard del rapporto tra gli individui e il mondo attorno a loro, ed è molto restrittivo nonostante si proponga come un prolungamento del tuo orizzonte visivo. Quello che non è mainstream è creatività pura che, se da una parte ingolosisce, dall' altra spaventa. A me spiace che in Italia si faccia ancora fatica a capire quanto eravamo forti, capaci di primeggiare nel mondo come potenza culturale prima nel Rinascimento e poi nel barocco».

E poi?

«Siamo stati totalmente superati ma, fino all' Ottocento, abbiamo combattuto fieramente ottenendo grandi risultati».

Dimentica il futurismo...

«Ha ragione, forse arriviamo fino ai primi del Novecento se intendiamo il futurismo italiano come l' ultima grande avanguardia, poi però ci siamo addormentati completamente».

E per quanto riguarda invece il cinema e la musica?

«Il cinema degli anni 50/60 e la musica degli anni '60 tra Genova e Napoli hanno permesso di far uscire dal torpore culturale il nostro Paese (eccezione fatta per Giuseppe Verdi che è stato il più grande compositore del mondo ai suoi tempi). Sono però episodi sporadici che nulla hanno a che vedere con il Rinascimento dove basterebbe citare Dante, Leonardo, Caravaggio, Petrarca, Tasso, Ariosto, Michelangelo, Piero della Francesca, Vivaldi, Giotto, Galileo e tanti altri ancora».

Quella era l' Italia che comandava!

«Il discorso è che l' arte è il senso del mondo».

In che senso, Marco?

«Non ci si pensa mai che la storia è fatta da due cose, edificazione e distruzione, ovvero arte e guerra, non pace e guerra: arte e guerra, perché è l' arte ciò che fa l' uomo quando è in pace con se stesso, quando ama, quando è libero. E l' arte è il racconto di questa libertà. Poi c' è anche la guerra perché è ovvio che quando l' artista è costretto e non ha altra possibilità allora cerca anche nella guerra di fare quello che può stando anche attento a non venire ucciso, pensi che Ungaretti fosse contento di combattere? Direi di no, ha scritto in trincea perché lì era, e ha scritto cose di una profondità inaudita come: «Universo: col mare mi sono fatto una bara di freschezza». Ma quanta libertà c' è qui dentro? C' è la morte ma c' è l' infinito e un' eternità paradisiaca, la freschezza. Comunque il discorso è che noi stiamo sempre di più in un torpore che ormai mi sta deprimendo. Siamo diventati soldatini obbedienti interessati solo ai soldi quando non capiamo che è proprio nell' arte che c' è la vera ricchezza».

E secondo lei il lockdown ha peggiorato le cose?

«Assolutamente sì. Nella quarantena, che è stato il grande magna magna dei signori dei social e dei network, gli artisti sono stati messi in ginocchio, e solo il Papa una volta nella Messa ha detto due parole sugli artisti, per il resto calma piatta».

Lei aveva parlato della sua casa, da cui è stato sfrattato. Era un' opera d' arte. Che cosa poi è accaduto?

«Ma lo sa che la vicenda della distruzione per mano dello Stato della mia casa, che più che una casa era una centrale nucleare di produzione artistica, all' estero fa inorridire e neanche ci credono che sia potuto succedere una cosa simile? Sa perché? Perché all' estero hanno anche loro i magistrati, mica vivono nell' anarchia i tedeschi o gli inglesi, anzi, solo che non si permetterebbero mai di mettere le grinfie sulla sacralità di un luogo di arte. Questa è civiltà! Quel tribunale che così con leggerezza ha detto applico solo le leggi ha fatto un' azione incivile».

Cosa pensa di fare?

«Di andarmene fuori dalle scatole per sempre. In Italia l' arte non è compresa a nessun livello; qui o ti adegui al torpore o devi scappare. Guarda per esempio cosa è accaduto a Sanremo...».

Anche a Sanremo c' è stato un gesto artistico?

«A Sanremo non hanno capito nulla del mio gesto. Sì: nulla. Si sono solo scandalizzati, e questo è buono perché è giusto che un gesto poetico stupisca ma non sanno il perché. Qualcuno si è domandato perché sessanta milioni di persone sanno a memoria i miei otto versi o no? Con un' azione di quella potenza che abbraccia tutte le età, tutte le fasce culturali e tutte le fasce economiche e le prende tutte in quaranta secondi di performance all' una di notte, in America io sarei già candidato alle presidenziali».

E secondo lei perché la gente si è scandalizzata?

«Perché quel gesto contiene verità, e credimi non si è più abituati a questa. La verità fa tremare i vetri, ed è rivoluzionaria. Per tornare al mainstream dei social, il nuovo modello è quello di imparare a fingere. La verità alla fine ci tocca nel profondo e ci commuove».

Molti hanno accusato di aver fatto il gesto di Sanremo per fini commerciali. È vero?

«Non ci ho guadagnato un centesimo, dico un quattrino, da quella cosa».

Su un sito in cui si firmano petizioni qualcuno ha avviato una raccolta firme per chiedere, alla dirigenza Rai, di darti un programma musicale. Che ne pensi?

«Sarebbe un gesto anche questo rivoluzionario se la Rai accettasse di dare un programma accogliendo una petizione popolare. Siamo gia a oltre duemila firme ed è stata una cosa che mi ha fatto piacere. Chissà se potrà accadere di dare voce alla libertà».

 Morgan: "Mi stavo disintossicando ma ci sono ricaduto". Morgan confessa di aver bisogno di una "cura disintossicante": dopo l'addio della ex compagna Angelica, ammette di essere ricaduto nelle dipendenze. Luana Rosato, Giovedì 04/06/2020 su Il Giornale. Il periodo che Morgan sta attraversando viene descritto dallo stesso artista come “allucinante” e, nonostante la gioia per la nascita della terza figlia, Maria Eco, Castoldi confessa di aver bisogno di una “cura disintossicante”. La richiesta di aiuto avviene attraverso le pagine del settimanale Oggi, cui Morgan ha confidato di essere ricaduto nelle dipendenze a causa di una serie di eventi negativi che lo hanno particolarmente segnato. Primo fra tutti, l’addio da parte della ex compagna Angelica che lo ha “lasciato come un cane”. Sarebbe stata proprio questa la situazione che avrebbe fatto ricadere Morgan nelle dipendenze dalle quali stava uscendo grazie all’aiuto della ex e dei medici. “(Mi stavo disintossicando, ndr) Angelica (la ex fidanzata che, dice, non gli è permesso più di vedere, ndr) è l’unica che era riuscita a convincermi… Mi ha lasciato come un cane, e io sono ricaduto – ha confessato Marco Castoldi al settimanale - . Questa è la verità. Finché c’era lei ce la facevo, ce la stavamo facendo. Con dei medici che mi seguivano, e che poi mi han detto che dovevo riuscirci da solo”. Ad oggi, dunque, la situazione psicologica di Morgan sembra essere molto precaria. “E ora? Sono molto demoralizzato, abbattuto, mi è venuta a mancare la molla, lei era il mio riferimento spirituale. Ovvio che uno deve farcela autonomamente, ma questo mi ha dato una mazzata pazzesca – ha aggiunto, sostenendo di poter riuscire a riemergere e a superare le dipendenze solo in un modo - . Perciò dico: accendiamo le telecamere. Ho bisogno di una motivazione, così non posso ingannare il pubblico. Vorrei documentare passo per passo che sto uscendo dalla dipendenza, già da adesso… Ci vuole forza, lo so. Ma io sono come Cristo, ho una forza pazzesca”. La “cura disintossicante” di Morgan, a suo dire, sarebbe proprio la tv. “[...] Vorrei le telecamere addosso, in modo tale che potesse essere vista da tutti; così i miei detrattori non avrebbero più niente da dire. Basta”, ha aggiunto. Per quanto riguarda Alessandra Cataldo, madre della sua terzogenita Maria Eco, invece, Morgan si è limitato a poche e sofferte parole dichiarando conclusa quella relazione. “Alessandra è una persona che mi ha voluto e mi vuole molto bene, sta facendo la madre in maniera encomiabile, ha sopportato tanto di me e sarebbe disposta ancora a sopportare… - ha rivelato lui commosso - . Ma io vedevo la storia con lei giunta a un suo epilogo. Bello, certo, perché avere un figlio è un magnifico regalo. È stupendo, e le ho detto grazie per tutti gli anni che ha dedicato alla mia vita…”.

Giuseppe Fantasia per "huffingtonpost.it" il 29 maggio 2020. Dici Morgan - pseudonimo di Marco Castoldi, fondatore ed ex frontman dei Bluevertigo – e nella mente di molti si accende la lucina rossa di una cinepresa immaginaria su un mondo - il suo, che è poi anche il nostro - fatto di polemiche, esagerazioni, litigi, abbandoni (plateali e non), ritorni e ancora abbandoni, cuori infranti, altre incomprensioni, altre liti, persino un pignoramento e una vendita all’asta della sua casa a Monza, quella per cui aveva chiesto un salvacondotto economico per motivi artistici e di cui ne racconta la triste vicenda in “Essere Morgan. La casa Gialla”, il suo libro appena pubblicato da La Nave di Teseo, il primo di una trilogia, un viaggio speciale nella sua arte raccontata attraverso gli oggetti di quella casa che è stato costretto ad abbandonare. Siate onesti voi che leggete. Chi non ha mai pensato, almeno una volta: “ma Morgan ci è o ci fa?”. Il confine è quasi sempre sottilissimo, inafferrabile, e finisce col far dimenticare ai più che in realtà lui è un grande artista e musicista, autore, tra gli altri, di “Canzoni dell’appartamento”, il primo album da solista che nel 2003 conquistò il grande pubblico grazie a testi minimali e arrangiamenti finemente curati. Perché, dunque, voler dare una immagine diversa da quello che si è realmente? – ci chiediamo. “Se è accaduto– spiega a telefono all’Huffpost con la sua inconfondibile voce calda e profonda – è perché sono sempre stato a favore della libertà di pensiero e perché molte volte sono andato a colpire centri nevralgici che hanno poi reagito mettendomi in una condizione di sofferenza. È tutto lì, lo sa? È la sofferenza quello che ho, non è altro”. “L’eccesso, continua, è qualcosa che va oltre il limite e non mi riguarda, perché a me piace essere contenuto entro quel limite. Se sono sempre riuscito a fare delle cose – i concerti, le ospitate live in tv e altro - è perché conosco i confini, i termini nel tempo, nello spazio e nella morale”. 

Come si definirebbe?  

“Sono una persona ottimista che quando si sveglia è allegro, ha sempre una parola gentile per chiunque e per qualsiasi cosa. Poi, però, arrivano i cattivoni, si mettono in mezzo e pensano che Morgan si possa prendere per il culo e raggirare… dopo un po’ mi girano i coglioni. Sono però talmente tranquillo e buono che li lascio fare, li lascio pensare che non mi sia accorto di tutto quello che stanno facendo e non glielo dico. Non sono una persona oltraggiosa. Sono inculabile, ecco. Poi, certo, sono anche un intrattenitore, uno che si mette sul palco e suona, per il suo pubblico, perché sa che può essere vario, pieno di persone fragili e sensibili che meritano solo rispetto”. 

Dove si trova in questo momento?

“Sono nella Torre Garibaldi, a Milano, in una specie di prigionia, di eremo”. 

In che senso? 

“È una cosa strana che non ho ancora identificato bene, però so che sono completamente prigioniero. Lavoro costantemente come uno schiavo. Sono schiavizzato”. 

Scusi, ma da chi? 

“Le spiego. La mia giornata-tipo è una giornata angosciante in cui sono – come le dicevo – completamente schiavo. Mi sveglio la mattina, mi metto a lavorare al computer, faccio delle cose che vanno in varie direzioni, poi, però mi accorgo che finisco sempre in una situazione che è un cul de sac. Ho ostilità a pubblicare, non riesco a pubblicare nulla, addirittura adesso il mio staff si è messo contro di me e non pubblicano quello che gli dico. Sono bloccato telefonicamente, sono silenziato, hanno detto così. È un momento di silenziamento”. 

È vero che Morgan non risponde mai al telefono?

“Non è che non risponde, è che il mio telefono è silenziato, praticamente non funziona. Ne ho comprato un altro e deve esserci forse, boh, una congiuntura astrale, perché ci sono dei contatti che mi sono stati completamente bloccati. Non posso averci più a che fare”. 

Hanno paura che sia pericoloso o che possa dire delle cose che diano fastidio? 

“No, in realtà si tratta del mio ambiente che sa benissimo che scrivo un sacco di canzoni e mi tengono a pane e acqua, a fare questo, a lavorare alle canzoni. Non faccio concerti, non vengo portato in pubblico, sono completamente schiavizzato a scrivere musica che poi usano altri. È una situazione che non mi piace”. 

Che non possa fare i concerti o esser portato in pubblico è normale, visto il momento particolare che tutti stiamo vivendo. Cosa le manca? 

“Ogni tanto vorrei anche scopare per esempio, cosa che non faccio”. 

Suvvia, a questo non ci crede nessuno. 

“Eppure si sbaglia di grosso, perché non faccio proprio niente di tutto questo e h24 sono completamente schiavizzato”. 

Cosa ha fatto in lockdown? 

“Le stesse cose che faccio adesso oltre ad aver avuto una strana reazione da parte della mia partner Angelica (Schiatti, ndr) che si è completamente negata. Forse è stata lei a costruire tutto questo ‘impianto’. Credo che sia andata da qualche parte a fare qualche trattamento psichiatrico. Fatto sta che è tornata ed è priva di emozioni e sembra sia gravemente lesa dal punto di vista psichico. Non mi permettono di incontrarla. C’è sotto qualcosa di veramente strano, i monzesi ricchi borghesi hanno fatto una cosa alla Giulietta e Romeo”. 

Durante questa quarantena è diventato padre per la terza volta (Morgan ha già una figlia, Lara, avuta da Jessica Mazzoli e Anna Lou avuta da Asia Argento, ndr)

“Sì, di Maria Eco, nata il 17 marzo dalla relazione con Alessandra (Cataldo, ndr), una bambina fantastica, bellissima, che cresce e che è la mia gioia. Lei mi apprezza molto e quando le canto la ninna nanna, si addormenta subito. Facciamo però chiarezza”. 

Prego. 

“Quando si parla di amore, dipende sempre di chi stiamo parlando. Sono una persona a cui piace vivere sentimenti ed emozioni e anche tradurli in espressione. Spesso, chi fa quello che faccio io, l’artista, ha anche delle muse ispiratrici. La musa per un poeta è un ruolo ben preciso. Non si può paragonare la relazione platonica, onirica, artistica alle relazioni che finiscono nei comuni con il matrimonio, quelle sono altre cose. La famiglia esiste, ma esiste anche la libertà del cuore, la libertà di parlarsi, di conoscersi, di non frustrare le pulsioni, gli istinti. Invece a me che sono così libertario, mi capita di avere una relazione come quella che avevo con Angelica da circa dieci anni che si è poi trasformata in un’amicizia. Alessandra, invece, è arrivata dopo e c’ho fatto pure un figlio. È un ben regalo fare un figlio, o no?”.

Immagino, mi dicono di sì.

“Uno deve essere molto contento se vieni reso genitore, devi esserne molto grato. È un bel regalo che si fa a una persona. Sono disposto a fare il padre di mille bambini, adoro fare il padre”. 

Questo, nonostante le accuse che le sono state fatte dalla sua ex Asia Argento in tv che le ha augurato, con la terza figlia, di essere un padre presente? Non lo è stato?

“Non ero presente? Ma ti credo! La madre era Asia Argento, ci mancherebbe. Mi faceva una guerra, mi picchiava durante il sonno, di notte mi trovavo i pugni in faccia. Mi ha conciato per le feste e si lamenta pure che non ci sono? Io ho sempre fatto quello che dovevo fare, sia economicamente che come presenza fisica, poi però portano via le figlie, si lamentano. C’è questo grande dominio della figura femminile ultimamente mascherata dietro la debolezza della donna, ma in realtà, la donna, ormai, ha instaurato un vero e proprio matriarcato, una cosa che non c’era mai stata. Adesso siamo finiti nel matriarcato. A me va benissimo, per carità, io adoro le donne, ho vissuto con sette donne – madre, zia, sorella, nonna e altre – e a sedici anni mi ritrovavo a fare l’uncinetto con loro. Ho una profonda ammirazione per il mondo, la psiche e l’emotività femminile. Ho amiche donne con cui non ho una relazione di coppia, sono solo amiche. Angelica, come le dicevo, era la mia migliore amica, ma è andata come è andata e ci siamo innamorati. Solo che la sua famiglia – sa quelle famiglie molto possidenti e alto borghesi? – si è messa in mezzo. Il nostro era un rapporto culturalmente particolarmente bello, era creativo, di collaborazione, e trovo che interromperlo così, arbitrariamente, non sia stato un bene”. 

È stato mai con uomini?

“No, perché ho una sessualità molto precisa che è l’eterosessualità. Questo non vuol dire che io non abbia una componente femminile molto alta. Le donne insegnano la gentilezza, il garbo e l’eleganza; gli uomini, invece, sono spesso gretti e incapaci di cogliere il particolare”. 

Quindi Morgan è single? 

“Più che single, sono disperatamente solo. Single è un’altra cosa. Sono esistenzialmente solo”. 

Cosa le sta insegnando questa solitudine?

“Sto studiando la psicoanalisi. Questo caso della mia ex che torna da un’esperienza in cui le è stato estirpato il sentimento facendola essere spenta, un automa, una specie di avatar - mi ha inquietato molto. La considero una sorta di ‘macelleria’ della psicologia. Ho studiato questo caso che è il disinnamoramento forzato che si basa un po’ su principi della psicologia inversa ed è una roba che massacra l’uomo. Loro non te lo dicono e vogliono solo costruire la figura del mostro che acquisiscono dentro. Ovviamente c’è una distanza, e questo periodo di quarantena ha influito molto, è stata per loro una manna dal cielo. Si sono dovuti autoconvincere che il tuo partner è violento e altro. Dato però che non è vero, cosa hanno fatto?"

Ce lo dica.

“Hanno dovuto esasperarlo per fargli venir fuori il violento che c’è. Mi minacciano, persino, dicendomi che so bene per quale motivo lo fanno, ma in realtà io non lo so”. 

Cosa ne pensa del movimento #MeToo di cui la Argento è stata il simbolo?  

“Non so cos’è…No, guardi, non voglio entrarci, non sono cose che approfondisco. Mi occupo di altro, di altri problemi. Ad esempio, dal punto di vista sociale cerco di combattere il sistema dello strapotere informatico oltre all’arte”. 

A proposito di arte e cultura, lei ha scritto una lettera al Ministro Franceschini chiedendogli che intervenisse sulla faccenda legata alla sua Casa Gialla: le ha risposto? 

“No, Non mi ha mai risposto”. 

Cosa avrebbe voluto che facesse? 

“Mi aspettavo da lui e dagli italiani una maggiore coscienza. Gli italiani hanno dimenticato, probabilmente, che in Italia c’è l’80 % delle opere d’arte del mondo e credo che questa dimenticanza, chiamiamola così, sia un problema culturale molto grave. Se noi fossimo in grado di valutare quello che abbiamo, vivremmo molto meglio. Tutto quello che avviene, invece, non è dignitoso. Non si da’ valore alle persone, alle cose, all’arte. Se fossimo in grado di dare il giusto valore a noi stessi, ad auto valorizzarci, noi saremmo il Paese più ricco del mondo. Invece no. Perché, in merito alla mia casa, il tribunale deputato non ha potuto valutare il concetto di valore artistico? Perché non esistono leggi in merito. È stato compiuto un disastro illegale sotto gli occhi di tutti senza che nessuno intervenisse. Hanno sfruttato l’anomalia della situazione, l’assenza di regolamenti, il fatto che non ci siano leggi in questo campo, ma un menefreghismo totale. Tra i tanti oggetti che non trovo più, c’è anche il mio basso, che era poi quello dei Bluevertigo. I fan mi hanno scritto per quale motivo l’abbiano fatto, perché per loro quel basso è una cosa importante e per me è uno strumento di lavoro, non un soprammobile”. 

Nel suo caso cos’è che fa la differenza? 

“Il mio suono è la principale differenza, la principale componente della musica che faccio. Nessuno porta le ragioni dell’arte come motivazione e come leva. Quando si fanno gli sfratti e gli sgombri forzati, le ragioni dell’arte cadono, ma sono cose da bambini. L’arte così smette di valere". 

Si sente rappresentato politicamente? 

“Guardi, per me Conte ha una bella costumeria. Non l’ho visto particolarmente sovrano. Quando incontro Salvini parliamo di De André di cui è un grande appassionato, quindi per me è De André. Anche Grillo mi è simpatico. Le sardine cosa sono? Piccole sarde? Dei pesci o delle donne?”. 

Il suo preferito è stato Marco Pannella, non lo ha mai nascosto. 

“Lui sì, ma lì eravamo ad altri ed alti livelli. Ha rappresentato l’arte dell’esprimersi, del dialogo, del conoscere e del far conoscere. Era un politico che come tanti uomini di cultura era convinto che se il popolo ne avesse saputo di più, il Paese sarebbe stato migliore. Invece ci sono dei politici e degli uomini di potere in genere che pensano che se il mondo fosse fatto da gente intelligente e acculturata, loro avrebbero indubbiamente meno potere. Viva le canzoni. Se tutti sapessero scriverle, ci sarebbe una qualità della vita migliore, non solo della musica, e certa spazzatura che c’è oggi nel mondo, non ci sarebbe”.  

Altro suo idolo: David Bowie. 

“Ha rappresentato un grande discorso di caduta tra l’arte alta e l’arte bassa, una frattura tra la musica colta e la musica pop. Le ha fatte entrare l’una nell’altra creando un nuovo modo di concepire il rock. Con lui il rock è diventato finalmente arte, teatro, un discorso che poi è andato verso il concetto di sound and vision che oggi è quello che abbiamo. Bowie è stato il primo artista veramente moderno che ci ha consegnato il concetto di media e multimedia”. 

E Franco Battiato con cui ha collaborato in Gommalacca? 

“Altro mio idolo, come dice lei. È un inventore, un innovatore, un originale che ha creato veramente con libertà delle cose straordinariamente diverse da quello che c’è in giro. È l’anti standard, non è omologato, ha un modo di pensare tutto suo ed è anche lui completo, perché ha approfondito il testo, l’arrangiamento, il suono, la forma della canzone”.  

Oltre al look, allo stile, aggiungiamo. Anche nel suo caso è stato ed è così. Nel libro parla del suo amore per la giacca che – cito le sue parole – quando compare in un testo acquista un’aurea mitologica. 

“In quella casa gialla ne avevo circa 400 di giacche che adesso saranno vendute all’asta virtualmente insieme a tutte le cose che c’erano. Le porteremo in un luogo, tutti ne saranno proprietari e ricostruiremo la casa gialla. Quel luogo sarà un centro multiculturale, musicale, sociale, un museo per bambini dove poter affittare strumenti, fare concerti. Insomma, un museo, il mio museo piano bar”.

In passato lei si è dipinto le unghie. Qualche giorno fa, lo ha fatto anche Fedez che ha ricevuto diversi attacchi omofobi. Cosa ne pensa? 

(Morgan inizia a cantare) “Per fare Fedez, ci vuol lo smalto, per far lo smalto ci vuole l’unghia, per fare l’unghia ci vuol la donna, per far la donna ci vuole l’uomo…” 

Suvvia, le sto dicendo una cosa seria. 

“Aspetti, le racconto questo su Fedez: ha una quadro di Escher tatuato sul collo, solo che non lo sapeva. Me l’ha fatto un mio amico, mi disse. Uscii dal palazzetto di XFactor e andai a compragli un catalogo di Escher per farglielo conoscere”. 

Torniamo agli attacchi omofobi. 

“Ma chi sono gli omofobi? Esiste un partito? Una congregazione?” 

Mi sta dicendo che per lei non esistono?

“Per me esistono solo gli omofoni, coloro che hanno lo stesso suono, a me piacciono quelli, non gli altri che non considero neanche”. 

Si è mai pentito di qualcosa? 

“Sì”. 

Di cosa? Del gesto fatto a Bugo a Sanremo?

“No, quello lo rifarei al contrario. Invito Bugo a farlo a me: vediamo se esco o se replico. A Sanremo ribalterei la cosa. Voglio che si dica: dov’è Morgan? Voglio rifare la stessa vignetta ma al contrario. Una cosa, invece, non rifarei mai: AnnoZero con Santoro, una cosa tremenda”. 

XFactor lo rifarebbe?

“Certo, volentieri". 

Le ha dato molto come esperienza?

“Sì, ma in realtà da un certo punto di vista sono stato io ad aver dato molto a quel programma”. 

La tv generalista cosa dovrebbe offrire?

“Un programma di Morgan che parla di musica, ma stavolta in Rai. Ora la devo salutare”. 

Ultima cosa: quanto è difficile essere Morgan? 

“È un casino. Bisogna essere molto molto resistenti, lei non ha idea di che pazienza e bontà ci vogliano per esserlo”. 

Lettera di Morgan a Dagospia il 22 maggio 2020. Come si può voler bene ed essere persone virtuose se il sospetto è al posto del rispetto? Come potrò io rivederla senza essere accusato di ...di cosa? Di essere innamorato? (Da quando amore e' reato?) Come potrà lei vivere il suo sentimento libera dal condizionamento se non può avere nessun contatto con la persona nessun collegamento. E come si può giudicare qualcuno che non vediamo non incontriamo? Chi può dire come e' un quadro che non vede? Come possiamo apprezzare le poesie di un poeta che non abbiamo letto, ma ancora peggio , che non lasciamo scrivere. Qualcuno di voi può essere sicuro di amare o non amare un essere umano che non può:Incontrare, Ascoltare, guardare, contattare?

Ida Di Grazia per leggo.it il 26 maggio 2020. «È un po’ una parodia di Essere tempo di Heidegger, è un lavoro che ha a che fare con la forma. Nel primo c’è la forma intesa come fisicità e spazio, il secondo è sulla forma della poesia, il terzo è sulla musica. Parlo di forme perché ci sono tanti disegni nel mio modo di scrivere e tanta grafica. Infatti mi piacerebbe si parlasse di grafica del linguaggio, la parola come segno e non solo come suono».

Ha disegnato tutto lei?

«Ho fatto tutto io, i disegni e anche la parte letteraria, non ho avuto un ghost writer. Nella mia semplicità di scrittura ho la pretesa di avere il controllo di ciò che dico».

Lei parte con una lettera al Ministro dei Beni culturali in cui fa una proposta, di che cosa si tratta?

«Casa gialla è realmente la mia casa dello sfratto, gli oggetti sono tutti veri, lancio un’asta online in cui una persona interessata diventa proprietario virtuale di quell’oggetto e con il ricavato di tutti gli oggetti venduti, io prenderò un luogo dove tutti sono proprietari. Un museo dove fare conferenze o visite scolastiche, e la sera si suona. Poi ho proposto di creare una sorta di albo in cui ci si iscrive come artisti in modo da dare un senso di organizzazione civile al lavoratore. Per cui un artista che vuole la tutela deve dare l’autorizzazione ad essere monitorato e dimostrare quanto vale… ma da vivo, non da morto».

Ora dove vive?

«Case casuali».

Aveva già in mente la trilogia?

«L’ho già tutta scritta nella casa gialla mentre venivo sfrattato. Quello su Bugo l’ho scritto dopo Sanremo, nell’altro ho l’ambizione di pensare che dopo aver letto il libro tutti sappiano scrivere una canzone. Spiego ad un alieno in parole semplici cos’è una canzone e poi si scoprirà che in realtà l’alieno era mio padre. C’è quindi una vicenda autobiografica che troverete tutta nel glossario».

Che cosa è successo a Sanremo?

«È stato un gesto poetico divertente che ha a che fare con il palco, che io ho fatto entrare nella vita. Ho detto delle cose che lui non mi faceva dire, mi facevano bullismo da due mesi. Ho invitato Bugo a Sanremo per l’anno prossimo a ruoli inversi a fare Dov’è Morgan, lui deve riuscire a organizzare una roba del genere e io devo decidere se restare o andarmene. Anche soltanto con gag mi piacerebbe farla».

Amadeus secondo lei approverebbe?

«Amadeus si è divertito, Fiorello era proprio preoccupato. Ma ragazzi questo è fare spettacolo, che devi fare tristezza? Io ho fatto una cosa che ha dato brio, ho ribaltato il concetto del testo e con otto versi ho dato la prova che non serve essere volgari o fare scandali particolari, io ho spazzato tutte le polemiche degli altri senza dire una parolaccia».

Su Facebook ha lanciato un contest sulla triste quarantena facendosi inviare dei video, sono arrivati?

«Mi è arrivato tutto ho provato a montarlo, mi è venuta una malinconia pazzesca che mi ha portato ad una deriva assurda e adesso cercherò di recuperare quel materiale e metterlo in un'altra circostanza perché stavo davvero sprofondando. Mi piacciono le emozioni forti ma questa è stata una botta proprio. La quarantena per me è stata un’agonia vera».

Ogni anno quando si parla dei nuovi giudici di X Factor spunta sempre il suo nome.

«Ma perché c’è ancora? Sembra una roba dell’altro secolo. Sarebbe bello per me fare qualcosa in tv che riguarda la competenza musicale, noto che il mio stile piace alle persone».

Cosa le piacerebbe?

«Vorrei fare un programma come Studio Uno Mina Gaber, con un immaginario rai super tecnologico».

Chi dovrebbe essere Mina?

«No questo glielo svelo alla prossima intervista».

Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. «Nascono canzoni e finiscono amori». Di musica Morgan ha voglia di parlare: «In queste settimane coi Bluvertigo stiamo scrivendo un disco a distanza. Sono ispirato drammaticamente dal momento, sono canzoni malinconiche». Dei sentimenti meno, ma lascia filtrare un momento difficile nella relazione con Alessandra Cataldo da cui è nata il 16 marzo Maria Eco: «Una quarantena di dolore assoluto. Non aggiungo altro». Esce domani Essere Morgan - La casa gialla , primo volume di una trilogia per La Nave di Teseo, in cui il cantautore racconta la sua vita incrociandola con quella della casa di Monza che lo ha visto protagonista di un caso giudiziario la scorsa estate.

Riassunto legale per chi si è perso le puntate?

«L' agenzie delle entrate blocca ogni guadagno per ripianare un debito, quindi non posso pagare gli alimenti per le mie figlie. Così la casa è stata pignorata e sono stato cacciato. Secondo me è incostituzionale: senza la mia abitazione-laboratorio non posso esercitare il diritto al lavoro».

Il libro si apre con una lettera al ministro dei Beni culturali Franceschini e una proposta di legge per tutelare le case degli artisti...

«Il ministro avrebbe dovuto dire "giù le mani dalla casa di Morgan". Era compito suo dire che aveva un valore artistico. Non si è degnato. Ha detto che non ci poteva fare nulla perché non era un edificio storico».

Chiede un privilegio?

«Sui social hanno reagito in molti così. "Chi ti credi di essere?". Spero che l' aver vissuto in casa forzatamente abbia fatto capire a tutti il valore della propria abitazione. Io ho fatto un album che si chiama "Canzoni dell' appartamento" nel 2003 e a Sanremo nel 2016 con i Bluvertigo portammo "Semplicemente" il cui testo, come mostra una foto nel libro, è legato agli angoli della casa. Adesso che è tutto ammassato in un deposito ha perso il valore artistico».

Nella proposta di legge immagina un registro pubblico degli artisti. Non è rischioso che lo Stato decida chi è artista e chi no?

«È rischioso, ma si spera che sia un meccanismo osservato e vigilato. Non dovrebbe essere in mano al ministero, forse a un' authority».

Lei si immagina anche un questionario in cui il richiedente si dovrebbe autodefinire: esordiente, in ascesa, sopravvalutato, sottovalutato. Che croce barra?

«Sottovalutato. Lo stile musicale italiano non è conforme alla mia modalità espressiva: sarei dovuto nascere in America o in Inghilterra. Oppure in un altro momento: nei primi del 900 come Puccini».

Non le piace la musica italiana di adesso?

«È piatta, non c' è ricerca armonica, ha paura, è prostrata al gusto della gente».

Valore artistico a parte, i colleghi le sono stati vicini?

«Li chiamavo e sembrava avessero paura che gli chiedessi soldi. Non volevo quelli, volevo le loro opinioni, creare dibattito. Li disprezzo. Pensano solo al conto corrente, non hanno senso civico. Lo si capisce anche dai testi delle canzoni dei miei coetanei: non vorremo paragonarli a Vecchioni e Guccini, vero?»

Non salva nessuno?

«Vittorio Sgarbi, il Club Tenco, Pupi Avati, il senatore Pittoni, Sergio Staino... Nella musica Tiziano Ferro che è stato sensibile nonostante in passato avessi detto cose acide sul suo conto e, dal mondo underground, Lodo Guenzi, Angelica... e anche Bugo».

Pace fatta dopo Sanremo?

«Mi ha strumentalizzato. Mi ha fatto cantare mentre ero sotto sfratto... voleva solo il mio nome e la mia voce».

Perché «casa gialla»?

«Era come la chiamava Anna Lou, mia figlia che ho cresciuto lì nei primi 4 anni di vita. Pensate alla crudeltà di Asia.. Ora è tutto in un deposito, senza ordine».

Come sarà la prossima «casa gialla»?

«Ora vivo in corso Garibaldi a Milano in una torre... Non ne costruirò un' altra. Immagino una factory, un centro culturale con un hotel da una camera sola».

Dal suo archivio fotografico ha recuperato un servizio in cui posava senza veli e pesava 47 chili...

«Un crollo fisico dopo la fine della storia con Asia. Una notte mi guardai allo specchio: "domani potrei non essere più al mondo". Chiamai Alice Pedroletti per testimoniare il momento».

«Essere Morgan» sarà una trilogia...

«Ho già fatto avere tutto a Elisabetta Sgarbi, il mio editore. Il secondo volume sarà Dov' è Bugo? , ricostruzione cinematografica, con nomi inventati, dei fatti sanremesi. Nel terzo, La canzone perfetta , insegno a scriverne una ad un fantasma alieno che si scoprirà essere mio padre».

Giampiero Mughini per Dagospia il 13 maggio 2020. “Semplicemente” è una canzone di Marco Castoldi detto Morgan del 2016, di quando abitava ancora in via Adamello 8 a Monza, la villetta rossa a due piani in stile liberty da lui comprata nel febbraio 2002 e che una sentenza di un tribunale italiano gli ha portato via nel giugno 2019 a parare debiti che Morgan aveva contratto con il fisco e con la compagna da cui si era nel frattempo separato, l’attrice Asia Argento, alla quale non aveva versato i soldi necessari al mantenimento di Anna-Lou, la loro figlia nata nel 2001. Lo squarcio lancinante e irrimediabile che deve essere il perdere per sempre la propria casa/laboratorio, lì dove sono riunite le tracce di una vita e gli strumenti essenziali del proprio artigianato creativo, Morgan lo racconta, o meglio cerca di trasmetterlo a noi che stiamo leggendo, in un libro (“La casa gialla”) appena pubblicato dalla casa editrice di Elisabetta Sgarbi. Un libro da guardare oltre che da leggere, com’è tecnicamente dei libri cosiddetti “d’artista”, quelli in cui il format del libro tradizionale viene forzato se non stravolto dall’autore in direzione del supporto visivo del racconto. In questi casi il libro resta libro, ma è anche una galleria di figurazioni, di suggestioni visive, di assonanze cromatiche. Ad avere in mano “La casa gialla” sbalzi dalla pagina in cui è il racconto di un episodio di vita vissuta con Loredana Bertè alla pagina in cui è il collage fotografico dove sono stipati Morgan, Franco Battiato, Manlio Sgalambro. Tutto è racconto ma anche suggestione visiva in questo libro. A cominciare dall’autoritratto di copertina di mano dello stesso Morgan, dalla sfilata di chitarre e pianoforti e sintetizzatori elettronici e il basso acustico Hohner di cui Morgan si è avvalso in 25 anni di carriera, dalla sequenza degli abiti di scena disegnati e inventati dallo stesso Morgan e dalla foto di pagina 81 dov’è ritratto il soggiorno della casa di via Adamello, una foto dove Morgan elenca a forza di frecce tutti i particolari e i gesti abituali di quella stanza poi convogliati nel testo della canzone dal titolo “Semplicemente”.  A ribadire quanto per un artista il suo fare e la sua casa siano un tutt’uno, ed è una ferita mortale che quel duo sia stato reciso, che quella unità morale e sentimentale sia stata interrotta o meglio “lesionata”. Come se i gesti e le parole della canzone del 2016 avessero perso il loro antefatto, il caldo luogo umano che le aveva incubate e modellate, e fermo restando che noi non diremo un parola se sia stato giusto o no eseguire quella sentenza di sfratto pronunciata da un tribunale italiano. Né pronunceremo una parola che sia una sulle vicende personali di Morgan, che credo parecchio ma parecchio complesse e che stanno per essere arricchite dall’arrivo di una terza figlia. Tre figlie da tre madri diverse. Auguri. Quando Morgan la comprò, la casa di via Adamello era ridotta al perimetro murale. Dentro era il vuoto, un abisso. Lui la rifece perciò daccapo, tutto secondo la sua misura e il suo gusto (di uno che aveva studiato un tantino di architettura e il cui padre faceva il falegname) e purché i colori fossero i più sgargianti possibile. Disegnò delle librerie in legno bianco talmente minimaliste che i libri sembrano appesi alle pareti. Comprò per ogni dove delle piccole cornici dorate entro le quali mettere degli specchi che facessero da testimoni di tutto quello che succedeva in casa. Apprestò degli armadi che facessero da “costumeria”, da ripostiglio degli abiti che lui s’era fatto confezionare da Roberto Cavalli per ciascuna tournée o concerto e che avrebbero dovuto costare 20mila euro l’uno se messi in produzione. Su una parete di casa ha apposto alcune delle 99 serigrafie di personaggi a lui cari che ha poi fatto stampare su magliette da regalare agli amici. Ad Adriano Celentano ha regalato una maglietta con l’immagine di Jacques Brel, al nostro comune amico Stefano Bonaga ha regalato una maglietta con l’immagine di Bertrand Russel. Fra le serigrafie appiccate alla parete ce n’è una che ritrae Bruno Munari, e io mi commuovo ogni volta che fa capolino quel nome per me sacro. Da qualche parte della casa, non so esattamente dove, era affisso un perentorio invito: “VIETATO connettersi/ ad un QUALSIASI indirizzo / internet SOCIAL NETWOK / in questa casa / i trasgressori saranno puniti con un’ammenda di Euro 20”. E’ raro che io scriva di qualcuno senza sapere tutto di lui. E invece quando ho preso in mano “La casa gialla”, sapevo poco e male di Morgan. Non avevo letto purtroppo i suoi due libri precedenti, e quanto al tempo in cui irruppero sulla scena musicale italiana i Bluvertigo ero ancora troppo marchiato dalla musica della mia giovinezza _ il progressive rock dei Settanta con tutti i suoi annessi e connessi _ per prestar loro la dovuta attenzione. Sapevo e so che quella dei “morganisti”, ossia degli estimatori di Morgan al cento per cento, è una tribù compatta e fiorente. Leggo su Internet i loro pareri a proposito dell’uno o dell’altro video di Morgan: “Questo sì che è un signor musicista, quelli che passano continuamente in radio possono stringergli i lacci delle scarpe e forse nemmeno quelli”. Una morganista della prima ora è la mia preziosa amica Barbara Costa, che sull’argomento mi ha fatto delle lezioni universitarie, anzi me le faceva da tempo. Sono contento di avere letto questo libro e di avere cominciato a conoscere meglio questo artista a 360 gradi quale non molti altri lo sono. A 360 gradi. Dalla decennale collaborazione musicale con Battiato da cui sono stati eruttati un paio di dischi, al disegno quanto di più non figurativo riprodotto alla pagina 231. Ed è un bellissimo, oltre che fedelissimo, ritratto di Elisabetta Sgarbi.

Estratto da “Essere Morgan. La casa gialla” pubblicato da “la Repubblica” il 13 maggio 2020. L'appartamento è una casa d' artista per sottrazione, è l' opposto della casa museo, non è esibizione, ma "interiorizzazione". In genere è una casa piuttosto ordinaria, normale, in cui apparentemente non ci sono tracce artistiche e non c' è alcuna raffigurazione della vita artistica, ma è l' espressione minimalista della sua vita. Un luogo privo di elementi vistosi, eccentrici, è sobrio ed elegante. L' appartamento d' artista è in un condominio, ed è mimetizzato tra le altre case, privo di eccessi ma, in realtà, da un' indagine accurata questa casa rappresenta con raffinatezza una speciale capacità di scelte, perché tutto quello che c' è è essenziale. Se si tratta di un musicista, ci saranno magari pochissimi mobili e ci sarà il pianoforte. Se è una casa dello scrittore, ci saranno forse pochi libri ma saranno fantastici, libri fondamentali. Gli elementi dell' appartamento sono di grande importanza e profondità, ma nulla partecipa a una generale esuberanza, non è prevista sovrabbondanza dove regna il predominio di una lucida ricerca dell' essenza. La casa di Ivano Fossati a Genova è una casa di questo genere, non c' è esibizione dell' immagine e immagine dell' esibizione, solo l' idea della vita appartata dalla ribalta e dedicata all' arte, in questo caso prende pieno significato la parola appartamento e allude all' appartarsi da tutti nell' isolamento creativo, come in preghiera. La casa di Battiato a Milano, che ormai è stata invasa e cancellata, era elegantissima, in un palazzo signorile, dentro c' era il minimo indispensabile, quasi un' atmosfera monacale, ma c' erano le finestre con i vetri cattedrale che al pomeriggio filtravano la magia dei raggi del sole e li trasformavano in parole. Mensole con libri, pochi ma tutti belli, tutto sobrio e funzionale, non strumentazione incasinata, ma al centro del locale il grande pianoforte da suonare, delle penne qua e là o delle matite (che non devono mancare), delle carte e, sempre sopra al tavolino, tutti i giorni almeno un quotidiano a riportarti nel reale, il resto tutto normale, le sedie, quel minimo di piatti e di bicchieri, il servizio da tè e da caffè usato in orari regolari e un separé cinese di cui mai ho capito il senso, forse si trattava di un regalo. La casa milanese di Battiato viveva molto spesso nell' intelligenza di un silenzio luminoso, la stessa cosa che è una raffigurazione di astrattismo pittorico metafisico. L' appartamento dell' artista è un luogo della metafisica in cui anche gli spazi vuoti e le pareti bianche sono qualcosa di commovente. Case come quella sono le meno eclatanti, le meno capite, le più a rischio della distruzione cieca dell' inquilino che si insedia noncurante a dare una bella mano di vernice, accendere il televisore a palla, a vivere per qualche tempo nell' illusione che si possa costruire qualche cosa sopra un luogo dove si è voluto far morire lo spirito dell' arte.

Gianmarco Almi per "fanpage.it" il 25 febbraio 2020. Un genio vero o un talento sprecato? Un provocatore o un esteta? Un esegeta musicale o un personaggio da baruffa televisiva? Difficile inquadrarlo, ancora di più dopo la squalifica da Sanremo per l’invettiva in versi contro Bugo che ormai è diventata molto più di un fenomeno virale e accostata a una performance di arte concettuale. E forse l’unico che può fare chiarezza in questo caos, paradossalmente, è proprio lui: Marco Castoldi, in arte Morgan. Lo incontro a Milano, zona Piazza Sempione. Ai tavoli della pizzeria Taglialà, dove sembra di casa e ci riservano uno spazio di riservatezza, si presenta con la sua compagna, Alessandra, che tra pochi mesi gli regalerà la terzogenita. È rilassato e ha voglia di rimettere un po’ di ordine nel mare magnum di congetture che circolano sul suo conto da una decina di anni a questa parte. Visto che della questione sanremese si è detto tutto e il suo contrario, ci diamo una regola: proviamo a non parlarne. Eppure, nonostante gli sforzi, il patto durerà poco. Ma sarà utile per spostare l’attenzione verso l’uomo e l’artista. Dal cambio di prospettiva, emergerà una vera e propria poetica di Morgan. Ai posteri, l’ardua sentenza.

Dopo ogni polemica che ti riguarda, ritornano sempre le solite domande: Morgan è un talento vero o sprecato? Perché non pubblica dischi? Avrà problemi di droga? Il critico Gian Paolo Serino ha addirittura lanciato una sfida: chi ricorda una sua canzone? "Altrove" la conoscono tutti, oppure canzoni di Morgan che in realtà non ha cantato Morgan come "Discoteca labirinto" portata al successo dai Subsonica, "I am happy" dei Soerba prima in classifica nel ’98.

«Io chiederei a Serino: chi si ricorda una canzone di Scott Walker, di Tom Waits o di Brian Eno? Forse se le ricorda lui, perché è un critico. Allora dovrebbe porre la domanda nel modo giusto: io ricordo le canzoni di Morgan, chi altri se le ricorda? L’articolo cambierebbe forma, facendo luce sul fatto che lui conosce determinate cose perché interessato alla musica, ma invece non lo è quindi vuole fare retorica. Chi ha ascoltato i miei dischi si ricorda bene, come quelli dei Bluvertigo, con ‘Altre forme di vita' che ha vinto l’Mtv Music Award, ‘Cieli Neri' molto popolare, "L’Assenzio" e "La Crisi" che tutti cantano, oppure "Le canzoni dell’appartamento", in cui ‘Altrove' è il singolo, così come "Canzone per Natale" di cui sono state fatte varie cover come quella di Irene Grandi».

E allora come mai viene messa in discussione la tua professionalità?

«Chi sostiene che non abbia competenza secondo me sbaglia, perché invece sono uno dei pochi che ce l’ha. In termini di pop e avendo anche preparazione accademica classica. Ma non faccio canzoni pop, solo a tratti, sono simulazioni di pop. Ecco perché non possono gareggiare con quelle da classifica. Ascoltatevi Cantautoradio su Radio2, un incompetente non avrebbe saputo farlo. Ho vinto due volte il premio Tenco. Una addirittura come interprete di De Andrè. Non è che proprio il primo che passa raggiunge questi risultati. Ho anche contribuito a forgiare il sound di Franco Battiato nell’album Gommalacca il cui singolo era "Shock in my town", canzone nata dopo una giornata di conversazione tra me, Battiato e Sgalambro».

Prova a spiegare, allora, come sono le tue canzoni.

«Il produttore Roberto Colombo le ha definite con una “struttura alla Morgan”. Cosa significa? È molto precisa. "Altrove", per esempio, all’inizio è pop e poi prende una strada digressiva dalla quale non ritorna. Prende una deviazione, dopo il momento orchestrale, senza ritorno. Quando canto “svincolarsi dalle posizioni” è la canzone stessa a svincolarsi. "Semplicemente" che portai a Sanremo con i Bluvertigo era apparentemente pop. Con questa forma, anche "Fuori dal tempo" che dura più di 10 minuti ma il vero e proprio pezzo si consuma nei primi 3 dove è pop. Poi si sviluppa la “coda psichedelica”. I Bluvertigo facevano questo, sull’onda dei King Crimson, sviluppata ancora più radicalmente nei dischi di David Sylvian & Robert Fripp, sia studio che dal vivo e David Bowie con i Tin Machine. Ascoltavamo moltissimo band che portavano avanti questo discorso, come Ozric Tentacles e Bark Psychosis».

Insomma, semplicemente sei un cantautore sofisticato?

«La mia canzone preferita che ho scritto è "Una storia d’amore e di vanità", contenuta nella colonna sonora del film Il Siero della vanità, del 2003. Nei titoli di coda c’è la versione strumentale, l’ho poi ripresa nell’album "Da A ad A" nel 2006 e ho aggiunto il testo. È l’esempio tipico di una canzone con struttura “alla Morgan”. Lentamente arriva al ritornello, poi tenterà di rifare una strofa ma andrà direttamente alla coda. Una specie di "Il cielo in una stanza", studiata ad arco, non il semplice alternarsi di strofa-ritornello-strofa. È un discorso unico che porta alla “coda psichedelica”. Lì si consuma l’armonia della canzone, dove c’è un meccanismo a piramide, costruito secondo una progressione che arriva alla terza minore e permette una illusione musicale: quando sta scendendo sembra che invece salga. Si tratta di soluzioni che derivano dall’ascolto di "Ashes to Ashes" di Bowie».

Ok, sulla competenza credo che non ci siano dubbi. Ma a cosa stai lavorando adesso che effettivamente vedrà la luce?

«A un libro che si intitola "La canzone perfetta" dove spiego a un alieno e a un cane come si scrive un pezzo. Se non fossi competente non potrei farlo, no? Sarà illustrato, come il "Poema a fumetti" di Dino Buzzati. Vedrete che dopo averlo letto, tutti sapranno scrivere canzoni. Voglio che sempre più persone imparino, perché il mondo sarebbe migliore e non ci sarebbero in giro canzoni come quelle attualmente in classifica. La cultura si alzerebbe e la gente avrebbe una soglia di tolleranza più alta, chiedendo di conseguenza davvero delle canzoni nuove. Spinoza sosteneva che il giovanilismo fa parte del nuovo, mentre nell’arte va ricercato il vero. Io ritengo che debbano essere insieme, divisi non funzionano mai fino in fondo. È questo l’anelito di un artista. La canzone pop si misura con il contemporaneo, l’invenzione, il progresso del linguaggio e della tecnica, però manca la verità. Ecco perché hanno avuto tanto successo gli otto versi di Sanremo contro Bugo, erano carichi di verità».

Ma perché non un disco di canzoni?

«Sto ancora aspettando che capiscano "Da A ad A". Non mi interessa fare la gara. Comunque, ho 57 canzoni inedite già pronte e molto belle. Ma sai, non temo il passare del tempo. Quando mi dicono “ma non hai paura che invecchino?” No, per nulla. Ci sono tanti motivi, non voglio liquidare così la questione. Visto che siamo nell’ambito di verità, negli ultimi 10 anni mi sono dedicato alla divulgazione musicale, senza fare semplicemente la televisione come altri. Non serve ricordare il record di vittorie a X Factor, che è nel Guinness dei primati. A Chiara Galiazzo durante la finale feci cantare Piero Ciampi e vinse. Non so quanti altri avrebbero avuto questo coraggio».

Quindi, a chi spera in un tuo disco, diremo che si deve mettere il cuore in pace?

«No, forse è arrivato il momento. Contemporaneamente ho proseguito la ricerca e lo studio. Ho prodotto da indipendente del materiale che non è pubblicabile dalla discografia italiana, come tutta l’opera di Bach riaggiornata. La mia lontananza dal mercato discografico dipende dal fatto di aver cercato solo quello che mi piaceva. Potevo sbattermi per pubblicarle, è vero, ma ero più animato dall’esigenza della conoscenza. Nel mentre ho lanciato un altro tipo di messaggio, che non voleva avere le classifiche, non era quello l’obiettivo. Ci sono finito lo stesso, senza cercarlo. Ma io voglio la libertà dal mercato, dalle mode, dai condizionamenti. La libertà è tanta roba e non vuol dire pubblicare. Capisco chi mi dice “perché non pubblichi?” e forse è arrivato il momento, ho tirato troppo la corda. E poi ci sono in giro sono soggetti pericolosi, che mettono in dubbio la mia serietà, una devozione che ho per la musica. A queste persone posso dire che rimarranno sorpresi».

Puoi anticipare qualcosa?

«Parallelamente a Bach ho portato avanti un lavoro di ricerca elettronica, perfezionando il mio uso delle macchine e diventando completamente indipendente. Ho creato delle canzoni con una forma cangiante, che puoi usufruirne solamente se ci sono io. Ogni volta sono diverse all’ascolto. Il supporto disco con queste non ha senso. Mi ricorda l’ernia al disco oppure il disco orario. Non ho nostalgia di questa roba che gira. La musica non ha a che fare con qualcosa che ruota, semmai che procede in direzione orizzontale o verticale. Un nastro, per esempio, scorre. Ho lavorato a una nuova struttura delle canzoni mentre ero infervorato dallo studio dell’intelligenza artificiale. Sono tornato all’università, ho seguito le lezioni di Douglas Hofstadter (filosofo e divulgatore americano, figlio del Premio Nobel per la fisica Robert Hofstadter, ndr). A chi mi chiede perché non pubblico, bisognerebbe chiedere a lui perché non si riesce a definire la sua materia che unisce logica, scienza, matematica, filosofia e semiologia. Hofstadter la chiama Scopritività. Ha un bel suono».

Di che si tratta?

«È tutto contenuto nel libro "Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid" che sostanzialmente è quasi illeggibile. Il teorema matematico di Gödel che non è ancora stato risolto, l’arte del pittore Escher e la musica di Bach. Li metti insieme e crei l’intelligenza umana. Il cervello non è solo una pappetta molle, non è un muscolo come gli altri, ma è quello che produce. Pensiero, quindi opera d’arte. Da qui arriva alla musica, perché è l’espressione più alta dell’ingegno. La più difficile di tutte. E non c’entra l’andare in classifica, mi sono divertito con quel mondo per una quindicina d’anni ma oggi preferisco la sperimentazione. Ciò non vuol dire che sono lontano dalla musica, anzi, non le sono mai stato così vicino. Quando un discografico mi disse: “Hai realizzato le canzoni con l’Ipad? Non possiamo pubblicarle” ho compreso che non c’era niente da fare».

Visto che sei un grande esperto di musica, ti sei definito un esegeta del cantautorato in Italia, prova a metterti nei panni del critico. Cosa c’è di originale in circolazione?

«Il pezzo di Diodato è bello e lui è bravo, per il resto di Sanremo non ho ascoltato nulla. Non mi dispiace Young Signorino, così come i Canova o Colapesce. Se possiamo definire “nuovo” Calcutta, anche lui è molto interessante, come Willie Peyote. Persino Bugo lo consideravo tra quelli che mi piacciono, anche se il fatto di non essere mai emerso, nonostante fossimo coetanei, doveva insospettirmi. Bramava oltremodo Sanremo e ha venduto l’anima per questo scopo, tradendo l’amicizia e la musica».

Va bene, visto che non resisti parliamo delle “brutte intenzioni, la maleducazione…” che ormai sta spopolando. C’è chi l’ha definita una performance artistica concettuale.

«Io la considero un gesto poetico, infatti alcuni poeti amici mi hanno chiamato per farmi i complimenti. Una improvvisazione che finalmente conteneva sia il nuovo che la verità, per riallacciarmi a Spinoza. Senza volgarità, cattiveria, violenza. Mi vengono in mente solo altri due momenti di televisione così eccezionali. Il primo, quando Giulio Andreotti ebbe un malore e la Perego lo chiamava “presidente, presidente, presidente” e lui guardava nel vuoto con un sorriso malefico e meraviglioso. Il secondo, che mi rappresenta di più, quando Serge Gainsbourg alticcio, ospite insieme a Witney Huston in una tv francese, cerca di sbaciucchiarla e le dice: “You are not Reagan, I am not Gorbachev, so don't try” per concludere: “I said I wanted to fuck her”. Che figata!»

Il problema è che non puoi depositarne i diritti.

«No, perché non si capisce cosa sia. Il mondo non era preparato. Non ci sono diritti d’autore per me che sono l’autore, li prenderà Bugo e i cofirmatari del pezzo "Sincero". Il successo l’ha fatto con questo, sennò sarebbe caduto nel dimenticatoio. È incredibile che un gesto fatto dalle parole, otto versi, stia imperversando ovunque. “Nell’internet” in particolare sotto forma di meme, slogan, barzellette, doppiaggi, vignette, paradossi, un videogame, è stato tradotto in greco e latino».

Quante declinazioni sta avendo?

«Una canzone non le avrebbe avute. Forse dovrebbero ringraziarmi invece di insultarmi. Io ringrazio Bugo di avermi così esasperato da portarmi a quello sfogo in metrica, a gettargli in faccia una cosa così nuda e cruda eppure artisticamente dirompente. Intanto il foglietto originale all’asta su Ebay, partito da 5 euro, ha superato i 6mila che andranno in beneficenza».

Quindi non c’è stato niente di premeditato, visto che in molti lo insinuano.

«No, semplicemente Bugo doveva rispettare me, Endrigo e la musica. Invece ha dimostrato di non essere adeguato, anzi, un nemico di quel palco. Io ci sono salito con i più grandi, da Celentano a Massimo Ranieri, da Franco Battiato a De Gregori e Fossati, senza contare chi è sempre in classifica come Ramazzotti, Giorgia, Loredana Bertè, so bene cosa vuol dire stare in seconda fila in un duetto e l’ho insegnato a tante persone. Bugo non ha colto l’occasione, è stato un prepotente. Voleva sfruttare l’amicizia con me per mettersi in mostra. Appena entrato a Sanremo, insieme al suo team, pensava di farmi fuori e invece l’ho fatto a fette io con un gesto creativo».

Di questo hai già parlato ampiamente. Ti lancio una provocazione: Achille Lauro e Boss Doms si possono considerare i nuovi Morgan e Andy della musica italiana?

«Sì, sono uguali a noi alle elementari. Sia musicalmente che letterariamente. In quel periodo mettevo la tutina, così come Andy quando pattinava. Cosa c’è di provocante in quello che ha portato Achille Lauro a Sanremo? Niente. La vera provocazione si fa con il pensiero e quello manca totalmente».

Ce l’hai con loro perché hanno rifiutato il remix di “le brutte intenzioni, la maleducazione…”

«Avevo chiesto a Boss Doms di aiutarmi e mi ha detto: “No, con questo trash italiano non voglio avere niente a che fare”. Sai cosa ti dico? Che "Rolls Royce" lo scorso anno è ovvio parlasse di droga, eppure io li ho difesi. Lo sapevamo tutti. Ma sono stato l’unico, con il passato diffamatorio che ho in materia, a essermi immischiato nella questione per supportarli e loro mi trattano così? Questa è la riconoscenza. Però me lo spiego: musicalmente sono alle elementari e non sono in grado di fare certi ragionamenti. Non voglio essere cattivo, solamente dico che quando riusciranno a capire che l’anno scorso gli ho fatto un grande favore si renderanno conto di come mi hanno trattato».

Chi ti considera un genio, altri un grande talento sprecato, ma Morgan come si definisce?

«Un essere umano, di cui bisogna avere rispetto e pietà. Il fatto che io sia una persona libera, spesso scomoda, è il punto centrale. Artisticamente, sono un performer, un compositore, un autore di testi e un artista pop. Un creatore di oggetti quotidiani. Una specie di artigiano che produce cose multimediali: video, audio. Come uno scultore, a furia di levigare, tiro furi diamanti dalla caverna. Mi infastidisce definirmi “artista”, perché uno deve essere un bravo artista sennò che artista è? Come il poeta, non puoi essere un poeta di merda, sennò non lo sei. Ma chi si loda si imbroda. A me piace intrattenere la gente, perché sono istrionico. Quando mi dicono “genio” giro la definizione a Eugenio Finardi o Eugenio Bennato. Eu-genio significa “ben nato”. Un genio è colui che gioca sessanta partite di scacchi bendato vincendole tutte, come Hofstadter definisce la “fuga a sei voci di Bach improvvisata”. Improvvisata, sottolineo. Io non lo so fare, arrivo a quattro voci, per questo continuo a studiare il compositore tedesco».

Cosa rimarrà di tutta questa attività di Morgan?

«Delle tracce, senz’altro. Ma chi se ne importa se io non ci sarò. Ci penserò, spostiamolo questo tempo in avanti. Avrei voluto essere un filosofo della filosofia inglese, così nessuno capiva che dicevo».

Quali sono i tuoi riferimenti filosofici?

«Mi piace molto Ludwig Feuerbach. Sono invece in conflitto con Martin Heidegger, perché da lui in poi la filosofia cambia. L’ha portata a un livello di ritorsione in sé stessa che passa alla filosofia della filosofia, la meta-filosofia, senza più contatti con il reale. Per cui bisogna tornare ai presocratici con la missione di domandarci che ruolo deve avere la filosofia nella società. Il tanto criticato Bertrand Russell ha cercato di tornare a una pratica per illustrare la via. Il filosofo non è un prete o uno che cerca soldi, ma una figura che ci dice dove stiamo sbagliando. Non se ne trovano in giro, purtroppo, ma solo gente che studia Heidegger, suoi interpreti. Lui con il suo genio ha paralizzato la filosofia. Apprezzo così i presocratici, la filosofia medievale, Guglielmo di Ockham, Plotino e i neoplatonici. Molto interessanti anche Wittgenstein e Althusser. Amo la filosofia perché è un punto d’unione anche per un cantautore».

In che modo?

«Quando un poeta fa la musica diventa un po’ filosofo. È come se la filosofia stesse in mezzo tra la poesia e la canzone. Tenco è filosofo, perché ci dà una morale. Come io con Bugo a Sanremo: la mia è stata una invettiva moralistica. Gli ho detto di rispettare chi lo aveva portato su quel palco».

Il direttore artistico Amadeus cosa ti ha detto? È sembrato davvero spiazzato.

«Lo rispetto molto, per avermi aperto la porta della sua casa. Dopo gli ho mandato un messaggio e non ci siamo più sentiti, ma lo ritengo degno e bravo per quello che è stato chiamato a dirigere. Mi spiace se ha letto questa cosa come un attacco al festival, non lo era. Ha dovuto eliminarci, però non c’era la volontà di infrangere la legge. Non sono io ad aver pisciato sul regolamento, ma Bugo ad aver riempito di escrementi quel palco e con il mio gesto ho voluto ripulirlo».

Sbaglio se ti dico che ti vedo felice solo (o quasi) quando sei al pianoforte?

«In ciò che va al di là della musica sono come tutti gli altri, quindi capita di sbagliare, fare gaffe. Quando suono, invece, sono in pieno controllo. Vuol dire che non mi emoziono, ma emoziono gli altri. Se sei emozionato tu stesso non sei in controllo. In quel caso domino. È importante per fare spettacolo e io sono un uomo di spettacolo, lo tengo sempre in mente. Bisognerebbe leggere ciò che faccio come gesto spettacolare. A Sanremo in pochi hanno capito la spettacolarità, forse se ne accorgono adesso. Eppure, dopo nessuno ha potuto fare a meno di giudicare, commentare, guardare. Tutti sono stati tirati in mezzo, l’hanno subita come spettatori. Infatti, considero quel momento il più grande spettacolo in tv degli ultimi anni».

Ci eravamo ripromessi di non parlarne, eppure ritorna sempre fuori.

«È stato fortissimo! Un altro che fa spettacolo con le parole è Vittorio Sgarbi: è come se le parole fossero attori che abitano nella sua bocca. Mi sono sentito nello stesso modo: creare spettacolarità con un uso distorto, negato, ribaltato, altro, delle parole. Ma con concetti veri. Per questo ha fatto scandalo. Torniamo alla verità unita al nuovo di Spinoza. Chiedo scusa per aver infranto il regolamento, ma tutto ciò esonda dal regolamento: è giustizia morale unita alla creazione. Sono leggi più potenti di un regolamento di Sanremo».

Torniamo alle critiche che ti vengono rivolte. Sarà che la scelta di andare da Barbara D’Urso non sembra la scelta migliore per un artista che si considera colto e sofisticato, o sbaglio?

«Sembra un mondo lontano da me, apparentemente. A volte mi è più distante un centro sociale, perché dentro ci sono dei nemici. Quando vado da qualche parte mi baso sulla percezione delle persone che sono presenti, senza pregiudizi. Non guardo la tv, non conosco la differenza tra il Tg1 e la D’Urso. Sono stato invitato, ho trovato un ambiente umano, ho potuto esprimere concetti in libertà. A quel punto, cosa mi importa del contesto? È come dire: devo arrivare in una piazza passando per una via non molto bella, però a me cosa cambia? Ci passo attraverso, a meno che in quella via ci sia qualcuno che mi vuole derubare. Ma non è il caso di Barbara D’Urso. È stato un modo di raggiungere la piazza. Nessuno mi ha censurato. Se ci sono dentro persone maleducate non me ne assumo io la responsabilità, come non me la assumo di un brutto palazzo che incontro sul mio cammino. Anzi, dovremmo pensare che riesco a cambiare il contesto in cui vado. Tenco e Endrigo con una orchestra non si era mai visto né sentito in quel programma».

Anche la Mussolini ha cambiato idea sul tuo conto dopo l’esibizione del brano di Tenco…

«Alessandra è simpatica. Certo è che aver avuto un nonno così una marcia in più te la deve aver data. Se non altro perché Mussolini era una persona colta e oggi non ce ne sono molti di politici colti in giro».

Morgan in politica è un conservatore?

«Forse più un conserva-autore, perché conservo gli autori del passato. Però non mi piacciono le cose conservate ma non utilizzabili, fossilizzate nelle vetrine e nelle teche. Le categorie politiche non sono più così precise: conservatore, restauratore, progressista, cosa significano? Così come libertà. Sei per il Polo delle libertà, con Berlusconi, o un libertario, cioè un anarchico? Un libertino è un’altra cosa ancora, così come lo stile Liberty. Essere un dandy, cosa significa? Oscar Wilde o Federico Fiumani? Non mi definisco conservatore, dico solo che a volte ho trovato persone della destra intelligenti e persone della sinistra sciocche. Lo affermo sapendo che la cultura in Italia parte dalla sinistra, ma non è più così. Infatti, Craxi è stato preso come capro espiatorio».

Se dopo Mussolini rivaluti anche Craxi, poi non lamentarti delle polemiche…

«Ha pagato con la vita tutto un marciume di cui non era l’unico responsabile, anzi, forse lo faceva con più eleganza di altri. Ma quanti devono un posto di lavoro a lui, quanti politici ha fatto emergere, da Berlusconi in poi? Invece l’hanno fatto morire come uno stronzo. Non voglio dimenticare la levatura morale di Craxi, alla quale i politici odierni non arrivano lontanamente. Prima di tutto, gli servirebbe un po’ di lessico, perché sono inascoltabili. La politica è oratoria, retorica, captatio benevolentiae, consenso e riconoscimento. Gli consiglio risentire il discorso di Mussolini agli agricoltori pugliesi, poi andranno a casa a vergognarsi».

La domanda a questo punto sorge spontanea: Morgan è di destra o di sinistra?

«Non sono fascista. Neanche comunista. Se proprio devo scegliere, l’anarchismo mi rappresenta al meglio. Sto parlando di linguaggio. Ricordo che l’anarchico Gaetano Bresci uccise il Re d'Italia Umberto I con tre colpi di rivoltella, spinto dall’America dopo che gli arrivarono le informazioni della repressione del generale Fiorenzo Bava Beccaris verso gli operai che chiedevano il pane. Nel 1901 non esisteva il concetto di sciopero o protesta sociale e li hanno bombardati con i cannoni. Per vendicarli, si è fatto fare un vestito buono dalla sarta, ha spettato il Re a Monza e durante la visita domenicale l’ha fatto fuori. È quello che ho fatto io a Sanremo con Bugo. Questo vuol dire anarchia. Non mi identifico con un omicida, ma nel fargliela pagare sì. La mia rivoltella sono state le parole. Vuoi darmi del conservatore? Del rivoluzionario? Chissà! È comunque un gesto anche politico. L’azione politica la fai al supermercato, se scegli certe cose o se le rubi. Certamente i politici di oggi non hanno nessuna statura, per questo mi sento più rappresentato da Craxi, anche se accettava il finanziamento illecito ai partiti. Sono un retore, ma antiretorico».

Se potessi reincarnarti in un personaggio storico, chi sceglieresti?

«Mi viene in mente Arthur Rimbaud, ma ha vissuto artisticamente solo 16 anni. Comunque, il mio periodo preferito è il 1800. Ecco, se potessi decidere, mi reincarnerei in Franz Liszt. Pensa che veniva spesso a Milano a rappresentare le sue opere e i milanesi puntualmente non lo capivano. E lui, per protesta, andava in giro in carrozza, la “scappellava” e in piedi li affrontava de visu. Non capivano la sua arte. Come l’orchestra a Sanremo, che è stata vittima di un gioco perverso, ma sul quale presto farò luce insieme al maestro Valentino Corvino».

Usciamo da Sanremo e Bugo. Il leader dei Blur, Damon Albarn, ha dichiarato: “L’eroina per me è stata incredibilmente creativa” senza grossi scandali. Come ti spieghi la diversa reazione alle tue dichiarazioni del 2010 che ti costarono Saremo?

«Perché gli inglesi sono più evoluti. Gli italiani, invece, non sono pronti a certe cose, forse non lo saranno mai. Sono bigotti, tranne qualche eccezione. Tendono al pregiudizio, a giudicare gli altri senza voler essere giudicati. Non hanno senso civile. Sono fondamentalmente anarchici corrotti: ognuno si fa la sua legge ma non rispetta quella comune. In Italia abbiamo il 90% delle opere d’arte del mondo e non riusciamo a farne una ricchezza. Una eredità pazzesca, che da coglioni non sappiamo sfruttare. La riprova l’ho avuta con lo sfratto che mi hanno inflitto senza che nessuno abbia mosso un dito, in particolare gli altri artisti».

Però non eludere la domanda: Morgan ha problemi con la droga?

«A chi lo sostiene bisogna chiedere: quando ti sei “fatto” l’ultima volta con Morgan? Se non sa rispondere, bisogna dargli uno schiaffo da parte mia. Farebbero meglio a stare zitti. Di queste cose non ne parlo più, perché è ingiusto quello che dicono. Chiunque afferma questo è un cretino. Qualcuno ha insinuato che a Sanremo ero sballato, ma dimostra solo di non saper leggere la realtà. Chi ha un minimo di cervello, dovrebbe giudicare il perché ho detto quelle cose, non se io mi drogo. Le dichiarazioni che feci a Max nel 2010 le avevo già fatte mille volte: gli antidepressivi tentano di imitare la droga. È l’uso di quel concetto che è stato distorto. Da quel momento sono diventato abilitabile e disabilitabile. Le persone normali non capiscono cosa significa vedersi togliere la libertà, la patria potestà, la casa. Tutto perché pensano sia fuori controllo, dal loro punto di vista. Un punto di vista da pezzi di merda. Quindi, chi è nemico dei pezzi di merda, o è un pezzo di merda più grosso o è uno bravo. Nel mio caso è la seconda».

Sulla questione sfratto si sta muovendo qualcosa?

«Ancora nulla. Eppure, se metto un foglietto all’asta, da 5 euro arriva in due giorni a valerne 4mila. Ma nella mia casa c’erano innumerevoli fogli simili, più gli strumenti, i costumi, quadri, disegni, hard disk, nastri con i master, e non ho più niente. Ho fatto una battaglia, per dimostrare che il contenuto era indisgiungibile da chi ci lavorava, invece quella casa è stata svalutata. Uno Stato serio dovrebbe proteggere i suoi artisti, ancor di più quando sono vivi, perché sono risorse. Come Woody Allen per gli Stati Uniti o Leonardo da Vinci per l’Italia. Il ministro Franceschini è stato totalmente assente, ma l’assenza più grave è dei miei colleghi musicisti, che non hanno avuto la sensibilità di muovere un dito. L’unico che mi è stato vicino è Bugo, ma perché nel periodo dello sfratto stava preparando la canzone. Così ho accettato di andare con lui a Saremo, per riconoscenza, e invece mi ha ripagato in quel modo».

Il giorno prima dell’esclusione a Sanremo hai scritto un post su Facebook molto profondo rivolto a tua figlia Anna Lou, ormai maggiorenne. Che padre è stato e sarà Marco Castoldi?

«Alle mie figlie, purtroppo, ho insegnato cose che sono state coperte dall’influenza pessima delle loro madri. Quanti sono i padri che dormono in macchina per situazioni simili? Bisognerebbe fare qualcosa per loro, perché molti non hanno fatto niente di male se non avere al fianco donne malvagie. La violenza sulle donne è sbagliata, ma le donne non devono rivolgerla agli uomini. Lasciare nella merda un genitore, un uomo, solo per questioni legate ai soldi, è una cosa schifosa. Anna Lou è lontana da me, purtroppo. Le dico solo una cosa: vorrei mi facesse sapere cosa ne pensa della questione. A me interessa il suo punto di vista, essendo ormai maggiorenne. È intelligente, in grado di criticarmi o apprezzarmi, perché da me ha avuto tanto affetto. Soprattutto nei primi anni in cui sono stato un ragazzo padre. Un momento meraviglioso, in cui abbiamo instaurato un rapporto unico. Ma sono convinto che l’imprinting non si cancellerà mai. La lontananza di qualche anno prima poi finirà e sarà come se non ci fossimo mai lasciati. Ma perché dobbiamo parlare di questo?»

Del tempo che passa, invece, hai timore?

«Non ne ho la percezione. Mai avuta. Il tempo è una misura. Il musicista lo controlla. Lo tiene nelle mani. È una velocità di un brano, una misura, uno spazio tra una barra e l’altra, le battute. Dentro c’è la misura. Un contenitore, sotto il mio controllo. Non di chi ascolta. Il musicista il tempo degli altri lo crea. È come dar vita a un organismo che posso accendere e spegnere a mio piacimento. Dal punto di vista biologico, ci sono tutti i limiti, fa parte della natura. Da Un matto di De Andrè: le mie ossa regalano ancora alla vita, le regalano ancora erba fiorita. Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia “Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”».

Come vorresti morire?

«Come faccio a decidere come morire? Non ho ancora deciso come vivere! La morte non spaventa. È luminosa. Ci dà le risposte che non abbiamo avuto in vita. Sono convinto che la reincarnazione sia una scelta che ci verrà data. Io gli spiriti li ritrovo nelle pareti delle case, tra i muri. Lì si annidano. Alcuni scelgono di tornare alla vita e dimenticano di esserlo stato. Lo spirito è un fatto di dimenticanza, non si ricorda dei sentimenti. E sono ciechi, ecco perché si ritroviamo tra le ombre delle luci, fra i giochi di riflessi degli specchi. Sento questo mondo, che sta dentro le cose. Lo pensava anche Gustavo Adolfo Rol, noto sensitivo italiano. È qualcosa che vedo chiaramente».

·        Marco Giallini.

Rodolfo di Giammarco per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 aprile 2020.

«Ce n' ho un sacco, di emozioni romane - parte in quarta Marco Giallini - Mi ricordo che ero piccolo, e con papà, che era un operaio d' una fornace bello come Clint Eastwood, ex bersagliere prigioniero di guerra a Marsiglia, passammo per piazza san Cosimato, sfiorando alcune signore schierate su sedie di paglia, e queste in coro tirarono fuori un "Salute! Buon fresco!", un' esclamazione che suonò tra il popolare e l' affettuoso, da accoglienza paesana, allora, che oggi te la sogni. E la poesia notturna delle marane di Roma? E dove lo metti quell' odore da impazzire della vernice quando per anni ho fatto l' imbianchino? E la stranezza della città alle cinque della mattina quando mi svegliavo presto per distribuire casse di bibite? Tutta un' altra cosa, certo, dell' adrenalina che da giovanotto mi saliva su a Corso Francia nelle impennate e nelle gare di moto notturne a chi sgassava di più, io con la Yamaha, fino a che non arrivava la polizia e tutti a scappare. Ma il colpo che m' ha steso me l' ha dato una sera del 1996 Marco Risi, che mi vide recitare con Mastandrea al Locale a vicolo del Fico, e m' ha aperto le porte del cinema ne "L' ultimo capodanno"».

Giallo, al secolo Marco Giallini, classe 1963, prototipo dell' artista romano periferico sorretto da talento e cultura, è stato prima di tutto un attore di teatro con Tiezzi, Lombardi e Foà (per "Adelchi"), con Coltorti, con Panici (tra l' altro per "Romeo e Giulietta"), e con Angelo Orlando, poi è diventato un volto di riferimento del cinema, e dal 2016 è protagonista di culto in tv nella serie "Rocco Schiavone".

Ora è tra le mura di casa sua, come tutti. Quante Rome ha conosciuto, fino ad oggi?

«Sono stato in famiglia fino a trent' anni, zona Salario-Monterotondo, con papà che fabbricava mattoni sulla Tiberina, e che per tirare fuori il latte dalle formiche e non farci mancare niente correva anche a occuparsi di mezzadria da un avvocato. Omone in canottiera, due pacchetti di Marlboro morbide al giorno, profumo carismatico, papà girava soltanto in motocicletta e io ne ho ereditato la passione con le mie tre Triumph (con una delle quali ho avuto un incidente da 50 fratture), era socialista, leggeva "Paese Sera" o "L' Unità", ed era un mito perché quantunque di mentalità semplice, guardava i film francesi e si commuoveva con Godard (lo chiamava Godarde), col "Ragazzo selvaggio" di Truffaut, con Gabin, alla stessa maniera che col "Ferroviere" di Germi. Mamma, donna affascinante pure lei, s' è sacrificata sempre, finché ha vissuto, per noi quattro fratelli».

Poi lei s' è reso indipendente...

«Continuando a preferire un posto lontano dal centro. Quando ho sposato Loredana mi sono trasferito tra Talenti e Tor Lupara. Com' è cambiato il mondo, le due volte che è rimasta incinta. E i piaceri che provavo accanto a lei, quando come Conrad potevo dire "Guardo fuori dalla finestra e sto lavorando". Dio con lei s' è sbagliato, quando me l' ha tolta di colpo nel 2011. Ma ho la fortuna d' avere due figli che sono i miei più grandi amici, Rocco di 21 anni e Diego di 14. Con noi abitano mio cognato e la moglie. La cosiddetta notorietà m' aiuta a non muovermi troppo di casa. Quindi gli obblighi per il coronavirus mi tengono lontano dal lavoro ma non mi cambiano l' esistenza, mentre sono preoccupato per le perdite, le sofferenze, il campare male di molti».

L' improntitudine, la caratterialità da 'soliti ignoti' di Rocco Schiavone & C a cosa si devono?

«I miei genitori non avevano frustrazioni, m' hanno trasmesso dignità. Io non mi sono mai drogato ma molti miei coetanei si sono rovinati con gli acidi, ho perso una quarantina di amici per l' eroina. Io partivo di testa per le discoteche, per "London Calling" dei Clash, per gli Who, i Sex Pistols, e suonavo con la mia band Sandy Banana & The Monitors. Tuttora ho una collezione di 3800 vinili, strimpello batteria, chitarra e basso. Ho cantato con Francesco De Gregori, sa? Forte, quel critico musicale che disse: mi alzo la mattina, mi vorrei suicidare, ma non mi perderei l' ultimo degli Stones. Sono cresciuto in borgata però ho lavorato coi sogni. Lo so che mostro una fisionomia rugosa, ma dietro c' è un pensiero. Va bene se lo dico così?».

Va bene. E se sintetizzassimo un curriculum?

«Istituto tecnico con diploma dopo il militare (turbolento) ad Alessandria. Attività edile. Trasportatore. Scuola teatrale La Scaletta. Teatro. Cinema. Televisione. Sono fortunato: mi adatto a commedie e a film impegnati, a comicità e a drammaticità, e ho all' attivo una strana carriera. Una carriera in cui a casaccio citerei un noir fuori dal comune come "Tre punto sei" di Nicola Rondolino purtroppo scomparso nel 2013. Gratitudine? Per Valerio Mastandrea, Angelo Orlando, Marco Risi, Carlo Verdone, Paolo Genovese, Stefano Sollima, e non solo».

A chi somiglia? Chi apprezza?

«M' attribuiscono spesso, gli altri (sottolineo: gli altri), qualcosa in comune con Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi. Ma io che ne so?! Se dovessi dire chi stimo, nominerei Toni Servillo, Mickey Rourke, Pierfrancesco Favino, e l' elenco sarebbe lungo, senza comprendere Valerio che è padrino di uno dei miei figli».

Impersonando sei figure, lei ha fatto una carriera come uomo dell' ordine. Commissario di polizia Sarrina, agente di polizia Saverio Ceccarelli detto Agamennone, capo squadra anti-mostro Ruggero Perugini, vicequestore Andrea Lopez, poliziotto celerino in "ACAB", e ora vicequestore Rocco Schiavone...

«Stava per partire, ad Aosta, la quarta serie di "Rocco Schiavone" con la regia di Michele Soavi, dalla fusione di due storie di Antonio Manzini, col ricovero per asportazione d' un rene del mio personaggio raccontato in "Ah l' amore l' amore" a seguito della sparatoria con cui si concludeva "Rien ne va plus". Ci siamo interrotti. Siamo in attesa. Dovevano uscire nel frattempo due film, "È per il tuo bene" di Rolando Ravello cui ho preso parte insieme a Giuseppe Battiston, Vincenzo Salemme e Isabella Ferrari, e "Ritorno al crimine" di Massimiliano Bruno in cui sono accanto ad Alessandro Gassmann, Edoardo Leo e Gianmarco Tognazzi».

Sappiamo che lei dipinge, legge, cucina, suona, vede dvd. Che sta leggendo, ora?

«Questi libri. "La vera storia del pirata Long John Silver" dello svedese Bjorn Larsson. La biografia "Limonov" di Emmanuel Carrère. Il romanzo drammatico "Marinai perduti" di Jean-Claude Izzo, del quale ci fu un film nel 2003. Le lezioni di recitazione e regia "Sono stato interrotto" di Nicholas Ray: lui è il regista di "Johnny Guitar" e "Gioventù bruciata". E "L' inverno di Frankie Machine" di Don Winslow, di cui Hollywood ha affidato la trasposizione a William Friedkin».

·        Marco Giusti.

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 12 gennaio 2020. Critico stracult, sdoganatore dei B-movie, difensore del cinema popolare. Per Marco Giusti, autore e conduttore televisivo, ideatore di festival e recensore di Dagospia le etichette si sprecano. Proveniente dall'estrema sinistra, firma dell' Espresso e del Manifesto, creatore con Enrico Ghezzi di Blob e Fuori Orario prima che, nel 1996, il sodalizio si infrangesse, non teme di polemizzare con i custodi dell' ortodossia cinefila. Anzi. Ama Carosello, Stanlio e Ollio, Moana Pozzi, Quentin Tarantino e il cinema western. Il suo recente Dizionario stracult della commedia sexy (Bloodbuster) impiega 500 pagine per scandagliare l'epopea di Laura Antonelli, Barbara Bouchet, Alvaro Vitali, Edvige Fenech, Renzo Montagnani, Gloria Guida.

Perché è importante quella stagione?

«È il cuore delle nostre contraddizioni. In quegli anni, tra il Sessantotto e il Settantasette, si è formata l'Italia di oggi, con repressioni sessuali, desideri di stravaganze libertarie e di libertà mai raggiunte. Dentro ci sono il nostro provincialismo e la nostra voglia di cambiare le cose. Il controsenso della commedia sexy è che ricordiamo la fase con Edvige e Alvaro Vitali e i film scorreggioni. Ma per arrivare lì siamo partiti dal cinema d' autore del Decameron di Pier Paolo Pasolini, da Ultimo tango a Parigi e da Malizia di Salvatore Samperi».

Cos'ha rappresentato quell' epoca per il cinema italiano?

«Incassi stratosferici, soprattutto nel centro sud e in provincia. Come capita anche adesso con Checco Zalone, la Puglia e la Sicilia erano la riserva di pubblico di quei film erotici, comici e liberatori».

Allora c'erano 9.000 sale, oggi sono 3.000.

«È stata la grande stagione del cinema popolare. Dopo gli spaghetti western e i polizieschi, anche le commedie sexy uniscono il pubblico. Non è vero che erano solo per i militari, come si diceva. È stato un fenomeno molto italiano Ma mentre con Per un pugno di dollari - un solo film - Sergio Leone inventa il filone, nella commedia il genere si forma film dopo film».

In Italia c'è il terrorismo.

«Perché ci si sparava per strada e andavamo a vedere il culo di Edvige e della Guida?».

Già, perché?

«Cercavamo un modo di uscire dalla nostra repressione».

Colpa dei preti?

«Non solo. Colpa del partito, colpa della cultura dominante. Io li andavo a vedere come critico di estrema sinistra. Ero snob forse, ma dubito. Il primissimo era stato Giovanni Buttafava, esperto di cinema sovietico, per intenderci».

Quella che guardava la Fenech e Gloria Guida era un' Italia diversa da quella tutta assemblee e cortei?

«Era la stessa Italia. Vedere quei film scatenati era un guilty pleasure, un piacere proibito. Poi non è che si vedevano tutti. A parte Nando Cicero non c'era un vero autore, erano film ruspanti, più ancora degli spaghetti western. Solo Lucio Fulci in due o tre titoli alza il livello. Poi c' è la censura e i giornali ne danno notizia».

Moltiplicando la curiosità.

«Andare a vederli era sia una cosa da curia cattolica sia un fatto di libertà. Erano film machisti e razzisti, ma liberando dalle ideologie e dal moralismo, facevano crescere il pubblico».

Che rapporto hanno con quell'epoca le varie attrici?

«Barbara Bouchet e Nadia Cassini ottimo, Gloria Guida mi sembra pessimo. Edvige pensa di essere stata etichettata. Il primo anno di direzione della Mostra di Venezia di Marco Müller volevamo chiamarla come madrina, ma alla fine dovemmo rinunciare. L'Italia era rimasta bacchettona e lei si sentiva ancora appiccicato addosso quel titolo, Giovannona coscialunga».

La chiama Edvige per brevità o perché è una specie di sorella maggiore?

«Perché la conosco bene ed è simpatica e intelligente. Anche la Bouchet lo è e la conosco bene, ma mi spiace che Edvige si senta ingiustamente massacrata da quel cinema».

Laura Antonelli era un caso a parte?

«Un po' sì. Lei e la Fenech nascono assieme, poi, dopo il successo di Malizia e grazie a Jean Paul Belmondo, la Antonelli fa film più grossi, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, Luchino Visconti e Luigi Comencini. Per Mi faccio la barca di Sergio Corbucci ruba il ruolo proprio a Edvige. Poi scivola Quando sconfinano in un cinema più alto, le attrici sexy finiscono per spogliarsi più che nelle commedie».

Che derivano dal cinema d'autore, ma sono le basi della tv commerciale?

«A fine anni Settanta nascono le tv private e tutto questo mondo di comici e attrici viene assorbito da Canale 5. Carlo Freccero per primo mette in seconda serata tutti i film della Fenech e così si stabilisce subito un legame forte con la tv di Berlusconi. Arrivano le miniserie con Gigi e Andrea, Sabrina Salerno... poi il filone di Abbronzatissimi e delle Vacanze Qualche produttore comincia a lamentarsi perché da Milano giungono attricette alle quali si deve trovare un ruolo».

 Anche i cinepanettoni nascono da quelle commedie?

«Quando passa in tv, la commedia sexy muore al cinema. Alcuni attori vengono recuperati per la famiglia, come Lino Banfi che diventa Nonno Libero. La parte più volgare confluisce nei cinepanettoni, passando per i film con Renato Pozzetto, Ornella Muti ed Eleonora Giorgi che sono più tranquilli. Scompaiono i film comici e arrivano quelli vanziniani prodotti da Aurelio De Laurentiis. Fin quando, con Neri Parenti, tutta la goliardia viene concentrata in un solo film, un po' come Zalone oggi, che però devi andare a vedere e così sbanca al botteghino».

Prima di questo, hai fatto anche il dizionario del western, altro genere di serie B.

«Io mi considero uno storico, ma mi diverto a rompere le scatole difendendo il cinema popolare. Per esempio, sono stato il primo a elogiare Cado dalle nubi di Zalone e trovo che adesso sia facile accodarsi».

Perché la critica è sempre più allineata e pochi sparigliano?

«Credo che sia colpa dei social. Devi essere di qua e di là, soprattutto devi essere sul pezzo. Natalia Aspesi ha scritto un pezzo assurdo su Tolo Tolo, anche Paolo Mereghetti Quando mai sono stati dalla parte di Zalone?».

Invece, stavolta.

«Non so se sia una linea dettata dai direttori, per fare più polemica. Però è bizzarro, Aldo Cazzullo scrive "film bellissimo"... Capisco, fare proprie le cose popolari, ma farlo al quinto film è un po' tardi».

La politica inquina la critica?

«Quella di questo cinema. Tolo Tolo arriva dopo un anno di porti chiusi, porti aperti e ritorno del fascismo: ovvio che ci si schiera. Il film rimane strano, non può stare con i porti chiusi, ma non prende posizione. Le critiche che lo tirano di qua o di là appena le leggi diventano ridicole. Su un tema così vorresti che il film si schierasse come aveva fatto La grande guerra con un finale forte. Qui tutto si risolve nella trovata musical. E quello che non ha fatto Zalone lo fanno i critici dandogli un senso politico che non ha».

È stato improvvisamente coccolato dal Corriere e da Repubblica.

«Improvvisamente».

E sbertucciato dai critici di destra.

«Soprattutto non è abbastanza piaciuto al pubblico. Rispetto ai 65 milioni di Quo Vado ne incasserà 20 in meno e ne costa 15 in più. Rimane un grande successo, però non è quel boom che sembrava nei primi giorni».

Zalone avrebbe fatto meglio a restare con Gennaro Nunziante, suo regista storico?

«Nunziante avrebbe evitato qualche scelta grossolana e dato più ritmo alla storia. Avevano sempre agito come una coppia comica: Gennaro, rigoroso e cattolico, e Checco che stravolgeva le situazioni "democratiche"».

Che ruolo ha avuto nella vicenda il produttore Pietro Valsecchi?

«Credo abbia voluto escludere Nunziante perché pensava che Checco solo fosse più forte. Temo abbia sbagliato. Comunque, questo è l' ultimo film che fa per la Taodue prima di mettersi in proprio. Io penso che abbia bisogno di un' interfaccia intelligente con cui confrontarsi. Anche Alberto Sordi funzionava meglio quando lavorava con Rodolfo Sonego».

Parlando di critica, come mai le serie tv di Taodue sono sempre elogiate da Aldo Grasso?

«Bisognerebbe chiederlo a Grasso. Metterle sullo stesso piano di Gomorra lo trovo eccessivo, ma ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni».

Medusa e Mediaset stanno facendo grandi incassi con Tolo Tolo e Il primo Natale, due film sull' immigrazione tendenti a sinistra?

«È la dimostrazione che il cinema comico è più attento all'attualità del cinema d' autore. È stato così anche in passato con la commedia italiana. Quest'anno i cinepanettoni intelligenti, senza situazioni volgari o imbarazzanti, sono andati bene. È come se questo cinema fosse riuscito a rappresentare un Paese più composto di quello reale che vedevamo fino a qualche mese fa. La bella notizia è che sommando gli incassi di Tolo Tolo a quelli di Pinocchio, Il primo Natale e La dea fortuna la nostra industria porterà a casa 80 milioni».

La critica si è divisa anche su C'era una volta a Hollywood: Mariarosa Mancuso del Foglio ha scritto «date il Nobel a Tarantino», Mereghetti ha parlato di «cinema citazionista».

«Anche Emiliano Morreale di Repubblica ha scritto che è finito. La critica che si sente ufficiale cerca di espropriare Tarantino della sua leadership, tentando di ridarla al cinema d'autore europeo old stile».

Invece lei è un suo acceso fan?

«Trovo che finora Tarantino non abbia sbagliato un colpo e abbia seguito un percorso alto e intelligente. Rivaluta il cinema di genere che i critici fofiani hanno sempre considerato minore. I quali contestano il suo ruolo per difendere la scelta di aver dequalificato il western, la commedia, i film comici, i polizieschi... Tullio Kezich ha attaccato Sergio Leone fino all' ultimo giorno».

Mentre lei è lo sdoganatore dei B-movie.

«Ho difeso il cinema popolare da prima che comparisse Tarantino. Perciò trovo bizzarro che ora Zalone venga esaltato da chi ha sempre snobbato quel cinema».

Le divisioni si riproporranno anche su Hammamet di Gianni Amelio?

«Il tema, d'istinto si presta, ma Hammamet è un film volutamente non politico. Su Craxi le bande erano più schierate 25 anni fa».

·        Marco Masini.

Dagospia il 6 febbraio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Marco Masini ha raggiunto I Lunatici di  Rai Radio2, in diretta ogni notte da Casa Sanremo. Parlando con Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio il popolare cantautore toscano ha dichiarato: "Il mio rapporto con la notte? Di notte si scrive bene. Anche perché non suonano i telefonini. Di notte si hanno le visioni del domani. Si percepisce meglio ciò che sta arrivando. Però fino ad una certa ora quello che fai è ok. Oltre una certa ora, invece, quello che fai il giorno dopo lo devi rifare. La notte puoi usarla, ma devi mettere un limite. Dopo una certa ora arriva la follia, il delirio, e devi ricominciare daccapo". Sul palco dell'Ariston: "Quando ci sali c'è un senso di grande responsabilità. Oggi il primo pensiero va all'aspetto tecnico. Pensi che tutto funzioni, che tutti i musicisti suonino alla stessa maniera, che il volume nelle cuffie sia ok, queste sono cose che ti arrivano come primo pensiero e tu devi essere in grado di affrontarle. Devi essere pronto all'imprevisto. Poi il timore reverenziale verso questo palco c'è sempre. E' giusto così". Sul confronto, brano portato a Sanremo: "Dicono che Masini canta un brano alla Masini? Beh, è difficile che domani Masini diventi Ramazzotti. O viceversa. Nonostante la grande amicizia e il grande legame non ci si possono invertire i ruoli. I grandi artisti che hanno cantato nel mio disco, sono rimasti loro stessi. I pezzi nel disco li abbiamo scelti per forza di cose, ci sono stati episodi che hanno fatto in modo che quella canzone si scegliesse da sola. Ramazzotti per me è un fratello. Mi è sempre stato vicino, si è sempre esposto nei miei confronti". Sul politicamente corretto: "Mi chiedete se oggi un pezzo come 'Bella stronza' potrebbe avere problemi? Non mi interessa. E' una canzone del 1993, con il senno di poi non si può parlare. Ogni canzone è figlia del suo tempo e va giudicata in quel momento, non si può riprendere e ritirare in ballo dopo trent'anni. Più della libertà d'espressione, che c'è, mi spaventa fare i conti con i parametri tecnici. Ieri una canzone poteva durare anche cinque minuti, non c'erano limiti. Oggi invece in trenta secondi devi dire tutto. Mi preoccupa moltissimo riuscire a stare dentro a certi parametri. Per chi viene dalla mia generazione, per chi ha avuto modo sempre di raccontare una storia dall'inizio alla fine, non è semplice". Sulla sua carriera: "I momenti difficili sono stati quelli più belli. Mi hanno arricchito, fortificato, dato energia, senza nessun tipo di distorsione mentale, senza nessun tipo di esasperazione. Attraverso i momenti difficili riesci a scollinare e a raggiungere temperature migliori".

Marco Masini: «Non rinnego “Bella stronza” e festeggio anche con questo brano 30 anni di carriera». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Nel 1990 Marco Masini vinceva Sanremo, categoria giovani, con Disperato. Trent’anni dopo, torna su quel palco per la nona volta. Barba lunga e brizzolata («ho deciso che la vecchiaia va fatta vedere: un tempo mi facevo qualche mèche, ora vanno bene anche tutte le rughe»), Masini canterà Il confronto, un brano «che non è solo autobiografico» ma che parla anzi «degli uomini: loro, molto più delle donne, davanti alla verità tendono a scappare». Inizia così, di fatto, quella che «non vuole essere una celebrazione, ma un festeggiamento di questa ricorrenza», e che prevede, oltre a Sanremo, un nuovo album Masini + 1, 30th anniversary, fatto di quattro inediti e di molti dei suoi classici ricantati con amici come Eros Ramazzotti, Giuliano Sangiorgi, Jovanotti, Luca Carboni. L’appuntamento per il gran finale di questo anno magico è fissato al termine del tour che lo porterà in giro per l’Italia, fino al 20 settembre, direttamente all’Arena di Verona. «Che dire, sono molto emozionato per tutto — spiega —. All’Arena sono certo che faremo uno spettacolo meraviglioso, arriva proprio due giorni dopo il mio compleanno (saranno 56, ndr), bellissimo». Il regalo, glielo hanno già fatto i colleghi che cantano con lui nel disco: «Tanti sono davvero degli amici, penso ad Eros, che non solo mi è sempre stato vicino umanamente, anche nei momenti meno facili, ma che si è anche esposto per me: non dimentico». Trent’anni dopo, molte canzoni hanno perso la rabbia furente di una volta: «Certe cose nel tempo cambiano, si vanno a riequilibrare. Inoltre, come quando sistemi casa perché un ospite che viene a trovarti la senta più comoda, così ho fatto con le canzoni, studiando arrangiamenti adatti». E poi ci sono i testi. Il cantante si è ritrovato al centro della polemica su Junior Cally e i testi che parlando di violenza, specie contro le donne. A chi l’avrebbe voluto fuori dalla gara per quello che ha scritto in passato, risponde: «Bella Stronza, come Vaffanculo, non li considero sbagli. Ogni canzone è figlia del suo tempo ed è inutile tirar fuori certe polemiche dopo anni. Allora cosa facciamo? Critichiamo Totò per Malafemmena? Togliamo il premio a Cocciante per Bella senz’anima? Io non credo ci sia da sconvolgersi più di tanto per brani che tutto il pubblico per anni ha cantato... Comunque, in generale, direi che ho vissuto momenti peggiori». Di Cally, però, non vuole parlare: «Mi basta pensare alle mie di canzoni: abbiamo una responsabilità prima di tutto verso noi stessi per quello che diciamo. Io ho sempre fatto delle canzoni pop: la violenza vera è piuttosto in certe cose che sono state dette. Vaff... lo può dire anche un bambino arrabbiato». In Bella stronza, Masini racconta invece «una violenza solo immaginata: a volte l’amore tradito si può trasformare in odio, ma poi non viene messo in atto». Nel video del brano, però, si vede l’intervento di due poliziotti chiamati dalla protagonista, spaventata: «Se non ho mai pensato di cambiare il testo della canzone (nel nuovo disco la canta con i Modà), perché vorrebbe dire rinnegarla, posso dire che oggi rivedrei il video: negli anni Novanta erano molto letterali, didascalici». Per restare letterali, confessa che pensando alla società di oggi, «per contestarla non basterebbero tutti i vaff... che ho già cantato. Sono pochi. Ma comunque non lo direi ora, perché contribuisce solo ad alimentare certe cose quando invece il fuoco, adesso, andrebbe spento». Anche in questo caso «non significa rinnegare quello che ho fatto, ma ribadire che le cose vanno contestualizzate». Lo spirito con cui si prepara ad andare all’Ariston è dunque «quello di imparare, soprattutto dai giovani. Nel 1990 lo volevo fare dai più grandi, oggi che quello vecchietto sono io, ho tanta voglia di farmi insegnare cose nuove dai colleghi più giovani, con cui spesso collaboro». Nella sera dei duetti, canterà con Arisa: «È un’amica: apprezzo che non abbia mai nascosto le sue fragilità. Oltre al fatto che canta da Dio». Lo faranno sulle note di Vacanze Romane: «L’ho scelta perché è l’ultimo ricordo che ho di mia mamma che canta, in cucina. Era il 1984. Ecco, mi sarebbe piaciuto cantarla anche con lei».

Masini a "Confronto" con se stesso reinventa la sua musica. Un nuovo singolo per Sanremo e un disco di successi in duetto per il cantautore. Maria Teresa Santaguida, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. «Il baricentro della musica si sposta sempre» e come un complicato sistema di equilibri, pesi e contrappesi, bolle da tenere e livelli da misurare: il compito dell'artista è talvolta essere ago della bilancia, talvolta stare in piedi e semplicemente galleggiare. Trent'anni sono un buon risultato per affermare, con certezza, di saper nuotare, planare sul pelo dell'acqua, affondare, ma comunque risalire. E un album con tutti i grandi successi ricantati con gli «amici e i fratelli di sempre», più quattro inediti, sono un buon modo di dire: Dopo tutto, ce l'ho fatta. E' questo Marco Masini, oggi, a 56 anni, con un tour da affrontare, un Sanremo in cui gareggiare, e un concerto all'Arena di Verona «appena due giorni dopo il compleanno», ovvero il 20 settembre, da riempire di voci, persone, ricordi, sfide. Venti i brani del disco in uscita, Masini +1, 30th anniversary: oltre all'inedito di Sanremo, Confronto - il canto di un uomo che si guarda allo specchio e riconosce in ogni ruga un difetto, uno sbaglio, ma anche la capacità di reagire - altre tre canzoni, per così dire d'amore. E poi i classici: si parte con Disperato, cantata con Eros Ramazzotti in un duo con voci fuse quasi alla perfezione; poi Ci vorrebbe il mare, che diventa più struggente quando interviene, quasi da lontano, la tonalità inconfondibile di Giuliano Sangiorgi; l'equilibrata T'innamorerai a cui Francesco Renga dà profondità, e poi le stringhe di Jovanotti che ravvivano una delle canzoni più recenti, L'uomo volante, portata a Sanremo dal Masini già rinato a seconda vita, dopo il periodo più buio. «È venuta meno la rabbia», forse, che si «apriva insieme alla voce roca sulle tonalità più alte» in gioventù, ma «le canzoni hanno acquisito in ritmo, e consapevolezza». Un baricentro nuovo che è stato difficile trovare, soprattutto nell'armonizzazione tra voci, necessaria in un duetto: «Il compromesso è stato trovarci nel mezzo delle note; ma questo ha richiesto un anno e mezzo di lavoro soprattutto sugli arrangiamenti». Lavoro in cui si è espresso il vero Marco Masini, «prima ancora che cantautore, musicista». I brani non si vergognano della loro allure anni '90 («vengo dalla dance», ricorda l'autore), ma giocano con la contemporaneità in duetti come quello con Annalisa (su Io ti volevo): «Oggi il baricentro della musica italiana, è il rap, diventata canzone standard con le sue metriche strette; mentre c'è stato un tempo in cui il vero pop era il rock. Un artista deve sempre ascoltare, capire l'evoluzione della musica, non esserne spaventato, per questo collaboro anche con cantautori rap». Così i successi dei tempi d'oro, con le loro «melodie larghe e melodrammatiche» non sono affatto passati: «Mi sono sempre messo in gioco: per me la vita ricomincia sempre da domani». Che cosa dicono quelle canzoni, oggi, che il baricentro della musica è cambiato anche nei contenuti e il rap, ad esempio, propone temi più crudi e sociali? «Credo che l'artista, in fondo, abbia semplicemente bisogno di esternare i propri sentimenti: può farlo con una denuncia esplicita o in una modalità introspettiva ed esistenziale». Manca poco a Sanremo, che per Masini «è ogni volta una scuola: come l'amore, si pensa di conoscerlo, ma è sempre nuovo», e le polemiche sulla violenza dei testi di altri concorrenti non toccano un artista con trent'anni alle spalle. Anche se quello stesso artista ha messo, forse per la prima volta nella musica italiana, le parolacce nei suoi titoli: «La violenza vera è stata quella di chi ha scritto e detto certe cose di me. E non solo, anche di una donna», Mia Martini, distruggendole la vita. «Rispondere con un Vaffanculo come può fare un bambino, è solo un momento di rabbia, non è violenza».

·        Marco Mazzoli.

Maria Elena Barnabi per “il Messaggero” il 20 ottobre 2020. Denunce, licenziamenti, sospensioni. Marco Mazzoli, 48 anni il 20 ottobre, l' inventore di Lo Zoo di 105 (la trasmissione più seguita in Italia con il 14,9% di share, va in onda da lunedì a venerdì su Radio 105, dalle 14 alle 16) in ventun anni di trasmissione non si è fatto mancare niente. I fan che ogni giorno si ritrovano durante la sua diretta sotto lo studio nella centralissima via Turati, a Milano, lo idolatrano dicendo che è goliardico. I detrattori, invece, lo odiano dicendo che è osceno, e lui ammette candidamente di «essere quello che ha sdoganato la volgarità nella radio italiana». Il suo show è un format curatissimo e a più voci fatto di scherzi telefonici, scenette e parodie. E poi personaggi, serate nelle discoteche, tour pazzi in giro per l'Italia. Il tutto condito da rumoracci in diretta, parolacce, insulti. Nel corso degli anni, i suoi collaboratori più stretti lo hanno tradito e sono passati alla concorrenza (a Radio Deejay dell'eterno rivale Linus, con cui poi ha fatto pace), ma poi sono tornati da lui. Nato a Milano, bilingue e naturalizzato americano (fino ai 10 anni è stato a Los Angeles perché il padre Claudio, scenografo, ad oggi uno dei più grandi nomi nel settore dei parchi divertimento, era art director della divisione cinema della Disney), Mazzoli è entrato in radio per la prima volta a 14 anni e ha fatto la gavetta in mille emittenti locali e regionali mentre faceva il liceo artistico e poi studiava grafica pubblicitaria e marketing allo Ied, l'Istituto europeo di design. È passato per Rtl 102,5 e Radio Capital ai tempi di Claudio Cecchetto («Gli devo tutto, mi ha forgiato. Ancora oggi lo sento sempre», racconta), per poi approdare a 105 nel 1999, prima da New York e poi a Milano, dove ha inventato lo Zoo. Dal 2011 vive a Miami con la moglie Stefania Pittaluga, 46 anni, con la quale, insieme a soci della famiglia Dompè, nel 2015 ha creato la sua emittente Dance Revolution935. Ogni giorno si sveglia alle 5 del mattino e alle 14 puntuale va in onda in Italia.

Sono 21 anni che fa lo Zoo: non è stufo?

«È una sfida: le cose che fanno ridere sono sempre quelle, Stanlio e Ollio, Charlie Chaplin Ogni giorno devi trovare un modo nuovo per rifarle. Così finita la diretta mi aspettano otto o nove ore di scrittura, recitazione, montaggio. Sono un maniaco del controllo, arrivo in radio per primo, vado via per ultimo. E poi ho una radio mia da seguire».

È il suo Piano B?

«Per ora, no. Con la pandemia abbiamo dovuto licenziare tutti, e ora siamo in quattro a fare il lavoro di venti. Pesante, soprattutto in questi giorni in cui ho avuto il Covid. Ora sto meglio. Economicamente poi è un salasso».

Che fa, si lamenta? Lei?

«Non sono miliardario, sto bene, però anch' io aspetto tempi migliori. E poi ho mille rotture che mi rubano tempo, come le denunce».

Appunto: quante ne ha collezionate in 21 anni?

«Circa 600, anche se non tutte finiscono davanti al giudice. Per fortuna c' è la prescrizione».

Paga la radio o paga lei?

«Dipende dai casi. Ora con Mediaset abbiamo un esercito di avvocati, ma il mio vecchio editore Alberto Hazan (di Finelco, ndr) ogni tanto mi diceva: Hai aperto tu il microfono, sono cavoli tuoi».

La cifra più alta che ha perso?

«125 mila euro a un produttore di caldaie che avevo pesantemente insultato. La mia, di quella marca, si rompeva sempre, e d' inverno mi svegliavo sempre al freddo e senza acqua calda. Un mattino sbottai in diretta augurandogli il fallimento e altre cose. Il suo autista ci ascoltò e lui, zac, fece subito la denuncia. Chiese più di un 1 milione di euro, ma io riuscii a convincere il giudice che i miei ascoltatori mica tutti erano adulti, tanti erano ragazzini, quindi non potenziali clienti».

Personaggi famosi che l'hanno denunciata?

«Tantissimi. Rossella Brescia, Valerio Merola, Enrico Ruggeri. Però non capisco: se sei famoso e sicuro di te, che ti importa se quegli scemi dello Zoo ti prendono in giro?»

Lei ha mai denunciato?

«Non è il mio stile, anche se ho ricevuto un sacco di insulti e minacce di morte».

Altri personaggi sono stati allo scherzo?

«Per un periodo tiravamo sempre in mezzo Nek, mentre a Biagio Antonacci facevo mille scherzi telefonici. Lui rideva. A Gigi D'Alessio dicevo che mi faceva schifo la sua musica. Ma non c'era niente di personale: siamo diventati amicissimi, durante la pandemia è stato due ore in diretta con noi a dire stupidaggini».

La cosa più estrema che avete fatto in radio?

«Un giorno venne a trovarci un produttore di film hard con cinque pornostar. Mettemmo del Viagra nel caffè di un mio collaboratore e lo sfidammo a rimanere insensibile alle ragazze, pena il dover baciare l' impresario. Lui decise di rilanciare: baciò l'uomo, e si chiuse in bagno con una delle attrici. Con il microfono».

Conseguenze?

«L'allora proprietario Alberto Hazan, che con me aveva un rapporto padre-figlio, si infuriò e mi tolse la diretta. Per quattro mesi andammo in onda solo registrati. Un'altra volta ci sospese per un mese, per proteste degli animalisti. Molto spesso scelse di licenziarmi: lo fece undici volte. Ma appena arrivavano i dati, mi riacciuffava subito. Lui comunque fu coraggiosissimo fin dall' inizio: oggi nessun altro editore mi lascerebbe iniziare lo Zoo».

In diretta ha trasmesso anche la storia di Santina, l'anziana che si innamorò di uno degli speaker dello Zoo.

«Era la nonna di un nostro ascoltatore. Uno di noi si finse anziano, la chiamava di continuo, aggiungendo particolari: una base su Marte, missioni segrete, realtà parallele. La saga di Santina andò avanti dieci anni, le presentammo Matteo Renzi, Obama e Michael Jackson. La portammo in tour per l'Italia, in elicottero, in go kart. Poi ci fu l'incontro, in una discoteca a Verona: ottomila persone a vedere Santina che baciava il mio collaboratore travestito da anziano».

La signora comprendeva quello che le succedeva?

«Sì. Stava al gioco. Ebbe anche problemi economici e noi la aiutammo per tanti anni, senza farglielo sapere».

Un altro ospite fisso nella gang dello Zoo era Leone di Lernia, scomparso nel 2017.

«Quando facevamo le serate e lui usciva sul palco, era come se fosse Gesù: i ragazzi impazzivano per lui. Era squilibrato e volgare, ma geniale. Aiutò tantissimo la trasmissione con le sue gag. Si vantava di essere famoso e io gli dicevo: Leone, guarda che anche Hitler era famoso. E lui, con il suo accento pugliese tutto sghembo: Mazzoli, non capisci un cazzo. Mi ricordo quando in ospedale mi dissero che gli rimaneva poco, ero sulla porta dell' ascensore, mi sentii mancare il terreno sotto ai piedi. Mi invitò a cena a casa sua, poi partii per Miami. Tre giorni dopo morì. Non riuscii ad andare al suo funerale. Ma lui vive ancora in noi, lo tiriamo sempre in mezzo».

Fuori dalla radio si favoleggia di serate pazze in discoteca: donne, droghe e rock' n'roll

«Mai drogato in vita mia, non fa per me. Quanto alle donne, sono un romanticone: la botta e via c'è stata, ma poche volte. Ammetto, però, che qualche anno fa nelle discoteche le ragazze ci si buttavano addosso».

Nel 2016 uscì On Air - Storia di un successo, un film preso dalla sua autobiografia che andò malissimo.

«Era troppo lungo, ma non per scelta mia: due ore sono troppe per la mia vita, mica ho inventato la cura dell'Aids. Sono solo un cretino che ha trovato una via libera nel mondo dei media».

Non le viene mai il dubbio di aver superato troppo il limite?

«Quando mi arrivano certi messaggi di tredicenni, temo di sì: volgari, violenti, irrispettosi. Io mai mi sarei permesso di dire queste cose a un adulto. Io ho sdoganato questo linguaggio in radio, e l' ho fatto per primo, e mi chiedo se ho contribuito a creare questa mancanza di rispetto e di senso civico che c' è nella società».

Oddio, si pente?

«Un po'. Nella vita vera credo di essere una persona perbene, pulisco le spiagge, sono un animalista. Se il mio modo di fare ha creato danni, mi dispiace».

Il marchio dello Zoo l' ha limitata?

«Sì, certo. Qualsiasi cosa faccia, sarò sempre Mazzoli, quello dello Zoo. E così me lo sono tatuato anche sul braccio».

·        Marco Milano.

Giovanni Terzi  per Libero Quotidiano il 26 agosto 2020. «Sei simpaticissimo» così esordisce, con una sua famosa battuta di spirito, la telefonata con Marco Milano, attore e cabarettista, diventato popolare in televisione negli anni novanta con la maschera comica di "Mandi Mandi" nel programma Mai dire gol. Marco Milano è portatore sano di buon umore e questo lo si comprende immediatamente, già dal primo approccio telefonico, dove cerca immediatamente di metterti a tuo agio e di strapparti una risata. È anche facile intuire come Marco sia un artista vero di quelli che parlano con una schiettezza pura, senza doppi sensi o seconde letture dicendo ciò che pensa senza preoccuparsi di quali ripercussioni potrebbero avere le sue parole. Gli artisti, quelli veri, sono così, immersi profondamente nella realtà ma slegati e liberi da essa. Una vita fatta di alti e bassi dove cercare di riprendersi dopo delle sconfitte non è sempre semplicissimo. «Il periodo nero cominciò nel 2008» racconta Marco, «quando improvvisamente Equitalia iniziò a mandare una serie di cartelle esattoriali pesantissime».

Cosa era accaduto?

«Che il mio studio commercialista aveva sbagliato per quattro anni di seguito la dichiarazione dei redditi e così mi sono trovato di fronte ad un debito con lo Stato enorme che non potevo onorare».

E come ha fatto a pagarlo ?

«Equitalia mi ha portato via tutto! Casa, macchina, ogni cosa e sono dovuto ripartire da sotto zero. Le sembra giusto che i commercialisti commettano degli errori e poi la responsabilità ricada sui cittadini?».

Tutto questo accadde nel 2008 e dopo?

«Arriviamo al 2014 il mio anno orribile dove caddi in una depressione spaventosa. Ero solo, senza una lira e anche la mia compagna di allora mi aveva lasciato. Così mi chiusi in Maremma in una casa e, per quindici giorni, non presi nulla da mangiare e da bere come per lasciarmi morire. Volevo morire, mi creda!».

Ma qualcuno la salvò, vero?

«Io la chiamo "il mio angelo" ma non saprò mai chi fu a salvarmi. Mi chiamarono a casa, risposi farfugliando e mi trovai in ospedale. Quella telefonata di una persona misteriosa mi salvò la vita».

Andando alle sue origini artistiche lei iniziò al Derby di Milano in via Monterosa. Cosa ricorda?

«Fu per caso e a spingermi ci pensò mio zio. Suonavo in una band che si chiamava "i dementi" e giravamo un po' ovunque fin quando mio zio mi sollecitò di andare al Derby a provare. Così feci. Era il tempio del cabaret e lì erano nati i più grandi artisti della comicità italiana. Andai e provai».

Andò bene, giusto?

«Angela Bongiovanni era lì seduta davanti a me assieme a Diego Abatantuono: entrambi ridevano. Ero piaciuto e mi presero subito».

Che città era Milano negli anni ottanta e che pubblico avevate?

«Milano era la città dove i sogni potevano realizzarsi ed il Derby era davvero un posto incredibile dove oltre agli artisti si incrociavano personalità importanti della città. Era una gioia lavorare in quel locale ed avere un rapporto con il pubblico così stretto ti regalava tanta adrenalina».

E il pubblico?

«Era un pubblico così diverso da quello di oggi! Non era esplosa la televisione commerciale ed andare in un locale dove si faceva musica e cabaret era quasi d'obbligo per i giovani».

Con chi ha legato di più negli anni del Derby?

«Con tutti e da tutti ed ho imparato anche molto dagli artisti che si esibivano. Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Smaila e Jerry Calà e poi come non ricordare Giorgio Porcaro».

Porcaro era stato il primo "Terrunciello" della storia della nostra comicità . Che tipo era?

«Giorgio era una brava persona e in quegli anni il tormentone "ho le mani piccole e tozze a badiletto" impazzava ovunque mi ha molto rattristato quanta poca gente c'era al suo funerale. La gente dimentica in fretta, purtroppo».

Poi quella esperienza delDerby finì ...

«Ci fu una retata e venne chiuso per sempre ma quella esperienza stava già spegnendosi. Era esplosa la televisione commerciale e si era trasformato il rapporto tra il comico ed il pubblico».

Lei con chi aveva legato di più?

«Teo Teocoli è sempre stato un grandissimo professionista molto preciso e rigoroso sul lavoro e con cui mi sono sempre trovato bene sia in privato che sul palco. Così è stato anche con Diego Abatantuono».

Dal Derby alla tv il passo fu brevissimo.

«Mi vide in una balera di Ravenna il mitico Claudio Cecchetto . Mi prese per una trasmissione su Italia 1 che si chiamava Zodiaco dove la mia comicità "demenziale" piaceva molto. Pensi che venni censurato!».

In che senso?

«La mia battuta era "spari cazzate" ed invece divenne "spari piazzate". Possiamo dire che erano altri tempi!».

La sua esplosione fu con il personaggio Mandi Mandi...

«Grazie a "Mai dire gol" prima e a "Quelli che il calcio" dopo, prese piede il personaggio friulano del cronista d'assalto».

E come nacque questo personaggio?

«Nessuno aveva mai fatto il "friulano" ed io mi divertii a scanzonarli. Ebbi un bellissimo complimento da un grande della televisione».

Da chi?

«Da Raimondo Vianello che mi disse che la mia idea era geniale; fui così felice».

Ma ci fu un artista che la ispirò?

«Un punto di riferimento fu Jango Edwards, il comico americano ma fu sempre la mia intuizione a guidarmi».

 Lei ha lavorato con tante personalità dello spettacolo con chi si è trovato bene?

«Cito Simona Ventura (e so che gioco in casa) che è sempre stata attenta anche nei momenti difficili. Tendenzialmente mi sono trovato bene con tutti ma quello a cui sono più legato è Paolo Bonolis. Paolo è una persona squisita».

Quando lei ebbe difficoltà chi le rimase accanto?

«Nessuno. La gente dimentica velocemente purtroppo. Mi ricordo che solo un autore televisivo, Dario Viola, mi aiutò in modo concreto. Grazie anche a lui ho iniziato a guadagnare e a rimettermi in sesto con i conto economici».

Adesso cosa sta facendo?

«Con la "Sunshine production" di Bruno Frustaci abbiamo iniziato a girare i film di Natale che sono andati bene ma che oggi, a causa del lockdown, si sono fermati nella produzione».

E per il futuro?

«Avevo proposto un format sugli anziani in Rai e, con grande soddisfazione, ho visto che adesso lo fanno, più allungato, Beppe Convertini e Anna Falchi. Significa che le mie idee sono ancora buone».

·        Marco Predolin.

Anticipazione stampa da OGGI il 4 marzo 2020. Se c’è uno che si intende di psicosi da virus, quello è Marco Predolin, il conduttore televisivo che negli Anni 80 sfondò nell’allora Fininvest ma fu perseguitato da una nomea di potenziale untore che gli azzoppò la carriera. «Nel 1992, ero al culmine della mia popolarità. Nell’ambiente, messa in giro non si sa da chi, circolò la falsa voce che fossi malato di Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita», racconta a OGGI, nel numero in edicola da domani. Risultato? «Qualcosa di strano, impalpabile ma incredibile: iniziarono di botto a non chiamarmi più, a non farmi più lavorare... uscì La Notte, un quotidiano del pomeriggio, col titolo: “Marco Predolin morto a Pavia”. Presero per buono il lancio di uno speaker radiofonico locale». Come reagire? «Avevo fatto il test che accertava la mia sieronegatività: andai da Costanzo a mostrarlo in tv e poi tenevo sempre quel foglietto in tasca, per placare gli increduli. Fui letteralmente travolto da queste dicerie». E arrivando all’attualità, Predolin dice: «Una volta mi fermai in un autogrill a prendere un cappuccino, e poi andandomene sentii chiaro uno dei due baristi dire all’altro: “Lavala bene, quella tazza, perché quello è malato”. Cose che fanno male. Questo episodio mi ha ricordato quello recente di cronaca della signora di Ischia che ha preso a insulti i due pullman di presunti untori di Coronavirus dal Veneto. Ma ci rendiamo conto?... Non le invidio per niente, queste persone della zona rossa. Perché temo che anche quando tutta questa storia sarà finita, non riavranno la loro stessa vita sociale. Saranno sempre quelli di Codogno e dintorni. L’ignoranza impera».

·        Margherita Sarfatti.

ALDO CAZZULLO per il Corriere della Sera il 27 settembre 2020.

Sonia Bergamasco, lei diventerà Margherita Sarfatti per RaiStoria.

«Era una formula rischiosa. Non una fiction; un'intervista, in cui pronuncio le parole precise della Sarfatti. Il rischio "cartolina" era dietro l'angolo. Non ho cercato di trasformarmi, alla ricerca di una somiglianza fisica impossibile. Mi sono documentata, ho letto molto. Ho scoperto una figura tragica ed emblematica».

Lei è una donna di sinistra. Non la imbarazza impersonare l'amante del Duce?

«Margherita Sarfatti merita di essere tolta dal letto di Mussolini e restituita a se stessa. È una donna travolta dalla storia, e da quello che non ha saputo vedere, se non troppo tardi».

La Sarfatti «inventò» Mussolini.

«Ed ebbe un ruolo fondamentale non solo nel creare l'estetica del regime, ma nel percorso che portò alla nascita del fascismo e al colpo di Stato. Inseguì una sua idea di potere e di un'Italia nuova. C'è in lei, accanto a una grande intelligenza e acutezza, qualcosa di opaco, di torbido. Lei vide la violenza delle squadre fasciste. Lei vide morire Matteotti. E alla fine fu vittima dell'uomo e della dittatura che aveva contribuito a costruire. La sua figura venne prima oscurata, poi cancellata, quindi perseguitata. Sua sorella morì nei lager. Lei dovette lasciare il suo Paese e fuggire in Sud America. Espulsa prima culturalmente, poi fisicamente».

Che donna era?

«Colta, profonda. E segnata dal dramma: fin da quando perde il figlio, Roberto, che parte volontario per la Grande Guerra a diciassette anni, infuocato dai discorsi che ha ascoltato in casa, e cade al primo assalto. Per questo credo che alla fine, dopo le leggi razziali, l'esilio, la catastrofe della seconda guerra mondiale, Margherita provasse un rimorso profondo per come erano andate le cose. È una figura estremamente complessa. Ma andava affrontata. Tanto più in un progetto dedicato alle donne e inventato da una produttrice donna, Gloria Giorgianni».

Com' è invece la sua storia? Lei è milanese.

«Sono cresciuta al QT8: Quartiere Triennale ottava. Un esperimento, all'ombra della montagnetta di San Siro: una zona oggi molto bella, all'epoca meno. A diciotto anni sono andata a vivere per conto mio, sui Navigli».

Era la Milano da bere.

«Un periodo grigio, opprimente, faticoso. Ricordo con orrore i paninari, con la faccia arancione per le lampade, vestiti tutti uguali». Lei suonava il pianoforte. «Lasciai il Beccaria per fare il liceo interno al conservatorio. Lì incontrai il mio primo maestro: Quirino Principe, germanista e musicologo, che aveva tradotto Il Signore degli Anelli ».

Il teatro per lei comincia con Strehler.

«Non avevo nessuna esperienza. Feci tre provini, pescando dalle mie letture: Cassandra di Christa Wolf, Guido Cavalcanti e il monologo di Winnie da Giorni felici di Beckett. L'ultimo provino l'ho rivisto di recente: inguardabile, ho chiesto di non mostrarlo mai a nessuno... C'era anche lui, Strehler».

Grande seduttore.

«Grande vecchio, personaggio leggendario per la città, con quella bellissima testa bianca. La musica è stata la mia chiave d'accesso, il mio modo storto di entrare in relazione con il teatro: in maniera musicale, solfeggiata».

Poi l'incontro con Carmelo Bene.

«Un altro grande. Esagerato in tutto. Non era vecchio ma era già malato. Ne ho un ricordo bellissimo. Un anno e mezzo di studio, e poi da sola con lui sul palcoscenico per il suo Pinocchio . Finì con una grande litigata».

Cioè?

«Stavamo preparando La figlia di Iorio , quando scattò la sua fase distruttiva. Non gli andava bene nulla. Gli dissi che era lui ad avermi scelta, e sarei potuta andarmene. Me ne andai. Forse fu giusto così».

Lei ha lavorato con Bertolucci e Castri, ma pure con Checco Zalone: era la sua persecutrice in Quo Vado. Com' è stato?

«Molto impegnativo. Come i veri comici, Checco prima scrive, poi improvvisa. Una grandissima scuola».

Lei è anche la fidanzata di Montalbano...

 «Sono entrata rischiosamente in un racconto già iniziato: il pubblico si era affezionato alle due Livia precedenti. Mi hanno aiutato Luca Zingaretti e un gruppo di lavoro formidabile».

E la moglie di Antonio Albanese in Come un gatto in tangenziale.

«Ora stiamo girando il seguito: Ritorno a Coccia di morto . Antonio è un autore. Lo ricordo ragazzo leggere le poesie di Caproni. Fiero delle sue radici siciliane, che fanno di lui un lombardo doc; i lombardi purosangue non esistono, anch' io ho una mamma napoletana».

Lei è stata anche la mamma di Massimo Ranieri, che è molto più anziano di lei, nel film di Roberta Torre ispirato a Riccardo III.

«Facevo la regina madre. Quattro ore e mezzo di trucco prostetico per invecchiarmi».

Ed è la terrorista ne La Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana.

 «Giulia me la porto dentro. È un film che ci ha segnati e uniti per sempre: Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Maya Sansa, Jasmine Trinca, Claudio Gioè, Valentina Carnelutti, Adriana Asti. Ovviamente, Fabrizio».

Con Fabrizio Gifuni siete sposati da oltre vent' anni. Per un'attrice e un attore, quasi un miracolo.

«Non ho ricette da suggerire. Ci siamo conosciuti lavorando, nel 1995: la Trilogia della Villeggiatura di Goldoni».

Per quale partito vota?

«Posso dirle che ho votato No al referendum... è un periodo confuso, ma so bene da quale parte stare. Guardo con speranza a giovani come Elly Schlein».

Lei ha portato a teatro i testi meno noti di Primo Levi.

«I racconti fantastici e fantascientifici, in cui Levi si diverte e diverte moltissimo».

In un'intervista al «Corriere», Liliana Segre ha rivelato una lettera molto dura che Levi le scrisse, prima di gettarsi nel vuoto. Ma Rita Levi Montalcini non credeva al suicidio.

«Non ne ho mai voluto parlare, neanche con suo figlio Renzo. Sarebbe come violare una zona di pudore, che appartiene esclusivamente alla persona».

A quale attrice si sente legata?

«A Franca Valeri. Tutte noi siamo in debito con lei. Donna di cultura e anche di musica, ha fatto importanti regie d'opera. Una volta Gabriele Ferzetti disse - e Mariarosa Mancuso scrisse sul Foglio - che la ricordavo. Fu il più bel complimento che abbia mai ricevuto».

·        Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Claudio Rinaldi per corriere.it l'8 dicembre 2020. «Vado avanti con i provini da remoto. Prima mi dicono: ci mandi un “self tape”, un auto registrazione, e poi l’immancabile “le faremo sapere”. Ma ormai da un anno non si fa più vivo nessuno». Maria Cristina Maccà ha 53 primavere alle spalle ed è un’attrice a tutto tondo. I numeri del suo curriculum parlano per lei: 37 produzioni tra cinema e tv, e 40 produzioni teatrali. Ha collaborato con Mario Monicelli, Pupi Avati, Carlo Vanzina, Neri Parenti e Paolo Villaggio. Ha interpretato Mariangela e Uga Fantozzi, la figlia e la nipote dell’indimenticabile ragioniere nel penultimo film della saga, «Fantozzi - Il ritorno», 1996. Ed oggi è tornata a Vicenza a casa della madre settantatreenne perché nella Capitale non ha più un lavoro a causa del Covid. «Ho vissuto a Roma 33 anni. Mi sento più romana che veneta, ma non potevo più restare. Non avevo alternative visto che i teatri, ovvero la mia vita, sono chiusi perché non sono considerati indispensabili e il cinema? Beh, esiste ancora, certo. Ma se prima era difficile ottenere una parte, adesso è davvero un’impresa. La pandemia è stata la mazzata finale a un mondo già fortemente in crisi». Maria Cristina al telefono appare rassegnata, dice che non si sarebbe mai aspettata un passaggio del genere nella sua vita, ma non rinnega il passato: «Rifarei tutto, forse però me ne andrei all’estero perché qui in Italia la meritocrazia ha lasciato il posto alla mediocrità. E col Covid le cose sono solo peggiorate». I casting da remoto, la regola per le produzioni in questa fase per evitare assembramenti, secondo Maria Cristina, «sono l’anti-cinema. Io sono sempre stata abituata a rapportarmi con i registi. Mi hanno scelto o scartato guardandomi negli occhi». La sua ultima apparizione sul palcoscenico risale al novembre 2019 al Teatro Eliseo, dopo il buio. «Lavoro da quando a 15 anni trasportavo i pacchi in un magazzino di abbigliamento. Non ho mai chiesto nulla a mia madre. Mi sono sempre sostenuta da sola, lavoravo anche quando ero una studentessa dell’Accademia Silvio D’Amico (tra le più prestigiose in Italia, ndr)». E adesso? «Vado avanti con i risparmi che ho accumulato negli anni, ma quanto può durare? Ho paura di finire sotto un ponte». Gli aiuti dallo Stato sono arrivati, ma non bastano: «Con 600 euro per qualche mese non si può pensare di campare. E poi non voglio sussidi, ma solo tornare a fare l’attrice». Maria Cristina ha collaborato per anni con il Teatro dei Documenti, ideato da Luciano Damiani. «Sono disposta a fare altro, a ripartire daccapo. Anche se non sono più giovanissima il coraggio e la grinta non mi mancano». Prima di riattaccare, il pensiero va ai grandi maestri: «Il cinema e il teatro prima erano un’altra cosa, non si finiva mai di imparare. Ora è diverso perché ci si dimentica presto di tutti. Speriamo che post pandemia si ritorni ad apprezzare il talento. Anche Paolo Villaggio nei suoi ultimi anni di vita ha fatto fatica». Fantozzi oggi? Maccà non ha dubbi: «Se lo immagina il ragioniere che indossa la mascherina? Sarebbe sicuramente record di incassi».

·        Maria De Filippi.

Laura Zangarini per corriere.it il 12 ottobre 2020. La regina televisiva di Mediaset, Maria De Filippi, si è raccontata nel salotto tv di Mara Venier, «Domenica In». Sul filo dei ricordi, gli anni del liceo a Pavia, la sua città natale. Una fotografia la mostra insieme ai suoi compagni di classe. «In quarta ginnasio a Pavia, ebbi un flirt con un ragazzo, ma è finita perché lui era una persona serissima, e io a quell’età non ero così pronta alla serietà» ha ricordato la De Filippi. Che ha rivelato: «A scuola me la cavavo, però scopiazzavo, non studiavo molto, magari lo facevo davanti alla tv, aspettavo le sei per uscire, per lo struscio in centro». Parlando del trasferimento a Roma insieme al padre, De Filippi ha spiegato alla Venier: «Volevo fare magistratura, ho tentato anche il concorso una volta sola. Mia madre mi concesse un solo tentativo, non andò bene e iniziai a lavorare. A me piaceva restare a Pavia, a Roma non ci volevo venire. Mia madre decise di mandarmici a calci nel sedere perché Pavia la vedeva troppo stretta». Poi l’incontro che le ha cambiato la vita, a Venezia, con Maurizio Costanzo. «Lavoravo all’Univideo, un’associazione contro la pirateria delle videocassette. Mi mandarono a Venezia per un dibattito e andai a prendere Maurizio Costanzo per portarlo al Festival. Lì l’ho conosciuto, poi è passata una settimana e mi ha chiamato chiedendomi se avessi voglia di lavorare per lui. Mi era antipatico perché faceva sempre domande scomode. A Venezia mi mise in imbarazzo perché mi disse “La prego, si può spostare che vorrei evitare fotografie con lei”. Ci rimasi male, pensai questo è pazzo». C’era simpatia per lui?, le ha domandato Maria Venier. «Non direi — ha risposto l’ospite —, perché era uno che faceva domande scomode, lo vedevo solo in televisione, iniziai a lavorare con lui ed all’inizio ci davamo del lei. Conoscendolo ho imparato che Maurizio sa esserci, è un punto fermo, penso che mi abbia rasserenato. Io avevo due lati diversi. Uno molto forte, la certezza di saper fare, però dal lato dei sentimenti ero insicura, diffidente, con lui ho imparato a fidarmi». Ripercorrendo poi l’inizio della relazione con Costanzo, De Filippi ha premesso: «Speriamo che nessuno si offenda, neanche la sua ex-moglie (Marta Flavi, da cui Costanzo si separò nel 1990). All’epoca — ha proseguito la conduttrice di “Amici” e “C’è posta per te” — eravamo amanti, siamo stati scoperti ed è stata fatta una scelta, o stiamo insieme o ci separiamo. Quando fummo scoperti, c’erano implicazioni familiari, perché nessuno sapeva nulla, io lavoravo per lui e avevo paura». Come siete stati scoperti?, chiede la Venier. «All’epoca c’era il duplex, io stavo a casa mia da sola e stavamo al telefono, lui a casa con lei che alzò la cornetta, quindi eravamo tutti e tre al telefono. Mi auguravo che lui avesse il coraggio di dire, di continuare la storia. Mia madre lo chiamò per sapere che intenzioni avesse con me. Maurizio è sicuramente la metà della mela». Infine, l’ultima rivelazione: «Quando ancora non ero popolare, e arrivavamo nei posti, mi sentivo messa da parte, direi sicuramente di essere stata gelosa di Maurizio». Il rapporto con Costanzo (la coppia si è sposata il 28 agosto 1995) non ha mai conosciuto crisi, perché con lui, ha sottolineato De Filippi, non si può litigare. Ha ammesso che ci sono scaramucce banali per il cibo: «Confesso in tv che ho qualcuno in ufficio che fa la spia su quello che mangia». Un altro momento difficile lo ha vissuto dopo l’attentato terroristico, una bomba sotto casa: «Ho avuto una paura folle. Abbiamo cenato e sono arrivate le telefonate. È stato un colpo di fortuna, quella persona che lo portava di solito in macchina non si presentò. Da quel momento partì la scorta e promisi a mio padre che non sarei più salita in macchina con lui. Chiesi a Maurizio, inoltre, di non parlare più di mafia»

Da corrieredellosport.it il 12 ottobre 2020. Dalla carriera alla vita privata, la protagonista assoluta dell’ultima puntata di ‘Domenica In’ è stata senza dubbio Maria De Filippi. La conduttrice è stata intervistata dall’amica Mara Venier, tra i tanti temi toccati anche quello della malattia del papà, scomparso quando lei aveva 28 anni. Ai social, però, non è sfuggito un dettaglio che ha subito fatto scoppiare la polemica. L’abito indossato dalla De Filippi (un tailleur nero gessato, ndr) sarebbe un blazer di Yves Saint Laurent da quasi 2.200 euro. E sul web è partita l’indignazione: “Uno schiaffo alla miseria”. Ma tra i commenti negativi, c’è anche chi l’ha difesa: “Una bellissima intervista, lei come sempre elegante e di una semplicità unica”.

Da ilmessaggero.it il 26 novembre 2020. Marta Flavi racconta la sua verità sul tradimento dell'ex marito Maurizio Costanzo con Maria De Filippi. In un'intervista al settimanale "Nuovo", la Flavi ha raccontato la sua versione dei fatti dopo che la conduttrice di Uomini e Donne aveva spiegato a Domenica In come era stata scoperta la storia clandestina con Costanzo. Il giornalista e la Flavi allora erano sposati e proprio a causa della De Filippi il loro rapporto durato cinque anni si era bruscamente interrotto. La Flavi ha spiegato che la scoperta del tradimento le «ha fatto uno strano effetto» anche se, sia lei che Maria, sono andate oltre quella storia. «Lui per me era come un padre, ma con il tempo avevo capito che non poteva funzionare - dice la Flavi - davanti al tradimento lo cacciai di casa. Sentivo che c'era un'altra ma non avrei mai pensato a lei». Nell'intervista a "Nuovo" la ex moglie di Costanzo ha rivelato anche di aver sofferto molto per la separazione con il marito anche se ora «ringrazio Maria per avermelo portato via». Raccontando dell'inizio della loro storia d'amore a Domenica In, la De Filippi aveva ammesso: «Speriamo che nessuno si offenda, neanche la sua ex-moglie (il riferimento è a Marta Flavi, da cui Costanzo si separò nel 1990). All'epoca eravamo amanti, siamo stati scoperti ed è stata fatta una scelta, o stiamo insieme o ci separiamo. Quando fummo scoperti, c'erano implicazioni familiari, perché nessuno sapeva nulla, io lavoravo per lui ed avevo paura». «Come siete stati scoperti?», chiede la Venier. «All'epoca c'era il duplex, io stavo a casa mia da sola e stavamo al telefono, lui a casa con lei che alzò la cornetta, quindi eravamo tutti e tre al telefono. Mi auguravo che lui avesse il coraggio di dire, di continuare la storia. Mia madre lo chiamò per sapere che intenzioni avesse con me. Maurizio è sicuramente la metà della mela».

Da leggo.it il 23 ottobre 2020. Marta Flavi, la rivelazione sull'ex marito Maurizio Costanzo a Nuovo: «Il tradimento con la De Filippi? Ora ringrazio». La famosa conduttrice televisiva torna a raccontare la sua verità sul tradimento dell'ex marito con la conduttrice di Amici. In un'intervista al settimanale "Nuovo", Marta Flavi ha raccontato la sua versione dei fatti dopo che Maria De Filippi aveva spiegato a Domenica In come era stata scoperta la storia clandestina con Costanzo. Il giornalista e la Flavi allora erano sposati e proprio a causa della De Filippi il loro rapporto durato cinque anni si era bruscamente interrotto. Marta Flavi ha spiegato che la scoperta del tradimento le «ha fatto uno strano effetto» anche se, sia lei che Maria, sono andate oltre quella storia. «Lui per me era come un padre, ma con il tempo avevo capito che non poteva funzionare - dice la Flavi - davanti al tradimento lo cacciai di casa. Sentivo che c'era un'altra ma non avrei mai pensato a lei». Nell'intervista a "Nuovo" la ex moglie di Costanzo ha rivelato anche di aver sofferto molto per la separazione con il marito anche se ora «ringrazio Maria per avermelo portato via». Raccontando dell'inizio della loro storia d'amore a Domenica In, la De Filippi aveva ammesso: «Speriamo che nessuno si offenda, neanche la sua ex-moglie (il riferimento è a Marta Flavi, da cui Costanzo si separò nel 1990). All'epoca eravamo amanti, siamo stati scoperti ed è stata fatta una scelta, o stiamo insieme o ci separiamo. Quando fummo scoperti, c'erano implicazioni familiari, perché nessuno sapeva nulla, io lavoravo per lui ed avevo paura». «Come siete stati scoperti?», chiede la Venier. «All'epoca c'era il duplex, io stavo a casa mia da sola e stavamo al telefono, lui a casa con lei che alzò la cornetta, quindi eravamo tutti e tre al telefono. Mi auguravo che lui avesse il coraggio di dire, di continuare la storia. Mia madre lo chiamò per sapere che intenzioni avesse con me. Maurizio è sicuramente la metà della mela».

Malcom Pagani e Francesco Vezzoli per vanityfair.it il 28 settembre 2020. Lo stesso lavoro, da più di mezzo secolo: «La mia famiglia ha sempre avuto una casa nell’Oltrepò Pavese. Dovendo seguire i lavori della sua azienda agricola, mio padre portava me e mio fratello con lui, facendoci trascorrere nella zona mesi e mesi. La noia era la nostra compagna privilegiata e il mio unico interesse era riuscire a passare il tempo  con i mezzadri. Ero piccola e non conoscevo nessuno, ma pretendevo di stare con loro, mangiare con loro, ascoltare i loro racconti. Nella casetta dei custodi, con il papà contadino, la moglie e la figlia che faceva la sarta e oggi non avrà meno di 80 anni, attraverso le loro parole, passava tutto il paese. Quando nei weekend, i giorni della festa e del vestito buono, mio padre mi portava nella piazza principale di Mornico Losana, il mio divertimento, un divertimento assoluto, era restituire un volto alle persone di cui avevo sentito parlare per tutta la settimana. Ciascuno dei paesani aveva un soprannome e il soprannome incarnava il difetto della persona. C’erano le due mariucce, la corta e la lunga, e c’era giassè, il ghiacciolo, quello che beveva e nel dare di gomito metteva un po’ di ghiaccio in tutti i bicchieri che si scolava. C’era un teatro che mi innamorava e mi rapiva e che, alla fine, mi portava a una sola domanda: “Perché?”, lo stesso nomignolo che, vista la curiosità che mi animava e le domande che facevo in continuazione a chiunque, mi aveva affibbiato mio padre. Non so se tutto quello che sono stata dopo nasca da allora, ma so per certo che quella stessa curiosità di bambina, molti decenni dopo, io l’ho portata nei miei programmi». Non è chiaro se sia la televisione a rendere longevi o la longevità a dilatare il tempo della televisione fissandone i volti, le voci e il carisma in un indistinto sospetto di eterno. Maria De Filippi c’è sempre stata, ma non avrebbe dovuto esserci. Esordì davanti a una telecamera, quasi per caso, nel settembre del 1992: «Senza mai aver ambito a farlo né aver mai sostenuto un solo provino. Lella Costa, la prima conduttrice di Amici, rimase incinta e non riuscivo a trovare una persona che potesse sostituirla né soprattutto mettere in atto quel che avevo in mente io».

Che cosa aveva in mente?

«Già da allora, inconsapevolmente, volevo destrutturare il canone e scardinare la regola televisiva per cercare negli altri gli unici sentimenti che arrivino davvero dall’altra parte dello schermo: verità e spontaneità».

Un’impresa difficile nel primo Amici?

«Era tutto abbastanza sceneggiato. Alberto Silvestri, storico autore del Maurizio Costanzo Show e poi di Amici, sceglieva cinque o sei storie a puntata da far commentare ai ragazzi in studio. Quando mi dava il segnale io voltavo pagina e passavo all’altra. Pur nei confini di una sostanziale libertà ero “diretta”, ma presto cominciai a sperimentare altro. Quando una storia non mi interessava non la seguivo e non lo facevo per una sterile forma d’insubordinazione, ma soltanto perché mi sarebbe stato impossibile andare contro la mia natura».

E cosa impone questa natura?

«Un solo patto a cui non ho mai derogato neanche in seguito: se una cosa mi interessa più di un’altra, io le corro dietro fregandomene del resto. Potrebbe sembrare il contrario di quella che dovrebbe essere la televisione, ma è un po’ la stessa ragione per cui i miei format non hanno un titolo specifico. Che sia nello studio di Uomini e donne o mi trovi a condurre C’è posta per te cambia poco. Mi scelgo le storie da sola perché se non interessano a me non riesco a portarle avanti e questo è da sempre il mio principale metro di valutazione».

Era così anche ieri?

«Dovevo fare la tv a modo mio soprattutto perché in un’altra maniera non avrei mai potuto o saputo farla, ma qualche problema all’inizio si presentò e se non ci fosse stato Maurizio, che di Amici era il produttore, forse non avrei continuato. Ricevette una telefonata di Silvio Berlusconi che lo chiamò per chiedergli se fosse sicuro della bontà della sua scelta. Io rappresentavo l’antitesi di tutto quello che passava in tv, soprattutto all’epoca».

All’epoca, nel settembre 1992, lei aveva trent’anni. Pensava sarebbe rimasta in tv così a lungo?

«No, ma forse certe domande sul futuro non me le sono mai fatte neanche a vent’anni. “Cosa farà questa da grande?” era un quesito che si poneva soprattutto mia madre».

Lei non se lo chiedeva?

«Forse accadeva e probabilmente mi rispondevo: “Boh, qualcosa mi inventerò”. Non c’era niente che mi piacesse o mi appassionasse in modo particolare. Per un’astratta idea di utilità nei confronti del prossimo, mi sarebbe piaciuto fare Medicina all’università. Mi dicevo: “Magari salvo qualche vita”, ma poi alla fine mi iscrissi a Giurisprudenza».

Prese 110 e lode eppure sua madre di lei aveva detto: «Non è completamente stupida, ma nemmeno troppo intelligente».

«Anche se lo diceva con ironia, per lei ero una fonte di preoccupazione. Non studiavo e, secondo l’ottica di mia madre, si trattava della cosa più vergognosa del mondo. Stavo sempre attaccata alla televisione e per lei, donna molto pratica, la tv era più o meno nei pressi di Satana. Non ero come mio fratello che studiava seriamente. Io copiavo e la cosa più indecente era che finivo per copiare proprio da mia madre. Insegnava Greco, Latino e Italiano e faceva lezioni private per preparare i suoi alunni al sacro momento del tema».

Come copiava?

«Prendevo il tema che aveva preparato per l’alunno, me lo copiavo e lo portavo a scuola. Non sempre i suoi studenti frequentavano il Classico come me e così tra le tracce proposte dai miei professori e quelle che portavo già sviluppate da altri in classe, qualche lieve incongruenza c’era. Non era raro che andassi del tutto o quasi fuori tema». (Ride)

Oggi cos’è per lei il lavoro?

«Da ragazza lo consideravo un elemento strumentale rispetto al resto del tempo. Oggi non ci rifletto più perché in effetti lavoro tantissimo. Ma il mio lavoro mi piace e lo svolgo in una condizione di assoluto privilegio perché posso scegliere le persone con cui dividere lo spazio e gli argomenti dell’avventura. Non sono una faccia in prestito gestita da una produzione che può imporre l’uno o l’altro conduttore a seconda delle stagioni, il maglione di lana o lo scollo a V, disinteressandosi completamente dell’impronta che ognuno di noi lascia sul terreno».

La sua è molto riconoscibile.

«Poter fare dei programmi in libertà con una squadra che conosco da anni e che è cresciuta con me mi consente una compenetrazione di pensieri con il gruppo che altrove sarebbe impossibile. Mi troverei disallineata con un capo progetto che, magari in assoluta buonafede, ha scelto tutti i tasselli di un programma che a quel punto dovrei condurre a mia insaputa».

Si dice che sia perfezionista fino alla maniacalità.

«È vero, assolutamente sì, lo sono. Ma è solo perché da un certo punto di vista sono rimasta la bambina che andava a sette anni nella piazza del paese con mio padre per dare forma alle storie che avevo ascoltato nella cucina dei contadini. Se non capisco l’ospite che ho davanti a me vivo la cosa come un fallimento. Prima di andare in onda, studio. Cerco di leggere tra le righe, parlo con le persone, mi arrovello e lascio che i dubbi si facciano strada e mi portino a soluzioni migliori».

Le sue trasmissioni sono un luogo, culturale e psicologico, molto contemporaneo. Con lei le persone mettono a nudo il loro punto di vista sulla sessualità, sul desiderio e sui sentimenti come forse non farebbero neanche dallo psicanalista. Che cosa cerca nelle storie che porta in tv?

«Persone reali. Con un sentimento che vada al di là del mezzo stesso e del programma che faccio. Prenda Nello e Carlotta. Vengono da un piccolo paese. Stanno insieme e li ho scelti per Temptation Island perché ho capito che non vengono in tv per aumentare i follower. Magari sono molto lontani da me, ma la distanza è utile. Arricchisce. Ti fa guardare alle vicende umane in modo diverso. Mentre provavo a conoscerli, durante il casting, sono stati capaci di farmi ridere e riflettere al tempo stesso».

Cosa l’ha fatta ridere?

«Nello e Carlotta non convivono, ma lei vuole sposarlo. Quando mi ha spiegato il perché ha usato una metafora che mi ha colpito: “Se sei la compagna del tuo uomo e arriva tua suocera in casa per sposta’ un bicchiere, lo sposta. Se sei sua moglie non lo può più sposta’». Pensate quanto verità c’è nella saggezza popolare. L’ho scelta per questo, Carlotta, non certo perché ho pensato che una volta arrivata sull’isola tradisse il fidanzato. Anche se Temptation Island passa per essere l’isola delle corna, di quella roba lì non me ne frega niente. Mi interessa il viaggio nella coppia. Il racconto da portare in tv che ti scuote e ti coinvolge anche se a tavolino non sai mai se ciò su cui ragioni funzionerà o meno. Vado per tentativi, ma non penso mai: “Andrà bene comunque”. Se non scommetti, però, non vinci mai».

Nelle sue trasmissioni primi piani e dettagli non sono mai lasciati al caso. I volti parlano non meno delle parole.

«Il regista si chiama Andrea Vicario e, a proposito di scommesse, iniziò a fare Amici che era un ragazzino. Gli vidi fare due o tre cose e lo scelsi senza indugio nonostante per fare un programma come quello, almeno sulla carta, erano necessari anni di esperienza e mi avessero proposto suo padre, Stefano, un regista molto noto e molto bravo che quell’esperienza l’aveva maturata. “Voglio Andrea”, dissi e lo dissi perché mi accorsi che aveva un punto di vista diverso da tanti altri. Non era solo attento alla cura del dettaglio o all’inquadratura, ma aveva anche l’orecchio giusto per ascoltare».

Quello non le manca. In Uomini e donne prende delle persone comuni e le trasforma in eroi popolari. In Amici sceglie talenti fuori dal comune e li porta a essere artisti a pieno titolo. Maria De Filippi è un grande produttore?

«Non lo so: in realtà non ho mai perseguito un obiettivo e non ho mai pensato: “Adesso trovo questo cantante o questo talento e poi lo produco”. Non c’è mai stata una traccia o un copione in questo senso, ma tutto si è svolto sempre molto più liberamente e casualmente di quanto non si possa immaginare da fuori. Tutti pensano che dietro ci sia chissà quale obiettivo, ma in realtà quell’obiettivo non esiste. Neanche nella messa in scena. Quando in Uomini e donne sono seduta sugli scalini, non accade per un’esigenza di sottrazione. All’inizio ero in piedi».

Poi cosa accadde?

«Le registrazioni diventano quattro, sessantaquattro minuti netti per quattro e semplicemente non ce la facevo più a stare in piedi. Mi sono seduta sugli scalini, nessuno ha eccepito e sono rimasta lì. A volte le scelte sono più semplici e lineari di quanto non si possa immaginare».

Anche le scelte artistiche?

«Ci vuole anima. Si pensa che il ragazzino che ha imparato per strada sia meno talentuoso di chi ha studiato, ma non c’è una regola e spesso non è vero. Non esiste nessun artista, cantante o ballerino, che se non ha un’anima sia  in grado di trasmetterla nella sua arte. Alessandra Amoroso faceva il karaoke a casa sua senza frequentare una scuola di canto, però aveva un’anima e quando cantava quell’anima usciva. Ti ritrovi a seguirla, a cercare di concretizzare quello che sogna e, per rispondere a quel che mi chiedevate prima, diventi in qualche modo una sorta di produttore, ma finisce lì. Tanto è vero che poi Alessandra Amoroso esce dal programma, va in una casa discografica e i rapporti tra me e lei a quel punto diventano assolutamente umani e non certo professionali. Altrove, in trasmissioni che hanno dietro una casa discografica, ovviamente il percorso è diverso».

Nelle sue trasmissioni i ragazzi parlano di sentimenti ma è raro che citino un disco, un libro o un film che li abbia particolarmente colpiti.

«Come sappiamo non c’è in assoluto una grande abitudine alla lettura e, con l’avvento dei social, assistiamo a un paradosso: i ragazzi magari sono più informati di prima, ma di sicuro non comprano un quotidiano».

Come mai?

«Perché dei giornali, come dei libri, i ragazzi hanno paura. Hanno timore di accostarsi a qualcosa che viene spesso presentato come inarrivabile da uno scranno che somiglia a una cattedra severa. Quando Giulia De Lellis fa il libro sui tradimenti del suo fidanzato lo vende a persone che vanno in libreria e pensano di poterlo leggere perché conoscono la storia di una ragazza che è come loro».

«Non si possono liquidare i successi pensando che li vedano solo i coglioni». La frase è sua.

«Quando sento i solòni scandalizzarsi e tuonare: “Giulia De Lellis vende più di uno scrittore titolato”, mi stupisco. Non devono adontarsi, ma trovare il modo di vendere il loro prodotto. Non spaventare chi dovrebbe comprarti è un buon inizio».

Consiglierebbe la stessa cosa ai direttori di un quotidiano?

«Senza dubbio. Semplificare significa avvicinare. È come dire: “Apritelo, sfogliatelo, lo potete leggere tutti”. Fino a quando i direttori dei giornali parteciperanno solo a trasmissioni in cui si parlano tra loro, a guardarli sarà solo un pubblico che è già abituato a comprare i giornali. Se vogliono allargare il bacino devono scendere dalla loro torre».

Lei li ha invitati a farlo?

«Mi sono limitata a invitarli in trasmissione perché, secondo me, all’interno di un programma nazionalpopolare come Amici avere il loro punto di vista avrebbe avuto un senso. Anche senza di me, anche durante la settimana, al solo scopo di spiegare ai ragazzi cos’è un giornale. Avrebbero potuto farlo meglio di me, io un giornale non saprei come farlo. Non saprei da dove cominciare».

Ne è sicura?

«Talmente sicura che, quando anni fa mi venne offerto di dirigerne uno online, dissi di no».

Che giornale era?

«l’Unità. Venne da me una persona – è inutile che mi domandiate chi, non ve lo dirò – a chiedermi se mi interessava un giornale digitale come quello, per provare un’esperienza completamente diversa dalla mia. Per un istante sognai persino di accettare. Ci pensai. Pensai a come rendere quella narrazione il più larga possibile, ma fu l’entusiasmo di un secondo. Non sarei mai stata in grado, e non lo dico per vezzo. Non mi metto a fare una cosa che so per certo di non saper fare».

Lei ha invitato in trasmissione Roberto Saviano. Se Saviano va ad Amici, il suo libro torna in classifica. È solo un calcolo?

«Non mi pare, anzi, in qualche modo significa educazione alla lettura. Aveva letto una paginetta e aveva raccontato la storia di quel libro in modo normale. Chi lo ha visto ha pensato: “Lo posso comprare” e quel passaggio, quella differenza, non ha fatto bene soltanto alle vendite di Saviano o alla gloria della trasmissione. Né io né lui volevamo metterci una medaglietta, ma aprire nuove strade. Non è che la gente non voglia leggere perché le è antipatica la carta o cova pregiudizi».

In questi anni si è rapportata spesso con il pregiudizio. È stato faticoso?

«A tratti, in particolare nei primi anni, mi è pesato moltissimo. C’erano volte in cui leggevo le critiche e stavo proprio male. Però – e sto dicendo la verità – non ho mai inseguito il consenso e non ho modificato i miei gusti per strizzare l’occhio a qualcuno oppure ottenere un’identificazione. Non l’ho mai fatto e a un certo punto, per fortuna, anche nel giudizio critico le cose sono cambiate. Ma sono gli altri a essere venuti dalla mia parte, non io a subire una metamorfosi. Oggi comunque non soffro più».

Sogna mai di restare fuori dal video?

«Posso pensare che un giorno mi allontanerò dal video, ma non lo sogno mai. Il giorno in cui lo dovessi sognare non mi vedreste più. Lo farei. Taglierei il cordone. Senza troppe parole inutili».

«È così triste essere bravi, si rischia di diventare abili», fa dire Paolo Sorrentino a Toni Servillo ne La grande bellezza.

«È verissimo, l’abilità non coincide né con la spontaneità né con l’istintività. È come scegliere tra un ladro perfetto e un borseggiatore. Preferisco essere un borseggiatore, preferisco essere me stessa».

Maria De Filippi ruba la scena ad Antonio Banderas: "Le persone restano dentro oltre i colori". Nella nuova puntata di C'è posta per te, Antonio Banderas è stato chiamato in studio da Andrea, un giovane che ha invitato la madre Marisa a tornare a viversi la vita, dopo la perdita del padre. Serena Granato, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Lo scorso sabato, 25 gennaio, è stata trasmessa la nuova puntata di C'è posta per te. E l'appuntamento tv in questione del people-show di Maria De Filippi ha riservato ai telespettatori momenti emozionanti e colpi di scena. In apertura della terza puntata del format di Canale 5, si è presentato in studio Antonio Banderas. Attore, produttore, doppiatore, originario di Malaga e classe 1960, è stato chiamato in trasmissione da Andrea, un ragazzo che ha organizzato una sorpresa per la madre Marisa. I due protagonisti della storia hanno un passato difficile alle loro spalle. In particolare, sono reduci da un grave lutto subito in famiglia all'incirca un anno fa. Quando nel corso di una notte la donna chiamó il figlio per via di un improvviso arresto respiratorio accusato dal padre. Un accadimento che, purtroppo, si rivelò fatale per l'uomo, che venne a mancare. Se Andrea ha cercato, negli ultimi mesi, di trasformare il dolore causato dalla perdita del padre in forza, per affrontare la vita, la donna non è mai riuscita ad andare avanti. A spingere il giovane a scrivere alla Redazione del format, è stata la sua volontà di spronare la madre a tornare a vivere. "Adesso sono io a dovermi occupare di mia mamma -fa sapere, nella sua lettera di presentazione, letta in studio dalla De Filippi-, io che sono stato sempre il più viziato di tutti. Io che ridevo, quando papà mi diceva 'vieni a lavorare per 40 euro al giorno'. Mi danno ora 20 euro al giorno, ma sono contento. E sono qui per mamma, so che non posso più ridarle papà. Per lei è inutile tutto, anche mangiare. "Perché io devo fare le cose, che papà non può più fare?", mi dice ogni volta. Lei beve solo una tazza di tè a cena e pesa 39 kg. Lei sta lì, aspettando papà. Io provo a parlarle, ma sembra sorda. Spero che quel quarto di vita che può restarle possa viverselo". Parole commoventi quelle di Andrea, che non è riuscito a trattenere le lacrime in studio per poi lasciarsi abbandonare in uno sfogo liberatorio, mentre era seduto accanto a Banderas. "Ti amo mamma e ho bisogno di te", è la dichiarazione di affetto del ragazzo dedicata a mamma Marisa. Ad un certo punto, la conduttrice ha consegnato a Marisa uno scialle colorato, che è un regalo del figlio. Ma la donna non lo indossa, lo tiene solo stretto tra le sue mani. Dettagli che Maria De Filippi nota in puntata, per poi chiedere alla diretta interessata: “Quello scialle però non lo hai messo, Andrea te lo ha regalato per farti bella... Perché non è nero?". E all'ultimo quesito, è seguita una perla della conduttrice, che ha colpito nel profondo tutti i telespettatori: "Le persone ti rimangono nel cuore, indipendentemente dal colore degli abiti”. A rivolgere parole di speranza a Marisa è stato anche il suo beniamino. La donna, non a caso, ha iniziato a sorridere non appena ha cominciato a conversare con Banderas, che le ha detto: "So che quando ci muore qualcuno, sotterriamo il nostro cuore. Ma promettimi che farai dei passi avanti".

Antonio Banderas controtempo. Prima che si registrasse la sorpresa di Andrea dedicata alla mamma, Marisa, Antonio Banderas aveva concesso una mini-intervista alla conduttrice di C'è posta per te. E, incalzato dalle domande di Maria De Filippi, l'attore spagnolo ha rilasciato alcune dichiarazioni su come abbia influito nella sua vita lo scorrere inesorabile del tempo. "Io sono riuscito ad accettare la mia età -ha fatto sapere - . Ho 59 anni, sono quasi un sessantenne e ho ancora tanto da fare. E ho tanta passione". "Non ho mai ucciso il bambino che è dentro di noi -ha aggiunto-. Questo bambino mi dice che quando si smette di essere creativi, e si dice a se stessi “basta, adesso mi rilasso”... lì quel bambino muore. E io voglio continuare così".

Maria De Filippi: «Io e Alberto Angela? In fondo siamo simili». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Quella di C’è posta per te è la storia di un successo nato quasi per caso. Se vent’anni fa Maria De Filippi non avesse avuto in agenda un incontro al ministero dell’Istruzione, forse ora non sarebbe in palinsesto una delle poche trasmissioni della tv generalista capace di arrivare — ancora oggi — al 30% di share. «Quel giorno, era il 1999, mi avevano fermata due ragazzi sulle scale del ministero: loro non potevano entrare e mi avevano chiesto di consegnare una busta al ministro. Entro e consegno la lettera anche se non conosco il contenuto. Poi però ci continuo a ripensare. Ecco, lì è nata l’idea. All’inizio nessuno poteva immaginare sarebbe diventato un programma venduto in un sacco di paesi». Che, vent’anni dopo, fa registrare il 30% di share...«Il primo dato fu il 19%, ancora lo ricordo. Poi il 21. Piano piano è sempre cresciuto e oggi Pier Silvio, se potesse, lo farebbe andare in onda tutto l’anno. Io sono contenta, anche se il numero è impressionante sopratutto rispetto a quelli che ci sono in giro ultimamente: non capita spesso di vedere dati con il 3 davanti».

Segue la trasmissione anche un pubblico giovane. Come se lo spiega?

«C’è posta parla di sentimenti che riguardano ogni generazione. La sensazione, e la fonte di preoccupazione, è che i giovani la tv non la guardino proprio più. E se lo fanno, lo fanno a modo loro: si creano un proprio palinsesto, formano delle community che commentano le trasmissioni... senza contare che non c’è nulla più che li stupisce, che l’attenzione è diversa, sono figli del web, hanno velocità di cambiamento nello spostare la loro attenzione che prima non c’era».

E quindi lei come riesce a catturarli?

«La differenza rispetto agli altri sta forse nel fatto che io non parto a monte ma a valle. Io non propongo un contenuto ma lavoro sul contenuto che mi propongono loro. Mi oriento in base a quello che mi scrivono, a quello che mi dicono a come me lo dicono. Tutto è diverso, anche il linguaggio. Se consideri quello che i giovani ti chiedono, secondo me li riesci a intercettare: cerco di stare dietro a loro».

Il segreto è solo quello?

«Penso. Non ho mai ragionato dicendo: faccio questo e poi vedo come si incasella. Per me funziona al contrario. Cerco di incasellare in una mia visione quello che le persone vogliono. La televisione deve rispecchiare la realtà, se no dai una visione del mondo tuo ma che non appartiene agli altri. Altrimenti la tv diventa un negozio in cui dentro trovi solo cose che non fanno per te, che non ti riguardano».

E come si possono unire le generazioni in questo senso?

«Puntando su quello che hanno in comune. Una persona di 70 anni può avere poche cose in comune con una di 15, eppure insieme possono benissimo giocare a burraco. Il ragionamento che faccio è trovare sempre un terreno in cui ci si possa incontrare».

Resta in contatto con i protagonisti delle sue storie?

«Il dopo è seguito dalla redazione, ma non trovo giusto raccontarlo in televisione. Non mi piace. Il senso del programma è un altro e il lavoro non è semplice: non so se si nota, ma è curato in ogni dettaglio e richiede tanto, tanto lavoro».

Si parla spesso dei super ospiti. Di recente ha avuto Johnny Depp. Come ci riesce?

«Ho sempre cerato di avere ospiti che non lo facciano di professione, senza nulla togliere a chi lo fa. Ma il tentativo è sempre stato quello. Da lì, uno ci prova. Cerchi di incastrare gli impegni, essendo poi un programma registrato, ti muovi molto tempo prima. Depp per esempio era a Venezia: allora fai un tentativo, cerchi le coincidenze favorevoli. Quando ho visto Uma Thurman da Fazio, mi sono detta: cavolo, non lo sapevo».

Il sabato sera si confronta con il protagonista di un altro caso televisivo, Alberto Angela. Cosa pensa di lui?

«Ecco, lui è un grande divulgatore. Per me è bravissimo, come era bravo Baricco: spiegava i libri in camicia azzurra, con le maniche arrotolate e io stavo a seguire tutto quello che diceva appesa alla tv. Angela ha un modo che non è impositivo nella divulgazione. Non ti dice: io sono acculturato e tu ignorante seguimi. Non è mai presuntuoso, non è mai il conduttore invadente o invasivo, la sua non è mai una predica e per questo la gente lo segue».

Direbbe dunque che lei e Angela siete simili?

«Se anche lui riconosce questo in me, sono solo che felice. Io riconosco il suo modo di condurre e trovo sia quello giusto. Ho sempre pensato che il conduttore debba essere un tramite e non l’oracolo, se no diventa un politico. Poi c’è chi lo fa ma non è un modo di fare tv che appartiene a me. Angela lo sento simile, poi fa tutt’altro genere. Il mio programma è nazional-popolare, l’accesso è più facile. Angela lo devi voler seguire, deve interessarti. La mia partenza è più accessibile perchè racconto qualcosa che già conosci. Lui ti deve intrigare, però poi quando lo vedi non ti stacchi perché ti accompagna... rispetto a chi fa divulgazione, vedo la differenza che c’è tra il professore del liceo e quello dell’università che magari fa un corso che scegli di seguire perché ti interessa e alla fine non c’è nemmeno l’esame».

Che idea si è fatta della polemica sulle frasi sessiste di Amadeus e sul maschilismo a Sanremo?

«Fa impressione ultimamente considerare quanto bisogna stare attenti quando si parla per non essere fraintesi. Io non penso che Amadeus sia sessista o maschilista. Credo che abbia inteso Sanremo come una grande festa della musica e abbia mischiato molte carte: ma penso che il suo scegliere delle giornaliste del tg e anche delle bellissime ragazze miri ad accontentare tutto il pubblico».

Quindi, secondo lei, queste parole non sottintendono una visione?

«Credo che lui abbia sbagliato ad usare dei termini e in generale, sulla questione, penso abbia ragione Lilli Gruber quando dice che se tu fai un lavoro, che sia uomo o donna devi essere pagato nello stesso modo. E penso anche che per le donne è più complicato farsi valere. Ma dobbiamo anche essere noi donne più solidali, lo siamo poco. I maschietti sempre molto di più. Poi se Amadeus invita una giornalista del tg a Sanremo, mi sembra chiaro non abbia nessun pregiudizio. Anche io, a Sanremo, avevo innescato una polemica senza rendermene conto».

Aveva detto di non aver avuto un compenso per il Festival.

«Sì, ma non immaginavo che avrei innescato così una polemica contro Carlo (Conti, ndr.). Non mi sono resa conto, altrimenti avrei aggiunto che io non facevo il direttore artistico, che non mi ero occupata di quello che poi andava in onda ma che semplicemente, avevo dovuto scegliere cinque vestiti da indossare. Quando ho visto i giornali il giorno dopo mi sarei sotterrata, non mi era mai successo. Sanremo è anche questo».

È anche la bufera su Junior Cally. Che idea si è fatta?

«Ho avuto un caso simile ad Amici, con Skioffi. I prof lo avevano giudicato in base alle canzoni che aveva portato, poi sono saltati fuori tutti i precedenti. Io ho chiesto un parere ai giornalisti che si occupano di musica, ho fatto in modo che lui spiegasse le frasi che aveva cantato. Le spiegazioni non erano molto diverse da quelle di Cally, lui diceva anche di essersi ispirato ad alcune scene di film. Alla fine è rimasto: io credo che la componente artistica conti»..

·        Maria Giovanna Elmi.

Maria Giovanna Elmi e gli 80 anni: «Intervistai Stallone in Israele e scampai a un attentato. Mai fatto una papera in Rai». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 25 agosto 2020.

Maria Giovanna, oggi sono 80. Auguri!

«Ah sì, me l’hanno detto...».

Non faccia finta di niente. Come festeggerà?

«Eh, questo virus non ci voleva... All’ultima festa c’erano 500 persone!».

Accidenti!

«Erano diventate l’evento dell’estate, perché anche mio marito (l’imprenditore Gabriele Massarutto, ndr) compie gli anni vicino, il 30: stessa età. Sono sempre state feste open, si cominciava alle 20 e si finiva il giorno dopo alle 6. Una volta si erano trovati insieme Jörg Haider e Reinhart Rohr, che erano avversari politici. Ma anche il mio barista, per dire... Perfino la squadra di snow rugby al completo: mi avevano vista il giorno prima al supermercato e volevano una foto; dissi che non ero in ordine, ma li aspettavo a casa per il compleanno, e sono venuti con le firme sulla palla ovale».

Maria Giovanna Isabella Isolina Elmi, amatissima figlia femmina, dopo tre maschi, di papà Luigi e mamma Italia, ha mantenuto l’eleganza della Signorina Buonasera che annunciava i programmi dal piccolo schermo e l’entusiasmo dell’inviata di Sereno variabile che si spostava come una trottola da un capo all’altro dello Stivale. Con in più una innata gentilezza nascosta nei dettagli. Come quello di far trovare alla cronista una sua foto incorniciata sul comodino della stanza dove trascorrerà la notte a Tarvisio — «Così ti senti a casa» — in quella zona di confine tra Italia, Austria e Slovenia che si candidò a ospitare le Olimpiadi invernali nel 2002 e nel 2006, con un progetto chiamato, appunto, «Senza confini».

Dei tanti soprannomi che le hanno dato — Azzurrina, Fatina bionda, Barbie, Voce di velluto, Biancaneve, Serena invariabile — a quale è più affezionata?

«Fatina di sicuro, perché me lo diedero i bambini ai tempi in cui conducevo Il dirigibile, prima con Toni Santagata e poi con Mal. Era una specie di Sereno variabile ante litteram... Io ero la Fata Azzurrina, parlavo con i pupazzi, Zippo coniglio macchinista, e Franz cuoco di bordo, e i bambini non capivano perché con loro restassero muti e con me no».

Veniamo alla Signorina Buonasera. Faceva le prove davanti allo specchio?

«No, imparavo a memoria tutto. Per 7 giorni in Parlamento non capivo nemmeno cosa stessi dicendo. Usavo bigodini bollenti per farmi le onde naturali, poi entravo in una stanzina e salivo su una pedana, perché Marina Morgan era molto più alta di me e il tecnico cambiava solo il controluce. C’era un semaforo: giallo attenzione, rosso e verde audio e video».

Papere clamorose?

«È passata per papera, ma non avevo colpe, l’annuncio del Capodanno 1979 a reti unificate. Rai 3 era appena nata. Davanti a me c’erano i monitor di Rai 1 e Rai 2, ma non di Rai 3. Così, vedendo che sul primo canale e sul secondo c’erano ancora il programma e l’intervallo, continuavo a sistemarmi il corpetto del vestito di pailettes: temevo che potesse dare l’effetto nudo a seconda della inquadratura. Peccato che su Rai 3 fossi già in onda... Quando sono tornata nella saletta del caffè mi passarono subito una telefonata: “Oh ma tu ce voi fa’ morì, noi siamo gli avieri di Caserta!”».

Doveva sorridere sempre. Come ha fatto nei momenti più duri? Penso ai giorni del divorzio da Ernesto Hoffman o a quando mancò la sua collega e amica Roberta Giusti...

«Prima ci fu la morte del mio papà... Ero disperata, ma il lavoro è sempre stato un complice. Ricordo di aver ricevuto, dopo, una lettera: “Sorridi sempre, ma non più con gli occhi”».

Riceveva tante lettere?

«Tantissime! Un siciliano voleva sposarmi e per iscritto poneva le condizioni: “Andremo al cinema una volta alla settimana, dovrai cucinare per me tutte le sere...”. Un altro me lo trovai sotto casa, aveva citofonato dicendo che mi aveva portato i polli cotti. E io: “Ma quali polli?”. E lui: “Sì, me lo hai detto tu, hai cambiato la riga dei capelli, era il segnale!”».

Maria Giovanna Elmi, una carriera lunga 60 anni. Cos’ha pensato della nuova generazione di annunciatrici, alla Claudia Andreatti?

«Ai miei tempi c’era solo il piano americano, non ho amato queste inquadrature a figura intera: alla fine ti chiedevi dove avevano comprato le scarpe... E poi quella chiusura con il dito puntato mi sembrava da maleducati».

E di Alessandra Canale che pianse in diretta dopo l’ultimo annuncio?

«L’uso privato della tv pubblica è sempre stato vietatissimo. Una volta la Carrà si mise a piangere perché sua madre stava molto male ed ebbe una ramanzina... Comunque, tutto sommato, Alessandra ha fatto bene. Io per carattere, non lo avrei fatto».

Lei in compenso fece causa alla Rai per essere stata estromessa da «Sereno variabile».

«Mi è costato molto dolore. A me seccava essere pagata per non lavorare. Comunque è una storia vecchia: si è chiusa dopo un bel po’ di anni con una transazione economica».

Chi vinse Sanremo nel 1977?

«Homo Sapiens con Bella da morire».

E nel 1978?

«I Matia Bazar con ...e dirsi ciao».

Ricorda bene anche chi presentava, immagino...

«Nel ‘77 scoprii che sarei stata a Sanremo dai tabelloni dei turni. Mike Bongiorno voleva al suo fianco un volto amato dal pubblico e da un breve sondaggio ero risultata io la più amata. Ero terrorizzata! Lui fu splendido: mi diede una scatola con tutte le schede dei cantanti, così potevo prepararmi».

Lo conosceva già, avevate fatto insieme un fotoromanzo...

«Di Mike non ho mai avuto il numero di telefono. E di quel fotoromanzo, Un nido di tenebre, per Grand Hotel, ebbi il coraggio di riparlargli solo molti anni dopo».

Nel 1978, invece, lei era accanto a Beppe Grillo.

«Veramente Beppe Grillo fu la mia guest star. Quel Festival lo presentai io, prima donna nella storia. Indossavo una collana alta della principessa Helietta Caracciolo: mi ero fatta un buco nero con il ferro, cercando di arricciarmi una ciocca, e quel collarino mi salvò!».

Facciamo un balzo in avanti: 2005, l’Isola dei Famosi.

«Era da un po’ che me lo chiedevano, ma temevo che la Mutty, la madre di Gabriele, da mutter, disapprovasse. E invece al dunque disse che era fantastico e così andai».

I naufraghi più giovani non furono generosi con lei, che poi arrivò terza.

«Forse pativano di più la fame e si controllavano meno. Ma non importa. Ci sentiamo ancora. Con Idris è nata una bellissima amicizia. Mi è rimasto impresso quando Al Bano andò via e ci affidò la croce di legno che aveva costruito, per proteggerci. Lory Del Santo e Daniele Interrante volevano utilizzare il legno, io mi opposi e Idris, musulmano, mi aiutò a raddrizzarla. “Ricorda che Dio è uno solo”, disse».

Davvero Audrey Hepburn le chiese l’autografo?

«Sì, al Matriciano a Roma. Era per il figlio Luca che guardava Il dirigibile ed era innamorato di me».

E della cavalcata nel deserto con Rambo?

«Intervistai Sylvester Stallone vicino a Tel Aviv per Sereno variabile: mi fece salire sul suo cavallo afferrandomi con una morsa d’acciaio. In aeroporto, dopo, scampai a un attentato...».

Prego?

«Ma sì, al check in dopo estenuanti interrogatori, urlarono: “Everybody down! Everybody down!”. Le hostess sparirono, inghiottite non so dove. Poco dopo, due soldati comparvero tenendo per le braccia un uomo».

E del corteggiamento di Tony Curtis?

«Eravamo a Taormina per il festival e mi aveva invitata nel suo hotel per nuotare con Esther Williams, ma io dovevo lavorare e gli diedi buca. Poi al party serale mi venne a cercare con il mio nome scritto sul palmo della mano».

Di quale cosa, tra le tante che ha fatto, è più orgogliosa?

«In Rai facevo parte del gruppo donatori di sangue. Sono 0 Rh negativo, preziosissimo perché lo puoi donare a tutti, ma lo puoi ricevere solo dal tuo gruppo. Una volta un tecnico delle riprese precipitò in parapendio, ci allertarono tutti, ma solo io potevo darlo. Due anni dopo, quando ci siamo rivisti, mi ha abbracciato e ringraziato».

E sul lavoro di cosa è più fiera?

«Dell’intervista a Giulio Andreotti per le Europee del 18 giugno 1989. Era stato lui a chiedere che fossi io, fu una bella soddisfazione».

Pochi sanno che ha fatto tanta radio.

«Che bei ricordi, erano gli inizi. Facevo dei collegamenti con le Forze armate. Andai dentro un sommergibile, su un incrociatore lanciamissili, sulla nave scuola Corsaro II... A un certo punto quelli dell’Aeronautica protestarono. Così salii bordo del Fiat G.91 e feci una serie di looping indimenticabili: mi avevano fatto indossare la tuta del Generale Remondino. Quando mi toccò l’elicottero il pilota mi fece fare un “valzer” e mi chiese se era meglio del looping. Ma come potevo dirlo? Allora lui, dopo aver chiesto l’autorizzazione via radio, fece precipitare l’elicottero e quando eravamo quasi a terra fermò l’aeromobile. Quindi, serafico: “Ecco, questo un G.91 non lo può fare”».

Quale regalo vorrebbe per il compleanno?

«Nel 2014 all’udienza pubblica del mercoledì in piazza San Pietro avevo chiesto a papa Francesco di venire al Santuario del Monte Lussari per benedire la Madonna, venerata da italiani, austriaci e sloveni. Avevo portato uno scatolone pieno di cartoline raccolte nei tre Paesi. Lui mi promise: Verrò, se il Signore me darà la vida. Lo sto ancora aspettando».

·        Maria Grazia Cucinotta.

"Sono stata aggredita da uno sconosciuto". E quella rivelazione choc di Maria Grazia Cucinotta. In una recente intervista, Maria Grazia Cucinotta si lascia andare a diverse rivelazioni sul suo passato e confessa di essere stata aggredita da uno sconosciuto quando era giovane. Carlo Lanna, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Lei è una donna di classe che ha segnato un’epoca nel panorama cinematografico italiano e internazionale. E anche se Maria Grazia Cucinotta da qualche tempo è lontana dalle scene (preferendo lavorare dietro le quinte), resta comunque una vera icona di moda, di stile e di femminilità. Di recente è stata pubblicata una sua intervista sul settimanale Diva e Donna, in cui oltre a parlare della sua vita da attrice, la Cucinotta si è lasciata andare in alcune rivelazioni molto scioccanti. L’attrice custodisce un ricordo terribile che ora decide di racconta senza peli sulla lingua. "In passato sono stata aggredita da uno sconosciuto". Così esordisce Maria Grazia Cucinotta nell’intervista choc. Come ha rivelato l’attrice, pare che l’aggressione sia avvenuta molti anni fa quando era ancora una ragazzina di appena 20 anni, e quando era a Parigi per lavoro. "Ero in trasferta. Ero felice perché ero nella città più bella al mondo – rivela la Cucinotta al settimanale -. Stavo per andare a fare un provino per una pubblicità. E a scanso di equivoci: non ero truccata né ero vestita in maniera provocante. Ero solo me stessa – aggiunge-. Indossavo una felpa, una tuta e così sono entrata nel portone di quel palazzo in cui avrei dovuto fare il provino. Uno sconosciuto in giacca e cravatta è entrato insieme a me". E l’aggressione a Maria Grazia Cucinotta accade proprio in quel preciso istante. "Come tutte le donne sono cresciuta sempre nel guardarmi le spalle. Infatti ho avvertito subito una sensazione di pericolo – rivela -. Mi ha colto di sorpresa. Ha cercato di strapparmi i vestiti. Sono riuscita a scappare ma mi ha inseguito. Sono entrata in casa. Tutto è durato un attimo, ma cose del genere non le dimentichi così facilmente. Io stessa ho lottato per non subire violenza", aggiunge. Ed proprio questo il senso dell’intervista: reagire alla violenza. "È difficile perché ti senti paralizzata, a meno che tu non sia Nikita – ironizza per smorzare un po’ i toni-. Dopo pensi a quello che potrebbe succedere e la paura ti fa prendere decisione affrettate. Ho pensato di voler prendere il porto d’armi", conclude. E complice quanto accaduto, Maria Grazia Cucinotta ha sempre avuto un occhio di riguardo per i più deboli. Nel suo campo ha cercato di combattere contro la violenza sulle donne e le minoranze.

Maria Grazia Cucinotta per “la Stampa” il 2 gennaio 2020. Posso capire quello che ha fatto Sharon Stone, forse l'avrei fatto anch' io, perché tante volte quando sei famosa e internazionale, come lo è lei, anche se stai tra milioni di persone, che ti amano e ti cercano, alla fine sei sola, ti senti da sola, perché non sai mai se le persone ti frequentano perché tu sei Sharon o solo perché tu sei la Stone. I social ti danno quell'anonimato che ti rende uguale a tutti gli altri, ti riporta a quei rapporti sinceri che ti mancano, le persone ti parlano e si interessano perché sei tu, senza essere abbagliati dalla tua fama, anche se la Stone si è registrata con il suo nome, quindi non voleva neppure fingersi un' altra. Purtroppo il suo nome invece di aiutarla l'ha bloccata. Nessuno poteva pensare che la vera star hollywoodiana cercasse su Bumble quello che si immagina dovesse avere in abbondanza. Così è stata segnalata dagli altri utenti, che hanno ritenuto il suo account fake. Ed è stata bannata. Mi piace l'idea di questa donna che, senza pensarci troppo, segue l'istinto e cerca di trovare l' anima gemella attraverso un sito, la trovo grandiosa, e l' avrei fatto anch'io. Del resto, il fatto di essere famose o no non preclude il fatto che siamo tutti esseri umani bisognosi di amore e di persone con le quali condividere la vita di tutti i giorni. Attenzione solo ai siti: non tutti sono affidabili e tanti si fingono Sharon Stone e poi ti ritrovi in trappole a volte letali. In America sono tantissimi ad usarli per trovare la propria metà, tanti lo fanno perché sono talmente presi dalla propria carriera da non voler sprecare tempo con persone che non rispecchiano le proprie aspettative. Per questo ci sono dei siti molto seri e specializzati che ti studiano e ti accoppiano con il partner ideale, e sono tante le coppie che si sono incontrate al buio e poi innamorate perché perfetti l' un per l' altro, senza spreco di tempo. Certo, andare ad un appuntamento a colpo sicuro e non a causa del colpo di fulmine può destabilizzare noi romantici in cerca tra la massa del partner perfetto, però dall' altra parte ti eviti magari sorprese deludenti. A parte questo, devo confessare che ho forzato una mia amica a iscriversi ad uno di questi siti e devo dire che ho iniziato a seguire passo passo questo suo percorso (quasi da serie tv) e mi sono sorpresa per il numero elevato di persone iscritte e di quanti hanno solo bisogno di essere o sentirsi amati, anche se non sei famoso. E tanti sono proprio uomini, che un po' soffrono di non trovare più donne che apprezzano i romantici... wow, da non crederci.

Maria Grazia Cucinotta: “La polemica contro Amadeus è ridicola”. Giulia Cherchi l'01/02/2020 su Il Giornale Off. L’affascinante attrice siciliana si racconta a OFF tra Sanremo e James Bond. Maria Grazia Cucinotta, attualmente in tournée con Figlie di Eva (fino al 9 febbraio alla Sala Umberto di Roma), insieme a Michela Andreozzi e Vittoria Belvedere, confessa inedite curiosità personali e lavorative.

In Figlie di Eva Interpreta Vicky una donna tradita. Lei è mai stata tradita?

«Eh…gli uomini più sei appariscente e più entrano in competizione. E alla fine il loro cervello basso prevale anche su quello alto. Una volta che capisci questo, non ti aspetti più niente. È un loro limite!»

Invece un limite delle donne sembra quello di non coalizzarsi, a parte nel suo spettacolo dove le tre protagonista diventano amiche…

«È quasi impossibile che le donne siano unite e divengano complici, come accade nel mio spettacolo. Parliamo tanto di violenza da parte degli uomini, ma le donne a volte sono le prime nemiche di se stesse e diventano il sesso debole proprio perché non sanno essere complici e amiche tra di loro. È raro trovare un ambiente dove le donne lavorano tutte in armonia. L’unico posto che ho trovato così è stato la Susan G. Komen, l’associazione per la lotta ai tumori del seno dove collaboro da quasi vent’anni. Lì c’è veramente una coalizzazione tra le donne. Forse perché la malattia le unisce, il sesso sparisce ed esiste solo la voglia di farcela, di vivere, di capire veramente il valore della vita.  Soltanto lì ho trovato un’amicizia vera».

Perché accade questo?

«Perché le donne sono esseri autonomi. Inoltre siamo sempre state abituate ad essere in competizione con qualche altra, per colpa di un uomo o per colpa dell’educazione. A volte si cresce credendo che l’altra ti possa portare via qualcosa, che l’altra sia meglio di te, che tu possa essere sostituita da un uomo con un’altra. E questo ti porta a non essere amica delle donne, quando poi in realtà ognuno di noi è un pezzo unico e proprio perché siamo uniche dovremmo essere tutte molto più unite e apprezzare le doti dell’altra per migliorarci oppure completarci. Come fanno gli uomini. Un uomo non litigherebbe mai con un altro uomo per una donna. Si possono non parlare per due giorni, poi escono la sera e si divertono, e ci ridono pure sopra. Noi invece per un uomo siamo capaci di creare una guerra. Questo ci rende estremamente deboli. Perché abbiamo sempre bisogno di un altro per completare un progetto. E questa commedia mette in risalto questo aspetto. Nell’ultima riunione che ho avuta con l’associazione che si occupa di violenza sulle donne, abbiamo pensato di creare dei corsi per educare i bambini, ma soprattutto educare le mamme: perché siamo noi donne che cresciamo i maschi che poi diventano violenti; e siamo noi che li aizziamo contro le donne; spesso abituiamo i ragazzini a pensare che le donne, a seconda di come si vestono, debbano più o meno essere quelle da punire oppure da giudicare. Il giudizio è un’arma letale».

A proposito di maschi violenti, ora c’è stata una polemica su Junior Cally, il cantante che parteciperà a Sanremo…dicono che nei testi delle sue canzoni ci siano parole violente, sessiste…

«Ma di cosa parliamo? Di uno che scrive una canzone? Ci sono serie televisive dove sgozzano la gente, ammazzano, ci sono prostitute. Ognuno scrive ciò che vuole, ormai. Non c’è più un limite. Ma se tu di base hai un’educazione, puoi ascoltare qualsiasi cosa senza farti influenzare dal primo cretino che arriva. Non è una canzone che porta alla violenza. ono le persone che sono malate e di conseguenza sono violente, perché sono state sfortunatamente cresciute in famiglie che non li hanno educati o in ambienti dove non hanno visto altro che quello».

Cosa ricorda degli episodi off degli inizi della sua carriera?

«In realtà non volevo fare l’attrice, ero timidissima: i primi provini li facevo in apnea, parlavo molto velocemente ed ero incomprensibile. Non mi prendevano mai. Quando andavo su un set mi paralizzavo. Una volta dovevo dire Ti amo e mi vergognavo a tal punto da non riuscire a pronunciare quelle due parole, tanto che mi dissero: non vuoi dirlo? Vai via! Col tempo questo lavoro mi ha dato la possibilità di vincere questa mia grande timidezza. Ero impacciata e in più sono dislessica, di conseguenza avevo già dei problemi a coordinare cervello e lingua. Questo lavoro mi ha tirato fuori tutti quegli incubi che mi portavo dentro».

Non aveva mai fatto teatro per la timidezza?

«Sì, e devo dire grazie a Michela Andreozzi, a Massimiliano Vado (il regista dello spettacolo, n.d.r.), a Vittoria Belvedere e a Marco Zingaro. Siamo alla 203esima replica e abbiamo fatto più di 100 sold-out in giro per l’Italia. Con questo spettacolo si è avverato il mio sogno di fare teatro. Anche perché se non fai teatro ti senti sempre incompleta. Oggi sono contenta di aver vinto la paura e di aver debuttato con delle donne. Questo spettacolo dimostra che le donne possono essere amiche e che il talento non ha sesso. È il pregiudizio a creare violenza e distanza».

Diversamente che lavoro avrebbe fatto?

«La psicologa. Ma all’inizio pensavo di fare il politico o il magistrato, perché volevo cambiare il mondo. Poi mi sono resa conto che il volontariato forse aiuta molto di più».

È vero che non voleva fare la Bond girl?

«Sì, l’ho rifiutato per ben tre volte. E devo dire grazie alla mia agente che ogni volta che dicevo no, continuava con le trattative. Così sono diventata una Bond girl. E lo sarò per tutta la vita. Anche a 80 anni. E questa è una cosa fighissima!»

Lavorando all’estero, quale pensa sia il difetto degli italiani?

«Lavorare all’estero per me è stata una grande liberazione perché nessuno ti giudica, ti vedono per quello che vali e non hanno pregiudizi. Io arrivavo dalla televisione, dalla moda, dalla pubblicità, e di conseguenza, non avendo fatto centri sperimentali o frequentato salotti, in Italia ero sempre quella miracolata per tutti, che magari sarebbe finita il giorno dopo. Invece quando sono arrivata a Los Angeles per loro ero Beatrice Russo, l’attrice de Il Postino che aveva avuto cinque nomination all’Oscar, ne aveva vinto uno, ed era stato il film più visto al mondo. Di conseguenza partivano con un rispetto profondo per quello che avevo fatto. Ho fatto dei corsi, ho capito a fondo questo lavoro e ho scoperto veramente la macchina infernale che è il cinema: la più grande dittatura al mondo: gli americani hanno creato la più grande dittatura mediatica al mondo, dove ci influenzano continuamente. Loro ci fanno fare esattamente quello che vogliono  attraverso i loro film e ti condizionano, perché sono dei geni della comunicazione. E pensare che il cinema è nato in Italia. Loro hanno imparato a fare questo lavoro da noi e ne hanno fatto un mestiere potentissimo. Noi siamo rimasti degli artigiani».

E un suo difetto personale, invece?

«Non ho vie di mezzo: o ti amo o ti ignoro, nemmeno ti odio.

Ora che fa la produttrice, ho letto che lei aiuta i giovani, cerca di dar loro una chance per uscire dall’ombra e dimostrare quanto valgono. Chi, a suo tempo, le ha dato una chance?

«Troisi in assoluto, e poi le pubblicità. Lilia Trapani, che era la casting director con la quale ho fatto un sacco di pubblicità e Cucca, un altro casting director di pubblicità. Loro sono stati i primi che hanno avuto fiducia in me dandomi visibilità».

Lei ha lavorato con grandi attori. Chi l’ha sorpresa di più?

«Un po’ tutti. Ma uno degli attori più bravi in assoluto con cui ho avuto la fortuna di lavorare è stato Anthony Hopkins. Ho accettato di fare un film solo perché c’era lui. E se penso al maestro di recitazione penso a lui e ad Edward Norton. Per me sono i due attori più bravi in assoluto. Avevamo quasi tutte le scene insieme e ricordo che all’inizio penavo per togliere l’accento italiano dal mio inglese. Lui doveva recitare una parte in latino e una in italiano e ebbe un attimo di difficoltà. Così pensai: vedi, capita anche ai grandi!»

Qual è stata la scena più difficile della sua carriera?

«A livello emotivo, girare l’ultima scena senza Troisi sul set de Il Postino, perché purtroppo era già morto. È quella scena in cui tornava Neruda e io gli davo la cassetta: era talmente vera che a un certo punto abbiamo pianto tutti e abbiamo dovuto interrompere di girare per ore. Invece una delle scene più difficili è stata quando in un film dovevo andare a cavallo -io ho la fobia dei cavalli-, o in bicicletta -non ho equilibrio in biciletta. Entrambe le situazioni per me sono state un incubo. Poi mi sono ritrovata a girare scene in cui passavo da un palazzo all’altro senza neppure avere la controfigura: una cosa che non farei mai più».

Ci avviciniamo a Sanremo. Alcune sue colleghe hanno avuto da dire sulle affermazioni di Amadeus. Cosa ne pensa?

«Amadeus è un professionista serio ed educatissimo, molto rispettoso nei confronti delle donne. Dicendo che noi donne siamo capaci di stare dietro a un grande uomo senza trarne vantaggio, senza sfruttare l’immagine di un compagno famoso per uscire fuori -e questo è un pregio- ci ha voluto fare un complimento. Io lo trovo un bellissimo complimento e trovo assurda tutta questa polemica.  Lui in questo momento è su una barca che si chiama Sanremo, dove c’è grande visibilità ma anche tanta invidia e gelosia.Non puoi rovinare un qualcosa di così bello e di italiano come il Festival di Sanremo che è una istituzione Amadeus è una persona da rispettare, e mi dispiace che tutto questo venga rovinato per un misunderstanding o per l’emozione (si vedeva che era emozionato quando parlava). L’ho trovato ridicolo. Impariamo a rispettare le parole degli altri!»

A proposito di rispetto…Lei è molto seguita social, le capita mai qualche haters?

«Da poco ho fatto la pubblicità dove ero senza trucco e alcune persone mi hanno scritto: sei rifatta! Da una parte lo prendi come un complimento, dall’altra parte vedi gente che non mi conosce e che insiste a dirmi: sei bugiarda! Voglio dire a questa gente: impegnate il vostro tempo in qualcosa di utile, andate a fare volontariato! Io le mie rughe me le tengo tutte! Per carità, mi curo perché faccio un lavoro di immagine, ma se io ti dico che non mi sono fatta un lifting, tu lo vuoi sapere meglio di me?! Faccio volontariato nell’oncologia da vent’ anni e sinceramente di fermare il tempo non me ne frega niente, perché ho imparato che la vita va vissuta ed è un regalo tutti i giorni. Già soltanto svegliarsi e stare bene è un qualcosa che devi ringraziare veramente Dio. Io il tempo non lo voglio fermare. Ho festeggiato i miei cinquanta gridandolo al mondo. Quest’anno faccio cinquantadue anni e sono felice perché non voglio fare ruoli da ventenne o trentenne: ci sono le ragazzine bellissime, usassero loro. Io adesso faccio la mamma, farò la nonna, la bisnonna e un giorno andrò in pensione, felice di questo. E sarò una donna vera. C’è una frase bellissima che dice: se fai del bene il bene ti ritorna. Un mio amico ha la Sla e scrive con gli occhi. Nella prima lettera che mi ha scritto diceva: “io sono felice perché comunque scrivo, in mezzo a tanta gente (perché ci sono tanti stati vegetativi lì) io comunque riesco a comunicare e questo mi rende estremamente fortunato e felice”. Con lui stiamo scrivendo una sorta di mini serie sulla sua vita, da poter girare. Una cosa meravigliosa. E sarà il mio prossimo progetto».

Oltre a questo progetto, c’è qualcosa di più imminente?

«Continuo a lavorare su Teen, una serie televisiva che abbiamo scritto con Paula Boschi e che dirigeremo insieme. Non vediamo l’ora di cominciare».

Maria Grazia Cucinotta a teatro racconta la solidarietà tra donne. Intervista a Maria Grazia Cucinotta, una delle dive italiane più amate al mondo, che ora affronta il palcoscenico del teatro in una divertente commedia che parla di donne e solidarietà femminile. Con Lei Michela Andreozzi e Vittoria Belvedere. Roberta Damiata, Mercoledì 29/01/2020, su Il Giornale. È davvero emozionante avere davanti Maria Grazia Cucinotta, una donna dallo sguardo magnetico e il sorriso contagioso. Impossibile riuscire a prendere un caffè e fare quattro chiacchiere con lei senza essere costantemente interrotti da questo o quello per un selfie, un autografo o un semplice complimento. E lei, con una semplicità estrema, nonostante tanti anni di carriera alle spalle e decine di film sia prodotti che interpretati, si concede con grande amore al suo pubblico. Famosa in tutto il mondo, dalla Cina, all’America, Maria Grazia ha ora ha intrapreso una nuova sfida professionale, quella del teatro dove insieme a Michela Andreozzi e Vittoria Belvedere porta in scena “Le figlie di Eva” una commedia molto divertente sulla solidarietà femminile, che apre a molti spunti di riflessione. Ma non è su questo che iniziamo a parlare a parlare con lei, piuttosto della sua evidente bellezza, a cui 50 primavere sembrano aver aggiunto ancora più fascino. Un segreto che ogni donna vorrebbe conoscere e non a caso proprio lei è stata scelta per una nota pubblicità che da settimane impazza in tv e che la mostra bella come ai tempi in cui girò “Il Postino”.

Lei è bella in tv ma bellissima dal vivo, sicura di non aver fatto qualche ritocchino?

“Sicurissima, non fa parte proprio del mio carattere, ho letto anche io di questa cosa, ma se fosse vera non avrei nessun problema a dirlo. Credo che il fatto di aver cambiato make up possa aver tratto in inganno. Nella pubblicità sono praticamente senza trucco. Credo comunque che più che la bellezza, conta quello che hai dentro, e soprattutto saperlo trasmettere. Io come tutte ho i miei difetti”.

Dopo tanti anni di cinema ora è passata a teatro come mai?

“E' stata una lotta con me stessa. Pensavo che con 33 anni di esperienza, avrei potuto fare tutto, invece no, la recitazione è completamente diversa, io poi sono molto timida e salire su un palcoscenico anche soltanto per consegnare un premio mi agitava. Ognuno di noi ha le sue fobie e io a 50 anni mi sono detta che volevo vincere queste paure e ci ho provato. Per fortuna ho avuto delle compagne di viaggio, come Michela Andreozzi e Vittoria Belvedere a cui all’inizio mi sono aggrappata. Ma ricordo che le prime volte dicevo a tutti: "Non ce la posso fare". Invece poi sono stata felicissima, perché provare ancora l’emozione che ti fa tremare le gambe ti fa ritornare un po’ teen ager”.

La commedia che sta portando a teatro da tempo è “Le figlie di Eva”. Chi sono?

“Veniamo da un anno di successi, dove abbiamo avuto il 90% delle volte il teatro sold out. Ora sono tornata a casa, a Roma, e siamo al Teatro Umberto dove rimarremo fino al 9 febbraio. E’ una commedia che parla di solidarietà femminile: tre donne diverse che sono state ferite dallo stesso uomo, creano l’uomo perfetto che dovrebbe vendicarle. In realtà poi, grazie a questo capiscono che nella vita non c’è bisogno di avere altro, bastano loro”.

Tre donne che non si sarebbero mai scelte nella vita...

“Praticamente sull’orlo di una crisi di nervi, legate allo stesso uomo che è un politico spregiudicato, corrotto e doppiogiochista. Io interpreto Vicky la moglie di questo politico, poi c’è Elvira, interpretata da Michela Andreozzi che è la sua perfetta assistente, e infine Antonia, interpretata da Vittoria Belvedere, una ricercatrice universitaria che sta aiutando il figlio del politico a laurearsi”.

Il suo personaggio mi sembra molto diverso da lei...

“Completamente. Interpreto una donna che non ha mai avuto un problema in vita sua, che vive facendo shopping, completamente superficiale e che si ritrova ad essere lasciata "in diretta" dal marito. Io sono diversa, sono felice quando riesco ad aiutare gli altri, sono timida, molto solidale con le altre donne”.

Oltre a non somigliare al personaggio di Vicky fa anche una parte molto divertente, una cosa insolita per lei...

“Mi diverte moltissimo interpretare questo personaggio femminile così diverso da me, sentire il pubblico che si diverte e che partecipa. Una cosa bellissima”.

Secondo lei la colpa è sempre degli uomini?

“No anche delle donne che fanno le scelte sbagliate. Comunque è anche vero che le donne quando si uniscono sono una vera forza, e ci sono anche degli uomini come quello che noi scegliamo per creare questa vendetta che sanno riconoscere le qualità che ha una donna. Lui infatti è quello che ci mette poi di fronte alla realtà dicendoci: ‘Perchè vi nascondete dietro un uomo quando in realtà voi siete la vera forza’. Ci sono gli uomini che sanno apprezzare le donne e sanno riconoscerne i meriti, poi ci sono anche quelli sbagliati, che noi a volte scegliamo e di cui ci innamoriamo, e quando succede alla fine diveniamo poco obiettive”.

Ma non è che andate un po’ troppo contro gli uomini?

“Noi non abbiamo nulla contro i maschi, ci vendichiamo un po’ di quelli che sono stati cattivi, non con gli uomini in generale”.

Come si lavora con due donne?

“Nello spettacolo c’è anche Marco Zingaro che interpreta il giovane attore che noi ingaggiamo e istruiamo, non siamo quindi soltanto donne in scena. Ma anche se lo fossimo io sarei felicissima, sembra banale dirlo, ma in realtà c’è grande intesa e complicità tra di noi, poi è una commedia esilarante, ci divertiamo noi, e anche il pubblico che viene a trovarci”.

Lei come donna ha fatto delle scelte importanti nella sua vita come quella di lasciare Los Angeles per tornare a vivere a Roma...

“Sono delle cose che fai senza pensarci. Egoisticamente avrei potuto scegliere la carriera, stare a Los Angeles, però poi avrei reso infelice due persone, mio marito e mia figlia Giulia e il fatto di vedere lei con un rapporto bellissimo sia con me che con il padre, mi conferma di aver fatto la scelta giusta”.

È anche una donna molto attenta al sociale...

“Come dicevo prima fare qualcosa per gli altri mi rende felice, sono ambasciatore di Komen Italia che è un’organizzazione basata sul volontariato, in prima linea nella lotta ai tumori al seno. Ma non soltanto, anche con NeMO SUD al policlinico di Messina per chi è malato di distrofia muscolare. Sono cose che mi fanno rimanere con i piedi per terra. Un malato non sceglie mai di esserlo”.

Da una splendida donna come lei che messaggio si sente di mandare alle altre donne?

“Gli uomini sono sempre stati così, siamo noi donne che dobbiamo ad educare i nostri figli ed insegnargli ad amare le donne e ad essere gentili con loro, perché una donna, una madre, che giudica le altre donne, crescerà un uomo che diventerà poi violento”.

·        Maria Teresa Ruta.

Gf Vip, il dolore di Maria Teresa Ruta: "A vent'anni hanno tentato di stuprarmi, ho un vuoto dentro". Maria Teresa Ruta al Grande Fratello ha fatto una confessione molto personale, che non aveva mai fatto a nessuno nel tentativo di dimenticare. Francesca Galici, Sabato 10/10/2020 su Il Giornale. I giorni nella casa del Grande Fratello possono sembrare infiniti. 24 ore al giorno chiusi dentro quattro mura e l'impossibilità di uscire sono una condizione ormai nota anche agli italiani e così, dentro la Casa, si passa il tempo a chiacchierare e a confidarsi. Questo è quello che ha fatto Maria Teresa Ruta, questa settimana in nomination con Stefania Orlando e con Myriam Catania, rivelando ad alcuni suoi compagni uno spiacevole episodio del passato, che l'ha vista protagonista di un tentativo di stupro. La concorrente, che fino a questo momento nella Casa si è mostrata forte e combattiva, ha avuto un momento di debolezza in camera da letto parlando con Tommaso Zorzi. Quello della showgirl è stato quasi un flusso di coscienza, un racconto emerso senza che ci fosse la reale intenzione da parte della donna di raccontare quel momento così drammatico della sua vita. "Sono fortunata, ho dei figli fantastici che sono felici, ho una casa, una mamma, un fratello, una famiglia stupenda quindi… Non si può avere tutto nella vita però ho questo vuoto che mi porto dentro", ha detto tra le lacrime davanti a Tommaso Zorzi, stranamente attonito.

Gf Vip, la contessa senza freni. Dalla Parietti alla Ruta, ce l'ha con tutti. Con l'influencer, Maria Teresa ha ricordato le parole che le disse tempo fa Maurizio Costanzo, uno dei pilastri ella televisione italiana, parole che tutt'oggi rimbombano nella testa della showgirl: "Maria Teresa tu non darai mai il cento per cento se non vai in analisi, se non ti risolvi questo problema". Maria Teresa Ruta, però, non ha mai avuto intenzione di tirare fuori tutto quello che ha dentro, ha preferito mettere una pietra sopra e cercare di dimenticare, di non tornare con la memoria ad alcuni momenti terribili vissuti quando era poco più che un'adolescente che, però, sono tornati prepotentemente a galla nella Casa. "Non voglio sapere cosa è successo nel mio passato. Io mi dimentico tutto quello che di brutto può essere successo, non voglio sapere", ha affermato la Ruta prima di svelare a Tommaso Zorzi il mostro che la consuma da ormai tanti, troppi anni. "Dopo che hanno tentato di stuprarmi, io avevo vent’anni, io ho fatto l’amore la prima volta a ventiquattro con il papà di Guenda. Quattro anni ci ho messo per cercare di superare la cosa. Io non lo avevo detto a nessuno", ha babettato la showgirl senza riuscire a trattenere le lacrime. La regia del Grande Fratello ha poi staccato su Matilde, forse per tutelare il momento di Maria Teresa.

·        Marianna Pizzolato.

La parità di genere nel mondo della musica lirica? Lontana anni luce. Da "lastampa.it" il 21 agosto 2020. La parità di genere nel mondo della musica lirica? Lontana anni luce. Lo sottolinea Marianna Pizzolato, mezzosoprano di fama internazionale, 43 anni, palermitana. Nel curriculum esibizioni in mezzo mondo, l'ultima ieri nella Giovanna d'Arco al Rossini Opera festival di Pesaro, la prossima a ottobre al San Carlo di Napoli, dove calcherà le scene dello Stabat mater rossiniano. Ma nel suo bagaglio professionale Pizzolato ha anche numerose esperienze di discriminazione legate al genere e all'aspetto esteriore. «Sono in sovrappeso e più di un regista mi ha escluso dal ruolo che avrei dovuto interpretare proprio per questo motivo, dicendolo espressamente», racconta. Una situazione che l'ha spinta, lo scorso giugno, a candidarsi nel direttivo dell'Assolirica, associazione che rappresenta artisti italiani e non solo, che si prefigge, tra gli altri, l'obiettivo di tutelare la figura femminile da molestie e disparità. E a Giangiorgio Satragni - in questi giorni criticato, in primis dalla scrittrice Michela Murgia, per il suo intervento sulle pagine del nostro giornale sulla direttrice d'orchestra Joana Mallwitz («fa esattamente quello che farebbe un uomo, l'orecchio non percepisce differenza» la frase presa di mira) - risponde così: «Giusto criticare, laddove serve, ma è solo di musica che si deve parlare. Saremo comunque pronti ad accogliere Satragni in Assolirica per aprire un dibattito». Il confronto: è proprio di questo che, per Pizzolato, si ha bisogno per superare certi pregiudizi e dare il colpo di grazia al sessismo. Ma quanta strada ancora da fare «A volte, per le caratteristiche tecniche della mia voce, mi capita di fare ruoli da uomo», racconta la mezzosoprano. «Nel 2003 a Parigi dovevo interpretare il Serse di Händel, ma, quando mi vide, il regista disse: "Farò in modo che tu mi vada bene, ma il tuo collo non è adatto perché non abbastanza longilineo, avrei preferito una figura slanciata". E io all'epoca ero già affermata nel mio lavoro. Più di recente, nel 2015, mi sono trovata in un festival importante italiano: avevo già il contratto di ingaggio, ma il regista me lo fece togliere perché io non corrispondevo ai suoi canoni di bellezza. Episodi come questi fanno capire quanto valore eccessivo si dia al fattore estetico, cosa che sembra valere solo per le donne, molto meno per l'uomo. Un maschio in carne va bene, nessuno gli fa osservazione. A una donna no, non si perdona. In più di un teatro europeo mi è capitato di sentire il direttore artistico dire di non volere sul palco taglie oltre la 44. Il body shaming (derisione del corpo, ndr) e purtroppo anche le molestie sono fenomeni diffusi nel mondo della lirica». Per non parlare di cantanti e direttrici di orchestra scoraggiate dal mettere su famiglia. «Due anni fa ho adottato due bambine siberiane, un'esperienza stupenda», racconta Pizzolato. «La mia agente mi ha sempre spronato a coltivare la vita privata e il mio desiderio di maternità. Ma alcune colleghe si sono confidate con me, rivelandomi di essere state ostacolate nelle proprie scelte personali proprio da agenti. A una di loro è stato detto: "Se vuoi fare un figlio, non puoi venire nella mia agenzia". Lo trovo atroce. Vogliamo essere considerate non solo come artiste, ma anche come persone. Il messaggio musicale dovrebbe venire prima di ogni altra cosa. Tuttavia, molto spesso non è così, più in Italia che all'estero».

E non è un caso che le direttrici d'orchestra donne siano numericamente inferiori e molto meno note degli uomini.

«Ciò dipende dal fatto che hanno meno opportunità di emergere», riflette la cantante, «solo perché nell'immaginario collettivo la bacchetta deve essere in mano a un uomo. E questo è un modo di pensare molto italiano: in Francia, Germania, Austria e anche negli Stati Uniti è molto più facile trovare direttrici donne. Io ho lavorato con Keri-Lynn Wilson e Speranza Scappucci con cui mi sono trovata benissimo perché siamo andate al di là del genere, abbiamo pensato solo alla musica. Cosa che dovrebbe fare anche Satragni, che è scivolato su un tema importante, che non può e non deve essere trattato con leggerezza».

Ma c'è qualcosa che le donne possono fare per contrastare le discriminazioni? Risponde la mezzosoprano.

«Devono semplicemente essere donne, punto. Non devono fare molto di più di quello che già facciamo: essere noi stesse. Studiare, impegnarsi al massimo, fare bene, dare il meglio. Niente di speciale, solo lavorare con passione e convinzione. Cosa che dovrebbero fare tutti, al di là di tutto. E auspico che da qui a 50 anni qualcuno riconosca una donna come migliore al mondo», ironizza la cantante, «anzi facciamo tra dieci, voglio essere ottimista!».

·        Mario Salieri.

Dagospia il 14 giugno 2020. Da La Zanzara – Radio 24. “Moana Pozzi? E’ l’attrice porno che mi ha deluso di più. Era una donna estremamente intelligente, estremamente piacevole, con cui si conversava che era una meraviglia, ma sul set per le scene di sesso era una statua, una cosa veramente indescrivibile. Per riuscire a tirar fuori qualche emozione, bisognava lavorarci tantissimo. Come attrice a mio avviso non valeva nulla. Era però dotata di grande intelligenza e capacità comunicative”. Lo dice Mario Salieri, uno dei registi storici  dell’hard, a La Zanzara su Radio 24. Salieri parla poi della causa in tribunale che l’ha visto contrapposto (e vincente) al cronista napoletano Raffaele Auriemma (che lo ha querelato per aver inserito una sua telecronaca all’interno di un film hard): “Auriemma sapeva benissimo che si trattava di un film porno. Il problema è questo: Auriemma nasce come commentatore sportivo per piccole radio e tv locali. Gode di una certa notorietà in Campania per le sue frasi celebri tipo ‘si gonfia la rete’. E’ molto bravo. Per questo motivo nel 2005 quando io realizzai questa mia serie che si intitolava Salieri football, decisi di fargli commentare un torneo. Attraverso amici in comune lo contattai, facemmo un accordo economicamente parlando e lui fece la telecronaca, all’epoca 500 euro. Fece la telecronaca, anche molto bene devo dire, firmò la liberatoria e fu pagato con regolare assegno”. Ma sei sicuro che sapesse che poi sarebbe stato inserito all’interno di un porno?: “Ma certo che sapeva. A parte che mi venne presentato da amici in comune, io nel 2005 ero conosciuto a Napoli anche dai bambini di dieci anni. C’era stata una rete locale, Tele Capri, che praticamente trasmetteva tutti i miei film nella versione erotica. Tra l’altro lui, oltre a sapere benissimo chi fossi, mi fece anche complimenti in merito al mio lavoro. Fu una collaborazione del tutto normale”. Adesso, dopo essere stato scagionato, vuoi addirittura fargli causa: “Questo è fuori discussione. Questo signore mi ha infangato. Ha cominciato a rilasciare dichiarazioni di truffa, cioè che io lo avrei truffato, che gli ho nascosto...come se io avessi bisogno di Auriemma per vendere i miei film. Come se Auriemma fosse Moana Pozzi. E’ una cosa incredibile”. Quanti soldi gli vuoi chiedere?: “Questo lo stabilirà il mio avvocato. Comunque è una cifra importante, sicuramente più di 50mila euro. Lui ha rilasciato delle dichiarazioni molto serie, le trovi anche in rete, che hanno infangato la mia persona”. Ma se tu oggi dovessi fare un film porno sul calcio chi prenderesti come protagonisti?: “Tu parli con una persona che non ha il calcio fra gli sport preferiti. Comunque certamente Cristiano Ronaldo è un bel personaggio che potrebbe suscitare l’attenzione femminile. Un grande chiavatore? Probabilmente si”.  Sono curioso di sapere che fine hanno fatto alcuni tuoi attori, per esempio Joe Calzone della serie Concetta Licata: “Quello pseudonimo glielo diedi io, perché durante la produzione di un video intitolato Sceneggiata napoletana, lo portai per la prima volta a mangiare una pizza. Lui è francese. Ebbene, in quell’occasione si mangiò quattro calzoni napoletani, una cosa assolutamente indecente. Da lì nacque il soprannome calzone. Adesso vive a Budapest, e si occupa di ristrutturazioni immobiliari. Si è ritirato dal porno da almeno 10 anni”. E Roberto Malone?: “Ha un ristorantino a Cannes, dove vive insieme alla sua compagna Eva. Lui si è ritirato, ma fino ad un certo punto. Se qualcuno lo chiama va a girare. A girare non si crea problemi. Però la sua occupazione principale è questa trattoria a Cannes”.

·        Marilena Di Stilio.

Dagospia l'1 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”.  Marilena Di Stilio, la nota ristoratrice che assieme alla figlia Denise, gestisce il ristorante “La pecora nera”, a Sambuceto, in provincia di Chieti, esordisce nel mondo dell’hard. Ha girato il suo primo film porno insieme all’attore porno Mauro Braga, che è anche il suo compagno. I due sono stati ospiti de La Zanzara su Radio 24 e hanno raccontato vari dettagli sulle scene girate. “Sono passata dai fornelli ai film porno, in un attimo”, dice Marilena. Il ristorante è noto in tutta Italia per l’accoglienza calorosa riservata ai clienti e per alcuni video amatoriali di sesso esplicito che girano da tempo sul web e che vedono protagonista proprio Marilena, ma anche la figlia. “Ho girato col mio compagno Mauro, 27 anni – dice Marilena –lui fa già l’attore porno, io mi metto sulla sua scia. Abbiamo in programma di continuare anche con altre persone, stiamo reclutando altri attori e attrici. Vogliamo anche realizzare prodotti nostri. Intanto partiamo così, coi nostri abbonati su Onlyfans”.

Mauro, quanto sei attrezzato?: “Ventuno centimetri, certificati”. Che scene avete fatto, c’è l’anale e tutto quanto?: “Non è all sex, alla Siffredi. Ci abbiamo messo dentro una piccola storia. Io che vado a prendere ripetizioni da una professoressa e sogno di trombarla. Infatti il film lo abbiamo chiamato il film Aspettando la prof. Anale? Sì, c’è un po’ di tutto. Il menu è completo. Ovviamente c’è molta pecorina, abbiamo la massima esponente della categoria”.

Marilena: “Sto spesso a pecora”. Ma tu Marilena, come affronti il sesso anale con queste misure?: “La prima volta con Mauro è stato doloroso, brutto davvero, poi va da solo. Guardate che non ho avuto tanti uomini al contrario di quel che si pensa. Ne ho avuti pochi, sono sempre stata innamorata. Ne ha avuti di più Mauro che è decisamente più giovane. Lui ha già fatto una gang bang con l’emergente Martina Smeraldi”. Ma scopare e farsi vedere non ti ha creato problemi?: “Penso di avere una vocazione, è la cosa più naturale del mondo, come mangiare”. E tua figlia, che è già finita su Pornhub con una cosa amatoriale?: “Ha l’età del mio compagno, 26 anni. Non credo voglia provare, ha altri obiettivi”.

·        Marina La Rosa.

Da "I Lunatici Radio2" il 23 settembre 2020. Marina La Rosa è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Sul post lockdown: "La gente non cambia, è inutile fare filosofia. Nel mio piccolo sì, ci sono state delle cose in cui ho avuto maggiore consapevolezza, ma in generale non mi pare ci siano stati grandi miglioramenti nelle persone. Anzi, qualcuno ha sclerato ancora di più, c'è un'isteria generica in giro". A proposito delle polemiche, esplose negli ultimi giorni, sulle minigonne a scuola: "Io sono la prima a fare certe battaglie, se dovessi scegliere un'epoca sceglierei gli anni '60. Ma c'è una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Purtroppo viviamo in un mondo maschilista. Questo non significa che una ragazza non debba andare a scuola vestita come vuole. Ma bisogna adattarsi alla società che ci circonda. Io la minigonna non l'ho mai messa, non mi sta bene, ma questo non vuol dire nulla. Se una ragazza vuole andare vestita a scuole come vuole è liberissima di farlo, ma deve sapere che ci sono delle reazioni". Sul decoro a scuola: "Parlo da madre, quando mio figlio si veste di testa sua, certe volte gli dico che non mi piace come si è vestito. Non perché non gli lasci una libera espressività,ma perché ci sono delle fasi. Se a undici anni mi chiedi di fare il buco dell'orecchino,mi giro dall'altra parte e faccio finta di non sentire. L'adolescenza è un momento bello ma anche molto delicato. Lo scontro generazionale ci sta, aiuta a crescere. Io non sono mai stata un'adolescente pazza. Una volta sono uscita, ho preso un treno e sono andata a Napoli senza dire nulla a casa. Avevo il bisogno di oltrepassare i limiti e i confini. Fisici, geografici e personali. E' giusto che i ragazzini facciano anche delle cavolate". Ancora sul maschilismo: "Non verrà smantellato mai. O forse devono passare altri trecento anni. La visione delle cose è proprio maschilista. Se una donna subisce una violenza, qualcuno pensa che sia quasi colpa delle donne. E' assurdo. Nelle scuole, oltre all'ora di educazione sessuale, bisognerebbe inserire anche un'ora di educazione all'amore. Educazione all'amore in ogni sua forma. Ma vi sembra normale che un omosessuale venga picchiato per strada solo perché omosessuale? Siamo ancora all'età della pietra, anche se facciamo tanto gli evoluti". Sul metoo: "Non so se sia davvero cambiato qualcosa. Non credo. Forse è cambiato il modo. Prima ti dicevano 'se vuoi fare questo lavoro vieni a cena con me', ora magari invece di fare questo si organizza direttamente la cena. Probabilmente è cambiata la modalità, non la sostanza. Ci hanno provato anche con me, anni fa. In quel momento non ho vissuto questa cosa come una grandissima offesa verso di me. Ero semplicemente basita e scioccata. Non me l'aspettavo. Per me non era una cosa normale. Era un regista. Mi sono sentita in quel momento scioccata, ho detto che purtroppo dovevo andare via perché la mattina dopo avevo un aereo. La rabbia poi è montata nei giorni successivi. Sono cose sempre successe e continuano a succedere".

Dagospia il 17 gennaio 2020. Da La Zanzara - Radio 24. “Sono diventata oggetto di feticismo sui miei piedi, mio malgrado. Non sono né una feticista né una mistress. E ci tengo a sottolinearlo”. Così Marina La Rosa, ex concorrente del Gf, a La Zanzara su Radio 24 delude i suoi fans. “Non ho mai sottomesso nessuno coi piedi – dice ancora La Rosa – anche se coi piedi so fare tante cose. Se mi cade qualcosa per terra, io la raccolgo sempre con i piedi. Cioè mi è sempre piaciuto giocare con i piedi. Ma da qui ad essere una mistress, o sottomettere gente con i piedi…No. Non ho uno slave. E con mio marito non faccio giochi sessuali coi piedi”. Magari li facevi con Rocco Casalino venti anni fa: “No, no. Ci sono delle riprese, che risalgono ormai a 75 anni fa, al primo reality, al primo Grande Fratello, in cui in effetti Casalino me li accarezzava spesso, me li baciava”. Magari adesso li accarezza a Conte: “Non penso, secondo me fra un po’ sarà Conte che li leccherà a lui”. Però rassicuriamo i tuoi fans che hai già deluso. Non hai un inizio di alluce valgo?: “Guarda, questa cosa me l’hanno fatta notare anche altri. Ma non è così, perché è la forma del mio piede che mi accompagna da quando ero piccola. E’ un piede molto definito. Dunque rassicuro il mondo del feticismo: la cipolla non c’è , potete dormire sonni tranquilli. Non ho l’alluce valgo e non ho nessuna cipolla”. Nessuno dei tuoi fans ti ha chiesto di fargli una sega coi piedi? O un tuo fidanzato?: “No, è successo negli anni, che qualcuno mi abbia chiesto di fargli la pioggia dorata. Lui si è seduto, accomodato in questa doccia ed io ho fatto la pipì. Però credetemi, se avessi fatto qualcosa con i piedi, non avrei problemi a dirlo”. Dunque hai praticato il pissing: “Sì, solo quella volta”. Favoloso: “Ottimo Cruciani, se lo sapevo venivo a trovarti. Ma fatemi dire. Non voglio parlare di patologie ma sono fantasie sessuali che hanno a che fare con delle difficoltà. Sono delle perversioni, però se sono molto spinte, evidentemente c’è qualcosa da andare a verificare. Il pissing è sottomissione, ci sono delle persone che amano essere sottomesse. Fondamentalmente perché nella vita sono dei grandi professionisti, delle grandi menti, però nell’intimo…è la visione psicologica, ovviamente, che vi sto dando”. Ma lui in questa situazione com’era messo?: “Lui era seduto. Nella doccia”. Tu squirti?: “No, squirting mai. Non lo so fare. C’è una mia amica che mi dice sia una cosa che si impara. Poi onestamente non mi interessa neanche. Non è una cosa che vai a ricercare, se succede, succede. Non fa curriculum. Sono Marina La Rosa, vengo da Messina e non squirto”. E la storia delle scarpe sparite dall’armadietto di Manuela Moreno, giornalista Rai? Hai detto speriamo sia stato qualcuno che ci viene dentro: “Ho immaginato che l’unico che potesse spingersi a questo gesto, è proprio un feticista. Ci sono dei feticisti che mi scrivono in privato che vorrebbero delle mie scarpe per farci tutta una serie di robe. C’è gente che si mette a terra come un verme, dicono calpestami…”

Marina La Rosa a Vieni da Me: "Come ho scoperto che Pietro Taricone era morto", straziante. Libero Quotidiano il 21 Gennaio 2020. Nel bel mezzo del Grande Fratello Vip, in occasione del ventennale della prima storica edizione del reality, a Vieni da Me di Caterina Balivo, su Rai 1, si racconta Marina La Rosa, che insieme a Pietro Taricone fu protagonista assoluta della "prima". I due erano legati da un rapporto di profonda amicizia, proseguito anche dopo il termine della trasmissione (Taricone, lo si ricorda, è scomparso in un incidente paracadutistico il 29 giugno 2010). "Pietro era davvero fantastico - ha spiegato Marina La Rosa -, capace di creare una relazione intima e speciale con tutti. Dopo il Grande Fratello siamo diventati molto amici e lo chiamavo spesso per dei consigli. Lui viveva tutto con grande serenità, mi faceva ridere molto. C’era, è stato un compagno di giochi, di uscite", ricorda. E ancora: "Abbiamo fatto dei danni, in cui ci divertivamo molto. Era un po' il fratello maggiore. Lui arriva al cuore della gente. Quando accadde questa tragedia, mi fermavano le persone per strada e piangevano come se fosse morto un loro caro amico. Aveva delle grandi qualità. E da casa la gente lo percepiva". Infine, Marina La Rosa rivela il modo terribile in cui apprese della morte di Taricone: "Con la chiamata di una giornalista. Mi chiese un commento a caldo ma io non ne sapevo nulla", conclude.

·        Marina Mantero.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 15 febbraio 2020. Viso disegnato da lineamenti perfetti, sembianze da Diva degli anni 60’, occhi da cerbiatta, seno enorme, lato b presidenziale, fisico esplosivo, prosperoso e mediterraneo: stiamo parlando della pornostar Marina Mantero che stasera accompagnata dalle sue storiche colleghe, icone del porno anni 90’ Valentine Demy, La Venere Bianca e Luana Borgia festeggerà i suoi 25 anni di carriera in un evento denominato “Hot Night Super Milf” organizzato dal Sexy Disco Penelope di Pontedera (Pisa). La Mantero in questa intervista esclusiva rilasciata a Dagospia parla dei suoi esordi, della sua vita, delle sue specialità e gusti sessuali, non risparmiando frecciatine al vetriolo, e tutto ciò lo fa senza alcuna censura e senza peli sulla lingua, e non solo lì...

-Marina, qual è stato il suo primo approccio con il mondo dell’hard?

L’approccio con questo mondo è avvenuto prestissimo, avevo 17 anni. Penso di essere stata l’unica ragazza a girare un film hard da minorenne, era il 1994 e sono andata a fare il mio primo film porno in Svizzera, ovviamente ad insaputa della mia famiglia, non mi sono mai pentita di aver fatto quella scelta. Ricordo che fu uno scandalo, ne parlarono tutti, compresi i tg e i giornali. Tutte le ragazzine della mia età volevano fare le veterinarie, le infermiere, le estetiste, io invece vedevo in televisione Cicciolina e già da adolescente sognavo di diventare come lei; di diventare una pornostar famosa. Principalmente per un motivo economico, volevo aiutare la mia famiglia e non farmi mancare nulla, avere la mia indipendenza; il compenso del mio primo film a luci rosse dal titolo “Lolita voleva di più” fu molto alto!

-La sua famiglia come lo ha scoperto e come hanno reagito a questa sua scelta decisamente contro corrente e discutibile ?

Mio padre è mancato quando io avevo 5 anni, mia madre era sempre in giro per lavoro perché faceva la musicista. Io abitavo con i nonni, con mio fratello e le mie due sorelle. Una comare del paese dove abitavo, un piccolo centro sul lago di Como mise il VHS del mio film hard all’interno della cassetta postale di casa di mia madre, ma senza cover. Mia mamma inserì il VHS all’interno dell’apposito video registratore e scoprì tutto...Mio fratello maggiore mi ha pestó a sangue mentre mia mamma gli urlava:  “ammazzala, ammazzala, ammazzala!!!”. Il dispiacere per loro era stato fortissimo, presi tante di quelle botte che me le ricordo ancora, mio fratello mi ruppe il naso e mi lesionó il timpano, quella sera ho dovuto chiamare i carabinieri che venissero in mio soccorso, altrimenti probabilmente data la furia di mio fratello e di mia madre sarei morta. Ho resistito a fatica in casa ancora qualche mese, il giorno del mio diciottesimo compleanno me ne sono andata.

-Ora i rapporti tra lei e la sua famiglia quali sono?

I miei nonni, mia madre e una mia sorella sono venuti a mancare. Ad ogni modo con la mia famiglia non ho parlato per oltre dieci anni, nemmeno una parola, ho provato tante volte a riallacciare i rapporti ma mi veniva sempre chiuso il telefono in faccia. Poi ci siamo chiariti anche se non hanno mai accettato la mia professione. Con mia sorella e mio fratello invece abbiamo “un rapporto non rapporto”, c’è sempre quella tensione e quella sfida che tra fratelli non dovrebbe mai esserci, con quell’aria da giudicanti, pazienza! Io ho sempre aiutato anche economicamente la mia famiglia e nella vita ho sempre fatto ciò che ho voluto e come l’ho voluto. Non ho rimpianti, non ho rimorsi, e non porto rancore...

-Lei ha la fama di essere una mangiauomini, verità o leggenda?

Io amo il sesso, secondo me andrebbe fatto un giorno sì e un giorno no, anche se io personalmente lo faccio molto meno purtroppo. Io sono bisessuale quindi non mi faccio mancare nulla, me la godo a pieno. Il pene maschile mi piace non troppo grande altrimenti mi fa male, lo preferisco grosso in circonferenza piuttosto che lungo mentre la vagina femminile mi piace rasata, senza nemmeno un pelo e non deve essere assolutamente slabbrata e con segni di usura, deve essere perfetta e pulita senza le così dette “doppie labbra”. La mia specialità è sicuramente il sesso orale, che deve essere fatto con delicatezza, calma e passione e deve essere tanto salivoso; io sono devota al fallo che ci devo fare, sono religiosa...mi inginocchio sempre dinanzi alle cappelle! Il sesso anale però non lo considero proprio, non esiste per me perché è innaturale, e non credo assolutamente alle donne che dicono di godere e di arrivare ad un orgasmo anale. Non hanno la prostata come i maschi, gli omosessuali certo che godono così ma le donne no. Come non credo alla leggenda metropolitana dello squirting, lo squirting è semplicemente pipì! Sono molto sincera e categorica in ciò che dico. Il sesso tra donne, il così detto sesso lesbo o saffico mi piace tantissimo, e si combina molto di più rispetto a quello maschio-femmina, è interessante e piacevole. Non amo invece i giochi di ruolo e i travestimenti, mentre per le orgie non le escludo categoricamente ma bisogna sempre vedere prima che situazione si va a creare...

-Qual è la collega che stima di più e la collega che invece non riesce a sopportare?

La collega che ammiro e stimo di più è sicuramente Manuela Falorni, in arte La Venere Bianca, donna elegantissima e dalla raffinatezza unica, alla sua età mi piacerebbe molto essere come lei. Quella invece che mi sta veramente poco simpatica è Roberta Gemma, premettendo che non l’ho mai conosciuta a fondo quindi probabilmente se l’ avessi conosciuta meglio avrei carpito magari un po’ di profondità celebrale oltre alle altre profondità che ha lei.....il tutto è sicuramente condito dal suo marito-manager che a mio avviso è pessimo. Non mi piacciono le donne che non hanno una propria idea ed una propria identità e si fanno gestire dai mariti. Le persone che conoscono bene la signora Gemma e che ci hanno lavorato insieme convengono con me ed aggiungono che quando lei non è accompagnata dal marito-manager è completamente un altra persona. Ripeto che non l’ho mai conosciuta bene ma ci ho litigato sui social, poi non so se ho litigato direttamente con lei oppure con il marito che si nasconde dietro i suoi account.

-Cosa ne pensa delle pornostar o ex pornostar che si riciclano come escort?

Premetto che io non ho nulla contro questa professione, ma penso che tra il lavoro di escort ed il lavoro di pornostar ci sia un abisso. Io non faccio la escort anche se qualche bontempone tempo fa ha usato le mie foto abbinate ad annunci legati agli incontri privati e chiedendo soldi sfruttavano la mia immagine. Ho dovuto ovviamente denunciare questo spiacevole accaduto e le indagini sono in corso, penso ci sia dietro una mia collega.

-Che ricordi ha dei suoi set a luci rosse?

Molto buoni, mi sono trovata sempre bene. Ho sempre avuto il lusso di scegliere ciò che volevo o non volevo fare; non ho mai avuto bisogno di fare doppie o triple penetrazioni per farmi il nome o farmi decine di uomini tipo catena di montaggio, queste cose le lascio fare alle nuove leve...

-Frecciatina velata a Malena e a Martina Smeraldi?

Mah, Malena innanzitutto prima di andare in televisione dovrebbe imparare a parlare. Martina Smeraldi è una ragazzina con poca classe, ha dichiarato che a 11 anni già pomiciava e a 12 anni già faceva sesso...più che una pornostar mi sembra che si palesi come una facile descrivendosi così. Si lascia trascinare perché è immatura e magari si sente spalleggiata da Rocco Siffredi ma quando capirà che il mondo del porno è finito almeno in Italia può giusto fare sto lavoro per qualche spicciolo rimasto nel pentolone da raschiare...per il resto non ci sarà mai più una Selen, una Jessica Rizzo, una Cicciolina o una Moana, questo è il fatto! L’unico consiglio che mi sento di dare a queste attrici hard così dette nuove leve è solo quello di usare tanta vaselina dato quello che si lasciano far fare...poverette!

-Sta continuando a fare l’attrice hard?

Ni! Nel senso che faccio i miei spettacoli hard in vari locali italiani, night club, lap dance e club privè. L’ultimo mio film l’ho girato dell’estate 2014 con la più nota casa di produzione a luci rosse italiana, la Pinko, il titolo era “L’eredità di Donna Matilde”, se tornassi indietro ne avrei girati molti di più...

-Come si immagina Marina Mantero tra 20 anni?

Mi immagino all’estero in una casetta sul mare dove c’è sempre caldo tranquilla e serena con i miei amati animali, sposata con un distinto, maturo e comprensivo signore. Una persona apposto, io sono una donna colta e che ha studiato. Da vecchia mi immagino bella e mi auguro di aver raggiunto la mia pace mentale dopo una vita di lotte.

·        Marino Bartoletti.

Marino Bartoletti: «Sanremo? prima di stroncare chiunque, devi sentirlo cantare». Rula Jebreal e Benigni. Ma anche Luigi Tenco e Nilla Pizzi. Il festival che verrà raccontato da chi ne ha studiato ogni edizione. E ha imparato due cose. Che oggi è meglio di ieri. E che nessun conduttore è un masochista bramoso di fallire. Angiola Codacci-Romanelli il 15 gennaio 2020 su L'Espresso. Marino Bartoletti è in macchina: sta andando a Sanremo, e dove, se no? L'intervista telefonica accompagna l'ex volto di "Quelli che il calcio", che è uno dei massimi esperti del Festival della Canzone Italiana, lungo i 350 chilometri che separano la sua Bologna dalla "città dei fiori". «Che è sempre lì ma negli ultimi tempi, dopo il crollo del ponte a Genova e i problemi di viabilità ancora irrisolti, sembra più lontana». Alla kermesse sanremese, questo storico fan ha dedicato l'"Almanacco del Festival di Sanremo" (scritto con Lucio Mazzi, Gianni Marchesini Edizioni). Però Bartoletti guarda alla settantesima edizione in arrivo dal 4 all'8 febbraio senza malinconia e con una certezza: «Se in gara c'è qualcuno che non hai mai sentito nominare non devi arrabbiarti ma andarti ad informare. E prima di stroncare chiunque, devi sentirlo cantare».

In questi giorni di pre-festival si parla quasi solo di politica: di Rula Jebreal e di Rita Pavone. È sempre stato così?

«La pressione politica è andata aumentando con gli anni, ma io credo che sia colpa di quella che Gianni Brera avrebbe definito "masturbatio grillorum": perché noi pensiamo che qualcuno pensi che qualcun altro abbia pensato... E poi i social a forza di rilanci trasformano cose inesistenti in casi mediatici. Io faccio fatica a capire quale sia il potenziale contributo che può dare al festival Rula Jebreal: ma proprio per questo sono curioso di vederla, e poi la giudicherò. Amadeus sta portando a Sanremo una sua visione della donna, vediamo se funziona. Al massimo, dopo dirò: ma che l'hanno invitata a fare!»

E Rita Pavone?

«Lei ha espresso le sue opinioni, cose che tra l'altro sono condivise da un gran numero di persone: e questo credo sia del tutto legittimo. Certo, chi è in vista dovrebbe essere più prudente quando usa i social, ma se si toglie la spontaneità si perde qualcosa di importante. Sono rimasto stupito che abbiano chiamato la Pavone ma mi sono detto che in fondo è un personaggio importante della canzone italiana e che forse ha presentato una bella canzone. Ascoltiamola, e se non è bella allora diamoci dentro con la Durlindana: farlo adesso mi sembra un errore. Sul palco dell'Ariston si può cantare di tutto, poi si valuta».

Torna anche Roberto Benigni: quando è andato a Sanremo nel 2002, si era arrivati a proporre il boicottaggio del festival...

«Quella era stata una provocazione di Giuliano Ferrara, che non ne uscì tanto bene. Annunciò che gli avrebbe lanciato le uova, rinculò dicendo che le avrebbe lanciate al teleschermo. Benigni si ascolta e poi, ovviamente, anche lui si discute. L’ultima volta è arrivato a cavallo, questa volta chissà: su un elefante?»

Lei ha fatto per tutta la vita il giornalista sportivo: come si spiega la sua passione per Sanremo?

«Da piccolo avevo due manie: la musica e lo sport. Se qualcuno avesse mi detto allora che da grande mi avrebbero pagato per occuparmi di sport e per seguire gare e partite in tutto il mondo lo avrei preso per matto. Non ho avuto modo di lavorare per la musica perché il mio impegno per lo sport è stato decisamente totalizzante, ma la passione è rimasta».

Tanto da produrre un volume che del festival racconta ogni serata, ogni divo, ogni canzone, ogni gaffe.

«Il libro ha avuto una gestazione mostruosa, roba da elefanti. Ci lavoravo da anni, e ho pensato che i 70 anni del festival sarebbero stati un buon pretesto per pubblicarlo. E siccome io sono nato il 30 gennaio del 1949 e il festival il 29 gennaio del '51, ho passato i miei settant'anni lavorando al libro per i settant'anni suoi: una bella coincidenza».

Lo seguiva già da bambino?

«La passione è nata con l'adolescenza. Passavo le serate davanti al teleschermo a registrare con il mio "gelosino", per rubare quelli che un giorno si sarebbero chiamati "bootleg" delle canzoni: in quei nastri di un'ora per parte ci sono Domenico Modugno, Caterina Caselli, tutte le persone che hanno fatto tanto per la mia felicità adolescenziale».

Oggi invece ogni canzone è disponibile subito in video sulla rete. Che effetto le fa questo cambiamento?

«Mi sembra un’evoluzione corretta. Le mie registrazioni erano un caso quasi unico, non dico che lo facessi soltanto io, ma quasi. Ero riuscito a sfruttare i mezzi che avevo a disposizione per mantenere calda l'emozione della diretta senza andare a spendere il giorno dopo le 800 lire per comprare il 45 giri. Se mai riuscirò a far rifunzionare quel gelosino - c'è solo una valvola rotta, prima o poi ce la farò - ne verranno fuori cose interessanti. Per quanto fosse precaria la qualità della registrazione, e per fare un solo esempio, c'è l'audio dell'esibizione di Luigi Tenco: la registrazione video non esiste più».

Quella canzone di Tenco, "Ciao amore ciao", è una delle poche sul tema dell’emigrazione: un argomento raro nelle canzoni di Sanremo rispetto all’importanza che ha avuto e ha nella realtà del Paese. Anche se la canzone che ha vinto l’anno scorso parla di immigrati…

«Come no, anche se pochi se ne sono accorti, badando soltanto alle polemiche spicciole. La canzone di Tenco è stata stroncata e magnificata a fasi alterne. Lì per lì non piacque anche perché la sua esibizione fu modesta e poco contribuì la ripresa troppo melodrammatica di Dalida – in quegli anni le canzoni in gara erano presentate in due versioni diverse. Aveva avuto una gestazione lunghissima: Tenco era partito scrivendo dei Trecento di Pisacane, e ha finito per parlare di un tema che era d'attualità allora ma che era destinato a diventarlo ancora di più. È una canzone sul dramma dell’emigrazione dal Sud negli anni Sessanta ma potrebbe vincere a Sanremo oggi. E questo riaccende la rabbia: perché Tenco morto a 29 anni è stato una perdita enorme per la canzone italiana. Siamo ancora arrabbiati per De André che se n’è andato a 59 anni - e come diceva Marcello Marchesi  "se n’è andato che era ancora vivo" rispetto a tanti suoi colleghi. Figuriamoci cosa avrebbe potuto fare ancora Tenco!»

Lei ha fatto parte della commissione che sceglie le canzoni in gara. È un lavoro difficile?

«Difficilissimo: l'ho fatto due volte, e ho imparato tanto. Non ho mai risparmiato le critiche contro chi ha selezionato le canzoni di Sanremo prendendo abbagli clamorosi: come "Meraviglioso" di Modugno. Fu esclusa perché arrivava nel '68, l’anno dopo il suicidio di Tenco: e quella storia di un aspirante suicida salvato da un angelo incontrato per strada, che poteva essere una forma di esorcismo, fu vista come una potenziale indelicatezza. A noi Pippo Baudo, che era il conduttore, a noi della commissione fece una sola raccomandazione: “Per favore, non facciamo la cazzata di lasciar fuori una come Irene Grandi", che l'anno prima era stata esclusa e poi aveva sbancato con "Bruci la città". Io ero un "selezionatore laico": non conoscevo le case discografiche, non sapevo cosa c’era dietro agli artisti».

Ma chi decide di presentare una canzone?

«Quasi sempre sono i cantanti. Ma è capitato anche che i conduttori chiedessero ad artisti già affermati se avevano una "canzone da Sanremo". Carlo Conti per esempio ci teneva ad avere Il Volo e li aiutò a trovare una canzone adatta. Noi siamo partiti da trecento canzoni e dovevamo arrivare a venti. Quando eravamo a 26 o 27, Baudo ci chiese di tenere conto che le donne erano poche, e ci invitò a tenerne il più possibile. Credo proprio che la nostra commissione abbia selezionato in totale libertà, cosa che mi costrinse a rimangiarmi qualche critica preconcetta rispetto alle selezioni precedenti. È chiaro che ti rendi conto di quanto sei importante: succede che a Natale cantanti famosi ti chiamino per farti gli auguri e ti dicano: "Non penserai mica che ho chiamato perché ho una canzone in gara...". E tu pensi: “Certo che no: però gli anni scorsi non mi hai mai fatto gli auguri". Alla decima telefonata cominci a insospettirti...»

A proposito di donne: negli ultimi anni sono sempre di meno. E pensare che Sanremo è partito con uno strapotere femminile...

«Sì, Nilla Pizzi arrivò a vincere primo, secondo e terzo posto nel '52 - il concorso era completamente diverso. Poi ci sono stati anni in cui il podio era tutto femminile, altri in cui erano tutti uomini».

È successo l'anno scorso: e nei mesi seguenti ci sono state molte altre occasioni per protestare contro il poco spazio concesso alle voci femminili. Uno dei motivi è lo strapotere del rap, un genere musicale che all'inizio era totalmente maschile. Un genere che, oltretutto, non prevede una differenza tra "interpreti" e "parolieri": chi scrive, canta. Le donne, che sono molto spesso interpreti, finiscono doppiamente penalizzate.

«Questo però dovrebbe stimolare le donne a cimentarsi in un genere che geneticamente non gli appartiene. Gli autori e i cantautori invece continuano a cercare il cantante più adatto per ogni canzone. Ma possono anche sbagliarsi. Quando Luca Barbarossa propose a Fiorella Mannoia "L'amore rubato - una delle canzoni più forti del festival, la prima a raccontare uno stupro – fu lei a dirgli che sarebbe stata più efficace se a cantarla era un uomo».

Alcune canzoni invece possono essere cantante da un uomo o da una donna: "E dimmi che non vuoi morire", una delle canzoni più belle non solo di Sanremo…

«Dove arrivò ottava... L’ha cantata benissimo Patti Pravo ma è bella anche dalla voce di Vasco Rossi, che l'ha scritta insieme a Gaetano Curreri degli Stadio. E pensare che quell’anno vinsero i Jalisse, diventati non del tutto meritatamente simbolo di una vittoria immeritata».

Che poi ci sta pure che Sanremo lo vinca "Fiumi di parole", e non un capolavoro...

«No, non è detto. Perché altre canzoni premiate -  "Chiamami ancora amore" di Roberto Vecchioni e "Un giorno mi dirai" degli Stadio - sono di una bellezza e profondità che va oltre il televoto o le cose che tendenzialmente pensiamo che decidano chi vincerà Sanremo. Io mi sto scoprendo sempre più "oggista" che "ierista", non ho nostalgia del passato. Malgrado l’età ho capito che bisogna cercare di capire il senso contemporaneo delle proposte. Invece di fare come molti che si dicono "questi non li conosco" e li stroncano a priori, cerco di informarmi. Quest’anno mi capita per i Pinguini Tattici Nuclari, mi era accaduto per Lo Stato Sociale. Non conoscevo Achille Lauro e ho scoperto un artista che vale la pena seguire, come pure gli Ex-Otago. Bisogna sempre pensare che chi organizza Sanremo non è un suicida che mette lì un parente perché vuole essere coperto dalle critiche!».

Leggendo il suo "Almanacco" si vede che le polemiche su come scegliere il vincitore ci sono sempre state. Ci sono stati tentativi di ogni tipo per arrivare a un giudizio oggettivo: la posta, le telefonate mirate, quelle a caso, l'auditel, la giuria di qualità, quella che prevedeva un impiegato un barbiere e una segretaria…

«Lucio Dalla diceva che Sanremo si giudica dal podio, e forse aveva ragione: però poi ognuno uno si riconosce in chi vuole, nella Bertè che arriva quarta o in Cristicchi che è solo quinto con una canzone bellissima. L’anno scorso l'età media del podio era di 24 anni però c’era di tutto: il genere musicale classico del Volo, che può piacere o no ma ha dietro grande professionalità e talento. C'era Ultimo, un fenomeno che da anni riempie stadi dove sessantamila persone di età diverse cantano in coro le stesse canzoni. E il vincitore, vogliamo parlarne ancora? Gli hanno vomitato addosso qualsiasi cosa, ma ha portato a Sanremo una canzone memorabile per il tema, per il modo in cui l'ha cantata, per la sua presenza sul palco. In settant’anni siamo passati da Nilla Pizzi, candida e ingenua come l'Italia degli anni Cinquanta, a Mahmood: e va bene così».

"Soldi" è stato anche un grandissimo successo internazionale: un riconoscimento che il festival di Sanremo ha sempre cercato di ottenere.

«Ha collezionato milioni di visualizzazioni nel mondo, per quello che ancora vale è stato anche il disco più venduto, e già il giorno dopo a scuola mio nipote di 8 anni e i suoi compagni lo cantavano in coro. Ma questo perché Mahmood non era un novellino, aveva già firmato per Mengoni canzoni che hanno fatto il giro del mondo. E infatti quest'anno torna come autore della canzone di Elodie».

Quest'anno c'è una grande differenza tra i cantanti in gara, si va dalla musica di ricerca al talent. Ma è sempre stato così?

«È una tendenza aumentata negli ultimi tempi, perché lo spettacolo televisivo vuole coprire tutti i target possibili».

Oggi quindi un conduttore non chiederebbe più ai selezionatori solo di scegliere più donne: ci vuole il vecchio e il giovane, la musica tradizionale e quella alla moda, il colto e il trash…

«Sì: a volte per coprire tutte le nicchie si fanno disastri, invece di somme algebriche si fanno elisioni algebriche. Da quello che ho capito, Amadeus ha scelto più in base alle canzoni che agli interpeti. E nella scelta delle canzoni si è basato molto sulla sua esperienza di conduttore radiofonico. Del resto scegliere una canzone è difficile. Mai fermarsi al testo, bisogna aspettare l’ascolto, e sapere che comunque l'esibizione sul palco può cambiare tutto. Non penso agli scimmioni e alle vecchie che ballano, ma alla commozione di Curreri degli Stadio. Ben vengano le braccia di Modugno che si allargano mentre canta “Nel blu dipinto di blu” e anche la salivazione che si azzera: l'emozione fa parte del gioco. Vale anche per chi si occupa di Sanremo. Quando facevano "Quelli che il calcio", prendevamo in giro il calcio perché lo conoscevamo bene e perché lo amavamo, altrimenti non ci saremmo potuti permettere di farlo. Lo stesso vale per chi si occupa di Sanremo: è giusto che si lasci prendere dalla passione.»

·        Mario Biondi.

Da tvzap.kataweb.it il 5 maggio 2020. Mario Biondi sarà papà per la nona volta. Nella puntata di Radio2 Social Club, condotto da Luca Barbarossa, Andrea Perroni e Neri Marcorè, in onda lunedì 4 maggio il cantante, compositore e arrangiatore ha annunciato in diretta che sarà padre per la nona volta e che la figlia si chiamerà Matilda. L’annuncio rappresenta una piccola anteprima della prima puntata di Radio2 Social Club in tv: il programma infatti, aveva continuato ad andare in onda su Radio2 tutti i giorni dalle 10,30 alle 12, ma il lockdown aveva posto un stop alla produzione tv. Tornerà su Rai2 proprio domani, martedì 5 maggio 2020, alle 8,30. Mario Biondi ha avuto i primi 6 figli, Marzio, Zoe, Marica, Chiara, Ray e Louis Mario, dalla sua ex Monica Farina. Dalla storia con Giorgia Albarello invece è nata Mia, la settima figlia, e nel 2016 da un’altra donna ancora è arrivata l’ottava figlia Mil.

·       Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Bruni Tedeschi: «Dissi a mio marito dell’amante. E lui: ti capisco». Pubblicato domenica, 08 marzo 2020 su Corriere.it da Candida Morvillo.

«Come festeggerò i miei 90 anni? Terrò un concerto qui a Parigi il primo aprile, il giorno in cui mi cadrà addosso questo enorme numero di anni che odio e che trovo scandaloso».

Cosa c’è di «scandaloso»?

Non se li sente?

«C’è che li avrò e dovrò tenermeli, però sto bene, ho solo delle stanchezze e il cervello funziona: suono ancora il piano a memoria. Per il compleanno, farò una fantasia di Schubert a quattro mani con un amico, poi Ravel, Erik Satie e Schumann con Martin Egel, col quale ho fatto tournée per vent’anni».

Marisa Borini, vedova Bruni Tedeschi, è la mamma di Carla, top model, cantautrice e già première dame di Francia, e di Valeria, attrice e regista, oltre che di Virginio, morto di Aids a 46 anni. Nata a Torino, vive a Parigi da quando si trasferì con la famiglia per paura dei rapimenti, negli anni 70. Ha girato il mondo tenendo concerti e, a 73 anni, si è scoperta attrice. Ha recitato nei film di Valeria, poi con Jean-Pierre Denis, Richard Berry, Paolo Virzì, e anche in teatro: «La sera tornavo a casa», ricorda, «e mi chiedevo: quante ore mancano prima di ricominciare?». La sua è un’Italia che non c’è più, quelle delle grandi famiglie dove si poteva essere industriali e insieme artisti, come lo fu suo marito Alberto, erede della Ceat dei cavi elettrici, ma anche compositore e direttore del Regio di Torino. Famiglie coi Canaletto e i Bruegel in salotto, che a un certo punto dismettono qualcosa da Sotheby’s, a Londra. Tipo quattro arazzi dei Gobelin appartenuti a Luigi XIV e un lampadario che fu di Napoleone. Ricavato totale 18,8 milioni di euro, però devoluti alla ricerca sull’Aids e alla fondazione intitolata al figlio perso. Famiglie coi castelli in campagna e in Costa Azzurra, a volte soffertamente venduti, come Valeria ha raccontato per quello di Castagneto Po nel film Unchâteau en Italie. L’autobiografia di Marisa, Care figlie vi scrivo, edita dalla Nave di Teseo nel 2017, è anche una carrellata di amanti che va dal grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli al giovane Maurizio Remmert, vent’anni meno di lei, un amore lungo sei anni che ne farà il padre naturale di Carla, la quale saprà la verità solo ventottenne. Celebre è una foto scattata da Helmut Newton: Marisa è in piedi, in bikini e infradito, già con le grinze dell’età, mentre il marito è al piano con una giovane Carla in versione Lolita sulle ginocchia. Però pensare che quello di Marisa sia uno spirito da «épater le bourgeois», non rende giustizia alla storia di una donna che ne ha viste e passate tante.

Quali sono i suoi primi ricordi?

«La grande casa di Parigi dove ho vissuto fino a cinque anni perché papà faceva l’ingegnere lì. Quindi l’appartamento assai brutto di Torino, dove rientrammo perché gli affari andarono male. E le adunate sotto il fascismo, con noi bimbe in divisa che cantavamo i cori. Dopo, ricordo la guerra, i bombardamenti, il peregrinare da sfollati, io piccola che distribuisco cioccolata ai soldati, ma vedo le loro mani amputate e svengo. Ricordo il disprezzo nella voce di mamma, che era francese, quando nominava i boches, i tedeschi, e la volta che si rifiutò di dare la fede per la patria e quando scelse appositamente una maestra ebrea che veniva a darmi lezioni a casa sotto falso nome».

Il momento più brutto?

«Io, mamma e le mie due sorelle finimmo in un rastrellamento dei nazisti per rappresaglia. Ci piazzarono in un campo di granoturco per fucilarci. Avevo 15 anni. Ci tennero così per due ore, poi decisero che rinunciavano, ma che ci avrebbero bruciato la casa. Quindi, cambiarono ancora idea e ci portarono ad assistere all’impiccagione di sei ragazzi».

Suo padre dov’era?

«Era già morto, non per la guerra, ma di malattia, a 50 anni. Pensare che mi sembrava vecchio. Ora, vorrei averli io 50 anni».

In tutto ciò, riusciva a sorridere?

«La maestra mi chiamava “Aurora” perché ero sempre allegra e la mettevo di buonumore. Amavo il piano, suonavo anche durante la guerra, anche se ho potuto prendere lezioni solo prima e dopo. Recuperare è stato difficile, ma io volevo diventare pianista, mentre mio cognato, che era il nuovo capofamiglia, mi voleva ragioniera. Diceva: devi guadagnare, da pianista sarai una morta di fame».

Dunque, non è nata ricca?

«Il nonno paterno, da muratore, era diventato costruttore e anche quello materno si era fatto da solo: aveva una centrale elettrica. Ma mio suocero, quando lo conobbi, mi disse: ci sono famiglie che salgono e famiglie che scendono, la sua è discesa».

L’incontro con suo marito?

«Bizzarro. Un giorno del ’51, un’amica mi disse: pare che ti sposi con Alberto Bruni Tedeschi. Non sapevo chi fosse, poi vidi il manifesto di un suo concerto e andai a vederlo. Notai solo che sembrava timido. Giorni dopo, mi fece invitare a una cena. La prima sera da soli, mi disse: una cosa è certa, non mi sposerò mai».

Invece, vi sposaste sei anni dopo.

«Viaggiavamo insieme, io ricevevo da lui come se fossi la padrona di casa: non erano cose benviste all’epoca. A me non importava, ma poi suo padre disse che era ora di smetterla perché lui voleva un nipote e che io gli andavo bene, essendo cattolica e musicista».

Che amore è stato?

«Alberto aveva 15 anni più di me e un’intelligenza straordinaria. Mi ha insegnato tutto: musica, arte, finanza. Ci siamo molto amati».

Vi siete anche traditi a vicenda.

«Però non ci siamo mai lasciati. Era una storia d’amore con una certa libertà. Tante cose non funzionavano più, io viaggiavo, avevo incontri, non ci nascondevamo niente e non abbiamo mai litigato per quello. È sempre rimasta la stima e l’amore profondissimo».

Con Michelangeli come andò?

«Durò un anno e mezzo, lo chiamavo “il mio arcangelo”. Quando ripenso al passato, questa è una delle cose che rivivrei. Lo raggiungevo ovunque, sparivo per giorni. Quando mio marito mi chiese “chi è?” e glielo dissi, ci fu un momento di silenzio, poi mi fece: ti capisco».

Perché finì?

«Arturo aveva un carattere piuttosto strampalato. Lui, che fossero amici o donne, di colpo, si stufava di una persona e la piantava. Diventò insopportabile e, una notte, uscii dalla sua casa di montagna, feci 16 chilometri a piedi nei boschi e me ne andai».

Le figlie che dicono della sua vita avventurosa?

«Ma sa, ho figlie moderne. Vogliono bene alla loro madre e non si scandalizzano».

Fu suo marito Alberto, prima di morire, a confessare a Carla di non essere suo padre. Perché non gliel’ha detto lei?

«In verità, non ci avevo neanche tanto pensato. Poi, Carla e Maurizio si sono conosciuti, piaciuti. Lui è un bell’uomo, colto, vive in Brasile, è stata una cosa accolta e digerita bene».

Lei come ha educato i suoi figli?

«Molto liberi. Hanno studiato e fatto quello che volevano. Virginio amava il mare, girava il mondo a vela, era un fotografo eccezionale. Era più chiuso delle sorelle, ma molto gentile, rispettoso. Era fantastico, purtroppo il destino... Questo è il punto triste della mia vita».

Come si sopravvive a un figlio?

«Sul momento, uno ha voglia di morire, poi siccome anche morire non è facile, ti adatti, trovi attività, ti giri sugli altri che rimangono, anche se ci pensi sempre, continuamente. Nella casa di Cap Nègre, la notte, fumo l’ultima sigaretta sulla mia terrazza, guardo il cielo, mi dico che le persone che ho amato sono in quelle stelle. Et voilà, vado dal passato al futuro».

Che immagina per il futuro?

«È piccolo, ma c’è ancora. Penso che voglio suonare e vedere crescere i nipoti. E Valeria mi ha detto che una persona prepara una pièce di teatro in cui ci sarò».

Le è piaciuto essere «first suocera»?

«Molto: avevo solo le cose piacevoli e nessuna responsabilità. Nicolas mi ha portata in tanti viaggi interessanti, lui è delizioso, ho incontrato moltissima gente. Gli Obama sono arrivati all’Eliseo con le figlie e la mamma di Michelle. Noi due suocere ci siamo nascoste a fumare fuori, perché Michelle non vuole che si fumi in casa».

Che vi siete dette lei e la regina Elisabetta a Windsor?

«Parlammo dei figli, sapeva di Virginio».

Con Sonia Gandhi in India come è andata?

«L’ho trovata antipatica: io e Carla volevamo sapere se mangiava ancora la bagna cauda, ma ci ha detto subito che ormai è indiana, non va più a Torino e non parla italiano».

Papa Ratzinger?

«La prima volta, sono andata in Vaticano con Sarkozy e non mi ha ricevuta perché Carla non era ancora sposata. Dopo, però, all’Eliseo, mi ha regalato un bel rosario di perle».

Come nasce la famosa foto di Newton?

«A dire il vero, la trovo orribile. Ma, ai tempi, i fotografi andavano, venivano. Helmut stette da noi tre o quattro giorni, faceva foto a destra e a sinistra, non lo controllavamo».

Vive ancora in un castello?

«Siamo tutti in diversi appartamenti. Delle tante case, resta Cap Nègre. Ancora oggi, ci ritroviamo o non ci ritroviamo tutti lì».

In Italia torna?

«Vado a Venezia ogni tanto, sono consigliere della Fondazione Giorgio Cini, che conserva gli archivi musicali di mio marito. Il concerto dei miei 90 anni era previsto lì, ma l’ho spostato per via del coronavirus».

Ha più rimpianti o più rimorsi?

«Rimorsi no, rimpianti sì: cose che volevo e non ho fatto e troppo intime da raccontare».

·        Marisa Laurito.

Marisa Laurito: «Il mio matrimonio? È durato 3 mesi. Ora ho un compagno che mi lascia libera».  Emilia Costantini il 10/10/2020 su Il Corriere della Sera. L’attrice: «Franco Cordova mi voleva donna di casa. Una volta un boss mi sequestrò con Luciano De Crescenzo: voleva omaggiarmi. E con Arbore mille risate». Quando annunciò che aveva firmato un contratto con Eduardo De Filippo, il padre afflitto le rispose: «La nostra famiglia è sprofondata nel buio più profondo». Marisa Laurito ricorda, divertita e con affetto, quella scenetta domestica. «Papà Nino, operaio specializzato delle Ferrovie dello Stato, era molto severo — racconta —. Per fortuna io ero maggiorenne, appena compiuti 21 anni, sennò non mi avrebbe mai dato il consenso! Lui voleva che, dopo aver concluso le magistrali, mi sposassi e facessi tanti bambini. E quando ero ancora adolescente, il pomeriggio dopo scuola mi mandava alla sede del Partito comunista a fare lezione agli operai. Per carità, un’esperienza irripetibile, quella di improvvisarmi maestrina: un po’ recitavo già, davanti a quegli uomini adulti, con i vestiti lisi, le mani callose, gli occhi accesi e tanta voglia di imparare. Però non avevo mai tempo di giocare, non potevo uscire da sola, ma sempre accompagnata. Mio padre era davvero, sia pure nel senso buono, un patriarca».

Come trovò il coraggio per comunicare la sua ferale decisione al patriarca?

«Quel giorno tornai a casa emozionata non solo perché ero stata accolta dal grande Eduardo nella sua compagnia, ma soprattutto perché dovevo dare la notizia in famiglia. Decisi di togliermi subito il pensiero: mio padre, nel suo studio, si accasciò sulla sedia. Ma a quel contratto non avrei rinunciano per niente al mondo, me l’ero sudato dopo una lunga gavetta».

Iniziata in che modo?

«A 16 anni nei teatri parrocchiali. In realtà volevo fare l’attrice drammatica: secondo me ero nata per interpretare Filumena Marturano, Medea, Fedra... Ben presto mi resi conto che mi immedesimavo talmente tanto nei personaggi, da star male fisicamente, avvilita, spesso addirittura in lacrime. Così mi son detta: ma a me chi me lo fa fare? E cominciai a prepararmi come attrice da commedia. Il mio idolo era De Filippo, lo spiavo da dietro le quinte del Teatro San Ferdinando, finché riesco a ottenere un provino».

Con quale brano si presentò al grande attore e autore?

«Il monologo finale di Donna Concetta in Non ti pago, abbastanza impegnativo. Lui mi ascolta attento e, alla fine, mi dice: “Seguitemi in camerino”. Pensai che volesse dirmi in disparte che ero stata una schifezza, per non sputtanarmi davanti agli altri. All’epoca non sapevo che Eduardo non era attento a certe delicate sottigliezze. E invece, il Direttore, così veniva chiamato, prende in mano il copione della commedia Le bugie con le gambe lunghe, comincia a cambiare tutte le parole con la “erre”, sostituendole con altre senza, perché io ho la erre moscia. E nello scegliere le parole, mi chiedeva pure consiglio! Ero imbambolata, non avevo nemmeno capito che mi stava già coinvolgendo in quello che sarebbe stato, poi, lo spettacolo in programma».

Finite le correzioni, che accade?

«Mi disse: “Passate in amministrazione”. Ero stupita. Andai barcollando dall’amministratore, un ometto basso, cicciottello, con gli occhiali rotondi: firmai il mio primo contratto, per 9 mila lire al giorno, cifra notevole».

Ma poi i genitori vennero ad applaudirla?

«Eccome no? Mamma Tina, in particolare, felice: era una creativa, aveva studiato pianoforte al conservatorio, e poi dipingeva, disegnava abiti... la vena artistica l’ho ereditata da lei. Anche papà, alla fine, accettò il mio lavoro teatrale, ne era orgoglioso, però una volta mi chiese: “Non sei ancora stanca di fare questa vita da zingara?”. Ma io ho cominciato la mia carriera, sia pure facendo piccole parti, dalla porta principale con Eduardo, un maestro di scena e di vita, a cominciare da una disciplina inflessibile».

Qualche esempio?

«Lavorare nella sua compagnia era come andare in fabbrica: vicino al suo camerino, c’era un tavolino, con sopra un registro. Quando arrivavi, segnavi data, ora e firmavi l’ingresso in teatro. Iniziavano quindi le prove a tavolino: per due o più giorni di seguito, lui leggeva tutti i ruoli dandoci la giusta interpretazione. Poi si passava alle prove in piedi e ti faceva vedere la gestualità, sentire l’intonazione dei personaggi. Infine, le prove in palcoscenico: Eduardo si sedeva di spalle al sipario chiuso, noi tutti in fila davanti a lui, alla giusta distanza. Ognuno recitava le battute assegnate, aggiungendo la propria creatività, e tutti dovevamo assistere dalla prima all’ultima scena. Un esercizio fondamentale che ti consentiva di guardare come lavoravano gli altri e confrontarti con loro. Inoltre, era proibito imbastire legami amorosi tra colleghi: due attori vennero licenziati, perché fu scoperta la loro tresca. E anche in questo aveva ragione: mi è capitato, negli anni, di trovarmi in compagnie dove c’era gente fidanzata o sposata e ne ho viste di cotte e di crude: quando litigavano era un disastro per lo spettacolo, alcuni si menavano in scena!».

Eduardo disse: il teatro è gelo.

«Perché era la sua missione, lui viveva per il teatro e infatti sottolineava: mi definiscono un orso, ma come avrei potuto frequentare le feste, le cene, le baldorie e poi scrivere quello che ho scritto? La sua era dedizione assoluta al mestiere che aveva scelto. Al suo funerale, noi attori gli rendemmo omaggio con il nostro picchetto d’onore».

E poi arriva il suo debutto al cinema con Bud Spencer...

«Bud, ovvero Carlo Pedersoli, era napoletano come me: una festa lavorare con lui. Quando c’era la pausa, ci chiudevamo nella sua roulotte, dicendo che andavamo a studiare il copione. In realtà io cucinavo i bombolotti alla matriciana e ci facevamo certe scorpacciate... Lui pure abitava a Napoli e mi raccontò che, quando era già noto, uno scugnizzo gli si avvicina dicendogli: “Come siete bello, vi vorrei come padre, perché il mio è na’ vera schifezza... vi posso chiamare papà?”. Carlo gli risponde di sì e il ragazzino ribatte: “Papà mi dai 100 lire che me vado a compra’ nu’ gelato?”».

L’incontro con Luciano De Crescenzo?

«Mi chiedo come non ho fatto a innamorarmi di Luciano: era colto, intelligente, sapeva fare tutto. Tra noi una grande amicizia, però litigavamo come cane e gatto quando andavamo insieme a vedere le partite del Napoli: non eravamo mai d’accordo sui gol, i falli... Il ricordo più divertente è quando venimmo sequestrati».

Da chi?

«Eravamo proprio in attesa di andare allo stadio. Stavamo passeggiando per le strade del quartiere Forcella. Veniamo avvicinati da un paio di guappi che mi avevano riconosciuto, ci invitano ad andare con loro: volevano portarci a casa del boss Luigi Giuliano, mio ammiratore. Impossibile rifiutarsi. Arriviamo dal boss, che ci accoglie con complimenti e gradevolezze di ogni tipo, ringraziandoci per essere andati a trovarlo. Ma poi dovevamo andare a vedere la partita e lo invitammo, a nostra volta, a venire con noi. Il boss rispose: “Non posso, sono agli arresti domiciliari”».

L’incontro con Renzo Arbore: la svolta?

«Conobbi Renzo grazie a Luciano, ma in quel periodo io ero primadonna al Bagaglino, a Roma, e approdare a Quelli della notte, in una banda di sciamannati, per me fu un tuffo nel buio: era tutto improvvisato, un cazzeggio continuo, era tutto un gioco in cui i primi a divertirsi, prima ancora del pubblico, eravamo noi... e riuscimmo persino a beccarci una accusa di blasfemia».

E per cosa?

«Era Natale e, per fare gli auguri, ci mascherammo: Renzo era Gesù nella culla, io la Madonna, Luciano San Giuseppe».

In effetti, una mascherata un po’...

«Sì ma noi non volevamo offendere la religione. Era uno dei tanti giochi che facevamo con tanto affetto per il pubblico».

Si è mascherata da moglie anche nel matrimonio lampo con l’ex calciatore Franco Cordova?

«A sposarmi non ci avevo mai pensato sul serio, ma con Franco eravamo stati fidanzati 7 mesi e alla fine capitolai. È stato il mio unico marito per soli tre mesi. Durante il fidanzamento era andato tutto liscio e non aveva manifestato i suoi intenti maritali. È cambiato di botto, subito dopo il fatidico sì: mi voleva donna di casa, pensava che avrei smesso di fare l’attrice. Insomma secondo lui avrei dovuto fermarmi a guardare lui che faceva la qualunque. Ho un carattere troppo indipendente e vitale. E ora sono legata da anni a un uomo che mi lascia totale libertà di portare avanti i miei impegni».

Il nuovo impegno è la direzione di un teatro napoletano importante: il Trianon Viviani.

«Si realizza il sogno della mia vita, oltretutto mi capita un palcoscenico frequentato dai più grandi artisti. Il primo spettacolo, infatti, è stato proprio dedicato a Raffaele Viviani, lo abbiamo rappresentato nei luoghi dov’era ambientato, Porta Capuana e Piazza Ferrovia. A Natale, il maestro Roberto De Simone, firma per noi una cantata: Ninna nanna a Gesù con 40 elementi in scena. Poi è mia ferma intenzione dedicare spazio alla musica napoletana di qualità, con numerosi artisti, e un mese intero a Peppino Patroni Griffi con sue quattro commedie. Inoltre, siccome il Trianon si trova in un quartiere a rischio, Forcella, faremo un laboratorio per donne in difficoltà e giovani disadattati: il teatro può servire anche a questo».

Ha da poco compiuto 69 anni: oltre al Trianon, qualche altro sogno ancora da realizzare?

«In Italia si diventa importanti intorno ai 70 anni, quindi sì, ho ancora un po’ di tempo per realizzare qualcos’altro».

Alessandra Menzani per Libero Quotidiano il 9 giugno 2020. Intervisti Marisa Laurito e non ti aspetti citazioni di Einstein, filosofia, «yoga finanziario» e meditazione. Invece sì: la popolare attrice napoletana è una donna saggia e imprevedibile. Capelli blu, meravigliosa "erre" partenopea, in tv ha lavorato con Celentano, Landi Boncompagni, Arbore, Baudo, Raffaella Carrà. E oggi? Non la vediamo più spesso come un tempo.

Cosa pensa della tv di adesso?

«È cambiata, come sono cambiati i tempi. In questa lunga epoca è stata operata una scelta da parte dei funzionari e dirigenti che si adegua ad un calo della cultura in generale, quindi la tv risulta scadente. Pochi tengono botta, come Fazio. Il direttore Stefano Coletta su Raitre ha fatto cose belle, in un anno ha messo in piedi trenta format nuovi».

Cosa non le piace?

 «L'appiattimento dei reality, ad esempio. La tv italiana era tra le più belle del mondo: ora è distrutta. È folle non creare una palestra per i giovani, la Rai dovrebbe progettarne una per un ricambio generazionale, obbligo che non hanno le emittenti private».

Ma tornerebbe?

«Mi piacerebbe, sì! Con un programma nuovo e moderno, adatto alle mie corde».

Intanto, su Rai Radio2, conduce una trasmissione dal titolo Radio2 L'energia è servita con Barbara Boncompagni il sabato e la domenica dalle 12 alle 13.30.

«L'energia è una mia fissazione e cura. È quel tocco in più che ti fa affrontare la vita in maniera diversa. Non ho inventato niente ne parlano da tanti anni grandi maestri di vita e di scena e scienziati come Einstein».

Lei da dove attinge l'energia?

«Dalla meditazione, che è come un lavaggio del cervello, dal lavoro, dall'amicizia, dall'arte, dalla natura. Ma innanzitutto direi dal carattere e dalla voglia di crescere».

È sempre stata così vulcanica?

«Il carattere si può modificare. A 13 anni piangevo sempre, poi ho detto "adesso basta". E da quel momento ho preferito la "passione" e quasi sempre faccio solo le cose che mi piacciono. Non è facile. Ci sono stati momenti in cui non avevo una lira però sceglievo solo ciò che mi piaceva, ho rinunciato al danaro molto spesso. La gente pensa che i soldi diano la felicità, non è così. La passione ed il lavoro ti portano i soldi».

Non è sempre facile avere spirito positivo soprattutto di questi tempi. O no?

«In generale ho un mood positivo, anche durante la quarantena, tranne certi giorni che non ne potevo più. Ero depressa. Ma non sono stata mai ferma. Ho cucinato, ho dipinto casa con felicità. Tutto è faticoso nella vita. Per raggiungere obbiettivi servono dedizione, talento lavoro, passione».

Lei e il suo compagno, che è di Brescia, avete avuto molti lutti durante le fasi apicali dell'epidemia. Vero?

«Sì. Io e Piero abbiamo due case, una a Brescia e una a Roma, in cui viviamo. Piero è rimasto qui nella Capitale, il Nord ha subito una epidemia terribile, purtroppo abbiamo perso delle persone care, suoi compagni di infanzia».

Altro tema dolente: la situazione dei teatri. Lei è direttore artistico del Trianon Viviani di Forcella, come vede la situazione?

«Abbiamo perso metà della stagione invernale. Prendiamo un minimo di sovvenzione, che non basta per recuperare i costi. I privati e quelli piccoli non so come faranno, alcuni non apriranno. Le sanificazioni che chiede il governo non sono semplici, riapriremo a ottobre o metà settembre, magari con uno spettacolo in strada. Il nostro è "il teatro stabile della canzone napoletana", rivolto anche molto ad un pubblico di turisti, che per ora è assente. Avevo elaborato una commistione con artisti stranieri ma non so quando apriranno le frontiere. Come diceva Einstein, "le grandi crisi servono per rinascere"».

Per esempio?

«Penso alla creatività, bisogna farsi venire idee nuove ed adattarle al momento storico».

Come attrice, cosa aveva in ballo prima del Coronavirus?

«Ero in tournee con Persone naturali e strafottenti di Patroni Griffi realizzato da Giancarlo Nicoletti e con Così parlò Bellavista di De Crescenzo con Geppy Gleijeses. Vedremo quando riprenderanno. Per il mondo del teatro c'è una tragedia in atto che non è uno spettacolo».

Già. Per sostenere i lavoratori dello spettacolo, Sandra Milo si è incatenata per ottenere un incontro con Conte. Cosa pensa di iniziative di questo tipo?

«Sandra Milo segue la sua storia, molto spesso ha fatto così per ottenere visibilità. Io credo di più nel lavoro con i gruppi, non solo quelli del teatro, ma anche della Regione Campania. Ho grandissima stima del governatore De Luca, persona fattiva che ascolta e cerca soluzioni con i suoi collaboratori».

Ha colpito tutti l'appello che lei ha fatto alla camorra. Perché?

«Durante la pandemia, soprattutto in Campania, c'erano razzie, fingevano di portare buste della spesa per rapinare anziani o spacciare droga. Ho fatto questo appello ad esseri umani e tra i tanti significati della parola humanitas c'è anche la pietà. Mi è venuto spontaneo e ho anche pensato di avere sbagliato, chiedere alla camorra un armistizio significa darle potere, ma tanto esiste e se il governo non si muove con gli aiuti, la malavita acquisterà molto potere».

Ha citato De Luca.

«Penso anche a Zaia in Veneto: ha agito da grande amministratore. Toti in Liguria, pure, Zingaretti a Roma con lo Spallanzani. Io amo molto l'Italia e credo in una Italia unita. La differenza la fanno gli uomini seri».

 Cosa pensa del governo?

«Si sono trovati in una situazione disperata, e credo che nessuno avrebbe potuto fare meglio. In Italia abbiamo problemi serissimi come la burocratizzazione, le tasse troppo alte per gli statali e per la media borghesia, mentre i ricchi e le grandi aziende pagano in paradisi fiscali, in Olanda per esempio. Ormai da secoli. Bisogna finirla con i decreti di mille pagine! Il governo ha realmente stanziato soldi, ma non sono arrivati. Abbiamo bisogno di gente seria e fattiva. Sono stufa di sentire i politici, senza generalizzare, che si azzannano a vicenda nei talk show nel dire "non avete fatto questo o quell'altro" senza proporre cose costruttive».

La normalità tornerà mai? 

«Secondo me no. Stiamo rimasti scottati dal virus e il restare chiusi in casa ci ha fatto riflettere. Io avevo una vita caotica e piena di mille cose. Non la voglio più così. Vorrei cambiare le priorità, puntare sulla qualità di vita e di lavoro».

Per esempio?

«Fare un buon lavoro da direttore del Trianon, portarlo al successo. Dare priorità alla mia famiglia ai miei amici ..al mio lavoro di artista Ho intervistato Davide Sada, che ha inventato lo "yoga finanziario"».

E cosa sarebbe?

«Non sono i soldi - dice - che danno la felicità ma è la felicità che fa fare soldi, ed è esattamente quello che penso io . Fa lezioni online ai giovani per aiutarli a trovare la vocazione insieme al talento, insegna anche meditazione. E se fai un lavoro che ti piace sicuramente sarai felice e con molte possibilità di guadagnare».  

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 4 maggio 2020. Marisa Laurito è stata stretta osservante delle regole sanitarie vigenti fino a ieri «Assolutamente sì! E devo dire che anche gli altri sono stati rispettosi: abito vicino a Ponte Milvio e nei giorni scorsi, affacciandomi alla finestra, vedevo le strade vuote. Persino in quelle ad alto scorrimento, come Corso Francia o la Flaminia, circolavano pochissime macchine. Ci abbiamo guadagnato in aria più pulita e meno fracasso. Ora speriamo di continuare a rispettare le nuove regole».

Durante il lockdown non usciva mai di casa?

«Bè, non esageriamo, non sono stata una sepolta viva: il sabato e la domenica sono sempre andata a via Asiago dove sono in diretta su Radio2 dalle 12 alle 13.30,insieme a Barbara Boncompagni, con il programma L' energia è servita . Sì, lo ammetto, non ho rinunciato a comunicare con il pubblico: è un grande sfogo».

Quali i temi affrontati nella trasmissione?

«Diciamo così: sotto il cappello del vasto tema che riguarda l' energia, in senso lato, affrontiamo tanti argomenti dell' attualità. Per esempio la forza fisica e mentale che dobbiamo mantenere viva in questo momento, ma anche l' energia del teatro».

Il teatro che soffre, più di altre forme d' arte, perché in quanto spettacolo dal vivo dovrà aspettare molto prima di rialzare il sipario.

«Purtroppo sì, una situazione disastrosa. Io ho dovuto sospendere due mesi di tournée, previsti per due spettacoli Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo e Persone naturali e strafottenti di Giuseppe Patroni Griffi. Inoltre, nel mio primo anno di direzione artistica del Teatro Trianon di Napoli, avevo già pronto il cartellone della prossima stagione: ma si farà? Ho deciso comunque di dare annuncio, a metà maggio, della programmazione, però dal dire al fare c' è, davvero, di mezzo il mare. Certo, il sipario bisogna per forza rialzarlo e non solo perché dà lavoro a noi attori, ma a tante persone che lavorano dietro le quinte... Se continua a restare abbassato, il teatro muore! Io capisco che, in questa tragedia, si bada alle cose essenziali, ma se riaprono le fabbriche, perché non possono riaprire i teatri? La cultura è l' immagine di un paese e non è vero che con la cultura non si mangia, fa mangiare tanta gente!».

In che modo, secondo lei, si potrebbe riavviare la stagione teatrale?

«Per quanto riguarda il pubblico, rispettando il distanziamento fisico in sala. Il ministro Franceschini, che ha affermato di voler aiutare questo settore, potrebbe intervenire con un contributo statale per il mancato introito al botteghino. Noi attori dobbiamo diminuire il cachet. Insomma, se collaboriamo tutti insieme, la crisi si può, si deve superare e lo dico con convinzione da napoletana».

Napoletana, quindi un essere inferiore?

Ride sonoramente Marisa: «E certo, come no? Comunque, nella situazione in cui ci troviamo tutti male, mi pare ridicolo e superfluo parlare di nord e sud. Questi attacchi appartengono ai soliti corsi e ricorsi storici, ogni tanto qualcuno tenta di dividere l' Italia, mentre invece soprattutto ora dobbiamo essere uniti, aiutarci, collaborare.

Per quanto riguarda la mia Regione, la Campania, il governatore Vincenzo De Luca mi pare abbia lavorato bene, così come il governatore Zaia che è stato bravissimo. In ogni caso: viva gli italiani! Tranne gli in-feltriti..».

·        Marta Losito.

Ilaria Ravarino per "Il Messaggero" il 3 marzo 2020. È la Chiara Ferragni delle adolescenti, la muser fra le youtuber, la regina del social più amato dagli under 18, Tik Tok, piattaforma su cui si esibisce in playback seguiti da tre milioni e 300.000 contatti. A 16 anni la trevigiana Marta Losito è un fenomeno del web da un milione e mezzo di follower su Instagram, 655.000 adepti su YouTube (poco meno del suo nuovo fidanzato, Gianmarco Rottaro) e dal 3 marzo arriverà in libreria il suo libro autobiografico, C' è molto di più. Che segue a breve distanza l' esordio letterario, #nonostante, fenomeno editoriale dello scorso aprile.

Come le è venuta voglia di un secondo libro?

«Avevo bisogno di mostrare alle persone chi fossi veramente. Prima della scorsa estate mi sono lasciata col mio primo amore, ero distrutta. Non avevo voglia di postare nulla. Ma la gente si lamentava. Mi scrivevano: non puoi essere triste, tu sei Marta Losito. Ma io sono, prima di tutto, Marta e basta».

Per questo ha scritto il libro?

«Sì, ma prima di scriverlo, lo scorso agosto, sono sparita dai social».

Per quanto tempo un' influencer può sparire dai social?

«Io l' ho fatto per quasi un mese. Postavo una volta al giorno solo per dimostrare che ero viva. Ero in crisi».

Si è fatta aiutare da qualcuno? È andata in terapia?

«Gli psicologi li ho sempre trovati inutili: li rispetto, ma quando ne ho avuto bisogno, per esempio quando alle medie mi bullizzavano, non mi sono serviti a nulla. Mi hanno salvato le mie amiche, lo dico anche nel libro».

Gli influencer sono gli psicologi della generazione Z?

«Direi di sì. Le ragazzine ci scrivono per un sacco di cose: bullismo, problemi in famiglia, amori. Io rispondo seguendo l' istinto: ovviamente sono attentissima a quello che dico, i miei follower hanno tra i 6 e i 18 anni».

Oggi come spiega agli altri il suo lavoro?

«Sono un' adolescente che per passione, e con amore, condivide la sua vita sui social».

Lei come si definisce? Muser? Youtuber? Influencer?

«Influencer. Il mio lavoro è fare in modo che la mia vita sia d' aiuto a quella degli altri».

E sponsorizzare prodotti.

«Sì, ma la sponsorizzazione viene dopo: se una cosa non la voglio fare dico di no. Il rapporto tra post personali e sponsorizzazioni è 50/50».

Guadagna molto?

«Non mi piace parlarne. Dico che con la mia prima sponsorizzazione ho pensato alla mia famiglia, a mia sorella che fa ginnastica artistica, ai miei genitori che mi hanno pagato i corsi di danza».

Che fanno i suoi genitori?

«Sono dipendenti in un centro commerciale. Papà ha la fissazione dei video, mi ha messo una camera in mano a tre anni. Mamma ha la passione per lo shopping».

La aiutano a gestire il successo?

«Certo. Ancora adesso a mamma mando le mie foto non sponsorizzate, per farmi consigliare».

Cosa sacrifica per questo lavoro?

«Perdo pezzettini di adolescenza. Capita che la sera gli amici vadano in discoteca a ballare, e io invece devo preparare un evento. Ma qualche cavolata, di quelle che fanno gli adolescenti, la faccio anche io. E non la posto».

Social Boom, lo youtuber, ieri ha violato la zona rossa a Codogno. Che ne pensa?

«Io non ho bisogno di fare certe cose. Il mio personaggio è semplice: ai miei follower basta vedermi che abbraccio il mio cane seduta sul divano con la famiglia. Certe cose non mi servono proprio».

Tra i colleghi chi le piace?

«Su Tik Tok Charlie D' Amelio, su Instagram Chiara Ferragni. È stata la prima, la ammiro per la forza con cui ha resistito a chi la insultava perché ha avuto il coraggio di dire che quello dell' influencer è un lavoro. È la mia icona. Non l' ho mai incontrata. Ma ora che è anche lei su Tik Tok, sicuramente saprà chi sono: ho più follower di lei. Per ora».

A 16 anni dedica un capitolo del libro all' amore. Non è troppo giovane?

«Per capire l' amore non c'è età. Ho vissuto storie così intense che penso di saperne più di chi ha trent' anni. Ho avuto una storia importante prima, quando avevo 14 anni, e una adesso».

La passione: le sue follower le chiedono consigli anche sul sesso?

«Tante pensano che io e Gianmarco non ci diamo nemmeno i bacini. Altre chiedono consigli. Io di queste cose ho sempre parlato con mia madre».

Perché gli influencer si fidanzano con gli influencer?

«Capita: siamo tutti insieme, tutti a Milano. Ci capiamo al volo. Sappiamo che un evento è una valida ragione per cancellare un appuntamento di coppia».

Diciotto anni: quando sarà maggiorenne che farà?

«Non voglio averli 18 anni, voglio restare piccola. Voglio crescere ma solo a livello professionale. Voglio fare l' attrice. Voglio studiare recitazione. Ma voglio meritarmelo. Non voglio fare quella che arriva e dice: ciao sono centomila follower».

·        Martina Colombari.

Dagospia il 20 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Martina Colombari è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

La showgirl ha raccontato: "Queste prime ore di libertà? Io sono rimasta a Milano con la mia famiglia per tutto il periodo del lockdown. Ieri sono tornata a Riccione, dove io e mio figlio abbiamo ancora la residenza. Siamo rimasti a casa, con mio padre e mia madre, che ci hanno preparato un'ottima cena, un pranzo fantastico. Poi sono andata a trovare mia cugina che ha appena partorito, sono andata a trovare mia nonna, che vive nella casa accanto alla nostra, siamo stati molto in famiglia, non ci vedevamo da tre mesi. Poi ho fatto una corsetta sul lungomare, sulla ciclabile. Ho fatto un po' di sport, la spesa, sono stato molto tranquilla. Anche se è tutto ripartito, questi primi giorni erano dedicati alla famiglia, agli affetti che mi sono mancati di più. Ho prenotato il parrucchiere, nei prossimi giorni ci andrò. Sono cose futili, ma sono aspetti che fanno parte della nostra quotidianità. C'è gente che ci lavora dietro". 

Ancora la Colombari: "Sono curiosa di vedere come torneremo al cinema e a teatro, mi aspettavo accadesse più avanti. Voglio anche tornare al ristorante, è un settore che deve ripartire. Dobbiamo essere uniti, farci coraggio, dobbiamo sfidarlo anche un po' questo virus, se sei un soggetto sano non puoi continuare ad aver paura e a vivere blindato. Ovviamente con tutte le tutele. Non sono una persona incosciente, la vita deve andare avanti, più passa il tempo più si farà fatica a ripartire. Se ne usciremo migliori? Sicuramente diversi. Abbiamo fatto tre mesi di pulizie. In casa, tra i contatti, dentro di noi. Abbiamo capito quello che conta veramente, ci siamo guardati allo specchio, abbiamo fatto un elenco di quello che è importante portare avanti e di quello che non ha senso. La vita è breve, bisogna prendere le distanze da quello che non ci fa bene. Da relazioni o da rapporti che ci ingriscono. Bisogna capire quali sono le qualità che abbiamo, trovare sfide nuove e differenti". Sul rapporto con il marito, Alessandro Costacurta: "Non ci sono stati problemi, tant'è che domenica mio marito è stato fuori tutto il giorno e mi è mancato. Ero in casa da sola ed ero persa, non riconoscevo più la casa, gli spazi, mi sentivo un po' abbandonata. La quarantena di coppia è andata bene, siamo anche molto bravi nel rispettare gli spazi dell'altro, ci conosciamo talmente bene che capiamo se abbiamo voglia di parlare o viceversa". 

Sul rapporto con il figlio: "Avendo un sedicenne in casa, è stata difficile. Per loro la vita non è la casa, per loro la vita è fuori. Gli amici sono fuori, i locali sono fuori, la bicicletta, il motorino, è tutto fuori. Sono un po' fuori di testa, non solo fuori di casa. Sono complicati da gestire, è un mondo complicato, faticoso, è tutto a portata di mano, è il mondo dei balocchi. Non possiamo neanche replicare quello che hanno fatto i nostri genitori con noi. Periodo storico complicato, non sono disposti a fare sacrifici, il loro mondo reale non corrisponde alla realtà, è tutto dettato dal digitale, dai social, da quello che vivono sugli smartphone. Ma quella non è la vita".

Sui social: "Ho molti follower su Instagram e cerco di far vedere una Martina reale. Sui social si lamentano perché sono troppo muscolosa o troppo magra. Mi arrabbio molto quando dicono che sono un cattivo esempio per le ragazze, che porto il messaggio della donna anoressica. Non si rendono conto che l'anoressia è una malattia che porta alla morte, è come se mi accusassero di incitare alla magrezza. Le ragazze che soffrono di anoressia e bulimia soffrono per mancanza d'amore, sicurezza, affetto, una violenza subita, un lavoro perso. E quindi mi spiace perché mi incolpano di un qualcosa che io veramente non faccio. Non si rendono conto che con le parole si feriscono le persone. Mi dà molto fastidio. Spesso li lascio perdere, quando però iniziano ad essere pesanti o scrivono cattiverie è giusto rispondergli. Va bene la democrazia, va bene che sei un personaggio pubblico, però c'è differenza tra un commento, una critica, o una minaccia. Bisogna tornare ad avere maniere gentili che ci siamo un po' dimenticati. Questo fatto che i social ci avvicinano non significa che una pacca sulla spalla è concessa. Ci siamo dimenticati che cos'è l'educazione. Se tu mi incontrassi per casa, avresti il coraggio di dirmi certe cose? Non credo. E allora cosa ti dà il coraggio di dirmi che sono una anoressica schifosa?".

·        Martina Smeraldi.

Dagospia il 16 aprile 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Sono tornata in Sardegna per passare la quarantena con la mia famiglia. Ci siamo un po' riconciliati e sono molto contenta. Hanno accettato tutto quello che faccio. Certo, quando siamo insieme a tavola evitiamo il discorso, non parliamo della ma carriera hard”. Martina Smeraldi, 20enne giovanissima nuova stella dell’hard cagliaritana, racconta a La Zanzara su Radio 24 come sta trascorrendo questo periodo di clausura.  Come fai adesso? Ti manca molto il cazzo? Hai sempre detto che non ne potevi fare a meno: “Sì, è molto dura devo dire. Ovviamente ci sono alternative, faccio da sola in camera mia”. Finora quante scene hai girato?: “Una quarantina in tutto. L’ultima l’ho fatta a Barcellona prima della quarantena, perché appena la situazione è diventata tragica sono subito partita, sono tornata in Sardegna. Ho lavorato con un ragazzo che si chiama Jordy, che è un ragazzo molto famoso nell’ambiente. Era una scena con lui all’aperto, in un parco, è molto dotato”. Dunque l’ultimo pisello che hai visto è quello di Jordi?: “Si. Prima ero a Budapest con Rocco. Tre settimane fa ormai, forse di più”. Ti masturbi molto in questo periodo?: “Si,  ho tantissimi giocattoli. Li tengo belli nascosti, mica li lascio in giro. Preferisco quelli di grandi dimensioni, anche se di recente ne ho comparto uno che stimola il clitoride…”. “Adesso – aggiunge - sto aprendo il mio onlyfans in cui metterò dei contenuti ovviamente amatoriali che faccio da sola, con i miei giocattoli, o magari video di masturbazioni mentre sono in doccia. Vediamo”. Qual è la prima scena hard che vorresti fare quando si ricomincerà a girare?: “Una gang bang. Subito. E più uomini ci sono meglio è”.

Barbara Costa per Dagospia il 26 agosto 2020.

Martina Smeraldi, compi il tuo primo anno nel porno! Più soddisfazioni o rimorsi?

«Soddisfazione totale, rimorsi zero, sono contentissima di com’è andata, rifarei tutto e di più».

In un anno, quante scene hai fatto?

«Non le ho contate, ma saranno circa 30. Che non sono nemmeno tante, anzi, sono frutto di una scelta mirata. Preferisco farne poche, ma lavorare con produzioni importanti: c’è più guadagno, in tutti i sensi!»

“The Game of Whores” è tra gli ultimi porno che hai girato con Rocco Siffredi. Sveli ai lettori di Dagospia che non l’hanno visto, la sorpresa che lì trovano?

«Faccio la mia prima doppia anale! Ma tutto il film è pazzesco, guardate l’orgia nell’episodio 3: non potrà lasciarvi indifferenti».

Se si riprendono, i miei lettori possono vederti in “Angel Invades America: Wreck my Holes”. Salto i complimenti, muoio di curiosità: com’è Markus Dupree?

«Ovvio dire che è uno dei migliori attori in circolazione, ma è così. Vuoi sapere il segreto di questa mia scena con Markus?»

Dimmelo!

«È una scena super realistica: è stata girata senza tagli! Io e Markus sc*piamo dall’inizio alla fine proprio come ci vedi. Io adoro quella scena, è tra le mie preferite!»

Martina, a chi non esce infartuato nemmeno da questo, glielo diciamo di andare su “iStripper”?

«Certo, io sono lì che lo aspetto! Su "iStripper" mi esibisco in lap-dance e faccio assoli masturbatori».

Allora, Martina: 12 mesi di porno, successo immediato, e stuoli di fan adoranti. Io ho perso il conto delle pagine social aperte dai fan in tuo onore. Secondo te, oltre la tua innegabile bellezza, da cosa sono stregati?

«Dal fatto che non me la tiro!»

Non sei una dea inavvicinabile?

«Affatto! A me piace interagire con le persone che mi seguono, mi piace conoscere i miei fan, e farci amicizia sul serio».

Non solo virtualmente?

«No, a me capita di incontrarli, bere qualcosa con loro, e parlarci "dal vivo". Alle persone non piace quando rimani solo una figura che vedono dietro uno schermo. Credo sia questa la mia arma vincente.

Tu sei nata nel 1999. Qual è stato il tuo primo approccio al porno? Con i porno-anime, come mi dicono molti tuoi coetanei?

«No, io non ho mai guardato porno-anime e non mi piace come genere. Ti dico la verità: io ho guardato porno la prima volta a 11 anni, quando mi hanno regalato il mio primo smartphone. Ancora oggi, lo guardo e mi piace e dico che, da grandi, guardare porno è anche utile: si può imparare, e tanto, vedendo altre persone che fanno sesso».

Martina, bisogna “svegliare” le generazioni predigitali, e fargli capire che voi post-millennial siete diversi, più precoci anche grazie al web, ma che ciò non denota negatività, anzi!

«Tutti noi iniziamo a vedere porno con gli smartphone, durante la pubertà. È una realtà che non si può ignorare».

Va fatta entrare in testa quest’altra verità: se una donna vuole raggiungere l’obiettivo che si è prefissata, deve fare tutto da sola, fare affidamento solo su se stessa, senza uomini tra le palle. Così è nel porno, così è come hai fatto tu. E infatti: sei tu che un anno fa hai contattato Max Felicitas…

«L’ho chiamato io, mi sono presentata io, io sono andata a Pordenone da lui, con lui ho girato quel mio primo porno che ha "scosso" il web, e mi ha fatto conoscere. Da lì è scoppiato il boom e sono stata contattata da altre produzioni».

Ma sì, bisogna far tutto da sole, e vivere quel che si vuole, mai quello che vogliono gli altri! Tanto gli altri hanno sempre da ridire, da criticare. Noiosi!

«Io sono sempre stata una persona sicura di me, ma abbastanza solitaria e per le mie. Ho sempre avuto una sessualità fuori dagli schemi, e una personalità tutta mia che davvero in pochi sono in grado di capire».

Tu, quando hai deciso di contattare Max, e di provare a farlo, il porno, l’hai detto a qualcuno? E questo qualcuno, ti ha sostenuto?

«Non ne ho parlato a nessuno. Forse a qualche mia amica ho detto qualcosa, ma come desiderio. Quando ho chiamato Max, e ho fatto il video, non ho detto niente fino a che non era sul web».

Rocco Siffredi ti ha notato e valorizzato subito. Mi racconti il tuo primo incontro con lui?

«Sono arrivata a Rocco tramite un ragazzo che gli ha fatto vedere delle mie foto. Così Rocco mi ha chiamato per girare con lui a Budapest».

Sul set, la prima volta, con lui, quanto eri nervosa?

«Abbastanza! Però mi è passata subito, e tutto grazie a Rocco: lui è una persona fantastica che ti mette molto a tuo agio».

Pure a te Rocco ha fatto il doveroso pistolotto del “pensaci bene…col porno non si torna indietro…”, lo stesso che ha fatto a Valentina Nappi che ha iniziato con lui e aveva la tua stessa età, ma che ha fatto pure a Malena che aveva 30 anni?

«Non mi ha fatto grandi discorsi, anche perché la mia faccia e il mio corpo sul web avevo già deciso di metterli, dunque era una scelta presa. Io poi sono molto sicura di quello che faccio, e penso lo sappia anche lui».

Tu prima di entrare nel porno hai avuto esperienze lesbo?

«Sì, con qualche ragazza, ma veramente poche».

Cosa hai voglia di provare sul set?

«Ho voglia, di provare e di sperimentare, e per prima cosa girare con una ragazza con lo strap-on, e poi fare qualcosa in campo BDSM. E poi voglio fare una gang-bang interracial!»

Tu sei etero, bisex, qualcosa?

«Sono sicuramente bisex».

Hai detto in un’intervista: “È difficile io trovi una donna che mi piace”. Nel privato, hai ideali fisici elevati?

«Ma no, mi riferivo al sesso: rispetto a un uomo, è più difficile che io trovi una donna che mi piace non dal punto di vista fisico, ma proprio sessuale».

In una persona, trovi inestetismi che ti smontano la libido, o pregi che te la elettrizzano?

«No, nulla di vincolante».

Io sì! Io non sopporto l’uomo depilato, invece delle donne vado matta per la pelle bianchissima. Degli uomini sai che mi piace, ma proprio tanto? La barba! Sto diventando una feticista della barba, o qualcosa del genere…

«Se la metti così, confesso: ho un debole per i tatuaggi e la pelle scura».

Moana Pozzi diceva che, nel privato, se stava sessualmente bene con un uomo, non sentiva il bisogno di cercarne altri. Io mi trovo d’accordo con lei, monogama in questo senso, ma non nel vivermi il rapporto di coppia nel quotidiano. Tu che fai, che ne pensi?

«Io mi posso innamorare, e sul serio, di una persona, ma non è possibile che scopi solo e esclusivamente con lei, e questo a prescindere dal mio lavoro. Credo nello stare con qualcuno per amore, ma non nella fedeltà e nella monogamia».

Sei innamorata, stai con qualcuno?

«Sono single, e non sento la mancanza di un fidanzato, sto bene così».

Molte tue colleghe trovano l’amore sul set. Io credo che per un’attrice porno sia più facile vivere una relazione con un collega: ci si capisce di più, non si devono spiegare cose che già si sanno perché si vivono.

«Non so se sia più facile stare con un collega, io parlo per me: se non sei una persona sicura di te e con una mente bella aperta per capire la mia, non puoi stare al mio passo».

Ma tra due pornoattori che stanno insieme, non c’è meno se non addirittura assente gelosia?

«Macché, guarda che sono gelosi anche loro, spesso peggio degli altri!»

Alcune attrici porno sfatano un mito perché dicono: a casa, con il loro partner, non vogliono chissà che prestazioni, sono appagate da sesso basico, in missionario, o doggy-style. Orgasmi garantiti! Pure io, che di porno ne solo scrivo, voglio le sveltine da dietro (e il cunnilingus!). Tu da che parte stai?

«Anch’io penso che le cose semplici e fatte bene vincono sempre, e però: per quel che mi riguarda, tante cose che mi piacciono sul set sono le stesse che mi piace fare nella mia intimità, a telecamere spente».

E queste cose, quali sono?

«Sicuramente il sesso anale, ma anche fare sesso con più ragazzi e ragazze insieme. Ed essere dominata!»

Martina, ma tu ti ricordi la prima volta che ti sei masturbata? Io no, non ci riesco assolutamente!

«Non me lo ricordo nemmeno io, ho iniziato che ero veramente piccola!»

Io pure, io mi masturbo da quando ho memoria!

«Iniziamo tutti da bambini, ma molti si vergognano ad ammetterlo!»

Sai che mi ricordo alla perfezione?

«Cosa?»

La prima volta che ho avuto il ciclo, e mi chiedevo se potevo lo stesso toccarmi senza…spiacevoli conseguenze! Dubbio che mi sono tolta subito!

«E vorrei vedere!»

Martina, cosa ti piace fare quando non lavori? Io quando non porno-scrivo, adoro, nell’ordine: fare sesso, dormire, spendere soldi in libri e in sciocchezze. E a te?

«Io adoro viaggiare, fare sport, passeggiare nella natura, fare escursioni…»

Te ne vai a passeggio nella natura…tu?!?

«Sì, perché?»

Ci fai pure le escursioni…

«Vabbè, la verità: sono molto festaiola, e giro per discoteche e locali!»

Ma tu, dopo il tuo ingresso e exploit nel porno, riesci a uscire con un ragazzo senza… intimorirlo?

«Bella domanda! Io, in quest’anno, ho capito che non ci sono tante vie di mezzo: la gente o si avvicina a te perché è interessata al tuo lavoro ed è incuriosita dal tuo "personaggio", oppure proprio per questo è spaventata, ed evita di farlo. Diciamo che è un rovescio della medaglia che avevo messo in conto. Confido nelle eccezioni».

Hai detto a Rocco Siffredi: “Niente ora mi farà tornare indietro”. Dove vuoi arrivare?

«Negli Stati Uniti, conquistarli, e vincere l’Oscar del Porno quale miglior attrice!»

·        Mason.

CHI È MASON? Barbara Costa per Dagospia il 22 agosto 2020. Chi è Mason? È una donna, e allora? A te che te ne importa? Qual è il tuo problema? Che non la vedi, non sai che faccia ha? Cambierebbe qualcosa se ti dicessi che ha dei grossi seni, un bel culo, e si scopa una marea di uomini, più qualche donna, ed è una promiscua ninfomane? Sì? E se al contrario fosse un cesso incartapecorito, che faresti? Non ti arraperesti più ai suoi video? È il mistero del porno, dura da quasi 20 anni, ed è fitto come il primo giorno: Mason, chi è? Di sicuro è una regista, e il boss di "XEmpire", impero porno che racchiude a sé varie categorie di video a pagamento tra i più scaricati e apprezzati. Video dove ci trovi le pornostar le più famose e esperte, quelle dal corpo il più inarrivabile e massimamente carnoso e mediterraneo, per porno diretti da registi maschi i più blasonati, sui quali però dominano i porno "Directed by MASON". Una firma, che sta a garanzia di porno immondo, smodato, anale ma tanto, sborrato spropositato, con donne sublimate, nobilitate, innalzate a padrone del sesso, dalla regia di una a loro pari donna che è mani che stimolano all’azione e che è voce, roca, sensuale, femmineamente imperiosa nell’incoraggiare ogni attrice che uomini uno dopo l’altro stanno montando, lappando, sputando sui seni, sul viso, in gola la loro saliva, il loro sudore, che non basta, che deve fare di più, farsi violare di più, farselo mettere dentro di più, in bocca di più, e che urli, che lo faccia sentire, a Mason che la dirige e a chi dall’altra parte dello schermo la guarderà: dillo, che ti piace, che ci godi, che sei la puttana delle puttane, una “riot slut” intonacata di sperma che non ha requie, sazietà, e andresti avanti all’infinito, se solo quelli uomini ce la facessero, fossero di più, un branco, un esercito, e se solo Mason a un certo punto non gridasse “Stop!”. Mason, chi è, chi si nasconde dietro questo nome, ma che dici, non è un nome, Mason è una sigla, Mason non esiste, non è una donna, è un uomo, no, forse un gruppo di uomini, di peni celebri. Ti piacerebbe, eh? Quale facezia migliore da far girare per ridare al pene ciò che gli spetta, per consolare la mascolinità offesa da chi non si fa vedere però si professa donna e sa manovrare le telecamere come solo un maestro potrebbe uguale. L’indiscussa bravura di Mason è nitida, inconfutabile, e fa rabbia: per questo c’è chi vi crede, alla storiella che Mason sia uno pseudonimo creato a celare tale indicibile verità: ci sono registi di Hollywood che girano porno in incognito, si cimentano in un’arte proibita, e se ne vergognano! E molti si spingono a ipotizzare dietro il nome Mason quello di Tarantino, o Spielberg, o Nolan, Scorsese, fino a sostenere che Mason sia nient’altro che l’insieme delle iniziali dei cognomi reali di ignoti 5 illustri nomi del cinema non porno. E non manca chi pensa che Mason sia creazione a tavolino dei produttori porno (maschi) che mettono lavori di registi porno (maschi) sotto questo nome, per vendere col fascino dell’arcano. Mi dispiace distruggere tali sogni di gloria penici, ma la verità è che la femme Mason esiste, è una sola, ha una figa tra le gambe, e un cervello e un’impronta porno-registica tra le più sofisticate. Impossibile non riconoscerle il tocco, talmente peculiare che poco è durato il suo giochetto iniziale, allorché si divertiva a firmare i suoi primi lavori una volta Mason e una volta Sam No (e questo chi è, da dove viene, è uno orientale, ma no, tonto, è semplice, è l’anagramma di Mason!!!). È una donna e non me lo far ripetere: in quanto donna fa il porno il più duro ed esplicito, immettendoci l’anale il più crudo, palate di sperma sui visi e in sessi e in ani, incitando i protagonisti a smarrirsi nella lussuria più pericolosa, trascesa, traviata. È una donna e questa è la sua cifra stilistica, è Mason che eleva il femminile ad acmi ignorati, è Mason che i corpi li inabissa nella lascivia, nella carnalità acida, quella che smuove corde della vergogna intatte. Mason è una donna che sa quanta monnezza giri nelle teste masturbanti di uomini e donne, Mason è una donna che arriva a inscenare fantasie di stupro, e ci sono scene, nei suoi "Dirty Trixxx", che ammutoliscono eccitando e spaventano per violenza equivoca. Non può farlo perché donna? Chi lo dice? Tu? E come lo deve fare il porno una donna? Dolce, sexy, romantico? "Fanculo, queste sono le tue regole, non le sue (se te la fai sotto, scaricati sulla serie "EroticaX": qui Mason è più soft). Mason ha una personalità tale da renderne superflua l’identità, ma non il suo intelletto che si riversa chiaro in ciò che gira. Con lei il porno non è stereotipato, nulla è ripetitivo, messo lì a caso. Mason è e si compie in ciò che crea e ti stranisce (hai mai visto i suoi porno che iniziano dalla fine?). Una inquietudine elettrica mi percorre ogni volta che mi metto a guardare un suo lavoro. E però, se proprio non resisti, non ce la fai, io qualcosa su Mason la so, e te la dico: è nata a Los Angeles circa 45 anni fa, da genitori abbienti, forse il regista porno William H. (che lavora pure per "XEmpire") è suo fratello. Mason è laureata in scienze politiche, si sarebbe specializzata in legge se uno stage da tutto- fare su un set porno non l’avesse rapita. Mason non vuole figli, è stata sposata 3 anni ed è finita malissimo. Fare porno esaudisce ogni sua nozione di libertà ed è un settore che la tratta alla pari. Lei è vegetariana, fobica dei germi, "viene" se la prendi da dietro e nel contempo la stimoli davanti. Ama le auto sportive e nel tempo libero va a sparare al poligono. Mason è “una donna che ha il controllo totale di quello che fa”, il cui unico padrone sei tu che guardi i suoi video. Guai a parlarle di femminismo, in ogni sua idea e forma: non sa che farsene! Alcuni dicono che il suo diniego a farsi vedere (concede rarissime interviste scritte, ancor meno telefoniche; non va a ritirare i premi, compresi gli Oscar, tranne una volta, non mi ricordo a che gala, si presentò, ma sotto un burka) è dovuto a questo: da piccola, Mason è stata una star! Dico sul serio, era fissa nel cast de "La Casa nella Prateria". Ma se non è Melissa Gilbert, quale di quelle bambine è stata? 

·        Massimo Boldi.

DAGO-INTERVISTA il 5 novembre 2020.

Massimo Boldi, cosa ne pensi dell'idea di chiudere in casa gli over-70, proposta dal governatore ligure Toti e sottoscritta da altri politici e scienziati?

«Sono molto contento che questa idea demenziale sia stata messa in campo mentre in America assistiamo allo scontro tra un 74enne e un 77enne per la Casa Bianca. Due tipini che in ogni caso domineranno il mondo per qualche anno, mentre qui vogliamo segregare in casa una generazione che ancora manda avanti questo Paese. Certo, ci sono persone fragili che vanno tutelate, ma in maggioranza siamo energici e pieni di cose da fare»

A 75 anni non sei pronto a metterti sul divano con la copertina?

«Ma stai scherzando? Due mesi fa ho finito il film con Christian De Sica (che compie 70 anni l'anno prossimo), ''Natale su Marte'', che spero esca nelle sale a Natale insieme a tanti altre pellicole che aspettano una distribuzione come si deve. Penso a Carlo Verdone, Paola Cortellesi. Ma se anche non dovesse uscire in sala a dicembre, è comunque il segno che i miei coetanei hanno ancora molto da dire, e il mio personaggio lo conferma».

Che vuoi dire?

«Nella storia io interpreto il figlio di Christian…per capire come, dovrete vederlo. Diciamo che mi sento come Mickey Rooney, il grande attore americano per sempre bambino. Sicuramente non un pensionato. In pensione col cazzo che ci vado!»

Intendi continuare a recitare?

«Certo. Nei prossimi mesi lavorerò insieme ad Aurelio De Laurentiis (71 anni) a una serie tv che vorremmo portare su Netflix. D'altronde se anche Aurelio dopo 26 anni continua a puntare su di me, vuol dire che non sono così bollito, no?»

Vedo dal tuo profilo Instagram che la passione per le belle ragazze non cala con l'età (vedi foto che segue l'intervista)

«Hai visto che schianto? Me l'hanno presentata ma non mi hanno detto come si chiama. O meglio, si chiama Eva… noi ultra-settantenni abbiamo una marcia in più con le ragazze, basta vedere Briatore e Berlusconi».

Ma non rischi di cadere nello stereotipo?

«No, tu cadi nello stereotipo. Non meravigliarti se vedete giovani compagne accanto ai miei coetanei. C'è chi grida all'opportunismo, chi allo scandalo, chi si chiede come possa una ragazza stare con un uomo così più grande di lei. Ma chi conosce l'amore, sa che arriva a qualunque età, e nei confronti di persone di qualunque età. Avere un uomo saggio e con molto da raccontare accanto non è così male…»

Che ne pensano le tue tre figlie?

«Manuela, Marta e Micaela... sono l'amore della mia vita, mi hanno reso nonno e donato nipotini meravigliosi. Ma persino loro sanno che il papà non è pronto a chiudersi in casa. Anzi, scusami ma ora ti saluto che devo partire per Roma: lì ho girato il film con Christian, ho un ufficio e una società. Alla faccia dei vecchi rincoglioniti!»

Anticipazione da “Oggi” l'8 luglio 2020. Su OGGI, in edicola da domani, Massimo Boldi, 74 anni, annuncia la separazione dalla lucchese Irene Fornaciari, 40, sua fidanzata da un anno. «Ho pensato di sposarla, a un certo punto. Mi sono avvicinato quanto potevo alla sua vita. Ho conosciuto i suoi amici, preso persino una casetta a Lucca per noi due. Ma la verità è che potevo darle troppo poco e ho capito che sarei stato infinitamente egoista a continuare questo rapporto. E ho preferito chiudere, ma è stato un atto di onestà», dice il comico. Che aggiunge: «In ogni volto di donna che incontro io cerco sempre Marisa (sua moglie scomparsa anni fa, ndr) e poi la ritrovo solo guardando le mie ragazze (le due figlie, ndr). Averla amata come l’ho amata io è un dono, ma mi condanna a vivere nella continua nostalgia». E conclude: «Resterà fra noi una bellissima amicizia, spero. Io per lei ci sarò sempre. Le auguro di trovare la persona giusta, capace di darle tutto ciò che desidera».

Roberto Alessi per liberoquotidiano.it il 19 aprile 2020. Chiamo Massimo Boldi, detto Cipollino, è un po' giù: «Maledetta quarantena. Ecco come passo le mie giornate ora, chiuso in casa, in trent' anni non ho mai fatto così tante volte le scale da cima a fondo. A parte gli scherzi, devo dire che questa situazione non la vivo granché bene, la vivo con l' ansia che mi accompagna da quando sono nato. Paura? Sì, certe notti non dormo, mi agito». Per fortuna che fa il comico: è allegro come una lapide. «Chi mi conosce a fondo si domanda come ho potuto fare il comico di professione». Boldi è in vena di aprirsi: «Ho imparato a parare i colpi, ma i cazzotti fanno sempre male, e ne ho presi parecchi». Il più grande? Andò in Rai quando Berlusconi gli aveva regalato il grande successo, decenni fa, ma alla Rai andò male e Berlusconi non volle riaprire la porta di Mediaset. Una tragedia, disoccupato, senza tv. «Poi ci ha messo una buona parola Bettino Craxi, mio amico, che ha chiamato Silvio e ha rimesso le cose a posto, e da allora non ho più fatto cazzo», mi dice sempre. «Grazie a Dio ho imparato a rialzarmi, ci vuole forza d' animo e di spirito. Ma soprattutto ci vuole tanto amore. Ho la protezione della mia povera Marisa, ho il bene smisurato delle nostre tre figlie e dei miei nipotini». Ma c' è anche Irene Fornaciari, donna deliziosa: 74 anni lui, 40 lei. «Sì, mi sono anche innamorato di Irene, una dolce candida bellezza, unica che però... non vedo da sei settimane. Anzi no, la vedo tutti i giorni, grazie alla tecnologia del telefonino, però non di persona, mi manca molto». Ed è qui che gli ho svelato la moda odierna dell' aperitivo in videochiamata con WhatsApp, bicchiere di vino e fai cin cin toccando il bicchiere con lo schermo del telefonino sincronizzato con lei. «È una cazzata, ma almeno ti strappa un sorriso». Conclusione? «Viva l' apevideochiamata, ma soprattutto viva l' Italia, viva Milano, e viva pure il Milan».

Massimo Boldi: “Temevo di morire, ma sto bene". Massimo Boldi racconta la sua quarantena lontano dalla fidanzata Irene ed esprime il suo parere in merito alla pandemia e al Governo. Luana Rosato, Lunedì 20/04/2020, su Il Giornale. La quarantena di Massimo Boldi procede “così così”: l’attore e regista sta trascorrendo questo periodo con la figlia Marta e la governante, ma è lontano dalla fidanzata Irene che non vede da più di un mese. Visti i tempi che corrono, la paura di essere colpito dal coronavirus o di morire Boldi ce l’ha avuta ma, ad oggi, l’età non gli pesa affatto. “Paura di morire? Sì – ha spiegato lui in una intervista a Libero - . Ho 74 anni, anche se ne dimostro sessanta, sto bene e trom..”. Così Massimo ha messo a tacere chiunque possa pensare che l’età anagrafica inizi a farsi sentire e ha confermato il prosieguo della sua relazione con la 40enne Irene. Nonostante il lockdown li stia tenendo lontani, Boldi e la compagna non si perdono di vista grazie al telefono. “Un mese fa, anzi di più, abbiamo fatto l’ultimo weekend insieme e le ho detto: "Non ci vedremo più, sento l’odore di imbroglio" – ha raccontato - . Meno male ci sono i telefoni”. L’attore parla proprio di imbroglio dimostrando di non condividere affatto le restrizioni decise dal governo durante questa emergenza. “Ritengo questo coronavirus un castigo di Dio. Un po’ esagerato...Il virus è arrivato ora che abbiamo un governo debole, che fa quello che si può: ossia nulla – ha tuonato Boldi – [...] Il nostro è un governo fatto da dilettanti non votati. Solo i 5 stelle sono stati votati, gli altri si sono aggregati. Fossi stato in Conte, davanti ad una situazione così, avrei lasciato [...] E forse avrebbero sostituito qualche ministro con personaggi più d’esperienza”. Secondo Massimo Boldi il virus sarebbe “qualcosa di organizzato per dare 20/30 anni in più al pianeta”. “Sono dalla parte di Vittorio Sgarbi e Red Ronnie – ha fatto sapere - . È un virus, può uccidere come le altre malattie. Ma è diventato una pandemia perché lo hanno fatto diventare pandemia”. Se il pianeta, il clima e l’ambiente stanno tornando a respirare proprio grazie alla riduzione dell’inquinamento, però, Massimo Boldi torna a sottolineare come questa situazione creerà gravi danni all’economia e al settore del cinema. Quasi certo che il cinepanettone con Taylor Mega, Enzo Salvi e Wanda Nara salterà, l’attore sta studiando per il nuovo film di Pupi Avati e ha avanzato una proposta per non mandare il mondo dello spettacolo al collasso. “Io ho avuto un’idea: per non stare appiccicati, riapriamo i cinema Drive In. I film direttamente in tv? A mali estremi, estremi rimedi – ha sottolineato, concludendo con una precisa richiesta al governo per il suo settore - . [...]La politica dovrebbe aiutare l’arte e lo spettacolo, se no va a finire come la sanità: dove sono finiti i soldi? La nostra professione è fatta di pubblico, oggi puoi fare solo la tv [...]”.

Dagospia il 16 gennaio 2020. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1”. "Ho visto Tolo Tolo, di Checco Zalone, è un film interessante che non fa ridere, almeno a me non ha fatto ridere”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Massimo Boldi. Crede che il film campione d'incassi non l'abbia fatta ridere per scelta del regista oppure per mancanza di idee? “Non lo so, ne ho parlato anche con Checco, e lui mi ha detto: sai, ho voluto fare un film un po' diverso. Ha fatto un film sul sociale, un po' impegnato”. Ha visto anche il film Hammamet, su Bettino Craxi? “Non l'ho ancora visto. Io, poi, nel 1992 sono stato anche candidato col Psi: andò malissimo”. Come nacque l'idea di questa candidatura? “Bettino mi chiamò, perché eravamo amici. Io pensai quasi ad uno scherzo, ma come fai a dire di no a Craxi? Gli dissi: Bettino, io non sono capace”. E lui come le rispose? “Perché pensi che gli altri siano capaci? Non ti preoccupare...” Quanti voti prese? “Sono stato il primo dei non eletti”. Lei è anche nel comitato d'onore per il ventennale dalla scomparsa del leader socialista. “Si, è vero, ma no so se andrò ad Hammamet perché ho degli impegni, ma se potrò lo farò sicuramente”. Oggi la figura di Craxi è molto contestata. Lei come la pensa? “E' stato uno dei politici chiave del nostro Paese”. Tornando al cinema: con quale politico farebbe un film oggi? “Con Luigi Di Maio. Gli farei fare il cipollino...” Di Maio, forse, non sarebbe in grado di recitare al cinema. “Lui è così normale, fa ridere così”. Ci parli della sua vita sentimentale: E' vero che si sta per sposare? “No, non è vero che mi sposo tra poco”. Qualcuno però dice che si sposerà addirittura entro quest'anno. “Vedremo, vedremo...”, ha concluso Boldi a Rai Radio.

·        Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Da video.corriere.it il 24 dicembre 2020. Colpo di scena a L'Eredità, il quiz show di Rai1 condotto da Flavio Insinna in onda tutti i giorni su Rai1. Il super campione Massimo Cannoletta ha perso il titolo cedendo al Triello contro l'ingegnere Francesco. Ma ulteriore sorpresa, il divulgatore di Lecce ha salutato tutti in lacrime, ringraziando ovviamente lo stesso conduttore Insinna e l'intero staff: «Grazie davvero, dedico questa mia partecipazione ai positivi al Covid che mi hanno scritto per loro siamo stati un modo per alleggerire un po' la situazione. Non vedo l'ora che finiscano queste restrizioni Flavio, meriti da parte mia un bacio e un abbraccio», ha salutato commosso Massimo Cannoletta.

L'Eredità, Massimo Cannoletta perde e saluta in lacrime. Il Corriere della Sera il 23/12/2020.  L'ex campione: «Dedico mia partecipazione ai positivi al Covid che mi hanno scritto» - Ansa /CorriereTv. Colpo di scena a L'Eredità, il quiz show di Rai1 condotto da Flavio Insinna in onda tutti i giorni su Rai1. Il super campione Massimo Cannoletta ha perso il titolo cedendo al Triello contro l'ingegnere Francesco. Ma ulteriore sorpresa, il divulgatore di Lecce ha salutato tutti in lacrime, ringraziando ovviamente lo stesso conduttore Insinna e l'intero staff: «Grazie davvero, dedico questa mia partecipazione ai positivi al Covid che mi hanno scritto per loro siamo stati un modo per alleggerire un po' la situazione. Non vedo l'ora che finiscano queste restrizioni Flavio, meriti da parte mia un bacio e un abbraccio», ha salutato commosso Massimo Cannoletta.

Silvia Fumarola per repubblica.it il 24 dicembre 2020. Dopo 51 giorni, è arrivato il giorno dell'addio. Il 23 dicembre esce dall'Eredità il super campione Massimo Cannoletta, che dopo 51 giorni di permanenza al gioco preserale in onda su Rai1, aveva vinto 280mila euro. Si è ritirato dal gioco per tornare a casa a Lecce, dal padre, dai nipoti e dalla sua gatta. "Ora vado finalmente a fare il presepe" ha detto Cannoletta, mentre il conduttore Flavio Insinna, salutandolo con un filo di commozione, gli ha detto: "Non rendiamo le cose più difficili". Nei suoi 51 giorni è riuscito a giocare ben 33 ghigliottine. Cannoletta, 46 anni, cultura enciclopedica, ha voluto mandare gli auguri alle persone positive al covid che in questi giorni gli hanno scritto sui social ringraziandolo perché gli ha tenuto compagnia. È diventato popolarissimo, ora tornerà in Puglia, dove vive. Ha detto che "è stata un'esperienza bellissima", ha ringraziato tutta la squadra e i tecnici. Il nuovo campione, l'ingegnere Francesco, non è riuscito a indovinare la parola della ghigliottina. Ora comincia la sua avventura nel quiz, chissà se diventerà anche lui un beniamino del pubblico.

"Vi spiego perché ho mollato..." ​Cosa c'è dietro il ritiro dall'Eredità. Il campione ha detto addio al quiz show uscendo di scena dopo 55 puntate, ma ora emergono nuovi dettagli sulla sua partecipazione. Novella Toloni, Venerdì 25/12/2020 su Il Giornale. Cinquantacinque puntate, trentatré ghigliottine e 280mila euro di montepremi. Esce di scena in grande stile il super campione de L'Eredità Massimo Cannoletta. Il professore di orgini pugliesi ha conquistato i telespettatori del quiz show di Rai Uno, ma nell'ultima puntata prenatalizia ha detto definitivamente addio al gioco perdendo al Triello. L'ultimo saluto di Massimo Cannoletta è stato carico di emozione e non sono mancate le lacrime nel salutare Flavio Insinna, il pubblico e tutti gli addetti ai lavori. Ora per lui c'è il ritorno alla normalità, quella che negli ultimi due mesi gli era totalmente mancata. Per partecipare allo show preserale di Rai Uno, infatti, Cannoletta si è dovuto isolare per ben due mesi per colpa delle rigide regole imposte dalla pandemia in materia di contagio. Massimo Cannoletta lo ha svelato al Corriere della Sera in una intervista rilasciata al quotidiano dopo l'uscita dal gioco: "Da un po' di tempo cominciavo a pensare che sarei stato eliminato, ma non succedeva. Iniziava a mancarmi la concentrazione degli inizi e poi non è semplice partecipare a un gioco così in piena pandemia. Sono stato quasi due mesi chiuso da solo in albergo, uscivo solo per registrare: alla lunga la situazione è diventata sfiancante". L'isolamento, la lontananza dagli affetti e il lungo percorso fatto - un vero record nella storia de L'Eredità - alla fine hanno inciso sulla voglia di andare avanti e sulla lucidità. Il super campione su Twitter ha ringraziato tutti per l'affetto: "Un'avventura incredibile, una gioia ogni sera. Un percorso durato molto più di quanto mi aspettassi. Ora continua su altri sentieri, su Twitter e Instagram. Grazie a chi mi ha scritto, sostenuto, incitato o criticato. Grazie a tutti. E soprattutto grazie, Flavio". Ma sempre al Corriere Massimo Cannoletta non ha nascosto di essersi sentito come in un reality show, stile Survivor: "In effetti la sensazione era quella. E poi avevo anche paura di stancare il pubblico e temevo di poter nuocere a un programma che mi ha dato tantissimo rimanendo per troppo tempo: non volevo essere una zavorra".

L'Eredità, il campione salentino Cannoletta lascia la trasmissione: «Flavio, devo andare a fare il presepe». Grande commozione anche del conduttore Flavio Insinna a cui è scappata una lacrimuccia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Dicembre 2020. Il campione di Acquarica di Lecce, Massimo Cannoletta lascia L'Eredità senza passare per l'eliminazione: lo ha annunciato lo stesso campione durante la puntata di questa sera, quando si è qualificato per l'ennesimo Triello. Il 46enne salentino divulgatore brillante e vincitore di oltre 280.000 euro al quiz di Rai Uno, era ospite di Flavio Insinna da oltre un mese. Come mostra il video, il campione dei record ha salutato così il pubblico di punto in bianco: «Flavio...io devo andare a fare il presepe». Al che il conduttore di Rai Uno ha raccolto la palla al balzo: «È un modo gentile - come gentile sei tu - per dire che vai via». Ed è stato con la voce rotta dall'emozione che il campione ha salutato e ringraziato tutti, con una dedica speciale: «Grazie a tutti, Flavio. Quando questo periodo sarà passato, ti stringerò la mano e - se permetti - vorrei dedicare tutta la mia partecipazione a tutte le persone che sono positive al Covid: mi hanno scritto in tanti. Abbiamo allietato le loro serate». A quel punto anche Insinna si è emozionato per un istante, poi lo ha salutato commosso: «Non è mai un addio. Hai ragione: finirà tutto. Ora vai, che sennò si complica tutto».

·        Massimo Ceccherini.

Malcom Pagani per ''Vanity Fair'' il 10 gennaio 2020. Massimo Ceccherini, autoscatto: «Nasco imbianchino e ho fatto a lungo anche il muratore. La mia vera passione era lì, in quel tempo lontano speso a spandere l’intonaco. Ero veramente felice e quando arrivavano le sei del pomeriggio, si scioglievano le righe e gli altri si apprestavano a far festa, mi incupivo perché avrei continuato per ore. I tormenti sono arrivati dopo, quando ho iniziato a recitare. Non mi sento un attore fuori dalle regole e a dire il vero non mi sento neanche un attore. Seguo la mia natura e seguo me stesso anche se spesso non so dove devo andare». Dopo una quarantina di film, tanto teatro e un po’ di televisione, a 54 anni, Ceccherini sostiene di aver ricevuto il suo regalo di Natale anticipato. «Adesso posso anche smettere». Interpretare la Volpe in Pinocchio di Matteo Garrone e aver sceneggiato il film con il regista, dice, sublima un’attesa durata vent’anni: «Ho iniziato a fare Pinocchio con il teatro vuoto. All’esordio fiorentino contammo 24 spettatori sparsi in platea su una capienza complessiva di 700. Io e gli altri attori ci appollaiavamo sulla finestra che dava sull’ingresso, seguivamo i passanti, provavamo a spingerli con le nostre voci “entrate, entrate, fatelo per noi” verso l’ingresso. Ma quelli, sfortunatamente, non entravano mai».

Garrone sana un’ingiustizia?

«Non lo so, ma so che su Pinocchio sono d’accordo con tutto quello che dice Garrone. Non per piaggeria perché le dirò, dopo aver viaggiato in macchina con lui, finito il film, non lo voglio più vedere. Ma perché semplicemente la penso esattamente come lui».

Perché non vuole più incontrarlo?

«Ho la prostata infiammata e Garrone in autostrada non si ferma mai. Abbiamo viaggiato in giornata da Roma alla Puglia andata e ritorno e non ha fatto neanche una sosta. Mi è toccato portarmi il catetere dietro. Poi non fuma, ha duemila storielle nella testa, insomma dù palle». (Sorride).

In quei viaggi in realtà avete sceneggiato il film.

«È vero, con Matteo succede così. Mi è capitato di lavorare con altri sceneggiatori. Ma era come andare in banca. Tre ore la mattina, tre ore il pomeriggio. Orari fissi, un tavolino, dei fogli davanti. Con lui il lavoro è stato diverso. Dicevamo una frase per caso e magari quella entrava nel copione».

Come è nato il vostro rapporto?

«Guardandoci negli occhi. Eravamo già amici, ma adesso è sbocciato una sorta d’amore. Un colpo di fulmine. Quando stai bene con una persona senza sventrarti, senza annebbiarti o senza straviziare, tiri fuori il meglio».

Le è capitato di straviziare?

«Ne ho fatte di tutti i colori. Anche lavorando. Quando con quel genio di Carlo Monni e con Alessandro Paci scrivevamo il nostro Pinocchio per il teatro lo scrivevamo in trattoria sbevucchiando vino e fumando anche qualche cannetta. Partivamo un po’ mosci e poi ci scioglievamo. Volevamo far ridere e basta. Non mi so applicare come si dovrebbe applicare un professionista, però io godo in una sola maniera. Se dico qualcosa e sento la gente ridere. Poi è chiaro che queste grappette, questi vinelli e queste cannette con il passare degli anni si sono fatti sentire e hanno presentato il conticino. Hanno creato i loro danni perché non è che si possa fare tanto i ganzi con i vizi. Mi son dovuto regolare».

Qualche volta si è impegnato però.

«Prima di Garrone? Qualche volta sì, ma soprattutto per questioni alimentari. C’era sempre il contrattino, la scadenza, l’anticipino. Erano cose importanti, cose che ti stimolavano».

Con Garrone è stato diverso?

«È stato diverso. Ha realizzato un sogno. Aspettavo questo momento da decenni, fin da quando, da bambino avevo visto in tv il Pinocchio di Comencini e ne ero rimasto folgorato. In questo film faccio la Volpe, ma le assicuro che nella vita i ruoli disegnati da Collodi li ho interpretati tutti».

Prima mi ha detto che adesso può anche smettere.

«Ho detto così? Ma era un’iperbole. Facevo per dire perché in questo momento godo un monte. Sono innamorato di Garrone, ma se mi chiama Sorrentino per darmi una parte mi innamoro anche di lui, in cinque minuti. Mi hanno detto che Paolo, tra l’altro, si ferma in autostrada ogni cinque minuti e fuma come un pazzo».

La Volpe è sinonimo di imbroglio.

«Io sono il contrario. Sono un buono. Magari un po’ cretino e un po’ ingenuo, ma molto buono. Poi la volpe, che nella vita se la cava sempre, nel romanzo e nel film invece fa una brutta fine. Io, anche se in extremis, fuori dalla finzione spero di essermi salvato».

Chi l’ha salvata?

«La mia compagna, una fantastica operatrice sociosanitaria e un’altra fatina, Garrone. Non solo ho perso molte occasioni nella vita, ma ho fatto anche molti danni. Per fortuna, esclusivamente a me. Ma non è che faccia meno male. Mi ubriacavo, perdevo la testa, mi trasfiguravo, diventavo persino cattivo. Era come un veleno. Dopo pochi bicchieri iniziavo a piangere. Avevo una specie di demonio addosso».

Il lavoro ne ha risentito?

«È chiaro che se tratti male gli altri e sei ingestibile, il lavoro ne risente. Ogni tanto, nei lampi improvvisi, dicevo verità che a volte andrebbero proprio dette specialmente nel mio ambiente, quello del cinema, dove il marciume esiste, ma è altrettanto ovvio che gli altri finiscano per cancellarti e su di te si stagli l’anatema. Guardi cosa accadde al povero Francesco Nuti. Io al baretto romano frequentato da attori e registi, quando Francesco stava male andavo spesso. Parlavano tutti di lui. E non ne parlavano bene. Se ti fai del male e soffri, il colpo finale te lo danno gli altri con le parole, con le chiacchiere, con le perfidie».

Si è sempre sentito fuori posto?

«Le festine marce, l’apparire a tutti i costi, il dover sempre dire la cosa corretta al momento giusto. Non giudico, gli attori devono fare come si sentono meglio, ma io non sono così. Per questo le dico che mi manca imbiancare i muri. Dopo la scuola andavo sempre con mio padre che faceva quel mestiere. Lo seguivo. I primi tempi mi dava 500 lire, poi passò a darmene mille e alla fine addirittura duemila. Era in società con un omone, un ubriacone di stazza grossa che mi affascinava. Se dovevo scegliere con chi andare, più che col mì babbo, chissà perché, andavo con lui».

Ci ha detto che la felicità la trovava soltanto lì.

«Non era tutto rose e fiori, intendiamoci. Mi ricordo anche che quando mi dovevo svegliare all’alba soffrivo a bestia. Penso in realtà di aver sofferto dentro, interiormente come dicono quelli bravi, fin da quando son nato. Ma un conto è la sofferenza interiore, altro è avere una passione. E una passione così forte come quella di fare il muratore non l’ho mai ritrovata in niente se non come le dicevo nel godimento della risata. Un film drammatico, come il teatro serio, tanto a me non lo fan fare, ma se mai cambiassero idea e mi rivedessi, sono certo che resterei deluso e non sarei felice di ritrovarmi cupo sullo schermo o in scena».

La gavetta nello spettacolo fu dura?

«Prima di fare cose anche importanti, sono stato in qualsiasi tugurio. Nei night club ad esempio. Andavo in scena, dicevo due battute e presentavo ora Deborah, ora Svetlana. La prima sera il pubblico – poi pubblico è una parola grossa, tre bavosi e qualche delinquentello – applaudiva anche. Ma alla seconda replica voleva vedere solo le ragazze discinte e ti guardava con occhi intrisi di odio purissimo».

A scuola per lei non andò benissimo.

«Non ho neanche la terza media. Non venni ammesso all’esame e per la vergogna non uscii di casa per mesi».

Come mai?

«In gita scolastica, in autostrada, a bordo del pullman incrociammo un altro pullman. Mi calai le braghe e mostrai il culo dal finestrino. L’autista se ne accorse, inchiodò e infuriato, pretese di farmi scendere perché la su’ figliola, io non lo sapevo, faceva parte della comitiva. Mi rifiutai e allora la maestra mi intimò di andare in castigo: “Vai a sedere in fondo”.  Dissi ancora di no e per quella bischerata e per un’altra cosetta che adesso non si può raccontare pagai dazio».

Sulla tv di Stato bestemmiò.

«Mi scappò, mi venne così e anche lì ho sofferto. Ero in Honduras, all’Isola dei famosi, a digiuno da giorni. Credevo di essere fuori onda, vidi un chiosco di panini e preso dalla fame, per spostare gli altri concorrenti e avventarmi sulle cotolette, mi lasciai andare. Mi multarono per centomila euro. Li recuperai con le serate in discoteca. Il pubblico imbestialito voleva che bestemmiassi ancora, ma io mi vergognavo ed evitavo. Che le devo dire? Non riesco a vincere mai. Nella mia vita deve andà tutto in vacca, tutto a puttane, altrimenti non sarebbe un finale degno di me».

Chi le manca?

«A parte il Monni? Gente come Monicelli e Paolo Villaggio. Con Mario, anche se ogni tanto mi cazziava, era un divertimento folle. Era più comico e spiritoso di tutti i comici che ho incontrato poi negli anni a venire. E Villaggio, cosa devo dirle di Villaggio?».

Ha una storia?

«Io sono molto timido ma con Paolo diventammo amici. Mi telefonò: “Ti voglio fare un’intervista, vieni a casa mia”. “Un’intervista? A me?”. Sia come sia, non me lo feci dire due volte. Lo raggiunsi, bevemmo prima un whiskino, poi un secondo, poi un terzo. Uscimmo, andammo in giro per Roma e poi finimmo a casa mia appoggiati su due scatoloni che avevo portato durante il trasloco da Firenze e che rimasero da allora e per sempre sigillati. Altre bevute, altri discorsi, altre risate fino a quando, verso le otto di mattina non mi resi conto che era quasi immobile e stava praticamente dormendo. “Come lo porto via da qui?”, mi chiesi. Ed è allora che mi venne il colpo di genio».

Quale?

«Lo presi di peso, agguantai il retino e la canna da pesca e in mezzo alla strada, come si farebbe con un genitore un po’ anziano e non del tutto presente a se stesso, gli parlai dolcemente: “Babbo, io a pescare ti porto, ma vedrai che non prendiamo niente”. Paolo salì in taxi e ora non c’è più. Ma non sono sicuro che di quella notte si sarebbe ricordato. In questo ci assomigliavamo. Anche io tante cose non me le ricordo più. Può darsi che le abbia fatte oppure no, ma mi resta sempre il lusso di inventarle».

·        Massimo Ghini.

Riccardo De Palo per ''Il Messaggero'' il 9 luglio 2020. L'uccisione di George Floyd «ha dato enorme visibilità alla battaglia contro il razzismo, e ha creato l'obbligo di schierarsi assolutamente per i diritti civili». Ma, secondo l'attore Massimo Ghini, spesso tutto questo «non è altro che un atteggiamento alla moda». «Sono pronto ad assumermene tutta la responsabilità - prosegue l'attore - dal momento in cui i social lanciano un tema, questo mondo ignorante, senza un progetto, ne diventa vittima».

Cosa vuol dire?

 «Quando c'è stato l'omicidio, in America, ho condiviso l'indignazione, l'orrore per un fatto del genere. Ma non si diventa meno razzisti se ci si inchina per strada o se si alza il pugno; bisogna costruire una società - e io che abito all'Esquilino lo sento molto - in cui questo modo di sentire sia radicato».

A lei capita di spesso di essere controcorrente?

«Una volta innescai una polemica sbagliatissima (io faccio sempre le polemiche sbagliate) sulla questione delle parole nero e negro. Non si diventa razzisti o si è contro il razzismo semplicemente perché si dice nero al posto di negro; bisogna tenere presenti la Storia, la letteratura, che ci portavano a usare un tema che allora non veniva ritenuto offensivo. Se oggi rivedessimo Via col vento, ci stupiremmo nel vedere il personaggio di Mami, doppiata come la caricatura di una persona di colore. All'epoca, c'era un mondo colonialista, un certo tipo di razzismo, che va condannato ma anche spiegato».

E cosa pensa del politicamente corretto di oggi?

«Vorrei che il politically correct fosse una scuola di pensiero che possiamo portarci dentro; ma questo senza diventare talebani. Non c'è niente di peggio nella vita, credo. Ma vorrei raccontarle un episodio...»

Prego, mi dica.

«Sembra una barzelletta. C'ero io, un africano e un bengalese. Sono sceso per andare a lavorare e mi sono ritrovato in una situazione paradossale. Sotto casa c'è uno di quei negozi dove trovi un po' tutto, dalla ricarica per i telefonini ai cappelli; e io cercavo dei fazzolettini di carta. Due ragazzi neri africani stavano davanti a me e io, che sono assolutamente rispettoso, aspettavo pazientemente il mio turno. Poi il bengalese, che evidentemente mi conosceva, mi ha chiesto cosa volessi; e l'africano ha protestato. Io non volevo certo passargli avanti, avrei preso i fazzoletti da solo. Ti trovi in situazioni in cui il razzismo non nasce neanche da te».

Cosa ne pensa di quelli che vogliono demolire le statue di personaggi del passato, da Jefferson a Churchill?

«Allora dobbiamo buttare giù anche l'obelisco di Mussolini, e l'elenco di monumenti da abbattere sarebbe enorme; ma certi valori etici e morali, messi oggi in dubbio da quei simboli storici, a quei tempi nemmeno esistevano. Se bisogna fare il processo alla Storia, io dico: prima cerchiamo di conoscerla».

Nel suo lavoro si è imbattuto in questo problema?

«Noi adesso vorremmo fare uno spettacolo tratto da Scipione detto anche l'Africano , il film del 1971 di Luigi Magni, (che dovrebbe debuttare ai Mercati di Traiano all'inizio di agosto, ndr) il processo di Catone il Censore contro Scipione l'Africano. Una storia vecchia di duemila anni che sembra successa l'altro ieri, sembra Mani Pulite. C'è un ammanco terribile nelle casse dello Stato, dopo la campagna militare. E c'è la storia di Sofonisba, la nobildonna cartaginese che viene uccisa da Massinissa. Catone, per premiarlo, gli regala il regno di Mauritania. Se arrivassero le attiviste di Metoo dovremmo bloccare tutto».

E il caso Montanelli?

«Se vogliamo raccontare un passato in cui tutto era politicamente scorretto, non possiamo continuare a giudicarlo con i criteri del presente. Noi abbiamo il dovere di raccontare, anche quello di giudicare; ma non è giusto ridurre Indro Montanelli alla vicenda dalla dodicenne comprata in Etiopia. Perché non parla nessuno di quello che avviene alle donne arabe oggi».

·        Massimo Giletti.

È morto Emilio Giletti, padre di Massimo: aveva una fabbrica di filati, dove lavorò anche il figlio. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 da Corriere.it. Era uno dei più importanti rappresentanti di una generazione di imprenditori che ha fatto grande l’industria tessile biellese: Emilio Giletti, padre di Massimo e dei suoi due fratelli Maurizio ed Emanuele, è deceduto a 90 anni presso l’ospedale di Novara.

Nato a Trivero, in provincia di Biella, nel 1929, era proprietario dell’omonima azienda, la Giletti S.p.A., situata a Ponzone, nel comune di Valdilana e nota al grande pubblico per la produzione di filati. Nella fabbrica lavorò per un breve periodo anche Massimo, prima di intraprendere la strada della televisione. Ed Emilio Giletti era molto legato al suo territorio: in tempi recenti aveva contribuito, ad esempio, alla realizzazione del palazzetto dello sport di Ponzone, inaugurato il 21 ottobre del 2017 e intitolato col nome di Pala Giletti. In attesa dei funerali, ancora da fissare, dovrebbe essere allestita nelle prossime ore la camera ardente all’interno dell’azienda.

Mario Manca per vanityfair.it il 5 gennaio 2020. Inizio dell’anno amaro per il conduttore Massimo Giletti, che la mattina del 4 gennaio saluta il padre Emilio, morto nell’ospedale di Novara dove era stato ricoverato il giorno di San Silvestro a seguito di un aneurisma. Aveva 90 anni ed era stato vicino a Massimo nei momenti più delicati della sua vita: «Mio padre mi ha insegnato la semplicità. Da lui ho imparato a tenere duro nei momenti difficili della vita e ad avere le spalle larghe. Ho fatto anche il lavoratore stagionale. D’inverno in Rai e d’estate in azienda da papà con la tuta da operaio», raccontava il padrone di casa di Non è l’Arena riferendosi proprio a papà Emilio, titolare dell’azienda di famiglia a Ponzone Trivero, nel biellese. Nato a Trivero nel 1929, era un grande appassionato di corse automobilistiche, al punto da essere lui stesso un pilota. La sua principale occupazione era, però, quella di imprenditore tessile: la Giletti Spa, grazie alla sapiente guida di Emilio, è cresciuta negli anni fino a raggiungere più di 36mila metri quadrati di superficie e con un indice di produttività in positivo. Lavoratore indefesso, è rimasto in azienda fino all’ultimo giorno, tant’è che proprio lì sarà allestita la camera ardente. Grande appassionato di motori, tra il 1951 e il 1955 partecipò a diverse gare correndo principalmente per Ferrari e Maserati che, a un certo punto, lo selezionò per la guida delle sue auto sportive. Una sfida che Emilio accettò e che lo portò, nel 1953, a ottenere una prestigiosa vittoria nelle Mille Miglia. Grande tifoso della Juventus, una passione trasmessa anche al figlio, si è sempre speso molto per i giovani: alla società calcistica di Valdilana della ex Stella Alpina forniva, dal 2017, tutto il materiale tecnico per le partite e gli allenamenti dei ragazzi. Amava molto anche gli animali, al punto da allevare nella sua residenza non solo i cani, ma anche cavalli e asinelli. Con la sua scomparsa, Massimo e i suoi fratelli gemelli Emanuele e Maurizio perdono non solo un padre affettuoso, ma anche un uomo che si è sempre speso per gli altri investendo nel futuro e nelle nuove leve.

Massimo Giletti: «Ora che papà non c’è più sarò io a incontrare i clienti nella nostra ditta». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanna Cavalli. Il giornalista: «Quando anni fa lasciai l’azienda per la tv lui pianse». «Era settembre, passeggiavamo nel parco della villa, quando papà mi ha preso sottobraccio, davanti al laghetto che da bambino mi ero costruito da solo, scavando con la pala più alta di me, per tenerci i girini e i pesci acchiappati a mani nude nelle risaie, poco più di una pozza. Poi un giorno, tornato da scuola, trovai un vero lago: aveva fatto venire lo scavatore, c’erano le banchine, i fiori. Il più bel regalo della mia vita. “Ti ricordi, Massimo, quanto eri contento? Ora però il regalo devi farmelo tu: giurami che, quando non ci sarò più, tornerai qui e manderai avanti la fabbrica con i tuoi fratelli”».

L’ha promesso.

«E lo farò, non sarà semplice però è nei momenti difficili che capisci chi sei».

Ed è per questo che, da quando Emilio Giletti, imprenditore tessile piemontese con un passato ruggente da pilota di Ferrari e Maserati e una gloriosa vittoria alla Mille Miglia nel 1953, è scomparso a novant’anni, il 4 di gennaio, suo figlio Massimo, il terzogenito, quello che già a otto anni d’estate veniva mandato «ad avvitare bulloni di mattina presto per non farmi poltrire», ora che è presidente della Giletti Spa di Ponzone Biellese, alle dirette di Non è l’Arena su La7 alterna le maratone su e giù per l’Italia ad incontrare i clienti della ditta fondata nel 1884 dal bisnonno Anselmo «lungo il torrente, dove prima c’erano soltanto prati e pecore e lui invece costruì chiesa, asilo e ambulatorio per i suoi mille operai e nel 1903, insieme a Zegna, portarono il treno: prima le stoffe viaggiavano a cavallo».

I clienti resteranno un tantino interdetti.

«Mica tanto, non mi trattano come il Giletti della tv, nessuno mi ha mai chiesto, che so, di Belen, parliamo di questioni tecniche. L’altro giorno li ho stupiti quando ho preso in mano una rocca di filo e l’ho tirato in un certo modo, per capire se era fatto bene».

Ed era ben fatto?

«Sì, me ne intendo. Sono cresciuto tra rocche e carde, ancora oggi se chiudo gli occhi respiro l’odore del cotone e della lana, quello ti resta dentro per sempre».

Famiglia facoltosa, alta borghesia piemontese, per casa un castello con torre, eppure fu svezzato presto da baby-operaio.

«Papà era severissimo, sia con me che con i miei due fratelli maggiori».

I gemelli Emanuele e Maurizio, quelli che da piccolo lo ficcavano nel pozzo.

«Se è per questo mi hanno anche abbandonato sull’isolotto nel torrente, con la piena, ma era colpa mia, gli davo il tormento. Quegli scherzi perfidi rivelano un profondo volersi bene. Papà voleva temprarci, insegnarci che nella vita bisogna fare sacrifici. Io venni affidato al capo officina, Celso Barberis, che mi munì di cacciavite: “Signorino, prego, giri così”».

E come proseguì l’addestramento?

«Con le lezioni davanti alle vasche dei colori. Dopo la laurea ogni estate continuai a lavorare in fabbrica, anche quando già facevo Mixer con Minoli. Mi infilavo la tuta e pulivo le carde, macchine che filano il cotone».

Se le piaceva tanto, perché cambiò mestiere?

«Perché papà era un uomo solo al comando, non ha mai mollato, viveva per l’azienda e non delegava niente, stargli accanto era difficile, dopo ogni esame ne seguiva sempre un altro. Una notte alle tre si ruppe un macchinario, la fabbrica si sarebbe fermata. Chiamai due meccanici e insieme cambiammo il motore, in bilico su una scala a venti metri d’altezza. Finimmo alle sei del mattino, li mandai a casa. Alle sette meno cinque papà entrò in officina e notò subito gli attrezzi sporchi di grasso. “Perché non avete ripulito?”. Gli spiegai che i ragazzi erano stremati. “Infatti dovevi farlo tu”. Capii che era il momento di mollare».

Lui come la prese?

«“Le dimissioni richiedono una lettera scritta”, sibilò. Ma so che pianse, quando me ne andai».

Rapporto complicato.

«Molto. Da bambino ero legatissimo alla mamma e lui era... beh, piuttosto allegro sentimentalmente. La vedevo soffrire. Fu per me un dolore intenso, difficile da perdonare».

E l’ha perdonato?

«Da grande certi comportamenti li rivedi con un altro sguardo. Negli ultimi anni è stato più un fratello che un padre, se ci si vuole bene ci si ritrova sempre. I nostri abbracci sono diventati più intensi, quasi a compensare quelli che non avevo avuto da bambino».

No?

«Non ne ricordo. Papà era sempre via, io passavo più tempo con i domestici che con lui. Un pomeriggio, avrò avuto quattro anni, tornò a casa, scese dalla macchina ed io... io corsi ad abbracciare l’autista, gridando felice: papà, papà!. C’erano ospiti, che imbarazzo. Fu uno scandalo di cui si parlò a lungo, sa, mamma era bella...».

Magari, di nascosto, suo padre ci avrà riso su...

«Può darsi. Per quanto inflessibile, era simpatico, autoironico. Ricordo quando ci prendeva la ridarella mentre la nonna Bianca recitava il rosario. O quando la domenica mi portava a pranzo a San Bononio da un suo amico operaio e mi toccava bere il latte di mucca appena munto che mi faceva senso. Papà sapeva stare al mondo, anche se era uno scavezzacollo con le donne...».

Beh, non è che lei invece... (Ride).

«Lo so, qualche bel disastro amoroso l’ho combinato anch’io, purtroppo ho preso da lui, sarà il Dna».

A 57 anni fa sempre in tempo.

«Il guaio è che per me se finisce la passione finisce pure l’amore e allora mi annoio. Però finché dura amo davvero».

Solo che non dura.

«Eh no. La mia libertà viene prima. Un figlio? Non aggiungiamo altri disastri».

Suo padre l’avrebbe voluta accasato e sistemato?

«Scherza? Si raccomandava sempre: “Non fare cavolate, guai a te se ti sposi».

·        Matilda De Angelis.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Matilda De Angelis è abituata a metterci la faccia: fa l'attrice. Ma non è per mestiere che martedì ha postato su Instagram una sua immagine che mostra il viso divorato dall'acne. Ha scritto: «Accadono cose paradossali nella vita no? Bene, per me essere un'attrice e lavorare con il volto mangiato dall'acne è una di queste. Ogni giorno devo svegliarmi e presentarmi prima davanti allo specchio e poi davanti alla macchina da presa con tutto il carico emotivo che già comporta ed essere "splendida", in parte e concentrata insieme a tutte le mie paure e insicurezze letteralmente a fior di pelle». Il post è piaciuto a più di centomila persone, oltre 2.300 le hanno risposto (Chiara Ferragni in testa: «Bellissima sempre e comunque») e la nostra memoria vola alla scorsa estate, quando Aurora Ramazzotti mostrò ai suoi due milioni di follower un volto pieno di brufoli, spiegando: «Visto che ne ho la possibilità, sfrutterò questa stessa piattaforma che sa di perfezione per ricordarci che la perfezione non solo non esiste, ma non è neanche bella. Siamo belli noi, con le nostre cicatrici, e anche se sembra tutto un po' cliché, a questo punto non c' è cosa a cui credo di più». Aurora a luglio aveva ventitré anni. Matilda ne ha venticinque. Ed è confortante vedere che sono proprio «le nuove generazioni», per usare una categoria stucchevole quando le si attribuiscono compiti che gli adulti non sono stati in gradi di assolvere, a ridefinire una nuova idea di bello che è normale, naturale, imperfetto e, talvolta, faticoso da indossare. «Le nostre paure ci possono paralizzare o possono diventare una grande forza, sta a noi scegliere la strada. E praticare tanta gratitudine per tutte le cose belle che ci accadono e magari, anche per quelle brutte», ha raccontato nel suo post Matilda De Angelis, già attrice rivelazione accanto a Stefano Accorsi nel 2016 in Veloce come il vento, di Matteo Rovere, che le valse, tra gli altri, il Premio Flaiano come miglior esordiente. Da allora, il talento si è rivelato in pieno: altri sette film (ora è tra i più visti su Netflix con L'incredibile storia dell'isola delle rose), quattro serie tv, tra cui l'attesissimo (in Italia su Sky Atlantic e Now Tv da gennaio) The Undoing - Le verità non dette, accanto a Nicole Kidman e Hugh Grant, con la regista Premio Oscar Susanne Bier. «Ci sono cose che non si possono controllare e quest'anno ce l'ha insegnato bene. Ci sono cambiamenti che dobbiamo accettare nella nostra vita e, insieme ad essi, la percezione di noi stessi e del mondo che ci circonda», ha scritto Matilda, che non ignora la sua posizione di privilegio. «Ci sono problemi ben più grandi nella vita, ne sono consapevole, ma volevo condividere questa piccola verità forse per sentirmi più forte, forse per accettarmi meglio». Le risposte non si sono fatte attendere e infatti l'attrice, dopo, ha replicato con un video nelle stories in cui ringraziava «tutti»: «Mi avete dato una grande forza. Allora vado sul set, ciao». Sul set a Venezia, dove sta girando un adattamento di Di là dal fiume e tra gli alberi di Ernest Hemingway, con la regia della spagnola Paula Ortiz. Matilda ama le supereroine: Miss America, Poison Ivy, la Donna invisibile. Adesso lo è diventata un po' anche lei. 

Gloria Satta per “MoltoDonna – Il Messaggero” il 24 dicembre 2020. Matilda De Angelis chiude il 2020 con un personaggio positivo, una empowerment woman ante-litteram: Gabriella, che nel film L' incredibile storia dell' isola delle rose (su Netflix) sostiene il compagno, interpretato da Elio Germano, deciso a fondare negli anni 60 uno stato indipendente in mezzo al mare. L' attrice dai grandi occhi azzurri, soprannominata la Jennifer Lawrence italiana, si prepara ora ad aprire il 2021 con un' altra interpretazione destinata a lasciare il segno: protagonista accanto a Nicole Kidman e Hugh Grant della serie The Undoing - le verità non dette (su Sky Atlantic dall' 8 gennaio), è la torbida Elena, una dark lady ad alto tasso di erotismo che scardina le certezze di una famiglia apparentemente perfetta. Appare nuda e, nella scena più hot dei 6 episodi, bacia Kidman sulle labbra. Lanciata nel 2016 dal film Veloce come il vento, l' attrice, 25 anni, si ritrova proiettata nello star system internazionale. E non ha intenzione di fermarsi: attualmente è sul set di Across the River and Into the Trees, accanto a Liev Schreiber. Se c' è un volto capace di rappresentare l' ottimismo, la fiducia nel futuro e la carica positiva, è proprio quello di Matilda.

Felicità, per lei, è la carriera che galoppa?

«In seconda battuta, anche se avere tanto lavoro è una fortuna. Oggi la mia idea di felicità è la certezza che la pandemia ci abbia fatto riscoprire la solidarietà. Le persone hanno preso ad aiutarsi tra loro e in questo mondo tormentato ci sentiamo tutti meno soli».

Cos'altro le ha insegnato questo anno così difficile?

«Che ci sono cose impossibili da controllare, che siamo soggetti ai cambiamenti repentini, che gli affetti sono molto importanti. E che alla fine la natura ti salva sempre: ho avuto la fortuna di trascorrere il lockdown in campagna».

Voi under 30 siete pronti a rappresentare il rinnovamento?

«Tocca proprio a noi garantirlo attraverso una smart revolution, una rivoluzione intelligente che ci consenta di raccogliere il testimone dalle generazioni più anziane. Anche nel cinema, dove le serie e lo streaming ci offrono più opportunità. Ed è bellissimo poterle cogliere».

Com' è finita sul set di The Undoing - le verità non dette accanto a due superstar?

«Ho mandato alla produzione un provino registrato da me stessa, senza conoscere nessuno. Quattro giorni dopo mi hanno chiamata per dirmi che mi avevano presa. Mi sono ubriacata dalla gioia e sono partita per New York».

Nel cinema la parità di genere è sempre più vicina?

«Qualcosa si sta muovendo, per noi donne aumentano i bei ruoli. Penso a una serie come La regina degli scacchi e ai personaggi femminili di peso, sempre più numerosi».

Voi attrici continuate ad essere pagate meno dei maschi?

«Io non ho mai chiesto di vedere i contratti dei miei colleghi, ma qualcosa si muove anche in questo ambito: una produzione si è premurata infatti di informarmi che ricevevo lo stesso compenso del mio partner».

Cosa sogna per il futuro?

«Spero di continuare a crescere come attrice, ma vorrei anche sfruttare la mia popolarità per appoggiare le cause d' impegno civile. L' appello di Scarlett Johannson per la liberazione di Patrick Zaki, prigioniero in Egitto, ha fatto il giro del mondo. Se hai una voce, devi usarla».

Intanto ha fatto scalpore sui social la foto, da lei stessa postata, dei suoi brufoli.

«L'ho fatto d' impulso per convincere tanti ragazzi che la perfezione non esiste, a dispetto delle immagini levigate veicolate proprio dai social: ciascuno di noi deve essere sé stesso, imperfezioni comprese. Sono felice di aver avuto tanto riscontro. Ha fatto bene anche a me».

·        Matt Dillon.

Matt Dillon: "Cerco ruoli che mi mettano a disagio. Vorrei lavorare con Garrone e Sorrentino". Pubblicato venerdì, 24 luglio 2020 su La Repubblica.it da Lorenzo Ormando. "Ho iniziato a lavorare da giovane, perciò ho appreso molte delle cose che conosco direttamente sul set. Continuo ad imparare come uno studente e mi sento felice: del resto, quando credi di avere già in tasca tutte le risposte, vuol dire che sei morto". È un Matt Dillon in gran forma quello che incontriamo al Forte Village (Cagliari) nella cornice del Filming Italy Sardegna Festival, l'evento internazionale di Tiziana Rocca giunto alla terza edizione, di cui è presidente onorario. In un articolo del 1983, all'indomani dell'uscita del cult I ragazzi della 59ª strada, il critico Roger Ebert lo descrisse come un giovane dalla bellezza inverosimile. A 56 anni (li ha compiuti a febbraio) esibisce ancora un fascino inalterato: "Sono molto legato all'Italia: non parlo bene la lingua come un tempo, ma considero il vostro Paese una specie di seconda casa, un luogo dove mi sento sempre accolto. Inoltre ho una relazione con una vostra connazionale (l'attrice Roberta Mastromichele, nda), mi reputo un uomo fortunato" specifica con un sorriso l'attore americano di origini irlandesi. Mette a confronto il Belpaese con gli Stati Uniti rispetto alla gestione della pandemia: "La leadership attuale negli Usa è terribile, ma ci sono governatori locali che hanno svolto un buon lavoro, come Andrew Cuomo a New York. Un po' come ha fatto anche il vostro presidente del Consiglio". Scoperto da un talent scout mentre, a 14 anni, gironzolava nei corridoi della scuola durante l'ora di lezione, ha avuto da sempre un istinto per la recitazione: da adolescente, pur provenendo da una famiglia middle class e abitando in una splendida cittadina di New York, giocava ad apparire come un ragazzo di strada sempre sul punto di fare le scelte sbagliate. Considerato "il James Dean degli anni '80", avrebbe potuto costruirsi una carriera puntando tutto su quella faccia da rubacuori meditabondo e ribelle. E invece no: nel corso degli ultimi 40 anni ha preferito cucirsi addosso personaggi scomodi, quelli di uomini complicati e talvolta poco amabili come il poliziotto corrotto e razzista di Crash - Contatto fisico (che gli è valso una nomination all'Oscar), lo scrittore alcolizzato di Factotum e il killer del controverso La casa di Jack, diretto da Lars Von Trier. A lui, dei complimenti e della fama, non è mai importato granché. "Per me conta soprattutto il processo creativo, mi piace lasciarmi sorprendere. Se poi qualcuno ha una visione del mondo diversa dalla mia, voglio lavorarci insieme e capire il suo punto di vista. Non è sempre stato facile e a volte ho avuto paura" riflette, soppesando le parole. "Tuttavia torno sempre a quel sentimento, voglio fare cose che mi facciano sentire un po' a disagio. È necessario, però, che ci sia fiducia assoluta con le persone con cui collaboro". Poco propenso a discutere del proprio passato, guarda ai prossimi progetti con entusiasmo: oltre a far parte del cast del prossimo film dell'iraniana Shirin Neshat, lo rivedremo nella pellicola Proxima, ambientata nello spazio ("Ho un ruolo di supporto, quello di un astronauta che dà filo da torcere a Eva Green"), e poi in Capone, sugli ultimi anni di vita del gangster italo-americano, che avrà il volto di Tom Hardy. "Un copione interessante, che ha il sapore di un sogno bizzarro e non glorifica in alcun modo il criminale. Vesto i panni del suo miglior amico: sono la sua coscienza, una specie di fantasma che lo tormenta". Il progetto del cuore, però, è El Gran Fellove, documentario a cui lavora da oltre due decenni. Si tratta della sua seconda regia dopo City of Ghosts e verrà presentato in anteprima mondiale al Festival di San Sebastian. "Sono un grande appassionato di musica" spiega Dillon, che colleziona vinili di musica latinoamericana dagli anni '20 ai '50. "Il documentario racconta la storia del musicista Francisco Fellove, un grande artista che ha lasciato dietro di sé una grande eredità. È stato un privilegio avere la possibilità di conoscerlo e trascorrere del tempo con lui". Gli piacerebbe collaborare con qualche filmmaker italiano? Annuisce: "Sono un grande fan di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, ho amato moltissimo il suo Dogman. Chissà, magari un giorno succederà ".

·        Matthew McConaughey.

Da "blitzquotidiano.it" il 30 ottobre 2020. “Era quello che voleva”, dice Matthew McConaughey parlando della morte del padre, avvenuta nel 1992. Nel suo ultimo libro l’attore racconta questo aneddoto sulla scomparsa del genitore. “Ho ricevuto una chiamata da mia madre. ‘Tuo padre è morto’. Le mie ginocchia cedettero. Non ci potevo credere. Era mio padre. Nessuno o niente poteva ucciderlo. Fatta eccezione per la mamma. Aveva sempre detto a me e ai miei fratelli: “Ragazzi, quando me ne andrò, farò l’amore con vostra madre”. Ed è quello che è successo. Ha avuto un attacco di cuore quando ha raggiunto l’orgasmo”, scrive Matthew McConaughey a proposito della morte del padre. L’attore è uno dei tre figli di McConaughey sr. e Mary Kathleen “Kay” McCabe, l’unico biologico: i suoi fratelli infatti Michael e Patrick sono stati adottati. Il padre di Matthew era un ex giocatore di football americano dei Green Bay Packers, che aveva aperto un distributore di benzina e poi una compagnia nel settore petrolifero.

Un matrimonio piuttosto turbolento. I genitori di Matthew McConaughey divorziarono ben due volte e si sposarono tre volte in tutto. Di recente l’attore ha spinto la madre a cercare un nuovo amore. Pare che le abbia presentato il padre dell’attore Hugh Grant, suo compagno di set in “The Gentlemen”. “Suo padre ha 91 anni, mia madre 88. Sì, perché no? La prossima settimana dovrebbero incontrarsi e probabilmente non li vedremo per il resto della notte”, aveva raccontato nel gennaio 2020, in un’intervista a Entertainment Tonight.

·        Maurizia Paradiso.

Michele Andreucci per “Il Giorno” il 9 febbraio 2020. Maurizia Paradiso, 66 anni, celebre icona trasgressiva degli anni Novanta, ex attrice di film a luci rosse, è stata condannata a 3 anni e 10 mesi per lesioni aggravate nei confronti dell’ex socio in un locale di Canonica d’Adda, Ferdinando Cremascoli, che il 21 giugno del 2012, al culmine di un litigio, era stato aggredito e malmenato dalla donna ed aveva rischiato di perdere un occhio. La sentenza è stata pronunciata dal giudice monocratico del tribunale di Bergamo, Stefano Storto, che ha anche condannato a 3 anni e 6 mesi Marica Dante, la donna che il giorno dell’aggressione si trovava con la Paradiso e le aveva dato una mano a malmenare il socio. Quest’ultimo era stato ricoverato agli allora Ospedali Riuniti di Bergamo con un bulbo oculare spaccato per i colpi ricevuti al viso e aveva rischiato di perdere l’occhio: era stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico, durato tre ore, che gli aveva salvato la vista. Secondo quanto ricostruito dall’accusa, tra Maurizia Paradiso e l’ex socio del locale “Maurizia’s club” di Canonica d’Adda (era presidente dell’associazione intestataria), in quel periodo c’erano state delle divergenze. I due avevano quindi organizzato un incontro in un bar di Canonica per concordare l’uscita dalla gestione da parte della Paradiso, che era vicepresidente del club. Ben presto, però, i toni si erano alzati. Ne era nato un acceso diverbio, al termine del quale, stando al racconto di Cremascoli ritenuto veritiero dal giudice del tribunale di Bergamo, la Paradiso e la persona che era con lei lo avevano aggredito, colpendolo ripetutamente e con violenza al viso. Dopo il pestaggio, le due si erano scusate con i titolari del bar per il trambusto e se ne erano andate. Cremascoli, attraverso il suo avvocato, aveva querelato la Paradiso e la complice, che, al termine delle indagini, erano state rinviate a giudizio. Le due donne sono state anche condannate al pagamento di una provvisionale di 20mila euro a favore di Ferdinando Cremascoli, che era parte civile al dibattimento. Oggi Maurizia Paradiso è scomparsa dagli schermi televisivi, ma all’inizio degli anni Novanta, dopo un’infanzia difficile, era considerata una vera e propria icona: performer, soubrette, personaggio e conduttrice televisiva, cantante fino ad arrivare ad attrice di film a luci rosse. Grazie alla sua determinazione, è arrivata al mondo dello spettacolo, conducendo programmi televisivi come “Vizi privati” e “Colpo grosso”, succedendo a Umberto Smaila. Tra i suoi film, ricordiamo “Romance” e “Il segreto di Maurizia”. Scatenata, trasgressiva, la Paradiso fa parlare di sé anche quando, poco prima delle elezioni del 2008, spara a zero sulla Lega Nord, partito dal quale ha deciso di allontanarsi, dopo aver capito di non essere gradita. Nel 2015 ha saputo di avere la leucemia ed è andata coraggiosamente in televisione, senza capelli, a raccontare la sua battaglia, invitando le persone affette da questa malattia a non mollare, a lottare sempre. Un anno fa ha rilasciato un’intervista a un noto settimanale, raccontando il suo declino e lamentandosi per il fatto di essere stata lasciata da sola da tutti e di essere stata sfrattata dalla tv, che l’aveva dimenticata. Parole amare, pronunciate da una donna che per anni la televisione l’ha vissuta da protagonista.

·        Maurizio Battista.

Dagospia il 30 maggio 2020. Comunicato stampa: "Le parole del comico Maurizio Battista, protagonista di un programma in onda su Rai2, contro la stampa e in particolare contro il quotidiano 'Leggo' e il giornalista Marco Castoro sono assolutamente irricevibili e inaccettabili. E’ doveroso che il direttore di Rai2 Ludovico Di Meo prenda immediatamente le distanze e mi auguro che anche l'Ordine dei giornalisti si faccia sentire". Lo scrive su facebook il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai. "Rispondere ad una libera critica della stampa - prosegue Anzaldi - con un video minaccioso e insultante non è accettabile in alcun caso, a maggior ragione per chi risponde di un programma del servizio pubblico. 'Leggo', come ogni altra testata, deve essere libero di poter parlare di flop, alla luce dei dati di ascolto, senza che questo le provochi addirittura minacce di tipo pubblicitario. Da Battista, la cui professionalità artistica nessuno mette in discussione, una brutta caduta di stile, la Rai intervenga".

Davide Desario per leggo.it il 30 maggio 2020. I pessimi risultati d'ascolto fanno perdere le staffe a Maurizio Battista. Di cosa stiamo parlando? Allora qualcuno lo conosce ma per tutti gli altri spieghiamo che Maurizio Battista è un attore, comico e cabarettista romano. Non proprio giovanissimo, a giugno compirà 63 anni. E in tutti questi anni ha fatto tanto gavetta e si è fatto apprezzare per monologhi divertenti sulla quotidianità, sketch a tratti irresistibili, battute diventate anche famose. Quest'anno è approdato in prima serata su Rai2 con un suo spettacolo sugli anni Ottanta. Ma le cose non sono andate benissimo. All'esordio il 14 maggio ha fatto registrare appena il 3,6% di share, la settimana successiva è andata leggermente peggio 3,5%. Il 27 maggio ancora più giù: 3,1% di share. Peggio di tutti i canali generalisti: con lui Rai2 è arrivata ultima dopo Canale5, Rai1, Rai3, Rete4, Italia1 e La7. Così Leggo, che come tutti i giorni alle 11 pubblica l'analisi degli ascolti tv, ha registrato il "mancato successo". Il collega Marco Castoro nel suo pezzo ha osato scrivere "flop". Ma come lo volete definire un programma su Rai2 che ha fatto peggio di tutti? Eppure Maurizio Battista invece di riflettere sulla sua performance, invece di fare autocritica cercando di capire come mai il pubblico questa volta non lo abbia seguito, ha pensato bene giovedì sera di aprire il suo profilo Facebook e fare una diretta contro il giornalista Marco Castoro e contro Leggo (che ne ha pubblicato il pezzo). Ma non solo, come un bambino che sta perdendo a calcio e prende il pallone e se ne va a casa interrompendo il divertimento di tutti gli altri, ha annunciato ai sui fan (davvero affettuosi) che li avrebbe abbandonati e non si sarebbe più fatto vivo sui social. Ma cosa ha detto in questi 11 minuti di diretta a ruota libera? Battista se la prende con Castoro perché, secondo lui, non avrebbe il "titolo" di criticare il suo programma. Che le critiche, secondo Battista, non devono arrivare da giornalisti esperti che da anni vedono e scrivono di un tema, ma eventualmente solo da altri artisti. Quindi lui potrebbe essere criticato solo Enrico Brignano, Enzo Salvi, Gigi Proietti (gli piacerebbe...). Un po' come se gli articoli sulle gesta di Cristiano Ronaldo o Immobile potessero scriverli solo Buffon e Messi. Peccato che Battista non conosca la differenza tra la recensione di un programma e un articolo di analisi dell'audience. Castoro non ha fatto la critica dello show del comico, ma ha soltanto analizzato i dati. E i suoi  dati, anche se Battista arriva addirittura a mettere in dubbio la valenza dell'Auditel, sono un flop senza se e senza ma. Ma il flop vero il cabarettista romano lo fa scadendo in una serie di affermazioni di bassissimo livello: "Castoro scrive per alcuni giornali, non certo sul New York Times o il Corriere della Sera" di fatto screditando tutti i giornali e giornalisti che scrivono per altre testate, come se un cittadino di periferia non potesse dire la sua perché non vive in centro. "Io so un'eccellenza -  si dice da solo Battista - mentre Castoro è un freelance". Ma perché il valore di un giornalista lo fa il contratto? Ma soprattutto il problema di Battista non è il giornale ma qualsiasi critica visto che se l'è presa anche con il critico Davide Maggio e in passato ha già aggredito verbalmente proprio il critico teatrale del Corriere della Sera Franco Cordelli. Il flop più grande di tutti è quando minaccia Leggo: "Siamo grandi inserzionisti di Leggo - dice -, la prossima volta quando dovremmo fare pubblicità lo terremo molto presente. Magari su Leggo non faremo pubblicità". Ma davvero Battista crede che siccome lui o chi per lui acquista degli spazi pubblicitari su un giornale quel giornale deve per forza scriverne bene? Ma dove vive? Ma con chi pensa di avere a che fare? Sarebbe bello se almeno Rai2, il suo direttore Ludovico Di Meo in primis, prendesse le distanze da certi personaggi e dalle loro affermazioni che offendono l'intera categoria di chi fa informazione Rai compresa. Comunque la cosa che rincuora è che oltre al flop in tv Battista e i suoi modi hanno fatto flop anche su Facebook: degli oltre suoi 200mila follower appena 13mila (dato di sabato sera)  hanno seguito la sua diretta e udite udite solo 14 l'hanno condivisa. In compenso in tanti hanno lasciato commenti negativi.

Come  Antonella: "ma per voi è normale che un artista replichi contro le critiche negative? reagendo come un bambino di 5 anni dicendo a voi che lo seguite che non farà più video perché il suo programma non ha avuto il successo che si aspettava? ma quale artista fa queste scenate? un artista accetta anche le critiche negative non solo le lusinghe".  Rudolf Foggia domanda: "Ma perché deve piacere per forza...sei un po permaloso".

E  Andrea Maselli: risponde: "Permaloso? Fosse per lui sopprimerebbe il diritto di critica. Addirittura arriva a minacciare di non fare pubblicità su Leggo per fare pressione sul giornalista. Robe che neanche Trump". E aggiunge: "Stacce Maurì, hai fatto flop, stavolta ti hanno guardato in quattro gatti. Andrà meglio la prossima volta. Ma se non cambi carattere, se non ci metti un pizzico di umiltà, se non ritrovi un pelo di sportività, se non ritrovi il rispetto degli altri non vai lontano. E mi dispiace anche dovertelo dire, perché ci dovresti arrivare da solo".

Nunzia Maddaloni  prova a spiegargli: "Da che mondo è mondo, il giornalismo ha sempre fatto il suo mestiere. Grandi artisti (Totò, Sordi, Vasco) sono sempre stati criticati anche pesantemente e sono comunque andati avanti per la loro strada e sono stati amatissimi dal pubblico. Fa parte del gioco. Capisco l'impegno, la passione e l'intento del programma, ma il gradimento è un parametro che è stato eliminato (purtroppo!) da tempo dalla tv. Flop può sembrare offensivo ma si riferisce solo al numero di persone non alla qualità del programma che sicuramente non era spazzatura. Ci vuole più serenità nella vita.."

Ecco non resta che augurarsi due cose: che Marco Castoro continui sempre così a fare il suo lavoro con professionalità e che Maurizio Battista ritrovi un po' di serenità. Buona fortuna.

Davide Desario per leggo.it il 31 maggio 2020. Maurizio Battista, dopo le offese e la brutta figura dei giorni scorsi, si scusa. E lo fa con lo stesso mezzo con cui aveva aggredito il giornalista Marco Castoro e Leggo che ne aveva pubblicato l'analisi degli ascolti tv definendo lo show di Battista un "flop" (in prima serata su Rai2 arrivato ultimo tra tutti i canali generalisti). Domenica mattina ha fatto una nuova diretta facebook sul suo profilo e con voce a tratti tremante (e fa effetto per un omone di 63 anni) si cosparge il capo di cenere per non aver saputo trattenere la rabbia per il "flop" della sua trasmissione sfogata contro Marco Castoro e Leggo che hanno solo registrato il pessimo risultato. Scuse che non sembrano proprio sentite tant'è che in un'intervista a Franco Bagnasco per Tpi Battista sostiene di aver cancellato i video offensivi solo perché costretto, il che fa pensare che anche le scuse siano state "ordinate" al cabarettista romano. Chiede più volte scusa a Marco Castoro, ma non una parola nei confronti della testata Leggo, nonostante abbia provato a fare pressione minacciando di non far più pubblicità. Non una parola nei confronti dei tanti bravissimi giornalisti italiani offesi perché sono "freelance". Ma alla fine, stiamo parlando Maurizio Battista. Poco importa. Per certi personaggi, con certa cultura ed educazione, è molto più difficile chiedere scusa che fare il bullo davanti allo schermo di un telefonino. Quindi va apprezzato il gesto, il tentativo. Scuse accolte e capitolo chiuso. Sperando che questa brutta parentesi possa essere una lezione un po' per tutti coloro che, accecati da un po' di notorietà e quattro euro in tasca, dimenticano il rispetto del prossimo: che sia un direttore o un freelance, che scriva per il New York Times o per il più sconosciuto giornale di quartiere.

Franco Bagnasco per tpi.it il 31 maggio 2020. Peccato li abbia frettolosamente cancellati, poche ore fa, dalla sua pagina Facebook, altrimenti vi avrei consigliato di dare un’occhiata a un paio di video postati da Maurizio Battista. Due dirette da più di 11 e 16 minuti (la prima in onda ieri e la seconda stamane) esemplari di come un personaggio di spettacolo non dovrebbe mai reagire alle critiche o alle note di stampa. Un disastro. Un concentrato di errori di comunicazione (di forma e sostanza) che andrebbe studiato nelle Università. Chi è Maurizio Battista? direte voi. Battista è un cabarettista romano in attività dal 1978. Di recente Rai2 gli ha affidato tre prime serate: uno show minimale ma insolitamente elegante per i suoi standard ruspanti intitolato Poco di tanto. Giocando sul filo della nostalgia di tre decenni (Anni 60-70-80), il nostro si è calato all’interno di un appartamento ogni volta riplasmato e riarredato ad hoc con oggetti delle diverse epoche prendendoli a prestito per una narrazione affettuoso/consolatoria stile Piero Angela della memoria. Col contributo delle Teche Rai e di pochi ospiti. Pur contando su un ottimo trovarobato e un disegno delle luci curatissimo, lo spettacolo si ammosciava sui testi, banalotti eppure pretenziosi, innestati su una lunghezza snervante. E sull’equivoco di un Battista che per statuto e indole ti aspetti faccia altro. Mi spiego meglio: se prendi Tomas Milian e gli fai fare il compìto cameriere al Ballo della rosa a Montecarlo, forse è inadatto al ruolo. Forse la gente si spiazza e cambia canale. Ed è esattamente ciò che è successo: 3,6% di share la prima puntata; 3,5% la seconda, per finire al 3,1%. Insomma, un “flop” conclamato per la rete. Il problema è che alcuni giornalisti (come l’esperto di tv Davide Maggio e Marco Castoro di Leggo) l’hanno scritto. E lì apriti cielo. Battista ha aperto la vena sulla sua pagina Facebook, che vanta ben 236mila iscritti, dando voce a un attacco rancoroso che ha pochi precedenti. A parte Maggio, chiamato costantemente “Di Maggio” e l’evocazione generica di “pseudo giornalisti”, gli strali sono soprattutto per Castoro. Uno che “Non scrive né per il New York Times né per il Corriere della sera”. Gente che “Non si sa poi se ha il titolo per criticare”.

E ancora: “Ringrazio Leggo di cui sono grande inserzionista su tutta la catena, per cui la prossima volta che dovremo fare pubblicità lo terremo molto presente”.

E ancora: “Io sono un professionista, un’eccellenza, non sicuramente come Marco Castoro, che è un free lance”; “Io sono un leone, tu sei un cane”. Mettendo poi velatamente in dubbio i dati d’ascolto: “Ma sei sicuro che i numeri sono questi? Sei sicuro che i numeri sono reali?”. Con riflessioni sulla gratificazione professionale: “Ho sbagliato? Chi ha sbagliato? Ce stavi te su Rai2? Io ce stavo”. E chiudendo con la ponderosa riflessione che uno come lui potrebbe essere giudicato “Soltanto da Brignano e Proietti”.

Il primo a rispondere è Davide Maggio: “Scopro da voi dell’esistenza di questi video di De Battisti. Se in tv non lo guarda nessuno, figurarsi sui social. La cosa tuttavia non mi stupisce: se dovessimo tenere in considerazione il parere di chi va in video, ci troveremmo a discettare soltanto di successi straordinari, anche in presenza di programmi che non vedono nemmeno i parenti stretti del conduttore. Roba da ridere. Anzi, nel caso del comico di cui parlate, nemmeno quella. Credo non faccia ridere nessuno. Però devo essere onesto, ha ragione: il 3% non è un flop, ma un superflop. E se è vero, come dice, che gli artisti devono essere giudicati solo dagli artisti, credo proprio che possa essere giudicato da chiunque”.

Davide Desario, direttore di Leggo, ribatte invece punto su punto: “Battista non ha letteralmente capito la differenza tra un’analisi dei dati Auditel e un articolo che recensisce il suo spettacolo. Che non è stato recensito. Sono stati invece giudicati i risultati d’ascolto. Dopodiché, è veramente di pessimo gusto fare la classifica dei giornali parlando di New York Times e cose del genere; cosa di uno snobismo più unico che raro e tutt’altro che democratica. Poi attaccare una persona che viene giudicata free lance, quando il valore di un giornalista non è certo dato dal contratto che ha e neppure dal giornale su cui scrive. E infine, cosa peggiore, è credere che facendo pubblicità su un giornale, quel giornale ne debba per forza parlare bene. Non so in che mondo viva e abbia vissuto sino a oggi Maurizio Battista. Il dispiacere è che gli sia stato dato tanto credito, al punto da portarlo in prima serata su Raidue, quando ci sono fior fior di comici e autori che probabilmente valorizzerebbero quegli spazi molto meglio”.

Maurizio Battista, perché questa querelle?

“Prima ho visto quella cosa di Di Maggio, poi Castoro che ha tirato in ballo il ‘flop’, e me so’ offeso. Ho 63 anni, con quelli della Ballandi avevamo messo assieme un programmino particolare, ricercato, per rete e target. Una cosa fatta col cuore, in un momento molto difficile. Era come un figlio per me”.

Ma se è stato un flop, lei come l’avrebbe chiamato?

“Non è andato bene, è vero. Si possono fare tante riflessioni: era per gente sopra i 45 anni. Ma non è per me, figùrate. È che ci hanno lavorato dietro 80-100 persone, delle eccellenze. Ci sono rimasto male. Ci voleva un po’ più di sensibilità da parte sua, doveva metterci magari quelle quattro-cinque parole in più pe’ spiegà anche che ci sono stati altri (nun me faccia fa’ nomi) che hanno fatto quell’ascolto. Forse non funziona quel prodotto. Po’ èsse. Con Castoro ce conosciamo da tanto, è stato pure a casa mia”.

Aveva un rapporto d’amicizia col giornalista?

“Capirai, casa mia è ‘na stazione dàa metro… Una volta è venuto qui a vedè Sanremo tutta la sera. Ma famme ‘na telefonata e dimme le peggio cose. Ce sta. Messa così per me è stata ‘na stretta ar còre. Era ‘n figlietto, ‘sto programma, fatto co’ tanta fatica da tante famije, me vedo solo ‘flop’, ‘non buca il video’… È ingiusto. Dì che la conduzione era debole. Ho le spalle grosse”.

Se un artista conosce un giornalista non può più essere obiettivo?

“Mannò, è che ho reagito d’istinto e ho fatto quei video, sono uno de còre. Se s’è offeso mi scuso, ma in fondo nun è morto nessuno, dai. Voi giornalisti dite la vostra, io dico la mia”.

Ma lei ha fatto offese personali: “Io sono un leone, tu sei un cane”.

“È’ la citazione di una storia che lei non so se conosce. Comunque l’ho detto in un momento di rabbia e delusione. Ho il mio carattere nel bene e nel male”.

Qual è la storia del leone e del cane?

“Ma io quando m’aràbbio dico qualsiasi cosa… No è che il leone è morto. Me sento un leone ma morto, il cane lo morde, ma il leone rimane leone e il cane rimane cane. Lui domani rimane giornalista, io quello che ha fatto ‘na cosa che nun è andata bbbène. La vita è questa. Ci sono problemi più gravi”.

Senta, ma questa minaccia di non fare più pubblicità su Leggo?

“Ma non so se è una minaccia… Avessero messo un minimo di parole in più, un aggettivo. Lei che cosa vuole che le dica, mi perdoni? Lei mi fa queste domande, io le sto dando spazio del mio tempo, lei che cosa vuole sentirsi dire? È stato un giorno storto, tutto lì”.

Non voglio sentirmi dire niente, mi creda. Le chiedo conto di quello che ha detto dopo aver ascoltato i suoi video. Ma si riferisce alla pubblicità dei suoi spettacoli?

“Sì, la facciamo su tutti i giornali, non solo su Leggo, al quale siamo molto legati. Io poi ‘sto da solo, quindi non c’è un plurale”.

Quei due video però lei oggi li ha cancellati.

“Me li hanno fatti cancellà, io li avrei lasciati benissimo. Vabbé, leva tutto. Questo è quanto: uno può èsse un po’ più delicato, nel caso il giornalista. L’altro può èsse un po’ più delicato, nel caso il comico. Non facciamone una questione di vita o di morte. Se s’è offeso, chiedo scusa e quando lo vedo lo farò personalmente. La prossima volta magari metterà un aggettivo in più”.

Perché due video così li rifarebbe?

“Mannò, oggi non li rifarei. Ma io dico: famme ‘na telefonata, mannaggia la p… e dìmme quello che te pare. Sono la persona più disponibile del mondo, magari hai pure raggiòne. Ho un brutto difetto: faccio le cose col cuore ed è un difetto. Diventi anche irrazionale, a volte”.

Ma non si deve reagire così.

“Eeehhh, so’ tante le cose che non bignerebbe fa’. Anche un programma in prima serata non bisognerebbe fa’. Io faccio altro, in genere. Campo d’altro. Si sbaglia, si esagera e si chiede scusa. Non è che ho ammazzato nessuno, mi perdoni. Le sto parlando per educazione. Pur avendo deciso di non parlare più di ‘sta cosa, le sto dedicando del tempo”.

Lei ha detto anche: “Mi dovrebbe giudicare soltanto Proietti”.

“Questo è un discorso più ampio. Un giorno ci prendiamo un caffè, e glielo faccio. Così lei finisce di registrare questa telefonata e io le dico le cose come le vedo io, dalla mia età e posizione”.

Facciamolo ora, non c’è problema per me.

“Secondo me uno che scrive dovrebbe aver calcato il palcoscenico, per capire meglio. Quando si parla di certe cose bisognerebbe sapere che cosa si prova quando si sta su un palco. Momenti particolari. Forse voi ne avete visti tanti, e parlate. Ci sta. Però…”.

Solo un giornalista ex attore la può giudicare.

“Nooo, è che ci sono sensazioni, momenti, quel giorno magari ti è capitata ‘na cosa, sei stato male. Chi scrive non lo sa”.

Anche Anzaldi, della commissione di vigilanza della Rai, l’ha aspramente criticata.

“E vabbé, ma quello fa er mestière suo. Va bène, va bène…”.

Non è che le hanno dato la bella occasione di uno spettacolo in prima serata su Rai2, s’era montato un po’ la testa, le è andato male, e lei ha fatto ‘sta sbroccata?

“Non mi conosci. Ti sto dando del mio tempo, ma non mi conosci. L’unica cosa che non ho io è il montarmi la testa. È una delusione, fa male, se capisci il significato. Ero già ferito, ha buttato benzina sul fuoco, sale sulla ferita, porca p… maledetta. Ma rispetto il lavoro degli altri. È che questa era ‘na cosa delicata, di sentimento, parlavo di nostalgie, non una caciarata di quelle che faccio di solito. Ma dovrebbero istituire anche l’indice di gradimento. Io su ‘ste cose m’arrovello”.

La stampa lei dovrebbe conoscerla bene perché ha fatto anche l’edicolante.

“Chi, io? No, il barista. Se fossi stato edicolante avrei avuto più dimestichezza coi giornali. Deve capì la mia buona fede, proprio perché me so’ arabbiàto”.

Posso capirla, ma la sua è stata una reazione molto violenta e inaccettabile.

“Perché quando ho letto ho pensato: porca misèria, so’ rimasto er barista de prima. I cornetti nun so’ bòni e me rode er c…”.

Quindi ripetiamo insieme, per accettarlo: il programma è andato male, ed è stato un flop.

(Ride) “Sì, andato male ed è stato un flop. Del resto ne ho sbajate tante, anche i matrimoni, quindi…”.

Selvaggia Lucarelli su Facebook il 9 giugno 2020: Vi ricorderete l'edificante storiella di giorni fa: il (comico...) Maurizio Battista fa un programma noiosissimo in prima serata e realizza il 3% di share. Un giornalista riporta lo share dicendo che non buca il video e lui realizza due video da 15 minuti insultandolo (gli dà anche del cane) e minacciando il sito Leggo di non spendere più in pubblicità da loro. Un lord. La cosa non mi stupisce, a me tempo fa scrisse pubblicamente che campavo scrivendo cazzate, senza che mai lo avessi citato. Comunque, difendo il collega giornalista dicendo che Battista è un poveretto che non fa ridere. (notare che in un reality un suo momento di gloria fu quando diede del poveraccio a un altro concorrente). Il soggetto, che a quanto pare si crede legittimato a insultare ma non accetta l'idea che qualcuno trovi scarsa la sua comicità, prima scrive un post su di me dicendo che lui almeno non è querelabile (io sì quindi, ovvio), che un conto è il diritto di critica, un conto è blablabla e poi oggi pubblica la foto della querela affermando che ha spostato la sede della discussione. Urca. Ora, a parte che immaginate la fatica di chiamare un avvocato, pagarlo, andare in questura e denunciare qualcuno per "poveretto che non fa ridere". Immaginate che le nostre tasse se ne vadano per pagare la gestione di pratiche del genere che ovviamente (di norma, grazie a Dio) finiscono cestinate ma intanto occupano personale che lavora nel pubblico, intasano cancellerie, questure, procure e così via. Ma soprattutto, io credo che Maurizio Battista abbia un grave problema nella gestione della rabbia, specie quando qualcuno gli dice che non fa ridere, pensiero che condividiamo in molti e suppongo senza dovergli chiedere il permesso. E che forse questo problema di gestione della rabbia dovrebbe risolverselo perchè poi sfocia in esternazioni imbarazzanti come quella contro Leggo, come le querele pretestuose, come questo altro caso che vi racconto: giorni fa mi scrive un ragazzo: " Tre mesi fa ho scritto sulla pagina di Battista "Facce ride, monologo noioso". Lui mi ha dedicato 15 minuti di video insultandomi e mandandomi i suoi follower sulla mia pagina". Ecco il video. Se non avete voglia di vedere questa spataffiata di sgrammaticato e livoroso monologo, ecco i passaggi fondamentali: "Hai fatto una figura demmerda coglione, cretino, Marco Luci levaje l'amicizia, battute demmerda, verognate te e la tua famiglia che c'ha così uno a casa , con me nun ridi, ridi quando decido io. Nessuno può fa 'ste cose qui, li conosco quelli come te. Sto qui pe' fa ride quer cojone de Sensi. Non c'hai manco il coraggio de mette le foto. Vattene affanculo, ma nun te preoccupà che il mondo gira, ti abbiamo confezionato una bella figura demmerda. Se pensi che sto a qui a fa ride un cojone come te hai sbagliato posto, radical chic demmerda. Andate a vedere la pagina di questo signore. Non vive manco in Italia, sta qui abusivamente, tua madre, tua sorella tu moje farà ride. T'ha detto male Sensi, guardate questo ndo abita, è un abusivo". Ecco. Battista, se tutti cominciamo a querelare te, mi sa che non ti resta neppure il tempo per i tuoi monologhi. Il che non sarebbe neppure un male, forse.

·        Maurizio Costanzo.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2020. Di quella storia è stato un indiscusso artefice e protagonista. Ora ne è diventato anche narratore. Maurizio Costanzo domani tornerà in tv con il programma Rai, storie di un' italiana (RaiDue, ore 14.50): terza puntata di otto appuntamenti, condotti insieme a Umberto Broccoli, che consentono un viaggio nel passato del piccolo schermo, tra personaggi, aneddoti, chicche poco conosciute e pagine memorabili.

Costanzo, il programma è più un omaggio nostalgico o un esempio su come fare buona tv?

«È un modo di dimostrare quanto la tv, negli anni in cui c' era solo la Rai, sia stata una buona compagna di strada e sia servita per imparare. Prima della tv un veneto e un calabrese non si sarebbero capiti. La tv ha dato loro la lingua».

La televisione italiana, nata nel 1954, è da poco diventata un' over 65. È in buona salute o un po' malandata?

«È in salute, ma ormai la vedono solo gli sfonda-divani, le tante coppie in pensione, dai 50 anni in su. In particolare sono donne, over 65 e laureate. Non è vero che i giovani guardano la tv... non la vedono manco morti! E chi dice di fare una tv per giovani o è un mentecatto o è un mentitore».

Nel programma lei celebra tanti giganti: Bongiorno, Gassman, Tognazzi, Vianello. Chi di loro era l' animale televisivo per eccellenza?

«Credo che i giganti tra i giganti fossero i registi di quegli anni. Penso ad Antonello Falqui o Enzo Trapani, ma anche a Eros Smacchi e Vito Molinari. Il successo del varietà si deve a Falqui: ebbe l' intuizione di attingere al cabaret per fare la tv. Oggi che non ci sono più cabaret, un ragazzo che voglia fare intrattenimento dove va? L' ultimo grandissimo intrattenitore è Fiorello, che debuttò con me a Buona Domenica».

Si può dire che senza Costanzo la tv italiana sarebbe stata peggiore?

«Be', se la tv che fai viene vista da molti tuoi connazionali, escludo che siano un branco di imbecilli. Ho sempre detestato l' atteggiamento snob di chi non guarda la tv, disprezzandola. D' altronde, gli stessi intellettuali che la snobbavano poi mi pregavano di poter comparire nei miei programmi».

Lei ha inventato il talk show con Bontà loro. I talk di oggi le piacciono, la annoiano o le fanno tristezza?

«Li guardo. Mi piacciono Del Debbio, Giordano e Floris. Giordano è innovativo nella costruzione, anche se grida troppo. Una molto brava è Lilli Gruber e mi piaceva molto anche il Massimo Giannini conduttore. In generale penso che nei talk show si debba evitare la rissa. Se nasce nasce, ma bisognerebbe vietare di aizzarla».

Durante la quarantena in tv si è esagerato con la comunicazione sul Covid?

«Sì, un po' di allarmismo si è creato. Ma il peggio è la quantità di virologi, stanno ovunque e spesso neppure le imbroccano. Faccio un appello: che si dia un quiz a Burioni...».

E che ne pensa di Conte come personaggio tv?

«È un po' lento, ma non è facile andare in tv a parlare di 200 pagine di decreto. Credo che chiunque topperebbe».

Lei dice: la Rai è la madre e Mediaset l' amante. Ha mai pensato di concedersi a una compagna occasionale come La7 o altre piattaforme?

«No, ho già abbastanza da fare con madre e amante. Se mi concedessi una compagna, sarei un maniaco. Piuttosto, dal 5 al 26 luglio, sempre con mamma Rai, su RaiTre, mi cimento insieme a Pino Strabioli nel programma Insonnia, in onda a mezzanotte, per accompagnare gli spettatori della notte».

A proposito di donne, ad agosto festeggia 25 anni di matrimonio con Maria De Filippi. Qual è la prima cosa che ha amato di lei?

«L' intelligenza, l' attenzione e la capacità di avvicinarsi a un mondo sconosciuto con grande curiosità. Maria è una persona che pensa, e non è poco».

·        Maurizio Ferrini.

Giovanni Terzi per “Libero Quotidiano” il 7 settembre 2020. «La signora Coriandoli oggi ha trovato lavoro! Si occupa della promozione della di Riccione Piadina un prodotto buonissimo che finalmente si addice alla personalità eclettica ed esuberante, ma anche cinica, della signora Romagnola». Così esordisce Maurizio Ferrini, attore, artista e maschera di quel teatro popolare che ha le sue radici profonde nella società italiana. Saper interpretare la realtà e trasformarla in chiave comica. Fare ridere il pubblico non è cosa da tutti ma Maurizio Ferrini ha questa capacità; iniziò dapprima con Renzo Arbore nel programma Quelli della notte dove interpreta il personaggio di un rappresentante di pedalò della ditta «la Cesenautica» poi l' esplosione della maschera della signora Emma Coriandoli, casalinga romagnola, che rappresenta quella parte popolare della nostra società, forse la più autentica e sicuramente quella capace di dire pane al pane e vino al vino.

La signora Coriandoli per Ferrini quello che è stata Dorothy Michaels nel film Tootsie interpretata da Dustin Hoffman.

«Sa, la signora Coriandoli non ha peli sulla lingua e poi dopo che è morto suo marito si trattiene ancora meno».

Ma quando è morto il marito della signora Emma Coriandoli?

«Guardi - racconta Ferrini con accento romagnolo - è accaduto anni fa e si mormora in giro che sia stata lei ad ucciderlo, ma io non ci credo!».

Ma come? Cosa è successo?

«È accaduto dopo una mangiata dove la Emma Coriandoli ha cucinato per suo marito del coniglio con le cozze e una frittura mare e monti. Dopo ho preferito non entrare nei dettagli; però mi ha detto che era molto rigido quando è mancato».

Racconta come fossimo a teatro Maurizio Ferrini; trasferire l' umorismo fatto di dialetto, pause della voce e recitazione in una intervista non è cosa semplice. Ferrini è un fiume in piena e usando la metàfigura di Emma Coriandoli tra immaginario, creatività e vita reale, riesce a raccontare uno spaccato della realtà vero e non politically-correct.

Ma cosa dice della società di oggi là Coriandoli?

«Intanto non crede nel web, o meglio non vuole crederci. Ritiene che il web non mangerà il panettone perché c' è troppo bisogno di toccarsi. I ragazzi sono "toccativi"».

E della politica?

«Guardi il marito di Emma era comunista ma di quelli veraci tipo Peppone della saga Peppone e Don Camillo; oggi non saprebbe più cosa fare però ha una sua idea sulla immigrazione».

Mi dica...

«Emma dice che ci dovrebbero essere più gemellaggi».

In che senso?

«Per esempio una famiglia dello Zambia con sei bambini al seguito si "gemella" con la famiglia di Zingaretti e viene a stare in Italia da lui. Poi così quando sono gemellati sarà la stessa famiglia Zingaretti ad andare un po' in Zambia».

A questo punto però interviene Maurizio Ferrini che, con determinazione, prende il posto della casalinga romagnola...

«Lei mi deve scusare ma sempre di più la signora Coriandoli dice cose un po' estreme. Adesso vorrei rispondere io alle domande dicendo però una cosa: amo Vittorio Feltri lo stimo e lo apprezzo molto soprattutto quando gli vanno tutti contro. Lo amo anche quando sbaglia!».

Grazie Maurizio per la precisazione ma anche lei era comunista e adesso?

«Adesso mi interessano le persone. L' ideologia se ne è andata a pallino, qui è sempre tutto in movimento e vengono usate le parole come creta per poi spararle addosso come bombe».

Lei è romagnolo di Cesena. Cosa ricorda della sua famiglia?

«I miei genitori erano dei santi. Mi hanno seguito e sostenuto in tutte le mie azioni. Prima volevo fare il medico, poi ho studiato graphic design a Milano ed infine sono diventato attore. Pensi che trasformazione e che pazienza i miei genitori».

L' incontro con Renzo Arbore fu decisivo. Come avvenne?

«Premettiamo che il numero di telefono di Renzo era sulla rubrica telefonica e che tutti sapevano dove stava. Io diedi una cassetta nel 1983 a Nicoletta Braschi, di Cesena come me, da consegnare ad Arbore. Un anno dopo venni chiamato ed immediatamente incominciai ad Indietro tutta».

Che esperienza fu?

«Incredibile ed entusiasmante. Fummo davvero, grazie ad Arbore, portatori di un nuovo modo di intrattenere il pubblico».

Che persona è Arbore?

«Intanto una persona con un gusto straordinario. Conosce la bellezza e conosce il sentire delle persone; queste due cose lo rendono insuperabile. Molto hanno cercato di imitarlo ma nessuno ha il gusto e la cultura sua».

In quel periodo le furono offerti dei ruoli in film diretti da registi importanti come Bertolucci o Leone. Come mai rifiutò?

«Soffrivo di delirio di onnipotenza. Fu un errore madornale anche perché mi offrirono ruoli molto belli come quello di Sordi nel film Troppo forte».

Ma così andò!

«Non ero abituato, ogni giorno mi chiamava il gotha della cultura ed ho perso la testa».

Però quei rifiuti di parti nei film la segnarono professionalmente...

«Dire no al mondo romano equivale a fare uno sgarro. In altre città le cose vengono vissute con più distacco; a Roma era come se tutto fosse preso in modo personale. Sa cosa dicevano di me?».

Mi dica?

«Che ero un fuori di testa... e così venni emarginato. Per fortuna che non dissero che portavo sfortuna; mi avrebbero ucciso».

Ci fu qualcuno che le rimase vicino?

«Del mondo dello spettacolo Arbore e Frassica. Arbore con me è stato sempre molto protettivo; del mondo normale trovai molti amici».

Lei fece anche L' isola dei famosi, come andò?

«Arrivai secondo però, mi creda, L' isola dei famosi della Ventura era un' altra cosa rispetto ad oggi. Faceva più del 60% dello share lo guardavano tutti e poi era una sfida vera. Avevo voglia di mettermi in mutande e fu utile alla mia popolarità».

Con chi si trovò bene?

«Si interagisce molto poco ma la persona con cui strinsi una buona amicizia fu Lory del Santo».

Qualche anno fa raccontò di un amore platonico con una certa Sara. Esiste ancora quell' amore?

«Non più. Siamo rimasti in buoni rapporti ma è stato solo un pezzo di percorso assieme».

E adesso ha un nuovo amore?

«Io no, sono single; la signora Coriandoli invece ha molte storie clandestine ma non me ne vuole parlare».

·        Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

P.Fio. per la Verità il 6 luglio 2020. «Ricordo che quando venne approvata la legge Cirinnà ci furono coppie omosessuali che volevano gli stessi sconti per i viaggi di nozze concessi agli etero. Che cavolo di rivendicazione era?». Mauro Coruzzi, in arte Platinette, conduttore radiofonico e televisivo, opinionista, anche quando si parla di unioni civili trova modo di ribadire la sua avversione per «il conforme».

Che cosa non le piace delle unioni civili?

«Sia chiaro, se per qualcuno è una priorità dico: perché no? Purtroppo, però, ho visto molte coppie omosessuali sacrificare il loro universo fatto di differenze quasi ne avessero paura, per una voglia di uniformità, per provare un senso di appartenenza. Sinceramente non capisco e trovo anche la questione oltremodo noiosa. Io sono per la singolarità, vorrei una legge per l'individuo e non ho alcun interesse a formalizzare una famiglia arcobaleno».

Due docenti ipotizzano che il fallimento di queste unioni dipenda anche dall'impossibilità di rendere praticabile un progetto genitoriale di coppia.

«Non credo proprio che il senso di paternità sia diventato improvvisamente così forte, che se non lo soddisfi crolla l'unione. Nelle coppie dello stesso sesso che si sono sposate, e ne conosco tante, non vedo l'esigenza di diventare genitori. Sembra più un mantra, implacabile, solo delle persone famose e benestanti».

Allora che cosa può essere successo?

«All'inizio c'è stata una valanga di richieste di unioni civili, era inevitabile visto che molti convivevano da anni. Credo che il fallimento sia dovuto in buona parte al poco interesse che gli omosessuali, più di altri, avvertono per il mantenimento di un contratto scritto. Che bisogno hanno del matrimonio, quando i rapporti omosessuali sono poliamorosi? Se l'unione civile era per la tutela del partner, invece di fare tante lamentele per avere una legge bastava andare dal notaio e mettere nero su bianco le proprie volontà, senza dover incorrere in una trafila assistenziale statale dei rapporti amorosi».

Cantanti e politici non si sono fatti scrupolo a utilizzare donne con la pratica della gestazione per altri.

«L'utero in affitto è una violenza profonda. Ciò che voglio, lo vado a chiedere a una donna pagandola. Orribile. Se un figlio è il loro reale bisogno, perché non sono capaci di provare amore in altro modo uscendo dall'egoismo?».

Sarebbe d'accordo per l'adozione in famiglie omogenitoriali?

«Adottare no, se non con molta, molta cautela. Provassero le coppie omosessuali l'affido, banco di prova dell'amore genitoriale. Siete in grado di reggerne il carico emotivo? Dovete essere pronti a farvi stracciare le arterie se un giorno o l'altro la creatura vi viene portata via».

Persone dello stesso sesso fanno ancora molta fatica a dare visibilità al loro rapporto?

«I cosiddetti radical chic non vedono per niente male una coppia unita civilmente, in una cena ci sta bene perché tutti dobbiamo dimostrare la meraviglia di essere così aperti e tolleranti. La sinistra ancora rivendica di essere l'unica depositaria dei diritti degli Lgbt e di saperli trasformare in legge a tutela, ma non è affatto vero. La signora Paola Concia (già deputata del Pd, ndr) nel 2011 andò a sposarsi con la sua partner in Germania, mentre doveva aspettare e combattere perché la legge fosse attuativa nel suo Paese. E non ho traccia di una proposta di legge fatta da Luxuria, ricordo solo che andava in bagno dove c'era la Gardini. Dove è stato Franco Grillini per anni? Sul fronte della destra c'è altrettanta indifferenza ai diritti civili, questo Paese è incapace di confrontarsi su basi differenti».

Imma Battaglia ha detto che «la lobby gay esiste ed è fortissima, in questo momento è governativa», però lei stessa ha sfruttato il potere Lgbt per riempire i rotocalchi delle sue «nozze» con Eva Grimaldi.

«La Battaglia è un manager, si è sposata la Grimaldi perché le piaceva così come Briatore sposò la Gregoraci. Quello che mi fa davvero paura della lobby omosessuale è un Rocco Casalino nel ruolo di suggeritore a colui che recita la parte del presidente del Consiglio. La politica come facciata e dietro il nulla. Non so se il premier Conte si rende conto dell'umiliazione».

Si sente più tranquillo adesso che la senatrice Monica Cirinnà è stata messa a capo del dipartimento diritti del Pd?

«Mi sento poco tranquillo quando la vedo con tutti quei ricci. Purtroppo non c'è nessuna donna in Parlamento che mi sappia coinvolgere per il suo impegno politico».

Questa settimana viene votato il ddl Zan contro l'omotransfobia. C'è davvero una spirale di violenza da fermare?

«Chiediamoci se vogliamo l'abbattimento dei generi o se ne vogliamo la codifica in più sfumature possibili dell'arcobaleno, che è una puttanata colossale. In realtà non siamo capaci di rapportarci con gli altri, in quanto individui, ma solo con i gruppi di appartenenza, di corporazioni. Ditemi dove sono le lesbiche in Italia, a parte le tre o quattro famose: vivono come i cinesi in 25 in una stanza e non le vediamo? Parliamo d'ora in poi di esseri umani e non di trans, omo, fluidi. Una legge contro l'omofobia? Mi annoia l'idea di dover limitare ancora una volta l'ironia, il linguaggio non convenzionale. Se dico a una persona "sei proprio una finocchia persa", che cosa c'è che non va? Ci sono famiglie orrende, nuclei familiari imbarazzanti ma perché non si può fare il family day se altri sfilano nel gay pride? E non sopporto il vittimismo, il piagnisteo continuo degli Lgbt».

·        Max Felicitas.

Gabriella Sassone per Dagospia il 17 settembre 2020. Sotto a chi tocca! Nel mondo dell'hard - pare - ci sia posto per tutti. Basta buttarsi nella mischia, spogliarsi e aggrovigliarsi davanti a una telecamera senza freni e inibizioni. Ma l'importante, anzi importantissimo, è correre subito dopo a raccontarlo ai giornalisti, manco girare un porno fosse una medaglia da appuntarsi sul petto, ma forse c'è sempre la speranza di essere chiamate nel salotto di "Live - Non è la D'Urso", spesso popolato da pornostar e dove se ne vedono sempre delle belle. Adesso a debuttare nel mondo a luci rosse col nome d'arte di Nina Garco è tal Waima Vitullo. Chi è? Una bambolona ritoccata al silicone (si è fatta una quinta di seno), labbroni a canotto, lunghe chiome corvine e un coniglietto di Playboy tatuato all'inguine, sì, proprio in zona farfallina di Belen. "Ho un cuore di panna e un corpo da pantera", ama ripetere spesso lei. Il cui vero sogno è sempre stato quello di diventare la fidanzata di Silvio Berlusconi. Qualcuno la ricorda in "Mammoni - Chi vuole sposare mio figlio?", docu-fiction andata in onda su Italia 1, dove uscì - ahinoi - alla prima puntata. Anche il dissacrante Enrico Lucci si occupò della sexy Waima in un servizio delle "Iene" sui cosiddetti pseudo-vip sfigati, fuoriusciti dai numerosi reality e people show e finiti nel dimenticatoio della tv. Ma la Vitullo, ex fidanzata del "fu tronista" Karim Capuano, molto conosciuta nella Romanella mondana e godona visto che girava come una trottola, fece scalpore quando fu candidata alla Regione Lazio con il partito "Grande Sud Uniti per il Lazio" a sostegno della presidenza di Francesco Storace. “Anche il Lazio ha la sua Nicole Minetti", titolarono giornali, siti e rotocalchi rosa, ma lei si affrettò a specificare: "Con la Minetti ho in comune solo la chirurgia plastica: come lei mi sono rifatta labbra e seno". Amen! Ora, dopo aver conosciuto il noto manager adult Mimmo Pavese si è fatta convincere a girare un "Frame Leaks" (contenuto trapelato) con il giovane pornostar-influencer Max Felicitas. Eppure già nel 2012 Waima scriveva su Facebook di aver firmato un contratto per un film hard. Era vero? Ah, saperlo! Insomma, adesso Waima, che è separata con un figlio, è diventata Nina Garco. La scena di sesso con Max Felicitas, guarda caso, è stata girata dopo aver appreso che il Presidente Berlusconi era stato dimesso dal San Raffaele, dopo il ricovero per la positività al Covid-19. "Tutti sanno quanto la sottoscritta sia innamorata dell’ex Premier. A lui dedico la mia prima scena hard nella speranza di poterlo incontrare al più presto e cenare con lui", dice Waima-Nina. Oh my God! Sai quanto sarà contento il povero Silvio e la di lui nuova compagna Marta Fascina... 

Barbara Costa per Dagospia il 14 aprile 2020.

Max Felicitas, il 20 marzo hai scritto su Twitter: “Comincio a sentire la mancanza della fiiga”. A che punto sei?

«Terribile, il bisogno della figa non dà tregua. Mai. E però, in quarantena, bisogna resistere…

A “La Zanzara” hai detto: “In quarantena mi masturbo 5 volte al giorno”. Esagerato, ma chi ci crede?

«È così, è verissimo! Io ce l’ho sempre duro, mi sveglio arrapato, e le mie giornate sono finalizzate a scopare».

In tempi “normali”, quante scopate ti fai?

«4, 5.

Al giorno, tutti i giorni?!

«Certo!»

Più che maniaco, un vero stallone. Ma è vero che finita la quarantena ti prendi una settimana “sabbatica” per rifarti del sesso perduto?

«Sicuro! Devo evadere tutte le prenotazioni delle mie fans che, ti assicuro, non sono poche. A conti fatti, 3,4 fan al giorno! Già me lo sogno: il mio “cazzo a domicilio” in tour in tutto il Nord Italia…»

E le tue fans al centro e al sud? Le lasci a secco?

«Assolutamente no, ci saranno settimane sabbatiche per un bel po’ di mesi».

Tra una sega e l’altra, come passi questo tempo di castità?

«Leggo tantissimo».

Ma va? Fuori i titoli.

«Gli ultimi libri letti sono  “Chi comanda è solo. Sergio Marchionne in parole sue”, e “Investire a lungo termine” di Francisco Garcia Parames. E sul comodino mi aspettano “Il profeta” di Khalil Gibran e “Diario di scuola” di Daniel Pennac».

Questo te lo invidio. Io che leggo non poco, proprio in quarantena ho il blocco della lettura. Mai successo. Leggo, ma a fatica. Non dirmi che leggi pure i quotidiani…

«Certo che li leggo!»

No, vabbè…

«Li leggo, ma non leggo la politica».

Io sì! Io ogni mattina mi “faccio” tutti gli editorialisti. Mi devo “passare” tutti i direttori. È un mio feticismo…

«No, no, io li salto volentieri. Inseguo gli articoli che riportano idee, pensieri su come ripartire tutti insieme dopo questo periodo buio».

Uno che ti ha colpito più degli altri?

«Quello del 31 marzo, sul Sole24Ore, a firma di Francesca Pasinelli».

Tu hai caricato un video in cui insegni a costruire, con un guanto in lattice, un sex-toy per masturbarsi a forma di vagina (o di culo). Guarda che in molti reclamano che non funziona! Max, discolpati!

«Ma non ci penso nemmeno! E poi a me non l’ha detto ancora nessuno. Il mio sex-toy fatto col guanto funziona, eccome! L’ho testato anche io!»

Max, è vero che sei fidanzato?

«No, chi te l’ha detto?»

Voci che girano.

«Voci false».

Ma un pornoattore riesce a conciliare il suo lavoro con una vita privata “regolare”?

«Secondo me, sì. Che problema c’è? Basta l’amore!»

Non hai mai avuto una fidanzata gelosa del tuo lavoro?

«Per la verità, sì. Ma appunto quello non era amore…»

L’emergenza coronavirus ha fatto saltare qualche tuo importante impegno porno?

«Proprio ad aprile progettavo di andare negli Stati Uniti».

Con quale pornostar americana ti piacerebbe lavorare?

«Bonnie Rotten. Lei è il mio sogno da sempre».

Cosa le porno-faresti subito?

«Le leccherei le sue tettone tatuate con la ragnatela!»

La faresti squirtare? Lei è tra le regine dello squirting. Come dico sempre: le sue ghiandole sono damigiane di seme squirtante!

«Certamente! Perché lasciar andare delle damigiane così?!»

Senti un po’: ma quando ti ha contattato Martina Smeraldi, dicendo che voleva provare col porno e provare con te, non sei… svenuto davanti a tanta bellezza?

«No, e lo sai perché?»

Perché?

«Perché con Martina non svieni per la bellezza, che è notevole, ma dopo che lei ti fa un pompino. Fidatevi: Martina Smeraldi è la dea della fellatio».

Tu sei un porno talent-scout. Da che capisci che la ragazza che hai davanti è negata per il porno? E come glielo dici?

«Non mi è mai capitato.

Mai? Dai, su, dimmi la verità!

«E che ti devo dire? Sarà il mio intuito, ma finora c’ho sempre azzeccato! O forse è il mio cazzo che è infallibile. Io penso che sono un po’ tutte portate a fare porno, ma non tutto il porno: il segreto è capire subito la categoria che fa per loro».

E però, da parte maschile, fare porno non è per tutti. E non si dica che bastano gli aiuti chimici. Pornoattore non ci nasci ma con una qualche predisposizione a farlo forse sì.

«Io penso che chiunque può fare quello che vuole nella vita, basta crederci».

Tu il pisello non te lo droghi.

«Io le droghe – tutte le droghe – le condanno senza se e senza ma. Non prendo aiutini chimici, non li ho mai presi, ma nel porno c’è chi lo fa».

Ed è pericolosissimo!

«Chi li vuole prendere, lo deve però fare sempre su indicazione e sotto stretto controllo medico».

Hai fatto pace con Rocco Siffredi?

«Con Siffredi c’è niente da chiarire».

Non sei più incavolato per il suo dissing?

«Ho dimenticato tutto. Io sono un tipo pacifico. Soprattutto in questo periodo difficile, sono sempre più convinto che non dobbiamo farci la guerra, men che mai mediatica, e non solo contrastare, ma prevenire ogni atto di dissing e cyber-bullismo e troll e exclusion e simili, dando solo esempio di tolleranza, comprensione, solidarietà».

Max, ma che sei diventato, un peace&love?

«Non lo sono diventato, lo sono sempre stato. Sembrerà ovvio, ma è qualcosa in cui davvero credo e sento nel profondo».

E allora, a tutti quelli che ti perculano sui social, invidiosi marci, che vuoi dire?

«Nulla, anzi no: dico di scaricarsi tranquillamente con belle seghe sul mio sito Maxfelicitasvideo.com. Troppo generoso! Allora li mando al diavolo io, a 'sti stronzi. E li saluto pure, 'a morti di figa!!!»

Dagospia il 9 aprile 2020.  Da “la Zanzara – Radio24”. Max, come fai a resistere in questo periodo?: “Sono a casa coi miei, a Codroipo. Sto cercando di non pensarci. Mi masturbo almeno quattro, cinque volte al giorno. Però l’altro giorno sono andato a fare la spesa dopo venti giorni ed ho avuto un’erezione incredibile in cassa, perché la cassiera ha fatto una battuta. Mi ha chiesto: come fai adesso a lavorare? E lì mi sono arrapato subito”. L’attore hard emergente Max Felicitas, a La Zanzara su Radio 24, racconta come sta passando questo periodo di ‘quarantena’: “Finita questa storia, ho già una lista studiata perché ovviamente le ragazze e le donne stando a casa sono tutte più arrapate. Ho una lista di tantissime donne che si sono già prenotate per scopare una volta finita questa quarantena. Mi prendo una settimana per farmi almeno quattro tipe al giorno con un tour in macchina. Non posso filmarle, perché non sono attrici. Però è una sorta di cazzo a domicilio”. “Con la crisi – dice Felicitas - verranno fuori tantissime attrici nuove. L’ottanta per cento che mi chiama è spinto dai soldi. E’ brutto da dire, però l’ottanta per cento delle attrici non è spinta dal piacere di farlo, ma dal bisogno di soldi. E quindi, visto che ci sarà un gran bisogno di soldi, usciranno sicuramente tantissime porno attrici”. Ma a cosa pensi mentre ti tocchi?: “In questo periodo di delirio mistico, sono passato dal masturbarmi guardando video porno a guardare i miei vecchi video, rivivendo cioè il momento. Ma non sul video completo, una specie di mix di pezzettini”. E poi?: “Adesso ho fatto questo format su Instagram che sta andando molto bene, in cui praticamente faccio da confessore a ragazze normalissime maggiorenni che vogliono parlare di sesso. Cosa mi dicono? Le ragazze sono molto libere. Sono ragazze che non c’entrano niente col porno e che non ci vogliono neppure entrare, ma non hanno paura di mettersi davanti a 20.000 persone a parlare di quello che è il sesso per loro, di cosa gli piace fare, con quanti maschi andare. Ti giuro, ho le prenotazioni già  per la puntata dopo. Un esempio di cosa chiedono? L’ultimissima ragazza mi ha detto che è pan sessuale. Ovvero che ha provato tutto. Poi ho scoperto che tutte le ragazze ingoiano. Tutte liberamente dicono che si masturbano, chi con oggetti, chi con la mano, chi in videochiamata con fidanzati. Tutti si stanno masturbando in questo momento”. Che altro ti sei inventato?: “Ho fatto dei tutorial per insegnare alle persone come costruirsi a casa, con oggetti che tutti hanno a casa, delle vagine e dei culi in modo da variare la masturbazione. La gente dice stiamo impazzendo, ci stiamo ammazzando di seghe ecc., allora ho cercato una soluzione. Ho creato questi due tutorial in cui spiego in uno con un guanto in lattice classico che tutti quanto abbiamo in casa, come crearsi una vagina. Ne ho fatto uno con un guanto ed uno con un bicchiere e delle spugnette. Quello a dir il vero l’avevo già fatto, ma ora l’ho ritirato fuori”. Cosa si può creare dal guanto?: “In meno di un minuto tu riesci a crearti una sorta di buco dove puoi metter dentro l’uccello. Ovviamente se uno ha la fortuna di passare la quarantena con la propria moglie, fidanzata o ragazza, il problema non si pone. Ma io che sono solo coi miei genitori a casa, un po’ devo variare. Per esempio: prendiamo due spugnette, quelle per pulire la pentola, sgrassarla, le inseriamo dentro, inseriamo poi un guanto in lattice a metà tra le due, e rimbocchiamo”. Come partita Iva hai fatto richiesta all’Inps?: “Sì, il mio commercialista ha già fatto la richiesta per i 600 euro come per tutti i suoi clienti. Però ho deciso che appena mi arrivano, il giorno stesso, li do in beneficenza all’ospedale di Udine. Li richiedo così sono più sicuro di darli io direttamente all’ospedale”.

Dagospia il 15 gennaio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. A La Zanzara su Radio 24 va in onda uno scontro epocale tra due generazioni del porno, Max Felicitas, 28 anni, friulano e Rocco Siffredi, 55 anni. Nei giorni scorsi Siffredi aveva messo in dubbio l’eterosessualità del giovane Max, che aveva risposta sui social dando dell’ “anziano” a Rocco e invitandolo a ritirarsi dal porno per andare “in pensione”. Ora, a La Zanzara, il faccia a faccia tra i due. Inizia Felicitas: “Io non c’entro, è sempre lui che attacca me. Non l’ho mai attaccato. E’ lui che mi dice le cose. Sulla Smeraldi non ho attaccato lui, ma chi aveva detto che era una sua scoperta. Infatti ci eravamo anche sentiti e su quello non ci sono mai stati problemi”. Lui ha fatto capire che tu hai tendenze omosessuali: “L’unica cosa che mi è dispiaciuta è che lui mi ha dato del gay, ma dandogli una concezione negativa. Non sono stato solo io ad interpretarlo così. Basta leggere i commenti della Lgbt community”. Ma tu lo hai chiamato “anziano pornoattore”: “Sì. Ho scritto che un anziano pornoattore ha bisogno di fare il mio nome per rimanere attivo sui social. Io dico la mia, mi sono sentito attaccato. Secondo me il punto finale di tutto è che lui deve continuare a fare le sue cose ed io le mie. Non ho capito perché dev’esserci lo scontro. Io non voglio più sentirlo, non voglio più sentire il suo nome”. Ma non ti ha lanciato lui?: “No, non mi ha lanciato nessuno. Io mi sono fatto il culo da solo. Lui è il mito del porno, da lui ho imparato tanto. Ho detto anziano? Lui comunque mi attacca. Anziano nel senso che 55 anni li ha. Intendo anziano nel settore del porno, dove uno di 55 anni è anziano”. Ma ce ne fossero anziani così: “Ma infatti io ho detto anziano, punto”. Hai anche detto che deve andare in pensione perché tu sei il futuro: “Beh, sarò libero di pensare quello che voglio? Vorrei che venga riconosciuta una pensione anticipata per il lavoro del pornoattore che è usurante. E’ la verità. E’ quello che penso. E’ giusto che vada in pensione e che lasci spazio agli altri. A parte che i giovani forse non sanno neppure chi sia. Che continui a fare le sue cose, ma che non rompa i coglioni a me, non voglio più parlare di lui. Non voglio più sentir parlare di Siffredi. Può andare in pensione, ha una certa età, deve smetterla di rompermi i coglioni, di attaccarmi su cose futili. Attacchi uno dicendogli che non gli tira così…? Ma che si vedesse lui. Non è che lui sia sto’ mostro. Quello che dico è io faccio la mia strada, lui fa la sua, basta. E poi è  stato lui ad iniziare, vai a vedere su Youtube”. A questo punto interviene Rocco Siffredi.  

SIFFREDI: Se mi ascolti solo un minuto, innanzitutto lasciamo perdere la parte gay. E parliamo in maniera veramente seria e sincera. Tu hai iniziato proprio alla Zanzara dicendo che le tasse vanno pagate in Italia, Siffredi dovrebbe pagarle in Italia. Sei un autentico imbecille, perché…

FELICITAS: Imbecille sarai tu. Vecchio e imbecille.

SIFFREDI: Fammi finire. Io sono da 25 anni a Budapest, ho la società qui e devo pagare le tasse in Italia? Tu sei stato da me a Budapest, ti ho lanciato io, non ti vergogni neanche a dire che non sei venuto da me. Poi ho visto una news che dici Rocco si è permesso di mettere queste due ragazze insieme a 70 ragazzi. Tu vieni a fare la morale a me?

FELICITAS: No, no, no, no, tu non hai capito quello che ho detto io.

SIFFREDI: Lasciami finire. Non fare il furbo. Tu e Diprè avete lanciato, tu che dici di conoscere i ragazzi giovani, come fare il porno, cocaina, cocaina…ci sono i video…

FELICITAS: Ma che cazzo dici? Io non mi sono mai drogato in vita mia. Ritirati. Hai la demenza senile, ma che cazzo stai dicendo? Non permetterti di infangare il mio nome così. Ritirati, vecchio, vecchio, vecchio, vecchio, vecchio…

SIFFREDI: Max, Max, Max, Max…io ho 55 anni e purtroppo hai ragione…Io sono 35 anni che faccio questo lavoro. Questo ragazzo è venuto qua due anni fa insieme ad altri 70 ragazzi e quindi non si può permettere oggi dopo un anno di dire una marea di stronzate. Lui e l’amichetto suo Diprè…

FELICITAS: Ma che cazzo c’entra Diprè? Sono due anni che non vedo Diprè.

SIFFREDI: …con Diprè sponsorizzano la cocaina per i ragazzi…

FELICITAS: Ma vai a cagare, non dire stronzate…

SIFFREDI:…e tu vieni a fare la morale a me dove devo pagare le tasse?

FELICITAS: Non dire stronzate, non dire stronzate.

SIFFREDI: Ci sono tutti i video. Quello che mi dispiace è che le ragazze che recluta lui, che non ha nessuna storia e nessuna produzione, promette loro di fare le star fino a quando fanno la scena con lui e poi cadono nel dimenticatoio.

FELICITAS: Ma vai a cagare che le ultime ragazze le ho lanciate io. E se non ci sono io, tu neanche lavori.

SIFFREDI: La Smeraldi è venuta da me…

FELICITAS. Vecchio, vecchio, vecchio, vecchio, vecchio…Ma ti rendi conto cosa m stai dicendo? Che io parlo di droga. Mai parlato di droga. Ma che cazzo sta dicendo questo qua?

SIFFREDI: Tu ed il tuo amico Diprè avete fatto tanti video…

FELICITAS: Ma che cazzo c’entra Diprè? 

SIFFREDI: La cosa vera è che Martina Smeraldi è venuta da me dopo che ha girato con lui, dopo tre mesi, chiedendomi di voler essere conosciuta in Italia.

FELICITAS: Che cazzo tiri in mezzo sempre altri? Devi avere le palle.

SIFFREDI: (a Cruciani, ndr) Puoi fare una domanda al nostro amico pornostar a cazzo duro sempre, quando lo chiami e dice che è sempre in tiro. Il vecchio di 55 anni ha ragione, Max. Io sono comunque vecchio, su questo non ti posso dar torto. Ho un solo problema. Il cazzo mi tira sempre, che ci vuoi fare?

FELICITAS: Per forza, con tutto il viagra che ti prendi…

SIFFREDI: Questa è diffamazione? No, non è diffamazione. Te la lancio lì, Cruciani. Invita il tuo amichetto lì davanti. Si sceglie la donna da te in radio, voglio vedere se ha i coglioni. A me metti una vecchia di 90 anni senza denti con la dentiera e me la inculo e mi inculo pure lui.

FELICITAS: Fai schifo.

SIFFREDI: Cruciani, chiedigli perché oggi si è rifiutato di girare con Malena.

FELICITAS: Io sono un galantuomo, e non voglio parlare di terze persone…

SIFFREDI: Ha ha ha…un galantuomo adesso…

FELICITAS: Io non sono un vigliacco, non voglio tirare in mezzo terze persone che non c’entrano un cazzo nella discussione tra me e lui.

SIFFREDI: Ti credo, perché ti sputtanano tutti, tu non puoi tirare dentro nessuno, amico mio.

FELICITAS: Se Malena vuole parlare, parla lei.

SIFFREDI: Cruciani, se io volevo sputtanarlo questo ragazzo, ma ha 26 anni e non mi va, ho almeno dieci ore di materiale a cazzo moscio…

FELICITAS: Ma che cazzo vai dicendo? Vai a vederti i miei video. Vecchio. Nonno. Io voglio chiudere tutta sta bufera che ha alzato lui. Io farò la mia strada e lui continui con la sua. Non ho capito che cazzo vuole da me. Io non parlerò mai più di lui…Cosa me ne frega di Siffredi? Lui ha usato la parola gay con una connotazione negativa. E questo io non lo posso accettare.

SIFFREDI: Ma a che cazzo ti stai attaccando? Attaccati alla figa, che è bella quella. Io non ho parlato di omosessualità.

FELICITAS: Io amo la figa più di te. 

SIFFREDI: Io ho detto solo una cosa. Non fare la morale, tu non puoi fare la morale a nessuno.

FELICITAS: Perché?

SIFFREDI: Perché sei già di tuo una persona non bella. Tu venderesti i tuoi per essere conosciuto. Io mi sono fatto un buco di culo…

FELICITAS: Ma vai a cagare, non toccare la mia famiglia. Merda, non toccare la mia famiglia, coglione, non toccare la mia famiglia. Vecchio, vecchio, vecchio, vecchio…

SIFFREDI: Imiti tanto il grande Sgarbi…

FELICITAS: Non imito nessuno.

SIFFREDI:  Ho 55 anni, caro Cruciani. Mi chiamano per fare il più grande film sulla storia del porno  con la tipa di Disney, e mi tocca discutere con questo deficiente.

FELICITAS: Vecchio, vecchio, ritirati.

SIFFREDI: 13 nomination a Las Vegas. Io capisco, Max, che ti girano i coglioni. Ma sai a quanti ho fatto girare i coglioni?

FELICITAS: Hai detto che mi drogo. Io non ho mai toccato la droga. Sarai tu un drogato, non io.

SIFFREDI: Non ho detto che ti droghi. Ho detto che la sponsorizzi insieme al tuo amico.

FELICITAS: Vecchio, vecchio, tu non puoi permetterti di dire così. Sei tu un drogato, non io. Da quando Diprè ha parlato di cocaina, non l’ho più voluto vedere. Da due anni non vedo Diprè. Informati, impara ad usare Instagram.

SIFFREDI: Due anni culo e camicia…

FELICITAS: Non sai neanche fare una storia…siamo nel 2020, cazzo…

SIFFREDI: L’unica cosa che mi ha fatto incazzare…non ho mai parlato di lui che non è un attore vero. Sono usciti articoli in cui diceva di essere il mio erede, ammazza che erede…

FELICITAS: Io non sono il tuo erede, mi vergogno.

SIFFREDI: Va bene, va bene. Quando ho visto i video con Diprè ho detto a che livello siamo arrivati…

FELICITAS: Quando lavoravo con te, facevo i video con Diprè e avevi detto che…ma che cazzo stai dicendo?

SIFFREDI: Non parlarmi sopra, non aver paura di quello che dico.

FELICITAS: Io non ho paura. Pensi che ho paura di te?

SIFFREDI: Sai cosa devi fare, tu? Se mi vuoi affrontare e dire che sei una persona sincera, vera, non cercare di comprarti le persone. Hai sbagliato persona con cui fare video. Ti spiego. Io sono in questo mestiere da 35 anni…lui continua a chiamare a destra e sinistra. Malena, non dire questa cosa qui, ti prego.

FELICITAS. Che cazzo dici? Tu sei un diffamatore.

SIFFREDI: Allora chiama Malena in diretta…

·        Max Giusti.

Ida Di Grazia per leggo.it l'8 settembre 2020. Questa sera su Rai2, torna Boss in Incognito, il docu-reality che racconta l’avventura degli imprenditori che hanno deciso di affrontare la sfida di lavorare sotto mentite spoglie, per una settimana, insieme ai loro dipendenti. Novità di questa edizione non solo la conduzione di Max Giusti, ma per la prima volta anche il conduttore andrà in incognito nelle aziende, grazie ad un travestimento.

Questa sera c’è il suo ritorno in Rai dopo il grande successo di Pechino Express, possiamo considerarla una rivincita?

«Probabilmente sì, ma diciamo che dopo quattro anni di lavoro sul NOVE  ho avuto l’opportunità di tornare in Rai e penso anch’io che Pechino ci abbia messo lo zampino. Sono stato sommerso d’affetto, era da tanto che non sentivo il pubblico così vicino. Per me è un vedere riconosciuto un lavoro fatto in questi anni».

Cosa è successo quattro anni fa?

«Non lo so nemmeno io, semplicemente il direttore di Rai 1 di allora non mi ha voluto trattenere, è legittimo. Sono stato anche fortunato perché poi subito dopo sono stato a Rai 2 (l’esperimento di radio 2 Supermax) e poi è arrivato Discovery, tre anni con loro, poi il NOVE aveva altri progetti e quindi le nostre strade si sono separate. Devo quindi ringraziare Rai 2 che mi fa tornare in video da conduttore e padrone di casa».

Questa edizione più delle altre ha un valore importante, si parla di rinascita e rientro al lavoro post Covid. Che approccio ha avuto?

«A metà maggio pensavamo di non riuscire a farlo, le aziende non erano pronte ad accogliere le troupe. Siamo un programma assolutamente contemporaneo abbiamo registrato a fine giugno e tutto luglio e abbiamo finito di montare la prima puntata due giorni fa. È uno spaccato del mondo del lavoro, andare in onda subito fa sì che questo programma può mostrare quello che succede nelle aziende italiane, nella vita dei lavoratori, ci sono storie bellissime, davvero emozionanti».

Le sue imitazioni sono un cult, ma com’è trasformarsi in una persona “normale”?

«Un altro lavoro, perché è un lavoro d’attore, di anime. Io ci sto bene nel mondo del lavoro, vengo da una famiglia proletaria, figlio di un metalmeccanico e una commessa, è stata un’esperienza forte. Entrare nella vita di persone vere, lavorare con loro e loro si aprono con te e tu sei sotto mentite spoglie, cercare verità potrebbe essere impossibile e invece è stato bellissimo».

Si è mai sentito un impostore?

«Sì alla prima puntata perché la storia che mi ha raccontato questo ragazzo era così bella, fatta di sacrifici e rinunce che volevo abbracciarlo e dirgli sono Max, scusami!».

Lei si emoziona? Quando è stata l’ultima volta?

«Da quando sono papà ancora di più, ma poi mi avete visto a Pechino ormai non posso più nascondermi. Mazzocchi ancora mi prende in giro. Durante il programma in uno svelamento un ragazzo con cui ho lavorato tutto il giorno, quando ha scoperto che ero io ha cominciato a tremare, ha perso le parole e ha detto sei la prima persona famosa che ho conosciuto, e l’accezione famoso era piena d’affetto, e io mi ricordo ancora di avergli detto “Aho ma che stai a dì io mica so famoso, io so come te”. Il fatto di essere nato a via del trullo 190 ed essere cresciuto a casetta Mattei io non me lo dimentico».

Che rapporto ha con i social?

«Non ci puoi rinunciare, ma ci dobbiamo confrontare. Però vi posso dire che a ottobre partirà un nuovo progetto social nato al bar insieme a Giuliano Rinaldi e che si chiamerà “La ragion pura”. Viviamo nel momento più assurdo per la nostra generazione, ognuno ha le proprie risposte e certezze, ma invece di cercarle magari in uno studio medico, le trovi al bar. Io ho voluto dare voce a tutto quelli che sono pieni di certezze: terrapiattisti, negazionisti, chi fa le crociate contro gli ingaggi dei calciatori ecc e dopo che li ho fatti conoscere faranno dei match l’uno contro l’altro. Io non li contraddico, li carico, mi stanca troppo contraddirli e quindi mi diverto».

Cosa le ha lasciato questo programma?

«Una speranza e soprattutto ho notato che imprenditori e lavoratori non sono mai stati così vicini».

Ci sono altri programmi in vista… magari Affari tuoi?

«Ufficialmente non mi ha chiamato nessuno, è normale che quando si parla di farlo ripartire e l’hai presentato per 900 puntate, si fa il tuo nome, il pensiero c’è. Ho saputo di non presentarlo cinque giorni prima di presentazione dei palinsesti non mi sono mai lamentato... Certo magari saperlo prima uno si organizza».

Sanremo?

«Beh ora ci sono Amadeus e Fiorello che sono bravissimi. Amadeus è stato bravo e si è conquistato quel posto con lavoro e dedizione. Lui, Carlo Conti mi piacciono, perchè stiamo in onda tutto l’anno facendo i mediani, e Sanremo in passato è stato fatto da conduttori che arrivavano e se ne andavano. Se poi tra 4 o 5 anni si crea l’opportunità perché no: hai ospiti incredibili, puoi scegliere musica e non hai controprogrammazione…ma magari ci cascano! ».

Radio?

«Una sorpresa c’è e arriverà per Natale, ci sto ancora lavorando, ma non posso dire niente. Non rifarei SuperMax ma qualcosa di nuovo sì».

·        Max Pezzali e gli 883.

Dagospia il 20 novembre 2020. Da I Lunatici Radio2. Max Pezzali è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Il popolare cantautore ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Come per tutti la notte quando ero giovane era il territorio preferito, alla fine era il momento in cui si usciva con gli amici, si usciva tentando di broccolare le ragazze, ci si divertiva, dal pub sotto casa fino a magari la discoteca in cui si andava sperando di cuccare ma spesso tornando senza risultati. Ho fatto della collezione del due di picche un'arte, l'ho fatta arrivare a livello di arte moderna. Poi chiaramente passa il tempo, cambiano le abitudini, quando diventi padre la notte diventa un luogo diverso, in cui a parte la contingenza di questo momento, la notte è diventata il momento più tranquillo, si guarda la tv, si sta a casa, si dorme, è il segno dell'età che avanza". Max Pezzali resta sulla breccia nonostante i ventotto anni di carriera: "Se dovessi tornare a quando tutto è cominciato? Ho questa immagine in testa. Trent'anni fa. Un anno prima di iniziare a fare questo lavoro. Io e Mauro Repetto a giugno del 90 a vedere la partita Argentina-Camerun. Inaugurazione del terzo anello. Eravamo allo stadio. Ricordo l'entusiasmo, vinsero i camerunensi uno a zero contro ogni pronostico, ricordo tutto lo stadio trasformato nella Capitale del Camerun. Tutti improvvisamente eravamo tifosi del Camerun. Quello è il ricordo che mi lega alla mia giovinezza spensierata e cazzara, in cui ancora mi divertivo e pensavo alle piccole cose. Il motivo per cui sono esistiti gli 883 ed esisto io ancora oggi è perché c'era Mauro Repetto. Lui si esponeva, io ero quello schivo. Ho sempre avuto il terrore dell'esposizione e delle luci accesi su di me. Avevo occhiali da miope tipo Filini in Fantozzi. Volevo sempre stare defilato. Quando abbiamo iniziato a fare canzoni, si trattava poi di cantarle. Io non l'avrei mai fatto in prima persona. Mi sarebbe piaciuto farle cantare ad altri. Ma nessuno voleva cantarcele, ci siamo dovuti esporre. E' stato Repetto a spronarmi, col suo grande motto di battaglia, che era 'dignità zero'. Io gli dicevo che facevamo schifo, lui rispondeva tranquillo, 'dignità zero'. Mi ha fatto superare tutte le paure, anche se mi reputo ancora non adatto alla dimensione pubblica". 

Nessun piano B: "Prima di diventare famosi ci piaceva l'idea di scrivere canzoni, da appassionati di musica. Mi piaceva l'epoca in cui stava diffondendosi il rap, un genere fatto non per forza da musicisti. Quindi l'idea di fare canzoni mi affascinava tantissimo, ma non mi venivano le canzoni che sarebbero piaciute agli altri, non riuscivo a livello di linguaggio a raccontare un mondo diverso dal mio. E' una mia deviazione mentale, non riesco ad essere troppo astratto, troppo lontano. Raccontavo sempre quello che avevo intorno. Ma le nostre idee non piacevano a nessuno, io stavo finendo il servizio civile in croce rossa, era il 1991, mi ero preso un anno sabbatico, pensavo che mi sarei ributtato sull'università, per cercare di trovare una quadra nella vita. Ma non era un piano b, navigavo a vista, mia madre mi diceva magari con il diploma con qualche raccomandazione qualcosa in banca avremmo trovato. La sua ultima barriera contro l'idea di un figlio clochard era un posto in banca. Che per altro col senno di poi non è che fosse così più sicuro di tanti altri posti. Io cercavo una mia dimensione, ma non sapevo ancora quale fosse il mio posto nel mondo. Avevo sbagliato facoltà all'università, ero in una situazione in cui mi adattavo a fare cose, ma non avevo trovato una strada. Mi piaceva stare sulle ambulanze come volontario, quella poteva essere una cosa che avrei potuto fare. Mi piaceva stare su un furgone, su una macchina, non stare in un ufficio. Avrei potuto fare il corriere, su un furgone. O il trasportatore. Un lavoro sfiancante, ma quando vado in giro e li vedo penso che almeno non stanno chiusi in quattro mura, girano l'Italia. Io volevo andare on the road, non restare chiuso nelle quattro mura borghesi". 

Cecchetto come ultima possibilità: "Quando abbiamo portato la cassetta a Cecchetto era la nostra ultima possibilità. Ci eravamo detti che se anche lui ci avesse detto che facevamo schifo basta, avremmo smesso. La prima canzone che sentì fu "Non me la menare" e gli piacque. Pensò che se avevamo avuto il coraggio di proporre una cosa del genere, forse avevamo qualcosa da dire. Ci chiese di portare tutto il materiale che avevamo pronto, avevamo già scritto un po' di canzoni, tra cui "Come mai" e "Hanno ucciso l'uomo ragno". Avevamo già quasi tutto il primo album e un pezzo del secondo. Quando ci è stata data una opportunità abbiamo trovato canzoni dove neanche immaginavamo di averle".

Su "Hanno ucciso l'uomo ragno": "Se era davvero dedicata a Walter Zenga? Non riuscivo a chiudere questa canzone in nessun contesto sensato. La canzone era già uscita quando Zenga venne escluso dal giro della Nazionale di Sacchi. E allora parlando con i giornalisti canticchiò 'hanno ucciso l'uomo ragno'. Non dichiarò nulla, semplicemente canticchiando quel ritornello suggerì che c'era rimasto male e siccome era sempre stato chiamato l'uomo ragno ci fu l'associazione dei due mondi".

Sull'arrivo del successo: "A quei tempi, specialmente se eri un provinciale di mentalità, se ti trovavi al centro del successo avevi subito tutti pronti a dirti di non montarti la testa, perché tutto sarebbe potuto precipitare da un momento all'altro. Cercavi anche di startene più riparato di prima. E soprattutto la cosa divertente è che con il primo album eravamo un fenomeno prevalentemente radiofonico. Eravamo primi in classifica, ma nessuno ci aveva mai visto in faccia. Andavamo in giro normalmente. Hanno iniziato a riconoscerci nel 1993, ci siamo fatti tutto il 92 da primi in classifica ma come sconosciuti. Solo chi ci conosceva bene sapeva che eravamo noi".

La popolarità, le donne e gli amici: "Specialmente con gli amici c'era un cerchio ristretto che è quello che mi porto avanti anche oggi e che in qualche modo è felice del mio successo. Sono pochissimi gli amici però che riescono a non soffrire del successo altrui. Molti sviluppavano dei comportamenti strani, volevano godere della tua popolarità, ma ti parlavano alle spalle, dicevano che eri stato solo fortunato, cose così. Ma anche quello ti è utile, anche il dissenso e l'invidia sono utili, possono farti riflettere. Le donne? Io credo che l'essere famosi, almeno nel mio caso, è stato un elemento di facilitazione. Nel 1993 sono uscito con ragazze alle quali oggettivamente non avrei mai potuto accedere. Io ero un tamarro, ero uno che poteva andar bene solo in determinate aree del mondo. Provincia milanese, parte della Lombardia, già a Milano città ero considerato un tamarro. Sicuramente la fama è un facilitatore, è più facile avvicinare qualcuno perché non sei giudicato solo in base a doti reali, ma anche a doti apparenti. Però dopo le prime 72 ore di conoscenza la verità veniva fuori. E a quel punto si capiva che ero un provinciale, che vivevo in un certo modo. E le donne se ne andavano. La popolarità ti aiuta sul momento ma non ti dà garanzie sul lungo tempo". 

Sul momento più duro della sua carriera: "Quando sono andato al Festival di Sanremo nel 2011. Non avevo il pezzo giusto, andando via prima della sera della finale, escluso un po' a cavolo di cane, avevo pensato che forse quello che dovevo dire l'avevo detto, che forse era arrivato il momento di iniziare a fare un altro lavoro, un lavoro serio, il famoso piano b. Ero andato a Sanremo in gara e ho capito di avere sbagliato. Mi era venuto un po' di scoramento, questo è un mestiere che fai se credi che ci sia qualcuno che è interessato alle tue canzoni e le fa entrare nella sua vita. Se capisci che questa cosa non capita più è giusto togliersi dalle scatole. Ci ho pensato in quel momento, poi ho deciso che è comunque figo fare canzoni in se, più di quanto non sia negativo il fatto che possano non avere successo. E' bello fare canzoni al di là della fine che poi faranno se non avranno riscontro. Per questo preferisco continuare a farle".

Sul rapporto con i fan: "La cosa che più mi piace fare è chiacchierare a ruota libera con la gente. Il fatto di avere così tanti amici momentaneamente conosciuti mi mette nella condizione che quando li incontro in un posto e scatta la chiacchiera io sto lì anche quattro ore. Torno all'atmosfera del bar in cui sono cresciuto. Ognuno recita il proprio ruolo, a me piace moltissimo stare su quel palcoscenico, ogni volta che qualcuno attacca bottone con me in giro poi dicono che il bottone l'ho attaccato io, quando trovo la persona che si presta mi piace parlare, ricreare l'atmosfera da palcoscenico del bar".

Su quanto valga davvero "La regola dell'amico": "L'amico come goccia cinese alla fine può arrivare a dama. La canzone deve dare una regola generale ma non sempre valida. Ci sono tanti sotto casi. L'amico che riesce a lavorare per sfinimento alla fine ce la può fare. Deve avere un animo orientale, essere zen, sapere che quella è la sua missione, alla quale non puoi mai smettere di pensare. Se lo fai puoi arrivare al momento in cui arrivi al risultato per sfinimento, perché l'altra persona per non sentirti più decide di darti una possibilità. L'importante è provarci, è meglio la bellezza del percorso della destinazione stessa. Puoi anche non arrivare all'obiettivo, ma se hai fatto un'opera d'arte di conversazione e strategie passerai comunque alla storia. La differenza la fa il percorso. Io mi sono spostato con una mia amica, lei mi raccontava le sue pene d'amore. Anche lì, la chiave di tutto è non sfruttare le debolezze della donna. Se lei ti racconta le sue pene d'amore devi essere equidistante. Non entrare in una dinamica da crumiri in cui dai sempre ragione a lei e torto al suo uomo. Non devi giustificarlo, ma neanche sembrare un avvoltoio, uno che sfrutta i racconti di lei sulle deficienze di lui per i tuoi scopi personali. E' difficilissimo, ma se ci riesci puoi andare a meta. Magari dopo anni ma con buona probabilità di successo".

Sullo stato di salute della musica italiana: "Chiaramente è legata a doppio filo alle vicende della pandemia. La musica di ogni tipo per definizione si basa sull'aggregazione. Finché non si riesce a sconfiggere il covid non vedo tante possibilità. Ma quando succederà, il mondo della musica dal vivo, l'aggregarsi, il cantare tutti assieme, ci sarà talmente mancato che assisteremo ad una delle più belle stagioni di rinascita della storia. Della musica, del cinema, di tutto. Ci sarà un rinascimento".

Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 29 ottobre 2020. Mercato in crisi, stop ai concerti, futuro traballante? A quasi 53 anni li compie il 14 novembre Max Pezzali se ne frega e rilancia pubblicando un disco di inediti, Qualcosa di nuovo, in uscita il 30 ottobre (il precedente, Astronave Max, è del 2015). Dodici canzoni due in circolazione da mesi, In questa città, sulla sua Roma, e Welcome to Miami (South Beach), ovviamente sulla città della Florida in cui parla di amore, paternità, amicizia, tempo che passa e generazioni a confronto. E anche di rinascita, visti i tempi («Oggi ogni cosa ha senso solo se pensiamo a un nuovo inizio») Quello che dà il titolo all' intero lavoro è un brano scritto con Jacopo Ettore e Michele Canova, il video girato in una sala bowling della Capitale l' ha ideato e interpretato Fabio Volo (Pezzali compare solo nel finale con il figlio dodicenne). Fra gli ospiti ci sono J-Ax in 7080902000, Tormento in Sembro matto, Gionny Scandal in Siamo quel che siamo.

Di veramente nuovo in questo disco cosa c' è?

«Non lo so. È un tentativo sincero di trovare la quadra nell' evoluzione della mia vita: sono troppo vecchio per sentirmi giovane o sono troppo giovane per essere vecchio?».

La risposta?

«Io, a parte la presbiopia infame, mi sento bene. I giovani, però, sono un' altra cosa, è ovvio. Loro sono nativi digitali, io adottivo. Oggi tutto cambia ogni due ore e io sono un boomer (un ultracinquantenne, ndr) che accetta la sua età ma ci tiene a stare sul pezzo».

Non teme di essere ridicolo?

«Sì. E non voglio mettere in imbarazzo mio figlio Hilo (nome di un' isola hawaiana, ndr), né fargli compassione. Ma se penso a certa gente che vedo in giro, mi tranquillizzo subito».

Cosa rappresenta, adesso, la sua generazione?

«Poco. Non abbiamo avuto il 68, né il 77, e la rivoluzione di Internet non l' abbiamo fatta noi. Siamo quelli del Riflusso, degli sfiorati senza una grande storia da raccontare. Abbiamo investito tutto sull' amicizia, questo sì. E molti in questo si sono identificati, per fortuna».

Quegli amici di cui ha tanto cantato ci sono ancora?

«Alcuni sì, altri no. Cisco (di cui si parla in tante canzoni degli 883, ndr) l' anno scorso è stato il mio testimone di nozze (ha sposato l' avvocato Debora Pelamatti dopo la fine del matrimonio con Martina Marinucci, ndr)».

Da tempo il suo lavoro è stato ampiamente rivalutato, forse anche troppo: non è stufo di passare per una specie di guru della canzone degli Anni Novanta?

«No. Gli 883 sono sempre stati considerati merdacce di Serie C, frutto di una generazione vuota. Come Max Pezzali sono stato considerato un coglione fino al 2011-2012. Solo da allora, con le nuove generazioni, la percezione è cambiata e ho scoperto di avere qualche merito per tanta gente. Quindi, onestamente, me la voglio ancora godere questa rivalutazione».

Guardarsi sempre indietro, come fa lei in 7080902000, non è diventata un' ossessione ormai noiosa?

«Sì. Da troppo tempo ormai si cercano solo conferme nel passato. Piace vincere facile. Io volevo solo raccontare i miei anni, diversissimi da questi».

I giovani la seguono?

«No. Quelli di 12-13 anni, il mercato ormai è fatto per loro, ascoltano i rapper. Io posso giocarmela solo quando, crescendo, conoscono l' amore e cercano canzoni in grado di accompagnare momenti speciali della vita».

Che numeri fa su Spotify?

«Non lo so. Poca roba».

In questo disco il brano in cui si è messo più a nudo qual è?

«Qualcosa di nuovo. Mi sono scoperto dicendo che dal punto di vista più intimo rifarei tutto quello che ho fatto. E poi Se non fosse per te, in cui esprimo la mia gratitudine alla partner, cosa per me non facile perché ho sempre paura di perdere il controllo. Nella vita come nelle canzoni».

Perché?

«Roba da psicanalisi. Voglio gestire io le mie insicurezze».

Qual è la canzone preferita di Hilo?

«Di questo disco 7080902000, in assoluto Gli anni. Detto questo, l' altro giorno mi ha mandato lo screenshot del mio profilo Instagram con il like di Young Signorino e la scritta: Papà, hai vinto tutto. Insomma, mi prende per il culo».

Altri riconoscimenti simili?

«Le foto con Tedua e la Dark Polo Gang mi hanno fatto guadagnare qualche punto. Poi, però, mi ha detto: Papà, se tu vivessi a Roma ti darebbero der poeta. Non c' è storia: lui è romano, io di Pavia. La battuta la respira ogni giorno».

Cosa le ha dato il lockdown di buono?

«Io e mia moglie siamo stati da soli in campagna, a Torre d' Isola, vicino a Pavia, e siamo stati benissimo. Uno si sposa ma fino a quando non si vivono prove estreme non si può mai dire».

A Milano a luglio avrebbe dovuto fare i suoi primi due concerti in uno stadio, a San Siro. Erano sold out...

«Già. Doveva essere una festa. Che io all' inizio non volevo fare perché temevo il flop. Mi hanno dovuto convincere».

Non avete restituito i soldi - in Europa solo in Italia è successo - ma avete spostato tutto al 9 e 10 luglio 2021. È giusto?

«Non conosco le regole, ma abbiamo solo rimandato di un anno. Se dovessero saltare ancora, i soldi saranno restituiti».

Quindi non darete un buono per lo show, faccio un esempio, di Young Signorino?

«No, quello no. Ha ragione Paul McCartney (l' ex Beatle in primavera polemizzò con i promoter italiani, ndr)».

Cosa ha in mente?

«Tante sorprese. Ho invitato tutti gli amici: Mauro Repetto, Fiorello, Jovanotti, Cecchetto, Nek, Renga...».

La penultima canzone del disco è Il senso del tempo: quante volte ha pensato: Ho fatto il mio tempo?

«Spesso. Dopo Sanremo 2011 (cantava Secondo tempo, ndr) volevo smettere. La mia prestazione fu opaca e senza senso».

Quanto tempo vuole ancora andare avanti?

«Voglio cantare a San Siro e fare il tour successivo. Poi si vedrà. Niente è per sempre».

Rita Vecchio per leggo.it il 29 ottobre 2020. «Onesto. Speranzoso. Contemporaneo». È la radiografia che Max Pezzali fa del nuovo album, “Qualcuno di nuovo”. Un altro di quelli la cui uscita, prevista la scorsa primavera, è stata posticipata a venerdì 30 ottobre causa Covid. Il brano che dà titolo al disco - scritto con Jacopo Ettore e Michele Canova e prodotto a LA -  è anticipato dal videoclip in cui compare Fabio Volo che canta in playback: «Avevo bisogno delle sue skills e del suo entertainment: mi serviva la faccia di un attore per trasmettere le emozioni che volevo. É un brano nato dopo il lockdown. Un brano che non poteva non essere malinconico. Un brano che non poteva essere altrimenti». E per la prima volta, anche Hilo, il figlio dodicenne di Pezzali. Un incontro generazionale. Un po’ come nel resto del lavoro. Perché se il Boss Springsteen continua a essere il suo «faro» (lo cita anche in una canzone), non mancano i duetti con la scena più rap e hip pop: Tormento, GionnyScandal e J-Ax.

Suo figlio come è finito nel video?

«Il tema è l’amore, attraverso le varie fasi della vita. E lui è parte di essa. Non è un grande appassionato di musica. È più della generazione del gaming e del TikTok. Per questi ragazzi è la nuova musica». 

Un incontro tra “Uomo tigre” e “leone da tastiera”, parafrasando il brano 7080902020 con J-Ax. 

«È giusto che ogni generazione viva la sua. Noi abbiamo raccontato le piccole cose. Ora tocca a loro. Ogni generazione vede quella dopo come peggiore di quella vissuta. Per il resto, mi piace mischiarmi con altri mondi. Da fan dei Sottotono, in “Sembro matto” volevo ricreare il flow con Tormento. Di GionnyScandal mi ha appassionato e commosso la storia di un ragazzo cresciuto con la nonna che dal niente e con un fardello da portare sulle spalle fin da piccolo, è riuscito a ritagliarsi un posto». 

E con J-Ax?

«Vengo dal suo stesso mondo. Entrambi da ex gruppi. Lui capisce subito quello che voglio dire».

“In questa città”, c’è Roma. Anche la Roma dei cinghiali per strada. 

«Diventati oramai famosi (per chi non veniva dalla mia zona, poteva sembrare io dicessi fesserie). Invece il cinghiale frequenta regolamento il mio giardino condominiale, a Tomba di Nerone sulla Cassia (ride, ndr). É una città difficile. Non è tanto per la sindaca Raggi. Ce ne vorrebbero 5 di sindaci».

Andiamo alla realtà Covid. 

«É un problema grosso. Durante il lockdown ci eravamo attivati con Lodo dello Stato Sociale. Poi il flashmob in piazza Duomo a Milano. Poi Fedez, che ha attirato attenzione. Ognuno di noi sta cercando di fare qualcosa. Ma in Italia le categorie di liberi professionisti del settore vengono lasciati indietro. Vaso di coccio tra i vasi di ferro della società, per usare immagine di manzoniana memoria. Non ci sono ammortizzatori sociali o casse integrazione per queste persone. Il grosso dei concerti è stato perso». 

Compresi gli stadi: per la prima volta avrebbe dovuto suonare a San Siro. Tutto sold out. 

«Dobbiamo essere ottimisti. Importante è uscire da questo momento. E sarà bellissimo. Per noi cantanti è un successo quando aggreghiamo tante persone. Fare i concerti in streaming non è la stessa cosa».

A Sanremo ci pensa?

«Non mi ritengo adatto. È come in atletica: c’è chi lancia il peso e chi fa salto in lungo. Ma auguro il meglio ad Amadeus e a Fiorello perché la musica italiana ha tanto bisogno che questo Sanremo abbia successo». 

In un brano augura buona fortuna. A chi la augura adesso?

«A tutti noi. Ne abbiamo bisogno. Se arrivato per sfiga uniamo le forze per trasformata in  fortuna».

·        Mel Gibson.

Mel Gibson, è morto a 101 anni il padre antisemita. Pubblicato venerdì, 05 giugno 2020 da La Repubblica.it. È morto all'età di 101 anni Hutton Gibson, il padre dell'attore e regista Mel Gibson. Il decesso, avvenuto l'11 maggio a Los Robles Hospital and Medical Center a Thousand Oaks, non è stato pubblicizzato dai familiari, tanto che la stampa americana ha appreso della morte consultando un database della California. Nessuno della famiglia, compreso il figlio Mel (che proprio in queste settimane ha ufficializzato il sequel del film La passione di Cristo che si intitolerà La resurrezione), ha voluto confermare o commentare la scomparsa dell'uomo, noto per essere un tradizionalista cattolico, molto critico nei confronti della chiesa moderna, e finito più volte al centro di aspre polemiche per le sue opinioni antisemite. Hutton Gibson era finito spesso sui giornali sostenendo tesi e opinioni piuttosto imbarazzanti ed estreme. Era arrivato a negare la legittimità di Giovanni Paolo II come Papa, una volta definendolo un "baciatore del Corano", e aveva sostenuto che il Concilio Vaticano II era stato "un complotto massonico appoggiato dagli ebrei". Aveva definito l'arcivescovo tradizionalista Marcel Lefebvre un "compromesso". Opinioni dogmatiche che gli avevano fatto guadagnare il soprannome di "Papa Gibson". Dopo essere stato espulso da un gruppo conservatore in Australia, dove si era trasferito con la sua famiglia dallo Stato di New York nel 1968, Gibson aveva fondato l'Alleanza per la tradizione cattolica. E a partire dal 1977 aveva diffuso le sue opinioni ultra-ortodosse in una newsletter, "La guerra è ora", e in alcuni libri che si era autopubblicato raggiungendo sempre un pubblico molto di nicchia. Ma quando il figlio Mel, sesto di 11 figli, è diventato una star del cinema di Hollywood, la notorietà del padre è aumentata, spesso a detrimento dell'immagine pubblica del figlio. Nel 2003, mentre Mel Gibson dirigeva La passione di Cristo, il suo film sulla crocifissione, Hutton Gibson rilasciò un'intervista al New York Times intrisa di commenti sulle teorie del complotto, dicendo che gli aerei che si erano schiantati contro il World Trade Center l'11 settembre 2001 erano stati controllati a distanza (ma senza dire da chi) e anche che numero di ebrei uccisi nell'Olocausto era stato fortemente gonfiato. Poi, in un'intervista radiofonica una settimana prima dell'uscita di The passion del febbraio 2004, Hutton Gibson andò oltre, dicendo che l'Olocausto era un'invenzione: "È tutto, forse non proprio tutto, una finzione. Ma per la maggior parte lo è". Scatenando una polemica già strisciante sul fatto che il film fosse antisemita.

·        Mia Khalifa.

Barbara Costa per Dagospia il 14 agosto 2020. “Quei tre mesi nel porno mi perseguiteranno fino alla morte”: benvenuto alla nuova puntata della telenovela da me chiamata "I dolori di Mia Khalifa", puntata in cui tramite una raccolta di firme su Change.org si tenta non si sa come di cancellare dal web i video in cui i cattivoni del porno spacciano il ritorno all’hard di Mia l’eroina, la quale però col porno vuole averci più nulla a che fare. Mia Khalifa, per chi non sa chi è (cioè per chi in questi anni è stato su Marte, e quindi è giustificato!) spiego che è una ex pornostar oggi influencer da 21 dico 21 milioni di followers su Instagram, che vanno sommati all’armata che la segue sugli altri social, più i nuovi arrivati dal suo fresco sbarco su TikTok. Una fama planetaria, un c*lo fisso al top su Pornhub e affini, per una che ha lasciato il porno da ben 5 anni, e niente, non ce la fa, a uscire dalla mente e dal desiderio di milioni di utenti arrapati davanti ai suoi porno che sono sempre gli stessi, smerciati per nuovi, montati e rimontati ad arte per fottere la masturbatoria libido di uomini in calore per le tettone (false) di questa femmina araba (vera) islamica (falso) dalle natiche (vere, credo) svettanti in imprese anali ma adornanti pure magliette, coperte, lenzuola, utensili vari, cover di tablet, pc, smartphone, e tatuaggi. E per chi si fosse persa qualche puntata di suddetta telenovela, eccone un veloce porno-riassunto: Mia Khalifa nasce in Libano, a 7 anni si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, e dopo un mese c’è l’attentato alle Torri Gemelle. Te lo ricordi quel periodo? Vedevamo in ogni persona dai tratti mediorientali un possibile terrorista intenzionato a farci saltare in aria, e la piccola Mia, unica mediorientale della sua scuola, è bullizzata e emarginata. Finita la scuola Mia va al college e poi a vivere col suo ragazzo a Miami. Mia è grassa, piatta, e insicura, lavora in un fast-food, il suo ragazzo la opprime. Dimagrisce e si rifà le tette. Un agente porno la nota e le chiede di posare nuda. Mia accetta e, dopo le foto, firma un contratto con BangBros., casa di produzione porno al top. BangBros. è alla ricerca di ragazze arabe da lanciare in porno che ribaltino il concetto di passività islamica, mostrandole sessualmente libere, emancipate, padrone di vessare gli uomini, che se li sc*pino e si facciano scopare con sommo gusto. Mia non lo sa, ma è la persona giusta al momento giusto: il suo "Mia Khalifa is Cumming for Dinner" è un porno bomba, infrange ogni record di views, conquista la sozza attenzione generale, e Mia si ritrova da un giorno all’altro più conosciuta di pornostar di grido. Il porno di Mia è cliccato anche nel mondo islamico che si incazza a morte a vedere una donna che fa porno con l’hijab: è irridente, e blasfemo. Terroristi dell’Isis fanno circolare il fotomontaggio del corpo di un prigioniero con accanto la testa mozzata di Mia Khalifa. La ragazza si spaventa, e lascia il porno. Dal momento in cui ha iniziato a pornare, al successo fino alla minaccia dell’Isis sono passati soli tre mesi, durante i quali Mia ha girato 12 scene porno. Un’inezia, eppure sono queste le scene tutt’oggi straviste: oltre mezzo miliardo di clic. Fuori dal porno, Mia fa la contabile e la segretaria. Ma il porno la perseguita: tutti la riconoscono, sanno chi è. La cercano sui siti i colleghi, la addita chi la vede in giro. È un assedio. Mia si sposta sui social, diventa commentatrice sportiva per un canale web, poi modella, poi web-cuoca. La seguono in milioni, fan per cui è e continua ad essere colei che ha fatto porno. Capisci il dramma? Conta nulla che Mia non sia musulmana ma cattolica, conta quell’hijab indossato per compiere atti impuri in un threesome mezzo lesbico. Mia va in analisi, si trova una life-coach e su suo consiglio denuncia la sua verità: il porno l’ha usata, e ingannata. Va alla BBC, e ai giornali di carta e online ripete la sua dolente versione: lei è stata nel porno dall’ottobre 2014 al gennaio 2015, ha girato 12 scene, sono i produttori che seguitano a mettere online suoi nuovi porno, in realtà un minestrone rimontato di quelle 12 scene, per le quali è stata pagata 12 mila dollari, 9 al netto delle tasse.  Il porno l’ha truffata, lei ha firmato senza leggerlo bene e senza un avvocato un contratto che le nega i diritti di immagine e nome. Il porno l’ha molestata, sul set, dove le mani di non si sa chi sono andate oltre il consentito. Sebbene sui set siano stati tutti gentili con lei, sono stati quelli del porno a forzarla a pornare con l’hijab. Una versione dei fatti ripetuta all’infinito in posa triste, ribadita in concomitanza a ogni sua “svolta della mia vita post porno” con relativo lancio di una sua nuova vita mediatica. Ma BangBros. contrattacca e vuole denunciarla per diffamazione: con noi Mia ha firmato un contratto identico a quello che firmano le altre. Ma quali 12 mila, i dollari da lei guadagnati sono 178 mila. Nessuno l’ha costretta a indossare alcunché, e chi è che l’ha molestata? Fuori i nomi! Altri dicono che non è vero che è stata nel porno 3 mesi, v’è stata 2 anni, fino al 2017: ci sono suoi porno amatoriali. E leggi qua: a "Hero Magazine", Mia ha confessato: “Mi vergogno del mio passato, ma al contempo sono orgogliosa di ciò che ho fatto. Fare porno è stata adrenalina pura, ti senti al centro del mondo”. Porno come dopamina, e vai in down quando non lo fai. Chi mente? Chi ha ragione? Imperversano gli avvocati in cerca di un accordo. È giusto dire che Mia Khalifa sputa nel piatto dove ha mangiato? Ha credito chi le ricorda che lei è ora una potenza dei social media “grazie al porno” e che ogni cosa che fa, anche la più stupida, diventa selvaggiamente virale per quei suoi porno di 5 anni fa? Oggi Mia vive a Los Angeles, è al secondo matrimonio, è sempre cercatissima sui siti porno, non si riesce a pornamente saziarsi di lei. I suoi followers su Ig non fanno che aumentare e però, che disdetta, è stata costretta a disattivarne per un po’ i commenti perché “gli haters minano la mia tranquillità”. Mia continua imperterrita a lagnarsi del suo passato porno (“i mesi più tossici e bassi della mia vita”), dice che l’America è razzista e intanto ci vive, e con 15 mila dollari si rifà il naso “perché troppo mediorientale”, posta foto coi brufoli in quanto mostrare i brufoli è il must, e non si depila le braccia perché i suoi peli sono realtà. Mia Khalifa ha ciò che quasi chiunque vorrebbe avere: la fama. Quella vera, non millantata, enorme, social ma reale. Senti la sua risposta alla domanda delle domande: “Mia, perché hai fatto porno?” “In quel momento, sentivo un gran bisogno di attenzione maschile. Mi sono detta: ma sì, lo faccio, sarà il mio piccolo segreto indecente”. Segreto?!? Nell’era del web, e dei social?!? Arrivederci alla prossima puntata. Spoiler: Mia vuole un figlio! E però, con il suo passato porno-sozzo, come si fa? Per non parlare dei postumi da stress traumatico che il porno le ha causato e che nelle stories vengono a galla! Eh, sono problemi: tu che dici?

·        Mia Malkova.

Barbara Costa per Dagospia il 25 ottobre 2020. Mia Malkova, un nome, un culo… e che culo! È questo il thread, l’accesa perenne discussione sui social, in porno-chat e fuori: un simile, divino grosso pagnottone, è naturale, sì o no? Sì, no, non lo so, eventuali cicatrici delle culo-protesi non si vedono, e perché mai dovrebbero vedersi, qualora ci fossero, e tenessero in alto il sogno d’anal-ingresso e via vai penico, e di su e giù e a destra e sinistra e rotanti slinguate dentro siffatto oggetto di pensieri i più depravati a cui la tua, e la mia, di mente, possono arrivare? Io questo so, che i seni, di Mia, non sono veri, sono aiutati, ma più giù, lì, dietro, covo di porci sogni, chi lo sa com’è la situazione e qual è la verità, ma poi, e qui ci scommetto la cifra che vuoi, conta davvero saperlo, cosa cambia, a me, a te, a uno dei più di 7 milioni di followers culamente strabiliati che la seguono e le inghirlandano le natiche di ogni pazza brama, o insomma: se una è da 8 anni nel porno, e da subito è svettata, tra i primi posti, se dalle prime posizioni di Pornhub non la sposti, se una che nella vita non ha mai fatto un cazzo se non servire hamburger, posto lasciato dopo il primo porno-provino e la firma di sostanzioso contratto, qual è la ragione? Sì, Mia è bellissima, d’accordo, come se le sue colleghe non fossero da meno, no, la ragione è quel culo, di madre natura frutto forse sì, forse no, culo preparato, costruito a tavolino, culo che ormai non è più solo un culo, ma è simbolo, brand, è un dogma, un culto, una devozione, una roba che guai a criticarla, provaci, a entrare in un forum e a metterlo in dubbio, fare una domanda, peggio, ardire a postare che non ti piace, che c’è di meglio, fallo, e ti post-azzannano, ti post-distruggono, ti prendono a post-calci in culo. Appunto. Mia Malkova è Brass-religione, è porno-santa-dissacrazione, è colei che sai che gliene frega del porno-lockdown, dacché grazie a cotanto culo spostato su OnlyFans lei porna, intasca, e non ha fretta di tornare su set dove tuttora v’è grande Covid-confusione. Così Mia se ne sta a casa, a un cazzo fare se non pornare quando le va e come le va, e se le va in Twitch ci sta, se le gira gira video non porno in cui è guest-star, o incide canzoni. Al contrario di quanto il suo nome d’arte può far pensare, Mia Malkova non è russa, né est-europea ma americana californiana, ha 28 anni, e porna da quando ne aveva 20. Ancora: al contrario di quanto si immagina, la sua fama iniziale non si deve al suo didietro ma alla sua bocca e lingua, e al suo potere pompinatorio: le fellatio di Mia sono potenti, tecnica sopraffina in intensità, abbondante uso di saliva, fellatio che le hanno velocemente fatto vincere premi. Mia Malkova è una ragazza da idee e gusti precisi: “Amo e voglio cazzi grandi, mai meno di 20 centimetri: io sono abituata così, così è abituata la mia vagina”. Mia frantuma ogni maschia consolazione, e illusione, con lei la misura conta, almeno contava per tutto il tempo in cui è stata innamorata, fidanzata, e sposata con Danny Mountain, pornoattore suo collega. Sebbene la porno-celebrità di Mia abbia superato i confini americani, passando per l’Europa e poi atterrando in terra indiana e nipponica, qui porno-dettando legge, vestita da scolaretta, in kimono, "aperta" su un tatami, l’amore per Danny e le generose misure del suo sesso, hanno portato Mia a pensare di mollare il porno per una vita da casalinga moglie e madre. Poi ci ha ripensato, poi ha mediato, per un periodo si è data a soli porno-lesbo, ma se dio vuole ogni amore finisce, il relativo rimbambimento pure, e Mia ha lasciato Danny ma non il porno, su un set porno ha squirtato per la prima volta in vita sua (in "Cuties 4", e grazie a Manuel Ferrara) e tu nel porno la vedi e la continuerai a vedere, in "Climax", suo ultimo porno-thriller. Mia Malkova mette su porno-famiglia, e non ti allarmare, non nel senso che si risposa, bensì che immette la sua famiglia nel porno: Justin Hunt, giovane noto performer, è suo fratello, fratellastro, per la precisione, hanno la stessa madre e non lo stesso padre e, poche chiacchiere: il ragazzo è bravo, ma è entrato nel porno da raccomandato, dalla porta principale, e infatti spinta dal culo di chi…?

·        Michael Stefano.

Barbara Costa per Dagospia il 12 settembre 2020. Lo confesso: c’avevo creduto, me ne ero quasi fatta una ragione, invece non era vero niente. Nessuna porno-pensione dorata nelle Filippine: a Michael Stefano gli "tira" ancora. Dopo 8 anni! Anni di buio e silenzio totale, Michael il porno lo aveva mollato, per davvero, non come in passato, quando annunciava il ritiro e dopo neppure un anno, rieccolo, a ripornare sui set. No, stavolta mi aveva convinta, che era finita. E invece… Guardalo, è lui, un po’ più imbiancato, ma sempre divino scopatore. Dicono che per far tornare Michael Stefano, 51 anni, leggenda vivente del porno (hai un mese di tempo che ti dico tutto quello che ha girato?!?) è bastata una mail, inviata non da uno qualsiasi, ma dall’amicone suo, Maestro Claudio, regista italiano tra i re del porno USA. Poche righe, senza allegati, per farglielo porno-ridrizzare ancora: "Uninhibited Anal", su PervCity.com, è il porno che segna il terzo (o il quarto?) rientro del devastante Michael Stefano. Nato in Connecticut ma italianissimo, Michael ha tracciato un bel pezzo di storia del porno americano. Centinaia di film, da attore, regista, produttore, per il figlio di due siciliani immigrati (il suo nome all’anagrafe è Michael Vito Menta). Cresciuto coi più saldi principii, Michael studia con profitto fino a laurearsi in economia, e fino a rompersi le palle dell’est, fare le valigie e filare a Los Angeles. Lavora in un bar-ristorante dove una sera entra una coppia di clienti "speciali": sono due scambisti la cui donna mette occhi - e appetito - su Michael. Il nostro accetta, non so se si fa pagare, fatto sta che questo marito e questa moglie fanno pure video porno amatoriali, e infilano Michael nel giro. Michael fa qualche scena, compresa una gang-bang, il guaio è che viene pagato pochissimo, 50 dollari a volta. Conosce una pornostar che lo introduce nel porno professionista, e qui, stai attento: Michael Stefano è nel porno dal 1998, ma tu puoi trovare i suoi lavori sotto altri nomi d’arte, come Luciano, o Mike Long: è sempre lui, è sempre Michael Stefano che, nel corso della carriera, ha dovuto cambiare nome per casini contrattuali: fino a qualche tempo fa, i grandi studios che ti ingaggiavano pretendevano che legassi a loro il tuo nome in esclusiva. Se per qualsiasi ragione rompevi il contratto per andare a pornare altrove, dovevi per forza mutare nome. Così è accaduto a Michael Stefano, che è Michael Stefano da credo ormai 15 anni, e che si è fatto il mazzo - non solo sui set - per conquistarsi ciò a cui tiene di più: la completa autonomia artistica su quello che porna. La firma di Michael Stefano non è legata solo a performance sublimi, di porno duro e "gonzo" (cioè i porno con sola azione, senza la minima sceneggiatura), ma pure a produzioni che hanno realizzato in proprio i suoi lavori i più caldi, e tra questi meritano menzione i porno girati coi colleghi Manuel Ferrara e Steve Holmes. Secondo Michael Stefano, in una scena porno conta più l’uomo che la donna, e il motivo te lo servo subito: per Michael, la donna può essere bella quanto vuoi, brava quanto vuoi, ma se non è montata da uno stallone col cazzo in tiro al 100 per cento, non si otterrà mai un porno che vale. Ovvero i porno quelli che gira lui, che fanno bagnare le fan pazze dei suoi porno-preliminari, fin troppo “baciucchiosi” secondo i suoi fan di sesso maschile che però gli tributano ogni onore. Michael Stefano è tra i pochi che godono di generale consenso dal pubblico porno il più esigente. Piace la sua rudezza mista a classe, piace la sua bravura nelle scene di rimming e nelle più complicate a doppia penetrazione. La personalità di un vero pornostar è tale se è visibile, palpabile. Nel porno, l’atteggiamento è la chiave. È peculiarità di Michael l’ATM, sigla porno che indica l’anal-to-mouth, il passare col pene da un buco a un "altro" senza interruzioni. Dopo aver pagato e goduto su PervCity.com, fatti un giro tra i siti porno free. Tra i tanti lavori di Michael Stefano meritano una sosta "Asa reading for morning sex", i vari "Full anal access" (di cui dovrebbe far parte "Attenzione il tuo c*lo è in pericolo", mia liberissima traduzione di un porno di Michael di cui ho perso tracce), le serie Big Tits e Big Asses, e i suoi amplessi con le dive Tori Black e Katsumi. Vedi quanto è difficile, diverso, sc*pare sui set, che con la tua ragazza, nella privacy di casa tua? È una delle frasi che Michael Stefano dice e ridice, ogni volta che è tampinato da peni in erba che vogliono sapere come si fa a essere e a diventare come lui. Ragazzo, stai sul set mai come fosse un lavoro, i soldi li fai se ci metti passione più abnegazione. Fatti piacere le donne le più diverse, falle godere alle loro e alle tue condizioni (e a quelle del regista). Nel porno sei continuamente sotto pressione, è per questo che in passato Michael ha detto più volte basta. Ma stare lontano dai set è difficile. Sei come un atleta, un calciatore: fin da giovane fai quel tipo di vita, non ne conosci una diversa. “Io sono uno dipendente dalla f*ga”, scherza Michael, “e sono tornato più arrapato di prima!”. Lui non beve, non fuma, nemmeno tabacco, e il porno lo ha reso ricco dacché ha saputo bene investire i suoi soldi. Di sicuro non si siringherà più il pene come quella volta, in Brasile, 10 anni fa. Risultato? Un priaprismo di 23 ore! Un dolore allucinante, non riusciva a stare in piedi, l’hanno operato ma è dovuto stare fermo per mesi, senza poter pornare né scopare altrimenti. Un incubo. Nella sua vita privata, Michael ha avuto un legame importante, con la collega anglo-siciliana Jewel De'Nyle, da cui ha divorziato. Oggi si proclama single, ma chi ci crede? Sebbene sui set sia notorio che sia uno galante, che non ci prova con le colleghe, a me risultano almeno 6 nomi di queste che hanno avuto una liaison con lui…

·        Michela Miti.

Dario D'Angelo per ilsussidiario.net il 22 febbraio 2020. Michela Miti, icona sexy nell’Italia degli anni Ottanta, per 17 anni compagna di Alberto Bevilacqua, ha parlato con Eleonora Daniele, a Storie Italiane, della storia di violenza che per lungo tempo ha tenuto segreta. Queste le sue parole: “Io non faccio il nome di questo produttore perché è morto. All’epoca ero indifesa, ero solo una ragazzina, adesso avrei tanta voglia di affrontarlo, purtroppo prima non ci riuscivo, avevo paura.  Questa storia mi è costata anni di analisi perché non riuscivo proprio a parlarne“. Michela Miti è visibilmente commossa, le si spezza la voce nel raccontare quei momenti: “Vado lì, penso di affrontare un normale incontro di lavoro, dopodiché con una scusa l’agente se ne andò: un accordo tra gentiluomini. Dopo un po’ mi accorsi che la porta era stata chiusa a chiave“. Il racconto della violenza subita che Michela Miti fa a Storie Italiane è a dir poco agghiacciante: “Rimasi sola con lui e cominciò a vantarsi delle sue conquiste in un modo volgarissimo solo per dimostrare che lui era un uomo che poteva tutto, che aveva la possibilità di rendermi felice, diceva di essere innamorato di me, e mi avrebbe dato tutto quello che io volevo. Poi ad un certo punto io ero seduta, lui si è avvicinato a me, aveva mani grandi, orribili, mi ha preso la faccia, mi ha strappato la camicetta, io avevo una coda di cavallo, mi ha baciata, io non volevo e ho cominciato a piangere. Lui sudava, faceva schifo. La cosa più brutta, che forse non avrei mai dovuto dire, è stata: Questa carezza l’avrei voluta da mio padre, che non c’era mai stato. Lui impazzì, iniziò a dire una serie di sconcezze“. Michela Miti, evidentemente provata, ha continuato: “Io volevo andarmene, sembrava un orribile film al rallentatore. Io ho scoperto che la chiave l’aveva lui, ha iniziato a dirmi altre brutture, si è accomodato dietro la scrivania, è tornato apparentemente calmo e ha giocato la sua ultima carta: ha detto che mi avrebbe dato una casa. Io gli dissi che volevo solo tornare a casa mia. Qualche giorno dopo mi chiama l’agente e mi dice che io non ero più desiderata”.

·        Michele Bravi.

Michele Bravi torna dopo l’incidente: «Ho conosciuto il dolore totale: ora provo ad uscire dal buio...». Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Non riesce a parlarne come di un ritorno. Un nuovo singolo («La vita breve dei coriandoli»), un nuovo album («La Geografia del Buio», in uscita nei prossimi mesi) e un nuovo impegno in tv («Amici Speciali», al via stasera, su Canale 5). Tutto dopo quasi due anni di dolore totale, da quell’incidente in cui ha perso la vita una donna, che per lui ha cambiato ogni cosa. Ecco perché ora Michele Bravi non riesce a parlare del suo come un ritorno. «Non lo è. Non è facile spiegarlo, ma è come fare tutto per la prima volta. Ho un modo diverso vivere le cose, ho una voce diversa, una faccia diversa. È difficile trovare anche solo una connessione con quello che ho fatto fino ad ora».

In che cosa si sente cambiato?

«Quando subisci un trauma forte la tua vita si sposta su un livello nuovo, completamente diverso, che non parla con quello di prima. Quando rivedo le mie vecchie immagini — io a Sanremo, io su un palco di qualche tour — è come se stessi guardando non dico uno sconosciuto, ma una persona che vive nel palazzo di fronte al tuo: la riconosci ma non sai bene chi sia, non la stringi. Mentre stavo affrontando quel buio sono stato ossessionato dalla domanda che in tanti mi facevano: quando torni? Ma la questione era: chi torna? Sono una persona molto diversa».

E che persona è?

«Adesso conosco molto bene il peso dell’imprevedibile. Il male dentro di me ora ha una forma, un colore, una faccia. Non è più un concetto astratto. È come se di colpo cambiassi la lente con cui inquadri il mondo; ora vedo tanti dettagli a cui prima non badavo. Un giovane è proiettato sul futuro, lo rincorre. Adesso però io sono profondamente radicato nel presente: è un esercizio costante ma che mi ha salvato. Per tanti mesi ero assente anche a me stesso».

Nel suo nuovo disco parla di quel buio...

«Ho avuto la fortuna enorme di avere con me qualcuno che nel buio mi guidasse: una persona che mi ha preso per mano e mi ha detto seguimi. E, piano piano, se non ne sono uscito almeno ho imparato a vivere nel buio, ad accettarlo come condizione e orientarmi, senza che mi soffocasse. Questa persona mi ha dato, con pazienza, le coordinate per farlo, e mi ha letteralmente chiesto di tornare a usare la creatività per raccontare tutto questo. Sono nate così queste canzoni».

Sta parlando di un amore?

«Penso esistano legami che siano più forti dell’amore: c’è la lingua dell’amore e la lingua della vita e questo è il caso. Ci frequentavamo ma non avevo riconosciuto la sua importanza. Nel tempo ho riconosciuto la generosità che ha avuto nel capire il mio dolore senza invaderlo. Mi ha assistito mentre lo assorbivo e senza che mi accorgessi è stato il mio salvagente. Adesso si è trasferito dall’altra parte del mondo, ma c’è ancora nella mia vita: non è qui ma la sua presenza resta».

Che effetto le ha fatto tornare a cantare?

«Solo un anno fa non credevo sarei stato in grado di farlo. Dopo essere stato in silenzio per mesi, un silenzio totale, visto che per almeno due non ho detto una parola, un anno fa avevo deciso di provare, andando ospite a un concerto della mia amica Chiara. Ma non pensavo di farcela. La voce è un luogo di incontro per me, ci ritrovi le persone che si riconoscono in quello che canti. Quando per me era impossibile stabilire una connessione anche con le persone più care, era impensabile tornare a cantare. Con il tempo invece ho sentito il desiderio di trasmettere questo messaggio semplicissimo ma travolgente: bisogna farsi aiutare, il dolore non scompare per inerzia. Se non viene curato, diventa letale. Sarà una banalità ma per me è stata una rivelazione enorme e ora sto semplicemente ripetendo le cose che mi sono state dette per un anno e mezzo».

Le canterà anche in tv. Come è stato l’incontro con Maria De Filippi?

«Quando ho finito di scrivere le canzoni, lei è stata tra i primi a cui volevo farle sentire. Per molto tempo ho visto al massimo dieci persone in tutto, sono stato molto protetto. Appena ho finito il disco ho cercato di riaprirmi, iniziando da chi mi aveva aiutato, spronato. Quello con lei, ad “Amici” (come tutor nel 2017) era stato il mio ultimo lavoro, l’ultimo di quel Michele che non conosco più molto bene... già allora era molto carina nello spingere la mia creatività. Assieme a Rudy Zerbi ci siamo incontrati per capire come poter sbloccare certe cose».

Ci siete riusciti?

«Per me resta tutto strano. Entusiasmante anche, ma strano. Ero abituato anche solo a uno studio come quello dove facciamo il programma, ma adesso no. Maria mi aiuta, mi sta vicino e le sono molto, molto grato. In pochi in questo periodo mi hanno fatto sentire anche un professionista e non solo una persona con dei problemi. Lei mi guarda come un artista. Io ora spero solo che il mio messaggio possa arrivare a più persone possibili, perché ho messo in questo disco quello di cui ho avuto bisogno in questi mesi. Il dolore parla la stessa lingua e il regalo più grande che le persone possono fare alle altre è l’umanità».

Il processo per l’incidente è slittato per l’emergenza sanitaria. Come si sente per questo?

«È una vicenda che riguarda tante vite e credo che ogni volta che si ritira fuori tutto non sono l’unico a soffrire, a pagare il peso di un’esposizione tra l’altro non richiesta. Quindi sì, mi preme chiudere questo capitolo doloroso per fare in modo che tutti possano trovare uno spazio giusto per collocare quello che è successo».

La persona che l’ha aiutata adesso la seguirà in tv?

«Non riesco a nasconderle niente. Ogni volta che è uscito qualcosa su di me è corso a tradurlo e ora quando canto spesso mi capita di guardarmi attorno e immaginare di trovare la sua faccia. La voce è un luogo dove si possono rincontrare le persone, lo dicevo. Noi non possiamo viverci per la distanza, ma possiamo ritrovarci lì».

Verissimo, Michele Bravi dopo l’incidente: "Ho superato il trauma con il metodo EMDR". Redazione Tvzap il 18 gennaio 2020. “Quando succede qualcosa di così traumatico non si può pensare di uscirne da soli. L’amore non basta. Serve un percorso terapeutico e farsi aiutare per trovare il coraggio di affrontare la situazione con uno specialista. Ho seguito un metodo clinico per il trattamento dei grandi traumi – l’EMDR – che mi ha salvato e mi ha fatto tornare a parlare e a sentire”. Michele Bravi, ospite in esclusiva sabato 18 gennaio a Verissimo, parla per la prima volta in tv dopo il tragico incidente nel quale è stato coinvolto nel 2018 e a causa del quale una donna ha perso la vita: “Quando vivi un trauma cambia il tuo corpo e il modo di vedere le cose. Non riuscivo a sentire gli altri. Ero semplicemente da un’altra parte, avevo perso aderenza con il reale. Abituarsi all’assenza di suono per me, che ho sempre raccontato quello che vivevo attraverso la musica, è stato molto difficile”. Ad aiutarlo a superare il trauma una terapia chiamata EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing) ossia “Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari” lo stesso che sta seguendo Elena Santarelli dopo il trauma della malattia del figlio per aiutarla a metabolizzare il dolore.

Michele Bravi e il suo angelo personale. Il cantane confida a Silvia Toffanin di avere avuto accanto a sé la famiglia e una persona speciale: “Ho avuto una fortuna enorme: avere un angelo vicino. Lui adesso non fa più parte della mia vita soltanto perché si è trasferito all’estero. Questa persona, che posso ritenere la più importante della mia vita, è stata salvifica. Mi ha aiutato a tornare pian piano alla vita, alla realtà. Mi diceva l’opposto di quello che dicevano gli altri. Secondo lui dovevo assorbire questo dolore da solo promettendomi però che mi avrebbe tenuto la mano per tutto il tempo”. Ai microfoni del talk show, l’ex vincitore di X-Factor ricorda uno dei momenti più complessi di questo periodo, ossia il ritorno in macchina dai genitori in Umbria dopo l’incidente. “Ad affrontare con me il viaggio c’era questa persona che mi ha messo delle cuffiette con “Always remember us this way” di Lady Gaga che ho ascoltato per cinque ore consecutive. Questa canzone mi ha suggerito qualcosa che per mesi ho ignorato: tutto il rumore che mi portava in quel luogo di buio poteva essere frenato dal suono della musica. È stato un gesto che mi ha cambiato la vita”. A Silvia Toffanin che gli chiede di cosa abbia paura oggi, il cantante risponde: “Ho tantissima paura. Quella più grande è di non avere i piedi ben piantati nella realtà”.

Michele Bravi e il ritorno sul palco. L’artista è tornato ad esibirsi per la prima volta sul palco con l’amica e cantante Chiara: “Lei ha protetto la mia voce quando non riuscivo a parlare. Poter tornare a cantare al suo fianco è stato un regalo di amicizia immenso. E a proposito del rapporto con i suoi fan che hanno manifestato grande apprensione sui social, dice: “Mi spaventa ancora adesso quel modo di interloquire sui social, quell’immediatezza, ma so che c’è stato un grande rispetto e una grande partecipazione”.

Michele Bravi e il processo. Giovedì 23 gennaio si svolgerà la prima udienza del processo. Sugli scenari possibili, Bravi confida: “E’ un momento complesso. L’unica speranza che posso nutrire è che, rispetto ai tempi della giustizia, questo eco di dolore possa stritolarsi sempre di più e che tutti possano trovare uno spazio dentro di sé in questa storia”.

·        Michele Cucuzza.

«Sì al Grande fratello, no agli snob». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. Da Radio Popolare al Grande Fratello Vip, dal massimo dell’impegno al totale disimpegno. Michele Cucuzza, 67 anni, volto storico della Rai, poi emigrato in controtendenza a sud (conduttore per TeleNorba) ha deciso di rinchiudersi nella casa più occhiuta e trasparente: «Anche il reality è televisione. È l’unico genere che mi mancava e la tv è il lavoro che faccio da una vita. Ho accettato per curiosità, per mettermi alla prova, per cercare una nuova sfida. In fondo poi è solo un gioco. Sono curioso di vedere come reagirò a una serie di privazioni: niente cellulare, niente internet, niente tv». E niente privacy, regalata in pasto a milioni di voyeur delle vite altrui. Il Grande Fratello è spesso sinonimo di sesso promiscuo ripreso da telecamere e liti tra concorrenti cafoni, ma Cucuzza non ha paura di rovinare la sua immagine: «Non sono il tipo da liti televisive, capisco che una certa polarizzazione delle opinioni in tv funzioni. A me piacciono anche i punti di vista divergenti senza però degenerare. Quanto al sesso, figuriamoci. Sono ancora vecchio stile, per tenere certe cose in privato. Dunque non penso di rovinare la mia immagine, non credo che partecipare al Gf sminuisca quello che sono e quello che ho fatto. La tv ha mutato pelle, tutti fanno tutto, bisogna anche adattarsi ai cambiamenti senza fare gli snob». Da mercoledì Michele Cucuzza entra con altri 19 «morti di fama» tra le impalpabili pareti del Grande Fratello Vip (la seconda puntata già venerdì, sempre su Canale 5, conduce Alfonso Signorini). Non parla ancora in terza persona, ma riflette: «Con immodestia mi ritengo un tipo versatile, non voglio essere catalogabile in una definizione. Mi considero un personaggio singolare, fuori dagli schemi: aver fatto cose diverse non è stato un ripiego, piuttosto un privilegio».

Certamente eclettico: Cucuzza ha iniziato con le radio private, è arrivato al Tg2, quindi è passato all’infotainment della Vita in diretta («già allora mi chiedevano se non avevo paura che la mia autorevolezza potesse essere offuscata»), poi è approdato a Unomattina. Lo stop con la Rai fu improvviso: «Non c’è stato nessun attrito, semplicemente cambiano i direttori e può succedere. Forse fece effetto perché ero stato in onda per 23 anni praticamente tutti i giorni, prima da mezzobusto poi da conduttore di programmi quotidiani». L’ultima delle sue vite l’ha trascorsa a TeleNorba, tre anni di Buon Pomeriggio finiti con un «Arrivederci». Ora si apre la casa di vetro: sì certo è tv, si ovvio la curiosità, sì come no l’esperimento sociale, però l’ingaggio conta. Gratis ci sarebbe andato? «Beh, non credo. Siamo professionisti, l’ingaggio conta, era da un paio di anni che ci annusavamo con il Gf».

Dopo il Grande Fratello Vip non ha ancora progetti definiti: «Vediamo. Mi piace la comunicazione politica, infatti mi chiedo come farò a stare dentro la casa senza essere informato su quello che succede nel governo. Mi piacerebbe lavorare in quell’ambito, magari come opinionista». Chi è il miglior comunicatore politico? «Se la giocano i due Matteo: per capacità di raccogliere consensi ed esprimersi in maniera diretta, comprensibile ed efficace». La politica la deve mettere in un angolo, ora verrà giudicato da Pupo e Wanda Nara... «Fa parte del gioco, loro sono gli opinionisti del programma: devono fare il loro lavoro e noi dobbiamo accettare le loro osservazioni. Poi comunque ci saranno gli spettatori, che sono sovrani nella dinamica del gioco e decidono chi deve uscire e chi deve rimanere». Ha appena scritto un libro, Fuori dalle bolle, una riflessione sulla comunicazione, un invito a non essere passivi e a non farsi guidare dagli algoritmi. Paradossi incoerenti della vita: scrive Fuori dalle bolle, ma si fa rinchiudere in una Bolla.

·        Michele Duilio Rinaldi.

SIMONA BERTUZZI per Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. Ha amato 5mila donne ma a nessuna ha detto ti amo. E si vocifera che nel marasma di abbracci, sussurri e baci rubati tra il vento e la salsedine della riviera ci sia scappato qualche inconveniente non meglio circostanziato che lui ovviamente rispedisce al mittente, «padre io? ma le pare...» e fa spallucce dalla casa in cui campeggiano in formato 50 per 70 le foto dei seni di tutte le sue conquiste. Dici buongiorno e Duilio si presenta con guizzo guascone «sono il brigante». Scusate il preambolo ma da tempo e da quel posticino romantico e profumato di tamerici che è Bellaria, zona Cagnona, arrivava l'eco di un vecchio di 87 anni che fa ancora il bagnino sulla spiaggia per passatempo e di mestiere il playboy. Si chiama Michele Duilio Rinaldi, 86 anni («pardon, 87 il 20 luglio se Dio mi fa la grazia») e 70 di onorata carriera da sciupafemmine cominciata nel 1949 quando era uno sbarbato di 16 anni «e c'era quella ragazzetta bellina che faceva la cameriera in una villa vicino a casa. L'ho portata sul pattino in mare e ci siamo rimasti le ore tra strusci e baci, alla sera i padroni hanno chiamato i carabinieri e ci hanno portato in caserma». Inciampi del mestiere quando si va in pedana a rimorchiare. Ma il giovanotto era uno sbarbatello senza esperienza con un grande talento naturale e il sogno di diventare un vitellone orgoglioso e scanzonato. Duilio è bello anche adesso che si avvicina ai novanta. Capello fluente e bianco, mascella marchiata, l'occhio che ride e cerca ancora, e il corpo... beh, è scolpito dal sole e dall'acqua come certi scogli solitari del mare. Lui salvava le turiste trascinate dalle onde. E una volta a terra le seduceva tutte. «Sono generoso, ho fatto quello che ho potuto» rassicura «e non ho mai giocato coi sentimenti, mi innamoro di tutte ma è un amore mordi e fuggi... il mio mestiere è la seduzione, le donne le faccio sentire donne, se dico ti amo è un inganno».

TECNICA E SORRISO. Duilio aveva un metodo infallibile che è poi è rimasto lo stesso negli anni. «Andavo in spiaggia con la livella e il compasso che per essere precisi era il calibro che avevo rubato al proprietario della ditta per cui lavoravo. La livella per misurare quanto era dritta la schiena», la gobbetta o le spalle curve non si reggevano neanche allora, «e il calibro per provare la misura della caviglia della signorina ma regolabile perché si sa che anche la più bella ti frega col polpaccione». Le ragazze stavano allo scherzo, una risata tira l'altra, e alla fine ci stavano proprio. «Austriache, svizzere e tedesche erano il mio pane quotidiano» e non per scarso spirito patriottico, semplicemente le straniere «che venivano dal Nord erano freddine e avevano bisogno di qualcuno che le scaldasse. Io le coccolavo, le riempivo di complimenti e regali, un giorno un souvenir, un altro un mazzo di fiori». Ha imparato persino il tedesco a furia di portarle a letto. «Piedi di piombo e mani di velluto, anzi mani chirurgiche di questi tempi non mi faccia dire». Duilio che di mestiere è un vitellone da spiaggia, per passatempo ha lavorato e fatto di tutto, 20 anni di bagnino fino ai 35, poi 5 anni di colonia e infine a servizio nelle piscine degli hotel «con le mamme che dipendevano da me per tutto» e non so se mi spiego. Lui aveva una sola regola. Mai accasarsi. «La famiglia è una cosa seria e io non ho mai voluto prendere moglie, non rida, sarebbe stato un inganno e un tradimento perché amo da morire le donne ma amo di più il mare e il silenzio». E così le fidanzate, quando c'erano, «duravano da ottobre fino ad aprile» e con la bella stagione evaporavano come meduse sulla sabbia. «Mia mamma ci soffriva, mi diceva sposati Duilio come i tuoi fratelli che hanno il cuore d'oro e sono casa e lavoro. Ma io sono la pecora nera e non mi fermo ancora». È andato a letto con tutte e 5mila? «Bella domanda, ma non glielo dirò mai. Cento, duecento, chi lo sa». Poche quelle che gli hanno fatto perdere la testa. Una però la ricorda ancora. «Mi sono lasciato andare e sono stato troppo insistente, lei voleva e io volevo, ma la signora era felicemente sposata e dovevo fermarmi Comunque sia chiaro, quando una donna cerca un'avventura fuori casa vuole dire che in casa qualcosa manca e il marito non è stato del tutto onesto. A me è andata bene perché i mariti che ho incontrato mi hanno messo sull'attenti e non ci sono state conseguenze gravi». 87 anni e ancora va sulla spiaggia a sedurre le donne con la livella e il compasso, «una volta ho organizzato un corso di abbordaggio, cercavo il mio erede naturale ma sono venute solo le donne che i giovanotti erano spariti tutti». E non c'è neanche più lo Zanza di Rimini (al secolo Maurizio Zanfanti) con cui contendersi le avventure. Uno come Duilio non lo conquisti facilmente. «Io impazzisco per il collo, hai presente quei colli lunghi e sinuosi è la zona erotica per eccellenza. Il seno delle donne invece mi fa tremare. Ma quello bello grosso e tornito. C'è un motivo, sa. Ero appena nato e mia madre non aveva latte da darmi, le sue amiche avevano partorito da poco ma nessuna le fece mai la grazia di prestarsi per allattare me che avevo fame e piangevo». Traumi infantili che si trascinano negli anni. E poi certo c'è il sedere delle donne, «tutte le foto che faccio o quasi ritraggono il fondo schiena delle signore, ho fotografato persino Madre Natura di Bonolis mentre sale le scale, una visione».

«QUELLO CHE POSSO». Ma usa il viagra? A momenti gli viene un coccolone. «Piuttosto mi sparo, faccio quello che posso e meglio che posso, non vado oltre. Amo le donne e amo fare l'amore ma non sono un maniaco dell'amore e il viagra è roba da manici come quelli che vanno a prostitute e l'amore se lo comprano». Pausa, tocca prendere fiato con queste mascherine. «Dicevamo? Ah sì, i galloni me li sono guadagnati sul campo». Per esempio da che è famoso e lo chiamano i giornalisti non dorme la notte. «Anche la Rita (Celli) del Carlino mi ha chiamato, lei è stata la prima a parlare di me. Un grande scienziato disse "fai di me un mito e sono spacciato", ecco per me è andata così». Che poi la vita è quella dell'uomo di mare. «Mi sveglio la mattina presto e vado al mare. Mi chiedono tutti se seguo una dieta particolare e io rispondo che mangio scatolette». Ma come scatolette?!!, dai. «Scatolette al mattino, a pranzo e a cena. E non si provi a dire che una donna farebbe la differenza. Nelle scatolette c'è tutto, fagioli, marmellata e simmenthal, al massimo muoio per troppi conservanti. Vino, un pochetto e il fumo mai, se non quando arrivavano le tedesche e toccava fumare sulla spiaggia le Marlboro che erano ciminiere». Si fa di tutto per le donne. Ma non per tutte. «Sulla spiaggia gli amici mi prendono in giro, quando passa una di 70 anni mi dicono "dai Duilio fatti avanti", io rispondo sempre che ho un bruscolino nell'occhio e faccio finta di sbattere contro l'ombrellone». Insomma anche a 87 anni si guardano solo quelle dai 50 in giù. Meglio 30, a pensarci bene. E non è uno scherzo. «Ma di dov' è lei mi scusi?». Di Milano, faccio io. «Bei ricordi. A Milano ci ho lavorato a lungo, mi piaceva starci finché durava l'inverno. Solo che in ditta erano tutte donne ed era come sulla spiaggia». La livella e il compasso. Schiena dritta e la gonna che si solleva sopra la caviglia... Adesso mi sento un po' solo ma non ho voglia di prendere una compagna. «In fondo ci sono le mie foto a tenermi compagnia, io le metto sulle parete per ricordarmi di tutte le donne meravigliose che mi hanno reso bella la vita». E il tempo passa via leggero e lascia nell'aria il profumo salmastro di un peccato d'estate.

·        Michele Mirabella.

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella. Esce un nuovo manuale di scienza e ironia scritto con Settimj. Enrica Simonetti il 09 Gennaio 2020 su La Gazzetta del mezzogiorno. Persino un pessimista burbero e geniale come Arthur Schopenhauer era convinto che «la salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente». Il poliedrico pensatore e divulgatore Michele Mirabella, che oltre ad essere un noto volto televisivo è un regista teatrale di altissimo profilo e attore in tanti film dagli anni Settanta a oggi, lo ripete da decenni: «Quando c’è la salute, c’è tutto». E ora l’allocuzione - tipicamente pugliese - diventa il titolo dell’ultimo brillante saggio del bitontino Mirabella, firmato con Sandro Settimj: Quando c’è la salute (Rai libri ed. pagg. 272, euro 18). Un libro di medicina e di saggezza, un’enciclopedia di vita che presenta, in maniera piana e suadente il fior fiore delle enciclopedie non solo mediche ma linguistiche, mitologiche, idiomatiche, storiche, di geometria, musica, medicina popolare e folklore. Un vero «manuale», scritto a quattro mani con il giornalista, traduttore e sceneggiatore Settimj, che sarà prezioso per chiunque abbia curiosità intellettuali sul nostro corpo o su una malattia, una terapia. Si vola tra le pagine, grazie ad una magnifica «leggerezza» che fa parte del mondo di Mirabella e che s’impregna di scientificità, raccontando non solo la salute ma anche i suoi detti, le stranezze, le curiosità. E il bello è che si viaggia, da Sud a Nord dell’Italia, da Bitonto al mondo intero, tra i meandri del nostro corpo e quelli dell’universo scientifico. Ecco la storia del primo stupro nel mondo delle fiabe: fu pubblicata nel 1634 e il re ubriaco lo compie sulla propria figlia. Ecco la fobia di Hitchcock nei riguardi delle uova, o l’agorafobia di Manzoni, la sordità di Beethoven pronuba dell’Inno alla gioia. E ancora: il gran russare di Napoleone, causa di divorzio, mentre quello di Churchill costringe la moglie a camera da letto separata ed insonorizzata. Per non parlare della depressione di Darwin e del suo terrore di vedersi «scippare» la scoperta per cui, in 3565 giorni, completa la sua «opera monumentale», la presenta e, in un solo giorno, vende 1750 copie. Chi sapeva dello smeraldo sugli occhi di Nerone premessa degli occhiali? O di San Bernardino da Siena che inventa le figurine ed i «bocconcini toccasana» ovvero «pillole di carta, sulle quali è stampata l’immagine di un Santo, da ingerire»? Chi era al corrente della capacità di fiuto delle oche che salvarono Roma? Si legge e si resta affascinati, trainati dalla mole di racconti ben legati, capaci di diventare un unico fiume in piena verso la conoscenza. Curiosità come quella dell’imbarazzo globale per la lue del papa Giulio II, la gotta attribuita a focoso «approccio sessuale», causa di non poco incubo per il clero del tempo. Il Sud, con i suoi venti caldi, era accusato di provocare epidemie di influenza, mentre le fave furono vietate nella comunità di Pitagora, a Crotone; proprio quelle fave che, invece, erano consigliate (insieme ai fagioli) dalla medicina indiana quale terapia del Parkinson, contenendo – lo ha dimostrato 3000 anni dopo la ricerca – la dopamina, principio attivo usato ancora oggi. Tipico piemontese, invece, il grissino fu «inventato» da Tebaldo Pecchio di Lanzo, medico di corte di Vittorio Amedeo di Savoia intollerante al lievito. E ancora il neo di Marilyn Monroe che inaugura una moda e, a seconda della sua posizione sul corpo, ha un proprio significato di personalità, comunicazione, cabalistico, l’ipercolesterolemia della Gioconda, la prima radiografia, quella della mano di Anna Bertha, moglie di Roentgen, l’ambiguità sessuale della Dietrich e la sua osteoporosi che rese di carta velina «le gambe più belle del mondo». Mirabella e Settimj raccontano e ci illuminano. Il colpo della strega? Fu chiamato così perché ne fu incolpata una vecchina, madre di Keplero, che la difese in giudizio dall’alto delle proprie conoscenze. Le piantine di pomodoro offerte, nel ‘600, «dagli uomini francesi, alle dame, quale atto di amor cortese» oppure le patate, riscattate dall’accusa di veneficio e, all’epoca della Rivoluzione francese, mangiate da tutti, … tranne che da uno, il buon Luigi XVI, che fece una brutta fine. «Una notte d’amore che cambiò la storia d’Italia, quella di Napoleone III con Virginia Oldoini, l’ “ambasciatrice” inviatagli dallo statista di pochi scrupoli, Camillo Benso di Cavour», è uno dei tanti racconti gustosi. L’incredibile almanacco-enciclopedia va avanti così, tra scienza, conoscenza e ironia. Un volume che ci dice di stare in salute e di non esagerare a tavola: parola di Hitchcock, un «ciccione» con una meravigliosa fantasia, il quale però confessò che a 20 anni non era ancora mai uscito con una ragazza, neanche un bacio. Che vita senza suspense!

·        Michelle Hunziker.

Ora la Hunziker si scusa per la foto alla Scala dei Turchi: "Non sapevo dell'interdizione per il rischio frane". Una serie di foto alla Scala dei Turchi di Realmonte ha infiammato la polemica contro la Hunziker, che dopo essersi difesa fa mea culpa per aver violato l'interdizione. Francesca Galici, Domenica 23/08/2020 su Il Giornale. Hanno fatto molto scalpore le immagini di Michelle Hunziker alla Scala dei Turchi di Realmonte, in provincia di Agrigento. La showgirl svizzera e tutta la sua famiglia nella giornata di ieri si sono concessi un'escursione in barca in una delle falesie più note d'Italia. È un monumento naturale di grandissimo pregio, in lizza per entrare tra i patrimoni dell'umanità dell'Unesco, protetto da un'ordinanza di chiusura totale da parte del comune per evitare che la sua marna delicatissima continui a sgretolarsi. Inoltre, sulla Scala dei Turchi vige anche un'ordinana di sequestro da parte della Procura di Agrigento per un contenzioso tra un privato e lo Stato per la proprietà. Ignara di tutto questo, la Hunziker e tutta la sua famiglia si sono scattati bellissime foto ricordo sulla falesia. Il fatto che in un caldo pomeriggio d'agosto fosse completamente deserta non ha fatto venir nessun dubbio a Michelle Hunziker, a sua figlia e a tutto il loro gruppo. Dopo numerose fotografie sono tornati in barca e si sono allontanati, non prima di aver condiviso con orgoglio le foto sui social. A quel punto sono cominciate le proteste degli utenti, indignati dal comportamento della showgirl svizzera e di sua figlia. Le foto sono state anche segnalate alla Capitaneria di Porto di Agrigento, che in serata ha aperto un fascicolo contro la Hunziker e chi era con lei. Le polemiche sono divampate rapidamente e proprio per il clamore mediatico destato, Aurora Ramazzotti è intervenuta con una serie di video sulle sue storie di Instagram per rivendicare l'assoluta legalità del loro gesto. "Abbiamo appena pubblicato una foto alla Scala dei Turchi io e mia madre e già impazza la polemica, non abbiamo infranto nessuna norma", diceva la figlia della hunziker e di Eros Ramazzotti, che sempre più convinta delle sue ragioni esclamava: "Eravamo fuori dalla zona recintata, dove secondo voi noi andremmo a metterci? No. Quindi, tranquilli non abbiamo commesso nessun reato penale". Anche sua madre, nel post pubblicato sul suo profilo, scriveva che la foto era stata scattata "fuori dall'area protetta". Sia Aurora Ramazzotti che il suo fidanzato, Goffredo Cerza, nella serata di ieri avevano condiviso immagini con le quali spiegavano in maniera dettagliata la loro posizione, sostenendo la tesi della legittimità dei loro scatti. Tutte quelle storie sono sparite quest'oggi ma è comparso un post sul profilo di Michelle Hunziker, condiviso poi dai due ragazzi, in cui la showgirl svizzera fa mea culpa per quanto accaduto ieri: "Assolutamente in buona fede, arrivando dal mare con una persona locale, la quale ci dava indicazioni, ci siamo attenuti tutti alle regole stando al di fuori della recinzione, la quale delimita in maniera evidente l’area sequestrata della Scala dei Turchi. Solo ora ho appreso che l’intera Area è sottoposta ad un’ordinanza di interdizione per rischio frane. Venendo dal mare non ci sono cartelli visibili che indicano tale divieto". Il messaggio di Michelle Hunziker si conclude con una battuta dal sapore polemico: "Un bacio grande dalla sottoscritta che alla fine fa volentieri da faro alle problematiche burocratiche!".

·        Miguel Bosè.

Da “il Messaggero” il 20 ottobre 2020. Miguel Bosè finisce in tribunale su denuncia del suo ex. La causa, che si è aperta ieri a Madrid, riguarda il futuro dei loro quattro figli: due coppie di gemelli, nati da due gravidanza surrogate gestite autonomamente dal cantante italo-spagnolo e da colui che è stato il suo compagno per 26 anni, lo scultore Nacho Palau. Dopo la loro rottura, avvenuta due anni fa, Bosè si è trasferito in Messico con due gemelli, mentre gli altri sono rimasti in Spagna con Palau, che ora chiede ai giudici di dichiarare che i quattro sono fratelli e hanno pari diritti. «I bambini hanno bisogno l'uno dell'altro, tutto questo non ha senso», ha detto Palau in un'intervista qualche giorno fa, lamentando la separazione dei figli. E ieri, alla vigilia del processo, ha pubblicato una foto sul suo profilo Instagram molto toccante che risale a quest'estate, quando i bambini si sono riuniti per la prima volta dopo due anni di lontananza: Tadeo, Diego, Ivo e Telmo, che ora hanno nove anni, camminano insieme per una strada di campagna abbracciati. Fratelli per sempre, il commento di Palau. Nel processo lo scultore dovrà dimostrare che è stato il compagno di Bosè per quasi trent'anni - anche se la loro relazione non è mai stata ufficializzata con un matrimonio o una dichiarazione di essere una coppia di fatto - e che i quattro bambini sono il frutto del loro desiderio di formare una famiglia. I piccoli - nati tutti nel 2011 a distanza di soli sette mesi - sebbene non siano fratelli di sangue sono cresciuti come tali fin dalla nascita, accuditi soprattutto dallo scultore visto che il cantante era spesso in giro per il mondo per i suoi spettacoli. Quindi lo scultore adesso chiede di condividere la cura di tutti loro, insieme, e che soprattutto, abbiano gli stessi diritti anche dal punto di visto economico. Ora la Corte dovrà determinare la paternità, se i bimbi siano stati concepiti come un progetto di famiglia e quale debba essere il loro luogo di residenza. Decisioni non facili per i giudici visto il vuoto legislativo del diritto di famiglia (in Spagna la maternità surrogata non è prevista dalla legge) e vista la mancanza di precedenti giudiziari in materia. Il cantante è stato sempre molto geloso della sua sfera privata al punto che la sua relazione con Palau è diventata pubblica solo al momento della rottura. Anche lui ieri era presente all'udienza, ma lontano dalle telecamere: ha preferito entrare dal parcheggio per non farsi vedere. Dopo la rottura della relazione , il cantante e lo scultore sembravano aver raggiunto un accordo e la decisione di dividere le due coppie di gemelli sembrava una scelta condivisa, tanto che i media spagnoli raccontavano che Bosè e Palau, per evitare che i bambini soffrissero la lontananza, avevano pensato di organizzare un collegamento permanente audio video su Skype tra le due case. Ma evidentemente qualcosa è andato storto. E come spesso purtroppo accade a rimetterci sono i bambini.

Elisabetta Rosaspina per corriere.it il 21 ottobre 2020. Annasperebbe forse anche re Salomone di fronte alla vertenza fra i due padri: dividere, o non, a metà la prole fra i litiganti? La questione è un po' più complessa di quella che toccò dirimere al sovrano d'Israele. Davanti ai giudici del tribunale di Pozuelo de Alarcón, nella comunità di Madrid, si discute il destino di due coppie di gemelli figli biologici, rispettivamente, del cantante italo-spagnolo Miguel Bosé e del suo ex compagno, lo scultore Nacho Palau. E di madri anonime che una decina d'anni fa, negli Stati Uniti, si sono incaricate, intuibilmente a pagamento, delle gravidanze. Pur senza aver mai approfittato della legalizzazione dei matrimoni omosessuali, introdotta dal governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero nel 2005, nè aver mai ufficializzato il loro rapporto, Bosé e Palau hanno convissuto d'amore e d'accordo per 26 anni, dopo essersi incontrati nel 1992. Nel 2011 il cantante ha annunciato a sorpresa di essere diventato papà di due gemelli, Diego e Tadeo; e, sette mesi più tardi, il raddoppio, con Ivo e Telmo, anche se il padre naturale in questo caso era il partner scultore, relegato nell'ombra. L'esatta composizione della famiglia sarebbe rimasta nota soltanto agli amici, ai parenti e all'entourage di Miguel Bosé, se l'armonia fra i due padri non si fosse guastata un paio d'anni fa e, giunti ai ferri corti, Miguel e Nacho non si fossero bruscamente separati. Tallonato dall'Agenzia dell'Entrate che, in quegli stessi mesi, rivendicava un credito di quasi due milioni di euro, il cantante si è trasferito nell'estate di due anni fa a Città del Messico, con 11 valigie e due dei quattro pargoli. Quelli geneticamente di sua pertinenza. Ma forse senza calcolare la reazione dell'amante di fronte al focolare dimezzato. Il coperchio della pentola è saltato dopo una nota per la stampa dello studio legale Ortolà Dinnbier di Valencia che, per conto del suo assistito Ignacio Palau Medina, informava di essere pronto a ricorrere alle vie legali per richiamare l'altro padre ai suoi doveri. Il mondo ha appreso così, in una sola volta, che il figlio di Lucia Bosé aveva avuto un ménage di 26 anni, a dispetto della sua dichiarata avversione ai legami; che i quattro bimbi non erano tutti suoi e che la separazione avrebbe avuto un'interessante appendice giudiziaria, come in qualunque tumultuoso divorzio di gente famosa. A dire il vero, lo scultore non era poi una figura così invisibile. Anche se non aveva mai affiancato Bosé nelle serate di gala, Nacho era gradito al clan famigliare e aveva rivestito ruoli di assistente, segretario, consigliere, trascurando la propria carriera artistica. La popolarità, e gli incassi, erano prerogativa del cantante. E garanzia di una vita agiata per tutti. Dopo l'addio, Nacho, cinquantenne, è tornato a casa della madre, a Chelva, dalle parti di Valencia, assieme ai suoi gemelli e a una liquidazione. Disoccupato, ha inanellato una serie di lavori occasionali, dalla raccolta delle olive alle cucine di una residenza per anziani, a un impiego in una ditta di insaccati. Ma il problema, assicura, non sono i soldi. O non soltanto. Altrimenti avrebbe lucrato con succose interviste sui suoi anni di passione con l'interprete di «Amante bandido», «Morena mia», «Sevilla» e altri successi milionari: «Quello che voglio è che i nostri figli stiano uniti, perché sono cresciuti insieme per otto anni come fratelli» ha ribadito lo scultore lunedì scorso, dopo aver rivisto l'ex compagno nell'aula di giustizia. Al tribunale chiede di riconoscere la paternità legale di entrambi sui quattro bambini, senza distinzioni di patrimonio genetico. Il che comporterebbe ovviamente per il cantante anche l'obbligo di garantire alle due coppie di gemelli uguale tenore di vita.

·        Mika.

Da "corriere.it" il 4 aprile 2020. «Voglio scusarmi per il mio recente silenzio. La scorsa settimana è stata una settimana turbolenta per la mia famiglia, così come è stata per tante altre famiglie in tutto il mondo. Diverse persone della mia famiglia, a Parigi, hanno manifestato sintomi del Covid-19. Domenica pomeriggio, mentre stavo per andare in onda su Rai1 in collegamento da casa, mia madre, Joannie Penniman, è stata portata via in ambulanza d’urgenza». Mika, 36 anni, affida a Facebook il racconto degli ultimi giorni, colpito anche lui dall’emergenza che ha sconvolto il mondo. «Ho dovuto lasciare la diretta e aiutare mio fratello e mia sorella minori da lontano — ha scritto il cantante in un lungo post —. Mia madre sta da tempo combattendo contro un cancro al cervello molto aggressivo, e per questo motivo, mentre i giorni passavano e la sua condizione peggiorava ci è stato detto di prepararci al peggio. Ognuno a casa propria, ognuno separato dall’altro, impossibilitati a contattarla o a parlare con lei, così come tanti di voi in questo momento». Una situazione che «grazie a qualche miracolo», aggiunge Mika, «si sta stabilizzando». L’artista di origini libanesi ha poi rivolto un pensiero a chi è sul campo: «Ho una gratitudine davvero smisurata per tutte le persone che lavorano nella sanità e combattono questo virus in prima linea. Stiamo affrontando questa situazione un giorno alla volta, e siamo lontani dal poter dire di essere fuori pericolo. Il mio cuore è con tutte le persone colpite da questo terribile virus. Non potere parlare o vedere le persone che ami, mentre queste soffrono e lottano contro il male, è una cosa che spezza il cuore, e voglio esprimere veramente la mia vicinanza più profonda alle persone che sono adesso in questa stessa situazione o che, cosa ancora peggiore, hanno perso una persona che amano. Da parte mia e della mia famiglia, mandiamo tutto il nostro amore e la nostra compassione. Sono queste le due cose a cui abbiamo bisogno di aggrapparci con tutte le nostre forze, per affrontare le prossime settimane».

·        Mick Jagger.

Marinella Venegoni per "La Stampa" il 12 agosto 2020. Per un bel po', con il suo carico di quattro figlioli da accudire, Jerry Hall ha lasciato correre. Si sa che una rockstar, soprattutto del calibro di Mick Jagger, ha groupies stabilmente appese ai bluejeans; le trova dappertutto, nei ristoranti dal barbiere e nelle hall degli alberghi, per non parlare del retropalco dei concerti. Essere moglie di Mick Jagger è un «onore» che si paga. All'inizio saranno prevalse la dedizione e l'eccitazione; ma man mano che gli anni passavano - si lasciò poi sfuggire Jerry - sembrava che dopo averlo aiutato a liberarsi dalla droga più micidiale, Mick avesse sostituito quella dipendenza con un'altra che stava mandando in frantumi la loro unione. Non resisteva alle ragazze. Per lo più altissime come lei, bellissime come lei, magrissime sempre come lei. Però più giovani, e quasi tutte modelle. Il più celebre tradimento di cui si narra è quello con Carla Bruni, nel '92: un incontro così significativo che da allora la supermodel prese a studiare e comporre musica con accanimento, fino a farne un mestiere. Quella volta lì, comunque, letto il giornale, vista la foto di lui con lei, Jerry cacciò di casa il marito perché era troppo dura da sopportar, la storia con la Bruni sotto gli occhi del mondo intero. Mick adora quel segmento di mondo femminile, e sa di esercitare sulle modelle lo stesso appeal dei calciatori, anche se non è mai stato altrettanto muscoloso e il suo fascino si manifestava ora con le rughe che cominciavano a solcargli disordinatamente il viso, nascondendo i celebri labbroni del logo con linguaccia della magica ditta Rolling Stones. Alla fine, lo riaccolse in casa, Jerry. Anche per la statuaria texana figlia di un autista un po' alcolico, e dotata di un'ambizione rimarchevole, gli anni passavano, i figli crescevano. Cominciato con nozze pittoresche hyndu a Bali giusto nel 1990, dopo ben 10 anni di convivenza e ormai due figli, il decennio si rivelò pesante: nemmeno la nascita di Georgia (proprio) nel '92 e poi dell'ultimogenito, Gabriel, nel 1997, era servita a riportare serenità in famiglia. Nel 1999 a mettere la parola fine a 23 tumultuosi anni d'amore fu la nascita di Lucas Jagger, incolpevole bimbo nato il 18 maggio da una passionaccia fuggevole di Mick con la solita modella di buonissima famiglia, la brasiliana Luciana Morad. Jerry disse «basta», e con la richiesta di divorzio arrivò quella di 80 miliardi delle lire italiane di allora (quaranta milioni circa di euro). Il divorzio ebbe le sue belle complicazioni, perché il matrimonio di Bali non era stato registrato in Inghilterra. Mick si comportò da signore, e le acquistò anche una villa a Mustique dov' erano soliti passare le vacanze assieme. Lei commentò: «Mick sarebbe stato perfetto, se non fosse andato a letto con così tante persone». Mai Jagger, né prima né poi, avrebbe resistito tanto con una donna. Ma anche lei era un tipo esuberante, con le sue manie delle celebrità. A soli 17 anni, nel '73, da Gonzales nel Texas era fuggita a Parigi. Mick, all'epoca, era sposato con la prima moglie, Bianca Perez, ereditiera del Nicaragua: tra l'altro la loro figlia comune, Jade, diventò poi mamma di una bella Assisi (una delle tante nipoti) che nel 2014 ha reso Mick bisnonno. Con le famiglie di Jagger stiamo fra il gioco dell'oca e la Settimana Enigmistica, ma lui non è mai stanco. In quei primi anni a Parigi, Jerry conosce Brian Ferry, che se ne innamora e nel 1975 la immortala sulla copertina del disco Siren dei Roxy Music. Però nel '78 a un party a Manhattan, Jerry conosce Mick. Seguono addii tormentati, di lei a Brian che non la prende benissimo, e di lui alla moglie Bianca. Nasce la coppia rock per eccellenza, e a uscire a testa alta da quel lungo matrimonio in un ambiente di narcisi scatenati è soprattutto lei, che mette da parte le proprie ambizioni, e, eccezion fatta per qualche piccola apparizione nel cinema (Urban Cowboy di Bridges, Batman di Tim Burton e persino Topo Galileo nell'88 accanto a Beppe Grillo), si conferma una moglie assennata, presa dall'educazione dei figli. Certo, con il senno del poi, dal divorzio del '99 Jerry ha ricominciato a fare la Jerry, e Mick è rimasto l'incorreggibile Mick. Nel giro del Millennio s' innamora dell'ennesima modella altissima e magrissima, L'Wren Scott, poi diventata stilista. Una storia lunga e tormentata, perché Lil non ha l'aplomb di Jerry sui vizietti del suo Beau. Finirà in depressione e in suicidio nel 2014, a 49 anni, e lascerà Mick erede dei suoi beni. Lui continuerà a svolazzare e nel 2016 arriverà - a 73 anni - l'ottavo figlio (battezzato Deveraux, ma il terzo nome è Basil, basilico) questa volta da una ballerina di 29 anni, Melanie Hamrick. Però è Jerry a dare scacco matto all'ex. Con un colpo da regina, proprio nel gennaio 2016, con il supermiliardario Rupert Murdoch annuncia sul di lui quotidiano, il Times, il fidanzamento che si conclude con le nozze nel marzo successivo, alla presenza dei figli di entrambi, dieci. Seguirà silenzio dei tabloid, che sono quasi tutti suoi. Lui ora ha 89 anni e lei, con i suoi 64 da poco compiuti, pare tornata una ragazzina spensierata.

·        Milly D’Abbraccio.

Dagospia Comunicato Stampa il 2 febbraio 2020. L’icona dell’hard Milly D’Abbraccio ha un rimpianto, quello di non aver fatto un figlio con il suo storico ex fidanzato Antonio Zequila. L’ex pornostar dichiara: “eravamo una coppia bellissima nel lontano 1990, avrei dovuto fare un figlio con Zequila, sarebbe venuto fuori stupendo, questo è un grande rimpianto che ho. Conoscevo bene la mamma, il papà e la sorella ed andavo spesso a Pagani da loro, erano persone deliziose, pure Antonio conosce bene i miei figli, anzi mio figlio Mattia è stato salvato una notte da Antonio, era piccolino e l’ha portato all’ospedale Bambin Gesù di Roma perché stava male, da lì ho capito che sarebbe stato un padre perfetto! - l’ex  star a luci rosse prosegue - lui era un attore rampante, all’epoca in cui ci siamo conosciuti lavorava con il grande regista cinematografico e teatrale Memè Perlini, io ero all’apice della mia carriera di attrice tradizionale, insieme abbiamo fatto tante cose...ospitate a Colpo Grosso come ospiti vip, avevamo inscenato uno spogliarello e fu subito scandalo; poi siamo andati ospiti al Maurizio Costanzo Show più volte, tutti i giornali scandalistici parlavano di noi due. - La D’Abbraccio si appella a Signorini e agli auguri del GF Vip - Fatemi entrare nella casa del Grande Fratello Vip per incontrare Antonio, ci eravamo sempre tenuti in contatto anche dopo esserci lasciati ma purtroppo non ci sentiamo e vediamo da 10/15 anni, per questo voglio entrare in casa per fargli una sorpresa! - La Milly nazionale prosegue con il racconto - Eravamo molto legati, poi ci siamo lasciati perché lui era molto preso dalla sua carriera di attore, dalla sua bellezza alla Dorian Gray e dal suo essere esageratamente narciso e io mi sono lanciata nel mondo dell’hard, per questo le nostre strade si sono divise. Io lo conosco bene ed è difficile da comprendere, per questo nella casa viene spesso frainteso, ma io so che è un bravo ragazzo, siamo abbastanza simili, siamo entrambi partenopei, lui da Pagani io da Avellino. - e poi la confessione choc -  Zequila è un pornodivo mancato, non potevo presentargli un amica che se la voleva fare. All’epoca era un fidanzato troppo impegnativo, era fissato con il sesso in maniera esagerata, tipo Rocco Siffredi, ma molto bravo a letto e super dotato! Avrebbe potuto fare una carriera genitale come pornostar, a dire il vero io ho provato a trascinarlo ma lui ha desistito pur essendo però molto allettato da ciò; ho insistito ma poi non ha voluto. Col senno di poi ha fatto bene a non fare il porno, così non è rimasto incastrato in un ruolo come ci sono rimasta incastrata io. - Milly D’Abbraccio conclude così con una frecciatina a Rocco Siffredi - Rocco e Antonio si conoscevano all’epoca e litigavano spesso su chi fosse stato il più bello e desiderato dalle donne, erano in competizione.  Se Zequila si fosse lanciato nel mondo dell’hard sicuramente avrebbe dato del filo da torcere a Siffredi…

·        Milva.

Arianna Ascione per "corriere.it" il 16 luglio 2020. Nemmeno un’ora rimpiango. «Keine Stunde, tut mir Leid. È il titolo di un mio cavallo di battaglia (di Peter Maffay e Burkhard Brozat) , l’ho cantato tantissime volte in Germania…Vuol dire: “Nemmeno un’ora rimpiango”»: ecco cosa diceva Milva (nell’intervista del 2019 realizzata in occasione dei suoi 80 anni da Mario Luzzatto Fegiz) a proposito dei suoi rimpianti. Il 17 luglio la «pantera di Goro» - che nel 2010 si è ritirata dalle scene - di anni ne compie uno in più, e forse un piccolo rimpianto lo porta ancora con sè se si guarda alla sua tormentata vita sentimentale. «È l’uomo che ho amato di più e rimpianto sempre» diceva qualche anno fa a proposito dell’unico uomo che ha sposato: Maurizio Corgnati.

Maurizio Corgnati, il suo pigmalione.

«Penso alla morte di mio marito Maurizio Corgnati, che non ho saputo amare abbastanza, che ho fatto tanto soffrire»: cruciale per Maria Ilva Biolcati (che nel 1959 aveva partecipato ad un concorso per voci nuove, vincendolo) e il regista fu il loro primo incontro negli studi Rai di Torino, durante la registrazione del programma televisivo «Quattro passi tra le nuvole».

Lei lo colpì con una sua insolita abitudine: «Camminava scalza e portava le scarpe dentro una borsa. “E' un' abitudine che ho preso da bambina” mi spiegò. Non conosceva nulla. Per questo decisi di prenderla sotto la mia protezione». Corgnati aveva 22 anni più di lei e quell’amore, che sbocciò mentre lavoravano insieme, diede subito scandalo nell’Italia benpensante dell’epoca. Si sposarono, nel 1961, nel 1963 nacque la figlia Martina, e la coppia iniziò fin da subito a lavorare sodo: forte della sua lunga esperienza Maurizio insegnò a Milva tutti i segreti del mestiere, facendola evolvere artisticamente (fu lui ad esempio a raccontarle chi fosse Bertolt Brecht, visto che Giorgio Strehler le aveva proposto di preparare un suo monologo). Ma nel 1969 la cantante perse la testa per un altro uomo: Domenico Serughetti, in arte Mario Piave. E, dal giorno alla notte, il matrimonio finì. «Se ne andò una notte e si portò via anche la nostra bambina» raccontò Corgnati.

Mario Piave, un amore scandaloso. Quello tra Milva e Mario Piave fu l’amore più chiacchierato dell’estate del 1969: la coppia si era conosciuta l’anno prima, durante le repliche de «Il Ruzante», e dopo pochi mesi la rossa più famosa della musica italiana lasciò suo marito (non senza scatenare roventi polemiche). Una decisione di cui la cantante si è sempre pentita: «Ebbero ragione a criticarmi. È stata la più grande cavolata della mia vita. Ero giovane, avevo 28 anni, fui attratta da un mio coetaneo», raccontava nel 2007 a Io Donna. La relazione fu burrascosa: durò soltanto quattro anni, tra alti e bassi (i due litigavano frequentemente e Piave tentò due volte il suicidio). Anche a distanza di tempo Milva non ha mai più voluto parlare di quell’amore, purtroppo segnato da un evento tragico: nel 1979, qualche anno dopo la rottura, Mario fu trovato morto alle porte di Roma nella sua auto, una Fort Taunus. Era stato ucciso con cinque colpi di pistola.

Il legame con il filosofo Massimo Gallerani. «Un amore fatto di passione ma anche di tante altre cose. Certamente la vicenda sentimentale più completa della mia vita». Con il filosofo Massimo Gallerani, conosciuto nei primi anni Settanta, Milva rimase ben quindici anni. Hanno sempre vissuto in due case separate, distanti pochi metri - lei non si sentiva pronta per andare a convivere - e durante la loro relazione lui si occupò anche dei testi di alcune sue canzoni (come «L’ultima Carmen» e altre contenute nel disco del 1986 «Tra due sogni»). Era «bello, intelligente e speciale» (così lo descriveva lei) ma nel 1989 la abbandonò per una donna più giovane. Un evento che la cantante visse «come un lutto, come una morte, come la scomparsa di una persona cara». Così cadde in depressione: «È stato un grande amore. Che avrei potuto vivere infinitamente meglio, se non fossi stata sempre lontana, trascinata via da mille impegni ai quali non riuscivo, non volevo sottrarmi».

Luigi Pistilli, che lasciò tutto per lei. Fu la passione per Brecht e per il teatro ad unire negli anni Novanta Milva e l’attore Luigi Pistilli - considerato uno dei migliori interpreti delle opere del drammaturgo tedesco - che per lei trovò il coraggio di divorziare dalla moglie Liliana Zoboli, da cui era già separato: «Sono molto innamorato - raccontò nel 1990 al Corriere della Sera - ho nella testa Milva da molto tempo ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Poi, una sera a cena del gennaio ‘91, finito di recitare insieme la Lulù di Wedekind, le feci una dichiarazione come si usava una volta». Lei rispose: «Forse non dovrei dirlo ma: non potevi muoverti prima?». Si parlò di matrimonio, ma dopo cinque anni Milva interruppe il rapporto. L’attore, che soffriva di depressione, nel marzo 1996 rilasciò un’intervista al settimanale Oggi in cui attaccò ferocemente l’attrice: «Milva non ama gli uomini, lei li mastica, le fanno comodo. Lo dimostra il fatto che l' anno più felice della nostra tormentata relazione è stato il ' 95, quando ero in tournee e con "Terra di nessuno". In quel periodo Milva era molto disponibile e tenera con me, ha visto lo spettacolo sedici volte, raggiungendomi ovunque. Mi sentiva indipendente, vedeva che il mio lavoro andava bene e quindi mi stimava, non costituivo un peso per lei». Un mese dopo, il 21 aprile, si tolse la vita, impiccandosi nella sua casa di via Mozart a Milano poche ore prima di apparire nell’ultima replica di «Tosca ovvero prima dell'alba» di Terence Rattigan al Teatro Nazionale (spettacolo che era stato duramente stroncato dalla critica). Prima di morire scrisse un biglietto, in cui si scusava con la cantante per i toni usati nell’intervista: «Ho sbagliato tutto, scusa per l' articolo su Oggi. È infame». Quando la notizia del suicidio arrivò in sala - si attendeva proprio l’arrivo dell’attore per dare il via alla rappresentazione - Milva, che si trovava nel suo camerino, lanciò un urlo e si chiuse nella stanza insieme alla sua assistente. Arrivata a casa staccò il telefono, per non parlare con nessuno e ai funerali non si presentò. Per questo fu attaccata dalla stampa: «Non hanno avuto pietà, nè di Gigi, nè di me. Perchè non c'è più pudore nei sentimenti. Non c'è più compassione, nè cristiana nè, semplicemente, umana - replicò in un’intervista pubblicata su Famiglia Cristiana - Hanno scritto persino che sono fuggita in Germania pur di non essere al funerale di Gigi. Dovevo partecipare a uno spettacolo televisivo europeo dedicato a Brecht. Ho scongiurato gli organizzatori di cancellare la mia partecipazione. Nel cuore avevo un dolore immenso». A differenza di quanto è stato scritto - che era una donna fredda, incapace di amare - Milva si è sempre considerata «una donna vitale» mentre Pistilli, che lei aveva amato «in maniera che a lui non sembrava mai abbastanza», «era fortemente malato dentro, senza appigli, senza il senso della vita. Soffriva (nel giro di pochi anni aveva perso l’amata madre e suo figlio, ndr). Io ho cercato di aiutarlo e di seguirlo anche nel lavoro. La Tosca l'ho fatta per lui. Mi sono tolta un anno dal mio programma artistico per farlo contento. Ho pagato di persona perché gliel'avevo promesso, e ho sopportato le brutte critiche, gli incidenti di uno spettacolo nato male, non curato».

·        Mina.

Mattia Marzi per il Messaggero il 21 luglio 2020. Gli 80 anni festeggiati lo scorso 25 marzo nella sua casa di Lugano, senza incontrare figli e nipoti, pensando con preoccupazione alle notizie che arrivavano dall' Italia. Gli omaggi («Non tutti riuscitissimi») che le sono stati riservati dalla tv in occasione del compleanno. Il sogno di incidere una canzone scritta per lei da Vasco Rossi e il pensiero stupendo di un duetto con Achille Lauro: «Se propone la canzone giusta, mamma lo farebbe volentieri». L'idea, lanciata l' anno scorso (sulle pagine del Messaggero), di un clamoroso coinvolgimento della cantante nel Festival di Sanremo in veste di direttrice artistica, poi tramontata. Massimiliano Pani, 57 anni, non è solo «il figlio di Mina», ma anche il suo produttore, factotum e portavoce ufficiale: con il pianista Danilo Rea, il bassista Massimo Moriconi e il batterista Alfredo Golino, che da oltre trent' anni accompagnano la Tigre di Cremona in studio, è impegnato con una serie di spettacoli pensati per omaggiare la madre tra successi e aneddoti sulla sua carriera (stasera il quartetto, Pani è la voce narrante, sarà sul palco della Casa del Jazz, a Roma, per la serie dei Concerti nel parco).

Perché anche questo omaggio?

«È una mia idea. Dopo più di trent' anni di collaborazione con Mina, ho proposto a Rea, Moriconi e Golino di scegliere alcune canzoni del suo repertorio e di rileggerle in chiave jazz. Ne è venuto fuori un disco, Tre per una, uscito lo scorso autunno, che ora possiamo finalmente presentare dal vivo».

Pare che Mina sia gelosissima dei tre.

«Fu la prima cantante ad accorgersi del loro talento, quando non erano ancora affermati. Dopo l' addio alle scene decise di concentrarsi solo sull' attività discografica e volle costruirsi una piccola squadra di musicisti duttili e versatili. Gli chiese di mettere la tecnica che avevano appreso studiando e suonando per anni musica jazz al servizio di altri generi: dal funk al rock, passando per la musica sudamericana e il pop. Negli anni la collaborazione si è consolidata sempre di più».

Il suo ruolo sul palco quale sarà?

«Racconterò aneddoti sulle canzoni, cercando di ricreare l' atmosfera che si respira ogni volta che Mina entra in studio di registrazione».

Il disco del trio ha dato il via alla serie di tributi per gli ottant' anni, celebrati con diversi speciali tv. Graditi?

«Non ci sono sembrati tutti riuscitissimi. La tv fa il suo lavoro, intrattenere. È la formula alla base di quel genere di programmi, le cover delle solite canzoni, che ha stancato».

A proposito di tv: l' anno scorso lei diede la disponibilità di Mina ad assumere l' incarico di direttrice artistica del Festival di Sanremo. L' amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini, si disse aperto a un incontro. Poi?

«Mai arrivate proposte ufficiali. Forse alla Rai mancò il coraggio. L' unica condizione che avevamo posto era quella di avere carta bianca sulle scelte: Mina non avrebbe seguito certe logiche di spettacolo e si sarebbe concentrata sulle canzoni».

Tra gli artisti di oggi chi le piace?

«Caparezza. E ascolta anche la trap: mio figlio Edoardo, che ha 16 anni, le fa conoscere nuovi artisti».

Mina con l' autotune.

«Sarebbe divertente, ma a 80 anni ha ancora una splendida voce e non credo le piacciano certi trucchi».

Achille Lauro ha detto che sogna di duettare con sua mamma.

«Perché non ci manda una canzone? Con il pezzo giusto, se ne potrebbe parlare. Lauro è un ragazzo intelligente e sensibile».

E il sogno di Mina? Tra i grandi cantautori che non hanno ancora scritto per lei c' è Vasco, nei confronti del quale - in tempi non sospetti - ha ammesso di nutrire una grande passione.

«All' inizio degli Anni 80, quando esplose come fenomeno, Rossi mandò un pezzo che mamma provò a cantare ma che non sentì suo. È uno degli autori che stima e apprezza di più e sarebbe felice di incidere a 80 anni una canzone scritta da Vasco appositamente per lei».

Le loro voci si incontreranno a breve in una versione corale di Crêuza de mä di De André, con - tra gli altri - Paoli, Fossati e Nannini.

«È un progetto di Dori Ghezzi. Il singolo, che verrà fatto ascoltare in occasione dell' inaugurazione del nuovo ponte Morandi a Genova, servirà per raccogliere fondi da destinare ai parenti delle vittime del crollo di due anni fa».

Come avete festeggiato il compleanno, in lockdown?

«Virtualmente. Ci siamo collegati con lei via Skype e le abbiamo fatto gli auguri lì. Non c' era gran voglia di festeggiare, con quello che stava succedendo».

Mina, a pensarci bene, è in quarantena da oltre quarant' anni.

Le tante iniziative organizzate sui social in questi mesi non le hanno fatto venire voglia di tornare ad annusare aria di pubblico?

«Già fatto vent' anni fa, quando riapparve in pubblico sul portale di una nota compagnia telefonica. Anticipò i tempi. Oggi che tutti scalpitano per apparire, lei non fa nulla perché si parli di sé».

È al lavoro su un nuovo album, dopo Mina-Fossati?

«Provina canzoni tutto l' anno. Se ne parlerà quando i brani che la convincono saranno sufficienti per un disco».

Gli 80 anni di Mina, la registrazione inedita dopo mezzo secolo. Redazione de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Compleanno con inedito per Mina. In occasione dei suoi 80 anni il sito La Provincia di Cremona ha deciso di fare un regalo alla cantante e a tutti gli estimatori della sua musica. A partire dalle 10,30, sarà possibile ascoltare un frammento inedito della registrazione che nell‘autunno del ’58 Mina incise nello studio milanese del fisarmonicista Wolmer Beltrami. Un documento esclusivo rispolverato in occasione degli 80 anni della portentosa voce, simbolo della musica italiana degli anni ’60. Nella registrazione l’artista esegue il brano “Rimani“, scritto da Beltrami insieme a Fiorenzo Fiorentini. A riportare alla luce il documento è stata proprio la figlia di Beltrami, Fiorenza, che ha spiegato: “Sapevo di quella registrazione che papà aveva dapprima inciso con l’impianto che aveva all’epoca e che poi negli anni Sessanta aveva riversato su una musicassetta. Mio padre fu immediatamente colpito da quella giovane cantante“. E ha aggiunto: “Mi piacerebbe che oggi, a distanza di tanto tempo, ascoltasse anche lei quel frammento inedito”.

Da ilfattoquotidiano.it il 26 marzo 2020. Alcune delle canzoni più belle del repertorio di Mina come “L’importante è finire”, “Ancora ancora ancora” e “Mi mandi rose”, sono state firmate da Cristiano Malgioglio. Dal primo incontro in via Senato a Milano (“letteralmente ai suoi piedi, implorante”), alle loro strade che si incrociano di nuovo per il boom di “L’importante è finire”. Un rapporto fatto di risate e complicità. La Mina più sensuale scaturisce proprio dalle parole di Malgioglio che per FqMagazine svela alcuni aneddoti inediti sulla “sua” Mina.

Il ricordo legato a Mina, a cui sei più legato?

«Durante l’ultima serie di concerti alla Bussoladomani nell’estate del 1978. Una delle canzoni di punta di quel concerto era la mia canzone ‘Ancora ancora ancora’. L’ho incontrata nel pomeriggio, dietro le quinte, mentre sorseggiava whisky ed era molto nervosa, passeggiava in continuazione. Le chiesi perché fosse così nervosa: ‘Mina, ma hai visto che la gente è fuori di testa per te, mai vista una cosa del genere nemmeno i Beatles a Genova!. La gente urlava il nome di Mina cento volte ancora di più. Lei mi disse: "Cristiano sono angosciata, non mi ricordo la seconda parte della strofa di Ancora ancora ancora". Glielo ripetei, lei mi ascoltava e memorizzava, ma dopo un po’ non se la ricordava più. Così mi fece: ‘ti ho visto sotto il palco l’altra volta e le sai tutte, quindi quando attacco il pezzo ti cerco, così mi suggerisci. Quella sera avevo vicino Adriano Panatta, Gloria Guida e Mia Martini. Ad un certo punto mi alzai in piedi per cantare Ancora ancora ancora ma purtroppo venni travolto dalle persone… Così se ascoltate l’album live di quella sera, sentirete che ha cantato per due volte la stessa strofa perché non se la ricordava».

Cos’è successo, dopo quel concerto?

«Abbiamo cenato insieme, poi abbiamo tirato fino all’alba per comprare le brioche. Abbiamo letto tutte le recensioni, tutti ne parlavano in modo superlativo tranne il giornalista Nino Salvalaggio, ma perché Mina non si era voluta fare intervistare da lui. Ricordo che ci rimase davvero male».

Il primo incontro a quando risale?

«In quel periodo lavoravo a Milano, nella discografica di Dori Ghezzi. Ero molto amico di Dori che frequentava Mina, perché amica del suo fidanzato dell’epoca, Alfredo Cerruti, e le chiesi di mettermi in contatto con lei per poter avere la possibilità di presentarmi. Una mattina, erano le 9:30, stavo raggiungendo gli uffici della discografica che stava in via Manzoni, nello stesso stabile di Indro Montanelli. Ero all’altezza di via Senato e ho visto un sacco di gente accalcata. Ho pensato che fosse successo qualche incidente e mi sono avvicinato per la curiosità. Lì invece è apparsa lei, Mina, bellissima con un vestitino a fiorellini, lo stesso che aveva indossato Carolina di Monaco, identico. Io mi sono buttato verso di lei, urlando, Mina, ti prego, ti scongiuro, ascolta le mie canzoni. Penso di aver strappato un po’ il suo abito da dietro».

Sei riuscito a strapparle il famoso appuntamento?

«Sì. Mina mi diede appuntamento alle nove l’indomani. Al mattino mi svegliai presto, alle 7, mi misi la cipria e mia madre mi chiese perché ti sei svegliato così presto?, Mamma ho un appuntamento con Mina, e lei Sì. Io con Sophia Loren….. Non ci credeva! Arrivai da lei alle 9:10 e la porta me la aprì lei stessa con lo stesso vestito del giorno prima, facendosi una grande risata, con i capelli tutti tirati indietro. Carissimo, sono le 9:10, sei in ritardo, se vuoi fare questo mestiere non deve succedere, mi disse subito. Insomma alla fine mi misi sul divano con una chitarra, non la sapevo suonare, perché voleva ascoltare qualcosa da me. Strimpellai qualcosa ma in maniera disastrosa, ma continuai a suonare lo stesso. Allora lei tutto ad un tratto è scoppiata in una lunga e fragorosa risata, mentre io sono diventato rosso dall’imbarazzo. Mi disse: ‘Dai, ci vediamo un’altra volta, comunque sei bravo».

Effettivamente le vostre strade si incrociano nuovamente con la prima collaborazione “L’importante è finire”, cos’è accaduto quel 1975?

«Il mio discografico mi mandò a Parigi per incontrare e collaborare con il cantante Cristophe, che poi mi ha presentato anche Serge Gainsbourg. L’importante è finire è nata in quell’occasione, in un albergo sugli Champs-Elysees, in una notte insonne. Non ci fu alcun interesse per quella canzone all’inizio. Poi conobbi Alberto Anelli, che la volle musicare interamente. Abbiamo poi mandato il provino a Vittorio Buffoli, che lavorava a stretto contatto con Mina. Lei se ne innamorò perdutamente. Poi ci siamo incontrati in studio e all’inizio non mi riconobbe. ‘Mina, ma sono io, Cristiano!’, d’un tratto si ricordò e mi abbracciò tra le risate. L’importante è finire è stata una canzone molto importante, censurata dalla Hit Parade radiofonica di Lelio Luttazzi, perché ritenuta troppo scandalosa. Con quella canzone penso di aver fatto innamorare tantissime persone e sono nati tanti figli (ride, ndr)».

Poi arriva “Ancora ancora ancora”…

«Vorrei dire una cosa. Molti autori mi hanno imitato, proponendo altre cose a Mina. Io però ho una sensibilità femminile che mi ha contraddistinto ed è questo che è piaciuto a lei. Avevo portato a casa di Mina un altro pezzo, ma lei ringraziandomi mi disse non mi piace, alla Bussola voglio una canzone pazzesca, questa buttala via, non riesco a cantarla. Si chiamava Rincontriamoci. In quel periodo io avevo una storia con un ragazzo bellissimo, siciliano, ma dopo tre mesi ci siamo lasciati e non riuscivo più scrivere. Una sera è squillato il telefono, ho pensato fosse mia madre. Invece era lui: Ma tu mi ami ancora? È tutto finito?… Ad un certo punto ho avuto un flash sulla parola ancora. Ho staccato la spina e in due minuti ho scritto il pezzo. L’indomani lo feci avere a Mina che impazzì: ‘Sono pazza di questa canzone!’ e la incise subito. Anche il video della canzone è di una sensualità e di una bellezza pazzesca. Per lei ho scritto anche molte altre canzoni come Mi mandi rose, Amante amore… Sono stato la sua fortuna e lei è stata la mia fortuna».

L’ultima collaborazione a quando risale?

«Nel 2009 con Carne viva, canzone all’interno dell’album Facile. Un brano nato durante la mia partecipazione all’Isola dei Famosi nel 2007. Non avevo la penna, così raccoglievo dei pezzetti di legni inceneriti per scrivere le parole che mi venivano in mente. Una volta uscito dal gioco mi sono subito messo a scrivere il pezzo. Sapevo già che l’avrei dato a Mina, solo lei poteva cantare parole come sono la tua vitamina la tua penicillina, il tuo pentimento il tuo cedimento, la tua compassione la disperazione. Così glielo mandai, ma senza risposta. Mi trovavo un giorno a Madrid, quando ricevetti una telefonata da un numero strano Cristiano, ciao sono la Mazzini! e io: Sì, ciao… e io Garibaldi. Poi riconobbi la sua risata inconfondibile: Cretina scema, sono io, sono Mina!. Mi è venuto da urlare. Tra l’altro ‘Carne viva’ è stata anche la sigla di una telenovela brasiliana di successo immenso. Da allora ci siamo persi di vista. Ho iniziato a lavorare in tv e a scrivere meno. Un brano per lei lo avevo, ma poi ha inciso il disco con Celentano. Poi ne avevo un altro, bellissimo, ma è uscito il disco con Fossati».

Cosa ti piace di più di lei?

«Lei, quando canta, riesce a dare un senso a quello che dice, a quello che racconta. In Italia rimane la numero uno e la più grande voce bianca nel mondo. Nel nostro Paese poi ci sono anche altre voci belle come Ornella Vanoni, Milva, Iva Zanicchi. Poi ci sono anche Patty Pravo e tante altre. Tra i giovani la voce che tocca il mio cuore è quella di Arisa, anche se secondo me ha cantato canzoni sbagliate. Lei nella voce ha lo stesso dolore che aveva Edith Piaf».

Mina fa 80 anni, mito della musica che creava stupore e se ne stupiva. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Tintarella di luna, tintarella color latte, quando c’è la luna piena tu diventi pallida, erano versi surrealisti altrettanto sfrontati quanto mi dipingevo le mani e la faccia di blu per volare più alto nel cielo infinito. Mina e Modugno avevano scardinato gli schemi della canzone melodica con i piedi e i versi per terra, per avventurarsi verso un mondo astratto e trasognato alla Chagall di cui gli italiani ancora freschi di guerra e di realismo socialista e fascista, godevano respirando ossigeno. Il passo successivo Mina lo avrebbe fatto affrontando il sesso, l’orgasmo femminile, la gioia e il diritto alla gioia, alla sessualità e alla parità di diritti erotici di donne e uomini. Mi rendo conto adesso e solo adesso di essere coetaneo di Mina. E che quando a vent’anni trasalivo di stupore e ammirazione per questa creatura che trasmetteva libertà, avevo vent’anni anch’io. Anche questa è una rottura di schema: allora pensavo (senza fermarmi a pensarlo) che Mina non avesse età e che fosse una entità iperurania incline al gioco, ma vibrante e già eterna. Invece era una giovane ragazza di Busto Arsizio nata domani, 25 marzo, del mio stesso 1940 e che dunque anche lei fa parte di questa nostra generazione di ex giovanissimi improvvisamente e senza ragione già stupiti ottuagenari, quelli di cui è politicamente ipocritamente corretto dire che sono, siamo, il patrimonio della memoria del Paese e tutte le altre offensive scemenze che si borbottano oggi mentre gli ex ragazzi finiscono a carrettate nelle bare dei camion militari del coronavirus o trasferiti in oscuri crematori che ridurranno in cenere le loro agonie solitarie e disperate, proprio perché solitarie. Chi muore oggi all’età che compie oggi Mina, leggo, chiede per cortesia agli infermieri bardati come cavalieri della morte un tablet, anzi un iPad con cui tentare un’ultima video-chiamata via Face Time per dire addio, farsi dire addio, lasciare una traccia, magari on line agli sbalorditi devastati figli e nipoti al di là di una saracinesca di piombo. Scopro che con Mina ho in comune una nonna di nome Amelia e questo mi fa sorridere, ma non so perché. Lei, Mina, dando prova di un pudore non meno sconsiderato della sua carnosa bellezza, da anni si è sottratta all’immagine rendendosi saggiamente scomparsa, perché non ha voluto dare in pasto le sue sembianze di creatura umana e si è negata alla diffusione dell’immagine. Ma, da adolescente negli anni Cinquanta, aveva combattuto la sua graziosa guerra di liberazione di suoni e melodie irraggiungibili e talvolta strampalate, comunque modernissime e di rottura, con mille e cinquecento brani. Brani che portava ai festival di Sanremo, alla mostra internazionale di musica leggera, aveva vinto già la targa Luigi Tenco (il delicato talento morto suicida) e si era guadagnata uno di quei titoli cretini che si usavano allora: lei era “la Tigre di Cremona”, contrapposta a Milva – più carnosa roca fulva e ormonica – cui spettava il titolo zoologico di “Pantera di Goro”, mentre la più mite Iva Zanicchi volava a spire concentriche essendo “ l’Aquila di Ligonchio”. Tutto ciò alla gente piaceva perché queste cantanti erano considerate dive e godevano di uno speciale lasciapassare sul quale la Chiesa cattolica apostolica romana mugugnava e masticava amaro (Amintore Fanfani aveva imposto che le ballerine televisive della domenica pomeriggio indossassero un body grigio e lanoso che allontanasse cattivi pensieri e turbamenti manuali di adolescenti pustolosi e sempre vergini) e costituivano un Olimpo separato dal mondo, come le divinità greche o i super eroi americani. Ma erano sulla scena anche le grandi divinità internazionali che adoravano Mina, come Frank Sinatra, Placido Domingo, Liza Minnelli, Louis Armstrong (che era un ospite fisso e prediletto della televisione italiana, spesso con l’eroico e dimenticato Quartetto Cetra). Inventò la cantante “urlatrice”. La sua tecnica canora era formidabile fin dall’inizio e si poteva permettere vocalizzi che spaccavano i vetri, e infatti li spaccava. Era in un primo momento una ragazza di balera, stava con gli Happy Boys du Nono Donzelli, nevrotica, si infuriava perché il pubblico interferiva nei suoi sentimenti vibranti con gli applausi, rubava il vestito da sera della madre che le cadeva storto, poi la casa discografica col padre, insomma non voglio barare: non sono il biografo di Mina e la cronologia sta tutta su Internet, ognuno se la può andare a rivangare, tanto ne abbiamo di tempo da perdere. Ma vale la pena dire ciò che forse oggi conta e quel che la rende ancora unica come persona, oltre che la voce straordinaria e la sua indole artistica: lo stupire. Creava subito stupore ed era acclamata e se ne stupiva. Ne soffriva. Poi si entusiasmava e poi cadeva in una trappola di emozioni contraddittorie ma con questo pubblico che l’aveva scelta, prescelta, da cui fuggiva e poi si identificava e che però tendeva a divorarla come sempre fa il pubblico cannibale dei suoi idoli, e al quale lei voleva e non voleva dare tutta se stessa. Anzi non voleva affatto o almeno non più di tanto. Cioè in fondo nulla, tanto che oggi non sappiamo dove sia, che faccia, come passi le giornate e ogni tanto qualcuno fa uno scoop perché l’ha vista, l’ha intuita, l’ha immaginata. Questo la rende grande come fenomeno collettivo e identitario, oltre le canzoni che sono state scritte per lei e di cui lei si è appropriata interpretandole in un modo che nessuno poteva imitare. La sua vita privata diventò pubblica e dunque anche ecclesiastica, cioè sottoposta a censura secondo le regole dell’Index e quando ebbe nel 1963 un figlio con Corrado Pani, sposato, la televisione di Stato come qualsiasi Ayatollah le comminò la sharia dell’invisibilità.

Ma gli italiani avevano da un pezzo mangiato il frutto proibito e volevano fare sesso, parlare di sesso, sdoganare il sesso, avere una testimonial femmina sia per le femmine che per i maschi che usavano (senza saperlo) lei per farlo sapere: applaudire una donna che canta la gioia nell’orgasmo e che spacca il tabù assoluto secondo il quale – ancora allora – la donna tutt’al più può invocare lo stato di vittima sopraffatta dall’irruenza di un maschio infoiato che lei avrebbe dovuto, ma non ha saputo tenere a freno malgrado avesse graffiato e scalciato. E invece – eccola là – più arrapata dei maschi ma in un modo che è soltanto femmina, canta l’amore, lo pratica e ne testimonia la temuta leadership femminile. Canta “È l’uomo per me”, flirta allegramente con attori allegri e spudorati come Alberto Sordi (per cui canta il tema di “Fumo di Londra”), canta una canzone femmina e geniale scritta per lei da Lina Wertmuller, si offre “Come tu mi vuoi”, dà la spinta decisiva a Fabrizio De André che aveva fino ad allora tradotto e cantato le canzoni di Georges Brassens e per lui porta al trionfo “La canzone di Marinella”. Nel 1978 dopo aver molto inciso per la casa discografica fondata col padre, decise e annunciò il ritiro dalle scene, prima di compiere quarant’anni. Poi, gode la propria scomparsa, amministra apparizioni fantasma, ama essere evocata e rievocata, essendo saggiamente viva e vegeta. E libera. Libera di non apparire come la vogliono le folle, libera di avere un corpo di un’altra età, libera di navigare fra passato e presente senza mostrarsi, con una disciplina che la rende sempre più irraggiungibile, benché canti ancora – su disco – con Adriano Celentano, ma dal suo aldilà terreno e invulnerabile. Ha venduto più di 150 milioni di dischi e i suoi video registrano decine di milioni di contatti, il che dimostra che da molto tempo Mina la Tigre si è assunta in un suo cielo ad amministrazione gioiosa e controllata, nei panni di vestale eterna riuscendo nel più prestigioso dei giochi di prestigio: sottrarsi all’invecchiamento, allo scempio dell’immagine, alla decadenza che non è mai arrivata. Dunque, manca anche a noi, ma non vorremmo mai che per soddisfare noi guardoni coetanei rompesse la sua clausura, lei che è autoimmune alle ingiurie della vita anche in questo momento di mortale stupore ed epidemica angoscia. Mina è ben viva e ci aspetta a fine pandemia: in fondo, dopo la catastrofe di un secolo per la febbre “Spagnola” che uccise centocinquanta milioni, non seguì la depressione psichica globale, ma il Charleston, il Grande Gatsby, le gonne corte di perline e capelli a caschetto, la voglia di follia di quegli altri Anni Venti, e Mina è già là.

Ottanta voglia di Mina. L'irripetibile fenomeno del pop. La nostra più grande cantante si divide in due fasi Prima e dopo il ritiro. E in entrambe è stata unica. Paolo Giordano, Domenica, 01/03/2020 su Il Giornale. Mica facile dire Mina. Dipende a quale Mina si pensa, perché ciascuno ha la propria: l'interprete, la ribelle, la prima a giocare con la propria immagine e la prima a eliminarla per sempre. Il 25 marzo Mina Anna Maria Mazzini compirà ottant'anni ma per tutti è senza età. La sua voce, quella che persino Sarah Vaughan invidiava, è rimasta identica a come la sentiamo in Tintarella di luna, sessant'anni fa esatti. E il suo aspetto, boh. Non ci sono foto ufficiali da tanto tempo, soltanto scatti rubacchiati qui e là, un caso unico al mondo che resterà tale perché oggi, se non ci metti la faccia, non esisti. Lei esiste lo stesso, un disco all'anno, di ogni genere, l'ultimo con Ivano Fossati tanto per gradire. Quando cantò per la prima volta in pubblico, nell'estate 1958 alla Bussola di Marina di Pietrasanta, faticò a scendere dal palco. Vent'anni dopo ne è scesa per l'ultima volta, sempre lì vicino alla Bussoladomani e da allora basta, lo sappiamo tutti. Era «avanti» allora perché nessuno l'aveva mai fatto e chi l'ha fatto ci ha sempre ripensato. Ed è «avanti» anche oggi perché, nell'epoca dell'immagine a tutti i costi, nessuno si sognerebbe di sparire. Anche se sei Mina, adesso o appari in tv e sui social oppure ciao. O fai concerti oppure con i dischi difficilmente mantieni il pubblico e il tenore di vita. E invece. Lei non ha mai scritto una canzone eppure le canzoni che hanno scritto per lei è come se fossero sempre state sue. Il prodigio dell'interprete perfetto. Come racconta spesso suo figlio Massimiliano Pani, per Mina in studio di registrazione è quasi sempre «buona la prima». Lei studia la canzone, la prova, la pensa e ci ripensa et voilà: la canta e va bene subito. Forse per questo ognuno di noi, generazioni di figli adottivi di Mina, ha un'idea diversa di questa «lungagnona» (ipse dixit), un'idea che Luca Cerchiari spiega bene in Mina. Una voce universale (Mondadori, pagg. 456, euro 20). C'è chi si riconosce nell'irruente provocazione gestuale de Le mille bolle blu, con le dita che roteavano sulle labbra. Figurarsi, era il Sanremo 1961 (il suo ultimo) e il pensiero più comune era che lei avesse voluto prendere in giro il pubblico, pensate un po'. C'è chi la ricorda per il gesto provocatorio di avere un figlio, Massimiliano, da un uomo formalmente sposato con un'altra donna, roba che nel 1963 diventò una bomba atomica nel nostro costume. Una foto del settimanale Epoca la ritrasse incinta mentre rideva e sotto c'era la didascalia «Cosa avrà da ridere?». Mina a Playboy confermò che «me la ricorderò tutta la vita una cosa del genere». Quella fu una delle scintille che pian piano scatenò l'incendio. Fatta apposta per suscitare interesse, lei così bella e così brava e così anticonvenzionale, fu mitragliata dai paparazzi e dalle insinuazioni. Oggi è la regola e quasi tutti gli artisti sono obbligati, magari a fatica, a farsi gli anticorpi. Allora no. E quindi la Mina peccatrice, la Mina sovrappeso, la Mina diva e la Mina odiosa con i colleghi iniziarono ben presto a coprire l'unica vera Mina, ossia quella brava e «solitaria», come il secondo gruppo della sua carriera, quei Solitari fondati a Cremona nell'inverno del 1958. Intanto lei era passata dal rock'n'roll urlato alla canzone d'autore prima di arrivare al jazz e al soul. In tv, poi, era una superstar già dai tempi del primo Studio Uno di Antonello Falqui nel 1961 e figurarsi poi a Canzonissima con Walter Chari e Paolo Panelli (1968) oppure a Teatro 10 del 1972, specialmente in quei nove minuti di duetto con Lucio Battisti che cambiarono la nostra canzone e anche un certo modo di fare televisione. Proprio in quell'anno Mina, che era diventata mamma anche di Benedetta, aveva annunciato l'addio alle scene che poi, un concerto qui e un disco là, diventò effettivo soltanto sei anni dopo. Quella sera sul palco dellla Bussoladomani prima di lei salì un comico perché ogni serata era aperta da un artista della risata. Walter Chiari. Gino Bramieri. La Smorfia. E quella sera, quasi per un perfido gioco del destino, toccò a Beppe Grillo. Fu l'ultimo concerto di Mina, quarantadue anni fa. Da allora, per circa venti anni, ciclicamente si sono alternate voci su di un suo possibile ritorno in scena, sempre più rare, sempre meno credibili. L'ultima volta, quando si è parlato di lei come direttore artistico all'ultimo Sanremo, ci hanno creduto in pochi. Lei a selezionare i cantanti di Sanremo. Proprio lei che, dopo l'ultima volta nel 1961, giurò che non avrebbe più fatto parte di gare canore. E proprio questa coerenza estrema l'ha conservata giovane per sempre. Mina incide regolarmente un disco all'anno, che ogni volta diventa un evento. Merito delle canzoni, spesso chieste ad autori imprevedibili oppure scelte nel repertorio di artisti lontanissimi per età, stile, genere musicale. E merito anche dell'immagine ormai sublimata che questa artista è riuscita a costruirsi ben prima di tante altre, da Lady Gaga in avanti. Certo, c'è sempre la firma di Mauro Balletti, che ha preparato la prima copertina di Mina nel 1973 e da allora l'ha rielaborata decine, centinaia di volte, trasformando «la tigre di Cremona» in un mutante favoloso e fascinoso, capace di deformarsi senza perdere i propri connotati. Anche per questo, a ottant'anni, oggi Mina Mazzini rimane senza età, perché ognuno di noi le dà quella che vuole, giovane o vecchia ma comunque eterna.

Cristiano Malgioglio, "devo tutto a quella telefonata": come è nata "Ancora", scritta per Mina. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 25 marzo 2020. Francesco Fredella è nato nel 1984. Pugliese d'origine, ma romano d'adozione. Laureato in Lettere e filosofia a pieni voti, è giornalista professionista. Si occupa di gossip da sempre diventando un punto di riferimento nel jet-set televisivo. Collabora con Libero, Il Tempo, Nuovo (Cairo editore). E' uno degli speaker della famiglia RTL102.5, dove conduce un programma di gossip sul digital space. E' opinionista fisso di Raiuno e Pomeriggio5. Tutti vorrebbero rivederla sulle scene. Ma Mina non torna. Sarebbe un sogno, il più grande regalo per tutti. Nella sua grande casa di Lugano Mina lavora, produce canzoni che sono sempre un grande successo e non rilascia interviste. Oggi compie 80 anni. E tutto il mondo della musica e delle tv le fa gli auguri. Adesso - nel giorno del suo ottantesimo compleanno- un grande successo di Mina, scritto da Malgioglio, non ha più segreti. Stiamo parlando di Ancora, ancora, ancora - un vero evergreen della musica italiana. È stato uno degli ultimi brani cantati da Mina alla Bussola, prima del suo addio alle scene. Era il 1978. Malgioglio ci svela in esclusiva com’è nato. “Avevo scritto un testo per Mina. Doveva cantarlo alla Bussola. Ma quella canzone non le piaceva. Mi disse che aveva poco sex appeal - racconta Cristiano a Libero. Mi ero lasciato da poco con un mio fidanzato. Ero abbastanza triste in quei giorni. Ma decisi di rimettermi a scrivere. Tornai a casa per scrivere un altro testo e squillò il telefono per decine di volte - continua la Malgy -. Alla fine risposi. Era lui. Il mio fidanzato che mi aveva lasciato pochi giorni prima. Mi disse: Mi ami? Io risposi si. E lui: Dimmelo ancora, ancora, ancora. Mollai la cornetta. In due minuti scrissi quel brano. Auguro a Mina tutto il bene. È un’artista straordinaria e la sua voce fa sognare l’Italia ed il mondo intero”.

Marco Molendini per Dagospia il 24 marzo 2020. Le star della musica spesso assomigliano a Peter Sellers in Hollywood party di Blake Edwards, trombettiere comparsa che non vuole morire per allungare la sua parte. Tendono ad attaccarsi alle tende del loro successo, non mollano neanche se gli sparano e, se annunciano ritiri, quasi sempre si tratta di uno stratagemma per rinverdire il la fama spingendo sull'onda delle emozioni. Per questo il caso di Mina è speciale: desaparecida senza pentimenti. Non credo che abbia mai vacillato, che abbia subito la tentazione di apparire, di squarciare quel sipario che per 42 anni le ha fatto da prodigiosa protezione. Eppure le suggestioni ci sono sicuramente state. Probabilmente molto persuasive, anche se scartate. Ora che l'ex Baby Gate, l'ex Tigre di Cremona che si faceva donare una tigre a pois dal suo amico marajà, compie 80 anni (il compleanno è mercoledì), il suo compleanno diventa una celebrazione dell'isolamento che cade, curiosa circostanza, in giorni di forzato isolamento collettivo nazionale. Quella scelta, «Non gioco più, vado via» come cantava rappresenta il fatto più importante della sua carriera: più di quell'uscita impertinente dal juke box del Musichiere, più dei tanti successi, più delle conduzioni televisive, più degli scandali privati che pure hanno contribuito a formare il personaggio. Certo, non più della sua voce, strumento superbo dal timbro caldo, immediatamente riconoscibile, dotato di estrema duttilità, sostenuta da una tecnica raffinata. Un canto non provinciale, influenzato dal graffio delle grandi voci nere (l'esuberanza di una Sarah Vaughan) eppure profondamente italiano. Ma il suo esilio mitologico ha aggiunto il tocco in più che apre il cammino dell'immortalità, ha fermato il tempo. Mina è rimasta quella che era, scolpita nella memoria e nelle clip televisive in bianco e nero con la sua storia, il suo carisma, il suo successo, la regina assente-presente della musica italiana. Non c'è dubbio, ha avuto alti e bassi, non sempre ha azzeccato il repertorio, in particolare quello nuovo, probabilmente ha fatto troppi dischi: una bulimia che ha fatto da contrappeso all'assenza. La domanda è: la sua è stata una scelta razionale? E senza quella scelta il mito di Mina sarebbe stato lo stesso? Difficile pensare che abbia immaginato un viaggio così lungo nell'anonimato di successo. All'inizio deve aver provato più che altro un forte senso di liberazione. Chissà se ha pensato ad altri desaparecidos capaci di conservare, anzi moltiplicare il loro carisma sublime come lo scrittore che non voleva più scrivere per gli altri Salinger, o come il pianista chiuso nel suo futuro Glenn Gould, o come il più sfuggente dei registi Stanley Kubrick e, soprattutto, come i Beatles, dissolti al massimo della popolarità, eppure in grado, già allora, di conservare intatto il loro fascino con l'additivo del rammarico. Però, sicuramente ha fatto da apripista per un altro illustre scomparso della nostra canzone, Lucio Battisti, ritirato quattro anni dopo di lei. Sicuramente ha provato un senso di vuoto quando ha sottratto il suo corpo alla visibilità, deve aver sentito il conforto del silenzio che ti circonda dopo il clamore, sensazione già provata in vari momenti della sua carriera. Ma anche il virus del sollievo di non dover continuare a essere sempre uguale a se stessa (quando ha chiuso aveva solo 38 anni, oggi le carriere cominciano a quell'età), senza il peso delle diete per non ingrassare, dei parrucchieri, dei vestiti da scegliere, dell'assedio dei fotografi e dei fans (vi immaginate Mina alle prese con i selfie?). L'occasione era arrivata in corsa, dettata da una broncopolmonite virale. Quell'ultima volta a Bussoladomani, il 23 agosto 78 (altra star della serata Beppe Grillo), avrebbe dovuto essere seguita da altri appuntamenti. Ma l'impegno di 16 serate, strappato a fatica da Sergio Bernardini, arrivò solo a 11 per colpa della malattia seguita da una convalescenza non breve. Era stanca, ingrassata, stufa di stare in vetrina, con gli occhi puntati addosso. E ha gettato la spugna. Lo aveva fatto in altre occasioni. Nei primi anni 60 dopo lo scandalo traumatico provocato dall’amore con Corrado Pani, inseguiti nell’Italia bigotta dall’accusa di concubinaggio. Perse la voce, la Rai la bandì, le venne il terrore di affrontare il pubblico, si isolò. Di nuovo, dopo Milleluci, era il 74, con Non gioco più come sigla finale, si eclissò. Insomma, era allenata al sipario. Poi, allungandosi i tempi, il senso di conforto si è irrobustito, accompagnato dalla prova che il ritiro aveva creato le condizioni ideali: lei dal suo isolamento comunicava con il pubblico con i suoi dischi (i suoi articoli sui giornali, il programma radiofonico). E più cresceva la distanza fra l'immagine rimasta imbalsamata e la realtà, più diventava impossibile la marcia indietro accompagnata dalla considerazione ovvia: chi me lo fa fare di rimettermi in gioco? «Non gioco più/ me ne vado ...la vita è un letto sfatto/Io prendo quel che trovo/E lascio quel che prendo» cantava nella canzone di Gianni Ferrio e Roberto Lerici. Ha vinto, ma cosa ha permesso a Mina di restare Mina, entità astratta fatta di voce, design, copertine, eremitaggio? Un anno dopo la Bussola esce dal silenzio il suo primo album: Attila, doppio lp con in copertina il capostipite di quelle creazioni grafiche che caratterizzeranno tanti suoi dischi. Non ci sono canzoni epocali, ma il 33 giri certifica la forza contagiosa della sottrazione, vendendo 900 mila copie , (il live dalla Bussoladomani ne aveva raggiunte 500 mila), segnale inequivocabile che potrà andare avanti vivendo di rendita. Mina non c'è più, il suo corpo è affidato al ricordo. Ma c'è la sua voce cristallina, dalla tecnica impeccabile, segno di un talento speciale, non provinciale, della personalità esuberante, della novità anche fisica, piena di sensualità, che aveva proposto nel canto nazionale delle Betty Curtis, Tonina Torielli, Carla Boni, Nilla Pizzi. E' andata avanti da eremita per decenni, ha sfornato 41 album scartabellando fra le centinaia di nastri che le vengono puntualmente recapitati e frugando nei classici, non solo italiani. Ha seguito declino della discografia, ma ha conservato intatto il suo prestigio, provando a strizzare l'occhio alle novità con la voglia matta di negare l'unica cosa che non poteva: il tempo che passa. Così Mina rappresenta un caso non solo italiano. La musica non è donna, anche se si coniuga al femminile. A dominarla sono stati soprattutto i dinosauri del rock (delle dinosaure non c'è notizia, a patto di non considerare tale Madonna). Le stagioni delle cantanti sono in genere brevi, fatte di rapide ascese e di una longevità limitata nel tempo, insomma è il ruolo dei fenomeni di moda. Le eccezioni riguardano le assenti. Chi non c'è più (tipo Janis Joplin) e chi ha saputo nascondersi. E Mina in questo senso è stata maestra, eremita svizzera che oggi compie 80 anni, ma per tutti ne ha ancora 38. Non resta che farle gli auguri accompagnati da una piccola colonna sonora indissolubilmente legata alla sua voce senza età: da Il cielo in una stanza a E se domani, a Un anno d'amore, a Se telefonando, a Insieme a, perché no?, Parole, parole, parole: «Chiamami passione dai, hai visto mai».

·        Mingo De Pasquale.

Da corriere.it il 14 dicembre 2020. Il Tribunale di Bari ha condannato alla pena di 1 anno e 2 mesi di reclusione Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio) per i reati di truffa, falso e diffamazione. Stando all’ipotesi accusatoria Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia (che, nel 2015, venne cacciato in diretta da un intervento del Gabibbo), avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie facendosi pagare alcuni servizi relativi a fatti inventati ma spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori.

Quattro truffe. Gli imputati sono stati ritenuti responsabili di quattro truffe relative ad altrettanti falsi servizi realizzati per il tg satirico, andati in onda tra il 2012 e il 2013. Per altri tre episodi è stata dichiarata la prescrizione, come per le presunte simulazioni di reato, e per altre tre truffe e una contestazione di calunnia il Tribunale ha assolto nel merito gli imputati «perché il fatto non sussiste». Mingo è stato condannato anche per aver diffamato, nel 2015, gli autori di Striscia la Notizia, accusandoli di essere gli «ideatori dei falsi servizi». Alle costituite parti civili, Mediaset, Antonio Ricci e altri nove tra autori e produttori della trasmissione, gli imputati dovranno risarcire i danni. Per quattro persone, inoltre, il Tribunale ha disposto la trasmissione alla Procura dei verbali delle dichiarazioni rese durante il processo per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza.

Servizi falsi su «Striscia», Mingo condannato per 4 casi, per altri 6 assolto o accuse prescritte. La difesa: «Assolti per fatti più gravi». Un anno e due mesi per l'ex inviato e la moglie. Risponderà anche per diffamazione. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Dicembre 2020. Il Tribunale di Bari ha condannato alla pena di 1 anno e due mesi di reclusione Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio) per i reati di truffa, falso e diffamazione relativamente a una parte delle accuse per i cosiddetti falsi servizi. La Procura aveva chiesto 2 anni e 8 mesi. Stando all’ipotesi accusatoria Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia, avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie facendosi pagare alcuni servizi relativi a fatti inventati ma spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori. Gli imputati sono stati ritenuti responsabili di quattro truffe relative ad altrettanti falsi servizi realizzati per il tg satirico, andati in onda tra il 2012 e il 2013. Per altri tre episodi è stata dichiarata la prescrizione, come per le presunte simulazioni di reato, e per altre tre truffe e una contestazione di calunnia il Tribunale ha assolto nel merito gli imputati «perché il fatto non sussiste». Mingo è stato condannato anche per aver diffamato, nel 2015, gli autori di Striscia la Notizia, accusandoli di essere gli "ideatori dei falsi servizi». Alle costituite parti civili, Mediaset, Antonio Ricci e altri nove tra autori e produttori della trasmissione, gli imputati dovranno risarcire i danni. Per quattro persone, inoltre, il Tribunale - su chiesta del pm - ha disposto la trasmissione alla Procura dei verbali delle dichiarazioni per «eventuali iniziative di sua competenza».

LA DIFESA: «ASSOLTI PER FATTI PIU' GRAVI» - Gli avvocati Francesco Maria Colonna Venisti e Ludovica Lorusso, difensori di Corinna Martino e Domenico De Pasquale, in una nota, precisando «che le sentenze non si discutono: se non si condividono, si impugnano», aggiungono che: «Per farlo è necessario attendere e studiare le motivazioni che sostengono il provvedimento». «I nostri assistiti - fanno sapere i difensori - sottolineano di aver dimostrato la loro estraneità ai fatti a loro ascritti, raggiungendo la formula assolutoria per i fatti più gravi».  

Mingo ora è nei guai: condannato. Cosa faceva coi servizi di Striscia. Il Tribunale di Bari ha condannato alla pena di un anno e due mesi di reclusione Domenico De Pasquale - in arte Mingo - per i reati di truffa, falso e diffamazione ai danni di Striscia La Notizia. Novella Toloni, Martedì 15/12/2020 su Il Giornale. I giudici del tribunale di Bari hanno dato ragione a Striscia la Notizia. Domenico De Pasquale, meglio conosciuto come Mingo - e sua moglie sono stati accusati di truffa, falso e diffamazione ai danni di Mediaset e del popolare tg satirico per essersi fatti pagare servizi televisivi fasulli basati su storie inventate. Il tribunale ha condannato l'ex inviato a un anno e due mesi di reclusione oltre al pagamento del risarcimento danni nei confronti di autori e produttori di Striscia. La vicenda risale al 2012 ma lascia ancora l'amaro in bocca per quanto accaduto. Mingo e Fabio erano una delle coppie più amate del tg satirico di Antonio Ricci, sempre pronti a documentare fatti e misfatti in giro per l'Italia. Ma nel 2014 il due sparì definitivamente dal piccolo schermo e Mingo, al secondo Domenico De Pasquale, venne accusato di aver falsificato alcuni servizi mandati in onda nel popolare contenitore preserale di Canale 5. Mingo, originario di Bari, avrebbe truffato Mediaset e Striscia La Notizia con la complicità di sua moglie facendosi pagare alcuni servizi relativi a fatti totalmente inventati e spacciati per veri. L'uomo si sarebbe anche fatto rimborsare costi non dovuti per l'impiego di figuranti e attori. Il tribunale ha ritenuto colpevoli gli imputati, responsabili di ben quattro truffe relative ad altrettanti falsi servizi realizzati per il tg satirico tra il 21012 e il 2013. L'operato dei giudici non si è però fermato a questo. Mingo è stato condannato anche per diffamazione. L'inviato aveva accusato alcuni autori di Striscia, nel 2015, di essere gli "ideatori dei falsi servizi", scaricando di fatto su di loro ogni responsabilità. I giudici hanno però dato ragione ad Antonio Ricci e altri nove tra autori e produttori della trasmissione - che si erano costituiti parte civile - e ora dovranno essere risarciti. Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio) si dichiarano però ancora estranei ai fatti e annunciano ricorso. "Sono stati prodotti documenti a sostegno della tesi difensiva - hanno chiarito gli avvocati difensori Francesco Maria Colonna Venisti e Ludovica Lorusso - che si immagina siano stati valutati dal giudice per raggiungere i risultati assolutori del dispositivo. A questo proposito, i nostri assistiti sottolineano di aver dimostrato la loro estraneità ai fatti a loro ascritti, raggiungendo la formula assolutoria per i fatti più gravi. Le sentenze non si discutono: se non si condividono, si impugnano. Per farlo, è necessario attendere studiare le motivazioni che sostengono il provvedimento. Questa difesa non ha voluto e non vuole che il processo venga svolto in luoghi non deputati".

Da “Striscia la Notizia” il 15 dicembre 2020. “La sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Bari ha dichiarato Mingo colpevole del reato di truffa ai danni del Gruppo Mediaset, per avere realizzato, in concorso con la moglie, servizi falsi all’insaputa del telegiornale satirico di Canale 5 ed ha irrogato ad entrambi la pena della reclusione di un anno e due mesi. Per questo motivo risulta incomprensibile – e certamente singolare – la “serenità” ostentata dal condannato nell’intervista resa alla Vs. testata (Fanpage, ndR), ciò anche in ragione dell’elevato risarcimento cui già a titolo di provvisionale l’imputato dovrà far fronte nell’immediato. Nel vano tentativo di difendersi, Mingo ha incredibilmente sostenuto di avere agito sempre su indicazione di Striscia la notizia: il processo ha ovviamente accertato che non fu affatto così, tanto che – per quelle dichiarazioni – Mingo è stato condannato anche per il reato di diffamazione aggravata ai danni degli autori di “Striscia la notizia” e di Antonio Ricci. Inoltre, solo a causa della prescrizione e ritenendo Mingo comunque responsabile, il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere per molti dei delitti che gli venivano ascritti (risalenti all’ormai remoto 2013). Infine, per alcuni reati, non essendo stata raggiunta la piena prova – come si evince chiaramente dal dispositivo della sentenza – è stata pronunciata assoluzione con la formula dubitativa. In attesa dunque di leggere le motivazioni del Tribunale che chiariranno definitivamente che nessuna serenità può essere credibilmente ostentata da un condannato in una situazione così grave, confidiamo che non verrà dato ulteriore spazio a rivendicazioni pretestuose e vanterie strumentali che distorcono la realtà storica e processuale, recando ulteriore torto a Striscia la notizia”.

Daniela Seclì per fanpage.it il 15 dicembre 2020. In queste ore, si è appreso della condanna di Domenico De Pasquale, in arte Mingo, a un anno e due mesi di reclusione per truffa, falso e diffamazione, nell'ambito delle indagini sui presunti servizi falsi realizzati per Striscia la Notizia. L'ex inviato del tg satirico, contattato da Fanpage.it, ha voluto fare delle importanti precisazioni. L'attore ha spiegato di essere stato condannato per tre servizi per i quali conta di fare chiarezza in appello, ma è anche stato assolto per altri sette servizi "perché il fatto non sussiste". De Pasquale ha assicurato: "Sono sereno".

La sentenza del Tribunale di Bari parla di una condanna per truffa per tre dei servizi trasmessi da Striscia la Notizia, ma è stato anche assolto per altri sette servizi.

«Noi siamo sereni perché ci sono state delle assoluzioni. È un ottimo risultato. Vorrei fare delle precisazioni circa il dispositivo emesso dal Tribunale di Bari. Su dieci servizi che mi hanno contestato essere non veritieri, solo per tre sono stato condannato. Per gli altri sette è stata esclusa la condanna a vario titolo. E, infatti, come ho sostenuto io fin dall'inizio dell'indagine, tutti i servizi erano veri. Lo abbiamo dimostrato e infatti siamo stati assolti. Questa è una vittoria».

E cosa mi dice, invece, dei tre servizi per i quali è stato condannato?

«Per quelli non è stata ritenuta abbastanza la prova che io ho dato. Abbiamo portato le segnalazioni per dimostrare che i servizi sono veri. Ma siccome alcuni sono datati, non è sempre facile trovare la segnalazione. Evidentemente non è bastata al giudice la prova che abbiamo prodotto per quei tre, ma ci sarà tempo per rimediare anche a quello. Quindi sono tranquillo. La cosa più bella è che mia moglie (Corinna Martino, ndr) sia stata assolta. Sono contento».

Ma come nascevano quei servizi? Si è parlato dell'impiego di attori per realizzarli.

«Preciso che io ho un contratto come attore televisivo. Si sa che Striscia la Notizia è un varietà, un programma comico. Io non sono tenuto eticamente a fare le cose come un giornalista, ma al di là di questo ho dimostrato con l'assoluzione che i servizi sono veri. Le spiego. Dietro ogni servizio, c'è una segnalazione, che arrivava a Striscia o a noi. Quando si confezionava il servizio, a volte l'epilogo poteva essere scenico. Si faceva una ricostruzione, né più né meno. Era la ricostruzione con attori di una segnalazione reale».

Quindi sostiene che non fossero casi inventati di sana pianta?

«No, no, non lo erano assolutamente».

Quale sarà il prossimo passo?

«L'appello per quei tre servizi e sono tranquillissimo».

Tutta questa vicenda ha avuto delle ripercussioni sulla sua vita lavorativa?

«In realtà, dopo ho fatto i lavori più importanti della mia vita, di grande qualità, poco nazional popolari ma più importanti: lo spot sull'autismo, vari film e sto lavorando a un grande progetto. Finora ho lavorato con il dolore. Ora che sono più sereno ci lavorerò meglio».

Pensa che recupererà il rapporto con Fabio De Nunzio?

«Quella è una questione personale, due amici di scuola che litigano un giorno sì e uno no. È una cosa che non c'entra niente con il processo, ma nulla. Con Fabio non ho proprio niente».

Mingo: «Ho dimenticato Striscia non il dolore». De Pasquale: la mia vita nuova fra teatro e cinema. Con progetto a Broadway. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Novembre 2020.

Quindi stai continuando a mettere zippi nei pulsanti dei citofoni, a quanto mi consta. Questa sarebbe la tua nuova occupazione.

«Sì esatto, uso soprattutto gli stecchini della Samurai che sono più tosti. Mi dedicavo a questo scherzo fin da ragazzino quando facevo filone a scuola, cioè quasi tutti i giorni». A parte gli scherzi, so che reciterai in un film porno, d’essai fra l’altro, roba seria. «Bravo, con te come sceneggiatore, dati i tuoi trascorsi peraltro. Com’è che ti definirono su quel giornale? Selvaggi, “noto scrittore porno”, una cosa del genere… ». No, «fine saggista porno». Sarcasmo geniale che poi ho diffuso in ogni dove. «Ah già, giusto».

Comunque, la gente vuole sapere come campi ora dopo «Striscia la Notizia», ventennio di fama e di servizi in varia solfa.

«Mah, guarda, credo che al massimo voglia saperlo tu, non la gente. Alla gente non mi sembra importi più niente. Capita anzi che ogni tanto qualcuno mi fermi dicendo che mi ha appena visto in un servizio su Striscia, forse perché dopo così lunga militanza qualche spettatore mi identifica ancora con quel programma. Ma io ho fatto e sto facendo varie altre cose. Dopo la rottura con Mediaset ho rinverdito la mia inclinazione attoriale a entrare nei panni di altre persone, evidenziatasi già quando seguivo la scuola teatrale a Roma. Tra settembre e ottobre dovevo incominciare le prove di uno spettacolo musicale sulla vita di Jerry Lewis e di Dean Martin prodotto da imprenditori pugliesi che vivono in America. A New York, in un teatro off di Broadway. Io nei panni di Jerry, con sola mimica e una voce fuori campo, e un cantante attore nel ruolo di Dean».

E in merito alla causa con Antonio Ricci che aggiornamenti ci sono? Io per esempio non sono informato sugli ultimi sviluppi.

«Secondo me Selvaggi tu non sei informato praticamente su niente, cioè non te ne frega di niente e di nessuno, il mondo esterno non esiste, vivi nel tuo mondo, fatato, drogato, anzi drogatissimo. Con il gattino, com’è che si chiama? Dorian, Dorian Gray, nome azzeccatissimo come tuo alter ego, bisogna dire ».

Non sono trasognato in tutti i campi. Dipende. Comunque che c’entro io? C’entri tu: molti lettori come me non conoscono le novità della spy-story milanese- pugliese, con delatori, trucchi presunti e finzioni, nomi della tivù, Ezio Greggio, Enzo Iacchetti, il Gabibbo vero, non pupazzo.

«Se vuoi parlare del processo direi che caschi male. Per adesso non ne parlo, non posso parlarne, ti dico soltanto che sono fiducioso. Quando potrò parlarne ne parlerò. Ora non si può».

Va bene. Come organizzi la tua vita ora?

«Come prima, scusa. Sono sposato con la stessa moglie, Corinna, ho sempre lo stesso cane, Spugna, che è un po’ invecchiato, tratto tipico della razza boston terrier, è diventato bianchiccio là dov’era scuro. Ho ancora impegni di lavoro, per quanto siano sospesi dalla nuova emergenza per il Covid-19, il virus che sicuramente ti sarai beccato tu invece».

Per ora ho soltanto l’Aids.

«Complimenti, meglio. Tuttavia nel pieno del fermo sanitario del mondo dello spettacolo mi ritrovo abbastanza incasinato. Perché ci stiamo trasferendo».

Traslochi? Di nuovo? Sarà la diciottesima volta o più, a quanto ne so.

«E vabbè sì trasloco di nuovo. C’è chi fuma, chi sniffa la cocaina e chi si sposta da una casa all’altra ogni anno e mezzo al massimo. Non è meglio?».

Secondo me è meglio il contrario. Vedo però ancora la tua faccia formato gigante sui manifesti con Dante Marmone, Tiziana Schiavarelli, Mauro Pulpito, Azzurra Martino, Leo Solfato.

«Sì certo, per Un fattaccio all’improvviso al Teatro Forma di Bari. Dovevamo riprendere adesso gli spettacoli ma il nuovo decreto Conte ha fermato tutto. Tu non sei mai venuto a vederci, no?».

Ovvio, mai. Non vado a teatro e non sopporto Marmone e Schiavarelli, pur così bravi e simpatici, perché non divorziano mai. Stanno insieme da quasi 70 anni e non si lasciano. Tutti si separano e si odiano, loro no. Mi danno ai nervi. Perché non soffrono? Perché non stanno malissimo?!

«Ti sbagli, io so che stanno insieme da quasi due secoli, non da soli 70 anni. I 70 erano di fidanzamento. Comunque glielo dico ‘sto fatto, stai tranquillo, così farai davvero un’ottima figura».

Non c’è bisogno. Non vedi che l’ho appena scritto?

«Ah già».

Ti ho trovato anche su foto di agenzia, vestito da prete in un film straniero con attori famosi.

«Stavo benissimo in abito talare, ogni tanto qualche messa la dico ancora. Il film che ho girato era Tulipani, Tulips, del premio Oscar Mike van Diem, con Giancarlo Giannini e altri».

Ti ho visto recentemente in varie occasioni pure con Maria Grazia Cucinotta.

«Non è così recente la cosa, mi sa che hai una percezione del tempo tutta tua. Sì, abbiamo condotto insieme dieci puntate della docu-serie Arca di legno per Amazon Prime. Abbiamo lavorato anche in altre produzioni cinematografiche, come Nomi e cognomi con Enrico Loverso. Si è creato un sodalizio, siamo sempre amicissimi, è una persona splendida. Con il corto Emoticon ho vinto il premio Best Actor al London Film Festival Award 2018. E ora aspetto di girare un film con il regista Antonio Palumbo, che scriverà la sceneggiatura assieme a Mariangela Barbanente. Il protagonista è un autistico, interpretato da me. Prosecuzione dello spot che realizzammo, Mica scemo, il primo in Italia dedicato all’argomento».

Sì l’ho visto. Ho visto pure pubblicità tue contro l’abbandono dei cani e per la Lilt.

«Presto il volto alle iniziative della Lega italiana lotta contro i tumori della sede di Bari. E ne vado fiero. L’ultimo spot che vedrete tra un po’ è dedicato ai tumori alla prostata, malattia che affrontiamo con ironia. Sono tutte partecipazioni per le quali non richiedo retribuzione. Mi impegno come posso sulle tematiche legate agli animali, ai cani soprattutto. Non per niente ho il mio Spugna sempre con me, lo accudisco come un figlio, anzi di più».

Perché tu non hai figli.

«No, non ho figli».

Ricordo ancora il tuo matrimonio trasmesso da Canale 5 mi pare, con vari contorni di rotocalchi.

«Me lo ricordo meglio io credo».

Ti senti ancora con Fabio De Nunzio, la tua ex spalla a Striscia la notizia?

«Non mi è più capitato di incontrarlo. Il caso Striscia è stato molto pesante in ogni senso, non lo nego. Una vera prova di nervi. Ho sofferto molto. Moltissimo forse. A un certo punto mi sono stancato del dolore, cioè sono riuscito ad andare avanti, ma non a dimenticare il dolore. Lo porto dentro di me. Il dolore, quando oltrepassa una certa soglia, non lo dimentica nessuno. Poche persone mi hanno aiutato e troppe si sono tirate indietro. E parlo di gente famosa e di altrettanta ignota al piccolo schermo».

Tipo?

«Non mi va di fare nomi. Non li ho fatti allora e meno che mai li faccio adesso. Ho avuto accanto il formatore Max Formisano in questo pandemonio umano e giudiziario tremendo».

Ti pesa ciò che hai perduto? Visibilità nazionale costante, partecipazioni in trasmissioni, tanti soldi, ospitate?

«Per un certo periodo sì. Ma adesso no. La vita cambia in un lampo. L’impensabile accade sempre».

Come pensi sia cambiata dopo la telenovela giudiziaria la tua esistenza?

«Certamente è cambiata, mica dico di no. Ho perso qualcosa, ma ho guadagnato altre cose credo. E adesso che ci penso, preferisco queste. Anche perché seguo una regola: non voltarsi indietro».

Parla Mingo: «Vi racconto il giorno in cui fui cacciato da un pupazzo rosso». «Penso che nessuno in Italia, anzi in Europa, o forse nel mondo possa vantare il primato di essere stato licenziato in diretta tv da un pupazzo di pezza, simbolo di un varietà televisivo!» Mingo De Pasquale il 07 Agosto 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Calvino diceva: «La vita è un insieme di eventi, di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme». Se oggi sono così forte è perché mi è successo qualcosa di incredibile che ha cambiato il senso di tutto. È probabile che l’improbabile accada. Cose che possono accadere a chiunque. L’importante è essere pronti a reagire perché le cose possono accadere anche ingiustamente, come nel mio caso. Penso che nessuno in Italia, anzi in Europa, o forse nel mondo possa vantare il primato di essere stato licenziato in diretta tv da un pupazzo di pezza rosso simbolo di un varietà televisivo! Cosa che da un lato destabilizza sicuramente ma dall’altro rende unici e ancora più popolari; un po’ come quello che accadde nel 1962 a Dario Fo e Franca Rame banditi dalla Rai. Ma facciamo un passo indietro, a più di cinque anni fa! Era il 23 aprile 2015. Che poi licenziato presuppone un rapporto subordinato e invece per 19 anni non ho acquisito alcun diritto e non avuto alcunchè! Alla faccia dell’onorato servizio! Sentite un po’ come andò quella sera. Alle 21.15 circa una nostra collaboratrice chiamò mia moglie per sapere cosa fosse accaduto. «Ma cosa è successo?», «Che abbiamo fatto?», «È successo un casino!». Noi cascammo dalle nuvole. Non avevamo neanche visto la trasmissione quella sera. La cosa incredibile è che proprio quella mattina avevo detto a mia moglie Corinna che avrei voluto lasciare il programma, magari prendermi un anno cosiddetto sabbatico a New York e ricominciare a fare il mio mestiere di attore! Non mi sono mai sentito arrivato solo perché lavoravo ad una trasmissione molto seguita dagli italiani. Si, volevo ricominciare a fare l’attore, a teatro, al cinema, nelle sedi che sono l’habitat naturale per questa professione. Perché io sono un attore, anche se molti pensano ancora che sia un giornalista! Mai stato! Ma torniamo a quella sera quando durante la trasmissione il pupazzo rosso aveva sentenziato la mia fine. A pensarci adesso mi vien da sorridere: essere giudicati, processati e sentenziati in diretta televisiva da un pupazzo di pezza. L’Italia è davvero il Paese dei paradossi! Tra incredulità, stupore e angoscia contattammo telefonicamente il produttore del programma, gli stessi autori e finanche i segretari di produzione… ma dall’altra parte il nulla più assoluto! Telefoni che squillavano a vuoto! Sembrava che fosse accaduta un’apocalisse. Nessuno ci rispondeva. Nessuno ci dava spiegazioni. I nostri telefoni, invece, squillavano all’impazzata: amici, parenti, conoscenti ci chiamavano per capire cosa stesse accadendo! Non sono stato il solo ad aver pensato di essere su «Scherzi a parte» o che era stata una trovata degli autori che, pur di fare audience avrebbero potuto tirar fuori questa genialata per appassionare il pubblico. Allora pensavo: «Tra poco si faranno sentire», «Mi hanno fatto un bello scherzo, però!», «Mingo ci sei cascato!». Beh, nulla di tutto questo. Nessuno scherzo, nessuna trovata pubblicitaria per alzare l’audience. Passavano i giorni e l’unica cosa che continuavo a ricevere dai miei datori di lavoro era il silenzio… Anzi, durante la trasmissione, si susseguivano nuovi annunci in diretta in cui ci si accusava di aver inventato servizi. Mai inventato nulla!!! Era tutto così strano! Come vi sentireste se dopo vent’anni circa, i vostri datori di lavoro, diventati dopo anni anche vostri amici, quelli che considerate parte integrante della vostra famiglia, vi voltassero inspiegabilmente le spalle, smettessero di rispondervi al telefono e vi accusassero in diretta tv come se foste il peggiore dei criminali? Nei giorni che si susseguirono in molti, nel dubbio, preferirono chiuderci le porte, scegliendo di andare con il più forte, senza capire quale fosse la verità. I cosiddetti rami secchi si sono tagliati da soli! E sono rimasti gli AMICI, quelli veri, che sono andati oltre ed hanno capito che, in questa storia, Mingo non c’entrava, ma che sotto sotto vi era qualcosa più grande, molto più grande di lui. In questi anni mi sono imbattuto in articoli stampa scritti con cattiveria, nelle fake news più assurde, in haters sui social, insomma nel fango mediatico. Non ci crederete mai ma ho ricevuto anche insulti per strada! Dei più beceri! È stata dura! Ma se sono qui a parlarne alla Gazzetta del Mezzogiorno è perché senza quel dolore non sarei la persona che sono! Un uomo libero! Libero di esprimersi nel suo mestiere! Dopo quello che mi è accaduto in molti hanno pensato: «Non lavorerà più» e invece sono passato da un ruolo all’altro! Da un’avvincente serie tv condotta insieme alla bravissima Mariagrazia Cucinotta e al mitico Mauro Corona, all’esperienza sul set cinematografico del film internazionale «Tulipani». Ho partecipato ad un bellissimo corto di Andrea Purgatori, ho recitato nell’anfiteatro greco Segesta in Sicilia vestendo i panni di re Claudio nell’Amleto di Shakespeare. Ho ottenuto il riconoscimento di «best actor» con il corto Emoticon al London Film Festival. Ho scritto insieme all’amico formatore ed esperto di crescita personale Max Formisano un libro dal titolo «Gli zombie hanno il culo pesante»: una piccola guida per sopravvivere ai parassiti moderni che ci circondano! E, poi, un altro cortometraggio di Mariagrazia Cucinotta contro il bullismo, «Il compleanno di Alice». Da sempre sono impegnato nel mondo del sociale in modo assolutamente gratuito. Ho anche investito e continuo a farlo per la realizzazione di campagne sociali contro l’abbandono dei nostri amici pelosi. Continuo ad essere testimonial per la Lilt (lega italiana lotta ai tumori). Dopo anni di assiduo lavoro per studiare il mondo dell’autismo sono stato interprete di un bellissimo corto per il quale ho ricevuto migliaia di apprezzamenti e complimenti, e che per questo sta diventando un film: «Mica scemo». E tante altre esperienze bellissime che mi hanno dato la forza di superare le ingiurie, le cattiverie e le ingiustizie! Il dolore che provi è uguale alla potenza di quello che diventi. Per questo mi sento di ringraziare tutti coloro che hanno voluto darmi dolore perché quel dolore mi ha reso forte e migliore! Ecco perché entrando a casa c’è un quadro con questa scritta: «Non è forte chi non cade mai, ma colui che cadendo si rialza»!

Falsi servizi per Striscia. Mingo rinviato a giudizio, scrive il 28 Novembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il gup del Tribunale di Bari Annachiara Mastrorilli ha rinviato a giudizio Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio), per i reati di truffa, simulazione di reato, falso, calunnia e diffamazione. Stando all’ipotesi accusatoria, Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia, avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie, facendosi pagare 10 servizi relativi a fatti inventati e invece spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori. L’importo complessivo delle due truffe ipotizzate dalla magistratura barese ammonta a oltre 170 mila euro. Nel procedimento Mediaset si è costituita parte civile. La prima presunta truffa, quantificata in 21 mila euro (percepiti come compensi aggiuntivi rispetto al forfettario di 160 mila euro previsti dal contratto fra Mec e Mediaset) e relativa al periodo compreso fra dicembre 2012 e dicembre 2013, è contestata a De Pasquale e Martino e riguarda dieci servizi "risultati artefatti, simulando fatti, personaggi, circostanze e condizioni, frutto della fantasia degli indagati» secondo il pm Isabella Ginefra. Dal falso avvocato al falso agente interinale, dalla sedicente maga sudamericana capace di guarire malattie in cambio di denaro al falso assicuratore, al falso medico, al falso manager aziendale che assumeva giovani lavoratori in cambio di prestazioni sessuali: per la Procura di Bari si sarebbe trattato in tutti questi casi di attori ingaggiati per simulare eventi e in alcuni casi percosse in danno di Mingo e della troupe. La seconda truffa, dell’importo di 151 mila euro, è contestata alla sola Martino e fa riferimento a presunte false prestazioni lavorative di figuranti/attori rimborsate da Mediaset. Al termine dell’udienza preliminare il giudice ha prosciolto un’altra imputata, ritenuta la segretaria della società Mec, che era accusata di favoreggiamento. Il processo nei confronti di Mingo e sua moglie inizierà il 3 aprile 2018 dinanzi al Tribunale Monocratico di Bari. «Siamo certi che le ipotesi accusatorie saranno smentite nel corso del dibattimento». In una nota a firma del difensore Francesco Maria Colonna Venisti, gli imputati commentano la notizia del loro rinvio a giudizio. «Saranno contrastate efficacemente le notizie diffuse nel corso di questi mesi - prosegue la nota - che non sono riuscite ad infangare la reputazione di un professionista le cui qualità, non solo artistiche, ultra ventennali, non sono state mai discusse. Un professionista che continua a trovare apprezzamento e stima in Italia e all’estero. La fase delle indagini preliminari, e l’udienza preliminare stessa, non possono essere valutate con presunzione di colpevolezza e fungere così da gogna mediatica. Nel corso dell’udienza preliminare, attraverso la produzione di una copiosa memoria difensiva, documentata, e di una lunga discussione, sono state prospettate ricostruzioni diverse da quelle effettuate dalla pubblica accusa che troveranno il loro riscontro nel corso del dibattimento. Il confronto in aula - concludono - consentirà di citare tutti coloro che potranno attestare la correttezza dei comportamenti e delle persone».

Striscia la notizia, chiuse a Bari le indagini su Mingo: "Confezionò dieci servizi falsi con la moglie". L'altro inviato, Fabio, era all'oscuro di tutto. Mediaset, parte offesa, aveva pagato 21mila euro e dopo la segnalazione della truffa ha licenziato i due. L'inchiesta partita da un servizio su un falso avvocato, scrive Gabriella De Matteis il 05 ottobre 2016 su "La Repubblica". Avrebbero percepito un compenso per la realizzazione di dieci servizi televisivi che denunciavano episodi di malaffare in realtà mai verificatisi, ma semplicemente frutto di fantasia. La Procura di Bari ha chiuso le indagini su Domenico De Pasquale, in arte Mingo, fino a un anno fa inviato di Striscia la notizia, e la moglie Corinne Martino (ai due fa capo la società che aveva sottoscritto il contratto con Mediaset). L'inchiesta, coordinata dalla pm Isabella Ginefra, è partita dopo un approfondimento della polizia giudiziaria su un servizio trasmesso dalla trasmissione satirica e realizzato da Mingo che denunciava l'esistenza di un falso avvocato. Un legale che in realtà non è mai esistito, ma era stato interpretato da un attore. Per la realizzazione dei dieci servizi, Mediaset (che risulta parte offesa) ha pagato alla società di Mingo e della moglie compensi per un valore di 21mila euro, somma che si aggiunge al fisso annuale (160mila euro lordi). Nei servizi Mingo aveva denunciato presunti truffatori, come una maga, un assicuratore o un sedicente dipendente della motorizzazione, figure in realtà interpretate da attori ingaggiati apposta. Fabio, l'altro ex inviato di Striscia, sarebbe stato all'oscuro di tutto. Corinne Martino, amministratore della società, avrebbe truffato Mediaset chiedendo il rimborso per 150mila euro per l'impiego di cinque figuranti e attori: un modo per coprire altre spese dell'azienda. I fatti si riferiscono al 2013: Indagata anche la segretaria della società. Sulla vicenda interviene l'avvocato Fabio Verile, difensore di Mingo e della moglie, ricordando che "un giudice terzo valuterà la condotta dei miei clienti, che sollecitano un processo celere in cui dimostreranno la loro estraneità ai fatti". L'avvocato parla anche di presunte pressioni su testimoni durante la fase delle indagini, denunciate dai suoi assistiti, ritenendo così le imputazioni "evidentemente viziate" e chiedendo per questo "chiarezza sui tanti lati oscuri di questa vicenda".

La fine della storia di Fabio e Mingo contro Striscia la Notizia, scrive Giovanni Drogo su "Next Quotidiano" il 5 ottobre 2016. La Procura di Bari ha chiuso le indagini relative alla vicenda esplosa l'anno scorso sui video falsi dei due inviati di Striscia. Secondo i PM baresi Mingo e sua moglie all'insaputa di Fabio avrebbero venduto a Mediaset dieci servizi falsi architettando una truffa da oltre 170mila euro.  Poco più di un anno fa Fabio De Nunzio e Domenico De Pasquale, in arte Fabio e Mingo, venivano sospesi da Striscia La Notizia, il programma di Antonio Ricci per il quale facevano gli “inviati” dal 1997. In seguito allo “scandalo” dei servizi truccati organizzati dai due il Gabibbo (fa ridere lo so) il 24 aprile del 2015 diede la notizia che Fabio e Mingo erano stati sospesi dal programma e i due vennero successivamente licenziati da Canale 5. «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che potrebbe mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito sono sospesi da inviati. Qui siamo a Striscia, mica a MasterChef» disse il celebre pupazzone rosso alludendo allo scoop fatto dal programma di Ricci che qualche tempo prima aveva rivelato che il vincitore della quarta edizione del concorso per cuochi amatoriali era in realtà uno chef professionista (affermazione poi smentita dal vincitore Stefano Callegaro). Dalla scoperta del fatto che alcuni servizi di “denuncia” (come quello della maga sudamericana) risalenti al 2013 erano delle messinscena organizzate da Mingo partì anche un procedimento giudiziario a carico dei due ex investigatori di Striscia. L’accusa iniziale con la quale vengono iscritti nel registro degli indagati assieme ad altre tre persone è abbastanza pesante: simulazione di reato e associazione a delinquere finalizzata alla truffa. Sul tavolo dei PM i due servizi incriminati: quello della maga truffatrice e quello su un uomo che si spacciava per avvocato senza averne il titolo. Due servizi che, stando a quanto disse il Gabibbo, erano stati organizzato dal duo con l’aiuto di attori e che non rispondevano alla realtà dei fatti. Fabio e Mingo all’epoca si difesero dicendo che avevano sempre fatto quello che veniva chiesto loro di fare spiegando che in fondo loro erano solo attori, ma la direzione di Canale 5 è stata irremovibile e dopo qualche mese si erano trovati un nuovo posto di lavoro, alla conduzione di Luciano – L’Amaro Quotidiano un programma sulla falsariga di Striscia in onda su TeleNorba. La vicenda del licenziamento da Striscia è però giunta in tribunale e il 15 settembre scorso i due hanno convocato una conferenza stampa per spiegare la loro versione dei fatti sostenendo, per bocca del loro avvocato Fabio Verile, di aver “sempre sostenuto che tutti i servizi rappresentavano dei fatti effettivamente verificatesi; in alcuni casi è capitato che – in accordo con la produzione – ci fosse una rappresentazione scenica di fatti veri”. Insomma erano gli autori del programma a decidere come presentare la notizia e in alcuni casi è stato deciso di “rappresentare scenicamente” fatti realmente accaduti. I due si sono detti anche molto amareggiati per il trattamento subito da parte dei vertici Mediaset e da alcuni colleghi del TG satirico che li avrebbero scaricati senza troppi complimenti. L’avvocato dei due attori ha anche riferito di minacce ricevute da alcuni dei testimoni ascoltati dalla procura di Bari: Molti dei soggetti ascoltati dalla procura di Bari hanno avvicinato Fabio e Mingo per riferire di aver deposto in un clima di terrore e di soggezione. In particolare il più stretto collaboratore della dottoressa Ginefra, titolare delle indagini, Gianluca De Stefano (agente di Polizia giudiziaria), ha ascoltato testimoni che hanno riferito di cose molto gravi che si sono verificate. Sostenendo che ci sono “elevate possibilità” che le indagini siano state falsate e riferendo le parole che sarebbero state pronunciate da De Stefano all’indirizzo di un testimone per convincerlo “a non mettersi contro Mediaset”: Guarda che ti stai mettendo contro Mediaset, ti stai mettendo contro un colosso, finisci in galera. Ti rendi conto di quello che stai dicendo, non ti conviene dire queste cose. Senti a me, non dire queste cose, tutti gli altri che ho interrogato hanno detto cose diverse da quelle che stai dicendo. Adesso me le dici in un’altra maniera, è meglio per te. Qualche giorno dopo, durante la conferenza stampa di presentazione della nuova edizione del programma Antonio Ricci ha commentato con freddezza le dichiarazioni e le accuse fatte dai suoi due ex collaboratori: «Ho letto tutte le loro dichiarazioni. Posso dire solo che hanno scelto una strategia difensiva molto pericolosa. Non è questo il modo giusto di trovare una via d’uscita». Nel frattempo le indagini sono andate avanti ed è notizia di oggi che il PM di Bari sostengono che Mingo all’insaputa del collega Fabio avrebbe truffato per 170mila euro Mediaset per la realizzazione di dieci servizi falsi. Con l’aiuto di alcuni complici Mingo si sarebbe fatto pagare il compenso dovuto per dieci servizi relativi a fatti inventati di sana pianta e spacciati per veri agli autori del programma. De Pasquale si sarebbe fatto anche rimborsare i costi non dovuti relativi al pagamento di figuranti e attori. Gli indagati sono quindi Domenico De Pasquale e Corinna Martino, moglie di Mingo e amministratore unico della Mec Produzioni Srl, società della quale De Pasquale è socio. I due sono accusati a vario titolo di truffe, simulazione di reato, falso, calunnia (ai danni di un autore di Striscia) e di diffamazione ai danni degli autori di Mediaset che erano stati accusati di essere corresponsabili nella realizzazione dei servizi falsi. La segretaria della Mec è invece accusata di favoreggiamento personale perché ha mentito agli inquirenti che indagavano sul giro di falsi servizi messo in piedi da Mingo. Non ci sarebbero quindi solo quello relativo alla  maga e al falso avvocato ma anche quello riguardante un sedicente intermediario bancario di Margherita di Savoia che concedeva prestiti irregolari dietro pagamento di una “tangente”, poi c’è il sedicente dipendente della Motorizzazione che prometteva di recuperare i punti della patente in cambio di soldi senza la necessità di sostenere esami di recupero, due falsi assicuratori, un falso medico, un falso manager aziendale che assumeva dipendenti in cambio di prestazioni sessuali, il falso agente interinale e ovviamente i due servizi sulla maga guaritrice e sul falso avvocato che ha finto di aggredire Mingo. Questi servizi in seguito alle indagini della PM Isabella Ginefra sono “risultati artefatti, simulando fatti, personaggi, circostanze e condizioni, frutto della fantasia degli indagati e precostituiti all’insaputa dell’inviato Fabio De Nunzio”. Le truffe in realtà sarebbero due, la prima – relativa al periodo compreso tra il dicembre 2012 e il dicembre 2013 – riguarda le spese sostenute da Mediaset e pagate alla Mec per questi dieci servizi falsi. Si tratterebbe di oltre 21 mila euro che si vanno ad aggiungere al forfettario da 160mila euro (più IVA) a stagione stabilito dal contratto tra Mec e Mediaset e al compenso per i due inviati. La seconda truffa, dell’importo di 151mila euro, è contestata alla sola Martino e fa riferimento a presunte false prestazioni lavorative di figuranti/attori rimborsate da Mediaset. Sul libro paga della società Rti spa venivano cioè inseriti i compensi del cameraman, dell’autista personale di Mingo, di un giornalista-informatore e della segretaria della Mec, che risultavano attori dei servizi mandati di onda. Resta da vedere ora come intenderà muoversi il duo, viste le accuse a carico di Mingo Fabio potrebbe anche decidere di parlare e abbandonare il compagno di questi ultimi vent’anni di carriera.

Fabio e Mingo vs Striscia la Notizia, rotto il silenzio: "Pressioni da parte di un agente di pg sui testimoni", scrive venerdì 16 settembre 2016 “Lecce Sette”. Hanno atteso oltre un anno ma poi, come annunciato tempo fa, hanno deciso di raccontare la loro versione dei fatti. Gli ex inviati di Striscia la Notizia, Fabio e Mingo, disarcionati in diretta dal Gabibbo, hanno parlato di "minacce, clima di terrore ed indagini inquinate". I due inviati storici del tg satirico della rete ammiraglia di Mediaset furono licenziati in tronco, nell'aprile del 2015, dopo alcune segnalazioni arrivate in redazione sulla presenza di un attore che nel servizio veniva spacciato per un finto avvocato. Da lì la Procura di Bari avviò una inchiesta che travolse i due inviati. Striscia prese subito le distanze dall'accaduto ma è proprio questo aspetto che oggi viene puntualizzato dagli ex inviati: la redazione sapeva tutto, anche in questo caso. "Per un anno e mezzo - ha spiegato Mingo - siamo stati sereni, abbiamo aspettato, ma se le indagini devono essere alterate e viziate, non ci stiamo più, rendiamo pubblico tutto". "Perché è stato fatto tutto questo a noi? Chi può avere interesse ad alterare il corso delle indagini? Non siamo più sereni come prima, siamo arrabbiati". Il riferimento del conduttore è ad un agente di Polizia giudiziaria, denunciato da Fabio e Mingo, perché "ha remato contro". "Dicci chi ti ha chiamato - hanno detto - ti abbiamo scoperto". A spiegare l'accaduto, è il legale dei due ex inviati di Striscia, Verile: "Ci sono elevate possibilità che le indagini siano state falsate, perché un ufficiale della Procura di Bari ha provato a influenzare le deposizioni. È stata infangata la dignità dei miei assistiti. Valuteremo se ricorrere al ministero di Grazia e Giustizia". Verile ha spiegato che "molti dei soggetti ascoltati dalla procura di Bari hanno avvicinato Fabio e Mingo per riferire di aver deposto in un clima di terrore e di soggezione. In particolare il più stretto collaboratore della pm titolare delle indagini, ha ascoltato testimoni che hanno riferito di cose molto gravi che si sono verificate". Sarebbero almeno quattro le persone che hanno riferito di pressioni da parte dell'agente. Il legale ha letto le parole dichiarate dalle presunte vittime di pressione da parte dell'agente stesso: "Guarda che ti stai mettendo contro Mediaset, ti stai mettendo contro un colosso, finisci in galera. Ti rendi conto di quello che stai dicendo, non ti conviene dire queste cose. Senti a me, non dire queste cose, tutti gli altri che ho interrogato hanno detto cose diverse da quelle che stai dicendo. Adesso me le dici in un'altra maniera, è meglio per te". Dichiarazioni, per Verile, "rese in clima di terrore". "Lo abbiamo denunciato alla Procura, vogliamo sapere in tempi rapidi cosa è successo". L'avvocato ha parlato di "denunce reciproche" e di "servizi mai inventati ma che rappresentavano dei fatti effettivamente verificatesi; in alcuni casi - in accordo con la produzione - con una rappresentazione scenica di fatti veri". "Quando è giunta voce ai vertici che qualcuno aveva scoperto che alcune fattispecie erano rappresentate da attori hanno preso le distanze. E invece erano cose condivise. Noi siamo sicuri poter dimostrare l'estraneità all'interno del processo". La vicenda ha lasciato segni nei due conduttori. "Ho sofferto molto per mio figlio - ha raccontato Fabio, commosso - è stata la parte più brutta e nera". "Hanno tentato - ha incalzato Mingo - ma il sorriso non ce l'hanno tolto". Sempre Mingo ha voluto analizzare anche il comportamento tenuto da Striscia la Notizia, uno degli aspetti che più li ha fatti soffrire: "Ammettiamo che abbiamo commesso qualche errore, ma non lo abbiamo fatto - ha spiegato -. Ma perché Ricci non ci ha difeso? Perché ha difeso Greggio per il caso di Guardia di Finanza, perché ha difeso Luca Abete dopo il cui servizio un padre di famiglia si è suicidato e noi no? Loro sono stati protetti, Fabio e Mingo no. Due pesi e due misure. Stiamo parlando di gag comiche!". Fabio e Mingo hanno raccontato anche della solidarietà di alcuni degli ex colleghi inviati, della chiusura totale da parte di Antonio Ricci e dei collaboratori, delle tante telefonate rimaste senza risposta, della scelta del Gabibbo di "licenziarli" in diretta senza nemmeno un preavviso. In quel momento, davanti a milioni di telespettatori, terminò un rapporto di lavoro durato 19 anni e un contratto "da attori e non da giornalisti". Tornerebbero a Striscia? "Sì - conclude Mingo - da conduttori per risollevare le sorti del programma".

Fabio e Mingo all’attacco di Striscia: “Indagini falsate, perché Ricci non ci ha difeso?”. Gli ex inviati di Striscia la Notizia denunciano presunte pressioni attuate durante le deposizioni in difesa di Mediaset e Striscia La Notizia: "Luca Abete ed Ezio Greggio difesi da Striscia, noi no", scrive il 15 settembre 2016 Andrea Parrella su “Fanpage". Fabio e Mingo non si arrendono e continuano la loro battaglia contro Striscia La Notizia, dopo l'incredibile "cacciata" di un anno e mezzo fa, quando i due inviati del programma vennero accusati di aver realizzato servizi falsi, per essere sospesi temporaneamente prima ed esclusi definitivamente dal programma nella stessa stagione. La vicenda è finita in tribunale, con un contenzioso tra il programma Mediaset e la coppia di inviati che va avanti da mesi. Fabio e Mingo hanno convocato una conferenza stampa per chiarire alcuni aspetti dell'inchiesta e rivelare novità che potrebbero rivelarsi determinanti. Presente alla conferenza stampa anche il legale dei due: Molti dei soggetti ascoltati dalla procura di Bari hanno avvicinato Fabio e Mingo per riferire di aver deposto in un clima di terrore e di soggezione. In particolare il più stretto collaboratore della dottoressa Ginefra, titolare delle indagini, Gianluca De Stefano (agente di Polizia giudiziaria), ha ascoltato testimoni che hanno riferito di cose molto gravi che si sarebbero verificate. In pratica, stando alla ricostruzione dell'avvocato dei due, ci sarebbero state delle pressioni sui testimoni durante le deposizioni sulla vicenda messe in atto da De Stefano, che avrebbe pronunciato frasi come "Guarda che ti stai mettendo contro Mediaset, ti stai mettendo contro un colosso, finisci in galera. Ti rendi conto di quello che stai dicendo, non ti conviene dire queste cose. Senti a me, non dire queste cose, tutti gli altri che ho interrogato hanno detto cose diverse da quelle che stai dicendo. Adesso me le dici in un'altra maniera, è meglio per te". Il legale di Fabio e Mingo, che ha annunciato una denuncia presso la Procura, ha inoltre precisato come non sussisterebbe l'accusa da parte di Striscia di aver inventato i servizi realizzati, sottolineando che quelle che si possono definire rappresentazioni sceniche della realtà fossero ampiamente concordate con la redazione: "Non si sono mai inventati servizi televisivi rappresentando fatti non verificati, i vertici di Striscia lo sanno benissimo. Quando è giunta voce ai vertici che qualcuno aveva scoperto che alcune fattispecie erano rappresentate da attori hanno preso le distanze. E invece erano cose condivise. Noi siamo sicuri poter dimostrare l'estraneità all'interno del processo". La parola è passata a Fabio e Mingo, i quali confessano di essere rimasti disorientati dall'atteggiamento della redazione, la quale avrebbe deciso di comportarsi con loro in maniera molto diversa dalla linea scelta per altri casi in cui erano rimasti coinvolti inviati storici del programma come Luca Abete o il conduttore Ezio Greggio per i suoi guai con il fisco: "Ammettiamo che abbiamo commesso qualche errore – ma non lo abbiamo fatto. Ma perché Ricci non ci ha difeso? Perché ha difeso Greggio per il caso di Guardia di Finanza, perché ha difeso Luca Abete dopo il cui servizio un padre di famiglia si è suicidato e noi no? Loro sono stati protetti, Fabio e Mingo no. Due pesi e due misure. Stiamo parlando di gag comiche!".

Perché Fabio e Mingo sono stati licenziati da Striscia. Era il 24 aprile del 2015 quando il Gabibbo, con un annuncio improvviso, informava i telespettatori della sospensione di Fabio e Mingo dalla trasmissione: "Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef". Dopo 19 anni di collaborazione si chiudeva così il rapporto lavorativo, a causa di due video incriminati che Striscia ha giudicato truccati. Fabio e Mingo hanno poi avviato altri progetti in solitaria, come il tg satirico condotto su TeleNorba Luciano l'amaro quotidiano.

Fabio e Mingo: «Cacciati via mail. Increduli per trattamento del genere». Gli ex inviati di Striscia: «Per Reti Televisive italiane il contratto è risolto dal 7 maggio 2015. Per una presunta indagine della Procura di Bari di cui non siamo al corrente», scrive Vito Fatiguso su “Il Corriere della Sera”. «Una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. Con una comunicazione inviata per posta elettronica, Reti Televisive italiane pretende di aver risolto il nostro contratto a far data dal 7 maggio 2015 accusandoci di aver realizzato un servizio “precostituito e artefatto”. In tale comunicazione si fa riferimento anche a una presunta indagine della Procura di Bari su tale vicenda, nella quale evidentemente non ci viene mosso alcun addebito non avendo ricevuto alcuna comunicazione in proposito». È quanto scrivono in comunicato Fabio e Mingo, i due ex inviati di Striscia la Notizia sospesi in diretta tv due settimane fa. La coppia del tg satirico, dal momento del licenziamento, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni sul caso «non prima di aver chiarito i motivi del provvedimento». «Nell’esprimere incredulità e stupore - conclude il comunicato - per il trattamento che ci è stato riservato senza consentirci alcun diritto di replica e senza rispondere alle nostre reiterate richieste di incontro, ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni esclusivamente come attori». Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.

Striscia, a Bari inchiesta per truffa sul caso Fabio e Mingo. E Antonio Ricci sceglie Almo. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, la Procura si era mossa per individuare e punire il lestofante. La polizia giudiziaria è però arrivata alla conclusione che il video era un tarocco, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. A due settimane dallo scandalo è possibile tirare le somme su cosa è successo realmente nel divorzio, tanto rumoroso, fra Striscia la notizia e Fabio e Mingo. E a leggerla ora racconta il più incredibile dei cortocircuiti: un finto telegiornale, fatto con finti giornalisti, il cui servizio dà il via a una vera inchiesta della Procura che mossa per cercare il truffatore si accorge, in realtà, che era tutto finto. Tutto comincia i primi giorni di aprile, quando negli studi Mediaset arriva una richiesta di acquisizione di informazioni. A firmarla è il sostituto procuratore Isabella Ginefra, che suo malgrado si è imbattuta in una strana storia. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, pare addirittura su input dell’Ordine, la Procura di Bari si era mossa per individuare e punire il lestofante. Dopo alcune indagini delegate alla polizia giudiziaria era però arrivata alla conclusione che quell’avvocato, con la faccia nascosta, in realtà era un attore. Il servizio, in sostanza, era finto. O per lo meno erano finti gli interpreti. Da qui la richiesta di chiarimenti a Striscia, dove però, a quanto pare, nulla sapevano della finzione del servizio. Immediatamente da Mediaset hanno inviato i loro avvocato a Bari per approfondire la vicenda: fanno una richiesta di accesso agli atti, che viene però loro negata stante ancora il segreto istruttorio. E a quel punto avviano un’indagine interna. Accertano, dicono, che effettivamente quello era un attore e scoprono anche altri casi simili (per esempio la cartomante). Per Ricci è troppo. Seduta stante licenzia i due in video, affidando il messaggio al Gabibbo: nessuno della redazione era stato informato (nemmeno Ficarra e Picone, che in quei giorni conducevano). Ma soprattutto nulla sapevano Fabio e Mingo, che chiedono incontri su incontri ma vengono sempre respinti. L’indagine interna dura ancora una settimana: da Mediaset mettono in campo i migliori avvocati che, dopo aver raccolto informazioni, presentano a Bari nel fascicolo del pm Ginefra due denunce. Una a nome della ditta e una a nome di Ricci, nella quale chiedono di indagare per truffa: i due inviati hanno infatti un contratto fisso più bonus legati ai singoli servizi. Ma Fabio e Mingo non ci stanno: «Siamo stupiti e increduli - dicono - Ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni come attori. Non possono inviarci una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. E dell’inchiesta della Procura noi nulla sappiamo». Tant’è che Striscia ormai si è messa alla caccia dei loro sostituti: uno, come ha anticipato Repubblica, dovrebbe essere Almo Bibolotti, cuoco ex concorrente di Masterchef, che nel confermare la notizia ha spoegato che dovrebbe occuparsi di «truffe alimentari».

Striscia la Notizia, l'ex Masterchef Almo Bibolotti al posto di Fabio e Mingo, scrive “Libero Quotidiano”. Fuori Fabio e Mingo, il sostituto è già pronto. L'indiscrezione dell'ultimissima ora, infatti, indica che al posto del duo barese arriverà Almo Bibolotti, il cuoco finalista alla terz'ultima edizione di Masterchef. Un nome e un volto che gli appassionati del talent culinario ben ricorderanno, e che ora starebbe per essere "paracadutato" proprio a Striscia la Notizia. L'indiscrezione viene rilanciata dal Corriere della Sera. E sembra molto più che un'indiscrezione, poiché è lo stesso Almo a spiegare: "Non tradirò la mia passione, dovrò occuparmi di servizi sul cibo per smascherare truffe alimentari". Lo chef barese, però, poi aggiunge: "Sono molto amico di Fabio e Mingo e con loro ho parlato a lungo di questa proposta, ancora in fase di valutazione per me". Dunque non è tutto già deciso. Eppure Almo, oltre alla "ribalta" offerta dal programma di Antonio Ricci, ha un ulteriore ottimo motivo per dire sì a Striscia: vendicarsi di MasterChef. Già, perché oltre ai presunti brogli relativi al vincitore di quest'anno (smascherati putacaso sempre da Striscia la Notizia), i più attenti o appassionati ricorderanno che anche lo scorso anno la finalissima del talent di Sky finì nel mirino. Fu proprio Almo a lamentare irregolarità sulla gestione dei tempi e dei concorrenti nella finale in cui arrivò secondo. E dunque, oggi, Almo si può prendere una succulente rivincita, lavorando proprio per il format che tanti grattacapi ha causato a Masterchef. E - forse non a caso - afferma: "Apprezzo Striscia, davvero la voce della verità. Quella verità che spesso manca per fare dell'Italia una grande nazione". Una scelta, quella di Striscia, che sembra una vera e propria "dichiarazione di guerra" a Sky...

Striscia la notizia, Fabio e Mingo indagati a Bari con il finto avvocato: simulazione di reato. I due inviati baresi di Striscia la notizia sono da giorni al centro di uno scandalo, dopo essere stati licenziati e denunciati da Mediaset per truffa. Nei guai anche chi ha lavorato al servizio, continua “La Repubblica” Indagati gli ex inviati baresi di Striscia la notizia, Fabio e Mingo, con l'ipotesi di reato di simulazione di reato. Il fascicolo d'inchiesta è quello relativo al servizio sul presunto falso avvocato, interpretato invece da un attore, e che è costato ai due il licenziamento dal tg satirico di Mediaset. Nel fascicolo d'inchiesta coordinato dal sostituto procuratore Isabella Ginefra sono indagati per lo stesso reato anche il finto legale e le altre due persone che hanno partecipato alla realizzazione del servizio andato in onda nel 2013. Le indagini sono affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Bari e al momento si concentrano su quell'unico episodio. Nell'ambito degli accertamenti sulla vicenda, all'inizio di aprile la Procura ha inviato agli studi Mediaset una richiesta di acquisizione di informazioni. L'azienda e l'autore del programma, Antonio Ricci, hanno quindi depositato due denunce per truffa presso gli uffici giudiziari di Bari e messo a disposizione della magistratura il video integrale, quello cioè nel quale il viso dell'attore non era oscurato, rendendolo di fatto riconoscibile e dunque identificabile da parte degli inquirenti. Fabio e Mingo, licenziati in diretta dalla voce del Gabibbo, secondo la produzione avrebbero realizzato anche un altro falso filmato, anch'esso andato in onda nel 2013, che riguarderebbe una presunta cartomante, smascherata dai due. "La nostra - aveva fatto sapere nei giorni scorsi Ricci con una nota - è una collaborazione attiva alle indagini". I due inviati si sono dichiarati "sconcertati. dagli atteggiamenti ostili che stiamo riscontrando attraverso la stampa. Per ben 19 anni - hanno reso noto - abbiamo collaborato fedelmente dando il massimo della nostra professionalità nel rispetto di ogni indicazione ricevuta, anche se non sempre condivisa. Quando le autorità competenti riterranno utile ascoltarci, risponderemo con lealtà e serenità. Siamo i primi a voler conoscere le fila di questa assurda vicenda nella quale ci si vuole coinvolgere".

Simulazione di reato, indagati Fabio e Mingo. Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia nel mirino dell’inchiesta. Indagato anche l’attore che ha partecipato al servizio poi risultato fasullo, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”.  Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia, Fabio e Mingo, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla pm Isabella Ginefra per simulazione di reato. Nel fascicolo compaiono i nomi di altre persone, tra cui l’attore che ha partecipato alla presunta messa in scena e tutti coloro che hanno realizzato il servizio risalente al 2013. Non sono invece coinvolti nell’indagine gli autori del programma, gli accertamenti però non sono terminati. I due inviati baresi sono stati licenziati dal programma nei giorni scorsi. Le indagini sono state affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri della Procura di Bari. Nel fascicolo sono confluite anche due denunce di Antonio Ricci e Mediaset che, sentendosi parti lese, chiedono agli inquirenti di indagare per truffa. Fabio e Mingo si sono affidati all’avvocato penalista Francesco Maria Colonna, i due si sono messi a disposizione dell’autorità giudiziaria e potrebbero essere interrogati nei prossimi giorni. Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.

Il pm "striscia" Fabio e Mingo. La coppia ora è sotto inchiesta. Avrebbero costruito ad arte il servizio su un falso avvocato. Saranno interrogati presto. Ricci tace ma trapela delusione, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Insomma Striscia la Notizia non guarda in faccia a nessuno. Specialmente ai propri inviati. Andrà come andrà, però da ieri Fabio e Mingo (ossia Fabio De Nunzio e Domenico De Pasquale) sono stati iscritti nel registro degli indagati per simulazione di reato. Avrebbero, e sia chiaro il condizionale è sempre obbligatorio fino a sentenza passata in giudicato, inventato di sana pianta uno di quei servizi che dal 1997 erano parte integrante del programma. Ora se ne sta occupando il pm Isabella Ginefra della Procura di Bari che a inizio aprile ha chiesto ulteriori informazioni a Mediaset e vedremo come evolverà il giudizio. Già nel 2013, dopo la messa in onda del servizio, l'autorità giudiziaria aveva chiesto le immagini senza oscuramento dei volti e senza modifiche audio. Ma la redazione pugliese, «nella persona di Corinne Martino» come recita un comunicato diffuso in serata, «aveva sostenuto di aver subito un furto e quindi di essere impossibilitata a fornirlo». Intanto però sia Striscia la Notizia che Mediaset alcuni giorni fa hanno denunciato per truffa la coppia di «inviati speciali», che nei prossimi giorni potrebbe essere ascoltata dagli inquirenti. Nel frattempo, come ha annunciato pubblicamente il Gabibbo (intervento molto significativo), i due sono stati sospesi dal programma: «Oh qui siamo a Striscia, mica a Masterchef », ha ironizzato il 23 aprile 2015 il pupazzone con l'accento genovese. Quella sera è iniziato (anche) pubblicamente il calvario della coppia di inviati che ha rastrellato per quasi vent'anni il sud Italia. Centinaia di servizi. E una fama invidiabile. Non per nulla sono stati gli «inviati speciali» più longevi del programma di Antonio Ricci. Per tutta l'Italia ( Striscia la Notizia è senza dubbio uno dei programmi più seguiti), loro due hanno rappresentato il volto umano delle inchieste in tv, implacabili ma anche ironiche, e si sono costruiti un'immagine che giocoforza questa inchiesta contribuirà a incrinare. Uno spilungone loquace e uno rotondetto e muto: «Awè amici di Striscia, da Mingo, e dal buon Fabio, a voi studio!». In sostanza, Fabio e Mingo si sarebbero inventati un servizio: secondo una denuncia anonima, un falso avvocato si faceva dare acconti dai clienti e poi spariva senza dare più notizie. La segnalazione sottolineava anche che il legale in realtà non era neppure laureato né tantomeno iscritto all'Ordine degli Avvocati. Un caso perfetto. E subito la macchina di Striscia è partita con la velocità che tutti le riconoscono. Un'attrice si presenta all'avvocato chiedendo assistenza per fare causa alla propria assicurazione. Lui assicura assistenza prevedendo un onorario complessivo di 500 euro e facendosene anticipare 200. Dopodiché sparisce. Fabio e Mingo lo rintracciano nel bar vicino all'ufficio e gli consegnano il loro famoso «provolone». Lui si arrabbia, scoppia il litigio ma nessuno dei clienti del bar interviene per difendere Mingo (particolare sospetto). Il sedicente avvocato scappa, sale sulla propria auto e, partendo, mostra il dito medio. Servizio impeccabile. Peccato che, secondo le accuse, fosse costruito ad arte, proprio una precedente denuncia riguardante una maga sudamericana. «Siamo delusi e arrabbiati - si sente ripetere negli ambienti Mediaset -: delusi perché va in fumo un rapporto di fiducia durato quasi vent'anni e arrabbiati perché questo è un episodio che rischia di screditare il programma». E difatti la linea è molto dura. Da quando è iniziata pubblicamente la querelle , tra Striscia e Fabio e Mingo non ci sono più stati contatti se non attraverso avvocati, procure e comunicati stampa. Per farla breve, Fabio e Mingo sono i Robespierre che ora rischiano di finire sulla simbolica ghigliottina. E, se perderanno la causa, aiuteranno la causa di Striscia perché è davvero raro che un programma prenda così duramente le distanze da un collaboratore sotto inchiesta.

Nella puntata, andata in onda stasera  e ...dopo aver letto il mio articolo (bwuahahahah...) finalmente viene svelato il mistero della sospensione dei due inviati: due servizi falsi, quello del finto avvocato e della maga sudamericana...il seguito alla prossima puntata per chi avrà voglia e tempo di seguire il "velino" Ricci. Io no...no... io no! Scrive Anna Maria. Questa volta il provolone l'hanno preso proprio loro, da Ricci. Non si è ancora risolta la vicenda dei due inviati di striscia Fabio e Mingo, "licenziati senza spiegazione," attraverso una puntata di striscia e mi sorprende questa loro affermazione “Francamente non ne sappiamo nulla, sono caduto dalle nuvole. Sappiamo quello che sapete anche voi e non riusciamo a metterci in contatto con Antonio Ricci né con la produzione. Non sappiamo cosa pensare, se sia una trovata di Ricci. Non siamo preoccupati, se avessimo fatto qualcosa lo saremmo, invece siamo sereni”. Se sono coerenti e per solidarietà quelli delle Iene dovrebbero mandare qualcuno dei loro inviati da Ricci...Sempre se Ricci non si chiude  dentro la pancia del gabibbo per non rispondere. Visto che striscia ha reso la cosa pubblica attraverso il gabibbo deve spiegare le motivazioni di questo licenziamento. E' questa la trasparenza di Ricci? Oppure era scarso di ascolti e ha voluto creare un caso? Non possono gli inviati andare a chiedere spiegazioni a politici, finti medici, truffatori e poi loro stessi non dare spiegazioni sul perchè di questo licenziamento in tronco. Ed ora sono alla ricerca di altri inviati. Per mesi  l 'hanno menata sul caso cuochi a masterchef per poi comportarsi ben peggio per cose interne. Silenzio assoluto e Ricci si nega di dare spiegazioni ai due inviati. Mah. Questo video è del 2007  Stefano Salvi, allora inviato di striscia, spiega i motivi della  rottura con Ricci  e le interviste più eclatanti che precedettero i contrasti con Striscia. Che non sia successa la stessa cosa con Fabio e Mingo? Ossia aver scoperto qualcosa di scomodo per il "velino" Ricci ,che proprio qualche sera fa ci ha propinato la Belen dopo che aveva frignato pubblicamente che la tv (mediaset) l'avesse messa da parte per i vari flop recenti? Io consiglio di  boicottare questo programma e tutte le aziende che lo sponsorizzano! Il "povero" Salvi fu cacciato quando scoprì alcune magagne che riguardavano gente di Forza Italia  e non solo...Nel caso di Salvi : quando dici delle verità  ti cacciano senza spiegazioni perchè diventi scomodo, tanto ci sono sempre i pecoroni che abboccano o non si pongono domande serie o peggio ancora fanno come gli struzzi. "Striscia la notizia " genera svariati milioni di euro di pubblicità e per questo Ricci a Mediaset è tollerato, ma evidentemente certi tasti non vanno toccati. Come mai Ricci non ha cacciato  Ezio Greggio quando si sono scoperti i suoi giochini monegaschi ? Ehhhh ma c'è di peggio , direte voi, ecccerto....Come al solito, tutto fumo e niente arrosto, tanto si insabbia tutto nel giro di pochi giorni e...avanti un altro!

·        Mirko Scarcella.

Marco Ciotola per mowmag.com il 9 novembre 2020. Ve lo ricordate il film The Final Cut, quello di un futuro in cui le persone si fanno impiantare nel cervello una scatola nera che registra ogni istante vissuto? Trovai brillante e non troppo lontana quell’intuizione, quella possibilità. A essere franco, speravo però che la prima manifestazione concreta di una realtà simile riguardasse stralci di spionaggio, retroscena scioccanti, complotti internazionali, incontri con alieni, apparizioni, mostri di Lochness, il gol di Muntari alla Juve. Invece no, riguarda la vita di Mirko Scarcella, in risposta a quella che lui reputa in tutto e per tutto una “campagna di diffamazione”. Molte cose non tornano e la contro-replica di Scarcella – approdando finalmente all’incipit del pezzo – è la registrazione di tutta la sua vita e la conseguente nascita di un film, Occhi dietro: “Il film che solo i miei occhi hanno vissuto”. È uscito su Vimeo, con tanto di claim che ne anticipa significato e intenti supposti: “Avete cercato di rovinarmi, dipingendomi come la persona che non sono. Avete messo in pericolo la mia famiglia. Avete sotterrato il mio lavoro, la mia passione, i miei sacrifici. Mi avete dato in pasto all’odio e alla violenza solo per fare audience. Ma oggi tutti hanno scoperto la verità. Grazie a Dio avevo le prove contro ognuna delle falsità che avete detto”. Il film-verità, che dura 3 ore, è incentrato in primis sull'altrettanto lungo servizio delle Iene, a firma Gaston Zama: Do you know Mirko Scarcella?. Servizio che - questa la tesi di Scarcella - è costruito ad arte, con testimonianze manipolate se non inventate, scenari ricostruiti ad hoc o con Photoshop, costruzioni di video oscurati non per privacy ma perché aventi come protagonisti attori, persone estranee alla vicenda. Ma da sottolineare sono soprattutto le precisazioni circa il suo ruolo quando lavorava per Gianluca Vacchi, visto che nel servizio delle Iene era stata ridimensionata la portata della loro collaborazione, evidenziando anzi una chiusura dei rapporti anticipata per grosse divergenze ed etichettato le sue funzioni con un diretto: “Diciamo che se avessi avuto una borsa, lui avrebbe dovuto portarmela”. Scarcella, prima ha dimostrato come fosse ben più di un "portaborse" avendo partecipato alla creazione di moltissimi contenuti social di Vacchi dal 2013 al 2017, poi lo ha attaccato duramente mostrando diversi atteggiamenti "deplorevoli"  di "mister enjoy", segnalando le sue continue “liposuzioni” e ancora “i maltrattamenti ai domestici” e infine l'accusa più grave, ovvero quella riportata da alcune testimonianze “di aver fatto sesso con escort e averci provato anche con delle ragazze minorenni”. Accuse sostenute dagli audio a ex collaboratori e domestici e scambi di messaggi WhatsApp - da quanto mostrato nel video -, con accordi per incontri con prostitute e le loro retribuzioni fino all’episodio dell’Azerbaigian, quando – sostengono i testimoni – Vacchi ci avrebbe provato con una minorenne e avrebbe picchiato un suo collaboratore che cercava di convincerlo a non fare sesso con una ragazza così giovane: “Non ero felice che si portava una ragazza tanto giovane in camera, era anche pericoloso per noi che lui andasse con una minorenne, per questo ci ho litigato davanti all’hotel. È successo anche a Madrid, una grande litigata perché lui era completamente ubriaco e voleva saltarmi addosso”, è la testimonianza che Scarcella riporta di uno dei collaboratori.

Dagospia il 27 maggio 2020. Mirko Scarcella torna con un nuovo libro "La Bibbia. Successo Fama Soldi", in cui spiega come trasformare i propri profili social in un'azienda e perché è necessario anche per professionisti e imprenditori. Al libro, disponibile solo online a 97 euro, hanno collaborato il grande fotografo David LaChapelle, che ha scattato la copertina ritraendo per la prima volta un uomo italiano, e il campione di pugilato Floyd Mayweather, uno degli atleti più pagati della storia, che ha curato la prefazione. Dopo l'esclusiva pre-release di gennaio, riservata ai suoi followers, Mirko Scarcella, il guru di Instagram dietro al successo di alcuni profili famosissimi anche in Italia, torna con un nuovo libro: "La Bibbia. Successo Fama Soldi". La nuova fatica editoriale del professionista, che segue Instasecrets, uscito nel 2018, "raccoglie quello che ho imparato in tre anni di lavoro su come diventare delle celebrities su Instagram, come crescerci e soprattutto come usarlo per guadagnare". A raccontarlo è lo stesso autore, da Miami, dove segue sia diversi V.I.P., che fanno dell'esposizione mediatica parte del loro core business, che persone che arrivano dai settori più disparati. Studi di avvocati, grandi agenti real estate, chirurghi estetici: "non c'è una professione che non possa giovarsi di una presenza intelligente sui social, in grado di raccontare sia il business che altri aspetti del proprio mondo", aggiunge. Se per il primo libro Scarcella - un passato da commesso di Zara con posto fisso abbandonato per seguire le passioni e crearsi un lavoro che gli desse più soddisfazioni - aveva potuto contare sulla prefazione di Vittorio Feltri, negli anni l'autore ha internazionalizzato il proprio business. Al volume, che è disponibile solo online al costo di 97 euro, hanno collaborato il grande fotografo David LaChapelle e Floyd Money Mayweather, uno degli sportivi più pagati della storia, che ha voluto scrivere la prefazione. Nella copertina del libro, LaChapelle, che ha fotografato divi come Michael Jackson, Elton John, Kim Kardashian e Madonna, e che è stato al centro di mostre in tutto il mondo, compresa una a Palazzo Reale a Milano, ha per la prima volta fotografato un uomo italiano: nell'immagine, scattata nello studio di Los Angeles dell'artista, Scarcella appare nudo e ricoperto di emoji. “Questo manuale del mio amico Mirko vi insegna a creare la vostra popolarità con i parametri Instagram, a diventare noti, a far diventare nota la vostra azienda e a vendere grazie al web", scrive invece Mayweather nella prefazione. Il libro, che è disponibile in inglese e spagnolo su Amazon, mentre nella versione italiana si può acquistare sul sito labibbia.biz, "è diverso da Instasecrets", racconta l'imprenditore. "Oggi l'utente medio è a un livello molto più avanzato di prima e rispetto a tre anni fa Instagram si è definitivamente affermato nell'Olimpo dei social, sbaragliando la concorrenza di SnapChat, grazie alla quale, bisogna ammetterlo, ha saputo rinnovarsi profondamente, introducendo le 'stories' ma anche tante altre funzioni che rendono i meccanismi di ingaggio dei propri follower sempre più vari e ricchi". Nel testo, oltre a Instagram, si parla anche dell'altro social del momento, TikTok. "Più  in generale, oltre a raccontare i segreti del mezzo, quella che cerco di passare è un cambio di paradigma: non sto caricando qualche foto, qualche contenuto, ma sto creando un'azienda. E nel creare un'azienda serve qualità, cura, ricerca meticolosa, attenzione ai dettagli. Anche per questo vorrei che chi compra il mio libro fosse consapevole che non è la solita guida. Ci ho messo tutto quello che so, ma per chi lo leggerà sarà anche un investimento su se stesso", conclude il professionista.

Do you know Mirko Scarcella? Lo Speciale Le Iene sul “guru di Indiagram”. Le Iene News il 13 ottobre 2020. Il nostro Gaston Zama ripercorre la storia del guru di Instagram. Dalla prima intervista a Miami a Mirko Scarcella fino ad alcune sue conoscenze che ci raccontano di aspettarlo ancora. E poi c’è chi ci ha risposto alla monolitica domanda: do you know Mirko Scarcella? Con Gaston Zama ripercorriamo a ritroso la storia di Mirko Scarcella attraverso spezzoni inediti dell’incontro con il “guru di Instagram”, anzi il “guru di Indiagram”. Torniamo al 2012, quando Mirko Scarcella inizia a lavorare con Fabrizio Corona. Ci sono i primi contratti con giovani che investono risparmi per un lavoro come Christian Chiapperini, cantante lirico, che ci racconta di essersi ritrovato a fargli da autista a Imperia. Gaston Zama incontra anche alcune persone che hanno avuto a che fare con Mirko Scarcella, come Renato Gioia e Filippo Celentano che si sono occupati dei suoi libri. Incontriamo anche Ratatouille, uno chef a domicilio; a Napoli Andrea Lombardi ci racconta invece di una notte di lusso a Parigi tra ristoranti e discoteca. Il tour continua ad Aosta con Isac, dj e produttore musicale, e a Milano con Lorenzo Redaelli studente e blogger. Tra chi sostiene di essersi affidato a lui ci sono anche due professionisti che avrebbero chiesto al “guru” di incrementare i follower su Instagram seguendo il suo algoritmo, ma hanno bloccato le consulenze per il sospetto che fossero comprati. Alcuni sembrano essere riusciti a recuperare parte del loro investimento. Al termine del nostro Speciale abbiamo fatto la monolitica domanda a Kim Kardashian, Cristiano Ronaldo, Donald Trump, Rihanna, Tayor Swift e Sylvester Stallone: do you know Mirko Scarcella? Ebbene, Cr7 e “Rambo” ci hanno risposto tramite il nostro notaio: volete sapere cosa ci hanno detto?

Da notizie.it il 19 agosto 2020. Mirko Scarcella era considerato una specie di guru di Instagram, ma nel giro di due mesi la sua reputazione è stata distrutta, dopo un servizio della nota trasmissione Le Iene. L’uomo era famoso per le sue grandi capacità di gestione dei profili Instagram, tanto da “nascondersi” anche dietro il grande successo di Gianluca Vacchi. Scarcella ha scritto anche diversi libri su questo argomento ed è stato invitato numerose volte in trasmissioni televisive e radiofoniche in qualità di esperto di Instagram. La sua carriera, però, ha subito un brusco stop quando è finito nel mirino de Le Iene. La risposta di Mirko Scarcella a Le Iene. Il 16 giugno Le Iene hanno mandato in onda un servizio, a cura di Gaston Zama, con lo scopo di smascherare i presunti trucchetti che sono stati utilizzati da Mirko Scarcella per aumentare i follower, le visualizzazioni, i like e i commenti sui profili Instagram. Lo stesso Gianluca Vacchi lo aveva definito un “ciarlatano” ma Scarcella aveva prontamente risposto “chiederò il diritto di replica, così vedremo chi è il vero ciarlatano“. Queste sono state le sue parole a dopo il servizio, ma a distanza di due mesi, in cui è rimasto in silenzio, ha pubblicato due video sulla sua pagina Instagram che smontano completamente il servizio de Le Iene. “Quando sostenevo che il servizio trasmesso dalle Iene sul mio conto fosse finto e confezionato allo scopo di attaccarmi ingiustamente solo per fare audience, le persone faticavano a crederci” ha scritto Mirko Scarcella su Instagram. A causa del video Scarcella è stato insultato, considerato un truffatore e anche minacciato. Ha scelto di ricorrere a vie legali per difendere se stesso e la sua famiglia. “Ci sono persone che per apparire sono disposte a tutto ma ora ne dovranno rispondere davanti alla legge” ha aggiunto il guru di Instagram. Per poi terminare con una promessa: “Vi ho svelato solo 10 carte del mazzo, magari presto ne scoprirò qualcuna in più su clienti che si dicono insoddisfatti e su chi ha mandato in onda questa storia e non solo”.

Michela Proietti per corriere.it il 20 giugno 2020. «Da ieri sono stato sospeso da Forbes, dove scrivevo articoli sui social media...ma questo è solo uno dei danni che mi hanno procurato i miei ex clienti Gianni Mendes e Simone D’Auria». Mirko Scarcella, il guru di Instagram sconfessato dalle Iene, è passato ad essere dal Re Mida di Instagram al bersaglio degli haters. Sotto ai suoi post adesso ci sono insulti e sbeffeggi. Un’ora di girato ha demolito la sua immagine, mettendo in dubbio la serietà del suo lavoro, dei suoi contatti e persino di alcune interviste televisive, tra accuse dei due presunti truffati e il «cameo» di Gianluca Vacchi, suo ex datore di lavoro, che lo ha definito «cialtrone». «La cosa buffa è che invece sotto i profili dei miei accusatori ci sono frasi di ammirazione e di consenso: hanno esattamente ottenuto quello che volevano, diventare famosi sul web, peccato che lo hanno fatto a mio discapito. Ma ho deciso che userò tutti i mezzi a mia disposizione per difendermi». Dopo un’ intervista con Selvaggia Lucarelli, Scarcella, milanese di origini calabresi, ex commesso di Zara, ex assistente di Vacchi, fino a pochi giorni fa considerato il guru di Instagram e ora bollato come un «millantatore» vuole ribadire la sua versione dei fatti. «Sono sveglio dalle 4 di mattina, sono nella casa di Miami con mia moglie e mia figlia di pochi mesi: prima le ho guardate mentre dormivano e ho pensato che finché ci sono loro va tutto bene. Ma ammetto che nei mesi scorsi sono stato così minacciato e aggredito verbalmente dai miei ex clienti che ho avuto paura di uscire di casa».

«Renderò pubblici i nostri messaggi». La vicenda è abbastanza nota: Mendes, avvocato italiano specializzato in immigrazione ma residente a Miami, e Simone D’Auria, artista in cerca di palcoscenico anche lui basato nella città che ospita la versione invernale di Art Basel, si sono affidati alla consulenza di Mirko Scarcella, pagando il primo 7500 euro al mese per due anni, l’altro una cifra più bassa ma ugualmente non proprio definibile «argent de poche», aggiungendo all’onorario un paio di opere d’arte stimate intorno ai 20 mila euro. Tutto per il sogno di diventare due star di Instagram, con il benchmark di profili come quello di Kim Kardashian. «So che le mie tariffe non sono alla portata di tutti, ma tra di noi c’era un contratto accettato tra le parti: nulla di non dichiarato», specifica Scarcella. Dopo alcuni mesi, i due clienti insoddisfatti della crescita dei follower e soprattutto dell’immagine dei loro profili, hanno prima chiesto la risoluzione del contratto , ma subito dopo anche la restituzione dei soldi. «Guardate questi messaggi – mostra Scarcella su Zoom -: non ho problemi a farli vedere, anzi li renderò pubblici perché è giusto che a questo punto ci sia anche la mia versione dei fatti».

Da Instagram a Indiagram. Una escalation comunicativa fomentata dalla delusione di aver sbagliato investimento e soprattutto dal sospetto di essere stati truffati. Gianni Mendes si è persino congedato dal suo vecchio profilo dicendo che purtroppo preferiva cancellarlo, perché infestato da finti followers, bot (che starebbe per robot) e utenti fantasma, ovviamente addossando la colpa di tutto a Scarcella. «Sono state dette tante bugie, con l’unica finalità di risolvere i contratti senza pagare le penali. Sono caduti anche in contraddizione, dicendo che sono venuti a cercarmi come consulente dopo che avevano visto che collaboravo con Harvard (collaborazione smentita nel servizio delle Iene, ndr): anche questo è falso, noi lavoravamo già insieme da 10 mesi quando si è saputo dei miei contatti con l’Università». L’ex guru di Instagram, che ora qualcuno chiama di Indiagram, in riferimento al numero di profili indiani, turchi e brasiliani con cui avrebbe «nutrito» gli account dei suoi clienti, prova a dare una spiegazione a tutto. «E’ naturale che molti utenti provengano da quei Paesi dove l’uso di Instagram è massiccio, ma in fondo mi chiedo, che strano razzismo è quello di preferire followers europei e nordamericani agli indiani? Un ragionamento molto pericoloso».

Il «metodo» Scarcella. All’accusa di aver rovinato l’immagine dei suoi clienti con followers finti, ribatte spiegando il metodo Scarcella, che prevede l’uso del Giveaway, ovvero delle promozioni, una pratica - strano ma vero -, legale usata anche da Kris Jenner: «lei, come altri, a pagamento fanno un post in cui dicono che se chi li segue vuole vincere, ad esempio, un set di valigie di Gucci deve seguire gli account del profilo che indica. Quasi sempre i profili indicati, che incasseranno migliaia di follower, sono persone che si sono affidate a guru dei social come me». In mezzo ci sono ovviamente altri metodi, come l’uso di app, hashtag mirati, orari giusti e soprattutto contenuti, «che sono quelli che fanno la vera differenza e che io ho creato per le persone che oggi mi accusano. In fondo a tutto mi chiedo: ma perché questi signori non mi hanno denunciato? Chi è truffato va dalla polizia, perché loro non l’hanno fatto? Hanno detto di aver mandato una lettera dall’avvocato e di non aver avuto risposta: guardate questa qui, è la lettera del mio legale, alla quale loro non hanno risposto. Forse gli interessava diventare popolari e mi pare che ci siano riusciti».

«I finti ricchi». La morale sembrerebbe: chi di Instagram ferisce, di Instagram perisce. Ma l’ex star di Instagram, autore anche di un libro sui segreti dei social con tanto di prefazione di Vittorio Feltri, vuole rimanere a galla. «Tutti hanno qualcosa da rivelare, ma anche io ho tanto da dire: per ora voglio iniziare spiegando come stanno i fatti, chiarendo per esempio che il mio mantenimento a sue spese, di cui parla Mendes, è stato gonfiato a dismisura. Per lavorare insieme a lui mi sono trasferito a Miami dall’Italia, lui all’inizio mi pagava un hotel, poi ho capito che non poteva permetterselo e allora mi sono fatto ospitare a casa sua, in una brandina sistemata nell’antibagno...». Una scena che, se confermata, sa di b-movie, con esistenze virtuali dorate, ma di vite reali più prosaiche. «Le case dove creavamo contenuti non erano di proprietà di Mendes, benché lui si spacciasse per milionario: le affittava su Airbnb e poi ci attaccava alle pareti le sue foto, che si portava sempre in valigia, per rendere veritiero lo sfondo. Ma in fondo io facevo il mio lavoro e anche se trovavo tutto un po’ assurdo, non entravo nel merito. Ma proprio per questo non accetto che ora questa gente dica che è la mia vita e il mio lavoro ad essere un falso: sono loro che fanno finta di essere quello che non sono».

Voli privati, orologi e l’enigma Trump. Tra le accuse mosse a Scarcella c’è infatti l’esibizione di uno stile di vita che non coinciderebbe in realtà con un vero status sociale: aerei privati, orologi costosi, tutto un castello montato ad arte per attrarre i pesci nella rete, con la speranza di diventare personaggi di successo come lui. Anche qui controbatte: «ho una membership che mi permette di accedere a un sistema di voli empty leg, aerei che viaggerebbero comunque vuoti perché devono tornare alla base e che quindi costano quasi come un posto in business class di una compagnia turistica». I punti da chiarire, sia da una parte che dall’altra, rimangono ancora molti: dove è finito, ad esempio, il fantomatico contratto con la Casa Bianca di Scarcella, che avrebbe visto il rampante milanese nientemeno che nelle vesti di spin doctor di Donald Trump? «Non ho mai rilasciato nessuna dichiarazione in merito, credo sia stata una montatura dei media», taglia corto Scarcella.

La religione del K. Quello che invece sottolinea è l’atteggiamento incoerente dei suoi accusatori: «All’inizio sono stato ritenuto indispensabile, ho ancora tutti i messaggi, poi quando pensavano di poter fare da soli sono caduto in disgrazia. Ho il sospetto che a riempire di fake followers i loro profili siano stati proprio loro stessi, per potermi accusare e non pagare le penali. E’ come quando uno pulisce la casa, ma quella casa è aperta...e chiunque può entrare e sporcare come e quanto vuole».  Il racconto è una sequenza di trattative, minacce, intimidazioni e messaggi in instagrammese dove il mila, inteso come denaro da restituire (Mendes chiedeva indietro 220 mila dollari), viene abbreviato con il K, proprio come si fa con la conta dei followers. «Mi ero trasferito in America per lavorare con il mio cliente, che essendo avvocato mi aveva promesso di aiutarmi ad avere il visto: non solo non me lo ha mai procurato, ma ad un certo punto mi ha minacciato dicendo che avrebbe segnalato che lavoravo illegalmente negli Stati Uniti. Cose a cui non voglio pensare più, in questo momento l’unica cosa che conta è riavere indietro la mia immagine».

Gaston Zama vero nome Giorgio Romiti blocca i commenti su Instagram. Da doyouknowmirkoscarcella.com il 24 agosto 2020. Giorgio Romiti alias Gaston Zama delle Iene, poche ore dopo che è uscito il mio video risposta ha tolto la possibilità alle persone di commentare i suoi post. Prima aizzava la gente con Confucio, I’m the chosen one, e su qualsiasi cosa potesse alle persone stimolare l’odio su di me e di conseguenza sulla mia famiglia! Continuando insieme alle Iene oltretutto, a fomentare le persone chiedendo di mandare segnalazioni su di me, anche quando ho iniziato a postare i messaggi di morte a me e mia figlia. IO per giorni ho lasciato i commenti aperti prendendomi insulti e minacce perfino di morte che non mi meritavo ed è per questo che sono stato costretto a chiuderli. Per loro la cosa più improntante è stata sempre l’Audience non la verità,  ma perché Ora la Iena Giorgio Romiti detto Gaston Zama blocca “l’audience” quindi la possibilità di dire la propria? Perché la gente non è dalla sua parte? Siamo solo all’inizio. Vi informo che Giorgio Romiti alias Gaston Zama delle Iene, poche ore dopo che è uscito il mio video risposta ha tolto la possibilità alle persone di commentare i suoi post. Prima aizzava la gente con Confucio, I’m the chosen one, e su qualsiasi cosa potesse alle persone stimolare l’odio su di me e di conseguenza sulla mia famiglia! Continuando insieme alle Iene oltretutto, a fomentare le persone chiedendo di mandare segnalazioni su di me, anche quando ho iniziato a postare i messaggi di morte a me e mia figlia. IO per giorni ho lasciato i commenti aperti prendendomi insulti e minacce perfino di morte che non mi meritavo ed è per questo che sono stato costretto a chiuderli. Per loro la cosa più improntante è stata sempre l’Audience non la verità,  ma perché Ora la Iena Giorgio Romiti detto Gaston Zama blocca “l’audience” quindi la possibilità di dire la propria? Perché la gente non è dalla sua parte?

Dagonews il 24 agosto 2020. “LE IENE SONO UN PROGRAMMA CRIMINALE” .

mirkoscarcella. Do you know Mirko Scarcella? La storia dietro un servizio delle Iene. 

Quando sostenevo che il servizio trasmesso dalle Iene sul mio conto fosse finto e confezionato allo scopo di attaccarmi ingiustamente solo per fare audience, le persone faticavano a crederci. Quando si monta un servizio al solo fine di manipolare le persone si può far apparire tutto come si vuole, fino ad alterare la realtà dei fatti. Purtroppo le Iene sono anche questo. Lo hanno fatto spesso e, questa volta, lo hanno fatto con me, dando spazio e visibilità a persone che - pur di apparire - sarebbero disposte a tutto. Con la complicità di costoro, hanno aizzato migliaia di persone a sfogarsi contro di me e la mia famiglia, facendomi passare per un vile truffatore. Qualcuno è andato oltre e lo abbiamo prontamente denunciato per tutelare l’incolumità mia e quella della mia famiglia. Purtroppo internet è anche questo. In questo video voglio mostravi (e documentarvi) che non sono un truffatore e, come il servizio delle Iene, abbia manipolato la realtà dei fatti con il solo scopo di fare audience. Ci sono persone che per apparire sono disposte a tutto ma ora ne dovranno rispondere davanti alla legge.

Ps: Vi ho svelato solo 10 carte del mazzo, magari presto ne scoprirò qualcuna in più sui clienti che si dicono insoddisfatti e su chi ha mandato in onda questa storia e non solo...

Mirko Scarcella a Notizie.it: “Le Iene sono un programma criminale”. Da notizie.it il 24 agosto 2020. Un video e dieci carte per difendersi dalle accuse e dimostrare la propria innocenza, in attesa che la giustizia faccia il proprio corso. Così il “guru di Instagram” Mirko Scarcella ha voluto rispondere, a due mesi di distanza, al servizio con cui Le Iene lo hanno dipinto come un truffatore. Ma la vicenda comincia ben prima che il video diventasse pubblico – quando sono arrivate le prime minacce da parte di due ex clienti – e prosegue, tra intimidazioni ed estorsioni, fino alle richieste (ignorate) dell’allontanamento da Mediaset di chi ha realizzato il servizio “criminale”. Mirko Scarcella ha ripercorso tutta la propria storia ai microfoni di Notizie.it, con il supporto dell’avvocato Vincenzo “Ezio” Esposito. Intervista a Mirko Scarcella.

Eri ritenuto, e probabilmente lo sei ancora, il guru di Instagram: come ti sei guadagnato questo appellativo sul campo?

Mirko Scarcella: “A me non importa il nome che hanno usato in televisione. Quello che mi interessa è che non venga intaccata la professionalità che mi sono guadagnato in anni di lavoro.”

Qual era, di fatto, la tua attività professionale?

Mirko: “La mia attività (anzi, una parte della mia attività) era quella di dare visibilità a degli account attraverso delle strategie di marketing, e, con alcuni clienti, anche l’ideazione dei contenuti e la creazione del personaggio. Per esempio, dando l’idea sugli slogan da utilizzare e che potevano essere ripresi dalle persone, per rendere più visibile l’account. A questo scopo ho utilizzato strategie di marketing che si basano sui commenti, sui follower, sulle varie interazioni. È totalmente diverso da quello che hanno raccontato, in malo modo, a Le Iene, rovinando la mia persona e la mia attività.”

Chi erano i tuoi clienti più famosi e di successo?

Mirko: “Avrei potuto fare come hanno fatto Le Iene che si sono inventate i nomi. Io, per il contratto che ho con i miei clienti, non posso fare alcun nome. Ti faccio un esempio: quando è iniziato tutto, ho scritto a un mio cliente molto famoso italiano, ho pubblicato anche lo screenshot della conversazione nel video di risposta a Le Iene, dove dico a questo cliente: "Tu ti sei sempre trovato bene con me, lo puoi dire?".

Lui: "Eh, Mirko, però non posso". Questi sono gli accordi: un cliente che mi paga non vuole fare il paladino della giustizia che va a dire all’Italia che lavora con me, ma non ha neanche un senso logico. Mi sembra una cosa completamente fuori luogo il fatto che io per discolparmi dal fatto di non essere un truffatore, debba dire a Gaston Zama quali sono i miei clienti. Inoltre, Gaston Zama li conosceva benissimo, perché mi chiedeva una mano per intervistarli o per andare ai loro eventi.”

La tua attività professionale procedeva normalmente, anche con buoni risultati, tanto è vero che sei diventato un punto di riferimento nel settore, fino a quando la trasmissione Le Iene ha deciso di trasmettere un servizio di di te in cui, di fatto, screditava la tua attività. Tu come hai vissuto quel servizio?

Mirko: “Inizialmente mi sono trasferito dall’Italia a Miami per seguire questo mio cliente, Gianni Mendes Toniutti, un avvocato di immigrazione che aveva il sogno di diventare cantante. Sono venuto qui per seguire il suo progetto per qualche mese. Quando mi trovavo ancora a Miami due clienti hanno iniziato a dire di volersi rivolgere a Le Iene, a organizzarmi imboscate, minacciarmi. Tutte cose che sono continuate anche quando sono tornato in Italia. Pensavo che prima o dopo sarebbero rinsaviti. Quando ho visto il servizio online de Le Iene mi trovavo in America. Mi sono iniziati ad arrivare migliaia di messaggi come: Ti uccido, Uccido tua figlia, Deve morire tua figlia, tua moglie, Tu devi morire, Sei un truffatore. È stato uno shock, mi ricordo ancora come ero vestito, cosa stavo facendo, e dov’ero quando è iniziata questa tempesta. È una vera violenza quella che mi è stata fatta. Ero veramente sconvolto, ma in realtà neanche troppo sorpreso, perché ricevevo minacce già da mesi.”

Le prime minacce. Prima della messa in onda del servizio de Le Iene, che cosa è successo con questo tuo cliente?

Mirko: “I clienti in questione sono due. Con uno dei due, l’avvocato d’immigrazione Gianni Mendes Toniutti, lavoravo da tempo ed era talmente contento del lavoro che stavamo facendo mi ha presentato anche un suo amico, Simone D’Auria. Una volta avvenuto il contatto, Mendes mi ha detto di voler annullare il contratto. Gli ho risposto che, se davvero voleva, c’era da pagare una penale. A partire da quel momento sono iniziate le violenze psicologiche nei confronti miei e di mia madre, che si trovava in Italia e a cui diceva che non ero tranquillo in America, che dovevo stare attento, che dovevo mettermi in contatto con i suoi avvocati perché ero ancora in tempo per mettere le cose a posto, altrimenti avrei perso la dignità davanti a tutta Italia. Ha iniziato a dire che sarebbe andato all’immigrazione e avrebbe detto che io lavoravo illegalmente. Poi questo Simone D’Auria ha voluto risolvere il contratto, ha firmato un foglio di fine rapporto e gli ho restituito le opere d’arte del valore da lui affermato di 20/25 mila euro. A quel punto non poteva più pretendere nulla da me, ma dopo una decina di giorni ha iniziato a chiedermi altri soldi, minacciandomi: "Se non me li restituisci ti rovino. Vengo a prenderti sotto casa. Ti faccio fare una brutta fine". Poi, qualche mese prima del servizio de Le Iene, apro la mail e trovo delle foto dell’imboscata di otto mesi prima.”

L’imboscata de Le Iene?

Mirko: “Sì, la scena finale, dove io ero interdetto perché non capivo cosa mi stesse succedendo. Stavo, fra l’altro, subendo anche il tradimento di un amico con cui mi ero confidato su quello che stavo subendo con questi due ex clienti e anche lui mi ha raggirato, accordandosi con loro. Come giudichereste questo?”

Quindi questo tuo cliente ti ha girato via mail delle foto dell’imboscata de Le Iene?

Mirko: “Esatto, dicendomi: ‘Se mi ridai i soldi sarà mia premura dimenticarti, altrimenti farò in modo di far avere questo girato a tutti i tuoi follower‘. Come faceva questo Simone D’Auria ad avere un filmato di proprietà di Mediaset? Com’è possibile? Lo ha utilizzato ai fini di un’estorsione.”

Questa mail, secondo te, dimostrerebbe di fatto una certa forma di contiguità tra il tuo cliente e la redazione de Le Iene?

Mirko: “Non solo. Gianni Mendes sta rispondendo ai suoi follower, che lo accusano di essersi inventato tutto, dicendo: ‘Vedremo. Io sono solo la punta dell’iceberg, ci sono molte altre persone nel nuovo servizio’. Cosa significa? Lavora per Le Iene? Non mi sembra essere un inviato de Le Iene. Come conosce e usa a suo vantaggio questo? Ci sono procedimenti penali in corso e Le Iene sono andate e stanno andando oltre.”

Le ragioni del servizio. Le realtà giornalistiche hanno il vincolo di trattare argomenti che rispondano a un interesse generale e pubblico. Secondo te, qual è l’interesse generale che si evince dal servizio mostrato da Le Iene? Ti sei fatto un’idea del perché Le Iene abbiano realizzato un video su di te?

Mirko: “A loro non importa che i loro servizi siano di interesse pubblico. A loro interessa solo qualcosa che possa attirare click, condivisone, audience, perché per loro vuol dire soldi e si muovono solo per questo. E gli inviati de Le Iene vengono pagati a servizio consegnato, su questo entrerò nelle sedi opportune più nei dettagli.” “Le Iene a questo punto dovrebbero fornirci la loro identità: rimangono sempre nel limbo e non si capisce bene che cosa siano. Devono definirsi una volta per tutte: se sono una testata giornalistica hanno un codice deontologico da rispettare. Altrimenti cosa sono, degli investigatori? Anche in questo caso dovrebbero possedere delle abilitazioni, dei patentini, cosa che io non penso che il signor Romiti abbia. Se invece fanno intrattenimento, sono degli attori, o dei cabarettisti; allora che lo dicano: “Facciamo del cabaret”. E invece non sono niente e possono fare tutto?” “Stanno contattando tutte le persone con cui io ho avuto a che fare nella mia vita: dalla donna delle pulizie, al cuoco, a un amico, a un mio ex cliente, al fotografo, chiunque”. “Come fanno ad avere tutti questi contatti? Siamo sicuri siano tutti leciti i mezzi che loro usano? Sarebbe di una gravità inaudita.”

Mirko: “Ho telefonate e messaggi di persone che me lo raccontano: “Ehi Mirko, mi hanno contattato quelli de Le Iene. Mi ha chiamato questo Gaston Zama chiedendomi se avessi visto il servizio su di te e se avessi qualcosa da aggiungere”.

Ti sei fatto un’idea del motivo di questo “interesse” nei tuoi confronti?

Mirko: “Non so perché possano prendere di mira una persona che ha raggiunto la notorietà solo grazie al suo lavoro, non perché è un personaggio pubblico, come un calciatore, un cantante o un politico. Io mi occupo solo di marketing.” All’intervista partecipa anche l’avvocato di Mirko Scarcella, Vincenzo “Ezio” Esposito, che a questo punto precisa: “Il motivo, a mio avviso, è che Instagram è il social del momento e hanno preso colui che rappresentava, e rappresenta, la sua massima espressione a livello comunicativo. Hanno cercato di raccontare una falsa storia su Scarcella per sfruttare il trend. Infatti, il servizio di Gaston Zama inizia il viaggio mistico all’interno del social di Instagram". Non solo. Romiti ha raggiunto una popolarità esagerata. È stato definito la miglior Iena. Sapeva cosa andava a scatenare nei confronti di Mirko con il suo servizio e ne ha beneficiato lui stesso. Grazie alla popolarità di Mirko, è emerso lui. Un’altra precisazione. Il reato di diffamazione, che è uno dei delitti che abbiamo individuato nelle nostre azioni legali, non può essere commesso soltanto da un giornalista, ma da chiunque. Quindi, anche se Gaston Zama non è un giornalista, anche se Le Iene non sono una testata giornalistica, quando raccontano una verità parziale commettono comunque il delitto di diffamazione, in questo caso aggravato, con pene che vanno fino ai 3 anni. Nei confronti del giornalista la legislazione è ancora più severa: il codice penale, all’articolo 595 comma terzo prevede delle pene fino a 3 anni. Deve essere chiaro che il fatto di non essere giornalista non rende Gaston Zama esente dal reato di diffamazione e da altri reati a lui ascrivibili.”

I video e le azioni legali. Prima di rispondere pubblicamente, hai però aspettato tanto tempo. Come mai?

Mirko: “Perché gli attacchi contro di me erano per la maggior parte senza prove. Io invece volevo raggruppare i contenuti e una parte delle prove per poter rispondere. Sono un professionista e secondo me i professionisti tengono le prove di quello che fanno. Gaston Zama ci ha lavorato su due anni. Noi in due mesi abbiamo fatto i salti mortali.” “Abbiamo dovuto raggruppare circa 50 giga di materiale. Dietro la risposta che abbiamo dato c’è un gran lavoro, un lavoro disumano. Abbiamo anche comunicato a Mediaset tramite tre diffide che c’era un procedimento in atto. Le Iene hanno rafforzato la tesi di questi soggetti rendendosi complici. Noi glielo abbiamo detto, ma loro non se ne sono interessati.”

Mirko: “Abbiamo inviato tre lettere avvisando Mediaset di quello che stavamo subendo: minacce, estorsioni, pressioni per il servizio che stavano realizzando. Abbiamo chiesto a Mediaset di intervenire, ma non ci hanno degnato di risposta. Mediaset è complice. Hanno avuto un modo criminale, a mio modo di vedere, di comportarsi, nonostante tutte le prove che abbiamo.”

Quali sono le strade legali che avete intrapreso?

Mirko: “Abbiamo denunciato per tutti i reati che queste persone hanno commesso. Sono comportamenti contrari alla legge.”

Mirko, quale pensi possa essere una soluzione di questa controversia?

Mirko: “Vorrei una punizione esemplare per le persone che hanno partecipato a questo atto criminale nei miei confronti. Vorrei che non succedesse più a nessun altro, questa sarebbe la mia vittoria. Se Mediaset è un’azienda seria, li deve allontanare.”

Televisione vs social network. La tua vicenda suggerisce una riflessione sulla forza mediatica della televisione e su quella dei social network. Il piccolo schermo ha ancora una capacità di convincimento nettamente superiore a quella dei social?

Mirko: “Lo strumento televisivo va usato con cautela, soprattutto se hai una certa audience, perché, come diceva Freccero nel video che ho pubblicato, quello che dice la TV viene preso per vero in automatico. Per questo le autorità competenti non devono permettere a Le Iene di fare quello che è stato fatto. Un’arma così potente non può essere lasciato tra le mani di incompetenti e criminali. E Le Iene si sono dimostrate, almeno nel mio caso, ma forse anche in altri, un programma criminale.”

·        Myss Keta.

Estratto dall'articolo di Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” l'11 novembre 2020.

«Massimo venne a trovarmi al soundcheck. Era uscito dal bosco».

Quel Massimo?

«D' Alema».

Faceste anche un selfie insieme. Ma cosa le disse "Spezzaferro"?

«Era un mio concerto nel Lazio. Mi chiese di tornare a cantare lì».

E cos' altro, Myss Keta?

«Queste sono storie personali tra ex marito e moglie».

Sarà contenta la signora Linda. Non mi faccia prendere querele. Di D'Alema lei ha più volte dichiarato che siete stati amanti e ora amici, che lui ci ha provato spalmandole la crema sulla barca a vela.

«Tutto agli atti. Di più non posso rivelare».

Potrebbe essere Massimo il destinatario del nuovo singolo Due?

«Come dimostro nel video, siamo alle prese con un nevrotico mosaico di annunci che svela la condizione dell' Occidente contemporaneo e la saturazione del mondo post-capitalista».

Chiarissimo. Ci dev' essere lo zampino di un grande vecchio. Del resto lei favoleggia sulle sue frequentazioni con Gianni Agnelli e Salvador Dalì. Ma è troppo giovane per esser stata la musa di quelle mummie.

«La realtà supera ogni immaginazione».

Mi dica un altro incontro vip, però di quelli veri.

«L' anno scorso ho passato una bellissima serata con Tiziano Ferro, mi ha confessato di essere un mio fan, abbiamo cantato insieme». (…) 

Luca Dondoni per “la Stampa” l'11 novembre 2020. «Datemi una maschera e vi dirò la verità». Myss Keta straconosciuta diva del rap al femminile italiano tanto che il New York Times le ha dedicato una lunga intervista, cita Oscar Wilde scherzando sulla mascherina di lamé che da sempre le copre il volto dagli occhi in giù. Il 13 novembre esce Il cielo non è un limite, un ep di sette tracce che rispetto ai precedenti lavori si focalizza su un elemento naturale, l' aria intorno a noi. Anticipato dai singoli Giovanna Hardcore e Due nel disco la rapper si trasforma in sette Keta diverse. «Ho creato dei doppelganger - racconta -, delle altre "me" che ho vestito da Marlene Dietrich, Grace Jones, da rider o da mistress. Musicalmente si va dalla jungle alla house, la mia passione più grande, e ho estremizzato la mia vocalità cantando anche in inglese, tedesco o greco antico». Gmbh, Diana e la bomba Rider Bitch rivelano una grande forza musicale mentre Photoshock richiama la house anni '90 e i synth anni '80. «Questo disco è un figliolo nato in un momento molto pazzo ma contiene tanta istintività e sperimentazione». Le si fa notare che per colpa del Covid la sua unicità «mascherata» è venuta meno: «Quando esco e vedo tutti con le mascherine rimango sorpresa - ammette -. Sono contenta di vedere tutti con la mascherina e sono felice che non ci spaventi più come prima. Fino a un po' di anni fa la mascherina era un elemento di disturbo: ora non più». Femminista e femminile Mess Keta è felice che Kamala Harris sia diventata la prima vicepresidente Usa anche se: «Ci sono alcune sue cose che non mi rappresentano». Anche se non ha idea di quale sarà il suo futuro «dal vivo» Keta è certa di non partecipare al prossimo Festival di Sanremo: «Ma non è detto che un giorno salga su quel palco da presentatrice». Collaborerebbe con qualche big di casa nostra? «Tiziano Ferro, ma anche Anna Tatangelo: io sono per le contaminazioni».

·        Myrta Merlino.

Myrta Merlino a DiMartedì contro il M5s: "Stop alla prescrizione? Così un innocente si rovina la vita". Libero Quotidiano il 15 Gennaio 2020. Anche Myrta Merlino contro la riforma della prescrizione tanto desiderata dai Cinque Stelle: "Io non voglio un sistema che permetta a un colpevole di uscire dalle maglie della giustizia, ma nemmeno un sistema in cui un innocente si rovini la vita con un processo infinito". Questo il commento della conduttrice dell'Aria Che Tira ospite a DiMartedì, sempre su La7. Proprio nel salotto politico della Merlino, qualche giorno fa era andato in scena un vero botta e risposta sul tema della proposta Bonafede. Protagonisti i giornalisti Gianni Barbacetto e Gianni Riotta. "Ci sono due diverse civiltà giuridiche: l'una che considera condannato un imputato e l'altra è quella sancita dalla nostra Costituzione, e cioè che sei innocente finché non è stato dimostrato il contrario. Sono due civiltà giuridiche: una è orribile e l'altra democratica" ha tuonato Riotta finendo nella bagarre. 

Myrta Merlino a Libero: "Non andrei mai a cena con Donald Trump. E non mi candido, me lo hanno già chiesto".  Umberto Piancatelli su Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. «Non so quanto durerà il Conte Bis. Da una parte vedo grandi fragilità e grandi problemi da risolvere, dall'altra vedo il 26 gennaio come una data in cui tutto può accadere, perché è ancora tutto aperto e molto liquido. Ci sarà un bel pezzo di emiliani che, pur sapendo di essere stati governati bene, hanno una gran voglia di mandare a casa questo governo. È una partita apertissima e i nodi al pettine arriveranno uno ad uno». La previsione è di Myrta Merlino, che conduce su La7 L'aria che tira, un programma con un pubblico in continua crescita.

Con quale leader non andrebbe mai a cena?

«Forse con Donald Trump, perché avrei il terrore che mentre sta a cena con me mandi quattro tweet e dichiari cinque guerre. Mi sentirei un po' in agitazione».

Chi non è mai intervenuto al suo programma?

«L'unico che non sono riuscita ad avere come ospite è Mario Draghi. È lui il mio vero desiderio per il 2020. Non è un politico, ma sa più roba lui di tanti politici».

La crisi Iran-USA quanto inciderà sul nostro governo?

«Oggi niente, i nostri governanti sono presi dalle questioni interne. Poi dipenderà dall'evoluzione che ci sarà. Temo gli attacchi terroristici e una guerra diffusa. A quel punto, come è sempre successo nella storia, una certa situazione può essere un acceleratore se c'è da prendere decisioni difficili o può essere un collante. In un momento di grande confusione, rimanere ai propri posti potrebbe essere vincente».

Le votazioni anticipate sarebbero un toccasana o una iattura per l'Italia?

«Avevamo il primo partito d'Italia - i Cinque Stelle - al 33% come la Democrazia Cristiana dei bei tempi e oggi, oggettivamente, è l'ombra di se stesso. Avere un parlamento che rispecchia il quadro politico di un anno e mezzo fa e non l'attuale, è un problema serio. Le elezioni potrebbero restituirci maggiore aderenza al Paese reale. Viceversa potrebbero essere un problema, visto che ci sono un sacco di questioni urgentissime che vanno affrontate oggi».

La sua ricetta per far ripartire il Paese.

«Bisogna fare tante cose. Se le tasse venissero abbassate sarebbe un bene, però penso pure che lo Stato dovrebbe funzionare in un altro modo, che sono stati fatti diversi errori da tutte le parti, anche perché non è una buona riforma Quota 100 e neppure il Reddito di cittadinanza, che è stata una grande illusione, perché serve sicuramente ad aiutare tante persone, ma non serve a cercare posti di lavoro. Anche i centri per l'impiego sono fatiscenti. C' è uno scollamento tra i tempi del consenso e i tempi delle scelte politiche. Per fare bene le cose bisogna fare scelte anche impopolari. Una politica legata al consenso dei social non riesce mai ad avere un "Progetto Paese"».

È vero come dice Zalone che in Italia non si può essere più politicamente scorretti?

«Francamente è incredibile che non possiamo mai dire quello che pensiamo. Io sono molto diretta, lo sono nella vita e davanti le telecamere, per cui il politicamente corretto per me è un grande problema. Altra cosa sono le buone maniere. In questo Paese sembra si siano persi i freni inibitori, come l'educazione, la gentilezza e il rispetto per gli altri. Non amo il politicamente corretto, ma rivendico le buone maniere che mi hanno insegnato mamma e papà».

È per questo che a L'Aria che tira non assistiamo a risse, mentre altrove sì?

«Sicuramente c' è l'elemento personale, ma anche il fatto che non sono faziosa. Non penso mai di avere dall'altra parte un nemico. Ho grande rispetto per le idee degli altri. In tv troppo spesso si va per farsi del male, tutto questo mi fa orrore».

I talk politici non sono troppi?

«Ha ragione, ma è anche vero che funzionano. La politica italiana negli ultimi anni è stata un grande cinematografo, per cui c'è bisogno di questo racconto un po' intermediato. Rispetto alle All News classiche La7 ti informa su tutto quello che accade e in più ti dà un interlocutore che fornisce degli strumenti per decriptare questo mondo in continua fibrillazione».

Si candida alle prossime elezioni?

«Me lo hanno chiesto un paio di volte. Ma la risposta è: mai. Adoro il mio lavoro e quello è un ambiente avvelenato».

Umberto Piancatelli

·        Monica Bellucci.

Silvia Gigli per quotidiano.net l'11 ottobre 2020. Cuore di mamma. Monica Bellucci, favolosa cinquantaseienne, icona mondiale della bellezza italiana, muore di gioia alla vista della primogenita Deva, nata nel 2004 dall’unione con l’attore francese Vincent Cassel con il quale ha avuto anche la decenne Léonie, sulla sua prima copertina. Proprio come accadde alla celeberrima madre, Deva (il cui nome deriva dal sanscrito “divino, celeste”) debutta sulla prima pagina di Elle Francia vestita di nero e pois bianchi, la vita strizzata da un corsetto nero, lo sguardo intenso e vagamente strafottente che ricorda il padre e il tipico broncio alla Bellucci. Per la sedicenne, che ormai da un anno si cimenta con il mondo della moda e che si mostra particolarmente schiva sui social media, la mamma Monica ha parole commosse che scrive sul suo profilo Instagram: "C’era una volta una piccola bambina... Il tempo corre così veloce! Possa la vita proteggerti amore mio". Monica in una recente intervista ha detto con chiarezza di non aver paura della vecchiaia: "Non vedo l’ora di diventare nonna: se una delle mie figlie avesse un bambino molto presto sarei prontissima ad allevarlo. Mi dà molta forza pensare alla vecchiaia senza tristezza". Una dichiarazione che stride non poco con lo stereotipo, veicolato da imperituri successi hollywoodiani come Mammina cara in cui emerge la figura paranoica della celebre attrice Joan Crawford, prototipo della madre gelosa della gioventù della figlia. Così come fu costellato da litigi e incomprensioni il rapporto tra l’usignolo Judy Garland e l’altrettanto celebre figlia Liza Minelli. Storie d’altri tempi, se è vero come pare che oggi mamme ancora bellissime e famose come Kate Moss, Vanessa Paradis e Cindy Crawford benedicono e sostengono con amore le scelte delle figlie che percorrono le loro stesse orme. La Bellucci, in particolare, pare abbia un rapporto particolarmente intenso con le sue ragazze. Pochi mesi fa, in piena pandemia, l’attrice, da sempre parca in dichiarazioni sulle sue bambine, ha rivelato a Madame Figaro alcuni particolari del sentimento che la lega a Deva e Léonie: "Non c’è una regola che valga per tutti. Ognuno fa come vuole, ciò che dico è valido solo per me. Ci sono donne che stanno benissimo senza bambini, ma ciò che mi dà valore sono le mie figlie. Sono qui per amarle. Questo amore, ne sono convinta, dà solidità alla vita. Le mie figlie sono le risposte a tutte le mie domande. È stato quando sono nate che ho capito la mia ragione di essere su questa Terra". E papà Cassel? Non sembra un caso che l’ultimo scatto sul suo profilo Instagram sia un intenso faccia a faccia in bianco e nero con la primogenita Deva con la scritta "Congratulazioni, amore mio". Cassel, 53 anni, che dalla seconda moglie Tina Kunakey (23 anni) ha avuto la piccolissima Amazonie, ha trascorso l’intera pandemia vicino alle figlie e alle loro madri sulla Costa Basca. Segno di un amore forte che unisce questa bellissima famiglia allargata. Che non si vergogna di commuoversi per i primi successi della magnifica Deva.

·        Monica Leofreddi.

Emiliana Costa per leggo.it il 19 luglio 2020. Su Leggo.it le ultime novità. Monica Leofreddi, il dolore segreto a Io e Te: «Ho lasciato il programma perché era in fin di vita...». Diaco commosso. Ieri, la conduttrice romana è stata ospite nel salotto di Rai1, dove ha ripercorso la sua carriera dagli esordi nelle tv locali ai successi in Rai, come l'Italia sul 2 e Torto o Ragione. Monica Leofreddi ha anche raccontato un momento molto delicato della sua vita. Ecco le sue parole: «Era il sesto anno che conducevo l'Italia sul 2 con Milo Infante, ma le signore per strada mi iniziavano a fermare per dirmi che mi vedevano triste in tv. Mi avevano capito più loro di quanto mi fossi capita io. Era un momento molto duro nella mia vita privata. Mio padre era in fin di vita, stavo costruendo un rapporto con il mio compagno Gianluca Delli Ficorelli, ma i figli non venivano... Ho lasciato la conduzione quando il programma era al 22 per cento». Oggi, Monica Leofreddi è mamma di due bambini, Riccardo, 11 anni, e Beatrice, 8. Conclude la conduttrice: «Mi piacerebbe condurre un programma in cui ascolto storie. Sono affamata di vita».

Monica Leofreddi contro la madre di Diletta Leotta: "Io invidiosa? Proprio no". Tiene ancora banco il monologo su bellezza e merito di Diletta Leotta al festival di Sanremo. La madre la difende dalle "odiatrici" e la polemica si infiamma coinvolgendo anche la conduttrice Monica Leofreddi. Novella Toloni, Venerdì, 07/02/2020, su Il Giornale. Non si spegne la polemica intorno a Diletta Leotta dopo il suo monologo sulla bellezza femminile e il merito andato in scena nella seconda serata del festival di Sanremo. Nella discussione si è inserita, suo malgrado, la conduttrice Monica Leofreddi tirata in ballo dalla mamma della Leotta che, nel post Sanremo, ha difeso la figlia durante un'ospitata a "Storie Italiane". Il discorso di Diletta Leotta sulla bellezza e sul tempo che passa ha lasciato numerosi strascichi nel post gara del Festival. Molti personaggi famosi del mondo dello spettacolo – da Francesca Barra a Jimmy Ghione – si sono infatti scagliati contro di lei, giudicandola "ipocrita". Ad alimentare la discussione ci ha pensato la madre della conduttrice di Dazn, Ofelia Castorina, che sui social e in diretta nella trasmissione di Eleonora Daniele ha puntato il dito contro le "odiatrici", lamentando una scarsa solidarietà femminile nei confronti della figlia. Tra le accusate c'era anche la conduttrice Monica Leofreddi che, chiamata in causa dalla signora Castorina, ha voluto rispondere con un lungo messaggio affidato a Instagram. Monica Leofreddi si è rivolta alla madre di Diletta Leotta spiegando che il suo tweet (pubblicato dopo il monologo della conduttrice sportiva) non era offensivo, ma soltanto espressione di un disaccordo nel veder rappresenta "la bellezza come valore e come qualcosa che capita da una ragazza bellissima ma che già così giovane, ha modificato il suo corpo alla ricerca di una bellezza perfetta". La conduttrice televisiva ha criticato l’affondo rivoltole dalla signora, rimarcando quanto la solidarietà femminile non possa essere usata - sempre e comunque - a discapito di "sincerità e coerenza". Monica Leofreddi ha poi invitato la signora Ofelia a tacere: "La fatica di essere donne è esasperata da falsi modelli e falsi ideali che ci portano lontano da noi stesse, dal nostro centro. Tacciare ogni dissenso con l’etichetta di invidia non aiuta. Lei non ha naturalmente l’obbligo di conoscere la mia storia il mio vissuto e le mie lotta, ma la prego, darmi della odiatrice e dell’invidiosa proprio no!".

·        Monica Setta.

DAGONEWS il 3 gennaio 2020. Come mai ultimamente Monica Setta imperversa su Raiuno a qualsiasi ora del giorno, ospite fissa dei vari talk show come Storie Italiane, Vita in diretta o Buongiorno benessere? Qualcuno spiffera che non – e sottolineo non - sarebbero tutti inviti spontanei. Pare che per la bionda giornalista di aria leghista, già conduttrice di Uno mattina in famiglia, arrivino ai capi autori dei vari programmi continue telefonate da viale Mazzini per tenerla continuamente in onda e farle fare ‘ospitate’ programmate che le garantiscano un certo numero di puntate. All’inizio i conduttori si sono adeguati ma adesso molti, in pubblico e in privato, manifestano non poco fastidio.

Dagospia il 3 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Monica Setta. Caro Dago, Leggo che io sarei una giornalista di "area leghista" per cui giungono continue telefonate da viale Mazzini tese a garantirmi ospitate nei programmi di punta della rete. Vorrei precisare che ho un contratto di esclusiva con Rai 1 che comprende anche una rubrica quotidiana di cui sarei autore e conduttore. Non essendoci la rubrica, è stata la rete a chiedermi di partecipare come ospite a tre trasmissioni (Uno Mattina, La vita in diretta e Storie italiane) in modo da saturare il mio contratto. Mi spiace doverti smentire ma, il capo autore di Uno Mattina Marco Ventura ti potrà confermare come io abbia spesso declinato gli inviti per motivi diversi che spiegherò successivamente. Ho declinato sovente con rammarico della mia amica Eleonora Daniele, anche inviti a Storie italiane che considero un ottimo programma. Quanto ai giornalisti di "area leghista" ve ne è solo uno che è la luce della nostra rete cioè Roberto Poletti, biografo di Matteo Salvini, conduttore ed eccezionalmente autore di Uno mattina. Capisco che io sono bionda e donna, ma cerca altrove le persone che sono in video perché fortemente sostenute. E non essere maligno, anche se fai benissimo il tuo mestiere con ironia e intelligenza: forse i più gettonati (e io non sono tra questi) forse meritano davvero di esserlo. Grazie.

·        Monica Vitti.

Monica Vitti compie 89 anni: la verità sulla malattia, il marito: «Ci capiamo con gli occhi». Maurizio Porro e Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2020. Il 3 novembre Monica Vitti, da 20 assente dalle scene dopo essere stata una protagonista amatissima del cinema e del teatro, ha compiuto 89 anni. Suo marito, Roberto Russo, le sta accanto sempre perché lei, affetta da una malattia tipo Alzheimer che si infiltra e sbriciola la memoria, solo di lui si fida. «Le preparerò una torta con una candelina simbolica e insieme passeremo una delle tante giornate che abbiamo condiviso — dice Russo — Ci conosciamo da 47 anni, nel 2000 ci siamo sposati in Campidoglio e prima della malattia, le ultime uscite sono state alla prima di Notre Dame de Paris e per il compleanno di Sordi. Ora da quasi 20 anni le sto accanto e voglio smentire che Monica si trovi in una clinica svizzera, come si diceva: lei è sempre stata qui a casa a Roma con una badante e con me ed è la mia presenza che fa la differenza per il dialogo che riesco a stabilire con i suoi occhi, non è vero che Monica viva isolata, fuori dalla realtà».

Il sodalizio con Antonioni. Resta una grande e rimpianta attrice, cui ora una delicata scrittrice come Eleonora Marangoni, esperta proustiana, ha dedicato un libro, «E siccome lei» (ed. Feltrinelli). Sono richiamate in servizio letterario, divise per capitoli e ordine alfabetico, le 47 donne che la Vitti ha interpretato, dall’Adelaide, la fioraia del Dramma della gelosia alla Signorina X di Noi donne siamo fatte così. Dove sono finite? Cosa fanno? Come vivono? Tutte, da Modesty Blaide a Teresa la ladra, rivivono con la voce e il volto dell’attrice regina dell’alienazione e bionda fatale: «La fatalona comica» diceva Monicelli. Del resto la Vitti fece molto doppiaggio ad inizio carriera e ricordava: «Monicelli mi faceva doppiare le alcolizzate, Pasolini le accattone e Fellini e vecchie prostitute». Poi incontrò Antonioni al doppiaggio del Grido il caso fu risolto. Nel libro non si parla del teatro, altrimenti bisognava richiamare in servizio anche Marilyn Monroe che la Vitti impersonò in Dopo la caduta di Miller con Albertazzi. Dentro e fuori dalla realtà, questi personaggi, che cercavano ed hanno trovato un autore sullo schermo, resistono nella memoria. Diverte leggere che Assunta, «ragazza con la pistola», siciliana come sarà poi l’Isolina della Supertestimone (l’attrice da ragazza ha vissuto in Sicilia) muta il suo destino, abbandona la vendetta; e tutte hanno incontri imprevisti, cambiano il senso di marcia del cuore, sono in affitto nella nostra sensibilità. Claudia dell’Avventura parte per un giro in yacht, si perde mai poi ritrova la strada e Dea, che in Polvere di stelle cantava «Ma ‘do vai se la banana non ce l’hai…» andrà davvero in America. Monica aveva scritto in un libro che la memoria è «una truffa» e spiegava: «E’ tutto mescolato, la vita, i personaggi. Ma allora è tutto falso, direte voi? No, è tutto vero: specialmente i personaggi». I ritratti di queste donne sono anche spaccati di società, alcuni redatti come fogli di diari, incroci di appunti da seduta freudiana, mentre la Livia di Io so che tu sai che io so aiuta un professore a riordinare un Dizionario di personaggi e la Raffaella di Amore mio aiutami scrive lettere d’amore al signor Mantovani. Sono i film «adulterini» col suo amico Sordi, quelli in cui Monica veniva spesso picchiata («Le botte che le prendo io non le prende nessuno. E ne ho prese tante»), tanto che chiede una controfigura che sarà una ragazza quindicenne di nome Fiorella Mannoia. Di altri film, come L’eclisse l’autrice Eleonora Marangoni cita una scena clou, quella della Borsa, come la viziata Valentina della Notte si trasferisce dalla Brianza in una villa palladiana. Ma fra la sospirosa Gloria di Alta infedeltà che si rivolge al marito elencandogli i torti e la Lucia del Tango della gelosia che parla delle sue gambe, risaltano le personalità speculari di un’attrice che ha segnato il nostro cinema: «Del resto — dice Russo — Monica giocava su due banchi e scrisse anche un soggetto comico con Camilleri che Antonioni non ebbe il coraggio di dirigere. Ma un film come L’avventura sta ancora nei locali d’essai di Parigi e New York, vuol dire l’eternità».

·        Morena Capoccia.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 15 novembre 2020. “Commetti il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi” : questa frase di William Shakespeare incarna perfettamente lo spirito di Morena Capoccia, una donna come tante che ha trasformato il sesso e la perversione da passione a lavoro.  Morena è un’attrice hard, una performer ed una escort nata, cresciuta e residente a Spoleto dove è molto nota e chiacchierata tra i suoi compaesani; gran parte di loro, a dire suo quasi la metà, ha potuto conoscere ed apprezzare le sue spiccate e passionali arti amatorie. Si può dire che Spoleto sia una città che divide sacro e profano; nella stessa ridente cittadina infatti abita ed opera appunto la suddetta porno attrice umbra ma viene girata anche la fiction di Raiuno ‘Don Matteo’ con Terence Hill. In questa intervista conosciamo meglio la signora Capoccia, il suo lavoro, le sue difficoltà economiche e la sua idea negazionista circa la pandemia sanitaria da Covid-19 che sta fermando il mondo!

D. Chi è Morena Capoccia?

R. Morena Capoccia è una donna di 47 anni che ha fatto della sua passione per il sesso il suo lavoro. Nella vita ho fatto di tutto, dall’imbianchina all’aiuto cuoca, ma quei lavori non facevano per me, così a 40 anni mi sono buttata nel mondo del porno. Sono entrata nella scuderia della ‘CentoXCento’ produzioni hard amatoriali e da lì è nato tutto. Ho fatto parecchia tv con Maurizia Paradiso nel suo programma ‘Vizi Privati’, poi ho partecipato al reality ‘WildGirls’ ho rilasciato tante interviste e fatto tanti eventi; il mio personaggio suscita curiosità e simpatia, ma alla fine non è un personaggio, io sono così! Una gran maiala ninfomane e golosa di uomini!

D. Signora Capoccia, come vanno gli affari?

R. Un disastro! Ormai è da marzo scorso che si fa poco e niente, l’ultimo film porno l’ho girato con Alex Magni a febbraio scorso prima del primo lockdown e si intitola ‘100X100 viaggiare trombati’ , gli incontri privati sono sempre troppo pochi e le gang bang e sperma party nei club privè italiani non ne parliamo nemmeno! I miei guadagni derivano principalmente dagli incontri privati, poi dai film e delle orge-evento che si organizzano all’interno dei locali per scambisti. Per fortuna abito con i miei genitori che assisto, loro sono pensionati quindi una base minima di soldi c’è, mesi fa mi hanno anche staccato la corrente e degli amici mi hanno spedito dei viveri per alimentarmi durante il lockdown della scorsa primavera. Spesso, dove mi è possibile, invece di pagare in contanti dato che in questo periodo scarseggiano, pago in natura con prestazioni sessuali complete o parziali, come ad esempio un rapporto orale, lo faccio volentieri non è una cosa forzata e se ho qualche soldo me lo tengo in tasca.

D. Lei con altre sue colleghe ha manifestato fuori dalla prefettura di Milano, avete ottenuto qualcosa?

R. Io, Lena, Floriana ed Alessia Bergamo abbiamo manifestato fuori dalla prefettura di Milano il 2 novembre tutte scostumate ed in abiti succinti. Vari siti hanno ripreso la notizia ma al momento non si è mosso niente. Noi 4 abbiamo anche scritto una lettera al premier Giuseppe Conte e gliela abbiamo inviata a Palazzo Chigi tramite raccomandata con ricevuta di ritorno chiedendogli sostentamento, tutela e aiuto per regolamentare il nostro lavoro di attrici hard, invitandolo a riceverci a colloquio come fatto con i baristi, ristoratori e proprietari di palestre e piscine. Ad oggi non ha ancora risposto, aspetto ancora un po’, il prossimo passaggio sarà quello di incatenarmi fuori da Palazzo Chigi e rimanere lì! O mi riceve o mi arresteranno, almeno in carcere mangio e dormo gratis!

D. Come mai la chiamano "La Scaldacamionisti" oppure "La Troia di Spoleto"?

R. Scaldacamionisti perché io sono una escort specializzata a soddisfare sessualmente camionisti appunto, con la mia vecchia ma funzionale Fiat Panda bianca mi posiziono nei parcheggi degli autogrill, nelle aree di sosta e fuori dalle bettole e trattorie dove mangiano loro e li provoco in abiti succinti, mi alzo la gonna, faccio facce ammiccanti, mi viene facile  perché io non porto mai le mutande...dopo di che quando li ho scaldati per bene ci mettiamo in contatto. Tenga conto che io ho prezzi modici, alla portata di tutti e che faccio tutto, anche più uomini insieme, non ho problemi nel darmi totalmente. Tengo ai miei titoli di "Troia di Spoleto" e di "Scaldacamionisti" come un dottore o un avvocato tengono al loro, con orgoglio! Ora che ci sono questi blocchi tra comuni e regioni si figuri come faccio ad andare in giro con la macchina che è il mio ufficio mobile ad accalappiare, sedurre e scoparmi i camionisti! Impresa quasi impossibile!

D. Dopo il libro che ha scritto a quattro mani con lo scrittore hard Mimmo Lastella intitolato "La Scaldacamionisti" ora ha in pubblicazione il suo calendario 2021, ce ne parli.

R. Si! Il libro è andato benissimo, ci sono state due edizioni di stampa addirittura, e mi sono tirata un po’ su economicamente per qualche settimana, devo ringraziare Andrea Diprè, un caro amico che mi ha omaggiato della sua prefazione e Mimmo Lastella che lo ha scritto con me questo volume. Ora speriamo che anche il mio calendario 2021 vada altrettanto bene. È ovviamente un calendario a tema, gli scatti sono stati fatti in estate in luoghi consoni al mio lavoro: quindi aree di sosta, parcheggi, zone di campagna disabitate, bagni pubblici ecc ecc, se non faccio sesso con i clienti nel camion lo faccio in queste tipologie di location.

D. Tempo fa un gruppo di suoi fans avevano scritto una lettera al sindaco di Spoleto implorandolo di conferirle la cittadinanza onoraria, com’è andata a finire questa storia?

R. il sindaco tace, non si pronuncia, non lascia dichiarazioni in merito. A questo punto come ho detto mesi fa attendo veramente questo premio, me lo merito! Mi sono fatta mezza Spoleto!  Io gli ho spedito mesi fa in comune il mio libro con dedica e nemmeno mi ha detto grazie, a dicembre gli farò recapitare il mio calendario con un biglietto di auguri per le feste natalizie. Se non vuole darmi la cittadinanza onoraria che almeno mi dica grazie per gli omaggi che gli mando!

D. Cosa si augura per il futuro ?

R. Di continuare a lavorare, che poi il mio lavoro alla fine è una missione. Io fino a che mi reggerò in piedi continuerò a scopare e a fare dei grandi lavori orali, anche senza denti a 80/90 anni; fino a che avrò l’energia continuerò a soddisfare uomini e donne, a guadagnare divertendomi, con l’augurio che la mia professione di escort e pornostar venga regolamentata.

G.Mattia Pagliarulo per Dagospia il 14 giugno 2020. L’attrice hard ed escort Morena Capoccia detta "La Troia di Spoleto" pubblica il suo primo libro! Et voilà...! In un periodo storico in cui cani e porci scrivono (o si fanno scrivere) un libro ci mancava solo la pubblicazione della regina erotica di Spoleto. La nota pornoattrice amatoriale ed escort umbra Morena Capoccia avvalendosi dell’aiuto dello scrittore hard barese Mimmo Lastella soprannominato dagli addetti ai lavori  il Re dell’incesto si è stampata in proprio un libro in cui vengono narrate le sue gesta: quarantasette anni di vita travagliata, fatta di dolori, perversioni, gioie, amori, soddisfazioni ed overdose di sesso. Il libro sarà disponibile da martedì 16 giugno e si intitola La Scaldacamionisti , la prefazione è curata dall’avvofatto Andrea Diprè ed il costo è di 16€ compreso il costo di spedizione. La signora Capoccia ha esordito nel mondo dell’hard nel 2014, molto tardi rispetto ad altre sue colleghe, alla veneranda età di quarantun’ anni, ed è stata battezzata sul set da Alex Magni della Cento X Cento, una delle colonne portanti del genere amatoriale in Italia. Prima di buttarsi nel mondo a luci rosse ha svolto diversi lavori, tra cui la cameriera, l’aiuto cuoca e l’imbianchina. Oltre all’attrice porno svolge parallelamente anche la professione di escort. Innumerevoli gang bang e sperma party all’interno di club privè della penisola, svariate pellicole hard all’attivo, molteplici partecipazioni televisive in realtà locali (WildGirls 2, The Gap e Vizi Privati 2.0) e migliaia di incontri privati di sesso sfrenato effettuati hanno fatto sì che ‘la Morenona nazionale’ diventasse una figura riconosciuta e riconoscibile dell’hardcore italico. La Scaldacamionisti spoletina per la sua città è una vera e propria istituzione, a tal punto che alcuni suoi adoratori (fans, amici e clienti) hanno istituito il fans club ufficiale di Morena Capoccia e nell’agosto del 2019 hanno spedito una lettera presso il Comune di Spoleto indirizzata al Sindaco Umberto De Augustinis chiedendo a gran voce che venga conferita alla signora la cittadinanza onoraria perché, a dir loro, si sarebbe distinta nel campo delle arti pornografiche, non tralasciando le numerose prestazioni a favore degli abitanti di Spoleto che ha sempre soddisfatto sessualmente con professionalità e passione. Tante ed autorevoli testate giornalistiche si sono occupate di lei e del suo operato nelle vesti di operatrice sessuale; indimenticabili inoltre i collegamenti telefonici irriverenti, espliciti e sopra le righe fatti con Radio 24 ospite di Giuseppe Cruciani e David Parenzo a La Zanzara entrati nella storia del trash.

L’ attrice hard dichiara: “Sono felice di aver dato alla luce questo piccolo libro, in cui racconto della mia vita. Si intitola La Scaldacamionisti perché io sono una intrattenitrice ed animatrice sessuale di automobilisti e camionisti. Con la mia vecchia Fiat Panda bianca viaggio tra gli autogrill, le aree di sosta autostradali e i parcheggi delle bettole dove mangiano i camionisti e li provoco in abiti succinti, dopo averli fatti arrapare per bene loro mi contattano tramite CB (baracchino) e da lì si beve un caffè, io espongo il mio listino prezzi e poi si va nella cuccia del loro camion a scopare duro e forte come piace a me. - l’attrice a luci rosse umbra continua - per me il sesso è sempre stata una passione, che poi sei anni fa ho fatto diventare un lavoro, io sono completa nelle prestazioni che offro, non so quasi mai dire di no. Il mio cavallo di battaglia è sicuramente il sesso anale; con orgoglio e vanto dico che sono una delle poche mestieranti del porno italiano che senza difficoltà e problemi si fa praticare una doppia penetrazione anale. - la porno milf spoletina aggiunge - mi auguro di continuare a fare film porno, incontri privati, gang bang e sperma-party fino a 80 anni. Io sono una vera porca, non fingo ne nei film ne negli incontri di sesso privati; io i ‘miei uomini’ non li chiamo clienti, li chiamo scopamici perché con loro prima del sesso ho un rapporto umano, lo so, sono una escort atipica, amo definirmi una puttanamica. Insomma voglio continuare per almeno altri 30/35 anni a guadagnare divertendomi, la pensione può attendere! Ci tengo a tenere alta la bandiera di Troia numero 1 di Spoleto e di ‘Scaldacamionisti’, titoli che mi sono guadagnata sul campo con fatica, sudore e tanta libidine e in cui modestamente non ho rivali, difendo questi due titoli come un avvocato o un dottore difendono il loro....A questo punto spero vivamente che il Sindaco di Spoleto De Augustiniis mi conferisca la cittadinanza onoraria, in fin dei conti me la sono meritata: mi sono fatta mezza Spoleto in tutti questi anni, anche se devo dire che gli uomini spoletini sono un po’ insipidi e mosci! Ad ogni modo sarà mia premura spedire in comune una copia del mio libro con una dedica speciale proprio all’attenzione del primo cittadino di Spoleto, sperando apprezzi e si convinca a ricevermi a colloquio nel suo ufficio e premiarmi! - e conclude così le sue dichiarazioni - in questo periodo di lockdown sono stata chiusa in casa con i miei anziani genitori che ho assistito, abitiamo tutti e tre in frazione Uncinano a Spoleto ed è stata molto dura, ora come ora riprendere con gli incontri privati è difficile, non ci crederete ma non scopo da dicembre. In queste settimane mi richiedono solo pompini, sarà che li faccio bene con arte e passione, mentre le gambe sono capaci di aprirle tutte, non ci vuole molto! Invece a breve farò un nuovo film con Alex Magni per la casa di produzione hard Cento x Cento, ho fatto le analisi qualche giorno fa e a breve rigiro finalmente, così almeno vedo e sento un po’ di uccelli tosti e duraturi!”

·        Morgana Forcella.

Morgana Forcella: «Così, senza dirlo a nessuno, ho vinto il tumore». Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Solo alla fine Morgana sorride e si lascia andare, quasi giustificandosi: «È la prima volta che racconto. Nemmeno gli amici sapevano, neppure i colleghi. Mi vedevano con la parrucca e in pochissimi si sono accorti del nuovo look». È tosta come la fata mitologica legata alla leggenda di Re Artù, Morgana Forcella, 45 anni, attrice, moglie di Sebastiano Somma che dal 2 febbraio è protagonista della fiction Rai «Come una madre» assieme a Vanessa Incontrada. Con spirito aggressivo ha affrontato il tumore all’ovaio che l’ha sorpresa cinque anni fa in un periodo già molto difficile, la mamma ammalata di tumore al pancreas, il desiderio di continuare a dedicarle tutto il tempo, l’urgenza di provvedere a se stessa: «Ho pensato prima a lei e poi a me. Ho inserito il pilota automatico e mi sono tuffata, nonostante le poche energie fisiche, in qualsiasi cosa potesse distogliere il pensiero dal dolore immenso che mi sforzavo di celare». «Un dolore che ti annulla. Cercavo di gestirlo - prosegue - come se il problema non mi riguardasse tranne quando entravo in contatto con le altre pazienti in ospedale. Le esperienze condivise uniscono, toccano corde profonde e universali. Prevaleva la volontà di non pesare su mia figlia che quando la storia è cominciata aveva otto anni. Mi vedeva uscire di casa pimpante, poi finita la terapia la raggiungevo a scuola per i lavoretti di Natale, in apparenza serena, dentro sconvolta». La malattia l’ha colta in modo subdolo, con un malessere che i medici, non trovando riscontro nelle analisi, attribuivano alla psicosomatica. Invece quei dolorini all’addome, quel senso di cattiva digestione, erano il segnale di qualcosa di ben più grave diagnosticato al termine di un day hospital all’ospedale di Trieste, nel reparto di Salvatore Alberico, amico fidato: tumore all’ovaio di alto grado. Poi un flusso vorticoso di eventi. Operata al Policlinico Gemelli, «accudita con competenza, dedizione e umanità» dal professor Giovanni Scambia, direttore scientifico della Fondazione Gemelli e della ginecologia oncologica, da Francesco Fanfani e Ida Paris: «Spendono la vita per questa causa, sono eccezionali». A cinque anni dalla scoperta i controlli sono negativi ma Morgana non si è liberata del tarlo che ogni giorno trova modo di insinuarsi nella mente: «Per non soccombere fin dall’inizio mi sono tuffata nella professione e non ho mai raccontato i fatti miei. Da artista e come moglie di un personaggio pubblico, desideravo che la mia esperienza non venisse strumentalizzata. Oggi posso dire di essere soddisfatta per come ho reagito». Fra gli ultimi lavori teatrali, «Vi presento Matilde Neruda», in cui interpreta la musa del poeta, e «Meglio non sapere», spettacolo sulla Shoah che andrà nelle scuole. Spera che la sua testimonianza sia utile per informare le donne sull’importanza della prevenzione e indirizzarle verso la scelta di un centro come il Gemelli dove siano disponibili anche terapie integrate: «Ho frequentato corsi di Qi Gong, pratica orientale di respiro e meditazione. Ero scettica, invece ne ho tratto grande giovamento. Si lavora per sbloccare i ristagni di energia nel corpo. Poi il laboratorio di scrittura organizzato da Matilde D’Errico, l’autrice Rai di programmi come Amore criminale e Sopravvissute. Esperienze del genere aiutano a ritrovare la salute psichica dopo quella fisica. Ringrazio i medici, lo staff del Gemelli e Giorgio Meneschincheri, affettuoso angelo custode».

·        Nadia Bengala.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 24 ottobre 2020. La prima Miss Italia eletta per votazione del pubblico da casa è stata Nadia Bengala, incoronata dal compianto Fabrizio Frizzi il 3 settembre 1988 a Salsomaggiore Terme in diretta nazionale su Raiuno. Dopo la vittoria al concorso ha spaziato tra televisione, cinema e teatro per poi pian piano defilarsi da questo ingannevole mondo fatto di lustrini e paillettes: scelta libera e consapevole o scelta obbligata? Scopriamolo in questa intervista che riserverà parecchie sorprese e non risparmierà di certo qualche frecciatina al vetriolo.

D. Nadia lei è stata la prima Miss Italia nella storia del concorso ad essere eletta non per volere di una giuria ma per volere del pubblico votante da casa, che effetto le fa?

R. A Miss Italia sono arrivata quasi per caso e senza avere conoscenze. Sono onorata di essere la Miss nazional-popolare, eletta per volere della gente italiana. Molto probabilmente se la decisione l’avessero presa i membri della giuria non sarei stata eletta.

D. Che ricordo ha di Fabrizio Frizzi?

R. Un ricordo bellissimo, io ero la sua Miss preferita e me lo diceva sempre. L’anno in cui sono stata incoronata era anche la prima edizione condotta da lui. Era ed è amatissimo dal popolo italiano perché era una persona per bene. La Rai avrebbe potuto fargli condurre più programmi come ad esempio Sanremo, a lui il Festival non è mai stato affidato e di ciò ne soffriva molto. Ricorderò sempre quando nella camera ardente allestita alla Rai il fratello di Frizzi mi prese da parte e mi ribadì la stima e l’affetto che Fabrizio aveva nei miei confronti, una cosa profondamente reciproca.

D. Da un po’ di tempo a questa parte sembra essersi defilata dal mondo della televisione, è una libera scelta o una scelta obbligata?

R. Negli anni 90’ e nei primi anni del duemila ero spesso in televisione invitata come ospite ed opinionista, a parlare di svariati temi. Da quando è iniziata l’epoca dei reality show ho iniziato a rifiutare certi inviti da salotti televisivi perché sapevo benissimo che si dibatteva di cose finte ed inventate e non mi andava; da lì ho iniziato a perdere il giro ed hanno iniziato a chiamarmi e coinvolgermi sempre meno. È un cane che si morde la coda, meno ti vedono in tv e meno ti chiamano ed invitano. Io sono un’attrice ma non mi hanno mai fatto fare fiction o film tv...forse perché non ho santi in paradiso o non ho amanti potenti ed influenti?!

D. Lei però ha partecipato nel 2005 ad un reality show, è stato uno dei reality meno visti e seguiti nella storia della tv italiana, se lo ricorda?

R. Certo. Si chiamava “Ritorno al presente” andava in onda nella prima serata di Raiuno ed era condotto da Carlo Conti. L’idea del format era bellissima, era diverso dagli altri programmi di genere, per questo ho accettato di partecipare, si viaggiava nel tempo da epoca ad epoca con cibo, usi e costumi di allora. Sono stata messa al televoto quasi subito con una certa Marina Graziani ma ho sempre avuto il dubbio che la votazione non fosse così veritiera, dissero che solo per un punto mi eliminarono guarda caso, mah...durante il mese e mezzo di messa in onda non hanno mai e dico mai fatto vedere un mio confessionale, gli autori non erano interessati probabilmente a far vedere chi ero realmente. Parlando dei reality in onda oggi il Grande Fratello Vip lo farei anche perché sono un ottima donna di casa, però dovrebbe cambiare il conduttore perché chi c’è adesso non mi piace per niente, mentre all’Isola dei Famosi o a Pechino Express parteciperei con entusiasmo, sono sportiva ed avventuriera...

D. Non le piace il padrone di casa del GF Vip Alfonso Signorini?

R. Non mi piace per niente, la reputo una persona falsa, era anche opinionista del reality “Ritorno al presente” a cui ho partecipato nel lontano 2005. Come ciliegina sulla torta non ho apprezzato per niente come ha liquidato con una scusa oziosa un personaggio e un artista del calibro di Fausto Leali per una cosa senza senso, la parola “negro” non è un’offesa è il nome di una razza, tutto dipende dal cuore della persona che la pronuncia. Forse ha trovato la persona più buona e più semplice da far fuori, ha trovato il pretesto e ripeto non mi è piaciuto per niente ne nei modi ne nei contenuti! È stata una cosa finta e forzata!

D. Lei è una bellissima donna Nadia, lo sa che nei commenti di alcune sue video-interviste sul web la definiscono una “milfona suprema”?

R. Non lo so cosa scrivono sul web perché io sto nel mio mondo e non navigo molto sui social. Ad ogni modo sono lusingata, milfona suprema mi sembra un gran bel complimento!

D. Secondo lei perché sempre più giovani snobbano le loro coetanee e vanno alla ricerca della donna matura?

R. Non conosco questa tendenza e non conosco le tendenze in generale. Però posso pensare che se un ragazzo giovane va in cerca della donna matura avrà i suoi buoni motivi: magari per stare più tranquillo, più sereno, per l’esperienza, perché ci sono più cose da dirsi e fare. Le loro coetanee magari sono più leggere, più capricciose e un po’ inaffidabili.

D. Lei è corteggiata da giovani ragazzi?

R. Sono molto corteggiata da ragazzi e ragazzini ma sono fidanzata con lo stesso uomo da molti anni. Certo che se fossi single non andrei di certo in cerca dell’uomo maturo, anch’io proverei ad instaurare una relazione con un ragazzo più giovane di me come hanno fatto molte mie colleghe ed amiche!

D. Cosa guarda in tv oggi Nadia Bengala e che volti predilige?

R. Guardo veramente poca televisione devo essere sincera. Posso elogiare Beppe Convertini che è un caro amico e un professionista che ha sudato e faticato per essere al timone di un programma importante, se lo merita. Un apprezzamento va anche ad Eleonora Daniele, donna e professionista intelligente educata ed equilibrata e a Monica Leofreddi che mi piaceva molto.

D. Cosa si augura per il suo futuro professionale?

R. Il mio sogno è quello di prendere parte ad un bel film impegnato e magari tornare un po’ più spesso in tv!

·        Nancy Brilli.

Nancy Brilli per leggo.it il 21 gennaio 2020. Nancy Brilli in scena con A che servono gli uomini, regia di Lina Wertmüller. Uno pensa tutto rose e fiori, no? Bene: essere forti e decisive e sostenere tutti i propri ruoli, essere all'altezza della carriera, della responsabilità degli altri, avere le spalle larghe tanto quanto basta per tenere in piedi una ventina di persone, tenere su il morale, mandare avanti uno spettacolo. Questo sto facendo, in questi giorni. Vorrei che per magia tutte le cose andassero per il verso giusto, ma così non è. Capita anche ai lavoratori dello spettacolo di non venir pagati o di non esserlo in tempo. Mi dispiace e mi fa inferocire vedere un tecnico, un attore, un padre o una madre di famiglia costretti a umiliarsi ripetutamente per chiedere quanto si è guadagnato, lavorando seriamente e con fatica. Questo pezzo era tutto un altro, e meno male che non funzionava internet e non è partito. Mi auguro che il mio direttore mi sopporti e ci supporti. Stiamo andando in scena senza paga. Dovevo dirvelo. Che vergogna.

Dagospia l'11 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Nancy Brilli è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

L'attrice ha raccontato alcuni aspetti del suo lockdown: "Non dormo mai! Normalmente dormo poco, poi in questo lockdown non ho dormito praticamente mai, alle quattro di mattina mi aggiravo per casa, portavo a passeggio il cane, ho fatto cose che non avrei mai immaginato.

Ora va un po' meglio, ma ci vuole ancora un po' di tempo. Mi ero quasi abituata a non dormire ormai".

Sul mondo dello spettacolo: "Si parla poco dei lavoratori dello spettacolo. Ci sto lavorando, non è possibile si siano dimenticati completamente di un settore come quello dello spettacolo dal vivo, dal teatro al circo e ai concerti. Non solo quelli delle star, ma anche quelli più piccoli. Questa categoria è stata dimenticata. Il teatro privato è come se non esistesse. Ci sono trecentomila famiglie che stanno a spasso e che probabilmente ci staranno fino a dicembre. In questo mondo ci sono tantissime persone che vivono di stipendio, uno stipendio discontinuo, che va a periodi anche molto brevi. Ce lo siamo scelti questo mestiere, quindi va bene, ma un minimo di garanzia in un contesto così grave e imprevedibile, ci vuole".

Su come ne siamo usciti: "Migliori o peggiori? Uguali a prima. Ho visto tante cose belle, all'inizio una cosa un po' euforica di balconi, inni d'Italia, carina, che faceva un po' sorridere, poi siamo in una tale situazione di emergenza che il rischio che si corre è che ognuno cerchi di salvarsi meglio che può. Io so per esperienza diretta e accertata che aiutare il prossimo è sempre la cosa migliore, ma quando non hai da mangiare non so quanto puoi essere altruista. Spero che alla fine ci ritroveremo migliori, ma secondo me ci ritroveremo uguali".

Sulle notti indimenticabili della sua vita: "Una recente, molto carina. Avrei pensato a mio figlio, ma mio figlio è nato all'alba. Se devo parlare proprio di notte, racconto quella del 28 novembre. Sono nati i cuccioli della mia cagna, è stato un momento che non mi aspettavo fosse così intenso. Voglio molto bene al mio cane, ma non dimentico mai che un cane è un cane, non sono di quelli che scambiano un animale con una persona. Eppure è stata una esperienza particolare, si è creato una comunicazione incredibile con questo animale. Siamo state sveglie tutta la notte insieme. E' stata una notte intensa e bellissima. Non me l'aspettavo".

Sui ruoli ancora non interpretati che le piacerebbe fare: "Ce ne sono mille: non ho mai fatto la pazza, l'imperatrice e molte altre cose. Credo che il ruolo della pazza mi verrebbe facile. Mi piacerebbe fare un personaggio storico".

Sull'arrivo della popolarità: "E' arrivata dopo il primo spettacolo in teatro, che è stato 'Se il tempo fosse un gambero'. Ho avuto la possibilità, credo quasi unica, di passare dall'essere niente a ritrovarmi protagonista insieme a Montesano. Ero al secondo anno di lavoro".

Sui talent: "Sono pericolosi. Sono come dei corsi intensivi, è difficile che uno abbia quel tipo di attenzione sia mediatica che professionale. Ognuno di loro ha attorno una squadra che gli insegna qualcosa, è come se fossero delle iper scuole. Però c'è il rischio che sia per un momento e poi mai più. Non avendo le basi, c'è il rischio di sparire. Ne ho visti tanti scomparire nel giro di poco. Escono dei talenti, ma i talenti vanno coltivati. Spesso invece vengono accalappiati da persone senza scrupoli che li sfruttano per un momento e poi non gli danno niente".

Sul rapporto con i fan durante il lockdown: "Io sono sempre disponibile, è grazie alle persone che lavoro. Il successo prevede questa cosa e bisogna tenerne conto, sono le persone che ti fermano per strada o ti chiedono una foto che poi vengono a teatro, guardano un film o seguono una intervista. Non puoi fare che quando ti va bene contano e quando ti va male le ignori. I maniaci da social? La mia percezione è che con il lockdown siano diminuiti vertiginosamente. Sono molte di più le persone tra virgolette normali che cercavano uno scambio. Mi sono fatta lunghe chiacchierate con degli sconosciuti che avevano bisogno di un po' di compagnia. Persone che stavano da sole a casa. Ho usato i social così. I feticisti sono un po' ritornati alla carica ora, ma a parte i devoti del 36, con il lockdown molti di questi simpatici perversi sono rimasti dietro le quinte. Pensavo accadesse il contrario, invece è andata così, le persone avevano bisogno dei propri beniamini, perché ti danno un senso di casa. Ho risposto a tutti quelli che mi hanno scritto sui social, ho avuto il tempo di farlo, fuori lockdown era impossibile farlo. Spero di avergli tenuto un po' di compagnia".

Nancy Brilli: "Ho dato un calcio a Ivano Fossati e gli ho rotto una gamba". Ospite dell’ultima puntata di "A Ruota Libera", l’attrice ha ricordato la tormentata storia d’amore con il cantautore, rievocando una tragica lite finita in ospedale. Novella Toloni, Mercoledì 04/03/2020 su Il Giornale. "Un amore così, fatto di amore e odio, di tormento e passione, ti maciulla, ti divora", così Nancy Brilli ha raccontato la tormentata storia d'amore con il cantautore Ivano Fossati a Francesca Fialdini in "A Ruota libera". Ospite della trasmissione domenicale di Rai Due, l'attrice ha ripercorso gli amori più importanti della sua vita, soffermandosi sulla difficile relazione con Fossati, vissuta tra il 1991 e il 1994. Nel salotto di Francesca Fialdini, Nancy Brilli ha rivissuto i momenti più belli della sua carriera teatrale e cinematografica, ripercorrendo però anche i numerosi amori vissuti dal matrimonio lampo con Massimo Ghini alla storia con il padre di suo figlio, Luca Manfredi. Quella con Ivano Fossati è stata però la relazione più complessa e complicata vissuta dall'attrice, fatta di grande passione ma anche di tormenti, ripicche e forti contrasti. A parlare apertamente delle difficoltà di questo "amore malato" è stata Nancy Brilli: "Eravamo diventati brutti e cattivi l'uno con l’altra, pur amandoci tantissimo. Dovevamo provocarci a tutti i costi, sempre. Era un amore molto passionale e tormentato, che ti maciulla. Uno di quegli amori che vorresti rivivere ma che vorresti anche che finisse". Francesca Fialdini, nel ripercorrere i momenti più importanti di questa storia, ha ricordato anche un episodio che ha segnato profondamente la loro relazione, la frattura della gamba di Ivano Fossati, avvenuta durante una loro lite. A raccontare il violento episodio è stata l'attrice romana, 55 anni: "Ci provocavamo spesso. Un giorno stavamo discutendo, c'è stata una spinta, poi uno schiaffo, le urla e io gli ho dato un calcio con gli anfibi. L'ho fatto con forza e gli ho fatto male, gli ho rotto una gamba. Non si fa, lo so, ma è successo". Una lite finita male che costrinse il cantautore, oggi 68enne, a ricorrere alle cure del pronto soccorso. Quest'episodio ha segnato irrimediabilmente la loro relazione e da quel momento Nancy e Ivano non si sono mai più visti, se non in un'occasione. "Mi chiamò perché vide delle mie fotografie, era nato mio figlio - ha concluso la Brilli - e mi disse: 'finalmente hai quello che volevi, noi non potremmo mai essere amici' e questo è stato".

·        Nanni Moretti.

Nanni Moretti torna con «Caro Diario»: «Clint Eastwood ancora si ricorda della mia Vespa. Che noia i giovani registi già vecchi». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 14/10/2020. Il regista ha ripresentato il cult restaurato portandolo in tour per l’Italia: «Non ne avevo previsto il successo. Una vicenda personale che ha intercettato sentimenti universali». Un tour per presentare uno dei suoi film più fortunati, Caro diario, nato per caso (avrebbe dovuto essere il filmino delle sue passeggiate in Vespa per le vie di Roma) e diventato, sull’onda del premio per la miglior regia a Cannes nel 1994, un manifesto generazionale, sezionato e citato all’infinito. Nanni Moretti nei giorni scorsi ne ha accompagnato la versione restaurata in 4 K dalla Cineteca di Bologna nel laboratorio L’Immagine Ritrovata con StudioCanal (tornata in sala dal 12 ottobre) in giro per alcuni cinema, da Perugia a Firenze, da Torino a Milano, con la lettura de «I diari di Caro Diario». E dal 16 al 18 lo farà nel suo cinema, il Nuovo Sacher.

Che effetto le fa rivederlo dopo 27 anni?

« Innanzitutto mi fa impressione che comincino già a restaurare i miei film. Tutto è partito da Studio Canal (non certo dalla Rai…), una televisione francese, che voleva mettere in onda alcuni miei film e voleva materiali tecnicamente buoni. Così ha chiesto alla Cineteca di Bologna di restaurare Caro diario, Aprile e La stanza del figlio. Insieme al direttore della fotografia di quei film, Peppe Lanci, siamo andati a lavorare a Bologna al restauro. Che effetto mi fa vederlo oggi: mi sembra un film libero, personale. Tre stili differenti per tre storie che non nascondono la loro disomogeneità ma anzi la esibiscono. Con La messa è finita (scritto con Sandro Petraglia) avevo dimostrato che potevo fare un film “normale”, con una trama, personaggi e tutto il resto. quindi, subito dopo, con Palombella rossa, Caro diario e Aprile ho costruito dei racconti narrativamente e produttivamente più liberi».

A dispetto della natura dichiaratamente autobiografica (come sottolinea il titolo francese Journal intime), Caro diario si conferma anche sulla distanza, un’opera che parla a tutti. Era consapevole mentre girava che non stava parlando solo di cose personali?

«No, non ne avevo previsto il successo. Ogni tanto mi capita di raccontare vicende personali che riescono a intercettare sentimenti universali. Ed è stato il mio primo film distribuito un po’ in tutto il mondo, grazie anche al premio di Cannes».

Lei è capace di interpretare lo spirito del tempo, ha fatto quello che un tempo non amava sentirsi dire, raccontato una generazione. Se ne riconosce il merito?

«Mah, quarant’anni fa ero scioccamente insofferente quando si parlava di me come del cantore di una generazione. Ma perché non parlate invece di cinema?, protestavo a proposito dei miei film. Con il passare del tempo ho cambiato idea: se davvero, partendo da spunti personali e a volte privati, sono riuscito a raccontare una generazione, be’ naturalmente lo considero una fortuna e un onore.»

«Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne». «Mi sa che mi troverò sempre d’accordo e a mio agio con una minoranza». Caro diario è stato sezionato, come e più di altri suoi titoli, le battute sono usate come tormentone, la sua immagine sul manifesto è un’immagine popolare tanto quanto Che Guevara. Le piace?

«Ma si’, certo! Sono state fatte anche delle t-shirt con le battute dei miei film. Va bene così. Quando scrivo una sceneggiatura non penso mai a come potrebbero essere accolti, masticati, digeriti, usati i miei dialoghi».

Dovevano essere quattro capitoli. Perché «Il critico e il regista» con Silvio Orlando poi non lo inserì?

«Non c’entrava niente con gli altri capitoli. Chissà, magari prima o poi lo girerò. È la storia – che attraversa vari decenni – di un regista che vorrebbe vivere con il consenso di tutti: alle recensioni negative dei critici reagisce a volte blandendo gli interlocutori, a volte insultandoli, scrivendo lettere, telegrammi, facendo telefonate, incontrandoli di persona. Non è un racconto autobiografico: io non replico mai alle critiche, nemmeno agli insulti. Perché penso che ognuno possa dire ciò che vuole dei miei film e poi perché troverei patetico cercare di far cambiare idea a qualcuno a cui non piace il mio lavoro. I miei film stanno da una parte, le critiche dall’altra, lo spettatore può tranquillamente decidere con chi stare senza aver bisogno della mia mediazione».

Aspettò poi cinque anni per girare Aprile, come mai cosi tanto?

«Un po’ ho seguito Caro diario in giro per il mondo. Poi ho prodotto e interpretato la seconda volta, il film d’esordio di Mimmo Calopresti»

Qualche critico ha definito Caro diario come l’8½ di Nanni Moretti. Concorda?

« Ma no, quello è’ un film inarrivabile! Tempo fa sono stato invitato a una scuola di cinema di Parigi. mi chiesero quale film volessi proiettare per gli studenti, risposi Otto e mezzo. Lo vedevo per l’ennesima volta eppure alla fine ero commosso (gli studenti no). Da ragazzo l’avevo visto tantissime volte, al Rialto, al Planetario, al Farnese, al Nuovo Olimpia, in tutte le sale d’essai di Roma. È il film che al cinema ho visto più volte, insieme a La dolce vita e Nostra Signora dei Turchi».

Come andò con Jennifer Beals?

« Lei era a Roma per accompagnare suo marito, il regista Alexandre Rockwell, che presentava in italia il film In the soup. andammo a cena noi tre, a Testaccio. Dovevo chiederle se voleva partecipare a un mio cortometraggio (ancora non avevo capito che le passeggiate in vespa che stavo girando erano il nucleo del mio nuovo film). Ero in imbarazzo, non trovavo mai il momento giusto per chiederglielo. Finita la cena eravamo sul marciapiede e ci stavamo salutando, quando al volo trovai il coraggio e le chiesi se l’indomani poteva regalarmi mezza giornata per un mio filmino. Disse di sì e il giorno dopo noi tre improvvisammo un dialogo che assolutamente non era scritto. Non mi piacciono le improvvisazioni ma quel giorno andò così. Lei e Rockwell furono intelligenti e spiritosi e capirono subito il tono di quella scena. avevamo una troupe minuscola: non c’era truccatore, non c’era parrucchiere, non c’erano elettricisti e lampade, eppure lei oltre a essere brava e ironica è anche bella e luminosa».

Lei è una persona molto riservata, cosa l’ha spinta raccontare una vicenda intima come la sua malattia nel capitolo Medici?

«Ho raccontato quella vicenda non in una trasmissione tv ma in quella che è la mia casa, il cinema, usando il mio mezzo espressivo. Ero io a stabilire le regole, il tono, il ritmo, lo stile».

Vinse premio della regia a Cannes, festival dove ottenne la Palma d’oro per La stanza del figlio e dove ci aspettiamo di vedere Tre piani. Il suo legame con questo festival e con la Francia, dove gioca in casa.

«Qualche anno fa mi sono stupito perché Clint Eastwood, intervistato a Cannes, ancora si ricordava di Caro diario. Lui nel ’94 era presidente di giuria e io ero convinto che fosse stato obbligato dai giurati europei a darmi un premio. E invece no, dopo tanti anni ancora si ricordava della mia vespetta… il mio legame con la Francia e il festival di Cannes è molto semplice: lì prendono molto sul serio il cinema, sia come fenomeno artistico sia come fatto industriale».

L’estate a Roma i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come “Sesso amore e pastorizia”, “Desideri bestiali”, “Biancaneve e i sette negri”, oppure qualche film dell’orrore come “Henry”, oppure qualche film italiano”. In questo anno terribile i cinema soffrono. Da esercente con il Nuovo Sacher pensa che le sale sopravviveranno?

«Ahi, questa domanda fa male. Come spettatore continuo ad andare molto al cinema, mi piace come quand’ero ragazzo. Come regista faccio film pensando che saranno visti in un cinema, al buio, proiettati sul grande schermo. Come esercente conosco l’importanza del cinema nella qualità della vita di tante persone».

Il giorno di Ferragosto ha messo sul suo profilo Instagram una passeggiata in Vespa. Questa volta bianca, scendendo dalla Panoramica su viale Mazzini, sempre con Leonard Cohen I’m your man in sottofondo. Sembra aver trovato un tono – la stessa leggerezza citata per Caro diario – per tenere un canale di dialogo con il suo pubblico.

«La vecchia vespa che appare in Caro diario e Aprile l’avevo verniciata apposta per il film, un punto di verde che avevo scelto dopo molte prove. poi vado in proiezione e sembra quasi blu, e il pubblico, non so perché, è convinto di averla vista bianca. Anni fa i vespa club l’hanno bocciata, non l’hanno fatta diventare “moto storica” (più storica di così…). allora, amareggiata e depressa, si è messa in pensione al Museo del cinema di Torino. A proposito di Instagram: a differenza delle videocassette, che erano un oggetto orrendo, i dvd mi piacciono. Però purtroppo nessuno li compra più e allora su Instagram, ogni tanto, racconto il mio modo di lavorare, un po’ come se fossero i contenuti extra di un dvd».

L’immagine dei quarantenni depressi, infelici e nostalgici asserragliati nei loro tinelli del film era il ritratto anche di un cinema incapace di rinnovarsi. Dal suo osservatorio Bimbi belli, la rassegna nell’arena del Nuovo Sacher dedicata agli esordi, come vede i nuovi autori?

«C’è una nuova generazione di produttori, registi, sceneggiatori, attori. Si dividono in quelli che esordiscono con lavori convenzionali, come se fossero nati già vecchi, e coloro che orgogliosamente si disinteressano del pubblico. Penso che tra questi estremi ci siano molte strade che andrebbero percorse».

Causa pandemia l’uscita del suo Tre piani è stata rimandata al 2021. Cosa vuol dire tornare in sala con Caro diario? Ha fatto presentazioni nei cinema di «I diari di Caro diario», chiuderà al Sacher dal 16 al 18 ottobre.

«Mi fa piacere aver accompagnato in qualche città il film con la lettura – parziale – dei miei diari, scritti durante la lavorazione di Caro diario. Parziale perché è una piccola parte di ciò che ho scritto in quel periodo. E parziale anche perché ho tagliato gli insulti ai collaboratori lasciando però gli insulti a me stesso. Non è giusto!»

·        Noemi Blonde.

Barbara Costa per Dagospia l'8 novembre 2020. Noemi Blonde, sexystar famosa in Italia e all’estero, e concorrente di “Wild Girls”, reality-game in onda su Prima Free e su Youtube.

Noemi, tu sei una figa da p-a-u-r-a! Grazie, però, io ci tengo a dire che, nel mio lavoro, la bellezza fisica conta fino a un certo punto, il resto lo fa la testa. Sveliamo cosa fa una sexystar a chi non lo sapesse…

«Una sexystar è una performer, una professionista, una ballerina, una vera artista che fa spettacoli erotici, anche molto spinti, dal vivo, dove mima – ma non tanto – atti sessuali, e si spoglia, e gioca e seduce il suo pubblico».

La sexystar Noemi Blonde è famosa per una cosa…

«Una cosa che tutti sanno e vedono…»

Una cosa lunga… anche 27 centimetri…

«Ci sono i video in rete!»

Noemi Blonde è la regina della deep throat!

«Ebbene, è così! Il mio record è appunto una gola profonda a un pene di 27 centimetri. Il suo proprietario era - è - un sudamericano».

Tu riesci pure a mettertene in bocca 2 contemporaneamente! E nemmeno piccoli!

«Anche nella fellatio plurima, ho il mio record: sono riuscita a prenderne 4!»

No, vabbè…

«C’è il video! Vai a vederlo!»

Io non vado a vedere proprio niente, e l’intervista finisce qui.

«E perché? Che ti ho fatto?!?»

M’hai fatto che so’ invidiosa! Che diamine, io non riesco a fare la gola profonda nemmeno a uno, e nemmeno tanto grande. E tu ne prendi 4 insieme! Mondo ingiusto…

«Chi ti dice che non riuscirai pure tu…»

Ma solo io ho problemi di reflusso?! Solo io me soffoco?! Parli bene tu, come parla bene Malena: ho chiesto consiglio a lei, m’ha detto che il reflusso passa con l’allenamento, io mi alleno, il reflusso rimane. Come la mettiamo?

«Ascolta: non è un problema tuo, ma dei piselli».

???

«Non tutti i piselli sono uguali, non tutti i piselli hanno la stessa forma, quindi non tutti vanno presi in bocca allo stesso modo: se hai a che fare con un pene a missile…»

Com’è un pene a missile?

«È il pene largo alla base che finisce a punta».

!

«Questo qui è ottimale farlo sparire in bocca nella classica posizione del 69, e tu ti metti sopra. Fai un bel respiro e mentre vai giù usa tanta saliva cosicché scivola meglio in fondo la trachea. Se invece ti tocca un pene a ombrello…»

Questa la so! È quello curvo…

«Sì, ed è la forma che detesto di più. Qui per farlo sparire correttamente in fondo la gola, ti metti supina distesa con la testa a penzoloni dal letto».

M’hai convinto, ci provo. Adesso parliamo di sesso anale…

«Che problemi ci sono?»

Per me, nessuno. È una benedizione, una santa “invenzione”. Uno dei video più visti sul tuo OnlyFans è quello dove insegni a un 18enne come fare un anale, lui che non aveva mai fatto un anale…

«Questo video al momento è sulle 700 mila visualizzazioni! Ed è ai primi posti nelle ricerche…»

Secondo te, ci sono errori che gli uomini commettono nel fare un anale? Se si sente male, è sempre “colpa” della donna che è poco lubrificata, non abbastanza eccitata, o sbagliano i maschi?

«Entrambi devono essere straconvinti e straeccitati, ma soprattutto è chi il sesso anale lo riceve che deve rilassarsi mentalmente, e fisicamente e deve aver fatto prima una lavanda interna, per evitare… spiacevoli disastri! Chi penetra deve preparare la zona stimolandola bene con dita, lingua, o sex toys, e usare lubrificanti. E poi iniziare la “danza” dolcemente, un po’ per volta. Non tutti gli ani sono elastici allo stesso modo».

A te i sex-toys non piacciono, e sei lubrificamente “all’antica”: vai di saliva…

«Sì, io i sex-toys li uso solo nei miei spettacoli, e non sono nemmeno tanto amante delle dita…»

Durante il (primo) lockdown, hai trasferito il tuo lavoro online, hai aperto i tuoi account OnlyFans e Pornhub, e a views vai alla grande. Uno dei tuoi ultimi è un video girato con alunni dell’Hard Academy di Rocco Siffredi…

«È una scena di sesso a 3 con ex alunni di Rocco, e sono stati bravissimi anche perché con me non ci sono copioni, non ci sono filtri, si può dire che non ci sono limiti. Ognuno fa ciò che si sente, e gode per davvero».

Tu hai iniziato con Riccardo Schicchi, uno degli uomini che io più ammiro, e che non ho avuto il privilegio né il tempo di conoscere. Mi dici com’era?

«Assolutamente un genio. Non c’è stato né mai ci sarà uno come lui. Era dotato di un sesto senso, riusciva a scovare il talento laddove nessuno lo vedeva. Per la sua mente, le sue idee, per quello che ha fatto per il porno in Italia, era avanti anni luce. Io mi sono esibita la prima volta davanti a lui, al Blu Moon, storico teatro sexy di Roma, e Schicchi mi disse subito: “Noemi, tu sei un animale da palcoscenico!”».

Pochi immaginano che fare la sexystar è una professione che non si improvvisa, che dietro c’è lunga e dura preparazione…

«Sì, e infatti oggi la professione è in crisi per il Covid, ma già prima a causa di certe “nuove” arrivate che per tirar su 2 spicci si buttano su un palco qualunque con una musica qualunque e si spogliano senza alcun criterio, lasciando poca o nulla fantasia e immaginazione a chi guarda. Esibirsi su un palco con tanto di ballo, coreografia e scenografia non è né semplice né da tutte».

Spiegami ‘sta cosa: tu, nei tuoi spettacoli, se vuoi ti puoi far toccare, leccare, da uomini e donne, tutti consenzienti e ai tuoi ordini. Ma se vuoi su un palco fare una consenziente fellatio, non la puoi fare…

«Signori, questa è l’Italia, Paese del falso perbenismo e dalla dubbia morale! È esattamente così, puoi rendere partecipe il pubblico maschile ma non puoi assolutamente denudarlo».

Io ti ho visto, quando inviti a salire un uomo, con te, su un palco, lui rimane vestito, e tu gli metti un dildo a forma di pene…

«…ad altezza del suo pene, che rimane dentro pantaloni e mutande, ed è al dildo che faccio la fellatio!»

Se invece io salgo con te sul palco, per noi 2 quali proibizioni ci sono?

«Nessuna!»

Come sarebbe? Noi 2 possiamo spogliarci, toccarci, baciarci, slinguarci…

«Possiamo fare tutto, anche lo scissoring, anche un 69. Possiamo avere rapporti lesbici completi».

Colpa della morale cattolica?

«Non credo, perché nella cattolicissima Spagna le sexystar possono fare tutto, anche le orge!»

Tu sei stata tra le star dell’ultimo BergamoSex, massima fiera dell’erotismo in Italia. A te non hanno dato fastidio – come hanno dato fastidio a me – gli attacchi ricevuti per il pericolo Covid? Da ogni parte a strepitare che sarebbe stato rischioso farla, invece non è successo nulla, è filato tutto liscio…

«Tutti – noi che ci esibivamo, chi è venuto a vederci – abbiamo seguito scrupolosamente le direttive governative e le regole imposte dalla fiera stessa. Io sono orgogliosa dell’esempio che abbiamo dato e dell’immagine pulita che ha avuto l’evento».

Gianluigi Nuzzi su La Stampa ha parlato di voi mettendo “artiste” tra virgolette! Che rabbia! Non si vuole capire che lo spettacolo del sesso, in ogni sua forma, è un lavoro che merita rispetto?

«È lo Stato italiano che ancora non ha capito quanti soldi produce il nostro settore, e il settore del porno in particolare: se solo riconoscesse in parte noi ARTISTE, si sanerebbe buona parte del debito pubblico».

Tu hai fatto per breve periodo la escort: avevi clienti famosi?

«Non sono mancati…»

E per famosi, s’intende…

«Politici e calciatori!»

Siccome non possiamo fare nomi (purtroppo!) sputtaniamoli in un altro modo: è vero che erano tutti sposati o fidanzati?

«Non me ne viene in mente uno single».

Sai di qualcuno che è stato scoperto dalla moglie e preso a mazzate?

«Un mio cliente fisso era un politico, sposato, con 2 figli…»

Di quale partito?

«Ehhh… allora… ti dico così: uno del centrodestra…»

Meglio rimanere sul vago, eh?

«Sì, adesso ti spiego: questo qui non solo veniva con me, ma aveva anche il vizio della cocaina».

Voleva i festini?

«Sì, ma con me cascava male, io non mi sono mai drogata. Veniva da me 2, 3 volte al mese, sempre strafatto e non solo. Sai quale era il suo feticismo?»

Dimmi! Dimmi!

«Gli piaceva travestirsi da donna, e così essere umiliato!»

Politico, cocainomane, va a escort, e gode travestito da donna: questa sì che sarebbe materia di interrogazione parlamentare! Com’è andata a finire?

«Malissimo: la moglie lo ha sgamato, ha chiesto il divorzio e gli ha portato via i figli».

Noemi, dì ai miei Dago-lettori quali sono secondo te i 3 benefici del pompino con ingoio.

«Primo, se ingoi non sporchi: come dice Greta Thunberg, bisogna rispettare l’ambiente, e…»

No, senti, quella lì mi fa girare le p*lle solo a sentirla nominare!

«Però se tu ingoi, non solo fai felice il tuo partner, ma mantieni pulito il posto dove hai fatto il pompino.

A me piace farlo in macchina, il posto ideale, soprattutto se il proprietario del pene ha una moglie…

«Ma infatti: se tu ingoi, in macchina, lasci meno tracce, e hai meno probabilità che la moglie lo sgami!»

La moglie è tonta, come diavolo faccia a non sentire sui sedili tracce del mio profumo da 2 soldi, comprato apposta… ma non divaghiamo. Il secondo beneficio?

«Si ingoia per le proteine, quelle contenute nello sperma, che fanno benissimo!»

Sì, l’hanno detto pure a “La Zanzara”…

«Infine, importantissimo, si ingoia per la Patria!»

Per la Patria?!?

«Certo! L’Italia è un Paese libero, democratico, assolutamente non razzista, e lo deve dimostrare!»

Cioè?

«Avanti con l’ingoio interrazziale!»

Non ti seguo…

«Io sono per l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati: se dai barconi sbarcano uomini che sanno integrarsi in mezzo a noi, lavorano e si sposano con donne italiane, queste ultime possono farsi valere e coccolarli con questo atto d’amore».

Io sono contro gli sbarchi, io sono per l’ingresso a quote, e coi documenti regolari. Noemi, lasciamo stare la politica: parliamo di cosa vorresti fare in tv dopo “Wild Girls”…

«Punto al Grande Fratello, ma non ho le conoscenze giuste per entrare nella Casa!»

Neppure io, però possiamo fare un appello a Alfonso Signorini tramite Dagospia: tanto la Casa rimane aperta fino a febbraio…

«Io ho un discreto curriculum televisivo: ho partecipato a Il Commissario Rex, i Cesaroni, Le Iene, Italian’s Got Talent, Ciao Darwin. Non sono solo una acclamata sexystar, sono diplomata al liceo linguistico, e ho anche un diploma al Conservatorio, dopo 10 anni di studio al pianoforte».

Vero, confermo, su Pornhub c’è un video dove suoni nuda al piano. Chissà come te la caveresti al GF, tu che sei pure una truccatrice professionista… ma sai cucinare?

«Mi prendi in giro? Io sono la maga della carbonara, e mi sto specializzando in dolci americani».

E al Grande Fratello, te la metti la minigonna?

«Che sfotti?!? Io ho la paranoia delle mie gambe, le vedo troppo muscolose, e metto la minigonna solo con tacchi altissimi. Così camuffo!

Noemi, prima di salutarci, mi dici com’è il tuo uomo ideale?

«Io sono un’esteta, e mentirei se ti dicessi che non guardo l’aspetto fisico. Poi io mi innamoro dei particolari, delle imperfezioni…»

Ok, ma che guardi?

«Gli occhi!»

Gli occhi?!? Noemi, e dai, su…

«Gli occhi che raccontano una storia, che nascondono un passato, che hanno voglia di sorridere…

Quanti centimetri dev’essere?

«Ma che dici? No, il mio uomo ideale è colui che si comporta come tale, è un uomo brillante, capace di tenermi testa, che accetta il mio passato, che guarda con positività a un futuro insieme, e che mi tratta come una principessa. A chi non piacerebbe uno così?»

A me!

«Non ti piace essere trattata come una principessa? E come, allora?»

Come una troia, l’ultima delle troie, la peggiore delle troie.

«Io voglio un uomo che sappia amarmi e rispettarmi, sempre!»

·        Naomi Campbell.

Da "d.repubblica.it" il 21 giugno 2020. Negli ultimi anni tanti marchi di cosmetica hanno messo in commercio linee dedicate alle diverse tonalità della pelle, pensate non solo per le donne bianche, ma anche per quelle nere, ispaniche o asiatiche. Il mondo della bellezza non è sempre stato così inclusivo però e lo sa bene anche una star assoluta come Naomi Campbell che, intervistata per una puntata del podcast “Woman’s Hour” della BBC, ha ripercorso un episodio risalente a 32 anni fa, ma che evidentemente ricorda ancora molto bene. Nel 1988 Naomi Campbell, all’epoca appena diciottenne e in attività da soli due anni, venne chiamata per scattare la copertina del numero di giugno di Vogue Italia. Un’occasione importantissima per la modella inglese ancora agli esordi che una volta sul set però si trovò a fare i conti con una spiacevole sorpresa: l’assenza di trucchi adeguati per la sua carnagione. “Ricordo un lavoro in Italia per il quale sostanzialmente il make up artist quando mi vide disse: ‘Oh, non sapevo fossi nera’”, racconta Naomi Campbell. “E disse che non aveva il fondotinta per me,  quindi dovette mettersi a mischiare alcuni colori che aveva per cercare di trovare quello più adatto a me. Che però era fatto prevalentemente da fondotinta grigi. Ricordo che quando uscì la copertina piansi perché desideravo fortemente essere sulla copertina di questo magazine, che era Vogue Italia, ma non volevo essere grigia!”. Sono passati tanti anni ormai, ma quel momento deve aver segnato in qualche modo la carriera di Naomi se è vero che già in un’altra intervista per The Guardian del 2016 aveva riportato l’episodio rivelando anche che da quel momento in poi ha sempre portato con sé i propri trucchi sul set. Era un altro mondo, con una sensibilità decisamente diversa ai temi della diversità e dell’inclusione, come ricorda la stessa Naomi: “Quando ripenso a quando ho iniziato a fare la modella nel 1986, cercare di comprare il make up per noi di colore era molto molto difficile. Pochissimi negozi lo avevano, pochissimi scaffali dedicati, ed era una cosa limitante. Io usavo i trucchi di mia madre: lei mi aveva dato un fondotinta di un colore che andava abbastanza bene per me, ma mi è capitato di avere dei problemi”. Soprattutto prima di incontrare Pat McGrath, celebre make up artist nera, amica fraterna di Naomi e definita dallo stesso Vogue come la MUP più influente al mondo. Non è un caso dunque che, dopo aver fondato il marchio Pat McGrath Labs, la make up artist abbia scelto nel maggio 2020 proprio Naomi, cinquant’anni compiuti a maggio, come primo volto per la sua linea cosmetica (che in Italia sarà distribuita a partire da luglio da Sephora).

Naomi Campbell nuda nella metropolitana deserta: una foto pazzesca, a 50 anni. Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Anche a 50 anni Naomi Campbell conferma di avere un fisico da urlo. La super modella britannica, soprannominata la Venere Nera, ha compiuto i fatidici cinquanta lo scorso 22 maggio. Valentino l’ha omaggiata con una serie di scatti pubblicati su Instagram, che la ritraggono come mamma l’ha fatta nel bel mezzo della metropolitana di New York. Che per l’occasione era deserta, ma il servizio fotografico non ha nulla a che vedere con il coronavirus: è infatti stato realizzato a febbraio dello scorso anno, ma l’impatto è ancora più forte in un periodo storico in cui le metropolitane vuote lo sono state per davvero. Ha però fatto ancora più scalpore la foto inedita postata sui social da Pierpaolo Piccioli, direttore creativo del brand italiano, che ritrae Naomi completamente nuda: a coprirla soltanto una borsa Valentino. Uno scatto che ha mandato fuori di testa i fan della Venere Nera, che anche a 50 anni di difende molto bene. 

Maria Corbi per “la Stampa” il 22 maggio 2020. Naomi compie domani i suoi «primi» 50 anni dopo aver mostrato in questa quarantena, passata nella sua casa di New York, la sua vera dote oltre la bellezza: la resilienza. Finita la stagione degli eccessi (come assicura lei) adesso mostra un' altra versione di sé: «Puoi scegliere di abbatterti e per questo vivere nell' ansia in questi giorni o puoi semplicemente abbracciarli, stare fermo e cercare di trarne il meglio. Io sto cercando di trarne il meglio e uscire da questa esperienza in modo positivo». Parola della modella più famosa di tutti i tempi, che da tempo ha deciso di dedicarsi alla causa delle donne afroamericane. Tanto che per festeggiarsi si è regalata un autoscatto sulla copertina della rivista Essence, il mensile cult per le donne afro-americane emarginate dalle altre pubblicazioni glamour e di lifestyle, nato proprio nel suo anno di nascita, il 1970. «L' ascesa di Naomi è stata la nostra ascesa», spiegano nell' editoriale. «Abbiamo visto la sua carriera attraversare diverse epoche della moda, dai giorni del glamour di Gianni Versace alla raffinata storia d' amore del Valentino di Pierpaolo Piccioli». Orgoglio black per questa donna che ha abbandonato la sua giovinezza a 15 anni quando è stata notata per le strade di Londra da un agente di modelle e lanciata nel mondo patinato della moda che stava esplodendo come fenomeno di costume. Da allora tutti i fotografi leggendari la hanno voluta come musa, da Herb Ritts a Bruce Weber da Peter Lindbergh a Steven Meisel. Ma non è stato facile, ha detto lei, combattere il «razzismo patinato» per cui pochissime modelle nere finivano in copertina sulle riviste di moda. E lei è stata la prima ad apparire su quella di Vogue France nel 1988 quando Yves Saint Laurent minacciò di levare spazi pubblicitari al magazine se si fosse rifiutato di farlo. «Sapevo che il signor Saint Laurent aveva il potere di fare qualcosa», ricorda Naomi. «Era il re». Poi è stata lei a diventare rapidamente una regina, concedendosi capricci ed eccessi per molti anni in cui è stata fondamentale non solo al mondo fashion ma anche a quello del gossip. La ricordiamo tutti in tuta da lavoro che raccoglie rifiuti per le strade di New York mentre sconta una pena socialmente utile per aver lanciato un telefonino alla sua colf in uno scatto d' ira. Ma quei tempi sono lontani e dimenticati, assicura lei, che parla liberamente del suo impegno per la sobrietà. «Tutti sanno che sono in fase di recupero. Mi sento fortunata e grata per la mia salute di oggi». La sua ricetta? Pregare, lavorare (è giudice e produttrice del nuovo spettacolo di Amazon Prime Making the Cut, una competizione di fashion design), assumere vitamine e una vita disciplinata. «Non bevo alcolici o faccio qualsiasi cosa che possa alterare la mente». Così anche nel bel mezzo della pandemia di Covid-19, Naomi non si è fermata lanciando «No Filter With Naomi», un talk show quotidiano che filma dalla sua casa di New York con ospiti Cindy Crawford, Marc Jacobs e Nicole Richie , Sharon Stone. Una Naomi «matura» che non manca mai di creare «un caso» attorno a sé come appena prima che il mondo entrasse nella crisi del coronavirus quando ha fatto il giro del mondo la sua foto mentre su un aereo disinfetta il suo posto in prima classe e poi, appena scoppiata la pandemia, all' aeroporto di Los Angeles con tuta ignifuga, guanti e occhiali protettivi e mascherina, il manifesto vivente dei "germofobi" di tutto il mondo. Niente festa per lei, ma solo una chat su Zoom con gli amici più cari, tra cuic' è Sean Combs, meglio conosciuto come Puff Daddy (anche se ora si fa chiamare Diddy), cantante e produttore, anche lui cinquantenne da pochi mesi festeggiati con un mega party nella casa di Los Angeles. E avrebbe voluto replicare per la sua amica, a Londra, città dove vive la mamma di Naomi, che è stata il vero motore della carriera della figlia, che riuscì a far «evadere» da Stretham quartiere popolare della capitale britannica, grazie alla sua bellezza già evidente. E di strada ne ha fatta Naomi, diventando non solo un' icona della moda ma anche amica di grandi personaggi del Novecento, come Fidel Castro, Nelson Mandela, Bill Clinton, Tony Blair. Ed è ormai leggenda la sua «gita» a Cuba con l' amica Kate Moss, ospiti del leader maximo. «Ci ha spiegato che, dopo il Papa, eravamo le persone più importanti che vedeva», ha raccontato in un' intervista Naomi. «Ci ha mostrato come si parla alla folla». E adesso quelle lezioni sono utili per il suo web-talk show. Attenta Oprah, Naomi sta arrivando. Ancora black power.

I 50 anni di Naomi Campbell, i segreti mai rivelati di una bellezza sempre al top. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Paola Pollo. Dopo anni a chiederle dei suoi amori e delle sue bizze, ora da Naomi Campbell tutti vorrebbero sapere solo e soltanto come faccia a cinquant’anni ad essere esattamente come era a 25. Anzi meglio. Ed oggi che è il suo compleanno e su social e rete sono omaggi e saluti, per chi non aveva consapevolezza di tutte queste primavere sembra davvero un miracolo della natura. Considerato poi che alla bellezza la top model più longeva della storia ha aggiunto nel tempo dolcezza, saggezza, pazienza e disponibilità verso gli altri, senza aver perso un grammo di tutta quella carica di sensualità felina di cui era naturalmente dotata ma piuttosto lasciandosi dietro rabbia, bizze e scontrosità varie, il segreto si fa mistero. Nata a Londra da una ballerina jamaicana, Valerie Campbell, non ha mai voluto sapere chi fosse suo padre biologico. L’unico padre “riconosciuto” moralmente Nelson Mandela: «Lui mi ha insegnato ad essere come sono oggi a guardarmi attorno, ad accorgermi degli altri e a usare la mia voce per aiutare chi non ha. Così ho fatto», racconta sempre. Impegnata nel sociale (i bambini in Africa, le cause contro le discriminazioni, la lotta all’Aids, la povertà): «Prima non mi rendevo conto», ammette. Scoperta per strada da un talent scout a 16 anni era già una cover girl e se n’è andata a New York, da sola: «Non sapevo nulla. Ho passato tanti momenti brutti, difficili. Ma sono stata e sono fortunatissima ad avere gli amici: Linda (Evangelista, ndr), Christy (Turlington, ndr), Steven (Meisel, ndr), Carolin (Murphy, ndr), Marc (Jacobs, ndr)». Da allora mai una pausa nel successo: sfilate e campagne, servizi fotografici e viaggi da una parte all’altra del mondo. Modella, attrice, cantante, conduttrice televisiva. Mai ferma, mai. Neppure la pandemia l’ha bloccata. Fisicamente a casa ma sempre impegnata fra video lezioni di yoga, dirette, self-shooting, torte (adora i dolci) campagne e appelli. Cambi d’abito e trucco e parrucco. Sempre perfetta: corpo statuario, pelle senza un segno del tempo. I capelli, unico segreto di Pulcinella: prodigi dell’extension. «Tutti mi dicono di fermarmi, di rallentare. Ma io sto bene così. E so perfettamente quando ho bisogno di una pausa e me la prendo». Incontrarla si ha sempre la sensazione che abbia sempre voglia di andare avanti, al limite dell’iperattività: «Io dico a tutti di inseguire sempre i propri sogni, mai stare al balcone, vivere. Non procrastinare. È la mia regola». Ama l’Italia e il peperoncino e il cacio e pepe. Ci veniva sin da bambina, a Roma, con sua madre. E poi da Gianni e Donatella (Versace) e Domenico e Stefano (Dolce e Gabbana) e ora Pierpaolo (Piccioli). Anche parecchi «fidanzati» (turbolenti) italiani (da Matteo Marzotto a Flavio Briatore a Gianni Nunnari) oltre ad altri: di amori con lei comunque è meglio non parlare anche se è indubbio che nessun uomo ha mai avuto un ruolo, nel bene o nel male sulla sua carriera: Naomi Campbell è chi è grazie solo e soltanto a se stessa . Anche oggi che è “saggia”, come si definisce dopo anni di lavoro, sulla rabbia, che a suo tempo le diede qualche problemino (segretarie bistrattate): «Tutti abbiamo la rabbia, è un’emozione che fa parte di noi — aveva raccontato al Corriere della Sera al suo 48 esimo compleanno —. Certo dipende da come la usiamo. Sono come sono ora anche per quello che sono stata. È che a mano a mano che invecchi e diventi più saggia, ti esprimi in modo diverso. Impari a vedere che cosa è importante per te e cosa non lo è: le persone avranno sempre le loro opinioni, ma questi non sono affari miei, quello che importa è quello che penso e quali sono le mie azioni oggi. Sono sempre e ancora io. È che sono più vecchia!». Stessa falcata però. Oggi come trent’anni fa: quando esce lei in passerella si sposta persino l’aria tanto riempie la scena. Ha persino imparato ad essere puntuale (storici i suoi ritardi “giovanili”). La famiglia? Sono gli amici. Che ha ovunque nel mondo. Due se ne sono andati, Azzadine Alaia e Franca Sozzani e dopo anni, sono sempre nei suoi pensieri. Come Mandela. E piange nel ricordarli, ogni volta: che sia a una cena di gala o a un’intervista. Poi, per carità, non è un agnellino. E’ pur sempre la pantera. Ma va bene così.

Naomi Campbell, 50 anni d’energia: «Insostituibile, altro che avatar». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Gian Luca Bauzano. Spontanea, generosa e altruista. Se a dirlo non fosse una persona che con lei ha condiviso anni di passerelle e di “fashion system” ci sarebbe da dubitare. Perché i rotocalchi di Naomi Campbell hanno fatto sempre un ritratto tutt’altro che benevolo. «Non c’è solo l’aspetto dello showbiz, ma anche tanto altro. E a lei sono legato da grande affetto». Commenta Piero Piazzi, presidente di Women Management e indiscusso talent scout di bellezze che fanno la differenza, vera, nel mondo della moda. La top model, la Venere nera, la Pantera (tra i vari soprannomi affibbiati), il 22 maggio 2020 compie 50 anni. Pensare, nel vederla oggi che sulle sue magiche spalle è posato mezzo secolo sembra impossibile. «Ha un segreto — racconta Piazzi —. Ama la vita, l’affronta con spontaneità. Anche un tocco di follia. Ci sono pure le bizze. Ma sai che anche se ti fa stare con il cardiopalma sino all’ultimo, sarà in passerella. E la magia avverrà». Certo che non è poco in una società dove è tutto virtuale e ora causa emergenza pandemica il mondo della moda parla di sfilate con Avatar di modelle. «Se è uno scherzo, va bene, sorridiamo — prosegue Piazzi —. Ma una sfilata è una sfilata, gli abiti devono vivere. Naomi è l’esempio. Non cè Avatar che tenga con lei. E i suoi sfolgoranti 50 anni confermano ciò che dico». La Venere Nera prediletta stagione dopo stagione da stilisti simbolo come Gianni Versace o i Dolce e Gabbana, dove ha materializzato la sua presenza ha cambiato la scena. Come ha affermato Flavio Briatore nei giorni antecedenti il compleanno in un’intervista al settimanale Chi. «Quando Naomi sfilava, si girava anche la passerella. Oggi non c’è nessuno come lei». Briatore con la Venere Nera ha avuto una relazione tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei 2000. Il legame tra Piero Piazzi e Naomi nasce da un mix tra momenti di vita privata, emozioni ed esperienze professionali. «Ha gesti di generosità enormi ed è legatissima alla sua famiglia». La dimostrazione del fascino mediatico di Naomi si è verificato anche in questo periodo di lockdown. «Durante la quarantena ha organizzato una serie di interviste su You Tube. Nessuno si è tirato indietro nel mondo della moda. A partire da Anna Wintour», dice Piazzi. Si tratta davvero di un unicum. «Ha saputo gestire in maniera eccellente la sua carriera e quando ci sentiamo ha l’approccio naturale che ha avuto la prima volta che ci siamo conosciuti tantissimi anni fa». Nato come modello dal successo internazionale (Piazzi aveva fatto anche diversi provini con Franco Zeffirelli per il ruolo del protagonista del film “Amore senza fine” con Brooke Shields. «Non andò poi a buon fine — ricorda —. Non avrei lavorato solo con la giovane Shields ma anche con la madre. Non si allontanava un secondo dal set, interveniva di continuo. Impossibile lavorare in serenità»), di esperienza sul campo con Naomi ne ha avute tante. Compresa quella, una volta diventato manager, di far sfilare la Venere nera con la madre Valerie negli anni Novanta sulla passerella di Gai Mattiolo. Legatissima alla famiglia la porta sempre con sé. «Viaggia con le foto incorniciate della sua famiglia. Le porta con sé. Servono solo a lei. Vuole avere qualcuno vicino come fosse un vero abbraccio. Una donna dal cuore grande». Da sempre in prima linea per difendere i diritti dei più deboli e per aiutare il suo paese, l’Africa. «Una donna generosa non si è mai tirata indietro a sostenere le cause importanti. Negli anni Novanta organizzai a Milano una serata dal titolo “Anche le modelle hanno un cuore”, per raccogliere fondi per la lotta all’Hiv. All’epoca ero a capo dell’agenzia Riccardo Gay e chiesi alle modelle più in auge di collaborare. Tutte versarono il compenso che avrebbero percepito per una sfilata. Naomi senza che le chiedessi nulla volle donare l’equivalente di ben cinque sfilate». Talmente unica la Venere nera che Piazzi spesso le ripete scherzando: «Nobody before you, nobody after you: nessuno prima di te, nessuno dopo». Il regalo di Piero a Naomi per i 50 anni? «Quello dal più profondo del cuore che trovi l’amore vero. Una donna così eccezionale lo merita».

Da Chi il 12 maggio 2020. «Prima di parlare di Naomi, bisogna analizzare chi è e quanto pesa il suo nome. Uscire con lei non vuol dire soltanto frequentare una bellissima donna: significa camminare a braccetto con un’azienda. Quando stavamo insieme il marchio “Naomi” era dietro solo ad aziende come Coca-Cola, Ferrari e poche altre», così Flavio Briatore ricorda Naomi Campbell, la “Venere nera delle passerelle” con cui ha vissuto una storia d’amore durata tre anni, alla vigilia del cinquantesimo compleanno della top model, che cade il 22 maggio. Briatore parla per la prima volta della sua ex fidanzata e ora sua grande amica, in una intervista esclusiva pubblicata dal settimanale Chi in edicola da mercoledì 13 maggio. «Come si vive accanto a una donna come Naomi?», spiega Flavio Briatore. «Evitando la “corte” dei signor sì e tenendola ben salda con i piedi per terra. Quando Naomi sfilava, si girava anche la passerella. Oggi non c’è nessuno come lei. Parlano di Gigi Hadid, ok, bella ragazza, ma poi? In sostanza? Poco, molto poco. Naomi faceva notizia anche quando non c’era nessuna notizia. Ancora oggi in pieno Covid-19 ha visto come si è presentata in aeroporto? La sua immagine in tuta e mascherina ha fatto il giro del mondo. Segno che nulla è cambiato. Segno che Naomi è famosa nel tempo. Dopo di lei, il nulla». E il suo famoso carattere bizzoso e irascibile? «Per giudicare una persona e i suoi gesti bisogna prima conoscere la sua storia. Naomi è uscita di casa a 11 anni. A 12 lavorava già con Bob Marley. Ha conosciuto la strada e la vita da affrontare troppo in fretta. Le sue bizze? I litigi anche con me a bordo della mia barca o in giro per il mondo? Normale amministrazione se sai con chi hai a che fare. E io sapevo di avere di fronte a me una persona dal cuore tenero, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti. Però era Naomi e se Naomi sposta un bicchiere, si sposta il locale». E alla vigilia del compleanno Briatore le dedica un pensiero speciale. «Mi fa effetto pensare che Naomi sia arrivata al giro di boa. Ma conoscendola avrà altre sei vite davanti piene di luminosità, come è luminoso il suo cuore. Se io oggi alle due di notte dovessi aver bisogno di lei per un qualsiasi motivo, so che risponderebbe al telefono subito. Questa è Naomi lontano dai riflettori: una donna con un gran cuore. Sono contento di esserci stato nella sua vita. Gli auguri glieli farò poi, in privato».

Briatore racconta la sua Naomi Campbell: "Le sue sfuriate? Leggendarie. Ma ha un cuore d'oro". Naomi Campbell compie 50 anni e per l'occasione Flavio Briatore racconta gli anni insieme alla Venere Nera, svelando il suo lato più privato e segreto, fatto di grande generosità e cuore. Francesca Galici, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Da oltre trent'anni, Naomi Campbell è sinonimo di bellezza in senso assoluto. La Venere Nera compie cinquant'anni e le sue falcate sicure, ampie ed eleganti sulle passerelle hanno scritto la storia della moda mondiale. Naomi Campbell ha sfilato per le maison più importanti e si è legata ad alcuni degli uomini più famosi del pianeta, tra i quali Flavio Briatore, che in occasione del compleanno della Venere Nera ha deciso di raccontare la sua storia con la top model sulle pagine del settimanale Chi in edicola da domani. Flavio Briatore è uno degli imprenditori italiani di maggior successo, a capo di un vero impero, che nella sua vita ha avuto relazioni con alcune delle donne più belle del mondo. Naomi Campbell è stata una delle sue compagne più note negli anni della seconda Dolce Vita del Paese a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Erano la coppia più invidiata della Costa Smeralda, regno incontrastato della movida del quale Briatore è imperatore incontrastato. "Prima di parlare di Naomi, bisogna analizzare chi è e quanto pesa il suo nome. Uscire con lei non vuol dire soltanto frequentare una bellissima donna: significa camminare a braccetto con un’azienda. Quando stavamo insieme il marchio 'Naomi' era dietro solo ad aziende come Coca-Cola, Ferrari e poche altre", ha dichiarato Flavio Briatore, che ha conservato un bellissimo rapporto di amicizia con la Venere Nera. "Come si vive accanto a una donna come Naomi? Evitando la 'corte' dei signor sì e tenendola ben salda con i piedi per terra. Quando Naomi sfilava, si girava anche la passerella. Oggi non c’è nessuno come lei. Parlano di Gigi Hadid, ok, bella ragazza, ma poi? In sostanza? Poco, molto poco. Naomi faceva notizia anche quando non c’era nessuna notizia", confida Flavio Briatore, che ha svelato uno dei segreti per conquistare Naomi Campbell. Non yes man per la Venere Nera ma uomini di polso e capaci di tenerle testa, come sicuramente è stato Flavio Briatore. A tal proposito, l'imprenditore ha affrontato anche il discorso delle bizze della modella, diventate famose: "Per giudicare una persona e i suoi gesti bisogna prima conoscere la sua storia. Naomi è uscita di casa a 11 anni. A 12 lavorava già con Bob Marley. Ha conosciuto la strada e la vita da affrontare troppo in fretta." Parole d'affetto per lei da parte di Briatore, che a distanza di anni continua a stimarla: "I litigi anche con me a bordo della mia barca o in giro per il mondo? Normale amministrazione se sai con chi hai a che fare. E io sapevo di avere di fronte a me una persona dal cuore tenero, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti. Però era Naomi e se Naomi sposta un bicchiere, si sposta il locale." Briatore e la Campbell sono stati simbolo di un'epoca che forse non tornerà mai più, icone di mondanità e bellezza intramontabile e ora che la Venere Nera si prepara a compiere cinquant'anni, l'imprenditore non può che dedicarle un pensiero di cuore: "Mi fa effetto pensare che Naomi sia arrivata al giro di boa. Ma conoscendola avrà altre sei vite davanti piene di luminosità, come è luminoso il suo cuore. Se io oggi alle due di notte dovessi aver bisogno di lei per un qualsiasi motivo, so che risponderebbe al telefono subito. Questa è Naomi lontano dai riflettori: una donna con un gran cuore. Sono contento di esserci stato nella sua vita. Gli auguri glieli farò poi, in privato."

·        Niccolò Fabi.

Niccolò Fabi: «Canto fragilità e paura, ma il pubblico esce sorridente». Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Niccolò Fabi, 51 anni, romano, cantautore. Laureato in Filologia romanza, ha pubblicato 9 dischi fra il ‘97 e il 2020, di cui due, «Ecco» e «Una somma di piccole cose», hanno vinto come miglior album la Targa Tenco (foto Chiara Mirelli)Quando finisce il concerto e vedi centinaia di persone che saltano e ballano su Lasciarsi un giorno a Roma, una canzone di addio e disperazione, come se invece fossero finalmente liberi e felici, intuisci immediatamente che, con lui, le regole del gioco sono sovvertite. Nel mondo social che ci chiede di essere belli, ottimisti, performanti, adeguati, Niccolò Fabi canta la fragilità, la paura, l’indecisione. Se l’industria della musica chiede frenesia, compulsività, apparenza, lui predica la lentezza, il linguaggio forbito, lo scarto di lato. Se il dolore è una stanza segreta, lui la apre ogni sera per il suo pubblico, immergendosi fino in fondo nei suoi tormenti.

E così ogni performance diventa una seduta di psicoanalisi, una catarsi collettiva. Com’è possibile?

«È come se ogni sera facessi una camminata su un filo da un palazzo ad un altro, di fronte a tutti. Gli spettatori assistono a questo perenne equilibrio e disequilibrio, a una persona che rischia, che va a parlare della paura, la rappresenta di fronte a te. Poi per fortuna arriva la fine, e le persone incredibilmente escono sorridenti: ma avviene proprio perché io ho paura, reale, e loro vedono la rappresentazione di tutto ciò».

Qual è la sua canzone che rappresenta il parallelo di «I’m going down» di Bruce Springsteen?

«In questo concerto, e nella mia vita, c’è un binomio di canzoni che rappresentano volente o nolente il centro della resilienza: Ecco e Vince chi molla, la risposta a quella umanissima paura della perdita, della morte, della separazione. Che da una parte vengono raccontate nella maniera più violenta, inaccettata, rabbiosa, che è comunque una reazione, e dall’altra nella maniera più spirituale, psicoterapeutica, nel senso di lasciar andare, non tenere più il muscolo teso, ma rilassarlo».

La musica l’ha aiutata a superare il dolore più inaccettabile, la perdita di una figlia?

«I dolori delle separazioni li viviamo tutti, e più andiamo avanti nella vita più ci avviciniamo alle separazioni importanti. La musica non so se mi ha aiutato, sinceramente. Ma ha dato un senso profondo a quell’esperienza di vita. Ha collocato quell’esperienza in un ambito che non è più personale, mi ha dato la possibilità di non far rimanere il dolore chiuso in una stanza: vedo il riflesso benefico che ha questo racconto in tutte le persone che condividono o hanno condiviso quella medesima paura. Poi ovviamente io la ri-rappresento ogni volta in scena, per cui siccome rientro in quella stanza ogni sera, non è proprio salvifico, a volte è complicato. Perché per riraccontarla e comunicarla emotivamente devo riviverla tutte le sere. Non puoi cantare quelle canzoni in maniera casuale, pensando ad altro: non succede niente se non c’è una passione reale, in senso quasi cristologico».

Faticoso?

«Si, è un concerto faticosissimo. Però è sicuramente il più vicino ai miei gusti tra tutti quelli che ho fatto, ed è stupefacente che sia la tournée che ha raccolto più spettatori che mai. Di solito gli artisti che vogliono fare quello che piace a loro, difficilmente allargano la platea. E invece a me è successo il contrario: più mi avvicinavo al mio gusto personale, più vedevo le persone aumentare. Per chi non sta alla radio, in tv, ha una comunicazione social assolutamente lontana dal marketing, è incredibile. Evidentemente le persone che hanno bisogno di quel linguaggio ritrovano in tutte quelle scelte una coerenza. Dall’altra parte è tutto molto esasperato, e allora c’è una risposta contraria».

L’esasperazione della fake positivity, l’ottimismo a tutti i costi?

Un particolare della cover dell’ultimo disco di Niccolò Fabi «Certo, il mio linguaggio è all’opposto, è anacronistico, va a fondo, e se vai a fondo non puoi essere superficiale. Eppure noto che c’è una richiesta di un certo numero di persone, neanche troppo esiguo, che è alla ricerca di quest’altro linguaggio».

Le sardine lo dimostrano. Salirebbe sul palco con loro?

«Lo trovo un movimento sano, ma in linea di massima le grandi riunioni di piazza non si sposano con quel tipo di linguaggio. Non ho l’eloquio da grande palco, credo di essere utile allo stesso risultato in contesti diversi. È un fatto caratteriale, prima ancora che di senso».

Però sui social ci sono tracce del suo impegno sociale: la foto del braccialetto per Regeni, del ciclone in Mozambico, dell’incendio in Australia…

«Piccoli segni del mio coinvolgimento. Ma anche il social network non è un luogo che amo moltissimo, è sempre una piazza virtuale che semplifica, e io non sono abile a semplificare, mi fa paura. La vendita del prodotto artistico insieme alla campagna solidale: c’è una grande confusione di linguaggi, per cui mi sento a disagio, cerco di dare suggerimenti artistici, più che politici».

La musica ribelle allora come si fa oggi?

« La musica ribelle è una musica libera. Io sono sempre più stato affascinato dalla libertà dell’espressività dell’artista piuttosto che dal suo ipotetico impegno politico. Noi artisti abbiamo il dovere di fare cose belle, libere e artisticamente valide prima ancora che salire su un palco per sostenere una campagna elettorale piuttosto che un credo politico. Se facciamo musica cattiva, allora quella è una responsabilità politica. Noi dobbiamo immettere nel sistema degli ammorbidimenti di sensibilità, riuscire a far capire cose importanti, che poi hanno la conseguenza di far prendere una posizione politica. Se c’è una musica che inneggia alla ribellione, alla rivoluzione, alla resistenza, all’oppressione del sistema, ma è brutta, per me è politicamente inutile. Se è asservita, anche solo alla promozione di se stessi, è inutile».

La bellezza salverà il mondo, scriveva Dostoevskij. L’arte è resistenza alla mano che ti affoga, dice Niccolò Fabi.

«Sì, assolutamente sì. L’interesse per l’arte, l’approfondimento, è un esercizio di pensiero, di sensibilità, di consapevolezza dei dettagli della vita, delle sfumature delle emozioni, dell’attenzione verso gli altri, delle loro emozioni. È un atto di resistenza vera, rispetto a un mondo consumistico del prodotto della comunicazione, della vendita, della vanità, dell’ego sparato a 360 gradi tutti i giorni in tutte le maniere».

Si è addirittura ritagliato un posto a lato sul palco, stavolta, perché?

«Proprio perché adesso la sicurezza, la garanzia che le persone si fidano di me, ha fatto sì che mi ritagli il posto che mi è più naturale, che non è al centro della scena, che mi imbarazza. Al centro non ci sono io ma uno schermo, una finestra, uno specchio, in modo che le persone possano vedere non tanto me, ma se stessi riflessi, o un luogo speciale in cui vogliono tornare, andare».

Quindi se le chiedo Sanremo o X Factor?

«La musica in televisione mi affascina sempre di meno, mi sento tanto lontano da quel tipo di racconto, da quello che esce fuori della musica da quei contesti, dove c’è una ragione televisiva che comanda le scelte artistiche. Io e la televisione abbiamo due temperature troppo diverse, la tv ti mette in luce ed è molto centrata sulla narrativa delle persone, che è esattamente il contrario di ciò che voglio io, scomparire. Con la mia timidezza non ci sto bene. Nel concerto ci sto il giusto, divento strumento di altro: ho un altro tipo di vanità».

Eppure non può non essere vanitoso, con tutte le fan...

«Ma quello ci sta. L’artista ha sempre attirato anche l’aspetto erotico della persona, la donna poi tende ad idealizzare più dell’uomo. A volte mi gratifica, perché mi rendo conto che non ho la fisicità di un fragile esistenzialista, pallido, curvo su sé stesso. Essendo un belloccetto biondo con gli occhi azzurri, creo un corto circuito con la musica che faccio, posso suscitare fantasie: ma ci ridacchio su».

La verità è che sta diventando un riferimento educativo: ho visto su un libro di pedagogia per insegnanti una frase di una sua canzone.

«Sono testimonianze dal fronte le mie, dalla trincea. Non sono regole lette e imparate come suggerimenti per la risoluzione di un problema. Molti psicologi mi scrivono perché usano alcune mie canzoni all’interno del percorso di terapia. L’unica differenza tra me e loro è che l’aspetto artistico dà una componente più forte: le persone non lo vivono come consiglio medico, ma come il racconto di uno come loro, che la sta vivendo allo stesso modo».

Infatti un caro amico mi ha confidato che nella canzone «Solo un uomo» ci ha visto le debolezze di un uomo come nessuno riesce mai a raccontarle.

«Lo capisco, perché io ho fatto della fragilità una forza. E non credo che ci siano troppi narratori spudorati di quel tipo di racconto. Quello nasce come il racconto di una fragilità, ma poi la consapevolezza di identità si trasforma in una forza».

Tra tradizione e tradimento, da che parte sta?

«Se stessi da una parte non ci avrei scritto un disco. È evidente che le canzoni nascono per raccontare quanto sia difficile trovare un equilibrio tra le due cose, nelle due scelte di vita: da una parte tutto ciò che il passato ti ha lasciato come sicurezza, come identità, e dall’altro il tradimento come possibilità di andare fuori dagli argini, esagerare, fare qualcosa di diverso, che è molto eccitante, ed è anche un modo per far valere il tuo passato. Siamo tutti noi sempre all’incrocio tra la rassicurazione del passato e l’eccitazione del cambiamento».

Come il tuffo di cui parla in una delle ultime canzoni? Lei quando è saltato?

«Nella mia vita professionale sono diventato man mano più spregiudicato, e quindi mi sono preso tutti i rischi. Nella vita personale un po’ meno. Se parlo del tuffo non è per insegnare a farlo, non parlo dal pulpito: racconto le mie problematiche. Infatti le mie canzoni nascono come eventi: se non ci fosse vita non scriverei canzoni, non ne avrei bisogno, desiderio di farlo. Nel momento in cui c’è un evento, che non è necessariamente drammatico, allora trovo che sia giusto testimoniarlo».

Scrive prima le note o prima le parole?

«Normalmente non scrivo mai testi su melodie già esistenti, non mi siedo al pianoforte o alla chitarra per scrivere una canzone, adesso meno che mai. Mi capita di prendere appunti su parole, frasi, angoli che mi sembrano ancora interessanti da raccontare, allora prendo uno strumento e cerco di creare lo stato d’animo più adatto a quell’atmosfera».

Quale strumento?

«Li ho provati tutti: ma chitarra e pianoforte continuano ad essere i miei confidenti principali».

Ha avuto più chitarre o più case?

«Più o meno uguali! Ho un nomadismo, non sempre voluto. Da quando ho lasciato la casa di infanzia, avrò cambiato 12 case in 25 anni, e in ognuna di quelle è stato scritto un disco, come se ogni casa servisse da cornice, da ambientazione ad una stagione della vita. E, una volta raccontata, dovessi andare da un’altra parte. Le chitarre credo siano altrettante: ce ne sono state alcune a cui mi sono aggrappato, sono stati bastoni della mia vita. Infatti ce n’è stata una che mi hanno rubato, in macchina, e per me è stato un altro pezzo di cuore che se n’è andato».

Se avesse la macchina del tempo, a quale concerto andrebbe?

«Innanzitutto vorrei sentire Bach. Poi Buckley: ma è un rimpianto, perché stavo per andare a vederlo con un amico a Correggio e poi non ci sono più andato, pensando che ci sarebbe stata un’altra occasione. E poi a San Siro a vedere Bob Marley: quel linguaggio mi sarà sempre di conforto. A volte quanto il Koln concert di Jarret: ma lui l’ho visto, anche se non a Colonia».

A proposito di colonne sonore, «The loud out »di Jackson Browne racconta proprio la musica che ascoltano i musicisti in viaggio. Niccolò Fabi cosa ascolta?

« Quella canzone mi ha sempre colpito molto: perché racconta quello che la gente non vede, il loud out: quando finisce il concerto e tutto quel mondo di fantasia diventa cavi, attrezzature, che smontate andranno a ricreare quel sogno in un altro luogo. E poi, il viaggio, che collega tutti noi da una data all’altra. A volte dormiamo, a volte ognuno di noi si mette ad ascoltare le proprie cose in cuffia, a volte qualcuno di noi mette su qualcosa. Le suggestioni sono parecchie, essendo in sette nel furgone. Ma c’è anche tanto silenzio, bisogno di recuperare energie».

Vinile o digitale?

«Una giusta combinazione dei due. I miei dischi sono tutti prodotti anche per vinile, e non è un fatto nostalgico. Io sono contento che alcune musiche, nella loro immaterialità, siano compagne potenzialmente di ogni minuto della tua vita, quando sei in viaggio, quando sei in pericolo, quando sei ballerino. Poi è vero che l’ascolto del vinile è uno stato d’animo. Nella casa in campagna ho il giradischi perché quando vado lì spero che tutto si rallenti: accendo il camino, metto su il disco: è una fruizione diversa».

Un’intimità che mi fa pensare a quella foto, e a quella frase: “Torno a casa, la butto sul letto, come se non fosse una cosa speciale, e invece lo è”. Come è stato ricevere la targa De André?

«Emotivamente molto forte, per due motivi. Uno è il concetto di premio alla carriera, che ti mette di fronte a una cronologia, a un tempo passato, a un tempo compiuto, a qualcosa che hai fatto. Non c’è un momento in cui ti rendi conto: ho 30-40-50-52 anni».

Scrive Foer: non sapremo mai qual è l’ultima volta che prendiamo in braccio i nostri figli per portarli a letto prima che siano troppo grandi.

«Appunto. E quindi diciamo che è la prima sensazione, che ti dà in parte una gratificazione perché pensi che hai fatto qualcosa, che sono stati riconosciuti i sacrifici e le scelte. E poi indubbiamente l’accostamento del mio nome a quello di De André è qualcosa di forte, al di là dell’influenza specifica che può aver avuto su di me, perché sono stato attratto da un altro tipo di cantautorato, meno letterario. Però il valore storico è indubbio: De André è quello che più di tutti ha portato quelli della nostra categoria a sentirsi più nobili e meno canzonettari, potenzialmente parte di un universo artistico che aveva un riconoscimento».

E lei a chi darebbe la targa tra vent’anni? Motta, Truppi?

«Sono tutti artisti molto validi, ma bisognerebbe aspettare vent’anni per capire che percorso faranno».

«Intessere buoni rapporti con l’amigdala», il suo proposito per il 2020. Ce lo spiega?

«L’emotività, croce e delizia della mia vita, ha centri neurologici e neuronali molto precisi. Sono affascinatissimo da come il nostro corpo rielabori, metabolizzi, trasformi, le nostre percezioni sensoriali. La mia emotività tende a farmi sentire un campionario di sintomatologia enorme dentro al mio corpo: e quindi riuscire a farci pace sarebbe importantissimo. Più guardi l’uomo al microscopio, tanto più hai la percezione dell’infinito, di fronte a cui la mente si ferma, non ce la fa».

E a quel punto?

«Vai a giocare a pallone!».

·        Nicola Di Bari.

Nicola Di Bari: così sono diventato lo zio di Zalone. Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Non è stata una prima volta in assoluto. Michele Scommegna, in arte Nicola Di Bari, aveva già recitato in un film, nel 1972, con Bud Spencer. «Un mostro sacro del cinema, con lui feci Torino nera. Ma Checco è veramente un geniaccio...». Tanto che adesso il cantante pugliese, vincitore di una edizione di Canzonissima (1971) e di due Festival di Sanremo (1971, con Il cuore è uno zingaro e nel 1972 con I giorni dell’Arcobaleno), si ritrova ad aver recitato in quello che potrebbe diventare il film italiano record di incassi: Tolo Tolo. Come è nato il suo coinvolgimento nel film?

«Non conoscevo Checco Zalone, se non per aver visto i suoi precedenti film. Mi chiamò circa sei mesi fa dicendomi che avrebbe voluto incontrarmi. Venne a Milano con il produttore Pietro Valsecchi. Andammo a mangiare in un ristorante. Tanto pesce e tanta emozione: mi propose di recitare nel suo film, nella parte che mi è più consona, il parente pugliese, il suo zio cardiopatico».

E accettò subito...

«Sì, mi piacque sia lui che l’idea. Checco è un ragazzo colto, mi incantò. E quel ruolo mi divertiva».

Nel film ha ritrovato anche sua figlia e una sua canzone.

«Mia figlia Arianna fa l’attrice di teatro, penso che Checco la conoscesse. Quanto alla canzone Vagabondo, l’ha scelta perché Checco è un sognatore, che come un nomade gira il mondo. Ed era quello che cantavo io negli anni ‘70. Anche se la mia canzone preferita è La prima cosa bella, che a Sanremo arrivò seconda, scritta quando nacque Ketty, prima figlia di quattro: mi cambiò la vita».

Però «Vagabondo» è più in tema con «Tolo Tolo» che parla di gente che emigra. Del resto anche lei è un emigrato. Dalla Puglia a Milano. Cosa pensa del tema del film?

«Io sono un uomo del Sud che a 18 anni ha lasciato la famiglia nella speranza di trovare successo altrove. Ottenni una scrittura privata con una casa discografica e quando registrai il mio primo 45 giri quella voce piena di sale e di sabbia piacque al pubblico. I primi a dover partire, per lavori molto più duri del cantante e per terre molto più lontane di Milano, siamo stati noi italiani. Per questo, quando si parla di immigrazione, bisogna sempre ricordarsi delle peripezie, dei dolori e delle sofferenze degli italiani di 50 anni fa. Gli immigrati vanno aiutati, l’Italia e l’Europa tutta devono aiutarli».

Torna spesso in Puglia?

«Tutti gli anni, come i devoti di San Nicola di Bari, da cui nasce il mio nome d’arte. Solitamente l’estate, con mia moglie Agnese. Mi ricarico le batterie, tra un viaggio e l’altro, perché alla soglia degli 80 anni giro ancora il mondo con le mie canzoni: a metà febbraio sarò a Miami per promuovere il mio nuovo album, La mia verità. Ma ho anche bisogno di rivedere i luoghi d’infanzia. Poi nella mia Zapponeta, provincia di Foggia, mi vogliono bene: mi hanno anche dedicato un murale».

Tornando a Tolo Tolo, vi siete sentiti con Checco dopo i primi giorni di programmazione del film?

«Come no?! Dopo che ci siamo conosciuti, siamo diventati amici. Adesso mi chiama quasi tutti i giorni, perché è così contento di come stanno andando le cose e di come ha recitato “casa Scommegna”. Appena viene a Milano andremo sicuramente di nuovo a cena insieme. In un ristorante pugliese, ovviamente».

«Quando Zalone mi telefonò», parla Nicola Di Bari, nel cast di Tolo Tolo. Interpreta lo zio cardiopatico del protagonista. Carlo Stragapede il 04 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Atteso come la manna dal cielo dagli esercenti delle sale cinematografiche, il miracolo di San Zalone si è ripetuto: Tolo tolo, il nuovo film di Luca Medici, ha sbancato. L’attore e regista capursese ha battuto se stesso: uscito a Capodanno in 1.200 sale italiane, il film, prodotto da Taodue e distribuito da Medusa, al primo giorno ha sfiorato gli 8,7 milioni di euro, diventando il lungometraggio con il maggior incasso di sempre nella storia del cinema nazionale nelle prime 24 ore di programmazione e superando il precedente record di Quo vado? (7,3 milioni). Al secondo ha incassato quasi 5 milioni raggiungendo in totale poco meno di 14 milioni. Prenotazioni online in tilt come per una finale di Mondiali di calcio. Spettacoli programmati a orari finora impensabili, alle 11 del mattino e oltre mezzanotte. Luca Medici non commenta, il produttore Pietro Valsecchi parla di «risultati entusiasmanti che ripagano di due anni faticosi e difficili, perché il progetto era ambizioso e la scelta di debuttare alla regia mi era stata sconsigliata da tutti, oggi invece è vincente». Il cineasta lombardo aggiunge: «Questo esito Luca lo merita ampiamente. Ha dato l'anima per Tolo tolo, sul set lo chiamavo “precisetto”, voleva ogni scena perfetta come l’aveva in mente lui». Zalone si conferma Re Mida del cinema italiano: ha registrato incassi record anche nei primi quattro film, tutti diretti da Gennaro Nunziante: Cado dalle nubi (2009) 14 milioni 84mila euro; Che bella giornata (2011) 43 milioni 475mila; Sole a catinelle (2013) 51 milioni 948mila; Quo vado? 65 milioni 365mila. Nel cast di Tolo tolo tanti attori pugliesi, e tra loro Nicola Di Bari. Il cantante di Zapponeta (Foggia), all’anagrafe Michele Scommegna, 79 anni, interpreta simpaticamente uno zio cardiopatico di Zalone che tribola, rischiando la vita, a ogni notizia che rimbalza dall’Africa sulla sorte del «vagabondo» nipote. E la omonima canzone di Di Bari fa parte della colonna sonora. Nel film recita la figlia Arianna Scommegna. Lo raggiungiamo al telefono nella casa milanese.

Maestro, come è nata la collaborazione con Luca Medici?

«Mi ha contattato dichiarandosi mio ammiratore. È venuto a Milano e mi ha chiesto di partecipare al suo prossimo film. Ho accettato con entusiasmo. In un secondo momento, con tutto lo staff, compreso Valsecchi, siamo stati in un ristorante di Milano, gustando pesce pugliese».

Le è piaciuto il film?

«Moltissimo. L’ho visto in anteprima a Roma, al cinema Adriano. Poi sono dovuto partire subito in treno per Milano. Ieri gli ho mandato un bellissimo messaggio».

Che cosa gli ha scritto?

«Complimenti perché da solo alla regia hai creato un’opera d’arte, trattando temi umani di altissimo valore». Lui mi ha risposto: Tu fai i complimenti a me, e gli Scommegna dove li metti?».

Com’era Luca Medici sul set?

«Abbiamo trascorso insieme due settimane tra Altamura, Gravina e Spinazzola. Direi molto attento e professionale. È un ragazzo molto intelligente, colto e preparato. Un genietto della nostra Puglia, capace di tirare fuori valori altissimi facendo ridere».

Qual è la sua posizione sui migranti?

«Sono nostri fratelli, dobbiamo trattarli con tanta umanità e sperare che l’Europa apra gli occhi e li aiuti concretamente. Non ha senso parlare di porti chiusi. Se scappano dal luogo dove sono nati, un motivo ci sarà. Noi italiani siamo stati i primi migranti nel mondo. E io stesso negli anni ‘60 ho lasciato la Puglia per trasferirmi a Milano. All’inizio non fu facile». Nicola Di Bari ha vinto due Festival di Sanremo e una edizione di Canzonissima. Tuttora tiene concerti in tutto il mondo: sarà a Miami il 14 febbraio.

Carlo Piano per “la Verità” il 20 gennaio 2020. Michele Scommegna, alias Nicola Di Bari, in onore del santo patrono del capoluogo pugliese. Non se ne sentiva parlare da un pezzo. Due volte trionfatore a Sanremo e autore di canzoni passate alla storia, come La prima cosa bella, adesso è tornato. Interpreta la parte dello zio di Checco Zalone in Tolo tolo, il film sui migranti che sta facendo faville. Siede davanti a noi: cappello a larghe falde, occhiali scuri, foulard al collo e la voce cavernosa che lo ha consacrato.

Maestro, a quasi 80 anni di nuovo sulla breccia?

«Dica, lei mi sta intervistando per La Verità?».

«È un segno del destino».

Perché?

«Il mio ultimo disco s' intitola La mia verità e se le mie canzoni sono riuscite a resistere nel tempo è perché si basano sulla verità. Raccontano emozioni che ho vissuto e messo in musica, non ho inventato nulla. Sa, il pubblico se ne accorge se non sei sincero. Per esempio La prima cosa bella l' ho composta quando è nata la mia prima figlia».

È la sua canzone preferita?

«Sì, anche se può essere banale. Quella notte ero a letto con mia moglie Agnese ed era appena nata Ketty: ho preso la chitarra e mi sono messo a strimpellare, intanto Agnese scriveva delle frasi per ringraziare la bambina che ci aveva cambiato la vita. In seguito Mogol la cesellò, ma l'abbiamo buttata giù in cinque minuti».

Vinse a Sanremo?

«Non quella volta, nel 1970 mi piazzai secondo ma La prima cosa bella fece il giro del mondo. Vendette milioni di dischi mentre Chi non lavora non fa l'amore di Adriano Celentano arrivò prima ma ottenne meno successo. Diciamo che in quell' edizione sono stato il vincitore morale».

Però poi ha vinto davvero.

«Due volte di seguito: nel 1971 con Il cuore è uno zingaro e nel 1972 con I giorni dell'arcobaleno».

Come è cambiato il Festival?

«Prima avevano preminenza il brano e l'artista, oggi è un grande show televisivo affascinante, ma è tutto un altro Sanremo rispetto a quello dei miei tempi. Comunque a me e Agnese piace anche così. Come diceva Pippo Baudo: Sanremo è sempre Sanremo».

Ci tornerebbe all' Ariston?

«Ci ho provato per un po' di anni e mi hanno sempre bocciato. Quindi mi sono detto che basta così, lasciamo spazio ai giovani».

Cosa pensa dell'ultimo vincitore, Mahmood?

«Rispecchia una società che è cambiata».

Le piace il rap?

«Purtroppo non c' è musica, però ci sono dei messaggi. I testi di questi ragazzi fanno riflettere, anche se parlano e non cantano. Ogni generazione ha il diritto di avere il suo gusto musicale».

Ha sentito della polemica su Rita Pavone «sovranista»?

«Bisogna solo avere rispetto per un' icona della musica leggera come la Pavone, non aggiungo altro».

Parliamo di Tolo tolo: come è nata la sua partecipazione?

«Checco ha telefonato dicendo che era mio ammiratore fin da bambino. Non lo conoscevo, però avevo visto i suoi bei film precedenti. Quando l' ho incontrato mi sono reso conto che si riconosceva da sempre nella mia canzone Vagabondo, perché è un sognatore, uno che come un nomade gira in libertà il mondo. Valori che io cantavo negli anni Settanta».

E come l' ha convinta?

«Da Bari è salito a Milano per propormi di recitare la parte del parente pugliese, il suo zio cardiopatico. Un personaggio che tribola, rischiando la morte, a ogni notizia che rimbalza dall' Africa sulla sorte del nipote. Mi sono sentito onorato, siamo andati a mangiare in un ristorante pugliese di pesce e gli ho detto subito di sì».

Com'è Checco?

«Non è un'artista qualsiasi, è un ragazzo colto e un geniaccio, sa fare comicità trattando temi umani di altissimo livello. Secondo me è l'erede di Roberto Benigni e di Massimo Troisi».

In Tolo tolo ha un ruolo anche sua figlia terzogenita.

«Arianna è un' attrice di teatro e sta portando per l' Italia Misery, tratto dal libro di Stephen King. Penso che Checco l' avesse notata quando era andata al Petruzzelli e così l' ha voluta in Tolo tolo».

Lei non è un novellino, di esperienze cinematografiche ne aveva già avute.

«Negli anni Settanta, Carlo Lizzani mi chiamò per Torino nera, storia impegnata che raccontava di un errore giudiziario. Io facevo l'avvocato che cercava le prove dell'innocenza di Bud Spencer».

Ha mai pensato di fare cinema sul serio?

«Non sono mai stato e mai sarò un attore. Però noi cantanti quando saliamo sul palco recitiamo e siamo per forza un po' attori. Sennò in certe situazioni non te la cavi».

Com'era Checco sul set?

«Abbiamo trascorso insieme due settimane tra Altamura, Gravina e Spinazzola. È un ragazzo molto intelligente, attento, colto e preparato. Secondo me il successo se l' è proprio meritato».

Si aspettava un simile successo?

«Di Tolo tolo sì, ma non mio personale. È stata una manna dal cielo, non credevo che voi giornalisti sareste tornati a occuparvi di me, che alla fine faccio una piccola parte e non sono neppure un granché».

Non si butti giù.

«Come cantautore ho contribuito a un pezzetto della storia della musica italiana, questo sì. Ma recitare nei film è un' altra cosa».

Non la pensa così il pubblico e anche Checco le ha fatto i complimenti.

«Mi ha sorpreso e mi ha fatto un gran piacere».

Ha apprezzato il film?

«Moltissimo, un' opera d' arte. L' ho visto in anteprima al cinema Adriano di Roma: si ride e si pensa».

Cosa dice Zalone del risultato al botteghino?

«Non lo poteva prevedere neppure lui, è al settimo cielo. Questo film parla del sogno dell'umanità, tratta di problemi che ci riguardano da vicino anche se lo fa in modo ironico e leggero».

È questo il segreto?

«La capacità di tirare fuori valori altissimi facendo ridere. Gli italiani lo adorano perché c'è della verità, sempre questa parola che da sempre mi accompagna lungo il cammino».

Cosa pensa del tema del film, il fenomeno delle migrazioni?

«Se scappano da dove sono nati, un motivo ci sarà. Noi italiani siamo stati i primi migranti nel mondo e non dobbiamo dimenticarlo. Mi metto nei loro panni, sono nostri fratelli in fuga dalla fame e dalla guerra, dobbiamo aiutarli e accoglierli, però».

Però?

«Bisognerebbe controllare e registrare chi sbarca in Italia, perché tra tante persone oneste arrivano anche dei delinquenti».

Lei è per i porti chiusi?

«Non ha senso parlare di porti chiusi, io sono per tenerli aperti ma anche per un'immigrazione controllata. E poi c'è un altro grosso problema».

Quale maestro?

«L' Europa deve aprire gli occhi e darsi una regolata, non può pretendere che l' Italia affronti da sola l' ondata delle migrazioni».

Ma esiste l' Unione europea?

«Purtroppo finora l'Europa non c' è stata e probabilmente, io che ho una certa età, non riuscirò mai a vederla. Mi auguro di sì con tutto il cuore, ma è difficile perché siamo un vecchio continente in cui ogni Paese ha la sua cultura millenaria e interessi che non coincidono con quelli degli altri. E allora come facciamo a stare assieme?».

Anche lei è stato un migrante.

«Negli anni Sessanta ho lasciato la Puglia per trasferirmi a Milano. All' inizio fu parecchio dura e mi arrangiai lavorando come muratore e carpentiere. Fortunatamente il successo arrivò quando registrai il mio primo 45 giri e questa voce piena di sale e di sabbia conquistò il pubblico».

Torna mai nella sua Puglia?

«Non mi faccia più questa domanda, non potrei farne a meno. Vado ogni anno a Zapponeta, il Gargano è splendido e poi per ricaricare le batterie devo tornare alle origini».

Scrive ancora canzoni?

«A metà febbraio parto per il Sudamerica a promuovere l'album La mia verità, laggiù sono molto amato da almeno mezzo secolo».

Sua moglie Agnese dice che sta lavorando a un nuovo pezzo.

«Farebbe meglio a tacere, Agnese, anche se ne sono innamorato da sempre, porta male parlarne finché non è terminato. Comunque sì, è vero, ma c' è ancora parecchio da fare».

Qual è la prima cosa bella del 2020?

«Che la gente vuole cambiare e chiede che l'Italia abbia il posto che merita nel mondo. Abbiamo fatto la storia dell' arte e della cultura e adesso siamo l' ultima ruota del carro, ridotti in una situazione economica e sociale inconcepibile. In questo 2020 gli italiani esigono risposte dai politici, che siano di destra o sinistra».

Ha un sogno nel cassetto?

«L'unico mio sogno lo sto vivendo. Desidero stare accanto a mia moglie, ai miei quattro figli e ai nipotini. Non pretendo altro, la vita mi ha già abbastanza privilegiato».

Ma non le manca il mare a Milano?

«Quello sì e mi piacerebbe tornare a vivere sull' Adriatico, dove sono nato. Ma so anche che resterà un' utopia, perché preferisco avere vicino la mia numerosa famiglia. Comunque sa una cosa?».

Dica, maestro.

«È sempre bello sognare, anche alla mia età».

·        Nicola Savino.

Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 3 febbraio 2020. In queste agitatissime settimane di vigilia sanremese anche Nicola Savino, 52 anni, non si è fatto mancare niente e si è messo - come Amadeus - nei guai (si fa per dire). Da conduttore dell' Altro Festival - in pratica il vecchio Dopofestival che quest' anno si vedrà solo su RaiPlay, e quindi solo sul web - pochi giorni fa è stato attaccato da Elisabetta Gregoraci, 40, che sul suo profilo Instagram ha scritto: «Savino mi ha esclusa all' ultimo momento dalla co-conduzione del programma perché sono l' ex moglie di un uomo (Flavio Briatore, ndr) di destra». Guarito dall' influenza che l' ha messo fuori gioco quasi una settimana, Savino - a poche ore dalla partenza per Sanremo - risponde al telefono di casa per dire finalmente la sua.

Com' è andata con Elisabetta Gregoraci?

«In maniera semplicissima. Non ho mai pensato a lei e nessuno, né il direttore artistico né il direttore di rete, mi ha mai parlato di lei. A novembre Amadeus mi ha chiesto di fare l' Altro Festival, e io ho subito accettato. Io, lui e Fiorello siamo amici e questo Sanremo per noi, che siamo una specie di Rat Pack milanese (il gruppo di amici di Frank Sinatra negli anni 50 e 60, ndr), rappresenta il trionfo di Via Massena (la via di Radio Deejay a Milano, dove tutti e tre hanno lavorato agli inizi della carriera, ndr)».

E poi?

«Sono andato a Roma per parlare con Elena Capparelli, direttrice di RaiPlay, e costruire con lei il cast. Dopo il boom di Fiorello per il lancio della piattaforma, inarrivabile, abbiamo deciso di fare scelte laterali: Myss Keta opinionista, una giornalista imprevedibile come Fiamma Sanò, il suo collega Tommaso Labate, il direttore d' orchestra Vittorio Cosma, l' enciclopedico Eddy Anselmi, il comico Valerio Lundini e la band I Vazanikki, i Gemelli di Guidonia. Dopo le feste di Natale, però, ho ricevuto la telefonata di un nostro amico, mio e della Gregoraci: Elisabetta pensa che tu ce l' abbia con lei. È sorpresa di non essere più nel cast.... Io per gentilezza l' ho subito chiamata e in mezz' ora le ho raccontato che non c' era mai stata in questo progetto. Tutto qui».

E lei, come ha reagito?

«Era mortificata, com' è giusto che fosse».

E la storia di Briatore, il suo ex marito di destra, com' è venuta fuori?

«Non lo so. Nella mia telefonata la parola destra non è mai stata pronunciata. A me parlare di destra e sinistra nel 2020 sembra roba preistorica».

Briatore commentando il post della sua ex le ha dato del «Cogline arrogante».

«Ha offeso l' ortografia, non me».

Gregoraci è un personaggio poco digitale secondo lei?

«Ha tanti follower, quindi lo è. Non ho niente contro di lei, magari in futuro lavoreremo insieme, ma in questa storia non c' entro. Idem Amadeus ed Elena Capparelli. Di sicuro c' è qualcuno che ha preso in giro lei e me».

Chi?

«Non lo so».

Lucio Presta, l' agente di Amadeus, e Flavio Briatore sono amici - sono stati spesso fotografati insieme in Kenya - cosa può essere successo?

«Giuro, non ne ho idea. Non mi interessa, e temo che Elisabetta molto probabilmente commenterà anche queste mie parole. E pensare che a me è successo tante volte di non fare programmi sicuri. Il nostro lavoro è fatto così».

Quest' anno intorno a Sanremo sta succedendo di tutto.

«Amadeus ha fatto complimenti ad alcune belle ragazze e ha preso dei rapper, che sono da sempre sbruffoni e iperbolici, proprio come tante rockstar del passato. Il resto sono chiacchiere».

Non proprio. Le battute maldestre e l' autospoiler di Amadeus che ha rivelato i nomi dei cantanti in gara una settimana prima della serata di Rai1 del 6 gennaio hanno creato un polverone. Da collega, Amadeus di quanto ha superato il livello accettabile di errori?

«Per me non ha sbagliato una mossa. L' accanimento contro di lui è assurdo. Il cast è ottimo: Roberto Benigni, Fiorello, Tiziano Ferro, il ritorno dei Ricchi e Poveri... La storia del passo indietro è ridicola».

A sua moglie ha mai chiesto di fare un passo indietro?

«Mai. Aspetti che chiedo a lei. Manu, ti ho mai chiesto di fare un passo indietro?

 Lei: Sì, sempre. Vabbè... Lavoriamo tutti e due e ci siamo sempre organizzati. Non le ho mai chiesto di rinunciare a qualcosa».

L' idea forte dell' Altro Festival qual è?

«Innanzitutto è la prima volta che va solo sul web e non abbiamo la preoccupazione dell' Auditel. Siamo più rilassati e liberi. Io partirò dall' Ariston alla fine della serata e raggiungerò lo studio, una specie di club all' americana, al Palafiori. Stiamo cercando di organizzare duetti improbabili con tutti i cantanti. E poi ci sarà Fiorello e qualche rappresentante dei new media, che spesso quando vanno in tv non risultano così efficaci come sul web, quindi li metteremo a loro agio. Insomma, vorrei raccontare il Festival e un po' il Paese».

Che Paese le sembra con le canzoni di quest' anno?

«Vitale. C' è di tutto. Sei-sette canzoni belle e moderne ci sono. È un Sanremo pop. E quando partiranno i brani tutte le polemiche, che in fondo fanno una pubblicità pazzesca alla rassegna, svaniranno».

Dopo Amadeus il Festival potrebbe toccare a lei: pronto?

«Vedendo tutto quello che succede anche questo potrebbe diventare uno di quei lavori che gli italiani non vogliono più fare».

La battuta è ottima. Pronto o no?

«Chi fa il mio lavoro sogna da sempre Sanremo. Il prossimo anno, però, non potrei. Ho un contratto di esclusiva con Mediaset fino al 2021. Il 25 febbraio riparto con Le Iene. E poi Amadeus lo guiderà a lungo».

Come lo farebbe?

«Una mezza idea ce l' ho: di sicuro non farei il direttore artistico.

Preferisco vivere. Troppe rogne».

Chi vince?

«Non mi posso sbilanciare. A me piace quella di Bugo e Morgan. È la più vicina al mondo dell' Altro Festival. Ma arriverà ultima».

·        Nicole Grimaudo.

Dagospia il 4 marzo 2020. Da I Lunatici Radio2.  Nicole Grimaudo è intervenuta ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei. L'attrice ha parlato un po di se: "Da bambino ero grassottella. Introversa. Facevo le classiche attività sempre con grande sforzo. Mi piaceva rimanere nella mia stanza, a casa, a guardare film. Ero timida e riservata, molto selettiva nelle amicizie. Molto legata alla figura di mia madre. Ogni tanto avevo slanci di follia. Ero particolare". Sulla sua carriera: "La mia grande occasione è stata Gabriele Lavia. Quello che mi ha preso dal nulla dandomi una fiducia importante. Fu un momento magico, non avevo mai calcato un palcoscenico, mi mossi su quel palco con una disinvoltura che non immaginavo di possedere". Su Non è la Rai: "Fu spensieratezza. Avevo 14 anni, fu una esperienza vissuta con grande leggerezza e grande stupore. Non è la Rai mieteva vittime, arrivavamo al Palatino e c'era l'invasione di gente. Quel programma mi ha fatto capire cosa significasse davvero passare dall'anonimato al successo dal giorno alla notte. Un ragazzo si tatuò il mio nome in testa, io rimasi scioccati. A 14 anni una cosa del genere rischia di farti impazzire, io sono stata fortunata perché la mia famiglia mi ha fatto da scudo in modo molto intelligente. L'ho sempre vissuta con grande sorriso sulle labbra, convinta che da lì a poco sarei tornata in Sicilia". Sul set, con Favino, di 'Bartali l'intramontabile': "Favino aveva fatto meno cose rispetto ad oggi ma la sua potenza e la sua professionalità arrivava tutta. Era una goduria interagire con lui, come tutti i grandi attori ascolta, interloquisce, si emoziona veramente". Sul rapporto con la bellezza: "Io credo di essere interessante, ma non credo di essere una di quelle bellezze clamorose. Ho tanti bei piccoli difetti che non cambierei, non penso di portare in giro questa grande bellezza. Sono interessante ma poco perfetta. Vado d'accordo col mio aspetto. Mi piace la mia faccia, mi piacciono le mie rughe ora che cresco. Spero che questo possa portare anche a dei ruoli da adulta, quale sono, visto che tra un mese farò quarant'anni". Sulla condizione delle donne: "Il #metoo? Movimento necessario. L'importante è partire, avere una missione da portare a termine. Che si siano mosse le acque è un gran bene. Le donne? Quello che si legge a volte è devastante. Bisogna placare la violenza, far cessare gli abusi. Spero che le donne ogni giorno trovino il coraggio di dire no, di denunciare, di volersi bene. Noi donne vogliamo tanto bene, ma ce ne vogliamo poco, certe volte".

·        Nicoletta Mantovani.

Antonella Rossi per "vanityfair.it" il 21 settembre 2020. Nicoletta Mantovani si è risposata. La vedova di Luciano Pavarotti, scomparso nel 2007, ha detto sì ad Alberto Tinarelli, 52enne consulente per una società di servizi finanziari. La cerimonia a Bologna, dove entrambi vivono da sempre, nella basilica di Sant’Antonio da Padova, l’Antoniano per tutti. Nicoletta, che per sposare il tenore, nel 2003, aveva scelto un abito rosa cipria, questa volta ha optato per un tenue azzurro polvere, capelli sciolti sulle spalle, e un bouquet bianco dono del futuro marito, che l’ha aspettata davanti alla chiesa e che poi l’ha presa per mano fino all’altare.

Un sì annunciato, dopo una breve frequentazione. Nicoletta e Alberto, infatti, si sono conosciuti di recente, nove mesi fa, complice la comune amica Grazia Verasani, come ha riportato Il Resto del Carlino. A farli innamorare, una cena sui colli bolognesi, un vero e proprio colpo di fulmine. «Non avevamo motivo di sposarci, se non per una voglia matta di farlo. Abbiamo deciso di farlo in chiesa, perché per me, da credente era importante dichiarare il nostro amore davanti al Signore. Lo faremo a Bologna in settembre, in una chiesa speciale per me, piena di significato», aveva annunciato la Mantovani in un’intervista a Chi.

Non ha dimenticato il primo marito: «Rimarrà sempre una persona importante della mia vita e continuerò a seguirne la memoria, come merita un grande artista come lui. Ma come mi ricordava sempre Luciano, la vita va vissuta in ogni istante al massimo, cercando sempre di avere il sorriso, e Alberto mi fa rivivere una grande gioia. Il nostro è un amore profondo, una vera magia». A festeggiare il loro giorno più bello, tanti amici, anche famosi, da Nek a Giovanni Caccamo, e i rispettivi parenti. Invitata speciale, Alice, la figlia che Nicoletta ha avuto da Pavarotti, e che oggi ha 17 anni. Un nuovo capitolo ha inizio, ma quello che è stato resta.

Nicoletta Mantovani: «Pavarotti, quando mi ammalai, fu grandissimo». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Valerio Cappelli. La vedova del grande tenore: «Quando scoprii che avevo la sclerosi multipla mi disse: fin qui ti ho amato. D’ora in poi ti adorerò. E che la malattia era un’opportunità per migliorarsi.»

Ricorda quella volta in cui, durante una cena a Parigi, mi disse: il maestro ha risposto che l’artista è lui, ed è lui a dare le interviste?

Nicoletta Mantovani sorride con una goccia di malizia, e la timidezza che non l’ha mai abbandonata del tutto: «Sì! Stavamo già insieme da un bel po’. Non potevo dirle altro, la nostra era solo prudenza». Passarono pochi giorni e sulla copertina di Oggi apparve la foto rubata di Luciano Pavarotti e Nicoletta Mantovani che si baciavano alle Barbados. Lo scandalo, la reazione di Adua, la prima moglie: «Luciano, stai oltrepassando il punto di non ritorno». Quel momento drammatico nella vita del tenore si ritrova nel bel documentario-ritratto di Ron Howard intitolato Pavarotti che proiettato alla Festa del cinema di Roma nello scorso ottobre. Nicoletta quella sera a cena ci aveva raccontato di come era stata ribaltata la sua vita, da studentessa a segretaria del tenore del secolo, dagli esami universitari ai viaggi in tutto il mondo, mentre lui cantava nei teatri, nei parchi, negli stadi. Le chiedemmo, invano, di raccontare quello straordinario cambio di vita. A novembre Nicoletta ha compiuto 50 anni. Nel suo sguardo c’è una rassegnata serenità, qualcosa che è stato e non sarà più, il sapore di quindici anni irripetibili. Ci accoglie nella casa museo alle porte di Modena che fu il loro nido d’amore. La prima stanza è quella di Alice, la loro figlia che tra due giorni compie 17 anni. C’è ancora il cavallo a dondolo che lui le portò da Mosca. «Gli abbracci di Luciano mi proteggevano. Il suo sorriso coinvolgente mi davano serenità, gioia, forza. Nostra figlia Alice ha lo stesso sguardo del padre».

Che ragazza è, Alice?

«Determinata, tosta, difende diritti importanti, le piace informarsi, fa il classico. Non sa cosa farà da grande. Non lavorerà in campo artistico. Forse sarà giudice o si darà alla politica. Ha preso il senso di giustizia del padre. Aveva 4 anni quando Luciano venne a mancare. Di lui, ricorda quando vedevano alla tv i cartoni di Nemo, o quando dipingevano insieme».

In che rapporti è con le tre figlie che Pavarotti ebbe dal primo matrimonio?

«La rottura con loro non c’è mai stata. Da quando Cristina ha avuto Caterina, che ha la stessa età di Alice, ci capita di fare le vacanze insieme. Amiche con loro tre è una parola grossa ma ci vediamo regolarmente, una o due volte al mese. I filmati e i ricordi per il documentario di Ron Howard le abbiamo date tutte noi, l’archivio e la Fondazione che porta il nome di Luciano».

Adua, la donna che lo accompagnò fin dai suoi primi successi giovanili, intervistata da Howard dice: «Mi parlavano di tradimenti e non volli mai credervi, quando avevo dei sospetti Luciano mi giurava che non era vero niente. Capii dopo che diceva il falso». «Ron Howard, che ha fatto un lavoro straordinario con lo sguardo di chi non era appassionato d’opera, ha dato la possibilità a tutti quelli che hanno amato Luciano di parlare. Con Adua non ho rapporti, ci siamo incontrate una sola volta a un funerale. C’è una vecchia intervista in cui Luciano dice: “Soffrivo anch’io, mia moglie di più. Ma mi ero innamorato”. Il filmato esce in tutto il mondo, in Usa ha incassato quasi 7 milioni che è una cifra enorme per un documentario, ed è stato il secondo più visto degli ultimi cinque anni dopo quello su Amy Winehouse».

Come vi eravate conosciuti?

«Avevo 23 anni, lui 34 in più. Ero una studentessa bolognese di Scienze naturali in cerca di un lavoro estivo. Mi presentai al colloquio, proprio qui accanto, nella scuderia che oggi non c’è più, e mi imbattei in lui. Che non doveva esserci, naturalmente non partecipava a quelle riunioni. Ero imbarazzatissima. Lui mi scrutava, io zitta. Presi coraggio e gli chiesi: le piacciono i cavalli? E lui: la prossima domanda è se mi piace cantare? Fui assunta. Luciano entrava in ufficio tutti i giorni, le sue collaboratrici non capivano». Dopo sei mesi, una notizia traumatica.

«Eravamo a Los Angeles, dal bacino in giù non sentivo più niente. Non sapevo nemmeno cosa fosse la sclerosi multipla. Luciano mi disse: fin qui ti ho amato. D’ora in poi ti adorerò. Decidemmo di non dire niente a nessuno salvo (anni dopo) a Rita Levi Montalcini, incontrata in un’occasione pubblica. Luciano fu straordinario nel rincuorarmi».

Cosa le diceva?

«Mi raccontava della guerra, durante i bombardamenti in casa si mettevano in circolo e cantavano tutti assieme cercando di superare il rumore delle bombe. Poi mi diceva di non guardare la sclerosi come qualcosa di negativo, era un’opportunità per migliorarsi. Ho capito che era una parte di me, l’avrei avuta per sempre, dovevo imparare a conviverci».

Quali cure fece?

«Tradizionali, all’inizio. Venticinque anni fa ci si curava con il cortisone, poi sono passata all’interferone con effetti collaterali pesanti. Per puro caso incontrai il professore Zamboni, chirurgo vascolare: scoprì che molti suoi pazienti avevano tratti in comune con i malati di sclerosi. È ancora sotto sperimentazione, ma ha avuto riconoscimenti scientifici».

Il momento più bello e quello più doloroso fra lei e Pavarotti?« Quando mi laureai era in tournée a Tokyo. Prese un volo e mi raggiunse a Bologna, stavo festeggiando con i parenti. La mattina dopo ritornò in Giappone. Dolori, ne abbiamo avuti tanti, i gemellini...Riccardo è nato morto. Artisticamente era sempre positivo, lui cantava per passione, aveva una forma di devozione per l’opera».

Chi considerava suo rivale, Domingo?

«Nessuno, ascoltava gli altri per imparare ma si sentiva in competizione con se stesso. Sognava di duettare con Mina, avevano in progetto un Magnificat scritto appositamente da Marco Frisina, ma saltò. Io volevo farlo cantare con Vasco, che è un mio idolo. Ma a Vasco non piacciono i duetti».

È stata lei a lanciare il cross over con i concerti Pavarotti & Friends in tv?

«No, erano già nati. Ma è vero che mi adoperai per farlo duettare con i miei cantanti preferiti, come Bono degli U2. Luciano si presentò a lui senza preavviso gli disse: Dio ti metterà una canzone nel tuo cuore per me. Bono sorrise, un po’ incredulo. Poi scrisse Miss Sarajevo. Luciano era semplice sulla beneficenza di quell’avvenimento: se insegni amore non ci sono guerre. Era davvero Nemorino dell’Elisir d’amore, l’innocente che ha fiducia nel prossimo. In questa casa predomina il giallo. Amava il sole, la luce, voleva esserne inondato appena fosse giorno, fece costruire il lucernaio».

Ha partecipato alla ristrutturazione?

«No, voleva fare tutto lui. Impiegò dieci anni, diede indicazioni e disegni agli architetti».

Se un arredamento non le piaceva?

«Eh, me la facevo andar bene. È rimasto tutto com’era, la sua presenza è fortissima, a volte mi sembra che possa spuntare da un momento all’altro. In cucina, il suo regno, c’è due di tutto, due lavelli, due lavastoviglie…».In mezzo a tutti questi ricordi, sembra più di un grande artista con il frac, il sorriso aperto a una ruspante, generosa bonomia emiliana, il fazzoletto in mano e le braccia aperte che sembra abbracciare il mondo.

«Ma sa, per la Decca ha venduto 90 milioni di dischi, fu premiato alla Casa Bianca da Kofi Annan, ci sono lettere di Frank Sinatra che gli disse, dopo un loro duetto, che My Way era diventata Our Way. Qui c’è la celebre foto ingrandita al Columbus Day di New York. Voleva sfilare a cavallo, gli dissero che non c’erano precedenti e dunque non era possibile. Ci ripensarono. Ma c’è un episodio che non si conosce. La vede quella macchia scura sotto il camicione con i colori della bandiera americana? È un giubbotto anti proiettile. Luciano due giorni prima aveva ricevuto una lettera anonima: nel momento in cui avrebbe abbracciato il presidente Jimmy Carter, un cecchino avrebbe sparato. Lui andò, ma mi confessò di avere avuto un brivido in quel momento». Nel filmato gli chiede come avrebbe voluto essere ricordato.

«Era un filmino amatoriale. Come artista, il fatto di aver portato la lirica alle masse. Come uomo, aveva il rimpianto di non aver potuto essere il padre che avrebbe voluto essere».

Se ripensa a quei 15 anni?

«È un misto di sentimenti, la malinconia certo... Non è semplice andare avanti portandosi dentro tutto». Dopo Luciano…«Ho avuto una relazione importante di 7 anni con un uomo che gestisce teatri. Non abbiamo resistito alla crisi del settimo anno. La vita va avanti e Luciano avrebbe voluto questo, che continuassi a vivere. Sarà sempre nel mio cuore, è stato tutto, il mio compagno di vita, il mio maestro, il padre di mia figlia. Non poteva augurarmi che di sorridere alla vita».

·        Nicolò De Devitiis.

Paolo Giordano per ilgiornale.it il 31 agosto 2020. Ama la musica ma ha iniziato come «bike blogger». Si è laureato in Economia e in Marketing ma studia sempre da Iena. In poche parole, Nicolò De Devitiis, romano 30 anni, è il prototipo del nuovo personaggio tv, trasversale e multigenerazionale, non vincolato a un solo stile ma capace di mescolarli e adattarsi senza prendersi troppo sul serio. «Cerco di essere sempre lo stesso sia a camera accesa che spenta», spiega dopo aver condotto tutte le giornate del Giffoni Film Festival. In quella faccia da furbetto si vedono idee chiare. Nel metodo di preparazione, c'è una professionalità mica facile da trovare in giro anche perché provate a stargli dietro con tutte le cose che fa. Si è rotto due vertebre facendo la Iena ma conduce anche lo storico Storytellers (VH1, Mtv) e, tra un programma con Diletta Leotta e una diretta Instagram (dove, tra l'altro, ha un pacchetto da 266mila followers) ha guidato Dance Dance Dance 2 con Andrea Delogu. Ma tutto nasce dalla musica «che è da sempre una parte di me».

Mica vero, tutto nasce dal bike blogger...

«Massì, ero all'università e stava nascendo il fenomeno dei fashion blogger con gente improbabile che si improvvisava esperta di moda. Per prendere in giro una mia compagna, mi inventai bike blogger».

E poi?

«Facevo il commesso in un negozio di abbigliamento a Roma in zona Prati per pagarmi gli studi e nel negozio una volta entra l'attore e conduttore tv Paolo Calabresi, al quale avevo già mandato tanti messaggi su Facebook. Mi faccio coraggio, gli riparlo del bike blogger e lui con un'aria del tipo sì si, mo' basta mi ha dato l'email di Davide Parenti delle Iene. Gli scrivo, vado a Milano e lui mi dice va bene, dai proviamo. Allora mi sono trasferito a Milano senza spiegare il motivo ai miei genitori».

«Sai che figuraccia se fosse finito tutto nel nulla?».

E poi?

«Lo hanno scoperto quando è stato mandato in onda il mio primo servizio per le Iene, dicembre 2014. Mia mamma mi ha chiamato in lacrime».

Le Iene ripartono il 6 ottobre.

«Sarà un'edizione particolare. Noi viviamo di appostamenti e al 90% facciamo parlare gente che non vuole parlare. Non puoi certo dargli l'appuntamento per una videointervista su Zoom... Stiamo capendo come adattarci a questa realtà».

Nel frattempo torna a fare una versione rivista del «bike blogger».

«Ieri ho iniziato a registrare On the road again con Guido Meda. Le prime due puntate andranno su Sky Sport e Sky MotoGp prima del 13 settembre. Le altre due puntate prima del 20 settembre. Il programma è un racconto di avvicinamento alle gare della Moto Gp. Guido incontra i vip della zona mentre io scopro le caratteristiche culinarie e culturali del territorio».

Sempre in movimento, eppure il suo nome sui social è il sedentario «Divanoletto».

«Beh è un oggetto versatile. All'inizio di Instagram non ci si iscriveva con il nome ma con il nickname. Ho scelto quello e l'ho conservato».

La sua playlist su Spotify è molto seguita.

«In realtà il mio obiettivo è mixare la tv con la musica».

Magari la vedremo a Sanremo.

«Di certo per ora lo vedo da casa. Il Festival è cambiato tantissimo in poco tempo e lo conferma, ad esempio, il successo di Achille Lauro. Non è più il programma per un pubblico avanti con l'età. Io a 20 anni non lo vedevo. Mia sorella che ne ha 20 ora lo vede».

Come è stato condurre il Giffoni?

«Favoloso. I ragazzi del Giffoni smentiscono i luoghi comuni sui giovani».

Lei ha anche fatto Open Space con Nadia Toffa.

«In tre mesi con lei ho imparato molto. Era come si vedeva in tv. Ma i ricordi personali preferirei tenerli per me».

·        Niko Pandetta.

Annullato concerto di Niko Pandetta, il cantante si ribella: “Basta associarmi alla mafia, salirò comunque sul palco”. Redazione su Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Niko Pandetta, cantante neomelodico catanese si sarebbe dovuto esibire in un locale di Bollate, vicino Milano. Ma l’amministrazione comunale si è messa di traverso e ha convinto i gestori del locale ad impedire il concerto. La sua colpa? Essere il nipote di Salvatore Cappello, detenuto da 20 anni al 41 bis . “Non è giusto continuare a ghettizzarmi per il mio passato criminale. Ho chiuso con quella vita e ho scelto la via della musica neomelodica per riscattarmi e fare qualcosa di buono anche per gli altri. Ad esempio questa sera avremmo raccolto dei soldi per il mio fan Fausto Azzaro che vive a Vigevano e ha bisogno di una sedia a rotelle per giocare a hockey”, ha detto. Il cantante non ci sta ad essere ancora una volta associato alla malavita e ha denunciato la vicenda durante una conferenza presso una cooperativa di Busto Arsizio che si occupa di disagio giovanile e reinserimento di ex-detenuti. Lui, catene d’oro al collo, corpo coperto di tatuaggi e vistosi occhiali da sole ha voluto dire basta a questa discriminazione perenne di cui è vittima e ha annunciato che salirà comunque su un palco di un altro locale della zona. La vicenda – Quando l’amministrazione di Bollate ha saputo che il neomelodico catanese sarebbe arrivato in città ha cominciato una fitta attività di persuasione nei confronti dei gestori del locale affinchè rinunciassero al concerto. “Niko Pandetta, tristemente conosciuto per le sue inaccettabili esternazioni sulla Mafia, dedicando canzoni ai ‘poveri’ detenuti sottoposti al regime carcerario duro, inneggiato all’omertà e al non essere ‘infami’. Affermazioni inaccettabili e che son ben lontane dallo spirito di legalità, giustizia ed educazione al senso civico e alla cittadinanza attiva che la comunità bollatese promuove”, aveva scritto in una nota l’amministrazione bollatese. L’Amministrazione Comunale bollatese sembrerebbe aver preso di mira in particolare una canzone del catanese dal titolo “Dedicata a te”, canzone per lo zio al 41bis Salvatore Cappello. Così il Comune insieme alla Commissione Legalità, alle associazioni e ad alcuni cittadini in una nota hanno spiegato che le canzoni di Pandetta sarebbero diseducative nei confronti dei “nostri giovani”, “per la profonda convinzione, che chi è stato condannato al 41-bis, il cosiddetto ‘carcere duro’, subisce questa pena perché si è macchiato di crimini gravi ed efferati e, pertanto, non merita dediche o canzoni che li dipingano come eroi o come vittime dello Stato, risultando offensive non solo nei confronti di chi ha perso i propri cari violentemente ma anche verso la responsabilità, l’amore per la giustizia e il sostegno che tutti noi dovremmo dare a chi, quotidianamente, s’impegna anche a caro prezzo per rendere questo Paese migliore”. La reazione – Le performance di Pandetta, milioni di visualizzazioni su Youtube con canzoni d’amore come “Mamacita”, “Natavota” e “Vasame” sono spesso accompagnate da polemiche. Ma il cantante ha precisato che la canzone incriminata lui non la esegue più nei suoi show: “L’ho tolta dalla scaletta. L’ultima volta l’ho eseguita a dicembre e da allora mai più. Le mie canzoni parlano d’amore e di storie di vita di tutti i giorni. Questa è la mia musica e questa è la musica neomelodica”. Pandetta ha sottolineato di aver “trovato nella musica la sua nuova vita e di aver deciso di chiudere con la malavita per amore di mia figlia”. Alle domande dei giornalisti sul suo presunto ‘appoggio’ alla mentalità mafiosa ha risposto spiegando che “la mafia non esiste più perchè è stata sconfitta dallo Stato, oggi è un’altra cosa e quello che so di questa cosa come voi la chiamate, l’ho letto su Google”. “Se la mia musica inneggia alla malavita – ha continuato Pandetta allora cosa bisognerebbe fare con i trapper e i rapper che parlano di violenza, spaccio di droga, uso di droga. Quelli vanno bene anche a Sanremo”.

·        Nina Moric.

Corona ha violato la quarantena? Nina Moric chiama il 112: "Lo ha invitato ma Carlos è asmatico". La showgirl si è scagliata pubblicamente contro l’ex marito perché avrebbe invitato il figlio Carlos Maria a casa sua nonostante sia in quarantena per positività al Covid-19. Novella Toloni, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. È guerra aperta tra Nina Moric e l'ex compagno Fabrizio Corona. Questa volta però le questioni personali non c'entrano. La modella croata ha denunciato l'ex compagno sui social per aver violato la quarantena sanitaria, invitando a casa sua il figlio Carlos Maria. L'ex re dei paparazzi, infatti, è risultato positivo al Covid-19 negli scorsi giorni e avrebbe dovuto rispettare l'isolamento di dieci giorni imposto dalla legge. Secondo quanto raccontato da Nina Moric attraverso il suo account Instagram, però, Corona avrebbe invitato il figlio Carlos Maria nella sua abitazione pur sapendo di essere potenzialmente contagioso per il ragazzo. "Ho appena chiamato il 112 - ha scritto nelle storie del suo profilo social la Moric - perché Fabrizio Corona, positivo al covid, ha invitato Carlos, senza che io ne sapessi nulla e adesso bivaccano facendo Stories su Instagram". Una denuncia pesante che, se trovasse fondato riscontro, potrebbe costare cara a Fabrizio Corona in quanto violazione di un provvedimento dell'autorità sanitaria. L'ex re dei paparazzi, che deve scontare ancora un residuo di pena in regime di detenzione domiciliare, negli scorsi giorni aveva partecipato a una nuova udienza in tribunale. Subito dopo il rientro nella sua abitazione aveva manifestato i primi sintomi influenzali e, in seguito al tampone, era risultato positivo al coronavirus. Fabrizio Corona avrebbe dovuto, dunque, rispettare l'isolamento per dieci giorni in attesa di un nuovo tampone ma, secondo quanto raccontato da Nina Moric, la quarantena sarebbe stata violata. "Fabrizio non rispetta non solo le norme sulla quarantena - ha proseguito la Moric - ma anche la salute di mio figlio e di tutti coloro che con costoro entrano in contatto. La polizia mi ha risposto che non può farci nulla e che ha fatto "i controlli della centrale e di chiamare mio figlio per farlo a tornare a casa" ma cosa vuol dire??? È follia pura. È per uomini come Corona che il virus si diffonde seminando anche la morte e purtroppo anche dall'errata e incoerente applicazione della legge. Siamo tutti a rischio". A preoccupare maggiormente la modella croata, che nei giorni scorsi aveva denunciato Corona per minacce, è la salute e l'incolumità del figlio. La donna ha spiegato, infatti, che il ragazzo soffre di problemi respiratori: "Un figlio di 18 anni può anche avere l'incoscienza di fare certe cose, ma per un padre di quasi 50 è inammissibile perché sa benissimo che Carlo è un soggetto che rischia essendo asmatico".

Da liberoquotidiano.it il 21 ottobre 2020. "Mio padre non ha il coronavirus. E' tutto strumentalizzato per andare contro mia mamma". In una videochiamata, registrata e pubblicata su Instagram da Nina Moric, Carlos Maria fa una serie di confessioni agghiaccianti. Il post della ex modella è accompagnato da una didascalia: "Carlos Maria mi ha chiamato e ha voluto che questo video sia pubblicato, senza nessuno scopo di lucro ma solo per aiutare mio figlio sulla sofferenza che sta vivendo da 3 mesi senza poter dare la sua voce, finalmente è riuscito lui stesso a dire LA VERITÀ". Nella chiamata, il ragazzo appare un po' confuso: "Devo solo migliorare e andare avanti con la mia vita per fare del bene. Sono sotto cura farmacologica dallo psichiatra". A questo punto, incalzato dalla mamma, Carlos dice che il padre gli darebbe psicofarmaci che non dovrebbe prendere e che l'unico motivo per cui torna da lui è "per pietà". Nina Moric gli chiede, poi, se viene picchiato e il figlio risponde: "Sì certo, ma io combatterò sempre contro di lui, per il suo bene".

Ida Di Grazia per "leggo.it" il 13 Ottobre 2020. Nina Moric pubblica un audio choc: «Minacce da Fabrizio Corona, voglio fracassarti la testa». Anche Carlos teme il padre. È un audio da brividi quello pubblicato nel cuore della notte dalla modella croata che, se verificato, aprirebbe scenari inquietanti sulla sua situazione familiare. Su Instagram Nina Moric ha pubblicato un post a dir poco inquietante: «Arriva un momento quando il silenzio comincia a fare talmente tanto rumore che non riesci più a stare zitto. Ho provato con la giustizia, adesso vi regalo a voi quello che passo tutti i giorni e continuo inoltre a passare per quella malata di mente. Ai posteri l’ardua sentenza». Quello che preoccupa non è la però la parte testuale, ma i due audio contenuti all’interno del post. Nel primo si sente Nina Moric che parla al telefono con uomo che - secondo la tesi della modella - sarebbe Fabrizio Corona. Si sente la Moric dire: «Perché gli hai creato tutti questi traumi? Perché mi dici che sono una puttana davanti a Carlos?». Ed è qui che arriva la risposta choc di quello che sembrerebbe essere Fabrizio Corona: «Io penso che sarei arrivato quasi al limite di venire due giorni fa a prenderti la testa e fracassartela contro un angolo, in modo da ucciderti e non vederti mai più, eliminare il male che hai fatto a questo ragazzo». Il secondo audio è invece sembrerebbe essere tratto dalla conversazione che Nina ha con il figlio Carlos Maria. Le parole di Carlos fanno, se possibile, fanno ancora più paura, perché parlerebbero di minacce subite da parte del padre e dalla sua voglia di scappare da lui: «Vorrei aprirmi con te, io voglio diventare una persona migliore, venire da te e dimenticare questa persona, dimenticare il male». La Moric che ha registrato la conversazione è in lacrime, cerca di far sentire tutta la sua vicinanza al figlio e gli chiede se Corona lo sta minacciando: «In parte sì – risponde Carlos - Io voglio stare con te, è questa la verità. Tu sei una persona che mi può aiutare a essere migliore, più buona, perché purtroppo io stando con il male imparo anche il male». «Carlos - risponde in lacrime la Moric - cancella la chiamata, lui (Corona ndr) ti controlla il telefono». «Lo so mamma, so tutto - risponde -  Non mi interessa la palestra, non mi interessa questo mondo, la televisione. Voglio solo tornare da te. In chiusura Nina Moric  gli fa una promessa «Non sei abbandonato io ci sono io, sono il tuo scudo. Sappi che la mamma non è stupida, ti proteggerà sempre. Piuttosto che lasciarti nelle mani sbagliate io morirei. Devi stare sereno, è solo questione di tempo perchè so che tu stai male». 

Nina Moric contro la suocera: "Si vergogni, non nomini più Carlos". Scontro aperto sui social tra Nina Moric, Luigi Favoloso e sua madre Loredana che continuano a pubblicare commenti e messaggi l'uno contro l'altro, mettendo nel mezzo anche il giovane Carlos. Novella Toloni, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. È guerra aperta tra Nina Moric e il suo ex fidanzato Luigi Favoloso. Dopo la bufera mediatica scatenatasi in seguito alle pesanti accuse di violenze mosse dalla showgirl croata contro l'ex - e smentite con forza da Favoloso a "Live! Non è la D'Urso" - oggi tengono banco alcuni commenti social della suocera, Loredana Favoloso. Questa sera nello show di Barbara d'Urso Luigi si dovrà confrontare con sua madre e forse anche con la sua ex, ma nelle ultime ore la vicenda ha preso una piega inaspettata che ha coinvolto anche il figlio di Nina, Carlos Maria Corona. Che tra Nina e Loredana non corresse buon sangue lo si era capito due settimane fa, quando le due si erano pesantemente accusate nel salotto serale della D'Urso durante le fasi concitate della presunta scomparsa di Favoloso. Tra le due non c'è più stato un confronto diretto ma la diatriba si è spostata sui social network. Nelle corse ore Loredana Favoloso ha commentato un post di Nina Moric, facendo intendere di sapere cose di Carlos che non svelerà mai ma che, se dette, mostrerebbero un altro lato del giovane, diverso da quello che tutti siamo abituati a vedere. Una follower della Moric ha elogiato l'educazione, l'intelligenza e l'estrema serenità di Carlos Maria nonostante tutto ciò che la sua famiglia stia vivendo. Loredana ha però risposto con parole sibilline: "Io sò cose di Carlos che nessuno sà e che non dirò mai!". Una frase choc che ha messo in discussione la serenità del giovane e che ha scatenato le ire di Nina Moric che, per tutta risposta, si è scagliata contro l'ex suocera. Nelle storie del suo profilo Instagram, la Moric ha condiviso lo screenshot del commento e della risposta, invitando la donna a tacere e a "vergognarsi": "Carissima signora Loredana Favoloso, prima di "offendere" un adolescente meraviglioso si faccia un esame di coscienza! Non deve mai più nominare mio figlio! Ad arrivare a questo punto si commenta da sola". La questione finirà con ogni probabilità nella discussione di questa sera a "Live", come tutte le chat e i messaggi ambigui di Favoloso pubblicati da Nina negli ultimi giorni sui social. Intanto la bella modella confessa di essere in cura da uno specialista per affrontare i suoi problemi e di voler cambiare per il bene di Carlos. Nel rispondere a una follower su Instagram, ha spiegato: "Sono in cura da uno psichiatra da ormai due mesi per tutto quello che ho subito. Essendo un personaggio pubblico non significa che non soffro ma cerco di stare positiva per il bene di mio figlio. Lui si merita solo serenità e amore".

Nina Moric e Fabrizio Corona insieme dai prof di Carlos. Diva e donna ha beccato Nina Moric e Fabrizio Corona insieme, in occasione di un incontro avuto dall'ex coppia con gli insegnanti del figlio, Carlos. Serena Granato, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Fabrizio Corona e Nina Moric sono apparsi tra loro molto complici, in occasione di un loro avvistamento. Tra i due, però, non vi sarebbe alcun ritorno di fiamma all'orizzonte, a differenza di quanto si possa pensare. Gli ex coniugi, dalla cui unione è venuto alla luce il figlio Carlos, sono stati scovati dai paparazzi di Diva e donna. E, così come emerge tra le pagine del nuovo numero del noto settimanale, l'ex coppia vip è stata avvistata in occasione di un colloquio, avvenuto con i prof di Carlos. Dalle immagini in questione, trapelerebbe che tra i due ex vi sia la voglia di restare uniti per il bene dell'adolescente, sebbene la loro storia sia giunta al capolinea nel lontano 2007. In occasione del colloquio previsto con gli insegnanti del giovane, i famosi genitori hanno sfoggiato delle mise da giorno particolarmente eleganti. Se la Moric ha optato per un total-white look, Corona ha indossato un completo di giacca e pantaloni scuri con una camicia bianca. Alla luce degli scatti realizzati con accuratezza da Diva e donna, possono ormai dirsi lontani -almeno per adesso- i momenti in cui Nina e Fabrizio erano protagonisti di querelle mediatiche all'insegna di incomprensioni e tensione in famiglia. “Per la prima volta con calma -si legge, infatti, tra le indiscrezioni spifferate dal noto magazine, sul conto dell'ex re dei paparazzi originario di Catania-, sta riallacciando i rapporti con la mamma, i fratelli e anche con Nina Moric. Lo diceva pure qualche anno fa, ma ora si ha più voglia di credergli”. I due ex sembrano voler condividere tra loro le battaglie personali che li vedono protagonisti. Lo scorso 7 dicembre, Corona usciva al carcere di San Vittore (Milano, ndr) per recarsi presso un centro di cura sito vicino a Monza. Questo, per una decisione del giudice del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Simone Luerti, che ha stabilito per Corona un "differimento della pena da scontare in detenzione domiciliare, in forma umanitaria". Stando a quanto emerso dalle relazioni psichiatriche dell'équipe di San Vittore, è stato segnalato il patologico progredire di disturbi della personalità borderline di Corona, associati a tendenze narcisistiche e a episodi depressivi. E se da una parte Corona deve scontare la sua pena, dall'altra parte la modella croata ha fatto sapere a Live, su Canale 5, di aver sporto denuncia contro l'ultima fiamma, Luigi Mario Favoloso. Nello specifico, Nina ha accusato l'ex concorrente del Gf15 di aver mosso violenza nei suoi riguardi e ai danni del figlio avuto proprio da Corona, Carlos. “Ho depositato la denuncia con tutte le prove”, ha dichiarato su Favoloso, con cui ha chiuso i rapporti. E la crisi d'amore annunciata da Nina potrebbe essere dovuta ad un tradimento. Durante una recente diretta registratasi a Pomeriggio 5, una ragazza di nome Serena ha accusato Luigi di aver tradito Nina Moric con la sua complicità. "L’ho conosciuto tra il mese di ottobre e quello di novembre 2018 su Facebook - ha dichiarato la segnalatrice e sedicente amante dello scomparso-. A dicembre ho preso un appartamentino a Milano insieme ad una mia amica". "Abbiamo invitato Luigi a casa nostra - ha proseguito-. Lui ha provato in qualche maniera a distrarre la mia amica e, quando siamo rimasti da soli, abbiamo avuto un rapporto intimo. Non ero al corrente che stava ancora con Nina Moric. Dopo ce ne siamo andati a casa. Io mi aspettavo un messaggio, ma lui non si faceva sentire da 5 – 7 giorni. Io, da donna, mi sono sentita una schifezza. Ho scritto un messaggio a Nina dicendole: Stai ancora assieme a Luigi?! Se è così, sei cornuta!".

·        Ninetto Davoli.

"Dopo cinema e teatro ora ballo con le stelle. Ma nun me so'allenato". L'attore Ninetto Davoli nel cast dello show di Milly Carlucci su Raiuno: "Mai fatto passi di danza prima". Paolo Scotti, Venerdì, 18/09/2020 su Il Giornale.

«Ah Pierpa': aiutame tu!». Un po' scherza e un po' no, Ninetto Davoli, alzando gli occhi al cielo per invocare la protezione di Pierpaolo Pasolini. Certo: rivolgersi al poeta che bollò con parole di fuoco la tv e i suoi riti, proprio alla vigilia del debutto in uno dei riti più televisivi che esistano, forse è un po' troppo perfino per il suo storico sodale e discepolo.

Ma Giovanni Davoli detto Ninetto (da domani, sabato 19, concorrente a Ballando con le stelle, con -fra gli altri- Alessandra Mussolini, Elisa Isoardi, Tullio Solenghi, Barbara Bouchet)- assicura: «Pierpaolo scuoterebbe la testa. Ma ne so' certo: alla fine me perdonerebbe».

Forse perché lei è un appassionato di ballo?

«Macchè. Mai ballato in vita mia. Manco so dove se mettono i piedi. Si, vabbè: da regazzino andavo a fa' un po' lo scemo col twist, andavo a fa' lo shake e il cha-cha-cha al Samoa o al Piccadilly, che erano balere popolari di Roma. Ma mica per balla': che me fregava, a me, de balla'? C'andavo per rimorchia' le donne».

E allora come le è venuto in mente di lanciarsi sulla pista da ballo più famosa della tv?

«Perché in vita mia ho provato tutto. Il cinema, il teatro, gli sceneggiati, perfino le canzoni, quando Antonello Venditti scrisse per me e per Adriana Asti quelle del musical Addaveni' quel giorno e quella sera. Me rimaneva solo il ballo. Così dopo la telefonata di Milly, me so detto: E vai! Anche questa è fatta!».

Allora avrà cominciato subito ad allenarsi con la sua insegnante Ornella Boccafoschi, immagino.

«Allenamme Allenamme è un parolone. Ho cominciato a damme da fa', ecco. E a suda'. Perché mentalmente io so' un entusiasta. È il fisico, che me frega. Però ce metto la tigna («ostinazione» in romanesco, ndr) e con quella risolvo. Poi è arrivato il Coronavirus, e adesso che le ore di allenamento so' diminuite per limitare i contatti proviamo meno di quanto facevano gli altri anni - e la sfacchinata s'è fatta sopportabile».

È vero che durante il lockdown avete continuato a fare esercizi a distanza, con gli insegnanti che vi seguivano al computer?

«Io gli esercizi li faccio poco in presenza se figuri se li potevo fa' a distanza!».

E come ha reagito ai colpi che avete subito? Prima la positività di Samuel Peron e Daniele Scardina, poi quella (temuta ma smentita appena ieri) di Paolo Conticini?

«Porca miseria che jella! Ma proprio mo' che m'ero deciso, doveva capita'? Fortuna che io so' un ottimista e vedo tutto rosa. Anche durante il lockdown: ero sicuro che alla fine Ballando ce l'avrebbe fatta. E poi il ballo è proprio questo, no?, è ottimismo, allegria, gioia de vive».

Dica la verità: se Pasolini, che con la tv aveva un rapporto difficilino, la vedesse sgambettare in uno show del sabato sera, cosa direbbe?

«La stessa cosa che disse dopo che un leone stava per mangiarmi, sul set di un film che giravo in Russia: Te mancava solo questa!. Pier Paolo trovava la tv uno scatolone meraviglioso. È solo il modo sbagliato con cui viene usata, che contestava. Il fatto che con la tv si strumentalizzano le persone, le si omologa tutte a fini consumistici. Ma per quel che riguarda me avrebbe riso come un matto...».

Un recente spettacolo a Spoleto, interpretato da Monica Bellucci, ha riportato alla ribalta una lettera, fino a poco tempo fa inedita, in cui Maria Callas consolava Pasolini del suo impossibile amore per lei.

«Veramente l'amore impossibile non era quello di Pier Paolo per me. Era quello della Maria per Pier Paolo. La Maria s'è confusa: fra me e Pier Paolo c'era un legame splendido, ma non del tipo che aveva capito lei. Era lei, che sul set di Medea attraversava un momento difficile; e Pier Paolo, che era di un'umanità e una delicatezza pazzesche, aveva capito quanto lei avesse bisogno di affetto. E glielo dava. Ma come poteva».

Da quarant'anni lei è il simbolo di una certa romanità. Quest'identità regionale così spiccata le ha mai creato attorno antipatie o snobismo nel resto d'Italia?

«Mai. Anzi! Negli anni '70 feci uno spot pubblicitario per una famosa casa di crackers: ero un garzone del fornaio che in bicicletta cantava a squarciagola (e massacrava) canzoni romanesche. Beh: lei non ha idea di quanti italiani, in tutta Italia, ho conquistato co' quella roba li'!».

·        Nino Formicola.

Nino Formicola: “Stasera venite A Cena con il Comico”…Roberta Beta il 22/01/2020 su Il Giornale Off. Una carriera lunga due vite è naufragata all’Isola dei Famosi, dove era uno dei pochi famosi veri. Nino Formicola non ha semplicemente vinto quell’edizione del reality, ha vinto la sua sfida più grande: tornare sulle scene e in tv senza il suo compagno storico Andrea Brambilla, che tutti ricordiamo come il Commissario Zuzzuro. Come spesso succede nei binomi inscindibili, si parlava di Zuzzurro e Gaspare come se fossero stati un personaggio unico. Ebbene, da quando è scomparso l’uno è automaticamente scomparso l’altro: ma se Andrea ha lasciato questa vita, Nino continua a recitare e sembra aver trovato in Max Pisu, con lui al teatro Ciak di Roma in questi giorni con La Cena dei cretini, il compagno ideale per ricominciare.

La Cena dei Cretini è il terzo spettacolo che porti in scena con Max Pisu. Hai trovato la tua anima gemella?

«L’ho conosciuto in Forbici e Follia, uno spettacolo comico nel quale ho legato molto con Roberto Ciufoli e Max, tanto da decidere di tornare sulle scene in tre in Sabbie Mobili prima del mio naufragio all’isola. Per La Cena dei cretini, invece, cercavo un personaggio lunare e buono e ho scelto Max, perché lui è buono come Pignon, il personaggio con il quale sto dividendo il palcoscenico in questi giorni. Pignon non è stupido, ma un uomo semplice, una sorta di elefante in un negozio di cristalli e, considerando la stazza di Max, l’effetto è strabiliante: va giù dritto come una spada! Però anima gemella è un po’ troppo».

A proposito di cena, la Cena con il Comico che organizzi periodicamente a Milano è il tuo piano B o una passione da monetizzare?

«La Cena con il Comico che preparo in una location molto bene attrezzata è una passione vera che non monetizzo, perché non ci guadagno niente. Io mi diverto a cucinare; in più, organizzando queste cene, si è creato un gruppo stabile di persone che sono diventati amici. Ogni tanto si aggiunge qualcuno e trascorriamo delle belle serate. Non si tratta del mio piano B, certo è che se quando non lavoro devo stare a casa a guardare la televisione preferisco passare qualche sera cosi. Naturalmente devo avere sia tempo che voglia, perché si tratta di cucinare per quindici persone una cena che va dall’antipasto al dolce: non è uno scherzo. Oltretutto faccio davvero tutto io, dalla spesa in poi, perché questo è il mio divertimento. E pure il mio palcoscenico, quando non ho il mio palcoscenico».

Sei stato fidanzato con Alessandra per anni e poi, finalmente, l’hai sposata: confermi o confuti la teoria secondo cui il matrimonio è la tomba dell’amore?

«Con Alessandra già convivevamo prima di sposarci, pertanto un atto formale con cambia le cose. Tutto va a gonfie vele e comunque io mi accorgo di essere sposato solo perché ho la fede al dito: tuttora ci viene difficile addirittura parlare di noi come “mia moglie” e “mio marito”. Non credo in sostanza che il matrimonio sia la tomba dell’amore, l’importante è che sia il matrimonio giusto e nel mio caso sembra proprio cosi».

Un tuo momento OFF, se vuoi parlando di Andrea, compagno di mille avventure.

«La Cena dei Cretini è uno spettacolo che misi in scena con Andrea nel 2010 e facemmo più di trecento repliche: la sua presenza, soprattutto in questo periodo, la sento tantissimo e riportarla in teatro con un’altra persona mi metteva un po’ di ansia per i possibili confronti con la versione di Zuzzurro e Gaspare. Tutti i miei dubbi per fortuna si sono dissolti: oggi lavoro con Max Pisu e il pubblico continua a partecipare  sghignazzando ogni dieci secondi regalandoci quell’applauso che per noi comici rappresenta la benzina per andare avanti. Lo ringrazio, così come ringrazio Weber per aver scritto questa commedia. E ringrazio Andrea, che rappresenta un pezzo della mia vita che non si potrà mai cancellare».

Alla fine dell’intervista Nino vuole aggiungere un aneddoto. Eccolo qua.

«Dovete sapere che Andrea in certi punti della commedia improvvisava e io lo seguivo: molte di queste improvvisazioni le ho tenute e le ho inserite nel testo che recito con Max, che è riuscito a entrare perfettamente nel ruolo di Pignon, una persona candida che crea dei casini inimmaginabili. Per fortuna non esagera come faceva Andrea durante l’ultima replica nel pezzo dell’agendina, che chi verrà in teatro vedrà, facendolo durare mezz’ora, così da fare imbufalire i tecnici che volavano finire presto per poter smontare la scena».

·        Nino Frassica.

Renato Franco per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2020.

Nino Frassica, l'11 dicembre lei compie 70 anni: è una buona o una cattiva notizia?

«Cattivissima, sto prendendo un avvocato per controllare all'anagrafe se è vero. Mi sembra impossibile. E me ne accorgo soprattutto ogni volta che cambio decina. Mi dà fastidio non poter sfuggire alla mia età, sui giornali c'è questa strana usanza di mettere nome cognome ed età. Ma a chi interessa? Comprerò tutte le copie per non farla sapere».

Lei quanti anni si sente?

«La metà. Trenta».

Quali sono stati i suoi maestri, da dove è venuta l'ispirazione per la sua comicità?

«Soprattutto due fonti. La goliardia di Alto Gradimento fu una rivoluzione. Prima si diceva solo Buonasera signore e signori , e al massimo si raccontava una barzelletta. Arbore, Boncompagni, Bracardi e Marenco invece hanno rivoluzionato la radio sovvertendo i luoghi comuni. Sono stati come i Beatles per la musica, hanno dimostrato che si poteva fare anche altro».

La seconda fonte?

«Cochi e Renato sono stati fondamentali per la mia comicità, il loro surrealismo così chiaro e semplice è stata un'altra rivoluzione. È vero che c'era il teatro dell'assurdo, il nonsense, Ionesco e Beckett, però sono stai loro a portarlo nel varietà. È normale che io abbia attinto da altri, il mio scopo vero è arrivare a un mio stile, mi piacerebbe che mi venisse riconosciuta una certa originalità».

Ha conosciuto Arbore grazie a un messaggio che lei gli lasciò in segreteria.

«A Renzo debbo la mia carriera. Se non avessi fatto i programmi con lui avrei fatto comunque questo mestiere ma non avrei avuto le porte aperte come mi è accaduto con il successo di Quelli della notte e Indietro tutta! . Dopo quei programmi mi hanno chiamato tutti. Renzo è un maestro, è stato sempre giovane, anche adesso nonostante l'età. È uno che vuole sempre vedere cosa c'è di nuovo. Non finirò mai di ringraziarlo».

Ora l'eredità di Arbore l'ha raccolta Fazio.

«Fabio è uno che cerca sempre cose nuove e originali. Ha creato con il tavolo di Che tempo che fa uno spazio di comicità intelligente. Complice l'orario (finiamo a mezzanotte) sono tornato a essere quello della notte».

Con Don Matteo e Terence Hill sono 20 anni di successo straordinario.

«Con lui sono diventato il Bud Spencer della fiction. Siamo una coppia, ma ognuno con un ruolo preciso e ci troviamo benissimo. Non ho mai incontrato una persona così cortese, aggettivo che non si usa mai».

Il giorno da incorniciare?

«Quando Renzo mi chiamò dopo Quelli della notte e mi propose di fare il presentatore di un programma che ci saremmo inventati. Ecco, quando mi offrì Indietro tutta! fu il giorno più importante della mia carriera. Anche se c'erano altri coprotagonisti, lui in quel caso mi affidava il programma».

La cosa più brutta che ha fatto?

«Tante. Come alcuni film che pensavo fossero diversi e poi mi sono trovato in mezzo a vere pacchianate».

Chi è il più bravo attore comico?

«Carlo Verdone. Come racconta lui l'italiano medio non lo fa nessuno. La commedia italiana è lui, anche se non sono per forza tutti belli i film che ha fatto. Le sceneggiature a volte lasciano a desiderare, ma come attore è impeccabile, perfetto».

Le piace la tv di oggi?

«Quella d'autore non c'è più, c'è solo la tv contenitore. Ogni tanto si trova qualche esperimento comico diverso. Valerio Lundini è sicuramente una novità».

Come passa il lockdown?

«Ho scritto un libro nuovo che esce a gennaio, Vipp (Einaudi), con una doppia «p». Parla del mondo dello spettacolo e lo descrivo alla mia maniera: è tutto esasperato. È La grande bellezza , La dolce vita messi su carta. Per il resto non esco di casa, tranne la domenica per andare da Roma a Milano da Fazio. E non mi avvicino a nessuno. Se tutti facessero come me, a quest' ora non ci sarebbe più il virus».

Per chi vota?

«Sono sempre stato verde, radicale, a volte non votante. In passato ho votato per Pannella. E poi va a simpatia: più del partito scelgo la persona».

Adesso chi le piace?

«Non c'è un Pannella».

Crede in Dio?

«Nel privato non si sa. Ufficialmente sono credente e praticante. Diciamo che per ragioni di lavoro, con il pubblico di Don Matteo , devo essere per forza credente».

·        Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Da corrieredellosport.it il 15 maggio 2020. Noel Gallagher, fondatore degli Oasis con il fratello Liam e grande tifoso del Manchester City, ha raccontato di come la cocaina gli abbia rovinato la vita tra il 1995 e il 1998. Il 53enne cantautore inglese ha rivelato il suo passato tossico in un'intervista per il podcast di Matt Morgan 'Funny How?': per quattro anni è stato completamente immerso nella dipendenza da cocaina, che sniffava ogni sera procurandosi tra gli effetti collaterali “terribili attacchi di panico” che lo “paralizzavano”. In un’occasione, per questo motivo, Gallagher è finito in ospedale a Detroit, senza che i medici capissero cosa stesse dicendo a causa del suo accento.

Gallagher: "Pensavo di morire". La decisione di chiudere con la cocaina è arrivata il 5 giugno del 1998, davanti ad una partita di calcio della Germania (che superò 7-0 il Lussemburgo). Si rese conto, “mangiando dei noodles”, di essere circondato da personaggi che per la maggioranza non conosceva, uniti da un unico denominatore comune, assumere qualsiasi tipo di droga. “Ho avuto un paio di fottuti attacchi di panico, brutali e aggressivi, motivo per cui l'ho lasciata – le parole di Gallagher - se hai passato tre notti a provare un sacco di cose, pensi di morire. Davvero. E le rockstar muoiono di quella merda”. Quel 5 giugno 1998, davanti a Germania-Lussemburgo, Gallagher decise che avrebbe chiuso con le droghe e per farlo si isolò in Thailandia con la moglie dell’epoca. Una volta tornato a Londra, andò a vivere in campagna, senza telefono per non avere tentazioni. Da quando ha messo la testa a posto - dichiara ora - evita di far tardi e trova “noiosi” quelli che ancora sniffano cocaina. 

·        Oliver Stone.

Steve Della Casa per Tuttolibri – La Stampa il 3 settembre 2020. Quando Oliver Stone decide di scrivere un libro (si intitola Cercando la luce, ma potrebbe anche avere come titolo I miei primi quarant’anni, visto che è concentrato soprattutto su quel periodo della sua vita), è logico aspettarsi qualcosa di simile alle storie che ha scritto per la regia di altri ( Fuga di mezzanotte, il suo primo Oscar) o che ha poi diretto di persona (Platoon, Wall Street): vicende dure, giudizi taglienti, capacità di provocare, ritmo serratissimo. Ebbene, le aspettative sono state davvero mantenute. Chi cerca i giudizi forti e irrevocabili ha pane per i suoi denti. Westmoreland, il generale che ha guidato gli Stati Uniti in Vietnam verso l’unica sconfitta militare della loro storia, è indicato senza mezzi termini come «uno che aveva lo sguardo più stupido del mondo». Non va molto meglio a Henry Kissinger, il potentissimo diplomatico che sostenne il conflitto in Vietnam e il golpe di Pinochet, considerato una specie di dottor Stranamore. Gilles Jacob, lo storico direttore del festival di Cannes, viene liquidato come «il mandarino francese» per aver rifiutato il film Salvador. Se poi si va indietro nel tempo, il generale Patton (eroe nazionale USA) è considerato il vero ispiratore di Natural Born Killers. Insomma, ce n’è per tutti, e senza mezzi termini, senza sfumature. Per fortuna, però, il racconto è molto più ampio, gli orizzonti sono diversi, il cinema e lo spettacolo prevalgono rispetto alla vis polemica. Sembra quasi che Oliver Stone si prepari a mettere in scena la propria vita, tanto è attento ai dettagli, preciso nelle descrizioni, affascinato dai sottotesti. A iniziare dalla famiglia: il padre ebreo non praticante, la madre francese (i due si sono conosciuti nella seconda guerra mondiale, il padre vide una ragazza francese in bicicletta, le andò addosso con il suo velocipede e le chiese di uscire con lui: poco dopo si sposarono). Una famiglia in apparenza perfetta, benestante: ma a 14 anni Oliver scopre che padre e madre stanno divorziando, che lui accusa lei di averlo tradito con un amico di famiglia e di aver fatto debiti per 100.000 dollari, mentre la madre ribatte che da tempo il padre ha amanti di ogni tipo e che se gli affari vanno male la colpa è soltanto degli affari che non ha saputo gestire e della sua visione ridotta e meschina del mondo della finanza. Il colpo è grande, e Oliver reagisce a modo suo. Va in Vietnam prima come insegnante in una missione cattolica, poi come volontario nell’esercito americano. È il 1968, l’anno della grande offensiva che sorprese gli americani facendo presagire la loro sconfitta. Secondo Stone, c’erano molti indizi dell’offensiva del Tet (dal nome del capodanno buddista che diede il via all’offensiva Vietcong) ma furono volutamente ignorati dai generali USA. In compenso, in meno di un anno di permanenza in Vietnam Stone conosce orrori di ogni tipo che lo segnano profondamente. Quando torna viene arrestato, ha fatto uso di droga, finisce in carcere senza un soldo e senza possibilità di difendersi. Tutto cambierà grazie al padre, che trova i soldi per pagare un avvocato e che riesce a farlo uscire di prigione. Stone torna a New York, ma vive come un hippie e parla come un nero degli slum facendo arrabbiare il padre. Ma ormai ha scelto la sua vita, e vuole raccontare quello che gli è successo. L’esperienza carceraria gli è utile per Fuga di mezzanotte, che lo porterà a essere uno degli sceneggiatori più richiesti. Ma il suo vero obiettivo è di realizzare Platoon. Sembra facile, ma ci vorrà ancora molto, molto tempo. Oliver Stone racconta con grande cura tutto l’iter che lo porta a realizzare Platoon, in origine pensato per William Friedkin ma proposto anche a John Frankenheimer, a Clint Eastwood, a Sidney Lumet. E, come un fiume carsico, appaiono qua e là i suoi incontri e i suoi giudizi sulla gente di cinema che ha incontrato. Andiamo da un Marlon Brando deluso perché Stone non è interessato a un suo progetto, Sand Creek, che mette in scena la strage dei pellerossa raccontata in note anche da Fabrizio De Andrè, a un Billy Wilder ironico e geniale che è il primo destinatario del progetto destinato poi a essere intitolato Wall Street. Si parla anche della sua formazione cinematografica e delle appassionanti lezioni ricevute da Martin Scorsese su Robert Bresson e Joseph von Stenberg, fa inoltre capolino la sua passione cinefila per Sam Peckinpah, per Jean-Luc Godard, per Luis Bunuel (anche se dissente dai francesi Nouvelle Vague che consideravano la sceneggiatura una gabbia dalla quale occorreva affrancarsi). E Stone inoltre si sofferma su un progetto folle ma geniale che per adesso non ha realizzato: un giovane Tom Mix che, prima di diventare la prima star del western, ha combattuto in Messico tra le fila dei rivoluzionari di Pancho Villa. Speriamo che ci ritorni, sarebbe davvero un regalo straordinario.

Oliver Stone: «Ho avuto due dipendenze: mia madre e la cocaina». Corriere tv il 24/8/2020. Il regista di “Platoon” e “Nato il 4 luglio” si confessa in un’intervista sul numero di 7 in edicola da venerdì 28 agosto. Quando il padre miliare, ebreo-americano, e la madre francese divorziarono, lui si trovò l’anima spaccata a metà. Andò in Vietnam volontario, poi tornò e iniziò la sua avventura a Hollywood. Ma nonostante i successi, si sente una pecora nera. Oliver Stone ha scritto un film che non girerà mai. Perché? Perché è troppo personale: è un film d’amore per la madre, descritto come una droga, e d’amore per il cinema, dove di droga ce n’era troppa, tanto che per finire di scrivere Scarface è dovuto fuggire a Parigi. E poi Stone racconta dell’uomo che ha ammazzato in Vietnam, di quando credeva in Dio, delle lezioni di Scorsese, gli alti e i bassi con Al Pacino, la gioia per gli Oscar e la felicità per la paternità inattesa... Il regista ha trasformato questa storia in un diario romanzato: nulla è inventato, ma la memoria va avanti e indietro nel tempo, come un film nella sala di montaggio. Il libro si chiama Cercando la luce, esce da La Nave di Teseo il 27 agosto, e sul numero di 7 in edicola e nell’edizione digitale del Corriere della Sera sarà possibile leggere il brano in cui Stone racconta cosa ha significato aver ucciso un uomo in Vietnam (era partito volontario dopo una crisi dovuta al divorzio dei genitori). Assieme a un’intervista che ha rilasciato a 7, disponibile in parte su CorriereTv. A 7 il regista premio Oscar per Platoon e Nato il 4 luglio racconta i propri desideri più inconfessabili: d’amore, per la madre, di morte, per il padre. «Mia madre era come una droga, quando non c’era le volevo bene ancora di più. Ammetto questi impulsi perché penso li proviamo tutti e non è giusto nascondersi. Sessualmente però mi piacevano le sue amiche, una assomigliava a Liz Taylor, come la mia attuale moglie». L’istinto omicida verso il padre l’ha invece sublimato mettendogli dell’LSD in un cocktail: «Un giorno feci scivolare nel suo scotch con ghiaccio una dose di Lsd Orange Sunshine, con l’intento di far esplodere la sua mente così razionale». Che però ha retto benissimo. Stone, che oggi è padre di tre figli ed è sicuro che non faranno gli stessi errori, parla della sua dipendenza dalla cocaina. «Negli Anni 70 e poi 80 era popolare a Hollywood. Inizialmente la prendevo alle feste, sembrava a posto, ma crea dipendenza. Stava distruggendo le mie cellule cerebrali. Lavoravo a un copione, dal libro Wilderness di Robert Parker, che non vide la luce. La scrittura di Scarface sono riuscito a finirla solo perché mi rifugiai a Parigi: nessuno usava droghe lì all’epoca, era inverno, c’era freddo, buon cibo, belle amicizie». Nel libro racconta anche della prima notte di nozze con la seconda moglie andata in bianco: «Nulla è speciale quando si ha una tossicodipendenza. Anche il sesso. Tutto si appiattisce. Ci si annoia con la cocaina, perché ci si fa sempre ed è uno sballo, poi ci si annoia degli sballi ed è questo che mi è capitato. Sei sposato e non riesci nemmeno ad eccitarti; per chiunque assuma cocaina il sesso può essere bello qualche volta, ma raramente. È un disastro per lo più». La gioia più inaspettata? Quando la seconda moglie restò incinta, Stone era al settimo cielo. «La notizia più bella che desiderassi, più reale dei miei film». Vissuta in prima fila: «In sala parto ero come il terzo incomodo, che guarda. Cercavo di rendermi utile, stringendo la mano a mia moglie con tutte le forze. Quando è uscito il bimbo temevo stesse morendo, con tutti quegli urli, e invece no! Si rotolò sul tappetino come un lottatore di aikido e vidi che era maschio!». Una delusione che non si cancella, è quella per Venezia, nel 1994. Con Assassini nati che ottenne un Gran premio della Giuria ma non vinse il Leone d’oro. «Mi ha spezzato il cuore quella vicenda. Il presidente era Lynch, in giuria c’era Uma Thurman, alla proiezione il pubblico era esaltato, gridavano “bravo, bravo”, dieci minuti di applausi. Ma il giorno dopo uscì sui giornali una frase di Vargas Llosa, che era in giuria, che diceva del film: “Per fargli vincere un premio devono passare sul mio cadavere”. Uno scandalo, i giudici non dovrebbero pronunciarsi prima del verdetto… Ma è andata così».

Oliver Stone: «Mia madre  la mia prima droga  Con la cocaina ci si annoia». Luca Mastrantonio il 28 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Il regista statunitense racconta in un’autobiografia l’amore per la mamma francese, il difficile rapporto con il padre militare, i traumi del Vietnam e la nonna-musa. L’amore del giovane Oliver Stone per la madre farebbe arrossire Edipo: «Lei era come una droga, quando non c’era le volevo bene ancora di più», dice il regista. Il padre era un militare, ebreo-americano, che conquistò la futura sposa a Parigi, poi la portò a New York, dove fece l’operatore finanziario (sì, proprio come il Gekko di Wall Street), coltivando però la passione per la scrittura che ha trasmesso all’inquieto figlio: «L’unico numero di telefono che ancora conosco a memoria è quello di casa, di casa di mio padre, è lui che chiamai quando a vent’anni sono finito in carcere a San Diego per un po’ di erba vietnamita». Già, il Vietnam, per cui Stone, frastornato dal divorzio dei genitori, nel 1967 era partito volontario; e da cui torna decorato, assassino e turbato. E poi Los Angeles, il sogno del cinema, la dipendenza dalla cocaina, che fa lavorare male e pure a letto non aiuta. Infine la gioia per la paternità inattesa, qualcosa di più reale di tutti i film da Oscar. Sono alcuni dei passaggi dell’autobiografia Cercando la luce, che è uscita per La nave di Teseo e abbiamo letto in anteprima. Cercare la luce è, per ogni regista, trovare l’inchiostro giusto per scrivere il film: per Stone significa anche raccontare le ombre, senza farsi sopraffare. Che lo sceneggiatore di Scarface sappia scrivere non stupisce, ma i retroscena e gli aneddoti sul cinema - il rapporto con Al Pacino, i litigi con Brian De Palma, la scelta delle attrici, le lezioni del maestro Scorsese - sono il contorno forte di un libro in cui Stone mette a nudo i suoi primi 40 anni, dall’adolescenza dorata alla maturità inquieta, fino al trionfo agli Oscar con Platoon nel 1987, passando per il divorzio dei suoi, l’abbandono dell’università di Yale, la fuga nell’esercito cercando risposte a piccole grandi domande: perché i miei non si amano più? Chi davvero voleva Kennedy morto? Tormenti che accrescono in lui la fobia per la menzogna, la diffidenza verso le versioni ufficiali e la predilezione per le voci contrarie se non avverse: dal comandante Chávez allo zar Putin, che intervista in film controversi, fino al film su Edward Snowden, nel 2016. Il 15 settembre Stone compie 74 anni, l’abbiamo intervistato via Zoom. Mister Stone, nel libro confessa che avrebbe voluto uccidere suo padre e che provava un forte desiderio per sua madre. Sembra il festival di Freud...«Sa, io ammetto questi impulsi perché penso che li proviamo tutti e non è giusto nascondersi, cullarsi tra gli insoddisfatti desideri, come direbbe William Blake. Non ho mai desiderato andare a letto con mia madre, ci conoscevamo intimamente, ma non mi eccitava. Lei era molto naturelle, della terra, mentre mio padre era più cielo, uno scrittore, un intellettuale ebreo costretto a lavorare nel mondo degli affari, che guardava il mondo con un distacco che anche io ho. Con il divorzio si è creata una divisione in me: un lato mediterraneo, ribelle, e un lato nordico, autoritario. Lei è scappata da tutto questo, divorziando, io me lo sono portato dentro». Dualità che emerge in Platoon: nel film, il sergente Barnes è il militare disumano, il sergente Elias che resta umano. Sul primo ha proiettato suo padre e sul secondo sua madre. I due si contendono l’anima di Chris Tyler, il suo alter ego, interpretato da Charlie Sheen.

Perché ha scelto Sheen?

«Charlie aveva lo stesso sguardo perso che avevo io, l’innocenza che si corrompe. Aggiungo una nota: il sergente Barnes è esistito veramente, anche se il nome vero era un altro, era il soldato più cattivo, il più impressionante che si possa immaginare. Era sposato con una donna giapponese, aveva un lato non del tutto spietato. Ma non sono riuscito a scoprire cosa portasse nell’anima, era impossibile conoscere le persone: i soldati vengono spostati, mandati qua e là... È spersonalizzante il sistema dell’esercito americano».

Elias è esistito, l’ha conosciuto. Ha pure ricevuto una lettera dalla figlia, dopo il film.

«Sì, era un indiano ispanoamericano, ma non sono riuscito a trovare un attore indiano. Ho scelto Willem Dafoe, che viene dal Wisconsin ma ha sangue misto, zigomi forti, occhi che parlano. Non sono riuscito a trovare nemmeno Rhah, il soldato del sud interpretato dal figlio di Anthony Quinn, Francesco: il vero Rhah era un tipo del Sud con lo spirito del sopravvissuto e le parole “LOVE” e “HATE” tatuate sulle nocche. Cristo Gesù che tipo! E poi c’erano tanti neri nel mio plotone, mi davano la forza di andare avanti, mi hanno mantenuto umano. Ci sono anche nel film».

Sì, è al riparo dalla censura retroattiva che negli Usa si sta abbattendo anche su classici come Via col vento. Era il film preferito da sua madre, ora è accusato di razzismo. Cosa pensa della cultura della cancellazione del passato?

«C’è tanta distrazione, finti problemi su identità culturali o sessuali. Per me le questioni più importanti sono la pace, la lotta per l’energia pulita... Perché in questo Paese siamo sempre alla ricerca di un nemico? Aggrediamo mentalmente i russi, i cinesi, gli iraniani, i cubani... Anche Joe Biden attacca la Russia e i democratici dicono che cambieranno la Siria. Il nemico è dentro di noi, ma oggi, non ieri».

Nel libro confessa d’aver votato Reagan nel 1980. Oggi... Biden?

«Sì, sceglierò il male minore. Su Reagan: in casa erano reaganiani, mio padre per visione politica, mia madre per snobismo francese, il mio fu un voto contro Carter».

Lei frequentava donne più grandi di lei, anche la prima moglie lo era. Com’era fare il toyboy?

«Io all’epoca non mi sentivo all’altezza, ero insicuro. E poi mi piacevano le amiche di mamma, erano attraenti. Una volta mi aveva portato in Francia e c’erano sue amiche nude in piscina. La sua migliore amica era quella che desideravo veramente e che devo dire assomigliava alla mia attuale moglie, che è una ragazza coreana, bassa, attraente, capelli scuri neri, un tipo come Elizabeth Taylor. Ecco l’amica di mamma era una bellissima donna che ricordava Elizabeth Taylor».

Quando Liz Taylor annunciò l’Oscar per Platoon, sua madre le urlò “dai un bacio a Liz!” e lei baciò la sua seconda moglie, Elizabeth Burkit Cox, ma sua madre intendeva l’altra l’attrice.

«Mia madre non aveva mezze misure, era un primo piano o un campo lungo: era intima e invadente, meravigliosa ma fuggitiva. Non era sempre lì per te, come la tipica mamma americana che fa torte di mele. No, mi correva dietro con un frustino quando avevo 8 o 9 anni».

Nel libro lei cita le attenzioni degli amici gay di sua madre. Ha mai avuto un interesse per loro? O l’ha scritto solo per vanità?

«Beh ho fatto Alexander, che non solo ha una mente omosessuale, va oltre: il suo amante è un eunuco. Alessandro Magno era pansessuale. E io capisco uomini come lui, ma parlo di attrazione estetica, per cui si sceglie un attore rispetto a un altro. E capisco perché in un certo senso gli uomini... non mi fraintenda, poi finisce nel titolo del giornale. Diciamo: ammiro la bellezza in un uomo come in una donna».

Qual è l’attore vivente più bello?

«Brad Pitt. Del passato direi Clark Gable, William Holden, Marcello Mastroianni...».

Nel libro racconta che Al Pacino ai tempi di Scarface la spinse a cambiare la sceneggiatura e poi non la difese dal regista Brian De Palma. Si sentì tradito?

«Sì, Al ha danneggiato la mia carriera e Scarface non mi ha aiutato, è piaciuto a una folla di gente che non era la folla del mondo cinema, erano neri, ispanici e bianchi della droga... Ad anni di distanza ne abbiamo parlato e l’abbiamo superata. Ho lavorato con Al per Ogni maledetta domenica, lui era una persona diversa, non più permaloso né superstar, ma alla mano, realistico. E continua a essere “un Amleto di strada” ha una radiosità speciale, è molto sensibile, occhi grandi, che assorbono e poi trasmettono».

Un’attrice che le piace?

«La sua? Mi dica, lei è giovane».

...Charlize Theron.

«Uhm... davvero?».

O Stefania Sandrelli.

«Sì, lei mi è piaciuta nel Conformista. Poi Anna Magnani o Sophia Loren: non il mio tipo, ma bella».

E di registi o registe italiani?

«Ora sto vedendo molto Roberto Rossellini. Mi piace il film con Ingrid Bergman, Stromboli».

Sta diventando romantico? Le hanno mai scritto una lettera d’amore come quella che Ingrid Bergman scrisse a Rossellini?

«No, mai. Sarà che non ci sono molte Ingrid Bergman in giro, o sarà che non ho mai fatto film d’amore, anche se mi sarebbe piaciuto. Nei miei film han recitato star come Juliette Lewis in Assassini nati, Joan Allen in Nixon e Cameron Diaz in Ogni maledetta domenica non è che fossi misogino, amavo le donne, ma l’unico film che ho fatto su una donna che ho veramente amato è stato Tra cielo e terra, la storia, vera, di una donna vietnamita. Vorrei aver fatto un film su mia madre, lei voleva che facessi film d’amore, questo libro ne è un po’ la sceneggiatura... La notte che è mancata, mi hanno detto, stava guardando un film di Terrence Malick, Tree of life credo».

Nel 1994 era a Venezia con Assassini nati che ottenne un Gran premio della Giuria ma non vinse il Leone d’oro. Deluso?

«Mi ha spezzato il cuore quella vicenda. Il presidente era Lynch, in giuria c’era Uma Thurman, alla proiezione il pubblico era esaltato, gridavano “bravo, bravo”, dieci minuti di applausi. Ma il giorno dopo uscì sui giornali una frase di Vargas Llosa, che era in giuria, che diceva del film: “Per fargli vincere un premio devono passare sul mio cadavere”. Uno scandalo, i giudici non dovrebbero pronunciarsi prima del verdetto... Volevo lasciare Venezia, ma Gino Pontecorvo, che dirigeva la mostra, disse di restare, che ci sarebbe stata una sorpresa».

Nel libro racconta della sua seconda moglie incinta: “La notizia più bella che desiderassi”. Lei ha assistito anche al parto, che ricordi ha di quel momento?

«In sala parto ero come il terzo incomodo, che guarda. Cercavo di rendermi utile, stringendo la mano a mia moglie con tutte le forze. Quando è uscito il bimbo temevo stesse morendo, con tutti quegli urli, e invece no! Si rotolò sul tappetino come un lottatore di aikido e vidi che era maschio! Che gioia».

Quanti Oscar servirebbero per eguagliare quell’emozione?

«Non farei paragoni. Desideravo così tanto avere dei figli, dopo che mi era stato detto che non potevo averne - erano trascorsi 10 anni dal tempo del mio primo matrimonio. Con il secondo matrimonio, grazie alla tecnologia, siamo riusciti ad avere un figlio. Poi ne abbiamo adottato uno e poi ho avuto anche una figlia da un’altra moglie. I miei film sono altrettanto importanti, come dei figli. Ho dato la mia vita in quegli anni, in ogni singolo film ho messo tutto me stesso, ogni volta si sacrifica un po’ della propria vita. Ricordo l’ultimo incontro con Bernardo Bertolucci, sulla sedia a rotelle, gli dicevo “dai Bernardo, vieni a Los Angeles e ti aiutiamo noi, il blocco più grande è nella tua testa”, insomma dicevo cose che non avrei dovuto dirgli, ma lo incoraggiavo e lui, guardandomi, mi disse: “Tu vuoi veramente fare cinema; vero Oliver? Vedo in te quel desiderio... anche io l’avevo. Ora non ce l’ho più”. È triste, ma è vero, si apprezza la fame, soprattutto quando non ce l’hai più».

La prima notte di nozze con Elizabeth, scrive nel libro, fu un disastro. Non avete fatto sesso, eravate troppo sballati.

«Nulla è speciale quando si ha una tossicodipendenza. Anche il sesso. Tutto si appiattisce. Ci si annoia con la cocaina, perché ci si fa sempre ed è uno sballo, poi ci si annoia degli sballi ed è questo che mi è capitato. Sei sposato e non riesci nemmeno ad eccitarti, mio Dio; per chiunque assuma cocaina, ne sono certo, il sesso può essere bello qualche volta, ma raramente. È un disastro per lo più».

La cocaina, scrive, le ha creato problemi anche con la scrittura. Perché la prendeva allora?

«Negli Anni 70 e poi ‘80 era molto popolare a Hollywood. Io ero in mezzo, inizialmente la prendevo alle feste, tutti la prendevano, sembrava a posto, ma crea dipendenza. Capii che stava distruggendo le mie cellule cerebrali, mi stava uccidendo. Lavoravo a un copione, dal libro Wilderness di Robert Parker: beh ma non vide la luce, ero molto arrabbiato con me stesso. La scrittura di Scarface sono riuscito a finirla solo perché mi rifugiai a Parigi: nessuno usava droghe a Parigi all’epoca, era inverno, c’era freddo, buon cibo, belle amicizie».

Nel libro ricorda che la parola “fuck” compare 183 volte nel copione di Scarface. Nel suo libro invece il termine “Dio” compare decine di volte, non solo come esclamazione. Lei crede o credeva in dio?

«Credo nel destino. Ora pratico il buddismo, dove non c’è un dio-creatore e il mistero della vita continua senza inizio né fine. A quell’età, a 19 anni, sì, credevo in Dio. Il divorzio dei miei mi aveva destabilizzato, mi sentivo fuori luogo, senza famiglia. Scrissi un libro che mi venne rifiutato e pensai “sono una merda, non ho uno scopo, sono perso in questo mondo. Vado nell’esercito, mi dissi, vado in guerra, voglio vedere la guerra e poi se mi vogliono gli déi mi prenderanno, me ne lavo le mani, non ne sono responsabile”. Ecco, era un modo per deresponsabilizzarmi. Ma non mi presero, anzi, ho ucciso io. Venni ferito due volte in combattimento, ma quando sono uscito dal Vietnam, ho realizzato che la mia vita aveva uno scopo, e l’ho messo alla fine di Platoon: riempire la vita di bontà e di significato. È per questo che sono sopravvissuto e, grazie a Dio, sono stato in grado di scrivere una storia e farci un film, Cristo Gesù! Questo è un grande traguardo già di per sé, è un sogno che si realizza».

Sua madre amava il cinema, suo padre la scrittura. Ma è sua nonna materna, Memé, a indicarle la via. Dal Vietnam scriveva le lettere a lei e al suo funerale, a Parigi, ha una illuminazione. Dopo un pianto liberatorio. Lei piange spesso?

«Abbiamo molti motivi per piangere, di tristezza, di goia... Tornando al funerale di nonna: avevo 30 anni, un mondo dentro che mi scoppiava e la sua voce mi parlava nella testa, e diceva: “Ora devi fare tu quello che senti di voler fare, tocca a te”. Poi sono arrivate le ombre dei miei commilitoni e ho capito. Sono tornato negli Usa, ho finito di scrivere Platoon e non ho mai mollato. Mai. E boom, realizzai Fuga di mezzanotte e poi Scarface e finalmente Platoon. Mio padre aveva letto la sceneggiatura, diceva che non c’era speranza. Ma no, non era vero, la speranza c’è: poter raccontare la verità, essere sinceri».

Vietnam e dollari. "Cercando la luce" Oliver Stone svela la sua America. Il regista è in Italia per un lungo tour fra i festival e per presentare la sua autobiografia: "È la storia di un ragazzo che, crescendo, scopre un Paese diverso". Cinzia Romani, Martedì 25/08/2020 su Il Giornale. A trent'anni faceva il tassista a Manhattan, poi ha girato una cinquantina di film interessanti, dopo aver studiato cinema con Martin Scorsese; ha vinto diversi Oscar, ha litigato un po' con la cocaina (oggi va a Coca Cola) ed è diventato talmente intimo di Vladimir Putin da chiedergli d'essere il padrino della figlia Tara Chong. Una vita così intensa merita un'autobiografia e Oliver Stone, 73enne regista di Platoon (Oscar 1986) e di Nato il 4 luglio (Oscar 1990), intraprende un tour italiano per parlare di Cercando la luce (La nave di Teseo, pagg. 300, euro 22; da dopodomani in libreria), robusto memoir che, finalmente, ha un protagonista di sua piena soddisfazione. Un soggetto descritto con accuratezza, senza gli arbitrii storici regalati ad Alessandro Magno, cui dedicò un film-flop. Se stesso, cioè. Personaggio controverso e regista internazionale. Ammiratore di leader discutibili, da Castro a Chavez, e cocco d'una sinistra globale che lo idolatra, nonostante egli sputi sui leftist occidentali. Dov'è lui, Oliver il fumantino, c'è discussione, movimento, interesse. Per questo la Tim lo ha invitato a inaugurare a Roma, al laghetto dell'Eur, la prima arena sull'acqua della Capitale e la Regione Marche gli ha confezionato un giro promozionale tra Pesaro, dove sarà ospite del festival del cinema della città, Bassano del Grappa, per la Milanesiana, e Venezia, il 5 settembre, dove il regista ritirerà il Premio «Kinéo» alla Carriera. «Il politicamente corretto non è un concetto che mi interessa. Adesso non puoi fare un film senza consulente Covid. Non puoi fare un film senza un consulente che badi a non urtare la suscettibilità di nessuno. È ridicolo: un film le cui riprese duravano 50 giorni, ora ne richiede 60! Sono stato in Vietnam, non voglio vivere di paure», dice, deprecando che tutto sia «diventato troppo fragile». Lui, d'altronde, è manifesto carnale della capacità di sopportazione della vita: dalle labbra spesse fuoriescono giudizi perentori e dalla sua persona promana un che di furibondo. Eppure, la prosa di Cercando la luce è elegante, sorvegliata. «La luce piena del giorno rivelava i cadaveri sui carretti, il napalm polveroso e gli alberi grigi», scrive Stone dopo una battaglia ai confini con la Cambogia, ai tempi della guerra in Vietnam che egli ha combattuto da giovane eroe: vent'anni e due Croci di bronzo al valor militare. Non a caso, Platoon è il primo film scritto e diretto da un veterano del Vietnam. Perché si era arruolato volontario, dopo l'espulsione da Yale, l'università per i bravi ragazzi americani? Per via del divorzio dei genitori: papà Louis, broker newyorchese, non sopportava più mamma Jacqueline, parigina poco amante degli Usa. «Se i miei genitori si fossero conosciuti bene, prima di sposarsi, non si sarebbero uniti e io non sarei mai esistito. I bambini come me, nati da una bugia originaria, soffrono. E a loro sembra di non poter più credere a niente e a nessuno. Gli adulti diventano dannosi. La realtà porta solitudine», riflette il cineasta e sceneggiatore (anche qui, Oscar a tempesta, da Fuga di mezzanotte a Gli intrighi del potere), incline alle teorie complottiste e pronto a girare il docufilm Bright Future e una nuova versione di Jfk, ovvero Jfk: Destiny Betrayed. «Siccome il film è uscito nel 1999, c'è molto nuovo materiale che è venuto alla luce e che la gente ignora», chiarisce. Quanto a Bright Future, «si tratta di un documentario sull'energia nucleare. Già so che non sarà popolare, ma importante per me. Al cinema, oggi, c'è una tale competizione, per cui prima si decide che cosa andrà bene per il pubblico», afferma. All'Eur, ieri ha commentato Wall Street: «Per la prima volta collaboravo con mio padre, riportando quello che era stato il suo lavoro a Wall Street per 45 anni. Da quel film è cambiato l'atteggiamento verso i soldi: prima, parlarne era volgare. Il budget era elevatissimo e io lavoravo al di fuori del sistema». Nella lunga carriera di Stone, voce autorevole d'una generazione che ama e odia l'America, gli incontri con i pezzi da novanta del firmamento hollywoodiano sono stati molti. «Per Platoon avevo scelto Keanu Reeves, come protagonista, non Charlie Sheen. Ma Keanu odiava la violenza della sceneggiatura e rifiutò», rivela. E se a Hollywood chiunque ha una storia da raccontare su Oliver «andavo in giro fatto e mi drogavo in pubblico, oppure flirtavo con qualche ragazza carina, in presenza del suo accompagnatore: un comportamento stupido e immaturo» - anche lui ha storie da raccontare su Hollywood. «Con Al Pacino, scambi frequenti, sul set di Scarface: è un tipo che vuole avere l'ultima parola». E Tom Cruise «voleva fare a tutti i costi Nato il 4 luglio. Aveva 27 anni, s'immerse nella parte, trascorse molto tempo sulla sedia a rotelle, sentiva la pressione e si ammalò, per questo». Ma qual era l'urgenza di un'autobiografia? «Rappresenta la chiusura di un ciclo. Racconta la storia di me ragazzo, un ragazzo che parte dalla sua vita a New York e dalla devastante esperienza fatta in Vietnam, e che ti porta a vedere il tuo Paese diversamente da come avevi pensato che fosse, crescendo». E può darsi ci sia un seguito. Su Trump, un tempo ammirato, Stone è drastico: «Il problema non è lui. Sia il partito democratico che quello repubblicano sono orientati alla spesa militare: un trilione di dollari l'anno. Ciò riguarda anche voi, che credo siate il Paese con più basi americane dopo la Germania».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 25 agosto 2020. Donald Trump («non credo che vincerà le presidenziali») e il governo americano «che interferisce nel cinema, nella tv, nell'intrattenimento», la sua carriera «scandita da trionfi ma anche da fatica, sudore, sangue e dolori» e il divorzio dei genitori, il covid 19, i sogni, il futuro del cinema. E alla fine un sospiro: «Accidenti, quant' è faticoso parlare di sé stessi». Oliver Stone, 73 anni e tre Oscar, l'autobiografia Cercando la luce in uscita da La Nave di Teseo il 27 agosto, ha inaugurato ieri con il suo film del 1987 Wall Street il TimVision Floating Theatre: si tratta dell'arena galleggiante allestita in mezzo al laghetto dell'Eur per iniziativa di Fabia Bettini e Gianluca Giannelli, direttori artistici di Alice nella città che presenterà fino al 24 settembre anteprime, proiezioni, incontri. I film di Stone, emotivamente potenti e diretti come pugni nello stomaco, hanno spesso diviso l'opinione pubblica ma sempre lasciato il segno, da Salvador a Platoon, Wall Street, JFK, Assassini nati, Snowden, per non parlare dei documentari su Chavez e Putin. Il regista è stato schiavo della droga, confessò anni fa, poi ne è uscito del tutto. A Roma, un sorso d'acqua e uno sguardo alla moglie sudcoreana Sun-jung Jung che lo sorveglia affettuosamente, il grande Stone parla a voce bassa.

Perché ha deciso di raccontare la sua vita in un libro che parla della sua giovinezza, dell'impegno come volontario in Vietnam e dell'ingresso a Hollywood ma si ferma al 1987?

«Alla mia età è giusto tracciare bilanci. Ho descritto i miei primi 40 anni vissuti tutti di corsa all'insegna di grandi successi. Volevo spiegare ai giovani, con la massima onestà, che la vita è una lotta. Facendo il regista ho coronato un sogno, ma per trovare il mio posto a Hollywood ho pagato un prezzo fatto di delusioni e rifiuti: ad esempio, la mia sceneggiatura di Scarface venne considerata volgare e violenta».

Qual è il più grande errore che ha commesso?

«Ma tutta la mia vita è un errore! (scoppia a ridere, ndr). Scherzi a parte, parlerò dei miei fallimenti nel prossimo libro autobiografico. Sogno di scriverlo».

Cosa rappresenta Wall Street nella sua carriera?

«Il mio primo film finanziato da uno degli studios, la Fox, e il primo in assoluto che parlasse di business, un argomento fino ad allora considerato sconveniente».

Con Joe Biden presidente l'America starà meglio?

«Che vincano i democratici o i repubblicani cambia poco: entrambi i partiti intendono investire nella spesa militare, pari a un trilione di dollari all'anno. Ultimamente l'amministrazione Usa ha speso somme ingenti per rovesciare governi e combattere all'estero, non per gli americani. Il mio Paese adora la guerra, ma questa non è vera democrazia. E io la guerra la conosco bene».

Com' è stata la sua esperienza in Vietnam?

«Devastante. Ho scoperto quante bugie aveva raccontato il mio Paese su quel conflitto».

Nei suoi film cerca di andare al di là della versione ufficiale dei fatti: quando ha maturato questa esigenza?

«A 15 anni, con il divorzio dei miei genitori. Fu un trauma. Avevo vissuto in una favola e in quel momento persi la fiducia in quello che mi veniva detto».

La pandemia ha inferto un colpo letale al cinema?

«Si sono visti tanti film in streaming, anche a casa mia, ma il desiderio romantico di condividere con gli altri le emozioni, le risate, la paura in una sala non verrà meno per colpa di questo stupido covid 19 che spaventa tutti».

Lei non ha paura?

«No, sono fatalista. I virus sono sempre esistiti e il covid 19 è un'influenza più forte delle altre. Ma viene strumentalizzata dai governanti per infondere il terrore nella gente e poter organizzare la società diversamente».

Girerà il film White Lies con Benicio Del Toro nel ruolo di un divorziato?

«No, quel progetto è saltato. Preparo un documentario. Il cinema della realtà mi permette di andare dritto al punto».

Che rapporto ha con l'Italia?

«Adoro il vostro cinema. Vidi La Dolce Vita a 14 anni: sesso, sensualità, erotismo. Altro che film americani...».

È vero che ha conosciuto Bernardo Bertolucci?

«Si, lo incontrai pochi mesi prima che morisse e gli offrii di presentargli un medico bravo. Ma lui mi rispose che era felice sulla sedia a rotelle. Poi ha guardato i miei occhi e ha detto vorrei avere ancora quella fame. Bellissimo».

Esiste in lei una parte francese ereditata da sua madre?

«Sì, è il fatto stesso di aver scelto di fare il regista, mentre papà mi ha trasmesso la passione per la scrittura».

Cosa direbbe a quelli che la detestano?

«Auguro a queste persone di riscoprire la loro umanità».

Da giovane, scrive in Cercando la luce, ha sempre cercato di vivere fuori dal sistema. Si sente ancora un ribelle?

«Ci può scommettere».

·        Orietta Berti.

Orietta Berti a Che tempo che fa: "Al Bano ha detto sì al posto di mio marito". Quelle copertine osè su Playmen. Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. Una Orietta Berti superstar a Che tempo che fa. Il ritorno della simpatica cantante emiliana al tavolo di Fabio Fazio manda in visibilio i telespettatori, regalando chicche dal passato pubblico e privato dell'interprete della mitica Fin che la barca va. Si parla delle copertine osè per i magazine per adulti come Playmen ("Non le ho mai fatte, se avessi avuto una suocera o una mamma come la mia anche tu non le avresti fatte", ha scherzato Orietta) e della vittoria mancata al Festival di Sanremo ("Ma gente che l'ha vinto una volta poi è sparita, io sono ancora qui"). Ma la vera "bomba" arriva quando si parla del matrimonio trasmesso in tv con il signor Osvaldo, ancora oggi suo marito. "Osvaldo non ha detto "sì" - rivela la Berti - l'ha fatto solo con la testa, ma il prete l'ha preso per buono. Quando hanno trasmesso la cerimonia in televisione c'era il "sì" di Al Bano". Insomma, Orietta nella galleria delle donne di Carrisi, insieme a Romina Power e Loredana Lecciso, sia pure solo per esigenze televisive.

Verissimo, l'orrore subito da Orietta Berti: "Come sono stata umiliata da un giornalista, una cosa terribile. Da liberoquotidiano.it il 4 ottobre 2020. Tra gli ospiti dell'ultima puntata di Verissimo, il programma di Canale 5 condotto da Silvia Toffanin, ecco Orietta Berti. Nella puntata di sabato 3 ottobre si è concessa in una lunga intervista, in cui ha parlato anche degli attacchi subiti dai critici musicali, che avrebbero cercato di osteggiarla e di tagliarla fuori: "Specialmente nel 1967 - ricorda - quando andai a Sanremo con Io tu e le rose, quando Luigi Tenco venne a mancare. La gente dell’ambiente mi salutava a malapena, i giornalisti non volevano mai fare una articolo su di me, né interviste, come se io avessi la peste - ricorda con dolore -. Ma in fondo la colpa era stata anche loro, perché erano nella giuria speciale e potevano prendere la canzone di Tenco, invece lo hanno abbandonato a se stesso". E ancora: "Non è colpa mia se ho cantato una canzone popolare che piaceva al pubblico". Dunque, Orietta Berti aggiunge: "Pensa che una volta sono andata a Domenica In, un giornalista si è rifiutato di farmi un’intervista, si è seduto e per umiliarmi ancora di più mi disse: Mi dispiace ma non voglio avere niente a che fare con Orietta Berti, non mi sento di farle un’intervista. Io ho detto Beh, non ho fatto niente, sono una donna normale, onesta. Ma non c’è stato niente da fare. In quel periodo era così, è stata una cosa terribile. Ne son uscita fuori grazie alla forza di mio marito che mi ha sempre spinta, e al mio pubblico che mi ha sempre sostenuto", ha concluso nelle sue confessioni con Silvia Toffanin.

·        Orlando Bloom.

Orlando Bloom e la foto di 16 anni fa sul set di Troy: «Trova le differenze». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Operazione nostalgia per Orlando Bloom. Correva l'anno 2004 e l'attore britannico conquistava Hollywood interpretando il personaggio di Paride nel film «Troy». A distanza di oltre  tre lustri il 43enne, attualmente impegnato nella serie tv «Carnival Row», ha recuperato dall'album dei ricordi una foto dell'epoca. Dal set della nuova fiction ha postato su Instagram uno scatto in cui mette a confronto il volto di oggi con quello di allora: «Trovate le differenze» recita la didascalia che accompagna l'immagine.

Stessa espressione. In entrambi gli scatti Orlando posa con un'amica e ripete la stessa espressione. Nella fotografia del 2004, Orlando appare ben rasato e sfoggia lunghi riccioli scuri. Nell'immagine recente sfodera barba incolta e capelli corti. I lineamenti giovanili sono stati sostituiti da un viso più maturo. La maggior parte dei fan sostiene che il suo aspetto non sia affatto cambiato. Anzi c'è chi sostiene che è addirittura migliorato: «Sei come il buon vino - scrive un utente -. Migliori invecchiando».

Una carriera di successo. Nel corso degli ultimi anni Orlando Bloom ha collezionato tanti successi professionali e continua a lavorare senza sosta. La star de «Il signore degli anelli» e della saga i «Pirati dei Caraibi» oltre a partecipare alla seconda stagione di «Carnival Row», serie tv in cui recita a fianco di Cara Delevingne, presterà la voce al personaggio del principe Harry nel nuovo cartoon comico sulla famiglia reale britannica. Anche la vita sentimentale dell'attore procede a gonfie vele. Orlando è fidanzato dal 2016 con la popstar Katy Perry e quest'anno la coppia si dovrebbe sposare: "Non vedo l'ora di avere figli con Katy" avrebbe confessato recentemente la star ai tabloid.

·        Ornella Muti.

Francesco Alò per il Messaggero il 23 luglio 2020. Inseguita e desiderata dai registi italiani degli ultimi cinquant' anni, la splendida Ornella Muti, 65 anni, riappare improvvisamente davanti ai nostri occhi come il sogno di una giornata di mezza estate. In quella del 1970, l'appuntamento settimanale dedicato alle storie d'amore fotografate in posa, intitolato Sogno, vedeva l'arrivo di una nuova star, lei.

Ma è vero che all'epoca la chiamavano la dea dei fotoromanzi?

«È la prima volta che sento questa espressione. Ma se ero un'imbranata».

Il sex symbol Ornella Muti... un'imbranata?

«Mi sentivo impacciata e timida. Mi ricordo che anche in un carosello facevo fatica ad essere sciolta. Mi vergognavo tantissimo. Quando facevo la foto con la mano davanti alla bocca per mimare di chiamare qualcuno andavo nel pallone. Era una tortura. La verità è che all'epoca entravo in un mondo dove la dea del fotoromanzo era un'altra: mia sorella Claudia Rivelli o anche Katiuscia. Le protagoniste e le regine erano loro, io mi sentivo Cenerentola. E c'erano anche uomini deliziosi come Franco Gasparri. Io avevo solo 13 anni».

Che cosa la imbarazzava?

«Non riuscivo a fare le cosiddette espressioni a vuoto come nel cinema muto. Potevi anche urlare mentre ti facevano la foto ma io non riuscivo a fare bene nemmeno quello».

Le scene maliziose la turbavano?

«Ma no. Non si può dire che fossero baci veri quelli dei fotoromanzi».

Che ricordo ha complessivamente di quella esperienza?

«Era un ambiente molto semplice, pulito e simpatico. Il passaggio al cinema fu molto più traumatico perché sul set c'era più nervosismo e tensione. I fotoromanzi me li ricordo come un gioco in famiglia dove dominava sempre un senso di armonia».

Qual è l'ultima volta che ha ripensato a quel periodo prima di questo revival?

«Stavo girando Civico zero (2007) di Citto Maselli e all'improvviso ci siamo ritrovati con la troupe negli stabilimenti della vecchia Lancio dove giravamo i fotoromanzi. Mamma mia che impressione che mi fece».

Perché?

«Perché era tutto abbandonato ma io avevo ancora davanti agli occhi la folla di ammiratori che veniva ogni santo giorno per provare anche solo a vedere mia sorella o Katiuscia e chiedere loro un autografo. Mi ricordavo quei luoghi brulicanti di gente, soprattutto giovani fan, mentre invece in quel 2007 era tutto deserto e desolato».

Che ruoli aveva Ornella Muti in quelle storie? La ragazza semplice o la Lolita?

«Eravamo tutte ragazze normalissime. Truccate sì ma rispetto a oggi di una bellezza quotidiana, oserei dire spontanea. Io facevo sempre l'innocente, mai niente di seducente o ambiguo».

Che ricordi ha di sua sorella su quei set?

«Magnifici. Le chiedevo tanti consigli, lei mi preparava i vestiti e mi aiutava. Una cosa da vera sorella più grande».

Che effetto potrebbero avere quelle storie d'amore sulle nuove generazioni?

«Odio quelli che dicono: Stavamo meglio prima ma non posso negare che quando vedo questi giovani che sui social si fotografano sempre alla ricerca di essere super belli, super fichi o super freak, mi viene da rimpiangere la normalità di quelle love story a collage fotografico e di quei corpi giovani così quotidiani e rilassati. Forse i giovani troveranno questi vecchi fotoromanzi meno stressanti rispetto ai loro profili social».

Che impressione le ha fatto vedere la copertina con Katiuscia da domani in edicola?

«L'epoca di grande celebrità di Katiuscia l'ho vissuta meno. Non ho ricordi vividi di lei. Vedere la copertina con il suo volto mi ha fatto molta tenerezza. La trovo bellissima e pulita. Non c'è quello sguardo ammiccante che vedo oggi dappertutto. E' una sensualità fresca e leggera».

Che Italia c'era in quei fotoromanzi?

«Storie d'amore di ragazze e ragazzi perbene, italiani giovani e onesti. Mi piace da morire questo revival in edicola. Ci ricorda le radici che ci appartengono e a cui apparteniamo. In fondo si è trattato della nostra gioventù professionale prima che molti di noi approdassero al cinema e in televisione. Sono fiera di tutto ciò».

Da ilmessaggero.it il 21 gennaio 2020. Ornella Muti debutta come modella: l'attrice italiana, 64 anni, è scesa in passerella a sorpresa per l'amica stilista russa Ulyana Sergeenko, che ha presentato la nuova collezione a Parigi durante la settimana della Haute Couture. Come ci aveva dimostrato qualche giorno fa Jacquemus (con Laetitia Casta) e come insegna la professionista Donatella Versace (con Jennifer Lopez), far sfilare tra le modelle la personalità che non ti aspetti è sempre garanzia di successo. Per la Muti poi, è stata la prima volta assoluta in passerella: fasciata da un abito laminato color écru, ha diviso l'incarico di testimonial con la regina del burlesque Dita Van Teese. E sembra proprio che il suo personaggio non invecchi mai visto che, come non è sfuggito a molti, l'Ornella nazionale ha fatto una "comparsata" sebbene involontaria anche nella seconda stagione di Sex Education, dove i protagonisti vanno a vedere "Flash Gordon" al cinema e si imbattono in una principessa Aura ad alto tasso erotico. 

Dagonews il 24 gennaio 2020. Ops, I did it again. Come nella famosa hit di Britney Spears, Ornella Muti c'è ricascata, e ancora una volta c'è di mezzo la Russia, dove dice sempre che vorrebbe andare a vivere. Qualche mese dopo la condanna della Cassazione a sei mesi di reclusione e 500 euro di multa per tentata truffa aggravata e falso nei confronti del Teatro Verdi di Pordenone, dove qualche anno fa aveva fatto saltare uno spettacolo dandosi malata per poter partecipare a una cena di gala in Russia con Vladimir Putin, questa volta la signora Francesca Rivelli si è fatta ospitare per cinque notti in due lussuosi alberghi parigini con la figlia Naike da Antonio Grimaldi, stilista in forte ascesa nei paesi del Medio Oriente, con l'impegno di presenziare alla sfilata di lunedì e di accompagnarlo alla cena di gala di chiusura delle collezioni haute couture, questa sera. Ma l'attrice non ha resistito all'ingaggio della stilista russa Ulyana Sergeenko, che lunedì stesso l'ha imbustata in uno dei suoi abiti da babuska sexy e mandata in passerella a tre ore di distanza dalla sfilata di Grimaldi, assicurandosi titoli e qualche foto dai giornali italiani, ignari. Ornella Muti non aveva firmato un'esclusiva, dunque si è sentita libera di agire a piacimento, cioè con la comprovata mancanza di stile. Per il povero Grimaldi neanche un richiamo, e spese a carico.

·        Ornella Vanoni.

Anna Bandettini per “la Repubblica” il 15 maggio 2020. Se c' è una canzone che meritava di essere riascoltata ora, è questa. Domani è un altro giorno e uno pensa subito che sarà tutto più facile, una passeggiata. «Un corno - dice al telefono Ornella Vanoni - domani è sabato, punto e basta. Ma questo non vuol dire che non sia una canzone bellissima e io sono davvero contenta di averla ri-registrata anche perché più passano gli anni e più si diventa intensi». Di anni lei ne ha 85, ed è la stessa donna di sempre, che resiste, che non sa smettere di faticare e che si riconosce in quello che fa: nella versione struggente e un po' jazz di questa splendida canzone, con Rita Marcotulli al piano e Paolo Fresu alla tromba, che la Warner lancia oggi sulle piattaforme digitali insieme al video con i tre artisti, ognuno a casa propria; o ancora nel nuovo album, di cui non vuole parlare, ma dovrebbe uscire in autunno con pezzi di Mario Lavezzi, Mogol, Giuliano Sangiorgi, Roberto Vecchioni, Marracash...E perfino negli errori, come l' altro giorno quando è precipitata nell' infinito chiacchiericcio di Twitter, per una frase maliziosa e cattiva sulla liberazione di Silvia Romano, poi cancellata: "Se era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l' avete liberata?", con la sibillina conclusione che chissà se era casuale il ritorno nella Festa della mamma.

Perché l' ha fatto?

«Ho sbagliato. E lo dico senza problemi. Volevo fare una battuta, ma non è il momento. Mi è venuta perché è il mio carattere. Ma io ho un grande rispetto per questa ragazza, ed era meglio stare zitti perché non sappiamo niente di quello che pensa, se per esempio è stata costretta a convertirsi o no. Per me sì, ma se serve a non morire a 25 anni anch' io mi converto subito e metto la veste verde».

Contraccolpi?

«Non sa quanti. Contro Silvia. Ho ricevuto alcuni video, chiaramente fotomontaggi, terrificanti, che ho subito cancellato. Video violenti che continuano a girare in rete. Sono matti. Dovremmo stare tutti un po' più calmi. Ripartire con un altro passo».

Lei riparte con una canzone splendida.

«Credo di non aver mai cantato Domani è un altro giorno così intensamente. Tutto è partito da una richiesta della Warner: hanno chiamato Paolo Fresu, me e poi Rita Marcotulli con cui non avevo mai lavorato ed è stata fantastica. Spero che piaccia, così, in questa chiave un po' jazz».

Con quanti jazzisti ha cantato nella sua carriera?

«Il jazz mi piace perché è libertà. L' ho scoperto con Gino Paoli, da ragazzi. Cantavamo le canzonette - diciamo così - ma poi scovavamo un mucchio di cose. Ho amato Billie Holiday per come era follemente triste. Poi, nell' 86, c' è stato l' album Ornella & ..., i successi italiani arrangiati da stelle come George Benson, Michael Brecker, Gil Evans, Steve Gadd, Herbie Hancock, Lee Konitz. Un disco costosissimo, rimanemmo a lungo a New York dove incontravo quelle stelle una al giorno. Non c' è stato il tempo per fare amicizia, un po' di più con Gil Evans che camminava sempre dietro di me per guardarmi certe parti».

Le piace che sul web adesso la ascolteranno i giovani?

«Ah, sì... Magari ti accorgi che ti sono state lasciate tante cose belle».

La prima volta lei incise "Domani è un altro giorno" nel '71, che ricordi ha?

«Sul tavolo di Giusta Spotti, l' allora segretaria dell' Ariston, la casa discografica, arriva un pezzo inglese, solo la musica, che nell' originale era interpretato da Tammy Wynette. Lei mi chiama e mi dice "lo mando a Giorgio Calabrese". E lui ne fece quel capolavoro. Il capolavoro è la frase che ti resta addosso, "È uno di quei giorni che ti prende la malinconia". Chi non l' ha provato?».

Lei?

«Ho vissuto momenti in cui mi alzavo e se qualcuno mi diceva "domani è un altro giorno" io pensavo "o madonna, domani sono ancora qui". È passata. Oggi ho perso il senso del tempo e non perché sono rimbambita ma perché chiusi in casa ogni giorno è uguale all' altro».

Come ha vissuto l' isolamento?

«Per 60 anni, quelli del mio lavoro, ho vissuto di corsa. Per la prima volta non ho fatto niente ed è stato fantastico. Sono pigra, quasi zen, c' è laggiù un cumulo di libri che devo decidere se buttare o no: è lì da due mesi. Isolamento, poi... Non ho mai sentito le mie amiche così spesso come in questi giorni, la cosa divertente è che si parla sempre di mangiare. O di mascherine».

E se l' obbligassero a cantare con la mascherina dal vivo?

«Non si può, o forse sì ma sarebbe tutto più ovattato. Guardi, il vero incubo del coronavirus, oltre alla tragedia dei morti, è altro: sono le persone senza salario, assicurazione, niente, come i tecnici che lavorano nella musica e che conosco. E poi il fatto che non c' è più la compassione. C' è freddezza, aumentata forse per le reazioni virtuali. È come se la gente non avesse più parole per consolare l' altro. Bisognerebbe leggere tutti Seneca, Le Consolazioni . Ma nemmeno, la misericordia o ce l' hai o niente».

Ornella Vanoni vuole la candela di Gwyneth Paltrow al posto dei fiori a Sanremo. Ornella Vanoni ha lanciato una provocazione netta sul suo profilo Twitter, chiedendo che i fiori di Sanremo vengano sostituiti con le candele di Gwyneth Paltrow. Erika Pomella, Giovedì 23/01/2020 su Il Giornale. Gwyneth Paltrow continua a far parlare di sé. Da quando ha pubblicizzato sul sito e-commerce Goop la vendita di una candela con il nome "L'Odore della Mia Vagina" l'attrice di Sliding Doors è stata continuamente chiamata in causa, complici anche le altre esternazioni, non da ultima la vagina gigante. Stavolta, però, a chiamare in causa l'attrice ci ha pensato una cantante nostrana, Ornella Vanoni. La donna, infatti, ha utilizzato il suo account ufficiale di Twitter per dare voce ad un suo strano desiderio: "Intorno al palco dell'Ariston invece dei fiori si potrebbero mettere tante, tante candele di Gwyneth Paltrow". La candela in questione, al costo di 75 euro, prometteva di avere lo stesso odore della vagina della Paltrow ed è andata sold out quasi immediatamente, tra le battute e l'incredulità di molte persone di Hollywood. Quanto scritto da Ornella Vanoni sul social cinguettante, però, sembra più che altro una provocazione, se non proprio una denuncia di bassa qualità nei confronti della kermesse sanremese di quest'anno, che è iniziata sotto moltissime polemiche. Dalla conferenza stampa di Amadeus tacciato di maschilismo, alle molte polemiche rispetto alla presenza del rapper Junior Cally sul palco di Sanremo, per via dei sui testi pieni di violenza e sessismo. Argomento su cui sempre la stessa Ornella Vanoni si è esposta, sempre su twitter, invitando i giovani ad essere i primi a prendere la distanza da determinati testi: "Sono i giovani sani di mente e ce ne sono tanti che devono bloccare la partecipazione di Junior Cally perché questa è la musica che li dovrebbe rappresentare. È terribile osceno". Difficilmente, comunque, il suggerimento di Ornella Vanoni - famosa per le sue uscite senza peli sulla lingua - verrà minimamente preso in considerazione, ma su Twitter molti fan che seguono la cantante hanno applaudito alla frase di provocazione che, di certo, non aiuta Sanremo a scrollarsi di dosso quell'aria negativa con cui si sta presentando al pubblico, tanto da far crescere in modo esponenziale il numero delle persone che affermano e sottolineano l'intenzione di voler boicottare il contest canoro più famoso di Italia.

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 31 marzo 2020. Appena alza la cornetta, è Ornella Vanoni a bruciare il tempo. "Come sta?".

Veramente siamo noi a domandarlo a lei.

«Ieri sono uscita per la spesa, almeno una boccata, altrimenti divento pazza».

Si mette in coda.

«Ordinata aspetto».

La fermano.

«Non capiscono chi sono, ho i capelli indietro, bardata, mascherina e occhiali; ogni tanto mi scoprono per la voce».

Passare inosservata non le capitava da un po'.

«Mi piace scegliere i prodotti, mi sento più viva; altrimenti leggo tutto il giorno».

Cosa?

«Ora I miti degli altri (di Wendy Doniger), poi una rivisitazione de l' Odissea».

Film?

«La mia passione sono le pellicole statunitensi in bianco e nero, tra un po' mi arrivano, così mi salvo dalle serie tv».

Su Instagram ha lanciato un allarme per le donne.

«Per forza, non c' è spazio per loro, i loro problemi, le violenze subite, e le donne stesse chiamano meno i centralini, non chiedono aiuto. Vuol dire che sono impossibilitate a denunciare».

Eppure…

«In questo momento vivranno una realtà peggiore del solito; stessa storia per gli immigrati impegnati nei campi: alcuna notizia».

Quindi.

«Spero anche in un intervento europeo di Draghi, la materia la conosce (ci pensa); tutto ciò mi ricorda la guerra. Io c' ero. E i soldati morivano da soli, come oggi i malati di coronavirus».

Ci pensa spesso.

«Moltissimo, però i miei genitori e parenti li vedevo; oggi o vivi in una grande famiglia o niente abbracci; ah, i delfini sono tornati nella laguna di Venezia, la natura si sta riprendendo i suoi spazi».

È complottista?

«No, ma amavo Asimov».

Dorme?

«Meno bene di prima, perché ti svegli e sai che un giorno è uguale al precedente.

Fantasia?

«Alcuni miei colleghi, come Giuliano Sangiorgi, li sento e sono creativi, altri no».

Poi c' è il telefono.

«Parecchio, con gli amici o mia nipote; vorrei andare in Liguria da Gino (Paoli) e sua moglie, vorrei stare con loro, ci sto bene; (un secondo di pausa) quello con Gino è un grande amore finito, ma non mi toglie il piacere della loro compagnia. Hanno una situazione meravigliosa».

Ha un rimpianto?

«Ne ho due: non essere riuscita a tenere Gino, anche se sono andata via io; l' altro è mio figlio: gli sono stata troppo poco vicino, ho perso la prima maternità, ma dovevo lavorare».

Tali situazioni acutizzano le riflessioni.

«No, i rimpianti sono ben chiari da tempo».

Cosa la fa ridere?

«Ho visto una foto di Rocco Casalino in costume».

I tempi del "Grande Fratello".

«Ah, io quella roba lì non la vedo, provo pena per chi partecipa».

È in onda la versione "vip".

«Davvero? I vip non ci sono più».

Lei è vip.

«Solo per questione di età, perché ho vissuto l' epoca nella quale c' erano, e mi riferisco agli Agnelli o gli Olivetti. Non oggi».

Cosa teme?

«Il dopo, la ricostruzione. Già c' è chi muore di fame».

Cosa la indigna?

«I politici di tutto il mondo: sono miliardari e un miliardario non avrà mai il senso della realtà».

Un bicchiere di vino lo beve?

«Se mi togliete anche quello mi sparo».

Ha chiamato Mina per i suoi 80 anni?

«Mica siamo nemiche! Però sì, le ho mandato un messaggio, perché tanto lei non si fa sentire».

Finita l' emergenza, quale sarà il primo appuntamento?

«Resto in casa».

Come?

«Correranno tutti e ovunque, ci sarà l' assalto ai parrucchieri».

Va bene, e finita la frenesia.

«Devo registrare il nuovo disco, tanto quest' estate non ci saranno concerti».

(La Vanoni canta in "Una bellissima ragazza": "E mi piace ricordare quel vecchio film d' amore, dove lui era così bello. Che volavano le ore).

·        Ottaviano Dell'Acqua.

Ottaviano Dell'Acqua. Dagospia il 20 maggio 2020. Da Le Lunatiche.

Sulla professione di stuntman e attore: Ho fatto circa 500 film. Fare l’attore e fare lo stuntman sono due cose diverse, lo stuntman ti da adrenalina, ti da un brio durante le scene d’azione e poi fai anche quello che non fanno gli attori, come tante scene action. L’attore recita, e questo è un altro ruolo importante, però lo trovo molto più rilassante.

Su Federico Fellini: Dell’esperienza con Fellini ricordo che abbiamo girato alle isole di Ponza ed ero piccolo, andavo alle elementari, era tutta una cosa fantastica, meravigliosa, questo mondo di cui sentivo parlare i miei fratelli, perché loro hanno cominciato prima di me, ed eravamo in un sogno. Sembrava di sognare, tutto fantasticamente bello. È stato un bell’inizio.

Su Bud Spencer: Ho passato con Bud Spencer/Carlo Pedersoli 20 anni della mia vita, i più belli nel settore del cinema. All’epoca c’erano due categorie di cinema, cinema di serie A e cinema di serie B. io ho cominciato con Italia violenta e tutti quei film che andavano all’epoca e il sogno di tutti era andare a fare il cinema di serie A con Bud Spencer. Io mi trovavo a Napoli, giravo “Napoli violenta”, mi è arrivata una telefonata in cui mi dicevano che mi aspettavano a Roma per girare una scena d’azione su “Piedone lo sbirro”. Avevo il cuore a 1000, un’emozione enorme, non capivo più niente. Sono andato a recuperare la roba, ginocchiere, gomitiere, senza sapere quello che dovevo fare. Da Napoli arrivo a Roma, di notte, giravamo a Villa Borghese e arriva questa montagna d’uomo, enorme. Io stavo davanti alla persona a cui pensavo di arrivare ma mai di riuscirci, quindi mi trovavo davanti imbambolato. Insomma, mi spiegano che Spencer mi avrebbe dato uno schiaffo e che io dovevo cadere a terra. Mi ha dato uno schiaffo, vicino a me c’era una macchina, io ho fatto mezzo salto mortale indietro andando sul cofano della macchina e cadendo a terra. Finito tutto, mi hanno salutato, sono salito in macchina e sono tornato a Napoli, dentro di me pensavo che forse non era andata bene perché si aspettavano qualcosa di più. Dopo 15 giorni mi è arrivata una telefonata e da allora ho lavorato con lui per 20 anni. Quel salto mortale mi ha dato una marcia in più, io venivo dal circo, ero molto agile, acrobata a terra, quindi mi sentivo un po’ agevolato su questo. Per Bud Spencer il suo gruppo era il suo gruppo. Noi andavamo a fare film all’estero, specialmente in America, e alloggiavamo dove alloggiava lui. Quindi stavamo in alberghi megagalattici, perché lui voleva che il suo gruppo restasse sempre con lui, cenavamo con lui. Io ad un certo punto gli dissi, avevo anche 20 anni, che nella vita non si vive solo di cibo ma anche di altro, come le discoteche, e lui mi rispose che sarebbe andato benissimo tutto, l’importante era non prenderci molto la mano. Io ero il più giovane di tutti, lui mi chiamava ragazzino, e quando eravamo sul set chiedeva se avessi mangiato.

Su Lucio Fulci: In Italia il cinema horror non è molto valorizzato. Io due volte l’anno andavo in America dove fanno queste convention sull’horror e il film di Fulci lì era il top. La mia maschera da zombie è famosissima, purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura. Ho distrutto molte macchine, ma non erano mie quindi va bene. Per queste scene le macchine vengono preparate, si protegge la gabbia dove c’è lo stuntman, poi noi stuntman mettiamo le nostre imbottiture, le ginocchiere, gomitiere, parastinchi, ci bardiamo bene e poi giriamo le famose scene, i cappottamenti, le auto che prendono fuoco con noi dentro. Ho sempre avuto tantissima paura fino al’attimo prima del via e poi partivo. La paura ti permette di valutare tutti i rischi, ti permette di essere concentrato al massimo.

Su Gangs of New York: In “Gangs of New York” ho avuto il privilegio di tenere tra le braccia Leonardo Di Caprio quando Daniel Day-Lewis lo sfida. Gli americani hanno un modo tutto loro, sono divi, Daniel Day-Lewis era quello che arrivava e salutava tutti, Leonardo Di Caprio stava un po’ sulle sue, un po’ divo.

Sul cinema: Ai miei tempi facevamo 600 film l’anno e tutto quello che si vedeva era fatto dal vivo, oggi con i computer è cambiato tutto. Quando facevamo i film c’erano 100 comparse, oggi la maggior parte delle comparse sono frutto di un computer. Però è il progresso che va avanti, la tecnologia ci porta più avanti e noi dobbiamo starci dietro.

Su  come si diventa stunt: Chi vuole iniziare a fare questo lavoro deve essere consapevole che non è un gioco, bisogna impegnarsi seriamente perché ci si fa male, non solo noi ma anche a tutta la troupe. Quindi bisogna stare attenti a 360°. Abbiamo delle responsabilità su tutto quello che può succedere. Il mestiere dello stuntman io lo consiglio, è un mestiere fantastico, unico, sono esperienze che bisogna vivere per capire quello che si sta facendo. Ti da energia, emozioni, a volte pianto e a volte delusione perché magari quello che volevi fare è venuto un po’ meno di quello che pensavi. Ognuno di noi ha degli obiettivi e purtroppo non tutti si raggiungono, quindi anche se non ti piace alla fine la  accetti, è questo il mestiere dell’artista. Ci sono delle scuole che preparano gli stuntman, è un lavoro che va fatto onestamente e seriamente per trovarsi in un mondo fantastico.

·        Pamela Anderson.

Pamela Anderson al quinto matrimonio: l’attrice ha sposato (in segreto) il produttore Jon Peters. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Matrimonio a sorpresa (ed è il quinto) per Pamela Anderson, che lunedì 20 gennaio ha detto sì in gran segreto al magnate del cinema Jon Peters a distanza di oltre 30 anni dal loro primo appuntamento e pochi mesi dopo aver riallacciato la loro relazione, tenuta volutamente lontano dai riflettori. «Pamela non ha mai visto il suo pieno potenziale come artista e deve ancora brillare realmente – ha detto Peters all’Hollywood Reporter dopo la cerimonia, che si è svolta a Malibu - . C’è molto di più in lei di quanto sembri, in caso contrario non l’amerei così tanto. Ci sono belle ragazze ovunque e che avrei potuto scegliere, ma da 35 anni voglio solo Pamela. Mi agita, in senso buono. Mi ispira e io la proteggo e la tratto nel modo in cui merita di essere trattata». Dal canto suo, la 52enne ex bagnina di Baywatch ha espresso con una poesia – condivisa sempre con il sito di gossip - tutto l’amore nei confronti del neo marito, mentre la sua portavoce ha confermato il matrimonio alla rivista People, rivelando che la Anderson e Peters «sono molto innamorati». Come detto, la bionda Pam e il 74enne produttore si conoscono dalla metà degli Anni 80, quando si sono incontrati nella villa di Playboy. La scintilla scattò immediatamente e i due andarono a vivere insieme: lui le pagò i corsi di recitazione, danza e dizione e le fece anche la fatidica proposta, che però la Anderson all’epoca rifiutò, a causa dei 22 anni di differenza fra lei e il magnate. «Ricordo che a quel tempo le dissi che la differenza d’età non avrebbe avuto importanza fra trent’anni», ha ricordato ancora Peters che, in effetti, è stato buon profeta. In precedenza Pamela è stata sposata con il rocker Tommy Lee (da cui ha avuto i figli Brandon e Dylan, entrambi presenti alle nuove nozze della madre); con Kid Rock e per due volte con il produttore Rick Solomon, mentre di recente è stata legata al calciatore francese Adil Rami e ha anche avuto un rapporto molto stretto con il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. Per quanto possibile, la vita matrimoniale di Peters, che ha prodotto sia il film «A Star Is Born» con Barbra Streisand del 1976 sia il remake con Bradley Cooper e Lady Gaga del 2018, è stata ancora più tumultuosa: dopo le seconde nozze con l’attrice Lesley Ann Warren, il produttore ha infatti iniziato una relazione proprio con la Streisand, durata 12 anni e si è poi sposato per la terza volta con Christine Forsyth (presente fra l’altro al matrimonio con la Anderson, insieme alle figlie Caleigh e Skye). 

·        Paola Barale.

Live non è la d’Urso, Paola Barale: "Gianni Sperti e Raz Degan? Mi hanno fatto veramente del male". Redazione Tvzap il 27 gennaio 2020. Tra gli ospiti di Live non è la d’Urso in onda domenica 26 gennaio c’è stata Paola Barale che è stata ‘interrogata’ su vari argomenti, dalle foto a seno nudo pubblicate da Chi ai motivi per cui ora non lavora più in tv. Non poteva mancare però la sezione ‘relazioni’ con le due più importanti storie nella vita della showgirl, l’ex marito Gianni Sperti e l’ex compagno Raz Degan.  Viene mandato in onda un video con immagini dei due, ma quando si ritorna in studio la Barale gela tutti (qui il video): “Dentro di me ho un dimenticatoio dove ci mettono le persone che mi hanno fatto veramente del male e tutte le persone che ho visto là sono finite nel dimenticatoio, quindi non ho nessun piacere di parlare di queste persone”. La trasmissione continua indagano la faccenda Gianni Sperti e i figli mancati che avrebbero portato alla fine del legame (lui sembra durante il matrimonio lì volesse, mentre lei aveva altre priorità) e Paola Barale precisa: “Non è stato il motivo della fine del nostro matrimonio, ma figurati, io ho detto che ai temi del mio matrimonio il mio ex marito più volte aveva dimostrato il piacere di avere un figlio, ma siccome ero io il capofamiglia, portavo avanti tutto io, lavoravo sempre e solo io e non avevo vicino una persona che mi dava la garanzia di cui avevo bisogno io per avere un figlio, perché secondo me un figlio si fa in due e deve nascere quando ci sono tutte le situazioni giuste per poterlo fare, visto che ci siamo lasciati dopo un po’ probabilmente queste situazioni giuste non c’erano. È facile dire voglio un figlio“. Non viene approfondita la dichiarazione riguardo a Raz Degan. I due sono stati insieme tra alti e bassi dal 2002 al 2015, ma sono sembrati ancora uniti quando il modello israeliano ha partecipato all’Isola dei famosi, feeling che ha portato i fan a sperare ad un tempo supplementare per la loro storia. Così non è stato. Nel 2019 Paola Barale spiegava la loro rottura con queste parole a Paola Perego nel corso del programma Non disturbare. “Il momento più difficile della mia vita è stato quando è finita la mia relazione col mio ultimo fidanzato, Raz Degan, io non volevo. Lasciare andare una persona a cui vuoi molto bene, che ami moltissimo, è molto difficile e credo che questo sia un atto di maturità e di grande amore, se ami una persona la rispetti”.

Paola Barale contro Gianni Sperti: "Nessun buon ricordo. Raz Degan? Dovevo fidarmi della prima impressione". Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Grande amarezza. Paola Barale, intervistata dal settimanale F, potrebbe riassumere così i suoi due rapporti con Gianni Sperti e Raz Degan. Con il primo si è sposata nel 1998: "Io e Gianni ballavamo insieme a Buona Domenica e, ballando ballando, siamo arrivati all’altare. Avevo 21 anni ed ero molto innamorata - ricorda la showgirl, oggi splendida 53enne - . È durata 4 anni, poi abbiamo divorziato. Ci siamo persi senza che lui mi abbia lasciato almeno un ricordo che fosse buono". Con Degan invece è durata 13 anni: "Raz è stato il grande amore della mia vita, ma non è bastato. In una coppia l'amore deve essere valore aggiunto, progetto, condivisione. Se c’è amore ci si sposa, se no, no. Fra adulti, non c'è alcun bisogno di mentire, specialmente dopo tanti anni. E quando finalmente mi sono cadute le fette di salame dagli occhi ho visto la realtà per quella che era. Non vorrei più parlare di lui: al di là del dolore che quest'uomo mi ha inflitto, rivangare il passato è una cosa che ancora oggi mi fa star male". La decisione di lasciarsi "l'ho presa io - ammette la Barale -, ma ci sono stata portata per i capelli. Permettere di andare via a una persona che si ama moltissimo è molto difficile, ma se oltre ad amarla la rispetti e ti rispetti, credo che sia un atto di grande maturità. Se avessi dato retta alla ragione, quella storia non sarebbe nemmeno dovuto iniziare. Le prime impressioni sono quelle che contano: quando si percepiscono, vanno ascoltate. Il resto, infatti, è stato anche un mio film".

Gianni Sperti, cannonate contro Paola Barale: "Ma quale odio, guardati dentro". Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Volano ancora stracci tra Gianni Sperti e Paola Barale? Il sospetto nasce leggendo un messaggio del primo su Instagram, che sembra essere rivolto alla sua ex moglie. Pochi giorni fa infatti la Barale ha rilasciato un'intervista in cui affermava che delle nozze con Sperti, di fatto, non salvava nulla. E così questo, sui social, ha scritto: "Io continuo a pensare, continuo a cercare di sfruttare al meglio questa situazione. Sono solo con me stesso e scavo, vado a fondo per cercare risposte, le mie risposte. Molte persone continuano imperterrite a perdersi in pettegolezzi, gossip, trash… altre riserbano rancore, odio e non si rendono ancora conto che l’unica salvezza è l’amore. L’amore per la vita, l’amore per la natura, l’amore per il prossimo". Un messaggio che moltissimi hanno collegato proprio all'intervista della Barale, la quale tra le altre aveva affermato: "Avevo 21 anni ed ero molto innamorata. È durata quattro anni, poi abbiamo divorziato. Ci siamo persi senza che lui mi abbia lasciato almeno un ricordo che fosse buono". Parole pesantissime, insomma. Così come lo sono state quelle di Sperti, che ha concluso affermando: "Invece di pensare all’odio e al male che pensi ti abbiano fatto, cerca le risposte dentro di te e cambia, prova a seminare amore e troverai la tua pace. Sei tu l’artefice del tuo destino! Io non mi fermo e continuo a cercare tutto ciò che riesce a darmi la possibilità di evolvere. Non torno indietro, neppure col pensiero... è già passato", ha concluso. Ce l'ha con la Barale? Probabile...

Paola Barale e il motivo del divorzio da Gianni Sperti: «Lui voleva dei figli, ma io avevo altre priorità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Federica Bandirali. La showgirl si confessa: «Io fluida? Ci sono state parecchie voci su di me». Paola Barale, ospite venerdì 3 gennaio della trasmissione «La Confessione» di Peter Gomez su Nove, si confessa e parla per la prima volta della fine del suo matrimonio con Gianni Sperti, ex ballerino -conosciuto negli studi di «Buona Domenica»- che ha sposato nel 1998. Incalzata dal direttore Gomez, la Barale ha parlato della rottura con l'ex marito «Lui voleva dei figli, io avevo altre priorità, come il lavoro. Lui lavorava, ma non sempre». Una risposta netta è arrivata anche alla domande se le mancano dei figli: «Non mi è mancata la materia prima per fare figli se li avessi voluti — ha detto — mettere al mondo un figlio oggi è molto difficile, io sono molto apprensiva». Un altro tema scottante dell'intervista è stato quello in merito ai blitz dei carabinieri nella casa presa in affitto all’Isola dell’Elba da Paola Barale e alcuni suoi amici nell'estate del 2001: «Io non sono stata accusata di marijuana, io sono stata accusata di crack, che non ho mai visto in vita mia. Eroina, che non ho mai visto in vita mia».  E aggiunge: «Siccome dormivo con una mia amica, tra l’altro mia testimone di nozze sono stata accusata dai giornali di essere lesbica e di fare dei giochi erotici con tanto di oggetti di piacere nel letto». Proprio per questo la Barale ha «fatto causa per tutte le cose che non erano vere», ma si dichiara convinta che «questa cosa è stata messa su a tavolino da qualcuno». Infine Gomez ha rivolto a Paola Barale una domanda scottante: «Nel mondo dello spettacolo italiano c'erano dei Harvey Weinstein?». La risposta: «Penso di sì e sì mi è capitato, ma basta non starci. Ho detto no». La Barale aveva toccato il tema della sua vita privata anche durante la trasmissione «Io e te», rispondendo alle domande di Pierluigi Diaco:  «Io fluida? Ci sono state parecchie voci su di me» aveva detto in tv.

Marcello Filograsso per gossipblog.it  il 5 gennaio 2020. Ospite de La Confessione, il talk show condotto da Peter Gomez in seconda serata il venerdì su Nove, la ex valletta de La Ruota della Fortuna Paola Barale ha svelato i motivi della rottura con il ballerino Gianni Sperti, suo ex marito: "Lui voleva dei figli, io avevo altre priorità: il lavoro. Lui lavorava, ma non sempre. I bambini si fanno quando c’è stabilità. Era un uomo forte, ma durante la relazione era emotivamente distaccato".

La Barale ha parlato anche di un pettegolezzo che da anni la riguarda, ovvero del presunto flirt con la conduttrice Maria De Filippi: “Come è nata questa storia? Mi sono già fatta un’idea. Però sono una persona con un senso del pudore molto alto, non mi va di parlare di altre persone che non hanno mai avuto voglia di parlare di questo. All’inizio non capivo. Perché io non conosco bene la signora De Filippi. L’avrò vista sì e no 10 volte, ma solo in studio. Forse sono andata più volte con Maurizio a pranzo, per parlare di lavoro, ma mai a casa loro”.

Paola Barale ha continuato: “Quando è finita Buona Domenica io mi sono fatta mille domande. Le leggende metropolitane hanno sempre un fondamento di verità. Secondo me io ho capito da dove è nato questo rumor. Sono quasi convinta. Non dipendeva da me, ma dai comportamenti di altre persone che stavano intorno a me, che lasciavano pensare agli altri che questa cosa fosse vera”.

Infine, la Barale ha parlato anche dell'episodio accaduto nel 2001, ovvero un blitz dei Carabinieri nella casa presa in affitto sull'Isola d'Elba durante il quale venne ritrovata della marijuana. Per colpa di quell'evento la Barale ha dovuto affrontare sette anni di processo in quanto fu accusata - in maniera infondata - di fare uso di crack. Per la ex valletta di Mike si è trattato di una montatura gonfiata dai giornali, organizzata a tavolino.

Gianni Sperti: "Paola Barale? Non ha senso parlare di quella storia". Gianni Sperti prende la parola dopo le dichiarazioni di Paoa Barale sulla fine del loro matrimonio e liquida tutti: "Non ha più senso parlarne". Luana Rosato, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Il duro attacco di Paola Barale ai suoi ex compagni, Gianni Sperti e Raz Degan, ha lasciato tutti di stucco e, dopo alcuni giorni dalle dichiarazioni della conduttrice, arriva la replica del ballerino. In merito alla loro unione si è molto scritto e detto, ma è stata la Barale a spiegare di aver messo fine al matrimonio con Sperti scegliendo di non diventare madre perché, ai tempi, la sicurezza economica non c’era. “Ai tempi del matrimonio, il mio ex marito, più volte, aveva dimostrato l'interesse e il piacere di avere un figlio. Io ero il capofamiglia. Portavo avanti tutti io. Lavoravo sempre e solo io, non avevo vicino forse una persona che mi dava una garanzia per avere un figlio – ha spiegato Paola a Live! Non è la d’Urso - . Un figlio deve nascere quando ci sono tutte i presupposti. Ci siamo lasciati dopo un po' [...] Un bambino deve nascere nel miglior modo possibile”. Alle domande più precise sulle sue passate relazioni sentimentali, la Barale ha replicato in modo del tutto inaspettato spiegando che quei due uomini sono finiti nel “dimenticatoio” “dove ci metto le persone che mi hanno fatto male” quindi, ha sottolineato, di non aver alcun “piacere di parlare di queste persone”. Così, con parole dure, la conduttrice ha lasciato intendere di aver molto sofferto per Sperti e Degan e, se quest’ultimo ha scelto di non commentare le dichiarazioni della Barale, Gianni ha voluto spendere qualche parola in merito. Intervistato dal settimanale Uomini e Donne Magazine, l’opinionista del dating show condotto da Maria De Filippi, ha preferito non alimentare il gossip con espressioni denigratorie nei confronti della ex moglie, pur non usando termini felici nei suoi confronti. “Dopo quasi vent’anni penso sia inutile parlare di Paola, della quale ho un ricordo positivo – ha chiarito - . La mia vita è andata avanti e la sua pure. Io oggi sono felice e sereno e le auguro la stessa felicità, ma non ha più senso parlare della nostra storia, il pubblico giovane non sa nemmeno di cosa stiamo parlando”. Come la ex moglie, dunque, anche Gianni Sperti ha liquidato la domanda con una sorta di no comment che lascia intendere come i rapporti tra gli ex coniugi non siano mai più stati sereni dopo la fine del matrimonio.

Live-Non è la D'Urso, Raz Degan risponde a Paola Barale: "Io non lo sapevo", cosa proprio non torna. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. “Non è vero che sono casto da 20 anni”: Raz Degan tuona così in studio al Live-Non è la d’Urso, in onda su Canale 5 domenica 2 febbraio. Una frase che smonta, dopo anni di silenzio, la sua presunta castità. Che non sarebbe mai esistita. Lo hanno sempre scritto i giornali e Raz tuona: “Loro devono controllare le fonti”. Poi Degan riprende le fila del discorso e parla di Paola Barale, che la scorsa settimana (sempre al Live) aveva detto che Raz (suo ex) è finito nel dimenticatoio. “Paola non vuole più parlare di me? Il motivo dovete chiederlo a lei”, continua Raz che è un fiume in piena in diretta. Risponde agli sferati senza perdere nemmeno un colpo. E lascia tutti senza parole. Alba Parietti in una sfera attacca Raz Degan sostenendo che abbia sfruttato la popolarità dell’ex fidanzata (la Barale) per vincere il reality. “Io non posso entrare nella mente di un’altra persona, il rapporto era terminato due anni prima dell’Isola, abbiamo avuto la fortuna di aver vissuto momenti intimi, ma i rapporti sono complicati. Io non sapevo che arrivava all’Isola, non l’ho chiamata io, l’ho apprezzato molto, lì le emozioni sono molto forti. Però non capisco di cosa mi accusate, sono passati 5 anni, non riesco a capire il discorso”, tuona Raz. La sua versione, però, non convince gli sferati. Francesco Fredella

Barbara D'Urso e la confessione hot a Live: «Io e Raz Degan siamo andati a letto insieme». Ida Di Grazia per leggo.it il 3 febbraio 2020. Barbara D'Urso e la confessione hot a Live: «Io e Raz Degan siamo andati a letto insieme». Su Leggo.it tutti gli aggiornamenti. A Live non è la D'Urso, la conduttrice ha rivelato un piccolo segreto su lei e Raz Degan che ha divertito molto il pubblico in studio. Raz Degan è uno degli ospiti di Live non è la D'urso. L'attore alla prova delle sfere è stato interrogato a proposito delle ultime dichiarazione di Paola Barale che domenica scorsa, proprio a Live aveva detto: «è finito nel dimenticatoio» preferendo non parlare più di lui. Dentro le sfere, tra gli altri, anche Alba Parietti che lo definisce narcisista e soprattutto lo accusa di aver "sfruttato" la popolarità di Paola Barale per vincere l'Isola dei famosi. Accuse che Degan rispedisce al mittente: «mi chiami narcisista e metti in dubbio il mio amore, ma non è così. Non so perché Paola Barale non ne vuole parlare, bisogna chiedere a lei. Quando sono stato all'isola ci eravamo lasciati già due anni prima. La fortuna di aver vissuto dei momenti intimi era il regalo più grosso, lo sai che i rapporti sono basati sui momenti belli, intimi e di grande difficoltà. Quando siamo stati all'isola ci eravamo lasciati già due anni prima. Paola ha scelto di venire a trovarmi, era un bella sorpresa. Io non sapevo che arrivava». A stemperare la tensione ci ha pensato Barbara D'Urso che ha fatto una rivelazione hot e choc allo stesso tempo: «Io e Raz Degan siamo andati a letto insieme». Applausi del pubblico in studio ma ovviamente si tratta di fiction, i due hanno recitato insieme in passato.

Da comingsoon.it il 3 febbraio 2020. Ieri, domenica 2 febbraio 2020, Raz Degan è stato ospite nel salotto di Live-Non è la D'Urso dove ha affrontato le cinque sfere. Solo una settimana fa, il bel ex modello e attore israeliano è stato al centro del gossip per forte dichiarazione rilasciata da Paola Barale, sua storica ex. La presentatrice, intervistata da Barbara D'Urso, ha ammesso di aver sofferto per la fine della sua storia d'amore con Raz ma di aver trovato un modo efficace per proteggere il suo cuore dal dolore: "Ho una grandissima caratteristica, non so se sia un pregio o un difetto. Dentro di me ho un dimenticatoio dove ci metto le persone che mi hanno veramente fatto del male". La frecciatina della conduttrice è giunta anche alle orecchie dell'ex marito Gianni Sperti, che ha eclissato elegantemente le accuse. L' opinionista di Uomini e Donne ha dichiarato: “Dopo quasi venti anni penso sia inutile parlare di Paola, della quale ho un ricordo positivo. La mia vita è andata avanti e la sua pure. Io oggi sono felice e sereno e le auguro la stessa felicità, ma non ha più senso parlare della nostra storia". Raz, invece, è finito al centro delle polemiche per le dichiarazioni fatte proprio ieri sera a Live. In particolare, Alba Parietti si è detta sconcertata dall'atteggiamento dell'attore, arrivando ad ipotizzare che l'uomo abbia utilizzato la Barale per vincere la dodicesima edizione de L'Isola dei Famosi. Incalzato dalla Parietti, Degan ha replicato: "Io non posso entrare nella mente di un’altra persona, il rapporto era terminato due anni prima dell’Isola, abbiamo avuto la fortuna di aver vissuto momenti intimi, ma i rapporti sono complicati. Io non sapevo che arrivava all’Isola, non l’ho chiamata io, l’ho apprezzato molto, lì le emozioni sono molto forti. Però non capisco di cosa mi accusate, sono passati 5 anni, non riesco a capire il discorso”. Anche Lemme ha riservato parole al vetriolo per il bel israeliano, asserendo: "Sei un ex modello, un attore fallito, hai fatto quattro, cinque filmetti, ti atteggi a sciamano, non hai concluso niente, non sei niente”. Dopo aver risposto in modo evasivo, Degan ha precisato che le ipotesi sulla sua castità sono infondate: "Non è assolutamente vero quello che si dice. Faccio s**so fortunatamente come tutti gli uomini”. Le voci sulla sua castità ventennale erano state riportare da Rocco Siffredi, suo compagno durante l'esperienza come naufrago. La Barale replicherà o sceglierà di lasciare Degan nel dimenticatoio?

·        Paola e Chiara.

Paola di Paola & Chiara: “Felice del glorioso passato con mia sorella”. Alberto Pastori il 18/01/2020 su Notizie.it.  "Le voglie bene ma abbiamo preso strade diverse": così si esprime Paola di Paola & Chiara celebre coppia di cantanti degli anni duemila. Il duo “Paola & Chiara”, composto dalle sorelle milanesi Paola e Chiara Iezzi è durato per ben 17 anni, dal 1996 al 2013. Nei primi anni Duemila divennero molto famose con la hit Vamos a bailar. Ora però entrambe le sorelle, rispettivamente 45 e 44 anni, hanno scelto di fare altro. Ed entrambe sono molto felici. Paola è stata ospite del programma radiofonico in onda su Rai Radio 2, I Lunatici, nel quale ha raccontato qualcosa dell’esperienza artistica vissuta con la sorella. “Abbiamo tirato fuori un sacco di hit e fatto ballare un sacco di gente” ha spiegato Paola “Abbiamo fatto video sempre molto curati, dato un’immagine precisa alla nostra iconografia e tutto questo è rimasto. Paola e Chiara hanno esaurito il loro percorso e le loro cose da dire”. La 45enne continua dicendo come Chiara oggi abbia scelto di fare l’attrice e di come sia molto innamorata di questo lavoro. “Quando una persona ha voglia di fare altro nella vita bisogna anche accettarlo. Noi siamo sorelle e ci vogliamo bene” ha aggiunto Paola “Ho una strada davanti a me, ho un passato glorioso con mia sorella, le nostre canzoni hanno fatto ballare e cantare un sacco di italiani e sono arrivate anche all’estero”. Definisce poi una “benedizione assoluta” i pezzi incisi con la sorella Chiara e si diverte ancora molto a cantarli. E conclude: “Mi ricordo che quando abbiamo scritto determinati pezzi ci guardavamo e dicevamo che erano una bomba. Nel caso di ‘Amici come prima‘ quando l’abbiamo finito di scrivere abbiamo pensato questo va a Sanremo e vince. Ed è andata esattamente così”.

Dagospia il 17 gennaio 2020.Da I Lunatici Radio2. Paola Iezzi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Paola Iezzi, ex di Paola e Chiara, ha raccontato: "E' uscito da qualche giorno un inedito con Miss Keta, LTM. Ci siamo incontrate per caso in un locale, lei faceva un featuring, io ero andata a vedere la serata, l'ho vista, mi sono presentata. E' passato quasi un anno. Ero un po' intimorita, lei ha sempre il volto coperto, mi sono presentata e lei mi ha detto che sapeva tutte le canzoni. E' stato un incontro carino, ci siamo scambiate il numero, è nata una simpatia e le ho chiesto se aveva voglia di collaborare per fare qualcosa insieme".

Su Paola e Chiara: "Paola e Chiara sono durate 17 anni, un periodo lungo per un sodalizio artistico. Abbiamo tirato fuori un sacco di hit e fatto ballare un sacco di gente. Abbiamo fatto video sempre molto curati, dato un'immagine precisa alla nostra iconografia e tutto questo è rimasto. Paola e Chiara hanno esaurito il loro percorso e le loro cose da dire. Chiara oggi è un'attrice, ama questo nuovo lavoro e questo nuovo percorso. Quando una persona ha voglia di fare altro nella vita bisogna anche accettarlo. Noi siamo sorelle e ci vogliamo bene. Ho una strada davanti a me, ho un passato glorioso con mia sorella, le nostre canzoni hanno fatto ballare e cantare un sacco di italiani e sono arrivate anche all'estero. Vado avanti, i pezzi che abbiamo fatto sono una benedizione assoluta, mi diverto a ricantarli e mi piace l'idea che quei pezzi siano rimasti. Mi ricordo che quando abbiamo scritto determinati pezzi ci guardavamo e dicevamo che erano una bomba. Nel caso di Amici come prima quando l'abbiamo finito di scrivere abbiamo pensato questo va a Sanremo e vince. Ed è andata esattamente così".

Sul rapporto con i social: "I feticisti che mi chiedono foto di piedi? Ce li ho, come tutte credo. Ci sono tanti che amano i piedi delle donne, però devo dire che sono sempre molto carini ed educati".

·        Paola Ferrari.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 7 gennaio 2020. Incuriosito dai continui, ossessivi attacchi che Paola Ferrari, la conduttrice della Domenica sportiva della Rai, non perde occasione di rivolgere alla «collega» Diletta Leotta, la conduttrice di Dazn, domenica sera ho provato a metterle a confronto. Così tanto per capire. Come ricordava spesso Enzo Biagi, il rapporto di colleganza fra compagni di lavoro è spesso odio vigilante. Le critiche che la Ferrari rivolge alla Leotta non riguardano lo sport ma la chirurgia: «Ho sempre pensato che bisogna imparare ad accettarsi e quindi trovo diseducativo che una ragazza decida di rifarsi il seno e il lato b. Forse senza quei ritocchi ci avrebbe messo più tempo per arrivare al successo, chissà». Chissà, ma inesperto come sono del settore, non vorrei scivolare nel gossip e nell' ineleganza. Annoto solo che anche Caterina Collovati (tv locali) e Giorgia Rossi (Mediaset) sono intervenute nel dibattito per dire la loro contro la «collega». La Leotta era a bordo campo, in compagnia di Federico Balzaretti, per presentare Roma-Torino e poi per intervistare alcuni protagonisti. A me è parsa più convincente di Balzaretti, più padrona della scena e le domande che faceva non erano per nulla scontate. Non dev'essere facile essere il volto di una nuova piattaforma, quanto meno bisogna avere le capacità di mettersi in gioco. Nel condurre la DS , Paola Ferrari è affiancata dal «collega» Jacopo Volpi; in studio, a commentare il calcio, c' era Fulvio Collovati (marito della suddetta Caterina). La gloriosa DS ha un' aria vintage, non si occupa solo di calcio (l' inizio è stato dedicato alla sciatrice Sofia Goggia), inevitabilmente ha tempi più dilatati e discorsi più prevedibili. Come Barbara D' Urso, quando la Ferrari è sola sembra avvolta da un' aura quasi celestiale. Il suo volto è un' esplosione di luce, tanto che risulta difficile immaginarla al di fuori di quell' alone accecante. Per questo sembra più persuasivo Volpi.

Paola Ferrari a Libero: "Donald Trump? Opinioni diverse con mio suocero Carlo De Benedetti". Alessandra Menzani su Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Paola Ferrari può piacere o non piacere. Ma di sicuro non ci si annoia a parlare con lei. La conduttrice del calcio Rai non ha il dono della diplomazia. E la domenica sera gli italiani si incollano allo schermo per seguirla.

Non è un mistero la sua avversione per Diletta Leotta, che ha più volte criticato: non le va giù che vada a Sanremo?

«Di Diletta Leotta non parlo più. Sono molto felice per la partecipazione a Sanremo di Rula Jebreal, mia amica. Abbiamo idee molto diverse dal punto di vista politico e sociale ma ci stimiamo. Avere punti di vista diversi è bello. Mi diverto a discutere con chi non la pensa come me. Se esco a cena con lei sono sicura che io non mi annoio e lei neppure. Non mi piacciono le persone scontate con cui non hai niente da dire».

Per esempio?

«Non è carino dirlo».

Allora ci dica con chi non si annoia.

«Sono fortunata perché ho sempre lavorato con persone interessanti, come Giorgio Tosatti, Bruno Pizzul, Mario Sconcerti...».

Tutti uomini.

«Perché ero io che conducevo. Ma lavoro bene anche con le donne. Ci ho provato con Alba Parietti, mi piacerebbe farlo con Simona Ventura. Ho un carattere difficile ma ho delle belle amicizie».

La scorsa settimana la sua Domenica Sportiva ha battuto Pressing. Una specie di derby.

«È andata molto bene, si sfidavano due brand storici. Pressing fu glorioso ai tempi di Raimondo Vianello. Giorgia Rossi è brava, una collega che mi piace: molto bella ed elegante e mai volgare. Non usa questo lavoro per avere scorciatoie ma ha rispetto della professione di giornalista. Non è scontato, forse è stata colpa anche nostra che abbiamo fatto errori in passato».

Quali errori?

«Di aver creato confusione tra la figura della bella in tv e della giornalista. Io da giovane andavo in giro al freddo e al gelo, amo questa professione tanto che vorrei tornare a fare il telegiornale».

Cosa ne pensa delle polemiche sulla partecipazione di Rita Pavone?

«Veramente incomprensibili. Ho letto alcuni attacchi sul tema del fisico. Schifezze. Io sono stata presa in giro per anni, per le luci, per l'aspetto, anche da colleghi famosi del Corriere della Sera. Un bullismo vergognoso che mi fa vomitare».

Cosa si aspetta da Sanremo?

«Sono molto curiosa. Amadeus è un amico, sono affezionata sin dai tempi di Radio Deejay. Lo ricordo emozionato, giovane, quando mi chiedeva: 'Riuscirò a comprarmi la mia prima casa?'. E io: 'Ma certo!'. Aveva 25 anni, siamo coetanei. Sono sicura che abbia scelto ottime canzoni, lui attraversa diverse generazioni».

In gara ci sono pochissime donne e tanti uomini, 7 contro 24 (lo scorso anno 7). Le dà fastidio?

«Non è una cosa da giudicare, perché bisogna ascoltare le canzoni. In compenso ci saranno tante donne sul palco provenienti da realtà diverse. Ci divertiremo di meno a commentare i look, questo sì».

Le piacerebbe apparire all'Ariston?

«Ovvio, non lo nascondo. Questo lavoro si fa per le emozioni e quello è un palco importantissimo. La Leotta, la d'Amico: ci sono state tutte tranne me. Sanremo sarebbe il coronamento di una carriera che iniziai a Portobello con Enzo Tortora. Sarebbe bello chiuderla così. Il mio sogno vero è cantare al Festival».

Più o meno di condurre di nuovo un telegiornale?

«Scelgo il tg. Ho condotto il Tg2 per tanti anni, quando attaccarono le Torri Gemelle ero là. Sei al centro del mondo. Io seguo tutto: la politica estera, la medicina».

Parlando di giornalismo che rapporti ha con suo suocero, l'ingegnere Carlo De Benedetti dopo le note vicende della cessione del Gruppo Gedi ad Elkann?

«L'ho sentito giorni fa dopo il mio tweet su Donald Trump. Mi ha scritto e ci siamo scambiati opinioni. La pensiamo diversamente. È il nonno dei miei figli, con Alessandro ha un rapporto speciale».

Dunque?

«Il nostro rapporto va al di là delle situazioni famigliari e del gruppo editoriale. È conflittuale ma positivo, sono una che parla e lo fa in modo sincero. Abbiamo avuto delle belle ed accese discussioni. Non riesco a stare zitta e non sono una diplomatica, penso che ormai questo si sia capito».

Si è notato, appunto, con il suo tweet su Trump dopo l'uccisione di Soleimani. Ha scritto: «Finalmente qualcuno con le palle. Ne avessimo anche noi invece politicamente corretti capaci solo di subire e criticare».

«Mi sono molto innervosita. Non sopporto chi critica sempre a priori. È stata una mossa azzardata quella di Trump? Vediamo un po' perché può averlo fatto. Io giudico sempre un politico per quello che fa e che dice, non mi interessa se viene da destra o da sinistra. Bisogna essere più elastici e abolire i paletti. Posso essere d'accordo sia con Alessandro Di Battista che con Giorgia Meloni».

Diciamo che di solito è più d'accordo con Giorgia Meloni?

«Beh, sì. È una donna che mi piace molto e lo dico da anni. A giudicare dai sondaggi attuali, avevo ragione».

Alessandra Menzani

·        Paola Perego.

Anticipazione da “Oggi” il 27 maggio 2020. In una intervista esclusiva al settimanale OGGI, in edicola da domani, Paola Perego racconta i suoi anni d’inferno contrassegnati da ripetuti attacchi di panico: «La gente se ne vergogna, io stessa ne parlavo a fatica…I farmaci mi facevano compagnia anche da moglie, come negli studi televisivi. Con Andrea (Carnevale, il primo marito, ndr) fingevo, ma con le crisi notturne la maschera è crollata. Lui era scettico, sembrava non capire, come accade spesso a chi non vive e conosce il mostro…Stavo bene, non avevo niente, improvvisamente scoppiava una bomba… Il fisico andava in modalità pericolo: sudore, tremore, battito accelerato. Iniziava così il distacco dalla realtà, vivevo nel sintomo, non sentivo, non vedevo, ero certa di morire da lì a poco. E da lì vivevo nella paura della paura, perché sapevo che da un momento all’altro quel mostro poteva tornare e io non sarei mai stata pronta». La conduttrice dice che a salvarla è stata l’analisi: «Il percorso analitico è stato lungo e sofferto ma mi ha permesso di conoscere la vera Paola». E il nipotino che le ha ridato felicità: «Sono la nonna pazza d’amore di Pietro, il bambino di mia figlia Giulia. Un cucciolo d’uomo che guardo con gli occhi pieni di stupore nelle sue continue scoperte del mondo... Per tutta la mia vita ho dovuto dimostrare agli altri il mio valore, ora che mi sento una donna risolta, mi godo gli attimi di questo amore immenso che Pietro mi dà». 

·        Paola Pitagora.

Luca Pallanch per “la Verità” il 13 novembre 2020. Paola Pitagora, un nome (d' arte) che rimane impresso nella memoria. Come il ruolo che l' ha resa celebre: I promessi sposi più famosi della televisione italiana. Ma non è rimasta schiava né di quel successo, né della sua bellezza. Ha sperimentato in diversi campi, soprattutto ha vissuto.

Chi ha scelto il nome d' arte Paola Pitagora?

«È nato come un gioco perché ho un cognome difficile. Fin dalle elementari. mi tocca ripeterlo sempre due-tre volte: "Paola Gargaloni", allora con il mio compagno dell' epoca, Renato Mambor, ci siamo detti: «Troviamo un nome d' arte». Lui mi ha suggerito: "Perché non ti chiami Paola Pitagorica, così richiami un po' la tavola pitagorica?". Anche Pitagorica era complicato e alla fine è diventato Pitagora, un po' per scherzo, un po' per non morire!».

Dove aveva conosciuto Mambor, grande protagonista del movimento artistico nato intorno a piazza del Popolo?

«In una scuola basata sul metodo Stanislavskij, diretta dall' attore Marco Guglielmi. Eravamo una decina di giovani e lì ho scoperto i misteri della recitazione. Mambor era sicuramente il più dotato perché aveva un talento mimico notevole. Ha poi fatto l' attore: piccoli ruoli, ma la sua passione già da allora era la pittura. Io ero imbranatissima, in realtà ho frequentato quel corso più che altro per uscire da una specie di timidezza».

Ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia?

«Ho fatto il provino al Centro Sperimentale e mi hanno dato una borsa di studio, ma contemporaneamente ho fatto anche un provino con la Vides. Franco Cristaldi all' epoca voleva fare una specie di Actors Studio all' italiana e hanno selezionato dieci giovani. Cristaldi offriva un contratto di sette anni: non potevo dire no e così ho subito mollato il Centro Sperimentale. Era il 1960».

Il film di Bellocchio, in cui interpreta la sorella di Lou Castel, ha dato una svolta alla sua carriera?

«Ha avuto un certo impatto. Io già lavoravo, avevo debuttato in teatro e facevo qualche parte in televisione».

Aveva già recitato in film anche importanti, come Kapò di Pontecorvo.

«Kapò non l' ho mai fatto. Mentre giravano il film, io frequentavo la scuola della Vides diretta da Alessandro Fersen, grande maestro. È successo un disastro nella scuola perché sparivano oggetti, portafogli, occhiali, e per invidia sono stata incolpata io di queste furti. Allora Cristaldi, per togliermi dall' imbarazzo, mi ha spedito a Belgrado sul set di Kapò. Era una diciannovenne piuttosto fiorente e Pontecorvo, quando mi ha visto, ha detto: "Non so cosa farti fare perché mi servono venti chili in meno nel giro di quindici giorni, cosa impossibile". Sono stata sul set e siccome ero stato al Centro Sperimentale mi hanno inserita nei titoli... è stato un magheggio della produzione. Due mesi di noia, bronchiti, corteggiamento perché io non facevo nulla dalla mattina alla sera. Insomma, una tortura!».

Agli inizi degli anni Settanta ha avuto un periodo francese. Ha lavorato con José Giovanni in Solo andata, Carné in Inchiesta su un delitto della polizia e Verneuil ne Il serpente.

«Erano piccole partecipazioni. Nel film di Carné ho incontrato il sogno della mia vita: Jacques Brel».

Com' era come attore?

«Chi se ne frega com' era come attore: aveva una tale presenza... C' è stato anche un momento di corteggiamento, del quale non ho saputo minimamente approfittare. Il massimo del fascino l' aveva sul palcoscenico.

L' avevo vista all' Olympia pochi anni prima. Mi ero messa davanti al camerino per avere l' autografo, ma non ero riuscita a entrare. Poi mi è capitato di recitare con lui, mi ha corteggiato e io, come una cretina, ho tagliato la corte. Non volevo complicarmi la vita...Che grande rimpianto!»

Ha lavorato anche con Julie Christie in Alla ricerca di Gregory di Peter Wood.

«Con lei c' è stato un bel rapporto. Sono andata a Londra a casa sua nel 1969, l' anno del concerto all' isola di Wight. Ho cercato di portarla con noi, ma non è voluta venire. Quella è stata una bella avventura. Eravamo quattro-cinque italiani, ma non c' era posto perché una folle di persone era lì da tre giorni. Era l' ultima sera e avrebbe cantato Bob Dylan: volevamo assolutamente vederlo. Il fidanzato della moglie di John Lennon ci ha fatto da ariete! Come un matto ha cominciato a dire alle guardie che proteggevano il palco: "Sono il fidanzato della moglie di John Lennon!". Non so come sia andata, sta di fatto che ci siamo trovati in prima fila sotto il palco, da una parte Jane Fonda che si fumava le canne, dall' altra John Lennon con la sua nuova fiamma, Yoko Ono. È stata un' esperienza talmente forte che mi sono addormentata!».

Era anche un' appassionata di musica...

«Purtroppo non ho potuto studiare musica, mi sarebbe piaciuto tantissimo, però componevo delle melodie. Alcune sono diventate canzoni, ho vinto persino lo Zecchino d' oro come compositrice con La giacca rotta. Mi era nato un fratellino e mi ricordo che ho visto quell' edizione dello Zecchino d' oro con lui in braccio».

I primi anni Settanta sono stati il periodo in cui ha lavorato di più. Forse non ha trovato un regista che la valorizzasse pienamente...

«Probabilmente è andata così. Infatti non ho avuto una carriera cinematografica strepitosa, assolutamente».

Avrebbe meritato di più: era un' interprete raffinata...

«La ringrazio molto. Evidentemente non andavo bene in quel momento, ma non riesco a dire col senno di poi: "Ah, non mi hanno capita!". Tutto si poteva fare meglio, qualche errore l' ho commesso, qualche asperità di carattere l' ho avuta, non sono mai stata compiacente con nessuno, senza orgoglio e senza rammarico, e questo non ha facilitato la carriera».

Non ha mai rifiutato ruoli che magari avrebbero potuto indirizzare la sua carriera in un' altra maniera?

«Qualcosa ho rifiutato: una partecipazione in un film di Godard, dove sarei dovuta apparire completamente nuda dentro un armadio, mi sono spaventata e sono fuggita da Nizza. Mi sembrava che mi volessero usare più come bella ragazza che come interprete, e allora tagliavo la corda. Magari è stato un errore. Ma io sono contenta lo stesso».

Ha dimostrato anche grandi doti di scrittrice: Fiato d' artista. Dieci anni a Piazza del Popolo è uno dei libri più belli sulla Roma degli anni Sessanta.

«Come scrittrice ne ho pubblicati altri due, ma se oggi scrivo un' email a una casa editrice non mi rispondono nemmeno! Le difficoltà stanno nel mio karma!».

Nei due successivi romanzi, Antigone e l' onorevole e Sarò la tua bambina folle, si è ispirata a persone reali per la figura, rispettivamente, dell' onorevole e dell' attore?

«Certamente sì, sono due che ho conosciuto. L' attore è una persona che mi ha toccato il cuore perché ho lavorato da giovane con lui quando ho debuttato allo Stabile di Genova. Era talmente stonato che non gli facevano dire più di due battute, ma lavorava sempre perché era una persona talmente amabile e innamorata della vita della compagnia che non si poteva fare a meno di lui. Mi ha insegnato il rispetto umano di questo lavoro. Dopo tanti anni ho pensato spesso a lui. Si chiamava Roberto Tescaro».

Invece l' onorevole?

«Quello non glielo dico, ma pensa un po'!».

Tornando a Fiato d' artista, che ricordi ha dei pittori di piazza del Popolo?

«Tano Festa, Cesare Tacchi e Alighiero Boetti, senza che chiedessi nulla, si presentavano con un regalo e negli anni mi sono ritrovato una piccola collezione di quadri: magari li tenevo, mi vergogno a dirlo, in cantina, ora hanno un valore e posso solo ringraziarli. Erano molto amabili: credo che lo fossero perché volevano bene a Renato Mambor».

Umanamente con chi ha legato di più?

«Con Pino Pascali: era una persona estroversa che ti tirava dentro, che ti costringeva al dialogo, a differenza invece di Franco Angeli e Tano Festa, ai quali per tirare fuori una parola ci volevano i balletti! A Pino ho voluto un grandissimo bene. Era molto amato».

Quel mondo fino a quando lo ha frequentato?

«La diaspora è iniziata purtroppo con la morte di Pascali nel '68. In quel momento Mambor ha smesso di dipingere. C' è stato un fuggi fuggi generale, il mondo delle gallerie, dei collezionisti, stava cambiando, per cui ognuno si è chiuso in se stesso. La morte di Pino è coincisa con un cambio di costume della società e non ho più visto nessuno per anni. Con Renato ci siamo lasciati l' anno dopo. Ho proprio cambiato vita, ho girato pagina, anche perché la separazione è stata abbastanza dolorosa, quindi bisognava dare uno strappo. Poi mi sono innamorata di un altro, tutta una serie di amori sbagliati...».

Lei veniva dal successo televisivo dei I promessi sposi appena prima, nel 1967.

«Non ero preparata e non me lo sono goduto, perché quel successo improvviso non è piaciuto a Renato, si è creata molta tensione tra di noi. Io avrei voluto anche sposarmi, lui invece è scappato, se n' è andato a Genova. Provavo molta solitudine, per cui non mi sono divertita per niente. Non è vero che il successo dia la felicità».

Si è identificata in Lucia Mondella?

«No no, erano anni in cui il costume andava in un' altra direzione. Sinceramente, se avessi avuto la possibilità di scegliere, avrei voluto fare la monaca di Monza! Mi sembrava più intrigante. La cosa più interessante è che sia il bravissimo regista Sandro Bolchi che la dirigenza Rai dell' epoca erano molto colti: volevano una Lucia non piagnona. Mi dicevano: "Guarda che Lucia è un' operaia". È vero: lavorava alla filanda. Aveva una dignità che si sposava con il mondo femminile di quegli anni. È una donna forte, vincente, nonostante sia vittima: vince la peste, domina l'Innominato, sposa l'amato Renzo, cavolo!».

Poi ha puntato più sul teatro.

«Il palcoscenico è sempre stata per me la sensazione di esercitare fino in fondo il mestiere dell' attrice».

Quindi le ha dato più soddisfazioni?

«Forse le soddisfazioni più narcisistiche le ho avute più dalla televisione, però il palcoscenico ti impegna con la testa e i piedi. Bisogna esercitare la voce. I giovani attori sono molto più preparati di come eravamo noi, però a volte non si capisce quello che dicono. Sul palcoscenico, se non parlavi con un certo tono sentivi che gli spettatori cominciavano a soffiarsi il naso, a tossire: voleva dire che non riuscivi a catturare la loro attenzione. Io ho molto amato il teatro e l' amo tuttora. Adesso non mi faccia fare il pianto greco che stanno facendo tutti su questo bruttissimo momento. Qualche sera fa dovevo andare a Genova per fare un recital su Leopardi con una concertista, Anna Lisa Bellini, che suona Chopin, lo faccio da anni, ma ho dovuto rinunciare. Sono dispiaceri, ma spero che passi, no?».

·        Paola Saulino.

Moreno Pisto per mowmag.com il 17 agosto 2020. Bombastica e bombarola. Tettonica. Giunonica (anche se lo sembra, in realtà è piccolina). Esagerata nelle forme e nei modi. Oltre. Too much e tanta roba. Paolina è un superlativo vivente. Supera la soglia di perbenismo e di libertà. Se ne fotte, allegramente. Inventa parole. Performa dal bagno di casa sua a Roma, lecca il microfono della doccia, dispensa voti sui falli dei giocatori di serie A (falli di gioco, chiaro), spacca l’instagram con le sue dirette (manco Valentino e Jovanotti insieme, durante il lockdown, sono arrivati ai suoi numeri), è la migliore divulgatrice sessuale in Italia, parla di pallame, pecorame, come bisogna prepararsi per un rapporto?, come soddisfare l’uomo con un rapporto orale, come raggiungere l’orgasmo in pace. Infatti dalle donne è amatissima; donna, lei, all’ennesima potenza. Dagli uomini pure. Solo che gli uomini a volte confondono l’amore con il desiderio di prevaricazione e quindi la offendono, nei commenti, nei messaggi, ma in realtà la amano. Tutti. Borsone di Victoria Secret, scollatissima, minigonnata, taccata, Paola Saulino, anno di nascita 1991, napoletana sin dalla camminata, sale in macchina e parte a bomba, ed è diretta, sboccata, esattamente come si percepisce mediata dallo schermo di un cellulare. È lei a definirsi e non potrebbe essere altrimenti: “Sono irriverente, amo mostrarmi spregiudicata, trasgressiva, però voglio avere la situazione sotto controllo. E se sono così nessuno comunque si deve prendere la libertà di giudicarmi, che non ha. Sono questo ma non solo questo. Sono piena di sfumature”.

Gli uomini a volte non se ne accorgono…

“Ieri sono andata in un pub a guardare una partita, mi sono messa un leggins anti cellulite, una gonna oversize lunga, na’ maglia, ma chi vuoi che mi dica qualcosa, pensavo, e invece appena entro, sento: ma è Paolina o non è lei? Ordino la mia orecchia di elefante e succede che gli uomini mi circondano, qualcuno si mette a sedere al mio tavolo… Ma se fossi stato un uomo famoso l’avrebbero fatto lo stesso? Con me invece si sono arrogati questo diritto. E poi selfie e foto anche se non volevo. A un certo punto un gruppo di pezzenti canta quei cori contro i napoletani: il fuoco, il Vesuvio, la lava, la puzza. Sai cosa dico? Che song na pecora, la migliore pecora a letto, ma nella vita sono un lupo! Gli altri invece...”

Sono pecore sempre.

“Nessuno ha avuto le palle di dire: tutto a posto?, solo una cameriera straniera. Ragazzi di 30 anni mi chiedevano: ma come hai fatto a diventare famosa su instagram? Quando sento queste domande capisco che il mondo è alla deriva. Come ho fatto? Produco contenuti. Dopo ogni turno di serie A faccio il fallo della settimana. Infatti ero lì a vedere una partita. Studio, mi informo. Da questo non si prescinde mai. Come si fa a non capirlo?”.

Ecco una cosa che di te non si sa: sei una letterata.

“Laurea in Comunicazione e poi specializzazione in Imprenditoria dello spettacolo a Napoli. Tutte e due con 110 e lode, un percorso di studio fatto in 4 anni e tre mesi”.

Il tuo sogno qual era?

“Fare l’attrice. Un giorno Luciano Sovena, professore di produzione cinematografica, durante una lezione chiese chi di noi volesse fare il regista o l’attore e solo io alzai la mano. Lui rispose: “Allora hai sbagliato classe” e tutti a ridere. Ma era ciò che pensava lui, non io. Perché mentre i miei colleghi del teatro andavano e vanno a perdere tempo nelle manifestazioni perché non c’è lavoro io cercavo e cerco di capire la tax credit e la tax shelter, come poter produrre uno spettacolo da sola, il product placement e come affinare le doti di marketing manager di me stessa”.

Ma poi cos’è successo?

“Un macello! Avevo tanti sogni ma neanche un euro. Avevo provato ad entrare nella scuola di recitazione, la Gianmaria Volonté, ma su 6 ammesse risultai settima o ottava. E lì mi crollò il mondo addosso. Quindi mi trasferisco in provincia di Roma, trovo lavoro in un night club, metto da parte i soldi, faccio una scuola di recitazione di 9 mesi e poi parto per gli Stati Uniti. Figurati, i miei genitori non avevano mai preso l’aereo. Con chi ti confronti? O lo fai tu o non lo fai. Se pure papà aveva qualcosina da parte, di solito i genitori ti danno i soldi solo quando ti sposi. Questa è quella che io chiamo ignoranza del ceto medio. Magari se in quel momento avessi avuto due spiccioli in più mi sarei evitata un po’ di cose”.

Tipo?

“I night di Los Angeles”.

Ti spogliavi?

“No, mai stata una stripper. In Italia bevevo con gli uomini. Ogni 15 minuti una consumazione, se no dovevo cambiare cliente. Con l’abilità che ho io di parlare molte serate le facevo con lo stesso, dall’inizio alla fine. In California invece guadagnavo molto di più perché facevo proprio la party girl: gli uomini prenotavano belle ragazze per passare una cena in compagnia in room private dove si mangiava, beveva, cantava e ballava”.

Cosa hai imparato?

“Purtroppo ti imputtanisci, sai che quello è lavoro e ti devi tenere la mano sulla coscia. Quando tornai in camera dopo la prima serata piansi. Io ero una che sognava di vincere un Oscar, una che passava tutti i pomeriggi a teatro per costruire la versione migliore di me mentre gli altri andavano a ubriacarsi e a festeggiare le loro vite di merda. Ma nessuno mi dava un’opportunità, né la mia famiglia né la mia città. L’unica via d’uscita era solo il mio corpo, dovevo utilizzare il fatto di essere sexy. Io non sono bella, io faccio arrizzare i cazzi, e quando un uomo ce l'ha duro gli puoi far fare quello che vuoi, l’obiettivo - se vuoi qualcosa - è farli stare il più possibile in quella situazione. Non ti devono mai realmente avere, non devono mai venire”.

Quando hai preso consapevolezza di questo potere?

“A 9 anni. Mi ricordo perfettamente il momento. Ero alle giostre, avevo una mini gonna di jeans arancione, una maglia attillata con il collo alto, saltavo sui gonfiabili e a un certo punto vedo degli occhi addosso che non erano gli occhi che dovevano essere rivolti a una bambina da parte di un adulto. Pure mia madre lo percepì. Mi disse: scendi scendi, sei grande”.

Ti sei sviluppata molto presto?

“In realtà no. Ma la sessualità è come la bellezza, una cosa che ti dà la natura. Io ho la sessualità, che è vastissima, il sesso ne rappresenta solo una piccola parte”.

Da dove arrivi?

“Dal quartiere Barra, periferia di Napoli, dove c’è molta ignoranza, povertà, anche camorra e droga. Poi quando avevo 9 anni ci siamo trasferiti a San Giorgio a Cremano, il paese di Massimo Troisi. La mia famiglia è normale, umile, molto onesta, mamma casalinga, padre ingegnere e dipendente delle Ferrovie dello Stato. Ho due fratelli maschi, uno avvocato, l’altro studia ingegneria ed entrambi sono arbitri. Abbiamo studiato tutti, ma nel contesto in cui vivevamo i miei genitori si sentivano superiori alla media e si sono un po’ adagiati. Io invece ho sempre guardato più in là. Al liceo mi piacevano gli uomini più grandi, ero attratta da una forma di presunto potere, di status, pure dai soldi, grazie ai quali puoi permetterti di fare molte cose e progredire. Il benessere mi attira, il desiderio nasce dalla mancanza”.

Primo fidanzato?

“Mai stata fidanzata. Sono sempre rimasta un po’ delusa dagli uomini”.

La prima volta che hai fatto l’amore?

“Non voglio parlare di questo”.

Perché?

“Certe cose devo giocarmele in altri momenti, magari in una autobiografia”.

Dopo lo shooting, scattato nella piscina Sporting di Milano 3, andiamo a cena. Paola si siede pronunciando queste parole: “Mamma mi’, tengo una cazz’ e fame”. Esplosa durante il lockdown, in realtà Paolina aveva attirato l’attenzione dei media già molto prima: “Quando ancora vivevo in America e Madonna disse che avrebbe fatto i pompini a chiunque avesse votato la Hilary Clinton piuttosto che Trump. Io dissi: “La aiuto!”. Ho fatto interviste per il Daily Mail, il Daily Star, The Sun, ho capito che il gioco funzionava e rilanciai la sfida durante il periodo del referendum costituzionale di Renzi: se votate no faccio il pompa tour!”.

Ma di politica ne capisci?

“Poco ma francamente non credo che Renzi e la Boschi siano meglio dei padri costituenti del 48”.

Però la tua è stata solo una sparata.

“Ma in realtà no, solo che non voglio parlare di questo. Anche questo potrà essere un tema della mia autobiografia. Dopo, tutti si aspettavano che esordissi con un porno, ma in realtà sono stata un’abilissima marketer. Ho creato scalpore e ho fatto il giro del mondo. Uscirono servizi su Globo e sono stata intervistata più volte da Russia Today, coprendo tutti i canali tv anglofoni ed essendo considerata un ‘esponente della freedom sexuality".

Quali sono state le reazioni di amici e familiari?

“La mia famiglia si era allontanata, non riusciva a gestire il parere della gente, mai nessuno mi ha chiesto se stessi bene, anzi mi sono sentita dire: cosa diranno i tuoi figli di te. Mi dispiace che ne hanno sofferto ma anche io, per altre cose, ho sofferto a causa loro. Ognuno soffre per qualcosa; pazienza, è così. E poi ci siamo riavvicinati, anzi penso che questa vicenda mi abbia reso genitrice dei miei genitori: li ha fatti crescere. Per interposto episodio sono riusciti a far evolvere la propria mentalità”.

Sui siti porno però qualche tuo video circola…

“Forse ho capito a cosa ti riferisci ma quella roba non è porno. A oggi il porno non mi interessa. È falso e fatto da quelli che io chiamo brufoloni. Anche Rocco Siffredi è un brufolone, quello che mette in scena non ha nulla a che fare con la sessualità perché infilare la capa di una femmina nel water e tirare lo scarico per me non è sesso, è umiliazione. Non capisco il motivo per il quale sia stato osannato in tempi più o meno recenti né perché passi addirittura per femminista da Barbara D’Urso. Lui e gli uomini come lui non voglione donne con personalità, ma schiave”.

Il tuo linguaggio è pornografico.

“Si è vero però io sono esplosa su Instagram parlando di calcio e giocando sul doppio senso: il fallo, il mettilo dentro… Ma la mia è ironia, comicità, comunicazione. Chi non lo capisce è un brufolone. Se non mi capiscono non è un problema mio”.

Dici che non ti sei rifatta le tette ma non è vero.

“È vero”.

Non ci credo.

“Problema tuo e poi potrei rifarmi tutto quello che voglio senza doverne parlare o rispondere a domande del genere. Posso rifarmi e mentire perché saranno pure cavoli miei quello che voglio o non voglio rivelare. Io delle mie cose private non parlo mai. Altrimenti avrei potuto parlare di presunti amori e degli uomini molto famosi che mi scrivono”.

Quante volte fai l’amore in una settimana?

“Ora zero”.

Zero?

“Molti mi scrivono e non vogliono che si sappia. Molti mi vogliono vedere ma solo in casa, se no vengono riconosciuti e non sta bene. Io esigo che gli altri non mi nascondano. Ho già dovuto nascondere in passato il mio pensiero e la mia intelligenza, il mio modo di essere per omologarmi alla massa e non soffrire. Ora che sono adulta anche no, basta. Anche perché posso masturbarmi molto serenamente”.

Lo fai?

“Ogni volta che ho voglia”.

Cosa deve avere un uomo per te?

“Molta sicurezza, e in questo la ricchezza aiuta. L’artista non mi piace, quello che vuole fare il regista a 50 anni e ancora non lo fa. Vade retro. Mi piacciono gli sportivi perché hanno un’intelligenza motoria. Gli uomini li reputo quasi tutti stupidi, il fatto che possano avere una determinata intelligenza che io non ho, tipo quella fisica, mi attrae molto. Ammiro la consapevolezza del proprio corpo e della propria mente. Sono stata a cena con un pilota di moto e quello che lui diceva circa la mentalità e il coaching mi interessava”.

È noto il pilota?

“Molto”.

Piloti molto noti ce ne sono pochi.

“Già…”.

Lapo Elkann o John Elkann?

“Lapo sicuramente”.

Balotelli o Zanetti?

“Di Zanetti sono innamorata”.

Cristiano o Messi?

“Vi sorprenderò: Messi. È un genio”.

Valentino o Marquez?

“Io Marquez me lo farei in questo momento. Ha quell’antipatia che mi intriga”.

Jorge Lorenzo invece?

“A Lorenzo essere cio che è diventato Lorenzo è costato molto, troppo. E si sente, è molto mentale, molto complesso”.

Hamilton o LeClerc?

“LeClerc, sono innamorata pure di lui”.

Il premier Conte?

“Mi piace. È sicuro, non ha problemi ad ammettere i suoi limiti. È sereno”.

Ci campi con quello che fai?

“Sì. Dalle serate in discoteca agli spogliarelli di Burlesque. E poi sono una influencer a tutti gli effetti, ho inventato una categoria: la sexyinfluencer, c’è chi mi paga per fare le IG stories”.

Quanto guadagni?

"Ci sono stati mesi dove ho guadagnato davvero tanto, che ho alzato lo stipendio di mio padre in un anno”.

Quanto hai in banca?

“Questo è un altro discorso, perché spendo molto. In taxi, in Deliveroo, non guido e non cucino”.

Ti piace Fedez?

“In generale sì, ma ci lega un episodio che mi ha dato fastidio. Eravamo a una festa su una terrazza romana, lui era con la madre e a un certo punto mi è arrivato qualcosa in faccia tirata proprio da lui. Non so se l’abbia fatto apposta o no, fatto sta che non si è mai scusato, non mi ha mai chiesto se mi fossi fatta male e come se non bastasse continuava a ridere. Io feci la battuta: hai la mira meglio di come canti. E lui fece un gesto per dire: eh vabbe’”.

Secondo te Chiara Ferragni com’è a letto?

“Basica”.

Tu sei brava a fare l’amore?

“Più passa il tempo più sono brava soltanto con chi mi piace”.

Posizione preferita?

“A cucchiaio. Io di lato e l’uomo da dietro”.

Cos’è il recovery fund?

“Il risanamento delle casse dello Stato post crisi o lockdown”.

Se tu fossi il presidente del Consiglio quali riforme faresti?

“Matrimonio fra gay, legalizzazione della prostituzione, maggiore formazione per il lavoro all’interno dei piani scolastici”.

Saresti mai andata a letto con Berlusconi?

“Per avere in cambio cosa?”

Popolarità.

“Non basta, serve il miglior programma”.

Con quanti uomini sei stata a letto?

“Non lo so”.

Con quante donne?

“Un paio, ma sempre perché c’era anche un uomo. A me piace il fallo“.

Com’è un bel fallo per Paolina?

“La dimensione conta. Deve avere del bel pallame, per me è fondamentale, io mi concentro tanto tempo solo sul pallame”.

La tecnica orale perfetta?

“Io dico: tratta il pene come se fosse un pucchiaccame! Come se avessi davanti la tua stessa vagina, con la stessa sensibilità”.

La roba più strana che ti hanno proposto.

“Di tutto, anche di farsi defecare addosso”. 

Lo hai fatto?

“No. Ma ho trovato un tizio che mi dava 500 euro per ogni volta che gli facevo la pipì sulla pancia. A me non costava nulla, è una pratica che non collego al sesso, mi cambiava poco. In quel periodo ogni volta che andavo in bagno dicevo: maro' quanti soldi che sto perdendo”.

Ma ti sei fatta anche pagare per prestazioni sessuali?

“Ma non voglio parlare di questo e poi non ora, molti aneddoti sarebbe bello sviscerarli con più tempo e righe a disposizione”.

Fammi indovinare: lo scriverai nella tua autobiografia.

“Bravo, sei perspicace”.

Leggi?

“Poco. Ora soprattutto saggi di influencer marketing: Tony Robbins, Seth Godin, Jeff Bezos, questi qua. E poi Umberto Galimberti, Igor Sibaldi. Ogni tanto riprendo i libri di greco e latino perché mi dimentico le declinazioni. Ho fatto il classico, non esiste altra scuola per me se sei italiano, per il significato della lingua, per la comprensione delle parole e le varie sfumature”.

Cosa pensi di Montemagno?

“Sono sua fan, sono abbonata ai suoi servizi. Mi piacerebbe molto se mi intervistasse”.

A che ora ti svegli la mattina?

“Non mi sveglio la mattina”.

Ultime tre domande. La prima: cosa vuoi fare da grande?

“Comunicare a 360 gradi, mi piace portare la mia cifra nelle varie forme d’arte, attraverso la Videoarte, la musica, chissà, il cinema o la moda, ho visto Marcelo Burlon collegarsi alle mie dirette e mettere mi piace ai miei post sui Falli, dovrebbe mettermi in passerella per un inno alla diversità. Io mi sento un misto fra Oriana Fallaci e Carmelo Bene. La Fallaci è una delle pioniere della libertà femminile, Bene mi ispira per il suo egocentrismo e l’alta considerazione che aveva di sé”.

Seconda: chi è l’ultimo uomo con cui vorresti fare l’amore prima di morire?

“La vedo così lontana la mia morte. Io voglio morire a 105 anni come la vecchia di Titanic.”

Terza: chi è Paolina veramente?

“Mi sento molto unica, anche se Margherita Hack, lei che era scienziata, parlava dell’impossibilità di unicità nell’universo, perché è così ampio che nessuno può pensare di essere unico. Ma io sono io. E non c’è nulla di meglio al mondo”.

·        Paola Turci.

Raffaele Roselli per “il Corriere della Sera - Edizione Roma” il 30 maggio 2020. «Ogni anno, da 25 anni, organizzo il raduno del fan club». Nell' occasione del quarto di secolo «mi ero data più tempo per festeggiare in grande, scelti tutti i gadget, tutti i regali». La data, «il giorno di primavera, il 21 marzo». La location all' aperto: «Il parco vicino alla Casa del Cinema, a Villa Borghese». L' idea di «un incontro festoso, all' aperto, pranzo al sacco, pic-nic, io che cantavo con la chitarra, come tra veri amici». Se ne riparla con un altro calendario. «Mi auguro si possa rifare il prossimo 21 marzo».

Paola Turci, frenata dal lockdown, anche artisticamente: «Avevo finito a metà dicembre gli impegni lavorativi, il tour. Il progetto era di chiudermi in isolamento per lavorare al prossimo disco».

Ma è rimasto solo l' isolamento: «Sono apparse delle idee, qualcosa, ma è tutto talmente condizionato, piegato a questa realtà, difficile per un artista astrarsi. È come se fossero bloccate un po' le emozioni». Non resta che attendere «che il disco venga fuori come un fiume in piena, un flusso creativo come lo sfascio di una diga». Con i fans, ancora la possibilità di abbracciarsi online. Questa sera alle 19 Paola Turci sarà ospite del salotto virtuale organizzato dal Saint Louis, per la serie «Incontri di Musica», appuntamento con il critico Ernesto Assante. L' ultima, «bellissima serata di chiacchiere e musica era stata all' Officina Pasolini, davanti a me ragazzi pieni di passioni. Ho raccontato la mia storia personale, che nasce a Roma, nel locale dell' Osteria dell' Orso, La Cabala. Che è un piano bar. All' inizio ero refrattaria all' idea. Avevo una visione un po' più alta della musica, volevo proporre le mie canzoni, non volevo semplicemente cantare per che veniva a bere. Poi ho rivalutato tutto il periodo, in quegli otto mesi ho imparato tantissime cose, a catturare l' attenzione, momenti di scambio bellissimi».

Luoghi, ricordi romani: «Il Brancaccio, l' Eliseo, in entrambi ho visto Gaber. Il Teatro dell' Orologio, il primo palco sul quale sono salita, non da cantante ma da attrice. All' Auditorium i concerti più importanti. Ma ci sono stati anche il Palladium, la Palma, il Circolo degli Artisti». A Villa Borghese «l' unica volta in cui mi è capitato di addormentarmi all' aperto, con un fidanzatino dell' epoca». Ma il suo luogo del cuore resta Villa Lazzaroni, «quello dell' infanzia, dove pattinavo tutti i giorni, tra via Appia e via Tommaso Fortifiocca, Appio Latino». Poi, da 15 anni, «casa a Testaccio». In questi ampi spazi che l' isolamento ci ha dato, «sto comunque ritrovando quella passione, quella sensazione di purezza, quando sei alle prime armi, hai aspettative altissime e la voglia di mantenere puro quello che stai facendo senza compromessi. Una nuova adolescenza nei confronti della musica». Traducendo in suoni «sicuramente qualcosa di più destrutturato rispetto al passato. È il momento dello svuotamento, del ritorno al suono della chitarra acustica, o del trio elettrico, basso e batteria, come nel caso dell' ultima esibizione con i miei musicisti, per il Primo Maggio, il concerto in televisione». E cosa ha ascoltato, Paola Turci, in queste settimane di lockdown? «Non so per quale ragione, ma sempre Miles Davis, solo Miles Davis. Avevo bisogno di nutrirmi del suo jazz che è anche altro: funky, potenza, eleganza, passione, stati d' animo forti che mi hanno accompagnato per tutto il periodo».

·        Paolina Saulino.

Ray Banhoff per rollingstone.it il 24 maggio 2020. Quando ho visto per la prima volta Paolina Saulino non capivo. Leggevo le offese, i commenti, guardavo i suoi live e non la riuscivo a inquadrare. Ero convinto che stesse dicendo qualcosa di serio ma non avevo mai sentito nessuno parlare di sesso come lei su Instagram. Tutti i miei amici mi intasavano di messaggi impazziti: guarda che fregna! In effetti. Però i più insospettabili usavano verso di lei parole degradanti e mi dispiaceva. Mi rendevo conto che li irritava. Così ho cominciato a seguirla e mi sono cominciato a chiedere cosa ci fosse dietro. Che cavolo è Instapaolina? Una presa in giro, una performance, un delirio? Solo lei poteva dirmelo, quindi l’ho contattata. E lei ha semplicemente detto ok. Ci siamo scritti per diversi giorni, per poi fissare una vera telefonata. Avevamo appuntamento al telefono alle 15 ma ci siamo sentiti circa tre ore dopo perché Paolina si era appena svegliata. Entrambi ci eravamo riaddormentati, ma per motivi diversi. «Sono crollata» mi dice, «ho provato pure lo squirtame. Ti dico: venuta e crollata. In questo sono molto maschia. Vengo e m’addormo». Stupendo. Mi approccio a lei con un misto di timidezza e venerazione, ma lei fa scempio di entrambe. Non vuole mai essere adulata troppo, ma è tremendamente femmina e richiede rigore, serietà, attenzione. In cambio ti porta dentro nel suo mondo. Compongo il numero e la chiamo. Mi ero anche agghindato sperando in una videochiamata ma lei mi ha subito ghiacciato: «Facciamo per telefono, in video mi rompo». Mi risponde con una voce che è energia pura. Parla in napoletano, inventa parole, suona la carica come un condottiero. È un misto tra Giovanna D’Arco e Margherita Buy in Sono pazzo di Iris Blonde. Sacro e profano. Fica e Vagina. Santa e puttana. Concretizza il suo dualismo ogni istante. «Aspetta sto facendo la pipì. La senti?». No, purtroppo sento poco, ma uso l’immaginazione. Entro nella sua intimità come se fossi lì, capisco subito che devo lasciarla esprimere a ruota libera, premo rec sul registratore.

Mi piace che fai la pipì mentre parli al telefono, lo faccio sempre anche io.

«In generale tutto quello che è “getto” mi sa di arte. A casa anche se sono sola, quando mi accingo a fare pipì devo dire delle cose tipo: pisciarino pisciaretto (improvvisa un motivetto in rima). Mi piaaaace, mi coccolo. Lo faccio anche quando mi metto a letto. Ricreo questo covo di protezione sotto le coperte. Accussì nisciuno me rompe ‘o cazz».

Parli di squirting con molta naturalezza, mi ha colpito.

«Sì, sto cercando di evolvere il mio pucchiacchiame anche con la stimolazione esterna. A volte durante l’atto sessuale sei concentrato a venire e non ti prendi il tempo per esplorare il tuo pucchiacchiame. Pertanto è meglio farle da sola certe cose. Ho scoperto che riesco a schizzarino schizzaretto anche con la stimolazione da fuori. Non dal pucchiacchiale che è l’interno».

Ma cos’è questa neolingua che parli?

«Ho sempre creato parole nuove, sono una nomenclatrice. La parola “docciarsi” la dicevo trent’anni fa a mia madre. Se mi si scioglieva il fiocco della gonna dicevo: «mamma, affioccami». Ho sempre creduto che mentre invento una parola esprimo meglio un concetto. Il “pistillame” con cui ho ribattezzato il cazzo è la parte del fiore, l’ho mutuata a livello sessuale perché il pistillo è il luogo da cui esce il seme. Pistillame, pecorame, Capezzolame… è tutto un metodo per dare più dignità alla parola. Se dico “palla” è un oggetto, se dico pallame ha un’anima. Non è più solo una parola. E sto educando i miei ragazzi che non usano più la vecchia lingua limitante e banale. Stiamo costruendo un nuovo alfabeto e un nuovo porno, quello bello, fatto con amore».

Ma quando fai l’amore, ti interessa davvero lo squirting? Noi mortali non ci pensiamo, credo.

«No, quando mi piace un ragazzo sono concentrata su di lui. Mi piace il corpo. Mi piace il contatto. Mi piacciono i bei ragazzi, il bel fisico, perché voglio tenere una cosa bella addosso. Sono banale».

Che tipo di uomo di piace?

«Uno sportivo. Un calciatore. Mi piacciono molto i calciatori perché sono banali, hanno un’intelligenza pratica. È così bello che si svegliano al mattino e vanno ad allenarsi, ti rendi conto che meraviglia? La semplicità… che cosa meravigliosa. Non voglio il Ken di Barbie. Mi piace tanto Zlatan Ibrahimovic perché amo l’uomo alto. Essendo io piccoletta, mi piace “soccombere”. Mi piace l’omm. Mo teng n’atra passione: Lukaku».

Da dove viene la passione per il calcio?

«A me piacevano i calciatori prima ancora del calcio. Semplicemente li vedevo in tv. Mi guardavo l’Inter aspettando una bella inquadratura sulla coscia di capitan Zanetti. Mi rendevo conto che quella gamba era diversa da quelle gambine dimmerda che vedevo in spiaggia. Ahhh! Questa si che è una coscia! Uscivo di testa nelle inquadrature tra il primo e secondo tempo quando i calciatori si abbassano i calzoni e vanno in spogliatoio… che meraviglia».

Tu parli degli uomini come noi parliamo di voi donne. Con la stessa schiettezza.

«Eh, io so maschia su questo. Infatti ti ripeto: dopo che so venuta m’agg a dormì».

Però sei anche femmina. Quando ti vedo tutta truccata me ne accorgo.

«Sì ma ascolta, adoro uscire di casa come un cessone ambulante. La mascherina! Quanto è bella? La gente non ti riconosce! A Los Angeles andavo in pigiama a fare la spesa e la gente se ne fregava! Una sensazione che amo. Altre volte, invece, faccio trucchi elaborati. Ma col tempo sono andata in sottrazione e vivo bene con poco trucco. Solo al fondotinta e alla matita per le sopracciglie non rinuncio».

Sei tutta naturale? Come ti tieni in forma?

«A volte culo e tette mie sembrano più grandi perché stanno su un corpo piccolo. Sono tutta naturale. Nessun dottore avrebbe fatto una circonferenza culo come la mia su una ragazza di 162 cm. Sarò 90 di seno, 65 di vita e un bel 100 di culo. Non mi piace parlarne eh, ma visto che me lo chiedi… mangio tanta pasta e non mi doso, ma non mi mangio un bignè. Il fritto poco, non ci impazzisco. Non so cucinare. Peso cinquantacinque chili, non sono magra. Mi vado bene così. Ho le curve ma non faccio nessun sacrificio. Sai, da Mignon a Mignotton è un attimo. Sono piccola. Ho suonato il piano dieci anni e ho le mani piccole, non prendo un ottava con la mano per intenderci. Adoro avere la pelle trasparente che si vedono le vene sotto. Non prendo il sole. Ogni tanto mi faccio un po’ di laser e peeling. Qualche punturina per la cellulite al massimo. Il mio potere è una pelle elegante, mi piace che si vedano le vene dietro il ginocchio. Se mi faccio male mi resta il segno. La mia costumista brasiliana quando mi faceva i costumi di burlesque e mi diceva: impossibile. Mai avrei pensato che eri così piccola. Sembri un gigante!»

È la tua personalità che è gigante! Ma relazioni ne hai?

«Faccio psicoterapia da un anno e mezzo e con la dottoressa mi ero data degli obiettivi. Avere una relazione era uno di questi. Ma ti devo confessare che a un certo punto ho capito che non faceva per me. La dottoressa andava verso una versione romantica di me e ho dovuto riprendere i remi della barca. Non è quello che voglio. Non che non ci sia del romanticismo in me. Piano piano mi son concentrata su me stessa, sul mio lavoro, sui soldi, sul mio valore».

Se si innamorano di te gli uomini, come li gestisci?

«Non che non mi sia mai presa delle sbandate. Sono una ragazza. Come gestisco? Mah, non rispondo più. Lo capiscono da soli. Se uno si continua a proporre: ghosting. Se invece si è creato qualcosa di concreto allora sono molto responsabile e dò una spiegazione, metto una chiosa».

Nella vita sei Paola o Paolina?

«Paola e Paolina sono la stessa cosa. Il mio nome di battesimo non lo usa più nessuno ormai. Paolina è più milanese. A Napoli mi hanno sempre chiamato Paoletta perché sono sempre stata piccola di fisicata. Ora il personaggio è Paolina e talvolta quando mi chiamano Paola persone con cui non ho confidenza un po’ mi incazzo. Dico: ma chi ti conosce? Mi chiama così la mia famiglia! Paolina è quella piccola bambina impazzita, quel fanciullino pascoliano che va domato accompagnato e monitorato ma che andrebbe coltivato. È giusto che ci sia e che venga fuori tutti i giorni».

Parlando seriamente: cosa stai facendo su Instagram? Perché fai quello che fai?

«Quello che faccio su Instapolina sono affari. Business. Non sono mai appartenuta a categorie. Non sono una pornoattrice, non sono un’attrice normale, non sono una comica, non sono una modella. Sono Paolina. Quando non puoi essere il primo in una categoria inventane una tua propria. Sto inventando la categoria della pornoarte. Sono esplicita anche solo nel linguaggio e quando sei esplicito sei pornografico. La mia è una performance. Sono laureata in arte contemporanea e vengo influenzata da grandi nomi. Ieri nella diretta ho nominato Hermann Nitsch. Sono legata all’azionismo viennese. Nitsch è crudo, ha fatto performance al limite della bestialità. Ha lanciato viscere di animali insanguinate contro un muro o una tela lasciando che il relitto rappresentasse l’opera d’arte. Vengo influenzata da un tipo di arte che ho prestato al mio background d’attrice, per cui ho studiato da quando avevo 16 anni».

Che ne pensa la tua famiglia?

«La mia famiglia all’inizio non lo sapeva. Io ho esordito in maniera altamente mediatica (il Pompa Tour di cui però non vuole mai parlare, ndr) quindi a loro gli è arrivato. Mia madre ha sempre detto: «Le cose le devo venire a sapere dagli altri!». C’è stato un allontanamento con loro tre anni fa, ma credo tanto nei valori base e stiamo recuperando. Voglio dispensare amore. Sono una persona semplice, voglio vivere leggera, non credo nel bisticcio. Penso troppo all’amore per privarmene. Parlo molto con mio fratello più piccolo e con mia madre. Con mio padre di meno ma è il suo carattere. E poi io sono una ragazza indipendente, non devo sentire tutti i giorni mammà o la migliore amica».

Non soffri con tutti gli insulti degli hater?

«No, lascio a loro l’idea di essere migliori di me, tengo per me l’idea che posso sempre migliorare. Fanculo chi si crede superiore. L’hater si sente tale e morirà sempre nella mediocrità. L’offesa di una persona che vale zero si annulla. Non si tratta di un gigante. Un gigante non ti offende, al massimo ti apre gli occhi e io ascolto solo quelli. Mi ritengo una maestra, cerco di educare. Anche quando mi distacco da Paolina e dico cose più emotive rispetto alle vessazioni che ricevo, voglio educare. Educere dal latino significa “tirare fuori” e io vorrei tirare fuori la parte migliore di ognuno dei miei fan. Mi sento una prescelta e non mi posso arrendere. Poi le persone che ti vessano sono le stesse che se ti incontrano vogliono la foto assieme».

Ti è capitato di chiedere consigli riguardo a quello che fai, magari di parlarne con gli amici? Che ti dicono?

«Le persone che perdono tempo a confrontarsi con gli altri su quello che vogliono fare hanno perso tempo ed energia, soprattutto quando hanno bisogno di incitamento perché non sono abbastanza decise. Io ho sempre agito. Faccio le cose senza dirle. Se ho bisogno di un consiglio preferisco affidarmi a un professionista, un terapeuta. Inutile chiedere consigli a chi spinto da fattori emotivi ti dice quello che per lui è giusto invece di ciò che è meglio per te».

Tornando alla tua vita online, cosa provi ogni sera di fronte a quel mare di gente che ti segue?

«È tanta energia che mi arriva. Io la gestisco ma spesso se la rubano. Molti ex amici lo fanno, quindi inevitabilmente mi sto mettendo alle spalle un po’ di rapporti. Lascio le persone che non hanno propensione ad auto superarsi. Ci sono quelli che riescono ad essere amici per tantissimi anni ed è stupendo, ma io non sono così. Preferisco sentire quella sensazione di potere».

Potere? Spiegami cosa intendi.

«Io probabilmente potrei preferire il potere al cazzo. Il potere sociale, la credibilità, mi eccita molto di più del sesso e al tempo stesso il potere per me ha un’accezione sessuale. È col potere che puoi arrivare al sesso. E se per il potere dovessi rinunciare al sesso lo farei.

Non intendo il potere come supremazia, ma come lo strumento per influenzare le masse, per essere ascoltata da uno strato ampio di popolazione, il potere di parlare di umanità e immettere nel mondo del karma positivo e ispirare le persone».

Maddai! Ti senti una minoranza? Tu?

«Beh sicuramente. Sono stata una diversa. Non avevo i sogni dei miei coetanei quando andavo a scuola, pensavo sempre più in alto, pensavo alle star. Non sto bene con tutti. Non cerco la massa, non esco con l’amica. Io sono andata a Los Angeles e ho avvertito la mia famiglia quando ero in aereo. In America mi sono andata a lavorare di notte nei night club senza sapere la lingua. Avevo vinto una borsa di studio come attrice ma l’ho sfruttata solo dopo otto mesi. Ero una giovane ragazza che intratteneva gli uomini nei night».

Facevi anche i privè?

«Negli Usa la prostituzione è illegale, non puoi far sesso a pagamento. I locali erano a norma e tarati sull’intrattenimento. Ero più una party girl. Si trattava di un lavoro sessuale ma con dei limiti. Dovevi far bere gli uomini, farli divertire, ballare. A me è servito a imparare l’inglese».

Tornando al potere: Liam Gallagher diceva che quando stava in piedi di fronte alle folle sterminate degli anni 90 fissava i ragazzi immobile e più stava fermo e più loro saltavano e più si sentiva un flusso di potere.

«Oh Gesù mi viene la pelle d’oca. Le star enormi così sono influenti. Io qualche volta mi anche distaccata dalla realtà per pensare in modo megalomane a queste star. Io mi immaginavo Lady D, Britney, i Backstreet Boys che ho seguito e vissuto. Guardavo alle loro vite. Poi ti confronti con la realtà e stai a Barra di Napoli e dici: che cazzo ci faccio qui! Anche Britney e i Backstreet saranno stati dei ragazzi normali, ma avevano vite diverse. Mi faceva scozzare con la realtà».

Come ti vedi tra cinque anni?

«Io vivo nel presente. Voglio diventare mainstream nei termini in cui voglio far vincere l’essere outsider e minoranza. Mi voglio vedere anche a Sanremo se è quello che il pubblico percepisce per successo. Per dimostrare che puoi venire dalla diversità e dalla minoranza e puoi essere riconosciuto dalla moltitudine».

Hai avuto relazioni lunghe, matrimoni etc?

«No, no… io non ho esperienza di queste cose. Trovo molto noiosa la favoletta della madre giovane. Ma perché? Perché una donna a 19 anni deve fare la mamma quando può cazzeggiare? Io a 19 anni mi sono diplomata, poi a 24 mi sono laureata (triennale in Arte e magistrale in Management dello Spettacolo). Una ragazza a 20 anni deve studiare, andare all’università, vivere le esperienze. Dalla cannetta con gli amici al fare tardi. Io stavo tutto il giorno fuori e tornavo tardi la sera a casa. Son cose belle. Dopo la laurea mi son trasferita a Roma poi a Los Angeles».

Ma come? Tu sei davvero il contrario di tutto. Sei indipendente ma se pensi all’amore lo vuoi lungo tutto la vita. Fino ad ora hai parlato di “sbandate”, mai di amore.

«(silenzio) L’amore non credo ci sia stato. Ora ho la consapevolezza di cosa sia l’amore incondizionato, disinteressato. Se lo trovassi mi ci abbandonerei, non ci sarebbe nemmeno da scegliere, ne verrei travolta. Ma proprio perché sono consapevole di cosa sia l’amore penso sia complesso da trovare. Sono giovane. Va bene anche se capita tra qualche anno con più consapevolezza».

Quando hai fatto l’amore la prima volta?

«Non voglio rispondere. Si aprirebbe un capitolo un po’ troppo grosso».

Te lo chiedo perché penso all’amore e penso che la mia prima volta ero innamoratissimo. No, per me non è così. La migliore scopata non è la prima ma l’ultima. Sarebbe bello che capitasse questa favola che hai vissuto tu, ma ormai è andata. L’avrei sperato anche io. Tutti sogniamo l’amore. Chi lo nega sta mentendo. Lo sogno anche io ma vorrei che fosse reale. Quanto pesa essere noti quando i ragazzi si approcciano a te?

«Ora molto, ma sono convinta che dopo sarà di meno. Si aspettano molta Paolina. Mi capita di passare il primo incontro ascoltando tutto il tempo: «Ma sei completamente diversa». Ed è una palla pazzesca! È come se uno pensa di uscire con Checco Zalone e appena lo vede quello si mette a cantare “Gli uomini sessualiiii” (canta con dolcezza). Io sono stanca che la gente si aspetti la performance. Io voglio mangiare, bere e fare una bella serata. Non voglio farmi succhiare le energie».

Cito Simbiosi di Manuel Agnelli: “Ancora mi sento le dita/fondersi nella tua fica. Mentre ti rubo energia, poi tu mi rubi la mia”.

«Beeella. Bello lui. Ha questa sensualità così artistica. Però è un’eccezione. Ecco a me l’artista non piace! Non mi piace il “canterino” quello che se la canta… non ce la faccio. O l’attore che mi fa la paranoia dei sui suoi problemi con la ricerca del personaggio».

Ma che tipo di uomini frequenti?

«Frequentare i ragazzi è sempre più complicato e questo mi da molta noia. Soprattutto da quando ho capito che non voglio accontentarmi e stare con chiunque. Prima avevo amici della discoteca, PR, gente della notte, ma era un mondo superficiale di locali e cene. Non è quella l’amicizia e mi sono allontanata. Ho cominciato a uscire con dei ragazzi che mi hanno corteggiato. Calciatori, piloti, gente che mi scrive su Instagram. In questo momento conosco solo questo approccio. Non ho più idea di come si faccia a conoscere dei ragazzi normali. Ma io dico: ma un geometra, ma quanno lo puozz incontrà secondo te?»

Mi fai venire in mente quella roba assurda di Brad Pitt che si iscrive a Tinder perché non trova una donna.

«Carino. Tra poco lo faccio anche io. Guarda che più noto sei più è complicato. Io che sono infima rispetto a lui ho difficoltà…»

Ma cazzo. Tu sei nell’immaginario collettivo in Italia. Ci siete te e Danika Mori. Stop. Siete destinate a diventare come Sabrina Salerno e Moana.

«Che bello. Amo Moana. Grande musa ispiratrice».

Quali sono le donne che ti ispirano e quelle che te la smontano?

«Sappi che non parlerò mai male di nessuno. Risento tanto dell’influenza di Moana. È come Marylin ma in versione italiana. Poi Oriana Fallaci, un esempio intellettuale per me importantissimo. Per il resto non mi piace la simpatia forzata in tv e spesso le conduttrici ce l’hanno».

Dimmi due uomini con cui vorresti aver avuto una storia.

«Pasolini mi fa un sesso pazzesco sia a leggerlo che semplicemente vedendo le sue foto. Per me Pierpaolo è un orgasmo vivente. So che era gay ma poco mi interessa. Oltretutto aveva un bel cazzo. Attraverso amici miei esperti di teatro e Ninetto Davoli che avevano accesso a una serie di documenti, ho avuto modo di vedere una serie di foto e lettere tra lui e Pasolini. Ho tenuto in mano questa foto di Pasolini nudo, bellissima, all’interno di un castello forse in Campania co sto’ cazzone all’aria che avrei voluto terribilmente. A seguire: grande ispiratore, di cui mi sento figlia, Carmelo Bene».

Faresti la tv, un programma tuo?

«Si, certo».

Ma in tv non ci vai. Come mai?

«Mi chiamano ma non voglio io. Se devo andare in tv a fare la comparsata o per sentir parlare male di me allora preferisco stare a casa. Quella è la tv del nulla cosmico. Il siparietto della D’Urso non posso assecondarlo. Capisco che la gente crede che andare dalla D’Urso ti renda famoso ma non è così. Lei è una professionista ma ok, lì si parla solo del nulla cosmico. Tranne quando ha intervistato Anna Oxa. Ecco, se mi chiamasse Costanzo ci andrei. Poi non si fanno manco i soldi in tv. Ti danno dei gettoni di presenza ridicoli, cifre dai 200 ai 500 euro. Da casa alzo altre cifre sinceramente. Chiaramente parlo del cachet degli ospiti. Ma per una prima donna come me la comparsata è limitante».

Se fossero stati gli anni d’oro di Berlusconi lui ti avrebbe dato sicuramente un programma.

«Ehhh ma a me piace Silvio. Sono onesta. Non parlo di politica, ma umanamente mi è molto simpatico. Più che la tv mi piacerebbe fare del cinema serio. Io ho fatto piccole parti ma a teatro mi son tolta la soddisfazione di avere un ruolo. Mi piacciono Ozpetek e Sorrentino, mi piace tutto ciò che è visionario. Mi piacciono le belle storie da raccontare in un mondo dove si mettono in scena sempre la perfezione, il fare la pace. La tv, l’arte e la comunicazione devono mettere in scena cose sporche. Per questo funziona Gomorra. Io ti faccio vedere qualcosa che non fai nella vita reale. In questo il cinema mi rappresenta. Mi piacerebbe fare una parte in storie di droga, prostituzione, camorra».

Gomorra lo apprezzi?

«Si tanto. Vorrei entrarci come Donna Paolina. Ho fatto il provino per Patrizia, la donna di Pietro Savastano, ma non sono stata scelta. Ho fatto anche altri due provini per Sorrentino. Entrambi sbagliati. Quando si tratta di cinema l’agente è fondamentale e purtroppo non trovai parti che mi di addicevano. In Young Pope feci il provino per una suora, ma Sorrentino vedeva la suora non avvenente come me. Poi nella seconda stagione dovevo fare la escort con Silvio Orlando, ma nel copione c’era scritto specificatamente che doveva essere una donna di 1,80. Mi mancano 18 cm, ‘ndo vado?»

Cosa vorresti lasciare ai tuoi follower?

«Posso consigliare ai giovani che se hanno un’idea devono percorrerla. Io già prima di Instagram mettevo dei video piccoli su YouTube in cui prendevo per il culo la starlette. Tutti mi dicevano: «Sei scema! Fai le cose normali!» Devi andare per la tua strada. Nessuno in famiglia ti dirà mai che fai la cosa giusta. Se avessi cominciato nel 2009 adesso sarei una star perché avrei preso l’internet nel momento in cui emergeva. Instagram all’inizio era per le modelle. Se avessi creduto subito nella mia idea avrei avuto numeri impressionanti e soldi. Che scema! Ai giovani quindi: avete un’idea? Credeteci. Bisogna essere disposti a perdere ciò che si ha, a evolversi. Io sono in quest’ottica. Sono disposta a perdere pubblico, perdere arrapatoni, voglio sempre reinventarmi».

Che rapporto hai con le fan donne?

«Bellissimo. È un orgoglio ricevere i loro ringraziamenti, le lettere. Mi rendono partecipe delle loro esperienze, mi scrivono che si sono masturbate o hanno provato il sesso anale e mi ringraziano con tutto il cuore. Cerco sempre di leggere tutti i loro messaggi perché per me sono un dono. Idem dal mio pubblico gay».

Hai un lato spirituale? Credi in qualcosa di superiore?

«Ho una vita equilibrata, una giornata bilanciata che comprende una parte spirituale. Sono buddista, che significa mettere in pratica una filosofia di vita. Credo nel divulgare energie positive, credo nel karma, sono a favore della non critica. Penso sempre bene di tutti non ho mai parlato male di nessuno. Mi interessa stare bene e sono molto zen. C’è un lato spirituale anche nelle cose più zozze che faccio. Per lo squirt ho parlato di connessione alle proprie acque sacre, con l’anima».

·        Paolo Bonolis.

Novella Toloni per "ilgiornale.it" l'1 luglio 2020. Tra moglie e marito non mettere il dito, soprattutto a distanza di anni. Lo sa bene Sonia Bruganelli, moglie di Paolo Bonolis, che nelle ultime ore si è trovata al centro di un nuovo (quanto vecchio) triangolo amoroso. Protagonisti lei, il conduttore e la sempreverde Laura Freddi. Il flirt vissuto tra Bonolis e la Freddi, ormai vent'anni fa, è tornato alla ribalta dei gossip, rispolverato per l'occasione da un noto portale e che ha riacceso inevitabilmente il chiacchiericcio. La parola estate fa sempre più rima con gossip. Quando le temperature si alzano anche l'asticella di indiscrezioni e rumors si impenna e succede che scatti il pettegolezzo su fatti ormai passati. Se n'è accorta la moglie di Paolo Bonolis, Sonia Bruganelli che, navigando sul web, si è imbattuta in alcune dichiarazioni (datate) di Laura Freddi. Tema dell'articolo la storica relazione avuta dall'ex protagonista di Non è la Rai proprio con il conduttore di Ciao Darwin. Colpita nel vivo, ma pur sempre disposta a stare al gioco dei media, la Bruganelli ha condiviso lo screenshot dell'articolo sul suo profilo Instagram, ironizzando sull'intervista: "Sempre sul pezzo!". E pensare che a rispolverare storie passate era stata proprio lei, settimane fa, in una diretta social. In quell'occasione la Bruganelli aveva ricordato come era scoccata la scintilla tra lei e Bonolis, proprio a pochi mesi di distanza dall'addio tra Laura e Paolo: "Quando ho conosciuto Paolo, molti anni fa, lui aveva lasciato Laura Freddi da 4 mesi e conduceva Beato tra le donne, quindi aveva moltissime donne che gli giravano intorno". Puntini sulle "i" che hanno riportato a galla vecchie dichiarazioni pruriginose rilasciate da Laura Freddi tempo fa. Un amarcord della showgirl per rilanciare la possibilità di lavorare ancora al fianco di Paolo Bonolis in un programma televisivo. Insomma, nel bene o nel male, purché se ne parli. In realtà Laura Freddi è sempre più innamorata del suo compagno, Leonardo, con il quale è pronta a convolare a nozze. Il matrimonio, causa pandemia da coronavirus, è stato posticipato al 2021 ma l'impegno c'è soprattutto dopo la nascita della piccola Ginevra, figlia tanto desiderata dalla coppia. Le parole della Freddi, seppur vecchie, sembrano aver stuzzicato però la gelosia della moglie di Bonolis che, sotto il suo post, ha precisato: "Laura? Assolutamente corretta. Mi fa ridere che ogni tanto tornino vecchie interviste".

Carlo Lanna per ilgiornale.it il 29 luglio 2020. Ancora una volta il mondo dei social si scaglia contro Sonia Bruganelli. La moglie di Paolo Bonolis e abile imprenditrice, prima, durante e dopo il lockdown è stata sempre presa di mira da gli hater che non hanno mai lesinato nel lasciare su Instagram commenti algidi e al veleno. Commenti che, molto spesso, mettono in scena un vero e proprio botta e risposta tra i fan e gli odiatori della Bruganelli. E dopo che sono finite nella bufera le sue spese folli, la cena da 250 euro con la mascherina personalizzata, i commenti post lockdown fuori luogo, ora nel mirino è finita la sua vacanza a Trani. Di ritorno da Ibiza, ora è in Italia alla riscoperte delle nostre bellezze. Lady Bonolis, infatti, incurante dei commenti che ha ricevuto nelle ultime settimane, continua a pubblicare foto su foto in cui mette in mostra le sue bellezze da quella vacanza di relax che sta condividendo con il marito e i figli. "Punti di vista", questa è la didascalia dell’ultima foto della Bruganelli che è finita nella bufera, in cui la bellissima imprenditrice si è fatta immortale nella sua stanza d’albergo con i capelli raccolti, un accappatoio bianco e un orologio di oro giallo in bella mostra. Non si sa a cosa sia collegata la foto che è stata condivisa su Instagram, ma è bastato questo scatto per scatenare una nuova e bruciante polemica. "Sei sempre la solita cafona coatta", scrive uno dei suoi follower, "Ti sei solo arricchita. Vai a zappare la terra! L’unico lavoro adatto ad un’ignorante come te! Invece di perdere tempo a postare le tue cagate, preoccupati di portare i tuoi figli da un bravo dietologo,ne hanno proprio bisogno". Il commento non è passato inosservato e, anche se ha racimolato molti like, ha messo in moto un vero e proprio botta e risposta tra i fan che hanno preso le difese di Lady Bonolis. "Ma voi siete dei malati", scrive un fan. "Sei sempre il solito. Ma conosci solo queste 4 parole?", tuona un altro utente. E ancora. "Ma che paura. Questa è tutta invidia. Entro la fine della giornata tutti si saranno dimenticati di te". Per fortuna, oltre a queste bagarre, la foto di Sonia Bruganelli è stata sommersa di cuori e di tanti altri commenti positivi. Simbolo che i gli hater molto spesso non vincono contro il buon cuore dei fan.

Sonia Bruganelli a Libero: "Mi odiano perché sono ricca. La balla sul coronavirus". Alessandra Menzani su Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Sonia Bruganelli, moglie di Paolo Bonolis, nel raccontarsi si definisce "molto madre, a volte moglie, ancora figlia, sempre sorella, altalenante amica e po', ma solo un po', imprenditrice". Di sicuro non lascia indifferenti. La consorte del del principe della tv italiana è una donna libera che non teme di mostrare il suo stile di vita privilegiato e per questo esiste una lunga letteratura di critiche, insulti, rosiconi, invidia sociale. Ma quello che pochi sanno è che lavora sodo. Ha fondato la società Sdl 2005 che si occupa di casting per trasmissioni come Avanti un altro, programmi, libri, web tv che conduce anche in prima persona. Ma non vuole fare concorrenza al marito, giura, stare dietro le quinte è la dimensione che preferisce.

Però con le dirette Instagram si sta divertendo. 

«Nascono da una voglia di intrattenimento, di fare stare bene gli ospiti e le persone a casa, spesso con scopo benefico. La diretta sui social non è come la tv, ti puoi permettere sbavature. Abbiamo tante idee e progetti».

Per esempio? 

«Alcuni ho paura a rivelarli, perché non vorrei mi rubassero l’idea (sorride, ndr). La diretta dell’altro giorno con Laura Freddi mi ha stuzzicato qualcosa sulle vite passate, delle coppie e delle persone. La rubrica I libri di Sonia potrebbe andare in qualche canale digitale».

È una divoratrice. Come fa a leggere tanti libri con tre figli? 

«L’estate è il periodo ideale. Adesso sono un po’ più grandi, serve meno accudimento. La mia passione è nata a quattro anni: mia madre mi leggeva le favole ma io decisi che volevo leggermele da sole. E imparai a farlo. I libri sono uno sfogo, più delle serie tv» .

Cosa ha letto di recente? 

«L’ultimo di Dacia Maraini, poi inizierò la storia della Montessori. Tutti Rizzoli, nostro sponsor».

Durante il Covid si diceva: ne usciremo migliori. Ma a giudicare dagli odiatori che ancora la attaccano, lei ne è convinta? 

«No. Le cose che rendono migliori penso siano quelle che accadono singolarmente. Già durante la pandemia, io e Paolo avevamo capito che certe disposizioni umane non cambieranno mai. Insultare è uno sfogo, non sappiamo chi ci sia dietro, ma certo andrebbe analizzato psicologicamente. Sono maschere che si indossano. Poi magari sono solo ragazzini» .

Qualche insulto l’ha mai ferita davvero? 

«Perché una cosa mi colpisca, deve uscire dalla bocca di qualcuno che stimo. Se non so chi ci sia dietro, no».

L’odio sociale crede sia aumentato con il divario che la situazione economica ha generato dopo il coronavirus? 

«Penso di sì. Con uno dei miei format cerchiamo di aiutare, dando visibilità gratuita, piccole aziende italiane, provando a riaprire il mercato. Non vivo chiusa nel mio mondo e me ne frego. Nemmeno Paolo. I nostri figli fanno una vita normale. Se prendo l’aereo privato è perché me lo posso permettere e facilita alcune dinamiche famigliari. Se non è l’aereo attaccano la borsa o l’anello. Pazienza».

Quest’anno farà le vacanze in Italia per aiutare il Paese? 

«Sì, stiamo in Toscana, più che altro per tranquillità. Ci dispiace per certo qualunquismo: “Non andate in Francia, in Spagna”. Ci sono tanti imprenditori italiani che hanno investito in quei Paesi e all’estero, e che ora stanno perdendo molto».

Suo marito Paolo Bonolis è sempre stato meno social di lei. Discussioni? 

«No, la vita è un’altra cosa. Diciamo che Paolo ha un Nokia che prende sì e no, il suo profilo non lo gestisce lui e nel periodo in cui tutto era fermo ha ceduto a qualche diretta: altro non si poteva fare». 

Da donna imprenditrice, ha mai notato maschilismo? 

«Direi di sì, ma non mi ha mai afflitto. Nemmeno prima di conoscere Paolo: studiavo, lavoravo, facevo fotoromanzi, non ho mai vissuto questa differenza di trattamento. E un certo femminismo sempre arrabbiato non mi rappresenta, poi certo...».

Cosa? 

«La donna è più portata a scegliere: se lavorare sodo fino ai trenta anni e poi pensare a una famiglia, se fare un solo figlio per conciliar e le due dimensioni. Questo ha generato probabilmente la presenza di più uomini nelle posizioni di potere. Tutto questo è vero ovunque: non solo in tv».

Adriana Marmiroli per ''La Stampa'' il 7 giugno 2020. Mi sono sostanzialmente annoiato un po'», ammette Paolo Bonolis, parlando della forzata clausura domestica della Fase 1. «Ho continuato a "parlare da solo" (il riferimento è al titolo del suo libro uscito a novembre da Rizzoli, ndr): non smetto mai di farlo. E ho pensato a progetti, figli di quella madre partoriente che è la noia. Chissà se prenderanno forma, se dimostreranno di avere sostanza, oppure si riveleranno solo sotterfugi per non annoiarsi. Quando sei fermo in uno stesso posto, ti industri con la mente».

La prima cosa che si è concesso appena finito il lockdown?

«Ho preso la moto e mi sono fatto un giro per Roma, molto "caro diario". Ho visto che lei era sempre la stessa e sono rientrato».

Cosa ha imparato di nuovo in questo periodo?

«Tutte le regole di Fifa 2020, di cui mio figlio Davide è giocatore accanito».

Lei è un appassionato di calcio. Le è mancato?

«Sia quello da vedere che quello giocato. Da mesto praticante anziano non vedo l' ora di tornare nell' agone sportivo con gli amici».

Inattivo non del tutto, però: su YouTube conduce «La stanza del medico», format che unisce fiction e talk su temi medici. Come nasce?

«Lo ha ideato mia moglie Sonia Bruganelli, che lo ha prodotto con la sua SDL Tv. Non avevo nulla da fare e mi ha chiesto se volevo darle una mano a divulgarlo».

Parlate di eutanasia, vaccinazioni, trasfusioni, mastoplastica additiva nelle giovanissime e mastectomia preventiva. In un video introduttivo lo definisce «una piccola costola de "Il senso della vita" per non addormentare la mente».

«Me lo sono configurato in questo modo. Il vero protagonista è il professore Roy de Vita, primario della Divisione di Chirurgia Plastica dell' Istituto dei Tumori Regina Elena di Roma. Mi è piaciuta la scelta di argomenti che si pongono su una linea di confine etica. Ragionare con gli altri su cosa sia giusto e cosa sbagliato, spaziando - appunto - sul senso della vita in qualunque direzione. Molto meglio del puro aspetto sanitario».

Cita «Il senso della vita», programma apprezzato anche dai vertici di Mediaset, che però non è stato più ripreso. Ci spera ancora?

«Non vorrei diventasse un' ossessione. È piaciuto a me farlo e al pubblico vederlo. Ma c' erano ragioni economiche che, come programma per la seconda serata (che ormai è notte fonda), lo rendevano non profittevole. La rete ha fatto le sue scelte».

Su Canale 5 la vediamo nelle repliche di «Avanti un altro» e di «Ciao Darwin».

«Stanno facendo ottimi ascolti (sempre più di 4 milioni di spettatori, ndr) tant' è che aumentano. Dato che mandano le stagioni a ritroso, si assiste a questo fenomeno buffo che ringiovanisco ogni giorno un po', alla maniera del Benjamin Button del film. Di questo passo arriveranno le repliche di Bim Bum Bam e - se ci fosse - del filmino della mia nascita».

Sono previste nuove puntate?

«Di Darwin no. Per Avanti un altro non ho dubbi: dovevamo registrare una nuova stagione in autunno. Ora non si sa. Ma quando lo faremo sarà nel pieno rispetto delle regole sanitarie del momento. Inevitabilmente qualcosa cambierà anche nel programma».

Cambierà qualcosa dopo la pandemia?

«Temo nulla. La natura umana è particolarmente ostinata nel suo modo di essere. Per un attimo vediamo le cose in un altro modo, poi torniamo a vederle come ci conviene. Non credo ci sarà moralizzazione o miglioramento finita la pandemia. Penso che la gran parte l' abbia vissuta solo come una gran rottura».

Però paiono cambiate le priorità: non più immigrazione ma salute. Cosa ne pensa?

«Non so se è cambiato l' approccio verso la sanità. Era un piatto secondario nell' agenda politica, quando si trattava di spendere i soldi pubblici. E veniva spazzata sotto al tappeto. Ora il tappeto è stato sollevato ed è venuto fuori lo sporco che era stato nascosto. Mi ha molto colpito che nessuno abbia mai avuto il coraggio di rispondere "non lo so". Tutti sapevano tutto, in questa torre di Babele di esperti. Ci si sarebbe anche potuti divertire se dietro non ci fossero state le tragedie che sappiamo. In questa situazione inattesa, la politica si è trovata alle prese con la coperta corta dell' algoritmo delle sue decisioni: chi governa deve scegliere, e chi vorrebbe governare cavalca la rinuncia dall' opposizione. Il tema dell' immigrazione è passata in secondo piano sostituito da un' altra priorità. Ma le ragioni per cui c' è questa mobilitazione del sud del mondo verso il nord non sono sparite. La ricchezza dell' Occidente è figlia di una predazione che è stata fatta e ancora si fa. Se finisse e si restituissero almeno in parte quelle ricchezze, il fenomeno sparirebbe. Lamentarsene mi pare come il ladro che se la prende con il derubato che va a cercare ciò che gli è stato tolto. Forse sarebbe meglio se, invece di lanciare missili nello spazio, ci dedicassimo prima a risolvere i problemi che abbiamo su questo sasso umido».

Da Tvzap.Kataweb.It il 24 marzo 2020. Paolo Bonolis torna sulla decisione discutibile di Mediaset di sospendere le puntate inedite di Avanti un altro! – in seguito allo stravolgimento dei palinsesti causa Coronavirus – per trasmettere repliche della corrente edizione, una scelta dell’azienda di Cologno Monzese che avrebbe trovato contrariata anche Maria De Filippi, la quale avrebbe sospeso in anticipo Uomini e donne per solidarietà al collega.

Da ilfattoquotidiano.it il 26 marzo 2020. L’occasione per parlare del suo amico e collega la trova in una diretta Instagram con un altro amico (e autore), Marco Salvati. Paolo Bonolis racconta di Luca Laurenti e del loro rapporto: “Se abbiamo litigato? “Cazzate. Non abbiamo avuto mai liti furiose io e Luca, manco ci pensiamo ad averne. Siamo talmente felici insieme che la lite è una situazione improbabile”. A questo punto viene spontaneo sapere se i due si tengono compagnia durante questi giorni di quarantena ma la risposta e “no”. Il motivo? “Devo dare una risposta a tutti quelli che continuano a chiedermi di Laurenti. Laurenti è vivo e lotta insieme a noi, però lui è come Il solitario di Rio Grande. Lui vive da solo, in assenza di comunicazione, perché è la sua scelta di vita. Non sa nemmeno che c’è il coronavirus”.

Paolo Bonolis e i rapporti con Mediaset: “Sono irrintracciabili”. Nel corso di una diretta Instagram, come riporta il sito Bitchyf.it, Bonolis avrebbe commentato non solo questa faccenda, ma anche la mossa di Canale 5 di schierare la riproposizione di Ciao Darwin contro Il meglio di Viva Rai Play di Fiorello (su Rai 1): “Il perché lo abbiano fatto non l’ho capito, non me l’ha spiegato nessuno anche perché sono irrintracciabili. Sono comunque repliche di questa stessa edizione ma credo che alla fine della fiera sia un problema di carattere economico. L’altra cosa che non ho capito (e credo che anch’essa sia figlia di una logica economica) è quella di andare in onda contemporaneamente alla trasmissione di Rosario su Rai 1. Che è una scelta in questo periodo abbastanza sbagliata perché sono due fenomeni di divertimento e di alleggerimento che potevano mandare in giorni differenti di modo che ci fossero due possibilità e non di scegliere dove appoggiare la propria attenzione, però che ce devo fa’?”.

Paolo Bonolis e l’ipotesi di un ritorno in Rai. Ma il dettaglio più succulento è arrivato quando commentando l’ipotesi remota per non dire impossibile di riproporre Il senso della vita il conduttore avrebbe confidato: “Il senso della vita? No, non torna, a meno che non mi muovo a Mediaset e vado in Rai. E questo potrebbe accadere… Non siamo proprietari delle televisioni, ed ognuno ha preso la propria strada. Io tutto sommato mi diverto anche molto nella leggerezza senza ipocrisia, quasi fanciullesca, di Ciao Darwin e Avanti un altro! che portiamo in scena. Io e Luca ci divertiamo a desacralizzare ciò che stupidamente è stato reso sacro”.

Anticipazione da “Oggi” il 12 febbraio 2020. «Io non credo in Dio. Non ho un oggettivo “credo”, mi fermo al “so”. La sera, però, prego sempre. Ho fatto le scuole dai preti, che mi hanno insegnato il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria al Padre e tutte quante queste cose qua. Le preghiere mi danno l’idea di poter aprire una porta, di rivolgermi con gratitudine a qualcuno e salutare tutte quelle persone che sono passate attraverso la mia vita e adesso non ci sono più». Paolo Bonolis si confessa a don Marco Pozza nel programma Io credo, in onda su Tv2000 dal 17 marzo, e il settimanale OGGI, in edicola da domani, propone in anteprima alcuni stralci dell’intervista in onda il 2 marzo. Bonolis, nella trasmissione dedicata alla preghiera del Credo, confida anche la sua educazione sentimentale e gli anni della formazione, fra gli «studi dai preti», la zia che è sulla strada della beatificazione, le vacanze passate in mezzo alle prostitute e le opere di bene che fa: «Io il bene non lo dedico a Dio perché ’sto Dio non lo conosco. Però lo faccio. Lo fai perché ti fa stare meglio, perché è più comodo».

Da tuttosport.com il 22 gennaio 2020. Paolo Bonolis non perde occasione per lanciare una stoccata ai bianconeri. Il presentatore, noto tifoso dell’Inter, si è lasciato andare a una battuta nei confronti della Juve durante la puntata di ‘Avanti un altro’ andata in onda ieri. “Durante una partita di calcio, se il pallone prima di entrare in porta - ha domandato Bonolis al concorrente - viene colpito accidentalmente dall’arbitro è gol o non è gol?”. “Non è gol - ha proseguito il conduttore spiegando la risposta -. Con le nuove regole introdotte nel 2019, l’arbitro non viene considerato più come un qualunque elemento di gioco. Quindi se il pallone colpisce l’arbitro in qualsiasi zona del campo il gioco viene interrotto a meno che non sia la Juve”. Le parole hanno suscitato tanta ilarità in studio: “Son le regole, mica le ho scritte io”. E ancora: “Se un calciatore segna da rimessa laterale è gol o non è gol? Non è gol ma lo è se…gioca la Juve”. C’è chi lo attacca e chi lo difende, lo scontro social tra i tifosi bianconeri e quelli nerazzurri è già partito.

Serena Granato per il Giornale il 3 gennaio 2020. La ricorrenza festiva del Capodanno rappresenta un'occasione per stringersi ai propri affetti e condividere con gli altri i ricordi salienti di un anno appena finito. In occasione delle vacanze natalizie, Paolo Bonolis non è riuscito a resistere alla tentazione di fare un discorso di fine 2019, che la consorte, Sonia Bruganelli, ha condiviso con il web pubblicandone un video sul suo profilo Instagram. All'ultima cena del 2019, Bonolis ha deliziato gli invitati accorsi a casa sua con una sorta di bilancio personale di fine anno, lasciandosi andare a delle battute che hanno divertito il web. "Allora: è un piacere averve qua tutti, stasera, a mangià e a beve' -sono le parole che Bonolis ha speso rivolgendosi ai cari, con i quali ha dato il benvenuto al 2020- a spese mie. Perché io so’ un signore! Perché io so’ un signore! E ‘ndo magna uno…mortacci vostri, quanti siete! Vi auguro a tutti un anno meraviglioso. Che ve possa dà tutta l’acqua pe' l’orto. Che nessuno di voi ha da divennà terra pe’ ceci…prima che lo decida…chi po’ decide! Vi voglio bene a tutti. Mortacci vostri". Sotto il filmato di auguri di buon 2020, fatti dal conduttore - che a breve tornerà in tv - sono giunti molti commenti da parte degli utenti. "Alla prima occasione, farò lo stesso discorso", ha commentato qualcuno, alludendo alle parole che Bonolis ha speso al cenone di Capodanno. "Sincero", ha scritto un altro utente sul conduttore capitolino. Poi, sono giunti anche gli auguri dei fan più accaniti, rivolti in particolare al loro beniamino: "Tanti auguri, tra poco ci rivediamo con Avanti un altro". "Dopo il discorso del Papa e del Presidente della Repubblica, anche il discorso di @sonopaolobonolis. #buonanno" sono, invece, gli auguri che Sonia Bruganelli ha riportato nella descrizione del video postato a Capodanno, che vede protagonista il marito e ha raggiunto la cifra di oltre 190mila visualizzazioni. Nelle ultime ore, però, il filmato in questione non è più visibile - se non in alcune fanpage dedicate a Bonolis - e, pertanto, si pensa che la Bruganelli abbia deciso di rimuoverlo dal suo profilo personale o archiviato temporaneamente in data odierna.

Paolo Bonolis, la maledizione è in sardo ma lui non capisce e ringrazia. Giovanni Malas, un concorrente della trasmissione "Avanti un altro" proveniente da Cuglieri, in provincia di Oristano, ha rivolto al conduttore una maledizione nella sua lingua natìa spacciandola per poesia. La Repubblica il 21 gennaio 2020. "Frastimo, ma no isco frastimare ca Deus non m’hat dadu su destinu. Males cantas renas b’hat in mare e unzas cantu pesat su terrinu. Su cannau ti tostet su Buzinu manzanu a carre lenta a t’impicare. Minutos cantu zirat su rellozu ti dian issacadas de puntorzu": se non siete sardi, potreste fare la fine di Paolo Bonolis e, con un grande sorriso in faccia, ringraziare per le 'belle' parole. È quanto accaduto durante la trasmissione Avanti un altro, in onda su Canale 5, in cui un giovane pastore di Cuglieri, in provincia di Oristano, si è rivolto al conduttore per dedicargli una "poesia". "Sono appassionato delle tradizioni della mia terra, soprattutto di poesia", ha detto il concorrente Giovannni Malas a Bonolis, e poi è partito con il suo anatema che qui vi traduciamo: "Ti maledico, anche se non sono bravo a farlo perché Dio non mi ha dato il talento. Ti vengano tanti mali quanta sabbia c’è nel mare e quante once pesa la terra. Ti metta la fune al collo il boia domani per impiccarti. Possano infierire su di te col pungolo tante volte quanti sono i giri che fa l'orologio". Bonolis, che osservava con curiosità e con un ghigno quasi di scherno il ragazzo declamare il testo, ha avuto un sobbalzo solo mentre pronunciava la parola "t’impicare", l'unica vagamente comprensibile. Per la cronaca, in Sardegna esistono molti "frastimu", maledizioni, e l’usanza del "frastimare" è considerata un'arte. Certo, non era sicuramente questa che Bonolis si sarebbe aspettato.

Dagospia il 14 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2.  Paolo Bonolis è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il popolare conduttore televisivo è tornato a parlare del suo libro "Perché parlavo da solo": "Sono appunti sui miei pensieri, pensieri che ho sviluppato nel corso degli anni, che poi sono stati implementati. E' un libro che parla di tante cose, pensieri di un uomo di 58 anni sulla vita, sulla famiglia, sull'amore, sul sesso, sulla morte, sulla felicità, sui sogni. Si parla di tanti argomenti. E' un libro che ho voluto scrivere per piacere personale, per poterlo lasciare ai miei figli e per poter dare, visto che tutti i miei diritti su questo libro andranno al Cers, un ulteriore contributo a questa onlus con la quale collaboro da tanti anni. C'è un capitolo che si chiama 'Sti cazzi'? E' la filosofia romana. Il concetto di 'sti cazzi', io che sono nato e vissuto sempre a Roma, lo ritengo un concetto filosofico in grado di salvare il romano dalle preoccupazioni della sua vita quotidiana. Lo salva dalla preoccupazione ma non risolve il problema. Il romano si dà da fare per risolvere il problema, quando non ci riesce, si rifugia nella filosofia 'sti cazzi'".

Sugli esordi in tv: "Ho esordito su Rai1. Ho cominciato a lavorare a 19 anni. Fu una circostanza particolare, studiavo all'università, facevo scienze politiche, volevo fare tutt'altro, volevo fare il diplomatico. Ho accompagnato una persona, dopo un po' mi hanno cercato e mi hanno affidato una coconduzione. Ho iniziato così. Poi mi è piaciuto, ho continuato, mi pagavano, cosa irreale per un ragazzo di neanche 20 anni. E' iniziato tutto così".

Su Tira e Molla: "Ha cambiato la logica del gioco a premi. Erano quasi tutti uguali, facevano la domanda e si aspettava la risposta. Guardandoli, mi dicevo 'ammazza che palle'. Io invece volevo ci fosse un po' di irriverenza, un gioco deve essere divertente da vedersi, non può essere solo figlio di capire se il concorrente sa la risposta. La telefonata con i fratelli a Tira e Molla? Quella è passata la storia! Andarono effettivamente in onda dodici minuti, ma quella telefonata durò una quarantina di minuti. Eravamo nel surrealismo assoluto".

Sul cinismo: "Il cinismo è come il colesterolo. C'è quello buono e c'è quello cattivo. Quello cattivo ti porta all'indifferenza. Quello buono ti porta alla leggerezza. Prendiamo le cose senza dover camminare sempre sulle uova, come vorrebbe invece il politicamente corretto. Questo ci fa essere più allegri e sereni".

Sulla sua carriera: "Dopo 40 anni di carriera, anche la cosa più piacevole diventa consuetudinaria. Prima la televisione aveva un sapore pionieristico, ci si divertiva ad inventarsi cose nuove, ora si fa più fatica. A differenza dei primi tempi, ora sono tremendamente cauti. Se non addirittura indifferenti alle novità. Quando fai un prodotto nuovo, si chiedono sempre 'e se poi non funziona?"

Sulla sua parentesi da attore in Commedia Sexy: "Io non sono un attore, lo feci perché mi massacrarono e alla fine accettai. Mi piace molto il cinema, ma non l'avevo mai fatto. Però lo avevo premesso, qualunque ruolo mi avessero dato, così lo avrei interpretato. Non sono capace. Il cinema è un po' inquietante, non c'è un ordine temporale di lavoro, a questo non ero preparato".

Sul festival di Sanremo: "Nel farlo, sia nel 2005 che nel 2009, mi sono divertito molto. Bisogna essere se stessi e sapersi divertire. E' bello poi se puoi essere non solo conduttore ma anche direttore artistico".

Sulla sua Inter: "Abbiamo perso due punti contro la Roma. La Roma ad inizio partita ha fatto all'Inter gli stessi regali fatti alla Juventus. Solo che i bianconeri sono stati in grado di approfittarne, noi no. Poi c'è la Lazio, una bella piaga. Gioca bene e le va tutto nel migliore dei modi. La Juventus ha una rosa pazzesca, alla fine le partite le risolve. Noi facciamo il nostro, Conte sta facendo un grande lavoro, se riusciamo a limitare il numero di infortuni e di squalificati possiamo giocarcela. Con l'Atalanta l'abbiamo scampata. E' un bel campionato, almeno non c'è una squadra con dieci punti di distacco dopo dieci partite".

·        Paolo Conte.

Paolo Conte, il Leone: «Mai fatto psicanalisi: “ghe pensi mi”». Antonio D’Orrico il 14 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Alla Mostra del Cinema di Venezia verrà presentato un film sulla sua vita: storia di un artista che è la memoria di un’epoca, di più generazioni, forse dell’italianità stessa. E che, a 83 anni, dice: «Prima di andare in scena si patisce sempre un po’». Se al Festival del cinema di Venezia volessero quest’anno fare un colpo di vita, dovrebbero dare il Leone d’oro alla carriera a Paolo Conte. Le sue canzoni sono alcuni dei più bei film della nostra vita. Pensate a Sparring partner, che ha il touch di un Clint Eastwood, o all’epopea dell’uomo del Mocambo, che è l’altra faccia del Sorpasso di Dino Risi. C’è anche l’occasione giusta per onorare il Maestro. La Mostra del Cinema 2020 ospita in anteprima Paolo Conte, Via con me di Giorgio Verdelli, un film sulla sua vita e le sue opere. L’Avvocato di Asti appare finalmente in prima persona sul grande schermo. Marcello Mastroianni riteneva il cantautore astigiano l’unico che avrebbe potuto prendere il suo posto sul set. Marcello Mastroianni, che ne capiva, lo riteneva l’unico che avrebbe potuto prendere il suo posto sul set. Nel cast del film troviamo Roberto Benigni, Pupi Avati, Caterina Caselli, Jane Birkin, Francesco De Gregori, Jovanotti, Giovanni Veronesi, Vinicio Capossela e Luca Zingaretti, che fa la guida in un viaggio tra milonghe, maccaie genovesi, cassiere che masticano caramelle alaskane, palcoscenici di grandi teatri parigini, londinesi, americani, napoletani, tarantolate esibizioni di Enzo Jannacci al Club Tenco e Monica Vitti che canta Avanti, bionda. Grazie al ricchissimo archivio personale dell’artista (esplorato con l’aiuto di Rita Allevato, manager di Conte, che da anni desiderava questo film) Verdelli ha messo in scena la memoria di Conte. E non si tratta soltanto della sua memoria, ma di quella di un’epoca, di più generazioni. Forse, si tratta della memoria (oggi fortemente in pericolo) dell’italianità stessa e dei suoi testimonial contiani: Gino Bartali, la Topolino amaranto...Un ultimo suggerimento agli organizzatori del Festival, prima di passare all’intervista a Conte. La sera in cui gli consegnerete (come spero vivamente) il Leone, proiettate la scena del film di Verdelli in cui Giovanni Veronesi racconta che una delle canzoni preferite da un grande del cinema come Robert De Niro è Onda su onda. Bob la canticchia spesso con viso sognante: «Son caduto dalla nave, son caduto / mentre a bordo c’era il ballo... Tu stai danzando insieme a lui / con gli occhi chiusi ti stringi a lui».

Maestro, prima di cominciare, possiamo osservare un minuto di silenzio per la scomparsa del dragueur , del ballerino di balli lenti, eroica figura del dopoguerra che danzava sapendo a memoria dove voleva arrivare? Se avesse voglia di spendere qualche parola in suo ricordo...

«Questo individuo andava osservato prima di tutto quando, con un’aria quasi professionale, si avvicinava alla dama per invitarla a ballare, e ancora più, quando, con aria altrettanto “professionale”, accoglieva il diniego di lei e si allontanava, evitando il grandissimo errore di rivolgere lo stesso invito a qualche amica di lei seduta nei paraggi, e si spostava verso altri parcheggi. Scena che avveniva in un silenzio di tigri».

Ho fatto un quiz che circola su internet e misura il grado di cultura contiana. La prima domanda è: “In che lingua è la parola sijmadicandhaapajiee ?”. Risposte possibili: A) Aramaico. B) Sanscrito. C) Dialetto astigiano. Ho scelto la C. Come sono andato?

«La risposta è esatta, ma non esattissima. Il contenuto è in dialetto astigiano (significa: siamo dei cani da pagliaio), ma la grafia è di tipo azteco».

(Ho capito: rimandato all’esame di Cultura generale contiana). Jane Birkin dice di lei: «L’Avvocato c’est sexy ». E pronuncia la parola “avvocato” come se fosse piena di erre da arrotare, anche se non ce n’è nemmeno una.

«Con Jane abbiamo cantato insieme Chiamami adesso».

Una delle sue canzoni più sensuali. Mi racconti.

«Mi ricordo un gentile gesto di Jane: portò alla mia orchestra un pacchetto di pasticceria».

In Elisir lei canta: «Si suona così, con grazia plebea. Le mani che sudano». È questa la ricetta per fare «brava musica»?

«Quando sento disquisire di “canzone popolare” provo un po’ di confusione: pop, per gli americani, mi sembra che stia per “canzone di successo”, per me significa qualcosa di più simile a “popolano” nel senso che appartiene al popolo non per l’acquisita notorietà, ma per un’essenza più intimamente “indigena”. In Elisir mi sono spinto per questo ad usare la parola “plebea”».

Certe sue cantanti (Caterina Caselli, Gianna Nannini, la stessa Birkin, Malika Ayane), posseggono la grazia plebea?

«Sempre nel senso che dicevo prima, sceglierei Caterina Caselli, per la quale mi ricordo di aver scelto in passato la definizione “canta come le lavandaie”».

Caterina Caselli racconta che perse la testa quando sentì Insieme a te non ci sto più . E dice: «Se fosse stato un quadro in un museo, sarei stata colpita dalla sindrome di Stendhal». È il primo caso di sindrome di Stendhal provocata da una canzone.

«La grande Caterina ha sempre scelto bene il suo repertorio, forse il repertorio più coerente che una cantante italiana abbia mai avuto. E per di più autenticamente beat. Insieme a te non ci sto più è una delle rare canzoni beat che io abbia composto».

La grazia plebea ce l’ha anche Celentano?

«Assolutamente sì».

Ma cosa ne sa un laureato di Asti, figlio d’arte notarile, dal lato paterno, e di proprietari terrieri, da parte materna, della grazia plebea?

«Io “ondeggio” tra l’ammirazione per la musica colta (ma non necessariamente accademica) e il fascino più segreto dell’ ethnos».

Avvocato, la sua causa più bella è la difesa dell’uomo del Mocambo, l’avventuriero sognatore che incarna un certo tipo di italiano del dopoguerra. Lei è stato il curatore del suo fallimento rimanendogli cavallerescamente a fianco fino all’ultima ingiunzione.

«Distinguiamo sempre tra il fallimento di una grande azienda e quello di un piccolo imprenditore solitario. È a quest’ultimo che va la solidarietà (compassione) di un curatore dall’animo buono». (Chi ha orecchie per intendere...).

Li guardava, al tempo, i telefilm di Perry Mason?

«Vedevo Perry Mason e, dopo, Nero Wolfe. Perry Mason risolveva gialli giudiziari a beneficio del proprio cliente innocente. E (pragmatismo americano?), smascherava il colpevole, facendolo comparire addirittura in aula. Trovo, a questo proposito, che il nostro Gianrico Carofiglio sia andato oltre: il suo avvocato Guerrieri riesce a far assolvere il suo cliente innocente, e basta lì. È una lezione di giustizia più alta di quella americana». (Anche qui: chi ha orecchie ecc.).

Una curiosità: è mai andato dallo psicanalista?

«Mai fatto psicanalisi, ghe pensi mi (come diceva Tino Scotti, se lo ricorda?)».

Come no, il bauscia milanese. E le serie televisive tanto di moda le guarda?

«In tv vedo Montalbano, Derrick, Downton Abbey... il resto è football».

Chi è stato il più grande: Maradona, Pelé, Messi o Ronaldo?

«Tra i quattro scelgo Puskas, detto il Maggiore a cavallo. L’ho visto dal vivo. La gloriosa scuola calcistica ungherese, l’eleganza del football magiaro, la leggenda della Squadra d’oro».

Pupi Avati dice che lei è un essere umano di una tenerezza struggente e racconta che lei disse addio a sua madre deponendo nella bara, come un fiore, le parole di Azzurro.

«Abbiamo entrambi molta tenerezza, Pupi ed io. E, a distanza, ci vogliamo molto bene».

Però Avati, masticando un po’ amaro, dice che lei, a differenza di lui, è bello.

«Ma io Pupi lo trovo bellissimo».

Sua madre quando ascoltò Azzurro la prima volta si mise a piangere perché la trovò antica e moderna. Dov’è il passato e dove il futuro in Azzurro?

«Domanda da un milione di dollari. Il passato è in quel di “teneramente antico” che c’è soprattutto nella musica, il futuro è nella trasgressione, diciamo così, di comporre una canzone del genere in piena epoca beat».

Lei canta suo padre in Eden , una canzone che definirei dantesca, perché va a cercarne il sorriso in Paradiso.

«Il brano non è strettamente autobiografico. Semplicemente un padre e un figlio. E l’ambientazione è, sì, dantesca».

È la sua canzone più religiosa?

«No, direi piuttosto Un’altra vita ».

Ma in terza liceo, quando fu bocciato per troppe assenze, cosa faceva quando non andava a scuola? Cherchez la femme, come dicevano i commissari di una volta?

«Mi spiace tanto per il suo commissario, ma sta seguendo una pista sbagliata. Cherchez la musique et la paresse (la pigrizia), questa è la pista giusta».

Il film di Verdelli comincia con lei che fuma l’ultima sigaretta prima di un concerto. Salire sul palco ha qualcosa del salire sul patibolo?

«Facciamo del doppio senso: è un’esecuzione musicale».

Benigni, che parla ormai come Dante, dice che per chi ascolta un suo concerto «tutto si slarga e si infinita». E, modestamente, lo confermo anche io.

«Vi ringrazio di cuore, ma si patisce sempre un po’ lo stesso prima di andare in scena».

Gelato al limon è dedicata a sua moglie. È una dichiarazione d’amore a Egle. Certo che le piaceva vincere facile: come avrebbe potuto Egle resistere a una dichiarazione così?

«È una dichiarazione d’amore, ma non seduttiva o malandrina. Eravamo già innamorati e addirittura sposati».

Però lei canta: «Donna che stai entrando nella mia vita con una valigia di perplessità». Quali perplessità nutriva Egle?

«Allora non lo sapevo. Comincio a capirlo adesso».

Egle, da vera diva, fa nel film una partecipazione straordinaria nascondendosi la faccia con un giornale mentre, al Club Tenco, Benigni canta sfrontatamente Mi piace la moglie di Paolo Conte.

«Ha detto bene: atteggiamento da vera diva. Roba da Greta Garbo!».

La musica di Se telefonando fu ispirata a Morricone dal suono della sirena di un’ambulanza a Marsiglia? Le è mai capitato qualcosa di simile?

«All’inizio di tutto, quando da bambino stavo in campagna da mio nonno e passavo molto tempo sopra un poggio a guardare e ascoltare un trattore che arava nella valle sottostante. Se il trattore si avvicinava alla mia postazione emetteva dei suoni “presenti” di ferraglia, quando si allontanava emetteva dei sobbalzanti muggiti bufaleschi che m’incantavano. Era un’essenza segreta della musica».

Ethnos puro. E quindi domanda in omaggio alle sue radici e al suo illustre concittadino Vittorio Alfieri. Qual è la sua canzone più tragica?

«Mi farebbe effetto andare a cercare del tragico tra le mie canzoni. Già che parliamo di Asti e di Alfieri, riascoltiamoci Teatro (orazione d’onore per il teatro Alfieri di Asti chiuso da tempo). “Anticamente / Si sguainavano là dentro le parole / Uccidere il tiranno questa sera / Ei pera, pera”».

Nella canzone Pesce veloce del Baltico il ristorante dell’albergo proponeva con sussiego pesce veloce del Baltico e torta di mais, ovverosia baccalà e polenta. Mi vengono in mente i masterchef odierni. Pecco di cattiveria?

«No, no! Aumentiamo la cattiveria! Nouvelle cuisine, nouvelle vague, bossanova».

Lei scelse il primo strumento, il trombone, per la sua sensualità. Può darmi qualche dettaglio in più?

«Sul trombone le note si ottengono facendo scorrere un tubo che si chiama “coulisse”, cioè glissando: questo produce un effetto sinuoso che mi ricorda le movenze di certe belle donne grasse. Non si può suonare il trombone senza pensare ad una bella donna nuda».

A proposito, Carmen Villani, per la quale scrisse le sue primissime canzoni (la bellissima Se ), era molto molto sensuale, e fu anche attrice al cinema di commediole scollacciate ( La supplente ). Come era vista da vicino?

«Una bellissima ragazza, mai scollacciata, come del resto i suoi films che erano allusivi solo in apparenza. Ne approfitto per salutarla. Una cara amica».

Mi faccia raccomandare al proto di non levare la “s” finale a”films”, se no lei poi mi toglie il saluto. Ora le chiedo chi è il personaggio femminile che predilige nelle sue canzoni. Sbaglio o è Marisa di Sotto le stelle del jazz?

«Promosso stavolta. Marisa è un nome che mi ha sempre intrigato fin dagli Anni 40. Ero già un buongustaio?».

Maestro, le vogliono tutti bene. Dove ha sbagliato? Dica una cosa che possa essere usata contro di lei.

«Se lo dico, non mi credono».

La penso ogni volta che leggo i bellissimi romanzi di Colin Dexter. Il protagonista, l’ispettore Morse, ha le sue stesse passioni (la musica, i gialli e l’enigmistica) e il suo stesso senso dell’umorismo.

«Conosco l’ispettore Morse. Mi piacciono molto lui e la sua Jaguar. A proposito, facciamo un po’ di enigmistica. Questa è mia. Chiavi di lettura: per capire a fondo una Jaguar ci va una chiave inglese»

La vita — Paolo Conte nasce ad Asti, nel 1937. Suo padre è notaio, e grande appassionato di musica come la madre. Nel 1962 si laurea in Giurisprudenza, a Parma, e inizia a lavorare nello studio del padre, continuando però a coltivare studi musicali. Nel 1974 decide di abbandonare la carriera di avvocato per dedicarsi esclusivamente a quella artistica.

La musica — Negli Anni 50 impara a suonare trombone e vibrafono. Poi il pianoforte. Fonda il Paul Conte Quartet, con il fratello Giorgio alla batteria. Fino agli Anni 70 lavora come autore e compositore per altri artisti. Nel 1974 esce il suo primo 33 giri, Paolo Conte, e inizia a firmare le sue canzoni. Dopo quello ha pubblicato altri 32 album. Nel 1999 è stato nominato Cavaliere al merito in Italia e, nel 2001, in Francia.

Paolo Sorrentino per “Vanity Fair” il 26 maggio 2020. Mio padre lavorava in banca e amava sedersi al piano e suonare a orecchio. Solo allora, diventava leggero. Paolo Conte, ai miei occhi, incarna il padre che non ho più da molti anni. Bellissimo e appartato, sornione e ironico, tenero e scettico, lo spettacolo è una forma della riservatezza, le parole una forma del funambolismo. Ho accettato incautamente di occuparmi di un numero di questo giornale solo perché avevo un obiettivo chiaro: arrivare a conoscere Paolo Conte. Per poter ricordare ancora, dopo tanti anni, in modo più limpido, mio padre. Da qui, nasce questa intervista. Spero che Paolo Conte possa perdonare le mie domande sciocche e pedanti. Lo sono, perché le mie sono domande da fan. E i fan, a volte, pongono domande sciocche, insistenti, inutili, fastidiose, banali. I fan pongono domande irrilevanti perché, spesso, sono obnubilati dall’idolatria. Io sono un fan di Paolo Conte. Dunque, cominciamo.

Mi piacerebbe chiederle qual è stato il suo primo amore. E, se non lo ricorda, qual è il primo che ricorda?

«Lascio alla sua meditazione di artista e di uomo sensibile e vissuto questa piccola cabala! “Non è forse vero che tutti gli amori di una vita sono dei primi amori?”. Mi interesserebbe una sua risposta. Comunque la mia canzone L’ultima donna dice, alla fine “un giardino ci sembrerà, sì, proprio l’ultimo approdo di terra l’ultima donna sarà, l’ultima donna sarà”».

Se anche trovassi un’acrobatica risposta, essa non sarebbe mai in grado di competere con il verso di una sua canzone. Sfuggo ponendo un’altra domanda: cosa sarebbe stata la sua vita se non avesse avuto un lungo matrimonio? Cosa sarebbe stata la sua vita immaginando mille, fugaci avventure amorose, tra solitudini, concerti, gocce di pioggia a rigare i finestrini dei taxi e passeggiate notturne di ritorno in alberghi destinati a essere dimenticati?

«Non saprei cosa rispondere. Del resto, sa, ci sono stati anche quelli che a un certo punto della vita si sono fatti preti…».

La vita non vissuta, dunque immaginata, i complessi che ci hanno abitato, gli status che non ci hanno mai riconosciuto o che non ci erano consentiti, tutto questo può essere il motivo o il motore dell’atto creativo? L’atto creativo non le appare, alle volte, una volontà di rivalsa? Una rimonta verso ciò che non siamo stati? Oppure lo sfogo creativo è solo l’opportunità giocosa, disincantata, di vivere vite che non abbiamo avuto il tempo di vivere?

«Per me vale la sua seconda opzione».

Io penso che il complesso della produzione artistica di un autore sia il risultato del suo universo poetico. A volte, quell’universo poetico è striminzito, o forse è il risultato di un’unica intuizione, allora si hanno autori di un solo film, una sola canzone, un solo libro. Ma il suo universo poetico, alla luce di tutto quello che ha creato, è vastissimo. Lei, a volte, ha elencato nelle interviste alcune delle stelle di quel suo universo: il jazz, suo zio, i fallimenti che curava quando era avvocato, il dopoguerra, l’America, l’amicizia, il mistero del femminile. Secondo me, però, non ha detto tutto. Sono sicuro che c’è dell’altro, per giustificare la lunghissima sequenza di capolavori che lei ha inanellato. Quali sono le altre costellazioni del suo universo poetico che ancora non ci ha detto? Perdoni questa mia domanda disinvolta, non voglio forzare gli angoli più lontani, quelli del pudore, o del dolore.

«Mi prende in un momento in cui non ho più voglia di scrivere (mi è già successo in passato) e mi rifugio nell’alibi del tutto quel che mi passava per la testa ormai l’ho scritto. Ho sempre evitato l’autobiografia in sé, che non mi piace neanche negli altri artisti. Qui si sarebbero annidate sensazioni più estreme, che forse in qualche canzone ho appena sfiorato».

Ricorda una faccia, tra le migliaia in mezzo al suo pubblico, che non ha più dimenticato? E, se sì, che gioia che sarebbe per me se me la descrivesse.

«Magari vado un po’ fuori tema, ma le racconto questo aneddoto. Per diversi anni, in Francia, mi sono esibito al prestigioso Festival di Ramatuelle. Una sera tra gli spettatori, c’era la grande attrice e cantante Juliette Gréco. L’avevano piazzata in platea in prima fila, per cui io seduto al piano le ero completamente invisibile, al massimo poteva vedere i miei piedi e qualche volta le mani quando le lasciavo pendere al di sotto della tastiera e “fingevo di dirigere la mia orchestra”. Quando, finito il concerto, ci siamo salutati, mi ha voluto esprimere le sue impressioni. Mi dice “Quel geste! Énergique et tendre!”. E poi, con un’esitazione molto francese, quasi un sospiro, aggiunge “…un homme…”».

«Non tutti i giorni ci si può svegliare ridendo, come diceva quel tale in coma». Questo è il mio incipit preferito di un romanzo, Il fratello italiano, di Arpino. Per me potrebbe essere stato anche l’incipit di una sua canzone. Proprio come in un suo testo, questa frase contiene tutta la forza dell’ironia e la potenza dell’ineluttabile. Quando concepisco un film, mi arrovello sugli incipit fino a non prendere sonno. Essi determinano, per me, l’esito del resto. Devono sbalordire. Forse sono infantile, ma allora lo era anche Flaubert, che diceva più o meno: «Il lettore deve chiedersi, in relazione allo scrittore: ma come ha fatto?».

Ascoltando gli incipit di testi di sue canzoni come Diavolo Rosso, Sparring Partner, Dancing («C’è stato un attimo che tu mi sei sembrata niente», che inarrivabile meraviglia!) mi sembra che anche lei, con l’attacco dei testi, voglia sbalordire. E noi lì a chiederci: ma come ha fatto? È d’accordo o sto farneticando?

«Sì, l’incipit è un pezzo di bravura. Gliene aggiungo altri due miei, modestamente: uno è “Aeronautico è il cielo” (da L’ultima donna) e “Farà piacere un bel mazzo di rose e anche il rumore che fa il cellophane” (da Bartali)».

Ci sono incipit di romanzi che l’hanno attratta per sempre? Fino a ricordarli a memoria?

«Di romanzi non ho memoria, qualche verso di poesia (La pioggia nel pineto – D’Annunzio; La cavalla storna – Pascoli)».

Chi o cosa le manca? Voglio dire, cosa è svanito del passato che vorrebbe ancora con sé?

«Mio padre che mi paga un caffè al bar e vederlo che lascia sul bancone cento lire».

In questo periodo letargico sento diverse persone che mettono ordine nei cassetti. Molto di quello che esce era stato dimenticato. E spesso non vale la pena ricordarlo. Vale anche per lei? E cosa trova in fondo ai suoi cassetti?

«Sono un po’ animista, conservo di tutto, un cordino, un mozzicone di matita… Niente di sentimentale, ma qualcosa di sacrale».

Lei ha detto una frase per me luminosa. Ha detto: «Di solito, si ha paura di essere incompresi. Io ho paura di essere compreso». La irrita quando provano a spiegare la sua arte? Lo trova riduttivo? Preferisce solamente che, chi ascolta le sue canzoni, si abbandoni?

«Fra tanti applausi, colti e intellettuali (che certamente mi fanno piacere), quando finisco un brano in un concerto, l’applauso che preferisco è quello circense che si riserva all’equilibrista arrivato alla fine del filo. O almeno, così lo voglio immaginare».

Mio padre comprava prevalentemente dischi di Gershwin, Sinatra, Paolo Conte e Fausto Papetti. Di quest’ultimo, penso che li comprasse soprattutto per le donne nude sulle copertine. Se così fosse, non posso biasimarlo, quelle donne erano irresistibili. So cosa pensa di Gershwin, non le chiederò cosa pensa di Papetti, né di Paolo Conte, ma sarei così curioso di sapere cosa pensa Paolo Conte di Frank Sinatra.

«Viva l’eclettismo di suo padre! Sinatra non mi è mai piaciuto molto. Attenzione: grande cantante, molto apprezzato dai suoi estimatori per la dizione perfetta, ma non “di pancia”, con un repertorio, per di più, tendente al “sofisticato” parvenu. Mi piacciono i neri. Tra i bianchi e le bianche le indico Jimmy Durante e Sophie Tucker».

Lei ha detto di essere debitore, a volte, nella creazione delle canzoni, verso le tecniche di narrazione cinematografica. Qual è, per lei, l’essenza del cinema?

«Ci sono somiglianze, tra le due arti, nel maneggiare la sintesi. Una canzone perfetta non deve durare più di tre minuti. Si devono usare le luci del cinema, gli sguardi del cinema».

Io, invece, per una coincidenza del tutto speculare, nella creazione di un film, sono debitore nei confronti della musica. Della sua in particolare. Aguaplano (album di Conte del 1987, ndr) ha alimentato la fantasia delle mie prime, balbettanti immagini. La versione da concerto di Diavolo rosso, 10-12 minuti, dove lei canta poco e poi solo il fluire della musica, il chitarrista che sembra morire per lo sforzo, la fisarmonica che s’impenna fino allo stremo, il violino in un dispiegamento virtuoso. C’è, in quella versione di Diavolo rosso, un sentimento che ho imparato: la bellezza dell’estenuante. Lo sforzo di quell’esecuzione, con la sua lunghezza atipica per una canzone, sembra riassumere tutta la commozione della fatica di vivere. Ecco un’altra cosa che lei mi ha insegnato. Per non parlare di Max, poche parole all’inizio, poi un lunghissimo finale. Una strada maestra lirica e epica. Almeno io così leggo quel brano e dunque le ho saccheggiato l’avvicinamento al finale dei film ricorrendo a un altrettanto, lunghissimo finale. Come nascono quelle esecuzioni? Lo so che è una domanda fastidiosa, la risposta non riassumibile in poche parole, ma, ancora una volta, le parole di Flaubert: ma come ha fatto? Anche quelle esecuzioni mirabili, in concerto, di Diavolo rosso, Max, Hemingway, sono frutto della sua passione per il cinema? Oppure ha cavalcato un istinto? Un sentimento?

«Diavolo rosso. Da un po’ di anni nei miei concerti a metà del brano apro un lungo spazio sopra un accordo fisso in re minore, dove alcuni miei musicisti hanno libertà di improvvisazione. Sono momenti di libertà che io regalo a loro e che loro mi restituiscono con un grande virtuosismo e partecipazione. Sono momenti “colti” in cui la musica assume diversi connotati “etnici”: il clarinetto si presenta con un accenno di Brahms, poi passa a un linguaggio ebraico Klezmer e conclude con una citazione di una vecchia canzone americana che si intitola Palesteena. La fisarmonica transita da uno spunto gregoriano a un jamboree di stampo rumeno. E poi il violino svetta in prodezza di “arte povera”. Sì, la parola giusta è “sentimento” mio verso di loro. Max. È una canzone, sì epica, ma anche enigma. Ho voluto scrivere poche parole, il resto è solo musica, a lungo».

Con Jimmy Villotti, al ristorante, dopo il teatro, finivate a parlare della donna ideale. Qual è la donna ideale? Com’è fatta? A chi assomiglia? Dove sta?

«Una sera in un night club Jimmy mi fa “guardale una per una, questa è la maga Circe, quella è Cleopatra, l’altra è la Sfinge, l’altra ancora ecc. ecc.”. Che cosa significherà mai la parola “ideale”? Del resto, i vecchi viveurs d’antan, per scusare la propria poligamia, ripetevano: l’amore è universale».

Cosa pensa della contemporaneità? Voglio dire, lei è un dandy, un concentrato di «classe», la sua musica è sempre stata un unicum, refrattaria alle mode, lei stesso è refrattario a molti cardini del mondo d’oggi: l’esserci, le lusinghe sciocche, la volgarità, la fretta, le provocazioni, le urla, l’esibizionismo, i duetti musicali. Lei è al di fuori! Più in là di tutto questo. Lei sta al mondo restante della musica come De Chirico lo era al mondo della pittura. Entrambi impermeabili! Dunque, come si relaziona al mondo d’oggi? Le provoca irritazione? Compassione? Disprezzo? Alla lunga, il mondo così com’è adesso non rischia di fiaccare il suo entusiasmo? O è una compagnia di giro che le scorre accanto in una pacata indifferenza? Mi sembra che sia un mondo, quello di oggi, che non la riguarda. Forse perché, alla fin fine, tutto quel che ci riguarda ha a che fare solo con la nostra infanzia e la nostra gioventù?

«La nostra infanzia e la nostra gioventù. Sì, guardi, esteticamente parlando, io sono un antistoricista. Gli storicisti pretendono che con l’avanzare del tempo l’arte migliori. La tecnologia, sì, ma l’arte no».

Stravinskij disse: «Io non so perché sono vecchio». Lei lo sa? Cos’è la vecchiaia? Ammesso che lei l’abbia mai vissuta, la vecchiaia. Io non credo, in verità.

«Almeno fino a oggi sono d’accordo con quanto lei mi dice».

PS: Grazie per avermi fiaccato in questo lungo interrogatorio (se alla polizia declinassi io le mie singolarità, da Fritz). Ma abbiamo ancora tante cose da dirci. Alla prossima. Con grande stima.P.C.

·        Paolo Conticini.

Dagospia il 13 Ottobre 2020. Da I Lunatici Radio2. Paolo Conticini è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. L'attore ha parlato un po’ di sè: "Il mio rapporto con la notte? In passato era diverso, quando ero più piccolo lavoravo come buttafuori in discoteca, quindi la notte per me era il giorno, adesso stramazzo vestito nel letto attorno alle 22.30, 23.00. Le prove di Ballando con le Stelle sono molto impegnative. E' una grande esperienza. Prima con la danza non avevo un buon rapporto, non mi è mai piaciuta, quando lavoravo in discoteca guardavo quelli che ballavano di traverso chiedendomi cosa ci trovassero di divertenti. Se andavo in discoteca non per lavoro mi mettevo in un angolo e facevo il marpione. Ma l'esperienza di "Ballando" è bellissima, è una nuova sfida, un nuovo lavoro, io non avevo mai lavorato".

Sugli esordi: "Facevo il buttafuori ma diventavo amico di tutti. Sono uno molto socievole, mi mortificava buttar fuori le persone che andavano lì per divertirsi. Mi ricordo che una volta in una discoteca in Versilia cacciai via un ragazzo che aveva rubato una bottiglia di liquore. La carriera del Conticini attore? E' iniziata per caso. Avevo una palestra, passò un tizio e mi chiese se avessi mai pensato di fare un concorso di bellezza. Avevo 23 anni. Partecipai a questo concorso di bellezza, che vinse Giuseppe Convertini. Da lì mi diedero il biglietto da visita di un agente cinematografico di Roma. Feci due provini, tra questi un provino con De Sica, che andò bene. Ho iniziato per fortuna. Mi ero indebitato tantissimo per aprire questa palestra, la sera dovevo fare il buttafuori per arrotondare un po'. Volevo essere indipendenti, ho sempre avuto la testa più grande rispetto agli anni che avevo".

Sui ruoli interpretati: "Non ho mai avuto un successo improvviso, come succede a volte ad attorni che fanno film ed esplodono. Ho costruito tutto passo dopo passo. Sono molto legato al ruolo del Commissario Berardi di 'Provaci ancora prof'. E' il personaggio che mi appartiene di più. Ha veramente le mie caratteristiche. E' stato divertente e facilissimo farlo, fortunatamente è stata una fiction di successo durata dodici anni. L'esposizione che ti dà la televisione è molto più grande del cinema. In una serata facevamo otto milioni di telespettatori".

Sui social e gli atteggiamenti delle fan: "Con i social il rapporto è di odio e amore. Alcune volte mi divertono, altre non mi va di usarli. Non posso essere legato a una scatoletta. Proposte indecenti da parte delle fan? Ce ne sono tantissime che esagerano. Ma oltre alle fan, anche i fan. Il pubblico è trasversale e promiscuo. Di proposte indecenti ne arrivano tantissime, ma anche foto, filmati indecenti, ma non credo solo a me. La cosa che mi dà fastidio è quando le persone si spacciano per altri, mi capita spesso che sul mio account ci siano messaggi che mi avvisano che qualcuno usa la mia foto per chiedere i soldi alla gente, mi dà molto fastidio, la trovo una cosa di una gravità inaudita".

·        Paolo Jannacci.

Paolo Jannacci e l'eleganza nel ricordo del padre Enzo: «Di questo Sanremo mi porto dietro il valore musicale». Il cantante è in gara con il brano Voglio parlarti adesso, e nella serata delle cover non ha avuto dubbi sulla scelta del pezzo da portare. Bianca Chiriatti il 4 Febbraio 2020 su La Repubblica. È in gara a Sanremo 2020 con un brano sul rapporto padre-figlia, "Voglio parlarti adesso", e nella serata delle cover porterà sul palco un pezzo che cantò suo padre Enzo nel 1989: è Paolo Jannacci, pianista e compositore, apprezzato già durante le prove di questo Festival per l'eleganza e il 'rispetto' nei confronti di un palco così importante. Paolo porta all'Ariston un brano intenso che racconta l'inevitabile allontanamento tra genitori e figli nel percorso di crescita di un bambino. Ma il legame familiare è il leitmotiv di questo suo Sanremo, dal momento che per la serata dedicata alle cover ha scelto di presentare "Se me lo dicevi prima", canzone che il padre scrisse con Maurizio Bassi sul tema della tossicodipendenza. Sul palco insieme a lui, giovedì 6 febbraio, ci saranno l'attore Francesco Mandelli e il musicista-concertista Daniele Moretto. Il brano in gara al festival, invece, sarà contenuto in un repack dell'ultimo lavoro, "Canterò", in uscita venerdì 7 febbraio.

·        Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Ruffini ha tradito Diana Del Bufalo? Le accuse di Vanya Stone. Vanya Stone accusa Paolo Ruffini di aver tradito Diana Del Bufalo con lei e, per questo motivo, di essere stata estromessa dal cast de La Pupa e il Secchione perchè lui aveva paura che rivelasse tutto. Luana Rosato, Martedì07/01/2020, su Il Giornale. La fine della storia tra Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo continua a far discutere dopo le accuse social – poi cancellate – da Vanya Stone, che ha fatto sapere di essere stata l’amante del comico. Le dichiarazioni della donna, giunte attraverso un post pubblicato sul suo profilo Facebook, hanno fatto immediatamente il giro della rete e, nonostante siano poi state rimosse proprio dalla Stone, non sono passate inosservate agli occhi dei più attenti. Oltre ad aver rivelato di aver avuto un flirt con Ruffini mentre quest’ultimo era legato alla Del Bufalo, Vanya ha anche asserito di essere stata esclusa dal cast de La Pupa e il Secchione proprio per i suoi trascorsi sentimentali con l’attore e comico che tornerà sul palco dello show di Italia 1 dal prossimo 7 gennaio. Nella denuncia social di Vanya Stone, oltre alle pesanti accuse nei confronti di Ruffini, anche le foto che testimoniano alcuni momenti di intimità vissuti da lei e il conduttore nei mesi passati. “Domani inizia La Pupa e il Secchione – ha esordito la giovane su Facebook - . Mi avevano mandato il precontratto da firmare...ma all’ultimo minuto, senza motivo, non ero più nel cast”. “Forse colui che presenta aveva la coda di paglia”, ha continuato a dire la Stone, sostenendo di essere stata estromessa dal suo ruolo ne La Pupa e il Secchione perché Ruffini temeva che potesse raccontare “della storia che avevamo avuto mentre era con Diana Del Bufalo o delle porcate che proponeva alle mie amiche”. Pesanti accuse quelle della Stone nei confronti dell’attore comico e conduttore di Italia 1, che lei ha continuato a definire un “miserabile”, tacciandolo di aver avuto degli atteggiamenti poco professionali con lei e altre colleghe sul posto di lavoro. In allegato alla denuncia social di Vanya, alcuni selfie che lei e Ruffini si sono scattati ai tempi della loro relazione, a testimonianza che il flirt tra loro è realmente esistito. Alle illazioni della giovane, però, il conduttore de La Pupa e il Secchione ha deciso di non replicare e, nemmeno da parte di Diana Del Bufalo, sono giunte dichiarazioni in merito. Intanto, il post della Stone è stato rimosso dal suo profilo Facebook, ma ormai il danno è stato fatto: lo screenshot delle sue dichiarazioni e le immagini dei due insieme stanno facendo il giro della rete.

Diana Del Bufalo sulla rottura con Paolo Ruffini: "Non sono d’accordo col poliamore". Redazione Tvzap il 29 gennaio 2020. L’attrice parla della fine della storia con l’attore e conduttore tv: “Io non ho mai sbagliato nella nostra storia”. Ha fatto molto discutere la fine della relazione tra Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo e ora, a un mese dalla conclusione della loro storia, è la Del Bufalo a rilasciare alcune dichiarazioni circa quello che è successo dopo. Come una telefonata di scuse dell’attore e conduttore de La pupa e il secchione e viceversa: “Ci siamo sentiti al telefono, le accetto. Quel che non accetto sono i commenti di chi dice: ‘Quando finisce un amore si sbaglia sempre in due’. A volte non è così. A volte sbaglia uno solo, cioè lui, Paolo. Io non ho mai sbagliato nella nostra storia” rivela l’attrice intervistata da Oggi.

Le scuse di Diana Del Bufalo. Scuse che sono arrivate anche da Diana: “Gli ho detto: Ti chiedo scusa se ti ho fatto credere che fossi d’accordo con questa cosa del poliamore. Sono lontanissima da questa concezione dei rapporti sentimentali”. Attraverso i social, infatti, è emerso il tradimento di Ruffini con Vanya Stone quando era ancora legato alla Del Bufalo. Dopo la rottura il volto lanciato da Amici ha comprensibilmente passato un periodo di profonda tristezza: “Mi sono chiusa in camera per quattro giorni, con le tende tirate. Mamma mi portava da mangiare perché io non volevo inghiottire manco una briciola. La svolta c’è stata quando mia zia m’ha fatto la parmigiana di melanzane: l’ho divorata e ho capito che stavo guarendo… Mi sono vestita, mi sono truccata e so’ uscita. Mi sono detta: ‘So’ bella, ora mi diverto e vaff…’“.

Il rapporto con Cristiano Caccamo. Quando al legame con Cristiano Caccamo con cui si sussurra abbia una storia lei precisa: “È il mio migliore amico, e preciso che non è gay, anzi… Ci vogliamo bene, ma non ci siamo mai scambiati neppure un bacio”.

Da today.it il 3 febbraio 2020. Sembra aver voltato definitivamente pagina la bella e simpatica Diana Del Bufalo, ex compagna del presentatore Paolo Ruffini. Dopo un periodo di dolore, dovuto alla fine della storia d'amore durata 5 anni e confessato dalla stessa attrice della fiction 'Che Dio ci aiuti', il sorriso è tornato a splendere sul suo viso.  "Sono euforica, a una certa il dolore basta. Va vissuto per la crescita di ognuno di noi, ma portato troppo avanti sfocia nel masochismo. Ora mi sento sicura" ha detto ai microfoni di Verissimo dove è stata ospite nella puntata andata in onda oggi pomeriggio. 

Diana Del Bufalo: "Non ho sbagliato proprio niente". Durante l'intervista è stato inevitabile far riferimento proprio al suo ex compagno. "Nella nostra relazione - ha confessato in tutta onestà - non ho sbagliato proprio niente. Le cose gravi le ha commesse lui. Ora sto bene ma mi sono fatta aiutare da una psicologa stupenda. Lei mi ha salvato la vita, mi ha reso di nuovo felice. Ho capito cosa voglio e cosa non voglio. Voglio essere serena, voglio normalità, amore e rispetto. Non mi posso permettere di star male, ho un lavoro meraviglioso, non sono un cesso, ho genitori e amici fantastici".

Con Cristiano solo una splendida amicizia. Tra i suoi migliori amici non si non può non citare Cristiano Caccamo con il quale è stata da poco in vacanza alle Maldive. "È il mio migliore amico, - precisa -non stiamo insieme, ci vogliamo un bene dell'anima". "Però sareste una bella coppia" ha esclamato la conduttrice facendosi portavoce del pensiero dei tanti fan che li sperano insieme, ma Diana ha ribadito ancora una volta che la loro è solo una splendida amicizia e nulla di più: "Manca la chimica". "A me i belli non piacciono" ha sottolineato. Da qui la gaffe della Toffanin: "Altrimenti non avresti scelto Paolo Ruffini”. Una frecciatina che non è passata inosservata ai telespettatori che hanno subito commentato sui social senza attaccare la presentatrice ma apprezzando la spontaneità della battuta.

Chiuso il capitolo con Paolo Ruffini. Nessun rancore nei confronti di Paolo Ruffini che sembra aver perdonato. “Continuo a volergli bene, - ha aggiunto nell'intervista - ma non ho potuto più continuare a stare con lui per motivi spiacevoli. Due settimane fa ci siamo anche parlati al telefono, ma è davvero finita”.

Diana Del Bufalo: "Ad Amici ero svampita, oggi sono più sicura". L'attrice, conduttrice e cantante assieme al collega Andrea Dianetti (entrambi vengono da “Amici di Maria De Filippi”), la sera accende la diretta Instagram per strappare un sorriso durante questi giorni difficili. Andrea Conti, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale. Per lei nel 2010 Platinette si spogliò in diretta su Canale 5 per protestare contro la sua eliminazione. Diana Del Bufalo aveva conquistato tutti per la sua bella voce, ma anche per la sua simpatia. “Ero un po' scemotta, svampita allora”, racconta a IlGiornale.it. Poi sono arrivati i film, “Colorado”, il Festival di Sanremo nel 2017, fino all'ultima avventura con l'amico e attore Cristiano Caccamo in “Celebrity Hunted” per Amazon. Il sogno nel cassetto? “Fare una bella esperienza all'estero”. Intanto intrattiene tutte le sere i suoi follower su Instagram con lunghe dirette con una altro protagonista di Amici, Andrea Dianetti, per strappare un sorriso in questo momento così difficile.

Com'è nata l'idea di fare le dirette Instagram con Andrea Dianetti?

“Ci siamo ritrovati, come tutti gli italiani, costretti a casa. Un giorno, durante una chiacchierata, ci siamo confrontati e abbiamo pensato che fosse giusto anche condividere i nostri momenti per intrattenere le persone a casa. Gli argomenti non mancavano, Andrea fa un sacco di battute e io rilancio con l'ironia e l'autoironia. Tutto avviene in maniera simpatica e naturale”.

I numeri vi danno ragione: 21mila contatti a mezzanotte inoltrata...

“I commenti sono davvero super positivi e confortanti. Vorrei riportare quello di una persona che ha il marito ricoverato, non per coronavirus. Sta attraversando un momento non facile. Così mi ha mandato un messaggio: 'Mi avete fatto andare a letto col sorriso, ho dormito serena'. Come lei, anche tanti altri, ci hanno scritto. Queste sono cose che riempiono il cuore. E pensare che è tutto nato davvero per gioco”.

Come mai trasmettete solo la sera?

“Di base perché tutti e tre siamo animali notturni. Io il giorno sono uno zombie, sono di base insonne (ride, ndr) e il pomeriggio preferisco stare in giardino per assaporare un po' il sole. Sono molto fortunata, lo ammetto. Ci sono persone che il balcone nemmeno ce l'hanno, come ad esempio uno dei miei migliori amici, l'attore Cristiano Caccamo. Eppure basta poco per assaporare l'ora d'aria di questi tempi, anche un balconcino per metterci una sediolina e prendere un po' di sole. Sono piccole cose che riempiono il cuore, in un momento così difficile”.

Pensi che questo momento così difficile cambierà qualcosa nella società?

“Indubbiamente stiamo molto di più con noi stessi, pensiamo di più alla nostra esistenza, a cosa vogliamo a cosa abbiamo rinunciato nella vita, compresi i rapporti familiari. La cosa che noto è che in questo momento siamo tutti uguali, non ci sono disparità di classe, stiamo tutti combattendo contro uno stesso nemico invisibile, stando a casa. Mi sto accorgendo che c'è molta più vicinanza ed empatia tra le persone. Non so se tutto questo rimarrà anche dopo...”

Non sembri avere fiducia nella natura umana, è così?

“Ma lo vedo anche con me stessa. Il mondo e il ritmo della società ti assorbono completamente. Tutti ci obbligano a correre dietro ad alcune cose, anche futili, ad essere omologati a determinati modelli di vita. Siamo continuamente bombardati di informazioni, alcune anche sbagliate. Di contro ci sono Paesi come il Bhutan (tra il Tibet e l'India, ndr) che, secondo alcuni studi, è il Paese più felice al mondo, dove le persone vivono serene in una oasi di pace, allontanando da sé il richiamo delle nuove tecnologie”.

Facciamo un salto indietro nel passato: nel 2010 hai partecipato “Amici di Maria De Filippi”, quanto sei cambiata da allora?

“Anzitutto pesavo 14 kg in più (ride, ndr), poi ero più scemotta, vivevo in una bolla, ero ingenua. Non ho mai avuto quel momento nella vita, in cui ci si dà un colpetto sulla testa del tipo 'dai, datti una mossa!'. Sono sempre stata pacata, questo aspetto zen oggi l'ho modulato diversamente, sono più consapevole. 'Amici' è stata una esperienza pazzesca, un vortice. Fin quando stavo dentro la scuola non mi accorgevo nemmeno delle telecamere, poi ci fai l'abitudine. Quindi sono sempre stata me stessa. Lo choc semmai è stato quando sono uscita, con le persone che mi dicevano che ero simpatica o svampita”.

Il ricordo a cui sei più legata?

“La gioia di cantare con l'orchestra, sentire ogni minimo suono del violino o della tromba. Eravamo in uno studio immenso. È stata una delle esperienze più belle e divertenti della mia vita”.

Sei riuscita anche a far spogliare Platinette in diretta per protesta contro la tua uscita dal serale...

“Ah che persona meravigliosa Mauro (Coruzzi, ndr)! Mi aveva anche proposto una cosa teatrale insieme, ma non ho potuto partecipare. Siamo sempre in contatto, però, ci sentiamo e chiacchieriamo. Siamo amici anche oggi”.

Hai fatto un sacco di esperienze dalla tv al cinema. Dove vuoi arrivare?

“Mi distinguo dagli altri miei colleghi perché mi ci sono ritrovata per caso in questo mestiere. Non so rispondere alla tua domanda, perché vivo alla giornata. Non ho ambizioni, anche se sembra brutto dirlo, però adoro il mio lavoro, continuo a farlo con grande gioia. Mi piacerebbe fare delle esperienze lavorative all'estero, proprio come è successo a Pierfrancesco Favino con Una notte al museo, per esempio. Avevo fatto un provino per 6 Underground di Michael Bay con Ryan Reynolds che purtroppo non ho potuto fare perché le date non si incastravano con il film 10 giorni senza mamma con Fabio De Luigi. Però una esperienza all'estero, insomma, mi piacerebbe molto”.

·        Paolo Sorrentino.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 31 maggio 2020. Paolo Sorrentino compie oggi cinquant' anni. Il regista napoletano, premio Oscar nel 2014 per La grande bellezza, è reduce dal successo di The New Pope, la travolgente serie televisiva di Sky - seguito di The Young Pope - ambientata in un Vaticano immaginario ma non troppo, e si prepara a girare The MobGirl, il suo nuovo film americano con Jennifer Lawrence, 29 anni, anche lei Oscar come miglior attrice nel 2013 con Il lato positivo. Numerose testimonianze di affetto gli sono arrivate da tutto il mondo. Anche da Sabrina Ferilli, struggente Ramona in La grande bellezza, che al Messaggero ha scritto questo messaggio: «Il mio augurio è semplice e forse egoistico: che tu possa continuare a meravigliarci e stupirci con le tue storie per altri 50 anni». Noi abbiamo provato a ricostruire la storia del geniale regista attraverso un alfabeto declinato tra carriera e privato.

Amici. Vita e lavoro si confondono: tra le persone a lui più vicine ci sono Toni Servillo, protagonista immancabile dei suoi film, lo storico produttore Nicola Giuliano, lo sceneggiatore Umberto Contarello.

Berlusconi. In Loro il regista lo ha ritratto al tramonto, tra lacché e conflitti coniugali. Ulteriore capitolo della sua ricerca sul potere.

Carattere. Curioso, perspicace, nemico di banalità, ridondanze e cliché. E mai alla ricerca del consenso, dunque antipatico a qualcuno. Destino frequente degli spiriti indipendenti.

Daniela, Divo. La moglie Daniela D' Antonio è un punto di forza del regista che le ha dedicato libri e film definendola «il motore e la guida della mia vita». Il Divo è il film-cult con Servillo nei panni di Giulio Andreotti: sono pietre miliari del cinema moderno la sua passeggiata notturna per Roma e la testa trafitta dagli spilloni.

Energia creativa. Sorrentino riconosce di avere 4 fonti di ispirazione: Fellini, Scorsese, Maradona, Talking Heads. E all' Oscar li ha ringraziati tutti.

Femmine. Nei suoi film le donne sono portatrici sane di sensualità, mistero, carisma. Da Olivia Magnani (Le conseguenze dell' amore) a Laura Chiatti (L' amico di famiglia), Anna Bonaiuto (Il Divo), Sabrina Ferilli (La grande bellezza), Madalina Ghenea sogno erotico in The Youth, Elena Sofia Ricci, infelice Veronica Lario in Loro. E Sharon Stone che, irresistibile a piedi nudi, sfida Sua Santità John Malkovich in The New Pope.

Gambardella. L' intellettuale fallito Jep Gambardella riassume la Grande bellezza e la Grande bruttezza di Roma. Battuta illuminante: «Non volevo solo andare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire!».

Hollywood. È là che Paolo girerà The MobGirl sull' ex mafiosa Arlyne BricKman diventata informatrice dell' Fbi: «Corono il vecchio sogno di girare un film sulla mafia, con una donna protagonista e Jennifer Lawrence».

Icona, intelligenza. Toni Servillo è diventato l' attore-feticcio di Sorrentino non soltanto per il suo indiscutibile talento: «Scelgo tutti i miei attori in base alla loro intelligenza».

Libri. Anche nelle fatiche letterarie, da Hanno tutti ragione a Gli aspetti irrilevanti passando da Il peso di Dio, Sorrentino trasferisce la sua visione della realtà. Immancabilmente personale, felicemente spiazzante.

Maradona. L' idolo della sua giovinezza. Gli ha salvato la vita quando, a 16 anni, il futuro regista andò a vedere una partita del Napoli anziché seguire in montagna i suoi genitori che sarebbero morti a causa delle esalazioni di gas di una stufa. Una tragedia che ha ovviamente segnato la sua vita.

Napoli. Cresciuto al Vomero, Paolo si è formato negli effervescenti Anni Novanta nella new wave partenopea con Mario Martone, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, lo stesso Servillo. Tifa ancora per la squadra della città.

Oscar, Obama. Nel 2014 ritira la statuetta abbracciato a Servillo e Giuliano. Due anni dopo, è invitato a cena dal presidente Usa Barack Obama con Roberto Benigni e altre eccellenze italiane. Viaggio-lampo ma indimenticabile.

Potere. In Il Divo, Loro, The Young Pope e The New Pope ha affrontato un tema che lo appassiona: la solitudine a cui sono condannati gli uomini di potere.

Quarantena. Ha trascorso il lockdown a Roma, la città in cui abita da anni. Ma non è rimasto con le mani in mano: ha firmato la direzione artistica di un numero davvero speciale del settimanale Vanity Fair.

Radici. «Non si dimenticano», afferma. Per questo, dopo il capitolo hollywoodiano, girerà un film su Napoli.

Serie, streaming. Ha ancora voglia di dirigere racconti a puntate. E a differenza di altri colleghi, non ha sposato la crociata contro le piattaforme: «Anche la visione di un film a casa può essere in un rito sacrale, come in sala».

Tolleranza. L'età ha smorzato certe sue intransigenze giovanili. «Con gli anni sono diventato più tollerante».

Usa. Prima della pandemia, aveva preso casa a Los Angeles per preparare The MobGirl. Ci tornerà, c' è molta attesa per il film.

Verità. È noiosa: «Nel cinema nulla deve essere vero, ma tutto verosimile e artefatto». È il segreto della sua ispirazione.

Zero. Ripartire da zero è il suo imperativo quando affronta un nuovo progetto. Per coinvolgere, stupire, spiazzare. E dare nuove emozioni.

Gianmaria Tammaro per “la Stampa” il 31 maggio 2020. Proprio all’ultima pagina di “Hanno tutti ragione”, Tony Pagoda, il protagonista, s’addormenta e fa un sogno; si ricorda di quand’era bambino, di quando, per via Orazio, passeggiava con i suoi genitori, mano nella mano, e si sentiva felicissimo. Era potente, allora: potente e invincibile come sono i figli piccoli, dice Paolo Sorrentino. Trecento pagine prima, Tony Pagoda cominciava il suo incredibile viaggio rimuginando sulla maledizione del talento. Da allora, da quel momento, da quella primissima frase e da quelle primissime parole, sono passati dieci anni. Paolo Sorrentino, oggi, 31 maggio, fa 50 anni, e il suo primo film, “L’uomo in più”, ne ha compiuti venti (diciannove, se contate dall’uscita al cinema; venti, invece, se prendete in considerazione anche la data di inizio produzione). E di cose, nel tempo, ne sono cambiate parecchie. Non Sorrentino, però. Sorrentino, chissà come, è rimasto lo stesso. Un po’ diverso, sì; i capelli ingrigiti, l’espressione un po’ più seria, lo sguardo più fermo. Ma con lo stesso cuore, la stessa – chiedo scusa – poetica, e le stesse intuizioni. E lo stesso sigaro, la stessa fede calcistica, la stessa ironia sofferente. Su Repubblica, Emiliano Morreale ha detto che con gli anni Sorrentino ha dimostrato di essere un regista-regista (scritto così, con il trattino), sorpassando a sinistra il grande scrittore e dialoghista. Anzi, ha continuato Morreale: i suoi dialoghi hanno finito per essere presi in giro. Sorrentino è diventato un bravo regista di attori, ed è vero. Con i film, ha imparato a dirigerli meglio, senza il bisogno di conoscerli a fondo. Ma la scrittura, quell’incredibile talento di mettere insieme parole, sensazioni, posti, pause e battute, è rimasta. È lì, come la Madonna di Pompei alla fine del pellegrinaggio: sai che per raggiungerla dovrai faticare, ma lei, santa e vergine, t’aspetta. Sorrentino è due cose in una: è scrittore ed è regista, e in questo non c’è nessun problema. Un esercizio che tutti dovrebbero fare, almeno una volta, è rileggere i suoi film dopo averli visti; o – meglio ancora – vederli dopo averli letti. Spesso, alla sceneggiatura Sorrentino è stato affiancato da Umberto Contarello («Tutto quello che non vi è piaciuto di questo libro – scriveva tra i ringraziamenti di “Hanno tutti ragione” – è colpa sua»); ma la mano, e la firma e la sensibilità («Ero destinato alla sensibilità», pigola Jep Gambardella ne “La Grande Bellezza”), sono sue, e si vedono e si riconoscono. Oggi del suo cinema parleranno tutti, com’è giusto che sia; quindi noi facciamo un passo indietro, ci appartiamo, e torniamo al libro, a quell’incredibile romanzo edito Feltrinelli che arrivò nelle librerie un marzo di molti anni fa, quando le temperature cominciavano a salire, le giornate iniziavano ad allungarsi timidamente, e leggere non era un esercizio pigro per pochi, ma aveva ancora la sua importanza e la sua bellezza. In “Hanno tutti ragione”, il protagonista, Tony Pagoda, è un cantante, proprio com’è un cantante il protagonista de “L’uomo in più”. Sorrentino, a quest’idea della voce che commuove, che prende, che riesce a pizzicare qualunque corda, in qualunque uomo, è rimasto profondamente legato. E il motivo, forse, è che in una bella voce il talento, se c’è, è subito evidente. Non ha bisogno di permessi o di annunciazioni, di sottolineature eccessive o di aiuti; e non ne ha bisogno perché, banalmente, si sente. Un’altra cosa che in “Hanno tutti ragione” c’è, e che è parte integrante del Sorrentino uomo, è Napoli. E, cosa ancora più importante, c’è l’essere napoletani. Tony è un fenomeno, uno scugnizzo, un fetente, ed è libero, liberissimo. Nelle sue scorribande con gli amici, o da solo, resiste l’indole partenopea, quella capacità rarissima d’essere empatici con gli sconosciuti (anche se si odiano; soprattutto, anzi, se si odiano). E quindi “Hanno tutti ragione” è un oceanico, incontenibile flusso di coscienza. Un monologo pieno di immagini e di colori, e di sapori e di straordinarie rievocazioni. È un film, volendo: è un film se chi legge ha una buona immaginazione, e conosce anche un po’, anche per sentito dire, Napoli. Il resto viene da solo: Tony Pagoda ha la faccia, intelligentemente camuffata, di Toni Servillo; e forse ha la parlata lenta e ammiccante di Sorrentino, e anche il suo stesso carattere. Tony Pagoda è un personaggio di pura finzione, e per questo, specialmente per questo, è più vero di certe persone che popolano la cronaca e l’attualità. Dice quello che pensa (quello che pensa Sorrentino, cioè); e dunque dice sempre la verità, la sua verità, e la verità, come il talento, è una maledizione. E anche questo, in un modo nell’altro, Sorrentino l’ha sempre detto, così come ha sempre sviscerato e osservato al microscopio il potere (quello grande, con la p maiuscola; e quello piccolo, e più interessante, che unisce uomini e donne, o che li allontana). Quando in libreria arrivò “Hanno tutti ragione”, Sorrentino aveva diretto quattro film (“L’uomo in più”, “Le conseguenze dell’amore”, “L’amico di famiglia” e “Il divo”); si preparava al grande salto internazionale, con “This must be the place”), e mancavano tre anni al Premio Oscar de “La Grande Bellezza”. Eppure “Hanno tutti ragione” è un libro pieno di tutto, di ogni cosa, di ogni sfumatura, anche del Sorrentino futuro, regista di “Youth” e di “Loro”. Forse è perché nella scrittura, più che nella rappresentazione cinematografica, qualcosa rimane. Una traccia, uno scippo, una confessione sussurrata. Una firma invisibile, come impressa con l’inchiostro simpatico, che non verrà mai, mai via. In “Hanno tutti ragione”, c’è l’aspirazione alla grandezza e all’internazionalità, c’è il mare, c’è Napoli, c’è l’essere figli e genitori, e c’è il tormentone rancoroso del successo (un giorno sei in alto, intoccabile; il giorno dopo non ti si vede nemmeno più, perso tra la folla). Ed è la prova provata che Sorrentino non è solo, e banalmente, un “regista-regista”; ma un artista completo, sensibile, uno che sa unire la penna e la camera, come andrebbero unite anima e mente, tenendole sempre separate: una è acqua, l’altra è olio; e se sai guardare, se stai attento, riesci a vedere proprio il punto in cui si baciano.

Malcom Pagani per “Vanity Fair” il 31 maggio 2020. «Facciamo un po’ di letteratura, con la miseria della mia bravura». Nessuno mi ama, Paolo Conte.  Prologo: «Io credo che sapere troppo di se stessi sia pericoloso. E anche un po’ inutile. In fondo all’anima, rischi sempre di trovare un essere umano bolso e appesantito. E non ci sono diete per migliorare il se. Si, probabilmente avrei avuto bisogno, come tanti, di andare in analisi, ma ho sempre evitato. Non e detto che poi ci trovi chissà quale rivelazione su di te. Potresti anche rischiare di non trovare niente. Allora, meglio risparmiare tempo e denaro e convivere affettuosamente con la propria superficialità che, per nobilitarla, chiamiamo leggerezza. Nietzsche l’aveva capito subito e ha avuto legioni di ascoltatori adoranti. “Crederei solo a un dio che sapesse danzare”, scriveva. E aveva ragione, perchè la danza e tutto. E armonia, bellezza, appagamento e salvezza. E questo e Dio. E poi, la modesta, dilettantesca ricerca di me l’ho compiuta attraverso il gioco del cinema. Metti insieme un certo numero di bugie e ottieni una verità. E sufficiente un personaggio, una città , un conflitto, quello che i lavoratori a maglia del cinema chiamano “trama”».  La più consistente scoperta che Paolo Sorrentino ha fatto a 13 giorni dal suo primo mezzo secolo e che gli anni, dal 31 maggio 1970, non si sono peritati di avanzare: «I 50 sono arrivati molto velocemente. Finora, tutto sommato, la mia vita e sempre stata piena di novità e sorprese, a volte orrende, a volte meravigliose, e dunque mi sono annoiato poco e festeggiarli non mi pesa e non mi preoccupa. Ti diverti o ti struggi e il tempo fugge. E il rovescio della vita. Ho imparato a essere fatalista e a tollerare che scorra rapido. E stato più faticoso compierne 40: all’epoca mi sembrava di appassire e di perdermi molte cose importanti. Ero più ossessionato dal tema e covavo un sacco di sciocche psicosi relative all’età: mi domandavo se avevo fatto il mestiere giusto, realizzato dei bei film, scelto con cognizione la mia strada. Invecchiando effettivamente si migliora: “si diventa quel che si e” (ancora Nietzsche). Stabilisci le priorità e impari a disinteressarti degli altri, del loro giudizio, delle loro opinioni. Tra i tanti decreti di questi giorni, ne caldeggerei uno che abolisca le opinioni. Diteci o cose alte e false o cose piccole ma vere».

L’urgenza di fare film era tra le sciocche psicosi dei suoi quarant’anni?

«Ho sempre avuto ansia di fare i film, andavo di fretta, rompevo le palle a chiunque, ma d’altronde questo e l’unico consiglio che ho dato a chi mi chiede come si fa a fare i film: esserne ossessionati».

Oggi?

«Se li faccio sono contento e se non li faccio, sono ugualmente felice. La maggior parte dei film che volevo fare, li ho fatti. E poi il mondo del cinema e peggiorato, tanti si sono incattiviti appresso ai loro fallimenti, ai loro limiti. Mi sento molto più pacificato. Per anni non lo sono stato. Ero irrequieto. Dovevo lavorare a tutti i costi, mettere in scena le mie storie, fare ‘sti benedetti film».

Da cosa nasceva quell’esigenza?

«Da un sentimento di rivalsa. Dalla necessita di dimostrare a un universo indistinto e indefinito di persone che hanno attraversato la mia vita che ce la potevo fare anche io. E meglio di loro. La revanche e una motivazione subdola e potente: ti aiuta a realizzare i tuoi sogni, ma non ti fa godere niente. Appena conclusa un’impresa devi alzare subito il tiro. Guerreggiare e faticoso. Chi fa la guerra, poi la vuole fare sempre. Comunque, c’era un’altra motivazione più “bassa”: fare il cinema può essere divertente. Le sedute di sceneggiatura che facevo da ragazzo con Antonio Capuano erano esaltanti. Con Contarello, ci siamo divertiti moltissimo a delirare sui divani delle sue numerose case da single, incompiute, approssimative e bellissime. I sopralluoghi spensierati in giro per la provincia americana sono stati un incanto. Il primo ciak con Sean Penn, la sensazione non di avere a che fare con un attore, ma con un extraterrestre prestato alla recitazione; le cene, dopo il set, in trasferta, con Toni Servillo, a ridere fino a tardi, sono tutte emozioni indimenticabili».

Perchè voleva dimostrare di potercela fare?

«Io sono sempre uno un po’ in ritardo. Quando gli altri parlano, non capisco mai di cosa parlano e chi e il soggetto. E, in maniera pedante, chiedo sempre di tornare indietro e di farmi capire meglio. Questo sfianca e genera sfiducia. Giustamente, pensano e hanno pensato che fossi un po’ cretino. Ma quando arrivi in ritardo sulle cose ci arrivi da solo e questo ti libera dai condizionamenti. E un vantaggio e un rischio allo stesso tempo. Sei indipendente, ma potresti essere anche anacronistico».

E lei si sentiva cretino?

«Bah! Oggi mi sembra che non abbia più nessuna importanza. Comunque, in effetti, in gioventù, ero spesso parte di gruppi di amici abbastanza disadattati, ma la cosa non mi dispiaceva. Quelli che, da ragazzo, ti sembrano in gamba, se leggi di sbieco nei loro sguardi, ti sembrano aggrediti da una tristezza inconsolabile».

«Faccio il regista perchè sono ottuso: non e un mestiere per individui spiccatamente intelligenti».

La frase è sua.

«Per essere un buon regista serve senso pratico, capacita di organizzazione, un metodo e una comunicativa, vera o falsa che sia non importa. Tutto qui. Dunque, si, non e necessaria una particolare forma d’intelligenza. Anche se la parola intelligenza e molto generica e indefinibile. Poi serve “una capacita di vedere”. Chi non ce l’ha fa brutti film, il che non toglie che riescano a infinocchiare gli altri, perchè anche gli altri, spesso, non hanno capacita di visione o non sanno neanche precisamente cosa sia. La scrittura e un’altra cosa. Richiede, se non si vuole fare solo puro intrattenimento coi colpetti di scena, una moltitudine di sfaccettature, un’immersione nella vita passata e presente, insomma un complesso di coincidenze e talenti che potrebbero corrispondere all’intelligenza. Naturalmente, questa convergenza e rara e dunque si hanno sempre, a tutte le latitudini, molti bravi registi e pochi, capaci scrittori di cinema».

E lei si sente ancora ottuso?

«Non più. Ho imparato a fare il regista negli anni. Conosco i trucchi e le dinamiche. Questo non toglie che, nei momenti in cui mi concedo una claudicante forma di onesta con me stesso, ritenga di essere un imbroglione. In fondo chi e che sa come stanno esattamente le cose? Stiamo tutti qui per fare tentativi e offrire la nostra personale declinazione di racconti e poesia».

Che talento si riconosce?

«Non sono un buon parlatore e sono un ascoltatore distratto e impaziente. Però sono un discreto osservatore. Al ristorante mia moglie mi riprende sempre, perchè m’imbambolo, a bocca aperta, a seguire le conversazioni degli altri. E poi voglio fantasticare sulla vita di quelli del tavolo a fianco».

Quanto e figlia dell’infanzia questa capacita?

«Deriva proprio da li. Sono nato 9 anni dopo mio fratello e 14 dopo mia sorella. Da bambino ero quasi condannato a osservare perchè di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfotto, le dinamiche del gioco, le psicologie. Gli amici di mio padre erano estremamente simpatici. Il poker implica delle attese e l’attesa stimola il parto della follia degli esseri umani. Potrei parlarne per ore. Alcune follie che li riguardavano le ho saccheggiate mettendole nei personaggi dei film».

Victor Hugo sostiene che nulla svegli un ricordo quanto un odore.

«A essere sinceri, ho sempre avuto un olfatto scadente. Il che e anche meglio. T’immagini gli odori, anziche sentirli. Ricordo i suoni, invece. Quello del battere del coltello che mia madre usava per tagliare gli gnocchi. C’erano rumori rassicuranti e rumori misteriosi. Quello che tutte le sere alle 9 proveniva dal piano di sopra non si e mai capito da dove arrivasse. Era come una biglia che rimbalzava sul pavimento. Ma quando chiedevamo spiegazioni alla proprietaria dell’appartamento lei cadeva regolarmente dalle nuvole. “Biglie? Ma vi pare?”. L’inspiegabile ha alimentato la mia assoluta convinzione nell’esistenza dei fantasmi. Mia moglie mi prende sempre in giro per questa mia certezza».

Che rapporto aveva con la paura e con il mistero?

«Sono sempre stato molto pauroso. Le uniche arditezze me le sono concesse con i film. Sul lavoro, sulla scelta di un soggetto, o sull’impostazione da dare a una scena, scovo chissà dove un’incosciente forma di spavalderia. Cosi divento, a detta dei detrattori, barocco, estetizzante, inutile. Tutti complimenti, per me. Pensa che disfatta sarebbe essere “utili”.  Pero, a voler essere sinceri, sono diventato molto pauroso a dieci anni».

Cosa accadde a dieci anni?

«Con i ragazzini del palazzo andammo a esplorare salgarianamente un palazzo davanti al nostro condominio. Dal piano terra iniziavano i normali appartamenti, ma il garage era da anni un cantiere semiabbandonato. Nel buio, dal nulla, all’improvviso usci una donna vestita di nero e ci insegui urlando con una scopa. Per me e per altri due bambini fu uno choc e trascorse tanto tempo perchè riuscissi ad addormentarmi come prima. Ci dissero che erano tossicodipendenti, per me erano fantasmi. Per addormentarmi avevo bisogno che in casa ci fosse mio fratello. Sapevo che prima o poi mi avrebbe raggiunto in camera. Ma mio fratello era un grande nottambulo, uno che per gran parte della sua vita e tornato alle 5 del mattino, un uomo misterioso. Uno dei dibattiti più accesi, in casa, era imperniato su cosa facesse in giro ogni notte fino all’alba. Mia madre meditava di pedinarlo. Io lo aspettavo. Fino a quando non sentivo la chiave entrare nella toppa restavo con gli occhi sbarrati».

Che uomo era suo padre Sasa?

«Molto introverso. Parlava pochissimo, aveva una sua autorevolezza e metteva, non soltanto a me, molta soggezione. Era fascinoso. Mia madre diceva tutti i giorni: “Somiglia a Jean Paul Belmondo”, ma non era vero. E solo che l’amava in modo spropositato. Non era baciato da una bellezza classica, pero piaceva. E quando aveva voglia, ma doveva averne, sapeva far ridere».

Che sapore hanno avuto i suoi anni ‘70?

«Un decennio cupo. Si respiravano ancora gli echi del terrorismo e tra il tramonto dei ‘70 e l’inizio degli ‘80 arrivo la cappa greve del terremoto e della guerra di camorra. Volavano proiettili, a Napoli. E di sera c’era una sorta di coprifuoco. Mio padre diceva sempre: “Quando fa buio ai semafori rossi non ci si deve fermare”. Ma non aveva l’aria proterva di quelli che irridono i divieti. Era preoccupato, anche perchè era daltonico e il rosso lo leggeva come verde».

Di cosa parlavate tra voi?

«A casa non c’erano molti libri. Papa comprava con notevole fideismo i vincitori del premio Strega e negli ultimi anni si era appassionato alle teorie di Cesare Musatti. Sulle letture comuni stava sbocciando una complicità. Come nacque, purtroppo, termino».

I suoi genitori scomparvero all’inizio di aprile del 1987. Per una fuga di gas notturna nella loro casa di montagna.

«Avevo sedici anni e fu una tragedia indescrivibile. Le parole che conosco non sono adatte. Mi perdonerà se glisso. Servirebbero le immagini, la disinibizione e il coraggio. Servirebbe un film. La spavalderia di cui parlavo prima finora ha incontrato un limite in merito a questi eventi cosi personali. Ma non e detto che, nei prossimi anni, non vinca il pudore e racconti di questo. Anche se sono trascorsi tanti anni, ci vuole tempo per ponderare, vincere le resistenze».

Quanto peso quel dramma di fronte alla normalità dei suoi coetanei?

«Troppo. La mia giovinezza e terminata quel giorno. A 16 anni. Per questo poi ho fatto un film sulla giovinezza con protagonisti due uomini ottantenni. Volevo, almeno nella finzione, cambiare radicalmente il corso degli eventi. Non esiste un tempo giusto per perdere i genitori, ma perderli in adolescenza e un problema molto serio. A 16 anni hai bisogno di appoggio, di conforto, di sicurezze».

Quanto ha condizionato la sua vita quell’evento?

«Non sono stato più quel che ero. E quello che sono diventato quel giorno, a 16 anni, e quel che sono stato fino a poco tempo fa. Mia moglie e i miei figli mi hanno salvato pian pianino, con cura, pazienza e un’abnegazione da santi. Perchè, oltre alla prevedibile sindrome dell’abbandono, sono diventato abbastanza irascibile, disincantato, faticoso, incline al pianto e sempre alla ricerca di un ossessivo controllo delle cose. Ecco, forse ho fatto il regista, perchè ho una discreta attitudine a controllare le cose. E in un film bisogna controllarne tante».

Li sogna mai i suoi?

«Si, spessissimo. Per anni ho fatto un sogno ricorrente. Non erano morti, ma stavano in ospedale. E io per distrazione o per pigrizia non andavo mai a trovarli. Dicevo: “Si vabbè, poi vado”. E non andavo».

Qual e il primo ricordo della sua vita?

«Una madeleine che gli altri vorrebbero negarmi. Ho poco più di un anno e sono seduto in mezzo ai piccioni in Piazza San Marco. Tutti mi dicono: “non puoi ricordartelo”.  Seguono la logica, ma a me la logica non piace molto».

Gli altri sono stati generosi con lei?

«Alcune persone molto. Nicola Giuliano, il mio storico produttore, e stato molto comprensivo. Avrebbe potuto dire “calmati” e invece si è sempre sintonizzato sulle mie esigenze anche quando ho sfiorato l’insopportabilità. E capitava».

E lei si sente un generoso?

«Sono generoso rispetto ai soldi e penso di essere capace di alcuni slanci, ma spesso mi frega la pigrizia. Non telefono quasi mai, non dico “andiamo a pranzo”, non sono molto bravo nel ruolo di animale sociale: mi imbarazza. Ci riesco con pochissime persone».

Che rapporto ha con il rancore? Con le persone che la deludono?

«Ma gli altri sono sempre deludenti. E il loro bello. Si e fondata la migliore letteratura su questo assioma, o almeno quella che piace a me. Sono rancoroso la notte, poi, il matti- no seguente, mi piace cercare lo scontro se ha come obiettivo la riappacificazione, oppure, quando non ne vale la pena, mi distraggo e mi disinteresso di chi mi ha fatto un torto».

Negli anni quanto e cambiata la sua curiosità?

«Si e un po’ indebolita. A volte, quando non scrivo, sono aggredito da un’apatia assoluta e penso sia scomparsa per sempre. Poi ricomincio e mi rendo conto che invece, magari inconsciamente, mi sto ricaricando. Quando sei giovane sai meno cose e sei più curioso, da adulto l’orizzonte diventa più prevedibile perchè la maggior parte di ciò che sperimenti lo hai già vissuto. C’è stato un tempo in cui desideravo andare a una festa oppure a cena a casa di qualcuno, adesso molto meno. Poi esistono confini che ho smesso di superare».

Quali?

«Ospite da qualcuno a dormire non vado più. Mi sentirei a disagio. Se escludo la famiglia, con cui mi trovo veramente bene e riesco a stare anche decine e decine ore di seguito senza tedio, apprezzo sempre di più la solitudine. In verità l’ho sempre apprezzata. “L’inferno sono gli altri”, diceva Sartre. E un po’ esagerata come affermazione, ma contiene una qualche verità».

Con sua moglie Daniela ha un rapporto ventennale.

«Ventennale e dialettico. Parliamo molto. Possiamo non essere d’accordo sulle sciocchezze, ma sulle cose importanti e improbabile che si diverga. Siamo molto simili: pigri, casalinghi, disincantati, sentimentali».

I buoni dormono meglio, ma i cattivi, da svegli, si divertono molto di più, sostiene Woody Allen. E vero che ha una predilezione per i cattivi?

«Non direi. Mi piacciono - e molto - anche i buoni. Ne La grande bellezza ho messo una santa, in The young Pope una giovanissima beata e in This must be the place, Sean Penn interpreta un Candide che rivaleggia in purezza con quello volteriano. Amo la contraddizione e i personaggi in cui la bonta e la cattiveria si fondono in un’unica identità. Mi piacciono gli estremi. Sono attratto dalle figure che sono distantissime da me. Le idealizzo, nel bene e nel male».

Si e chiesto il perchè le piacciono gli estremi?

«Perchè non sono medi: io ho una grandissima propensione alle medieta e in fondo cullo da sempre il piccolo borghese che e in me. Quindi quando vedo quei personaggi che fanno affari, vanno in carcere, poi escono e delinquono di nuovo, li guardo con stupore infinito. Ma come fanno? “Ma veramente riuscite a vivere cosi?” mi domando, “Ma come potete?”. Mi affascinano perchè anche sforzandomi fatico a credere che esistano persone simili. Per me sono alla stregua di extraterrestri».

Chi altro la affascina?

«Mi fanno impazzire quelli che mollano tutto e cambiano vita per andare a vivere scalzi su una spiaggia in Brasile o a Ibiza. A Tulum, in Messico, dove sono stato l’anno scorso per qualche giorno, ce ne sono tantissimi. Appena ho avuto l’occasione li ho tempestati di domande, resistere mi era impossibile».

Se non avesse fatto cinema cosa avrebbe fatto?

«A dire il vero fui chiamato in banca perchè aprirono ai figli degli ex dipendenti. Mi arrivo la lettera di assunzione e la nascosi senza dire niente a nessuno. Se l’avessi resa pubblica in casa, forse avrei fatto il bancario».

La sua vita e cambiata dopo l’Oscar? E mutato lo sguardo degli altri su di lei?

«Un po’ sì. Ho letto un dialogo tra Hazanavicius e Tanovic, due premi Oscar la cui summa era: “Per i prossimi 7 anni meta del pubblico si aspetterà che tu ricalchi lo stesso successo del precedente e quindi rimarrà delusa perchè non accadrà e l’altra meta spererà che tu non abbia mai più il successo di prima e quindi ti odierà comunque”.  E nelle cose. Di me e di quel film si e parlato tanto, anche troppo. Alla lunga come suggeriva Flaiano può capitare che qualcuno ne abbia le tasche piene. I rapporti con alcune persone poi sono cambiati perchè c’era qualcuno che pensava mi reputassi in qualche modo superiore per il solo fatto di aver vinto l’Oscar, ma va bene cosi, non cadrò nella trappola in cui cadono molti quando prendono a lamentarsi del successo. Come se fosse una croce. Non lo è. Il successo e divertentissimo. Sono noiosi quelli che sono scettici verso il successo altrui. Sono, soprattutto, sospetti. E poi e una malattia antica. “La porca rogna della denigrazione all’italiana”, diceva Gadda. E nessuno di noi ne e immune».

Le dispiace?

«Non me ne importa niente. M’interessa solo che quelli a cui voglio bene siano felici. Tra questi, ci sono anch’io».

Ha preferenze tra i suoi film?

«Il divo e La grande bellezza hanno qualcosa in più perchè sul set c’era un’atmosfera lieta. Grande fiducia in quel che facevamo. Forte energia sotterranea. Il film e veramente un lavoro collettivo. Basta un elettricista con cui lavori da sempre, che magari ha accettato in precedenza un altro lavoro e deve rinunciare al tuo, per rovinare il clima complessivo. Per questo adesso sarebbe pericoloso fare dei film con le mascherine, ci sarebbero fonti di preoccupazione e mancanza di armonia».

Dicono che lei sul set sia severo.

«I miei collaboratori più antichi dicono di più, dicono che a volte sono cattivo. D’altronde, come diceva Buster Keaton: “Perchè essere difficili, quando con un piccolo sforzo si può essere impossibili?” Scherzi a parte, in passato ero più insicuro e quindi anche più severo. Se faccio un lavoro pero lo affronto molto, molto seriamente. Sono esigente, ma lo sono anche con me stesso. Se mi impegno so essere instancabile e se vedo che gli altri non danno tutto mi irrito e magari divento ingiusto. E possibile. Pero non si faccia un’idea sbagliata: alle volte sul set ridiamo molto e capita anche che ci sia un clima di grande leggerezza».

Qual e il suo più grande difetto?

«Sono irascibile. Ho una tendenza all’ira sia nel lavoro che nella vita. A volte ho proprio degli attacchi d’ira che sono quasi certo che derivino dai miei traumi giovanili. E nata li, l’ira. All’indomani di quella faccenda. Di quel lutto. Ha a che fare con il non essere centrati. Con un’alterazione incontrollabile».

«La vanita intelligente non esiste» dice Celine. «E un istinto. Non c’è uomo che non sia prima di tutto vanitoso».

«Come al solito Celine ha compreso ogni cosa e sa essere fulminante. Non esiste in letteratura un essere umano che abbia capito di più sui suoi simili. Sono totalmente d’accordo: la vanita muove il mondo, la politica, le decisioni che contano, le grandi trame della geopolitica. I vanitosi sono animati da una voglia di fare indomabile. Essa e cieca e fa commettere errori giganteschi».

A che cosa non rinuncerebbe ora che i 50 anni sono dietro la prossima curva?

«A parte famiglia e salute? Al mistero di questo lavoro. E un po’ e a rischio, molte cose complottano per fartelo perdere. La frenesia che divora tutto non aiuta, ma a contare più di tutto e la motivazione. Deve essere viva, altrimenti non ne vale la pena».

Ha mai rischiato di smarrirla?

«Sia con Youth che con Loro il pericolo l’ho corso. Non ero motivato come con i miei primi film: non avevo il sacro fuoco, ma penso che sia normale, fa parte delle cose che mutano col tempo. Mi appassionavano gli argomenti e le cose che avevo scritto con Contarello, pero in una accezione un po’ congelata. Domani mi piacerebbe provare a cambiare strada, magari a fare un film più piccolo. Pero mi resta il dubbio: non so neanche se sono in grado di immaginarlo più un piccolo film o se l’abbia mai fatto veramente. Con L’uomo in più, il mio esordio, ci tarammo subito sull’ambizione massima. I night club, gli anni 80, i lunghi piani sequenza, le storie parallele, la malinconia, la decadenza e la morte, nonostante il fatto che non avessimo molti soldi a disposizione. Ed e anche vero che realizzare il gigantismo, metterlo in scena, ti da una carica mostruosa, una scossa enorme».

Un desiderio per domani?

«Un desiderio vero? Dedicarmi molto al giardinaggio, comincia a piacermi proprio tanto. E poi che il Napoli vinca finalmente lo scudetto. Non m’interessano le coppe, m’interessa lo scudetto. Per il resto, non ho particolari ambizioni, vorrei abbeverarmi a qualche sogno da pensionato: svernare in un posto in cui faccia caldo, scrivere di più e girare di meno. Riposarmi perchè il set e faticoso, comporta enormi responsabilità e in fondo non l’ho mai idealizzato cosi tanto. Arrivi con i nervi a fior di pelle e hai sempre paura di non farcela. Poi ce la fai e la sfanghi, ma non voglio che sia la mia priorità per tutta la vita».

Qual e il suo vero sogno?

«Dopo tanti anni trascorsi a convivere con il se, uno può avere il sogno di “uscire da se”. Lo dico dal punto di vista del lavoro. Mi piacerebbe fare film che non sembrano miei. Anni fa, con Virzi, Luchetti, Archibugi e Contarello, il più grande affabulatore che conosca, vagheggiammo di realizzare l’alternativa comica al film natalizio. Quel film a episodi volevamo chiamarlo il Cinecocomero e organizzammo più di una riunione. Volevamo tutti “uscire da noi”,  fare cose che non avevamo mai fatto. Ma presto ci rendemmo conto che quelle cose non le avremmo realizzate mai perche non eravamo in grado di farle, e allora terminammo con una grande cena in un famoso ristorante, bevemmo tantissimo, e Contarello, che e un personaggio letterario e si esalta soprattutto nella sconfitta, fece le cose in grande. All’uscita del ristorante ci fece trovare una limousine. Ci montammo su tutti canterini e andammo sull’Aventino, a vedere lo spettacolo di San Pietro visto dal buco della serratura dei Cavalieri di Malta. Non c’era uno di noi che non l’avesse già fatto altre mille volte. Ma fingemmo fosse un inedito, perchè eravamo felici. Non era possibile uscire da se, ma non fa niente, perchè fingere e bellissimo».

Conosco Paolo Sorrentino e sua moglie Daniela da più di dieci anni. Ci vogliamo -credo- molto bene. Non gli avevo mai chiesto nulla dei suoi genitori, ne da giornalista, ne da amico. Spero possa perdonarmi. E la persona più laica che conosca.

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2020. Arriva il Nuovo Papa di Paolo Sorrentino. Un po’ sequel di The Young Pope, Jude Law sta in coma in mezzo alle suore scalmanate ma, ovviamente, si risveglierà, e un po’  nuova serie originale, con John Malkovich come nuovo papa ultradandy, dal 10 gennaio su Sky Atlantic sbarcherà The New Pope, la nuova serie ideata e diretta da Paolo Sorrentino, prodotta da The Apartment e Wildside, parte di Fremantle. Proprio mentre  il Papa, quello vero, è diventato campione di meme come fosse Mario Brega grazie alla scena degli schiaffoni alla fedele troppo appiccicosa, e Tolo Tolo di Checco Zalone trionfa nelle sale italiane assieme a Pinocchio di Matteo Garrone e a Il primo Natale di Ficarra e Picone.

Giusti: Mentre il cinema italiano, anche quello più eccessivo, pensiamo ai film natalizi degli anni scorsi e confrontiamoli con quelli di oggi, si sta normalizzando, mi sembra che in generale le serie vadano da un’altra parte sperimentando molto di più sia come temi sia come struttura narrativa. La prima cosa che pensiamo riguardo a The New Pope, la tua nuova serie, è che sia completamente pazza. Molto più libera rispetto anche a The Young Pope, che già ci sembrava molto originale, rispetto anche al tuo cinema. 

Sorrentino: Sono assolutamente d’accordo. È anche il motivo per cui mi sono tuffato quando mi hanno dato la possibilità di fare una serie come The Young Pope. Mi sembrava che ci fosse l’opportunità di fare quel cinema d’autore che si faceva anni fa e che ora non ti consentono più di fare, cioè con grandi lunghezze, grandi silenzi, grande libertà di azione, di disponibilità alle trame, di muoversi sui personaggi con profondità inedita perché hai a disposizione più tempo. Quindi io penso che sia assolutamente così. Col fatto inoltre che le serie sono in qualche maniera sicure dal punto di vista economico ti consentono di sperimentare di più. Nel cinema invece oggi c’è molta più paura perché un film è sempre un rischio…

Giusti: Inoltre essendo un sequel però anche una nuova serie... The New Pope già dal titolo non è che ti rivela subito che è la seconda stagione, sembra quasi una nuova serie… è un po’ sequel un po’ no…

Sorrentino: Sì, è un po’ sequel un po’ no… alcune cose sono in continuità temporale con come finiva la prima stagione, poi se ne va tutto da un’altra parte, perché ci sono tutta una serie di personaggi nuovi, di storie per esempio legate ai personaggi femminili che non venivano minimamente prese in considerazione nella prima stagione, mentre adesso si aprono a tutta una serie di capitoli. Penso per esempio al personaggio di Cecile De France. Io non avevo minimamente accennato al suo privato in The Young Pope, mentre adesso entriamo a gamba tesa nel suo privato. Quindi è come dici tu: è un po’ un sequel e un po’ se ne va per la strada sua… Certo, è un sequel nella misura in cui partiamo dal papa, Jude Law, che sta in coma.

Giusti: Perché sei così ossessionato dai preti, dal potere, dal sesso…

Sorrentino: Mah… forse perché sono tutti temi a me misteriosi e quindi dato che per me la scrittura è un modo di indagare quello che non conosco allora sia i preti sia il potere, il Vaticano è un mondo chiuso, un mondo che da sempre ha destato la curiosità di tutti quelli che ne sono fuori, diventano la chiave di interesse… il mistero...

Giusti: Bernardo Bertolucci diceva che il cinema italiano vive questa eterna divisione tra neorealismo e commedia, solo quando spaccheremo questi due totem riusciremo a ragionare su qualcosa di nuovo. In qualche modo noto che a te da tempo stanno stretti sia il neorealismo che la commedia…

Sorrentino: Sì, devo dire che pur avendo un grande rispetto per entrambi non è la mia tazza di té. Preferisco partire da un fondo di verosimiglianza per poi dar briglia sciolta alla fantasia. Mi piace più il comico che la commedia, cioè ho più velleità fallimentari sul comico che non sulla commedia, a me piacerebbe molto far ridere in maniera anche sguaiata, purtroppo non ci riesco…

Giusti: Ma il comico in queste due serie lo hai, è Silvio Orlando…

Sorrentino: In questa caso qua è Silvio, il faro della comicità è Silvio Orlando.

Giusti: In questa tua seconda serie sviluppi anche una grande componente musical, penso alla tammuriata che accompagna i cardinali già nella prima puntata, alle suore…

Sorrentino: Ci sono delle sigle che hanno una struttura da musical… anche nella scena della tammuriata c’è un impianto musicale che accompagna l’avanzare dei cardinali al conclave. Mi piace il ballo, mi piace molto fare le scene di ballo, cerco di infilarle continuamente dappertutto. E quindi anche qui ho provato a metterle.

Giusti: Cosa hai preso dalla realtà? Esistono elementi reali...

Sorrentino: Beh, sì. La convivenza di due papi è una cosa presa dalla realtà, è singolare perché non eravamo abituati a avere due papi. Ed era interessante. Però non ho preso molto dalla realtà anche perché il Vaticano io non riesco a conoscerlo. Mi hanno fatto entrare mezza volta, ho letto sicuramente delle cose, però me lo sono dovuto reinventare. Ci tengo a dire che ogni riferimento è puramente casuale.

Giusti: Ho trovato le suore un po’ eccessive, sensuali, spalmano Jude Law, il papa in coma...

Sorrentino: Non sono eccessive. Lo lavano. Jude Law è in coma e le persone in coma vanno lavate. Vanno pulite. 

Giusti: Però si mettono il rossetto, fanno delle cose… sembra un tonaca movie, ti ricordi i film sulle suore degli anni ’70? C’è una sensualità che di solito manca al cinema italiano di oggi.

Sorrentino: Sì. C’è un inizio abbastanza dirompente. È anche ironico. Anche io credo che manchi la sensualità nel cinema italiano di oggi, perché siamo un popolo di belli. Anche noi brutti siamo piuttosto belli. Perché allora non frequentare la sensualità? La scena dell’inizio si riferisce a delle suore di clausura che al chiuso, quando la badessa ordina di andare a dormire, decidono di fare qualcosa di trasgressivo e si mettono a ballare…trasformano il dormitorio in una sorta di balera…

Giusti. Nella serie di sono due papi forti, uno è Jude Law e l’altro è John Malkovich, più un terzo papa, un papa “fetecchia” diciamo… che viene eliminata subito dalla scena. Jude Law, come nella serie precedente, è particolarmente figo, però anche John Malkovich non scherza, si presenta da subito come una rockstar…

Sorrentino: A me piace avere un’anima pop quindi mi piaceva l’idea di scongelare quell’aura formale del Vaticano, sempre essendo molto rispettoso. Perché l’ultima cosa al mondo che volevo fare, visto che lo provano a fare tutti, era quella di essere dissacranti nei confronti del Vaticano. Non ce ne era neanche bisogno perché c’è un papa adesso che sa essere anche molto nuovo.

Giusti. The Young Pope lo avevi scritto prima dell’arrivo di Francesco?

Sorrentino: Quando l’ho scritto io era stato appena eletto Bergoglio. 

Giusti: Eppure sembra sempre non realistico, quasi una serie tipo Watchmen dove c’è una realtà distopica, un mondo diverso da quello che viviamo… 

Sorrentino: Secondo me è verosimile, anche se non è riferito al Vaticano che c’è adesso. E’ un Vaticano parallelo.

Giusti: Ti manca il cinema-cinema? Ti manca di fare un film di due ore con tutte le sue regole…

Sorrentino: Un po’ sì. Mi manca e ci vorrei tornare. Anche perché la televisione è molto bella, molto libera, però è faticosa, è lunga, e io non sono più un ragazzino. Quindi l’idea di rientrare in quei tempi…

Giusti: Lavorando sulle serie tv hai dei limiti o sei del tutto libero?

Sorrentino: No. Sono abbastanza libero. Perché c’è una formula produttiva abbastanza intelligente che ha messo in piedi Lorenzo Mieli [ora a capo di The Apartment, che coproduce con Wildside e HBO], è quella delle coproduzioni, cioè ognuno partecipa con un pezzettino, quindi non c’è un unico committente che ti chiede io vorrei così io vorrei colì, abbiamo Italia, Francia, Inghilterra, America. 

Giusti: Essendo distribuita in tutto il mondo, dove ha funzionato meglio The Young Pope… a quale pubblico è interessato di più?

Sorrentino: Che tipo di pubblico non lo so, ma i paesi dove è andata molto bene sono in America e in Russia. Sono andato a San Pietroburgo e non capivo perché la gente mi guardasse per strada…avevano visto la serie e ero diventato famoso.

Giusti: Magari perché hanno il mito del grande oligarca… Ma c’è anche una sontuosità di messa in scena che lo avvicina al cinema russo, anche rispetto a questi nuovi film russi che si vedono ai festival… invece in Italia è rara questa sontuosità di messa in scena. Tu sei eccessivo, insomma… hai più carattere. 

Sorrentino: Forse sono pure eccessivo. Poi, certo, c’è a chi piace e a chi non piace. Quello fa parte del gioco. L’importante è staccarsi dalla medietà, secondo me. A me va benissimo che ci siano grandi odi e grandi amori. E’ un segno di vitalità. 

Giusti: Ci sono dei legami con la situazione politica italiana nella serie?

Sorrentino: C’è un vago accenno, ma è una storia molto marginale, che tocca solo una parte del rapporto fra Stato e Chiesa in Italia, una storia che andava messa. Anche se forse oggi i rapporti sono diversi rispetto ai tempi di quando c’erano la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Allora i rapporti erano più intensi, più tesi o più amichevoli. 

Giusti: Eppure questa situazione di coma, di confusione mi sembra molto simile allo stato comatoso della politica italiana di oggi. Magari è un puro caso…

Sorrentino: Io sono molto affascinato dagli uomini che si muovono nel Vaticano, alle loro vicende private. La politica l’ho lasciata un po’ fuori. Inoltre questa serie l’ho concepita nel momento in cui c’erano molti attentati terroristici in Francia. Mi interessava più il confronto fra le religioni, il Cattolicesimo e l’Islam, le possibili derive integraliste che conoscevamo già dell’Islam ma che avrebbero potuto riguardare pure il Cattolicesimo. Mi preoccupava più occuparmi di questo…

Giusti: Però Silvio Orlando fa un personaggio di uomo di potere politico totale.

Sorrentino: Assolutamente. E’ il Segretario di Stato, il vero Presidente del Consiglio, eh… sì, è un po’ l’incarnazione della vecchia politica italiana durante la Guerra Fredda, la necessità di salvaguardare sempre e comunque la Chiesa e nel nome della Salvaguardia della Chiesa lui è pronto a spingersi molto oltre, anche dove non dovrebbe spingersi per il suo ruolo.

Giusti: Inoltre lo usi anche un po’ come momento di commedia dentro alla struttura generale del racconto, come rottura della tensione narrativa.

Sorrentino: Sì, sì. Il mio elemento di alleggerimento è proprio Silvio, che è un comico formidabile, ma anche John Malkovich e Jude Law portano un certo humour ovviamente di stampo anglosassone al racconto.

Giusti: Ne avete discusso con Malkovich di come fare il suo nuovo papa?

Sorrentino: Ne abbiamo parlato… ma a me Malkovich piace moltissimo come persona. Alla fine ho pensato che era più potente usare lui come persona piuttosto che la mia fantasia, quindi ho adeguato il nuovo papa all’idea che io ho di John Malkovich, un dandy, un uomo molto elegante, rassicurante, saggio, ma anche ironico. Malkovich ha una sua leggerezza, ma anche il carattere per dare importanza alle cose. E anche se poi le cose non possono farsi non ne fa un dramma. Sembravano tutte caratteristiche sue che si potevano travasare nel personaggio del papa. E l’ho fatto. 

Giusti: C’è stato un tempo, ricordo, che al Festival di Cannes tra Il divo e Gomorra di Matteo Garrone si era parlato di grande ritorno del Cinema Italiano. Sono passati 11 anni. Insomma che tipo di evoluzione c’è stata da allora nel nostro cinema?

Sorrentino: Intanto ci sono stati dei nuovi registi, anche perché io e Garrone ci stiamo facendo grandicelli. Ci sono registi come Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, trovo che sia un regista molto bravo anche Valerio Mieli. Insomma c’è anche una nuova generazione che sta venendo su, come è giusto che sia. Poi c’è Marco Bellocchio che è un meraviglioso regista non più giovanissimo… Detto questo siamo una piccola cinematografia e abbiamo 4 o 5 buoni registi che hanno un po’ più di visibilità. Ma io non ho mai creduto che potessimo diventare di nuovo una cinematografia prorompente come lo era stata ai tempi dei grandi autori italiani.

Giusti: Nelle serie tv, però, tra Gomorra di Stefano Sollima, il tuo The Young Pope, L’amica geniale di Saverio Costanzo, vi siete fatti conoscere…

Sorrentino: Aggiungerei anche Il miracolo di Niccolò Ammaniti… era molto interessante.

Giusti: E’ quella la strada?

Sorrentino: Sicuramente le serie sì. Ma io non sono in grado di elaborare un pensiero riguardo ai fenomeni. Forse dovremmo volerci più bene, dovremmo fare più sistema. Se uno pensa a come sono bravi i messicani, Inarritu, Cuaron, Del Toro, a sostenersi l’uno con l’altro nei festival, a Hollywoood…

Giusti: Gli italiani non sono così.

Sorrentino: Facciamo più fatica…

·        Paolo Virzì.

Io poi sono contrario all'amicizia: è una combutta tra pochi, una complicità antisociale. (Stefano Satta Flores, C’eravamo tanto amati)

Malcom Pagani per ''Vanity Fair'' il 12 settembre 2020.

«Ma davvero vuoi che parli dell’amicizia? ma sei matto?». In missione per conto di Tommaso Paradiso- direttore artistico del numero, appassionato virzologo, esegeta di Ferie d’Agosto, che nei giorni della morte di Fantastichini ha visto circolare un disegnetto di Virzì dedicato a lui e a Piero Natoli- siamo chiamati all’impresa. L’idea- far parlare Virzì dell’amicizia tra Natoli e Fantastichini e del brillare confuso di quel sentimento nel mondo del cinema -a Virzì garba pochissimo. La richiesta d’intervista, bisogna riconoscerlo, era enfatica. Infatti Virzì ha prima risposto con la frase in esergo di Satta Flores in C’eravamo Tanto Amati, poi affastellato scuse letterarie e sempre più improbabili che lo situavano in località così remote ed inaccessibili di boschi e monti in Toscana che sembravano inventate: «Qui non c’è campo, risentiamoci nel 2022». Abbiamo insistito. Provato a giocare con Paradiso la carta del diniego: «Paolo non vuole farla» ricevendo in cambio sordità, irritazione e diktat marziali: «A Virzì non rinuncio, DEVE esserci», deciso infine di irrompere nel bunker del regista in forma di agguato al primo momento utile. L’incontro è stato preceduto da un pedinamento lungo e un poco stucchevole tornito da vocali di dieci minuti à la maniere de certe note canzoni e al primo palesarsi di Virzì in città, da un pellegrinaggio nell’ufficio del regista. In quell’angoluccio di San Saba dove, sarà per via della basilica in stile romanico e dei cipressi che ricordano la Val d’Orcia, sarà perché Virzì ha lì la sede della sua Motorino Amaranto, sembra una specie di scorcio toscano, Virzì mi ha accolto con apparente benevolenza, in realtà con l’intenzione- mai celata, va detto- di sabotare l’intervista. “Non mi farai  mica anche parlare della pace nel mondo?” Con l’Africa in giardino, i 42 gradi all’ombra, un asporto nel cartone in quell’ufficio-studio-ricovero zeppo di disegni colorati e tele e scarabocchi e bozzetti- praticamente l’atelier di un fumettista- Paolo Virzì, sopravvive sventolando l’ironia: «Fumiamo? Vedo che hai il mio stesso tabacco.  Ah no: il tuo invecchia la pelle, il mio ostruisce le arterie.». In una madia, tutti i copioni della sua vita: «Davvero vuoi vedere il primo, Dimenticare Piombino? Cos’è sei feticista?  Ester (la sua segretaria nda) è in ferie, altrimenti te lo trovava”. Sugli scaffali e sui tavoli pile di quadernetti fitti di appunti ma soprattutto di disegni, diari di viaggio disegnati, luoghi di vacanze, qualche immagine che poi è diventata l’inquadratura di un suo film. «Il soggetto di Ferie D’Agosto fu immaginato in una vacanza sugli scogli roventi e scomodissimi di Ginostra, dov’ero in vacanza con un po’ di amici che poi recitarono nel film,  Silvio , Rocco, Lele Vannucci, Gigio. Ma dobbiamo proprio farla quest’intervista, non è meglio un caffè? Dove vai in vacanza? Sei fidanzato?». Sta provando a fregarmi. Fedele al mandato del mio direttore artistico, insisto.

Tommaso Paradiso vorrebbe che tu parlassi di amicizia.

«Sentimento scivoloso e melenso che forse nemmeno esiste. In particolar modo l’amicizia esibita. Esistono gli incontri, gli innamoramenti e i disamoramenti. gli affratellamenti e i “non vediamoci mai più”. A  volte il piacere del ritrovarsi, a volte il sollievo del perdersi per sempre».

In che senso l’amicizia non esiste?

«Ma certo che esiste. Meglio però non esibirla come trofeo, non illudersi che sia un valore, maneggiare quella parola con cura. Non vorrai mica che io metta qui a far le lodi del valore dell’amicizia? Non senti subito un sapore ambiguo, da congresso politico con Gava e Forlani? E’ un sentimento ambivalente, e a volte - quando va bene -  conflittuale. E poi attenzione all’ “amicizia per sempre”, non esiste nulla di più ricattatorio di un’amicizia che si  autoproclama perenne. Assomiglia a quel “for ever” che si fanno incidere su spaventosi braccialetti gli innamorati sprovveduti. Certe amicizie mettono paura, come un matrimonio infelice e disfunzionale, che si protrae solo per non affrontare il peso del liberarsi reciprocamente. Non a caso probabilmente, i film che hanno anche fare con quel sentimento, l’amicizia, quelli belli intendo, come C’eravamo tanto amati o I Vitelloni, raccontano proprio che in realtà la relazione di amicizia è un legame liquido, anche disperato, di attrazione e repulsione, un ininterrotto tradirsi».

Quelli brutti?

«Celebrano in modo inevitabilmente fasullo una retorica che magari ci rassicura: la speranza, umanissima, di non esser abbandonati, di non rimaner mai soli e che tutto quello che si è vissuto abbia un senso, anche se, come dice l’altro cantante bravo, “un senso non ce l’ha”. Amici miei, che inalberava la deprecabile parola nel titolo, è un film straziante, angoscioso, lugubre. Non è un film sull’amicizia ma un toccante apologo sulla morte».

E le amicizie cinematografiche?

«Stai parlando delle amicizie del set? E’ un gioco, un trucco, una bugia pronunciata con la segreta consapevolezza di mentire. Esaltazione ed illusione. Il cinema non si può fare da soli, è sempre frutto di un’energia collettiva, di un impasto di persone che si scambiano, si regalano e si rubano delle cose. Se c’è una ragione per la quale son finito a fare questo mestiere è perché, rispetto ad altre attività artistiche solitarie, è irresistibile la sensazione del divertimento e della comunità, del girotondo finale di Otto e mezzo. “La vita è una festa” ed il bello e il brutto, l’opprimente e l’esaltante, si danno la mano».

Cosa resta alla fine?

«L’ultimo giorno di riprese ci si saluta coi lucciconi, con sgomento sincero, con  disperazione: come faremo a stare lontani l’uno dall’altro? C’è qualcosa del cameratismo dell’impresa militare, o della spedizione al Polo Nord, dove si è rischiato la vita insieme. In quelle lunghe settimane, di giorno e di notte, in luoghi scomodi, sottoposti alle intemperie, si è stabilito un vero legame di sopravvivenza, un affratellamento da battaglione dell’Armir, e questa cosa può esser scambiata per un sentimento destinato a rimanere immortale, che dovrà senz’altro esser celebrato così come gli Alpini commemorano il Piave. Invece, il giorno dopo, tranquillamente, si torna ciascuno alle proprie vite ordinarie. Non è che ci si dimentichi di tutto e di tutti, ma certi ricordi,  se rievocati a distanza di tempo, a freddo, appaiono anche in una luce patetica e un po’ imbarazzante. Perlomeno così capita a me, che son stato ribattezzato dal mio amico Bobo Rondelli (ma ha senso usare questa parola proprio mentre la nego?): “Un grande abbandonatore”. In effetti ci conoscevamo da ragazzini e poi son stato addosso a quel ragazzaccio, cantautore eccezionale -lo conosci, vero?- letteralmente appiccato tutta un’estate per realizzare un documentario su di lui, su Livorno, forse anche un po’ su di me. Era il 2007.  Amo Bobo, ma nei successivi tredici anni ci saremo visti tre volte. Però insomma, adesso non voglio divertirmi ad ostentare cinismo. E’ insopportabile anche quello: l’ostentazione del distacco, di sentirsi al di sopra dei moti dell’animo umano. Anzi, te lo dico abbassando la voce, e per favore non lo riferire a questo tuo nuovo direttore, Tommaso Paradiso, mi raccomando, ma posso confessare che voglio un monte di bene a tante persone, che li considero amici, ma soprattutto, preferisco la parola:  fratelli, sorelle. Ecco, la parola fraternità mi piace di più, forse è la mia preferita nella motto della Rivoluzione Francese».

Intanto, scorrendo i disegni li notiamo qualcuno dei suoi amici: c’è un Francesco Bruni, un Sandro Veronesi, un Francesco Piccolo, un’Archibugi, un Sorrentino. Ci sono anche i suoi maestri: vediamo vari ritratti di Furio Scarpelli, un Ettore Scola, una Suso, un Fellini, un Benigni…I tuoi amici sono contenti di essere disegnati da te?

«Mah boh, spesso si sottopongono malvolentieri, perché per loro dev’essere un tormento, lo faccio in continuazione, ne sai qualcosa anche tu. Poi non è che io li migliori, li faccia belli, anzi, tendo a peggiorarli. Però va spesso a finire che alla fine quei disegni me li rubano».

Delle tue amicizie che ricordo hai?

«Domanda troppo impegnativa. Se chiudo gli occhi mi viene in mente una folla di persone e mi sentirei in colpa a privilegiare il racconto di qualcuno a scapito di un altro. Se ci pensi è un incubo che potrebbe esser messo in scena in modo divertente, tutte le persone che hai conosciuto, che hai frequentato, alle quali hai voluto bene in tutta la tua vita, tutte insieme, davanti ai tuoi occhi, che ti guardano dicendo: “E io? E a me? Non mi racconti?” Poi se vado indietro con la memoria mi vengono in mente soprattutto certi incontri di gioventù che all’epoca mi sembrarono importantissimi e straordinari con persone delle quali adesso non ricordo nemmeno il nome. Per esempio un’estate, avevo forse diciassette diciotto anni, ho passato qualche giorno a Genova con un gruppetto di teatranti, parlavamo di tutto di cinema di teatro di politica di vita. Mi ospitarono nelle loro case, mi nutrirono, mi prestarono dei soldi per prendere il treno, li persi, me li prestarono di nuovo. Chissà perché non ricordo il nome di nessuno di loro, chissà che fine hanno fatto.”»

Però i ricordi delle amicizie della tua giovinezza, dei tuoi primi anni a Roma per esempio, non ti hanno abbandonato.

«Certo che no, noNon sono ancora del tutto rincoglionito. E tanti episodi dei primi euforici mesi a Roma tornano a volte a farmi visita in certi sogni, alcuni lieti, altri spaventosi come incubi. Ho anche avuto la spudoratezza di metterne qualche frammento in un mio film». 

Indico con il dito una faccia caso tra le tante che scorrono sullo schermo, nella cartella dove Virzì ha raccolto un migliaio di ritrattini e caricature: quella di Umberto Contarello. Virzì ride.

«Quando lo conobbi, Umberto lavorava nel gruppetto degli autori di Celentano a Fantastico. Fu un’edizione con ascolti oggi non immaginabili. Veniva pagato in contanti, credo perché non avesse ancora un conto in banca, come nessuno di noi. Tutti sguarniti e poveri in canna. Non sapevamo neanche che esistesse la carta di credito. E Umberto compariva nel cuore della notte con le tasche gonfie di centomila lire e ci portava nei night di Via Veneto. Ci caricava tutti su dei taxi che non ci potevamo permettere per introdurci in certi locali notturni che forse un tempo erano stati davvero quelli de La Dolce Vita, ma erano diventati struggenti postriboli anni ’80, logori, mezzi vuoti, dove diffondevano brani anacronistici. C’erano solo tristi viaggiatori di commercio stranieri e entraineuse anzianotte che cercavano di farsi offrire da bere. A noi quella mestizia però suscitava ilarità, e Umberto era entusiasta di finire tutte le sue banconote per pagare dello champagne da supermercato a quelle che potevano essere le nostre zie».

Amico e allievo, sei stato, di Furio Scarpelli.

«Con Furio certo eravamo amici, ma ora che ci penso bene, amici non è mica la parola giusta. Di Furio ero ragazzo di bottega, ma anche figlio, figliastro adottato e poi segretario, dattilografo, fotocopiatore, appiccicoso molestatore ed ero schiavo, felicemente schiavo: adoravo passare le giornate con lui dalla mattina presto alla Mass Film e, se andava a pranzo a casa rimanevo ad aspettarlo, fedele come un cane. E quando tornava proseguivo ad almanaccare con lui intorno a certi copioni fino all’ ora di cena e poi dopo, spesso, quando usciva di sera ed io ero felice di fargli da autista. Lo seguivo in questa o quella circostanza, mi davo le arie, chiacchieravo e litigavo con tutti come faceva lui».

Hai visto il crepuscolo del sodalizio tra Scarpelli e il suo amico Age.

«Nel caso dei vecchi maestri si è spesso detto: eh, vedi, loro cenavano insieme in trattoria, erano tutti amici! E’ una forma di elegia che tuttavia contiene un ovvio fondamento di verità. Ma credo che quella tra Age e Scarpelli, ad esempio, sia stata anche la storia di una lunga insofferenza reciproca. Non solo di quel combattimento creativo che in effetti è stato raccontato, ma con gli anni, con i decenni, dovevano aver sviluppato la nausea l’uno dell’altro. Anche se erano persone buone, tutti e due intimamente tenerissimi, Age più soave e diplomatico, Furio invece fumantino e capace di spaccare il capello in quattro, riuscivano a sorvegliare la loro insofferenza, i loro sentimenti più bassi, dei quali forse un po’ si vergognavano, e in qualche modo anche a distanza, ormai divisi professionalmente, sapevano prendersi cura l’uno dell’altro. E però poi in confidenza non resistevano a far trapelare quel fastidio per i vezzi reciproci (“Ma come tiene le mani?”, “Ma hai sentito? Ha detto “una storia accattivante”, “accattivante, ma ti rendi conto?”). La stessa cosa vale per un’altra storica gloriosa coppia di autori, Benvenuti e De Bernardi, che invece hanno lavorato insieme finché Leo non se n’è andato all’altro mondo, lasciando Piero “vedovo inconsolabile”, così diceva lui per far ridere i frequentatori di Otello (storica trattoria romana frequentata dal mondo del cinema nda).  Erano venuti insieme da Firenze per scrivere storie e battute per i film, ne avevano combinate tante, “grandi cacate” - dicevano così - e capolavori, insomma dalle commedie più facilone a film densi e alcuni anche monumentali. E però chi li conosceva veramente bene sapeva che non si sopportavano più, se fossero stati capaci avrebbero architettato un omicidio. Scherzo, eh».

Ti stupisce?

«Neanche un pò. Il conflitto serve. Non vivevano mica nell’epoca degli ego suscettibili, come capita a noi! Avevano avuto infanzie e gioventù ruvide, si divertivano a darsi reciprocamente dello stronzo. Di questo noi, voglio dire, la generazione dei soliti stronzi di adesso, non ne siamo capaci, perché siamo più vulnerabili, bisognosi di rassicurazioni e di complimenti, subito pronti ad offenderci e ad avvilirci. E non voglio parlare di quei miei amici e colleghi che, ormai non più giovani, frequentano le bacheche dei social».

Tu non frequenti i social.

«Ho una pagina Instagram per metterci qualcuno dei miei disegnetti che altrimenti dimenticherei da qualche parte: eccola qua. Ma non interagisco, non commento, guardo qualcosa degli altri solo se riesco a trattenere l’invidia per tutta la sfacciata felicità che vedo esibita lì sopra. Come vedi non è proprio a mio nome, per favore non menzionare il nom de plume in quest’articolo: ho un gruppetto risicato di “seguitori”, se aumentassero sarei costretto a chiuderla. Sono stato un anno su Twitter e mi capitava, magari la sera, magari dopo un bicchiere, di prendere per il culo qualche potente importanzioso ed il giorno dopo leggevo sul “Corriere”: “Virzì attacca il Senatore Tizio!” Così l’ho chiusa senza rimpianti».

Uno dei tuoi film più amati, Ferie d’Agosto, in che contesto si svolse?

«Girammo a Ventotene nel 1995 e fu un set divertentissimo e ovviamente anche litigiosissimo. Ogni tanto, forse anche anche per via dell’isolamento, qualcuno sbroccava. Si crearono gruppi contrapposti simili a quelli del film, con certe rivalità che io mi divertivo un po’ sadicamente ad alimentare. Fu un’estate bellissima, tutto sommato, anche se meteorologicamente dispettosa:  ad agosto cieli bigi, vento, onde impetuose, e faceva un freddo cane. Il bel tempo arrivò finalmente a ottobre, quando finalmente potei buttare gli attori e attrici in mare».

Come ti avevo detto, Tommaso Paradiso, direttore artistico di questo numero di VF, per parlare di amicizia, è partito da un tuo disegno dedicato a Ennio Fantastichini e Piero Natoli.

«Erano stupendi insieme. Visti uno accanto all’altro facevano sbellicare. Si volevano bene, ma anche tra loro c’era sempre un reciproco detestarsi. I due erano diversissimi, ma il risultato comico era sorprendente anche per me».

Diversi come?

«Ennio all’epoca era conosciuto come attore drammatico, forse il più bravo della sua generazione. Specializzato in ruoli torvi, aveva appena vinto il Felix, l’Oscar Europeo, per Porte Aperte di Amelio. I produttori erano un po’ perplessi che volessi proprio lui per quel ruolo che sulla carta era stato scritto per un comico. In quella sua aria ruvida c’era un’invincibile timidezza, ed un garbo, una grazia, che non ti aspettavi da uno con l’aspetto così tosto. Certe sue occhiatacce  - è vero - mettevano paura, ma era in realtà tra le persone più delicate e generose che abbia mai conosciuto.  Quel poco che possedeva lo avrebbe dato a chiunque, senza riserve».

E Natoli?

«Piero era il contrario di Ennio, ma anche del Marcello che interpretava in Ferie d’Agosto. Il suo Marcello era un velleitario di vedute limitate che aspirava a qualcosa che non sapeva nemmeno lui. Piero invece era un uomo di mondo, open-minded, un paio di fidanzate contemporaneamente, grandissimo stupendo chiacchierone, e anche a suo modo colto e sofisticato. Il suo lato buffo era la vanità. Si considerava bello, curava la propria forma fisica nei club sportivi, dove però - ne son stato testimone -  passava più che altro il tempo ad attaccar bottone con chi arrancava sul tapis roulant. Ma soprattutto non sembrava del tutto consapevole del suo talento comico. Si sentiva un regista impegnato, della generazione di Moretti e Peter Del Monte, e non capiva perché ci sbellicassimo quando sul set si presentava con le braghe corte e la canottiera del suo personaggio, a fianco di Ennio, col suo look grintoso da bottegaio del Tuscolano. Bastava che Piero aprisse bocca e pronunciasse una parola con la “esse” (aveva la lisca), perché tutta la troupe scoppiasse a ridere. Lui i primi giorni sembrava sorpreso, quasi offeso: “Ma che mi pigliate per il culo?” Ecco, nel caso della coppia Ennio-Piero la comicità nasceva dalla combinazione chimica di due elementi opposti e complementari».

I due, tra loro, erano amici?

«Certo, e stavano appiccicati l’uno all’altro anche fuori dall’orario di lavoro. Dividevano, mi pare, la stessa bella casa sul Pozzillo di Ventotene. Ennio cucinava, litigava al telefono con la fidanzata poetessa e poi scagliava in mare il suo  cellulare (fu la prima estate col cellulare, per tutti noi, il Motorola Startac). Piero stappava bottiglie di bianco, invitava i membri della troupe, faceva l’anfitrione.  Si volevano bene, ma nell’aria tra loro c’era sempre un litigio affettuoso e un diffidare reciproco. Il risultato era delizioso».

Comunque, scusa se insisto, ma questi disegni, meritano, non ti pare? Vedo anche dei quadri. Mi risulta che ti abbiano proposto mostre, pubblicazioni, ma ti sei sottratto, perché??

«Lasciamo stare. Vabbè,  perché mi vergogno. La maggior parte di quelli che ho fatto son finiti a casa di qualcuno che li ha trovati belli, e un po’ mi fa piacere. Una tela di due metri per esempio è nel salone della casa barese di Luca Medici (Checco Zalone nda). O almeno lui mi ha mandato la foto per farmi vedere che la tiene appesa sopra un bel divano bianco, io a casa sua non ci son mai stato. Però ti posso confidare una cosa che non ho mai detto a nessuno. Anzi no, non te la dico, c’è di mezzo forse un reato penale».

A questo punto la curiosità è enorme.

«Allora, devo andare molto indietro nel tempo. Sarà stato il 1985 o forse l’86, ero appena arrivato arrivato a Roma e abitavo in affitto in un monolocale al pianterreno che apparteneva a Gian Maria Volontè, in un palazzetto accanto a Regina Coeli popolato da una comunità vivace e molto bohemiènne. Al piano di sopra c’era Alessandro Vivarelli, sopra ancora Francesca Marciano col suo fidanzato ufficiale principe o conte con un paio di cognomi ed un infinità di tatuaggi (si è poi suicidato buttandosi da Ponte Garibaldi, poverino) ed infine Fabrizio Bentivoglio che all’epoca aveva i lavori nella sua casetta in Vicolo del Bollo e col quale dividevo momentaneamente il letto neanche fossimo stati Stanlio e Ollio. Ogni tanto passava Ghini a bordo di un Bmw decappotabile:   Massimo a differenza nostra già lavorava un sacco e offriva cene, da bere e da fumare per tutti e non si tirava indietro. Poteva capitare di veder spuntare Edoardo Agnelli che si piazzava nel mio monolocale in attesa di Alessandro, il mio vicino di casa bellissimo e dannato che, insomma, trafficava. Ed il figlio dell’Avvocato con la sua erre arrotata portava anticipazioni di calciomercato sulla Juve  «Ievi abbiamo compvato Vush» (Ian Rush, centravanti gallese, grande flop del calcio che fu nda) e intanto, per smaltire la rota, mi svuotava il frigo zeppo dei cibi che mi mandava mamma da Livorno e mi chiedeva se per caso gli potevo “pvestave un tventamila” che l’autista si era allontanato col suo cash. A poche decine di metri da quella casa c’era lo studio-abitazione di Mario Schifano. Qualche volta fui portato lì da una sua una giovane musa, pittrice brava e bellissima, dal vocione baritonale (cavolo, mi sa che si è uccisa anche lei, impiccata, che storia triste ti sto raccontando!). Nello studio di Via delle Mantellate c’era sempre musica alta, del fumo buonissimo ed il Maestro dipingeva con pochi ma generosi schizzi di colore soprattutto case, biciclette e palme. Si divertiva ad iniziare quei dipinti, si stravaccava su un divano e lasciava finire alle sue ancelle, e anche a chi passava di là per caso. Poi si alzava a dare un’occhiata, se il risultato gli piaceva, apponeva uno svolazzo con la S, la sua preziosa firma. Una volta, euforizzato da un’erba che, mi fu spiegato, veniva dalla Cambogia, mi feci coraggio, presi i pennelli e una di quelle palme la feci io, simile ad un’altra accanto, ma con i colori leggermente diversi. Dissolvenza. Passano tanti anni e una sera mi trovo a cena quasi per caso nella casa elegante di un ricco signore. Opere d’arte contemporanea dappertutto. Ma c’è una tela verticale di un metro e mezzo circa che attira la mia attenzione. La guardo meglio e penso: “No, non può essere”. Mi sembra proprio quella che avevo fatto io, tanti anni prima, in quello studio in Via delle Mantellate. Per curiosità, chiedo: “quanto può costare questa meraviglia?”. Mi viene detta una cifra impressionante. Penso: “Però, quasi quasi mi metto a fare il falsario.” Ecco adesso che ti ho raccontato questa storia, mi vergogno e ti pregherei di non scriverla».

Perché? Il reato sarà in prescrizione.

«Eh, ma non vorrei, con questa mia vanteria, né sminuire il Maestro né deludere quel ricco signore».

·        Pasquale Panella.

Gianmarco Aimi per Rolling Stone il 4 aprile 2020. «Il re è nudo!». Pasquale Panella è come il bambino nella fiaba di Andersen: fa a pezzi da più di quarant’anni il vanitoso incantesimo di cui si ammanta la discografia – così come la letteratura, la poesia, il teatro e tutto ciò che incrocia il suo sguardo – con giocosa perfidia e infinito godimento. Orfico, ermetico, dadaista, tutti accostamenti giusti, ma per un batter di ciglia. Averci a che fare, sia personalmente che attraverso i componimenti, è come lasciarsi continuamente ingannare da un effetto ottico: guardi il bastone nell’acqua e ti sembra spezzato, lo sollevi e ritorna normale. Fra le tante trasformazioni, per rimanere in fin dei conti sempre uguale, è autore dei testi – tanto amato quanto vilipeso – dei “dischi bianchi” di Lucio Battisti, demiurgo della rinascita di Amedeo Minghi con il famigerato “trottolino amoroso” e più recentemente fautore della riscrittura di opere monumentali quali Notre–Dame de Paris e Romeo e Giulietta, che sono valse a Riccardo Cocciante gli applausi entusiastici di ogni platea nel mondo. Sfuggente come un’assonanza, si nega non solo al successo, ma persino al contatto umano. Ci sono artisti che, pur avvalendosi da tempo della sua “poetica”, definizione che disprezzerà, lo riconoscono a malapena in foto. Poche, anche queste, e tutte rubate a margine di sporadiche letture pubbliche (come quella in copertina, dello storico fotografo romano Marcellino Radogna). Odia le recensioni: fastidiose le lodi, lo aizzano le critiche: «Mi fan venir voglia di andare al bordello». Quella che state per leggere, più che una intervista è forse la fine di un’amicizia. Non che siano dichiarazioni trafugate, visto che con lui è quanto mai vero il detto “non si ruba a casa dei ladri”, ma perché se fosse per la cavillosità che lo contraddistingue questa lunghissima chiacchierata non avrebbe mai visto la luce. Sarebbe continuata chissà per quanto e quali destinazioni. Ho scelto di interromperla e darla in pasto a lettori, musicologi e letterati. Perché Pasquale Panella è un genio, e nell’epoca che stiamo vivendo abbiamo ancor più bisogno di una via d’uscita dalle banalità in cui siamo immersi. Così ecco a voi servito il “tradimento”: «Lo fai contro le mie volontà tutte, però fallo» e nonostante il protagonista si professi fedele a una sola proposizione, quella del celebre trattato logico-filosofico di Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere».

Da tempo ti rincorro. Mail, telefonate, tramite l’ufficio stampa della casa editrice dell’ultimo libro. Nessuna risposta per settimane. Poi un giorno, a sorpresa, mi hai chiamato tu.

«Non sfuggo, infatti eccomi qua a braccia pendule con le armi a terra. Ma non riesco a concepirmi come interlocutore del giornalismo, ontologicamente. Però non mi tiro indietro, sempre ricordando che non amo essere intervistato. Non che non apprezzi il genere intervista, sono io a essere un de-genere. Lo fai contro le mie volontà tutte, però fallo».

Parto dalla “scusa” usata per avvicinarti e cioè il volumetto che si intitola Naso. O delle cattive letture, delle scritture impure della fine degli anni Sessanta e pubblicato ora per la prima volta da Fefè Editore. Un’opera giovanile uscita a quasi 50 anni di distanza. Piuttosto inusuale.

«È una cosina dei miei 19 anni, che colloco quando andavo a scuola, alle superiori, ed ero uno dei peggiori studenti d’Italia. L’ho scritto in classe, così mi procuravo delle ripetizioni di anni, ero scarsissimo. Il banco lo usavo come ufficio, mentre la notte andavo nei teatrini a fare questi affastellamenti di cose, tutti svianti. È un testo che continua a sfuggire a una ipotesi di teatro, a una eventualità scenica».

Come mai tanta avversione a esporti pubblicamente?

«La promozione mi fa schifo. In questo momento penso: “Già divento personaggio”. Sono teatrale di natura, però mi dà fastidio promozionalmente. Se lo vivessi su un palco a rischio dei pomodori, andrebbe bene. Ma parlare, facendo diventare megafonico quel che dico, mi fa senso. Sono cavilloso, proseguo subito a revisioni del testo, senza parlare delle inesattezze. Mi dà fastidio se parlano bene, mi aizzano quelli che si esprimono in maniera negativa. Parlando pre-novecentescamente, quando leggo le critiche mi vien voglia di andare al bordello».

Si dice in giro che lo scorso gennaio tu abbia compiuto 70 anni. Nessuna celebrazione pubblica, anche se non penso ti sia dispiaciuto. Ma cosa fa Panella nel suo quotidiano?

«Dicerie dicerie… ho dovuto cambiare spesso la carta d’identità, ho fatto carte false. Sul mio quotidiano, i testi cantati non sono testi cantati. Sono testi scritti. Una volta lo dissi, forse solo a me: sono loro il mio romanzo, la mia biografia. È tutto vero. Ecco perché non capiscono cosa io stia dicendo. La gente non concepisce ciò che è vero. Più ci si avvicina al vero e meno è comprensibile. Non come i cantautori, con le loro stupidaggini più o meno engagé: “La locomotiva…” delle cose da ridere. Oppure le poesiole con le rimucce. Letto Pascoli hai letto tutto. Lui ha risolto la rima meravigliosamente e se vogliamo un po’ Carducci. Quello che ho scritto è il mio quotidiano».

Pare che non ami neanche le recensioni sui tuoi scritti, che siano nelle canzoni o nei libri.

«Sono stato il peggiore in tante cose, ma di certo sono uno dei più grandi ignoranti di musica leggera del mondo. Del mondo! Non me ne frega niente, non l’ho mai ascoltata, non me ne importa nulla, mai avuto giradischi e dischi, e considerazioni mica tanto benevole per chi ascolta le canzoni».

Eppure, sui “dischi bianchi” con Lucio Battisti i critici hanno aperto dibattiti infiniti, non ancora risolti.

«Ecco, qui cominciamo a diramare mica poco. Ci sono state cose veramente orribili che hanno tentato delle povere creature, con libercoli nei quali azzardavano interpretazioni. Delle vere fesserie! Tra l’altro uno di questi mi si è presentato davanti, mentre facevo una lettura, e mi diede il libro, che è rimasto nella busta come me l’ha passato. Fanno interpretazioni del tutto sbagliate. Me ne avevano parlato, così gli dissi: “Ma tu, lo sai che tutto quello che dici è falso?”. E lui rispose: “Sì, ma anche di Shakespeare”. Comprendo la giusta analogia, ma allora “sé po’ dì tutto”. Quello che gli sfugge è che sia vero e rinviano ad altro che non vuol dir nulla. Non parlo d’altro da me e da ciò che mi circonda».

Cerchiamo di aiutarli spiegandogli chi ti ha ispirato. Quali sono i tuoi riferimenti?

«I libri delle elementari. Uno su tutti, tengo a citarlo, un testo decisivo che si intitola: “Passerotti”. Ce l’ho ancora, dalla prima elementare. Quando leggo quel libro, praticamente ci annego dentro. È la totalità. Da quel volume annego totalmente in me. Poi esco fuori, mi do una asciugata e scrivo due-tre cose. E adesso voglio fare io la domanda a te: trovi i riferimenti di questo testo in quello che scrivo? Sai, la “grande intervista” è una scaramuccia, no?»

Avendo una mamma maestra elementare, potrei anche rintracciare quel libro. Il difficile è ricondurre “Passerotti” ai testi che hai scritto.

«Anch’io avevo una mamma maestra. Ma sai l’ultima, io stesso sono maestro elementare. Qualcuno mi si rivolge con questo appellativo: “Maestro”. Ma come, gli rispondo, già mi conosci? Avevo scelto le magistrali perché sulla carta sarebbero dovute durare meno delle altre scuole, quattro anni e invece ce ne misi sei! Poi feci delle supplenze ma senza entrare di ruolo, capendo che non era roba mia. Facevo lezione e poi correvo in teatro, come quando ero studente».

Già allora giocavi con le parole e il loro significato?

«Rischiai una denuncia per istigazione al turpiloquio. Non era vero niente, naturalmente. Io non apprezzo la poesia, ma istigavo gli studenti al poetico spingendoli a scrivere le parole che più sentivano. E così, alcuni di loro cominciarono a sciorinare parolacce. Un bel giorno, mi ferma il preside con il padre di un ragazzino, di mestiere brigadiere. Era pronta l’istruttoria. Allora dissi: «Chiamiamo il bimbo. Risolviamo subito la pratica, non ho tempo da perdere». E lo interrogai: «Il maestro ti ha forse dato un dettato?». «No». «E quelle parole dove le hai ascoltate, che così sentitamente ti sgorgavano dal cuore?». “A casa da papà”. Ecco, capito come si fa la poesia?»

Qualche tempo fa intervistando Alberto Salerno, mi disse che la sua personale classifica degli autori di “canzonette” era questa: al primo posto Giancarlo Bigazzi, secondo Sergio Bardotti, al terzo Mogol e al quarto lui. Però in privato mi confessò di stimarti.

«Non le chiamerei canzonette, io al massimo faccio uscire canzoncine. Canzonette lo usano in accezione peggiorativa. Non li conosco. Sono tutti sicuramente nel loro esercizio più adatti di me, come Salerno, Migliacci, Calabrese. Le canzoni non le so scrivere. Ho scritto parecchi testi per canzone. Si scrive perché si sa di saper scrivere. Se sai di saper scrivere, tu sei il migliore. Sai per chi è difficile essere il migliore? Per sé. Io andrei alla morte, e non abiurerei, affermando chi è il migliore: “Io”».

Non a caso in passato hai dichiarato: «Se devo chiedere un parere autorevole, lo chiedo a me».

«Sì, certamente. E aggiungerei: «Eppur mi muovo»».

Ma c’è qualcuno che apprezzi, sia in ambito musicale che letterario o semplicemente intellettuale? Ti faccio due nomi che sono sempre nel vortice delle polemiche, ma che certamente hanno spessore: Vittorio Sgarbi e Morgan.

«(Scoppia a ridere) ma come non riconoscere a queste figure una certa vivacità espressiva, come di un altro che è stato il mio direttore: Giuliano Ferrara. Sì, certamente. Ma cosa condividiamo? Niente. Da ottobre neanche più il cane bassotto, che so essere una passione di Ferrara. Di fronte a una vivacità espressiva, molti dicono “è il suo pensiero”, ma davanti a questo parliamo ancora di pensiero? Quel che conta è la vivacità espressiva. Qui siamo contemporanei di figure che veramente vanno appresso a un pensiero. Ma per favore, quale pensiero? Ho scritto una raccoltina intitolata Pensiero Ballabile. Si trovano su Youtube».

Morgan è un musicista colto e anticonformista, neanche con lui ti troveresti?

«Penso di tutti, che nelle loro espressioni sono più bravi di me. E io sono più bravo nelle mie. Mica saprei cantare o suonare come Morgan. Neanche pettinarmi come Morgan, lui si pettina da dio. Credo che, alle volte, collaborare è una rovina. Sono cose che se accadono, accadono. Così, senza pensarci molto. Se per caso inciampassimo tutti e due nella stessa aiuola e ognuno acchiappasse l’altro per non farlo cadere: “Ah tu sei Morgan?”. “Ah tu sei Panella?”. “Facciamo una cosa?”. Ecco, per dire».

Quindi nessuno che stuzzichi il tuo interesse?

«Se devo utilizzare la figura del piacere, a me piace farlo nel momento in cui lo sto facendo per chicchessia. Come Totò. E quello che sto facendo è il meglio. Senza distinzioni. L’uno vale l’altro e tutti valgono tutto. I migliori artisti italiani? Con spavalderia risponderei: quelli con cui ho collaborato. Non ho rammarico per nessuno. Perché vige la legge della sperimentazione. Il piacere è farlo, non viene da altro».

Così avvenne con Lucio Battisti. Cosa ti resta di lui a 22 anni dalla scomparsa?

«Tutto quello che è stato. Niente di testimoniabile da me a nessuno. Quelle personali visibili sono già nelle cose scritte. Non parlo di nessuno con i quali ho collaborato. Conoscendo quello che travisano e deformano alcuni sedicenti testimoni, posso solo dire che è tutto falso».

Restano però cinque album, i cosiddetti “dischi bianchi”. Amati da alcuni, detestati da altri. Ma su un aspetto mettono d’accordo tutti: non vengono mai riproposti nelle celebrazioni battistiane. Come mai?

«Quando li ho scritti, avendo una vaga idea di chi fosse Battisti, per me era il momento di togliere le sue canzoni dai falò, dai pianobar, dalle gite. Il passato di Battisti è trivializzato da questa roba. Credo sia molto offensivo un pullman che canta Battisti. È offensivo per un artista. Lo usano come scarico. Un defaticamento. Come la Roma mentre fa allenamento, canta Battisti. Anzi no, perché noi siamo seri».

Voi giallorossi cantate Venditti.

«Ho un rispetto altissimo per Venditti. Tra noi non c’è nessun contatto, ci incontrammo una volta e fu molto ammirativo. Ma ho un rispetto incrollabile perché ha scritto “Grazie Roma”. Non perché ha scritto un inno per la Roma, ma perché è scritto benissimo. Io un inno non saprei mai farlo. Se devo decidere, scelgo prima una squadra del cuore in modo da potermi permettere di avere un cure».

Difficile immaginare Pasquale Panella che canta Grazie Roma.

«Ecco, questa è bellissima! A ciò servono gli artisti. Come diceva Auguste de Villiers de L’Isle-Adam: «Vivere? I servi lo faranno per noi». Ossia, tu dicevi: vedere me che canto “Grazie Roma”. Per questo ci sono gli artisti: la canta Venditti e non io. Perché io non saprei cantarla e neanche scriverla. Ma è una banalità, che andrebbe epigrafata: l’artista fa qualcosa che un altro non sa fare, Venditti in questo è paradigmatico. Io non lo canto mai, perché lo fa già bene lui».

Insomma, l’operazione con Battisti fu distruggere tutto ciò che Battisti era con Mogol.

«Sì, volevo toglierlo dai falò, dalle tradotte, dai bus dei turisti e soprattutto, quello di cui sono davvero soddisfatto è che quando scrivevo i testi pensavo: di queste cose non potranno parlare. Toglierle anche dalla voce critica. È il vero grande risultato contro la morte. Io che “Eppur mi muovo”, ovvero non torno indietro dal denunciare al mondo chi sia il migliore, ecco, davanti alla morte dico: è assolutamente così. Mi da irritazione quando arrischiano a parlarne, perché sono tanto cretini che non ne devono palare».

C’è anche chi ha insinuato che ti sia approfittato di Battisti.

«Battisti per danaro? Intanto è lui che ha chiamato me per lavorare su Pappalardo e poi mi ha chiesto, eventualmente, di proseguire. Questa affermazione è offensiva per gli artisti. Per me uno vale l’altro. Considero grande Marco Armani quanto Lucio Battisti. Se senti i provini di Armani, cadi per terra. Ti prende un colpo. I soldi meno li pensi e più ti arrivano. Devi ignorarli. Se sai fare una cosa falla, ti darà da vivere. Quanto all’aver fatto i dischi di Battisti, è stata una rogna più che altro».

Con tutto il rispetto per Marco Armani, ma Battisti aveva un peso ben diverso.

«Figure importanti della discografia mi sconsigliavano di lavorare con Battisti. Fu un gesto coraggioso da parte mia. Non mi preoccupo mai del rischio, anzi, vado volentieri a rischiare. Ma se vanno a notare le mie collaborazioni, ho sempre preso artisti con problemi. Non se ne è accorto nessuno! Amedeo Minghi era stato licenziato. Molti artisti mi chiamavano, perché essendo nel “problema” accettavano il rischio che scrivessi per loro. Perché io sono rischioso. E diciamolo al meglio a queste persone che si permettono il lusso di certi giudizi: probabilmente molti si sono rivolti a me perché altri non volevano lavorare con loro. Ma l’artista vero, e lo dico io che non sono sensibile a questo, deve guadagnare tanto. Non invoco il dolore per scavare una pagina. I dolori ce li spartiamo tutti nella stessa misura, chi prima e chi poi».

I dolori non sono utili alla creazione artistica?

«Chi scrive veramente scrive, non dipendentemente da. Ed è abbastanza un atteggiamento usuraio il tirare su l’acqua dai profondi pozzi del dolore, per dirla in maniera squagliata. Si è diaristici».

In seguito, parecchi critici hanno rivalutato i “dischi bianchi”.

«Sulla critica posso raccontare questo. Un periodo in cui facevo parecchi dischi, non li firmavo perché non mi andava di essere così presente. E qualcuno che mi fece notare che su un noto giornale, c’erano le recensioni degli album di Battisti e di Minghi. Nel primo, firmato da me, non accoglievano favorevolmente le parole del sottoscritto, nell’altro, non firmato, ne celebravano i testi con una aggiunta: “Mica come Panella…”. È una pagina autentica».

A differenza di Battisti, la collaborazione con Minghi ha dato risultati anche nelle vendite.

«A proposito di danaro. A quel tempo, la mia vita era pagata da La vita mia. Battisti non produceva nulla, poca roba. Sarei morto di fame. Non c’erano tv, radio, spettacoli per quei brani. I dischi sono una porzione dell’intero. Minghi con una serata mi dava un anno di Battisti. E pensare che era stato annunciato come un fallimento. Invece quel rischio sperimentale ha pagato. Con Battisti non ero sperimentale, soprattutto dal secondo disco li scrivevo in una settimana. Ma perché mi fermavo, sennò ci avrei messo un giorno. Tutto quello che ho fatto è perché mi hanno chiamato».

Quindi chi crede che i dischi con Battisti siano sperimentali sbaglia e dovrebbe guardare più a quelli che hai condiviso con Minghi?

«Con Minghi ho fatto vera sperimentazione. Esiste la catena espressiva delle prevedibilità: la città vuota, il cane che abbaia. Ovvietà. “Binario, triste e solitario”. La bravura sta nel non usare quelle espressioni. Con Minghi, data la potenza melodramatica della sua musica, dovevo sperimentalmente lavorare intorno alle strutture della scrittura sentimentale. Quella di Minghi è bella musica. È difficile essere dei melodisti bravi. Lo avverti quando cantano dai balconi. A distanza, la musica è piena di echi, sporca, con rimbalzi e allora la composizione fatica moltissimo ad arrivare. Gli altri pensano al Coronavirus e io alla composizione musicale, ma ti rendi conto?»

A ognuno il suo mestiere.

«Come chi fa ricerca sul virus, anch’io sperimento facendo compiere dei passi avanti all’umanità in altre direzioni. Non sono medico o biologo, credo di essere l’unico in Italia. Gli altri sanno tutto. Quindi mi applico a quello che so fare. Non a scrivere ma a vivere la scrittura come sperimentazione. Stando alla musica dai balconi che fatica a farsi afferrare, ho sentito “Nel sole” di Al Bano e quella è arrivata immediatamente, perché melodicamente è scritta bene».

Certo la melodia è importante, ma certi testi possono renderla popolarissima. Come quel “trottolino amoroso” sul quale non solo i critici, ma persino i filosofi si sono applicati.

«Una volta Mietta era intervistata da Red Ronnie che gli chiese, inorridito: “Ma quel trottolino amoroso…” e lei gli rispose: “Ma perché, tu non lo fai?”. Lui sbiancò».

Com’è nato?

«Se lavori strutturalmente a una pagina, lo avverti, lo senti, ti permetti delle eversioni, puoi azzardare, lasciarti andare. Che c’è dietro? Un innesco tra la scrittura piana, melodica, cioè la linea del canto, che somiglia alla struttura romanzesca che io non amo. E poi una insinuazione di trama, che altresì non apprezzo. Allora va lavorata, perché capisci che l’intreccio è un intrecciarsi di cose. Senti che la devi muovere in quel modo, deve caderci questa immagine roteante, violenta, un vortice immaginifico. L’amoroso deve girare intorno a qualcosa. Poi ricordi che esistette la scrittura automatica, il surrealismo, qualcosa di scabroso. Come il gattino annaffiato, ma annaffiato da chi? Quando uno scrive è come un comandante d’armata e intorno a sé chiama tutte le truppe. Comprese certe reminiscenze di Colazione da Tiffany, del gatto che si ricordano tutti. Ma non basta. Il gatto nel libro è scritto in un modo, nel film rappresentato in un altro. E Truman Capote se ne risentì. Sai che stai riproducendo tutto ciò. Ma quelli che giudicano, che ne sanno??!»

Effettivamente, in pochi hanno colto tutti questi riferimenti.

«E invece crei degli inneschi, degli stridori, dei cortocircuiti. E allora, in quel testo c’è una baraonda di tutto. E tu godi che lì dentro veramente sia confluito tanto di quel che accade. Non solo nella vita, che è il meno, ma nella vita in rapporto alle cose dell’arte: che siano icone, statue, libri, poesia, canzoni o film. Nella vita accade molto meno di quel che accade nell’arte».

Quanto tempo impieghi alla stesura di un testo per canzone?

«Con Battisti ne scrivevo, per andare lungo ed escludendo il lunedì e il sabato di una settimana, una al giorno. Ma pure tre. Il mio record è 18 testi in una giornata».

«Mi dicono che sono orfico, ermetico, dadaista, ma storicamente non posso esserlo. Mi chiamano così perché non hanno una parola di nuovo conio». È una tua dichiarazione. Allora, come definire la scrittura di Panella?

«La pagina è l’eterno. Il per sempre. È una struggente perfidia, come gli amori estremi. Sarà ascoltata come una canzone. E ti fa godere. Crederanno che è solo una canzone, senza cogliere quelle piccole secretazioni, quei secrétaire. Su Vattene amore potremmo stare a parlarne sei ore».

E come avviene la costruzione di questa “pagina”?

«Esiste la memetica, formata da moduli e nuclei espressivi, totalizzanti nella loro formulazione. Si prendono tutto. Informano di sé il mondo. Uno banalissimo, stra-ripetuto: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere», sentenziava Ludwig Wittgenstein nella proposizione più celebre del Tractatus logico-philosophicus. Nonostante sia un trattato logico è incredibile come la condivisione sia illogica. Non devi dimostrare il perché. I suoi assunti sono indiscutibili, cioè con la logica non li raggiungi. Si annunciano e valgono come annuncio. Non devi dedurne, dibatterne, no, grazie al cielo! E quando a scuola sono incocciato in una battuta del genere immediatamente ho capito: un giorno tutto questo lo commetterò! Cioè commetterò dei testi di cui non si potrà parlare. Come mai? Perché di questi testi non si può dire. Si dicono essi, è semplice. Solo quelli son così, parlando di canzoni. Realizzano l’illogico annuncio di un logico. È bellissimo! Sto dando i numeri, pensi? No, sto dicendo la verità».

Certamente non è semplice starti dietro, soprattutto riferendosi alla forma canzone.

«Potrebbero prendermi per scemo, ma ben venga perché la scemenza distanzia dal dibattito, dall’atteggiamento pseudo-critico, da qualsiasi approfondimento. Non diamoci chiacchiera fingendo di fare sul serio, per decriptare che? Mi sto divertendo io a decriptare quello ho scritto. Per me non c’è differenza tra i testi per canzoni, per il teatro o gli articoli. Come nella meccanica delle acque: tutto confluisce».

Nel mondo della canzone tout court non hai molti riferimenti. Quali invece in letteratura o in filosofia?

«Io vengo affettuosamente dal Bronx di Roma, da Centocelle. Per essere un po’ triviale: mi faccio due enormi palle quando leggo le letterature correnti. Sono anche uno dei peggiori lettori del mondo. Dopo due righe già non sopporto più nulla. Se la vivi a tal punto come la vivo io, non puoi concepire la lettura come la si concepisce. Quando sento parlare di come dovrebbero essere letti i libri, mi viene il voltastomaco. La scrittura non va letta».

E cosa bisognerebbe farci?

«Io per esempio non andrei letto, andrei visto. La scrittura appare. Sembra la battuta: cerco di scrivere poco per non correre il rischio di esser letto. È la verità, perché la gente ti legge, ti compulsa. Ma la scrittura è apparizione. Laddove non è apparizione è inganno. In questo era bravo Borges. Non appare, inganna».

Non facile neppure il tuo rapporto con i giornali. Raccontò Aldo Vitali la tua cacciata da La Voce, il quotidiano diretto da Indro Montanelli.

«Montanelli ripeteva: “Questo non lo capisco ma è un genio”. E mi pubblicava. Ma siccome il giornale era di una cordata, tutti quelli intorno gli ricordavano che non ero in linea con i lettori. Il che era verissimo. Un giorno scrissi un testo nel quale venne fuori con una certa maggiore evidenza che non mi riferissi al “bacino” di pubblico. Conteneva una elaborazione fonico-parodica dell’inno d’Italia. Mi riportò Vitali l’accaduto. Montanelli era a Cortina e la “cordata” andò fisicamente dal direttore a reclamare la mia testa perché “Panella disturbava l’uditorio”. E Montanelli alla fine cedette. Ma la redazione fece addirittura un piccolo sciopero. No, non vi preoccupate gli dissi: «Io non sto là dove non mi si vuole». Non mi rivolgo al pubblico de La Voce? Hanno ragione, mi hanno scoperto! Finché non mi si scopre faccio quello che voglio, quando mi scoprono, me ne vado».

Quando Gianni Boncompagni sulla tua collaborazione con Battisti disse: «Dio li fa e poi li accoppa» gli risposi così: «Sono un teppista, ci vediamo fuori che facciamo un po’ di letteratura con le mani». Ancora per via delle origini nel “Bronx” di Centocelle?

«Spero che l’abbia presa come una laurea. Sono abbastanza reattivo, così come per me scrivere è reattività. Alla vita. Non mi è mai capitato di venire alle mani, però, visto che a un certo punto, quanto poteva capitare di avere uno scontro, la parola ha sempre vinto. Li facevo soccombere di parole. Oppure, fungevano da innesco del desiderio, arrivando alla fascinazione. Se sei bravo, la rissa è seduzione. Sai com’è, si parla anche lì di accensioni».

In questo viene in aiuto la tua voce, sulla cui seduzione Barbara Costa ha scritto: «È eroina che scende nelle vene, ti crolla le ossa, non ti collassa ma è lingua che ti batte sul clitoride, e ti viene voglia di aprirgli le gambe». Che rapporto hai con le donne?

«Se non ci fossero non ci sarei nemmeno io. Non sopporto l’amicizia con gli uomini, per esempio. L’amicizia in sé. È una cosa che non ho. Non so se sono cambiate le donne. È cambiata la loro offerta espressiva. È interessante, in questo caso, il rapporto donna-canzone. Alle donne non importa nulla delle canzoni. In questo sono grandi. Nemmeno a me importa nulla. L’uomo invece è di natura lamentosa, vittimista, un piangente. Quando si dice “uomo”, non dico “umanità” o “creatura umana” oppure “l’essere umano”. Io credo che l’uomo sia l’umanità al suo peggio».

C’è un uomo, un grande del teatro, al quale sei stato spesso accostato. Parlo di Carmelo Bene. Forse in un certo modo di intendere l’arte siete piuttosto affini, non credi?

«Lui era un provinciale, io un periferico. È una cara persona, ho molta ammirazione per come sia riuscito a prendere per il culo tutti con la sua “trombetta”».

Non mi pare un gran complimento, per uno la cui voce è stata accostata a quella della Callas.

«C’è molto affetto, non credere. È curioso e anche umiliante, come per Battisti benché diversi. Sono minimi comuni denominatori del massimo. Raggiungendo loro, i contemporanei, i cultori della musica, del teatro, dell’arte, credono di aver dato. Sono stati scelti, perché convenienti. E gli faccio un complimento, perché Carmelo non era un attore, Albertazzi era molto più bravo. Come Gianrico Tedeschi che ha compiuto 100 anni, altro grandissimo. Per non dimenticare Gianni Santuccio, un padreterno! Però con Santuccio già entravamo nella rarefazione, la gente si perdeva, perché ti portava in alta montagna, ti toglieva l’ossigeno con le sue sottrazioni. E poi arriva Carmelo con quella “trombetta”… lo dico con tanto affetto».

Meno male che c’è affetto…

«È una qualità anche quella dell’attore, non credere. Il Capitan Fracassa è così, uno che si gioca il pubblico. Non gioca la propria vita, ma la vita del pubblico. E la gioca basandola sulla voce. Consentendo al pubblico di aver dato. Il pubblico, d’altronde, sente i cantautori e crede di conoscere la letteratura. Credono di aver dato, appunto. Gli uomini. Le donne no, mai. D’altronde il maschile è sempre in vendita, pronto allo scambio. Io ti do la mia attenzione, tu mi dai la presunzione di quella cosa estetica. Figure come Carmelo Bene erano bravissime nel farglielo credere. Si parla comunque di artisti, l’artista in fondo è questo».

Non vi siete mai incontrati?

«Il nostro incontro è da desecretare. Se non si seppe allora vuol dire che non doveva esser noto. Sono cose belle, ma del tutto personali e la loro vitalità è nel fatto che siano ignote. È affascinante far vivere l’ignoto. Se dicessi che qualche testimone c’è, ne dedurresti che ci sia stato un palco. Ma io non l’ho detto».

Un punto di incontro è il tifo giallorosso, anche se da qualche anno son più dolori che gioie.

«La Roma non va bene, ma chi se ne importa. Per vincere me la devo vedere io, le mie vittorie devo farle io. La mia squadra di calcio è il tragico. Bisogna anche soffrire. Con la Roma entro in estasi di sconfitte. Alla terza voglio continuare a perdere come in una ebrezza. Senti di vivere tragicamente, ma la tua tragedia è la tragedia del costume. Teatro puro. La sera accendo la tv e quando arrivano i talk show, mentre spilucco qualcosa, appena spunta un politico mi chiedo: “C’è una partita? Dov’è un centravanti? Datemi un difensore, o almeno un portiere!”».

Immagino tu senta la mancanza almeno di Francesco Totti, o sbaglio?

«È il capitano, resta il capitano! Ho visto che fa la più brutta pubblicità del mondo. Gesù, quando lo vedo che si impegna nelle pubblicità… ma dico, santiddio, gli ci vuole un designer nel comportamento. Tra l’altro in questo spot pubblicizza un prodotto per lavatrice che è biancoceleste. Ma le vedono queste cose o no? Non sarebbe corretto dirlo perché resta il capitano, però mi scapperebbe: «A Francè è pure biancoceleste quello che butti in lavatrice». Ma è il capitano, qualsiasi cosa dovesse succedere. Anche lui, come tutti i grandi, vive questa attrazione per la disfatta, che si realizza con tali prestazioni. Come quando fa l’attore, con le barzellette. Solo questo gli direi: “A Francè, ma me voi chiamà quanto devi fa stè cose?”. Fatti consigliare. Comunque, è sempre il capitano!»

·        Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Gino Castaldo per LA REPUBBLICA il 14 dicembre 2020. A scorrere le luminose pagine del libro Minaccia bionda viene fuori una evidente verità. La storia di Patty Pravo, di professione cantante, è anche uno straordinario racconto pop di immagini, di mutazioni, di bellezza ribelle e anticonformista.

«È stato un gran casino trovare tutte queste foto», ci racconta la divina Nicoletta, «perché io non ho archiviato niente, neanche i dischi d'oro, d'argento, capirai dopo 120 milioni di dischi dovrei avere una casa solo per i premi, i vestiti, una follia».

Il libro è come un puzzle ricostruito pezzo dopo pezzo?

«È esattamente l'idea, credo sia bello vedere tutti i cambiamenti, anche se a essere onesta non erano neanche voluti, non c'era calcolo, ogni volta succedeva perché in quel momento mi sentivo in quel modo».

Eppure certe immagini, pensiamo alla celebre "mise" di quel Sanremo del 1984 con "Per una bambola", sembrano costruite con molta cura. Non è così?

«Questo sì, poi alle cose ci lavoro molto, ma la prima intuizione è immediata, quella volta avevo ripreso un vecchio pezzo del 1970, l'avevo scartato a suo tempo, poi in America mi venne l'idea, cercavo una stoffa di ferro o qualcosa del genere, incontrai a San Francisco a una cena Maurice Bejart, e lui stava facendo un balletto con i vestiti di Versace, allora presi un aereo e andai a Milano e lui fu carinissimo, l'idea gli piacque e smontò il lavoro che stava facendo, lasciò due signore senza vestito, e si mise a lavorare per me, mi feci da sola anche il ventaglio. Feci anche un Carnevale di Venezia con un abito che oggi è al Victoria and Albert Museum a Londra».

Le foto in Cina del 1994 sono bellissime, che reazione ci fu in un paese così diverso dal nostro?

«Fu un viaggio fantastico e diventò l'ispirazione per l'album Ideogrammi . I cinesi erano felici, era la prima volta che vedevano una bionda così, feci una apparizione in tv e mi videro più di un miliardo di spettatori».

Ci sono anche alcune foto in cui è nuda. Mai provato imbarazzo?

«No, direi no, ho lavorato anche in televisione col seno di fuori, stavo con la giacca aperta e sotto niente, per assurdo anni fa c'era meno censura per queste cose, ma io sono abbastanza androgina, e quindi uno così se lo può permettere».

Androgina sì, ma non sminuiamo la sua femminilità. Non a caso il libro si intitola "Minaccia bionda", sottotitolo "A modo mio, sempre controtempo". Si è mai pentita?

«Mai, è la mia natura, e come ci si può pentire della propria natura?».

Ha pagato un prezzo per questo?

«Non l'ho mai visto come un pagamento, ho spesso rotto contratti perché volevo essere libera e fare le cose a modo mio. E infatti se oggi volessi riunire la mia discografia sarebbe complicatissimo».

Quando ci fu la prima ribellione?

«Ero la ragazza ye ye con la minigonna, a 22 anni ero già famosa, ma volli cambiare e mi trasformai in una vecchia cinquantenne per cantare gli autori che amavo, come Brel che poi è stato mio amico, o Ferré che fu come un fratello».

Nel libro c'è una frase che dice di non ricordare di aver detto: "Gli uomini me li fumo come sigarette".

«Allora scrivevano di tutto su di me, o se la sono inventata o l'ho detta io per prendere in giro qualcuno».

Cinque mariti non sono pochi.

«E che dovevo fare, in fondo è come fossero stati cinque fidanzati, e non è stata una voglia mia, erano loro».

Non voleva sposarsi?

«Sei matto? Certo che no, erano loro, io mi sono sempre auto-mantenuta e casomai ho mantenuto».

Con i fotografi ha avuto un rapporto facile o conflittuale?

«Direi un bel rapporto, sono una figura facile, poi a me piaceva, quindi se ti piace metti tutti in condizione di fotografarti meglio».

Possiamo dire che l'hanno amata molto?

«E lo credo, con questa faccia».

Viene da chiedersi come mai non sia stata scoperta dal cinema. Rifiuto? Occasioni mancate?

«Direi occasioni mancate. Per esempio Antonioni mi chiamò per Professione reporter ma avevo dei tour in tutto il mondo, non potevo cancellarli, lo stesso per De Sica che mi voleva ne Il giardino dei Finzi Contini . Poi quando vidi Professione reporter ci rimasi malissimo, chiamai Michelangelo e gli dissi che aveva ragione, avrei dovuto farlo».

Dovendo scegliere una foto particolarmente rappresentativa?

«Forse quelle di quando ero bambina, anche perché è stata una sorpresa, le ho ritrovate per caso».

In una pagina ci sono gli aggettivi con cui l'hanno definita: barocca, detestabile, unica, odiosa, brava, immensa, elegante, stupenda, aliena e divina. Lei quale sceglie? «Aliena, direi che va benissimo». 

MARINELLA VENEGONI per la Stampa il 15 settembre 2020. Jimi Hendrix e Patty Pravo, si incontrarono al Piper una notte di primavera del 1968 e legarono subito. Nacque un' amicizia che durò fino alla morte del leggendario chitarrista, rivela ora Nicoletta. Con la sua vita spericolata, Patty ha accumulato una quantità di ricordi che inevitabilmente sfumano e si perdono nei particolari ma non nella sostanza: «Ho incontrato Jimi due o tre giorni prima che morisse, a Londra, in un bar sotto l' albergo dove viveva in quel periodo, a Notting Hill: mi disse che era un albergo fatto di appartamenti». Era il Samarkand Hotel: lui stava al ben più elegante Cumberland di Kensington, ma quella era l' abitazione della sua ragazza del momento, Monika Dannemann, che era con lui nelle ultime ora di vita, la notte fra il 17 e il 18 settembre 1970. «Quel pomeriggio - ricorda Patty - si sfogò un po' con me. Si lagnava, anzi. Mi disse che era stufo della musica che faceva, e annoiato di fare il fenomeno: gli chiedevano sempre tutti di dar fuoco alla chitarra, o di suonare la sua Fender con l'asta del microfono o i denti». Come aveva fatto per la prima volta al Festival di Monterey nel 1967, quando la sua popolarità esplose. Patty ricorda benissimo che Hendrix già pensava un nuovo progetto: «Aveva in mente di lavorare con una grande orchestra, e cimentarsi con un' altra musica. Qualche giorno dopo ho saputo che non c' era più». Ma l' aneddoto più divertente riguarda la sera che i due si conobbero. Il 25 maggio la star di Seattle si era esibita al Brancaccio, poi lo avevano accompagnato al Piper che era il locale più alla moda. Sui sofà della zona riservata, spiccava la bellezza splendente di Nicoletta Strambelli; Jimi si sedette accanto a lei e al batterista Alberto Marozzi: «Un grande piperino di sempre - annota Patty - e l' unico fra noi che possedeva una 500, bianca. Jimi dopo un po' chiede di uscire per Roma, e vederne la bellezza. Alberto guida, io sono al suo fianco, dietro Hendrix cercava di trovare una posizione per le sue gambe lunghe». «E via, tutta le notte in giro per mostrargli Roma. Ma ci accorgiamo che è pieno di posti di blocco. Stanno cercando Vallanzasca, ci diranno poi i vigili». Succede che, appena messa in moto l' auto, Jimi accende uno spinello enorme: «Ci sono i finestrini aperti, un po' ci passiamo questo cannone, e intorno all' auto si alza un alone di fumo bianco: ma così denso che alcuni vigili in pattuglia lo notano e ci fermano. Apro la portiera e mi affaccio, chiedo subito: "E' successo qualcosa?". Per fortuna, riconoscono me e non lui, e ci lasciano andare. E noi proseguiamo la nostra gita per Roma: verso le 5 del mattino ci siamo fermati in un bar a mangiare un cornetto. Da allora ci siamo visti alcune altre volte, sempre in qualche bar: ricordo anche un pomeriggio a Parigi, a chiacchierare di musica e sogni».

Lei lo ha mai visto alterato?

«Non è che si facesse così pesantemente, credo. Non ho mai visto nei suoi comportamenti nulla di eclatante, mi è sempre sembrato uno normalissimo. Era una persona dolce, aveva il suo ego normale essendo nel pieno del successo». 

E lei com' era, Patty, nel 1968?

«Anch' io nel pieno del successo. Era il momento della Bambola. Ero bella aggressiva, ero curiosa, con un carattere positivo e molto sorridente per fortuna, grazie a una nonna favolosa. Venivo dal conservatorio ed ero abbastanza stronza. Con la mia conoscenza musicale mettevo tutti a posto, è chiaro fossi piena di me».

C' è stato un flirt, con Hendrix?

«Stavo con Gordon Faggetter, batterista, che purtroppo da tre settimane non c' è più. Ero innamoratissima, eravamo insieme dal '65. E no, non l' ho mollato per Jimi, c' era molta simpatia ma non è successo nulla. Volevo andare a sentirlo nel '70 all' Isola di Wight, ma avevo troppi impegni».

·        Patrizia De Blanck.

Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Record di insulti in diretta tra Patrizia De Blanck e la marchesa Daniela Del Secco d'Aragona al Grande Fratello Vip. Le due nobili fumantine, tra cui non è mai corso buon sangue, sono state riunite da Alfonso Signorini nel giardino della casa di Cinecittà e sono volate contumelie. "Qua dentro tu mi hai solo infamata… Dovresti evitare di utilizzare un certo tipo di linguaggio…Sei una grande buffona…", ha esordito la Del Secco. "Io ti consiglierei di rimanere qua dentro il più possibile perché fuori si è scatenato l’inferno contro di te… Dalla D'Urso parlano della tua falsa nobiltà…", infierisce ancora la marchesa. "Non ti consento di toccare la mia famiglia…!", è la pronta reazione della De Blanck, che la Del Secco colpisce ancora sul vivo: "Il figlio adottivo di Marina Ripa di Meana ha detto che non ti lavi… A Roma vieni chiamata ciavattara… Dovresti cambiare galassia…". Patrizia ha chiuso la tensione con due sole parole: "Vaffanculo stronza". 

Live-Non è la D'Urso, "a chi faceva i massaggi la Marchesa D'Aragona". Prego? La testimonianza lascia basiti. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. Angela Mellilo tira fuori un altro dettaglio sulla vita privata, e segreta, della Marchesa d’Aragona (all’anagrafe Daniela Del Secco). L’ex concorrente del Grande Fratello Vip avrebbe un passato, chiuso sotto chiave, da massaggiatrice ed estetista. Lo rivela a Live-Non è la D'Urso, il programma di Barbara D'Urso su Canale 5, la puntata è quella di domenica 18 ottobre. “Ero amica della Pampanini. La frequentavo e facevi i massaggi alla Pampanini”, racconta la Melillo. Ma la presunta marchesa si difende: “Incontravo la Pampanini al teatro dell’Opera, dove ho un palco di prima categoria”. Ennesimo indizio, dopo quello di Andrea Ripa di Meana che ha avuto uno scontro molto accesso con la d’Aragona. Lei si difende. Ma a cosa serve? I titoli nobiliari non valgono a nulla in Italia. Lo dice la Costituzione. 

DAGOREPORT 18.10.2018: MARCHESA DE CHE? Chi è davvero Daniela del Secco d'Aragona? Dopo le sue fantastiche performance a "Pechino Express", mezza Italia è impazzita per "La Marchesa", che insieme al suo domestico Gregory affronta i perigli del sud-est asiatico davanti alle telecamere di Rai2. Cercando in rete, si trova un sito, marchesadaragona.it dove la stessa Dani si racconta, pubblicando un lungo curriculum che inizia con la sua iscrizione all'Albo dei Giornalisti della Lombardia, e finisce con le sue competenze in campo estetico, passando per un'avventurosa storia familiare. Sotto a una coroncina da marchese, c'è poi un bel tariffario con una "linea dermocosmetica" targata "Aragona", prodotti creati dalle sapienti mani della stessa Dani e venduti a cifre che arrivano alla sommetta di 650 euro. Se invece uno chiede a qualche vera nobildonna romana che conosce a menadito il Libro d'Oro della Nobiltà Italiana, scopre che la simpatica Dani non è affatto una marchesa con "duemila anni di storia familiare, discendente da Settimio Severo" o "della famiglia reale" (come ha detto a un povero albergatore vietnamita per convincerlo a ospitarla gratis). Daniela si chiama sì Del Secco, come risulta anche dall'elenco dell'Ordine dei giornalisti lombardi. Ma il "d'Aragona" se lo è aggiunto lei, sfruttando una somiglianza con una vera famiglia marchionale. Eh già, perché sull'Albo d'Oro si trovano i "Secco d'Aragona", stirpe milanese, ma nessuna Daniela risulta all'appello dell'edizione 2005 (o di quelle precedenti). Eppure, da qualche anno la mitica Marchesa impazza in tutte le feste romane, accompagnata dalla graziosa figlia Ludovica. I nobili romani sanno benissimo che lei si spaccia per aristocratica, ma finora avevano chiuso un occhio, un po' indignati, un po' divertiti. Ora che però la Marchesa si è lanciata in tv come rappresentante (di quel che rimane) della nobiltà italiana, gli aristocratici "quattro quarti" si sono inorriditi, anche perché Dani dà un'immagine, tra sedicenti maggiordomi e millantati autisti, ben lontana dallo stato reale dei baroni d'oggi, quasi tutti poveri in canna. Le frasi come "bisogna cambiare 5 abiti e 5 profumi al giorno", per quanto necessarie a costruire una caricatura televisiva, hanno fatto infuriare i blasonati. Tra le famiglie più infastidite, quelle che hanno ottenuto il cosiddetto "privilegio aragonese" che comprendeva la concessione sovrana di aggiungere il "d'Aragona" al proprio cognome. Proprio infuriati (soprattutto per le telefonate di persone che chiedono conto di parentele) coloro che discendono direttamente dal Re d'Aragona Giacomo I, come certi principi romani vivi, vegeti e senza alcun legame con la mitologica Dani. Ed ecco che qualcuno con buona memoria ricorda una rubrica di televendite "ante litteram" che "La Marchesa" conduceva su un'emittente privata laziale negli anni ‘90 in cui promuoveva le sue creme di bellezza esordendo semplicemente come "Sono Daniela Del Secco...". Negli ultimi anni si è infilata in tutti gli eventi della Capitale, all'inizio senza inviti, poi piano piano è riuscita a diventare (anche grazie alle foto di Cafonal, in cui appare senza sosta) un personaggio più vero di quello che voleva imitare, tanto da finire su "Uno Mattina" (via Franco Di Mare) e su varie riviste di gossip a fare da consulente di bon ton. Ha una pagina Facebook molto seguita, dove pubblica autoscatti, ritagli di giornale, fermo immagine da Rai1, inviti ad ambasciate (tra cui quella di Francia per la festa della Bastiglia: anche il buon ambasciatore Le Roy la chiama "Marchesa Dani del Secco d'Aragona"). Ha fatto amicizia con vari stilisti della Capitale, da cui si fa vestire gratis in cambio della promozione derivante dal suo apparire su siti e giornali. Addirittura, durante un ballo dedicato a Giuseppe Verdi a Palazzo Brancaccio, ha appeso sul suo vestito da sera delle miniature di croci di guerra della Seconda Guerra Mondiale, di quelle che i decorati indossano sullo smoking, una croce per i 25 anni di presenza nell'Esercito Italiano (cosa che le valse il soprannome "la marescialla" da alcuni ufficiali presenti) e una Gran Croce da Cavaliere (non da dama) dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Non solo si trattava di croci da uomo (che potevano essere appartenute a un avo o un marito), ma era anche un mix di miniature e croci di dimensioni standard, un pot-pourri che neanche gli uomini realmente decorati appendono al loro smoking. Insomma, una giornalista/estetista/pr di se stessa che dalle televendite e dai quotidiani di provincia si è trasformata in una "Marchesa" talmente sciroccata e sopra le righe da diventare più vera della fiction. Gli autori di "Pechino Express" l'hanno capito, e l'hanno trasformata nel personaggio stracult di questa stagione televisiva.

Aldo Grasso per "Il Corriere della Sera" il 18.10.2018. Non c'è che dire: il reality «Pechino Express» ha un suo perché. Sedici concorrenti, suddivisi in otto coppie, devono raggiungere Bangkok partendo da Hanoi, nel Vietnam (Rai2, lunedì e martedì, ore 21.05). Il format è semplice: per il lungo viaggio, ogni coppia ha a disposizione un budget di due euro al giorno. Gran parte del viaggio si svolge grazie a passaggi in autostop (ottenuti attraverso la lingua dei gesti), affidandosi allo spirito di ospitalità della popolazione locale per trovare un riparo per la notte e qualcosa da mangiare. Vince ogni tappa la coppia che arriva per prima al punto d'incontro stabilito, mentre gli ultimi sono a rischio eliminazione. L'edizione di quest'anno è condotta da un ex concorrente, Costantino della Gherardesca (molto meglio del principe Emanuele Filiberto). In cosa consiste l'interesse? Il gioco è scoperto: nella difficoltà, vengono fuori i caratteri delle persone. Non sanno remare e si arrabbiano. Non sanno pescare e si prendono a male parole. Non sanno adattarsi alle difficoltà del viaggio e si accapigliano tra di loro. Per esempio, il divertimento più grande lo sta procurando Corinne Cléry, in coppia con il suo fidanzatino Angelo Costabile (si può dire toy boy?). Corinne non è per nulla materna: maltratta il povero Angelo, lo prende a schiaffoni, lo comanda a bacchetta. Da seguire anche la coppia composta dalla marchesa Daniela Del Secco d'Aragona e dal suo maggiordomo Gregory (quando la marchesa viene derubata, Costantino la consola così: «Marchesa, a volte il popolo si rivolta!»). Le altre coppie sono composte da Massimo Ciavarro e dal figlio Paolo, da Massimiliano Rosolino e Alessandra Sensini, da Niccolò Centioni e Micol Olivieri e da altri gareggianti meno noti. I posti sono meravigliosi (Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia) e verranno percorsi in dieci puntate.

Goffredo Cazziatoni da Castel del Monte per Dagospia il 18 ottobre 2020. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, figuriamoci i blasoni! Ecco così, come per magia, il vero “albero genealogico” della nostra adorata Daniela Del Secco, che continua ad inveire e insultare nei salotti tv chiunque osi mettere in dubbio il suo inventato titolo nobiliare che le ha permesso di sbarcare in televisione. Vediamo se riesce ad insultare e smentire anche il signor Aldo Leonini, riservato ed elegante novantenne, ascianese di nascita, che sulla rivista locale “Cultura Contadina in Toscana”, giustamente fiero delle proprie origini, si impegna a raccontare da anni in qualità di memoria storica il proprio vissuto e le proprie conoscenze affinché non se ne perda la testimonianza. Leonini peraltro è cugino in primo grado di Primo Del Secco, padre della Daniela Del Secco, “Marchesa D’Aragona per identificazione personale”. Ecco alcuni stralci  del Leonini relativi all’ascendenza della signora Daniela Del Secco: “Nel percorrere tale via mi è tornato alla mente che mio zio Brandisio Del Secco (nonno della “Marchesa” ndr.), grande lavoratore ascianese, la percorse per tanti anni poiché operaio agricolo (bracciante ndr.) a quella fattoria. Faceva una vita alquanto sacrificata perché partiva da Asciano il lunedì mattina presto con qualsiasi condizione atmosferica per essere presente sul lavoro alle otto e tornava a casa il sabato sera molto tardi. La domenica anziché riposarsi si recava nelle crete di Montepollini a zappare la terra per seminare un po’ di grano. Era molto attaccato alla famiglia composta da mia zia Gesuina (Gesuina Rossi ndr.), sorella di mia madre, e tre figli, Fiammetta, Primo e Ilva, che purtroppo non sono più tra noi. La paga che riceveva ovviamente non permetteva grandi agi e per questo cercava di procurarsi almeno il grano per l’intera annata”. “Non posso non ricordare quella casa che dava sulle fonti lavatoie. Già, al primo piano abitava la famiglia Pianigiani (Migliaccino) e al secondo la famiglia Del Secco, i miei zii ed i miei cugini. Primo si trasferì a Roma quale impiegato in un’azienda di trasporti, Fiammetta sposò Attilio Amidei, calzolaio, e Ilva fu moglie di Angiolino Equatori, barbiere. Non posso non ricordare il sacrificio di mio zio che lavorò una intera vita come operaio agricolo nella fattoria di Medane. Partiva con la bicicletta il lunedì mattina presto e tornava il sabato sera piuttosto tardi”. “Ricordo quando mia madre ci diceva di rivolgerci alla nostra zia Gesuina, (era sua sorella moglie di Brandisio Del Secco e madre di Fiammetta, Primo e Natalina miei carissimi cugini) che abitava in paese, per sentire quando era disposta a darle una mano per fare il bucato. Alla fonte di Casa Panie o della Fontasciano in occasione del bucato dovevano essere in due per torcere lenzuola e tovaglie dopo averle a lungo lavate”. “Dico ciò con orgoglio perché conoscevo la volontà di mio zio come conoscevo quella dei suoi tre figli, ovvero Fiammetta, Primo e Ilva, miei carissimi cugini”. Brandisio suonava l’organetto ed era famoso in paese per la sua polka e suo figlio Primo il sax. Tutto questo, ed altro ancora, è verificabile sulla pagina pubblica di Facebook “Asciano la Voce del Garbo” dove non mancano anche sfottò di Renata Amidei e Giacomo Equatori, cugini di Daniela Del Secco, relativi alle millantate dichiarazioni relative alle origini della loro famiglia, che non solo non sono nobili, ma neppure borghesi, semmai proletarie. Alla luce di quanto sopra ci sembra quindi più intellettualmente corretto dire, come ironicamente affermato in ambito privato da veri nobili romani e non solo, che la signora Daniela Del Secco, “Marchesa D’Aragona per identificazione personale” (onesto escamotage, legale nella Repubblica Italiana per usare qualcosa che sembra un titolo nobiliare ma che però non è” – Pier Felice degli Uberti ndr.), sia “Marchesa D’Aragona per insensata panzana”. Non sarà per caso che l’arguto espediente dell’identificazione personale sia propedeutico anche alla difesa del suo ideatore (dott. Pier Felice degli Uberti, nato Pier Felice Ubertis ndr. , in passato accusato di non essere un vero nobile ? (A tal proposito si veda Storie Italiane – Rai Uno – 5/12/2018 – “Sedicente principe del Montenegro: Io vittima di un complotto”). Chissà cosa ne pensa di tutta questa storia la simpatica sorella pentastellata Paola Del Secco molto attiva sui social, che risulterebbe vivere a Fiumicino...Ricapitolando “l’albero genealogico” della “Marchesa”: la famiglia Del Secco era di Asciano, di umilissima estrazione contadina. Il nonno di Daniela era Brandisio Del Secco, bracciante e fisarmonicista amatoriale che sposò Gesuina Rossi, donna di casa e lavandaia, entrambi di Asciano. Dal loro matrimonio nacque il padre della “Marchesa” Primo del Secco, che si trasferì prima a Siena poi a Roma per lavorare in un’azienda di trasporti. Primo avrebbe sposato Elena Proietti, nata a Subiaco nel 1915: dal loro matrimonio nascono Paola, Carla e la “marchesa” Daniela Del Secco.

Dagospia il 28 settembre 2020. Dal profilo Instagram di Giada de Blanck: In molti mi hanno chiesto perché in questi giorni non mi sono espressa su mia madre. Se sono stata in silenzio è solo perché questo GF Vip è il suo percorso e non il mio. Io ho deciso di fare un altro percorso, in cui la tv non è indispensabile. Non sono certo quella persona che si approfitta della situazione per fare la prezzemolina. Non l’ho mai fatto prima e non lo farò certamente adesso. Tuttavia mi rincresce dover rompere questo silenzio per prendere le distanze da tutta la montagna di invenzioni e infamie che in questi giorni sono state tirate fuori sulla mia famiglia. Non ho intenzione di partecipare a programmi televisivi per azzuffarmi con chi, a differenza mia, si approfitta della popolarità che mia madre sta avendo al Grande Fratello Vip evidentemente per scopi diversi da quelli che invece racconta. Mia madre avrà modo di smentire tutte queste notizie false e infamanti sui suoi genitori, i miei nonni e sui titoli nobiliari, che alcuni soggetti continuano a mettere in discussione gettando fango sulla mia famiglia. Sarà facoltà di mia mamma, la contessa Patrizia de Blanck y Menocal, una volta uscita dalla trasmissione, decidere se e come tutelarsi anche nelle sedi opportune. Io ho intrapreso un mio percorso, con un legale di fiducia che mi segue, a tutela della mia famiglia, una famiglia storica internazionale, e mi dissocio totalmente sia da chi va in tv a sparlare su di noi con un sacco di informazioni false, sia dai programmi che continuano a dar loro spazio. Sono serena perché a breve tutto sarà chiarito e chi sta sbagliando in maniera vergognosa dovrà chiederci scusa e assumersene la responsabilità. A volte basterebbe studiare un po’ di più e parlare di meno a vanvera. Giada Drommi de Blanck

Da liberoquotidiano.it il 26 settembre 2020. “Ma ormai sono diventati tutti froci”. La battuta a bassa voce di Patrizia De Blanck non è sfuggita agli attenti osservatori del live del Grande Fratello Vip, seguito più che mai per questa quinta edizione che è partita decisamente con il botto. Nell’ultima puntata c’è stato il coming out di Gabriel Garko, che ha deciso finalmente di svelare il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito. La sua scelta di uscire allo scoperto proprio dalla casa del reality di Canale 5 non è casuale, dato che negli scorsi giorni era scoppiato il cosiddetto Ares Gate che lo riguardava da vicino, dato che a parlarne sono stati Adua Del Vesco (sua ex accreditata) e Massimiliano Morra, due con i quali condivideva un’agenzia collegata ad una casa di produzione nominata (non esplicitamente) al GF Vip. Ma torniamo alla De Blanck, che stavolta l'ha fatta fuori dal vaso: si è lasciata sfuggire una battuta di dubbio gusto, anche se forse il suo intento era quello di sdrammatizzare, dato che il momento con Garko e Adua è stato particolarmente toccante un po' per tutto.

Giovanni Ciacci per “Oggi” il 26 settembre 2020. La contessa Patrizia De Blanck era giovanissima quando si ritrovo coinvolta nel caso Bebawi, definito dalla stampa «l’omicidio della Dolce Vita»: a essere ucciso fu il suo fidanzato di allora, mentre la contessina era a un ballo della nobiltà romana. Ripercorriamo con lei quegli anni cosi turbolenti, magici, tra amori, notti in via Veneto e jet set internazionale.

Raccontami il caso Bebawi.

«Era il 1964, ero fidanzata con Farouk Chourbagi, industriale egiziano del ramo tessile e gran viveur. Lui fu trovato morto una mattina dalla segretaria nel suo ufficio laterale a via Veneto, ucciso con quattro colpi di pistola e con il viso sfigurato con l’acido. Quell’acido era destinato a me. A ucciderlo fu una sua amante egiziana (Claire Bebawi, ndr) con la complicità del marito. Farouk l’aveva lasciata per me. Uno scandalo che fini su tutte le prime pagine dei giornali. Io la sera dell’uccisione ero a un ballo, lui doveva raggiungermi. Non arrivo mai. Giorni e giorni di processo, che si concluse in primo grado con l’assoluzione per mancanza di prove. Quando, anni dopo, la coppia fu condannata, era già fuggita all’estero: non hanno fatto mai un giorno di carcere per quel feroce omicidio. Farouk era molto geloso e mi voleva sposare, ma non potevo farlo perchè ero in attesa dell’annullamento della Sacra Rota del matrimonio con il mio primo marito. Non ho mai sospettato che Farouk avesse un’amante, ero troppo giovane e forse troppo presa dalla mia voglia di vivere. Lei lo ha ucciso proprio perche lui mi voleva sposare, ne sono convinta ancora oggi».

Una vicenda degna di Storie maledette di Franca Leosini.

«E non solo ho vissuto questo omicidio, ma mi sono trovata coinvolta anche nell’omicidio dei marchesi Casati Stampa, tramite il padre di mia figlia Giada, che era stato il primo marito di lei, ma questa e un’altra epoca e un’altra storia».

Patrizia, si ricorda il famoso spogliarello di Trastevere che diede il via alla Dolce Vita?

«Ma quello spogliarello fu una cavolata visto con gli occhi di oggi! Io non ero presente, c’era il padre di Giada: lui fu uno di quelli che si tolse la giacca e la mise sul pavimento di marmo per far proseguire lo spogliarello».

Cos’e stata per lei la Dolce Vita?

«Io l’ho vissuta non solo a Roma, ma anche a Montecarlo, in Costa Azzurra, in Inghilterra. Per il popolo e finita a meta Anni 60, ma per noi nobili e andata avanti per altri dieci anni».

Frequentava via Veneto ?

«Si, all’epoca avevo una love story con Alberto Sordi. Facevo Il Musichiere in tv con Mario Riva, ma per poco, perchè quando mio padre venne a scoprirlo da Cuba, mi fece smettere subito e mi fece sposare con il conte inglese Anthony Leigh Milner, che poi trovai a letto con il suo migliore amico. Frequentavo via Veneto, stavamo tutti li».

Anche i locali notturni in zona?

«Certo, me li facevo tutti. Si chiamavano “i sepolcri”, perchè minimo ne dovevi fare sette per notte, come le chiese il giovedì Santo. Cena alla taverna Flavia, poi iniziavi al Club 84 e proseguivi tutta la notte ballando in tutti i locali, perchè, diciamo la verità, c’era tanto alcol e scorrevano fiumi di cocaina. Nei locali di nascosto, ma nei palazzi e nelle case ho visto vassoi ricolmi di polvere bianca, dalla quale io mi tenevo bene alla larga».

Passiamo agli abiti: tu li facevi fare dai grandi sarti dell’epoca?

«Certo, non uscivi di casa se non avevi uno Schuberth, un Fontana o un Biki. L’abito era solo su misura, da grandi sarti, mica avevo la sartina o la porti- naia che mi cuciva la stoffa comprata alla bancarella. E non sai che conti arrivavano a fine mese a mio padre, cifre da capogiro! Poi c’erano le attrici che se li facevano prestare, ma noi ragazze nobili mai e poi mai potevamo mettere un vestito già indossato».

Prima di arrivare ai tuoi amori, raccontami quelli di tua mamma.

«Mia madre si eccitava solo con il potere. Ha avuto solo uomini potentissimi. Ricordo bene quando la trovai nella serra delle rose in Costa Azzurra mentre si baciava con Winston Churchill. Ha avuto anche Tazio Nuvolari».

Hai detto che hai vissuto a pieno quel periodo perchè eri amica di tutti. Chi erano quei tutti ?

«I nomi più importanti dell’epoca. Frequentavano casa nostra da Onassis alla Callas, Grace Kelly e il principe Ranieri e poi tutti gli attori italiani e americani che davano quel tocco di esotico alla Dolce Vita».

A proposito di attori, voglio sapere della tua storia con Sordi.

«Con Sordi e durata tutta la vita, non e mai finita, ci siamo sentiti sempre. Ci siamo conosciuti a villa De Laurentiis in Costa Azzurra, ma la nostra storia e nata a Londra. Sotto le lenzuola non era un grande amatore, ma era un uomo divertente. E poi io ero un’infedele seriale. Ho sempre avuto due o tre storie, un uomo solo e una noia mortale».

E con Warren Beatty come nacque la passione?

«Ero a Londra con Alberto Sordi e Shirley MacLaine faceva una festa. Ci siamo andati e li ho conosciuto suo fratello Warren. Inizio una love story con lui e Alberto con la sorella Shirley. La nostra prima notte la ricordo ancora: disse che avevo il più bel corpo che avesse mai visto. Era un grande amatore, molto focoso, anche troppo, a me dopo un po’ viene a noia e a lui non bastava mai... Dotatissimo, non solo come attore».

Franco Califano fu un altro...

«Quanto era bello, era bello e dannato, un uomo molto generoso. Mi ha sedotto suonando la chitarra su una barca sul lago di Bracciano. Io che ero stata sedotta, e non abbandonata, da Yves Montand sullo yacht Christina di Onassis, sono caduta come una pera per Califano su una barca a remi. Ho avuto anche una relazione col figlio di Onassis, povero, che brutta fine (mori in un incidente aereo a soli 24 anni, ndr). Non sono stata molto fortunata con gli amanti, neanche con Raul Gardini».

Che c’entra Raul Gardini?

«Aveva comprato Ca’ Dario a Venezia per farmi una sorpresa. Era della mia famiglia, ma io gli dissi che era un palazzo maledetto: una mia antenata aveva lanciato una maledizione contro tutti quelli che lo avrebbero abitato. Che uomo straordinario e che bellezza era Raul... Per me non si e suicidato, lo hanno costretto. L’ho sempre pensato».

Sei stata amata anche da Mohamed Al-Fayed?

«Quel tirchiaccio, mi ha regalato una collana di bigiotteria! Ma ti pare che uno che possiede Harrods, con tutti quei milioni di sterline, mi regala per il mio compleanno una collana con i cuori di bigiotteria? Gliel’ho tirata dietro e non ci siamo mai più visti».

Hai avuto anche reali come corteggiatori?

«Si, Alfonso di Borbone, erede al trono di Spagna e un altro, ma non posso dirtelo: sono amica di sua moglie».

Torniamo alla Dolce Vita, com’era una tua giornata tipo?

«Io ero chiamata la contessa Dracula. Dormivo fino alle 14. Le scuole le avevo superate perche ho fatto due anni in uno. Uscivo di casa verso le 17, stavo tutta la notte in giro e tornavo all’alba».

Chi era allora la regina di via Veneto?

«Io naturalmente, le altre neanche le vedevo. Io ero la regina e il principe Carlo Giovanelli era il re. C’erano gli attori, ma quelli erano una cosa a par- te: non frequentavano i grandi balli nei palazzi nobiliari romani. Io ero presente quando Paola Ruffo di Calabria conobbe il principe Alberto del Belgio a palazzo Pallavicini. E la notte in cui successe il famoso omicidio della Dolce Vita ero proprio a un ballo insieme al marchese di Villaverde in un gran palazzo romano. Sono l’ultima testimone di un’epoca e di un mondo che non esiste più. Quelli che ne facevano parte erano tutti più grandi di me e purtroppo non possono più raccontarlo».

Da liberoquotidiano.it il 18 settembre 2020. La durissima vita dei reality italiani: Patrizia De Blanck, una che nella vita non si è mai fatta mancare niente, ha dovuto mangiare carne di topo. La rivelazione della contessa ha sconcertato i coinquilini della casa del Grande Fratello Vip. Durante, Massimiliano Morra ha rivelato di avere una passione per il Casu Frazigu, il "formaggio con i vermi" sardo. Una prelibatezza per stomaci forti che fa un baffo a quanto ingerito qualche anno fa dalla De Blanck. Nella sua carriera televisiva c'è anche l'Isola dei famosi, e quando la fame chiama ci si scorda anche delle nobili origini. "Il formaggio con i vermi mi fa schifo, non lo mangerei mai. Mangiatevelo voi - ha commentato con la solita pacatezza la contessa -. Però ho assaggiato il topo, la carne di sorcio. Ero all’Isola dei Famosi e dopo una prova ho mangiato un topo. Perché? Oh, quando c’hai fame! Mia figlia ha mangiato il serpente, però alla fine quello va bene è come un’anguilla, non fa così schifo. Poi nella mia vita ho assaggiato anche la rana, ma quella è buonissima. Il topo aveva anche la coda, era proprio un topo intero capite?".

Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 18 settembre 2020. C’è un motivo per seguire la diretta del Grande Fratello Vip e risponde al nome di Patrizia De Blanck. La contessa è un fiume in piena (anche quando dorme!), nelle dinamiche della Casa e nei racconti della sua nobile vita. L’ultima perla riguarda il pregiato giardino allestito sul balcone: una foresta di marijuana (a sua insaputa!). Patrizia racconta ai ‘vipponi’ la vicenda del “mio amico della Columbia“, quando le regalò un ’souvenir’ da lei molto gradito: “Ti ho portato dei semi di una pianta meravigliosa che fa dei fiori stupendi”, le disse. La De Blanck racconta così la storia tutta da ridere del suo giardino: “Io pianto i semi in terrazza e vedevo ’ste piante, cominciano a crescere (…) Una specie di foresta, delle piante meravigliose. Dico: quand’è che farà ’sti fiori? Le foglie sempre più lunghe, la foresta sempre più fitta“. Mentre gli altri se la ridono divertiti, la storia continua con la figura di Domenico, il giardiniere della contessa, che due volte all’anno arriva a sistemare piante e fiori: “Viene il giardiniere a casa, arriva sul terrazzo, vede la foresta (…) Io dico: ha visto che belle queste piante Domenico? Poi pensi, queste faranno dei fiori meravigliosi! Mentre io parlavo lui mi guardava sempre più così, poi a un certo punto fa: contessa, ma lei sa che cosa sono queste piante? Questa è marijuana“. La De Blanck, ignara di aver coltivato illegalmente, spiega che – dalla rabbia – ha iniziato a togliere con le sue mani ogni foglia di "erba": “Mi sono così incazzata che ho cominciato a strapparle dalla terra (…) Io pensavo che fossero piante tropicali che facevano dei fiori meravigliosi“. L’amico della Columbia, comunque, esiste ancora: “Lui adesso vive in Olanda“. E’ il giusto finale!

Siamo tutti un po' la de Blanck con il suo politically (s)correct. Irriverente, godereccia e popolare: Patrizia de Blanck al Grande Fratello Vip è il nostro personaggio della settimana. Francesca Galici, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. Nome altisonante, portamento regale, grande cultura e un vaffanculo sempre in canna, la Nobil Donna Contessa Patrizia de Blanck y Menocal, Lady Milne per matrimonio, è quanto di più lontano ci possa essere dall'idea della socialite snob. Non è una di quelle che beve il tè nei salotti alto borghesi di Roma col mignolo sempre alzato, come impone l'etichetta, e lo sta dimostrando al Grande Fratello Vip. Ma perché Patrizia de Blanck è diventata famosa? Questo non è chiaro, però frequenta la tv da molti anni, da quando ancora imperversava Il Musichiere. Da valletta muta a Lady Vaffa, la de Blanck in pochi giorni dentro la Casa ha sdoganato qualunque stereotipo. Fortunatamente gli autori hanno pensato a lei per questa quinta edizione del reality vip di Cinecittà, che tra una parolaccia e un'altra anima le giornate dei suoi cortigiani. In tanti accorrono a lei ogni qualvolta racconta qualche aneddoto della sua movimentata vita, tra un nudo integrale e un (non troppo) cordiale invito ad andare a quel paese. Sì, perché Patrizia de Blanck si è (anche) spogliata in diretta televisiva, a suo dire inconsapevole di essere ripresa. D'altronde, al Grande Fratello da 20 anni le telecamere mica sono posizionate in ogni angolo della Casa. Ma tant'è, la contessa se ne infischia e quando durante la diretta del venerdì sera scopre che le sue beltà sono diventate virali sul web, prima si arrabbia poi ci ride su e va avanti, incurante e leggera con i suoi quasi 80 anni portati alla grande. È entrata nella Casa e ha detto il primo vaffa ancor prima di finire i saluti di rito con i concorrenti che già erano dentro. Senza troppi cerimoniali ha riservato lo stesso trattamento anche agli autori e alla produzione. C'è passata anche Flavia Vento, che ha lasciato il Grande Fratello dopo appena 24 ore per tornare dai suoi cani, di cui sentiva la mancanza. La contessa ha pensato al bene degli animali e ha cercato di convincerla a restare nella Casa - inutilmente - tanto da regalare un secondo round esilarante durante la diretta. Lady Vaffa ne ha per tutti, anche per Alba Parietti, madre di Francesco Oppini, alla quale ha riservato un sonoro “stronza” e per Maria Teresa Ruta, concorrente insieme alla figlia, apostrofata come “rompicoglioni”. Qualcuno la rimprovera di dire troppe parolacce? Lei ce li manda, senza troppi complimenti. I racconti della socialite de borgata sono lo spaccato di un'Italia caciarona e godereccia che non c'è più, dell'aristocrazia romana che lontana dai flash e dai riflettori si esprime in tutta la sua popolana attitudine. I ragazzi si fanno il bagno? Lei li invita a spogliarsi del tutto per migliorare la loro igiene personale perché “tanto di uccelli ne ho già visti tanti”. Si propone di spalmare la crema ai ragazzi, perché a lei “i culi non fanno più effetto” e via così, senza imbarazzi e finti moralismi, come quando, tra le risate, afferma di essere “di bocca buona”. In questo contesto, si inserisce il racconto delle piante “che sembravano una foresta”, sul terrazzo del suo palazzetto nel cuore di Roma. Le arrivarono in dono da un suo amico, che glieli presentò come semi di una pianta con dei fiori bellissimi. Solo pochi mesi dopo, quando ormai il terrazzo era diventato la succursale di una coltivazione intensiva colombiana, la de Blanck grazie al giardiniere scoprì che si trattava di marijuana. Un racconto esilarante che ha catalizzato l'attenzione dei cortigiani di Lady Vaffa, completamente immune all'etichetta e alle convenzioni sociali, portabandiera di quel politically scorrect che l'Italia sta perdendo. Perché la contessa è il nostro personaggio della settimana? Perché è libera e se deve mandare a quel paese chicchessìa lo fa, senza pensarci troppo, con quell'adorabile modo di fare romano, che pare prenda la rincorsa per poi esplodere con un “ma vattenaffaculo” che arriva dar core. E chi se ne frega se dice tante parolacce e se i moralisti storcono il naso. Patrizia de Blanck è così e non è certo stata invitata al Grande Fratello per insegnare il bon-ton, che sicuramente conosce molto meglio di tanti tromboni. Non piace a tutti? Pazienza, noi ci uniamo all'appello dei social: salvate Lady Vaffa!

Da leggo.it il 21 settembre 2020. A svelarlo il giornalista di “Oggi” Giangavino Sulas, che ha trovato i documenti sul caso nell’archivio del settimanale. E’ stata infatti la stessa Patrizia De Blanck a raccontare alla rivista la sua storia in un’intervista e a svelare di essere la nipote del Duce. Il papà di Patrizia sarebbe in realtà il gerarca fascista Asvero Gravelli, figlio segreto di Benito Mussolini: lei invece è stata cresciuta dal conte Guillermo de Blanck y Menocal, che ha sposato la madre Lloyd e riconosciuto lei e il fratello Dario come figli legittimi. Sembra poi, secondo le parole di Sulas e di molti altri ospiti presenti, che tra l’altro la gieffina in salsa vip non sarebbe neanche contessa: ci sono dei dubbi sul titolo nobiliare del papà adottivo e il nome non è presente nel Libro d'oro della nobiltà italiana.

Da leggo.it il 21 settembre 2020. Personaggi noti sotto i riflettori. Anche della critica. Domenica Live si apre parlando del Grande Fratello Vip e, in particolare, di Patrizia De Blanck: “Verace o troppo volgare?”, è il  primo quesito posto in studio. «Penso che potrebbe risultare carismatica e divertente anche senza dire tante parolacce - dice Karina Cascella - Non credo che essere vera significhi dire tutte queste parolacce. È contessa non so di cosa, a questo punto». Andrea Ripa di Meana, che si dichiara amico di Patrizia De Blanck, sposta subito l’attenzione dei presenti su un altro tema, rivelando un segreto che definisce choc. «Ho visto che quest’anno al Grande Fratello Vip - commenta Ripa di Meana - hanno messo una grande lavatrice, evidentemente qualche autrice che conosce bene la Contessa sa che non si lava. Un giorno la butteranno dentro per farle fare una centrifuga». Barbara D’Urso, curiosa, indaga: «Patrizia si lava poco - ribadisce Ripa di Meana - a Roma lo sanno tutti». La conferma arriva da Serena Grandi: «Ho fatto con lei un reality per tre mesi. Diciamo che Patrizia non è incline a fare la doccia tutti i giorni. A Roma lo sanno tutti». Di opinionista in opinionista, sembrano tutti “promuovere” la simpatia di Patrizia, alcuni ne sottolineano la generosità, eppure il tema della doccia rimane portante. «Non ha problemi con il distanziamento sociale», ironizza Marco Baldini, seguendo le battute su Patrizia De Blanck. Karina Cascella commenta: «Sicuramente, è simpatica. Le persone schiette non hanno bisogno di essere così cafone, perché lei è proprio cafona. Manda un messaggio sbagliato a chi guarda il GFVip a casa con i figli, che si ritrova a far loro ascoltare una serie di parolacce senza che siano segnalate». Il dibattito sul GFVip e sui momenti più salienti prosegue parlando di Fausto Leali e delle sue parole su Mussolini. Il giudizio unanime è di condanna. Si passa poi ad Alba Parietti, intervenuta in collegamento, mentre al reality sta partecipando il figlio. «Penso che a volte dovrebbe fare la madre e non sempre Alba Parietti - è la posizione di Franco Oppini - il figlio ha quasi quarant’anni ormai». Intanto Barbara D’Urso annuncia gli ospiti della sua trasmissione serale. Si continuerà a parlare di Patrizia De Blanck - «Ci sarà una rivelazione choc», assicura la conduttrice - e sarà in studio Alba Parietti. Karina Cascella chiede «Più spazio per i giovani». A chiudere il "capitolo" De Blanck è l'ingresso di Cristiano Malgioglio che la contessa ha detto di aver sognato. «Era tutta sudata dopo quel sogno - afferma Malgioglio, ridendo - Per la doccia, ci penso io: entro nella casa e gliela faccio».

La rivelazione sulla contessa De Blanck: "È la nipote di Mussolini". La contessa De Blank continua a far parlare di sé. L'ultima rivelazione choc non la vorrebbe nobile come ha sempre detto, ma nipote di Mussolini. Roberta Damiata, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. Impossibile non parlare in questo momento della contessa Patrizia De Blanck, concorrente del Grande Fratello che con le sue uscite colorite e il suo modo di parlare irriverente è la preferita del pubblico. Ma ora con la busta “choc gold” ci sono delle rivelazioni che la riguardano e che di sicuro faranno molto parlare. A Live infatti ci sono dei documenti che ipotizzano che la contessa non avrebbe veramente questo titolo nobiliare. Giovanni Ciacci, tra gli opinionisti, racconta che queste voci girano da un po’ come quelle che lei non sarebbe figlia di De Blank, perché la mamma avrebbe avuto la relazione con un gerarca fascista che sarebbe il figlio naturale di Mussolini. L’unico titolo vero della De Blanck è quello di Lady avendo sposato un baronetto inglese. Ma la marchesa d’Aragona non è d’accordo neanche su questo, perché racconta che un esperto ha certificato che l’ex marito della “contessa” De Blanck non sarebbe neanche baronetto. Si parla poi del linguaggio che la De Blanck sta usando e che la marchesa considera “insopportabile”. “Quello che è insopportabile è questo suo monologo” le ribatte Igor Righetti scrittore e nipote di Alberto Sordi. E’ senza freni la Marchesa D’Aragona tanto che quando viene messo in dubbio il suo lavoro si alza in piedi avvicinandosi a Righetti tanto da far ricordare la scena che l’ha portata ad aggredire Maria Monsè. Sarà forse perché nella casa del Grande Fratello Vip la Contessa De Blanck ha parlato spesso di lei raccontando che in realtà lei non era amica ma la massaggiatrice di Marina Ripa di Meana e vendeva creme. Questo ovviamente non toglie il fatto che almeno nel modo di parlare è molto “contessa del popolo” e in un divertente filmato si contano almeno 42 parolacce in 24 ore. “Quanto può andare avanti tutto questo? Potrebbero far uscire anche altre cose che ha da dire”, dice Patrizia Groppelli intervenendo. Interviene poi l’ultimo compagno di Patrizia De Blanck, Andrea Scala, a cui vengono mostrate le immagine della contessa che per cambiarsi d’abito rimane completamente nuda e in diretta non solo sul canale che trasmette le immagini del Gf 24 ore su 24, ma anche su Pomeriggio 5 perché in quel momento era in collegamento. “Questa donna ha voluto farsi riprendere perché lo sa che nella Casa c’erano le telecamere poteva andare in bagno” dice Patrizia Groppelli, ed è sempre lei che ricorda ad Andrea che la contessa ha avuto anche una relazione con il prete non sapendo che lo fosse. Un po’ confuso, Scalea difende la sua ex dicendo: “Io andavo alle mostre con la contessa e accennavo a mettermi in coda, veniva puntualmente il custode della mostra che ci prendeva e ci faceva entrare. La nobiltà non è qualcosa che si può affibbiare ma è qualcosa che viene riconosciuta”. Ed è proprio questo il punto che viene poi raccontato bene dal primo ospite il giornalista del settimanale Oggi Giangavino Sulas che porta documenti davvero esclusivi. Facendo una ricerca d’archivio insieme al direttore del giornale, Umberto Brindani hanno scoperto un articolo del 2005 uscito in due puntata in cui lei stessa racconta di non essere figlia di Di Blanck ma di essere stata adottata. “Lo ha detto lei - racconta il giornalista - e lo ha messo per iscritto che è figlia di Alvaro Garavelli gerarca fascista vicinissimo al Duce, perché figlio di una donna bellissima che il duce avrebbe sedotto. Quindi sarebbe la nipote del Duce. A Roma sapevano tutti di chi era figlia. Poi è stata adottato da Guglielmo De Blanck che ha sposato sua madre”. Attimi di stupore tra tutti i presenti. Il giornalista continua poi: “Lei dice testualmente alla giornalista: io sono Nipote di Mussolini, e la cosa è stata provata tanto che all’epoca il primo giornale a riprendere la notizia appena uscita, fu il Corriere della Sera”. A sorpresa anche Adrea Scalea, dice che la storia è vera: “Però, quando ero a casa di Patrizia tra le carte, ho trovato l’invito all’incoronazione della Regina Elisabetta dove andarono il Conte De Blanck, questo per dire che il padre era nobile anche se lei non ha mai negato di essere stata adottata”. Su questo punto però non sono tutti d’accordo, e viene mostrato un filmato dove si chiedono lumi ad uno dei massimi esperti di araldica Pier Felice degli Uberti. “Ho fatto delle ricerche - dice - e tra le famiglie nobili italiane non esiste nessuna De Blank. La contessa dice di essere nobile da entrambe le parti ma dagli elenchi non esiste nessuna famiglia Dario come titolo nobiliare e neanche nessuna famiglia Drommi (cognome del primo marito di Patrizia De Blanck e padre di sua figlia Giada, ndr ) non risulta nel libro d’oro della nobiltà. Ma forse la soluzione è più semplice di quanto si pensi, perché in realtà la nobiltà da cui discende la contessa non è italiana, ma spagnola, ed è forse proprio tra quella che andrebbe ricercata. Insomma la notizia è veramente choc e si attendono lumi dalla contessa stessa che per il momento però è impegnata nella casa del Grande Fratello, a rendere davvero molto divertente questa edizione, che a soli pochi giorni dall'inizio l'ha già incoronata come vincitrice.

Lorenza Sebastiani per il Giornale il 25 agosto 2020. «Sono la Contessa del popolo, posso mangiare un panino con la mortadella o sedermi a un tavolo di Gran Gala. Per questo la gente mi vuole bene». La Contessa Patrizia De Blanck è sempre più vicina alla Casa del Grande Fratello Vip, in partenza il 15 settembre su Canale 5. Tv Sorrisi e Canzoni la dà per confermata, anche se la definitiva firma contrattuale non ci sarebbe ancora, in attesa di un accordo economico. Nel frattempo i social sono impazziti e la Contessa si conferma la presenza più attesa di questa edizione. Personaggio del jet set internazionale e dei salotti televisivi dagli anni 2000 in poi, parte (sempre secondo social e rumors) già favorita per la vittoria. Nel frattempo lei si riposa: «Sto vivendo una fase tranquilla, mi preparo a eventuali tempeste».

Quale sarebbe la condizione base perché Lei partecipi al Grande Fratello?

«Siccome non amo dormire con altri ho chiesto una stanza autonoma e un bagno a parte. Ma non so se sarò accontentata...».

Ma perché ha deciso di accettare?

«Per fare una sorta di esperimento sociale, una sfida. E poi per trovare un po' di libertà e di pace. Con il Covid ho scoperto di essere ipocondriaca e che mia figlia Giada lo è all'inverosimile. In casa, visto che viviamo insieme, è tutto un Lavati le mani, Togliti le scarpe».

Com' è il vostro rapporto?

«A parte gli scherzi, è proprio la classica brava ragazza, una donna per bene, bella dentro e fuori».

Lei e Giada avete un precedente televisivo che vi accomuna, L'Isola dei famosi.

«È stata la mia esperienza in tv più significativa, mi ha procurato piacere e sofferenza. Ma anche fame nera, che ho provato per la prima volta in vita mia e mi ha fatto capire parecchie cose. Che godimento, quando ci arrivava quel pugno di riso scotto tra le mani».

La rifarebbe?

«Certo. Anche per mia figlia è un bel ricordo. O meglio, lei è una vincitrice mancata di quel programma. È arrivata in finale con Walter Nudo, che poi ha vinto, ma Lele Mora ha poi confessato in tv di aver pagato dei call center per farlo vincere. Giada aveva vinto tutte le prove, si è fatta pure un taglio da 17 punti su una gamba... Perdere in quel modo è stata la prima grande delusione della sua vita. Però L'Isola è un'esperienza che servirebbe a chiunque, per capire quanto siamo fortunati. A differenza nostra, per i nativi di quel posto, la fame non era il problema di un momento».

Perché si butta in questi reality?

«Perché so che durano poco e perché credo di avere qualcosa da dire. E poi perché sono curiosa».

 Eppure di esperienze ne ha già fatte tante, ha vissuto una vita che ne vale sette.

«Anche dieci, prego».

È stata amata o ha amato di più?

«Sono stata più amata, per me gli uomini hanno fatto cose folli. Da ragazza avevo tutto, ero bella, ricca, intelligente. E non lo dico per vantarmi, era la pura verità. E poi mi sono tolta tante soddisfazioni, ho fatto con gli uomini ciò che gli uomini fanno con noi. Sono stata una grande vendicatrice delle donne. Un calcio in culo a quelli che non amavo e via. Sono stata una Robin Hood al femminile».

Tra i suoi flirt anche uno famoso, con Alberto Sordi.

«Che bel ricordo. Ci siamo molto divertiti, eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. Non ne sono mai stata innamorata, ma siamo rimasti legati tutta la vita. Ne ho avuto uno anche Franco Califano, siamo rimasti amici anche a storia finita. Era molto passionale, ma fumava troppo. A un certo punto tra sesso e fumo ho scelto l'aria pura. Ed è finita».

E amici come prima.

«Resto amica dei miei ex. Ricordo come fosse ieri il momento in cui Califano mi ha conquistata. In una delle nostre scorribande ci siamo fermati a comprare due fette di cocomero, il venditore dormiva profondamente su una sedia e Franco gli mise i soldi nel taschino. Un gesto fatto di sensibilità, che mi colpì».

Si è innamorata spesso?

«Che parolona. Solo due volte, uno è il papà di Giada (Giuseppe Drommi, allora console di Panama, ndr), l'altro non lo dirò mai. Ma non sono mai stata tipo da perdere la testa».

In passato si è definita una traditrice seriale.

«Confermo. E ci ho sempre messo il cuore. Sono stata protagonista di quel film che è la mia vita, mai spettatrice».

Qualche rimpianto?

«Non aver fatto un altro figlio. Non volevo averne, però siccome al papà di Giada stava morendo una figlia, all'epoca molto malata, ho voluto renderlo nuovamente padre. È stato un atto di generosità, d'amore. Ho perso quel bambino ed è stato un colpo, diventare madre per me era diventata una specie di sfida. Allora consultai uno specialista, feci una cura e rimasi incinta. Crescere Giada si è poi rivelata un'esperienza stupenda. Ecco, avrei voluto avere anche un maschietto».

 Curiosità. Ha senso la nobiltà, ancora oggi?

«Vede, mia madre manteneva di tasca propria un intero brefotrofio a Cava dei Tirreni. I privilegi non sono meriti, bisogna farseli perdonare, mettendoli a disposizione altrui. La nobiltà ti offre grandi valori educativi, quelli hanno ancora un senso. O almeno spero».

·        Patrizia Mirigliani.

Patrizia Mirigliani denuncia  il figlio: «Lo faccio solo  per salvarlo dalla droga». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 da Corriere.it. «Ho denunciato mio figlio per salvarlo, è il più grande dolore della mia vita ma non avevo scelta». Si è sfogata Patrizia Mirigliani in un’intervista a Selvaggia Lucarelli pubblicata su Tpi.it dopo che il giudice, due giorni fa, ha attivato il codice rosso in seguito alla denuncia della patron di Miss Italia nei confronti del figlio 31enne per estorsione, minacce e violenza. Nicola è uscito quindi dalla casa in cui viveva con sua madre, con il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinamento a meno di 400 metri di distanza dalla donna. «Sono dodici anni che combatto, Nicola soffre di dipendenze, l’ho portato in sette comunità. Se sono arrivata al punto di denunciare mio figlio, è perché sono distrutta», dice la Mirigliani dopo avere appreso che è stato lo stesso figlio ad aver voluto rivelare questa vicenda. «Mia madre mi ha cacciato di casa dicendo di farmi la mia vita», ha detto Nicola. «Ma non lo può fare, per legge mi deve mantenere fino ai 34 anni, non può lasciarmi così e io le farò una denuncia civile. Ora lei mi ha fatto tre denunce e ha chiesto a tutti quelli che mi conoscono di non aiutarmi. Io non nascondo i miei problemi con la droga, sono cominciati a 18 anni, adesso ne ho 31, in passato ho fatto qualche furtarello a casa, ma sono un bravo ragazzo e ora sono pulito. Venerdì sarò sentito dal giudice, spero mi toglieranno questo braccialetto. Mia madre ha fatto la cosa più brutta che si può fare a un figlio e voglio renderla pubblica, è imperdonabile». «Vuole che lo mantenga a vita con i suoi vizi», ha replicato la madre, «ma non lo accetto più: mio figlio deve stare bene e costruirsi un futuro. Questo magistrato ha capito che la situazione è insostenibile e ha attivato il codice rosso. A me è dispiaciuto del braccialetto elettronico, ma erano pressioni continue con urla e richieste di soldi, sono dodici anni che Nicola mi ruba a casa. Io e il padre siamo disperati, è la battaglia più devastante che abbia mai fatto».

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 20 febbraio 2020. “Ho denunciato mio figlio per salvarlo, è il più grande dolore della mia vita ma non avevo scelta”. Patrizia Mirigliani ha la voce rotta dal pianto mentre prova a spiegare il dolore tenuto nascosto per tanti anni. Nicola, 31 anni, è il suo unico figlio e dall’altro ieri è fuori dalla casa in cui viveva con sua madre, col braccialetto elettronico e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento (deve rimanere ad almeno 400 metri di distanza dalla Mirigliani). Il giudice, due giorni fa, ha attivato il codice rosso dopo che la Mirigliani ha denunciato il figlio per estorsione, minacce e violenza. “Sono dodici anni della mia vita che combatto, Nicola soffre di dipendenze, l’ho portato in sette comunità. Se sono arrivata al punto di denunciare mio figlio, è perché sono distrutta”, spiega mentre apprende che è Nicola stesso ad aver voluto rivelare questa vicenda. Nicola che, ancora frastornato, dà la sua versione dei fatti: “Mia madre mi ha cacciato di casa, dicendo di farmi la mia vita. Ma lei non lo può fare, per legge mi deve mantenere fino ai 34 anni, non può lasciarmi così e io le farò una denuncia civile. Ora lei mi ha fatto tre denunce e ha chiesto a tutti quelli che mi conoscono di non aiutarmi. Io non nascondo i miei problemi con la droga, sono cominciati a 18 anni, adesso ne ho 31, in passato ho fatto qualche furtarello a casa, ma sono un bravo ragazzo e ora sono pulito. Venerdì sarò sentito dal giudice, spero mi toglieranno questo braccialetto. Mia madre ha fatto la cosa più brutta che si può fare a un figlio e voglio renderla pubblica, è imperdonabile”. Patrizia racconta un’altra storia e lo fa malvolentieri, dopo un silenzio durato dodici anni che serviva a proteggere proprio Nicola. “Lui vuole che io lo mantenga a vita con i suoi vizi ma non lo accetto più, mio figlio deve stare bene e costruirsi un futuro. Questo magistrato ha capito la situazione insostenibile e ha attivato il codice rosso. A me è dispiaciuto del braccialetto elettronico, ma erano pressioni continue con urla e richieste di soldi, sono dodici anni che Nicola mi ruba a casa. Io e il padre siamo disperati, è la battaglia più devastante che abbia mai fatto”. Patrizia racconta anche le preoccupazioni del passato e quelle per il futuro. “Da quando aveva 18 anni l’ho portato in non so quante comunità, l’ultima due settimane fa, siamo andati da Don Gelmini. Ma lui esce e ogni volta mi manca il terreno sotto i piedi. Ho avuto un grave problema di salute due anni fa, io mi preoccupo, non voglio lasciare mio figlio nella società in questo modo. Ora il magistrato ha preso questa decisione ma con umanità, per aiutarlo, e io ho detto a Nicola: porta pazienza, vai da tuo papà a Trento, avrai un lavoro, sarai aiutato, ti toglieranno il braccialetto. Certo è che se non si cura, non gli do una lira. Ci faremo la guerra, non importa. Mi spiace che abbia chiamato i giornali perché ora questa è un’etichetta che mio figlio si porterà dietro per la vita”. E infine, Patrizia aggiunge: “Per una mamma denunciare un figlio è una cosa terribile. Io vorrei tanto che Nicola avesse una vita normale, una ragazza, una famiglia, è un dolore vedere un figlio che non trova una sua dimensione. Io spero che nessuno di un certa tv si nutra di questo gossip. La mia è una tragedia, se deve diventare pubblica che sia un messaggio per i genitori che come me vivono questo dramma: arrivati a questo punto di non ritorno denunciate per salvare i vostri figli. Io ho dovuto denunciare Nicola per salvarlo, è pieno di mamme che sono costrette a farlo. Non avevo scelta. Non abbiamo scelta. Sono stata sola in una battaglia più grande di me. Ho sperato tanto in un bel finale, è stato in questi 12 anni il più grande sogno della mia vita. Chissà che questa, nel dolore più atroce, non sia una svolta”.

Patrizia Mirigliani: «Ho denunciato Nicola per amore, la droga lo aveva cambiato». Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra.

Cosa ricorda di quando è nato Nicola?

«Era il 16 febbraio di trentuno anni fa, parto cesareo. Fuori dalla sala aspettavano mio padre, mia madre e il mio compagno, Antonello Pisu. Quando me lo hanno portato ero ancora stordita. Me l’ero immaginato con tanti capelli neri, e invece ecco questo pelatino minuto minuto con una bellissima bocca a cuore. Lo abbiamo chiamato Nicola, come il bisnonno paterno che si era ammalato in America lavorando in miniera».

Il primo pensiero?

«Che la mia vita sarebbe cambiata per sempre. In bene».

Quali aspettative aveva?

«Le stesse di oggi. Che fosse felice. Che capisse la bellezza di una giornata di sole, di una passeggiata al parco con la fidanzata. Sono mamma di un figlio unico e ho puntato tutto su di lui, non come erede, ma come uomo felice».

E si dà colpe, adesso?

«No, non mi faccio dei rimproveri. Molti amici già anni fa suggerivano di cacciarlo di casa e fargli fare il barbone. Io credo di aver fatto tutto quello che una madre può fare per aiutare il figlio, compresa la più difficile e dolorosa». Patrizia Mirigliani, patron di Miss Italia nel nome del padre Enzo, ha fatto la cosa più difficile il 19 luglio scorso, quando è andata nel Commissariato Aurelio di Roma assieme all’avvocato Pippo Ioppolo e ha presentato un esposto, poi convertito il 5 agosto in una denuncia per maltrattamenti in famiglia, estorsione e tentata estorsione. A gennaio è stata presentata una integrazione di denuncia e il 10 febbraio il gip ha attivato il codice rosso: ora Nicola indossa il braccialetto elettronico e non può avvicinarsi alla mamma. La storia è diventata pubblica quando lui ha contattato la giornalista Selvaggia Lucarelli per denunciare su Tpi.it il fatto che sua madre l’avesse cacciato di casa e non volesse più mantenerlo fino ai 34 anni.

Patrizia, perché ha denunciato Nicola?

«Perché non c’era altro da fare. Sono stata sul punto di farlo spesso, ma arrivata al portone tornavo indietro».

Cosa l’ha convinta?

«Da un paio d’anni le sue richieste di denaro erano diventate più impulsive. Vivo con mia sorella Rosaria e con Natasha, la collaboratrice domestica, e non riconoscevamo più quel nuovo ragazzo poco ragionevole e poco rispettoso. Ho cominciato a spaventarmi quando è diventato troppo aggressivo: tirava pugni alle porte, ai muri, agli specchi».

Nicola ha problemi di droga da quando aveva 18 anni.

«Sì, ha iniziato per provarla. Mi avvisò un’amica, non ci credetti. Poi cominciai a osservarlo: era più stanco, assente, misterioso, aveva una espressione sul viso diversa».

Cosa fece?

«Un pomeriggio uscimmo insieme, andammo in un negozio di dvd. C’era un pupazzo gigantesco a forma di topo, gli piacque moltissimo e mi chiese di comprarlo: l’ho buttato via da poco, presa dallo sconforto. Fu l’occasione per dirgli: “Nicola, pensi di essere forte, ma sei debole, con la droga non si scherza”».

Avete tentato con le comunità, ma non è andata bene.

«L’ultima è quella di don Gelmini. Ma siamo stati vicino a Mestre, a Castel Gandolfo, da altre parti. Il problema delle comunità è che se hai più di 18 anni puoi decidere di andar via in qualunque momento. Ma quale libero arbitrio può avere un ragazzo che è schiavo di una dipendenza? È un cane che si morde la coda. E non lo dico per dare le colpe alla comunità, anzi...».

Parliamo dei furti in casa.

«All’inizio non volevo vederli, mi dicevo che quello che mancava sarebbe saltato fuori. Poi mi sono arresa al fatto che se uno continua a rubare non ha risolto il suo problema. Mi dispiace che il furto ai genitori venga considerato lieve... Semmai è aggravato dal fatto che la tua fiducia è stata tradita due volte».

Nicola pretende che lei lo mantenga fino ai 34 anni. È disposta a farlo?

«No. Ho aiutato in molti modi Nicola a rendersi indipendente. Nel 2010 ho insistito perché si iscrivesse all’università Lumsa in marketing e comunicazione. Nel 2011 l’ho fatto lavorare al docufilm sul nonno, Storia di un ragazzo calabrese. Gli ho lasciato seguire la parte web di Miss Italia. Ma non era mai costante, mollava sempre. Ho ridimensionato le proposte: gli ho trovato un lavoro in una ferramenta, poi da uno sponsor del concorso, poi come cameriere stagionale. Da lì l’ho incoraggiato ad andare a Londra in un pub e a frequentare un corso di inglese, che pagavo io. L’ultimo lavoretto lo ha fatto in Trentino in un albergo, aiutato dal padre».

Ecco, il padre di Nicola. Dov’era negli anni?

«Lui vive a Trento. Io non dico che sia facile fare il genitore, ma in questa battaglia sono stata sola».

Ha risentito Nicola?

«No, ma mi è arrivata la lettera del suo avvocato. Insiste sul mantenimento. Peccato».

Chi è Patrizia Mirigliani, imprenditrice e patron di Miss Italia. Cecilia Lidya Casadei 20/02/2020 su Notizie.it. Chi è Patrizia Mirigliani? Figlia d'arte, imprenditrice, da tempo dietro le quinte di Miss Italia ma non solo. Enzo Mirigliani è un nome noto a tutti nel panorama dello spettacolo italiano. Un tempo “papà” del concorso di bellezza Miss Italia, ha poi passato il testimone a sua figlia Patrizia Mirigliani nel 2010. Chi è questa donna, madrina dello storico programma televisivo? Non solo imprenditrice, anche mamma e “guerriera“.

Chi è Patrizia Mirigliani. Nata il 27 ottobre 1952 a Trento. Cresciuta in Trentino da genitori del sud Italia, papà calabrese e mamma pugliese, all’anagrafe riporta il nome di Eugenia Mirigliani. Nel 2012 ha ricevuto il titolo di “commendatore al merito della Repubblica” per il suo ruolo d’imprenditrice e organizzatrice del concorso Miss Italia, onorificenza firmata dal Presidente Giorgio Napolitano e dal Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti durante una cerimonia svoltasi a Roma.

Il legame con papà Enzo. Una volta diventata patron del famoso concorso di bellezza, Patrizia Mirigliani ha introdotto una bella novità nel regolamento: l’apertura della partecipazione anche alle Miss con taglia 44. Il suo rapporto con il padre Enzo si fonda su solide basi, l’amore fra di loro è sempre stato molto forte. “Mi diceva sempre che le donne si devono realizzare, essere indipendenti perché ne hanno le capacità”, ha raccontato l’imprenditrice durante un’intervista. Sentimentalmente impegnata con l’imprenditore Antonello Pisu, dal quale ha avuto poi il figlio Nicola, Patrizia Mirigliani ha anche combattuto una dura battaglia personale: quella contro il tumore al seno. Nel 2003 si è dovuta sottoporre a chemioterapia ma ha saputo resistere e ne è uscita vincitrice, sconfiggendo il cancro.

Lo scandalo del figlio. L’imprenditrice ha accusato il figlio Nicola Pisu di estorsione, minacce e violenza. Il giudice, accogliendo la richiesta, ha deciso così di attivare il codice rosso e far portare un bracciale elettronico al figlio: non può avvicinarsi alla casa di famiglia, come misura cautelare sono stati stabiliti minimo 400 metri di distanza.

·        Patti Smith.

Piero Negri per “la Stampa” il 4 aprile 2020. Poco prima che scattasse il lockdown anche a New York, Patti Smith ha annunciato il quarto concerto della sua estate italiana, a Milano, al Castello Sforzesco, a fine luglio. Che i concerti si facciano davvero ora è difficile crederlo, anche se nulla di certo è stato comunicato per questi e gli altri appuntamenti live. Patti Smith è in isolamento, da sola, e sta bene. «Oggi avrei dovuto essere in Messico, poi sarei dovuta andare in Australia - ci dice al telefono da New York - mi piace viaggiare e lavorare, non lo posso fare e questo è il dispiacere più grande. Fortunatamente per me, sono una scrittrice, posso continuare a scrivere. Mi alzo al mattino molto presto, do da mangiare al gatto, poi scrivo, bevo un caffè, cerco di tenermi impegnata. Dico a tutti di non chiamarmi prima delle 11. Alla solitudine sono abituata, non mi pesa, ma è dura per me essere chiusa in casa, sono irrequieta, ho bisogno di muovermi. Non mi lamento, dico semplicemente che è difficile per me immaginare un mondo in cui non è possibile acquistare un biglietto aereo e andare a Parigi, o venire in Italia. Ma cerco di rimanere positiva, ripenso alle cose che ho fatto, ai posti che ho visto e spero che presto si possa tornare a viaggiare. Conta molto rimanere positivi, mangiare sano e bere molto, e se proprio ho bisogno di muovermi posso andare su e giù dagli scalini».

Ho sentito di scrittori che in questi giorni non riescono nemmeno a leggere.

«Sì, anch' io ho avuto una crisi qualche giorno fa, non riuscivo a fare niente, forse perché la mia mente era ormai tarata sui viaggi e sulle performance, tutte attività rivolte verso l' esterno, non mi è stato facile accettare di rimanere sola e chiusa in casa. Ho passato quella fase imponendomi una routine. Mi sono detta: ok, per le prossime ore rimango qui a scrivere. Oppure rileggo ciò che ho scritto, o studio. Al limite, riordino i libri, vedo se ne trovo alcuni da regalare o prestare».

Che cosa studia?

«In questo periodo la Storia. Nella epidemia di Spagnola, nel 1918, morì anche mio nonno. Cerco di saperne di più. E poi, come ha reagito l' Europa alle due guerre mondiali? Cosa sta accadendo in Siria oggi? La storia più remota e quella vicina a noi. Mi è molto utile. Poi sono fortunata, ho un posto in cui vivere, il cibo non mi manca, ho l' acqua corrente. Lo dobbiamo sempre ricordare, ci sono moltissime persone che hanno una vita più difficile della nostra».

Crede che questa epidemia cambierà il mondo?

«Lo spero, anche se poi vedo che al presidente degli Stati Uniti tutto questo non importa. E mentre scoppia una pandemia, lui fa passare leggi che favoriscono chi inquina e libera alle speculazione spazi finora protetti. Vivo in un Paese guidato da un uomo che non vede la necessità di una cambiamento positivo nel rapporto con l' ambiente. Spero solo che non tutti i leader siano così stupidi. Abbiamo bisogno tutti di un cambiamento rivoluzionario, di essere meno materialisti, più empatici, più francescani, direi».

Ci sono leader che stanno approfittando della situazione per prendere tutto il potere.

«Vediamo sorgere nuovi e vecchi nazionalismi, il peggio che possa accadere oggi, oltre alla distruzione dell' ambiente naturale. Il nazionalismo porta alla guerra, distrugge l' empatia e la carità. Dobbiamo vigilare».

Prima di chiudersi in casa, ha registrato un video per l' Italia e i Paesi colpiti dal virus con sua figlia Jesse e ha recitato una poesia, A Pythagorean Traveler, che parla di nuvole. E le nuvole non conoscono confini.

«Ma in certi posti sono più belle che altrove. L' ho scritta in Italia, a Sanremo, un giorno in cui mi sono svegliata e Ho sempre amato le nuvole, da sempre le cerco con lo sguardo. Quel giorno a Sanremo erano così belle che ho pensato stesse accadendo un miracolo, pensavo di trovare tutti a testa in su e invece nessuno sembrava accorgersene. Volevo dire a tutti: guardate che nuvole».

A proposito, il tour italiano?

«Una certezza ce l' ho: prima o poi, tornerò in Italia. Appena sarà possibile volare, la mia agente e amica Rita Zappador farà in modo che questo accada. Verrò sempre in Italia, anche quando sarò molto molto vecchia. È uno dei miei Paesi preferiti, mi piacciono tanto le persone e naturalmente l' arte, tutto, le strade, come si mangia, il caffè. Voglio rivedere l'"Ultima Cena", bere il vostro caffè, andare alla Scala, visitare le chiese di Assisi, tornare a Trieste, Arezzo, San Severino, Firenze, in tutti i posti che amo. L' Italia la sento un po' mia. E qui con me ho molte fotografie scattate in Italia, molti libri, i film di Pasolini e Fellini, l' Italia è sempre con me. Mio marito Fred, che si chiamava pure lui Smith e che come me amava il vostro Paese, diceva che forse il nostro vero nome era Smitholini».

Ha visto il Papa in preghiera nella piazza San Pietro vuota?

«Sì, un' immagine bellissima, potente. Mi piace Francesco, c' è purezza in lui. Non si può essere d' accordo su tutto, ma mi sembra un uomo buono. Mi è tornata in mente la foto di Giovanni Paolo II in carcere con l' uomo che gli aveva sparato. Due fotografie, e due Papi, molto diversi tra loro, che mi hanno dato la stessa emozione: due persone che dentro se stessi in profondità e mostrano il vero significato della parola preghiera».

·        Paul McCartney.

Alessio Lana per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2020. Cinquant' anni fa finiva un'epoca. Paul si divideva da John, George e Ringo per rincorrere la carriera solista. Il 31 dicembre 1970 poneva fine ai Beatles nel modo peggiore, con una denuncia a cui sono seguiti anni di strascichi legali, veleni e attacchi incrociati fino allo scioglimento ufficiale del '74. A differenza di quanto si credesse finora però la divisione della band da due miliardi di album fu a fin di bene. A garantirlo è Paul McCartney: «Quando i Beatles si sciolsero si credette erroneamente che ci odiavamo l'un l'altro» - racconta all'edizione britannica di Gq - «Ora ho capito che eravamo una famiglia, una gang, e le famiglie litigano, discutono. Uno vuole fare una cosa e uno l'altra». Ma non basta perché Macca, come lo chiamano i suoi fan, va oltre: «Penso che l'unico modo per me di salvare i Beatles e la Apple fosse di fare causa alla band». Senza la denuncia, spiega, «tutto sarebbe appartenuto ad Allen Klein». E qui dobbiamo fare un passo indietro. Nel 1969 John, George e Ringo avevano deciso di terminare la collaborazione con il loro manager Lee Eastman, che era il padre di Linda, la prima moglie di Paul McCartney. Volevano passare sotto l'ala di Allen Klein, il deus ex machina dei Rolling Stones. Il baronetto però continuò la collaborazione con la propria famiglia. Gli anni seguenti, racconta il cantautore oggi 78enne, erano stati «terribili». «Bevevo troppo e facevo troppo di ogni cosa» ma «sapevo che la causa era l'unico modo per non vedere andare in fumo tutto quel lavoro». Poi «mi ricordo di aver letto un articolo, un'intervista a Yoko che, va bene, era una grande sostenitrice di John, ma diceva "Paul non faceva niente, si limitava a prenotare lo studio"». E prosegue: «Poi John fece questa canzone, "How Do You Sleep?" in cui canta "L'unica cosa che hai fatto è Yesterday"». Il brano, pubblicato nel 1971, era un attacco diretto a McCartney, ogni verso una goccia di acido. Fu «molto doloroso», ricorda ancora l'artista a dieci lustri di distanza.

Massimo Cotto per il Messaggero il 20 luglio 2020.

L' INCONTRO. Cominciamo dalla fine. L' intervista è conclusa. Dalla finestra si vede la pioggia cadere pesante, perché Londra non è Parigi, dove la pioggia si muove quasi danzando. Paul McCartney mi chiede se ho voglia di bere qualcosa. Ovviamente sì. Siamo nel 2001, lui è in un momento delicato. Da tre anni è morta Linda e c' è una nuova storia, che poi naufragherà tra le polemiche. Durante l' intervista, mi ha detto che vive un periodo di strana fragilità. Mi guarda, sgrana gli occhi come solo Paul McCartney sa fare e poi chiede: «Hai ancora i tuoi genitori». Rispondo di sì. «Bene, non avere mai paura di dire che li ami. Rimpiango di non averlo detto ai miei. Penso a mia madre, che è morta quando ero ragazzo; a lei non ho mai detto: Mamma, ti voglio bene. Ma ero un ragazzo e i ragazzi non dicono queste cose alle loro madri».

LA REALTÀ. Siamo seduti su uno sgabello. Paul continua: «Fin da piccoli abbiamo sempre saputo che i nostri genitori sarebbero morti prima di noi. Guai a chi deve seppellire il proprio figlio, quello sì che è un castigo di Dio. Mi ricordo mio padre, quando gli domandavo che fine facessero le persone quando diventavano vecchie; lui rispondeva che, semplicemente, morivano, andavano via. È la realtà della vita, che tutti dobbiamo accettare. Non ne parliamo spesso, forse perché ne abbiamo paura. La morte rimane un tabù linguistico forte, pensa solo ai sinonimi che usiamo: È mancato (passed away, in originale), invece di è morto, oppure male incurabile, per non usare la parola cancro. Io stesso non parlo mai della morte, perché ne ho paura. Ma non sono pessimista, anzi. Nonostante i guai e i problemi che ho attraversato, so che per le sofferenze c' è sempre una fine, anche se non sempre sono capace di vederne il fine. Il sole sorge sempre dopo la notte, la luce nasce sempre dopo il buio». Lo chiamano per un' altra intervista. Lui si alza, mi stringe la mano: «Ho pianto per quindici mesi, dopo la morte di Linda. Quindici mesi, anche se sapevo che gli uomini non piangono. Mi hanno insegnato così, ma non ce la facevo. Provavo a venirne fuori, ma non trovavo nella mia anima nessun cartello con su scritto: uscita dal dolore. Sai cosa ti dico? Piangere fa bene». Esco nella pioggia. Penso all' amore. Nell' intervista aveva raccontato del primo incontro con Linda. «Una notte, in un club, uno dei pochi che potevamo frequentare perché rimaneva aperto fino a tardi, e io, con i Beatles, finivo sempre tardissimo. Quella sera ero lì e anche Linda era lì, seduta a un tavolo vicino. Si alzò per andarsene con gli amici con cui era arrivata. Io decisi di fare qualcosa, anziché rimanere lì seduto e vederla andare via. Così mi alzai e le andai incontro: Ehi, come va?. Lei mi guardò stupita. Fortunatamente rispose e si fermò a parlare. Andammo in un altro club, aperto fino a tardi. Ai miei figli ho sempre detto che, se non l' avessi fermata, l' avrei rimpianto per la vita. Non mi comporto normalmente così, ma dovevo farlo». Parlammo del nuovo disco, Driving Rain (ecco perché pioveva), ma ovviamente, soprattutto dei Beatles e del passato. Perché se ti chiami Paul McCartney non puoi chiedere a un giornalista di farti domande solo sull' ultimo album. Mi disse che uno dei momenti che i Beatles attendevano con impazienza era quando uscivano le recensioni. E mentre il mio ego si gonfiava a nome di tutti i giornalisti del mondo, Paul aggiungeva: «Ci divertivamo un mondo a leggere le sciocchezze che scrivevano i critici, a vedere come interpretavano dei versi che erano nati molto semplicemente e dentro i quali, invece, loro inserivano qualsiasi cosa». Accennai alla leggenda della sua morte. Gli chiesi se stavo parlando con il suo sosia. Rise. «Ovviamente. Nel mondo esistono due persone che cantano allo stesso modo, compongono le stesse meraviglie e sono due gocce d' acqua». Gli chiesi che cosa avrebbe voluto riportare in vita degli Anni Sessanta. «Il vento nuovo che spazzò via quasi tutto. Non sono un nostalgico e penso che oggi ci sia molta buona musica, anche se penso che quasi nessuno di quelli che suona la chitarra elettrica valga un Hendrix. Però, è innegabile che i fermenti di quel decennio siano state scintille capaci di generare grandi fuochi. La prova è che quelle vecchie canzoni sono ancora fresche, attuali, vere». Una sola cosa non avrebbe rifatto. «Con i primi soldi, corsi a comprare una pelliccia. Solo anni dopo ho capito la sciocchezza che avevo fatto e, da allora, mi sono battuto a lungo a favore degli ambientalisti. Anche con Linda». Fu un' intervista bella e malinconica, dolce e divertente. Paul si divertiva a fare le sue espressioni buffe, quelle dove sembra che abbia un punto interrogativo sulla testa e che lui sia uscito da un fumetto. Fu lucido nell' analizzare le diverse fasi della sua vita.

I SOLDI. «Nella prima, sono un ragazzino di Liverpool. La mia famiglia era modesta, non aveva soldi, non avevamo neanche la possibilità di comprare una macchina. Le prime sterline, la fama e tutto il resto è merito dei Beatles. Il successo dei Beatles caratterizza la mia seconda fase. Nella terza, ho sposato Linda, avuto dei figli e guidato i Wings. Poi è arrivata la quarta fase. Mi ritengo fortunato a essere ancora vivo». Rideva parlando degli amici e dei giornalisti che, credendo di fargli un complimento, a volte commentavano un suo brano dicendo: «Sembra dei Beatles». «Non capiscono che non mi interessa fotocopiare Paul McCartney, perché sono io l' originale. Ho già dato con i Beatles, vorrei continuare a dare, ma in modo diverso». L' ultima domanda fu: quando rivede in televisione vecchi filmati dei Beatles, che cosa pensa?

LA BAND. «Penso: che grande band eravamo! Com' erano forti, quei ragazzi! Amo rivederli. Per me è come una riunione, un album di famiglia, un film dei vecchi tempi. Diverso è il discorso sui dischi. Non li ascolto molto. Preferisco i film. È sempre una bella sensazione rivedere quelle immagini, perché mi riportano indietro a un grande tempo; ogni scena contiene vecchi ricordi e splendide memorie, il divertimento in sala d' incisione, la grandezza della musica. Sono felice e orgoglioso che la gente ancora ascolti i Beatles e che i Beatles ancora riescano a comunicare ai ragazzi. Ho incontrato persone, in America, che mi hanno sorpreso, dicendomi che i loro figli di dieci anni amavano i Beatles, amavano le nostre canzoni. Credo sia il miglior omaggio che uno possa fare alla nostra musica, amarla pur senza sapere nulla degli anni Sessanta. La gente, per fortuna, ama per quello che una cosa è, non solo per ciò che rappresenta o perché l' ha vissuta all' epoca. Mi piace. E mi piacciono i Beatles. Un buon gruppo, non credi?».

Stella McCartney: affari, segreti e guai (italiani)  della stilista figlia di Paul. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. I numeri riservati dell’alleanza con i francesi di Lvmh. I bilanci della finanziaria lussemburghese. La società italiana e i guai col fisco. Sappiamo che il cappotto Catalina in vendita sul sito Stella McCartney (SMC) costa 1.790 euro, la borsa Falabella 695, i sandali con tacco 625, la «T-Shirt Stella McCartney 2001» 195, ma molti passaggi fondamentali dell’accordo tra la figlia dell’ex Beatles Paul McCartney (77) e il colosso parigino non sono mai stati resi noti, né a Londra né a Parigi. Per esempio: chi comanda? Quanto fattura SMC? Che ruolo ha SMC Italia dove, tra l’altro, una verifica fiscale ha creato un po’ d’apprensione? Chi c’è al vertice del gruppo? E poi, per il capitolo curiosità: è vero che l’imprenditrice inglese, madre di quattro figli, avrebbe guadagnato 20 milioni negli ultimi 4 anni? Più di suo papà? La signora Stella Nina McCartney in Willis, 48 anni, «vegetariana da sempre», seconda figlia di sua altezza musicale Sir Paul e della prima moglie Linda, sposata con l’editore Alasdhair Willis, 49 anni, è già una designer di successo nel 2001 quando lancia insieme a Gucci Group (poi confluito in Kering) la maison che porta il suo nome. Una joint venture fifty-fifty con un’impronta e una filosofia «green». Oggi le boutique monomarca SMC sono 51 nelle grandi piazze della moda e le collezioni della stilista sono distribuite in 77 Paesi. La fine del matrimonio con Kering viene annunciata, d’amore e d’accordo, a marzo 2018. La stilista aveva un’opzione call per riprendersi il 50% del gruppo. Il periodo di transizione dura più di un anno. Il closing vero e proprio si realizza il 15 luglio 2019 quando viene reso noto che Stella McCartney si allea con Lvmh. Via Kering dentro Lvmh. Ma qualcosa cambia. Con Kering era 50-50, con Lvmh - viene spiegato a luglio - Stella «continuerà a esercitare il ruolo di direttrice creativa e ambasciatrice del marchio e a possedere la quota di maggioranza». Nient’altro. L’accordo di fatto è a regime dall’inizio del 2020. E finalmente dai documenti prodotti in quest’ultima fase, ma tenuti ben coperti, si capisce che la maggioranza di Stella (51%) è bilanciata da poteri di governance favorevoli a Lvmh. L’accordo poggia su una società londinese, la Anin Star Holding (cioè Nina al contrario e Stella in inglese), che è la holding del gruppo SMC, finanziata (135 milioni) da Natixis. Nel consiglio di amministrazione a fianco di Stella e del marito Alasdhair Willis entrano anche top manager di Lvmh compreso il direttore generale Antonio Belloni (fino a luglio c’era monsieur Pinault). E su alcune materie fondamentali come budget, piani industriali e finanziari, nomine e stipendi dei top manager (quindi il cuore della gestione) gli accordi contrattuali prevedono che le delibere debbano essere prese solo con il voto favorevole di almeno un consigliere per parte. Quindi di fatto è un controllo congiunto. La capofila Anin Star controlla da una parte la Smc inglese e dall’altra la lussemburghese Luxury Fashion. L’inglese fattura intorno ai 50 milioni di euro, secondo l’ultimo bilancio disponibile (2017), con profitti intorno agli 8 milioni. E anche grazie a questi ottimi risultati la stilista inglese ha incassato (tra emolumenti e dividendi) 12 milioni tra il 2017 e il 2018, 20 milioni stimati negli ultimi 4 anni. Cioè quanto gli introiti del padre nel 2019 soltanto dai concerti in Sudamerica (l’ex Beatles con 1,2 miliardi di dollari di patrimonio è il musicista più ricco del mondo secondo Forbes). La lussemburghese, invece, fa da «mamma» societaria (con 50 milioni di utili in cassa) alle 9 controllate nel resto del mondo iscritte a bilancio complessivamente per 74 milioni. Le più strutturate sono l’italiana (33 milioni a valore di libro) e la cinese (23), entrambe per altro in perdita nel 2018 di 2,2 e 3,6 milioni secondo in rispettivi bilanci. La Stella McCartney Italia nella riorganizzazione del brand post-Kering ha assunto un ruolo centrale nella vendita all’ingrosso dei prodotti SMC. Dopo l’estate, nella transizione tra Kering e Lvmh, i manager italiani hanno dovuto affrontare il problema di una verifica fiscale sugli anni 2015-2016 con al centro la pratica del transfer pricing cioè lo spostamento infragruppo di reddito verso Paesi a bassa fiscalità. Sarebbe stata battuta la strada dell’accertamento con adesione ovvero dell’accordo con il Fisco prima dell’emissione di un avviso di accertamento. Complessivamente il gruppo Smc dovrebbe fatturare tra i 180 e i 190 milioni . Dovrebbe, perché le cifre ufficiali non sono di moda.

·        Peppino Gagliardi.

Totò Rizzo per "leggo.it" il 29 maggio 2020. Molti decenni prima che lo facesse Salvini nei comizi, l’ispirazione venne a lui ma al Festival di Sanremo. “Miracolato” da un ripescaggio delle giurie, Peppino Gagliardi cantò la seconda sera, correva il 1966, con un rosario tra le mani. Arrivò nono. Eppure la canzone era quel capolavoro di Carlo Alberto Rossi intitolato Se tu non fossi qui, lo cantava in abbinata con Pat Boone che planava dall’America reduce dal successo di Speedy Gonzales. La storia segnala che quel brano lo prese in mano qualche mese dopo Mina e diventò un successo per sempre. Peppino Gagliardi ha compiuto 80 anni. Napoletano, cresciuto a pane e musica da ragazzino, quando suonava la fisarmonica a battesimi, comunioni e cresime. Poi la chitarra e i primi passi nei night e un impresario che s’accorge di quella voce un po’ nasale ma più moderna dei consueti melodici. Innumerevoli Festival di Napoli, quasi una decina di Sanremo, molti Disco per l’estate, diverse Canzonissima. L’apice della popolarità tra metà anni ’60 e il decennio successivo con canzoni – quasi tutte a sua firma – che sono rimaste nel tempo. Oltre al primo successo – Che vuole questa musica stasera – la più popolare resta Settembre, ma furoreggiò anche con Come le viole, Sempre sempre e Come un ragazzino. Poi la grande popolarità scemò ma il periodo ’80 e ’90 è stato ricco di incisioni e concerti dedicati soprattutto alla tradizione classica partenopea. Nel suo albo, una ventina di album, altrettante raccolte, una cinquantina di singoli. Romano d’adozione da un cinquantennio, vorrebbe però festeggiare gli 80 nella sua Napoli, coi figli e i nipoti. Non c’è fretta, in sicurezza, add’a passa’, ’sta pandemia.

·        Peppino di Capri.

Quando Peppino di Capri cantava "champagne". Quando la vita era "dolce", un giovanotto con una montatura di occhiali pesante cantava il twist e i grandi successi della canzone napoletana ai ricchi e ai potenti. Era Peppino Faiella, di Capri. Davide Bartoccini, Lunedì 10/08/2020 su Il Giornale. Ha compiuto 80 anni più uno, il maestro, Peppino di Capri, al secolo Giuseppe Faiella, nato il 27 luglio del 1939 sull’isola che tanti dicono essere “la più bella del mondo”; trovando pochi, pochissimi in disaccordo. Se ci si è stati, a perdersi nei suoi vicoli, a ballare nei suoi night, a sognare di rivolgersi all’orizzonte come i protagonisti dalla pellicola di Godard, nella villa che fu di Curzio Malaparte, e che ben si prestava ad essere teatro della trasposizione cinematografica del “Disprezzo” di Moravia; lo si sa. Altrimenti, se possiamo abbandonarci al consiglio di carattere turistico, dovremmo dire: “urge” trovare una soluzione per approdarci. Ma solo dopo essersi lasciati sedurre un poco dalle narrazioni della sua storia, dei suoi segreti e dei suoi vecchi fasti. Tanti dei quali sono stati consumati proprio sulle note dello chansonnier caprese, con una coppa di champagne tra le dita. C’è un bel libro di un altro maestro partenopeo, Paolo Sorrentino, che cita e recita affettuosamente Peppino, s’intitola Hanno tutti ragione, e sarebbe perfetto da leggere nel viaggio che tocca intraprendere su uno di quei traghetti caotici d’aspettative per un’estate che tutti si augurano essere definitiva. Perché Capri più di un luogo di villeggiatura: è un’aspettativa. Una luce verde che s’illumina dall’altra parte della baia come quella del grande Gatsby. La vacanza da sogno sull’isola che tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta ha fatto la storia dell'eccesso. Quando Peppino nasceva, la Seconda guerra mondiale ancora non era iniziata. Ma la terra natale dalla quale avrebbe preso in prestito il nome, era già meta di intellettuali, nobili e libertini. Una fauna altolocata potremmo dire. Lui iniziò a cantare le prime canzoni con Ettore Falconiere nel “Duo Caprese”, nel dopo guerra, quando l’Italia che ne era venuta fuori si leccava ancora le ferite, e il boom economico sta per deflagrare. La voglia di vivere era tanta, un segno di riguardo nei confronti di tutti quei morti. Di lì a poco sarebbe stata la “Dolce Vita”. Ma la vita dolce, a Capri, c’era, già nel 1948, come racconta Marcella Leone De Andreis nei suoi bei libri, decaloghi di aneddoti dello scoglio dove si ritrovavano artisti, scrittori, reali, miliardari, bellezze esotiche e vitelloni in cerca di lascivia e divertimento sfrenato. Allora il nostro Peppino Faiella che non era ancora noto al mondo con suo pseudonimo d’origine, dicevamo, ma già cantava per loro, e riceveva gli apprezzamenti di una pletora di bellocci e bellocce affascinanti e blasonati, nelle loro uniformi estive di lino bianco: perfetto per far spiccare l’abbronzatura che spesso era “integrale”. Negli anni ’Cinquanta Capri era un susseguirsi di cene danzanti, e aperitivi infiniti in piazzetta che terminavano nei night come il Tragara Club, la Canzone del mare e il Gatto Bianco, o proseguivano, nelle ville di qualche magnate americano o del discendente diretto di qualche barone prussiano. In mezzo a loro c’era un ventenne con una montatura d’occhiali pesante e una voce potente. Aveva iniziato a cantare a Napoli, poi Ischia, e in fine a Capri, dove avrebbe consacrato il suo successo. Dapprima si esibiva al Number Two, imitando Buddy Holly ma cantando “Tu vuo' fa' l’americano” di Carosone. Poi, a mano a mano che il successo lo travolgeva, sarebbe arrivato a cantare alle feste private, e in un locale tutto suo, lo Splash, dove si esibiva tra un lento e un twist, brani di Modugno, grandi classici della canzone napoletana, e i suoi primi indimenticabili successi. Erano i tempi in cui Capri era popolata di stravaganti araldi che si trascinavano appresso bizzarri animali da compagnia. Dal pappagallo sulla spalla che veniva attribuito al dandy romano Dado Ruspoli, alle pantere al guinzaglio da fascino Cartier, ai mastodontici alani che sfilavano accanto a uomini seminudi: con lo splippino da mare con pacco ben in vista - anche se allora la buon costume lo vietava (e col senno di poi sarebbe idea da rivalutare) - e sandali capresi, ovviamente. Tutti animali che destavano un certo disturbo alla colonia di dozzine di gatti persiani di Villa Castello. Tutti personaggi che sarebbero rimasti per sempre nel cuore dell’isola che diveniva metà turistica giornaliera, da una botta e via proprio per merito del fascino da rotocalco. Mentre Peppino di Capri vinceva Sanremo, due volte, negli anni Settanta, con "Un grande amore e niente più" e "Non lo faccio più”. Nelle ville di tutta l’isola, da Tragara ad Anacapri suonavano le note di un altro successo che non sarebbe mai sfiorito: la sua canzone simbolo, “Champagne”. Intanto sull’isola passavano i grandi nomi del jet set. Da Jackie Kennedy, che oramai era diventata Onassis - Jakie’O - a Valentino, alla famiglia Agnelli. Era una Capri che lentamente sarebbe svanita. Finita diceva qualcuno. “I ricchi andavano via” e al loro posto arrivano “quelli coi soldi”, avrebbe riassunto in maniera esauriente Roberto D’Agostino in un’intervista anni dopo. Una trama che avrebbe riguardato molte mete di villeggiatura “chic” sparse nel bel Paese. Mostrandocele come le conosciamo ora. Ma i successi di Peppino di Capri continuavano a suonare e ad accontentare il pubblico, che non era più prussiano di discendenza, ma post-sovietico o emiratino. Locali e ristoranti à la page suonavano “Roberta”, “Luna Caprese”, “Nessuno al mondo”. Al tempo in cui ci arrivai io a Capri, tutto era cambiato infatti. I ricchi avevano passato il testimone agli arricchiti, che soggiornavano fieri al Quisisana e spendevano milioni di rubli e dollari su e giù per le vie dello shopping. Ma una certa nobiltà partenopea, decaduta a volte, e qualche vecchio abitué da ammirare mentre consumava un campari in piazzetta, da Tiberio, era sopravvissuto. Duri a morire. Allora andava di moda andare all’Anima e Core di Guido Lembo. Si iniziava a cenare in un ristorante adiacente, sotto un manto di alberi di limone, e poi spesso si finiva di mangiare altrove: “Qui a Capri va di moda ordinare una portata da una parte e una d’altra” - sosteneva un amico con velleità da Giancarlo Giammetti, e qualche uscita più degna dell’americano a Roma di Sordi. Sarà stato vero? Si attendono smentite. Anche se del resto con i locali è sempre andata così: si iniziava dal Pantarei, poi si cantava con la band di Lembo, sui tavoli, con maracas e i tamburelli, poi si imboccava la porta del Number One, e si sbucava internamente al Number Two. Dove si usciva all’alba. Le canzoni di Peppino accompagnavano molti di quei momenti. Anche se tutto era cambiato, decaduto, diverso, ci si poteva illudere di essere uno di quel club leggendario. Per poco. Perché c’era sempre qualcuno che nella sua uniforme di finissimo lino bianco, era lì pronto a ricordarti le parole dissacranti e laconiche dell’avvocato Agnelli: “Andavo a Capri quando le contesse facevano le puttane, ora che le puttane fanno le contesse non mi diverte più”. Forse aveva ragione. La fauna era cambiata. Ma in certi casi bisogna essere pragmatici, non rimpiangere il passato che non ci appartiene. Semmai rendergli omaggio. Vivere l’epoca che ci è toccata vivere. Amare i luoghi come sono diventati, e in essi le donne che ci capitano. Come quelle a cui cantava il Maestro di Capri. Perderle e trovarne di nuove. Magari proprio sull'isola più bella del mondo. Lo pensavo spesso, quando guardavo in direzione del bancone, e dicevo, altrettanto laconico: “Cameriere, prego, champagne.”

·        Peter Gabriel.

Carlo Massarini per “la Stampa” il 13 febbraio 2020. È un po' come se compisse gli anni un parente, o un vecchio amico. Perché nell' immaginario e nel cuore di tanti -ma proprio tanti - ex-ragazzi italiani Peter Gabriel è quello: un amico di gioventù nato nella campagna di Chobham il 13 febbraio 1950, uno che ha avuto successo, col quale poi ti sei perso di vista e che ora arriva ai settant' anni. Oppure un fratello che hai ammirato e con cui hai condiviso, prima ancora della musica, le tante battaglie civili e sociali, ecologiche e tecnologiche. Per noi della prima ora, che l' abbiamo accompagnato in quei primi passi coi Genesis negli Anni 70, è le due cose insieme. Affetto allo stato puro. Perché sì, quelli erano gli anni in cui «tutto poteva succedere», anche che uno dei gruppi più iconici degli Anni 70 - «del prog» è riduttivo - venisse scoperto e adottato e issato fino alla testa delle classifiche prima in Italia che nel resto del mondo, Inghilterra compresa. Che quel folletto in cui albergava una fantasia sfrenata diventasse il front man più amato. E che tutto questo, e quella sequenza di quattro album incantati da Nursery Crime, 1972, a The Lamb, 1974, venisse bruscamente interrotto, e si dovesse ripartire da zero. I Genesis sono stati un' epopea senza precedenti: le influenze neoclassiche e la teatralità sulla scena erano pane per i nostri denti, le pirotecnìe di Peter una gioia per gli occhi. Dalla prima maschera, la testa di volpe con il vestito rosso della moglie Jill, fino al mascara e al chiodo di Rael in The Lamb, Peter sorprendeva e catturava, fosse vestito da fiore, da vecchio, da Britannia, da gang-arolo o da bitorzoluto slipperman. Chi c' era si ricorderà lo sbigottimento del sapere che quel doppio, densissimo e misterioso lp presentato in concerto a Torino nell' aprile 75 sarebbe stato il canto del cigno, e quel concerto, arricchito da uno slide show su tre schermi futuristico per l' epoca, sarebbe stato l' ultimo dei Genesis-con-Peter. Aldilà dei fattori personali e delle inevitabili gelosie per il suo ruolo, più grande della band il distacco aveva una logica ineluttabile: «La popolarità non ci permetteva una libertà artistica. Era diventato un rischio cambiare, troppi soldi e persone coinvolte.

Il capolavoro "So" dell' 86. Era tutto congegnato per preservare come eravamo. Io volevo e avevo bisogno di cambiare», disse al Melody Maker nel 1977. «Sento che la mia principale responsabilità è di creare situazioni e cercare nuove esperienze, evitando qualsiasi restrizione. Vivrò o morirò nudo e allo scoperto - aggiungeva ridendo - voglio entrare in progetti piccoli, cose rischiose ed avventurose, che tengano la mia mente fresca e attiva». Ancora non sapeva neanche cosa, ma così è stato: prima di arrivare al suo capolavoro dell' 86, So, Peter incide quattro album totalmente diversi dai Genesis (che nel frattempo vanno verso il pop e sbancano i botteghini). Intitolati semplicemente P.G. («Del resto, era quello che contenevano, no?»), sono un lento, progressivo affinamento di quello che diventerà poi il suo suono: atmosferico o bombastico, un post-rock venato da quelle influenze etniche - soprattutto africane - che lo renderanno un pioniere nella costruzione di una musica senza frontiere. Insieme o parallelamente a quella piccola cerchia dell' intellighentia british (Fripp, Eno, Bowie, Kate Bush) produce musica di altissimo livello emotivo e concettuale, anche se con scadenze bibliche innaturali per qualsiasi star (solo due dischi di inediti: Us nel '92 e Up nel 2002), ma nella vita di Gabriel c' è molto di più. La passione civile lo trova in prima fila nei concerti degli Anni 80 e 90 di Amnesty International, la sua non-profit Witness fornisce strumenti di ripresa per testimoniare le ingiustizie (una idea già degli Anni 80, pre-cellulari, resa possibile dall' evoluzione dalle tecnologie), in privato si palesa a Davos per parlare - e suppongo stimolare per il meglio - i potenti del mondo. Si è pronunciato per la creazione di uno Stato palestinese e contro la Brexit.

« Il nuovo album? In autunno». La sua passione per la world music prende vita nella etichetta Real World, e nelle magiche ricorrenze live nei WOMAD Festival. L' interesse per la tecnologia lo porta a fare il primo dvd multimediali, Explora (seguiranno Secret World e Eve) e un sistema di audio-streaming HQ, OD2. Il richiamo dell' arte lo porta a cercare artisti contemporanei per le sue copertine, a spettacoli - con il palco spesso al centro dello spazio - in cui l' elemento sorpresa/meraviglia è il fulcro; produce colonne sonore per il cinema (su tutte Birdy e L' ultima tentazione di Cristo) e videoclip da stato dell' arte. E nel nuovo secolo torna anche sul palco, sobrio ed elegantissimo nei suoi abiti neri in stile giapponese. Concerti da brividi, la sua voce rauca e lievemente strozzata ormai ancora più matura, come quando canta Scratch My Back all' Arena di Verona, con una intera orchestra alle spalle. «Expect the unexpected», è uno dei suoi famosi slogan che lo ha portato lontano. Un viaggio sontuoso, da vero esploratore a 360° delle umane cose. Non a caso, si considera «a humanist», più che «a musician», che alla richiesta «quando il nuovo album?» risponde sempre «in autunno», senza specificare mai l' anno. Arrivato a 70, tutto è ancora possibile: anche che da quel mantra, «cerca di non essere prevedibile», nasca un album di inediti: SoUsUpche ne dite di «Now»? Siamo sempre qui, Peter. E questa è casa tua.

·        Pierfrancesco Favino.

Dagospia il 6 ottobre 2020. Da I Lunatici Radio2. Pierfrancesco Favino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte alle sei dal lunedì al venerdì notte. Favino ha parlato un po di se: "Io sono stato un bambino capace di rifugiarmi spesso nella fantasia, non ero scalmanato, ero energico ma molto fantasioso, mi inventavo storie, mi rifugiavo spesso nella mia fantasia. Da padre, cerco di dare ai miei figli quello che mi sembra di non aver avuto da piccolo. Io sono stato l'ultimo figlio di genitori piuttosto grandi, per cui forse il lato del gioco, della dimostrazione e della vicinanza fisica, forse un po' mi è mancato. I nostri genitori ci accarezzavano mentre dormivamo, sembrava quasi che dare troppa vicinanza fisica o troppe smancerie ai figli potesse creare in loro debolezza. Era quasi una regola non scritta, che però si portava avanti. Non sono geloso, ho molta empatia e ho molto rispetto per lo spazio delle mie figlie. Penso che essere bambini e ragazzi in questo momento storico sia molto difficile". Sul momento che stiamo vivendo: "Al cinema le cose non vanno come speravo. Però è vero anche che rispetto a un anno fa tutto il cinema soffre tantissimo, c'è un calo del settanta percento, è una enormità. Va detto che probabilmente nessuno ha spiegato agli spettatori che andare al cinema oggi è una esperienza più sicura di altre. Se vado al cinema con mio padre o mio figlio, sarò seduto accanto a loro, e vicino avrò delle sedie vuote. Se si prende un areo per due ore e mezza, andiamo in un supermercato o in un autobus, capiamo che ci sono tante situazioni in cui condividiamo, forse con meno sicurezza. Capisco il timore, ma c'è bisogno di qualcuno che dica che oggi andare al cinema è una esperienza sicura. Non si ha prossimità con chi non si conosce, le sale si sono organizzate bene. E penso che abbiamo bisogno di quegli spazi che nutrano qualche altro aspetto della nostra vita che non siano solo il dovere. Giustamente dobbiamo essere responsabili, ma gli spazi in cui noi possiamo nutrire lo spirito, l'anima, lo spazio dello svago, rischiano di essere messi da parte e di essere vissuti sempre e solo esclusivamente in maniera individuale. Io non ho paura degli altri, non voglio avere paura degli altri, voglio condividere le mie esperienze, sempre in sicurezza". Bilancio su questi mesi difficili: "Dicevano che ne saremmo usciti migliori? E' impossibile uscire migliori. Da trent'anni viviamo con la paura. Di un attentato, di chi viene dal mare, di chi ti toglie qualcosa. Poi la paura del covid, che tutto sommato è la paura più democratica che esista. Però sono trent'anni che ci viene inculcata l'idea che il tuo prossimo possa essere il tuo nemico. Se c'è un messaggio del genere, è fatale che poi si arrivi alla violenza, verbale o fisica. Io scelgo di vivere una vita fatta di condivisione e cooperazione, faccio un mestiere che si fa insieme, continuerò a desiderare di fare le cose insieme agli altri, condividendo con gli altri. Sempre responsabilmente, io porto la mascherina sempre, non c'è bisogno che qualcuno mi dica di farlo. Non ci vedo migliorati, basta guardare le notizie sui giornali. L'idea che la felicità di qualcuno possa portarti a commettere un atto folle è una cosa tremenda. L'idea che ci si possa mettere davanti a una tastiera e passare il tempo ad offendere, penso che questa cosa qui nasca dalla rabbia e credo che la rabbia nasca dall'isolamento, dalle difficoltà, dal disagio, che tutti stiamo vivendo. Io sono in una situazione privilegiata, lo so, non mi metto a pontificare, ma non si può non occuparsi ad esempio delle attività giovanili, o chiedersi dove si voglia andare".

Favino ha aggiunto: "Viviamo in un Paese che è la culla della bellezza, della cultura, dell'arte, già pensare che possa nascere un'idea di gusto nazionale, potrebbe essere una cosa in grado di sollevare gli animi. Se ci stiamo abbrutendo? Io certe volte dopo aver letto i giornali la mattina ho bisogno di respirare. E' come se dovessimo essere rinchiusi in questa idea di violenza, di assenza di futuro, in più durante una pandemia che spaventa tutti a un livello molto profondo. Non sappiamo ancora che cosa sta facendo dal punto di vista emotivo e psicologico. Per questo mi permetto di dire, facciamoci una coccola. Occupiamoci della nostra pancia, del nostro respiro. Regaliamoci qualcosa che ci faccia stare meglio. Sempre responsabilmente, lo ripeto".

Sugli haters: "Io non ho la pretesa di piacere a tutti, ce li ho anche gli haters, ho delle brave persone che si occupano dei social evidentemente. Quando piaci a tutti è molto sinistro, ci sono persone che possono non apprezzarmi, faccio un mestiere che è soggetto al gusto e il gusto non può essere dibattuto. Credo però che le persone riconoscano che quanto faccio non è gratuito, non è arrivato da solo, ho fatto una lunga gavetta. Certe volte trovo giuste le critiche, voglio essere onesto fino in fondo, il protagonista del mio ultimo film 'Padrenostro', è Mattia Garaci, con Francesco Ghenghi sono più presenti di me io sono stato molto sorpreso del premio ricevuto a Venezia, forse ho fatto altri ruoli, altre volte, che erano più rotondi, diciamo così, e che magari non sono stati premiati".

Sul suo lavoro: "Non riesco mai a dirmi bravo, sono il peggior nemico di me stesso, non guardo molto le cose che faccio, l'esperienza che fai sul set è diversa rispetto a quello che poi vedi. Il ruolo che mi ha cambiato la vita? Non penso che si diventi di colpo un attore di un altro livello, sempre che io sappia cos'è quest'altro livello, perché poi alla fine non lo sai mai. Mi ero dato un tempo, oltre il quale se avessi capito che non era la mia strada, forse avrei scelto altro. Non avevo un piano b, ma ci sono tanti aspetti di questo mondo che mi attraggono. Se fossi arrivato a una certa età senza poter pagare l'affitto o fare la spesa, avrei capito che dovevo cambiar strada. Il primo ruolo che mi ha fatto capire che potevo continuare a fare questo mestiere è stato il sergente Rizzo di El Alamein. Per la prima volta mi era sembrato di riuscire a dar voce ad alcune cose che avevo imparato". Favino è tra i protagonisti di Padrenostro, film nelle sale in questi giorni: "I primi feedback sono buoni, ci sembra di essere riusciti a fare quello che volevamo fare, raccontare una storia che portasse gli spettatori ad essere in contatto con la propria esperienza, sia dei figli che dei genitori. Il rapporto tra padre e figlio è un rapporto molto misterioso, tutte le persone che mi scrivono alla fine parlano di loro, del loro rapporto, quando un film riesce a fare questo è una bella cosa. Il regista del film racconta il ferimento del padre da parte di un gruppo di terroristi. Una cosa che io ho sentito subito vicina. Per chi ha la nostra età, in quegli anni vedeva attorno a se questo mondo muoversi freneticamente, con un senso di paura di cui non riconoscevamo l'origine. E' una cosa un po' sottovalutata, come i bambini subiscono ciò che il mondo intorno a loro in quel momento muove. Io non sono figlio di una persona che aveva una carica pubblica, ma mi ricordo perfettamente cosa accadeva nelle strade quando ci fu il rapimento Moro. E mi ricordo quando ritrovarono il suo cadavere. La barba lunga, la mano penzolante, la macchina, mi colpirono delle immagini, questo era più o meno quello che volevamo fare. Siamo partiti da un dato reale, ma poi il film è di fantasia".

Dagospia il 13 gennaio 2020 .Da I Lunatici Radio2. Pierfrancesco Favino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il popolare attore si è sottoposto alle domande degli ascoltatori intervenuti attraverso messaggi vocali in un botta e risposta molto appassionante.

"Come hai fatto a rifare uguale la voce di Craxi", ha chiesto Massimiliano.

"Mi sono chiuso nelle stanze in cui studio, ho ascoltato per giorni e giorni la sua voce e ho cercato di capire quanto e dove fosse diversa dalla mia. Mi sono domandato perché parlasse in quel modo e cosa volesse comunicare con il suo modo di parlare. Del suo modo di parlare ha fatto un'arma importante, mi sono sempre domandato cosa ci fosse dietro. Le pause. I silenzi. Piano piano ho cercato di arrivare a portare la mia voce ad assomigliargli, non soltanto per imitarlo ma per coglierne il respiro. Quando cogli il respiro di un uomo ti si aprono altre domande, altri pensieri e cerchi in qualche modo di trovarlo, di toccarlo. E' il desiderio di ogni attore: sparire fino in fondo nel mondo di un'altra persona. A me questo è successo in alcuni aspetti della vicenda raccontata dal film di Amelio, che racconta la caduta di quest'uomo. Mi sono chiesto si capiterà anche a me di cadere. Anche se non ho quel potere ovviamente".

"Come hai reagito quando ha saputo che avresti interpretato Craxi", ha domandato Monica.

"Ma che davvero? Ma che io? Ma che c'entro! Mi sentivo tanto distante da Craxi, non mi ero mai associato a Craxi come persona. Però poi a un certo punto ho iniziato a studiare, a leggere, a domandarmi che uomo fosse".

"Cosa ne pensi del personaggio Craxi?", la domanda di Luigi.

"E' complicato da dire. Avevo un'immagine di Craxi che era quella dell'uomo politico e della sua vicenda giudiziaria. Mi è stato dato modo di toccare un aspetto che non mi ero mai fermato a domandarmi e cioè l'aspetto umano. Questo non per giustificarlo o per trovare per forza delle ragioni di empatia. Il film si sofferma sugli ultimi mesi di vita di quest'uomo. Parla della sua caduta".

"Esiste anche per gli uomini nel mondo dello spettacolo la piaga delle proposte indecenti?", ha chiesto Matteo.

"Se mi è successo o non me ne sono accorto oppure fortunatamente ho scelto di non accettarle. Ma non perché non sappia che esista questa cosa, ma perché in qualche modo penso di poter fare questo mestiere per meriti. E  lo pensavo anche quando non riuscivo a farlo con continuità. Non svenderei niente di me o di personale per un'idea di successo. Che a quel punto, di sicuro, diventerebbe un totale insuccesso".

"Ci sono stati momenti bui durante la tua carriera?", la domanda di Marisa.

"Eccome, io ci ho messo un sacco di tempo a riuscire a fare questo mestiere con continuità. Ho fatto un sacco di altri mestieri per pagare l'affitto o per mangiare. Ma non l'ho mai fatto pensando che il mondo di me non riconoscesse la mia capacità. Ho iniziato a fare questo lavoro sapendo che era complicato, ma l'ho fatto sempre con grande gioia. Ci sono stati momenti difficili in cui non capivo perché scegliessero altri e non me. Faccio l'attore dal 1992, i film che hanno iniziato a farmi vedere sono del 2005, del 2004. Negli anni precedenti ho fatto la gavetta, per fortuna. Ho sempre fatto l'attore con gioia. In questo mestiere poi c'è anche una grande componente di fortuna. La nostra professione va a ondate. In questo momento lavoro tanto, magari un momento non andrà così".

"Qual è la prima cosa che guardi in una donna?  Che ricordo hai di Sanremo?", le curiosità di Catia.

"Può sembrare ridicolo, sicuramente sono attratto dall'aspetto fisico di una donna, ma è come se ci fosse qualcosa in più ad attirarmi, come i particolari fisici si mettono insieme. Mi innamoro del carattere, della capacità di farmi ridere, sono quel tipo di uomo. Mi devo innamorare, anche solo di un dettaglio. Sanremo? Ho un ricordo bellissimo del Festival. Per me è stata una cosa liberatoria, attraverso Sanremo le persone hanno scoperto delle cose di me che io sapevo ma che ho tenuto nascoste per troppo tempo. Tra Claudio, Michelle e me si creò un'empatia incredibile".

"Sei fedele? Secondo te esistono i raccomandati nel mondo del cinema e quanto durano?" la domanda di Ilaria.

"Sì, sono un tipo fedele, alla mia donna e a quello che costruiamo insieme. Penso che la fedeltà sia anche questo. Essere fedeli non solo all'altro ma anche a quello che costruite insieme. Esistono i raccomandati nel mondo del cinema, ma durano poco. La raccomandazione non può arrivare dove arriva il talento. Il nostro è un mestiere duro, non esistono carriere durature se non ci sono grandi talenti o grandi doti caratteriali".

Malcom Pagani per Vanity Fair il 27 febbraio 2020. Le voglie e le esplosioni irrazionali, i primi passi, gioie e dispiaceri: «Non avevo mai fatto l’amore e di quel preciso istante ricordo tutto. Le aspettative e i sogni di cui avevo caricato quel momento. L’emozione, il tremore, il luogo, gli odori, le pareti della stanza, il silenzio del dopo. Ero sconvolto, scioccato, elettrizzato, quasi drogato dalla felicità: non dormii per due giorni». Pierfrancesco Favino non ha dimenticato i dubbi dell’adolescenza: «Non facevo altro che ripetermi: “Quando sarò grande” fantasticando così tanto sul mio futuro che quando il domani è arrivato non me ne sono quasi reso conto» e nel dare ordine agli Anni più belli, ora che Gabriele Muccino gli ha chiesto di interpretarli e le stagioni sono 50, scopre che l’innocenza dell’età è solo una questione di prospettiva:  «“Non sarò mai come mio padre, non sarò mai come mia madre. Non sarò mai come i miei genitori”. Lo abbiamo detto tutti: per salvarci, per affrancarci, per illuderci di “diventare noi veramente noi”, come cantava Battisti. E poi alla fine scopriamo che non solo altro non siamo che un’evoluzione della matrice originaria, ma che se non discendessimo da un esempio, non avremmo mai potuto compiere quell’evoluzione. Non ci stanno cazzi, l’imprinting, fortissimo, esiste: nei compagni di vita che ci scegliamo, nelle nostre aspirazioni, nel modo di relazionarci alla realtà». Dei tre personaggi maschili degli Anni più belli, un idealista, un irrisolto e un pragmatico, Favino veste i panni del terzo. Il figlio di un meccanico manesco che dall’antro buio di un sottoscala, partendo da zero, trova la propria luce nell’affermazione sociale: «È uno che fa le cose, le costruisce e ci mette le mani senza paura».

Lei era così?

«Ero molto più fantasioso. Più sognatore e meno irrequieto. Da ragazzo mi vedevo con una famiglia grande, solida e legata. Era una proiezione consapevole: mio padre mi aveva avuto a 46 anni. Il mio progetto era diverso: avrei avuto dei figli molto prima perché volevo avere il tempo di giocarci».

Che uomo era suo padre?

«Un uomo di un’altra generazione. Orfano a 8 anni, dopo gli studi in seminario, si era trovato a gestire una situazione di solitudine completa. Aveva lavorato per tutta la vita considerando intelligenza e pensiero come forme di riscatto».

È stato importante?

«Non più di mia madre e di tante altre persone e cose che mi hanno formato, a iniziare proprio dalla scelta del mio mestiere. Recitare ha rappresentato il mio gesto di unicità, il mio strappo identitario, il mio dire “non sarò come voi”. Non conoscevo niente del mondo in cui stavo per lanciarmi se non il desiderio di farne parte».

Un desiderio non distante da quello che si prova da ragazzi nei confronti dei coetanei.

«Avevo i miei amici con i quali parlavo di calcio e di musica, ma avevo soprattutto le mie amiche. Sono cresciuto con tre sorelle, come in Cechov, e non ho mai diviso il mondo in uomini o donne. Il genere femminile per me non ha mai rappresentato un salto al di là del muro né lo scoglio pazzesco che è per tanti maschi. “Che fai, parli con le ragazze?”, sibilavano a scuola. E me lo dicevano in una commistione di invidia, disinteresse e stupore: “Ma che argomenti possono avere in comune?”».

E lei li aveva?

«È vero che avrei parlato anche con i muri e il mio soprannome era “bla bla” però non è che fossi infallibile. Ogni mattina, per un tempo lunghissimo, ho lasciato una rosa bianca davanti alla porta di casa della mia prima fidanzata. Mi sembrava un gesto dolce. Era il fiore delle puerpere, ma non ne avevo la minima idea. Dopo tre anni lei ne ebbe abbastanza. E mi abbandonò al mio destino».

Che rapporto ha con l’abbandono?

«A dieci anni, mio padre portò tutta la famiglia fuori Roma. Da un giorno all’altro, forse per ragioni economiche, forse per avere più spazio, partimmo in sei e andammo a vivere non lontano da Fregene. Un altro mondo. Di mattina mi svegliavo all’alba per andare a scuola per poi tornare a casa nel pomeriggio inoltrato. Entrai rapidamente in una specie di buio. Mi sentii sradicato all’improvviso dal mio ambiente e fu difficile ricostruire le amicizie. Quelle dell’infanzia le persi una dopo l’altra».

E si trovò solo?

«Molto. Nella fase in cui metti il tuo mondo da adolescente contro quello degli adulti non avevo amici che mi spalleggiassero. Ero solo contro una forza, i miei genitori, che era obbiettivamente più potente della mia: nella contestazione come negli errori. Non avevo neanche la forza di valicare il limite del proibito perché non farlo in compagnia perdeva di senso. Fino a 25 anni non bevevo, non fumavo e affogavo la noia nello sport. Ho avuto un’adolescenza tardiva e le mie cazzate le ho fatte più tardi. Forse da un certo punto di vista è stato un bene perché avevo già la forza di controllarle e mettere in luce i pericoli. Prima ero al buio».

Che tipo di buio?

«Quel buio che ti spegne la curiosità, ti svuota e ti toglie energie. Mi si era spenta la testa. Era una specie di lobotomia. Di sonnolenza apatica. Intorno a me divenne tutto ovattato e naturalmente, alla fine, la pagai. Al secondo anno di liceo scientifico mi diedero quattro materie a settembre. Passai l’estate a studiare svogliatamente e alla fine, puntuale, arrivò la sòla».

Che tipo di fregatura?

«Andai a vedere i quadri appesi nelle bacheche e sotto il nome Favino c’era una lunga striscia rossa. Mi bocciarono. Pensai a mio padre, alla sua delusione. Mi volevo sotterrare. Al di là di tutto, la matematica non sarebbe mai diventato il mio mestiere. Le interrogazioni me le ricordo al ralenty: la voce deformata della professoressa, il gesso, lentissimo, a disegnare geroglifici sulla lavagna, i numeri, tutti indistintamente misteriosi. “Risolvi quest’equazione”, mi dicevano e io facevo scena muta. A volte, quel ricordo diventa un incubo».

Un incubo metaforico?

«Un incubo concretissimo. Sogno di dover rifare gli esami di matematica e non finisce mai bene. Avrei dovuto interessarmi di altro, delle materie umanistiche che tanto mi piacevano o della fisica che è quasi una materia letteraria. La matematica, volendo, aveva anche una sua musica poetica, ma io non riuscivo a capirne la melodia. Per contrappasso ho una figlia bravissima: quando mi chiede qualcosa in tema mi allontano con una scusa, sbircio il telefonino e torno con la risposta pronta. È una sorta di viaggio nel passato, un viaggio da fermo, un riscatto tardivo. Truccando le carte».

Viaggi memorabili della sua giovinezza?

«Negli anni ’80 volevamo andare tutti in Inghilterra. Tormentai i miei genitori fino a ottenere un sì e finii in un film di Ken Loach. A casa di una famiglia della working class che per arrotondare apriva le proprie porte agli italiani e alle vacanze studio. Ero convinto che avrei diviso l’appartamento di Woking con il mio amico Guido e invece mi toccò in sorte Tommaso. Una specie di guardia del corpo che girava con un pugno di ferro in tasca. Quando camminavamo per strada, io minuto, lui gigantesco, creavamo un certo effetto comico».

Come mai aveva un pugno di ferro in tasca?

«All’epoca il gioco di società più in voga era la caccia all’italiano e ogni sera, passando per un ponticello dove si riunivano i teddy boys del luogo, ci si poneva un’alternativa secca: fare a botte o darcela a gambe. Scegliemmo sempre la seconda opzione. La mascotte del gruppo inglese era una ragazza bellissima: loro, giocando sullo stereotipo dell’italiano galante, facevano finta di trattarla male per provocare la nostra reazione. Ma il passaggio sul ponte somigliava a un rituale teatrale: da parte nostra c’era la consapevolezza che la messa in scena superava il rischio reale e gli inglesi in fondo erano felici di incontrarci. Eravamo il diversivo: senza di noi si sarebbero annoiati».

I suoi ricordi sono vividi.

«Quelle due settimane mi sembrarono lunghe un anno, ma in generale non ho dimenticato niente. Scrissi anche un diario di quel viaggio. Da adolescente scrivevo molto: poi ho smesso, chissà perché».

Cosa c’era nel diario?

«Con la sua copertina nera rigida e gli angoli rossi, quel quaderno l’ho ritrovato. Dentro ballavano le cronache ironiche delle nostre avventure con un certo gusto per la deformazione grottesca della realtà. Un’eredità dei Favino: a casa si rideva».

Però quando suo padre si sentì comunicare la sua scelta non fu poi così contento.

«Era ovvio che andare in quella direzione avrebbe creato uno scontro. Per i loro figli, i miei genitori volevano certezze. E la laurea trent’anni fa un lavoro te lo garantiva: magari non il lavoro dei sogni, ma uno stipendio sì. Noi la preoccupazione del futuro, a quell’epoca, neanche sapevamo cosa fosse».

Il mestiere d’attore li preoccupava?

«Avevano ragione, era un ambito che non garantiva e non garantisce nulla. Nella mia classe d’Accademia eravamo in 26. Oggi lavoriamo in sei. Puoi possedere talento, ma non avere il carattere. Puoi perderti. Puoi avere sfortuna».

Chi fu decisivo nell’indirizzarla?

«Un’insegnante di inglese, Carla Giro, appassionata di film. Mi fece capire che il cinema non era soltanto intrattenimento o immagine, ma un linguaggio che ti consentiva di dire ciò che pensavi della vita. Carla ci spiegò che dalle cose brutte si può anche sfuggire, che esistono i sogni e che vanno perseguiti perché altrimenti poi fai i conti con il rimpianto».

Il rimpianto. I bilanci esistenziali. Le occasioni perdute e i treni che non ripassano. Negli Anni più belli si parla anche di questo.

«Il vero protagonista del film è il tempo. Ed è per questo che credo che nella storia possa riconoscersi chiunque».

C’è un debito verso l’Ettore Scola di C’eravamo tanto amati?

«Da molti anni, quando ci incontriamo, io e Muccino buttiamo sul tavolo mezza battuta di Scola. Uno la inizia e l’altro la finisce. Negli Anni più belli c’è sicuramente un’ispirazione, ma più che di filiazione parlerei di continuità».

La sua prima volta sul set?

«Il film era di Alberto Negrin e fu uno choc. Non capivo cosa volessero da me e pensai “meno male che torno in Accademia”. Venivo dal mio primo anno di recitazione ed ero cane come pochi attori al mondo. Porca troia se ero cane, ero un cane dannato».

Quante volte negli anni d’Accademia ha pensato «non ce la farò mai»?

«Non l’ho mai pensato perché non sapevo neanche cosa significasse recitare. Avvertivo che qualcosa non funzionava, però sapevo che esisteva. Che c’era un modo di stare sul palco che non prevedesse fatica, sofferenza, lotta e guerra e che somigliava alla libertà. Io e altri alunni andavamo spesso in pellegrinaggio al teatrino di via Vittoria, dentro Santa Cecilia e ascoltavo rapito gli allievi del conservatorio che provavano. Nelle note c’era proprio quella libertà che io non riuscivo a trovare: la leggerezza dell’espressione».

Nell’Accademia non c’era leggerezza?

«La parola mi sembrava un macigno. Le mascelle erano serrate. Il corpo rigido. Vedevo i miei compagni e mi parevano tutti più convinti di me: ma qualcuno aveva delle crisi, altri piangevano e avevo l’impressione che la felicità abitasse altrove. C’era qualcosa che non mi tornava».

Quando iniziarono a migliorare le cose?

«A Montalcino, durante un seminario. C’erano studenti che venivano da tutto il mondo e incontrai un insegnante inglese che mi parve aver capito tutto di quel che cercavo. Allora pensavo che avrei fatto solo teatro e non credevo di avere una faccia da cinema. Anzi, obiettivamente, non ce l’avevo».

Tutti la considerano bello. Si sentiva tale?

«Mai avuto consapevolezza della mia bellezza: né ieri né oggi. A 33, 34 anni un uomo con la mia faccia forse diventa interessante, ma a 20 no. A venti ero faccioso. E in quell’età o sei bello o maledetto. Avrei potuto avere le qualità del protagonista, ma non ne avevo il volto».

È stata dura?

«Sono nato nel 1969. L’ultimo bacio è del 2001. Romanzo criminale del 2005. In mezzo, tra un teatro e l’altro, c’è un universo di piccoli lavori».

Se li ricorda?

«Tutti. Ho fatto il cameriere, il buttafuori, il pony express, le consegne dei pacchi di Natale, il servizio d’ordine fuori dalla discoteca, l’accompagnatore dei bambini sui cavalli a Villa Borghese. La mia prima casa era un appartamento di 30 metri quadrati. A me sembrava una reggia. Ero felicissimo».

Non le venne il dubbio che la strada fosse sbagliata?

«Mi ero dato un tempo: se a 35 non va, cambio orizzonte. Pensavo spesso al domani, a cosa sarei diventato».

Come cantano i Negramaro: A quello che eravamo, a quello che ora siamo, a come noi saremo un giorno.

«Tornare a lavorare con Gabriele Muccino mi ha fatto impressione. Sfido chiunque a ricordarsi che ruolo facessi nell’Ultimo bacio. Loro erano protagonisti, io avevo sì e no dieci giorni di riprese in tutto. Mi sentivo Calimero: quello fuori dal gruppo che doveva fare amicizia a ogni costo. “Ehi, ciao ragazzi”, dicevo per farmi coraggio e apparire a mio agio. Se ci penso provo tenerezza. Sono imbarazzi da cui si passa, da cui passano tutti».

C’è qualcosa di cui è orgoglioso?

«Forse è un orgoglio un po’ maschile: ma io so che mi sono guadagnato tutto senza mai avere una raccomandazione, una spinta, una parola o una telefonata».

L’affermazione regala sicurezze e felicità?

«Io campavo bene ed ero felice anche con 60.000 lire alla settimana. Bisogna relativizzare, guardare alla vita con il sorriso. Oggi le persone hanno deciso che io sono sexy, domani cambieranno idea e diranno che sono brutto. Dicono: “Sei l’attore del momento”. Ma che vuol dire l’attore del momento? L’attore del momento è come la playmate del mese di Playboy. Non aspiro a essere considerato il più bravo attore italiano comunque, non me ne frega niente».

A cosa aspira allora?

«A portare fino in fondo quella libertà di cui le parlavo prima, a non mettere veli tra me e l’espressione».

È un’impresa complessa.

«A Keith Jarrett, nel ’75, a Colonia riuscì. Prima di cominciare un concerto memorabile, del tutto improvvisato, Jarrett venne fermato da una persona del suo staff. “Signor Jarrett, è nato suo figlio”, gli dicono. Lui entra in scena. La prima nota è la campanella del teatro. Il suono che avverte che il concerto sta per iniziare. Il resto è arte. Non sai cosa succederà, ma sai che lui non si chiuderà davanti al mondo».

Perché?

«Perché il mondo intorno a te è la fonte dell’inizio di una cosa che ancora non conosci. Una prospettiva che mi emoziona. Senti quel disco e capisci che a Colonia qualcosa sta volando: che non c’è divisione tra quel corpo e quella tastiera. Quel corpo e quella tastiera sono la musica. Jarrett non sa dove inizi ciò che cerca e neanche se lo domanda: è la pancia che lo guida. È affidamento totale all’istinto, più che al calcolo. Io non so se sono la tastiera o il corpo, ma la musica dovrebbe essere il film o il testo teatrale che interpreto. Se riesco ad accendere quella fiamma e fondo gli elementi divento veramente il protagonista di una grande storia».

Ci vuole talento.

«E molto rigore. Io non so se ce l’ho, ma ambisco ad avvicinarmici. Perché Francis Bacon per dieci volte dipinge Innocenzo X? Quella cosa non ha a che fare con il successo, con il commercio o con il fatto che sei Francis Bacon. Ha a che fare con la tua ossessione di ricerca di qualche cosa che probabilmente, almeno per me, è inarrivabile».

Ne è sicuro?

«Non so se riuscirei a stare come Joaquin Phoenix da solo sulla scalinata tutto il giorno come in Joker, ma lo ammiro. E mi domando come facciano lui e Daniel Day-Lewis – uno che si faceva chiamare presidente sul set di Lincoln anche a riprese concluse – a tenere quella concentrazione così chiusa. Così escludente. Non so se ci riuscirei. A me stare da solo non piace, per me recitare rimane un gioco. Più gioco e più riesco a entrare nelle cose, anche se ho la maschera di Craxi addosso».

Le danno del perfezionista.

«È una cazzata. Ho un’ossessione verso il miglioramento che viene confusa erroneamente per perfezionismo: io sono tutt’altro che perfetto. Al limite tendo a qualcosa che come le dicevo non so neanche se esista davvero».

La prospettiva di entrare troppo dentro le cose la spaventa? Teme di rimanerne ingabbiato?

«Non è quello, però mi domando: quando per sei mesi e 24 ore al giorno agisci esclusivamente in quel modo, alla maniera dei Phoenix e dei Lewis, cosa c’è oltre la patina di quel rituale costante? Che livello di coscienza vai a toccare? Non mi spaventa perché tema di smarrirmi o abbia paura di perdermi definitivamente. Credo che quel rischio non esista, ma mi terrorizza l’isolamento che c’è dietro».

Ma l’attore non è comunque solo?

«Solissimo. Quando hai la macchina da presa addosso sei come un essere umano lanciato nello spazio. Sei davanti a un vetro e davanti al vetro piangi, ridi e ti sveli. Poi si spengono le luci, torni in albergo e lì la compagnia evapora».

E che succede?

«Se sei molto fortunato hai un amico con cui mangiare e parlare fino a notte fonda di calcio. Una cosa semplice. Romantica e spesso romanista».

·        Pier Luigi Pizzi.

Natalia Aspesi per ''la Repubblica'' il 7 giugno 2020. Era lo studio, la "botega" di Tiziano Vecellio, un luogo appartato nel silenzio, tra San Polo e San Tomà, e siccome quel grande artista era anche un geniale imprenditore, titolare di una rinomata azienda pittorica, si trattava di un vero palazzo, con il portego, il tipico immenso androne che dà alle antiche abitazioni veneziane quell' incanto superbo, regale, fatto per contenere genio e bellezza. Ci abita da anni Pier Luigi Pizzi che di quello spazio aveva bisogno per la sua collezione sempre arricchita d' arte barocca, iniziata dopo una mostra parigina da lui curata: appesi sulle alte pareti rosso pompeiano, si affollano qualche languida Maddalena e una gran quantità di San Sebastiani a torso nudo provvisto di frecce, opere di Guido Reni, Luca Giordano, Salvator Rosa, Guercino, Massimo Stanzione e Cecco del Caravaggio: «Chissà che mi porti buono, Tiziano è morto vecchissimo lavorando sino all' ultimo». Il regista-scenografo-costumista di più longeva fama ha cominciato a lavorare a 21 anni, ne compirà 90 il 15 giugno, «proprio il giorno in cui dovrebbero riprendere i cinema e i teatri, i concerti, la lirica, mi pare un buon auspicio anche per me». Spuntano dappertutto novantenni vigorosi e impegnatissimi, una categoria a cui sommessamente appartengo anche io, almeno per la gragnuola di anni; e proprio in un tempo in cui per mantenere in vita gli anziani, soprattutto se anzianissimi (anche se si dice che oltre i 90 il Covid-19 ci rifiuta, mah), si consiglia di tapparli in casa sine die; affinché, si sospetta tra reclusi costretti alla fuga (tipo Il centenario che saltò dalla finestra, romanzo e film danesi di gran successo mondiale), i famosi giovani riescano a impossessarsi del mondo senza ingombri canuti e colpevolmente troppo svegli. Tra i tanti devoti che festeggeranno il maestro con un video, c' è la sua meravigliosa amica di infanzia Liliana Segre, bella e instancabile signora che compirà 90 anni in agosto. Certo a seppellire in vita anche i più ingombranti, noiosi e incalliti tra noi, aggrappati al cartaceo e al telefonico, c' è la nostra zuccaggine tecnologica, una specie di pretomba molto antipatica. Ma non per Pier Luigi Pizzi che, dal suo regno veneziano da cui vede la maestosità del Canal Grande, ha scoperto «le videoconferenze che mi hanno permesso di lavorare con i miei collaboratori lontani per due progetti di mostre per i prossimi mesi». Una è al Museo della Scala di Milano, che lui stesso aveva reinventato nel 2004, si intitola Va' pensiero e racconterà il teatro visto dalla critica e dalla letteratura, da Montale ad Arbasino, da Carlo Porta ad Hemingway; l' altra al Château de Versailles dedicata a Hyacinthe Rigaud, autore barocchissimo di ritratti di massimo potere monarchico, di Luigi XIV e Luigi XV sepolti sotto monumentali parrucche nere. «Sono molto incuriosito da ciò che la tecnologia offre al mio lavoro, a regia e luci, e anche alla vita pratica, con il mio ipad che mi consente di avere una corrispondenza veloce. Con una mia amica parigina di 95 anni ci mandiamo mail raccontandoci di tutto: sappiamo che è meglio parlarci nell' istante in cui lo si desidera, domani chissà». Rinchiuso nel suo paradiso tra milioni di libri e vetri veneziani rossi, Pizzi sta già lavorando per l' estate 2021. Non le dà un minimo di incertezza pensare al prossimo anno? «No, non mi pongo l' idea del futuro; per me la vita va avanti in modo naturale, giorno per giorno, mi fanno proposte, se mi piacciono le accetto e comincio subito a pensarci, è un modo questo di vivere il domani oggi stesso». Doveva inaugurare l'8 agosto il Festival rossiniano di Pesaro con il Moïse et Pharaon, ma l' opera è stata appunto posticipata all' anno prossimo e inaugurerà il teatro in città finalmente restaurato: «Lo sto già progettando facendo i conti con la fondamentale scoperta della fondazione Rossini, nel 1983, del Mosé in Egitto, la versione originale napoletana e giovanile dell' opera parigina, che è un' altra faccenda, una Grand Opera in quattro atti e non due, in più venti minuti di danza, pedaggio obbligato in Francia. Sto studiando quindi un diverso spazio scenico, però rispetto al Mosè che ho messo in scena più di 30 anni fa manterrò la solennità antinaturalistica e austera nei momenti corali e un naturale passionale trasporto nei colloqui. Personalmente trovo più poetica la prima versione italiana ma poi, si sa, Rossini ha sempre ragione». A noi suoi coetanei e appassionati rossiniani, non resta che affidarci alle sue certezze per immaginarci ancora là, l' agosto dell' anno prossimo, con i fan che sempre arrivano da tutto il mondo, destino permettendo. I giovani collaboratori che ogni giorno si affacciano via Zoom al suo schermo dicono di lui «un fulmine entusiasta, una valanga di idee, mai stanco». Non è proprio così, dice lui, «è ovvio che non ho più le stesse energie di una volta, il fisico non è più lo stesso, ma davvero non sento il peso dell' età o forse non ci penso, e cerco di tenermi in forma col lavoro, però credo che il motore fondamentale per tutti sia la curiosità. Ancora non mi stanco di guardarmi attorno, tutto mi interessa, anche ciò che non condivido ma che voglio conoscere ». Già tra un paio di mesi, comunque, inaugurerà il Festival di Spoleto, con Orfeo di Monteverdi, sotto la direzione del clavicembalista Ottavio Dantone con il suo complesso Accademia Bizantina, star della musica barocca. «È stata una bella sfida, con le restrizioni che per ora ci sono ma che magari per agosto saranno allentate: l' opera sarà allestita nella grande piazza con alle spalle la cattedrale, e sul palcoscenico ci saranno tutti, interpreti e orchestra: l' obbligo del distanziamento mi è servito per esaltare l' isolamento dei personaggi e il senso di solitudine della storia. Il pubblico con mascherina sarà distanziato sulla gradinata che prolunga lo spazio». Questa lunga pausa che sta molto preoccupando la gente del teatro e le regole restrittive che consentiranno la ripresa danneggeranno l' interesse del pubblico, soprattutto quello in là con gli anni? «Spero che certe precauzioni prima o poi non siano più necessarie, perché lo spettacolo è fatto anche dal rapporto tra il pubblico e la scena, e non è sufficiente seguirlo dal divano di casa su uno schermo: ne morirebbe. Ma io come sempre ho fiducia nella vita e spero che anche la necessità di sicurezza diventi più accettabile». E il pubblico sarà disponibile? «Ne sono quasi sicuro: quando hanno sentito di Spoleto, gli amici e i conoscenti anche stranieri hanno subito detto "ci saremo", e mi risulta che gli alberghi siano stati già prenotati».

·        Piero Chiambretti.

Da blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Piero Chiambretti, presentatore televisivo, che ha vissuto il Coronavirus in prima persona e per cui ha tragicamente perso la madre, commenta così la situazione di oggi. “Innanzitutto sono sorpreso che tutti siano sorpresi. Quando a maggio la situazione si era un pochino normalizzata, i virologi, quelli veri e quelli presunti dicevano che ci sarebbe stata una ricaduta ad ottobre. Se il pronostico era così convincente bisognava attrezzarsi psicologicamente e da un punto di vista organizzativo. Invece non mi sembra sia così e questa è l’unica vera grande pecca di questo governo, al di là del colore che interessa pochissimo. Io non voto da 10 anni quindi non ho una simpatia così attenta di chi parla”.

Chiambretti disgustato da chi dice che il Coronavirus non esiste. “La situazione è grave, io ho vissuto un dramma personale e ho visto con i miei occhi che cosa è il Covid in ospedale, ho visto morire una persona a me esageratamente cara in quattro, cinque giorni. Rimango sconvolto e disgustato quando sento dire da qualcuno che il Covid non esiste, che è una macchinazione internazionale per mettere in ginocchio l’economia del mondo. Il virus è democratico, non guarda in faccia a nessuno, colpisce il Presidente degli Stati Uniti, calciatori, uomini di grande potere, dobbiamo stare molto attenti. Il miglior protocollo siamo noi: dobbiamo capire che finché dobbiamo combattere il virus, dobbiamo fare quello che ci dicono anche se ci dovessero dire di metterci la mascherina in casa, se dovesse essere utile a risolvere il problema, la dovremmo mettere. Finché esistono gli inventori degli aperitivi, delle tartine e delle serate nei giardini e nelle terrazze con 30/40 persone dove non c’è uno che porta la mascherina, sarà difficile che il Governo e il Comitato Tecnico Scientifico e Bill Gates risolvano il problema”.

Il parere sui virologi. Il noto presentatore televisivo si esprime anche a proposito del linguaggio a volte molto duro dei virologi. “Il terrorismo va sempre combattuto perché è una forma di estremismo. Poi in televisione una notizia brutta tira più di una bella, quindi c’è il piacere sadomaso da parte di tutti. Specialmente di quelli che vanno in televisione, di dire “attenzione è pericoloso, i contagi sono saliti”. Così si crea nel cittadino un terrore che ci porta un trauma psicologico dove perdiamo anche una nostra identità perché non riusciamo a fare nulla di quello che eravamo abituati a fare. Detto questo, le parole sono importanti e quelle dette in televisione, sui giornali e in radio spesso sono dei boomerang nei loro effetti”.

Il ricovero in ospedale da malato di Covid. Al termine dell’intervista Chiambretti ricorda la sua esperienza personale in ospedale, quando era malato di Covid: “In quei momenti in ospedale il telefono è l’unica cosa che ti tiene attaccati ad una realtà a te familiare e quindi nei momenti più difficili giravo dei video di come ero conciato, la maschera, le cicatrici, gli aghi nelle braccia. Quando ogni tanto vado a rivederli, intanto non mi riconosco e solo adesso mi rendo conto di quello che ho rischiato. Anche sulla morte di mia madre lì per lì io non ho vissuto un vero e proprio dolore, l’ho vissuto quando sono tornato a casa guarito. Se mettessi questi video in rete basterebbero per zittire molti di oggi”. (Fonte Rtl 102.5)

Piero Chiambretti, la rivelazione dopo il coronavirus: "Non so come ne sia uscito, ho ancora gli incubi". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020. L'umanità intera, per non smentire se stessa, è riuscita a dividersi pure sul virus. Da un lato ci sono quelli definiti in maniera impropria "negazionisti", categoria che ingloba ingiustamente persino coloro i quali non ricusano affatto la sussistenza del corona ma tuttavia riconoscono, non a torto, che affrontare a muso duro l'epidemia attraverso chiusure e coprifuoco possa condurci sul baratro di una catastrofe economica. Dall'altro stanno i terrorizzati che indossano la mascherina addirittura allorché si trovano da soli in macchina e si consumano le mani a forza di disinfettarle, o i tifosi della quarantena, che di solito hanno stipendi garantiti e lavorano in smart-working, o quegli individui che se ti beccano per strada con naso e bocca scoperti nella migliore delle ipotesi ti aggrediscono verbalmente, nella peggiore ti fanno nero. E poi c'è Piero Chiambretti, giornalista e brillante show-man dalla tagliente ironia, che nel giro di qualche giorno, lo scorso marzo, è passato dall'aggiornarci su Rete4 circa la diffusione del contagio al vivere sulla sua pellaccia l'esperienza terribile della malattia. E mica da asintomatico. Era il 15 marzo quando Piero fu ricoverato d'urgenza presso l'ospedale Mauriziano di Torino insieme alla sua mamma Felicita, "ovvero la felicità", parafrasando il poeta Guido Gozzano. Dalla struttura sanitaria Chiambretti sarebbe uscito dopo due settimane, in pigiama e nient' altro, come il sopravvissuto ad un disastro naturale, sua madre invece mai più, poiché lì ella si è spenta proprio a causa del virus made in China.

«NON È UNO SCHERZO». «Questo virus non è uno scherzo, produce una morbo grave, dal quale si viene fuori soltanto se muniti di un fisico sano e se si gode di tanta fortuna» - esordisce il presentatore - «ecco perché sono spaventato e particolarmente preoccupato». «Da una parte, mezzo Paese sembra non avere contezza della perniciosità di tale male; dall'altra, i provvedimenti messi a punto da esecutivo e comitato tecnico-scientifico si sono dimostrati facili da aggirare. Quando vedo feste di decine di persone in casa o affollate discoteche all'aperto, mi accorgo che qualsiasi regola diventa una lotta contro i mulini a vento». Non ha dubbi Piero: «È ancora assente un profondo senso di responsabilizzazione da parte della società intera, elemento che sarebbe più efficace rispetto a qualsiasi protocollo». Certo è che neanche il governo, il quale pure detta i comportamenti da adottare, è riuscito a impedire che gli assembramenti si creino ogni dì sui mezzi pubblici, che, essendo spazi chiusi e ristretti, costituiscono formidabili luoghi in cui il corona può espandersi indisturbato. «Non mi stancherò mai di ripeterlo: attenzione, attenzione, attenzione», sottolinea il conduttore, attualmente impegnato nel format Tiki Taka-La Repubblica del pallone, in onda ogni lunedì su Italia1 in seconda serata. A proposito del dispositivo di protezione individuale, a cui molti si proclamano insofferenti, Piero afferma: «È un sacrificio portarlo? Macché, il vero sacrificio sarebbe non adoperarlo». «Di notte sono ancora assalito dagli incubi. Sogno la mia degenza in ospedale. Eccomi di nuovo lì, smarrito, circondato da medici e infermieri di cui non scorgo neanche gli occhi, dato che sono sigillati nelle loro tute ermetiche», confessa Chiambretti. Sono i postumi dell'evento traumatico che ha attraversato, proprio nel pieno della pestilenza. «Giravo dei video con il telefonino, scattavo fotografie, intenzionato a documentare quella realtà deformata in cui ero precipitato da un momento all'altro». Il presentatore ci confida che «almeno una volta alla settimana» visiona «tutto il materiale raccolto, al fine di non dimenticare ciò che succedeva in quelle zone off-limits, poste al margine tra la vita e la morte, che sono i reparti Covid».

CONDIZIONI CRITICHE.  «Le mie condizioni erano estremamente critiche. Non mi restava altro da fare che aspettare che il mio corpo reagisse, difendendosi da questa aggressione micidiale. Fortunatamente mi è stato concesso di utilizzare il telefonino, che è stato un elemento di grande sostegno», continua. «La paura è tuttora pazzesca», rivela Chiambretti, il quale non si ritiene «definitivamente immune dal contagio». «Visto che si sente tutto e il suo contrario, sono ancora più cauto di prima, in fin dei conti si tratta di un virus che non conosciamo bene. Infettarsi è fin troppo facile, avviene persino quando ti sei attenuto ad ogni prescrizione», puntualizza Piero, che si dice «felicemente costretto a sottoporsi ad un esame del tampone a settimana per motivi di lavoro». E poi aggiunge: «Certo, nemmeno ciò mi rassicura». Quest' uomo, il quale da decenni ci solleva l'umore, ha vissuto a marzo il periodo più drammatico della sua esistenza. Egli non ha dovuto fronteggiare soltanto la malattia e l'inevitabile solitudine in cui sprofondano i malati a causa dell'alta contagiosità del Covid-19, ma altresì la scomparsa di sua madre. «Testa e fisico rispondono al loro meglio. Ho scoperto in me una forza che non credevo di possedere. A mente fredda mi chiedo come abbia fatto ad uscirne. Bisogna tirare fuori gli attributi». Certi eventi ci cambiano per sempre e rappresentano delle cesure tra ciò che eravamo ieri e ciò che siamo oggi. «Sono più forte. Però pure più fragile. Del resto, mi rendo conto che non ci sono le garanzie per compiere programmi a lungo termine, quindi affronto ogni cosa giorno per giorno. Ho acquisito maggiore concretezza», prosegue il giornalista, il quale ha ravvisato nella preghiera una fonte di consolazione: «Chiedo al Signore che non mi succeda mai più e che questa pandemia possa terminare per tutti».

Massimiliano Castellani per “Avvenire” il 21 settembre 2020. Piero Chiambretti sta alla televisione, come Claudio Sala, sta al dribbling. Il "Poeta del gol", è uno dei suoi idoli del Torino tricolore di Gigi Radice. Ultimo anno di grazia, lo scudetto granata della stagione 1975-'76. Aveva vent' anni allora il futuro Pierino la peste dell' etere. Figlio d' arte per ramo materno, la gozzaniana signora Felicita, poetessa e autrice di canzoni, che è volata via da poco, causa Covid, nei giorni in cui anche il figlio era ricoverato in ospedale, positivo anche lui al virus. «Negli ultimi tempi mi ero inventato editore delle raccolte di poesia di mia madre - racconta Chiambretti - .

La poesia l' ha aiutata a vivere più a lungo, e il ricavato dei suoi libri sono serviti a fare un po' di beneficenza.

«Mamma Felicita è stata la mia prima tifosa, presenza fondamentale e a tutto campo, anche per la mia carriera televisiva, cominciata quasi quarant' anni fa».

Provino in Rai - leggenda vuole - presentandosi in mutande, nell' 82, ed esordio nell' 83, su Rai 1, nel programma quotidiano Forte fortissimo TV top, condotto assieme a due evergreen, come lui, del piccolo schermo: Barbara d' Urso e Gigi Marzullo. Da allora, Chiambretti ha guadato con successo tutti i canali, pubblici e privati, passando dal ruolo di Portalettere per recapitare la cartolina di Andrea Barbato, allo Zecchino d' Oro, fino al concertone del Primo Maggio. In mezzo, festival di Sanremo, Markette Supermarkette e Chiambretti Night. Ora, una sorta di "ritorno al futuro", mediante il calcio: domani in seconda serata debutta su Italia 1 da nuovo "mister" di Tiki Taka. Programma ereditato dal "the voice" delle telecronache, Pierluigi Pardo.

Ma scusi Chiambretti, lei un talk a sfondo calcistico lo aveva già condotto nella lontana stagione 1989-'90, su Rai3, Prove tecniche di trasmissione.

«Infatti, un programma che purtroppo non ricorda quasi mai nessuno. Eppure da quello sono nati almeno 25 "format-cloni" che sono poi proseguiti nel tempo. Noi invece pensammo di aver esaurito il filone in un solo anno. La formula innovativa, poi stracopiata, era quella di fare intrattenimento con moderata dissacrazione del calcio, al solo scopo di renderlo più umano».

A Tiki Taka rispolvererà la formula del "palleggio e dileggio"?

«No, cambio pelle. Mi trasformo in un conduttore superpartes. La battuta, la satira non dovrà mancare, ma sarò altrettanto attento a rispettare il calcio che è oppio dei popoli, metafora della vita o come diceva Pasolini «l' ultima rappresentazione sacra del del nostro tempo». Punto a una conduzione quasi tecnica, unita alla brillantezza del conduttore di lungo corso».

Tradotto, un Chiambretti distante dal "pardismo" e molto più vicino al Pressing di Raimondo Vianello?

«Sono due conduttori assai diversi e che godono del mio massimo rispetto. Pardo è il miglior telecronista italiano, ha avuto il merito di condurre Tiki Taka in un momento storico in cui il calcio, come tutta la società, ha dovuto adeguarsi alla grande rivoluzione tecnologica. Vianello, sempre citato e indicato come modello di uomo preso dallo spettacolo e prestato al calcio, con Pressing ha sicuramente avuto grandi meriti, ma per onestà di cronaca parliamo di una trasmissione di trent' anni fa... Poi abbiamo assistito a un proliferare di programmi basati su calcio e intrattenimento».

Abbiamo anche assistito al dominio per niente lodevole del "giornalismo-tifoso".

«La mia fede calcistica è arcinota e la manifesto anche nello spot di presentazione di Tiki Taka. Ma la mia vuole essere una provocazione per stanare quei "tifosi mascherati" che fingono di non tenere per nessuna squadra e giocano nel ruolo dei bravi imbonitori. Questi sono i più pericolosi, diffidiamoli. Molto più onesto e affidabile il "tifoso dichiarato" che è consapevole, come il sottoscritto, che il tifo sano vuol dire malattia, ma questa ha anche le sue controindicazioni. Perciò nel mio Tiki Taka ben venga la polemica, senza telerissa. Mi aspetto certo un Mughini nei panni di avvocato difensore della Juventus, a patto che lo faccia con onestà intellettuale, tipo riconoscere che la passata stagione per i bianconeri è stata comunque fallimentare, anche se hanno vinto il 9° scudetto di fila...»

Sta invocando un ritorno alla «tv-verità», coniata dal suo ex direttore e pigmalione Angelo Guglielmi?

«La televisione è finzione, il problema attuale è che spesso si manda in onda "qualcosa di più di ciò che è". La Rai3 del settennale di Guglielmi è stata unica e irripetibile. Il servizio pubblico per la prima volta entrava per documentare e raccontare in presa diretta: negli ospedali, nei palazzi della politica, nelle case e le botteghe degli italiani o negli spogliatoi dei campi di calcio. Per questo Guglielmi è, e sarà sempre, un direttore da "Pallone d' Oro", per due motivi: perché se lo merita, in quanto finissimo intellettuale che non disdegnava il "basso" culturale e sapeva sublimarlo trasformandolo in "alto", e poi per avermi concesso l' opportunità di esprimermi e di diventare ciò che sono oggi».

Tornando a Tiki Taka, squadra fatta o è ancora alla ricerca di qualche rinforzo?

«Il mercato per noi è aperto per tutta la durata della stagione, quindi 30 puntate. L' obiettivo è fare molto turnover: ogni settimana parte del gruppo lascerà il posto ai panchinari che a loro volta diventeranno titolari, e viceversa. Sono favorevole al cambiamento del modulo a partita in corso, così da creare l' effetto sorpresa e svariare per imprimere ritmo e velocità al programma».

Abbiamo scoperto che con Silvio Berlusconi avete in comune una sola cosa: gli inizi professionali, entrambi avete lavorato sulle navi crociera.

«È un' esperienza che hanno provato anche Paolo Villaggio e Fabrizio De Andrè, quindi un buon viatico per fare delle carriere importanti - sorride - . Il Cavaliere ne ha fatta una di tutto rispetto, ma io nei miei 12 anni a Mediaset mi sono sempre rapportato con suo figlio Pier Silvio, ed è lui che mi ha fortemente spinto a intraprendere questa nuova avventura di Tiki Taka».

Quando era a La 7 ha lavorato con Urbano Cairo, il presidente del suo Torino. Un giudizio sull' editore e sul patron granata?

«Quando ero a La 7 Cairo gestiva la pubblicità, era l' uomo marketing, abile e capace, così come lo è come editore. Quando poi è diventato il proprietario de La 7 più volte ci siamo incrociati e assieme abbiamo accarezzato l' idea di lavorare insieme, ma la cosa non si è concretizzata. Come presidente del Torino sta vivendo un periodo di forte contestazione da parte dei tifosi, ma io li invito a riflettere: quando Cairo è subentrato, la società era in bancarotta e a rischio cancellazione. L' aspetto positivo è che in questi anni il Toro ha risanato la società, ha valorizzato molti calciatori e Giampaolo potrà allenare ancora dei campioni come Sirigu, N' Koulou e Belotti. L' aspetto negativo è che non vinciamo niente da tanto tempo. E un vecchio granata come me può solo vivere di ricordi, di quando negli anni '70 non solo i derby con la Juventus ce li giocavamo ma li vincevamo pure».

Ci ha lasciato anche Gianni Mura che era solito leggere il destino del campionato dalla "Palla di lardo", vuole provare anche lei?

«Beh la Juve parte sempre favorita anche quando non lo è. Ma il vero avversario da battere sarà il "bubbone"... il Coronavirus. Lo scudetto lo vincerà chi manterrà la rosa più "sana" da qui alla fine del campionato. Gianni Mura manca al giornalismo sportivo e mi sarebbe piaciuto tanto averlo come opinionista in trasmissione. Così come ho sempre sognato di ospitare per parlare di calcio scrittori del calibro di Giovanni Arpino, Gianni Brera, Mario Soldati e un fuori categoria, a me molto affine, come Beppe Viola».

Pronti per il calcio d' inizio: ma con stadi e studi vuoti. Cosa dobbiamo aspettarci?

«Resto ottimista. Confido in un pronto ritorno alla normalità, a una vita senza mascherina, in cui ci si possa abbracciare e stringere la mano senza paura. Sogno uno studio di Tiki Taka con il pubblico e stadi nuovamente pieni, perché il calcio è passione. E la passione è il miglior termosifone per l' inverno che verrà».

Anticipazione da “Verissimo” l'11 settembre 2020. Piero Chiambretti, ospite domani a Verissimo, parla per la prima volta in televisione del Covid-19, malattia dalla quale è guarito ma che gli ha portato via sua mamma: “La vita è fatta di cose bellissime e di tragedie alle quali siamo impreparati. L’esperienza nella sua tragicità mi è stata utile per imparare delle cose: d’ora in poi prenderò la vita con più distacco. Siamo legati a un filo e capisci che tutto è molto relativo. Non auguro a nessuno quello che ho vissuto perché ne sono uscito a pezzi. Ho toccato il fondo”. Un’esperienza durissima che il conduttore ricorda con dolore: “All’inizio io e mia madre eravamo nello stesso ospedale ma non sono riuscito a vederla perché si è aggravata subito. Dopo me l’hanno portata nel letto di fianco, almeno l’ho rivista da vicino. Però dopo pochi giorni è peggiorata ancora e a quel punto, per protocollo, mi hanno chiesto che per non farla soffrire sarebbe stato meglio lasciarla dormire: è stata la cosa più brutta della mia vita. È stata dura però è successa una cosa: lei faceva la poetessa ed è morta nel giorno mondiale della poesia. E nella notte in cui è mancata io sono guarito: mi ha dato la vita due volte”. Il conduttore ha poi rivelato come la malattia abbia colpito anche altri due componenti della famiglia: “Nei giorni in cui ho contratto il virus avevo visto mia mamma, mia figlia e mio cugino che puntualmente si sono ammalati. Fortunatamente mia figlia ha avuto la febbre alta solo un giorno e poi è stata benissimo. Mio cugino invece è stato in ospedale trenta giorni”. A Silvia Toffanin, che gli chiede se sia emozionato per la nuova sfida professionale, (la conduzione di Tiki Taka, in onda da lunedì 21 settembre su Italia 1, ndr), Chiambretti risponde: “Ringrazio Mediaset per la proposta. Tiki Taka è lo show giusto per questo momento storico della mia vita in cui voglio tagliare col passato. Visto che mia madre non c’è più, ho voluto fare una cosa diversa che non aveva mai visto per non sentirne troppo la mancanza. Il 21 settembre, a sei mesi esatti dalla sua scomparsa, ci sarà la prima puntata di un programma senza la mia prima spettatrice anche se so che lei è sempre qui con me”.

Chiambretti a Verissimo: “Il primo medico mi ha detto che non era nulla”. Notizie.it il 12/09/2020. Chiambretti, ospite a Verissimo, racconta la visita a pochi giorni dal ricovero in ospedale e svela: "Anche mia figlia è stata male". Pietro Chiambretti è tornato in televisione (dopo una lunga pausa in cui il conduttore ha dovuto affrontare l’infezione da Covid-19 – da cui è guarito a fine marzo – e la perdita della madre, proprio a causa della pandemia), ospite di Silvia Toffanin a Verissimo. Ha ricordato la sua battaglia contro la malattia (“è stata un’esperienza durissima, la cosa più brutta della mia vita fino ad oggi”), a cominciare da quella prima visita durante la quale il medico gli disse: “Lei non ha niente. Prenda la Tachipirina e passa”. Il conduttore ha scelto il salotto di Silvia Toffanin per rivelare che “anche mia figlia è stata male, ha avuto la febbre un giorno e poi è guarita”. Tutto è cominciato il 16 marzo, quando il conduttore è stato ricoverato all’ospedale Mauriziano di Torino per tre focolai di polmonite. Il virus non ha risparmiato neppure la madre, Felicita, che non è riuscita a sconfiggere l’infezione e si è spenta a pochi giorni dalla diagnosi. Una perdita improvvisa e terribile, spiega Chiambretti visibilmente commosso: “Mia madre era un’amica, ne sono uscito a pezzi. Non amo parlarne. Il dolore privato in televisione mi ha fatto impressione, ma qui con te senza pubblico riesco a dire qualcosa”. Ora, a qualche mese di distanza, “mi sento diverso. Sto bene fisicamente (è risultato negativo al Covid già a fine marzo, ndr), psicologicamente il lavoro aiuta, una figlia e poi la determinazione di sapere che la vita è fatta di cose bellissime e tragedie alle quali siamo impreparati”.

La prima visita. Resta però il dubbio che attanaglia tante persone che nel corso dell’emergenza hanno perso i propri cari: una diagnosi più tempestiva avrebbe fatto la differenza? Già a inizio marzo, infatti, il conduttore aveva presentato i primi sintomi, ma il primo dottore che lo ha visitato ha escluso si trattasse di Covid. “Mi ero sentito male una settimana prima – spiega Chiambretti – ed ero riuscito a far venire a casa mia un medico, che mi controlla e mi dice “lei non ha niente. Prenda la Tachipirina e passa”.

Da il "Corriere della Sera" il 18 agosto 2020. «Il Gattopardo insegnava che si cambia tutto per non cambiare niente, noi non cambieremo niente per cercare di cambiare tutto». La cifra di Piero Chiambretti si muove sempre tra paradosso e riflessione, ironia e leggerezza profonda. A distanza di anni da precedenti illustri, scende in campo pure lui: dal 21 settembre (su Italia 1 in seconda serata) prende il posto di Pierluigi Pardo per condurre Tiki Taka.

Lei arriva al lunedì quando i fiumi di parole sul calcio si sono dati appuntamento nel grande mare dei luoghi comuni.

«La prima difficoltà è questa: cercare di dire cose che altri non dicono, una sfida molto difficile perché gli argomenti che tengono banco sono sempre quei 4 o 5. La maggior parte degli opinionisti, di tutte le reti, anche le locali, parla degli stessi temi nello stesso modo, eppure hanno un loro seguito. Sono convinto che questa ipnosi verbale sia il vero senso del calcio parlato».

Quello del calcio è un mondo permaloso, come riuscirà a far accettare la sua ironia?

«Questa è la seconda difficoltà: capire quanto del chiambrettismo posso infilare dentro un programma di calcio senza perdere quello che quel pubblico vuole realmente, ovvero anche al lunedì sentire parlare di calcio. Io ho la licenza di scherzare sul calcio, ma lo farò con la dovuta attenzione, entrando non a gamba tesa, ma in punta di piedi. Anche per essere più alto».

Il calcio ha rappresentato il ritorno alla (quasi) normalità dopo il lockdown.

«Il calcio è l'oppio dei popoli: è uno sport nazionale non solo per chi lo gioca ma anche per chi lo parla».

 Raimondo Vianello con il programma «Pressing» è stato il perfetto interprete dell'ironia applicata al calcio.

«Io sarei lusingato di essere un giovane Vianello, ma lui è stato un monumento della tv italiana, un grande maestro, un signore assoluto. Io lavoro in una generazione televisiva dove l'eleganza è passata in secondo piano, dove la battuta sottile non ha l'impatto che aveva in quegli anni».

Tifa Torino: finalmente un conduttore di parte a carte scoperte?

«Il Toro non fa male perché fanno male le squadre che vincono sempre e diventano subito antipatiche. Non corro questo rischio».

Ha già in mente opinionisti, commentatori, volti da portare nella sua trasmissione?

«Abbiamo ancora un po' di tempo per valutare con la redazione sportiva. La mia intenzione è avere una panchina lunga, qualche ospite fisso e un parco di opinioni, facce e storie molto più largo per poter dare un significato diverso a ogni puntata. Non ci sarà invece una co-conduttrice da sgabello con cartellina e cosce incorporate: cercheremo di far ruotare più donne che vengono dal mondo del calcio o hanno a che fare il calcio. Sarà il modo per dare una movimentazione a parole che spesso sono ferme».

La tv generalista è moribonda o moritura?

 «Rispetto a un tempo la tv non è più un comunicatore di massa, ma è diventata un club che ha un numero cospicuo di telespettatori. Tutti hanno un pubblico più mirato mentre qualche anno fa era più trasversale: oggi ogni programma ha uno zoccolo duro che se non tradisci ci sarà sempre. È come un club: prendi la tessera, entri, ti siedi ed eventualmente puoi anche dormire».

Italia 1 che club è?

«Si dice sempre che è la tv dei giovani, solo che molti giovani ora hanno già la pensione. La missione è ricostruire un asilo di telespettatori che possano crescere insieme alla rete. Nella tv di oggi siamo noi che cerchiamo gli spettatori, non loro che cercano noi». Lei ha detto che «la tv che funziona è quella dei ripetenti, la tv di quelli che sanno trasformare il loro progetto in griffe».

Lei mette sempre un'impronta molto personale nei suoi programmi. Questa volta è diverso?

«È una situazione inedita e spiazzante anche per me. La mia intenzione, uscito dall'ospedale dopo aver contratto il virus, era tagliare con un passato che mi portava alla mente cose che non volevo ricordare».

Sua mamma purtroppo è morta in ospedale a causa del Covid. Lei ha sofferto molto, ora come sta?

«Per me è stato un fulmine a ciel sereno: mi ammalo io, si ammala lei, ci mettono nello stesso ospedale, la notte che muore lei io guarisco. Non ho parlato per due mesi. So che devo essere forte, cerco di farmene una ragione anche se una ragione non c'è. Mia madre ed io abbiamo avuto una vita legata a doppio filo: il destino ha fatto sì che il giorno della sua morte fossi in un letto di fianco a lei. In quella morte c'è la mia vita, è come se mi avesse fatto nascere due volte».

FABRIZIO ACCATINO per la Stampa il 2 luglio 2020. Lo spartiacque dell'esistenza di Piero Chiambretti porta la data del 15 marzo 2020, giorno del suo ricovero d'urgenza in ospedale insieme alla mamma Felicita, entrambi colpiti dal coronavirus. Lui ne è uscito, lei no. Da quel momento, il conduttore si è chiuso in un doloroso riserbo. Oggi, dopo più di tre mesi, torna all'ospedale Mauriziano di Torino, dove è stato ricoverato e dove si è spenta sua mamma, per partecipare a una celebrazione laica dedicata alle vittime del Covid-19. Sarà un modo per ricordare chi non c'è più, ma anche per riabbracciare medici e infermieri. «Sono stati loro a contattarmi, gli "angeli del pronto soccorso" - spiega Chiambretti - non avrei potuto e voluto mancare. Quelle donne e quegli uomini sono la dimostrazione vivente di quanto sia assurdo tutto ciò che si racconta in giro sulla sanità pubblica».

Su quei giorni terribili preferisce non tornare: «Non amo rendere pubblico quello che è privato. Dietro quelle due settimane in ospedale ci sono la malattia, la morte di mia madre, il senso della vita che è cambiato, il ripensamento delle mie scelte professionali. È stata un'esperienza troppo personale, troppo dolorosa per farla diventare un fenomeno da baraccone. Pensi che la Mondadori è arrivata a chiedermi di scriverci su un libro».

E lei che cosa ha risposto?

«Voi siete pazzi».

Qual è il senso che ha dato a tutto quanto è accaduto negli ultimi mesi?

«La vivo come una maledizione divina. In fondo ce lo siamo meritati. Qualcuno diceva che questa pestilenza avrebbe messo le cose a posto, ci avrebbe fatto diventare più buoni. Direi che non è successo. Non so nemmeno quanto abbiamo imparato davvero da questa lezione».

Sui due mesi di quarantena forzata che ha vissuto il nostro Paese lei che posizione prende? Prima la salute o prima l'economia?

«Beh, io sono di parte, visto quello che mi è successo. Per me le misure adottate erano sacrosante, anzi, le avrei persino prorogate. Forse c'è stata un po' di confusione nella comunicazione fra il governo, la Protezione civile e i cittadini, ma è un problema che in parte giustifico. Una situazione come quella che si è creata era talmente inedita che ha reso impreparati persino i professionisti».

Come le sembra la ripartenza?

«Lenta, ma era prevedibile. L'importante è andare avanti, anche di poco. Certo, la strada sarà molto dura, le previsioni per l'autunno parlano di nove milioni di disoccupati. Sono cifre da dopoguerra. Ma io voglio pensare positivo, il pessimismo cosmico non ha mai aiutato nessuno».

E la sua Torino?

«È ferma, come il Paese. Molti negozi non hanno ancora riaperto e molti altri non riapriranno. Avendo una catena di locali, ho vissuto in prima persona lo stop. Abbiamo pensato prima di tutto ai nostri dipendenti: oltre al sostegno dello Stato, noi soci si è deciso di aiutarli di tasca nostra. Il centro si è svuotato, mentre la vita di quartiere ha ripreso forza. Per fortuna il contagio è in fase calante e questo potrebbe mettere in circolo un po' di ottimismo».

Il campionato è ripreso. Lo sta seguendo? E il Toro?

«Sì, e anche lì le cose non vanno proprio benissimo. La squadra è la stessa dello scorso anno, più un paio di buoni innesti, ma per qualche inspiegabile male oscuro stiamo penzolando sulla soglia delle serie B. Tolti Belotti e Sirigu siamo irriconoscibili. Ogni volta che guardo la partita vivo nel terrore che la squadra abbia un crollo psicologico, buttando via il risultato».

Che cosa la attende in tv?

«Non so se tornerò in tv, e non ho ancora definito con Mediaset i programmi per la prossima stagione. Vorrei che l'anno nuovo portasse vita nuova. Mi piacerebbe fare qualcosa che non ho mai fatto prima, di diverso».

Per esempio?

«Un programma in prima serata in cui i bambini si sostituiscono agli adulti. Si dice sempre che loro saranno i grandi di domani, ma molte volte sono già i grandi di oggi. Questa di massima sarebbe l'idea. Poi si sa, la televisione è peggio del calcio: tutti i giorni si cambia idea».

Coronavirus, positivi Piero Chiambretti e la mamma Felicita. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Positivo al coronavirus lo showman Piero Chiambretti. Con lui anche la mamma Felicita. I due sono ricoverati al Mauriziano di Torino. Il noto presentatore tv e la mamma sono giunti lunedì sera in pronto soccorso al Mauriziano. Avevano sintomi che facevano pensare al coronavirus ed è stato eseguito il tampone.

Chiambretti: «Un virus maledetto non ci farà perdere passioni e abitudini». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Simona De Ciero. Il Coronavirus è uno tsunami violento, ma subdolo. Si avvicina e cattura, senza farsi riconoscere. In un attimo stravolge la vita della persona che contagia, rischiando di distruggerla. Lo sa bene il conduttore e autore televisivo Piero Chiambretti, che è stato colpito duramente da questa tragedia: perdendo di covid sua madre, la poetessa Felicita; e ammalandosi egli stesso. Ma è guarito, ora sta bene. E soprattutto, come ogni lottatore, sa che «è quando il gioco si fa duro, che i duri cominciano a giocare». Per questo è pronto a ripartire, rimettendosi in gioco in primis nella sua Torino. Intrattenitore, showman e provocatore per natura, sotto la Mole Chiambretti è anche uno storico imprenditore della ristorazione. E i suoi locali (cinque) riapriranno tutti la prossima settimana.

Chiambretti, da lunedì lei e i suoi soci ripartite. Cinque locali, cinque riaperture. Una al giorno...

«I nostri ristoranti sono molti diversi tra loro. Così i nostri clienti possono goderseli tutti, senza perdere nessuna delle nostre inaugurazioni».

Avrete il 40 per cento di tavoli in meno, come farete?

«Non lo so e non si può calcolare la perdita oggi. Potremmo capire fra un paio di mesi, quando ci saremo abituati ai locali in questa nuova dimensione. Stando aperti però almeno possiamo provare a sopravvivere, altrimenti è impossibile. Noi poi siamo fortunati, abbiamo grandi spazi, interni ed esterni».

Le misure messe in campo dal governo per far ripartire le imprese bastano?

«Da ristoratore direi che è un brodino caldo, magari di carne, ma pur sempre un brodino. In più, il brodino è buono se caldo. E se arriva fra sei mesi sarà ghiacciato».

Le persone sono pronte a mangiare di nuovo fuori casa?

«Voglio essere realistico. E parlo da cliente, più che da imprenditore. Penso che io so di avere voglia di tornare “all’antico”. Voglio vedere i miei amici, rimangiare le cose che amo. Certo, un pochino di timore tra mascherine, distanze o plexiglass ce l’ho. In questi giorni ho preso qualche caffè: aspettando il mio turno, telefonando prima, per prenotare. E bevendo nel bicchierino di carta. All’inizio era strano, ma al terzo caffè mi è sembrato tutto normale. Penso che sarà questo l’approccio anche per pranzi e cene. Una partenza lenta, ma con la voglia di rinascita che porterà il pubblico a frequentare di nuovo i locali della città. Per tornare a respirare quell’aria che sembrava banale e che oggi invece è tanto preziosa».

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei.

«Potrebbe essere un’indagine Istat fra qualche settimana; io credo che restituirebbe lo stesso trend di “prima del covid”. La gente vorrà rimangiare quello che amava. Torneremo negli stessi locali, per gustare i piatti che ci piacciono».

Perché un uomo di spettacolo diventa socio di cinque ristoranti?

«Io non so cucinare e così so di trovare sempre un rifugio pronto a sfamarmi e piatti semplici che mi fanno sentire come se fossi a casa».

Qual è il suo preferito?

«I Birilli, perché è fuori dalla movida e posso mangiare nel silenzio del suo grande giardino».

E il suo piatto preferito?

«Oscar Wilde diceva: ho dei gusti semplicissimi. Mi accontento del meglio».

Perciò?

«Seguo la classica dieta insana. Sono un pastaiolo e salto dal primo al dolce dimenticandomi dell’esistenza dei secondi».

Eppure...

«Eppure la mia prima sera al ristorante prenderò una bella pizza margherita. Mi manca il profumo del basilico».

L’ha mai preparata lei una pizza?

«No, ma ho assistito allo spettacolo. Ogni pizzaiolo ha il suo segreto di Fatima e, avendo sbirciato spesso, mi sento un esperto in terza persona e per luce riflessa. Anzi, per forno riflesso, da cui nasce l’opera surrealista per eccellenza: la pizza».

E un pizza in viso, invece, l’ha mai presa?

«Nemmeno, ma ho rischiato. Per anni sono stato un provocatore, specie in tv. Ma sono anche un equilibrista e mi sono sempre saputo fermare un attimo prima. E la capacità di capire fin dove arrivare è la cosa più difficile del mio mestiere di “artista”».

Come le sembra Torino oggi?

«Dentro una palla di vetro. È una bella addormentata e adesso bisogna che qualcuno la baci e la porti di nuovo a essere la principessa capace di partecipare al gran ballo delle città prestigiose».

E chi la bacerà?

«Tutti noi. La città è fatta di persone e ciascuno di deve fare la sua parte. Tornando a vivere e a conquistare le abitudini perse in questa strana primavera. E così, senza volerlo, la rimetteremo in moto».

Il suo messaggio per il settore ristorazione?

«Coraggio. Il danno economico è vasto ma ha investito tutti i settori. Ciascuno per sé lo ha vissuto in modo catastrofico. Ma le vittime vere, sono quelle che sono morte durante il periodo di picco del covid-19. Esserci fermati due mesi è tremendo, e le restrizioni derivanti dal virus saranno dure da reggere. Ma fino al vaccino non possiamo comportarci come prima del coronavirus. Perché questo è un virus maledetto. E io lo so. Non abbassiamo la guardia. Riapriamo, ma usiamo tutte le cautele e lavoriamo in sicurezza».

Torino, Piero Chiambretti e la madre positivi al coronavirus. Sono entrambi ricoverati in isolamento all'ospedale Mauriziano. Sara Strippoli il 17 marzo 2020 su la Repubblica. Piero Chiambretti con la madre Felicita a "Domenica Live" su Canale 5. Piero Chiambretti e l’anziana mamma sono attualmente al pronto soccorso dell’ospedale Mauriziano di Torino. Sia il personaggio tv che la madre sono entrambi positivi al test del coronavirus. I due sono arrivati in ambulanza ma non sarebbero in gravi condizioni. "Sono stata da Piero Chiambretti per ben due volte, ci siamo abbracciati e baciati e in attesa di capire che tipo di protocollo devo adottate mi metto in autoquarantena". E' quanto rivela all'Adnkronos Serena Grandi, dopo aver appreso la notizia della positività del conduttore. "Sono tanto tanto dispiaciuta per Piero - dice l'attrice- mi hanno detto che ha una broncopolmonite, spero guarisca presto. Sono preoccupata anche molto per la mamma anziana. Io sono ipocondriaca e sono preoccupata ma per ora sto benissimo".  "Ora che ci penso - rivela l'attrice - dopo essere stata ospite da lui ho avuto una brutta febbre e tosse durata solo qualche giorno e ho pensato che fosse stata causata dalla radioterapia a cui mi sono dovuta sottoporre per un tumore al seno. Dopo Chiambretti sono stata ospite per due volte anche da Barbara D'Urso, speriamo che finisca tutto per il meglio". Nei giorni scorsi Mediaset ha comunicato la sospensione di '#CR4 - La Repubblica delle Donne', la trasmissione di cui Chiambretti è autore e presentatore, in seguito alla riorganizzazione dei palinsesti aziendali per l'emergenza coronavirus per cui viene data priorità ai programmi di approfondimento giornalistico.

Morta la mamma di Piero Chiambretti. Si è spenta all'età di 83 anni la mamma di Pietro Chiambretti nell'ospedale Mauriziano di Torino. Era stata ricoverata insieme al figlio per Coronavirus. Roberta Damiata, Sabato 21/03/2020, su Il Giornale. Non ce l’ha fatta Felicità,la mamma 83enne di Piero Chiambretti. Era risultata positiva come il figlio al Coronavirus ed era ricoverata con lui presso l’ospedale Mauriziano di Torino. A dare l’annuncio Vladimir Luxuria sul suo twitter: “Sentite condoglianze a Piero, mamma Felicita non ce l’ha fatta” queste le parole della ex parlamentare. Sempre Vladimir Luxuria aveva confermato il ricovero della madre di Chiambretti in ospedale insieme al conduttore il 17 marzo. I due erano arrivati al pronto soccorso, ma mentre le condizioni del conduttore non destavano preoccupazioni, la mamma era arrivata già in gravi condizioni. Dopo il loro ricovero e la sospensione della trasmissione “#CR$- La repubblica delle donne”, per la riorganizzazione del palinsesto, si era immediatamente provato a trattare una mappa dei contatti avuti da Chiambretti. Anche Serena Grandi si era messa in autoquarantena dopo la notizia, avendo incontrato più volte il conduttore. "Ci siamo abbracciati e baciati e in attesa di capire che tipo di protocollo devo adottate mi metto in autoquarantena. Sono tanto tanto dispiaciuta per Piero mi hanno detto che ha una broncopolmonite, spero guarisca presto. Sono preoccupata anche molto per la mamma anziana. Io sono ipocondriaca e sono preoccupata ma per ora sto benissimo. Ora che ci penso dopo essere stata ospite da lui ho avuto una brutta febbre e tosse durata solo qualche giorno e ho pensato che fosse stata causata dalla radioterapia a cui mi sono dovuta sottoporre per un tumore al seno. Dopo Chiambretti sono stata ospite per due volte anche da Barbara D'Urso speriamo che finisca tutto per il meglio". Le condizioni di Chiambretti. Il conduttore non ha rilasciato dichiarazione dall’ospedale dove si trova, ma la sua cara amica Iva Zanicchi, in contatto con lui, aveva riportato: “Volevo tranquillizzare tutti, io sto bene. Mando un saluto affettuosissimo a Piero Chiambretti che purtroppo ha il coronavirus ma sta abbastanza bene. Piero mi raccomando ti vogliamo prestissimo tra noi. Io sto bene, sto rastrellando le foglie, volevo tranquillizzare tutti”.

La signora Felicita rientra in una delle 793 persone decedute in giornata.

Emilio Vettori per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. Dopo sei giorni Felicita Chiambretti si è arresa. La mamma del presentatore tv è morta ieri sera all' ospedale Mauriziano di Torino uccisa dal coronavirus. Era arrivata al pronto soccorso domenica pomeriggio: faticava a respirare. Da subito i medici hanno giudicato le sue condizioni serie e l' hanno dotata del Cpap, il casco che aiuta la respirazione. Il giorno dopo è arrivato in ospedale il figlio Piero, uno dei conduttori più noti del piccolo schermo. Anche lui con i sintomi del coronavirus, anche se al test pare sia risultato "lievemente positivo". Tutti e due, madre e figlio erano stati sistemati nello stesso reparto - dodici posti letto riservati al Covid 19 - quasi a confermare un tratto che ha contrassegnato la vita di entrambi: sempre insieme. Ancora tre mesi fa, in un' intervista a Repubblica, parlando di Piero, Felicita Chiambretti aveva detto: «Quando avevo 19 anni è nato Piero. Ho allontanato suo padre perché non si era comportato bene. Dunque l' ho cresciuto io. Per una donna sola con un bambino, negli anni Sessanta, non è stato facile. Ma direi che Piero è venuto bene. In verità, lui è sempre stato il mio amore e sempre lo sarà». All' inizio, seppure serie le condizioni della donna - che aveva 83 anni - non apparivano tali da far pensare a un simile epilogo. Tanto che Piero Chiambretti aveva scritto alcuni messaggi venati di ottimismo: «Stiamo bene, ci assiste un' equipé eccezionale». Poi però le cose sono precipitate, Felicita Chiambretti aveva sempre più difficoltà nel respirare, è stata trasferita in rianimazione. Ma ieri sera, poco prima delle ventuno, è spirata. Nata a Torino, quando aveva quattro anni si era trasferita in Africa al seguito del padre. Era tornata in Piemonte quando aveva quindici anni. Qui si è costruita una carriera nel mondo delle assicurazioni. «Sono arrivata a gestire ottanta persone, tra cui molti uomini» ricordava con orgoglio ancora poco tempo fa. Negli ultimi tempi aveva scoperto l' amore per la poesia. Sei anni fa ha cominciato a raccoglierle: cinque eleganti cofanetti sotto il titolo «Farfalle di Verso». L' editore, manco a dirlo, è stato Piero Chiambretti. E a chi le chiedeva che cosa rappresentassero quelle poesie diceva: «Un testamento post mortem per Piero e sua figlia Margherita, la mia nipotina di otto anni. È uguale a Piero, parla moltissimo. Non sa stare ferma un attimo». Tanti i messaggi di cordoglio che hanno raggiunto il presentatore.

Tra i primi quello, su Twitter, di Vladimir Luxuria. «La mamma di @PChiambretti non ce l' ha fatta, le mie più sentite condoglianze», è il suo post. «Ho avuto la fortuna di conoscere Felicità #chiambretti venti anni fa - scrive Luca Telese - : una donna ironica, intelligente, spumeggiante ».

Francesca Bolino per “la Repubblica – Torino” il 22 marzo 2020. La femminista Carolyn Heildbrun ha scritto: "Credo che le donne arrivino alla scrittura con la creazione di se stesse". Lo ha fatto anche Felicita Chiambretti, mamma di Piero, lo showman televisivo che tutti conosciamo. Una dolce e simpatica signora che sei anni sa ha iniziato a pubblicare le sue poesie e le ha raccolte, anno per anno, in cinque eleganti volumetti "Farfalle di Verso" (l'editore è il figlio, le trovate in vendita presso la libreria Luxemburg) e che presenterà venerdì prossimo, alle 18, al Circolo dei Lettori in dialogo con Antonello De Vita che ne firma ogni prefazione. Abbiamo incontrato Felicita nella sua casa alla Crocetta, in corso Einaudi, insieme a Minni, l'inseparabile e vivace chihuahua con cui vive.

Signora Chiambretti perché scrive poesie?

"Per me è una catarsi. Scrivere poesie significa regalare emozioni che io stessa provo mentre le penso, mi girano in testa e mi vengono incontro. Ho sempre scritto poesie. Ma quando sono andata in pensione, avevo 55 anni, mi sono trovata di fronte a me stessa, sola e con molto tempo a disposizione. È stato un periodo difficile. Ero un po' triste e melanconica. Lo sono tuttora, ma non sempre. Ed è così che ho deciso di pubblicarle, iniziando sei anni sa. Il ricavato va agli ospedali, alla ricerca sul cancro. Ci tengo molto. E l'editore è Piero. O per meglio dire, paga lui". (Sorride).

Ne ha dedicata una a suo figlio?

"Certo, si intitola "Amore". Le cito qualche verso: "Chiamo madre colei che mi generò... non chiamo padre colui che mi generò non amandomi e mi abbandonò. Chiamo figlio colui che per amore non fece domande, non pretese risposte, non si raffrontò con la codardia malcelata su un volto senza nome". Sa, quando avevo 19 anni ed è nato Piero ho allontanato suo padre perché non si era comportato bene. Dunque l'ho cresciuto io. Per una donna sola con un bambino, negli anni Sessanta, non è stato sacile. Ma direi che Piero è venuto su bene!". (Ride).

E non ha mai pensato di rifarsi una vita?

"No. Ho chiuso allora con gli uomini. E poi non ne ho avuto il tempo. Per mantenere me e mio figlio, ho dovuto lavorare moltissimo. Ero nel campo delleassicurazioni. Sono arrivata a gestire ottanta persone, tra cui molti uomini, con cui ho avuto ottimi rapporti di collaborazione. In verità, il mio amore è sempre stato Piero e sempre lo sarà".

Ha messo il suo mondo interiore dentro la poesia?

"Esatto. Ho sosserto molto, sa. La mia vita non è stata semplice. Ma grazie a Piero, sono stata felice. Mentre scrivevo però ho scoperto me stessa, mi sono conosciuta. E posso affermare di essere una persona sensibile. Non mi piace il mondo in cui viviamo, c'è troppo poco illuminismo... Le leggo un verso dall'ultima raccolta, la numero V, che si intitola "Esistenzialismo alieno". Ecco: "Persiste in me la nausea. Per le follie di questo mondo. Dall'odore acre, che appesantisce"".

Dove è cresciuta?

"In Africa. Per il lavoro di mio padre ci siamo trasferiti quando avevo quattro anni e sono rientrata a Torino, da sola, quindici anni dopo. Sono poi andata a stare con mia nonna. Ed è lei che mi ha aiutata quando lavoravo e non potevo badare a Piero".

Che cosa rappresentano le sue poesie?

"Un testamento post mortem per Piero e sua figlia Margherita, la mia nipotina di 8 anni. È uguale a Piero, parla moltissimo... Non sa stare ferma un attimo. Le ho dedicato una poesia: "Esalta l'azzurro fiordaliso, la tua corona di petali, dal roseo incarnato, che si colorano d'aurora. Risplende il tuo sorriso, tra viole di Pentecoste, il tuo cuore solare, ravviva melanconici ranuncoli"".

Ha rimorsi o rimpianti?

"No. Rifarei tutto quello che ho fatto. Prenderei, di nuovo, anche le decisioni più estreme. Mi riferisco al papà di Piero...".

Chi è Felicita?

"Una signora che non rivela l'età, così non mi si può dire che sono completamente rincitrullita... Scherzi a parte, vado sugli altari e scendo negli inferi più bui. Sono fatta così. Tutto sommato, niente male. No?".

Niccolò Di Francesco per tpi.it il 25 marzo 2020. Piero Chiambretti rompe il silenzio sulla madre morta a causa del Coronavirus e posta sui social la foto del necrologio dell’adorata mamma, deceduta lo scorso 21 marzo all’ospedale Mauriziano di Torino, dove anche lo stesso Chiambretti è ricoverato dopo aver contratto il Covid-19. Il conduttore, che non postava nulla dal 9 marzo, quando aveva annunciato la momentanea sospensione del suo programma a causa dell’epidemia di Coronavirus, ha scelto il suo profilo Instagram per rendere in qualche modo omaggio alla sua mamma e condividere il suo dolore con i suoi follower. Nel necrologio si legge: “È mancata all’affetto dei suoi cari Felicita Chiambretti, poetessa. Profondamente addolorati lo annunciano il figlio Piero, la sorella Adriana, il nipote Eugenio, l’adorata Margherita e i parenti tutti”. Ad accompagnare il messaggio è una bellissima frase di Felicita Chiambretti: “Catturata dall’enigma, non ho certezze di chi sia io veramente, nella camera oscura intravvedo fiocchi di neve continuando il gioco del buio”. Chiambretti, le cui condizioni di salute sarebbero in miglioramento secondo indiscrezioni, non ha aggiunto altro, ma ha ricevuto diversi messaggi d’affetto sia di persone comuni, che di persona famosi, tra cui anche Simona Ventura e Ambra Angiolini.

Da leggo.it il 18 marzo 2020. Chiambretti positivo, Serena Grandi: «Ci eravamo baciati in puntata, poi sono stata da Barbara D'Urso». A poche ore dalla notizia secondo cui Piero Chiambretti e la mamma sono positivi al coronavirus, Serena Grandi ha rilasciato una dichiarazione all'Adnkronos riguardo ai suoi ultimi contatti con il conduttore di CR4 La Repubblica delle Donne. «Sono stata da Piero Chiambretti per ben due volte, ci siamo abbracciati e baciati e in attesa di capire che tipo di protocollo devo dire mi metto in autoquarantena». E continua: «Sono tanto tanto dispiaciuta per Piero. Mi hanno detto che ha una broncopolmonite, spero guarisca presto. Sono preoccupata anche molto per la mamma anziana. Io sono ipocondriaca e sono preoccupata ma per ora sto benissimo». Serena Grandi conclude parlando dei giorni dopo l'ospitata alla Repubblica delle Donne: «Ora che ci penso dopo essere stato ospite da lui ho avuto una brutta febbre e tosse durata solo qualche giorno e ho pensato che fosse stata causata dalla radioterapia a cui sono dovuti sottoporre per un tumore al seno. Vai a sapere. Sono stata ospite per due volte anche da Barbara D'Urso. Speriamo che finisca tutto per il meglio».

Piero Chiambretti: “Mi hanno salvato solo le carezze degli angeli in corsia”. Il ricovero d'urgenza e la morte della madre contagiata insieme a lui. Nella lettera a Repubblica il racconto del dramma e del ritorno alla vita. Piero Chiambretti il 15 maggio 2020 su La Repubblica. CARO direttore, il 16 marzo sono stato ricoverato d'urgenza all'Ospedale Mauriziano di Torino per tre focolai di polmonite a causa del Covid-19. Un giorno che non potrò mai dimenticare. Il pronto soccorso, i suoi rumori, la confusione di medici e malati, le barelle, le mascherine, sensazioni di qualcosa che avevo visto alla televisione, ma che dal vivo erano un'altra cosa: più definite, più realistiche e tangibili, che allontanavano il rumore fastidioso delle parole della tv, così vuote e lontane. Passare dall'interessarsi degli sviluppi del virus, ad esserne colpito, cambia la prospettiva in modo netto. Il reparto Covid era allestito nello stesso pronto soccorso del quale ben presto avrei conosciuto tutto o quasi. Lo smarrimento iniziale di tutti era l'incertezza. Gli occhi di quelli che arrivavano ad ogni ora, come in un ospedale militare da campo, erano spalancati, terrorizzati, in cerca di qualche segnale di conforto. E da subito quel segnale arrivò da un gruppo di infermieri e medici che, bardati al punto di non riconoscerli e scambiarli, si fecero partecipi del nostro dramma. La cosa che subito mi colpì di questi angeli fu l'età: tutti giovanissimi con una energia che trasmettevano ogni volta che li chiamavi, sempre sorridenti e rassicuranti, anche laddove le condizioni di salute non erano buone. Non avevano ricette per una pronta guarigione, non avevano la pillola magica che fa tornare tutti a casa, ma la loro efficienza mischiata alla grande umanità erano una medicina molto più forte delle medicine sperimentali che somministravano. Sempre presenti, il giorno come la notte, sempre vestiti dalla testa ai piedi con le maschere protettive che lasciavano evidenti segni in faccia. Il personale medico aveva una caratteristica condivisa: la passione per il proprio lavoro. Si percepiva dai dettagli. Uno sguardo, una carezza, una stretta alla mano quando il morale scendeva come i valori sul monitor. Col passare dei giorni questi esempi di una Italia meravigliosa sono diventati familiari: ci chiamavamo per nome e la sensazione che ho avvertito nitidamente è che spesso si sostituissero ai famigliari che molti non avrebbero visto mai più. Io li ricordo tutti con affetto per come ci hanno seguito, tanto che molti di loro li abbiamo sentiti ancora dopo essere stati dimessi. La mia storia è tristemente nota. In pochi giorni nello stesso reparto ho perso mia mamma, ma anche con lei il personale medico è stato perfetto, hanno tentato di tutto per salvarla, dandomi un sostegno psicologico nelle ore più difficili. Qualcuno, non so dove, ha scritto che ho avuto un trattamento di favore. Nulla di più falso. Dentro quelle stanze eravamo tutti uguali con un obiettivo comune: salvare la pelle. Pensare che ci fossero dei favoritismi è un torto che si fa a persone che oltre a lavorare in condizioni difficili hanno perso la vita per tanti di noi. La mattina successiva la morte di mia mamma, io miracolosamente ho cominciato a stare bene (grazie Felicita), tanto da essere dimesso dopo una settimana e due tamponi negativi. Era un lunedì pomeriggio, quando impreparato a lasciare l'ospedale sono tornato a casa in taxi in pigiama, considerato che portato via d'urgenza quindici giorni prima a sirene spiegate, non avevo neppure una borsa. Ricordo la soddisfazione negli occhi degli infermieri e dei medici nel consegnarmi una cartella clinica dall'happy end quasi come fosse guarito uno di loro. Oggi che sono a casa e leggo che 160 tra medici, infermieri e personale sanitario, hanno perso la vita per salvare quelle altrui che in molti casi neanche conoscevano, mi si stringe il cuore e penso come il nostro Paese ha in queste persone degli esempi da cui imparare tanto.

·        Piero Pelù.

Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 10 febbraio 2020. Ventimila euro (con scuse). Tanti ne pagherà Piero Pelù al concittadino Matteo Renzi, che aveva appellato come «il non eletto e boy scout di Licio Gelli», al concerto del Primo maggio a Roma, nel 2014. L'allora premier, da poco a Palazzo Chigi, lasciò correre. Ma il nome dell'ex frontman dei Litfiba finì in una sorta di lista nera sulla quale Renzi ha progressivamente appuntato, con il supporto di un team di avvocati, i nomi di tutti coloro dai quali si è sentito diffamato durante la sua attività politica. Così, svestiti i panni di premier e varata la scissione dal Pd, in veste di senatore semplice di Italia viva, Renzi ha fatto scattare una raffica di querele, in sede penale e civile, ciascuna delle quali accompagnata da ingenti richieste danni. E nel mirino è finito anche Pietro Pelù (detto Piero), fresco del quinto posto a Sanremo con Gigante . Ma proprio poco tempo prima di salire sul palco dell'Ariston, il rocker ha firmato a Firenze un accordo (legato a vincolo di riservatezza) con il quale risarcisce Renzi con 20 mila euro, a fronte di una richiesta assai più alta. I due sono distanti anni luce: in comune hanno solo l' essersi diplomati nei due licei classici più quotati di Firenze. Poi Renzi si è laureato in Giurisprudenza per imboccare la via della politica, mentre Pelù si è dato al rock. La rottura, insanabile, arriva quando Renzi viene eletto sindaco di Firenze e non conferma Pelù alla guida dell' Estate fiorentina. Da lì in poi è un crescendo, fino alle foto pubblicate dal rocker sui social mentre mostra un rotolo di carta igienica con la faccia di Renzi.

Dagospia il 13 febbraio 2020. Anticipazione da Oggi. Gianna Fratta, 46 anni, direttrice d’orchestra, racconta a OGGI come ha fatto capitolare Piero Pelù, con cui si è sposata lo scorso settembre: «Veramente è lui che è corso dietro a me! Ci siamo conosciuti nel 2016, grazie a un orchestrale, un musicista che era suo vicino di casa. Ma dopo cinque mesi l’ho lasciato perché era troppo immaturo…Poi è tornato sui suoi passi, l’ho fatto soffrire e gli ha preso la strizza… È stato lui a volere il matrimonio. Ha capito che potevo volare via, non voleva perdermi». E su come sia il rocker Pelù a casa dice: «Dolcissimo. Anche a Sanremo non pensava alla gara, non si ricordava neanche la sua posizione nelle varie classifiche. Lui tifava Rancore, è generoso».

Paolo Madeddu per rollingstone.it il 7 aprile 2020. Se vi è capitato di incontrare Piero Pelù avrete forse constatato che quando non è su un palco è affabile come il leone che ha già mangiato. Poi, se qualcuno sbadatamente nel raggio di 10 chilometri accende un riflettore, perde ogni compostezza e inizia a ruggire in modo assordante e palesemente compiaciuto – tanto che a molti viene il sospetto che i ruggiti gli diano alla testa. Ma il Pelù di queste settimane ha subito un diabolico contrappasso: in quarantena, costretto in casa. Niente palcoscenici, niente riflettori, proprio nei giorni in cui sarebbe dovuta partire la promozione del nuovo album Pugili fragili. Come altri colleghi si è proposto con delle dirette Instagram con ospiti in collegamento. Le ha chiamate #casadolcecasa, quasi una forma di sberleffo al proprio personaggio di rocker selvaggio. Un personaggio che qualcuno trova forzato se non farsesco – e anche di questo gli abbiamo chiesto conto, altrimenti che gusto ci sarebbe?

Finalmente ti hanno messo agli arresti domiciliari.

«Come tutti! È surreale, si perde un po’ la cognizione del tempo. Mi sono messo a fare #casadolcecasa perché in questo periodo bisogna inventarsi qualcosa per rimanere in tirella, se no si implode».

Ma dicono che in questo periodo possiamo approfittare per scoprire molte cose di noi e degli altri. Lo stai sfruttando?

«Eh, ci si prova… Cerco di osservare come siamo noi italiani, come sono io; diventa naturale specchiarsi gli uni negli altri e poi guardarsi dentro. E a costo di ribadire il titolo dell’album, mi scopro una volta di più pugile fragile. Ho una gran voglia di tornare a sentirmi un gigante, ma non so cosa avrei fatto se io e mia moglie fossimo rimasti separati quando è scattata la quarantena – e sarebbe potuto succedere, se non le fosse saltata una replica dell’Elisir d’amore di Donizetti».

Qui è dove bisogna precisare ai lettori che mentre tu canti Picnic all’inferno, tua moglie Gianna Fratta dirige opere liriche ed è pianista di fama internazionale. C’è il potenziale per una sit-com.

«La musica è stata un trait d’union fortissimo fin dal primo giorno in cui ci presentarono a Badolato, in Calabria, dove vado in vacanza da anni. A partire dalla musica, ci siamo attratti e raccontati. E poi è successo quello che doveva succedere. Io le ho fatto conoscere tutto il repertorio dei Beatles e dei Pink Floyd, lei mi sta facendo scoprire l’opera, a partire da Puccini del quale lei è grandissima interprete».

A lei è saltato Donizetti, ma a te è saltata la promozione dell’album. Avrai rivolto molti pensieri a nostro signore.

«Guarda, avevo iniziato il tour promozionale nelle librerie, ma sono riuscito a fare solo la data inaugurale a Firenze, e complice anche il bel Sanremo che ho fatto c’era la coda in strada in piazza Duomo – uno spiscinìo di gente, come si dice dalle mie parti. Ma confesso che già quel 24 febbraio ero preoccupato da questa cosa del virus, a me secca passare per quello che rompe le palle agli altri, ma forse è più chiaro, adesso, che è il caso di occuparsi dei problemi del nostro ecosistema? Così, sempre passando per quello che rompe le palle, ancora prima che arrivassero le prescrizioni restrittive già quel giorno ho chiesto a tutti di stare a un metro nel momento della foto, niente abbracci né baci. E pure a Sanremo ero già attento a limitare i contatti. E mi è costato perché io sono molto carnale, credo si sappia che mi butto a braccia aperte sul pubblico in concerto».

È un bel cimento per te, stare senza pubblico. Non hai paura di sparire?

«Ah ah ah, no, questo no, ma mi trovo di fronte a me stesso. Non si scappa».

Cosa ti dà il pubblico?

«Siccome spesso faccio parte del pubblico anch’io, la mia teoria è che il pubblico è una specie di esaltatore delle cose migliori che tu sei. È un esaltatore di gusto come il sale quando si cucina. O forse l’olio, toh».

Il pubblico di Sanremo sembrava entusiasta di te, cosa che sembrava impensabile tanti anni fa. Hai pensato di vincere, a un certo punto?

«No, né prima né durante. Di vincere non mi fregava nulla, ho fatto Sanremo per festeggiare i miei 40 anni di musica e il mio ventesimo album in modo clamoroso e decisamente diverso, dopo tanti anni che dicevo di no».

Durante Sanremo ho visto il tweet di una ragazza che è andata a vedere la tua bio su Wikipedia e ha trovato la frase che dicesti al concertone del 1993: “Papa, te non sai una sega”. Ha avuto 900 like e commenti del tipo “Ma veramente? Idolo!”. Per chi ti segue da anni è una cosa quasi archiviata, ma per i più giovani è una scoperta.

«Ah ah ah… Però spero che la frase fosse contestualizzata. Non era una provocazione gratuita, era legata al divieto del papa Wojtyla di usare il preservativo. La gente moriva a migliaia per il virus dell’epoca, l’HIV. E per me il suo divieto era quasi irresponsabile. La cosa scatenò le ire di Celentano che mi scrisse dal Corriere della Sera. Io tra l’altro ero in Marocco e non sapevo del putiferio che avevo sollevato. Scoprii per esempio che in mia assenza Jovanotti e Ligabue avevano preso le mie difese e questo facilitò il nostro avvicinamento. Oggi abbiamo un papa che raccomanda l’utilizzo dei contraccettivi e il 90% dei consigli che dà questo papa io li condivido e sono legati all’attualità. Malgrado Wojtyla sia considerato un rivoluzionario, la sua lotta era essenzialmente contro il comunismo. Io non difenderò mai il comunismo e quando mi ci sono confrontato è sempre stato traumatico, sia in Russia che a Cuba che in Vietnam – dove ho avuto qualche dissidio con l’Esercito… Lì è meglio che non ci metta più piede».

Chiudiamo con Sanremo. Ci sono due domande inevitabili. Morgan e Bugo?

«Io sono convinto che siano stati due maestri del marketing, più di Malcolm McLaren e della sua Grande truffa del rock’n’roll. Poi non so chi ha fatto cosa, ma il pezzo è bello, solo che rischiava di non essere valorizzato dal festival, così purtroppo ha avuto bisogno della gossipata. Buon per Bugo, che ho sempre stimato, i suoi primi dischi erano assolutamente geniali, mi auguro che ora torni bene sulle scene perché se lo merita».

E Achille Lauro?

«Mi è parso un Renato Zero due punto… Zero. Lo dico senza ironia, però a vedere la sua provocazione non ho resistito e quando ho rubato la borsetta alla signora del pubblico poi ho detto che era la mamma di Achille Lauro. È interessante che lui sia partito dal rap, e che si stia buttando sul glam rock. Ogni tanto sembra che in questo impero di pop e rap ci siano dei sobbalzi, come una sotterranea curiosità di altri generi. Ci sono vampate un po’ a sorpresa. Io sono andato a vedere i Måneskin con la mia figlia più piccola, diciamo che lo spirito è abbastanza rock, poi loro hanno bisogno di maturare un bel po’. Penso che il rock debba trovare il modo di riproporsi con un sound che non sia più solo punk, metal, blues e ballad, ma anche raccogliere la sfida dell’elettronica, io con Pugili fragili ci ho provato».

Nell’album c’è un pezzo, Ferro caldo, che parla dei vent’anni. Ma la maggioranza dei ventenni non è presa dal rock. Non è che quando tu hai iniziato, fare rock in Italia fosse facile. Oggi però i ragazzi più arrabbiati sembrano proprio disinteressati. Da cosa pensi che dipenda? Dal fatto che è la musica dei padri se non dei nonni?

«A parte che 10 anni fa tutti volevano essere deejay, era diventato l’escamotage per dire “Mi invento un lavoro facile e vi avrò tutti ai miei piedi”, dimenticando che la maggior parte dei grandi deejay sono anche musicisti. Penso il sound che piace ai ragazzi oggi rifletta il bisogno di immediatezza, di ottenere risultati immediati che il mondo chiede a tutti noi, ma soprattutto a loro».

Quali rapper ti piacciono?

«Soprattutto quelli che derivano dal metal, a partire da Salmo, che racchiude in sé tanta musica, non solo rap. Sono andato a sentirlo e ha una band molto agguerrita e potente, non è il tipo di musica che puoi liquidare come “base”. È diverso quando hai solo elettronica sul palco, lì è facile che la musica sia irrilevante. A livello ritmico in generale c’è stato un rallentamento. Al 90% l’energia va nelle parole, ma da anni nel ritmo c’è un che di abulico, specie dalla trap in poi. Sia il rock che l’hip hop sono figli della strada, e quindi sono come piante opposte che hanno le stesse radici. Il rock viene dal blues e quindi dallo sfruttamento, l’hip hop viene dalla sofferenza o dall’insofferenza delle periferie, si possono trovare punti in comune, io qualche volta ci ho provato. Ma quello che tu dici dipende anche dagli strumenti, il computer, il sintetizzatore non convogliano quella pacca. E poi suonare uno strumento è un percorso lungo, sia alla chitarra che al basso e alla batteria devi dedicare moltissime ore al giorno. Oggi i social fanno sembrare tutto a portata di un clic, sia il successo che la verità sulle cose, senza uscire di casa. Gira voce che tha Supreme non esca mai di casa. Però è l’opposto della mitologia del rock. Forse allora tha Supreme ce l’ha tirata – sto scherzando, spero non se la prenda. Però evidentemente scrive cose che coinvolgono tutti, il che vuol dire che col suo computer e il suo smartphone riesce a comunicare qualcosa di attuale. E poi forse ha una casa bellissima e gli amici lo vanno a trovare, fa bene a non uscire, ah ah ah! Poi bisogna esser bravi a trovare l’ispirazione anche da casa, io senza andare in strada faccio fatica. Gigante è una canzone nata a diretto contatto coi carceri minorili napoletani, è a quei ragazzi che dico “Tu sei molto di più di quello che credi e quello che vedi”».

Gigante è diventata molto velocemente la tua canzone più ascoltata su Spotify come solista. Sai qual è quella dei Litfiba?

«Potrebbe essere Il mio corpo che cambia».

Ok, giusto. Ma è un po’ una sorpresa. Come mai non Spirito libero o El Diablo, che l’hanno suonata pure i Metallica?

«Negli anni ’90 dei Litfiba ci sono state due fasi. Diablo, Terremoto, e poi Spirito e la fase di Mondi sommersi, l’album che ha aperto al gusto più popolare. Ma non perché l’avessimo calcolato, anzi. Non era previsto. La canzone scatenante fu Regina di cuori, che era l’ennesima love song scritta dai Litfiba, la prima era Elettrica danza del 1983. Complice il fatto che accettammo di fare il Festivalbar, quella canzone divenne una hit pazzesca che non ci saremmo mai aspettati. Già El Diablo aveva venduto mezzo milione di copie ed era stato pubblicato anche in mezza Europa. Ma Mondi sommersi arrivò a un milione di copie, e lì per noi fu un terremoto: quando facemmo Infinito, pur essendo alla massima visibilità, vennero fuori una serie di magagne che, lo dico per la milionesima volta, sono state anche pilotate da fuori. Siamo stati la prima e unica band che ha litigato per colpa dei manager».

Beh, i Beatles non sono finiti per motivi molto diversi.

«Ma se le sono giocata dando la colpa alle donne – geniata, ah ah ah! Poi per noi fan ci sono state le versioni più alte, no? “Si sciolgono perché uno vuol fare l’intellettuale e l’altro vuol fare il popolare…”. Comunque Il mio corpo che cambia è una canzone semplice, ma qualcosa nel testo ha colpito l’immaginario ancora più di Regina di cuori. Tra l’altro, volendo potrebbe essere applicata al momento attuale».

È emblematico che la gente ti associ a una canzone sul corpo.

«Ah, forse. Sulla copertina dell’ultimo album le mie braccia sono coperte di squame. È un tema che io sento molto, quello della metamorfosi. Che per me significa Kafka, per altra gente è gestire quotidianamente le proprie mutazioni. O negarle»

Parlavamo degli anni ’90. C’è qualcosa che ti manca di quel periodo?

C’era una ingenua speranza nella purezza di fondo del mondo. Per quanto potesse essere puro un periodo in cui avevamo una guerra all’uscio di casa, nei Balcani… Però c’era un impegno che secondo me era sincero, da quello di Erri De Luca che fisicamente andava lì per aiutare, a quello di Pavarotti, che fece una scuola di musica a Mostar col Pavarotti International, a quello delle mobilitazioni contro i summit. C’era la sensazione che si potesse creare un legame tra diversi popoli nel pianeta. Invece qualcuno ha pensato di far crollare le Torri Gemelle di New York e resettare tutto in un clima di guerra globale. Ma sinceramente non arrivo a dire che “mi mancano” gli anni ’90».

Qual è il tuo punto debole?

«Forse quello di non essere competitivo. È un mondo competitivo, ma a me non frega un cazzo, se gli altri vogliono viverla così, affari loro, per me porta solo problemi. Per me più si condivide, meglio si sta».

Ma nemmeno la competizione con te stesso, per rimanere su? Una volta mi hai raccontato un aneddoto tra te e Vasco, lui sentiva un po’ di competizione. E non pare che lo abbia logorato.

«Io con Vasco non posso che complimentarmi, sta dimostrando una tenuta pazzesca a livello dei Rolling Stones se non di più, se pensi al suo bacino d’utenza cioè l’Italia. In quella storia riaffiora il management. Noi eravamo in fase di ascesa ed eravamo arrivati alla EMI, sua casa discografica di allora. In quel periodo non aveva fatto dischi memorabili, forse era in una fase di calo creativo, può capitare a tutti. Il nostro manager – non lo nomino nemmeno – ebbe la pessima idea di entrare alla EMI dicendo, nota bene trent’anni fa, una cosa tipo “Vasco è vecchio ora ci sono i Litfiba”, cosa che io non mi sarei mai sognato di dire. Tra l’altro io avevo partecipato a un concerto in cui c’era anche lui già nel giugno del 1980: i Mugnions di Firenze, i R.A.F. e Vasco Rossi».

Quindi qualcuno lo aizzò contro di voi.

«Ci incontrammo nel 1995 a Vota la voce, presentato da Alba Parietti. Quando Vasco si presentò per fare le prove subito dopo di noi io lo salutai, e lui si mise a ringhiare un po’ (Pelù imita la voce di Vasco, nda): “Eh, questo qui, cioè mi vuol far le scarpe, ti faccio vedere io, ce ne vuole per fare il culo a Vasco, eeeh”. Ci rimasi di merda! Al momento abbozzai, ma la sera andai da lui a chiarire: “Vasco io non ho mai detto niente contro di te, tu fai cose che mi piacciono, altre meno, ma questo è normale”. Lui aveva allentato la tensione e mi disse “Ma sì, non siamo a scuola”, e iniziammo a scherzare. Poi negli anni successivi ogni volta che ci siamo incontrati abbiamo parlato tranquillamente».

C’è qualcosa che dicono di te che ti manda il sangue agli occhi?

«Mi sono sempre disinteressato di quel che si dice di me fin dai tempi della scuola, mi faccio scivolare facilmente le opinioni altrui: da decenni mi danno del pazzo, del provocatore, ma se sento che è giusto provocare lo faccio e vaffanculo, se poi ci sono conseguenze da pagare le pago. Poi gli hater ci saranno sempre per tutti, anche quando fai una cosa che in teoria è inattaccabile».

Tipo?

«Quando con sacchetto e guanti raccatto la roba per terra, nei luoghi naturali, le spiagge. Qualcuno mi ha ghignato dietro vedendo il personaggio famoso che si china in spiaggia a tirare su la plastica. “Si fa pubblicità, non serve a un cazzo…”. Oh, col Clean Beach Tour abbiamo raccolto più di 7 tonnellate di plastica con centinaia di volontari, persone straordinarie, e con gli amici di Legambiente, WWF, Greenpeace, Fridays for Future. Chi critica queste cose fa mai qualcosa di concreto? Nei giorni scorsi ho fatto un piccolo video per Annalisa Durante e Lea Garofalo. Magari gli hater pensano che non sia sincero, ma quanti sanno di chi sto parlando? Se ho spinto qualcuno a informarsi non è del tutto una stronzata. Non puoi farti fermare dagli hater, loro fanno quello che sanno fare, ma anch’io, e non farei cambio con loro. Se mi fossi preoccupato di quello che pensano di me non avrei nemmeno cominciato a cantare. Quando mandammo il primo provino dei Litfiba alla Italian Records dissero: la band non è niente di che, il cantante fa cacare. Dicemmo: ok. Magari ora quella gente si è pentita un po’, avrebbero fatto qualche soldo con noi».

Bene. Se non ti preoccupa cosa dicono di te, niente ti ha dato fastidio di alcuni recenti articoli su Rolling Stone? Ci sono una recensione di un tuo concerto, e dichiarazioni dei tuoi vecchi amici Federico Fiumani e Giorgio Canali.

«Volete che risponda qualcosa? Mi è arrivata voce di alcune frasi di Fiumani, ma non ho approfondito, non ero particolarmente interessato».

Non proprio, è solo per sapere se proprio certe critiche nei tuoi confronti ti sono indifferenti.

«Ok. Che hanno detto?»

Fiumani ha detto “Pelù è un borghese che gioca alla rivoluzione”. E poi “Con me non è stato molto carino negli ultimi anni” e “La sua ultima partecipazione a Sanremo, dove si è proposto come un buffone (…) Sia il testo della canzone che il suo atteggiamento erano impregnati di falsità, di retorica buonista, di un voler stare sempre dalla parte dei più deboli e salvare il mondo, ma alla fine di cercare solo il proprio tornaconto e di salvare se stesso. È un vero paraculo. Lo è sempre stato, ma ultimamente ha toccato il fondo, per cui mi risulta insopportabile”.

«Okay (ridacchia, nda). Devo replicare? Senti, conosco Federico dal 1978 ed è una persona molto portata a vedere il bicchiere vuoto. Io invece lo vedo mezzo pieno. E me lo scolo. Quindi anche se negli ultimi tempi l’ho coinvolto in alcune cose, come la canzone Buchi nell’acqua cinque, sei anni fa, e nonostante io abbia fatto di tutto per averlo come supporter a un concerto dei Litfiba a Firenze, e nonostante lo abbia assecondato in varie sue fantasie, dice che non l’ho mai aiutato, ma sono inesattezze storiche molto importanti. Preferisco Fiumani quando scrive belle canzoni, e non quando usa il mio nome in modo polemico per tornare sulle pagine dei giornali».

Canali invece ha difeso il tuo impegno. In compenso ha detto “Pelù da sempre vuole arrivare al grande pubblico, anche i Litfiba ne erano la dimostrazione. C’è da dire che i Litfiba hanno iniziato a fare dischi di merda, lì non ci piove e ci ridiamo spesso ogni volta che ci vediamo”.

«Mi sembra MOLTO strano che abbia davvero detto queste parole. È stato a casa mia la settimana scorsa e abbiamo parlato di tutto tranne che dei dischi dei Litfiba, abbiamo pure abbozzato un pezzo insieme che spero riusciremo a finire. Giorgio è imprevedibile, a me fa incazzare che lui faccia dischi con bellissime canzoni che però sono registrate ed eseguite in maniera approssimativa, e che lui sprechi il suo talento con il piglio scazzato di chi si è rotto i coglioni. Con Giorgio però il rapporto è molto schietto, quindi davvero, non credo possa avere detto che ho riso con lui dei dischi dei Litfiba – anche perché io in quei dischi ci sputo l’anima. Poi possono piacere o non piacere, ma per me sono importanti».

Avrai notato che ho messo le domande spiacevoli alla fine.

«Eh… A chi tocca ora?»

C’è una persona, e non è un papa, con cui un Primo maggio di tanti anni fa hai avviato un contenzioso risoltosi qualche giorno fa.

«Io da lui sto aspettando la querela».

Ma sui giornali ho letto che avete trovato un accordo economico con vincolo di riservatezza. Per capire come funziona un vincolo di riservatezza: tu non puoi più parlare di questa persona e di questo argomento? E se sì per quanto? Per 3 anni, 10 anni, o per sempre? Come funziona?

«La risposta l’ho data alla conferenza stampa per l’album, scrivendomi “No comment” sul petto».

Ok, ho afferrato… Ultima domanda: la famosa matita al seggio elettorale.

«Guarda che quella cosa era serissima! Subito tutti a ghignare del complottista Pelù, ma se è scritto che si debba usare una matita copiativa, lì non dovevano esserci matite normali portate da casa. Io a votare ci tengo, mi sono fatto anche i chilometri per dare il mio piccolo voto».

Quindi quella non era una matita copiativa?

«No! Quello era il punto. E invece l’hanno girata come se avessi detto che le elezioni erano truccate, ma io ho detto semplicemente che in quel seggio di Firenze c’erano matite non legali, mi sembrava giusto dirlo, cazzo: è il voto delle persone».

Piero Pelù: «Il mio migliore amico morì d'overdose: ho combattuto l’eroina e la coca». Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo e Andrea Laffranchi. Il cantante a Sanremo: «Ogni volta che fumavo le canne collassavo. Con le mie figlie ho un rapporto bellissimo, però mi rimproverano di aver lasciato le loro mamme».

Piero Pelù, che cosa ci fa El Diablo, il rocker maledetto, il musicista antisistema, al Festival di Sanremo?

«Festeggia i quarant’anni di musica».

Con Al Bano&Romina e i Ricchi&Poveri?

«Sanremo non è più quello di un tempo: negli anni 80 era inguardabile, si cantava in playback. Ci sono stati i festival di Fabio Fazio, che aveva in gara anche i Subsonica. Prima ancora ci sono passati Rino Gaetano, Zucchero, Vasco».

Lei di Vasco ha detto che è nazionalpopolare.

«Con Vasco ci conosciamo dal 1980, quando ci incrociammo sullo stesso palco. Io avevo 18 anni, lui 28. Siamo tutti e due dell’Acquario, nati in questi primi giorni di febbraio. E siamo tutti e due timidi; per cui ci ignorammo».

Con Ligabue avete fatto una canzone contro la guerra in Kosovo, «Il mio nome è mai più»; ma anche di lui ha detto che è nazionalpopolare.

«Ammiro Vasco e il Liga, il loro modo di pianificare il lavoro in ogni minimo dettaglio, compresa la scrittura. Se vuoi essere nazionalpopolare devi pagare un prezzo. Il mio modo di scrivere invece è ancora legato all’istinto, al bambino che ho dentro: Peter Pan, o meglio Peter Punk. Ho degli impeti pazzeschi, poi magari sto fermo per mesi. Non è che mi metto su Internet a cercare ogni parola per vedere i link o i like; aspetto l’input che mi viene da quel che ho vissuto».

Ai tempi della guerra del Kosovo c’era la sinistra al governo. D’Alema.

«Un artista deve essere sempre critico, sempre contro il potere. Ribelle, rivoluzionario, anarchico. Io sono di sinistra, ma detesto tutte le dittature, anche quelle rosse. Al ritorno da Cuba criticai Castro, e i comunisti di casa nostra mi massacrarono. Ho suonato al primo e ultimo festival rock di Hanoi, in quei giorni ho visto la polizia picchiare i manifestanti con i manganelli elettronici, poi al concerto gli spettatori travolgere gli agenti e conquistare il palco».

Ha suonato anche a Sarajevo.

«Con i Nomadi ai tempi di Augusto. Sull’aereo c’era pure Formigoni, anche se non sapevo chi fosse. Alla fine del concerto gridai a tutti di spogliarsi contro la guerra: il pubblico entusiasta cominciò a denudarsi, Augustone era imbarazzatissimo: “Piero, che fai...”. Pochi giorni dopo cominciarono i bombardamenti. Sono stato obiettore di coscienza. Sono pacifista e antimilitarista. Grazie a nonno Mario».

Cosa c’entra nonno Mario?

«Era un ragazzo del ’99. Per reggere in trincea fumava una Gauloise dopo l’altra, e non ha più smesso: quattro pacchetti al giorno. È morto a 69 anni con i polmoni rovinati. Fin da quand’ero bambino mi raccontava della Grande Guerra, senza spaventarmi, per rendermi consapevole: il fango, la fame, i topi. E la febbre spagnola: milioni di morti; altro che il coronavirus. Quella generazione ce l’ha fatta a sopravvivere alla guerra. E ci ha insegnato a dire: mai più».

Qual è il suo primo ricordo?

«L’alluvione di Firenze. Piovve per settimane, pareva che fosse arrivato il diluvio universale a castigare il mondo. Abitavo a Ponterosso, dove il torrente Mugnone scende da Fiesole per gettarsi nell’Arno. Con mio fratello Andrea, la pecora nera della famiglia, guardavamo le acque che erano arrivate alle spallette; la nostra casa stava per essere allagata».

Perché suo fratello è la pecora nera?

«Si è laureato in Economia e commercio, ha lavorato in Borsa e in banca. È il mio manager».

Erano gli Anni 60: boom, Autostrada del Sole, prime vacanze al mare...

«Per me erano le prime vomitate sul sedile posteriore della Fiat 124 di babbo Giovanni. Radiologo, si trasferì ad Ancona per diventare primario. Arezzo, Città di Castello, l’Appennino, Furlo, l’osteria del Gatto... papà accelerava e frenava, e io stavo male. Ora ha 92 anni, mamma Cristina 82. Sono acciaccati, ma si difendono. A casa loro ho appeso decine di cartelli: “Ricordarsi di guardare Piero a Sanremo”».

I genitori hanno accettato le sue scelte?

«All’inizio, no. Poi dopo anni di conflitti hanno capito che avrei potuto fare un lavoro diverso dall’avvocato o dal dentista. Ho sempre adorato la musica. Da piccolo cantavo a squarciagola e registravo le canzoni, comprese quelle di Sanremo: dovendo sceglierne una per la serate delle cover, ero indeciso tra “24 mila baci” e “Cuore matto”. L’alba del rock italiano».

Cos’ha scelto alla fine?

«Per me Celentano è un mito, come voce non lo batte nessuno. Ma ho scelto “Cuore matto”, perché è anche una canzone in controtendenza, contro la violenza sulle donne: lei l’ha lasciato, lui continua ad amarla però la rispetta, dice che prima o poi riuscirà a liberarsi dal giogo psicologico, e fa un passo indietro. Nel brano duetterò virtualmente con Little Tony, che canterà dal megaschermo alle mie spalle».

La canzone con cui è in gara, «Gigante», è dedicata a un bambino.

«A mio nipote Rocco, tre anni, figlio di mia figlia Greta. Ma anche ai ragazzi del carcere minorile di Nisida: storie dure, infanzie negate. È scritta in un linguaggio abbastanza basico, con immagini legate al fantasy. Ma il verso “il tuo non è un pianto/ è il tuo primo canto” l’ho scritto con Erri De Luca».

L’inizio — «spingi forte, esci da quel buio» — fa pensare a un parto.

«Ma anche a una rinascita. Con i ragazzi del minorile ho passato una settimana, a Forcella, nel centro dedicato ad Annalisa Durante, la ragazzina uccisa per strada. Insieme abbiamo scritto una canzone. I primi due giorni si guardavano la punta delle scarpe, parlavano tra loro a monosillabi, in dialetto napoletano stretto, sghignazzando di me. Sono riuscito a stabilire un contatto parlando di calcio, ragazze, feste, macchine. Ho chiesto quale musica amassero. Neomelodico e reggaeton, hanno risposto. Sul neomelodico son debole, ma il reggaeton si può fare. Suonavo la batteria elettronica e cominciavo a vedere sorrisi, mani che si muovevano, piedi che battevano il ritmo. Alla fine abbiamo suonato tutti insieme. Uno ha avuto il padre ucciso, un’altra aveva ammazzato la madre... Ma tutti possono ripartire».

Pelù nonno. E fresco sposo. Com’è la storia?

«La mia primogenita Greta ha 29 anni, Linda 25, sta facendo un master su antropologia e cibo all’Università di Pollenzo. Ho vissuto tre adolescenze. L’hanno fatta pagare a un padre ragazzaccio che ha detto basta alla loro mamma. Adesso me la sta facendo pagare Zoe, 15 anni, che ho avuto dalla mia seconda compagna. Ma con tutte le figlie ho un rapporto bellissimo».

Greta, mamma del nipotino, ha sentito la canzone?

«Sì, e ha pianto come una fontana. Dice che non potrà mai cantarla. E vista la sua reazione ho deciso di non farla ascoltare alle altre figlie o ai miei genitori; per evitare di pensare ai parenti che piangono mentre sono sul palco».

Ora si è sposato.

«Lo scorso settembre. Con Gianna, direttrice d’orchestra. Ero uno scapolone impunito e appena l’ho vista, pem!, è partita una legnata micidiale. Ho anche pensato di far dirigere a lei l’orchestra di Sanremo che suonerà “Gigante”. Ma abbiamo preferito evitare l’effetto Al Bano e Romina. Così ci sarà il mio produttore Luca Chiaravalli a cui ho imposto la pettinatura da samurai come la mia».

Lei è anche un artista politico. Quanto Renzi era al 40 per cento, fu il primo a dire che non era l’uomo giusto. Perché?

«Perché sono contrario alle infatuazioni collettive: nella nostra storia le abbiamo sempre pagate carissime. Renzi ora si è ritagliato il giusto spazio, si è fatto il suo partito».

Salvini come lo trova?

«È il figlio di Berlusconi, magari un po’ più estremo. Un comunicatore formidabile. Il berlusconismo, come il fascismo, non finirà mai. È cominciato negli anni 80, con le tv. Gli riconosco un merito: ha evitato un colpo di Stato violento. Ha fatto un colpo di Stato strisciante: all’inizio a colpi di tette e culi; poi fondando il partito».

E la Meloni?

«Una tosta. Una macchina da guerra con idee lontane dalle mie. Pure lei fa parte di questa storia, anche se mi sembra più moderata di Salvini».

Il fascismo può tornare?

«Sta tornando. Non nelle forme di un tempo, ovviamente. Un fascismo 2.0, con altri strumenti di comunicazione e persuasione. L’antisemitismo, il negazionismo, il razzismo... Per fortuna sono arrivate le Sardine».

Le piacciono?

«Sono una botta di luce. Preferisco questa anima stradaiola alla burocrazia del Pd. Ragazzi che si sono impegnati nel sociale, hanno assistito anziani e disabili, e ora vogliono cambiare la politica, senza diventare antipolitica. Non è solo critica feroce, non è solo “vaffa”».

Proprio lei si scandalizza per un «vaffa»?

«Ma no, il livello di esasperazione era tale che ci poteva pure stare. Ma da lì si è costruito un po’ troppo poco. Le Sardine mi sembrano meno impreparate».

È vero che ha intervistato Licio Gelli?

«Sì. Suonavo ad Arezzo, andai a casa sua. Mi aprì. Rispose a tutte le domande, a patto che il reporter che era con me non filmasse lui, ma il suo ritratto».

Come le sembrò?

«Il sistema italiano. Che a volte è feroce».

Com’è stato invece fare tv con la Carrà?

«Mi chiamò come ospite a Sanremo nel 2000. Per me Raffaella era la causa delle prime tempeste ormonali: il tuca-tuca, l’ombelico scoperto... guardate, ho qui una sua foto anni 70, non è terribilmente sexy? Si capisce dallo sguardo di quest’uomo baffuto sotto il palco, con gli occhi all’insù... Grazie a lei portai in tv gli artisti del circo e la mia battaglia contro le mine antiuomo prodotte in Italia: le piacque la capacità di tenere insieme impegno e spettacolo. È stata Raffaella a volermi a The Voice. Una professionista pazzesca».

In Picnic all’inferno, uscita a ottobre, lei inserisce la voce di Greta Thunberg. Perché?

«Volevo una canzone sull’ambiente. Vedo che il negazionismo sulla Shoah purtroppo cresce; ma almeno cresce anche la coscienza ambientalista. A Firenze mi muovo in bici o con il car sharing elettrico».

E ora lancia il Clean Beach tour.

«In parallelo ai concerti pulirò spiagge e greti di fiumi».

Anche la spiaggia di Sanremo?

«Ho già pronto il sacchetto da riempire che ho sempre nel camper. Per il matrimonio con Gianna ci siamo regalati un camper con il sogno di fare il giro del mondo, al netto delle guerre. Un giorno l’ho portata sulla Feniglia, una delle spiagge più belle dell’Italia, e ho trovato una discarica. Ho mobilitato le autorità locali e in un giorno abbiamo raccolto sette tonnellate di plastica. L’idea è nata lì».

È vero che lei in spiaggia va nudo?

«Se posso lo faccio. Mi capita spesso a Badolato, sulla costa ionica della Calabria, dove le spiagge non sono assalite dal turismo».

Una canzone sul nipotino... pronto agli haters che le rinfacceranno le origini dure e pure?

«In genere consiglio agli hater di fare più sesso, e non da soli... Ho fan nostalgici degli anni Ottanta, dei Novanta e degli Zero. Ti dicono che non sei più quello di allora. Non rinnego nulla, ho fatto il minatore del rock per quattro decenni, ma per me è importante che nulla suoni come quello che ho già fatto. Nel brano di Sanremo ci sono riferimenti ai Foo Fighters, alla new wave, ma anche a brani storici dei Litfiba come Il volo o Bambino. Da solo sperimento di più».

E adesso che si sono sciolti gli Elii, chi ci sarà a sostenere la campagna «Litfiba tornate insieme»?

«Gli Elii sono dei ragazzacci che prendono in giro tutti. Li ho visti ancora in tv, altro che sciolti... L’8 marzo 1980 ci fu il mio primo concerto con i Mugnions, il 6 dicembre dello stesso anno il primo dei Litfiba. Dopo Sanremo uscirà il mio album Pugili fragili e passerò l’estate in tour. Ghigo, Gianni e Antonio sono venuti a suonare all’ultima data del mio tour a novembre, i rapporti sono buoni e ci sarà comunque modo di fare qualcosa per celebrare la nostra ricorrenza. Ognuno ha i suoi progetti e ogni tanto ci si ritrova per noi, per la musica e per i fan».

Ha mai fatto uso di droghe?

«Sono un figlio degli anni 70, ho girato l’Italia a suonare negli anni 80 e 90... Ho perso moltissimi amici per la droga. Ringo, mio migliore amico e batterista dei Litfiba, è morto per overdose nel 1990. L’ho sognato tre giorni dopo, mi ha detto: tutto bene. Da allora lo sogno spesso, l’ultima volta mi ha detto: Piero, resta concentrato».

Per qualcuno è anche colpa del rock e dei suoi cattivi maestri.

«Per certi aspetti, i testi espliciti sull’uso e l’esaltazione dell’eroina come I’m Waiting for the Man o Heroin di Lou Reed con i Velvet Underground hanno fatto danni. Ricordo a un concerto di Lou Reed nel 1980 alle Cascine. Sotto il palco c’erano amici di piazza con l’ago infilato che dicevano “guarda che ganzo”. Me ne andai dopo due pezzi. Da lì è partita la mia crociata contro le droghe pesanti: eroina e cocaina. Bisognerebbe insegnare a scuola sia l’educazione sessuale, sia a conoscere le droghe. Un ragazzo deve sapere se fuma una concentrazione di Thc più meno elevata. Quelle leggere andrebbero liberalizzate, per togliere alle mafie la principale fonte di reddito».

Lei le usa per ispirarsi?

«A dire il vero, ogni volta che fumavo una canna collassavo. Ho scoperto così di avere la pressione bassa».

Ora è il rap a finire sotto esame. È capitato a Junior Cally che sarà in gara al festival per una vecchia canzone che raccontava in termini molto crudi un femminicidio, e tutta la trap è accusata di parlare di machismo, di non saper andare oltre sesso, droga e moda.

«Ho tre figlie femmine e non mi va di entrare nell’argomento di quei testi. Forse sono lo specchio di una generazione cresciuta davanti alla tv commerciale. Ma non tutto il rap è così: Salmo è forte».

Ha smesso di gettarsi sul pubblico ai concerti, come Jim Morrison?

«Non so come facesse lui, ma io ogni volta mi incrinavo una costola... L’ultima volta è successo nel 2011. Ho finito la tournée solo grazie agli antidolorifici».

Crede in Dio?

«Credo nell’aldilà. La nostra energia non muore. Leonardo da Vinci non è morto, e neppure Jimi Hendrix. Vengo da una famiglia cattolica, sono battezzato e cresimato. Rispetto tutte le religioni, dalle monoteiste all’animismo: in Gigante cito Buddha e Gesù».

Sanremo, Piero Pelù  e il business delle auto d’epoca (gestito col fratello). Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. Il sito web (anonimo) con il fratello: «Siamo due fratelli appassionati di auto ...». In «Super Dino Classic Cars» un garage di Alfa, Ferrari etc da un milione di euro. È una passione che il leader dei Liftiba si porta dietro da anni, partecipando a gare e manifestazioni di auto classiche, spesso a bordo della sua Alfa Romeo Giulietta Sprint del 1955. E anche a settembre a Firenze per le nozze a Palazzo Vecchio, il rocker e la direttrice d’orchestra Gianna Fratta si presentarono sull’Alfa d’epoca. Ma non si sapeva proprio che il cantante, 58 anni il 10 febbraio, si fosse messo in affari «automobilistici» con il fratello Andrea, dividendosi 50/50 la società «Super Dino Classic Cars» che gestisce il sito e quindi lo shop online di auto. In magazzino le auto d’epoca parcheggiate e da rivendere sarebbero arrivate a un valore di circa un milione di euro. In poco più di un anno i fratelli Pelù hanno trattato diverse Ferrari (il marchio preferito) e Porsche degli anni ’70-’80 ma anche Fiat 500 del ’48 e degli anni ’50, Alfa Romeo di 60 anni fa e molte altre. «Salve a tutti gli amici e a coloro che inizieranno a seguirci in questa nuova avventura nel mondo delle auto classiche», scrivevano, sempre in modo anonimo, nel settembre 2018. Per Pietro Pelù (l’anagrafe gli aggiunge la «t» che l’«arte» gli toglie) è presumibilmente poco più che un divertimento di cui, molto probabilmente, si occupa il fratello.L’investimento extra-musicale più importante e noto resta la quota (25%) nella società Calzaiuoli Real Estate proprietaria in centro a Firenze di un palazzo storico in ristrutturazione con mutuo di Mps. Pelù, a quanto risulta, ci ha messo anche 575mila euro suoi e lo stesso hanno fatto pro-quota gli altri soci tra cui l’ex assessore di Palazzo Vecchio e renziano doc, Salvatore Gori. Per ora non ci sono ritorni economici sull’investimento immobiliare (ma è presto); Sanremo farà probabilmente da volano al già florido e trainante business artistico-musicale; mentre quello motoristico dipende da una domanda: comprereste un’auto usata, molto usata, anzi d’epoca da Piero Pelù?

·        Pif.

Pif sul palco con le Sardine: «Grazie a loro adesso mi sento meno solo». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Il regista sarà alla manifestazione di Bologna: «A differenza di come faceva Salvini con D’Alema, noi non tiriamo le uova». Il 19 gennaio, sul palco della manifestazione delle Sardine, a Bologna, ci sarà anche Pif. «Mi hanno telefonato dando per scontato che sposassi la causa. E hanno fatto bene», racconta il regista. «Finalmente mi sento meno solo. Di colpo mi ritrovo tra tanta gente che ha voglia di manifestare perché non si riconosce in una certa politica. In America su tutto questo ci avrebbero già fatto un film».

Non dia l’idea. Perché andrà a Bologna?

«Anche per conoscere i fondatori, ringraziarli. Scendere in piazza è meraviglioso e importantissimo: perfino la mafia temeva le piazze. Questi ragazzi hanno fatto tornare le persone a manifestare in un’epoca in cui il massimo sforzo è mettere un like».

Perché non è successo prima?

«Credo sia capitata la classica cosa del gesto giusto al momento giusto. Chiunque avrebbe potuto farlo prima ma nessuno lo ha fatto. Loro hanno rischiato. Tra le Sardine poi non tutti necessariamente la pensiamo allo stesso modo, ma tutti contestiamo una certa visione politica».

I leader delle Sardine all’inizio sono stati presi poco sul serio: giovani quindi, per alcuni, poco credibili.

«Se si riesce a criticare perfino una ragazzina che, protestando da sola, ha innescato una presa di coscienza mondiale, tutto possibile. A zittire le critiche ci sono i numeri».

Come vede l’evoluzione delle Sardine in un nuovo partito, in un movimento?

«Possibile, ma sarebbe un’altra cosa, diversa. Questi ragazzi hanno portato a casa un successo enorme: qualunque cosa diventeranno, nulla sporcherà la loro partenza».

Scende spesso in piazza?

«Alle manifestazioni antimafia, che trovo quasi sempre inspiegabilmente deserte. Altrimenti mi hanno fatto tornare loro la voglia. Ho già pronto l’abbigliamento: ho comprato online una maglietta con la scritta Bologna Padania. Mi piace vestire vintage».

Le Sardine e Salvini sono due poli opposti?

«Parlo a nome mio, però certo si fatica a immaginare Salvini tra le Sardine. È il simbolo di quella politica che mettiamo in discussione e che riteniamo pericolosa. Ma non si può ridurre tutto a un movimento anti-Salvini».

Lui le Sardine le ha fritte.

«Sì, le ha fritte... però i numeri contano e Salvini lo sa. Poi dai, quando aveva l’età delle Sardine lui tirava le uova in faccia a D’Alema: noi non siamo così».

Ci sono sempre più leghisti anche nel «suo» Sud...

«Proprio non li capisco: ci insultava fino a ieri. Del resto il meridione non sarebbe il meridione, non saremmo ridotti così...».

È uno dei pochissimi dello spettacolo che si espone politicamente. Perché?

«Negli Usa De Niro addirittura insulta Trump... in Italia è diverso: lo spettacolo è legato alla politica. So per certo di aver pagato le mie prese di posizione, ma ho le spalle larghe per andare avanti. Certo, a volte ho un tempismo che mi dico: sei proprio un cretino. Ma se sono arrivato fino a qui è perché sono fatto così».

·        Pilar Fogliati.

Dagospia l'1 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Pilar Fogliati è intervenuta ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice romana ha raccontato alcuni aspetti della sua quarantena: "Io sono una di quelle che all'inizio ha pensato che c'era una settimana particolare della nostra vita in cui dovevamo stare rinchiusi e ho pensato che fosse quasi fico. Poi ho realizzato che invece sarebbe stata la nostra routine per un po', e allora la settimana dopo ero tristissima e poi ho cercato di reagire anche io di creare una routine accettabile. I giorni che riesco a far fruttare sono tre su sette, perché cazzeggio molto. Però la cosa interessante di questo momento è che nel mondo tutti si stanno chiedendo come possono essere migliori. C'è chi si ammazza di addominali, chi si legge tutti i classici, chi impara a cantare, chi studia il russo. Io mi fermo a guardare un bel po' di film e a leggere cose interessanti". Ancora Pilar sulla quarantena: "La cosa che mi piace di quello che sta uscendo fuori nonostante la caccia all'untore sui poveri runner è l'unione, siamo tutti sulla stessa barca, un po' si livella tutto. Tutti stanno cercando di tirar fuori la propria creatività. Mi  spaventa quando sento parlare la gente come se la normalità non dovesse tornare mai più. Mi terrorizza. Non voglio pensare che sia così. Se è una parentesi si accetta, se pensi che è per sempre è terrorizzante. Io comunque non penso che cambieremo i nostri modi di vivere o di fare. Piuttosto che andare a cena fuori con il plexiglass che ti divide, non ci faro. Preferisco fare un pic-nic". Sulla cosa che più le è mancata: "Il caffè al banco del bar col barista che ti chiede se ci vuoi il cacao e ti fa il cuore. E ti guardi attorno, e senti la gente. C'è quell'idea sociale, come se fosse una pizzetta. La prima cosa che farò appena finirò tutto sarà prendermi un caffè al bar. Questo periodo è come se fosse ogni giorno Capodanno, in cui fai i buoni propositi per l'anno dopo. E' bello in un certo senso, sono tutti propositi di miglioramento". Sul mondo dello spettacolo: "E' uno dei più difficili, lavori con l'energia che si crea tra gli umani. Non riguarda solo gli attori ma anche la truccatrice che esegue il suo lavoro su di te. Non riesco a immaginare un modo in cui in sicurezza si riesca a portare in scena qualcosa. Preferisco pensare che quando tutto sarà finito si riprenderà. E' un controsenso raccontare come gli umani interagiscono senza interagire. Molti oggi immaginano di fare film sul coronavirus, ma mi sono resa conto che sinceramente io uscita da una situazione del genere non vorrei mai vedere una roba sul coronavirus. Io voglio sognare, al cinema soprattutto. Mi sto guardando solo film di assembramenti su assembramenti". Pilar, nota per come ha caratterizzato sul web il comportamento tipico di alcuni stereotipi romani, ha poi giocato: "Come stanno reagendo alla quarantena i miei personaggi romani? Michela di Guidonia è quella più spaventata e si mette l'amuchina pure per sparecchiare. Ma ci tiene a ribadire che lei l'amuchina l'ha sempre usata. Ora la usano tutti, lei la usava tutti i giorni. Tazia, quella di Roma Nord, è felicissima. E' rimasta divisa dal fidanzato e quindi finalmente riesce a seguire la dieta. Quando sei fidanzata, dice, non riesci a seguire la dieta fino alla domenica, perché venerdì, sabato, domenica vai a cena fuori e ti sfondi. Al fidanzato gli fai credere che mangi. Tazia in realtà è contenta, è una maniaca del controllo, è felice, ha una bella casa, una bella terrazza, se la spassa. Uvetta, la ragazza del centro, non riesce invece a capire perché la gente si lamenti. Perché comunque l'ozio secondo lei è contemplazione ed è anche ricchezza. Questa è una sua filosofia importante, ecco come approfittare per dare un altro senso al tempo. Lei vede assolutamente il positivo in questo". 

·        Pino Donaggio.

Fulvia Caprara per “la Stampa” l'11 novembre 2020. Il rimedio infallibile, nei rari casi in cui si ritrova a corto d' ispirazione, è fare un giro tra le calli della sua città, una puntata al Museo Guggenheim, un' altra a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana: «Qui tutto è arte. Poi torno in studio e la musica che devo scrivere mi viene subito». Accordi che hanno fatto il giro del mondo, trasformando Pino Donaggio, nato a Burano nel '41, in uno dei compositori italiani più amati dal cinema, sia in Italia che oltreoceano. Merito, appunto, di quel linguaggio internazionale che gli ha spianato la strada delle collaborazioni più varie, da Liliana Cavani a Dario Argento, da Joe Dante a Brian De Palma per cui ha composto musiche di titoli cone Vestito per uccidere e Omicidio a luci rosse. Reduce dall' esperienza di presidente della giuria della ventesima edizione del «Trieste Science+Fiction Festival» dedicato alla fantascienza, Donaggio è pronto per i prossimi impegni, tutti rallentati causa pandemia. Dal nuovo film di Paolo Franchi al biopic su Enzo Ferrari con Robert De Niro nei panni del protagonista: «E poi forse tornerò a lavorare con Brian, so che anche lui sta scrivendo un soggetto, abbiamo già fatto otto film insieme, non so se mi richiamerà».

Come ha iniziato a lavorare per il cinema?

«In quegli anni cantavo ancora, ho smesso nel '73. E' successo che una mattina, a Venezia, mi abbia visto sul vaporetto un giovane produttore, Ugo Mariotti, che era lì per le riprese di A Venezia un dicembre rosso shocking, una storia di parapsicologia. Io ero da solo, all' alba, appena tornato dalla Spagna, disse che l' avevo colpito, sembravo un' apparizione, si fece dare il mio numero e mi telefonò. Cercavano delle musiche, io non riuscivo a crederci, mi stavano chiamando per un film in cui recitava Julie Christie».

E con De Palma come è andata?

«E' stato facile, anche se non parlavo inglese, c' era sempre una traduttrice e ci capivamo. La prima volta è successo tutto per caso, Brian avrebbe dovuto lavorare con Bernard Herrmann, il compositore di Hitchcock, che, invece, fu colpito da un infarto. Doveva trovare una soluzione, ne parlò con amici in America, tra questi ce n' era uno che aveva appena comprato in Inghilterra un mio disco. Glielo fece sentire, a Brian piacque, e mi hanno chiamato, ho cominciato così».

Prima, però, c' erano già stati lo studio del violino e i successi da cantante. Mise tutto da parte, come mai?

«Studiavo al Conservatorio, sono andato a Sanremo e, dopo le insistenze di Mina, ho cantato Sinfonia. Da lì mi è cambiata la vita, avevo detto al mio insegnante di violino che sarei tornato dopo una settimana e invece è passato un mese, la canzone è esplosa, la cantavano tutti per strada. Il professore si è arrabbiato e non mi ha voluto più».

Da dove veniva la sua passione per la musica?

«Ci sono sempre stato in mezzo, mio padre aveva un' orchestrina, con mio nonno e con mio zio. Da piccolo sentivo suonare loro, poi, quando sono cresciuto e si è capito che avevo orecchio, mio padre mi ha chiesto che cosa volessi studiare e io ho detto subito violino. Ho potuto farlo grazie ai suoi sacrifici».

Dopo il successo americano è tornato in Italia, perché?

«Mi mancava Venezia, non riuscivo a rimanere a Los Angeles, tutto quel tempo ad aspettare che ti chiamino, tra un film e l' altro, conoscevo pochissima gente. E poi lì, se vuoi andare a trovare un amico, devi prendere la macchina e ci vogliono minimo due ore».

Che cosa le piace della musica di oggi?

«Seguo i talent, mi piacciono Amoruso, Mengoni, Emma, anche i Maneskin, e poi i cantautori, soprattutto quelli della mia generazione, Celentano, Baglioni, De Gregori. Dei ragazzi di oggi trovo che si somiglino un po' tutti, anche se capisco che siano bravi. Le canzoni che si scrivono oggi finiscono per essere simili a quelle che si fanno in America, per questo non riescono ad affermarsi fuori, restano qui. I successi della mia epoca, Io che non vivo, Quando quando, Volare rimangono unici e in Usa sono più amati perché hanno la melodia, una cosa che gli americani non sanno fare. E' un po' come per il cinema, agli americani piace il neorealismo, l' Italia la vedono ancora così».

·        Pino Scotto.

Ferruccio Gattuso per “il Giornale” l'8 aprile 2020. Per fare rock, non si è mai tirato indietro. I segni, alla fine, se li porta addosso, come uno di quei pirati romantici, con più cicatrici che forzieri colmi di dobloni. «Se sono qui è perché sono sempre stato un gran lavoratore e perché ho saputo smettere con i vizi al momento giusto». C' è da credere a Pino Scotto, ex frontman dei Vanadium, artista che non ha mai fatto passi indietro rispetto alle contaminazioni, ma che ora torna felice all' hard rock per il quale ha sempre conservato una devozione particolare. Lo fa con un nuovo album dal titolo aggressivo come un riff di chitarra distorta: Dog Eat Dog (già disponibile), undici brani inediti e una cover dei Vanadium, Dont' Be Looking Back.

«Cane mangia cane»: perché un titolo così duro?

«Perché lo scopo del rock è far riflettere sui lati meno piacevoli della società in cui viviamo».

Ad esempio questi da coronavirus che stiamo vivendo?

«È un periodo che ci pone davanti a contrasti netti: c' è generosità e c' è egoismo. Sono molto legato a un brano del disco, Don' t Waste Your Time. Ha un tono che oggi potrebbe sembrare profetico, anche se l' ho scritto per altri motivi: attendevo l' esito di alcuni esami ed ero preoccupato per la mia salute, mi sono chiesto cosa succederebbe se Dio decidesse di riversare sull' umanità la sua rabbia e all' uomo non restasse più molto da vivere. Non gettare via il proprio tempo, ecco l' unica speranza. Dare un senso a ogni secondo. Fino a oggi penso di averlo fatto.

Ci faccia un esempio.

Bè, per fare rock mi sono letteralmente ammazzato di fatica: per trentacinque anni di giorno ho fatto lo scaricatore in fabbrica e la notte correvo ad esibirmi, non importa a quanti chilometri di distanza. Ora, a settantuno anni suonati, sono ancora qui a fare musica».

Come ha vissuto questo ritorno al rock duro?

«In modo naturale, in fondo è casa mia. In passato non ho titubato di fronte alle contaminazioni di genere: ho felicemente collaborato con amici e colleghi come Caparezza e Club Dogo. La musica non ha confini, e non è un luogo comune».

Prima parlava di salute: quando e come si è messo in riga?

«Non saprei dire il momento preciso, anche se partiamo da circa cinque anni fa, quando ci lasciò Lemmy Kilmister dei Motörhead, mio grande amico, che ho sempre sentito regolarmente. Ho pensato di colpo a quanto la vita sia preziosa. Da un giorno all' altro ho smesso con le cattive abitudini: fumavo fino a tre pacchetti di sigarette al giorno. Senza contare gli altri eccessi».

Come vive un metallaro in cattività, tra quattro mura di casa?

«La prigionia stimola. Ora io e i miei collaboratori stiamo pensando al tour, che prima o poi, sono ottimista, partirà. Qualche settimana fa pensavamo a fine aprile, ma ora chissà».

Sui talent show musicali non ha cambiato idea?

«Nemmeno un po'. Roba come X Factor fa solo male ai giovani artisti. In un anno sono abituato a fare centoventi concerti, perché da lì, dalle strade percorse, io vengo.

Con questi ragazzini che fanno? Per una stagione li fanno sentire delle star, poi finiscono nel nulla».

 Gaspare Baglio per rollingstone.it il 12 aprile 2020. È il rocker senza peli sulla lingua. Dice tutto quello che pensa sul mondo e, soprattutto, sulla musica. Lo farà anche in questa intervista per presentare il nuovo album Dog Eat Dog, progetto che, tra riff e assolo di chitarra, vuole far riflettere sull’egoismo e la superficialità dell’oggi. Pino Scotto è una delle icone del rock italico. Uno che, con grinta e determinazione, lotta per imporre una sua visione. Soprattutto dopo aver appeso al chiodo il microfono di frontman dei Vanadium. E aver intrapreso una carriera solista.

Pino, iniziamo col progetto Dog Eat Dog che segna il tuo ritorno all’hard rock.

«Ogni due anni faccio un album e me ne vado in giro a fare concerti. L’ultimo tour l’ho finito a ottobre e sono state 140 date: un massacro. Dopo i Vanadium sono passato all’italiano, al blues, ho provato a contaminare il rock’n’roll col rap. Ogni mio progetto è a sé stante. La voglia di tornare all’hard rock è rinata durante la registrazione del disco Live for a Dream, nel quale cantavo 14 brani della mia carriera, ognuno con una band diversa. Due anni fa sono uscito con Eye for an Eye, che è un hard rock più classico. Questa volta ho voluto fare ancora di più».

Cioè?

«Ho voluto fare un po’ tabula rasa della mia memoria e vorrei lo facessero anche quelli che ascoltano. Ho cercato di creare un album come negli anni ’70, senza preconcetti, come i primi lavori dei Led Zeppelin e dei Deep Purple: facevano un pezzo blues, uno rock’n’roll, quello che veniva. Il percorso è stato questo».

Soddisfatto del risultato?

«Molto. Da quando mi è passata la frenesia di fare le cose a tutti i costi, ho cominciato a riflettere, mi sono dato una calmata, ho smesso con alcol ed eccessi».

Come mai?

«Credo contribuissero alla mia agitazione. Adesso faccio le cose rilassatissimo, con gioia, circondandomi solo di gente che mi fa stare bene, sia musicalmente che nella vita».

Dove si colloca il tuo album nel panorama della musica italiana?

«Non si posiziona proprio. Anche se ci sono altre band che fanno questo genere. Mi sale un po’ la carogna quando sento dire che Ligabue è rock, che Vasco è rock. Il rock è una cosa completamente diversa. Fra un po’ Ramazzotti mette la chitarra distorta in un pezzo – che poi è sempre quello, perché scrive la stessa canzone da 40 anni – e diranno che si è messo a fare rock».

Allora chi è rock, in Italia?

«Il rock non è solo una questione musicale, è anche un’attitudine, un modo di pensare, di vivere. Se dovessi dire un nome ti spiazzo».

Spiazzami.

«Caparezza è rock. Lo conosco bene, abbiamo anche fatto un brano insieme. Conosco la sua anima, il suo cuore, il suo valore artistico. C’è tanto rock nella sua musica, anche se non si sente».

Torniamo al tuo album. Nel brano Not Too Late canti: “They can wash your brain/but they have no shame”. A chi ti riferisci?

«Eh… (ride, ndr). Diciamo che non è mai troppo tardi per correggere, riparare gli sbagli e chiedere perdono per i propri errori».

Pensavo ti riferissi a qualcuno di particolare…

«Mi riferisco in generale. Penso che le anime pure non si debbano mai perdere. Spesso andiamo fuori strada, ma bisogna trovare il modo di rientrare, sempre».

Il singolo di lancio, Don’t Waste Your Time, attinge da un episodio che hai vissuto.

«Una brutta storia che mi ha fatto scoprire che ho la bronchite cronica da anni. Ho fumato per quasi 50 anni tre pacchetti di Lucky Strike al giorno, andavo in giro mezzo nudo, di notte, sudato. Mi sono fatto 35 anni di fabbrica, uscivo dal lavoro, non dormivo, andavo a suonare e all’una di notte cominciava la vita fino alle 6 del mattino. Una vita sballata con sigaretta, bicchiere e schifezze da mangiare. La bronchite è il minimo che poteva venirmi».

Ma la storia è un’altra…

«Ho fatto una lastra e, quando l’ho portata al mio medico, c’era scritto che avevo una massa sui polmoni. Visto che mio padre e mio nonno sono morti di tumore ai polmoni pensa che notti che ho passato. Ho fatto un ulteriore controllo, un’altra lastra e abbiamo scoperto che era stato commesso un errore: quella massa era solo aria».

Cos’hai capito da questa situazione?

«Di non perdere tempo, ma credimi che io, il tempo, non l’ho perso mai. Ho 70 anni, ma me ne sento 700».

Dall’alto dei tuoi 700 anni, che mi dici dei tuoi “amati” talent e del loro (pare) declino?

«Per prima cosa hanno stancato. E poi la gente si è resa conto che da lì non è mai venuto fuori uno decente e che valga».

Be’ non è proprio così. Penso a Marco Mengoni, Giusy Ferreri, Emma Marrone, Alessandra Amoroso…

«Mengoni cerca di fare Alex Baroni, la Marrone sembra Gianna Nannini con la diarrea, quando urla. Poi la Amoroso cerca di imitare la Pausini ed è pure stonata. Almeno la Pausini è intonata».

Una buona parola per tutti vedo…

«Ma pure nel rock eh, non solo nel pop. Ci sono solo fotocopie delle fotocopie delle brutte copie. Chissà cosa è successo: anche le band famose non riescono a fare un disco decente. Comunque torniamo ai talent…»

Dimmi.

«Sono convinto che siano il suicidio dell’arte e della musica. Hanno fatto credere a questi ragazzini che basta cantare una cover per diventare famosi. Sai quanti ne ho incontrati, in tour, di questi ragazzini? Sono tutti in analisi, depressi, giustamente. Li fanno sentire delle star lì dentro. Tanto a loro che gliene frega? Finito un reality ne comincia un altro il giorno dopo. Ma il problema sono le persone che le guardano, ‘ste stronzate. Come quelli che parlano, parlano e poi il programma di Barbara d’Urso è seguitissimo».

Ce l’hai pure con la D’Urso?

«La D’Urso e la De Filippi le metterei in galera per spaccio di demenza».

Addirittura! Be’ Pino, ho capito che sei uno che non le manda a dire, ma ci vai giù pesante. A questo punto ho quasi paura a chiederti cosa pensi dell’indie.

«Tommaso Paradiso scrive canzoni su armonie e melodie che Fred Bongusto componeva 40 anni fa, come Una rotonda sul mare. Non c’è niente di nuovo. Lo chiamano indie, ma è solo un pop di merda, squallido, triste».

Almeno Liberato ti piacerà…

«Meglio, ma è sempre pop scadente. Non c’è più la grande musica, il grande pop, le grandi canzoni. Anche il tipo che mangia le cime di rapa, quello che ha vinto il Festival di Sanremo…»

Ah, Diodato.

«Ti faccio sentire 30 brani che hanno le stesse note, armonie e melodie. Nessuno riesce a fare più un pezzo decente. E poi lasciamo stare Sanremo».

Come lasciamo stare? Adesso mi devi dire se l’hai visto.

«In passato non l’ho mai guardato, tranne qualcosina, ogni tanto. Stavolta l’ho voluto vedere».

E che ne pensi?

«Sono rimasto allibito della poca tecnica delle voci e della qualità delle canzoni. Ma che cacchio ci vuole a scrivere un pezzo per Sanremo, porca miseria? L’ho detto anche al mio amico Francesco Sarcina delle Vibrazioni, che se la sono fatta pure scrivere, la canzone. Ma vai a Sanremo e non riesci a scrivere un brano che vada bene per quel posto lì? Non riesco a capire».

Non ti è piaciuto nemmeno Achille Lauro?

«(Ride, ndr). Quello che coi vestiti fa concorrenza a Malgioglio? Secondo me Achille Lauro è il più grande bluff, la cosa più squallida venuta fuori insieme a Tommaso Paradiso».

Ma salverai qualcuno, tra le nuove leve…

«Ti posso solo dire che tantissimi ragazzi mi mandano brani. Non voglio fare l’eroe, ma li ascolto tutti. E se c’è qualcosa che non mi piace glielo dico, con gentilezza, ma glielo dico. Alcuni fanno cose eccezionali, ma nessuno dà loro una possibilità. Questo mondo è anche una questione di intrallazzi, se sali sul tram giusto o su quello sbagliato. Puoi essere un grande artista, ma se non passa il tram giusto ti attacchi. Ho conosciuto ragazzi bravi che meritavano, ma niente da fare».

Ma a Sanremo ci andresti?

«Anni fa mi fecero una proposta e, questa tipa che me l’ha fatta, quest’anno, dopo anni, è tornata al festival. Il mio discografico degli anni ’90 mi disse della possibilità di andare a Sanremo, con il Progetto Sinergia (del 1994, ndr), insieme a questa cantante di cui non ti farò il nome».

E tu?

«Gli ho risposto «Vai a cagare!». Poi ci ho pensato e ho accettato di andare.

Come mai?

«La mia idea era di tirare fuori l’uccello durante l’esibizione. E lo avrei fatto, credimi».

Non ho dubbi.

«Quando ho detto al discografico le mie intenzioni mi ha consigliato di lasciar stare, ma ho fatto male a parlargliene. Lo avrei dovuto fare senza dirgli nulla. Questa è stata la mia esperienza sanremese. Poi una volta sono andato a Sanremo per un progetto umanitario, dovevamo suonare nella piazza della città. Arrivati veniva giù il diluvio universale, ma visto che l’hotel era già prenotato siamo rimasti. La sera ci portano al Dopofestival (l’anno cui fa riferimento Pino è il 2010, quando il Dopofestival era sulla piattaforma YouDem, ndr). Siccome sapevo l’andazzo ero già bello carico. Saliamo sul palco a fare un brano dei Led Zeppelin, finiamo di esibirci e davanti a me c’era Toto Cutugno. Dal palco ho detto «Massa di pezzenti! Accattoni! Fate schifo! Sono anni che venite qua con le vostre canzoni di merda!»».

Conseguenze?

«Viene un buttafuori e mi dice, «Mi scusi, al patron non è piaciuto quello che ha detto, se ne deve andare». E sai che gli ho detto?»

Forse me lo immagino…

«Gli ho risposto: «Dì al patron di andare a fare in culo pure lui». Mentre uscivo quelli delle Iene mi sono corsi dietro. Uno di questi mi ha toccato i capelli, io mi sono girato e si è beccato un cazzotto! È successo un casino, quella volta lì».

Voltiamo pagina e parliamo di attualità. Come pensi cambierà la musica dopo il coronavirus?

«Non cambierà, perché la testa delle persone non la cambi. Cambierà il nostro approccio alla quotidianità, al modo di vivere. Spero saremo consapevoli che, prima, non si stava poi così male. Quanto alla musica, se siamo arrivati fino alla trap non abbiamo più speranze».

Secondo te, il Governo, come sta gestendo l’emergenza? Te lo chiedo perché so che sei stato simpatizzante dei 5 Stelle…

«E lo sono ancora. Per loro ho anche suonato al Circo Massimo a Roma. Il problema è che la gente non ha capito che abbiamo dovuto fare il patto col diavolo: una volta con la Lega e una col PD. Questa cosa ci ha segati. Poi, come per tutti i partiti, sono uscite fuori le mele marce, ma continuo a pensare che siano il male minore. Credo che, per la prima volta, abbiamo un vero Presidente del Consiglio».

La prima cosa che farai finita quando si tornerà alla normalità?

«Partire in tour, non vedo l’ora di risalire sui palchi».

Che fai a casa, in questo periodo?

«Avevo un sacco di libri lasciati in sospeso, sto leggendo molto. Poi scrivo cose nuove e guardo tanti dvd musicali. Con la musica vera, quella che non c’è più».

In tv non ci torni?

«Siccome continuavo a parlare male di X Factor, che era di Sky, alla fine ci hanno tagliato. Ora siamo su Facebook, tutti i martedì, alle 14:00 sul canale Rock TV Italy. Facciamo numeri molto più alti di prima».

·        Pino Strabioli.

Pino Strabioli: “Quella cena con Giulio Andreotti…” Salvo Cagnazzo il 02/05/2020 su Il Giornale Off. Quasi trentacinque anni di carriera e una vita sempre tra riflettori e microfoni, alternando tv, radio e teatro. Con strizzate d’occhio al cinema e all’editoria. Pino Strabioli è indubbiamente uno dei nuovi volti della cultura italiana. Perché lui, soprattutto negli ultimi dieci anni, l’ha raccontata sul serio, facendo da spalla a chi, magari, era “più in qualcosa” di lui. Con estrema umiltà, ma con grande maestria. Disegnando così, con semplicità, preparazione e passione, Storia e storie d’Italia. Come fa ancora, anche in questi giorni difficili, su Rai Radio 2 con Viva Sanremo e su Rai 3 con Grazie dei Fiori.

Hai esordito nel teatro all’età di 23 anni: com’è andata la tua prima volta?

«Da studente seguivo il teatro a Orvieto, dove vivevo, ne ero innamorato. Una volta trasferito a Roma, tentai l’esame all’Accademia d’Arte Drammatica, ma venni bocciato. Dopo un piccolo corso regionale, il mio esordio avvenne con Patrick Rossi Gastaldi: ricordo l’inesperienza, l’incoscienza. Ma, al contempo, la gioia e il benessere che mi dava quel piccolo palco».

La prima difficoltà che hai incontrato sul palco.

«Ero a Milano, anno 1996-97, per I Viaggi di Gulliver con Paolo Poli. Nonostante avessimo centinaia di repliche alle spalle, una sera, una volta in scena, la mia mente si svuota. Mi venne in soccorso Poli. Da lì in poi ho sempre avuto paura di scordare le battute».

Tu hai incontrato i più grandi d’Italia, ma quale stretta di mano ti è rimasta più nel cuore?

«Mi viene in mente una cena intima, a casa di un’amica. Lì c’era Giulio Andreotti: è stata una grande emozione. Un pezzo di storia del nostro Paese, indiscussa, nel bene e nel male. Tra quelle legate al mondo dello spettacolo, ricordo con affetto gli incontri con Dario Fo, Valentina Cortese, Giorgio Albertazzi, Mariangela Melato…»

Ma tu, invece, da chi ti vorresti far intervistare?

«Bella domanda, difficile. Direi Enzo Biagi, che non c’è più. Anche se non amo molto essere intervistato in televisione».

Passiamo al cinema: sei stato addirittura diretto da Pupi Avati, nel 1992. Come andò?

«Di lui ricordo l’umanità, il fatto di riuscire a metterti sempre a tuo agio, a comunicarti un’emozione. Devo molto sia ad Antonio che a Pupi Avati. Ho fatto pochissimi provini nella mia vita, ma per la televisione ne ho fatto uno con entrambi: per T’amo TV, su TMC. La mia carriera è nata grazie a loro».

A proposito, a breve festeggerai 30 anni dal tuo debutto televisivo: dimmi un programma che vorresti riproporre in tv e, magari, condurlo.

«Mi piacerebbe tornare a parlare di teatro, l’ho fatto per dieci anni con il programma Cominciamo bene su Rai3. Perché c’è una generazione di attori bravissimi che merita di essere raccontata».

L’intervista che ti dispiace non aver fatto.

«Probabilmente Marcello Mastroianni. Ricordo due cene a Todi con lui, ma a quei tempi facevo solo teatro. Avrei adorato intervistarlo, sia perché era un monumento mondiale, sia perché avevo intravisto in lui una forte umanità. Ah, vorrei anche intervistare Sophia Loren: non ci ho ancora provato».

·        Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Dal profilo Instagram di Amedeo Grieco il 16 giugno 2020. Qualche giorno fa mi hai detto: STAREI MALE, ANCHE PER SEMPRE IN UN LETTO, NON CHIEDO TANTO, MI BASTEREBBE STARMENE QUI A VEDERVI CRESCERE, A GUARDARE QUELLO CHE FATE. A te sarebbe bastato fare la spettatrice e goderti lo spettacolo della famiglia che hai costruito... eri così, vivevi per godere dei nostri traguardi, nella quarta fila della platea, ben nascosta al buio, temendo sempre di dare fastidio...eppure eri proprio tu la luce della mia ribalta, il senso stesso dei traguardi, e il mio successo più grande era e sarà sempre quello: la fierezza del tuo sguardo...adesso cosa corro a fare io? A chi chiamo quando arrivo? E a chi lo racconto che Federico ha perso un altro dentino? A chi la mando la foto di Alice con la gonnellina? Come glielo spiego io ora ai tuoi nipotini?! Me lo dice qualcuno!? Dove le trovo le istruzioni per andare avanti? Oh Mà, qui manchi da poche ore e il dolore ci sta già scavando un fosso nell'anima, e da domani che si riempirà di un mare di quotidianità proveremo a non annegarci dentro... Guardaci, 5 uomini...Papà , io, Alessio, Simone e Gabriele...hai costruito prima la squadra di calcetto e ora ti sei portata via il pallone...e ci lasci soli ,in mezzo al campo, spaesati , condannandoci a cercare un senso nuovo a tutto! Non lo sappiamo se ci riusciremo mai, ma una cosa è certa: ti troveremo in ogni giorno che passerà, ti sentiremo forte nei silenzi, quando inciamperemo nei vuoti, ci immagineremo il tuo sorriso chiudendo gli occhi quando saremo certi che in quel momento avresti sorriso, sentiremo il tuo profumo ovunque qualcosa saprà di buono...tutto da domani sarà la nostra grande illusione tu non ci abbia mai abbandonato.

Ti abbiamo amato mà , più di quanto siamo riusciti a dirci.

E ti ameremo sempre, dovesse sembrerà anche tutto inutile intorno.

Fatti sentire mà, a presto?

Da ilmessaggero.it il 16 giugno 2020. Grave lutto per Amedeo Grieco, il comico del duo ‘Pio e Amedeo’ diventato celebre soprattutto per la trasmissione di Italia 1 Emigratis. La madre 57enne di Amedeo è infatti venuta a mancare: una notizia circolata nelle ultime ore su Facebook e che lui stesso ha indirettamente confermato, commentando il post di una pagina, Foggia Underground. «Grazie infinite di cuore, ogni messaggio è una carezza all’anima», ha scritto. Pochi mesi fa lo stesso Amedeo Grieco aveva postato su Instagram una foto con sua mamma, facendo intendere che la donna avesse dei problemi di salute: «Passerà anche quest’altra tempesta, siamo abituati a starci sulle onde alte, a scenderci e salire con la paura di cadere e la soddisfazione di restare - scriveva - abbiamo ancora tanti mari da vedere, mamma, insieme perché non c’è persona di cui si ha più bisogno, sempre».

·        Pippo Baudo.

Renato Franco per il Corriere della Sera il 14 giugno 2020. Per la prima volta Pippo Baudo crea un suo palinsesto. Oggi diventa «direttore di rete» per un giorno e sceglie tutta la programmazione di Rai Storia (canale 54): un lungo viaggio nella tv che piace al recordman di Sanremo (13 volte da conduttore), l' incontro con personaggi diventati amici come Gassman, Sordi, Sandra Mondaini e Vianello; che ammirava profondamente come Eduardo, Mina, Falqui. La passione per l' opera ( Gianni Schicchi diretto da Chailly con la regia di Ronconi), l' omaggio al Gattopardo (fu adattatore dei dialoghi in siciliano), le tante domeniche in tv (scrisse anche una canzone, Una domenica così , cantata da Morandi come sigla di Settevoci ).

Pippo Baudo, ora fa anche il direttore di rete?

«Per carità, è un divertimento una tantum, è stimolante avere la possibilità di fare l' impaginazione giornaliera di una rete dalle 9 di mattina a mezzanotte: devi pensare al gusto della gente e al tuo, e coniugare un' offerta originale».

Mai pensato di stare dietro le quinte?

«Me lo hanno chiesto tante volte, anche a Rai1, ma ho detto sempre di no. La vita dei direttori di rete è difficilissima: gli errori vengono imputati a loro, i successi agli altri».

Con Sandra e Raimondo fu amicizia vera.

«Sandrina quando veniva a Roma non andava mai in albergo ma veniva a dormire a casa mia. Erano veramente divertenti, Casa Vianello sembra un' invenzione drammaturgica, invece era la fotografia della loro vita quotidiana. Feci uno spettacolo a teatro con Sandra, Raimondo ci disse che eravamo bravissimi e dovevamo fare una tournée di 5/6 anni in giro per l' Italia, "così io mi libero di lei". Era un comico eccezionale».

La tv come le sembra?

«Anche se sono stati molto gentili a replicare due volte la mia festa di compleanno, la televisione in questi giorni è inguardabile, tutto già visto, solo repliche. E il virus c' entra fino a un certo punto, la tv estiva è sempre stata così ed è una cosa che ho sempre rimproverato alla Rai. Mentre è giustificato che la tv commerciale da maggio abbassi un po' la quantità dell' offerta visto che gratis, la Rai non può: il telespettatore paga il canone per tutto l' anno, non per 9 mesi».

La tv è in mano sempre agli stessi conduttori over 50. Che spiegazione si dà?

«Non ho una risposta. Sembra che l' avventura della tv non interessi più, non ci sono personaggi emergenti, non vedo all' orizzonte nuovi volti interessanti. Non c' è ricambio ai soliti noti».

Nemmeno Cattelan?

«Lui è un oggetto misterioso per me. È un ragazzo colto, che parla benissimo inglese, però gli manca qualcosa. Forse dovrebbe avere il coraggio di fare il salto in Rai».

Aver bocciato Fiorello fu il suo errore più grande.

«Una toppata alla quale lui è affezionato ma che io mi rimprovero ancora. Al provino fece un monologo di 40 minuti, gli dissi: guarda che a condurre ci sono già io».

Era geloso?

Ride. «Forse sì... Ma fu la sua fortuna, andò a Milano e poi da lì partì la sua carriera».

Giusto riaffidare il Festival ad Amadeus e Fiorello ?

«Indubbiamente sì, dopo il successo dell' anno scorso sarebbe stata una pazzia cambiare. Amadeus è molto bravo, ormai ha acquisito una disinvoltura e una scioltezza straordinarie. Tra l' altro oggi è più difficile fare il Festival: una volta c' erano tante belle canzoni, io avevo l' imbarazzo della scelta, sentivo per 9 mesi pezzi uno più bello dell' altro. E poi venivano i grandi ospiti stranieri: Madonna, Whitney Houston, Springsteen, Sharon Stone...».

Ha appena compiuto 84 anni, cosa le fa rabbia dell' età che avanza?

«È il tempo che passa che mi fa arrabbiare, non lo vivo con angoscia, ma mi fa pensare: adesso ho 84 anni e mi sembra ieri quando ho cominciato. Gli anni della giovinezza passano tutti di corsa, poi cresci e ogni anno in più diventa una bottarella».

La politica che sentimenti le suscita?

«Io sono ancora democristiano doc».

Guardi che la Dc non esiste più...

«Io penso che la Democrazia Cristiana sia la grande assente della politica, se ci fosse un vero leader di una Dc rinnovata avrebbe una grande possibilità di governare. Oggi la politica è molto confusa».

Conte le piace?

«È furbissimo: non è stato eletto da nessuno ma comanda e se li porta tutti a spasso che è un piacere. Da collega, visto che sono laureato pure io in Giurisprudenza, lo trovo un furbissimo avvocato di provincia».

Aldo Grasso per il Corriere della Sera l'8 giugno 2020. Per festeggiare il compleanno di Pippo Baudo (84 anni, auguri!), Rai1 ha riproposto l'omaggio dello scorso anno, quello allestito per festeggiare i 60 anni di tv. Meglio così: quest' anno sarebbe stato di una tristezza infinita, con il «distanziamento sociale» (addio baci e abbracci), con i collegamenti casalinghi, con l'affastellamento di ospiti che sembrano provenire da un altrove sospeso. Grazie anche alle repliche, Pippo è il nuovo che avanza, di continuo, anche se sta fermo; è il «vecchio» che non declina perché hanno inventato l'età biologica; è il massimo esponente dell'ideologia nazional-popolare (il più bel elogio che gli potesse fare l'incauto ex presidente della Rai Enrico Manca). Lo abbiamo scritto tante volte: Pippo è stato (forse sarebbe più giusto scrivere è ancora) il conduttore per eccellenza, l'uomo che incarna l'idea della star televisiva, non più lontana e inafferrabile come quella cinematografica, ma vicina a portata di mano. È stato il presentatore che ha inventato la regia «sul campo», ultimo erede della grande tradizione del varietà. È stato lui a scandire il ritmo del programma mentre lo metteva in scena e affrontava imperturbabile qualsiasi imprevisto. Infaticabile, ha interpretato come pochi il ruolo di talent-scout per giovani promesse, più volte ha dimostrato di saper riempire i buchi del palinsesto. Nessuno degli attuali conduttori ha la sua personalità, la sua presenza scenica, sembrano tutti dei volenterosi impiegati dell'intrattenimento. Vado a memoria, ma una volta Filippo Ceccarelli l'ha definito un democristiano «indistinto e quintessenziale» della scuderia dei cavalli di razza di Piazza del Gesù, una sorta di politico prestato alla tv dotato di una curiosa forma di eclettismo sociale, della capacità cioè di sapersi rivolgere a tutti, di apparire interclassista, di promuovere l'innovazione e nello stesso tempo salvaguardare la tradizione.

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 25 marzo 2020. Pippo Baudo abita nel cuore di Roma, a due passi da Piazza di Spagna. «Colpisce il silenzio. Sarà la fortuna di queste giornate di sole, quando mi affaccio un po' dal balcone o salgo a passeggiare in terrazza vedo una città illuminata. Ripenso al romanzo di Giuseppe Marotta, Gli alunni del sole dedicato a Napoli. Il sole dà sicurezza, calore, allegria».

Anche in questi giorni?

«Soprattutto in questi giorni. In tempi di coronavirus le piccole cose positive, i gesti di solidarietà diventano grandissimi», spiega il conduttore, che a 83 anni si è organizzato la giornata. Inizia con la lettura dei quotidiani; poi i dischi di musica classica, i libri, le telefonate con gli amici, un po' di televisione: «Il bollettino della protezione civile delle 18 è l' appuntamento del giorno, questo è il nostro presente ma dobbiamo ripensare al passato, ai ragazzi dico: riscoprite i libri di Storia per capire che l' Italia ha vissuto periodi tristi, durissimi, uscendone a testa alta. Abbiamo superato il fascismo».

Baudo, cosa la colpisce di questo periodo che ricorderemo per sempre?

«C' è una ritrovata solidarietà nazionale, abbiamo riscoperto la bandiera e l' inno di Mameli. Non ho mai capito quando in tanti volevano cambiarlo col Va pensiero del Nabucco. Non c' entra niente, quello è l' inno di un popolo oppresso, invece di Fratelli d' Italia mi piacciono sia i versi che la musica».

Cosa consiglierebbe a un suo coetaneo?

«Ripassa la tua vita, prendi un album di fotografie con tutte le immagini delle persone che hai conosciuto, ripensa agli amici della tua esistenza, ai luoghi che hai visitato. Sfoglialo con calma, lasciati guidare dai ricordi. La vita di ognuno di noi è un romanzo. Ora mi dirà: avendo fatto spettacolo lei ha avuto una vita piena, fortunata, piena di incontri. È vero ma la vita di ognuno di noi è unica. Non bisogna abbattersi. Non è giusto che il coronavirus cancelli tutto. Questo periodo sarà un ricordo doloroso ma come tutte le cose della vita passerà, come la Seconda guerra mondiale. Anche quella è una malattia che è passata, il dopoguerra è arrivato».

Lei ripassa la sua vita?

«Io ripasso sempre. Vado molto indietro, fino ai compagni di scuola, con alcuni ho ancora rapporti. Il mio non è l' ottimismo della volontà ma l' ottimismo della ragione. Voglio pensare che ce la faremo tutti. Mi colpisce come la vita possa cambiare in un giorno. Sto vivendo questa reclusione senza ammalarmi di nostalgia e di tristezza perché ascoltando tanta musica, leggendo, cerco di spendere bene il tempo. Sto leggendo un bel libro, L' uomo che salvò la bellezza di Francesco Pinto, sulla storia dell' uomo che riuscì a mettere in salvo il nostro patrimonio artistico dai nazisti».

Non le pesa la solitudine?

«La solitudine serve a recuperare te stesso. La solitudine, quando è attiva, per capirci, quando non è deprimente, ti porta a riflettere. Se ti senti in compagnia di te stesso può essere stimolante, è un percorso. Ne sono convinto, anche come esseri umani, dopo questa emergenza sarà finita, ne usciremo meglio».

Cosa sta riscoprendo in questi giorni?

«La solidarietà. L' Italia sta dimostrando di essere grande; siamo in prima linea, è bella l' Italia che vedo. La pandemia ha sconvolto il mondo e ha fatto emergere l' orgoglio, il nostro bistrattato paese sta tenendo un comportamento eccezionale».

Ha paura?

«Come tutti. Provo un senso di sgomento ma poi mi consola il coraggio dei medici, degli infermieri. Mi dà forza e speranza, non so come ringraziarli. Vorrei abbracciarli tutti. La foto dell' infermiera crollata per la stanchezza davanti al computer, è un simbolo. L' Italia può contare su gente che va a lavorare in condizioni pazzesche, ci sono medici tornati dalla pensione per dare una mano. La generosità mi commuove».

I medici sono in prima linea, invece la politica come si comporta?

«Dobbiamo gratitudine al presidente Mattarella che dà una lezione di dignità, di prestigio, ed è molto apprezzato all' estero. Ci tutela senza fare lo spaccone, ci rappresenta nel mondo e ci aiuta moralmente. La linea seguita dal governo di affidarsi alla scienza ci ha portato a essere i primi in Europa a chiudere tutto, gli altri ora ci stanno imitando. All' inizio si erano comportati in modo folle».

Da chi cominciamo?

«Il presidente Macron aveva ironizzato sul nostro paese. Ha avuto la tracotanza di far votare i francesi e ho dovuto far chiudere i bar e i ristoranti, una volta tanto "les italiens" hanno dato una lezione di intelligenza politica alla Francia. Poi abbiamo il fenomeno Boris Johnson, che vogliamo dire? Patetico».

È tornato sui suoi passi.

«Si rende conto che aveva lanciato l' idea dell' immunità del gregge? Tutti i vecchi muoiono, benissimo, facciamoli crepare. Peccato, si era dimenticato che la sua regina a aprile compirà 94 anni. Ha dovuto fare subito marcia indietro chiedendo scusa agli inglesi, il Regno Unito si è scassato ma si sono interrotti i rapporti anche con Trump che gongolava ritenendosi immune dal contagio».

Anche lui ha fatto marcia indietro...

«La sua spocchia si è un po' abbassata, New York è una città fantasma e chissà che sta succedendo nel resto degli Stati Uniti. Ma se c' è una vera sconfitta è l' Europa, 27 paesi uno diverso dall' altro. Poi lasciamo perdere cosa ha combinato Christine Lagarde che ha fatto tremare le borse. Pericolosa. Ma poi che tristezza, non ha imparato niente da Mario Draghi».

·        Pippo Franco.

Dagospia il 21 marzo 2020. Da “Radio Cusano Campus”. L'attore Pippo Franco è stato ospite del programma "L'imprenditore e gli altri" condotto da Stefano Bandecchi, fondatore dell'Università Niccolò Cusano e Presidente della società delle scienze umane, su Radio Cusano Tv Italia (canale 264 dtt). "Mia moglie è tendenzialmente mattutina, io tendenzialmente notturno quindi avevamo orari diversi anche per mangiare, adesso però siamo ritornati alle vecchie abitudini e riusciamo a mangiare insieme" ha raccontato Pippo Franco. In trasmissione è intervenuto anche il figlio dell'attore, Gabriele Pippo. "Anche se è un obbligo, abbiamo colto questo momento per meditare, per riscoprire noi stessi, per fare dialoghi anche intensi, perchè abbiamo finalmente il tempo di parlare -ha affermato Gabriele-. Sappiamo come intrattenere la nostra mente e il nostro spirito, cerchiamo di viverla nel migliore dei modi per quanto possibile. Mio padre è molto easy, con lui ho la fortuna di arrivare in profondità in determinati argomenti, cosa che non riesco a fare nella vita quotidiana con altre persone. Lui poi è un pozzo di cultura, mi regala veramente tanto". Pippo Franco si è espresso sulla gestione dell'emergenza da parte del governo, affermando: "Se pensiamo a ieri ci rendiamo conto che le cose erano di per sè difficili da mettere in scena. Se avessimo dovuto fare il Bagaglino adesso non avremmo potuto perchè andavamo in onda una volta a settimana e tutti questi politici hanno cambiato idea con una velocità supersonica, durante la settimana accadevano talmente tante cose che non avremmo saputo cosa mettere in scena. C'è un asteroide che si sta avvicinando al nostro pianeta. Molti sono preoccupati che cada sulla Terra, però in verità arriva così lontano che è improbabile. Volevo cancellare questa paura alla base e dire che se un asteroide si avvicina alla Terra la prima cosa che fa è toccarsi i santissimi e squagliarsela". Su Beppe Grillo. "E' scomparso, sono quasi tutti scomparsi, non possiamo sapere cosa sta facendo -ha affermato Pippo Franco-. C'è una grande differenza tra il distruggere ciò che non va e costruire, mi pare che nell'ambito delle costruzioni Grillo e i suoi non siano adeguati". Sulla società di oggi. "L'ironia è sempre esorcizzazione del dramma e adesso è difficile fare ironia perchè il dramma è talmente esplodente. Sono nato in epoca di bombardamenti, quindi tutto questo l'ho già visto. L'uomo di oggi però ha sostituito Dio con il denaro, con se stesso, non avendo problemi ha sempre vissuto, fino a poco fa, di frivolezze, ha perso il senso della poesia e si è dato alle apericene, alla pazza gioia. Gabriele Pippo ha parlato della sua esperienza a Temptation Island vip: "Io faccio il produttore musicale e l'imprenditore, poi recito a teatro, ho fatto il provino per L'Isola dei famosi forse con leggerenza. E' stata tuttavia un'esperienza molto bella, di riscoperta di me stesso, in assenza di tv e cellulari. Io sono un libro aperto, non ho tante cose da nascondere, non ho mai recitato, non avevo un copione. In alcuni momenti poi è normale arrabbiarsi. Non sono mai stato in contatto con tante persone per così tanto tempo e questa è anche un'esperienza educativa perchè ci rendiamo conto che passiamo tutta la giornata con il cellulare in mano e trascuriamo l'aspetto umano. Le ragazze dell'Isola le sento tuttora perchè mi hanno insegnato il valore dell'amicizia. Se l'ho detto alla mia ragazza? Non stiamo più insieme". Sul tema Pippo Franco ha rivelato: "Quando lui ha deciso di andare gli ho detto: guarda che questo è un programma difficile, devi tirare fuori quello che sei. Lui non ha lesinato nulla, è stato se stesso".

·        Placido Domingo.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Videtti per “la Repubblica” il 28 agosto 2020.(…)

Quando sono accaduti i fatti che contesta a Domingo?

«Lo conobbi il 14 giugno 1999 a Roma. Gli piacqui molto e subito mi invitò a sostenere un'audizione a Washington. Da quel momento iniziò un vero stalkeraggio telefonico, chiamava anche in piena notte. Una volta, alle tre passate - io dormivo accanto a mio marito - lui mi disse: "Ah, non voglio ingelosire il mio rivale!". Mi scritturò per Parsifal, Racconti di Hoffmann, Carmen; poi per Traviata a Los Angeles. La moglie, Marta, fu subito molto sospettosa nei miei confronti, ebbe un atteggiamento indagatorio: "Come mai sei qui?". Le spiegai che mi aveva convocato suo marito ma lei, che curava la regia, fu molto ostile. Domingo invece fu assillante, entrava in camerino, nel mio appartamento o mi invitava nel suo con il pretesto di vedere insieme un video della mia Traviata. Io sul divano, lui che si avvicinava sempre più allungando le mani. Può immaginare. Dovetti chiamare una mia amica approfittando di un attimo in cui era in bagno, per venire a salvarmi».

Le posso chiedere quale fosse l'entità delle molestie? Erano avances, comportamenti inappropriati o violenze?

«Erano avances, comportamenti inappropriati e anche violenze, perché ogni suo tentativo veniva respinto da me con determinazione. La cosa peggiore è che abusava del suo potere: eravamo in un posto di lavoro, lui era il mio "capo", mi vergognavo per lui. Baci troppo vicini alla bocca, approcci evidenti, l'invito nel suo appartamento privato dove la violenza è stata anche fisica perché baciava e non voleva essere respinto. Il sindacato dei musicisti americani (AGMA) ha avuto finalmente la possibilità di svolgere le indagini in maniera regolare» . (L'inchiesta dell'AGMA conclude che non c'è stato alcun abuso di potere ma «comportamenti inappropriati che vanno dal flirt al corteggiamento» , ndr).

(…) «Io non sono uscita allo scoperto finché non ho saputo che Domingo voleva pagare una cifra importante agli avvocati perché i risultati fossero secretati; questa cosa mi fece montare la rabbia. Non si può comprare tutto! (...)

Le è capitato di essere molestata anche da altri colleghi? Sa di colleghe che sono state molestate e hanno taciuto?

«Sì, mi è capitato e so di altre colleghe che hanno taciuto» . (…)

Da repubblica.it il 28 agosto 2020. ''Sono sconcertato dalle dichiarazioni gravemente lesive rilasciate da Luz del Alba Rubio nei miei confronti e le contesto fermamente. Trovo anche molto grave e inappropriato il coinvolgimento della mia famiglia che al contrario, come me, l'ha invece supportata da anni e lei stessa più volte lo ha dichiarato pubblicamente oltre che a noi". Lo ha detto, in una nota, il maestro Placido Domingo in seguito alle dichiarazioni rilasciate in un'intervista a la Repubblica di oggi dal soprano Luz del Alba Rubio, in cui lo accusa di "avances, comportamenti inappropriati e anche violenze". Secondo la cantante "la cosa peggiore è che abusava del suo potere: eravamo in un posto di lavoro, lui era il mio "capo", mi vergognavo per lui. Baci troppo vicini alla bocca, approcci evidenti, l'invito nel suo appartamento privato dove la violenza è stata anche fisica perché baciava e non voleva essere respinto". Domingo, che stasera e domani sarà impegnato all'Arena di Verona per due serate di Gala, respinge però tutte le accuse e ricorda di non essere mai stato giudicato colpevole da alcun tribunale. Il celebre tenore spagnolo ad oggi non è mai stato denunciato per alcun reato, non è mai stato sotto processo e non ha mai subito alcuna condanna - penale o civile - in nessun paese al mondo.

Placido Domingo e le accuse di abusi sessuali: «Sono dispiaciuto per il dolore che posso aver causato». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 da Corriere.it. «Negli ultimi mesi mi sono preso del tempo per riflettere sulle accuse di varie mie colleghe contro di me. Rispetto il fatto che queste donne si siano infine sentite abbastanza al sicuro da poter parlare, voglio sappiano che sono veramente dispiaciuto per la sofferenza che ho causato loro. Accetto la piena responsabilità per le mie azioni: questa esperienza mi ha fatto crescere» Questo il messaggio del celebre tenore (poi baritono, poi direttore d’orchestra) Placido Domingo rilanciata dall’agenzia Europa Press in Spagna. La dichiarazione giunge al termine di una indagine condotta dal sindacato statunitense degli artisti d’opera, American Guild of Musical Artists, dopo che, l’anno scorso, molte donne hanno accusato Domingo di molestie sessuali e abuso di potere. Il sindacato avrebbe rilevato una condotta sistematica di abusi sessuali e di potere da parte di Domingo. I legali dell’organizzazione hanno condotto un’indagine ascoltando 55 artisti e artiste del settore, arrivando alla conclusione sulla base dei racconti di 27 persone che hanno riferito di aver subito o esser stati testimoni di abusi sessuali e condotta inappropriata, quando il tenore ricopriva posizioni di alto livello alla Washington National Opera e alla Los Angeles Opera. Tuttavia, nessun« delle persone che hanno riferito di aver subito condotte inappropriate aveva denunciato all’epoca Domingo e le testimonianze raccolte restano anonime, a parte quella del mezzosoprano Patricia Wulf, che aveva cantato all’Opera di Washington con lui. Le accuse vanno dalla fine degli anni Ottanta al 2000. Una donna avrebbe riferito che Domingo avrebbe allungato la mano sotto la sua gonna, altre tre sarebbero state forzate a baciarlo in camerino, negli hotel o in altre occasioni. Domingo si era già scusato l’estate scorsa dicendo di sentirsi addolorato «di aver irritato o messo a disagio chiunque». La Scala lo ha celebrato lo scorso 15 dicembre per i cinquant’anni dal suo debutto al Piermarini.

Simona Antonucci per il Messaggero il 27 febbraio 2020. Domingo non canterà Luisa Fernanda: la Spagna ha annullato per la prima volta un concerto del tenore. Lo spettacolo era programmato il 14 e il 15 maggio al Teatro della Zarzuela, dove debuttò 50 anni fa. Un vero colpo per il monumento nazionale, sferrato dal ministero spagnolo dopo le scuse pubbliche del tenore, ieri, alle colleghe molestate in passato. Mani sotto le gonne, baci forzati, abusi: sono 27 le persone a cui Placido Domingo ha deciso di chiedere scusa, accettando «la piena responsabilità delle sue azioni», poche ore dopo la pubblicazione dell'indagine del sindacato Usa degli artisti d'opera che avrebbe rilevato una «condotta sistematica di abusi sessuali e di potere», da parte del cantante spagnolo. Scuse che secondo un'indiscrezione del New York Times sarebbero arrivate mentre era in corso un tentativo di accordo tra Domingo e i sindacati del valore di 500 mila dollari, che sarebbe saltato col trapelare delle notizie. Fuga che spiegherebbe le scuse di Domingo. I sindacati hanno replicato affermando che «si tratta di una multa, la più salata mai pagata da un nostro membro, e non di una cifra versata in cambio del silenzio o in seguito a un patto segreto». L'inchiesta del sindacato americano fu avviata l'estate scorsa, nei due grandi teatri d'opera, Washington National Opera e Los Angeles dove Domingo ha avuto incarichi di potere, in seguito allo scandalo fatto scoppiare ad agosto scorso dall'Ap. Alle accuse, tutte anonime tranne una, riguardanti un periodo tra gli anni 80 e 2000, Domingo allora rispose che «tutte le relazioni furono consensuali». Nonostante lo scandalo, quest'estate l'artista è stato celebrato a Caracalla e alla Scala, a Verona e in tutta Europa. Ora però si contano le cancellazioni: dopo il ritiro dalla cerimonia olimpica di Tokyo, ora la Spagna. Sembra confermata la sua agenda italiana: recital a Verona e partecipazioni alla Scala e al Donizetti Opera. Sempre che le indagini, ancora in corso, non portino a nuovi esiti.

Simona Antonucci per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Mani sotto le gonne, baci forzati, telefonate notturne, inviti in camere d’albergo, abusi: sono ventisette le persone a cui Placido Domingo ha deciso di chiedere scusa, accettando «la piena responsabilità delle sue azioni», poche ore dopo la pubblicazione dell’indagine svolta dal sindacato statunitense degli artisti d’opera che avrebbe rilevato una “condotta sistematica di abusi sessuali e di potere”, da parte del leggendario cantante lirico spagnolo, 79 anni, tenore, baritono, direttore d’orchestra e manager musicale. Scuse che secondo un'indiscrezione del New York Times sarebbero arrivate mentre era in corso un tentativo di accordo tra Domingo e i sindacati del valore di 500mila dollari per smussare le dichiarazioni delle donne chiamate a testimoniare. Accordo che sarebbe saltato col trapelare delle notizie. E che spiegherebbe queste improvvise scuse di Domingo. Domingo, oggi, in una nota affidata all'agenzai spagnola Europa Press, si dichiara «dispiaciuto per il dolore che posso aver causato». Spiegando: «Negli ultimi mesi mi sono preso del tempo per riflettere sulle accuse contro di me di varie colleghe. Rispetto il fatto che queste donne si siano infine sentite al sicuro da poterne parlare. Sappiano che sono veramente dispiaciuto per la sofferenza che ho causato loro. Accetto la piena responsabilità per le mie azioni: questa esperienza mi ha fatto crescere». L’inchiesta del Sindacato fu avviata l’estate scorsa, nei due grandi teatri d’opera, Washington National Opera (dove Domingo è stato direttore artistico dal 1997 al 2011), e Los Angeles Opera (dove è stato consulente artistico negli anni Ottanta, poi direttore artistico e dal 2003 direttore generale fino alle dimissioni dell’incarico in piena bufera #MeToo), in seguito alla pubblicazione di racconti, di cantanti e ballerine, raccolti dall’Associated Press e resi noti il 14 agosto 2019, che accusavano Domingo di “comportamenti predatori”, molestie e abuso d’autorità. Alle accuse, tutte anonime tranne quella del mezzosoprano Patricia Wulf, riguardanti un periodo tra gli anni Ottanta e il Duemila, Domingo allora rispose sostenendo che «tutte le relazioni furono consensuali», riconoscendo però «che le regole e gli standard con i quali ci dobbiamo, e dovremmo misurare ora sono molto diversi da quelli del passato». Oggi, dopo sei mesi, arriva a dichiarare di «capire che molte donne non si siano espresse chiaramente, per timore di danneggiare le loro carriera e che mai nessuno dovrebbe trovarsi in quella situazione». E quindi di «sentirsi impegnato a intraprendere un cambiamento positivo nel mondo dell’opera», desiderando che «diventi un posto più sicuro dove lavorare e che il mio esempio possa spingere altri a seguire i miei passi. Perché nessuno deve mai più vivere queste esperienze». Dichiarazioni che arrivano dopo un’estate trionfale per l’artista che, nonostante lo scandalo, è stato celebrato a Caracalla e alla Scala, a Verona e in tutta Europa. L’ammissione di colpa che arriva 24 ore dopo la condanna per stupro di Weinstein, al momento ha causato ulteriori cancellazioni nei teatri americani, dopo il ritiro dalla cerimonia olimpica di Tokyo, ma nessuna variazione nella sua agenda di appuntamenti europei: a Verona il suo recital il 7 luglio è confermato, così come le sue partecipazioni alla Scala e al Donizetti Opera a novembre. Sempre che le indagini, ancora in corso, non portino a nuovi esiti. I legali dell’Agma a Washington hanno appena portato a termine il lavoro durato sei mesi: di 55 artisti ascoltati, 27 hanno riferito di aver subito o essere stati testimoni di abusi e condotta inappropriata, quando il tenore ricopriva posizioni di potere. Tutte accuse che i legali hanno considerato credibili, per la quantità di testimonianze, per le analogie nei racconti, e anche perché il suo comportamento inappropriato fosse ormai di dominio pubblico. Ma l’inchiesta alla LA Opera è ancora in corso.

Molestie sessuali, il “mea culpa” di Placido Domingo. Il Dubbio il 26 febbraio 2020. Dopo aver negato a lungo, il tenore spagnolo ammette gli abusi e chiede scusa alla sue vittime. Il tenore spagnolo Placido Domingo siè scusato con le donne che da mesi lo accusano di molestie sessuali, un gesto atteso da tempo che giunge all’indomani della condanna di Harvey Weinstein per aggressione sessuale e stupro. «Sono sinceramente dispiaciuto per le sofferenze causate. Mi assumo la piena responsabilità delle mie azioni», ha dichiarato il cantante lirico nella nota trasmessa in Spagna dall’agenzia Europa Press. Un mea culpa, il primo da parte del tenore spagnolo 79enne, che finora ha sempre fermamente negato le accuse di molestie sessuali da parte di una ventina di donne negli Stati Uniti. Nel comunicato Domingo riferisce di «aver preso il tempo necessario negli ultimi mesi per riflettere alla accuse mosse», affermando di aver «capito ora perchè alcune donne hanno avuto paura di esprimersi onestamente, per timore di conseguenze sulla loro carriera». Lo scandalo era scoppiato nell’agosto 2019 con la pubblicazione dall’agenzia di stampa statunitense Associated Press di testimonianze rilasciate da 9 donne che hanno raccontato di aver subito molestie sessuali, abuso di potere e ritorsioni quando hanno respinto le avance di Domingo, in fatti cominciati negli anni 80’. Il mese dopo Ap ha pubblicato una seconda inchiesta relativa ad11 altre donne, tutte cantanti e ballerine, anch’esse vittime degli stessi comportamenti violenti del tenore. Trascinato anche lui nello scandalo #MeToo, la star mondiale dell’opera – sposato da 58 anni con il soprano messicano Marta Ornelas – ha subito respinto le accuse, rifiutandosi però di rispondere direttamente alle domande della stessa agenzia e dicendosi convinto che «tutte le mie interazioni e relazioni fossero sempre state consensuali». La Los Angeles Opera, di cui Domingo era sovrintendente dal 2003, ha aperto un’inchiesta affidata a «consiglieri esterni» per indagare, e lo scorso ottobre il tenore si è poi dimesso dall’incarico. L’Orchestra di Filadelfia è stata la prima a disdire una sua esibizione: la partecipazione alla serata d’apertura del 18 settembre. Domingo ha anche rinunciato a esibirsi al Metropolitan Opera di New York, ma ha continuato a farlo in Europa. Ha invece annullato la sua partecipazione al Kabuki Opera di Tokyo, un concerto in programma ad aprile in vista delle Olimpiadi di Tokyo.

·        Plinio Fernando.

Maria Zuozo per cinematographe.it il 14 novembre 2020. La figlia brutta del ragionier Fantozzi è diventata una figura iconica in Italia, grazie al suo essere sgraziata e dal volto scimmiesco, tanto che il padre le attribuiva appellativi come “babbuina”. Nonostante l’aspetto fisico, Mariangela provava quell’affetto che solo una figlia può provare per il proprio genitore, anche se quest’ultimo si limitava a considerare solo il suo aspetto fisico e per questo vergognarsi di averla procreata. L’unica ad amarla come solo un genitore può fare era la moglie di Fantozzi, la signora Pina. Come molti sanno (o forse no?), la figlia di Fantozzi era in realtà interpretata da un uomo, il bravissimo attore di teatro Plinio Fernando. Molti si chiedono che fine abbia fatto l’uomo, che a quanto pare ha cambiato completamente stile di vita.

Com’è cambiato Plinio Fernando, interprete di Mariangela nei film di Fantozzi? Plinio Fernando, nato a Tunisi nel 1947, è un attore teatrale diplomatosi all’Accademia di recitazione Stanislavskij al Teatro Anfitrione. Il suo successo arrivò nel 1974 proprio con il ruolo di Mariangela, interpretato nei primi otto film della fortunata serie ideata da Paolo Villaggio. Nel 1994 però abbandona la carriera cinematografica, dedicandosi alla pittura e alla scultura. Le sue creazioni preferite sono le raffigurazioni di teste di guerrieri medievali (periodo storico preferito dall’artista), scene di combattimento e cavalli. Nel 2008 ha anche esposto le sue opere nella Galleria Fitel, riscontrando un grande successo. Nonostante l’allontanamento dal mondo del cinema e il rammarico che venga ricordato solo come Mariangela, Plinio ricorda sempre con orgoglio i suoi momenti insieme al compianto Paolo Villaggio, che lo descrive come un compagno di lavoro “presente e capace di entrare subito nel personaggio”. Nonostante i due non fossero amici, ma semplici colleghi legati da una profonda stima professionale, alla morte del genio di Villaggio, Plinio ruppe il silenzio, dicendosi molto affranto: “Provo molto dispiacere. Era un grande attore che conoscevo da 40 anni. C’eravamo visti per l’ultima volta 3 anni fa, alla Festa del Cinema di Roma. Tra di noi c’era un rapporto di stima, un rapporto cordiale anche di amicizia, sebbene superficiale e legata principalmente ai film che giravamo”.

·        Pooh.

I Pooh e l'amore (non solo nelle canzoni), dall'affaire Fogli-Pravo alle nozze dello scapolo d'oro Stefano D'Orazio. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 da Arianna Ascione su Corriere.it. Le curiosità sulla vita sentimentale del quartetto tra mogli, figli, famiglie allargate e proposte di matrimonio in diretta tv.

Cinquant'anni insieme, tra «emozioni, dolori, gioie, sacrifici» ricordava qualche mese fa Dodi Battaglia a I Lunatici: nel corso della loro longeva carriera i Pooh hanno raccontato storie di vita, di amicizia e l'amore in tutte le sue sfaccettature. Un fondamentale apporto - si sa - lo ha dato Valerio Negrini: è stato lui, «il quinto Pooh» (definizione da lui sempre odiata), a dare vita al primo nucleo del gruppo e a scrivere - dopo aver ceduto lo sgabello della batteria a Stefano D'Orazio nel 1971 - i testi di molte canzoni del repertorio della band. Ma nell'intervista su Rai Radio2 Dodi ha raccontato un curioso aneddoto che riguarda l'ex batterista e paroliere: era proprio lui quello che tra tutti aveva più successo con le donne («Forse era il meno carino di noi tutti, ma era quello più assatanato, amava le donne in una maniera incredibile. Non se ne lasciava scappare una»).

La «Yoko Ono dei Pooh». Pochi mesi dopo essere convolato a nozze con Viola Valentino nel 1972 Riccardo Fogli incrocia la sua strada con quella di Patty Pravo (all'epoca lei e i Pooh erano in tour insieme) e per stare con lei arriva a lasciare sua moglie. Ovviamente i giornali scandalistici non potevano lasciarsi scappare un gossip così succoso, e queste attenzioni mettono per la prima volta a dura prova gli equilibri del gruppo: senza troppi giri di parole per il produttore Giancarlo Lucariello la relazione con Patty stava danneggiando l'immagine del quartetto. Così decide di correre ai ripari mettendo Riccardo davanti ad un bivio: lei oppure i Pooh. «Fu un errore - ha detto Fogli al Corriere - avevo lasciato mia moglie, la cantante Viola Valentino figurati se non lasciavo i Pooh». Dopo aver abbandonato la band Riccardo e Patty si sposano con rito celtico in Scozia (sollevando un ulteriore polverone a causa dell'accusa di bigamia perché entrambi erano già sposati con altri in Italia) ma nel 1975 gli impegni professionali della bionda del Piper hanno la meglio sull'amore: «Finì perché io dovevo lavorare e non è bello portarsi dietro uno che non lavora».

I Facchinetti, una (affiatata) famiglia allargata. Prima di abbandonare il gruppo (sarebbe poi rientrato nei Pooh in occasione della reunion del 2015) Riccardo Fogli oltre ad insegnare tutte le sue parti al nuovo bassista - Red Canzian, scelto dopo un provino organizzato nella lavanderia di un hotel di Roncobilaccio - collabora alla realizzazione di «Alessandra» (1972), album che porta il nome della prima figlia di Roby Facchinetti nata proprio quell'anno. Un paio di anni prima, nel 1970, il cantautore e tastierista aveva sposato Mirella Costa, che nel 1977 con la nascita di Valentina lo renderà di nuovo padre (rimarranno sposati fino al 1979). Dalle sue relazioni successive Roby ha avuto altri tre figli: Francesco (1980) da Rosaria Longoni e Roberto (1987) e Giulia (1991) da Giovanna Lorenzi - sposata nel 1989 -. Negli anni Facchinetti ha mantenuto con le sue ex un ottimo rapporto, riuscendo a costruire una famiglia allargata molto affiatata. Il segreto? Mettere da parte i dissapori e le negatività e pensare al bene dei figli come ha spiegato in un'intervista a Nuovo Francesco (a sua volta papà di Mia, avuta da Alessia Marcuzzi, e di Leone e Liv, nati dal matrimonio con Wilma Helena Faissol): «È abbastanza comica la cosa, perché nella stessa stanza, ci possiamo essere io, mia moglie, mio padre, la seconda moglie di mio padre, mia mamma, la mia ex fidanzata, il suo attuale compagno e il padre del primo figlio della mia ex fidanzata...tutti d'amore e d'accordo!».

Red Canzian e Mia Martini. Prima di sposarsi per la prima volta nel 1986 con Delia Gualtiero (sua compagna dal 1980 al 1992 e madre di sua figlia Chiara) Red Canzian - oggi felice insieme a Beatrice Niederwieser - negli anni Settanta ha avuto numerosi flirt, da Marcella Bella («Eravamo giovani. È stata una piccola cotta di pochi mesi», ha ricordato durante la partecipazione ad «Ora o Mai Più») a Serena Grandi fino a Patty Pravo, da sempre considerata la «Yoko Ono dei Pooh» per via dell'affaire Fogli. Ha avuto una relazione anche con le due sorelle Bertè, prima Loredana poi Mia Martini. Della cantante scomparsa nel 1995 ancora oggi Red conserva un affettuoso ricordo: «Con Mia Martini siamo stati insieme per un periodo bellissimo che ricordo con affetto - ha raccontato alla rivista Domanipress - Un giorno mi disse: "Ti lascio, perché ho paura di star male se mi innamoro troppo di te". Lei rinunciava all’amore per paura di perderlo, questo ti fa capire l’animo dolce e sensibile di Mia Martini. Per me è stato un onore poterla conoscere, è una grande persona ed artista che non dimenticherò mai».

Il primo a diventare nonno...Quando Louise Van Buren (discendente dell'ottavo Presidente degli Stati Uniti Martin Van Buren) incontrò Dodi Battaglia al Vum Vum, famoso locale romano, i Pooh - che si erano fatti notare con «Piccola Katy» - stavano ancora muovendo i loro primi passi. Il chitarrista, che era rimasto affascinato da quella giovane ragazza americana, la sposò non ancora ventenne nel 1970. Da lei ebbe Sara Elisabeth (1975) e Serena Grace (1977) ma qualche tempo dopo la coppia decise di separarsi. Battaglia, che ha avuto un figlio nel 1981 - Daniele - dalla compagna di allora Loretta Lanfredi, in seguito si è sposato altre due volte: la prima con Alessandra Merluzzi, conosciuta a Monza nel 1990 («Lui indossava un giubbino nero - ha confidato nel 2005 lei a Vanity Fair - era bello, anzi bellissimo. Ricordo che mi abbordò. Due anni dopo ci siamo sposati a Trieste»). La seconda con Paola Toeschi, madre di sua figlia Sofia (2005). Grazie alla sua primogenita Sara, che ha dato alla luce Victoria, nell'ottobre del 2009 Dodi è stato il primo dei Pooh a diventare nonno.

...e l'ultimo a sposarsi. Decenni di stoica resistenza, ma alla fine anche lo scapolo d'oro del gruppo ha ceduto: il 12 settembre 2017, giorno del suo sessantanovesimo compleanno, Stefano D'Orazio ha sposato con rito civile la compagna Tiziana Giardoni, con la quale conviveva dal 2007. Non solo: ha anche deciso di rivivere tutta l'avventura in un libro intitolato «Non mi sposerò mai. Come organizzare il matrimonio perfetto senza avere alcuna voglia di sposarsi» (Baldini e Castoldi). Non avrà avuto voglia di sposarsi ma per la (tanto attesa) proposta di matrimonio ha fatto decisamente le cose in grande: durante un concerto dei Pooh all'Arena di Verona alla classica domanda riguardante i progetti per il futuro il batterista ha risposto in diretta, semplicemente, «mi sposo». «Telefonai a Tiziana per accertarmi che fosse davanti alla Tv - scrive D'Orazio nel volume - cosa che raramente accade durante le mie performance perché preferisce rivedersele in un secondo momento, con me accanto, per potermi ammazzare di critiche. Infatti quella sera stava guardando un film su Sky, ma la convinsi a sintonizzarsi sull'evento di Verona. Le raccontai che avrei indossato una giacca improbabile e che volevo un suo parere. Un po' di malavoglia cambiò canale e restammo d’accordo che l'avrei richiamata dopo il passaggio».

Candida Morvillo per il ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2020. Roby Facchinetti, 76 anni di cui cinquanta da Pooh, cinque figli da tre donne e sei nipoti, ha composto 1.500 brani, ne ha incisi quattrocento. Fra questi, successi come Tanta voglia di lei , Pensiero , Noi due nel mondo e nell'anima , Dammi solo un minuto , Chi fermerà la musica , Uomini soli e Piccola Katy , un cavallo di battaglia dal 1968, che ora ha ispirato il suo primo romanzo, «Katy per sempre», appena uscito con Sperling & Kupfer. Il libro, spiega lui, racconta quella Katy che scappava di casa di notte, forse per andare a ballare, forse per raggiungere un fidanzatino e racconta «tutte le donne che hanno attraversato gli anni 70 e 80 riuscendo a emanciparsi a prezzi altissimi, spesso sostenute dalla forza salvifica della musica».

Chi era il Roby ventiquattrenne che componeva «Piccola Katy»?

«Un ragazzo con il sogno di fare il musicista, che non significava soltanto girare l'Italia in furgoncino con la band, ma vivere di qualcosa che emozionasse me per primo. Avevo capito la forza della musica a nove anni. Un mio amichetto si era accasciato sul campo di pallone per una peritonite e la sera non c'era più. Il maestro di pianoforte mi disse: non ti dimenticare mai che, in questi momenti, hai la musica».

Ha ancora di «questi momenti»?

«Mi sento un sopravvissuto: vivo a Bergamo, ho perso sette persone care per via del Covid-19. Però la musica mi ha salvato anche stavolta. Mi sono messo al piano con la paura diventata un magone costante e che, ogni tanto, si trasformava in pianto ed è nato un inno alla vita, Rinascerò Rinascerai . Stefano D'Orazio ha scritto il testo in poche ore. E quando evochi la positività, la musica parla a tutti, salva tutti. L'hanno tradotta in trenta lingue».

Perché nel 2016 i Pooh si sono sciolti?

«Valerio Negrini, che era la nostra anima poetica, era morto, Stefano D'Orazio era uscito: senza di loro non eravamo più i Pooh. Abbiamo scelto di arrivare al cinquantennale, fare la reunion con Stefano e Riccardo e lasciare un'ultima fotografia di una storia perfetta. Sono venuti a vederci in 600 mila».

Per 36 anni, siete stati lei, Stefano, Red Canzian, Dodi Battaglia: quanto andavate d'accordo e quanto litigavate?

«Il rispetto non è mancato neanche nelle discussioni più furibonde. Ognuno ha avuto delle crisi, ma la tentazione di buttare tutto all'aria svaniva in trenta secondi, il tempo di renderci conto che cosa eravamo insieme».

Discussioni furibonde perché?

«Per un titolo, per la copertina di un disco, per la scelta di un pezzo».

E per decidere la voce solista di una canzone?

«Decideva il brano stesso, non noi. In questo, eravamo bravissimi produttori di noi stessi, infatti abbiamo venduto 80 milioni di dischi».

Chi era il mattacchione del gruppo?

«Stefano: teneva banco colorando di fantasia aneddoti che diventavano un'altra cosa».

Chi aveva più successo con le donne?

«A turno e a periodi. Io meno di tutti. Ero il più serio nel resistere alle tentazioni».

Vi trovavate le ragazze in camera?

«Capitava a tutte le band. I musicisti erano più ambiti dei calciatori di oggi».

La Katy del libro esiste?

«È ispirata a una fan. Dopo il concerto di addio dei Pooh il 30 dicembre 2016, mi arrivò un messaggio che diceva: la mia vita non sarà più la stessa, tu sai che la vostra musica mi ha sempre salvata. Lo firmava "Piccola Katy" e mi ricordavo di lei. Sono detto "asola", perché attacco bottone con tutti e, anni prima, questa fan mi aveva raccontato la tentata fuga da casa a sedici anni, poi il coraggio di lasciare un marito violento e crescere una figlia da sola e i Pooh come colonna sonora. La musica si può ascoltarla o viverla, ma se la vivi, ti cambia dentro».

Com' erano quei primi anni col furgoncino?

«L'autostrada finiva a Battipaglia e noi avevamo il calendario aperto: andavamo dove ci chiamavano. Ero l'unico con la patente e scarrozzavo tutti. Un venerdì sera, suonammo a Catania, caricammo gli strumenti, viaggiammo tutta la notte, il sabato giorno e notte, la domenica e suonammo a Vercelli la sera. Ma la passione è vera se ti tiene sveglio la notte. E, se fai cose incredibili per inseguire i sogni, la vita pensa: ah però, questo mica scherza, lo voglio accontentare».

Presto quella banda di capelloni fu prima in classifica.

«Il complimento più gentile era: pidocchione, tagliati i capelli. E il musicista era considerato uno senza voglia di lavorare. Fu un momento storico irripetibile: lo scontro epocale fra i giovani che smettono di ubbidire ai genitori matusa. I ragazzi scappavano al Piper di Roma, cambiavano la loro vita. Ed è stato attraverso band e musica che i giovani potevano comunicare ed essere ascoltati».

Come nascevano le canzoni?

« Piccola Katy , per dire, era una poesia scritta da Negrini e capitata sul mio piano. Una sera, dopo un addio al celibato, passammo la notte a cantare e registrarci. Lo facevamo spesso. Finito il repertorio, presi la poesia e, per essere aggregante, improvvisai un coro: Ooh Piccola Katy... La sera dopo, alle dieci, era già incisa».

Momenti memorabili coi Pooh?

«I primi cinque anni, in cui abbiamo imparato il mestiere facendolo. Poi trovarci primi in classifica, nel '71, con Tanta voglia di lei e subito con Pensiero ... Il primo Sanremo: non ci eravamo andati per 24 anni e vincemmo. E Uomini soli era tutt' altro che sanremese».

Temevate il «Trottolino Amoroso» di Minghi e Mietta?

«Fra loro e Toto Cutugno con Ray Charles, i presupposti per non vincerlo c'erano. Dalla gioia, abbiamo saltato su un letto dell'albergo e l'abbiamo sfondato».

Un momento duro?

«L'addio di Stefano D'Orazio: non immaginavo che uno di noi potesse scendere dall'astronave. Spiegò che sentiva di non avere più niente da dare. Non lo presi sul serio, pensai: vabbè è successo anche a me. Siamo andati avanti per due anni credendo gli fosse passata, invece, voleva solo onorare gli impegni presi. Un giorno, feci uno dei miei discorsi sul futuro, lui mi guardò: Roby, non hai capito, io basta, esco. Solo Dodi aveva compreso e rispettava la decisione, Red era come me».

E nel 1972 l'uscita di Riccardo Fogli?

«Fu peggio: eravamo ragazzini. Dopo Pensiero e tre successi pazzeschi non riuscivamo ad accettarlo. Io, con tutto il rispetto per il suo amore con Patty Pravo, pensavo che stesse stroncando il nostro sogno».

Il successo, i soldi le hanno mai dato alla testa?

«Ho la testa nei sogni e i piedi per terra. Mio padre era un bravissimo falegname figlio di contadini, più volte poteva mettersi in proprio, ma ha sempre detto: ho cinque figli, non posso rischiare. Io sono cresciuto in una valle di sette o otto fattorie, lì il problema di uno era il problema di tutti. Ora, le persone si buttano alla finestra perché i drammi si consumano fra quattro mura. Lì non poteva accadere».

Che padre è stato?

«Un padre che si sentiva in colpa perché non accompagnava i figli a scuola o cenava con loro. Sono più bravo come nonno, dato che i Pooh non ci sono più. Però non smetto di lavorare: il 25 esce un doppio Cd live più un terzo con Rinascerò e quattro inediti scaccia tristezza, come Fammi volare , nato nel lockdown per esprimere la voglia di evadere e vedere dall'alto un mondo fantastico».

Il suo terzogenito Francesco diventò punkabbestia e non diceva il cognome per non essere associato ai Pooh nazionalpopolari.

 «Aveva 16 o 17 anni. Chiaro: poi, l'hanno scoperto. Però è ancora vivo. E devo riconoscergli che La Canzone del capitano ha avuto un successo incredibile prima che si sapesse che era mio figlio. Gli fa onore, come la carriera da agente di influencer. Ha capito per primo un nuovo linguaggio».

Lei si è divertito a partecipare al reality «The Facchinettis»?

«L'ho fatto seduto sui carboni. Non sapevo più che inventarmi per sottrarmi. Ma Francesco mi tampina, scrive: papà, papà, papà rispondi. Poi, chiama: devi venire in un ristorante, ti aspettano, ti vogliono, non puoi dire di no. E mi trovo in tv con lo chef Andrea Berton».

Che famiglia allargata è la vostra?

«Sono cinque fratelli veri, si amano, fanno vacanze insieme come se fossero nati dalla stessa mamma. Con le madri li abbiamo tenuti fuori dai nostri problemi. C'è Alessandra, che fa la stilista, ha lavorato per Prada, Valentino, Gucci... Valentina fa l'ufficio stampa di Rtl, Roberto ha studiato Lettere ed è la mente colta, lavora con Francesco. Giulia è laureata in Bocconi ed è un'imprenditrice di palestre. Io li ho sempre portati tutti in tour, sono cresciuti insieme dietro il palco».

Con Giovanna Lorenzi, sposata nell'89, sta da 33 anni.

«È l'amore perfetto, la compagna che ha capito il mio lavoro, dandomi un equilibrio che prima non avevo».

Andare verso gli 80 anni, che effetto le fa?

«Non mi fa paura in sé, chiedo solo una cosa: che la vita mi conservi la fantasia».

Roby Facchinetti: "I Pooh mi mancano, molti ci chiedono di tornare insieme". Il cantautore e tastierista della storica band ha celebrato il terzo anniversario dallo scioglimento del gruppo con una toccante lettera pubblicata sui social network. Novella Toloni, Giovedì 02/01/2020 su Il Giornale. Il 30 dicembre 2016 i Pooh dicevano definitivamente addio alla scena e ai loro fan. Uno scioglimento annunciato e vissuto serenamente, che però non ha mai incontrato il favore del pubblico, che non si è mai arreso ad una possibile reunion. A distanza di tre anni Roby Facchinetti è tornato a parlare della separazione artistica da Dodi Battaglia, Red Canzian e Stefano D’Orazio. Lo ha fatto pubblicando sui social network una toccante lettera, il 30 dicembre, dove ha usato parole forti. "Non mi par vero che siano passati soltanto tre anni da quella notte di Bologna; sembra un’eternità, che il sipario si è chiuso sulla magica avventura dei Pooh con Valerio che dall’alto ci accarezzava emozioni e ricordi", scrive su Facebook l'ex voce e tastiera dei Pooh, ricordando quella data che ha segnato in modo indelebile la sua vita e quella di milioni di fan. Roby non ha nascosto la sua malinconia e la sofferenza vissuta prima e dopo la decisione di sciogliere il gruppo: "Va da sé che i Pooh mi manchino, eccome. Abbiamo sofferto tantissimo scegliendo di spegnere i motori della macchina della musica. Tanti di voi si chiedano ancora perché, e moltissimi ci incitino a tornare insieme. Però, sapete, non è giusto creare false aspettative". Farlo, secondo Facchinetti, significherebbe rovinare la leggenda dei Pooh che, confessa, non potranno mai ritornarne: "Riccardo Fogli è stato importante per la bellezza dell’ultimo tour, e ormai senza di lui riprendere il discorso non sarebbe la stessa cosa. E senza Valerio, poi, senza il fondatore, senza il Poeta, è chiaro in modo definitivo che un ritorno dei Pooh sarebbe… senza Pooh. Senza verità". Le parole scritte da Roby Facchinetti sono toccanti e lui stesso sprona i fan della band a tenere stretti i ricordi e le foto, nel cuore e negli occhi, "soffriamoci anche un po’: è giusto, inevitabile, forse persino bello. Ma non tocchiamole mai". Roby Facchinetti non ha nascosto la sua emozioni e commozione nel ripercorrere la storia della band "talmente perfetta, anche negli struggimenti del suo addio, che merita di rimanere negli annali della canzone italiana [...] I Pooh ormai non sono più, “solo fotografie” come cantava quel brano dell’84. Grazie anche a quelle immagini, i Pooh sono diventati di più, sono in una dimensione più alta della storia della musica. Allora non sciupiamole, quelle foto, guardiamole all’infinito… ma senza rimpianti ma con l’orgoglio di esserci stati: perché alla fine, state tranquilli: i Pooh esisteranno sempre".

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 18 maggio 2020. Ci presentiamo, e Riccardo Fogli ha la battuta prontissima: «Alessandra è l' ultima canzone che cantai con i fratelli Pooh. Dava il titolo a un album. Sono molto legato a quel brano». Settantadue anni, affabile e ironico, il cantautore nato a Pontedera è immerso nel lavoro in campagna, ma per Libero fa una pausa. «Mi tolgo i guanti e parliamo», dice al telefono.

I famosi guanti anti-contagio?

«No, i guanti per la motosega, me ne sono presa una di due cavalli, una potenza. Ho lavorato col trattore. Tolgo la maglia sudata e ne metto una asciutta. Sono nella casa in Maremma, nella valle che porta al mare».

Come ha passato la quarantena?

«Ero con la mia band a fare concerti in Russia, dove sono molto amato. Facevo tradurre dall' interprete: "Questa sera non ci abbracciamo", già sapevo che c' era questa cosa, ma che in Italia avrei trovato quello che ho trovato, mai me lo sarei immaginato».

Che giorni erano?

«Dal 2 marzo al 13 marzo ero in Russia. Decisi, grazie ad Alitalia, di volare su Roma, che era deserta, e invece di andare dalla mia bambina e da mia moglie Karin ho deciso di isolarmi in Maremma. Qui, i primi 52 giorni, vidi solo due cinghiali, una lepre e un fagiano. Dopo ho raggiunto la mia famiglia a Roma e poi mio figlio a Bologna, ora sono di nuovo in Maremma. È venuta a noi italiani una coscienza meravigliosa».

I suoi "fratelli" dei Pooh li hai sentiti?

«Beh, con "Facchinettone" sono molto legato, ci sentiamo spesso per non dirci niente, a volte. La sua canzone per Bergamo è un lampo nel cielo, è un genio, e Stefano d' Orazio altrettanto. Mi ha fatto battere il cuore».

Lei non hai pensato di scrivere una canzone sul Covid?

«Facchinetti è un uomo ispirato. Diritti, parole, musica, edizione andranno alla causa bergamasca. Io sono un artigiano povero, lui un vero maestro».

Quando si potranno riprendere i concerti?

Quanto siete danneggiati voi musicisti per il divieto di assembramento?

«Il ministro Franceschini è entrato finalmente nel dettaglio delle piccole e prudenti aperture che verranno fatte. Chiediamo attenzione, che si studi qualche modo per tornare a cantare e suonare con un pubblico. Non so come, altrimenti sarei ministro. Io posso resistere un anno senza guadagnare una lira, ma i musicisti, il camionista che ci porta in giro, l' elettricista, chi monta il palco, hanno tutti contratti a termine, fanno fatica. È fondamentale che il governo li aiuti, seicento euro servivano due mesi fa, ne servirebbero ogni quindici giorni».

Viola Valentino, sua ex moglie, intervistata da Libero, ha fatto un appello: «Vorrei ricantare con Riccardo Fogli, come fanno Al Bano e Romina». Cosa risponde?

«Noi non abbiamo mai cantato insieme. Ho letto quello che Violetta dice. Lei non è la figlia di Tyron Power, come io non sono Al Bano, non ho la sua potenza. Credo che sarà difficile, però se il Papa ci dovesse chiamare, un giorno».

Nel '73, dopo Alessandra, quando lasciò i Pooh si narra che la colpa fu la sua storia d' amore con Patty Pravo. Verità o leggenda?

«Quando me ne sono andato, ho sbattuto la porta. Al di là c'erano i miei migliori amici, la mia storia, il mio futuro sereno. Sono andato incontro a mille tempeste. Sono costretto a ricordarmelo: tutti me lo chiedono. Ero innamoratissimo di Patty, dopo aver lasciato Viola. Mi spiace, è la vita. Con il senno di poi mi chiedo cosa importasse ai Pooh con chi ero fidanzato. In quegli anni invece Ma sono cose lontane».

Nel 2018 è stato a Sanremo con Roby Facchinetti. Quali emozioni prova pensando all' Ariston?

«Panico. Sempre. Siamo tanti cantanti e i tempi delle prove a testa, magari, sono dalle 15.15 alle 15.22, capito? Sei in un albergo a 4 km e ci vorranno diciassette minuti, poi le persone ti bloccano. Non è il tuo concerto. Se non sei Tiziano Ferro o Fiorello, se sei un concorrente, sei un soldatino. Grande emozione e responsabilità».

Sanremo lo ha pure vinto, con Storie di tutti i giorni.

«Quando sento in giro per il mondo le note iniziali, quel pianoforte, è una grande emozione perché un po' la mia vita è cambiata. La gente ti conosce, ti ama o non ti ama, lavori, vai in giro. Dopo quella data ci sono state un paio di volte in cui pensavo di avere bisogno del Festival. Palpiti, palpiti, e poi ti dicono che hanno scelto altri. Sei ostaggio di quel sì o quel no. Non c' è rosa senza spine, Sanremo è un luogo dove si soffre. Quello del 2018 fu più di ansia che di gioia».

Più o meno dell' Isola dei famosi dello scorso anno? Pentito di averla fatta?

«No, è stata un' esperienza fantastica, sono un isolano senza isola. Mi sveglio la mattina presto e mi arrampico sugli alberi, poto, spacco. All' Isola persi sedici chili. Oltre quei trecento granelli di riso, nessuno ci dava da mangiare. Se morivi, qualcuno ti vedeva. Eravamo continuamente ripresi da due equipe, ma nessuno ti parlava. Sono svenuto, caduto come la mela di Newton».

E al ritorno ha ripreso i chili?

«Sono rimasto legato al riso per un mese. Poi ho bevuto bibitoni che prendono anche le modelle di Victoria' s Secret: prima di una sfilata, per quindici giorni, non mangiano nulla di solido. Facevo uso di quello e mi sono ripreso».

Ha voglia di tornare in Russia?

«Sì. Per loro rappresento il romanticismo. Se Al Bano e Romina sono cento, io 5. Però mi amano, ho un mio modo, ai fratelli russi piace».

Le è mai capitato di incontrare Putin?

«No comment. Ho fatto concerti per tutti i presidenti, ma lui non ha il mio numero».

Con i Pooh esiste qualche promessa di ritrovarvi? Su un palco, reale o virtuale?

«È molto complicato. Finché siamo vivi, tutto è possibile».

Da giovani, voi Pooh eravate tutti molto belli. Chi aveva più successo con le donne?

«Io ho sempre pensato che sia la donna che cucca l' uomo. La domanda dunque è: da quante donne ti sei fatto cuccare? Me lo dice spesso anche mia moglie Karin: "Siamo noi che decidiamo se potete o non potete, cosa credi?"»..

Barbara d' Urso un giorno ha detto: «Ricordo Fogli andava via come il pane».

«Davvero? Massì, mi faccia fare la figura di quelle che non ricorda. Comunque sì, piacevo».

·        Quentin Tarantino.

Carolina Mautone per comingsoon.it il 17 gennaio 2020. Quentin Tarantino, fresco di nomination agli oscar per il suo C’era una volta a… Hollywood (il film ne ha ottenute dieci), cavalca l'onda del successo della sua ultima pellicola e annuncia in un'intervista a Deadline che dirigerà lui stesso i cinque episodi di Bounty Law, la Serie TV dedicata al personaggio di Jake Cahill, il cowboy interpretato da Rick Dalton/Leonardo DiCaprio nel film. Il regista aveva già annunciato lo scorso luglio, in occasione dell'uscita del suo ultimo lavoro nelle sale americane, che stava pensando a uno spin-off ispirato proprio alla Serie TV western che si vede nel film. Lavorando a C’era una volta a… Hollywood, Tarantino si è appassionato al personaggio di Rick Dalton e ha finito per scrivere ben 5 episodi di trenta minuti ciascuno. Dietro la macchina da presa ci sarà proprio lui, anche se pare che dovremo aspettare ancora almeno un anno e mezzo prima di vedere venire alla luce la Serie TV. Come già annunciato in precedenza dal regista, Bounty Law sarà girato su pellicola. Tarantino, tuttavia, ha detto di non avere in mente una rete né un servizio di video in streaming di riferimento. Come confermato dallo stesso Quentin Tarantino, Bounty Law non parlerà di Rick Dalton che interpreta Jake Cahill ma proprio di Jake Cahill. Per concepire la serie, il regista ha detto di aver preso ispirazione da storiche Serie TV degli anni '50 come Ricercato vivo o morto, The Rifleman e Tales of Wells Fargo. "Amo l'idea di raccontare una storia drammatica in solo mezz'ora. Mentre guardi quelle serie pensi 'Wow, c'è un sacco di trama che viene raccontata in soli 22 minuti'. Mi sono domandato come facessero e alla fine ci ho provato", ha spiegato Tarantino. Per Tarantino questa non sarà la prima esperienza in una Serie TV; il regista ha diretto, in passato, due episodi di CSI e uno di E.R. - Medici in prima linea. Bounty Law potrebbe rappresentare l'occasione per rivedere finalmente Leonardo DiCaprio recitare in una Serie TV (l'attore era nel cast di Genitori in blue jeans nel lontano 1992). Al momento, però, non abbiamo notizie certe a riguardo. Sulla possibile partecipazione dell'attore allo spin-off Bounty Law, Tarantino aveva dichiarato: "Non credo che lui voglia farlo. Ma se volesse sarebbe il massimo".

Sara Sirtori per "amica.it" il 24 febbraio 2020. È nato! Da Tel Aviv è arrivata la notizia che Quentin Tarantino è diventato papà per la prima volta. La moglie, Daniella Pick, ha avuto un maschietto. Per ora non si conosce ancora il nome. Ma, come si dice in questi casi, mamma e bimbo stanno bene e la famiglia è felicissima. Il piccolo, stando a quanto ha riportato il sito Tmz, è nato il 22 febbraio. Ed è il primo figlio per il 56enne regista premio Oscar e la 36enne moglie. Che Quentin Tarantino sarebbe diventato papà lo sapevamo da agosto. Da quando, cioè, la coppia lo aveva annunciato in un comunicato stampa lo scorso agosto. Nel bel mezzo del tour mondiale per la presentazione di C’era una volta a… Hollywood. E, infatti, a parte l’apparizione a Cannes, dove il film è stato presentato in anteprima mondiale, Daniella non si è più fatta vedere. È tornata a casa sua, in Israele, per vivere la gravidanza in tranquillità mentre il marito girava il mondo a mostrare la sua nona fatica e a ricevere premi. Non c’era nemmeno agli Oscar 2020. Quelli del trionfo di Brad Pitt. Ma, ora lo sappiamo, era troppo vicino al parto per viaggiare da una parte all’altra del mondo. Ma chi è Daniella Pick? È la donna che ha fatto perdere la testa al regista hollywoodiano più originale degli ultimi anni. Nel suo Paese, Israele, Daniella è una nota cantante. Ma, soprattutto, è la figlia di uno dei cantanti più famosi della regione fin dagli anni 70: Sviva Pick è stato definito “il Principe del Medioriente”. La prima volta che Daniella Pick ha visto Quentin Tarantino era il 2009. Lui era in Israele per promuovere il film Bastardi senza gloria. E pare che tra i due la scintilla sia scoccata immediatamente. Si sono frequentati per poco tempo prima di lasciarci. E ci è voluto quasi un decennio prima di ritrovarsi. I due, infatti, si sono rimessi insieme nel 2016 e nel giugno 2017, Quentin ha chiesto la mano alla sua compagna. Alla festa di fidanzamento a New York c’erano tutti i grandi amici del regista. quelli con i quali aveva fatto i suoi film più famosi: Bruce Willis, Samuel L. Jackson, Uma Thurman. Alle nozze, celebrate in forma strettamente privata nella loro casa di Los Angeles a fine novembre 2018, c’erano solo gli amici più stretti. Come  Harvey Keitel, Tim ed Eli Roth, e, non poteva mancare, la musa di Tarantino, Uma Thurman.   «Mi sono sposato sei mesi fa… non lo avevo mai fatto. E adesso so perché: stavp aspettando la ragazza perfetta», ha detto Quentin a Cannes, presentando C’era una volta a… Hollywood. Una dichiarazione d’amore che proprio non ci saremmo mai aspettati da uno come lui. Ma l’amore cambia le persone. Perché ai Golden Globes 2020, ritirando il premio per la migliore sceneggiatura, il pensiero di Quentin Tarantino è stato tutto per Daniella. Alla quale ha dedicato il premio con qualche parola in ebraico:  «A mia moglie che sta guardando da Tel Aviv, che sta aspettando il mio primo figlio: toda, geveret, ti amo». Grazie, signora, ti amo.

·        Raffaella Carrà.

ELVIRA SERRA per il Corriere della Sera il 18 novembre 2020. Passi, e non è poco, che il suo caschetto fa sembrare scialbo quello di Anna Wintour. Vada, e questa è ancora più grossa, che ha fatto per le donne più del femminismo («Penso che lei per liberarle abbia fatto più di molte femministe», ha detto precisamente l'artista Francesco Vezzoli). Ma scrivere che ci ha insegnato a prendere l'iniziativa in camera da letto, più che un omaggio è una consacrazione che - Carràmba!, Che sorpresa - non si aspettava neppure la diretta interessata, la Raffa Nazionale, nata Raffaella Maria Roberta Pelloni 77 anni fa a Bologna e adesso incoronata dall'inglese Guardian come «l'icona culturale che ha insegnato all'Europa le gioie del sesso». Il monumento le è stato confezionato in coincidenza dell'uscita della commedia musicale Explota Explota , opera prima del regista uruguaiano Nacho Álvarez sulle note dei suoi grandi successi. E lei, che pure dovrebbe essere abituata a rappresentare un simbolo, i gay l'adorano, nel 2017 fu nominata madrina del World Pride, reagisce con la consueta umiltà: «Non mi aspettavo un tale riconoscimento dal Guardian, mi ha davvero colpita! E sono naturalmente onorata dal fatto che Nacho Álvarez abbia scelto proprio le mie canzoni. Non nascondo che quando ho visto il film e le ho sentite cantate da altri artisti mi ha fatto un certo effetto. Auguro loro il successo che meritano». Intanto una valanga di complimenti se l'è portata a casa lei. «Se la Svezia aveva gli Abba, l'Italia aveva la Carrà che vendeva milioni di dischi in Europa», ha scritto Angelica Frey sul quotidiano londinese, spiegando come abbia surclassato cantanti vocalmente più strutturate, da Mina a Milva, da Patty Pravo a Giuni Russo. Perché Raffa ha sempre avuto l'X Factor, diremmo oggi. Lei non solo cantava, ballava, recitava (e lo faceva bene). Ma riusciva a comunicare qualcosa che andava oltre la coreografia: era un messaggio di libertà. Quando i genitori si separarono, anzi, la madre Angela Iris lasciò il marito, Raffaella e il fratello Enzo la pregarono di tornare insieme. «"Se volete che torni con lui lo faccio, ma sappiate che sarebbe il sacrificio più grande della mia vita". Fu una freccia al cuore, non glielo chiesi più», raccontò a Massimo Gramellini sul Corriere. Forse è stato quello l'incontro più ravvicinato, e fatale, con il verbo scegliere. Infatti nelle interviste ripete spesso di fare solo quello che le va, il che forse è il segreto di ogni carriera riuscita. Dall'ombelico al vento durante Canzonissima all'audace Tuca Tuca con Enzo Paolo Turchi, il Guardian ha passato in rassegna le pietre miliari di un percorso con qualche ostacolo (il Tuca Tuca fu salvato dalle cesoie della Rai da Alberto Sordi), che ha fatto di Raffaella Carrà la bandiera della libertà sessuale. Non per niente fu lei a cantare A far l'amore comincia tu e Tanti auguri , scritto dall'amore di una vita Gianni Boncompagni con Daniele Pace, di cui tutti conosciamo una sola strofa: Com' è bello far l'amore da Trieste in giù/ com' è bello far l'amore io son pronta e tu... Correva l'anno 1978.

Alessandra Comazzi per “la Stampa” il 17 novembre 2020. Raffaella Carrà: la pop star italiana che ha insegnato all' Europa le gioie del sesso». Questo è il titolo che il londinese, prestigioso Guardian ha dedicato a quell'«icona culturale che ha rivoluzionato l' intrattenimento italiano e ha offerto alle donne la possibilità di prendere l' iniziativa in camera da letto». Perbacco. Intrattenimento non soltanto italiano. Infatti l' articolo parla di Explota explota, Ballo ballo, il film del regista uruguaiano Nacho Alvarez ambientato negli Anni 70 in Spagna: c' è ancora Franco, ci sono la censura, la mortificazione della femminilità, dell' omosessualità. La protagonista, Maria, riesce a entrare nel corpo di ballo del programma del momento, Las noches de Rosa. Lì si innamora del figlio del signore e censore della trasmissione, ma il suo tempo sta per scadere. La colonna sonora, il filo conduttore di tutto, sono i successi della Carrà, che in Spagna arrivò effettivamente nel 1976, divenendo popolarissima. Aveva 33 anni, Franco era morto da pochi mesi, gli spagnoli la collegarono alla democrazia, al cambiamento. Il suo ombelico scoperto, Canzonissima, il Tuca Tuca, furono simbolo di liberazione. Icona spagnola. Quanta iconografia. Raffaella Carrà è indubbiamente anche un' icona gay, e un' icona televisiva, figuriamoci, e un' icona cinematografica, da quando Paolo Sorrentino ha usato il suo brano A far l' amore comincia tu nel film Oscar La grande bellezza, e l' ha usato duro, come un maglio. Siccome Carrà ha di recente realizzato su Rai3 una serie di interviste fatte in amicizia e serenità, molto personali e lievi e profonde nello stesso tempo, e non sembri un ossimoro, titolo «A raccontare comincia tu», ha incontrato anche Sorrentino. Gli ha detto: «In quella scena mi hai messo in mezzo a gente superficiale, che prende la cocaina: non è esaltante per me che sarò andata a una sola festa nella vita. Mi sono trovata in mezzo a gente che fa i trenini». Ecco, questa è la Carrà. Una donna indipendente, senza figli, che non si è mai sposata, che ha avuto poche, grandi storie d' amore, Gianni Boncompagni, Sergio Iapino, che ama stare per conto suo, che non ha mai frequentato salotti, altro che terrazze con la cocaina, in effetti. Eppure. Che cosa dovrebbe fare una ragazza che voglia diventare conduttrice? Studiare da Raffaella Carrà. Più moderna lei, che ha compiuto 77 anni, di un intero manipolo di ragazzotte con le tette al vento; in grado di rivendicare la propria femminilità ancora ai tempi di Carràmba che fortuna, facendosi circondare da 40 bei ragazzi («sono tutti alti due metri, che Dio li benedica», diceva) in modo che anche le spettatrici potessero lustrarsi gli occhi. Carrà nei secoli fedele a se stessa, che canta «Com' è bello far l' amore da Trieste in giù... Tanti auguri, vruum», rigenerante. Nata a Bellaria, romagnolissima, e nata Pelloni, come il Passator Cortese, il bandito alla Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, di cui si dice sia discendente. Diplomata al Centro sperimentale di cinematografia, comincia la sua carriera proprio al cinema, giovane giovane. E nel 1961 debutta anche in tv. Nel 1970 presenta accanto a Corrado la sua prima Canzonissima, conquista l' Italia, e il mercato discografico, con la sigla Ma che musica, maestro e con il Tuca tuca. Indossa un giacchino corto e pantaloni aderenti a vita bassa, il completo le lascia scoperto l' ombelico: sarà il primo ombelico scoperto della tv italiana, se ne occuperà persino il Cda Rai, che alla fine approverà. Dice ancora il Guardian: «Carrà sapeva cantare, ballare e recitare, ha avuto un' influenza impareggiabile sulla musica italiana e sulla cultura pop. Tecnicamente parlando, l' Italia aveva cantanti molto più "drammatiche": Mina, un mezzo-soprano virtuoso; Milva, celebrata per le interpretazioni di Brecht e Weill; Patty Pravo, un contralto androgino; e Giuni Russo, che ha sublimato la tecnica operistica in pop, con un' estensione di cinque ottave. Carrà le ha superate tutte». Anche perché Carrà non è mai stata una cantante e basta. E se con tutto questo ha anche insegnato alle donne a prendere l' iniziativa a letto, come dice il Guardian, beh, santa subito.

·        Rancore.

Sanremo 2020, Rancore parla di sé: “Vi racconto la mia periferia”. Asia Angaroni il 07/02/2020 su Notizie.it. Eden è la canzone con cui Rancore si presenta a Sanremo 2020. Il brano è stato scritto in collaborazione con Dardust e nasce da un sogno. Si chiama Rancore, ma ha un’anima sensibile che trasferisce nella sua musica. La mamma è egiziana, il papà nato a Roma da padre fiumano. A Sanremo 2020 porta “Eden”, brano scritto quasi istantaneamente insieme a Dardust. Nella precedente edizione del Festival, invece, si era fatto conoscere nei panni di co-autore di “Argentovivo”, cantato da Daniele Silvestri. Ai nostri microfoni ha parlato del suo brano “Eden” e del tema della scelta, nodo cruciale del suo lavoro sanremese. Su un suo possibile nuovo album ha commentato: “È tutto in divenire, come una barca che sa la sua rotta: magari approderà a una terra che è un disco, ma intanto viaggia”.

Sanremo 2020, Rancore si racconta: “Nilo, Tevere e la città di Fiume: sono la rappresentazione della mia vita. La mia esistenza è scandita dai fiumi. Ho viaggiato molto e risentito di tanti influssi culturali e questo viaggio lo riporto nella scrittura. Negli ultimi anni ho iniziato a viaggiare da fermo e l’ho fatto scrivendo: se hai il potere della scrittura sei libero anche quando ti trovi ammanettato in un armadio”, ha spiegato. Poi ha ribadito: “Quello che da piccolo mi ha influito il viaggio lo riporto nella scrittura”. Sul quel look che si contraddistingue per il suo cappello, ha commentato: “Il cappello o il cappuccio sono un simbolo. Servono a mantenere la concentrazione, come se così facendo mantengo il silenzio dentro di me e mantengo la fanciullezza di quando si è bambini. Servono a cercare una purezza che la disillusione della crescita ci fa perdere”. E ancora: “Il mio più grande studio è entrare in me e dimenticare tutta la logica per vivere davvero”. Il suo amore per Roma, connubio di storia e arte, resta fortissimo. Eterno l’amore per la sua periferia, dove è nato e cresciuto. “Roma è una città carica di storie ed energia, piena di borgate e con tante facce. Ha cambiato il rap italiano, Roma è una città molto hip hop”. Si è detto onorato di cantare a Sanremo 2020 al fianco di Dardust in occasione della serata cover-duetti, quella di giovedì 6 febbraio. Sugli altri due rap in gara ha detto: “Abbiamo storia e approccio diversi, ma fortunatamente Sanremo 2020 dà spazio al rap”.

·        Raoul Bova.

Raoul Bova: «È bello vedere i miei 4 figli che iniziano a volersi bene». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 18/10/2020.

Pure lei un libro?

«È vero, anche io l’ho pensato».

E allora perché lo ha scritto?

«Mi chiedevano di farlo da quando avevo 25 anni, ma non volevo essere banale. Adesso, però, avevo un po’ di cose da raccontare».

Di cose, ne Le regole dell’acqua, in libreria da martedì con Rizzoli, ce ne sono tante: dagli incubi che Raoul Bova faceva tredicenne, quando era ossessionato dalla morte, alle ore spese in motorino per andare ad allenarsi all’Aurelia Nuoto, e l’Olimpiade che infine ha vinto, almeno sul set, nella serie tv ispirata alla storia dei fratelli Abbagnale. Sotto traccia, c’è soprattutto quel passaggio inevitabile alla vita adulta che avviene quando smettiamo di essere figli. Ed è questa la vera spinta dietro il debutto letterario di Raoul Bova, 49 anni, papà di Alessandro e Francesco, nati dal matrimonio con Chiara Giordano, e di Luna e Alma, avute dalla compagna Rocío Muñoz Morales. Il libro è dedicato a loro.

Il 9 gennaio del 2018 è mancato suo padre Giuseppe, ex impiegato in Alitalia. Ventidue mesi dopo sua madre Rosa, casalinga. Come ha fatto a non affondare?

«Queste cose, prima che succedano, non le puoi neanche immaginare. Non riesci a farti un’idea del dolore che proverai. Dopo, attraversi tutte le fasi: dal sentirti perso al sentirti solo. Vedi crollare le fondamenta, ti mancano gli sguardi di approvazione o di rimprovero che ti avevano sempre fatto sentire un figlio».

È riuscito a salutarli?

«No, mi hanno avvisato quando era già successo. Ma con mio padre ci eravamo visti proprio due giorni prima, per il compleanno di mamma. E poi avevamo trascorso insieme il Natale. Mia madre, invece, non la vedevo da un po’, ci eravamo ripromessi di farlo presto. Era entrata all’ospedale per quella che sembrava un’ulcera e invece si è aggravata. Usava già l’ossigeno. Penso sia morta di Covid, ma ancora non era esplosa l’epidemia, è solo una ricostruzione che mi sono fatto nelle notti insonni. Il giorno che mamma è morta mi sono rotto la gamba destra. Una semplice storta sulle foglie bagnate, ero a Torino per lavoro. Penso sia stato il dolore: mi aveva spezzato».

È allora che ha cominciato a scrivere il libro?

«Sì, ho avuto bisogno di mettere in fila i ricordi. Quando mi sono rotto la gamba stavo girando una fiction per la quale ero dovuto ingrassare. Dopo, in poco tempo, mi sono ritrovato a pesare 110 chili, vuoi per il cortisone, l’eparina. Ero disorientato, non mi riconoscevo. Il libro è stato una valvola di scarico e rimessa a punto. Mi sono detto: cominciamo a ricordare le cose belle. Era arrivato il momento che il bambino crescesse e diventasse uomo. Ritrovare gli sguardi, le risate, le lezioni dei miei genitori mi ha fatto capire che resteranno per sempre dentro di me».

In dispensa ha ancora le conserve di pomodoro fatte da suo padre?

«Sì, qualche bottiglia è rimasta. Le tengo per ricordo. Altre le ho utilizzate. Era meticoloso, mi piaceva la sua calligrafia, aveva una sua eleganza anche in stampatello: scriveva l’anno, la qualità del pomodoro, era molto preciso».

Il cronometro vi ha legati: era l’oggetto con cui seguiva le sue gare di nuoto, misurando i miglioramenti per incoraggiarla quando non vinceva. Cosa la lega, invece, ai suoi figli?

«Se dovessi scegliere un elemento, sarebbe l’acqua. Ho scritto Le regole dell’acqua perché ognuno di noi ha le sue e talvolta amiamo infrangerle per il gusto di abbatterle. Ma poi ci rendiamo conto che senza quelle non troviamo più l’ordine. Penso che la gentilezza e la disciplina del nuoto siano le regole che applico nel rapporto con i miei figli. Mio padre prendeva tutto molto sul serio, mia madre alleggeriva. Credo, spero, di aver preso un po’ da entrambi. Cerco di comprendere i tempi dei miei figli: non si può applicare un modello unico perché loro sono diversi. A volte bisogna essere severi, altre capire di più».

Com’è cambiata la paternità da due maschi di 20 e 19 anni a due femmine di 4 e quasi due?

«Mi sento molto fortunato e molto impegnato ad affrontare età e problematiche così diverse. Diciamo che non arriva mai il momento di rilassarsi. Ovviamente la parte maschile ha una complicità diversa rispetto a quella femminile, che però ti dà un altro tipo di emozioni. Le bambine sono ancora molto piccole, hanno necessità più fisiche, quotidiane. Mi godo il loro sguardo. I più grandi, che tendo a considerare ancora dei bambini, svicolano un po’. A loro devo stare dietro senza farmi notare. È giusto che affrontino da soli la vita, ma io ci sono per sorreggerli».

Ha assistito a tutti e quattro i parti?

«Sì e sono stati momenti indimenticabili, anche quelli in cui capisci meno perché sei preso dall’euforia, ma ti rimangono in una parte del cuore e del cervello. Senti di aver ricevuto un dono».

Nel libro un capitolo riguarda le aspettative. Immagino non sia stato facile spiegare ai suoi ragazzi la separazione dalla loro madre.

«Nel libro cerco di spiegare che non dobbiamo sopportare il peso dei sogni o delle decisioni altrui. Spesso quando fai una promessa cerchi di fare il possibile per mantenerla, ma quella promessa può anche diventare qualcosa di soffocante perché non sei in grado di portarla avanti. E non vuol dire che non hai fatto tutto il possibile. L’importante è avercela messa tutta. I supereroi esistono solo al cinema. Io provo a essere un buon essere umano».

Alessandro e Francesco vedono Luna e Alma?

«Sì, fanno i fratelli maggiori. Rispetto per i figli significa ascoltarli e non imporre nulla che non sentano davvero. Così ho aspettato che si sentissero liberi di vederle e oggi sono felice. Tante volte mi sono domandato o accusato e giudicato come poco forte su alcune decisioni e invece la mia strada e il mio modo di essere sta portando i suoi frutti. I miei figli sono felici, si stanno conoscendo, stanno cominciando a volersi bene e questo è un passo che ne porterà un altro e ancora uno».

È ancora ossessionato dalla morte, come da ragazzino?

«A 13 anni sognavo di morire una sera sì e l’altra pure».

Forse perché dormiva con le sue sorelle.

«Può essere... In effetti era un po’ scomodo. Ma ero viziato, coccolato, mia sorella maggiore faceva da vice mamma, quindi era come avere tre genitori. L’altra sorella non la prendeva molto bene...».

E allora quei sogni?

«È stato il periodo in cui ho cominciato a farmi domande sulla vita, quando capisci che la morte ne fa parte, ma è un controsenso».

Ad allenarsi, nella piscina dell’Aurelia Nuoto, andava in motorino.

«Un’ora e mezzo per andare e un’ora e mezzo per tornare. Quando ti viene da piangere che fai due allenamenti al giorno e sei bagnato e d’inverno ti rimetti sul motorino e comincia a piovere con il freddo e il vento e hai mani e piedi ghiacciati... Ecco, penso che quei momenti mi abbiano forgiato. Oggi uno tende quasi ad abituarsi alla non sofferenza: vogliamo non soffrire e quando soffriamo lasciamo le cose a metà. Ma la sofferenza ti porta a qualcos’altro, fa parte del risultato».

Nel salotto di casa sua lei e Rocío tenete ancora un libro per annotare pensieri? Avevate cominciato durante il lockdown.

«Sì, c’è ancora. Tenere un diario è importante, ti permette di fissare le cose e rivederle a distanza. L’ho sempre avuto, fin da ragazzino. Nel libro io e Rocío abbiamo scritto di tutto, dall’esperienze fatte con la Croce Rossa a cose più divertenti e a loro modo memorabili».

Per esempio?

«Quando Rocío ha preparato la pizza, ed era commestibile, o quando ha ricominciato a cucinare la paella».

Questo è molto maschilista. Lei, scusi, cosa ha fatto durante il lockdown?

«Ma io combattevo contro gli acari! Ero il re delle pulizie di casa, ho comprato qualsiasi elettrodomestico. Giravo con le mie reminiscenze dei film d’azione e disinfettavo tutto. Sono stati momenti di pura follia».

Ha sempre intenzione di inseguire il record del mondo in staffetta con Massimiliano Rosolino, Filippo Magnini ed Emiliano Brembilla nella categoria Master?

«Faremo la staffetta, ma senza inseguire record. Lo faremo solo per ritornare tutti a qualcosa che ci ha fatto molto bene in passato».

Ogni tanto sente Madonna, Tom Hanks e le altre star con cui ha collaborato?

«Per gli auguri. Angelina Jolie l’ho vista da poco, Tom Hanks pure, eravamo a Malta per lavoro: lui è stato una delle persone più carine con me quando vivevo a Los Angeles».

Conserva da qualche parte il cappello da bersagliere di quando era militare?

«Ma certo! È a casa di mio padre. Sa che è uno dei corpi più vanitosi dell’Arma? Ma anche tra i più belli».

Perché fa tanto volontariato? Pubblicità?

«No, è un modo per restituire il sorriso e il supporto che ho ricevuto quando ne ho avuto bisogno e che mi ha fatto sentire meno solo».

C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Tutto quello che ho fatto, compresi gli sbagli, mi ha portato fin qui. Sto lavorando per avere un equilibro di pace interiore. Se ci sto riuscendo, lo devo anche agli errori e alle cose belle che mi sono arrivate».

·        Red Ronnie.

Dagospia il 21 ottobre 2020. MAIL DARIO SALVATORI. Caro Dago, ho letto il libro di Vassily Sortino, "Renzo Arbore e la rivoluzione gentile", ricco di curiosità, a volte inedite, soprattutto sugli inizi di Renzo. Ad un certo punto mi imbatto in una dichiarazione di Red Ronnie, contattato come tanti altri che poi non entrarono nel cast (Fiorella Gentile, Lina Sastri, Gianni Ippoliti, ecc.). Red Ronnie voleva fare un programma basato sui cantanti e sui gruppi emergenti, mentre, come sappiamo, l'idea di Renzo era tutt'altra cosa. Dice Red Ronnie: "Avrei messo al centro della trasmissione i gruppi musicali a cui dare spazio. Effettivamente in “Quelli della Notte" c'era una sezione dedicata ai giovani cantanti, gestita da Dario Salvatori, che prese il mio posto nel cast. Però da lì non uscì fuori nessun cantante emergente, quindi alla fine ho fatto bene". Vorrei chiarire che fui tra i primi ad essere ingaggiato e non presi il posto di nessuno, tantomeno il suo. A -Quelli della Notte- non c'era nessun cast emergenti, ogni tanto poteva apparire qualche cantante già emerso, sempre all'interno dei generi amati da Renzo, tipo il country, il rock and roll, il blues (ricordo l'apparizione di Guido Toffoletti). Il mio ruolo era un altro, soprattutto selezionavo e trasmettevo repertorio. Possibile che Red Ronnie non abbia visto nemmeno una puntata del programma? Per fortuna ci sono i dvd. I talenti usciti da quel programma non sono stati i cantanti ma tutti i personaggi straordinari scelti da Renzo che hanno reso iconica la trasmissione. Però anche a me sfugge qualcosa. Per esempio l'elenco dei cantanti portati al successo da Red Ronnie.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 27 gennaio 2020. Il sogno sarebbe vedere lui, un giorno, condurre Sanremo, o almeno curarne la direzione artistica. Il Festival ne guadagnerebbe in qualità musicale, competenza, libertà artistica. Non accadrà, ahinoi, perché Sanremo risente di lobby che forse non gradirebbero la sua presenza. Ma intanto ci piace sentire cosa pensa Red Ronnie, critico musicale e firma di OM Optimagazine, magazine di musica e spettacolo fondato da Optima Italia, dell' imminente kermesse canora. «Il Festival festeggia molto male il 70° compleanno», comincia lui. «In questi giorni ho ricevuto una chiamata della vedova di Sergio Bardotti, il celebre paroliere, che mi chiede di aiutarla affinché non venga più assegnato il premio intestato al marito in questo Festival da schifo».

Il problema è a monte, nella direzione artistica?

«Amadeus è un bravissimo presentatore ma non è adatto a fare il direttore artistico perché non capisce un cazzo di musica. Le sue scelte sembrano fatte solo in base agli algoritmi che determinano chi fa più visualizzazioni su YouTube o Spotify, oppure in base a delle opportunità: ad esempio lui prende i "Pinguini", completamente sconosciuti, per strizzare l'occhio al mondo indie, prende la Lamborghini perché scuote il culo e fa parlare di sé, il duo Martinelli e Lula solo perché la loro canzone si occupa di Ilva, e sceglie all' ultimo momento Tosca e Rita Pavone per rimediare alla scarsità di donne tra i big. Viceversa, se le scelte non sono sue, ma imbeccate dai management degli artisti e da chi ci vuole lucrare, è ancora peggio. In questo caso Amadeus sarebbe un burattino, manovrato da altri».

È sbagliata anche l'idea di farsi affiancare da dieci donne?

«Le quote rosa sul palco sono una stronzata: devi scegliere una donna perché è brava e non perché "bellissima", come lui ha ripetuto fino allo sfinimento, e da trattare come una valletta. Ho trovato molto grave la sua frase sulla fidanzata di Valentino Rossi che "sta un passo indietro". Si vede che nell' inconscio di Amadeus è quello il ruolo al quale è costretta una donna».

Junior Cally invece dovrebbe essere escluso dal Festival?

«Sì, perché il testo e il video di quella sua canzone, Strega, sono un' istigazione alla violenza contro le donne. Portare questo cantante a Sanremo significa sdoganarlo, renderlo un modello agli occhi dei bambini. Con la maschera che indossa, Junior Cally diventerà un supereroe e, come tale, da imitare in tutto quello che dice. Poi non sorprendiamoci se dei tredicenni stuprano una ragazzina, filmano la bravata e la condividono sui social. Chiedo perciò a tutti di condividere la protesta contro la sua presenza e, se proprio lui ci sarà, di boicottare Sanremo spegnendo la tv».

È stata contestata anche la partecipazione di Rita Pavone in quanto «sovranista».

«Una certa sinistra sa essere più fascista dei fascisti che crede di combattere. E per di più dimostra ignoranza: critica la Pavone senza sapere che è la cantante italiana più conosciuta al mondo e la prima ad aver fatto una canzone femminista».

Ieri ci sono state le elezioni in Emilia Romagna. L' emiliano Red Ronnie per chi ha votato?

«Ho scelto Borgonzoni perché auspicavo un cambiamento. In Emilia Romagna non c' è solo Bibbiano, ma in generale un sistema dell' affido molto discutibile, e poi continua a predominare l' ideologia della droga libera. Io avrei fatto la stessa cosa di Salvini, citofonando al presunto spacciatore».

Ha subìto strali dalla sinistra per queste posizioni leghiste?

«Lo scorso lunedì ho avuto ospite da me, al Barone Rosso, Matteo Salvini per parlare di musica. E sono stato attaccato da haters nascosti dietro falsi profili. La sinistra li usa molto. D' altronde, Bonaccini stesso ha fatto un boicottaggio molto pesante nei mei confronti».

E delle Sardine che pensa? Finiranno fritte ora che sono passate le elezioni?

«Sono ragazzi che si riuniscono per ascoltare un concerto. L' unica cosa che sanno fare è cantare Bella ciao. Non tirano fuori un concetto, non hanno un' idea, e quando vanno in tv, fanno figure meschine. Mettici pure che il loro leader, Mattia Santori, lavorava per Prodi...».

·        Renato Zero.

Da spettacoli.tiscali.it il 2 dicembre 2020. Ci sono state le risate, si è sfiorata la polemica ( tra selfie e abbracci vietati), ma a farla da padrone sono state soprattutto le emozioni. Che con Renato Zero, ospite nell’ultima puntata di Domenica In non potevano certo mancare. E sono arrivate subito, quando lui ha incontrato lo sguardo della padrona di casa. C’era la voglia di abbracciarsi, ma in tempo di Covid non si può. "Ci dobbiamo toccare, come famo? Viviamo di rendita", dice il cantante. E Mara, guardando il suo ospite in abito nero e cilindro in testa non resiste: "Sei un fico pazzesco", replica emozionata. E a propositi di abbracci speciale, uno dei momenti più toccanti è quello in cui Zero parla di sua nonna Renata, alla qual era legatissimo, scomparsa quando lui aveva appena 16 anni.  “Sono cresciuto con una nonna, mia nonna Renata – ha detto – che mi ha fatto anche un pochino da mamma, perché mia mamma lavorava al Santo Spirito era infermiera e praticamente mio padre era poliziotto e la loro frequenza in casa non era così garantita: e allora nonna assolveva queste funzioni”. Inoltre ha raccontato: “Mi portava da tutti questi altri anziani e allora io assorbivo questa loro saggezza, questo modo meraviglioso: gli anziani cosa hanno di bello? Che non guardano mai l’orologio, perché per loro ogni giorno è l’eternità, quindi mia nonna mi rassicurava, non avevo mai paura”. Poi l’intervista prosegue con Zero parla della sua carriera, di alcuni aneddoti, ma anche dell’uscita di "Zerosettanta - Volumeuno", l'ultimo dei tre cd di inediti pubblicati in tre mesi da Renato Zero per celebrare i suoi 70 anni. Un 'opera importante e corposissima, perché "sapevo che avrebbe dovuto sopperire anche alle distanze che questo mostro, il Covid - dice il cantautore . Una vita di successi cominciata con la gavetta, che lo ha anche visto guidare il furgone con tutta la strumentazione per i suoi concerti. O di quando, chiamato da Vasco Rossi per Radio Zocca, improvvisò un concerto "ai giardinetti" e "scoppiò tutto, l'amplificazione prese quasi fuoco". "Così mi sono messo a raccontare le barzellette. Quando andai a riscuotere il cachet da un amico di Vasco – spiega Zero – lui mi disse 'è la prima volta che pago un cantante che non canta'". Nelle memorie di Renato Zero c’è spazio anche per l’amico Gigi Proietti. "Sono un 'osteriolo', come lui. Andavamo in osteria in simultanea". E parla di una cosa che li ha sempre accomunati: le barzellette. "Ogni volta che arrivava mi salutava e mi diceva 'ciao Renatì, senti questa…"

Alessandra Menzani per ''Libero Quotidiano'' il 28 novembre 2020. La festa per i ruggenti settanta anni di Renato Zero non finisce mai. Il monumentale artista romano chiude la trilogia dedicata alla sua carriera con Renato Zerosettanta Volume Uno, un disco da ieri in vendita con cui conclude un viaggio durato tre mesi e quaranta canzoni inedite. «La musica è come un salvagente provvidenziale, consente di raggiungere un approdo sicuro e duraturo: vi regalo quest' ultima finestra, dove affacciarvi nei momenti difficili», dice l'indomabile Renato. Prodotto dallo stesso Zero - 50 milioni di dischi venduti all'attivo - per Tattica, è l'occasione per il cantante di raccontarsi e togliere qualche macigno dalle scarpe. «Siamo dei distributori di emozioni e sensazioni, abbiamo una responsabilità. Non rappresentiamo la frivolezza, la canzone "leggera": non diciamo cazzate. I nostri pezzi finiscono nei matrimoni, nei funerali, abbiamo fatto le guerre». Nel volume ci sono 13 tracce, si va da C'è, primo singolo estratto dal disco ed uscito il 20 novembre, che parla d'amore, a L'Italia si desta?, dedicato a un Paese disilluso e ferito che ha smesso di credere in quegli stessi valori che hanno contribuito a farla conoscere nel pianeta, a Un Mondo Perfetto, traccia conclusiva, attraverso cui viene dipinto un mondo idilliaco fatto di tolleranza, equilibrio, innocenza e rispetto. Non manca l'ironia, ovviamente.  «A 70 anni», aggiunge il Re dei Sorcini, «posso dire di avere raggiunto tappe mai immaginate, non do peso alle classifiche, il Covid mi ha fatto riflettere sui colleghi fonici, tecnici, tutti i lavoratori, mi ha indotto a fare questa operazione. Faremo un Natale senza abbracci, mi mancano», ammette. Si lascia andare a uno sfogo. «Vorrei chiudere la bocca ai politici che non mi hanno fatto fare Fonopoli, ci ho provato per quattro legislature e tre sindaci. Ma mi piace ancora sognare. Loro chiudono gli accessi alle scuole, è grave». Zero si riferisce al suo ambizioso e antico progetto per dare spazio e visibilità ai giovani artisti. Un'utopia, forse, che non lo abbandona dal 1992. Rivela di aver sentito il sindaco di Roma Virginia Raggi. «Una settimana fa mi ha chiamato», dice, «ha molta stima di me e mi ha manifestato la volontà di agevolarmi per Fonopoli. Sarebbe bello farlo, anche in una caserma in disarmo». La sua opinione su chi comanda, in generale, non è buona: «In sedici anni si impara tanto, ho conosciuto una certa Italia sonnolenta, bigotta, inciuciatrice. Mi sono sentito don Chisciotte. Se per Fonopoli avessi accettato i compromessi suggeriti dagli imprenditori l'avrei fatta, ma ho sempre detto di no perché ci mettevo la faccia». Renato Zero non è tenero verso la musica che va moda oggi, soprattutto quella che piace ai ragazzi: «Non contesto rap e trap. C'è posto per tutti, ma vorrei che il carro portante fosse la musica melodica e armonica, lo esigerei! Io ho fatto il doppiatore, l'attore, il ballerino, il sarto, bisogna fare tante esperienze, non ci si improvvisa». La colpa? «Della discografia, che ormai non è solo italiana, ma arriva dagli Usa e dalla Gran Bretagna con le loro Corazzate Potemkin. Prima eravamo tutelati. Uno di questi rapper vorrei vederlo in Usa...». Chi gli fa notare il successo internazionale, ad esempio, di Sfera Ebbasta, lui replica: «Volevo solo dire che Il cielo in una stanza oggi non c'è. E nemmeno I migliori anni della nostra vita. La mia non è una crociata ma un'analisi lucida. Io il marciapiede l'ho battuto come una mignotta», dice, usando un'efficace metafora, un'invettiva verso chi diventa famoso in 2 mesi con un talent.

Dal “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. È uscito ieri il secondo capitolo della trilogia discografica Zerosettanta . E questa volta Renato Zero canta l' amore. «Ma è un amore spesso bugiardo, taciuto, non è esclusivo, gode di una trasversalità... Do spazio pure a certe perversioni non omologate né omologabili, ma non esprimo giudizi. Se uno vive la propria libertà e la propria morale senza ledere la libertà altrui, manette e bondage sono leciti». Questa opera pop - partita il 30 settembre scorso, giorno del settantesimo compleanno di Zero - si concluderà il 30 novembre con la pubblicazione del terzo album. Il disco vanta, fra le tante, le collaborazioni di Phil Palmer, Alan Clark, Adriano Pennino, Fabrizio Bosso. Nell' album Zero affronta anche temi come la nostalgia (citando i Beatles), la protesta politica e dedica una canzone alle nipotine. Graffia con Troppi cantanti pochi contanti . «Quando si fa della musica una ragione di vita - racconta - bisogna metterci la faccia a discapito delle parrucchiere, di quelli che ti circondano, dei lacchè. Vedo in giro molto copia e incolla che non è una forma d' arte, ma una forma di appropriazione indebita. Un artista deve rappresentare un mondo, una società. Che faccia soldi è marginale». Non disdegna i rapper e svela che gli piacerebbe duettare con Ultimo o Diodato.

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 3 novembre 2020. La speranza di Renato Zero è di riuscire a mettere in piedi per il 2021, pandemia permettendo, un concerto-evento (o un' intera tournée) per festeggiare sui palchi i 70 anni compiuti a fine settembre. Con i suoi Sorcini e con alcuni amici, ai quali chiederà di reinterpretare i suoi successi. La lista degli invitati c' è già? «Sì. Mi piacerebbe che ci fossero Gigi D' Alessio, Massimo Ranieri, Bocelli, Mario Biondi, Tosca, tutti colleghi con i quali in passato abbiamo fatto cose preziose». E Loredana Bertè, compagna di avventure e disavventure? No, lei non ci sarà. Ha tagliato il traguardo dei 70 anni 10 giorni prima di Zero, ma non si sono scambiati neppure un messaggio: «Ce ne siamo fatti così tanti in passato che coprono anche gli anni a venire», dice il cantante. Non si parlano da 5 anni e i dettagli della lite non sono stati mai resi noti: «Penso che Renato mi abbia usato per l' intero arco della nostra amicizia. Non faremo più pace. Non lo perdono», raccontò la Bertè nel 2016 nella biografia Traslocando. «Quello che avevamo da dirci ce lo siamo detti in 35 anni di amicizia. Ormai abbiamo preso strade diverse. È giusto che lei viva la sua vita e io la mia», risponde oggi Zero. L' ultima apparizione pubblica risale a meno di un mese fa, quando ha presentato il primo dei dischi di inediti della trilogia per i 70 anni, Zerosettanta. In quell' occasione se l' era presa un po' con tutti: dalle radio (accusate di passare solo immondizia) alla discografia, senza dimenticare le dichiarazioni su Achille Lauro suonate come un attacco al giovane collega («Con le piume io non giocavo a fare il clown»). Eppure Renato non ha esaurito le cartucce. Collegato via webcam dal suo studio per presentare il secondo capitolo del faticoso e impegnativo progetto (da ieri nei negozi), ha ancora risorse e argomenti. Alcuni temi gli vengono offerti dall' attualità. La chiusura di teatri e cinema disposta dal decreto del premier per fronteggiare la diffusione del Covid-19, ad esempio: «Chi dice che la cultura non dà da mangiare è uno stronzo e forse neanche un buon italiano. I lavoratori aspettano da mesi la cassa integrazione. Scandaloso. Se noi non paghiamo le tasse ci vengono a prendere a casa. Ai colleghi dico: autotassiamoci, elargiamo una percentuale sugli incassi per coprire certe sofferenze». E la recente apertura del Papa alle unioni gay: «Non si può non essere d' accordo. Non voglio che accada più per nessuno, come è successo a me, che ti vengano fatte le risonanze magnetiche per capire che cosa hai nelle mutande». Altri, invece, arrivano dalla sua storia: «Bruciarsi è un attimo. Ho visto amici dimenticati. La musica è un mestiere. Prima di arrivare di fronte a un microfono bisogna essere pronti», riflette parlando di chi con un po' di visualizzazioni sul web finisce nelle reti dei pescecani della discografia. Venditti corteggia Billy Joel per un' esperienza dal vivo congiunta: se lei dovesse scegliere un collega internazionale per condividere il palco, chi chiamerebbe? «Elton John, per affinità anche caratteriali». Attesa per l' ultimo capitolo del progetto, che uscirà il 30 novembre.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it l'1 novembre 2020. Quando si ha di fronte Renato Zero bisogna ricordarsi che si ha di fronte oltre mezzo secolo di storia della musica italiana. Una carriera iniziata a soli 14 anni, quando ottiene il primo contratto per 500 lire al giorno al Ciak di Roma e si delinea quello che sarà un tratto distintivo di tutta la sua esistenza: la sfida verso ogni tabù. Come reazione a chi lo denigrava sceglie infatti un’offesa come nome d’arte («Sei uno zero» gli dicevano) e da quel momento rimarrà sempre fedele a un mantra che ripete spesso: «Mai e poi mai essere messo all’angolo dalla vita». Ne ha passate di tutti i colori, in particolare negli anni ’60 e ’70 «dove erano più le giornate nei commissariati che quelle fuori» e alla fine di ogni spettacolo «se tornavo a casa incolume avevo già vinto la guerra». Ma quella gavetta durissima sarà il motore in grado di generare 43 album e la scrittura di 500 canzoni (molte ancora inedite), fra cui capolavori come Il cielo o I migliori anni, che lo porteranno ad avere un disco al numero uno in classifica in cinque decenni diversi. E così nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia e mentre il mercato discografico spinge per i singoli, lui si può permettere di uscire con Zerosettanta, un triplo concept album per festeggiare i 70 anni, ma soprattutto «per dare un segnale al mio pubblico». Il primo volume è uscito il 30 settembre, il secondo proprio oggi (30 ottobre) e il terzo il prossimo 30 novembre. Lo abbiamo incontrato, non solo per presentare un’opera monumentale, ma anche per cercare di capire un po’ di più un artista che ha segnato la cultura e il costume del nostro Paese e non può essere considerato soltanto un cantante: «Non lo sono mai stato. Un osservatore pensante e parlante, sì. Un raccoglitore di anime, con un costante rispetto e innamoramento verso la melodia».

Pubblicare oggi un triplo concept album è una sfida con te stesso, una prova di forza verso il mercato o cos’altro?

«Mi sono sempre buttato nella mischia, ho sempre voluto essere presente anche là dove c’era aria di tramontana. Amo sfidare gli elementi e soprattutto dare con la mia presenza un certo incoraggiamento al mio pubblico. È una decisione indirizzata a chi mi segue e a chi mi ha dato grandi gioie e soddisfazioni. Mi pareva opportuno non esimermi da una partecipazione così coraggiosa».

C’è un brano che rappresenta meglio l’intero progetto oppure è un insieme indissolubile?

«In Questi tre album si trova Renato Zero in tutte le sue sfaccettature: dal rock, alle ballad, passando per le canzoni di protesta a quelle romantiche. Soprattutto le canzoni d’amore. Perché uno come me, che vive di questa singolarità, non può mentire e raccontare degli amori che non ha indossato. E così ho affrontato ogni brano, perché sono sicuro che il pubblico da queste sollecitazioni possa trarre vantaggio. Non mancano neppure passaggi sui rapporti di coppia, dove se ci sono dei problemi a soffrire di più sono i figli. Non posso dire che ci sia un brano che mi identifica di più. Ognuno, legittimamente, rappresenta me e il mio percorso di vita lungo 50 anni di professione e di coraggio nell’espormi».

Un coraggio che hai avuto fra i primi anche nel lasciare le grandi major e nell’autoprodurti con una etichetta tutta tua. Quanto è importante questa libertà per un artista?

«Credo sia stata prima di tutto una dichiarazione di intenti, verso me stesso e la professione. È risaputo che un contratto comporta delle regole e delle costrizioni. Capitava che un discografico mi chiedesse un disco per una certa data, ma non siamo dei robot, abbiamo bisogno di catturare l’ispirazione, mettere a fuoco un percorso. I miei dischi sono sempre dei concept, per cui essermi liberato di queste imposizioni mi ha fatto ritrovare autonomia nel linguaggio e nel repertorio. In passato le etichette avevano la presunzione di indirizzare verso un certo andazzo che mi faceva sentire limitato. La mia felicità è l’essere stato seguito a ruota dai due Lucio, Battisti e Dalla. Siamo stati noi tre a prediligere questa soluzione, per portare avanti una autonomia reale e non essere più nella condizione di dipendere dagli umori del mercato».

Forse avrebbero cercato di impedirti di trattare certi temi, come invece hai sempre fatto?

«In questo modo ho potuto portare avanti una escursione variegata di tematiche, dalla pedofilia al disagio degli anziani alla goduria del triangolo e via dicendo. Ho cantato l’umanità tutta, e neanche sommariamente. Mi sono soffermato a pizzicare le corde giuste di ogni argomento per rendermi utile e dare alle persone la sensazione di avere un amico su cui contare».

Il tuo primo 45 giri ha venduto 20 copie. Come si riesce ad andare oltre a un fallimento del genere in giovane età?

«Non è stato un fallimento, ma giustizia divina. Cantavo come Paperon de’ Paperoni, avevo una voce inconsistente e meritavo quel risultato, con solo 20 parenti che hanno acquistato il disco. Ma un’altra esperienza è stata più traumatica e per qualunque altro artista sarebbe stato il tracollo. Era il 1973 in Via Garibaldi a Roma e in un locale feci un concerto per un solo spettatore. Il proprietario provò a convincermi a rimborsarlo e mandarlo a casa, ma gli risposi di no, perché avevo detto ai miei genitori che quella sera lavoravo e quindi volevo lavorare. Il giorno dopo lo stesso signore tornò con 25 persone. È tutto documentabile, visto che in quell’occasione passò Antonello Venditti verso le 11 di sera e vedendo sventolare la mia faccia tosta davanti a questo unico spettatore, si commosse e al pianoforte fece due brani, per solidarietà».

Non hai pensato di rinunciare al tuo sogno?

«No e vorrei si comprendesse che fare uno spettacolo per un solo spettatore è di una difficoltà che se uno non la vive non la può capire. Tutto sommato è stato un banco di prova, come tanti altri. I fischi li abbiamo assaggiati un po’ tutti, fanno parte del corredo, superato questo tipo di battesimo puoi andare dritto verso la meta».

Era il periodo in cui hai scelto il cognome Zero proprio in risposta alle offese ricevute?

«Sì, e quando mi insultavano andavo dal malcapitato, lo mettevo in mezzo alla pista e lo spogliavo, vendendo le parti del vestiario attraverso un’asta nel locale. Raccolti i soldi, glieli davo dicendogli: «Ora vai a comprarti della biancheria pulita». Reagivo quasi sempre agli uomini, perché le donne erano più rispettose. Alcuni li truccavo davanti alle mogli. La ragione dell’aggressività di questi maschiacci è dovuta a un fatto fisico, visto che non hanno gli attributi. Ancora oggi persone del genere, bulli e razzisti, sono privi della dignità di farsi vedere in faccia e agiscono nell’oscurità. È la cosa che mi ha sempre sollecitato le reazioni più provocatorie».

Roma in questo è purtroppo spesso teatro di diversi episodi di cronaca molto gravi, in particolare nelle periferie.

«Roma è molto più periferia che centro. Il benessere della città è soffocato da una coltre omertosa, anche da parte dei politici, che l’ha portata alla decadenza. Ormai se andiamo nei pressi del Quirinale vediamo anche lì una città disastrata. Ho parlato di recente con la sindaca Virginia Raggi esponendole il mio malessere e mi ha spiegato che il portafogli è desertico. Non ci sono finanze per risanare nulla. È qualcosa che stravolge le coscienze che la capitale d’Italia e della Città del Vaticano sia in queste condizioni. Questo maltrattamento e questa cecità offende tutte le persone di buon senso anche all’estero, visto che abbiamo consegnato la capitale del mondo al degrado totale».

Come se ne esce?

«In passato presi degli scritti di Pier Paolo Pasolini e insieme alla mia amica Franca Evangelisti interpretai il brano Casal De’ Pazzi: “I confini di un mondo, dove i poeti non crescono più. Genziane rosa affogate nel fango. L’incanto eterno, amori di una gioventù, resa impudica dall’ipocrisia…”. L’affresco di Pasolini era esatto. Non l’ho conosciuto in vita. Gli amici della borgata mi dicevano che non era per me frequentarlo, visto che lo definivano ambiguo. Non ci credevo, visto che di natura sono parente di San Tommaso e ho sempre verificato personalmente. Ma quando potevo conoscerlo purtroppo sappiamo la fine che ha fatto. Gli umori della periferia li ho sempre respirati nella volontà di partecipare».

Oltre che artisticamente, ti sei impegnato in prima persona in svariate iniziative sociali e di beneficienza.

«Ho aiutato questi ragazzi, con un lavoro bello e utile che continua ancora oggi. A questi giovani parlo non come Renato Zero ma come Renato Fiacchini e racconto che la vita è meravigliosa e ogni tanto è bello conquistarsela, mettere delle bandierine e farsi guardare dagli altri con orgoglio e soddisfazione. Ci sono famiglie dove i ragazzi sono in difficoltà perché regna un certo silenzio. E anche prima del Covid venivano sottratti all’istruzione alla quinta elementare. Per questo dobbiamo cercare di dare loro da mangiare una bistecca insieme a Oscar Wilde e Pirandello o ai nostri grandi cantautori. La cultura non è una velleità, non è un modo di sottrarsi al dovere del cartellino, ma cibo per l’anima. E come tale, essendo un nutrimento, i benefici arrivano. Le persone colte sono al di sopra delle nuvole».

Il mondo della cultura e degli spettacoli è il più penalizzato in questa pandemia, però dalle istituzioni arrivano segnali poco incoraggianti. Da ultima la frase del premier Giuseppe Conte che ha detto: «I nostri artisti che ci fanno divertire…».

«È una grande stronzata, come direbbe qualcuno… una frase sciocca, che infastidisce e non fa ridere. L’attività artistica è un impegno oneroso che porta benessere alle persone, dona loro un supporto, le segue nelle fasi della vita. Io vanto di essere accarezzato da quattro generazioni e questo mi rende severamente impegnato nel lavoro, in quello che dico e canto. Non stiamo giocando, neanche il macchinista o il facchino giocano. È un lavoro, una professione seria, per alcuni una missione che ci deve far scendere dal palco con la soddisfazione di aver regalato momenti di vita».

Come vivi questa fase in cui i teatri e gli spettacoli live sono totalmente azzerati?

«Questo virus ha avuto il talento di spogliarci di tutto. Ovviamente la libertà è il primo elemento del quale ci ha privato. È un banco di prova, di verifica per ciascuno di noi. Dobbiamo buttare via la zavorra del passato, il superfluo non serve più. Oggi più che mai, non bisogna essere feticisti, accarezzare il lusso o l’effimero, ma salvaguardare i rapporti, riconsiderare l’amicizia non come una sagrestia, ma come un aliante per staccarci dal suolo e affrontare insieme un temporale o un tramonto. Dobbiamo elevarci. Sopravviveremo, ma lo faremo in modo migliore se saremo altri da noi, persone nuove, che impareranno la lezione di non sprecare nulla, prima di tutto i valori».

Nei giorni in cui hai festeggiato i 70 anni è uscita una tua dichiarazione piuttosto critica verso Achille Lauro, che in tanti ritengono un tuo epigono: «Non giocavo a fare il clown della situazione, io cantavo le problematiche della periferia, della borgata, della gente emarginata».

«I giornalisti hanno un sacco di qualità, ve lo riconosco, però anche un po’ il vizietto di spostare le virgole e le frasi aggiustandole a piacere per fare più scalpore. Ho solo detto che il clown è un mestiere meraviglioso. Quando ci troviamo di fronte a lui, dal bambino all’anziano, la lacrima ci scappa. Ma il clown non ha mai fatto ridere nessuno. Significa che anche lui, quando si strucca ha un figlio malato o una moglie con problemi. Il clown non dice mai gli affari suoi, perché ha dignità. La mia missione era spogliare la vita e ricomporla, per portarla ad assomigliarmi. Per poterci stare dentro doveva avere i miei connotati. Ora, il baraccone non è esattamente il luogo dove mi piacerebbe vivere, mentre il camerino sì. E c’è una bella differenza».

Insomma, Achille Lauro non lo consideri un tuo discepolo?

«Non ho mai fatto comparazioni fra me altri artisti. Quando facevo pensare che fossi un clown erano i tempi in cui, dopo uno spettacolo, se tornavo a casa incolume avevo vinto la guerra. Le giornate nei commissariati con i miei compagni di viaggio non si contano. Perché eravamo diversi, particolari, godevamo di libertà visibili a tutti. A 50 anni di distanza, chiunque nasca oggi e abbia i miei connotati dovrebbe preoccuparsi. La mia replica non sono in grado di incoraggiarla. Ho avuto parecchi sosia nel tempo che hanno vissuto a mie spese, con sui manifesti lo “Zero” per fare pubblico. Queste cose le ho perdonate e raccomando di avere una statura propria, di essere originali, di non dare adito a paragoni che sono sempre deleteri per chi vuole avere un percorso immacolato e personalizzato. Non devo scusarmi di nulla, se non per il fatto di essere stato il primo, pur chiamandomi Zero. Ho fatto scuola nel costume in Italia, di questo me ne prendo atto».

C’è forse un unico progetto che, nonostante fosse stato annunciato più volte, non sei riuscito a realizzare. Mi riferisco a Fonopoli, la cittadella della musica. Come mai?

«Fra noi e certi progetti c’è la politica. Sono andato a bussare persino a Bruxelles per chiedere di aiutarci. Per assurdo, siccome il politico non ha inventato Fonopoli, che serviva a salvaguardare i giovani e toglierli dalla nullatenenza, non è stato possibile realizzarlo. Eppure, l’Alitalia ci concesse l’acquisto dell’area dove avevano il centro direzionale alla Magliana, con tanto di lettera dell’amministratore delegato, a un prezzo di esproprio. Praticamente regalata. Ma cosa accade? Che per quattro legislature venni buttato tra le braccia di imprenditori edìli con altri interessi negli appalti, i quali volevano realizzare 27 mila metri cubi di area commerciale a fronte di 5 mila metri per gli studi musicali».

Saresti pronto a rilanciare Fonopoli se ci fossero le condizioni?

«Era già tutto pronto, dalle sale per lo studio ai palcoscenici, le sale prova, ed era prevista persino un’area per le orchestre sinfoniche. Non avevamo trascurato nulla, neppure di rimettere in sesto un collegio per la formazione di macchinisti, elettricisti, parrucchieri. Era un progetto formidabile che avrebbe consentito a tanti giovani di trovare la loro strada e alla città di non ritrovarsi oggi così sguarnita. Ma state tranquilli che io non mi fermo. Se c’è una cosa di me che mi piace è l’essere così ostinato. Sono arrivato fino a qui con tutte queste cicatrici e lividi, ma ancora sorrido».

Da quel che racconti sembra di scorgere la Roma del mondo di sopra e del mondo di sotto, nella quale se non si hanno legami con il famoso “mondo di mezzo” non si riesce a fare nulla.

«Ricordo che a me chiusero il tendone di Zerolandia con i sigilli. Un luogo nel quale c’era solo bellezza, finché non mi hanno tappato la bocca. Un Natale, il 24 dicembre, ho chiuso la prima parte del concerto alle 11 e 45 e alla mezzanotte arrivò un prete in blue jeans, con richiesta regolare alla parrocchia, che celebrò la messa. Era oro colato per i giovani e la gente che partecipava, ma sono stati in grado di interrompere pure questo. Ma non mi stupisce, la politica per molto tempo ha addirittura messo le mani sul pentagramma».

A cosa ti riferisci?

«Alle varie feste dell’Unità, dell’Avanti e simili, che aggregavano artisti sprovveduti, porelli. Per me la musica ha un suo vangelo e la politica ne ha un altro. La mescolanza non è possibile. Io se protesto lo faccio come artista, mi prendo le mie responsabilità e dal mio pulpito enuncio le mie ragioni e il mio malcontento. Ma negli anni ’60 e ’70 era consuetudine diffusa che questi partiti mettessero in campo una sequela di artisti alle manifestazioni. E in fondo anche Fonopoli, se fosse nata su impulso di un ministro sarebbe già realtà, però forse non sarebbe Fonopoli, ma un manifestino bieco e triste di una politica che fa gli interessi della politica o non dei cittadini».

In questa situazione, che prospettive vedi per i giovani artisti?

«Prendo le parti dei giovani aspiranti che vogliono fare musica. Noi artisti siamo lo specchio della società. Ne riflettiamo il benessere o il malessere. Se la società è buona e vuole manifestare il cambiamento, noi lo rappresentiamo. Ma se la società è malata, debole, povera, non sostenuta dalla scuola e dal lavoro quel che emerge è un disastro. Ci sono ragazzi che hanno fatto dodici anni di Conservatorio e lavorano come camerieri, magari all’estero. Non sono casi sporadici, ne ho conosciuti tanti. Intendiamoci, il pizzettaro è un artista nel suo genere, ma dopo così tanta dedizione per l’attività musicale, perderli è un peccato mortale. Questi ragazzi non hanno modelli, opportunità di crescita e si fa presto a colpevolizzarli. Ecco perché quando vogliono manifestare questo disappunto lo fanno anche con la spranga, ma è lì che bisognerebbe leggerle queste azioni, non solo condannarle, capirle e andare a fondo nelle motivazioni che li portano a straripare in questo modo. Abbiamo perdonato gente che ha sbagliato per una vita, non vogliamo dare l’opportunità a uno di 20 anni di recuperare? Mi pare un atteggiamento egoistico».

Cosa consiglieresti a un giovane che vorrebbe lavorare nel mondo della musica?

«Prima di tutto che riconosca il proprio talento, con severità e intelligenza. L’esame dovrebbe essere serio, perché se la musica diventa un rifugio per non prendere in considerazione nessuna altra alternativa, diventa deleterio. Si può anche imbracciare la chitarra e tra le pause di un altro lavoro fare le tue belle suonate. Anche questo ha un valore, per divertirsi o scaricarsi da certi dispiaceri. Per un certo periodo l’ho fatto anch’io, poi sono diventato un professionista. Ma la musica, diciamoci la verità, la facciamo soprattutto per noi. E per coinvolgere gli altri è necessario crederci. Se non ci crediamo noi, perché dovrebbero farlo gli altri?»

Una chiave sulla quale hai giocato da sempre è l’ambiguità, o singolarità come l’hai definita, che in tanti hanno ricondotto alla sessualità. In questo senso, ultimamente sempre più artisti o persone dello spettacolo sentono il bisogno di fare coming out. Come te lo spieghi?

«Penso che ci sia di mezzo la morbosità da parte di certi lettori o spettatori, per poi andare a sindacare dentro gli slip di chiunque. Lo trovo triste e squallido. Ognuno deve vivere la sua condizione in maniera dignitosa e anche severa, perché siamo i primi giudici di noi stessi. E credo che sia una scelta individuale il mettere a conoscenza gli altri delle proprie tendenze o gusti, non solo sessuali, oppure no. Anche la riservatezza fa parte della libertà. Se poi vogliono condividere la loro sessualità o scelte particolari, ben venga. È anche accaduto sia stato fatto coming out per salvaguardare altre persone. A volte è necessario. Però credo che la discrezione sia una forma di tutela dell’individuo che lo rende più libero».

Restando alle scelte di vita, l’altro giorno ha colpito in tanti la vicenda di Camilla a Genova, la giovane insultata, minacciata e alla quale i vicini hanno vandalizzato l’auto solo perché lesbica.

«Questa è una storia desolante. Abbiamo fatto tante battaglie, superato pesti e carestie, e adesso che potremmo godere di un mondo adulto, maturato, che può far fronte a emergenze come quella in corso, c’è gente che ancora infligge a certe persone queste ingiustizie per il solo fatto di essere diverse da loro. Lo trovo miserabile. Ma Camilla deve essere serena, perché i veri malati sono loro».

Un tempo era impensabile, mentre oggi abbiamo persino un papa che spinge in questo senso sui diritti civili.

«Apprezzo a tal punto papa Francesco che ho chiesto ad alti prelati la possibilità di incontrarlo per stringergli la mano. È un mio desiderio spontaneo e una manifestazione d’affetto. Non ci sono ancora riuscito, ma per ora questa mia fede e passione gli arriva comunque, perché lui ha un po’ il fluido, mi sembra che riesca a captare anche a distanza le intenzioni dei suoi fedeli. Mi auguro che sappia dell’esistenza di Renato Zero e apprezzi che lo stimo tanto e ripongo in lui molta fiducia».

Gli artisti hanno tutti una particolare sensibilità verso il trascorrere del tempo. Qual è il tuo rapporto con la morte?

«Io sono già morto svariate volte, in forma evidentemente lieve. Questo mi ha fatto capire che il desiderio più grande che posso avere è che la morte mi colga vivo».I 70 anni di Renato Zero, il rivoluzionario che non ha mai tradito se stesso e il pubblico. Ernesto Assante su La Repubblica il 29 settembre 2020. Auguri a uno degli artisti più originali e amati dello spettacolo italiano. Una vita di record e di avventure, una carriera in cui si è sempre rinnovato senza cambiare mai. E tre nuovi album, uno al mese per tre mesi, in un periodo difficilissimo per l'industria musicale. Il conto alla rovescia, che di solito il pubblico recita in coro in apertura di ogni suo concerto, oggi comincia non da tre, ma da settanta, per fargli gli auguri in occasione del compleanno. Renato Zero compie settant’anni e l’occasione è quella giusta per celebrare la vita e la storia di uno degli artisti più originali ed amati dello spettacolo italiano. Lo fa con tre nuovi album, uno al mese per tre mesi, in un periodo difficilissimo per l'industria musicale. Chissà se il giovanissimo Renato Fiacchini, all’alba degli anni Sessanta, avrebbe mai immaginato di trovarsi oggi, nel pieno del 2020, a festeggiare vestendo il ruolo, meritatissimo, di superstar? Chissà se nei suoi sogni c’era anche l’idea di arrivare a essere uno degli artisti più amati della storia della canzone del nostro paese? Probabilmente si, Renato sognava in grande fin da piccolo e ha certamente sempre pensato che la musica, la canzone, il palcoscenico, sarebbero stati il suo mondo per tutta la vita. C’è riuscito, e anche bene, segnando record e successi nel suo diario, mettendo in fila avventure, storie, canzoni che generazioni intere di italiani hanno cantato ed amato, vestendo i panni di Renato Zero, artista poliedrico e multiforme, cantante e autore, attore e performer. Oggi a settant’anni Renato è ancora Zero, è se stesso nella maniera più completa, con tutte le passioni, i difetti, i sogni, le ansie, le rabbie e gli amori che lo hanno animato in tutto il percorso artistico e umano. Non ci sono altri personaggi simili nella storia dello spettacolo del nostro paese ma, più in generale, anche nella scena internazionale. Pochissimi sono cantautori che hanno avuto lo stesso impatto visivo e poetico, la stessa forza espressiva e lo stesso impegno, la stessa capacità di rinnovarsi senza cambiare mai. “Anche con le paillettes non sono mai stato un clown”, ci ha detto pochi giorni fa, ma allo stesso tempo è altrettanto vero che è riuscito sempre a far ridere e piangere chi lo ha seguito e ascoltato, è sempre riuscito a toccare le corde dell’emozione, magari alle volte con il trucco più forte, la voce spezzata, lo sguardo intenso, giocando con sapienza con tutti i trucchi di un mestiere imparato con dedizione nel corso degli anni. Ma non ha mai mentito né pensato di prendere in giro il suo pubblico, i “sorcini”, gli “zerofolli”, quelli che senza mezzi termini hanno scelto di credergli e di amarlo. Con le piume e le paillettes Zero ha cantato di politica, di fede, di vita e di morte, di amore e di lotta, di lavoro, di ecologia, di solitudine, di sesso e di amicizia, ha raccontato dolori e gioie, ha messo in scena la vita in tutte le maniere possibili, spesso in barba alle regole e alle abitudini, abbattendo muri e tabù, precursore, provocatore, geniale saltimbanco di una commedia dell’arte che solo lui ha saputo tenere viva fino ad oggi, sapendola presentare al pubblico sempre nella maniera migliore. Può non piacere la sua musica, possiamo non avere nelle nostre playlist le sue canzoni, legittimo pensare che il suo stile sia rimasto ancorato a un modo di concepire la musica e la canzone che forse oggi non è in perfetta sintonia con i tempi. Ma è impossibile non vederne la grandezza e l’unicità, non apprezzarne la longevità e l’energia, è difficile non dargli retta almeno per qualche minuto quando una canzone arriva alle nostre orecchie, anche solo per caso. Perché il suo stile, il suo suono, la sua voce sono davvero solo “sue”, originali e inimitabili. E perché il suo essere piacevolmente “antico”, al di sopra delle mode, degli stili, delle tendenze, il suo “ecumenico” parlare a tutti, giovani e adulti, il suo modo personalissimo di essere artista pop, popolare nel senso pieno del termine, gli permettono di essere a suo modo ancora attuale, e permettono alle sue canzoni di essere patrimonio collettivo, alla sua musica di essere ancora viva. E consentono a noi tutti, con piacere, di augurargli, di cuore, buon compleanno.

VALERIA ARNALDI PER IL MESSAGGERO il 26 settembre 2020. Renato Zero ospite oggi di Verissimo. «Ogni promessa è un debito. Ho detto che sarei venuto. Ho mancato due volte per ragioni indipendenti dalla mia volontà, ma come vedi, sono di parola. Avevo un debito con Milano. Durante questa chiusura, abbiamo visto Milano essere aggredita un pochino più del resto di Italia da questa sciagura, mi è dispiaciuto perché ho lasciato Milano all’apice di un concerto, in una Milano scoppiettante che mi accoglieva al massimo del suo entusiasmo. Torno qui e trovo una Milano serena, mi rende molto felice». È con un pensiero a Covid e lockdown che Renato Zero entra nel salotto tv di Verissimo per raccontarsi in vista dei suoi settant’anni. Dal pensiero per Milano al racconto della sua vita durante il lockdown. «Ho questa compagna che ho conosciuto quando avevo quindici anni, la musica - racconta -  e lei non ha una ruga, io qualche segno lo accuso».

Silvia Toffanin sottolinea l’aspetto giovanile dell’artista, che ne spiega le ragioni.

«Non si fatica a mantenersi giovani se si hanno l’intelligenza e la furbizia di mettere via. Non dobbiamo disperdere le nostre energie, dovremmo canalizzarle in un salvadanaio. Capitano anche momenti abbastanza amari nella vita, dove se non hai una scorta di coraggio e speranza, probabilmente soccombi. Io durante la pandemia mi sono rimesso a scrivere. Ho tirato fuori la macchina da scrivere. Di solito amo scrivere a penna, con la macchia da scrivere però… be’, quando batti un tasto lo scritto lo tieni per sempre, ci pensi due volte quindi prima di scrivere una cosa. Mi sono messo all’opera in previsione di questi 70 anni: mi sono voluto regalare tre album e li ho voluti regalare al pubblico».

Il rapporto con il pubblico è fondamentale per Zero.

«Sono single, ma ho questa famiglia allargata, e me ne servo con rispetto tutte le mattine. Appena esco di casa, ho questa bella contaminazione umana, buona che ti fa sentire partecipe….».  

Martedì sera, per il compleanno di Zero ci sarà una super-serata su Canale 5. Ma mercoledì, come festeggerà il compleanno?

Io fuggo, come faccio di solito per una destinazione ignota. Il compleanno non è che mi rattrista, per me è un compleanno tutti i giorni, tutte le volte che apro gli occhi. Festeggio con una buona colazione, una passeggiata, una visita magari ad amici che non vedo da tanto, è bello festeggiarsi e festeggiare il pianeta con devozione tutti i giorni».

Il compleanno è anche un’occasione per fare bilanci.

«Io sono della Bilancia…. devo dire che i bilanci ci stanno. Il bilancio non deve esser tardivo, se si rimanda, poi le cose si accumulano. I bilanci si fanno prima di addormentarsi. Tutte le sere penso un po’ alle persone che non vedo e mi ricordo di qualcuno che ha bisogno. Non tutti hanno avuto la consolazione di un pentagramma o di un palcoscenico. Nell’amico si trova la spinta, perché un farmaco a volte non basta».

Silvia Toffanin accompagna l’intervista, mostrando foto dell’infanzia di Zero.

«Promettevo di essere un borghese…», commenta l’artista, guardando una sua foto da bambino. «Mi sono guastato nel crescere», aggiunge, ridendo.

Come è stata l’infanzia?

«Non osavo guardare al futuro. Venivamo da una guerra, ci stavamo spolverando dalle ultime particelle di un conflitto, guardavo con l’incertezza di tutti, ovviamente di tutti gli italiani della mia età. Ero molto piccolo. Sono venuto al mondo con anemia emolitica abbastanza forte, Mi hanno trasfuso il sangue di un frate. Sono salvo per questo. La sensazione di essere con un piede dall’altra parte me la porto sempre addosso. E questo mi ha portato ad avere grande rispetto per la vita e a condividerla. Anche se sono single, alla fine non lo sono perché sono abitato da tutti».

Un pensiero particolare va alla sua famiglia.

«La mia è stata una grande famiglia dalle origini molto umili. Io ho desiderato un fratello per dieci anni, Un giorno prima delle vacanze a mia madre diagnosticarono un fibroma, all’epoca era un evento tosto da superare, Passammo un’estate abbastanza dolorosa. Quell’estate era interminabile. Tornammo a casa a ottobre perché mio padre non voleva che vedessimo mia mamma in un momento difficile. Tornando, ho visto mia madre in un mercato vicino casa. L’ho vista, l’ho chiamata, si è girata e… aveva mio fratello. Ho tre sorelle meravigliose ma mio fratello doveva arrivare, sarei stato Cenerentola, lui è stato la mia fatina. È il mio migliore amico».

Uno spazio importante è dedicato al look.

«Prima mi sguerciavo a mettere il filo nella cruna dell’ago. Io mi cucivo da solo le mie vestizioni. Non avevo appoggi o sarte. D’altro canto, era bello crearsi un abito di quelle proporzioni».

Inizia così un lungo viaggio in alcuni momenti particolarmente significativi della sua vita e della sua carriera.

«Ho aperto al Brancaccio lo spettacolo di Jimi Hendrix, eravamo otto. Ci avevano raccolto in un locale che era sull’Appia. Hendrix passo vicino a me, fu come se fosse passato uno tsunami. Suonava in un modo.. addirittura mordeva le corde…».

Nel suo percorso, anche il lavoro con Fellini.

«Lavoravo di notte per Fellini perché avrei percepito il doppio della paga e allora, siccome mi adorava mi faceva questi regali. Non era tanto importante lavorare per me, quanto vederlo dirigere. Questo spiare questi set era per me una ricchezza. Credo che quello che faccio oggi sia un po’ il prodotto delle esperienze vissute: la sartoria, il trucco, il parrucco, tutte queste attitudini le ho frequentate in prima persona. Sono stato davanti allo specchio, ho messo a disposizione la mia faccia, mettendo paillette sulle palpebre, sperimentando trucchi aztechi e altro. Quando arrivo in un teatro mi concedo un paio di ore in cui non voglio vedere nessuno e comincio a truccarmi, mi libero. Non so dove vado.. Devo eludere l’impatto imminente con il pubblico. Ogni volta prima di salire sul palco, mi trema la mano. Ho questa tremarella da quando ho iniziato questo viaggio con lo spettacolo».

Nel 1967, “Non basta sai” scritto da Gianni Boncompagni.

«Ha venduto solo venti copie, è stato comprato da venti parenti. Però me lo meritavo, cantavo come paperino… Un po’ di obiettività e autocritica non hanno mai fatto male a nessuno. La disperazione però ti fa fare cose fantastiche. Picasso, Dalì dovevano essere pazzi come me. Ho spiato geni e molte volte me li sono ritrovati sedut accanto a me, come Morricone, Trovajoli, Sophia Loren. Quando vedevo questi grandi personaggi nelle prime immagini tv, li guardavo come a dire: “Chissà se esitono veramente….”. E la vita mi ha fatto il dono di averli come amici. Alcuni di questi amici saranno in scena martedì».

Poi, il boom con “Mi vendo”.

«Quando arrivavo a casa alle cinque della mattina, cotto come una zampogna, mio padre apriva la porta di casa, vedeva la mia stanchezza e diceva: “Vedrai che ce la fai, vedrai che ti capiscono…”. Ho avuto con i miei genitori un rapporto sempre molto stretto, confidenziale. Sapevano sempre cosa mi passava per la testa, il motivo per cui un giorno non uscivo di casa. È importante l’alleanza in famiglia».

C’erano però anche attacchi dall’esterno.

«Io dovevo portare a casa il risultato Era la ragione primaria del mio vivere. No potevo non rincorrere non dico il successo, ma almeno un’affermazione, un contratto, una scrittura. Gli altri avevano la necessità di vedermi sprofondare in un anonimato definitivo o di essere talmente lontano dalle loro prospettive da non sentire più parlare di me. Invece, piano piano li ho fregati tutti, Il lavoro è stato duro, ci sono stati tanti “No", tante offese, ma c’è anche tanto amore alle mie spalle e anche davanti a me».

Ancora foto, ancora ricordi.

«Mi sembra di essere in paradiso, e qualcuno, a questo punto sei tu, come un angelo meraviglioso, mi fa vedere: vedi cosa hai fatto su questa Terra? Anche il Paradiso è una festa. Io canterò in cielo, ovunque mi troverò. Non avrò queste fattezze ma mi riconoscerai perché saluterò dicendo: “Ciao Ni’».

La fede è molto importante per l’artista.

«Ho tre zii sacerdoti, sono stato a scuola dalle suore francesi, ho due cugini frati. Non è una questione di vicinanza, però. Dobbiamo proiettarci da un’altra parte che non sia solo la Terra».

Ripensando alla pandemia, dopo una battuta, guardando lo studio vuoto, Zero commenta: «La pandemia ci ha tolto il pubblico, ma io lo sento anche se non c’è. Il fatto di sentire le persone anche quando non ci sono è una forma alta di considerazione verso gli altri, ma anche verso noi stessi, non ci sentiamo soli».

Non può mancare ovviamente un pensiero al figlio adottivo e alla sensazione di essere padre.

«È una sensazione forse iniqua. Io non posso coprirgli l’assenza fino ai suoi 18 anni, posso giustificare la mia presenza dai 18 ad oggi. E credo che quella parte di buio non potrà colmarla mai. Attraverso le sue figlie potrà riscoprire il gioco, l’affiatamento puro.  Non ci si improvvisa padri. Uno ce la mette tutta ma sembra sempre che manchi uno per fare due».

Zero è anche nonno.

«Essere chiamato nonno mi piace tantissimo. Sono un nonno con una bella tenuta. Le mie nipoti hanno una fisicità molto prorompente rispetto ai loro anni. Io sto avvisando tutti i ragazzi che si avvicinano: “Non ti azzarda’...”. Anche il padre è geloso. Credo sia un po’ il nostro ruolo, anche per le tante cose brutte che si sentono».

Parlando di famiglia, il pensiero corre ancora al pubblico.

«A volte questa massa di affetto è un macigno, ti senti anche inadeguato. Io in fondo volevo solo esistere».

Da corriere.it il 24 settembre 2020. Il 30 settembre Renato Zero compie settant’anni. «I 70 hanno un peso specifico nella vita, sarebbe sciocco negarlo. Mi si sta restringendo l’orizzonte», racconta il «re dei sorcini» in videoconferenza per presentare quella che lui chiama la nuova creatura. «Un parto difficile ma importante. Sono orgoglioso di essere arrivato a questa età incolume, di aver regalato emozioni e brividi a diverse generazioni. I giovani sanno che Renato canta per loro problemi e amori ma guarda anche al futuro con serenità perché attraverso l’impegno e le difficoltà si cresce, si matura e si diventa forti».

L’album. «Zerosettanta», questo il titolo, è composto da tre album con quaranta inediti (a un anno di distanza da «Zero il folle») che usciranno il 30 settembre, appunto, il 30 ottobre e il 30 novembre. «Ho festeggiato pochi compleanni ma questo non me lo voglio perdere anche se la festa dovrà essere rimandata. Voglio anche vedere se le rughe dei miei colleghi sono simili alle mie. E penso anche al mio pubblico che si merita un grande show». Si parte dalla fine: la prima uscita è per il «Volume Tre». «Perché — spiega — 3,2,1 ... Zero! è il grido con il quale mi accoglie la folla quando salgo sul palco». E svela anche: Ogni capitolo ha una sua identità, il primo è dedicato all’amore, il secondo al rapporto con i sorcini, il terzo alle sonorità degli amici inglesi Phil Palmer e Alan Clark che hanno firmato una buona parte della produzione e degli arrangiamenti dell’album.

I temi. La fede, l’amore, la natura, gli ultimi della terra, la pandemia sono i temi che attraversano il terzo capitolo di questo progetto. «Con la pandemia è scattato un allarme: tutti siamo chiamati a prendere posizioni e modificare abitudini e vita. Un esercizio che interessa anche l’arte e lo spettacolo. Anche noi, due conti ce li siamo fatti: la paura di esibirsi o addirittura di fare un disco perché non incasserà. Qualcosa di positivo però c’è: ci siamo guardati dentro e abbiamo pensato anche a chi lavora con noi. Da questo album scaturirà un utile per aiutare quelli che hanno lavorato con me, dai tecnici ai fonici a tutta la grande famiglia che ha contribuito al mio viaggio dal vivo. Il Covid è figlio del consumismo, della spesa gigantesca e spesso inutile. La speranza io la esercito come gli altri uomini perché penso che stare insieme in un momento come questo ci renderà migliori e magari avremo un altro Mozart, un Beethoven o un Pasolini. Il problema è che oggi non c’è più un esempio in questo Paese. C’è solo un continuo processarci: mi piacerebbe vedere in qualcuno la luce, la possibilità che sia un Caronte che ci trasbordi in un luogo dove la plastica non c’è, dove l’insegnamento è fondamentale nella vita umana».

Achille Lauro. Renato Zero non risparmia critiche alla discografia («Lascerò la scena molto prima di quanto si aspettano questi signori. Ma a loro voglio dire che gli artisti vanno accarezzati, difesi e rispettati») e alle radio: «Nel nome del target, non passano le mie canzoni. De André, Guccini, Lauzi, Battiato sono stati abbandonati dalle radio che non danno la possibilità di ascoltare chi in questo Paese ha cantato alto. La monnezza la lasciassero agli inglese e agli americani che a casa loro mettono musica buona, a noi ci mandano lo spezzatino». A chi vede delle somiglianze fra lui e Achille Lauro risponde: «Quando ho iniziato io dovevano sgomberare le piste dei locali, non c’erano palcoscenici. Sfollavano la pista da ballo e io cantavo con solo un revox, nella mia nudità coperta di piume. Non giocavo a fare il clown della situazione, io cantavo le problematiche della periferia, della borgata della gente emarginata. Oggi Achille Lauro con poca spesa riesce ad affermare le proprie ragioni. Io mi sono dovuto fare un mazzo così. L’importante è non prendere in giro la gente. Questo abbraccio costante che riesco a ottenere dal marciapiede forse è superiore anche all’applauso dei palasport».

In tv. Canale 5 dedicherà il 29 settembre una prima serata evento con il concerto «Zero Il Folle»: le immagini dei due concerti sold out al Forum di Assago di Milano l’11 e il 12 gennaio del 2020 poco prima «della chiusura del mondo». Ma alla televisione fatta con i talent Zero non risparmia le critiche. «Sono operazioni incomprensibili. Era quello che volevamo fare con Fonopoli, ma era un’operazione troppo intelligente... non ce l’hanno fatta fare perché guai se gli italiani diventano troppo colti!»

"Tre dischi per i 70 anni. Ma le radio mi trascurano come con De André". L'artista attacca anche le case discografiche. Show su Canale 5 nella prima serata del 29. Paolo Giordano, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Insomma, questa non l'aveva prevista. Fra tutte le trasformazioni della sua carriera, Renato Zero mai si sarebbe aspettato che un giorno avrebbe presentato i suoi dischi attraverso un incontro su Zoom e non con una conferenza stampa fisica, affollata e scatenata. È l'effetto del Covid (che per lui è «colpa del consumismo») e di questo imprevedibile letargo che la pandemia ha imposto alla musica. Però lui, che sta per compiere 70 anni ma è molto più giovane di tanti trentenni, ha reagito registrando quaranta canzoni per Zerosettanta, tre dischi che usciranno il 30 di settembre, di ottobre e di novembre. Essendo sempre controcorrente, il primo disco a uscire sarà il terzo, quasi a evocare un conto alla rovescia.

Ma perché, Renato Zero?

«Perché 3, 2, 1... è il segnale degli Zerofolli prima che io salga in scena. L'ho rispettato anche nell'uscita dei dischi».

Ben tre.

«Beh la mia loquacità non è mai stata un mistero».

Però oggi la tendenza è di pubblicare un singolo ogni tanto, non tre dischi alla volta.

«La tendenza è questa ma io dico ai giovani: non bruciatevi. Occhio che se si sfrutta male la prima occasione, poi ci vorrà molto tempo prima di averne un'altra».

Anche lei pare abbia fretta.

«Forse è la conseguenza del vedere che mi si sta restringendo l'orizzonte. Questi dischi sono comunque stati una trincea, ci abbiamo lavorato con impegno. La musica va suonata, deve essere un tutt'uno con i testi».

Oggi molti preferiscono campionarla o prendere dal web.

«La musica va condivisa tra musicisti in studio, non con un computer».

È il segno dei tempi. Anche le radio spesso lo seguono.

«Credo che dovrebbero essere gli ascoltatori a decidere se Renato Zero ha fatto una cazzata o un bel lavoro. E invece questo accesso a me, come ad altri, è negato in nome del target. È accaduto anche a De André, Lauzi, Battiato... In realtà credo che chi fa un lavoro complicato come la trilogia di Zerosettanta non dico che debba essere trasmesso di diritto, ma ha comunque il diritto di essere preso in considerazione. Se poi non piace agli ascoltatori delle radio, si può sempre togliere dalla programmazione».

Parla con una grinta da esordiente.

«Diciamo che questo disco non rappresenta la mia giovinezza, ma sicuramente una rinascita. Dietro ogni dolore che ho rappresentato in ciascuna canzone, c'è una speranza».

Forse oggi cantare i dolori e la protesta è meno comune che negli anni Settanta quando ha esordito.

«Beh sì, io non andavo neanche ai Festival dell'Unità o dell'Amicizia per tutelare la mia libertà di artista».

Era un artista con lustrini e paillettes.

«Le paillettes mi hanno dato l'opportunità di far accettare certe mie posizioni non proprio leggere. Sono state il mezzo di locomozione per le mie idee».

Ci sono concerti all'orizzonte?

«Direi di no».

Ci sono sempre i concerti in streaming.

«Sono come il sesso senza preliminari, io ho bisogno dei miei preparativi in camerino, della gente, degli sguardi, del calore».

Tra paillettes e provocazioni, oggi Achille Lauro ricorda talvolta il Renato Zero degli esordi.

«La differenza è che lui con poca spesa può affermare le proprie ragioni. Io mi sono fatto un mazzo così, a quei tempi».

Il 29 settembre Canale 5 trasmetterà Zero il Folle in prima serata.

«Credo sarà un concerto che farà riflettere. Lascerò definitivamente le mie paillettes. Ho chiamato anche alcuni amici come Anna Foglietta, Monica Guerritore, Giancarlo Giannini, Alessandro Haber, Serena Autieri e Vittorio Grigolo per dare loro una sorta di copione e raccontare con la loro voce alcuni dei miei pensieri. È una sorte di jam session, un incrocio tra forme artistiche. Negli Stati Uniti ci sono da sempre e sono sempre stimolanti».

A 70 anni di solito si fa anche un bilancio.

«Ho fatto tre dischi di sincerità assoluta da parte mia. E sono rimasto single, così a Natale canto single bells...».

(E ride con quella risata che lo riconosci subito - ndr)

Gianluca Roselli per il Foglio il 5 marzo 2020. Renato Zero passeggia per le strade del centro di una Roma sospesa, che fa i conti con il coronavirus. "Quello che mi fa paura non è il virus in sé", dice il cantautore. "Quello che mi spaventa è vedere le persone chiudersi in casa, isolarsi, essere diffidenti verso gli altri. Stare da soli, come tante isole, questo sì, per come sono fatto io lo trovo drammatico. E infatti io non prendo nessuna precauzione, non potrei. Non ce la faccio". Roma. "Mentre tutti si chiudono in casa, io ho deciso di venire a fare una passeggiata, un po' di shopping, avevo giusto bisogno de 'na camicetta". Nel centro di Roma sotto l' effetto del coronavirus fare due passi con Renato Zero restituisce serenità e gioia di vivere. Camminare in città con lui è un' esperienza: ogni due metri qualcuno lo ferma, lo saluta, vuole un selfie e pure fare due chiacchiere. E lui si concede. Si diverte. Abbraccia e parla con tutti. "Ecco, vedi, come sono, i romani. Come fai a chiuderli in casa? Impossibile. La quarantena sociale cui ci vorrebbe obbligare il virus va contro la nostra indole. Roma è una città aperta, chiacchierona. A Roma farsi i fatti degli altri è quasi obbligatorio. Non ci puoi togliere il diritto di passeggiare, stare in piazza, andare al ristorante", dice il celebre cantante. Anche se nella Capitale la situazione non è spettrale come a Milano, fa un certo effetto girare per le strade del centro senza la solita ressa caciarona. Nei negozi, sulla scalinata di piazza di Spagna, a via del Corso, in via Condotti, intorno all' ora di pranzo, presenze rarefatte, tutto molto tranquillo, silenzioso, manco fossimo a Stoccolma. "Gli incassi sono calati parecchio, la gente prende meno la metropolitana", racconta una ragazza che vende pizza al trancio a Vicolo del Bottino, la strada che porta alla metro Spagna. Proprio qui, ironia del destino, dove gli affari si stavano risollevando dopo i lunghi mesi di chiusura della stazione, quando si erano azzerati. Persone con la mascherina, però, a parte qualche orientale, non se ne vedono. Non si sa se per scetticismo o perché sono introvabili. E' un centro meno ciarliero, più educato, ma non paralizzato dalla paura, perché poi a Roma tutto scorre, e la sua gloria millenaria, che ha visto passare imperatori e papi, re e barbari, la fa essere più cinica verso le fallacità quotidiane. Più distaccata verso le calamità. Ironica davanti alle sfighe quotidiane. Renato Fiacchini, in arte Renato Zero, è nato in queste strade, a Via di Ripetta. Negli anni Cinquanta questi vicoli sono stati il suo primo campo di gioco, da bambino, prima di trasferirsi con la famiglia alla Montagnola, in borgata, all' Eur, quando il palazzo dove viveva con la famiglia (papà Domenico, mamma Ada e tre sorelle, suo zio invece è Mario Tronti, intellettuale comunista) fu acquistato dall' Ospedale San Giacomo. "Per questo virus c' è un unico antidoto ed è l' amore: solo l' amore ci salverà, con i suoi anticorpi. Altro che vietare gli abbracci, dobbiamo stringerci ancora di più, essere solidali gli uni con gli altri. Io non prendo nessuna precauzione, dormo con le finestre aperte, faccio entrare amore e ottimismo", osserva Renato. Certo, quello che sta accadendo ci deve far riflettere. "Questa è una prova cui ci sta sottoponendo la natura, perché l' abbiamo massacrata un po' troppo. La natura ci ha mandato un segnale, dobbiamo rispettarla di più". Poi torna a riflettere sulla sua città. "Quello che mi fa paura non è il virus, ma vedere le persone chiudersi in casa, isolarsi, essere diffidenti verso gli altri. Stare da soli, come tante isole, rifiutare lo scambio con i propri simili, questo sì, sarebbe drammatico". La città, nel frattempo, un po' si ferma. Serrande abbassate, per due mesi, da Sonia, il ristorante cinese più frequentato. Annullata la mezza maratona Roma-Ostia, in programma questa domenica. Rimandate fiere, congressi, concerti. Agli hotel e su Airbnb arrivano le disdette dei turisti. Poi però, la sera, i ristoranti sono quasi pieni. Le persone vogliono ancora incontrarsi. "Ma vedi che la mascherina non la porta nessuno? I romani non sono così. Roma può essere cinica, ma non è diffidente. E' una città curiosa, di sé stessa e degli altri. Capisco la paura, ma la vita cui vorrebbero costringerci è l' antitesi della romanità", continua Zero. La passeggiata è finita. Renato, con le sue buste, sale in auto e se ne va, non prima di essersi fermato a salutare un altro paio di persone. "Me raccomanno eh, fai il bravo eh Ciao bello". "Eccome no? Se vedemo Ciao". Da piazza del Popolo, a passo di gazzella, avanza una ragazza orientale, bellissima, forse una modella. Ha una mascherina iper tecnologica, blu e verde. Il top di gamma delle mascherine. Ma dove l' avrà comprata? Passa oltre con sguardo perso nel vuoto e l' aria spaventata. Ecco, lei sì, con questa città c' entra assai poco.

·        Renzo Arbore.

Walter Veltroni per corriere.it il 18 luglio 2020. Cinquant’anni fa, proprio in luglio, prendeva le mosse la più folle, geniale, rivoluzionaria trasmissione radiofonica che mai sia andata in onda. «Alto gradimento» fu l’irruzione dei Fratelli Marx un convegno di giuristi, fu Totò in Vaticano, i Monty Python a una riunione della Corte Costituzionale. Renzo Arbore aveva già rivoluzionato il linguaggio della radio con «Per voi giovani», trasmissione che racconta e spiega il Sessantotto meglio di tanti saggi. E Gianni Boncompagni, genio libero e iconoclasta, aveva interpretato il mutare dei costumi della società, l’unico al quale desse importanza, con «Bandiera Gialla». Ma un bel giorno di luglio, insieme, chiusero la porta di uno studio di Via Asiago, attesero che si accendesse la luce rossa con scritto «On Air» e iniziarono a macinare follia. Bisogna pensare alla Rai di quegli anni. E i giornali non erano meno paludati. Nella case degli italiani entrò qualcosa che stava a cavallo tra il Dada e la goliardia. Comicità surreale, fatta di personaggi astrusi e meravigliosi. Che sembravano pure caricature senza tempo e invece erano, forse senza volerlo, miniature di un passaggio d’epoca. Il professor Aristogitone che si lamentava che gli studenti «gli facevano la faccia brutta» , lo studente Verzo che si appellava sempre a un collettivo politico che «dovrebbi da portà er rinnovamento daa scuola» e in cui «amo deliberato che..». L’ex fascista Catenacci conviveva con il generale Buttiglione e con un pastore abruzzese che reclamava indietro delle pecore prestate alla Raim per un presepe vivente . Poi Vinicio, la Sgarrambona, Max Vinella, Patroclo, Pasquale Zambuto e Scarpantibus. E tanti altri. Alcuni politicamente scorrettissimi come Bozambo o la dottoressa Ada Venzolato in De Martiris militante del gruppo femminista radicale «Caina e Abela», o la signora Isotta, dalle grandi dimensioni. Con i tempi che viviamo, stretti tra la volgarità degli odiatori e i recinti stretti del politicamente corretto, oggi Arbore, Boncompagni, Marenco e Bracardi finirebbero all’indice, se non a Guantanamo. «Alto Gradimento» era un vento leggero e intelligente, uno specchio in cui rivedere le follie estreme di un tempo di passaggio. Giocando, gli autori, ci stavano dicendo di non prenderci sul serio. Di guardarci dai linguaggi astrusi e ideologici, dalle frasi fatte, dalla nostalgia del passato, dalla pura e inebriante distruzione del presente.

Il programma. Era una ventata laica che, nella forma del gioco, instillava dubbi, nella forma di caramelle di divertimento. Arbore, che meriterebbe in Rai un cavallo vicino a quello di Messina, avrebbe poi continuato, coerente, sulla stessa linea con «L’Altra domenica», «Quelli della notte» , «Indietro tutta» e con il geniale «Aspettando Sanremo». Cosa erano se non un gioco di specchi il personaggio di Ferrini, romagnolo e comunista da sempre che immaginava muri da costruire e non da abbattere , la linguistica surreale di Frassica o il modo geniale in cui D’Agostino giocava con l’alto e il basso della cultura di massa mentre Riccardo Pazzaglia introduceva un tocco di follia nel personaggio di un erudito meridionale? O Mirabella e Banfi che si combattevano in tenzoni da legulei sulle canzoni di Sanremo o Troisi scambiato per Rossano Brazzi? Pietre miliari di una televisione libera e intelligente, genere in via di estinzione. Tutto iniziò con «Alto Gradimento». La cosa più bella del modo di lavorare di Arbore è sempre stato la capacità di scovare talenti e poi di costruire una squadra allegra e imprevedibile. E si sbaglierebbe a sottovalutare l’impatto, persino linguistico, che quel modo di divertire e raccontare ha avuto sugli italiani. La squadra di Arbore è stata nei media ciò che il Gruppo ‘63 è stato in letteratura o ciò che i registi della commedia all’italiana hanno rappresentato per il cinema. Ma un ricordo particolare, parlando di «Alto Gradimento», lo merita quel genio di Mario Marenco. Voglio rendergli omaggio con un racconto che mi fece Renzo Arbore. Marenco, architetto serissimo e uomo stralunato, arrivava in studio e spesso doveva fronteggiare le improvvisazioni goliardiche dei due conduttori. Una volta Arbore e Boncompagni lo convinsero, chissà perché, che in trasmissione avrebbe dovuto interpretare la parte del massimo esperto mondiale di funghi. Iniziata la trasmissione e presentato agli ascoltatori «il più prestigioso micologo dell’universo» domandarono a Mario di fare in diretta una classificazione dei vari tipi di funghi esistenti sul pianeta. Seguì un istante di silenzio. Poi Marenco disse, tranquillo: «La prima distinzione che occorre fare è tra funghi e non funghi. Alla seconda categoria appartengono: il televisore, il tavolo, il ferro da stiro, le automobili...». Un genio. Cinquant’anni orsono un piccolo programma della radio cambiò il modo di intrattenere. Il suo pubblico ideale, i giovani di quel tempo, quando la trasmissione andava in onda spesso erano ancora a scuola. Si tornava di corsa a casa per ascoltare almeno il finale. Ma si fece in tempo a diventar grandi perché «Alto gradimento» andò in onda per quasi un decennio. Negli archivi Rai, tuttavia, c’è molto poco. Eppure ancora oggi quei personaggi folli, quei tipi surreali, i loro motti si aggirano in noi, tra noi. Come accade alle cose importanti. Che, spesso, non sanno e non vogliono essere importanti. E nascono per gioco. E restano nel tempo.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 10 giugno 2020. Renzo Arbore ha aperto casa sua (lo aveva già fatto ai gloriosi tempi della critica cinematografica di Roberto Benigni) per iniziare a sfogliare l'album personale dei ricordi. Striminzitic Show è il nome del suo nuovo programma, la cui prima puntata è andata in onda lunedì su Rai2 (le successive 20 saranno proposte in seconda serata). Il neologismo italo-inglese maccheronico riguarda la realizzazione (due telecamere e un tinello di ninnoli di plastica «rigorosamente inutili»), non certo la massa enorme dei tagli e ritagli, dalle esibizioni musicali allo sketch con Carlo Verdone, dal numero di Riccardo Pazzaglia a Enzo Iannacci che canta «O mia bela Madunina» davanti al Duomo di Milano. Il ritmo con cui Arbore e Gegè Telesforo presentavano il repertorio era molto flemmatico, quasi bradipesco, «oliografico» (come aveva preannunciato Marisa Laurito in sede di presentazione), tanto da far pensare a una sorta di neo-poetica del fanciullino: la parte giovinetta di Arbore ha ancora la capacità adamica di dare un nome a tutto quello che lo circonda, di creare un linguaggio e con esso un mondo innocente immagazzinato senza tregua nel corso degli anni. Dai primordi, infatti, ha fatto tv sapendo che essa è anche radio, cinema, teatro, stampa. I suoi programmi sono vissuti di frattaglie che ruotano intorno alla sua presenza calamitante: giochi, servizi, parodie, personaggi non si assommano per annullarsi, ma si scontrano per accendersi. Il modello delle sue trasmissioni è sempre stato la jam-session, dove preparazione e improvvisazione si intrecciano e si sublimano. L'essenza surreale della tv, serpeggiata per anni in tante opere e personaggi, è stata infine pienamente rivelata da Arbore con un compiacimento quasi goliardico. È possibile dire ancora qualcosa di nuovo su Arbore? È un professionista che finge di fare il dilettante, in un mondo di dilettanti che fingono di fare i professionisti.

Maurizio Costanzo per Libero Quotidiano il 13 giugno 2020. Mi ha fatto piacere rivedere, sui teleschermi, Renzo Arbore che, su Raidue, ha inventato e condotto Striminzitic show. Il programma è partito lunedì, in prima serata, ma da adesso andrà in seconda serata, quotidianamente. Arbore, con tutto quello che conosciamo di Arbore, con l' Orchestra Italiana, con un duetto con Renato Carosone e via, raccontando quanto negli anni ci ha divertito a L' altra Domenica, Indietro tutta e Quelli della notte. Arbore uguale a sempre: le musiche sono piacevoli e Gegè Telesforo, che lo accompagna, è simpatico. Che possiamo dire? Era meglio la tv di ieri rispetto a quella di oggi? Forse sì, forse no. Eravamo più giovani noi, allora? Forse sì. Comunque, Renzo: ben tornato. Parlando di padri della tv, colgo l' occasione per fare gli auguri a Pippo Baudo per i suoi 84 anni. A proposito di "momenti" importanti, mi auguro non abbiate perso, domenica 7 giugno su Rai Movie, alle 21.30, il famoso Matrimonio all' italiana, con Sofia Loren e Marcello Mastroianni. Dicevamo prima: «Peccato che non si facciano più i programmi televisivi come quelli di Renzo Arbore». Aggiungo: «Peccato che non ci siano più i film interpretati da Sofia Loren e Marcello Mastroianni». Peccato, certo, ma alla stagione che ci è dato di vivere bisogna rassegnarsi. Voglio dire ancora una volta che la giornalista Veronica Gentili, che conduce tutti i giorni alle 20.30 Stasera Italia su Retequattro, è decisamente brava. Sa fare le domande giuste, sa gestire gli ospiti e si stupisce realmente, non con la finzione tipica di alcune sue colleghe.

Renzo Arbore si racconta: «Ho vinto la timidezza grazie al jazz, mi ha insegnato a improvvisare nella vita». Marco Castoro l'11 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Sintesi del Renzo Arbore pensiero: «Far conoscere ai millennials quello che è stato fatto da noi che siamo di un altro millennium. Perché per andare avanti bisogna partire dalle basi, quelle giuste, quelle vere. Così come per capire il rock e il rap devi sempre partire dal blues, la formula magica che alimenta tutta la musica, anche quella di oggi. Senza dimenticare che per vivere è necessario partire dall’umorismo».

Il popolare showman è pronto al grande ritorno in tv su Rai2, «nella speranza – si augura l’artista – di poter regalare 21 serate di leggerezza e distrazione in un momento così particolare per il nostro Paese». Il programma ha un titolo alla Arbore, Striminzitic Show. Ugo Porcelli, Giovanna Ciorciolini, Gegè Telesforo (cerimoniere) e Gianluca Nannini (in regia) compongono la squadra. «Si tratta di un’antologia di malefatte di tutte le età per lo “scelto pubblico”», sottolinea Arbore alla sua maniera.

Come naviga Renzo Arbore nell’era di influencer, streaming e youtuber?

«La rete va esplorata continuamente perché è una fonte inesauribile di idee. Anche per la musica è una miniera straordinaria. Ci sono talenti anomali che meritano di essere portati in superficie e io lo faccio molto volentieri con la mia web tv, ”Renzo Arbore channel.tv” che vanta oltre 100mila views al giorno. Nel palinsesto si dà ampio spazio a comicità e sorriso. Un esempio? Il format 50 Sorrisi da Napoli, con protagonisti super, da Totò a Troisi, da Murolo a Carosone».

Il nuovo programma dopo la prima di stasera va tutto in seconda serata.

«Ne sono felice. In pratica potrei definirmi il padre della seconda serata, visto che l’abbiamo inventata noi con Quelli della Notte prima e Indietro Tutta poi. La seconda serata mi piace perché si può usare di più. Manderemo in onda tutte le malefatte compiute da Arbore e i suoi fan. Da Gassmann a Elio e le Storie Tese».

Elio può considerarsi un suo figlioccio?

«Sicuramente. È un amico. Così come sono miei figliocci Fiorello, Lillo e Greg, tutti coloro che improvvisano, che sono spiritosi, che fanno come dico io, un umorismo fuori ordinanza».

Torna su Rai2, la sua rete preferita.

«Già. l’ho lanciata io con L’Altra Domenica nel marzo del ’76, quando non c’era ancora Domenica In, che fu inventata dopo per farci concorrenza».

Che tipo di ventenne è stato Renzo Arbore?

«Un ragazzo di provincia molto timido. Che accusava il fatto di parlare in pubblico come uno shock. Pensate che ansia quando l’ho dovuto fare alla radio e alla tv! Ricordo che ho bevuto due bicchierini di cognac una volta e uno di whisky in un’altra occasione, prima di andare in onda. Perché alla radio e in tv si parlava un italiano perfetto, io invece avevo un accento mezzo napoletano e mezzo pugliese».

Beh, direi che è andata alla grande…

«Io venivo dal jazz e per questo motivo che ce l’ho fatta. Perché il jazz ti insegna a improvvisare. E ho capito che la stessa cosa si può fare anche con le parole. Il jazz ti aiuta sempre, pure a capire il pop. Io sono diventato il primo dj della storia. Un dj radiofonico che ha lanciato i cantanti beat, in primis Lucio Battisti, Fausto Leali, i Camaleonti, gli Equipe 84, il rhythm & blues, la musica nera. Il dj bravo sente l’odore del successo quando ascolta un brano e lo lancia. A fiuto vi dico che è molto adatta ai giovani anche la sigla di questo programma Por Dos Besos, per il suo ritmo cubano».

Oggi però ci sono le playlist?

«Già. Mi dispiace per i dj. Oggi le radio passano sempre la stessa musica, quella suggerita dalle case discografiche».

Quali sono i giovani che le piace ascoltare oggi?

«Tutti quelli che fanno delle cose anomale. Tipo Calcutta. Apprezzo Achille Lauro per la sua grande personalità. Il giovane Gassman è un talento. Sono più vicini al mio genere Simona Molinari e J-Ax. Ultimo? È il nuovo Vasco perché riempie gli stadi».

Con Boncompagni non avevate neanche una scaletta…

«Non è vero, l’avevamo. Ma non la guardavamo mai».

Come vede le nuove generazioni, i ventenni di oggi?

«Non sono più ragazzi sdraiati come quelli di qualche anno fa. Stanno trovando una loro personalità. Cercano cose nuove, sono rispettosi del passato. Hanno capito che per andare avanti occorrono delle fondamenta ben salde, profonde come quelle dei grattacieli».

Quale consiglio darebbe ai millennials?

«Crederci sempre con determinazione è il primo. Mi piacerebbe che in loro ci fosse anche una nuova generazione di umoristi. Perché manca il sorriso dei ragazzi in questo mondo. Ormai ci accontentiamo di quello che passa il convento e di quello che si vede in tv».

Maurizio Caverzan per “la Verità” l'11 giugno 2020. Sincronizzato sulla ripresa di una vita quasi normale, è arrivato Striminzitic show, il nuovo programma di Renzo Arbore, il cui titolo allude alla realizzazione casalinga e in totale economia di mezzi, che ci terrà compagnia fino all'inizio di luglio (Rai 2, lunedì in prima serata e da martedì in seconda). L'obiettivo è provare a riportare un po' di buonumore dopo i 100 giorni di reclusione, sebbene anche lo show debba sottostare al distanziamento, all'assenza di pubblico e di ospiti, e sia dunque più adatto alla seconda serata, del resto territorio prediletto di Arbore. L'unica spalla è Gegè Telesforo, che fa da contrappunto al maestro e ordina la scaletta del repertorio davvero formidabile. Quando i pezzi pescati dalla miniera arboriana sono del livello artistico visto nelle prime due serate, val la pena anche correre il rischio dell'autocelebrazione, sempre in agguato quando si tratta di programmi con le teche dei mostri sacri. Dal duetto di scat jazz tra lo stesso Telesforo e Lucio Dalla a Vittorio Gassman che prova Maruzzella, dall'intervista a Carlo Verdone nei panni di don Severino fino alla commovente O mia bela Madunina di Enzo Jannacci in piazza Duomo, dal grammelot meridionale di Gigi Proietti alla comicità surreale di Maurizio Ferrini, la qualità e la freschezza dei tagli ritagli e frattaglie vince su ogni possibile obiezione. Compresa quella del rischio nostalgia, nascosto anch' esso dietro l'angolo, ma del quale il conduttore e autore (con Ugo Porcelli, Telesforo e Giovanna Ciorciolini) è ben avveduto, tanto da ribadire che Striminzitic «non è il nuovo Quelli della notte», del quale dosa sapientemente i ripescaggi. Rimangono invece gli intermezzi, i tormentoni, i disturbi esterni, classici arboriani qui rappresentati dagli inconvenienti della vita condominiale, le citofonate inopportune e le invadenze dei vicini di casa. E rimangono anche gli inserti e gli incerti della politica, pure questi must della casa, con i doppiaggi incomprensibili montati sul labiale del premier Giuseppe Conte o del governatore Vincenzo De Luca. Anche la formula è quella, supercollaudata, di sempre: il jazz come linguaggio, la contaminazione come modalità espressiva, fatta da uno spartito base, infarcito di improvvisazioni, digressioni, innesti, assoli e pezzi standard dove tutto, nell'apparente confusione simboleggiata anche dalla sterminata oggettistica kitsch, trova la sua perfetta collocazione. Musica, comicità, cinema, teatro, televisione, soprattutto leggerezza, in un patchwork scientifico il cui premio finale è il buonumore di cui si diceva all'inizio.

Antonio Lodetti per il Giornale l'8 giugno 2020. «Con i miei 83 anni sono, insieme a Pippo Baudo, il più vecchio conduttore Rai, solo che io non l'ho mai tradita e quindi mi sento un po' il nonno della tv generalista». Scherza sempre Renzo Arbore e non perde la voglia di provocare (simpaticamente e garbatamente, come è suo uso) e di lanciare nuove sfide. Debutterà infatti oggi, su Raidue, il suo nuovo programma dallo strano titolo Striminzitic Show, che partirà con una puntata speciale in prima serata per poi trasferirsi, per venti puntate, nella seconda serata di Raidue.

Come mai questo titolo così strano?

«Perché è un programma che si volge in casa mia, in uno spazio piccolo, con due cameraman, il regista Luca Nannini e il mio sodale Gegè Telesforo. Dovremo stare a debita distanza e con la mascherina, quindi mi è parso il titolo più adatto. Anche se sono importanti i sottotitoli».

Cioè?

«Il primo è Renzo Arbore and Friends, il secondo Non è quelli della notte, visto che tutti si aspettano sempre la rinascita di quel fortunato format».

In cosa consiste la trasmissione?

«Sarà una rassegna di cose curiose, divertenti e toccanti di tutto ciò che si trova nei miei sterminati archivi. Vedremo spezzoni dei miei programmi, ma soprattutto cose poco note o dimenticate e poi tante cose che ho trovato in rete. Io nonostante l'età, sono un patito di Internet, navigo tutto il giorno, non capisco perché ci sia questa retorica di parlar male della tecnologia. Quindi vedremo anche personaggi che ho scoperto in rete come una band di ingegneri napoletani bravissimi nel reinterpretare la tradizione o un doppiatore formidabile che fa tutti i personaggi. Insomma personaggi originali, gente comune accanto a coloro che mi hanno sempre affiancato e ai nostri cavalli di battaglia».

Quindi un programma tra presente e passato?

«Sì, tra novità e antichità. Ho un archivio sterminato e mi piace portarlo davanti alle telecamere. Ho recuperato Maurizio Ferrini, che faceva molto ridere ma è stato presto dimenticato, e anche tanto materiale inedito dell'Orchestra Italiana. L'ho fondata nel 1991 e teneva almeno 50 concerti l'anno, così ho 1500 spettacoli di jazz e canzoni napoletane tenuti in giro per il mondo, dal Giappone alla Russia. Ecco Striminzitic Show è tutto questo. Le dò una anticipazione. Nella prima puntata farò vedere un raro filmato in cui Enzo Jannacci canta O mia bela Madunina in Piazza Duomo. Sembra strano, ma io che sono un terrone ho sempre amato la Milano di Enzo così come l'ha amata un piemontese doc come Paolo Conte».

Come ha vissuto la quarantena?

«Con preoccupazione ma per fortuna ho lavorato tanto. Sulla mia tv Arbore Channel Tv via web ho lanciato il programma 50 sorrisi da Napoli con sketch di Carosone, Totò, i De Filippo, Troisi e tanti altri, che raggiungevano milioni di visualizzazioni. La parodia di Quelli della notte è arrivata persino a un milione. Per me un grande successo».

Come vede il futuro?

«Ho inventato tanti format per la Rai e spero che questo non sia l'ultimo. Bisogna sempre coltivare le proprie passioni. Il lavoro è l'unico modo di superare il dolore di quando perdi amici fedelissimi e io ne ho persi tanti, da Mariangela Melato a De Crescenzo, da Pazzaglia a Roberto Gervaso, che mi onorava dell'amicizia e con cui parlavo a lungo».

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 30 maggio 2020. Insiste sul concetto dell' allegria «perché nei periodi difficili è importante ritrovarla, aiuta a vivere e a guardare al futuro». Renzo Arbore, 82 anni, luminare di goliardia, fan del nonsense, dice che la cosa più importante è regalare sorrisi. Torna in tv con un varietà dal titolo che è tutto un programma, Striminzitic show , dall' 8 giugno su Rai 2; debutto in prima serata (due ore), quindi venti appuntamenti quotidiani notturni di un' ora. Complici: il regista Luca Nannini, il suo autore storico, Ugo Porcelli e l'amico Gegè Telesforo, che lo accompagna nel viaggio tra i successi della carriera (celebrata nel libro La rivoluzione gentile di Vassily Sortino, appena uscito).

Arbore, di striminzito in questo show però c' è poco.

«Stando a casa mia con due cameramen, senza studio, per me è un programma "domestic" e "striminzitic". È davvero una scommessa. Solo l' idea di aver fatto tutte le riunioni su Zoom, lavorando a distanza, è un esperimento: giovedì ci siamo incontrati tutti insieme per la prima volta».

Che significa per lei tornare in tv?

«Tornare al mio lavoro in Rai, che considero la mia milizia. Stiamo attingendo da ben diciotto format, da Speciale per voi fino a Non è la Bbc . Nella mia vita ho fatto malefatte di ogni tipo: sono andato a Sanremo, ho fatto due film, gli show, i concerti; guardando indietro non posso lamentarmi. Gli altri sono ottimi amministratori, io mi considero un creativo».

Come ha organizzato le puntate di "Striminzitic"? Per temi, personaggi, anni?

«No no. Il mio è un "Arbore & friends", un pot-pourri di follie con colleghi amici. Frassica fa così ridere, e gli sono grato per questo. Sono momenti selezionati anche dal Renzo Arbore Channel, il mio canale che è pieno di curiosità. Ma non è Storia di un italiano, sono frammenti di tv da rivedere».

Con che spirito nasce?

«Super positivo: la gente ha bisogno di sorridere. Sui social, chi vede il Renzo Arbore Channel mi scrive: "Grazie per il sorriso". Distrarsi un po' nel momento in cui siamo preoccupati è fondamentale; il mio compito è intrattenere il pubblico. Amo la tv, sono il primo divoratore di programmi».

Anche quelli di politica?

«Non partecipo all' agone ma sono un avido telespettatore di talk show, basandomi sempre sul principio del "pasqualismo" di Totò: "Vediamo dove vogliono arrivare". Conosce la gag, no? Totò incontra un tizio che lo riempie di schiaffi, gli grida: "Pasquale tieni questo, figlio di un cane, beccati 'sto cazzotto". Lui invece di difendersi, ride. A Mario Castellani che chiede: "Perché non hai reagito?", risponde: "Che importa, mica sono Pasquale, chissà 'sto stupido dove vuole arrivare"».

Criticano tutti la tv, lei no.

«Abbiamo avuto la televisione più bella del mondo, quella di Bernabei e di Agnes, la Rai di Cattaneo e anche quella della Moratti che guardava con attenzione all' intrattenimento. Gli americani e gli inglesi se la sognano una tv come la nostra».

Coltiva la nostalgia?

«No, penso che dobbiamo inventare un linguaggio nuovo per l' intrattenimento. In questi mesi la tv ci ha tenuto compagnia, sono aumentati gli ascolti e qualche riflessione va fatta. Il bordello di prima, ovvero i costumi diventati troppo vivaci - per dirla elegantemente - deve finire; adesso bisogna ragionare, capire che non si vive di solo gossip, risse verbali e cattiverie».

I mesi di lockdown cosa ci hanno insegnato?

«Che conta la competenza, ringrazio chi si è messo al servizio del paese. Ma la guerra no, non è paragonabile all' emergenza coronavirus. Io venivo da una famiglia benestante e durante la guerra non mangiavamo, vivevamo nel terrore dei bombardamenti, al buio... La fame e quella paura non te le scordi per il resto della vita. Io - lo dico col massimo rispetto nei confronti di chi ha perso i propri cari - resto un positive thinker. Vedo il bicchiere mezzo pieno: abbiamo ancora l' ansia addosso, ma ci riprenderemo».

Pensa anche che siamo diventati più buoni?

«Non lo so. Ma forse riusciremo a recuperare l' educazione, che non è una parola antica legata all' uso delle posate da pesce; è il gesto di togliersi il cappello per salutare anche se non ci si conosce, come succede a Napoli».

È fiducioso sul futuro dello spettacolo dal vivo?

«Dovevo fare i concerti con l' Orchestra italiana, ne abbiamo fatti 1500, dalla Cina all' Australia. Tutto fermo. Sono preoccupato per i miei musicisti e per tutti gli orchestrali: se non suonano non guadagnano. Sono stati dimenticati dal governo, Conte ha buttato un occhio, ha definito gli artisti "persone che ci fanno divertire". Sì, di sicuro fanno divertire ma sono lavoratori come gli altri, e hanno diritti pure loro».

Il personaggio del momento?

«Vincenzo De Luca, formidabile. Tempi comici perfetti, dopo aver chiamato "fratacchione" Fabio Fazio ha superato se stesso».

Chi è il suo erede?

«Fiorello. Perché improvvisa e perché porta l' allegria: lo sento il più vicino a me. Alla radio mi piacciono Lillo e Greg, e mi sento in sintonia con Elio (con e senza le Storie tese)».

Un rimpianto?

«Forse quello di non essermi fatto una famiglia mia. Ma ho i nipoti, i ragazzi dell' orchestra e gli amici, i miei "arborigeni". Con loro non mi sento mai solo».

Dagospia il 29 aprile 2020. ''Una battuta anche mediocre ma improvvisata vale di più di una battuta buona ma scritta e recitata. Questo lo avevo imparato alla radio. Dicevamo battute anche così così, ma funzionavano benissimo, perché la voce ha una vibrazione speciale, il divertimento di quando dici una stupidaggine appena inventata non ha paragoni. Come nelle riunioni tra amici, nelle serate divertenti dopo una pizza. Quindi noi un quarto d'ora prima della trasmissione, proprio per non recitare, ma improvvisare, dicevamo il tema a tutti, che in quel momento si eccitavano per il gran nervoso. Poi con Pazzaglia ci inventavamo un attimo prima un grande tema, tipo Proust, la Recherche, cosa che spaventava i nostri interlocutori. E invece ce ne uscivamo con una stronzata tipo ''Parigi è sempre Parigi''…

Piero Degli Antoni per quotidiano.net il 29 aprile 2020. Ci sono trasmissioni che hanno cambiato il corso della tv italiana. Una fu Portobello dalla quale, possiamo dirlo, è nata gran parte della tv di oggi. Un’altra, altrettanto clamorosa, fu Quelli della notte che esplose la sera del 29 aprile 1985 i cui frammenti incandescenti sono arrivati fino a noi. Quelli della notte sovvertì il consolidato panorama televisivo delineato fino ad allora perché si trattava del primo programma in gran parte improvvisato. Trasmissioni lusinghiere come Studio Uno o Un due tre avevano un piglio comico anche sfrontato ed elegante, ma tutto veniva puntigliosamente scritto prima di andare in onda. Quelli della notte no, Quelli della notte fu una jam session umoristica che stravolse ed entusiasmò il pubblico italiano. Renzo Arbore era miracolosamente riuscito a trasporre in tv il clima goliardico e spensierato già sperimentato con successo alla radio con Alto gradimento. La trasposizione non era per nulla scontata, ma Arbore ce la fece grazie alla sua maestria di talent scout. Riuscì a mettere insieme un gruppo di irresistibili sconosciuti la cui memoria vive ancora tra coloro che ebbero la fortuna di vederli all’opera. Il primo da citare è ovviamente Nino Frassica, che debuttò sotto i panni di fra’ Antonino da Scasazza, inarrivabile narratore di “nanetti” tanto bislacchi quanto spassosi, sapientemente costruiti tra calembour grotteschi («il conte penso di Cavour») e nonsense di sapore inglese. C’era Maurizio Ferrini, comunista romagnolo tutto d’un pezzo, rappresentante di pedalò e rivelatore di fantomatici silos, che discettava di onirici complotti, i cui interventi immancabilmente terminavano con una dimessa considerazione: "Non capisco ma mi adeguo" (anche questa entrata nel fraseggio popolare). Riccardo Pazzaglia avrebbe dovuto essere il centro ponderato e colto del salotto di casa Arbore, ma veniva coinvolto suo malgrado in discussioni futili e sventate. Del personaggio restano memorabili due locuzioni: «il brodo primordiale» dal quale sarebbe nata ogni cosa, e "separati in casa", inventata in quel contesto e diventata di uso comune. C’era Andy Luotto prima nei panni dell’arabo Harmand, panni poi dismessi a causa delle proteste (e delle minacce) mediorientali, poi di un improbabile italo-americano. C’era un Roberto D’Agostino agli esordi, nelle vesti di lookologo, che lanciò il il tormentone dell’Insostenibile leggerezza dell’essere e dell’edonismo reaganiano. Né si può dimenticare Massimo Catalano, vivace reincarnazione di Monsieur de Lapalisse, le cui definitive sentenze erano del tipo: "Meglio essere ricchi e in salute che poveri e malati". Questa era la banda di Arbore, il brodo primordiale da cui, poco dopo le undici di sera, nasceva ogni volta un miracoloso concerto di battute, lazzi, cazzeggi, parodie, che prendevano di mira tic e pregiudizi, trasmissioni sciocche e atteggiamenti banali. Trentacinque anni fa Quelli della notte spinse in là il confine dello spettacolo televisivo: la gente resisteva nelle ore tarde o, se era fuori, si precipitava a casa per assistere a uno show come non ce n’erano mai stati (e come, in seguito, si sarebbero rivisti con Indietro tutta!). Arbore costruiva ogni sera un piccolo gioiello di meccanica umoristica la cui follia congenita miracolosamente si traduceva in una perfetta orchestrazione, la sigla di apertura era Ma la notte no, quella di chiusura Il materasso. Durò solo trentatré puntate ma è come se non fosse mai terminata.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020. Renzo Arbore è in isolamento stretto nella sua casa romana dal 28 febbraio, dopo un concerto ad Assisi. Con lui c' è Maritess, la collaboratrice domestica. In queste settimane non si è mai annoiato, impegnato com' era e come è a creare contenuti per il suo canale web RenzoArboreChannel.tv, dedicato soprattutto ai non più giovanissimi. Ma adesso non vede l' ora di fare una jam session «dal vivo».

Come sta?

«Bene, e mi sento un po' colpevole, a vedere tutti gli ammalati di una certa età».

Come si è organizzato con la spesa?

«Va sempre Maritess, ogni dieci giorni. Ma il segreto è che io sono un collezionista anche di cibi, ho la passione per quelli in scatola, che compro quando vado all' estero. E ho quattro frigoriferi con congelatore».

Cosa contengono?

«Granchi, sogliole, salciccia, cose così... La mia generazione è quella che ha conosciuto la guerra. I miei genitori non buttavano via niente, me lo sono portato dietro...».

Cucina in casa?

«Sono specializzato in cucina da single e da supermercato. Le so dire qual è il miglior tonno, i piselli in scatola, i ceci, il ragù...».

Come ha trascorso queste settimane?

«Da collezionista di modernariato e dvd ho messo parecchio ordine tra le mie cianfrusaglie».

A che ora si sveglia?

«Il silenzio della strada mi fa svegliare tardi, alle 9-9.30.Ma sono un grande navigatore notturno del web».

Nel suo canale web suggerisce contenuti diversissimi: da Bruce Springsteen ai Rolling Stones, da Totò e Peppino a Eduardo.

«La mia ambizione ora, dopo essere stato il primo deejay con Boncompagni, è di fare il veejay. Nel mio channel suggerisco i Fondamentals: Aldo Fabrizi e il vagone letto di Totò. E i Reccomended by. Solo cose scelte da me».

Sta riuscendo a leggere?

«Sì, da poco ho letto Carofiglio e La misura del tempo , ora sto rileggendo il mio amico De Crescenzo. Frequentandolo tutti i giorni, ero piu distratto da lui che dai suoi libri. Lui mi diceva: "Guarda che ti interrogo, dimmi cosa c' è a pagina 52". E io li avevo letti, i libri, ma a volte frettolosamente, mentre adesso me li sto gustando. Lui è stato un grandissimo divulgatore, uno dei cantori di Napoli, la Napoli del sorriso, della cultura. Poi aveva fatto la filosofia, ma era troppo popolare per essere quotato tra i grandi intellettuali chic».

Sta facendo ginnastica?

«Sì, da solo. Mi ha lasciato gli esercizi il mio fisioterapista: salgo e scendo le scale, cose così ogni mattina».

Il 4 maggio farà tornare il suo fisioterapista?

«No, voglio essere prudente. E nemmeno uscirò, il 4».

La sua fascia di età è quella più colpita dal coronavirus. Questo l' ha fatta riflettere?

«Mi turba moltissimo la morte. Come diceva Enzo Biagi, siamo nell' età in cui andiamo a vedere i necrologi per trovare i nostri amici. Mi turba soprattutto che chi se ne è andato non ha avuto il conforto di una persona vicina, anche se medici e infermieri si sono presi questo carico».

Cosa manca di più?

«I concerti. È dal '91 che giro il mondo con L' Orchestra italiana, e a causa del coronavirus sono saltate sette date.Ma non è per me che sono preoccupato: con me si muovono tecnici, musicisti, persone rimaste senza protezione e di cui nessuno sta parlando».

Molti hanno paragonato questa epidemia a una guerra. È d' accordo?

«Da bambino ho visto e sentito l' odore della guerra e ho sofferto anche il coprifuoco. C' era la fame, c' era il nemico, noi bambini non avevamo niente, non c' era la tv, non c' erano i telefonini, ma una noia infernale. Quindi no, oggi non è la guerra. È certamente duro, ma i bombardamenti erano un' altra cosa».

Se potesse, cosa chiederebbe a Conte?

«Sinceramente? Di tutelare chi lavora nel mondo dell' arte e della musica. E poi, ma ora scherzo, di firmare un bel decreto che superata l' emergenza obblighi le persone a uscire: ci vorrà l' autocertificazione per restare in casa!».

Dagospia il 3 aprile 2020. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. Come vivo questo momento segnato dal Coronavirus? “Sono molto preoccupato. Ho avuto la broncopolmonite a Natale, sono stato 40 giorni chiuso ma sono guarito. Ora sto benissimo ma avendo avuto quella complicazione devo stare molto attento a non uscire”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Renzo Arbore, icona della musica, della tv e della radio italiana. Quindi è sempre in casa? “Non esco per niente, sto a casa. L'ultima volta sono uscito un mese fa”. Cosa ne pensa del confronto tra la situazione che viviamo col Coronavirus e i tempi di guerra? “Non c'è paragone, la guerra è la cosa più brutta del mondo. C'era il coprifuoco, noi bambini eravamo terrorizzati. La guerra la è peggiore iattura che si possa vivere”. Poi Arbore ha lanciato un appello, a modo suo, al popolo partenopeo affinché rispettino le indicazioni sullo stare a casa. “Dico soprattutto agli amici napoletani: evitate il lanciafiamme di De Luca! - ha scherzato Arbore a Un Giorno da Pecora -. Ho visto alcune immagini di Napoli, con alcuni che camminano per i vicoli come se niente fosse, una cosa che succede non solo lì, certo, ma i napoletani devono esser molto attenti, non si può uscire!”

Renzo Arbore e quella volta da Padre Pio insieme a Pippo Baudo. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Arbore oggi ha raccontato un aneddoto di molti anni fa riguardante il frate di Pietrelcina. Cosa accadde in quell'occasione? “Padre Pio chiese a Pippo: lei è venuto per fede o per curiosità?” Cosa rispose Baudo? “Disse la verità: per curiosità. E Padre Pio gli disse 'allora vattenn'!”. Lei era con Baudo in quel momento? “Si, lo avevo accompagnato. Io mi sono 'salvato' in quel caso ma devo dire la verità: a me Padre Pio disse che avrei dovuto far l'avvocato”. E perché? “Gli andai a chiedere se dovessi fare più l'artista o più l'avvocato. E lui prima mi rispose in dialetto facess quello che vuole, e poi mi disse fai l'avvocato”, ha raccontato Arbore a Un Giorno da Pecora.

Renzo Arbore: «I giovani? Ridono di nuovo con intelligenza». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Pasquale Elia. Ancora una volta Per voi giovani. Renzo Arbore torna a parlare ai ragazzi, così come faceva diversi anni fa attraverso i microfoni di quel rivoluzionario programma radiofonico ideato dopo il felice esperimento di Bandiera gialla. In quelle trasmissioni, alla metà degli Anni 60, si parlava di musica (tanta, soprattutto straniera), di look, di tendenze. E tra un brano e un altro venivano giù piogge di battute e scrosci di sarcasmo. In questa occasione, invece, il mattatore della tv, l’inventore di trasmissioni che hanno fatto la storia della Rai, prova a fare un racconto dei ragazzi di oggi affacciato al balcone di ieri mettendo in pausa la sua proverbiale ironia. «Sembra un’assurdità, ma in quegli anni Gianni Boncompagni e io inventammo i giovani», esordisce Renzo Arbore.

Scusi, ma in che senso? Perché prima i giovani non esistevano?

«Adesso può apparire un’iperbole, ma in realtà a quell’epoca c’erano soltanto i ragazzi. Che poi improvvisamente mettevano i pantaloni lunghi e diventavano adulti. Anche il termine vecchio mancava dal vocabolario: al suo posto c’era il termine matusa. E in questo clima i giovani si trasformarono subito in oggetto di polemica. Ricordo una frecciatina che lanciò contro di loro il grande Alberto Sordi: “Questi hanno una sola possibilità, di crescere”. Oggi quella freddura la ripenso con tenerezza e simpatia, ma per noi fu mortificante. Una frase che non direi mai, nemmeno alla mia attuale età».

Convinto?

«Convintissimo. Il nostro motto era “largo ai giovani” e per me lo è ancora adesso. Mi votai alla loro causa e sapevo che bisognava aiutarli, coccolarli. Ma allo stesso tempo sapevo che era necessario insegnare loro la bellezza dell’arte, in tutte le sue forme: musica, cinema, pittura, design… Insomma, cercavo di mescolare le loro esigenze con gli insegnamenti del passato».

Può fare un esempio?

«Quando di recente con Nino Frassica e Andrea Delogu su Rai1 abbiamo celebrato la trasmissione Indietro tutta!, in studio c’erano esclusivamente Millennials che non sapevano nemmeno cosa fosse quel programma. Eppure si sono divertiti con sketch che risalivano a trenta anni fa».

Quindi questo cosa vuol dire?

«Che i giovani di oggi sono tornati a ridere con intelligenza».

Non le sembra un pochino presuntuoso da parte sua?

«Beh, diciamo la verità: per quanto riguarda l’umorismo, fino a poco fa gli adolescenti si accontentavano di poco. Bastavano delle smorfie o delle semplici imitazioni per farli sorridere. Noi siamo stati più esigenti. Finalmente le cose stanno cambiando: la risata è una potente spia dello stato di salute dei ragazzi».

E come è quello di questa generazione?

«In ripresa. Sono molto incuriosito e confortato dalla recente nascita di alcuni movimenti spontanei, tipo quello di Greta Thumberg o quello delle Sardine. Significa che ci sono giovani che hanno saputo sottrarsi alle suggestioni di certa tv becera. Attrezzati culturalmente, hanno deciso di evolvere, di andare avanti, di lasciarsi alle spalle il periodo dei cosiddetti “sdraiati”, quelli che erano in poltrona con il telecomando in mano e che, facendo zapping, si fermavano a vedere una stupidaggine dietro l’altra. Oggi c’è una stagione nella quale i figli degli sdraiati hanno riscoperto la piazza, la voglia di stare insieme, l’amicizia, la fratellanza. E hanno anche preso coscienza che gli adulti devono essere controllati, così come aveva fatto la beat generation».

Intravede qualche rischio per queste nuove forme di protesta?

«Che vengano contaminate dalla solita politica verbosa e rissaiola, che oltretutto ha indispettito i ragazzi che hanno visto gli esponenti di partito accanirsi gli uni contro gli altri con un linguaggio davvero di basso livello».

Dunque, il pericolo è quello di una eventuale politicizzazione dei movimenti?

«Esatto. Come successe ai miei tempi del ’68, di cui sono sempre stato molto critico. D’altronde, da jazzista filoamericano, era pressoché impossibile che abbracciassi quelle idee. Avevo come idoli Kennedy e Martin Luther King e non sono stato mai sedotto da quel fenomeno. Un ombrello sotto il quale trovarono posto i contestatori che rivendicavano la loro diversità, il diritto ad avere gusti diversi. Tutto giusto e condivisibile: poi purtroppo sono andati oltre e si è arrivati agli anni del terrorismo».

Sesso, droga e rock’n’roll erano i perni attorno ai quali ruotava gran parte della controcultura del ’68: oggi le priorità sembrano altre.

«Già, gli imperativi sono cambiati: ci si batte per un mondo più pulito, più sano, per l’ambiente. I ragazzi, come direbbe un napoletano, si sono scietati, svegliati. Una volta si viaggiava solo per andare al festival di musica di Woodstock. Oggi si va in giro per il mondo per altre esigenze, per conoscersi, per unirsi ad altre realtà».

Tiriamo le somme: crede che la sua generazione abbia sbagliato qualcosa?

«Francamente non credo. Noi eravamo stati educati da una buona stagione del dopoguerra, un periodo di pacificazione nazionale importante, di padri che costruivano, che avevano scacciato l’odio del passato. Eravamo figli di una generazione benedetta, che aveva completato l’Autostrada del Sole in appena due anni. L’unica nostra caduta è stata quella durante gli anni di piombo. Sia ben chiaro: gli errori sono stati fatti tanto a sinistra quanto a destra».

E gli sbagli dei giovani?

«Si sono impigriti, hanno seguito le orme dei paninari. Hanno continuato stancamente ad occuparsi della moda, dell’ultimo paio di jeans, degli stivali. Hanno avuto una vita facile, aiutati dai loro genitori permissivi, probabilmente stanchi di quella protesta giovanile di cui erano stati protagonisti».

Cosa augura ai ragazzi per il 2020?

«Che riescano a sfruttare il web come un serbatoio infinito di cultura e conoscenza. Fino ad ora la Rete è servita per sbirciare dal buco della serratura le vite degli altri».

·        Riccardo Cocciante.

Da I Lunatici Radio2 il 25 settembre 2020.  Riccardo Cocciante è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Riccardo Cocciante ha parlato del suo rapporto con la notte: "Al contrario di molti, io sono un diurno. Mi alzo prestissimo la mattina, verso le quattro, e inizio a lavorare. Ma di notte no, non lavoro. Mi metto a letto molto presto. Normalmente nel nostro mestiere c'è molta gente che lavora la notte, perché la notte è molto affascinante, è misteriosa, ma io trovo che sia più bella la mattina, è un momento che per me rappresenta la rinascita, la primavera. Anche Mogol e Morricone, con cui ho lavorato, lavorano molto presto al mattino. Io amo la mattina, la luce, il giorno. Una notte tra le più belle della mia vita? Non saprei quale notte indicare. Forse quando ci si accorge che una cosa che hai fatto, composto e cantato, viene apprezzata dal pubblico. Ad esempio quando presentammo per la prima volta Notre-Dame de Paris".

Riccardo Cocciante da molto tempo non vive più in Italia: "Io voglio specificare che non amo la parola star e non sono una star. Non lo sarò mai. Sono un artista. Da artista, non voglio l'adulazione del pubblico. Io amo che il pubblico mi riconosca per quello che ho fatto. La mia vita più è appartata e meglio è per me. Per questo ho scelto prima di andare via addirittura dall'Europa, ho vissuto in America per diversi anni, poi ho scelto l'Irlanda. E' sempre in Europa, ma è un Paese a parte rispetto agli altri. La gente è estremamente generosa, e poi è un Paese di musica. Addirittura sulla sua bandiera c'è uno strumento musicale, l'arpa celtica. Mi trovo bene in Irlanda. Appartato, ma sempre a contatto con l'Europa. Stare lontano dall'Europa mi ha pesato quando vivevo in America".

Sulla musica italiana: "Ci sono nuove tendenze e nuove maniere di esprimersi, il mercato è completamente cambiato, è sempre più un'industria. Un artista giovane per introdursi in questo contesto ha sempre maggiori difficoltà. Rimangono i live, ma in questo momento soffriamo tutti di questo live impossibile da fare, perché il live è la prima espressione dell'artista. Rispetto alla nostra generazione, non c'è più unità di espressione. Ciascuno è per conto suo, sembrano delle piccole isole, questo è un difetto della nuova generazione. Non c'è più comunicazione. Alla nostra epoca si facevano dei confronti, c'era nella nostra generazione una voglia globale di cambiare il mondo, tutti noi avevamo la stessa intenzione. In Italia c'era un fronte con me, Venditti, De Gregori, Dalla, altri cantanti. Volevamo spezzare quello che c'era e creare qualcosa di nuovo. Ora mi pare che questa unità di intenti manchi. Che rapporti abbiamo oggi? Non posso usare la parola amico, ma siamo vicini. Ci sentiamo vicini. Abbiamo attraversato un periodo molto forte".

Su alcune sue canzoni, "Margherita" e "Bella senz'anima": "Bella senz'anima è stata presa come una canzone contro il femminismo, ma per me tutte le canzoni hanno un valore allegorico. Bella senz'anima è stato un momento di ribellione mia, personale, gridando la mia disperazione di non esistere in confronto al pubblico. Margherita invece è il contrario totale, dopo aver avuto il primo successo mi sono reso conto di avere questa soddisfazione di esistere con il pubblico. Non ci sono riferimenti reali nelle mie canzoni, sono sempre allegoriche. Solo una canzone è stata scritta per una persona, "Vivi la tua vita", composta per mio figlio appena nato. Non cerco di fare le canzoni per le persone, ma provo a fare le cose che mi colpiscono".

Sul politicamente corretto: "Bella senz'anima è stata criticata, ma ci sono diverse persone che hanno questo momento. Di canzoni criticate ce ne sono state molte nella storia della musica. E' pieno di canzoni che all'inizio hanno urtato le persone. Ma noi artisti dobbiamo andare controcorrente. Bella senz'anima era completamente controcorrente. Noi artisti dobbiamo proporre qualcosa di diverso, non dobbiamo andare nella corrente. Anche Margherita era completamente controcorrente, quando è uscita scrivevano tutti di politica. Poi esce fuori Margherita che è l'antitesi di questo discorso. Bisogna avere il coraggio di andare contro il sistema, noi abbiamo cose importanti da dire. Mi voglio definire sempre fuori moda, ma comunque onesto. Non sto attento a quello che la gente vorrebbe in un determinato momento".

 Ancora su politicamente corretto e censura: "Il politicamente corretto c'è sempre stato. Bella senz'anima fu censurata. Però se l'artista di base cerca di omologarsi a un sistema, non è un vero artista. Noi dobbiamo spingere le persone a pensare diversamente rispetto a quello che invece comunemente si pensa in un certo momento".

Sul festival di Sanremo: "Io sono andato per fida a Sanremo, per fortuna questa sfida l'ho vinta. Ma l'ho detto subito che era una esperienza che volevo fare una sola volta nella mia vita e non la farò mai più. Come concorrente. Poi da ospite è un altro discorso. Lo steso discorso l'ho fatto con "The voice".

Ho trovato interessante la possibilità di scegliere un cantante senza vederlo, solo ascoltandone la voce. Molte volte si è condizionati dalla bellezza o dall'aspetto di un personaggio. Invece la voce e l'anima sono le cose più importanti. L'ho fatto ma l'ho detto subito che non l'avrei fatto più. Non amo fare due volte la stessa esperienza, cerco sempre di reinventarmi".

Sulla trap: "Tutto è possibile nell'espressione artistica. Stiamo vivendo un momento tecnologico estremamente forte. L'importante è non farsi mangiare da questa tecnologia. Quando è uscito il rap era bello, forte, potente, era rivoluzionario. Poi è stato utilizzato ed è diventato un fatto commerciale. Mi pare una cosa negativa".

Cocciante parla così della sua paternità: "Che padre sono? Abbiamo avuto la fortuna di avere un figlio, io e mia moglie. Devo dire che siamo fortunati, perché è in una buona strada e questo forse perché l'abbiamo educato a non usufruire del successo del padre, ma ad avere una autonomia totale. Abbiamo sempre detto a David di trovare la propria strada e lui l'ha fatto. E' eccezionale, è nell'art design, non fa quello che faccio io, vive a New York, l'abbiamo aiutato a trovare la propria strada, questo dev'essere sempre importante. Il pericolo quando si è conosciuti è che la gente vive nel riflesso del padre e questo crea infelicità".

Sul futuro: "Se c'è qualcosa di cui ho timore? Non lo so. Non ho paura della morte. Il futuro è sempre un punto interrogativo però noi dobbiamo vivere con questa spada di Damocle del futuro che non è certo. L'importante è avere sempre progetti e cose da fare. Questo mi tiene in vita". 

·        Riccardo Muti.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. «Voglio avere certezza di ciò che si fa, non di ciò che si farà. Non voglio sentir parlare del futuro. È pieno di persone che non sanno come risolvere la giornata e dare da mangiare ai propri figli. Nella mia lunga vita, una cosa del genere non solo non l' ho mai sperimentata ma nemmeno immaginata. Viviamo un film di fantascienza», dice Riccardo Muti.

Che cosa vede dalla sua casa di Ravenna?

«Persiane abbassate, come se il virus potesse entrare dalle finestre. C' è un silenzio quasi di morte, cimiteriale. Io Pasqua l' ho sempre passata a Molfetta, dove da ragazzino vedevo le processioni del venerdì Santo, molto radicate al Sud (accompagnate dalla Banda, che furono le mie prime lezioni di musica): da secoli non si erano mai fermate, neanche in tempi di guerra».

Abituato a girare il mondo, si sente come un leone in gabbia?

«Semmai un uomo in gabbia. Mi sento agli arresti domiciliari, come tutti. Con mia moglie Cristina, siamo ligi alle norme. Però un conto è decidere di stare a casa perché ti vuoi riposare, altro conto è una (giusta) imposizione».

Presto sarà estate.

«Pensate a una famiglia che vive in 70-80 metri quadrati Ma penso anche a milioni di persone che non riescono a comprare il necessario per vivere, ai miei ragazzi dell' Orchestra Cherubini. I teatri sono chiusi, la musica si è fermata e loro, il meglio prodotto dai Conservatori, non guadagnano un euro. Eppure hanno trovato il coraggio e la volontà di suonare e trasmettere messaggi musicali sul web dalle proprie abitazioni».

Segue il bollettino quotidiano sul virus?

«Non più, ogni giorno ci dicono che i dati da una parte migliorano, dall' altra peggiorano. E non capisco un accidente, non sono Einstein ma nemmeno lo scemo del villaggio. Mi viene il dubbio che questa confusione aiuti qualcuno, non so chi sia. Troppi medici dicono cose contrastanti. In tv vedo documentari. Mancano, nei programmi Rai, grandi registi trascurati, Germi, Pietrangeli, Rossellini, Bergman. A Pasqua hanno trasmesso film su Gesù in tutte le salse, e Ben Hur che conosciamo a memoria».

Cosa ci vorrebbe?

«Più fantasia e meno pigrizia, e poi quei continui appelli a lavarsi le mani, legittimi per carità, ma la tv tratta gli italiani come sottosviluppati. Quando sono all' estero vedo solo notizie negative su di noi. Invece abbiamo gli scienziati, gli artisti. E i medici straordinari che abbiamo conosciuto di questo periodo...».

La musica c' è in tv?

«Perché non si approfitta per trasmettere più musica, a parte Rai 5 che fa un lavoro egregio? Danno concerti in piazze vuote che spacciano per grande musica qualcosa che non lo è affatto. In un periodo in cui siamo costretti in casa a guardare più tv, i risultati li hanno comunque e potrebbero fregarsene dell' audience. Invece ti propinano Alien , fa aumentare la depressione che esploderà se ci diranno che non potremo andare al mare».

Si tiene in esercizio fisico?

«Potrei fare le scale ma preferisco quelle del pianoforte. Vesto sportivo, in pullover, niente tuta. Passo molte ore a studiare la Missa Solemnis di Beethoven con cui a settembre dovrei aprire la stagione a Chicago. È il trionfo del contrappunto (che condiziona con le sue regole e maglie), proteso all' espressione, in un' aderenza totale di testo e musica. Il risultato è un contrappunto trasfigurato, raggiunge una sfera metafisica che provoca sgomento».

L' Inno alla gioia di Beethoven è diventato l' Inno della Ue. Abbiamo avuto aiuti sanitari da Albania, Cuba, Russia, qualcosa dagli Stati Uniti...

«Beethoven, che significa libertà, nella Nona Sinfonia dice che siamo tutti fratelli. Invece alcune nazioni europee pensano che l' Italia sia un dio minore. Mi sono indignato quando ci hanno dato dei lestofanti, dopo tutti i nostri aiuti dati all' Europa, che non avrebbe sviluppato la cultura che ha, senza di noi».

È pessimista, ottimista?

«Uno scossone di questo genere porterà a un adattamento a una situazione diversa. Non sto a pensare se ne usciremo migliori, e non penso al futuro ma all' oggi. C' è bisogno di soluzioni perché le persone indigenti possano vivere. Non sopporto i politici che pontificano, illudono; spero non pensino alla musica come a qualcosa di cui si può fare a meno. Monsignor Ravasi mi ha citato uno scritto di Cassiodoro, il politico e storico romano: Se continuiamo a commettere ingiustizie, Dio ci toglierà la musica».

Maestro, si parla di concerti con l' orchestra in platea e il pubblico nei palchi.

«No, sarebbero per pochi privilegiati, meglio in streaming. Altra cosa: le città erano imbrattate, le statue mutilate; non si può far niente, dicevano. Gli elicotteri della polizia, per sorvegliare che stiamo a casa, come se fossimo un popolo di malfattori, dimostrano che quando si vuole le cose si fanno».

Pensa che potrà dirigere il concerto di Capodanno a Vienna, con i suoi tanti significati beneauguranti?

«Sarebbe bello poter dire è tornato tutto come prima e brindare. Io sento che il vaccino lo troverà uno scienziato italiano. Spero che si torni a una vita normale. Ma, come dice Eduardo de Filippo, adda passà 'a nuttata».

Il maestro Riccardo Muti: “Tv narcotizzante, ci vuole cultura”. Alberto Pastori il 18/01/2020 su Notizie.it.  "Tv narcotizzante, basta programmi di cucina: ci vuole cultura": a dirlo è il grande maestro Riccardo Muti. Il maestro Riccardo Muti, considerato tra i migliori a livello mondiale, per 19 anni direttore della Scala di Milano, si trova in tournée in Europa con Chicago Symphony Orchestra. Il tour toccherà anche diverse città italiane come Napoli, Firenze e Milano. In occasione di questi concerti, Muti risponde ad alcune domande sulla situazione dell’Italia riguardo il nostro Paese. E si dice “Preoccupatissimo”. Muti si è sempre mostrato pensieroso circa lo stato della Cultura in Italia e di come i politici non si prodighino abbastanza sull’argomento. A Napoli ci sarà Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, e questo è un fatto molto positivo per il maestro. “Ammiro l’attenzione che rivolge alla cultura intesa non come parola vuota ma come elemento formativo” ha detto Muti “Quindi sono felice che venga. So che la pensa come me. Il problema è che dovrebbe essere circondato da persone che la pensino allo stesso modo”. Il direttore poi lancia una stoccata contro la tv italiana: “Quando vedo certi programmi della tv italiana passo a tv straniere per trovare cose di sostanza, e poi non se ne può più di cuochi e cucina. Il pubblico ormai applaude a comando: questa non è cultura, è narcotizzare la gente che avrebbe invece bisogno di una sferzata di cultura, che è la colonna vertebrale della nostra storia per non perdere l’identità di chi siamo”. Poi rivolge un pensiero ai giovani italiani. Secondo Riccardo Muti, che dal 2004 dirige l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, le ultime generazioni sono più preparate non solo musicalmente, ma lo sono di “motu proprio” e devono combattere contro l’obnubilamento generale. Muti definisce i giovani come la nostra speranza ma devono essere aiutati a essere internazionali. Muti conclude dicendo: “Loro lo vogliono ma l’apparato statale rema contro. Basta pensare al livello culturale di certi politici. Al Senato ho ricordato che le orchestre sono insufficienti, e le centinaia di giovani cge escono dai conservatori spesso non trovano lavoro perché mancano orchestre e teatri”.

Flaminia Bussotti per ''Il Messaggero'' il 19 gennaio 2020. Alla sua ottava tournée in Europa con la Chicago Symphony Orchestra, Riccardo Muti tradisce sul podio l'intesa magica che lo lega alla sua orchestra: una profonda interiorità ed essenzialità del gesto. Il tour lo porta a Napoli domani, poi Firenze e Milano. A Vienna ha diretto anche i Wiener Philharmoniker in un concerto il 14 alla memoria di Mariss Jansons, che quel giorno avrebbe compiuto 77 anni. Al grande direttore lettone e amico, Muti dedica anche l'applauso del Requiem di Verdi con la Cso. «Se ne è andato uno dei più grandi direttori del nostro tempo, il mondo della musica è diventato più piccolo e siamo tutti più poveri», ha detto al pubblico. Nel colloquio Muti irraggia distacco e un'aura velatamente amara e pensosa. Molti ricordi si affollano da un passato «remotissimo».

Questo tour con la Cso sembra un suo itinerario biografico, Napoli, Firenze, Milano.

«Napoli è la città dove sono nato, ho studiato con grandi maestri, ho fatto i primi esperimenti direzionali. Ho una formazione profondamente napoletana sia umanistica che musicale. A Napoli nasce tutto, qui sono nato da madre napoletana, ho studiato e qui sono sepolti i miei genitori. A Firenze il mio primo incarico nel 1968. Fu l'Orchestra del Maggio a volermi dopo un trionfale concerto con Sviatoslav Richter al piano. Sono stati anni straordinari. La prima regia operistica di Ronconi fu qui con Orfeo e Euridice di Gluck, e poi Manzù, Cagli, Vitez, il Guglielmo Tell integrale con l'orchestra che urlava di gioia e il violoncellista Bellucci che alla fine gridò Viva Rossini, viva l'Italia. Sembrano episodi di un passato remotissimo. Ricordo un Nabucco di Ronconi per allora provocatorio che scatenò contestazioni: Ronconi in Arno, tuonò una voce in galleria. A Milano la prima volta fu nel 1970 come direttore ospite. Nel 1986 diventai direttore musicale: quasi 20 anni meravigliosi. Ricordo un Requiem di Verdi nel 1989 poco prima della caduta del Muro eseguito a distanza di 24 ore alla Philharmonie a ovest e la sera dopo al Konzerthaus a est».

In Italia lamenta sempre lo stato della Cultura: lo farà anche stavolta? Vedrà dei politici?

«So che Franceschini verrà a Napoli. Ammiro l'attenzione che rivolge alla cultura intesa non come parola vuota ma come elemento formativo. Quindi sono felice che venga. So che la pensa come me, il problema è che dovrebbe essere circondato da persone che la pensino allo stesso modo. Quando vedo certi programmi della tv italiana passo a tv straniere per trovare cose di sostanza, e poi non se ne può più di cuochi e cucina. Il pubblico ormai applaude a comando: questa non è cultura, è narcotizzare la gente che avrebbe invece bisogno di una sferzata di cultura, che è la colonna vertebrale della nostra storia per non perdere l'identità di chi siamo».

Una statistica Ocse dà i giovani italiani sotto la media: come trova la loro maturità e cultura?

«Ho fondato la Cherubini nel 2004 e trovo le ultime generazioni più preparate non solo musicalmente, ma lo sono di motu proprio, devono combattere contro l'obnubilamento generale. I giovani sono la nostra speranza ma li dobbiamo aiutare a essere internazionali. Loro lo vogliono ma l'apparato statale rema contro. Basta pensare al livello culturale di certi politici Al Senato ho ricordato che le orchestre sono insufficienti, e le centinaia di giovani cge escono dai conservatori spesso non trovano lavoro perché mancano orchestre e teatri».

Lissner a Napoli, Pereira a Firenze, Meyer alla Scala: sintomatico dell'Italia?

«Non discuto la presenza di stranieri, Cimarosa e Paisiello erano famosi a Vienna, io stesso sono a Chicago. Dico con tutto il rispetto per loro, che sarebbe anche opportuno rivolgere lo sguardo anche ai nostri perché c'è una storia dei nostri teatri che appartiene alla storia d'Italia».

A Napoli dirigerà nel 2021 Don Giovanni con la regia di sua figlia Chiara, a Firenze forse Simon Boccanegra nel 2022. Quando farà un regalo ai milanesi e a Meyer e tornerà alla Scala con un'opera?

«Tutto non si può fare, sono sempre direttore e occupato. Queste mie collaborazioni seguono la successione del tour con la Chicago, Napoli, Firenze, Milano. Spero che questo percorso, come nella successione della tournée, succeda parimenti con La Scala e si rifletta nella pratica anche con Milano. Anzi, approfitto per fare gli auguri a Meyer di cui sono amico da anni».

Con la Cso chiude nel 22, e dopo? Nel 21 poi dirigerà ancora il Concerto di Capodanno.

«Il contratto con la Chicago finiva quest'anno, mi hanno chiesto di estenderlo e ho dato due anni. Rimarrò legato ma non voglio avere più impegni di direttore musicale, voglio essere libero. Nel 22 saranno 54 anni sul podio: dopo resterò legato a loro e ai Wiener. Per un italiano è un onore dirigere il Concerto di Capodanno per la sesta volta».

Dall'alto della sua esperienza, quale è oggi il suo sguardo sull'Italia: fiducioso o preoccupato?

«Preoccupatissimo».

Il suo prossimo sogno?

«I sogni sono sempre quelli che non verranno mai esauditi: si ha la fortuna di una vita lunga e una mente chiara ma il mare della musica è talmente vasto che noi siamo solamente una goccia in questa vastità. Non è abbastanza».

·        Riccardo Scamarcio.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 12 luglio 2020. Oltrepassata da poco la boa dei 40 anni, e a 16 da Tre metri sopra il cie l o , che mise le ali alla sua vita d'attore, Riccardo Scamarcio si è tenuto stretto il fanciullino che è in lui, così come gli amici dell'adolescenza ad Andria, in Puglia, dov' è nato. Lo ritroviamo attore, cosceneggiatore e coproduttore di Gli Infedeli , dal 15 luglio su Netflix.

Di cosa si tratta?

«E' il remake dell'omonimo film francese a episodi, solo che anziché farne 10 con sette registi diversi, ne abbiamo fatti cinque con un unico regista, Stefano Mordini, ispirati da I mostri di Dino Risi. L'intento era di fare un film comico e cattivo, che mettesse in luce personaggi estremi, raccontando il malcostume dell'infedeltà maschile. E' una indagine sul tradimento degli uomini, con ironia, prendendoci un po' in giro».

Quali cliché avete evitato?

«Al contrario, li abbiamo cercati, la commedia si basa sui cliché, sennò non funziona. Penso all'episodio in cui sono a una convention, lontano dalla famiglia, e cerco occasioni d'amore in maniera compulsiva ricevendo sempre il 2 di picche».

Il tema del tradimento riguarda tutti.

«Io cerco di evitarlo, sapendo che è un demone in agguato. In amore non bisogna mai dare nulla per scontato, bisogna stare attenti ai rapporti seduti, dove tutto sembra andare avanti grazie a una perfetta routine».

Lei vive i sentimenti come un uomo del Sud?

«Sì, ma di quale Sud? Oggi è emancipato, è come se si avvertisse la remota, grande dominazione greca. La famiglia è il valore su cui poggia la società: la voglio, la cerco, però la contesto, non mi va affatto di incancrenirmi sull'idea di famiglia, di "recitare" a tutti i costi quel ruolo lì. La famiglia non deve venire a costo di qualsiasi cosa, I pugni in tasca di Bellocchio ha aperto uno squarcio su quanto si possano contestare certe dinamiche».

Quando un amore finisce, per esempio con Valeria Golino.

«Non finisce mai, il vero amore. Anche se non ci si vede più».

In questo film ritrova due suoi amici.

«Beh, Laura Chiatti ed io, grazie a Moccia, abbiamo cominciato insieme, un'attrice straordinaria, ridiamo, scherziamo, giochiamo quando lavoriamo. Valerio Mastandrea è come un fratello maggiore, mi dà gli schiaffi e io li prendo, siamo due giocatori che si pallano la palla a memoria. Ho dovuto lottare per farlo completamente calvo, si lamentava in continuazione».

In quale fase della carriera è, dopo la fiammata iniziale?

«Sono decisamente un sopravvissuto. La mia carriera non è stata del resto una passeggiata: recitare in altre lingue, confrontarsi con altri mondi, accettare le sconfitte e le offese personali, perché alla fine sei quel nome lì. Si avverte spesso nei media il bisogno di voyeurismo. E ci sono colleghi che non decidono di non dire mai cose sconvenienti. Io invece mi espongo, non sono allineato. Ma non per questo sto qui a lamentarmi».

Ricorda quando arrivò a Roma?

«Ero molto giovane, mi lasciavo alle spalle Andria, che in realtà era una cosa a metà strada fra la Thailandia e il Messico, il caos, il mare, il sole che brucia, le discoteche di notte. Sono sempre io, il ragazzo con la bella faccetta, come dicevano, anche se il deperimento fisico a 40 anni comincia. Bilanci? Avevo ragione a non credere nei falsi miti, penso ai social che ho sempre rifiutato. Cerco empatia».

Se c'è una cosa positiva del lockdown, è l'essere tornati a parlarsi, a ascoltarsi?

«Sono d'accordo. Ha costretto tutti a rapporti più sinceri, a fermarsi e a guardarsi, anche perché non ti potevi muovere. Io l'ho vissuto in campagna in Puglia, in solitudine. Sono quasi sempre in lockdown . Faccio l'idraulico, il falegname, l'elettricista. Ho un'azienda agricola. Da bambino volevo fare il contadino e l'attore. Infatti mi chiamo lo zappattore».

·        Ricchi e Poveri.

Ricchi e Poveri, a Sanremo 2020 la storica reunion del gruppo dopo quasi 40 anni. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it. Tornano a esibirsi, nuovamente al completo, i Ricchi e Poveri. La storica reunion avverrà a Sanremo, durante il Festival. Amedeus ha parlato di «un vero evento nella storia della musica italiana... Sono felicissimo di poterli avere tutti e quattro sul palco. È un colpaccio». E così, il 5 febbraio salirà sul palco dell’Ariston la formazione originaria del quartetto, composta da Angela Brambati, Franco Gatti, Marina Occhiena e Angelo Sotgiu. Tutto nel 50esimo anniversario del brano «La prima cosa bella» e della loro prima partecipazione al Festival, nel 1970. Il conduttore del Festival ha poi aggiunto: «Posso anche annunciare, d’accordo con il sindaco di Sanremo, che i Ricchi e Poveri riceveranno il Premio Città di Sanremo». Nel mentre, Fiorello, dai suoi profili social, ha scherzato dicendo: «Vi prego voglio essere il quinto!». Il gruppo, per rispondere a tanto affetto, ha fatto scritto in una nota: «Siamo qui tutti e quattro insieme per onorare l’affetto che il pubblico ci ha sempre dimostrato. Celebrare i 50 anni dal nostro primo grande successo è come ritrovarsi in famiglia dopo un lungo viaggio e rinsaldare un legame essenziale». Il ritorno della band in quartetto (non accadeva da quando, nel 1981, Occhiena lasciò la band per forti contrasti con la collega Brambati) segue un episodio difficile legato al festival. Nel 2013, infatti, la band in trio, con Angela, Angelo e Franco, avrebbe dovuto essere ospite del festival e ricevere un Premio alla Carriera. Ma quando i tre erano già in riviera, li raggiunse la notizia della morte del figlio di Franco Gatti e la band non salì più sul palco. Da allora lo stesso Gatti non si è più esibito con i Ricchi e Poveri, che erano rimasti in due.

Luca Bottura per la Repubblica il 26 gennaio 2020. Di Marina Occhiena si diceva che avesse sfaldato i Ricchi e Poveri concupendo il marito della Brunetta, non nel senso di Renato. Per questo, nel 1981, a Sanremo, il martellante motivetto di Sarà perché ti amo fu eseguito da soli ¾ del celebre gruppo vocale, anche se la bionda aveva chiesto e ottenuto di essere presente alle prove. Durante le quali cantò da separata in casa. Poi, più nulla. Legioni di tedeschi avrebbero arrossato i propri glutei dimenandosi al suono di Mamma Maria, Voulez Vous Danser e altri brani indimenticabili, ma a dividersi trionfi e royalties sarebbero stati solo Franco Gatti, quello del naso che fa promontorio, Angelo Sotgiu, il bello, e appunto Angela Brambati. Come leggete in altra parte del giornale, l' incantesimo si è risolto ieri. Non solo a Sanremo 2020 ci sarà Rita Pavone, che dovrebbe cogliere l' occasione per dichiarare guerra alla Francia, ma i Ricchi e Poveri si esibiranno tutti insieme. Per mere, ineluttabili, cogenti, ragioni di cassetta e di opportunità. E adesso voi, comunisti dell' Emilia-Romagna, trovate una sola ragione per cui oggi non dovreste votare disgiunto e salvarci dal nulla che avanza.

Sanremo, i Ricchi e Poveri tornano al completo. Dopo Albano e Romina, anche i Ricchi e Poveri si riuniscono sul palco del Teatro Ariston: con loro torna Marina Occhiena dopo 39 anni di lontananza dal gruppo; la soddisfazione di Amadeus. Francesca Galici, Domenica  26/01/2020 su Il Giornale. La 70esima edizione del festival di Sanremo non può essere una delle tante. Nonostante le polemiche poco edificanti che hanno infiammato le ultime settimane, che poco hanno a che fare con la gara e con l'evento, il settantenario dev'essere un momento di grande festa e celebrazione per la kermesse canora più importante del Paese. In quest'ottica, il ritorno dei Ricchi e Poveri al completo non può che essere motivo di felicità per gli amanti della musica italiana. I Ricchi e Poveri sono uno degli storici gruppi italiani, uno di quelli che da decenni tengono alta la bandiera della musica popolare del nostro Paese nel mondo. Sono amatissimi in ogni angolo del pianeta e le loro canzoni, in svariate lingue, risuonano nelle radio e fanno ancora cantare milioni di persone. Hanno all'attivo oltre 22 milioni di dischi venduti, alle spalle solo dei Pooh. Sono nati a Genova nel 1967 e da allora la loro carriera è stata inarrestabile. Nati come quartetto con Franco Gatti, Angela Brambati, Marina Occhiena e Angelo Sotgiu. Dopo 15 anni di grandi successi, nel 1981 Marina Occhiena lascia il gruppo per incompatibilità con Angela Brambati. Sono passati quasi 40 anni da quando il quartetto è diventato un trio ma, a partire da Sanremo, Marina Occhiena ha deciso di tornare a cantare con i suoi storici compagni di avventura sul palco dell'Ariston. Pochi anni fa, anche Franco Gatti aveva deciso di dire addio al gruppo a causa di problemi familiari ma l'idea di tornare a essere il quartetto di La prima cosa bella è stata più forte di qualunque reticenza. A darne l'annuncio sono stati gli stessi Ricchi e Poveri dal loro profilo Facebook, con un post che tutti i loro fan aspettavano da anni: "Ricchi e Poveri ReuniON. Il gruppo italiano più famoso nel mondo eccezionalmente insieme dopo 50 anni da La prima cosa bella e dal primo Sanremo." Con questa canzone, il cui testo è di Mogol e la musica è di Nicola Di Bari e Gina Franco Reverberi, il quartetto ha partecipato al festival di Sanremo 1970, nella sua 20esima edizione. I Ricchi e Poveri hanno cantato con Nicola Di Bari e hanno conquistato il secondo posto, dietro la coppia Celentano/Mori con il brano Chi non lavora non fa l'amore. "I Ricchi e Poveri al completo nuovamente protagonisti della scena musicale a partire dalla partecipazione straordinaria alla 70° edizione del Festical della Canzone Italiana. Angelo, Angela, Franco e Marina insieme in un'avventura artistica unica e irripetibile realizzata da Danilo Mancuso", si legge nella nota. Dopo il ricongiungimento di Albano e Romina nel 2015, il palco del Teatro Ariston di Sanremo sarà scenario di un altro storico ricongiungimento. Questo è lo spirito di Sanremo, della celebrazione della musica italiana popolare, che è sempre riuscita a unire il Paese anche nei momenti più difficili. C'è grande soddisfazione per Amadeus, che all'Adnkronos ha commentato la storica reunion: "È un vero evento nella storia della musica italiana e nella storia di Sanremo. Sono felicissimo di poterli avere tutti e quattro sul palco." Amadeus è davvero raggiante per il risultato raggiunto anche grazie alla collaborazione del manager del gruppo che ha permesso di raggiungere questo storico risultato, celebrato nel migliore dei modi in una cornice di prestigio come quella di Sanremo. L'evento è di quelli che difficilmente si potranno dimenticare e così il conduttore e direttore artistico ha già annunciato che ai Ricchi e Poveri andrà il premio Città di Sanremo. Non ha risparmiato una battuta nemmeno Fiorello, che dai suoi social esclama: "Vi prego voglio essere il quinto!"

MARINELLA VENEGONI per la Stampa il 27 gennaio 2020. Raccontano le cronache che nel 1981 costò al discografico della Baby Records, Freddie Naggiar, 150 milioni di lire la buonuscita di Marina Occhiena dalla scena del Festival e soprattutto da uno dei gruppi vocali più popolari dell' epoca, che non la volevano più vedere né tantomeno cantare con lei a Sanremo Sarà perché ti amo. I Ricchi e Poveri, da quel momento in poi, diventarono felicemente un trio, prima di trasformarsi - invece tristemente - in duo quattro anni fa quando Franco Gatti, il basso del gruppo, decise di mollare dopo la morte del figlio ventenne. Trentanove anni dopo il primo strappo, anche Gatti ha detto sì e il quartetto ritorna in formazione originaria all' Ariston per cantare La prima cosa bella, brano rimasto nell' immaginario italiano, di Nicola Di Bari, con il testo di Mogol, che si classificò secondo 50 anni fa, nel 1970.

Il tradimento della Bionda. Sono i 70 anni del Sanremone, si celebra e si fanno miracoli come questo: miracolo che consiste anche nel constatare che la notizia della reunion ha creato un moto generale di attenzione e di sorpresa fra coloro che da un pezzo non sono più giovani, e si saranno magari dimenticati della DC ma non dei genovesi Ricchi & Poveri, malgrado si vedano ormai poco (il loro mercato è saldo in Russia). E' rimasta intatta la memoria della Bionda e della Brunetta Angela Brambati, del Baffo e del Bello Angelo Sotgiu, come furono definiti fin dalla nascita del gruppo nel '67, quando si erano affermati grazie al caratteristico impasto vocale, all' effervescenza della Brunetta, alla conturbante Marina. Macinarono chilometri fra Cantagiro, Festivalbar e Sanremo (nel 1971 aveva fatto faville Che sarà). La cosa meno sorprendente, in fondo, è anche che in tanti si ricordino di come andò, quel divorzio del 1981, sul palco dell' Ariston. Al di là delle versioni ufficiali di diversi punti di vista artistici e umani fra la Bionda e la Brunetta dei Ricchi e Poveri, le voci parlarono subito di un colpo basso di Marina nei confronti della collega: soltanto 34 anni dopo, si legge sul sito di Genova3000, la Bionda ha confessato di aver davvero avuto una storia con il compagno dell' epoca di Angela, maestro di sci. Il terzetto fece massa e ne decise l' allontanamento. Ma Marina andò dal pretore di Sanremo e poi si presentò in scena, minacciando di far sequestrare la canzone in gara.

Carriere separate. Fu così che il Tg della sera mandò in onda le prove, con il neo-terzetto da una parte del palco, e la Occhiena da sola al microfono sull' altro lato, mentre cantavano Sarà perché ti amo. Una situazione impossibile, che Naggiar discografico d' azione decise di sanare con un pronto assegno. Il terzetto continuò la carriera, senza perdere a lungo appeal, poi travolto dai gusti che cambiavano cercò altri mercati, rimanendo fedele al repertorio d' origine. Marina Occhiena, che quest' anno compie 70 anni, tentò la carriera solista con poca fortuna, si diede al cinema, al teatro e a un' Isola dei Famosi. E' sposata con un ginecologo romano e ha un figlio. Con Angela si erano conosciute a una scuola di canto a Genova, da ragazze, e avevano formato il quartetto con Franco e Sotgiu, che è stato a lungo fidanzato proprio con Angela: lei poi si era sposata con Marcello Brocherel, il famoso maestro di sci, dal quale nel '76 ha avuto Luca. Pare non si sia mai risposata, la sua vita privata è da allora rimasta segreta. Di come si guarderanno i 4 di fronte a tanta gente si saprà soltanto il 5 febbraio: la Rai ha preteso l' esclusiva fino a quel giorno.

Marco Menduni per “il Secolo XIX” - 28 giugno 2018. La nascita nel 1967, il debutto al Cantagiro del 1968 con L'ultimo amore. Da quel momento in poi i Ricchi e Poveri salgono sul tram del successo e non ne scendono più. Poi la separazione del 1981, le strade che si dividono. Però Marina Occhiena, la "bionda" del gruppo, è sempre rimasta una delle immagini più forti e connotate della storia della musica leggera italiana. Uno sguardo a quegli anni: «Un ricordo bellissimo, mi viene da pensare che sono stata tanto fortunata, siamo stati fortunatissimi, è stato un caso, la fortuna a creare quell'amalgama, nessuno ci ha messi insieme». Dove vive, che cosa fa oggi Marina Occhiena? Le immagini la ritraggono, biondissima e sempre bellissima, magari accanto al figlio Gionata: è un fusto». Marina vive a Roma: «La cosa più importante è che ho una famiglia, sono sposata con un medico, ho un figlio». Da quanto tempo dura la vostra relazione? «Siamo sposati da 21 anni e stiamo insieme da 27, un rapporto consolidato».

Ride: »Non dovrebbe succedere più niente». Ride ancora: «Ormai i periodi pericolosi dovrebbero essere superati, siamo tranquilli». Una vita equilibrata per lei che, in quel passato, è stata anche protagonista del gossip: la storia con Franco Califano, gli eventi che crearono un solco con Angela Brambati, l'altra cantante del gruppo (la "brunetta") e culminarono nella separazione.

Lei fa spallucce: «Solo gossip, appunto: ma ci pensiamo che sono passati quasi 50 anni da quei fatti? Chi se ne frega, al giorno d'oggi sono cose normali». Marina è sempre sulla scena? »Sì, lavoro sempre - risponde - questo inverno ho fatto teatro, tre mesi di tournée con un bel testo leggero insieme a Caterina Costantini, Lorenza Guerrieri, Lucia Ricalzone, Carlo Ettorre. Una commedia interessante». E qual e la piece portata in scena? «Abbiamo rappresentato Il club della vedove, la storia di quattro vedove che si riuniscono per farsi compagnia, vanno insieme al cimitero, fanno tante cose insieme. Ma poi arriva, ovviamente, un uomo a rompere l’incanto.  Ognuna reagisce in maniera diversa, ma poi alla fine chi la spunta sono io».

Con la musica, con le canzoni, dice la Occhiena, e un rapporto interrotto: «Dico la verita: quest’anno come sempre in passato mi hanno offerto un tour, ma io preferisco pensare ad altro. E un lavoro che ho gia fatto per tanti anni, da grande soddisfazione girare per le piazze, ma non ne ho piu voglia di andare in giro e fare chilometri e chilometri. Alla mia eta ormai posso fare quello che voglio, cerco cose che mi soddisfino e che non mi facciano stancare, che mi lascino tempo da dedicare alla mia famiglia».

L’altro rapporto inossidabile, per Marina, e quello con Genova, sua citta natale: «A Genova ho la mia adorata sorella, ci torno. Anzi, ci voglio tornare. Chiedo che qualcuno mi dia una mano, perche una casa come la voglio io la sto cercando ma non la trovo». Esigenze? «Vista mare, un posto tipo Nervi, con un bel terrazzo al livello, grande, possibilmente un attico. Io devo tornare, assolutamente, sono troppi anni che sto qua a Roma». Nel 2014, Marina incide Hai parlato a Lui di me e lo canta in duetto con Fra Marco Palmerani, una canzone dedicata a Giovanni Paolo II, nella compilation Santo Papa Wojtyla. «E stata - racconta la Occhiena - un’iniziativa cui ho partecipato volentieri, un gesto di affetto per un protagonista della storia, l’ho fatto volentieri. Io sono credente, non frequento, non vado spesso in chiesa ma penso che il Padreterno mi perdonera per questo».

Nel 1997 nasce il figlio della Occhiena. Un figlio in provetta. Lei e una delle prima a parlarne pubblicamente, a toccare questioni che poi diventeranno anche grandi temi di dibattito sociale ed etico.

«Si - ricorda la cantante - ho fatto la fecondazione assistita e quando l’ho dichiarato non l’aveva mai fatto nessuno dell’ambiente artistico. Ma io mi sono detta: quante donne, magari, vorrebbero un figlio e non ce la fanno? Io lo dico, magari e un incentivo, uno sprone per chi si e trovato nella mia stessa situazione: se ci sono riuscita io perche non dovrebbero riuscirci le altre?».

Suo marito l’ha indirizzata...

«Mio marito mi ha aiutato, mi ha portato da Severino Antinori che all’epoca era il top dei top, anche se ora, mamma mia, sta passando davvero un brutto momento. Siamo andati da lui per tre anni, ho tenuto duro, sono stata molto “capocciona”, alla fine e arrivato il bambino».

Ma quali sono le sensazioni che Marina prova oggi, quando pensa ai primi tempi con i Ricchi e Poveri?

«Ricordo soprattutto come tutto inizio. Io e Angela ci siamo conosciute a scuola di canto, lei era fidanzata con Angelo e stavano con Franco in un gruppo chiamato Jets. Suonavano a Genova, al Lido, siamo andati a sentirli, lei mi diceva: sono bravi, dai. Da quel momento abbiamo fatto amicizia, quando finivano di suonare andavamo a Vesima con la chitarra».

Da li, quasi casualmente, nasce una delle formazioni di maggior successo della musica italiana: «Abbiamo scoperto facilita nel fare questi accordi vocali, queste armonie, senza artifici, eravamo cosi, nudi e crudi, ma siamo piaciuti tantissimo. Oggi penso che sia stata la cosa piu bella potesse capitarci».

Poi la separazione.

 «Pazienza, nella vita succedono delle cose... i Beatles sono durati meno di noi».

E ancora in contatto con gli altri della band?

«Con Franco si, sempre, l’ho sentito anche stamattina».

Con Angela, si immagina meno.

«Certo, mai più avuto contatti. Anche se quel che e successo e tanto lontano del tempo... tutto superato, almeno per me».

Avete mai pensato a una reunion?

«Me lo dicono tutti. Io non sarei contraria, tutti le fanno, Romina e Albano, gli Abba. Mi piacerebbe, anche solo per rivedere la gente e risentirne l’affetto, sarebbe un’emozione meravigliosa».

Marianna Aprile per OGGI il 16 febbraio 2020. Nella settimana in cui il governo Conte si incagliava sulla riforma che abolisce la prescrizione, a Sanremo assistevamo alla reunion dei Ricchi e Poveri, per una sera tornati nell’originaria formazione simil-Abba a quattro. Accanto a Franco, Angelo e Angela, c’era infatti anche Marina Occhiena, che per 13 anni (dal 1967 al 1981), aveva fatto parte del gruppo. E che alla vigilia del Festival del 1981 lo aveva abbandonato. Direte: che c’entra con la prescrizione? C’entra, c’entra. Perché questa reunion dimostra che, nel gossip, la prescrizione c’è ancora. Per capire la portata di questa riabilitazione sanremese della Occhiena bisogna riavvolgere il nastro fino all’inizio del 1981. Poche settimane prima dal Festival di quell’anno, la bionda si allontana dalla brunetta, dal bello e dal brutto (niente body shaming, sono i soprannomi che si portano dietro da allora). All’inizio, si giustifica la cosa con problemi di salute. Ma quando Marina si presenta a Sanremo pretendendo di cantare, perché ristabilita, ci vuol poco a capire che il vero motivo della frattura sta altrove. Più precisamente, dalle parti di casa di Angela, la bruna. Nei corridoi sanremesi si rincorrono infatti gossip più o meno verosimili attorno a una notizia-bomba: Marina e Marcellino Brocherel, albergatore di Aosta, compagno di Angela e padre di suo figlio Luca, avrebbero una storia e sarebbero stati scoperti. Mentre tutti cercano di capire cosa ci sia di vero, un avvocato mette nero su bianco il divorzio della Occhiena dai Ricchi e Poveri. L’accordo legale prevede che alla bionda vadano 150 milioni di lire   (circa 77 mila euro di oggi) e che lei e la bruna non dicano una parola sulla relazione Occhiena-Brocherel. Un silenzio che in pubblico tutti rispettano, ma che si infrange subito a microfoni spenti. Al punto che, sul numero del 25 febbraio 1981, Oggi riporta uno sfogo “privato” di Angela: «Li ho pescati nel mio letto, pensate, nel mio letto! Io di indole sono buona, molto buona. Una, due, tre, quattro, cinque, anche sei volte posso perdonare, di più no. Eppoi potevano fare le cose pulite, da furbi, senza farsene accorgere. Ecco: io non tollero le cose sporche». Boom! E la Occhiena? Si dice innocente: «Tra me e Marcellino c’è stata solo una simpatia. Non mi sognerei mai di portar via l’uomo a un’amica». Lui, l’uomo “conteso”, conferma: «Vado molto d’accordo con mia moglie (in realtà non erano sposati, ndr), la nostra unione è perfetta. Abbiamo uno splendido bambino e non gli faremo mai del male». I diretti interessati, quindi, in pubblico smentiscono il gossip. Però gli altri due dei Ricchi e Poveri, Angelo e Franco, forniscono una versione un po’ diversa: «Tutti sapevano o avevano visto Marina e Marcellino insieme e in ripetute occasioni. Angela ha avuto la forza di chiarire definitivamente la situazione col marito e con Marina, i quali, tra l’altro, non hanno fatto mistero di ciò che provavano e facevano in quel periodo (eravamo ancora nell’estate dell’80). Ma non si è mai sognata di vendicarsi escludendo Marina».  Una precisazione che puzza anche questa di accordo legale... In un’intervista che rilasciò a Oggi qualche mese dopo, pur continuando a negare la tresca con la Occhiena, Marcellino ammetteva: «L’unione con Angela era in crisi, la storia d’amore fra me e Marina è stata inventata per dividerci». Insomma: i Ricchi e Poveri volevano liberarsi della bionda (che peraltro lamentava da tempo di non essere valorizzata) e si sarebbero inventati la relazione con Marcellino. La teoria però regge poco, almeno stando ai giornali dei mesi successivi, dove abbiamo ritrovato cronache degli incontri clandestini tra la Occhiena e Marcellino e interviste in cui Angela parla apertamente della relazione tra i due. Persino accuse con risvolti penali: nell’autunno dell’81, Marcellino porta via con sé il piccolo Luca e impedisce per mesi ad Angela di vederlo. Angela accuserà la Occhiena di essere la regista di quel “rapimento” (ipotizzò che il piccolo fosse tenuto nascosto nella casa del padre di Marina...). Poi tutti si calmano, il tribunale affida Luca alla mamma e piano piano si torna alla normalità. E 40 anni dopo eccoli tutti lì (tranne Marcellino) sul palco del divorzio a cantare Sarà perché ti amo. Il reato, se reato ci fu, è prescritto. O la pena espiata, decidete voi.

·        Righeira.

Righeira, 40 anni di carriera per il duo di «Vamos a la Playa»: 5 curiosità, dalle licenze per andare al Festivalbar ai guai giudiziari. Per festeggiare il 40ennale è stata pubblicata una nuova versione della hit del 1983, ottenuta risuonando la demo del 1981. Arianna Ascione il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera.

L’invenzione del «tormentone». Nell’estate del 1983 i Righeira - i due finti fratelli Stefano Righi/Johnson Righeira e Stefano Rota/Michael Righeira - fecero esplodere le radio di tutta Italia con un motivetto irresistibile: «Vamos a la Playa». Fu un successo così epocale che il dizionario Zanichelli fece risalire proprio al 1983 il neologismo «tormentone» («canzone che durante l'estate ha grande diffusione mediatica»). In occasione del 40ennale del duo torinese il brano è stato risuonato - partendo dalla demo del 1981 - e ripubblicato sulla neonata etichetta di Johnson, la Kottolengo Recordings.

Le licenze per il Festivalbar. Nel 1983 Johnson, partito per il militare l’anno precedente, sfruttava le sue licenze per partecipare al Festivalbar. La sera però era costretto a tornare in caserma. «Il successo è stato un flash, non ho avuto neanche il tempo per pensare: stavo facendo la naja, la mia vita stava cambiando e io non lo vedevo - ha raccontato a Sette - A un certo punto non ci stavo più dietro: tramite il cappellano militare di Bellinzago riuscii a farmi mandare all’ospedale militare di Baggio fingendo di avere una sindrome depressiva. Avevo bisogno di 20 giorni per fare la finale del Festivalbar e per registrare l’album, dissi che ero uno studente universitario e che non ce la facevo più, ma capii che mi avrebbero rimandato indietro. Lo psicologo civile non voleva saperne, allora gli chiesi se conosceva Vamos a la playa. Ovviamente rispose di sì. Gli dissi che ero uno dei due che la cantava, e che avevo bisogno di 20 giorni. Poco dopo arrivò un capitano, che mi fece un pippone ma alla fine me li concesse».

L’inno dei tifosi del Liverpool. «L'estate sta finendo», altra hit dei Righeira del 1985, è diventata molto popolare tra le curve italiane: è stata infatti trasformata in un coro da stadio che ha valicato i confini nazionali. Nel 2018 l’hanno cantata, con il testo cambiato, persino i tifosi del Liverpool (la cover in questo caso si intitola «Allez Allez Allez!»).

La citazione degli Statuto. Nel testo del brano «Sole, mare» (2002) degli Statuto, anche loro torinesi, si fa riferimento all’estate del 1983 e al successo più conosciuto del duo. Il verso recita: «'Vamos a la playa' cantiamo noi i Righeira che siamo di Torino e sulla playa ci abbronziam».

L’arresto e la successiva assoluzione. Nel 1993 Johnson venne arrestato, assieme ad altre trentasette persone, accusato di spaccio di stupefacenti. Rimase in carcere per cinque mesi ma poi fu assolto («Ho mangiato merda dal primo all’ultimo giorno - aveva detto al Sette - So di avere delle responsabilità, mi sono fidato troppo, ma sapevano tutti che ero innocente»).

Marinella Venegoni per "La Stampa" il 7 luglio 2020. Il tempo moderno delle canzoni per l'estate cominciò con una radiosa Giuni Russo che gorgheggiava Un'estate al mare di Battiato. Era il 1982, ma già l'anno dopo si intuì, con i Fratelli Righeira, che la stagione più amata potesse svoltare verso inquietudini elettroniche e non rivelarsi nemmeno così rosea: si cantava di una bomba che scoppiava e di radiazioni che bruciavano. Però il testo era in spagnolo e non ci si badò; Vamos a la playa divenne un tormentone che non si toglieva dalle orecchie, e fece il giro del mondo vendendo 3 milioni di copie. Nel 1983, non appena «la bomba estallo», andai a cercare Stefano Righi a casa della sua mamma, che faceva la parrucchiera. Barriera di Milano, casa di ringhiera, una signora simpaticissima. Arrivò lui, visibilmente provato perché doveva partire per il servizio militare; si capiva che non si rendeva conto di quel successo che gli scoppiava addosso, e dopo tanto tempo portava una musica italiana fuori dai confini. Seguirono No tengo dinero e L'estate sta finendo. Quest' anno Johnson Righeira, sempre con quel nome che non è neanche più d'arte, da anni viaggiatore solitario, ha deciso di riproporre il pezzo di cui è autore così com' era nato: è uscita da qualche giorno la versione 2020 Original Demo Remake, risuonata e fedele a quella prodotta in cantina con il 4 piste nel 1981; l'atmosfera è new wave, più noir di quella che ha girato il mondo. Ma già sono in circolazione anche The Italiani, di lui con Li Calzi e Carlone (da uno spettacolo di qualche anno fa) e Il Veliero-Battisti cover): prime attività di un'etichetta che ha appena fondato, la Kottolengo Recordings (dal celebre ospedale suo dirimpettaio a Torino), nella quale riversare vecchie e nuove idee e pazzie che scoppiettano in quello che definisce un felice momento creativo. Sarà che ha cambiato aria. Complice la quarantena, si è stabilizzato in campagna ad Aglié, nel Canavese, patria di Guido Gozzano. Un bell'ossimoro, i due, ma è l'ultimo pensiero: «Vivere qui è un'idea che sta cominciando a farsi strada», confessa. «Da quando sono tornato solista, mi si è riaffacciato lo spirito Righeira delle origini. E' come se avessi ripreso un discorso. Il 9 settembre compirò 60 anni, sono 40 giusti che ho cominciato questo mestiere. La veste del discografico mi serve: non ho mai composto tanto perché avevo bisogno dell'idea alla quale volare dietro, ma con l'etichetta posso costruire altre situazioni: diventa un impegno serio, avrò bisogno di collaboratori».  Nel 1980, Johnson incise Bianca Surf, il primo singolo; con lui suonavano anche gli Skiantos, e un duetto Righi-Freak Antoni trasformò il pezzo giovanile in punk-rock. Nacquero i provini di Vamos a la playa con i Monuments, e la cover italiana di Der Mussolini che si chiamò Balla Marinetti, con il suo compagno di scuola poi Michael Righeira. Davvero gli albori del movimento dei gruppi new wave torinesi, un clima sul quale ora Johnson vuole tornare: «Per Vamos a la playa faremo anche il vinile fluorescente con tema originale e dei remix: penso a Coccoluto, Toni Carrasco, tanti altri. Poi è una vita che voglio porre parziale rimedio all'oblio nel quale sono caduti Maurizio Arceri e Freak Antony: di lui abbiamo un inedito in progetto con Dandy Bestia». Lamenta la smemoratezza italiana: «Da noi si butta via con troppa facilità: Antoni non è stato capito neanche in vita, aveva traghettato la tristezza di sinistra nel sorriso, era un punk della sinistra, ma l'ironia in Italia non acchiappa. Anche il testo di Vamos a la playa non è stato capito».

Johnson Righeira: «Io e Michael mai più insieme. I soldi? Li ho dilapidati». Elvira Serra, inviata ad Agliè (Torino), il 20 agosto 2020 su Il Corriere della Sera.

A quale tormentone è più affezionato?

«Faccio fatica a scegliere tra Vamos a la playa e L’estate sta finendo, tutti e due brani miei. Voglio molto bene a entrambi».

Ne deve scegliere uno.

«Vamos rappresenta la mia anima più elettronica, L’estate quella più romantica: quando canto la versione lenta dal vivo mi capita spesso di commuovermi. Mi rappresenta ancora, a maggior ragione adesso che sto per compiere 60 anni (il 9 settembre, ndr)».

E quando ha sentito la versione da stadio, «Un giorno all’improvviso»?

«Mi dispiace che non si possano far pagare i diritti d’autore. Ma lo sa che quando arrivo nella tribuna degli Union Bhoys, gli ultrà della Royale Union Saint-Gilloise, la squadra di calcio di Saint-Gilles, a Bruxelles, me la intonano? È bello...».

Incontriamo Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi, sotto un pergolato nella frazione San Grato di Agliè, a 32 chilometri dalla Mole Antonelliana e dai grattacieli di Torino che si intravedono sullo sfondo, dove lui torna ogni volta che ne ha voglia in sella al suo cinquantino: non ha la patente. Non parla volentieri di Michael Righeira, alias Stefano Rota, il partner artistico con cui ha ossessionato gli italiani esortandoli ad andare in spiaggia a partire dal 1983 (anche se esagerarono sul serio due anni dopo, facendo finire l’estate prima ancora che cominciasse). Però non si sottrae alle domande.

Vi siete già lasciati due volte. Magari tornerete insieme.

«Non credo proprio. La prima separazione fu dal 1992 al 1999. Quella definitiva è datata 23 giugno 2015».

Definitiva, che parolone...

«I motivi sono gli stessi, con aggravanti. Non abbiamo più niente da condividere».

Vi siete anche divertiti.

«Vero... La sera facevamo tardissimo e il giorno dopo lasciavamo le camere degli hotel di pomeriggio. Le cameriere si inferocivano. Quando bussavano, avevamo il coraggio di mettere fuori i bagagli e poi tornavamo a letto».

Altri ricordi?

«Certi ritardi clamorosi... Aerei che ci aspettavano, dopo che i nostri discografici avevano chiamato il capo scalo di turno, e noi che spuntavamo sotto gli sguardi omicidi dei passeggeri».

Eravate sempre in ritardo?

«Sempre. A una puntata del Festivalbar sul Gargano ci presentammo fuori tempo massimo al pullman dove ci stavano aspettando gli altri cantanti. A bordo mi accorsi di aver dimenticato una cosa in albergo, lo bisbigliai a Michael e lui replicò: “Se hai il coraggio, dillo tu”». E ride.

Spese assurde?

«Ah, il record è mio. Ero a Riccione, verso la fine degli anni 80, e ci aspettavano a Campagna, nel Salernitano. Ero con una fidanzata e facemmo tardi. Morale: non sentii la sveglia. Era Ferragosto e i treni utili erano tutti partiti, così fui costretto a chiamare un taxi. Quando arrivammo la folla stava già aspettando e il tassametro segnava un milione e duecentomila lire. Il taxista mi fece lo sconto e pagai 900 mila...».

Però non doveva andarvi male. All’estero vi pubblicava l’A&M, che aveva in catalogo i Police e i Supertramp.

«Sono riuscito a dilapidare i soldi man mano che li guadagnavo. Andava tutto così veloce... Una volta a Parigi finimmo in tv con i Culture Club e Boy George in camerino cantava Vamos a la playa: fu un bel flash. Poi conobbi Greg Kihn, di Jeopardy. Era circondato da truccatrici e parrucchiere e disse: che belle le vostre canzoni! Un’altra volta incrociammo i Trammps di Disco Inferno che ci fecero i complimenti. A Colonia trovammo Stevie Wonder che muoveva la testa ascoltando la nostra Hey Mama, così mi avvicinai a stringergli la mano: ho ancora la pelle d’oca...».

Le interviste della serie «L’altro della coppia».

Del carcere, cinque mesi nel 1993 per spaccio di stupefacenti (poi assolto), le chiedo solo se ha mai rivisto il detenuto che la protesse.

«Che mi aveva aiutato l’ho capito dopo. Era un povero cristo che trincava, magrissimo con una pancia enorme: diceva che era andato a dormire a casa di un tipo e la mattina dopo lo aveva trovato morto. Dopo la prima notte in custodia cautelare venni richiesto da una cella da sei, anche se eravamo in nove. Furono tutti molto gentili: mi offrivano sigarette, da bere...».

Cantò per loro?

«No, non durante la detenzione, mi era crollato il mondo addosso. Ma anni dopo, con i Righeira, facemmo un concerto al carcere Lorusso e Cutugno di Torino».

Riceve i diritti d’autore?

«È una sorta di pensione. Vamos a la playa vende ancora in tutto il mondo. Due-tre anni fa fu usata da McDonald’s per il pubblico spagnolo: parliamo di 15 mila euro. Peccato che il coronavirus abbia bloccato lo spot di un’agenzia di scommesse che voleva usare Un giorno all’improvviso».

Ha fondato una nuova etichetta discografica. Vuole replicare i successi passati?

«L’etichetta si chiama Kottolengo Recordings e sì, penso di avere ancora delle cose da dire. Se riuscirò a scrivere un’altra hit, allora vorrà dire che sono bravo». Organizzerà una festa per i 60 anni?

«Io no, ma se vorrà pensarci il mio vicino di casa Daniele Lucca, si potrebbe fare qui».

Se si presentasse Michael?

«Non credo che gli verrà voglia, ma se dovesse farlo io non manderò via nessuno». 

·        Ringo.

Maria Elena Barnabi per “il Messaggero” l'8 ottobre 2020. A quasi 60 anni Ringo è il conduttore più rockettaro della radio italiana. Cresta biondo platino, giubbotto in pelle nera e moto d' ordinanza, Rocco Maurizio Anaclerio, per tutti Ringo da quando a 13 anni suonava la batteria in una cover band dei Beatles, è nato a Paderno Dugnano (Milano) il 25 febbraio 1961 e per anni è stato il re delle notti milanesi, mettendo dischi non solo in radio (in 35 anni le ha passate tutte: dalla mitica Radio Rock Fm a Rtl 102.5, 101, 105), ma anche facendo per quasi un ventennio il dj, ogni sera, all' Hollywood, il locale simbolo della Milano da bere, suo e di altri soci dal 1987 al 2005. Dal 2007 è direttore artistico di Virgin Radio, l' emittente rock di RadioMediaset, che con quasi 2,9 milioni di ascoltatori è l' ottava emittente in Italia secondo gli ultimi dati RadioTer, e il conduttore del programma Revolver, tutti i giorni dalle 14 alle 16. Sempre con donne bellissime, Ringo ha avuto una figlia (Swami, 20 anni, studia lettere moderne a Milano) dalla conduttrice tv Elenoire Casalegno, è stato con la pallavolista Federica Piccinini e dal 2006 è fidanzato con Rachele Sangiuliano, anche lei ex pallavolista. Amico personale di Pier Silvio Berlusconi, ha fatto il punk negli Anni Settanta a Londra, il paracadutista in Libano in missione di pace («Mi occupavo del rifornimento, facevo avanti e indietro in aereo», racconta) e poi il dj nelle radio e nelle discoteche di Los Angeles negli Anni Ottanta. Quando i Rolling Stones o gli U2 venivano in Italia, chiamavano lui. Insomma, due-tre cose da raccontare Ringo ce l' ha. Ci incontriamo in un bar sotto la sede milanese della radio. È pomeriggio, ordina un centrifugato depurativo.

«Il solito», dice al cameriere. Ma come, rock, moto e donne e ordina il bibitone salutista?

«Ho sempre fatto così. Anche se tutti nel mio giro hanno sempre pensato che tirassi cocaina dalla mattina alla sera».

E invece?

«Ho un passato da sportivo, da ragazzo facevo atletica, e a Los Angeles giocavo in una squadra di calcio e mi pagavano pure: 100 dollari a partita. Rispetto il mio corpo e l' ho sempre curato. E poi, se fai il mio lavoro, devi star bene, avere un buon aspetto. Mica puoi avere i capelli bianchi e il bastone. Ora più che mai».

Va per i 60. Come si sente?

«Sono un dinosauro, ho visto tutte le ere della radio, dai nastri al digitale, ma per me niente è cambiato. Faccio un tipo di radio molto semplice, come quando gareggio in moto: mi dai benzina e vado avanti finché finisce. Ho chiesto a mia figlia di dirmi quando non avrò più la carica. Mi ha detto: Papà, vai come un razzo».

I giovani come sua figlia ascoltano la radio?

«No. Le ricerche di mercato ci dicono che vengono da noi verso i 25-30 anni. Ma è giusto così, è il loro tempo: hanno le loro piattaforme, seguono gli youtuber e gli influencer».

Radio Dimensione Suono ha aperto Rds Next, una digital radio con app fatta solo da webstar e influencer. Può essere la nuova rivoluzione come lo furono le radio libere?

«Peppino Impastato è stato ucciso perché parlava in una radio libera, se crei un' app vuoi fare soldi, il che va benissimo, ma non parlerei di rivoluzione. Una radio così però magari può servire da vivaio. I giovani vanno coltivati, devono capire cos' è il lavoro duro. Io ho iniziato facendo il garzone in un bar del centro a 13 anni, ho la terza media, non me ne vergogno. Di questi fenomeni da baraccone che vengono dai social e dai reality non se ne può più».

A chi si riferisce?

«Basta guardarsi in giro. Nei locali la gente va a vedere Gianluca Vacchi, quello dei balletti su Instagram, che mette i dischi. Lo stesso nella moda: non c' è un' idea nuova. Philipp Plein e le sue magliette con i teschi. Tutti che rubano dal rock. Valentino non l' avrebbe mai fatto, Versace neppure. I pagliacci devono stare al circo e lasciare lavorare i professionisti».

Qual è il futuro della radio allora?

«La Dab, la radio digitale è una realtà. Ma comunque la radio è un osso duro, è difficile da far morire. È una delle poche cose che hai gratis e in un secondo. La accendi e via. In più oggi con il whatsapp in diretta, scrivi e subito ti rispondono. La tv invece è lenta e totalmente chiusa, anche quella generalista. Non parliamo del Festival di Sanremo, poi».

Parliamone invece.

«Sui giornali ho letto di budget di 200-300 milioni. Con tutto il rispetto, io con quella cifra faccio riunire i Pink Floyd, altro che Ricchi e Poveri».

Lorenzo Suraci, fondatore e guida di Rtl 102.5, nel 2016 ha creato una radio rock come Radiofreccia ispirandosi alla sua: le ha tolto pubblico?

«Suraci mi chiamò per dirmelo, scherzando: Ti vengo contro. Per ora i loro ascolti sono meno della metà dei nostri».

Come nacque Virgin Radio?

«Era il 2007, il mio gruppo (Finelco, il precedente proprietario di Virgin, ndr) aveva comprato le frequenze di PlayRadio. Alberto Hazan, il capo, mi chiese cosa farne. Io gli dissi di creare una radio rock, gli piacque l' idea e per poco non svenni. Era il mio sogno. Andò da Richard Branson della Virgin e si misero d' accordo sul marchio».

Lei ha conosciuto tutti i grandi del rock. L' incontro che l' ha emozionata di più?

«Il Boss è un gigante, ma David Bowie è il mio mito. Venne da me in radio, tremavo, non avevo il coraggio di stringergli la mano. Una volta, negli Anni Ottanta, stavo organizzando all' Hollywood la festa di compleanno di Ronnie Wood dei Rolling Stones, che mi chiamò per dirmi: Ringo questa sera serve un po' di sicurezza in più al nostro tavolo, arriva David. Era Bowie, che quella sera planò da Londra direttamente nel mio locale».

Altri momenti da ricordare?

«La festa di compleanno di Prince organizzata da Gianni Versace. Mi chiamava trenta volte al giorno per raccomandarsi: nessuno doveva vestirsi di viola, Prince non voleva. E poi quella di Bono: era il 1987, gli U2 rientravano da un tour mondiale grandioso, quello di The Joshua Tree, ma lui era fuori dall' Hollywood a fare la coda come tutti. Mi ricordo di Bruce Willis che corteggiava Aida Yespica, e poi tante modelle americane. Quelle sì che erano divertenti».

Si sarà divertito anche lei.

«Faccio il dj da quando ho 13 anni, e ho cominciato a fare sesso a quell' età. Dall' alto della console vedi tutto, i movimenti, le occhiate. E se una donna ha voglia di divertirsi senza troppi problemi, il dj è una certezza».

L' amicizia con Pier Silvio Berlusconi come è nata?

«All' Hollywood, negli Anni Ottanta e Novanta. Di giorno andavo a casa sua a giocare a calcio e a tennis. Ogni tanto dovevamo interromperci perché arrivava suo padre con l' elicottero e qualche politico. Poi quando ha comprato il nostro gruppo, ci siamo visti, ci siamo abbracciati e mi ha detto: Ti saresti mai immaginato che sarei diventato il tuo boss?. No, risposi. Ma meglio tu di altri».

·        Ringo Starr.

Ringo Starr compie 80 anni: 5 cose che forse non sapete su di lui. Nell'aneddotica beatlesiana il meno considerato è sempre lui, il piccolo Sir Richard Starkey, che invece qualche storia da raccontare ce l'avrebbe eccome...Giulia Cavaliere su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2020.

1. La sua prima batteria. Fa sorridere raccontarlo oggi, nel giorno del suo 80esimo compleanno, ma il piccolo Richard Starkey ne aveva sempre una. Era sempre malato. Un'operazione all'appendice, dovuta a un'appendicite acuta - quasi peritonite - gli procurò un coma durato due mesi a soli sei anni dal quale si riprese in diverse settimane di lenta convalescenza. Nel 1953, tredicenne, a causa di problemi ai polmoni finì ricoverato all'Heswall Children's Hospital nel Wirral per due anni, uscendone definitivamente solo nel 1955. Sembra che fu il suo patrigno ad avvicinarlo alla musica, spingendolo a considerarla come una sorta di spazio felice all'interno di un'infanzia tutt'altro che semplice: gli comprò una batteria e il giovanissimo Ringo iniziò a suonarla proprio nell'ospedale/sanatorio in cui era ricoverato.

2. Mai da solo. Ringo non suona mai da solo. Suona sempre e la batteria lo trasforma in un bambino, o almeno così raccontano sua moglie Barbara e le persone amiche che gli sono vicine, suona incessantemente praticamente da sempre, ma dopo i Beatles non suona mai senza sentirsi parte di una band. «Posso suonare con chiunque per tutta la notte, ma non riesco a farlo da solo, non mi rende felice sedermi alla batteria da solo», raccontò a Rolling Stone alcuni anni fa.

3. La sua All-Starr Band. Dal 1989 Ringo guida una band in cui ha ospitato praticamente chiunque e che non suona mai pezzi inediti. L'idea è quella di una superband di cui sentirsi sempre parte e mai protagonista - proprio come il nome, pur giocando sul cognome di Ringo, lascia intenedere. Ringo ha  cambiato i componenti del gruppo molto spesso e, ridendo, ha dichiarato di aver sempre posto un'unica condizione: i protagonisti dovevano aver fatto parte di una band o aver scritto almeno tre hit, questo proprio per rendere realistica l'idea secondo cui il fondatore è solo uno dei componenti del gruppo e non il leader.

4. L'ultimo nella Hall of Fame. Ringo, come da copione, è stato l'ultimo Beatle a essere incluso nella mitica rock'n'roll hall of fame come musicista solista, dopo l'ingresso, nel 1988, dell'intera band. Leggenda vuole che fu proprio il compagno e amico (batterista e bassista devono sempre essere amici, disse una volta Ringo), Paul McCartney. Sembra che Paul abbia fatto partire un giro di telefonate, da Bruce Springsteen a Dave Grohl, e che fossero tutti sconcertati dall'assenza del batterista dei Fab4, se ne sia uscito dicendo "me ne occupo io". Ringo è nella Hall of Fame dall'aprile del 2015.

5. Cantante e... autore. Tutti sanno sempre cosa ha scritto cosa, chi ha cantato cosa e quale parte di cosa... quando si tratta di John Lennon e Paul McCartney, e persino di George Harrison, a dire il vero, com'è logico che sia. Ma chi si ricorda cosa scrisse e cantò Ringo? Diciamocelo, pochissimi. Ringo è accreditato nella scrittura di What Goes On, da Rubber Soul, Bar Original da Anthology 2, Flying inserita in Magical Mystery Tour, Christmas Time (Is Here Again) B-side di Free as a Bird, Don't Pass Me By da The Beatles (cioè il White Album) e di cui è autore unico così come di Octopus's Garden inclusa in Abbey Road; e poi ancora Dig It in Let It Be. Cantò poi parti vocali ad esempio in Wanna Be Your Man, Act Naturally, Boys, Yellow Submarine, With a Little Help from My Friends, Good Night.

Ringo Starr, gli 80 anni all'insegna di 'pace e amore': "La vita è stata gentile con me. Oggi? La musica conta più che mai". Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da Silvia Bizio su La Repubblica.it. Il 7 luglio festeggerà come sempre, esortando tutti a essere 'buoni'. A causa della pandemia, però, la grande festa live che aveva organizzato diventa virtuale. Con un piccolo aiuto da tanti 'suoi amici' che invieranno contributi registrati. L'evento in streaming sarà gratis e disponibile a tutti: "Indovinate chi sarà fra gli amici ospiti? Paul McCartney!" È dal 2008 che l'ex Beatles Ringo Starr ha lanciato una tradizione: quella di festeggiare il suo compleanno, il 7 luglio, esortando la gente a fare con l'indice e il medio la 'V', segno di pace e amore, a mezzogiorno, in qualsiasi paese si trovino. Quest’anno doveva essere un festeggiamento speciale, con band musicali e amici a Los Angeles per un importante data nella vita del leggendario batterista di Liverpool, classe 1940: i suoi 80 anni. Ma siccome il Covid-19 ha bloccato ogni evento ed esibizione pubblica, Starr ci incontra attraverso il software di videoconferenze BlueJeans dalla sua villa a L. A. per dirci come sperava che fosse quell'epocale festeggiamento. Inevitabile quindi la prima domanda:

Ringo, ripensando alla sua vita, quali crede siano stati i suoi principali successi e rimpianti? E ha ancora ambizioni?

"Ambizioni? Mi piace ancora suonare la batteria, la musica è la mia vita, avrei dovuto suonare adesso e poi di andare in tournée a settembre e ottobre e tutto questo mi manca molto. Alla mia tenera età! Suono oggi più che mai e con le band 'All Stars' facciamo due spettacoli all’anno. Successi? Nella vita privata mi sento benedetto da una splendida famiglia, con mia moglie (Barbara Bach, ndr), i miei tre figli (avuti dall'ex moglie Maureen Starkey, ndr), otto nipoti, tanto amore e calore. Io che sono figlio unico ogni tanto mi guardo intorno, quando siamo tutti a tavola, e mi dico: 'Ma tutta questa gente davvero proviene da me?' È una sensazione meravigliosa. Io un patriarca!" (ride, ndr).

Come l’ha cambiata la paternità ed essere nonno?

"Come padre ho capito che avrei potuto essere migliore ma adoro essere un nonno, perché ti puoi divertire coi nipoti e poi ridarli indietro al loro legittimo proprietario! Sono stato un padre al meglio delle mie abilità, ho fatto quello che potevo. Ancora ricordo quando nacque il mio primogenito, Zach, nel 1966: me lo misero in braccio ed era come avessi tra le mani un vetro fragile, un miracolo. Poi ero con Zach quando lui ha avuto suo figlio, ed era come guardare me stesso. Ho suonato con la più grande band del mondo... la vita è stata gentile con me".

Come si prepara dunque a festeggiare i suoi 80 anni?

"Un po’ diversamente dagli ultimi 12 anni, in cui abbiamo sempre avuto un momento di pace e amore. L'anno scorso a Nizza, nel 2008 a Chicago, dove per la prima volta, durante un'intervista, dissi, così d'istinto: 'Vorrei che per il mio compleanno tutti quanti a mezzogiorno facciano una breve pausa e alzino le dita per peace and love'. E così è iniziato il movimento pace e amore del 7 luglio, che si è allargato nel frattempo a 27 paesi nel mondo. Ma quest’anno è diverso, perché a Los Angeles, oramai un po’ la mia città, avevamo organizzato un concerto con tanti gruppi che dovevano suonare dal vivo da un palco innalzato a fianco del Capitol Records; abbiamo dovuto cancellare tutto, come in tutto il mondo del resto. Allora ho chiesto ai miei amici musicisti di mandarmi materiale dei loro show e insieme ad alcune immagini dei miei concerti trasmetteremo in streaming uno spettacolo musicale alle 17 del 7 luglio disponibile a tutti. Credo ancora nel momento di pace e amore. Ehi, compio 80 anni e credo di potermi permettere un capriccio! E indovinate chi sarà fra li amici ospiti? Paul McCartney ovviamente!" (ride, ndr).

Come si sente rispetto al movimento del Black Lives Matter e tutto quello che sta succedendo oggi?

"Trovo incredibile che stiamo ancora combattendo per queste idee. Ricordo che noi, i Beatles, rifiutammo di suonare in Mississippi perché era uno Stato ancora segregato. Il mio eroe era Stevie Wonder e tutti i nostri idoli musicali erano afroamericani. Noi suonavamo per loro. Ci eravamo ispirati a loro. Mi fa molto piacere vedere ragazzi tra i 18 e i  25 anni di età scendere per strada e manifestare, qua in America. Era dagli anni Sessanta che una cosa così massiccia non succedeva. Sono fiero di loro. E un nuovo cambiamento arriverà".

I Beatles sono stati la colonna sonora del cambiamento sociale e culturale per molte generazioni. Quale è stata la sua Colonna Sonora e chi le piace oggi?

"Ci sono tanti gruppi interessanti e confesso che adoro Miley Cyrus! Ma quando ero giovane ascoltavo country music e Willie Nelson, amavo il blues. Tutti dovrebbero sapere che a 19 anni ho cercato di emigrare in America, a Houston, alla ricerca del blues. Io e il mio amico John (Lennon, ndr) andammo all’ambasciata americana a Londra e compilammo moduli per avere permessi di lavoro in Usa. Ci chiedevano tante di quelle carte che ci siamo stufati e abbiamo stracciato tutto. E poco dopo diventammo i Beatles. Tornando alla sua domanda: credo che le nostre canzoni ancora parlino al cuore della gente che sogna pace e amore, giustizia sociale ed uguaglianza".   

La fama è stata un peso per voi?

"All’inizio, come Beatles, tutto quello che volevamo fare era suonare e fare buona musica ma siamo diventati così grandi che non potevamo nemmeno andare in un ristorante. Almeno oggi grazie alla pandemia abbiamo tutti le mascherine in faccia e nessuno mi riconosce!".

Ricorda la sua prima impressione quando ha incontrato Yoko Ono?

"Ricordo molto bene perché sono entrato nello studio e lei era sdraiata su un letto e John era lì. Noi non avevamo mai portato le nostri mogli in studio, perché lavoravamo. Ho chiesto a John: 'che succede? Perché c’è questo letto nel nostro studio e perché c’è Yoko?'. Lui disse che nello stesso modo in cui quando andavo a casa raccontavo a Maureen quello che avevo fatto nella giornata, lui così non avrebbe avuto bisogno di raccontarlo a Yoko! Lei mi faceva ridere. Registrava album facendo strani gorgheggi e a un certo punto he detto: 'Dovresti cantare una canzone!'. Lei l’ha fatto e quando l’ho rivista le ho consigliato di tornare ai suoi gorgheggi!. Era divertente, non mi sono mai sentito a disagio con lei, l’importante era sostenerci a vicenda".  

Cosa ci può dire del documentario di Peter Jackson sui Beatles, Get Back, e quando uscirà?

"Beh, come forse sapete avevamo trovato 56 o 57 ore di materiale inedito di quando abbiamo fatto l’ultimo show dal vivo sul tetto del palazzo della Apple, quando eravamo con la Apple, nel 1969, e giravamo Let It Be. Abbiamo chiesto a Peter Jackson di aiutarci e lui ha messo insieme un film incredibile, compreso l’intero concerto di 42 minuti! Peter veniva a casa mia a Los Angeles a farmi vedere il materiale e anche se nei miei ricordi quella non era stata un’esperienza piena di gioia; Peter aveva trovato momenti in cui ridevamo, ci divertivamo. È un peccato perché il film sarebbe dovuto uscire nei cinema quest’anno ma nulla può uscire, nemmeno James Bond (ride, ndr)! Che io sappia verrà trasmesso dalla Disney+ a settembre. Ma per il momento, vi amo, e ricordate, pace e amore il 7 luglio a mezzogiorno, ovunque siate!".

Lorenzo Soria per la Stampa il 2 luglio 2020. E' stato l'ultimo a unirsi ai Beatles, quando non erano ancora famosi e suonavano per pochi appassionati nei locali di Liverpool e di Amburgo. Era l'agosto del 1962, e per un po' Ringo Starr rimase l'outsider. John e Paul erano i poeti e i leader, George era un virtuoso della chitarra. Lui era l'ultimo arrivato, relegato alla batteria. Ma Ringo, sempre solido e consistente, seppe reinventare il ruolo del drummer. Anche se non è mai stato il più bello, le fan impazzivano per lui e per i suoi anelli. E quando gli altri tre della band iniziarono a litigare, lui era il paciere che rimetteva tutti assieme. Anche dopo la rottura nel 1970 dopo Let it Be, Ringo continuò a restare amico con tutti, a incidere a turno con i tre ex-compagni e a volte anche a metterli tutti assieme sotto lo stesso tetto. Il giocherellone del gruppo, e anche il suo collante. Il tempo passa per tutti e ora Ringo sta per compiere 80 anni. Li celebrerà con il Ringo' s Big Birthday Show in onda su YouTube il 7 luglio. Sarà un concerto di beneficienza, a favore tra l'altro di Black Lives Matter Global Network. Lo abbiamo incontrato in uno studio di Los Angeles. Potrebbe avere 12 anni di meno. Ed è ancora il giocherellone di 50 anni fa. 80 anni, tempo di bilanci.

Qual è stata la sua conquista più bella? Ha dei rimpianti? E come guarda avanti, quali traguardi ha ancora?

«Sono molto fortunato. I miei figli sono una benedizione. Ho otto nipoti e un bis-nipote, tutte benedizioni. Sono nato figlio unico e mi guardo attorno al tavolo e mi domando: che cosa ho fatto? Tutte queste persone sono imparentate con me, è incredibile. E poi c'è Barbara (l'attrice Barbara Bach, ndr) nella mia vita, un'altra benedizione. Tra le cose che non ho fatto penso che se fossi andato a vivere a Houston chissà come sarei finito. Era un mio grande sogno, a 19 anni ci ho pensato sul serio. Ma sono qui, ho preso una strada dove ci sono state cose buone e altre non tanto buone. E sono sempre stupito quando ripenso che a 13 anni ero in ospedale ed eravamo tutti a letto con la tubercolosi e l'insegnante di musica si è avvicinato e per tenerci occupati mi ha dato una batteria. Da quel momento ho sempre voluto essere solo un batterista. E ora guarda: lo faccio ancora. Non sono uno che si ritira, finchè si può si va avanti. Adoro suonare e ho intenzione di continuare a farlo ben oltre gli 80 anni».

Tra le sue fortune non ha menzionato i Beatles.

«Sono figlio unico e l'unica cosa che ho sempre voluto è stato un fratello maggiore, un sogno impossibile. Ma poi sono finito nella migliore band del mondo e ho adorato quei ragazzi. Erano fratelli per me, ho avuto tre fratelli. La vita mi ha dato davvero molto».

Tornando ai suoi 80, come intende celebrare?

«Li celebrerò in modo diverso rispetto agli ultimi 12 anni, ma sempre con un momento Peace and Love. Abbiamo iniziato nel 2008 a Chicago, mi stavano intervistando e mi hanno chiesto: che vorresti dal tuo compleanno? E non so da dove mi è venuto fuori ma ho risposto dicendo che mi sarebbe piaciuto se a mezzogiorno tutti si fossero raccolti in un momento di Peace and Love. Una settimana dopo era appunto il mio compleanno e ci siamo organizzati fuori dell'Hard Rock di Chicago e da allora quel momento è in 27 paesi, una cosa fantastica. Ma quest' anno tutto è diverso, le cose sono cambiate perché non importa dove siamo nel mondo c'è questo virus. E quindi per festeggiare ho chiesto a molti dei miei amici di inviarmi i filmati di qualche show che hanno fatto e poi li montiamo assieme».

Chi le ha mandato filmati?

«Molti amici, uno probabilmente lo puoi indovinare».

«Ahahhh»

Parliamo di fama. Come vanno le cose su quel fronte? Dopo tutti questi anni, riesce a far rispettare la sua privacy?

«All'inizio, con i Beatles, volevamo solo fare buona musica e suonare per il pubblico, cosa che abbiamo fatto. Il prezzo da pagare è stato che per anni non ho potuto mettere piede in un ristorante ma ora tutto si è alleggerito, posso andare dove mi va. E poi grazie alla pandemia indossiamo tutti le maschere e non mi riconoscono!»

Passiamo a Get Back, il documentario di Peter Jackson che include 57 ore di riprese non usate di Let it be e 42 minuti dal leggendario concerto sul tetto dello studio Apple a Savile Row, il vostro ultimo concerto assieme.

«Ogni tanto Peter viene a Los Angeles e mi fa vedere filmati incredibili. Nel documentario originale non c'era molta gioia ma qui ridiamo tutti, ci divertiamo, c'è un'atmosfera completamente diversa e molto gioiosa. E' un peccato, perchè avrebbe dovuto uscire quest' anno ma niente esce quest' anno, mi dicono che non uscirà nemmeno James Bond! Comunque, fratelli e sorelle, vi amo tutti. E ricordate tutti il 7 luglio a mezzogiorno: peace and love!»

·         Rita Dalla Chiesa.

Maria Berlinguer per la Stampa il 4 settembre 2020. «Rita, mi diceva, se una macchina ti segue per due isolati volta all' improvviso e vai in una delle caserme più vicine. Giravo con una mappa di Montesacro, il quartiere dove abitavo allora e due volte ho avuto davvero paura. Mia sorella invece dovette essere trasferita nella notte da Torino a Catanzaro con il marito e la bambina, l' amica che la ospitava ricevette una telefonata minatoria da un brigatista, "sappiamo che la Dalla Chiesa è lì da lei, le consigliamo di allontanarla, sappiamo dove va a scuola sua figlia". Papà ha sempre cercato di proteggerci ma certo non ho avuto una gioventù spensierata e mi fa ancora rabbia ripensare al clima di connivenza e simpatia di certi ambienti intorno ai brigatisti. Mio padre, che pure aveva fatto la Resistenza, veniva dipinto come fascista». Il 3 settembre cade l' anniversario della strage del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della giovane seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, assassinati dalla mafia a Palermo nel 1982, una strage per certi versi annunciata dal silenzio che vertici militari e politici avevano fatto intorno al prefetto di Palermo. A cento anni dalla nascita del padre, Rita Dalla Chiesa ci regala un ritratto familiare del generale che ha combattuto in prima linea terrorismo e mafia con Il mio valzer con papà (Rai libri).

Cosa l' ha spinta a scrivere proprio ora?

«Mi è stato chiesto di farlo. Di libri su papà ne sono usciti tanti. Volevano il ritratto di una famiglia cresciuta in caserma, spesso costretta a cambiare città. I ricordi di una ragazza adolescente e ribelle come sono stata. Ho accettato a patto di ricostruire insieme alla storia famigliare anche il clima di quei terribili anni. Chi non li ha vissuti non può sapere cosa sono stati. Anni nei quali potevi perdere la vita solo facendo la fila alla posta. Sparavano a un simbolo, una divisa, non a un uomo. Anni cupi, di piombo. E non solo per la mia famiglia».

Qual è il ricordo più forte?

«Ho visto pochissime volte piangere mio padre. L' ha fatto quando le Br hanno giustiziato Roberto Peci per punire il fratello che stava collaborando. Papà con Patrizio aveva costruito una relazione di affetto, in carcere gli portava dei libri, lo considerava un ragazzo che aveva sbagliato ma recuperabile. L' esecuzione di Roberto, che con le Br non c' entrava niente, è stata una vera vigliaccata. Quando è morta mia madre il vescovo di Torino ha detto "Dora Dalla Chiesa è solo l' ultima silenziosa vittima del terrorismo". E pure c' era chi aveva atteggiamenti ambigui, in certi salotti intellettuali si pensava che i terroristi fossero solo ragazzi, non assassini».

Come si erano conosciuti i suoi genitori?

«A Bari in caserma, erano entrambi figli di carabinieri, uno generale, l'altro colonnello. Papà aveva 18 anni, mamma 15. Dopo l'armistizio papà, che era un liberale si è unito alla Resistenza. Si sono sposati dopo la guerra. Il loro è stato un grandissimo amore. Mamma era tutto per papà, la sua roccia, la sua cassaforte. L' unica a cui confidava i segreti, ha continuato a scriverle tutte le sere una lettera, anche dopo la sua morte. Nei diari che poi mio fratello Nando ha consegnato a Giovanni Falcone emerge la solitudine di papà. Non è stato mai amato né dai militari né dai politici. Era troppo libero. Non guardava in faccia nessuno. Quando tornò a Palermo Giulio Andreotti lo mandò a chiamare. Papà gli disse chiaro che non avrebbe avuto pietà se avesse trovato collusioni nella dc siciliana. Andreotti, scrive papà nei diari, gli disse "stia attento, chi si mette contro quelle correnti normalmente si trova con i piedi stesi". Ma non gli rispondevano al telefono neanche Spadolini, Rognoni e De Mita. Quando arrivò a Punta Raisi non c' era nessuno ad aspettarlo. Per la prima volta lo vidi preoccupato».

Che tipo di padre era?

«Molto affettuoso, quando entrava a casa cambiava sguardo. In un ultimo biglietto, quasi premonitore, ci ha scritto "Voletevi bene sempre, come ora". Amava la musica, adorava Mina e Celentano, Azzurro era la sua canzone. Era un appassionato di Renata Tebaldi e cercava di convincermi che fosse da preferire alla Callas. Ascoltava anche i cantautori. E' stato il primo uomo a regalarmi delle rose, l' ha fatto ogni anno il 22 giugno, il giorno del mio onomastico. Credeva molto nella famiglia. Quando mi sono separata dal padre di Giulia non mi ha parlato a lungo. Si è come spento quando è morta mamma. Viveva in una stanza blindata sulla Salaria. Finiva tardi di lavorare e spesso trovava chiusa la mensa dei carabinieri. I suoi uomini gli lasciavano un po' di latte e della frutta in camera. Poi è arrivata Emanuela, un raggio di sole nella sua vita, anche se io ne sono stata gelosa, lo confesso».

Cioè?

«Ero innamorata di mio padre, quando è comparsa questa bella ragazza che aveva la mia età mi sembrava impossibile. Ma fui la prima a dirgli che non poteva vivere una relazione clandestina, "se vuoi sposala, parlo io ai fratelli". Papà non voleva che Emanuela andasse subito a Palermo con lui perché percepiva il pericolo. Povera Emanuela, assassinata a neanche due mesi dal matrimonio».

·         Rita Pavone.

Da Il Giornale il 2 luglio 2020. «Lei parla molto bene signor Severgnini ma razzola male...». Si chiude così un lungo video con cui Rita Pavone, sui suoi profili social, replica al giornalista Beppe Severgnini che le aveva dedicato, in occasione del ritorno della cantante al Festival di Sanremo 2020, una puntata della sua Fotosintesi, la rubrica video che cura per Corriere Tv. Mentre sul video apparivano le foto della cantante Severgnini sottolineò che tanti artisti trasferiscono la residenza fiscale all'estero. «Non ho mai avuto la residenza fiscale all'estero, io vivo all'estero da 51 anni, vivo in Svizzera dal 1969», replica la cantante, che lamenta di aver subito in seguito alla rubrica del giornalista «un'ondata di aggressività» sui social network. La cantante sottolinea anche che lei paga le tasse in Svizzera ma «anche in Italia», perché tutto le viene «trattenuto alla fonte il 30% di ogni guadagno percepito sul territorio italiano». Sul finale del video, la Pavone ha inserito un intervento dello stesso Severgnini ad Otto e mezzo in cui il giornalista si scagliava contro chi sottovaluta gli effetti degli insulti e delle falsità dette sui social network. Di qui il finale: «Lei parla molto bene signor Severgnini ma razzola male...». Anche in questo caso Rita Pavone si conferma artista caparbia ma educata e rispettosa. Nell'ambito di una polemica, non cede mai alla tentazione di insultare o alludere ma semplicemente ricostruisce con garbo e precisione il proprio punto di vista. Di certo non sarà facile per Severgnini replicare a questi rilievi. Sempre che decida di farlo. Forse gli conviene far finta di nulla.

Rita Pavone a Domenica In: “A Sanremo ho preferito mettermi in gioco”. Alessandra Tropiano il 09/02/2020 su Notizie.it. Ospite nello speciale Domenica In, è arrivata diciassettesima nella classifica finale del Festival della Canzone Italiana: parliamo di Rita Pavone. Nonostante il risultato, per lei standing ovation nel programma di Mara Venier. Accolta da una standing ovation a Domenica In, Rita Pavone si è dichiarata dopo il risultato ottenuto nella 70esima edizione del Festival di Sanremo. Nonostante la sua canzone, “Niente (Resilienza 74)” sia già ascoltatissima in radio, per lei solo il 17esimo posto in classifica. Ma, come rivela, per questa esperienza non aveva nessuna aspettativa: “Non mi aspettavo niente in realtà, perché la vita mi ha insegnato che gli esami non finiscono mai”, dice la diva della musica italiana. E continua: “Io so quello che ho fatto, ma so che ogni volta bisogna mettersi in gioco […] ho preferito mettermi in gioco, e poi – conclude – con questa canzone di mio figlio…”. Ma il pubblico è simbolo di come la cantante sia rimasta sempre nel cuore degli italiani. Applausi fragorosi per lei in sala, che ringrazia: “amo questo mestiere lo amo troppo, sul palcoscenico mi sento a casa mia, grazie di cuore”. Ciò che è certo riguardo alla partecipazione di Rita Pavone al Festival della Canzone Italiana è che la cantante ha conquistato una nuova fetta di pubblico. L’edizione 2020 di Sanremo, infatti, ha ottenuto un record di ascolti per quanto riguarda i giovanissimi: la fascia 15-24 anni ha superato il 60%. Partecipare al Festival le è servito per farsi conoscere da un pubblico più giovane, che altrimenti avrebbe ignorato l’esistenza di una grande donna della musica italiana. Una donna che si può considerare vincente, nonostante la classifica, per essersi messa in gioco.

Rita Pavone, affari e residenza in Svizzera: trasloca anche l’etichetta discografica «Nel mio piccolo». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. La cantante ha portato oltre confine la sede della sua etichetta musicale. Figli e affari con il passaporto della Confederazione. Ma lei assicura: sono profondamente italiana. La società che incassa i guadagni e i diritti della sua attività si chiama «Nel mio piccolo» ed è intestata («socia e gerente») a «Rita Ori Filomena Merk-Pavone, da Breggia, in Morbio Superiore». Cioè sempre lei (Merk è il cognome del marito Ferruccio, in arte Teddy Reno) ma nella puntuale e burocratica completezza dell’anagrafe societaria. Svizzera anche quella. Breggia infatti è un comune del Canton Ticino, Morbio una sua frazione (3 chilometri dal confine, poco di più da Como) e dunque la società è di nazionalità elvetica. La sede è sempre a Morbio, presso i figli della coppia, Alessandro e Giorgio Merk, quest’ultimo tra l’altro, autore del pezzo che l’ex Gianburrasca canterà all’Ariston.Teddy Reno, marito di Rita PavoneInsomma la seconda giovinezza della Rita nazionale è ormai da molto tempo al di là del confine, dove spesso si rifugia chi cerca tranquillità e riservatezza. Anche negli affari. E infatti l’ «azienda Pavone» (stesso nome: Nel mio piccolo) che era sul nostro territorio fino a poco più di un anno fa è stata chiusa. Ha lasciato il patrio Fisco - senza pendenze - ed è rinata in Svizzera come etichetta musicale «con facoltà di contrarre contratti per prestazioni televisive, concerti live … la vendita di merchandising, dischi, dvd, etc legati ai marchi Nel mio piccolo di Rita Pavone …».«Guardo le cose, non il partito cui appartiene chi le dice - affermava la cantante poco meno di un mese fa, dopo le accuse di appoggiare i sovranisti -. Sono profondamente italiana: vivo in Svizzera, come Mina, De Benedetti o Tina Turner, e ho il doppio passaporto, ma le mie radici sono in Italia. Mi preoccupo del mio Paese anche se non ci vivo. Se questo è essere sovranisti... I mie genitori sono sepolti in Italia, sono legata alla mia città, Torino, e tifo Juventus». Quindi viva l’Italia e Viva la pappa col pomodoro. Viva l’Emmenthal non avrebbe avuto lo stesso successo.

Rita Pavone, sui social infuriano le polemiche: «No alla sovranista a Sanremo». Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi e Arianna Ascione. A distanza di 48 anni dalla sua ultima partecipazione sanremese Rita Pavone tornerà sul palco dell'Ariston: l'annuncio è stato dato da Amadeus nel corso della puntata speciale de I Soliti Ignoti legata alla Lotteria Italia, durante la quale il conduttore ha fatto il nome dei due cantanti in gara che andranno ad aggiungersi agli altri 22 già resi noti (oltre a Pavone parteciperà alla 70ma edizione del Festival della Canzone Italiana anche Tosca). Il ritorno dell'interprete del Geghegè però non è stato visto di buon occhio in rete: in molti infatti hanno ricordato gli scivoloni dell'artista su Twitter, dall'attacco contro i Pearl Jam nel giugno 2018, rei di aver dedicato Imagine ai migranti e aver supportato la campagna per l'apertura dei porti ("Della serie: ma farsi gli affari loro, no?"), al commento caustico contro l'attivista 16enne Greta Thunberg (aveva scritto "Quella bimba con le treccine che lotta per il cambio climatico, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio da film horror" salvo poi scusarsi). Nonostante le numerose voci contrarie c'è comunque chi si è esposto in difesa della collega come Fiordaliso: "Non capisco questo linciaggio di Rita Pavone. A volte (e sottolineo a volte), io non sono d'accordo con lei. Ma Sanremo non è politica, abbiate pazienza. Lei è una delle più grandi artiste italiane. O avete la memoria corta? Io sono contenta che partecipi". Intanto nel mirino dei social è finito anche il rapper Anastasio, anche lui nella rosa di Sanremo 2020: il vincitore della dodicesima edizione di X Factor all'indomani della vittoria era stato accusato di nutrire simpatie per Matteo Salvini e CasaPound («Io non sono nè comunista nè fascista, ancora parliamo di comunismo e fascismo? Io non so sulla base di cosa abbiano scritto quelle cose, sulla base dei like alle pagine? Io mi tengo informato, metto i like e vedo cosa dicono le persone», aveva replicato).

Totò Rizzo per leggo.it il 21 gennaio 2020. «Se oggi sono qui a Sanremo lo devo al destino che mi è stato amico e a Renato Zero che amico mi è stato altrettanto». Rita Pavone – tra le 24 voci in gara al 70° Festival della Canzone Italiana – arriva in Riviera nel pomeriggio, domani salirà sul palco dell’Ariston per la prima prova con l’orchestra. Il destino le ha sorriso su un tavolo operatorio quando è stata salvata in extremis nel 2003: «Avevo piccole fitte al petto a cui però non davo nessuna importanza, cantavo, andavo di qua e di là, ballavo come una matta, fino a che sono piombata a terra ché l’aorta era quasi già bella e otturata. Mi hanno riportata al mondo per un pelo». Poi nel 2010 il «re dei sorcini» la vuole tra gli amici-colleghi sul palco di Villa Borghese nei concerti con cui festeggia i 60 anni. «Mi ero ritirata già da cinque o sei anni. Dissi a Renato: “Non annunciarmi, non dire niente…” e arrivai in scena a sorpresa. Scoppiò il finimondo. Così mi son detta: cosa ci faccio a casa, con le mani in mano? E da allora mi sono rimessa in marcia». La marcia prosegue con questo pop-rock in gara al Festival, «Niente (Resilienza 74)», scritto da Giorgio Merck, suo secondogenito, un brano in cui Rita riafferma se stessa, una vita e una carriera di assoluta indipendenza. «Ho sbagliato più quando mi sono fidata di altri che quando ho fatto di testa mia». Una carriera lunga 58 anni, idolo dei teenager italiani a 16 anni e star internazionale – prima in classifica in Inghilterra e nelle top ten americane – ad appena 20 quando si esibì alla Carnegie Hall a New York. E più volte invitata all’«Ed Sullivan Show». «Alla fine di una puntata – racconta – di cui era ospite anche Elvis Presley, uno dei miei miti, lui si avvicina e mi fa: “Sei in gamba, ragazza. Farai strada e sarà molto lunga”. Toccai il cielo con un dito». Profezia avverata: «Infatti sono ancora qui, grazie alla mia voce che è rimasta intatta. La faccia no, le rughe mostrano per intero la mia anagrafe. Ma di quelle non mi è mai importato nulla». Anche le polemiche non la scalfiscono: «Sono a Sanremo per cantare, l’unica cosa che mi rende felice». L'intervista completa sarà disponibile domani 22 gennaio sia sul sito sia sulla versione cartacea di Leggo

Rita Pavone, tutte le volte che ha fatto parlare di sè (non solo per il matrimonio con Teddy Reno). Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 da Arianna Ascione su Corriere.it. Molto prima di Twitter la cantante è finita più volte sotto i riflettori. «All’inizio del mio rapporto con i social non capivo perché i miei colleghi non prendessero posizione su questioni importanti. Ora ci sono arrivata: sono più dritti di me. Esprimi un’opinione semplice e ti vengono addosso. Ho preso atto di quello che succedeva e ho smesso di scrivere». Inizia così l'intervista che Rita Pavone ha rilasciato al Corriere, in risposta a chi ha ferocemente criticato la sua prossima partecipazione al Festival di Sanremo. In molti infatti negli ultimi giorni hanno ricordato l'attacco della cantante contro i Pearl Jam schierati pro-porti aperti («Della serie: ma farsi gli affari loro, no?») e quello contro l'ecologista Greta Thunberg (definita «personaggio da film horror», paragone di cui poi si era scusata). Non è la prima volta che, nel corso della sua lunga carriera, l'interprete di canzoni come «Datemi un martello», «Come te non c'è nessuno» e «Il ballo del mattone» (con cui si è fatta conoscere in tutto il mondo) fa parlare di sè.

Un modello per i giovani. Quando irrompe sulla scena musicale italiana agli inizi degli anni Sessanta Rita «la zanzara» incarna un modello femminile molto diverso da quello in voga all'epoca: capelli corti, una pioggia di lentiggini, canta in modo sfrenato, urlato e rock (uno stile che i benpensanti consideravano più adatto ad un uomo). Fin da subito viene additata come esempio scandaloso, ma i giovani la vedono come un modello da seguire. Un anno dopo l'uscita di uno dei suoi successi più conosciuti, «La partita di pallone» (che le fece ottenere il suo primo disco d'oro), grazie alla sua immagine di rottura Rita si guadagna l'attenzione di Umberto Eco (che la analizza nel suo saggio «Apocalittici e integrati» del 1964 come fenomeno di costume). Il ruolo di tramite tra le nuove generazioni e gli adulti (memorabili a questo proposito i siparietti con Aldo Fabrizi a «Stasera Rita») è confermato da numerose sue produzioni dell'epoca, che compongono una sorta di guida che aiuta ad orientarsi tra nuovi balli («Il Geghegè») e persino giochi innovativi («Plip»).

Matrimonio con diversivo. Lo scricciolo della musica italiana, in quel momento sulla cresta dell'onda, nel marzo del 1968 finisce protagonista di uno scandalo per aver sposato - dopo due anni di relazione mantenuta nascosta - il suo produttore e manager Teddy Reno. Sotto accusa finirono la grande differenza d'età (23 anni lei, 42 lui) e il fatto che Reno era ancora sposato con Vania Protti da cui aveva avuto un figlio e da cui si era separato (in quegli anni il divorzio in Italia non era legale). Il giorno delle nozze Teddy e Rita, per depistare i fotografi, si presentano separatamente al convento delle suore paoline di Lugano in abiti civili. Una volta giunti all'interno, al riparo da sguardi indiscreti, si cambiano e si presentano all'altare. Quel giorno per immortalare lo scoop dell'anno una reporter prova ad infiltrarsi in convento travestita da monaca, ma viene scoperta quasi subito.

Un'imitazione poco gradita. Gli anni Settanta corrispondono ad un periodo turbolento per l'artista, che deve affrontare la separazione dei genitori - molto chiacchierata sui rotocalchi di quegli anni -, il cambio di casa discografica (dalla RCA alla Ricordi e poi ancora alla RCA dopo aver rifiutato una partecipazione a Sanremo) ma soprattutto le conseguenze del suo discusso matrimonio e il contemporaneo allontanamento dal piccolo schermo. La Rai infatti mise da parte per anni Rita in seguito alla causa intentata da lei e Reno, poi vinta, per un'irriverente imitazione di Alighiero Noschese proposta a «Doppia Coppia» (poi cancellata).

Una combinazione sfortunata. Rita Pavone, nel 1979, fu reclutata dalla Rai per la seconda edizione di «Che combinazione», ma la collaborazione con Gianni Cavina non si rivelò delle più semplici. Come ricorda nel suo libro autobiografico intitolato «Nel mio piccolo» (pubblicato nel 1995): «Nonostante io fossi la protagonista dello spettacolo, e lui un semplice comprimario, grazie alle sue amicizie altolocate con alti papaveri della politica (più che papaveri si sussurrava fossero "garofani") ogni settimana la sua presenza nello spettacolo diventava più invadente, con l'aggiunta inopportuna di numeri che esulavano totalmente da quello che era il suo ruolo».

Rita e la politica. Nel marzo 2006 - dopo aver annunciato durante la trasmissione di Rai 1 «L'anno che verrà» il suo ritiro a vita privata (poi interrotto a partire dal 2013) - si è candidata alle elezioni per il Senato, Circoscrizione Estero nella lista Per l'Italia nel Mondo di Mirko Tremaglia, ma non è stata eletta. E oggi non si ricandiderebbe, come svelato al Corriere: «Mi feci convincere da Mirko Tremaglia. Avrei voluto correre in Sudamerica e invece mi ritrovai nella Ripartizione Europa... E comunque no, ho capito che la politica è solo un dare e avere, non c’è sincerità. Però feci bellissimi incontri, come con gli ex minatori del Belgio».

Il difficile rapporto con Pippo Baudo. Nella stessa intervista del 2017 Pavone ha fatto chiarezza sulla presunta antipatia per Pippo Baudo: «Veramente sono io che sto antipatica a lui. Le pare possibile che in tanti anni di carriera mi abbia invitata solo un paio di volte ai suoi programmi?».

Sanremo, giù le mani da Rita Pavone. Insulti irripetibili contro la cantante "sovranista". Rea di avere 74 anni. Ma servirebbe ricordare che al festival la voce dovrebbe contare qualcosa. E la signora Gian Burrasca in questo non è seconda a nessuno. Beatrice Dondi l'08 gennaio 2020 su L'Espresso. Alla fine, l'ennesimo nodo viene al pettine e il messaggio arriva diretto, come un pungo ben piazzato: se sei una donna non puoi invecchiare. Punto. Fine della discussione. È una sorta di peccato originale, la colpa primigenia di genere (femminile) quella per cui nasci, cresci ma solo fino a un certo punto. La ruga no, il viso non si tocca, il resto neppure. Così nella polemica risibile scatenata in queste ore contro la partecipazione in gara di Rita Pavone, si è scoperchiato il tombino maleodorante dell'insulto mirato alla fisicità della cantante di Torino. Cinquanta milioni di dischi venduti, cinque volte ospite negli Usa all'Ed Sullivan Show con Ella Fitzgerald e Duke Ellington, una scena divisa con i Beach Boys, Marianne Faithfull, Orson Welles, The Animals e Supremes, riconosciuta da Elvis Presley, un mese all'Olympia di Parigi, protagonista di ben cinque pagine degli Apocalittici e integrati di Umberto Eco, una rivoluzionaria relazione duratura con un uomo più grande di lei, sceneggiati cult, festival, vittorie, dischi d'oro argento e mirra e soprattutto una voce della madonna. In estrema sintesi questo è il curriculum musicale della signora Pavone. A cui di recente è scappata un po' la mano sui dannati social dove ha fatto intendere di avere qualche ideuzza su migranti e dintorni che si fatica a digerire. Rita sovranista, la Zanzara che vuole pungere con la politica, datele un martello, sono stati i primi commenti a caldo. Ma è durata poco. Perché scendere nel merito è uno sport a cui il Belpaese tende a non praticare per principio. Così quando Amadeus ha annunciato la sua presenza a sorpresa tra i 24 cantanti in gara sul palco dell'Ariston, il curriculum della signora Pavone non è stato neppure preso in considerazione. E ipotizzando che avrebbe utilizzato il palco dell'Ariston per celebrare un comizio salviniano anziché imbracciare il microfono addirittura per interpretare il suo brano (“Niente”), è partito l'insulto sull'ardire di aver compiuto 74 anni. Su di lei parole irripetibili, pensieri irricevibili. Perché detto che Sanremo è una kermesse dove l'aspetto musicale è un blando dettaglio e la scatola è di certo più frizzante del contenuto, si tratta pur sempre di una gara dove la voce dovrebbe avere un certo peso. E vista la lista, nessuno meglio della piccola grande Rita ha il diritto di starci. Per cantare, s'intende.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it l'8 gennaio 2020. Rita Pavone, ve lo dico subito, almeno ai miei occhi, è da ritenere tra gli Intoccabili. La signora, per ciò che mi concerne, può pronunciare e fare ciò che meglio le suggerisce il proprio estro, insieme al suo curriculum musicale, pensa. Volendo, potrebbe anche ricostituire, per suo semplice diletto ricreativo, che so, perfino l’orda degli Unni, o, che dire ancora, addirittura la capra nibelungica delle Waffen SS e ancora, già che è lì, mettersi alla testa di un’armata di “totenkopf” - “teste di morto” - alla maniera corrusca del colonnello Kurtz di “Apocalypse now”, tuttavia, nonostante tutti questi orrori certificati, qualora davvero potessimo imputarglieli, resterebbe, pura, incontaminata, intoccabile, ora e sempre così ai miei occhi, rimarrebbe cioè Rita Pavone. Così dal tempo del “Giornalino di Gian Burrasca”, portato in televisione da Lina Wertmuller nell’Italia in bilico tra 1964 e 1965, quando lo sceneggiato in bianco e nero, mantelline di vigogna da collegiali, dai Telefunken raggiunse le pupille di noi, i baby-boomer, che allora frequentavano soltanto le classi elementari, cupe aule rette talvolta da maestri ancora, loro sì, fascisti e muniti di bacchetta, veri mostri, gli stivali di centurioni della milizia ancora ai piedi. Avvenne proprio allora che mi innamorai perdutamente, disperatamente, con una grazia forsennata che può accadere soltanto a un bambino di nove anni, sì, proprio di Giannino Stoppani. S’intende che insieme all’amore sorsero in me molti dubbi sulla reale, sempre mia, propensione sessuale, se insomma dovessi prendere atto di un’eventuale omosessualità. Rita, l’interprete del ragazzino incoercibile, era, sì, nella realtà una ragazza, mentre Giannino era certamente maschio, e allora, detto in breve, di chi ero esattamente invaghito: di Lei o del suo doppio in pantaloni e berretto da convittore? Quanto alla bandiera che reca il motto “Viva la pappa con il pomodoro”, sempre ai miei occhi, era sinceramente rossa, o addirittura nera, come quella degli anarchici. Un dilemma che mi sono portato dietro fino a quando, una quindicina di anni fa, l’ho incontra a un suo concerto, credo fossimo a Fabriano, e lei era lì insieme al suo amato Ferruccio, suo marito, sì, Teddy Reno. Solo allora ho potuto confessarle il mio antico dubbio. In verità, in quella circostanza, abbiamo parlato anche d’altro, del modo in cui Rita Pavone ha incrociato la storia nazionale, metti, quando Antonello Trombadori le fece incontrare Togliatti, questi, mosso da curiosità per il fenomeno giovanile della “Zanzara” e dei suoi “Collettoni”, volle conoscerla, un incontro tra torinesi, un dettaglio raccontato, fra l’altro, da Giorgio Bocca nella biografia dedicata proprio al “Migliore”. Detto ciò, ragionando invece di musica e canzoni, se posso permettermi, la tessitura vocale e l’arrangiamento di “Il ballo del mattone”, con quei contrappunti di flauto, è degna di un allegro andante brillante di Shostakovich o di Ravel. Scopro ora che molti, sui social, reputano inaccettabile la sua presenza al prossimo Sanremo. L’accusano di sovranismo, se non di cose assai peggiori. Già, la assimilano all’orrore dei trogloditi razzisti, quasi che il palco del Festival dei Fiori possa esserne violato dal passaggio, proprio come accade con i tabernacoli e i paliotti degli altari manomessi dai barbari invasori e dai propri armenti incivili. L’inizio dello scandalo si deve, se non rammento male, a un suo commento Twitter dedicato a Greta Thunberg, cui poi ne va aggiunto un altro a proposito dei Pearl Jam che facevano appello all’accoglienza dei migranti; un groviglio ormai inestricabile cui computare infine la scelta in Rai di affidare proprio a lei, quella del Geghegè, il ricordo di Woodstock; anche lì, assodato quant’è permaloso e geloso dei propri memorabilia il popolo del rock, c’è stata quasi un’insurrezione da parte di quest’ultimo. Sempre sui social, la questione ha assunto l’aspetto di un’onda sempre più ampia e problematica, così da idealmente immaginare la sua testa innalzata dai detrattori in cima a una picca, lì come segno di indegnità morale. Associando ancora il tema della sua partecipazione al caso parallelo di Rula Jebreal, prevista sempre al festival, si è giunti perfino una sorta di meme comparativo, per stile e gusto assimilabile addirittura alle linee guida della mostra dell’arte degenerata, con la differenza che in questo nostro caso non sembra averla promossa Goebbels. Come ha scritto giustamente su Facebook Flavia Perina: “L’accoppiata di foto Jebreal-Pavone usata per criticare la cartapecora di una vecchietta sovranista nel nome della gnoccagine di una giovane progressista è il paradigma Rosy Bindi rovesciato, al posto vostro mi vergognerei, ma molto”. Intanto il libertario Emilio Targia, voce di Radio Radicale, che della signora Pavone ha scritto la biografia - “Tutti pazzi per Rita: La mia vita, i miei sogni, la mia voglia di cantare” (Rizzoli) - mi assicura che dietro tutto questa storia, da parte della nostra, non c’è nessuna intenzione di cavalcare la già menzionata capra nibelungica del razzismo, semmai soltanto leggerezza, sia quando ha commentato su Greta sia in seguito. Sempre il Biografo Ufficiale, accenna a una scarsa dimestichezza con i social da parte della sua amica. Gli obietto che, sarà pur vero, gli credo, eppure, in verità, lei, Rita Pavone, da un certo punto in poi, ha dato davvero la sensazione di volersi incaponire in un ruolo, come dire, antipatizzante, sarà pure dipeso da un fattore reattivo, autoprotettivo, resta che, forte anche di questo dato ulteriore, da un certo momento in poi, il tribunale informale dei social ne ha fatto una sorta di feticcio della subcultura razzista salviniana, e la tempesta è pienamente in corso, e in questo momento sembra di intuirla tutta perfino dentro le pupille del già ampiamente smarrito Amadeus, certamente non idoneo a poterla placare. Quanto a noi, ben al di là dell’impresentabile subcultura sovranista e dell’intera matassa sempre più intricata, soprattutto in nome della laicità, forse anche del senso del limite e ancora più del ridicolo, siamo qui a difendere in Rita Pavone il calore del tempo in cui l’impronta della mano sporca di carbone nerofumo di Gian Burrasca, appena fuggito di casa, nel timore di finire nel tremebondo collegio “Pierpaoli”, accompagnata dalla scritta  “Moio per la libertà”, proprio quel segno era esattamente per quasi tutti noi un simbolo di rivolta, lo stesso che ci avrebbe accompagnato, anni dopo, su altre barricate, con altre bandiere certamente figlie di un sogno tra Bakunin e Marx e i Situazionisti, così per le nostre vite, per le nostre passeggiate. Alla fine, però, tacerlo o far finta di nulla sarebbe davvero da meschini, il Festival di Sanremo e perfino dell’ironia, nel nostro caso, l’ha già vinto Matteo Salvini con questo suo brano idealmente in concorso: “Il nuovo nemico della sinistra è Rita Pavone. Non ci sono più i comunisti seri”.

Insulti a Rita Pavone «Io sovranista? Ringrazio Matteo come Togliatti». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi e Arianna Ascione. È il Sanremo del test del dna politico. Quello sugli ospiti è un classico, per quello sui testi delle canzoni bisogna attendere gli ascolti, l’edizione 70 introduce quello sui cantanti in gara. È stato sufficiente l’annuncio del cast su Rai1 da parte di Amadeus in versione Befana, per scatenare sui social i commenti contro Rita Pavone (e, di striscio, Anastasio nonostante nei giorni scorsi abbia criticato duramente Salvini) per le sue prese di posizione sovraniste via Twitter: il rilancio di fake news contro gli immigrati in occasione dell’attentato terroristico a Barcellona, la gaffe (compresa di scuse) su Greta Thunberg definita «personaggio da film horror», l’invito ai Pearl Jam a farsi i fatti loro durante i concerti e a non intervenire sul tema dei porti chiusi.

Il Giamburrasca dei social ha già deciso come rispondere?

«All’inizio del mio rapporto con i social non capivo perché i miei colleghi non prendessero posizione su questioni importanti. Ora ci sono arrivata: sono più dritti di me. Esprimi un’opinione semplice e ti vengono addosso. Ho preso atto di quello che succedeva e ho smesso di scrivere. Metto foto di cani, fiori, tramonti... E ho anche smesso di leggere. Sono diventata come le scimmiette: non vedo, non sento, non parlo».

Allora si è persa la sua difesa da parte di Matteo Salvini: «La sinistra ha scoperto un nuovo nemico del popolo»...

«Gli dico grazie. Come ringraziavo Palmiro Togliatti che parlava bene di me a tutti».

Leggere i commenti degli hater le faceva male?

«I primi tempi ci soffrivo. Credevo che non mi capissero. Poi ho realizzato che se qualcuno non vuole capire non c’è modo...».

Qualcuno, con macabri riferimenti a piazzale Loreto, vorrebbe vederla in fondo alla classifica di Sanremo...

«Siamo in mezzo a gente insana... Forse si capirà perché sono mancata per 47 anni dal Festival...».

Perché non si sarebbe mai schierata?

«Non so... forse proprio per quello. Non ho mai avuto santi protettori nella politica».

Però ritorna quando Lega e sovranisti contano in Rai. Coincidenza?

«Il “come mai proprio quest’anno?” mi dà fastidio. Se fosse così sarei in televisione tutti i giorni. Visto che non lo sono o quei santi protettori non valgono una cicca o non esistono proprio».

Si sente sovranista?

«Mi definisco liberale. Guardo le cose, non il partito cui appartiene chi le dice. Sono profondamente italiana: vivo in Svizzera, come Mina, De Benedetti o Tina Turner, e ho il doppio passaporto, ma le mie radici sono in Italia. Mi preoccupo del mio Paese anche se non ci vivo. Se questo è essere sovranisti... per me è essere attaccati al proprio Paese. I mie genitori sono sepolti in Italia, sono legata alla mia città, Torino, e tifo Juventus».

Ci spiega il titolo della canzone, «Niente (Resilienza 74)»?

«È un pezzo grintoso. Settantaquattro sono i mei anni. E la resilienza è stata la costante della mia vita. Sono una abituata agli alti e bassi a grandi successi e grandi delusioni. Questo prendere schiaffi rimanendo sempre in piedi mi ha reso fiera. Sono come una canna, mi piego ma non mi spezzo».

Rita Pavone: “Quella notte Elvis mi disse: You are great!”. Giulia Cherchi il 29/02/2020 su Il Giornale Off. Cantante, attrice e showgirl, Rita Pavone ha venduto più di cinquanta milioni di dischi in tutto il mondo incidendo in sette lingue diverse. Ed ora, la grintosa artista evergreen, dopo il vinile del brano che ha presentato all’ultimo Festival di Sanremo il 28 febbraio esce, sempre per BMG, con un interessante doppio cd, raRità. Il suo brano a Sanremo Niente (Resilienza74) parla di un momento difficile e della resilienza.

Quando le è capitato di vivere un momento in cui si è accorta di essere resiliente?

«Tutta la mia vita è stata una resilienza, un ascensore che sale e che scende, una grande gioia e poi magari un dolore. Tutti noi durante il corso della nostra esistenza passiamo dei momenti in cui avremmo bisogno di un bosco che ci circondi e che ci protegga in qualche maniera, e delle volte invece è proprio il bosco che ci toglie il respiro perché i rami sono intricati. Ogni persona passa dei momenti difficili, e la resilienza è saper accettare questi momenti, affrontarli, combatterli e qualche volta anche vincerli. Io ho amato profondamente questo testo perché mi ci identifico, ma ho anche capito che avendolo scritto lui qualche problemino doveva averlo vissuto. E questa cosa mi ha fatto anche molto riflettere. Mio figlio ha scritto una cosa per sé che io condivido in pieno. Inoltre mi ha riportato alle mie origini musicali, quelle che non sono riuscita a proporre durante gli anni del grande successo. È stato un passo in dietro che in realtà è un passo in avanti. Questa canzone è tutto ciò che avrei voluto cantare quando ero ragazzina, anche se quelle del passato sono state scelte di grande successo»

Il 28 febbraio è uscito un doppio cd raRità dove ci sono dei suoi brani inediti mai apparsi in Italia che hanno raggiunto alte vette nelle classifiche di tutto li mondo. Perché non erano mai usciti in Italia?

«Una volta quando si faceva un Lp su quindici-sedici brani se ne sceglievano dodici, e talvolta i gusti di quelli della discografia magari non erano esattamente i tuoi. Così capita ci siano dei brani che rimangono delle perle che si sono perdute. In cinquantotto anni di carriera ho inciso per sette etichette diverse e non tutte prendevano canzoni italiane, qualcuna la traducevano per adattarla al loro mercato discografico. Un giorno, ad esempio, è capitato che sono andata al cinema con mio marito a vedere Jesus Christ Superstar e mi sono accorta che Erode cantava una canzone che conoscevo. Poi mi sono ricordata: originariamente l’avevo incisa io! In questo doppio CD della BMG ci sono delle canzoni straniere che non conosce nessuno e delle canzoni italiane che hanno fatto, con suoni diversi, un altro tipo di vita all’estero. E sono tutte cantante da me. Alcune sono delle rarità perché non si sono mai sentite, come il duetto con Lucio, e dietro ogni brano c’è una storia che racconta un momento musicale con alcuni personaggi che sono stati importanti per la mia vita di artista».

Lei ha avuto tanto successo in Italia e tanto all’estero. Qui in Italia si è mai sentita un po’ sottovalutata?

«Negli altri paesi quando si è raggiunto un apice non devi dimostrare più nulla. Da noi come diceva Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”. Bisogna entrare in questa ottica, e dirò che non è neanche male perché se a Sanremo mi avessero invitata come ospite io non mi sarei divertita come mi sono divertita. L’ospite è già una battaglia vinta: se vado lì con il mio repertorio, fatto di una serie di successi, ho già vinto la serata, perché sono pezzi che cantano tutti. Io invece volevo mostrare che Rita è moderna, è attuale, ha i piedi piantati per terra e vuole mettersi in gioco perché ha ancora delle cose da dire musicalmente. E ringrazio Amadeus per averlo capito. Se la voce mi tiene, ed è fresca come adesso, io sono ultra felice perché posso fare ancora delle cose che non sono riuscita a fare prima e che arriverò a fare dopo i settantacinque anni. A settantacinque anni si comincia a belare come le pecorelle, il diaframma non regge più. Invece, grazie a Dio, il diaframma funziona benissimo, e spero di fare cose che mi possano divertire e che possano divertire gli altri».

In America ha persino conosciuto Elvis Presley. Che ricordo ha?

«Negli Stati Uniti ci sono arrivata perché Ed Sullivan, che all’epoca aveva uno show importantissimo, mi aveva visto in Italia a Studio Uno e mi aveva voluto nel suo programma televisivo. In quel periodo in America ho fatto due passaggi molto importanti la domenica in diretta e ho registrato tre Lp. Il terzo lo avevo fatto a Nashville, con uno dei più grandi produttori di Elvis. In quell’occasione, durante la sessione di registrazione, in un momento di pausa, ho sentito il nome “Presley”. Allora ho detto: me lo fate conoscere? Mi è stato risposto di no: era difficilissimo perché il colonnello Parker, il suo manager, non permetteva di avere nessun contatto con l’artista prima di un’incisione. A quel punto ho fatto il piantino (avevo diciannove anni, ma sembrava ne avessi dodici fisicamente). Così, inteneriti mi hanno detto: se fai la brava bambina ora vediamo come fare. Hanno cercato di convincere il colonnello Parker per farmi presentare Elvis. E la sera, a mezzanotte, quando lui è venuto ad incidere, io ero lì. Entrando ha salutato tutti, poi si è fermato e mi ha fatto: io ti conosco, tu sei la ragazza italiana! Si è avvicinato, mi ha dato un pizzicotto sulla guancia e ha detto: you’re great! Io avevo le ginocchia che andavano per i fatti loro, ho biascicato qualcosa in inglese per chiedergli se potevo avere una sua foto. Lui ha fatto di più: mi ha regalato una tela con una sua dedica e mi ha lasciato con un sorriso dicendo: fai un buon lavoro! Conoscere Elvis è stato un momento davvero importante. Poi ho conosciuto tante altre star: Diana Ross, Orson Welles, Tom Jones…una miriade di personaggi che non avrei mai pensato nella mia infanzia di poter un giorno incrociare, e addirittura condividere un palco. È stata una grandissima gioia per una ragazza di Torino, che viveva in periferia, conoscere quelli che fino a ieri vedeva soltanto al cinema».

Ma come è nato il suo desiderio di fare la cantante?

«Mio padre mi disse che già a due anni mi mettevano su un tavolo e cantavo una canzone che andava di moda allora, messicana. E una volta salita non volevo più scendere. Era già sintomatico di una volontà di stare su un palco. Poi ho iniziato a nove anni a farlo in maniera più completa: facevo gli avanspettacoli. Io incominciato ufficialmente nel ‘62 ma in realtà avevo una gavetta alle spalle lunghissima. Ero una ragazzina che amava tantissimo la musica americana perché i cantanti americani si muovevano in un modo in cui noi non facevamo. In Italia a Sanremo erano tutti compiti, fermi davanti un microfono. Il primo a muoversi fu Modugno che con Volare aprì le braccia, e poi Celentano che voltò la schiena».

Mi racconta un episodio OFF degli inizi della sua carriera?

«Mio padre è stato il mio più grande estimatore e devo tutto a lui, la sua genialità e la sua fiducia nei miei confronti. Io ero piccolina e vivevo in un mondo in cui andavano le maggiorate come Sofia Loren, Ava Gardner, Silvana Mangano, ed era molto difficile fare carriera. Allora mio papà mi ricordo quando avevo quattordici-quindici anni aveva conosciuto un fotografo che mi faceva delle fotografie dove apparivo leggermente più grande, più adulta. Però poi tutto finiva quando le persone a cui lui mandava le fotografie mi vedevano di persona. E tutte le volte dicevano: ma è questa la cantante? Partendo dai piedi in su non ci voleva molto, perché ero proprio piccolissima. Mio padre allora lì combatteva e diceva: sentitela cantare prima di decidere! E infatti dopo avermi ascoltato mi confermavano sempre e riuscivo a lavorare in tutti i locali. Ma ogni volta che venivo valutata un po’ come i cavalli che gli guardano la bocca mi sentivo amareggiata, perché più che sentire la voce guardavano la fisicità. Questo mi dava leggermente fastidio. Poi questa cosa col tempo non mi ha più toccato, perché credo che le persone valgano per quello che sono: non è essere alti ma essere all’altezza. E io sono sempre stata abbastanza all’altezza anche perché faccio un mestiere che adoro. Lo faccio per divertire me stessa, per gratificarmi. E scopro che gratificandomi riesco anche a gratificare e divertire gli altri, che è un grande dono. Io il mio non lo considero un lavoro».

Cosa pensa di un cantante come Achille Lauro che fa parlare di sé soprattutto per il look?

«Achille Lauro è sicuramente un genialoide, ha delle grosse carte ed è anche un personaggio molto tenero e rassicurante. Nella vita è molto pacato, tranquillo. La sua forma riprende quella di David Bowie prima maniera e di un primissimo Renato Zero. È una formula che parte forse dai travestimenti per poi trovare il proprio stato di artista come fece Bowie. Io credo che ognuno debba fare la propria strada come la sente. Lui la sente così e piace alla gente, e io non ci vedo nulla di strano e di anormale. È un modo di proporsi che trovo attraente in questo momento, perché i giovani non conoscono il Renato Zero di quaranta anni fa. Il suo è un proporsi in una formula diversa ma che ha similitudini col passato, come Renato le aveva con Bowie. Ognuno fa le sue scelte e lui ha fatto la sua scelta».

Lei è sempre stata una ribelle, un po’ come Gian Burrasca, il suo personaggio nel film. Quale è stato l’atto più rivoluzionario che ha fatto nella sua vita?

«Sicuramente sposare un uomo più grande di me che era già stato sposato in un momento in cui il divorzio non c’era. Ho rischiato molto, ma come diceva Oscar Wilde “è meglio avere dei rammarichi che dei rimpianti”. Io sapevo che se avessi perduto quel treno la mia vita sarebbe stata totalmente diversa. Ed ora a marzo festeggerò 52 anni di matrimonio. Il mio mestiere mi piace da morire, lo adoro, vivo per quello che faccio, però la mia famiglia conta più di tutto: sai che hai tre persone che ti amano profondamente, con le tue virtù ma anche per i tuoi sbagli, per i tuoi errori. Aver creato un nucleo familiare per me è stato importante. Poi tutto il resto è un’aggiunta».

Sui social c’è chi l’ha chiamata la cantante sovranista…

«Io non ho ancora capito cosa voglia dire sovranista. Sono una persona che fa la sua vita, che ama il proprio Paese anche se vive in un altro Paese. Abito in Svizzera da 50 anni, ho un doppio passaporto ma amo le mie origini, ho i miei genitori sepolti a Torino e i miei fratelli che vivono lì. Ci tengo a dare la mia opinione su delle cose. Non è accettata? Va bene, vorrà dire che non la scriverò. Esprimerò il mio pensiero quando voto».

Dove la vedremo prossimamente?

«Sto lavorando per dei progetti televisivi ma soprattutto per tornare a fare dei concerti live, in Italia e all’estero, perché quello che mi interessa di più è il contatto con la gente».

·        Rita Rusic.

Grande Fratello Vip, autoerotismo di Rita Rusic: il video-scandalo, la regia costretta alla censura. Libero Quotidiano il 21 Gennaio 2020. Alle telecamere del Grande Fratello Vip non sfugge nulla: nemmeno le vicende più intime. Così, Rita Rusic è stata immortalata alle 3.20 della notte di martedì 21 gennaio mentre era intenta a masturbarsi. Lo scoop e le immagini che testimoniano la masturbazione - davvero eloquenti - sono state pubblicate da Dagospia. La regia è stata costretta a spostare l'inquadratura proprio perché erano troppo esplicite. E sempre Dago fa notare come, soltanto due giorni fa, l'ex moglie di Vittorio Cecchi Gori si lamentasse per l'"assenza di testosterone nella casa del Grande Fratello". Assenza alla quale ha ovviato così come potete vedere nel video. Per inciso, la Rusico continua a tenere banco: alla vigilia, infatti, ha fatto discutere l'accusa rivolta proprio a Cecchi Gori, il quale secondo quanto detto non avrebbe prodotto The Irishman, il film di Martin Scorsese lanciato da Netflix a dicembre.

Alberto Dandolo per Dagospia il 21 gennaio 2020. Rita Rusic che spesso lamenta una totale assenza di testosterone nella casa del GF, 2 notti fa alle 3.20 si è adagiata nella capsula room (dove erano presenti anche Clizia e Ciavarro) e ha iniziato ad "assecondare" le "richieste" del suo "fiorellino" più segreto!  (il video è stato rimosso dal profilo Instagram di Dandolo...)

Ida Di Grazia per leggo.it il 21 gennaio 2020. Grande Fratello Vip 2020, scontro epico tra Rita Rusic e Valeria Marini «Ma quanto deve durare questo inferno?». Ecco cosa si sono dette. Nella quinta puntata del Grande Fratello Vip che abbiamo seguito in diretta  è avvenuto uno degli scontri più attesi tra due prime donne che hanno combattuto fino all'ultima battuta. La Rusic si conferma una donna di grande classe, la Marini... è stellare come sempre. Per Rita Rusic Valeria Marini ha rovinato l'equilibrio della loro famiglia e  ha impedito ai figli di vedere il padre. Nella quinta puntata del Grande Fratello Vip 2020, dopo Cecchi Gori per la Rusic ad attenderla c'è Valeria Marini avvolta da un abito tricolo che passa subito all'attacco: «Sono dispiaciuta di quello che hai detto perchè non corrisponde alla verità - dice la Marini -  voi eravate già separati, io sono stata vicina a Vittorio in un momento di difficoltà, tu hai sempre parlato malissimo di me, io sono felice che tu ti sei riavvicinata a Vittorio, nonostante tu mi abbia sempre attaccata non ho mai detto niente su di te. Ti posso capire da un certo punto di vista, sono sempre dalla parte delle donne», la Rusic è serafica in abito di pizzo bianco, replica senza scomporsi: «noi siamo stati vicino a Vittorio, in ospedale ci sei andata una volta, tu sarai pure dalla parte delle donne ma non mia, tu mi vuoi chiarire qualcosa che conosco ovvero le lacrime dei miei figli». Colpo di scena la Marini tira fuori dal reggiseno gli articoli di giornale con le dichiarazioni della Rusic contro di lei, applausi dal pubblico, social in delirio, ma la Rusic non abbocca «non siamo al bagaglino, dai fammi vedere un pezzo almeno ci divertiamo, mettiti una bella medaglia, tanto te la sai data da sola». «Io pensavo venisse qui perchè voleva farci divertire», dice Rita, ma la Marini è su un altro livello: «Alfonso sai che ti dico, io la perdono. Quello che mi interessa è che io sono una persona che ama le altre donne», «Ma quanto deve durare questo inferno?» Prova a fermarla la Rusic, la Marini vuole le scuse, Rita la confonde con un abbraccio «Ti dico di viverti la tua vita e di divertirti, ma senza mettere in mezzo me per qualsiasi cosa. Io le dico che le credo quando mi chiede perdono e vorrei abbracciarla». La Marini che inizialmente si scansa deve cedere... ci sono le telecamere!

·        Robert De Niro.

Robert De Niro rischia la bancarotta a causa del coronavirus: e la (ex) moglie lo attacca. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Nonostante risulti come l'attore più pagato al mondo, con un guadagno di 96 milioni di dollari solo tra giugno 2019 e giugno 2020 (lo dice la lista di People With Money), Robert De Niro dice di essere sull'orlo della bancarotta. La causa? La crisi mondiale legata alla pandemia, che avrebbe notevolmente intaccato le sue finanze, e un caso di divorzio dalla moglie, Grace Hightower, che lamenta il taglio del massimale della sua carta di credito dai 100mila ai 50mila dollari. La donna, con la quale De Niro ha avuto una turbolenta relazione dal 1997, depositando la richiesta di divorzio nel 2018, ha fatto anche sapere che i loro figli sono stati banditi dalla tenuta dove la superstar di Hollywood sta trascorrendo l'isolamento. Gli avvocati che si stanno occupando della causa hanno però sottolineato come il taglio di disponibilità mensile della donna sia dovuto alle reali difficoltà finanziare di De Diro, che per via della pandemia ha subito una dura perdita legata alla chiusura delle sue attività parallele alla recitazione, la catena di ristorazione Nobu e il Greenwich Hotel. Caroline Krauss, l'avvocato di De Niro, ha spiegato alla corte come Nobu abbia perso 3 milioni di dollari solo nel mese di aprile e ulteriori 1.87 milioni a maggio. L'avvocato della moglie, Kevin McDonough, ha però risposto in modo altrettanto perentorio: "De Niro sta usando la pandemia per tagliare i soldi dovuti alla Signora Hightower". Il processo è attualmente in corso.

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 4 luglio 2020. La situazione negli Stati Uniti continua a essere calda e molte celebrità hanno espresso le proprie opinioni sul tema: l’omicidio di George Floyd, le rivolte nelle strade, altri scontri e nuovi morti. Tra queste c’è l’attore Robert De Niro, che in video collegamento con «The Tonight Show Starring Jimmy Fallon» si è aperto sulla crescita dei ragazzi di oggi, compresi i suoi. «I miei sei figli sono tutti per metà neri», esordisce la star di Hollywood, «quindi non ho potuto dare per scontate certe cose. Capisci che se devi insegnargli ad alzare le mani quando li ferma un poliziotto, oppure tenerle ferme sul volante, mai abbassarle sotto e tantomeno fare movimenti improvvisi, non fare questo, non fare quello, insomma c’è da avere paura. Le cose credo davvero debbano cambiare». De Niro ci tiene a precisare che, ovviamente, non tutti i poliziotti sono come l’agente del caso-Floyd: «Però chiunque ferisca un’altra persona senza un motivo, che non sia l’autodifesa o la protezione di altri, non dovrebbe fare quel lavoro», aggiunge. Il premio Oscar, classe ’43, ha avuto appunto sei figli da tre donne diverse: con l’attrice Diahnne Abbott ha adottato Drena (48), oltre al primogenito biologico Raphael (44). Nel 1995, con la fidanzata dell’epoca Toukie Smith, ha dato il benvenuto ai gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, nati con madre surrogata. Con l’ultima moglie Grace Hightower ha avuto invece Elliot (22) e la piccola Helen Grace (8). Forse è proprio per il futuro dell’ultima arrivata che De Niro ha più paura.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2020. Robert De Niro incontrò per la prima volta Grace Hightower da Mr. Chow, lussuoso ristorante cinese a Knightsbridge, Londra. Era il 1987. Bob aveva già vinto due Premi Oscar. Grace lavorava come cameriera. Aveva vissuto anche a Parigi, dove era arrivata come assistente di volo, dopo aver lasciato Kilmicheal, un puntino di 700 abitanti disperso nel Mississippi. Quel primo incrocio, tra gamberetti e pollo in salsa Satay, apparentemente non produsse alcun risultato. Certo De Niro non poteva immaginare che 33 anni dopo quella cameriera lo avrebbe citato in tribunale, per reclamare il ripristino del massimale fino a 100 mila dollari della sua carta di credito. All'epoca, comunque, tornò a New York, dove l'aspettava la moglie Dianne Abbott e i due figli Raphael (oggi 44 anni) e Drena (ora 48 anni). La storia di «Bob e Grace» è un lungo percorso segnato da curve e di sorprese. De Niro divorziò da Dianne nel 1988 e subito dopo iniziò una relazione con l'attice Toukie Smith, da cui ebbe i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrick, oggi ventiquattrenni. Ma durò fino al 1995. La star italo-americana non aveva mai dimenticato Grace. La cerca, la sposa nel 1997 a Marbletown, nello Stato di New York. Solo undici invitati, tra i quali i colleghi e amici inseparabili Joe Pesci e Harvey Keitel. La coppia ha un primo figlio, Elliot, nel 1998. Ma l'anno dopo Robert chiede il divorzio. Tra i due inizia una furiosa battaglia legale per la custodia del bambino. In tribunale volano gli stracci. Grace accusa il partner di tradimento e di essere un tossicodipendente. Bob replica che era impossibile convivere con lei. Ma, a sorpresa, nel 2004 i due si rimettono insieme. E si risposano. Nel 2011 arriva la seconda figlia, Helen, partorita con una maternità surrogata. Tutto a posto, finalmente? No, l'equilibrio si spezza ancora due anni fa. Stavolta sembra c'entri anche la politica. Grace è un'ultra trumpiana. De Niro, invece, vorrebbe «spaccare la faccia» al presidente. E così eccoci a venerdì 10 luglio 2020. Gli avvocati della sessantacinquenne Hightower citano in giudizio la star del cinema mondiale, 76 anni, per aver «proditoriamente» dimezzato il massimale della carta di credito a disposizione della ex moglie. Il dibattimento in tribunale è apparso surreale, considerate le universali difficoltà del momento. Ma tant' è. L'attore si è collegato via Skype: «Sono a secco, questo virus mi ha rovinato». La sua avvocata Caroline Krauss ha sviluppato il concetto, enumerando le perdite subite dai business del suo cliente: il ristorante Nobu, il Greenwich Hotel, a Tribeca. «Bob» ha dovuto chiedere 500 mila dollari in prestito per remunerare i soci investitori. E il Covid-19 ha bloccato a lungo la distribuzione di The Irishman, l'ultimo film della star, con Al Pacino e Joe Pesci, per la regia di Martin Scorsese. Conclusione dell'avvocata: «Sarà tanto se il mio cliente quest' anno guadagnerà 7,5 milioni di dollari». Il giudice Matthew Cooper ha mostrato solo parziale comprensione. Ha stabilito che Grace potrà sopravvivere agevolmente anche con 50 mila dollari versati sull'American Express dall'ex marito. In compenso Bob dovrà sborsare 70 mila dollari per pagarle la villeggiatura estiva.

·        Roberta Beta.

Lorenza Sebastiani per ilgiornale.it l'1 settembre 2020. «Quando incontrai gli autori del Grande Fratello bisbigliarono tra loro questa dentro porta uno scompiglio assurdo. E mi scelsero». Roberta Beta, oggi mamma di Filippo di 18 anni, è stata tra i nomi più forti della prima edizione. Carismatica, a tratti polemica, senza peli sulla lingua. «A volte al bar, quando chiedo un caffè, qualcuno mi riconosce dalla voce». Il GF ha appena compiuto vent'anni, dopo un mare di edizioni vip e nip, ma i nomi da ricordare non sono poi tanti. Per la Beta, 35 anni all'epoca del reality, una volta fuori c'è stata tanta radio, un libro (La Grande Sorella, edito da Baldini e Castoldi) e di recente, un ruolo di opinionista a Pomeriggio Cinque.

La fermano ancora per strada?

«Certo, eppure sono stata dentro solo 28 giorni. Un'esperienza pazzesca, che rifarei domani. Magari con gli stessi concorrenti, una riedizione vent'anni dopo».

Perché ha partecipato?

«Facevo la Pr, volevo mettermi in proprio aprendo una mia agenzia. Sapevo che c'era un montepremi finale di 250 milioni di vecchie lire. In quel periodo col GF guadagnai tanto, ma non ho aperto nessuna agenzia. Dopo un anno sono diventata mamma».

Ma come ci è arrivata, nella Casa?

«Un mix di casualità e determinazione. Ero nell'ambiente della comunicazione e mi presentai a un casting a Milano. Capii subito di aver fatto una buona impressione, ma avevo già partecipato a La ruota della fortuna. Sembrava un ostacolo, poi raccontai qualche aneddoto di me e... passai».

Perché la scelsero?

«Per il piglio. Perché non avevo paura di dire la mia».

Una volta uscita?

«Avrei potuto fare molto di più, ma ho avuto paura di finire tritata dal mondo dello spettacolo, da una certa tv. Il produttore Pascal Vicedomini mi disse se vuoi far carriera devi farti seguire da Lele Mora non accettai, avevo paura che la situazione mi sfuggisse di mano. Una volta dissi di no anche a Maria De Filippi, mi voleva arruolare come opinionista in una delle prime edizioni di Uomini e donne, rifiutai e lei mi raddoppiò l'offerta economica. Rifiutai comunque, ho pensato che figura ci faccio, se ora accetto?' Da quel momento Fascino non mi cercò mai più».

Perché rifiutò?

Temevo che mi snaturassero. Poi sono finita a Radio2, che sentivo più nelle mie corde. Ma oggi riconosco di aver sbagliato sia su Mora che sulla De Filippi. Nessuno mi avrebbe fatto fare qualcosa che non avrei voluto fare. Mora voleva farmi fare l'attrice ne il Bello delle donne. All'epoca lo vedevo incompatibile con una vita tradizionale, volevo fare la moglie, la madre..».

Però sa riconoscere i propri errori...

«Sono un cavallo pazzo, ma vengo da una famiglia borghese, mio padre non approvava che facessi il GF».

Curiosità. Cosa pensa di Rocco Casalino, suo inquilino nella Casa?

«Già ambiziosissimo all'epoca. Era l'unico che diceva noi stiamo facendo un botto di share e io pensavo ma chi vuoi che ci guardi, là fuori?'. Aveva capito tutto, ha sempre visto oltre. Si faceva ipnotizzare da Giucas Casella a Buona Domenica e oggi dà la mano alla Merkel e a Trump».

Che ricordo ha invece di Pietro Taricone?

«Provo commozione infinita, nel pensarlo. Noi della prima edizione siamo rimasti tutti molto legati al suo ricordo. Ma anche tra di noi».

Quale momento del GF ricorda di più?

«Uno degli autori mi disse che mi sono giocata la vittoria in una notte. Dissi Non è colpa mia se non ho amici macellai, gli unici commercianti che conosco sono antiquari. Taricone, Lorenzo, Sergio mi massacrarono, ma intendevo che non mi era mai capitato di frequentarne». Passai da snob».

E ora invece, cosa pensa della versione GF VIP?

«Almeno nell'edizione del ventennale potevano prendere qualcuno della prima edizione come commentatore. Continuano a metterci da parte perché la nostra popolarità è ancora forte». 

·        Roberta Bruzzone.

Roberta Bruzzone: “Il mio lato debole? Non c’è”. Edoardo Sylos Labini l'1 Luglio 2020 su culturaidentita.it. Roberta Bruzzone , criminologa e psicologa forense nota al grande pubblico, è una donna tosta, bellissima, còlta, intelligente: come ci raccontò in un’intervista, “se Dio esiste lo vedo un po’ distratto”. Oggi compie 47 anni e mentre aspettiamo il suo libro Dieci favole da incubo la festeggiamo proponendovi questa intervista pubblicata su ilGiornale OFF lo scorso anno, ospite della rassegna Mondadori Off a cura di Edoardo Sylos Labini (Redazione)

Cosa succede quando una criminologa irrompe sulla scena di un delitto efferato? Cosa si nasconde dietro a un crimine? Dalla strage di Erba al delitto di Avetrana, Roberta Bruzzone è considerata la criminologa più rock d’Italia, ormai da anni è un volto noto della TV e suoi libri riaprono ogni volta i casi più discussi di cronaca nera, per questo lei dice “se Dio esiste lo vedo un po’ distratto”.

In una tua intervista proprio al Giornale OFF hai detto: “se Dio esiste lo vedo un po’ distratto”. Che cosa intendi con quest’affermazione?

«Sono vent’anni che mi occupo del peggio del peggio di quello che un essere umano può fare ad un altro ed è difficile conciliare una visione fiduciosa del mondo con quello che io ho visto fare ad altri esseri umani. Siamo una specie terribile, siamo la specie peggiore che esista sulla faccia della Terra. Non so se esista un’entità superiore, ma se ci fosse avrei qualche suggerimento per gestire meglio la situazione».

Partiamo dall’inizio: Roberta Bruzzone bambina com’era?

«In realtà un po’come adesso, i miei genitori infatti non si sono ancora ripresi! Ero una bambina molto curiosa, caparbia, tutti i bambini avevano paura dell’uomo nero e io invece andavo a cercarlo. Quello che mi anima e già mi animava all’epoca è una grande curiosità, unita a un incoercibile senso di giustizia».

C’è stato un evento quando eri bambina che ti ha spinta verso questa carriera?

«Vicino alla mia scuola c’era una casa colonica e i bambini un po’ discoli venivano minacciati di ricevere chissà quali punizioni. Inizialmente la cosa mi ha intimorito, ma poi la paura si è trasformata in curiosità e all’inizio della seconda elementare ho organizzato un’incursione in quella casa: siamo entrati io e altri due bambini durante l’intervallo e senza rendercene conto siamo rimasti lì dentro per ore. In paese ormai pensavano che fossimo scomparsi… È stato un momento eccezionale, ricordo l’euforia per aver superato la paura e verificato che dentro quella villa non c’era niente. Tra noi tre, l’unica ad essere punita sono stata io: lì ho capito che nella vita le cose importanti vanno fatte da soli».

Com’è stato il tuo approccio con morte? Quando hai scoperto cosa fosse?

«Io ho sempre avuto tantissimi animali e ricordo che morì una cagnolina cui ero molto affezionata, il primo contatto con la morte da bambina fu quello».

Hai studiato Psicologia: come hai cominciato la carriera di criminologa?

«In realtà, già mentre studiavo mi occupavo di casi di bambini abusati e di altri temi legati alla criminalità: la criminologia è sempre stata il mio interesse principale».

Poi sei diventata anche Roberta Bruzzone, personaggio televisivo…

«Sì, sono arrivata a Porta a Porta nel 2007 e già facevo questo lavoro. Quel programma però è stato per me un po’ il punto di svolta. Sono stata invitata in seguito all’omicidio di Simonetta Cesaroni per sostenere la posizione di Raniero Busco, posizione che conoscevo molto bene. Devo essere piaciuta a Vespa, perché da quel giorno sono ospite fissa».

Il 30 ottobre è uscito il tuo ultimo libro, Io non ci sto. Consigli pratici per riconoscere un manipolatore affettivo e liberarsene. Che cos’è un manipolatore affettivo?

«Si tratta di quei soggetti che sono costantemente concentrati sullo sfruttare gli altri generando sofferenze. Sono dei vampiri emotivi che si cibano delle migliori energie delle persone. Tanto più la persona che hanno accanto soffre, quanto più la loro autostima cresce. Sono soggetti tossici. Io in questi vent’anni ne ho incontrati tanti e sempre dopo aver causato danni nella peggior maniera possibile. Ho deciso di scrivere questo libro approfondendo l’aspetto dell’analisi comportamentale, per mettere le persone nella condizione di riconoscere un manipolatore affettivo».

E come si riconosce un manipolatore affettivo?

«È gente in grado di simulare qualsiasi emozione umana, di indossare maschere, l’unica cosa che li blocca è la vergogna. È gente che si ciba della sofferenza altrui, che alterna comportamenti positivi e negativi in maniera casuale, confondendo. È peraltro proprio in questa confusione che risiede la dipendenza dell’altro. Mettere in discussione la nostra idea di qualcuno, nella fase dell’innamoramento, che consideriamo meraviglioso è pressoché impossibile: tendiamo piuttosto ad attribuirci delle colpe personali. La gente non comprende che le dinamiche di dipendenza che si innescano in una relazione di questo tipo sono identiche a quelle che si manifestano con le droghe o con il gioco d’azzardo. Si può diventare dipendenti da una relazione ed è una dipendenza che non ha nulla da invidiare a quelle alle quali siamo più abituati».

E come si evita lo stretto contatto con un manipolatore affettivo?

«Osservando quello che le persone fanno, per quanto questi soggetti siano abili a manipolare e a recitare, non riescono a nascondere completamente se stessi: nelle conversazioni e nei progetti che fanno, hanno sempre una maggior attenzione verso i loro bisogni e le loro aspettative, hanno bisogno di avere il controllo di e-mail, password, WhatsApp e lo ottengono con scuse paradossali come “sono stato tradito in passato”… tutti questi sono segnali».

Dietro le quinte mi hai detto che oggi c’è stata una condanna, perché nel 2010 hai difeso Michele Misseri: ci spieghi meglio?

«Quando Michele Misseri era indagato per omicidio volontario in concorso con la figlia Sabrina, grazie alla mia difesa e quella di Daniele Galoppa, è uscito dalla posizione di assassino. Noi eravamo certi che lui non avesse ucciso Sara Scazzi per il semplice fatto che quando doveva parlare dell’assassinio era molto vago, mentre quando gli veniva chiesto di parlare dell’occultamento del cadavere utilizzava una precisione chirurgica. Lui poi ci accusò di averlo istigato a calunniare la figlia sapendola innocente, noi allora lo denunciammo e oggi è stato condannato per calunnia a tre anni di reclusione».

Quali sono le caratteristiche più frequenti che accomunano un assassino?

«Quelli che ho conosciuto io avevano tutti dei tratti narcisistici molto evidenti, senso di grandiosità del sé, immaturità, totale incapacità di assumersi il peso delle proprie responsabilità. I narcisisti sono pericolosi, mentono compulsivamente e questo è il principale motivo che mi ha portata a scrivere un libro del genere».

C’è ancora una parte di società, un salotto radical-chic italiano che difende i carnefici e non le vittime…

«Molto spesso ho lavorato per le famiglie delle vittime e l’ergastolo lo vivono loro ogni giorno. L’unica vera terapia per lenire la sofferenza per la famiglia delle vittime e le vittime stesse è ottenere giustizia. Se manca questo, ripartire, per chi ha vissuto queste tragiche vicende, diventa impossibile. Chi commette crimini punibili con l’ergastolo merita di scontare l’intera pena, senza nessun tipo di riduzione: questo aiuta anche le vittime ad andare avanti».

Alcuni casi di violenza adesso sono legati ad immigrati clandestini: ritieni che questo sia un problema?

«Sì e molto serio. Certe persone, che non dovrebbero e potrebbero nemmeno essere qui, hanno commesso crimini inenarrabili. La situazione è a livelli rischiosi e ciò non è accettabile».

Tempo fa è riaffiorato il caso di Emanuela Orlandi, la ragazza che sparì nel 1983 in Vaticano, dove sono state trovate recentemente delle ossa sotto il pavimento di una stanza della Nunziatura: pensi che siano le sue?

«Ci sono due ipotesi, le due ragazze in questione sono Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, sparita un mese prima. Quando mi è stato chiesto di chi fossero le ossa, ho risposto che secondo me sono della Gregori, perché erano di fatto più vicine al luogo in cui sparì».

Secondo te l’Italia, oggi, è un paese violento?

«C’è violenza nelle relazioni, epidemia di odio e invidia. Se devo risponderti in maniera diretta, dico sì. E’ un paese di persone frustrate, potenzialmente pericolose, se sollecitate in modo sbagliato. Anche i giovani hanno una mente criminale che, fino a pochi anni fa, era impensabile da attribuire agli adolescenti».

Cambiamo argomento. Raccontaci adesso la Bruzzone OFF. Quanto sei rock sulla moto?

«Ho questa passione da sempre, da quando ero veramente piccola. Sono cresciuta con mia nonna e la convinsi che già a 12 anni si potesse andare in moto e me ne feci regalare una proprio da lei. Da allora non mi sono mai più fermata. Da grande sono poi passata alle Ducati. Ora invece sono una da Harley Davidson».

Sei una donna forte, Roberta, una tigre: ma qual è il tuo lato debole?

«Non c’è».

 La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.

PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.

Veniamo alla notizia censurata dai media.

La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio.  Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”

A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.  

Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.

A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?

Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.

A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».

Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.

Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».

La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...

Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.

Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa  dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm..   quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure   ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”),  hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.

Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».

E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.

In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.

"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”

Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.

Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».

Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo.  "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia".  Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.

Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia.  A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”

La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...

Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire? 

Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.

Roma, 11 ottobre 2015 

F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali - FILIPPO BERTOLAMI

Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI

Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».

Bruzzone porta in tribunale l'ex ris Garofano. E' guerra totale (per un affare di cuore), scrive di Giordano Tedoldi il 16 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”. Da quando la criminologia è uscita da laboratori e aule universitarie per diventare un genere affine al "Processo del Lunedì" - con la sola differenza che nel salotto tv criminologico si dibatte se la macchie di sangue possano ricondursi all' imputato o siano solo succo di lampone - anche il criminologo, figura solitamente composta, taciturna, anche un poco sinistra, è diventato un personaggio del gossip pubblico e dello scazzo ipersensibile, insomma, siamo ufficialmente al volo degli stracci criminologici. E come ogni bella commedia prevede, c' è un protagonista maschile e uno femminile, l'un contro l'altra armati. Lei è, va da sé, Roberta Bruzzone, psicologa forense e "dark lady" dell'opinione televisiva a cadavere ancora caldo, spesso chiamata in trasmissione anche quando è più raffreddato. La dottoressa Bruzzone, che ha un caratterino in tono con la sua avvenenza diciamo così fiera, ne ha dette di cotte e di crude al suo pari grado - non in termini militari, perché quello è generale dei carabinieri benché in congedo, ma in termini di valore televisivo - vale a dire all' ex comandante del Ris Luciano Garofano, anche lui con un debole per le poltrone dei talk show, il quale ha reagito con una denuncia per diffamazione. L' antefatto era ricostruito ieri sul Secolo XIX da Marco Grasso, e, come per le persone comuni, dietro alla lite e alla convocazione davanti al giudice il prossimo 7 aprile, c' è un affare di cuore. Scrive il Secolo: «Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l'accusa di aver taroccato i titoli; lei a sua volta mette in discussione gli studi dell'uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione». Vabbè, fin qui ordinaria amministrazione di relazioni sentimentali che si sfasciano. Ma il comandante Garofano, incautamente, si schiera pubblicamente a difesa dell'ex compagno della Bruzzone. E si becca dalla collega criminologa una denuncia per diffamazione, con allegata lettera aperta al vetriolo in cui l'esordio è tutto un programma: «Dottor Garofano, porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». Ora, a onor del vero pare che il regolamento dei conti tra i due, più che sulla reputazione di un collega, verta sulla loro rivalità per il titolo di numero uno della criminologia televisiva. In questo i duellanti sono l'una il riflesso dell'altro: così alla denuncia della Bruzzone è partita quella opposta e simmetrica di Garofano per la velenosa epistola citata. E anche lui ha condito la denuncia per diffamazione con apprezzamenti alla collega: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo), faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». A commento di questa sapida commedia, un antico adagio latino: "simul stabunt vel simul cadent", "insieme staranno o insieme cadranno". Così passa la gloria criminologica edificata su una sequela di massacri: con un volo di stracci.

Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su “Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del RisLuciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo. Non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». 

La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».

Ed a proposito di credibilità.

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

Nuovo processo per Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana coinvolto nei processi per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per il cui assassinio sono state condannate all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano (in primo grado con conferma in secondo). Il gup del Tribunale di Taranto, Valeria Ingenito, il 10 settembre 2015 ha rinviato a giudizio Michele Misseri (già condannato anche in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi) con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. La professionista è stata consulente di parte nel processo per l’omicidio mentre il legale è stato difensore dello stesso Misseri, che inizialmente confessò l’omicidio della ragazzina per poi addossare le responsabilità a sua figlia Sabrina. Insieme con Misseri, che risponderà di calunnia, sono finiti sotto processo per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo, accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri nei confronti dell’avvocato Daniele Galoppa e della dottoressa Roberta Bruzzone, rispettivamente ex legale ed ex consulente dello stesso Misseri. La giornalista di Mediaset Ilaria Cavo, attuale assessore alla Comunicazione e alle Politiche giovanili della Regione Liguria, avrebbe rilanciato le versioni di Misseri attraverso servizi televisivi. Il contadino di Avetrana, quando è tornato ad accusarsi dell’omicidio, ha sostenuto di essere stato in qualche modo indotto da Bruzzone e Galoppa a tirare in ballo sua figlia Sabrina (condannata in primo e secondo all’ergastolo, come sua madre Cosima Serrano). Il rinvio a giudizio, con processo fissato per l’1 dicembre 2015, è stato disposto dal gup dottoressa Valeria Ingenito. Lo stesso gup aveva a suo tempo autorizzato la citazione, come responsabili civili delle società «Rai», «Rti» per “Mediaset”, «Edizioni Universo», ed «Rcs» per il settimanale “Oggi”. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, sia la giornalista che l’opinionista-Mediaset avrebbero espresso opinioni che avrebbero fatto sorgere dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. Il primo, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa, come si ricorderà, era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. 

Calunniò la Bruzzone e Galoppa: chiesti 4 anni per "zio Michele". A giudizio anche Ilaria Cavo e un penalista romano. Quattro anni di carcere per Michele Misseri, che deve rispondere di calunnia, e il minimo della pena prevista, un anno, per i due suoi coimputati: la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato, Fabrizio Gallo che rispondono di diffamazione, scrive Giovedì 14 Giugno 2018 "IlQuotidianodipuglia.it". Sono queste le richieste formulate dall'accusa, affidata al pubblico ministero Mariano Buccoliero, nel processo che vede come principale imputato lo zio di Sarah Scazzi, già rinchiuso nel carcere di Lecce dove sta scontando otto anni per la soppressione del corpo della nipote Sarah Scazzi, uccisa a soli 15 anni. Il contadino di Avetrana è finito sotto processo per aver accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, e la criminologa Roberta Bruzzone, di averlo entrambi costretto ad accusare la figlia Sabrina Misseri dell’uccisione di Sarah, delitto di cui in un primo momento lo stesso Michele si era addossato ogni colpa. Gli altri due imputati, l’ex giornalista ora assessore della Regione Liguria e il penalista romano, già difensore per un breve periodo di Misseri, avrebbero messo in dubbio la correttezza di Galoppa e Bruzzone avallando la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto ad alterare la verità dei fatti. A querelare tutti erano stati la stessa Bruzzone e Galoppa, ora parte lesa nel processo, i quali hanno già anticipato di voler intentare un’azione risarcitoria in sede civile. La nota criminologa era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. Il giudice del Tribunale di Taranto dove si svolge il processo, Elvia Di Roma, ha fissato la prossima udienza per il 3 ottobre.

Sarah Scazzi. Processo a Michele Misseri. Calunnia sì o calunnia no?

Bruzzone, Galoppa ed i giudici di Taranto contro Michele Misseri. Chi si pensa che vincerà?

La risposta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video.

Nel corso dell’udienza che si è tenuta il 15 giugno 2016 nel Tribunale di Taranto relativa al processo che vede imputato Michele Misseri accusato di calunnia nei confronti della Dott.ssa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa, è stato ascoltato soltanto l’ex legale dello zio di Avetrana, Galoppa, scrive Rossella Ricchiuti su TVMed. Entrambi sono stati accusati da Misseri di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell’omicidio di Sarah Scazzi. La criminologa, che è stata consulente di parte nel processo per l’assassinio dell’adolescente, sarà sentita a gennaio 2017. Sono imputati per diffamazione anche la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo, ed è stato proprio quest’ultimo a richiedere il rinvio per legittimo impedimento perché si trovava a Roma ed era impossibilitato a raggiungere il Tribunale di Taranto.

Nel corso dell’udienza la difesa ha provato a chiedere una perizia psichiatrica su Michele Misseri sostenendo che, quando l’uomo aveva accusato in aula e nei programmi televisivi l’avvocato e la consulente era incapace di intendere e volere. Il giudice Di Roma ha respinto la richiesta. Il processo è quello che vede imputato Michele Misseri per le accuse rivolte alla Dott.ssa Roberta Bruzzone e all'avvocato Daniele Galoppa. La sede è il Tribunale di Taranto, aula E, scrive ancora TVMed. Lo zio di Avetrana, condannato in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, è accusato di calunnia nei confronti della criminologa e del suo ex avvocato, ormai noti volti televisivi. La Bruzzone è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio dell'adolescente, mentre il legale è stato difensore di Misseri. Il contadino di Avetrana, che aveva subito confessato l'assassinio, aveva poi cambiato versione tirando in ballo sua figlia Sabrina, poi condannata all'ergastolo in primo e secondo grado, per poi ritrattare ed a riconfermare da sempre la prima versione. Entrambi sono stati accusati dal contadino di Avetrana proprio di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell'omicidio di Sarah Scazzi.

Nel processo di Taranto con l’accusa di calunnia troviamo da una parte l’avvenente criminologa mediatica nazionale, Roberta Bruzzone, e Daniele Galoppa, primo difensore di Michele Misseri, che nelle dichiarazioni in tv (a pagamento come da lui sostenuto) ha sempre spronato questi a dire “la verità”. Facoltà, però, questa, propria della Procura e non della difesa. Questi negano di aver influito sulle volontà dello zio di Avetrana nell’accusare la figlia Sabrina dell’omicidio della povera Sarah Scazzi. D'altronde i giudici togati e popolari dei collegi delle Corti di Assise di primo e secondo grado di Taranto hanno creduto ai due. Di contro troviamo il semplice contadino dell’omertosa Avetrana, spalleggiato da alcuno. La sua parola contro la loro vale zero, tanto meno se la loro parola è suffragata dalle precedenti Corti. Tuttavia la logica qualche dubbio lo pone. Come è possibile che sia più credibile una versione rispetto a tante altre antitetiche e si nega che essa sia stata resa non nel pieno delle facoltà o comunque influenzate da farmaci o promesse? I farmaci o la promessa di limitare i danni alla figlia Sabrina sono validi motivi per credere alla versione di Michele Misseri e degni di nota per far venir meno il rancore di Cosima e Sabrina (moglie e figlia) nei confronti di Michele. Purtroppo, dai processi già svolti, dai giudici e dai media si è deciso che Michele è un bugiardo e Cosima e Sabrina delle assassine, ed a questo non si può rimediare, specie a Taranto che per le sole motivazioni, tra il primo grado ed il secondo, ti fanno aspettare circa due anni. Specie a Taranto dove si giudicano gli avvocati locali per essersi proposti, mentre l'omertà cala per gli avvocati forestieri non eccelsi come Franco Coppi, tanto da essere conosciuti e chiamati, e che, stranamente, sono nominati ed appaiono in tutti i processi mediatici.

Ed allora se condanna deve essere, condanna sia, evitandoci una inutile perdita di tempo e di spreco di denaro pubblico.

Calunnia contro Bruzzone e Galoppa, Misseri torna in aula, scrive il Quotidiano di Puglia l'8 giugno 2017. Michele Misseri è tornato ieri mattina in un’aula del Tribunale. Lo zio di Sarah Scazzi si è presentato all’udienza del processo che lo vede imputato per calunnia ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Il processo, infatti, ieri ha vissuto una nuova tappa con i riflettori puntati sulla mattina del 15 ottobre del 2010. Quel giorno Misseri consegnò alle indagini sul delitto di Avetrana un altro colpo di scena. Una settimana prima aveva ammesso di essere l’assassino di Sarah. Ma quella mattina, dopo un sopralluogo nel suo garage, tirò sulla scena del delitto, per la prima volta, la figlia Sabrina Misseri. Una versione che zio Michele ha successivamente ritrattato accusando la criminologa e il suo ex difensore, che lo hanno denunciato e si sono costituiti arte civile in giudizio. Ieri il giudice ha acquisito la deposizione di uno degli infermieri del carcere di Taranto che ha testimoniato sulla terapia a cui Misseri era sottoposto in carcere e sulla mancata assunzione di farmaci. Sul punto, nella prossima udienza del 5 luglio, testimonierà anche un ufficiale della polizia penitenziaria. Oltre a Misseri a giudizio, per diffamazione, ci sono anche l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo. I due professionisti sono accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri contro l’avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone.

Difesa di Ilaria Cavo e di RTI valuta azioni legali dopo dichiarazioni dell'avvocato Gallo. Caso Misseri, processo per diffamazione: la difesa di Ilaria Cavo e di RTI pronta a valutare natura diffamatoria delle dichiarazioni dell'avvocato Fabrizio Gallo, scrive il 5 luglio 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Poco più di un anno fa, nel giugno 2016, presso il Tribunale di Taranto ha preso il via il processo che vede imputato Michele Misseri con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Entrambi furono accusati da Misseri di essere stato da loro indotto a dare la colpa del delitto della nipote Sarah Scazzi alla figlia Sabrina Misseri. La criminologa è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio della 15enne di Avetrana, mentre Galoppa fu l'ex avvocato difensore di Michele. Oltre a Misseri risultavano imputati per diffamazione anche la giornalista Mediaset Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo. Nell'udienza del 15 giugno dello scorso anno, come ricorda Affariitaliani.it, la difesa aveva provato a chiedere la perizia psichiatrica su Michele Misseri, sostenendo che quando il contadino accusò in aula e in alcuni programmi tv l'avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone, in realtà fosse incapace di intendere e di volere. Richiesta che tuttavia vide la bocciatura del giudice Di Roma. Nella giornata di oggi, a prendere la parola in aula nell'ambito del medesimo procedimento in corso davanti al Tribunale di Taranto è stato l'avvocato Fabrizio Gallo, coimputato del reato di diffamazione aggravata ai danni dell'avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone. A tal proposito, con un comunicato ufficiale di Cologno Monzese, proprio in merito alle dichiarazioni rese nel corso dell'udienza la difesa di Ilaria Cavo e di RTI ha fatto sapere che si riserva di "valutare la natura diffamatoria e/o calunniosa delle affermazioni proferite oggi in aula, senza trascurare nessuna iniziativa giudiziaria", al fine di tutelare l’immagine della stessa Cavo e le testate del Gruppo Mediaset.

Taranto, Gilletti depone come testimone al processo per calunnia contro lo zio di Sarah Scazzi. Il conduttore televisivo ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Michele Misseri nel corso della trasmissione l'Arena, scrive il 7 marzo 2018 "La Repubblica". Il giornalista e conduttore televisivo Massimo Giletti è stato ascoltato come testimone dal Tribunale di Taranto nel processo in cui sono imputati Michele Misseri, l'ex giornalista Mediaset Ilaria Cavo (ora assessore della Regione Liguria) e l'avvocato romano Fabrizio Gallo. Il contadino di Avetrana, già condannato a 8 anni per soppressione di cadavere nel processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, risponde di calunnia; Cavo di diffamazione ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell'avvocato Daniele Galoppa, ex difensore dello stesso Misseri, mentre l'avvocato Gallo risponde di diffamazione. Giletti è stato ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Misseri nel corso della trasmissione l'Arena. Secondo l'accusa, Michele Misseri avrebbe calunniato il suo ex difensore e la criminologa, affermando di essere stato da loro spinto a incolpare la figlia Sabrina, indagata in seguito alle sue dichiarazioni e poi condannata con sentenza definitiva all'ergastolo per omicidio insieme alla madre Cosima Serrano. Nei confronti della ex giornalista Mediaset l'accusa è quella di aver rilanciato, attraverso la televisione, le accuse del contadino di Avetrana. Il processo è stato aggiornato al 4 aprile prossimo, quando sarà ascoltato l'avvocato Francesco De Cristofaro, ex legale di Misseri. Per il 30 maggio è stata fissata la requisitoria e la discussione delle parti civile. Il 13 giugno arringhe, camera di consiglio e sentenza.

Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele", scrive Mercoledì 7 Novembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolta dall’accusa Ilaria Cavo.

Avetrana, Ilaria Cavo assolta dall'accusa di diffamazione: il fatto non sussiste, scrive mercoledì 7 novembre 2018 Primocanale.it. La giornalista di Mediaset e oggi assessore alla cultura, istruzione e formazione della Regione Liguria Ilaria Cavo è stata assolta con formula piena (perché il fatto non sussiste) dal reato di diffamazione aggravata nell'ambito del cosiddetto processo "Avetrana bis" che ha visto imputato per calunnia e autocalunnia Michele Misseri, condannato oggi a tre anni. L'accusa nei confronti di Cavo era quella di aver diffamato la psicologa forense Roberta Bruzzone e l'avvocato Daniele Galoppa per una frase pronunciata durante una puntata della trasmissione televisiva Pomeriggio 5. Cavo, assistita dall'avvocato Salvatore Pino del foro di Milano, si era sottoposta a interrogatorio presso il tribunale di Taranto. "Ero certa della correttezza del mio intervento e della serietà del lavoro da cronista svolto sul caso di Avetrana - ha detto stasera Cavo -. La assoluzione di oggi è piena e è il riconoscimento di tutto questo. Si chiude così, con una sentenza netta, il procedimento nei miei confronti nato da una denuncia dell'ex avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, e della criminologia Roberta Bruzzone. Risale a quando, come giornalista di Mediaset, seguivo il caso di Avetrana. Avevano provato a mettere in dubbio la correttezza. Dopo due anni il riconoscimento di serietà e professionalità. Un grazie all'avvocato Salvatore Pino che mi ha seguito e dato poco fa la notizia".

·        Roberto Benigni.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Roberto Benigni alla Berlinale sfodera uno di quei sorrisi che sono così suoi: «Ero venuto la prima volta con Marco Ferreri per Chiedo asilo , che vinse l' Orso d' argento nel 1979. Io avevo l' età di Pinocchio». L' attore è il biglietto da visita per vendere Pinocchio all' estero. «Mio padre e mia madre non sapevano leggere, io vengo dal mondo povero di Collodi. Sono l' unico attore al mondo ad aver recitato i ruoli di Pinocchio e Geppetto. A Beni', te manca solo la Fata Turchina, mi dice la gente per strada a Roma». Roberto paragona il regista Matteo Garrone a Rossellini: «Mi ha guidato passo passo lasciandomi aperto a improvvisare, ha girato Pinocchio col suo stile; vedevo crescere il film come una quercia. È una grande storia d' amore tra padre e figlio». Non si può evitare di parlare del virus che sta cambiando la nostra vita. «Cosa penso del coronavirus? Bisogna reagire senza farsi prendere dal panico, si parla solo di quello. In Iran hanno chiuso i cinema. Io ridimensionerei, ma senza abbassare la guardia». È passato in pochi giorni da Sanremo alla Berlinale «Dalla cosa più italiana a quella più internazionale. A Sanremo ho interpretato il Cantico dei Cantici, la prima canzone nella storia dell' umanità che parla d' amore, un inno all' apertura». Un americano gli chiede perché non gira un film a Hollywood. Benigni risponde col suo inglese istintivo: «English, as you know, is my first language . È una domanda difficile, soprattutto dopo l' Oscar a La vita è bella , è un mondo molto diverso dal mio ma se c' è una possibilità, perché no?». Interviene Garrone: «Una volta Coppola gli chiese di interpretare Geppetto». Roberto: «Era il 2000. A una cena a San Francisco da Robin Williams c' era Coppola che mi propose un film su Pinocchio, poi la produzione fallì e non se ne fece niente».

·        Roberto Bolle.

Daniela Lanni per “la Stampa” il 17 aprile 2020. «La sfida oggi è stare lontano dalla danza, la nostra passione, senza sapere quando potremo ritornare sul palcoscenico, quali saranno le condizioni e cosa succederà. Siamo sospesi, con tante incognite. Ogni balletto ha esigenze di contatto fisico, dei passi a due, non possiamo prescindere da questo, quindi è impossibile rispettare le direttive. Nessuno può dare risposte, quindi aspetteremo, e credo anche a lungo». Quando è scoppiata l' emergenza coronavirus Roberto Bolle era alle prese con le prove di Madina, lo spettacolo che dopo poche settimane avrebbe dovuto debuttare alla Scala di Milano. Invece è stato rinviato. Era marzo. Da allora il tempo si è fermato. Ma, si sa, l'Étoile dei Due Mondi, colui che ha portato per la prima volta la danza in tv e per le strade, ama le sfide, e anche questa volta si è messo al lavoro perché «l' arte e la bellezza diventino balsamo per l' anima in questi giorni di grande difficoltà». Così domani sera, alle 21.15, sarà nuovamente protagonista su Rai1 con Bolle Show-Il meglio di Danza Con Me, prodotto dalla rete ammiraglia in collaborazione con Ballandi e Artedanza. Tre ore di spettacolo con una selezione di alcuni dei momenti più belli delle tre edizioni.

«L'obiettivo è regalare sentimenti positivi in questo momento in cui, anche in televisione, siamo inondati da immagini molto crude, dolorose e tristi. La scelta è stata difficile, avrei voluto mettere tutto, ma il cast è stellare: Sting, Bocelli, Tiziano Ferro, Cremonini, Virginia Raffaele, Marco D'Amore, e partner come Melissa Hamilton, Alessandra Ferri, Polina Semionova. Sarà una notte di danza molto lunga». La quarantena non ha fermato «OnDance», il Festival della Danza, in programma a metà giugno e saltato per la pandemia. L'ha adeguato ai tempi e programmato su web e sul sito Instagram. «Ho creato una piattaforma di lezioni gratuite online con open class che vanno dal classico, al contemporaneo, allo Swing, al Charleston. Un modo per tenersi in forma e avvicinarsi alla danza, e che uso anche io per fare lezioni quotidiane da casa, proprio come siamo abituati noi in sala ballo. Così ho coinvolto amici, colleghi, insegnati che conosco. Ho ricevuto molta solidarietà, c'è voglia di aiutarsi e regalare bei momenti alle persone».

In che modo questa situazione influirà sulla danza?

«Sarà difficile ritornare alla situazione di prima se non si trova un vaccino. Il nostro mondo non è come fare un concerto dove puoi suonare e cantare da solo sul palco, mantenere la distanza, o fare una pièce teatrale. La danza lavora con il corpo. Per questo, per noi, i tempi saranno più lunghi».

La grave crisi economica è l'altro aspetto di questo virus. Sono molti gli appelli fatti dal mondo della cultura, della musica e dell' arte. Quali provvedimenti si dovranno mettere in atto?

«È importante che al governo e alle istituzioni sia chiaro che questi sono settori chiave dell' economia del nostro Paese. Bisognerà studiare un modo per tenere in piedi un sistema che non può morire: ne va dell'identità culturale dell' Italia».

Come trascorre le giornate?

«Sono scandite dalle lezioni di "OnDance" e dalla scelta del palinsesto. Mi ritrovo in una routine a cui non ero abituato come la gestione e la pulizia della casa, ed è la cosa che mi costa più fatica. Poi cucino, tra l' altro ho preparato delle crêpe con la farina di grano saraceno che stranamente mi sono venute bene (dice ridendo). Mi alleno facendo al mattino esercizi a corpo libero con il tappetino prima della lezione delle 11. Al pomeriggio seguo altre discipline, leggo e guardo la tv».

Cosa le manca di più?

«La sala ballo, le emozioni del teatro, la sua bellezza e magia, componenti fondamentali della mia vita. Poi la normalità. Spero che uno dei miei insegnamenti alla fine di tutto sia anche quello di apprezzare le piccole cose date per scontate. L'essere liberi di decidere quando uscire e cosa fare».

Crede che il virus cambierà le persone in meglio?

«C' è una grande possibilità ma sarà difficile che avvenga. Questo è un grido di allarme che arriva dalla natura, dalla Terra, dall' ecosistema ma temo che l' uomo non cambierà le sue abitudini, il suo modo di sfruttare questo pianeta. Non vedo cambiamenti positivi».

L' arte può sconfiggere le paure?

«Nutre l' anima con vibrazioni alte, positive, mentre la malattia è una vibrazione bassa. È importante vivere emozioni luminose. Connettersi con la nostra parte più intima, ascoltarsi, meditare e riscoprire i valori persi».

Roberto Bolle: «Sono più forte di prima, non ho paura di sbagliare. Se mi fanno un torto però subisco». Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Roberto Bolle ritratto da Andrej Uspenski Domani in edicola e su digital edition un nuovo numero di 7. In copertina un’intervista alla star della danza Roberto Bolle, di cui vi anticipiamo un estratto. All’interno del magazine la scrittrice Nadia Terranova racconta la fine del decennio, mentre altri quattro personaggi, diversi per professione e sensibilità, spiegano da dove ripartiranno gli Anni 20. Poi un reportage dal museo della guerra in Vietnam e le dieci donne del 2019.

Quando aveva 19 anni, Roberto Bolle avrebbe tanto voluto comprarsi una moto. «La desideravo molto, ma i miei genitori non hanno lasciato che la prendessi: mi avevano detto che era troppo pericoloso», racconta in un breve attimo di pausa, a margine di una di quelle conversazioni in cui, in due minuti, si ricapitola quello che non si è fatto in una vita. Ecco, lui, il ballerino più famoso al mondo, non ha mai avuto una moto. Ed è in questo fatto, che lo avvicina a milioni di altre persone a cui è toccata la stessa sorte, che si nasconde l’indizio di un’esistenza unica: oltre alla normale preoccupazione per loro figlio, nei signori Bolle c’era anche quella legata alle possibili conseguenze che un incidente pure minimo avrebbe potuto avere su di lui. «Avevo 19 anni e magari avrei potuto agire di testa mia, ma diciamo che sono stati piuttosto convincenti nel farmi capire i rischi che c’erano... alla fine anche questa cosa è rientrata nelle rinunce che ho accettato per fare questo lavoro». Lo dice oggi, che ha 44 anni e «questo lavoro» lo ha fatto e lo continua a fare, eccome. Ma lo dice anche svelando quanto «questo lavoro» sia di fatto una parte significativa della persona che è e che sta diventando. Perché se quello che occupa le sue giornate da qualche anno cambia, è perché sta cambiando anche lui. In tutto questo, è curioso il ruolo che ha avuto la televisione. Ci riflette alla vigilia del ritorno del suo show, Danza con me, su Rai1, il primo gennaio. Lo fa con addosso degli scarponi che si direbbero da neve se non si trovasse in uno studio in centro a Milano. Servono per non raffreddare i piedi, tra un prova e l’altra, come, si immagina, tutte le flessioni, gli affondi, insomma tutti i movimenti del corpo in cui si contorce senza scomporsi minimamente mentre parla, che fanno provare a chi lo guarda quel sottile imbarazzo di assistere a uno spettacolo per cui non ha comprato il biglietto. «La televisione alla fine mi diverte, è molto stimolante oltre ad essere una sfida: è qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ero abituato a fare».

Si può dire che questa esperienza l’ha cambiata?

«Senza dubbio è così. Mi rendo conto di aver acquisito un’altra consapevolezza, un’altra visione e anche un’altra sicurezza. Sono entrato in maniera importante nelle case degli italiani come prima non ero riuscito a fare. All’inizio c’era molto timore e una grandissima incognita, dalla seconda volta in poi, avendo avuto così tanti commenti positivi e un seguito importante, ho iniziato ad essere più consapevole e sicuro e anche a osare di più. So che i messaggi che mando possono arrivare se li mando in modo coerente».

Il suo desiderio è quindi quello di mandare dei messaggi?

«Anche, sì. Resto convinto che il linguaggio della danza arrivi a tutti, anche a quelli che magari non lo conoscono ma ne colgono la parte emotiva, così come quella estetica. Con la tv riusciamo ad arrivare a un pubblico vastissimo e la sicurezza che oggi ho arriva dal riscontro con la gente, che è incredibile, specie pensando che non è il pubblico del balletto, abituato alla danza. Nonostante questo, apprezza lo spettacolo, lo esalta».

Come capisce che questo affetto inatteso l’ha resa diverso da quello che era?

«So di essere cambiato, sento di avere più sicurezza come artista ma anche come persona. Dovermi misurare in situazioni che non sono abitualmente le mie; dover presentare o fare degli sketch con attori e cantanti (tra gli ospiti di questa edizione anche Roberto Benigni, Stefano Bollani, Andrea Bocelli, Geppi Cucciari...), dover essere serio o simpatico, divertente o divertito, insomma dover essere attore con la parola e non con il corpo cosa che non avevo mai fatto e mai voluto fare - è stata una grande sfida personale oltre che una grande difficoltà. Ma, rivedendomi capisco che ogni volta faccio dei passi avanti. Oggi posso dire che riesco a interagire in modo diverso con le persone, anche in questo mi sento cambiato. Riesco ad essere più naturale perché ho un’attitudine nuova anche con la parola, che non è certamente il mio campo. Penso aiuti sempre a esplorare mondi non conosciuti».

·        Robbie Williams.

Simona Marchetti per "corriere.it" il 3 luglio 2020. Doveva essere una missione umanitaria per aiutare gli abitanti di Haiti che avevano perso tutto durante il devastante terremoto di magnitudo 7.0 del 2010, ma per poco Robbie Williams non ci ha rimesso la testa. Letteralmente, visto che dei banditi avevano minacciato di decapitarlo per essersi trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato. «Eravamo ad Haiti per aiutare e hanno minacciato di tagliarci la testa – ha raccontato infatti l’ex Take That nel suo podcast “Postcards from the Edge”, ripreso dal Daily Mail – . È stata una cosa del tipo “dobbiamo cambiare strada?” e ripensandoci adesso, è stato davvero spaventoso».

Desiderio di paternità. «C’ero anche io con te – gli ha fatto eco la moglie Ayda Field – e hanno minacciato di decapitare pure me». Paura a parte, quel viaggio di quattro giorni nel paese caraibico per conto dell’Unicef è però servito a Williams per capire che voleva diventare padre. «Quando vai in un posto come Haiti, ti viene normale sentire la necessità di aiutare gli altri – ha continuato il 46enne cantante - . È terribile quello che è successo in quel posto e lavorare con i bambini, stare con loro, vedere la loro sofferenza, mi ha fatto venire voglia di avere dei figli».

Quattro figli. Desiderio non a caso esaudito, poiché oggi lui e la Field hanno quattro figli: due femmine (Teddy, 7 anni e Coco, 21 mesi) e due maschi (Charlton, 5 anni e Beau, 4 mesi), che Williams ha potuto godersi completamente durante il recente lockdown (fatto salvo quando si è riunito con gli altri Take That per un concerto virtuale lo scorso maggio). «Volevo tornare a lavorare e la cosa mi metteva un po’ di ansia – ha confessato di recente Robbie a Heart Radio – ma ad un certo punto mi sono reso conto che ero esattamente dove volevo essere, con le persone con cui volevo essere e che non ci sarebbe mai stato un altro momento in cui avrei potuto trascorrere così tanto tempo con la mia famiglia e i miei figli, quindi non potevo che esserne molto grato».

·        Rocco Papaleo.

Rocco Papaleo si racconta: «Anche in questa reclusione il vivere lucano è la ricetta giusta». Scrive il suo nuovo film e nel cuore c'è sempre la sua Lauria. Alberto Selvaggi il 23 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Per animare le ore della clausura da coronavirus ho pensato di ascoltare pugliesi e lucani più o meno famosi condannati al medesimo destino. Con l’assistenza spirituale del gatto Dorian, mio convivente. 

Una bruma piangente si è seduta sul cielo. Magari piove anche lì da lei, Rocco Papaleo.

«A Roma ci sta brutto tempo. Tempo brutto e brutti tempi. Ci ritroviamo tutti ad affrontare una equazione difficile. Risolverla matematicamente non mi pare sia possibile. Si accetta la realtà del bollettino giornaliero. Ognuno trova la giusta via per sé, come dire. Ho sentito che i numeri dei contagi sono in calo, vedremo. Intanto accogliamo certe cose positive: la natura che si rigenera, un ambiente più vivibile nell’emergenza del clima».

Che fa in queste giornate di eclissi?

ana: meno male che qua a Monte Verde, collina silenziosa sopra a Trastevere, ho il terrazzo e un box con il tapis roulant per fare un poco di esercizio. Non vedo nessuno, c’è mio figlio al piano di sopra che mi dà un fiato. Con i vecchi amici tipo Alessandro Gassman o Leonardo Pieraccioni, o i conoscenti, ci sentiamo su Skype, una comoda scoperta in questa disgrazia. Nel lavoro riusciamo a interagire. Io, come tutti nel mio ambiente, non concepivo di restare fra le quattro mura per più di due giorni. Sempre in giro, sempre a mangiare fuori. Invece adesso sto fermo. Mi sono organizzato, dopo le prime tre settimane molto dure. Esco una volta alla settimana per fare la spesa e cucino cose mie, pasta, molta verdura, salmone, pollo, biscotti, cereali, e programmo pure i menù. Al sapore della Basilicata che conosco da bambino, peperone crusco, u zafarane di Senise. E al resto mi rassegno».

La lucanità deve essere una forma di filosofia. Se ci sono dei vincitori in questa prova perdurante di dolore, siete proprio voi basilischi, se ci passa il termine: numero di decessi per coronavirus al minimo dei minimi, contagi azzerati nelle ultime statistiche. Bassa densità di popolazione, ritmi meditativi, elementi naturali in prima fila. Una lezione sotto ogni aspetto della vita.

«Confermo tutte quante queste cose. La Basilicata ha tempi lenti e pure la fortuna rara di garantire una grande distanza fra persona e persona. A misura umana, se vogliamo dire».

Sento un’eco di tomba alle sue spalle.

«E ci mancherebbe, sono solo. Che voci vorrebbe sentire? Non convivo, non ho neanche una fidanzata da un po’. Né ho rapporti saltuari più leggeri. Però ho spesso la chitarra in mano. Io suono, compongo canzoni, mi considero un cantautore, questo è il mestiere che volevo fare, più che l’attore o il regista».

Che chitarra ha?

«Ne ho quattro. Una classica, una acustica, l’elettrica, la semiacustica. Ma preferisco la acustica. Ora la vado a prendere, le dico che marca è».

Soffre quindi la concorrenza della sua conterranea Arisa, il cui nome completo è Rosalba Pippa, e non è colpa mia. Nata a Genova ma cresciuta a Pignola, Potenza, con la famiglia.

«Arisa è una ragazza meravigliosa, una persona amabile, bravissima, oltre che un’artista dalla gran bella voce. Le voglio molto bene. Poi non ho più di queste velleità. Ho inciso Che non si sappia in giro nel ’97, il cui titolo è stato un presagio del destino del disco, che non si è filato nessuno. Poi La mia parte imperfetta…».

Firmando però l’inno «Basilicata on my mind», in italiano e in dialetto, che è carino.

«Ma non di sola musica vive questo Papaleo. Sto lavorando parecchio, sto scrivendo un nuovo film. Onda su onda non era andato molto bene, mi ero demotivato un pochetto. Invece qua in clausura mi è tornata la voglia di raccontare una mia storia. Mi sento costantemente con Walter Lupo, da trent’anni lavoriamo insieme. Sono ancora alle prime battute, non posso rivelare niente, ma una cosa è certa: è un film in cui alla fine si ritorna alla Basilicata, le mie origini».

A Sud ultimamente aveva piantato le tende.

«Praticamente sto sempre in Puglia da voi. Il film di Verdone, Si vive una volta sola, Il grande spirito, Sergio Rubini. Poi mi sono trasformato in un felino nel Pinocchio di Matteo Garrone».

Regista che rivela un’inclinazione naturale a lasciare emergere il perturbante, per usare un vieto termine psicanalitico.

«Un grandissimo, mio preferito. Faccio il Gatto, con la Volpe che è il compare storico mio Massimo Ceccherini. Ore e ore di trucco, un’opera incredibile. Ma meglio Gatto che cane, animale con cui non ho un grande feeling».

Gatto antropomorfico. Il gatto vero, Dorianino (Dorian), è qui sul mio tavolo che schiaccia un pisolino. Avrà letto Carlo Levi. Essere lucano dentro. Non «Essere John Malkovich» bensì Antonio Rocco Papaleo da Lauria.

«Rispondo all’appello come Papaleo e ancora di più come lauriota, felice e fiero di esserlo. Per un periodo, innamorato di piazza Vittorio, mi sarei trasferito a vivere a Torino, è una città che mi piace molto. Ma sono rimasto nella capitale. E poi ovunque vada è ovvio che farò ritorno alla mia terra, che nella mia terra mi ci sento, la Basilicata è l’origine e la fine».

Come ogni certezza.

«Vede, adesso sto a Roma, ma con il cuore che sta lì, al rione inferiore, “u burgu”, dov’è casa mia, più ancora che al superiore, “u castiddu”. Cioè nella parte sud di Lauria, essendo io per l’appunto un meridionale perfino nel paese mio».

La «città divisa». Ci sono stato per seguire una vicenda elettorale. Nel rione superiore parlano con una certa fonetica, attraversi la strada e senti i vecchi che intrecciano un lauriota diverso. Su festeggiano San Nicola di Bari dall’omonima chiesa, voi sudisti San Giacomo, se ricordo bene.

«Pensi che quando sono stato al paese, poco prima del bordello del coronavirus, andando giù a piedi dalla parte alta fino alla mia abitazione non ho incontrato una sola persona».

E non ringrazia Cristo che si è fermato a Eboli? Che ambienti meravigliosi, che dimensioni struggenti.

«Effettivamente io la trovo una regione veramente bella e magica. Legata ancora al suo arcaismo, nel senso di tradizione migliore. Lo ritrovi in tante cose, pure nei gesti».

E lei è una figura chiave del recupero del teatro vernacolare, che vive un gran fermento. Tuttavia, l’isolamento da decreto adesso la tiene perlomeno lontano dal mondo dello spettacolo, nel quale si attacca a recitare per interesse appena ci si sveglia e si termina falsando la propria natura andando a letto.

«Però vede, ora stiamo in collegamento Bari-Roma, io e lei. Ognuno con il proprio ruolo: pure io sto recitando adesso. Non posso essere mai totalmente sincero. Sono sotto un riflettore, mi sto esponendo, mi calo in quell’essere umano che credo di essere. E lei sono sicuro che immagina di essere qualche altra cosa, perché sta recitando qui con me».

Ma lei è molto più vicino alla sostanza delle cose di parecchi suoi vacanti colleghi che se la tirano a mille. Abbandonato ai flussi di uno spirito dimesso, bonariamente fatalista, consegnatoci da una comicità venata di malinconia.

«Mi piace l’apprezzamento della gente, ci mancherebbe altro. Però so farne a meno».

A Bari si ricorda ancora la standing ovation che le tributò il pubblico nell’incontro di «Tu non conosci il Sud» allo Showville. E questo non è far ridere e basta, è simpatia nell’accezione originaria del termine.

«Però attenzione. Se mi percepisce come dice, magari non è perché ho chissà quali caratteristiche, bensì perché, semplicemente, sono un lucano. Un lucano normalissimo».

·        Rocco Siffredi.

Da "mowmag.com" il 19 novembre 2020. “Sto cazzo di virus deve essere maschio perché non riesco a connettermi con lui” esordisce Rocco Siffredi nell’intervista di Moreno Pisto per il MotoFestival. “Sto per fare un film super top, mi piace molto il pugilato e c’è tutta la troupe che aspetta solo me per girare, un bel casino.” Rocco procede parlando di moto, sua grandissima passione da quando era bambino, tra aneddoti di cadute, incidenti e qualche film in tema: “Uno è stato The Furious Fuckers con i DaBoot… hanno fatto tutto da nudi! Vanni Oddera, Bianconcini, tutti nudi! Sono davvero degli eroi, aiutano tanto le persone che hanno bisogno con la Mototerapia, sono pazzeschi.” Commentando la notizia di Andrea Iannone, condannato dal TAS di Losanna a 4 anni di squalifica per doping, il re del cinema hard ha dichiarato che: “Lui si è proprio rovinato, io la penso come disse un uomo molto importante nel Paddock: ‘Ragazzi, in Italia tutti si vorrebbero chiavare Belen, ma nessuno ci si vuole innamorare, l’unico che ci è cascato è stato lui.’ lo dico con tutta la simpatia, non voglio essere cattivo, però voglio dire… per portare Belen non va bene la patente che hanno 'sti ragazzi! Ci vuole una patente molto più importante, perché quella costa, è difficile da gestire… ti manda al manicomio! Ecco, purtroppo questo ragazzo ha avuto la sfiga di essere invidiato dall’Italia intera per Belen. Però alla fine gestirla è dura. Molto dura, con tutto il bene che le voglio”. Parlando degli altri piloti della MotoGP poi, Rocco svela che “Io sono molto amico di Lucio Cecchinello, poteva anche lui fare il Pornostar! E sono molto contento per la Suzuki”. Poi, quando chiediamo in che ruolo vedrebbe Rossi per un suo film, Rocco risponde divertito “A Valentino la figa piace tanto, ce l’ha anche scritto sulla tuta! Gli farei fare una cosa con una super milf, o magari un paio insieme! Gli farei fare il cattivello dell’accademia..” A questo punto Siffredi svela su Jorge Lorenzo che “lo conosco bene personalmente. Jorge è uno che in un periodo gli ha dato talmente tanto che ha smesso di essere un pilota, si è vista la fine che ha fatto... secondo me si è dedicato troppo! Devo dire che tutti questi piloti nel momento in cui si sono lasciati andare un po’ con la patata hanno avuto il problema di tutti quanti, hanno perso un po’ la testa. Marquez invece l’ho sempre visto abbastanza equilibrato, molto calcolatore. Fa molta più attenzione di Jorge, che invece si è dato alla pazza gioia…”

“Uomini? Ero in un periodo di dipendenza pesante”. Gli abbiamo chiesto se fosse mai andato con un uomo. “Se i trans li chiami uomini allora si, ma ero in un periodo di dipendenza pesante. Non sapevo con cosa andavo, andavo coi trans, con le vecchie… con tutto quello che trovavo!” Poi racconta come sceglie le attrici per i suoi film: “Da come ti guarda la donna, si sente se ha o meno quella parte lì. Il film porno non si decide quando lo giri, ma quando scegli le attrici. A me piacciono di più le ragazze che dicono 'perché no, magari… ci penso' Lo vedi dalle vibrazioni che danno. La chimica, la sensualità, queste sono le cose più importanti. La mia posizione preferita è far godere la donna, ma se proprio devo scegliere io allora ti dico il Rusty Trombone.”  

Poi un’ultima domanda sulla gelosia, a partire dal rapporto con la moglie: “Come fa lei? sono 26 anni che stiamo insieme! Ti potrei dire mille cose, ma te ne dico una sola: mia moglie è sul set, vede sempre quello che succede. La gelosia è la cosa peggiore, istiga il femminicidio. Noi non apparteniamo a nessuno, il nostro corpo è il nostro e basta!” spiega Rocco, che aggiunge: “Se mia moglie mi tradisse mi preoccuperei tanto perché vuol dire che non mi ama più. Ma se vuole andarsi a fare una scopata, sarei felicissimo. Perché è come se a te piacesse andare al ristorante: ti fai un bel piatto di pasta, una bella cena e poi stai meglio. Io la vedo così.”

Federico Rocca per “Vanity Fair” il 10 novembre 2020. Attenzione, spoiler. Non aspettatevi, in queste pagine, cronache dettagliate di avventure boccaccesche, resoconti pruriginosi di assembramenti orgiastici, inventari meticolosi di depravazioni irriferibili. Niente di tutto cio. Quel che ci troverete, piuttosto, sara lo stupore di un giornalista che, forse rammaricato, riuscira a sorprendersi di fronte a quella che, a pensarci anche solo un istante, e solo una pura e quasi banale ovvieta. Che cosa ci fa uno in cam con il figlio di Rocco Siffredi e con la figlia di Eva Henger? Non quello che in molti potrebbero immaginare e, forse ancor di piu, desiderare. Niente sedute di chatroulette hot, niente meeting vietati ai minori, niente sesso (virtuale) ai tempi del Covid-19. Leonardo Tano e Mercedesz Henger si incontrano per la prima volta nei rispettivi schermi, per confrontarsi su un tema che pretenderebbe di essere audace: la formazione sessuale di chi ha genitori, da questo punto di vista, presumibilmente ingombranti (oddio, si puo usare quest’aggettivo a proposito di Rocco Siffredi?). Leonardo e collegato dalla sua cameretta a Budapest, dove vive con la famiglia e studia Ingegneria meccanica. Ci aspetta online gia da una ventina di minuti, ma non siamo noi a essere in ritardo. Alle sue spalle una sfilza di trofei, conquistati sul campo. Che, a scanso di equivoci, e quello delle gare di corsa in go-kart. Mercedesz, invece, si connette con qualche minuto di ritardo. E chi, in tutto cio, ci vuole leggere una metafora piu ampia delle tempistiche che proverbialmente differenziano il genere maschile e quello femminile sotto le lenzuola, faccia pure. Zero trucco, una felpa rosa baby. Ci saluta come Heidi da quella che sembra una malga d’alta montagna. «Parliamo in ungherese, cosi lui non capisce niente!», esordisce Leonardo dopo una risata che e solo la prima di una lunga serie. Una risata di timidezza, se non proprio di imbarazzo. Proposta di complicita accolta: Mercedesz gorgoglia qualcosa che provero, senza successo, a interpretare anche con Google Translate. E gia uno si sente, ulteriormente, tagliato fuori. «L’altro giorno ti ho stalkerizzato: sei veramente un bellissimo ragazzo. L’ho detto anche a Lucas, il mio fidanzato. Fai anche il modello, giusto?». Risata numero due e primo accenno di rossore in volto: «Grazie. Diciamo che ci ho provato, ma non mi piace molto. E noioso». Immagino che abbiate scoperto il sesso in modo diverso rispetto a noi, che non abbiamo avuto un genitore pornostar. Mercedesz: «E cosi. Per me la nudita e il sesso sono sempre stati presenze normali. Gli uffici di mio padre (Riccardo Schicchi, talent scout del mondo dell’hard che ha scoperto, tra le altre, Cicciolina e Moana Pozzi, ndr) erano attaccati a casa nostra: scendevo a giocare con le sue segretarie, e attorno a me vedevo girare queste bellissime donne nude. Per mio padre il corpo femminile era una meravigliosa forma d’arte, nella quale non era possibile vedere il male. Ho realizzato che, forse, tutto cio non era poi cosi normale a 8 anni, quando un compagno di scuola mi disse: “Ma tu sei figlia di una pornostar? Tua mamma lo fa per soldi? Non va bene!”. Pensai che forse sbagliavo a parlare della vita dei miei genitori con tutta quella naturalezza. Ma crescendo ho capito che come la vedo io, la vedo io. E come la vedono gli altri, la vedono gli altri».

Leonardo: «Tutti gli amici di papa lavoravano nel settore, e spesso stavo con loro. Ho sempre sentito parlare di porno, anche quando ero piccolo. Era tutto cosi normale anche per me, che non l’ho mai nascosto ai miei compagni».

Mai sentiti strani, dunque?

L: «A me e sembrato strano sentire dalla mia ragazza che, per lei, era stata utile l’educazione sessuale a scuola, perche i genitori non le avevano mai detto niente. Per me era esattamente il contrario. E non mi riferisco al porno: i miei non hanno mai avuto nessuna paura di parlarmene».

Il sesso, cioe il lavoro, da una parte e l’amore dall’altra: ve l’hanno raccontata cosi?

M: «Per i miei genitori la parte personale e quella professionale erano una specie di miscuglio. Il sesso e una forma d’amore, che puoi condividere con chi vuoi. Farne un lavoro, per mio padre, e stato un modo per condividerla con piu persone. La sua era una visione quasi poetica: e difficile da spiegare a chi non la pensa come lui. Ma io ci sono cresciuta, lo capisco. E sono fiera di questo treno di pensieri che mi ha lasciato».

Miti da sfatare ne abbiamo?

M: «La gente immagina che, essendo cresciuta cosi, io possa essere stata troppo...insomma, che abbia cominciato giovanissima a fare sesso. E invece no. Ho preso i miei tempi, ho aspettato di innamorarmi. E poi ho fatto il passo successivo».

A che eta?

M: «Diciotto, probabilmente sopra la media. Molte mie compagne, forse soffocate dai propri genitori, si sono ribellate prima. Lo dico con fierezza, ma se anche fosse successo prima so che l’avrei fatto in modo consapevole, e che sarebbe stato in ogni caso il momento giusto per me».

L: «Io avevo diciassette anni. Non ero giovanissimo, ma non so se sia dipeso in qualche modo dal lavoro di papa. Sia io sia mio fratello siamo fidanzati da tanto tempo...».

Con la stessa ragazza? Mi regali questo brivido, la prego.

L: «No, volevo dire che anche noi abbiamo aspettato di incontrare l’amore, prima di fare sesso. Sono fidanzato da quasi due anni. L’ho conosciuta a scuola quando ne avevo 12, sai, quando sei bambino e ti dai i bacini. Poi lei si e trasferita in India e ci siamo ritrovati quando e tornata qui in Ungheria. Potremmo dire di stare assieme da 10 anni. La cosa divertente e che nel mezzo ho avuto altre ragazze, e dopo che ci siamo lasciati ho saputo che i loro genitori, forse spaventati, chiedevano loro se con me fosse stato tutto ok o se fosse successo qualcosa di... strano, ecco».

Oltre a quest’apertura mentale, che cosa vi hanno insegnato i vostri genitori riguardo al sesso?

L: «Fortunatamente solo quello. Sarebbe stato strano avere delle lezioni piu dettagliate».

M: «Per me e stato un apprendimento continuo: non mi ricordo il momento esatto in cui ho imparato che cosa volesse dire fare sesso. Proprio come non ricordo la mia prima parola».

E quando avete visto i vostri genitori in un video?

M: «Mai vista mia madre. Una cosa e essere consapevoli di quello che fa, un’altra vederlo coi tuoi occhi. E poi so che a mia madre non farebbe piacere».

L: «Anche io non l’ho mai visto in azione. Ho visto le cover dei dvd che giravano per casa ma... non me l’ha mai detto, pero ho capito che non vorrebbe lo vedessi».

M: «Davvero? Ero convinta che per i maschi fosse diverso. Ma, in effetti, te lo immagini: “Figliolo, guarda qui in tv che cosa ho fatto, che ne pensi?”».

I vostri genitori hanno mai lavorato assieme?

M: «Non lo so, dopo googlo. Ma non voglio vedere niente».

Finita l’intervista lo faro io – dovere professionale – per scoprire che nel cast di Rocco lo spaccone, primi anni ’90, c’e anche Eva Henger. Ma al pensiero di dover giustificare la cronologia delle ricerche nel pc di lavoro, mi accontento delle informazioni che ho. Stavolta il bravo giornalista non verifica le sue fonti.

Timidi o disinibiti? Come siete, sessualmente parlando?

M: «Normale, credo. Non mi scandalizza niente, e non faccio nulla di scandaloso. Nella coppia e importante saper trovare dei punti d’incontro. Anche sotto quell’aspetto».

L: «Non giro nudo per casa, non mi piace che i miei genitori mi vedano. Sono timido, si, se era questa la domanda».

No, veramente era piu tipo: a letto le piace sperimentare?

L: «Ah... no, proprio no. Anche lei e piuttosto all’antica, non vorrei mai spingerla a fare cose che non desidera. Temo di essere super noioso».

Ma scusate, io cosa scrivo in quest’articolo? Siete di una normalita sconcertante.

L: «Diciamo che se devo vedere qualcosa di strano basta che vada sul set».

Anche nelle vostre famiglie la sera, a cena, si parla dei problemi di lavoro?

L: «Capita. Adesso che mio padre lavora come produttore molto spesso lo sento lamentarsi di attori che non funzionano. Vuol dire che... non gli si alza il... coso».

Leonardo questa volta diventa tutto rosso, sotto il ciuffo di capelli biondi.

M: «Capitava, ma eviterei di ricordare qui i dettagli. Potrebbero sembrare un po’ volgari».

Non vi ha mai sfiorato il pensiero di seguire le orme dei vostri genitori?

M: «Io non sarei mai capace di fare quel lavoro. Mai. Mia madre, in qualche modo, si e anche “pentita” della sua carriera. Forse anche questo ha influito su di me».

L: «Per scherzo, una volta a papa l’ho detto: e facilissimo, posso farlo anch’io!».

E poi ha capito che non lo era?

L: «No, non mi interessa proprio. E poi credo che sarebbe stupido fare qualcosa solo perche prima l’ha fatta tuo padre».

L’Italia e un Paese di avvocati figli di avvocati, di medici figli di medici...

M: «Ma ci sono figli di attori hard che hanno fatto gli attori hard, o siamo tutti messi cosi? Una coincidenza? Non credo».

Per voi, oggi, il sesso che cosa e?

M: «La cosa piu bella e intima da condividere con la persona che ami».

L: «Eh si, condivido».

Solo con una persona che ami?

M: «Per me si. Ma non voglio dire che debba esserlo anche per gli altri».

L: «Adesso come adesso la penso cosi: non vorrei farlo con nessun’altra che non sia la ragazza a cui voglio bene».

M: «Oh, che patatino!».

Sono sempre piu basito. A una certa eta i genitori o si idealizzano, o si contestano. Nel vostro caso?

M: «Come si sa, io e mia madre non ci parliamo da un anno. Ma per questioni personali, il mondo dell’hard non c’entra per niente. Mio padre Riccardo e sempre stata la persona piu importante della mia vita, fino al giorno in cui e morto. Per me era perfetto».

L: «Io li ammiro entrambi, sono un vero punto di riferimento».

Quindi, che cosa hanno in comune i figli delle pornostar?

M: «Siamo partiti dai set hard, per arrivare allo stesso punto: pensare al sesso come a una cosa bella da condividere con la persona che ami. Ci accomuna questa mentalita aperta, la liberta di essere normali».

L: «E anche il non essere quello che la gente si aspetta. E mi creda, sarebbe molto piu facile...».

Barbara Costa per Dagospia il 5 settembre 2020. Può un uomo arrivare a scoparti fin nel cervello? Sì, è raro ma ce ne sono, in giro, e tu devi essere brava (e fortunata) a portartelo tra le gambe. E può un uomo scoparti il cervello da uno schermo, attraverso un video? Sì, sempre, se si chiama Rocco Siffredi. Non c’entra il cazzone, né in lunghezza né in circonferenza, c’entra quella sua mano, sul collo, a prenderti la gola, c’entra quella (recitata) violenza lì, assolutamente roccosiffrediana. Mie care, Rocco è tornato, e non ce n’è per n-e-s-s-u-n-o. Mai, ce n’è stato, qualcosa, una briciola porno a guida, mappa, consiglio per un possibile erede, erede che non esiste, non può esistere, e non esisterà. Erede che è invenzione della stampa non porno che di porno nulla sa e nulla capisce. Non ci sarà un altro Rocco Siffredi anche perché, chi lo vuole? C’è lui, l’originale, l’immenso, denso, nel porno violento…violento…violento! E ce ne sono, di femmine da castigare, immobilizzare, fare urlare, orgasmicamente ridurre a niente, femmine che per loro dittatoriale, esigente piacere sono di Rocco oggetto, non in ogni scena ma sì dove è messinscena che serve, è voluta, cercata, creata a fame di un istinto che da 36 anni da generazioni alimentiamo, prima nei cinema, poi in vhs, nei dvd, e oggi ci "scarichiamo" col web: del porno c’è bisogno, ne abbiamo bisogno, e noi donne vogliamo Rocco, amiamo Rocco, miriamo a toccarci scopando con gli occhi quanto Rocco fa e ci mostra. Rocco è tornato, dopo forzata pausa Covid, non so voi ma io non ne potevo più, ero in pieno porno delirium tremens: l’astinenza da Rocco è dura. Mi sono calmata, sono stata non pornamente saziata – questo mai! – ma riempita da quanto da Rocco da ultimo fatto, e da quello che nei prossimi mesi ci promette e ci aspetta. Te lo ridico, Rocco è tornato, "Rocco’s Back to America for More Adventures": guarda un po’ sul suo sito? Scoparti il cervello, arrivare a risucchiartelo, completamente: osserva con quale maestria, esperienza Rocco si sta lavorando quel clitoride, e mangiandosi quella striscia più scura che c’è tra le natiche. Vedi come gliele aprono, quelle ingorde, come gliela servono? Fanno la fila, sgomitano, a prenotarsi una scena con Rocco, credimi, non c’è attrice che non lo veneri, non implori di dividerci un set. Nient’altro che ridicolo è chiunque continui a belare contro Rocco, il Siffredi-style, la sua crudezza. Assurdo, ignorante di porno, chi ancora sta a riesumare, in polemica, la testa della bionda scopata e sbattuta e sciacquata nel wc: scena che ha inaugurato un genere, un orgasmo inedito, una singolare tappa nel gioco della dominazione. Oggi fanno a gara, a porno farsi sciacquare la testa così, e a non dire della francesina porno-battezzata alle scene nel water da Rocco, poi innamoratasi di lui, ma sul serio, da corteggiamento eccessivo, imbarazzante. Rocco sognato, agognato, bramato, preteso: siamo tutte così, in fregola per lui, lui ci accende, anche oggi, più oggi, più di sempre. Ammiratelo bene: 56 anni, Rocco ha un cazzo da barare sull’età, la sua virilità è intatta e potente, nata per il porno. Io ne sono convinta, Rocco pornoattore vi è nato, per lui il porno è modo di stare al mondo, l’unico che conosce e in cui si riconosce. Appieno. Porno a cui ha dato tutto e tanto indietro ne ha avuto, porno che è, ed è stato, delizia, e per brevi periodi, dannazione. Non è stato un rapporto facile, quello di Rocco col porno. Non lo è mai con ciò che ti fa respirare. Angoli bui. Eppure non vi è stata redenzione. Solo ricerca di un diverso equilibrio. Prima di Rocco, il nostro erotismo nazionalpopolare era infantilismo, ancorato a uomini galli, in sollucchero per quanto riuscivano a sbirciare sotto le gonne di una donna a cui era da loro permessa risposta di finta, timida malizia. Donne non cresciute, che servivano a rassicurare il maschio medio italico costantemente in cerca di conferme dal suo pisello. Rocco ha dato un calcio a tale pochezza. Con Rocco le donne sono creature terrene, non dee pettorute la cui immagine molti uomini distorcono. Mostrando il sesso, e il suo sesso, il suo modo di far sesso, pubblico, recitato ma reale, Rocco ha tolto ogni alibi, e di più alle donne. Ci ha liberato, sturato, fatto esplodere, rinascere in femminilità. Ma non la femminilità conforme, bensì quella animale, basica, che non profuma bensì puzza dei nostri afrori. Sicché, ogni gallina femminista vada a far l’uovo altrove. Rocco non si tocca: la sua è una rivoluzione compiuta e, per altri versi, perennemente in divenire. La fama di Rocco è mondiale, spiegabilissima e compiutissima nel suo sesso e nel suo porno. Nel porno che fa per noi. Con Rocco non hai difese. Ti ingolosisce, te ne vergogni, ma hai più di un suo video salvato nella tua segreta lista dei porno. Ammettilo con me: quanta smania hai di assaggiarlo nella tua bocca? Non basta il suo sesso, tu vuoi i suoi sputi. Quella di Rocco è rivoluzione estetica: non esistono corpi brutti, corpi sgradevoli, donne da non far godere, al di là di ogni personale gusto. È rivoluzione di genere: nel sesso, uomo e donna sono alla pari. È rivoluzione di libertà. Rocco è tornato, e in "Rocco’s Back to America for More Adventures", il climax è per me in Jane Wilde abbandonata a Rocco, in posizione fetale, col pene di Rocco a riposo. Il sesso lo fai per sporcarti.

Massimo Murianni per Novella 2000 il 16 aprile 2020.

«Mai passato in vita mia un periodo così. Mi sveglio ogni mattina e posso decidere cosa fare, scegliere anche di non fare niente».

Eppure Rocco Siffredi, il re del cinema hard, ha partecipato all’Isola dei famosi, e non si ricordano ritmi estenuanti e impegni pressanti in quelle settimane in Honduras...

«Non era la stessa cosa: c’erano le telecamere che ti seguivano, le indicazioni della produzione con i compiti da svolgere... Era comunque uno show. Ora è vita vera. C’è l’ansia per il virus e c’è la possibilità inedita per me di avere tempo da costruire».

Rocco è nella sua casa a Budapest, in Ungheria. Chiuso in casa con sua moglie e i vostri figli?

«Sì, siamo noi quattro. Qui la chiusura è meno severa che in Italia, ma noi stiamo in casa comunque, è una scelta di intelligenza, consapevoli di essere in una condizione privilegiata».

Perché?

«Viviamo nella periferia della città, con il verde intorno. Casa nostra è molto grande, ha il giardino e poi ci sono i 100mila metri quadri del mio studio, dove giro i film e ho la mia Academy per attori porno».

Ma non può lavorare.

«No, quello no. Ci dedichiamo alla ristrutturazione, imbianchiamo, piccoli lavori che rimandi sempre perché  non hai mai tempo».

Tutto il mondo è chiuso in casa, o quasi, e si annoia. I dati dicono che è aumentato il consumo di video hard, ma paradossalmente si è fermata la produzione.

«Non è vero. Non ci sono produzioni professionali, ma gli appassionati girano scene amatoriali e le condividono. E anche le attrici professioniste fanno video in casa. Anche personalizzati per i fan: magari inseriscono il nome del fan in una scena di autoerotismo... Mentre il mondo della prostituzione, che è diverso dal nostro, ma lavora sempre con il sesso, si è davvero fermato, il nostro va avanti in modo diverso».

E lei come contribuisce?

«Ogni sera alle 21 sul mio canale youtube intervisto in diretta una pornostar internazionale scelta dai fan. Un momento di svago per tutti. Finora nessuna ha mai rifiutato l’invito».

Per la prima volta nella vita è libero, senza impegni. Per la prima volta, in 27 anni di matrimonio, è tutto per sua moglie Rosa e i vostri due figli Lorenzo e Leonardo. Tiene botta?

«Mi piace stare con la mia famiglia. Quello che non mi piace è fare a meno del sesso. All’Isola dei famosi mi ero dato una regola mentale, talmente interiorizzata che anche quando sono tornato, per due settimane, non ho avuto stimoli. Mia moglie era preoccupata».

Appunto: ora ha sua moglie accanto.

«Non mi pare giusto fare pressione su di lei per farla stare dietro a mie esigenze. Così ho riscoperto una nuova adolescenza, mi dedico a me stesso come un ragazzino...».

Chiaro. I suoi ragazzi, nessuno dei quali ha intenzione di seguirla nella professione, come stanno?

«Lorenzo, il più grande, che lavora con i video e mi aiuta nelle produzioni, già prima lavorava da casa. Non è cambiato molto per lui. Chi soffre di più è Leonardo, il piccolo».

Piccolo... Ha vent’anni, è una promessa ungherese del salto in alto, va all’università!

«E studia ingegneria meccanica. È contrariato e frustrato perché aveva preparato degli esami che non ha potuto dare. In casa è lui quello più colpito dalla situazione».

In che senso?

«Rosa e io siamo rientrati dall’Italia con uno degli ultlmi voli prima del lockdown. Siamo venuti qui perché in Italia non abbiamo un posto dove stare. Arrivati a casa, Leonardo ci è stato lontano per due settimane».

Rocco, sta facendo progetti per il dopo?

«Non puoi fare previsioni. Ero pronto a debuttare a teatro con il mio spettacolo, all’Ariston di Sanremo il 21 maggio... Tutto volatilizzato. Possiamo solo cercare di trovare positività interiore in questo momento di negatività».

Da lopinionista.it il 19 gennaio 2020. Il celebre attore, regista e produttore italiano di cinematografia per adulti, Rocco Siffredi, è stato premiato come “miglior regista straniero” durante la cerimonia di consegna degli Xbiz Awards, svoltasi ieri sera a Los Angeles. L’ulteriore riconoscimento per l’attività professionale di Rocco Siffredi è stato conferito dall’industria statunitense dell’intrattenimento per adulti, che celebra le migliori eccellenze del comparto, anche in ambito internazionale. Come i Golden Globes per gli Oscar del Cinema hollywoodiano, la kermesse anticipa di circa una settimana la cerimonia di consegna dei prestigiosi AVN 2020, che sono il massimo riconoscimento professionale, attribuito dal settore americano dell’intrattenimento per adulti che, fin dal 1984, riunisce annualmente in California le migliori produzioni al mondo. Il 55enne attore, regista e produttore originario di Ortona (CH), è in nomina per la vittoria in 13 differenti categorie. Le statuette alate a luci rosse del 2020, verranno assegnate in una prestigiosa serata di Gala a Las Vegas, durante la prossima settimana.

Da affaritaliani.it il 24 gennaio 2020. "Non la conosco, ma deve essere estremamente sexy se non gliel'ha mai data". Utilizza una battuta l'attore porno Rocco Siffredi per commentare la battuta di Silvio Berlusconi sulla candidata del Centrodestra alle elezioni regionali in Calabria, Jole Santelli ('In 26 anni non me l'ha mai data'). "Berlusconi lo fa apposta, è autoironico e dice queste cose proprio per far incazzare quelli che lo accusano di essere sessista. Non si tratta di una battuta spontanea, lui si diverte molto a fare il sessista. Diciamo che pensa di essere l'ultimo macho rimasto sulla Terra", afferma Siffredi ad Affaritaliani.it. Quanto alle Regionali in Emilia Romagna, l'attorno porno, parlando di Lucia Borgonzoni, dice: "L'ho vista in foto, è molto figa". E Stefano Bonaccini? "Non è un uomo che rientra nei miei gusti come estetica, ma d'altronde che posso dire di un maschio?". Poi parlando del voto di domenica, Siffredi si fa serio e afferma: "Spero che vinca il migliore, ma non mi piacciono gli estremisti e gli estremismi. Io sono per la libertà totale e convinto che con i regimi si perda tantissima libertà. La massima espressione della perversione è il potere e quando tutti hanno il cazzo duro si fanno molti danni". Un riferimento a Salvini? "Lo lascio alla libera interpretazione del lettore", conclude Siffredi.

·        Rocco Steele.

C'È UN ALTRO ROCCO NEL PORNO CHE VA FORTE: E' ROCCO STEELE, IL PIÙ RICHIESTO NEL GENERE GAY. Barbara Costa per Dagospia il 6 dicembre 2020. “Odiavo prendere ordini da dei 20enni”: come dargli torto? E com’è, quel detto, che la vita comincia a 40 anni? Quella di Rocco Steele, il più famoso pornostar gay (ma famoso sul serio, milioni di fan sparsi nel mondo e altrettanti nell’etere, la sua in campo gay è una gloria-porno che tocca quella etero di Siffredi) se non è iniziata a 42 anni è di certo sterzata perché lui, un bel giorno, dopo 2 lauree, e più di un decennio di lavoro aziendale, si è rotto le palle, ha mollato tutto, e si è messo a fare…l’escort. Sissignori, il puttano di lusso, 350 dollari per un’ora con lui, 1500 una notte intera, per una maschia clientela facoltosa, selezionata, per non più di un incontro di sesso al giorno, preferibilmente in pausa pranzo, o nel primo pomeriggio. Se non afferri al volo perché tra i clienti di Rocco pochi prenotavano scopate di sera, prendi nota, perché il mondo gira così: i clienti di Rocco erano ammogliati, se non finto etero, comunque bisessuali nascosti. A casa avevano mogli non so quanto devote, figli non so quanti frignanti… e una pazza fregola di farsi scopare da Rocco Steele, e scopare da passivi poiché “erano stressati”, dice Rocco, “avevano bisogno di staccare dagli obblighi imposti dalla vita che avevano scelto”. Rocco Steele è passato dai piani alti di Manhattan all’escortaggio e al pornogay che conta: il suo ingresso nel porno gli ha permesso di incrementare parecchio i suoi guadagni col sesso a pagamento. Chi è cliente di escort – etero e gay – lo sa: gli e le escort che fanno anche porno possono pretendere tariffe esose. Ma Rocco ha escortato per poco, optando per il porno a tempo pieno, trovando questa corsia preferenziale: nel porno gay professionale, è esiguo il numero di attori "daddy", ovvero attori non più giovanissimi, e dalla voce calda, roca e corpo possente, meglio se tatuato, capaci in ruoli di dominazione. Simile prototipo "alfa" è ciò che Rocco Steele incarna alla perfezione, insieme ai suoi occhioni blu, ma soprattutto al suo pene "d’acciaio" lungo 25 cm e largo 18, pene masturbatoriamente narcotizzante: come nel porno etero ma in misura mille volte maggiore, un pene oltre la media è basilare per un attore di pornogay. Se Pornhub, per le sue statistiche, è il termometro delle fantasie sessuali dei suoi milioni di utenti, non ci possono essere dubbi: in ambito gay, i porno della serie "big cocks" sono i più visti, staccando nettamente in classifica le altre categorie. Seguono i video senza condom, i maschioni muscolosi, e gli amatorial. I meno visti sono i pornogay giapponesi, i porno gay a cartoni animati, e quelli a tematica militare. Rocco Steele ha monopolizzato il genere daddy, che gli ha procurato notorietà mondiale. Oggi, pornando meno, e dedicandosi più a produzione e regia, Rocco è e rimane sul podio dei pornostar gay più visti. Proprio ai siti freetube, Rocco deve parte della sua fama: suoi porno piratati hanno 5 anni fa invaso il web, facendo montagne di views, rendendolo in un lampo notissimo. E dire che Rocco Steele fino a qualche tempo fa barava sulla sua vera età (56 anni): i pornostar sono ossessionati dal tempo che passa, dai loro corpi che perdono tonicità, e Rocco è entrato nel porno “che avevo i capelli brizzolati, e le rughe”. Ma il suo corpo non più imberbe è stato ed è la sua carta vincente, un corpo che lui cura in modo maniacale, allenandosi tutti i giorni, e non mangiando zuccheri. Siamo fieri e patriottici, perché Rocco Steele è italiano, al 50 per cento, ed è pure cattolico: lui è il figlio più piccolo di una coppia non ricca dell’Ohio, e ha 3 sorelle più grandi. I suoi genitori sono nati e cresciuti in piena Grande Depressione, non hanno potuto studiare, sono molto religiosi e hanno accettato con naturalezza estrema la sessualità del loro unico figlio maschio. Come la sua famiglia, Rocco vota Partito Democratico, ha votato Joe Biden e, se vai sui suoi social, oltre i suoi scontri contro gli haters i più imbecilli che social-ghettizzano le persone non etero, è possibile trovarci i suoi "sermoni" anti-repubblicani: lui è convinto che mai il Partito Repubblicano, al contrario del Democratico, sarà dalla parte dei diritti delle persone non etero. Rocco è un attivista, uno che fa politica per i gay, uno che ci crede e che è persuaso che l’avere ottenuto il sacrosanto diritto a sposarsi e a mettere su famiglia come gli altri, abbia infiacchito le lotte gay: per lui mai bisogna sedersi, mai abbassare la guardia, e la politica antigay di Trump gli ha dato ragione. Rocco sa che l’America è un Paese immenso e diseguale, dove la realtà radicalmente muta da Stato a Stato, e non si fa illusioni: il posto in cui si nasce e si cresce, il contesto dove si vive, influenzano le mentalità. Ci sono luoghi, in America, dove vivere per un gay non è affatto facile. Ancora oggi. Rocco fonda le sue battaglie sul suo passato: lui era ragazzo ma se li ricorda, gli anni in cui l’AIDS ha falcidiato le comunità gay. Lui non dimentica chi è morto, lui non dimentica “le marce, il nostro restare uniti, per non essere considerati degli appestati: intorno avevamo se non l’indifferenza duri pregiudizi: eravamo marchiati, e non c’era l’immediatezza dei social, e le battaglie di allora non avevano sponsor, non avevano Google”. Rocco Steele oggi è anche un serio imprenditore, e il suo brand di biancheria intima "10Seven", sposa le sue misure intime in pollici. Rocco Steele è il pornostar gay icona anche del porno pulito, dove non deve circolare nessun tipo di droga: da adolescente, Rocco ne ha fatto uso, oggi parla di dipendenze in modo aperto, franco, ed è un punto di riferimento anche per questo scomodo argomento. Rocco Steele è tra i pornostar più celebri e premiati, però, stiamo attenti, perché di nostri connazionali che si stanno facendo largo nel porno-gay, ve ne sono: va tenuto d’occhio Marco Napoli, nel porno da un solo anno, attivissimo in USA e pure in Europa, e già in nomination agli Oscar del Porno Gay (come, non lo sai? Sì, ci sono pure questi Oscar del Porno qui! Si chiamano "Gay VN Awards", ogni anno sono consegnati in un pazzesco show, che nel 2021 si terrà il 18 gennaio, all-digital anti-Covid). Mi dicono che Marco Napoli è fidanzato con Joel Someone, pornostar alquanto ingolosente, come è per me ingolosente il gay brasiliano Armond Rizzo, e senti questa: tra le star del porno-gay in ascesa spicca Joey Mills, 22 anni, mingherlino androgino, uno che ha appena lanciato i suoi sex-toys fatti a perfetto calco del suo pene e del suo ano: ci credi che, tra gli acquirenti, gran parte sono donne…?

·        Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Da liberoquotidiano.it il 5 gennaio 2020. Nuovo drastico cambio di vita per Rodrigo Alves, il "Ken Umano" diventato famoso in Italia grazie alla sua partecipazione al Grande Fratello e alle numerose partecipazioni nei talk di Barbara D'Urso. Il personaggio televisivo britannico ha annunciato l'intenzione di cambiare sesso e diventare donna. "Sono conosciuta come Ken ma dentro mi sono sempre sentita come Barbie - ha spiegato ai fan -. È fantastico dire finalmente al mondo che sono una ragazza. Finalmente mi sento la vera me. Affascinante, bella e femminile". "Per anni ho provato a vivere la mia vita da uomo. Avevo messo anche dei finti addominali, avevo i muscoli di silicone sulle braccia ma mentivo a me stessa - ha spiegato Alves, che negli ultimi 15 anni ha speso 430mila euro in interventi di chirurgia plastica di ogni tipo -. A porte chiuse vivo come una donna da mesi, ma sono uscito allo scoperto da poco". Presto, inizierà il suo nuovo calvario sotto i ferri: "Farò rimuovere i miei genitali, tutto, anche i testicoli. Quello sarà il passo finale. Prima mi farò mettere protesi mammarie al silicone, credo entro fine mese. Presto sarò in grado di indossare abiti che mostrano la mia scollatura. Sono molto emozionata. Subirò diversi interventi chirurgici di femminilizzazione. Sarà un'incisione nella parte superiore del mio cuoio capelluto, e attraverso ciò il dottore rimodellerà la mia fronte, mi farà un lifting degli occhi, un lifting delle labbra e un lifting della parte centrale del viso. Farò anche rimuovere il pomo di Adamo, modificherò la mascella e il mento". Un auspicio: "Spero solo che le persone possano accettarmi come donna e non giudicarmi o ridicolizzarmi. Questo non è un capriccio. Mi è stato diagnosticato un disturbo dismorfico di genere e mi è stata data la possibilità di iniziare le cure appropriate per la transizione. Mia sorella ha detto che spera che io assomigli a lei adesso che sono una donna”.

Rodrigo Alves è una Barbie: "Mi sono sempre sentita donna". Torna per la prima volta in tv dopo la sua ennesima trasformazione Rodrigo Alves, che da Ken umano ora è diventato Barbie. Roberta Damiata, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. C’era grande attesa, per vedere a “Live non è la d’Urso” Rodrigo Alves, per la prima volta in tv, dopo la profonda trasformazione che lo ha portato nuovamente a cambiare. Il Ken umano, che da semplice ragazzetto un po’ sovrappeso, si è lentamente trasformato usando la chirurgia plastica fino a trasformarsi nel suo personaggio preferito il fidanzato di Barbie ha deciso di fare ancora di più. Innumerevoli sono stati gli interventi, a volte anche estremamente dolorosi, tra cui in ultimo la rimozione di alcune costole per avere la vita più sottile, a cui Rodrigo si è sottoposto fino a cancellare completamente le sue vecchie sembianze, tanto da non essere neanche più riconosciuto, e per questo fermato, dalla Polizia, a cui aveva mostrato un documento di identità che ovviamente non le somigliava più. Ma ora, la notizia choc, che ormai da tempo sta circolando è che questa prima trasformazione ormai non lo soddisfava più e così da “Ken”, Rodrigo è diventato “Barbie”. Una decisione che ha lasciato tutti a bocca aperta, soprattutto per le nuove operazioni che ha dovuto affrontare per questo ennesimo cambiamento. Ora a “Live non è la d'Urso” arriva mostrando il suo nuovo aspetto, fatto da una lunga parrucca biondo platino, fianchi rotondi vita sottile e seno generoso, finalmente a suo dire felice, che suscita ammirazione da parte del pubblico e degli opinionisti presenti. Ma non tutti sono della stessa opinione, c’è chi con qualche battutina al vetriolo cerca di attaccarlo, nonostante i complimenti della padrona di casa, che manda però in onda un filmato che mostra la sua intera trasformazione, da semplice ragazzo brasiliano a diva old style. Eliminati i finti addominali, realizzati con una tecnica particolare, Rodrigo, anche aiutato dal chirurgo plastico Giacomo Urtis, con cui la scorsa estate ha anche inciso un disco, si è lentamente trasformato. Ma solo rivedendo il video in diretta, si comprende dall'espressione del suo viso, nonostante il botox, che qualcosa non va e che quello che viene mostrato lo fa addolorare. Ed infatti appena si ritorna in studio, scoppia in lacrime, raccontando quella che in apparenza più sembrare solo una bizzarria estrema, nasconde invece un dolore più profondo. “Non riesco a vedermi come ero - racconta Rodrigo trattenendo le lacrime - io sono nato una disfunzione e non produco testosterone. Per tutta la vita ho provato a diventare un uomo. Ci ho provato sottoponendomi a tanti interventi ma niente. Per questo - continua - ho deciso di fare questa transizione e vengo seguito a Londra, dove abito da uno psichiatra. Quando ero da solo in casa mia io mi mascheravo da donna, perché così io mi sentivo”. Un dolore palpabile che scaccia per un momento la facile ironia che molti dei presenti hanno manifestato per questa decisione che appare obiettivamente bizzarra, ma che come spiega la padrona di casa "è invece molto profonda”.

·        Rockets.

Alessandro Dell'Orto per “Libero quotidiano” il 9 novembre 2020. Fabrice Pascal Quagliotti, mago delle tastiere, 62 anni, ha un passato di grande successo e un presente in rampa di lancio. Già, proprio come se fosse un astronauta pronto a decollare nello spazio: lui, leader e unico superstite della formazione originale dei Rockets (il gruppo space-rock francese, ricordate? Quei tizi che suonavano vestiti da alieni che hanno fatto il boom tra gli Anni '70 e '80), sta esordendo con il primo lavoro solista della carriera: Parallel Worlds uscito lo scorso 23 ottobre.

Fabrice, come mai questa sorpresa?

«Avevo in mente di fare un album del genere da quattro o cinque anni. Il mio discografico ha sentito qualche provino e mi ha suggerito di preparare un lavoro solo strumentale. Così, quando è arrivato lo scorso lockdown, si è presentata l'occasione giusta per fare una full immersion di 15 ore al giorno su pianoforte e tastiera...».

Dove hai trascorso quei due mesi?

«Immerso nel verde delle colline di Como, in collina, dove vivo dal 1984. Ovviamente sono finito lì per amore».

Parallel Words è una sorta di album cinematografico: in 14 brani strumentali lei immagina altrettante colonne sonore per film che non esistono.

«Fare musica per il cinema è il mio sogno. Ecco perché Parallael Words è dedicato a Ennio Morricone, che considero il più grande compositore del XX secolo».

Perché questo titolo?

«Da bambino ero amicissimo di Federick Rousseau (famoso strumentista new age francese n.d.r.), andavamo a scuola insieme ed eravamo culo e camicia. Poi ci siamo persi di vista e quando, dopo 12 anni, ci siamo reincontrati per caso in un negozio di strumenti musicali a Parigi, ci siamo riconosciuti anche se eravamo completamente cambiati: lui con la barba e io rasato! Lui era il tastierista di Jean-Michel Jarre ed io il tastierista dei Rockets. Così, quando l'ho chiamato per collaborare a questo progetto, ci siamo detti che il titolo dell'album non poteva essere che questo: mondi paralleli. I nostri».

Fabrice, nei suoi brani ci sono dediche a David Bowie e Gagarin.

«Sono sempre stato un fan sfegatato di Bowie, il più grande trasformista del pop. Volevo fare qualcosa che mi ricordasse il personaggio di Major Tom e Space Oddity. Da ex Rockets, invece, sono sempre stato affascinato dallo spazio e dagli Ufo. Un tema che lega anche il brano dedicato a Yuri Gagarin: avrei voluto essere io il primo uomo nello spazio».

Scusi, scusi: lei crede negli Ufo?

«Assolutamente sì: come si fa a pensare di essere gli unici essere viventi dell'Universo? Il mio sogno è essere rapito da extraterrestri ed essere portato lassù nel loro mondo».

Torniamo al suo album. Domanda secca e anche un po' stronza: perché uno dovrebbe acquistare questo suo primo lavoro solitario?

«Perché chi lo ascolta se ne innamora per forza. Sono 14 sfumature di me stesso. E ho già in testa anche come portarlo in scena: luci, neon, funamboli come in un circo e 14 outfit diversi che sto facendo preparare dalla fashion designer Cinzia Diddi».

Il più stravagante?

«Un abito con tessuto fatto di luci».

Fabrice, e i Rockets?

«Io mi considero sempre uno di loro, ma ormai ci esibiamo solo dal vivo. Io non dimentico il passato».

Torniamoci insieme al passato. Lei nasce a Parigi il 12 febbraio 1958. Con un cognome italiano.

«I bi bis nonni sono della Val d'Aosta. A 13 anni studio organo classico al prestigioso Conservatorio di Parigi e poi prendo lezioni di pianoforte dal maestro russo Yuri Postar. A 16 anni fondo una band progressive rock chiamata "Sexagone" e a 17 formo i "Xerus". Nel frattempo mi contatta Christian Le Bartz che sta cercando un nuovo tastierista per i Rockets».

Ed è il via al grande boom con lo "Spice Rock", il rock spaziale con tastiere sintetizzatori. E un look tutto particolare: l'immagine futurista di alieni dalla pelle color argento. Complicato truccarsi?

 «Cinque minuti per mettersi la crema teatrale grigia, ma mezzora per toglierla».

Eravate pelati, cosa non ancora di moda a quel tempo: parrucca?

«Nooo, eravamo rasati realmente...».

Perché quel sorriso?

«Questo look ci ha creato qualche problema, soprattutto in Italia».

Cioè?

«Concerto a Torino nel '79: si apre il sipario e nelle prime file del teatro ci sono solo persone pelate, in piedi e con il braccio destro teso in avanti».

Non dirà che…

«Sì, erano convinti che fossimo un gruppo fascista che omaggiava il Duce! Il manager ci guarda e dice: "Per carità, non incitateli"».

Ma eravate di destra?

«No, i Rockets erano apolitici. Ci rasavamo come segno di purezza immaginandoci nello spazio a contatto con strani virus».

E pure lei, Fabrice, è apolitico?

«Beh, io sicuramente non sono di sinistra. Diciamo centrodestra».

Ultime domande veloci.

1) Ha guadagnato molto con i Rockets?

«Abbastanza, ma ho anche speso tanto in bella vita e alberghi di lusso. Non in donne: per fortuna quelle non mi sono mai costate».

2) Parliamone, di donne. Tante?

«Quando rientravamo in hotel c'era la fila e dovevamo solo scegliere: tu sì, tu no. Bei tempi, rifarei tutto».

3) Musica a certi livelli, soprattutto in quegli anni, spesso significava droga.

«L'abbiamo toccata con mano per un anno o due, abbiamo provato di tutto. Non per sballarci, ma per reggere certi ritmi tra viaggi, registrazioni, tv e concerti. Ci esibivamo anche 150 volte l'anno ed eravamo sempre in giro, non si dormiva mai».

Ultimissima. Dovesse spiegare la sua musica a un bambino cosa gli direbbe?

«Gliela farei sentire: la musica non si spiega, la si ascolta».  

·        Rosanna Lambertucci.

Da corriere.it il 7 agosto 2020. «Dopo aver perso cinque figli, mi era nata una bella bambina che si chiamava Elisa, ma è morta dopo pochi giorni». Rosanna Lambertucci, ospite su Rai1 a Io e Te, ha lasciato letteralmente senza parole il conduttore Pierluigi Diaco. La giornalista ha ripercorso in tv i momenti drammatici della sua vita. «Mi sono sposata molto giovane — ha raccontato — e sono stata costretta a visitare spesso gli ospedali come protagonista, a causa di gravidanze che andavano male. Dopo aver perso cinque figli, mi era nata una bella bambina che si chiamava Elisa, ma è morta dopo pochi giorni».

«Io, raccomandata». Non è l’unica confessione che Rosanna Lambertucci ha fatto durante la sua ospitata. «Sono entrata in Rai da raccomandata. All’epoca c’era come direttore generale Ettore Bernabei. Il mio patrigno era il capo della Procura di Roma, un uomo molto importante. Io avrei potuto lavorare nell’azienda di famiglia, ma avevo bisogno di trovare la mia strada e dissi che mi sarebbe piaciuto lavorare in Rai. Ma ti do la mia parola che, dopo quel giorno, non mi ha più aiutata nessuno». Diaco ha apprezzato: «Ti ringrazio perché sei la prima conduttrice ad ammettere di essere entrata in Rai da raccomandata». Lei si è anche tolta un sassolino dalle scarpe: «Tu lo capisci perché una Rosanna Lambertucci non ha più spazio in Rai? Sapessi quanta gente mi ferma per strada e mi chiede di tornare in Rai, ma non dipende da me».

Il drammatico racconto di Rosanna Lambertucci gela Pierluigi Diaco: "Mia figlia morta dopo pochi giorni". Rosanna Lambertucci ha lasciato attonito Pierluigi Diaco nel corso dell'intervista a Io e Te, quando ha raccontato della morte della figlia dopo pochi giorni dalla nascita. Paola Francioni, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. Intervista intima e profonda per Rosanna Lambertucci nel programma Io e Te, condotto da Pierluigi Diaco. Nel corso della chiacchierata tra i due, la conduttrice ha fatto una rivelazione molto forte, che ha lasciato di stucco il padrone di casa. La Lambertucci e Diaco hanno ripercorso insieme alcune delle tappe fondamentali della vita della donna, finché lei non si è lasciata andare a un aneddoto molto potente relativo a sua figlia. "Mi sono sposata molto giovane e sono stata costretta a visitare spesso gli ospedali come protagonista, a causa di gravidanze che andavano male. Dopo aver perso cinque figli, mi era nata una bella bambina che si chiamava Elisa, ma è morta dopo pochi giorni", ha rivelato Rosanna Lambertucci a un attonito Diaco, che ha ascoltato in silenzio le parole della donna. Non era la prima volta che la donna raccontava questo capitolo così triste della sua vita, ma ogni volta per lei è come se fosse la prima per il dolore lancinante che provoca la morte di un figlio in un genitore. Per fortuna, poi, Rosanna Lambertucci è riuscita a portare avanti un'altra gravidanza ed è così nata Angelica, che ora è adulta. Superato questo capitolo, con molta sincerità, Rosanna Lambertucci ha rivelato di essere entrata in Rai come una vera raccomandata. "All’epoca c’era come direttore generale Ettore Bernabei. Il mio patrigno era il capo della Procura di Roma, un uomo molto importante. Io avrei potuto lavorare nell’azienda di famiglia, ma avevo bisogno di trovare la mia strada e dissi che mi sarebbe piaciuto lavorare in Rai ed entrai in Rai", ha detto con candore la conduttrice. La Lambertucci ci ha poi tenuto a precisare che quello è stato l'unico aiuto ricevuto, perché da quel momento ha dovuto camminare con le sue gambe, senza poter contare su altre raccomandazioni: "Ti do la mia parola che, dopo quel giorno, non mi ha più aiutata nessuno". Se Rosanna Lambertucci non è stata una meteora nel panorama televisivo italiano è perché, evidentemente, ha dimostrato di essere all'altezza del ruolo. Pierluigi Diaco ha apprezzato la sincerità della conduttrice. "Sei la prima conduttrice ad ammettere di essere entrata in Rai da raccomandata", le ha detto ringraziandola e offrendole l'assist per togliersi un sassolino di grandi dimensioni dalle scarpe: "Tu lo capisci perché una Rosanna Lambertucci non ha più spazio in Rai? Sapessi quanta gente mi ferma per strada e mi chiede di tornare in Rai, ma non dipende da me".

·        Roy Paci.

Roy Paci contro Gué Pequeno: riprende la lite scoppiata 8 anni fa. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Il cantante ha risposto a un tweet di accuse del rapper datato 2012. A distanza di anni, ha riaperto una polemica che sembrava chiusa. Una lite in differita. Roy Paci ha risposto a una critica lanciata su Twitter da Gué Pequeno. Solo che lo ha fatto 8 anni dopo il tweet. Tutto è iniziato nel 2012, quando Roy Paci aveva dedicato al rapper un post - in quel caso su Facebook - in cui scriveva: «Il frustrato e pseudo-rapper Guè Pequeno dei Club Dogo, torna ad insultare il sottoscritto. Del resto, i contenuti esposti nell’intervista la dicono lunga sul personaggio. Come si dice dalle mi parti ‘ti manciu a Milano e ti cacu a Catania’...». Parole a cui, all’epoca, Guè Pequeno aveva risposto così: «Essere insultati da Roy Paci, una delle p... della musica italiana, parla di testi impegnati. Toda Joia, Toda Bellezza... ma vaf...». Insultandolo anche alludendo al suo peso. Accadeva nel 2012. Ecco, oggi Paci ha risposto a questo tweet del rapper, scrivendo: «L’unica cosa cicciona che ci sta qua è la tua spocchia da ominicchio. ..». Il tweet prosegue con altri insulti e fa riferimento a delle incomprensioni che Pequeno avrebbe avuto con «mio fratello Primo Brown ad un concerto che fece a Milano dove tu e tutta l’allegra brigata farlocca dei tuoi soci non avete mai pagato. Ho solo chiesto spiegazioni dopo la morte perchè volevo che tu restituissi i soldi che non hai mai dato a Primo». Anche se a distanza di anni, la rabbia di Paci non sembrava insomma sopita. Per ora il rapper non ha risposto. Ma potrebbe volerci del tempo.

·        Sabina Ciuffini.

Sabina Ciuffini: «Così la Rai mi allungò la gonna a Rischiatutto». Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it  da Pier Luigi Vercesi. L’ex showgirl si racconta: «Iniziai a fare la valletta in televisione per 10 mila lire al mese. Copiai da un 'agenda di Enzo Biagi il numero di telefono di Gianni Agnelli».

Sabina Ciuffini, quanti ragazzi e uomini l’hanno sognata, in quei primi anni Settanta, finito «Rischiatutto», spenta la tv e andati a letto? Lei non era nemmeno maggiorenne...

«Messa così, ci si fa un’idea sbagliata. Io frequentavo il liceo classico Giulio Cesare a Roma, dove studiavano Walter Veltroni, Serena Dandini... un ottimo liceo, professori straordinari. Mia sorella Virginia, di due anni più grande, fu la prima ragazza con la Vespa. Femminista, politicizzata, niente trucco, Lotta Continua. Io minigonna, stivali, cappottone e ciglia finte. Libera di essere come volevo senza pagare pegno: le battaglie le avevano fatte loro. Non che fossi un’oca. Quando ci fu l’alluvione di Firenze, noi del Giulio Cesare, capitanati da quelli dell’ultimo anno, ci dirigemmo alla stazione, salimmo sul primo treno senza biglietto e partimmo per la città devastata dall’acqua».

Come andò?

«I fiorentini ci accolsero come angeli del fango, ci diedero da dormire e da mangiare, mentre cercavamo di salvare il salvabile nelle biblioteche. Avevo 16 anni e dormivo fuori casa. Incontravo per la prima volta ragazzi americani con jeans, scarpe da ginnastica e chitarra. Noi avevamo i calzettoni blu, la gonna a pieghe, il cappottino. Un’esperienza esotica, per non dire altro. Tornate, fummo travolte dallo scandalo».

Perché lo scandalo?

«La scuola parlava di sospensione per non aver chiesto il permesso. Fu mio padre a prendere le nostre parti».

Quando conobbe Mike Bongiorno?

«Entrò nella mia vita gli ultimi giorni prima della maturità. Gli serviva una valletta per una trasmissione di un paio di mesi. La tv faceva schifo a tutti, si stava in piazza. Mi proposero un provino e io subodorai la possibilità di una paghetta. Eravamo cinque, scelsero la sorella di Ornella Muti, Claudia Rivelli, stupenda, la più sviluppata di tutte noi. Rifiutò perché aveva contratti pubblicitari e l’avrebbero pagata troppo poco. Ritornai in gioco io: 10 mila lire al mese per tre ore di lavoro alla settimana. Mia sorella e le sue amiche mi compativano, ero la stupidina che si truccava. Quelle che restavano incinte, però, di solito portavano la gonna blu sotto al ginocchio. Invece gli uomini che volevano fare la rivoluzione non si facevano tanti problemi per il mio trucco! Lo capivo quando andavo a Lotta Continua, da mia sorella, o al Male e a Frigidaire, dal suo compagno, Vincenzo Sparagna. Un giorno, in redazione, vedo un ragazzo bellissimo appoggiato a una parete. Per la prima volta un colpo di fulmine. Per fortuna, non mi capitava mai! Si avvicina: “Andrea Pazienza”, capisce che mi piace, parliamo, mi porta via. Ci rincorre Sparagna: “Fermi lì, riporta indietro mia cognata e sparisci!”».

Va bene, ma lei si presentò nella tv democristiana con la minigonna. Com’è stato possibile?

«“Hot-pence, hot-pence”, chiedeva Mike: “Come le ragazze americane”. Me le dovette cucire mia nonna, di velluto nero: in Italia non esistevano. Ebbero un successo strepitoso, pacchi di lettere di ragazzine che scrivevano: “Finalmente papà mi permette di portare la minigonna. Se la mette la Sabina che è una brava ragazza...”. I vestiti della Rai erano orrendi. Un giorno venne mia mamma per salutare Turchetti, con il quale aveva lavorato 25 anni prima. Mi vide vestita da loro: “Oddio, sembri la principessa della Ciarda!”. Mi portò in Piazza di Spagna e mi comprò un vestitino marrone. Nessuno in Rai fece mai storie. Dissero solo che dovevo essere aggraziata. Tracciarono due segni per terra: “Non muoverti da lì, tieni un piede dietro l’altro”. Sì, sì, pensavo io, aggraziata, ma datemi i soldi che devo uscire con gli amici. Era un gioco, doveva durare pochi mesi e continuò per cinque anni. E dire che era partito male».

Racconti...

«Nessuno ci filava e alla prima puntata sbagliammo persino l’Inno di Mameli. Al teatro delle Vittorie c’era un funzionario cattivissimo, tale dottor Salvi. Trattava Mike come una pezza da piedi. Lo vidi sbatterlo contro il muro. Lui non reagiva mai. Quando entrai in confidenza cominciai a chiamarlo: “Il soldato Mike”. Dopo i primi svarioni cambiarono l’autore e, alla terza puntata, con la signora Longari, facemmo il botto. Ventotto, trenta milioni di persone ci guardavano tutte le settimane. Però Salvi non mi poteva vedere. Alla cena di fine anno mi disse: “Lei non mi piace, voglio sostituirla”. Da farmi piangere! Lì Mike s’impuntò: “Squadra che vince non si cambia”, si rifiutò di vedere altre ragazze. A partire da una certa puntata mi allungarono la gonna. Tra i concorrenti c’era un sagrestano e pare che il Papa ci guardasse».

Poi finì sulla copertina di «Playboy», «Rischiatutto» chiuse, fece un Sanremo non brillante, qualche film e canzoni così così, un viaggio in India, come le fricchettone, e si sposò. Come si ricostruisce una vita?

«Approdata a Milano frequentavo Brera, il bar Giamaica, intellettuali, artisti, socialisti. Mi vedevano come una ragazza da proteggere. Soprattutto mi accorsi di essere tagliata per gli affari: aprivo ristoranti, lavoravo per marchi di moda, la mia specialità era la pubblicità subliminale. Mia sorella finì a Sorrisi e Canzoni e mi presentò il direttore Gigi Vesigna. Un giorno passo in redazione e mi dicono che non riescono a intervistare Niki Lauda, che stava rompendo il contratto con Enzo Ferrari. “Ci provo io”, azzardai. Sapevo che era sotto contratto con un’azienda di Carpi per cui lavoravo. Per farla breve, obbligarono Lauda, non un simpaticone, a darmi l’intervista e a farsi fotografare. Un successone. Gigi alzò il tiro: “Portami Ferrari”. Mi presentai a Maranello con la mia amica Marina Coffa, la ragazza più bella del mondo con al collo una macchina fotografica. Riuscimmo persino a fotografarlo. Sbattevamo le ciglia e dicevamo: “Se non porta le foto non la assumono”. Nacquero così le interviste ai numeri uno. Ma già non sapevo più dove sbattere la testa. Un giorno, alla Locanda Solferino, mi avvicinai a Enzo Biagi e gli chiesi se mi aiutava a contattare Agnelli, Andreotti e qualcun altro. “Regola del mestiere è non dare mai i numeri di telefono” e tirò fuori l’agenda. Se la rigirò in mano, poi disse: “Vado in bagno”. La rubrica era lì, sotto il mio naso, l’aprii e copiai i numeri che mi servivano. Chiamai Agnelli e il centralino non me lo passò. Il giorno dopo, alle sei del mattino, squillò il telefono: “Mi dica, com’è Mike Bongiorno?”. Era l’Avvocato, mi suggerì di raggiungerlo negli spogliatoi della Juventus a Roma, dove la domenica successiva giocavano contro la Lazio. Mi presentai e trovai Luca di Montezemolo arrabbiatissimo perché era lui a decidere chi e quando intervistava Agnelli. Venni via scornata, ma tornai in gioco grazie alla mia amica Marina. Luca se n’era infatuato, prometteva di sposarla, si presentò sotto casa sua con un biglietto per il giro del mondo. Non approdò a nulla, ma mi lasciò intervistare l’Avvocato. In verità fu Agnelli a farmi domande per un giorno intero. Poi venne Andreotti, che disse: “Se cadrà il Muro di Berlino, vedrà che disastro!”. L’unico che non accettò, mandandomi una lettera garbata, fu Berlinguer».

Non sarà perché lei è la nipote di Guglielmo Giannini, l’Uomo Qualunque, il primo populista dell’Italia repubblicana?

«Non credo. Comunque nonno non era un politico, era un uomo speciale. Parlava all’uomo qualunque, la parola qualunquismo l’hanno inventata altri. Eppure anche in famiglia se ne vergognavano tutti: metà erano missini, gli altri di ultrasinistra. Io sono nata in Argentina, nella pampa, proprio per quel motivo: Augusto e Ivonne, papà e mamma, si sposarono quando nonno Guglielmo era all’apice del successo. Il loro matrimonio fu osteggiato, ma si amavano, si sposarono e fuggirono via. Neanche il tempo di fare la traversata con il transatlantico e nonno era in disgrazia. In Argentina, dove li attendevano ponti d’oro, tutte le porte si richiusero. Vita grama. Papà, architetto, finì a fare il camionista e si trasferirono a San Juan, dove siamo nate Virginia e io. Augusto però aveva immaginazione e si inventò le prime costruzioni antisismiche. Risalirono la china e cominciarono a pensare che l’Argentina, nazione “macha”, non era un bel posto per crescere due figlie femmine. L’atmosfera non piaceva soprattutto a mamma: lì gli uomini avevano tutti due o tre famiglie».

A proposito di uomini, non ne vedo in casa.

«Dai 17 ai 46 anni, senza soluzione di continuità, ho avuto un compagno. Poi ho smesso, troppo impegnativo... Ma mai dire mai».

·        Sabrina Ferilli.

Mic. All. per il Messaggero il 4 febbraio 2020. Per conquistarla aveva tentato di tutto, diventando però molesto e, soprattutto, inquietante. Per quasi dieci anni, Carlo Neri ha inseguito Sabrina Ferilli dicendole di essere innamorato di lei e arrivando a spaventarla a morte: vestito da principe azzurro, impugnando una spada giocattolo, davanti al portone d'ingresso della casa dell'attrice sosteneva di essere stato mandato dagli alieni per unirsi a lei. E di fronte al suo rifiuto l'ha insultata e strattonata. Ora, è stato condannato a un anno di reclusione - pena sospesa - con l'accusa di stalking. Dopo avere ottenuto la misura del divieto di avvicinamento, la pm Daniela Cento aveva chiesto 3 anni e 3 mesi di reclusione.

L'INCUBO. L'incubo è iniziato addirittura nel 2009 ed è diventato sempre più angosciante con il passare dei mesi. Neri, oggi sessantanovenne, aveva iniziato a seguire l'attrice, le diceva di essere un grandissimo ammiratore e di avere scritto dei copioni cinematografici apposta per lei. Poi, aveva cominciato a presentarsi sotto casa sua. Almeno due volte a settimana si faceva trovare all'ingresso, con un fiore in mano. «Le cantavo canzoni, volevo offrirle dei fiori, non ho minacciato nessuno», ha detto lui ieri in aula, facendo dichiarazioni spontanee.

GLI ALIENI. L'attrice ha raccontato che Neri era diventato ossessivo e lei aveva iniziato ad avere paura. Una volta, tornando a casa, l'aveva trovato vestito con una tuta celeste e con una spada giocattolo in mano: «Mi mandano i marziani aveva detto lui - che in aula ha raccontato di essere esperto di ufologia - mi hanno ordinato di unirmi sessualmente a te, per la sopravvivenza della razza umana». Di fronte al rifiuto della Ferilli e al suo tentativo di fuga, lui aveva gridato: «Sei una distruttrice dell'umanità!». In altre occasioni la aveva strattonata e afferrata per un braccio. Una volta aveva pure cercato di entrare dentro al palazzo. Neri, sottolinea la Procura nel capo di imputazione, non si era limitato agli appostamenti sotto casa. Aveva anche cercato l'attrice in un bar del quartiere dove lei andava spesso a fare colazione e aveva raccontato ai dipendenti di essere un regista e di avere scritto dei copioni da sottoporle. Aveva anche bloccato la macchina della vittima in mezzo alla strada. E altre volte aveva fermato alcuni collaboratori dell'attrice dicendo loro di «salutare Sabrina» e di abbracciarla per lui.

LE LETTERE. Agli atti ci sono anche decine di lettere deliranti che l'imputato ha inviato all'attrice, dichiarandole il suo amore e ribadendo di avere ricevuto ordini direttamente dagli alieni. In un'altra lettera, convinto di dimostrare la profondità dei suoi sentimenti, aveva scritto: «Vorrei sposarti secondo il rito di santa romana chiesa». La Ferilli, che ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo e che non ha chiesto risarcimenti, dopo essere stata tormentata per anni aveva deciso di sporgere denuncia. Per paura, aveva modificato le abitudini di vita, usciva di casa camuffata per non farsi riconoscere, non frequentava più gli stessi locali di sempre. Aveva addirittura cambiato il percorso per andare da casa al lavoro. Fino al febbraio dello scorso anno, quando per Neri, difeso dagli avvocati Enrico Valentini e Samuele De Santis, è scattato il divieto di avvicinamento. E ieri è arrivata la condanna.

·        Sabrina Salerno.

Dagospia il 7 maggio 2020.  Da I Lunatici Radio2. Sabrina Salerno è intervenuta ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì, dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La Salerno ha raccontato: "La fase 2? Non mi è cambiato molto rispetto alla fase 1. Nella fase 1 andavo a fare la spesa, nella fase 2 idem. Poi non è che possa fare qualcosa in più. Faccio un mestiere in cui salgo sul palco, canto, non ho avuto un grande cambiamento. Potrei andare in ufficio, ma lavoro da casa. Uscirò molto poco, anche perché sono una di quelle persone che già in tempi non sospetti ha iniziato ad indossare la mascherina. Sono un po' ipocondriaca, sto particolarmente attenta. E in questa situazione in cui ognuno dice una cosa diversa, preferisco usare buonsenso senza poi esagerare. La situazione mi pare poco chiara ancora". Sul periodo di quarantena come mamma di un adolescente: "Lui sta meglio di tutti. I ragazzi sono abituati a chattare, a lavorare molto con il computer, molto più di noi, di quelli della nostra generazione. Mio figlio è pacifico, sereno, si fa le sue lezioni online, va a correre, parla con gli amici. Il suo mondo è cambiato poco. Si sta impegnando, studia chitarra, ha trovato il modo di impiegare il tempo in maniera sempre costruttiva. Noi adulti siamo rimasti più scioccati. Io ad esempio amo stare con le persone, in mezzo alle persone. Mancano molto amiche ed amici. Mi manca molto anche prendere un caffè al bar, andare a mangiare al ristorante. Il primo mese non mi sono resa conto di quello che stava succedendo, adesso sto imparando a vivere alla giornata e sto riscoprendo la nozione del tempo, che è cambiata nella mia testa". Sull'insonnia: "Ho avuto problemi d'insonnia. Io credo che il novanta percento delle persone abbia di questi problemi. Il nostro mondo è cambiato, abbiamo avuto uno stravolgimento, abbiamo vissuto delle costrizioni. Se fossero atterrati gli ufo mi sarei stupita di meno. Rimanere a casa chiusi, non uscire, mettere guanti e mascherine, quando esco mi sembra di andare sulla luna. E così sarà per un bel po'. A meno che non accada un miracolo". Sulle emozioni dell'ultimo periodo: "Mi hanno fatto piangere le immagini dei camion che portavano via i corpi delle persone da Bergamo. Ho pianto. Mi sono sfogata con molte amiche, non riuscivo a capacitarmi di quanto stesse accadendo. La cosa che mi ha fatto sorridere? Il vino rosso, è diventato il mio migliore alleato. Ne ho scoperto uno pazzesco, che mi piace da morire, e ne sono diventata amante". Sabrina Salerno, poi, ha raccontato: "Sono andata in soffitta, ho trovato vecchi pantaloni, vecchie magliette. Non ci vado più. Mi vedo cambiata rispetto al passato, oggi come oggi noi donne riusciamo ad essere molto più giovanili rispetto a prima, oggi una donna a cinquant'anni può essere piacevole. Quindi mi diverto a fare questi paragoni tra il passato e il presente. Il rapporto col mio corpo? Ho un buon rapporto oggi, migliore di ieri. Ieri mi facevo un sacco di paranoie, oggi sono molto più sicura di me stessa. Lavoro molto sul mio corpo, sono diventata costante. Per mantenere un fisico ci vuole tanta costanza, ci vuole costanza. A tavola? Ho sempre amato il salato, più del dolce. Potrei essere vegetariana, ma con due maschi in casa è difficile. Non ho mai mangiato pesce nella vita, evito gli zuccheri da anni, amo il caffè amaro e il dolce lo mangio una volta ogni tre mesi". Sul rapporto di coppia: "Io sto da quasi 28 anni con mio marito, viviamo insieme, in questi due mesi sono stata molto felice di averlo a casa, ora quasi mi dispiace quando va in ufficio. Mi piace averlo a casa. Non l'avrei mai detto perché per assurdo quando andiamo in vacanza litighiamo. Invece in questo periodo non abbiamo mai litigato, anzi mi è stato di grande aiuto, è stato un grande sostegno psicologico. Piangevo spesso, vedevo nero, ho avuto delle giornate proprio nere, mio marito, insieme a mio figlio, mi sono stati molto d'aiuto. Mio figlio ha sedici anni ma è molto maturo, ha la testa di un cinquantenne a volte. E' molto razionale, razionalizza tutto,cercava di farmi ragionare. Ho avuto momenti durissimi, ero abituata a prendere tre o quattro aereo al mese, avrei dovuto fare il primo concerto ad aprile, venivo da Sanremo, mi sembrano passati venti anni. Ora vivo alla giornata, ma non è da me. Ora ho capito che è impossibile controllare le cose. Bisogna apprezzare il momento". Sulle prospettive legate al mondo dello spettacolo: "Sono preoccupata. In Francia mi hanno chiesto la disponibilità a novembre, l'idea è quella di riprendere le date a novembre, ma ad oggi non so neanche se mi faranno uscire dall'Italia". Sul successo arrivato da giovanissima: "Non ho mai rischiato di perdere la testa, l'ho sempre avuta sulle spalle. Ma in quel periodo di grande lavoro, negli anni 80, ero alla ricerca del principe azzurro, cercavo l'amore, ma non mi si filava nessuno. Non mi si filava nessuno, lo giuro, mi innamoravo di persone che mi evitavano, mi sentivo molto sola. Mi dicevo che se il prezzo del successo era quello, forse non valeva la pena. Il primo fidanzato serio l'ho avuto nel 91, poi nel 92 mi sono messa con mio marito. Ho avuto tre uomini nella mia vita, il resto è stata roba da nulla. Negli anni 80 ero desiderata superficialmente, ma poi nella mia vita c'era il vuoto. Quelli che mi piacevano e non mi filavano, poi, sono tutti tornati. Anni dopo ci hanno provato, ma gli è andata male". Sul rapporto con i follower: "Chi esagera e mi scrive cose strane lo blocco. Questa quarantena deve aver dato un po' alla testa ad alcune persone. C'è gente che crede di essere sposata con me, mi trattano come se fossi la moglie. Mi mandano cinquanta messaggi al giorno, mi chiamano amore mio, mi chiedono cosa faccio, come sto.  Ma sono dei casi. C'è un cinque percento di persone che blocco, che esagerano e credono che tramite social possano permettersi di dirsi la qualunque. E' una cosa da scemi. Ma secondo me alcuni non sanno neanche che possono essere bloccati. Con la maggior parte dei follower però il rapporto è di grande rispetto. Se a casa sono gelosi? Mio figlio più di mio marito. Mi è capitato un personaggio famoso in tutto il mondo di 21 anni fidanzato con una modella che ci ha provato sui social. Sono rimasta sconvolta. Non capisco come un ragazzo di 21 anni così famoso si sia preso quasi una ossessione per me".

Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 25 gennaio 2020. Tesa. "Zero". Impossibile, almeno un po'. "Lo sarò prima di salire sul palco. Perché Sanremo non è un palco qualunque, e lo so bene". Forse perché certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano (Venditti dixit), dopo 29 anni Sabrina Salerno si trova nuovamente all' Ariston, questa volta accanto al presentatore, Amadeus, e non in gara come nel 1991, quando con Jo Squillo cantava "siamo donne, oltre alle gambe c' è di più", e "dentro di me pensavo: c' è bisogno di dirlo? sembra una cavolata".

E invece?

«Sbagliavo, e quando si è ventenni si rischia di banalizzare aspetti importanti della quotidianità; oggi più di ieri quella frase è importante».

Anche Amadeus è caduto su una frase infelice durante la conferenza stampa.

«Ci sono rimasta male per lui, perché so perfettamente che persona è e qual è la sua sensibilità: in realtà voleva intendere il contrario, e ne abbiamo a lungo parlato. E Anche a me capita di stare un passo indietro a mio marito, come può succedere il contrario, il Festival sarà una delle occasioni, o quando mi riconoscono per strada e, a volte, è lui a scattare la foto, con mio figlio che sistematicamente mi prende in giro».

I suoi la seguiranno a Sanremo?

«Mio figlio non ci pensa proprio, resta a casa, preferisce non perdere ore alle superiori: per lui sono mamma e basta, la sfera professionale non la prende in considerazione».

Lei professionalmente nel 1991.

«Pensavo solo a correre, correre, senza mai fermarmi; c' erano giorni in cui mi svegliavo e non sapevo il giorno della settimana e la città nella quale mi trovavo. Totalmente incosciente. Anzi: io e Jo, due incoscienti desiderose di farsi notare».

Senza gelosia reciproca?

«Macché, al massimo abbiamo discusso prima di salire sul palco: come forma di provocazione Jo voleva bruciare in diretta una banconota da 100 mila lire, e io a gridarle: Sei pazza? Ci arrestano, sicuro finiamo in galera».

In compenso il suo bikini è rimasto storico.

«Su quello non hanno protestato (ride, poi cambia discorso); il giorno prima mi ero scambiata la giacca con Loredana Bertè».

Come mai?

«Non ricordo benissimo, ma credo per certificare la ritrovata armonia».

Cosa era successo?

«Una lite sciocca nata durante un Festivalbar; ma a quel tempo era un classico, si creavano delle reali o presunte rivalità tra donne, e solo per questioni di copertine e visibilità; comunque la nostra venne sanata da Raffaella Carrà e l' incrocio delle giacche era un suggello di pace».

Ha rivisto la sua esibizione in "Siamo donne"?

«Per carità, non mi guardo mai, mi imbarazzo, però ricordo il commento finale di Vincenzo Mollica: Il duetto Salerno-Jo Squillo è l' unico momento divertente del Festival di quest' anno».

Contenti gli altri concorrenti.

«In quell' edizione sono diventata molto amica di Mietta e Umberto Tozzi (anche loro erano tra i concorrenti) e ancora oggi ci sentiamo».

Lei personalmente nel 1991.

«Non particolarmente serena, tormentata, alla ricerca di me stessa. Il contrario di quello che apparivo».

L' obiettivo di allora?

«Lavorare anche all' estero, programmare il grande salto, non cadere nel clichè dei detrattori che mi incasellavano nel ruolo di meteora».

All' estero è conosciuta.

«Il paradosso è che oggi forse lo sono più che in Italia: in Francia ho tra i 150 e i 180 concerti l' anno, e da molte stagioni, mentre in Spagna hanno pubblicato un libro con delle mie foto che ha venduto oltre 300 mila copie».

Oggi è sempre tormentata?

«No, per fortuna ho impiegato bene questi 29 anni».

Canterà "Boys" sul palco?

«Alt! E mica posso dirlo, come non risponderò mai a domande su pronostici e preferiti; però c' è un dato: con le sue polemiche, le sue discussioni, le pagelle, i commenti sugli abiti, Sanremo è uno dei pochi momenti comuni del Paese. Ed è bello, ed è raro. E sono felice di farne parte».

·        Sally D’Angelo.

Barbara Costa per Dagospia il 24 ottobre 2020. La signora ha 66 anni, alla sua vera età ci tiene, è il suo vanto, e voi, di Pornhub, correggete subito quella data: le avete dato ben 5 anni di meno! Mai chiedere l’età di una donna, che buffonata, roba da femministe alla canna del gas, roba che la signora Sally D’Angelo ci sputa sopra, lei che te la sbatte davanti, in video, la sua età, il suo corpo che dimostra quell’età, la sua pelle di mani e piedi e collo che non può barare, con quelle rughe solcate, e quelle macchie, che coprono un corpo innegabilmente anziano. Anziano, vecchio, certo non decrepito per il porno, e la signora Sally nel porno non è una principiante ma nemmeno una veterana: la sua data d’ingresso sul set segna il 2013. Sette anni fa, a 59 anni, non era certo di primo pelo, pelo che comunque non c’è, sul suo sesso bianco ma depilato, forse con le labbra vaginali rifatte, e con l’ano sbiancato, fillerato, avrà corso ai ripari dove può, dove avrà creduto necessario, e però, se la cercano, se con lei sono milioni di seghe, è indiscutibile, la nonna del porno piace, arrapa, intriga, c’è voglia di vederla, e questo Sally D’Angelo lo sa benissimo. È entrata nel porno e mica col rimpianto del tempo che fu, del porno di una volta, del si stava meglio prima, macché, lei è arrivata armata dei suoi social ed è sui social e coi social che la signora fa la guerra alle colleghe anagraficamente sue nipoti, non mettendosi in competizione con loro, ma rubandogli quanti più fan infoiati sì. E ci riesce, la signora, coi suoi video "step-incest", da "nonnastra" che svezza nipotini e nipotine, e coi suoi video lesbici su canali porno alle più "attempate" tra le pornostar dedicati, siti come "60 Plus Milfs", dove 60enni in calore scopano come 20enni, tra loro, o con uno e più uomini e, alla faccia del politicamente corretto, godono come ossesse se con loro ci sta e si dà da fare un maschione nero! Se non trovi foto e performance della signora D’Angelo quando era più giovane, è tutta colpa di suo marito: è lui, il colpevole, lui che ha ritardato l’ingresso nel porno di tali gambe "tardo-teen". A parte 4 filmetti hot girati a inizio anni '90, il salto nel porno che conta Sally lo avrebbe fatto molto prima, ad esempio 20 anni fa, quando una superstar del settore quale Nina Hartley la voleva scritturare. Ma niente, il marito di Sally aveva un lavoro "importante" e tremava all’idea di cosa avrebbero potuto pensare – e dire – gli altri alla vista di una moglie alle prese con tali sconcezze! Sconcezze ovvero scopate che però in privato i coniugi D’Angelo facevano tra loro e con chiunque a loro piacesse in rapporti scambisti e orge e sperimentazioni sessuali le più spinte. Il sì maritale Sally l’ha strappato alla soglia dei 60 anni (col marito pensionato?) in tempo per porno pluripremiati, e per fondare "CityGirlz", una casa di produzione tutta sua. Sally D’Angelo proviene da una famiglia molto numerosa e molto povera, della sua lunga vita prima del porno c’è poco di allegro: sei fratelli, vita dura, scuole ordinarie, lavoro da operaia appena ottenuto il diploma. Sally non è un tipo dimesso, l’avrai intuito, lei in 10 anni da operaia è riuscita a salire quasi ai vertici della ditta di conserve per cui lavorava. E appena arrivata al top… ha mollato, se n’è andata, per fare la barista, o meglio, la topless-girl, e la ballerina nei locali di strip-tease. Il suo corpo se è notevole oggi immaginatelo giovane, anche se con meno tette. Non sono riuscita a scoprire se il volume spropositato dei seni della signora siano un regalo porno, una sventatezza porno, o magari ballonzolassero in quell’imbarazzante maniera già prima di dare il via alle pornate. Va detto che non tutti i suoi fan li apprezzano, anzi, si dividono in tre categorie: chi li adora, chi ne ha avversione (“te l’hanno rifatti storti!”), e chi timore, e non dei seni in sé, ma del solco esagerato tra loro! Ancora stai lì, col sopracciglio alzato, a storcere il naso? Davvero credi che le donne di "quella" età dovrebbero essere… come? Come sei tu, come è tua mamma, tua nonna, tua moglie? Sally D’Angelo non ha acciacchi, o almeno, non li fa vedere, pornare è una fatica che lei a quanto pare non sente, e che la benefica, la magnifica. A ritirarsi non ci pensa proprio. Lei in poltrona a far la calza non ci sta, lei in poltrona lecca la figa delle coetanee sue, lei in cucina a far la torta ci può pure stare, basta che un grosso aitante cazzone la faccia godere da dietro. Le sue natiche fanno invidia a molte 40enni, e poi, dì la verità, la vedi infelice? Sally D’Angelo è entrata nel porno oltre la menopausa, Sally D’Angelo è oltre ogni trono over, oltre ogni quota pensione, Sally D’Angelo è schiacciante emancipazione. Hai visto il suo video su Twitter dove sfila in lingerie? Quali sozze-curiosità ti scatena?

·        Salvo Veneziano.

Salvo Veneziano, retroscena su Signorini al Grande Fratello: "In camerino quasi pianto insieme". Libero Quotidiano il 2 Febbraio 2020. Torna all'attacco, Salvo Veneziano, dopo la squalifica al GF Vip. E decide di togliersi ancora una volta qualche sassolino dalla scarpa. Così, riferendosi a Elisa De Panicis (la concorrente che aveva apostrofato con commenti hot), dice: "Senza telecamere non mi ha detto niente. Non avete capito: spettacolo è spettacolo. Quando si spegne la telecamera non dicono più niente. Che mi deve dire? Abbiamo parlato del più e del meno, non è che era arrabbiata. Non aveva nulla". Invece, in diretta la De Panicis aveva asfaltato Salvo per quelle frasi che gli sono costate una squalifica dando inizio ad un processo mediatico. "Quando ho chiesto scusa ufficialmente nella Casa, dovevo scusarmi perché sono stato frainteso, la cosa che mi ha colpito è che mi ha detto Sai mio papà a 70 anni cosa può pensare", chiarisce l'ex gieffino. "Gli autori del Gf mi hanno detto non la attaccare, altrimenti passi per maschilista. Ma se dovevi preoccuparti di tuo padre te ne dovevi preoccupare a trecentosessanta gradi". Salvo ha chiesto scusa da subito per quelle frasi. Ma il processo mediatico, una vera e propria gogna, ha fatto gioire gli ascolti. "Il mio processo ha fatto 4,8 milioni di ascolti, è stato fatto per share? Se consideri che ieri hanno fatto 2,9 di ascolti, niente praticamente. Con me 4,8 di picchi", tuona Salvo. Che rivela quello che è successo con Signorini dopo la puntata: "L'ho apprezzato quella sera che poi ci siamo visti nel camerino, ci siamo abbracciati e abbiamo quasi pianto insieme".

·        Samantha De Grenet.

La showgirl rivela a Caterina Balivo il difficile periodo che ha attraversato. Redazione Tvzap il 21 gennaio 2020. Il salotto di Vieni da me diventa per Samantha De Grenet occasione per una rivelazione molto privata. Ospite di Caterina Balivo lunedì 20 gennaio la showgirl rivela di aver lottato contro un male e di essersi operata: “Per me il 2018 non è stato un anno facilissimo. Solo le persone a me veramente molto vicine sanno cosa ho passato. Non ne ho mai parlato ancora perché credo che per affrontare un certo tipo di argomento si debba essere pronte e forti. E soprattutto bisogna mandare un bel messaggio e non uno di debolezza o di fallimento”.

Samantha De Grenet e la malattia. “È qualcosa che mi ha toccato profondamente – prosegue Samantha De Grenet – Ora è passato un anno, ho metabolizzato e sono quasi pronta. Quando riuscirò a parlarne, senza piangere e senza impietosire, spero di dare forza e coraggio ad altre donne che hanno passato quello che ho passato io“. Rispondendo alle domande di Caterina Balivo, la De Grenet aggiunge che è stata male, si è operata e oggi sta bene, anche se “non è mai tutto finito, ci sono sempre tante cose da fare”.

Samantha De Grenet e il timore degli hater. La de Grenet aggiunge di aver “lottato per un anno e mezzo, e non ho mai voluto dire questa cosa”, spiegando che quello che l’ha frenata finora è stata l’idea di “quei 4 stupidi che magari possono dire ‘ecco un’altra che parla delle sue cose per un po’ di pubblicità’. L’hanno fatto con tante persone, anche con persone che oggi non ci sono più. Vorrei dire a tutti quelli che parlano di ‘fuffetta’ e criticano, di pensare che dall’altra parte ci sono persone che magari stanno combattendo una battaglia che loro non sanno. Ci sono situazioni che finiscono bene come la mia, e altre che non finiscono bene. Forse la gente prima di parlare dovrebbe collegarsi con il cervello”.

Samantha De Grenet rompe il silenzio sul suo tumore: "Ho preso un cazzotto in faccia". In un'intervista concessa a Verissimo, Samantha De Grenet ha rilasciato alcune struggenti dichiarazioni sulla scoperta del suo tumore al seno. Serena Granato, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Lo scorso sabato, in data 22 febbraio, è stata trasmessa la nuova puntata di Verissimo, talk-show condotto da Silvia Toffanin. E nell'appuntamento tv in questione Samantha De Grenet è diventata protagonista un'intervista esclusiva, in cui ha rilasciato delle importanti dichiarazioni sul conto di una dolorosa battaglia affrontata di recente contro un male. L'ex naufraga de L'isola dei famosi ha confidato di aver scoperto una tumefazione al seno durante un weekend trascorso in vacanza con amici e il marito, nel luglio 2018:"Ero sdraiata e ho sentito che c'era qualcosa di anomalo nel mio seno, un nocciolo. Lo faccio sentire a una mia amica che mi dice di farlo vedere". La showgirl si è, poi, lasciata andare al racconto di alcuni retroscena concernenti la scoperta della sua malattia e non è riuscita a trattenere le lacrime:"Ho sempre fatto prevenzione ed è il motivo per cui sto qui a raccontare la mia storia, così ho deciso di farmi vedere subito e sono andata a fare una mammografia. Faccio la prima parte dell'esame e vedo che la dottoressa era silenziosa, poi mi trasferiscono in un'altra stanza, mi fanno un'ecografia e la seconda dottoressa mi dice "Samantha hai un tumore e ti devi operare subito". Io ho preso un cazzotto in faccia, non ho capito più nulla". Non appena scoperta la sua malattia, era esplosa in un pianto liberatorio. Così come la stessa De Grenet ha fatto sapere dalla Toffanin: "Il mio pensiero era mio figlio, ho visto mio figlio a cui gli si diceva che la mamma si doveva operare, che la madre doveva fare chemio o radio, mio figlio da solo, mio figlio che cresceva senza di me".

Samantha De Grenet e la difficile confessione al figlio. Prima di subire l'operazione -prevista per l'asportazione del tumore diagnosticatole al seno- aveva maturato delle preoccupazioni sul futuro del figlio Brando:"Se non mi risveglio più? Mio figlio? Poi mi sono affidata al mio medico e mi sono convinta che sarebbe andato tutto bene. Ha iniziato prima il medico che mi ha operato, poi il chirurgo plastico che ha ricostruito il seno. È durato tanto, 6 ore". "Poi l'oncologo mi ha detto che tipo di cura dovevo fare", ha aggiunto visibilmente provata. A causa del suo male ha fatto fatica a riconoscersi allo specchio. E a rivelarlo ai telespettatori è stata lei stessa: "Ho fatto la radioterapia e poi mi hanno dato un farmaco chemioterapico per evitare una recidiva, certo dà molti effetti collaterali, ma ti ci abitui. Ora sto bene, sono guarita, ma resta la parte psicologica. Ti guardi allo specchio, vedi le cicatrici, ti vedi gonfia, non ti riconosci, non ti accetti, lo fai piano piano. Ma solo chi ci è passato capisce come ti senti veramente". A conclusione della nuova intervista, infine, non ha nascosto le difficoltà riscontrate nel confessare all'amato Brando la natura della sua malattia: "Lui mi ha guardato e mi ha detto 'ma hai avuto un tumore?' ed è scoppiato in lacrime, così io ho cercato di tranquillizzarlo. Quando è uscito dalla stanza, però io ero a pezzi". Una confessione quest'ultima, che ha segnato nel profondo Silvia Toffanin, la quale non è riuscita trattenere le lacrime dinanzi all'ospite, in studio.

·        Sandra Milo.

Da "leggo.it" il 9 ottobre 2020. Sandra Milo ancora al lavoro per mantenere i suoi figli. Sandra Milo, a 87 anni, continua a lavorare senza sosta per aiutare i figli rimasti purtroppo disoccupati. La famiglia di Sandra è numerosa: “Ho bisogno di lavorare per mantenere i miei figli, Azzurra e Ciro, che sono disoccupati – ha confessato in un’intervista a “Nuovo” - Lui ha anche un bambino, il mio nipotino Flavio, di 7 anni, e anche mia nuora Vanessa è senza lavoro. Quindi io – che ho la fortuna di essere in salute – devo lavorare per aiutare loro. E poi se devo fare una cosa non sto lì a riflettere più di tanto: è il pensiero che mi affatica”. L’emergenza sanitaria però non aiuta e la Milo intanto ha perso alcune occasioni: “Mi sono trovata senza lavoro all’improvviso. Avrei dovuto debuttare a Milano con lo spettacolo “Ostriche e caffè americano”, storia di draq queen, un soggetto meraviglioso e molto felliniano. Ma a causa del covid-19 è saltato tutto. Avevo anche un film da girare e non l’ho potuto fare a causa dell’emergenza sanitaria”.

Emanuela Costa per leggo.it il 5 gennaio 2020. Sandra Milo in lacrime a Domenica In, dietro di lei avviene qualcosa di strano: «Sono spaventati...». Oggi, l'attrice è stata ospite nel salotto condotto da Mara Venier. Come riportato da Leggo, Sandra Milo si è raccontata a cuore aperto, tra lavoro e vita privata. Ma all'improvviso è accaduto qualcosa. Sandra Milo scoppia in lacrime parlando della lunga battaglia per avere i suoi figli. Ma dietro di lei avviene qualcosa. Gli utenti di Twitter notano i volti spaventati dei bimbi seduti dietro all'attrice e il maestro dei bambini che sembra dir loro qualcosa. «Ma cosa sta dicendo alle bambine che sono così spaventate?», chiede un follower.

Anticipazione da “Oggi” il 5 febbraio 2020. In un’intervista a Giovanni Ciacci per OGGI, in edicola da domani, Sandra Milo fa alcune rivelazioni sulla sua relazione con Federico Fellini a 60 anni dall’uscita della «Dolce vita». «Io lo conobbi l’anno successivo a Fregene, alla Villa dei pini, in estate. Ennio Flaiano mi invitò al loro tavolo, ero vestita di bianco. Quando i miei occhi si incontrarono con quelli di Federico ne rimasi subito affascinata. Alto, moro, indossava i pantaloni neri e la camicia bianca con la cravatta nera, come faceva vestire Mastroianni nei suoi film. Mi innamorai subito. Un’attrazione fatale, inevitabile… Siamo stati amanti 17 anni». E Giulietta Masina sapeva? «Non lo so. Penso di no, non ce lo siamo mai detto… Eravamo inseparabili all’epoca. Io dormivo a casa loro. Pensa che quando lavoravo fuori dall’Italia lei mi telefonava sempre. Mi chiamava sorellina… Non mi sono mai sentita in colpa! E che vuol dire essere l’amante? L’amore non è una cosa vergognosa, è una cosa sublime. Il sesso è un’altra cosa: io e Federico ci amavamo».  E aggiunge: «Nei primi tempi ci incontravamo in via Sistina, dove aveva un suo studio, poi in un altro studio in corso Italia. Usavamo come alcova d’amore l’Hotel Plaza su via del Corso. Ma anche piccoli motel... Insomma, un po’ dappertutto… Lo facevamo sempre in terra. Lui odiava il letto: diceva che era per fatto per dormire. Nei suoi studi non c’erano mai i letti, solo divani di cuoio, e io trovavo orrendo fare l’amore sui divani di cuoio. Così lo facevamo per ore sulla moquette verde o su un piumino buttato in mezzo alla stanza». A OGGI, Sandra Milo parla anche di Bettino Craxi, sul quale non ha visto né vuole vedere il film di Gianni Amelio: «Federico è stato il mio amore, Bettino è stata una storia molto bella, una passione... Adesso quando penso a lui penso al dolore che ha sofferto nel suo esilio». Mai andata a trovarlo ad Hammamet? «No, mai. E questo è un mio grande rimpianto».

Da “la Stampa” il 24 febbraio 2020. Mai fermarsi alle apparenze con Sandra Milo. Compirà 87 anni tra pochi giorni, sta per interpretare in teatro il ruolo di un omosessuale che si traveste da drag queen, ha un amico/confidente/compagno di 37 anni più giovane e una vita che va molto oltre le sue storie con Federico Fellini o con Bettino Craxi. Ne parla seduta nel salotto della sua casa di Roma tra tappeti, divani, figli che entrano, escono ma sono sempre con lei. Racconta il suo passato da femminista, quando era anche lei una "pasionaria" - spiega - ma con un suo stile, molto diverso da quello di tante altre donne che in quegli anni scendevano in piazza. «La nostra è stata una generazione con tanta voglia di libertà. Ho sfilato con le ragazze, ci siamo tolte i reggiseni, i bustini, le guepières che portavamo. Tutto questo per compiacere il maschio alla fine. Però era faticoso per noi, si partecipava ai cortei, mi ricordo le ragazze con la t-shirt con su scritto "Io sono mia"». C' erano cartelli, i ragazzi che la prendevano in braccio, le offrivano fiori. «Era qualcosa di rivoluzionario, di estremamente eccitante perché c' era la sensazione della conquista». Un' emozione che oggi non c' è più, sostiene. «Nelle lotte femminili di oggi non c' è più questo senso esaltante. C' è l' asprezza della lotta ma non c' è più la bellezza del credo vero». Una questione generazionale, spiega. Alla fine della seconda guerra mondiale aveva dodici anni, era una delle tante ragazzine cresciute in fretta tra bombe, fame, padri in guerra e madri e nonne a guidare la famiglia. Ma il mondo degli adulti era "afflitto". Erano persone che «avevano perso la guerra, qualcosa in loro era morto». Invece i giovani avevano «un grande credo politico» e lei era una di loro. «A dodici anni ho letto Marx, Engels, Proudhon, Lenin perché volevo capire quale fosse l' atteggiamento giusto da tenere verso gli altri e mi sembrava che l' idea socialista fosse fantastica. E' stato un grande sogno, ha illuminato la mia adolescenza. Spero che la prossima generazione ricomincerà a sognare come ha sognato la mia». Gli anni passano, Sandra Milo diventa l' attrice preferita di Federico Fellini ma anche la sua amante. Nel frattempo ha un matrimonio, una prima separazione di fatto, una convivenza senza potersi sposare con il produttore Moris Ergas (il divorzio era ancora lontano), una figlia che non può riconoscere e quindi una battaglia enorme da combattere. In quegli anni Pietro Nenni era il segretario del Partito socialista, Sandra Milo lo conosce, gli scrive spesso. Quando diventa vicepresidente del Consiglio, Sandra Milo decide di fare un passo in più. Manda una lettera che è al tempo stesso una preghiera e un appello per denunciare le difficoltà vissute da tante madri come lei. Pietro Nenni sostiene la sua battaglia, la fa pubblicare in prima pagina sull' Avanti, il quotidiano del partito. E' il 5 ottobre del 1966, l' attrice racconta la sua condizione di «umiliante, dolorosa inferiorità», che è stata «annullata, uccisa, scomparsa come madre» da un diritto di famiglia che, in caso di separazione, assegna ai padri poteri enormi, anche quello di impedire alle ex mogli ogni contatto con i figli. Chiede una riforma che cancelli le distinzioni tra figli legittimi e figli adulterini o figli di N.N. Minaccia di uccidersi e confessa tutto il suo sconforto: «Mi sento una povera cosa piena di vergogna e di dolore - scrive nella lettera - meno ancora di quelle madri che abbandonano i figli ai brefotrofi e, quando se ne ricordano e li rivendicano, è dato loro il diritto di riconoscerli. Io niente, perché non esisto». La battaglia viene vinta, il diritto di famiglia viene riformato ed è proprio Pietro Nenni a informare Sandra Milo. Le manda un biglietto. In quel momento l' attrice si trova in clinica per un problema di salute e ancora si commuove quando ricorda le parole mandato attraverso un motociclista: «Cara signora, in questo momento si sta votando una legge sul diritto familiare. Come ogni legge è un compromesso ma è pur sempre una legge». «Non so se le donne di oggi fanno questo tipo di lotta o se si battono soltanto per i diritti paritari, per avere uno stipendio uguale a quello dell' uomo, per cose più materiali, meno vicine al nostro modo di essere, di vivere e di pensare. Per noi l' amore è fondamentale, è la prima ragione della vita, ma ora c' è un modo diverso di battersi. Allora le chiamavano le pasionarie, oggi è tutto diverso. Non mi piace il fatto che si lamentino delle molestie sessuali: lo trovo un fatto avvilente proprio per la donna perché la donna è perfettamente in grado di difendersi e quindi deve difendersi e non deve fare la vittima magari dopo tanto tempo o dopo aver usufruito dei vantaggi che un rapporto del genere ti dà. Non mi piace, mi piace la donna libera che si batte per ragioni vere, che non ci sia niente di ambiguo, di equivoco. Non ci appartiene: sono cose più maschili che femminili».

Sandra Milo: “Bettino Craxi a letto era dotato”. Alice il 22/01/2020 su Notizie.it. Sandra Milo è senza freni e ancora una volta l’attrice ha rivelato dettagli su una sua liaison con un uomo importante: questa volta si sarebbe trattato di Bettino Craxi, con cui lei si sarebbe incontrata in gran segreto in uno degli hotel più famosi di Roma. A 20 anni dalla morte di Bettino Craxi, l’attrice Sandra Milo ha confessato che con lui avrebbe avuto una romantica liaison e che il famoso politico sotto le lenzuola sarebbe stato “importante”. Lei e Craxi si sarebbero incontrati in gran segreto nell’Hotel Raphael di Roma, ma i loro incontri avrebbero avuto vita breve per via dei loro rispettivi impegni familiari e lavorativi. I due decisero di lasciarsi senza amarezze, e tornarono alla loro vita di sempre come se nulla fosse. Sandra Milo ha dichiarato che lei e Craxi si sarebbero conosciuti da ragazzi a Milano e che lei sarebbe sempre stata molto attratta dalla idee politiche e dal modo di parlare del leader socialista. L’attrice ha parlato anche della moglie di Craxi definendo Anna Maria Moncini “una grande donna”, e ha detto anche che durante una serata alla Scala qualcuno avvisò la donna di un libro scritto dalla Milo intitolato Venere e il Psi. La moglie di Craxi rispose di esserne a conoscenza e che l’attrice lo avesse fatto leggere a lei per prima: un modo per evitare pettegolezzi. Quella su Bettino Craxi è solo una delle innumerevoli liaison che Sandra Milo ha confessato di avere con personaggi più o meno noti del mondo dello spettacolo o della politica, uno su tutti Federico Fellini di cui sarebbe stata l’amante per ben 17 anni.

Massimo Murianni per Novella 2000 il 20 gennaio 2020. “Era un uomo importante, anche sotto quell’aspetto». Sandra Milo ricorda così Bettino Craxi, quando le chiediamo com’era nell’intimità l’ex leader socialista, l’uomo che è stato suo amante per diversi anni. «Sono goloso. Di tutto», dice Pier Francesco Favino diventato Craxi in Hammamet, il film di Gianni Amelio che tanto sta facendo parlare. Citiamo a memoria la battuta, potrebbe non essere letterale, ma il concetto c’è: nel suo esilio volontario in Tunisia (c’è chi parla di latitanza), l’ormai ex leader socialista dichiara la sua voracità, lasciando intendere che non solo di cibo sta parlando. E di cos’altro, Sandra Milo lo sa bene. «Era un uomo molto intelligente, e dunque curioso. Inseguiva la conoscenza, come Fellini, tutte le persone di grande talento hanno questa curiosità insaziabile, come se il tempo sfuggisse loro e non avessero la possibilità di conoscere e vedere tutto». Con la sua voce inconfondibile, un tono infantile in una donna che ha vissuto molto, Sandra racconta volentieri della sua storia con Bettino Craxi, un uomo che ha difeso sempre, anche quando è caduto in disgrazia. La memoria è fatta di aneddoti, immagini, quadri che si rincorrono con una successione temporale non chiarissima. Ma sono lucidissimi i sentimenti e le emozioni.

Signora Milo, quando ha conosciuto Craxi?

«Ci siamo conosciuti che era un ragazzo, e siamo diventati amici quando lui è diventato segretario del Psi a Milano».

Parliamo degli inizi degli Anni Sessanta, dunque, un Craxi neanche trentenne.

«Poi ci siamo rivisti a Roma, quando lui fu eletto segretario del partito, al Comitato centrale dell’Hotel Midas di Roma. Quella fu una grande svolta, c’era un grande entusiasmo intorno a lui».

Luglio 1976, il punto di inizio del lungo potere craxiano, finito poi nel febbraio 1993 con le inchieste di Tangentopoli. Sandra, seguiva la politica, oltre che l’uomo?

«Ho sempre avuto un credo socialista, fin da ragazzina. A 12 anni leggevo Marx, Engels, Lenin, Proudhon… mi volevo costruire una coscienza sociale ed ero molto attratta dall’idea socialista. Andavo ai comizi, di Togliatti, di Nenni. Bettino, era il pupillo di Nenni, ed era un uomo molto affascinante, molto seduttivo, con una voce fantastica».

Spesso lei era in prima fila ai convegni, ci sono foto.

«Una volta, mi sembra a Rimini, io gli feci fare un enorme cuore di garofani montato su legno, alto più di due metri. Lo sfondo di garofani rossi con una scritta in garofani bianchi: ABC, che stava per Amo Bettino Craxi. Feci portare questo enorme cuore sotto il palco. Ogni tanto qualche socialista con le pruderie lo faceva spostare, e altri lo rimettevano a posto. Erano anni pieni di entusiasmo».

Era innamorata di Craxi?

«No. Io sono sempre stata innamorata di un uomo solo».

Federico Fellini.

«Sì. Craxi era affascinante, era una passione, ma non un amore»

Quando è scoppiata questa passione?

«Mi ha visto in televisione ospite di Maurizio Costanzo a Bontà Loro».

Seconda metà degli anni Settanta, dunque.

«Avevo un cappellino con la veletta che lo colpì molto, e mi chiamò subito. Iniziammo così a frequentarci».

Dove vi incontravate?

«A Roma, a casa di una contessa sua amica a Piazza Navona, e poi all’hotel Raphael».

Che era il quartier generale del Psi.

«Facevamo delle cene, spesso con noi c’erano Ferdinando Mach (la mente finanziaria del Psi, ndr), Filippo Panseca, l’artista che ha creato il garofano simbolo del partito, l’architetto Paolo Portoghesi… Craxi era proprio adorato».

Anche da lei?

«A me piacevano le sue storie. Una volta mi aveva raccontato che quando era ragazzo doveva fare un viaggio in Germania per il partito. Nella valigia aveva messo i classici spaghetti e le scatole di pomodori pelati. Ma durate il viaggio, siccome aveva fame, non c’era da mangiare e lui non aveva questi grandi mezzi, alla fine prese dalla valigia questo barattolo di pelati e se li mangiò crudi. Aveva tutte queste belle cose da raccontare».

Per quanto è durata la vostra relazione?

«Per molto tempo. Mi ricordo che aveva una stanzetta piccola piena piena di libri, di giornali, di cose... perché passava il tempo a leggere e studiare. In questa piccola stanza lui era un uomo meraviglioso. E poi abbiamo continuato a incontrarci anche quando l’hotel Raphael gli diede una camera più grande, molto bella, con la terrazza».

Ha mai incontrato la moglie di Craxi?

«Sì, Anna è una donna fantastica. Io avevo scritto un libro, si intitolava Venere e il Psi, Bruno Tassan Din aveva acquistato i diritti per 60 milioni di lire, mi pare, ma non lo aveva pubblicato, lo teneva lì. Una sera eravamo alla Scala di Milano per una Prima, in teatro c’era anche Anna Craxi. Durante l’intervallo, qualcuno, le disse: “Sai che Sandra ha scritto un libro sul Psi e Bettino?”. E lei che non sapeva niente: “Lo so benissimo, perché Sandra l’ha fatto leggere per prima a me”. Un’intelligenza e una presenza di spirito straordinaria».

Perché è finita la sua storia con Craxi?

«Io non ero una donna libera, lui era un uomo molto impegnato. Ricordo che una volta mi ero lamentata perché lo avevo aspettato un po’, e lui mi disse: “Ma guarda che io per te ho lasciato Fanfani...”. E io: “E capirai, manco fosse Miss America!”. Era difficile incontrarsi, e io ci stavo male. Mi dava appuntamenti cui non potevo andare, o era lui che all’ultimo non poteva. Così ho troncato la storia».

Dopo di lei, è arrivata un’altra donna importantissima per Craxi: Ania Pieroni. L’hai mai conosciuta?

«Una volta sola, non tantissimo tempo fa, al Teatro Argentina, c’era una qualche commemorazione, non ricordo. Ci siamo abbracciate forte forte, senza dire niente».

Ha visto Hammamet, il film?

«Non voglio vederlo. Mi hanno detto che Favino è bravissimo, ma io voglio conservare il ricordo di Bettino forte e affascinante, non mi piace pensare al suo declino. Era un uomo che amava il suo Paese, parlava dell’Italia come nessun altro ho mai sentito parlare. Ora è sepolto in Tunisia, con quel suo grande orgoglio, ha detto: non mi hanno voluto da vivo, resto qui anche da morto. Quanto gli deve essere costato essere sepolto lontano dal suo Paese. Lo ammiro molto perché ha conservato sempre il suo grande io».

 Nel bene e nel male. Perché il suo era anche un mondo malato.

«Ma lui è stato una vittima esagerata di quel mondo».

La storia giudicherà in futuro, forse è troppo presto, ma la legge ha già espresso i suoi verdetti.

Da leggo.it il 5 gennaio 2020. Sandra Milo in lacrime davanti a Mara Venier: ospite di Domenica In su Raiuno nella puntata di domenica 5 gennaio, l'artista ora 86enne è scoppiata a piangere dopo aver parlato del suo passato, dei suoi processi, e dopo aver visto alcune vecchie foto mostratele in un rvm. Sandra ha raccontato del suo passato difficile, con la lunghissima lotta per avere i suoi figli, finita per fortuna bene. Ha anche raccontato di Federico Fellini e di un film che avrebbe dovuto interpretare proprio con il grandissimo regista: «Ho mollato il cinema per stare con i miei figli, ho rinunciato a fare un film con Fellini - ha detto - Ho affrontato 44 processi, quasi più di Berlusconi». Il momento più toccante è quando Sandra racconta di sua figlia maggiore, Debora, per cui ha messo in piedi una vera e propria battaglia legale per riaverla: «44 processi, ho battuto Berlusoni - racconta - Sono l’unico caso in cui la Chiesa, dopo aver concesso la nullità delle nozze, ha rifatto il processo. Io ero già incinta del mio terzo figlio, temevo di perdere la maternità su tutti. Andai dal Cardinale Staffa, capo supremo della Cancelleria, gli dissi "sono disperata, appena il Papa esce mi butto sotto la sua macchina". Allora lui, una persona meravigliosa, tolse il processo alla Sacra Rota e lo portò alla Cancelleria, che confermò la prima sentenza». Sul set, Sandra racconta di aver conosciuto alcuni grandissimi del cinema italiano, da Marcello Mastroianni a Vittorio Gassman: quest’ultimo però è quello «che ho amato meno di tutti - ha detto - mi mollò uno schiaffone terribile. Lo fece per esigenze sceniche, ma poteva andarci più leggero. Non me lo sono mai dimenticato». All'inizio dell'intervista, la conduttrice Mara Venier aveva detto di avere qualcosa in comune con lei: «Abbiamo entrambe un grande amore per le nostre mamme e un grandissimo amore per i nostri figli - le sue parole - e non è stato affatto facile, come sappiamo. La nostra storia è molto simile».

"I 44 processi per riavere mia figlia". Sandra Milo in lacrime a Domenica In. Rivelazioni molto emozionanti quelle di Sandra Milo a Domenica In che racconta il calvario giudizio che ha dovuto subire per stare al fianco della figlia Debora. Carlo Lanna, Lunedì 06/01/2020 su il Giornale. Grandi emozioni a Domenica In per la prima puntata del 2020 dello show di Mara Venier. Il salotto pomeridiano di Rai Uno ha alternato, come sempre, momenti di grande comicità a momenti di commozione. Come l’intervista a Sandra Milo. La celebre attrice, tra lo sgomento del pubblico, ha raccontato quanto è stato difficile portare avanti la sua carriera di attrice con il suo essere moglie e madre. Le dichiarazioni, riportate da Dagospia, hanno lasciato il segno. Infatti molti utenti di Twitter hanno riportato come, anche il pubblico in studio, è rimasto colpito dalle rivelazioni di Sandra Milo. La puntata è andata in onda il 5 Gennaio e l’artista, ora attempata 86enne, è scoppiata a piangere dopo aver parlato del suo passato e dopo che le sono state mostrate alcune vecchie foto. Ma il momento più toccante è stato quando Sandra Milo racconta di sua figlia Debora, per cui ha messo in piedi una vera propria battaglia legare pur di far valere la sua genitorialità. "Ho affrontato molti processi per poter riabbracciare mia figlia", ha esordito la Milo. "Abbiamo un grande amore per le nostre mamme e un grandissimo amore per i nostri figli – rivolgendosi a Mara Venier -. La nostra storia è molto simili". Poi subito scattano i pianti. "Sono l’unico caso in cui la Chiesa, dopo aver concesso la nullità delle nozze, ha rifiutato il processo – aggiunge –. Sai quanti processi ho dovuto subire? Ben 44. All’epoca ero già incinta del terzo figlio e avevo la paura di perdere la maternità su tutti. Sono andata persino dal Cardinale Stadda, capo supremo della Cancelleria. Gli avevo detto che ero disperata, che avevo bisogno di un aiuto. Arrivai a dire che pur di far qualcosa mi sarei buttata sotto la macchina del Papa – confessa -. Lui è una persona meravigliosa. Tolse il processo dalla Sacra Rota e lo portò alla Cancelleria e confermò la prima sentenza". E proprio durante le rivelazioni sul suo passato, sui social diverse persone hanno notato reazioni strane tra il pubblico che si trova alle spalle di Sandra Milo. Gli utenti di Twitter si focalizzano su alcuni bambini con il viso esterrefatto e spaventato, come se fosse accaduto qualcosa. Una persona adulta sussura una parola nell'orecchio di uno dei bambini, ma le motivazioni di quel gesto non sono chiare. La scena è ripresa dalle telecamere e sui social tutti si sono chiesti cosa sia successo in quel frangente. É stato comunque unviaggio sul viale dei ricordi per Sandra Milo. Dopo i pianti e la paura da parte del pubblico per la reazione della celebre artista, si cambia decisamente argomento. Dopo i processi e le beghe legali, si torna a parlare della vita da set. E anche qui fioccano molti aneddoti. "Ho amato tutti gli attori con cui ho lavorato. Tranne Vittorio Gassman. Mi mollò uno schiaffone terribile – racconta Sandra Milo -. Lo fece per esigenze sceniche ma poteva andarci un po’ più leggero. Ammetto che la mia storia di attrice è stata incredibile".

·        Sara Croce: "Bonas".

Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 20 ottobre 2020. Bionda, occhi azzurri, 22 anni. Assai avvenente, tanto da essersi piazzata quarta al concorso di Miss Italia del 2017. Diversi flirt, veri e presunti, con sportivi e gente dello spettacolo con cui è stata «paparazzata». L’ultimo di questi potrebbe però dare qualche grattacapo all’influencer Sara Croce, la Bonas di «Avanti un altro», il programma in onda sulle reti Mediaset condotto da Paolo Bonolis, chiamata a rispondere in solido con la madre Anna Maria Poillucci di una cifra che va oltre il milione di euro «per aver allacciato una relazione al solo fine di trarne un profitto economico per sé e per la sua famiglia, raggirando le buone intenzioni di un ricchissimo e noto uomo d’affari».

La partita a calcetto in Costa Smeralda. L’imprenditore in questione — racconta AdnKronos — e il magnate e petroliere iraniano Hormoz Vasfi — 57 anni e tante «ex» celebri, da Taylor Mega a Yvonne Sciò — che quest’estate è salito alla ribalta della cronaca anche per aver partecipato alla partita di calcetto in Costa Smeralda con Flavio Briatore. Partita che aveva creato una certa ansia tra i vip in campo dopo che il proprietario del Billionaire era risultato positivo al coronavirus. C’erano, tra gli altri, l’allenatore del Bologna Sinisa Mihajlovic, l’imprenditore Andrea Della Valle, il procuratore Dario Marcolin e anche Paolo Bonolis. Nella foto che li ritrae tutti assieme in campo il conduttore tv è proprio accanto a Vasfi che nella causa a Croce è assistito dallo studio dell’avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, nome tra i più noti nel mondo del diritto, il quale ha notificato e depositato in tribunale l’atto di citazione per ottenere il risarcimento dei danni pari al valore dei numerosi beni e delle somme di denaro che la Croce e la sua famiglia avrebbero ricevuto da Hormoz Vasfi nel corso del rapporto.

Il precedente tra il miliardario e l’ex Naomi Campbell. La notizia richiama l’analogo episodio che ha visto protagonisti lo scorso settembre il miliardario russo Vladislav Doronin e l’ex fidanzata Naomi Campbell, in cui lui ha fatto causa alla top model sostenendo che non gli voglia restituire beni per circa 3 milioni di dollari.

Roberto Alessi per “Libero quotidiano” il 30 ottobre 2020. Il miliardario contro cenerentola, so già chi vince nI miliardari, quelli veri, simpatici, decisamente più vecchi e generosi, che riempiono di regali e se lasciati per il giovane e bello non se la prendono anzi augurano ogni felicità, lasciando alla ormai ex abiti, casa e gioielli, e la tranquillizzano con frasi come «Però questo è uno dei pochi vantaggi dell' età: le delusioni diventano ordinaria amministrazione», esistono solo nel film «Come sposare un miliardario». Nella vita invece succedono cose dell' altro mondo ed ecco che il milionario (in euro) Hormoz Vasfi denuncia la nullatenente, ma bellissima, Sara Croce e vuole indietro tutti i soldi che lui ha speso per frequentarla nei sei mesi di fidanzamento e non importa che lei abbia 21 anni, e lui 54 («Oh! Un uomo ricco non è mai troppo vecchio!», insegnava Marilyn Monroe nel film già citato), che lui abbia case a Londra, Roma, Dubai e lei viva con la madre a Garlasco, vicino a Pavia. Diligentemente l' avvocato di Hormoz (che abbiamo conosciuto questa estate quando aveva organizzato una tre giorni di feste al Cala di Volpe in Sardegna per la nuova fidanzata Valentina), una vera star del foro, l' avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, ha fatto un elenco di quanto il magnate avesse dato a Sara. L' agenzia Adn Kronos ha stilato l' elenco si presume leggendo la denuncia: «Un gioiello Bulgari da 50mila euro o un orologio e un bracciale Cartier (totale 34mila euro) 47mila euro spesi nelle migliori boutique di Dubai o i 66mila euro spesi a Parigi viaggi esclusivi come il Capodanno trascorso insieme a Las Vegas o l' affitto dell' appartamento in via San Marco, in pieno centro a Milano. Viaggi e cene pagati talvolta anche agli amici della showgirl a cui vanno sommati i regali per compiacere la madre della giovane compagna sebbene la coppia trascorra separata il lockdown, Hormoz Vasfi afferma di averle versato, in quei mesi, quasi 14mila euro e di aver acquistato per la famiglia di Sara anche una lavatrice, cialde per il caffè e un dvd per complessivi 900 euro. I sei mesi di fidanzamento vengono festeggiati con un bracciale da oltre 11mila euro, dopo il "nido d' amore" arriva l' acquisto di un' auto Land Rover da 45.600 euro". «Non è cara, è il suo prezzo», avrebbe detto la Mabilia dei Legnanesi. Cosa pensava Hormoz che sarebbe stato lo stesso se le avesse regalato un anellino di metallo e un week end a Viserbella? «Per la difesa», si legge sull' AdnKronos, «Sara Croce ha recitato la parte della fidanzata innamorata, ma non ha mai nutrito un sentimento sincero e per questo deve risarcire il danno patrimoniale quantificato in 1.051.548,72 euro». Alla faccia del bicarbonato di Sodio, direbbe Totò. «Non ho parole» dice l' avvocato di Sara, Angelo Pariani, «La mia cliente, che è mortificata come lei sola, una ragazza per bene, pulita, non gli deve un centesimo, e sottolinea che la Land Rover che gli aveva regalato per il compleanno, la mia assistita l' ha restituita appena finita la relazione». E si passa al contrattacco: «Sara Croce ha ora denunciato Hormoz Vasfi per stalking». E pare ci siano le prove di 450 messaggi ricevuti in 22 giorni dalla madre e dallo zio». Hormoz dal canto suo non demorde: «Erano tutti d' accordo». Per spillare quattrini? Sarà pare che piange tutto il giorno, e non la consola il fatto che Mediaset e Paolo Bonolis, che la sta proteggendo con la moglie Sonia Bruganelli, l' abbia confermata per la prossima stagione di «Avanti un altro». Ma come mai tanto astio? In fondo Sara e Hormoz sono stati insieme solo sei mesi, da settembre a febbraio e si sono rivisti dopo il lockdown (che lei ha passato a casa della mamma). Che c'entri qualcosa il fatto che lei a Capri, dove pare andata proprio con Hormoz, abbia conosciuto il portiere del Bari Gianmarco Fiory, bello, giovane, ricco di famiglia, caprese, e ora stia con lui? Flory ha trent' anni ed è stato preso da poco dal Bari. Durante la sua carriera non sono mancati i momenti difficili. Da La Gazzetta dello Sport si viene a sapere che nel 2016 venne denunciato per stalking dalla sua ex fidanzata Valentina. Gli fu ordinato il divieto di avvicinamento, ma il 10 novembre venne arrestato proprio in campo, davanti a tutti, durante un allenamento allo stadio Rossaghe di Lumezzane, per non aver rispettato l' obbligo disposto dal Gip di Pavia. La situazione non migliorò, tanto da finire in carcere, pare a Poggioreale. Evidentemente s' era fissato con la ex che secondo lui aveva avuto un ripensamento non confermato dall' avvocato di lei. In ogni caso, pare che Sara sia molto innamorata di Fiory. Ora lei è a Roma dove sta registrando «Avanti un altro», ma appena può lo raggiunge a Bari, dove lui è il terzo portiere. Spero che Sara dimentichi questa storia, dove ne esce come se fosse una ragazza sensibile al denaro al punto di legarsi a un uomo di 33 anni più vecchio e di dieci centimetri più basso (lei è alta un metro e 82, Hormoz sul metro e settanta). E spero anche che Hormoz recedi sulla sua volontà di andare a processo: per lui un milione di euro non sono nulla. In fondo si sono amati per sei mesi, faccia sua la battuta della Mabilia, che non sa magari nemmeno chi è: «Non è cara, è il suo prezzo».

Il miliardario vuole indietro i regali e fa causa all'ex per un milione di euro. Lei: "ho ridato tutto". Le Iene News il 26 ottobre 2020. Sara Croce racconta a Stefano Corti e Alessandro Onnis la sua relazione con il petroliere Hormoz Vasfi, che le ha fatto causa per un milione di euro accusando la showgirl e modella di aver “allacciato una relazione al solo fine di trarne un profitto economico”. Non perdetevi l’intervista completa martedì 27 ottobre a Le Iene dalle 21.10 su Italia1. “Sono stata ammaliata da questo magico uomo che mi trattava come se fossi una regina, da questo mondo fatato”. Sara Croce, modella e showgirl accusata dal suo ex, il petroliere Hormoz Vasfi, di averlo truffato per un milione di euro, racconta a Corti e Onnis la sua verità sulla loro storia e su ciò che è successo dopo. Sara racconta di un corteggiamento in grande stile da parte del petroliere che sarebbe durato un mese. “Iniziava a riempirmi di rose, andavo a mangiare e trovavo il conto già pagato”. E non solo cene: “I massaggi, mi ha messo a disposizione l’autista e questo senza mai provarci, senza mai fare niente”. E dopo un viaggio a Dubai, Sara racconta di essersi decisa a dare a Hormoz Vasfi un’opportunità. Ma dopo un primo periodo di relazione le cose sarebbero cambiate, fino a degenerare durante un viaggio a New York: “Una volta abbiamo litigato pesantemente. Lui ha preso due mie borse e le ha buttate fuori dal quarantesimo piano dell’hotel. Questa cosa mi ha fatto un po' spaventare perché non è un comportamento normale. Poi in un’altra litigata mi ha preso a brutte parole finché io, il 2 gennaio, ho deciso di lasciarlo e andarmene. Sono proprio scappata, gli ho detto di anticiparmi il biglietto per tornare a casa”. Il motivo del litigio? “Io non stavo bene e lui insisteva per uscire, per fare qualcosa”. E alla domanda se avessero litigato perché lei era indisposta e lui insisteva che voleva approcciarla, Sara risponde: “Sì, io stavo male e lui era nervoso”. Nervoso perché non potevano fare l’amore? “Penso di si”, continua la showgirl. “Come se mi vedesse come una bambola”. Come la faceva sentire il fatto che lui le rinfacciasse di averle regalato una cosa costosa perché voleva fare l’amore con lei? "Era avvilente, ma poi io non ho mai chiesto niente". Ma la litigata peggiore, racconta Sara, sarebbe arrivata dopo una cena da Cracco organizzata per il compleanno di lei. “Lui si dispera perché io non mettevo foto su Instagram. Lui in questo atto di citazione mi accusa di averlo tradito, manco fossimo sposati che mi citi in tribunale per avere tradito una persona, con il mio attuale fidanzato, cosa assolutamente non vera e ho tutte le prove, ho tutti gli screen”. “Lui mi aveva regalato la macchina per il compleanno. L’ho usata una settimana, dovevo andare a casa sua, ero già convinta di chiudere. Ha iniziato a insultarmi dicendomi ‘topo di fogna, tu nella tua vita potrai fare solo la prostituta’, mi ha inseguita per tutta la casa. Mi dice "e adesso mi ridai tutta le refurtiva perché sei una truffatrice". Mi ha preso il braccio e mi ha strappato l’orologio e i due braccialetti, avevo tutti i graffi, ero spaventatissima, chiamo una mia amica, mi faccio venire a prendere, scappo, bloccato, mai più sentito e da lì inizia l’inferno”. “Lascio tanti vestiti che avevo a casa sua e ovviamente non mi sarei azzardata a tornare in quella casa, da lì ha iniziato a tartassare mio zio tutti i giorni, audio di dieci minuti in cui mi diffama, mi dà della prostituta”, continua Sara. “Ha iniziato a diffamarmi, io non mettevo più storie perché avevo paura di essere seguita. Lui, nonostante non mettessi storie, sapeva esattamente dove fossi e a che ora, quindi iniziavo a preoccuparmi seriamente. Una volta ero in un ristorante in Piemonte e lui sapeva esattamente con chi fossi, dove, quando e perché e tutto questo lo aveva scritto a mio zio, dicendo "guarda esce con gli spacciatori, è diventata una prostituta, prima con me era una regina, adesso guarda cosa fa", perché ero a una cena in Piemonte”. E, racconta Sara, sarebbero così arrivate anche le richieste di restituire la roba: “Lui ci minacciava, diceva ‘se non mi ridate questo io la rovino, vi rovino tutti, rovino Anna, che è mia mamma, non vi faccio più lavorare’. Da lì, dalla paura, io ho preso e gli ho ridato esattamente tutto. Gli orologi se li è presi perché me li ha strappati, la macchina, intestata a me, è la prima cosa che gli ho ridato, perché io con una persona del genere non voglio più avere nulla a cha fare, non voglio niente che mi ricordi lui”.

Miliardario rivuole un milione di euro di regali dalla ex e le fa causa: la versione di Sara Croce. Le Iene News il 27 ottobre 2020. Sara Croce, modella e showgirl è accusata dal suo ex, il miliardario Hormoz Vasfi di averlo ingannato e le chiede indietro un sacco di soldi: lei racconta a Corti e Onnis la sua versione dei fatti sulla loro storia e su ciò che è successo dopo. È stato il gossip della settimana quello del petroliere iraniano, Hormoz Vasfi, che ha fatto causa alla modella e showgirl Sara Croce. Lui è uno degli uomini più ricchi del mondo, lei una valletta del programma di Paolo Bonolis “Ciao Darwin” e la “bonas” di “Avanti un Altro”. Hanno avuto una relazione di alcuni mesi, ma una volta finita lui si arrabbia e deposita un atto di citazione contro di lei in cui chiede di essere risarcito per oltre un milione di euro, i soldi che avrebbe speso per i numerosi regali. Sara Croce racconta la sua versione dei fatti a Corti e Onnis. Dal corteggiamento in grande stile: “Iniziava a riempirmi di rose, andavo a mangiare e trovavo il conto già pagato”, sostiene la showgirl. Fino alle litigate, “una volta abbiamo litigato pesantemente. Lui ha preso due mie borse e le ha buttate fuori dal quarantesimo piano dell’hotel. Questa cosa mi ha fatto un po' spaventare perché non è un comportamento normale. Poi in un’altra litigata mi ha preso a brutte parole finché io, il 2 gennaio, ho deciso di lasciarlo e andarmene. Sono proprio scappata". Il motivo del litigio? “Io non stavo bene e lui insisteva per uscire, per fare qualcosa”. E alla domanda se avessero litigato perché lei era indisposta e lui insisteva che voleva approcciarla, Sara risponde: “Sì, io stavo male e lui era nervoso”. Nervoso perché non potevano fare l’amore? “Penso di si”, continua la showgirl. “Come se mi vedesse come una bambola”. Fino ad arrivare, sempre secondo la versione di Sara, alla litigata peggiore: “Ha iniziato a insultarmi dicendomi ‘topo di fogna, tu nella tua vita potrai fare solo la prostituta’, mi ha inseguita per tutta la casa. Ero spaventatissima, chiamo una mia amica, mi faccio venire a prendere, scappo, bloccato, mai più sentito e da lì inizia l’inferno”. “Un vero e proprio stalking", sostiene Sara. "Io non mettevo più storie perché avevo paura di essere seguita. Lui sapeva esattamente dove e a che ora fossi. Io ho reso esattamente tutto, anche la macchina perché con una persona così non voglio avere nulla a che fare. Mi ha richiesto anche le mutande perché diceva così non le usa con il fidanzato”. Fino a che, due settimane fa, “mi è arrivato l’atto di citazione di ben trenta pagine dove spiega per filo e per segno tutto quello che avrei fatto per truffarlo”, racconta. E tra le somme che il magnate avrebbe chiesto indietro ci sono perfino “cialde del caffè, dvd e lavatrice”, racconta la showgirl. “Quando è uscita la notizia ero distrutta. Io ho paura di quest’uomo, non è normale. Penso sia una persona da tenere lontano, lo dico alle prossime fidanzate”. Siamo andati da lui, ma appena ci ha visto arrivare si è chiuso in macchina. E dopo un quarto d’ora di tentativi ci siamo dovuti arrendere, senza potergli restituire le cialde del caffè! Noi comunque rimaniamo disponibili a raccontare anche la sua versione dei fatti.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 24 ottobre 2020.

Vogliamo partire dall' inizio?

«Fine settembre 2019, cena dell' Amfar a Milano. Ero andata con un' amica e ci siamo trovate al suo tavolo».

Lui è il magnate iraniano Hormoz Vasfi.

«Quella sera mi chiese il numero di telefono e cominciò a corteggiarmi. Mi mandava l' autista sotto casa a Garlasco, mi diceva di uscire con le mie amiche e che avrebbe pagato lui il conto, mi incoraggiava ad andare a fare un massaggio con mia mamma. Mi spediva fiori, regali. Così per un mese. Poi siamo andati insieme a Dubai, dove non è successo niente. Al rientro è cominciata la nostra storia».

Sembrava fosse amore e invece era un più modesto calesse: Vasfi, 56 anni, in un atto di citazione di 30 pagine accusa Sara Croce, 22, ex Madre Natura di Ciao Darwin ed ex Bonas di Avanti un altro! , di averlo truffato, dopo averlo indotto a «credere nel futuro della relazione instaurata».

Lei lo ha denunciato per stalking, dopo i 450 messaggi audio mandati su WhatsApp allo zio e alla madre in 25 giorni per denigrarla. Lui chiede indietro tutti i regali fatti (compresa una lavatrice donata alla «suocera» a Natale e le cialde del caffè), lei dice di aver reso già tutto (ma sua madre non intende restituire l' elettrodomestico, in quanto un dono). I due ex fidanzati si chiariranno in Tribunale. Chiediamo a Sara come è stato possibile arrivare a tanto, nello studio milanese del suo legale Angelo Pariani.

A dicembre Vasfi affittò un appartamento in via San Marco per lei, per un anno. Diede centomila euro di anticipo.

«Non lo chiesi io, che peraltro potevo andarci solo nel weekend».

Per Capodanno siete volati a New York. Nel milione di euro che lui rivorrebbe indietro ci sono anche i costi di quel viaggio, in business class.

«Quel viaggio fu un incubo. Partimmo con altri amici. In quei giorni io ero indisposta e non potevo assecondarlo, lui mi trattò malissimo. Arrivò a gettare dalla finestra alcune mie cose, rischiando di colpire qualcuno dal 48° piano a Manhattan. Anticipai il rientro e me ne tornai in Italia da sola. Ci lasciammo, lui bloccò il mio contatto sul cellulare. Però mi seccava chiudere così la storia, quindi più avanti lo ricontattai da un altro cellulare per chiarirci e lui tornò un uomo attento e premuroso».

Poi arriva il lockdown. Stavate ancora insieme?

«Diciamo di sì, ma in case separate. Se fossi stata calcolatrice, come mi vorrebbe far passare, sarei andata a casa sua e non nel bilocale senza balcone di mia madre in Trentino».

Finisce il lockdown. A giugno, per il compleanno, lui la porta a cena da Cracco e si dispiace molto perché lei non posta neanche una foto su Instagram ai suoi 765 mila follower. Questa lamentela è ricorrente con suo zio.

«Io non pubblicavo le nostre foto un po' perché non mi sentivo sicura e un po' perché non volevo che mio padre lo sapesse. I miei si sono separati quando ero piccola e lui non lo vedo molto».

Cosa le ha detto?

«Che mi serva di lezione. E in effetti ho imparato: adesso sto molto più attenta a chi frequento».

Ha paura?

«Sono molto agitata, mi sento spiata, non sono più tranquilla. Ho la sensazione che qualcuno mi controlli. Da qualche mese ho iniziato un percorso per farmi aiutare».

Cosa le piaceva di Vasfi?

«Mi portava in palmo di mano, mi apriva la porta, si alzava quando entravo della stanza. È un uomo affascinante, parla cinque lingue, fa discorsi interessanti. Ma poi si è rivelato orrendo».

E sua madre cosa dice?

«Mamma è disoccupata, faceva la barista. All' inizio era felice che avessi incontrato un uomo che mi trattava così bene. Ha una mentalità aperta, la differenza di età non è mai stato un problema. C' è rimasta male, non si aspettava che lui si comportasse così, ed è molto preoccupata per quello che sto attraversando».

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli "stanno proteggendo Sara Croce". Avanti un altro e il petroliere, il retroscena. Roberto Alessi su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2020. I miliardari, quelli veri, simpatici, decisamente più vecchi e generosi, che riempiono di regali e se lasciati per il giovane e bello non se la prendono anzi augurano ogni felicità, lasciando alla ormai ex abiti, casa e gioielli, e la tranquillizzano con frasi come «Però questo è uno dei pochi vantaggi dell'età: le delusioni diventano ordinaria amministrazione», esistono solo nel film «Come sposare un miliardario». Nella vita invece succedono cose dell'altro mondo ed ecco che il milionario (in euro) Hormoz Vasfi denuncia la nullatenente, ma bellissima, Sara Croce e vuole indietro tutti i soldi che lui ha speso per frequentarla nei sei mesi di fidanzamento e non importa che lei abbia 21 anni, e lui 54 («Oh! Un uomo ricco non è mai troppo vecchio!», insegnava Marilyn Monroe nel film già citato), che lui abbia case a Londra, Roma, Dubai e lei viva con la madre a Garlasco, vicino a Pavia. Diligentemente l'avvocato di Hormoz (che abbiamo conosciuto questa estate quando aveva organizzato una tre giorni di feste al Cala di Volpe in Sardegna per la nuova fidanzata Valentina), una vera star del foro, l'avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, ha fatto un elenco di quanto il magnate avesse dato a Sara. L'agenzia Adnkronos ha stilato l'elenco si presume leggendo la denuncia: «Un gioiello Bulgari da 50mila euro o un orologio e un bracciale Cartier (totale 34mila euro) 47mila euro spesi nelle migliori boutique di Dubai o i 66mila euro spesi a Parigi viaggi esclusivi come il Capodanno trascorso insieme a Las Vegas o l'affitto dell'appartamento in via San Marco, in pieno centro a Milano. Viaggi e cene pagati talvolta anche agli amici della showgirl a cui vanno sommati i regali per compiacere la madre della giovane compagna sebbene la coppia trascorra separata il lockdown, Hormoz Vasfi afferma di averle versato, in quei mesi, quasi 14mila euro e di aver acquistato per la famiglia di Sara anche una lavatrice, cialde per il caffè e un dvd per complessivi 900 euro. I sei mesi di fidanzamento vengono festeggiati con un bracciale da oltre 11mila euro, dopo il "nido d'amore" arriva l'acquisto di un'auto Land Rover da 45.600 euro". «Non è cara, è il suo prezzo», avrebbe detto la Mabilia dei Legnanesi. Cosa pensava Hormoz che sarebbe stato lo stesso se le avesse regalato un anellino di metallo e un week end a Viserbella? «Per la difesa», si legge sull'AdnKronos, «Sara Croce ha recitato la parte della fidanzata innamorata, ma non ha mai nutrito un sentimento sincero e per questo deve risarcire il danno patrimoniale quantificato in 1.051.548,72 euro». Alla faccia del bicarbonato di Sodio, direbbe Totò. «Non ho parole» dice l'avvocato di Sara, Angelo Pariani, «La mia cliente, che è mortificata come lei sola, una ragazza per bene, pulita, non gli deve un centesimo, e sottolinea che la Land Rover che gli aveva regalato per il compleanno, la mia assistita l'ha restituita appena finita la relazione». E si passa al contrattacco: «Sara Croce ha ora denunciato Hormoz Vasfi per stalking». E pare ci siano le prove di 450 messaggi ricevuti in 22 giorni dalla madre e dallo zio». Hormoz dal canto suo non demorde: «Erano tutti d'accordo». Per spillare quattrini?

Avanti un altro, le virgolette di Sonia Bruganelli: dubbi sulla trasmissione di Paolo Bonolis, che succede a Mediaset? Sara pare che piange tutto il giorno, e non la consola il fatto che Mediaset e Paolo Bonolis, che la sta proteggendo con la moglie Sonia Bruganelli, l'abbia confermata per la prossima stagione di «Avanti un altro». Ma come mai tanto astio? In fondo Sara e Hormoz sono stati insieme solo sei mesi, da settembre a febbraio e si sono rivisti dopo il lockdown (che lei ha passato a casa della mamma). Che c'entri qualcosa il fatto che lei a Capri, dove pare andata proprio con Hormoz, abbia conosciuto il portiere del Bari Gianmarco Fiory, bello, giovane, ricco di famiglia, caprese, e ora stia con lui? Flory ha trent' anni ed è stato preso da poco dal Bari. Durante la sua carriera non sono mancati i momenti difficili. Da La Gazzetta dello Sport si viene a sapere che nel 2016 venne denunciato per stalking dalla sua ex fidanzata Valentina. Gli fu ordinato il divieto di avvicinamento, ma il 10 novembre venne arrestato proprio in campo, davanti a tutti, durante un allenamento allo stadio Rossaghe di Lumezzane, per non aver rispettato l'obbligo disposto dal Gip di Pavia. La situazione non migliorò, tanto da finire in carcere, pare a Poggioreale. Evidentemente s' era fissato con la ex che secondo lui aveva avuto un ripensamento non confermato dall'avvocato di lei. In ogni caso, pare che Sara sia molto innamorata di Fiory. Ora lei è a Roma dove sta registrando «Avanti un altro», ma appena può lo raggiunge a Bari, dove lui è il terzo portiere. Spero che Sara dimentichi questa storia, dove ne esce come se fosse una ragazza sensibile al denaro al punto di legarsi a un uomo di 33 anni più vecchio e di dieci centimetri più basso (lei è alta un metro e 82, Hormoz sul metro e settanta). E spero anche che Hormoz recedi sulla sua volontà di andare a processo: per lui un milione di euro non sono nulla. In fondo si sono amati per sei mesi, faccia sua la battuta della Mabilia, che non sa magari nemmeno chi è: «Non è cara, è il suo prezzo».

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2020. Nella causa, subito mediaticamente pubblicizzata, che ha mosso contro l'ex fidanzata Sara Croce alla quale chiede un milione e 51.548,72 euro di risarcimento, il magnate Hormoz Vasfi ha dimenticato o forse ignora d'essere a sua volta destinatario di un'azione legale che trascende le pur diffuse e tristi contese, alla fine di una relazione, legate alla restituzione di quanto speso e regalato. La 22enne pavese, modella e volto televisivo (in programmi di Paolo Bonolis), ha depositato una denuncia querela per stalking alla Procura di Milano proprio contro il 54enne, uno degli uomini più ricchi in circolazione e protagonista di una rete assai ramificata di conoscenze nello show-business. Il cuore dell'accusa di Croce, che si basa come innesco delle prove su 80 chiamate e 423 messaggi di «pressioni» di Vasfi, ricevuti in soli 25 giorni successivi la fine della storia da sua mamma e suo zio, poggia su integrazioni preparate dall'avvocato Angelo Pariani, deciso a tutelare l'assistita in sede penale e civile, a maggior ragione, sostiene, per il fatto che una vittima venga ora fatta passare per truffatrice, inevitabilmente danneggiata (non solo) a livello professionale, visto che è a inizio carriera. Come da lettura dell'atto di citazione dello studio Giuseppe Iannacone e associati (il pool di legali del magnate), lui, iraniano di Teheran, auspica di rientrare dei doni di compleanno e in generale di qualsiasi pagamento sostenuto nei mesi della storia, comprese le confezioni di cialde del caffè, un lettore Dvd e una lavatrice, adducendo un presunto tradimento (con un calciatore) di Croce quale motivo della separazione. Un'offesa e ancor prima una mancanza di rispetto a fronte della piena disponibilità, da parte del 54enne, nel soddisfare ogni richiesta dell'allora fidanzata. L'elenco inserito nell'atto di citazione comprende un «gioiello Bulgari da 50 mila euro», l'upgrade di classe (in Business) sui Frecciarossa Milano-Roma poiché «la produzione del programma» della modella «si limitava all'Economy», shopping a Dubai durante una vacanza per «47 mila euro», un orologio e un bracciale Cartier per «34 mila euro», cene di Croce con amici e genitori per «6 mila euro» a sera, spese di agenzia e locazione («10 mila euro a trimestre») per un appartamento in affitto al 28 di piazza San Marco a Milano, soggiorno a Parigi per visitare con un'amica, soddisfacendo un sogno da bambina, Disneyland («7 mila euro»). L'avvocato Pariani, nel rilevare comunque spese avvenute in piena libertà e per precisa volontà, non certo sotto ricatto, ricorda i toni di messaggi e chiamate, e si sofferma per appunto sulle frasi inerenti la denigrazione di quello poi divenuto nuovo compagno della modella; e ricorda, l'avvocato, che Croce ha restituito una Land Rover avuta per il compleanno: scelta da cui avrebbe potuto esimersi, forte del favore di sentenze di Cassazione, ma che deve intendersi col desiderio di non approfittarsi della relazione, germogliata a ottobre e chiusa a giugno, dopo un lockdown «da separati in casa». Vasfi è presenza fissa di articoli di gossip in considerazione dei rapporti con giovani soubrette e influencer quale la stessa modella, che conta 750 mila follower su Instagram, piattaforma dove il magnate, viene osservato in quell'atto, «non trova spazio alcuno, nemmeno indirettamente».

Valeria Braghieri per "Il Giornale" il 20 ottobre 2020. E quindi, tutto gratis? Ma è folle. È come restituire la carta di un Big Mac dopo aver divorato il panino e pretendere indietro 4,50 euro dal cassiere con la visierina gialla e rossa, avvolto in una nuvola di fritto. Se non hai i soldi, non compri. Vale per i metalmeccanici in fila da McDonald's e vale per i milionari davanti alle sventole. Dal «Mee too» al «Mi trop» che sta per «ti ho dato troppo», adesso me lo restituisci. Roba da pazzi. Sono piccoli, pelati, sentimentalmente spaiati ma rivestiti di dobloni e si «fidanzano» con modelle o showgirl ventenni, alte, bionde, statuarie. Quale sarà mai il collante del rapporto, l'amore? «Ma mi facci il piacere», direbbe Totò e lo diciamo anche noi. Questa nuova moda dei milionari è l'ultima incresciosa china della crisi economica in corso. Prendono una signorina, la rivestono d'oro (è l'unica cosa che li rende appetibili) e, a relazione terminata, chiedono la restituzione dell'intero investimento fatto. L'imprenditore in questione è il magnate e petroliere Hormoz Vasfi, che, tramite i suoi avvocati, avrebbe notificato e depositato in tribunale l'atto di citazione per ottenere il risarcimento dei danni pari al valore dei numerosi beni e delle somme di denaro che avrebbe elargito nel corso della loro relazione sentimentale a Sara Croce, la Bonas di Avanti un altro, il programma in onda sulle reti Mediaset condotto da Paolo Bonolis. La Croce sarebbe chiamata a rispondere in solido con la madre, Anna Maria Poillucci, di una cifra che va oltre il milione di euro «per aver allacciato una relazione al solo fine di trarne un profitto economico per sé e per la sua famiglia, raggirando le buone intenzioni del ricchissimo e noto uomo d'affari». Praticamente è, di fatto, iniziata la regolamentazione dell'attività di mantenuta, mai vista prima nella storia dell'umanità. E questo potrebbe davvero avere importanti risvolti sui Pil dei Paesi. Ma detto ciò, crolla anche l'ultimo mito: quello dell'uomo provvidenziale, del Pigamalione risolutivo che capita sempre e solo alle altre (alte, ventenni, bionde, statuarie), ma che sapevamo esistesse. Fine del «principe azzurro munifico». C'è un'incresciosa inversione di tendenza. Nessuna donna sarà più mantenuta in quanto donna, in quanto bella, in quanto «prescelta». Sì perché la notizia diVasfi, richiama un analogo episodio che ha visto protagonisti lo scorso settembre il miliardario russo Vladislav Doronin e l'ex fidanzata Naomi Campbell, in cui lui ha fatto causa alla top model sostenendo che non gli voglia restituire beni per circa 3 milioni di dollari. Solo che Doronin è uno con cui ci si fidanzerebbe anche se fosse in coda da McDonald's per un Big Mac: lo avete visto? Però questa è la fine. La fine di un sogno riservato alle altre e la fine di una professione d'eccellenza destinata a poche. Ci vogliono carattere, dedizione, scaltrezza, pelle liscia, abilità, un ottimo chirurgo plastico che ti prenda in consegna già in culla, estetista, truccatore, parrucchiere disponibili anche durante i festivi e, naturalmente, un giro di amiche identiche a te. Bisogna sapere in cosa investire, a cosa e a chi dare priorità. Ci vogliono i giri giusti, una tessera Millemiglia, gli occhi aperti e le ciglia fluenti con le quali essere femminilmente assertive, ma mascolinamente granitiche: astenersi perditempo. Solo che se adesso i milionari diventano dei cialtroni perditempo che ti richiedono il conto... Il mondo va davvero a gambe all'aria.

Sara Croce: «Vasfi mi portava in palmo di mano. Ora mi sento spiata, non sono più tranquilla». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 23/10/2020. L’uomo vuole indietro anche la lavatrice e le cialde del caffè regalate alla mamma di lei Modella a Miss Italia 2017.

Vogliamo partire dall’inizio?

«Fine settembre 2019, cena dell’Amfar a Milano. Ero andata con un’amica e ci siamo trovate al suo tavolo».

Lui è il magnate iraniano Hormoz Vasfi.

«Quella sera mi chiese il numero di telefono e cominciò a corteggiarmi. Mi mandava l’autista sotto casa a Garlasco, mi diceva di uscire con le mie amiche e che avrebbe pagato lui il conto, mi incoraggiava ad andare a fare un massaggio con mia mamma. Mi spediva fiori, regali. Così per un mese. Poi siamo andati insieme a Dubai, dove non è successo niente. Al rientro è cominciata la nostra storia».

Sembrava fosse amore e invece era un più modesto calesse: Vasfi, 56 anni, in un atto di citazione di 30 pagine accusa Sara Croce, 22, ex Madre Natura di Ciao Darwin ed ex Bonas di Avanti un altro!, di averlo truffato, dopo averlo indotto a «credere nel futuro della relazione instaurata». Lei lo ha denunciato per stalking, dopo i 450 messaggi audio mandati su WhatsApp allo zio e alla madre in 25 giorni per denigrarla. Lui chiede indietro tutti i regali fatti (compresa una lavatrice donata alla «suocera» a Natale e le cialde del caffè), lei dice di aver reso già tutto (ma sua madre non intende restituire l’elettrodomestico, in quanto un dono). I due ex fidanzati si chiariranno in Tribunale. Chiediamo a Sara come è stato possibile arrivare a tanto, nello studio milanese del suo legale Angelo Pariani.

A dicembre Vasfi affittò un appartamento in via San Marco per lei, per un anno. Diede centomila euro di anticipo.

«Non lo chiesi io, che peraltro potevo andarci solo nel weekend».

Per Capodanno siete volati a New York. Nel milione di euro che lui rivorrebbe indietro ci sono anche i costi di quel viaggio, in business class.

«Quel viaggio fu un incubo. Partimmo con altri amici. In quei giorni io ero indisposta e non potevo assecondarlo, lui mi trattò malissimo. Arrivò a gettare dalla finestra alcune mie cose, rischiando di colpire qualcuno dal 48° piano a Manhattan. Anticipai il rientro e me ne tornai in Italia da sola. Ci lasciammo, lui bloccò il mio contatto sul cellulare. Però mi seccava chiudere così la storia, quindi più avanti lo ricontattai da un altro cellulare per chiarirci e lui tornò un uomo attento e premuroso».

Poi arriva il lockdown. Stavate ancora insieme?

«Diciamo di sì, ma in case separate. Se fossi stata calcolatrice, come mi vorrebbe far passare, sarei andata a casa sua e non nel bilocale senza balcone di mia madre in Trentino».

Finisce il lockdown. A giugno, per il suo compleanno, lui la porta a cena da Cracco e si dispiace molto perché lei non posta neanche una foto su Instagram ai suoi 765 mila follower. Questa lamentela è ricorrente con suo zio.

«Io non pubblicavo le nostre foto un po’ perché non mi sentivo sicura e un po’ perché non volevo che mio padre lo sapesse. I miei si sono separati quando ero piccola e lui non lo vedo molto».

Cosa le ha detto?

«Che mi serva di lezione. E in effetti ho imparato: adesso sto molto più attenta a chi frequento».

Ha paura?

«Sono molto agitata, mi sento spiata, non sono più tranquilla. Ho la sensazione che qualcuno mi controlli. Da qualche mese ho iniziato un percorso per farmi aiutare».

Cosa le piaceva di Vasfi?

«Mi portava in palmo di mano, mi apriva la porta, si alzava quando entravo della stanza. È un uomo affascinante, parla cinque lingue, fa discorsi interessanti. Ma poi si è rivelato orrendo».

E sua madre cosa dice?

«Mamma è disoccupata, faceva la barista. All’inizio era felice che avessi incontrato un uomo che mi trattava così bene. Ha una mentalità aperta, la differenza di età non è mai stato un problema. C’è rimasta male, non si aspettava che lui si comportasse così, ed è molto preoccupata per quello che sto attraversando».

·        Sara Tommasi.

Sara Tommasi si confessa a Libero dopo la droga e i film a luci rosse: "Ecco come sono rinata". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 7 Gennaio 2020. È superficiale giungere a facili conclusioni, spesso moraliste, quando non si ha una conoscenza puntuale di ciò che è accaduto. Per le persone il cui intento è solo quello di giudicare le parole chiave "droga" e "porno" sono già sufficienti a definire qualcosa di "eticamente" negativo; viceversa per chi avesse voglia di comprendere cosa stava accadendo nella testa di una giovane e bella ragazza dello spettacolo quando ha iniziato a fare entrare nella sua vita sesso e droga, allora questa intervista, probabilmente, potrà dare qualche spunto di riflessione in più. Lei è Sara Tommasi, oggi trentottenne, che da "schedina" in «Quelli che il calcio», condotto da Simona Ventura, con velleità artistiche si è man mano trovata invischiata in squallide vicende che l'hanno certamente danneggiata sia professionalmente che umanamente. Sara mi risponde al telefono con gentilezza e con una gran voglia di raccontare il suo presente ed i suoi progetti per il futuro. «Sto bene e cerco di curarmi, ho grandi cose in testa per il futuro».

Quali, per esempio?

«La mia vita ormai è cambiata ed io mi sento sicuramente meglio. Certo devo essere sempre sotto controllo perché quando ho dei momenti di depressione devo prendere qualche goccia di "Enn" per stare meglio ma sono certa che il peggio è passato».

Quando parli del «peggio» a cosa ti riferisci?

«A quei tanti anni in cui ho incontrato e frequentato persone sbagliate che mi hanno fatto prendere strade che non avrei dovuto percorrere».

Ti riferisci a quando hai fatto video hard e quando sembravi drogata?

«Vorrei dirlo una volta per tutte che io ho sbagliato; dico questo perché è sempre colpa di chi le cose le accetta di fare, esiste il libero arbitrio ed io ho erroneamente scelto ma...».

«Ma»?

«Mi sono trovata a percorrere strade che mai avrei percorso. Mi hanno plagiato attraverso la droga, ho subito delle violenze che non auguro al mio peggior nemico e tutto questo inconsapevolmente».

Perché «inconsapevolmente»?

«Perché quando facevo i filmati hard non ero in me. Non sapevo nemmeno ciò che stavo facendo e sono stati utilizzati contro di me e contro la mia dignità. Chiedo scusa perché non ho dato un bell'esempio alle persone che mi seguivano ma nella sostanza io ho fatto prima di tutto male a me stessa. Avevo tutto, bellezza, successo e un po' di soldi e alla fine ho rischiato di perdere tutto».

Come può essere accaduto questo?

«Semplicemente con le mie paure, le mie fragilità; temevo di non riuscire a stare nella scia del successo, di poterlo perdere ed è stato così che ho iniziato a inseguire le "sirene" sbagliate».

Cosa significa?

«Che mi si avvicinavano persone che, dapprima blandendomi con complimenti sulla mia avvenenza e sulla mia bravura, mi dicevano che una come me meritava di guadagnare molto di più e poi, pian piano, gettavano la maschera e mi facevano fare cose orrende».

Cose per cui la giustizia li ha puniti...

«Esattamente, la Giustizia esiste ed anche se con grande lentezza arriva e punisce chi si è comportato male».

Come sei riuscita ad uscire fuori da questo incubo?

«Innanzitutto devo ringraziare quando sono stata ricoverata in ospedale tra la vita e la morte. Mi hanno salvata ed ho capito che andando oltre avrei perso la vita. Vedevo gli occhi di mia mamma che è sempre stata al mio fianco, capivo e sentivo la sua disperazione. L'ospedale mi ha tolto dai giri brutti di droga e sesso. Poi piano piano l'amicizia, l'amore ed i valori della vita mi hanno fatto cambiare rotta ma è stato ed è ancora molto difficile è faticoso».

Parli di amicizia, ti riferisci a qualcuno in particolare?

«A Debora Cattoni la mia amica che mi segue anche come manager e che mi sta accanto in modo meraviglioso».

Come vi siete conosciute?

«Un giorno lei mi vide e mi propose subito un lavoro, io non ci credevo ero in un periodo terribile e questa proposta mi lusinga. Si trattava di essere la "testimonial" del "memorial Ferruccio Lamborghini", un evento in giro per il mondo ideato e organizzato da Debora. Così abbiamo iniziato a frequentarci e la nostra è diventata una amicizia straordinaria; Debora mi è sempre accanto e mi sta vicino anche in qualche momento di difficoltà».

Prima parlavi anche di amore, hai qualcuno al tuo fianco?

«Si chiama Angelo e lo è di nome e di fatto! Sono ormai tre anni che stiamo assieme e sono serena. Anche Angelo è arrivato in un momento dove nessuno si avvicinava a me. Chi si avvicinava lo faceva bullizzandomi e ricordando i miei film erotici. Era terribile. Angelo invece con grande dolcezza e garbo mi ha conquistata e adesso siamo indivisibili».

Parli di essere stata bullizzata, ma ancora adesso nei social e su internet ci sono filmati non proprio belli. Che ne pensi?

«Sto cercando di farli sparire anche alla luce delle condanne che ci sono state ma internet è un mondo pericolosissimo. Molte ragazze si sono tolte la vita per vergogna e credo che debba esistere anche legislativamente il diritto all'oblio. A volte la violenza della rete diventa insopportabile ed è come se ti marchiasse a vita. Davvero chiedo scusa a tutti per ciò che ho fatto, ma spesso lo facevo anche per paura».

Perché parli di paura?

«Perché quando finisci in alcuni giri ti minacciano e ci sono stati momenti in cui ho temuto anche per la mia vita, ma non voglio parlarne».

Hai mai pensato di volere il male di chi si è approfittato di te?

«No, anche perché quando le persone ti stanno per uccidere e magari ti salvi, io non riuscirei mai ad augurarle la morte. Sono una buona e voglio morire in pace con tutti ed andare in paradiso. Come dice Dio porgi sempre l'altra guancia, e non avere odio».

E la televisione?

«Vorrei tornarci anche per parlare del tema sociale chiamato "Donna" e della loro forza di quando si uniscono, e riescono a vincere grandi lotte. Nel mondo spietato dello spettacolo, mi ha aiutato a risorgere una donna».

Spesso però le donne tra loro sono molto competitive tra loro...

«È vero. Solitamente le donne sono gelose ed invece sono stata miracolata proprio da una donna, chi l'avrebbe mai detto? Oggi mi fido molto più delle donne che degli uomini. Gli uomini tendono sempre a volerti portare a letto, mentre se una donna ti vuole bene può vincere grandi battaglie al tuo fianco. Ho iniziato con una donna, Simona Ventura, ed oggi grazie ad un'altra donna sto rinascendo. Mi piacerebbe anche tornare in televisione con un mio programma e magari proprio al fianco di SuperSimo».

Ti senti fortunata adesso?

«Si perché sono piena di progetti per il futuro».

Tipo?

«Io e Debora stiamo preparando un disco il cui singolo sarà dedicato ad Angelo, il mio fidanzato».

Mi hanno detto che hai aperto una panetteria, è vero?

«Con la mia famiglia abbiamo dei muri di una vecchia panetteria e abbiamo messo dentro delle persone che la portano avanti; io sono una brava imprenditrice non dimenticarti che mi sono laureata in economia e commercio».

Ma come mai proprio una panetteria?

«La mia è una famiglia di imprenditori e mi piace questo mio ritorno ad una sana semplicità e concretezza».

Se dovessi dare dei consigli dopo tutto ciò che hai passato?

«Ragazzi non drogatevi, nemmeno uno spinello perché anche quello fa male; anche l'alcol se usato troppo può far fare cose che non si dovrebbero fare; seguite i vostri sogni ma attenti alle false promesse».

Giovanni Terzi

·        Sarah Slave.

Dagospia l'1 novembre 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. La Zanzara in calore per l'astro in ascesa del porno hardcore: l'efebica e italiana Sarah Slave, appena rientrata dai set più spinti dell'est Europa. Quanto paga essere estreme a Praga, il suo amore per la doppia anale, il timore per i grossi calibri degli attori: "Mi spaventavano, dico la verità." E ancora: cosa vuol dire essere switch, la scoperta del sesso anale e perché due è meglio di uno. E Giuseppe Cruciani col telecomando accende, in diretta e in favore di microfono, il plug anale che la giovane pornostar indossa durante la puntata. Allora, vi presento Sarah Slave video, 31 anni, piemontese, molto magra, quasi anoressica. Ha avuto un'educazione molto rigida, addirittura quasi religiosa e il risultato è che andata negli ultimi mesi a Praga e ha frequentato quelli che vengono chiamati i legal porno. Che cosa sono i legalporno, spiegalo a questa massa di ignoranti, Parenzo compreso, Gottardo compreso. Sarah Slave: "Legal porno è una produzione europea in cui si girano dei gonzo molto spinti, sessioni anali hard, cose molto estreme."

Sono felici a casa sua, i suoi genitori, i suoi parenti, di questo lavoro?

"Accettano, mi vedono felice, accettano bene quello che faccio."

Accettano. Non vedono queste porcherie?

"No, non le vedono."

Sarebbe un shock vederle.

"Sì, probabilmente sì".

Queste doppie anali, ho visto dei video, a te piacciono molto queste doppie anali, si chiamano DAP, double anal penetration. Li chiede il porno oppure piacciono anche a te, nella tua vita.

"Ovviamente il porno di un certo livello, richiede anche performance di un certo livello".

Quanto pagano per una scena di doppia penetrazione anale, dimmi.

"Per scene così, guarda, il minimo sono mille dollari."

Ah, capisco allora perché una va a Praga, perchè sono mille dollari per una scena così. Questo volevo chiederti: ma non fanno due piselli dentro il sedere?

"No, fa meno male che averne uno".

Ma come fa meno male, come mai questa cosa? Interessante. Non lo sapevo, spiegaci questa cosa.

"Innanzitutto il sedere è muscolo, bisogna allenarsi prima di fare una scena".

E come ti alleni?

"Con dei plug, con dei dildi, fare la porno attrice non vuol dire lavorare solo sul set, devi allenarti anche durante i giorni a casa. Se arrivi già allenata fa meno male che con due".

Ma un pensa già uno poi due, ma perché fa meno male?

"Perché uno entra molto di più, molto in fondo e può andare molto più veloce".

Ah ecco, ma due restano un po' appesi lì. Ho capito.

"Due entrano a metà, diciamo".

Se posso chiedere a Sarah Slave, una cosa. Ho visto che lei ha fatto delle scene con il mitico Dylan Brown, lei sarebbe in grado di distinguere bendata un uccello afro rispetto a uno bianco?

"No, perché non c'è molta differenza nelle dimensioni sul set: ho visto attori bianchi che hanno la stessa dotazione di attori neri."

La leggenda non è vera, non è reale quindi.

"Ovviamente ci sono molti attori neri che sono più dotati di quelli bianchi, ma non potrei riconoscere così, sentendo solamente".

Tu nel tuo lavoro scommetto hai unito e passione. Uno non fa queste cose se non gli piace. La tua passione per il sesso: tu quanto hai iniziato tutto quanto, la verginità quando l'hai persa e il primo sesso con più persone, quando?

"La verginità a 16 anni. Il primo sesso a 3 a 17 anni. Da lì ho sperimentato diverse cose."

E il sesso anale la prima volta, quando lo hai provato?

"Sesso anale un anno e mezzo fa."

Ma come un anno e mezzo fa? Cioè adesso fai le doppie anali e eccetera.. solo un anno e mezzo fa... cioé due anni fa tu eri vergine analmente?

"Sì, ho fatto un bel training".

E quando facevi le cose a 3 e a 4 come facevi, le facevi solo vaginalmente?

"Mani, bocca, tutto".

Tu sei fondamentalmente una slave, cioè ti piace essere dominata. E’ sempre così?

"In realtà sono switch, vuol dire che passo dall'essere dominata, all'essere dominante".

Una cosa interessante è questa, mentre tutto il mondo è preoccupato e da consigli su come fare il sesso e usare la mascherina, a me sembra che a tu te ne fotti e stavi a fare ammucchiamenti fino all'altro giorno a Praga in 3, 4, 5 6, non ve frega niente.

"Si ma siamo controllati comunque. Mascherina e controlli prima di andare sul set".

In questi set a Praga, Budapest, non c'è paura?

"No, ma c'è paura e ovunque teniamo le mascherine. Ma poi prima del set le togli e sul set ovviamente non si mettono".

Ma a te le dimensioni non ti spaventano? Ho visto dei filmati dove ci sono certe sberle, ragazzi, da 22-23-24-25, dimensioni notevolissime.

"Mi spaventavano, dico la verità. Prima di provarle, ero spaventata".

Ma tu riesci a godere solamente con la vagina adesso e non con le doppie penetrazioni anali?

"A me la doppia in vagina preferisco di no, non mi piace".

Perché la doppia in vagina no?

"Perché mi fa male, non mi piace una cosa che mi fa male. Mentre nel sedere godo, in vagina mi fa male e quindi non lo faccio".

E a lei piace così, che volete farci.

"Non faccio le cose che non mi piacciono".

Il pissing. Ti appassiona anche nel privato, perché tu fai pissing sul set, no?

"Allora, sì: a livello di performance faccio il pissing perché è comunque molto richiesto, perché comunque sui set professionali viene ora richiesto e nel privato, sì mi piace".

Ma anche con uno sconosciuto, fai del pissing?

"No, no. Quando lo faccio nel privato, di solito la persona con cui lo faccio ha comunque fatto dei test, per l'epatite c."

Senti, tu mi hai detto che giri alle volte con un vibratore.

"Sì con un plug vibrante".

C'hai la costituzione anche adesso?

“Sì, nel culo”.

Ah, dietro! Ma è uno di quelli che si azionano come?

"Sì, ha il telecomando a distanza".

A distanza, quello che hai in mano? Ma dammelo un attimo.

"Vuoi provare?"

Sì, si, si. Tutta la vita! Cioè tu in questo momento hai un plug nel culo? Perché ti piace girare con questo plug, giusto?

"Sì perché mi diverto".

Ma signora, che cosa vuol dire? Cioé se adesso io spingo qua, si aziona? Ma lo fai da sola?

"Di solito quando vado in giro con qualcuno, mi diverto a farlo. Da sola è un po'... triste".

Con chi, diciamo un tuo.. scopamico, un amico.

"Sì o anche un'amica".

Che aziona il coso. Adesso io lo aziono…

"Sì, lo hai azionato, si sente".

Tipo un tamagotchi. E come si sente, metto potenza uno, potenza due, così?

"Eh, si sente".

Si sente un piccolo rumorino! Ragazzi si sente. Avvicinati al microfono, per favore. Falla avvicinare, falle avvicinare il culo al microfono. Mamma mia, io che pensavo di aver visto e sentito tutto.

"Forse si sente".

Si si, sente... avvicinati bene, aspetta.

"BZZZ... BZZZ BZZZ BZZZ.... BZZZ.... BZZZ BZZZ BZZZ..."

Sembra un telefono, un telefonino.

"BZZZ... BZZZ BZZZ BZZZ.... BZZZ.... BZZZ BZZZ BZZZ..."

Un nokia. C'è un telefono che squilla, stanno chiamando in trasmissione. Una chiamata in arrivo.

"BZZZ... BZZZ BZZZ BZZZ.... BZZZ.... BZZZ BZZZ BZZZ..."

Il plug della signora Sarah Slave, signori! E con questo ragazzi dobbiamo chiudere, Italianiii!!

·        Sean Connery.

Marco Giusti per Dagospia il 26 agosto 2020. Non arriva benissimo ai suoi 90 anni il grande Sean Connery. Malconcio, malato. Ogni tanto si fa vivo con Ursula Andress, che gli è rimasta amica dai tempi di “Agente 007 – Licenza di uccidere” di Terence Young, il film che ha dato a entrambi l’immortalità cinematografica. Lei guadagnò 6.000 dollari e lui 20. 000 nel lontano 1962. Già al suo secondo James Bond i dollari erano diventati 250 mila, poi 600 mila, fino al milione per il suo unico western “Shalako”, che girò con una Brigitte Bardot un po’ depressa. Sono sempre andati d’accordo Ursula e Sean. Anche se lui sia sul set che nella vita faceva più comunella con gli attori maschi, come Richard Harris, col quale divide uno strepitoso film di Martin Ritt, “I cospiratori”, film sugli scioperi dei minatori irlandesi nella Pennsylvania del 1876, o come Michael Caine, col quale divide il capolavoro di John Huston “L’uomo che volle farsi re”, che era anche il suo film preferito di sempre. Mentre aveva una profonda venerazione per Dirk Bogarde, col quale recità in “Quell’ultimo ponte”. Come spesso capita nel cinema, però, non sai mai qual è la mossa giusta che ti può cambiare la vita. Per Sean il primo 007 fu un successo planetario, visto che quel ruolo lo fece diventare a breve l’uomo più sexy del secolo. E pensare che i produttori, Saltzman e Broccoli, avrebbero voluto al suo posto Cary Grant, il vero modello di 007 per Ian Fleming, autore della saga. Era d’accordo anche Hitchcock. Ma Cary Grant non si sarebbe mai legato a un film che prevedeva non un sequel, ma una serie di sequel quasi infinita nello stesso identico ruolo. Non faceva per lui. I produttori avrebbero anche voluto al suo posto Roger Moore, l’Ivanhoe della nostra infanzia televisiva, attivo in Italia ai tempi del peplum (“Il ratto delle sabine”), come lo era anche Terebce Young (“Orazi e Curiazi”). Inglese e non scozzese con qualche discendenza irlandese come Sean Connery. Ma troppo giovane per il ruolo, si dissero i produttori. O Richard Johnson, davvero perfetto come James Bond, ma legato a un contratto con la Metro. Impossibile da avere. Negandosi Johnson si dovrà accontentare poco dopo di un simil 007, “Più pericoloso del maschio”, eurospy diretta da Ralph Thomas dove recita il ruolo di Bulldog Drummond fra una serie di bellezze che spaziano fra Elke Sommer e Sylva Koscina. E si morderà le mani a vita. Credo. Perché poteva vantare una carriera alla Royal Academy, esperienze con John Gielgud, e un fisico piuttosto simile a quello di Sean Connery. Che poteva vantare un fisico da Mister Universo (ci provbò nel 1953), ma non era né bravo né elegante né inglese come lui. Aveva anche due tatuaggi, fatti a 16 anni prima di arruolarsi in marina, “Scotland Forever” e “Mum and Dad”. Coattello, quindi. Con un passato non da giovane attore, ma da tuttofare, con mille lavori e lavoretti. “Forse non sono un buon attore, ma avrei fatto peggio qualsiasi altra cosa”, dirà nel corso degli anni. Nato a Fountainbridge, nelle vicinanze di Edimburgo, Sean Connery non era di famiglia né nobile né altoborghese., come avrebbe dovuto essere James Bond. Il padre era stato fattore e camionista. Ovvio che non sapesse stare bene a tavola, tanto che Terence Young decide di non inquadrarlo mai con forchetta e coltello a tavola. Lo riveste con i suoi stessi abiti, il sarto era Anthony Sinclair di Saville Row, e gli impone di rimanere in piedi sorseggiando al massimo il suo Martini. Tutti avrebbero capito che era un cafone vedendolo a tavola. Inoltre, aveva già cominciato a perdere i capelli, tanto che sembra che in tutti i suoi sette 007 abbia sempre il parrucchino, anche se alcuni dicono che nei primi due titoli i capelli siano ancora i suoi. Il suo modello di attore era Stanley Baker, ottimo per ruoli da macho popolare, camionista, poliziotto, gangster, un Tom Hardy. Ma troppo duro per fare Bond. Sean Connery, come Stanley Baker, era bello, alto quasi 1,90 e molto, molto sexy. Aveva dovuto scegliere a 23 anni tra il rugby da professionista e il cinema. Ma sapeva che a 30 anni un giocatore di rugby era già finito, mentre al cinema c’era comunque più futuro. Il regista Terence Young, bon vivant e uomo di gran gusto, con la prima scelta dei produttori, che puntavano su Guy Hamilton, Ken Hughes o Bryan Forbes, lo aveva già avuto come attore qualche anno prima in un piccolo ruolo in “Action of the Tiger” (“Il bandito dell’Epiro”), avventuroso esotico di coproduzione anglo-spagnola con Van Johnson e Martine Carol protagonisti. Fu la visione di “Darby O’Gill e il re dei folletti”, sembra, a convincere tutti, regista e produttori. Sean Connery aveva qualcosa in più. Come Clint Eastwood, che esploderà poco dopo in “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone, Sean Connery riportava un po di sano machismo al cinema. Ironico, conquistatore, spaccone, letale. I loro film erano pieni di morti ammazzati e di battute. Cose che il cinema americano del tempo non osava più fare, ormai appiattito sui gusti televisivi degli attori con poca faccia o con star già vecchiotte come Van Johnson non proprio virili. In più Sean Connery aveva delle sopracciglia molto forti, un busto villoso che alle donne del tempo che lo rendevano estremamente attraente. Eravamo tutti innamorati della smorfia sotto il cappello di Clint Eastwood con le battute ciancicate da Enrico Maria Salerno e dalla smorfia di Sean Connery doppiato, per noi, da Pino Locchi. Il primo era lo Straniero, il secondo era Bond, James Bond. La vera differenza, sempre per noi, era che al primo le donne interessavano davvero poco, mentre il secondo le fulminava più o meno come i suoi rivali. Ma rimanevano modelli maschili fortissimi nel mondo dei telefilm e delle prime commedie disneyane. Perché sparavano, bevevano, fumavano, scopavano. E la facevano sempre franca. Assieme a Sean, allora, scoprimmo anche un modello di donna, Ursula, che non era quello dei film americani, ma una donna palestrata, sicura di sé, una statua, non certo la bambolina che volevano a Hollywood. Ci fu una storia? Chissà... Lei è sempre stata abbottonatissima. Ci furono, pare, con Jill St. John, Lana Wood, addirittura Magda Konopka, ma Connery, malgrado fosse James Bond non ebbe mai una fama di conquistatore fuori dallo schermo. Il matrimonio con l'attrice Diane Cilento, sposata prima con l'italiano Andrea Volpi, non ebbe lunga vita. Rispetto ai tradimenti si raccontano quelli di lei, non quelli di lui. Ne "La donna di paglia", girato nel 1963 a PInewood, gli scappa un ceffone che provoca un taglio al labbro della sua partner, Gina Lollobrigida, che risponde "ufficialmente" che "Il signor Connery è un caro compagno di lavoro ed è rimasto veramente male". Altro che conquistatore, insomma. Ricordo che quando vedevamo al cinema, negli anni ’60 ma anche dopo, dei film con Sean Connery fuori dal personaggio James Bond, avevamo dei problemi ad accettarlo. Esattamente come aveva pensato Cary Grant, quel ruolo lo avrebbe marchiato a vita. Ne "La collina del disonore" di Sidney Lumet litiga coi produttori perché non vuole il parrucchino che lo avrebbe troppo identificato con Bond e a Cannes, presentando il film, dice di essere già pronto a mandare in pensione 007. Ci vollero anni per farci digerire uno Sean Connery senza James Bond. Ma se ci fosse stato Rod Taylor al posto suo in "Marnie" il film non sarebbe stato certo diverso e la sua presenza, un po', spiazzava lo spettatore. D'altra parte, quando si tentò, già nel 1964, di costruire un altro James Bond, il produttore Kevin McClory, che aveva i diritti di "Thunderball", ci provò con Richard Burton, dopo aver sondato con Rod Taylor e Peter O'Toole, la cosa sembrò impossibile. La confusione era tale che quando Alberto De Martino girò il sotto 007 “O.K. Connery” con il fratello minore di Sean, Neil, molto meno bello, meno sexy, meno recitante e anche ridotto maluccio, pochi denti, niente capelli, niente fisico, l’idea era proprio di puntare col titolo al richiamo bondiano. Neil, quando qualche anno fa, venne al festival del giallo doiCourmayer, ricordò che a Sean non era affatto piaciuta questa intromissione nel suo mondo e lo pregò di non proseguire. Anche se, diciamo a cominciare dalla serie di film dove fu diretto da Sidney Lumet, “La collina del disonore”, “Rapina record a New York”, “Riflessi in uno specchio scuro”, o nel capolavoro di John Boorman, “Zardoz”, dove recita come fosse uno dei fratelli Hemswoth in versione mora e macha, o dai due grandi titolo di Richard Lester, “Cuba” e “Robin e Marion”, nel corso degli anni Sean Connery dimostrò di essere davvero un grande attore. Non solo James Bond. Resta da capire uno dei più misteriosi progetti di Sean Connery, che lo portò a incontrare in Toscana, nella sua villa, addirittura Licio Gelli per un film sulla sua vita. Il dato più incredibile è che i registi italiani contattati da Gelli, Frank Kramer alias Gianfranco Parolini e Guido Zurli non erano proprio all’altezza di Sean Connery. Ma credo che rimarrà un altro di quei misteri italiani mai risolti…

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 25 agosto 2020. «Agente segreto». Chissà cos’ha attraversato la mente di Sean Connery quando per la prima volta gli hanno raccontato il personaggio che avrebbe dovuto interpretare. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, nessun problema: nonostante la robusta corporatura (è alto 189 cm), dimostrava grazia nei movimenti. Inoltre c’era il fattore «incognito», che si legava molto al suo carattere: per tutta la carriera, infatti, è stato estremamente riservato e ancora oggi – che compie 90 anni e si è ritirato dalle scene – sulla sua vita vige il massimo riserbo. Insomma, James Bond gli calzava davvero bene: è stato il primo a vestirne i panni e tutt’ora – per una larga fetta di appassionati – ne è considerato il miglior interprete. Tra l’altro esiste un’altra bizzarra coincidenza che lega Connery a 007: appena sedicenne, quando lavorava in una drogheria di Edimburgo, portava spesso il latte al Fettes College, la scuola che frequentava l’agente segreto nei romanzi di Ian Fleming. Insomma, tutto sembrava scritto nel destino, anche se all’inizio in pochi avrebbero scommesso sul suo futuro di attore. Figlio di un camionista e di una cameriera, cresce in un sobborgo della capitale e da giovane prende lezioni di ballo, salvo poi decidere di arruolarsi in Marina. In breve tempo però viene rispedito a casa per colpa di un’ulcera, così inizia una serie di lavoretti per guadagnarsi da vivere: muratore, bagnino, lavapiatti, guardia del corpo, verniciatore di bare e persino modello di nudo all’accademia d’arte. D’altronde ha un fascino magnetico, tanto che nel 1953 va a Mister Universo in rappresentanza della Scozia e si classifica terzo. È questo il trampolino con cui salta nel mondo della recitazione: dopo alcune piccole apparizioni in spettacoli teatrali, infatti, nella seconda metà degli anni Cinquanta prende parte ad alcune produzioni tv con cui si guadagna una discreta notorietà. La svolta professionale arriva nel 1962 quando appunto viene scelto per il ruolo di James Bond: per ben cinque episodi diventa 007, da «Licenza di uccidere» a «Si vive solo due volte», poi – dopo aver mollato per evitare un’eccessiva identificazione – torna solo per «Una cascata di diamanti», nel 1971. La carriera di Connery però è anche altro: da «Marnie» di Alfred Hitchcock a «Riflessi di uno specchio scuro» di Sidney Lumet, fino alla grani interpretazioni di Guglielmo di Baskerville ne «Il nome della rosa» e del poliziotto Jimmy Malone in «The Untuochables – Gli intoccabili» che gli vale l’Oscar. È la consacrazione: gira una serie di film diventati cult in tutto il mondo, seppur sul braccio destro campeggi un tatuaggio con scritto «Scotland Forever», che testimonia il suo intramontabile orgoglio scozzese (è stato sostenitore dell’indipendenza). Un tatuaggio che, proprio come quello dedicato ai genitori, chiede di tenere nascosto. Tutto ciò che riguarda la sua vita privata, infatti, cerca di proteggerlo da riflettori e telecamere: è stato sposato due volte, la prima con la collega australiana Diane Cilento – dal ’62 al ’73 – con cui ha avuto il figlio Jason (53) che a sua volta la reso nonno nel 1997 quando è nato Dashiell. È convolato di nuovo nozze nel 1975 con la pittrice franco-algerina Micheline Roquebrune e di loro, a parte alcune comparsate sui red carpet, oggi si sa poco o nulla. Agente segreto, per sempre.

Sean Connery, 90 anni del primo James Bond, il più amato e il più ironico. La sua misurata ironia spiega anche perché l'attore scozzese sia ancora oggi lo 007 preferito dal pubblico. La vena umoristica riemerge in molti dei suoi film, da Highlander a Indiana Jones. Roberto Nepoti il 24 agosto 2020. Nell'autunno del 1962 gli spettatori britannici poterono vedere, a distanza di pochi giorni, due versioni molto differenti di Sean Connery. Sugli schermi, infatti, l'attore scozzese (che il 25 agosto compie novant'anni) vestiva per la prima volta, in Agente 007 licenza di uccidere, lo smoking del personaggio che lo avrebbe reso celebre; ma era anche Flanagan, soldato semplice della 3° Divisione di fanteria sbarcato sulle coste della Normandia assieme a Henry Fonda, John Wayne, Robert Mitchum, Richard Burton e mezzo Olimpo del cinema nel kolossal bellico Il giorno più lungo. Apparentemente i due character avevano pochi punti in comune: campione di raffinato aplomb il killer di Ian Fleming; proletario e chiacchierone Flanagan, una specie di miles gloriosus che scende dall'anfibio minacciando i tedeschi ("Scappate, pezze da piedi. È tornato Flanagan"), ma poi finisce sott'acqua e teme di annegare ("Che porcata è?" esclama sputando "Ti affogano prima di darti il tempo di combattere"). Flanagan, insomma, è un personaggio comico: l'unico, anzi, dell'epico e magniloquente dramma bellico di Ken Annakin. Eppure, a guardar meglio, i due Connery non sono così agli antipodi. Anzi. In tutta la serie dei film di 007 Sean, pur in modo più sottile e ammiccante, condisce le proprie interpretazioni di umorismo. La sua bella faccia sprizza ironia, anche in presenza delle donne più attraenti e dei nemici più pericolosi. Ed è proprio questo atteggiamento, da superman che non si prende troppo sul serio, a insaporire avventure "a geometria variabile" che - come osservò a suo tempo Umberto Eco - in fondo non cambiano mai: cambiano solo l'antagonista e l'ordine degli episodi. La sua misurata ironia spiega anche perché Connery resti a tutt'oggi (vedi il recentissimo sondaggio della rivista Radio Times) lo 007 preferito dal pubblico: laddove, tra i suoi epigoni, un Roger Moore esagera in ammiccamenti, un Pierce Brosnan o un Daniel Craig sono troppo seri. Però l'umorismo di Connery non è solo quello prestato al suo alter-ego: anche quando interpreta personaggi diversi dall'agente con licenza di uccidere, l'attore non si nega (quasi) mai un tocco d'irrisione e divertito distacco. Ancora in piena "èra Bond", Sean compare in alcuni film fatti apposta per spremere il capitale di carisma acquisito con 007. In Una splendida canaglia (1966) esagera un tantino in gigioneria nella parte di Samson Shillitoe, poeta newyorkese sociopatico che non sa resistere alle tentazioni (le donne gli crollano addosso al primo sguardo) e finisce per sottoporsi a un esperimento di lobotomia. Mentre in Shalako (1968), curioso western di produzione europea, è un improbabile ex ufficiale di cavalleria filo-indiano che parla con accento scozzese, sfoggiando una sicurezza e un tocco di umorismo sardonico da James Bond della prateria. Dopo il (quasi) definitivo divorzio da 007, la vena umoristica dell'attore riemergerà in film e personaggi tra i più disparati. Basti pensare a Zed, il "bruto" del distopico Zardoz che si fa beffe della sofisticata Consuela sogghignando sotto i grossi baffi. O al Robin Hood anziano e acciaccato del Robin e Marian di Richard Lester, il quale continua a vaneggiare di imprese gloriose e vittorie che ormai non può più permettersi. O all'arguto e affascinante Juan Sanchez Villa-Lobos Ramirez, mèntore del protagonista della saga Highlander, un immortale che ne ha viste troppe per non sorridere di sé e degli altri. O, ancora e soprattutto, all'ineffabile professor Henry Jones sr., eccentrico e distratto papà dell'archeologo-avventuriero di Spielberg, che in Indiana Jones e l'ultima crociata si produce in autentici duetti da commedia con Harrison Ford/Indy. Certo, si potrà obiettare che spesso l'attore interpreta personaggi eroici, impegnati in grandi avventure e via via più carismatici col procedere dell'età: pensiamo al "Raisuli", il condottiero berbero del Vento e il leone, ad esempio, o all'incorruttibile poliziotto irlandese Jimmy Malone (che gli valse l'Oscar come miglior attore non protagonista) di The Untouchables - Gli intoccabili. Eppure anche ai "caratteri" più monolitici della sua filmografia Connery presta sempre un tocco (auto)ironico, che gli increspa, a tratti, le labbra sotto la barba o i baffi ormai striati di bianco. Lo humour, però, dà il suo meglio quando la derisione trascolora nell'autoironia. È il caso dei numerosi film in cui, ormai maturo, è protagonista di love story con donne molto più giovani: Michelle Pfeiffer (La casa Russia), Brooke Adams (Cuba), Catherine Zeta-Jones (Entrapment). Nei soggetti di questo tipo l'attore assume uno sguardo un po' d'intesa, un po' di scusa: ma è lo sguardo di chi sa bene che, in fondo, se lo potrebbe permettere. L'autoironia non si limita al circuito dello schermo; e lo certificano alcune delle sue più celebri battute. Come quando affermò: "Forse non sono un buon attore, ma qualsiasi cosa avessi fatto, sarei stato peggio". O quando (era il 1999), proclamato dalla rivista People "l'uomo più sexy del secolo", ai giornalisti che gli chiedevano un commento rispose con humor scozzese: "Non saprei. Non sono mai stato a letto con un uomo di sessant'anni, calvo". Se Connery predilige l'ironia, è altrettanto vero che non ha mai amato gli eufemismi o le mezze parole. Basti ricordare che, nel 2005, dichiarò a un giornale neozelandese di volersi ritirare dallo schermo perché "stufo degli idioti". Proposito rigorosamente mantenuto.  

·        Selena Gomez.

"Justin Bieber ha abusato emotivamente di me". Le rivelazioni di Selena Gomez. In una recente intervista Selena Gomez, velatamente, ha ammesso che ha subito violenze psicologiche quando era insieme a Justin Bieber, e ora racconta tutto in un nuovo album. Carlo Lanna, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. La storia d’amore tra Justin Bieber e Selena Gomez è finita due anni fa. Lui è andato avanti con la sua vita, sposando in grande segreto la modella Hailey Baldwin, lei sta affrontando ancora il dolore di una rottura che proprio non riesce a digerire. Oltre a questo, Selena Gomez ha dovuto affrontare una grave malattia (ha il lupus e ha dovuto subire un trapianto di rene) e ha cercato di mettere in ordine i cocci della sua vita. È single ma pare essere felice di esserlo. La musica è stata un toccasana, un modo per raccontare i suoi dubbi e tutte le sue pare. E l’uscita di "Rare", il suo nuovo album di studio, è la prova lampante di tutto quello che ha dovuto subire negli ultimi due anni. L’album di Selena Gomez è forte come un pugno nello stomaco, perché anche se non cita testualmente il nome del suo ex, l’artista racconta di pari passi le violenze emotive che ha subito da Bieber. "Rare" è come un diario, in cui la Gomez ha unito pensieri e parole di una lunga parentesi di vita. E lo conferma anche in una recente intervista che ha rilasciato alla National Public Radio, in cui come ospite, ha presentato la sua ultima fatica discografica. Il tira e molla con Justin Bieber ha ispirato la maggior parte delle tracce contenute. "Questo per me vuole essere un album di rinascita – afferma Selena Gomez – Non ho nessun risentimento nei suoi riguardi. Ho cercato solo di affrontare i miei demoni, perché ho capito che è molto pericoloso restare vittima di una violenza psicologica. E ora voglio gridare al mondo quanto può essere difficile superare una violenza di questo tipo". Ed è proprio nel testo di "Love you to Love Me" che la Gomez affronta tutto il dolore di una perdita scottante. "È una cosa che ho capito diventando adulta. Non voglio passare il resto della mia vita a piangermi addosso. Sono orgogliosa di poter dire che sono stata forte abbastanza nel trovare la mia strada e combattere il dolore che avevo dentro – e aggiunge -. Ho accettato tutto quello che è successo. Non è una canzone di odio, ho cantato ciò che mi sentivo di re. Ho avuto momenti belli e momenti brutti, come tutte le storie d’amore". Le parole di Selena sono comunque rivolte al suo ex. Lo ha confermato anche in un post su instagram quando ha presentato la copertina del suo album.

·        Serena Grandi.

Da corriere.it il 23 settembre 2020. Due anni e due mesi di reclusione all’attrice Serena Grandi per il fallimento del ristorante aperto a Borgo San Giuliano di Rimini, «La locanda di Miranda» nel 2013. La condanna ieri in Tribunale a Rimini, come riportano i quotidiani locali, è maturata per il reato di bancarotta con distrazione di beni strumentali della società Donna Serena srl, e le irregolarità sui libri contabili. Aperto nel 2013 dopo la partecipazione della Grandi al film premio Oscar «La grande bellezza» e chiamato come il personaggio da lei interpretato nel film di Tinto Brass, «Miranda», il ristorante dopo un anno di gestione aveva chiuso senza pagare i dipendenti. Nel 2015 la dichiarazione di fallimento e la successiva indagine della Procura di Rimini, coordinata dal sostituto procuratore Luca Bertuzzi che ha quindi chiesto ed ottenuto la condanna dell’attrice.

Serena Grandi condannata per non avere pagato i dipendenti: "Mio figlio ha pensato di farla finita". Due anni e due mesi la condanna per Serena Grandi, che a Live non è la d'Urso racconta la sua verità e anche tutto il dolore che questa vicenda le ha portato. Roberta Damiata, Lunedì 28/09/2020 su Il Giornale. “Condannata per la sua ingenuità”, così la pensano i due opinionisti di Live Non è la d’uso sulla vicenda che vede coinvolta Serena Grandi condannata a due anni e due mesi per il fallimento del suo ristorante “La locanda di Miranda” e per non aver pagato i suoi dipendenti, oltre ad aver sottratto beni dal suo ristorante. Le accuse sono gravi, ma Serena Grandi è molto arrabbiata per questa vicenda perché non si ritiene affatto colpevole o almeno non per come è stata condannata. In quel ristorante ha messo tutta la sua vita e quella di suo figlio che in un video racconta cose molto forti. “Sono cinque anni che non parlo di questa cosa - dice il ragazzo mentre passeggiando per Rimini e arriva nell’ex ristorante di sua madre - qui dentro abbiamo passato tanto tempo ed è successo di tutto. Avevamo aperto questo posto che doveva essere il nostro ritiro ma forse abbiamo sottovalutato la cosa. Io in questa cucina in un momento di disperazione ho pensato anche di farla finita”. Serena in studio dice che non è vero che non ha pagato i dipendenti, anzi, forse ne ha ‘dimenticato’ uno solo a cui non ha pagato una settimana. “Un ex galeotto “, dice. Il resto delle persone sono state tutte pagate e a dimostrazione arriva anche la dichiarazione di una sua ex dipendente. La cosa più sorprendente è comunque che Serena, nel periodo della sua vita in cui ha combattuto con un tumore al seno, ha praticamente lasciato in mano agli avvocati questa scottante situazione che però l'ha portato alla fine a venire condannata: “Io in quel periodo avevo un altro problema a cui pensare un tumore al seno di 5 centimetri. Poi ovviamente se qualcuno mi fotografa mentre porto via uno stendino da casa mia e dice che sono cose che ho sottratto al ristorante non è colpa mia”. Un altro particolare è la scomparsa dei libri contabili che non sono mai stati trovati: “Un mio inserviente mi ha detto di averli buttati io cosa ci posso fare?”. Ovviamente questa è una cosa grave perché la legge non ammette ignoranza e proprio per questo motivo gli opinionisti presenti l’accusano di troppa leggerezza. Con tutti i beni pignorati la situazione non è semplice per lei, che comunque aveva investito molto anche a livello emotivo: “Volevo che fosse il mio buon ritiro”.

Brunella Bolloli per Libero Quotidiano il 24 settembre 2020. Serena ha staccato il telefono e non smette di piangere. Ha detto no all'ennesima richiesta di raccontare nel talk-show più seguito il suo ultimo guaio con la giustizia. «Non mi sento, non oggi, forse domani». La grande bellezza sfiorita con il tempo, a causa di un passato non sempre limpido, di una malattia contro cui sta lottando e di un presente che la riporta sui giornali e in televisione a rispondere del suo nuovo problema: la condanna a due anni e due mesi di reclusione per bancarotta, distrazione di beni e irregolarità contabili. «Stronzate», è stata la reazione a caldo. Poi, però, si è chiusa a riccio con il suo dolore. Per Serena Faggioli in arte Grandi è durato poco il sogno di reinventarsi una vita con la "Locanda di Miranda", il ristorante aperto nel 2013 proprio sull'onda del successo del film premiato con l'Oscar "La Grande Bellezza". Nella pellicola di Paolo Sorrentino l'attrice bolognese ha recitato in un cameo: tanta, generosa, quasi felliniana, tragicamente sorridente. Tutta vestita di bianco e oro, interpretava Lorena, una diva sul viale del tramonto e per un momento, forse, ha temuto che il regista avesse scelto lei perché la considerava tale. Ma no: «Io sono la musa di Pupi Avati e Sorrentino lo sapeva, mi ha scelto perché mi voleva e il cinema mi continua a chiamare, e se non è il cinema è la televisione e se non è la televisione è il teatro, non smettono mai di cercarmi. Ho lavorato con i migliori». Eppure, sette anni fa, in quel momento felice dopo una fase di buio, da brava emiliana, "Serenona" ha deciso di dedicarsi a una delle sue passioni, la cucina, così con la sua società Donna Serena srl ha aperto la "Locanda di Miranda" a Borgo San Giuliano, uno degli angoli più suggestivi di Rimini che affaccia sul Ponte di Tiberio. Specialità: linguette agli scampi e agnolotti in brodo, menu locale con incursioni nei sapori napoletani e romani, il pesce sempre fresco. Sei persone assunte, tre in sala e tre in cucina, il figlio Edoardo, attaccatissimo alla mamma, a dare una mano nell'attività e il desiderio di placare, magari dietro ai fornelli, certi eccessi di gioventù quando Serena era, appunto, la Miranda proiettata da Brass nell'olimpo delle sex-symbol, successo immediato e fama travolgente, il sogno erotico degli italiani. Tra gli anni Ottanta e i Novanta la Grandi, bellissima, è al top della carriera, i soldi non le mancano e un giorno si ritrova sotto casa persino una Ferrari infiocchettata, dono di un innamorato che lei non degna di uno sguardo. Il 1987 è l'anno di "Rimini Rimini" dove in una scena cult seduce Paolo Villaggio, nello stesso periodo incontra Beppe Ercole, 25 anni più di lei, l'amore della sua vita da cui nasce Edoardo. Poi la passione si esaurisce. Intanto Serena cresce suo figlio, va avanti, ma nel 2003 resta invischiata in un'accusa di spaccio di droga, sconta i domiciliari dalla madre, la sorte sembra accanirsi. Prosciolta dall'inchiesta, si rialza, e i registi la chiamano perché è brava. Nel 2017 la corteggiano i reality, fa il Gf, prima ancora partecipa a "Il ristorante" con Antonella Clerici. In mezzo c'è anche il tempo per scrivere un romanzo, L'amante del federale, e per dichiararsi leghista. Apre la "Locanda" ma la felicità tra i tavoli sfuma presto. I dipendenti l'accusano di non essere stati pagati, per la procura di Rimini non ha conservato le scritture contabili come impone la legge. All'attrice viene contestato anche il furto delle stoviglie e lei sbotta: quante storie per quattro padelle. Prima s' infuria, poi dice di avere subìto un furto. C'è stato «uno smanazzamento», spiega chi le è vicino, «Serena è vittima di questa storia. Ci sta rimettendo la salute». Lei su Instagram posta una frase di Alda Merini: «Io la vita l'ho goduta perché mi piace anche l'inferno della vita e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l'ho pagata cara».

Serena Grandi: "Le influencer? Una volta le chiamavano zoccole." Serena Grandi attacca duramente Asia Gianese durante la puntata di Live! Non è la d'Urso e sostiene che tutte le influencer non siano altro che "le prostitute di un tempo". Luana Rosato, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Dichiarazioni al vetriolo di Serena Grandi nei confronti di Asia Gianese e di tutte le sue colleghe influencer, che l’attrice ha paragonato alle meretrici di un tempo. Una delle ultime interviste della Gianese ha fatto molto discutere e, dopo essere stata ospite di Live! Non è la d’Urso per ribadire di aver rifatto il seno – pagato da un uomo – per l’utilizzo artistico del suo corpo, diventato primo strumento attraverso il quale guadagna molto bene, la giovane influencer è tornata ospite del salotto serale di Barbara d’Urso per confrontarsi con alcuni personaggi noti. Davanti a lei, Serena Grandi che, così come molti volti dello spettacolo italiano che hanno fatto la gavetta e che sono lontani anni luce dalle nuove professioni sviluppatesi grazie ai social, si è scagliata contro Asia usando parole molto dure. “Una volta si chiamavano zo..ole, ora influencer!”, ha sbottato l’attrice, ribadendo per ben due volte un concetto che ha fatto strabuzzare gli occhi alla Gianese e ha richiesto l'immediato intervento di Barbara d'Urso. “Non è vero! Non è la stessa cosa!”, ha voluto precisare Asia, mentre la Grandi continuava ad esternare il suo pensiero impopolare. Ad attaccare la influencer c’è stato anche Daniele Interrante che, pur non condividendo il pensiero di Serena, ha accusato la Gianese di essere diventata famosa non per la sua bellezza, ma per aver commesso un reato. Ciò a cui si riferisce l’opinionista è il video diventato virale in cui la ragazza si immortalava mentre arrivava sul sagrato del Duomo di Milano con l’auto. “A me influenza il pensiero che qualcuno ti possa seguire perché commetti dei reati – ha precisato Interrante - .Il problema tuo è che commetti reati e c’è gente che ti segue!”. Passando in rassegna, poi, alcuni degli scatti più sensuali pubblicati da Asia Gianese sul suo profilo Instagram, Serena Grandi è tornata all’attacco. “Mi hanno massacrata per anni per aver fatto un film d’arte, Miranda...”, ha fatto presente l’attrice, mentre Daniele Interrante le ricordava che è stata per anni “un sex symbol” non paragonabile in alcun modo alla giovane influencer. La Gianese, però, non si è fatta assolutamente intimidire dalla Grandi e ha fatto sapere a tutti che anche lei ha intenzione di diventare esattamente come Serena: un “sex symbol”.

·        Serena Rossi.

I mondi di Serena Rossi: "Io tra musica e cinema. Sanremo? Ci tornerei". L'attrice e cantante al Giffoni Film Festival: "La Bertè mi abbracciò dopo la fiction su Mimì". Paolo Giordano, Giovedì 27/08/2020 su Il Giornale. Difficile pensare a una sola Serena Rossi. Ce ne sono tante, l'attrice, la cantante, la presentatrice. Insomma a 35 anni (che compirà proprio lunedì 31 agosto) è uno dei nomi sul quale puntare per il futuro, se non altro perché lei, napoletana verace, ha idee chiare e forza di volontà: «Ho iniziato a seminare lungo la strada quando avevo soltanto quattordici anni senza perdere mai la speranza e ora raccolgo i frutti di un affetto gigantesco esploso intorno a me», ha spiegato alla platea del Giffoni Film Festival in scena in questi giorni. E, in fondo, i ragazzi che l'hanno applaudita in questo evento ormai famoso in tutto il mondo sono il pubblico ideale per un'artista davvero contemporanea nel senso che sa andare oltre alle barriere di genere. Ha iniziato con il musical, poi si è divisa tra cinema e televisione ma pure musica, passando da Un posto al sole alla vittoria a Tale e Quale Show, dalla condizione dell'Eurovision Song Contest fino alla partecipazione al Festival di Sanremo con il sempre sorprendente Renzo Rubino. Ha fatto teatro (bello il suo Rugantino con la regia di Enrico Brignano nel 2013) e ha pure doppiato Anna in Frozen. In poche parole non si è fatta mancare nulla. E qui a Giffoni è in sostanza uno dei volti del nuovo corso del Festival voluto, fortemente voluto e sempre diretto per cinquant'anni dal visionario Claudio Gubitosi. Dopo aver ospitato superstar come Richard Gere o Robert De Niro, il Giffoni ha allargato i propri orizzonti per diventare sempre di più una autentica palestra educativa per i ragazzi. Tanto per dire, in questa edizione sul palco è salito anche Paolo Ascierto, oncologo e ricercatore dell'Istituto nazionale Tumori Pascale di Napoli, uno degli uomini simbolo dell'emergenza Covid: «Il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno, ma con passione e determinazione lo sconfiggeremo», ha spiegato ai ragazzi. Di fronte a questa platea, che sconfigge i luoghi comuni sui giovani svogliati e inconcludenti, Serena Rossi ha dato la propria divertente lezione su come partire dal niente e arrivare a tagliare traguardi importanti. «La mia strada è iniziata con il teatro, che mi ha insegnato il rispetto per l'altro», ha riassunto prima di confermare il proprio estro trasversale: «Mi sono sempre battuta per la mia libertà. Quando ho iniziato, tutti mi mettevano davanti a un bivio: scegli questa strada oppure l'altra. Ma perché scegliere? Sento che posso esprimermi in più campi, ognuno in fondo prende le strade che sente più proprie». Sono frasi che i ragazzi accolgono con entusiasmo perché, nell'epoca della ultra-specializzazione, tanti si sentono compressi in ambiti forse troppo ristretti. «In ogni forma d'arte c'è un pezzo di me e di quello che sono, non saprei mai scegliere tra il cinema e il teatro perché sono due mondi diversi ma comunque complementari. Sul set c'è l'attesa di girare le scene, a teatro c'è l'immediatezza della risposta della sala. In ogni caso, l'odore del legno sui palchi di teatro, e gli occhi della platea puntati addosso, mi spaventano ma mi riempiono allo stesso modo». Di certo, il grande pubblico l'ha apprezzata in uno dei ruoli più difficili in circolazione, ossia quello di Mia Martini nel film tv Io sono Mia dell'anno scorso. «Recitare lì è stata una delle emozioni più forti della mia vita, ma anche un atto d'amore, un desiderio di ridare qualcosa a un'artista cui era stato tolto tanto ingiustamente e inspiegabilmente», ha spiegato davanti ai ragazzi confermando di aver «studiato ogni cosa con intensità». Poi, quando il film è stato presentato al pubblico, «la sorella di Mia Martini, ossia Loredana Berté, mi è venuta incontro e abbiamo pianto strette in un abbraccio. Lei mi ha sussurrato che si vedeva quanto davvero avessi voluto bene a Mimì». E che la musica sia indiscutibilmente un filo conduttore della carriera di questa napoletana vera e verace lo conferma non soltanto il debutto del 2002 come cantante nel musical di Mattone e Vaime C'era una volta, ma anche la partecipazione al Festival di Sanremo 2018 per duettare con Renzo Rubino nel brano Custodire. «Non so tra cinema e musica chi mi abbia davvero rubato il cuore», spiega confermando che non si mette limiti: «Adesso sono sul set di una serie per Raiuno, Mina Settembre, poi ho fatto un altro film che andrà alla Mostra del Cinema di Venezia, Lasciami andare». E il Festival di Sanremo?: «Mi emoziona, dà una carica incredibile, Se me lo chiedessero, tornerei subito all'Ariston perché l'adrenalina è impagabile». Capito che forza della natura?

·        Sergio Castellitto.

Dagospia il 26 gennaio 2020. LA DICHIARAZIONE D’AMORE DI CASTELLITTO ALLA MOGLIE DA DIACO A “IO E TE DI NOTTE” .

DIACO: Sergio Castellitto! Che privilegio! 

CASTELLITTO: Sono davvero emozionato, sai? Intanto, per questo regalo che mi hai fatto della ricostruzione della mia storia (ndr si riferisce alla scheda filmata del suo profilo),  che non è soltanto una storia professionale ma è anche una storia intima, umana in qualche misura; e poi, per questa meravigliosa cosa che hai fatto vedere all’inizio della trasmissione (ndr si riferisce al video della canzone Monsters di James Blunt dedocata al padre malato). Io ti riconosco un coraggio abbastanza raro nella fruizione televisiva generale e generica. Tu fai una cosa molto inconsueta: chiudi gli occhi! Ed è molto interessante questo. Chiudi il contatto televisivo con la tele-visione, che è una cosa molto sorprendente e anche molto magnetica. E poi questa magnifica canzone, assolutamente da riascoltare, lascia senza parole.

DIACO: Sai, la vita è armonica... non è un caso che tu sia ospite in questa puntata. (…) Vorrei raccontare un aneddoto. Moltissimi anni fa in una pizzeria un oste mi ha regalato un piccolo coniglio. In seguito, ci trasferimmo in Toscana a casa della signora Nelli. In quella casa c’erano Sergio, sua moglie e uno dei suoi figli: Pietro.  Abbiamo trascorso una giornata meravigliosa, e ho visto con quale premura e ironia tu ti relazionavi con Pietro… insomma, tu il papà lo fai! È un ruolo che conosci bene.

CASTELLITTO: Sì, lo faccio e lo faccio anche grazie a una madre straordinaria, che non è soltanto la madre che ho avuto io, ma anche la donna che ho sposato, Margaret (Mazzantini). La nostra è una storia abbastanza unica. Siamo due artisti con una forte individualità. Ognuno ha preso un percorso e ha avuto anche la fortuna di avere successo: io nel mio mestiere di attore e poi di regista, e Margaret che è diventata la scrittrice che tutti sappiamo. Eppure non abbiamo mai rinunciato a questa umiltà dell’amore, a questa attenzione a quel fuoco che abbiamo acceso quando abbiamo cominciato a fare i figli – che poi sono venuti in quantità spropositata rispetto all’abitudine! – e che sono diventati il vero film, il vero libro che lei ha scritto e che io, forse, ho diretto e recitato. Questa sua presenza è stata la vera lezione, lezione che non impari mai fino in fondo. Un’altra cosa che ho imparato nella mia storia di padre è che non sei mai un padre soltanto: sei un padre a vent’anni, poi sei un padre a trenta, e a trent’anni sei nevrotico perché vuoi realizzarti nel tuo mestiere, vuoi raggiungere i tuoi risultati! Poi sei un padre a quaranta, sei un padre a cinquanta, e purtroppo pure un padre a sessanta per quello che mi riguarda, nel senso che cominci ad allontanare le cose, no? Anche fisicamente sei diverso. Giochi a pallone col tuo primo figlio, con l’ultimo non ce la fai a stargli dietro. Ecco, questo è il mestiere di padre.

DIACO: Hai citato prima la tua mamma. Vorrei far vedere una foto della tua mamma con tre dei tuoi figli, Pietro, Maria e Anna, non c’è Cesare il più piccolo. Che mamma è stata?

CASTELLITTO: Era una mamma che non mi ha mai detto ti amo, non mi ha mai detto ti voglio bene, non perché non me ne volesse ma perché non era nella sua cultura, nel suo costume di donna molto semplice, ma mi ha detto ogni giorno: “Hai mangiato? Hai fame?”. Quello era il suo modo di stare vicino ai figli, di amarli e così via. Una delle cose di cui vado più fiero è che mia madre ha avuto il tempo di prendere in braccio tutti i miei figli… fino al liceo! Pietro quando usciva dal liceo non veniva a casa nostra, andava a casa sua, e mia madre gli cucinava delle cose di martedì, di mercoledì veramente imbarazzanti: l’amatriciana, etc… ogni tanto sorprendevo la faccenda raggiungendola a casa. Le chiedevo: “E Pietro?”. E lei: “Sta riposando!". Ed io: “Come sta riposando? Deve fare i compiti!”. E lei: “Vabbè, ma ha mangiato la amatriciana…”. Capito? Straordinaria! (ndr RISATE E APPLAUSI) Il cibo come nutrizione, come amore, come attenzione, come accudimento. Abbiamo avuto la fortuna che tenesse in braccio anche Maria, Annetta… Cesare non era ancora nato. L’assenza di Margaret (ndr intende nella foto sul led) era giustificata dal fatto che in quei giorni Margaret stava vincendo il Premio Strega per Non ti muovere. Questa foto che vediamo è una foto di Chieregato, un grandissimo fotografo.

DIACO: Una cosa che ho sempre notato di voi due è che avete sempre lavorato per sottrazione. Ci siete, ci siete poco, ci siete esclusivamente quando dovete parlare del vostro lavoro. A volte accettate, a volte no. C’è una pagina televisiva bellissima del vostro sentimento e mitezza (…) mi riferisco al concerto del 1 maggio. Di solito il conduttore ha toni molto alti quando è in piazza. Tu e Margaret avete avuto…

CASTELLITTO: Abbiamo cercato di sottrarre. Io poi lessi due pagine di Venuto al mondo… sembrava uno strano conflitto di interessi…mi avevano anche rimproverato…

DIACO: …di cosa? 

CASTELLITTO: Questo è un paese che perdona tutto meno il talento. È disposto a perdonare il successo, ma il talento no. Perché il successo può arrivare anche a persone che non lo meritano, ha una sua casualità.

DIACO: Nelle beatitudini (ndr le Beatitudini Evangeliche) c’è quel passaggio meraviglioso: “Beati i miti”. La mitezza oggi è uno dei valori più rari e sconosciuti. Se non sbaglio deriva dal fatto che tu eri un bambino semplice e timido…

CASTELLITTO: Quasi tardo si potrebbe dire… (ndr RISATE E APPLAUSI)  Tra l’altro mia madre stessa me lo ricordava con molto affetto: “Eri un po’ tonto, stavi là!” Bastava mettergli una banana in mano e lui se ne stava per ore a mangiare questa banana. Hillman, che è stato un grande psicanalista, raccontava del grande torero spagnolo, Dominguín, il quale da bambino aveva una paura terribile di relazionarsi agli altri. Il modo di proteggersi era di nascondersi dietro la gonna della madre. Non lo sapeva ancora ma aveva incontrato il suo destino. Il futuro di quel grande torero sarebbe stato quello di fare il mestiere più coraggioso del mondo con, come si chiama, la mantilla? che era la gonna della madre. Ognuno deve incontrare un destino.

DIACO: Questa tua caratteristica ti rende unico nel panorama cinematografico, anche nella comunicazione esterna. (…) Questa mitezza ti ha portato a sottrarti anche alla dittatura dei social. Io la trovo una caratteristica eccezionale del tuo lavoro.

CASTELLITTO: Una delle più grandi libertà che ho raggiunto è quella di non essermi instagramizzato, né tweetizzato, né facebookato. Per fortuna anche i miei figli sono abbastanza lontani da questo mondo, che io credo finirà. Il teatro sta lì da 4.000 anni come comunicazione… c’è ancora un fesso che esce di casa e cerca un parcheggio che non trova per andare a vedere un altro fesso sul palcoscenico che parla. Il cinema è quasi da dilettanti, sono 100 anni che stiamo facendo cinema, c’è tempo. Ma questa velocità della comunicazione, questo racchiudere l’emozione dentro poche righe, poche parole, io non credo che abbia un grande futuro. Io credo che ci sarà bisogno di tagliare molti alberi e di produrre ancora molta carta. Per questo bisogna piantarne altrettanti. Noi avremo bisogno di parlare di più, noi avremo bisogno di scrivere di più. La voce ha un odore mentre quello è un mondo inodore, digitalizzato, chirurgico quasi, sotto vetro. Tant’è che il mondo social riesce a comunicare più facilmente l’odio dell’amore. Ci hai fatto caso?

DIACO: Mi farebbe piacere che queste parole di Castellitto venissero fatte ascoltare agli adolescenti. Perché non è vero che gli adolescenti sono iconograficamente come ci vengono raccontati dai media. Non tutti sono schiavi di questa dittatura digitale. (…) Vorrei farti vedere un Italia che non c’è più… un Sergio Castellitto da adolescente…(ndr sul led appare un Cstellitto ragazzino)

CASTELLITTO: Mi fa piacere che i miei figli mi assomiglino… 

DIACO: Se potessi parlare al ragazzo che sei stato, che cosa gli diresti?

CASTELLITTO: Se penso al mondo dal quale sono stato esploso, credo di aver compiuto la mia vita come una piccola rivoluzione della mia esistenza.  Venivo da un mondo molto semplice, una famiglia italiana di lavoratori, di persone che si alzavano la mattina e andavano a lavorare. Io stesso ho cominciato lavorando in un’azienda per due anni, quindi facendo tutt’altro. Poi sono stato folgorato… ma quale folgorato! In realtà, ogni adolescente, ogni giovane incontra il desiderio di spaccare un vetro, di cominciare un’avventura diversa da quella che sembra che la vita gli abbia in qualche misura apparecchiato. In quegli anni potevi incontrare la violenza della lotta armata, potevi incontrare tante strade… io ho incontrato l’arte, e l’arte mi ha salvato la vita. Ma non mi è bastato incontrarla, è stato necessario esserne delusi. Questo è un mestiere pieno di privilegi. Non ti fidare mai degli attori che si lamentano, non ti fidare! Questo è un mestiere straordinario, un gioco da ragazzi.

DIACO: (…) una delle cose che mi piacciono di te è che hai una vita altrove.

CASTELLITTO: Per me il massimo della mondanità è stare sul divano di casa nostra a litigare coi figli. RISATE E APPLAUSI (ndr guardando Ugo, il bassotto di Diaco) A proposito, anche noi siamo circondati da una serie di…

DIACO: A proposito…mi mandate in onda la foto di John Lennon, il bassotto di Sergio, Margaret  e i loro figli?

CASTELLITTO: Ma lo sai che volevo portarlo, ma poi ho detto forse non è il caso. Si chiama John Lennon perché è nato il 9 ottobre, il giorno in cui è nato John Lennon. L’allevatrice che ce lo diede lo battezzò così e noi non abbiamo mai osato cambiarlo… rigorosamente, anche al parco quando si allontana, non abbreviamo mai: “John Lennon!”. E la gente si gira a guardare…

DIACO: Lo sai che io e Alessio lo abbiamo chiamato Ugo in onore di Ugo Tognazzi? L’idea di mettere a un animale domestico il nome di una persona che stimi mi piace!

DIACO: Il rapporto che lega Sergio e Margaret è quasi un atto unico… 

CASTELLITTO: Qui ha appena partorito Cesare. È bella, eh?

DIACO: Come vi siete conosciuti?

CASTELLITTO: Prima di diventare una scrittrice era un’attrice di teatro, una straordinaria promessa del teatro. Lei recitava Le tre sorelle di Cechov al teatro di Genova, ed io fui chiamato l’anno successivo per sostituire un attore che era andato via. Facevo il barone Tuzenbach, che nella storia è quello che si innamora di Irina. Ci conoscemmo là! E come nelle migliori tradizioni il nostro rapporto cominciò con un conflitto. In genere, un attore nuovo, che entra dentro una messa in scena già realizzata, vuole dimostrare qualcosa al regista. Io volevo dimostrare che sapevo e potevo proporre cose diverse da quelle che erano già state stabilite. E lei, a un mio movimento inconsueto rispetto alla messa in scena che lei conosceva, disse: “Ma l’altro non faceva come questo!”. Non mi parve una immediata simpatia… però non lo fece per presunzione, era il suo modo! Questa è  una delle cose che ho amato di più di Margaret. Pensa che io la chiamavo Dersu Uzala, che è un famoso film di Kurosawa. Dersu Uzala è un personaggio che vive nel bosco e non si fa toccare da nessuno, non parla con  nessuno, completamente selvaggia. Questa è stata una delle cose che mi ha più appassionato di lei, questa altera distanza…

DIACO: … anche una certa rettitudine morale.

CASTELLITTO: Enorme! È la cosa che ha insegnato a tutti, a me e ai suoi figli come prima cosa. Pensa che pochi giorni fa è successa una delle cose che più mi emoziona nella vita, ossia quando incontri le persone che ami per caso. Ognuno di noi era uscito per conto proprio e ci siamo incontrati per caso. Io l’ho vista e ah! (ndr Castellitto esprime stupore e emozione). Non so se vi capita mai, ma vi assicuro che è un’emozione unica! Improvvisamente riconosci un passo di spalle, un cappotto, e pensi: “Ma quella cammina come… ma è lei, è lei!”. Allora è come vederla per la prima volta.

DIACO: Questa è la dichiarazione d’amore più insolita che abbia mai ascoltato… è bellissima!

CASTELLITTO: Tant’è che le ho detto: “Sei l’unica persona al mondo che quando la guardo mi fa pensare che esista l’aldilà!

DIACO: Vabbè, ragazzi, qua stiamo volando altissimo! 

CASTELLITTO: Ti giuro!

CASTELLITTO: Uh, figurati! Io ancora non riesco a capire come sull’altare abbia detto sì, perché in genere la prima parola che dice è no!

DIACO: Io ci ho già provato in passato e mi ha detto di no. Però, hai visto mai… Senti, le hai mai dedicato una canzone?

CASTELLITTO: Beh, la canzone del nostro amore è Luci a San Siro di Roberto Vecchioni, canzone che le cantavo in maniera strampalata…

DIACO: Questa canzone è stata interpretata da Mina, ma reinterpretata live durante un concerto storico dal grande Francesco Guccini, che prima di cantarla disse: “Ci sono canzoni che spesso gli artisti avrebbero voluto scrivere, ma sono state scritte da altri”. Ciao Guccini!

CASTELLITTO: (ndr Castellitto cita le ultime strofe di Luci a San Siro) 

Ma dammi indietro la mia seicento

I miei vent'anni e una ragazza che tu sai

Milano scusa, stavo scherzando

Luci a San Siro non ne accenderanno più

CASTELLITTO: La penso esattamente come molti anni fa. Credo che questa sia stata anche la scommessa vinta. Ho sempre pensato di voler fare le cose che mi sarebbe piaciuto andare a vedere. Ho ragionato veramente come uno spettatore. C’è sempre stato da parte nostra, di un certo cinema d’autore, un anteporre il proprio gusto, il proprio messaggio a questa cosa di porgere l’opera. Io e Margaret crediamo in questo, crediamo nell’opera! E l’opera è al servizio della platea. Speriamo di persone intelligenti, ma non possiamo non accettare il fatto che in quel mondo, in quella platea, ci siano soltanto persone sensibili. Ma il tuo mestiere è quello di raccontare una storia. Ti racconto una storia e nascondo dentro la storia, dentro la pancia di quel Cavallo di Troia che racconto, la mia visione del mondo. Recitare per me ormai non è neanche più recitare. Ti racconto una storia attraverso il mio corpo, i miei silenzi, le mie pause.

CASTELLITTO: Devo dire che ero abbastanza preoccupato perché dalla bocca di Margaret da un momento all’altro può uscire qualche giudizio nei miei confronti molto severo.

DIACO: Ho fatto vedere questo estratto per dimostrare che si possono raccontare in tv anche cose molto private in maniera naturale…

CASTELLITTO: … in maniera autentica! Nietzsche diceva che l’attore è la scimmia ideale, ed è preposta soltanto al lazzo, all’urlo, al pianto, al riso, all’emozione da consegnare alla platea. Avendo avuto la fortuna e il privilegio di poter entrare nella pancia del cavallo di tanti personaggi diversi, ho imparato a essere abbastanza essenziale nella vita, di non menarmela tanto.

DIACO: Questa interpretazione eccellente di Castellitto ha anticipato molti anni prima una rabbia che poi ha avuto un sapore esclusivamente politico. Lì era un tratto culturale…

CASTELLITTO: Mentre lo vedevo pensavo che è la pancia degli italiani. Poi può essere spostata a destra, a sinistra, al centro, ma è la pancia degli italiani, e della pancia degli italiani bisogna sempre avere rispetto! L’intelligenza non risiede per forza nella testa, risiede molto spesso nella pancia.

DIACO: L’espressione pancia degli italiani viene usata molto spesso per delegittimare l’umore del popolo che vota di qua e di là. Tu hai detto la cosa più semplice e sensata che si possa dire, ossia che la pancia degli italiani, quel senso di rabbia e di abbandono, va sempre rispettato.

CASTELLITTO: Anche perché spesso è vuota la pancia degli italiani!

CASTELLITTO: Ettore Scola! Con Ettore ho fatto due film. Ne La famiglia, che è stato quasi un esordio per me, interpretavo un piccolo personaggio, che però è rimasto leggendario nella mia vita e nella mia carriera per quella bellissima famosa scena che recitai con Vittorio Gassman. Io facevo il nipote che andava a trovare lui, vecchio e abbandonato, in questa grande casa. Poi, Concorrenza sleale con Diego Abatantuono. E poi feci un episodio di una serie, Piazza Navona. Adesso ho finito di girare un film tratto da un soggetto che lui ha scritto e che poi Margaret ha riscritto rielaborandolo. È venuta fuori una storia molto toccante, molto emozionante. Vedi, mentre parlo faccio le stesse appoggiature di Ettore: “Molto toccante!”. È un film un po’ fuori dal tempo, è una storia un po’ speciale, molto particolare di cui sono molto fiero… lo siamo sia io che Margaret. Si chiama Il materiale emotivo. Siamo tutti materiale emotivo. Noi siamo materiale emotivo, che è un ossimoro…

DIACO: Quello che in filosofia è chiamato materiale umano. Maritain ne ha parlato a lungo e ne ha scritto.

CASTELLITTO: Esattamente! È questa acqua in continuo movimento, questa pozza di acqua limpida dove tu senti che per fortuna il fango si posa sul fondo, ma poi non è fango, è il segreto, il non detto, il non realizzato. C’è quel detto: “Come puoi guardare il fondo dell’acqua se non smetti di muoverne la superficie”.

CASTELLITTO: Vasco lesse Non ti muovere e disse: “Voglio fare una canzone per questo film”. E scrisse questa canzone. Credo che raramente una canzone abbia avuto così senso per spiegare la storia di Non ti muovere, una canzone che nasce da una negazione: un senso non c’è, eppure lo cerco tutta la vita.

DIACO: Questa cosa mi emoziona tantissimo perché questa trasmissione è nata ascoltando il brano di Vasco Io e te. (…) sarò sempre grato a Vasco per averci concesso i diritti di questa canzone che è la sigla di questa trasmissione. 

CASTELLITTO: I miei figli mi hanno detto: “Non ti dimenticare il ritratto di Lucangelo!” È bellissimo! C’è una citazione dentro: c’è Miraz de Le cronache di Narnia. È stupendo! È bello perché c’è un occhio aperto e uno chiuso, quindi un omaggio a me e uno a lui quando chiude gli occhi (ndr si riferisce a Diaco)

Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 14 ottobre 2020. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia - la prima nell’epoca del Covid - la vera rivelazione è stata lui, Pietro Castellitto, che con “I Predatori”, il suo primo film da regista, ha ricevuto più di dieci minuti di applausi in sala e il Premio Orizzonti per la Migliore Sceneggiatura. “È un film drammatico che fa ridere, ma anche un film comico che fa piangere, non so”, spiega all’HuffPost a pranzo, in un hotel romano, davanti a una piccola boule d’insalata, con uovo, tonno e pomodorini. “Ma che siamo in aereo?”, dice lui, condendo il tutto, prima ancora che con olio e sale, con quell’ironia tipica romana che lo caratterizza, “quell’ironia, cioè, che ti porta ad avere una certa sintesi e goliardia allo stesso tempo, a scherzare su tutto, anche su quello su cui non si può scherzare. Una battuta, continua, la fai, ma questo non vuol dire non essere serie e responsabili, ci mancherebbe”. Di ironia - ma anche di ferocia, di grottesco e di surreale – ce n’è molta nel suo film che uscirà nelle sale il 22 ottobre prossimo prodotto da Domenico Procacci e Laura Paolucci per Fandango con Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution. Un film tutto incentrato sui personaggi e i loro interpreti a dir poco perfetti (Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Giorgio Montanini, Dario Cassini, Anita Caprioli, Marzia Ubaldi, Nando Paone, Antonio Gerardi e Vinicio Marchioni), componenti – ognuno a suo modo - di due famiglie completamente diverse, i Pavone e i Vismara, gli intellòs e quelli più pop, la borghesia di sinistra e il popolo fascista, “personaggi che – come precisa il giovane regista fissandoci con i suoi occhi celesti – lottano per la propria libertà cercando di invertire il corso della propria vita senza però averne gli strumenti”.

Lei ha esordito come attore: a pochi mesi, in una culla, nel film “Il grande cocomero” di Francesca Archibugi, e poi nei film di suo padre, Sergio Castellitto e non solo- Quando ha deciso, invece, di fare il regista?

«In realtà, ho sempre avuto l’idea di farlo. Ho scritto questo film quando avevo 22 anni, quando smisi di fare l’attore. Capii che il regista era un mestiere che mi apparteneva di più. Non mi sentivo più nel mestiere di attore: alcune cose non andavano, ero giudicato male, percepivo una ferocia di giudizio senza che ci fossero, però, dei motivi validi».

Possiamo dire che il film nasce da un fallimento come attore?

«Certo, totalmente. La mia fortuna è che ho conosciuto il fallimento da giovane e questo mi ha messo davanti al baratro, mi ha portato a vivere le cose fino in fondo».

C’è Federico, il protagonista del film, da lei interpretato, che seduto a un bancone di un bar davanti a una birra scura spiega all’amico che per vivere fino in fondo “siamo costretti a fare stronzate e a farle da soli”. È successo anche a lei?

«Si. O soccombevo oppure tentavo il tutto per tutto. Questo mi ha portato a scrivere un film ambizioso, un film che va oltre ogni parametro, ogni stereotipo, ogni consiglio che i manuali di sceneggiatura contengono per un giovane regista emergente. L’idea era quella di costruire un contenitore che mi permettesse di esprimere le mie speranze, la mia rabbia, la mia ironia, la mia visione».

Nello scriverlo, prima ancora di realizzarlo, quanto hanno influito i suoi studi e la sua laurea in Antropologia Filosofica?

«In realtà sono laureato in Filosofia con una professoressa che insegnava Antropologia Filosofica.

Lo capiamo, ma in ogni caso, è stata una scelta non certo semplice.

«Quando smisi di fare l’attore, iniziai a pensare di fare il professore di filosofia. Dopo un po’mi laureai senza aver mai preso quel percorso "alla leggera", sennò non dai esami con dodici crediti. Poi, però, mi resi conto che non ero in gradi di fare il professore. Pensi, invece, che da piccolo, volevo fare un mestiere sportivo (ride, ndr). Scegliendo il cinema ho trovato quella giusta via di mezzo tra i due. In questo ha influito molto Nietzsche».

Lo cita anche nel film, quando fa dire al suo personaggio che “la storia la mandano avanti le grandi personalità”. Di storia ha parlato anche nel suo discorso a Venezia, quando ha preso in mano quel Leone Nero - decisamente rock e fuori da schemi e stereotipi proprio come lei – dicendo che “dobbiamo stare in competizione con la Storia e non con il nostro tempo”. Ci spieghi meglio.

«Intanto, ci tengo a precisare che quel discorso non me l’ero preparato e che quel premio è stata una sorpresa».

 “Soltanto gli infami e i traditori – disse - sono bravi nei ringraziamenti”: una maniera per pensare a quello che avrebbe detto dopo?

(Ride di nuovo, ndr). «Scherzi a parte, ho detto quella frase perché penso che stare in competizione con la Storia sia l’unico modo per essere veramente puri e sinceri, artisticamente e intellettualmente. È l’unico modo per riuscire a creare cose nuove che ispireranno e cambieranno la morale corrente, altrimenti va a finire che ti ritrovi a perpetuare quei valori, quegli atteggiamenti finto-rivoluzionari che servono semplicemente per essere accettato nel tuo ambiente e quindi nel tuo Paese».

Come vede la sua Italia?

«Non è sicuramente un Paese facile per un trentenne. Per alcune cose ha - e quindi abbiamo - delle risorse incredibili; per altre, invece è un Paese che può frustrarti e alienarti. L’Italia è così, soprattutto in questo periodo. Di contro, però, fuori dal nostro Paese non è che le cose siano poi tanto meglio, c’è anche più ignoranza. Si pensi alle scuole: quelle che abbiamo noi non le ha nessuno, così come il metodo di insegnamento e di studio. In Inghilterra saranno pure più svegli, ma gli studenti inglesi hanno delle lacune enormi. Permettiamo di farci giudicare anche da chi non potrebbe».

Questo è successo anche a lei?

«Personalmente, ho subito la frustrazione della retorica, di gente che ti giudica senza sapere come va il mondo. Gente che ti giudica senza sapere nulla, che trova sempre la risposta facile ai propri fallimenti, che ti dice che ce l’hai fatta perché sei ‘figlio di’ oppure che non vali per lo stesso motivo».

Le è mancata mai l’aria?

«Costantemente. Talvolta mi manca anche oggi».

Come è riuscito a tornare a respirare?

«Stando, appunto, in competizione con la Storia. Non ho mai sofferto perché mamma (la scrittrice Margaret Mazzantini, ndr) ha venduto milioni di copie o perché papà (Sergio Castellitto, ndr) è un attore affermato, anzi. La frustrazione dell’essere ‘figli di’ è che spesso, quando sei giovane, confidi nel mondo che ancora non conosci. Vuoi uscire dal circolo dei tuoi amici e familiari, confidi nel futuro, ma la vita è misteriosa e non sai quello che ti aspetterà dopo. Quando ti accorgi, poi, che la gente fuori dal cerchio delle tue conoscenze ti conosce già in quanto figlio di’ e ti giudica male - ti pregiudica – è lì che ti manca l’aria. Pensi che non potrai essere libero e che ovunque andrai ci sarà sempre qualcuno che si è fatta un’idea pregressa di me. Ho superato tutto questo, come dicevo, cercando di fare delle cose valide storicamente».

La famiglia fa la differenza e la sua lo dimostra.

«La mia fortuna è stata proprio quella di essere figlio di Sergio e di Margaret, le mie guide, i miei punti di riferimento. Per quanto riguarda il mio il lavoro, potrei farle una lista di ‘figli di’ che ci provano, ma che non ci riescono. Fare un film è una cosa serissima. Se la tua ambizione è quella di fare tre parti in un film scadente, lì non basta essere ‘figlio di’. Puoi avere un’opportunità, ma poi devi dimostrare di valere. La capacità è ben altra cosa».

A proposito di ambienti: come si trova in quello romano, cinematografico in particolare?

«Qui a Roma c’è sempre la sensazione di vivere in un grande ‘paesone’ dove tutti si conoscono e dove a lavorare sono sempre i soliti noti che appartengono a certi giri, amicizie, letti. A me, quello che mi ha sempre fatto soffrire, è l’ignoranza e la cattiveria gratuita di gente che non sa nulla. È inutile negarlo. Per il resto, l’uomo è pieno di risorse e di uomini pieni di risorse ce ne sono anche qui, nel cinema e non solo. Averle è fondamentale nella vita, perché una persona che ha risorse trova sempre il modo per poter andare avanti. Nel mio caso, nel trovare sempre questi espedienti per andare avanti, ho notato che miglioravo nelle cose che facevo. “I predatori” rispecchia quello che sono».

Chi sono i predatori oggi secondo lei?

(Ci pensa un po’, poi torna a fissarci, ndr). «I predatori sono tutti coloro che hanno un potere enorme e che fanno finta di non averlo».

Ce ne sono fin troppi…

«Troppi ce ne stanno, sì, è vero. Comandano tutto loro, dalle università alla stampa mainstream ai festival, fanno tutto loro».

Nel film, una delle due famiglie è fascista. In quest’ultimo periodo più che mai ci sono stati tanti episodi, e in più campi, chiaramente di stampo fascista. Che ne pensa?

«Se per fascismo intendiamo la tendenza a sospendere la libertà di democrazia, il fascismo c’è e oggi trova persino armi sempre più raffinate per imporsi. Bisogna quindi stare molto, ma molto attenti. Un giorno, un artista mi disse una cosa meravigliosa: se vai Germania, ci sono le svastiche sui muri, ma anche tanta gente che le copre una grande X sopra. Perché – aggiunse - in questi 50anni non siamo riusciti a trovare un simbolo più forte della che ce la fa dimenticare».

Secondo lei perché?

«Perché siamo un popolo decadente, perché non abbiamo più creato nulla, non c’è bastato dire chi era cattivo prima per avere potere. Viviamo nell’epoca del politically correct, nell’epoca della rivolta degli schiavi, quella in cui i mediocri sono al potere e ci arrivano solo perché sono più veloci di tutti gli altri».

Cosa le ha insegnato il lockdown?

«In quel periodo, per la prima volta, la mia generazione si è sentita parte di una pagina di storia: inizialmente c’è stato il fascino della guerra senza stare in guerra».

Poi?

«Dopo un po’ è diventato tutto o quasi tutto motivo di scontro ideologico. Io, personalmente, ho letto molti libri di economia».

Avrà pensato anche ai due film che usciranno a breve – Freaks Out di Gabriele Mainetti e la fiction su Francesco Totti – in cui invece ha recitato.

«Ho avuto la fortuna di frequentare il set di Freaks Out per un anno e poi il mio come regista. Se non ci fosse stato quel set di Gabriele, sarei stato meno efficace e il mio film lo avrei fatto peggio».

Della fiction su Totti, invece, immaginiamo non potrà dire nulla.

«Esatto, ma posso solo dirle che ho sensazioni molto positive. Mi spiace che ieri sia morto suo padre. Il mio desiderio è comunque di rendere felice Totti e tutti i romanisti. Spero di esserci riuscito».

Anche lei è un romano doc: cosa ne pensa della sua città?

«Abito da solo, è piena di difetti, ma non riesco ad andarmene da questa città. Mi piace molto viaggiare tanto che ho speso tutti i soldi che avevo per prendermi una barca a vela».

Dove vuole andare?

«Per scogli (ride, ndr). No, scherzo, non mi è ancora arrivata».

Quando arriverà, Covid permettendo, qual è il primo posto che raggiungerà?

«Le isole Eolie, le adoro».

Non certo a caso: a Salina suo papà girò “Libero Burro”, il suo primo film da regista.

«Sì, è un posto cinematografico per eccellenza, un capolavoro, ma tutte le Eolie sono per me l’oasi più bella del mondo, posti che ti permettono di continuare a guardare».

Lei, ovviamente, vuole continuare a farlo?

«Certo».

In che modo?

«Uscendo dalla morale del nostro tempo e facendo i conti con la storia e con l’universo. Questo, a volte ti permette di essere profetico, altre di morire solo, dipende. L’importante è credere sempre che verrai compreso postumo che è poi lo stimolo che ti consente di andare avanti anche quando fallisci».

Ci sono delle eccezioni, però, come nel suo caso. Lei, almeno per ora, è più che compreso.

«Per ora sì, è così, poi dipenderà dal grado di libertà che mi lasceranno, fino a che punto potrò esprimermi».

Per Castellitto junior, la libertà è fondamentale.

«Assolutamente. Viva la libertà. Sempre».

Malcom Pagani per vanityfair.it il 13 settembre 2020. Dagli altoparlanti del bar, la musica dà meno tregua del caldo. Pietro Castellitto è reduce da una notte sul set ma non suda, non fuma e se si alza dalla sedia è solo per cercare monete nelle tasche. In due ore di conversazione disordinata come è la vita, ai tavolini, per chiedere l’elemosina, si accostano tre persone. A loro modo, nella disperazione, interpretano una parte. Potrebbero persino recitare per mestiere perché dice, questo ventottenne laureato in Antropologia filosofica, che usa parole come «aposematismo», dagli occhi azzurrissimi, il naso lungo e un volto zanardiano che pare un bozzetto di Andrea Pazienza: «I grandi attori devono essere disposti a ridere delle loro tragedie e avere profonda consapevolezza dell’umiliazione. Devono conoscerla, averla subìta, capirla». Per questa ragione, spiega, «amando i contrasti e le situazioni estreme» si trova bene «con i comici» e ne ha scelto qualcuno per il suo esordio alla regia, presto al Festival di Venezia, sezione Orizzonti, intitolato I predatori. Chi lo ha visto giura che con le storie parallele di due nuclei familiari diversissimi per estrazione, sogni e aspirazioni molto si rida e altrettanto si pensi, e che tra l’alta borghesia dei circoli romani, della noia e dei fine settimana a bordo piscina e la periferia esistenziale di una famiglia proletaria con nostalgie evidenti per il duce, in fondo, esista una sottile linea che unisca i punti e accomuni mondi apparentemente lontani tra loro. Se sente parlare di messaggio, Castellitto si insospettisce: «Il cinema è un mestiere con tantissimi filtri. I dialoghi, la messa in scena, la scelta degli attori, i luoghi delle riprese, le impostazioni di regia. I film non si scrivono con l’intenzione di proporre un messaggio: nascono dai sentimenti».

Qual è il sentimento che anima il film?

«L’ingiustizia. Gli eventi formali che muovono la storia sono due ingiustizie e io stesso, quando l’ho scritto, sentivo di aver subito un’ingiustizia».

Quale?

«Avevo smesso di fare l’attore e mi ero messo a scrivere sceneggiature: la prima si intitolava I predatori. Le altre le avevo scritte dopo, quasi per reazione al fatto che non fossi riuscito a trovare un produttore che mi desse retta».

Dinamica del rifiuto?

«Leggevano. Mi dicevano: “Bella storia, scrivi bene”. Poi però non mi richiamava nessuno. Ero solo un ragazzo di 22 anni che come tanti altri scriveva delle cose, un outsider, uno senza credibilità».

La prendeva male?

«Le prime volte per sentirmi felice mi bastava un complimento. Dopo un po’ ti abitui alle parole vacue e capisci che non sarà così. Ma questo lavoro puoi farlo soltanto se non ti abbatti, se hai risorse interiori e sei un po’ mitomane. Mi rendevo conto che avevo tante idee, passavo le giornate a scrivere e mi autoconvincevo che ciò che scrivevo in tempo reale fosse sempre migliore di quel che avevo scritto prima. Un’illusione, perché concretamente miglioramenti non ce n’erano».

Poi cosa è accaduto?

«Che ho pensato che tornare a fare l’attore mi avrebbe dato la possibilità di farmi ascoltare. Feci un provino per La profezia dell’armadillo, mi presero e il produttore del film, Domenico Procacci, mi chiese di leggere qualcosa. “Domenico non richiama quasi mai, non farti illusioni”, mi dicevano. Invece un giorno squilla il telefono ed è lui: “Ho letto I predatori e mi è piaciuto tanto. Voglio vederti”». Così venni convocato in Fandango».

Dissolvenza.

«Varco la porta, vedo un gruppo di persone in semicerchio e capisco in un istante: “Cazzo, ci sono cascati, se stanno a sbajà, me lo fanno fare davvero il film”. Ho avuto la stessa sensazione che avverti quando ti danno le chiavi della macchina e hai mentito sulla patente».

Come è stato guidare per la prima volta?

«Più facile del previsto. Procacci mi ha consigliato bene e soprattutto mi ha lasciato totale libertà sulle scelta degli attori. In Italia vigono regole demenziali per cui i produttori prima ti propongono e poi ti impongono i soliti nomi inutili che al cinema non portano neanche i parenti. Non sono Leonardo Di Caprio, ma neanche Benigni o Checco Zalone. Un assurdo anche in termini assoluti: visto che camminiamo in mezzo alle macerie, non sarebbe questo il miglior momento per sperimentare?».

Qual è la cosa che più le interessa nella sperimentazione?

«Mettere in scena le situazioni estreme con figure credibili. Se credi a quel che vedi puoi andare anche sopra le righe, ma ti immedesimerai comunque. Uno dei miei protagonisti, Giorgio Montanini, vive situazioni apparentemente paradossali e lo fa con una disperazione autentica. Totale. Ha un’anima mostruosa, Montanini. Magica. Per far recitare bene gli attori devi capire bene che carattere hanno».

Nel film interpreta un fascista che lavora in un’armeria.

«Ma non è un film politico, né tantomeno sulla redenzione politica: i personaggi hanno le loro idee all’inizio del film e le mantengono fino alla fine. Volevo mettere allo specchio due mondi diversi. Quello di una borghesia così asfittica e costruita che possiede tutto, denaro e conoscenze, ma non sente più nulla e agonizza senza saperlo, e quello dei proletari fascisti che non hanno niente, non godono di nessun rispetto intellettuale, sono moralmente considerati il grado zero della civiltà e aspirano a un miglioramento senza averne gli strumenti».

Il giudizio è duro su entrambi i microcosmi?

«Se vogliamo dirla tutta, un certo disprezzo verso l’altro appartiene più ai Pavone, alla famiglia colta, che non ai Vismara (il loro contraltare), e in fondo nei rapporti umani tra fascisti c’è più connessione. Ma sono sfumature. Come le dicevo prima, non c’è messaggio e non c’è neanche giudizio. Nel film sono tutti prede e predatori. Sono tutti schiavi, succubi di qualcosa, costretti in involucri in cui non vorrebbero stare. È la storia di alcune persone in lotta con loro stesse per diventare ciò che sono, e spesso per diventare ciò che sono devono uscire dalla galera in cui stanno. E per farlo servono amore e ferocia. È un film che parla di famiglie, ma le famiglie, come saprà, non te le scegli mai. Io con la mia sono stato fortunato».

Suo nonno, lo scrittore Carlo Mazzantini, sulla sua esperienza nella Repubblica sociale italiana scrisse il magnifico e doloroso A cercar la bella morte.

«Mio nonno ha passato la vita in una terra di mezzo: quella generazione si divise tra chi rinnegò tutto, come se la storia andasse soltanto processata e giammai capita, e chi aveva fatto reducisticamente cartello per aspirare al sovvertimento dello Stato. Due strade antitetiche verso la stessa cosa: il potere. Nonno rincorse per tutta la vita il sentimento della verità: per questo rimase solo. Solo e spiazzato come i personaggi del mio film».

Il cinema ha una rappresentazione troppo spesso manichea?

«L’indirizzo morale dei film, molto legato al mercato, è quasi sempre lo stesso. È improntato al conformismo ed è viziato alla radice. Se le chiedessi di farmi l’esempio di un film o di un regista a favore della guerra lei non saprebbe farmelo. Ed è strano perché la democrazia si regge sullo scontro tra culture ed è solo lo scontro tra culture che ti permette di evolvere. Al cinema purtroppo tutto ciò è considerato barbaro, inappropriato, disdicevole».

Federico, il personaggio da lei interpretato, ha dei tratti autobiografici?

«Sono cresciuto in un ambiente privilegiato che a Roma, forse più che altrove, ti instrada in un mondo che ti restituisce sicurezza ma appiattisce i desideri e ti rende uguale a tutti gli altri. Un mondo in cui la differenza tra ciò che sei e ciò che gli altri pensano che tu sia può creare scompensi, tristezza e alienazione. Un mondo in cui non vali nulla, non reinventi niente e ti condanni alla decadenza. Da ragazzo ero sconcertato dai motivi sconosciuti per i quali i miei coetanei sceglievano le isole in cui passare le vacanze seguendo le indicazioni di un invisibile database: tra il primo e il secondo anno di liceo tappa obbligata era Mykonos, tra il secondo e il terzo Ibiza. Le isole sono un esempio sciocco, una metafora. Ma questa impossibilità di modificare ciò che era già scritto io l’ho percepita, proprio come ho percepito lo scontro con la generazione che ci precedeva: una generazione che inconsapevolmente faceva di tutto per far sì che le cose rimanessero immobili».

Lei ha pochi mesi quando finisce in una culla ne Il grande cocomero di Francesca Archibugi, sette anni quando recita in Libero Burro, tredici quando appare in Non ti muovere.

«Sì, ma non sono un enfant prodige. Era un gioco a cui mio padre mi faceva partecipare senza alcuna strategia. Senza il minimo progetto. Di Libero Burro, il primo film di papà, ricordo una magnifica estate a Salina. Una stagione libera, senza orari e con molte concessioni. Persino la granita al caffè».

Che sogni aveva da bambino?

«Avrei voluto fare il calciatore, poi il tennista. Volevo costruire alberghi. In alcuni giorni desideravo essere un filosofo geniale, postumo e compreso, altri ancora ambivo all’impero economico. In mezzo a questo via vai di aspirazioni contrastanti percepivo che se avessi fallito in tutto avrei potuto fare l’attore. Per ragioni sconosciute, iniziai a pensare che l’attore fosse il mestiere giusto per me. Mi riconoscevo qualche dote: mi piaceva dire le bugie, dicevo molte balle e sapevo fare gli scherzi».

Ne sceneggi uno accaduto davvero.

«Passammo un weekend a Leonessa, nel Reatino, e dopo molte fatiche, per ingannare la noia, affittammo un dvd. Conquistato il trofeo, in un’euforia cretina, lo lanciammo in aria e il dvd nel volo si aprì. La custodia ricadde a terra, il disco si fermò sulle tegole di una casetta e io mi arrampicai sulla grondaia per recuperarlo. Feci perno su alcune tubature e si sprigionò subito un mostruoso odore di gas. Ridiscesi in tutta fretta, scappammo come ladri in preda ai sensi di colpa e l’indomani andammo al ristorante. In bagno mi venne un’idea: presi da parte la cameriera e le chiesi complicità: “Adesso quando vieni al tavolo devi chiederci da dove veniamo, noi risponderemo da Leonessa e tu farai la faccia costernata dicendo che a Leonessa, per una fuga di gas, due ore fa è esplosa una palazzina e ci sono molte vittime”. Con il talento di Jennifer Lawrence lo fece davvero. In pochi secondi vidi la vita passare davanti ai volti dei miei amici e il loro destino cambiare per sempre. C’era chi imprecava, chi diceva “io non c’entro niente”, chi aveva la morte disegnata sul volto».

Era uno studente irrequieto?

«Non posso far altro che confermare. Ho cambiato liceo, ho avuto qualche turbolenza e ho subito qualche processo sommario dal corpo docente. Niente di rilevante, ma sono sempre stato socievole. Ho molti conoscenti, tanti amici e poche intime affinità perché non credo negli slogan. Gli unici nel mio ambiente che considero amici veri sono i fratelli D’Innocenzo e Gabriele Mainetti. Conoscerli mi ha fatto crescere. Se nella mia vita non fossero apparsi loro oggi varrei meno. Come regista, come attore e anche come calciatore».

Quello che cancellerebbe?

«Quando i giovani registi dicono “l’Italia non è un Paese per giovani” sorrido. Chi lo dice è tutta gente che dovrebbe ringraziare Dio ogni giorno e che sopravvive grazie al fatto che l’Italia non lo sia. Vorrei vederli, a confrontarsi con una cinematografia come quella danese che da trent’anni si poggia solo sulla forza delle idee. Vincono le migliori e vincono perché la soglia della valutazione non premia i mediocri e i loro piagnistei».

Il suo primo cortometraggio?

«Si intitolava The Jury ed era francamente orrendo. Tutto girato in una stanza, ai margini di un inutile corso di regia a Londra affrontato dopo la laurea. Camminavo molto, in Inghilterra. Avevo sempre fame. Cercavo costantemente ristoranti».

Presto la vedremo in Freaks Out di Gabriele Mainetti e nella fiction prodotta da Wildside su Francesco Totti. Come si sente a incarnare una divinità romana? (Lungo silenzio, non è chiaro se per la stupidità della domanda o per la difficoltà della risposta, ndr)

«Sarà perché interpreto il figlio di sei milioni di persone o sarà per incoscienza, ma non sento la responsabilità. Qualcuno che dirà “mio figlio non è così” ci sarà comunque. Sono sereno. Ho solo voglia di non deluderlo, ma ho sensazioni positive».

Sente di aver imparato a fare cinema?

«Penso si possa imparare questo mestiere anche facendo altro, mettendo le tue passioni in un racconto. Trovare l’equazione esatta per imparare a farlo è impossibile. Bisogna essere sinceri con se stessi, ripercorrere la propria vita senza scordarsi della morte e poi, soltanto poi, guardare molti film, frequentare i set, leggere i copioni. Il cinema parla di tutto e al cinema bisogna arrivare passando per il tutto. Guai a fare il contrario».

·        Sergio Sylvestre.

Sergio Sylvestre e l'inno di Mameli sbagliato prima della finale di Coppa Italia: "Non mi sono dimenticato le parole, ero solo triste". Libero Quotidiano il 18 giugno 2020. Valanga di insulti in rete contro Sergio Sylvestre, il giovane cantante ex di Amici che ha "sconvolto" la finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus allo Stato Olimpico. Sylvestre, prima della partita, si è esibito cantando l'inno di Mameli dimenticando però una intera strofa. Questo fatto, unito all'eclatante gesto di protesta con pugno chiuso e alzato stile Messico 68 e l'urlo "No justice no peace", ammiccamento alle proteste del #BlackLivesMatters, ha scatenato le reazioni fin troppo dure di molti utenti sui social. Addirittura, il cantante americano naturalizzato salentino viene additato come simbolo del degrado italiano. "Non sono mai stato così emozionato nemmeno ad Amici o a Sanremo - si difende lui via Instagram -. Vedere questo stadio così vuoto e sentire questa eco fortissima... Mi sono bloccato non perché mi sono dimenticato le parole, ma perché mi è venuta una tristezza molto forte. Mi sono emozionato, un palco così vuoto è un peccato".    

Guido Crosetto contro Sylvestre che scorda l'Inno: "Non lo impara nemmeno a pagamento". Libero Quotidiano il 18 giugno 2020. "Mi sono bloccato non perché mi sono dimenticato le parole, ma perché mi è venuta una tristezza molto forte. Mi sono emozionato, un palco così vuoto è un peccato". Con queste parole Sergio Sylvestre ha giustificato il suo disastro alla finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus, dove si è scordato una strofa dell'Inno nazionale. Una dimenticanza che ha scatenato polemiche e rabbia online: uno sfregio al tricolore. E tra chi storce il naso, ecco Guido Crosetto, il Gigante di Fratelli d'Italia, che affida la sua breve e puntuta riflessione a Twitter, laddove scrive: "Far cantare l’inno in una finale sportiva a gente che non lo sa e non ha alcuna intenzione di impararlo, nemmeno a pagamento", e in calce "Fatto" con spunta verde. Ovvia l'amara ironia di Crosetto.

Dagospia il 17 giugno 2020. IL POST DI MARIO ADINOLFI. Sei chiamato a cantare l’Inno di Mameli alla finale di Coppa in diretta tv, ti pagano e tanto per farlo, non ne conosci le parole e non fai lo sforzo di impararle, toppi una strofa intera, alla fine invece di sparire e piangere fai il pugno e urli "No Justice, No Peace?" Ma ridacci li soldi. Che disastro che fa tutto l’oceano di fregnacce che ha invaso il cervello di questi.

Sergio Sylvestre insultato, Emma Marrone risponde: "Stupidi". Il sospetto: ce l'ha con Salvini.

Libero Quotidiano il 19 giugno 2020. Dopo Elodie, anche Emma Marrone si schiera con Sergio Sylvestre. La solidarietà dei cantanti nei confronti del cantante afroamericano ma salentino d'adozione è totale. Soprattutto, come ovvio, da parte delle star uscite da Amici, proprio come Sylvestre, e unite quindi da un rapporto di amicizia personale. Il cantante è finito nel mirino per la sua esibizione allo Stadio Olimpico prima della finale di Coppa Italia tra Juventus e Napoli, mercoledì sera. Strofa dell'Inno di Mameli dimenticata, pugno chiuso e slogan No Justice No peace urlato per celebrare il movimento #BlackLivesMatter. Molti hanno considerato tutto l'insieme non solo "fuori contesto", ma direttamente uno "sfregio" e una mancanza di rispetto all'Italia. E mentre Matteo Salvini ha commentato sarcastico con un "Ma dove l'hanno preso? Povera Italia", in tanti già mercoledì sera sui social si erano scatenati in insulti beceri a sfondo razziale contro il ragazzo. Elodie ha definito "merde" questi ultimi e "piccolo uomo" Salvini, mentre Emma appare più ecumenica: "È meglio stare zitti e sembrare stupidi che twittare insulti e togliere ogni dubbio", scrive su Twitter mandando "un bacio enorme a Sergio Sylvestre! Sei una roccia". Conoscendo le sue opinioni politiche già espresse in passato, probabilmente la popstar salentina si riferiva tanto al leader della Lega quanto a chi ha offeso l'amico Sergio. Anche in questo caso, di dubbi sembrano essercene pochi.

Da Corriere.it il 19 giugno 2020. «Sono schifata nel leggere commenti razzisti. Sergio era emozionato, e voi l’avete offeso. Non ve lo meritavate un Inno nazionale cantato da Sergio, questo è il problema». Elodie su Instagram (in una delle sue stories) ha difeso a spada tratta l’amico e collega Sergio Sylvestre dopo le polemiche sull’Inno nazionale «sbagliato», prima della finale di calcio di Coppa Italia tra Juventus e Napoli. «Sono schifata, mortificata, dispiaciuta. Questo è fare del male alle persone gratuitamente. Siete delle brutte persone. Delle merde, anzi». La cantante ha poi risposto su Twitter al video postato da Matteo Salvini, in cui il leader della Lega criticava l’esibizione del cantante attraverso la scritta «Sbaglia l’Inno e saluta col pugno chiuso, ma dove l’han trovato? Povera Italia!». «Non perde mai occasione per dimostrare quello che è, un piccolo uomo», ha scritto Elodie. Anche Emma Marrone è intervenuta su Twitter per esprimere la sua solidarietà a Sergio Sylvestre: «È meglio stare zitti e sembrare stupidi che twittare insulti e togliere ogni dubbio. Un bacio enorme a Sergio Sylvestre! Sei una roccia». Sergio Sylvestre aveva spiegato che era stato tradito dall’emozione (leggi l’intervista al Corriere): «Sono un americano, nero, e vivo in Italia, Paese che amo da morire. Se avessi creduto di non essere in grado di cantare l’Inno non avrei mai accettato. Invece quando me lo hanno chiesto ho detto sì subito e subito mi sono impegnato, vista la responsabilità che avevo. Ripeto: ero il primo nero a cantare l’Inno di Coppa Italia, una responsabilità grossissima. Mi rendo conto che non tutti possano capire, ma io sono grato mi sia successo, perché questa esperienza mi ha fatto crescere ancora di più. Di certo non avevo dimenticato le parole, quelle le ho stampate in testa. L’emozione è stata più grande di me. Accetto le critiche, ma non tutti sanno cosa vuol dire essere un ragazzo nato con la pelle di un colore che quando la gente guarda ha subito paura, o almeno pregiudizio. Per me cantare lì era importante. Quando mi sono bloccato era perché mi ero commosso, mi veniva da piangere». La scelta degli organizzatori della Coppa Italia sull’esecuzione dell’Inno nazionale è caduta, praticamente sempre, sui protagonisti delle trasmissioni musicali più viste, come Amici e X Factor. Nel 2011 fu Emma ad aprire Inter - Palermo all’Olimpico di Roma. A seguire, nel 2012, fu la volta di Arisa, che aprì Juve-Napoli con un’esecuzione che divise gli ascoltatori. Poi Malika nel 2013, Alessandra Amoroso nel 2014, Chiara Galiazzo nel 2015, Lorenzo Fragola nel 2016, Lodovica Comello nel 2017, Noemi nel 2018, Lorenzo Licitra nel 2019 fino ad arrivare, quest’anno, a Sergio Sylvestre.

Sergio Sylvestre risponde a Salvini: "Il pugno chiuso? Informati meglio, non capisci". Libero Quotidiano il 18 giugno 2020. "Il pugno chiuso? Matteo Salvini dovrebbe informarsi meglio". Sergio Sylvestre risponde al leader della Lega, che ne aveva criticato duramente l'esibizione prima della finale di Coppa Italia all'Olimpico tra Napoli e Juventus: inno di Mameli "dimenticato" ("Per l'emozione, ero triste per lo stadio vuoto", si è difeso il cantante ex Amici), pugno alzato stile Messico 68 e urlo finale, No justice No peace, in linea con la campagna #BlackLivesMatter. "Di certo non avevo dimenticato le parole, quelle le ho stampate in testa. L’emozione è stata più grande di me. Accetto le critiche, ma non tutti sanno cosa vuol dire essere un ragazzo nato con la pelle di un colore che quando la gente guarda ha subito paura, o almeno pregiudizio", si è sfogato Sylvestre dopo la partita. Salvini l'ha attaccato sui social: "Sbaglia l’Inno e saluta col pugno chiuso! Ma dove l’hanno trovato?!? Povera Italia!". Dovrebbe cercare di capire cosa significa quel pugno o un movimento come Black Lives Matter. Ma in fondo non può, lui non può capire cosa vuol dire essere nero. Io però sono nato così. Quando è morto George Floyd ha visto che hanno fatto tutti i post, non so se anche lui lo fatto. Ma in generale dovrebbe informarsi meglio su cosa significa essere nero. Con quel pugno e con la mia voce parlo anche per quelle persone che non possono più alzare la mano, che non anno più voce. Parlo per loro. Quindi se ha qualche dubbio sul significato del mio pugno, lo invito a chiamarmi”. Restiamo in attesa di sviluppi. Per la cronaca, Salvini sul caso Floyd ha dichiarato: "La sua morte merita giustizia, chi ha sbagliato deve pagare, senza sconti Black lives matter? All lives matter". 

Sergio Sylvestre torna parlare dell'inno: "Me ne f... dei commenti razzisti". Ma il web non apprezza. Ancora polemiche per Sergio Sylvestre e il suo inno: il ragazzo in un altro video ha dichiarato di ricevere ancora commenti razzisti ma il web stavolta lo accusa di vittimismo. Francesca Galici, domenica 21/06/2020 su Il Giornale. Non si fermano le polemiche dopo l'esecuzione dell'inno di Mameli da parte di Sergio Sylvestre prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus. L'errore nel testo e, soprattutto, il pugno chiuso alla fine hanno scatenato le polemiche sulla scelta di Sylvestre, americano, per l'esecuzione dell'inno italiano. Addosso al cantante sono piovute tantissime critiche, molte delle quali sono sfociate nel razzismo. Il cantante in prima persona ha spiegato cosa l'ha portato a sbagliare l'inno ma questo non l'ha esentato dalle critiche, che sono arrivate anche da alcuni esponenti politici. In queste ore, nonostante il clima si sia raffreddato e Sylvestre non è più al centro della polemica, il cantante è nuovamente intervenuto contro chi, in questi giorni, gli è andato contro. Nei giorni scorsi, Sergio Sylvestre ha avuto uno scambio di battute con Matteo Salvini, che si è domandato come mai sia stato scelto proprio lui, cantante americano, per intonare l'inno nazionale italiano. A supportare il dubbio del leader della Lega è intervenuto anche Luigi Mastrangelo, per tanti anni capitano della nazionale italiana di pallavolo ma come lui anche altri si sono espressi in tal senso. Attorno Sylvestre, però, moltissimi artisti hanno fatto quadrato difendendone l'arte e la bravura. L'errore nell'inno è stato frutto dell'emozione, come ha dichiarato Sylvestre, anche per essere il primo cantante di colore a esibirsi sulle note dell'inno di Mameli in un'occasione ufficiale. Da Elodie a Emma Marrone, passando per altri artisti, in tanti si sono schierati in suo favore con tweet e post polemici nei confronti di Matteo Salvini. I loro messaggi sono stati principalmente contro le frasi razziste subite dal ragazzo e contro chi lo ha attaccato per aver sbagliato l'inno d'Italia, non sul gesto del pugno chiuso, che per alcuni è stata una strumentalizzazione politica di un momento solenne. Eppure, nonostante la polemica sia ormai scemata, Sergio Sylvestre è voluto tornare sull'argomento. "Vedo che mi date ancora importanza offendendomi con commenti razzisti, ma va bene così perché me ne fotto", ha detto il cantante in un video. La reazione del ragazzo non è piaciuta ai social, che hanno criticato il ragazzo, accusandolo di vittimismo eccessivo. "Caro Sergio Sylvestre, se si canta di merda l'inno si viene criticati e lo si deve accettare. Se fossi bianco, questa piccola lezione l'avresti imparata da un pezzo. Invece vi hanno abituati come bimbi viziati, a poter dire e fare qualsiasi cosa senza che vi si possa dire nulla. Cresci", si legge a commento di un tweet diventato virale con quasi 700 mi piace.

Giorgia Meloni contro Sergio Sylvestre: "Dimenticare l'Inno d'Italia? Può accadere tutti. Cosa mi ha dato fastidio per davvero". Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. "L'aver dimenticato l'inno d'Italia è il meno". Giorgia Meloni, in collegamento con Barbara D'Urso al Live, torna sul caso Sergio Sylvestre e punta il dito su un altro aspetto della sua esibizione prima della finale di Coppa Italia allo stadio Olimpico. "Guido Fratelli d'Italia, quindi se accade qualcosa sull'inno mi colpisce - scherza la Meloni - ma può capitare a chiunque, è successo anche a Christina Aguilera durante il Suerbowl". "A me invece ha dato fastidio la strumentalizzazione, questa necessità c'è che sempre di strumentalizzare tutto, anche cose che non c'entrano nulla con la politica come momenti sportivi. Una strumentalizzazione per far passare per forza un messaggio, perché questo vuole il mainstream".

"Avrei fatto cantare l'inno a un italiano". Luigi Mastrangelo contro Sergio Sylvestre. Prosegue la polemica che ha investito Sergio Sylvestre dopo l'errore nell'esecuzione dell'inno di Mameli nella finale di Coppa Italia e l'ex pallavolista Mastrangelo si schiera al fianco del leader leghista. Novella Toloni, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. "Mi dispiace per lui, perché mi sta anche simpatico ma l’avrei fatta cantare da un italiano", così Luigi Mastrangelo ha commentato sui social network la performance di Sergio Sylvestre nella finale di Coppa Italia. Poche parole a commento del post pubblicato da Matteo Salvini, nel quale il leader leghista esprimeva tutto il suo disappunto per la disastrosa esibizione. Non accenna a placarsi la polemica scatenatasi in seguito all'esibizione canora dell'ex cantante di Amici di Maria De Filippi prima di Napoli - Juventus. Le parole dimenticate e il pugno alzato alla fine dell'inno di Mameli da Sergio Sylvestre hanno scatenato una vera e propria polemica, il cui eco si trascina da giorni. A poco sono valse le scuse pubblice del cantante, che si è appellato a una "forte tristezza ed emozione" che lo avrebbero portato a dimenticare il testo. Sui canali social molti cantanti noti, da Elodie a Emma Marrone, si sono schierati in sua difesa ma c'è anche chi, come l'ex capitano della nazionale italiana di pallavolo, non ha digerito la defaillance di Sylvestre e sui social ha voluto dire la sua: "Mi dispiace per lui, perché mi sta anche simpatico ma l’avrei fatta cantare da un italiano". Luigi Mastrangelo, ex pallavolista della nazionale italiana, ha commentato il post di sdegno che il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva pubblicato su Instagram poco dopo l'esibizione di Sylvestre, sposando il suo parere. L'ex simbolo del volley azzurro, criticato da alcuni follower per il suo pensiero, ha poi aggiunto, chiarendo la sua opinione: "Se 7.000 persone hanno apprezzato il mio commento vuol dire che si poteva veramente fare più attenzione a questi dettagli. La bandiera e l’inno sono simboli importanti che rappresentano tutti noi italiani e ciò che siamo capaci di fare. Chi non la pensa così probabilmente si sente inferiore agli altri Paesi". Lui che di inni e bandiere ne sa qualcosa, capitano e portabandiera della maglia azzurra per quasi un decennio. Luigi Mastrangelo non è però stato l'unico a criticare il cantante di origini americane. Anche Striscia La Notizia ha messo nel mirino Sergio Sylvestre e la sua défaillance. A sottolineare con sarcasmo quanto accaduto alla vigilia della finalissima di Coppa Italia è stato Cristiano Militello con un servizio dedicato alle gaffe avvenute nel match. "Ora ascoltiamo l'Inno... silenzio - ha commentato fuori campo Militello durante le immagini del servizio - No, ma silenzio non dicevo a te".

·        Sergio Staino.

Sergio Staino: «Io, l’amico Guccini e i nostri 80 anni grulli. Non vedo quasi più ma va bene».  Paolo Conti. il 12 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Il disegnatore: «Il cervello mi fa anche vedere ciò che non c’è. Capita che, facendo una dedica su un libro la penna non funzioni e me lo facciano notare con imbarazzo». «È stato più complicato compiere 70 anni.»

Sergio Staino, 80 anni l’8 giugno, nato nel 1940. Come ci si sente alla sua età?

«Bene. Benissimo. Benone. Meglio di dieci anni fa».

In che senso meglio di dieci anni fa?

«In questo senso. La cosa strana fu che compiere 70 anni fu molto più complicato. Mi giravano le scatole da morire, ma da morire! Ero infuriato, proprio non mi piaceva l’idea di superare quella soglia col numero 7, non ne volevo sentir parlare. Meno che mai volevo sentir parlare di feste... Infatti mi chiamò Raffaella, la moglie di Francesco Guccini, lui è nato il 14 giugno 1940, pochi giorni di differenza, siamo grandi amici da sempre. Raffaella mi fa: “Sto organizzando una festa per Francesco a sorpresa, mi aiuti?”. E io: “Non gli fare niente del genere, si arrabbierebbe come sono arrabbiato io...” ».

Come finì, per curiosità?

«Mi chiamò pochi giorni dopo: “Grazie, meno male che me lo hai detto, non sopporta il compleanno, sarebbe stato un disastro”. Avevo ragione».

E stavolta con gli 80 anni, in questo 2020, per lei e Guccini com’è andata?

«No, stavolta siamo contenti come due vecchi grulli. L’Unicoop di Firenze ci ha organizzato un bel compleanno virtuale col collegamento a distanza. Un appuntamento magnifico, siamo stati veramente felici: c’erano Lella Costa, Carlin Petrini, Claudio Bisio, Vinicio Capossela, e tanti tanti altri... Tutti cari amici a cui voglio bene, anche perché mi somigliano. Li farei anche ministri di un ottimo governo, magari col supporto di un bravo economista. L’amicizia è la cosa più bella della vita con la famiglia, i figli, i nipotini...».

Il 25 giugno è uscito per La nave di Teseo il suo ultimo libro, «Quell’idiota di Bobo», un titolo dichiaratamente dostoevskiano, una citazione del protagonista, il principe Myškin...

«È proprio così. Per questa bellissima idea, per questo parallelo, devo tutto a due persone che non conoscevo: l’insegnante di storia dell’arte Marco De Feo e l’insegnante di filosofia Mario Gamba. Sul sito sciacalloelettronico.it loro paragonavano il mio Bobo al personaggio di Dostoevskij. Ricevetti una telefonata, e una bella voce femminile mi avvisò... Bobo come Dostoevskij! Ero molto prevenuto: da un sito chiamato Sciacallo cosa c’era da aspettarsi?».

Invece «Sciacallo Elettronico» è un sito di studiosi di fumetti, ritenuto molto serio, pieno di analisi sugli autori e di corsi di specializzazione...

«Il web è pieno di cattiveria, e anch’io posso essere colpito, insomma avevo quasi paura. Invece era tutto molto serio e molto bello. Dopo aver letto i testi sono rimasto senza parole. Abbiamo fatto questo libro insieme in tre... Ho anche chiesto un parere al mio amico filosofo “dostoevskista” Sergio Givone che mi ha confermato tutto: la bontà di Bobo non è diversa dalla bontà di quel principe».

La bontà non va di gran moda, come categoria dello spirito, nell’Italia 2020. E non solo.

«Invece è proprio un libro in difesa del buonismo. Abbiamo bisogno di bontà per opporci al populismo più becero. La parola d’ordine adesso è il vaffa. Il vaffa significa: non discuto, non esisti, non mi confronto con te. Robaccia. Ecco, qui c’è da avere veramente paura...».

Le vignette del libro sono molto nitide così come appaiono sul suo blog, sergiostaino.it/blog/, che lei attualizza quasi ogni giorno. I problemi con gli occhi come vanno?

«Mi sono abituato alla quasi cecità. L’inizio della distruzione della retina risale al 1977, quindi ho più vita alle spalle con la miopia invalidante che senza. Ma i rimedi ci sono. Esistono le sostituzioni...».

Cosa intende quando parla di sostituzione?

«Per esempio, nonostante il Covid, ho sostituito il tatto alla vista. Quando conosco una persona mi viene istintivo toccarla per capire com’è: prima il viso, poi un abbraccio. Succede anche con le donne. Mi ha dato il permesso il teologo Enzo Bianchi».

E adesso cosa c’entra l’ex priore di Bose?

«Mi ha filologicamente spiegato che Gesù non disse mai a Maria Maddalena, nelle scritture, “non mi toccare”, cioè il famoso “noli me tangere”, ma “non mi trattenere”. Il che è diverso! Il contatto fisico è bellissimo».

Per il lavoro come si è organizzato, con questa sua «quasi cecità»?

«È stata una continua gara con l’aggiornamento cerebrale. La vista diminuiva e il cervello si attrezzava. Abbiamo tutti questa macchina stupenda, il nostro cervello, che non finisce mai di stupire».

Cioè?

«Il cervello mi fa anche vedere ciò che non c’è. Capita che, facendo una dedica su un libro, la penna non funzioni e me lo facciano notare con imbarazzo. Invece io ho “visto” il Bobo che disegnavo e le parole che scrivevo... Altra arma: mai arrendersi. Mai smettere di alimentare la curiosità verso il mondo. Se vado in treno, chiacchiero con chi mi è vicino e le idee arrivano».

Aiuta anche la tecnologia?

«Accidenti se aiuta... Non puoi più leggere? Ci sono gli audiolibri».

Un esempio, un titolo?

«Beh, sentire “Cuore di tenebra” letto da Francesco De Gregori è semplicemente meraviglioso, lo assicuro. In più ho una magnifica macchina che scannerizza i testi e me li legge. Magari con qualche errore, alcuni inciampi... Ma vuoi mettere che posso continuare a leggere ciò che voglio?».

Tornando al lavoro...

«Per lavorare ho uno schermo speciale largo 80 centimetri con una penna elettronica. All’inizio è stato un dramma dire addio alla carta, all’odore degli inchiostri e della china, insomma alla materia».

A quando risale quell’addio?

«Al 2000. Ma poi ho scoperto l’infinito del digitale. Cioè se usi l’acquerello, la tempera o l’olio il risultato è quello che è, puoi un po’ correggere ma nei limiti. Ma col digitale c’è l’infinito assoluto. La penna speciale è calibrata al millimetro ma poi fai ciò che vuoi: cambi i colori, li metti e li rimetti. Sento che quella penna assorbe anche i miei bioritmi. Insomma, c’è qualcosa di mio lì dentro. Poi l’editing finale spetta al mio bravissimo figlio Michele, che ritocca e fa in modo che Bobo abbia il naso di sempre, gli occhiali giusti... Siamo ormai una piccola ditta artigiana».

Torniamo per un momento al tema della bontà e a quel suo libro...

«Ma sì, l’ho detto è una difesa del buonismo. Ce n’è bisogno perché non si ragiona più. E invece occorre confrontarsi, scambiarsi le idee, parlarsi, magari anche litigare. Al centro ci dev’essere il rispetto per l’idea. Ma l’inizio di tutto ha una colpa precisa. Ed è la nostra, della sinistra».

A che cosa si riferisce in particolare?

«L’inizio della degenerazione politica fu il lancio delle monetine contro Craxi all’hotel Raphael. Il primo atto veramente antipolitico... Da lì nasce tutto».

Cosa significa quel gesto, simbolicamente, secondo lei?

«Semplicemente, e amaramente, la distruzione della grande politica nata con la Resistenza. È esattamente quello che penso...».

Concludendo sugli ottant’anni e sulla scarsa vista. Ottimista nonostante tutto?

«Ottimista. E di buon umore. Lo comunico anche a tanti ipovedenti che incontro spesso: magari ragazzi e ragazze adolescenti, o ventenni, che hanno la prospettiva di dover vedere pochissimo nella vita. Ci vuole forza, ci vuole coraggio. Ma si può andare avanti bene».

Sergio Staino, la marcia indietro: "Su Silvio Berlusconi la sinistra si è sbagliata. Il male peggiore? Consegnare il Paese ai giudici". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. A ottant' anni, quando la civetta di Minerva vola al crepuscolo e il suo Bobo, il proletario amletico, smozzica quel che gli rimane della pensione, Sergio Staino, scopre di essere un idiota. Certo, un idiota nel senso del principe Myskin di Dostoevskij - un puro di cuore che viene preso a calci nel didietro - ma pur sempre un idiota. Al punto che un filosofo, Mario Gamba, e uno storico dell'arte, Marco Feo, ora gli dedicano un libro Quell'idiota di Bobo - In difesa del buonismo nella vita, nella satira e nella politica (La Nave di Teseo pp 178, euro 18) che rovescia come un pedalino l'idea culturale della sua sinistra degli ultimi quarant' anni. 

Caro Sergio Staino, a prima vista appari come un venerato maestro: padre della satira moderna da Tango a Cuore, regista, militante di mille diritti, anima critica del Pd, presidente del Club Tenco. Quando ti sei reso conto di essere un idiota?

«Dell'"idiota" in vita mia me lo sono sentito dare spesso, non so se in senso dostoevskiano o in senso classico. L'ultima volta fu con Matteo Renzi, quando mi chiese di dirigere L'Unità; disse: "Io non la voglio chiudere, anzi la voglio rilanciare: Bobo l'è un brand", sai com' è lui è anglofono. "Sergio, puoi attaccare tutto e tutti, tranne magari il referendum costituzionale". E promise soldi, "non ti preoccupare per i soldi" e abbonamenti, e un rilancio tipo il New York Times».

Fammi indovinare, una roba tipo "Sergio, stai sereno"?

«Una cosa simile. Dopodiché, mai più visto. Non una telefonata, un'intervistella, una visita. Solo 400 abbonamenti, soldi nulla. Gli editori Pessina, ai quali aveva promesso chissà cosa nei paesi arabi, erano incazzatissimi. A quel punto, in un'intervista dichiarai che il difetto maggiore di Renzi era che fosse un cafone che ti lascia col culo a terra. E una mattina alle 5 Matteo mi chiamò, sembrava un pazzo: "Sergio io non m' offendo mai, ma se mi dai del cafone tu offendi la mi' mamma e non ti perdono". Ma veramente io ho dato del cafone a te, mica alla mamma, risposi. Mesi dopo mi fermò il padre Tiziano e mi disse: Hai ragione, Sergio, mio figlio è cafone. Come la su' mamma. Sembrano i dialoghi di un film di Almodovar, ma Renzi è rimasto uguale, ricattare gli altri col suo 3% fa parte del carattere».

In questo libro, di fatto la tua biografia, ricorre spesso un'espressione di Bobo sulla sinistra: "siamo nella merda", perché la politica delle poltrone e dei compromessi supera l'etica. Bobo, al figlio buonista - un idiota - augura come unica salvezza un futuro da missionario. Tu davvero, come lui, non vedi speranza?

«Tutt' altro. Cercare il buono dell'uomo, l'idea di non fottere gli altri, rimane la cosa principale in politica. Sono i cattivi politici, quelli che instillano il livore ad aver rovinato i compagni, parliamoci chiaro. Ci sarà un motivo se la gente passa da Pd ai 5 Stelle alla Lega. La pensavano così i Prampolini, i Turati, i Macaluso che arrivò in Parlamento con la volontà di aiutare i braccianti siciliani. Quando dicono che Cristo era socialista riformista non hanno tutti i torti».

Perdonami. Ma qua siamo alla filosofia. All'intima bontà dell'uomo in cui credeva Anna Frank. Mi sembri un prelato con l'acquasantiera, proprio tu il diavolone comunista.

«Vorrei davvero che il fermento che c'è ora nella Chiesa ci fosse nella sinistra. Oramai io ho più amici tra i preti che tra i miei, e non parlo dei comunisti perché fortunatamente si sono estinti, dato che il comunismo è la versione militare del socialismo e lo stato di polizia mi spaventa sempre».

Sergio, cosa ti è successo? Qua non è come quando disegnasti la vita di Jesus (con Bobo nei panni del Giuseppe rompicoglioni) su Avvenire. Hai davvero bisogno di farti amica la Chiesa per convertiti, come i grandi atei, all'ultimo momento?

«Ho solo scoperto, per dire, il valore assolutistico della famiglia alla Wojtyla (ho due figli, tre nipoti, sempre la stessa moglie da 40 anni), pur credendo nel sogno utopistico del 68 dell'amore libero. E quando Marco Tarquinio direttore di Avvenire, uno dei migliori giornali italiani, mi chiamò, io, pur iscritto alla federazione Atei e agnostici - un po' settari ma persone perbene - fui felice».

Meno i lettori, se non ricordo male. I più tignosi si ricordavano la vignetta del tuo Papa Francesco col pugno alzato al grido di "Brucerà il Vaticano!", e Bobo che non sapeva se gioire o preoccuparsi.

«Beh. I lettori si divisero tra quelli che, come Padre Balducci, scrivevano: "Tu sei il più cattolico di tutti" e chi affermava: "Vorrei vederla bruciare tra le fiamme dell'inferno assieme a quell'attoruncolo che siede sul soglio pontificio". Eppure, mi auguro sempre che il Papa, sfogliando Avvenire chieda: "Ragazzi, ma perché non c'è più Staino?"».

Torniamo alla satira a sinistra. Prodi non esclude un governo Pd con l'appoggio di Berlusconi. L'avresti mai immaginato?

«Berlusconi almeno il senso dello Stato ce l'ha, è nel Ppe, ha dei valori. E certamente rispetto ai 5 Stelle è un gigante. E forse tutti abbiamo sbagliato nell'attaccarlo sempre su questioni personali, extrapolitiche, abbiamo lasciato che la magistratura facesse il lavoro sporco per noi e la scorciatoia ha prodotto danni soprattutto a sinistra. Invece di riempire paginate di giornali su Berlusconi forse dovevamo concentrarci sui nostri, di valori. Nel '92 abbiamo consegnato l'Italia ai magistrati, D'Alema per primo: fu un errore della Madonna. Gramsci non l'avrebbe mai fatto. Invece noi abbiamo dato credito a Davigo, uno dei danni peggiori che potevano capitare all'Italia».

Non ci credo che lo stai dicendo.

«Certo. Io sono per il rispetto delle idee. Ora, per dire, parlo con Libero dal quale mi separano spazi siderali. Ti dirò di più. Meloni e Salvini fanno l'errore di buttarsi su paesi ultranazionalisti che con la loro storia personale non c'entrano nulla. Ma se, all'orizzonte apparisse uno Zaia, democratico di destra, non mi suiciderei. Si chiama democrazia dell'alternanza come in America».

Ma hai esternato il tuo pensiero ai fratelli satirici della sinistra militante?

«I miei fratelli sono Altan e Ellekappa, lo erano Vincino, radicale dall'onestà cristallina e Angese che sapeva riconoscere il valore degli avversari. Ma la vignetta di Vauro - che pure stimo - antiisraeliana con Gesù bambino che dice degli ebrei: vengono a crocefiggermi un'altra volta, be', è una cosa che non si fa».

Quando fu l'esatto momento in cui lasciasti il marxismo-leninismo per questa sinistra riformista "idiota"? Con Ochetto? Con D'Alema che fa fuori Prodi? Quando?

«Quando, da sposato, m' innamorai di quella che ora è mia moglie, Bruna, peruviana appartenente ai nuclei marxisti-lenisti che non perdonavano la Iotti a Togliatti. Di Bruna ero innamoratissimo, e aspettando la prima figlia Ilaria, ci rendemmo conto che l'allora diritto di famiglia italiano m' impediva di riconoscerla. Disperato, insistetti con i compagni in Parlamento per fare approvare la riforma del diritto di famiglia. Mi rimbalzarono schifati. E realizzai che sapevo tutto dell'Urss e del trozkismo, ma non conoscevo i reali problemi delle masse popolari italiane. Da allora, era il 75, cambiò tutto. Secondo te da dove nasce, nei fumetti di Bobo, la funzione della figlia che ne smonta con una battuta tutte le convinzioni?».

Non ho parole. Sta facendo dei discorsi da liberale.

«Guarda mio nonno, contadino, anarchico, socialista, comunista poi cacciato dal Pci mi diceva: "Io voto comunista, ma il giorno che vincono, io voto per quegli altri, la dittatura è sempre dietro l'angolo"». Parliamo dei 5 Stelle, dai.

«Ti prego, no. Grillo è una persona cattiva, io sono buonista, eleviamoci».

Perché la satira politica in Italia praticamente non esiste più?

«Perché s' è persa la passione politica a tutto tondo, sostituita dall'invettiva e dall'odio. D'altronde all'ironia bisogna esserci portati: tu hai mai sentito Di Maio raccontare una barzelletta?...».

·        Sfera Ebbasta.

La colazione di Sfera Ebbasta accende l'ira delle femministe. Scatena le ire di donne e genitori l'ultima controversa gallery del trapper che posa in cucina accanto a una donna seminuda, rotoli di banconote e bustine di marijuana. Sandra Rondini, Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. Sfera Ebbasta sta scatenando i social in queste ultime ore dopo aver pubblicato su Instagram una gallery di immagini che lo vedono far colazione in cucina con accanto una giovane donna ritratta di spalle e in lingerie, "un oggetto tra gli altri, oltre a soldi, bustine che sembrano contenere erba e un rotolo di soldi volgarmente esposto in un borsello firmato". L’immagine, accusata di "sessismo" e di essere "un inno allo stile di vita trapper in cui la droga la fa da protagonista", sta attirando sul trapper una pioggia di polemiche non solo da parte di alcune follower, ma soprattutto genitori preoccupati dall'esempio che un cantante che gode di così tanta popolarità possa dare ai loro figli. "Esponi il culoo della tua ragazza solo per una marchetta per dei cereali?" gli scrive una follower inferocita che pare identificare in Angelina, la fidanzata del cantante, la donna che posa in reggiseno e tanga neri, poggiando bene il sedere sul tavolo della cucina mentre Sfera Ebbasta si versa dei cereali multicolor di una marca legata al cartoon della Sirenetta. La gallery ha come didascalia "La colazione è il pasto più importante" e se molti fan sembrano invidiare questo stile di vita, scrivendo "Sfera fa la colazione le sfere!", riferendosi al lato b della ragazza e chiedendosi: "Se questa è la colazione, chissà come sarà il pranzo… beato te!", altri sentenziano: "Ma quale colazione dei campioni come scrivete in tanti. Questa è la colazione dei coglioni". "Cosa non si fa per soldi" scrive un user, precisando che "me lo chiedo per entrambi, anche alla tua donna che degradi così. Mostrare il suo culoo a tutti quanti, ma cosa ti passa per la mente? Fare una cosa del genere solo per le visualizzazioni...non state bene, avete finito le cartucce", seguito a ruota da: "Che schifo! Facendo così fai solo pensare che la donna significhi soltanto una cosa. Con un pubblico così ampio impara a dare messaggi importanti invece di far vedere ‘ste cazzate" e dal paragone con "tanti cantanti famosi come te che trasmettono al pubblico messaggi di eleganza e amore, tu solo di droghe, sesso e ricchezza. Vergognati!". E proprio quella che pare essere marijuana in bella vista sul tavolo della cucina fa chiedere a molti se l’erba sia stata "legalizzata se lui non teme le guardie dopo aver postato ‘sta roba", scatenando l’ira dei genitori. In molti si dicono "preoccupati che i figli possano desiderare una vita così" e lo accusano: "Bell'esempio per i nostri figli: soldi, firme, fumo...Sei proprio un grande. Al massimo tra due anni nessuno si ricorderà di te, sei solo una meteora, ma il problema sono i danni che fai mentre passi. Per questo proibisco a mio figlio di sentire le tue canzoni. In questa foto manca solo un po’ di polverina e stiamo al completo" e anche: "Sai solo dare cattivi esempi. La colazione si fa con latte e cereali, non con culo e soldi sul tavolo. Ci sono migliaia di adolescenti che ti seguono, a partire dai miei figli. Smetti di fare sempre pagliacciate". In effetti sono centinaia i fan del trapper che hanno commentato entusiasti le foto, al massimo criticando le sue scelte di "nutrizionista coi cereali colorati… meglio la frutta, lo dico per il tuo bene", per il resto si dividono tra chi guarda "la bella sirena che per la prima volta non è quella della polizia" e chi osserva bramoso o "la mazzetta di soldi" o "l’erba vicino al borsone", ammettendo di ammirare e invidiare al tempo stesso il suo idolo: "Col cavolo che i soldi non fanno la felicità… è stupenda la colazione a fica e cereali". Se qualche fan deluso lo accusa di essersi "venduto", finendo a "sponsorizzare pure i cereali ora", altri gli fanno notare che l'operazione marketing non è riuscita perché "ok, ti sei preso sicuramente due soldi per la pubblicità, ma io tutto guardo tranne il cibo", mentre c’è anche chi scrive: "Che schifo le chiappe sul tavolino. E magari dopo ci mangi pure? Spero che almeno ci passi la varechina". Ma in tanti rispondono: "Non sei etero, vero? Comunque, sono il tavolo e ti confermo che non la passa la varechina".

·        Shannen Doherty.

Shannen Doherty: «Il cancro è tornato», la confessione in tv. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 da Corriere.it. «Il cancro è tornato. È al quarto stadio». Shannen Doherty, l’attrice nota per il suo ruolo di Brenda in «Beverly Hills 90210» e per «Streghe» lo annuncia in tv, al programma di Abc, «Good Morning America». Da anni la star americana lotta contro la malattia e sui suoi canali social ha condiviso anche alcuni momenti di battaglia contro il tumore al seno, mostrandosi anche nei momenti più critici. Come dopo una chemio, lei sdraiata su un letto d’ospedale. «Il giorno dopo la terapia non è sempre il massimo — aveva confessato —. A volte uno non è in grado di ballare o mangiare o anche pensare ai giorni successivi. Poi passa. A volte il giorno successivo, a volte 2 giorni dopo o sei giorni dopo, ma passa. La speranza è possibile. La possibilità è possibile. Per la mia famiglia e tutti coloro che soffrono, siate coraggiosi. Siate forti. Siate positivi». Oggi l’attrice ha fatto sapere che il cancro è tornato. «È una pillola amara da ingoiare, per tanti motivi. Ci sono giorni in cui mi dico: Perché io. Poi: Perché non io? Chi altri lo merita? Nessuno». Doherty, prima della trasmissione, ne aveva parlato solo con poche persone, tra cui il collega e compagno di set Brian Austin Green, il David di Beverly Hills. «Ci sono stati momenti molto difficili, in cui ho pensato di non potercela fare — ha spiegato nell’intervista — Brian ha capito la mia difficoltà. Mi chiamava sempre per supportarmi. Mi ha aiutato molto».

·        Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Shara: “Non è vero che un’artista deve “darla” per affermarsi”. Tommaso Martinelli il 21/02/2020 su Il Giornale Off. È tornata sulla scena musicale con un brano dedicato a Mia Martini, ottenendo uno straordinario successo. Shara, al secolo Sarah Ancarola, racconta la sua nuova avventura discografica a OFF.

Shara, torni sulla scena musicale con “Infinitamente Mia”: come nasce questo nuovo progetto? 

«È un progetto nato apparentemente per caso. Dico così perché nella vita nulla accade mai per una pura casualità, ormai ne sono più che cosciente. Lo scorso febbraio un’amica mi girò la locandina che pubblicizzava i provini della XXV edizione del Premio Mia Martini, invitandomi, con molto entusiasmo, a prendervi parte. Qualche giorno dopo, anche il mio compagno mi disse che erano in corso i provini di questo concorso canoro e mi disse di provarci, senza sapere che anche un’amica me lo aveva suggerito. Lo lessi come un invito da parte dell’esistenza a fare qualcosa che non avevo mai fatto, dato che non credo molto ai concorsi in generale. Inviai un mio video live e, dopo un paio di giorni, mi fu comunicato che ero stata selezionata per la seconda fase del concorso, che si sarebbe svolta ad aprile nella città di Scalea. Passai anche quella selezione e, per accedere alla terza, avrei dovuto scrivere una canzone per la finale radiofonica. Il titolo mi arrivò subito, proprio quando ero ancora lì a Scalea. Capii che dovevo omaggiare questa grande artista con un testo che parlava di lei, del suo intimo rapporto con la sua anima tormentata, accessibile a pochi, e la sua complicata vita. A settembre, il brano è arrivato tra i primi 10 in gara nella finale radiofonica e mi ha dato la possibilità di arrivare fino a Bagnara Calabra per la finalissima. L’omaggio alla memoria di questa immensa artista non poteva fermarsi solo alla canzone, per ricordare la grande Mimì pensai che bisognava far uso anche delle immagini, così mi venne l’idea di girare un videoclip proprio nella sua Bagnara che lei amava tanto. Sono più che felice di aver dato vita a questo progetto, perché mi ha dato l’opportunità di omaggiare e ricordare una delle artiste più grandi ed emblematiche che abbiamo avuto in Italia».

A quali altri progetti ti stai dedicando?

«Oltre alla promozione di Infinitamente Mia, sto lavorando alla realizzazione di una iniziativa benefica, volta al supporto della popolazione di un villaggio africano. Per questo progetto ho già pronto il brano col relativo videoclip, che verranno lanciati all’inizio del nuovo anno per promuovere quest’iniziativa, che mi vede inoltre coinvolta con un grande concerto-evento al Teatro Mediterraneo di Napoli».

Come nasce la tua passione per il mondo dello spettacolo?

«Le passioni sostanzialmente nascono con noi. Quella per la musica e per lo spettacolo in generale si è manifestata in me da subito, da piccola adoravo rovistare tra i dischi che avevo a casa e scoprire quali suoni e misteriose armonie erano segretamente nascosti in loro. Per non parlare del pianoforte, che mia nonna aveva a casa sua, quando andavo a trovarla mi perdevo per ore tra quei vecchi tasti nell’attesa di sentire qualcosa di magico. Vivo la musica come fosse pura magia».

Durante il tuo percorso professionale ti sei mai detta: “Ma chi me lo ha fatto fare?”

«Oh sì, certamente! Sono i classici momenti di “sclero”, come li chiamo io, quando vedo il mondo attorno che gira in maniera opposta a me e ai concetti che faccio scivolare tra le note delle mie canzoni. Poi ritrovo la motivazione al “mio tutto” non appena ricordo che la Musica è una missione e che nulla e nessuno deve potermi sviare dal mio percorso, il mio messaggio di vita». 

Nei momenti più complicati, chi o cosa ti ha dato la forza per andare avanti?

«È quella energia invisibile che è ben nascosta in ognuno di noi. Quella scintilla che ci rende tutti unici, ma fortemente connessi gli uni agli altri, perché parte della sostanziale matrice divina».

Il luogo comune che proprio non sopporti del mondo dello spettacolo?

«Che un’artista donna deve solo “darla” per affermarsi e arrivare al grande pubblico, alla notorietà e al successo. Lo sento dire spesso quando vedono che un’artista donna ce l’ha fatta. Molti non si soffermano sul talento e sulle doti del “cervello” femminile, ma preferiscono togliere il merito, perché un’artista donna che si afferma con le sue sole forze farebbe cadere secoli di regno costruito sulla figura maschile».

Il prossimo step della tua carriera che ti piacerebbe raggiungere?

«Sicuramente vorrei avere una mia canzone come main theme nellacolonna sonora di un film in stile Disney. Credo che una cosa del genere sancirebbe la realizzazione del mio sogno più grande».

L’episodio OFF della tua carriera? 

«La mia è sempre stata una vita dai tocchi romanzati, quindi, di episodi OFF ne potrei raccontare tanti! Ce n’è uno che racchiude, in breve, tutto il mio mondo di musica (e non solo!) e io l’ho sempre tenuto nel cuore come un grande segno del destino. Era una mattinata di pioggia intensa di inizio Novembre. Londra si era svegliata sotto un fitto grigiore e all’insegna di temporali e non comuni delays. Ero diretta a Camden Town per un incontro di meditazione di gruppo, ma la metro fece un insolito ritardo di oltre 20 minuti e, quando arrivai a destinazione, avevano ovviamente staccato anche il campanello per non essere disturbati. Pensai che Dio non voleva per nulla aiutarmi a trovare risposte e un po’ di tranquillità. Feci alcuni passi, mentre un fiume d’acqua scorreva tra i miei piedi quando, a un tratto, notai qualcosa per terra, ma avevo troppa vergogna di abbassarmi per capire cosa fosse. Proseguii, ma qualcosa mi disse di tornare indietro per raccogliere quell’oggetto. Tornai indietro e quando mi abbassai per vedere cosa fosse rimasi sbalordita. Era un ciondolo a forma di microfono. Un grosso brivido mi corse per tutto il corpo e compresi che quello non poteva che essere un segnale. Quello stesso pomeriggio ero in teatro, al Dominion Theatre dove lavoravo, quando sentii un’energia fortissima alle mie spalle, era come se qualcuno mi stesse osservando. Mi girai e vidi che era Brian May, con in mano un secchiello di pop corn caramellati. James, un ragazzo che lavorava lì in teatro, mi si avvicinò e mi chiese di firmare un documento di omaggio per quei pop corn. Non potevamo, ovviamente, far pagare uno snack a uno degli autori di We Will Rock You, il musical che andava in scena proprio lì al Dominion! Pochi giorni dopo, il pacchetto che portavo sempre con me, contenente il mio primo album Pranava Rainbow insieme a qualche foto, vidi metterlo nel cofano dell’auto di Brian May insieme alla sua chitarra… la mia faccia tosta mi aveva fatto avvicinare il suo body guard. Da quell’episodio del ciondolo passarono alcuni giorni, io avevo quasi deciso di tornare in Italia quando al teatro fecero dei provini per il musical… ormai lo conoscevo a memoria!»

·        Sharon Mitchell.

Barbara Costa per Dagospia il 24 maggio 2020. “Il dottore sa cosa vuol dire una doppia penetrazione anale”. E lo sa perché questo dottore è una donna che di doppi-giochi anali e vaginali ne ha fatti, e sui set: il dottore è stata una famosissima pornostar! Se il porno negli Stati Uniti gode di un sistema al top di analisi e tamponi (faringei, anali, vaginali) e di tracciamento, monitoraggio e messa in quarantena dei performer (sistema che sta lavorando duro per accludere a sé tamponi e test antiCovid-19) lo deve a lei: Sharon Mitchell. La dottoressa Mitchell, ma per i pornomani su in età semplicemente la "Mitch": i fan del porno veterani, la Mitch se la ricordano bene, non tanto per il suo viso, ma per quel suo lato B sublime, e per quel suo corpo androgino, bellissimo, estraneo a ogni ritocco, in più di 200 film sfrenatosi in abilità fetish, bisex, in threesome con attori e attrici leggendari (John Leslie, Jamie Gillis, un Siffredi agli inizi). E per quel suo folto cespuglio tra le gambe, cespuglio passato di moda da tempo. Sharon Mitchell, star del porno, ma pure sposa 17enne per 5 mesi, pene "usato" per uscire legalmente da quella sua famiglia adottiva, cattolica, perbene all’apparenza (padre ubriacone) che le soffocava l’ambizione. Mitch che, nemmeno 18enne, se ne va a New York e diventa una ballerina professionista. E Mitch che al ballo preferisce lavori di modella di nudo e di porno, e diventa nel settore una star. Mitch che trova nel porno quella libertà da sempre agognata, e amori sinceri e poli: con quei registi e attori con cui divide il set, per un periodo la Mitch decide di dividerci la vita in una comune dove tutto è appunto messo in comune, compresa la crescita dei figli. La Sharon Mitchell di quegli anni trova e prova anche la parte più buia, quella che ha nome eroina, e che rimarrà una costante della sua vita per 16 anni. È l’era del porno che si usa chiamare d’oro, epoca in cui si guadagnano cifre folli, e porno che però rispetto a oggi di una qualità basica era mancante: i controlli medici. Si pornava come oggi in gran parte senza preservativo, e però senza rigoroso controllo medico, una negligenza sanitaria che a un certo punto esige il suo conto. Dalla seconda metà degli anni '80 vari attori muoiono di AIDS sebbene questa sigla si stenti a dirla: spesso si celano le vere cause di morte, per non gettare nel panico l’intero settore e non mandare a puttane i suoi copiosi introiti. Ma il porno cambia, entra negli anni '90 e diventa un’altra cosa, diventa un business, business che toglie le scorie della favola in cui molti si cullavano per introdurci una professionalità che avoca a sé regole e serietà. Regole e serietà che abbraccia in pieno una Sharon Mitchell che, dopo una violenza subita da un fan-maniaco, chiude con l’eroina, chiude col porno girato, per andare all’università, laurearsi in sessuologia, e creare l’AIM, sigla del più lungo Adult Industry Medical Health Care Foundation, struttura privata in cui agli ordini della dottoressa Mitchell gli attori porno devono essere testati, e i risultati dei loro esami immessi in un database. Tale tracciamento porta all’individuazione di ogni soggetto vittima di ogni tipo di virus sessualmente trasmissibile, il suo pronto stop dalle riprese, la sua presa in cura. Di più. La dottoressa Mitchell dispone che ogni accoppiamento sui set, duale, plurimo, e sia etero che omosex, sia registrato, con nome degli attori in esso impegnati, e data in cui il coito è avvenuto. In questo modo, all’individuazione di un positivo, scatta la chiusura dei set, la messa in quarantena, il tracciamento di ogni attore sia venuto in contatto col soggetto malato: attori che sono fermati, testati, e curati. Stesso iter per chi sia venuto sessualmente a contatto con attori risultati positivi a seguito della scoperta del loro contatto con il performer positivo numero 1. La strategia della dottoressa Mitchell ha subito scelto il web come custode dei dati clinici degli attori, sia per la velocità del mezzo ma soprattutto per eliminare alla radice la pericolosa abitudine degli attori vittime di virus di alterare il resoconto cartaceo delle loro analisi. L’AIM di Sharon Mitchell non solo ha permesso al porno di proteggersi, ma pure di autogestirsi e abituarsi a vivere periodi di non lavoro e obbligatorie quarantene che negli ultimi 20 anni sono scattate (e rigorosamente mantenute) appena un pornostar risultava positivo. All’elenco dell’AIM avevano accesso registi e produttori per accertarsi della disponibilità o meno di attori a pornare, e quando i guariti sarebbero tornati sui set (da clamidia e gonorrea ti curi con antibiotici). L’AIM mai ha trovato sostegno governativo né relativi aiuti economici, e ha dovuto chiudere nel 2011 per bancarotta e per non essere riuscito a riemergere da questo enorme pasticcio: la fuga dei dati sensibili, anagrafici e medici, dei performer al database dell’AIM registrati. Fin dalla sua creazione l’AIM è stato oggetto di querele da parte degli attori a esso iscritti e testati e risultati positivi a un virus, che giustamente chiedevano il rispetto della loro privacy (nota bene: con un monitoraggio così efficace, il contagio sui set si è via via sgonfiato, facendo emergere contagi sporadici avvenuti fuori dai set, tramite condotte private sventate). L’importante  patrimonio logistico e di conoscenza dell’AIM di Sharon Mitchell è passato nelle mani del PASS, sigla del Performer Availability Scheduling Services, oggi l’unico centro riconosciuto in cui gli attori porno che lavorano negli Stati Uniti devono farsi testare e monitorare il loro stato di salute complessivo. Ogni 14 giorni. I test PASS sono a pagamento, sono volontari ma obbligatori: un attore porno senza il suo test PASS in ordine non lavora, se ne salta uno sono guai, deve stare fermo un mese e "PASSalmente" regolarizzarsi, e si crea una brutta nomea che lo butta ai margini del porno che conta (il porno USA non accetta test effettuati in altri centri, né test effettuati all’estero). A differenza dell’AIM, i test PASS, e i dati contenuti nel suo database, sono segreti, e tali rimangono. 

·        Sharon Stone.

Antonella Catena per "amica.it" l'1 ottobre 2020. Sharon Stone giura che come bacia lui non c’è nessuno. Nessuno a Hollywood, ha rivelato il sex symbol femminile N 1 degli Anni 90 e 2000, l’ha mai baciata come Robert De Niro. Il più grande attore del mondo? Certo. Ma adesso sappiamo anche che l’attore famoso per l’identificazione completa nei suoi personaggi è talentuosissimo pure nel baciare. Parola di una che se ne intende: Sharon Stone.

Sharon Stone: Bob De Niro è the best kisser. La biondissima Sharon, protagonista di Ratched (su Netflix) l’ha confessato intervistata da Watch What Happens Live. Alla domanda sul bacio più indimenticabile della sua carriera di vamp cinematografica, Sharon ha risposto con una definizione bellissima. Il best kisser della sua vita d’attrice è senza dubbio Robert De Niro. «È lui di gran lunga il più grande baciatore di Hollywood».

In che film Sharon Stone ha baciato De Niro. Il film è Casinò di Martin Scorsese. L’anno il 1995. Lui nel film è Sam “Asso” Rothstein. Uno di quei gansgster scorsesiani che solo Bob De Niro sa interpretare. Nel senso di renderli umani. In questo caso, l’umanità, gli arriva dall’amore (cieco, incondizionato, drogato…) per la biondissima Ginger. Bellissima com’era Sharon Stone all’epoca… Guardatela tirare i dadi sul tavolo da gioco. E con il foulard portato tra i capelli. O stesa sul letto e vestita solo di pelliccia e gioielli. Casinò è anche l’unico film per cui l’attrice di Basic Instinct ha conquistato una nomination all’Oscar. Il merito, a quanto pare, fu anche del suo partner. Non solo quindi, the best kisser, ma anche il miglior attore con cui ha lavorato. E da cui ha imparato di più…

Ha detto Sharon: «Era l’attore che ammiravo di più in assoluto. Ricordo che non vedevo l’ora di sedermi accanto a lui. Per dimostrargli quello che sapevo fare. E il bacio sullo schermo è stato il punto più alto. Anche perché si portava dietro tante altre cose, a partire dalla mia grande ammirazione per lui». L’attrice svela anche che era davvero pazza di lui: «Come attrice lo adoravo. Se mi avesse dato una martellata in testa, gli avrei detto che andava tutto bene… Quel bacio è stato davvero favoloso. Non riesco a paragonarlo a nulla. A qualsiasi altra cosa, replicherei con un “bleah”». La morale della favola? Come best kisser, Bob De Niro è molto meglio di Richard Gere e Michael Douglas. Due, tra i tanti, con cui Sharon Stone ha lavorato. E baciato…

Luca Autero per "cinema.everyeye.it" il 12 giugno 2020. Intervenuta recentemente al podcast Films to Be Buried With di Brett Goldstein, la sessantaduenne Sharon Stone ha raccontato di essere stata "a un passo dalla morte", tempo fa, quando a casa sua fu centrata da un fulmine. "Stavo riempiendo d'acqua il ferro da stiro" ha ricordato l'attrice. "Avevo una mano sul rubinetto e una sul ferro, quando il pozzo è stato colpito da un fulmine, che è risalito attraverso l'acqua. Sono stata scaraventata attraverso la cucina, e sono andata a sbattere sul frigorifero." Furono attimi terrificanti per la protagonista di Basic Instinct, che ha recentemente raccontato la sua quarantena. Lo shock le fece perdere i sensi, e rinvenne grazie alla prontezza di sua madre, che le diede degli schiaffi sul viso. "Mia madre era lì, mi ha colpita in faccia e sono tornata in me. Ero in uno stato così alterato, così... non so come descriverlo, così accelerato." Sharon Stone fu quindi portata d'urgenza in ospedale e sottoposta a un elettrocardiogramma, che evidenziò che c'era ancora elettricità che attraversava il suo corpo. "Sono andata a fare elettrocardiogrammi ogni giorno per dieci giorni" ha aggiunto. Nello stesso programma l'attrice, che fu vittima di un ictus nel 2001, ha raccontato che quello del fulmine non è stato l'unico incidente strano e rischioso della sua vita. "Mi sono successe un sacco di cose... una volta sono rimasta impigliata in una corda da bucato e mi sono tagliata il collo a pochi millimetri dalla giugulare."

Sharon Stone cerca l'anima gemella online ma la app la blocca pensando sia un fake. L'account dell'attrice è stato rimosso, e poi riattivato, dalla app per incontri Bumble. La Repubblica il 30 dicembre 2019. Anche l'attrice Sharon Stone frequenta le app di incontri, ma in molti hanno pensato che il suo profilo fosse un fake, tanto che l'applicazione in questione - Bumble - le ha bloccato l'account. La star di Basic Instinct è ricorsa a Twitter per protestare ed è stata subito riammessa, con gli auguri della direttrice editoriale Clare O'Connor: "Spero che tu possa trovare il tuo tesoro". "... hanno chiuso il mio account. Alcuni utenti hanno riferito che non potevo essere io! - ha twittato l'attrice 61enne ai suoi 127.291 follower, secondo quanto riporta la Bbc online -. Ehi @bumble, mi stai escludendo?...". Ma il blackout è durato poco: "Fidati di noi, sicuramente ti vogliamo sull'alveare", le ha risposto O'Connor. Sharon Stone è stata sposata due volte: prima con il produttore Michael Greenburg e poi con il giornalista Phil Bronstein, dal quale ha divorziato nel 2004. E in passato non ha fatto segreto del suo status di single: nel 2014 ha detto di essere "disponibile per appuntamenti" e l'anno scorso, durante il Late Late Show con James Corden ha svelato di essere ancora alla ricerca della sua metà svelando "mi piacciono alti.

Lorenzo Soria per “la Stampa” il 3 maggio 2020. Sono passati quasi trent' anni dai tempi di Total Recall-Atto di forza e di Basic Instinct con l'iconica scena con le gambe accavallate che non lasciava molto all' immaginazione. Poco dopo venne Casino, di Martin Scorsese a rivelare le sue qualità di attrice. E Sharon Stone divenne un delle attrici più ricercate e ammirate del pianeta. Oggi è una bella 62enne che si fa notare per lo sguardo sereno e le parole sagge. Una donna che ne ha vissute tante: due mariti, tre figli adottivi, due aborti spontanei, un'emorragia celebrale che l'ha tenuta paralizzata per mesi, l'impegno nella lotta prima contro l'Aids cui ha aggiunto quella contro Alzheimer e infarto femminile. Sta prendendo molto sul serio anche il Covid-19 , è in lockdown da prima che le autorità californiane lo rendessero obbligatorio. E oggi la troviamo appunto nell' ampia terrazza della stanza da letto nella sua villa di Beverly Hills, vicino a Franklin Canyon, con i capelli tirati su e una maglia rossa molto casual. La comunicazione avviene via videoconferenza. Eccola.

Che cosa le manca di più della vita pre-pandemia?

«Ma questa è la mia vita normale. Non posso uscire di casa senza paparazzi o persone che mi inseguono, quindi non esco molto. Vivo da eremita da 20 anni! Passo più tempo coi miei figli, che è una cosa bella. Quello che mi fa soffrire è la situazione del mondo, l'orrore e la morte».

Come ha reagito alla sofferenza?

«Ci sono stati momenti durante questa crisi in cui ho pianto per due, anche per tre giorni. Per il dolore di quanta perdita c'è stata. C'è un esercizio buddista che ti insegna a "stare dentro" i sentimenti. Non resisti, lasci che ti consumino completamente. E poi al punto del completo consumo ti chiedi quanti altri esseri umani nel pianeta si sentono esattamente allo stesso modo. E quando penso a questo provo un tale senso di compassione che mi travolge, sino a che sento un enorme senso di liberazione».

La società tornerà come prima dopo la pandemia?

«Non credo. Penso che il mondo cambierà molto. Penso che lavoreremo molto più da casa e che il comportamento delle persone cambierà. Abbiamo già iniziato a cambiare con #metoo, rispettando di più gli spazi degli altri. Penso che questo sia solo un altro passo nella direzione del rispetto per gli spazi reciproci e per il mondo che ci circonda. Penso che siamo a un reset, che stiamo riesaminando passo per passo come dobbiamo comportarci. Come se fossimo tornati all'asilo»

L'abbiamo vista recentemente in "The New Pope" di Paolo Sorrentino. Come è stata l'esperienza?

«Beh, prima di tutto penso che John Malkovich sia un attore straordinario. E' l' immagine sputata del mio primo ragazzo in Pennsylvania, quindi non ho la capacità di giudicarlo razionalmente! E anche Paolo Sorrentino è un genio. La grande bellezza è una delle cose più belle che abbia mai visto in vita mia. Penso che sia quasi impossibile per lui fare cose meno che fantastiche. Andare in Italia, girare a Cinecittà, vedere tutti i vecchi set di Fellini è stata davvero un'esperienza meravigliosa per me».

 Ha una nuova serie in preparazione, diretta da Ryan Murphy.

«Sì, uscirà a settembre. Si chiama Ratched con Sarah Paulson e Cynthia Nixon che sono incredibili e Judi Davis. Tutti sono così bravi. Non posso dire molto, se non che è un prequel del Nido del cuculo, sulla vita dell'infermiera Ratched negli anni 40».

E poi c' è un libro in arrivo.

«Esce nel marzo del '21 e sarà dedicato a mia madre. Ho scritto molti racconti per riviste, ho scritto per Esquire e Atlantic, e per Bazaar . Un giorno ero alla fiera del libro di Nantucket e ho incontrato molti scrittori e anche l'organizzatrice che aveva letto alcuni dei miei scritti. Tutti loro mi hanno convinto che scrivo bene e che era ora che mi sedessi e mi mettessi a scrivere un libro. E così ho fatto».

Sembra così saggia. Si arrabbia ogni tanto? E che cosa fa?

«Mi sono data il permesso di uscire sul balcone e di mettermi ad urlare come se fossi stata assassinata. Quindi esco e urlo un sacco e la cosa fantastica è che i vicini sembrano capirlo, nessuno pensa che sia strano se urlo, urlo e urlo. E poi torno dentro e batto la testa sul mio cuscino o do pugni al cuscino e quindi torno al lavoro. Urlare fa bene, specie in un momento come questo ho bisogno di sentire più compassione, più umorismo, più senso di tenerezza. Ho bisogno di sentire più comprensione di questa crisi globale».

·        Silvia Rocca.

Dagospia il 5 gennaio 2020. Comunicato Stampa. Di Silvia Rocca, ex modella, ex calendiva topless dj, scrittrice erotica, sexy giornalista, opinionista, concorrente della prima edizione del reality “La Fattoria” condotto all’epoca da Daria Bignardi nel lontano 2004, showgirl, sportiva, sorella d’arte e chi più ne ha più ne metta non si sente più parlare da un po’; negli ultimi anni si è sposata con un uomo australiano, ha avuto una bambina di nome Jade, si è trasferita in Australia, si è separata da un po’ e a fine gennaio tornerà a vivere in pianta stabile in Italia insieme a sua figlia, ospitata almeno per il primo periodo a Milano dalla sorella Stefania, famosa ed apprezzata attrice, con cui oggi racconta di avere un bellissimo rapporto. Silvia Rocca ora che ha quasi finito il suo esilio in Australia si confessa a ruota libera senza peli sulla lingua: “prima di trasferirmi all’estero mi candidai con Forza Italia, ma la potenza Renzi di allora era molto forte (e anche lo sponsor); Matteo Renzi non mi è mai piaciuto, non gliela darei nemmeno se ci trovassimo soli su un’isola deserta”. La cinquantunenne poi ci spiega qualche dettaglio in più sul suo lavoro di topless dj - fisicamente sono ancora una bomba, il lato B è il mio punto forte! Oltre a fare la dj la cosa che mi riesce meglio sono i calendari, ne ho fatti di bellissimi! Per esibirsi in un dj set bisogna saper suonare, ho suonato in tutto il mondo, il pubblico da discoteca bisogna inzigarlo con della bella musica, se metti la musica sfigata nonostante le tette fuori non è sufficiente, è questo che le donne ancora non hanno capito. L’ex modella torinese prosegue - sono sempre stata una donna libera ed indipendente, e consiglio alle donne di esserlo sempre, trovatevi un fidanzato quando ne avete voglia voi; gli uomini non sono tanto bravi con noi donne, fanno tanto gli innamorati ma dopo tre mesi passano ad un altra passione. La trasmissione condotta dalla Rocca che nei primi anni duemila spopolò e che la fece conoscere e consacrare al grande pubblico si chiamava “Spicy Tg”, il format prevedeva che Silvia intervistasse i suoi ospiti completamente nuda, e ricorda quell’esperienza lavorativa così: “Spicy Tg è nato da una mia idea che ho costruito insieme a Vittorio Feltri, mi pagarono tra l’altro molto bene. Mi piacerebbe molto riproporre questa trasmissione vent’anni dopo, e non avrei affatto problemi a denudarmi! Non è facile lavorare se non si scende a compromessi, io ho deciso di non scenderci e per tanto ho preferito spogliarmi! Io protagonista di un film a luci rosse?! Nooo, mai e poi mai! Ora mi piacerebbe tornare alla grande in televisione dopo anni di assenza con una nuova edizione di Spicy Tg appunto e con L’Isola dei Famosi, sarebbe la trasmissione più adatta a me che sono sportiva e anche se non si direbbe ho un animo molto wild, quindi Alessia Marcuzzi chiamami che voglio partire per l’Honduras, diventare una tua naufraga e ovviamente vincere!”

·        Simona Izzo.

"Il sesso a orari impossibili..." ​Le rivelazioni hot di Simona Izzo. Simona Izzo e il marito Ricky Tognazzi si sono riscoperti ancora più uniti, soprattutto sotto le lenzuola, nelle recenti settimane di isolamento sociale. Durante un'intervista l'attrice e regista ha fatto qualche confessione piccante. Novella Toloni, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale.  I 25 anni di matrimonio che Simona Izzo e Ricky Tognazzi si apprestano a festeggiare non sembrano aver spento i bollenti spiriti della coppia del cinema italiano, anzi. Durante un'intervista rilasciata al settimanale F, l'attrice e regista ha confessato di vivere un amore ancora passionale con il suo compagno e di aver riscoperto una piacevole quotidianità con lui grazie alla recente quarantena. L'emergenza causata dalla pandemia da coronavirus ha costretto tra le mura domestiche anche Simona Izzo e Ricky Tognazzi. Se per molte coppie la convivenza forzata h24 è stata difficile e complicata sotto molti aspetti, per l'attrice e regista 67enne la quarantena è stata in realtà l'occasione per rinsaldare un amore lungo un trentennio: "Vivo da 34 anni giorno e notte con lui. Soffriamo se ci separano, anche se ci è mancata molto la nostra famiglia, e la troupe con cui lavoriamo. Però insieme ci bastiamo, la nostra storia è molto sfaccettata e compiuta". Sulle pagine del settimanale F, Simona Izzo ha raccontato un lato inedito di Tognazzi, abile cuoco ai fornelli e tuttofare nelle faccende di casa. Lo ha documentato lei stessa nelle ultime settimane, pubblicando sui social numerosi scatti della loro vita quotidiana e di Ricky spesso immortalato con le mani in pasta in cucina. Poco importa che l'attore, 65 anni, di recente abbia svelato a "Vieni da me" che, fosse stato per lui, non avrebbe sposato la Izzo alla quale cedette dopo molta "insistenza". Sempre al settimanale Simona Izzo ha ammesso di avere una felice vita sessuale e di non annoiarsi affatto sotto le lenzuola, nonostante i venticinque anni di matrimonio che festeggiano proprio quest'anno. La passione che li lega ormai dagli anni '80 sembra non essere mai scemata, sia fuori che dentro il letto: "Facciamo l’amore a orari impossibili, il pomeriggio ci gira meglio. A volte ci sembra di rubare il tempo al lavoro e questa cosa la troviamo eccitante, visto che non abbiamo mai smesso di lavorare alla prossima serie Mediaset con Sabrina Ferilli che doveva partire ad aprile". Una confessione piccante che non stupisce, visto che Simona Izzo è conosciuta per non avere peli sulla lingua, come quando, mesi fa, definì Diletta Leotta una "cretina" per aver auto celebrato la sua bellezza all'ultimo Festival di Sanremo.

Simona Izzo: “Vittorio De Sica mi fece piangere e…” Salvo Cagnazzo il 27/04/2019 su Il Giornale Off. Inizia la carriera nel mondo dello spettacolo giovanissima come doppiatrice; è stata una signorina buonasera della Rai e conduttrice tv – “Prossimamente. Programmi per sette sere” e “Giochi senza frontiere”. Da metà anni Ottanta insieme alla sorella Rossella si dedica anche alla regia per cinema e fiction. Negli anni Novanta la consacrazione (fra cui il Nastro d’argento per il doppiaggio di Jacqueline Bisset nel film “Scene di lotta di classe a Beverly Hills”) con il sodalizio con Ricky Tognazzi, del quale cura le sceneggiatore di quasi tutti i film e che diventa suo marito nel 1995. Ne 1994 dirige “Maniaci sentimentali”, con cui vince il David di Donatello come miglior regista esordiente. Nel 2012 partecipa alla prima edizione di “Pechino Express” su Rai 2. Continua a lavorare nel mondo del cinema, ricoprendo molteplici ruoli. Lei è Simona Izzo e in questa quarantena agli sgoccioli vi proponiamo la sua intervista cult (Redazione) Aneddoti e segreti del doppiaggio: Simona Izzo non poteva avere un destino diverso. Figlia del doppiatore e direttore del doppiaggio Renato, comincia la carriera nel mondo del cinema sin da bambina, per poi approdare negli anni ai dialoghi, alla sceneggiatura, alla recitazione e alla regia. L’abbiamo incontrata durante il CineFuturaFest di Roma, il festival di corti realizzati dagli studenti italiani: in questa intervista OFF la Maestra del doppiaggio italiano ci ha sorpreso raccontandoci i suoi inizi.

Durante il Festival ha sottolineato l’importanza della formazione e della preparazione.

«In Italia purtroppo queste cose mancano. Non vorrei mai che un giorno uno dei miei nipoti mi dicesse che vuole andare a New York per studiare cinema. Eppure è stata proprio la generazione dei nostri padri a fondare la cinematografia americana. C’è una grossa contraddizione, come se non avessimo capitalizzato ciò che ci hanno lasciato i nostri genitori».

Si può invece dire che lei sia nata nella famiglia perfetta. Ci vuole raccontare il suo debutto come doppiatrice?

«Fu con Vittorio De Sica per Il giudizio universale. Era il 1961, avevo 8 anni e andò malissimo: il Maestro mi disse che avrei dovuto doppiare un maschio e io, che ero molto vezzosa e carina, risposi: “No, grazie, io sono una femmina“. Mia madre cercò di convincermi e mi misi a piangere. De Sica registrò quel pianto: in quel ruolo avrei dovuto piangere. Iniziai così, piangendo».

E la sua più bella esperienza di doppiaggio?

«Sicuramente per Voglia di tenerezza: doppiavo Debra Winger, che aveva una voce molto cavernosa. Al provino imitai la sua voce, ma nel film la cambiai. Fu un’esperienza forte perché dovetti ripetere una scena per 32 volte!».

Ha mai conosciuto la Debra Winger?

«Sì, quando ci siamo conosciute mi disse: “Non è possibile che tu sia la mia voce italiana“. Allora le risposi imitandola e si fece un sacco di risate».

Qualche altra esperienza “forte”?

«Quando ho doppiato Jessica Lange in Il postino suona sempre due volte: la famosa scena d’amore della farina l’ho dovuta fare con mio padre, perché non c’era il doppiatore. Fu lui a propormelo, gli dissi che non l’avrei mai fatta. Alla fine mi rimproverò perché non sapevo “orgasmare”»!

Ha doppiato anche Madonna e Kim Basinger.

«Inizialmente, avendo una voce da bambina, mi occupavo solo di cartoni animati. Anni dopo mio padre mi disse che avrei dovuto sostenere un provino: “esci, fuma, prendi freddo e fai le ore piccole“. Servivano per doppiare Kim Basinger».

Lei ha anche collaborato per i dialoghi di Shining.

Sì, sono stata io ad inventarmi la parola “luccicanza”. Stanley Kubrick voleva una parola che non esisteva, con desinenza vernacolare. E nessuno riusciva a trovarla. Poi un giorno la governante romana di mia madre usò il termine “parannanza”. Allora mi venne in mente la “luccicanza”. La proposta arrivò a Kubrick, che si faceva sempre ritradurre i testi dall’italiano all’inglese. E accettò».

·        Simona Ventura.

Da CHI il 14 gennaio 2020. Sul numero di Chi in edicola domani Simona Ventura confessa: «Il matrimonio con Giovanni Terzi è nei piani: lui è una persona straordinaria, quadrata, intelligente, protettiva. Siamo simili, abbiamo sofferto e ci siamo trovati. È una quercia alla quale finalmente mi posso appoggiare». La Ventura parla anche del suo programma “Settimana Ventura” e replica alla collega Paola Ferrari che si era domandata come mai Simona fosse tornata al calcio dopo “Temptation Island”. «Spero che abbia trovato una risposta, come diceva la pubblicità “two gust is megl che uan”, bisogna variare». Di “X Factor” programma che ha lanciato e che ha subìto un calo, la Ventura dice: «Penso che il programma abbia trascurato la missione di essere trasversale e la direzione artistica di Alessandro Cattelan non mi è sembrata riuscitissima. Manca la parte popolare e quella bisogna saperla fare, in questi anni si sono occupati di musica sconosciuta»; in riferimento a Manuel Agnelli, giudice della penultima edizione che aveva definito la Ventura “il peggior giudice di X Factor”: «Non so chi sia, ma non sa quanti sconosciuti sono poco carini con me». A proposito di Sanremo, la Ventura dice: «Diletta Leotta? La difendo: lei fa il suo, è bellissima e ha avuto successo come molti giovani oggi, cioè velocemente, per questo si può sbagliare facilmente. Ma non ho niente contro di lei, è giusto sognare e fa bene a buttarsi: il suo nome a Sanremo ci sta come ce ne stanno tanti altri». «Non ci sarò, era solo una voce uscita sui giornali, ma faccio il tifo per Amadeus perché lo merita». «Rula Jebreal a Sanremo? Secondo me su quel palco ci sta bene. Ho letto che parlerà in favore delle donne e sarà molto interessante. La conosco e la stimo». Morgan? Io gli vorrò sempre bene, ma sono anche vicina alle mamme dei suoi figli e dico loro di portare pazienza perché Marco è un uomo stupendo che è sempre in lotta con se stesso, ed è il suo peggior nemico». «La Lamborghini? Potrebbe essere mia figlia ed è intelligente a fare Sanremo dopo The Voice perché salire su quel palco è come prendere una laurea nello spettacolo».

La confessione della Ventura: "Io drogata? Macché. Ecco tutta la verità". La conduttrice si racconta al Fatto Quotidiano Magazine: "Quella sull’uso di droga è una fake news che mi ha fatto molto male". Pina Francone, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Simona Ventura ha iniziato l'anno nuovo cavalcando la riscossa arrivata nel 2019, anno in cui dopo oltre un decennio è tornata in libreria con "Codice Ventura". Un libro di 208 pagine in cui la 54enne ripercorre, tra emozioni e ricordi, i suoi anni Ottanta a Novanta. Il libro edito da Sperling e Kupfer è uscito a fine novembre e già oggi, a gennaio 2020, possiamo dire che è (stato) un successo editoriale. Cosa bolle nella "pentola" di Simon Ventura lo ha raccontato lei stessa in occasione di un'intervista a tutto tondo – e a cuore aperto – al Fatto Quotidiano Magazine. La chiacchierata con FQMagazine, peraltro, le ha dato modo di ricacciare duramente al mittente le accuse di fare uso di sostanze stupefacenti. Un'accusa pesantissime che le ha fatto molto male. Una maldicenza che ha trovato spazio nel suo libro nel quale ha appunto scritto: "Quante volte mi hanno accusato di aver fatto uso di droga…". E nell’intervista "SuperSimo" si sfoga così: "È una fake news che mi ha fatto stare molto male: mi feriva l'idea di dare quell’impressione. Per altro, non avendone mai fatto uso, nemmeno me ne accorgevo se qualcuno vicino a me ne faceva uso". La conduttrice televisiva, però, racconta di non avere ancora capito chi possa aver diffuso questa falsa notizia: "Purtroppo sono stata tradita tante volte. Detto questo, la vita mi ha sempre ripagato di queste sofferenze e agli altri l’ha fatta pagare…". Dunque, la Ventura spiega la ragione della scelta di abbandonare il timone di Temptation Island Vip, nonostante il successo della trasmissione: "Perché avevo voglia di serialità e di lavorare con più continuità. E poi io ho bisogno di totale fiducia intorno a me: infatti Maria De Filippi e la Fascino mi mancano molto". Escluso in toto un romantico ritorno all'Isola dei Famosi: "Fa parte del passato in maniera definitiva. Io tifo per Alessia Marcuzzi, la capisco perché sono sei anni che montano una polemica inutile: ogni volta che alza un sopracciglio, scatta il ma la Ventura lo faceva meglio". Infine, c'è spazio per il "sogno nel cassetto" di Simona Ventura. Quale? Eccolo: "Creare un portale per gli italiani all'estero, vorrei riuscire un po' a fare quello che faceva una volta Rai International. Abbiamo delle comunità straordinarie, vorrei raccontarle, dargli voce, far capire che noi italiani siamo un brand che funziona. Manca il sistema, ma uniti si vince".

Simona Ventura si racconta a FQMagazine: “Mi hanno accusato di aver fatto uso di droga, è una fake news che mi ha fatto stare molto male”. Parlando del suo ultimo libro, Codice Ventura, la conduttrice traccia un bilancio del suo ultimo anno lavorativo e annuncia una grande novità, i primi progetti della sua casa di produzione. Francesco Canino su Il Fatto Quotidiano l'1 gennaio 2020. I grandi successi, i tonfi inaspettati, le ripartenze, gli sgambetti, le svolte calcolate (o subite), il sesto senso che ti fa agganciare al volo opportunità impreviste. Simona Ventura sa come si cade e soprattutto come ci si rialza: mordere la vita è il suo imperativo, anche quando tutto sembra perduto, ricostruirsi, cambiare pelle restando sempre se stessa. “Non ho mai rinunciato a due cose: la lealtà e la tenacia. Istinto e grinta mi hanno fatto raggiungere ogni obiettivo, anche quando mi davano per finita“, racconta a FQMagazine parlando del suo ultimo libro, Codice Ventura. Poi traccia un bilancio del suo ultimo anno lavorativo e annuncia una grande novità, i primi progetti della sua casa di produzione.

Dopo il codice di Hammurabi e il codice Da Vinci, è arrivato il Codice Ventura. Com’è nato?

«(ride) Il 2019 per me è stato un anno di rinascita e di ritorno alle origini. L’ho scritto per celebrare questo momento: sono ripartita nel lavoro – con una nuova sfida – ho un nuovo amore, ho recuperato me stessa e ritrovato dopo tanti anni gli amici di Chivasso e altri che avevo perso a Milano.

Un libro si fa per svelare lati inediti della propria vita o per celebrarsi. Chi può dire di conoscere la vera Simona Ventura.

«La mia famiglia e i miei affetti, ovviamente. Ma anche le persone che mi seguono e mi vogliono bene da sempre, compresi alcuni fan: molti di loro mi comprendono meglio di tanti presunti amici.

Parla molto di anni ’80 e ’90, ma non c’è mai un effetto nostalgia.

«Perché la malinconia non mi appartiene. Ho sempre guardato più al futuro che al passato: penso a quando avevo 25-30, provavo a fare tv ma ancora non avevo ottenuto nulla. A quel punto avrei dovuto mollare tutto, invece sono andata dritta come un treno, rischiando di schiantarmi. Per questo mi colpiscono i ragazzi di oggi: sembrano sfrontati, ma sono fragili come il cristallo fine. Per loro il fallimento non è contemplato.

Fallimento è una parola che torna spesso nel suo libro. C’è stato un momento in cui ha pensato “mollo tutto”?

«Ovvio, ma quando dico “crederci sempre, arrendersi mai”, una delle mie frasi cult, è perché ci credo davvero. Sono caduta tante volte ma ho imparato a rialzarmi. Più che “mollo tutto” ho pensato spesso “come riesco a sopportare tutto questo?”.

Ovvero?

«Raramente ho visto una persona che ha ricevuto tante cattiverie quante ne ho ricevute io. Ma sono riuscita comunque a incassare, a liberarmene e a tornare in gioco più forte di prima.

Tra le maldicenze sul suo conto, c’è quella sulla droga. “Quante volte mi hanno accusato di aver fatto uso di droga”, scrive nel libro.

«È una fake news che mi ha fatto stare molto male: mi feriva l’idea di dare quell’impressione. Per altro, non avendone mai fatto uso, nemmeno me ne accorgevo se qualcuno vicino a me ne faceva uso.

Ha capito come o chi ha innescato questa fake news?

«No. Ma purtroppo sono stata tradita tante volte. Detto questo, la vita mi ha sempre ripagato di queste sofferenze e agli altri l’ha fatta pagare (ride).

Veniamo alla tv. Com’è stata l’esperienza come voce narrante degli anni ‘80 de Il collegio?

«Ho seguito la trasmissione fin dall’inizio e sono orgogliosa di esserne stata il simbolo. Infatti ricevo decine di messaggi di persone che vogliono sapere quando sono i provini perché vogliono mandare i loro figli».

A proposito degli ascolti de La Settimana Ventura, che viaggiano intorno al 4% di share, Carlo Freccero ha detto al Fatto Quotidiano: “Mi aspettavo ancora peggio”. E lei?

«Per le start up ci vuole tempo e domenica scorsa ci siamo attestati al 6%, impensabile fino a poco tempo fa. Siamo felici che questa collaborazione tra Rai sport e Rai 2 funzioni. In tanti non ci avrebbero scommesso. Siamo partiti da zero e con un budget risicatissimo. Cresce domenica dopo domenica e andremo avanti fino a giugno».

Provocatoriamente le chiedo: non è un ripiego quella striscia di domenica mattina?

«No per niente, avevo voglia di fare cose nuove, trovo sempre la motivazione per reinventarmi, anche in spazi piccoli, e le sfide mi galvanizzano. Ho condotto Sanremo ma non posso crogiolarmi sugli allori e ho voglia di buttarmi di nuovo nella mischia. E poi, sinceramente, penso di poter ancora dire la mia».

È vero che è andata vicina a rifare Quelli che il calcio?

«Ci sono andata vicina. Ma quello che ha deciso l’azienda per me va bene».

Si è parlato anche di Pechino Express: era fantatv?

«Era una boutade di Freccero. Lo ringrazio ma non avrei mai accettato di fare Pechino perché è un programma identificato con Costantino della Gherardesca, che peraltro lo fa benissimo. Così come non farei mai La Talpa che il pubblico identifica con la mia amica Paola Perego».

Prima di lasciare Rai 2, Freccero ha detto di avere pronti due nuovi progetti per lei.

«Ci sono dei progetti ma aspetto di avere un direttore con cui poterne parlare visto che Carlo ora non c’è più. In primavera mi piacerebbe tornare in prima serata».

Il suo bilancio rispetto a The Voice è positivo?

«Sì, ha portato buoni ascolti alla rete e ha riportato su Rai 2 un target più giovane, cosa tutt’altro che scontata. Penso che The Voice sia un format che può dare ancora molto, anche se i talent vivono un momento di sofferenza. Vedi X Factor, che quest’anno non ha brillato».

Come se l’è spiegato il calo di ascolti di X Factor 13?

«X Factor ha preso negli anni una china meno pop e più elitaria. The Voice è sempre stato considerato il fanalino di coda dei talent, tanto che Cattelan l’ha pure preso in giro, ma quest’ultima edizione è stata una bomba grazie anche a una giuria azzeccatissima».

Riavvolgendo il nastro, perché è andata via da Temptation Island Vip nonostante gli ascolti e il successo?

«Perché avevo voglia di serialità e di lavorare con più continuità. E poi io ho bisogno di totale fiducia intorno a me: infatti Maria De Filippi e la Fascino mi mancano molto».

La De Filippi come ha reagito quando le ha comunicato la sua scelta?

«Era dispiaciuta che volessi andare via ma ha capito che per me era difficile fare solo un programma l’anno. A Maria voglio bene e le sarò sempre riconoscente perché mi ha dato una grande opportunità».

Le ha buoi rapporti con la De Filippi, Silvia Toffanin la invita spesso a Verissimo ma con Mediaset da anni il dialogo è a singhiozzo. Ha cercato di capire il perché?

«No, anche perché non ho fatto nulla per meritarlo. Ci sono decine di miei colleghi che vanno avanti e indietro tra Rai e Mediaset e nessuno dice nulla. È tele-mercato. Su di me cala la mannaia? Mi sembra esagerato. Detto questo, non sono una che sta lì a dispetto dei santi».

Lei ha sempre lavorato nella serie A della tv: non crede sia stato un danno alla sua immagine vederla lottare nel fango con Mercedesz Henger all’Isola dei Famosi?

«Credo che la cosa sia sfuggita di mano. Ma sa qual è stato il risultato? Il pubblico mi si è avvicinato ancora di più e da quel momento non mi sono mai fermata sul piano lavorativo. Su quella spiaggia ho ritrovato profondamente me stessa».

Qualche mese fa ha partecipato alla reunion de Le Iene per omaggiare Nadia Toffa. Che effetto le ha fatto?

«Una botta di emozione, perché dopo anni ho incontrato Davide Parenti e i suoi e ho percepito di aver fatto parte di una squadra unica. Sono tornata con grande felicità, ho pianto con Monti e Lorenzini, ho visto Alessia Marcuzzi molto emozionata e mi sono sentita di abbracciarla».

Dietro le quinte vi siete poi viste?

«Ci siamo parlate e salutate. Le auguro il meglio e tifo per lei. Aggiungo che per me l’Isola fa parte, e in maniera definitiva, del passato. E la capisco Alessia, perché sono sei anni che montano una polemica inutile: ogni volta che alza un sopracciglio, scatta il “ah, ma la Ventura lo faceva meglio”. Ognuno ha il suo stile e poi i reality sono totalmente cambiati. Senza un cast forte si fa fatica e Signorini l’ha capito, tanto che per il GF Vip 4 ne sta costruendo uno fortissimo. Non vedo l’ora di vederlo, forza Alfonso!»

È vero che ha aperto una casa di produzione?

«Ho sempre avuto un piano b nel lavoro, anche quando ero una ragazzina. E adesso ne ho uno bello grande e di cui sono orgogliosa: la mia casa di produzione, la SiVe».

Il primo progetto quale sarà?

«Sei contenuti per il gruppo Discovery, intitolati Discovering Simo: sono sei contenuti sulla mia vita – non quella privata – dalla beneficenza alla cucina con mia mamma e mia sorella, poi ci sarà una puntata sull’affidamento e una girata a San Patrignano. Sono io, le mie sfaccettature, il mio lato intimo».

Produrrà anche per altri?

«Se ci sarà occasione, perché no? Mi piace questa novità, mi dà nuovi stimoli. Molti sono cresciuti anche grazie alla mia creatività: io non mi arricchirò ma questa nuova energia già mi fa stare bene».

Il suo grande sogno?

«Creare un portale per gli italiani all’estero, vorrei riuscire un po’ a fare quello che faceva una volta Rai International. Abbiamo delle comunità straordinarie, vorrei raccontarle, dargli voce, far capire che noi italiani siamo un brand che funziona. Manca il sistema, ma uniti si vince».

·        Sinead O'Connor.

L'appello shock della cantante "Sono paralizzata, muoio di fame". Attraverso Twitter la cantante irlandese ha chiesto aiuto ai suoi fan per trovare un servizio di consegna pasti a domicilio. La donna non esce di casa da mesi per una grave fobia. Novella Toloni, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. "Ok sono qui per chiedervi aiuto", con queste parole Sinead O'Connor, cantautrice irlandese 53 anni, ha sconvolto il popolo del web con un disperato appello. Attraverso il suo profilo Twitter l'artista di "Nothing Compares 2 U" ha lanciato un grido d'aiuto: "Soffro di agorafobico e non posso andare a fare la spesa. Sto morendo di fame". Non uno ma diversi cinguettii per raccontare la sua triste vicenda fatta di solitudine e malessere. Sinead O'Connor non ha mai nascosto di avere problemi di salute mentale e scarsa capacità di prendersi cura di se stessa. Nel 2016 la donna aveva fatto perdere le sue tracce, uscendo dalla sua casa di Chicago e non facendovi ritorno per giorni. La polizia la rintracciò in stato confusionale giorni dopo la scomparsa. Nel 2017, durante un'intervista nel talk show americano di Dr. Phil, la cantautrice ha raccontato di aver tentato il suicidio otto volte in un anno e delle torture subite dalla madre. Traumi devastanti che ne hanno segnato la vita e che l'hanno portata a una grave forma di agorafobia, la paura degli spazi aperti e non familiari. Una malattia contro la quale lei combatte da anni e che negli ultimi tempi l'ha portata sull'orlo del baratro. "Negli ultimi anni, mesi e settimane - ha scritto su Twitter Sinead O'Connor - ho vissuto segretamente con un trauma fisicamente paralizzante e correlato a un caso di bassa autostima acuta e ultimamente non mangio perché mi ha reso così agorafobica che non posso andare a fare la spesa. E sto morendo di fame". La 53enne, che da tempo vive in una zona remota dell'Irlanda al riparo da tutto e da tutti, ha deciso di chiedere aiuto ai suoi fan attraverso i social. Twitter, infatti, è l'ultimo mezzo di comunicazione con il quale la O'Connor ha deciso di rimanere in contatto con i suoi seguaci dopo la fine della sua carriera musicale: "Qualcuno può dirmi se in Irlanda ci sono servizi di consegna di pasti per persone con problemi di salute mentale la cui capacità di prendersi cura di sé è stata ridotta? Mangerei la fottuta gamba dell'Agnello di dio". Un appello che non è rimasto inascoltato e la cantante, dopo aver ricevuto un pasto caldo, ha pubblicamente ringraziato i suoi seguaci: "Tutto bene ora. Ho trovato il servizio di consegna dei pasti. Sono sazia e felice".

·        Skin.

Paolo Giordano per ilgiornale.it il 15 ottobre 2020. Fra tutte le icone, è la più iconica di tutte. Donna, rock, gay. Per di più è alta come un cestista, ha un sorriso panoramico e non le manda mai a dire. Il successo di Skin è più merito di Skin che dei suoi Skunk Anansie, ottima band ma sempre ancorata alla medietà. A far la differenza c'è sempre stata lei, al secolo Deborah Anne Dyer, classe 1967, che adesso nella autobiografia It takes blood and guts... (scritta con Lucy O'Brien) racconta come la figlia ribelle di genitori giamaicani sia partita dalla periferica Brixton per arrivare in pochi anni al centro della musica. Sì certo, qualche brano forte che girava in radio e nelle playlist (You'll follow me down oppure My ugly boy, per esempio) ma a far la differenza è soprattutto la sua personalità che ha colpito tutti. Qui in Italia il grande pubblico la riconosce anche per la giuria con Elio, Fedez e Mika a X Factor, il talent show che ha mostrato il suo talento da queste parti. Ma la sua fama va oltre questi confini e questa autobiografia spiega perché (e lei lo fa parlando via Zoom da Ibiza).

Intanto perché intitolare una autobiografia Ci vuole sangue e fegato?

«Perché nella mia Inghilterra è un modo per rendere l'idea di un casino. Ho voluto dire che è stato bello complicato fare cosa ho fatto. All'inizio non pensavo valesse la pena raccontarlo in un libro. Poi mi sono detta: perché no? E ho iniziato a scrivere».

Andiamo per gradi: la prima difficoltà?

«Beh prima quella sociale: sono cresciuta in una parte di Londra molto problematica e assai trascurata dal governo, specialmente ai tempi della Thatcher. Ero adolescente quando fuori da casa mia la gente protestava e c'erano molti disordini. Lì ho imparato molto, lì si è formata una parte del mio temperamento».

E poi?

«Ci sono state le difficoltà musicali. In Gran Bretagna negli anni Novanta se facevi rock dovevi essere come i Blur o gli Oasis, era molto complicato per un gruppo che aveva una donna nera come cantante. I giornalisti, poi: erano molto scettici, freddi. Quando vedono una novità, generalmente ne sono impauriti e la giudicano male».

Com'è diventata musicista?

«Mio padre mi ha regalato una chitarra quando avevo otto anni e io ero immersa in una realtà musicale fatta principalmente di reggae e black music. Ho scoperto il rock soltanto ascoltando i Led Zeppelin».

Poi ha formato gli Skunk Anansie, che del rock sono diventati portabandiera.

«Con me come cantante, hanno pagato un prezzo dieci volte più alto del normale per riuscire a farsi notare. Sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti».

Dice di aver pagato un pedaggio così alto perché era dichiaratamente omosessuale?

«No, ho pagato questo prezzo perché ero una donna rock, non una donna gay».

Rob Halford dei Judas Priest ha atteso molto tempo a fare coming out sulla sua sessualità.

«Beh il pubblico metal è un pubblico macho, è più difficile senza dubbio».

Su Instagram qualche settimana fa ha in sostanza annunciato il suo (secondo) matrimonio, quello con la canadese Ladyfag, che ha 44 anni e si chiama Rayne Baron. Quando vi sposerete?

«C'è tempo, possiamo aspettare anche due anni, mica vogliamo sposarci su Zoom». (ride e la risata di Skin fa scuotere pure il display - ndr)

Ovvio, ora i matrimoni sono, diciamo, solo per pochi.

«Ho iniziato il lockdown a New York e ci sono stata per quattro mesi: lì l'hanno presa molto seriamente. Poi sono tornata in Gran Bretagna e ho visto che pochissimi avevano la mascherina. Hanno sottovalutato il problema e ora mi sembra che ne stiano pagando le conseguenze, purtroppo».

·        Sofia Siena.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 9 maggio 2020. Sofia Siena, è nata X anni fa nella bella e calda Sicilia, a Siracusa. Ha esordito nel mondo a luci rosse nel lontano 2003, ben 17 anni fa ed ha circa 50 film hard all’attivo; prima di operare in ambito pornografico ha fatto la fotomodella e la cubista in discoteca. Nonostante quanto si possa pensare i genitori di Sofia non sono i classici conservatori del sud, non hanno mai fatto pressioni sulla carriera della figlia, anzi l’hanno sempre appoggiata nelle sue scelte e ne sono orgogliosi. La suddetta audace artista avrebbe dovuto partire per l’estero in questo periodo e girare per la casa di produzione americana Blacked, ma a causa della pandemia mondiale Covid-19 questo grande progetto è stato spostato a data da destinarsi. L’attrice hard sicula dichiara: “Sono sempre stata affascinata dal sesso, ho perso la verginità in macchina a soli 13 anni, sono una bocca d’oro, amo far godere con la mia bocca, mi piace che il mio cavo orale sia uno strumento per dare piacere agli altri; nella sfera privata amo farmi venire addosso nella parte finale del sesso orale mentre nei film naturalmente faccio ciò che richiede il regista, le tre opzioni sono addosso, ingoio o a pioggia!” - e poi ci fa delle confessioni hot - “A letto non ho tabù, amo il sesso in tutto e per tutto, non amo la violenza e non amo il BDSM...amo da pazzi le orge! Essere al centro dell’attenzione di tanti uomini in erezione mi eccita tantissimo, avere tanti uomini addosso ed avere in testa che l’unico obbiettivo è quello farli schizzare tutti sul mio seno è il massimo, se chiudo gli occhi ed immagino questa scena mi bagno solo all’idea! Il mio record di gang bang è stato di 22 uomini che ho soddisfatto da sola ovviamente, lo dico con orgoglio!” La pornomilf siracusana continua: “Amo anche il sesso anale ma purtroppo attualmente non posso praticarlo, risolto un piccolo problema fisico che ho spero di poterlo ripraticare...e recuperate tutte le volte che non ho potuto farlo” - ed aggiunge senza alcun freno inibitore - “io ho la figa pelosa e sono una delle poche ancora che è cultrice del pelo pubico, molti fans mi dicono che per questa cosa ricordo le compagne di set di Pierino (Alvaro Vitali) , un gran bel complimento direi”. E poi conclude con una confessione: “Amo le lesbicate! Amo il cazzo e la figa in ugual misura, non saprei che scegliere, sceglierei magari di leccarla mentre un uomo mi penetra. Il mio sogno erotico più grande è quello di passare una notte di sesso sfrenato saffico con la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, oltre a essere una sua elettrice mi fa sangue, fa uscire la mia parte siciliana, quella calda, perversa e passionale!”

·        Sonia Bergamasco.

Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica – ed. Roma” l'11 maggio 2020. L'attrice Sonia Bergamasco possiede il raro dono degli opposti che sanno convivere armoniosamente fra loro. Il dramma e la commedia. La nobile tragedia e il registro del buffo. Il culto della letteratura alta e l' approccio "popolare". Che ha espresso, per esempio, tramite il ruolo di Livia, l' eterna fidanzata di Montalbano nella fiction tivù ispirata al commissario di Camilleri. Al contempo è la signora raffinata capace di ricavare pezzi originali di teatro da libri insoliti. Un' aura spirituale affiora dalla sua bellezza angelica e sottile, che tuttavia emana una ludica sensualità. È stata la terrorista dagli occhi di ghiaccio della "Meglio Gioventù" di Marco Tullio Giordana, il film sugli anni di piombo, e l' esilarante dottoressa Sironi in "Quo vado?" di Checco Zalone. Ha un passo felpato quando avanza nei campi della musica e della poesia, da lei frequentati con assiduità, rigore e un lavoro profondo e moderno sulla voce. Ma li percorre con la leggerezza di un elfo, senza pose intellettuali. Poi però, leggendo in scena i versi feroci che Sylvia Plath dedicò al fantasma del suo odiato padre, diventa una tigre pronta a sbranarci. Nel suo estro variabile e spiazzante, la Bergamasco incarna e unisce anche Milano e Roma. Milanese sia per nascita che per formazione, abita nella capitale da tempo, e non smette di scoprire la città esplorandola in bicicletta. È un esemplare perfetto di un radicamento riuscito. Dice che Roma la conquistò insieme all' amore per il compagno della sua vita, l'attore Fabrizio Gifuni, inducendola a fuggire dalle nebbie lombarde. Ma lasciamola raccontarsi da sola.

Quando e dove sbarcò, giungendo a Roma?

«La prima casa, durante i miei vent' anni, è stata nel quartiere Monti, in Via del Boschetto. Venni a vivere con Fabrizio che avevo conosciuto lavorando insieme a lui ne "La trilogia della villeggiatura", con la regia di Massimo Castri, uno dei registi che mi ha diretta di più in teatro. Roma coincide, dentro di me, con il calore dell' innamoramento. All' epoca Milano era un passato che volevo lasciarmi alle spalle».

Come mai?

«Avevo trascorso un' infanzia e una giovinezza non serene a causa di una situazione familiare complessa. Mio padre morì quando avevo diciotto anni, e pativo un senso d' inadeguatezza. A Milano ho studiato al Conservatorio, dove mi sono diplomata in pianoforte. Ora amo moltissimo la musica: è diventata la lingua più vicina al mio cuore. Il pianoforte, per me, vuol dire un dialogo con una cosa viva, ed è anche una forma straordinaria di libertà. Ma la musica ho dovuto ritrovarla da adulta, poiché vissi male i miei dieci anni di Conservatorio. Periodo tetro, pesante, costrittivo. All' epoca Milano era un buco. Chiusa, provinciale, fredda. Negli ultimi tempi è cambiata ed è diventata bellissima. Mi piace ogni volta tornarci e riscoprirla. In questo momento soffro nel parlarne, vista la terribile situazione che la città sta attraversando. Spero con tutte le mie forze che si riprenda presto».

Torniamo al suo salto dalla musica al teatro, quando approdò sul palcoscenico di Strehler.

«Si aprì a Milano, a fine anni Ottanta, la scuola del Nuovo Piccolo, e io, inquieta e insoddisfatta com' ero, decisi di provare a entrare. Venni ammessa portando tre letture per le tre prove d' esame. Erano una poesia di Cavalcanti, un monologo di Christa Wolf da "Cassandra" e un passaggio di "Giorni felici" di Beckett. La mia maggiore passione era la lettura, e così è tuttora: leggendo mi sento compiuta. Studiando al Piccolo ho preso parte al "Faust", ultimo progetto di Strehler che ha coinvolto allievi e professionisti. E nel '91, alla fine del corso, abbiamo partecipato a un "Arlecchino servitore di due padroni" che ha girato in Italia e all' estero».

Oltre a Massimo Castri, quali sono stati gli incontri- chiave del suo itinerario di attrice?

«Fu importantissimo quello con Carmelo Bene. Un finanziamento gli dava la possibilità di fare ricerca per un lungo periodo insieme a uno o più attori, ed è toccata a me la fortuna di essere scelta per il laboratorio. Che poi - senza che prima io ne fossi a conoscenza sarebbe sfociato nello spettacolo "Pinocchio" di Bene. Si trattò di un grandioso apprendistato soprattutto riguardo all' uso della voce, ma non solo. Lavoravamo al microfono su versi di Leopardi, D' Annunzio, Manzoni. Poi altri registi mi hanno segnato: Giuseppe Bertolucci, Liliana Cavani E ho avuto collaborazioni preziose anche con scrittori, ad esempio con Emanuele Trevi».

In principio, da milanese, ebbe problemi di adattamento a Roma?

«No, tutt' altro. Sentivo l' ampiezza della città, le sue maglie larghe, e mi ci perdevo dentro con gioia. Quando nacque la prima figlia, Valeria, ci spostammo da Monti in Prati, in un appartamento nell' area di Via Cola di Rienzo. Era vuoto, disarmato e in pezzi. Lo abbiamo trasformato in una casa dove continuiamo a stare benissimo, grazie ai sui spazi generosi e pieni di luce. Dal tetto condominiale si vede la cupola di San Pietro. Dopo Valeria sarebbe arrivata Maria, e le nostre ragazze ora hanno 16 e 14 anni. Studiano al Mamiani, che è un liceo impegnativo, duro, ma così hanno voluto loro. Gli studenti sono uniti e solidali. La zona Prati serba ancora il sapore di un vero quartiere. Mi piace che sia vicino al fiume, e ogni sera la luminosità dell' aria è un incanto. Vado sempre in giro per Roma in bici, anche col freddo. È una città piena di visioni, tutto è un' avventura».

Adesso è strana e vuota, molto più di prima.

«Non l' ho mai vista così. Un' esperienza fantascientifica. Ogni sera mi affaccio dalla finestra e cerco di capire cosa sta significando questo tempo sospeso».

Secondo lei cosa significa?

«Che il mondo non sarà mai più simile a quello che abbiamo lasciato. Vanno trovate strade nuove. Ma è anche la creatività che può traghettarci al dopo. La politica dovrebbe essere molto più presente nel sostenere la cultura e l' arte, e nel considerarne i gravissimi problemi odierni. Si pensa al nostro lavoro come a qualcosa di voluttuario, mentre gli artisti sono a pieno titolo nel tessuto della quotidianità. Il teatro rappresenta una filiera professionale enorme che include, oltre agli attori, i registi, i tecnici, gli scenografi, i costumisti, i macchinisti È una dimensione che va tutelata e appoggiata, e noi abbiamo il dovere di difendere la dignità del nostro lavoro. Infatti, nelle attuali circostanze, si sono formati gruppi di condivisione. C'è fermento per stabilire una serie di punti fermi comuni, che riescano a salvaguardare i nostri diritti».

·        Sophie Turner.

Francesco Tortora per "corriere.it" il 7 marzo 2020.

La confessione. Oggi sono inseparabili e secondo alcuni siti di gossip aspettano il primo figlio. Prima di sbocciare, l'amore tra Sophie Turner e il cantante Joe Jonas ha dovuto superare i pregiudizi dell'attrice. Lo racconta la stessa star de «Il Trono di Spade» in un'intervista alla rivista «Elle». Sophie ammette di aver odiato in passato la musica dei Jonas Brothers, band di cui il marito è leader e frontman, e di aver tentato di evitare il primo incontro: «Pensavo fosse un cascamorto».

La musica detestata. I pregiudizi su Joe Jonas nascevano dalle preferenze musicale di Sophie Turner: «I miei amici e io non eravamo fan dei Jonas Brothers - dichiara la star -. Al tempo c'era un gruppo nel Regno Unito chiamato Busted. Hanno avuto successo con una canzone intitolata "Year 3000". Era fantastica e noi eravamo grandi fan dei Busted. A un certo punto i Jonas Brothers hanno realizzato una cover della canzone ed hanno avuto una fama maggiore. A questo punto i Busted si sono sciolti. Abbiamo pensato che fosse colpa dei Jonas Brothers. Quindi li abbiamo cominciati a odiare». 

L'appuramento. Passano 10 anni e nel 2016 Sophie Turner, mentre sta lavorando a un film, è avvicinata da uno dei produttori: «Dovresti incontrare Joe Jonas - le dice -. Sento che andresti davvero d'accordo con questo ragazzo». Poi qualche mese dopo lo stesso produttore riesce a combinare un primo appuntamento tra i due durante il tour musicale di Joe Jonas a Londra. «Vivevo con i miei amici a Camden, in un appartamento davvero caotico, le persone entravano e uscivano dalle finestre - continua Turner -. Quando ho detto dell'appuntamento ai miei amici, loro mi hanno spronata:  “È divertente. Devi farlo! E ci devi scrivere via sms tutto quello che ti dice”».

Gli amici per proteggersi. Le aspettative di Sophie erano molto basse: «Mi aspettavo che si presentasse con la guardia del corpo. Ho pensato: “Sarà un poco di buono”. Sono andata all'appuntamento con i miei amici, perché temevo che fosse un cascamorto. Volevo solo che i miei amici mi proteggessero. Con loro ero al sicuro». 

Uno splendido incontro. Contrariamente a quanto pensava, Joe Jonas non solo non è arrivato con le guardie del corpo, ma ha dimostrato di essere anche una persona interessante: «È venuto con un amico e hanno bevuto tanto, proprio come noi. Ricordo che passammo solo pochi minuti a ballare e poi trovammo un piccolo angolo e parlammo per ore e ore. E non mi annoiavo per niente. È stato tutto così semplice. Successivamente, siamo diventati inseparabili. E presto sono andata in tournée con lui». 

Le nozze doppie. Il resto della storia è nota. Il primo maggio del 2019 è celebrato a sorpresa il matrimonio di Sophie Turner et Joe Jonas. L'attrice britannica e il cantante americano si sono promessi eterno amore a Las Vegas, poche ore dopo la cerimonia dei Billboard Music Awards. Per queste nozze, nella più classica tradizione di Las Vegas, a officiare è stato un sosia di Elvis Presley. Il 29 giugno la giovane coppia ha rinnovato i propri voti in Provenza.

Fama e depressione. Ad aprile 2019 Sophie ha confessato in un’intervista a Phil McGraw, sul suo podcast «Phil in the Blanks» di essere stata vittima della depressione sottolineando come la fama le abbia procurato più di problema emotivo.

Terapia e amore. Dopo aver vissuto un periodo davvero difficile, Sophie ha ammesso di stare meglio grazie alla terapia e soprattutto all'amore: «Mi amo un po’ di più adesso, e sto insieme a una persona che mi fa capire che ho delle qualità - ha dichiarato Sophie -. Quando qualcuno ti dice che ti ama ogni giorno, finiamo per stare meglio, e riusciamo ad amarci un po’ di più».

Carriera. Sophie Turner ha esordito nel 2011 recitando ne «Il Trono di Spade» interpretando per otto stagioni il personaggio di Sansa Stark. Il ruolo le ha permesso di ottenere una fama mondiale. Al cinema ha debuttato da protagonista in «Another me», thriller del 2013 diretto da Isabel Coixet. Due anni dopo è stata scelta dal regista Bryan Singer per interpretare la versione adolescente della mutante Jean Grey nel film «X-Men - Apocalisse», ruolo che ha ripreso nel 2019 in «X-Men - Dark Phoenix».

·        Sylvie Lubamba.

Roberta Damiata per il Giornale il 10 gennaio 2020. "Gentile Popolo Italiano, sono Sylvie Lubamba ho intenzione di diventare ‘bianca’ così potrò esprimere la mia opinione sulla piaga culturale del razzismo. Negli ultimi mesi sono molteplici i salotti televisivi che se ne stanno occupando e i vari ospiti convocati sono tutti caucasici, nessuno di etnia negroide, che strano, eppure chi può meglio della sottoscritta spiegare come ci si sente a suggerire dei provvedimenti intelligenti ed ironici per affrontare il problema. Mi domando: come lai la mia bella Italia è l’unico Paese che non da spazio a conduttori, giornalisti, opinionisti, inviati di razze diverse? Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Olanda e non ultimi i Paesi scandinavi hanno nelle loro emittenti televisive, diversi professionisti della comunicazione di carnagione scura, Anche il settore cinematografico italiano sembra congelato nella sua arretratezza storica. Sono molti i ragazzi e le ragazze di varie etnie che pur avendo studiato in buone accademie, viene offerto loro solo ruoli di prostitute, spacciatori o clandestini, quando nel resto d’Europa li vediamo nelle vesti di avvocati, poliziotti, insegnanti etc. Vediamo se dopo la mia provocazione di oggi pomeriggio facendomi pitturare il corpo di bianco, nella bella piazza Duomo, ricca di multirazziali possa far riflettere i vari padroni di casa dei salotti televisivi come le Sig.re Eleonora Daniele, Caterina Balivo, Barbara Palombelli, Federica Panicucci, Lorella Cuccarini, Mara Venier, Daria Bignardi, Barbara d’Urso, Francesca Fialdini, o i Sig.ri Mario Giordano, Nicola Porro, Masssimo Giletti, Bruno Vespa, Pierluigi Diaco, Maurizio Costanzo, Marco Liorni, Roberto Poletti, Alberto Matano mi daranno la possibilità di argomentare. Ringrazio invece Paolo Del Debbio che mi ha dato voce al programma “Dritto e Rovescio”. In Fede Sylvie Lubamba. Con questa lunga lettera, scritta a mano e inviata a tutti i giornali, la showgirl Sylvie Lubamba ha voluto lanciare un forte segnale ai media e ai vari presentatori televisivi sul razzismo. Per farlo ha deciso di spogliarsi e farsi dipingere di bianco in piena piazza Duomo a Milano. Sylvie Lubamba, la showgirl “tosco-congolese” lanciata anni fa da Piero Chiambretti ha realizzato una performance manifestazione mostrando dei cartelli, si è fatta dipingere dalla testa ai piedi di bianco da due imbianchini d’eccezione: Roberto Carlos, e Omar Ram. Lubamba ha manifestato per lamentarsi del fatto che non venga mai chiamata nei salotti televisivi quando si dibatte di razzismo, stupita del fatto che gli autori dei programmi tv non invitino mai in questi talk-show ospiti di razza negroide, ovvero le persone di colore.

·        Spice Girls.

Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 14 settembre 2020. Nel 1994 ha conquistato il mondo in tuta da ginnastica. Da allora Melanie C ha pubblicato da solista sette album - l' ottavo è in uscita il 2 ottobre - e venduto oltre tre milioni di dischi. Oggi ha 46 anni ma nell' immaginario di più di una generazione resta quella ragazza con la coda di cavallo che, con il suo gruppo, stava facendo una piccola rivoluzione.

«Ho realizzato quanto enorme è stato l' impatto delle Spice Girls nel mondo solo quando abbiamo fatto la reunion, l' anno scorso. Ha stupito tutte noi l' affetto delle persone. Ci siamo dette: "Ehi, visto cosa abbiamo fatto?" Siamo molto orgogliose dell' influenza delle Spice».

Lo ha capito così tardi?

«Ne ho realizzato le proporzioni tardi ed è lì che ho capito che vita incredibile ho avuto finora. Ero nel mezzo di un viaggio alla scoperta di me e improvvisamente mi sono sentita forte, sicura di me e a mio agio con la persona che sono, cosa mai provata».

Mai?

«Mai, nemmeno quando ero più giovane. Ora ho sentito che era arrivato il momento, dopo tanti anni, di accettarmi, ecco perché ho chiamato l' album con il mio nome, Melanie C .».

Tempo fa ha parlato delle sua depressione. Perché?

«Le preoccupazioni e le insicurezze esistono e specialmente le giovani donne le provano: per questo ho voluto parlare, molti anni fa, dei miei problemi di salute mentale. Oggi siamo un po' più abituati a farlo, ma allora credo fosse un gesto necessario per far capire che sono temi di cui non vergognarsi. Ci sono così tante persone che soffrono in silenzio: è uno spreco di vita. Dobbiamo apprezzarci».

Lei però ci ha messo molto tempo per farlo, vero?

«Sì, ma ora so che nessuno è perfetto e che ognuno di noi ha aspetti che vorrebbe cambiare. Possiamo fare tutto per migliorare ma l' essenza di chi siamo basta già per amarci».

A complicare le cose, ora, ci sono anche i social network.

«È vero, è tutto più difficile: c' è molta pressione e siamo sottoposti a immagini di vite che sembrano perfette. Gli adulti possono capire che sono cavolate ma sui più giovani hanno un impatto diverso».

Quando ha provato la depressione?

«Quando sentivo che la vita che stavo conducendo non era la mia. Avevo appena finito l' enorme lavoro con le Spice, ero sulla cresta dell' onda, ogni dettaglio della mia vita finiva sui tabloid. Ma non ero a mio agio con tutto questo, mi sentivo vulnerabile».

Come giudica oggi la sua esperienza con le Spice Girls?

«È stata tutta una fiaba. Per questo è stato così bello ritrovarsi con le ragazze e celebrare le cose che abbiamo conquistato negli anni Novanta».

Perché era la Sporty Spice?

«I soprannomi dovevano parlare della nostra personalità e io davvero ero sempre vestita così, sportiva. Ed ero anche molto atletica».

Se debuttassero oggi, come sarebbero le Spice Girls?

«Chissà, forse un gruppo di amiche che canta e balla su Tik Tok o su Instagram... è difficile immaginare come sarebbero le Spice Girls nel mondo di oggi, ma è ancora più difficile immaginare il mondo di oggi senza le Spice Girls, credo».

Sente di aver cambiato l' industria musicale?

«Sì, abbiamo aperto una porta e acceso una luce sulle questioni femminili. Sulla necessità di avere uguali opportunità non solo nella musica ma in ogni settore. Penso sia stato un cambiamento anche culturale. C' è ancora molto da fare, è una lunga battaglia. Ma alla fine le cose cambiano».

È ancora in contatto con le altre del gruppo?

«Sì, ho visto Melanie due settimane fa, davanti a un té.

Ci troviamo spesso tutte, anche appena finito il lock-down, è una cosa carina».

Oggi che cantanti ascolta?

«Noto che le canzoni che sento più spesso sono di donne: amo i dischi di Dua Lipa e Billie Eilish, ma la lista è lunga, ci sono un sacco di giovani donne fantastiche là fuori».

Si considera femminista?

«Sì, anche se penso che dobbiamo usare il termine correttamente. Le Spice, con la lezione del girl power, sono state capaci di rendere il femminismo qualcosa di attuale e reale, non più un concetto politico e che quasi intimidisce ma qualcosa di chiaro anche per i più giovani».

Come era da bambina?

«Brava. Ho una figlia di 11 anni e iniziamo a bisticciare un po': mi chiede se è bella, si lamenta... ho cercato conforto in mia mamma. Le ho detto: "Quindi è così che si diventa teenager". Ma mi ha risposto: "Oh no, tu eri buona". Niente consolazione. In realtà ero già concentrata sul mio obiettivo: facevo danza, sport... volevo diventare una performer».

L' 8 maggio ci sarà la sua unica data italiana.

«E non vedo l' ora. Mi manca l' energia e la connessione con il pubblico».

Cosa è il successo?

«È la felicità, ora lo so. Quando è uscito il mio primo disco da solista era andato alla grande, avevo una casa super, un' auto bellissima... ma ero davvero infelice. Ho spesso vagato per cercare chi fossi, ma alla fine ero sempre qui e finalmente sono concentrata sul presente. Posso dire che questo è il momento di maggior successo della ma vita».

·        Stefania Sandrelli.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 26 agosto 2020. Stefania Sandrelli. La ragazzina di Viareggio divenne diva grazie a due film, Divorzio all' italiana e Sedotta e abbandonata , entrambi di Pietro Germi. Venezia Classici ripropone la versione restaurata del secondo, che si vedrà domani e sabato 29 a Bologna, nell' ambito della rassegna "Il cinema ritrovato" che quest' anno ospita - causa Covid - la sezione della Mostra del cinema.

Con Germi vi siete conosciuti nel '61.

«Quando sono venuta a Roma da Viareggio per il cinema, con il mio fratellone cinefilo. Avevo diciassette anni.  Mi ha trasmesso per sempre la passione per il mio lavoro. Era un bell' uomo, si vestiva da cowboy…(…)

Era un momento particolare della sua via sentimentale.

«Gino Paoli era venuto sul set di Divorzio e aveva conosciuto Germi, ai tempi di Sedotta e abbandonata mamma ha provato a fare in modo che ci lasciassimo, non mi passava le sue telefonate (…) Poi lui ebbe la grande disavventura».

Il tentativo di suicidio.

«Sì. Germi mi fece chiamare dal suo aiuto, "hai un volo domani se vuoi andare", io dissi di no perché volevo lavorare e non volevo finire sui giornali. Quando tornai ci rivedemmo, e lì poi sarebbe nata Amanda».

Girare in quelle condizioni era difficile.

«Lo era, anche perché successe al secondo giorno di lavorazione. Ero arrabbiata, dissi a Paoli che con quel gesto aveva dimostrato di non amarmi, lui diceva "ma che bestia sei tu?". Ovviamente io seguivo e sapevo tutto di lui, anche mamma era diventata più conciliante, davanti a una cosa così grave ovviamente cambia la prospettiva».(…)

Non tutti amavano Germi.

«È sempre stato guardato in cagnesco a priori da alcuni critici, era inevitabile. Ma poi non potevano non riconoscere che il film fosse un capolavoro. Era anche il film più amato da Francis Ford Coppola. Lo incontrai, tanti anni dopo, a Cinecittà, lui girava un film con Al Pacino. Mi portò nella sua macchina, da dove dirigeva e mi disse "guarda questo". Tirò fuori il dvd di Sedotta e abbandonata . E mi disse "è il film che amo di più al mondo"».

Stefania Sandrelli: «Devo tutto a Germi e ho sofferto per Paoli». Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Emilia Costantini. «Che bello. Ho la possibilità di ripercorrere la mia carriera, rendendo omaggio alle persone con cui ho lavorato e a coloro che ho ammirato». Stefania Sandrelli si racconta in un’occasione speciale: il 17 maggio disegna il palinsesto di «Domenica Con», in onda su Rai Storia dalle 9 a mezzanotte, creando la «sua» televisione. Un progetto ideato da Rai Cultura che rientra nei programmi dedicati alla divulgazione culturale e artistica.

Un ampio affresco che parte da Viareggio, la sua città.

«Che bei ricordi! Le mie corse in bici, le sale cinematografiche dove ho iniziato ad amare i grandi film, e poi il carnevale: mi mascheravo e mi piaceva da morire truccarmi con i rossetti e la cipria che mia madre teneva nascosti in un cofanetto».

Il primo dei numerosi omaggi, è a Gino Paoli: un’importante storia d’amore e una figlia in comune, Amanda.

«Quando ci siamo lasciati, fu un brutto momento, poi ci siamo ritrovati in un bel rapporto di amicizia. Non so chi abbia maggiormente influenzato nostra figlia, attrice, se io o il padre. Non è facile avere per genitori Paoli e Sandrelli, ma ha ripreso da noi lo spirito di indipendenza, e due indipendenze sommate sono parecchia roba».

Il regista che le offrì la svolta professionale fu Pietro Germi. Come l’ha scoperta?

«All’epoca ero già apparsa in qualche pellicola e ogni tanto, a Viareggio, mi facevano miss di qua, miss di là... Germi mi vide nella foto pubblicata su una rivista e mi fece convocare agli Studi De Paolis a Roma: mi prese un colpo, non me l’aspettavo! Ero minorenne e venni accompagnata da mia madre».

Sua madre era orgogliosa?

«Ma veramente... siccome il successo di “Divorzio all’italiana” dette il via a una serie di film, e mamma doveva sempre accompagnarmi sul set quindi eravamo continuamente in viaggio, non era contraria, però un giorno mi disse: tu sei proprio sicura che vuoi fare l’attrice? È così faticoso!».

Faticoso ma con risultati straordinari: è stata diretta dai più grandi autori della commedia all’italiana, e non solo. Quale quello che considera il maestro in assoluto?

«Oltre a Germi, che mi ha insegnato a studiare il copione al millimetro, Antonio Pietrangeli, che mi volle per “Io la conoscevo bene” e non lo affermo perché mi affidò il primo ruolo da protagonista assoluta. Non ho mai puntato a essere il primo nome in locandina, mi è sempre bastato quello che facevo. Ma il personaggio di Adriana in quel film fu molto impegnativo e mi ha aperto altre porte con Scola, Monicelli, Comencini, Bertolucci... tutti cari amici».

Non solo grandi registi amici, anche molti scrittori famosi amici.

«Un genio Mario Soldati, l’ho conosciuto prima di Giovanni (compagno dell’attrice ndr). Ero a Cannes per “Divorzio all’italiana” e, appena finita la proiezione ufficiale, Mario mi dette un bacino. Rimasi stupita ed esclamai:oh! Da quella volta, tutte le volte che ci rincontravamo, lui mi prendeva in giro, rifacendomi il verso “oh!”, e ridevamo insieme. Con Pasolini abitavamo vicini, era un’anima grandiosa, pura, dal suo sguardo traspariva intelligenza. Di Moravia ricordo la prima sera che lo vidi da vicino. Eravamo a un concerto di musica dodecafonica, tosta. Io gli stavo seduta dietro e lo vedevo insofferente, muoveva in continuazione le gambe, il suo bastone ed essendo un po’ sordo, sbuffava talmente forte, che tutti lo guardavano. Poi che belle serate a casa sua: un ospite squisito, mi sedevo sempre accanto a lui, però poi andava a dormire e ci lasciava a chiacchierare, bere, mangiare...».

Si è mai pentita dello scandalo suscitato da «La chiave» di Tinto Brass?

«Mai! È stato un film femminista, dove io sputtanavo il porco inverecondo guardone. Adoro l’ironia con cui Tinto dirige gli attori».

Non solo registi e scrittori, anche attori internazionali. Amori sul set?

«Non ho mai sognato di mettermi con un attore. Giusto con Depardieu c’è stata qualcosina, più che altro un’affettuosa amicizia: ma Gérard è un uragano, e come uragano basto io. Sto bene da tanti anni con Giovanni, pure se siamo cane e gatto».

Come ha vissuto il coronavirus?

«Figuriamoci! Io ho avuto l’asiatica! Era il 1957 e me lo ricordo benissimo. Eravamo degli zombi, chiusi in casa a Viareggio: tutti a letto, febbre altissima, un mal di testa pazzesco. Però con mio fratello Sergio ci siamo fatti pure qualche risata».

Difficile sopportarsi Giovanni nel lockdown?

«No, ci ha fatto pensare, leggere e ci siamo dedicati ai nostri progetti, per ora bloccati. Io dovevo firmare la mia prima regia lirica con Tosca al Festival pucciniano. Ma dovrebbero iniziare le riprese del film con Pupi Avati, “Lei mi parla ancora”, ispirato alle opere di Giuseppe Sgarbi, una bella storia al femminile, tra nonna, da me interpretata, figlia e nipote. Prima o poi ha da passà ‘a nuttata!». 

Arianna Finos per “la Repubblica” il 4 aprile 2020. Stefania Sandrelli, 73 anni, vive l'emergenza nella sua casa romana «che è cresciuta insieme a me e mi somiglia». Il suo volto ieri sera, proiettato sulle facciate dei palazzi in molte città, è il simbolo delle attrici premiate ai David di Donatello e celebrate dall' iniziativa #Cinemadacasa. «Mi emoziona, un atto d' amore verso il mio povero e amatissimo cinema, una creatura che ha accompagnato la mia vita e che sta subendo un colpo mortale, ma che spero resisterà».

Ha avuto 11 candidature e 4 David, uno alla carriera.

«Sì, le prime con Monicelli e Speriamo che sia femmina, la mia Lolli Samuelli era una donna un po' emarginata, mi piaceva moltissimo. E poi con La famiglia, forse il più bello di Scola».

Il premio da protagonista però con una regista: "Mignon è partita" di Francesca Archibugi.

«Sono orgogliosa del suo film d' esordio. Leggendo la sceneggiatura con i miei occhiali da miope non riuscivo ad andare avanti per quanto piangevo. Fu un set pieno di passione e pochi mezzi. Un truccatore famoso mi disse "a Stefa', dove m' hai portato?". Ricordo fantastiche merende e un' atmosfera sospesa».

Ha vinto anche con "L' ultimo bacio" di Gabriele Muccino.

«Lo considero uno dei registi più rappresentativi del nostro Paese, penso che tutti gli italiani abbiano visto quel film. A causa dell' emergenza non ho fatto in tempo a vedere Gli anni più belli».

È ispirato a "C'eravamo tanto amati".

«Film faticosissimo, pieno di scene notturne. Persino io, giovane e forte, vacillavo. Eppure ero abituata a tirate di 16 ore, noi Sandrelli siamo una famiglia di lavoratori. Ma c' era la sensazione che stavamo facendo un grande film».

Come vive queste settimane?

«Tra alti e bassi. Sono una da testa per aria e piedi per terra, ma ora è difficile. Spero che quel che succede non sia vano, che ci indichi un futuro migliore».

Lei è sopravvissuta all' Asiatica del 1956.

«Un ricordo brutto, l' avevo quasi rimosso, mi è tornato in mente in questi giorni. Ci ammalammo tutti, mia madre, il mio patrigno, mio fratello e la domestica. Ci aiutava il medico di famiglia, un coraggioso, non c' erano guanti e mascherine. Malgrado la febbre altissima e i mal di testa, facevamo i turni per i letti, la pulizia. Ci salvava l' ironia da toscanacci, io e mio fratello scherzavamo dei nostri acciacchi. Oggi dico a figli e nipoti: sono qui viva e vegeta, per dare loro coraggio e speranza. È brutto vedere in tv la gente che soffre. Gli anziani mi sono sempre stati nel cuore, mamma raccontava che da bambina volevo portare a casa ogni vecchino incerto che incontravamo per strada».

Come passa il tempo?

«Ho tanti libri in un contenitore di rame. Sarebbe il momento migliore per leggerli ma a deconcentrarmi arriva la paura del virus. Temo per me, per la famiglia, per la gente che non riesce a mangiare. È terribile».

Cos' ha imparato di nuovo?

«Vivo quasi tutta la giornata in tuta. Ne ho cinque ma a forza di metterle si sono scucite e ho imparato a fare rammendi da sarta, accomodo tutto, chiedo a Gianni (Soldati, il suo compagno, ndr) "ti si è tolto il bottone: te lo cucio?" Mi rilassa».

Cucina?

«Stuzzico. Ho scoperto le friselle, con i pomodori e l' olio d' oliva sono la mia cena. Sgranocchiarle mi dà gusto e un po' di sfogo. A volte dico "Giovanni, non è che mi salta un dente?" Ho ancora tutti i miei...».

Le donne si ammalano meno degli uomini.

«Lo so perché seguo la meravigliosa scienziata Ilaria Capua, non è una di quei virologi che hanno bisogno di incutere terrore. È stata la prima a dire che per le donne è meno facile essere contagiate».

Cosa le manca di più?

«Le mie cinque meraviglie, i miei nipoti. Non sono tecnologica, avrò fatto quattro videochiamate in cui cerco di farli ridere, ballo, faccio la matta, un modo per prendere le distanze dalla paura. Non posso mettermi a frignare ma se vedo la mia nipotina, sei anni ad agosto, non riuscirei a trattenermi. Sento tutti i giorni mia figlia Amanda, la mia consolazione. Una gran donna, non so come riesca ad avere sempre la parola giusta per tutti».

In questi giorni pensa al passato o guarda al futuro?

«Mi vorrei preparare al futuro, faccio tutto in quest' ottica. Mi informo ma poi mi costringo a staccare. Faccio la mia ballatina per muovermi un po', il cd con il meglio di Paul Anka, canzoni che mi mandano in estasi. Canto a squarciagola con lui le mie preferite, Crying in the wind, Dont' ever leave me, le vecchie Diana, You are my destiny su cui facevo pattinaggio da ragazzina».

Ama molto la sua casa.

«La mia tana. Mi spiacerebbe doverla cambiare: lei non ci crederà, ma io ho bisogno di lavorare per vivere. Per carità, non mi lamento, c' è chi ha più bisogno. Ma non sono una adolescente, ho appena perso tre lavori. Ho due, ma proprio due risparmi per la vecchiaia, ancora lontana. Non vorrei dover bussare ai miei figli, sono sempre stata autonoma, amo mettere le buste con i soldini per i nipoti. Vorrei la tranquillità di una vita piacevole, con piccole gioie».

La prima cosa che farà quando si potrà uscire?

«Vorrei vedere la mia famiglia ma è dura perché so che non potrei abbracciarli, baciarli. Ecco, mi spiace che ora piango, ma non sono tristissima, è solo commozione.

Prego perché trovino una cura. E poi vorrei tornare sul set. Perché dopo cento film la mia passione per il cinema è rimasta intatta».

·        Stefano Bollani.

Stefano Bollani: «Mia mamma era stonata. Ma io sognavo Celentano e chiesi consigli a Carosone». Emilia Costantini il 7 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. Il pianista: studi classici, però ero un talebano del jazz. Il mio mito è Morricone, la sua musica ti fa superare i problemi». Sognava di diventare come Adriano Celentano e invece è diventato uno dei pianisti di maggiore successo. Stefano Bollani ha messo per la prima volta le mani sulla tastiera a 6 anni.

«Non discendo da una famiglia di musicisti — racconta — mia madre era stonata come una campana, ma mio padre era appassionato di canzonette e trovavo per casa una grande quantità di dischi di musica rockettara. Sin da piccolissimo dissi ai miei genitori che da grande volevo fare il cantante. E loro, volendomi assecondare, mi proposero di studiare prima di tutto uno strumento. Scelsi il pianoforte».

Perché proprio il pianoforte?

«Sembrerà buffo, ma volevo uno strumento che mi lasciasse libera la bocca, per cantare appunto: poteva essere la chitarra, oppure la fisarmonica... mi sentivo più portato per il piano».

E perché l’ammirazione per Celentano?

«Bella domanda da psicoanalista. La risposta tuttavia è semplice: lui riassumeva, e riassume in sé, una serie di caratteristiche che mi attiravano. Uomo di spettacolo, showman televisivo, attore di cinema, interprete canoro eccezionale... e inoltre tanto simpatico. Poi, però, mi sono imbattuto in Carosone che era un Celentano con l’aggiunta del pianoforte: sapeva suonare stupendamente, cantare, intrattenere il pubblico, divertire la gente con musica gioiosa. Ero un suo fan sfegatato e una volta gli scrissi una letterina, per dirgli che avevo imparato tutti i suoi pezzi e per chiedergli consigli».

Carosone cosa rispose?

«Mi consigliò di studiare il blues, che è alla base della musica moderna».

Nato a Milano, non ha studiato al conservatorio Giuseppe Verdi, bensì a quello di Firenze. Perché?

«Mio padre girava molto per lavoro e tutta la famiglia lo seguiva, ovviamente, quindi ho svolto i miei studi musicali dai 6 ai 15 anni al Luigi Cherubini. Facevo il bravo bambino, studiavo e mi esercitavo con tutti i brani classici, ma siccome ero un talebano del jazz, mi sono cercato anche un insegnante specifico».

Il maestro di conservatorio cui deve molto?

«Il povero Antonio Caggiula. Povero perché gliene facevo di tutti i colori. Era molto severo e teneva molto a noi allievi. Il suo insegnamento più importante, che non ho mai dimenticato, la diteggiatura».

Ovvero?

«Insisteva nell’abituarci a mettere il dito giusto sul tasto giusto e a scrivercelo: una pratica che, una volta imparata, con l’esperienza diventa meccanica e ancora oggi, quando studio un nuovo brano, sono abituato a scrivermi dita e note relative. Ma tornando al povero Caggiula, la sua formazione era Mozart, Beethoven, Chopin... Io di nascosto prendevo lezioni di jazz e lui lo scoprì poco prima del mio esame di diploma. Temevo di deluderlo perché non intendevo fare il pianista classico, quindi avevo paura di sue ritorsioni e di essere cacciato in malo modo: gli chiesi scusa pubblicamente. Dopo aver patito il terrore con i brividi alla schiena, il maestro si dimostrò più saggio e lungimirante di quanto pensassi. Pur non essendo minimamente interessato al jazz, mi accordò il suo benestare».

Per diventare un bravo pianista, occorre esercitarsi continuamente?

«Poco prima di prendere il diploma, trascorrevo ore e ore a studiare. A un certo punto mi sono accorto di dover ripulire le orecchie».

In che senso?

«Dopo ore di esercizi al pianoforte, si sente il bisogno di silenzio per non perdere la voglia di suonare. Mentre studio, io ascolto il suono che emetto, che però deve essere un piacere dell’orecchio, altrimenti mi annoio. Ed è così che, quando devo esibirmi in un concerto, non mi esercito eccessivamente nelle ore precedenti, per aver poi voglia di ascoltarmi nell’esibizione in pubblico, perché la musica è l’arte dell’ascolto. Le dieci dita sugli 88 tasti possono fare miracoli: è come un’enorme tavolozza di colori con cui creare composizioni differenti. E sembrerà assurdo se affermo che sono proprio le mie dita a decidere in che direzione procedere, su cosa accanirsi in quello specifico momento, per regalare nuove emozioni a chi ascolta».

In un suo libro, lei scrive che la musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Che intende dire?

«Ti insegnano a disegnare e non a cantare. Ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative, ma non a prestare attenzione alla musica. Ti insegnano a godere del suono della poesia e non del suono di un clarinetto. Ti insegnano la storia della cultura del tuo e di altri Paesi e non ti parlano mai dell’apporto dato dai musicisti alla crescita culturale. Giuro che non capisco il perché. Eppure i neuroscienziati ci dicono che, per allenare tutte le aree del cervello, la musica è un ottimo strumento. E non solo per il cervello: la musica va direttamente al cuore e, senza bisogno di usare le parole, ti parla, ti commuove, ti esalta, ti appassiona».

Grazie alla sua passione per la musica, è stato fatto membro onorario di un collegio di patafisica.

Ride Bollani: «Da quando mi hanno nominato, circa 15 anni fa, non ho mai ricevuto nessuna notizia dal collegio, di cui non conosco nemmeno la sede... e direi che questo è l’aspetto più patafisico della questione. D’altronde, la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie e forse mi sono immaginato tutto».

Però non è immaginario il personaggio di Topolino che le è stato dedicato: Paperefano Bolletta chi è?

«Sono da sempre stato appassionato di fumetti, forse qualcuno lo ha saputo e un giorno mi chiama un redattore di Topolino , dicendomi: abbiamo deciso di “paperizzarti”. Il mio personaggio è naturalmente un pianista, che ha l’onere di accompagnare un tenore molto bravo, ma molto smemorato e soprattutto distratto, tanto che si sbaglia frequentemente, passando da un brano a un altro. Per esempio, comincia a cantare “E lucean le stelle”, dalla Tosca di Puccini, e continua con “più brillarelle che poi”, da Roma nun fa’ la stupida stasera di Trovajoli. Insomma, un pasticcione».

Lei ha mai combinato un pasticcio, magari rifiutando una proposta di cui si è pentito?

«Mai! Sono sempre stato contento di aver detto no, perché evidentemente non me la sentivo di accettare e ho fatto bene. Un traguardo, però, che non ho ancora raggiunto è comporre musica da film. Anni fa mi proposero di scrivere quella per Caos calmo di Antonello Grimaldi con Nanni Moretti, ma purtroppo non piacque la mia composizione e, giustamente, scelsero quella di Paolo Buonvino, che infatti vinse vari premi. Il mio mito è Ennio Morricone. Non l’ho mai conosciuto personalmente, ma sono sempre stato rapito dalle sue colonne sonore: mi colpisce l’intelligenza musicale, la scintilla che sta dietro ogni sua singola nota. Basti pensare a Metti una sera a cena : sono solo tre note che si ripetono, un’idea apparentemente molto semplice, un motivetto che poi tutti fischiettano e diventa memoria collettiva, perché assaporando certa musica, a volte, si superano persino i problemi che ci affliggono quotidianamente. Morricone aveva il dono di farteli dimenticare».

Si avvicina, per tutti, un autunno che potrebbe essere davvero complicato, con problemi per tutti. Ha paura del Covid-19?

«Francamente no, forse per un’immotivata fiducia nelle mie difese immunitarie, ma intendiamoci: la mia è pura presunzione. Aggiungo che, nei mesi scorsi, ho trascorso con mia moglie (l’attrice Valentina Cenni) un lockdown molto sereno: per me, che non sto mai fisso in un posto, ma sempre in giro per concerti dal vivo, una vera rivoluzione. Innanzitutto abbiamo un cagnolino, Jobim, dal nome del compositore e cantante brasiliano, che ci permetteva di uscire. Comunque stavamo molto volentieri in casa, abbiamo accettato la clausura nel modo più giusto, lavorando tantissimo a nuovi progetti, tra i quali un cortometraggio di Valentina, per il quale firmerò le musiche. Non l’ho vissuta come una deminutio, al contrario come arricchimento ulteriore, condividendo con la donna che amo le nostre passioni».

In altri termini, non è preoccupato dalla pandemia.

«Una frase, non ricordo di chi, dice: possa tu vivere in epoche interessanti. Ebbene: più interessante e di assolutamente unico di quello che stiamo vivendo?! Dunque sono convinto che sia un’occasione da sfruttare sotto vari punti di vista: nel mio caso creativo, ma pure politico, sociale... è l’occasione per riflettere e fare un balzo in avanti. Pensando alle persone che hanno sofferto, che sono state colpite e che hanno perso gli affetti più cari, dobbiamo ritenerci molto fortunati e tenere alto l’umore. Questa situazione va presa in senso positivo».

Il 16 settembre sarà protagonista del Festival della Bellezza all’Arena di Verona con il suo concerto «Piano Solo». Cos’è per lei la bellezza?

«Le racconto un episodio. Pochi giorni fa sono stato invitato a tenere un concerto sul lago di Campotosto, vicino L’Aquila. Il pianoforte era collocato su una pedana che galleggiava sull’acqua e che ho raggiunto in barca. Il pubblico era sistemato sulla riva. In quel luogo mi sono sentito in connessione col mondo, con la natura circostante, nella pace, nei colori del tramonto. Le mie mani andavano per conto loro, totalmente libere anche di improvvisare, di compiere associazioni diverse: mi sono sentito più ispirato del solito e gli spettatori assistevano in religioso silenzio. Ecco, in quel momento ho vissuto intensamente la profondità della bellezza».

Stefano Bollani: "A 11 anni scrissi una lettera a Carosone". Intervista al musicista che oggi nel Comune di Napoli riceve la cittadinanza onoraria. Ilaria Urbani il 30 dicembre 2019 su La Repubblica. "Quando avevo undici anni, ho mandato una lettera a Carosone con una cassettina: avevo registrato le sue canzoni, cantate e suonate da me. Era il 1983, un'ora e mezza di concerto di questo bambino che cantava in napoletano. Mi ha risposto, è stato molto carino, e alla fine della lettera mi ha scritto: "Qualsiasi cosa tu voglia fare nel campo della musica studia il blues che è alla base di tutto". Se Stefano Bollani è l'artista italiano tra i più seguiti e amati all'estero, deve certamente qualcosa a Renato Carosone. E domani sera al concerto di Capodanno il pianista e compositore lombardo, d'adozione toscana, 47 anni, si sdebiterà con il genio musicale partenopeo al Plebiscito suonando un tributo di circa mezz'ora in suo onore. Bollani salirà sul palco alle 22.30, seguito poi da Daniele Silvestri. Durante la serata si esibiranno anche Livio Cori e Nicola Siciliano. Oggi, lunedì 30 dicembre, il musicista sarà insignito dal sindaco della città, Luigi de Magistris, della cittadinanza onoraria alle 11 nella sala giunta a Palazzo San Giacomo.

Bollani, ma come fece a scrivere a Carosone a 11 anni?

"Mio padre trovò l'indirizzo della sua casa discografica, la Lettera A. Così mi misi all'opera e realizzai la mia prima cassetta per lui. Non credevo ovviamente che mi rispondesse, e invece... Allora frequentavo le scuole ad indirizzo musicale di Firenze".

Quando ha scoperto per la prima volta Carosone?

"Per caso a sei anni. Volevo fare il cantante, compravo le cassette degli artisti degli anni '50, mi piacevano Nilla Pizzi, Tony Renis, Johnny Dorelli. Ad un certo punto trovo la cassetta di questo signore che cantava e in più, come me, suonava il piano. Era il suo rientro sulle scene dopo 15 anni di assenza: Renato Carosone dal vivo alla Bussola nel 1975. È stato il mio unico modello. Per giorni e giorni ascoltavo solo i suoi dischi. Il mio primo gruppo musicale con i compagni di scuola si chiamava i "Duran Poco", perché a tutti piacevano i Duran Duran, ma io ascoltavo lui. Il nostro repertorio era costituito da quattro pezzi, quello che avevo imposto io era "La pansé" di Carosone. Sapevo tutto di lui, lo adoravo: riascoltando le canzoni nel tempo, mi sono reso conto che non capivo tutte le parole in napoletano. Non c'era internet, lo riproducevo come fanno molti bambini con l'inglese".

Carosone le rispose. E poi?

"Avevo a malapena sentito nominare il blues di cui lui mi parlava. Allora uscii di casa e mi misi alla ricerca di notizie su questo blues...dal blues al jazz il passo è stato breve. Quindi ho iniziato ad ascoltare questa musica ad undici anni, grazie al consiglio di Carosone. Che poi non ho mai incontrato, purtroppo...".

Quali sono i suoi pezzi preferiti di Carosone che non mancheranno al Plebiscito?

"L'ho sempre suonato poco per una forma di rispetto: trovo che ogni suo brano sia un gioiello, come quelli dei Beatles, degli ingranaggi perfetti. E io che sono un improvvisatore ho evitato di suonarlo dal vivo. Per questo sono contento di farlo finalmente dal vivo, proprio in piazza del Plebiscito. Ho suonato "Pianofortissimo" al Premio Carosone nel 2003, poi "Caravan Petrol" anche nel mio disco, Napoli Trip, "La pansé" e "'O suspiro". Ma per il Plebiscito mi sono preparato, ci saranno altre sorprese... Ufficialmente faccio un piano solo su Carosone, suonerò 25 minuti. Ma è Capodanno, può succedere di tutto, ci sono anche altri musicisti, c'è Daniele Sepe. Vediamo...".

Oggi la sua proclamazione a cittadino onorario...

"Me lo ha chiesto il sindaco de Magistris, è apparso all'Arena Flegrea in giugno, quando ho suonato per Bolle. È un'iniziativa nata dal mio amico Lorenzo Hengeller, per me la notizia è stata del tutto inaspettata. Io non sono cittadino onorario di nessun'altra città, e non vorrei esserlo: dopo Napoli la mia carriera di cittadino onorario è terminata (sorride, ndr). Il mio amore per Napoli nasce con Carosone, ho prima scoperto lui e poi capito che veniva da una città chiamata Napoli. Mi sono innamorato dell'aspetto musicale e poi di quello ironico, che era fortemente napoletano. L'amore fino in fondo è poi scattato per il suono della lingua. Tuttora la cosa che amo di più quando vengo a Napoli è il suono delle parole che sento in strada...".

Suonerà anche in sala giunta?

"C'è un pianoforte, deciderò al momento che cosa suonare. Ho scelto di farmi fare la "laudatio" dai miei due angeli custodi, Lorenzo Hengeller e Daniele Sepe: loro sono gli eredi di Renato Carosone. Le tracce di Carosone in Hengeller sono piuttosto evidenti, ma anche in Sepe, nell'ironia e nella voglia di mischiare le musiche dal mondo, dalla Palestina, Turchia e dai paesi arabi. Sepe ha un occhio simile a Carosone".

Dopo l'album "Napoli Trip", quale altro sarà il suo tributo alla città?

"Prima o poi, mi piacerebbe avere a che fare con la musica di Roberto De Simone, non mi è mai capitato: è un repertorio molto ambizioso e vasto su cui nessuno ha messo le mani. Ho parlato con il maestro al telefono una volta dieci anni fa: era il periodo di Natale, a metà telefonata bussarono alla sua porta gli zampognari che fecero per lui un concerto di quasi 20 minuti che ho ascoltato con lui in diretta telefonica. Io gli ho chiesto: suonano la ciaramella? E lui mi ha corretto: no, è la zampogna...".

·        Stefano Fresi.

Dagospia il 13 giugno 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Stefano Fresi è intervenuto ai microfoni diRai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attore e musicista ha raccontato: "Il mio lockdown? Una grande agitazione di fondo, sei consapevole che sta succedendo qualcosa di anomalo, che si porta via delle persone, che mette a rischio il personale sanitario e le persone costrette a continuare a lavorare. E' una situazione in cui la serenità se ne va a quel Paese. Ma davanti all'ineluttabile c'è poco da fare. Bisogna solo rispettare le direttive. Rimane il dispiacere per le persone che se ne sono andate senza poter essere nemmeno salutate dai propri cari. Abbiamo vissuto la storia, i figli dei nostri figli la leggeranno sui libri di storia, come noi abbiamo studiato la seconda Guerra Mondiale". Sul rapporto con i figli: "A mio figlio siamo stati molto vicino, lo abbiamo trattato da adulto, si è reso conto della gravità della situazione, ma l'ha vissuta bene. Siamo privilegiati, viviamo un po' fuori Roma, in una casa con un giardino. E io venivo da due anni di lavoro molto intenso, in cui sono stato molto lontano da casa. Ho potuto fare cose che trascuravo da tempo, ho cercato almeno di fare tesoro della situazione, studiando, leggendo, sempre col pensiero a chi non ha il privilegio di potersi rilassare un attimo, perché non sa come arrivare alla fine del mese. Io avevo tre film in uscita, il primo lavoro che ho fatto dopo il lockdown è stato un doppiaggio. E poi stavo per girare il film di Edoardo Leo, che sarà rimandato al momento in cui il protocollo ci permetterà di girare. Sui protocolli da rispettare la situazione è che sono cambiate molte cose. Io sono stato negli ultimi due anni abbastanza richiesto, una situazione che per me è stata normalissima l'anno scorso era mischiare riprese cinematografiche e tour teatrali. Ora non è più possibile, perché nessuna assicurazione si prenderebbe la responsabilità. Ora è impossibile far convivere più produzioni per lo stesso attore, quindi bisogna gestire meglio tutti i tempi. Io avrei dovuto fare il Bar Lume e il film di Edoardo Leo. Ora dovrò capire come sarà possibile far convivere le cose. E il problema non è solo degli attori, gli attori che si sono esposti, anzi, lo hanno fatto per i colleghi e i collaboratori che hanno meno visibilità. Su un set lavorano mediamente sessanta persone, c'è un indotto attorno allo spettacolo che non può essere trascurato. Attorno a tutto il mondo dello spettacolo c'è un mondo di lavoratori che sta in ginocchio". Sulla sua carriera: "Io sono un compositore, tra le varie cose ho composto la sigla di "Romanzo Criminale, la serie". Volevano una musica particolare, ne abbiamo fatte diverse versioni. L'ispirazione ce l'ho avuta quando ho visto le immagini della sigla, una delle prime è legata a una mazzetta di soldi che scorre. Siccome sono figlio di un bancario, mi sono ricordato di quando mio padre mi portava a lavoro con lui e c'era macchinetta che contava i soldi e che faceva un suono pazzesco. Ho fatto quel suono con la mia voce, e questa cosa è piaciuta da morire. Ha vinto l'idea nel suo insieme. Teatro e cinema mi hanno un po' distolto dal lavoro sulla musica, sono un po' uscito dal giro, ormai sono percepito come attore. Ma continuo a vivere nel mondo della musica, perché mi piace da morire. E non avere più la necessità di accettare tutti i lavori che mi proponevano per pagare il mutuo, mi concedo il lusso di concentrarmi esclusivamente sulle musiche che più mi attirano". L'incontro che lo ha trasformato in attore: "La passione per la musica è iniziata subito, ho ricevuto in dono una tastiera a cinque anni, ho iniziato a suonare e non mi sono mai fermato. Attorno ai dieci anni ho iniziato a fare un po' di esami al conservatorio, poi ho iniziato a suonare nei locali, alle feste, ho iniziato a guadagnare i primi soldi. Poi mi hanno chiamato a fare delle musiche in teatro e lì ho avuto un incontro folgorante, col mondo del teatro. Mi sono iscritto all'università, ho iniziato a studiare cinema e teatro e a lavorare parallelamente come attore e musicista. Ormai trentenne, poi, ho incontrato Michele Placido che mi ha fatto esordire nel cinema. E' come passare dalla Serie C alla Nazionale. Lui mi vide e mi disse "ti va di fare Romanzo Criminale"? Mi ha messo in Serie A. Io sono andato sul set e mi sono trovato con Favino, Kim Rossi Stuart e Santamaria, dei fuoriclasse. Era pieno di attori incredibili e mi sono ritrovato a debuttare in mezzo a loro. C'era un grande timore reverenziale in me, se non fosse stato per Michele Placido sarebbe stato molto più difficile. Placido è un grande attore, siccome è un attore conosce le esigenze degli attori e da regista ti fa sentire al sicuro. Mi sentivo protetto. La vera popolarità? E' arrivata dopo "Smetto quando voglio". Prima di quel film stavo nella fase in cui la gente mi chiedeva "ma tu sei del cinema", ma tu sei quello di "romanzo criminale", dopo "Smetto quando voglio" invece per strada hanno iniziato a chiamarmi per nome. Sul set eravamo tutti consapevoli che stavamo facendo un capolavoro, c'era un clima paradisiaco. Eravamo tutti amici, tutti seguaci l'uno dell'altro. Io sono innamoratissimo di Calabresi, Sermonti, Edoardo Leo e tutti gli altri". Sulla famiglia: "Sono stato molto fortunato, all'inizio quando ho iniziato a dire ai miei che volevo fare questo mestiere il consiglio che mi davano era quello di prendere comunque una laurea. Ma quando hanno capito che la mia passione era molto forte, mi hanno veramente sostenuto".

·        Stella Usvardi: Kicca Martini.

Dagospia il 29 aprile 2020. All’anagrafe Stella Usvardi, 45 enne originaria di Cuggiono (MI) ma residente da anni a Coarezza di Somma Lombardo (VA) è un ex hostess di terra che per oltre 16 anni ha prestato servizio presso l’Aeroporto di Milano-Malpensa. Da circa 5/6 anni si è trasformata in Kicca Martini pornoattrice genere extreme ed escort per necessità, l’artista hard cuggionese di nascita ma sommese d’adozione dichiara: “dopo aver perso il lavoro mi sono trovata con 5€ in tasca e centinaia di curriculum mandati a vuoto, così mi sono fatta coraggio ed ho iniziato a ricevere in casa uomini, ovviamente previo compenso; sono economica, anche perché la concorrenza è tanta, con € 120,00 faccio servizio completo, compreso il lato b, se poi i clienti non sono interessati al sesso anale, oppure vogliono un semplice orale al naturale che è la mia specialità ovviamente il prezzo della prestazione decresce” la pornohostess continua - “in questi pochi ma intensi anni di carriera non mi sono di certo risparmiata, ho girato tanti film porno sia in Italia sia all’estero, il mio cavallo di battaglia è il genere extreme (BDSM forte e cruento, pissing, freschscat, soffocamenti, blasfemia), ho fatto centinaia di gang bang con addosso tantissimi uomini arrapati che volevano soddisfarsi ed esplodere sul mio esile corpo, e ho fatto migliaia di incontri privati di sesso; questo lavoro è stata una scelta obbligata all’inizio, ma ora mi sta piacendo sempre di più, la mia è una sorta di missione umanitaria!” Kicca oltre alla sua ninfomania nasconde anche dei forti dolori, la sua famiglia non ha mai accettato questa sua scelta lavorativa e le ha completamente chiuso le porte in faccia, tutto ció è accentuato da questa quarantena in cui si trova sola in casa con i suoi adorati cani e gatti. “Non lavoro da troppo tempo, e i risparmi stanno per finire. Tolgo di bocca il cibo a me per darlo ai miei amati animali domestici, sto facendo debito nel negozio di alimentari del paese, non appena riprendo a lavorare lo salderò; Cascasse il mondo io il 4 maggio ricomincio a fare i miei incontri di sesso privati!” - e conclude così - “se non riaprono i locali legati al mondo della trasgressione sono solo che contenta, a me e alle mie colleghe pagavano una pippa di tabacco, pretendendo che ci facessimo anche 30/40/50 uomini, ci hanno sfruttate come macchine da sesso! Mi auguro di ricominciare a guadagnare con i miei incontri privati e magari tra qualche mese con nuovi film sempre più spinti; in questo periodo con l’aiuto di Mimmo Lastella scrittore hard pugliese sto mettendo a punto la mia prima biografia dal titolo La Pornohostess”.

·        Steve Holmes.

Barbara Costa per Dagospia il 27 giugno 2020. E tu, ci andresti con quel vecchio? A spasso, a guinzaglio, per la strada, davanti a tutti, e tutta nuda, e col viso imbrattato del suo sperma? Ti faresti legare e sculacciare da lui? E quel suo culo, quelle chiappe flaccide, le baceresti? Che altro saresti disposta a fare? Te lo dico io, questo e molto altro, anche farti da quel pene nonnetto sbattere a pecorina, all’aperto, in un ristorante. E invece tu, lì, che mi leggi, non chiamare nessuno, non avvertire le forze dell’ordine, perché questo arzillo scostumato l’hanno già arrestato due volte. Ma subito rilasciato: quello che fa può essere contro le regole della tua morale, ma è legale, con i permessi a posto. Questo signore qui è un mito del porno, ha quasi 60 anni, e li dimostra tutti, è pure diventato presbite, e ciò che fa, lo fa con ragazze sì giovanissime, ma più che consenzienti. Nel porno, specie per gli attori, non c’è un’età per smettere: te lo prova Steve Holmes, classe 1961, nel porno da 24 anni, e zero intenzioni di appendere l’uccello al chiodo: è lui attualmente la star dei porno "OldJe", i porno che vedono scatenarsi uomini "in età" con ragazzine. E sui siti porno, nelle sezioni "OldJe" sono finiti i porno pubblici girati da Steve per la "Public Disgrace", la serie porno-fetish con donne in strada o nei locali (finto) violate, (finto) maltrattate, scopate in pizzeria, seviziate nei bar nei modi più insolenti. Porno girati come performance, o show furtivi, con le vie sorvegliate affinché ogni atto si blocchi appena si scorge l’arrivo di un minore. O l’arrivo della polizia, la quale però fa dietrofront appena Steve Holmes mostra loro le licenze che in città della Spagna e dell’Europa dell’Est permettono le riprese di tali giocose porcate. Steve Holmes vanta nel porno una carriera strepitosa, lui ha girato con i migliori, il numero dei suoi film da attore e regista è invidiabile, sebbene Steve sia entrato nel ramo che era già "vecchio": “Io non sono mai stato un emergente, sui set le prime volte nessuno credeva fossi un pivellino, meno male che ho sempre potuto contare sulla mia efficienza!”. Efficienza che dà il suo meglio nel fetish il più crudo. Per Steve Holmes, finire nei canali OldJe, o pornare con partner più piccole di 40 anni, è né un problema, né un demerito: è l’ennesima medaglia di una carriera anale inarrestabile: oggi è seguito e premiato per lavori OldJe "ass" quali "Dirty Grandpa", o "All Anal Service 2", uscito pochi mesi fa. Peccato non giri più porno vestito da donna. Steve Holmes è romeno, la sua famiglia è fuggita dal comunismo quando lui aveva 7 anni, ma non è entrato nel porno fino ai 35, e dopo che era sposato da 5 anni e fidanzato da 2. Matrimonio non monogamo, visto che Steve dice d’aver riconosciuto nella ragazza da penetrare analmente in un porno amatorial, la stessa con cui aveva scopato in una festa scambista. Steve Holmes è un marito modello: ha chiesto il permesso a sua moglie Sylvia prima di iniziare a fare porno! Lei non solo glielo ha dato, non solo non batte ciglio se oggi lo vede divertirsi con attrici che potrebbero essere loro nipoti, ma è sui set con lui. Sylvia è una truccatrice, ed è lei che prepara le ragazze che suo marito si deve godere. Molti fetish Steve Holmes li gira con fanciulle non professioniste, che non sono pornostar, né vogliono diventarci. Sono ragazze che rispondono a casting sul web, ragazze che sono fan sfegatate di "nonno" Steve: lo hanno scoperto sui siti porno, e per loro farsi porno-degradare da lui è spesso realizzare una specifica fantasia sessuale. Se ancora mi segui, ti aggiungo che Steve confida che… alcune di loro si fanno accompagnare sul set dalle madri! Sicuro, è la verità, io di paparino Steve Holmes mi fido, come sono certa che tu sei già andato qualche volta a curiosare tra i video OldJe: hai visto che panze, che grinze, che pelate, e che grinta? I più amati sono gli OldJe amatoriali, io ti dico subito che non credo all’età che siffatti performer professano, alcuni sono più giovani e comunque, viagra o non viagra, fanno tutto quello che la loro libidine gli consente e ancora gli "tira". Anche con le baby-trans. Il loro successo si spiega con l’identificazione: solo su un set (e solo cash) la maggioranza degli spettatori loro coetanei può ritrovarsi tali ridenti ninfe da sollazzarsi, e mica tutte su un banale letto, bensì in doccia, sul tavolo della cucina, inginocchiati in rimming attivi e passivi (ma dopo come faranno a rialzarsi?!?). Dì un po’, non crederai che gli OldJe siano frutto dei "degenerati" tempi presenti: le scopate ragazza-vecchio sono nate col porno, impazzavano già nella preistoria del porno, le sfogliavi nei porno fotoromanzi degli anni '70. Non te lo diranno mai, ma in molti OldJe girati sui set, i peni âgées in azione… non sempre sono dei proprietari che vedi sullo schermo: nel montaggio sono sostituiti da più aitanti peni turgidi, lo sperma può essere artificiale, ma tutto questo a te non deve importare, a te ti si deve rizzare guardandoli e, benché non mi sia mai capitata una donna che ammetta di esserne video-amante, qualche pornofila-gerontofila, da qualche parte, deve pur esserci…

·        Susanna Messaggio.

Susanna Messaggio: “Quel casting con Enzo Tortora per Portobello”. Tommaso Martinelli il 18/04/2020 su Il Giornale Off. Ha conseguito una laurea in Lingue e una in Pedagogia ed è una delle più richieste esperte di comunicazione. Ma ha anche alle spalle quasi quarant’anni di carriera nel mondo dello spettacolo: Susanna Messaggio, che sin dai suoi esordi è stata orgogliosamente Off.

Susanna, attualmente ti occupi soprattutto di comunicazione, anche se non hai mai abbandonato il mondo dello spettacolo…

«Ho sempre pensato che lo spettacolo fosse una parte della mia vita. Ma non la mia vita. Non a caso, oggi, è come se ci fosse una porzione che corrisponde alla vita vera e una che mi piace definire “fiction”, in cui è racchiuso lo spettacolo. Una porzione, quest’ultima, senza schemi e senza meritocrazia, che comprende una serie di fortune che possono capitare nella vita».

Ti consideri fortunata?

«Sì, perché per quanto riguarda lo spettacolo, credo di essere stata in grado di sviluppare un lavoro molto ben pagato, che comporta una fatica ben diversa. Più che essere preparati, è fondamentale trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E avere amicizie altrettanto giuste».

La tua carriera comincia con un episodio Off…

«All’inizio degli anni ‘80 mi ero recata in RAI per una traduzione. Avevo con me una tesina in tedesco intitolata Il casting. In ascensore incontrai per puro caso Anna Tortora, la sorella del grande Enzo, che mi chiese di seguirla. Mi presentò a suo fratello, che era lì a fare i casting per il suo Portobello. Appena mi vide, Tortora esclamò: “E’ perfetta”. Ricordo ancora che mi ritrovai lì, tranquilla con la mia gonnellina a pieghe e i miei calzettoni, circondata da tante bellissime donne per lo più straniere. Ma Enzo scelse me, per rispondere al telefono del mitico Centralone, perché cercava una ragazza della porta accanto».

Tu, però, eri lì per una traduzione…

«Infatti, spiegai loro il malinteso. Poi, però, quando mi dissero che a Portobello avrei guadagnato 200mila lire a puntata, ci pensai seriamente. D’altra parte, per le traduzioni, all’epoca, mi pagavano solo 70 lire a cartella. Restava solo da convincere mio padre, che non voleva lavorassi nello spettacolo. Ma quando lo chiamò Enzo Tortora in persona, cambiò idea e volle accompagnarmi in trasmissione, così potè guardare anche le prove delle ballerine alle prese con frequenti spaccate!»

Nel corso della tua carriera hai lavorato con i più grandi della TV…

«Sono stata fortunata, perché ho sempre incontrato persone che mi hanno rispettata, trattandomi come una figlia. Oltre a Tortora, mi vengono subito in mente Mike Bongiorno e Raimondo Vianello. Erano tempi meravigliosi…»

Qualche giorno fa è ricorso il decennale della morte di Vianello…

«Ogni volta che stava per passare sua moglie, Sandra Mondaini, lui mi diceva: “Tu che sei una bella ragazza, vieni qui, abbracciamoci, così vediamo come reagisce”. E ogni volta che poi passava Sandra, con cui giocavo spesso a carte durante le pause sul set e che per me era come una mamma, lei puntualmente diceva: “Raimondo, guarda che Susanna è giovane e bella ma non è mica scema!”. Lavorare con loro era uno spasso, perché era come assistere a un siparietto dietro l’altro».

Alla TV di oggi, rispetto a quella di ieri, secondo te cosa manca?

«L’intelligenza e lo stile di alcuni programmi, che purtroppo non vanno più di moda. Chissà, magari da questo periodo di grande meditazione che stiamo vivendo tutti, si potrebbe meditare su parecchi errori…»

·        Suzanne Somers.

DAGONEWS il 14 gennaio 2020. Suzanne Somers è un nome familiare a Hollywood da quando ha girato "Three’s Company" nel ruolo di Chrissy Snow. Ora, a 73 anni in quello che considera il momento più felice della sua vita, dà una serie di consigli per invecchiare felicemente. «Pensavo che in questa fase della mia vita avrei iniziato a desiderare chi ero in passato. Ma non è così – ha detto Somers - Mi rendo conto che c'è un altro capitolo, probabilmente molti altri dopo questo. Pensavo che a 73 anni sarei stata vecchia, ma non lo sono e credo che dipenda dal modo in cui mi sono presa cura di me. Ho davvero pensato al mio corpo come a una Maserati, lo nutro bene e metto il carburante migliore e paga». L'attore ha recentemente pubblicato il libro "A New Way To Age", in cui parla con i medici di tutto il mondo su come invecchiare con libertà e sicurezza. Somers affronta diversi problemi di salute per uomini e donne come le malattie cardiache, il cancro e il sesso nella speranza di aiutare le persone di tutte le età a vivere la loro vita nel modo migliore e in modo più sano. Somers ha imparato molto sulla vita e sulla salute : «Quando giravo "Three’s Company" ho avuto il cancro tre volte, ma la gente voleva solo proteggere Chrissy Snow. Mi sono ingegnata per rendere il personaggio simpatico e adorabile, le bionde stupide sono fastidiose. E poi sono stata licenziata per aver chiesto di essere pagata come gli uomini». Nonostante quel periodo difficile della sua vita, l’attrice ha sempre fatto della salute una priorità. Ora vuole che i lettori sappiano che la vita e il sesso possono essere molto divertenti anche a 70 anni. «Per il sesso c'è la peptide. L'ho presa. Funziona perché agisce sul cervello e stimola il desiderio sessuale. Dato che sono bilanciata ormonalmente, prendere la peptide era davvero troppo per me. Potresti avere otto orgasmi in un paio d'ore. Quando le donne non hanno voglia di farlo possono trarre dei grandi benefici a usarla».

·        Tazenda.

Tazenda, da Sanremo con Pierangelo Bertoli alla morte del cantante fino ai progetti successivi. Il gruppo etno-folk portò la musica tradizionale e la lingua sarda al grande pubblico. Nel 2006 il lutto per la scomparsa di Andrea Parodi, inconfondibile voce e fondatore del progetto. Barbara Visentin il 20 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. All’inizio degli anni 90, i Tazenda hanno portato la musica popolare sarda al grande pubblico: nati nel 1988 su iniziativa di Gino Marielli, Gigi Camedda e Andrea Parodi, uniscono strumenti rock come la tastiera e le chitarre elettriche a quelli tradizionali della Sardegna. Cantano in italiano, ma soprattutto in lingua sarda logudorese, ben difficile da capire per chi non è dell’isola. A contraddistinguerli è la voce potente, quasi femminile, del cantante Andrea Parodi che rimane immediatamente scolpita nella memoria. Il nome Tazenda non ha origine sarda, ma arriva invece da un pianeta dei libri di fantascienza di Asimov.

A Sanremo con Pierangelo Bertoli. Dopo il primo album eponimo, la svolta dei Tazenda è la partecipazione al Festival di Sanremo del 1991 insieme a Pierangelo Bertoli: si fanno conoscere al grande pubblico grazie al brano «Spunta la luna dal monte», trasposizione del loro pezzo «Disamparados» che il cantautore (scomparso nel 2002) riadatta per quattro voci, lasciando alcune parti in sardo e alternandole con altre in italiano. La canzone ottiene un grande successo e grandi riconoscimenti, fra cui la targa Tenco. I Tazenda pubblicano il secondo disco «Murales» che ha un buon risultato commerciale.

La collaborazione con De André. Nel 1992 i Tazenda tornano a Sanremo con il brano «Pitzinnos in sa gherra» (bambini in guerra) che vanta l’illustre collaborazione con Fabrizio De André: la canzone è tutta in sardo, fatta eccezione per la parte finale in italiano firmata da Faber, ed entra a far parte del terzo album «Limba». Negli anni successivi i Tazenda collezionano tante altre importanti collaborazioni, da Eros Ramazzotti ai Nomadi, da Gianni Morandi fino, più di recente, ai Modà, e si esibiscono in Italia così come all’estero.

La morte di Andrea Parodi. Nel 1997 Andrea Parodi decide di abbandonare i Tazenda per dedicarsi alla carriera solista, mentre gli altri due componenti proseguono come duo. Parodi mette a segno delle collaborazioni internazionali, con Noa e con Al Di Meola, e prosegue la sua esplorazione artistica legata alla Sardegna, dirigendo documentari e producendo giovani artisti sardi. Nel 2005 ritorna con i Tazenda per un’acclamata reunion, ma l’anno successivo gli viene diagnosticato un tumore incurabile allo stomaco. L’ultimo concerto, che segna il suo addio al palcoscenico, si tiene il 22 settembre 2006. Muore il 17 ottobre dello stesso anno, all’età di 51 anni, pianto da tanti colleghi del mondo della musica e dello spettacolo, ricordato da concerti e tributi. Dal 2017, a Porto Torres, c’è un museo a lui dedicato.

Gli anni successivi. La scomparsa di Andrea Parodi segna una ripartenza obbligata per i Tazenda che proseguono con un nuovo cantante, Beppe Dettori, fino al 2012. Insieme a lui pubblicano diversi album e nel 2009 tornano anche sul palco dell’Ariston come ospiti: accompagnano Marco Carta in una versione parzialmente in sardo del brano «La forza mia» che poi vince il Festival. Nel 2012, però, dopo la pubblicazione del nuovo album, Dettori lascia il gruppo citando inconciliabili divergenze artistiche.

Il nuovo cantante. Al suo posto, nel 2013, arriva Nicola Nite, nato e cresciuto ad Alghero, scelto attraverso una selezione online, un lungo curriculum di esperienze musicali alle spalle. I loro testi virano sempre di più verso l’italiano, scrivono insieme a Mogol e accumulano nuove collaborazioni. A inizio maggio di quest’anno, come preludio di un nuovo album, hanno pubblicato il singolo «A nos bier»: «Scritto tre anni fa, ma che sembra parlare della situazione attuale», hanno spiegato. Il ricavato delle vendite è destinato a una struttura per anziani in Sardegna che ha dovuto affrontare una situazione particolarmente difficile durante l’emergenza coronavirus.

·        Taylor Mega.

Da ilmessaggero.it il 18 settembre 2020. Anche Taylor Mega ha scritto un libro, s’intitola "La bambina non c’è più". Per promuovere la sua prima fatica letteraria, l’influencer ha pubblicato un video su Instagram. Nella caption a corredo della clip, però, ha commesso un imperdonabile errore: “Sono emozionata e felicissima e lo si può vedere dalle mie faccie” ha scritto nella lunga caption. Uno scivolone che da novella scrittrice le è costato diverse critiche: “Scrive un libro, scrive facce con la i” osserva qualcuno. “Facce* visto che ora sei una “scrittrice”, devi sapere bene l’italiano Taylor” le fa notare un altro utente. E c’è anche chi sentenzia: “Tanto bella quanto ignorante”.

Francesca Galici per Il Giornale il 18 settembre 2020. Momentaneamente lontana dalle scene televisive, Taylor Mega non ha mai allentato la sua presenza sui social network. Ha uno stuolo di seguaci in perpetua ammirazione, che lei ricompensa con foto ammiccanti e con spaccati della sua vita quotidiana. Non tutto, ovviamente, può entrare sui social e c'è una parte della sua vita che Taylor Mega ha sempre tenuto lontana dalle condivisioni del mondo dei social, per non inquinarlo e per preservarlo. L'ha voluto raccontare a Giovanni Terzi per Libero Quotidiano, in una lunghissima intervista senza filtri nella quale ha raccontato la sua vita passata e presente, oltre ai progetti per il futuro. La pandemia ha modificato in parte i suoi piani ma Taylor Mega ha imparato a cavarsela in ogni circostanza. Taylor Mega è bella, si piace, sa di piacere e non lo nasconde: "La bellezza è certamente uno strumento che inizialmente ti aiuta molto ma poi per andare avanti serve carattere, disciplina e temperamento. "Non nasconde di essere stata avvantaggiata dal suo aspetto ma rivendica anche l'intelligenza: "La bellezza dev'essere usata con intelligenza perché è un'arma. Il rischio è, come si suol dire, essere 'un bello che non balla'." Poche persone Taylor riconosce come suoi salvatori disinteressati in un mare di lupi e una di queste è Sonia Bruganelli, moglie di Paolo Bonolis. Nella vita dell'influencer non è mancato chi ha cercato di metterle i bastoni tra le ruote, soprattutto alcuni ex, ma evidentemente lei è sempre riuscita a schivare i colpi restando in piedi. A livello lavorativo, anche Taylor Mega ha delle preoccupazioni. Tra progetti sospesi e cancellati, la sua ancora di salvezza è ancora Instagram, che le permette di guadagnare anche da casa e in quarantena. Con il suo bottino di 2.5 milioni di seguaci, costruito in 5 anni di duro lavoro, è una delle influencer più seguite ma, soprattutto, amate del Paese. Non le mancano certo gli hater e i commenti violenti ma li considera parte del gioco. Solo in casi estremi interviene per censurare qualche eccesso. Nessuno degli odiatori della rete, tanto meno un fan accanito, si è mai trasformato in uno stalker per Taylor Mega, che tuttavia in passato ha avuto a che fare con uomini violenti. "A me è capitato di avere uomini manipolatori ma la storia di violenza brutta l'ho vissuta da ragazzina, quando a 15 anni ero fidanzata con un ragazzo di 18. In quel periodo mi sono persa completamente", ha ammesso l'influencer, che durante la sua partecipazione all'Isola dei famosi ha ammesso l'uso di droghe. "Si instaura un rapporto malato tra vittima e carnefice che è difficile da dissolvere. Io avevo iniziato a farmi di eroina e di droga, lui era violento ma alla fine sono riuscita a rompere quel sistema perverso", ha raccontato Taylor Mega a Giovanni Terzi. Da questa sua storia così personale e dolorosa è nato l'impegno per la campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Quell'esperienza ha lasciato un segno profondo in Taylor Mega: "Mi ha insegnato a essere diffidente dagli uomini gelosi e possessivi, quelli che non ti fanno vivere la tua vita, quelli che la vogliono stravolgere." Taylor Mega è uscita dal tunnel da sola e con l'aiuto della sua famiglia, una presenza forte costante nella sua vita, anche ora che vive lontana da loro e che ha ritrovato l'amore insieme a Tony Effe: "Abbiamo passato una buona quarantena."

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 4 maggio 2020. In questo mondo dove sempre di più il virtuale racconta - o cerca di raccontare - il reale, ci capita spesso di parlare di qualcuno come se fosse un amico di vecchia data, pur non conoscendolo personalmente. Sarebbe in realtà necessario immaginare che il mondo social rappresenti una piccola parte della vita di ognuno di noi, quella che vogliamo mostrare, e non sempre ciò che realmente siamo. Taylor Mega è paradigma di questo mondo dove la parte social, per lei un vero e proprio lavoro, diventa lo strumento per farci credere di conoscere una persona. Così non è. Ciò che noi rappresentiamo è solo una parte di ciò che siamo, probabilmente quella più esteriore e superficiale. Taylor Mega molti appassionati di gossip la conoscono per essere stata una fidanzata di Flavio Briatore, in realtà molti di noi la ricordano per la sua partecipazione al reality l' Isola dei Famosi dove racconta che «è stata una bellissima esperienza che ho voluto far durare solo una settimana» oppure per essere spesso è presente come ospite in molti spettacoli televisivi come Live non è la D' Urso, Ciao Darwin e molti altri.

Ma Taylor Mega è anche una delle più conosciute "influencer" sui social e modella.

«Il Coronavirus avevo già avuto modo di conoscerlo a gennaio quando ero alle Maldive». Così attacca Taylor Mega parlando della pandemia che ha messo in ginocchio l' intero pianeta.

Perché dice questo?

«Oltre che ascoltando le notizie in televisione, quelle che venivano da Wuhan, avevo il polso del dramma perché gran parte del turismo maldiviano proviene dalla Cina. Per questo, nel rientrare in Italia mi sono munita di guanti e mascherina in quanto anche l' aeroporto di Malé era pieno di cinesi ed avevo una grande paura».

Taylor, quanto per lei ha contato e conta la bellezza?

«Io sono una persona pignola e devo essere perfetta in ogni situazione, sono una perfezionista. La bellezza è certamente uno strumento che inizialmente ti aiuta molto ma poi per andare avanti serve carattere, disciplina e temperamento».

Quanto l' ha aiutata la bellezza?

«Un po' certamente ma il resto è solo la testa. Anche la bellezza deve essere usata con intelligenza perché è un' arma; altrimenti il rischio è, come si suol dire, essere "un bello che non balla"».

Come è il suo mondo?

«Non solo il mio ma tutti i mondi sono fatti da lupi e c' è la necessità di stare sempre in guardia perché molti tentano di fregarti».

Nessuno l' ha mai aiutata?

«Poche persone sono disinteressate. Ti aiutano ma magari chiedano qualche cosa in cambio...».

Neanche una persona si è dimostrata disinteressata?

«Solo Sonia Bruganelli, la moglie di Paolo Bonolis, è stata davvero stupenda e mi ha sempre sostenuto senza alcun interesse e solo per amicizia».

E invece qualche persona che ha cercato di metterle i bastoni tra le ruote?

«Qualche mio ex... ma preferisco non parlarne».

Una volta parlava di soldi con disinvoltura, oggi dopo questa pandemia qualcosa è cambiato?

«I soldi piacciono a tutti, io ambisco sempre a guadagnare tanto e non bisogna fare gli ipocriti. Chi non sarebbe felice di vincere al Superenalotto? Certo che se dovessi scegliere tra i soldi e la salute sceglierei sempre la seconda».

Chi sono delle personalità per lei di riferimento nel suo mondo?

«Due donne: una è Kim Kardashian, l' altra Monica Bellucci».

La Bellucci? C' è il cinema nei suoi progetti?

«Ci sto provando ma per scaramanzia non dico nulla».

Tra le influencer cosa pensa di Chiara Ferragni?

«La stimo tantissimo, è una ragazza super carina e alla mano. Un modello per come ha saputo fare impresa».

 Come sta vivendo questo periodo di quarantena?

«Credo come tutti. Anche a me sono saltati molto progetti che si stavano concretizzando e dei lavori che già erano programmati sono stati cancellati. Questa situazione naturalmente mi provoca una preoccupazione che credo sia generalizzata. Il mio lavoro di libera professionista è sempre precario come quello di ognuno di noi».

Anche il mondo della socialità ne uscirà cambiato secondo lei?

«Già di mio sono una persona che non dà eccessiva confidenza agli altri. Non sono abituata ad abbracciare chiunque e quindi da quel punto di vista non mi cambia il mio modo di vivere. Certo passerà del tempo per recuperare quella fiducia che presuppone l' abbraccio libero tra persone. Certo non si può vivere con la paura di morire ne' amare con la paura di essere lasciati ma il Coronavirus ha messo davvero paura di ammalarsi».

Che vita conduce di solito?

«Sono una salutista nel mangiare, vado sempre in palestra e unico vizio (ahimè) preso in quarantena è la sigaretta elettronica».

Il bere?

Si mette a ridere Taylor ricordando quella sera davanti alle telecamere in cui appariva un po' "su di giri"...

«A me bastano due shottini di vodka per farmi girare la testa. Quella sera ne bevvi due e di pessima marca e così sono stata male».

Mi ha detto che ha perso molte occasioni di lavoro?

«Purtroppo come tutti ciò è accaduto. Però sono fortunata perché esiste Instagram e questo mi permette ancora di fare qualcosa anche in quarantena».

Come ha iniziato a usare Instagram?

«Era il 2015 e ho iniziato perché sono un po' per narcisismo ed ispirandomi ad alcune ragazze russe che esibivano la loro bellezza. Inizialmente postavo molte foto e crescevo in modo esponenziale poi ho capito che per mantenere il consenso "social" era più utile postare meno».

Oggi quanti "seguaci" ha?

«Sono due milioni e mezzo su Instagram e da poco tempo sono anche "sbarcata" su tik tok dove ne ho circa quattrocentomila».

Si dice che qualche "influencer" compri i "seguaci"...

«È vero ma poi si vede subito anche perché adesso Instagram li toglie».

E i commenti, molti sono violenti ed espliciti ...

«Si dice "Haters make me famous". Io gioco su Instagram ed i commenti fanno parte del gioco; non li cancello mai a meno che non siano scurrili in modo eccessivo. I commenti fanno parte del gioco e a volte sono io stessa che li provoco»

Ha mai avuto a che fare con uno stalker?

«Devo dire sinceramente no».

E con uomini violenti?

«Preferirei non rispondere».

Taylor non avrebbe una gran voglia di parlare di quella che è stata una pagina dolorosa della sua vita, ma alla fine decide di raccontarla soltanto per rafforzare il suo impegno in nome della battaglia contro la violenza di genere.

«Uomini violenti ci sono, parliamo di violenza fisica e psicologica e credo che ogni donna, purtroppo, l' abbia vissuta. A me è capitato avere uomini manipolatori ma la storia di violenza brutta l' ho vissuta da ragazzina quando a quindici anni ero fidanzata con un ragazzo di diciotto. È stato terribile. In quel periodo mi sono persa completamente».

Perché?

«Perché si instaura un rapporto malato tra vittima e carnefice che è difficile da dissolvere. Io avevo iniziato a farmi di eroina e di droga lui era violento ma alla fine sono riuscita a rompere quel sistema perverso».

Per questo il calendario per sensibilizzare la violenza di genere?

«Assolutamente è un tema a cui sono molto legata. Il mio incontro con Pinky (la donna sfregiata dall' acido dal marito) è stato pazzesco così quando mi chiesero di fare il lavoro del calendario deciso che sarebbe stata l' occasione per devolvere il mio guadagno a quella giusta causa».

Cosa le rimase impresso dell' incontro con Pinky?

«Tutto! Però ricordo che Pinky mi disse, dopo essersi svegliata dal coma, che quella persona che le aveva fatto tanto male (fisico e psicologico) in alcuni momenti ancora le mancava, poi per fortuna ha superato il tutto e ora vive una vita splendida con le sue due piccole creature ed è una donna forte che si batte a sua volta contro la violenza di genere! Un' eroina!».

Fu così anche per lei?

«Era un rapporto malato e con questo ho detto tutto».

Cosa le ha insegnato?

«Molto. Come prima cosa essere diffidente dagli uomini gelosi e possessivi, quello che non ti fanno vivere la tua vita, quelli che la vogliono stravolgere».

Come ne è uscita?

«Da sola ma anche grazie alla mia famiglia che sempre mi è stata accanto in ogni momento della mia vita».

Che tipo di famiglia ha?

«Mia madre e mio padre sono insieme da trentasei anni; la nostra origine è friulana, di Palmanova, e loro hanno una azienda agricola dove allevano tacchini. Sono persone meravigliose e semplici che non sono molto propensi al mio mondo».

E le sue sorelle?

«Ho due sorelle ma Giada è la mia metà! L' altra metà di me. Ci completiamo così tanto da non sentire il bisogno di altri "migliori amici". Il nostro è un rapporto straordinario».

Come sarà il suo futuro ?

«Per ora ho scelto di allontanarmi dalla televisione per riflettere su tante cose».

E la sua quarantena con il suo fidanzato Tony Effe?

«Posso solo dire che assieme abbiamo passato una buona quarantena».

Massimo Falcioni per tvblog.it il 15 Gennaio 2020. Mario Giordano “processa” Taylor Mega e l’ex concorrente dell’Isola dei famosi si infuria. A Fuori dal coro va in scena la più prevedibile delle contrapposizioni, con Mario Giordano che mette a confronto la contadina Jessica e l'universo delle influencer. Da una parte c'è la ragazza che lavora duramente per racimolare appena mille euro al mese, dall’altra Asia Gianese, che mille euro li incassa grazie alla pubblicazione di una semplice foto. Insomma, guadagni "sudati" contro soldi “facili”, messi addirittura al televoto. Risultato? Ovviamente trionfo a mani basse di Jessica. Taylor Mega, non presente fisicamente in studio, però non ci sta e contesta l’atteggiamento di Giordano che le concede la parola per pochissimi minuti. “Psicologicamente il lavoro dell’influencer è più stressante – afferma la ragazza -  se fosse così facile, lo farebbero tutti”. Il conduttore insorge, cambia argomento, lancia altri servizi, scatenando le ire di Taylor Mega che, privata dell’audio, si lamenta platealmente con i tecnici presenti nella stanza. Un episodio che avrà certamente regalato un fuori onda più divertente della performance in diretta. Chissà se Striscia la notizia, che già scovò le immagini del celebre spritz a Non è la D’Urso, riuscirà a regalare il bis al pubblico.

Dito medio davanti la camionetta della polizia, l’influencer Taylor Mega cacciata dalla tv. Redazione de Il Riformista il 20 Gennaio 2020. Taylor Mega torna a far parlare di sé, questa volta per una foto postata sui social nel dicembre 2018, ora rimossa. L’influencer posa davanti a una camionetta della polizia mostrando il dito medio. A denunciare l’esistenza di questa immagine è stato un amico di Antonella Elia durante “Live Non è la D’Urso“. La ‘diatriba’ era nata a seguito di alcune parole offensive pronunciate dalla concorrente del Grande Fratello Vip rivolte proprio all’influencer: “E’ una demente, mostra solo tette e c*lo, non dobbiamo essere tutte puttane come lei”, aveva detto la Elia. A rincarare la dose l’amico che lancia la notizia sulla foto. Ospite di Barbara D’Urso, Taylor Mega ha prima cercato di difendersi e poi ha annunciato di voler lasciare la tv per un periodo: “Sinceramente non ricordo – aveva detto l’influencer – però a questa persona non voglio rispondere. Non perché lei ha 56 anni mi può dare della pu**ana. Barbara volevo dire che ti ringrazio per lo spazio che mi hai dato, ma io per un po’ non voglio più apparire in tv perché mi voglio dedicare a un altro progetto” La conduttrice del programma Mediaset non ha infatti gradito la foto, di fatto ‘cacciandola’ dalla sua trasmissione: “Sono d’accordo con te – ha affermato in diretta la conduttrice – che non appari più nelle mie trasmissioni, perché qualora fosse vero che hai fatto il dito medio alle Forze dell’ordine io non ti vorrei più”.

Tapiro a Taylor Mega dopo l'uscita di scena dalla d'Urso: "Qualcuno ha giocato sporco". Valerio Staffelli consegna il Tapiro d'Oro a Taylor Mega dopo l'uscita di scena da Live! Non è la d'Urso, la influencer accusa Mediaset e la conduttrice. Luana Rosato, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Striscia la notizia ha consegnato il Tapiro d’oro a Taylor Mega dopo quanto accaduto a Live! e il saluto amaro con la conduttrice, Barbara d’Urso. La influencer, intervenuta per annunciare il suo momentaneo addio alla tv, si è vista costretta a confrontarsi con un amico di Antonella Elia che ha puntato il dito contro di lei parlando di uno scatto in cui mostrava il dito medio alle Forze dell’Ordine. Una notizia che ha infastidito particolarmente la d’Urso che, prima di salutare Taylor, decisa a lasciare momentaneamente il mondo della televisione per dedicarsi ad altri progetti, ci ha tenuto a fare una precisazione: “Se questa cosa (la foto contro la Polizia, ndr) fosse vera, sono io che nelle mie trasmissioni non ti voglio più”. Così si è chiuso il collegamento con Taylor Mega, che si è lasciata andare ad un lungo sfogo social per il trattamento riservatole dalla conduttrice e dagli autori. Secondo quanto raccontato da lei, infatti, la sua partecipazione a Live! non prevedeva alcun confronto, ma era semplicemente finalizzata ad annunciare il momentaneo addio alle telecamere per altri progetti. Invece, a suo dire, Barbara d’Urso non avrebbe gradito questa decisione e la avrebbe liquidata in quella maniera tendendole una “trappola”. Dopo l’accaduto, quindi, Striscia la notizia ha raggiunto la Mega per consegnarle il Tapiro d’oro e Taylor non si è lasciata sfuggire l’occasione di lanciare delle frecciate velenose al volto di Canale 5 e ai suoi autori. “Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di parlare – ha esordito lei con Valerio Staffelli - . Era un po’ di tempo che dicevo che non ci volevo andare e hanno trovato questa cag...a della foto del dito medio, che è di due anni, mentre la signora d’Urso è un anno che mi invita nelle sue trasmissioni. Com’è che questa foto è stata tirata fuori solo ora?”. Taylor Mega ci ha tenuto a precisare, inoltre, che il gesto mostrato nello scatto incriminato non era rivolto alle Forze dell’Ordine, “che ringrazio perché ci difendono sempre”, ma era “rivolto alla telecamera, verso gli hater”. Chiarito il motivo della foto, quindi, la influencer ha continuato ad accusare Live!: “Non puoi dire che mi inviti in puntata per dire che mi prenderò una pausa dalla televisione e poi mi metti dentro ad altri discorsi in cui non posso non parlare, e poi te ne esci con: Se hai fatto questa foto, non ti invito più”. “Quindi è colpa della d’Urso?”, ha chiesto Valerio Staffelli. “Degli autori, della d’Urso, non lo so... – ha replicato Taylor - . Ma qualcuno ha giocato in maniera sporca. Secondo me, c’è stato un tranello nei miei confronti”.

DAGONEWS il 20 gennaio 2020. «Sono frastornata. È stato qualcosa di non previsto. Ci ha spiazzato». Taylor Mega si agita, è un fiume in piena. Si aspettava di fare un collegamento con “Live Non è la D’Urso” per congedarsi dal piccolo schermo e si è ritrovata travolta dalle critiche per una foto in cui fa il dito medio davanti alla camionetta della polizia. Un’immagine che ha provocato l’indignazione della padrona di casa che ha congedato Taylor facendole capire di non essere più ospite gradita. «Hanno voluto fare questa messa in scena senza motivo, non c’era astio con la D’Urso. Sono in dubbio se pubblicare la conversazione con gli autori».

Il dito medio a chi era rivolto?

«Faccio spesso il dito medio nelle foto. È evidente che non è alle forze dell’ordine, ma è alla fotocamera».

Evidente no, anzi fraintendibile.

«È tutto fraintendibile se si legge nel modo sbagliato. È palese. Mi sarei dovuta girare e fare il dito medio verso la camionetta se avessi voluto offendere».

Ma ti scusi con le forze dell’ordine?

«Una scusa non è dovuta perché non c’era l’intenzione, ma se si è creato questo fraintendimento l’ultima volontà era quella di offendere chi indossa la divisa. Li ho pure ringraziati pochi giorni fa dopo che ho subìto il furto in casa».

Ma andare in tv per dire che non andrai più in tv. Non è un controsenso. Hai Instagram per comunicare con i tuoi follower.

«Infatti io non volevo più andare. Tanto è vero che erano un po’ di giorni che facevo le dirette da casa. Continuavano a chiamarmi gli autori per dirmi che sarebbe stata l’ultima volta. Io continuavo a insistere che non volevo andare fino a quando non mi hanno convinta dicendomi: “Vieni, così dici che questa è l’ultima volta e che ti assenterai per un po’ perché sei impegnata in altri progetti. Ci fai un favore e ci sembra anche giusto visto che ti abbiamo dato molto spazio”. Io di questo ho gli screenshot e i messaggi vocali. Io dovevo fare il collegamento solo per dire questo e invece mi hanno inserita in un talk nel quale non avrei dovuto essere. Mi hanno coinvolto in dinamiche e io non potevo esimermi dal rispondere».

E ti sei trovata di fronte l’avvocato di Antonella Elia che ha tirato fuori la foto.

«Quell’immagine è sui social da due anni. Secondo me all’avvocato dell’Elia è stato detto dagli autori di tirare fuori questa storia per trovare una scusa per dirmi di non andare più. Quella foto è in circolazione da due anni. Perché fare i moralisti adesso? Io non dovevo avere un confronto con il legale dell’Elia. Solitamente prima di andare in trasmissione ti danno la scaletta delle persone che ci sono in diretta e questa persona non era stata menzionata. Perché mentre si parla del fatto che l’Elia che mi dà della mignotta, mi tirano fuori la foto della camionetta della polizia. Che c’entra?»

Davanti alla foto la D’Urso non si poteva comportare diversamente…

«Barbara sapeva che sarebbe uscita quella foto. Mi hanno voluto tendere un trappolone perché non accettavano il fatto che io volevo assentarmi dalla tv. Io gli alzo lo share. Basta guardare che da “Ciao Darwin” al “Grande Fratello Vip” le puntate più viste sono quelle dove c’ero io. Anche a “Live Non è la D’Urso” la puntata più vista è stata quella in cui ho fatto il collegamento ubriaca».

Ma perché la D’Urso dovrebbe avercela con te?

«Un malinteso».

Su cosa?

«A lei non va bene che io voglia assentarmi dalla scena per un po’. Non l’ha digerita perché è stata una mia decisione unilaterale. Ci sono tante cose che potrei dire, ma non voglio tirare fuori cose personali».

Pensi che quello che è successo ti potrà creare qualche problema?

«Poteva creami qualche problema se volevo fare ancora televisione, ma io voglio distaccarmi. Se si vuole lavorare in certi ambiti la tv che ho fatto per un anno viene considerata trash. Pe questo volevo staccare la spina. Alla moda e al cinema non piaci. Molte agenzie mi dicevano che non avevo un’immagine pulita e che dovevo distaccarmi. Adesso ho altri progetti».

Quali?

«Mi sto preparando per il cinepanettone di Massimo Boldi. Non posso rivelare la mia parte, è ancora top secret».

Come ti ha agganciato Boldi?

«Ci conosciamo da molto tempo e si parlava di fare un film insieme. Ci siamo stati sempre molto simpatici. Vorrei impegnarmi e studiare per diventare attrice».

Come sono andate le vendite del calendario? Quanti soldi hai dato all’associazione contro la violenza sulle donne?

«Le vendite sono andate benissimo. Ancora non possiamo dire sold out, i dati certi li avremo a fine gennaio. Io ho dato il mio cachet all’associazione. I 30mila euro non li ho intascati».

Come vanno le attività imprenditoriali?

«Campo soprattutto con Instagram che è la mia fonte più redditizia. Ogni tanto faccio qualche campagna, ma faccio un sacco di serate. La linea di costumi va bene».

Situazione sentimentale?

«Sono single, ma andrò alle Maldive con una persona. Ma non c’è un fidanzamento ufficiale (ride).

Tornando alla tv, come la vedi Antonella Elia al Grande Fratello?

«No comment. È entrata al Grande Fratello perché l’ho riesumata».

·        Taylor Swift.

Taylor Swift: «Ero una taglia 34. Ma mi vedevo con troppa pancia». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 asu Corriere.it da Elena Tebano. «C’è sempre qualche standard di bellezza a cui non si corrisponde. Perché se sei abbastanza magra, allora non hai il sedere che tutti desiderano, ma se hai abbastanza peso per avere un bel sedere, allora il tuo stomaco non è abbastanza piatto. È semplicemente impossibile». E ancora: «Non mi fa bene vedere mie foto ogni giorno». Perché ci sono state volte in cui «ho visto una foto in cui sembrava che avessi troppa pancia, o qualcuno ha detto che sembravo incinta e questo mi ha fatto scattare qualcosa: mi ha spinta ad affamarmi — a smettere di mangiare». Se il senso di inadeguatezza rispetto all’«obbligo» implicito di essere magre è un’esperienza comune alla maggior parte delle donne, fa impressione che a pronunciare queste parole sia Taylor Swift, 30 anni, popstar americana che è praticamente la personificazione dell’ideale estetico dominante: bella, bionda, alta, magrissima. Impeccabile. Eppure mai abbastanza.

In «Miss Americana», il documentario sulla sua vita presentato al Sundance Film Festival, in Utah, e su Netflix dal 31 gennaio, racconta per la prima volta il suo «periodo 34»,dove 34 sta per la taglia — oggi è una 42 —, quando viveva in «una vera e propria spirale di vergogna e odio». Di sé, ovviamente. Se qualcuno le faceva notare che era troppo magra, negava il problema. «“Certo che mangio. Mi alleno molto”, dicevo. E facevo un sacco di esercizio. Ma non mangiavo», aggiunge adesso. «Pensavo di dovermi sentire come se stessi per svenire alla fine di ogni concerto». Ha cominciato a capire che non andava bene solo quando a sua madre Andrea è stato diagnosticato un tumore. «Ti importa davvero se oggi non piaci al web quando tua madre sta male per la chemio?» chiede in «Miss Americana». Il documentario, diretto da Lana Wilson, ripercorre la carriera musicale di Swift ma racconta anchela sua presa di coscienza «politica», scaturita dalla denuncia e dal processo al dj che durante un evento pubblico l’aveva molestata, mettendole le mani sotto la gonna. Il processo le ha dato ragione ma l’ha lasciata con la consapevolezza che senza la possibilità di pagare un buon avvocato è difficile ottenere giustizia. E l’ha spinta a superare il «bisogno di essere considerata brava», di approvazione costante che la muoveva fin da bambina.Da qui viene anche la scelta di prendere parola a favore dei diritti delle donne e delle persone lgbt e contro i conservatori alla Donald Trump. I dirigenti discografici e perfino suo padre all’inizio si sono opposti: Swift ricorda il vertice in cui le hanno detto che era «una bella ragazza» e che quindi la gente non voleva sentire le «opinioni». È noto il ruolo che ideali di bellezza insostenibili giocano nei disturbi alimentari. Che sia impossibile per le ragazze «normali» apparire come le star — per le quali la cura dell’aspetto fisico fa parte del lavoro — è scontato. Fa più effetto scoprire che sono «impossibili» anche per una popstar. Taylor Swift dimostra però che dalle gabbie imposte alle donne è possibile uscire.

·        Tecla Insolia.

Stefano Mannucci per ''il Fatto Quotidiano'' il 30 gennaio 2020. Non è mai troppo presto per lasciare un segno. Chiedete a Tecla Insolia, sedici anni appena compiuti, che messaggio diffonderebbe se Greta Thunberg le passasse il microfono. “Direi che tanti piccoli cambiamenti fatti da tante piccole persone possono trasformare il mondo. Non dobbiamo averne paura. E se una mia coetanea sta illuminando le coscienze di tutti, io non posso sentirmi intimorita a portare al Festival una canzone solida come "8 marzo". Dicano pure che è un tema troppo ingombrante per una ragazzina. Li convincerò”. Altro che passi indietro. Nel Sanremo delle polemiche sul ruolo delle donne Tecla va per ricordare che “nessuno deve dirci quanto valiamo, nessuno può cavarsela con un fiore per poi calpestarci tutto l’anno. Mi rivolgo non solo agli uomini, ma anche a tutte le ragazze che non sanno farsi rispettare, che non alzano lo sguardo di fronte a chi gode ad umiliarle”. Senti parlare questa adolescente dell’era di Billie Eilish e non capisci quale capsula del tempo l’abbia catapultata ai giorni nostri. Sedici anni come la Cinquetti quando vinse a Sanremo ‘64, ma non diresti mai che Tecla non abbia l’età. Evita di trinciare giudizi sulla propria generazione (“con tutte le informazioni di cui disponiamo oggi, puoi scegliere tra la cultura e l’ignoranza. C’è chi se ne fa un vanto di non sapere, ma poi anch’io mi sorprendo a sprecare tempo sui social”), rivendicando un’affinità elettiva con il filone dei grandi: “Avrei voluto nascere nei formidabili anni ‘60 e averne sedici nei ‘70, prima che il pop andasse incontro alla decadenza. Il mio guru è Lucio Dalla, ma inevitabilmente amo Tenco e De André. Tra i cantautori di oggi morirei per duettare con Mannarino”. E i rapper? Violenza e turpiloquio? Macché: Tecla è incline al classico, fieramente retrò con la sua faccia acqua e sapone e una vocalità che ricorda Arisa. “A casa conserviamo un video di quando sul fasciatoio, piccolissima, mi avventuro in ‘Felicità’ di Albano e Romina. A cinque anni, alla prima lezione di canto, mi cimentai con la Pausini”. Figlia di due siciliani trapiantati al nord, Tecla ha riconquistato il mare (“non potrei vivere senza”) quando la famiglia si è trasferita da Varese a Piombino. “Qui studio da grafica pubblicitaria. Non ho un gran rapporto con i compagni. In troppi trovano strane le mie rinunce alle uscite, ma io continuo per la mia strada e se qualcuno prova a prendermi in giro di fronte agli altri sappia che il bullismo non lo renderà più forte di me”. Si prenderà la sua chance nella competizione cadetta del Festival, dove approda come trionfatrice di Sanremo Young. E non disdegna la recitazione: è reduce dal set di una fiction per Raiuno, “Vite in fuga”. Legge avidamente Pasolini e ora è impelagata nella ‘Metamorfosi’ di Kafka. “Mi chiedo come sarebbe se mi risvegliassi trasformata in un altro essere. Magari non uno scarafaggio. Meglio una farfalla o un gabbiano che voli sopra il mio mare”.

·        Teo Teocoli.

Gli anni Ottanta di Teo Teocoli: "Incontrollabile, ero proprio così". Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da Antonio Dipollina su La Repubblica.it.  Intervista all'attore comico, dalle tv private dei pionieri all'incontro con Agnelli. "Berlusconi voleva che andassi al Costanzo Show, abbandonai la trattativa e me ne andai". Se si accostano a Teo Teocoli il numero 80 e la parola "anni" lui fa un sobbalzo e dice: ehi, me ne mancano ancora un po', cioè non tantissimi, però calma. E aggiunge: "Certo, mi fa un effetto forte, non riesco né a crederci né a pensarci". Ma per fortuna siamo qui a parlare invece dei (favolosi?) anni 80 del secolo che abbiamo abbandonato vent'anni fa, anche se non ne avevamo la minima intenzione. In un certo senso quegli anni erano l'esatto contrario di qualsiasi lockdown.

Ma se sente dire Anni 80 qual è la prima cosa che le viene in mente?

"Che nell'85 chiude definitivamente il Derby. E che poi arriva il carico da undici, si chiama Berlusconi e cambia tutto".

Con un approccio non perfetto.

"Io e Boldi ad Arcore, per discutere futuri e faraonici contratti. Andammo con la macchina di Boldi, io mandai a quel paese Berlusconi dopo mezz'ora, Boldi rimase. Ma la macchina era la sua, mi toccò anche fare la parte del fesso che aspettava fuori".

A quel paese, Berlusconi.

"Avevamo in mente uno show, una cosa vera. E lui: beh, che ne direste di andare ospiti nel programma di Maurizio Costanzo?".

E lei?

"Mi alzai e dissi: a me di Costanzo non me ne frega un...".

Quello. E prese la porta.

"Boldi appunto rimase, ma lui era Cipollino, poteva tutto. In realtà Berlusconi voleva solo toglierci agli altri".

Ovvero voleva portarvi via da Antenna 3, dove lei e Boldi e molti altri facevate la storia della tv locale con cose come "Non lo sapessi ma lo so".

"Negli studi di Castellanza. Dopo un po' di puntate c'erano i carabinieri al casello. Quattro ore in diretta, una miriade di sponsor della zona, quelli della Beretta ci riempivano di salumi. E noi dentro, senza ritegno, Boldi faceva il prete col turibolo in scena, poi lo annusava e diceva: buono lo spezzatino stasera. Cose impensabili oggi".

Serate memorabili anche al Ciak, via Sangallo…

"Spesso i carabinieri anche lì. Sala strapiena, una sera entro in scena, mi giro, e c'era uno sul palco: aveva trovato una sedia, era tutto pieno, e allora era salito sul palco e si era seduto".

Ma gli Anni 80 cos'erano davvero?

"Non lo so. Indecifrabili. Per esempio la politica: non ci si capiva niente. E allora pazienza, badavo a me stesso e a vivere in pieno".

L'essere, per usare una perifrasi, un figo pazzesco aiutava…

"Facciamo così, le racconto altre cose. Una volta mi ritrovai a casa del vecchio Hoepli…".

Ulrico Hoepli?

"Ma sì, mi ci avevano portato amici. Mi ricordo che beveva il tè, mi guardava, io un po' intimidito: poi mi ha chiesto un sacco di cose ma io gli leggevo nel volto una sola e semplice domanda".

Sarebbe?

"Ma questo, chi è?".

Andò così anche con Agnelli, si racconta.

"Quello era un giro più sbarazzino, diciamo. Mi infilai in quella famosa sera a Saint Tropez, ero giù con la 500, per fortuna la sera a cena pagava lui sennò avrei dovuto lasciare lì la macchina. Poi mi incrocia e chiede: lei dove vive? E io: Niguarda. E lui: Ah. Si scia da quelle parti?".

Non è vera.

«Forse era una battuta. Anni dopo lo incrociai alla festa a Torino per i 100 anni della Fiat. E lui: ma lei è quello che fa l'imitazione di Cesare Maldini!".

Sono soddisfazioni.

"Lì ero a un punto molto più avanti della carriera. Ed era successo il miracolo. Ovvero, avevo conosciuto e sposato mia moglie. Molto più giovane, ma con un'indole opposta alla mia. In poco tempo ho smesso di tornare a casa alle 7 del mattino e quella è diventata l'ora in cui mi svegliavo. Più o meno".

Ma prima anni 80, eccessi, carattere debordante, come un elemento naturale per lei.

"Avevo la fama, meritata, di pazzo isterico, incontrollabile, intrattabile. Mi andava così. Se non era per mia moglie chissà come finiva. E invece del dopo mi vengono in mente solo episodi teneri, in cui faccio la parte di quello anche ingenuo e tanto cresciuto".

Tipo?

"La notte anzi mattina prestissimo in cui nacque mia figlia. Ero a fare una serata, alla fine mi avvertono e io, in smoking com'ero, volo al San Raffaele. Arrivo e mi fanno aspettare fuori, c'erano tre signori sulla sedia a rotelle, fumavano, uno mi guarda e dice: ma te sei il Teo, complimenti etc. E io, inizio a commuovermi, racconto cose, cerco di confortarli…".

E così?

"E così finisco i racconti, li abbraccio. E quelli prendono, spengono la sigaretta, si alzano e tornano dentro. Erano seduti lì perché c'erano soltanto quelle sedie".

Mi dice una cosa molto seria dei suoi anni 80?

"La cosa più forte, non so se l'ho mai raccontata, è proprio del 1980, giugno. Sono a fare una tournée al Sud col Bagaglino, Oreste Lionello-Andreotti e gli altri. A un certo punto dobbiamo volare verso Palermo e scopriamo che è tutto bloccato, non vola più nessuno. Non so come, forse per i contatti coi politici di quel giro, rimediano un elicottero e andiamo: ecco, c'era appena stata Ustica, non sapevamo ovviamente nulla, io guardo giù e ho visto quei cadaveri galleggiare, quelli bianchi, quelli delle foto che girano ancora. Come fai a dimenticare una cosa simile?". 

Franco Giubilei per “la Stampa” il 9 marzo 2020. Nella vasta galleria di personaggi di Teo Teocoli, grande mattatore di un cabaret in via di estinzione, si staglia la silhouette panciuta di Felice Caccamo. Con le sue rimpatriate col «petisso» Pesaola e Ferlaino, le mangiate di struzzo di mare e l' immancabile sfondo del Golfo di Napoli, l' inviato partenopeo dei tempi di Mai dire gol è tuttora una star dello spettacolo del comico milanese: «Se non lo faccio, lo reclamano», dice Teocoli. Lo show si chiama Tutto Teo e lui lo attraversa con la leggerezza surreale di chi è venuto su a pane e palcoscenico a fianco di gente come Enzo Jannacci al vecchio Derby, lo storico locale meneghino: «Sono un autodidatta, non li scrivo neanche i testi, nello spettacolo porto battute e storie di vita, e poi i miei personaggi storici, da Celentano a Maldini a Prisco».

Come crea gli spettacoli?

«Ho scoperto che piaccio moltissimo a un pubblico un po' agé, i ragazzi non mi conoscono, allora è giusto aggiustare il tiro e fare quello che il pubblico ama sentire. Oggi i 50enni che seguivano me e Boldi su Antenna 3 Lombardia, una bomba comica, mi fermano per abbracciarmi, e sono passati 35 anni».

Che rapporto ha con la modernità?

«Alla mia età bisogna vivere di cose naturali, quindi non ho computer, niente social, il mio cellulare funziona un giorno sì e uno no. Non ho voglia di mettermi al passo coi tempi: ho una Vespa e un maggiolone cabrio Volkswagen da 25 anni».

All' inizio della sua carriera sembrava dovesse fare il cantante.

«Cantavo molto bene, mi facevano cantare anche a scuola, ma mi piaceva troppo divertirmi Ero il cantante di un complesso, i Trapper, poi sono entrato ne I quelli, la futura Pfm, ma avevo capito che erano musicisti veri e con loro non c' entravo niente. Di Cioccio (leader della Pfm, ndr) diceva che non capiva perché fossi andato con Celentano. Poi sono partito per il militare e un giorno ho sentito Impressioni di settembre: mi sono cascate le braccia a pensare che non ero più con loro, che canzone!».

Nel 1969 il musical Hair con Renato Zero e Loredana Bertè, che ricordo ne ha?

«Ero il protagonista. Chiesi a Loredana come si chiamava e lei mi rispose "saranno cazzi mia!". Capii il personaggio. Poi diventammo amicissimi. Una volta chiudemmo Renato in bagno con la sua chitarra, componeva sei canzoni al giorno, non lo sopportavamo più».

Com' è cominciata la sua avventura al Derby?

«Fatale fu l' incontro con tre "deficienti": Enzo Jannacci, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto. Si spingevano, si spettinavano, poi Jannacci mi disse che voleva che facessi parte di Saltimbanchi si muore, uno spettacolo viaggiante con Lino Toffolo. Al Derby ho messo molto del sentimento di Hair nel cabaret: parlavo in italiano quando c' era tanto teatro dialettale, mi spogliavo in scena».

A chi era più affezionato in quell' ambiente?

«Ero particolarmente legato a Enzo (Jannacci, ndr), l' ho seguito anche quando stava male. Era un genio, pensa se ci fosse stata la possibilità di tradurre in italiano le sue canzoni in dialetto: in Scarp' de tennis c' è l' amore, la disperazione, un capolavoro. "Il dritto" è ispirata a me, con la casa popolare al numero 3, un po' mi ritrovavo in quella canzone».

Mai dire gol negli Anni 90 fu una fucina di talenti, di chi fu il merito?

«Se ne danno tantissimi alla Gialappa, che ce li ha, ma anch' io ci ho messo del mio: personaggi come Vettorello, Peo Pericoli, Caccamo. Da Antenna 3 portai Gennaro e Luìs, poi Mandi Mandi, Aldo Giovanni e Giacomo, per cui spingeva pure la Gialappa. Quando vennero la prima volta aspettarono più di un' ora e Aldo voleva andarsene: "Miii andiamo via". Allora andammo in studio con loro, Albanese e Peo Pericoli e inventammo i bulgari».

Nessuno si è mai indispettito per le sue imitazioni?

«Cesare Maldini si arrabbiò quando allo stadio lo imitai con un fiasco di vino. Se vai a braccio rischi delle scivolate terrificanti, ma escono anche cose straordinarie».

È vero che i comici in realtà sono le persone più malinconiche che esistano?

«Non sono affatto malinconico. Quando lo spettacolo va bene torniamo in macchina mangiando un panino e siamo contenti. Oreste Lionello diceva "la battuta è la mia ossessione", la penso come lui».

Dagospia il 5 marzo 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Teo Teocoli è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Teocoli ha raccontato alcune cose di se: "Ho compiuto pochi giorni fa 75 anni, diciamo che 60 li ho passati di notte. Prima come cantante, poi al Derby di Milano, dove finivamo alle due di notte e poi si andava sui Navigli a sentire il Jazz. Nella mia vita di mezzo c'è sempre Celentano. Forse è stato un premio diventare bravo imitando lui. O magari un freno. Quando eravamo giovani eravamo molto simili. Volevano far fare a Celentano una commedia al Sistina di Roma. Lui non ne aveva voglia e suggerì ai produttori di prendere me. Diceva che ero forte e sottolineava che gli assomigliavo. Una volta mi mandò anche al Festival di Napoli. Devo tutto alla somiglianza con Celentano. Poi è nata anche una bella amicizia. Ci conosciamo da sessant'anni. Io lo aspettavo sotto casa, in via Gluck. Lui mi salutava, chiacchieravamo, poi mi diceva di non andare sotto casa sua tutte le sere. Alla fine mi invitò a casa sua, dove abitava la mamma. Vidi che c'era molta povertà. Quello mi ha incoraggiato. Vidi che anche lui era povero come la mia famiglia o come la famiglia dei miei amici".

Ancora Teocoli: "Il Derby era una grande famiglia, formata da artisti e frequentatori. Un centinaio di persone che giravano tutte le sere. Quando arrivava Gino Paoli scappavamo via tutti. Faceva tutto il suo repertorio alle tre di notte. Quando arrivava lui, andavamo al Bar. Abatantuono? Racconta storie che ha sentito, a quell'epoca aveva 15 anni. Io gli facevo sempre uno scherzo brutto allo stadio. Era seduto sotto di me, quando segnava il Milan si girava e io guardavo da un'altra parte".

Sulle sue imitazioni: "Non so se qualcuno ci sia mai rimasto male. Sono legato all'imitazione dell'avvocato Prisco ma l'imitazione con maggiore successo fu quella di Cesare Maldini. Ero con Tosatti e Galeazzi in un programma, io avevo preparato una cosa banale. Mi misi a leggere in diretta la formazione dell'Italia come la leggerebbe il Ct Maldini. Venne giù il mondo e imbastimmo 'Quelli che il calcio', che fece di numeri pazzeschi. E' stato il momento più alto della mia carriera. Poi mi stancai un po', ora ho ricominciato un po' di televisione, ma ormai sono quasi vent'anni che faccio spettacoli teatrali dal vivo".

Sulla comicità: "E' un po' in ribasso perché tutti i giovani attori e cabarettisti che si affacciano non hanno avuto la fortuna di stare con i più grandi di tutti i tempi".

Sul suo rapporto con le donne: "Ero un bel ragazzo, assomigliavo a Celentano, ed era un pregio. Adriano era come Elvis, se camminava per strada arrivavano tremila persone. Ero un bel ragazzo, spiritoso, cantavo, ballavo bene, utilizzavo tutti questi mezzi. Per questo ho avuto tante avventure".

·        The Kolors.

L'annuncio di Stash: "Divento papà". E si scatena la caccia alla fidanzata. Durante la finale di "Amici Speciali" il cantante dei The Kolors ha annunciato che molto presto diventerà papà. E sui social si scatena la caccia alla fidanzata. Roberta Damiata, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. “Questa è sicuramente la musica più bella che io abbia mai creato... come ogni cosa straordinaria che mi è capitata nella vita, arriva così, all’improvviso! E penso che tutto quello che bisogna fare in questi momenti è fidarsi del proprio istinto e tuffarsi in un nuovo capitolo della propria vita... Quella vita a cui sono grato perché da un momento all’altro, come un fulmine a ciel sereno e soprattutto in un momento come questo, ti fa il regalo più bello in assoluto. Da oggi inizia un nuovo me, da oggi tutto prende un senso diverso perché so che ci sarai tu!”. Con questo annuncio sul suo profilo Instagram e il video dell’ecografia, il cantante dei The Kolors Stash ha annunciato a tutti i suoi fan di stare per diventare papà. Prima ancora del post però, è stata Maria De Filippi a dare l’annuncio durante la finale di “Amici Speciali” regalando poi al cantante una collanina d’oro per il futuro nascituro. La notizia è arrivata inaspettata, soprattutto perché Stash, gelosissimo della sua privacy non aveva rivelato neanche di essere fidanzato, e anche le fan più accanite del cantante, almeno a giudicare dalla reazione sui social, sono rimaste stupide per l'annuncio. Tantissimi gli auguri da parte di molti personaggi del mondo dello spettacolo che si sono complimentati dalla bella notizia. La futura mamma, è stata la ragazza più ricercata dei sociali per tutta la serata, ma alla fine è venuta allo scoperto. Si tratta di Giulia Belmonte che ha ripostato sul suo Istagram il post dell'ecografia messo da Stash con un cuore. E’ una fotomodella e giornalista che nel 2013 ha partecipato a Miss Italia arrivando in finale con la fascia di Miss Abruzzo. Ha preso parte a diversi video musicali come quelli di Emis Killa, Benji e Fede e Flo Rida ed è una presenza fissa di “Novastadio” una strasmissione sportiva della tv lombarda oltre ad essere un’amica e collaboratrice di Aristide Malnati, concorrente dell’ultima edizione del “Grande Fratello Vip”. Una bellissima non c’è che dire, ma con un grande cervello visto che si è laureata in Scienze della Comunicazione all’età di 22 anni. Insomma un’altro pancione si aggiunge a quello delle tante star che nel periodo di quarantena hanno pensato di mettere in cantiere un bambino che in un periodo di notizie tanto tragiche, è di sicuro un bellissimo raggio di sole e di speranza.

Giulia Belmonte, la fidanzata di Stash che presto diventerà mamma. Il nome della futura mamma non era molto conosciuto fino a ieri sera, quando, Maria De Filippi ha annunciato che il leader dei "The Kolors" diventerà papà. Sofia Dinolfo, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. Si è aperta con una bella e inaspettata sorpresa ieri sera la finale di “Amici Speciali” in onda su Canale 5. La padrona di casa, Maria De Filippi, ha annunciato che Stash, il leader del gruppo musicale dei “The Kolors”, diventerà papà per la prima volta. Felici gli ospiti per l’annuncio della lieta notizia in studio, entusiasti i seguaci del cantante su Instagram, ma allo stesso tempo, tutti si sono fatti una domanda: “Chi è la fidanzata di Stash”? Ed ecco che sono partite le ricerche nel web dirette a capire chi fosse la futura mamma. Così è spuntato il nome di Giulia Belmonte, 24enne di Atri, in provincia di Teramo. La futura mamma, nonostante la giovane età, vanta già un curriculum pieno di esperienze. Bruna dallo sguardo magnetico, ha iniziato ad inserirsi nel mondo della moda e dello spettacolo già all’età di 18 anni partecipando a Miss Italia. Dal noto concorso di bellezza, creato dal patron Enzo Mirigliani, ne è uscita guadagnandosi la fascia di Miss Abruzzo. Nonostante la soddisfazione per aver conquistato un importante riconoscimento, la giovane non si è fermata lì: testa sulle spalle, ha proseguito gli studi dopo il diploma laureandosi in Scienze della Comunicazione. Poi la realizzazione di un altro sogno: quello di diventare giornalista. Divenuta giornalista pubblicista, Giulia non si è fermata ad un solo settore ma ha spaziato in più rami dividendosi tra la storia, la tecnologia e l’archeologia. Poi un’altra importante esperienza, ovvero quella di lavorare per il programma “Storia e Misteri” su Telenova al fianco di Aristide Malnati. All’interno della trasmissione, la futura mamma faceva l’inviata e questo le ha permesso di viaggiare in tutta Italia. Poi, nell’ultimo anno, è arrivata per lei l’occasione di parlare di sport come ospite fisso su Novastadio, all’interno di una rete televisiva lombarda. Ma non finisce qui, Giulia Belmonte è stata anche la protagonista del video musicale dei cantanti Benji e Fede dal titolo “Dove e Quando”, la canzone che ha spopolato nell’estate 2019. L’account della giovane, già abbastanza seguito, da ieri notte ad oggi ha registrato la presenza di nuovi seguaci perché curiosi di conoscere chi fosse la compagna di Stash. Già perché questo rapporto non era mai stato reso noto fino ad ora. Della loro relazione non si sapeva niente. I due sono stati sempre lontani dall’occhio del gossip. Sono 111mila i follower che seguono la 24enne su Instangram dove svolge anche l’attività di influencer posando per diverse case di moda.

·        Tinto Brass.

Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana. Redazione de il Giornale Off il 17/05/2020. Claudia Maria Rosaria Colacione, in arte Claudia Koll, una delle attrici di maggior successo in Italia, la musa scoperta dal grande Tinto Brass. Oggi compie 54 anni . Lo scorso anno, nella chiesa dei Cappuccini di Paternò in Sicilia (fonte: sicilymag.it),  ha raccontato davanti a un folto pubblico la sua storia: «Vivevo in un lusso inimmaginabile. Poi ho detto basta con quella vita, ho fatto film che strumentalizzavano il mio corpo […]. Vivevo in un lusso inimmaginabile. Poi ho detto basta con quella vita[…]. Vi è stata una rottura con il passato[…]. Questo non vuol dire che sia diventata una bacchettona. Sono pronta a tornare sulle scene ma con opere di qualità culturale che siano coerenti con la mia scelta di vita». Leggiamo su Dagospia, per altro (dagospia.com), che il film con Tinto Brass fu peggio che un errore di valutazione. L’attrice racconta infatti di aver sofferto molto durante la lavorazione e di avere addirittura cambiato anche il suo modo di parlare, infarcendolo di malizia e doppi sensi, fino ad arrivare a sentire di essere posseduta dal Maligno. Da qui la sua celeberrimo conversione religiosa e la fuoriuscita dal mondo del cinema, almeno dal cinema di tipo erotico: “Mi sono rivolta al Padre Nostro. Presi il Crocifisso, lo afferrai e pregai…se io sono oggi una nuova persona è grazie allo Spirito Santo”. In attesa di rivederla sul grande e piccolo schermo (ma non in un film di Tinto Brass, evidentemente) vi proponiamo un bel ritratto di colui che la scoprì (Redazione).

Tinto Brass nasce per caso a Milano il 26 marzo del ’33 ma la sua città resta Venezia, lido della raffinata bellezza, del Carnevale, dello sberleffo e dell’ironia, dell’ilare e musicale accento dialettale; la lingua di Carlo Goldoni e del poeta erotico Giorgio Baffo: “città che vuole tutti i trastulli, ziogadori, puttanieri e bulli” e ancora: “il poeta che si lambicca il cervello zorno e notte, per far sonetti grassi e butirrosi, per divertir le donne e i so morosi, ma mi fazzo sonetti e i altri fotte“. Il piccolo Brass ama le matite, disegna in continuazione, è sempre bersagliato da immagini. Il suo vero nome è Giovanni e il nonno pittore un giorno sbotterà di soddisfazione: “Ma chi abbiamo in casa? Un piccolo Tintoretto?” Ecco il nomignolo che porterà sempre. Padre fascista. Aveva fatto la marcia su Roma. La scoperta del sesso come insurrezione, anarchia, cambio di rotta perché “la vita è semplice ma complicata sempre dalla paura che le persone hanno della libertà“. Tinto ragazzo, con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole, lui che voleva fare il regista sognando Parigi, la nouvelle vague, Jean Vigo. Ha sempre avuto, per via del papà avvocato e gerarca, un problema con l’autorità e tutta la vita lotterà con le carte bollate e i ricorsi della censura. Sposa Carla Cipriani(detta la Tinta) e dal sodalizio nasceranno due figli: Beatrice e Bonifacio. Tinto, assistente di Rossellini, amico intimo di Antonioni, ha diretto film con cast stellari: Alberto Sordi, la Mangano, Monica Vitti, Tino Buazzelli, Vanessa Redgrave, Franco Nero, Gigi Proietti, Franco Branciaroli, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Helmut Berger, Ingrid Thulin. Nel 1976 arriva nelle sale cinematografiche il suo Caligola: Malcom Mc Dowell, Peter O’ Toole, Helen Mirren, John Gielgud, scene mirabolanti di Danilo Donati. Pellicola stravagante, folle, barocca, kitsch, grottesca, delirante, impetuosa, un capolavoro. È nel 1983 con il film La Chiave che inizia il suo ciclo erotico. La “chiave di volta” del suo cinema sembra essere proprio la sessualità, libera, anche dai lacciuoli e compromessi produttivi; l’esperienza di Caligola lo aveva profondamente segnato: Brass era stato estromesso dai produttori americani al montaggio del film e la sua filmografia d’ora in avanti sarà a. C / d. C (prima e dopo La Chiave). Tinto nelle interviste ama ripetere: “Il c… è lo specchio dell’anima” è una frase militante, politica, impegnata. Afferma gioiosamente il diritto della donna ad esprimere un piacere erotico autonomo e indipendente dal dominio maschilista. E il pensiero corre ancora una volta a Goldoni; nel 1985 remake de La Locandiera con Serena Grandi/ Miranda. Oggi come appare la provincia italiana senza l’allegria dei film di Tinto Brass? È la provincia veneta, piemontese o lombarda che stimola la nostra morbosa curiosità di utenti televisivi: provincia ricca, gelosa e non più golosa ma avida, ignorante, nevrotica e psicotica, proprio perché non libera sessualmente. Villette, casolari, quartieri lucidi e agiati, terreni visitati ogni tanto dai Ris o dai cani fiuto della Polizia in cerca di qualche traccia di cadaveri occultati, poi omertà, gente che ha fatto i schèi, paesini senza un cinema, un teatro, villette senza libri, tante balere, provincia felice? Diffidano di tutti: gay, stranieri, immigrati, diversi. Berretto con la visiera calata, arma da taglio e quella da fuoco sotto il cuscino. Questa brutale endogena aggressività Brass la esorcizza con il piacere, la gioia di vivere, della buona tavola: una mangiata, una grappa, una boccata di sigaro, un’occhiata svelta alla scollatura della locandiera consapevole del suo fascinoso portamento. Non c’è colpa nel sesso. La repressione sessuale infatti è alla base di ogni società autoritaria apparentemente libera. Se il mondo corrente è opaco, torbido, meschino, avido e vuole forme di intelligenza ottusa, lineare e binaria, Tinto ci provoca con le forme tonde, splendide, goduriose, spiritose, beffarde. Quelle di un bel culo.

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 12 gennaio 2020. Che è sempre Tinto si capisce dal sorriso, da come muove le mani, dagli occhi furbetti e maliziosi non celati dietro l' importante montatura rossa degli occhiali; che è sempre Tinto si capisce dalla foto grande, molto grande, e ben posizionata davanti al divano, esattamente dove ogni giorno si siede e passa gran parte della giornata: un mezzo busto della seconda moglie, Caterina Varzì, a seno nudo ("questo scatto lo vuole sempre con sé", spiega la stessa Varzì); che è sempre Tinto si capisce dall' enorme fallo in terracotta poggiato sulla tavola del salotto, dalle foto dei film girati, da culi e culi appesi ovunque, come alcuni manifesti elettorali dei radicali (altri culi in primo piano), le sceneggiature, e altre variopinte stratificazioni di storia personale e cinematografica. Il tutto vissuto con studiata leggerezza, consapevole allegria e una forma di assoluta goliardia ancora radicata nel suo animo; nonostante gli 86 anni e una serie ripetuta di guai fisici, pensa spesso al prossimo film, con sua moglie protagonista. Lei che è sempre al suo fianco. Solo il (fu) perenne sigaro non è presente.

Come si sente?

«Molto bene, perché?»

Ad agosto è stato di nuovo poco bene Adesso va meglio, e poi ho Caterina con me. (il televisore è acceso su un match di tennis) Le interessa lo sport?

«Oramai guardo solo partite e gare, e raramente piazzo un film, e se capita preferisco le pellicole del passato: il cinema di oggi mi annoia, lo trovo talmente brutto e scontato (interviene la moglie: "Tinto è stato appena nominato 'Uomo dell' anno 2019' in Russia")».

Complimenti. Da chi?

«Da un' importante rivista, e non me lo aspettavo, non ho neanche capito il motivo».

È così conosciuto in Russia?

«Sono famoso grazie a Caligola: un appassionato trovò una copia del film, e lo proiettava di nascosto, fino a quando le autorità sovietiche lo scoprirono, subito lo arrestarono per poi spedirlo in Siberia».

Poveraccio.

«Tutta la storia l' abbiamo scoperta grazie al figlio, che qualche anno fa è venuto apposta in Italia per conoscermi e intervistarmi; comunque Caligola è una delle mie pellicole più famose, e una società della Repubblica Ceca ha da poco comprato la Penthouse, e negli archivi ha scoperto del materiale inedito di quel set».

E…

«Vorrebbero coinvolgermi per montare il girato, ma non troviamo l' accordo».

"Caligola" ebbe qualche peripezia.

«Sì, per colpa di Maria Schneider: l'avevo scelta dopo aver visto Ultimo tango a Parigi, ci avevo parlato e tutto sembrava chiaro, lei in apparenza una donna libera, e invece si presentò sul set vestita da una tunica che la copriva dalla testa alle caviglie. Non si vedeva nulla».

Come ha osato?

«Non solo: con un atteggiamento altezzoso rompeva pure le scatole, così l' ho convocata in una stanza per capire se c'erano margini di comprensione, ma dopo due ore mi sono arreso e l'ho cacciata al grido: "Esci da quella porta e non farti più vedere!"».

Bertolucci non l'aveva avvertita?

«In realtà non avevo grandi rapporti con Bertolucci, ovvio ci conoscevamo, e soprattutto avevo difeso il suo Ultimo tango: lo trovavo un buon film».

"Buon" e niente più.

«Le polemiche e la censura hanno creato un clima e un'attenzione superiori al valore assoluto; in realtà aveva delle intenzioni poi non realizzate e lo so bene, perché la storia non era proprio di Bernardo».

Cioè?

«Era tutta di Franco Arcalli (co-sceneggiatore di Ultimo tango a Parigi), e lo stesso Franco ha spesso lavorato con me, quindi conosco i retroscena di quel film».

Secondo alcune versioni è stato Bertolucci a consigliare alla Sandrelli di accettare "La chiave".

«Altra stupidaggine: Stefania era una delle attrici di un' importante agenzia e in quel momento nessuno la ingaggiava, per questo viaggiava su cachet bassissimi. Appena l'ho vista i dubbi sono svaniti: "Voglio lei". E infatti il film è andato liscio, il peggio è arrivato dopo Dopo "La chiave"? Grazie al successo ottenuto, poi l'hanno cercata in molti, e appena ho provato a riprenderla ha sparato un ingaggio folle e sono stato costretto a rinunciare».

Oltre a "Caligola" e "Ultimo tango", un caposaldo dell'erotismo è il "Decameron" di Pasolini. Aveva rapporti con lui?

«Era lui a cercare un contatto con me: in un'edizione del Festival di Berlino eravamo entrambi presenti, e la notte mi chiedeva di portarlo in giro per conoscere i locali migliori. A un certo punto, quando le nostre esigenze divergevano, lo mollavo».

Le piacevano i suoi film?

«Poco, molto poco, eppure voleva dei consigli da me».

Un suo film che ama.

«(Interviene la moglie) Il mio è Il disco volante (1964): purtroppo non viene trasmesso mai e ha bisogno di un restauro».

Con Sordi, Vitti e Mangano…

«(Di nuovo Brass) All' inizio Alberto non mi interessava, non mi incuriosiva, poi con il passare del giorni abbiamo lavorato insieme alla sceneggiatura, e ho scoperto un professionista formidabile».

La sceneggiatura è di Sonego.

«E sua sorella era la mia assistente: quando si è accorta delle modifiche è corsa ad avvertire il fratello, e lo stesso Sonego si è subito lamentato con il produttore (De Laurentiis), che gli ha risposto di non rompere "perché ora il film è di Brass". Da lì io e lui non ci siamo più sopportati».

Eppure tra Sordi e Sonego c'è stato un sodalizio lungo decenni.

«Ma in quel caso Alberto era d' accordo con me».

Monica Vitti.

«Attrice straordinaria: con lei ci siamo inerpicati in una lunga serie di esperimenti cinematografici, e non si spaventava mai, non mollava, restava preda di curiosità e allegria».

E bella.

«Bellissima, e disposta a spogliarsi anche più di quello che alla fine le ho chiesto, pure oltre la Mangano».

Sordi donnaiolo?

«All' epoca si preoccupava quasi solo della carriera».

Ma innamorato della Mangano.

«(Gli compare un sorrisetto) Mica solo lui, anche io non ero da meno».

Serena Grandi sostiene: "Tinto è uno tosto, esigente. Urla e pretende puntualità".

«Brava, mi fa piacere, è vero».

Brass intransigente.

«(Caterina Varzì) Come uno non immagina: con lui ho girato un cortometraggio, e se tardavo cinque muniti, mi puniva il giorno dopo».

Super intransigente.

«(Brass) Sul set è necessario mantenere un rigore, dare delle regole e non accettare deroghe; e poi è fondamentale girare durante le prime ore della mattina, quando il cervello è sgombro e la luce è quella giusta.

Sui set statunitensi è apparsa una nuova figura: "l'intimacy coordinator" per gestire le scene di sesso.

«Sta scherzando?»

No.

«Solo negli Stati Uniti possono cadere in tali assurdità, per me sarebbe stato impossibile; e spesso certe scene prima le giravo io. Per Michele Placido le scene di sesso sono i momenti più complicati di un set. Per me erano i più divertenti, bastava scegliere l' attrice giusta associata all' idea opportuna».

Sempre Serena Grandi sostiene che durante le scene di sesso il set veniva invaso dai tecnici.

«(Ride, ride fino a scoppiare in una serie di colpi di tosse) È verissimo, e io li lasciavo liberi: era pur sempre nello spirito del film; (cambia tono) quasi tutte le mie storiche attrici poi mi hanno rinnegato».

La Sandrelli no.

«Una delle poche».

Neanche Anna Ammirati.

«Lei mi viene a trovare spesso, è molto carina».

Invece Anna Galiena non ama parlare di "Senso '45".

«Perché gira ancora? Non la vedo più».

Sì, gira.

«Con lei siamo caduti in una serie assurda di difficoltà, era una perenne trattativa, una continua insoddisfazione, poi si inventava dei malesseri, rimandava le scene considerate troppo spinte, e si lagnava perché nelle parti intime non aveva peli».

Si vergognava.

«In quel periodo varie attrici mi contattavano, avevano capito che con me la loro carriera poteva rilanciarsi, poi una volta sul set rompevano le palle Oltre la Galiena, chi? Con Alba Parietti siamo finiti a parolacce: con lei parlavo, parlavo, ma era inutile, aveva delle riserve, ogni tanto cercava la scappatoia cinematografica, e mi diceva: "In questa scena non c' è bisogno di andare a fondo, si capisce". E io replicavo: "Si deve intuire e vedere"».

Proprio a parolacce.

«Urla vere e in questa strada (indica la porta di casa); alla fine ha girato Il macellaio, niente di che».

Debora Caprioglio.

«Con gli anni si è un po' ravveduta, mentre dopo Paprika ha cercato di distanziarsi da me e dal film».

È geloso di sua moglie?

«No».

Sicuro?

«Beh, insomma, ogni tanto, ma cerco di cacciare quella sensazione».

Prima di "cacciare".

«Mi incazzo, butto a terra quello che trovo e lei raccoglie».

I suoi amici nel cinema.

«Antonioni e Fellini; Federico mi diceva sempre: "Tintaccio, le tue ossessioni sono le tue benedizioni"».

Magari voleva essere libero sessualmente come lei.

«(Brillano gli occhi) Ogni tanto mandavo qualche ragazza».

Tradotto.

«Inviavo le mie attrici, cosa poi combinava in privato proprio non lo so (e ride ancora)».

Sostiene Enrico Lucherini (celebre agente): "Brass è il fascino discreto della porcheria".

«Bella! Simpatica definizione».

Non si offende.

«C' è sempre il fascino di mezzo; ricordo Enrico al Lido di Venezia, durante il Festival, quando arrivava e sistematicamente dedicava parte del tempo a rimorchiare gli attori. Ma anche questo è il mondo del cinema».

Il sesso conta.

«Come nella vita, magari in maniera più amplificata».

E sempre ateo?

«Sì, felicemente, e non intendo cambiare solo perché ho ampiamente superato gli ottanta».

Tinto Brass: «Il sesso è libertà, per questo fa paura». E loda Elodie. Lunedì 2 Marzo 2020 di Ilaria Ravarino su Il Messaggero. Fuori, il domestico di casa Tinto Brass raccoglie le foglie secche per bruciarle in fondo al prato, dove il bosco confina col giardino. Dentro, il sole disegna sul tavolo del salotto un’ombra lunga e scura: è quella del grande fallo di legno davanti al quale, fino all’ictus che lo ha colpito lo scorso luglio, il maestro si è sempre divertito a ricevere i giornalisti. «Ti ho portato i dolcetti», cinguetta una donna, abbassando il volume della tv e sistemando la coperta sulle gambe del marito. Da quando l’ha sposato, due anni fa, Caterina Varzi è diventata la custode dell’archivio Brass, un capannone industriale dove cinque anni fa fu ritrovato il soggetto di un film inedito - La scatola cinese, o Intelligenza artificiale - scritto da Brass insieme a Crepax. Un sodalizio, quello fra il regista e il disegnatore milanese, che torna anche nel bel documentario di Giancarlo Soldi Cercando Valentina. Il mondo di Guido Crepax, evento speciale domani a Roma al cinema Lux (ore 21).

Cosa la lega a Crepax?

«Il modo di descrivere le donne. Mi sento vicino a lui, mi è sempre piaciuto. Valentina è un prototipo di libertà, ha una sensualità empaticamente brassiana. Dove passa lei lascia una scia di provocazione, irriverenza, sogno e anarchia. Condividiamo lo stesso immaginario».

Come vi siete conosciuti?

«L’ho letto, gli ho chiesto l’indirizzo e sono andato a trovarlo a Milano. Lui mi ha fatto cinque disegni per un film, Nerosubianco, per illustrare il sogno di Barbara, la protagonista. E poi lo storyboard di Con il cuore in gola. Erano 42 tavole. Abbiamo anche scritto un soggetto».

Quale?

«La scatola cinese, o L’Intelligenza Artificiale. È un’avventura in cui Valentina è prigioniera del dottor Krokowski, che la sottopone a un processo di disumanizzazione educandola all’odio. C’è naturalmente anche una forte linea erotica. Tutto il trattamento è illustrato da Crepax. Avevo anche pensato, a un certo punto, di fare un film con Manara».

E come è finita?

«Ci siamo incontrati, abbiamo parlato e bevuto tutto il giorno. Ci siamo ubriacati. Non abbiamo combinato nulla».

Qual è per lei il segreto di Valentina?

«La libertà, il suo non meravigliarsi di niente, il fare ciò che pensa sia giusto fare. All’inizio le femministe non la amavano. Ma le femministe non hanno il mito della libertà: il femminismo è la proiezione di un desiderio di potere, non di libertà. Massacrarono Crepax, me e Fellini».

E oggi?

«In parte mi rivalutano. Mi fa piacere».

Del #metoo che ne pensa?

«Che quello che raccontano le donne è sempre successo. I produttori nel mondo del cinema molestano le attrici. Una cosa orrenda. Io con le attrici avevo rapporti veri, belli. Con me si confidavano. Ero certo che il #metoo non mi avrebbe toccato. Se sui miei set succedeva qualcosa, e succedeva, era consensuale e alla luce del sole».

Oggi il sesso esiste sul web, poco al cinema.

«Hanno tutti paura del sesso e della libertà che conferisce a chi lo fa. In internet il sesso viene raccontato in modo meccanico, condizionato alla manifestazione di una sessualità maschile bruta e falsa. Le donne sul web perdono il mistero, gli uomini nascondono la fragilità. Pornhub è il nuovo buco della serratura. Lo trovo molto stupido».

Le piacerebbe fare un altro film?

«Ziva resta il mio sogno. L’ho scritto. Ma non so se... vabbè. Faccio fatica anche a muovermi».

Ce l’ha con la critica?

«In passato non mi ha mai riconosciuto niente. Ora parlano meglio di me. All’epoca di Col cuore in gola un famoso critico francese scrisse: “Il nipotino di Orson Welles diventerà un grande”. Ma fu l’ultimo mio film amato dalla critica».

Perché la critica non è riuscita a starle dietro?

«Sono io che sono stato sempre troppo avanti».

Le piace il cinema di oggi?

«Non mi piace e non lo vedo. Raramente trovo cose interessanti. Quentin Tarantino è bravo. Una volta venne a trovarmi a Torcello, abbiamo mangiato insieme, poi è andato a farsi un giro in barca. Quando è tornato si è fatto proiettare Col cuore in gola, una visione privata».

E le attrici contemporanee?

«Prive di espressività, tutte uguali. Sa chi mi è piaciuta? Ce n’era una interessante a Sanremo. Quella con i capelli corti, la cantante».

Elodie?

«Esatto. Elodie. Le presentatrici invece non le distinguevo una dall’altra».

Brass fra 100 anni come vorrebbe essere ricordato?

«Non voglio che ricordino me ma i miei film. E vorrei che i miei film continuassero a far parlare la gente, a farla discutere e litigare. Anche fra 100 anni».

·        Tiromancino.

Val.Err. per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Due anni e dieci mesi. Francesco Zampaglione, 49 anni, ex componente del gruppo dei Tiromancino e fratello del leader Federico, ha scelto il rito abbreviato e ottenuto uno sconto di pena, ma il processo, che lo vede imputato per tentata rapina a una banca a Roma, si è concluso comunque con una condanna. Il giudice dell'udienza preliminare ha anche superato le richieste dell'accusa, che aveva sollecitato due anni e due mesi. Era il 29 agosto, quando Zampaglione, con il volto coperto, era entrato in una filiale di Banca Intesa a Monteverde. Volto coperto e in pugno una pistola giocattolo senza il tappo rosso puntata contro i dipendenti. Voleva tutti i soldi, aveva minacciato il cassiere. E invece era finita con una colluttazione. Prima di fuggire dalla banca, aveva anche morso il cassiere a un braccio, poi era scappato sperando di farcela. Si era anche cambiato la maglietta per non farsi riconoscere, ma uno dei clienti della banca lo aveva seguito ed aveva dato l'allarme al 112. Gli agenti del reparto Volanti l'avevano fermato poco distante.

LA DIFESA. «Era un atto dimostrativo, l'ho fatto per mostrare la disperazione di un comune cittadino rispetto alle politiche economiche di questo Paese», aveva detto Zampaglione davanti al gip Clementina Forleo che aveva respinto la richiesta di scarcerazione in sede di convalida. «Non l'ho fatto per soldi, ho una buona disponibilità economica», ha tenuto a specificare. Poi, ha giustificato quel gesto eclatante come un atto politico. Il pm Mario Dovinola aveva concluso che, nonostante Zampaglione avesse utilizzato una pistola giocattolo e non un'arma vera, abbia mostrato una chiara propensione a delinquere e potrebbe anche colpire di nuovo. L'atteggiamento mostrato nel corso della tentata rapina, a partire dal modo con cui è entrato in banca con il volto coperto da un cappello, occhiali da sole e foulard senza contare l'aggressione ai danni di un dipendente, che è stato morso al braccio sinistro quando si è opposto alle minacce, spiegando che non avrebbe potuto aprire delle casse computerizzate, avevano spinto il gip a negargli la scarcerazione. Le stesse che ieri, probabilmente lo hanno spinto a condannarlo.

IL PERSONAGGIO. Per i Tiromancino, aveva scritto, con il fratello Federico, la musica ed i testi degli album Alone alieno, Rosa spinto dando vita a un suono che aveva contraddistinto il gruppo negli anni a venire. Ma le pressioni date dall'improvviso successo del disco e alcune divergenze caratteriali tra i vari componenti porteranno all'inevitabile scioglimento della band.

·        Tiziano Ferro.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. Si piange molto guardando «Ferro», il documentario che Prime Video ha dedicato a uno degli interpreti italiani più amati e popolari. O si sghignazza, se non si ama troppo il cantante e la sua vocazione a fare di tutto un melodramma. E non potrebbe essere altrimenti, perché il film è costruito tutto a immagine e somiglianza di Tiziano, dall' infanzia difficile (obesità, bullismo) fino a tradurre in immagine le modalità terapeutiche dei gruppi di alcolisti anonimi, cui ha partecipato. La sua carriera, dai primi incerti passi mossi sui palchi amatoriali di Latina ai trionfi internazionali, è riletta alla luce di un' opposizione «lacerante»: la ribalta dei successi e il retroscena segnato da sofferenze, cadute, fragilità estreme che lo hanno a lungo tormentato, lasciando cicatrici interiori che tutt' oggi non paiono del tutto sanate. L' obiettivo di «Ferro» non è la consacrazione di un artista benedetto da una voce che nel tempo ha guadagnato (se possibile) ancora più profondità e colore, ma una riflessione quasi pedagogica sulle sofferenze che derivano dal doversi conformare a logori standard sociali per essere accettati. Non per niente, una delle sequenze più riuscite del film è la visita di Tiziano a una classe di liceali americani che studiano l' italiano attraverso le sue canzoni. Il viaggio simbolico dalla provincia laziale a Los Angeles non è stato breve e Tiziano Ferro è uno che sa farsi voler bene, tanto che i fan gli perdonano tutto e si rallegrano di quella studiata e istrionica teatralità che mette nell' autobiografia. «Ferro» ha il sapore della rivincita: non credevate in me e invece sono diventato una popstar, sono anche conosciuto all' estero e adesso posso permettermi di costruirmi questo monumento in vita. Come tutti monumenti è a rischio trash, l' emulazione inappagata di un modello alto.

Tiziano Ferro senza filtri nel film: “La verità mi ha curato”. Notizie.it il 04/11/2020. (askanews) – Il disagio del sovrappeso, il coming out dell’omosessualità, ma anche la dipendenza dall’alcol, la paura della popolarità, la relazione con Victor (il suo attuale compagno), la musica come “cura e antidepressivo”. Tiziano Ferro si mette a nudo e si racconta in tutta la sua intimità, nel documentario “FERRO”, in esclusiva su Amazon Prime Video dal 6 novembre. Ottanta minuti di racconto in presa diretta, in cui l’artista di Latina (che ora vive a Los Angeles) si mostra per come è: si emoziona, piange, ride, mostra la sua quotidianità casalinga con Victor. Ci sono le interviste alla mamma, al suo compagno. E poi i suoi disagi: il sovrappeso, il bullismo, la discriminazione, fino all’alcolismo. “Ho sempre pensato che dietro ogni storia di dolore si nascondessero il privilegio e il dovere morale di aiutare qualcun altro. La mia storia me lo insegna e ogni volta che ho consegnato alla gente le mie cicatrici, si sono sempre trasformate in soluzioni”, recita l’artista. “Guardo il mondo dal filtro delle cicatrici, dove li vedo come se fossero i miei superpoteri: mancata accettazione, depressione, ansia, dipendenze. Mi vestivo ogni mattina di un corpo che non era il mio”.

Chi è il vero Tiziano Ferro? Un documentario svela l’uomo dietro l’artista. Il 6 novembre arriva su Amazon Prime Video il documentario che svela i retroscena sulla vita privata di Tiziano Ferro. Un elogio solo per i fan più accaniti. Carlo Lanna, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. Ad oggi è uno tra gli artisti italiani più amati all’estero. Cantautore e produttore, Tiziano Ferro è una vera e propria stella della musica leggera. Lui, con il suo tono roco e spesso, ha cantato tutte le sfumature dell’amore con sonorità pop, melanconiche e senza dimenticare il rhythm and blues La sua vera passione. All’apice della carriera, ora il colosso di Amazon Prime Video ha deciso di celebrare con un documentario, intitolato Ferro, tutta la grandezza dell’artista originario di Latina. Disponibile dal 6 novembre lì dove il servizio streaming è attivo, il mini-film racconta senza peli sulla lingua le vittorie e le sconfitte di un cantante che ha costruito il suo successo con fatica e sudore. Si apre una parentesi sugli esordi di Tiziano Ferro, partendo dall’adolescenza, passando per il successo di "Xdono", fino agli album più recenti, toccando con mano anche tutti i pro e i contro di una vita vissuta sotto le luci della ribalta. Un documentario che esplora soprattutto la vita privata del cantante, facendo emergere un ritratto inedito di Tiziano Ferro che più volte è rimasto celato nell’ombra. Un racconto però che non buca lo schermo, che regala emozioni a buon mercato e che in realtà svela particolari per nulla eclatanti sul passato, sul presente e sul futuro dell’artista. Tre, però, sono i punti forti e i temi più fondamentali di questa chiara e ben mirata operazione commerciale.

Fama e successo: un binomio letale. Da ragazzino era un adolescente di belle speranze. Tiziano Ferro non era però il tipo solare che tutti abbiamo imparato a conoscere oggi. Pesava 111 chili, veniva bullizzato dai compagni di classe, ed era una persona molto introversa che non riusciva ad esprimere se stesso. Si sentiva un diverso. La musica, però, a 16 anni ha permesso al giovane di trovare un mondo dove rifugiarsi, un mondo in cui nessuno lo avrebbe giudicato. All’epoca non si aspettava di poter firmare un contratto discografico. Nel 2001, dopo la sua partecipazione all’Accademia della Canzone di Sanremo, ha conosciuto Mara Maionchi e Alberto Salerno, che hanno spinto un giovane Tiziano Ferro nel mondo della musica. Ma prima di chiudersi in sala di registrazione per incidere quello che sarebbe stato il suo primo singolo di successo, il giovane artista ha dovuto fare i conti con la sua forma fisica. Ha dovuto rimettersi in sesto o la sua voce, senza un’immagine da giovane divo, non sarebbe stata abbastanza. Da lì in poi, tutto è avvenuto troppo in fretta. Sono arrivate le prime comparsate in tv, i primi dischi venduti, i primi riconoscimenti, i primi album in vetta alla classiche. Ma, come racconta il suo storico produttore, Tiziano Ferro era infelice. Aveva tutto ma allo stesso tempo non aveva nulla. C’è un lungo intervento nel documentario in cui Alberto Salerno afferma che, più volte, l’artista era sul punto di lasciare tutto e tutti perché non riusciva a convivere con quel successo insperato e, soprattutto, Tiziano Ferro non riusciva a convivere con gli spettri del suo passato, che inibiscono il suo presente. L’alcol è stato un pessimo amico ma "ha attutito il dolore", come ha rivelato l’artista. Una volta toccato il fondo, però, c’è la voglia di risalire.

Il coming out di Tiziano Ferro come punto di rottura. Ancor prima di uscire allo scoperto, per un lungo periodo di tempo si sono rincorse voci mai del tutto confermate su una presunta omosessualità di Tiziano Ferro. C’era però l’esigenza da parte dell’artista di raccontarsi e di rivelare chi fosse il vero Tiziano. E il percorso non è stato facile. ll tacere e il non dire la verità ha reso un vero inferno la vita dell’arista. Uscire allo scoperto per lui è stato come tornare alla vita. A livello pubblicitario, le quotazioni sono salite vertiginosamente dato che il coming out è coinciso con l’uscita della sua biografia e una lunga intervista rilasciata a Vanity Fair. Dal punto di vista personale, invece, Tiziano Ferro ha potuto finalmente essere libero da qualsiasi tipo di legami e rivelare ai quattro venti di "volersi innamorare di un uomo". Questo aspetto della sua vita è ricostruito attraverso la voce di Victor Allen, suo attuale marito. Commosso, rivela quanto è stato liberatorio per Ferro rivelare tutto se stesso. Ha infatti acquistato più fiducia e anche musicalmente ha potuto esprimersi in maniera diversa. E tra un’intervista e l’altra,si svelano anche retroscena mai visti sul loro matrimonio, sia quello che si è svolto negli States che l’unione civile che si è celebrata qui in Italia. Video che sono rimasti segreti, diffusi solo ora in vista del documentario.

Essere se stessi, è questo il problema. Uomo, artista, marito, cantante, benefattore e futuro genitore: Tiziano Ferro è questo e molto altro. Il documentario però si focalizza su un tema ancora più importante e, soprattutto, molto spinoso. In un mondo, come quello dello spettacolo, in cui l’apparenza è tutto, la voce di Ferro vuole distaccarsi dal coro, per far comprendere che oltre al successo, al calore dei fan e alla fama c’è qualcosa di più profondo. Come essere se stessi, non perdersi, rispettare i propri limiti e non cambiare la propria identità a favore del pubblico e dell’industria musicale. Tiziano Ferro è stato infatti il primo artista di fama mondiale che ha avuto il coraggio di rompere di schemi, di regalare alle nuove generazioni un mondo più civile e più inclusivo. Una morale sciocca e baruffa, questo è vero, che va vista però sotto un’altra prospettiva. Dopo di lui l’industria ha badato meno all’aspetto e più alla sostanza. E i coming out recenti di Marco Carta, ad esempio, e di cantanti che giocano sempre di più con la fluidità delle leggi sessuali, è figlia dell’impronta lasciata da Ferro. Sarà un successo anche il documentario? Chi può dirlo. Sicuro, i fan più accaniti troveranno pane per i loro denti.

Ferro si confessa: un uomo fragile ma coi superpoteri. La vergogna, la dipendenza, il coming out: così il cantante ha imparato a difendersi. Ferruccio Gattuso, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Non è un classico documentario musicale, Ferro. Nessuna colonna sonora, bensì veloci passaggi di musica, quasi solo per spiegare come il mondo professionale di un artista chiamato Tiziano Ferro abbia condizionato (nel male, così come nel bene) la sua vita di essere umano. Un essere umano fragile ma, a giudicare dalla genuinità con cui si concede davanti al video, di un coraggio che lascia attoniti. Lui però ribatte che di coraggio non vuole sentire parlare, piuttosto di «urgenza». Chi guarderà Ferro del milanese Beppe Tufarulo - in onda in esclusiva su Amazon Prime Video da oggi in Italia e in oltre 240 paesi non potrà nemmeno per un attimo proteggersi dietro lo schermo dell'indifferenza. Che sia un fan, o meno. «Non ho mai saputo difendermi dagli altri», dice Tiziano. E più avanti: «La dipendenza ti vuole solo». E poi, ancora: «La verità mi ha sempre curato». Gli altri sono quelli che esercitavano bullismo su di lui, a scuola, per quei chili di troppo, o i discografici francesi che mi facevano cambiare nei bagni dell'aeroporto perché giudicavano il mio abbigliamento non troppo virile». La dipendenza è invece l'alcol, la bestia che cominciò a morderlo durante una tournée, la prima, all'inizio della quale era «un perfetto sobrio, un ex adolescente senza vizi, che non fumava e non aveva mai bevuto una birra. Poi partii, e non mi fermai più». La verità è quella di un coming out faticoso e liberatorio. In pratica una confessione più che un semplice documentario, che comincia proprio da una preghiera e da una riunione per alcolisti anonimi. Una botta. E forse è proprio questo che cercava il talentuoso cantante di Latina, star internazionale, oggi cittadino residente negli Usa protetto da una relazione sentimentale solida (il marito Victor Allen) e da un mare magnum come Los Angeles, per cui sei solo uno dei tanti e vivaddio. «Quando Prime Video mi contattò spiega Ferro l'intenzione era di fare l'ennesimo documentario musicale. Io ero di tutt'altro parere, ho spiegato la mia idea: parlare di quelle cicatrici che poi sono diventate i miei superpoteri. E soprattutto parlare di soluzioni, non di problemi. In un attimo, loro hanno rilanciato: se verità dev'essere, devi dare tutto. A cominciare dalla telecamera sempre con me e dal non poter controllare la mia immagine. Ci sono momenti per me imbarazzanti, come quando rientro nel camerino a Sanremo, l'anno scorso, e non riesco a perdonarmi un'esibizione che avrei voluto migliore». Il talento, spesso, è un indumento che si abbina al perfezionismo e all'insicurezza. Ma siccome Tiziano Ferro il talento non può (e non vuole) sfilarselo di dosso, ecco un nuovo album in questo epilogo di 2020: il secondo capitolo del progetto «Accetto Miracoli» (Universal), intitolato L'esperienza degli altri. In uscita oggi, in contemporanea con il documentario, il disco è un viaggio di tredici brani nei quali l'interprete di Xdono e Sere nere identifica altrettanti «miracoli» della musica italiana. Dall'intensa rilettura vocale di Rimmel di Francesco De Gregori al superclassico Nel blu dipinto di blu di Mimmo Modugno, passando per Perdere l'amore (in duetto con Massimo Ranieri, proprio come nella storica occasione all'ultimo Festival di Sanremo) fino al tributo all'idolo Franco Battiato con E ti vengo a cercare: «Una canzone dice Tiziano - che sento appartenermi, perché parla del rapporto con Dio». Quella più temuta era invece Margherita: «Il primo concerto di cui ho memoria, a soli quattro anni, è quello di Riccardo Cocciante a Latina. Mia madre era una accesa fan. Di quella sera ricordo ogni particolare, il palco, le luci, l'atmosfera. Quel giorno decisi che sarei vissuto di musica». Il disco di cover, tra l'altro, non era nemmeno previsto: «È la mia piccola perla nata durante il lockdown, dal periodo di fatica e delirio che stava invadendo il mondo».

Tiziano Ferro e la confessione su 7: «Ero un alcolista e volevo morire». Tiziano Ferro su Il Corriere della Sera il 15/10/2020. «Una sera la band mi convinse a bere. E da lì non mi sono fermato più. Bevevo quasi sempre da solo, l’alcol mi dava la forza di non pensare al dolore e alla tristezza, ma mi portava a voler morire sempre più spesso. Ho perso occasioni e amici. Io ero un alcolista». È dedicata a Tiziano Ferro e alla sua confessione la copertina di 7, il magazine del Corriere in edicola e su digital edition venerdì 16 ottobre. Il numero del settimanale si apre con la lunga, coraggiosa e toccante, lettera scritta dallo stesso Tiziano Ferro in cui il cantautore racconta la sua esperienza («l’alcolismo ti guarda appassire in solitudine, mentre sorridi di fronte a tutti») per aiutare chi vuole uscire dall’abisso della dipendenza come lui stesso è riuscito a fare. Un’esperienza che Tiziano ha voluto fissare nel film-documentario Ferro, una produzione originale Amazon disponibile su Prime Video dal 6 novembre (lo stesso giorno esce anche «Accetto miracoli: l’esperienza degli altri», il suo primo album di cover). Un documentario (che 7 ha potuto vedere in anteprima esclusiva) dove il cantautore ha tirato fuori tutto se stesso. Altro che agiografia, ne emerge un ritratto — molto consapevole — in cui smantella pezzo per pezzo l’immagine esteriore, patinata, sempre un po’ photoshoppata, ad uso di copertina, che i personaggi pubblici sono costretti spesso a indossare.

Un personaggio in antitesi, fragile e famoso. Se — complice il filtro, la gabbia, il cordone di sicurezza, l’alone di invincibilità che il business della discografia ti costruisce intorno — Tiziano Ferro poteva apparire a uno sguardo superficiale quasi urticante, un personaggio da maneggiare con cura, il Tiziano di Ferro si mostra in tutta la sua fragilità, in curiosa antitesi con quel cognome che rimanda al metallo per eccellenza più duro. Il riassunto in 5 parole dei motivi per cui non era felice è come un taglio di Fontana, un colpo netto che lascia stupiti nella sua semplicità. «Alcolista, bulimico, gay, depresso, famoso. Pure questo, famoso, mi sembrava un difetto, forse il peggiore».

«Ho cantato e il mondo è cambiato». Il suo è un coming out totale. Come quando confessa: «Non sono mai stato il primo della classe, ero anonimo, non bello, per niente atletico, anzi grasso, timido, i ragazzi mi chiamavano ciccione, femminuccia, sfigato. Aspettavo che qualcuno intervenisse per difendermi, ma non succedeva mai. Vivevo perennemente frustrato, incazzato e anche umiliato. Poi ho cantato per la prima volta e il mondo è cambiato. La musica era l’unica cosa che avevo, un canale per esprimermi in un mondo nel quale non mi riconoscevo». La sua è stata una vita in salita. Prima il rapporto conflittuale con il peso (da 111 chili scende a 70), quindi il non detto della sua omosessualità: da una parte i discografici che premono per affiancargli una donna dello schermo, una fidanzata di comodo; dall’altra il suo rifiuto fino alla decisione del coming out (ormai dieci anni fa).

Hockney: come si dipinge l’acqua. Nel numero in edicola il 16 ottobre ci sono poi 60 pagine di Speciale Arte aperte da un’intervista al grande pittore inglese David Hockney, 83 anni, che racconta la sua nuova vita in Normandia e ammonisce: «I famosi dipinti delle mie piscine non vogliono avere niente di edonistico. Io affronto lì un problema grafico: come si dipinge l’acqua?». E poi rivela quanto sia stato folgorante l’incontro con l’arazzo di Bayeux (la raffigurazione lunga 70 metri della conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo II nel 1066) per «rivedere» i suoi paesaggi.

Le ri-generazioni di Stefano Boeri. Bellissimo anche il colloquio di Teresa Ciabatti con Stefano Boeri, architetto, urbanista, padre del Bosco verticale — per la serie di 7 «ri-generazioni» —: nello scambio, la visione delle città e il ricordo della madre Cini Boeri, architetta, scomparsa da poco, per la quale la libertà dominava tutto. Anche l’organizzazione degli spazi in una casa. Ancora un’intervista da non perdere: quella con Marta Cartabia, giudice costituzionale e presidente della Consulta fino al 13 settembre 2020, a proposito di Ruth Bader Ginsburg: prima donna di legge della storia americana e non solo a essere diventata un’icona e un’ispirazione anche per felpe, collane e tazze da caffè.

Dagospia il 15 ottobre 2020. Bevevo e nessuno mi poteva sopportare. Nessuno mi poteva sopportare quando bevevo. E chi ci riusciva o aveva pietà, o era come me. O più disperato di me. Oggi che non bevo da diversi anni ho capito che quella disperazione aveva un senso, uno solo: aiutare qualcun altro. È diventato chiaro circa un anno fa, durante un meeting di recupero a Milano. Entra un ragazzo nuovo, distrutto, al suo terzo o quarto giorno di sobrietà. Aspetta la fine del meeting, poi mi si avvicina e mi dice: «Io non ce la faccio più, eppure non ci volevo venire qua. Avevo deciso che sarei entrato e uscito. Sono rimasto perché ho visto te» (...).

Tiziano Ferro: «Io, alcolista, gay, bulimico, depresso e famoso. Pure famoso mi sembrava un difetto». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2020. «Ferro» è una sorta di coming out al cubo: straordinaria, sorprendente rottura di un codice di comunicazione che sembrava «per sempre». «Ho vissuto una vita distrutta dai commenti, uno nasce con un dna da impopolare e se lo tiene. Adesso ho 40 anni e ho la capacità di filtrare queste informazioni e fregarmene. Ma prima non era così. La musica mi ha salvato la vita». In poche parole c’è la sintesi — la sua sintesi — della vita di Tiziano Ferro, artista — caso rarissimo — che ha deciso di far vedere come mai nessuno ha fatto prima il lato privato, intimo, a tratti oscuro, tormentato e inquieto, della sua esistenza da popstar irregolare. Perché se l’immagine pubblica di qualunque artista non è quasi mai aderente al vissuto privato, nel caso di Tiziano Ferro questi opposti sembrano non essere mai stati così lontani. Tiziano Ferro esplode letteralmente a 21 anni: il primo singolo, Xdono, è subito un successo non solo italiano ma europeo. Un consenso popolare indiscutibile e immediato che anticipa il primo album in studio, Rosso relativo. Chi non se lo aspetta dice che è uno dei tanti bluff delle etichette discografiche per «catturare le ragazzine». E vent’anni dopo si capisce quanto quella previsione fosse totalmente sballata. Però all’epoca Tzn — pochi hanno la fortuna di un nome da codice fiscale che diventa brand — ha tutte le password giuste del teen idol: magro, bello, sorriso da schiaffi, voce da paura. Cresce il successo fuori, ma dentro cresce anche la voglia di uscire da una gabbia in cui con il tempo non si capisce se ci si è chiuso lui o se ce l’hanno imprigionato gli altri. A 30 anni, nel 2010, racconta di essere omosessuale. «L’ho fatto per me, perché vivevo una vita in completa negazione in una società che non accettava chi ero, e io non accettavo me stesso. In Italia non lo aveva mai fatto nessuno». E adesso, a 40, all’incirca nel mezzo del cammin della sua vita, ha deciso di scolpire tutta la sua storia nel film-documentario Ferro, una produzione originale Amazon disponibile su Prime Video dal 6 novembre (lo stesso giorno esce anche Accetto miracoli: l’esperienza degli altri, il primo album di cover di Tiziano). Ne emerge un ritratto — molto consapevole — in cui smantella pezzo per pezzo l’immagine esteriore, patinata, sempre un po’ photoshoppata, ad uso di copertina che i personaggi pubblici sono costretti spesso a recitare. In Ferro non c’è la popstar acclamata, quella che tutti mettono su un piedistallo, il modello aspirazionale, la meta tensiva, l’emblema del successo che la società di oggi richiede (fama, soldi, consensi, tutto ottenuto senza aiuti perché in musica vale ancora la meritocrazia: uno vale se è un numero uno). Se complice il filtro, la gabbia, il cordone di sicurezza, l’alone di invincibilità che il business della discografia ti costruisce intorno poteva apparire, a uno sguardo superficiale, che in Tiziano Ferro ci fosse una nota stonata, una asprezza di fondo, il Tiziano di Ferro si mostra in tutta la sua fragilità, in curiosa antitesi con quel cognome che rimanda al metallo più duro, forte, inscalfibile. Il riassunto in 5 parole dei motivi per cui non era felice è come un taglio di Fontana, un colpo netto che lascia stupiti nella sua semplicità. «Alcolista, bulimico, gay, depresso, famoso. Pure questo, famoso, mi sembrava un difetto, forse il peggiore». Ferro è il dipinto di un uomo semplice (la casa normale, la cucina niente di che, l’album del matrimonio come tutti, le uova sode con il marito Victor Allen), spiritoso ancora una volta nella sua umanità («a Los Angeles l’unico tour che mi piace fare è quello tra le corsie del supermercato con il mio carrello»). Un uomo che si commuove moltissimo (quanti pianti e occhi rossi nel documentario), ma questo lo sapevamo (basta vedere l’ultimo Sanremo). Un’esistenza inquieta, da nomade, rappresentata anche dal suo girovagare: ha vissuto a Puebla de Zaragoza in Messico, a Manchester, di nuovo a Milano. Mentre ora si sposta in un triangolo molto allargato che ha un lato a Los Angeles e gli altri due a Milano e Latina, la città in cui è nato e cresciuto. Questo è davvero un coming out al cubo, la rottura di un codice di comunicazione che sembrava essere destinato a non cambiare mai, probabile segno dei tempi che viviamo in cui certi archetipi patriarcali, dunque anche di riservatezza, risultano obsoleti, superati da una consuetudine a raccontarsi che la televisione prima e i social poi hanno sdoganato. La differenza, sostanziale, è che qui non sembra esserci nessun secondo fine a muovere un racconto a pelle viva. «Non sono mai stato il primo della classe, ero anonimo, non bello, per niente atletico, anzi grasso, timido, i ragazzi mi chiamavano ciccione, femminuccia, sfigato. Aspettavo che qualcuno intervenisse per difendermi, ma non succedeva mai. Vivevo perennemente frustrato, e incazzato e anche umiliato. Poi ho cantato per la prima volta e il mondo è cambiato. La musica è diventata il canale per esprimermi in un mondo nel quale non mi riconoscevo». Appena 18enne Tiziano Ferro attira l’attenzione dei produttori Mara Maionchi e Alberto Salerno, ma ne seguono tre anni di silenzio, oblio, porte in faccia: nessuna casa discografica vuole puntare su di lui. «Il non detto era il mio peso». Pesava 111 chili (111 sarà il titolo del suo secondo album) e ne perde 40: «Mi vestivo da magro, il dolore e la fame non mi permettevano costantemente di godermi 40 chili di meno. Dentro ero come prima. Mi muovevo e pensavo da grasso». Quanti danni fanno i «non detti». Infatti arriva il secondo tormento interiore: «Dopo il rapporto con il cibo e con il corpo, ecco un altro grande problema: si parlava di me come gay e non andava bene. Mi gelo perché il problema non era più mio, solo mio. Ma decido di non mentire, non invento fidanzate». Ma qualche compromesso deve farlo: la casa discografica francese ogni volta che lui vola a Parigi per una promozione gli fa trovare uno stylist che gli porta dei vestiti «con codici più maschili» con cui cambiarsi nei bagni dell’aeroporto. Bulimico, gay, depresso, famoso. Manca l’ultimo step: «Una sera la band mi convinse a bere. E da lì non mi sono fermato più». Adesso si è seduto sulla poltrona dello psicologo, un’altra volta, davanti a tutti. «La verità mi ha reso libero; l’onestà e la sincerità mi hanno avvicinato ancor di più alle persone». Finalmente felice, basta segreti, nessun non detto. Eppure, 15 milioni di dischi dopo, Tiziano dubita ancora di sé e del suo talento, forse perché chi più si conosce più dubita: «Mi succede ancora adesso quando entro in uno stadio, penso sia la prima e l’ultima volta. Guardo lo stadio e mi dico: goditela perché potrebbe non succedere di nuovo».

Renato Franco per il Corriere della Sera il 15 ottobre 2020. «Una sera la band mi convinse a bere. E da lì non mi sono fermato più. Bevevo quasi sempre da solo, l'alcol mi dava la forza di non pensare al dolore e alla tristezza, ma mi portava a voler morire sempre più spesso. Ho perso occasioni e amici. Io ero un alcolista». È dedicata a Tiziano Ferro e alla sua confessione la copertina di 7 , il magazine del Corriere domani in edicola e su digital edition. Il numero del settimanale si apre con la lunga, coraggiosa e toccante, lettera scritta dallo stesso Tiziano Ferro in cui il cantautore racconta la sua esperienza («l'alcolismo ti guarda appassire in solitudine, mentre sorridi di fronte a tutti») per aiutare chi vuole uscire dall'abisso della dipendenza come lui stesso è riuscito a fare. Un'esperienza che Tiziano ha voluto fissare nel film-documentario Ferro , una produzione originale Amazon disponibile su Prime Video dal 6 novembre (lo stesso giorno esce anche «Accetto miracoli: l'esperienza degli altri», il suo primo album di cover). Un documentario (che 7 ha potuto vedere in anteprima esclusiva) dove il cantautore ha tirato fuori tutto se stesso. Altro che agiografia, ne emerge un ritratto - molto consapevole - in cui smantella pezzo per pezzo l'immagine esteriore, patinata, sempre un po' photoshoppata, ad uso di copertina, che i personaggi pubblici sono costretti spesso a indossare. Se - complice il filtro, la gabbia, il cordone di sicurezza, l'alone di invincibilità che il business della discografia ti costruisce intorno - Tiziano Ferro poteva apparire a uno sguardo superficiale quasi urticante, un personaggio da maneggiare con cura, il Tiziano di Ferro si mostra in tutta la sua fragilità, in curiosa antitesi con quel cognome che rimanda al metallo per eccellenza più duro. Il riassunto in 5 parole dei motivi per cui non era felice è come un taglio di Fontana, un colpo netto che lascia stupiti nella sua semplicità. «Alcolista, bulimico, gay, depresso, famoso. Pure questo, famoso, mi sembrava un difetto, forse il peggiore». Il suo è un coming out totale. Come quando confessa: «Non sono mai stato il primo della classe, ero anonimo, non bello, per niente atletico, anzi grasso, timido, i ragazzi mi chiamavano ciccione, femminuccia, sfigato. Aspettavo che qualcuno intervenisse per difendermi, ma non succedeva mai. Vivevo perennemente frustrato, incazzato e anche umiliato. Poi ho cantato per la prima volta e il mondo è cambiato. La musica era l'unica cosa che avevo, un canale per esprimermi in un mondo nel quale non mi riconoscevo». La sua è stata una vita in salita. Prima il rapporto conflittuale con il peso (da 111 chili scende a 70), quindi il non detto della sua omosessualità: da una parte i discografici che premono per affiancargli una donna dello schermo, una fidanzata di comodo; dall'altra il suo rifiuto fino alla decisione del coming out (ormai dieci anni fa). 

Corriere.it il 9 ottobre 2020. I personaggi famosi devono avere un senso dell’etica ancora più alto rispetto a chi famoso non è. Ha stabilito questo, in sostanza, la Cassazione, confermando la natura fittizia del trasferimento della residenza fiscale del cantante nel Regno Unito. Il Sole 24 Ore ha fatto sapere che l’evasione fiscale è stata confermata per un paio di annualità, nonostante il ricorso di Ferro, che pure è stato accolto in alcuni punti. Ma, nell’esprimersi, la Suprema corte ha anche ricordato che, per i personaggi pubblici è ancora più fondamentale il dovere di comportarsi eticamente. «Le azioni dei vip sono sotto gli occhi di tutti», scrive il quotidiano economico nello spiegare la decisione della Cassazione, che tra le altre cose ha stabilito come giuste le sanzioni che Ferro dovrà pagare e che lui riteneva ingiuste. «Nella quantificazione delle pene pecuniarie hanno pesato una serie di elementi: dalla natura dolosa del comportamento, all’assenza di condotte finalizzate ad eliminare gli effetti dell’evasione fiscale». Tiziano Ferro avendo dalla sua «un elevato livello economico e culturale» ed essendo un personaggio famoso, secondo i giudici era in possesso «degli strumenti necessari per valutare la giustezza di un determinato comportamento». Un avviso, quindi, per tutti quelli nelle condizione del cantautore: se sei un personaggio noto, devi comportarti se non meglio degli altri, di certo in modo più etico.

E Ferro devolve in beneficenza il suo compenso. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Tiziano Ferro ha scelto di devolvere in beneficenza il compenso frutto della sua partecipazione alla 70ª edizione del Festival di Sanremo (si era parlato di 250.000 euro ma la cifra sarebbe leggermente più bassa), dove sarà ospite per tutte le cinque serate. E cinque sono anche le associazioni destinatarie della donazione, tutte con sede a Latina: Avis (della quale il cantautore è ambasciatore da quasi vent'anni); Lilt (la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, alla quale già nel luglio scorso sono stati indirizzati i regali degli ospiti al matrimonio di Ferro); Centro Donna Lilith (che dal 1986 si occupa di dare accoglienza, assistenza e supporto alle donne e ai minori vittime di maltrattamenti); Associazione Valentina Onlus (che su base volontaria offre assistenza ai malati oncologici; e infine l'Associazione Chance For Dogs, un'organizzazione senza fine di lucro che si prende cura dei cani randagi e abbandonati nonché della loro adozione. «Siamo tutte strutture della provincia di Latina, che assistono quotidianamente, con estrema fatica e immenso amore, chi ha urgente bisogno di supporto — hanno dichiarato congiuntamente i cinque enti beneficiari —. Tiziano Ferro ha scelto di dedicare la sua partecipazione a Sanremo alla città che l'ha visto nascere, sperare e sognare. E quei sogni diventano oggi una speranza in più per chi lotta ogni giorno sotto quello stesso cielo. Grazie di cuore Tiziano, da tutti noi». Ferro ha annunciato che duetterà con Massimo Ranieri in «Perdere l’amore» e che poi canterà Modugno e Mia Martini.

Sergio Rizzo per ''la Repubblica'' l'11 ottobre 2020. Tiziano Ferro le aveva provate tutte contro l'Agenzia delle Entrate che gli contestava di aver trasferito la residenza in Gran Bretagna al solo scopo di pagare meno tasse del dovuto. Perfino sostenendo di aver dovuto emigrare per la propria omosessualità: il che, visto il tasso di omofobia ancora ahimè presente in questo Paese, ci poteva anche stare eccome. Ma non è servito. E sarebbe un caso come tanti, se qui il peso della sentenza della Cassazione si misurasse solo con i 6 milioni da pagare. Perché questa volta i giudici hanno sentenziato che il cantante avrebbe forse meritato una sanzione ancora più esemplare, e non per i fatti. Bensì per una semplice questione di moralità. Per la Cassazione non soltanto Tiziano Ferro ha gli strumenti culturali per comprendere appieno che cosa è giusto o sbagliato, ma siccome è pure un personaggio pubblico ha il dovere di avere una condotta etica maggiore rispetto agli altri contribuenti. Uno come lui non si può limitare a rispettare le regole, ma dev' essere cosciente che dà l'esempio. E darlo. Perché l'esempio, in un Paese dove l'evasione fiscale e contributiva sfiora da anni i 110 miliardi l'anno, e un ministro (Tommaso Padoa-Schioppa) che per aver detto «Le tasse sono bellissime» spiegando come senza tasse non ci sarebbero scuole e ospedali venne crocifisso, può essere decisivo per vincere una battaglia di civiltà. Quella contro chi, con l'evasione, ruba alla collettività. Soprattutto può essere decisivo soprattutto per la parte sensibile della società: i giovani, per i quali qualche cantante o ancor più certi sportivi sono figure cui ispirarsi. Pensate solo a un campione del calibro di Diego Armando Maradona e alla battaglia ingaggiata contro il fisco per evasioni milionarie. Uno dei tanti. Perché purtroppo la lista dei personaggi pubblici e famosi, che seguendo questa nuova tesi della Cassazione non avrebbero in passato dato l'esempio, è semplicemente chilometrica. Grazie anche a qualche cortese incentivo che spunta di tanto in tanto. L'aveva detto, vent' anni fa, anche Giulio Tremonti quando non era ancora ministro: «Il caso di un famoso tenore dimostra che evadere è vantaggioso in forza dei concordati fiscali decisi dal governo nel 1996"». Poi però Tremonti diventò ministro dell'Economia e firmò forse la più spettacolare sfilza di condoni che si sia mai vista, ma questa è un'altra storia. Il tenore, già: Luciano Pavarotti. Lo accusarono di aver evaso una quarantina di miliardi di lire, e lui si accordò per pagarne 25. Portò di persona l'assegno al ministro Vincenzo Visco con fotografi e reporter. E poi dichiarò sorridente: «Mi sento più leggero, nell'animo e non solo». Alludeva, ovviamente, al portafoglio. Ma forse era sollevato pure per aver risparmiato un sacco di soldi. Certo più leggeri si devono essere sentiti tanti personaggi pubblici. Talvolta neppure soltanto per colpa loro, ma del manager, dell'agente, del commercialista o del papà. Qualche caso? Molto alleggerito si è certamente sentito il campionissimo di motociclismo Valentino Rossi a causa dei 43 milioni di euro che nel 2008 il Fisco gli chiese di pagare. O l'ineguagliabile asso degli sci Alberto Tomba, che di miliardi di lire ne dovette sborsare una decina sull'unghia. Decisamente meglio andò invece al pilota di Formula 1 Giancarlo Fisichella. Raggiunto a Montecarlo da una cartella esattoriale (italiana) da 17 milioni di euro e passa, concordò di pagarne 3,8: meno di un quarto. Perché succede regolarmente che per chiudere una pendenza con l'Agenzia delle entrate, quando si parla di contestazioni milionarie, la faccenda si concluda con un bel taglio delle somme contestate. Conviene a entrambi, al Fisco e al personaggio ricco e famoso. Non conviene del tutto, invece, ai contribuenti onesti. Che quando gli arriva una cartella devono pagare tutto, fino all'ultimo centesimo, e con gli interessi. E senza tanti furbi si sentirebbero anche loro molto più leggeri.

·        Tom Hanks.

"Voglio imparare ad ascoltare per essere un uomo migliore". L'attore, in lizza per il terzo Oscar (da non protagonista) è il conduttore Fred Rogers, icona buona della tv Usa. Chiara Bruschi, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale.  Sul palco dei Golden Globe, mentre riceveva il premio alla carriera Cecile B. DeMille, Tom Hanks non era riuscito a trattenere le lacrime nel ringraziare la sua famiglia, seduta in prima fila. «Un uomo è fortunato quando ha una famiglia come quella che ho qui davanti a me, una moglie che mi ha insegnato cosa sia l'amore, e cinque ragazzi che sono più coraggiosi, forti e saggi del loro vecchio», aveva detto incolpando il raffreddore per la voce a singhiozzo. Parole che, ancora una volta, hanno fatto trasparire l'umanità di uno degli attori più amati a Hollywood, capace di performance che hanno conquistato il cuore degli spettatori e il plauso della critica, la quale lo ha premiato nel tempo con una vera pioggia di statuette: due Oscar al miglior attore consecutivi nel 1994 per Philadelphia e nel 1995 per Forrest Gump, cinque Golden Globe, due Screen Actors Guild Award, cinque Emmy e un Orso d'argento al Festival di Berlino. Oggi l'attore nato a Concord, California, è in lizza per un terzo Oscar grazie alla nomination come miglior non protagonista per la sua interpretazione di Fred Rogers (1928-2003), icona della televisione americana, autore e conduttore del famoso show per ragazzi Mister Rogers' Neighborhood. Il film di Marielle Heller, intitolato Un amico straordinario, al cinema dal 5 marzo, racconta il rapporto d'amicizia tra Rogers e un cinico giornalista incaricato dalla rivista Esquire di scrivere un articolo su di lui. Per il pubblico americano Fred Rogers è un vero eroe e non solo perché la suddetta rivista lo ha definito come tale, mettendolo in copertina nel 1998. Per molte generazioni ha rappresentato un amico sincero, l'unico adulto in grado di parlare ai bambini di emozioni come la rabbia, la tristezza, la paura. Senza tabù. Incontriamo Tom Hanks a Londra, per la presentazione del film. Si rivela un vero mattatore sempre pronto alla battuta. Quando parla di Fred Rogers, però, conosciuto attraverso le puntate dello show guardate in età adulta e i ricordi della moglie Joanne, l'attore si fa serio. Questo film mette quasi a disagio lo spettatore coi suoi silenzi e le sue pause. Non siamo più abituati alla lentezza, alla riflessione e all'ascolto. Ci aiuta però a capire quanto sia necessario prendersi del tempo per le persone che abbiamo intorno. Guardandolo, fa venire voglia di diventare migliori.

Che effetto ha fatto su di lei che ha interpretato questo personaggio, l'ha cambiata?

«Sì, ho una lunga lista di esempi di cose che non ho fatto nella mia vita e mi sono accorto solo adesso che se le avessi fatte sarei stato un attore, marito, amico, padre e professionista migliore. Fred Rogers ci insegna che il più bel regalo che possiamo fare a una persona a cui teniamo è la nostra attenzione incondizionata. Recitando questa parte mi sono resto conto che in buona parte della mia vita ci sono io che aspetto il momento in cui posso parlare! Per questo d'ora in poi voglio pensare seriamente a quello che mi viene detto. Non sono un grande ascoltatore e so che potrei migliorare. Se riuscirò a farcela, vorrà dire che sarò più vicino all'essere umano che vorrei diventare».

Fred Rogers ci insegna che...

«Non ho ancora finito! Vede, interrompo tutti! Scherzo, continui».

Nel film il suo personaggio spiega ai bambini che è normale essere tristi e nello stesso tempo aiuta il protagonista Lloyd Vogel (Matthew Rhys) a gestire la sua rabbia. Ce n'è molta sui social media. Cosa direbbe Fred a questo proposito, come si comporterebbe se fosse qui oggi?

«È una domanda interessante. Credo innanzitutto che userebbe i social media ma non commentando i post carichi di odio. Non credo che scriverebbe Smettete di essere così negativi o perché vi comportate in questo modo. Presenterebbe invece la miglior versione di se stesso, la gentilezza, che è l'opposto del cinismo imperante che soprattutto su internet è diventato il punto di partenza di ogni argomento. Dimostrerebbe buon senso, delicatezza. Questo farebbe».

E lei, come gestisce la sua rabbia? Nuota o suona il piano, come faceva il suo personaggio?

«Sono un po' più vecchio di lei e sa una cosa? Ho capito che ho sprecato molto tempo della mia vita a essere adirato. Quello che dice Mr Rogers è che essere arrabbiati è una scelta. Che puoi decidere di non esserlo. Sa come si fa a gestire la propria ira? Come ci ha insegnato lui, (canticchiando come nel film, ndr) Fa bene parlare, fa bene dire come ci si sente. Sfogatevi, parlate, condividete. E starete meglio».

·        Tommaso Paradiso.

Da corriere.it il 4 giugno 2020. Una lunga confessione, sincera, con una vetta di esagerato autocompiacimento (del resto è quella la molla che ti spinge a salire su un palco a farti adorare come un dio terreno). Tommaso Paradiso si è confessato parecchio nell’Intervista di Maurizio Costanzo (in onda questa sera su Canale 5). L’ex frontman dei TheGiornalisti è partito dalla sua infanzia e dal fortissimo rapporto che lo lega a sua mamma Nazaria («Mamma Nazaria è la figura più potente della mia vita. La mia sola guida, la mia eroina, molto severa ma la miglior madre che potessi desiderare») e a sua nonna — suoi punti di riferimento — per poi raccontare la totale mancanza della figura paterna che ha abbandonato la famiglia quando lui era ancora molto piccolo.

Il padre assente. Il trasporto lo induce a esagerare: «Avevo sei mesi: mi mettevo davanti alla porta per non farlo andare via, terribile». Difficile immaginare che a pochi messi fosse così consapevole, ma con il dolore emotivo si può essere indulgenti... «Poi mia madre gli ha detto: “Guarda che questo ragazzino non può continuare con questi sbalzi di umore, i pianti, o fai il padre o non fai il padre”. Lui non se l’è sentita e se ne è andato via. Di recente si è fatto vivo», ma solo perché nel frattempo lui è diventato Tommaso Paradiso. «La cosa paradossale è che mi ha commentato un post su Instagram. Avevo pubblicato una foto con Carlo Verdone con la didascalia “forse cerco solo un padre” abbracciando Verdone che, per me, è come se fosse stato un padre. Vedo tra i commenti questa persona che scrive “tu guarda che un padre ce l’hai sempre avuto”. E poi scopro che è lui. Non gli ho nemmeno risposto...».

I film anni Settanta. Durante l’intervista Tommaso Paradiso ha parlato dell’amore per la fidanzata Carolina Sansoni, del suo profondo desiderio di diventare padre («voglio 12 figli»), della sua laurea in filosofia, della sua passione per la musica scoperta a 11 anni, del suo trasporto per il cinema italiano d’autore e dello scioglimento nel 2019 dei Thegiornalisti. Ha spiegato così le ragioni che hanno portato il gruppo a sciogliersi. «Qualche giorno dopo l’ultima data del Tour di Love (nel 2019), entra nei Thegiornalisti questo avvocato che rompe le carte in tavola. Se non ci fosse stata questa figura, che avrebbe creato veramente dei brutti casini tra di noi, forse saremmo stati ancora insieme. Nella vita non sono mai tornato indietro su qualcosa. Non credo nelle minestre riscaldate. Ormai è uscita tanto fuori la mia vena cantautorale, questo ha portato anche allo scioglimento. Gli ultimi due dischi li ho fatti da solo praticamente». Nei programmi di Tommaso Paradiso non c’è solo la musica ma anche il cinema. «Ho finito di scrivere un film con altri due sceneggiatori: Luca Infascelli e Chiara Barzini. Sono malato di Antonioni, Fellini, Scola, Magni, Pietrangeli. La mia fidanzata Carolina non ne può più perché vediamo solo film fino al 1970». Sul desiderio di diventare padre con la sua fidanzata Carolina: «Vorrei 12 figli… Io vorrei fare tanto il padre… Non vedo l’ora che capiti…».

·        Tommaso Zorzi.

Gabriele Parpiglia per “Chi” il 24 ottobre 2020. Sarà “Tommy show” tutte le sere. Non mi crede, vero? Scommettiamo! Eravamo a Bormio quando abbiamo incontrato Tommaso Zorzi, poco prima del GfVip, per conoscere i segreti del concorrente più amato, odiato, discusso di questa edizione. Ma chi è realmente Tommaso Zorzi? Chi scrive lo conosce in prima persona. Ed ecco svelato il Tommy segreto. Tommaso, durante il lockdown, appartiene alla categoria di quelle persone che hanno sviluppato la sindrome della “capanna”. Ovvero si è abituato alle mura del suo bilocale da sessanta metri quadri in centro a Milano e le sue uscite erano dedite solo allo shopping (rigorosamente Prada) o per portare fuori il suo amato cane Gilda. «Prima di entrare la mia consulente spirituale mi ha detto che quest'anno sarebbero cambiate tante cose in meglio, ma solo sul lavoro. In amore non si batte chiodo». Zorzi, single, si racconta sul web sempre senza filtri. Sfortunato in amore e anche quando lo trova per finta, organizzando una gag per i suoi follower con un figurante che aveva scelto tramite una foto. Succede che poi il figurante diventa davvero il suo compagno, ma quando Tommaso parte per il primo weekend d'amore, la sera era concentrato a osservare come il suo nome fosse in tendenza su Twitter per aver lanciato l'ennesimo tormentone "Io sono Giorgia", la canzone ispirata alla politica Giorgia Meloni dopo un suo discorso. Zorzi sul web appare anche nei panni, identici, di Freddie Mercury, il ragazzo canta (eccome se canta), ama la lirica, adora i film Anni 70 (Il vizietto e Travolti da un insolito destino... i suoi film top) e litiga con chiunque commetta, a dir suo, un'ingiustizia. La lista è lunghissima e ogni volta Zorzi vince e convince con le sue motivazioni e un linguaggio forbito, cosa rara sul web. Tra le vittime di Zorzi: Er Faina, la "pupa" Stella Manente, l'ex tronista Sonia Lorenzini, Lorella Cuccarini, Platinette, la tiktoker Gaia Bianchi, questi sono solo gli ultimi di una lunga serie. Ma Zorzi è anche una sorta di talent scout che scopre "para-fenomeni" del web che poi prendono vita in tv. Su tutti l'ultimo esempio è Denis Dosio, lanciato proprio da Zorzi. Sempre grazie al web Tommaso ha lanciato una raccolta fondi per l'Australia che bruciava. La somma raccolta ha superato 30 mila euro e il Corriere della Sera ha dedicato spazio a Zorzi fenomeno mediatico. Durante il lock-down il ragazzo si è costruito a casa un set vero e proprio, ordinando i pezzi per creare uno studio, e ha realizzato il format "Mister e Miss Quarantena". E oggi ha un milione di follower. Appassionato d'arte, non si separa mai dall'adorata tata Cecilia, protagonista a volte delle sue stories su Instagram, amico di Giulia De Lellis, e di nuovo amico di Aurora Ramazzotti, con la quale aveva litigato prima di entrare al GrVip per una "buca" che lei aveva rifilato a lui prima di un weekend a Capri. Tra i suoi amici anche Claudio Sona (ma tra i due non c'è mai stata una storia) e Stefano Sala. Tommaso ha un rapporto d'amore folle con la madre Armanda e ha recuperato quello con la sorella Gaia, che vive ad Amsterdam. Lontana invece è la figura paterna, Lorenzo, imprenditore. Tema spinoso per Zorzi, che con gli amici mostra sofferenza quando si parla di questo argomento e cambia immediatamente discorso. Amore sfrenato in-vece per le nonne scomparse poco tempo fa. Quella materna proprio durante l'emergenza Covid. Ma anche questo è un argomento che Tommaso, per troppo dolore, evita. Lo scorso giugno Tommaso ha pubblicato il suo primo romanzo (Siamo tutti bravi con i fidanzati degli altri, Mondadori), ispirato alle sue disavventure amorose, e ha scalato le classifiche con quasi 20 mila copie vendute. Un ottimo successo editoriale. Da grande Zorzi sogna di condurre un "one man show" tutto suo e proprio durante la quarantena il progetto è stato messo nero su bianco, sogna di essere sul palco del Festival di Sanremo, ma nella Casa ha rivelato che lavorare per Maria De Filippi sarebbe il massimo. Sul suo corpo ha un numero di tatuaggi infiniti. Tra i più curiosi i nomi delle sue amiche, con le quali però ha litigato. Le leggende narrano che Zorzi viva oggi in una torre nella zone esclusiva del Bosco Verticale, che abbia vissuto un grande amore con Iconize, ma in realtà lui stesso dice a chi scrive «siamo stati insieme sei mesi e non gli rispondo dallo scorso febbraio per motivi gravi che lui sa». Si definisce "Aristo Pop", ama l'arte in tutte le sue forme, e in casa esibisce appesa al muro la parola "Caxxo", che si illumina anche di notte. «Mi circondo delle mie passioni», dice lui e in futuro infatti, come rivela "Chi", sul mercato debutterà una linea di "dildo" (un giocattaolo sessuale) firmata Zorzi. «Anche nell'intimità sarò il vostro miglior incubo», dice lui.

·        Tony Binarelli.

Nino Materi per “il Giornale” il 27 settembre 2020. Tanto per mettere in chiaro le cose, la telefonata inizia così: «Pronto, parlo con il mago Tony Binarelli?» «Sì, mi dica» «Sono un giornalista, posso farle un'intervista?» «Con piacere. Ma prima pensi a un numero dispari» «Ok» (penso al numero 7, ndr) «Lei ha pensato al numero sette!». Fantastico Binarelli. Il 16 settembre compirà 80 anni. Dire che ne dimostra 10 di meno sarebbe fargli un torto, perché in realtà Tony sembra ancora più giovane. Ne ha di aneddoti da raccontare. Una vita spettacolare fatta di trucchi, nel senso buono del termine. Mezzo secolo di carriera in un'Italia abituata a illudersi e che per questo, forse, ha sempre guardato agli illusionisti con lo stesso stupefatto interesse con cui i bambini guardano (guardavano?) i cartoni animati. Nell'anno (il 1948) in cui Eduardo De Filippo scriveva La grande magia - una delle sue commedie più intense con protagonista il «mago Marvuglia», personaggio un po' filosofo un po' saltimbanco - Binarelli aveva solo otto anni, ma già una grande passione per i giochi di prestigio. Magie che sarebbero diventate la sua professione, facendo di lui uno dei maghi più premiati al mondo e l'unico ad avere vinto un Telegatto, l'oscar italiano della televisione. E dire che tutto cominciò con un libro caduto «misteriosamente» sulla sua piccola (ma già ben dura!) testa di bambino. «Ero al mare, a Follonica. Avevo 12 anni e mi ero beccato la bronchite. Non potevo fare il bagno. Mi annoiavo. Allora entrai in uno di quei negozietti dove vendono un po' di tutto. Un raggio di sole illuminò un libro. Era in alto, sullo scaffale. Incuriosito, mi arrampicai. Persi l'equilibrio. Caddi e trascinai giù ogni cosa. Quando mi ripresi, il libro illuminato era lì, la copertina rigida mi aveva colpito in piena fronte. Sa qual era il titolo del libro?».

Il mago è lei, dica...

«Nel mondo invisibile: spiritismo e potenza psichica di Léon Denis».

Denis, il massimo teorico francese in tema di esoterismo e un'autorità in materia di parapsicologia.

«Proprio lui».

Un segno del destino.

«Lo lessi, rimanendone affascinato».

Fulminato sulla via di Damasco.

«Be', più modestamente, sulla via di Follonica...».

Dopo di che partì a razzo per fare il mago?

«Diciamo che iniziai a coltivare la mia vocazione. Studiavo, sperimentavo, inventavo. Il palcoscenico esercitava su di me un'attrazione eccezionale».

La melodia inebriante degli applausi.

«Le serate si moltiplicavano. I miei show erano graditi».

Dal cilindro, con il coniglio, era spuntato anche il successo.

«Non ho mai utilizzato cilindri e conigli. Mi hanno sempre fatto tristezza. In compenso sono stato capace di ammaestrare, dopo sei mesi di allenamento, una tartaruga a individuare le carte segrete scelte dal pubblico».

Con una magia facciamo un balzo nel tempo. Il ragazzino «colpito» dal libro è diventato adulto.

«E si è pure sposato. Giunge il momento di prendere la decisione destinata a stravolgermi l'esistenza».

Scelta definitiva.

«Nessun dubbio. Lascio lo stipendio sicuro per dedicarmi anima e corpo alla magia».

E sua moglie che disse?

«Mi appoggiò. Le sue parole furono: Voglio un marito felice che realizzi i propri sogni».

Trovarne di donne così.

«Sono stato fortunato».

Che lavoro faceva prima di darsi al mentalismo?

«Impiegato in una casa automobilistica».

Poi la retromarcia...

«Mi licenziai e divisi i soldi della liquidazione in dodici buste, una per ogni mese. Promettendo a mia moglie: Se entro un anno non sfondo con la magia, torno alle automobili. Da allora sono passati 50 anni. E ancora oggi faccio l'artista».

Il suo momento d'oro risale alla fine degli '70. Era uno dei volti più popolari e amati dal pubblico televisivo. Chi fu il primo a credere veramente in lei?

«Corrado. Entrambi romani, tra noi scattò subito la scintilla. C'era grande intesa, per i miei numeri mi concedeva ampi spazi. Ero ospite fisso di Domenica in che allora aveva ascolti pazzeschi».

Di qui la sua enorme notorietà, in «comproprietà» con l'altro suo celebre collega, il mago Silvan.

«Io e lui avevamo però stili e pubblici diversi».

In che senso?

«Silvan era più mago in senso classico, mentre io ero più intrattenitore in senso moderno».

Nell'ambiente cinematografico era stato ribattezzato Mister Contromani. Perché?

«Facevo il doppiatore delle mani».

Vale a dire?

«Ho prestato le mie mani agli attori di oltre 50 film. Quando i protagonisti mischiavano acrobaticamente le carte durante le partite di poker, la cinepresa zoomava sulle loro mani e tagliava le loro teste. Bene, quelle mani inquadrate erano le mie».

Ha «doppiato» mani delle star? Qualche nome?

«Terence Hill, Bud Spencer, Alain Delon, Brigitte Bardot».

Un aneddoto divertente?

«Sul set del film Continuavano a chiamarlo Trinità con Bud Spencer e Terence Hill. Ma più che divertente, si tratta di un aneddoto puzzolente...».

«Puzzolente»?

«Sì, tutta colpa del budget ridotto. Terence Hill interpretava il ruolo di un giocatore al tavolo di un saloon western che indossava una camicia unta e bisunta. Quando intervenivo io per manipolare il mazzo di carte, Terence mi prestava la sua camicia sporca. Giravamo in piena estate e c'era un caldo pazzesco. Si sudava tanto. La scena fu ripetuta varie volte. Purtroppo. Per entrambi».

Un ricordo più «profumato»?

«L'incontro con Federico Fellini. Era appassionato di magia e una sera ci incontrammo a casa di amici in comune. Mi chiese: Tony, mi sveli un gioco di prestigio?».

E lei?

«Un mago non svela mai i trucchi, ma gli dissi: Federico, ti mostro un nuovo gioco che non ho ancora fatto vedere a nessuno».

Fellini come la prese?

«Era entusiasta. Cominciò a spostare tutti i mobili del salone sotto gli occhi increduli del padrone di casa. Tony, devi sentirti a tuo agio. Come se ti trovassi sul palco di un vero teatro. Insomma, posso dire di essere stato diretto personalmente da uno dei più importanti registi del mondo».

Una bella soddisfazione. Ma, per curiosità, il cosa consisteva la novità del gioco?

«Una mia invenzione. Per la quale ho ricevuto anche una serie di premi internazionali».

Spieghi la magia. Nei dettagli.

«Si fa scegliere una carta a una persona del pubblico. La carta viene mostrata a tutti e celata tra le mani della persona che seguita a tenerla sempre con sé. Il mago si allontana e fa come il gesto di lanciare un bacio a distanza. A questo punto la persona apre le mani e mostra la carta. Su cui, incredibilmente, appare l'impronta di due labbra serrate a mo' di bacio».

Oggi in tv il modello del mago è cambiato, regge solo il mago-comico. Come se lo spiega?

«I tempi televisivi sono ormai serratissimi. Io e Silvan avevamo anche 15 minuti per esibirci, mentre oggi al massimo te ne concedono tre: il tempo di una barzelletta, per fare da cerniera tra gli spot pubblicitari. Così noi maghi siamo spariti dal piccolo schermo. Questo ovviamente non vale solo per i maghi. Se vivessero oggi, anche mostri di bravura come Walter Chiari o Pino Caruso, che avevano nell'affabulazione i punti di forza, non riuscirebbero a esprimersi appieno».

È mai stato tentato di «tagliare a metà» una donna. Silvan lo faceva spesso...

«Quel genere di giochi non fa per me. Li ho sperimentati ma non rientrano nelle mie corde. Senza contare che in una donna tagliata a metà non saprei, alla fine, quale parte scegliere: quella di sopra o quella di sotto?».

A proposito di donne. Le sue vallette erano sempre bellissime.

«Ne ho cambiate tante. Ma poi mia moglie mi ha imposto uno stop. A volte anche esagerando...».

Cioè?

«Si figuri che una volta non volle scendere dalla nave, solo perché eravamo nel porto di... La Valletta».

Il suo palmarès è da Guinness dei primati. Ma perfino i migliori professionisti possono sbagliare. Si è trovato qualche volta in imbarazzo per qualcosa andato storto durante un'esibizione?

«È accaduto due volte. Una volta nel nord Italia e un'altra volta in una regione meridionale».

Cos' è successo?

«Ho chiamato sul palco uno spettatore. Doveva leggere mentalmente una frase sfogliando una rivista, e io avrei provveduto a indovinarla».

Non riuscì a indovinare la frase?

«No. Entrambi i prescelti erano analfabeti: Scusate, ma non sappiamo leggere».

Per diventare maghi bisogna invece studiare molto. L'innovazione ha rappresentato il filo conduttore della sua carriera. Ha scritto libri, insegnato il mestiere a tanti giovani, ideato trasmissioni in Italia e all'estero. Ma qual è stato il suo vero «marchio di fabbrica»?

«Forse l'avere trasformato la prestigiazione in situation comedy, cioè una forma di spettacolo articolata sul coinvolgimento degli spettatori».

Il suo spettacolo di prestigiazione continua a essere in tournée.

«I tempi d'oro sono alle spalle. Ma non ci possiamo lamentare. Mai mollare».

Sui suoi libri si sono formati generazioni di maghi.

«In Italia e all'estero ho pubblicato diversi manuali, ma non ho pensato solo ai professionisti».

Anche i dilettanti devono esserle grati?

«In famiglia strabiliare i parenti con giochi di prestigio in famiglia fa guadagnare... prestigio».

Caspita. Ma lei è un asso anche nei giochi di... parole.

«Un bravo mago deve avere anche un buon eloquio ed essere padrone della lingua. La dialettica serve anche per distrarre l'interlocutore, rendendo il trucco ancora più misterioso».

Si è cimentato pure nell'editoria.

«Ho fondato la rivista italiana di illusionismo e prestigiazione Qui magia».

Chissà quanti scoop...

«La mia carriera è stata tutta un'Edizione Straordinaria».

Un'esclusiva per i lettori del Giornale?

«Sono l'unico italiano detentore di ben tre premi ai campionati mondiali d'illusionismo del 1967, 1970, e 1973».

Roba da prima pagina...

«Attento. Le leggo nel pensiero. Mi sta prendendo in giro».

Non mi permetterei mai...

«E allora gliene dico un'altra...».

Scommettiamo? L'ennesimo prestigioso riconoscimento...

«Esatto. Non è colpa mia se sono tra i migliori su piazza. Da 13 anni sono il presidente italiano dell'International brotherhood of magicians, l'associazione mondiale degli illusionisti».

Lei è in splendida forma, ma ha una certa età. Pensa mai alla morte?

«Sono un uomo di fede e un cattolico praticante. Anche io saprei come moltiplicare i pani e i pesci, ma il vero miracolo lo fece Gesù. Io posso solo replicarlo con un trucco da povero, e umano, peccatore».

Che epigrafe vorrebbe sulla lapide?

«Probabilmente torno!».

Con un colpo di magia?

«Senza cilindro né coniglio. Al limite un gatto. Meglio se Telegatto».

·        Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 16 gennaio 2020. Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli saranno a Non è L’Arena, su La7, nella puntata di domenica, 19 gennaio. Il cantante neomelodico e la consorte, nonché vedova del boss Gaetano Marino, saranno ospiti di Massimo Giletti per replicare alle accuse rivolte loro nell’inchiesta giornalistica Camorra Entertainment, promossa da Fanpage e cavalcata dal riccioluto conduttore, che aveva condannato aspramente l’esposizione televisiva offerta da Barbara D’Urso ai due personaggi. Ad ufficializzare la propria partecipazione a Non è L’Arena è stato lo stesso Tony Colombo in un videomessaggio: “Ormai è più di un mese che provate a intervistare me, mia moglie e i miei collaboratori. Voglio mettere un punto a tutta questa storia. Verremo personalmente io e mia moglie Tina per difendere i nostri diritti e quelli della nostra famiglia“ ha dichiarato il cantante neomelodico. L’uomo, in passato, era sfuggito alle domande dei cronisti di La7, che avevano provato ad avvicinarlo. Anche la moglie si era negata ai microfoni. Prendendosela con Barbara D’Urso, che a suo giudizio aveva eccessivamente trascurato gli effetti dovuti alla visibilità dei controversi coniugi, Giletti aveva invitato Tina e Tony a rispondere nel merito delle accuse sulla loro contiguità con ambienti malavitosi. I due ora hanno accettato il confronto e domenica saranno in diretta su La7. Ora, sebbene il loro intervento si possa considerare come diritto di replica all’interno di un programma giornalistico, è chiaro che – volente o nolente – stavolta sarà lo stesso Giletti a dare visibilità ai coniugi Colombo, riportandoli alla ribalta nazionale. Proprio lui, che faceva la morale a chi, in altre circostanze, li aveva ospitati in precedenza. Paradossale anche il fatto che Tony appaia nel promo della trasmissione con un proprio videomessaggio.

Tony Colombo e la tarantella dei neomelodici: dove sono finiti soldi e canzoni? Le Iene News il 2 marzo 2020. Antonio Valenti contatta Le Iene sostenendo che il suo sogno di diventare cantante si sarebbe infranto per colpa di Fabrizio Scippa e Tony Colombo, due neomelodici. Valenti, dice, si sarebbe ritrovato senza le canzoni promesse e senza 20mila euro. Scoprite come è andata davvero con Alessandro di Sarno. Tre neomelodici litigano perché ciascuno di loro ritiene di essere stato raggirato dall’altro. E, come nelle migliori commedie napoletane, tutti fanno un po’ i furbi e tutti hanno un po’ ragione. “Io faccio musica neomelodica ed è stato il mio sogno fin da bambino. Per fare il salto tra i professionisti mi sono rivolto a Fabrizio Scippa”, dice Antonio. Il famoso neomelodico Tony Colombo, dice, si sarebbe impegnato a realizzare 8 brani per l’album d’esordio di Valenti, a stampare mille dischi e a realizzare due video musicali: tutto per 30mila euro. Il tramite: Fabrizio Scippa, ex manager di Fabrizio Corona, terzo protagonista della tarantella. Mentre quel sogno sta per realizzarsi, Antonio Valenti viene a sapere che i 20 mila euro anticipati sono andati persi e, racconta, pure le canzoni. Gli altri però hanno ognuno un’altra versione. Chi ha ragione? Chi ha combinato il guaio? Alessandro di Sarno riunisce questa strana banda di neomelodici cercando la verità e di mettere pace. Come andrà a finire?

La banda dei neomelodici e quei 20mila euro per Tony Colombo? Le Iene News il 4 marzo 2020. In un’infinita tarantella sono spariti 20mila euro e 8 canzoni neomelodiche. Alessandro Di Sarno prova a mettere pace tra un giovane cantante emergente, l’ex manager di Fabrizio Corona e il re dei neomelodici, Tony Colombo. Un giovane cantante emergente, l’ex manager di Fabrizio Corona e il re dei neomelodici. Riuscirà Alessandro Di Sarno a mettere pace tra Antonio Valenti, Fabrizio Scippa e Tony Colombo? Prima di ogni mossa bisogna capire che fine abbiano fatto 20mila euro e 8 canzoni neomelodiche. E alla fine si scoprirà che nessuno ha ragione e nessuno ha torto, ma tutti hanno un po’ ragione e un po’ torto. Qualche tempo fa Antonio Valenti contatta Le Iene sostenendo che il suo sogno di diventare cantante si sarebbe infranto per colpa di Fabrizio Scippa e Tony Colombo. “Io faccio musica neomelodica ed è stato il mio sogno fin da bambino. Per fare il salto tra i professionisti mi sono rivolto a Fabrizio Scippa”, sostiene Antonio. “Mi ha proposto di affiancarmi a Tony Colombo”. I tre si incontrano e sottoscrivono un contratto: Tony si sarebbe impegnato a realizzare 8 brani per l’album d’esordio di Valenti, a stampare mille dischi e a realizzare due video musicali. “Tutto questo aveva un costo di 30mila euro, la metà della cifra la volevano subito”, sostiene Antonio che ha fatto subito un bonifico. A questo punto il team di Tony si è messo al lavoro scrivendo canzoni neomelodiche. Ma succede una cosa strana che insospettisce Antonio. “Un ex collaboratore di Scippa mi parla di incomprensioni tra Tony e Fabrizio, temeva che ci finissi di mezzo io. Così incontro Tony che mi assicura che i miei soldi erano andati persi perché li aveva presi Fabrizio”, sostiene Valenti. Così contatta Scippa che però ha un’altra versione: “Mi sono serviti per pagare gli artisti della promessa di matrimonio di Tony Colombo” che si è sposato con Tina Rispoli, la vedova del boss Gaetano Moncherino detto ‘o moncherino, trucidato nel 2012 sul lungomare di Terracina. Tony Colombo però continua a sostenere che i soldi siano andati persi, così propone un nuovo accordo all’aspirante cantante neomelodico. “Mi ha chiesto altri 5mila euro per proseguire con il lavoro e così ho fatto”, sostiene Antonio. Anche questa volta, qualcosa va storto. “Mi ha chiamato Tony dicendo che era venuto meno l’accordo e che mi avrebbe dato i miei soldi”, prosegue, ma quel momento non arriva perché sarebbe scomparso. “Assillavo al telefono Fabrizio che mi rassicurava. Voleva sputtanare Tony Colombo, tanto che pensava di contattare Le Iene”. Insomma, uno dà la colpa all’altro. E intanto i soldi di Antonio non si vedono. Interviene Alessandro Di Sarno che vuole far incontrare i due ex soci Tony e Fabrizio. Con una scusa li mandiamo a prendere da auto differenti, ma appena si vedono in un’area di servizio tornano a galla i dissapori. “Minchia, ci mancava solo Tony Colombo con cui sono rimasto in brutti rapporti”, dice Scippa. La Iena prova a fare da paciere e porta con sé anche Antonio Valenti. Il trio è davvero ricomposto. “Stiamo lavorando per lui… Si sono prolungati i tempi per colpa del mio matrimonio. Ma stiamo parlando di 20mila euro… Non mi ha cambiato la vita con questi soldi, non è che ho fatto la truffa. Non è un problema, oggi vi faccio il bonifico”, assicura Tony Colombo. Peccato che passano le ore e il giorno dopo ci contatta Antonio. “Purtroppo non è risolto niente. Tony mi ha mandato 5mila euro e Fabrizio Scippa 5.600 euro. Non sono i 20mila euro che ho cacciato io”, dice ad Alessandro Di Sarno. Andiamo da Tony Colombo per chiedergli dei soldi mancanti: “Ho prodotto e inviato a Fabrizio sei canzoni delle otto previste”, dice il neomelodico. A questo punto scopriamo dettagli che Antonio non ci aveva detto e che danno un po’ torto anche a lui in questa storia. Alcune canzoni erano state effettivamente mandate ma giudicate “rimasugli rimasti nei cassetti”. Tony però ci mostra anche le risposte dell’aspirante cantante e capiamo che non ci ha detto tutto. “Questa è una bomba non vedo l’ora di sentirla con l’arrangiamento”, gli dice in un messaggio vocale dopo aver sentito una delle 6 canzoni prodotte dal Re dei neomelodici. Non sembra la reazione di chi ha ricevuto “dei rimasugli”

Serve un chiarimento finale. Così li facciamo incontrare di nuovo. “Ho ricevuto attorno ai 10 brani inediti, ma non sono rimasto felice dei pezzi”, dice Antonio. A questo punto Tony Colombo fa sentire e leggere i messaggi di approvazione che riceveva da Fabrizio. Valenti chiede conto dei 10mila euro mancanti che non ha ricevuto indietro. Gli animi si surriscaldano di nuovo con accuse e controaccuse. Per uscire da questa infinita tarantella Alessandro Di Sarno propone almeno di finire una delle 6 canzoni in preparazione. Antonio si mette in sala di registrazione, Fabrizio e Tony al lavoro e almeno questo sogno diventa realtà.

·        Tony Dallara.

Tony Dallara, "l'urlatore" che elettrizzò l'Italia: "Ero un divo ma Sanremo rifiutò un pezzo che Totò scrisse per me". Dalla povertà alle riviste patinate, dagli incontri con le star (Marilyn Monroe, Platters, Dean Martin) a quelli con i grandi dell'arte e della cultura (Dino Buzzati, Lucio Fontana, Enrico Baj), il più vecchio vincitore del Festival ha aneddoti da far impallidire. Senza vivere nella nostalgia: "Ho un atelier, espongo i miei quadri. Ma a Lucio Fontana, io timido, non ebbi mai il coraggio di chiedere una tela: bel pirla!" Luigi Bolognini il 31 gennaio 2020 su La Repubblica. Vignetta del 1959 sulla Domenica del Corriere (un milione di copie vendute, all’epoca). Un pellerossa appoggia l’orecchio per terra, come per sentire se arrivano dei cavalli. E grida: "Porc... ancora Tony Dallara!?". Non c’è spiegazione migliore di cosa sia stato per l’Italia del tempo il cantante milanese, che nel 1960 - 60 anni esatti fa - riempì di urla e ritmo un lento come Romantica di Renato Rascel. E contribuì al trionfo a Sanremo della canzone, cosa che ne fa il più vecchio vincitore del festival ancora in vita (Johnny Dorelli, che vinse nel 1958 e 1959, è del 1937, mentre Dallara è del 1936): "E confesso che in un Festival dove si celebra la storia, mi sarei aspettato qualche riconoscimento. Ma lo dico senza polemizzare, non l’ho mai fatto, non sono il tipo, a costo di perdere qualche occasione io non sgomito mai", dice Antonio Lardera, diventato Dallara perché era un cognome più musicale.

Certo che lei la storia della musica italiana l’ha fatta.

"Sono riuscito ad avere sette canzoni in hit parade contemporaneamente, visto che ai tempi si incideva un 45 giri ogni due mesi. E così ho avuto tanti successi in un colpo solo: Come prima, Ghiaccio bollente, La novia, Bambina bambina, Ti dirò. Troppi, forse, tutti assieme".

Almeno ci avrà fatto i soldi.

"Eh, magari! Io ero solo interprete, per cui prendevo solo quello che c’era nel contratto, che spesso erano pochi soldi. Certo, poi mi hanno chiamato in tv e ho girato l’Italia, con quelle canzoni, ma è con i diritti d’autore che si fanno i soldi veri nella musica. Se penso anche agli spot che hanno usato Come prima, e io non ho preso nulla, anche se poi tutti la associano a me. Ma non posso lamentarmi per come mi è andata la vita, specie considerando come l’avevo cominciata".

Ovvero?

"Ovvero in povertà. Sono nato a Campobasso, ma arrivai a Milano da bambino, zona popolare, in tempo per beccarmi un pezzetto di guerra, i bombardamenti e la fame. Per cui dopo le elementari finii subito a lavorare, facendo il fabbro, il lavamacchine, il benzinaio. Ma presto anche cantando, mio padre era operaio e corista alla Scala. Mi obbligò, da bambino, Don Cesare, il parroco di Santa Maria di Caravaggio, nel coro, poi passai ai palchi delle sale da ballo, mi ricordo el Vott di viale Tibaldi 8. Finché non sono arrivato al Santa Tecla, il club più in voga della Milano degli anni Cinquanta, ero specializzato nel cantare i Platters. Ma facevo anche il fattorino in una casa musicale, la Music".

Il cui presidente, Walter Guertler - vuole la leggenda - aveva la canzone Come prima che non apprezzava. Finché un giorno disse: “Una nenia così potrebbe cantarla il mio fattorino” e qualcuno gli rispose che il suo fattorino cantava davvero, e pure bene, lui venne a sentirla, e il resto è storia. Ma è vero?

"Non lo so, l’hanno raccontata anche a me. Di sicuro non mi sono proposto io, sempre per quel mio carattere timido e restio a esporsi. Posso dire che quando mi fecero un provino Come prima la scelsi io a caso tra tante altre".

Era il 1957 e fu un boom pazzesco.

"Trecentomila copie vendute, un successo di massa, grazie ai juke-box, in Italia e nel mondo, ho preceduto anche Nel blu dipinto di blu".

Ma soprattutto lei ha inventato uno stile, un genere, quello degli urlatori, che ruppero la tradizione del canto melodico, impostato, all’italiana, di artisti come Achille Togliani e Luciano Tajoli.

"Questo sì, e lo rivendico, frutto della mia irruenza, della mia generosità. Già Come prima pretesi di interpretarla a modo mio, in tonalità alta, sembrava che urlassi e quindi mi chiamarono urlatore. Pensi che al Santa Tecla ogni notte, verso le tre, quando tanti se n’erano andati, il direttore di sala mi diceva: 'Tony ma cosa ti urli, canta piano'. D’altronde il mio vicino di casa era il grande tenore Giuseppe Di Stefano, che in un’intervista disse che anch’io avrei potuto fare lirica. E dopo di me vennero Mina, Celentano, tutti urlatori, simbolo della gioventù dell’epoca che si ribellava al perbenismo dei genitori".

E arriviamo al Sanremo 1960.

"Fu divertente perché ci arrivai da sconosciuto. Avevo finito il militare, anzi Romantica me la fecero ascoltare che ero ancora sotto le armi, ed ero anzitutto una voce da juke-box, ma di faccia mi conoscevano poco. Quasi non mi facevano entrare. E quando dissi che volevo cantare Romantica in quel modo, pigliando certe ottave, mi diedero del matto. In realtà era l’idea giusta: pensi a Nel blu dipinto di blu, vinse anche perché Modugno fece la versione che tutti conosciamo e Dorelli in stile slow. Insomma, lo stesso brano riusciva a piacere sia ai giovani che agli adulti. Il maestro Cinico Angelini, che dirigeva l’orchestra, si rifiutava di eseguirla così. E durante le prove dovetti minacciare il batterista: 'Durante lo stacco io parto più veloce, stammi dietro o fai una figura barbina!' e Angelini scoprì il trucco solo in diretta, quando non poteva fare più niente".

E l’anno dopo quasi rivinse.

"Quasi, già. Perché dovevo gareggiare con Al di là. Ma l’etichetta decise che avrei dovuto cantare Un uomo con l'emergente Gino Paoli. Arrivammo decimi. E Al di là vinse, cantata da Luciano Tajoli e Betty Curtis".

Poi però al Festival è tornato solo una volta, nel 1964, con Come potrei dimenticarti.

"Mica per scelta mia. Ho mandato tante canzoni, non mi hanno mai preso. Nel 2008 avevo un brano con Teo Teocoli, niente. Ma pensi che me ne scartarono addirittura uno scritto da Totò. Vuole saperne di più?".

Eccome!

"Era il 1962, mi arrivò una sua telefonata e quasi svenni. Mi invitò a casa sua a Roma, nel salotto al pianoforte c’era il maestro Pregadio, quello della Corrida di Corrado, che la suonò. 'Se la incidi ti do un milione', mi disse Totò. Ovviamente accettai. Ma a Sanremo non la presero e non se ne fece più niente. Anzi, la canzone si è proprio persa, peccato, non so più neanche il titolo".

Ma lei di incontri ne ha fatti tanti, uno per tutti la donna per eccellenza, Marilyn Monroe.

"Conosciuta solo, purtroppo, ma stavo per farci un tour assieme. Ricordo ancora la scena. Ero a New York nel 1962, in una sala zeppa di addetti ai lavori, mi presentano questa donna piccola, minuta, non l’avevo neanche riconosciuta, avvolta in un foulard. Ma bastava guardarla pochi secondi per dare i numeri. Profumava di donna, uno sguardo sexy come non ne ho mai visti, le ho dato la mano e non me la sono lavata per una settimana. Qualche mese dopo, la trovarono morta. Però con Jane Russell, altra icona sexy, il tour l’ho fatto, nel 1961. Girammo assieme l’Italia, facemmo anche il veglione di Capodanno alla Bussola di Pietrasanta, tutto il pubblico le gridava 'Nuda! Nuda!'. Ma ne ho conosciuti all’epoca. Perry Como, crooner italoamericano popolarissimo da noi perché il suo show veniva trasmesso dalla Rai a canale unico. Mi guardò e mi disse: Ma tu sì famoso, lui, a me. I Platters, proprio i miei idoli, con cui ci scambiammo Come prima e Only you. E Dean Martin, che mi abbracciò e mi disse paisà!. Ero un divo vero all’epoca".

Poi tutto finì quasi di botto, già a metà anni Sessanta. Perché?

"Perché sono stato vittima del revival, in tv mi invitavano, ma sempre a cantare quelle 3-4 canzoni di anni prima e man mano il tempo passava e le mode musicali cambiavano. Alla fine ho preferito ritirarmi e dedicarmi all’altra mia grande passione, la pittura. Molto più di un hobby: ho un atelier, faccio mostre personali in giro per Milano e non solo, sono stato amico di artisti come Fontana, Crippa, Baj. Ma le dirò di più: da ragazzino fui a un passo dallo scegliere la carriera di pittore invece che quella di cantante".

Cosa la fermò?

"Risposta banale: i soldi. Ero l’ultimo di cinque figli, iscriversi all’Accademia di Brera costava 10.000 lire all’anno, che non avevamo. Me la tenni come passione, ricordo ancora l’emozione, vedendo nella vetrina di una galleria d’arte alle Colonne di San Lorenzo un quadretto di Picasso. Però a inizio anni Settanta decisi di darmi all’arte e la mia prima personale fu introdotta da uno scritto di Dino Buzzati. Forse fu incuriosito dalla mia doppia anima di pittore e cantante. Fu generoso sotto molti aspetti con me, non solo di complimenti. Pensi che mi insegnò anche a sciare. Ma tutti gli artisti sono stati amichevoli con me".

Però lei era stato un divo della canzonetta, proprio musica commerciale. I pittori non erano snob?

"Per nulla. I musicisti sì che erano invidiosi. Ma i pittori mi invitavano nei loro atelier per mostrarmi gli ultimi lavori. Tante cose le imparai lì. Soprattutto da Fontana, che ammirai eseguire i suoi tagli dal vivo. Ricordo una massa di tele squarciate sul pavimento e mai ho avuto il coraggio di chiedergliene una, bel pirla che sono stato".

Lei che stile ha?

"Astratto, amo dipingere lo spazio inteso come quel vuoto oscuro che divide stelle e pianeti dove ognuno di noi cerca una traccia del divino. In silenzio, senza urlare, che per un urlatore è un bel paradosso".

Arriviamo all’oggi, però. Perché un ritorno in sala di incisione l’ha appena fatto.

"Sì, un giovane rapper siciliano, Mak, ha scritto una canzone, Anime, e mi ha chiesto di cantarla assieme. Mi è piaciuta perché racconta di un ragazzo contemporaneo, i suoi desideri, le paure, le speranze e la speranza la interpreto proprio io, come se fosse un dialogo tra generazioni, noi anziani con la saggezza, i giovani con l’energia. E poi non è un rap di quelli che fanno casino, insopportabili".

E a parte questo non canta più?

"Come no. Alle vernici delle mostre mie e di altri artisti. 'Ecco, Tony, abbiamo visto i quadri, adesso ci canti qualcosa?'. Ma lo facevano anche Crippa e Fontana. Fa parte del gioco e io mi diverto sempre. Ho la fortuna di prendere la vita con allegria".

·        Tony Sperandeo.

Dagospia il 9 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Tony Sperandeo e intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attore siciliano ha raccontato: "Con questo Coronavirus ormai gli orari sono tutti sballati, si mangia di più, si dorme male, ci si sveglia di notte. Almeno per me e cosi, ormai dormo a puntate, il sonno e una fiction. Sono preoccupatissimo per il nostro settore, noi siamo con le spalle al muro. Io poi ho un enfisema polmonare, in estate mi facevo diversi spettacoli, quest'anno me lo posso dimenticare". A proposito di se, Sperandeo ha raccontato: "Io forse ci sono nato, attore. Il mio primo film l'ho fatto a 29 anni, ho iniziato tardi. Pero poi ho galoppato e dagli anni '90 fino ad inizio 2000 ero nei migliori film prodotti in Italia". Sul film "I cento passi", in cui interpreta il boss Tano Badalamenti: "Oggi faccio sessantasette anni, non sono vecchio, ma sono talmente scontato a fare il mafioso che adesso prendono altri che non sono bravi come me. Mi hanno inflazionato troppo nel ruolo del mafioso. Mi da fastidio, poi, che spesso noi siciliani siamo identificati a fare sempre i mafiosi. Noi siciliani dobbiamo interpretare i mafiosi. E' una cosa che non condivido affatto. Io comunque quando ho fatto la Squadra ho interpretato un ruolo di un personaggio con gli attributi. I cento passi? Ho avuto qualche battibecco col regista, pero lui non ha sbagliato una virgola, ha fatto un capolavoro. Marco Tullio Giordana e un grande regista. Racconto un dietro le quinte: in fase di preparazione io e lui andammo a trovare la mamma di Impastato, a Cinisi. C'era anche il fratello Giovanni. Quando le dissi che io avrei interpretato Badalamenti, voleva cacciarmi di casa. Più volte per strada mi e capitato di essere confuso con i personaggi che interpretavo. Molte volte mi chiedevano se ero veramente cattivo, se ero veramente mafioso, o se avessi la pistola. Comunque, tornando a Cinisi, quando ce ne andammo da casa di Impastato, per tornare a Palermo, ci fermarono due signori di Cinisi che mi dissero di fare buono lo zio Tano, testuali parole, perchè secondo loro era un cristiano che meritava. Io me la sono fatta addosso". Ancora su quel ruolo: "L'ho fatto bene, cosi bene che ci ho vinto il David di Donatello. La battuta 'si nuddu miscatu cu nnenti' ce l'ho messa io. Io su quel monologo ho vinto il David. E forse anche per tutti i ruoli che ho fatto in Mary Per Sempre, Palermo Milano solo andata e La Piovra".

·        Tony Vilar.

Carlo Grande per "La Stampa" il 17 agosto 2020. «Hay clarito de luna» cantava Tony Vilar, cantava «E la noche oscura» e soprattutto «Cuando calienta el sol». Voce flautata, folta capigliatura e fisique du rôle, da latin lover. Urlavano le ragazzine e si innamoravano le folle sudamericane. Chi è Tony Vilar? E soprattutto dov' è finito? Perché è scomparso improvvisamente? Il nome, intanto: Tony Vilar non è quello vero, è nome d'arte. È quello di Antonio Ragusa, calabrese, partito per Buenos Aires all'inizio degli anni 50 per non fare il muratore e menar vita grama nel Meridione. In Sud America fece fortuna - concerti memorabili, folle in delirio, una canzone che diventa hit mondiale - finché, all'apice del successo, dopo un concerto sparì, nel 1978, inghiottito da chissà chi o chissà cosa. Rapimento, depressione, debiti, donne? E chi lo sa? Un senza patria, Tony Vilar: emigrante due volte e due volte esule, prima dall'Italia e poi dal Sudamerica, prima personaggio pubblico e poi uomo nell'ombra, che abdica dal trono di star melodica. Un film-documentario del 2006, ironico, fresco e appassionante come le opere prime, svelò un mistero durato trent' anni: è La vera leggenda di Tony Vilar del calabrese Giuseppe Gagliardi, regista televisivo di successo e sceneggiatore, che ha diretto tra l'altro 1992 e Non uccidere. Il suo road movie è ambientato fra gli italo-americani dei Tre Mondi, perché il protagonista del film, Peppe Voltarelli, va in Sud America e Nord America a cercarlo: «I parenti erano di un paese vicino al mio», dice il regista, «Peppe aveva incontrato la sorella di Tony nel Bronx, durante un concerto». La ricerca parte da Buenos Aires, nella Boca, barrio degli artisti di strada e della Bombonera, lo stadio del Boca Junior. «Xeneises» sono i tifosi, perché era il quartiere degli immigrati genovesi: «a 'buka», in ligure, è la foce del fiume Riachuelo, che entra nel Rio della Plata. Don Patania accompagnava Tony nei concerti: «Carino, passionale, un vero cantante, lo conoscevano tutti in Cile, Uruguay, Ecuador, Argentina, Venezuela Guadagnava muy buena plata», aveva fatto un mucchio di soldi.  «Incise l'ultimo disco in Ecuador, Hola querida, poi non l'ho più visto». Voltarelli lascia la Boca e i ballerini e i cantanti di tango («la voce di tutti gli sconfitti» scrive Borges) e trova l'ex moglie Mabel Landò, attrice, che non vede Tony da trent' anni e forse è ancora innamorata di lui: «Non como ante», non come prima, sospira, non sa perché si separarono: «Ha avuto un piccolo problema, per lui è diventato gigantesco I capelli. Alla fine di un concerto hanno scoperto che era calvo, è caduto il parrucchino, mi ha chiamato alle quattro del mattino. Piangeva, lui che cantava Los cielos lloraron». Può finire una carriera strepitosa per un parrucchino? Forse zia Celeste sa qualcosa, ha un numero imprecisato di nipoti e di ognuno conserva foto di battesimo, cresima e matrimonio. Macché, si va dall'amico Totonno e di confidenza in confidenza, fra tangueros e milongas (al Tortoni ad esempio, dove si può capire cos' è il Duende di Federico García Lorca), bisogna volare a New York, da Tony Pizza, alias Antonio Aiello, uomo di panza che a Brooklyn ha messo in piedi 34 pizzerie e perso quasi tutto al gioco. Presenta gli amici degli amici, è una girandola di abbracci, baci, macchinoni e catenazze, «certo che lo conoscevamo, lo chiamavamo "l'argentino", l'abbiamo perso di vista». Altre «personalità» italiane del Bronx, che sembrano uscite da un romanzo di John Fante o da una canzone di Fred Buscaglione, conoscono qualcuno che sa dov' è finito Tony Vilar. Altre strette di mano, anellazzi e collettoni, la ricerca brucculina - sembra di sentire Saul Goodman in Breaking Bad, «conosco un tale che conosce un tale» - approda finalmente a Connie Catalano e Sal di Little Italy, barbiere di Bob De Niro e amico di Gilda Ragusa, sorella di Tony: bingo! Gilda spiega dov' è finito il bel Vilar, leggenda del «melodico» anni 60: vende macchine usate sulla Tremont Avenue, eccolo tra le auto con il berrettino di cuoio, scarpe bianche a punta e camicione a fiori. Confessa: «A 24 anni ero diventato calvo, io, l'idolo della gioventù Mi ha depresso, così ho lasciato Tony Vilar in Argentina, voi lo cercavate ma qui c'è Antonio Ragusa, che si è nascosto dietro alle auto usate È stato un periodo importante della mia vita, ma è tramontato». Tony Vilar ha giocato con il suo destino e quando ci ripensa gli viene da piangere. Ma come si fa a mollare tutto per un parrucchino? Ebbene, guardatelo fendere la folla alla fine del concerto, alto, sorridente, mentre il braccio di un'ammiratrice si allunga, tocca una ciocca di capelli, gli strappa la parrucca. È il dramma: Tony, ferito nell'amor proprio, sparisce. Non dite «nel nulla», il nulla è una convenzione. Tony è ancora un grande, ha provato vergogna, per questo lo amiamo ancora, qualcuno riesce ancora a vergognarsi. Adora sempre la musica e grazie al film ritorna in Italia, quasi sessant' anni dopo, smette di nascondersi, accetta il suo destino. Cosa bisogna fare quando il boss della Sony che fa di te un idolo si chiama Bald, «calvo», e i fremiti di passione sulla spiaggia promanano dal viso, dal corpo, dai baci e dai capelli, «Cuando calienta el sol»?

·        Tosca Tiziana Donati.

Sanremo 2020, Tosca su Rita Pavone: "Io? Sono di sinistra". Tiziana Tosca Donati parteciperà al Festival di Sanremo e sulla collega dice: “Io sui social network dico cose a lei opposte…" Pina Francone, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Tosca e Rita Pavone sono le ultime sorprese della Settantesima edizione del Festival di Sanremo, in programma nella città dei fiori dal 4 all'8 febbraio. Con la loro partecipazione, i cosiddetti "big" in gara al Teatro Ariston sono passati da ventidue a ventiquattro. Come noto, la scelta di Amadeus – conduttore e direttore artistico della tradizionale kermesse musicale – ha sollevato un mare di polemiche. Non tanto per la decisione di Amadeus fuori tempo massimo (o quasi), quanto, invece, per il profilo di Rita Pavone. I soliti benpensanti hanno voluto attaccare l'artista per le sue simpatie politiche di destra e c'è chi ha addirittura gridato al "Sanremo sovranista". Solo perché la Pavone non è allineata all'intellighenzia come molti altri…La diretta interessata, intervistata dal Corriere della Sera, ha così commentato il tutto: "Purtroppo siamo in mezzo a gente non sana. Forse si capirà perché sono mancata per ben quarantasette anni dal Festival di Sanremo. Sovranista io? Mi definisco liberale. Guardo le cose, non il partito cui appartiene chi le dice. Sono profondamente italiana: vivo in Svizzera, come Mina, De Benedetti o Tina Turner, e ho il doppio passaporto, ma le mie radici sono in Italia. Mi preoccupo del mio Paese anche se non ci vivo. Se questo è essere sovranisti, per me è tenerci al proprio Paese di nascita". Tosca, invece, di dichiara orgogliosamente di sinistra. Ospite a L'ora di punta su Radio Capital, Tosca è stata pungolata dai conduttori Andrea Lucatello e Benny: "Ma tu nei tuoi social, Twitter, Facebook, Instagram, non hai mai scritto una cosa contro qualcuno?! Dai, vogliamo fare un po’ di polemica…niente?". La cantante ha così risposto: "Guarda, facciamo così: par condicio! Rita (Pavone, ndr) ha detto delle cose e io le dico opposte. Se tu vai sui miei profili vedrai che io sono di sinistra. Ecco, resta da capire quale sinistra ormai...questo è un bel problema!". Quindi, in radio le chiedono: "A quale sinistra ti senti più vicina?". E replica così: "Diciamo…ecco, sono della Garbatella e sono cresciuta con una generazione di politici che vengono da lì, come Massimiliano Smeriglio e Amedeo Ciaccheri. Una sinistra arcobaleno, che forse ora non esiste più. Ma sono sicuro che adesso si ricompatterà". Prima dei saluti finali, c'è tempo e spazio per un ultimo tentativo dei conduttori: "Ora monitoriamo le anzie, perché Matteo Salvini ti darà contro sicuro...". Un tentativo che Tiziana Tosca Donati svicola così: "Ma io non ho parlato male di lui, ho parlato bene di altri…".

Da leggo.it l'1 febbraio 2020. Tosca partecipa nella categoria big della settantesima edizione del Festival di Sanremo con la canzone Ho amato tutto, scritta e arrangiata da Pietro Cantarelli. «Voglio portare idealmente su quel palco tutta la musica di “nicchia” - dice l’artista - tutti gli artisti della famiglia di cui faccio parte. Quelli un po’ in ombra che lavorano a testa bassa, che macinano km e km, quelli che ogni giorno si sentono dire che meriterebbero di più, sì proprio quelli lì». Tosca, che nel 1996 ha vinto il Festival con il brano Vorrei incontrarti fra cent’anni, torna a Sanremo a tredici anni di distanza dall’ultima esibizione con il brano Il terzo fuochista. Stavolta, spiega la cantante «porto con me idealmente tutte le donne artiste con cui ho condiviso il palco e le emozioni in questi anni. Quelle che nonostante le chiusure, lavorano sodo, sorridono, sono mamme, compagne, rocce e sognatrici. E non mollano mai». A proposito di donne, Tosca ha chiarito in un'intervista a Leggo a firma di Totò Rizzo - che anticipiamo - il suo punto di vista sulla polemica innescata sulle accuse di sessismo al direttore artistico Amadeus e dalla partecipazione al Festival del rapper Junior Cally: «Tutto così esagerato. Si è invocata la censura. Ma diciamo sul serio? Stiamo a guardare il dito e non la luna? E lo svilimento della donna ogni giorno in tv allora? Le telecamere sempre puntate su tette e culi? È da lì che bisogna partire, è un fatto di cultura». Tosca ha al suo attivo nove dischi in studio e sei live. Della sua prima partecipazione al Festival di Sanremo, nel '92 in gara tra i Giovani, ricorda cosa le disse Luca Barbarossa (vincitore tra i Big quell'anno con Portami a ballare) subito dopo l'eliminazione: «Mi incrociò dietro le quinte - racconta a Leggo - e mi disse “mi piace come canti, lasciami i tuoi recapiti”». Il suo ultimo lavoro in studio Morabeza è uscito a ottobre 2019 ed è nato al termine di lungo viaggio attraverso i paesi del mondo, partito con Il suono della voce (2014) e Appunti musicali dal mondo (2017). L’album, prodotto e arrangiato da Joe Barbieri, contiene canzoni originali, rivisitazioni in chiave attuale di classici della musica dal mondo, cantate in quattro lingue con grandi artisti che Tosca ha incontrato in questo viaggio: Ivan Lins, Arnaldo Antunes, Cyrille Aimée, Luisa Sobral, Lenine, Awa Ly, Vincent Ségal, Lofti Bouchnak, Cèzar Mendes, Gabriele Mirabassi e Nicola Stilo. Poggiato su tre solidi elementi, ricerca, lingua e suono, il disco costruisce un ponte fra la radice italiana e le musiche d’altrove. Francese, portoghese, arabo, italiano e romanesco: una colorata giostra poliglotta, una miscela fra saudade e alegria che celebra l’intreccio e la contaminazione fra i popoli, l’accoglienza e l’ascolto come via di salvezza. Negli ultimi tre anni Tosca ha girato il mondo con il suo spettacolo (Algeria, Tunisia, Brasile, Francia e Portogallo). Questa tournée mondiale è stata lo spunto del documentario Il suono della voce (prodotto da Leave Music e Rai Cinema) per la regia di Emanuela Giordano, presentato in anteprima assoluta nella sezione Alice nella Città, all’interno della Festa del Cinema di Roma 2019. Un lungo cammino senza frontiere intorno alla musica e alle parole che si è arricchito nel tempo di collaborazioni illustri fra cui Marisa Monte, Ivano Fossati, Ivan Lins, Alice Caymmi, Rogê e molti altri. Da sempre attenta ai giovani e alla formazione, dal 2015 è coordinatore generale e direttore della sezione canzone dell’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, laboratorio di alta formazione artistica e Hub Culturale della Regione Lazio. Dopo la partecipazione al Festival di Sanremo, da marzo 2020 Tosca tornerà protagonista sui palchi dei teatri italiani e di molte città europee con il Morabeza Tour.

·        Traci Lords.

Barbara Costa per Dagospia l'11 settembre 2020. “Volevo solo far incazzare mia madre”: tu c’hai mai creduto, alla sua versione innocente? Oppure sei con me tra quelli sicuri che fosse lucidissima e consapevolissima di quel che faceva? Dopo 35 anni, siamo ancora a parlare di lei, di Traci Lords, anche se lei stavolta non parla ma gli altri di lei sì, in "C’era una volta… nella Valley", podcast USA che riapre la polemica. Cari moralisti anti-porno, a me gli occhi: se c’è stato un momento in cui il porno ha sul serio rischiato di finire in galera, è stato ad opera di Traci Lords, la ragazza dagli orgasmi gridati, colei che gli uomini a cavalcate li sfiniva, ma pure colei che ha quasi mandato il porno a gambe all’aria, fregandolo con questa bugia: quando lei ci dava sotto, sui set, a pornare, aveva la proibita età di 15 anni! Traci Lords nel porno non entra vergine, a 14 anni è incinta e abortisce clandestinamente, e per fare la modella si procura una patente di guida falsa, dove risulta che di anni ne ha 20. Ed è con questa identità che lascia casa e scuola, e posa nuda: in pochi mesi è su "Penthouse", e gira porno non penetrativo. In due anni gira 75 porno hardcore, con penetrazioni e tutto, 75 non scene ma veri film, film interi, tra cui vari lesbo. Traci diventa famosa, ma famosa sul serio, anche fuori dal porno: il suo viso e il suo corpo (anche vestito) sono sulle copertine di riviste di ogni tipo. Traci va in tv, rilascia interviste, con il suo volto pulito e la sua boccuccia a cuore, fotte tutti: all’interno del porno nessuno sa la verità anche perché nessuno – colleghi, registi, produttori – la conosce davvero: Traci non li frequenta, non va a cene né a feste. Nessuno sa la verità tranne la sua famiglia, che Traci riempie di denaro assicurandosene il silenzio. Coi soldi che non smette di accumulare (per anni è la pornostar più pagata, 1000 dollari al giorno!) si mette in proprio, sempre con la sua identità falsa dà vita una sua casa di produzione, la "Traci Lords Company". Alla patente falsa abbina un certificato di nascita falso, e con un passaporto falso vola in Francia, dove gira uno dei suoi porno più riusciti, "Traci, I love you". È tra i suoi ultimi porno, perché l’FBI è alle porte: di casa sua, che setaccia, per poi passare alla sede della sua casa di produzione, e delle compagnie per cui gira. Non si sa chi abbia fatto la spia (alcuni malignano Traci stessa, per uscire dal porno, o per mettere fine alla messa in scena con qualche immunità; altri sostengono che agenti l’hanno incastrata spacciandosi per suoi fan), comunque l’FBI ora sa la verità: la ragazza ha girato porno da minorenne, e con documenti falsi. Secondo l’FBI chi le da lavoro sa, è suo complice, è con lei ma più di lei colpevole. Il reato è comprovato dai film girati, stampati, e distribuiti, e specie dal porno "Those young girls". Dice l’accusa: lo avete intitolato così apposta, perché sapevate della giovane età delle protagoniste, e della minore età della Lords. Il porno è in ginocchio: tutto il materiale girato è sequestrato, gli studios perquisiti, chiusi, l’agente di Traci è arrestato, i boss del porno sono nei guai. Rischiano 10 anni di carcere. E non solo. È nei guai chiunque possieda materiale porno con Traci Lords: i fotografi, i giornalai che ne vendono riviste e vhs, i proprietari di videoteche, i noleggiatori, i cinema a luci rosse, chiunque abbia in casa una videocassetta porno con Traci Lords. Era minorenne quando ha girato quei video, sicché niente da fare: è detenzione di materiale pedopornografico. È il panico, e milioni di vhs con Traci sono distrutte (le rarissime copie originali sfuggite, quasi introvabili, oggi costano una fortuna), e sono milioni i dollari che il porno da tale "rimozione" ci perde. Il porno deve vedersela in tribunale. È sotto accusa di averla drogata, manipolata, abusata, ed è sotto accusa sui giornali, in tv, nell’America di Reagan che crea una commissione anti-pornografia per coccolarsi i voti delle leghe religiose nel pieno di un non ricordo quale revival di fede. Traci Lords pubblica "Underneath it all", autobiografia bestseller in cui rivela che ha detto la verità “due settimane dopo avere compiuto davvero 18 anni” perché stanca dei ricatti della sua famiglia. Dice che non ha mai voluto diventare famosa, che tutto il casino mediatico non l’ha resa ricca, anzi, si lagna che dai film porno ha ricavato “solo 35 mila dollari” (sì, vabbè!), e solo 5 mila per le foto nuda su Penthouse. Va pure a confessarsi mortificata e "redenta" da Oprah Winfrey, dicendo di essere stata da piccola vittima di abusi in famiglia. In altre interviste però ritratta, dice di non aver mai avuto problemi a fare porno, sebbene fosse una ragazzina: ha sfruttato il suo potere sessuale per ottenere ciò che voleva (“il sesso è un mezzo, è il mezzo: sono stata sconsiderata, certo, ho anticipato troppo i tempi, ho fatto tutto e subito. È stato bello provare tutto, ma non tutto insieme. Volete mettermi sotto processo per tutta la vita?”). Alla fine, il porno si salva così, con questa botta di c*lo: i suoi avvocati scoprono il vero nome della Lords (Nora Kuzma) e che il nome e i dati anagrafici che ha usato per costruire i documenti falsi li ha rubati a una vera e ignara Kristie Nussman e – cosa fondamentale – dimostrano che, con gli stessi documenti falsi con cui Traci ha ingannato il porno, ha ingannato la stessa America che mette il porno sotto accusa. Infatti è esibendo i medesimi documenti falsi che Traci ottiene dallo Stato il rilascio del passaporto per andare a girare porno in Europa. Traci se la cava con una multa per evasione fiscale: lascia il porno, studia recitazione, ed è ad oggi tra le pochissime ex pornostar a essersi costruita una carriera cinematografica fuori dal porno di tutto rispetto: tanti film, e numerosissime partecipazioni a serie-tv di successo anche qui in Italia ("Melrose Place", "Pappa e Ciccia", "Will & Grace", "MacGyver"). Ha fatto reality e incursioni nella musica, e un suo disco, "1000 Fires", è stato lodato dalla critica. Traci Lords si è sempre rifiutata di tornare nel porno, e di girare scene di cinema non porno velatamente hot (tranne un topless). Tre matrimoni, un figlio di 13 anni che, ci scommetto, sul web, qualche scena porno della mamma l’ha già vista. Oggi Traci Lords è Traci Lords pure sui suoi regolarissimi documenti. Avrà detto bugie, ma io insisto, non era manovrata né altro: guarda come si "mangia" l’obiettivo, ti pare davvero una sprovveduta? E non dar retta a chi nel podcast si professa sua ex collega e amica: nel porno, non c’è stata donna più invidiata di Traci Lords. Con quel corpo, quella grinta, (e con quei compensi), come avrebbe potuto essere altrimenti?

·        Uccio De Santis.

Incidente per Uccio De Santis: «Ringrazio Dio che mi vuole in vita». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Non ha passato il Capodanno nel locale dove doveva intrattenere il pubblico a Vasto Marina in provincia di Chieti, ma in un letto d'ospedale. Il comico pugliese Uccio De Santis, 54 anni, la sera di San Silvestro è stato coinvolto in un brutto incidente stradale sulla via provinciale che collega Bari a Bittrito, nei pressi dello stadio San Nicola. La sua automobile si è ribaltata e dall'immagine del veicolo che il comico ha postato su Facebook il mezzo è ridotto a un ammasso di lamiere accartocciate. È un miracolo che ne sia uscito vivo, come lui stesso racconta sui social mostrando le sue condizioni nel letto dell'ospedale e quelle del luogo dell'incidente. Anche il conducente dell'altra automobile che si è scontrato con De Santis è rimasto ferito. Prima di andare a Vasto per il Capodanno il comico doveva andare a Trani e poi da lì in direzione del locale per la serata. «In tanti mi avete scritto preoccupati per l’incidente che ho avuto nel pomeriggio (ore 16.51 ) — scrive si Facebook —. Certo vedendo la macchina mi risulta strano essere qui a scrivere... ringrazio il signore che mi vuole ancora in vita... ringrazio tutti voi che mi volete bene... chiedo scusa a tutto il pubblico che mi aspettava a Vasto Marina al Panfilo ( erano davvero tanti ) e a tutti gli amici di Trani che avrei dovuto raggiungere dopo la mezzanotte... ne avrò per un po’ ma sono strafelice di poterlo raccontare... un abbraccio a tutti e spero che sia per tutti un fantastico 202o». Sul post gli auguri di buon anno si sommano a quelli di pronta guarigione da parte di amici e fan: circa 300 mila i commenti sotto le due foto e oltre 90 mila i like e i cuoricini di chi lo sostiene con l'affetto.

Uccio De Santis in ospedale dopo l'incidente di Capodanno: "Ringrazio il Signore se sono vivo". Lo scontro in auto all'altezza dello stadio San Nicola, il comico era diretta a Vasto e poi a Trani dove era atteso per il Capodanno. Messaggio su Facebook: "Strano essere qui a scrivere..." Cenzio Di Zanni l'1 gennaio 2020 su La Repubblica. Incidente per Uccio De Santis. Il comico pugliese è rimasto coinvolto in un incidente stradale nella serata dì martedì 31 dicembre, mentre viaggiava sulla provinciale che collega Bari e Bitritto, nei pressi dello stadio San Nicola. Secondo le prime ricostruzioni, l'auto dell'attore si sarebbe ribaltata. Trasportato al Policlinico del capoluogo pugliese le sue condizioni non sarebbero gravi: "Ha una spalla fratturata", dicono i medici. De Santis era diretto a Vasto per la festa di piazza, poi avrebbe fatto tappa a Trani, per il Capodanno in piazza Teatro. "La performance di Uccio è saltata, cambia la scaletta, ma la festa si tiene regolarmente", hanno comunicato dal Comune. Il comico era atteso intorno alla mezzanotte, per poi passare il testimone a Serena Brancale e Francesco Baccini. A tranquillizzare i fan è stato lo stesso comico dall'ospedale: "In tanti mi avete scritto preoccupati per l'incidente che ho avuto nel pomeriggio. Certo vedendo la macchina mi risulta strano essere qui a scrivere... ringrazio il Signore che mi vuole ancora in vita...ringrazio tutti voi che mi volete bene.. chiedo scusa a tutto il pubblico che mi aspettava a Vasto Marina al Panfilo (erano davvero tanti) e a tutti gli amici di Trani che avrei dovuto raggiungere dopo la mezzanotte.. ne avrò per un po' ma sono strafelice di poterlo raccontare ... un abbraccio a tutti e spero che sia per tutti un fantastico 2020".

«Ho visto la morte in faccia»: Uccio De Santis parla dopo l'incidente, sarà operato nei prossimi giorni. Il comico si è ribaltato con l'auto a Bari, nei pressi dello stadio San Nicola. Era atteso per il brindisi di mezzanotte in piazza a Trani. Marco Seclì il 2 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Ho visto la morte in faccia e mi sento un miracolato». Uccio De Santis è felice di poterla raccontare. Anche se stavolta non si tratta di una delle esilaranti gag del Mudù. Il popolare attore-regista barese non dimenticherà facilmente l’ultimo giorno del 2019. Erano le 16.50 quando è rimasto vittima di uno spaventoso incidente sulla Bitritto-Bari, all’altezza dello stadio San Nicola. La sua auto si è più volte ribaltata e ora è ricoverato al Policlinico con una frattura scomposta all’omero. Oggi i medici decideranno se operarlo. Gli è andata bene, benissimo, perché i passanti che lo hanno liberato dalle lamiere avevano pensato al peggio. De Santis, alla guida di una Mercedes, era diretto a Poggiofranco, dove aveva appuntamento con un suo collaboratore. «Insieme - dice l’attore - dovevamo raggiungere Vasto per una cena-spettacolo per poi tornare di notte a Trani per uno show in piazza». Ma l’incidente ha mandato all’aria i piani. Colpa di un sorpasso. Un ventenne di Bitetto, che viaggiava da solo a bordo di un’Audi station wagon, ha superato l’auto dell’attore ma ha perso il controllo del mezzo, è andato a sbattere sul guardrail per rientrare sulla carreggiata colpendo la Mercedes del leader del Mudù. «È stato un attimo, non mi sono reso conto di quello che è successo - ricorda - so solo che la macchina si è capottata. Mi sono ritrovato a testa in giù con gli airbag scoppiati che mi impedivano di uscire. Un passante è riuscito ad aprire la portiera e sono uscito con le mie gambe. Ho subito telefonato a mia moglie per tranquillizzarla, poi ho iniziato ad avvertire un dolore alla spalla...». È riuscito anche a parlare con il giovane. «Era mortificato, ripeteva “è colpa mia, è colpa mia”». Poi entrambi sono stati portati in ospedale, anche se le conseguenze maggiori sono state per De Santis. E non solo fisiche. «Purtroppo - spiega - che debba essere operato o meno non potrò calcare le scene per almeno un mese e mezzo». Salterà, tra gli altri impegni, il tour che a fine gennaio avrebbe dovuto portarlo ad Alessandria, Milano, Torino e Bologna. «E sarò costretto a rinviare anche le riprese del nuovo Mudù, già in calendario e con una location già prenotata». Ma poco importa di fronte alla tragedia scampata. «Ringrazio il Signore», sottolinea. Di sicuro sarà confortato dall’affetto delle migliaia e migliaia di fan sparsi in tutta la Puglia e in tutta Italia. La foto postata su Facebook dal letto d’ospedale ha raggiunto in breve un milione e 800mila utenti e la stratosferica cifra di 50mila commenti. Non si contano le telefonate di amici e colleghi per sincerarsi delle sue condizioni. «Mi ha chiamato anche Ezio Greggio, amici da Chicago e da ogni parte d’Italia e non solo». Un affetto che vuole ricambiare quanto prima tornando a fare ciò per cui la gente lo ama. «A Vasto mi aspettavano 300 persone paganti. Mi dispiace molto non aver potuto esserci. Appena mi rimetterò in sesto farò uno spettacolo gratuito tutto per loro». E il Policlinico di Bari ha confermato che De Santis verrà sottoposto a un intervento chirurgico in questo bollettino sulle sue condizioni di salute: «Il sig. De Santis è affetto da una frattura pluriframmentaria scomposta da scoppio della scapola sinistra con importante versamento periarticolare. Dopo aver discusso con il paziente sui vantaggi e gli svantaggi dei vari trattamenti opzionabili è stato deciso di procedere per un trattamento chirurgico di riduzione e sintesi della frattura. L’intervento si svolgerà nei prossimi giorni. Potrà essere dimesso verosimilmente pochi giorni dopo l’intervento in assenza di complicanze e inizierà un periodo di riabilitazione, con tempi di recupero variabili tra i 30 e 40 giorni». Questo il bollettino medico diramato dall’unità operativa complessa di ortopedia e traumatologia universitaria diretta dal prof. Biagio Moretti. «Sto bene è stato tutto perfetto – ha dichiarato Uccio De Santis – Quando sono arrivato al pronto soccorso ho chiesto a tutti ma lavorate veramente il 31 sera? C’è stata la capo sala del pronto soccorso che è stata straordinaria, mi hanno fatto subito la Tac. Quando succedono queste cose ti rendi conto che c’è tanta gente che in queste giornate di festa lavora, lasciando le famiglie, non posso che ringraziarli». E i ringraziamenti al personale arrivano anche dal direttore generale del Policlinico, Giovanni Migliore: “La nuova struttura del Policlinico di Bari si conferma un punto di riferimento sicuro per il sistema di emergenza-urgenza della Puglia. Grazie di cuore agli straordinari professionisti del pronto soccorso, operatori sanitari, infermieri, medici e specialisti in formazione che con il loro entusiasmo e la loro competenza hanno dato tranquillità al nostro capodanno.

·        Umberto Smaila.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 3 agosto 2020.

Scusi Smaila, ad agosto va in vacanza?

«Ma no, spero proprio di lavorare tutti i giorni».

Umberto Smaila ha compiuto settant' anni a giugno dopo aver trascorso gli ultimi cinquanta a diventare un brand. Prima con i Gatti di Vicolo Miracoli, poi con il sexissimo programma di Italia 7 Colpo Grosso (considerato volgare da chi magari oggi fa una televisione molto più volgare) e dopo con un colpo ancora più grosso: gli Smaila' s, locali ormai di culto. «Ho iniziato nel 1991 in Sardegna a Poltu Quatu, sono stato il primo a portare questa formula in Costa Smeralda e lì in 18 anni sono venuti tantissimi grandi ospiti».

Lì ha iniziato a diventare un «brand» (ride, ndr) che vuol dire musica e divertimento. Per carità, formalmente è «un operatore in franchising» come spiega al ritorno dal nuovo Smaila' s di Tropea giusto prima di inaugurare il 5 agosto lo Smaila' s Magic sulla spiaggia Ira di Porto Rotondo. Stessa formula: cena e poi concerto. In pratica una ristoteca. Smaila, praticamente gira come una rockstar in tour.

«Ho tre band. Una per Milano, una per il Centrosud e una per la Sardegna. Ne avrei una anche per Sharm El Sheikh e per altri posti, ma per ora accontentiamoci visti i tempi. Diciamo che do un sacco di lavoro ai musicisti».

Categoria molto penalizzata dalla pandemia.

«E difatti mi sono incazzato l'altra sera quando, a tarda notte come al solito, Giuseppi ha prolungato fino al 10 agosto lo stop a discoteche, sagre eccetera. Un ulteriore danno economico del quale è difficile capire la ragione, che non può dipendere solo dai numeri dell'epidemia».

Voto all'operato del governo?

«Non sono mai stato favorevole all'operato di questo governo. E sa di che cosa mi stupisco?».

Di che cosa?

«Che la maggior parte dei miei colleghi non si lamenti quando, invece, ce ne sarebbe da dire...».

E perché questo silenzio?

«Perché quasi tutti, a parte me, Jerry Calà, Enrico Ruggeri e pochi altri, hanno votato i partiti che formano questa maggioranza».

Anche lei a dire che gli artisti sono tutti di sinistra?

«Sinistra? Per me non esiste più la sinistra. Zingaretti è di sinistra? E Renzi?».

E Renzi?

«È un boy scout democristiano».

Il suo più grande nemico?

«Il politically correct, insopportabile. E il conformismo. Einstein teneva i capelli lunghi proprio per questo, per essere anticonformista».

Dica qualcosa di anti conformista.

«Non sopporto Macron e molto di ciò che fa l'Europa. Giro tanto in mezzo alla gente e ascolto i loro pensieri. Tanti la pensano come me e quindi mi stupisco che Giuseppe Conte abbia il 62 per cento dei consensi».

Che cosa farebbe?

«Intanto andrei a votare. Spesso si ha l'impressione che i cittadini non contino come dovrebbero contare. Così è successo che con Berlusconi lo spread è stato portato alle stelle, adesso Salvini va sotto processo... Quando ho letto Sottomissione di Michel Houellebecq ho capito molte cose».

Si riformeranno i Gatti di Vicolo Miracoli?

«L'anno scorso abbiamo fatto Odissea nell'ospizio, un film nel quale Jerry Calà, al quale voglio bene come a un fratello, era il regista e io ho composto la colonna sonora».

Le colonne sonore sono una delle sue passioni.

«Ne ho fatte tante, adesso ne ho in programma una per un regista italiano, ma non posso dire altro».

Non ha detto altro neanche sulla reunion dei Gatti di Vicolo Miracoli.

«Siamo talmente giovani... Il nostro maestro Renato Pozzetto ha appena compiuto ottant' anni, magari quando li avremo anche noi...».

Qualcuno ha detto che Drive In di Antonio Ricci e Colpo Grosso con Umberto Smaila hanno rovinato la tv italiana.

«Tra loro mi sembra ci sia stata anche Concita De Gregorio. Beh, ciascuno è libero di dire ciò che vuole, ma certe affermazioni lasciano davvero il tempo che trovano».

È il politicamente corretto.

«In ogni periodo storico prende una forma diversa. Bernstein veniva criticato e umiliato perché era gay. Ma come? Un genio del genere, uno che ha composto le musiche di West Side Story? Ma scherziamo? Abbasso il conformismo».

Cosa cambia a settant' anni?

«Cambiano le prospettive».

Ad esempio?

«Se una sera la mia esibizione non è granché ma quella di mio figlio Rudy è andata benissimo, io sono contento lo stesso. Prima era diverso, ora mi interessano altre cose. Sono cambiate le regole del gioco».

Cosa ha fatto durante il lockdown?

«Intanto mi sono ritrovato chiuso in casa e per me è stato difficile. Allora ho cantato una canzone al giorno su Facebook. Alla fine sono quasi 100. Ora ho in programma di farne un video e anche un libercolo, Le cento canzoni secondo Umberto Smaila. Ho trovato anche un editore».

A proposito, qual è il suo repertorio?

«Da Buscaglione a Satisfaction dei Rolling Stones. Da Tutto in un attimo, che ho scritto per il Sanremo di Anna Oxa nel 1986, fino a Battisti, Vasco e Bennato. Io faccio le canzoni che conoscono tutti, quindi difficile che canti qualcosa degli ultimi Festival di Sanremo». (ride, ndr).

Come le sceglie per i concerti?

«Molto è improvvisato. Se c'è la luna, magari canto Guarda che luna. Se in platea c'è qualche persona non proprio altissima canto Eri piccola e via così. Divertimento. Io canto per far divertire. Maurizio Costanzo mi diceva sempre: Tu canti per il pubblico, non per te. Credo sia una forma di rispetto per chi viene a sentirti».

Sesso, droga o rock' n'roll?

«Nel mio caso sesso, vino e rock' n'roll».

Quale vino?

«Beh, sono di Verona e l'Amarone batte tutti».

Roberto Alessi, Direttore Novella 2000, per “Libero quotidiano” il 3 maggio 2020. In tv le Ragazze Cin Cin che hanno reso ciechi migliaia di italiani. Chiamo Umberto Smaila e mi dice: «Mediaset Extra ha rimesso in onda il mio Colpo Grosso con le ragazze Cin cin in topless, il programma che ha reso quasi ciechi milioni di italiani e son passati trent' anni». Esordì nel 1987 e fece scandalo. In tanti si chiedono che fine abbiano fatto le ragazze Cin cin. Molte hanno preso la strada del cinema apparendo in film vietati ai minori, altre hanno imboccato la strada dell' hard mentre le più fortunate si sono accasate. Comunque tutte sono felici, toccando ferro. Una certa Debora Vernetti è stata spogliarellista con il fantasioso nome di Orbetella, poi ha recitato in Paprika di Tinto Brass e in alcuni film per la tv negli anni '90. Esther "Amy" Kooiman, la "ciliegia" delle Ragazze Cin Cin (ognuna aveva il nome di un frutto) ha osato di più ed è diventata celebre come pornostar con il nome d' arte di Zara White. Altra strada ha preso la fotomodella svedese Jasmine Lipovsek, ha sposato il pilota di Formula 1 Ivan Capelli, ma ora è legata al grande industriale farmaceutico Sergio Dompè e, mi dicono, che sono pazzi d' amore. Ed è pazza d' amore anche Patrizia Zea, altra splendida ex ragazza Cin cin, che è la seconda moglie di Paolo Romani, che fu ministro nel 2010 del governo Berlusconi. Sul fronte dell' eros una volta ci accontentavamo di poco, oggi il programma fa solo tenerezza, ma nella mente dei ragazzi che ai tempi lo guardavano c' erano ben altri pensieri. Per ricordo sono rimasti loro gli occhiali. Sanità, grandi chirurghi del Sud assunti dalle cliniche private del Nord per attirare i pazienti.

"I virologi guadagnano e noi siamo disoccupati". Ma l'uscita di Smaila non piace. Umberto Smaila preoccupato per le sorti di chi lavora nel mondo dello spettacolo ed è costretto ad attendere la fine della pandemia, ma il paragone con i guadagni degli esperti che studiano e curano il coronavirus ha fatto arrabbiare la rete. Luana Rosato, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. L’intervento di Umberto Smaila a Mattino Cinque ha sollevato una serie di polemiche in rete: il popolo del web, infatti, non ha particolarmente gradito il paragone tra i guadagni degli esperti che si stanno occupando della pandemia e la crisi dei lavoratori dello spettacolo. Smaila, che così come molti altri colleghi sta soffrendo lo stop forzato a causa del coronavirus, ha espresso tutto il suo rammarico per la situazione venutasi a creare, manifestando una certa preoccupazione per le conseguenze economiche che ricadranno sui cittadini e su chi, come lui, lavora da sempre a contatto con il pubblico. Per il momento, e chissà per quanto altro ancora, ogni genere di esibizione musicale dal vivo è stata interrotta e Umberto Smaila si è detto amareggiato per la situazione drammatica in cui versa il mondo dello spettacolo. “Noi siamo in una fase drammatica della nostra vita artistica perché non possiamo esprimerci – ha commentato in collegamento con Federica Panicucci - , soprattutto quelli che come me fanno musica dal vivo”. Il riferimento di Smaila è a chi come lui lavora facendo serate dal vivo, ma anche a tutti coloro che lavorano dietro le quinte per rendere possibile la realizzazione dei singoli eventi. “Tutto questo comparto dello spettacolo è assolutamente fermo – ha aggiunto ancora - . Mentre gli esperti, i virologi, gli infettivologi, lavoreranno il doppio o il triplo e guadagneranno tre volte il loro stipendio, c’è gente come noi che rimarrà disoccupata per tanti mesi. A meno che non ci venga dato un aiuto, una mano, soprattutto per quel che riguarda le limitazioni che ci vengono poste in maniera drastica in questo momento”. Il paragone tra gli esperti che stanno lavorando alla ricerca di una soluzione che possa mettere fine al coronavirus e i lavoratori del mondo dello spettacolo, però, non è piaciuta ala rete e molti utenti si sono scagliati contro Smaila. “Se un virologo ci risolvesse il problema, penso che saremmo tutti concordi nel fargli una statua d'oro massiccio e offrirgli un cospicuo vitalizio, anche Smaila”, “Umberto, la prossima volta che nasci: studia”, hanno tuonato su Twitter, “Lavorare...c'è una strana concezione di questa parola”, “Posso anche dispiacermi per la gente come Umberto Smaila che rimarrà disoccupata per mesi (ma mi dispiaccio di più per albergatori, ristoratori, guide turistiche ecc.) ma la parte in cui si lamenta che virologi ed infettivologi guadagneranno il triplo è vomitevole, "E allora fatevi curare dai comici!”, "Potevi studiare medicina, invece che suonare la pianola al bBillionaire", " Smaila ha per anni guadagnato 30 volte lo stipendio di chi ha duramente studiato....non si lamenti troppo", hanno continuato a commentare in rete.

·        Umberto Tozzi.

Udine, trovata morta l’ex moglie del cantante Umberto Tozzi. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 da Corriere.it. All’Educandato Uccellis di Udine dove lavorava come collaboratrice scolastica erano preoccupati. La donna non si faceva viva da diversi giorni. Così qualcuno dei responsabili ha chiesto un controllo e ha chiamato le forze dell’ordine. Le preoccupazioni si sono rilevate fondate. Venerdì scorso Serafina Scialò, 63 anni, ex moglie di Umberto Tozzi dal quale ha avuto un figlio, è stata trovata morta nella sua abitazione dai carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile di Udine. A dare la notizia della sua scomparsa è stato «Il Messaggero Veneto». La Scialò non avrebbe fatto rientro sul luogo di lavoro da dopo le festività natalizie, senza darne avviso. La sua irreperibilità ha innescato la macchina dei controlli. Venerdì le forze dell’ordine e i vigili del fuoco hanno fatto irruzione nella sua abitazione. Dai primi accertamenti Serafina Scialò sarebbe morta per cause naturali. La donna aveva avuto una lunga relazione con l’artista Umberto Tozzi tra gli anni ‘ 70 e ‘80. Tozzi e la Scialò, originaria di Catanzaro, si erano uniti in matrimonio nel 1979 e dopo cinque anni di amore e la nascita di figlio maschio, Nicola Armando, si era separati nel 1984. La storia d’amore con il cantante risale al periodo in cui Tozzi era all’apice del successo con canzoni come «Gloria» e «Ti amo». Umberto Tozzi cantò anche insieme a lei il brano «Tre buone ragioni».

Lutto per Umberto Tozzi, ​trovata morta la sua ex moglie. La donna non dava sue notizie da alcuni giorni e i colleghi di lavoro hanno lanciato l'allarme. Il suo corpo è stato rinvenuto privo di vita nella sua abitazione di Udine. Novella Toloni, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Sono stati i carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile di Udine, con l'aiuto dei vigili del fuoco, a trovare il corpo senza vita di Serafina Scialò, 63 anni. La donna era stata sposata con Umberto Tozzi e proprio con il cantante italiano aveva avuto un figlio, Nicola Armando. A dare la notizia della tragica scomparsa della donna in anteprima è stato "Il Messaggero Veneto", che ha reso note le dinamiche del ritrovamento del cadavere. Serafina Scialò, classe 1956, lavorava come collaboratrice scolastica presso l'istituto Educandato Uccellis di Udine e proprio dal posto di lavoro sarebbe scattato l'allarme. Da giorni, infatti, la donna non si presentava al lavoro, così i colleghi preoccupati hanno dato l'allarme. La Scialò non avrebbe fatto rientro sul luogo di lavoro da dopo le festività natalizie e senza darne avviso. La sua irreperibilità ha destato più di un sospetto, innescando la macchina dei controlli. Nella giornata di venerdì 17 i carabinieri del Nucleo operativo di Udine e una squadra dei vigili del fuoco hanno fatto irruzione nell'abitazione della donna e, una volta aperta la porta, hanno fatto la tragica scoperta. Serafina Scialò aveva avuto una lunga relazione con l’artista Umberto Tozzi tra gli anni '70 e '80.Tozzi e la Scialò si erano uniti in matrimonio nel 1979 e dopo cinque anni di amore e la nascita di figlio maschio, Nicola Armando, si era separati nel 1984. Il cantante piemontese aveva poi ritrovato la serenità sentimentale accanto alla sua nuova compagna, Monica Michelotto, sposata nel 1995. Dalla sua seconda relazione è nata la figlia Natasha e il secondo e ultimo figlio di Tozzi. Difficile per il momento capire le dinamiche dell'accaduto, per il momento le autorità non hanno reso note le cause del decesso. Le ipotesi al vaglio degli inquirenti sono molteplici, anche se la più accreditata sembra essere quella della morte per cause naturali. L'ex moglie di Tozzi potrebbe essere deceduta in seguito a un malore improvviso. Il cantante non ha ancora rilasciato nessun commento sulla prematura scomparsa della sua ex moglie. La tragica morte di Serafina Sciarò arriva in un momento particolarmente importante per il cantante di "Gente di Mare", che tra poche settimane riprenderà il nuovo tour nei teatri italiani insieme al cantautore Raf con il quale ha cominciato un nuovo percorso musicale.

L’amica di Serafina Scialò: «Amava ancora Tozzi, è stato il suo unico uomo». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Domenico Di Pecile e Mario L. Fegiz. Gloria Cuzzi legata dall'infanzia con l'ex compagna del cantante trovata morta in casa: «Era una generosa, era anche facile approfittare di lei. Un incontro casuale sfociato in un’amicizia che non ha mai vacillato. Si erano conosciute casualmente perché erano vicine di casa. Serafina Scialò abitava in via Cividale; Gloria Cuzzi in una laterale poco distante. Un’amicizia consolidatasi nonostante le loro giovanili differenze. Gloria dice che era un po’ anarchica, creativa, mentre la sua amica era più impostata, seria, politicamente impegnata. Si vedevano poco perché Serafina dopo la rottura con Umberto Tozzi era rientrata a Udine, mentre Gloria aveva cambiato regione. E se gli incontri erano giocoforza poco frequenti, i contatti — prima telefonici e ultimamente soprattutto su Facebook – erano abbastanza assidui. «L’ultima volta che l’ho cercata era proprio a ridosso di Natale. Le ho scritto, ma non mi ha risposto. Ho visto anche che da qualche giorno non entrava in rete. Ho pensato che probabilmente si era riconciliata con suo figlio Nicola e che quindi volesse trascorrere in santa pace le festività, magari anche con altri parenti. Insomma, ero molto tranquilla. Poi, la notizia che mi è piombata addosso come un ciclone». Serafina probabilmente durante le vacanze ha sofferto più del solito la solitudine. Non si è fatta viva con nessuno ed è morta sola, nel suo appartamento udinese, portando con sé sofferenza, dolore, rancore che mai avevano allentato la morsa da quando il rapporto con il cantante era cessato. «Io penso, anzi, ne sono certa — afferma l’amica — che fosse ancora innamorata, nonostante tutto». Nonostante il doloroso strappo con il cantante di cui era stata la musa ispiratrice, nonostante la caduta in una sorta di girone infernale dopo i lustri della notorietà e nonostante la guerra giudiziaria con l’artista e il difficile rapporto con il figlio soprattutto quando, compiuti i 18 anni, aveva cessato di ricevere l’indennità mensile dall’ex compagno. «Sì, — insiste Gloria — non soltanto penso che fosse ancora innamorata di Umberto, ma sono anche certa che dopo che si sono lasciati nella sua vita non ci sia stato più alcun fidanzato». Quanto alle accuse di Umberto secondo cui l’ex compagna gli avrebbe sottratto 450 milioni di lire e che lui aveva rinunciato all’azione penale perché «era madre di nostro figlio», Gloria ribatte cosi: «Non lo so, mi sembra tutto così strano. So per certo che una volta rientrata a Udine Serafina ha sempre dovuto arrabattarsi economicamente. La mia amica era una generosa, era anche facile approfittare di lei. Mi ricordo con quale entusiasmo mi riferiva di come collaborava con Umberto, svolgendo di fatto anche il compito di commercialista». Una storia drammatica dalle mille sfaccettature, dalle doppie verità e dalle tante paure che Serafina ha tenuto per sé. Ieri, intanto, è arrivato il nulla osta della Procura alla sua sepoltura. Il pm Andrea Gondolo ha ritenuto il caso chiuso (morte naturale) e ha firmato il via libera alla restituzione della salma alla famiglia.

Il figlio di Tozzi: «Per anni non si è fatto vedere, dice falsità su mia madre». Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Candida Morvillo. Il figlio del cantante: «Ero in mezzo alle loro liti, sono cresciuto in fretta. Avrei preferito stesse zitto, lei non gli ha rubato soldi. E comunque non può più difendersi». «Io mi sono preso il mio posto nel mondo chiamandomi Nicola, non Tozzi. Ho un secondo nome e dico: piacere, Nicola Armando. Aggiungo Tozzi se proprio devo. E, se mi chiedono “parente di?”, rispondo di no». Nicola Armando Tozzi, 36 anni, finora, ha fatto di tutto per non parlare di suo padre Umberto, che ha visto poche volte. Troppo poche. Ma non si sente di star zitto dopo la morte di sua madre e l’intervista sul Corriere, in cui il cantautore dice che lei gli ha sempre impedito di vedere il figlio e che lo mandò sul lastrico. Per Serafina Scialò, Tozzi aveva scritto successi come «Gloria» e «Stella stai». Insieme dal 1979, avevano avuto Nicola nell’83, si erano lasciati nell’85. Serafina è stata trovata morta il 17 gennaio, nella sua casa di Udine, a 63 anni. Era collaboratrice scolastica e, dopo Natale, non era tornata al lavoro. Ora Nicola, che è uguale al papà, ma più alto, e molto pacato, dice: «Avrei preferito che mio padre non parlasse ai giornali di questioni di famiglia». Perché ha deciso di rispondere?

«Perché ha detto cose false e mia madre non può più difendersi. Non cerco notorietà, altrimenti avrei parlato prima: da quando ho cinque anni ho memoria di cose che o ti fanno o finire male o crescere in fretta».

Quali sono i primi ricordi?

«Le liti al telefono per interposta persona. I miei si parlavano solo tramite avvocati o parenti e io in mezzo: mamma mi ha sempre trattato come un adulto o l’uomo di famiglia. Mi portava dagli avvocati e, già a sei anni, mi diceva: prendi il telefono e chiama tuo padre».

Perché sua madre è morta così sola?

«Quando si è separata, è sprofondata nell’autodistruzione. Era stata bellissima, brillante. Faceva l’addetta stampa, anche per Donna Summer e i Village People. Però era fragile: se ferita, saltava su come un serpente a sonagli. Faceva sfuriate, era un terremoto. La rabbia si è acutizzata col tempo. Io ho dovuto capire che lei era insalvabile e potevo solo salvare me stesso. A periodi, come di recente, si rifiutava di vedere chiunque».

Suo padre dice che v’impediva d’incontrarvi. «Una volta o due venne e mamma non mi mandò, ma altre volte l’ho aspettato e lui non è venuto. Quando giocò con la Nazionale Cantanti qui a Udine, mi feci portare da mia zia. Avevo sei o sette anni, si negò. Fu un giorno amaro».

Dopo, che successe?

«Avevo forse otto anni, lui venne. In casa volavano emozioni negative, ero confuso, non volli andare, anche se lui era affettuoso. Dopo, ricontattarlo fu difficile. L’ho cercato io a un concerto, a 16 anni, e lo frequentai con la sua famiglia fra i 18 e i 21. Ma dopo, le poche volte, era col suo entourage, non aveva voglia di parlare».

L’ultimo incontro?

«Nel 2011. Era con persone che non c’entravano nulla e si parlò del nulla. Non rispose agli auguri di Natale del 2012 e neanche quando gli scrissi perché era in ospedale».

Ora l’ha sentito? «Per le condoglianze non ha chiamato».

Perché i suoi litigavano?

«Non avevano l’equilibrio per focalizzarsi sul mio bene senza farsi fuorviare dalla rabbia. Mia madre avrebbe dovuto mordersi la lingua, lui a volte avrebbe dovuto ingoiare».

Oggetto del contendere?

«Lui pagò il mantenimento solo quando glielo ordinò il tribunale e senza indicizzarlo. E avrebbe dovuto comprarci una casa che non comprò. Il tema sono sempre i soldi. Ora c’era bisogno di parlare degli assegni?».

Ha detto che sua madre gli rubò 450 milioni di lire. «È falso. Andò così: loro non erano sposati, lei era incinta, lui viaggiava tanto, perciò le diede due assegni in bianco per ogni evenienza. Quando mamma lo lasciò, cercava una casa in affitto, lui non si faceva trovare. Allora, esasperata, lei portò un assegno in banca, però poi non lo riscosse. L’altro assegno è stato una vita in casa. Lei non incassò mai niente».

Suo padre sostiene che la salvò da condanna certa.

«Assurdo. La denunciò ma ritirò la querela: lamentava la falsificazione della firma, ma sapeva che la perizia calligrafica gli avrebbe dato torto. Comunque a me non interessano i soldi, mi sono fatto da solo e, se fossi in difficoltà, non vado a cercare il gettone di presenza in tv, vado alla Caritas».

Che lavoro fa?

«Studiavo da avvocato, ma ho dovuto lasciare e rimboccarmi le maniche. Faccio un lavoro umilissimo di fatica, sono uno dei tanti che si alza presto, torna tardi ed è fiero di quello che fa».

Che rapporti ha con gli altri due figli di suo padre e sua moglie Monica, entrambi protagonisti di gossip e social?

«Non sono mai stato geloso e mi spiace se hanno un’idea sbagliata di me».

Cosa l’addolora di più?

«Che io ho sempre cercato di capire i miei, ma loro non hanno mai cercato di capire me». Vorrebbe ancora un rapporto con suo padre?

«Mi piacerebbe darci del tempo vero, io e lui da soli».

Da musa di Umberto Tozzi a donna delle pulizie: la parabola dell’ex moglie Serafina Scialò. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Luzzatto Fegiz. Il cantante: «Avrei potuto mandarla in galera per i soldi di cui si è appropriata, le firmai due assegni in bianco per i fornitori». L’amore fra Serafina Scialò e Umberto Tozzi era sbocciato negli anni 70. I due si erano sposati nel ‘79 e cinque anni dopo era nato il figlio Nicola Armando. Fu lei la musa ispiratrice dei primi grandi successi dell’artista: Donna amante mia, Tu, Gloria, Amo, Stella Stai. Ma come fu grande amore così fu drammatica la separazione del 1984. La Scialò, che viveva a Udine in via Dormisch si rifiutò sistematicamente di far incontrare padre e figlio come stabilito in sede di giudizio. Tozzi e il suo avvocato Maretta Scocca (moglie dell’ex presidente della Siae Giorgio Assumma) documentarono decine di viaggi a vuoto a Udine compiuti dal cantante suffragati da esposti e ricorsi. Tozzi confidava agli amici che la sua ex moglie aveva fatto una specie di lavaggio del cervello al figlio con una sistematica opera di demolizione della figura paterna. Si racconta che molto prima della separazione la Scialò si fece rilasciare un assegno in bianco per pagare un fornitore. In realtà lo pagò in contanti e trattenne l’assegno. Tempo dopo, quando i rapporti erano degenerati in guerra aperta, anche sull’affido del figlio, la Scialò mandò all’incasso l’assegno svuotando il conto di oltre 200 milioni di lire. «È una fine molto triste — ha commentato Riccardo Fogli amico e collega di Tozzi —. Essere moglie di una star e guadagnarsi da vivere facendo le pulizie in una scuola. La vita è strana e spesso spietata. Morire da soli così... Mi spiace per Umberto che è una persona buona e sensibile e un caro amico. La Scialò è stata un pezzo importante della sua vita di uomo e di artista».

Umberto Tozzi e l’ex compagna Serafina: «L’ho perdonata per il male che ha fatto a me e a nostro figlio». Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Luzzatto Fegiz. Il cantante: «Avrei potuto mandarla in galera per i soldi di cui si è appropriata, le firmai due assegni in bianco per i fornitori». «Non voglio commentare. Non intendo rilasciare interviste. L’ho perdonata per tutto il male che ha fatto a me e a nostro figlio». Così Umberto Tozzi in sala d’incisione a Montecarlo dove risiede. «Sono concentrato sul nuovo disco. Finalmente un album di canzoni nuove, dieci brani. In aprile torno in tour con Raf ancora per qualche mese. Poi ciascuno riprenderà la sua strada». «Voglio solo precisare — aggiunge Tozzi — che non mi sono mai sposato con la Scialò. Avrei potuto mandarla in galera per i soldi di cui si è appropriata. A suo tempo le avevo firmato due assegni in bianco per pagare dei fornitori. Lei li mandò all’incasso: uno era di 100 milioni, l’altro di 350 milioni di lire. Il giudice Mastrota, ricordo ancora il suo nome, era pronto a spedirla in galera con tre capi di imputazione fra cui truffa e appropriazione indebita. Ma anche se mi aveva lasciato sul lastrico io rinunciai all’azione penale: era la madre di mio figlio». Tozzi è uno degli artisti italiani che ha venduto più dischi (70 milioni). «Mi ritengo fortunato: ora che funziona solo la musica dal vivo chi ha un repertorio sempreverde come il mio raccoglie molte soddisfazioni». L’amore fra Serafina Scialò e Umberto Tozzi era sbocciato negli anni 70. I due si erano uniti nel ’79 e pochi anni dopo era nato il figlio Nicola Armando. Fu lei la musa ispiratrice dei primi grandi successi dell’artista: Donna amante mia, Tu, Gloria, Ti amo,Stella Stai. Ma come fu grande amore così fu drammatica la separazione del 1984. La Scialò, che viveva a Udine in via Dormisch, si rifiutò sistematicamente di far incontrare il padre e il figlio Nicola Armando come stabilito in sede di giudizio. Tozzi e il suo avvocato Maretta Scocca (moglie dell’ex presidente della Siae Giorgio Assumma), documentarono decine di viaggi a vuoto a Udine compiuti dal cantante suffragati da esposti e ricorsi. Tozzi confidava agli amici che la sua ex compagna aveva fatto una specie di lavaggio del cervello al figlio con una sistematica opera di demolizione della figura paterna. Così Tozzi per anni ha cantato con la morte nel cuore. Un filo di tristezza dietro gli acuti con un modo di cantare assolutamente unico su ritmi e melodie spensierate. Dietro l’esuberanza di molte sue canzoni un dolore che la nuova storia con Monica Michelotto (lei sì sposata), che gli aveva dato un altro figlio, Gianluca, era riuscita a temperare. «È una fine molto triste — ha commentato Riccardo Fogli amico e collega di Tozzi —. Essere la ex di una star e guadagnarsi da vivere facendo le pulizie in una scuola. La vita è strana e spesso spietata. Morire da soli così... Mi spiace per Umberto che è una persona buona e sensibile e un caro amico. La Scialò è stata un pezzo importante della sua vita di uomo e di artista».

·        Ursula Andress.

Cecilia Ermini per "iodonna.it" il 20 marzo 2020. Sono passati quasi 60 anni da quando Ursula Andress emergeva dalle acque come una Venere di Milo moderna – folgorando un semi-incredulo Sean Connery in James Bond: Agente 007-Licenza di uccidere. Un ingresso nella storia del cinema ormai leggendario, per il fisico, certamente, e perché si trattava della prima Bong girl in assoluto. Un’immagine talmente eccezionale puntualmente omaggiata dalla moda e da altre star – ultima in ordine di tempo Michelle Hunziker, conterranea di Ursula. Spericolata, sempre di corsa fra un set le foto dei suoi amori sbattuti in copertina, Ursula è stata un modello istantaneo di bellezza da subito. E anche il simbolo di una rivoluzione culturale e di costumi che nel 1962 si affacciava timidamente al mondo. Una delle prime attrici orgogliose di esprimere tutta la sua sensualità. Assiema a una libertà che nel corso degli anni ha sempre sfidato le convenzioni. E il destino quasi tutto già scritto di una vita che sembrava destinata a tutt’altro rispetto alla gloria del cinema.

I primi passi di una Bond Girl. Prima di sei figli cresciuti a cioccolato e religione protestante, Ursula Andress fugge prestissimo dalle noiose e rassicuranti strade del cantone di Berna. Destinazione Roma, in cui nei primi anni 50 cerca fortuna come modella e poi con qualche ruolo nella commedia italiana. Il cinema è l’ambito che le interessa veramente, e grazie a pazienza e perseveranza tipiche del suo temperamento elvetico, Ursula in breve riesce ad approdare a Hollywood. A metterla sotto contratto è la Paramount, che crede nelle potenzialità di questa europea, e spera nello stesso effetto ipnotico di Greta Garbo e Marlene Dietrich. Ma il “rapporto” fra la giovane attrice e la lingua inglese non decolla. Così come la sua carriera americana. Che sembra invece concentrarsi più che altro sull’amore. Con avventure da copertina accanto per esempio a James Dean. Una manciata di mesi di fuoco subito prima prima dell’incidente fatale dell’attore . E subito prima dell’incontro con il suo primo marito, John Derek. Poi diventato più noto al pubblico per essere stato il compagno di un’altra bomba sexy: Bo Derek.

«Quando esci dall’acqua… ». «È un mistero. Tutto quello che ho fatto è stato indossare un bikini – nemmeno così striminzito – e fischiettare. E il giorno dopo ce l’avevo fatta!» Così Ursula ha commentato i pochi minuti che l’hanno catapultata nello star System mondiale. Fu la stessa Ursula Andress a progettarlo, adattando i due pezzi alla propria sinuosa figura 90-60-90, e anticipando la rivoluzione sessuale imminente. Alla sua Honey Ryder, prima bond girl della storia in Agente 007 – Licenza di uccidere, del 1962, Ursula non presterà la voce – ancora troppo marcatamente svizzero/tedesca – ma “solo”  il corpo perfetto. Che in tante cercheranno di copiare, o omaggiare, senza lo stesso successo. Basti pensare a un’altra Bond girl, Halle Berry, che in La morte può attendere del 2002 proporrà una variante arancione del medesimo costume da bagno. Nei ruoli successivi Ursula non brilla mai per capacità recitative, ma a lei va bene così. Anche perché comunque riesce ad affiancare miti come Elvis Presley in L’idolo di Acapulco e Dean Martin in I 4 del Texas. L’apice però lo raggiunge nel 1965 con Ciao Pussycat, il film che riassume al meglio la cultura pop anni 60. Negli oggetti e nel set. Oltre che nei professionisti che coinvolge. Da un giovane Woody Allen scrittore a Peter Sellers (alle musiche di Burt Bacharach).

Le scorribande amorose. Tra un set e l’altro – compresa una capatina in Italia per il cult La decima vittima di Elio Petri – Ursula incontra nel 1965 il grande amore della vita: Jean-Paul Belmondo. Sette anni di passione travolgente e liti memorabili che riempiranno le cronache rosa dei giornali. «Con lui ho scoperto mondi di cui ignoravo l’esistenza», ricorda Ursula. E in virtù di tale intensità, la sua carriera subisce un considerevole stop. Con l’unica eccezione del film Casino Royale del 1967, prima parodia “ufficiale” della saga Bond, con David Niven nei panni dell’agente segreto. In cui con grande auto-ironia torna a interpretare la Bond girl, ma con il preciso intento di prendersi in giro e sfatare un po’ il suo mito. L’amore con il grande Bebel però è più forte di tutto, anche se, nel 1972, l’attore la mollerà su due piedi dopo aver incontrato Laura Antonelli. Lasciandola nella disperazione. E allo sbando. In pochissimo tempo passa dal frequentare prima Fabio Testi, e subito dopo Franco Nero.

Ursula Andress: una cougar ante-litteram. Quando nel corso degli anni per lei, come per tante interpreti emerse soprattutto per la bellezza fisica, sembra profilarsi un sereno declino fra serial americani, b-movies nostrani e sceneggiati, ecco arrivare come un fulmine a ciel sereno il giovane Harry Hamlin. Conosciuto nel 1981 sul set di un capolavoro kitsch-mitologico dal titolo Scontro di titani, dove impreziosiva un cast all-star composto da Laurence Olivier e Maggie Smith. Fra un peplo e un fulmine di Zeus nasce così una passione che, di nuova, dà scandalo. Soprattutto perché Hamlin ha solo 29 anni mentre Ursula è già over 40 ma – la star non se ne cura. Anzi, in barba alle critiche, due anni dopo dà alla luce il suo unico figlio Dimitri, all’età di 43 anni. Ma non c’è requie per Ursula Andress. Che nel giro di poco si separa anche da Harry. Senza perdere il vizio per gli uomini giovani, frequentati sempre molto assiduamente. Come il siciliano Fausto Fagone – trent’anni di differenza –, e l’attore e maestro di karate americano Jeff Speakman. Nel frattempo il cinema si allontana sempre di più, anche se sempre con un considerevole humor, Ursula torna davanti allo schermo, specialmente in produzioni televisive. Storico il suo contributo alla serie fantasy Fantaghirò, nei panni della cattivissima strega Xellesia. Forse l’ultimo ruolo di rilievo della sua carriera. Da anni ormai ritirata a vita privata, Ursula appare solo qua e là in occasione di qualche evento o party benefico. Senza strillarlo ai quattro venti, in modo discreto, magari canticchiando da lontano. Proprio come quel giorno in bikini che ha cambiato per sempre la sua vita, entrando di diritto nella memoria collettiva di cinefili, fashion addicted e fan di James Bond.

·        Valentina Nappi.

Dagospia il 26 settembre 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Mi sono sposata qualche settimana fa. Io sono per la famiglia e per il valore della famiglia, ma non quella tradizionale che rinnega un figlio gay o come quella di Napoli dove un fratello insegue una sorella per ammazzarla. Quella tradizionale è così, ci sono i muri di genere così ingessati che portano a una violenza all’interno della famiglia”. “Abbiamo tutti bisogno – dice la Nappi - di avere un nucleo dove ci si sente amati e protetti, dunque sono a favore. Dato che stiamo insieme da undici anni perché non godere dei diritti delle persone sposate. La famiglia è un valore, lo riconosco. Il problema sono i valori, non i membri della famiglia. Dobbiamo dare il matrimonio tale quale ai gay”. “Non ho intenzione di avere figli – dice ancora la Nappi – perché siamo troppi al mondo. Ma non lo vedete che siamo troppi? C’è il riscaldamento globale, non si trova parcheggio. Fare un figlio è un gesto di egoismo. Bisogna prendersi la responsabilità verso la società. Quando si dice l’utero è mio e lo gestisco io va bene, ma quando metti al mondo una persona non ha a che fare solo col tuo utero. Quando il bambino non è più dentro di te, la cosa riguarda la collettività. E’ un atto di egoismo assoluto. Sei tu che hai il desiderio di riprodurti e tramandare i tuoi geni. Ovviamente se ci fosse la peste e si dimezzasse la popolazione mondiale in quel caso potrei valutare di fare un figlio”. Andresti mai in Parlamento?: “No, non avrei più tempo per fare porno”. Poi parla della masturbazione in pubblico: “Dovrebbe essere una cosa normale. Dobbiamo avere un approccio razionale. Il sesso si deve buttare, deve essere come l’aria, va ignorato. Ci deve stare così tanta figa e cazzo in giro che deve essere ignorato, la gente non deve avere voglia di scopare. Se ci sono uomini che allungano le mani significa che non toccano abbastanza culi, sono repressi, gli hanno insegnato a afre i predatori e ci sono troppe fighe di legno in giro. Dunque se le donne la dessero via più facilmente ci sarebbero meno stupri. Nei paesi dove la prostituzione è legale ci sono statisticamente meno violenze sulle donne”. “Mettere sullo stesso piano – aggiunge la Nappi – chi ti dice hai un bel culo per strada e chi ti tocca è pericoloso. Passa tutto per molestia, può dare fastidio. Se vedo uno che si masturba in pubblico e mi piace posso anche avvicinarmi, oppure posso ignorarlo”. Parenzo: “Ci sono dei posti dove fare queste cose, non si fanno in pubblico”. E la Nappi: “Chi lo decide dove si può fare o non si può fare?”. Da quanto tempo non fai una gang bang?: “Non faccio una gang bang da più di due anni, non è facile organizzarle perché costano tanto, pagare tutti gli attori. Purtroppo se ne fanno poche durante la carriera, in privato? No, perché gli uomini non vogliono dividere una donna. E poi molti finiscono per avere così tanti problemi di erezione che per me è una fatica e una scocciatura”  

Da liberoquotidiano.it il 12 settembre 2020. "Uno che si masturba in treno dovrebbe farti ridere". Valentina Nappi, attrice salernitana diventata diva dei film per adulti negli Usa e nota per le sue posizioni politiche anti-leghiste, scandalizza le donne definendo "sessuofobe" chi protesta contro gli esibizionisti in pubblico. La rivolta è talmente tambureggiante che l’hashtag #valentinanappi nel giro di poche ore è entrato tra le "tendenze" di oggi su Twitter. I commenti questa volta sono praticamente tutti contro la 29enne campana: "Siamo esseri dotati di cervello e possiamo tenere a bada i nostri istinti", "Ma quando le togliamo di mezzo le donne che non supportano le donne? Le donne che trattano molestie e abusi come un qualcosa che si può prevedere e controllare?", "Non è la visione di un cazzo che spaventa le donne. È che se siamo in treno e l'uomo esce il cazzo non è normale, se un uomo si tocca mentre passiamo per strada e ci segue non è normale e potrebbe violentare o fare altro con la ragazza. Non è un porno ma la realtà". Qualche ora prima, la Nappi aveva denunciato una fantomatica campagna degli "ultracattolici" contro di lei, con tanto di minacce.

Dagospia il 9 settembre 2020. Lettera di Valentina Nappi. Caro Dago, sono vittima nelle ultime settimane di un vero e proprio attacco mediatico, una impressionante macchina del fango via web che si è messa in moto nei miei confronti. Come sai, spesso non contano i fatti ma i sentimenti di pancia che si diffondono mediante meccanismi empatici di massa. La storia è questa. C’è una campagna in corso, Traffickinghub, che si rivolge soprattutto contro Pornhub, e viene sostenuta dall'organizzazione Exodus Cry, sulle cui ombre si possono trovare informazioni in questo articolo in lingua inglese su Vice: How a Petition to Shut Down Pornhub Got Two Million Signatures. L'organizzazione ha tentato di ripulire la propria immagine descrivendosi come assolutamente super partes, ma addirittura nella stessa pagina web che servirebbe a tale scopo si legge: «Crediamo nell'importanza della preghiera nel nostro lavoro». E poi: «Crediamo che la preghiera per quelli che soffrono a causa dell'ingiustizia sia una parte importante del combatterla». E ancora, per togliere ogni dubbio: «Il nostro scopo è essere una organizzazione basata sulla fede modellata sulla persona di Gesù». Con persone che sono parte, lavorano o simpatizzano per tale associazione purtroppo ho avuto e sto avendo a che fare dopo aver postato su Twitter un breve video di me che indosso pantaloncini e top col marchio di Pornhub. Essendo stata additata per questo, ho risposto che le accuse a Pornhub sono spazzatura (come spiegato nell'articolo di Vice il materiale pedopornografico circola enormemente di più sui principali social network, ad esempio Facebook, che su Pornhub) e da lì si è attivata un'impressionante macchina del fango ai miei danni. Sono stata insultata, chiamata pedofila, trafficante di bambini, stupratrice e chi più ne ha più ne metta. Sono stata minacciata di morte. Rose Kalemba — un personaggio che dichiara di essere stata vittima di stupro e pedopornografia infantile, sulla cui autenticità come persona reale ho espresso i miei dubbi — ha guidato il linciaggio mediatico. È stato diffuso il numero del mio agente Mark Spiegler, che ha ricevuto chiamate anche di notte in cui si minacciavano azioni legali nei miei confronti. Ho subito segnalazioni in massa contro i miei account social che hanno avuto come effetto la sospensione degli account Instagram mio, di mio marito, del mio coniglio, nonché dell'account associato a un progetto gastronomico che ho co-fondato (purtroppo in caso di segnalazioni in massa Instagram ti sospende l'account senza effettuare verifiche preliminari: il potere della forza bruta dei numeri...). Sono stati usati "bot" contro di me, come è evidente da alcune cose scritte che tradiscono l'origine non umana di molti messaggi. Tutto questo è impressionante, ho avuto la sensazione di aver toccato interessi importanti. E non ho idea di come evolverà questa vicenda. Grazie per l’ospitalità.

Da liberoquotidiano.it il 21 giugno 2020. La proposta arriva dal senatore della Lega Simone Pillon. Un emendamento nel testo di conversione del decreto legge Giustizia che propone di bloccare in automatico i contenuti pornografici online. Una specie di parental control che si può disattivare solo se il titolare di un contratto telefonico lo chiede in modo esplicito, a dar conto della proposta è stata Repubblica. Il rischio, però, è che oltre alle luci rosse il filtro finisca per censurare anche altri contenuti online. Ma tant'è, a Valentina Nappi interessano i filmini hard. La reginetta del porno italiano, infatti, dopo aver letto la notizia la ha rilanciata sui social. Condendola con una sorta di "minaccia" alla Lega e Matteo Salvini: "State rischiando di farmi entrare in politica", commenta Valentina Nappi, rilanciando un articolo di Wired sulla vicenda.

Dagospia il 9 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Prenderlo nel culo? Non è un’espressione negativa, non è una cosa brutta. Prendersela nel culo è una cosa bella e basta. Se la prendi nel culo senza lubrificante, allora si che è brutta. Quello fa male”. Ma a te non dovrebbe fare più male, no?: “Ma che cazzo dici? Io non lo faccio senza lubrificante. Nemmeno un dito faccio senza lubrificante. Uso un lubrificante a base di silicone e olio di jojoba, uno proprio con la foto del culo sopra. Ne uso poco e dura per tutto il rapporto”. Così Valentina Nappi a La Zanzara su Radio 24. Ma tu dovresti avere un’apertura anale superiore alle altre donne, dice Cruciani: “Ma non credo. Adesso a casa sto guardando un sacco di video di Dredd, che è uno dei cazzi più grossi. Ci ho messo un’ora per farmelo entrare nel culo. Sono dotata, ma c’è chi è più dotata di me”.

Non tutti i sederi si dilatano allo stesso modo: “Si, è come con i muscoli. C’è tecnica, ma anche predisposizione naturale. Stessa cosa per la danza classica. Non tutti sanno che ho fatto 8 anni danza classica”.

Ci dev’essere quindi una predisposizione naturale a prenderlo nel culo?: “Si. La tecnica aiuta, sennò ci si fa male, come in palestra. Però…”. “Un’altra cosa he mi fa male – dice Valentina -  è prendere nel culo un’unghia di acrilico, una sensazione orribile. Vanno tantissimo di moda, anche le commesse hanno queste unghie di plastica. E molte mie colleghe indossano questo tipo di unghie. Lo dico sempre: vi prego niente penetrazione con le dita, perché mi fai male”.

Che film porno stai guardando in quarantena?: “Film gay con neri che lo mettono in culo. Hanno dei culi della Madonna. Sono rotondi, perfetti, sono i bronzi di Riace. Due uomini che si baciano, che si leccano. Mi fa eccitare”. Ormai sono mesi che non lavori su un set: “Ho scopato stamattina col mio fidanzato. Il governo mi deve un sacco di cazzi. I bisogni sessuali dei cittadini dovrebbero essere un problema del governo. In questo momento di emergenza regalerei un sex toy a tutti. Ai maschietti dei masturbatori, alle femminucce dei vibratori. Non costerebbe nemmeno tanto”.

Hai fatto incazzare un po’ di femministe dicendo che preferisci lo stupro “piuttosto che vivere una quotidianità dove la gente non è libera di vivere come vuole la sua sessualità”: “Mi hanno taggata in una conversazione dove si parlava praticamente di censura. E dicevano delle cose allucinanti. Addirittura mi hanno accusata di coprire casi di stupro. Allora io lì non ci ho visto più. C’era una tipa che diceva che davanti ad ogni film porno ci deve essere un warning che specificava questo è un film, una cosa ridicola. In effetti è vero che preferirei uno stupro che vivere in un mondo meno libero. Ma è un’iperbole. Se mi capita nelle mie fantasie di avere un’attrazione per lo stupro? No. Anche se magari l’ho avuta, è molto comune”.

Parenzo: “Non si può parlare di stupro in questo modo. Ci sono donne che hanno subìto stupri e non gradirebbero queste parole”. “E che cazzo me ne fotte – dica la Nappi – c’è gente che schiatta ogni giorno dodici ore sotto il sole e non gliene frega a nessuno”. Ma come si sente una donna che ha subìto uno stupro leggendo questa frase?: “Non è un mio problema. Il fulcro della discussione era che secondo loro il porno spingeva le persone allo stupro. Che è una stronzata, in realtà il porno fa il contrario. Facendosi le pugnette si smaltisce l’energia sessuale. Quindi le persone sono più rilassate”.

Sei considerata la regina delle gang bang: “Ma ragazzi, in dieci anni di carriera ne ho girate tre o quattro. E poi le gang bang costano, non ci sono i fondi. Io vorrei girarle più spesso. Devi dare mille euro all’attore. A voi non piacerebbe trombare con dieci femmine contemporaneamente? Ma la doppia penetrazione è la posizione più bella in assoluto. Non c’è nulla che mi faccia godere di più della doppia penetrazione”.

Temi il coronavirus?: “Ho trombato per dieci anni nel porno, ho trombato nei set americani più sporchi, ho leccato lo sperma dal pavimento, posso avere paura del virus?”

Valentina Nappi shock: "Meglio lo stupro del femminismo". L'attrice a luci rosse Valentina Nappi si lascia andare ad una dichiarazione social che scatena l'insurrezione della rete: "Meglio lo stupro del femminismo". Luana Rosato, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. Polemica su Twitter dopo una dichiarazione di Valentina Nappi che ha lasciato scioccata la rete e ha fatto il giro del web scatenando una vera e propria insurrezione. L’attrice a luci rosse si è scagliata duramente contro le femministe e con un post social ha voluto manifestare tutto il suo disappunto nei confronti di quella ideologia facendo, però, un confronto che ha fatto molto discutere. “E chi dovrebbe educare, voi ‘femministe’? - ha dichiarato la Nappi - Meglio nessuna educazione. Meglio lo stupro alla limitazione di libertà a cui vorreste sottoporci”. Paragonare una violenza a qualcosa di migliore rispetto agli ostacoli di azione e pensiero delle sostenitrici del femminismo è apparso inopportuno e del tutto fuori luogo, tanto che il popolo della rete non è riuscito a rimanere in silenzio scagliandosi duramente contro la Nappi. “Ti metti in bocca parole di cui non sai neanche il significato. Ascolta quello che dicono le nazifemministe come le chiami tu, impara e cresci. Che imbarazzo..”, ha twittato un utente, “Ecco a voi come cadono i diritti del ‘68”. “Parli non capendo che lo stupro è una limitazione alla tua libertà e una violazione al tuo corpo e alla tua persona, non puoi parlare di libertà e stupro come se fossero due cose che vanno a braccetto, fatti un lavaggio di coscienza”, “Tu dici 'ste robe solo perché non sei consapevole di quello che succede realmente, subiscine uno e poi dimmi se sei ancora convinta che lo stupro sia meglio dai”, si legge tra i numerosissimi commenti alle dichiarazioni social dell’attrice porno. Lei, tuttavia, non ha ritirato ciò che ha detto, ma ha continuato a sostenere fermamente la sua tesi. “Davanti alla parola stupro smettete di ragionare e pensate con la pancia. L'ho tirata in causa proprio per questo – ha aggiunto ancora lei - . Meglio lo stupro che le feminazi al potere. Meglio lo stupro che perdere un arto. Meglio lo stupro che la censura. Meglio lo stupro che.... Potrei continuare all'infinito”. I tweet di Valentina Nappi, dunque, hanno messo in subbuglio tutta la rete. Anche chi non sapeva chi fosse, si è interessato a capire da cosa nascessero queste sue dichiarazioni e, secondo qualcuno, lei sarebbe anche riuscita ad ottenere ciò che voleva lasciandosi andare a queste espressioni choc: un po’ più di visibilità che, in tempi in cui il cinema a luci rosse è fermo a causa del coronavirus, non fa mai male.

Barbara Costa per Dagospia il 5 aprile 2020. Intervista a Valentina Nappi.

Valentina, anche tu sei porno-ferma, in quarantena, e chissà quando si potrà tornare sui set. Ma negli Stati Uniti gli attori porno possono beneficiare dei soldi promessi da Trump, o il porno è settore discriminato e se la dovrà cavare da sé?

«Gli attori porno pagano le tasse come tutti gli altri e hanno diritto agli aiuti come tutti gli altri. Credo di poter escludere un trattamento per loro differente da parte del governo federale, anche se tra i criteri per ottenerli, questi aiuti, c’è una clausola che pare escludere ogni impresa che ricava denaro attraverso la vendita di prodotti o servizi, rappresentazione o esposizione “di natura sessuale pruriginosa”. Ed è  palesemente incostituzionale!»

L’ho letta anch’io, e ci potrebbe rientrare anche chi vende sex-toys, e tutti i lavoratori legali del sesso del circuito di Las Vegas, ad esempio le spogliarelliste, ma pure tutte le prostitute e i prostituti regolari all’interno del Paese. Si farà ricorso…

«Il porno ha validi avvocati che si stanno muovendo. Perché se quello che fai è legale, ci paghi le tasse, e sei in regola, nessuno ha il diritto di trattarti da lavoratore di serie B. E il governo non può fare discriminazioni sul contenuto di un prodotto che ha niente di pruriginoso, bensì propone un interesse verso il sesso. Per ogni discriminazione contro il mondo dell’hard e i suoi lavoratori si viola il Primo Emendamento».

Se un attore porno lavora in America ma non è americano, se la prende in quel posto?

«Passo poco tempo negli Stati Uniti quindi non saprei dirti, ma credo che l’accesso al welfare dipenda da dove sei residente. E poi, guarda, in generale non è il governo federale che discrimina il porno, ma semmai i privati, i quali hanno troppe libertà e quindi a volte anche la libertà di discriminare».

Fammi un esempio.

«Per la legge, non c’è nessun problema nel rappresentare realisticamente scene di stupro, ma i circuiti delle carte di credito, che sono in mano ai privati, se fai una scena di penetrazione in cui la persona penetrata ha le mani legate, ti bloccano i pagamenti. Abbiamo insomma dei privati che impongono regole che vanno ben al di là delle leggi, come nel caso dei social network o dei motori di ricerca».

È ingiusto perché è una scena di massima violenza, ma è cinema, simulazione, e soprattutto recitata da persone adulte, consapevoli e consensuali. Secondo te, che bisognerebbe fare?

«Bisognerebbe condurre una battaglia per vietare a chi detiene mezzi di comunicazione di massa, sistemi di pagamento etc., di imporre regole sui contenuti che vadano al di là delle leggi. Se sei grande e offri un servizio quasi indispensabile, non puoi dire “a casa mia si fa come dico io”, perché stai offrendo un servizio pubblico. Allo stesso modo anche ai ristoranti non dovrebbe essere consentito di imporre un dress code».

Nel frattempo, molti attori e attrici si sono messi a pornare da casa, a esibirsi solisti, a fare le cam-girl. Gli accessi non mancano, ma ne vale economicamente la pena?

«Dipende dai casi, su Pornhub ci sono anche coppie amatoriali che guadagnano più dei professionisti».

Come Danika e Steve Mori, i due siciliani di Tenerife. Per loro il coronavirus ha cambiato niente, pornano a casa loro, tra di loro, in sicurezza, e il loro pubblico aumenta. E tu sei presente con nuovi video su Modelhub e su OnlyFans. Da ultimo la tua scena con quel figo di Johnny Sins. Mi dici perché dovremmo correre a vedervi?

«Johnny è un performer straordinario. Lì sc*piamo per un’ora e mezzo e mi viene dentro, dietro, mi riempie di sperma completamente. Il video è super amatoriale, girato da noi, senza cameraman, e montato da me».

A proposito di attori, tu che lavori coi migliori, mi fai il nome di uno che sta per “esplodere” da tenere d’occhio, e perché?

«Difficile da dire, ci sono tanti ragazzi con grandi potenzialità che però finiscono per cambiare mestiere presto.

Nel porno è così. Pochi durano. Tu segui il lavoro delle tue colleghe italiane, Malena, ad esempio, o la new-entry Martina Smeraldi?

«Onestamente non ho mai guardato una loro scena, purtroppo non ho più il tempo che avevo prima».

Valentina, secondo te, in Italia riusciremo mai a far passare il concetto che chi fa porno non è una persona strana, diversa, disturbata, al contrario, è una persona normale (con tutte le accezioni che questo termine comporta), che fa una vita normale, che fuori dal set scopa normale (o fa le orge se gli va)?

«Ma a me non interessa la normalizzazione, io credo nell’importanza del conflitto».

Non vorresti che chi sceglie di fare porno, venga visto come una persona e non additato e giudicato?

«Per me il conflitto c’è e deve esserci. Io non sono un’atea pacifica, di quelli che “vivi e lascia vivere”».

Cioè?

«Sono un’atea che vorrebbe l’ateismo di stato. Non propongo quindi la mia via come una delle tante opzioni possibili in un mondo postmoderno senza verità in senso forte, ma propongo piuttosto una verità forte che vuole farsi norma futura. Quindi per me non ha senso la normalizzazione, perché vorrebbe dire “non sono diversa dalla ragazza borghese che magari va a messa a natale e a pasqua”. Sarebbe una negazione del conflitto ideologico, e invece il conflitto c’è».

Il conflitto c’è, e però io voglio la fine del pregiudizio su chi vuole fare porno e pure su chi vuole godere una vita sessuale “altra”, magari non monogama, libera dalle regole stabilite, per me marce da secoli.  E come la mettiamo col fatto che se nasci donna e vuoi e fai il porno ti rompono le scatole il doppio di quanto le possano rompere a un uomo?

«Il problema sono le donne. Sta nelle donne. E di preciso in quelle donne che vogliono conservare certi privilegi che derivano dalla “vendita” a caro prezzo della loro sessualità e quindi non vedono di buon occhio quelle donne (anche ad esempio la “troia” che la dà a destra e a manca) che invece la sessualità femminile la inflazionano».

Tante ragazze mi chiedono: cosa devo avere per fare l’attrice porno, seguire le orme di Valentina Nappi, e io rispondo: cervello acceso, ambizione, forza di carattere e…trovati un buon agente! E non rispondo mai un corpo splendido, che pure ci deve essere, ma senza canoni prestabiliti, canoni sovvertiti da corpi-star come quelli di Angela White, Karla Lane. Non esiste un corpo porno-tipo, nel porno non è mai esistito. Sei d’accordo?

«Sì, nel porno c’è più varietà di corpi che in altri ambiti, è una cosa che dico sempre. Per emergere devi avere la capacità di toccare l’immaginario sessuale collettivo, e poi sul set è soprattutto questione di tecnica, sebbene si tratti di una tecnica poco codificata».

Tempo fa avevi litigato con James Deen perché sul set, in una scena con te, lui aveva fatto quello che nel porno non si fa, un gesto non concordato, nello specifico ti aveva schiaffeggiato il clitoride. E tu in risposta gli hai dato un ceffone. Brava! Ma siete ancora in lite?

«No, abbiamo fatto pace».

James fa un po’ il cazzone, ma è irresistibile. E con Rocco Siffredi, come va?

«No comment».

Mi dici perché non lavori più con lui?

«Di Rocco non parlo».

Tornate a pornare insieme!

·        Valentina Pegorer.

Paolo Giordano per il Giornale il 17 giugno 2020. Mica è una debuttante Valentina Pegorer, che stasera conduce con Emis Killa la prima puntata italiana di Yo! Mtv Raps su Mtv (canale Sky 130 e NowTv). Non ha neanche 30 anni e la sua prima apparizione in tv è stata nel 1998 da protagonista degli spot sugli ovetti Kinder.  Da allora, lei che è milanese e ha vissuto a Londra, è diventata speaker radiofonica, ha la sua bella parte da influencer che oggi non si nega a nessuno, ha un fisico da urlo ed è compagna di Boss Doms, ossia Edoardo Manozzi, chitarrista e produttore di Achille Lauro. Valentina ed Edoardo si sono conosciuti tre anni fa a Pechino Express e ora hanno già una figlia, Mina. Insomma, tutto è stato frenetico nella vita di questa ragazza dagli occhioni azzurri che si candida a diventare una delle prossime rivelazioni della tv italiana. Anche se lei, che guarda il cielo ma ha i piedi ben piantati per terra, dice che «non si può mai sapere perché il mondo della tv è così scostante». Idee chiare.

Però da stasera conduce Yo! Mtv Raps su Mtv, uno dei format storici del rap.

«Sono nata negli anni '90 quindi sono cresciuta con Mtv e con i suoi video».

Quindi che cosa porterà a questo programma?

«Ci ho messo un po' di me».

Questo è normale. Rifacciamo: qual è il suo ruolo e quale quello di Emis Killa?

«Emiliano, che conosco da un bel po' di tempo, è un tipo molto diretto, come si vede anche sui social. È un maestro del rap e quindi ci mette il tasso qualitativo indispensabile a un programma del genere».

E lei?

«Io faccio il resto, ossia cerco di soddisfare le curiosità che l'ascoltatore vorrebbe conoscere durante la chiacchierata con gli artisti che ci troviamo di fronte».

Il pubblico l'ha conosciuta a Pechino Express del 2017.

«Era un periodo nerissimo della mia vita».

Addirittura?

«Mi ero lasciata con il fidanzato e stavo litigando con i miei. Così avevo deciso di partire per le Filippine. Una sorta di viaggio di riflessione. Poi mi hanno chiamato per partecipare a Pechino e le Filippine erano tra le destinazioni di quella edizione. Un segno del destino».

A Pechino ha conosciuto anche Boss Doms.

«Eh sì, quel programma mi ha dato stabilità, diciamo così».

E adesso?

«E adesso uguale. Certo, durante la quarantena Edoardo ed io abbiamo rischiato di separarci (ride - ndr) perché eravamo in tre sempre chiusi in casa ma ora tutto è passato».

Achille Lauro e Boss Doms sul palco e in tv spesso si baciano e abbracciano in modo molto provocatorio.

«Lo so, qualcuno si chiede come faccia io a stare con lui nonostante queste performance. La realtà è che parte dei loro personaggi... E poi io li ho conosciuti così. Edo poi ha una parte femminile molto spiccata, come tanti artisti, e talvolta ne parliamo».

Vi sposerete?

«Se me lo chiede...».

Nel frattempo lei fa Yo! Raps.

«E lui da luglio esce con un progetto musicale diverso».

Per questo si è separato professionalmente da Achille Lauro?

«Ma no, è solo una fase».

Valentina Pegorer, qual è il suo idolo televisivo?

«Posso essere sincera? Non ne ho».

Ma non vorrebbe fare tv?

«Sì ma non potrei mai condurre il Festival di Sanremo. Cerco qualcosa con dei contenuti, qualcosa tipo ciò che fanno Alessandro Cattelan o Victoria Cabello».

E i suoi genitori sono d'accordo?

«Sulla tv, certo che sì. Ma loro sarebbero stati contenti anche se avessi fatto la velina...».

·        Valentina Sampaio.

Donatella Mulvoni per "Il Venerdì" il 20 settembre 2020. La bellezza è quella sinuosa di una top model. Il coraggio, invece, appartiene a una pioniera senza paura. Valentina Sampaio a ventitré anni ha ottenuto la copertina di Sports Illustrated Swimsuit. La prima modella transgender a posare per la celebre rivista. «È sempre stato il mio sogno» ci confessa. «Oltre alla soddisfazione personale, c'è l'orgoglio per una conquista che appartiene a tutta la comunità Lgbtq+. Un altro passo avanti nel lungo cammino che ancora ci aspetta». I suoi successi personali si legano ai tabù che cadono uno dopo l'altro. Già nel 2017 era stata la prima transgender a comparire sulla copertina di Vogue Paris e; due anni dopo, la prima a essere scelta tra i bellissimi "angeli" di Victoria' s Secret per la linea Pink, a dispetto dell'infelice uscita di Ed Razek, l'ormai ex responsabile marketing della compagnia, certo che le trans mai avrebbero avuto posto nel marchio di lingerie statunitense. Valentina, che oggi conta oltre 400 mila follower nel suo profilo Instagram ufficiale @valentts, è nata ad Aquiraz, in Brasile, nel 1996; sua madre era maestra, il padre pescatore. «Il mio Paese è una terra bellissima» racconta, «ma anche quella in cui si concentra il più alto numero al mondo di crimini violenti e omicidi ai danni della comunità transgender», uno dei gruppi che subisce le maggiori discriminazioni. Come accade anche negli Usa, dove gli attivisti accusano il presidente Donald Trump di aver avviato una metodica cancellazione dei diritti conquistati sotto l'amministrazione Obama.

Quanto è difficile essere sulle copertine e al tempo stesso vedere in Brasile, come in molti altri Paesi, tantissime persone offese, aggredite, uccise perché transgender?

«Vivo una realtà privilegiata, ma mi sento molto coinvolta quando accadono episodi di violenza. Soffro. E cerco di usare la mia notorietà per dare più visibilità alle rivendicazioni della mia comunità».

È diventata il volto di un'intera comunità in lotta per i suoi diritti. Che peso ha questa responsabilità?

«Al contrario di altre modelle che hanno intrapreso la carriera celando la propria natura, io sono stata catapultata nello show business proprio per quello che sono. E ne sono felice. La prima copertina credo abbia dato forza a tante colleghe; alcune si sono dichiarate dopo quella cover e oggi vivono carriera e successo con più serenità».

I suoi genitori l'hanno appoggiata ma non sarà stato facile essere transgender da adolescente. Quanto l'avrebbe aiutata avere come esempio modelle trans protagoniste dell'alta moda?

«Nell'industria del fashion, quando ero piccola non ce n'erano; ma prima che nascessi, negli anni 80 e 90, una modella brasiliana transgender diventò molto famosa. Roberta Close posò per Playboy per Mario Testino, sfilò per Mugler. È sempre stata d'ispirazione per me. Vederla così bella e di successo mi ha aiutato a intraprendere la strada che ho scelto».

Però il suo esordio non è stato per niente facile.

«Agli inizi della carriera mi aveva ingaggiato una marca locale di abiti. Quando l'azienda seppe che ero transgender, cancellò il contratto. Piansi molto, fu un'esperienza umiliante. Mi ripromisi che episodi come quello non mi avrebbero più demoralizzata, ma mi avrebbero dato forza per raggiungere i miei obiettivi».

Commentando la copertina di Sports Illustrated Swimsuit ha detto: «Sarebbe bello che fosse normale». Quando succederà? A che punto siamo secondo lei?

«Il mondo della moda non è facile per una transgender. È vero che dalla cover di Vogue nel 2017 molto è cambiato e altre trans sono state protagoniste di campagne pubblicitarie e di serie tv. Ma, anche se non lo si ammette apertamente, ci sono brand a cui non vado bene perché sono transgender o perché lo spot girerà in Paesi in cui l'omofobia è molto pesante. La battaglia per i diritti è ancora all'inizio».

Come giudica la rappresentazione che i media danno della comunità transgender? 

«Il rischio dello stereotipo è dietro l'angolo. Lo scorso autunno proprio una famosa trasmissione tv italiana ha preso contatti con il mio manager. Ma se raccontassi come volevano che entrassi in trasmissione, vi farei ridere! Facile capire che piega avrebbero voluto dare. La mia comunità più di altre deve stare attenta per evitare di essere messa in ridicolo».

E il mondo del cinema? Recentemente l'attrice Halle Berry è stata criticata per aver annunciato un ruolo nei panni di una transgender. Poi si è scusata.

«Il cinema è creatività. Non ritengo necessario che un ruolo transgender debba per forza essere interpretato da una trans. Avendo partecipato a un film, credo nella massima libertà di espressione. Quando interpreti un personaggio, sei costretta a uscire da te stessa per immedesimarsi in un'altra persona. Non ritengo che debbano esserci limiti, tantomeno dovuti alla sessualità. Non penso ci sia nulla di male se un'attrice talentuosa come Halle Berry interpreti il ruolo di un personaggio transgender. Sinceramente, non capisco neanche perché si sia dovuta scusare».

Com' è Valentina nel privato?

«Sono una persona scherzosa e semplice. Spesso appaio fredda, ma solo perché sin da piccola mi sono imposta una disciplina più rigida di quella dei miei coetanei, per non dar adito a nessuno di dire o pensare certe cose di me. Nel mio Paese molte transgender sono associate a droga e prostituzione. Con questo non voglio giudicare le scelte di nessuno, ma non sono state le mie. Mi piace fare yoga, kickboxing. Ho un cucciolo di English Mastiff. Il mio sogno è avere un giorno una fazenda immersa nella natura, con tanti animali. Amo stare in famiglia. Una vita esposta come la mia rende più diffidenti. Come dite in Italia? Pochi ma buoni!».

·        Valentine Demy alias Marisa Parra.

Dagospia l'8 gennaio 2020.  Comunicato stampa. Incredibile ma vero! La nuova generazione incontra la vecchia generazione, o meglio, la nuova generazione “penetra” la vecchia generazione. La notizia bomba è stata data poco fa a “La Zanzara” il noto programma radiofonico condotto da Giuseppe Cruciani e David Parenzo in onda ogni sera su Radio 24. Stiamo parlando dell’attore hard Max Felicitas, che ha convinto una delle storiche colonne portanti del porno italiano Valentine Demy alias Marisa Parra a tornare sul set per girare una scena con lui; la Demy non si vedeva “in azione” da circa 10 anni, l’ultimo suo capolavoro fu la storia di un incesto italiano dal titolo Una Madre Perfetta per la regia di Andy Casanova. La scena dei due pornostar è visibile in esclusiva sul sito maxfelicitas.net e si intitola “La zia di Pisa è una gran maiala!”. Felicitas dichiara: “La scena è stata molto divertente, sono onorato di aver riportato Valentine sul set dopo un decennio. Il suo punto di forza è sicuramene il sesso orale. La scena parla di un nipote che va trovare la zia a Pisa che non vede da un po’, è lì tra una cosa e l’altra scatta la passione. Ho girato una scena di incesto per accontentare i numerosi fans che me la chiedevano da un po’, ma sinceramente a me l’idea dell’incesto fa ribrezzo, però so che piace. Confermo che a noi giovani piacciono le donne mature, sia per l’esperienza che hanno sia per il calore materno…”. La 56enne Valentine Demy in estasi: “Oltre al pene di Max mi ha molto colpito la testa, non è il classico pornoattore tutta minchia e zero cervello. L’esperienza è stata positiva e sono molto felice di aver girato la scena con il profilattico, anche per lanciare un messaggio ai giovani di usarlo sempre, è l’unica cosa che vi permette di non prendere malattie sessualmente trasmissibili, ai miei tempi non si girava così ma sono contenta che i tempi siano cambiati. Ricordo a tutti che mi sono ammalata di depressione quando ho smesso di girare porno, ora che ho ripreso spero di guarire…”

·        Valeria Curtis.

Dagospia il 3 giugno 2020. Comunicato Stampa. Valeria Curtis è una pornostar italiana, nata trentadue anni fa nella città del sole, del mare e del buon cibo, la bella Napoli; ovviamente il cognome Curtis è un omaggio al grande Re della sua città, l’immortale Totó. Ha iniziato la sua carriera a diciotto anni come semplice sexy star prima di essere notata dal famoso regista hard Andy Casanova che le propone di entrare a far parte della sua scuderia dopo averla vista esibirsi in un locale notturno con un suo show erotico.

In merito a ciò la Curtis dichiara: “Ho accettato la proposta di Casanova come sfida, volevo vedere fino a quanto potevo spingermi oltre il già visto e sperimentare cose nuove nel campo sessuale, poi non mi nascondo dietro un dito, sono sincera, l’ho fatto anche per un discorso economico! Sono andata via prestissimo di casa e mi sono sempre arrangiata, ho sempre tenuto molto alla mia indipendenza” - la giovane attrice a luci rosse partenopea continua -  “Sono nata lesbica ma con l’andare del tempo e con l’esperienza sessuale acquisita sono maturata e diventata bisessuale. Amo sia il pisello sia la patata, la mia specialità in entrambi i casi è il sesso orale...ho ricevuto sempre complimenti per le mie performance di bocca, lingua e gola! Diciamo che le cose che so fare meglio sono tre: la fellatio, il cunnilingus e cucinare un ottima pasta alla carbonara! Mi permetto di dare un consiglio a tutte le donne che disdegnano il sesso anale di provarlo e di non rifiutarlo a priori; avete solo bisogno del giusto uomo che sappia come prendervi senza che vi faccia male e che diventi un trauma per voi, anche se non dimenticatevi che deve esserci il mix giusto di dolore e godimento” - la giovane Valeria racconta della proposta più strana che le hanno fatto - “poco tempo fa due fratelli bisessuali (veri fratelli!) mi hanno proposto di girare un video incestuoso in cui io dovevo fingere di essere la loro mamma e loro dovevano eseguire ciò che io gli ordinavo di fare, si sarebbero divertiti essendo obbedienti ai comandi della mamma cattiva!” L’affascinante e trasgressiva Valeria non fa la escort e non si esibisce più nemmeno in spettacoli hard in locali notturni, l’unico modo per vederla è quella di collegarsi on line ogni lunedì alle 22.30 e ogni giovedì alle 17.00 su livesofia.com : “mi piace deliziare i miei fans porcellini con le mie dirette ad alto tasso erotico ed essere la loro musa ispiratrice per la masturbazione, ma non sono sempre sola...spesse volte ci sono delle mie colleghe ad aiutarmi a farvi eccitare di più” - e conclude – “Mi auguro di continuare così...in questa quarantena il mio lavoro on line è andato sempre meglio...il mio sogno nel cassetto è quello di diventare un attrice normale, amo Pepelope Cruz! Vorrei anche scrivere un libro e realizzare un film sulla mia vita...se ne vedrebbero delle belle!”

·        Valeria Marini.

Da oggi.it il 22 aprile 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica le straordinarie immagini di Valeria Marini che sfila con un abito tricolore e un abito rosso fuoco davanti alla scalinata deserta di Trinità dei Monti per incitare alla ripartenza: «Ho pianto intere settimane chiusa in casa, spaventata e in ansia, ora ho capito che è arrivato il momento di dimostrare al mondo di che pasta siamo fatti. Ero sola in Piazza di Spagna, esattamente come lo è l’Italia davanti a una Europa che fa orecchie da mercante. È una battaglia, questa. Non è finita purtroppo, ma io so che la vinceremo». E sul fidanzato confida: «Gianluigi mi dà tanta forza… Ho sofferto come un cane, in passato, ed è inutile girarci intorno. Questo è amore, ho paura a dirlo, ma so che nel mio cuore è così. Lui è molto attento a me, forse nessuno lo era mai stato come lui, ma anche io faccio del mio meglio per esserlo».

Dagospia il 22 aprile 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Valeria Marini è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalle 00.30 alle 6.00.

L'isolamento: "Sto bene, io mi sto dando da fare per la raccolta fondi con una associazione di volontariato mondiale presente in tutta Italia. Siamo riusciti a comprare diversi macchinari importanti per cercare di renderci utili. E poi tante altre cose, sempre in quarantena, sempre rispettando le regole. La campagna si chiama 'Doniamo un respiro', si trova su tutti i miei social, chiunque volesse può fare una piccola o grande donazione. Tutti insieme, con un piccolo gesto, possiamo fare qualcosa di grande per dare una mano a chi è in prima linea a combattere una situazione d'emergenza che speriamo passi molto presto. La mia quarantena? Cerco di non buttarmi giù, la sto vivendo bene anche grazie al mio fidanzato, ci diamo forza reciproca. Le cose da fare sono sempre tante, passo la giornata sistemando casa, facendo attività fisica, utilizzando i social per la raccolta fondi e portando avanti tante cose che magari nella normalità di prima non si riuscivano a fare".

La vita in quarantena migliore grazie all'amore: "La quarantena è una prova importante per la vita di coppia. Ringrazio il Signore, che mi ha fatto incontrare Gianluigi. Ci stiamo dando molta forza l'uno con l'altra. E' molto importante. Come mi comporto in quarantena? Mi piace comunque curarmi, prendermi cura di me stessa. Il mio fidanzato mi sta vicino, anche se ogni tanto vado in giro dentro casa con maschere strane. Ovviamente non posso andare dai professionisti che mi hanno sempre accompagnato per quanto riguarda la cura del corpo, faccio tutto da sola. Però la prima cosa è comunque mantenere la cura di se stessi. La giornata deve essere condotta sempre al meglio, bisogna prendersi cura di noi stessi e fare tutto quello che ci fa stare bene. Non lasciarsi andare, non buttarsi nel cibo, non sprecare. Bisogna mantenersi in forma, mantenere un equilibrio, stare bene. In questo periodo molte cose mi hanno commosso. La messa di Pasqua ad esempio mi ha colpito. Vedere Papa Francesco da solo, in questa Piazza San Pietro maestosamente deserta. Mi ha emozionato molto il concerto di Bocelli il giorno di Pasqua. Mi fanno arrabbiare le persone che continuano ad andare in giro fregandosene delle indicazioni dei medici".

Tra informazione e leggerezza: "E' dovere di tutti informarsi in questo periodo. Certo, è complicato prendere atto di una realtà così difficile. Poi servono anche allegria e leggerezza. Gli italiani hanno dimostrato di essere un grande popolo. Riusciremo a vincere anche questa sfida".

Progetti futuri: "La prima cosa che farò quando tutto sarà finito? Più di tutto mi mancano gli abbracci. E la prima cosa che farò sarà un bel bagno al mare. L'ottimismo che tutto questo finirà non deve mancare. Ci dobbiamo tutti risvegliare da questo incubo e quando lo faremo ricorderemo di dare importanza ai veri valori. L'amore, la famiglia. Sicuramente ne usciremo migliori. O almeno lo spero".

Sui social: "Il rapporto con i follower? Il mondo social ha aiutato tanto in questo momento. In qualche modo sei collegato, con i social dividi tutte le tue realtà con gli altri, che siano artisti famosi o persone normali. La quarantena ha unito tutti, è una maniera di condividere, sicuramente i social sono molto importanti. Il mio fidanzato? E' la dimostrazione che l'amore è una grande forza e che vince su tutto".

A proposito del superfluo: "Qualcosa di cui ho scoperto di poter fare a meno? Non lo so. Sarà che sto conducendo una vita in cui do importanza alle cose importanti, il superfluo in questo momento non ha ruolo".

Sul mondo dello spettacolo: "Preoccupazione per gli artisti e per il mondo del teatro? Certo, tutti i teatri stanno soffrendo, il mondo della cultura sta soffrendo. Il mondo si è fermato. Un artista in questo momento si deve inventare e reinventare. Quando si tornerà alla normalità forse non sarà più tutto come prima. Bisogna studiare diverse formule per lo sport, per i concerti. Siamo stati messi all'improvviso di fronte a una realtà completamente diversa. L'emergenza passerà sicuramente, piano piano torneremo alla vita".

·        Vanessa Incontrada.

Dagospia il 29 settembre 2020. «Questa copertina è il momento più bello degli ultimi anni», racconta sul numero di Vanity Fair in edicola dal 30 settembre l’attrice e conduttrice Vanessa Incontrada che in cover si mostra completamente nuda. «È il punto d’arrivo che vede il mio corpo diventare un messaggio per tutte le donne (e per tutti gli uomini): dobbiamo tutti affrontare, capire e celebrare una nuova bellezza». Con orgoglio e coraggio, l’artista insieme a Vanity Fair diventa l’emblema della body positivity, movimento che mette al bando il body shaming, ovvero ogni forma di bullismo contro il corpo e le sue forme, promuovendo al contrario un’idea di bellezza più inclusiva.

“Nessuno mi può giudicare” recita lo strillo sulla cover: è il messaggio che il giornale veicolerà anche sui suoi canali digitali con un video-monologo scritto dall’attrice più una serie di incontri, dibattiti e interviste sui propri canali social e sui sito vanityfair.it. «Abbiamo voluto questa copertina e abbiamo chiesto a Vanessa Incontrada di posare nuda per noi per riflettere sul tema della Body Positivity e sulle implicazioni del concetto classico di bellezza sulle nostre vite», dichiara il direttore di Vanity Fair Simone Marchetti. «La questione è complicata, vede il corpo delle donne in prima linea e annovera tutto quello che ci è stato insegnato con libri, spot, film, moda, cartoni animati e condizionamenti sociali, culturali e famigliari dagli anni Cinquanta a oggi. In fatto di bellezza, oggi sta succedendo quello che è successo alla terra dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo: là dove si pensava finisse il mondo, ne è iniziato un altro. E là dove si pensava finisse la bellezza forse e finalmente ne sta sorgendo una tutta nuova».

Nell’intervista rilasciata al direttore del settimanale Vanessa Incontrada racconta l’inizio di tutte le critiche: «Nel 2008 ho avuto mio figlio Isal. La maternità, come per altro succede a tutte le donne, trasforma il tuo corpo. E il mio si trasformò molto. Partirono le critiche. Critiche feroci. Critiche crudeli. Si dice sempre, che i peggiori attacchi arrivino da chi conosci. Io non la penso così: le parole che mi ferirono di più arrivarono da chi non conoscevo. Ero delusa, ferita e disorientata: ma perché essere così cattivi?».

E continua: «A volte prendi peso, altre lo perdi. Un mese sei in dieta e vuoi perdere quei tre chili, un altro ti senti a posto con te stessa. Siamo donne, il nostro corpo funziona così. È naturale, va accettato e va soprattutto rispettato. Nessuno ti può né ti deve giudicare».

Vanessa Incontrada, poi,  spiega il momento in cui ha fatto pace col suo corpo: «Ho finalmente capito che la battaglia del corpo non riguardava più me ma tutte le donne. E che se potevo mettere a disposizione di altre la mia esperienza, be’ era arrivato il momento di farlo». Sul tema, infine, intervengono altre scrittrici e storiche del costume. Tra loro, la scrittrice Barbara Alberti, che riflette sulle dittature estetiche, da quella della magrezza alle esagerazioni femministe; la scrittrice Teresa Ciabatti che racconta la sua storia di dimagrimento e autostima; Maria Luisa Frisa, critico e fashion curator, che esamina il superamento dell’idea stereotipata di bellezza; e Sara Gama, capitana Juventus Women e Nazionale calcio femminile. Simbolo di body positivity, poi, sono anche le 12 modelle scelte per un servizio di moda che celebra la bellezza non convenzionale e fuori dagli schemi. Completano il numero l’intervista al premio Nobel per la Letteratura Olga Tokarczuk che racconta come la lotta al patriarcato si faccia anche attraverso la lingua; un’intervista ad Alessandro Gassman, acclamato protagonista alla Mostra del cinema di Venezia di “Non odiare”, che racconta il rapporto padre e figlio, nei fili delle relazioni con il padre Vittorio e il figlio Leo; e il reportage fotografico di Marta Bellingreri che ripercorre la storia di un circo, che la pandemia blocca in un paesino del messinese, e cambia la vita degli abitanti per sempre. Vanity Fair per l’occasione organizza il suo primo webinar, una tavola rotonda che coinvolge personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e del mondo dei social per parlare di Body Positivity e innescare una conversazione sul tema. La tavola rotonda sarà aperta al pubblico che potrà partecipare con domande e riflessioni, e sarà moderata dal direttore Simone Marchetti. Il video della round table sarà poi disponibile sul sito di Vanity Fair e sui canali social del brand. A questo si affiancano 12 interviste fatte a donne che con la loro bellezza fuori dagli schemi raccontano di come cambia e si evolve il concetto di bellezza per renderlo contemporaneo e inclusivo.

·        Vasco Rossi. 

SU VANITY FAIR. Vasco Rossi : «Sono un sopravvissuto. Alle Br, alla droga, alla depressione. E al coma, 3 o 4 volte». Vasco Rossi a Cesare Cremonini: «Sono un sopravvissuto. Alle Br, alla droga, alla depressione e al coma. Ma credo nella speranza».  Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 18 novembre 2020. Il rocker si confessa a Cesare Cremonini, nominato direttore della rivista per un giorno. E ripercorre la sua lunga cavalcata tra cinque decenni, buoni e meno buoni. . Speranzoso sul futuro. Del resto lo cantava già nel 1993. «Vivere o sopravvivere». Il Vasco pensiero esce da una canzone e diventa una lettera: «Se non sono un sopravvissuto io... io sono un… Super Vissuto!». A stimolare la penna del rocker è stato Cesare Cremonini. Il cantautore di Bologna è il direttore artistico del numero di Vanity Fair in edicola oggi. Con un’email ha invitato il rocker a riflettere su un presente difficile: per la musica con i concerti fermi e i lavoratori che devono andare a fare le consegne per Amazon per portare a casa lo stipendio, ma complicato per chiunque. «Una piccola lettera sulla sopravvivenza» è la richiesta. Dopo i convenevoli («sto bene, grazie. o meglio... tengo duro») Vasco entra nel vivo. «È veramente un brutto periodo. Per tutti. Una catastrofe planetaria che nessuno avrebbe potuto immaginare, sarebbe stato peggio solo... se ci avesse colpiti un meteorite!». Niente live, niente stadi, niente fan sotto il palco... «Nessun sistema sanitario può reggere a lungo in una emergenza del genere... E noi? Dovremo ancora stare chiusi in casa... E... Per noi che abbiamo bisogno di urlare, di cantare, di “assembrarci”… è ancora molto lontana la possibilità di fare concerti... Ma sopravviveremo anche a questo...». La certezza del rocker è la certezza dell’esperienza di un «sopravvissuto» o, appunto, un «Super Vissuto». Il Kom ne ha passate tante, ma veramente tante, e prova a fare un elenco che corre in parallelo a quello dei suoi successi. Scorre l’album fotografico della sua vita. Si parte da un ragazzo sull’appennino emiliano. «Sono sopravvissuto alla “noia”. Vivendo a Zocca sapevo che da lì bisognava partire perché se sei in pensione ci stai benissimo, ma a 20 anni non c’è niente da fare». E allora ecco che passa il «treno» di Punto Radio che «fondai con il mio gruppo di amici storici». Lo sguardo si apre alla scena nazionale. «Sono sopravvissuto agli anni ’70. Quando c’erano gli anni di piombo, le Brigate rosse, Lotta Continua e Potere Operaio». Lui si era chiamato fuori dagli schieramenti ideologici, si sentiva un «indiano metropolitano» un «uomo anarchico» e gli «sembravano dei matti quelli che si chiamavano “potere operaio” ed erano studenti, come gli altri che si chiamavano “lotta continua”, e poi al pomeriggio tornavano tutti a casa, dai genitori... perché erano studenti… E la loro lotta continua finiva lì. (Che poi, si sa, come sono finiti, tutti a lavorare per i Berlusconi, bene o male)». Strappa un sorriso quando racconta che stava con una femminista in stile «sincerità e dialogo nella coppia innanzitutto» che però «alla mia prima confessione di tradimento, mi ha mollato». C’è sempre un velo di ironia nelle parole di Vasco. Serve per rendere meno pesante quello che, come la vita lo è per definizione. L’elenco prosegue con gli anni Ottanta «quelli più stupidi del secolo, ma anche i più belli e divertenti», quelli del sogno poi realizzato «del rock in italiano» con canzoni che erano «sberleffi e provocazioni contro i perbenisti, i moralisti, i furbetti»: «Sono sopravvissuto alla droga e agli eccessi di quegli anni. Ne ho combinate di cazzate, Ma le ho anche pagate tutte». Il decennio successivo non è stato una passeggiata. La carriera lo solleva in vetta alla musica italiana, nella vita privata arriva la famiglia «la scelta più trasgressiva» per un rocker: «Sono riuscito a tenere in piedi quella famiglia! Grazie naturalmente alla Laura che ne è stata l’artefice e una compagna straordinaria. Abbiamo amato il “progetto famiglia”, qualcosa di solido che si costruisce insieme, che va oltre alla passione e si trasforma via via in affetto, amore». Degli anni Zero Vasco ricorda di essere «andato in depressione» perché «gli amici hanno cominciato a morire intorno, Lolli, Massimo, Marietto…». E passato quello ecco gli anni 10, che se da un lato vedono «Eh... Già» incoronata canzone «più significativa e rappresentativa di inizio secolo» (proprio da un sondaggio di Corriere) dall’altro gli mette di fronte «tre malattie mortali, nel 2011, quando sono andato in coma per 3 o 4 volte». Ed eccolo Vasco davanti alla pandemia, «questo Covid del cazzo». La certezza che «sopravvivrò anche a questo» a meno che non «morirò di noia per il lockdown». Eh no, non è il pessimismo che prende il sopravvento. «Ho una nuova canzone che esce il 1 gennaio 2021 e ..sarà una canzone d’amore».

GIULIANO FERRARA per Il Foglio il 18 settembre 2020. Maleducato, esagerato, spericolato, uno che non dorme mai, uno pieno di guai, un vitellone del 7 febbraio 1952, uno anche invecchiato (lo dice un tizio che è nato un mese prima di lui), e finalmente diventato saggio, ecco a voi Vasco Rossi, che ha venduto 40 milioni di copie, si è fatto 22 giorni di galera perché era fatto, e ora si presenta come un bel manzo di Modena, vabbè Zocca, capace di mandare a farsi fottere varie specie di negazionisti, di mettersi le mascherine anche sulle mani, di inchiodare il nostro amico bellimbusto Nick Porro storpiando il suo nome come faceva con gli avversari il romagnolo Pietro Nenni, altro grande vitellone del maggiore socialismo italiano, e dunque botte a quel tal Nicola Perro, botte festaiole, aperte come la sua cadenza, come la sua faccia, come la sua storia di bravo ragazzo ribelle che si fa vivaddio conformista in età matura e più che matura. Uno Steve McQueen bariccato alla grande, o meglio un bevitore di Lambrusco al Roxy Bar, è la nuova prova della capacità sistematica dell'italiano di farsi assorbire dalla realtà, di trasformarsi e mascherarsi, mascherina chirurgica, seguendo il solco basso padano delle circostanze, immergendosi nel fiume vivace, turbolento delle cose che cambiano, dei tempi che attendono da lui nuovo riscontro, fino al punto di diventare, da seguace del re del cool, idolo chiassoso e verace di una vita protetta, del civismo nel rapporto con gli altri, perché va bene non dormire mai, sognare sempre, ma fino a un certo punto. Nel mio monumento deamicisiano a questa grandissima nuova icona vivente scriverei: "A Blasco che da mistagogo della religione della gioventù si fa pedagogo e maestro di vita adulta". Pedagogo allegro, polemico, bizzarro, strapaesano, uno della provincia internazionale del rock che non la beve, un apota, l'italiano che ha ricordato le rotelle della carrucola alla quale si appendevano i piccoli trasvolatori del Panaro per andare a scuola, proprio nei giorni in cui era tanto cool prendersela con i banchi a rotelle monoposto. Il dottor Rossi, che come me non è laureato ma è molto dottore, quasi quasi professore, ha messo la sua immaginazione di diplomato di talento al servizio della patria nel momento del bisogno, e contribuisce a liberare dall'anticonformismo convenzionale della sottocultura libertaria la buona e brava famiglia italiana. Mattarella dovrebbe nominarlo seduta stante Cavaliere di Gran Croce e forse anche Cavaliere del Lavoro. I giornali dovrebbero dedicargli poster, i poeti versificarlo con empito carducciano, l'intellettuale ganzo prendere esempio da lui, da questo sommo e divagante eroe della vita che scansa i pericoli, le esagerazioni e la maleducazione. Solo un tipaccio che ha fatto tanti soldi con il suo lavoro e ha fatto sognare e fremere anche troppo in decenni fatali come i Settanta e gli Ottanta poteva requisire d'autorità l'hangover di generazioni che ora si trovano, nel Ventunesimo secolo, a combattere i postumi dell'ubriachezza dei padri e delle mamme. Dietro al suo largo sorriso mascherato, le sue parole bagnate nell'ortica, dietro ai suoi video assassini e creatori, dietro a Vasco si intravede una tremenda e focosa verità: la maleducazione è l'ultimo rifugio della bella gente.

Davide Rossi a processo, iniziato il procedimento per omissione di soccorso. Iniziato il processo a carico di Davide Rossi, figlio di Vasco, per un incidente accaduto nel 2016 a Roma: è accusato di omissione di soccorso e lesioni gravi. Francesca Galici, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. Il primogenito del rocker Vasco Rossi è coinvolto in un processo che lo vede imputato per lesioni gravi e omissioni di soccorso stradale per un incidente avvenuto nel 2016 nel quartiere Balduina di Roma. Davide Rossi, trentenne all'epoca dei fatti, viaggiava in auto con una ragazza e con un amico, che ha dichiarato di essere stato lui alla guida del mezzo coinvolto nel sinistro stradale. Ora, l'attore si trova a difendersi da un'accusa grave e questa mattina davanti al giudice monocratico di Roma ha fornito la sua versione dei fatti, riportata dal Corriere della Sera. "Ci siamo fermati, siamo scesi dalla macchina e abbiamo chiesto alle ragazze nell'altra auto se fosse tutto a posto e loro ci hanno risposto di sì", ha detto Davide Rossi, che ha successivamente fornito la sua versione dei fatti immediatamente successivi all'impatto con l'altra vettura."Ho detto al mio amico di fare la costatazione amichevole e me ne sono andato con la ragazza perché era molto scossa dall’incidente, sapendo che stavano facendo il cid ero tranquillo", ha dichiarato il giovane Rossi, che ha poi voluto fare una precisazione per smentire alcune voci sul suo conto che sono circolate nei giorni immediatamente successivi all'incidente. "Non navigo nell’oro e non ho un lavoro stabile i giornali hanno scritto cose allucinanti su di me ma mi prendo pregi e difetti di essere figlio di Vasco", ha detto Davide Rossi davanti al giudice, respingendo tutte le accuse di essere un figlio di papà e viziato. Insieme a Davide Rossi è stato sentito anche S.S., l'amico che era con lui in auto e che sarebbe stato alla guida del mezzo nonostante la sua patente fosse scaduta da circa 4 mesi. "L’ho scoperto dopo", ha dichiarato davanti al giudice. L'amico dell'attore secondo i giudici si sarebbe assunto la responsabilità del sinistro per togliere dai guai Davide Rossi ed evitare il clamore mediatico. Per questo motivo S.S. deve difendersi dall'accusa di favoreggiamento. Tuttavia, l'avvocato del giovane è sicuro che in sede processuale i giudici potranno chiarire ogni dubbio. perché, secondo lui, "la vicenda è nata da un fraintendimento dovuto alla concitazione di quei momenti". L'incidente avvenne la sera del 16 settembre 2016 a causa di uno stop superato, senza l'adeguato controllo e senza garantire la precedenza ai veicoli che sopraggiungevano, a velocità sostenuta oltre i limiti consentiti. L'impatto con la vettura guidata dalle ragazze a bordo della Panda è fortissimo. La ragazza alla guida ha subito un trauma al collo con prognosi superiore a 40 giorni mentre l'amica che sedeva al suo fianco ha subito la frattura delle costole. Pare che Davide Rossi non si sia fermato a prestare soccorso e che non abbia chiamato il 118, allontanandosi di fretta con l'amica a bordo della sua auto.

LUCA VALTORTA per repubblica.it il 17 giugno 2020. I quadri dietro alle spalle di Vasco sono inequivocabili, la mano è quella di Federico Fellini: "Mi trovo a Rimini nella suite dedicata a lui e sto facendo anche le veci del grande maestro, con rispetto parlando", scherza. Sembra contento Vasco Rossi, nonostante le avversità. Come ha dichiarato al Tg 1 è lì perché erano in programma le prove dei suoi concerti che però sono saltati: "Ieri però è successa una cosa molto divertente perché sui miei social ho festeggiato l'uscita del mio primo 45 giri, che risaliva a ben 43 anni fa dove c'era una canzone che a quanto pare piace ancora molto. Si intitolava Silvia. A quel punto mi è arrivato un WhatsApp con la fotografia della sua ispiratrice, Silvia Benuzzi, che abitava vicino a casa mia e nella foto era esattamente come io la ricordavo per cui mi ha colpito molto, mi ha fatto venire in mente quegli anni e mi ha emozionato tanto. D'istinto l'ho pubblicata: Silvia era un fiore che sbocciava alla vita". Se provate a immaginare che voce potesse avere Silvia, beh, è proprio come quella che risponde al telefono, giovane, delicata e squillante, un distillato di femminilità: "Vasco mi colse proprio di sorpresa quella sera: eravamo tutti alla discoteca di Zocca dove lui presentava quel suo primo disco. Lo comprai e ce l'ho ancora. Disse che era ispirato a una ragazza del paese, io allora avevo 15 anni. Capii che potevo essere io perché a un certo punto tutti mi guardavano finché un amico mi dice: 'Guarda che parla di te!'". Ma vi conoscevate? "Sì certo, Vasco lo conoscevo. Anche i nostri padri si conoscevano ma lui apparteneva a un gruppo di ragazzi più grandi. Io allora abitavo proprio sopra il nostro bar, il bar Olimpia. Era famoso anche perché siamo stati i primi a portare le tigelle fatta alla maniera di Zocca, in pianura e poi perché era un punto di ritrovo". Vasco invece abitava sopra il bar Trieste "Sì, esatto, che era il bar di fianco". Lei conosceva anche la Giovanna, l'ispiratrice di Albachiara? "A Zocca di vista ci si conosceva, certo, ma ovviamente non con tutti c'era una conoscenza approfondita". Certo che non è male avere un vicino di casa che scrive canzoni che restano nella storia... Ma è vero o no che sua madre la sgridava perché si truccava troppo, come dice la canzone? "In quel periodo avevo appena iniziato a truccarmi e mia madre, che era una maestra era piuttosto "attenta" ai miei comportamenti e forse è capitato che qualche volta Vasco lo avesse notato. Più che altro insistevo molto per andare a ballare, quello sì, del resto era l'età...". Silvia oggi insegna Scienze umane in un liceo di Modena. Le canzoni di Vasco le sono sempre piaciute. "Non ho mai smesso di ascoltarle. Io ancora oggi sono una romantica, per cui mi commuovono brani come Gli angeli o Vivere". E ogni tanto capita di rivedere Vasco... "Zocca mi è rimasta nel cuore. Anche se oggi vivo a Modena: ci torno in vacanza. Quest'estate l'ho incontrato e gli ho chiesto di firmarmi il famoso 45 giri. Gli ho detto: 'L'ho tenuto tutto questo tempo nel cassetto, adesso me lo devi firmare'". E lui? "Ha riso e l'ha fatto subito". A quanto pare dai tempi non è cambiata... "Sono sempre stata molto timida, ancora adesso ogni tanto mi perdo nei miei pensieri e forse a volte sembro un po' scontrosa ma non è così, sono solo introversa e quindi silenziosa". Il ricordo più bello di Vasco? "Il concerto di Modena Park. Ci sono andata con mia figlia, che adesso ha 22 anni, e con mia sorella: è stata come una favola!"

Vasco: «Soffro e non scrivo. Il virus ha fermato le mie canzoni». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Sono in 400mila, sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a ripartire. Parliamo di tutto il personale coinvolto nella produzione del cinema, del teatro, della danza, dei concerti. È fra i settori più colpiti e da sempre poco considerato. Sulla musica impatteranno moltissimo i grandi concerti estivi: non potremo godere di questa goia liberatoria e trascinante perché sono tutti rimandati all’anno prossimo. Per intervistare un artista bisognerebbe essere un po’ artisti — e non lo sono — lui non ama farsi intervistare e ho un dichiarato conflitto: è un amico. Vasco.

Tu dove eri quando è esploso tutto l’ambaradan?

«Ero a Los Angeles. Quando ho cominciato a capire che la faccenda diventava seria ho cercato di rientrare in Italia».

Erano i primi di marzo.

«Esatto. Prima sembrava una cosa così, che riguardava solo la Cina. Poi sì, è arrivata anche da noi, ma non mi ero reso conto, non pensavo sinceramente alla pandemia. Poi ho cominciato a capire e volevo rientrare, ma ho iniziato a trovare problemi: è stata un’odissea: praticamente ogni volta che trovavo un volo poi veniva cancellato».

Alla fine sei rientrato con l’ultimo volo.

«Ecco, il bello è questo, sono tornato con l’ultimo volo che partiva da Los Angeles: il giorno dopo gli Usa hanno chiuso tutti quelli con l’Europa».

Il lockdown a te non ha fatto né caldo né freddo. Non uscivi nemmeno prima...

«Sì, c’è da dire che la mia vita sociale non è molto intensa: già non esco, sono più o meno sempre in isolamento. Ma questa esperienza è stata molto forte anche per me... quando non potevo uscire neanche per una passeggiata mi sembrava una cosa pazzesca e poi non capivo il motivo: perché, dicevo, se vado da solo...».

Ti era venuta voglia di uscire adesso che era proibito, è così?

«Beh è chiaro, quello è un po’ il senso... quando una cosa non la puoi fare...».

Quando hai realizzato che la stagione saltava all’anno prossimo, con tutta la preparazione dei cinque megaconcerti, come l’hai presa?

«Ho iniziato a capire durante il lockdown. Ho cominciato a pensare: ma questa storia è difficile che possa risolversi in fretta. L’impossibilità di avere contatti fisici creava la condizione per cui non si potevano fare concerti nemmeno a giugno. A quel punto mi è crollato il mondo addosso: è da un anno che seguiamo questo progetto, ci avevamo già lavorato, già fatto tutti gli arrangiamenti, io ero già pronto per partire...»

Ma la cosa più difficile è stata dover ammazzare il tuo entusiasmo perché eri carico o dire a tutti i tuoi: signori si salta?

«Un po’ tutte e due. Per me fare i concerti è importante anche dal punto di vista psicologico. Io per fare i concerti mi devo tenere in forma, non mi devo lasciare andare: è un motivo per svegliarmi la mattina. Senza i concerti mi casca un po’ tutto. Pensavo si potessero rimandare a settembre, ma quando ho capito che anche lì sarebbe stato impossibile, ho preso la cosa di petto, mi sono detto “va bene saltiamo un anno e pensiamo a non ammalarci”».

È meglio tirare a campare che tirare le cuoia.

«Esatto».

Un grande artista può permettersi di saltare una stagione o anche due, ma per tutti quelli che campano di questo, per cui saltare anche solo una data vuol dire non sapere come pagare l’affitto! Solo attorno a un tuo concerto ruotano quasi 1800 persone...

«Infatti, di solito la gente non lo sa».

Sono invisibili, è come se il concerto fosse rappresentato solo da chi è sul palco...

«Invece c’è un mondo di persone che lavora. È stato il pensiero che mi è venuto: come fanno tutti questi che rimangono senza lavoro, che hanno difficoltà molto più grandi delle mie dal punto di vista economico. Io posso stare un anno fermo».

E quindi cosa hai fatto?

«Avevamo pensato di fare un fondo di solidarietà dove noi artisti avremmo, ognuno secondo le proprie sensibilità, depositato delle cifre. Avevo sentito anche Jovanotti, erano tutti d’accordo».

Anche Laura Pausini, no?

«Sì, anche lei, io la chiamo Pausella, le voglio molto bene. Lei ha avuto l’idea di fare una lettera aperta e di firmarla tutti e chiedere aiuto a Conte, perché agli inizi di marzo quei lavoratori non erano neanche considerati».

No, li hanno considerati settimana scorsa e hanno stanziato un miliardo di euro per musica, teatro, cinema.

«Ecco, voglio pensare che sia stato anche grazie a noi artisti, dopo questa lettera che è stata firmata da tutti. Poi ci siamo detti: perché non costituire un fondo di sostegno per i lavoratori dello spettacolo? Ma il problema è a chi affidarlo: non c’era un’organizzazione, è una cosa abbastanza complicata».

Però c’è tra di voi la volontà di discuterne per dire: tiriamo tutti fuori un po’ di soldi?

«Sì, certo. Noi siamo disponibili, tutti gli artisti, penso. Intanto abbiamo pensato ognuno a proteggere i propri: io proteggo i miei collaboratori; penso alla mia squadra, una trentina di persone più o meno. Ognuno pensa ai propri, così siamo sicuri che quello che facciamo arriva. Poi c’è questo decreto... 600 euro saranno pochi, ma li riconosce anche ai lavoratori di quel tipo, è importante. In Italia c’è questo concetto che gli artisti sono considerati personaggi tra il circo e l’orchestrina: non sono considerati cultura». Ma il pil prodotto dalla cultura, a partire dalle biglietterie - tre milioni di biglietti venduti solo per concerti - è un pilastro. È più trascurata dalla politica, ma non saprei se la gente la considera non importante, visto che l’arte può rendere più sopportabili le giornate peggiori...

«La gente si rende conto benissimo di cosa vuol dire non averla. Per chi frequenta concerti, non potersi trovare tutti ammassati... il bello è quello, potersi assembrare. Noi abbiamo il problema che se non possiamo assembrarci non ci divertiamo. Quando ci potremo riassembrare? Vorrei che gli scienziati si dessero da fare un po’ di più, che trovino questa cura...».

Mi pare si stiano dando tutti molto da fare e che ognuno dica la sua, per dirne poi un’altra il giorno dopo. Hai detto che parlare di «distanziamento sociale» è stata un’uscita infelice.

«Sì è una definizione sbagliata: non è distanziamento sociale ma fisico quello di cui noi abbiamo bisogno per non contagiarci. Usare la parola distanziamento sociale è sbagliato perché sottende già una disgregazione sociale che è anche possibile che succeda».

Il distanziamento sociale implica indirettamente una disgregazione sociale?

«Secondo me sì. Già nella scelta del termine c’è questa onda che sta arrivando di disgregamento sociale o di pericolo per la democrazia. Le parole sono importanti, molto importanti». Le parole hanno sempre dei significati...

«E molto precisi, io vivo di parole, io scrivo parole».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità qualche giorno fa ha detto che questa definizione non va bene: ti hanno ascoltato?

«Pensa eh, forse sì».

Nelle tue canzoni usi sempre parole molto semplici per raccontare storie molto complicate. Per noi che le ascoltiamo sembrano così naturali, ma ti vengono spontanee o c’è del lavoro?

«C’è dietro tutto un lavoro per cercare di sintetizzare al massimo. Uso meno parole possibili: la sintesi è stata sempre la mia cifra, ho iniziato così negli anni Ottanta. Ogni parola è distillata».

Come succede? Ti viene in mente una parola e dici: ah come è banale questa qua, ne devo trovare una più efficace...

«No, no è tutto un lavoro che avviene nel momento dell’ispirazione. Quando sono in quel mondo lì penso a delle sensazioni che voglio descrivere e non penso a descriverle usando parole o il linguaggio italiano ma lascio venire fuori le frasi, come se venissero fuori dall’inconscio».

Non è mica facile, sai come vorrei anche io far venire fuori le parole dall’inconscio.

«E infatti è quella la difficoltà di scrivere canzoni per me. Di essere in quella fase lì e di essere abbandonati all’inconscio, ma mantenere quel minimo di razionalità che mi permette di scriverle, di mettere giù una frase. A volte è una cretinata pazzesca ma quella giusta la riconosci».

Come si raggiunge lo stato di inconscio creativo?

«È una situazione molto particolare. Intanto devo essere solo, per forza. E anche molto eccitato. Eccitazione totale, sessuale anche. Poi devi scaricarla sullo strumento, è una sorta di trasporto molto simile alla sessualità...».

Quando componi hai orari regolari? Ti stacchi per pranzare?

«No, neanche per sogno. Ho bisogno di non avere orari, devo vivere in uno spazio e un luogo in cui non ci sono. Sono in un tempo sospeso, può durare tutta la notte fino al giorno dopo. E in quella fase gioco, aspetto che arrivino quelle sensazioni. Delle volte passo notti insonni senza che arrivi niente e mi sento anche molto stupido e molto inutile il giorno dopo».

Tranquillo, capita anche a noi. Siamo un po’ tutti convinti che i periodi travagliati siano di grande ispirazione per gli artisti... Mi chiedo se un periodo come questo stimoli la creatività.

«È sempre nelle sofferenze più grandi che alla fine si va a pescare quando si scrive. Solo che lo fai quando sono già passate: nel momento della sofferenza non fai niente, soffri e basta. Io soffro e basta, non è che scrivo una canzone. Magari dopo, quando è passato, ricordo quel momento e magari finisce in una canzone tutta l’intensità di quel momento lì. Però adesso sono troppo attonito, frastornato, allibito e incantato da questa situazione così pazzesca, da queste città vuote... una cosa allucinante, nelle scorse settimane sembrava di vivere in un film di fantascienza, di quelli che abbiamo visto ma mai avremmo pensato di vivere. Sono stato anche contento di essere arrivato a vederlo: ormai ho una veneranda età, avrei potuto essere già andato da tempo. Ho bruciato la candela da tutte le parti, in effetti sono qui per miracolo».

Si vede che sei di stoppa buona.

«Eh quello di sicuro. Penso di sopravvivere anche a questa cosa qua».

Perché sei contento di aver vissuto un momento come questo?

«Non è che sono contento, ma mi rendo conto che sono stato testimone di un evento catastrofico. Molti non lo hanno ancora realizzato, ma è come se fosse esplosa una bomba nucleare, una pandemia globale, mai avrei pensato di vederla».

Quando sali sul palco e hai davanti 60 mila persone, a Modena 250mila, ti senti a casa o hai strizza?

«Io mi sento a casa solo lì. Quando sono sul palco e parte la musica, ecco, tutto quadra, è tutto logico, mi lascio prendere da ogni canzone».

Nessuna tensione, nessuna paura?

«Prima di salire un sacco di tensione, infatti prima bevevo molto, mi ubriacavo molto».

Salivi sul palco bevuto?

«Negli anni Ottanta bevevo prima, poi ho iniziato a fare concerti perfettamente lucido ed è il modo migliore per farli, perché ti rendi conto di tutto».

Le emozioni sono le stesse di vent’anni fa?

«In un certo senso sì, perché quando canto una canzone torno dentro il momento in cui l’ho scritta e la vivo. Per cui mi emoziono, mi incazzo sul serio. Provo sensazioni fantastiche e condividerle con tutta questa massa di persone che provano la stessa emozione nello stesso momento è di una potenza che ti lascia atterrito».

Ti identifichi con quello che sei? Vasco oggi assomiglia a quello che avrebbe voluto essere?

«Ah certo, Vasco Rossi, quello sul palco, quello delle canzoni sicuramente è quello che avrei voluto essere. Nella vita diciamo che invece è un po’ più complicato. Non dico che è una frana, perché ho costruito delle cose nel frattempo, grazie anche alla Laura, una famiglia. Ma per il resto mi trovo spaesato un po’ dappertutto. Ogni volta, in ogni posto che arrivo mi rendo conto che con me arriva anche Vasco Rossi: ognuno ha il suo e di solito non è mai quello che sono».

La cosa che ti sorprende è: perché mi vogliono tutti saltare addosso?

«Ma ho molto piacere quando le ragazze mi baciano, hanno cominciato a un certo punto, dopo dieci anni che scrivevo canzoni. Arrivavano e mi davano un bacio, facevo loro tenerezza».

Quanti figli hai?

«Ne ho tre, due sono figli biologici, nel senso che non sono cresciuti con me, sono arrivati grazie alla provvidenza. Poi Luca, molto desiderato».

C’è una cosa che non riesco a perdonarti: spiegami perché non ti piacciono i Beatles?

«Perché mi piacciono i Rolling Stones».

Sei un musicista: non puoi dirmi «se amo i Rolling Stones mi fanno schifo i Beatles»...

«Ma se ami i Rolling Stones ami un certo modo di fare musica; lo sberleffo, la provocazione, cose che non sono dei Beatles. Non dico che le loro canzoni siano brutte, ma hanno sempre avuto l’aspetto dei bravi ragazzi».

Beh bravi ragazzi, ne hanno fatte anche loro, sono andati anche in India dal santone...

«Pensa, hanno fatto anche quello ma non me ne sono accorto. Alla gente non è arrivato questo messaggio, è arrivato quello dei bravi ragazzi».

Mica serve essere cattivi per fare bella musica.

«La musica è bella ma io non l’ho mai ascoltata perché ero prevenuto, amando il rock. Ancora oggi quando vedo Paul McCartney non mi emoziono. Mi piaceva di più John Lennon, mi sembrava uno dei Rolling Stones».

Eh, anche perché poi è morto giovane e male.

«Beh morto male, gli hanno sparato. È un punto di vista, ma ci sono modi di morire peggiori».

Morire a 40 anni è sempre un brutto modo.

«Beh chiaro, ma morire di colpo... ci farei la firma per una morte così eh».

Però non si può chiudere un’intervista così...Pausa. Poi inizia a cantare, quasi un sussurro.

«Vivere, è passato tanto tempo, vivere, è un ricordo senza tempo, vivere, senza perdersi d’animo mai e combattere, lottare contro tutto contro. E poi: vivere e sperare di stare meglio, vivere e non essere mai contento... vivere».

E sorridere.

Vasco Rossi si sfoga su Facebook: «Io, un emarginato di lusso: non posso andare da nessuna parte». Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. Un emarginato. Di lusso, ma pur sempre emarginato: così Vasco Rossi si descrive in un messaggio pubblicato sulla sua pagina Facebook. Il rocker di Zocca, che ha sempre fatto della verità il suo vessillo, si è lasciato andare ad una riflessione in cui affronta il suo rapporto con il successo: «All’inizio essere famosi era molto divertente - racconta - perché la vivevo come una conferma che esistevo. I primi successi mi diedero l’illusione di aver risolto tutti i problemi. Poi sono arrivati i prezzi da pagare». Il Blasco ovviamente è consapevole di non potersi lamentare («sarei un pazzo») perché «la popolarità è la conferma del valore» delle cose che ha fatto, ma ha un unico, grande, rimpianto: «Mi spiace solo non poter camminare per strada, entrare nei negozi, entrare in un locale tranquillamente». Tutti lo conoscono, «ma io non conosco nessuno, perché ogni rapporto è comunque falsato». Quando la situazione si fa troppo pesante c’è una sola soluzione: «Ogni tanto parto e vado all’estero, dove non mi conosce nessuno. E li mi mescolo alla gente e sto bene». Come fanno personaggi come «Bono, Dylan o Mick Jagger» a gestire la popolarità? «Io ho bisogno della gente, il palco da solo non basta, il rock forse ti salva la vita all’inizo ma non per sempre, perché quando si spengono le luci, il concerto finisce, il disco esce e la gente smette di acclamarti, tu torni a essere quello che sei». Il successo insomma può rivelarsi un’arma a doppio taglio: «Tende a forzarti la mano, a far crescere dentro te la sensazione che tu esista nel mondo in cui ti vede la gente. Ma è sbagliato, perché se credi a queste cose, allora devi accettarne anche le conseguenze: che tu esisti solo se c’è qualcuno che ti vede. E quando non ti vede nessuno? Ti ammazzi?». E constata il cantautore. «Per fortuna questi ragionamenti, queste aberrazioni – vogliamo chiamarle cosi? – non influenzano la composizione. Quando scrivo, ho una sola certezza: quello che hai fatto prima non conta nulla, perché nel rock non esiste la riconoscenza. Non esistono meriti pregressi che ti facciano star comodo. Se tu smetti di fare grande musica, non è che la gente continua a seguirti solo perché una volta la facevi».

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2020. Nel 2001 incide "Siamo soli" (Stupido Hotel, album bellissimo) e non lo fa «tanto per». Oggi, 19 anni dopo, scende nei dettagli e ci spiega il suo punto di vista. Lui è Vasco Rossi e star lì a spiegare di chi stiamo parlando è spazio sprecato (il cantante più famoso che c' è, almeno in Italia, quello degli stadi perennemente pieni, degli osanna, delle scene isteriche dei fan ecc ecc). Ebbene, in periodo di coronavirus e isolamenti forzati anche il Blasco ha i suoi problemi. E tu pensi: «Rossi? Con tutta la fama che c' ha, e tutti i soldi, e tutto il resto?». Sì, Rossi, l' uomo di Zocca, prende coraggio e sulla sua pagina Facebook si sfoga assai. «È così. Rimango un emarginato, lo ripeto sempre. Emarginato di lusso, ma sempre emarginato. All' inizio essere famosi era molto divertente, perché la vivevo come una conferma che esistevo. I primi successi mi diedero l' illusione di aver risolto tutti i problemi. Poi sono arrivati i prezzi da pagare. Ma come potrei lamentarmi? Sarei un pazzo, anche perché la popolarità è la conferma del valore delle cose che hai fatto. Mi spiace solo non poter camminare per strada, entrare nei negozi, entrare in un locale tranquillamente». «Non conosco nessuno» Te lo dice così, con un post come ce ne sono milioni ogni giorno, ma con contenuti tutt' altro che banali, perché pensi al "mito" e ti immagini solo gioia di giorno e aragoste per cena. E invece no, come si dice, «i soldi non fanno la felicità». Cioè, sì, aiutano, ma non se hai un cervello raffinato come il suo. Continua così, Vasco: «Tutti mi conoscono ma io non conosco nessuno, perché ogni rapporto è comunque falsato, capisci? Mi pesa. Mi pesa da morire. Ogni tanto parto e vado all' estero, dove non mi conosce nessuno. E lì mi mescolo alla gente e sto bene». Se pensate «sì, ok, allora facciamo cambio» probabilmente avete ragione, ma provate per un attimo a mettervi nei suoi panni: esci di casa e ti saltano tutti in groppa, vogliono la foto, l' autografo, e tu devi sorridere altrimenti pensano che sei uno stronzo. E se ti capita 10 volte in un giorno puoi anche far finta di nulla, ma nel suo caso ti ferma chiunque e nascondersi diventa una questione di "sopravvivenza". «Mi chiedo come possano sentirsi Bono, Dylan o Mick Jagger - scrive -. Io ho bisogno della gente, il palco da solo non basta, il rock forse ti salva la vita all' inizio ma non per sempre, perché quando si spengono le luci, il concerto finisce, il disco esce e la gente smette di acclamarti, tu torni a essere quello che sei». Eccolo lì, Vasco, "nudo" davanti ai suoi ammiratori, ti dice che in fondo è come tutti, che ha bisogno di contatto e non lo può avere. E se io e te passato il virus cinese torneremo a bere l' aperitivo e a fare i minchioni per strada, lui si ritroverà ancora "solo", famosissimo ma costretto all' auto-isolamento. «Il successo tende a forzarti la mano, a far crescere dentro te la sensazione che tu esista nel mondo in cui ti vede la gente. Ma è sbagliato, perché se credi a queste cose, allora devi accettarne anche le conseguenze: che tu esisti solo se c' è qualcuno che ti vede. E quando non ti vede nessuno? Ti ammazzi?». Scrive così, Vasco, e certo è difficile immedesimarsi, ma qui si tratta della stessa persona che prima di diventare "Iddio della musica" ha toccato il fondo e ora, dopo anni di trionfi e acclamazioni, non riesce più a nutrirsi dei riflettori e sente bisogno di normalità. E tutto ciò dal suo punto di vista è comprensibile, ma per come si sono messe le cose anche impossibile. Liberi da che cosa. Infine il rigurgito di coscienza: «Per fortuna, questi ragionamenti, queste aberrazioni - vogliamo chiamarle cosi? - non influenzano la composizione. Quando scrivo, ho una sola certezza: quello che hai fatto prima non conta nulla, perché nel rock non esiste la riconoscenza. Non esistono meriti pregressi che ti facciano star comodo. Se tu smetti di fare grande musica, non è che la gente continua a seguirti solo perché una volta la facevi!!». Già, è così, liberi liberi siamo noi/ però liberi da che cosa/ chissà cos' è/ chissà cos' è. Ce lo canta da sempre, ha dovuto spiegarcelo con qualche riga su Facebook.

Vasco Rossi: «Mio padre Carlino disse no al nazismo». Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Alfio Sciacca. La Medaglia d’Onore forse è gia in viaggio per la prefettura di Modena e quanto prima verrà consegnata ai familiari di Giovanni Carlo Rossi, detto «Carlino» camionista di Zocca deceduto nel 1979 a 56 anni. Il presidente della Repubblica gli ha infatti accordato l’onorificenza prevista da una legge del 2006 per i cosiddetti «internati militari». Cioè militari italiani deportati nei campi di prigionia nazisti. Non è ancora stato stabilito dove avverrà la consegna dell’onorificenza. Ma sicuramente ci saranno l’anziana moglie di Carlino, Novella Corsi che ha quasi 90 anni e il figlio, cioè la rockstar Vasco Rossi. Quel camionista che non si volle piegare al nazismo e che per questo affrontò due anni di lager era infatti suo padre. Carlino era arruolato in artiglieria e per non essersi piegato ai nazisti venne catturato all’isola d’Elba, quando era poco più che ventenne, e internato in un lager a Dortmund, in Germania. Come lui oltre settecentomila soldati italiani che dissero no al nazismo. La domanda per l’onorificenza era stata presentata nel 2006 dai familiari di Carlino ed ora è arrivato il via libera ufficiale con la firma del capo dello Stato. Più volte la vedova di Giovanni Carlo Rossi e madre di Vasco ha detto che preferirebbe che la cerimonia di consegna avvenisse nella sua cittadina sulle colline modenesi: «Alla mia età cammino male e sarebbe più comodo se mi facessero ritirare la medaglia di mio marito qui in Municipio». Dello stesso parere l’amministrazione comunale che si sta adoperando per poter ospitare la cerimonia in comune. Tempo fa lo stesso Vasco Rossi aveva voluto ricordare la figura del padre con un lungo post. Lo aveva titolalo «l’Ora di..Storia..!!». E a seguire, con orgoglio scriveva: «ERA MIO PADRE. Giovanni Carlo, “Carlino”, Rossi è morto di lunedì, un malore improvviso nel camion. Alla mattina mi hanno chiamato: svegliati perché papà è morto. Sono andato a prenderlo a Trieste, perché era morto là. Era il 31 Ottobre 1979. Mi dispiace solo che mio papa non ha visto niente di quello che ho combinato. È mancato proprio quando ho cominciato. Ne sarebbe stato fiero. Lui era orgoglioso di me anche quando non facevo un cazzo.. Mio padre era del segno del Leone, è stato come se morendo mi avesse trasmesso la sua forza di carattere, come se una parte di lui avesse trasmesso la sua forza di carattere, come se una parte di lui avesse cominciato a vivere dentro di me. La sua assenza improvvisa è diventata un momento chiave della mia vita. L’ultimo suo insegnamento fu: “Sparisco, così ti svegli”. E io mi sono svegliato».

·        Vera Gemma.

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 9 febbraio 2020. Da ragazzina, quando voleva incutere timore, darsi un tono e un ruolo nella vita si definiva la figlia di Ringo ("qualcuno restava turbato"). E in casa ha il corredo adatto all' erede di un celebre pistolero: le rivoltelle sul tavolo del salotto, il cinturone appeso, il cappello di scena, i copioni del padre ben rilegati. Foto. Regali ("questi arrivano dal Giappone). Emozioni complesse da gestire. Vera Gemma questa complessità la porta sulla sua pelle, e quando si definisce una "sopravvissuta" non lo esprime con orgoglio, ma con la semplice consapevolezza di chi ha affrontato la vita a muso duro (Bertoli dixit) e, come in un romanzo di Salgari, ha battagliato con demoni interiori, ucciso pregiudizi, paure, lottato con l' ambizione e visto e fatto cose "che voi umani".

Eppure l' inizio della sua carriera è stato il teatro.

«Ho recitato ovunque: dalle cantine underground di Roma ai palchi ufficiali. Con me c' era spesso Valerio Mastandrea, poi Chiara Noschese».

Mastandrea agli albori…

«A quel tempo era solo ospite del Maurizio Costanzo Show e non aveva mai recitato; appena l' ho visto in televisione mi sono illuminata».

Cosa aveva visto in lui?

«Se ho una capacità, è quella di intuire il talento, ed è una qualità ereditata da mia madre: lei era una manager pazzesca, e mio padre le deve l' 80 per cento della carriera; per lui era agente, avvocato, consigliera, psicologa e qualsiasi altra sfumatura necessaria. Lo migliorava di continuo, e noi figlie appresso a loro.

Esempio.

«Mamma organizzava in casa una sorta di rassegna cinematografica: "Oggi vediamo Chaplin". Alla fine partiva il dibattito tra noi quattro».

Un peso?

«No, felici e partecipi, ed era un'abitudine riservata alla famiglia, mentre lo spazio per gli ospiti era la domenica: allora vivevamo in una villa alle porta di Roma, mamma preparava il pranzo, e il cinema italiano si ritrovava da noi. Da Sergio Leone alla commedia sexy con la Fenech o la Bouchet, fino a star internazionali come Ursula Andress».

Chi l' affascinava?

«Un po' tutto, e mi sentivo frustrata perché messa in disparte. Io volevo affermare la mia personalità in mezzo ai divi».

Ma…

«Non mi capiva quasi nessuno, uno dei pochi a comprendermi era Sergio Leone: mi regalava sguardi e attenzioni, come se avesse intuito in me un potenziale; mentre per gli altri ero una bambina rompicoglioni».

Come attirava l' attenzione?

«Soprattutto con l' imitazione delle attrici presenti, cercavo la risata. Papà si divertiva, solo che non la smettevo mai; (cambia tono) il vero problema è che le donne presenti erano tutte pazzesche, di una bellezza assurda, e non mi sentivo all' altezza, capivo di dover lavorare su altri piani per pareggiare i conti.

La Fenech regina.

«A lei un giorno dissi: "Tu sei bella, ma una donna si giudica la mattina quando si sveglia"».

Tosta.

«Una scuola di rivalità non da poco».

Sua sorella?

«Completamente diversa, ha sviluppato un rifiuto per tutto ciò che è il mondo dello spettacolo, dell' apparire, ed è introversa. Già allora era molto più bella di me, e sempre le domandavano se voleva diventare attrice, mentre a me quell' interrogativo non lo poneva nessuno».

E lei…

«Soffrivo da morire e pensavo: "Questi non hanno capito un cazzo: lei è bella, ma il talento sono io"».

Andava sui set?

«Certo, anche lì frustrante: stavo in disparte e zitta, mentre intorno a me vedevo e vivevo ogni sfumatura come fantastica, tanto da alterare totalmente il mio rapporto con la realtà; in parte è ancora così».

Cioè?

«Ho un pessimo rapporto con tutto ciò che è pratico: dalla burocrazia alle bollette, alla spesa. Mi stresso. E dentro di me voglio restare nel sogno».

Quando ha capito che il mondo del cinema non è solo "fantastico"?

«Già da piccola, e in fondo alla mia anima, sentivo che qualcosa non tornava; pensavo: 'È tutto perfetto, non quadra'. Così da adolescente ho iniziato a scappare e cercare altri mondi, fuggivo in borgata, mi infilavo nelle realtà più degradate e pericolose per aggiornare i miei parametri».

In quali borgate andava?

Ovunque ci fosse perdizione, muretti, strade, personalità inedite; poi per sperimentare sono andata in California».

E lì?

«Una sera entro in un celebre locale di striptease di Los Angeles, il The Body Shop, dove aveva lavorato anche Courtney Love (cantante e moglie di Kurt Cobain) e mi sono innamorata del posto, un sogno. Desideravo diventare una di loro.

Obiettivo raggiunto?

«C'era un livello artistico elevato, ogni performer si creava il personaggio, il suo spettacolo, compresi i vestiti e le musiche; così andai dal proprietario e gli chiesi la possibilità di un provino. Il giorno dopo ero lì. Dopo dieci minuti sul palco».

Com' è andata?

«Bene, poi guadagnavo tantissimo: anche 800 dollari al giorno con turni di 12 ore. E questa storia è andata avanti circa un anno; (ci pensa) in quel periodo ho raccolto tanto materiale, ho parlato con le artiste, volevo scrivere un libro».

Cosa le ha dato quel palco?

«Mi piaceva la sensazione di essere un desiderio irraggiungibile, vivevo una sensazione di forza, di dominio, di superiorità. Una Dea».

A differenza delle domeniche a casa sua.

«Proprio così: allora vivevo nella bellezza, con l' esempio di perfezione incarnato in mio padre. E non ero all' altezza; ancora oggi quando scoprono di chi sono figlia mi guardano e poi aggiungono: "Davvero? Non gli somigli"».

Soffriva la bellezza di suo padre?

«No, ne restavo incantata e non mi sono mai abituata, ogni volta che lo vedevo mi stupivo. Mi scocciavo solo per le sue disattenzioni, la sua scarsa voglia di capirmi».

A Los Angeles chi erano gli avventori del locale?

«Di tutto. Un pomeriggio è arrivato pure Quentin Tarantino e mi sono nascosta in bagno: lo conoscevo».

Grande fan di suo padre.

«Sfegatato, ed ero stata a casa sua grazie al fidanzato di Asia (Argento): un giorno scopro che è molto amico di Tarantino e gli chiedo se posso andare da loro per cucinare italiano. Dopo pochi giorni mi arriva un' email con l' indirizzo e una specifica incoraggiante: "Quentin è felicissimo, ti aspetta"».

Perfetto.

«Sono partita da Roma con il guanciale nascosto in valigia. Sono arrivato a casa di Quentin e mi ha mostrato la cucina, mi sono chiusa lì, ignorata, mentre gli altri stavano in salotto a discutere di cinema. Porto a tavola la carbonara, Tarantino l' assaggia, e con la bocca mezza piena sentenzia: "Ho capito quanto ho mangiato male fino a oggi"».

E poi?

«Finito il pasto ci ha portati nella sua sala cinematografica, costretti a vedere due film con papà: Un uomo da rispettare e L' arciere di fuoco, quest' ultimo pure noioso, solo a lui può piacere».

Com' è andata?

«Ero concentrata, dovevo restare lucida, così rifiutavo il vino, mentre loro gli davano giù e nelle scene salienti mi stringeva la mano. Li sapeva a memoria».

Lei e suo padre.

«Per fortuna ci siamo ritrovati negli ultimi anni, quando ho realizzato un documentario dedicato a lui, una sorta di dichiarazione d' amore mai espressa prima, e po' per l' egocentrismo d' attore e un po' per la sensibilità da genitore, abbiamo iniziato a parlare tanto. Come mai prima».

Una fortuna.

«Sì, perché papà è morto subito dopo, e quel documentario ha chiarito i lati portanti della nostra e della mia vita e per assurdo sono riuscita a vivere l' addio meglio di mia sorella».

Le amiche venivano a casa per incontrare suo padre?

«Sono cresciuta con tutte che sospiravano un'ammazza quanto è bono, e verso i 40 anni era di una bellezza assurda; però il top lo raggiungevamo con il tour dei giapponesi; (ride) e poi uno capisce perché sono cresciuta un po' strana».

Cosa accadeva?

«Dal Giappone organizzavo un pacchetto completo con viaggio in Italia e visita alla villa di Giuliano Gemma, quindi al cancello di casa parcheggiavano i pullman e io, mia sorella e papà eravamo costretti a indossare il kimono e accogliere i fan. Tutti in fila per una foto con lui, mentre noi due prendevamo i doni».

È una sopravvissuta?

«Tante volte, a partire dal dolore per la morte di mia madre: cinque anni di malattia, con lei che non mi ha mai preservata da nulla, cruda nelle sue verità: "Preparati, manca poco, c' è un Dio per tutti, trova il tuo e continua a lavorare". Anzi, lo pretendeva: la sera andavo in teatro e il giorno l' assistevo; e poi sono sopravvissuta a una serie infinita di situazioni pericolose nelle quali mi infilavo».

Quindi da se stessa…

«Mai posta limiti di nessun tipo, ho frequentato chiunque, mi sono ritrovata in un' auto inseguita dalla polizia».

Tutto ciò la unisce molto ad Asia Argento?

«Ce lo diciamo sempre: "Madonna che culo a essere ancora vive".

Da cosa è dipendente?

«Dalle emozioni forti: anni fa mi sono fidanzata con un domatore e con lui sono entrata nella gabbia dei leoni, e dopo un po' di pratica mi sono esibita al circo».

La Vera Gemma di 49 anni cosa direbbe alla Vera Gemma di 18?

«Non c' è molta differenza: a modo mio sono stata una bambina prodigio, a 7 anni già leggevo Moravia e avevo pensieri non della mia età. Quindi a 18 ero oltre e purtroppo avevo pochi amici».

E con Asia Argento?

«Con lei ho la sensazione di avere una persona al mondo, almeno una, che mi capisce».

Come giudica la sua battaglia sul #MeToo?

«Non ho partecipato molto e ci sono aspetti legati a lei dai quali mi dissocio, e non abbiamo la necessità di condividere sempre tutto».

È in disaccordo?

«Non è questo il punto: è una sua battaglia, un suo credo profondo, ma certi traumi li ho vissuti insieme ad Asia».

A cosa si riferisce?

«Ero con lei al Festival di Toronto quando Weinstein ci inseguiva dappertutto e noi scappavamo disperate».

Ha molestato anche lei?

«No, era fissato solo con Asia, a me spettava il ruolo di carabiniere atta a proteggerla, con questo energumeno che veniva a bussarci alla camera d' hotel e noi chiuse dentro, terrorizzate».

Lei e l' Argento avete un tono di voce simile.

«Ce lo dicono tutti, e spesso coincide il modo di parlare; forse perché abbiamo passato tanto tempo insieme».

E insieme siete partite per Pechino Express , in onda da martedì.

«Siamo finite in villaggi dell' Oriente così estremi, dove gli abitanti non avevano mai incontrato un occidentale».

Fisicamente duro?

«Stremante, vivi tutto il giorno per strada, mangi se riesci, e dormi dove capita, magari in uno sgabuzzino circondata da ragni e gatti randagi».

Però…

«Sono soddisfatta, ho dimostrato chi sono, il mio reale carattere, le ambizioni, il non essere viziata, sapermi adattare».

Viziata…

«Sono oggettivamente cresciuta nel lusso, nelle ville, papà guadagnava tantissimo, per fortuna l' educazione è stata diversa: sacrificio, sport e nessuna lagna».

Sport obbligatorio?

«Sempre, tutti i giorni, potevo scegliere solo la disciplina, l' importante era il sacrificio fisico: alla fine, con mia sorella, per dieci anni ho frequentato una scuola di tip tap, e i miei che alle proteste rispondevano: "Ti servirà».

È servito?

«Mai! Eppure ogni volta lo specifico ai provini, mai nessuno ne è rimasto colpito. L' unica speranza è partecipare a Ballando con le stelle da Milly Carlucci».

Lei e i soldi.

«Me ne sono sputtanati tanti, con al mio fianco una lunga serie di fidanzati squattrinati e sfruttatori. Pagavo tutto io».

Droghe.

«La curiosità mi ha portato a provarle tutte, mi sono salvata solo perché non sono mai stata dipendente da niente».

Chi è lei?

«Sono buona, sono cattiva, sono estroversa, sono chiusa. Sono tutto e l' opposto di tutto. Ma in realtà sono vera, con la "v" sia maiuscola che minuscola».

È stata mai giudicata "matta"?

«Tutta la vita, e mi fa soffrire tantissimo».

Un pensiero che le regala un sorriso.

«Un momento intenso con mio padre: mentre montavo il documentario, e a un certo punto l' ho guardato e manifestato un mio turbamento: "Papà, non riesco a liberarmi della bambina che ho dentro". E lui: "Tienila con te, è la parte più bella che hai"».

(Una poesia di Costantino Kavafis recita: "Non conobbi legami. Allo sbaraglio, andai. A godimenti, ora reali e ora turbinanti nell' anima, andai, dentro la notte illuminata. Mi abbeverai dei più gagliardi vini, quali bevono i prodi del piacere").

·        Verona van de Leur.

Tommaso Pellizzari per corriere.it il 16 aprile 2020. La prima vita di Verona van de Leur le ha portato 5 medaglie agli Europei di ginnastica a Patrasso e il titolo di Sportiva olandese del 2002. Ed era una vita costruita su allenamenti così pesanti da provocare numerosi infortuni e durante i quali i tecnici andavano a frugare nelle borse per trovare merendine nascoste da far scontare con umiliazioni pubbliche: «Hai presente quei documentari con le ragazzine che piangono? Ecco, quello». Ma in famiglia era anche peggio, visto che i genitori la costringevano a tornare a casa coi mezzi pubblici dall’aeroporto se non aveva finito la gara fra le prime tre. E anche quelli erano bei tempi, visto che comunque presto o tardi nella sua abitazione riusciva a entrare, a differenza di quanto le successe nel 2008, dopo avere annunciato il ritiro: una sera, arrivò a casa e scoprì che i genitori avevano cambiato le serrature, dopo che il padre si era impadronito di tutti i soldi che lei aveva guadagnato con le gare. I primi due anni della sua seconda vita, perciò, Verona li trascorse vivendo in macchina col suo fidanzato, mantenendosi con l’elemosina o i furti quando finivano i soldi degli allenamenti coi ragazzi dei campi estivi. La terza vita di Verona iniziò nel 2010, quando nel suo vagabondare vide in un parco un uomo e una donna. Intuì che la loro dovesse essere una relazione clandestina, li fotografò e poi andò a chiedere soldi. La donna le diede 2.000 euro, ma poco dopo la fece arrestare e Verona rimase in prigione 72 giorni, dopo i quali ogni legame con qualsiasi associazione per le quali lavorava fu chiuso per sempre. A quel punto iniziò la quarta vita: quella da attrice porno di video amatoriali. Verona aprì un sito e, oltre che a recitare, iniziò a reclutare attrici. Facendo abbastanza soldi da poter smettere. E vedere nel movimento MeToo e nello scandalo di Larry Nassar (il medico della nazionale statunitense di ginnastica) l’occasione per ripartire dando una mano: raccontando la sua storia, come ha fatto adesso, a 34 anni, pubblicando la sua autobiografia di cui ha parlato con Tumaini Carayol del «Guardian». E lavorando con la Federazione per evitare che ad altre succeda quello che è successo a lei. Buona quinta vita, Verona.

·        Veronica Maya.

Veronica Maya: “Amici Miei, il mio debutto iconico e maschilista”. Beatrice Gigli il 22/02/2020 su Il Giornale Off. Da Parigi alla Costiera Sorrentina la conduttrice e show girl si racconta a OFF. Conduttrice, show girl e attrice: ha debuttato in teatro con Mario Monicelli. Dopo quindici anni in Rai la vedremo presto su rete 4, alla conduzione di un programma culturale.

Nata a Parigi e poi trasferita a Piano di Sorrento con la famiglia. Ha mai rinfacciato questa scelta ai suoi genitori?

«La costiera è il luogo delle mie radici, della mia memoria affettiva fatta di luoghi e persone che mi hanno aiutato ad essere ciò che sono oggi. Una donna consapevole, realizzata e grata per i valori e le esperienze ricche, sane, autentiche che quel territorio mi ha trasmesso. Sapori, colori, tradizioni, ingegno, creatività, semplicità, rapporti umani. Queste sono le mie origini. Il mio presente. Il mio futuro». 

Veronica, quando e perché ha deciso di lavorare nello spettacolo?

«All’età di 5 anni. L’ho deciso e l’ho fatto. Volevo essere una ballerina. E quello, dopo anni di sacrifici, è stato il mio lavoro, quello più sudato e gratificante che potessi desiderare. La danza è una scuola di vita, dove impegno e passione portano sempre a dei risultati, quelli che ho raggiunto con caparbietà anche negli altri ambiti artistici, come tv e cinema».

Ha lavorato in teatro con il Maestro Mario Monicelli. Ci racconta questa incredibile esperienza?

«Ho debuttato a teatro in una pièce iconica quanto maschilista come Amici Miei. Il più bel debutto che potessi desiderare. Il Maestro era rigoroso ma ironico e le prove in teatro, così come la lunga tournée condivisa con Jerry Calà, Franco Oppini e Nini Salerno, è stato uno dei viaggi più belli e divertenti che potessi compiere nel panorama dei teatri italiani». 

Dopo tanti anni si è conclusa l’esperienza in Rai. Come mai?

«Il mio ultimo programma da conduttrice è andato in onda appena un anno fa. Sono stata in video per 15 anni, estate e inverno, praticamente tutti i giorni, conducendo Uno Mattina, Linea Verde, Verdetto Finale, Zecchino D’Oro, Quelle Brave ragazze…e l’elenco è ancora lungo. Se fare 3 figli, continuare a lavorare e nell’ultimo anno girare tre film (Passepartout, Alice e Magari Resto) continuando comunque ad essere presente anche sul piccolo schermo allora dobbiamo dare un senso diverso alla parola “esperienza”: 15 anni non sono un’esperienza ma un bagaglio».

È stata mai messa in difficoltà per la sua bellezza sul lavoro? E come ha reagito?

«La bellezza è soggettiva e può avere tanti parametri di valutazione. Tante cose diverse fanno di una persona una bella persona. Al di là dell’estetica ritengo che gentilezza, educazione e capacità facciano di una donna una bella donna. Oggi, che non ho più 20 anni, mi sento più bella di allora perché ho acquisito sicurezza e consapevolezza e non tornerei indietro».

Quali sono i suoi progetti futuri?

«Prossimamente condurrò un programma culturale su Rete 4».

Ha mai vissuto nella sua carriera o nella sua vita un episodio OFF?

«Forse sì, ma non me li ricordo o non lo ho percepiti come tali.Ho un carattere positivo e sono sempre grata alla vita per ciò che decide di regalarmi. Ogni difficoltà ha la sua soluzione. Ogni ostacolo è un perché che ti aiuterà a crescere».

·        Victor Quadrelli.

Dagospia l'11 novembre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Sono da poco passate le due di notte. In diretta su Rai Radio2 ci sono I Lunatici, Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. Come sempre, dalla mezzanotte alle sei, dal lunedì al venerdì notte. Decine le telefonate degli ascoltatori che intervengono sui vari argomenti trattati. A un certo punto chiama Victor Quadrelli, imitatore eccezionale, che imita alla perfezione, come dimostrato in diretta, tra gli altri, Paolo Villaggio, Lino Banfi, Ferruccio Amendola, Christian De Sica. Quadrelli inizia a raccontare la sua storia: "Ho trent'anni. Vivo in strada. Il 18 settembre del 2017 sono scappato dalla mia famiglia. Ho vissuto per le strade di Roma tre anni. Ci sono persone a Roma che mi hanno ospitato a casa, che mi hanno dato una mano. Alcuni mi considerano tra i migliori imitatori italiani. Trovate quello che faccio sui social, mi chiamo Victor Quadrelli. A Roma esibendomi in strada, imitando Fantozzi, guadagnavo circa otto euro al giorno. Tanti artisti mi hanno fatto i complimenti. Di me hanno parlato quotidiani e trasmissioni televisive. Sto continuando a cercare lavori, ma ora che c'è il Covid è ancora più facile sentirsi dire la mitica frase 'sai son tempi duri per tutti'. Ora sono disposto a fare qualsiasi lavoro, non chiedo soldi ma solamente un posto letto. Chi ha una casa non sa cosa significhi dormire per strada. Chi è a casa, quando ha caldo apre la finestra, quando ha freddo la richiude. In strada è diverso. Ho provato di tutto, doppiaggio, radio, ho capito che se non fai parte del giro è difficilissimo entrare. La solitudine mi ha sempre accompagnato. Nessuno si rende conto di cosa voglia dire vivere per strada. Per fortuna ho conosciuto Fede, sono fidanzato con lei da sei mesi, ora mi sono trasferito a Livorno. Sto cercando come un matto un lavoro qualsiasi in cambio di un posto letto". 

·        Victoria Cabello.

Victoria Cabello: "Mi credevano pazza ma avevo la malattia di Lyme". Victoria Cabello torna a parlare della malattia di Lyme e spiega: "Se fossi stata un uomo non mi avrebbero dato della pazza". Luana Rosato, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Per un lungo periodo Victoria Cabello è stata assente dal piccolo schermo a causa della malattia di Lyme, diagnosticatale dopo numerose visite durante le quali i medici l’avevano liquidata sostenendo che il suo fosse un problema psicologico. Solo quando una equipe medica del reparto infettivi dell’ospedale Sacco di Milano ha capito quale fosse il vero problema della Cabello, ha potuto dimostrare di non essere pazza. “Grazie a tutti loro io mi sono curata: non riuscivo più a parlare, ad articolare la parole – ha ricordato in un’intervista per Mezz’ora con il Corriere - . Uscivo di casa e non ricordavo se avevo spento gas, chiuso la porta... dovevo scrivermi tutto ero veramente malridotta”. Ci è voluto un anno e mezzo prima che qualcuno comprendesse il suo reale stato di salute e a contribuire a questo ritardo, secondo Victoria Cabello, c’è stata una “questione di genere”. “Ho trovato in tutto questo la prova che esiste una questione di genere. Ho dovuto pagare il fatto di essere una donna: se fossi stata un uomo non mi avrebbero dato della pazza, in sindrome premestruale o della depressa – ha aggiunto - . Questa cosa l’ho vissuta sulla mia pelle e posso dire con assoluta certezza che venivo costantemente liquidata dicendomi che il mio era un problema psicologico, quando oltre alla sindrome di Lyme mi hanno poi trovato tutta una seria di altre coinfezioni”. Quella malattia, trasmessa da una zecca che non arrivava dal suo cane, costrinse Vittoria Cabello ad un periodo di isolamento che, oggi, sta rivivendo a causa del lockdown. “Questa situazione di quarantena l’ho vissuta per un lungo periodo, questa volta però trascorro l’isolamento stando bene, questo è già per me un traguardo”, ha spiegato tornando con la memoria al periodo della malattia. La sindrome di Lyme, infatti, la rese incapace anche di muoversi. “[...] Un periodo in cui mi sono ammalata gravemente e mi sono dovuta per un lungo periodo chiudere in casa – ha continuato a ricordare - , in primo luogo perché ero proprio impossibilitata, a un certo punto addirittura a camminare”.

·        Vincenzo Mollica.

Vincenzo Mollica: “Celentano, Vasco e Dalla cantavano la vita”. Marco Lomonaco il 21/03/2020 su Il Giornale Off. Vincenzo Mollica, 67 anni, giornalista, storico volto del Tg1 e inviato di Sanremo. Da poco approdato alla pensione, ripercorre la sua carriera con OFF…

Vincenzo, ma cosa significa esattamente “mollichismo”?

«Ah non chiederlo a me…»

Lei aveva un rapporto di amicizia con Fellini… a lui sarebbe piaciuto diventare un aggettivo invece, vero?

«Nel 1993 eravamo a Los Angeles per gli Oscar e lui aveva appena ricevuto la statuetta alla carriera. Durante un’intervista mi raccontò che quelli dell’Academy gli chiesero di essere “felliniesque”, felliniano, durante il discorso di accettazione del premio ma lui – mi disse – non aveva idea di cosa significasse. Comunque Fellini era tante, troppe cose e non si curava di essere o non essere una parola: la sua arte andava oltre un aggettivo».

Ora che è in pensione me lo può dire: qual è il brano che più ha amato di Sanremo.

«Ne cito tre: Il ragazzo della via Gluck di Celentano, Vita spericolata di Vasco e 4 marzo 1943 di Lucio Dalla. Queste tre canzoni portavano una grande verità e raccontavano la vita per il verso giusto».

Chi è l’artista italiano che apprezza maggiormente?

«Se dovessi sceglierne solo uno, direi il grande Paolo Conte».

E quello internazionale?

«Direi Leonard Cohen, poeta senza tempo. Anche perché io ho la doppia cittadinanza: italiana, come Paolo, e canadese come Leonard».

Cambierebbe qualcosa della sua carriera?

«Caro mio, sei giovane, ma quando arriverai a 67 anni capirai che tutto quello che hai fatto durante la carriera serviva al tuo lavoro e a portarti a “destinazione”».

Senta ma lei si sente più Mollica o Paperica?

«Se devo dirti la verità… amo moltissimo il mio alter ego disneyano perché mi ha fatto vivere una storia a Tele Paperopoli, in mezzo ai paperi. Pensa che ho amato tanto questo mio personaggio apparso in Topolino da aver più volte detto di voler scritto sulla mia tomba, come epitaffio: “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica”».

Ma in quarant’anni di carriera lei ha mai litigato con qualcuno?

«Marco, ma secondo te lo vengo a raccontare a te?!»

L’intervista più bella.

«Ce ne sono moltissime. Anche se con gli anni ho imparato che non ci sono le interviste: ci sono gli artisti. Per citarne tre, dico Federico Fellini, Alda Merini e Andrea Camilleri. Loro in ogni intervista mi hanno raccontato qualcosa da “ricordare”. Perché in ogni intervista c’è sempre qualcosa da ricordare».

Le è piaciuto Sanremo 2020?

«Amadeus e Fiorello hanno regalato al pubblico un Festival bellissimo, ricco di sorprese ma soprattutto di amicizia che si è fatta spettacolo. Ogni Festival che ho raccontato aveva qualcosa di speciale ma questo in particolare lo porterò nel cuore».

Ci racconta un episodio OFF della sua carriera?

«Durante la Guerra del Golfo la televisione iniziò ad andare anche di notte. Una mattina, Federico Fellini – dopo aver visto la tv per tutta la notte poiché soffriva di insonnia – mi chiamò. Mi disse che aveva visto tutto, persino un corso di matematica pura, e condivise con me una sua riflessione: la tv ci avrebbe presto resi tutti “ciechi e sordi”. Secondo lui infatti le parole erano talmente tante, veloci, confuse, che rischiavano di perdere il loro senso in una grande Torre di Babele».

Vincenzo Mollica? Se Arbore, Pausini e tutti gli altri concedono l'onore delle armi. Libero Quotidiano il 05 marzo 2020. Come per il ritiro dei Pooh o l’abbandono ai campi di Pelè, il fatto che Vincenzo Mollica - inviato leggendario del Tg1- andasse in pensione è sempre stato, per il mondo dello spettacolo, una sorta di inganno di Fata Morgana. Sono anni che Vincenzo annunciava di ritirarsi, ma poi lo vedevo sempre esplodere dagli anfratti del tg: e rimaneva la mia solida certezza in questo mestiere. Mollica per me, oltre che un amico, è sempre un maestro, una specie di Obi Wan Kenobi; la sua spada laser erano la profonda cultura e un’agenda siderale ereditata da Lelluccio Bersani. E’ stato uno dei primi colleghi che pazientemente mi accompagnò, da ragazzo, nei meandri del mestiere. Lo percepivo quasi come un’entità astratta. Però quando Amadeus e Fiorello, nell’ultimo Sanremo gli hanno tributato -col pubblico dell’Ariston- la standing ovation, be’, lì ho capito che era davvero finita. Il decano dei cronisti di spettacolo a cui la Rai aveva concesso l’ultima inviatura, lasciava definitivamente il campo. Dalla tv avrei voluto abbracciarlo e dirgli grazie. Evidentemente la stessa sensazione è venuta a Chicco Mentana. Il quale, l’altro giorno, è comparso a sorpresa negli studi de La vita in diretta condotto da Lorella Cuccarini e Alberto Matano, proprio per omaggiare i 40 anni di carriera dell’amico col quale iniziò il 25 febbraio del 1980.Ora, considerando che il mondo dei giornalisti trasuda, di solito, livore e ipocrisia, il gesto di Mentana mi ha spiazzato. Eppure, l’avrei fatto anch’io. Come d'altronde l'hanno fatto, qualche giorno dopo alla Domenica In della Venier, Pausini, Arbore, Carrà, Ferilli, Nannini e Ligabue, tutte le grandi star -per dirla alla Andrea Pazienza- che Mollica hanno conosciuto e stimato. Il cuore di Mollicone è immenso quanto la sua professionalità. Nessuno ne parli mai male. Anzi,  qualcuno lo critica perché Mollica stesso non parla mai male di nessuno, fatta salva una sfuriata contro uno sciacallo sul letto di morte di Fellini; ma l’ignorare i mediocri è sempre stata una sua cifra stilistica. Lo ripeto. Ogni volta che vedo la politica prendere il sopravvento sul giornalismo, mi torna in mente Vincenzo che rifiuta la vicedirezione del Tg1 per fare l’inviato a Sanremo; che, piuttosto che infilarsi candidato in una lista elettorale, preferisce diventare un cartoon della Disney (“Vincenzo Paperica”); che continua a leggere il mondo con gli occhi -seppur oramai malconci- di un fanciullo. Albino Longhi mi diceva che Mollica era il migliore della sua generazione, solo che lui, immerso nell’arte del popolo, fingeva di non saperlo…

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 3 marzo 2020. Anche se con qualche carrambavirus di troppo, ha fatto bene Mara Venier a festeggiare Vincenzo Mollica. Ci voleva la pensione per consacrare una popolarità conquistata in quarant' anni di interviste e servizi sul mondo dello spettacolo, e questa consacrazione possiamo considerarla una forma di risarcimento per l' affetto e i superlativi spesi, nessuno escluso (parliamo dei superlativi). Dacci oggi il nostro capolavoro quotidiano; anche quando nel suo cuore poteva avere qualche dubbio, Mollica non ha mai fatto differenze. Adesso va in pensione a testa alta, ma la Venier ha ragione, abbiamo ancora bisogno di lui, perché non lascia eredi, e non per sua colpa. Se in Rai da sempre "la critica è una parola astratta" (copyright Sergio Saviane); se in compenso oggi abbiamo tanti critici di ogni materia quanti sono i blogger (circa 60 milioni in Italia), le cronache di cultura e spettacolo sono in caduta libera ovunque, dai quotidiani ai tg. Abbiamo avuto i mezzibusti letterari come Luciano Luisi, poeta in proprio, che si faceva largo in giacca crema nella bolgia del buffet di Villa Giulia per arpionare i finalisti dello Strega; abbiamo avuto i mezzibusti dandy come Lello Bersani, in smoking, microfono e brillantina, beato tra i divi del cinema, quando il cinema era il cinema. Poi abbiamo avuto Vincenzo Mollica, che per decenni ha coperto tutto e tutti con munifica universalità papale (lo abbiamo scritto e lo ripetiamo: Mollica, un pezzo di pane). Ma ora? Non ci resta che Marzullo.

Andrea Parrella per "fanpage.it" il 28 febbraio 2020. Vincenzo Mollica è andato in pensione. Il volto della cultura e dello spettacolo del Tg1, che per 40 anni ha tenuto compagnia ai telespettatori, si ritira a vita privata forte dell'enorme affetto dei suoi colleghi e dei telespettatori stessi. Da settimane Mollica viene celebrato nei corridoi del servizio pubblico, dopo essere stato protagonista al Festival di Sanremo 2020, l'ultimo della sua carriera, concessogli dalla Rai in deroga con lo slittamento di un mese della sua andata in pensione, su esplicita richiesta di Amadeus e Fiorello. Nelle scorse ore è arrivato il momento dell'arrivederci definitivo, con la festa organizzata dal direttore del Tg1 Carboni. Molto toccante il discorso con cui Mollica si congeda, che riprendiamo grazie a un video pubblicato da un dipendente Rai all'interno dei gruppi Facebook aziendali: «Quando sono entrato non mi sembrava vero – dice un Mollica che scherza anche sul tremolio effetto del Parkinson – Sono sempre stato orgoglioso di lavorare per il Tg. Quando sono entrato ero con Enrico Mentana e ci sembrava Disneyland, un posto fantastico». Il giornalista ha quindi parlato del legame viscerale creatosi con il Tg1: «Piano piano è diventato per me un sentimento, veniva subito dopo la mia famiglia. È stato semplice. Ho sempre considerato importanti le persone e non le casacche che vestivano, di cui non mi è mai importato. Tutte le persone che hanno lavorato al Tg1, di loro mi è sempre importato, dalla redazione agli operatori, fino agli assistenti. Sono stati tutti persone, più che personaggi o casacche. Dice "che partito sei?". Sono il partito di Corto Maltese, di Fellini, di Totò, di Mastroianni, Alberto Sordi. Questi sono stati i miei punti di riferimento, da cui c'è molto da imparare».

I ringraziamenti di Vincenzo Mollica. Quindi è arrivato il momento dei ringraziamenti, non senza una certa commozione: "Vorrei dire grazie e dire che a governarmi è stata sempre la passione. Una parola importante, non perdetela mai quando fate questo mestiere. Grazie a tutti quelli che mi hanno voluto bene, regalandomi tanto affetto e collaborazione, rapporti sincero. Ma grazie anche ai figli di mignotta, voglio dedicare loro un pensiero perché ci sono stati e ci saranno sempre. Sono una categoria particolare cui bisogna dire grazie, perché ci hanno indicato bene la strada che non dovevamo perseguire. Dove andavano loro, non dovevamo andare noi.

Sanremo 2020, standing ovation per Vincenzo Mollica, l’Ariston lo abbraccia e lui si commuove. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'8 Febbraio 2020. Quaranta festival di Sanremo. Sempre da inviato. Microfono in mano e garbo. Inconfondibile. Per Vincenzo Mollica è l’ultimo Sanremo da inviato del Tg1. Standing ovation per lui all’Ariston. Che si commuove. Il suo pensionamento è stato posticipato a fine mese proprio per raccontare l’ultimo Sanremo da ogni prospettiva: dal balconcino dell’Ariston, dalle poltrone del teatro e dalla sala stampa. Per lui un mega abbraccio di Amadeus, Fiorello e del teatro. Poi un videomessaggio di tanti personaggi. Mollica - che non ha mai nascosto il Parkinson e un forte calo della vista - lavora con entusiasmo come fosse il suo primo giorno in Rai. Eppure ne sono passati quaranta di anni.

Vincenzo Mollica va in pensione, prima però il suo trentanovesimo Sanremo. La Repubblica l'01 febbraio 2020. Il giornalista ha ottenuto una proroga "sponsorizzata" dall'amico Fiorello. E anche Topolino gli fa un omaggio. Per Vincenzo Mollica, Sanremo 70 è un'edizione 'ad honorem': "Dovevo andare in pensione lunedì scorso, il 27 gennaio, quando ho compiuto 67 anni. Ma la Rai mi ha prorogato il contratto di un mese per permettermi di fare questo Sanremo. Un regalo dell'ad Fabrizio Salini e del direttore del Tg1 Giuseppe Carboni, che hanno subito accolto una scherzosa ma determinata campagna di Fiorello per farmi seguire per il tg questo ultimo festival, che per me è il 39mo. Non solo - ha svelato - questo mi permetterà di compiere il 25 febbraio i miei 40 anni di Tg1, prima di lasciare la redazione il 29 febbraio". "Da Amadeus mi aspetto un bel festival. Lo stimo molto, è un bravo conduttore e un grande appassionato di musica, che è fondamentale. Il suo garbo ne faceva uno dei candidati naturali ad entrare con il festival nelle case di tutti gli italiani. E poi per me questo festival sarà soprattutto una festa di congedo e mi fa un piacere immenso che proprio quest'anno ci siano Fiorello, Roberto Benigni e Tiziano Ferro a cui sono molto legato". Sulle polemiche che hanno preceduto il festival, il giornalista ha detto: "Sanremo è diviso in tre fasi. C'è il prefestival che è fatto di polemiche, il festival che è fatto di canzoni e il postfestival che è fatto di oblio. Perché tutte le polemiche non se le ricorda nessuno e quello che restano sono le canzoni", ha aggiunto. Ma per il giornalista un omaggio speciale viene anche da Topolino che in occasione del suo compleanno, ha compiuto 67 anni il  27 gennaio, gli ha dedicato  una nuova avventura a fumetti di Paperica, il più iconico giornalista di Paperopoli. Zio Paperone, Paperica e l’intervista definitiva è il titolo della storia disegnata da Giorgio Cavazzano e sceneggiata da Fausto Vitaliano sul numero 3349.

Antonella Nesi per adnkronos.com l'1 febbraio 2020. "Da Amadeus mi aspetto un bel festival. Lo stimo molto, è un bravo conduttore e un grande appassionato di musica, che è fondamentale. Il suo garbo ne faceva uno dei candidati naturali ad entrare con il festival nelle case di tutti gli italiani. E poi per me questo festival sarà soprattutto una festa di congedo e mi fa un piacere immenso che proprio quest'anno ci siano Fiorello, Roberto Benigni e Tiziano Ferro a cui sono molto legato". Alla viglia del suo ultimo Sanremo da inviato del Tg1, Vicenzo Mollica si è raccontato così all'Adnkronos. Sulle polemiche che hanno preceduto il festival, il giornalista ha detto: "Sanremo è diviso in tre fasi. C'è il prefestival che è fatto di polemiche, il festival che è fatto di canzoni e il postfestival che è fatto di oblio. Perché tutte le polemiche non se le ricorda nessuno e quello che restano sono le canzoni", ha aggiunto sorridendo. Per Mollica, Sanremo 70 è un'edizione 'ad honorem': "Dovevo andare in pensione lunedì scorso, il 27 gennaio, quando ho compiuto 67 anni. Ma la Rai mi ha prorogato il contratto di un mese per permettermi di fare questo Sanremo. Un regalo dell'ad Fabrizio Salini e del direttore del Tg1 Giuseppe Carboni, che hanno subito accolto una scherzosa ma determinata campagna di Fiorello per farmi seguire per il tg questo ultimo festival, che per me è il 39mo. Non solo - ha svelato - questo mi permetterà di compiere il 25 febbraio i miei 40 anni di Tg1, prima di lasciare la redazione il 29 febbraio". Un addio al ruolo di giornalista del Tg1 ma magari un arriverderci all'azienda, alla quale la sue esperienza potrebbe ancora tornare utile: "Non corriamo. Questo poi si vedrà. Intanto mi godo questo Sanremo", ha assicurato. "Dopo 40 anni si chiude una stagione molto bella, direi fantastica, per me. Ma non vivo questa cosa con tristezza. Avere la possibilità di raccontare tante storie, avvenimenti, notizie importanti per la testata ammiraglia e nello spirito del servizio pubblico, è un'esperienza impagabile. Fui assunto dal primo direttore del Tg1, Emilio Rossi, che fu per me un grande maestro, mi insegnò molto bene come doveva comportarsi un giornalista del Tg1 e le relative responsabilità". Ma a mandarlo per la prima volta a Sanremo fu il successore di Rossi al Tg1, Franco Colombo: "Era il 1981 e vinse Alice con 'Per Elisa'". Com'è cambiato il festival da allora? "Il festival non è mai cambiato, almeno nel suo spirito principale di grande festa nazional-popolare che unisce il Paese. Ogni anno c'è qualcuno che si lamenta che il Sanremo corrente non rappresenta il Paese. Invece l'Italia si è sempre rispecchiata un po' nei Sanremo, dalla musica al costume". Sul momento che ricorda con più tenerezza di questi 39 festival a cui assistito, Mollica non ha dubbi: "L'ultimo festival di Lucio Dalla nel 2012, quando dirigeva l'orchestra per Pierdavide Carone. Fu una settimana di incontri e chiacchiere con lui e Michele Mondella, il suo press agent storico e grande amico. Poco dopo il festival Lucio, come sappiamo, ci lasciò all'improvviso. Ma io conservo quei ricordi preziosi". Un'altra edizione, quella "emozionante e particolare fu il festival di Vasco con 'Vita Spericolata' nel 1996. E poi direi - aggiunge il giornalista - tutte le volte che Roberto Benigni, Fiorello e Adriano Celentano sono passati dal festival di Sanremo". Quanto al momento di più grande tensione vissuto a Sanremo, "senz'altro - ha ricordato Mollica - quando Baudo interruppe lo spettacolo per dissuadere un uomo che voleva buttarsi dalla galleria dell'Ariston". Nel capitolo incontri indimenticabili con star internazionali, Mollica ha citato "Bruce Springsteen voce e chitarra nel 1996," e "Paul McCartney e George Harrison nello stesso Sanremo del 1998, ma separati. Tutti - ha raccontato il giornalista - speravamo in duetto improvvisato e invece no". Infine, come dimenticare "l'intervista del 1997 a David Bowie che pensava al festival come ad una festa folkoristica. Poi - ha rivelato Mollica - capì quando gli parlai di Domenico Modugno". C'è un luogo di Sanremo che è legato a doppio-filo al giornalista del Tg1, tanto che tutti (a partire dall'amico Fiorello), lo chiamano 'balconcino di Mollica': è il luogo dove da 25 anni vanno in onda i collegamenti in diretta con il Tg1 dal Teatro Ariston, subito prima dell'inizio delle serate del festival. "Nacque a metà anni '90. Fu un'idea mia e del producer che era con me. Perché Baudo - ha spiegato - non voleva assolutamente collegamenti dal teatro che svelassero la scenografia. Quindi trovammo questo balconcino che si affaccia sull'ingresso del teatro e che rendeva l'idea dell'atmosfera. Lì ho vissuto momenti indimenticabili: Lucio Dalla insieme Pavarotti, un duetto di Orietta Berti e Laetitia Casta sulle note della marsigliese e naturalmente le interviste a tutti i conduttori. Compreso Panariello che annunciò che si ritirava dal festival mettendo tutti in allarme. Ma era una gag per far entrare Leonardo Pieraccioni in teatro prima di lui. Ne sono successe di tutti i colori. E ormai si raduna una folla sotto il balconcino, come se fosse un prespettacolo". Negli ultimi mesi, Fiorello gli ha regalato una seconda vita da pupazzo. Un pupazzo che Mollica doppia e che è parecchio più impertinente rispetto al suo abituale carattere bonario. Cosa ti piace di questa esperienza? "Mi diverto moltissimo. È stata una intuizione geniale di Rosario. I testi sono di Rosario e ci metto giusto un po' di mio. Ma la cosa che mi diverte di più è che le mamme mi chiedono di ripetere ai figli 'mi è partita la sciabbarabba!'". A Sanremo che combinerete con Fiorello? Ci sarà anche il pupazzo? "Non ci siamo ancora parlati. E so che non mi dirà molto. Ma lo aspetto sul balconcino. Mi ha promesso che una sera ci sarà".

Dagospia il 16 gennaio 2020. Da “Non è un paese per giovani”, condotto da Max Cervelli e Tommaso Labate su Radio 2. “Ho dei ricordi bellissimi degli anni del liceo a Locri (Liceo Ivo Oliveto) perché sono stati degli anni meravigliosi con dei professori bravissimi che mi hanno insegnato tanto anche del mio mestiere. Poi era una città meravigliosa e lo è tutt’ora. Con quel mare così bello e poi si mangiava anche bene.”

Ancora qualche settimana poi, dopo Sanremo, Vincenzo Mollica andrà in pensione.

“Sono contento di fare un altro festival perché il tutto è nato da un moto di affetto di Rosario (Fiorello) e di tante persone che hanno condiviso questo affetto con me”.

Ospite a Non è un paese per giovani su Radio 2, condotto da Max Cervelli e Tommaso Labate, il popolare giornalista del Tg1 ha raccontato dell’amicizia con Federico Fellini, di cui ricorre il centenario della nascita.

“Saranno due centenari belli: il 20 quello di Fellini e il 15 giugno quello di Alberto Sordi”.

Un ricordo?

“Intanto era una persona molto simpatica ( al contrario di quello che dicono in molti) e che si immaginava una vita e la viveva immaginandosela”, ricorda Mollica. “Federico diceva una cosa che io trovo la più grande lezione di giornalismo, perché non dobbiamo dimenticare che lui nasce giornalista: la curiosità è la cosa che ti fa svegliare ogni mattina. Era una persona meravigliosa perché tutte le volte che incontrava qualcuno aveva l’età della persona con cui parlava, se lui incontrava un persona di 20 anni aveva 20 anni, se incontrava mia figlia Caterina aveva 8 anni. Io non ho mai conosciuto nessuno come lui, è stata una grande benedizione per la mia vita averlo incontrato. La mia università l’ho fatta con lui”.

Parlando dell’omaggio che Woody Allen fa a Fellini nel film “Io e Annie”, Mollica rivela: “Vi posso raccontare un aneddoto inedito: Woody Allen aveva cercato disperatamente di incontrare Fellini, poi un giorno Fellini chiama Woody Allen e lui non crede che al telefono ci sia davvero Fellini e butta giù il telefono due o tre volte. Quando per la prima volta in esclusiva mondiale Woody Allen venne al TG1 (io riuscii a convincerlo perché lui era una persona molto simpatica e avevamo parlato tante volte di Fellini) gli feci questo regalo: in diretta al tg1 gli regalai un disegno che aveva fatto Fellini e lui si mise a piangere.”

·        Viola Valentino.

Alessandra Menzani per ''Libero Quotidiano'' il 10 maggio 2020. Viola Valentino negli anni Ottanta faceva arrabbiare le femministe con Comprami, un pezzo iconico che è cantato e ballato ancora oggi. L' ex moglie di Riccardo Fogli, che non nasconde il desiderio di partecipare a una edizione del Grande Fratello Vip, è uscita con un nuovo disco in piena emergenza virus. Si chiama E sarà per sempre.

Come sta andando?

«Vedo che è gradito, condiviso, comprato online. L' album parla di temi delicati come la violenza, l'omofobia, l'abbandono degli animali, tante cose che nella vita esistono. Lungometraggio, una delle canzoni, è la vita. Gli addetti ai lavori pressavano e ci siamo visti costretti a uscire il 14 marzo. Rinunciare all' uscita non era possibile, non fa male a nessuno in questa "sessantena" distrarsi un po' con la musica».

Certo, il contatto fisico manca.

«Avremmo voluto certamente firmare le copie, fare uno showcase, abbiamo in mente ancora un tot di copie in vinile. Il mio lavoro è dedicato agli estimatori».

Gli spettacoli dal vivo sono ancora un miraggio. Vero?

«Tutti quanti siamo stati castigati, con i dischi i cantanti non diventano più ricchi. È una disperazione. Ci sono varie categorie di artisti - io sono una di loro - che vive del suo lavoro, non sono Baglioni, né Venditti, nè De Gregori. Loro hanno guadagnato tanto. Il mio lavoro sono i live, e non c' è nessuno che dia una mano».

I famosi aiuti dello Stato?

«Non c' è niente per noi. Tanti hanno problematiche pesanti, come i commercianti, i bar, i ristoranti. Non ci protegge nessuno. Quando sono finiti i soldi, andiamo a chiedere l' elemosina. Le notizie sono sempre peggiori. C' è tanta stanchezza. Personalmente non riesco più a pensare alle sciocchezze».

Lo capisco. Non è possibile.

«Non dormo la notte, mi addormento alle cinque. Leggo, scrivo. In questo momento spero di essere immune al virus, non ho sintomi, ma sento tanta stanchezza fisica e mentale. Ho una famiglia sulle spalle anche se sono solo io con quattro cani: paga qui, paga là. Avevano detto che potevamo congelare i pagamenti, invece nulla. Io sento quello che mi racconta la gente, il problema non è solo mio. Mi hanno iniziato a spostare le date dei concerti tre mesi fa. Si devono rendere conto».

Di cosa?

«Stanno massacrando l' Italia. Penso che le difficoltà le abbiano tutte le parti del mondo che si sono infettate, ma penso anche che ci siano dei governatori con le palle. Questo signore che abbiamo non ha fatto un discorso. Non abbiamo Moro, Almirante, Berlinguer. Ci sono imprenditori che si sono impiccati, che si buttano dalla finestra. Se non succede qualcosa scoppia la guerra civile. Si armano e vanno contro le forze di polizia».

Per lei il momento è più duro anche perché lotta pure con problemi di salute, vero?

«Sì, da cinque anni. Alcune visite sono state spostate, ma le ho recuperate. Da quel punto di vista, per fortuna la situazione - le cellule tumorali - è sotto controllo. Ho problemi alle ossa, microfratture, ma parliamo d' altro».

Progetti ne riesce a fare?

«Lavorare. Questo è l' unico progetto. Lavorare per rialzarsi, siamo tutti in ginocchio. Le cose più importanti sono i live, l' ultima serata che ho fatto è il 31 dicembre, da quel giorno non entra un soldo in casa».

Quando sarà possibile, le piacerebbe cantare con Riccardo Fogli, suo ex. Conferma?

«Sì. Vedendo a ripetizione Romina e Albano, Albano e Romina, ho avuto questa idea. Sarebbe piacevole fare qualche concerto dove mischiare brani suoi e miei, cantare in duo. È una mia fantasia, vediamo cosa dice la controparte. L' abbiamo già fatto tanto tempo fa in Russia. Dunque potrebbe essere ripetibile».

·        Vittorio Brumotti.

Brumotti: «Io, un Peter Pan contro lo spaccio: la mia è vocazione, non incoscienza». Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. «Per rigenerarmi sono tornato sul luogo del misfatto con la mia mascella mezza distrutta: è il mio modo per superare il trauma. Poi sono andato a villa Necchi, una delle meraviglie del Fai, a rifarmi gli occhi, per riempirli di cose belle». Vittorio Brumotti è un tipo ancor più testardo degli spacciatori che ogni giorno fanno il loro lavoro nelle piazze. Campione di bike trial, inviato (in bici, ovvio) di Striscia la notizia dal 2008, ha già vissuto un centinaio di volte quello che gli è capitato l’altro giorno a Milano, nella super centrale Porta Venezia, dove stava documentando lo spaccio quotidiano: «Coca, crack, metanfetamina... Sono stato aggredito da un gruppo di spacciatori. Mi hanno colpito al volto in modo violento con il bastone della mia go pro, una botta fortissima. Sono svenuto per qualche secondo, ora ho lividi qua e là».

Prima le hanno lanciato pietre e bottiglie...

«C’erano tanti ragazzi di colore. Ma non sopporto le generalizzazioni. Sono di colore anche i tanti ragazzi che ci hanno portato il cibo a casa con Glovo per soddisfare i nostri vizi. La colpa dello spaccio è degli italiani: sono loro i primi consumatori di droga, spesso padri di famiglia che vanno a comprare cocaina per il loro sballo. E italiano è il business: la ’ndrangheta controlla il 90% del mercato della coca. Quando mi sono venuti addosso non ho visto dei piccoli spacciatori, ho visto la ’ndrangheta».

Tanti se lo chiedono: chi glielo fa fare di andare a rischiare sempre la pelle?

«Lo faccio per vocazione, come la fede per i preti. Per questo non mi piace quando strumentalizzano i miei servizi: io mi muovo solo quando mi chiamano i cittadini esasperati da situazioni insopportabili. Io porto la mediaticità: la telecamera — come la penna — fa paura a tutti. Pensi che il paradosso è che mi sento quasi più a rischio quando faccio i servizi contro chi parcheggia ingiustamente nel posto dei disabili. In quei casi, a volte, la reazione della gente è molto più aggressiva di quanto mi aspetti».

La vocazione quando è arrivata?

«Mio papà è un ex carabiniere, mio zio era un generale dei carabinieri. Il senso delle regole ce l’ho nel sangue. Molti pensano sia un esaltato o un incosciente, ma anche se non andassi in onda farei questo lavoro. Non lo faccio per apparire e non lo faccio nemmeno per soldi. Quello che guadagno dal programma lo reinvesto per fare sempre ricerche sul territorio. Mi hanno minacciato di morte in tutti i modi, ma non mi fermo perché se no hanno vinto loro».

Spesso è lei a diventare notizia. Qual è il suo obiettivo?

«Il mio obbiettivo è risvegliare le coscienze, il mio motto è andare a riprendersi il territorio dove comandano le mafie. Le mafie vanno ridicolizzate e Striscia ha trovato la chiave ironica giusta, con questo personaggio che va in bicicletta nei luoghi dello spaccio. Vado a saltellare davanti a loro e li rendo ridicoli».

I suoi genitori non la dissuadono? E la sua fidanzata Annachiara Zoppas (figlia del presidente del gruppo San Benedetto) cosa le dice?

«Lei è nata in battaglia con me, vede la mia passione. Ho gli scaffali pieni di libri sulla criminalità. Se vado in vacanza in Calabria faccio tappa nel triangolo malavitoso di Platì, San Luca e Africo. A Roma vado a San Basilio. Togliermi tutto questo è come togliermi l’ossigeno. Quando prendo le mazzate la prima cosa a cui penso sono i miei cari, ma sanno che non mi possono fermare: sarebbe una battaglia persa».

La volta che ha avuto più paura?

«I primi colpi di pistola non si scordano mai: successe proprio a San Basilio. Anche allo Zen di Palermo me la sono vista brutta».

La volta di cui va più fiero?

«A Guardavalle, in provincia di Catanzaro, dove davanti al municipio c’era la statua di Sant’Agazio donata dalla famiglia Gallace, una delle ‘ndrine più potenti della Calabria. Averla fatta togliere è stata un bella vittoria».

Antonio Ricci che suggerimenti le dà?

«È come un padre, è un leader. Conosce la mia preparazione e sa che non vado allo sbaraglio: sono uno stratega, prendo tutte le precauzioni necessarie. Ringrazierò sempre Striscia, gli unici ad aver creduto in me: il nostro è servizio pubblico».

Togliere gli spacciatori dalle piazze è come svuotare il mare con un secchio. Non si sente un Don Chisciotte?

«Ho sempre odiato chi fa del male a chi non si può difendere. Ho 40 anni e ho la sindrome di Peter Pan, sono un eterno bimbo che vuole vedere che tutto va bene».

·        Vittorio Cecchi Gori.

Arrestato Vittorio Cecchi Gori. Dovrà scontare 8 anni e 5 mesi. Il Dubbio il 29 febbraio 2020. Al produttore cinematografico ed ex presidente della Fiorentina Vittorio Cecchi Gori (78 anni) in carcere per un cumulo di pene di 8 anni, 5 mesi e 26 giorni relativo a reati finanziari, tra cui una bancarotta fraudolenta. È stato portato a Rebibbia il produttore cinematografico ed ex presidente della Fiorentina Vittorio Cecchi Gori (78 anni), al quale i carabinieri del Nucleo Investigativo hanno notificato un ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dalla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma per un cumulo di pene di 8 anni, 5 mesi e 26 giorni di reclusione relativo a reati finanziari, tra cui una bancarotta fraudolenta. Lunedì scorso la Cassazione aveva confermato per Cecchi Gori la condanna a 5 anni e mezzo di reclusione in relazione al crac da 24 milioni di euro della casa di produzione cinematografica Safin. In base alla decisione dei giudici di piazza Cavour, saranno riviste, con un Appello bis, solo le condanne accessorie. Adesso saranno i giudici dell’esecuzione a valutare le istanze legali che saranno messe in campo per evitare il rischio carcere che è scattato come accade per tutte le condanne superiori ai cinque anni di reclusione che passano in giudicato, in ottemperanza alla circolare Flick che aziona procedure contro le fughe. Tra le carte da giocare, quella della salute. Cecchi Gori lo scorso settembre è stato operato d’urgenza per una peritonite al Policlinico Gemelli, dove era stato ricoverato anche nel 2017 per un ictus.

Vittorio Cecchi Gori è stato condannato a morte. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 3 Marzo 2020. Non basta il coronavirus, ci si mette anche la magistratura, a cercare di sterminare gli anziani. Prendiamo il caso di Vittorio Cecchi Gori: che cosa è se non pena di morte, sbattere (pardon, “tradurre”, è più fine) in galera (pardon, istituto di pena) una persona di 78 anni già in pessime condizioni di salute? Il famoso produttore cinematografico ha avuto la “fortuna” di essere ricoverato per controlli in seguito a un malore al Policlinico di Roma, quando, alle 19,57 di giovedì scorso la corte di cassazione emetteva nei suoi confronti la conferma di condanna per bancarotta fraudolenta. La procura generale aveva immediatamente applicato il cumulo con una precedente condanna e il conto era presto fatto: 8 anni, 5 mesi e 26 giorni. Cecchi Gori potrà uscire dal carcere quando avrà 86 anni abbondanti.  È stato condannato per fatti di diciannove anni fa, ma di che stupirsi? Si sa che la giustizia è lenta, giusto? Invece no. Infatti, subito dopo la sentenza, con precisione svizzera, nella stessa serata, viene emesso nei suoi confronti l’ordine di carcerazione. Le manette erano pronte, senza neanche dare il tempo al suo avvocato, vista l’età e viste le condizioni di salute del condannato, di avanzare richiesta di detenzione domiciliare. Ma lui ha la “fortuna” di essere in ospedale perché sta male, ha avuto un’ischemia e poi un attacco di peritonite, inoltre è cardiopatico e non cammina se non si appoggia ad altri e procede lentamente, proprio come un “vecchietto”. Quindi per ora non è in prigione, ma intanto è piantonato, perché potrebbe pur sempre darsi alla fuga, ovviamente. I giudici gli stanno con gli occhi addosso e, se appena appena lui ce la farà, anche in barella dovrà andare a Rebibbia. A farsi rieducare, come dice la Costituzione. Così poi, quando tornerà a casa e sarà quasi un novantenne, avrà imparato a comportarsi meglio. Viene alla memoria quanto accaduto non più tardi di due anni fa, nell’autunno del 2018, allo psicanalista Armando Verdiglione, che allora aveva 74 anni, condannato per una controversa evasione fiscale, cui non fu consentito di presentare richiesta di arresti domiciliari perché, gli fu detto, “prima” doveva andare in galera, e “poi” presentare la domandina. Che comunque gli fu poi respinta, insieme al trasferimento dal carcere di Bollate (regime di bassa sorveglianza) a quello di Opera, in genere riservato ai condannati per i reati più gravi e per detenuti in regime di 41 bis. In poche settimane Verdiglione perse 24 chili di peso, il suo corpo arrivò quasi al limite oltre al quale gli organi vitali cominciano a non funzionare più, ed era una larva umana quando finalmente tornò a casa, dove continua a essere in regime di detenzione domiciliare. Non è chiaro, anche a voler entrare nella testa del più severo e rigoroso giustiziere, che cosa ci si aspetti possa fare di buono una prigione per una persona che è giunta agli ultimi anni della propria vita, come Vittorio Cecchi Gori. Si dice spesso che persino in certe case di riposo la persona molto anziana e malata, dopo esser stata lì parcheggiata, non può far altro che lasciarsi rapidamente morire. Di abbandono e di solitudine. Il carcere è qualcosa di più, è trauma e violenza, come traumatica e violenta può essere solo la privazione della libertà. Ogni carcerazione di una persona vecchia e malata è una pena di morte, che non riguarda solo Cecchi Gori o Verdiglione.  Di loro si ha notizia soprattutto perché sono famosi. Per il produttore si è mossa una piccola porzione del mondo del cinema, dal regista Marco Risi a Christian De Sica fino a Lino Banfi. Proprio a quest’ultimo vogliamo rivolgerci, perché ci ha appassionato, nel corso di tanti anni, la saggezza di Nonno Libero, il generoso ferroviere comunista che conosceva la vita e si prodigava per gli altri. Ci piace pensare che lui sia così anche lontano dai teleschermi. Facciamo qualcosa insieme perché Cecchi Gori possa scontare la sua pena in un carcere casalingo ( perché è sempre privazione della libertà, ricordiamolo), per ora. Ma dopo, non dimentichiamo che, da San Vittore a Rebibbia e in tutte le carceri italiani, ci sono decine, forse centinaia di persone molto anziane e molto malate private della libertà, che non possono far altro che morire. Se siamo, come siamo, contro la pena di morte, facciamo sì che possano tornare a casa, tutti.

Pino Corrias per “la Repubblica” l'1 2 marzo 2020. Dei cento e passa film che ha prodotto, il più malinconico è quello che Vittorio Cecchi Gori ha interpretato in proprio, nei suoi 77 anni di vita da jet set, orfano di un padre padrone, Mario, re della Commedia, e di una madre, l' indimenticata Valeria, che lo ha sempre difeso, coccolato, protetto almeno fino a una ventina di anni fa, quando lo ha lasciato solo, in balia dalla vita vera, abitata da bionde favolose, ma vendicative, amici assai spesso infedeli, profittatori sempre bisognosi, attrici, attori e registi sempre compiacenti, anche quando lui li ascoltava facendosi il pediluvio, come capitò al povero Peppuccio Tornatore, oppure mangiando con le mani la mortadella appena tagliata dal cameriere in polpe, sdraiato sui cuscini del salone, ad ascoltare lo sceneggiatore di turno. Vita con molti tracolli e colossali denari in transito da Cinecittà a Los Angeles, passando per le villone vista mare, gli stucchi di Palazzo Borghese a Roma, i panfili ormeggiati a Venezia, l' aereo privato direzione Maldive, le feste con i fuochi d' artificio sui colli di Firenze, i divorzi milionari, le amanti sempre più giovani, da Maria Grazia Buccella a Valeria Marini, passando per Rita Rusic, la madre dei suoi figli, vista un giorno sul set di Attila, flagello di Dio, filmaccio con Diego Abatantuono, un colpo di fulmine: «La vidi che cavalcava nuda e bionda. Mi innamorai ». Quasi tutto diventato sabbia dopo i fallimenti non solo sentimentali, ma anche societari, i processi per la bancarotta della Fiorentina Calcio, le accuse per una truffa da 600 milioni di euro, le condanne, e ora addirittura i cancelli del carcere di Rebibbia, pronti ad aprirsi sul suo tramonto, per l' inflessibilità della pena accumulata: 8 anni, 5 mesi, 26 giorni. Pena che si aggiunge al rendiconto di un uomo con vita da romanzo triste, salito due volte in cima al mondo dello Showbiz con gli Oscar vinti per Il postino e La vita è bella e poi precipitato tre volte nella polvere del carcere per aver dilapidato l' immenso patrimonio costruito dal padre, e che lui in meno di trent' anni, sbagliando quasi tutto - dalla televisione al calcio, passando per il cinema - ha trasformato in questo disastro finale da cronaca giudiziaria. Certo ci vorrebbe la penombra dell' analista per rimettere in fila le sfide che ha intrapreso. Tutte nel nome del padre che aveva spalle larghe, sguardo potente, carattere duro al punto che anche sul set, ai tempi de Il Sorpasso, e dei Mostri, invece di chiamarlo "il mi' figliolo", davanti agli altri lo chiamava "il mi' bischero". Per non dire della sua altra ossessione, a proposito dell' ex socio d' affari cinematografici, Silvio Berlusconi, con cui prima costruisce la Penta Film, poi va per carte giudiziarie, con litigi in pubblico e in privato, in palio i diritti televisivi di centinaia di pellicole. La qual cosa genera una competizione anche politica, visto che siamo nel post Tangentopoli, e prima Massimo D' Alema, poi l' Ulivo gli offrono la candidatura al Senato, ma solo dopo averlo gentilmente convinto a comprarsi Telemontecarlo e Videomusic, per trasformarle in una doppia televisione amica, contro le tre reti del Cavaliere appena sceso in campo. Un debito, per Cecchi Gori, che durerà cinque anni dal '95 al 2000. E che andrà ad aggiungersi all' altro debito, la Fiorentina, comprata come fosse un anti Milan, una manciata di stagioni buone, quelle di Batistuta- Battigol, squadra «amatissima, ingrata e infine retrocessa». Doppia epopea con finale scontato: la televisione venduta agli gnomi di Telecom, la Fiorentina ceduta ai Della Valle, mentre a Firenze sfilavano in trentamila al grido di «Vattene! Vattene!» e i pugni alzati erano tutti contro di lui, ribattezzato: «Vittorio Cecchi Grullo». Tracollo perfezionato una mattina di luglio del 2002, sedici agenti a sfondargli la porta gridando: «Aprite polizia!» per poi sguinzagliarsi nei 950 metri quadrati del suo palazzo a caccia di documenti contabili, ma tutti fermandosi davanti alla cassaforte della camera da letto, («mentre Valeria, poverina piangeva ») dove saltò fuori una polvere bianca non in modica quantità che Cecchi Gori, nell' interrogatorio di garanzia, chiamò "Zafferrano!", dicendosi ignaro di tutto, salvo che del complotto che lo stava accerchiando. E di complotto ai suoi danni avrebbe parlato per tutti gli anni a seguire, sempre indossando i panni dell' irresistibile tycoon, compresa l' abbronzatura esagerata, le collane d' oro, i riccioli arancioni. Complotto dei produttori concorrenti. Degli speculatori di Borsa. Degli avversari politici. Degli invidiosi. Persino delle ex attrici o indossatrici amate che bussavano a quattrini. Senza mai sospettare che il cuore della congiura stava proprio dentro al suo specchio, nei suoi sogni troppo grandi da trasportare, nel suo sguardo troppo impaziente, in quella sua aggressività di sola superficie con cui, a fine cena, prometteva agli ospiti: «Racconterò tutto in un film. Lo sto facendo scrivere. È promesso ». Nel frattempo ha tenuto testa alla valanga, mimando il pugile che tiene alta la guardia: «Arreso un cazzo, caro mio. Qui 'un s' è mai smesso di lottare! », diceva agli ospiti e ai cortigiani. Ma un po' alla volta sì è venduto - anzi svenduto - tutto il resto: i palazzi, la library dei film, la villa di Sabaudia, le sale cinematografiche stimate 100 milioni, comprate alla metà del prezzo da Massimo Ferrero, in arte Viperetta, oggi patron della Sampdoria, ma nato come direttore di produzione proprio sui set di Cecchi Gori. E se non bastasse a rovinargli la vita ci si è messa un' ischemia cerebrale con ricovero d' urgenza al Policlinico, tre anni fa, e proprio nel cuore della notte di Natale. Circostanza così colma di solitudine, da convincere il figlio più grande e la ex moglie Rita Rusic - mai più vista dopo memorabili litigi - a sedersi di fianco al suo declino, 60 giorni di degenza. Il corpo da allora affaticato dai farmaci e dalla malattia. Che per ora lo proteggono dal carcere. Non dai rimpianti e dai titoli di coda.

Da ansa.it il 7 marzo 2020. Il giudice relatore del tribunale di Sorveglianza di Roma, accogliendo una istanza della difesa, ha dato parere favore a che il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori sconti agli arresti domiciliari il cumulo pena per il crac Safin e quello relativo alla Fiorentina Calcio di cui era proprietario. La decisione del giudice dovrà essere ratificata dal tribunale di Sorveglianza. Cecchi Gori, che è stato raggiunto nei giorni scorsi da un ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale della Corte d'Appello di Roma per un cumulo di pene di 8 anni, 5 mesi e 26 giorni, si trova attualmente piantonato al policlinico Gemelli per problemi di salute. Una volta dimesso potrà fare ritorno a casa con possibilità di sottoporsi a controlli e terapie in ospedale come chiesto dalla difesa. Sulla decisione del giudice relatore del tribunale di Sorveglianza di disporre i domiciliari per Vittorio Cecchi Gori, ha inciso anche l'emergenza coronavirus. Nel provvedimento il giudice Angela Savio afferma, infatti, che il produttore cinematografico per "l'avanzata età e per le patologie importanti da cui è affetto, rientra nella categoria di persone più esposte, per le quali le recentissime disposizioni impartite degli organi governativi hanno esplicitamente consigliato la permanenza in ambito domiciliare". 

Dagospia il 7 marzo 2020. INDOVINATE QUALE NOME MANCA NELL'APPELLO IN FAVORE DI CECCHI GORI, FIRMATO DA DECINE DI REGISTI, PRODUTTORI E ATTORI? ROBERTO BENIGNI, CHE DEVE I SUOI TRE OSCAR PER ''LA VITA È BELLA'' PROPRIO AL PRODUTTORE FIORENTINO - CI SONO TORNATORE, SALVATORES E GARRONE, BELLOCCHIO E SANDRELLI, MONTALDO, GIAMPAOLO LETTA, PAPALEO, MASSIMO WERTMÜLLER, BRIZZI, VERDONE, ABATANTUONO E PIERACCIONI. SILVIO ORLANDO, VIRZÌ, PROIETTI E COSTANZO, DE SICA, VANZINA, MUCCINO E BOLDI.

tg24.sky.it il 7 marzo 2020. Da Giuseppe Tornatore a Matteo Garrone, da Marco Bellocchio a Stefania Sandrelli. Sono tanti i nomi del cinema e dello spettacolo che hanno firmato la lettera di Pupi Avati scritta a Vittorio Cecchi Gori per esprimergli vicinanza dopo la condanna in via definitiva a 8 anni e mezzo di reclusione per il crac della casa di produzione cinematografica Safin. Nella missiva si spera in una riconsiderazione del caso: "Pensiamo che si debba tenere opportunamente conto della tua età e delle tue precarie condizioni di salute", scrivono gli artisti che però sottolineano subito di non voler "contestare in alcun modo gli aspetti giuridici che hanno determinato le sentenze".

L'appello per una riconsiderazione del caso di Cecchi Gori. "Caro Vittorio, ho avvertito, in sintonia con gli autori dell'Anac e con tutti i cineasti che vorranno condividere questa mia, la necessità di scriverti per dirti pubblicamente e in modo incondizionato la nostra vicinanza in queste ore difficili della tua vicenda umana", si legge all’inizio della lettera di Avati. Cecchi Gori, 78 anni, al momento è ricoverato all'ospedale Gemelli di Roma. "La gran parte dei più significativi autori italiani ha lavorato per il tuo gruppo imponendosi nel mondo grazie allo straordinario operato delle tue società di produzione e distribuzione. Pensiamo quindi che si debba tenere opportunamente conto della tua età e delle tue precarie condizioni di salute", si spiega nella missiva. "Contiamo su un'oculata e tempestiva riconsiderazione del tuo caso", si legge ancora, "che mitighi la sentenza e che ti restituisca a quel minimo di serenità che sappiamo meriti".

Molti i firmatari del mondo del cinema. Tra i firmatari, compaiono - fra gli altri - i nomi anche di Giuliano Montaldo, Giampaolo Letta, Rocco Papaleo, Massimo Wertmüller, Fausto Brizzi, Carlo Verdone, Diego Abatantuono e Leonardo Pieraccioni. E ancora, Gabriele Salvatores, Silvio Orlando, Paolo Virzì, Gigi Proietti e Maurizio Costanzo, Christian De Sica, Enrico Vanzina, Gabriele Muccino e Massimo Boldi.

Da huffingtonpost.it il 2 marzo 2020.  “Mi sono meravigliato a quel signore che ha ucciso quel ragazzo hanno dato 5 anni e a Vittorio Cecchi Gori 8 per bancarotta. Che poi Cecchi Gori è stato fregato da tutti nella vita. Non capisco come ragiona la nostra giustizia. E poi portare un carcere un povero vecchio malato è un po’ una follia”. Sono le parole di Christian De Sica che, ai microfoni dell’Adnkronos, commenta la vicenda che coinvolge il produttore cinematografico condannato per reati finanziari tra cui la bancarotta fraudolenta. A Vittorio Cecchi Gori, infatti, è stato notificato l’ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma per un cumulo pena di 8 anni, 5 mesi e 26 giorni di reclusione. Secondo quanto si è appreso, è ora piantonato dalla polizia penitenziaria e, al termine della degenza, è previsto il suo trasferimento nel carcere romano di Rebbibia.

Lettera di Marco Tullio Giordana al “Corriere della Sera” il 4 marzo 2020. La sfortuna, anche di figure pittoresche (ma generose) non è mai cosa che fa esultare. Certi sorrisi che vedo dipingersi per un personaggio e una persona come Vittorio Cecchi Gori in disgrazia, fanno male, molto male Quello che mi chiedo sul caso Cecchi Gori, non riguarda la sua vicenda giudiziaria. Il problema che pongo non è tanto in merito alla condanna (la legge deve essere uguale per tutti, le sentenze non si commentano, etc.), quanto sulla possibilità che al produttore, malato gravemente e non «diplomaticamente», non sia concesso di scontare ai domiciliari la pena di 8 anni e 5 mesi e 26 giorni. Le fortune (in particolare i film «Mediterraneo» (1991), «Il postino» (1994) e «La vita è bella» (1997) che gli hanno regalato le soddisfazioni più grandi: tre Oscar) e anche le cadute di Vittorio Cecchi Gori sono note a tutti, anche perché è da sempre sotto i riflettori. La possibilità di delinquere e combinare danni, ammesso che ne esista la volontà, mi sembra molto limitata. L' età e i malanni dovrebbero suggerire provvedimenti restrittivi che non si risolvano in una condanna capitale.

Miglior film, miglior film straniero, sceneggiatura, montaggio, musica, attore protagonista e regia. Benigni candidato a sette Oscar. La Repubblica 9 febbraio 1999. Meglio di così non poteva andare. Sette le candidature ottenute dal film di Roberto Benigni, al pari di Elizabeth e La sottile linea rossa. Meglio di La vita è bella solo Shakespeare in Love, in testa con 13 nomination, che ha battuto anche il soldato Ryan di Spielberg. Con Benigni, per la prima volta nella storia dell'Oscar un film straniero ha ricevuto sette candidature, comprese quelle di miglior film straniero e miglior film in assoluto, oltre alle categorie principali di regista, attore, sceneggiatura originale (che Benigni ha scritto con Vincenzo Cerami), montaggio (di Simona Paggi) e colonna sonora (di Nicola Piovani). La vita è bella batte così tra i film non di lingua inglese in lizza in passato per gli Oscar U Boot 96 (1982) e Fanny e Alexander (1983), che avevano ricevuto entrambi sei candidature. Non solo, ma il film di Benigni è il secondo film nella storia a essere candidato nello stesso anno come miglior fim straniero e miglior film in assoluto, dopo Z: l'orgia del potere di Costa Gavras, che nel 1969 vinse poi soltanto l'Oscar per il miglior film straniero. Finora nessun film in lingua straniera ha mai vinto come miglior film. E se Benigni vincesse l'Oscar come miglior regista sarebbe la prima volta in assoluto. La statuetta per l'interpretazione fu vinta nel 1961 da Sofia Loren con La ciociara. Mentre le 11 nomination conquistate da L'ultimo imperatore di Bertolucci riguardavano un film di lingua inglese. La grande giornata italiana è completata dalla candidatura di Tony Renis per la migliore canzone. Renis ha scritto, con Alberto Testa, su musiche di David Foster, liriche inglesi di Carole Bayer Sager, la canzone The Prayer (La Preghiera) per il film Quest for Camelot (La spada magica), cantata in coppia da Andrea Bocelli e Celine Dion. All'alba americana sono aperte le buste con i nomi dei candidati nel corso di una breve cerimonia presentata da Kevin Spacey, e si è saputo l'esito della campagna americana del film La vita è bella (Life is Beautiful) portata avanti dalla Miramax, la distributrice negli States del film di Roberto Benigni. Tra le sette nomination, quella per la sceneggiatura è stata la più inattesa. "Nessuno ne parlava e anch'io ho finito per non pensarci", dice Vincenzo Cerami - che aveva già avuto una nomination con Porte aperte di Gianni Amelio, nel '91 - ancora stordito "all'idea di trovarmi in competizione con i migliori sceneggiatori del mondo, quelli di Salvate il soldato Ryan o di Truman Show. Però il premio più importante resta la commozione alla proiezione fatta per la comunità ebraica milanese appena finito il film. Non l'aveva visto nessuno, avevamo il timore di offendere chi aveva sofferto. Il resto, ciò che sta avvenendo, è tutto regalato, una festa. Il cinema è fatto anche di questo, festa, applausi, manifestazioni d'affetto, smoking". Felice di andare alla cerimonia degli Oscar - "Lo smoking non ce l'ho, lo prendo in affitto" - Cerami è ancora più felice del fatto "che il film non è piaciuto solo a chi ha votato le nomination, ma al pubblico che lo ha premiato con incassi di quasi 18 milioni di dollari, e quasi cento in tutto il mondo. E con la nomination si stamperanno altre copie, altri americani scopriranno l'esistenza di un altro cinema rispetto a Hollywood, e altri bambini verranno a sapere dell'Olocausto". "Gioia e orgoglio": sono le prime parole usate da Vittorio Cecchi Gori alla notizia delle candidature di La vita è bella, prodotto dal gruppo. "La trionfale designazione di La vita è bella" ha detto Cecchi Gori "mi riempie di gioia e di orgoglio e giunge a coronamento di una straordinaria serie di riconoscimenti che hanno onorato Roberto Benigni. Un film difficile e straordinario per chi, come noi, ha avuto il coraggio di credere fino in fondo a questa opera, collaborando alla realizzazione e distribuendola in tutto il mondo". Secondo Cecchi Gori si tratta del "successo di un film che merita un posto speciale nella storia del cinema perché affronta il più grande orrore di tutti i tempi con rispetto e poesia, con l'obiettivo di non dimenticare quello che l'Olocausto è stato e di condannare ogni violenza. Sono particolarmente felice e commosso per il mio amico Roberto, col quale collaboriamo da sempre, perché è stato riconosciuto il suo genio a livello internazionale. Merita l'Oscar" ha concluso Cecchi Gori "merita un successo che rappresenterebbe molto per tutto il cinema italiano e per noi della Cecchi Gori sarebbe un magnifico tris dopo Mediterraneo e Il postino".

·        Vladimir Luxuria.

Dagospia il 3 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Vladimir Luxuria è intervenuta ai microfoni de L’Italia s’è Desta condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus per parlare di quanto accaduto in un concerto a Cerveteri quando un componente della band Gem Boy ha detto: "Luxuria è invidiosa di Lady Oscar perché ha la spada più lunga della sua", questa la frase incriminata pronunciata da Carlo Sagradini, in arte CarlettoFX. “Chiamatemi Vladioscar – esordisce in diretta Luxuria - il caso mediatico non l’ho sollevato io ma la mamma di questa ragazza trans presente al concerto. Quando ha sentito questa battuta lei ha sentito insultata la figlia e tutte le persone trans. Sono riuscita a tranquillizzare questa mamma. Lei aveva protestato durante il concerto ma non l’hanno presa seriamente. Sono finiti i tempi in cui uno fa questo tipo di battute e tutti ridono mentre le vittime stanno zitte. Le battute inutilmente offensive saranno denunciate. Quando oggi si fanno offese di questo tipo parlando di organi sessuali non si offendono solo le persone prese di mira ma anche le persone vicine ai trans, come familiari e parenti. Io personalmente non mi sento offesa dal contenuto della battuta ma dalla banalità della stessa. La comicità deve essere originale, si può fare di meglio. Fossi stata al Mucca Assassina avrei detto al frontman: Che ne sai tu che Lady Oscar ha la spada più lunga della mia? Cosa fai come mestiere? Sfoderi le spade altrui e le misuri?” Secondo Luxuria ci sono problemi anche legati al bullismo: “Queste battute possono essere ripetute anche a scuola: “Hai ancora la spada o non ce l’hai?” Lancio una sfida ai comici di oggi: siate originali. Queste battute da B movies anni 60 sono superate”. Vi siete chiariti con Carletto FX? “Non c’è stato ancora nessun duello a spade. Ieri mi ha chiamata Cristina D’Avena ovviamente prendendo le distanze. Ci siamo ripromesse di cantare insieme lady oscar nella nostra versione “Vladioscar”. Luxuria ha parlato poi di Checco Zalone: “La comicità di Checco Zalone mi fa ridere tantissimo. La parodia sugli “ominisessuali” è eccezionale. Checco Zalone prende in giro gli omofobi. Lui risalta quella che è l’ignoranza di chi ancora dice “vabbè dai, sono uomini come noi e possono guarire”. Ho visto in questa canzone una grandissima ironia. Così come io ho un sospetto sul film Tolo Tolo che ancora non ho visto. Salvini vorrebbe Zalone come senatore a vita perché lui pensa che Zalone abbia fatto un film politicamente scorretto sull’accoglienza. Sospetto invece che lui in questo film prende in giro i luoghi comuni dell’italiano medio contro l’accoglienza e l’immigrazione”. Tornerai in politica? “Tutto è possibile, a breve no ma non l’escludo. Rimane un dilemma: dove? Prima mi chiedevo se ero all’altezza di fare politica. Oggi mi chiedo se sarà all’altezza il partito che mi proporrà di impegnarmi”. Luxuria e la tv: “Mi invitano in tv per due motivi. Il primo è che io sono una che riesce a dire la sua su argomenti di vario genere. Ho la cultura, sono una persona che è in grado di farlo perché sono una persona intelligente. Il secondo motivo è perché aumentano gli ascolti. Un personaggio come il mio fa rimanere attaccato alla tv sia chi mi appoggia che i detrattori”. E conclude rivolgendosi a CarlettoFX: “Attento Carlo, chi di spada ferisce di spada colpisce e la mia spada colpisce”.

Maria Berlinguer per “la Stampa” il 17 gennaio 2020. «Una situazione terribile, la città sembra in mano a bande criminali giovanissime, probabilmente anche sotto l' effetto di stupefacenti. Certo che la gente ha paura, ieri hanno messo una bomba in un centro anziani, dove sarà la prossima? In un asilo?». Vladimir Luxuria, ex parlamentare, opinionista tv e scrittrice è nata a Foggia, ci ha vissuto 20 anni e ci torna spesso perché lì vivono i genitori.

Quando è stata l'ultima volta a Foggia?

«A Capodanno. Abbiamo trascorso la serata in casa dei miei con le serrande tirate giù. Mia madre aveva paura. I botti che si sentivano non erano fuochi di artificio ma spari. Per carità gli spari ci sono sempre stati da queste parti ma negli ultimi tempi la città è precipitata in un vortice di violenza che allarma. Sembra di stare nel Far West. Mia madre come tutte le persone perbene che vivono in città è spaventata e si capisce il perché. Eppure non era così un tempo».

Si viveva bene?

«Io amo la mia città. Anni fa abbiamo organizzato un Gay Pride con lo slogan "Fuggi a Foggia", capovolgendo il detto che invita a scappare dalla città perché ci piaceva l'idea di mostrare una realtà accogliente e tollerante. E in parte lo era. Oggi invece sembra di essere a Palermo negli anni del piombo. L'escalation è stata costante è terribile, certo c' è la mafia, non c'è alcun dubbio, ma la verità è che la città è in mano a bande criminali di giovani che non hanno paura di niente. Anzi, sembra quasi che cerchino i riflettori. Si muovono come se fossero su un set cinematografico. Qualche settimana fa c' è stata una sparatoria in pieno giorno. C' è un livello di cinismo e disumanità da far venire la pelle d' oca. Continuo ad amare la mia città ma non la riconoscono più».

Oggi la commissaria antiracket ha detto che lo Stato farà la sua parte, ribadendo quello che avevano detto la ministra Lamorgese e il premier Conte, ma ha sollecitato la cittadinanza a reagire.

«Certo, la risposta deve essere corale. Solo così si può battere un fenomeno che appare invincibile. Però io capisco anche la paura che hanno le persone. I commercianti che si ribellano al racket e che si trovano con i negozi e saltati in aria. La marcia organizzata da Libera è stata un successo ma certamente non basta. Salvini aveva mandato l'esercito. Benissimo, ma non è solo così che si fronteggia una situazione che sembra fuori controllo. Certo c'è molta disoccupazione, c'è sempre stata. Per questo è facile reperire manovalanza criminale. Bisogna ripartire dal basso, dai territori».

Ovvero?

«Bisogna portare progetti educativi e lavoro. Tagliare l'erba sotto i piedi alla mafia e alla criminalità. Se davvero vogliamo sradicare la violenza bisogna ripartire dalle scuole».

Ha paura quando torna a casa?

«E chi non ne avrebbe?».

Vladimir Luxuria:" Licia Nunez non ha detto tutta la verità sulla storia con Imma Battaglia". Vladimir Luxuria, amica di lunga data di Imma Battaglia, racconta la sua versione dei fatti in merito al tradimento di Imma Battaglia con Eva Grimaldi che ha portato alla separazione con la Nunez. Roberta Damiata, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Sono stati in molti a rimanere stupiti dopo aver ascoltato le parole di Licia Munez, concorrente della casa del Grande Fratello Vip, sulla sua storia d’amore con Imma Battaglia e sul presunto tradimento della stessa con l’attuale moglie, Eva Grimaldi. Prima tra tutte, Vladimir Luxuria, grande amica di Imma, ma soprattutto testimone della storia d'amore tra le due. Non appena Vladimir ha ascoltato le dichiarazioni di Licia ha affidato a Twitter il suo pensiero. Proprio per questo motivo e per chiarire meglio questa intricata vicenda dal punto di vista di chi la conosce, abbiamo chiamato Vladimir Luxuria per farci raccontare il suo punto di vista.

Vladimir lei conosce bene Imma Battaglia...

“Sono amica di Imma da tanti anni, insieme abbiamo fatto anche molte battaglie per i diritti civili quindi la conosco molto bene”.

Perché si è sentita di intervenire in questa vicenda?

“Ho avuto una reazione istintiva legata proprio alla mia amicizia con Imma, per cui quando ho sentito le dichiarazioni di Licia, le ho trovate un po’ riduttive, come dire tranchant e incomplete. Lei in passato aveva rilasciato alcune interviste in cui parlava del suo rapporto con Imma ma non erano così dure”.

Erano diciamo più “morbide”?

“Aveva usato altre parole nei confronti di Imma e poi invece c’è stato questo irrigidimento improvviso alla vigilia del Grande Fratello, che è anche un po’ di sospetto. Comunque io ovviamente non sto dentro le loro questioni. Trovo comunque che il suo sia stato, e lo ripeto, un racconto incompleto, che sarà poi Imma a spiegare”.

Cosa può raccontare della storia tra Imma e Licia?

“Quello che posso dire, conoscendo Imma, è che soprattutto nell’ultima parte del loro rapporto era molto turbata, sofferente, inquieta. Non era più la Imma che conoscevo, non nego che mi aveva preoccupata, così come erano preoccupate un po’ tutte le persone che erano attorno a lei comprese le sue ex con le quali Imma ha sempre mantenuto un rapporto civile di collaborazione e di amicizia”.

Cosa ne pensa del racconto di Licia?

“Imma ci ha sempre tenuto ad avere un bel rapporto con le sue donne, come dicevo molto collaborativo, maturo, per cui questa ‘uscita’ mi è sembrata veramente ingenerosa nei confronti di una persona con la quale ha vissuto per un lunghissimo periodo”.

Anche i parenti di Imma sui social hanno raccontato cose particolari su Licia come il fatto che non volesse che i nipoti di Imma Battaglia entrassero a casa quando c’era lei...

“Sì, con Licia c'erano molti problemi. Questa storia, che sarà Imma a rivelare se vorrà, coinvolge anche persone note di cui ovviamente non si possono fare nomi, per cui parlo solo come amica di Imma e non posso andare oltre anche se le cose le conosco e mi auguro che si possa fare ulteriore chiarezza in questa relazione che assomiglia ad una fiction”.

Luxuria: «Ho amato anche una donna. Ma quante botte ho preso quando ero un giovane gay». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Roberta Scorranese. Questa intervista è tratta dal numero #163 di Futura, la newsletter «privata» del Corriere della Sera che arriva nella casella di posta (gratis) ogni venerdì, alle 12. A Torino il gelo invernale rallenta lo struscio in via Roma e trasforma i vapori della città al risveglio in piccole nuvole grigie, ma Vladimir Luxuria non sente ragioni. Gonna al ginocchio e tacco alto, vaga per le vie del centro alla ricerca della cosa senza la quale la giornata non può cominciare. «Almeno due quotidiani. Come si fa a vivere senza informarsi io non lo so». Arranco dietro a questa figura, imponente ma mai sgraziata. Una coppia ci ferma: vuole un selfie. Poi un passante che le stringe la mano. Così, a intermittenze, fino all’albergo.

Vladimir, sei molto popolare.

«Sono un’attivista da anni. Stasera, per dire, presento un libro di Bianca Berlinguer, poi devo battere un’asta per beneficenza».

E poi i libri, le apparizioni in tv.

«Da qualche parte devo guadagnare. Ci sono quelli che fanno beneficenza finta, io no. E se intervengo ad un dibattito sulle questioni di genere lo faccio gratis».

Nella hall dell’albergo c’è troppa gente. A dispetto dell’esuberanza che l’ha resa famosa, Vladimir Luxuria, 55 anni tra qualche mese, è ammantata da una bizzarra timidezza e così, giornali sotto il braccio e voce bassa, mi guida fino al primo piano: c’è una sala colazioni tutta per noi.

Da poco hai scritto un libro, «Perù, aiutami tu», per Piemme. È vero che fai lunghi viaggi in solitaria?

«Sì, sono laureata in lingua e letteratura inglese, questi viaggi li facevo per allenarmi con la pronuncia. Oggi li faccio per piacere. L’ultimo è stato in Tunisia. Quando viaggio da sola non esco abbigliata in maniera succinta, cerco di non provocare, ma non rinuncio a questi periodi nomadi. A proposito, ti ho portato un regalo».

Tre datteri, grazie.

«Sono abituata alla gentilezza. Da adolescente era una maschera necessaria. Sai che cosa significa essere stati ragazzi omosessuali nel Sud Italia degli anni Settanta e Ottanta? Significa che le prendevi e basta. Senza una ragione precisa, persino senza un movente politico o ideologico: arrivavano in gruppo, armati di bastoni, e ti picchiavano. A casa inventavo ogni volta scuse assurde per giustificare le ferite in faccia, non potevo dire che mi piacevano gli uomini e che volevo uscire con il rossetto. E in Questura nessuno mi avrebbe aiutato. Oggi però tra le forze dell’ordine le cose sono cambiate».

Ti picchiavano anche nel liceo di Foggia dove hai studiato?

«C’era un preside destrorso che davanti a tutti mi diceva: “Guadagno, la smetta di camminare sculettando”. Mi punì con il basso voto in condotta, nonostante io andassi benissimo nelle altre materie. E sai che fecero gli studenti? Scioperarono e mi elessero rappresentante di classe».

È difficile oggi immaginare un mondo in cui le parole «bullismo», «femminicidio», «violenza di genere» non esistono.

«Non c’era nulla. Non un’associazione, non un luogo di ritrovo. Eravamo anime perse e tanti svanirono davvero. Anche io, ad un certo punto, mi stavo perdendo: alcol, droga, persino sesso a pagamento. Era un tempo di mezzo tra l’adolescenza e la vita a Roma, prima dell’attivismo vero e proprio. Poi mi salvò il buddismo».

Ma oggi sei cattolica praticante, vero?

«Sì ma solo perché don Andrea Gallo mi riportò in chiesa. Da ragazzo ho fatto anche il chierichetto e ho insegnato catechismo, ma una volta avevo provato a raccontare ad un prete che non mi piacevano le donne: apriti cielo. È questo il punto: prima che arrivassero i Gay Pride, l’Arcigay, le battaglie per i diritti degli omosessuali, semplicemente noi non esistevamo. Eravamo degli zombie. E i miei gesti estremi erano tentativi di sparizione».

Don Gallo lo hai incontrato in tv?

«Sì, in diretta sulla Rai lui disse che la transessualità era un dono di Dio. Ha sempre cercato di portarmi nel suo recinto, diceva che chi mi emarginava non aveva mai letto il Vangelo. Oggi che sono tornata a pregare ho capito anche un’altra cosa: che in me, in realtà, non si è mai spento il desiderio di avere un figlio. È solo che l’ho represso perché per anni sono stata costretta a fingere. In famiglia, a scuola, persino con gli amici. Non capivo chi fossi, volevo rientrare in parametri normali ma non ci riuscivo. Sono arrivata al punto che, da adolescente, avevo quasi deciso di sfruttare questa mancanza di desiderio per le donne e di farmi prete».

Mai amato una donna?

«È la prima volta che ne parlo: sì, si chiamava Sarah, una ragazza inglese bellissima che conobbi a sedici anni in discoteca. Mi sentivo attratto ma allora non riuscii ad avere nessun tipo di rapporto intimo. Eppure per anni, in seguito, ci siamo sentiti, trovati, cercati. Per me c’è stata sempre. Poi lei è morta e allora suo figlio mi ha cercata per dirmi che sua madre gli aveva parlato a lungo di me. Oggi comprendo che quella è stata una forma d’amore, una forma diversa da quella “tradizionale”, ma non saprei definirla altrimenti».

Forse è questo il punto, non fossilizzarsi sulle forme tradizionali dell’amore e ammettere, finalmente, che «conteniamo moltitudini»?

«Lo ha capito anche la mia famiglia. Quando organizzammo il primo Gay Pride nella mia città mio padre, autotrasportatore foggiano, arrivò con il suo camion dove per una volta non c’erano pomodori ma drag queen. E persino mio fratello: lui, capo della tifoseria del Foggia — sì, avete capito bene — si presentò vestito di un boa di struzzo rosa. Nessuno del suo gruppo osò fiatare, perché aveva ragione don Gallo quando diceva che “l’odio grida ma l’amore può gridare ancora di più”».

Il più grande dolore della tua vita?

«Decisi di devolvere metà del montepremi vinto all’Isola dei Famosi all’Unicef. E il presidente Vincenzo Spadafora mi chiese di andare in Mozambico a visitare i villaggi. Conobbi un bambino. Tanti giorni assieme a lui, abbiamo condiviso tutto della sua vita. Poi arrivò il momento di salutarci: non dimenticherò mai il suo sguardo deluso, addolorato, tradito. Sì, io me ne stavo tornando nel mio mondo, come se niente fosse. Mi sono sentita malissimo e non sono uscita di casa per due giorni».

E oggi, sei impegnata?

«No, è appena finita una storia con un ragazzo curdo: se n’è andato in Germania. Era stato chiaro sin dall’inizio che sarebbe rimasto in Italia per poco tempo. Ma sono certa che un amore arriverà. E io sarò bellissima».

·        Wanda Nara.

Da corrieredellosport.it il 12 febbraio 2020. È tornato a parlare Andres Nara, il padre di Wanda. In occasione della nascita di Viggo, secondogenito di Zaira Nara, la sorella di Wanda, il padre della showgirl argentina ha rilasciato un'intervista alla rivista "Caras" in cui ha attaccato duramente la figlia. Papà Andres ha notato un comportamento diverso della figlia Wanda rispetto al passato: "Il rapporto che ho con Zaira è totalmente diverso rispetto a quello con Wanda. Era tutto più semplice con lei, ma ora ha un altro atteggiamento". In seguito, il signor Andres è tornato su un'intervista di Wanda Nara rilasciata a "Gente" in cui confessava che il padre fosse la più grande delusione della sua vita: "Vorrei che lei chiarisse questa cosa ad un certo punto. È persa nella sua fama e nei suoi soldi. L’ho sempre accompagnata e avrei voluto spaccare la testa a coloro che parlavano male di lei".

Anticipazione da “Chi” il 18 febbraio 2020. «Mio padre mi attacca dicendo che sono avida, attaccata ai soldi. Che ho lasciato il mio ex marito Maxi Lopez e mi sono messa con Mauro Icardi solo per i soldi, ma la storia è ben diversa». Così Wanda Nara racconta in una intervista esclusiva pubblicata sul settimanale Chi in edicola da mercoledì 19 febbraio i retroscena della dolorosa faida familiare che la vede in contrasto con il padre. «È una storia molto lunga», spiega l'opinionista del GfVip4. «Mio padre, quando ero ancora sposata con Maxi, cercava di fare affari con lui. E anche con me, a volte. Ed era sempre in perdita, ma io facevo finta di niente, minimizzavo perché cercavo di aiutarlo. Quando poi il mio matrimonio è andato in pezzi, lui si è messo dalla parte di Maxi. Papà sa benissimo che quando sono tornata in Argentina avevo le mie cose, le mie case, avevo ritrovato una trasmissione quotidiana in tv ed ero felice. E c’era quando ho cominciato a frequentare Mauro. Io, allora, non stavo uscendo con un uomo brutto o antipatico... Mauro è meraviglioso. Da allora, però, se papà può dire qualcosa contro di noi, lo fa. Difende il mio ex marito ed è l’ultimo rimasto, visto che, per esempio, sono due anni che Maxi non paga gli alimenti ai figli (io, per me, non ho chiesto niente). Papà, comunque, non lo vedo più, come si può parlare male della propria figlia? Mauro conosce tutta la storia e a volte non concepisce tanta cattiveria. Per il resto della mia famiglia, comunque, io sono un orgoglio». Nell'intervista Wanda risponde anche a chi l'ha criticata dopo  aver affermato in una puntata del GfVip.

Anticipazione da “Oggi” il 21 febbraio 2020. In un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani, Wanda Nara parla della sua esperienza al «Grande Fratello Vip»: «Spero che la gente alla fine dica: “Wanda è una donna vera, non c’è finzione”». Richiesta di definirsi, tra modella, conduttrice, attrice, showgirl, procuratrice di calcio e pure opinionista, dice: «Sono la mamma di cinque figli che sono la mia vita e la moglie di Mauro Icardi, il mio grande amore». Proprio sulla situazione famigliare fa un’ammissione: «I miei figli li seguo persino durante il Grande Fratello: a ogni pausa per la pubblicità, col telefonino accendo le telecamere di casa». Davvero sono 43? «Sì, ma non solo in quella di Milano. Anche a Parigi dove vive Mauro (Icardi gioca nel Paris Saint-Germain, ndr). Mi piace molto invitare gli amichetti dei miei figli ma è una grande responsabilità e quindi voglio essere sicura che non succeda nulla». Su come far coesistere la Wanda procuratrice e la Wanda delle foto sexy dice: «I presidenti delle squadre mi conoscono da cinque anni e sanno che sono una donna dello Spettacolo. Faccio la modella da quando ho sei anni e in Argentina sono molto famosa; ho abbandonato il mio Paese per seguire Mauro in Italia mentre ero all’apice del successo. Detto questo, siamo nel 2020, le persone non dovrebbero giudicarmi da come mi vesto o da come mi presento su Instagram... Faccio la procuratrice seriamente, a loro deve interessare solo questo». E sulle scelte professionali del marito dice: «È difficile che capiti di discutere perché conosco davvero molto bene Mauro e so esattamente cosa vuole come calciatore e che cosa lo fa stare bene come uomo. Il fatto che io lo accompagni nelle sue scelte come moglie e procuratrice per lui è una sicurezza in più… Se Icardi andrà mai alla Juve? Ah, questo proprio non lo so.  Se l’anno prossimo abiteremo a Milano o a Parigi? Col calcio non si sa mai. Mauro sceglierà e noi lo seguiremo».

Luana Rosato per ilgiornale.it il 28 Gennaio 2020. Scoop durante la diretta del Grande Fratello Vip: Alfonso Signorini ha lanciato una vera e propria bomba che coinvolge Elisa De Panicis e Wanda Nara. Cosa hanno in comune la ex concorrente e l’opinionista del Gf Vip? Pare proprio che abbiano condiviso lo stesso uomo: Maxi Lopez. Il direttore del settimanale Chi ha deciso di svelare il gossip quasi a conclusione della puntata di ieri, 27 gennaio, del reality show: “I miei uccellini mi hanno detto, cara Wanda, che la nostra Elisa De Panicis, che è una che non si fa mancare niente, ha avuto una tresca...Indovina con chi? Con Maxi Lopez!”. E, mentre la Nara filmava il momento della rivelazione dello scoop limitandosi, in un primo momento, ad un laconico “Ah sì!?”, la De Panicis tentava di nascondersi il volto e si lasciava andare ad una risata tra il divertito e l’isterico. “Non sapevo nulla!”, ha aggiunto la moglie di Mauro Icardi che, quando ai tempi in cui palesò la relazione con l’ex attaccante dell’Inter, fu travolta dalle polemiche e accusata di aver tradito Maxi Lopez proprio con il suo grande amico. Ma Alfonso Signorini, lanciata la bomba, ha continuato ad indagare sulla tresca tra Lopez e la De Panicis, chiedendo a quest’ultima se tutto fosse avvenuto durante il matrimonio con Wanda Nara o quando lui era single. Elisa, evidentemente in imbarazzo, ha glissato sulla domanda chiedendo semplicemente al conduttore: “Ma quanti uccellini hai?”. Un replica che è apparsa a molti come una conferma, e che Wanda Nara non ha esitato ad accogliere con estrema ironia. “Ah, io sono cornuta?”, ha domandato l’opinionista del Gf Vip mostrando con orgoglio il gesto delle corna. Il tutto si è risolto con una grassa risata da parte dei diretti interessati, ma Pupo non si è fatto sfuggire l’occasione di lanciare una velenosa frecciatina alla De Panicis, che nel suo passato sentimentale vanta una serie di flirt con grandi calciatori: Cristiano Ronaldo, Maxi Lopez e, in ultimo, Theo Hernández. “Elisa, io giocavo nella nazionale cantanti: ti interessa?”, le ha domandato ironicamente Enzo Ghinazzi, scatenando la risata fragorosa della sua collega Wanda Nara. “L’amica di Pupo è cornuta - ha commentato ancora l’argentina, mentre Signorini la rincuorava - . Amore, prima o poi le corna ce le mangiamo tutti!”.

·        Willie Garson.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2020. Ognuno vive le proprie frustrazioni. Gabriel Garko per anni ha nascosto l' omosessualità per non perdere il pubblico femminile che lo amava nei ruoli di latin lover. E questo lo sappiamo, è il «segreto di pulcinella» uscito allo scoperto poco tempo fa. Rupert Everett (parlando di attori veri) ha dichiarato che dopo aver fatto coming out faticò parecchio a trovare ruoli a Hollywood. C' è chi invece non vuole confessare di essere eterosessuale per non perdere la fama di icona omosex e perché pensa che questa precisazione sia offensiva. Ieri abbiamo scoperto che uno dei personaggi più noti della televisione, per sei anni volto del gay Stanford Blatch nella serie Sex and the city e per due volte presente nei film tratti dalla fiction, in realtà era un inconfessabile eterosessuale. Non si sarebbe mai detto, con il papillon rosa, i modi raffinati, lo spirito effervescente di amico del cuore della single Carrie, la protagonista, in giro per New York tra feste, uomini disponibili, mossette e vernissage. Gusti sessuali Willie Garson, oggi 56 anni, nel secondo film si era addirittura sposato con l' amico omo di Charlotte, nonostante si fossero odiati come un Giovanardi e una Luxuria per sei stagioni. Tutti e due si erano trovati single e moderatamente disperati, e avevano deciso di sistemarsi. In tutti questi anni l' attore non ha mai parlato del suo orientamento sessuale, ma a Page Six, pochi giorni fa, ha confidato di essere eterosessuale: «Non l' ho detto prima perché credo sia offensivo nei confronti dei gay». Siamo al paradosso: adesso essere eterosessuale è considerata una offesa. È come se Garko dicesse: «Non ho detto prima di essere omosessuale per non offendere gli etero». «Il mio lavoro è interpretare persone. Le persone che interpretano personaggi gay poi vanno a urlare ai quattro venti che non sono gay, come se ci fosse qualcosa di male a esserlo», ha aggiunto. Beh, non c' è nulla di male ad amare persone dello stesso sesso, ma se non è vero perché fingersi tali? «Quando facevo White Collar nessuno mi ha mai chiesto se ero un truffatore, e quando sono apparso in NYPD Blue nessuno mi ha domandato se fossi un assassino. Il mio lavoro è interpretare persone», dice l' artista. E il ragionamento non fa una piega. Quello che colpisce è che Garson pur di non fare quello che lui considerava un torto al mondo gay-lesbo, si è quasi rovinato la sfera sentimentale. «Standford», dichiara l' attore americano, «mi ha creato qualche problema con le donne. All' inizio quando approcciavo le donne al bar mi rendevo conto che volevano diventare le migliori amiche di Standford, non necessariamente venire a letto con me», ha ammesso. Problemi con le donne Fuori dal set Garson, la cui carriera dopo Sex and the city non ha prodotto nulla di memorabile, ha avuto una lunga relazione con una donna e dal 2009 è padre adottivo di Nathen, che all' epoca aveva 8 anni: «Ho sempre voluto avere bambini. Per circa 20 anni ho avuto una relazione tira e molla con una donna, ma lei non voleva averne. Il figlio è stata la mia crisi di mezza età, volevo un bambino più di ogni altra cosa al mondo». La sua esperienza personale l' ha portato a supportare l' associazione You Gotta Believe, che si impegna a trovare famiglia ai ragazzi in affido. E questo è encomiabile.

·        Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2020. Wilma Goich è un fiume in piena. Senza freni. Spara a zero contro Edoardo Vianello, suo ex marito. Nessuna apparizione con lui in tv o sul palco dopo l’ultima volta, che ha lasciato il segno. Wilma rompe il silenzio a Storie Italiane, il programma di Eleonora Daniele su Rai1. E dice: “Ho deciso di non cantare più con Edoardo perché, ai suoi 80 anni, davanti ad una platea di giornalisti lui ha fatto salire sua moglie (attuale) ed ha cantato una canzone nostra. Dopo questo ho detto basta. Ho deciso di non cantare più con lui”. Vianello ha esordito, in quell’occasione, dicendo: “Ho due mogli sul palco”. Infatti, era presente anche sua moglie Frida, che ha 32 anni meno di lui. La risposta della Goich, contro il suo ex marito, è fortissima: “Ho detto: Da questo momento non canto più con Edoardo”. Cala il sipario definitivamente sulla possibile reunion de I Vianella.

Gabriella Sassone per Dagospia il 27 giugno 2020. Niente foto, please, c’è Renato. Arriva per primo, tutto di nero vestito, mascherina, occhiali e cappellino compresi, mejo di Zorro. E’ in splendida forma, allegro e divertente, e tiene banco tutta la sera. Renato è Renato: non si discute, si ama! Ma il nostro Luciano Di Bacco, l’unico flash ammesso a corte, non può scattare. Sa che il cantante non ama farsi paparazzare e il rispetto dell’amicizia vale più di una manciata di foto da Cafonal. E meno male, in questi tempi bui, dove non c’è rispetto per niente e nessuno. Renato Zero è la guest star, insieme a Paolo Berlusconi, arrivato sul tardi solo soletto, del secondo party per il compleanno di Edoardo Vianello. Ebbene sì, per i suoi 82 anni, sotto l’attenta regia della moglie (la terza) Frida Ismolli, da 23 anni al suo fianco anche come manager, Edoardo festeggia ben due volte. La prima sera sulla terrazza con vista a 360 gradi sulle bellezze di Roma del “Rinocheros” di Alda Fendi e la seconda sera al roof garden “Hires” dell’hotel Valadier. “Non si possono fare assembramenti e bisogna rispettare le distanze, per questo abbiamo dovuto organizzare due feste per poter ricevere gli amici un po’ alla volta”, spiega Frida. Renato-Zorro, scortato dal suo assistente Mariano Mariani, non è voluto mancare a fare gli auguri al suo amico storico, che lo scoprì e fu il suo primo produttore negli anni ‘70 con la sua casa discografica “Apollo”. “Renato era già troppo avanti per i tempi”, dice Edo. C’è anche Wilma Goich, la prima moglie di Vianello, da cui ha avuto la figlia Susanna, recentemente scomparsa per un male implacabile. E nonostante il dolore ancora lacerante per la scomparsa della bella figlia, i “Vianella” e Renato ripercorrono i bei tempi della loro amicizia. Renato non si risparmia: racconta barzellette e aneddoti tutta la sera, nessuno riesce a parlare oltre lui. Si ride molto e si brinda. E poi ecco Paolo Berlusconi, anche lui in veste di intrattenitore, con i suoi giochetti di prestidigitazione e altre barzellette. Solo 11 gli ospiti ammessi alla serata, accolti dal proprietario Nando Lassalandra, tra cui il prof. Pierpaolo Mariani e l’altro figlio di Vianello Alessandro. Una serata intima, piacevole, culminata con l’arrivo di una torta con tutte le copertine dei dischi di Vianello riprodotte in zucchero. La sera prima, Edo e Frida avevano ricevuto 27 ospiti in una lunga tavolata  sulla terrazza di “Rhinoceros”, lo spazio polifunzionale di Alda Fendi dove arte, architettura, cultura e storia si mixano in una sintesi felice e originale. Qui a festeggiare le 82 “primavere” di Edoardo ci sono Pippo Baudo, Fausto e Lella Bertinotti, il nipote Andrea Vianello con la moglie Francesca, Paolo Notari, Pascal Vicedomini con la consorte Concetta e una splendente Vittoria Schisano in lungo scollato, al braccio del suo amato compagno Donato. Vittoria e Donato sono andati a vivere nei dintorni di Roma e lei è in fibrillazione per il prossimo ritorno in tv come concorrente di “Ballando con le stelle”. Ecco il patron del ristorante del “Rhinoceros”, Andrea Azzarone, che si occupa anche della Terrazza Caffarelli e di Palazzo Brancaccio. Con lui la bella compagna Neva. “Ho voluto solo amici che mi vogliono bene”, ha detto Vianello, rimproverandoli ironicamente uno per uno per le loro piccole pecche nei suoi confronti, a partire da Pippo e i suoi 13 Sanremo dove non è mai stato invitato. Sulla stessa terrazza, in una tavolata poco più in là, festeggiava il compleanno numero 43 anche “Mister Io e Te” Pierluigi Diaco, col marito Alessio Orsingher e pochi intimi. Diaco si è subito avvicinato al tavolo di Vianello, per porgere gli auguri e salutare i cari amici Pippo e i BertyNight Fausto e Lella. Poi è tornato dai suoi ospiti. Quando si dice le coincidenze! Auguri e lunga vita! 

·        Zaawaadi.

Barbara Costa per Dagospia il 17 ottobre 2020. Latte su corpo scuro e delizioso, una così non passa inosservata, una così il porno se lo mangia, se lo divora, ci divora. Rocco ha tutte le fortune, a lui le fighe cadono in braccio, dal cielo, a lui questa femmina nera gliel’hanno servita, regalata, da un’altra sua pari gnocca… ma meglio se ti racconto la storia dal principio. Tutto è iniziato esattamente un anno fa, quando quella gnocca bionda che si chiama Tiffany Tatum, nel porno da tre anni, tra le preferite di Rocco, volto della sua Academy, alla fiera erotica di Berlino incrocia questa d’ebano divinità, e se ne porno-innamora. Dea che risponde al nome di Zaawaadi, nome esotico, swahili, e infatti la ragazza è keniana. Non è vergine di porno ma quasi, ha 31 anni ma è agli inizi, ha girato un paio di scene, e un porno-casting con Pierre Woodman. Tiffany Tatum via social gira foto di Zaawaadi a Rocco che immediatamente la prenota per uno shooting a Budapest. Rocco si ritrova davanti una donna che nella vita fa l’infermiera, è sposata, ed è una sua grande fan dato che con suo marito è solita trastullarsi coi porno siffrediani. Porno usati come immaginario, lubrico divertimento, porno come propizio strumento per sapere, capire, uscire da una educazione se non repressiva digiuna, di sesso, e claustrofobica. Zaawaadi proviene da una realtà molto conservatrice, e da una famiglia all'antica e cattolica praticante, dove l’argomento sesso è tabù. Consumare porno, da sola, o con il marito, è mezzo di riscatto, mezzo per imparare, aprirsi, mentalmente, almeno basicamente chiedendosi cosa ti può del sesso stuzzicare, e cosa no. Pronto a lanciare "Rocco Siffredi Films", la sua nuova etichetta porno, Rocco intrattiene con Zaawaadi una fitta corrispondenza via mail, in cui chiede alla ragazza di svelargli le sue più proibite, perverse fantasie. Zaawaadi si lancia in azzardati, caustici paragoni con il sesso al cinema simulato nelle varie sfumature di grigio-rosso-nero, e Rocco cambia idea: non su di lei, sul suo corpo, sulle sue potenzialità, ma su cosa – e con chi – farla debuttare. Il risultato è "My Name is Zaawaadi", da poco uscito, porno che documenta, ma proprio come un documentario, e come un porno, il viaggio di Zaawaadi dalla sua terra natale in una Europa che può offrirle opportunità insperate, ma di più il suo viaggio come donna che vuole essere un oggetto sottomesso, agli appetiti di un’altra donna, di altre donne, che ne seviziano, il sesso, di lingue e dita, di peni, monte che prima solo sognavi, ti bagnavi, con uomini a due, a tre che ti afferrano, ti bendano, inchiodano alle loro voglie, tu che sei una novizia del porno dal porno sommersa, in doppie fellatio, e ogni tuo buco è riempito, di sperma scambiato… sai gestirlo, gestirti, sai come fare? Non lo sai, lo fai, su quel set dove non può l’esperienza può il tuo istinto, di donna, afferralo, fino a che non fermano te, a guinzaglio, al collo, è la tua sottomissione, quella che agognavi, quella che hai scritto a Rocco. Non ti basta, non immaginavi di poter resistere ma attenta all’ultimo quadro, c’è un’orgia, la tua, il tuo corpo al centro, siete in sei, tre uomini e tre donne, l’orgia è il tuo regalo, Zaawaadi tu sei il nostro, di regalo, una donna il cui futuro porno è tracciato, non si fermerà, come non ferma la sua lingua Tiffany Tatum, sulla tua testa nuda, leccate che mandano in tilt fan sempre alla caccia di nuove star che non siano meteore. In "My Name is Zaawaadi" trovi anche Malena, nel foursome latteo e nell’orgia finale, e Martina Smeraldi, nel lesbian con Zaawaadi e Tiffany Tatum, e nel suo trio interrazziale e doppia, ingorda, anale.

·        Zucchero.

"Spero che il rock si svegli e ci dia di nuovo la carica". L'artista e le nuove canzoni di "Doc Deluxe": "Il governo offende se ci riduce a divertimento". Paolo Giordano, Martedì 15/12/2020 su Il Giornale. Zucchero è come il vino buono: migliora anno dopo anno e comunque vince nel confronto perché gli altri invece inacidiscono. Dopo decenni di carriera e dischi di platino, migliaia di concerti ovunque e collaborazioni stellari, è rimasto uno dei pochi a occuparsi ancora della propria ragione sociale: ossia la musica, quella suonata, pensata, sofferta. Ha appena pubblicato D.O.C Deluxe, la versione extralarge del suo disco dell'anno scorso. Sei brani nuovi, tre inediti, un duetto con Sting. «Ma non ne posso più», dice adesso perché «io devo suonare dal vivo». Deve. Nel frattempo continua a registrare.

Scusi, Zucchero, tanti altri artisti invece di pubblicare nuove canzoni pubblicano nuovi post sui social.

«In realtà io sto ai social come la cravatta al maiale. Lo so, dovrei cambiare ma mi rimane ancora la speranza che le cose si modifichino».

Sicuro?

«Per esempio, l'altro giorno parlavo con il manager di Paul McCartney, che mi preannunciava una crescita esponenziale dello streaming, ma io continuo a sperare in una inversione di tendenza».

Forse per reazione, nei sei brani nuovi c'è Wichita lineman, una cover di Jimmy Webb, uno dei più grandi autori di sempre ma non certo un idolo social.

«È un brano che mi è sempre piaciuto e avrei voluto scrivere io. Lo suonavo anche nelle balere tanti anni fa e racconta la storia del tecnico telefonico che è lontano ma rimane in contatto con la propria amata».

Tema non proprio attuale. Anche l'inedito Non illudermi così è una stoccata alla mentalità social.

«È una rivisitazione di Don't make me promises che ho riscritto con un testo in italiano per riadattarla al momento che stiamo vivendo».

Parole chiare: «Sembra che la vita che ci stan cantando, uno su tre sono bugie, falsi come Facebook tutti quei bacini ai colli».

«Si finge di volersi bene tutti, di scambiarsi bacini a distanza ma io ero e resto un orso. Preferisco una stretta di mano, un contatto».

In Succede canta di «Bandiere rosse nel comò».

«Eh sì, le ho messe nel comò nel senso che non mi sento rappresentato dall'ideologia nella quale sono cresciuto. Oggi non la sbandiero più».

Il tramonto di tanti caposaldi del Novecento.

«Anche il rock non fa più la rivoluzione, si è annacquato. Forse il rap ha preso il suo posto ma spero che il rock ritrovi la propria funzione originaria. Altrimenti siamo tutti buoni, e non va bene». (sorride - ndr)

Per il premier Conte gli artisti fanno divertire.

«È grave. E comunque vorrei che arrivassero i soldi promessi alla maestranze».

Siamo nell'epoca in cui quasi tutti pubblicano un brano per «volta. Lei ripubblica il suo vecchio disco con sei brani inediti tutti insieme.

«La verità è che non mi piace fare un disco identico all'altro.. Quando sarà chiuso il progetto D.O.C. farò altro».

Nel frattempo dovrebbe suonare dal vivo.

«A metà gennaio ci diranno se potremo partire con il tour ad aprile e in che modo. Di certo io sono disposto a tutto, anche a suonare all'Arena con una capacità ridotta. L'importante è esibirsi dal vivo».

Non le basta lo streaming?

«Beh, il concerto su di un palco davanti a un pubblico vero è un'altra cosa».

Zucchero ha giocato spesso a pallone con Paolo Rossi.

«Partitelle estive. Lui fuoriclasse, io scarsissimo. Perciò avevamo deciso che il fuorigioco non valeva... Io rimanevo praticamente davanti alla porta avversaria, lui mi lanciava un pallone perfetto e poi diceva vai Tigre!. Ma io immancabilmente lo sbagliavo. Ho ricordi bellissimi e struggenti».

A proposito, Sting?

«Duettiamo in September. Lui ha scritto la musica e poi mi ha chiamato per propormi di adattare alla melodia un testo in italiano. Lavorandoci insieme è venuto fuori questo duetto, che risente e parla del periodo che stavamo vivendo quando l'abbiamo composto, e che stiamo ancora vivendo. Eravamo a giugno e ci rivolgevamo al mese di settembre con il desiderio che un po' di pioggia, dopo un'estate così calda e asciutta, potesse lavare via e purificare tutte le brutture del momento. Aspettiamo ancora questo ideale settembre».

Avete pure girato un video insieme.

«Sì ma lui voleva iniziare alle 6.30 del mattino anche se io di solito mi sveglio alle 13... Sono arrivato puntuale e lui aveva già fatto un bagno in piscina. A ottobre! Con quel freddo! Pazzesco. A me di certo non capiterà mai». (e ride - ndr)

Antonio Gnoli per Robinson – la Repubblica l'11 gennaio 2020. La frase più amara che gli sento pronunciare è che per lungo tempo ha creduto di morire. Non una morte fisica. Se è per questo, è stato un giovane forte e resistente. Ma una morte sottile, di testa, che ti tiene in vita ma che ti fa alzare tutte le mattine con l' ansia di non farcela. È uno Zucchero in libera uscita quello che incontro e che non ha dimenticato l' inflessione dialettale, alla quale si aggrappa come alle radici in un giorno di vento forte. È cordiale, simpatico con quella faccia un po' vichinga, aperta, energica e concupiscente. Nel linguaggio dei media Zucchero è una rockstar internazionale. Uno dei pochissimi italiani in grado di reggere il confronto con le altre stelle americane e inglesi. Partirà tra un po' per un lungo tour che toccherà le maggiori città dei vari continenti: dall' Europa agli Stati Uniti, all' Australia per finire con undici concerti a settembre all' Arena di Verona. Porterà le sue canzoni e il nuovo album. La prima tappa Londra, alla 02 Arena, in un' esibizione insieme ad altre star come Tom Jones ed Eric Clapton, i Procol Harum e i Dire Straits, Cat Stevens e Paul Young.

Di solito come vivi questi lunghi tour?

«Oggi con maggiore tranquillità. Ma in passato ci sono stati momenti duri e complicati».

Dovuti a cosa?

«Al panico. Al terrore di dover salire sul palco».

Ti è accaduto spesso?

«Il primo attacco di panico fu all' inizio degli anni Ottanta. Estate. Varazze. Con una band ero stato ingaggiato per cantare in un locale. Il gestore mi dice vai e canta Rock' n roll robot, che era in quel momento il successo di Alberto Camerini. Sto per iniziare, controvoglia. Un caldo infernale. Comincio a sudare freddo. Il cuore che va su di giri. Poso la chitarra e come un automa esco di scena. Un disastro».

Non eri ancora famoso.

«Sconosciuto ai più».

A cosa ti aggrappasti?

«A niente, era come galleggiare nel vuoto. Improvvisamente sentivo che qualcosa mi afferrava trascinandomi giù. Ero impotente, smarrito e anche incredulo».

Incredulo?

«Sì, perché a me? Che cosa ho che non va? Vengo da una terra solida, dura ma aperta. Radici contadine, non c' era permesso di farci delle pippe mentali».

Sei di dove?

«Di Roncocesi, frazione di Reggio Emilia. Un piccolo mondo che avrebbe potuto descrivere Guareschi: il parroco e la chiesa da un lato, il sindaco e la casa del popolo dall' altro».

La tua famiglia da che parte stava?

«Era comunista, soprattutto mio zio Enzo, detto Guerra: marxista, leninista, maoista. Autodidatta. Aveva la stanza da letto piena di libri. Non potendo fare pressoché nulla, era seminfermo per colpa di una scheggia di granata vicino al cuore, teorizzava. Sognava il suo mondo migliore. Era diverso dal fratello, cioè da mio padre».

Perché, com' era tuo padre?

«Terragno, pratico, impulsivo. Ricordo che quando veniva il prete in casa si toccava i maroni. Poi sopraggiunse una malattia, di quelle degenerative ma che allora non si sapeva che cosa fosse. E un giorno si presentò il prete e papà si alzò a fatica dalla poltrona e si fece il segno della croce. Allora mi sembrò strano, un po' come arrendersi. Poi ho capito che quel gesto era il segno di una redenzione».

Parli di fede?

«Ho sempre avuto qualche riferimento spirituale. La mia vita e, aggiungo, le mie canzoni sono state un continuo oscillare tra sacro e profano. Il primo strumento che ho suonato è stato l' organo in chiesa. Fu don Tagliatella, lo chiamavamo così, il parroco che veniva spesso a pranzo la domenica e discuteva con lo zio Guerra, a permettermi di suonarlo. Sai quale è stata la prima grande emozione? Quando sono riuscito a suonare A Whiter Shade of Pale, la più bella canzone del secondo Novecento».

Un classico, ma con un testo ermetico che parla di vergini e di mugnai.

«Ma è bella anche per questo, sembra scritta sotto effetto dell' lsd, con un sottofondo di Bach e un riferimento ai racconti di Canterbury di Chaucer.Pazzesco! Ogni tanto la canto nella versione originale dei Procol Harum».

Toglimi una curiosità, come sei arrivato al rhythm and blues?

«Per puro caso. Un ragazzo nero di Memphis, che studiava agraria a Bologna, aveva degli amici o dei parenti a Roncocesi. E ogni tanto veniva a trovarli. Ci conoscemmo e poiché sapeva che strimpellavo la chitarra mi fece ascoltare un disco di Otis Redding. Sai quando hai una botta di adrenalina?Ecco, restai folgorato da (Sittin' on) the Dock of the Bay. Quello fu il primo passo».

Al successo non sei arrivato subito.

«Quasi dieci anni di gavetta, di porte sbattute in faccia e anche dopo non è stato facile».

Hai mai pensato di non farcela?

«Più di una volta. Oltretutto, avevo una moglie che non era il massimo dell' incoraggiamento. Due figli, i soldi che non bastavano e la precarietà di un mestiere per il quale ti sembra sempre di stare sul ciglio di un burrone».

La popolarità arrivò con Sanremo.

«Fino a un certo punto. Partecipai arrivando penultimo. I discografici non erano molto convinti che avrei sfondato. Sì, ho pensato di non farcela e mi sono anche chiesto, in alternativa, di che cosa avrei vissuto».

Avevi un piano B?

«Dicevo: male che vada farò il veterinario. Mi ero iscritto alla facoltà di Pisa, sostenendo una trentina di esami. Ma poi avevo smesso per gli impegni musicali. Mi sarei occupato di bestie. Perché no?».

I tuoi come vedevano le tue imprese di cantante?

«Se ne fregavano, soprattutto mio padre. Pensa che quando sono diventato "Zucchero", per un periodo, visti i dissapori con mia moglie, mi trasferii nella vecchia casa dei miei genitori. Volevo respirare l' aria di famiglia, ripensare alla mia infanzia, rivedere i volti familiari. Mio padre mi svegliava alle quattro del mattino. Alzati Delmo che devi andare nei campi a lavorare. Capisci? Non aveva realizzato nulla del mio successo. E quando gli dissero: hai un figlio musicista famoso, lui rispose non mi piace la sua musica, a me piacciono il valzer e la mazurka.Non ce l' ho fatta a restare e sono andato via nuovamente».

Dal punto di vista professionale sei stato ampiamente ripagato. A cosa devi il tuo successo?

«Lo devo innanzitutto a me stesso. Poi ci sono gli incontri con le persone giuste, la stima che comincia a circondarti. La gente che ti guarda con un occhio diverso. E poi, nonostante fossi un provinciale, o forse grazie al fatto che lo ero, ho sempre guardato fuori dal nostro Paese. Volevo far parte di una famiglia musicale che capisse il mio sforzo, i miei desideri, i miei sogni».

Alludi al confronto con le grandi rockstar?

«Sono stato fortunato nell' incontrare artisti che hanno capito e apprezzato la mia lingua musicale: Eric Clapton, Sting, Bono, Joe Cocker e ovviamente Miles Davis».

È vero o è una leggenda che sia stato Miles Davis a chiederti di suonare con lui?

«Lui sentì Dune mosse, chiese chi fossi e decise che avrebbe fatto volentieri quel pezzo con me. Lo raggiunsi a New York e in una sala di registrazione facemmo il pezzo. Superammo alcune incomprensioni e alla fine disse che gli piaceva la mia voce. Ero stordito. Disse anche che quella musica lo aveva fatto piangere. Non so se esagerava o se era entrato in un mood particolare».

Cosa ti colpì di lui?

«Era un misto di aggressività e tenerezza. Finimmo la serata in un ristorante. Era nero, vestito di nero, con le lenti nere. Si tolse gli occhiali e vidi due fessure verdi. Erano i suoi occhi. Bellissimi. E aveva acceso il mio buio».

Una canzone del tuo nuovo album,"D.O.C", si intitola "Spirito nel buio". Parli di feste in paradiso, di gioia nel mondo, del fiume Giordano, di sacro e di profano. Davvero è questo il mondo che stai cercando?

«È la spiritualità di cui ti parlavo prima. Si tratta di una conquista difficile. Quella canzone dice anche che mi sento come perduto nella nebbia e che vorrei un mondo in festa. Ma il mondo non è quello che sognavo da bambino. Ci sono i fallimenti privati e quelli collettivi».

A quali stai dando la precedenza?

«In questo momento mi pare evidente che stiamo andando tutti, chi più chi meno, incontro a una sconfitta epocale. Siamo ancora sospesi, con la paura di non farcela».

Prima hai raccontato del tuo primo attacco di panico. Come hai contrastato questo problema?

«Intanto vivendolo. Anche drammaticamente. Fu terribile prima di un concerto al Cremlino e un' altra volta quando fui invitato a cantare a Wembley per un tributo a Freddie Mercury. C' erano i Queen, David Bowie, Elton John, George Michael. Stavo malissimo. Sudori freddi. Quando arrivò il mio turno volevo solo andarmene. Dietro il palco la fuga. Davanti ottantamila persone. L' angoscia mi terrorizzava. Ero nella fosse dei leoni. Alla fine l' adrenalina ebbe il sopravvento e cantai alla grande. In seguito le cose si complicarono. All' inizio di un tour per il mondo venni preso dal panico. Decisi di annullare tutti i contratti e partii per Pisa con l' intento di ricoverarmi nell' istituto diretto dal professor Cassano, grande specialista di patologie legate alla depressione».

Cosa accadde?

«Gli spiegai cosa avevo e che intendevo ricoverarmi nella sua clinica. Nel frattempo gli organizzatori del tour minacciavano penali mostruose da pagare. Non mi importava. Volevo solo stare lontano dalle scene e curarmi. Volevo la mia piccola tana. Ma Cassano fu irremovibile. Mi spiegò che la cosa migliore era affrontare il tour assumendo tuttavia dei farmaci che lui avrebbe dosato. Niente. Insistevo per essere ricoverato. Poi vidi una vecchia in un corridoio che urlava che voleva uscire e mi sono spaventato. Rischiavo di fare la stessa fine. E allora decisi di tornarmene a casa».

E alla fine?

«Partii per il tour grazie anche all' intuizione di un amico che mi offrì molta grappa. Il professor Cassano ci mise il Prozac. La miscela fu per me risolutiva».

E oggi?

«Come ti ho detto va molto meglio. Ogni tanto penso a mio nonno. Anche lui, scoprii, aveva avuto attacchi di panico. Non si sapeva, allora, esattamente cosa fossero. La nonna lo faceva sedere, gli sfilava la maglia e gli asciugava il sudore. Poi gli serviva un brodo caldo e lui ricominciava a vivere. Come accade a me: Adelmo Fornaciari in arte Zucchero. Ma io, per i miei ero Delmo, e le mie radici sono ancora lì in quella terra. Mi ricordo quando diventai amico di Pavarotti: i concerti eseguiti insieme in giro per il mondo. Luciano era planetario. Aveva più popolarità di Michael Jackson, ma quando tornava a Modena giocava a carte con gli amici e tagliava i salumi. Essere provinciali e universali. Questo mi ha insegnato. Mi chiedi di oggi. Ho imparato a conoscere il mio male e a contrastarlo. Sono vigile e sereno. Un tempo mi ero fissato che il pubblico venisse ai miei concerti per giudicarmi e criticarmi. E ci stavo male. Ora so che in realtà viene perché ama le mie canzoni, la mia musica. Anche questa, giuro, è stata una conquista».