Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2020, consequenziale a quello del 2019. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un Giro di …Giostra.

Nudi e crudi.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

Coppie che scoppiano.

Le scazzottate dei divi.

Gli acciacchi della Star.

Hall of Fame 2020.

Cinema e Musica Italiana da Oscar.

Grande Fratello Vip, perché i Big si (s)vendono così?

AC/DC.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Chechik.

Adriana Volpe.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Agostina Belli.

Ai Weiwei.

Aida Yespica.

Al Bano.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alex Britti.

Al Pacino.

Alena Seredova.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Cantini.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.

Alessandro Preziosi.

Alessia Marcuzzi.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amandha Fox.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sartoretti.

Andrea Vianello.

Andrew Garrido.

Andy Luotto.

Angelica Scent.

Annalisa.

Anna Galiena. 

Anna Pepe.

Anna Valle.

Anna Falchi.

Anne Moore.

Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonio Ricci.

Antonello Venditti.

Antonio Zequila.

Arisa.

Asa Akira.

Asia Argento.

Asia Gianese.

Asia Valente.

Asmik Grigorian.

Autumn Falls.

Baby Marylin.

Bar Refaeli.

Barbara Alberti.

Barbara Bouchet.

Barbara Costa.

Barbara De Rossi.

Barbara D'Urso.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta Porcaroli.

Benji & Fede.

Bianca Balti.

Bianca Guaccero.

Billie Eilish.

Billy Cobham.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brigitte Bardot.

Brigitte Nielsen.

Brunori Sas.

Bugo.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cameron Diaz.

Carla Bruni.

Carla Vistarini.

Carlo Conti.

Carlo Verdone.

Carol Alt.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina Collovati.

Caterina Guzzanti.

Caterina Piretti: Katiuscia.

Catherine Spaak.

Cécile de France.

Charlie Sheen.

Checco Zalone.

Chiara Ferragni e Fedez.

Chrissie Hynde.

Christian De Sica.

Claudia Gerini.

Claudia Galanti.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bergamin.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Clementino.

Clint Eastwood.

Cochi e Renato.

Costantino della Gherardesca.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Daisy Taylor.

Dalila Di Lazzaro.

Dana Vespoli.

Daniela Martani.

Daniela Rosati.

Danika e Steve Mori.

Danny D.

Dante Ferretti.

Dario Argento.

Dario Brunori.

David Guetta.

Davide Livermore.

Davide Mengacci.

Davide Parenti.

Demi Moore.

Diego Abatantuono.

Diego «Zoro» Bianchi.

Diletta Leotta.

Domiziana Giordano.

Donatella Rettore.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Duffy.

Ed Sheeran.

Edoardo ed Eugenio Bennato.

Elena Sofia Ricci.

Elena Sonzogni.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Daniele.

Elettra Lamborghini.

Elio Germano.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stockholma.

Emma Marrone.

Emis Killa.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Nigiotti.

Enrico Remigio: il milionario.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Iacchetti.

Enzo Ghinazzi-Pupo.

Enzo Salvi.

Erjona Sulejmani.

Eros Ramazzotti.

Eva Henger.

Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Evan Seinfeld.

Eveline Dellai.

Ezio Bosso.

Ezio Greggio.

Fabio Canino.

Fabio Rovazzi.

Fabio Volo.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fasma.

Fausto Leali.

Federico Buffa.

Federico Zampaglione.

Ferdinando Salzano.

Ficarra e Picone.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fiorello Catena.

Fiorello Rosario.

Flavio Briatore.

Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Calissoni.

Francesca Cipriani.

Francesca Sofia Novello.

Francesco Baccini.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Nero.

Franco Simone.

Franco Trentalance.

Fred De Palma.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gegè Telesforo.

Gemma Galgani.

Gene Gnocchi.

Georgina Rodriguez.

Gerardina Trovato.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gialappa’s Band.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianfranco D' Angelo.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Gianna Dior.

Gianna Nannini.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi Proietti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giobbe Covatta.

Giorgio J. Squarcia.

Giorgio Moroder.

Giorgio Panariello.

Giovanna Civitillo.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Ralli.

Giovanni Allevi.

Giovanni Benincasa.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Veronesi.

Giuliana De Sio.

Giulia Di Quilio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Cionfoli.

Giuseppe Povia.

Giuseppe Vetrano.

Gue Pequeno.

Gwyneth Paltrow.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hitomi Tanaka.

Hoara Borselli.

Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Imen Jane.

Imma Battaglia.

Ines Trocchia.

Irene Ferri.

Isabella De Bernardi.

Isabella Orsini.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivan Gonzalez.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo D’Emblema.

Jake Lloyd.

Jamie Lee Curtis.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

Jason Momoa.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Jim Carrey.

Joaquin Phoenix.

Joe Bastianich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Jon Bon Jovi.

Jonas Kaufmann.

Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Julija Majarcuk.

Julio Iglesias.

Junior Cally.

Justin Bieber.

Justin Timberlake.

Justine Mattera.

Katia Follesa.

Katia Ricciarelli.

Keanu Reeves.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kristen Stewart.

Lacey Starr.

Lady Gaga.

Lando Buzzanca.

Laura Pausini.

Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Led Zeppelin.

Lele Mora.

Le Las Ketchup.

Le Lollipop.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Levante.

Liana Orfei.

Ligabue.

Liliana Fiorelli.

Lillo&Greg.

Lino Banfi.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Battistello.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lory Del Santo.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

Luca Ferrero.

Luca Guadagnino.

Luciana Turina.

Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Luigi Mario Favoloso.

Luisa Ranieri.

Lulu Chu.

Luna Star.

Macauley Culkin.

Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Madonna.

Maitland Ward.

Malcolm McDowell.

Malena Mastromarino.

Manila Nazzaro.

Manlio Dovì.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marcia Sedoc.

Marco Bellocchio.

Marco Carta.

Marco Castoldi, in arte Morgan.

Marco Giallini.

Marco Giusti.

Marco Masini.

Marco Mazzoli.

Marco Milano.

Marco Predolin.

Margherita Sarfatti.

Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Teresa Ruta.

Marianna Pizzolato.

Mario Salieri.

Marilena Di Stilio.

Marina La Rosa.

Marina Mantero.

Marino Bartoletti.

Mario Biondi.

Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Laurito.

Marta Losito.

Martina Colombari.

Martina Smeraldi.

Mason.

Massimo Boldi.

Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ghini.

Massimo Giletti.

Matilda De Angelis.

Matt Dillon.

Matthew McConaughey.

Maurizia Paradiso.

Maurizio Battista.

Maurizio Costanzo.

Maurizio Ferrini.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Felicitas.

Max Giusti.

Max Pezzali e gli 883.

Mel Gibson.

Mia Khalifa.

Mia Malkova.

Michael Stefano.

Michela Miti.

Michele Bravi.

Michele Cucuzza.

Michele Duilio Rinaldi.

Michele Mirabella.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosè.

Mika.

Mick Jagger.

Milly D’Abbraccio.

Milva.

Mina.

Mingo De Pasquale.

Mirko Scarcella.

Myss Keta.

Myrta Merlino.

Monica Bellucci.

Monica Leofreddi.

Monica Setta.

Monica Vitti.

Morena Capoccia.

Morgana Forcella.

Nadia Bengala.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Noemi Blonde.

Naomi Campbell.

Niccolò Fabi.

Nicola Di Bari.

Nicola Savino.

Nicole Grimaudo.

Nicoletta Mantovani.

Nicolò De Devitiis.

Niko Pandetta.

Nina Moric.

Ninetto Davoli.

Nino Formicola.

Nino Frassica.

Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ottaviano Dell'Acqua.

Pamela Anderson.

Paola Barale.

Paola e Chiara.

Paola Ferrari.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino.

Paola Turci.

Paolina Saulino.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Conticini.

Paolo Jannacci.

Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Sorrentino.

Paolo Virzì.

Pasquale Panella.

Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Patrizia De Blanck.

Patrizia Mirigliani.

Patti Smith.

Paul McCartney.

Peppino Gagliardi.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Pif.

Pilar Fogliati.

Pino Donaggio.

Pino Scotto.

Pino Strabioli.

Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Placido Domingo.

Plinio Fernando.

Pooh.

Quentin Tarantino.

Raffaella Carrà.

Rancore.

Raoul Bova.

Red Ronnie.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Righeira.

Ringo.

Ringo Starr.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Pavone.

Rita Rusic.

Robert De Niro.

Roberta Beta.

Roberta Bruzzone.

Roberto Benigni.

Roberto Bolle.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocco Steele.

Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Rockets.

Rosanna Lambertucci.

Roy Paci.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvo Veneziano.

Samantha De Grenet.

Sandra Milo.

Sara Croce: "Bonas".

Sara Tommasi.

Sarah Slave.

Sean Connery.

Selena Gomez.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sergio Sylvestre.

Sergio Staino.

Sfera Ebbasta.

Shannen Doherty.

Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Sharon Mitchell.

Sharon Stone.

Silvia Rocca.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O'Connor.

Skin.

Sofia Siena.

Sonia Bergamasco.

Sophie Turner.

Sylvie Lubamba.

Spice Girls.

Stefania Sandrelli.

Stefano Bollani.

Stefano Fresi.

Stella Usvardi: Kicca Martini.

Steve Holmes.

Susanna Messaggio.

Suzanne Somers.

Tazenda.

Taylor Mega.

Taylor Swift.

Tecla Insolia.

Teo Teocoli.

The Kolors.

Tinto Brass.

Tiromancino.

Tiziano Ferro.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Tommaso Zorzi.

Tony Binarelli.

Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Tony Dallara.

Tony Sperandeo.

Tony Vilar.

Tosca Tiziana Donati.

Traci Lords.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ursula Andress.

Valentina Nappi.

Valentina Pegorer.

Valentina Sampaio.

Valentine Demy alias Marisa Parra.

Valeria Curtis.

Valeria Marini.

Vanessa Incontrada.

Vasco Rossi. 

Vera Gemma.

Verona van de Leur.

Veronica Maya.

Victor Quadrelli.

Victoria Cabello.

Vincenzo Mollica.

Viola Valentino.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Wanda Nara.

Willie Garson.

Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Zaawaadi.

Zucchero.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

70 anni di moda e glamour in mostra.

Sanremo 2020, le 10 canzoni più bizzarre mai presentate in gara.

I Comizi di Sanremo.

Sanremo in salsa Leopolda.

Finalmente Sanremo…oltre le polemiche.

Il Debutto.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

L’ultima Serata.

Pronti per Sanremo 2021.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le competizioni stravaganti.

Gli Spartani: i masochisti dello sport.

I Famelici.

Quelli che…Lottano.

Quelli che l’Atletica.

Quelli che…le Biciclette. 

Quelli che…il Calcio.

Quelli che…la Palla a Volo.

Quelli che…il Basket.

Quelli che…Il Rugby.

Quelli che…i Motori. 

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…le Lame.

Quelli che…sulla Neve.

Quelli che…il Biathlon.

Quelli che …in Acqua.

Quelli che…lo Skate.

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Cameron Diaz.

Francesco Tortora per "corriere.it" il 9 agosto 2020. E’ stata una delle star di Hollywood più pagate al mondo e nel 2014, quando la sua carriera era all’apice, ha annunciato il ritiro dalle scene. A sei anni dall’improvviso addio al cinema, Cameron Diaz ha spiegato i motivi di questa decisione durante un’intervista con Gwyneth Paltrow nel podcast condotto da quest’ultima e intitolato «In Goop Health».

Per niente pentita. L’attrice di «Tutti pazzi per Mary» e «Il matrimonio del mio migliore amico» non è apparsa affatto pentita e ha confessato: «Quando ho scelto di chiudere con il cinema mi sono sentito in pace. Ho sentito la pace nella mia anima. Finalmente stavo prendendo tempo per me stessa. Quando giri un film, Hollywood ti possiede! Devi essere lì 12 ore al giorno, per mesi, e non hai tempo per nient’altro. E ho capito che avevo delegato parti della mia vita ad altre persone. E loro se l’erano presa! Ho capito che dovevo riprendere il controllo, assumermi le mie responsabilità. Non avevo altra scelta. Ho dovuto riparare le mie relazioni e ho dovuto costruirne altre».

Il matrimonio e la figlia. Nello stesso anno in cui si è ritirata, Cameron ha conosciuto il marito Benji Madden, chitarrista dei Good Charlotte con il quale nel 2019 ha avuto una bambina , Raddix: «Ho deciso che volevo qualcos’altro dalla mia vita - ha continuato -. È molto stancante lavorare a un tale livello, essere una figura pubblica e mettersi in mostra. C’è molta energia che ti travolge in ogni momento quando sei così sotto i riflettori come attrice e ti esponi. Allo stesso tempo gli attori a Hollywood sono infantilizzati. Siamo messi in una posizione in cui tutti si prendono cura di noi. Non deve succedere niente a noi perché siamo la star del film. Ho lasciato il cinema perché avevo bisogno di capire se ero ancora in grado di cavarmela da sola e di affrontare il mondo».

Tiziana Lapelosa per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2020. Ecco svelato il «progetto segreto» di cui Cameron Diaz parlava la scorsa estate: essere una mamma. E lo è diventata. Giorni fa (pochi o tanti non si sa) la Mary di cui tutti sono diventati pazzi, ex modella, e forse anche ex attrice, ha realizzato il sogno che la ossessionava da quando, nel 2015, ha sposato dopo un anno di fidanzamento Benji Madden, l' uomo di cui si è perdutamente innamorata e per il quale ha messo da parte «la vita incredibile» che non avrebbe potuto avere «se avessi dei figli...». Così dichiarava anni fa, quando il desiderio di maternità non aveva ancora fatto capolino nella sua vita. Anzi, i figli lei, protagonista di pellicole quali "The Mask" o come "Tutti pazzi per Mary" che l' hanno consacrata al grande pubblico, proprio non li voleva. E a chi le chiedeva il perché rispondeva proprio così: non si può avere una vita «incredibile» con dei mocciosi ad intralciare il percorso. «È semplicemente una scelta differente», aveva specificato. Tanto di cappello. Intorno a noi è pieno di donne sicure di non volere bimbi tra i piedi, perché danno fastidio, perché rappresentano un ostacolo per la carriera, perché per una donna diventare mamma non è lo scopo della vita, perché manca la materia prima, perché ci si sente inadeguati, perché, perché, perché...

L' inversione. Ma poi, ad un certo punto, qualcosa si è "rotto" nella vita della Diaz, come del resto succede a tantissime donne di cui sopra. Ad un certo punto l' attrice che non deve chiedere niente in quanto tutto ha, l' attrice che riceve proposte milionarie per girare un film, l' attrice dalla vita «incredibile» sente che le manca qualcosa. E quel qualcosa è la maternità, un figlio. Soprattutto ora che ha trovato un uomo degno di esserne padre. Ma l' età non aiuta. Quaranta candeline sono già state spente. Non che non si possa restare incinta, però è più difficile, come non mancano di sottolineare gli esperti. E infatti, lei non ci riesce. Si dice che la Diaz abbia fatto di tutto per riuscirci, sempre lontano dai riflettori. Si racconta di un' attrice ritirata a vita privata, indifferente ai copioni e agli assegni che le arrivavano pur di averla protagonista in un film di sicuro successo al botteghino. Si racconta di una Diaz ossessionata dall' idea di diventare madre al punto da non fare altro che parlare di figli. «Vuole un bambino, non parla d' altro», la confessione ad un magazine americano di una persona vicina alla coppia. «Non potrei essere più orgoglioso di mia moglie. La diva californiana si sveglia con una missione: provare a rendere il mondo un posto migliore. Sono sempre stupito dalla forza, dal coraggio e dalla vulnerabilità che mostra nell' incoraggiare le altre donne ad amare se stesse», aveva, del resto scritto il marito sui social quasi a voler rafforzare la sua missione. Si racconta pure di una Diaz che a Nicole Kidman chiede consigli sui metodi miracolosi per la fertilità, e pare che si sia addirittura immersa nelle sacre acque degli aborigeni australiani per cambiare il proprio destino. Ce l' ha fatta, a 47 anni. Non sappiamo se la piccola Raddix, questo il nome della bambina, sia nata in modo naturale, con la fecondazione assistita o surrogata. Sappiamo che i volti di Cameron Diaz e del marito, cantante dei Good Charlotte, adesso sono solcati dalla felicità. A chi assomiglierà la nuova arrivata difficile saperlo. Si sa, però, che la Diaz è ora tutta casa e famiglia, e chissenefrega della carriera. I neo genitori hanno deciso di non pubblicare foto e lo hanno spiegato con un post su Instagram: «... Siamo così felici, fortunati e grati di iniziare questo nuovo decennio annunciando la nascita di nostra figlia, Raddix Madden. Ha catturato immediatamente i nostri cuori e completato la nostra famiglia. Siamo molto contenti di condividere questa notizia, ma sentiamo anche un forte istinto di proteggere la privacy della nostra piccola, quindi non pubblicheremo foto o condivideremo altri dettagli, a parte il fatto che è davvero carina! Anzi, per alcuni è stupenda». Alla Diaz è andata bene, anzi benissimo. E speriamo che vada benissimo pure a tutte quelle donne che desiderano diventare mamme. A qualsiasi età.

·        Carla Bruni.

Serena Tibaldi per "la Repubblica" il 17 novembre 2020. La top model intelligente e anticonformista. L'impeccabile première dame di Francia. La cantautrice intensa che tiene il palco - che sia l'Ariston a Sanremo o l'Olympia a Parigi - armata solo di chitarra. 52 anni, nata a Torino e francese d'adozione, un figlio di 19 anni, Aurélien, avuto con il filosofo Raphaël Enthoven, una figlia, Giulia, di 9 anni nata dal legame con Nicolas Sarkozy, e un album - il sesto - uscito da poco nonostante le difficoltà della pandemia. Carla Bruni ha sempre fatto a modo suo.

Perché crede che il pubblico sia ancora tanto legato alla sua generazione di top model?

«Ogni decennio ha un mito. Per esempio, i tennisti come McEnroe, Borg, Lendl erano le divinità degli anni 80. E così noi negli anni 90. Anche se per la verità non è che il nostro lavoro fosse così complicato».

Sarà, ma le vostre foto dilagano sui social media, a prescindere dalle modelle in voga oggi.

«Noi avevamo il tempo di fare le cose per bene, di imparare. Linda Evangelista è diventata il mito che è perché ne ha avuto il tempo. Ora si fa tutto di fretta, tanto c'è il digitale che poi sistema, leviga e illumina».

 In un documentario del 1995, "Unzipped", a una sfilata la si vede gongolare perché il backstage aperto solleticava "il suo innato esibizionismo".

 «Cercavo solo di fare la spiritosa, all'epoca c'era molta più libertà rispetto a oggi: il politicamente noioso ha sostituito pure il politicamente corretto».

In effetti i celebri nudi fotografati da Helmut Newton oggi non sarebbero permessi.

«Pensare che le sue donne sono così potenti. Helmut non chiedeva mai nulla sul set, eravamo noi a voler far parte della sua visione, ci fidavamo di lui. Ed era così sicuro che per ogni foto scattava al massimo due volte. Oggi di scatti se ne fanno duecento, e con risultati molto diversi».

Un episodio che riassume la sua carriera da modella?

«Gli show d'alta moda di Gianni Versace: si sfilava al Ritz, sulla piscina che veniva coperta. E poi facevamo festa nelle suite tutta la notte, magari finendo per fare anche dei servizi fotografici tutte assieme. Era come stare in famiglia».

Ogni show era un evento.

«Una volta Prince scrisse un brano per una sfilata di Gianni (1995, ndr ) in cui ci nominava una a una. Le strofe coincidevano con la nostra uscita in passerella: noi non l'avevamo mai ascoltata, non sapevamo se sfilare, ridere o ballare».

Siete rimaste in contatto tra voi?

«Con Naomi non dico che ci sentiamo ogni giorno, ma quasi».

Il suo passato nella moda ha creato dei pregiudizi quando ha iniziato a cantare?

«Sì, ma tanto è una vita che ogni mio gesto è visto con sospetto. Però questo scetticismo mi ha aiutato: tanti pensavano fosse solo un'operazione di immagine, ma poi ascoltandola hanno scoperto che la mia musica è "vera", piaccia o non piaccia. Dopo l'uscita del primo album ( Quelqu' un m' a dit del 2002, ndr) ho ricevuto bellissime lettere di persone che lo commentavano: sta succedendo di nuovo con questo disco, ne sono felice».

Come si è preparata alle registrazioni?

«Prima di entrare in studio ho ascoltato a lungo l'ultimo album di Leonard Cohen, cupo e intenso, e tutto Fabrizio De André, un poeta straordinario: avessi scritto io Via del campo, poi avrei smesso. Come puoi continuare dopo aver creato un capolavoro simile?».

Il disco s' intitola "Carla Bruni".

«Non mi veniva in mente altro, perciò mi sono detta: faccio come Whitney Houston, che ha chiamato il suo primo album Whitney. Certo, in genere si fa al debutto, a 19 anni, non a 52. Pazienza (ride, ndr)».

La moda, la musica, i cinque anni all'Eliseo: cambiare non la spaventa.

«Sta parlando con una che da bambina ha cambiato nazione, ha cambiato lingua, e in un certo senso ha pure cambiato padre (dopo la scomparsa di Alberto Bruni Tedeschi nel 1996, ha scoperto che il suo padre biologico è l'italo-brasiliano Maurizio Remmert, ndr). No, non ho mai avuto problemi con i cambiamenti».

Le è pesato vivere sempre sotto i riflettori?

«Non sono ipocrita: questa notorietà me la sono quasi sempre cercata. Evidentemente mi ha fatto comodo».

Oggi di solito la si vede in jeans. Una scelta stilistica per non distrarre dal suo lavoro?

«Sì. Anzi, ai primi concerti ero ancora meno attenta, finché dopo uno show Farida Khelfa, grande amica e leggendaria modella, venne in camerino a dirmi che sì, ero brava, ma che non potevo presentarmi sul palco con le mie vecchie Clarks tutte rovinate (ride, ndr ) ».

Una donna è sempre giudicata per ciò che indossa.

«Sempre. Quando Nicolas era Presidente, mi ricordo degli articoli che accusavano Angela Merkel di essere troppo poco curata nel vestire. A nessun giornalista è mai venuto in mente di analizzare lo stile di mio marito, non avrebbero osato. Ma con le donne si può. Ridicolo».

Che tipo di madre è?

«Ansiosa, ma non lo do a vedere. E per mantenere la mia autorità fumo di nascosto in terrazzo».

Restando in famiglia, sua sorella Valeria Bruni Tedeschi canta nell'unico pezzo in italiano, "Voglio l'amore".

«Eravamo assieme in lockdown, l'avrà sentito almeno quaranta volte: cantarla con lei era il minimo!».

·        Carla Vistarini.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 26 ottobre 2020. Incontrare Carla Vistarini significa navigare a mare aperto e affrontare, senza filtri e maschera, cinquant’anni, se non di più, di canzone italiana, televisione, teatro, cinema e libri. In un sabato d’ottobre, caldo e soleggiato come solo nelle città levantine, Carla ci accoglie a casa sua, nel suo nido (così mi è parso), dalle parti di Prati. Ci “addivaniamo”, direbbe Roberto D’Agostino, in un grande salone. Le pareti, bianche come lo zucchero filato, sono stracolme di libri, di ogni genere ed epoca. Qua e là, cimeli, i Telegatti vinti, la statuetta del David di Donatello, e locandine di spettacoli teatrali. L’antidiva per antonomasia – mi piace definirla così – apre i cassetti dei ricordi, rispolvera aneddoti, scava nel suo passato, indugia a riflessioni che, probabilmente, non aveva mai maturato. Curiosa e avida di letture come pochi, Carla Vistarini ha speso la sua vita artistica e personale mettendo a disposizione degli altri le sue parole, la sua creatività, e, anche se non sembra, la sua sensibilità. Tutti, o quasi, si sono appoggiati al suo talento. Mina, Patti Pravo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Mia Martini, Gigi Proietti, sono solo alcune delle stelle italiane rese celebri dalla sua poesia e semplicità. Come il sommo JJ Cale, Carla non hai mai voluto che i riflettori sulla sua vita fossero accesi. Anzi. Alle luci della ribalta, all’apparenza, ai colori ingannevoli e fatui dello star system, ha sempre preferito il silenzio, il riserbo, frutto anche, forse, di un’educazione rigida, severa. Alla mondanità, l’amicizia, l’amore, i viaggi.

Carla Vistarini, la sua carriera artistica ha inizio sul finire degli anni Sessanta. Prima di addentrarci nel mondo autoriale, le chiedo: com’è nata la passione per la musica?

«La passione è nata molto presto, in famiglia, da piccola: canzoni napoletane, arie d’opera, qualche standard americano come The Way You Look Tonight con l’orchestra di Ray Conniff, che apriva i programmi serali alla radio. Una festa. Si ascoltava tanto la radio, allora. Poi, negli anni dell’adolescenza sono piombati sul pianeta Terra i Beatles, e fu un colpo di fulmine. Quella musica era mia, per testi e sonorità. E lo era anche come fattore  generazionale: mi ci identificavo totalmente».

Anche lei, come tanti della sua generazione, mitizzò i quattro di Liverpool?

«Sì, assolutamente. Avevo una foto di George Harrison incollata sull’ultima pagina del diario scolastico».

Perché I Beatles e non I Rolling Stones?

«I Rolling Stones sono arrivati leggermente dopo. Mi piacevano anche loro, ma i Beatles per me erano fuori gara, Numeri Uno. Nel ’65 riuscii ad andare a uno dei quattro concerti che tennero a Roma all’Adriano. Ricordo che convincere qualcuno in famiglia a darmi i soldi del biglietto fu un’impresa. A quell’epoca avere 15, 16 anni era una sorta di limbo sociale sospeso tra infanzia e giovinezza, senza più i privilegi dell’essere bambino e non ancora l’autonomia dell’età adulta. Noi, primi baby boomers, non eravamo quel target sociale, culturale e anche economico, che sono i “giovani” oggi. Quella piccola grande rivoluzione iniziava proprio in quegli anni».

I Beatles, ad essere sinceri, non erano, però, dei grandi performer dal vivo, a differenza dei Cream, dei The Who, etc…

«Opinioni, e io non sono d’accordo. Avendoli ascoltati dal vivo posso dire che erano travolgenti. Qualsiasi virtuosismo tecnico perde la partita opposto allo tsunami di una fenomenale forza espressiva. Consideriamo poi che, in quegli anni, le apparecchiature tecniche erano elementari, confrontate con ciò di cui si dispone oggi. Quasi primitive. Tutto veniva ingigantito. Anche gli errori».

Roma, forse anche più di Milano, è stata la culla della musica leggera italiana. Come si è trovata, poi, nei suoi vent’anni, a scrivere canzoni per Mina, Vanoni, Patti Pravo, Mia Martini, Renato Zero?

«Sul finire dei Sessanta, c’erano dei luoghi a Roma, come il Piper e gli studi radiofonici di Bandiera Gialla, dove si creavano le occasioni di incontro per i ragazzi della mia generazione e per ascoltare insieme la musica che ci piaceva: il rock, il beat, il rythm and blues. Non esistevano le radio private, l’unica emittente era La Rai. Al Piper c’era il gruppetto di ragazzini di cui facevo parte con i futuri colleghi e star come Renato Zero, Patty Pravo, Mita Medici, Roberto D’Agostino, e altri, tra cui Luigi Lopez, che è stato il mio coautore storico in tante delle canzoni che poi avrei scritto. A Bandiera Gialla, invece, conobbi Gianni Boncompagni e Arbore che erano i conduttori del programma e che, essendo molto più grandi di noi ragazzini del pubblico, erano diventati una sorta di punto di riferimento musicale. Fu proprio Gianni Boncompagni, infatti, successivamente a indirizzarci alla RCA perché, ascoltando le nostre canzoni, le aveva trovate belle, orecchiabili. La RCA Italiana, altro luogo leggendario. Ricordo il fermento che vi si respirava. Era come essere ai blocchi di partenza per una corsa straordinaria nella musica e nella vita. E ai blocchi accanto, pronti a scattare, con me, con noi, c’erano De Gregori, Venditti, Dalla, Paolo Conte, Patti Pravo, Mia Martini, Amedeo Minghi, Riccardo Cocciante e altri. Scrivere per molti di loro è stato, fortunatamente, inevitabile».

Perché, secondo lei, i cantanti, sempre, o quasi, sentono la necessità di affidarsi a un autore? Incapacità, ignoranza, timidezza?

«I cantanti puri, gli interpreti, sono come gli attori, hanno sempre bisogno di qualcuno che scriva per loro qualcosa di bello. Mentre i cantautori fanno tutto da soli, i cantanti “creano” il loro apporto artistico alla canzone col talento della loro interpretazione. E’ “scrivere” anche quello. La critica ha sempre fatto dei distinguo artistici tra cantautori da una parte e cantanti e autori dall’altra, privilegiando i cantautori, ma penso che sia stato e sia ancora , una sorta di pregiudizio veterointellettuale che poi il tempo pensa a riequilibrare. Le canzoni più belle, che siano di cantautori o di autori puri, restano per generazioni, le altre no».

Cosa le chiedevano i produttori discografici quando si cimentava nella scrittura di un testo?

«Niente. Aspettavano. Con Luigi Lopez suonavamo, componevamo e scrivevamo tutto il giorno, e per noi non era un lavoro, ma un divertimento. I critici più severi eravamo noi stessi. Solo quando eravamo soddisfatti della canzone finita, andavamo a proporla al discografico. Alla RCA c’era Ennio Melis, con Lilli Greco e altri mitici produttori e scopritori di talenti. E tutti si aspettavano che tu gli portassi qualcosa di bello,  completo».

Come nascevano i testi delle canzoni? Da una sofferenza, un ricordo, un amore non corrisposto?

«I nostri testi non nascevano da qualcosa di strettamente autobiografico. Sarebbe stata un bacino poco ricco a cui attingere, la vita personale, visto che eravamo solo dei ventenni. Penso piuttosto che l’ispirazione, se così possiamo definirla, nasceva dall’ascolto di tanta musica e dalle infinite letture di libri di ogni genere, classici e popolari, divorati voracemente dalla più tenera infanzia in poi, per tutta la vita. Sono arrivata ai miei vent’anni con una carica tale di libri letti, che mi sembrava di aver vissuto mille vite, e scrivere era naturale. L’unica mia canzone autobiografica, almeno in parte, è “La nevicata del ’56”, perché nasce dal mio ricordo personale di bambina di 7 anni che vede la neve per la prima volta, in quell’inverno lontano».

Qual è stato il più grande cantante italiano del secondo dopoguerra?

«E’ una domanda che mi mette in difficoltà, non saprei rispondere e farei torto a troppi. Per cui dico che sono tutti i cantanti e le cantanti che mi hanno fatto l’onore di cantare mie canzoni e che qui ringrazio pubblicamente. Faccio un solo nome, per ricordare una delle più grandi voci della canzone italiana: Mario Musella, che oggi non c’è più, voce blues degli Showmen, mitico gruppo napoletano per cui scrissi “Mi sei entrata nel cuore”, prima mia canzone a entrare in classifica. Era il 1970».

Messa spalle al muro, chi butterebbe dalla torre: Celentano o Mina?

«Pur di non rispondere, mi butto io».

Considera anche lei, come Giorgio Bocca, che Celentano sia stato un cretino di talento?

«No.  Penso che uno che ha fatto quella carriera straordinaria, che si è inventato stili e linguaggi nuovissimi, sia un genio.

Cicerone sosteneva che, ancor di più dell’amore, nulla è più importante, fecondo e piacevole dell’amicizia. In un mondo di narcisisti e arrivisti, è riuscita ad avere amici nel mondo della canzone e televisione italiane?

«Pochissimi veri amici, miriadi di conoscenti. Per il mio lavoro sono rimasta sempre dietro le quinte, attenta a non apparire, a fare un passo indietro rispetto ad altri, e per questo la parte mondana e sociale della vita ne ha risentito. Ma essere schivi e riservati aiuta a salvarsi dall’effimero. E questo credo sia stata la mia salvezza, la mia fortuna».

Da dove nasce questa sua attenzione morbosa per la sua riservatezza?

«Rispondo con uno dei libri che da piccola mi colpì di più: “Incompreso”. Lì c’è un bambino che gli adulti non capiscono e che ogni cosa ferisce. Ecco,  essere riservati è una difesa, una sorta di argine che permette di aggirare l’incomprensione, il distacco degli altri, che ancora oggi mi spaventa. E, poi, da ragazzina ho ricevuto un’educazione severa, dove il silenzio era d’oro, e si parlava solo se interpellati. I capricci, poi, non erano proprio contemplati».

Lei a chi e a cosa si ribellava?

«Mi ribellavo alla invisibilità che avevo avuto fino ai 14-15 anni, quando poi scoprii la musica e capii che c’ero anch’io. Esistevo. Scoprii che quell’invisibilità sociale non era solo mia, ma di tutti i ragazzini di quella generazione. Dovevamo conquistarci un posto al sole. E direi che ce l’abbiamo fatta».

Come apprese la morte di Mia Martini e che cosa le ha lasciato nel cuore?

«L’appresi dalla televisione, ed è stato un colpo fortissimo. Era da tempo che non ci sentivamo, Mimì era andata vivere, se ricordo bene, in Umbria. La nostra amicizia è stata di poche parole e tante canzoni. Viaggi lontani, successi, ma non capitava mai che io e lei parlassimo di cose personali, riservate. Fra noi c’era una comprensione silenziosa. E pudore.  La sua morte mi ha lasciato senza parole. Quando succede qualcosa di così tragico, senti che non hai intuito un dolore immenso, un disagio, una sofferenza e ti domandi cosa potevi fare e non hai fatto per tentare di evitarlo».

Negli anni Novanta, se non erro, ha lavorato anche con Luciano Pavarotti? Perché la produzione sentì il bisogno di affidarsi a degli autori?

«Con Luciano è stata un’esperienza bellissima e molto divertente. Tutto iniziò perché il primo Pavarotti and friends, in termini di audience televisiva, non andò come sperato. La Rai, che aveva con Pavarotti un contratto per più edizioni, doveva incrementare gli ascolti soprattutto per non perdere i contratti pubblicitari. Fu così che Mario Maffucci, all’epoca  capostruttura di Raiuno, mi chiamò dicendomi che avevano bisogno di un autore per rilanciare l’evento. Mi tuffai nell’avventura, lo rilanciammo, successo clamoroso seguito da circa sei o sette successive edizioni insieme».

Ho capito. Ma a cosa serve un autore in un concerto musicale con artisti di fama mondiale?

«Un evento televisivo come il Pavarotti & Friends non è un semplice concerto musicale. Può sembrarlo, e allora vuol dire che abbiamo lavorato bene. In realtà si tratta di un vero e proprio spettacolo di arte varia, con una marea di contenuti, sia musicali che di altro genere, prosa, esibizioni varie, ecc., una folla di artisti e musicisti, un intrico indescrivibile di materiale elettrico, acustico, digitale e meccanico di dimensioni inimmaginabili. prove da fare e niente tempo a disposizione. Tutto questo corre il rischio di diventare un caos o un minestrone artistico e tecnico indifferenziato se qualcuno, un autore,  non interviene a contestualizzare ogni cosa in un racconto fluido e ricco. A cominciare da una scaletta perfetta che faccia alternare armonicamente i brani, agevolando nel contempo il lavoro dei tecnici, macchinisti, microfonisti, ecc.  che adeguano la parte tecnica ad ogni esibizione. Poi c’è da scrivere il vero e proprio copione, con i testi per introdurre i cantanti  e i vari interventi in palcoscenico che siano momenti attraenti per il pubblico e non una mera presentazione, e contemporaneamente spazio indispensabile di servizio per esigenze tecniche.  Tutto è scritto e pensato perché possa far crescere, durante il concerto, l’attenzione del pubblico e quindi televisivamente parlando, l’audience. Va creata una sorta di suspense, di trepida attesa per l’ingresso delle varie star».

Quali sono gli artisti o personaggi che l’hanno colpita di più?

«La Principessa Diana per la sua riservatezza piena di grazia e mistero, e poi Eric Clapton, gentile e silenzioso».

Quali musicisti jazz hanno particolarmente inciso nella sua vita?

«Bill Evans e Chet Baker su tutti».

La sua carriera, negli anni, ha virato, poi, anche in altri ambiti. Cosa la spinse a inoltrarsi, ad esempio, nel varietà televisivo italiano. Curiosità, voglia di cambiare, necessità economica?

«L’inizio con la televisione è stato, come sempre, un’occasione che io ho colto al volo. All’epoca, prima metà degli anni Settanta, c’era un piccolo programma a episodi che s’intitolava 15 Minuti Con… Ogni episodio era una sorta di minimonografia di un gruppo musicale o di un cantante. I Pooh, che mi conoscevano, fecero il mio nome e così fui convocata da Giovanni Salvi, altra figura leggendaria della Rai, che mi spiegò che stavano cercando un autore, esperto di musica e discografia, che  potesse scrivere dei testi di raccordo tra una canzone e l’altra, per un certo numero di cantanti. E così iniziai un viaggio dentro la Rai che poi è durato per oltre trent’anni e per innumerevoli programmi e varietà».

Molti commentatori fanno risalire l’inizio del trash televisivo agli anni del Bagaglino, alle donne scosciate, alle torte in faccia. Cosa pensa di quel periodo che l’ha vista, comunque, partecipe in qualità di autore?

«I commentatori commentano, gli altri fanno. Il Bagaglino è stato una compagnia di teatro-cabaret “all’antica italiana” fondata da Castellacci e Pingitore, di cui facevano parte, tra gli altri, attori del calibro di Oreste Lionello e Leo Gullotta. Io entrai come autore quando dal Salone Margherita si debuttò in tv su Raiuno con “Crème Caramel”. Ascolti stratosferici, da Festival di Sanremo o partite dell’Italia. Era il periodo di  Tangentopoli e questo, probabilmente, ci ha permesso di fare satira a tutto spiano, spaziando dalle battutacce alle citazioni più colte, che forse non tutti avevano l’arguzia di cogliere. Abbiamo fatto  ridere e sorridere mezza Italia, facendo anche informazione,  aggiustando in corsa, fino all’ultimo secondo prima della diretta, gli sketch e le battute di stretta attualità.  E poi non ci dimentichiamo che Oreste Lionello, oltre  a essere un finissimo attore, colto e ironico, era anche la voce e l’anima di Woody Allen per Italia,  e Allen lo adorava, riconoscendogli gran parte del proprio successo. C’erano le ballerine, le soubrettes, le paillettes, ma su Raiuno – perché è sulla Rai che abbiamo iniziato – non abbiamo mai ricevuto censure per essere stati troppo trasgressivi. Amatissima Rai».

In che stato di salute è il nostro cinema italiano? Le piacerebbe ancora sceneggiare una storia?

«Parto dalla seconda domanda. Mi piacerebbe moltissimo sceneggiare una storia, scrivere è il mio mestiere. Per quanto riguarda lo stato di salute, del grande schermo, l’impressione che ho del cinema italiano, in qualità di giurato (avendo vinto un Donatello faccio parte della giuria dei Premi David e vedo tutti i film che escono), è che siano sempre gli stessi attori e attrici ad entrare e uscire da un film all’altro, come una porta girevole. Ci saranno mille motivi validi. Uno dei quali, penso, è che chi produce ormai non se la sente più di rischiare i propri soldi, come avveniva un tempo. Per fare un film oggi si spera nel Ministero. Gli aiuti sono dosati in base al progetto, premiando la partecipazione di nomi di grido. E poi c’è l’incognita distribuzione.  I distributori italiani, se non hanno un pacchetto di nomi importanti, che garantiscano pubblico, è molto difficile che portino il film nelle sale. Ed è per questo che tanti film indipendenti, magari belli, restano nel cassetto».

Come ha conciliato, in questi decenni, la visibilità, la vetrina, la vanità, il luccichio del tubo catodico, con la sua proverbiale riservatezza?

«Il luccichio a me piace, purché sia degli altri. Io trovo che ci voglia un grandissimo coraggio nell’apparire, nell’essere vistosi, colorati. Lo spettacolo è una favola, una magia. E io ammiro chi si traveste per gli altri, regalando spensieratezza e divertimento. C’è in questo donarsi un fattore umano, emotivo e psicologico, che va sempre rispettato e ricordato. Si fa l’errore, spesso,  di guardare solo alla fama e al possibile  narcisismo di chi si esibisce. Gli artisti sono acrobati che, per il pubblico, camminano su un filo sottilissimo, che forse è solo un’invenzione.  Se lei pensa a Gigi Proietti, che è un animale da palcoscenico, non si può non provare altro che ammirazione».

Si racconta, dietro le quinte, che Proietti tratti male le persone con cui lavora. E’ vero?

«Con me, non è mai successo. Né mai l’ho visto accadere».

Come mai la televisione è considerato il satana corruttore? Perché esercita un fascino così tanto profondo nella psiche dei televisivi?

«Forse  perché entra in tutte le case, come oggi internet. E poi perché davanti alla tivù si è passivi, si assorbe solamente, non si interagisce. Si può essere manipolati».

Perché la Rai è considerata il grande viperaio italiano?

«Manco dalla  Rai da tanti anni e non so cosa oggi vi avvenga. Sicuramente, quando vi lavoravo io, pur con tutte le storture del caso, legate alla politica e al cosiddetto manuale Cencelli, era un’altra Rai, più sacrale e interessata alla qualità del prodotto, degli artisti e della scrittura. Era molto più facile lavorare, come è capitato a me,  senza, necessariamente, “conoscere” qualcuno».

Le è mai stata messa la museruola nella scrittura di un testo?

«Io non l’ho mai avuta. Al massimo mi hanno chiesto di dare un certo indirizzo artistico al programma, ma censura vera e propria, mai.

Da autrice a scrittrice, il passo è stato breve, anche se più recente. Di quale libro va più fiera?

«Il libro di cui vado più fiera è, in realtà, un romanzo, “Città Sporca”, che esiste solo in forma digitale, come ebook».

Perché, poi, solo in ebook?

«Perché mi sono scontrata col misterioso mondo dell’editoria, a quel tempo a me ignoto. Era il 2013 e avevo  terminato  di scrivere “Città sporca”. Che fare? Non  volevo infastidire  amici o colleghi per farmi presentare qualcuno dell’ambiente. Gli amici non si scocciano, semmai si aiutano. Così ho scritto agli editori – tutti, dal grande al piccolo –  presentando loro le mie credenziali artistiche. Un curriculum di tutto rispetto: premi, successi, classifiche. Nulla, nessuno mi ha mai risposto. Idem per gli agenti letterari.  Allora, in forma anonima, e con lo pseudonimo di Slowhand (omaggio a Eric Clapton), partecipai a un torneo letterario organizzato da GeMS, il secondo gruppo editoriale italiano. Dopo mesi di selezioni – eravamo partecipanti ma anche giudici – solo i primi dieci romanzi finalisti avevano diritto alla pubblicazione. E se al primo classificato era concesso l’onore della pubblicazione cartacea, con gli altri nove, invece, si procedeva alla pubblicazione di un ebook. E io ero fra i nove. Non può immaginare la gioia. Questa esperienza mi ha lasciato due insegnamenti: 1) che a nessuno interessa nulla di quello che sei, di quello che hai fatto nella carriera; 2) che c’è ancora spazio vitale per chi ha qualcosa di interessante da dire e raccontare. Bisogna mettersi in gioco ogni volta da capo. È stata un’esperienza dura, meritocratica, ma bellissima, che mi ha permesso poi di pubblicare altri libri».

Crede, anche lei, nel valore salvifico della scrittura?

«Credo più nel valore salvifico della musica. Ma anche la scrittura, negli anni, mi ha dato una grossa mano».

Quali sono, oltre ai suoi amatissimi gialli, gli scrittori che l’hanno segnata in modo particolare? I classici o, piuttosto, autori più contemporanei?

«Tutti. Ne cito solo alcuni, l’elenco sarebbe infinito. Alla rinfusa:  Borges, Chandler, Sciascia, Orwell, D.H. Lawrence, e i classici, Pirandello, Goethe».

·        Carlo Conti.

Anticipazione da “Oggi” il 10 giugno 2020. «Sono in una fase della vita, sia a livello professionale che umano, in cui desidero solo quello che già ho. Sono un uomo sereno e felice». Così Carlo Conti in un’intervista esclusiva a OGGI alla vigilia del suo nuovo programma su Rai 1 «Top dieci»: ««È un programma in cui giochiamo con le classifiche, un pretesto per fare show». A OGGI Conti racconta la sua quarantena: ««Sono un privilegiato, non mi lamento… Ho pensato che se questa cosa fosse successa 50 anni fa, mi sarei trovato in una situazione difficile: mia mamma era sola, perché mio babbo è morto quando avevo 18 mesi, e vivevamo in un piccolo bilocale in affitto. Lei si dava da fare, con mille lavori e in una situazione del genere non avrebbe avuto i soldi per andare avanti. Pensando a questo, mi rendo conto di quante famiglie oggi si trovano in difficoltà e vanno aiutate». E sul futuro dice: «Sono ottimista. Confido nei medici, che stanno facendo passi avanti nella cura del virus. Mia mamma era un’infermiera : ora chiamiamo medici e infermieri eroi, ma lo sono sempre stati, lo sono tutti i giorni, la loro è una missione. Spero ci sia un lento ma inesorabile ritorno alla normalità, con intelligenza e attenzione».

Quanto guadagna Carlo Conti? Le cifre da capogiro del conduttore. Notizie.it il 03/01/2020. Quanto guadagna Carlo Conti? Conduttore molto amato dal pubblico del piccolo schermo, è senza dubbio pilastro della Rai e uno dei volti storici della televisione italiana. Per anni ha condotto game show, tra i quali L’Eredità, per poi giungere alle trasmissioni in prima serata del calibro di Tale e Quale Show, La Corrida e Sanremo.

Quanto guadagna Carlo Conti? Conosciuto e apprezzato in tutta Italia, Carlo Conti ha fatto recentemente parlare di sé per via del suo colorito insolitamente pallido. L’abbronzatura lo caratterizza da sempre ed è anche motivo della sua notorietà. Sono numerosi i programmi che Conti ha condotto in questi anni di permanenza nella televisione di Stato, ogni format affidatogli riscuote grande successo. Proprio per questo il suo compenso è piuttosto elevato rispetto ad altri colleghi della Rai. Secondo alcuni rumors, il fiorentino guadagnerebbe circa due milioni di euro annui. Quando è stato direttore artistico del Festival di Sanremo, ha ricevuto uno stipendio di 500.000 euro. Queste cifre da capogiro incassate grazie al Festival, hanno sollevato polemiche ma secondo quanto riportato dal collega Massimo Giletti, parrebbe che Carlo Conti abbia portato 7 milioni in più in cassa alla Rai.

Le dichiarazioni di Carlo Conti. Recentemente Carlo Conti ha partecipato come ospite a “Vieni da me”, condotto da Caterina Balivo. Alla domanda in merito ai guadagni, il diretto interessato ha risposto con sincerità: “Dichiaro tutto! Sto bene, guadagno bene […] riesco anche a fare dei bei regali a mio figlio […] Ho già tutto quello che desidero”. Parlando a proposito del figlio, l’uomo si è commosso. Quella del genitore sembra essere la professione più difficile.

·        Carlo Verdone.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 2 dicembre 2020. «Rinunciare alla tombolata sarà dura, ma le regole vanno rispettate. Con la speranza di uscire presto da questo periodo terrificante, il peggiore che il nostro Paese abbia vissuto dal Dopoguerra». Il Natale in formato Covid di Carlo Verdone somiglierà a quello di milioni di italiani: dominato dalle restrizioni, contagiato dalla preoccupazione, caratterizzato da una tavolata ultra-ridotta. Insomma, un Natale all' insegna del mitico «lo famo strano», solo che questa volta non c' è niente da ridere. L' attore e regista, che il 25 dicembre è sempre stato abituato a riunirsi con parenti e amici, quest' anno festeggerà esclusivamente con Giulia e Paolo, i suoi figli, e Gianna, la mamma dei ragazzi.

Farete il tampone prima di ritrovarvi a tavola?

«Certo, seguiremo tutte le disposizioni. Non abbiamo scelta, ed è giusto farlo».

Davvero le dispiacerà rinunciare alla tombola?

«Se è per questo mi mancherà anche il Mercante in Fiera. I giochi delle feste rappresentano una tradizione che mi è stata inculcata dai miei genitori. L' ho sempre rispettata, cercando di tramandarla ai miei figli».

Farà i regali quest' anno?

«Sì, non voglio rinunciare. Almeno i miei familiari troveranno un pacchetto sotto l' albero».

Qualcuno pensa che, per evitare gli assembramenti nei luoghi dello shopping, per una volta i doni si potrebbero evitare.

«Non sono d' accordo. Se gli acquisti si fanno disciplinatamente e con il giusto distanziamento, non c' è pericolo. Dobbiamo pensare anche ai commercianti che dal Covid hanno già ricevuto una batosta».

Con che stato d' animo si prepara ad affrontare questo Natale diverso da tutti gli altri?

«Sarò sincero, sono un po' triste. Non ne posso più di vedere gli amici sullo schermo del computer, ho bisogno dei contatti umani e invece mi sento solo. Questo 2020 che non ci ha portato niente di buono, e parlo anche a livello personale: ad eccezione dell' unico fatto positivo, cioè l' operazione alle anche che mi ha rimesso in sesto, ho visto andarsene tante persone care mentre il mondo intero precipitava nel panico. Ma c' è una cosa che mi ha impressionato».

Quale?

«La fragilità di noi tutti. I neurologi non hanno mai lavorato tanto come in questo periodo per placare le paure, le insonnie e le crisi di panico. Come avevo previsto all' inizio del primo lockdown, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è schizzato alle stelle».

Anche per lei?

«No, no! Se c' è mai stato un periodo in cui abbia fatto a meno delle pillole, è proprio in quest' anno di pandemia. Mi sono disintossicato. E non ho avuto un solo attacco d' ansia. Al contrario, ho fatto coraggio a tante persone».

Anche a suo cognato Christian De Sica che è stato colpito dal virus?

«Saperlo contagiato mi è dispiaciuto molto e ho cercato di aiutarlo da lontano, ma Christian è stato bravissimo, forte e coraggioso. Si è curato in casa fino a guarire».

Il Covid le è mai passato vicino?

«Altroché! A marzo, poco prima del lockdown, mi trovavo in Lombardia per promuovere il mio ultimo film Si vive una volta sola (rimandato alla riapertura delle sale, ndr) tra mille abbracci, selfie e strette di mano. Non venire contagiato è stato un miracolo».

E più di recente?

«Nelle ultime settimane per ben cinque volte ho ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe ricevere: Sono positivo, dovresti fare il test anche tu. Erano amici che magari la sera prima si trovavano a chiacchierare nel mio salotto...E ogni volta mi è andata bene, si chiama botta di fortuna».

Cosa direbbe a negazionisti e no mask?

«Che comportarsi in maniera irresponsabile provoca danni non solo a loro stessi ma a tutti, pure a chi rispetta le regole».

Che futuro si aspetta per il cinema, messo in ginocchio dalla pandemia?

«Quando l' incubo sarà finito, le sale torneranno a riempirsi. Ne sono convinto anche per quanto riguarda teatri e musica. La gente non ne può più del divano di casa».

Alla vigilia di questo Natale strano, cosa le dà speranza?

«Il fatto che un gran numero di aziende molto serie abbia pronto il vaccino. E io, che da 40 anni mi proteggo regolarmente da influenza e pneumococco, non vedo l' ora di farlo. La luce in fondo al tunnel è sempre più vicina. Ci siamo quasi, continuiamo a resistere».

Ci cambierà tutto quello che stiamo vivendo?

«Non ho dubbi, il virus lascerà dei segni indelebili anche in chi non è stato contagiato».

Non le viene voglia di girare una commedia sulla pandemia?

«Scherziamo? Il Covid dobbiamo solo dimenticarlo».

Nino Materi per “Il Giornale” il 7 dicembre 2020. Lui adora il pubblico e il pubblico adora lui. «Furio», il marito-fissato della povera «Magda», direbbe: «E allora lo vedi che la cosa è reciproca?». Carriera entusiasmante, quella di Carlo Verdone, dove solo l' operatore ACI in una mitica telefonata trovò il coraggio di dirgli: «Ma va a cagher!». Dagli altri, invece, solo applausi. Meritati. Perché prendere il posto nel cuore degli italiani dei fantastici quattro supereroi della commedia italiana (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi) era un' impresa quasi impossibile. Però Carlo Verdone c' è riuscito, forte di un talento naturale plasmato da impegno e passione. Grande interprete e regista non solo a parere dei fan, ma anche a giudizio dei critici, masticatori insaziabili di pane e «specifico filmico». La sua (e la nostra) fortuna iniziò con Non stop, il varietà Rai di comicità d' avanguardia che nel triennio 77-79 portò alla ribalta del piccolo schermo alcuni dei futuri «mostri» cinematografici elaborati dall' attore romano. Nel 1980 irrompe nelle sale la pellicola d' esordio, Un sacco bello; il bis l' anno dopo con Bianco, rosso e Verdone. Due capolavori. Successi senza eguali. È il periodo di massima energia trasformista di Carlo, una specie di mimesi tra «Zelig syndrome» e camaleontismo fregoliano. Fin da giovanissimo sui palcoscenici delle cantine periferiche Verdone sperimenta macchiette irresistibili, specchio dei tempi e del carattere nazionale: dal politico trombonesco con l' eloquio «seempree teesoo!», al cittadino ansiogeno che estrae la pistola dal borsello di pelle marrone, mostrando orgogliosamente il porto d' armi al grido di «Chi me l' ha data questa? Questo!». Maschere ancora attuali tra la vacua oratoria tipica degli uomini di Palazzo e l' esigenza (percepita?) di sicurezza da parte dei cittadini. Verdone inventa un nuovo linguaggio somaticamente rivoluzionario; impossibile non notare quel ragazzo geniale; non credere nella sua alchimia comica; non dargli fiducia. Al resto provvede la bravura di Verdone. La notorietà cresce. Diventando celebrità. Un mito. Ma della porta accanto. «In 40 anni di carriera sono rimasto un uomo semplice. Il pubblico lo ha apprezzato. Forse è questo il segreto della mia longevità». Da bimbo aveva il terrore di perdersi. Come quella volta allo stadio quando per un attimo non vide papà e poi gli corse incontro sussurrando: «Non lasciarmi mai più...». «Grazie a lui mi sono sempre ritrovato, anche nei momenti difficili della vita. Mi ha insegnato a stupirmi davanti al bello dell' arte».

Com' è maturata l' idea di diventare attore?

«Ero un ragazzo timido. Non avrei mai pensato di fare questo mestiere».

Il 17 novembre Carlo Verdone ha compiuto 70 anni.

«Mi ha telefonato il presidente della Repubblica per farmi gli auguri. Ho ricevuto centinaia di messaggi da persone sconosciute. Un' emozione travolgente. Mi sono fatto tre domande».

Quali?

«Davvero ho 70 anni? Sono proprio io quello a cui la gente vuole così bene? Mi merito tutto questo? Sembra un sogno».

Invece è la realtà.

«Ho festeggiato, ma senza esagerazioni. Proseguirò nella mia missione».

Quale «missione»?

«Divertire con intelligenza attraverso storie più mature. Sarei patetico se oggi riproponessi gli schemi del passato».

Il suo 27esimo film è bloccato dall' emergenza Covid. Il titolo sembra una profezia: Si vive una volta sola.

«Racconto le vicende di quattro medici. Potrebbero pure loro far parte di quella ampia schiera in camice bianco impegnata nella lotta contro la pandemia».

Un virus infame che non permette neppure di dare un' ultima carezza ai cari prima dell' addio.

«È una condizione straziante. Ma dovremmo riflettere su una cosa».

Cioè?

«I like sui social e le amicizie virtuali sono inganni che nascondono la nostra solitudine. Non ci si può rincretinire stando otto ore attaccati all' i-phone. La tecnologia è una gran cosa, ma gli eccessi sono pericolosi».

A proposito di «eccessi». L' ha colpita la morte di Maradona?

«Lo conobbi in casa di Massimo Troisi. Un ragazzo gradevole, umile. Per lo sport è stato un dono di Dio».

Poi Dio si è dimenticato di Diego. E Diego si è scordato di Dio.

«La sua fine mi suscita pena e tenerezza».

Torniamo alla famiglia Verdone. Che tipo era sua madre?

«Dolce e piena di ironia. È la donna che mi ha compreso di più. Incoraggiandomi a fare l' attore».

Ha due figli, Paolo e Giulia. Che rapporto avete?

«Meraviglioso. Se dovessi sbagliare qualcosa con loro non me lo perdonerei. Sono sicuro che mi ricorderanno come un buon padre».

Lei, invece, che ricordi ha del periodo a cavallo tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80?

«Terribili, fra terrorismo e stragi. E quella parola - «proletariato» - usata a sproposito per coprire gli atti criminali di una banda di vigliacchi. Ipocrisie ideologiche che la Marcia dei quarantamila spazzò via».

Un mese dopo quella marcia epocale (15 ottobre 1980), la terra tremò in Irpinia e Basilicata (23 novembre). Tremila morti. La ricostruzione ha comportato scandali e uno spreco di denaro pubblico senza precedenti. Lo sviluppo è rimasto una chimera. Per il Sud l' ennesima occasione mancata.

«L' anno successivo, in Bianco, rosso e Verdone, focalizzai uno degli episodi del film sul personaggio di Pasquale Amitrano che, emigrato in Germania, torna a Matera per le elezioni. Va a votare, ma al momento di consegnare la scheda al presidente di seggio sfoga tutta la sua rabbia per le ingiustizie patite dal momento in cui ha messo piede nel Belpaese. Da allora ad oggi la situazione non è granché migliorata».

I colpevoli?

«In Italia abbiamo una classe politica inadeguata. Senza qualità. A volte si arriva nelle stanze del potere più in forza dei giochi di potere che in base a preparazione e competenza. Nel Sud, abbandonato a se stesso, il fenomeno è ancora più grave. Speriamo nei giovani».

Magari il disagio fosse limitato al Mezzogiorno...

«Il degrado riguarda l' intera società italiana. Il mio compito è far ridere, ma questa società fa piangere».

Cosa la indigna di più?

«L' ignoranza di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica. Ma le sembra giusto che posti-chiave vengano occupati in base ai pacchetti elettorali piuttosto che ai titolo di studio?».

A proposito di «titoli di studio», lei può vantare un curriculum accademico da Guinness: una laurea in Lettere moderne con 110 e lode, due lauree honoris causa (in Medicina e Beni Culturali) e un' iscrizione onoraria nell' Ordine dei Farmacisti. Ma è vero che lei ha una vocazione particolare per le diagnosi sanitarie (rigorosamente esatte)?

«La medicina mi ha affascinato fin da piccolo. È una specie di tradizione di famiglia. Ho un ampio giro di pazienti che da anni mi chiedono consigli. Io dico la mia, ma poi raccomando loro: Chiedi conferma a uno specialista».

Si narra che col suo intuito «abbia salvato la vita a quattro persone».

«Anche di più. A Natale ricevo molti pacchi-dono di ringraziamento».

Qualcuno le chiede «dritte» anche sul Coronavirus?

«Il Covid è una cosa seria, figlia anche degli effetti perversi della globalizzazione e del mancato rispetto nei confronti della natura. Ma in tema di pandemia, meglio lasciare la parola ai virologi».

Virologi che però si fanno la guerra l' uno contro l' altro nei salotti-tv. Una smania presenzialista che li ha trasfigurati in macchiette simili al suo dottor «Raniero Cotto Borroni» che nel film Viaggi di nozze, rispondendo a una telefonata mentre sta facendo sesso con la moglie «Fosca», dice: «No...non mi disturba affatto».

«Ogni programma televisivo ha il proprio virologo di fiducia. La gente viene rimbambita a colpi di informazioni contraddittorie. Con la conseguenza, negativa, di lasciare spazio alle tesi negazioniste.

Parla per esperienza personale?

«All' inizio un mio conoscente non prendeva sul serio l' esistenza del Covid. Ma un brutto giorno è stato contagiato, finendo nel reparto intensivo. L' ho rivisto qualche tempo fa al bar: dimagrito e con un' aria sofferta. Mi ha guardato e ha detto: Ora ho capito. Tutti possiamo sbagliare...».

Lei appartiene alla categoria a rischio degli «attori famosi», forse la più soggetta al capitombolo della depressione. Ha mai temuto di cadere vittima del male oscuro?

«È una patologia che non temo. La mia vita è troppo piena di passioni, interessi e affetti per correre un rischio di questo tipo».

Molti suoi colleghi ne hanno invece sofferto.

«Avevano commesso l' errore di mettere il lavoro al primo posto. E quando la carriera è giunta al tramonto, si sono ritrovati soli. Finiti in un tunnel buio. La salvezza è invece la famiglia, gli affetti più cari che non tradiscono mai e ti restano accanto fino all' ultimo dei giorni. Io questi affetti ho la fortuna di averli. E mi li tengo stretti».

I ricordi sono una buona compagnia?

«Quando i ricordi si intrecciano con i buoni esempi, diventano più di una buona compagnia: si integrano con l' anima».

La sua anima è ricca di «ricordi» e «buoni esempi»?

«Sono quelli che mi hanno lasciato in dote i miei genitori. E i miei nonni. Conservo ancora una lettera scritta dal fronte di guerra da mio nonno paterno. È indirizzata a mia nonna e dice: Ho un lapis in mano ma le dita mi tremano dal freddo: ti prego di far studiare Mario, costi quel che costi. Mario è mio padre e quando leggo quel foglio ingiallito trattengo a stento le lacrime».

Mario Verdone ha poi studiato davvero, diventando uno tra i più apprezzati critici e docenti di cinematografia.

«Pur provenendo da una famiglia poverissima il suo livello intellettuale era altissimo, tanto che Norberto Bobbio lo scelse come primo assistente. Grazie a papà ho conosciuto persone di massimo livello culturale. I suoi insegnamenti mi hanno introdotto alle meraviglie della pittura, del teatro, della letteratura, del cinema».

Ma è vero che suo padre la bocciò a un esame universitario?

«La sera prima dell' esame gli dissi che non ero preparato solo su due autori. Il giorno dopo mi fece le domande proprio su quelli. Mio padre era così. Non poteva accettare che suo figlio fosse favorito in qualche modo. Se oggi nutro per lui una sconfinata ammirazione è anche per questo suo modo di essere onesto e integerrimo».

Un atteggiamento assai poco «italiano».

«Nella patria delle raccomandazioni e dei nepotismi, papà ha incarnato la parte migliore del nostro Paese».

Anche per questo l' Italia le suscita malinconia?

«Ma è possibile che ogni giorno ci sia qualcuno che ruba, violenta, uccide? Che le virtuose potenzialità del web vengano da alcuni utilizzate per veicolare orrori di ogni genere? Tutto ciò mi crea tristezza. E mi spinge a trovare rifugio guardano cielo e nuvole, i miei soggetti fotografici preferiti».

Come mai ha deciso di immortalare il cielo?

«Perché il mondo è bello. Ma solo se si guarda in alto».

Sarà un Natale triste. Orfano di tavolate, baci e abbracci. Lei cercherà conforto nelle sue foto?

«Quegli scatti per me sono preghiere senza parole».

Dagospia il 17 novembre 2020. Dal profilo Facebook di “Che tempo che fa”. “È un compleanno molto importante, però io la data la dico, non me ne vergogno, compio 70 anni. È volato veramente il tempo! Come mai li porto bene? Sarà anche il fatto che non prendo quasi mai il sole, un dermatologo mi disse: "come mai la pelle del sedere non ha rughe? Perché è sempre all’oscuro!" Festeggerò da solo, nella solitudine, che devo fare? Aspetteremo tempi migliori.” - Le parole a Che Tempo Che Fa di Carlo Verdone, pronto a festeggiare i 70 anni.  

L’OMAGGIO DELLE SUE ATTRICI. Da leggo.it il 17 novembre 2020.

Paola Minaccioni. Scusa, Carlo, ma gli auguri non te li faccio. Mi metti in difficoltà, farti gli auguri non è facile, sa. Eh perché mi verrebbe da ringraziarti per quello che fai, per l'artista che sei, per la persona meravigliosa che sei. Ti direi che mi colpisce di te il tuo essere leggero e complicato, normale e straordinario. Dovrei dire quanto sei generoso. Quanto si chiacchiera bene con te, di tutto. Non è da tutti. Quanto sei educato? Ne vogliamo parlare? Sei così educato che mi ti menerei. Mi verrebbe insomma di scrivere cose esagerate che un lettore potrebbe commentare: che sviolinata, che esagerata. Me faresti fare una brutta figura, capisci? Vajielo a spiega', che tu sei esagerato. Ti avrei voluto conoscere da piccolo, da bambino, per vederti che già prendevi appunti, avrei voluto vedere dove si è formato questo tuo istinto. Sei una specie di strumento della felicità, come te movi fai stare bene tutti. Anche quando stai fermo e nun fai niente. Pure così riesci a raccontare una storia, con uno sguardo. Credo che tu abbia raggiunto il più ambizioso dei traguardi, essere amato incondizionatamente da tutti. Da tutti. Tièttelo stretto sto amore perché te lo meriti tutto. Buon Compleanno, Carlo.

Claudia Gerini: «Grande artista , ma resta un ragazzo di Ponte Sisto». «Carlo festeggia un compleanno tondo, un grande traguardo e io, che gli sono affezionata al punto da considerarlo un’anima gemella, gli auguro di restare ciò che è per i prossimi 100 anni: un uomo e un professionista speciale capace di una grande umiltà. È l’unico attore-regista-sceneggiatore che ha mantenuto un bellissimo rapporto col pubblico per 40 anni, è un artista che ha segnato profondamente la nostra vita culturale, ma alla fine resta sempre un ragazzo di Ponte Sisto». Sua partner in scena in Viaggi di nozze, Sono pazzo di Iris Blond e Grande, grosso e Verdone, Claudia Gerini è legatissima a Verdone anche sul piano personale. (Michela Greco)

Nancy Brilli: «Un intellettuale intrappolato dentro il corpo del Patata». «Carlo è un intellettuale intrappolato nel corpo del Patata, c’è una continua tensione in lui tra l’essere un raffinato e un tenerone: è unico. Dal punto di vista professionale, semplicemente, è un artista speciale perché fa tanto ridere, sempre». Al regista che nel 1988 la volle in Compagni di scuola nel ruolo di Federica, seducente e malinconica animatrice della rimpatriata tra ex compagni di liceo, Nancy Brilli augura di «continuare a divertirsi facendo il suo lavoro e di amarlo come ha sempre fatto. E gli auguro di diventare grandissimo anche all’estero così come lo è in Italia, c’è ancora tempo». (Michela Greco)

Eleonora Giorgi: «Con il nostro Borotalco ha segnato una generazione intera». Anno 1982. Borotalco, terzo film di Verdone, è un’altra pietra miliare. Al suo fianco, come protagonista femminile, c’era Eleonora Giorgi, nei panni di Nadia Vandelli, brillante venditrice di enciclopedie. «Io ho fatto commedie di grande successo popolare ma nessuna ha avuto l’impatto che ha avuto Borotalco – aveva detto l’attrice in occasione del trentacinquesimo anniversario del film - Perché qui Carlo delinea il personaggio di una ragazzina che era emblematica di quegli anni. I ragazzi ancora mi parlano di questo film, vuol dire che Carlo aveva scritto qualcosa di veramente. (M.Gre.)

Paola Cortellesi: «La sua ironia ci fa perdonare il nostro essere imperfetti». Carlo Verdone e Paola Cortellesi hanno duettato sul grande schermo, nel 2014, in Sotto una buona stella, commedia sul confronto e il ricambio generazionale in cui lei è Luisa, la vicina di casa che riporta un po’ di luce nella vita disastrata di lui. «Attraverso i suoi racconti – dice l’attrice di Verdone - guardiamo un po’ di noi stessi e attraverso la sua ironia troviamo il modo di perdonarci per essere imperfetti. Lavorare con lui è una gioia e un privilegio, ma il regalo più grande, quando l’ho conosciuto, è stato constatare che in questo grande artista ci fosse effettivamente l’uomo eccezionale che avevo sempre immaginato». (M.Gre.)

Isabella De Bernardi: «Per me lui è come uno zio, gli auguro tanta leggerezza». «Carlo è una persona molto sensibile, è uno che tende a pensare tanto, forse troppo, perciò gli auguro soprattutto tanta leggerezza». Rimasta celebre per le battute cult della sua Fiorenza nel film d’esordio Un sacco bello – «Guarda che io a mi’ padre gli ho già sputato in faccia, attento fascio!» - Isabella De Bernardi ha un legame speciale con l’attore-regista: «Oltre ad avermi resa famosa, per me Carlo è stato un amico speciale e in tutti questi anni è ormai diventato un parente: uno zio, anzi un cugino. Ha un immenso talento artistico ed è un uomo attento, affettuoso, sensibile e pieno di umanità». (M.Gre.)

Ilenia Pastorelli: «Sul set pensavo a cose tristi per non scoppiare a ridere». Ultima tra le protagoniste femminili del cinema verdoniano (in attesa che Si vive una volta sola, bloccato dall’emergenza Covid, arrivi finalmente al pubblico) Ilenia Pastorelli era Luna in Benedetta follia (2018). Si è sempre dichiarata una fan scatenata di Verdone, una di quelle che sanno a memoria i dialoghi dei suo film. E sul set con lui, aveva detto in un’intervista a Vanity Fair, «Difficile è stato non ridere alle battute di Carlo. A volte, per non scoppiare nel botta e risposta, mi sono fermata a pensare a delle cose tristi. Mia nonna malata, mia zia con la febbre...». 

I 70 anni dell'attore e regista romano. Qual è il film più bello di Carlo Verdone? Redazione su Il Riformista il 17 Novembre 2020. “Lo famo strano”, e come sennò? Carlo Verdone compie 70 anni e sembra il compleanno di uno di famiglia. Dell’ingenuo e dell’irascibile, dello sfigato, del tonto, del tamarro, del secchione e dell’ipocondrico, del rockettaro e del romanticone e di ogni altra maschera, personaggio o macchietta attraverso cui l’attore, regista e sceneggiatore romano ha raccontato l’Italia in 40 anni di carriera. In 27 film da regista, 39 da attore, nove i David di Donatello vinti. E nessuna voglia di fermarsi: sta scrivendo un libro di racconti, ha portato in mostra le sue fotografie ed è alle prese con una serie che dovrebbe uscire nel 2021. Come il suo ultimo film: Si vive una volta sola, che doveva arrivare nelle sale nel 2020 e che il coronavirus ha bloccato. Se ne parla l’anno prossimo, sempre con lo stesso entusiasmo. “Che dirvi? So’ tanti – ha scritto sui social Verdone citando Bruce Springsteen – Ma la mente è lucida, lo spirito positivo, le anche robuste. Quindi la corsa continua! Born to run finché potrò“. Il regista, attore, mattatore tra i più rappresentativi della commedia italiana ha ringraziato i fan sui social per tutti gli auguri e gli omaggi che gli stanno arrivando in queste ore. IlRiformista.it si unisce a questi. E lo fa a modo suo, alla maniera di Verdone, o meglio di uno dei protagonisti di Viaggi di Nozze, Ivano. Lo facciamo “strano” anche noi scegliendo il suo miglior film. Ogni redattore il suo preferito, il prediletto; coscienti di quanto possa essere parziale e divisivo. Comunque, non abbiamo litigato, piuttosto riso. Ecco il contest, un gioco aperto a osservazioni e opinioni.

Scegliere un film preferito tra tutti quelli di Carlo Verdone per me è molto difficile. Alcune battute di Borotalco, Gallo Cedrone, Viaggi di nozze, Bianco Rosso e Verdone e Un sacco bello (solo per citarne alcuni) mi accompagnano ancora oggi nel quotidiano. Penso a Compagni di scuola che credo sia probabilmente il migliore, un vero e proprio cult con un cast eccezionale. Insomma scegliere il preferito mi mette alle strette per cui scelgo un film cui sono particolarmente legato. E scelgo Troppo forte. È stato uno dei primi film che ho avuto in VHS e l’ho visto e rivisto decine di volte. E il monologo della Palude del Caimano con gli “anticorpi coi controcojoni” è più attuale che mai… (Davide Nunziante)

“Non ce la faccio più!”. Chi almeno una volta nella vita non l’ha detto figurandosi l’immagine di Magda Ghiglioni del film Bianco, Rosso e Verdone seduta sul water mentre si dondola esasperata. Tra silenzi e rassegnazione, la storia di Magda e Furio è l’incarnazione tragicomica di donne sottomesse che riescono a trovare il coraggio di cambiare e di uomini che, forse, non cambieranno mai. (Roberta Caiano)

Maledetto il giorno che t’ho incontrato: è uno dei primi film in cui si vede Carlo Verdone uscire dalla sua Roma e dall’Italia. Una commedia sentimentale tra Milano, Londra e la Cornovaglia che vede protagonisti Bernardo e Camilla (Margherita Buy). Lui giornalista e scrittore alla ricerca dello scoop impossibile sulla reale natura della scomparsa di Jimi Hendrix, lei attrice complessata che si innamora prima del suo analista e poi del suo regista teatrale. Entrambi soffrono di depressione e ipocondria e, spesso, si ‘consolano‘ con farmaci. Tra loro nasce prima l’amicizia, poi l’amore. (Ciro Cuozzo)

Un sacco bello: uno dei tanti film simbolo della capacità di Verdone di non essere esclusivo protagonista della scena e suo debutto sul grande schermo. Nel film che narra le tre storie parallele dei protagonisti Leo, Enzo e Ruggero (tutti interpretati da Verdone), è indimenticabile il ‘duetto’ col Mario Brega che interpreta il padre dell’hippie Ruggero, tornato a casa dopo due anni in una ‘comune’ in Toscana. Una scena simbolo dello scontro generazionale e della tipica ipocrisia italiana. (Carmine Di Niro)

Non può che diventare un voltafaccia questa faccenda. Sono pazzo di Iris Blonde mi ha sempre catturato: un titolo fantastico, quel fascino da opera minore, la blefaroptosi della cameriera, le tastiere anni ’80, l’amore impossibile e una malinconia che soltanto un treno che non vorremmo mai partisse. Ma la battuta, la parte, lo spezzone da ricordare e imitare – e ridere – insieme con gli amici è sempre stato un altro. Devo quindi tradire Iris Blonde per Borotalco. Tutta colpa di Manuel Fantoni, maschera di velleità e millanteria. E un monologo indimenticabile. Quel film fu anche una dedica a Lucio Dalla: Iris Blonde sarebbe potuta comunque essere il personaggio di una sua canzone. (Antonio Lamorte)

Nei film di Verdone c’è uno sguardo profondo, ironico e preveggente sul nostro tempo. In Borotalco, Manuel Fantoni anticipa lo storytelling della politica, oggi materia per spacconi. In Viaggi di Nozze c’è lo spostamento dell’antipolitica nelle periferie urbane. In Viaggio con Papà quello che tocca le corde del cuore, unendo le due icone di Verdone e Alberto Sordi. Ne La Grande Bellezza è magistrale, e chissà perché la metà delle scene di Verdone, tra cui un metaforico pianto sulla scalinata del Campidoglio, venne poi tagliata da Sorrentino. Oggi c’è un suo film che non riusciamo a vedere, Si vive una volta sola. Non esce causa covid, proprio come noi.

(Aldo Torchiaro)

Marco Cicala per il Venerdì- la Repubblica il 16 novembre 2020. A ricevermi nella sua casa in cima al Gianicolo è un Carlo Verdone dall' andatura solenne e l' aria preoccupata. Il passo cadenzato è conseguenza dell' intervento alle anche che Verdone ha subìto un mese e mezzo fa. Quanto all' aria preoccupata, trovatemi un essere umano dotato di buon senso che in questi giorni non ce l' abbia. Ma, a proposito di Covid e malattie in generale, una precisazione preliminare è d' obbligo: contrariamente a quanto ripete la vulgata. Carlo Verdone non è un ipocondriaco. «Se lo fossi non avrei affrontato in pieno virus un' operazione con la quale m'hanno segato in due per poi riappiccicarmi». Non solo. Cultore di medicina e medicine, passa le giornate della convalescenza a consigliare e confortare amici: «Il cinquanta per cento di loro ha il virus». Della cerchia faceva parte per caso anche qualche negazionista? «Altroché. Ce n' era uno con cui stavo per rompere, non lo reggevo più. Poi s' è ammalato. L' hanno ricoverato. "E adesso come la mettiamo?" gli ho chiesto. La risposta è stata un flebile: "Me so' sbajato"». Mascherinizzata, il più possibile igienizzata e distanziata, questa intervista sarebbe dovuta partire da Si vive una volta sola, l' ultimo film di Verdone che quasi nessuno - chi scrive incluso - ha visto. Perché la pandemia ne ha fatto un fantasma, un recluso in attesa di scarcerazione: «Penso che mi sia venuto molto bene, ma come noi italiani fatica a uscire di casa. Doveva arrivare nelle sale a febbraio, poi è slittato a novembre. Adesso dipenderà da come si evolve la situazione» racconta Verdone, che nel cast è affiancato da Anna Foglietta, Max Tortora e Rocco Papaleo. Sorte beffarda, interpretano un quartetto di medici tanto cazzuti in sala operatoria quanto sgangherati nella vita privata. «Ma l' ospedale è solo il pretesto di una commedia sull' amicizia» dice il regista, ventisette film in quarant' anni di carriera. E quasi settanta anagrafici. Li festeggerà martedì prossimo. Allora ripartiamo dai titoli di testa. Quando, nei primi Ottanta, irruppe sulla scena ridando brio alla sfiorita commedia italiana, le affibbiarono il patentino di "erede di Alberto Sordi". Era un complimento. Ma poi non ha finito per diventare un cappio, per costringerla a rifare sempre Verdone?

«Il pericolo c' era. Ma credo di aver sempre cercato di cambiare toni, registri, personaggi».

E c' è riuscito?

«Continuo a provarci. Durante il lockdown ho scritto un libro, il soggetto di un nuovo film, e otto puntate su dieci di una serie tv nella quale mi racconto in un modo un po' diverso. Si intitolerà Vita da Carlo. È una specie di autoanalisi. Racconta le mie giornate in forma solo appena romanzata. Speriamo di poterla girare a marzo. Andrà su Amazon Prime Video».

Qual è il film che le è venuto peggio?

«Stasera a casa di Alice non era male. Ma, giocando su stereotipi già molto visti nella commedia italiana, arrivava un po' in ritardo».

Sul piano degli incassi invece C' era un cinese in coma, anno 2000, segnò una battuta d' arresto.

«Era una commedia acida, graffiante. Ma forse il pubblico s' era un po' stufato. Allora mi sono detto: il modo migliore per non perdere la prossima battaglia è non combatterla. Mi sono fermato per due anni. Ho preso i miei due figli e insieme abbiamo fatto il giro del mondo. Sullo schermo sono tornato in punta dei piedi con Ma che colpa abbiamo noi, dove non ero protagonista. Il pubblico ha reagito bene. Poi ho girato L' amore è eterno finché dura e quindi Il mio miglior nemico che ha fatto il botto incassando 21 milioni di euro».

Dicono che continui a battagliare con i produttori. Ma tutti gli incassi e i premi che ha raccolto non le fanno da corazza?

«Beh, con Mario Cecchi Gori era più facile. Anche se una mia idea non lo convinceva, alla fine mi dava sempre il via libera, dicendo: "Tanto i film li fai tutti bene". Ora con Aurelio De Laurentiis è un po' diverso. Se non siamo d' accordo ci blocchiamo a discuterne per mesi. Sono dispute anche abbastanza accese e stremanti. Però un produttore non può convincere un regista a fare quello che non vuole. E comunque Aurelio è ancora di quei produttori d' una volta che si appassionano ai film. In America farà pure un sacco di altre cose, ma in Italia ne "produce" in pratica solo due: il Napoli e Carlo Verdone».

Si vive una volta sola: da credente, lei non può sottoscrivere il titolo del suo film.

«Dal punto di vista umano si vive una volta sola. Ma credendo in Dio penso che l' anima sia eterna».

Ho letto che pratica una singolare forma di preghiera: fotografare le nuvole.

«Una quarantina di quelle foto sono state esposte al Museo Madre di Napoli. Ma non erano nate per essere mostrate. Non volevo che la gente pensasse: "Adesso Verdone s' è messo pure a fa' il fotografo". A convincermi è stata Elisabetta Sgarbi. Qualcuno le aveva parlato di quelle immagini. Lei ha voluto vederle e le sono piaciute. Le foto, ormai circa cinquecento, sono un mio momento intimo, mistico: una preghiera senza parole. Le conoscevano solo i miei figli e qualche amico. Rappresentano una parte di me. Non sono un depresso, ma ho un lato malinconico, crepuscolare, leopardiano. E non l' ho mai nascosto. Non sopporto quegli attori comici che si fanno vedere sempre sorridenti, con la battuta pronta, e poi magari nel privato sono tutto il contrario. Penso che a un certo punto devi mostrarti per quello che sei davvero. Vede, io non sono un misantropo, ma so bastare a me stesso. Entro certi limiti, non sto male da solo. Coltivo le mie passioni: la scrittura, il giardinaggio, la musica o, appunto, la fotografia. Quegli scatti ai cieli costituiscono una specie di compensazione spirituale al mio lavoro».

In che senso?

«Nei film sono sempre affiancato da una o un coprotagonista oppure da un gruppo di attori, insomma: sto sempre rinchiuso dentro un "autobus di facce". Le commedie sono un diluvio di parole e di interni. Solo raramente puoi concederti di filmare uno sfondo, un paesaggio. Nelle mie foto invece non c' è mai un essere umano: solo eventi atmosferici. Per me il cielo è "l' umore di Dio", mi stupiscono sempre i suoi cambiamenti. Le foto le faccio qui in terrazza, nella mia casa di campagna in Sabina o nei dintorni. Potrebbero essere state scattate ovunque. Ma ogni volta che le guardo mi rassicurano. Perché sento che il cielo è vita, che nel cielo c' è sempre vita».

Ha conosciuto bene l' ultimo Alberto Sordi. Un uomo che nel privato aveva rituali quotidiani rigorosissimi. Anche lei ha i suoi rituali?

«Tutti ne abbiamo. Di più o meno nevrotici. Il suo giardiniere mi raccontò che, quando si ritirava a scrivere sull'isolotto norvegese, Ingmar Bergman lo pregava di non usare le cesoie. Perché sull' isola voleva il silenzio assoluto. Girava per casa in pantofole perché odiava perfino il rumore dei propri passi. Anche io scrivo nel silenzio. Tutt' al più con un sottofondo di musica minimalista a bassissimo volume. Quando sono in viaggio non posso spostarmi senza il mio iPod: contiene una compilation di musiche indispensabili per farmi prendere sonno. I brani sono: L' Inno dei Cherubini di Cajkovskij, Steel Cathedrals di David Sylvian e Sakamoto, più alcuni pezzi ambient di Brian Eno. Sto a letto con la cuffietta e gli occhi che mi si chiudono: "Adesso spengo" mi ripeto. Ma finisce sempre che verso le sei di mattina mi sveglio con la compilation che mi gira ancora nelle orecchie. Oltre a queste, ho le fissazioni rituali di chiunque. Prima di andare a dormire ricontrollo cinque o sei volte che la porta di casa sia chiusa bene e la chiavetta del gas stia in posizione orizzontale».

Ho letto anche che, mentre nel cinema infuriavano le denunce di molestie sessuali, lei ha deciso di proteggersi piazzando una videocamera sul pianerottolo.

«È sempre in funzione. L' ho messa perché, soprattutto la domenica pomeriggio, iniziava a ripetersi troppo spesso una stessa scena. Qualcuno mi suona alla porta. Dato che non ha citofonato, io apro pensando che si tratti di un vicino del palazzo. Invece mi piombano in casa gruppi di ragazzi che vogliono filmarsi insieme a me. Magari in videochiamata con la sorella, la fidanzata, la madre: "Guarda ma', sto a casa de Verdoneee!". In qualche caso però si sono presentate anche delle ragazze da sole. Imploravano: non mi cacciare via, non mi denunciare! Voglio solo lasciarti un cd per farti ascoltare le mie imitazioni... E poi puntualmente svenivano o si facevano prendere da un attacco di panico. Me toccava andà a cercà un calmante. Siccome questi episodi avvenivano nell' ingresso di casa, con la porta aperta, ho pensato che sarebbe stato prudente filmarli. Casomai a una di quelle fosse venuta l' idea di graffiarsi in faccia e poi andare a dire in commissariato che j' ero zompato addosso. Da questo punto di vista la mia vita privata è una tragedia. Prima di uscire devo chiamare il portiere e chiedere: via libera? C' è sempre qualcuno appostato fuori con un copione in mano».

Tutti i suoi film sono il frutto del lavoro di Verdone "pedinatore" degli italiani. Ma da quando la sua faccia è diventata conosciuta come fa a studiarli, a spiarli senza farsene accorgere?

«Continuo a indagare sulla gente, ma a volto scoperto. Mi alzo sempre abbastanza presto e faccio il mio giretto mattutino. La chiacchiera col giornalaio, col barista, col fioraio egiziano o con la tintora egiziana. Le farmacie restano un ottimo punto di osservazione. Ci ho trascorso ore. Ma adesso col Covid sono off limits».

Negli anni ‘80 lei diagnosticò con largo anticipo una piaga sociale che si andava diffondendo tra gli italiani: la mitomania. Ora sui social ha raggiunto l' apoteosi. In che rapporti è Verdone con Facebook e compagnia postante?

«All' inizio mi ero detto: non ci metterò mai piede. Ma sono subito cominciati i problemi. Perché presero a fioccare dei falsi Carlo Verdone che mettevano in rete immagini e commenti spacciandosi per me. Dopo una serie di denunce, siamo riusciti a fermarli. A quel punto però dalla Polizia postale mi hanno detto: lo vuole un consiglio? Per finirla con 'sta storia si apra un profilo suo e buonanotte. Il risultato? Una foto che mi mostra mentre torno a camminare dopo l' operazione ha fatto 112 mila like, 4 milioni con le condivisioni. Ma nella mia pagina non voglio essere narcisista, esibizionista. A chi mi segue cerco sempre di dare qualche piccola cosa originale: una vecchia foto di Roma, di qualche grande artista che ho conosciuto. Oppure un aneddoto, un racconto. Insomma, non mi metto lì a postare un selfie di me al ristorante davanti all' aragosta».

Si considera un uomo mite?

«Sì».

Ma il Vecchio Testamento insegna che quando un tipo mite s' incazza sono dolori. A lei cosa la fa imbestialire, cosa la ferisce di più?

«Il tradimento di un amico. In vita mia ne ho sofferti tre o quattro di quelli brutti. In casi simili non reagisco né a gesti né a parole. Chiudo e basta. Le cose che mi fanno più male sono i voltafaccia e l' invidia. Non sono un santo. Ho i miei tre o quattro bei difettacci, ma tra questi l' invidia non c'è. Mi ricordo di quando Massimo Troisi esordì con Ricomincio da tre. Era lo stesso anno di Bianco, rosso e Verdone, ma il suo film incassò trenta volte più del mio. Dopo averlo visto mi dissi che era nato un attore dai tempi comici straordinari. E volli incontrare Massimo. Ma non per chiedergli: facciamo un film insieme? No, solo per conoscerlo. Oltre a essere un grande attore era un uomo intelligente, sensibile, acuto. Ho imparato molto da lui».

Le battute dei suoi personaggi sono entrate nell' immaginario collettivo come quelle dei primi film del suo quasi coetaneo Nanni Moretti. Fate un cinema molto diverso, ma siete vicini di casa. Che rapporti avete?

«Non ci frequentiamo. Lui è una persona molto riservata e io lo rispetto. Se ci incrociamo al ristorante facciamo due chiacchiere su quello che stiamo facendo o stanno facendo i nostri figli. Tempo pochi minuti e arrivederci».

Verdone, i suoi primi film ci fecero scoprire una gioventù scombinata, ma candida, solitaria. E sparita.

«Erano figure poetiche che prendevo dalla realtà di quegli anni. Ragazzi che a forza di star soli diventavano quasi personaggi fiabeschi. Oggi nessuno è più in grado di stare da solo. I giovani vogliono rimanere connessi, vedersi. Guarda che casino ti alzano se gli togli l' aperitivo».

Insieme a quegli stralunati è scomparsa pure la Roma in cui si aggiravano. Ora prevale la rappresentazione della metropoli-Suburra. Ma non ha già stufato?

«Quella rappresentazione è uno specchio della realtà, perché Roma si è effettivamente incattivita. Forse però è arrivato il momento di superare Gomorre e Suburre. Senza sdolcinatezze, ma bisognerebbe raccontare Roma anche con altri sentimenti. Alla fine l' eccitazione della violenza, delle bande e dei traffici criminali che cosa ha prodotto nei ragazzi? Anni fa, un mio amico che insegnava in una scuola di periferia mi raccontò che agli studenti aveva assegnato un tema dal titolo: Qual è il primo desiderio che vorresti si realizzasse appena diventerai maggiorenne? Uno rispose: "Vorrei comannà tutto er Prenestino". Un altro: "Vorrei fondà 'na banda più cattiva de quella daa Majana". Un altro ancora: "Vorrei da' 'na lezione a mi' padre che m' ha rovinato 'a vita". Tutte risposte arrabbiate. Comprese quelle delle ragazze, che erano le più violente. Da qui la domanda: che cosa abbiamo fatto negli ultimi decenni per le periferie? Niente. La politica ha improvvisato. Le ha abbandonate. E i ragazzi che si sono detti? Si sono detti: "Famo da soli. Prennemose Roma, Ostia, le periferie».

Alla soglia dei 70 anni soffre di nostalgia o la affronta con romanissimo fatalismo?

«Il tempo va avanti e non possiamo farci niente. Però se mi chiedessero: "Pagheresti per essere nato qualche anno più tardi e poter vivere di più?", risponderei: "No. Al limite pagherei per essere nato qualche anno prima". I 50, i 60, e malgrado tutto anche i 70, furono anni strepitosi. Quando li racconto ai miei figli sgranano gli occhi come se non ci credessero. Provo rimpianto? Sì. Ma non bisogna mai guardarsi troppo indietro. Sarebbe una forma di codardia».

Maturando, il senso di condivisione delle amicizie giovanili tramonta?

«Col tempo le vecchie amicizie tendono a indebolirsi. Perché ci si mette in mezzo il lavoro tuo e quello dell' altro. La tua famiglia e la sua. Anche se dovrei farlo di più, cerco di coltivare amicizie soprattutto fuori dal mondo del cinema. Frequentare la gente dello spettacolo è di una noia mortale. Si parla solo di soldi. Tra i miei amici ci sono medici, avvocati, direttori di banca. Anche il mio sceneggiatore Pasquale Plastino e il regista Giovanni Veronesi, ma con loro non parliamo mai di cinema».

Il complimento più bello ricevuto in 40 anni di carriera?

«Diversi anni fa, all' una di notte, sul ponte di Regina Coeli, un energumeno in motocicletta mi urlò: "A Ca', grazie pe' avemme dato er soriso a 'n' adolescenza de mmerda!". Sulle prime rimasi spaventato. Ma poi mi dissi che quella frase valeva più di un Oscar. Però la gratificazione più grande è quella delle persone che prima di morire chiedono di vedermi. Vogliono ringraziarmi per i miei film. Che in dvd gli hanno fatto compagnia durante la terapia del dolore».

Oggi soffre di ansia da Covid?

«No. Sono molto preoccupato, ma cerco di prenderla con filosofia. Penso alle famiglie che vivono in 50 metri quadrati. Ho già fatto 7 tamponi. Esco solo se necessario: 'ndo devo annà? All' inizio, oltre alla mascherina, usavo i guanti. Poi hanno consigliato di toglierli perché era meglio il gel igienizzante. Di questo virus continuiamo a sapere poco. Quest' estate ci hanno detto che sarebbe praticamente sparito. E la gente se n' è andata in Sardegna, in Corsica, in Croazia Alla faccia dell' Oms - tanto bistrattata da Trump - che invece aveva avvertito di una seconda ondata in arrivo. La gestione politica dell' emergenza è una cosa molto difficile. Io non mi fido della politica. Perché il politico ha sempre paura che le decisioni impopolari lo mettano contro quelli della sua compagine e gli facciano perdere voti. E così tende a lasciar correre. Mentre bisognerebbe essere molto decisi».

Cinema e teatri andavano chiusi o tenuti aperti?

«Certo, i cinema sono luoghi a rischio molto basso. Su 200 posti se ne possono occupare solo 60. Gli spettatori sono distanziati, con mascherina e non parlano tra loro. Però quando 100 scienziati hanno scritto al presidente Mattarella parlando di un momento molto pericoloso e chiedendo un nuovo lockdown, credo che non avessero preso di mira cinema e teatri in quanto tali, ma ciò che comportano in termini di mobilità delle persone. Penso che la preoccupazione fosse quella di ridurre gli spostamenti della gente in generale. Che dirle? Forse si tratta di misure eccessive, anche perché i grandi contenitori del virus sono piuttosto i trasporti pubblici. Ma se la scienza ci dice che adesso il Covid puoi beccartelo anche solo facendo capolino in un negozio, allora dobbiamo dar retta alla scienza e starcene zitti».

Carlo Verdone operato: “Non potevo più camminare”. Notizie.it il 28/09/2020. Carlo Verdone si è sottoposto a un delicato intervento e ha annunciato via social l'inaspettato traguardo da lui raggiunto. Carlo Verdone è stato operato ad entrambe alle gambe. Il famoso attore ha annunciato di essersi sottoposto al delicato intervento dopo sette anni in cui gli era praticamente impossibile camminare. Attraverso i social Carlo Verdone si è mostrato in un breve video in cui – con l’aiuto delle stampelle – muove qualche passo. L’attore ha rivelato che per lui si tratterebbe di un enorme traguardo seguito al delicato intervento da lui subito nei giorni scorsi. “Dopo sette anni di atroce dolore alle anche per le cartilagini scomparse, mi sono deciso giovedì 17 di operarmi in un colpo solo alla ricostruzione di entrambe perché non ero più in grado di camminare per pochi metri”, ha affermato via social il famoso attore romano, e ha aggiunto: “Oggi un piccolo miracolo!”, mostrandosi mentre muoveva piccoli passi nel salone del suo appartamento. Con il suo post l’attore ha ringraziato i chirurghi che l’hanno operato e ha affermato che per la prima volta dopo gli ultimi lunghi 7 anni, non proverebbe dolore. In tanti gli hanno fatto gli auguri di pronta guarigione e si sono detti entusiasti per l’inaspettato annuncio dell’attore. L’attore, che ha ricevuto una laurea honoris causa in medicina, ha anche confessato di essersi deciso a sottoporsi all’operazione dopo moltissimo tempo in cui gli era impossibile camminare, e adesso – dopo alcuni giorni di riposo – potrà dire finalmente addio anche alle stampelle.

Carlo Verdone tuona contro il politicamente corretto: "Basta, è una patologia". Carlo Verdone dal palco del Piccolo Cinema America si sfoga contro il politicamente corretto esasperato che incatena gli sceneggiatori e lancia un monito sul futuro del cinema. Francesca Galici, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Quella di Carlo Verdone ora è una voce di rottura nel panorama cinematografico italiano. Il celebre attore e regista romano, infatti, ieri è salito sul palco del Piccolo Cinema America e ha condannato con toni duri il politicamente corretto imperante negli ambienti della sinistra, a cui strizza l'occhio anche la kermesse romana. Il protagonista di alcune delle commedie all'italiana più divertenti tra gli anni Ottanta e Novanta ha pronta una nuova produzione, che non è stata ancora portata in sala a causa della pandemia di Covid. Si vive una volta sola non verrà lanciato in anteprima sulle piattaforme di streaming come hanno fatto alcuni suoi colleghi, perché Carlo Verdone preferisce aspettare che si possano nuovamente portare i film nei cinema il prossimo anno. Il cast del film è di quelli d'eccezione, perché accanto all'attore e regista ci sono anche Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Max Tortora. È proprio prendendo spunto dal suo nuovo film, che è stato presentato in anteprima alla stampa qualche mese fa, che Carlo Verdone ha detto la sua sul politicamente corretto, puntando il dito contro i censori e i nostalgici della buoncostume. "Il mio ultimo film, permettete la presunzione, credo mi sia venuto molto bene", dice Carlo Verdone parlando alla folla, prima di spiegare cosa ha fatto scattare in lui la rabbia contro il politicamente corretto. "Quando ho fatto vedere il film, a un certo punto c'è stata una critica che mi ha fatto la critica perché c'era in primo piano il sedere di mia figlia, che aveva gli slip", spiega Verdone raccontando la scena al pubblico del Piccolo Cinema America. "A un certo punto (la critica, ndr) mi ha fatto un articolo contro: 'È disgustoso...'. Sembrava una critica del 1932, ma che cavolo è? Ma non può stare con le mutande così? A quel punto là mi sono cascate le braccia", conclude Carlo Verdone, evidentemente esasperato per il clima che si respira nel Paese. A questo punto il regista lancia un monito: "Guardate che se continuiamo così, con questo politicamente corretto portato all'esasperazione noi avremo dei grossi problemi in sede di sceneggiatura". Secondo Carlo Verdone, infatti, il politically correct che piace tanto agli ambienti radical chic è un "errore micidiale, perché a forza di seguire il politicamente corretto, uno si sente sempre incatenato in qualche modo". Per lui, l'attività censoria in atto è fortemente limitante alla libertà di espressione, soprattutto nel mondo dell'arte. Una catena che per il regista influirà negativamente sulla qualità delle pellicole: "Faremo meno ridere, avremo meno battute, non si potrà dire nulla perché si offende quello... Sono d'accordissimo, fumiamo di meno, però ci sono delle cose sulle quali francamente non sono d'accordo."

Alla platea dell'arena del Piccolo Cinema America, Carlo Verdone ha spiegato che sono tanti i colleghi a pensarla come lui: "Anche tanti miei colleghi iniziano ad averne un po' le palle piene di questo politicamente corretto, perché sta diventando un po' una patologia. Basta per cortesia".

Da agi.it il 24 luglio 2020. "Magari me viene er Covid, lo sdereno co' 10 minuti". Quarant'anni dopo, lo spirito del bullo Enzo di “Un sacco bello”, esordio cinematografico di Carlo Verdone, è più vivo che mai tra i fan che attendono l'arrivo del regista tra il Tufello e Val Melaina. C'è da festeggiare un un anniversario di quelli tondi, quarant'anni dal film che ha lanciato il grande attore e regista icona di una Roma popolare, malinconica e al tempo stesso sofisticata. In una rotatoria all'ombra dei palazzoni grigi di via Giovanni Conti, il Municipio III di Roma ha deciso di omaggiare l'artista apponendo una targa in ricordo del 'palo della morte', un lampione con il simbolo del teschio dove nel film Enzo incontrava l'amico Sergio (Renato Scarpa) per pianificare un viaggio estivo in auto da Roma fino a Cracovia a caccia di belle ragazze. Un viaggio che rimarrà una chimera, quasi un sogno di fuga dalle periferie assolate e desolate di Roma nell'estate del 1980. È un'iniziativa voluta dall'assessore municipale alla Cultura, Christian Raimo, e dal minisindaco Giovanni Caudo per regalare un momento di incontro in periferia tra l'attore e il suo pubblico e rilanciare le proiezioni cinematografiche dopo la pandemia di coronavirus. L'affetto della gente quasi esonda, ci sono centinaia di persone e l'incontro si sposta nel giardino interno ai palazzoni. La voce di Verdone si sente a malapena tra le grida di incitamento dei presenti: "Sei il Re di Roma". "Quando io ho girato qui non c'era niente, tutti i palazzi erano in costruzione, sembrava una scena di Mamma Roma di Pasolini. Oggi le periferie sono cambiate, delle cose sicuramente sono migliorate, è difficile trovare scorci che diano quelle emozioni", racconta Verdone. "Oggi non sarebbe possibile ripetere "Un sacco bello" - aggiunge - è cambiata la storia. Oggi Enzo andrebbe in vacanza a Ibiza con altri cento tutti uguali a lui, stessi tatuaggi e stessi capelli". Poi la concessione al pubblico in attesa, la battuta "Love, love, love", recitata dall'hippy Ruggero, altro personaggio dello stesso film. Prima di andare via l'attore è stato omaggiato dal Municipio con una targa: "La dedico a tutti voi, a questo quartiere, che ha avuto tanta poesia perché oltre che risate c'era poesia, un pizzico di malinconia e anche molta follia. Ve la dedico con tutto il cuore". L'attore va via tra i cori da stadio, questa sera la pellicola verrà proiettata in un cinema all'aperto della zona. Quasi un sogno di fuga da una Roma deserta e timorosa nell'estate del coronavirus. 

Verdone, 40 anni dopo al "palo della morte": "Ma la Roma di Un sacco bello non esiste più". Pubblicato mercoledì, 22 luglio 2020 su La Repubblica.it da Franco Montini. Un enorme traliccio dell’alta tensione, con una targhetta che recita “pericolo di morte”, posto nel bel mezzo di un’ampia strada di scorrimento, via Giovanni Conti nel quartiere di Vigne Nuove. Qui, nell’estate del 1979, Carlo Verdone girò una celeberrima sequenza del suo film d’esordio "Un sacco bello" (uscito nel gennaio del 1980), passata alla storia come la scena del "palo della morte". Da allora, ogni estate, i fan dell’attore romano si danno appuntamento lì per una festosa celebrazione. Il rito si ripete regolarmente da quarant’anni e venerdì pomeriggio, presente proprio Verdone, il presidente del III° Municipio, Giovanni Caudo apporrà una targa commemorativa.

Verdone, il traliccio in questione, ovvero il palo della morte, esiste ancora?

«Non ne sono sicuro e lo scoprirò io stesso dopodomani, quando, per la prima volta, parteciperò al rito. In questi anni, di notte, confesso di essere passato qualche volta in via Conti, ma non ho riconosciuto nulla. In quaranta anni è cambiato tutto: quando girai il film, il palo della morte era una presenza in mezzo al nulla, nel tempo sono spuntati palazzi, strade, piazze».

Avrebbe mai immaginato che quella scena si sarebbe stampata nell’immaginario collettivo?

«Naturalmente no e mi emoziona molto l’affetto di cui, dopo tanto tempo, continua ad essere circondato "Un sacco bello". Direi che, più passa il tempo, più cresce il valore, sociologico, paesaggistico e poetico del mio film. Il fatto è che "Un sacco bello" ha saputo cogliere il sapore di un’epoca irrimediabilmente perduta, quando, nonostante le sue miserie e una diffusa solitudine esistenziale, Roma era ancora piena di racconti, di umanità, di solidarietà. Una città più pacata, meno confusionaria, più vivibile».

Non pensa che la Roma della pandemia ricordi un po’ quella di "Un sacco bello"?

«Assolutamente no. La Roma vuota e deserta del lockdown non mi è mai sembrata bella e affascinante: comunicava l’immagine di una città malata, sconfitta dal virus».

"Un sacco bello" si avvale di una colonna sonora firmata da Ennio Morricone, che nel genere commedia ha lavorato meno che sul versante drammatico.

«È vero, ma Morricone era una persona dotata di grande ironia, cosa che gli ha permesso di scrivere anche splendide colonne sonore brillanti. Per ciò che riguarda il mio film, l’inserimento di un fischio, per altro già utilizzato in "Per un pugno di dollari", è stata una bella e geniale intuizione».

Nella scena del palo della morte, accanto a lei c’era Renato Scarpa.

«E ci sarà anche dopodomani: prima a Vigne Nuove, poi al CineVillage Talenti, dove alle 21.15 sarà proiettato il film. La riuscita di quella scena era dovuta proprio al contrasto fra i due personaggi accomunati da una profonda solitudine ma diametralmente opposti. Enzo, romano, mitomane, esagerato e Sergio, milanese, timido, educato. Renato Scarpa è stato uno splendido compagno di lavoro».

Le auto dei film di Verdone, dallo schermo allo scaffale. Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da Federico Pesce su La Repubblica.it Quattro modellini in scala 1:18 delle automobili appartenute ai rispettivi personaggi di Un Sacco bello e Bianco Rosso e Verdone. “… Pronto parlo con Infinite Statue? Sono un ammiratore del grande Carlo Verdone, desidererei sapere se avete i quattro modellini di auto che lui ha usato nei film Un Sacco bello e Bianco, Rosso e Verdone, in scala 1 a 18”.  Chi parla non è un tizio qualunque ma proprio lui, lo stesso Verdone in carne e ossa, impegnato a girare uno spot che lo riguarda molto da vicino. Sta recitando la parte di Furio, il mitico personaggio maniaco della precisione che nel film capolavoro del 1981 tormenta la moglie Magda. Nello spot – con quella stessa voce cantilenante e puntigliosa – finge ora di chiamare al telefono Infinite Statue per accaparrarsi da subito, prima ancora che escano sul mercato, i quattro oggetti a lui molto cari. Già, ma cos’è Infinite Statue? E’ una piccola azienda con base a Savona che da 13 anni realizza oggetti da collezione legati al mondo del cinema e del fumetto. Oggetti di altissima qualità interamente dipinti a mano e numerati uno per uno, rigorosamente in edizione limitata e che una volta esauriti non verranno più replicati. “Per questo le nostre opere sono destinate ad acquistare valore nel tempo”, spiega Roberto Gallanti, presidente di Cosmic Group che dal 2011 detiene il 100 per cento della piccola azienda ligure e ne distribuisce i prodotti in tutta Europa. “Il nostro Art Director, Fabio Berruti, si avvale di collaboratori che sono dei veri e propri artisti, scultori altamente specializzati e decoratori dal talento unico, ora alle prese con la realizzazione in scala delle  quattro auto utilizzate dai personaggi di Carlo Verdone”. Come dimenticarli. Enzo, il bullo romanaccio che al volante della sua Fiat Dino rigorosamente nera (con la saetta rossa sulle fiancate …) cerca a Ferragosto di partire per la Polonia, con la certezza di barattare avventure erotiche con penne bic e collant (era il 1980, il Muro di Berlino era ancora in piedi). Mimmo, quello un po’ sempliciotto (il suo intercalare in che senso ha segnato una generazione), che deve portare la nonna (l’indimenticata Sora Lella) a votare a Roma, e la fa viaggiare nei sedili posteriori della sua Fiat 1100 per darle modo di stendere le gambe.  E poi c’è Pasquale Amitrano, l’emigrato con l’Alfasud rossa: dalla Germania deve raggiungere il sud d’Italia anche lui per votare, e durante un viaggio epico gliene capitano di tutti colori. Infine Furio, marito di Magda, proprietario della Fiat 131 bianca che nel film, prima di partire, chiama l’ACI per sapere con maniacale puntiglio le condizioni meteorologiche che troverà in autostrada (qui vi risparmiamo la risposta dell’operatore ACI …). Quattro modellini dunque, in scala 1:18 “che arriveranno sul mercato verso gennaio”, spiega ancora Gallanti. “Non usciranno tutte insieme ma una ogni tre mesi, e contiamo di realizzarne circa un mille a esemplare, 1500 al massimo”.  Nella linea “Cars Legacy Collection” rientrano anche la Dune Buggy di Bud Spencer, di prossima uscita, e la Bianchina del Ragionier Fantozzi. Per lei però non c’è più nulla da fare, è esaurita da tempo.

La "maledizione" di Viaggi di Nozze: Carlo Verdone si fratturò la colonna vertebrale sul set. Viaggi di Nozze è uno dei film più famosi di Carlo Verdone: non tutti sanno, però, che per girarlo Carlo Verdone corse un grave rischio. Erika Pomella, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Viaggi di Nozze è forse il film più famoso di Carlo Verdone. Uscito nelle sale nel 1995, la pellicola ha avuto il merito di descrivere una certa idea di italianità, in grado di spaziare tra molti stereotipi. Dal coatto romano, all'ingenuo che sposa la sua fidanzatina di sempre, Carlo Verdone si diverte nell'interpretare ruoli molto diversi tra loro, che richiedono anche un tipo diverso di recitazione. Naturalmente il personaggio più iconico di Viaggi di Nozze è Ivano, un romano arricchito del tutto privo di tatto ed educazione che convola a giuste nozze con Jessica, interpretata da una Claudia Gerini che, proprio con questo ruolo, si assicurò un posto di rilievo nell'industria cinematografica italiana. Viaggi di Nozze al suo debutto incassò circa 30 miliardi di lire: un successo nazionale che riuscì a sconfiggere sia la competizione della Disney, che arrivò seconda con Pocahontas, sia del cinepanettone annuale, Vacanze di Natale '95. Tra le scene più iconiche del film c'è, senza dubbio, quella in cui Ivano e Jessica, che come al solito non si curano di regole e restrizioni, si trovano a fare sesso all'aquafan, in una scena girata a Tivoli. All'inizio la scena avrebbe dovuto essere girata a Tarquinia. Secondo il copione originale, infatti, Jessica avrebbe dovuto rimanere nuda, mentre prendeva il sole. Il problema era che, intorno al set, c'erano dei paparazzi pronti a scattare delle foto. Infastidito, Carlo Verdone decise dunque di cambiare tutto all'ultimo minuto, di creare una scena totalmente nuova, lontana dagli occhi indiscreti della macchina da presa. Claudia Gerini si disse d'accordo alla modifica e in meno di un'ora i due attori erano pronti a interpretare la scena che poi sarebbe andata nel montaggio definitivo. Proprio durante questa scena, lo spettatore può vedere Ivano che si tuffa in piscina per raggiungere Jessica, alla promessa del "'o vojo fà strano", una delle battute più rappresentative del film. Durante il tuffo, però, Carlo Verdone batté accidentalmente la schiena e finì col farsi molto male. Si fratturò, infatti, la colonna vertebrale e fu costretto ad essere operato. E ricordare l'evento è lo stesso attore e regista, che sul suo sito ufficiale scrive: "Recitai tutto il film con dei dolori atroci per via dell’ernia del disco alla quale si aggiunse una frattura alla colonna durante un tuffo di Ivano. Il chirurgo che mi operò non si spiegava come avevo fatto a resistere… Fatto sta che non godetti nulla del successo enorme di quel film perché dopo una settimana dall’uscita finii in sala operatoria…"

Dagospia il 6 maggio 2020. Giallo, Rosso e Verdone. “Con il personaggio di Furio si divertì pure Paulo Roberto Falcão che non capiva una parola di italiano. Il giorno dopo aver visto in anteprima “Bianco, Rosso e Verdone” mi chiamò per chiedermi il numero di un’attrice. Io non glielo ho dato”. Dal cinema alla musica fino al calcio, Carlo Verdone si racconta su Youtube in un incontro con i ragazzi del settore giovanile del Bologna. “Sergio Leone non amava Furio. Organizzò una proiezione privata con Sordi, Monica Vitti e Falcão, da poco arrivato a Roma. Alla fine Sordi mi abbracciò e mi fece i complimenti per Furio, e così anche la Vitti. Leone masticò amaro: “Boh, se je piace a loro…”. L’attore-regista romano rivela come diventò tifoso della Roma. “Fu grazie a un mio compagno di banco che fece un bel disegno di un centravanti giallorosso e me lo regalò con la promessa che sarei diventato romanista”. La prima partita in curva sud: “Fu un Roma-Napoli, gol di Manfredini”. Le figurine Panini: “Non trovavo mai quella di Pascutti. Un giorno lo incontro in un ristorante. Lui mi confessa di essere un mio ammiratore’. E io: ‘Mi hai fatto buttare un sacco di soldi’. “Il mio sogno era diventare calciatore. Poi sono diventato un “pedinatore di italiani”: “Sono curioso. Continuo a essere timido, riservato, mi piace guardare la gente, ascoltare storie. Racconto la realtà...” A 28 anni, il primo film. “Quello che mi ha dato più soddisfazione è stato ‘Borotalco’. “Mi sono sentito male dalla felicità. Avevo avuto successo con “Un sacco bello”. Poi dopo ‘Bianco, Rosso e Verdone’ i produttori mi mollarono perché mi identificavano con i “personaggi’ e non credevano che avessi un futuro come attore. Sono rimasto diversi mesi senza lavorare. Ritornai all’università pensando che quello del cinema fosse un mondo di matti. Dopo 3 mesi arriva una telefonata di Mario Vittorio Cecchi Gori. Mi disse: ‘Credo a te come attore’. Con ‘Borotalco’ venne fuori un film veramente bello che raccontava anche i colorati anni ’80. Io e lo sceneggiatore la sera della prima ci mettemmo in un angolo a vedere le persone che uscivano dal cinema. Me la stava facendo sotto, mi giocavo la carriera. Uno passò e disse: Mi so’ ammazzate dalle risate, quanto è forte sto film.... Me lo vado a rivedere domani”. Quel film vinse 5 David di Donatello e io presi il volo. La prova d’autore alla regia resta Compagni di Scuola. “Un film che non morirà mai. Rappresenta non i vizi dei tempi ma degli uomini”.  E poi “Viaggi di Nozze: “Tutti erano scettici sul fatto che tornassi a fare i personaggi. Andò benissimo. Fu un’altra grande emozione”. Ai giovani che vogliono tentare la strada del cinema lancia un avvertimento: “Fare una carriera come la mia è molto difficile. Il cinema richiede tantissimi sacrifici, si va incontro a molteplici umiliazioni, bisogna avere grande passione e mettere in conto che si può soffrire molto. Oggi devi fare grandi incassi. È tutto business. Un mondo spietato, competitivo. A un ragazzo direi: ‘pensaci dieci volte’. È un lavoro che ti può far male. Oggi per fare qualcosa di diverso e originale, è veramente dura...” Si vive una volta sola è in stand-by: “L’ho fermato 2 giorni prima dell’esplosione del coronavirus. Avevo fatto un tour di promozione al nord incontrando migliaia di persone. Ho toccato 20mila mani, non so come abbia fatto a non prendermi il virus…Ora dobbiamo stabilire come far uscire il film, forse su Amazon o su Sky, dipende dal produttore. Per tornare al cinema dobbiamo attendere che la pandemia sia azzerata”. Nel frattempo Verdone non si annoia. "Sto scrivendo un libro e mi confronto con gli sceneggiatori per il nuovo film. E poi ascolto musica". I giovani si divertono con Dua Lipa? Io li spingerei a riascoltare qualcosa dei primi Beatles. Parte tutto da loro". Tra gli italiani, sceglie Vasco, il Venditti dei suoi primi album, De Gregori, Dalla. "I talent? Non so se facciano bene ai ragazzi. Danno grande popolarità nell’immediato ma gli artisti che escono da lì si consumano presto”. Irrompe Walter Sabatini, ex ds giallorosso, oggi al Bologna: “Verdone è un mio idolo. Ho sempre temuto i suoi giudizi sulla Roma. Li giudicavo attendibili”. Il capo-scouting dei rossoblù Marco Di Vaio confessa: “Sono cresciuto con i film di Verdone e le canzoni di Venditti. Io sono laziale ma due romanisti mi hanno accompagnato tutta la vita…”. Difficile trovare "poesia" in questo calcio, ora che non c'è più Totti: "Calciatori così non li avremo più", sospira Verdone che poi mostra con orgoglio una maglia autografata di CR7: “E’ quella della finale di Champions vinta con il Manchester United. Non l’ho mai lavata”. L'ammissione: “Non saprei fare un film corale sul calcio o sullo sport. Meglio raccontare la storia di un allenatore o di un singolo atleta". Mihajlovic? "Un allenatore perfetto per il Bologna, ha dato molte motivazioni, l’ha messa bene in campo. Ha continuato nonostante le cure ad essere presente. Lo terrei a lungo…”. Il mio maestro di vita? "Mio padre. Era un intellettuale ma mi portava a giocare a calcio al Circo Massimo, alla Galleria Nazionale d’Arte moderna, al cinema e allo stadio. Mi ha insegnato a coltivare le passioni…”

Arianna Finos per “la Repubblica” l'1 maggio 2020. Torneremo a sorridere. Anche del virus. Carlo Verdone, 69 anni, spende le giornate nel suo attico romano lavorando al nuovo libro e a un progetto cinematografico, "un racconto corale, che non c'entra nulla con la pandemia - spiega - ma che non potrà, come nessun altro film che parli del presente, non considerare ciò che è avvenuto in questo periodo, che resterà nei libri di storia e che ha fermato il mondo. Anche in una commedia, una battuta, un riferimento, non potranno non esserci".

Cosa le resterà di questo momento?

"Lo considero un anno che non esiste più, va cancellato. Lo abbiamo buttato al gabinetto. Ci sono stati tanti morti, non una guerra ma un evento altrettanto traumatizzante. Sono orgoglioso per come hanno reagito gli italiani, ci prendevano in giro, siamo stati responsabili e solidali, altro che scusa per non lavorare. Oggi c'è bisogno di costruire un vero, grande partito ambientalista che coinvolga tutto il mondo".

Che cosa l'ha colpita di più?

"La  figura degli anziani. Quel che è successo ha sancito la mortificazione di persone che a settant'anni sono ancora in buona salute, vecchie solo anagraficamente. Mi ha dato fastidio il cinismo dei Paesi del Nord Europa verso gli anziani, come fossero uno scarto della società 'se more, more, salviamo i giovani'. Enea, lasciando Troia, ha portato sulle spalle il padre Anchise, mica l'ha mollato. I bambini, con la loro purezza, e gli anziani, biblioteche della nostra memoria, sono le parti migliore della società. Ma che vogliamo fare a meno delle Sore Lella? Ogni volta che sui miei social posto la Sora Lella la gente la ricorda con amore, perché ha riso con lei nei miei film, ma anche perché l'avrebbe voluta come nonna, con la sua saggezza, il suo sguardo sardonico, quel bon senso e la profondità. Oggi pagheremo oro per avere in casa una Sora Lella".

Come trascorre questi giorni?

"La mattina cerco di fare io la spesa, anche per prendere una boccata d'aria, bardato con guanti e mascherina. Mi piace osservare le persone, ma ora le vedo tese, tutti hanno fretta di correre a casa. La farmacista mi ha spiegato la gente ha fatto incetta di una medicina che io uso da molti anni, ora indicata utile contro il virus, ne hanno fatto scorta come stecche di sigarette. All'altro estremo una situazione come quella davanti al fruttivendolo lunedì scorso: un tizio spiegava che il giorno prima non aveva trovato un preservativo, le farmacie erano chiuse, alla fine aveva tagliato l'indice dei guanti che usiamo in questi giorni, ha funzionato. E l'altro dietro, serio: 'Ma lo sai che m'hai dato un'idea?'".

Come organizza le sue giornate?

"In tarda mattinata scrivo il nuovo libro, il pomeriggio ho una riunione con gli sceneggiatori su internet. Mezz'ora di pettegolezzi assurdi che ci fanno ridere tanto, prima di iniziare a lavorare. Poi, quando faccio pausa, vado in terrazzo, ho sempre la macchina fotografica pronta. Sono un appassionato fotografo dei cieli, studio i grandi maestri. Elisabetta Sgarbi e Paolo Mereghetti hanno voluto le foto, che avevano visto solo i miei figli, e ne faranno una mostra a luglio alla Milanesiana che si svolgerà a Napoli. Ma in questi giorni il cielo non aiuta, è di una banalità malinconica, inespressivo. Sembra che abbia anche lui paura della pandemia".

La colonna sonora di questi giorni?

"Quando lavoro mi serve il silenzio assoluto, non posso neanche ascoltare il rumore dei miei passi, ho delle pantofole da Sindaco del Rione Sanità. Ho la sindrome che aveva Ingmar Bergman, me lo ha raccontato il suo giardiniere, l'ho conosciuto qualche anno fa. Quando non lavoro metto i Led Zeppelin e Mark Lanegan, se ho bisogno di serenità, David Crosby. Di notte musica classica a basso volume, Mahler, Debussy".

Che capitolo sta scrivendo del libro?

"Il primo viaggio fatto in macchina con mio padre. Per anni viaggiava con l'autista poi mamma e noi figli lo convincemmo a prendere una macchina, anche per la gita domenicale. Ma lui, che teneva grandi conferenze, è stato bocciato sette volte all'esame per la patente. Finalmente un giorno torna dalla motorizzazione, 'ce l'ho fatta', è stata una festa. Un mese dopo ci fa scendere di casa e davanti ai portici c'era una 1100 nera con le gomme fasciate di bianco. Ci batteva il cuore, entravamo dentro come fosse San Pietro.

Un giorno papà mi dice ti porto con me, doveva consegnare un articolo all'Ansa. Io ero emozionato. Parte in prima e resta con quella marcia, andavamo a venti all'ora, finalmente mette in terza, arriviamo in Piazza Venezia, gira per una stradina e mi fa 'vedi che bella la nostra macchina?', non raddrizza l'auto e andiamo dritti contro un muro, lui gli occhiali spaccati, io una ferita in testa, la folla, mia madre arriva in taxi, 'fregnone, tu non devi guidare più!'. Pietro Sadun, pittore astrattista anni Sessanta e amico di papà va a vedere il muro e ne fa un quadro bellissimo, si chiama 'Incidente'. Papà non guidò per i successivi tre anni, poi riprese, anche perché dovemmo licenziare l'autista: mia madre trovò un profilattico e fece una scenata a papà. Ci avvertì la polizia che il tizio andava tutte le sere a Caracalla a prostitute".

Quando uscirà "Si vive una volta sola"?

"In autunno lo vedrete. Un dolore che non sia arrivato in sala. Con gli attori abbiamo fatto un tour nel Nord: Torino, Milano, vicino Codogno, Piacenza. Ho abbracciato e stretto la mano a migliaia di persone, un miracolo che ne sia uscito indenne".

Stiamo tornando a sorridere?

"Detesto i pessimisti, la risata incarna la speranza, l'intelligenza, l'ironia. Dopo la Seconda guerra mondiale siamo tornati a sorridere ed è nata la commedia all'italiana, grande nel mondo. In questi giorni in tanti ridono con i miei social, con i miei film ho fatto compagnia ai miei amici malati di Bergamo e Brescia, che erano soli a casa. Sono guariti tutti. Altro che ipocondriaco: ho regalato leggerezza e conforto, mi sono scoperto più saggio. Le persone mature non buttatele via, perché possono servire ancora molto".

Carlo Verdone: "Sono un uomo fortunato ma ho avuto anni di merda" Carlo Verdone si racconta a Vanity Fair tra la malattia e la morte di sua madre e il divorzio dalla madre dei suoi figli, avvenuto senza rancori. Francesca Galici, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Carlo Verdone è uno degli attori più stimati del panorama cinematografico italiano. Ha all'attivo decine di film di successo e la sua stessa vita potrebbe essere presa come spunto per la realizzazione di una sceneggiatura. Tante luci e tante ombre hanno segnato l'esistenza di Carlo Verdone, che si è raccontato senza filtri, come forse ha fatto raramente, nell'ultimo numero di Vanity Fair. Chi è davvero Carlo Verdone? "Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà", ammette l'attore nel ripercorrere la sua vita dall'infanzia. Quando era ragazzo, sua madre si ammalò di una grave patologia neurologica che non le lasciò scampo. "Per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare", dice Carlo Verdone, che ricorda quei momenti con grande dolore: "Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda." Furono anni molto difficili per uno degli attori simbolo del cinema romano, che è arrivato a non perdonarsi per l'idea che in quegli anni lo accompagnava spesso. C'è stato un periodo durante il quale desiderava fortemente che sua madre morisse il prima possibile ma era semplicemente il pensiero disperato di un figlio che non sopportava l'idea di vedere sua madre soffrire così tanto senza poter fare niente per lei. Quello non fu l'unico grande dolore che Carlo Verdone ha dovuto affrontare nella sua vita perché, anche se diverso, anche quello per la separazione dalla madre dei suoi figli, Gianna Scarpelli, l'ha segnato nel profondo. L'attore si presentò senza avvocato nel giorno dell'udienza per il divorzio, una scelta inusuale e da molti incomprensibile, anche dal giudice titolare della causa. "Decida lei, per me non è cambiato niente", disse Carlo Verdone al giudice. Nessun rimorso o rimpianto per quella decisione da parte dell'attore, che nell'intervista racconta il risvolto positivo di quella giornata. Al termine dell'udienza, dopo la decisione, Gianna Scarpelli gli si avvicinò chiedendogli cosa avesse da fare quell'estate. "Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti", gli disse la donna, che aveva già prenotato la camera d'albergo per l'ormai ex marito, sicura che lui non gli avrebbe negato del tempo da trascorrere insieme con i bambini.

Malcom Pagani per Vanity Fair il 6 febbraio 2020. Tutti i battiti del suo cuore: «Da bradicardico, se stiamo ai freddi numeri, ho cinquanta pulsazioni al minuto. Ma ai tempi dei sudori improvvisi, dei giramenti di testa, dei formicolii sul labbro e dei frangenti in cui mi sembrava di morire da un momento all’altro, ne avevo 160». Era l’epoca dei primi successi: «In cui io, riservato, introverso e un po’ malinconico ero stato lanciato come un sasso da una mazzafionda al solo scopo di invitare tutti alla leggerezza e provocare la risata negli altri. Un compito terribile, al quale non ero preparato e una forma di violenza che mi costrinse, da peggior nemico di me stesso, a mettere in discussione il mio carattere». Per farsi forza, sostiene Carlo Verdone «ricorrevo a una frase che mi ripeteva sempre mia madre. “Si vive una volta sola” diceva e aveva ragione». Nel suo ventisettesimo film che recupera nel titolo il precetto materno e mette al centro della scena quattro persone incapaci di trovare fuori da corsie e operazioni una ricetta utile a guarire da insicurezze e nevrosi, Verdone, medico mancato, si traveste da dottore e guardandosi indietro si scopre diverso da ieri: «Potrei dire migliore».

Formuli una diagnosi.

«Oggi affronto ostacoli che non mi sarei mai immaginato di superare a trent’anni. E dalla maggior parte dei miei problemi sono guarito».

Che problemi erano?

«Per un timido la vita non è una passeggiata. Crede che fosse facile dover rispondere alle aspettative della gente o essere riconosciuti per strada da un giorno all’altro? Non sapevano neanche come mi chiamassi. “Lei è quello dei due cervi? Quello che alza gli occhi al cielo in tv?”».

La popolarità gliela restituì Non Stop di Enzo Trapani.

«Enzo, teorico dell’improvvisazione selvaggia, ci sequestrò per tre mesi a Torino in pieno inverno. Aveva facoltà di girare anche il sabato e io a Roma non riuscivo a tornare mai. Prima di andare in scena e dare sfogo ai miei sketch attraversavo atroci tormenti». 

Che tipo di tormenti?

«Farò ridere? Parlerò bene? Risulterò simpatico? I miei colleghi d’avventura erano sciolti, disinvolti, tranquilli. Io passavo una notte in bianco dopo l’altra e riproponevo un repertorio che avevo sperimentato soltanto nei teatrini off».

Andò bene.

«Ma la televisione mi cambiò la vita e la popolarità rappresentò una tempesta interiore. Mi tremavano le gambe. Ero bloccato. Fragile. L’ansia mi divorava».

Come ne uscì?

«Grazie a Piero Bellanova, uno dei più autorevoli psicanalisti italiani. Con mio padre, di cui era amico, condivideva la passione per il futurismo e accettò di incontrarmi un paio di volte alla settimana. Andò subito al punto: “Carlo, qui non c’è niente da analizzare”, disse. “Il tuo corpo reagisce a uno stravolgimento e i farmaci non servono a niente: ti devi adattare al destino che cambia e piano piano il quadro si addolcirà”».

Messa così sembrerebbe semplice.

«Avevo una 127 bianca. L’avevo acquistata a 27 anni, nel 1978, con i risparmi di Non Stop nonostante il dirigente Rai di allora, Bruno Gambarotta, mi avesse vivamente sconsigliato di farlo: “Li spenda meglio i primi soldini che ha guadagnato, dell’auto non ha nessun bisogno, molto presto avrà chi la accompagnerà guidando al suo posto”».

I tempi non erano ancora maturi.

«All’epoca ero fidanzato con Gianna che sarebbe poi diventata mia moglie. Abitava a Vitinia, vicino a Ostia e io non andavo più a trovarla perché mi girava sempre più spesso la testa e avevo paura di svenire o di avere un infarto mentre guidavo. Lo raccontai a Bellanova e lui decise di sottopormi a delle sfide: “Dobbiamo andare alla radice del problema e devi metterti alla prova”».

In cosa consistevano le sfide di Bellanova?

«Non solo mi intimò di mettermi al volante, ma pretese di farmi allungare la strada passando per Ostia: “Prima di andarla a trovare arrivi sul lungomare, fai due giri della rotonda, respiri forte e poi riprendi il cammino”. Ostia a fine anni ’70 era più o meno il Bronx. “No professore” piagnucolai: “Ostia de notte no, la prego. Lei me vuò fa’ morì”. “Non morirai, ma se non farai come dico, da me non tornare proprio”.  Andai. La prima volta stipai le tasche di gettoni e arrivai a Ostia in condizioni pietose. Telefonai a Gianna: “Sto malissimo, per favore, vienimi a prendere”. Riaccadde la stessa cosa almeno quattro volte e alla fine, pur ridotto uno straccio, riuscii a tornare a casa da solo. Esanime, ma vivo. Bellanova aveva capito tutto».

Cosa aveva capito?

«Che i problemi non si aggirano. Devi combatterli e puoi anche vincere. Il difficile è esserne consapevoli. Da quel giorno comunque non ho avuto più un solo attacco di panico e invece di imbottirmi di farmaci ho imparato a conoscere meglio me stesso».

Chi è Carlo Verdone?

«Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà. Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili. Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda. Stavo perdendo mia madre e mi ricordo che faticavo a perdonarmi perché desideravo morisse il prima possibile. Non si poteva vedere una persona ridotta così. Non si poteva accettare di sapere che soffrisse così tanto». (Qui la voce di Verdone si incrina e si affaccia la commozione, ndr).

Momenti tristi.

«Fu triste anche il momento della separazione. Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”. Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella». 

Perché finisce l’amore?

«Ah, vattelo a spiega’. Non lo so, dirlo è difficile. Non lo so, non lo so davvero. Il tempo gioca sicuramente la sua partita. Poi credo ci abbia messo un macigno la pesantezza del percorso che ho fatto e che sto tuttora facendo. Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico. Sposi loro. Sposi un lavoro. Sposi le aspettative. Sei sempre sotto esame, non sei libero e questo incide. Forse ero io a non riuscire più a dare tanto al rapporto o forse mi serviva la grande alleanza degli inizi. Fino a un certo punto resse, poi la distanza si allargò e probabilmente su certe cose non andavamo più d’accordo. Una consolazione però mi resta».

Quale?

«Pur nella tristezza della separazione io e Gianna siamo stati intelligenti. Ci siamo detti: “Va bene, non stiamo più insieme però facciamo sì che i nostri ragazzi non soffrano oltre misura”. Lo abbiamo fatto, credo e spero, nel migliore dei modi. Siamo stati uniti e assennati. I miei amici e le mie amiche che si sono separati sono ancora increduli: “Ma come ci siete riusciti? Io ho passato la vita a litigare, a far scrivere l’avvocato, a discutere di tutto e a litigare su ogni cosa”. Giulia e Paolo, i nostri figli, questa amarezza non l’hanno vissuta. Sono il nostro orgoglio. Hanno una dignità enorme, non hanno mai chiesto niente e non si sono mai sentiti i figli “di”. Se io o Gianna ci azzardavamo ad alzare il telefono per provare ad aiutarli non ci rivolgevano la parola per una settimana». 

Quello che ci ha dato, l’ha sottratto alla vita privata?

 «Assolutamente sì e l’ho sottratto anche ai miei amici. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni. L’amicizia era veramente importante. Condividevamo le stesse passioni: lo studio, il cineclub, la musica, le cantine umide in cui recitare. Eravamo un gruppetto di 6 o 7 persone e non facevamo altro che stare insieme. A volte qualcuno si fidanzava con la compagna di quello con il quale il rapporto era ormai logoro. Ma non c’era né gelosia né rabbia. Dicevi: “Vabbè, m’è andata male, però se è felice con lui va bene così”».

Poi che accade nell’amicizia?

«Irrompono le famiglie, il lavoro, i figli, la stanchezza. La tragedia è dai 30 a 40 anni e il primo segnale d’allarme suona quando getti la spugna, preferisci restare a casa e dici: “Non andiamo all’ultimo spettacolo, ve prego, che domattina me devo alza’ presto”. Non ce la fai più, ti mancano le energie e lasci per strada tante cose fino a quando, magicamente, a 50 anni la situazione migliora perché ti aggredisce uno sconfinato desiderio d’evasione. Ti fa piacere parlare o andare a mangiare con qualcuno. Torni a confrontarti, a incontrarti, a scambiarti qualcosa. Finalmente, arrivato quasi a 70 anni, riesco a rivedere delle persone che avevo perso: non gente di cinema, per carità di dio. I miei veri amici, salvo pochissime eccezioni, non fanno parte del mio mondo. E mi creda, è bellissimo».

Lei 70 anni li compirà a novembre. 

«Ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ma io ho davvero 70 anni?”. Ancora mi domando come sia stato possibile arrivarci e cosa mi sia davvero successo nella vita. Il primo biglietto di un mio spettacolo teatrale venne venduto nel 1977. Quasi 45 anni fa. E sto ancora lavorando».

Le sembra incredibile?

«Mi dico: “Ma non è che la mia vita non è altro che un sogno? Che magari non è successo niente?”. Sembra una battuta, ma me lo domando veramente».

Cosa significa avere 70 anni?

«Esteticamente non li dimostro però nel corpo ogni tanto si rompe qualcosa. È come una macchina antica dalla carrozzeria che sembra reggere e il cui motore a volte si blocca».

E la immalinconisce?

«Per niente. Non sono mica triste di andare verso i 70: l’arco della vita è quello perché mi dovrei disperare? Si disperavano altri attori, tutti morti depressi, Alberto Sordi compreso. Ringraziando dio ho figli, passioni, un percorso credo ineccepibile e molti ricordi magnifici. Mi chiedono: “Ma il giorno che lascerai il tuo mestiere, come farai?”. Rispondo che sarà un grandissimo giorno: la missione è stata compiuta nel migliore dei modi».

Bilanci?

«Ho fatto esattamente quello che dovevo. I personaggi, i film da protagonista, quelli corali come Si vive una volta sola».

Momenti nascosti, quasi sepolti?

«La prima volta che mi spinsi oltre Roma lo feci per andare all’Hop Frog di Viareggio. Era un circolo di estrema sinistra dove si erano esibiti Lucia Poli, Donato Sannini, il Patagruppo e dove io arrivavo con il mio prete di campagna, terrorizzato dall’accoglienza che avrei ricevuto. La gente mi guardava con aria truce, l’eskimo addosso e i volti ostili. Ero nervoso, andai a pisciare e accanto al cesso trovai una siringa: “Ma dove sono capitato?”, mi dissi. Andò bene, ma non era scontato. Niente è stato scontato».

Orgogli?

«Grande Grosso e Verdone. Di solito sono molto critico con me stesso e non faccio altro che dirmi: “Questa la dovevi di’ meglio, quest’altra avresti potuto girarla in modo diverso, questa scena è inutile e sarebbe stata da tagliare”. Ma sapevo che quello era il mio ultimo film da mattatore e mi permisi dei virtuosismi. Ci misi dentro personaggi cupi e raffinatissimi come il professor Cotti Borroni. Quando sei sicuro di te stesso puoi anche osare».

Che segno credi di aver lasciato?

«Non tanto il successo che è effimero, né il rapporto con il pubblico che è profondo, solido e non cambierà. Sono stato felice perché mi hanno capito. I miei film erano pieni di dettagli poetici e mi chiedevo sempre: “Ma la gente li apprezzerà?”. Mi ricordo una sera di tanti anni fa, era l’82, Borotalco era in sala da una settimana e tornavo a casa. A un certo punto mi accorgo che alcuni  ragazzi mi inseguono in motorino. Mi fermo. “Ci faresti un autografo?”. È notte, con me non ho niente. “Come si fa?”, dico. “Aspetti un attimo”, fa uno “io abito qui vicino, porto dei pezzi di carta con una penna”. Aspettiamo al freddo il suo ritorno e un ventenne mi dice:  “Ma lei si rende conto di quello che ha fatto per noi?”, “Vuoi la verità? No”, “Ci ha regalato la leggerezza e una felicità interiore che neanche se la immagina”. Mi colpì tantissimo. “Ma guarda te”, mi dissi, “io che non lo volevo fare questo lavoro. Io che avevo paura di tutto”».

Quali erano le sue paure da bambino?

«Perdermi. Stare negli spazi grandi e smarrirmi. Non sapere come tornare dalle persone che mi volevano bene. Essere con mio padre in un posto, circondati dalla folla e improvvisamente non trovarlo più. Una volta mi accadde allo stadio e fu una cosa disperante. A un tratto, come in Un sacco bello, si sentì dall’altoparlante la voce di una poliziotta: “Il bambino Carlo Verdone è pregato di portarsi vicino all’ingresso della tribuna Montemario”. Quando rividi papà lo abbracciai fortissimo e gli disse: “Non mi lasciare mai più”. Non era la prima volta che mi perdevo».

Davvero?

«Andai per la prima volta a Siena, una città labirintica che mi colpiva per la sua severità, la sua bellezza austera e il suo mistero, che ero piccolissimo. Giocavo in via Di Vallepiatta e la mia palla cominciò a rotolare in discesa. Più la seguivo più non sapevo dove mi trovassi fino a quando non persi il senso dell’orientamento. Mi ritrovai a piangere ai bordi della strada e arrivò una signora: “Cittino? Che ti è successo? Dove sono i tuoi genitori?”. Mi riportò a casa e li vidi, come in una fotografia, tutti ad aspettarmi sull’uscio. Preoccupati. Stravolti. Sogno di perdermi ancora oggi. Incubi che ciclicamente tornano a farmi visita. Non so più dove sono e non riesco a trovare la via di uscita. Cerco mamma o papà, ma non ci sono. In un Luna Park, in un labirinto di vetro, non entrerei mai».

È una prefigurazione quasi psicanalitica del futuro. A un certo punto si cammina da soli e si rischia di perdersi.

«È vero. Ed è difficile da accettare. Non è un caso che tante paure le abbia cancellate, ma mi resta quella del giorno in cui me ne andrò. Non temo il dolore fisico, ma la disperazione dei miei figli. So che per loro sarà una catastrofe, mi atterrisce e così, ingenuamente, li preparo».

E loro?

«Si incazzano. L’altro giorno dico a Giulia: “Guarda, ho trovato queste 7 foto e questi 7 video, sono bellissimi. Un domani, quando non ci sarò più”. Non mi ha fatto neanche finire la frase: “ahhh, mo’ ricominci?”, “No Giulia, ascoltami, un domani, quando non ci sarò più, devi prendere questi video e queste foto e farci un documentario. Ci siamo io te, Paolo. È bellissimo”. “Papà”, ha alzato la voce, “adesso hai rotto veramente le palle”. Esorcizzano, però so che si preoccupano esattamente come capitava a me quando ero bambino, mia madre non tornava e io diventavo pazzo. Alla fine un po’ della mia ansia l’ho trasmessa anche a loro, soprattutto a Paolo. Se non rispondo al telefono, va subito in fibrillazione».

I suoi figli hanno poco più di 30 anni. L’età che aveva quando Lietta Tornabuoni la incontrò a casa di Sergio Leone. Disse che lei sembrava un burocrate cinquantenne: insicuro, bislacco, spaventato, oppresso dall’idea dell’affermazione. 

«Ricordo bene quell’incontro, ma Lietta non comprese che per Leone io avevo una specie di devozione. Ero intimidito dalla sua presenza, ma non ne ero schiacciato. Dentro di me avevo le idee chiarissime. È stata la mia grande fortuna».

Che rapporto ha con la noia?

«Un rapporto meraviglioso. La noia è una carezza, una bella coperta che mi avvolge e mi fa ricaricare le batterie. Detesto quelle persone che affollano le estati di programmi assurdi saltando da Mykonos a Ibiza, perché “ti devi” divertire, “non puoi” annoiarti e se non ti diverti ti incazzi. Ma chi l’ha detto? A me d’estate piace non avere nessuno tra i piedi. Voglio stare da solo. È il periodo che mi aiuta a creare, a inventare, a riflettere. Se poi vogliamo parla’ di chi s’annoia perché non ha un cazzo da fa’ parliamo di tutt’altro». (Sorride)

L’ha visto il film di Zalone? Le è piaciuto? Si è annoiato?

«Ha fatto un tentativo: alcune cose funzionano, altre meno. Ma anche se da spettatore posso criticare, apprezzo lo sforzo, il coraggio e l’intenzione di fare qualcosa di lontano dai suoi precedenti. In fin dei conti pur essendo due persone completamente diverse e pur essendo la sua comicità molto lontana dalla mia, capisco le mille tensioni che ha avuto. Lo rispetto. Non è certo uno sciocco. Ha rischiato sapendo di rischiare».

E lei, con Si vive una volta sola ha rischiato?

«Temevo che l’interazione tra i personaggi si rivelasse un gioco sterile e senza spessore. Dal secondo giorno però è accaduto un miracolo e ho irrobustito un film che un regista meno esperto avrebbe potuto facilmente sbagliare e che invece ha una sua filosofia. Quindi, no, io e il film rischiamo poco. E lo dico per la prima volta. Faccio sempre mille “corna” e sono scaramantico perché so che l’esito di un film dipende dal pubblico e da quanti biglietti staccheremo, ma su quello che abbiamo fatto non ho mezzo rimpianto. È stata un’opera di concentrazione straordinaria tra 4 amici che sono felici di ritrovarsi anche fuori dal set. Non accade quasi mai: di solito, a film finito, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto».

Mi ha detto che il film parla di amicizia.

«Sono 4 medici. Una équipe chirurgica di prim’ordine che tra i propri pazienti ha addirittura il Papa. Tanto sono imperatori tra i ferri, tanto miserabili nel privato. Hanno una vita di una solitudine spaventosa e si fanno forza stando sempre insieme anche fuori dal lavoro. Ma tutta questa vicinanza, porta all’insofferenza e a una cattiveria feroce, da liceali. A un certo punto la dinamica subisce uno scossone e accadono cose sorprendenti: ahò, non è che stamo a parla’ di un film de Bergman, però sono fiducioso e contento del risultato».

C’è un’evoluzione. Prima dell’uscita di Un sacco bello, per la tensione, non riusciva neanche a dormire. 

«Ero tesissimo. Non ci capii niente. Lo andai a vedere alla sesta settimana di programmazione, da clandestino. Mi vergognavo di vedermi sullo schermo. Oggi sono più equilibrato, più paziente, anche meno egoista. Vedo le cose in maniera più distaccata, cerco di non drammatizzare e sono sicuramente più sensibile ai problemi del prossimo, degli amici come dei giovani artisti, a differenza di tanti miei colleghi che fanno i liberali ma se la tirano un po’ troppo e che se poi gli chiedi una cosa è come se gli chiedessi chissà che. Poi rido e cerco di far ridere gli altri».

Perché?

«Perché ridere è fondamentale. Uscire la mattina e avere sempre il grugno, non fa bene».

 Cosa fa quando sta da solo?

«Ero insonne, adesso cerco di dormire presto. Prima di abbandonarmi alla mia playlist, guardo Roma dall’alto. Sconfinata e buia perché Roma è una città tremendamente buia. Mi sembra sempre bella, ma immalinconita. Depressa».

Come mai?

«Perché ci siamo ridotti così? Perché non ci sono esempi, ma solo follie. Perché manca l’educazione civica e la burocrazia ha divorato tutto. Mancano i sacerdoti del bello. Ma dove cazzo sono i sacerdoti del bello? Senza una scuola che insegni ad amministrare questo patrimonio non ne usciremo».

E le dispiace?

«Moltissimo. Prima Roma era una grande città. Ora è solo una città grande».

Filippo Mazzarella per corriere.it il 13 gennaio 2020. Un sacco bello, fortunatissimo esordio di Carlo Verdone (il titolo mutuava uno dei “tormentoni” verbali già resi celebri dai suoi sketch televisivi), celebra in questi giorni i suoi primi quarant’anni ma non ha perso un grammo della sua vis comica e, anzi, ha acquisito con il passare del tempo anche uno status di film-manifesto che all’epoca era più difficile individuare. Ambientato in una Roma ferragostana sinistramente spopolata e assolata, è costituito da tre episodi intrecciati fra loro in cui Verdone (che interpreta -pirandellianamente?- ben sei personaggi: i tre protagonisti più tre comprimari) è mattatore assoluto e riflette malinconicamente in filigrana, facendo sua la tradizione della miglior commedia all’italiana, sull’Italia coeva, sulle debolezze e le insicurezze dei “giovani” di quel tempo, sui riverberi e la tensione ancora palpabile del piombo degli anni Settanta. Una dichiarazione di intenti e di profondità di osservazione poi (quasi) sempre rispettata nel corso di una carriera cinematografica che lo ha visto impegnato come regista per altri ventisette film (contando anche l’imminente Si vive una volta sola, in uscita tra un mese). Nell’imminenza del Ferragosto, il trentenne immaturo Enzo (armato di penne a sfera e calze di nylon, l’armamentario tradizionale per far capitolare le donne dell’Est come da sciagurato luogo comune del ventennio precedente) convince l’amico Sergio a partire per Cracovia col miraggio di avventure sessuali. E quando quest’ultimo verrà ricoverato in ospedale per una fulminante calcolosi biliare non si darà per vinto, cercando un rimpiazzo con cui completare l’impresa. L’ingenuo mammone trasteverino Leo, invece, dovrebbe raggiungere la genitrice a Ladispoli: ma si imbatte nella solare Marisol, una turista spagnola rimasta senza alloggio, che dopo averlo convinto ad accompagnarla per Roma riesce a farsi ospitare a casa sua. Ma quando crede che fra loro possa esserci del tenero, il fidanzato della ragazza fa improvvisamente irruzione. L’hippie fuori tempo massimo Ruggero, infine, che si è ritirato in una comunità umbra dove ancora si professano l’“amore libero” e il distacco dalla società dei consumi, incontra il padre a un incrocio dove sta elemosinando con la fidanzata Fiorenza. E quest’ultimo ne approfitta, spalleggiato da un prete, un professore e un parente, per cercare di convincere il ragazzo a tornare nei ranghi. Le vicende di tutti si concluderanno amaramente, dopo che un sinistro e inspiegabile boato (triste presagio del 2 agosto bolognese di quell’anno?) avrà squassato nella notte la Capitale.

La chiamata di Sergio Leone. Dopo la straordinaria popolarità conquistata con il suo variegato mondo di personaggi problematici, buffi e/o paranoici esibito nella seminale trasmissione televisiva di cabaret Non Stop (Raiuno, 1977-1979) diretta dal compianto e geniale Enzo Trapani, Verdone viene tempestato di richieste da produttori, registi e attori che ne intravedono il potenziale su grande schermo e vorrebbero farlo debuttare al cinema: Adriano Celentano lo vorrebbe per un ruolo in Asso, Pasquale Festa Campanile gli fa un provino (stando alla leggenda disastroso) per Il corpo della ragassa. Ma Carlo non si sente pronto: ed è solo quando riceve la telefonata del maestro Sergio Leone, che si offre di produrre il suo esordio, che la situazione si sblocca. Grazie ai due principi della sceneggiatura che lo affiancano (Leo Benvenuti e Piero De Bernardi), Un sacco bello prende forma: e diventa un’opera già personale, in grado di andare oltre la mera riproposizione delle tipologie televisive. Tanto che, sempre su consiglio di Leone, dopo aver interpellato prima Steno e poi Lina Wertmüller, l’unico possibile regista del film diventa Verdone stesso.

Tour de force. Imperniato soprattutto sulla sua capacità trasformistica (anche se la lunga sequenza in cui incarna Ruggero e i suoi tre “dissuasori” è paradossalmente la più debole del film) più che sulla narrazione in senso stretto, Un sacco bello si rivela da subito un tour de force attoriale incredibile per Verdone (premiato per questo motivo con un David di Donatello speciale), soprattutto per quanto concerne l’armonizzazione “interna” di caratteri e tipologie diversissimi chiamati a reggere un tempo di racconto più lungo e complesso rispetto agli standard del piccolo schermo. Anche perché fino ad allora (ma anche dopo…), se si eccettuano i paragoni “esotici” con la poliedricità di Peter Sellers, nessuno nel cinema italiano (e men che meno un esordiente) si era mai giocato una carta simile. Un possibile punto di riferimento, infatti, poteva essere la mattatorialità polimorfa di Gassman e Tognazzi in I mostri di Dino Risi: ma, a differenza di Un sacco bello, quello era un film a episodi in senso “classico”, dove ogni metamorfosi costituiva elemento a sé. In questa logica, il peso dei comprimari (poi sempre centrale nel cinema di Verdone) è quasi inesistente. Anche se il Sergio di Renato Scarpa e il papà del magnifico Mario Brega non si dimenticano.

Il Senso del tragico. Se la superficie di Un sacco bello onorava le aspettative “pop” del pubblico pantografando ed espandendo le peculiarità che avevano decretato il successo televisivo del “personaggio” Verdone, l’anima del film andava già a svelare e anticipare il doppiofondo tragico e malinconico di tutti i suoi lavori successivi da “autore”. Come negare che, a conti fatti, asciugata delle sue qualità di divertimento più epidermiche, l’opera prima di Verdone non fosse -anche- lo spaccato al fondo doloroso di una società di individui spaesati e incapaci di affrontare la solitudine, le istituzioni e finanche il reale? Il cinema di Verdone, è sempre stato, tra le altre cose, in equilibrio fra tragico e “politico”: Un sacco bello ne è stato il detonatore, poi replicato nel non meno riuscito e amato Bianco Rosso e Verdone (ancora “tripartito” e ancora attraversato da inquietudini parallele sul presente – come l’avanzare del crollo dell’ideologia comunista sostenuta ciecamente dall’indimenticabile “Sora” Lella Fabrizi). Il resto, come si dice, è storia.

·        Carol Alt.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020. Ha l'eleganza naturale delle modelle, svetta sui tacchi, è intatta nell'immaginario degli italiani per le commedie colorate di Carlo Vanzina. È Carol Alt. Ha un primato singolare: ha interpretato un film a New York durante il Covid-19, L'ultimo grande amico , il regista è l'italiano Filippo Prandi.

Di cosa parla?

«È la storia di James Whitey Bulger, il gangster di Boston morto due anni fa che già Johnny Depp portò al cinema in Black Mass , e qui ha il volto di Eric Roberts. Io sono una giornalista tv da cui Bulger è ossessionato. Recitavo in solitudine davanti al green screen, la tecnica con cui si sovrappongono diverse immagini. Ero da sola, una troupe di 5 persone. È stato il mio lockdown. L'ho vissuto a New York, con i miei gatti. Non mi è mancato nulla, il mio lavoro è concentrazione e solitudine. Sono una eremita».

È stata, dagli Anni 80, il sogno proibito degli italiani.

«Non mi sono mai sentita sexy. Da adolescente ero robusta, lavoravo in una pasticceria e assaggiavo tutti i dolci. Ho perso 20 chili a 18 anni e cresciuta 20 centimetri in un anno, ho dovuto lasciare la danza, nessun ragazzo voleva ballare con me».

Erano anni...

«Più liberi, ero più rilassata anche se piena di lavoro. Oggi è l'epoca di Instagram e del Politically Correct , è tutto di pubblico dominio, devi dire sempre la parola giusta con un velo di ipocrisia».

Ha vissuto molestie?

«Tutto il tempo, succede a ogni bella attrice. La differenza è che sta a noi scegliere. Ho perso tanti ruoli, penso alla serie tv Hotel . Come ho reagito? Mi sono detta, ok, così va la vita, andiamo avanti».

E la moda è cambiata?

«Totalmente, oggi i marchi globalizzati riprendono le sfilate e le ricopiano pari pari».

L'Italia è il suo destino, qui conobbe l'amore della sua vita, Ayrton Senna, il pilota brasiliano morto nel 1994 nel circuito di Imola .

«Non sapevo chi fosse, a una sfilata i fotografi mi chiesero di fare qualche scatto con lui, mi disse che era un driver e pensavo che fosse l'autista. Era molto più basso di me, mi batteva il cuore, d'istinto mi sono tolta i tacchi. Lui ha sorriso e ha detto: grazie. Io: No problem. Ero sposata. Mi colpì la sua sensibilità, nessun ragazzo prima di lui mi aveva parlato di Dio e della Bibbia. Mi disse: dobbiamo sbrigarci, non abbiamo molto tempo».

Un presentimento?

«Sapeva di fare un mestiere pericoloso. Quando morì ero in Florida per una serie tv, ricordo tutto, la mia stanza d'albergo, com' ero vestita... Mi buttai nel lavoro».

E Hollywood?

«È una città senz' anima, io sono una newyorchese. Il mio sangue è americano, il mio cuore è italiano».

Compleanno importante: i suoi primi 60 anni?

«Io me ne sento 35, sono gli altri che mi trattano da donna matura. Qui al Filming Italy Sardegna Festival mi danno un premio alla carriera: è troppo presto! Arrivare in Italia dagli USA col virus è stata un'impresa, avevo una dozzina di poliziotti intorno, nominavo la direttrice artistica, Tiziana Rocca, come se fosse il mio passaporto».

Lei doveva interpretare «Sotto il vestito niente»?

«Non volevo farlo, ne stavo facendo un altro in cui dovevo uccidere e non volevo rivivere la violenza. Carlo Vanzina, uomo gentile, simpatico, mi offrì Via Montenapoleone ».

È vero che per il film su Marina Ripa di Meana...

«Lei voleva Raquel Welch, rosse entrambe, coetanee, Carlo Vanzina la convinse dicendole che non recitava da 15 anni».

Mantenersi così giovane?

«Il segreto è nell'alimentazione, solo cibi crudi. Non sono mamma ma ho la mia, mia sorella, le mie nipoti. Sono circondata dall'amore».

I. Rav. per “il Messaggero” il 10 aprile 2020. I suoi primi 60 anni, tondi a dicembre, sono passati con un solo rimpianto non aver vissuto pienamente l'amore clandestino con il pilota Ayrton Senna, frequentato durante il matrimonio con Ron Greschner e nessun ritocco a quella bellezza che quarant'anni fa ne fece, come lei stessa dice, «il volto degli Anni 80».

Popolare in Italia grazie a Carlo Vanzina, che la lanciò con Via Montenapoleone, l'ex supermodella, attrice e fervente crudista Carol Alt è nel cast di Un figlio di nome Erasmus, in streaming a Pasqua.

Torna in Italia 11 anni dopo Piper: perché tanto tempo?

«Dopo gli Anni '90 in Italia non c'era più posto per me. Non l'ho scelto io. Ho continuato a recitare negli Stati Uniti, ma sognavo di tornare».

Qui le è rimasto qualche amico?

«Ho sempre voluto bene a Luca Barbareschi. E mi manca Carlo Vanzina. Era generoso e sensibile. Un giorno, alla fine de I miei primi 40 anni, mi disse: Ti ho guardata per due mesi così intensamente che conosco a memoria il tuo viso. Vent'anni dopo ci siamo ritrovati per Piper. Il primo giorno mi guarda al monitor e dice: Carol, tranquilla, il tuo volto non è cambiato. Ti ricordi? Io lo conosco a memoria».

È vero che Berlusconi fu un suo ammiratore?

«Mi regalò una cornucopia d'argento. Ma l'ha voluta il mio ex marito, con il divorzio ho perso quasi tutto. Però qualche regalo di Berlusconi ce l'ho ancora: una collana con una farfalla che uso nei red carpet. Il Cavaliere ha finanziato tutta la mia carriera».

Non ha mai sostenuto pubblicamente il MeToo: perché?

«Il rischio molestie c'è e c'è sempre stato, soprattutto nella moda. Quello che non mi convince è la linea di confine, quando non è chiara la differenza tra molestia e legittima attrazione».

Ha conosciuto Woody Allen. Che ne pensa?

«Mi sembra atroce distruggere una carriera su una presunzione di colpevolezza. Con me è stato splendido».

In Italia nessuno l'ha mai molestata?

«Mai. Anche perché ero molto protetta: intorno alla mia immagine circolavano parecchi soldi. Ci stavano attenti, a me».

Oggi i soldi li fanno le influencer. Che ne pensa di Chiara Ferragni?

«Chi, scusi?».

Un'influencer. La più seguita. Conosce la categoria?

«Non saprei dire di cosa si occupino. Di certo oggi i ragazzi sono fortunati: se hanno qualche talento, possono metterlo a frutto. Ai miei tempi, se eri una modella potevi fare solo quello».

La moda è cambiata molto da allora?

«E cambierà ancora. Le sfilate scompariranno. Costano tanto, e il giorno dopo trovi tutto nei megastore. E poi il corona ci insegna che puoi fare gli stessi show anche online».

Rimpianti?

«Il pensiero di Senna non mi abbandona mai. Ci sono momenti in cui lo sento vicino, lo sogno. Quando l'ho perso, è cambiato tutto. È stata la cosa più devastante della mia vita».

Un nuovo amore?

«Col coronavirus è dura anche su Tinder. E con le mascherine non ci si può baciare».

Sessant'anni: come fa a mantenersi così bella?

«Sono fissata con l'alimentazione e ho ottimi geni: mia madre a 87 anni è bellissima. E poi una volta un truccatore di Milano mi disse: a 20 anni hai la faccia con cui sei nata, a 40 quella per cui hai lavorato, a 60 quella che ti meriti».

Carol Alt: «Ayrton Senna mi disse: sbrighiamoci, abbiamo poco tempo». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Michela Proietti. Quando lo conobbe, si tolse le scarpe per non farlo apparire basso: «Lui mi ringraziò». E fu colpo di fulmine: «Alla prima cena con lui ho toccato le stelle... la chimica era fuori dal comune». «Aveva forse un presentimento». Carol Alt nel film «I miei primi 40 anni», girato da Carlo Vanzina nel 1987 e tratto dal romanzo di Marina Ripa di Meana Quando incontra per la prima volta Ayrton Senna — il grande amore della sua vita —, Carol Alt si sfila le scarpe. «Eravamo a Milano nel backstage della sfilata di Ferragamo e i fotografi continuavano a chiedermi di posare accanto a questo tizio dal nome strano». Altissima lei, un po’ di meno lui, con il physique du rôle perfetto del campione di Formula 1. « Non sapevo neppure chi fosse, poi quando finalmente l’ho visto ho capito che la cosa giusta da fare era scendere dai tacchi. E lui mi ha ringraziato». C’è tutta Carol Alt in quella foto: la bellezza, l’intelligenza. E la simpatia. «Sono una comedian nata: il mio fisico non corrisponde ai classici canoni dell’attore comico, ma far ridere mi riesce davvero bene». Non a caso il prossimo film che la vede protagonista è una commedia prodotta da Eagle Pictures in uscita nelle sale il 26 marzo: in Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari recita al fianco di Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis e Daniele Liotti. Un ritorno al cinema e in Italia, dove immagina il futuro: «Nelle mie vene scorre sangue italiano».

Cosa ricorda del suo arrivo in Italia?

«Tutto, come fosse ieri: sono atterrata a Roma il 20 luglio del 1979. In quel viaggio c’erano tante prime volte: la prima volta in aereo, in Italia, a Roma... Dal finestrino del bus cominciai a battere la mano contro il vetro: “guardate, il Colosseo!”».

Subito dopo finì sulla copertina di Harper’s Bazaar Collection.

«Mi ritrovai a lavorare dalle 6 di mattina alle 2 del pomeriggio, scattando con i più grandi fotografi, da Patrick Demarchelier ad Albert Watson: era tutto eccitante e strano, vivevo al Grand Hotel e mangiavo sul set panini di prosciutto di Parma imburrati e senza crosta. Qualcuno la toglieva».

Erano gli anni del film «Via Montenapoleone» di Carlo Vanzina: lei e Renée Simonsen (la supermodella danese co-protagonista) diventaste due icone nazionali.

«Un giorno mentre giravamo in via Montenapoleone lei sparì e Carlo Vanzina la cercava dappertutto. Dopo dieci minuti tornò con un sacchetto della Perla: aveva visto in vetrina un completo di lingerie ed era entrata a comperarlo perché era in arrivo John Taylor dei Duran Duran, il suo boyfriend».

Carol Alt con Ayrton Senna, suo amante dal 1990 fino alla morte del campione, il primo maggio 1994. Icona degli Anni ‘80, torna sul grande schermo: è in uscita il suo nuovo film «Un figlio di nome Erasmus»

Neanche un po’ di rivalità?

«No, perché era una gara persa: se eravamo insieme la gente si voltava a guardare lei, che era bionda e altissima. Sembravo la sorella bruttina».

La Milano da bere, le serate al Nepentha con le modelle: quanto c’è di vero di quella iconogra fia che è stata raccontata?

«Direi poco per quanto mi riguarda: lavoravo ogni santo giorno, mi svegliavo alle 4 del mattino per affrontare le due ore di trucco e capelli prima di posare. La verità è che se sei una top model non puoi uscire la sera. Quelle che vedi nei locali sono le modelline...».

Una vita un po’ noiosa.

«Se sei debole, fisicamente e psicologicamente, non puoi fare quel mestiere. Le agenzie erano pressanti, non sapevi mai se lo stilista di oggi ti avrebbe chiamato a sfilare anche domani: ho molti più amici nella moda oggi che allora. Non c’era tempo per le pubbliche relazioni: andavo a casa la sera e non volevo più vedere nessuno».

E il piatto dei playboy piangeva...

«Mi ricordo che uno di loro riuscì a convincere la portineria del mio hotel a organizzare una cena romantica per due in camera. Lo mandai via digiuno: ero troppo stanca. Neppure i diamanti funzionavano. Pensavo: posso comperarmeli da sola, ora mi riposo».

Poi ha incontrato Ayrton Senna.

«Ma è stato un caso: c’era mio marito a Milano (il giocatore di hockey su ghiaccio dei New York Rangers Ron Greschner), ma dopo una lite furiosa fece la valigia e ripartì. Il mio assistente per tirarmi su mi disse: “preparati che andiamo a una sfilata”. Lì i fotografi continuavano a urlare: “Carol fai una foto con blablabla ...”, un nome sconosciuto, credevo fosse un attore, e anche dopo la foto insieme continuavo a ignorare chi fosse Ayrton Senna».

Fu un colpo di fulmine?

«Sì. Lui mi invitò la sera stessa a cena, io rifiutai perché avevo già un impegno. Il mio assistente mi ordinò: “Carol sei matta, vai!”».

Cosa aveva di speciale?

«Era semplice, come nessun altro avessi conosciuto prima di allora. Quella sera siamo andati al ristorante e ho toccato le stelle. Non avevo idea di chi fosse, ma la chimica era fuori dal comune».

Vi sareste sposati prima o poi?

«Chi può dirlo, non ne parlavamo, ma era un tipo che faceva sul serio. Una volta mi disse: “Carol dobbiamo sbrigarci perché non abbiamo molto tempo”».

Cosa intendeva?

«Credo che fosse un presentimento, sapeva di fare un mestiere pericoloso. Era un modo per dirmi di stringere i tempi».

Siete stati gli amori delle vostre vite?

«Senza dubbio».

Senna era circondato da donne stupende, era gelosa?

«No, per nulla. Se sto insieme a una persona gli do tutta la mia fiducia. Neppure lui lo era: i brasiliani non sono come gli italiani».

Un ricordo insieme?

«Lui guidava la sua Ferrari in campagna, io accanto ridevo felice. Dopo quella corsa folle ci fermammo per fare benzina a Novara, ma Ayrton non sapeva come fare. Così bussò al finestrino del signore in fila dietro di noi, per farsi aiutare. Quel tipo cominciò a gridare: “Oddio ma tu sei Ayrton Senna!”. E la moglie accanto, gridando più forte: “E lei è Carol Alt!”: fu comico».

Carol Alt a 26 anni con Marina Ripa di Meana: il film «I miei primi 40 anni» era tratto dalla sua biografia (foto Olycom)

Lei era al colmo della sua popolarità, aveva girato «I Miei Primi 40 anni», il film biografia sulla vita di Marina Ripa di Meana.

«In Italia fu un successo incredibile: ma all’inizio Marina non voleva che fossi io la protagonista. Preferiva Rachel Welch, perchè aveva i capelli rossi e le tette grandi».

Come l’avete convinta?

«Mi invitò nel suo atelier e parlammo a lungo. Alla fine disse: “Sei tu quella giusta”. Anche Carlo Vanzina fece di tutto per persuaderla: dopo Via Montenapoleone voleva me a tutti i costi».

Quando vide il film cosa disse?

«Era felice. Il complimento più bello arrivò da suo marito Carlo: “Sei identica a lei, da oggi è come se avessi due mogli”».

Ha mai sognato di sposare un principe come Meghan Markle?

«Mai, amo troppo la mia libertà. Avrei fatto un’ eccezione con Ayrton: se fosse stato un principe gli avrei detto “prenditi la mia vita”».

Come giudica la scelta dei Duchi di Sussex di andarsene?

«Ridicola. Non riesco a immaginare come un reale possa smettere di essere quello che è solo cambiando Paese. Non potrà mai essere Harry il meccanico o Harry lo stilista. Non sarà credibile».

Ha votato Trump?

«Posso solo dire che è la prima volta che sento il futuro negli Stati Uniti incerto. Anche per questo vorrei vivere e lavorare in Italia».

Con chi vorrebbe lavorare?

«Con Christian De Sica e Lino Banfi. Persone che mi hanno sempre messo a mio agio. In Italia non mi è mai accaduto quello che negli Stati Uniti è successo con Weinstein. Tra gli uomini perbene che ho incontrato ci metto anche Dino Risi e Silvio Berlusconi».

Lei è stata mai a una sua cena?

«Sì certo. Berlusconi aveva visto tutti i miei film e invitò il cast di Due Vite Un Destino dove recitavo con Michael Nouri e Philippe Leroy. Ad un certo puntò alzando il calice disse: “Brindo al miglior attore del film: Carol Alt!”. Poi mi regalò una cornucopia in argento».

Oggi ha 59 anni e dice di essere felicemente single.

«Sono stata in coppia dai 13 ai 54 anni. Ora tutti vorrebbero vedermi fidanzata, ma è impossibile: sto troppo bene da sola».

La carriera — Carol Alt è nata il 1o dicembre 1960 nel quartiere Queens di New York. Il debutto nel mondo della moda è nel 1979, a 18 anni, con la cover di Harper’s Bazaar Italia Collection. Nel dicembre dello stesso anno diventa il volto Lancôme più giovane della storia. In Italia raggiunge la vetta della popolarità interpretando i film di Carlo Vanzina Via Montenapoleone e I miei primi 40 anni. Nel 2008 appare sulla copertina di Playboy.

La vita privata — Nel 1983 sposa il giocatore di hockey su ghiaccio Ron Greschner dal quale divorzia del 1996. Nel 1990 inizia una relazione con il campione di F1 Ayrton Senna che proseguirà fino alla morte del pilota avvenuta nel 1994 a Imola. In seguito avrà una storia con l’attore Warren Beatty

·        Caterina Balivo.

La confessione (inaspettata) della Balivo: "Ho litigato con la Santarelli dietro le quinte". Caterina Balivo ha confessato che in passato ha avuto una dura lite con la collega Elena Santarelli: "Alla fine non hanno preso nessuna delle due". Anna Rossi, Giovedì 26/12/2019, su Il Giornale. Sia Caterina Balivo che Elena Santarelli sono due personaggi televisivi molto amati. Entrambe sono madri e donne fortissime. Entrambe amano dirsi le cose in faccia, anche se queste "cose" non sono troppo belle. In questi giorni di festa, dove tutti - in teoria - dovrebbero essere più buoni, la Balivo ha fatto una confessione inaspettata. Al suo pubblico, infatti, ha rivelato di avere avuto una lite con la collega Elena diversi anni fa. La "rissa" sarebbe avvenuta - come dicevamo - diversi anni fa, dietro le quinte di un programma. Il tutto, quindi, sarebbe successo quando le due conduttrici non erano ancora famose, ma solamente due coetanee in cerca di successo. A scatenare la discussione, infatti, è stato proprio il senso di competizione. Ma cosa sarebbe accaduto? Stando a quanto rivelato dalla Balivo durante l'intervista a Ficarra e Picone, al cinema con il film Il primo Natale, il litigio sarebbe scoppiato in maniera del tutto inaspettata. "Una volta ho fatto anch’io un provino per fare la velina - ha confidato la presentatrice napoletana -. Purtroppo non mi hanno preso, ovviamente. Eravamo io ed Elena Santarelli. Mi ricordo anche una cosa strana. Litigai con Elena, davvero. Le dissi: "Tu sei troppo alta! Io non voglio fare il provino con te altrimenti non mi prendono". Alla fine al provino non hanno preso nessuna delle due. Diciamo che l’abbiamo risolta in questo modo". Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Anche perché di lì a poco, il successo avrebbe travolto entrambe. Inutile litigare per un posto, alla fine tutte sia Elena Santarelli che Caterina Balivo hanno trovato la propria strada...

·        Caterina Caselli.

Giulia Cavaliere per corriere.it il 10 aprile 2020. Caterina Caselli, la modenese che divenne il "casco d'oro" e dopo aver conquistato le classifiche conquistò anche il difficile mondo della discografia italiana, oggi compie 74 anni. Non si dice l'età di una signora, si sa, ma Caterina Caselli, negli ultimi anni - non l'ha nascosto - ha lottato contro un tumore difficile, contro qualcosa di feroce e quindi chissà che i numeri che testimoniano la sua bella vittoria non siano solo un grande piacere. Questo nostro, in ogni caso, è un omaggio. Siamo nei primi anni '60 a Modena, Caterina Caselli suona il basso, si esibisce nei dancing emiliani, nonostante la piena esplosione di beat e beatlemania con tutto il nuovo mondo del rock alle porte, ancora non è così usuale vedere una bassista protagonista di qualche complesso musicale, figuriamoci, poi, nella provincia italiana. Qualche tempo dopo Caselli partecipa alla sezione dedicata alle nuove voci al celebre Festival di Castrocare e lì viene notata da Alberto Carisch, viene messa sotto contratto discografico per la sua MRC e incide un primo 45 giri di scarso successo nonostante qualche partecipazione televisiva. L'anno successivo passa alla celebre CGD di Sugar incidendo i suoi primi adattamenti in italiano di pezzi di rilievo americani e inglesi e partecipa a manifestazioni di successo come il Cantagiro. Il successo di Caterina Caselli, il primo di una lunga serie, lo sappiamo, si intitola Nessuno mi può giudicare ed è uno dei protagonisti della sedicesima edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo, anno 1966. Il pezzo era stato messo a punto per Adriano Celentano - pensateci, funziona - che però decide di cantare Il ragazzo della via Gluck. Il pezzo, allora, passa alla voce di Caselli che lo esegue, come da antico regolamento, con Gene Pitney. Ha un taglio di capelli mai visto su quel palco, un caschetto biondo perfetto che porta sul palco un look che di quel palco non è, da quel momento, per l'Italia, diventa "Casco d'oro" e ancora oggi è impossibile parlare di lei senza fare riferimento a quel suo taglio, appositamente creato, in fondo, per restare nella storia. Nessuno mi può giudicare e Il ragazzo della via Gluck, a fine festival, sono i due pezzi di maggior successo di vendita, una doppia vittoria, insomma. Nessuno mi può giudicare rimane al primo posto della classifica per undici settimane di seguito. Tradotto in diverse lingue, Nessuno mi può giudicare è il brano della svolta, il primo di molti pezzi di successo che manderanno Caselli in vetta alle classifiche decretandone il passaggio alla storia della nostra canzone nel decennio della sua svolta effettiva, i 60s. La sua è una formula che mescola la rassicurante presenza dolce di una splendida giovane donna della provincia italiana al massiccio imporsi del sound anglosassone e delle nuove mode pop nel nostro Paese, in buona sostanza è una vincente splendida rappresentazione rincuorante della novità e conquista in questo modo i più giovani - che tramite i suoi adattamenti di brani degli Stones, di Neil Diamond e molti altri va alla conquista del mondo musicale straniero e nuovo pur mantenendosi in realtà entro i confini concessi dal costume sicuro dello spettacolo italiano popolare. A corredo di quanto stava accadendo discograficamente, Caselli diventa anche protagonista della scena cinematografica italiana in ascesa per quanto riguarda il mondo dei musicarelli, tra gli altri sarà in Perdono, film che prende titolo e vicende dal suo grande successo del '66, seguito da classifica di Nessun mi può giudicare, che vince il Festivalbar. Negli anni Settanta l'attività discografica continua ma intanto arrivano anche il matrimonio con Piero Sugar e il figlio Filippo. Prosegue il successo ma nel 75 Caselli decide di ritirarsi dalle scene, continua a incidere qualche brano e intanto si dedica all'attività di talent scout per una discografica. Sebbene si pensi, visto il matrimonio con Sugar, che tutto per lei inizi da lì in realtà Caterina Caselli fonda una sua etichetta, la Ascolto e alla fine del 1982, dopo la chiusura, continua l'attività presso la CGD e solo più avanti entrerà a fare parte del management della Sugar music. Nel 1990 torna a Sanremo con Bisognerebbe non pensare che a te ma nel frattempo il suo ruolo di manager e scopritrice di talenti si fa centrale nella storia della discografia italiana e Caterina Caselli diventa una figura fondamentale nella storia del pop italiano; tra gli altri lancia Giuni Russo, Andrea Bocelli, gli Avion Travel,Elisa, i Negramaro, Malika Ayane, Raphael Gualazzi. Ancora oggi Caselli rappresenta il mondo Sugar music ed è lei il primo volto a cui si pensa non appena si nomina la storica discografica capace di curarsi insieme di fenomeni pop e culturali di rilievo.

·        Caterina Collovati.

Ida Di Grazia per leggo.it il 25 maggio 2020. Giornalista, conduttrice e opinionista tv, Caterina Collovati è la moglie dell’ex calciatore e campione del mondo dei mondiali dell’82 Fulvio Collovati. Fu un colpo di fulmine, lei 16 anni, lui 21, un grande amore da cui sono nate due figlie. La Collovati conduce dal martedì al giovedì la trasmissione Detto da voi su TeleLombardia dalle 8.30 alle 9.30.

Anche la sua trasmissione ha subito uno stop a causa del coronavirus, quando e come siete tornati in onda?

«Dal 4 maggio siamo rientrati più carichi che mai, soprattutto perché noi rispondiamo ad un pubblico lombardo. La nostra trasmissione dà un grandissimo spazio alle telefonate dei telespettatori, a maggior ragione in questa fase così complicata».

Come ha vissuto questo periodo di chiusura?

«Sembra retorico ma io mi sento diversa. È come se di colpo avessimo assunto una maturità in più, come se ci fossimo scrollati di dosso il superfluo».

Lei sta con suo marito da quasi 40 anni, come avete retto alla convivenza forzata?

«Posso dire che siamo una coppia a prova di lockdown. Ma da sempre condividiamo le stesse passioni, poi magari ci hanno salvato anche i cani, perché ne abbiamo due».

Lei è tra coloro che ha difeso Silvia Romano dagli attacchi social.

«Ho trovato tutto molto triste e vergognoso, ho una figlia della stessa età, l’idea che l’avessero trovata viva per me è stata pura gioia. Se anche avesse scelto di diventare musulmana non mi riguarda, con che diritto uno si permette di giudicare? Ma d’altronde questo è un paese in cui se una donna subisce una violenza la prima cosa che ti dicono è che te la sei cercata».

Spesso l’hanno definita integralista per le sue opinioni, come risponde?

«Se si intende una persona che ha principi sani, valori e una certa educazione allora sì. Ma non offendo mai».

Com’è andata a finire invece la polemica tra lei e Alba Parietti, hanno detto che voleva fare la caccia all’untore?

«Ecco questo è proprio l’esempio a cui mi riferivo, io non ho mai detto che Alba è un’untrice, perché non uso termini offensivi. Ho fatto solo una riflessione. Guardavo la trasmissione Carta bianca, quando ha raccontato di aver accusato i sintomi del Covid il 9 marzo e ha deciso di chiudersi in casa, mi sono ricordata che noi l’8 marzo stavamo insieme dalla D’Urso, e non solo non ha detto niente a nessuno in più l’ho vista andare anche dopo in trasmissione. Quindi ho detto ma che cosa sta raccontando e l’ho scritto su Instagram. E lei ha iniziato ad attaccarmi in maniera pesante anche in privato. Tutto qui».

Lei di cognome fa Cimmino, perché ha scelto di prendere quello di suo marito?

«Ho iniziato dopo il mondiale dell’82 con il giornalismo sportivo e uno dei produttori all’epoca mi disse che nonostante la giovane età, ero brava e di provare a proseguire su questa strada, tanto il cognome già ce l’avevo e ho detto di sì. È stato come avere un nome d’arte».

·        Caterina Guzzanti.

Dagospia il 20 maggio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2.  Caterina Guzzanti è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

L'attrice romana ha raccontato: "I primi giorni di fase 2? Per me non è cambiato granché. Nel mio condominio abbiamo iniziato a ripulire il cancelletto, il portone, il numero del civico, abbiamo iniziato a fare questi lavori, qui per fortuna con i condomini andiamo d'amore e d'accordo. Sono felice, mi dà tanta soddisfazione e felicità fare delle cose concrete visto che faccio un mestiere che è fatto di fuffa, per dire. Quando vedi una parete pittata ho una bella soddisfazione. Bisognerebbe fare tutti un po' di attività manuale. Però almeno in questi mesi ho evitato di mettermi ai fornelli a fare il pane, purtroppo la cucina non è la mia passione, non è il mio forte".

Sui problemi del mondo dello spettacolo: "Non ho seguito benissimo, la data del 15 giugno mi pare uscita un po' all'improvviso. Tutti ci siamo fatti sentire a modo nostro, con più o meno garbo, probabilmente le nostre richieste sono state accolte, se non ci avessero fatto aprire per tutto il 2020 sarebbe stato veramente un problema. Mi auguro che la data del 15 giugno si riferisca alle arene e agli spazi all'aperto, al cinema a giugno già non ci va nessuno, figuriamoci adesso. Credo che sui film in uscita ci sia una lista d'attesa lunghissima e non so quanto il pubblico sarà felice di chiudersi dentro a una sala, nonostante le distanze. Sui teatri per esempio è assurdo che si dica che si riapre il 15 giugno, non c'è ancora un protocollo di sicurezza per i lavori sul palcoscenico. Non credo che qualcuno andrà a vedere attori che si girano attorno con una mascherina".

Sulla quarantena: "Mi ha lasciato un certo equilibrio interiore, anche se ho alternato ondate di depressione ed euforia, come se avessi una sindrome bipolare. Vorrei laurearmi in ingegneria genetica, ho dato un'occhiata, alcune cose me le ricordo, però non riesco a studiare da sola, non sono abbastanza disciplinata, se non c'è una condivisione della conoscenza non riesco ad organizzarmi. Ho iniziato a studiare lo spagnolo, ho fatto due lezioni e poi ho lasciato stare. Poi mi sono abbastanza rasserenata, mi fa impressione parlarne al passato, ma effettivamente oggi ho fatto un giro e tutti i negozi erano aperti. In questa quarantena la gente si è rivista qualsiasi cosa, ogni tanto mi fermano e mi dicono che mi hanno rivisto ieri sera, ma non sanno in cosa. Se tutti quelli che mi chiedono e mi hanno chiesto in questi anni quando esce la quarta stagione di Boris si iniziassero a vedere Liberi Tutti su Raiplay secondo me sarebbero molto soddisfatti. Boris? Il fatto che sia ancora tra le serie più viste in Italia dimostra che è un cult. Non invecchia".

Sulla Caterina Guzzanti bambina: "Non ho sempre voluto fare l'attrice. Volevo fare la veterinaria, poi mi sono presa tutta una serie di funghi dai gattini che raccoglievo per strada. Molti ne portavo a casa di nascosto. Mi impuntavo parecchio, per fortuna avevamo il giardino. Alla fine, chiedendolo ogni giorno, sono riuscita a farmi regalare il cane. Chiedendolo tutti i giorni. Corrado e Sabina erano complici, poi ho iniziato a fare questo lavoro, mi è piaciuto, mi è sembrato veramente un bel vivere. All'inizio non mi rendevo conto, se non è un hobby ci vuole grandissimo impegno. In questo momento stiamo soffrendo, è un bel casino, manca un protocollo condiviso, dovevo iniziare delle cose a maggio che per ora sono state rimandate a settembre, poi boh. L'idea di fatturare zero un po' fa... ". 

Sui natali in casa Guzzanti: "Siamo una famiglia normalissima, non ci mettiamo a fare i giullari, ma neanche nella vita in generale, lo facciamo per lavoro. Molte persone che fanno questo lavoro in realtà sono molto riservate, ci sono tanti esibizionisti ma anche persone molto timide".

Sul lavoro che c'è dietro ai suoi personaggi: "Biondic? Era nata da Corrado Guzzanti e Serena Dandini. Erano gli anni della Moric, di Megan Gale, ogni tanto veniva fuori una bona che faceva la pubblicità a una marca di telefonia che durava due o tre anni, arrivava a fare un film e poi finiva nel dimenticatoio. Veniva invitata spesso dappertutto ma non si capiva a fare cosa. L'idea era prendere in giro quel mondo lì, il mondo degli stacchetti. Susanna la ragazza di Facebook? E' una signora che ho incontrato a Viale Somalia, una persona molto simpatica, con grande voglia di chiacchierare, che mi ha  attaccato un gran bottone su sua figlia a Bracciano. Molti personaggi nascono anche da un incontro, tu rubi un po' il modo di parlare o di muoversi". 

·        Caterina Piretti: Katiuscia.

Katiuscia, l'icona degli anni Settanta: "Ho bruciato tutto in droga. Quel giorno in cui Montezemolo...". Tutta la verità, intervista-shock. Alessandra Menzani su Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Negli anni Settanta era la ragazzina dei fotoromanzi, un genere tutto italiano che è tornato in auge e in edicola con Sogno di Sprea Editore. Katiuscia era il suo nome d'arte: Caterina Piretti, oggi 63 anni, padre bolognese e madre albanese, ha conosciuto a 15 anni la fama, i soldi, ma anche le droghe pesanti. Nella sua autobiografia racconta la vita spericolata, quella volta che percorse la Via Del Mare contromano strafatta, quando il suo appartamento andò in fiamme a causa di una sigaretta spenta male, ma anche l'amore del figlio che l'ha salvata, la comunità di recupero, la vita normale e la serenità ritrovata. Con Libero l'ex fotomodella parla senza filtri.

Cosa ricorda degli anni dei fotoromanzi che l'hanno lanciata?

«Un periodo intenso, bellissimo. Eravamo una bella squadra, sempre le stesse persone, una famiglia. È stato un grandissimo successo inaspettato».

Nella sua biografia parlava di guadagni pazzeschi: 250milioni di vecchie lire all'anno, 20 milioni che spendeva ogni mese. Conferma?

«Guadagnavo veramente un sacco di soldi. Eravamo, in fin dei conti, i personaggi famosi pop. Prendevamo tanto e facevamo guadagnare tanto».

Era un po' la Chiara Ferragni dell'epoca?

«In effetti... C'ero solo io famosa, avevo 15 anni. Le ragazzine si rifacevano al mio modo di essere. Non ero la più bella, ero trasgressiva ma non ero bambocciona».

La trasgressione è andata oltre: è stata drogata ed eroinomane parecchi anni.

«Ne ho parlato nel libro che ho scritto per i giovani e per i genitori. Si finisce all'inferno ma da tutto si può uscire. Il successo è una doppia arma, non si deve rincorrere per forza».

Ma lei perché si drogava?

«Sono stata sempre molto curiosa e spregiudicata. Le due cose insieme sono una bomba a mano. Ho sperimentato tanto. Poi sono arrivata a un bivio: o andavo in India a finire la mia vita drogandomi o smettevo completamente. Ho scelto la seconda, anche perché avevo una motivazione fortissima: mio figlio, che all'epoca aveva sei anni. Non era scontato. Forse bisogna sempre toccare il fondo per risalire. Ah, poi c'è il buddismo, che mi dà un forte equilibrio».

Quanto tempo è stata in comunità?

«Sono andata in Sicilia nella struttura messa su da Mauro Rostagno. Ci sono stata tre anni e mezzo come malata, poi ho deciso di rimanere. Mi hanno affidato la comunità, ho fatto un percorso di due anni come responsabile e il cerchio si è chiuso. Era il 1989».

Ci racconta l'episodio di Luca Cordero di Montezemolo che le prestò cento dollari per sopravvivere?

«Eravamo in vacanza alle Maldive, ci siamo incontrati per caso. Lui era con la moglie e io con mio marito. Eravamo in un'isola sperduta e poi ci siamo ritrovati nell'aeroporto di Malè tutti quanti perché stavamo scappando: le Maldive erano una noia pazzesca. A Ceylon (Sri Lanka) ci siamo ammazzati dal divertimento e io e mio marito ci siamo trovati senza soldi. Lui voleva viaggiare da fricchettone, zero carta di credito, non sapevamo a gestire i soldi. Per fortuna Montezemolo ci ha prestato qualche dollaro».

Oggi lei come si guadagna da vivere?

«La mia vita pre-Covid, che spero ritorni presto, consiste nel fare fiere del fumetto, dove vendo quadri e stampe. Giro tutta l'Italia. E poi ho un negozio a Lucca in cui vendo bicchieri».

Nel nuovo Sogno, in edicola dal 24 luglio con le storie d'amore che avevano incantato gli italiani e lanciato volti come Ornella Muti, Sophia Loren e Franco Gasparri, che ruolo avrà?

«Il progetto mi è piaciuto da subito. Mario Sprea era lo sceneggiatore ed editore dei fotoromanzi all'epoca. Avrò una mia rubrica in cui posso scrivere di tutto, liberamente: ho carta bianca».

La televisione le interessa? «Nemmeno un po'. Né all'epoca né oggi. Sono stata in qualche programma solo per sponsorizzare il mio libro». Ha qualche rimpianto? «Né rimpianti né rimorsi. Anche le cose sbagliatissime che ho fatto fanno parte di un percorso. Sono quella che sono grazie a tutti gli errori che ho fatto».

·        Catherine Spaak.

Dagospia il 12 gennaio 2020. Da Le Lunatiche. Catherine Spaak è intervenuta nel corso della nuova trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti.

Sulla notte: La notte passo molte ore a leggere, poi mi accorgo che sono le 2 di notte e mi impongo di andare a dormire.

Sulla sua carriera: Il mestiere di chi fa spettacolo è cambiato tantissimo, non mi va di criticare o giudicare. Allora già il mio modo di fare veniva scambiato per freddezza, distacco e addirittura snobismo, non era vero e non lo è, è soltanto il mio modo di fare. Adesso sicuramente il mio modo di fare è fuori moda ma questo è il mio carattere, il mio carattere è riservatezza, pacatezza e quindi non è una cosa costruita ma che mi appartiene molto. Oggigiorno forse le presentatrici, le attrici sono molto più disinvolte, sono diverse ed è giusto perché cambiano i tempi. Sin dagli anni ’60 avevo dentro di me la convinzione, che poi si è anche rivelata giusta, che una donna deve essere indipendente ma non solo nella mente o nel cuore ma proprio dal punto di vista economico. Per me il lavoro e l’indipendenza economica sono stati i punti fermi della mia vita e della mia dignità, perché essere donna non era facile in quegli anni così come non lo è nemmeno oggi, però più che mai nell’arco di questi 50 anni l’indipendenza economica per una donna ha significato indipendenza, libertà, autonomia che consentiva e che consente alla donna di fare le sue scelte e di non avere bisogno di un uomo.

Su Harem: Sono stata molto attratta e incuriosita da Kuki Gallmann. Quando ogni tanto facevamo gli special di Harem, io sono andata in Africa a filmare il luogo in cui vive, dove sono sepolti suo marito e i suoi figli, il suo nido che è su un albero. Kuki è una scrittrice, una donna che ha avuto una vita molto tormentata, sia sentimentale che anche per decisioni molto importanti. Ha scritto “Sognavo l’Africa”, non tutti la conoscono ma per me è stata un’avventura meravigliosa incontrarla, vederla in Africa, nella sua riserva, nel suo mondo, e mi ha lasciato un ricordo di grande forza fisica, psicologica. Non parlava solo dell’ambiente ma anche della crescita spirituale, della consapevolezza, dell’evoluzione psicologica della donna, quindi corrispondeva perfettamente a molti punti di vista miei. Ho passato quella settimana con lei andando a visitare tutti i luoghi dove ha vissuto con il marito, che poi è morto. È sicuramente la donna che in 15 anni di Harem mi ha lasciato il segno più importante. Mi manca la pace nel mondo per tutti noi. Bisogna che gli uomini imparino, che cambino per vivere meglio senza guerre.

Sulla solitudine: La cosa più importante che ho imparato e che credo sia importante per tutte le donne e anche gli uomini, è sapere vivere da soli, non aver paura della solitudine e dei nostri lati oscuri, perché in fondo tutti noi abbiamo paura di qualcosa. Quindi resistere all’idea delle paure che abbiamo e che non sono reali, bisogna imparare a stare tranquilli da soli in un mondo che è sempre più caotico e rumoroso, quindi riservarci il più possibile quando lo possiamo fare. Quindi lo dobbiamo trovare questo tempo per passare da sole qualche ora al giorno o anche meno, però per avere quella solitudine senza rumore, musica, suoni, telefoni, per imparare a respirare e avere un contatto con il nostro Io più profondo. Credo sia questa la cosa più importante che ho raccontato nella mia vita.

Sul film Febbre da cavallo: Non sono una giocatrice, un giorno mentre giravo un film a Montecarlo mi hanno invitata a giocare al casinò ma ho rifiutato però ho chiesto di giocare il 90, allora si sono messi a ridere perché nella roulette il 90 non esiste. Non sapevamo che stavamo girando un film che sarebbe rimasto impresso a così tante persone, ancora quando prendo un taxi mi dicono “Allora, come va Gabriella? Come vanno i cavalli?” e si ricordano anche le battute. Ci siamo molto divertiti, il merito è tutto del regista e poi noi attori ci siamo divertiti e siamo grati al successo del film e al segno che ha lasciato. Con Gigi abbiamo sfondato il soffitto dell’appartamento in cui giravamo la  scena dove io mi arrabbio e gli tiro i piatti.

·        Cécile de France.

Gloria Satta per il Messaggero il 26 gennaio 2020. Nella serie The New Pope, diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino e attualmente in onda su Sky, Cécile de France interpreta Sofia, la raffinata capo-marketing del Vaticano e appare in un' insolita versione sexy, spesso nuda o perfino impegnata in attività erotiche. Cambio di scena: nel film Rebelles di Allan Muduit, una commedia nera che esprime in pieno il nuovo Girl Power cinematografico, (successo da un milione di spettatori in Francia, esce da noi il 6 febbraio), l' attrice è Sandra, unghie esagerate e look leopardato. In passato è stata una reginetta di bellezza ma ora, torva e arrabbiata, fa l' operaia in un conservificio. E taglia il pene al capo che aveva cercato di violentarla. L' INNO Con l' aiuto di due colleghe, inscatola poi i resti dell' uomo e si dà alla fuga tra sparatorie e colpi di scena che fanno pensare al cult Thelma e Louise. «Il nostro film, definito un mix tra Ken Loach e Tarantino, è un inno al riscatto femminile e, malgrado la chiave grottesca, abbiamo evitato ogni caricatura», spiega Cécile al Rendez-vous Unifrance. Ha 44 anni, origini belghe, occhioni azzurri e una carriera benedetta da maestri come Dardenne, Rochant, Eastwood. Ma non se la tira per niente, anzi risulta simpatica e diretta.

Cosa l' ha spinta a girare Rebelles?

«Dopo aver interpretato tanti personaggi solari, positivi e accattivanti, mi divertiva l' idea di cambiare registro: la mia Sandra è antipatica, odia la madre e le proprie radici proletarie. Sono ancora la ragazzina che amava travestirsi».

Sta cambiando anche il cinema, sempre più orientato a puntare sulle protagoniste femminili?

«Senza dubbio. I registi si sono accorti che le donne fanno incassare e io, per fortuna, ho l' età giusta per cavalcare questa rivoluzione. Ma non mi passa per l' anticamera del cervello l' idea di portare sullo schermo dei proclami femministi: voglio raccontare delle storie interessanti e capaci di dare emozioni al pubblico».

Avverte anche nella società una virata femminista?

«Sì, c' è nell' aria un risveglio che produce una certa ebollizione. Mi fa pensare al secolo dei Lumi...La coscienza collettiva ha cominciato a riflettere sul ruolo della donna e il cinema ha il potere di influenzare la mentalità della gente, combattendo disparità e pregiudizi. A condizione di non essere mai noioso».

Rebelles è nato sulla scia del movimento #MeToo?

«No, il regista l' ha scritto prima della mobilitazione contro le molestie, quindi è un precursore. Le protagoniste del film non giocano a fare i maschi: sono all' avanguardia perché prendono in mano il proprio destino. E dimostrano che, quando una donna si emancipa, tutto è possibile».

Ammetterà che la scena della castrazione è un po' forte...

«Rappresentava un' autentica scommessa. Abbiamo puntato sulla chiave tragicomica per rendere la situazione credibile e, al tempo stesso, disinnescarla. Ci siamo riusciti, credo».

Che effetto le ha fatto, dopo The Young Pope, tornare sul set di Sorrentino e dare una svolta al suo personaggio?

«È stato appassionante. Paolo mi ha spiegato che, attraverso il mio ruolo, intendeva rendere omaggio alla forza delle donne. È per questo che, nell' universo tutto maschile, misterioso e oscuro del Vaticano, Sofia è l' unica persona che indossi abiti chiari».

E il pubblico scopre la sua sensualità.

«Equivale alla luce e rende in pieno il carattere positivo del mio personaggio che fa molto bene a Papa Brannox-John Malkovich. Sul set ci siamo divertiti, Sorrentino sceglie soltanto attori simpatici e intelligenti. Se si farà la terza stagione della serie, sono pronta».

Intanto che progetti ha?

«Ho girato La comédie humaine, un film di Xavier Giannoli ispirato a Balzac, nel ruolo di una baronessa amante di Xavier Dolan. E The French Dispacht di Wes Anderson, un western. In De son vivant sarò invece un medico, diretta da Emmanuelle Bercot. È bello lavorare con le donne».

Arianna Finos per la Repubblica il 3 febbraio 2020. Cécile De France è uscita dai salotti borghesi del cinema francese per entrare nella commedia proletaria di Alain Auduit, Ribelli, un milione di spettatori Oltralpe. L' attrice belga - che in queste settimane vediamo su Sky nelle mise eleganti di Sophia in The New Pope di Paolo Sorrentino - ha fatto un' immersione nel trash per incarnare un' ex reginetta di bellezza: pelliccia di leopardo sintetica, trucco pesante e unghia finte - costretta a tornare nella città natale, Boulogne- sur-Mer e lavorare come operaia in una fabbrica di pesce in scatola. Aggredita dal capo, reagisce e ne causa la morte, fuggendo poi con due colleghe e una borsa piena di soldi. All' Hotel Du Collectionneur, sede dei Rendez-Vous, gli appuntamenti del cinema francese che vedremo in Italia, l' attrice belga si presenta con i capelli scarmigliati e un largo maglione infeltrito. «Faccio due film l' anno, per il resto trascorro il tempo con la famiglia, nella natura», spiega. Ce l' ha messa tutta per farsi sgradevole e trash in questo film. «Ci riesco, no? La volevamo così, detestabile, sprezzante. Non ha saputo tirar fuori niente dal titolo di Miss Nord-Pas-de-Calais, è vissuta in Costa Azzurra, uomini sempre sbagliati. Si vergogna delle sue origini proletarie. È una donna superficiale in un momento della vita in cui la vernice sta iniziando a sgretolarsi e gli artifici di bellezza sfioriscono. Vorrebbe, tornata a casa, guadagnare il minimo per potersene andare di nuovo. Ma piano piano cambia, scopre cose che non sa del suo passato, ritrova una parte mancante di sé che l' aiuta a ricongiungersi con la famiglia e le sue origini». Intanto con le sue colleghe ne combina di tutti i colori. «Quando mai capita di sparare, fuggire, colpire un uomo che cerca di violentarti staccandogli un pezzo di pene in un film burlesco, tragicomico, western, rock? È stato come trasformarsi in un' eroina tarantiniana alla Kill Bill, vivere la fuga di Thelma e Louise. Abbracciare i toni di certe commedie sociali di Ken Loach, o film come Full Monty. Cose che non si vedono nel cinema francese». Un film non femminista, ci tiene a dire, «un film femminile. Non contro gli uomini. Non diamo la colpa a nessuno, non c' è nessun discorso morale. Di certo il messaggio non è che bisogna staccare il pene ai violentatori. Semmai è un film in cui le donne non hanno bisogno di uomini per aver successo o sbagliare. Il film è stato una boccata d' aria fresca per il pubblico, che lo ha amato, così diverso dai drammi borghesi che siamo abituati a vedere. E alcune donne si sono ritrovate a vivere un' avventura per procura, attraverso le nostre tre antieroine». Quest' anno ai Rendez-Vous ci sono molte più registe del passato. «Le cose stanno cambiando, anche se c' è molto da fare. Dopo trenta film e ventisette anni di carriera per la prima volta in Mademoiselle De Joncquiéres sono stata pagata quanto il mio co-protagonista, Édouard Baer». Parla volentieri della sua Sophie, che in The New Pope mostra un lato oscuro e ambiguo. «Ha ragione, il personaggio si è sviluppato in modo incredibile. Nella prima serie ne abbiamo conosciuto la superfice, ora stiamo scoprendo la sua intimità, il marito, la vita amorosa. Paolo ha dato a me e Ludivine Seigner una grande occasione. Tutti i personaggi dell' universo di Sorrentino sono ambigui, ambivalenti, pieni di ombre. A partire dal papa Jude Law e dal nuovo pontefice John Malkovich». Cos' ha imparato in questo lungo viaggio con Sorrentino? «Tante cose. Ho studiato il suo sguardo, adoro il modo in cui sa mettere in scena gli attori, come una coreografia, una pittura, uno spettacolo teatrale. In Francia non c' è una costruzione, come fa lui, che utilizza musica, il coro, la composizione geometria dell' immagine. La sua è una ricerca estetica unica e fortissima, sorrentiniana direi. Io vengo dal teatro è questo modo di lavorare per me è perfetto. Essere diretta da lui mi fa sentire come una musa, la modella di un pittore: è come essere in un atelier di scultura e tu sei nuda - perché un artista usa l' immagine del tuo corpo - ma sai che questo artista sta creando qualcosa di unico e perciò sei felice di fargli da modella».

·        Charlie Sheen.

Charlie Sheen, tutti i suoi guai: dai problemi con alcol e droga alle accuse di stupro. Arianna Ascione il 4 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. La tormentata vita personale dell’attore di «Platoon» e «Hot Shots!», tra scandali, dipendenze e arresti.

Il licenziamento da «Due uomini e mezzo». Problemi sul set, arresti, divorzi burrascosi, l’annuncio della sieropositività: spesso più che dei film interpretati da Charlie Sheen (come «Hot Shots!», in onda martedì 4 agosto alle 21.00 su Comedy Central, «Platoon» e «Wall Street») si è parlato degli scandali che l’hanno visto protagonista. Il nome del bad boy di Hollywood, componente di una illustre dinastia di attori (fanno questo mestiere suo padre Martin e i suoi fratelli Emilio, Ramon e Renée Estevez), è finito più di una volta sui giornali per i suoi eccessi, tra difficoltà di gestione della rabbia e soprattutto dipendenze assortite che per anni hanno alimentato il suo comportamento autodistruttivo. Lo stesso che ha provocato il suo licenziamento da «Due uomini e mezzo», la popolarissima serie tv in cui ha recitato dal 2003 al 2011. Sheen è arrivato a guadagnare 1,25 milioni di dollari a episodio, ma è stato buttato fuori dalla produzione per aver rivolto a produttori e sceneggiatori della serie - in particolare al producer Chuck Lorre e al manager Mark Burg - pesanti insulti antisemiti.

Problemi con alcol e droghe. Risale al 1998 il suo ricovero in ospedale per un’overdose di cocaina che poteva essergli fatale. Sheen fu costretto a seguire una cura disintossicante, ma abbandonò la clinica dopo poche ore. Ha combattuto contro le sue dipendenze a più riprese fino al 2018, quando si è finalmente ripulito (ha detto di averlo fatto per i suoi figli). Ed è riuscito ad abbandonare anche un altro vizio: le sigarette. «Se potessi tornare indietro nel tempo e non iniziare lo farei assolutamente» ha confessato su Twitter lo scorso 4 luglio.

L’arresto per violenza domestica. Il giorno di Natale nel 2009 l’attore lo ha trascorso in una cella del Colorado: era stato arrestato qualche ora prima ad Aspen, nota località sciistica americana, accusato di violenza domestica nei confronti della terza moglie Brooke Mueller (le ha puntato un coltello alla gola). La coppia ha divorziato nel 2010 e Mueller ha richiesto - e ottenuto - l’emissione di un’ordinanza restrittiva.

La revisione degli assegni di divorzio. Il fu attore più pagato di Hollywood nel 2018 si è visto costretto a chiedere una revisione degli assegni di divorzio versati alle due ex mogli (Brooke Mueller e la seconda consorte, Denise Richards) per il mantenimento dei quattro figli. Per colpa dei suoi problemi infatti, ha rivelato, non è più riuscito «a trovare un lavoro stabile»: «Sono finito nella lista nera di Hollywood. Tutto ciò ha comportato una significativa riduzione dei miei guadagni».

L’intercettazione shock. La relazione con Scottine Ross, ex pornostar conosciuta con il nome d’arte Brett Rossi, è terminata in modo burrascoso nel 2014: lei lo ha denunciato per violenze, per averle inflitto stress emotivo, ma anche per averle nascosto di essere sieropositivo (l’attore ha in seguito smentito questa circostanza). Due anni dopo è stato accusato di aver cercato di assoldare qualcuno per eliminare l’ex fidanzata. Queste le parole di Sheen in un’intercettazione telefonica tra lui e il presunto sicario: «Deve essere sepolta. Sono disposto a spendere 20 mila dollari per ucciderla».

Le accuse di Corey Feldman. Nel documentario «(My) Truth: The Rape of Two Coreys» (2018) Corey Feldman ha accusato Charlie Sheen di aver stuprato nel 1986 Corey Haim, morto nel 2010 a soli 38 anni (accuse già apparse nel 2017 sul National Enquire). I due quell’anno recitavano in «Lucas» di David Seltzer: Sheen aveva 19 anni, mentre Haim ne aveva soltanto 14. «Queste accuse malate, contorte e bizzarre non si sono mai verificate» ha replicato Sheen, che ha invitato a «considerare la fonte e leggere cosa ha da dire Judy Haim» (ovvero la madre dell’attore che nel 2017 aveva già smentito la versione di Feldman).

·        Checco Zalone.

Giorgio Carbone per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. Che figura. Perdere il primato della classifica degli incassi dopo tre settimane di dominio può non essere un disonore. Ma perderlo contro due scalzacani di youtuber e perderlo sonoramente, facendo nel weekend la metà degli introiti degli scalzacane, eh sì, è roba d' andarsi quasi a nascondere. È successo. Nell' ultimo fine settimana. La macchina possente di Tolo Tolo di Checco Zalone s' è quasi stoppata, superata di molte lunghezze (in cifre, 5 milioni 438 contro 2.164.000) da Me contro Te, la vendetta del singor S del duo siciliano Luì e Sofì (all' anagrafe Luigi Calagna e Sofia Scalia). Chi sono costoro? Per i comuni spettatori cinematografici, ricordiamo che sono due studenti (lui oggi ventisettenne, lei ventiduenne) che sei anni fa ebbero l' idea vincente di un programmino su Youtube imperniato almeno all' inizio sulle gare di coppia (donde, Me contro Te). Zitti zitti, in sei anni si sono fatti uno show con miliardi di collegamenti (per la maggior parte dovuti a un pubblico in età prescolare). Un pubblico che s' è rivelato presente in dosi massicce quando i due hanno fatto il grande balzo del cinema. Come? Con una favoletta dove i magnifici due sono alle prese col solito mattocchio, il signor S. del titolo. Un balzo riuscito benissimo. Almeno nell' ultimo weekend (dove Zalone è stato sotterrato). Ma mettiamo che il ribaltone sia stata solo una combinazione, che tra qualche giorno (Me contro Te avrà esaurito i pochi giorni di programmazione previsti). Mettiamo che Tolo Tolo riprenda la testa. Intanto però in casa Zalone qualcuno comunque ha forse ragione di preoccuparsi. Perchè beccarle dagli youtuber potrebbe essere un incidente di percorso, come una Juventus che busca in casa dalla Spal, ma se intanto controlli il botteghino e scopri che dopo venti giorni gli introiti sono inferiori al previsto, allora sì che c' è qualche spazio per grigi pensieri. Bene. Constatazione del ventesimo giorno. Tolo Tolo sta facendo meno di Quo Vado (penultima zalonata) e di Sole a catinelle (terzultima). Intendiamoci. Tolo può recuperare. Essendo diventato per antonomasia «il film che tutti debbono vedere» è possibile che usufruisca di una cospicua coda di pubblico da qui a febbraio. Mettiamo però che abbia sparato tutte le principali cartucce. E allora vuol dire che l' indice di gradimento non è stato quello auspicato. Sul comico barese s' è abbattuto forse il castigamatti di sempre, il passaparola, un giudice infallibile dal parere non opinabile come può essere quello di un critico o di un press agent. Ora il passaparola di Tolo Tolo non si può definire entusiasta. Tanta gente è andata a vederlo ma qualche giorno, dopo al caffè o in ufficio, non ha rovesciato quel grande amore per il film («Sì è carino, però...», «Sì, lui fa sempre ridere però...», «Sì, c' è una scena che fa sbellicare, però...»). A furia di «Sì, però» Tolo Tolo sta facendo un' evidente fatica a rimontare quei venti milioni che lo separano dal boom di Quo vado. Cosa ha giocato contro lo Zalone numero cinque? Il tema dell' emigrazione, che infilato nel suo fulminante promo è stato uno splendido trampolino pubblicitario, ma diluito in un film di cento minuti ha inchiodato il film su parecchie sacche di noia (si sbadiglia, oh se si sbadiglia). Noia perché è spesso evidente che il Checco non sa che pesci pigliare, che il tema è troppo pesante e ingrato per le sue fragili spalle (di regista, se non di entertainer). E il dubbio forse magari comincia a divorarlo. Che potrà fare nel suo numero sei?

Me Contro Te, chi sono Luì e Sofì: la coppia nata su YouTube che ha battuto Checco Zalone al cinema. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Michela Rovelli. Non hanno neanche trent’anni e da un piccolo paese della Sicilia nel giro di cinque anni hanno conquistato milioni di bambini di tutta Italia. I loro nomi d’arte sono “Sofì” e “Luì”. Insieme formano il duo Me Contro Te che su YouTube vanta 4,6 milioni di iscritti, su Instagram 1,5 milioni e su TikTok 1,6 milioni. Non solo Youtuber, ma vera e propria meteora social, dunque, e non solo. Perché come capita sempre più spesso, le due star dai media nuovi e virtuali hanno tentato la conquista dei media più tradizionali. Con successo. Il più recente al cinema, dove il loro primo film, Me contro te il film - La vendetta del signor S, in un solo weekend ha incassato oltre 5 milioni di euro, riuscendo a battere l’ultima produzione di Checco Zalone, Tolo Tolo, incrollabile successo fermo in prima posizione al botteghino per venti giorni di fila.I loro nomi di battesimo sono Sofia Scalia e Luigi Calagna. Si conoscono (e fidanzano) nel 2013. Un anno dopo - il 4 ottobre 2014 - il loro primo video su YouTube, che oggi conta 3,6 milioni di visualizzazioni ma allora era stato creato quasi come un gioco. Sfondo lilla, i due ragazzi (giovanissimi) in primo piano a sfidarsi in una “Maze Runner Challenge”. Ognuno deve riuscire ad uscire da un labirinto disegnato su un iPad dall’altro. In mezzo, battute, scherzi e dolci prese in giro dei due fidanzati sempre affiatati. Senza trucco, senza microfoni, senza nessun effetto scenico ma soprattutto senza parolacce né allusioni. Il linguaggio dei Me Contro Te sin da subito è pulito, semplice, pensato per i bambini. E proprio i bambini - o il Team Trote, come loro chiamano i propri follower - sono i destinatari privilegiati di questo canale. E i genitori apprezzano. A metà tra fratelli maggiori e compagni di gioco, i due ragazzi siciliani si sono ritrovati a intrattenere milioni dei loro figli attraverso smartphone e tablet. Facendoli divertire senza mai esagerare. Una sorta di Albero Azzurro versione 2.0. Un successo, per grandi e piccoli, tanto da vincere nel 2018 il premio Moige, assegnato alla Camera dei Deputati dal Movimento Italiano Genitori ai programmi più adatti alle famiglie. Il canale Me Contro Te, si dice, «risulta particolarmente educativo e la visione dei loro filmati è consigliabile a un pubblico di bambini perché stimola la fantasia».Nei loro video si lanciano le cosiddette Challenge, sfide virali molto in voga tra gli YouTuber (e tra chi li segue), parlano della loro vita di tutti i giorni - in compagnia dei loro due chihuahua Kira e Ray - e giocano con lo slime, la gelatina gommosa e multicolor da produrre direttamente a casa che è diventata quasi una moda sui banchi di scuola dei più piccoli. Oltretutto, cantano. Nel 2016 i Me Contro Te aprono il loro secondo canale su YouTube (Me Contro Te Music, 1,2 milioni di iscritti) dove si danno alla musica. E infatti è cantato proprio da loro “Insieme”, il brano finale del film che sta scalando le classifiche. Nel 2018 infine, un terzo canale, Me Contro Te Extra (539mila iscritti), la cui descrizione è: «Tutto ciò che non vedete nei nostri daily vlog». Qui i due ragazzi mostrano il backstage della loro vita virtuale, con tanto di interviste e servizi televisivi che li riguardano.L’impero dei Me Contro Te non ha però confini molto più estesi, che oltre a YouTube coprono anche i principali social seguiti dai ragazzi più giovani - Instagram e TikTok - e che si è ampliato fino a coinvolgere televisione, editoria e ecommerce. Luì e Sofì nel 2016 partecipano alla seconda edizione del programma Sky SocialFace insieme alle più grandi star di YouTube, dai Mates a Favij. E nel 2017 vengono scelti da Disney Channel per la produzione LikeMe. Grandi successi anche in libreria. I loro libri, editi Mondadori Electa, fanno registrare vendite da capogiro. Il primo, Divertiti con Luì e Sofì - Il fantalibro dei Me Contro Te, risale al 2018. Seguito poi nel 2019 da Entra nel mondo di Luì e Sofì e infine Le fantafiabe di Luì e Sofì. La coppia non si è risparmiata nemmeno nel merchandising, con magliette, felpe, spille, teli mare e persino un album di figurine. Infine il cinema, con la commedia diretta da Gianluca Leuzzi che ha fatto prendere d’assalto le sale. Da un esercito di bambini.

Perché andare a vedere Tolo Tolo, il nuovo film di Checco Zalone. Lisa Pendezza il 27/12/2019 su Notizie.it. Se è vero che “bene o male purché se ne parli”, allora Checco Zalone ha fatto centro. Il suo nuovo film, Tolo Tolo, ha fatto discutere ben prima del suo arrivo nelle sale. Un po’ perché è di un volto noto come Luca Medici che stiamo parlando, un po’ perché difficilmente ci si può aspettare qualcosa di diverso quando si sceglie come trailer un videoclip come Immigrato. E allora piovono critiche e accuse di razzismo da un lato; plauso e l’augurio di diventare senatore a vita dall’altro. Ma per capire davvero cosa sia Tolo Tolo bisogna, prima di tutto, smettere di parlare per partito preso e andare al cinema. Noi di Notizie.it abbiamo assistito all’anteprima e vi spieghiamo perché dovreste vederlo anche voi. Ci vuole una dose non indifferente di coraggio per girare un film come Tolo Tolo, che ha il difficilissimo compito di raccontare in modo comico una realtà come quella dei migranti. Inevitabile finire in mezzo al fuoco incrociato di chi da un lato parla di razzismo e chi, dall’altro, di buonismo radical-chic. Entrambi dimostrano di aver capito ben poco di quello che Zalone vuole raccontare: la storia di un imprenditore fallito che si nasconde in Africa per sfuggire alle proprie responsabilità e alla propria famiglia, per poi decidere di compiere un viaggio che lo porterà dal Kenya all’Italia (superando il deserto, i lager libici e il Mediterraneo) come un qualsiasi migrante clandestino. Lo accompagnano nel suo percorso un appassionato di neorealismo, una donna combattiva dal passato misterioso e un bambino, Doudou (“come il cane di Berlusconi”), a cui Checco insegna a nuotare tolo tolo, ovvero solo solo. Ma chi comincia il cammino in solitaria e lo conclude parte di una comunità è proprio il protagonista. Insomma, il più tradizionale viaggio di formazione alla ricerca di un futuro migliore inserito nell’attualissimo contesto delle migrazioni, con battute non poi molto distanti da quelle che Zalone ha già inserito nelle sue opere precedenti (da “Nicholas, ti ho già spiegato la differenza tra te e le persone bianche” in Cado dalle nubi a “Farah è un po’ negra, ma giusto qualche gradazione” in Che bella giornata). Chi non ha mai canticchiato “gli uomini sessuali sono gente normali, proprio come noi”? Oggi inserirla in un film sarebbe impensabile, commenta lo stesso attore in un’intervista. A essere cambiati negli ultimi dieci anni siamo noi “italiani medi” di cui lo Zalone personaggio è il perfetto rappresentante, somma di (molti) vizi e (qualche) virtù. Non sappiamo più ridere dei nostri difetti (come individui e come società), non siamo più in grado di esorcizzare i problemi con una risata. Resta però intatta la capacità rara e acuta di Luca Medici di osservare il mondo e dipingerne i chiaroscuri giocando con i luoghi comuni e ribaltandoli, mescolando intrattenimento e riflessione. Ha ragione Alexis Michalik, che nel film interpreta il fotografo francese Alexandre Lemaitre: “Per me riuscire a far ridere è difficile, far ridere in modo intelligente è ancora più difficile e far ridere con umanità come fa lui è semplicemente meraviglioso”. Il risultato è un film che fa ridere ma soprattutto sorridere, talvolta anche amaramente, e che attraverso il filtro della comicità riesce a parlare di guerra, terrorismo e trafficanti di esseri umani, della disperazione di chi pur di compiere “il grande viaggio” è disposto a vendere il proprio corpo o i propri amici. Il tutto con una sensibilità e una poesia inaspettata per una commedia “popolare” come quelle di Luca Medici. In conclusione, non andate a vedere Tolo Tolo se quello che volete è un film sovranista e anti-immigrazione come è stato dipinto dall’uscita di Immigrato (un piccolo spoiler: nella pellicola non c’è traccia del videoclip), né tanto meno un manifesto contro Salvini o l’ennesimo racconto strappalacrime di un bambino migrante in fuga dalla guerra. Andate al cinema per osservare la questione migratoria con uno sguardo nuovo, per vederla per quello che è: una realtà tragica con cui convivere lasciando da parte allarmismi e discriminazioni, oltre gli slogan dei porti aperti e dei porti chiusi. Guardate Tolo Tolo per riflettere con leggerezza solo apparente sull’Italia di oggi e su cosa sta diventando. Per ricordare che – come diagnosticato da un sedicente medico su un pullman stipato in mezzo al deserto – “il fascismo è come la candida. È dentro tutti noi, basta solo un po’ di caldo e di stress” perché venga alla luce.

Tolo Tolo di Checco Zalone è un geniale sberleffo verso i cattivisti. Infuria il dibattito. Stroncato da destra, criticato a sinistra, premiato dal pubblico. Ma il successo è il primo segnale di un’inversione di tendenza: perché mostra che l'anti-politica non è più un fenomeno di massa. Massimiliano Panarari il 13 gennaio 2020 su L'Espresso. Stratosferico successo di pubblico e di critica. Già ottenerli ambedue è una mission (quasi) impossible. Farcela nell’epoca della crisi strutturale del cinema è un “miracolo italiano”. Tutti a vedere “ Tolo Tolo ”, dunque, perché in effetti Luca Medici (in arte Checco Zalone) è uno dei migliori e più caustici ritrattisti in circolazione dell’animus nazionale e si è rivelato via via sempre più capace di seguire in presa diretta i mutamenti repentini (oltre che le tendenze di lunga durata) della società italiana. Affinando le sue istantanee della figura - variamente declinata - dell’Arcitaliano, e affondandoci in maniera chirurgica il suo bisturi. Precisamente come in questi anni ha fatto pure - con un’altra cifra distintiva - Antonio Albanese, a conferma di quanto la comicità sia sempre più diventata nel corso di questi anni un potente telescopio “politico” per osservare l’antropologia italica. E per restituire un’immagine di noi che, a dispetto dei numerosi aedi compiaciuti dell’innocentismo ontologico e della deresponsabilizzazione a prescindere dell’intoccabile “popolo”, corrisponde decisamente di più a un’anamorfosi che non allo specchio che dovrebbe rimandare l’immagine autoassolutoria dei “più belli del reame”. E, così, proprio questa recente comicità dalla spiccata impronta satirica si è rivelata capace di illuminare le (tante) zone d’ombra del Belpaese. E per la verità, infatti, il primo film da regista di Medici-Zalone non è piaciuto proprio a tutti. Anzi, la pellicola ha lasciato sul campo tanti delusi e arrabbiati - alcuni veramente inferociti. Come le firme di alcuni degli house organ del destra-centro, la nuova configurazione di quello che era stato una volta il centrodestra, dove da tempo la componente liberalconservatrice risulta schiacciata dal nazionalpopulismo in salsa varia che la fa ideologicamente da padrone dettando l’agenda. L’insoddisfazione arriva anche da una parte del pubblico, perché molti dei fan zaloniani antemarcia hanno trovato il film non abbastanza ridanciano per le loro aspettative. E, per finire, ci sono i politici di destra-destra, da Ignazio La Russa (che ha invocato il rimborso per il film «noioso») a Simone Di Stefano (uno dei leader di Casa Pound). Per carità, de gustibus non est disputandum, ma caricare a testa bassa Tolo Tolo accusandolo di fare propaganda «buonista», «immigrazionista», «globalista» e «terzomondista», per non dire degli insulti internettiani che piovono su Zalone dai soliti leoni da tastiera e troll sovranisti, ci dice molto della visione del mondo di una certa destra populista, come pure dei pruriti e dei riflessi pavloviani di alcuni settori della società attuale. Contrariamente alla vulgata che il populsovranismo nostrano vuole accreditare, qui non siamo dalle parti del cinema progressista che, peraltro, con il genere narrativo “favolistico” (a cui appartiene per molti versi questo film) non ha una grande dimestichezza. La sinistra ha avuto parecchi problemi a metabolizzare lo zalonismo, come ha rilevato Andrea Minuz (nel suo “Quando c’eravamo noi. Nostalgia e crisi della sinistra nel cinema italiano da Berlinguer a Checco Zalone”, Rubbettino). E, se è vero che Paolo Virzì ha cosceneggiato la pellicola, cionondimeno nulla viene risparmiato a taluni tic da gauche caviar come pure all’opportunismo di qualche migrante. Come ha notato Paolo Di Paolo, Tolo Tolo rappresenta quindi, piuttosto, un film «poco conciliante» e «intelligente al punto che può sgusciare via da sotto qualunque cappello». Di qui il dibattito che imperversa in lungo e in largo. Ma strattonare da una parte o dall’altra una storia che sa essere ambivalente costituisce l’ennesima rappresentazione plastica di un Paese abituato da tempi immemori a mettere in scena lo scontro tra guelfi e ghibellini, e che ha vissuto un’ulteriore (e inquietante) spinta alla polarizzazione nell’epoca dei social e della politica dell’algoritmo. Due paiono, invece, gli elementi più veritieri di questa storia, e dell’esorbitante discussione scoppiata intorno al film. Il primo è che dagli scoppiettanti esordi di “Cado dalle nuvole” (2006), pellicola dopo pellicola, Checco Zalone sembra avere sovvertito il titolo del libro di Lenin “Un passo avanti e due indietro” (1904). Il rovesciamento del passo del gambero lo ha portato, quindi, a fare due passi in avanti congedandosi dal modello idealtipico del cinepanettone. Dove la volgarità e le risate crasse - di cui vari spettatori lamentano appunto la mancanza in Tolo Tolo - erano certamente al servizio della “logica del produttore”, per cui il meccanismo del dumbing down (l’abbassamento del livello qualitativo nei prodotti del mercato mediatico) serviva innanzitutto ad allargare la platea e il business. Ma si erano fatte anche cassa di risonanza - sempre più compiaciuta per tutto un pezzo del Paese - di atteggiamenti a cui l’Italia della tanto vituperata Prima Repubblica non aveva mai riconosciuto dignità formale. Ovvero il cinismo scambiato con scaltrezza, il becerume contrabbandato per sincerità e veracità, l’arroganza identificata con la sicurezza di sé, il pontificare senza preparazione su ogni argomento barattato come inalienabile diritto individuale a esprimersi. Tutti quanti sdoganati, e dilaganti, a partire dagli infiniti anni Ottanta che sono arrivati all’Italia odierna, infaticabile gabinetto dei dottor Caligari del populismo. Ecco perché l’ultimo Zalone ha scontentato diversi: il suo è un “qualunquismo buono” (come lo aveva etichettato Nicola Lagioia) e, in ogni caso, un “qualunquismo intelligente” (Mariarosa Mancuso), quando in molti, invece, ne vorrebbero da lui uno esclusivamente cattivo in linea con il proprio (idem) sentire. Attraverso i suoi personaggi mediocri, tronfi, improvvidi e saccenti, e mediante la maschera grottesca delle voci che fanno risorgere il «fascismo che è in tutti» (e che si rivela come l’infezione della candida), Checco ridicolizza e mette in caricatura l’Italia cattivista. Che, come sappiamo, è forte, diffusa, intollerante e pronta a sguainare gli artigli. E si è imbandierata dietro il vessillo della scorrettezza politica a tutti i costi che, importato dall’America, si è convertito nell’ossessione dei populisti nostrani. Anche se non ce n’era affatto bisogno, poiché corrisponde, a ben guardare, all’idea dell’Italia già illustrata qualche secolo fa da Francesco Guicciardini (1483-1540) col suo pessimismo disilluso riguardo l’«agire civile» dei nostri connazionali, tendente al «particulare» (e, spesso, direttamente al male), e viziato dall’interesse privato. In buona sostanza, anche lo zalonismo ci conferma come Guicciardini avesse già capito moltissimo dell’antropologia collettiva, essendo il portatore con la sua ragion pessimista di un realismo politico per certi versi più “realista” dell’onnipresente (e tirato per la giacchetta a seconda della bisogna) Machiavelli. Insomma, a dispetto degli anatemi dei politicamente scorrettissimi nostrani, Zalone non ha realizzato un film ideologicamente buonista, né men che meno “comunista”. E, invece, questo sì, si è messo a fare dell’anti-antipolitica, e ha satireggiato un po’ di tesi sovraniste. Di questi tempi rabbiosi e rancorosi, un’autentica boccata d’aria per il discorso pubblico.

Tolo Tolo di Checco Zalone il 28 dicembre 2019. Finché siamo in Puglia, anzi nelle Murge, in quel di Spinazzola, neanche 7000 abitanti, è tutto facile. Lo sappiamo. Lì Checco è re. Si permette anche il lusso di riesumare Nicola Di Bari come zio nostalgico del Duce, da unire a una mamma, due ex-mogli, un avvocato e una valanga di parenti vari. C’è pure un personaggetto minore, tal Gramegna interpretato da Gianni D’Addario che da galoppino locale alla Di Maio diventerà, in breve, assessore, sindaco, prefetto, ministro degli esteri, presidente del consiglio alla Conte. Una delle invenzioni migliori del film. E’ l’Italia che conosciamo e che nessuno oggi sa descrivere bene come Checco. Le cose si complicano quando l’azione si sposta in Africa, in Kenya, dove è finito il protagonista in fuga dai creditori ed ex-mogli e il film parte davvero a ritmo della magistrale “Vagabondo” di Nicola Di Bari. Anche perché questo Tolo Tolo, quinto film di Checco Zalone, il primo da regista, che oltre a interpretarlo lo ha scritto (soggetto e sceneggiatura) assieme a Paolo Virzì, è particolarmente ambizioso. Perché affronta temi importanti e vere tragedie umane come il viaggio della speranza dei migranti, i barconi, i porti chiusi con le armi della commedia all’italiana, pensiamo tutti ovviamente a ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’ di Ettore Scola con Alberto Sordi e Bernard Blier, e magari anche del cinema comico, penso a "Due bianchi nell’Africa Nera" di Bruno Corbucci con Franco e Ciccio, sgangherata e immediata parodia del film di Scola. E non sempre commedia e cinema comico bastano per trattare temi così grandi. Si rischia, inoltre, di non essere capiti, di provocare ambiguità, polveroni, inutili dibattitti in tv. Si è già visto lo stato delle cose rispetto al video “Immigrato” lanciato come teaser del film che ha già provocato discussioni infinite anche nelle migliori famiglie. Esattamente come nel film di Scola, cinepanettone del lontano 1968, quel che interessa di più a Zalone e presumo anche a Virzì, vecchio age-scarpelliano nonché scola-monicelliano, è la parte più nostra, cioè il viaggio in Africa come metafora del viaggio dentro alla testa confusa dell’italiano medio. Con tanto di recupero del suo mai sopito fascismo, che, come spiega bene Checco, “è come la candida, con lo stress e col caldo esce fuori…”. Così, ogni tanto, durante il viaggio di ritorno dal Kenya verso l’Italia del piccolo imprenditore pugliese dato per disperso in Africa anche dal tg di Enrico Mentana e da “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, a Zalone torna su la malattia. “Hai avuto un attacco di fascismo”, gli spiega un vecchio stregone di fronte a un Checco Zalone che si sente dentro la voce del Duce ai tempi dell’Impero. “Sai come si cura?”, gli chiede lo stregone. “Con Gentalyn?” risponde Checco. “No, con l’amore”. Ecco. Già trattare il fascismo come una malattia, anzi come la Candida, è una trovata divertente che ci fa capire da che parte stanno i due sceneggiatori. Anche la perdita di identità di Checco, che si sente “uno di loro”, uno dei tanti migranti in mezzo al deserto, che si innamora della bella Idjaba di Manda Touré e sogna un’Italia diversa, con la nazionale tutta nera mentre ascoltiamo Mino Reitano cantare “Italia Italia… Di terra bella e uguale non ce n’è!” è una trovata coraggiosa e notevole. E le scelte delle canzoni italiane d’epoca, devo dire, è quasi sempre magistrale, da “La lontananza” di Domenico Modugno a “L’arca di Noé” di Sergio Endrigo, che sentiamo quando parte il barcone verso l’Italia (“Partirà… la nave partirà…”), al “Viva l’Italia” di Francesco De Gregorio, forse un po’ ovvio. Insomma. Quando gioca sulle manie e sui gusti dell’italiano di provincia, quando il viaggio è dentro di sé, Checco è imbattile, come lo erano Alberto Sordi e Nino Manfredi ai tempi della commedia all’italiana. Magari le cose cambiano e qualcosa non funziona sempre quando ci si sposta dalla commedia a temi e situazioni più drammatiche. Anche perché non sono più i tempi di Scola e dell’Africa lontana del ’68, ma di qualcosa che abbiamo di fronte agli occhi tutti i giorni in tv e sui giornali, anche se non lo vogliamo vedere. La scelta di Zalone è sempre quella di rendere il tutto meno drammatico e realistico di come dovrebbe essere. Quindi non ci sono né morti in mare né sangue né situazioni poco spiegabili ai bambini in sala. La bella Idjaba si prostituisce o no? Qualcuno muore con l’arrivo della grande onda? E’ tutto confuso. Credo per scelta. E ci sembra strano con uno sceneggiatore così accorto come Paolo Virzì, che doveva essere anche il primo regista del film. Tutto il personaggio di Omar, Souleyman Silla, l’amico cameriere cinéphile pazzo del neorealismo italiano che vuole diventare regista, ha rivelato Checco in conferenza stampa, per esempio, è modellato proprio su un amico di Virzì. Mentre il personaggio del bel giornalista francese Alexandre, interpretato dalla star di ‘’Cyrano e io’’ Alexis Michalik, con tanto di assurda sponsorizzazione-marchetta a “Vanity Fair” (in nessun film di Checco avevamo mai visto uno sponsor, ahi,…), sembra ripreso paro-paro dal Manuel Zarzo di ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’. Magari il bambino Dudù, con annessa battuta sul cane di Berlusconi, fa ridere ma è pesantina, è più vicino al bambino nero Boudu di ‘’’Piedone l’africano’’ con Bud Spencer. Elementi che nella costruzione drammatica del viaggio però non sempre funzionano benissimo. Anche perché non c’è un finale così forte come era quello esplosivo con Nino Manfredi del film di Scola. Anzi, ci sono forse un po’ troppi finali, a dire il vero. L’impressione è che, dovendo fare un grande film popolare targato Medusa, con lancio di 1100 copie il 1 gennaio, un film che deve arrivare almeno a 50 milioni di euro di incasso, Checco, che pure ha scelto temi così nobili e civili, si sia poi a tratti limitato nel realismo e nello schierarsi decisamente da una parte, antifascista sì antisalviniano chissà, anche se appare chiarissimo, almeno a me, cosa sta facendo e perché ha girato questo film, e gliene siamo sinceramente grati. In un periodo come questo, dopo i porti chiusi di Salvini, il razzismo quotidiano negli stadi, è già opera di grande coraggio vedere un film di così vasta diffusione e con un protagonista così popolare trattare temi civili dandoci un messaggio di speranza. Certo, con un regista più accorto, e molto cattolico, come Gennaro Nunziante, qualche grossolanità magari sarebbe stata evitata, penso a la canzoncina “la gnocca salva l’Africa”, o al cartone animato finale che mi ha lasciato un po’ perplesso. Ma credo che solo la visione del pubblico e il tempo ci possano dare uno sguardo non viziato su un film così coraggioso sul nostro presente. Perché sono tempi dove è facile sbagliare e non capire quello che gli altri ci stanno dicendo e quello che per noi è chiaro per altri è totalmente diverso. E sappiamo quanto Zalone abbia sempre odiato il moralismo e il cinema che giustifica ogni sua scelta. Meglio una battuta. Magari, alla fine, ‘’Tolo Tolo’’ è meno divertente dei suoi primi film, si sorride più che ridere, come ha detto Nichi Vendola in conferenza stampa, fa anche un grande cameo come se stesso, ma è decisamente più importante, ambizioso e difficile rispetto ai precedenti e si sente la fatica per farci pensare, per arrivare a tutti e non solamente a una fetta di pubblico. E certe battute, “è arrivato il cambiamento”, “ho parlato con i miei omologi”, “sto rimpiangendo la pizzica”, “Qui hanno fatto Il tè nel deserto… - E lo fanno ancora? – Bertolucci… - Qualsiasi marca va bene”, rimarranno. In sala dal 1 gennaio. 

"Zalone? Troppo buonista". Teresa Marchesi, Journalist and filmmaker il 27 dicembre 2019 su huffingtonpost.it. Altro che razzismo, il film è antirazzista e politicamente iper-corretto. Troppo anche per una di sinistra come me. Era scontato? Anche no. “Tolo Tolo”, il film di Checco Zalone/Luca Medici che invaderà tutte le sale d’Italia dal 1° gennaio, seppellisce tutte le accuse al suo contestato trailer ‘razzista’ semplicemente perché è l’esatto contrario: antirazzista, politicamente iper-corretto e tanto buonista - anche per una persona di sinistra come me - che forse gli incassi ne soffriranno. Quel videoclip provocatorio, “Immigrato”, è stato in sostanza una furba operazione di depistaggio. Da campione nazionale e incontrastato dei botteghini, Checco/Luca si avventura a dirigersi in proprio per la prima volta - dopo il divorzio dal suo alter ego Gennaro Nunziante, regista dei primi quattro film - e si annette la firma autorevole di Paolo Virzì, co-sceneggiatore. Ma dopo un poker di film acchiappatutto, al di là di ogni credo e bandiera, si concede anche il lusso di ipotecare qualche consenso di destra. Tra gli elettori della Meloni, per dire, molti non gradiranno che le sporadiche crisi mussoliniane del Nostro siano equiparate alle infezioni da Candida. Detta in soldoni: abbiamo tutti attacchi di fascismo, col caldo forte, ma "si combattono con l’amore". In più si mettono in burla gli approdi negati alle navi di salvataggio delle Onlus e si sbeffeggia un disoccupato ‘senzamestiere’ che scala le gerarchie diventando a velocità record Ministro degli Esteri, poi Presidente del Consiglio, e ancora più su. Sarà contento Salvini. L’unica vera ossessione del Checco protagonista è l’italica Idra fiscale, coi suoi mille volti e i suoi mille antipatici nomi. Quando la sua pacchiana impresa “Murgia e Sushi” in quel di Spinazzola (Puglia) fallisce - con un codazzo di debiti iperbolici - Checco scappa in Africa a fare il cameriere, dotato di mocassini Prada, mutande Dolce e Gabbana, camicia Armani e borsa Louis Vuitton. E qui, in fuga come il suo compagno di (s)ventura locale - cultore del Neorealismo - dalle feroci guerre del sub-continente, inizia il suo viaggio da ‘vagabondo’ a rovescio. “Vagabondo” come l’omonima hit vintage firmata dal corregionale Nicola di Bari, che fornisce anche uno dei camei attoriali del film. Però c’è anche la benedizione incarnata da Niki Vendola, che autoironizza sproloquiando, parodia di Zalone che fa la parodia di Vendola: una mise-en-abime, direbbero quelli colti...Quella di condividere - da bianchi ‘regolari’ tra i disperati africani - il ‘viaggio della speranza’, con tutte le traversie del caso, non è un’idea nuova. Lo spunto lo ha fornito Paolo Virzì, ma su qualcosa di molto simile si erano già esercitati Gianni Amelio con “Lamerica”, Aldo Baglio, Antonio Albanese…Con Zalone/Medici, onestamente, si ride parecchio, tra intermezzi musical che non esitano a mettere in burla i semi-affogati delle ‘carrette del mare’ (qualcuno inorridirà) e sbeffeggiano la salviniana massima “prima gli italiani”( “Per gli italiani prima la gnocca”, canta Checco, che si è innamorato di una pugnace africana). Sì, perché pesano, le canzoni - da Mino Reitano a De Gregori al Sergio Endrigo sanremese de “L’Arca di Noè” - tutte riconvertite al nuovo ‘credo’ di accoglienza. Nel disneyano (da “Dumbo”) cartoon finale, è una cicogna strabica che si addossa la colpa di depositare i bimbi nel continente africano, cioè nella parte sbagliata del mondo. Ma Checco promette ai bimbi sfigati quintalate di permessi di soggiorno. Quel che sorprende è che “Medusa” distribuisca, in competizione sullo stesso periodo festivo, due film come “Il Primo Natale” di Ficarra e Picone e il “Tolo Tolo” di Zalone, che giocano sullo stesso terreno non solo tematico ma anche geografico (in entrambi i casi il deserto è quello marocchino). Come si fa a piangere sulle sale di cinema vuote, se i potenziali campioni d’incasso italiani vanno insieme sul ring? Qualcuno ragiona sui costi dei biglietti per l’intera famiglia? In pista c’è anche “Pinocchio”, per non dire di “Star Wars”: un popolo che diserta i cinema, quanti film riuscirà a vedere nell’arco di tre settimane? Perché non diluire nel tempo i titoli ‘forti’ e le grandi scommesse produttive? Come diceva bene Nanni Moretti, continuiamo così, facciamoci del male…

Il comico: «Una storia poetica, non è contro Salvini». Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Valerio Cappelli. Trattandosi dell’uomo dei record, si parla molto di cifre con Checco Zalone, uscito da un film «complicato, faticoso, costoso, una bella avventura», dice il produttore Pietro Valsecchi. «Tolo Tolo», dall’1 gennaio per Medusa in 1200 copie. Aspettative? «Da 1 a 10? 10, niente ipocrisia, dobbiamo fare i soldi e riempire le sale», risponde Zalone. Le polemiche preventive: «Qualcuno ha parlato di sessismo: io non ho spogliato Manda Touré, non c’è una doccia, una tetta...». In realtà il polverone era sul razzismo dell’Italia di oggi, che all’anteprima nessuno ha scorto. «Il trailer non c'entra niente con il film — confessa Zalone —. Lo avevamo concepito come promozione, ma nessuno si aspettava che andasse a finire sulle prime pagine dei giornali». Un film che piacerà a Salvini? «Non c'è proprio nel film, comunque non volevo fare un film contro di lui. E poi se è contro di lui sarà Salvini stesso a dirlo». Gli fa eco il produttore Valsecchi: «Non avrei investito venti milioni di euro per fare un film contro Salvini». Il bambino del film (Massor Said Byria) dice una massima di Salvini: «È finita la pacchia». Il leader della Lega giorni fa ha proposto Zalone senatore a vita. «Chiacchiere — scherza il comico — io se non vedo i fatti... Salvini è l’espressione della gente, non mi pongo il problema». C’è il politico pugliese che scala il successo, e ogni volta sale sale, ministro degli Esteri, presidente del Consiglio... «Ha fatto la carriera di Di Maio, l’ho vestito come Conte e ha il linguaggio di Salvini. Ho creato un mostro. È una metafora sull’escalation verso il successo di un uomo che ricopre una carica superiore ai propri meriti». Anche il suo personaggio, che fugge per i debiti, si fa «metafora di chi è incapace di guardare oltre i suoi problemi contingenti, l’ex moglie, le tasse, mentre fuori, infuria la guerra civile».In Africa si atteggia a novello Mussolini: «È l’intolleranza che viene fuori nei momenti di difficoltà». Cameo di Nicky Vendola, ex Governatore pugliese che fa una battuta: «È un film che fa sorridere più che ridere, e commuove, turba, è molto poetico».

Crudeltà e sgradevolezze  sulle orme di Alberto Sordi. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Mereghetti. Il nuovo film del comico pugliese non ha timore di apparire sgradevole, come faceva Alberto Sordi. E ora vuole indirizzarci verso una lettura diversa. Il nuovo film con Checco Zalone pone più di una domanda. E non solo per la scelta di condividere soggetto e sceneggiatura con un «autore» come Paolo Virzì (al posto del tradizionale Gennaro Nunziante, tentato da altre avventure) così come aver deciso di assumere in proprio il ruolo di regista di sé stesso, ma anche per la scelta di un argomento altro e alto rispetto alle tradizionali disavventure del Candide opportunista con cui aveva conquistato il successo. Questa volta il personaggio Zalone, sempre apparentemente uguale nella sua commistione di qualunquismo e furberia, deve misurarsi con argomenti più spinosi del posto fisso o dell’assenteismo nazionale. Perché dopo aver ipnotizzato i cittadini di Spinazzola con i suoi sogni imprenditoriali (il sushi nelle Murge) ed essere fuggito in Africa lasciando ai parenti il peso dei suoi debiti, si trova ad affrontare quello che aveva sempre esorcizzato: il destino degli ultimi. Deve cercare di tornare in Italia insieme a un gruppo di migranti. Controvoglia, naturalmente. Da una parte c’è il personaggio che conosciamo, «meravigliosamente mediocre», che si ostina a non crescere, in sintonia con l’Italia più superficiale e opportunista e di cui gli ospiti del lussuoso resort africano dove Checco ha trovato lavoro come cameriere (se non è il Billionaire sembra una copia perfetta. Anche antropologicamente) sono il campionario ideale, con i loro luoghi comuni sulle tasse e il successo. Dall’altro c’è il lungo viaggio che deve intraprendere per fuggire dai terroristi e tornare in Italia, dove con i modi sommari dell’apologo affronta i passaggi obbligati di ogni odissea migrante: il viaggio nel deserto, la «sosta» in Libia, la traversata via mare. Costringendo il suo tradizionale personaggio a un salto di qualità. Non che diventi buono, per carità! Non sarebbe più Checco Zalone. Per tutto il viaggio sembra preoccuparsi solo della crema contro le occhiaie che non trova più, dei suoi vestiti griffati e mette sempre le sue necessità al di sopra di tutto, causando non pochi problemi ai compagni di viaggio. Chi cambia questa volta è il regista-sceneggiatore che non si limita più ad offrire al suo protagonista l’occasione per una risata, ma lo spinge verso un’altra direzione, costringendolo a misurarsi con qualcosa su cui in passato avrebbe preferito chiudere gli occhi o sorvolare con una battuta. E lo fa sia a livello di scrittura che di regia. L’esempio perfetto del primo è la tentazione mussoliniana, l’identificazione ducesca che trasfigura Zalone quando sembra non sopportare più la vicinanza con i migranti. Poteva essere una gag da lasciar interpretare al pubblico e invece il film si incarica di spiegarne il significato citando il Primo Levi di Se questo è un uomo, dove si legge che «la convinzione [che ogni straniero è nemico] giace in fondo agli animi come una infezione latente» pronta a venire a galla nei momenti di difficoltà. «Come con la candida», chiosa Zalone che non può evitare la battuta, ma la citazione da Levi è letterale e il messaggio non può arrivare più diretto e più chiaro. Qualcosa di simile mette in atto anche la regia, quando risolve certe situazioni con una canzone o un balletto, dove Zalone perde la sua specificità di personaggio per tirarsi fuori dalla storia e trasformarsi (brechtianamente? fellinianamente?) in un narratore complice, che non si accontenta solo di raccontare una storia ma vuole indirizzarci anche verso una possibile interpretazione, verso una diversa lettura. Mai ideologica, perché non è questo il compito di un comico, ma alla fine capace di evitare ogni etichetta, ogni preconcetto, ogni «infezione latente». Certo, Checco Zalone non è mai poetico, è sempre prosastico. Non vuole tradire un personaggio che si sente in dovere di essere comico: per questo non ha timore di apparire sgradevole, è spiccio e diretto nei suoi modi, non allude mai, dice senza timore. Proprio come faceva un altro grande attore-autore del cinema italiano, la cui crudeltà e sgradevolezza ne fecero il più vero e necessario dei nostri comici, Alberto Sordi. E forse Zalone sta imparando a seguire le sue orme.

Da corriere.it il 24 dicembre 2019. "Checco Zalone è sotto accusa perché é razzista? Ha fatto il film "Tolo tolo" ed è politicamente scorretto. Ma viva Checco Zalone, voglio senatore a vita Checco Zalone, non qualche reperto". Lo dice Matteo Salvini in un intervento pubblico a Chieti.

Folle, scorretto, irresistibile il film di Checco Zalone è uno schiaffo alla stupidità. Chiara Nicoletti il 29 Dicembre 2019 su Il Dubbio.  Tolo Tolo è stato scritto a quattro mani da Checco Zalone con Paolo Virzì, proprio da un’idea del regista di La prima cosa bella. Checco Zalone è un uomo nato per sognare. Lo dichiara il suo alter ego protagonista del suo primo film da regista, Tolo Tolo, e sembra una delle intenzioni alla base della pellicola in uscita nelle sale italiane dal 1 gennaio 2020. Grandi progetti, desiderio di realizzazione anche a discapito degli altri, questo il profilo del Checco di Tolo Tolo, anche questa volta e forse in maniera meno calcata e più veritiera, specchio dell’italiano medio, quello che si accontenta di vivere in mezzo ai luoghi comuni e guarda sempre la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Recita la sinossi del film: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti». Non serve altro per descrivere il film più coraggioso e politico di Luca Medici, in arte Checco Zalone perchè ora che l’ex comico di Zelig e re del botteghino è anche dietro la macchina da presa, è arrivato il vento di cambiamento: non più prendere in giro le nostre ipocrisie in maniera sottile e implicita, prediligendo la facile battuta, ma un umorismo tagliente, una satira dissacrante e metaforicamente violenta che prende lo spettatore per la camicia scuotendolo, li a rinfacciargli tutte le sue nefandezze, l’intolleranza, le bugie della politica a cui ci fa comodo credere per odiare, il razzismo. Il presagio di questo c’era stato, a giudicare dalle fiammanti polemiche dei giorni scorsi in seguito all’uscita del trailer del film, video musicale della canzone Immigrato, per il quale Zalone è stato accusato di essere razzista da una parte di Italia e in opposizione, quasi invitato a diventare senatore a vita da Matteo Salvini e il suo seguito. «Il trailer non c’entra niente con il film e ci aspettavamo di destare qualche polemica anche se non fino a questo punto» rivela Zalone e prosegue: «Non mi aspettavo di essere sulle prime pagine dei giornali e oggetto di dibattito nei talk show. Francamente mi son anche un po’ stancato e dopo 3 giorni non ho seguito più». A qualche ora dalla visione di Tolo Tolo, aleggia la definizione di film politico e anti- salviniano anche se c’è molto di più che una critica alla politica idi tolleranza zero sui rifugiati. Uno dei personaggi è un disoccupato dello stesso paese di Checco che nel corso di un breve tempo fa una carriera politica sfavillante. Nel descriverlo Zalone non si limita a descrivere Salvini: «Ha la carriera di Di Maio, l’ho vestito come Conte e ha il linguaggio di Salvini, diciamo che ho creato un mostro dei nostri tempi» scherza il regista. Cosa penserà quindi Matteo Salvini e chi lo supporta, di Tolo Tolo?: «E che cazzo ne so io di che dirà» risponde ridendo Zalone e aggiunge: «Tutto è politica. Io non mi metto a fare un film contro Salvini. Secondo me Salvini è l’espressione della gente e la gente si sentirà chiamata in causa». Prende di mira tutti infatti Checco, anche chi tanto parla ma niente fa, come i tanti intellettuali e forse anche la stampa che si riempie di frasi come quella che un famoso giornalista, incontrato sulla rotta tra camion affollati e camminate nel deserto, si vanta di decantare: «i più poveri che ho conosciuto sono quelli che hanno soltanto i soldi». Il Pierfrancesco Zalone detto Checco di Tolo Tolo conserva quell’egoismo strappa- risata dei suoi consueti personaggi ma le sue reazioni lasciano spesso increduli come la sua noncuranza in mezzo alla guerriglia. Di quella scena sotto le bombe racconta: «La scena della guerriglia in cui non vengo toccato da ciò che mi succede intorno l’ho improvvisata. Ho provato a girare me spaventato ma non funzionava mentre la vera metafora è quella che racconta chi non riesce a guardare a ciò che gli succede intorno, c’ha le cose sue. È grottesca la scena, ti scoppia una bomba vicino e non te ne frega niente. È congenito nell’uomo l’egoismo». Se le polemiche non l’hanno colpito, il neo- regista ci tiene però a rinnegare le accuse di sessismo, chiamando a supporto la sua co- protagonista Manda Touré: «Qualcuno ha parlato di sessismo eppure io non ho spogliato nessuno, non ho fatto vedere neanche il sedere di Manda. Le ho regalato un personaggio interessante, intenso, una donna battagliera che ci porta in salvo. Mi hanno dato del maschilista ma non è così, non c’è una tetta, una doccia». Tolo Tolo è stato scritto a quattro mani con Paolo Virzì, proprio da un’idea del regista di La prima cosa bella. Di questa sua prima esperienza dietro la macchina da presa Zalone rivela: «È andata così, Paolo Virzì aveva questo soggetto e piano piano mi rendevo conto che glielo stavo rubando, che in scrittura stavo costruendo il personaggio su di me. Quando siamo andati a girare non è che mi sia pentito ma mi son reso conto della difficoltà del dirigere. Lì un po’ ho bestemmiato perché si è anche un po’ accanita la sfortuna. Pensate che non pioveva in quella zona in Africa da vent’anni». Sarà la presenza virtuale di Virzì oppure dei segmenti di Mamma Roma di Pasolini omaggiati nel film ma il cammino di Luca Medici sembra ispirarsi ad un certo cinema italiano di vecchia memoria. Lo conferma Medici/ Zalone parlando dei suoi modelli: «Io guardo con estremo rispetto alla commedia italiana, a Dino Risi, ad Alberto Sordi con le dovute proporzioni. Questi sono i miei modelli». È proprio commentando Mamma Roma che Zalone si trova a spiegare anche la presenza, nel film, dei suoi “attacchi di fascismo”: «Inserire Mussolini è la prima idea che mi è venuta, faccio il coglione parlando come lui» racconta il regista e specifica: «È una metafora per descrivere l’intolleranza che ci viene fuori quando siamo nei momenti di difficoltà, con il caldo, lo stress, un po’ come la candida». Tolo Tolo senz’altro dividerà il pubblico. Verrà capito? Zalone chiude la presentazione del film citando De Gregori: «Credo che la gente sa benissimo dove andare, quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare».

Il Tolo Tolo di Checco Zalone è un film contro i luoghi comuni. Quella del comico pugliese è una commedia-kolossal sulla tragedia dei migranti e sul nostro razzismo quotidiano. Che fa ridere meno fragorsamente degli altri film dell'attore, ma è anche assai più esigente. Fabio Ferzetti il 07 gennaio 2020 su La Repubblica. Sempre più veloci, sempre più scorretti. Se per la prima commedia sui lager nazisti abbiamo dovuto aspettare cinquant’anni, il primo film comico sulla tragedia dei migranti arriva quasi in diretta. Con allusioni freschissime alla situazione politica italiana (ma anche europea). E molte battute che si avventurano fragorosamente oltre la soglia della decenza. Si poteva temere che per il suo primo film da regista Luca Medici alias Checco Zalone sarebbe andato sul sicuro. Invece il temerario comico pugliese (con Paolo Virzì co-sceneggiatore) alza il tiro e rischia. In ogni senso. Girato per buona parte tra Marocco e Kenya, “Tolo Tolo” è quasi un kolossal che riepiloga e fa esplodere per così dire da dentro tutti i più insidiosi luoghi comuni del nostro razzismo, conclamato o inconsapevole, seguendo le peripezie del protagonista. Così Checco passa da imprenditore fallito a “migrante” bianco, di ritorno nel paese da cui era fuggito per bancarotta. Da figlio di mamma iperpremurosa a prigioniero dei lager libici. Da arciitaliano tutto griffato a profugo nel deserto e poi addirittura naufrago, unico europeo su un barcone di africani. Anche se perfino qui, nel momento potenzialmente più drammatico e insostenibile, Checco Zalone fa Checco Zalone intonando una serie di rime ribalde (a tratti un po’ coperte dalla musica, forse non a caso). Morale: si ride ancora molto, benché meno fragorosamente, sul fronte italiano (i parenti che sperano che «si estingua» così si estinguono anche i suoi debiti; il compaesano ignorante che fa una carriera politica fulminante; lo stesso Checco che quando è in crisi parla e si muove come Mussolini, l’idea più bella del film). Si fa un po’ più fatica sul fronte africano perché la bella di cui si innamora, il suo adorabile bimbetto, l’amicone appassionato di cinema italiano, sono solo simpatiche figurine di servizio. E forse non basta sognare una nazionale tutta composta di giocatori neri, come si vede in uno dei tanti flash memorabili. Bisogna anche farli giocare e segnare. Ma la strada è lunga e insidiosa, ci vuole tempo. Con tutto il seguito (e il potere non solo simbolico) che si ritrova, Checco Zalone ha rotto il ghiaccio, accidenti se lo ha rotto. Adesso tocca a noi guardare, ridere, capire. perché “Tolo Tolo” a modo suo è anche un film esigente. E questo non era davvero scontato.

Vittorio Sgarbi a Fuori dal Coro: "Checco Zalone salviniano o buonista? Per me è un Alberto Sordi". Libero Quotidiano l'8 Gennaio 2020. Checco Zalone con Tolo Tolo sta battendo i record d'incassi, ma soprattutto sta facendo discutere senza sosta. Al punto che Mario Giordano gli dedica ampio spazio in Fuori dal Coro, il programma che va in onda in prima serata su Rete4. Il mondo della politica sta commentando da giorni l'ultima fatica di Zalone, che ha scontentato un po' tutti: la sinistra si aspettava un film a favore dell'immigrazione, la destra sperava di rafforzare la tesi 'prima gli italiani'. Tolo Tolo non è niente di tutto ciò, e forse proprio in questo risiede la bravura di Zalone, che ha giocato con un tema di forte attualità e ha sbancato il botteghino.  Ospite a Fuori dal Coro, Vittorio Sgarbi è intervenuto sulla questione 'Zalone salviniano o buonista?'. Il critico d'arte lo ha definito un artista all'Alberto Sordi: "Da allora è cambiata l'Italia e sono cambiati gli italiani, il comico degli anni '50-'60 corrispondeva a quel mondo. Zalone invece appartiene ad un mondo con tante contaminazioni. È evidente che quando nomino Sordi non dico che gli assomiglia, ma indico una tipologia che gioca con gli italiani e i loro vizi. Zalone - ha aggiunto Sgarbi - prima parlava male dei meridionali essendo uno di loro, si sente uno che si è riscattato dal meridione. Ritengo lecito che La Russa (ospite di Mario Giordano, ndr) possa non apprezzare il film, ma anche lui può valutare la qualità delle sue battute che a volte funzionano, altre meno".

Caro Zalone, stavolta hai sbagliato. Domenico Ferrara su Il Giornale l'8 gennaio 2020. Ci ha abituato a essere dissacrante e politicamente scorretto, ma questa volta Checco Zalone ha sbagliato. Non sto parlando del film, che può piacere o meno. Parlo di una scena precisa della pellicola Tolo Tolo. Una scena tanto inopportuna quanto insignificante. Quasi buttata lì per mancanza di idee. O almeno spero. Perché, se al contrario il regista pugliese l’avesse proprio pensata quella scena, ecco allora in quel caso aggraverebbe la situazione. Ma di cosa sto parlando? A un certo punto Zalone, durante la traversata nel deserto fatta insieme a decine di migranti africani, scorge all’orizzonte alcune camionette militari battenti bandiera italiana. Scende dal camioncino e inizia a sbracciarsi, felice come una Pasqua. A bordo del mezzo dell’esercito si vedono due militari: uno intento a risolvere la settimana enigmistica e l’altro a guidare il carro. “Si dirige verso di noi, cosa faccio, gli sparo?”, chiede il conducente. Il collega risponde: “No, ti ricordo che non siamo qui per sparare alle persone, buttagli una bomba”. Boom. Il militare fancazzista, il militare approssimativo, il militare italiano. Falsi e offensivi stereotipi. In un periodo in cui i nostri militari vengono attaccati e muoiono nelle varie missioni, in un periodo intriso di sangue, attentati e bombe (quelle vere), ecco forse prendere di mira i nostri soldati (già bistrattati da una parte politica nostrana) non è proprio un bel segnale. E di sicuro è un mal riuscito tentativo di comicità e l’ennesimo schiaffo a chi rischia la vita per un ideale.

Dall’aggressione razzista  a «Tolo Tolo» di Zalone: «Io, l’africano di Sulbiate». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Leila Codecasa. Mohamed Ba, senegalese: fu pugnalato nel 2009. «Immigrato. Quanti spiccioli ti avrò già dato? All’uscita del supermercato, ti ho incontrato...». La canzone del nuovo film di Checco Zalone, «Tolo Tolo», anche a Sulbiate è un tormentone. Solo che in quel paese brianzolo si parla del film campione d’incassi anche per un altro motivo: Mohamed Ba, senegalese, 56 anni, da undici è un sulbiatese e ha recitato in «Tolo Tolo». Quando, un anno e mezzo, fa ha ricevuto la telefonata del comico pugliese che gli proponeva una parte nella pellicola, ha risposto: «Se mi chiami perche vuoi una faccia da immigrato davanti al supermercato che chiede elemosina, vai a cercare qualcun altro». Ma un incontro a casa di Zalone in Puglia ha cambiato tutto: «Ci siamo parlati e guardati negli occhi, ho capito che aveva una idea diversa per raccontare l’immigrazione, rovesciando la prospettiva». Così Ba è entrato nel cast. Interpreta il medico che soccorre il protagonista e gli dà una ricetta universale contro un virus che rende disumani. Ma non solo: scena dopo scena Ba è il Papa, poi uno scrittore affermato. Ba scrive per professione anche nella vita di tutti i giorni, oltre ad essere attore teatrale, mediatore culturale, esperto in temi di immigrazione e di integrazione. Vive a Sulbiate con la moglie, italiana, e i figli, ma continua a girare l’Italia e il mondo con i suoi progetti «per costruire relazioni di umanità tra gli uomini». Come ormai è noto «Tolo Tolo» è stato girato tra l’Africa e l’Italia «con Zalone sempre pronto ad ascoltare, a dare una mano. Con la sua leggerezza, sincera, ha messo a nudo il limite della società italiana di oggi». In Marocco, le comparse erano ragazzi in attesa dell’occasione per andare in Europa. «Abbiamo vissuto il loro dramma umano, ho parlato a lungo con loro, ho svelato che illusione sia l’Europa, la maggior parte mi ha giurato che non sarebbe più partita». Checco Zalone ha letto l’ultimo libro di Ba, «Il tempo dalla mia parte», che racconta della sua esperienza di migrante dall’Africa verso la Francia, del rifiuto di «permettere a qualcuno di trattarmi come un cane. Coi primi soldi ho acquistato un dizionario», fino all’arrivo in Italia, e un’aggressione, forse a sfondo razzista, subita dieci anni fa ad una fermata del bus a Milano. Un ragazzo gli si avvicinò, lo accoltellò all’addome, fuggì, non fu mai rintracciato. Ba lottò tra la vita e la morte per 14 giorni, scrisse una lettera al suo aggressore, chiamandolo fratello, dicendogli che «la ricerca dell’umanità è molto più bella dell’etnicità». Un’umanità di tutti i giorni: «Cerco di costruire un ponte perché il rischio del razzismo, quello di guardare tutte le cose dall’alto in basso, è piu’ vivo che mai. Anche in Italia”. Ora a Sulbiate lo fermano per dirgli che lo hanno visto in «Tolo Tolo», sorride amaro: «Ora non sono più l’africano, ma l’attore del film di Zalone. Chissà per quanto?».

Checco Zalone, la sinistra ci ripensa: il suo film è buonista. E da destra arriva una stroncatura. Il Secolo d'Italia domenica 29 dicembre 2019. Perché lasciare Checco Zalone alla destra? Deve essere partita da questa domanda Natalia Aspesi recensendo su Repubblica il film del comico pugliese Tolo Tolo. “Non avete capito – bacchetta la Aspesi – il suo film non è razzista, i buoni sono gli africani”. In pratica il trailer con la canzone “Immigrato” era solo un’esca per i sovranisti che ha fatto accapigliare il paese suscitando curiosità e attenzione per una pellicola tutta da decifrare. Non ci voleva la Aspesi in verità per capire che il trailer del film di Zalone era una mossa di marketing. Ma se anche fosse solo questo e non uno sberleffo al politicamente corretto, sono stati quelli di sinistra, con la loro polemica immotivata, a cascarci con fanatica ingenuità.

Checco Zalone, la critica di Cabona. Nella sua recensione del film sul Messaggero un critico non certo di sinistra, Maurizio Cabona, spegne le polemiche e derubrica il messaggio della pellicola a un banale luogo comune: “Diffidente verso immigrati africani, un fallito – alla lettera – italiano migra nell’Africa nera, dove si redime dai pregiudizi”. Un film schierato dalla parte dei migranti, alla fine.”Il prologo pugliese funziona e strappa il sorriso, se non la risata. Il resto del film è monotono, salvo i siparietti dell’arrampicatore sociale e politico (l’ottimo Gianni D’Addario), mezzo Conte e mezzo Di Maio. Tutto questo occupa mezz’ora. La restante ora, quella africana, sta tra il drammatico non credibile e il comico non riuscito. Nemmeno la telefonata dalla famiglia a Checco in mezzo a un combattimento si sottrae ai limiti sia di sceneggiatura, sia di regia”. Tra Aspesi (sinistra) e Cabona (destra) l’esegesi del film è in buona sostanza molto semplice: né razzista né buonista, il film di Checco Zalone, risulta non etichettabile, non esente dai luoghi comuni, una furbata spacciata per “evento” che evento non è. Vedremo però quanto pubblico accorrerà in sala a vedere Tolo Tolo prima di dare, in ogni caso, una valutazione definitiva.

Maurizio Cabona per il Messaggero il 29 dicembre 2019. Tolo Tolo di e con Checco Zalone non fa né ridere, né piangere. Il prologo pugliese funziona e strappa il sorriso, se non la risata. Il resto del film è monotono, salvo i siparietti dell'arrampicatore sociale e politico (l'ottimo Gianni D'Addario), mezzo Conte e mezzo Di Maio. Tutto questo occupa mezz'ora. La restante ora, quella africana, sta tra il drammatico non credibile e il comico non riuscito. Nemmeno la telefonata dalla famiglia a Checco in mezzo a un combattimento si sottrae ai limiti sia di sceneggiatura, sia di regia. Zalone come sceneggiatore patisce l'altro sceneggiatore, Paolo Virzì; Zalone come attore patisce l'identità con Zalone regista. Non che ultimamente il suo sodalizio con Gennaro Nunziante fosse felice come al tempo di Cado dalle nubi. Ma ci sono debolezze che non vengono punite: peggiorando i loro film, erano migliorati gli incassi... Secondo questo principio di proporzionalità inversa, Tolo Tolo potrebbe incassare quanto Sole a catinelle o Quo vado?. Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera il 29 dicembre 2019. Chi cambia questa volta è il regista-sceneggiatore che non si limita più ad offrire al suo protagonista l' occasione per una risata, ma lo spinge verso un'altra direzione, costringendolo a misurarsi con qualcosa su cui in passato avrebbe preferito chiudere gli occhi o sorvolare con una battuta. E lo fa sia a livello di scrittura che di regia. L' esempio perfetto del primo è la tentazione mussoliniana, l' identificazione ducesca che trasfigura Zalone quando sembra non sopportare più la vicinanza con i migranti. Poteva essere una gag da lasciar interpretare al pubblico e invece il film si incarica di spiegarne il significato citando il Primo Levi di Se questo è un uomo , dove si legge che «la convinzione [che ogni straniero è nemico] giace in fondo agli animi come una infezione latente» pronta a venire a galla nei momenti di difficoltà. «Come con la candida», chiosa Zalone che non può evitare la battuta, ma la citazione da Levi è letterale e il messaggio non può arrivare più diretto e più chiaro.

Cinzia Romani per il Giornale il 29 dicembre 2019. Sembra girato da Papa Bergoglio. Del resto, è al Papa per primo che Luca Medici, nome anagrafico dell' ammazzasette del box-office, mostrerebbe il suo film. Dove i problemi dell' Africa nera e delle sue masse migranti vengono risolti con empatia, spirito d' accoglienza e buonumore. Porti aperti a Ong e barconi, dunque e un filo conduttore terzomondista per questa fiaba dal sapore politico che rovescia le aspettative, diciamo sovraniste, legate alla clip Immigrato, diffusa per battere l' acqua al film. Da furbo uomo di spettacolo, il comico pugliese prima ha suscitato polemiche intorno alla sua canzone, presa sul serio dai progressisti zelanti che gli hanno dato del razzista e prime firme scomodate sui giornaloni, per discettarne -, poi ha servito il suo lavoro sulla società multietnica. Per la prima volta in corsa da solo, senza il fido Gennaro Nunziante a dirigerlo, Zalone si prende un sacco di soddisfazioni, compresa quella di un finale disneyano surreale e d' una scena-chiave, in cui migranti in mare se la giocano alla Esther Williams: mancano soltanto le cuffie a fiorellini. Altro che disperati dei barconi: qua ci scappa da ridere e pazienza se i più tradizionalisti, che detestano la società multietnica, verranno delusi. Magari potranno cantare «da qualche parte del planisfero, c' è sempre uno stronzo un po' più nero».

Natalia Aspesi per la Repubblica il 29 dicembre 2019. Mossa pubblicitaria da premio Agorà, rivolta allo sciocchezzaio oceanico in costante attesa del facile nutrimento, il trailer con la canzoncina celentanica Immigrato (basta la parola!) ci ha del tutto ingannato: non un nanosecondo corrisponde al film, e in questo modo lei ha messo in subbuglio un grande Paese che avrebbe altre grane cui dedicare l' eventuale ingegno, ma che poi sceglie di lasciar perdere l' irrisolvibile e di dedicarsi all'inutile. La stessa emozione che provai piccina quando mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani , l' ho riprovata ieri, canuta da decenni, per Tolo Tolo , il primo dei film di Zalone che osavo affrontare. Si sa noi pseudo elegantoni non si andava a vedere quel comico se non allo Zelig, anche perché i critici, che oggi definiscono il nuovo film chi un capolavoro, chi un grande film, chi mi ha fatto ridere e piangere (vedi Facebook), lo trattavano prima con distacco, tanto più che la folla entusiasta traboccava dalle sale superando anche i filmoni americani, il che non è mai un buon segno per i cultori del grande cinema.

Giorgio Carbone per Libero Quotidiano il 29 dicembre 2019. Premessa necessaria. Tolo Tolo di Zalone non c' entra un tubo col promo interpretato dallo stesso Zalone che ha irritato molte anime belle. Il promo è stata una furbata (divertentissimo, splendidamente offensivo per i sacerdoti del politicamente corretto). Se il Checco sviluppava il promo all'ora e quaranta poteva venire fuori la cosa irresistibile. E certo una zalonata come Dio comanda. Il Tolo Tolo è invece una cosa diversa, un commedione che aspira al respiro epico. Ma ci volevano polmoni che il Checco non ha e che mai avrà (la sua dimensione è quella del bozzetto sull' Italia piccola, non toccata ma solo sfiorata dai grossi problemi). Nessuna anima bella sarà turbata. Tutta la storia è all' insegna del buonismo. Nella visione zalonesca, il dramma dell' emigrazione è vissuto (e infatti finisce) come un cartone animato. Gli africani non sono né buoni né cattivi, ma solo sfigati. Dalla nascita. Perché i bambini neri li porta da sempre una cicogna strabica. Si ride? Sì, si ride perché la verve comica è sempre straripante (non riuscirebbe a frenarla nemmeno lui manco a volere). Ma qui è come appesantita, condizionata dal contesto che è troppo drammatico per fornire solo da spunto per allegre cialtronate. Ogni cinque minuti la narrazione stagna in quasi melodramma.

L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona ma sul tetto del mondo. Paolo Giordano, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In fondo che cos'è un tormentone? È la foto più vera e crudele di una parte di noi. C'è qualcosa di più vero di Siamo una squadra fortissimi? Quello di Checco Zalone è un tormentone «prêt-à-porter», nel senso che è stato pubblicato nel 2006 ma sarebbe stato perfetto anche 30 anni prima o 30 anni dopo, tanto noi siamo (anche) quella roba lì, visionari e cialtroni, modaioli ma tradizionalisti e perfetti conoscitori dello sport più praticato del mondo, quello del quale ciascuno stabilisce le regole che vuole. Da quando sono nati, all'inizio degli anni Sessanta, i tormentoni hanno intercettato l'evoluzione degli italiani e dell'italianità, dal sapore di sale di chi iniziava a conoscere le vacanze al mare fino al Vespino dei Lùnapop sul quale sono salite due generazioni di liceali. Un processo graduale, inevitabile ma imprevedibile anno dopo anno, decennio dopo decennio. Invece Siamo una squadra fortissimi è implacabile. È la declinazione musicale dei film di Alberto Sordi mescolati con la commedia all'italiana, della furbizia di Amici miei con Il Processo del Lunedì e dei film di Totò con l'eterno neorealismo di Monicelli. «Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici e nun potimm' perde e fa figur' e mmerd', perché noi siamo bravissimi e super quotatissimi e, se finiamo nel balatro, la colpa è solo dell'albitro». Checco Zalone, che non era ancora il salvatore del cinema italiano ma si capiva che lo sarebbe diventato, si è inventato questo brano che è partito come sigla radiofonica del programma «Deejay Football Club - Speciale Mondiali» che Ivan Zazzaroni conduceva su Radio Deejay. Pubblicato come singolo, è stato al primo posto della classifica dal 14 luglio fino al 17 agosto. D'accordo, l'Italia aveva vinto i Mondiali di calcio a Berlino battendo in finale la Francia ai rigori e, quindi, senza saperlo Siamo una squadra fortissimi è diventato un inno persino più del globale popopopo mutuato da un brano rock dei White Stripes che i Mondiali manco sapevano cosa fossero. Checco Zalone ha messo in note il dizionario di un'Italia fanfarona e irresistibile e ci ha regalato la possibilità di riconoscerla in ogni campo, mica solo quello del pallone. «Stoppi la palla al volo, come ti ha imparato tanto tempo fa quando giocavi invece di andare a scuola, quanti sgridi ti prendevi da papà» è una caporetto grammaticale che parodizza tanti aspetti della vita pubblica italiana. Una volta a parlare così erano soprattutto i calciatori al 90esimo Minuto di Paolo Valenti, magari dopo aver segnato il primo gol in A dopo una carriera nata in qualche paesino sperduto. Adesso, ahimè, questi strafalcioni sono anche ai piani alti, o altissimi, magari anche a Palazzo Chigi. Dopotutto, ci sono ministri o senatori, da Razzi a DiMaio, che parlano uno «zalonese» stretto nonostante debbano confrontarsi con problemi di gravità planetaria. Ed è difficile non trovare tracce dell'enfasi di Checco Zalone in quel «il 2019 sarà un anno bellissimo» che l'ex e quasi neo premier Giuseppe Conte ha pronunciato pochi mesi fa. E chissenefrega se il 2019 è stato finora tutt'altro che bellissimo e l'Italia stia affrontando la crisi di governo più pazza della propria storia repubblicana: conta il messaggio, lo slogan, «l'impatto» dell'annuncio. «Cornuti siamo vittimi dell'albitrarità a noi contraria, ecco che noi cerchiamo di difenderci da queste inequità così palese» canta Zalone ma al suo posto ci potrebbero essere tanti altri. Come conferma anche Cetto Laqualunque, ossia la feroce maschera del politico italiano creata da Antonio Albanese, l'importante è parlare, annunciare, rivendicare. Anche per questo, il pezzo di Checco Zalone è diventato il vero tormentone dell'estate 2006, nonostante tanti altri brani si fossero candidati al ruolo più ambito dal pop estivo. Siamo una squadra fortissimi parla alla parte inconfessabile dell'italianità eppure percepita da tutti, anche da chi non la pratica. D'altronde, il momento era quello giusto. C'era il tormento di un'epoca che non sapeva dove andare. Saddam Hussein ha appena detto di preferire la fucilazione all'impiccagione. Osama bin Laden continua a minacciare l'Occidente. Bush parla spesso con la Merkel, l'unico primo ministro sopravvissuto fino a oggi di quel tempo politico. Berlusconi fa un discorso al Congresso degli Stati Uniti riunito in seduta plenaria e, subito dopo le elezioni di aprile, viene arrestato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. A maggio inizia «Calciopoli» che costerà due scudetti alla Juventus e la credibilità a tutto il calcio italiano, esattamente come avvenne nel 1982, quando gli azzurri di Bearzot vinsero il Mundial pochi mesi dopo gli arresti (addirittura negli stadi a partite in corso) degli scommettitori più scatenati. Dire «Calciopoli» nell'immaginario collettivo significa dire Moggi. «Grande Luciano Moggi, dacci tanti orologgi agli albitri internazionali, si no co' 'O cazz' che vinciamo i Mondiali» canta Zalone con la libertà che soltanto un comico, in Italia, può permettersi. Si elegge Giorgio Napolitano al posto di Ciampi, e il muro di Berlino cade anche al Quirinale. Benedetto XVI fa arrabbiare molto i musulmani con il discorso di Ratisbona e L'urlo di Munch viene ritrovato dopo due anni dal furto. Insomma, il 2006 è un «anno incubatrice». Contiene i germi del populismo che stava fiorendo sottopelle, per lo più incompreso dalla classe politica. Non a caso, il «Vaffa Day» di Beppe Grillo del 2007 era ancora considerato un evento folcloristico destinato a non lasciare traccia nella vita politica italiana. E invece. Oggi, 12 anni dopo, gli urlatori più stentorei di quei «vaffa day» si stanno giocando il governo italiano per la seconda volta consecutiva a dimostrazione che molto spesso il pop e i commedianti arrivano prima dei migliori analisti politici o economici. In quel 2006 Checco Zalone, ossia il pugliese Luca Medici, era ancora uno dei talenti più cristallini di Zelig, quello più capace di mettere in pratica la lezione della grande comicità italiana: parlare di ciò che siamo e ridere di ciò che vorremmo essere. Siamo una squadra fortissimi è la conferma che si può cristallizzare un tipo italiano e scommettere che si riproporrà identico nel futuro. I versi di questo brano ce l'hanno fatta e, fateci caso, saranno attuali anche tra dieci o cento anni.

Giuliano Cazzola per huffingtonpost.it il 7 dicembre 2019. Mentre mi recavo, in taxi, nella sede di Mediaset della mia città per partecipare a ‘’Stasera Italia’’ (il talk show condotto da Barbara Palombelli su Rete 4) mi ha incuriosito una canzone - che proveniva dalla radio dell’auto – il cui ritornello ripeteva la parola “immigrato” mentre le strofe raccontavano, con un velo d’ironia, la “persecuzione quotidiana” che i cittadini subiscono da parte degli immigrati ai semafori, nei supermercati e a ogni angolo di strada. Addirittura all’italiano protagonista/vittima della canzone l’immigrato insidia, con successo e reciproca soddisfazione, anche la moglie. Ho chiesto subito al tassista se conoscesse quella canzone. Anche lui l’aveva sentita per la prima volta. Essendo la radio emittente al di sopra di ogni sospetto (per un momento avevo temuto che si trattasse di Radio Padania, ammesso che esista ancora), mi ero tranquillizzato, ripromettendomi di approfondire l’argomento. Arrivato in trasmissione ho scoperto l’arcano. Ad un certo punto, Palombelli ha mostrato un promo – divenuto virale sui social - del prossimo film di Checco Zalone. E così ho potuto sapere, anche attraverso le immagini del video, da dove veniva quella canzoncina. La conduttrice si è rivolta agli ospiti per conoscere la loro opinione. Tutti si sono sperticati in apprezzamenti per la canzonetta, trovandola divertente, dissacrante, capace di esorcizzare con la vis comica il senso di un fenomeno sociale. Il sottoscritto, invece, si è infilato – con sorpresa e disapprovazione dei presenti – su un’altra pista, ricordando, che nella Germania di Weimar si cantava nei cabaret di Berlino (pare che la vita notturna fosse molto intensa) una canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei. Lo ammetto: io vivo nella convinzione (e nell’angoscia) che l’Italia si appresti a conoscere – ovviamente mutatis mutandis perché un secolo non è trascorso del tutto invano - l’esperienza della Repubblica di Weimar. Così, rincasato, sono risalito alla fonte nel saggio di Siegmund Ginzberg, "Sindrome 1993"’ (Feltrinelli 2019). Ecco qualche brano della canzone che avevo ricordato in trasmissione: ’’Se piove e se fa freddo/ se il telefono è occupato/ se la vasca da bagno perde/ se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi/ se il principe di Galles è un finocchio/ è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei. E via di questo tono. Il fatto è che a cantarla non erano le SA di Ernst Rohm a passo di marcia, ma dei normali attori durante uno spettacolo di satira politica andato in scena in un cabaret (il Tingel-Tangel) di Berlino nel 1931. L’aria del ritornello (è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei) rievocava l’habanera della Carmen. La musica era dell’autore (Felix Hollaender) delle canzoni di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro. Come si vede siamo ben oltre il livello delle note (ispirate ad Adriano Celentano) di Checco Zalone. Certo, il grande comico italiano non è razzista, come non erano antisemiti gli autori e degli attori della satira tedesca del 1931. Si sono limitati, ora ed allora, a cogliere un sentimento diffuso, sperando di demolirlo con l’ironia. Del resto, non possiamo restare prigionieri del "politicamente corretto" – ammesso che l’antirazzismo possa ancora ritenersi tale, visti i dati del Censis – ma sarebbe meglio non dimenticare le parole di Primo Levi: ciò che è stato può ritornare.

TESTO IMMIGRATO

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

Al semaforo sul parabrezza

C’è una mano nera con la pezza

E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici

“C’ha due euro per panino!”

Immigrato

Quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

Mi prosciughi tutto il fatturato

Poi la sera la sorpresa a casa

Al mio ritorno

Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno

Ma mia moglie non è spaventata

Anzi

Sembra molto rilassata

E ritrovo quel suo sguardo malandrino

Che faceva quando…

Quella roba lì

La faceva…

Immigrato

Sembra proprio che ti sei integrato

Immigrato

Favorisci pure l’altro lato

Immigrato

Ora dimmi perché mi hai puntato

Potevi andar dal mio vicino pakistano

O a quel rumeno in subaffitto al terzo piano

Ma hai scelto me

Il mio deretano

Dimmi perché

Perché, perché perché perché?

Prima l’italiano!

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Immigrato

Immigrato

GLI ANTENATI DELL’IMMIGRATO DI CHECCO ZALONE. Michele Bovi per Dagospia il 31 dicembre 2019. Immigrato di Checco Zalone può contare su un predecessore nato esattamente mezzo secolo fa. La canzone che movimenta il trailer di Tolo Tolo, il nuovo film dell’artista barese nei cinema da Capodanno, ha sollevato polveroni di polemiche. Il protagonista del brano è un extracomunitario ironicamente dipinto come sfacciato e importuno: un’immagine e un linguaggio che molti hanno bollato come imprudentemente scorretti. Satira o razzismo? È un interrogativo che 50 anni fa gli italiani non si ponevano, meno che mai nelle canzoni. La figura dello straniero avviato a introdursi e a conquistare spazi che si ritenevano riservati ai soli cittadini dello Stivale, ha infatti un precedente nella musica pop italiana che all’epoca non suscitò alcuna protesta: nel 1969, Bruno Lauzi, ovvero uno dei padri della nostra canzone d’autore, scrisse e incise Arrivano i cinesi, con uno scherzoso testo che preannunciava l’invasione di quei “piccoli e veloci” orientali “più gialli dei limoni che metti dentro al tè”. Lauzi ammoniva: “Arrivano i cinesi, succede un quarantotto, si piazzano in salotto e non se ne vanno più. Arrivano i cinesi e mangiano felici le quaglie e le pernici che avevi preso tu”. Erano decisamente altri tempi, in cui il “politicamente corretto”, ossia il comportamento sociale diretto a scongiurare ogni tipo di offesa verso determinate categorie di persone, era un concetto astratto, impensabile. Soprattutto per un motivetto musicale. Distinguere e citare il colore della pelle, ad esempio, non incuteva disagio. La canzone Angeli negri incontrò il favore del pubblico già nel 1949, incisa da Carlo Buti, capostipite dei melodici italiani, ma divenne un disco da hit parade dieci anni dopo nell’interpretazione di Don Marino Barreto Jr, cubano dalla pelle scura beniamino del pubblico nostrano, e nuovamente un successo straordinario nell’esecuzione di Fausto Leali, che i discografici per l’occasione avevano soprannominato “il negro dalla voce bianca”. Già nel 1967 le canzoni giocavano con frequenza e disinvoltura su quel tema: mentre l’italo-francese Nino Ferrer furoreggiava in tutta Europa intonando “Vorrei la pelle nera”, il francese Antoine guadagnava il vertice della classifica con il brano “Cannella”: “La chiamerò Cannella per il colore che ha / la pelle di Cannella impazzire mi fa / se dico così una ragione ce l’ho: io sono bianco e lei no”. Persino la violenza contro le donne veniva cantata sfrontatamente senza provocare la benché minima rimostranza. Piero Ciampi, ancora oggi rimpianto e ricordato come uno tra i più raffinati autori del nostro panorama musicale, poteva nel 1971 esibirsi in televisione con la sua Ma che buffa che sei e cantare “Quel pugno che ti detti è un gesto che non mi perdono. Ma il naso ora è diverso: l’ho fatto io e non Dio”. Tuttavia il primato dell’esilarante temerarietà pop spetta senza dubbio a una canzone del 1965. Il tema era quello della droga, quando l’allarme per l’uso degli stupefacenti era ancora relativamente lontano. Il brano, scritto dal compositore milanese Walter Malgoni (lo stesso di Guarda che luna per Fred Buscaglione e Tua per Jula De Palma) con il testo di Gustavo Palazio, paroliere ma anche autore televisivo e sceneggiatore cinematografico, s’intitolava Cocaina. A interpretarlo era Giovanna Spagnulo, in arte Gianna, voce solista dei Cantori Moderni Alessandroni, il gruppo musicale più impegnato negli anni Sessanta per le colonne sonore cinematografiche sotto la direzione dei principali compositori del settore: da Ennio Morricone a Bruno Nicolai. In Cocaina Gianna raccontava allegramente di aver acquistato una bustina della sostanza in un vecchio tabarin per 30mila lire e di averla nascosta, affinché la mamma non se accorgesse, in un vasetto di zucchero vanigliato. Il caso però volle che quella polvere finisse in una torta servita per merenda a tutta la famiglia riunita in salotto, assieme a ospiti vari, addirittura il parroco. Come finì? “Tutti a godere senza freni. – gorgeggiava Gianna – Ma che strana polverina la cocaina!”. Altroché Rolls Royce di Achille Lauro.

QUANDO LE CANZONI ERANO POLITICAMENTE SCORRETTE

 

COCAINA (1965)

In un vecchio tabarin

io godevo senza fren

quando verso la mattina arrivò

la cocaina

è arrivata in un gilet

l’han venduta pure a me

30.000 la bustina comperai

la cocaina

se la vedeva la mamma

faceva un dramma

e fu così che la misi lì

in un vasetto usato

di zucchero vanigliato

ma qualcuno preparò

una torta ed impastò

latte zucchero e farina con quel po’

di cocaina

alle 5 su da me

vengon tutti per il tè

c’è la nonna col curato

sua nipote col cognato

una guardia di frontiera

con la vecchia cameriera

mia sorella con tre amici

che gli fuman le narici

anche loro più o me’

stan godendo senza fren

ma che strana polverina

la cocaina.

 

ARRIVANO I CINESI (1969)

Tutte le sere

al solito posto

io resto nascosto

dai vieni anche tu

se mi vuoi trovare

son dentro all'armadio

ascolto la radio

e non esco più        

Arrivano i cinesi

arrivano nuotando

dice Ruggero Orlando

che domani sono qui         

Arrivano i cinesi

arrivano a milioni

più gialli dei limoni

che metti dentro il tè          

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Arrivano i cinesi

e mangiano felici

le quaglie, le pernici

che avevi preso tu  

Arrivano i cinesi

succede un quarantotto

si piazzano in salotto

e non se ne vanno più       

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Io mangio solo

il riso bollito

mi vesto di seta

son tutto ingiallito

e se c'ho un pensiero

lo scrivo, se posso

su un libro speciale

un libretto rosso.     

Arrivano i cinesi

son piccoli e veloci

sorpassano agli incroci

correndo a testa in giù       

Arrivano i cinesi

ti insegnano il saluto

con l'alfabeto muto

così non parli più    

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Arrivano i cinesi

arrivano nuotando

dice Ruggero Orlando

che domani sono qui         

Arrivano i cinesi

succede un quarantotto

si piazzano in salotto

e non se ne vanno più       

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Perché, perché?

Perché?

 

ANGELI NEGRI (1949-1959-1968)

Pittore, ti voglio parlare

Mentre dipingi un altare.

Io sono un povero negro

E d'una cosa ti prego.

Pur se la Vergine è bianca

Fammi un angelo negro...

Tutti i bimbi vanno in cielo

Anche se son solo negri.

Lo so, dipingi con amor

Perché disprezzi il mio color?

Se vede bimbi negri

Iddio sorride a loro.

Non sono che un povero negro,

Ma nel Signore io credo,

E so che tiene d'accanto

Anche i negri che hanno pianto.

Lo so, dipingi con amor

Perché disprezzi il mio color?

Se vede bimbi negri

Iddio sorride a loro...

 

MA CHE BUFFA CHE SEI (1971)

Sei come un purosangue

Che non ha mai perso una corsa

Sei tu che vieni avanti

Sei rara come una sorpresa

Ma che buffa che sei

Ma che buffa che sei

Il denaro per te è un giornale di ieri

Ma che buffa che sei

Ma che buffa che sei

Ogni cosa che fai

Ha troppi strani motivi

Tranne una, e la sai: l'amore

Ma che amore che sei

Ma che cara che sei

Quando dici "son due le anime mie"

Quel pugno che ti detti

È un gesto che non mi perdono

Ma il naso ora è diverso:

L'ho fatto io e non Dio

Ma che amore che sei

Ma che cara che sei

Quei ragazzi laggiù

Sembrano noi.

 

LA PELLE NERA (1967)

Ehi, ehi, ehi dimmi Wilson Pickett

Ehi, ehi, ehi dimmi tu James Brown:

questa voce dove la trovate?

Signor King, signor Charles, signor Brown

io faccio tutto per poter cantar come voi

ma non c'è niente da fare, non ci riuscirò mai

e penso che sia soltanto per il mio color che non va...

Ecco perché io vorrei, vorrei la pelle nera,

vorrei la pelle nera!!!

Ehi, ehi, ehi dimmi tu signor Faust, ehi, ehi, ehi dimmi come si può

arrostire un negretto ogni tanto con la massima serenità

io dico Nino tu non ci dovresti pensar

ma non c'è niente da fare per dimenticar

'sto maledetto colore di pelle che mi brucia un po'...

Ecco perché io vorrei... vorrei la pelle nera,

vorrei la pelle nera!!!

Ehi, ehi, ehi voi carissimi estinti

Ehi, ehi, ehi, voi che sapete già

voi che…

 

CANNELLA (1967)

La chiamerò Cannella

per il colore che ha.

La chiamerò Cannella

in privato e in società.

La pelle di Cannella impazzire mi fa.

Se dico così una ragione ce l'ho:

io l'ho assaggiata e voi no.

Cara la mia Cannella

che cosa hai fatto di me.

Mi manca una rotella,

io sono pazzo di te.

Ti metterò un guinzaglio

per essere sicuro che

da oggi in poi,

nemmeno per sbaglio,

tu possa fuggire da me.

Vieni via con me Cannella

non mi dire che non puoi.

Portati tua sorella

e anche tua madre se vuoi.

Tanto nel mio castello

c'è posto a volontà

Son pronto a darti

tutto quello che ho

ma non mi dire di no.

La chiamerò Cannella

per il colore che ha.

La chiamerò Cannella

in privato e in società

La pelle di Cannella

Impazzire mi fa

Se dico così

una ragione ce l'ho:

io sono bianco e lei no.

Marco Giusti per Dagospia il 7 dicembre 2019. Ci siamo. Ha già diviso tutti. L’ha fatto apposta. Ci sta. E’ bastato un video, che devo dire fa molto ridere, “L’immigrato”, una scatenata totocutugnata che parte con “il porto spalancato” e chiude con gag finale che spiega perché gli immigrati dopo averti tormentato tutti i giorni arrivano anche a trombarti la moglie, “prima l’italiano”, per portare Checco Zalone in quella zona pericolosa dei social che va dall’Inferno al Paradiso. Visto da destra, visto da sinistra, visto da destra pensando che sia si destra, visto da sinistra pensando che sia di sinistra e visto da da destra pensando che sia di sinistra e visto da sinistra pensando che sia di destra. Che mal di capoccia… e va subito in tendenza assieme alla Nutella e a Salvini. Per il centro Baobab è “spazzatura” (ma perché?), per altri partono gli insulti: “schifoso comunista cesso zeccone”, “anfame sinistroide e perlo più [scritto così…] milionario”. Aiuto! Poi partone le cattiverie nemmeno fosse Polanski. “Se a Zalone piacciono tanti i migranti, spero che gli regali a tutti il biglietto per vedere il suo nuovo film. Spero che sia il suo solo pubblico. Per me ha chiuso. #boicottaZalone”. Ecco c’è pure il movimento contro. Nemmeno fosse Polanski. Poi arriva chi lo difende. “Compagni a sto giro avete toppato di brutto, forse non la conoscete la comicità di Zalonem prende per il culo l’italiota da sempre”. Non a caso chiude il video con l’immagine di lui ducetto al balcone in bianco e nero, pronto a diventare leghista. No? E poi lo ha già detto. “Non è più irriverente prendere per il culo Salvini e Di Maio perché lo fanno già da soli”. E poi: “Se date del razzista a Checco Zalone non avete capito proprio un cazzo”, “buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere..#NONAVETECAPITOUNCAZZO”. Magari voleva davvero questo per lanciare il suo film il 1 gennaio. Dividere il pubblico per provocare interesse. Ovviamente c’è riuscito. Come Salvini con la Nutella. Ma che vai a romperci il cazzo con la Nutella come se fossi un hater di Nanni Moretti? Eddai… Non puoi limitarti a odiare la Juventus, che so, Chiara Ferragni… No. Attacchi la Nutella. Zalone non vuole fare della satira alla Albanese o alla Dandini, vuole prendere per il culo proprio gli italiani che cascano nel suo gioco di odio/amore, vuole andare oltre il politicamente corretto/politicamente scorretto. Mentre Ficarra e Picone, morto il cinepanettone,  fanno il grande film comico di Natale per tutti, mentre Marco D’Amore risorto come Cristo in L’immortale sta facendo il pieno al cinema, 1,2 milione di incasso in due giorni, mentre Garrone e Benigni provano il fantasy dark con la rilettura di Pinocchio, Zalone non può che sparigliare facendo Letto a tre piazze con l’immigrato e la moglie nelle scene finali del suo video. Deve farci ridere provocandoci. Ci trombano le mogli… Che sarà mai? Ma quale razzista… Sardine a parte, mi sembra l’unico che non nominandolo mai possa trattare Salvini per quello che è, perché affronta direttamente la confusione ideologica degli italiani. Il film farà il botto. Lo sapete già…  

"Tolo tolo", la comicità di Zalone s'innesta sui contenuti di Virzì. L'intento è nobile: sensibilizzare il più vasto pubblico possibile sul tema dell'immigrazione, grazie a umorismo e umanità. A pagarne il prezzo è il divertimento, ridimensionato. Serena Nannelli, Martedì 31/12/2019, su Il Giornale. Con "Tolo Tolo", suo quinto film da protagonista, Checco Zalone torna sul grande schermo non solo come attore ma anche, per la prima volta, come regista. Scritto dallo stesso Luca Medici (vero nome del comico) in collaborazione con Paolo Virzì, l'attesa pellicola uscirà tra poche ore in oltre mille copie ma i fan sappiano che stavolta il Checco nazionale, anziché mirare a far ridere in maniera genuina come suo solito, punta più in alto. Forse temendo di non riuscire a divertire come nel precedente "Quo Vado?", dall'incasso record, oppure, più probabilmente, volendo monetizzare quel successo in un modo più nobile, l'artista sceglie di rendere il divertimento secondario rispetto allo scopo di fare la differenza su un tema sensibile dei nostri giorni, l'immigrazione. Si sorride in quantità, ovviamente, ma l'umorismo è frenato e funzionale alla visione edulcorata di situazioni che nella realtà sono drammatiche. "Tolo tolo" racconta di un piccolo imprenditore, Checco (Zalone), che dopo aver visto fallire l'idea di proporre il sushi nel suo paesello natio, in Puglia, fugge dai creditori lasciando ai parenti i propri debiti. Rifugiatosi in Kenya, vede letteralmente andare distrutto il suo African Dream (nome del resort in cui nel frattempo ha trovato impiego) e, per tornare in Italia, si unisce a un gruppo di migranti. Con loro affronterà prima il deserto e poi la traversata via mare. Il trailer sui generis, ossia il video della canzone "Immigrato" in cui si passano in rassegna in modo ironico i luoghi comuni legati alle famose "risorse", dopo aver visto "Tolo tolo", si rivela essere un cavallo di Troia costruito ad arte per tirare la volata pubblicitaria all'uscita nei cinema e per confondere le acque sull'eventuale orientamento politico del film. Fuggire quanto possibile dalle etichette serve a vendere biglietti ai simpatizzanti di tutti gli schieramenti e quindi la narrazione si mantiene il più possibile superpartes, piazzando un paio di dissuasori come un nero traditore e un francese dall'ipocrisia radical-chic. Ciò detto, pare impossibile che chi ha scritto "Tolo tolo" creda davvero di aver praticato chissà quale equilibrismo. Archiviato il sodalizio con Gennaro Nunziante e imbeccato forse dal nuovo collaboratore, Zalone realizza un'opera che sembra aspirare ad avere un qualche valore pedagogico per i più piccoli e a smuovere per quanto possibile le coscienze dei più grandi. Ambizioso ed esemplare, senza dubbio. Il film però funziona maggiormente quando il comico domina la scena con il personaggio di sempre, l'opportunista affetto da qualunquismo e furberia. La commistione tra favola e terzo-mondo, coraggiosa e attenta a dribblare scivoloni nel buonismo più sfacciato, convince meno. Le battute atte a intervallare la ferocia sottintesa del contesto, alla fine, da un lato impediscono la commozione e dall'altro non bastano a far librare alta la spensieratezza. Le contaminazioni sono materia difficile, come insegna l'argomento del film, e quella tra l'impegno, imperativo morale da sempre caratteristico di un uomo come Paolo Virzì, e il candido cinismo, assunto base della comicità di Zalone, va a buon fine fino a un certo punto. Sono scene irresistibili quelle in cui vizi, gusti e limiti del protagonista (e dell'italiano di provincia) risaltano come avulsi e superficiali rispetto alle preoccupazioni reali di chi lo circonda. E', inoltre, indovinato il file rouge sulla carriera dell'arrampicatore politico che "assomiglia a Conte, ha il curriculum di Di Maio e parla come Salvini" (citandone la descrizione stessa fatta da Zalone in conferenza stampa), mentre è poco immediato il sillogismo tra fascismo, egoismo congenito e candida. Si poteva fare a meno della canzoncina "la gnocca salva l'Africa", inopportuna per tanti motivi, storici e anche contingenti al film (resta oscuro un certo comportamento del personaggio femminile). Così come lascia interdetti la digressione finale disneyana. Insomma, l'importante è non andare a vedere "Tolo tolo" pensando di trovarsi di fronte a due ore di puro disimpegno, perché quello nato a quattro-mani da Virzì e Zalone è un film che vuol avvicinare il pubblico al vissuto dei meno fortunati e forse anche tentare di cambiarne l'opinione a riguardo.

Marco Giusti per Dagospia il 30 dicembre 2019. Beh? Da che parte state?! E’ già il delirio, poro Checco, quello che si sta scaldando per il suo nuovo film, Tolo Tolo, ultimo del contratto che lo lega alla Tao2, cioè a Medusa (ma nessuno gli ha chiesto che farà dopo la fine del contratto… una sua società? legata a chi? sapete quanti produttori si sono dichiarati pronti a produrre i suoi film?). Da una parte ci sono i critici pensionati di Corriere e Repubblica miracolosamente schierati pro Zalone. Paolo Mereghetti che scomoda Alberto Sordi e Primo Levi (mi sa che erano più appropriati Franco e Ciccio e Bruno Corbucci…) e Natalia Aspesi, che pur non richiesta, mai aveva visto un film di Zalone, trova che i buoni del film sono gli africani. Ma perché dovevano essere cattivi, scusi? E che magari i cattivi sono i noti giornalisti, razzisticamente segnalati senza nome, che non hanno capito il video-promo. Come se ci fosse qualcosa da capire, era una barzelletta. Esattamente come nei film precedenti. Da un’altra ci sono i critici dei giornali de destra che si sono buttati sul film perché buonista e de sinistra. Ma chi lo ha detto? Checco ha fatto il possibile per non schierarsi da nessuna parte, per togliere ogni grammo di radicalchicchismo, una vera piaga per un comico, altro che la candida. Lo sappiamo. Non vuole etichette, non vuole essere tirato per la giacchetta. E l’abbraccio della sinistra dei giornali, ammesso che qualcuno dei suoi vecchi spettatori li legga, può essere fatale. Sono quelli che al massimo vanno a vedere il film cinese al Quattro Fontane, come The Farewell di Lulu Wang. Io l’ho visto, bellissimo, si piange tanto, è un film civile, non ci sono battute sessiste. Il tema non è solo la morte, ma la perdita di identità delle nuove generazioni che si sono staccate dalla madre patria, dalle tradizioni. Come se da Capurso o da Bari i tuoi figli finissero in America e chi li vede più. Così si soffre e si sognano i panzerotti. Ohibò. Tolo Tolo non può certo rischiare di perdere il suo bottino di 40-50-60 milioni per colpa dei radical chic e della critica di sinistra che lo trova quasi un film di Paolo Virzì. Anche per questo non c’è più Virzi alla regia, no? Un film di Virzì sui migranti con Checco Zalone non è un film di Zalone cafone quanto basta per tutto il suo pubblico. Lo sappiamo. E lo sapranno i suoi produttori, anche se non vogliono perdere né Cazzullo né Mereghetti né l’Aspesi né il salotto buono della sinistra dopo aver raccolto al massimo gli inutili salamelecchi di Aldo Grasso per le serietv. Che non sono certo 'Gomorra' né 'L’amica geniale', mi spiace, e, a parte Grasso, nessuno le cita tra i capolavori del decennio… Ma mentre tra i critici più o meno pensionati e di destra e di sinistra la divisione politica per la prima volta di fronte a un film di Zalone è precisa, sinistra pro destra contro, tra i ragazzi, a quel che sento, le cose cambiano. Qualunquisti e ragazzi di destra lo vogliono vedere, non aspettano altro anzi, sardine e bravi ragazzi di sinistra non muoiono proprio dalla voglia di andarci. Preferiscono sicuramente 'Pinocchio'… Non solo. Mi sembra, a sentirli parlare, che sentano persino puzza di sessismo di sinistra, come nei vecchi film di Scola amati da Virzì. Sono proprio le accuse di sessismo che hanno fatto, anche giustamente, arrabbiare Checco. In un’intervista al 'Fatto' ha pure detto che non ha mai mostrato nudi femminili nei suoi film, dopo anni di docce di ogni tipo nelle infami commedie sexy. Infami l’ho aggiunto io. Come se il sessismo si misurasse coi centimetri di pelle femminile mostrata. Dai, Checco. Il nudo e la commedia sexy non c’entrano nulla con il sessismo. Perché è sempre un problema di visione, di racconto al maschile, sia che venga fatto da Scola, da Virzì o da Zalone. Non c’è mai una visione della storia da parte della donna e già la battuta della canzonicina “La gnocca salva l’Africa” rischia parecchie critiche, anche giustificate, se pensi alle storie terribili di stupri, violenze e morte che le sopravvissute raccontano dei loro viaggi dall’Africa. Sono d’accordo con Checco, che ho sempre adorato fin dai suoi primi film, quando i critici di sinistra, già allora pensionati, ne parlavano malissimo, e che ritenevo davvero un rivoluzionario nel nostro cinema, sul politicamente corretto. Non si può fare il cinema comico col metro del politicamente corretto. Ma oggi, a differenza dei tempi sia della commedia all’italiana alla Ettore Scola sia che della commedia sexy alla Nando Cicero, non si possono fare più film dove non si rispettino non dico i problemi delle donne e dei migranti, quanto il loro sguardo su quel che si racconta. Cioè non te la cavi più con tre attori africani che hanno studiato in Francia e fanno i “buoni”, citando il Neorealismo, Rossellini e Pasolini. Devi, credo, immaginarti di raccontare la storia che racconti anche dalla parte loro, magari con uno sceneggiatore in più. O rischi di fare un film che ti può creare dei problemi o, peggio, di fare un film vecchio, come una vecchia commedia all’italiana fatta oggi, senza cioè la patina del tempo. Ottima per fare incassi grazie alla forza di Checco, che rimane un genio comico, qualsiasi cosa avesse affrontato, ma lontana mille miglia, altro che l’Africa, anche dalla realtà di quello che è il cinema oggi. E penso a film come 'Atlantique' di Mati Diop che potete tutti trovare su Netflix ed è candidato al miglior film straniero, a mille altri che non saranno campioni di incassi, ma non ci costringono a inutili dibattiti. Intanto i manifesti giganti di ''Tolo Tolo' dominano ovunque, come da anni non si faceva, perfino a Piazza del Popolo a Roma, messi proprio lì dove nel 1825 persero la testa i carbonari Targhini e Montanari. E Gigi Magni ci fece pure un film…

L'immigrato di Zalone divide il web, Valsecchi: «È satira». Ben 2 mln di visualizzazioni in 48 ore per il singolo del re degli incassi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Dicembre 2019. La giornata di un italiano alle prese con un «immigrato», tra la «mano nera» che tenta di lavare il parabrezza e quegli spiccioli che rischiano via via di "prosciugare il fatturato», passando per la «sorpresa» finale: "Al mio ritorno/ Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno/ Ma mia moglie non è spaventata/ Anzi/ Sembra molto rilassata...». Checco Zalone ha scelto di lanciare in un modo tutto suo, irriverente e politicamente scorretto, il suo nuovo, attesissimo, film, Tolo Tolo, in uscita il primo gennaio: un singolo, intitolato appunto 'Immigrato', che mescolando echi di Celentano e Toto Cutugno tocca un nervo scoperto in una società in cui va montando - come ha appena certificato il Censis - una deriva verso l’odio, il razzismo e l’intolleranza nei confronti delle minoranze. Il videoclip di Immigrato ha fatto immediatamente il giro del web, raccogliendo in 48 ore quasi 2 milioni di visualizzazioni e incassando commenti entusiastici ma anche critiche feroci al re degli incassi del cinema italiano. «Il video 'Immigratò di #CheccoZalone è terribile e non fa ridere. C'è poco altro da commentare, nessun bisogno di addentrarsi in analisi di chissà quali sfumature: banale spazzatura per il mercato delle festività», scrive l’associazione di volontariato Baobab. «Non ho capito se la canzone di Zalone «Immigrato» è fascista e razzista oppure prende in giro chi lo è. O è entrambe le cose, se possibile. Secondo voi? #CheccoZalone», si legge in un altro tweet. «Forse #CheccoZalone voleva far ridere. Non c'è riuscito, si è solo adeguato ai tempi #immigrato #blob», riflette un altro utente. Ma c'è anche chi parla di «capolavoro» e chi, come Antonello Piroso, chiosa sempre su Twitter: «Iscrivere d’ufficio #Zalone a un partito/movimento è un esercizio sterile e pure offesivo(per lui). In un colpo solo, irride sovranisti e cultori del #politicamenteCorretto,#Salvini e #Saviano. Non è di dx nè sin.E' #oltre». «Sono molto stupito di queste poche, per fortuna, reazioni al videoclip di Checco Zalone 'Immigratò, da noi prodotto», commenta Pietro Valsecchi, patron della Taodue. «Per me - e credo di interpretare anche il pensiero di Luca - e quindi per noi, la diversità è sempre stata un valore a tutti i livelli: di pensiero, di origine sociale, di provenienza geografica. La satira vuole prendersi gioco di tutte le certezze, qualunque esse siano, e chi non la capisce, forse non vuole neanche provare a mettersi in discussione. E quando graffia, graffia. Vi aspetto tutti il primo gennaio in sala: evviva Tolo Tolo», conclude. Né il testo né le immagini del video - girato in diverse zone di Roma tra le quali il quartiere Bologna, nel caseggiato popolare che è stato set del film di Ettore Scola “Una giornata particolare” con Marcello Mastroianni e Sofia Loren - sono tratte dal film sul quale vige ancora il massimo riserbo. L'unica sinossi ufficiale recita: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Lui, Tolo Tolo, granello di sale in un mondo di cacao».

Lettera di Alessandra Mammì a Dagospia l'8 dicembre 2019. Caro Dago, in effetti Zalone è divisivo, persino in famiglia. E per non rovinarmi la domenica a discutere con il mio Giusti marito preferisco intervenire nel “dibbbattitto”  per dirti che  a mio parere quello spot “Immigrato” non è per niente politicamente scorretto. Correttissimo invece basta spostare il punto di vista e  registrare il plauso e l’applauso che arriva da i salviniani cronisti e opinionisti del “Secolo d’Italia” del “Giornale” e della “Verità” tutti pronti a sbeffeggiare il perbenismo di benpensanti e radical chic di sinistra, tipo me. Gente ancora ancorata a desueti principi di rispetto per l'altro , la quale pensa che è inutile girarci intorno, e citare filosofi in difesa della satira: il canto di Zalone sgorga dai petti della destra italiana e non c’è nessuna ambiguità, né umoristico sarcasmo. Il video è quello che vedi. Un immigrato pulcinella che cerca di vivere a sbafo e un italiano di classe media impoverita costretto alla convivenza forzata che non riesce a difendersi. Ma quel che mi ha più irritato confesso, non il legittimo sospetto di vedere un spot razzista ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista di cui non parla nessuno. Ma l’avete vista la moglie ( bianca traditrice) che occhieggia alla virile prestanza del nero? E l’equazione attenti a questi che rubano il soldo, il divano e poi la moglie? Fa ridere, dice il marito (mio). Beh a me non fa per niente ridere il fatto che siamo ancora lì a parlar di mogli e di divani che si possono occupare o rubare. Questa non è satira, ma brutale maschilismo  tanto duro a morire che nel “dibbbattitto” tra tante voci ( maschili)  nessuno ha spezzato una lancia nei confronti di quella povera donna. Per cui poco importa se tra il primo gennaio e la Befana, grazie al divisivo spot, il nuovo film di Zalone farà 40, 50, 60 milioni di euro, i miei 7 o 8 di sicuro non le avrà.  Finché almeno non mi chiede scusa, a nome di tutte le donne. Bianche e nere.

Dagospia l'8 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Camilla Nesbitt, produttrice di Checco Zalone con la sua Taodue e moglie di Pietro Valsecchi: Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera che Alessandra Mammì ha scritto a Dagospia a proposito dello spot di Checco Zalone. Stupore perché credevo che Alessandra Mammì sapesse distinguere la satira, la farsa dalla realtà. Applicare all’ironia categorie del “politicamente corretto”, che già tanti danni ha fatto alla nostra cultura, è una pratica di rara scorrettezza intellettuale. E non da lei, che si ritiene una «radica chic di sinistra». Dov’era la Mammì, quando il suo giornale, l’Espresso, per anni ha riempito le copertine di donne scollacciate per attrarre lettori maschilisti? Ma quelle copertine, ovviamente, erano «ambigue, piene di «umoristico sarcasmo» e non «sgorgavano dai petti della destra italiana». L’Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra. Raccapriccio perché avremmo voluto leggere tanta indignazione e tanto risentimento alla pubblicazione del libro di suo marito Marco Giusti “Dizionario stracult della commedia sexy”. Certo qui i film «hard softizzati e soft hardizzati», i pornonazi, i pornoesotici, i pornopecorecci ecc, sono guardati con l’occhio del cinefilo maniaco, e dunque giustificati, studiati, ammirati, mentre Checco Zalone è un povero ignorantone, «un italiano di classe media impoverita», legato a una cultura arcaica. Nei grandi proclami, nelle lotte sociali, nelle battaglie contro il maschilismo noi donne ci mostriamo come ci conviene mostrarci; è nelle faccenduole che ci mostriamo come siamo, piccole donne.

I buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere. Massimiliano Parente, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Caro Checco Zalone, volevo farti i miei complimenti. Perché con la tua canzone che lancia il tuo prossimo film Immigrato hai fatto venire fuori l'imbecillità del politicamente corretto. Voglio dire: fai una splendida parodia di Celentano, ci metti dentro tutti gli stereotipi sugli immigrati, dove alla fine l'immigrato te lo prendi perfino a letto perché tua moglie si innamora di lui, un immigrato rappresentato in modo quanto di più simpatico ci sia (stupendo quando dici «perché proprio a me?», e lui risponde «prima l'italiano!»), e tu un protagonista con un giubbotto salviniano, molto divertente. Insomma una sana operazione comica, ironica, una satira contro la retorica razzista, e cosa succede? Che saltano fuori i soliti indignati per accusarti di razzismo. Gente serissima, noiosissima, che capisce fischi per fiaschi, che non è capace di ridere, e dunque anche di poca cultura. Tipo questi dell'associazione di volontariato Baobab: «Il video Immigrato di Checco Zalone è terribile e non fa ridere. Banale spazzatura per il mercato delle festività». Arriva pure un certo professore universitario Luciano Giustini per twittare: «Poi uno dice da dove arriva il razzismo». Ha capito tutto, un genio. Tra poco, stai tranquillo, si accoderanno tutti gli altri, mi stupisco che Saviano non si sia ancora pronunciato dall'alto della sua tonitruante savianaggine. A parte che, da meridionale quale sei, in numerosi film hai preso in giro i meridionali, che è quello che deve fare la satira, anche quella nazionalpopolare che fai tu, ma mi domando cosa direbbero questi scandalizzati se vedessero i grandi comici anglosassoni, da George Carlin a Ricky Gervais a Louis C. K., i quali hanno ironizzato su tutto, dagli omosessuali alle donne agli obesi agli handicappati ai vecchi, e in realtà proprio usando la satira hanno contribuito a abbattere muri di pregiudizi. Come Woody Allen lo ha fatto nei confronti degli ebrei, e nessuno lo ha mai accusato di nazismo, anzi sono stati gli ebrei i primi a sganasciarsi. Ti dicono che non fai ridere, il problema è che questi qui fanno proprio piangere, per non dire altro. Di certo i Baobab o come cavolo si chiamano (senza offesa per loro, avranno altri meriti, di certo non quelli di capire la comicità), mi hanno messo una tale tristezza da avermi convinto a venire a vedere il tuo film di corsa. Dando prima un euro al mio amico immigrato che trovo sempre lungo la strada del cinema, per carità.

Alessandro Ferrucci e Federico Pontiggia per “il Fatto quotidiano” il 30 dicembre 2019. Alle 16 di ieri pomeriggio, Luca Medici non ha più le sembianze di Checco Zalone: da ore è assediato da telecamere e attenzioni per il lancio del suo ultimo film Tolo Tolo (in sala dal primo gennaio, in oltre 1200 copie), e oramai è solo con se stesso, la sua stanchezza, la tensione ("è agitato" confessa la moglie), quindi fuma con gesti automatici, lo sguardo fisso sul cellulare, cerca ossigeno ma non sa dove trovarlo, e arriva a giustificarsi: "Scusate, vado un attimo in bagno per la pipì". E quando il suo produttore, Pietro Valsecchi, lo prende in giro, quasi non reagisce. Lui ha la responsabilità del successo, è obbligato a portare sulle spalle il botteghino italiano, a zittire gufi, polemiche e critiche ("In Italia il mondo del cinema è portato a godere dei tonfi altrui"), e fuori dallo schermo non è sfrontato e spavaldo come il suo personaggio.

Checco Zalone è il vero alter ego.

«È la maschera dietro cui rifugiarsi, il cugino adulto e forte al quale si chiede di picchiare il bullo che ci assilla, mentre Luca Medici ha lo sguardo profondo e grigio di chi si pone dubbi, troppi dubbi, senza trovare sempre le giuste risposte ("per favore sottolineate che a volte esagero per scherzare, non voglio litigare con tutti"). Comprensibile. Già solo la canzone di lancio ha scatenato l' inferno, con le peggiori accuse di razzismo e sessismo, quando al contrario Tolo Tolo è un film dove si ride, si riflette, ci si può commuovere e del salvinismo non ha proprio nulla. Anzi».

In molti cinema con sole prenotazioni è già tutto esaurito.

«Questo aspetto mi fa un po' paura».

Valsecchi sostiene: "Sono un grande interventista, ma con Zalone non è facile. E ha quasi sempre ragione lui".

«Quando fai incassare molto, sono capaci di dire qualunque cosa; nel primo film Pietro è intervenuto tantissimo, poi meno, e in Tolo Tolo non l' ho quasi mai visto».

Fiducia.

«Forse più i 50 gradi all'ombra del Kenya; con me è stato paziente (due anni di lavoro) visto quanto è costato il film».

Tanto?

«Tantissimo, e siamo stati costretti a rigirare delle scene, a volte ad attendere delle settimane per affrontare gli imprevisti».

Compresa la pioggia nel deserto.

«È incredibile, non accadeva da vent' anni: ci sono delle scene buie proprio a causa del temporale. Un marocchino è arrivato ad alzare le mani in segno di resa: "Tu porti una sfiga incredibile, vattene brutto bianco di merda"».

Questa volta è anche regista: si è sentito solo?

«Spesso, e ho percepito la piena responsabilità del progetto, poi i set sono fortemente irregimentati; chi ha la responsabilità viene rispettato, ma chiuso il ciak si resta con se stessi».

Seguire la regia ha tolto spazio all' improvvisazione dell' attore?

«Boh, ci devo ancora pensare; però le scene inattese sono nate quando ero in preda alla disperazione, e le amo. A un certo punto non avevo più le comparse».

Com'è possibile?

«In una scena ne avevo 400 e in una giornata avevo girato solo un "campo" (la visione di una telecamera); il giorno dopo era previsto il controcampo, ma non c' erano le stesse persone: erano già partite per un' altra zona del Marocco».

Carlo Verdone: "Dovrebbe quotarsi in Borsa. Comprerei le sue azioni".

«Qui mi gratto un po' le palle (e porta realmente le mani al pube). Lui è un grandissimo. Ma grande veramente».

Però…

«In generale nel mondo del cinema e dello spettacolo c' è una rivalità incredibile».

Su di lei il cinema punta.

«Non è vero».

Lei risolve i problemi di botteghino.

«Anche qui: non è vero; al massimo risolvo i miei, quelli del produttore, del distributore e dell' esercente (sorride e ci ripensa). Oh, non mi fate entrare in polemica con Carlo, siamo amici!»

Maurizio Micheli: "Normalmente il comico subisce. Lui no. Non è un perdente e per questo è un grado sopra gli altri".

«Non l' ho capita, però mi è piaciuta, quindi l' appoggio».

Anche Alberto Sordi non subiva sempre.

«Passava indenne e con il suo atteggiamento da stronzo; in questo film il dramma iniziale non sfiora minimamente il mio personaggio».

È il mondo che si rapporta a Zalone.

«Questa è troppo difficile, togliamola».

In Tolo Tolo chi sono i cattivi?

«Non ci sono, così come i buoni, ed è uno dei punti di cui vado più fiero».

Proprio nessuno?

«In teoria il giornalista francese potrebbe inserirsi sotto la categoria "buonista" (il personaggio gira in zone disagiate per riprendere e denunciare), in realtà è un grande ipocrita: va lì, ma usa i poveri per ottenere visualizzazioni».

Sembra lo stereotipo del radical-chic.

«No, è proprio il radical-chic; ma in Tolo Tolo attacchiamo anche il fascistoide e il nero che alla fine ci tradisce».

Mentre scriveva il film ha pensato al nostro passato coloniale?

«All' inizio volevamo girarlo in Eritrea, poi non è stato possibile».

In alcune scene si tramuta in Mussolini.

«Qui voglio citare il mio amico Caparezza, quando dice: "È la nostra parte intollerante a uscire con il caldo, lo stress e i problemi"; il comico quando scrive un pezzo non pensa ai significati sottintesi, ma immagina una scena».

Ma perché ha assimilato il fascismo alla candida?

«Non lo so, ma a Ungaretti uno chiedeva il motivo di certe scelte?»

Sì.

«Volevo arrivare alla battuta che il fascismo si guarisce con il Gentalyn (ci ripensa). Ho pensato alla candida perché è una malattia fastidiosa, ma risolvibile».

Non sempre.

«Lo so io, si guarisce».

Ha il timore di essere diventato un autore di sinistra?

«Per favore non lo scrivete o perdiamo tantissimo pubblico! Comunque in molti sostengono che questo film sia più impegnato di quelli vecchi, e questa riflessione la trovo ingenerosa per il mio passato; qui sicuramente si vedono i soldi spesi e più momenti commoventi e poetici».

Perché in sottofondo si parla di un dramma vero.

«È così, e c'è più forza, c' è della verità, c' è un coglione in mezzo a delle facce reali; in alcuni momenti la difficoltà è stata quella di dover spiegare alle comparse il senso di certi passaggi».

Cioè?

«All' inizio qualcuno si è scocciato della frase "da qualche parte nell' emisfero c' è uno stronzo un po' più nero", poi ci ho parlato, ho puntato l'accento sul senso di speranza e tutto è cambiato. Alla fine mi hanno abbracciato».

Sergio Castellitto: "Zalone è un geniale qualunquista".

«Il mio personaggio lo è, nella vita no».

Giorgio Panariello: "Non è normale non invitarlo ai David di Donatello".

«Va bene così, non ci tengo, non è tra le mie priorità».

Siamo un Paese razzista?

«No, siamo in sofferenza e qualcuno ne approfitta per solleticare l' intolleranza».

Lei è permaloso?

«No, dipende da come mi dicono le cose (al suo fianco si siede la moglie Mariangela. Sorride. Non è proprio d' accordo)».

Stefano Sollima: "È intelligente. Interessante. Arguto. Non so se durerà".

«Chi è? Il regista di Gomorra?»

Sì, anche.

«Io spero che non duri la Camorra, così non gira più nulla. Oh, mi raccomando, precisate sempre il tono scherzoso».

"Non mi godo il successo, sono coglione e soffro" queste sono parole sue.

«E purtroppo confermo, sono perennemente in ansia e ne paga le conseguenze la mia famiglia (la moglie annuisce)».

Signora, suo marito quanto ha dormito negli ultimi giorni?

«Poco e stressa tanto: è un rompipalle, prende la Melatonina, poi sta male e va perennemente tranquillizzato con frasi tipo: "Andrà tutto bene, stai facendo un ottimo lavoro"».

E serve?

«A volte, poi si ributta giù, perché sul lavoro è un perfezionista. Solo sul lavoro».

Lo è sempre stato o lo è diventato?

«Diventato».

( Torna Luca Medici ) Sente l' ostilità del cinema italiano?

«Ostilità mi sembra esagerato, comunque in questo settore si gode più della sconfitta altrui che dei propri successi, e questa ostilità un po' la capisco; in tedesco si dice schadenfreude».

Davvero?

«Se Tolo Tolo non dovesse andare bene, tantissimi amici e colleghi brinderanno e questo atteggiamento lo considero umano, e probabilmente al posto loro farei lo stesso».

Un film italiano che le è piaciuto?

«Anime nere e Dogman. Più Dogman».

Antonio Manzini sostiene: "Ora che sono uno scrittore da classifica, mi chiedono opinioni su tutto. Eppure sono quello di prima che non contava nulla".

«Io qualunque cosa dico scoppiano le polemiche».

Qualunque.

«Televisione, giornali, social, sempre la medesima reazione».

Quando parla riflette più di prima?

«Un po' sì».

È meno libero.

«È così; tempo fa scrivo una canzoncina, e il titolo originario era: Gnocca d' Africa. Uno dei miei collaboratori un giorno mi chiama: "Sai, Luca, devo depositarla alla Siae, però Gnocca d' Africa mi sembra troppo, meglio Se t' immigra in mezzo al cuore"».

Risultato?

«Ho accettato, temevo l' accusa di sessismo, anche se è meno efficace».

Oggi in Italia è più eticamente sensibile il fascismo o il sessismo?

«Di tutta questa polemica quella di razzismo era talmente surreale che mi ha divertito; invece non ho tollerato il sessismo, quando nel film ho creato un bellissimo ruolo per Amanda (una delle protagoniste)».

Proprio ci tiene.

«Per anni al cinema e in televisione abbiamo vissuto le docce più strampalate, le scene più assurde, mentre nelle mie pellicole non sono mai pruriginoso, non ho mai fatto spogliare un'attrice, non ho mai toccato un culo (e guarda la moglie) quindi l'accusa di sessismo non la tollero».

A cena preferirebbe andare con Salvini o Greta Thunberg?

«Con Salvini, ma solo perché Greta non mi farebbe mangiare nulla e romperebbe per i piatti di plastica».

Teo Teocoli: "Zalone è l' Abatantuono degli anni Ottanta".

«Teo è un amico e vorrei tanto essere il Teocoli degli anni Ottanta».

Nel film cita Mussolini e fa recitare Vendola: in mezzo c'è qualche politico in cui credere?

«Non lo so, sono la faccia della stessa medaglia, con leader tutti presi da loro stessi, oppressi da un ego smisurato».

E…

«Alla fine si confondono tra loro, e tra questi c' è Matteo Renzi che un tempo ho votato: anche lui è affetto dalla malattia dell'"io"».

Sul set qualcuno la chiamava "maestro"?

«Ma che scherziamo? Davanti mi chiamavano Luca, poi alle spalle mi prendevano in giro».

Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina». Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Corriere.it. «Io non sono italiano, sono bergamasco. I bergamaschi si ritengono una razza a parte, superiore». Il produttore Pietro Valsecchi esordisce con tono provocatorio. «Provocatorio? No! È la verità».

E per quale motivo voi bergamaschi vi sentite superiori? A cosa?

«È un fatto culturale di comportamento. A Bergamo, per fare un accordo, basta stringersi la mano e guardarsi negli occhi, cosa che in Italia non esiste più».

Va bene, ma lei è nato a Crema e non a Bergamo.

«Sì ma le mie origini familiari sono bergamasche, i miei nonni facevano i contadini e avevano delle terre da quelle parti. Poi, avendo fatto pessimi affari, sono emigrati in Francia. Forse per questo ho una grande passione per i francesi».

Insomma, lei si sente bergamasco e un po’ francese, però come produttore ha fatto fortuna in Italia.

«È vero e nella vita professionale ho sempre raccontato storie italiane vere e mi sono trovato spesso a conoscere i personaggi che volevo rappresentare oppure coloro che li avevano conosciuti».

Tra quelli più impegnativi?

«Papa Wojtyla, di lui ho un ricordo tra i più vividi. Quando lo incontrai, era già malato e non parlava più. Però era molto ben informato e sapeva che stavo realizzando una serie sulla sua vita. Dopo avergli esposto il progetto, mi strinse forte la mano e mi lanciò uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi voleva dire: “Non sbagliare!”». 

Poi toccò a Papa Francesco...

«Fu molto commovente la prima proiezione del film in Aula Nervi. Il Papa aveva deciso che dovessero assistere 7 mila poveri di Roma e non i soliti invitati scelti dal protocollo. L’applauso commosso di queste persone ha lasciato in tutti noi, che avevamo lavorato al tv-movie, un segno indelebile».

Non solo Papi, però...

«Il set più preoccupante fu quello del Capo dei Capi, su Totò Riina. Ebbene: nonostante fosse al 41 bis, il signor Riina sapeva che nella storia avevamo inserito un episodio relativo a sua moglie, Ninetta Bagarella, che lui riteneva non veritiero e ce lo mandò a dire! Confesso che fu un momento davvero difficile: ci allarmammo non poco».

Le storie che non è riuscito a rappresentare?

«Quella di Mohamed Yunus, il banchiere dei poveri: avevo letto il suo libro ed ero conquistato dalla sua visione rivoluzionaria. Avevo proposto il progetto a Oliver Stone, figlio di un banchiere, che declinò l’invito. Ne parlai con Gianni Amelio e il film doveva essere prodotto da Vittorio Cecchi Gori e, per definire i dettagli, fui invitato su un mega yacht attraccato davanti al porto di Cannes durante il festival del cinema. Me ne andai alla chetichella...».

Perché?

«Per parlare di povertà, mi trovavo nel lusso sfrenato di una festa scatenata, non era il posto giusto. Un’altra storia che non ho mai girato è quella della principessa di Monaco, Grace Kelly. Dopo un lungo lavoro diplomatico, riuscii ad avere un appuntamento con il principe Alberto: molto emozionato, entrai nella residenza dei Ranieri e finalmente iniziai a esporre il progetto, ma ben presto mi resi conto che il Principe probabilmente soffriva di narcolessia, durante l’incontro ogni tanto si addormentava, per poi risvegliarsi. Fu cortese, ma capii che non avrebbe mai appoggiato l’operazione. Stessa cosa successe con gli Agnelli».

Anche loro!

«Avevo scritto un bel copione dedicato alla vita dell’Avvocato, scomparso da poco. Chiesi di incontrare i familiari, John, Lapo Elkann ecc... ognuno mi indirizzava a un altro. Era meglio abbandonare l’idea, non avrei mai potuto raccontare questa storia nel modo gradito ai parenti. Un incontro importante, però, l’ho avuto con Francesco Cossiga, durante la stesura della miniserie su Aldo Moro: venne spesso nel mio ufficio per descrivermi i giorni del rapimento, uno dei grandi misteri italiani. L’ex presidente mi forniva solo il suo punto di vista, lasciando in ombra altri aspetti che credo non riusciremo mai a conoscere fino in fondo».

E pensare che voleva fare l’attore in palcoscenico... 

«I primi passi al Teatro Zero della mia città: era uno spazio militante negli anni caldi del movimento studentesco. Portavamo gli spettacoli nelle fabbriche occupate. Brecht era l’autore che rappresentavamo più spesso, per sollecitare domande scomode: in teatro si entra uniti e si esce divisi».

Un attore impegnato, dunque.

«Certo! Sono orgoglioso di essere figlio di un uomo, antifascista, deportato a Mauthausen».

La militanza teatrale si sposta poi a Roma.

«Il mio esordio nella Capitale avvenne una sera davanti a due sole spettatrici: Dacia Maraini e Sofia Scandurra. Apprezzarono la mia recitazione, tanto che mi proposero di interpretare un ruolo nel film Io sono mia: un set femminile e femminista, caotico, un’esperienza straordinaria a fianco di Stefania Sandrelli e Maria Schneider... però il teatro restava il mio unico amore».

E riparte dall’impegno politico con Terroristi di Mario Moretti.

«Il mio primo ruolo da protagonista: un’indimenticabile avventura, grandi elogi dalla critica, mi convincevo che era il mio mestiere, però a 28 anni ho deciso di voltare pagina: non più attore, né in teatro né al cinema».

Perché? 

«Ai miei amici dell’epoca, Michele Placido, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio, venivano proposti spettacoli o film importanti, a me solo piccoli ruoli. Avevo bisogno di lavorare e guadagnare e mi resi conto che come attore non avrei mai sfondato. Andai in crisi, ma non mi persi d’animo. Cominciai a leggere testi, copioni, libri... e li suggerivo agli amici primi attori».

Così nasce il produttore Valsecchi.

«Mi definisco un portatore sano di idee. Il primo grosso impegno produttivo fu con La condanna di Marco Bellocchio, con cui arrivammo all’Orso d’argento di Berlino».

Ma è l’incontro Camilla Nesbitt a cambiare le carte in tavola.

«La conoscevo perché anche lei faceva la produttrice, mi piaceva e avevo iniziato a corteggiarla, ma non mi filava. Finalmente in aereo, mentre andavamo al Premio Solinas, lei mi degna di uno sguardo e dice: Valsecchi siediti qui, vicino a me. Da quel posto non mi sono più alzato, siamo uniti da 27 anni».

Uniti nella vita e nel lavoro. 

«Insieme abbiamo capito che la tv era il futuro, non c’era più lo spazio per raccontare la realtà come aveva fatto il grande cinema civile dei Rosi, Petri, Bertolucci, Olmi... Era impensabile rifare quei film, che raccontavano un’Italia diversa. Noi volevamo rappresentare quella attuale e per farlo era necessario cambiare il mezzo: il piccolo schermo. Abbiamo unito le forze, creando la Taodue. In tutti questi anni abbiamo prodotto oltre mille ore televisive, tra tv-movie e fiction».

Un impegno costante, tanti i titoli famosi.

«E pure un allenamento quotidiano alla logica spietata dello share che ti fa crescere l’ansia: quel numerino, alle 10 di mattina, decreta implacabilmente se tutto il lavoro di mesi, a volte anni, è stato apprezzato. Uno stress terribile che mi ha causato fibrillazioni continue, fino a condurmi in ospedale e a dovermi operare: un’ablazione cardiaca. Per fortuna sto molto meglio». 

La fortuna al botteghino arriva con Checcho Zalone.

«Quando ho venduto la Taodue a Mediaset, mi davano per morto, finito. E invece ho tirato fuori dal cilindro un jolly: tutti mi sconsigliavano di fare un film con lui come protagonista e adesso, dopo quattro successi che hanno incassato in totale 200 milioni di euro, stiamo girando il suo nuovo lavoro dove firma anche la regia. È girato in Africa e si intitola Tolo Tolo, dall’espressione usata da un bimbo africano quando, nel film, incontra per la prima volta Zalone. Ma sto già pensando a una fiction su Ilaria Cucchi». 

Lo sbaglio madornale che ha compiuto sia in privato, sia nella professione?

«In privato, l’aver trascurato i miei figli, essendo troppo concentrato sul lavoro, credo di non essere un ottimo padre. Forse dipende dal fatto che i miei genitori sono morti troppo presto e non ho avuto figure con cui relazionarmi sotto questo profilo. Per fortuna ho due ragazzi, Virginia e Filippo, che si stanno costruendo la propria carriera in maniera autonoma: lei muove primi passi nella produzione, lui fa il cantautore. Nella professione? Non aver vinto un Oscar».

Un suo difetto insopportabile?

«Dire in faccia alle persone ciò che penso senza rendermi conto delle conseguenze. Un difetto che non ho è l’invidia, diffusissima in Italia: chi non sa fare semina zizzania».

A proposito di invidia, tra due anni finisce l’esclusiva con Mediaset: cosa farà?

«Tranquillizzo tutti: non so a chi dare i resti. L’unica cosa che mi manca, forse, è tornare alle origini. Mi piacerebbe produrre progetti teatrali, magari prendere in gestione un vecchio cinema nel cuore di Roma e trasformarlo in un luogo d’arte e intrattenimento: spettacoli, ma anche mostre, libri, incontri con personaggi importanti... Insomma, dentro la cultura e fuori i barbari.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Nell'era dell'indignazione che prescinde dal motivo della stessa, persino Checco Zalone è scivolato giù dal crinale. Colpa di una canzone - Immigrato , tra Cutugno e Celentano - con cui ha inteso lanciare il suo nuovo film, sulla falsariga delle sue precedenti avventure, cioè sfruttando il cosiddetto "Teorema albertosordi" sulla moltiplicazione del pubblico, che quivi vado a spiegare: prendi per il culo l'italiano medio ed egli ti sarà grato, essendosi riconosciuto e credendo di essere esaltato, ma riceverai anche il plauso dei progressisti che ricevono la satira sul popolino e ne godono, facendo tintinnare il Martini. Risultato: botteghini assaltati. Nel video, esilarante, il comico giochicchia con tutti i peggiori luoghi comuni sugli stranieri e ne trae una canzone che sembra scritta da Salvini. A 'sto giro, però, persino i sovranisti si sono accorti della satira su di loro, e non plaudono, mentre i famosi radical chic, forse storditi dall'essere al governo con quelli che stavano con la Lega, hanno alzato lai altissimi contro il presunto razzismo. Questo, almeno sui social. Al cinema, vedremo. Io sono già lì.

Dagospia l'11 dicembre 2019.: Se cercavate una prova sul razzismo becero e sessismo qualunquista della canzone “Immigrato”, siete accontentati – Invece di fare il solito paraculo, il pugliese Zalone poteva permettersi una capatina dalle sue parti dove è devastante il fenomeno del “caporalato” che vede gli immigrati sfruttati nei campi e sottopagati e costretti a vivere in pessime condizioni sanitarie (altro che lavavetri che si scopano le mogli degli italiani).

Heather Parisi critica Checco Zalone: "L'ironia è altro". Ma il web non ci sta. In un tweet lanciato nelle ultime ore, Heather Parisi ha destinato parole dure a Checco Zalone sul nuovo film in arrivo, Tolo Tolo, che uscirà nelle sale cinematografiche il prossimo 1° gennaio. Serena Granato, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Checco Zalone è tornato al centro dell'attenzione mediatica, per via del suo imminente ritorno al cinema. Attore, comico, cabarettista e conduttore televisivo, Zalone sta facendo discutere sul suo conto, dopo la divulgazione in rete del trailer del suo atteso nuovo film, Tolo Tolo, la cui uscita al cinema è prevista per il 1° gennaio dell'anno alle porte. Nel video che anticipa l'uscita dell'attesa pellicola cinematografica, un extracomunitario viene presentato -con tono satirico- come "onnipresente". Un dettaglio quest'ultimo che, chiaramente, rispecchia la condizione che molti italiani sentono di vivere all'ordine del giorno. Nel trailer di Tolo Tolo, l'immigrato chiede spiccioli, pulisce i vetri e alla fine arriva persino a rubare la moglie a Zalone, intrufolandosi nel letto della coppia. All'uscita del promo del film in arrivo -il cui video è in poco tempo diventato virale nel web- è seguita la reazione di Heather Parisi, che ha destinato a Zalone un tweet al veleno. “L’immigrato di Checco Zalone è un concentrato di luoghi comuni - si legge nel messaggio che la Parisi ha scritto sul nuovo film di Zalone, alludendo in particolare al brano Immigrato presente nella nuova pellicola del comico-, che non ha nulla di ironico". "Perché l’ironia è altro -aggiunge, poi, Heather su quanto emerso nel trailer di Tolo tolo-, l’ironia consiste nel mostrare che è il suo contrario ad essere più credibile del luogo comune. #razzismo #immigrato #racism”.

I fan di Checco Zalone rispondono a Heather Parisi. Le ultime parole critiche, spese dall'ex showgirl di Fantastico, non sono state mandate giù da molti utenti. Sotto il tweet al veleno, lanciato da Heather Parisi circa l'attesa commedia - di cui Zalone è sia regista che attore protagonista- sono giunti, infatti, diversi messaggi di contestazione, da parte di chi proprio non condivide l'opinione espressa dalla ballerina."Non toccate #checcozalone, se non lo capite non lo guardate, punto", ha scritto un utente, alludendo, in generale, a chiunque abbia ad oggi criticato la comicità dell'artista nato a Bari e classe 1977. "Infatti, secondo me non è ironia, ma satira -si legge, poi, in un altro commento di contestazione rivolto alla Parisi-. Sì, Checco Zalone - anche se non sembra - è abbastanza intelligente per fare satira". Un altro utente scrive ad Heather, con tono ironico: "Checco Zalone razzista è la barzelletta di Natale". Infine, si legge ancora, contro la Parisi: "Stavolta, mi sa proprio che non hai capito, può non piacere per carità, ma di razzista non c'è niente... Se si conosce #CheccoZalone".

Da “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Giorgia Meloni si schiera con Checco Zalone investito da molte critiche dopo la diffusione del trailer del suo film «Tolo Tolo», in uscita nelle prossime settimane. «Se diventa politicamente corretta anche la satira, sparisce. Quella di voler controllare la satira di Checco Zalone è una cosa che pretende solo la sinistra», ha affermato la presidente di Fratelli d' Italia intervenendo sulla vicenda nel corso della trasmissione di Retequattro «Fuori dal coro». Secondo la Meloni, invece, «la canzone "Immigrato" è divertente» In effetti, a indignare, soprattutto a sinistra, era stata proprio la canzone che accompagna il video di presentazione del film e che, sulle note de «L' italiano» di Toto Cutugno, racconta le disavventure di un connazionale alle prese con un immigrato che, prima gli chiede soldi in ogni circostanza, e poi gli seduce pure la moglie. Il video, insomma, affronta il delicato problema dell' immigrazione, probabilmente secondo quello che è il punto di vista di molti italiani e, magari, anche con l' intento di ironizzare su tanti luoghi comuni che accompagnano gli stranieri in Italia. Sta di fatto che l' associazione Baobab, tra le più attive a Roma nell' assistenza agli immigrati, ha attaccato il comico a testa bassa: Il video Immigrato di Checco Zalone, preso così, è a uso e consumo di populisti, perché servono gli strumenti per interpretarlo e ci vuole molta fatica per convincersi che il messaggio sia opposto e che sia l' uomo bianco quello preso in giro o stereotipato». La polemica poi si era trasferita in televisione con una furibonda lite a «Quarta Repubblica», il programma condotto da Nicola Porro, dove l' economista Giuliano Cazzola e lo scrittore Giulio Cavalli avevano attaccato il comico dicendo che «fare ironia su certi argomenti è pericoloso» e che «la satira si rivolge ai potenti, non ai poveracci»; mentre il giornalista Daniele Capezzone lo aveva difeso ribattendo: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? Quelli di Baobab hanno rotto». Polemiche che si erano già avute in occasione dei precedenti film e avevano portato assai bene a Zalone. Alla fine, a giudicare saranno gli italiani nelle sale cinematografiche.

Checco Zalone, il trailer del nuovo film indigna la Onlus dei rifugiati: "Istigazione al razzismo". Tolo Tolo uscirà nelle sale il primo gennaio. Nel video che lo anticipa, un extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente. Per il costituzionalista Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, oggi presidente del Cir, il Consiglio italiano rifugiati, non si tratta di una provocazione. "Satira? Quella si fa contro i potenti non nei confronti dei deboli". Goffredo De Marchis il 12 dicembre 2019 su la Repubblica. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Quel razzista di Checco Zalone. Nella follia del giorno d'oggi anche "Immigrato" la canzone del nuovo film del comico viene tacciata di razzismo. Redazione di Panorama il 10 dicembre 2019. Checco Zalone è un razzista. "Immigrato", la canzone con cui sta lanciando il suo attesissimo film è razzista, attacca ed offende gli extracomunitari. Andiamo con ordine. La prima cosa da fare è guardarsi il video ed ascoltarsi la canzone. Adesso che l'avete visto e smesso di sorridere bisogna fare un esercizio mentale molto faticoso e cercare di capire come mai ci siano non poche persone, decine, centinaia se non migliaia, tra cui noti e note intellettuali e persone anche vicine alla politica secondo cui questa sia una cosa razzista. E Checco Zalone un sovranista. I migliori addirittura ne hanno letto un inno al Salvinismo. Ma non è mancato chi ha detto che questa canzone sia sessista, contro le donne...Povero noi, povera Italia. Ormai è evidente che la guerra a Salvini ha prodotto risultati forse irreparabili; il nemico è dappertutto: in una frase, in una proposta di legge, in un post sulla Nutella, in un rosario, ora persino in una canzone di un comico.  Se lo ricordi chi parla di clima d'odio. 

Da ilmessaggero.it l'11 dicembre 2019. Grandi polemiche sul film di Checco Zalone, Tolo tolo, ancora prima della sua uscita: nell'occhio del ciclone la canzone che anticipa il film, "Immigrato". Ecco cosa è successo a Quarta Repubblica. Dopo aver mandato in onda il video della nuova canzone, colonna sonora del film in uscita, si è scatenato il dibattito in studio. Giuliano Cazzola, economista: «Su certi argomenti fare dell'ironia può essere pericoloso. In questa clip, la critica vera è l'offesa nei confronti degli stranieri in Italia: 5 milioni, di cui 3,8 extracomunitari. Molti mandano avanti settori importanti del paese. Il film non l'ho visto e forse neanche lo vedrò. Però rappresentare il problema degli immigrati con una caricatura è sbagliato». Dopo l'intervento dell'economista, tocca al giornalista Daniele Capezzone difendere la comicità di Zalone: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? A quelli di Baobab dico... c'avete rotto i coglioni, lasciateci sorridere». Parla infine a Giulio Cavalli, giornalista e scrittore, dire la sua: «La satira storicamente attacca i potenti. Dal 1500 avviene questo. Attaccare i difesi, i poveracci, gli immigrati ma anche agli omosessuali. Può piacere o non piacere, si può rivendicare il diritto di non apprezzare Checco Zalone. L'operazione di marketing ha funzionato... Non so quanto faccia ridere il mafioso con la coppola e la lupara. La questione è che chi ha il potere di fare la satira dovrebbe usarla per attaccare i prepotenti e i pregiudizi».

Antonello Piroso per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Sono solo canzonette. Ma anche no. Da venerdì 6 dicembre Immigrato, cioè il video-colonna sonora dell'ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, ha totalizzato oltre due milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Merito anche delle polemiche intorno al significato "metapolitico" da appioppare al testo, su cui si è già intrattenuto su queste colonne Francesco Borgonovo sabato scorso. Tutto grasso che cola, in vista dell'arrivo in sala il prossimo primo gennaio, per l'attore-regista pugliese e quell'altra faina incanutita che è il suo produttore Pietro Valsecchi. Come se ciò non bastasse, a fare ulteriore pubblicità all'ultimo manufatto zaloniano è anche il confronto a distanza tra Alessandra Mammì, firma dell'Espresso, e Camilla Nesbitt, moglie di Valsecchi.

Motivo della singolar tenzone? Il ruolo della donna nella canzone di cui sopra. Ussignur, mi verrebbe da dire: siamo ancora qui a disquisire dell'uso dell'immagine femminile, Il corpo della ragassa volendo citare il titolo di un romanzo di Gianni Brera del 1969, da cui 10 anni dopo il regista Pasquale Festa Campanile ricavò l'omonimo film con una ultrasexy Lilli Carati? Quasi all'alba del terzo decennio del terzo millennio, in cui le donne rivendicano pubblicamente la libertà della propria fisicità, financo sessuale, perfino come pornostar?

A dar fuoco alle polveri è stata Mammì, scrivendo a Dagospia per annunciare che non andrà a vedere il film nonostante l'entusiasmo del marito Marco Giusti (critico cinematografico che sempre per il sito aveva sfornato una recensione tutt'altro che negativa: "Zalone è l'unico in grado di affrontare la confusione ideologica degli italiani"): "Quel che mi ha più irritato non è il legittimo sospetto di vedere uno spot razzista (nientemeno, nda) ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista". Cioè? "Ma l'avete vista la moglie -bianca traditrice- che occhieggia alla virile prestanza del nero? Fa ridere, dice il marito (mio). Questa non è satira, ma brutale maschilismo". Eh, la peppa. Su due piedi, a me sarebbe venuto da replicare: "Signora, ma lei ha mai sentito Zalone quando intona Uomini sessuali sui gay? Oppure La Taranta del Centrodestra, maramaldeggiando con le rime baciate dedicate a Mara Carfagna a Mariastella Gelmini? A voler essere un gendarme del politicamente corretto, anche lì sì ci sarebbero stati gli estremi dell'omofobia e del sessismo, ma non ricordo alcuno a sinistra inalberarsi per quel perculamento molto più che abrasivo".

Nesbitt è invece intervenuta sul serio, con un incipit che non lascia spazio a dubbi: "Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera di Mammì...". Raccapriccio perchè -scrive lady Valsecchi- avremmo voluto leggere cotanto risentimento quando il di lei marito Giusti ha pubblicato il Dizionario stracult della commedia sexy, ovvero un viaggio di 528 pagine sui film "a luci rosse" degli anni 70 (nel presentare la sua fatica, Giusti peraltro ha messo in mezzo un altro esponente della sinistra massmediologica: "Ricordo perfettamente il lancio che Carlo Freccero, allora responsabile dei film di Canale 5, fece di quelle pellicole con Edwige Fenech e Gloria Guida"). Stupore perchè "dov'era Mammì quando il suo giornale, l'Espresso, ha riempito per anni la copertine di donne scollacciate? L'Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra". Diamo per scontato che la controindignazione di Nesbitt sia sincera e non faccia parte di un'abile strategia di marketing, cui l'intemerata di Mammì ha offerto un'occasione d'oro per battere il ferro promozionale. Sia come sia, sulle cover dell'Espresso a Nesbitt piace vincere facile.

Chi scrive ha iniziato a far (male) questo mestiere scrivendo per Panorama diretto da Claudio Rinaldi, chiamato affettuosamente dalla truppa "la mente criminale". Che sapeva benissimo che se voleva recuperare un po' di copie vendute rispetto a un numero "moscio", doveva schiaffare in copertina una bonazza per recuperare un buon 15% di vendite, e stiamo parlando di 75 mila copie su 500 mila vendute, non esattamente bruscolini. Difficile dire chi avesse cominciato: Panorama per adeguarsi all'Espresso (cui si accodavano volentieri -ma con tirature più basse- Epoca e Europeo)? O viceversa? Di certo, c'è che lasciando il primo per passare al secondo, Rinaldi non mutò approccio. E se l'Espresso di Livio Zanetti (direttore dal 1970 al 1984) nel 1975 aveva provocato con una copertina-scandalo sull'aborto, una vera donna incinta fintamente crocifissa, da lì in poi ogni pretesto fu buono per impaginare, con titoli grondanti sapienti doppisensi, donne giovani e micro (o affatto) vestite.

Non si rimane delusi: si va da "Vita da single" a "Un tuffo nella crisi", da "Anni d'oro" a "In vacanza con lo spread", da "Voglio una vita leggera" (e quindi senza vestiti) a "Vincere le allergie", da "Rinascere nel 1995" (con Claudia Koll desnuda) a "Malati di test" (con un paio di chiappe in primo piano, certo: con gli elettrodi), da "Nudo anch'io" (in cui il protagonista era Vittorio Sgarbi bello "biotto", in risposta alla copertina di Panorama che riproponeva un manifesto pubblicitario di Luciano Benetton nudo);

da "Povera Rai, poveri noi" (con signorina piegata in doggy style) a "Diario del Viagra" (dove uno s'immaginerebbe di trovare un uomo, come dire?, felice di essere vivo, e invece no: c'è una donna nuda a cavallo della pillolina blu), da "A tutta coca" (dove c'è sì una narice imbiancata, ma la prima cosa che si nota sono le labbra turgide e dischiuse) all'autoreferenziale e autopromozionale "Nudi in copertina: si può? Non si può?";

fino a, e qui siamo davvero al capolavoro, "Tutti da Ciampi sabato sera" (sottotitolo: "Da Castelporziano a Capalbio-Indagine sulle spiagge dei potenti", e quindi con quale scatto corredare l'inchiesta? Ma è ovvio: una ragazza che con una mano si copre il seno, e con l'altra ammicca all'abbassamento delle mutandine con il pollice a tirare l'elastico...). Serve aggiungere altro?

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. È chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L' immigrato all' inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce - ma anche esplicite - degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti - «prima l' italiano!» - e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l' amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l' immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un' altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa.

Cazzullo e Zalone. Augusto Bassi il 10 dicembre 2019. su Il Giornale. Per quanto io possa lavorare di cirage nello sforzo di tirare a lucido la mia retorica, nulla è più eloquente degli atti mancati così caratteristici della psicopatologia mainstream. Ieri Aldo Cazzullo ce ne ha offerto un buffissimo esempio. Commentando il trailer dell’ultimo film di Checco Zalone, scrive Cazzullo: «E’ chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L’immigrato all’inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce – ma anche esplicite – degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti – “«prima l’italiano!» – e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l’amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l’immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un’altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa». Sublime esempio di dum excusare credis, accusas. Mentre Cazzullo pensa di uscirne come quello progredito che non discrimina, in realtà rende evidente il proprio doppio metro da lacchè del padrone: se la satira sfotte l’immigrato è da censurare, se invece sfotte noi italiani va benissimo. Quindi mettiamo le mani avanti, chiariamoci: Zalone sfotte noi patetici coglioni, razzisti e fascisti! Noi patetici coglioni ancora convinti che gli immigrati siano una seccatura e alla fine possano rivelarsi una fregatura. Pensa che coglioni siamo! E chi legge diversamente il messaggio di Zalone… poverino, non capisce. Eccola la pruderie perbenino, rivelatrice del narcisismo servo degli influencer di dominio. Dove si specchiano le paure inconsce di chi non vuol contraddire il pensiero certificato – quello dietro cui soffia il capitale degli editori – perché sa di poter essere invitato a cena solo come suo cameriere. Le paure inconsce di chi arriverebbe a farsi coprire la moglie da un nordafricano pur di non perdere la livrea da valletto dell’ideologia regnante.

Fulvio Abbate per Dagospia il 9 dicembre 2019. Checco Zalone mi deve una cena, o forse basterà un cordiale. Intanto per la solidarietà che gli sto manifestando a proposito delle critiche davvero esagerate appena ricevute fin dal promo musicale del suo nuovo film, “Tolo Tolo”. Secondo alcuni, infatti, il video musicale dove si fa il verso a Celentano nostro sarebbe implicitamente, se non direttamente, “razzista”. A me non sembra così per nulla, e nel dire questo rimando tutti all’interrogativo capitale che, in giorni di semplificazione subculturale, quasi quotidianamente pongo ininterrottamente a me stesso. Eccolo, l’interrogativo: devo forse pensare che Roland Barthes sia giunto, un tempo, su questa terra del tutto inutilmente? Barthes, per chi non lo dovesse conoscere, è stato uno studioso di scienze umane che, fra molto altro, ha provato a spiegare l’ambivalenza del linguaggio: un semiologo. Proviamo con gli esempi: esiste, proprio per esempio, una figura retorica, detta “antifrasi”, che funziona così: ti do, metti, del “cornuto”, o dell’ “arruso”, o del “negro” per intendere altro dal significato apparente, anzi, per indicare il suo opposto, meglio, ribalto l’accezione negativa attraverso sarcasmo e ironia, depotenziando il negativo sia del significante sia del significato sia del referente. E’ troppo difficile da comprendere? Senza bisogno di arrivare allo strutturalismo e alla linguistica di Saussure, assodato che perfino la semplice parola “cane” morde, come spiegano, appunto, i linguisti alla loro prima lezione, in questo video di Zalone c’è ribaltamento attraverso la candeggina dell’ironia, ribaltamento di un sentimento di astio verso gli immigrati, e ciò avviene segnatamente con un’antifrasi. Va’ però un po’ a spiegarlo a chi mostri uno standard mentale oscillante tra Veltroni e Salvini. Zalone ha fatto un’operazione, come dire, perdonate se parlo da laureato in filosofia, da “radical chic”, perdonate anche se penso che questa cosa qui non la capirebbero neppure, temo, ripeto, né Salvini né Veltroni, Zalone ha fatto un’operazione manieristica, sì è messo nei panni del razzista medio, modello-base, ne ha riprodotto le ossessioni, le pulsioni ordinarie, ossia: il “negro” arriva qui da noi per un ennesimo ratto delle Sabine, forse anche delle Sabrine, per citare una Venere nostra del cinema. E adesso spiego perché Checco Zalone mi devi un vermut, chiamandomi in causa direttamente come scrittore: tra i miei libri ce n’è uno sui sentimenti - “LOve. Discorso generale sull’amore” (La nave di Teseo) - nel quale vive un capitolo che, temo, potrebbe non essere sfuggito agli sceneggiatori di Zalone. Dimenticavo: tratto da una storia vera. Lui, il “negro” impostore, si chiama Edison. Anzi, sai che ti dico? Ti incollo qui il racconto così com’è, ok? Leggi e poi capirai perché sto con Zalone. “Il pensiero più gretto che il razzista nostrano medio possa donare a se stesso, ogniqualvolta la televisione mostra le immagini dei migranti africani illuminati in viso e sulle braccia dall’arancione dei giubbotti salvagente, evoca l’immagine del ratto, nel senso del predatore. “Questi qui, i negri, vengono da noi per rubarci il lavoro, ma anche per scopare le nostre donne, le nostre femmine; infami, merde!” Segue un moto di sofferenza interiore al pensiero che tali soggetti possano avere perfino seguito nei sogni femminili del primo continente, se non altro per le risapute ampie dimensioni dei loro peni. D’altronde, come ha fatto visivamente notare una carta sinottica delle grandezze genitali maschili, l’Africa nera e i Caraibi brillano in cima al palmarès fallico. L’immagine successiva dell’invasione e della minaccia assodata mostra un ragazzo sempre di colore, il viso presidiato dai dread, ormai integrato nella vita serale cittadina, ora in veste di bartender ora di buttadentro. E qui il pensiero sostanzialmente non muta, il razzista medio concede soltanto che si tratti ormai di una gara tra maschi: “Vuoi vedere che questo negro stasera si porterà a casa quella che piace a me, scommettiamo, eh?” (…) In un angolo, su di una pedana, con la musica del duo Azucar Moreno, Devorame otra vez, pura salsa sensual, un ragazzone nero balla con una bottiglia in pugno, balla ammirandosi, perfino con talento, balla e sembra dire sempre a se stesso: “Cono, ce l’ho fatta!” Proprio lui, Edison, è l’attrazione del locale, sempre di lui si favoleggia ogni bene, ogni meraviglia.   Ma adesso occorre un passo indietro, fino a inquadrare Gaspare e Marina a spasso per L’Avana, Cuba. E’ lì che i nostri amici hanno incontrato Edison, è lì che lui è entrato per la prima volta nel loro campo visivo: un ragazzo con una maglietta del Benfica. (…) Per l’intera durata del soggiorno Gaspare, Marina e Edison sono rimasti inseparabili: lui li ha accompagnati ovunque, compreso al Museo de la Revolucion, dove vivono tarlate le memorie dell’avventura castrista che Gaspare ha guardato con emozione mentre Edison si informava con Marina circa la posizione dei capocannonieri del campionato italiano principale e perfino cadetto; Edison gli ha poi parlato della santeria, portandoli infine a cercare cio che Gaspare assolutamente desiderava dal tempo in cui militava in Avanguardia Operaia, cioè un ritratto del terzo cardine della trinità rivoluzionaria, Camilo Cienfuegos, dove gli altri due sono Fidel e Ernesto Che Guevara. Dovevate vedere che gioia negli occhi di Gaspare quando Edison, uscendo da un antro, si e presentato con il volto di Camilo impresso a fuoco su una tavoletta di legno! Infine, in serata, tutti a ballare, o magari ad ascoltare Edison e il suo pezzo forte, Piel Canela, un classico melodico d’America Latina: “Que se quede el infinito sin estrellas, / O que pierda el ancho mar su inmensidad / Pero el negro de tus ojos que no muera...” (“Lascia che l’infinito rimanga senza stelle / e il vasto mare perda la sua immensita / Ma il nero dei tuoi occhi non morirà.) Cosi fino a quando Edison, una sera, ha fatto deflagrare una bomba di lacrime, confessando a chiare lettere di non resistere più a vivere a Cuba. Il distacco tra Gaspare, Marina e Edison, alla fine, e stato molto duro, al punto che poco prima di partire per fare ritorno a casa, Gaspare ha promesso a se stesso che avrebbe fatto di tutto per far venire Edison in Italia. Ci sono volute giornate e giornate a sollecitare i funzionari dell’ambasciata di Cuba all’Aventino, ma alla fine ce l’hanno fatta. Così un bel giorno Edison è planato a Roma a spese degli amici italiani, chitarra in spalla, e già lì all’aeroporto ha preso a suonare la canzone della loro amicizia, Que se quede el infinito sin estrellas...Di lì a poco il lavoro a El Tendero. Inutile dire che Edison piace molto agli avventori del locale, lo ammirano perché effettivamente è un bel ragazzo, i tratti regolari, le gambe lunghe, un sorriso da conquistatore invidiabile. Edison, lo si è detto, piace anche a Gaspare e Marina, gli hanno approntato una piccola camera nella loro casa nel quartiere di San Giovanni, inizialmente destinata, almeno nel tempo analogico, a camera oscura per lo sviluppo e la stampa delle foto; così finalmente Edison è contento, e non c’è piacere maggiore per chi gli vuol bene. Certo, il clima di piazza Re di Roma non è lo stesso de la Isla de la Juventud, però, pazienza. A breve tuttavia dovrà pazientare anche Gaspare. Già, pazienterà a casa dei suoi, perché nel frattempo Edison e Marina hanno scoperto anche loro di stare bene insieme, molto bene, ancora meglio senza la presenza di Gaspare. Così un pomeriggio hanno detto all’uomo di troppo, anzi, all’intestatario del contratto di locazione: “Siediti un attimino, io e Edison ti dobbiamo parlare.” Il ritratto di Camilo Cienfuegos di lì a poco è finito contro uno spigolo, spaccato in due, Cienf e Uegos. E tornato a vivere a casa dei genitori, ritrovando la sua camera da studente dell’istituto professionale, i vecchi amici delle palazzine li intorno anche questi sono tornati a farsi vivi con lui, a dargli pacche di incoraggiamento. Anche Aroldo, un suo vecchio amico d’infanzia, tecnico di lavatrici convertitosi ai computer, che abita ancora lì nel quartiere. Gaspare lo ascolta in silenzio, a capo chino, senza neppure ribattere un “eh eh”.” Non credo sia doveroso aggiungere altro. Zalone e i suoi produttori, Camilla Snebitt e Pietro Valsecchi, mi devono davvero un cordiale, spero sia chiaro a tutti.   

Goffredo De Marchis per repubblica.it il 13 dicembre 2019. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Giancarlo Dotto per Dagospia il 14 dicembre 2019. Anche un asino parlo perché volle Dio, disse il saggio. Ma quanti ce ne sono di questi maledetti asini in circolazione? Nel giorno in cui il ridicolo del politicamente abietto sfonda il muro del suono con le accuse di “razzismo” allo spot di Zalone, per me solo banalmente spassoso (vedendolo e sganasciandomi su mi chiedevo, ci sarà mica qualche asino che lo troverà razzista? E mi rispondevo: no, non può esserci tanto asino al mondo), diventa giusto tornare sul famigerato “Black Friday”, il titolo più vituperato del decennio, diventato nel frattempo sufficientemente inattuale per considerarlo finalmente attuale. E prima che i soliti cervelli bovini si mettano al lavoro, ruminando l’inevitabile schizzetto di veleno, anticipo: mi sarà allo stesso modo facile dargli addosso al Zazza, nel caso contrario di dissenso. Nulla di personale, dunque. Il titolo, in questo caso, lo faccio io: “Dove sta lo scandalo ZaZa, madonna mia?”. Triplice Za. Dallo spot di Zalone al titolo di Zazzaroni all’esecrazione di Zaccaria, mi sa che il problema è proprio questo: i ridicoli non hanno il senso del ridicolo. Un problema serio. Le trombe della demagogia sono sempre lì, pronte a stonare. Voglio dire, qualunque nome porti, qualunque carica, storia o decorazione abbia alle spalle, tu devi seriamente diffidare di te stesso nel momento in cui scambi un comico che “gioca” sulle fantasie, peraltro succubi, del latticino medio, inteso come uomo bianco, a proposito dell’immigrato incombente (immaginarlo peraltro nel letto con la moglie sarebbe, secondo un sondaggio impossibile ma vero, la fantasia prevalente dell’italiano medio, imbolsito e devitalizzato da anni di ménage coniugale), per “istigazione al razzismo”. Se poi a dirlo sono anche quelli che si occupano istituzionalmente di rifugiati, vuol dire solo una cosa, che stai portando l’acqua al tuo mulino, in questo caso nero ma verniciato di bianco. Trovando razzismo dove razzismo non c’è, nemmeno l’ombra, non fai altro che lucidare la tua targhetta di ottone. Tornando al “Black Friday”. Passata una settimana, passata la tempesta di fango, paragonabile alle scariche compulsive di guano che di questi tempi bersagliano le teste dei romani, crivellati tra cielo e terra da uccelli e buche, è arrivato il momento di dire. La miseria dei tempi è la non sussistenza delle cose. Ti uccidono per equivoco con una raffica a vanvera e il giorno dopo più nulla. Come nulla fosse accaduto. Carnefici e vittime spazzati via dalla scarica successiva. I social sono, in questo senso, nichilismo puro. Oggi sì, a mente fredda e ombrelli aperti, le teste protette dal guano della rete, possiamo dirlo: le accuse di razzismo a quel titolo sono state una gigantesca cazzata planetaria. Un caso unico di contagiosa idiozia, con l’apice inarrivabile dell’interdizione ai giornalisti del “Corriere”. Ma di questo nemmeno parlo, in certi casi anche le parole si rifiutano di parlare. Partita, come sempre, in epoca virale, con due o tre lasciti dei soliti petomani del politicamente abietto, sempre in assetto di giudizio universale, è diventata in poche ore un boato, una stroncatura per sentito blaterare, una scia grottesca, un abominevole blob, toccando pure la complicità di quei poveracci innocenti di Smalling e Lukaku, oggetti piuttosto, con quel titolo, di un omaggio assoluto. Cosa spaventa di questa stupidità che per un paio di giorni ha infuriato sul “Black Friday” e ora sul “Black Zalone”? Due cose: la totale assenza di un pensiero e l’ottusità gregaria, l’orda di crani vuoti che si allinea nella catena del passaparola. Le due cose insieme hanno combinato la tempesta perfetta. Terza cosa, la smania di superarsi l’un l’altro nella corsa delle anime belle. E qui, Roma e Milan hanno stravinto. L’ultimo appunto lo devo fare al direttore Zazzaroni. Ha sbagliato di grosso a chiedere scusa ai due soggetti in questione. Un piccolo cedimento alla furia alias bolla di massa. Non c’era nulla di cui scusarsi. Togli Chris Smalling e Romelu Lukaku, metti Tommie Smith e John Carlos. Metti caso che il giorno in cui i due hanno alzato il pugno guantato di nero sul podio, Città del Messico 1968, fosse stato un venerdì invece che un mercoledì, sarebbe stato perfetto titolare “Black Friday” e nessuno avrebbe fiatato. Lukaku e Smalling non erano gli eroi di una protesta che avrebbe fatto scandalo, ma i due probabili protagonisti di una partita che avrebbe incendiato San Siro. Due neri, due ex compagni, due suggestioni potenti anche nella chiave fisica oltre che cromatica dello scontro. Evidenziare non vuol dire discriminare, direbbe la maestra al ciuco di turno. Sottolineare la differenza non è razzistico di per sé, lo diventa se è motivo di discriminazione. Il razzismo peggiore è negare la differenza. Quello vero striscia e si nasconde in ognuno di noi, nelle tante forme subliminali di discriminazione, invisibili nelle piccole cose. Parlando di gialli e di neri nel calcio. Il coreano Son del Tottenham è il calciatore più sottovalutato del pianeta. Se Diawara fosse biondo e aitante, la sua partita a San Siro, gigantesca, sarebbe stata giudicata con un nove, non avremmo letto stitiche sufficienze. La “differenza” è ovunque, grazie al cielo, attorno a noi, che ci attrae, ci cattura, ci stordisce. Che ci ammutolisce o ci fa eloquenti. La differenza titola tutte le nostre giornate. Ci libera dalla noia e dall’apatia. Ci mette in movimento. Che tu sia uomo o donna, nero, bianco, giallo o rosso, differenza non è sofferenza. Il colore stesso della pelle è differenza, una delle tante porte dell’immaginario. Solo nel mondo di Narciso, il più grande razzista della mitologia, la differenza non è desiderio.

Dalle Alpi al Salento è Zalone-mania: «Tolo Tolo» incassa 8,6 mln in un solo giorno. Luca Medici batte sé stesso: pienone anche negli spettacoli notturni del primo dell'anno. Carlo Stragapede il 2 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La Zalonemania impazza fin dai primi minuti del 2020. Tutto esaurito o quasi, nelle sale pugliesi già alla proiezione di mezzanotte dell’attesissimo film di Luca Medici-Checco Zalone Tolo tolo. Il lungometraggio ha parzialmente stravolto le abitudini di Capodanno di molti italiani che hanno tradito la tradizionale giocata a carte o la notte in discoteca o la festa in piazza per accomodarsi in poltrona a godersi i lazzi e l’ironia - questa volta anche amara - del comico capursese. Anche nei multisala di Bari città si è registrato un notevole afflusso, nonostante la concorrenza dello spettacolo musicale in piazza Prefettura, presentato da Federica Panicucci. Fioccano le prenotazioni e conseguentemente gongolano i gestori dei cinema, anche quelli delle piccole sale della provincia, i quali sono felicemente «costretti» a mettere su spettacoli dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte e oltre, fino a cinque proiezioni al giorno, per accontentare le crescenti richieste. Lui, il 42enne autore e attore «Re Mida» del cinema italiano, non si è visto in giro, almeno a Bari e dintorni. In una intervista a una emittente radiofonica nazionale, offre la interpretazione autentica del suo personaggio, più maturo e meno farsesco, più essere umano e meno marionetta rispetto ai lavori precedenti, così come è forgiato dalla sceneggiatura scritta a quattro mani con Paolo Virzì: «Il protagonista - spiega - è l’italiano di oggi concentrato su se stesso, che veste grandi griffe, che non avverte ciò che sta accadendo intorno a lui e suo malgrado si trova insieme agli immigrati a fare il viaggio nel deserto e poi nel Mediterraneo con loro». A proposito di migranti. Il titolo del film Tolo tolo prende spunto da una frase che il piccolo Doudou, il bambino nero che lo accompagna nella traversata dall’Africa all’Italia, pronuncia entusiasta quando impara a nuotare «solo solo», cioè senza l’aiuto di Checco. Molti spettatori, dopo i titoli di coda, commentano a caldo che «è un film che fa divertire ma anche riflettere». E forse farà arrabbiare qualcuno, aggiungiamo, perché prende di petto il tema dei migranti. Sul punto, Luca Medici commenta: «Anche in occasione degli altri film qualcuno si è arrabbiato, ormai ci convivo. Sarebbe stato peggio se avesse lasciato indifferenti. Il tema è caldo, non è un film di impegno civile ma sono andato a parlare di questo argomento con il mio sguardo e la mia visione che non sto a commentare perché trovo terribile autorecensirsi». Il regista-attore delinea il personaggio di Tolo tolo: «È rozzo, concentrato su stesso, incapace di vedere oltre, però conserva l'umanità e penso venga fuori un italiano mai privato della sua umanità». È presto per dire che il quinto film - il primo da regista di Checco Zalone dopo il lungo sodalizio con Gennaro Nunziante - raggiungerà il record di incassi di Quo vado? (65 milioni) ma le premesse ci sono tutte. Lui si schermisce: «Non penso di ripetermi perché quello fu davvero un incasso assurdo, ma - confessa - spero quantomeno di avvicinarmi, ma lo dico per il mio produttore (Pietro Valsecchi, ndr) che è povero ed è lì a Cortina che non può pagare il conto al ristorante. Sta attendendo, non ha ancora pagato. Vi prego, andate al cinema per lui», scherza. Il film offre gli scenari lussureggianti delle spiagge del Kenya e quelli, inquietanti, del deserto del Sahara e, drammatici, del lager dei migranti in Libia (ricreato dagli scenografi a Malta), ma dà dignità artistica anche alle bellezze naturali della nostra Puglia: come gli scorci di Spinazzola, l’area «Madonna della Stella» di Gravina dove è ambientato il set del fallimentare ristorante «Murgia Sushi», la Selva di Fasano, tra i cui trulli un inedito Nichi Vendola nei panni di se stesso offre un cammeo denso di intelligente autoironia. Nel cast inoltre spiccano alcuni bravissimi artisti pugliesi, tra i quali: Nicola Di Bari (il celebre cantante di Zapponeta interpreta il papà cardiopatico di Checco); Gianni D’Addario (il compaesano che fa una incredibile carriera fino alla presidenza della Commissione europea); Monica Angiuli (la cugina); Nicola Nocella (l’avvocato); Antonello Loiacono (il medico legale); Vittoria Loiacono (una parente); Nunzio Cappiello (zio Sushi).

Zalone record, batte se stesso e incassa oltre 8,6 milioni in un solo giorno. La Repubblica il 2 gennaio 2020. Checco Zalone batte se stesso: il nuovo Tolo Tolo ha incassato, nel primo giorno di programmazione, Capodanno, 8.668.926 euro con oltre un milione di spettatori in un solo giorno. Una media di 7.164 persone in 1.210 schermi. Il suo precedente successo, Quo vado?, aveva fatto registrare 7.360.192 euro. Un trionfo, con Zalone che ha surclassato tutte le altre opzioni del cinema del primo anno. Il secondo film più visto è stato Jumanji con soli 681mila euro di incassi, meno di un decimo.

Marco Giusti per Dagospia il 4 gennaio 2020. Stra-straboom! Al terzo giorno di programmazione Tolo Tolo di Checco Zalone incassa altri 4,5 milioni di euro e arriva al totale di 18,5 milioni. Malgrado gli abbracci letali di Cazzullo e Battista, e le critiche ultranegative non tanto degli spettatori di destra incazzati, ma degli amici zaloniani della prima ora che lo vanno a vedere e lo trovano come distrutto dallo scolavirziveltronismo di fondo e dalle gag che non tornano (quanto manca Gennaro Nunziante), Tolo Tolo è terzo nella classifica stagionale dietro a Il re leone a 37,5 milioni e al Joker a 29,5 dopo aver superato anche Frozen 2 rimasto a 18,3. La buona notizia per il cinema italiano è che oltre a Tolo Tolo abbiamo anche Il primo Natale di Ficarra e Picone che è quinto a 14,1 milioni e Pinocchio di Matteo Garrone che è sesto a 12,5. E magari se le sale italiane non fossero tutte prese dal film di Zalone al punto che è quasi impossibile evitarlo se volete andare al cinema, Pinocchio e Il primo Natale potrebbero ancora andare avanti negli incassi. Penso soprattutto a Pinocchio, grande affresco dell'Italia dell'800, che dopo un primo impatto non fortissimo aveva davvero convinto gli spettatori italiani e ci sembra rimasto un po' soffocato nella sua corsa dal ciclone anche mediatico del caso Zalone. Il tutto mentre Trump porta avanti i suoi giochi di guerra per non parlare delle mosse di Erdogan in Libia. Come si fa a ridere e a contare i soldi in queste condizioni è un paradosso tutto italiano e tutto berlusconiano che nemmeno Cazzullo e Battista riusciranno a spiegarci. 

Marco Giusti per Dagospia  il 5 gennaio 2020. Strastrastraboom! Anche ieri Tolo Tolo di Checco Zalone con le sue sue 1200 copie stravince la giornata, 5,5 milioni di euro di incasso per la gioia di Valsecchi e Berlusconi e con gli osanna dei giornali diciamo di sinistra. Oggi ne parla benissimo anche il puntiglioso Fabio Ferzetti ( "Zalone ha rotto il ghiaccio, accidenti se lo ha rotto") e riceve l'appoggio più militante, quello di Roberto Silvestri. Manco fosse un film di Ken Loach... Il totale dopo 4 giorni di programmazione è di 23,9 milioni di euro, terzo nella classifica stagionale a un passo dal Joker. Si dirà che non sono gli incassi di Quo vado, e difficilmente arriverà ai suoi 65 milioni. E capiremo solo la settimana prossima se arriverà ai 40 milioni, la cifra che segnerà il successo del film con i 25 milioni di budget. Magari qualche drone in meno lo avrebbe reso un film migliore. Jumanji The Next Level è secondo con "soli" 573 mila euro e un totale di 9,2. Terzo Pinocchio di Matteo Garrone con 458 con un totale di 12,9 milioni che lo portano al sesto posto in classifica stagionale, mentre Il primo Natale di Ficarra e Picone è quinto  14,3 milioni. La dea fortuna di Ferzan Ozpetek, ieri quarto con 291 mila euro, è arrivato alla bella cifra di 6,2 milioni. Tra le news new entries 18 regali di Francesco Amato ieri sera settimo con 228 mila euro e un totale di 513 mila euro, mentre Sorry We Missed You, bellissimo film di Ken Loach non prodotto da Valsecchi e Berlusconi è ottavo con 135 mila euro e la seconda miglior media per copia del giorno dopo Tolo Tolo. Trionfo per la sinistra militante.

Continua la corsa di "Tolo Tolo", Checco Zalone a quota 23 milioni di incasso. Dal giorno dell'uscita nelle sale il 1°, che vede Luica Medici nella duplice veste di regista e attore, rischia di diventare il film italiano più visto di sempre. La Repubblica il 05 gennaio 2020. Con quasi 8,7 milioni incassati in una giornata, quella dell'uscita il 1° gennaio, e con oltre un milione si spettatori, Tolo Tolo di Checco Zalone rischia di diventare il film italiano più visto di sempre, con un primo dato che è già entrato nella storia: è infatti il migliore incasso, nelle prime 24 ore, nella storia del cinema italiano. Luca Medici, qui in veste sia di regista (è la sua prima volta) che attore, sbanca tutti, persino se stesso: uscito in 1.200 sale italiane, il film, prodotto da Taodue e distribuito da Medusa, ha superato il precedente record di Quo vado?, fermo a 7,3 milioni, che nel 2016 incassò alla fine circa 65 milioni di euro. Ma la corsa di Tolo Tolo non si arresta: dopo quattro giorni di programmazione guadagna 5.488.382 di euro raggiungendo poco meno di 23 milioni in totale. Secondo, a grande distanza, Jumanji: The Next Level, con un incasso di 9.277.621 euro. Il film, applaudito dai colleghi e criticato da alcuni politici e seguito non solo dal successo ma anche dalle polemiche, è una commedia musicale che racconta l'immigrazione, il fascismo, sempre pronto a uscire da ognuno di noi. Risate, certo, ma anche molto su cui riflettere. Il soggetto è stato scritto da Paolo Virzì, con cui Luca Medici ha firmato la sceneggiatura. Due nomi a questo punto accomunati da una sola parola: impegno. Il botteghino, intanto, s'impenna. 

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2020. Chevelodicoaffà? Tolo Tolo di Checco Zalone con gli incassi di ieri, 5 gennaio, altri 5,9 milioni, arriva a un totale di 29,9 milioni per la gioia di Valsecchi e Berlusconi e, superando il Joker, è il secondo incasso della stagione, pronto a sfidare quindi i 37 milioni de Il Re Leone della Disney. Non sono ancora i 40 milioni desiderati ma poco ci manca, anche perché i commenti, incredibilmente, sono quasi tutti negativi. Però il pubblico seguita a vederlo e a riempire le 1200 sale che rendono impossibile vedere qualsiasi altro film. Dietro si ritrova, al solito, Jumanji The Next Level con altri 619 mila euro per un totale di 9,8 e un decimo posto in classifica, Pinocchio con 524 mila euro e un sesto posto in classifica con 13, 4, mentre Il primo Natale di Ficarra e Picone, ieri quinto dietro anche a La dea fortuna, è quinto in classifica generale con 14,6 milioni. Erano anni che il cinema italiano non andava così bene. Ci pare. Bene così. Anche se Salvini, quello che voleva Checco Zalone senatore, e la sua politica dei porti chiusi ora ha qualche problemuccio e non ci sembra particolarmente aiutato dal film di Zalone. 

Checco Zalone e il patrimonio da quasi 5 milioni gestito dalla moglie. Mario Gerevini l'1 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera.  Il «gruzzolo» del dottor Luca Medici. Il dottor Pasquale Luca Medici dovrebbe ringraziare Checco Zalone per i quasi 5 milioni di euro che gli ha messo da parte. I due però, come è noto, sono la stessa persona: Checco è il business di Luca. L’unica società di cui l’artista pugliese è proprietario (95% del capitale) è la Mzl di Bari: qui c’è il patrimonio e qui arrivano una parte dei diritti d’autore. Quanta parte non si sa. E’ assai probabile tuttavia che l’attore percepisca anche direttamente i proventi delle sue attività.

Gli incassi di Checco. E il business targato Checco è decisamente prospero: i film dal 2009 con Cado dalle nubi (14 milioni) passando per Che bella giornata (2011, 43 milioni), Sole a catinelle (2013, 52 milioni) fino a Quo vado (2016, 65 milioni), hanno registrato in totale 174 milioni di incassi.

Il rosso di Taodue. Tutto ciò in attesa dei risultati di Tolo Tolo (in uscita nelle sale dal 1° gennaio), una produzione, come gli altri film di Checco Zalone, firmata da Pietro Valsecchi e dalla Taodue che nel 2018 ha registrato su 12 milioni di fatturato quasi 9 milioni di perdita. Il 2016 con il successo di Quo vado ebbe ben altri numeri: 77 milioni di ricavi (più di un terzo grazie ai diritti sul film) con 16 milioni di utile.

Il patrimonio di famiglia. Anche i bilanci della piccola Mzl dell’attore sono ricchi a ridosso delle uscite dei film, con le canzoni di Zalone che accompagnano la trama, mentre gli introiti si prosciugano alla distanza. L’ultimo, quello del 2018, approvato da poco forse per gli impegni nella preparazione di Tolo Tolo, ha registrato una perdita per la prima volta in otto anni: 126mila euro. Ma c’è da scommettere che con il nuovo film il 2020 segnerà un boom. Nel 2016, per esempio, mister Medici, 42 anni, laurea in giurisprudenza, residenza a Bari vecchia, realizzò con la sua Mzl 1,7 milioni di utile; altro anno ricco è stato il 2014 con 1,1 milioni. Insomma cumulando anni di utili (tranne il 2018) “Checco Medici” ha messo da parte nella sola Mzl un patrimonio di quasi 5 milioni.

La mamma socia e la fidanzata amministra. Mariangela Eboli, la fidanzata e madre dei suoi due figli, è l’unico amministratore della società e per questo riceve uno stipendio pari a 9mila euro lordi al mese. Alla mamma, signora Antonietta, il figlio ha riservato un 5% del capitale che già oggi vale circa 250 mila euro.

Gli stipendi milionari di Taodue. E il 2020 potrebbe essere anche l’anno del ritorno all’utile per la Taodue guidata da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt. Nella società di produzione cinematografica e televisiva una voce di costo rilevante sono gli emolumenti agli amministratori (5 in tutto ma Valsecchi e Nesbitt dovrebbero percepire gran parte della cifra) pari a oltre 3 milioni per l’esercizio 2018 compreso l’effetto dei compensi variabili maturati sui risultati box office delle produzioni cinematografiche del 2018.

Marco Giusti per Dagospia il 3 gennaio 2020. Straboom!! Al suo secondo giorno in sala Tolo Tolo di Checco Zalone agguanta altri 4,9 milioni di euro per un totaluccio di 13,7 milioni di euro, cioè il quinto posto in classifica generale dietro i 13, 9 de Il primo Natale di Ficarra e Picone, altro film Medusa, quarto in classifica generale, che ha dovuto accontentarsi ieri di 182 mila euro dopo un mese di tenuta in sala. Come numero di spettatori Il primo Natale è a 2 milioni 141 mila e Tolo Tolo 1 milione 912 mila. Pinocchio di Matteo Garrone, ieri terzo dopo Tolo Tolo e Jumanji The Next Level, ha incassato ieri 395 mila euro per un totale di 12 milioni di euro e un settimo posto in classifica generale, mentre La dea fortuna, ieri a 191 mila, ha incassato in totale 5,6 milioni di euro. 18 regali di Francesco Amato, curioso lacrima movie con Benedetta Porcaroli, Vittoria Puccini e Edoardo Leo con i baffi, unico film italiano che abbia osato l’uscita ieri, un giorno dopo il ciclone Tolo Tolo, ha incassato 127 mila euro. Difficile dire se si fermerà la corsa di Tolo Tolo. Il numero delle sale è impressionante e non si trovano tanti altri film da vedere oltre a quello di Zalone. Ma i commenti su twitter del pubblico, diciamo di destra che è andato a vederlo, sono da veri haters, con un livore anche molto brutto che dimostra lo stato mentale di parte del paese, anche perché partono tutti dalla visione del trailer che avevano letto come anti-immigrazione. Al tempo stesso si compatta un nuovo pubblico zaloniano più civile che lo difende a spada tratta, mentre fioccano le battute su Papa Bergoglio alla Mario Brega (“sta mano po’ esse piombo e po’ esse piuma”), cosa che alla fine ce lo rende estremamente più simpatico e popolare. La cosa certa è che Medusa, Mediaset e Berlusconi, malgrado la difesa di Salvini di questi giorni, stanno facendo milioni a palate con due film supercivili e non certo di destra come Il primo Natale e Tolo Tolo che, guarda un po’, parlano entrambi di viaggi della speranza sui barconi e di porti aperti alla faccia dei leghisti. Il primo con una metafora cattolica più alta e grande attenzione a non cadere nel razzismo e nel sessismo, il secondo con un modello zalon-veltroniano e qualche grossolanità. Ma entrambi colpiscono nel segno. Un altro controsenso italiano, diciamo.

Fulvio Abbate per Dagospia il 3 gennaio 2020. Perché mai Checco Zalone ha scelto di andare in Africa al posto di Veltroni? Realizzando laggiù un film modesto, ma soprattutto scritto in modo approssimativo, da dilettante già sbaragliato dal ricatto moralistico? “Tolo Tolo” assomiglia infatti, almeno ai miei occhi, a un patetico calendario missionario, tempestato, mese dopo mese, dagli scatti delle orfanelle dai grandi occhi imploranti, sì, con i “negretti” in lacrime, cose da tenere in cucina, giusto nel tanfo di verza e cavolo, accanto alla rubrica avuta in dono dalla torrefazione sotto casa, non meno fissata al muro accanto all’immaginetta di padre Pio e le cartoline natalizie dipinte accuratamente con i piedi o con la bocca. Un film dove il talento, i tempi comici, altrove innegabili e spietatamente vincenti doverosamente orinando sul politicamente corretto, di Checco Zalone si ritrovano depotenziati, mortificati, obliterati, presumibilmente per ragioni tragicamente, di più, perversamente “etiche”; così almeno c’è da intuire passo dopo passo mentre la noia e il "ma che ci sta dicendo?" si fa strada. Un film nel quale il meraviglioso (sempre altrove) cinismo “dolce” del suo autore e interprete svanisce, evapora, per lasciare posto a un’opera a tesi degna del più banale e piccino anerotico, ripeto, detestabile veltronismo. Un crimine contro ogni possibile vis comica. L’ho già detto, no, che Zalone sembra essere andato in Africa facente le veci dell’inventore della “vocazione maggioritaria”? La presenza di Virzì co-sceneggiatore aggrava l’intero quadro narrativo, spingendo il racconto del viaggio verso il burrone del più banale esito. Un amico che di cinema ne mastica assai più di me, suggerisce che nessun vero comico – “pensa a Totò” - si assumerebbe mai il peso della regia, non per nulla, aggiunge ancora, “Zalone in “Tolo Tolo” non fa ridere, anzi, per l’intera durata del film mostra un’espressione tesa e preoccupata, e ti credo a dover gestire troupe e comparse ragazzine nel cuore dell’Africa nera”. Ovviamente, aggiungiamo noi, affermare che il film “non fa ridere” significa scontrarsi con chi, “d’ufficio”, per ragioni, ribadiamo, di stretta osservanza buonista, replica che tutto ciò è una menzogna, anzi, questi ultimi, coloro che hanno apprezzato, avrebbero riso “dall’inizio alla fine” (sic). L’eventualità che abbiano riso sinceramente, almeno ai nostri occhi, risulta un’aggravante, c'è solo da sperare che abbiano riso in malafede. Alla fine della storia, ha comunque ragione chi afferma che la sinistra ha dato il bacio della morte a Zalone proprio per bocca di Virzì, ossia per interposto Veltroni, e non saranno certamente gli incassi finora stroboscopici a salvare, anzi, a ribaltare il giudizio circa l’oggettiva modestia del lavoro portato infine sullo schermo. Perché Zalone ha voluto farsi così male? Perché, ribadisco, è voluto andare in Africa al posto d'altri? Perché si è fatto abbindolare da chi vorrebbe usare il suo film come un’opera di propaganda che risponda al linguaggio da troglodita razzista di Salvini? Perché alla fine del film, perfino l’antifascista più intransigente che urla in noi, si ritrova addirittura a condividere le parole dell’orrendo Ignazio La Russa che ha invece definito il comico e il suo film: “Il cugino della Boldrini, spicciola propaganda”? E stavo dimenticando l’aggravante del cameo di Nichi Vendola al telefono. E' davvero così difficile rispondere unicamente al proprio talento, eh? 

P.S. Un'ultima cosa: chi scrive non ha ritenuto affatto "razzista" il video promozionale con l'immigrato "parassita", anzi, lo ha pubblicamente difeso, proprio su questo sito, in nome dell'ironia cui ogni comico ha diritto perfino nelle sue forme più crudeli. Anche in barba alla sinistra, anche lì, più ottusa. Ora è davvero tutto.  

Zalone, tanti l'hanno visto, tutti ne parlano. Se fossero un partito varrebbero il 10%. Libero Quotidiano il 5 Gennaio 2020. Due milioni e mezzo di spettatori in tre giorni di programmazione. Se fosse un partito politico il film Tolo Tolo di Checco Zalone avrebbe il 10% del consenso, cioè il rapporto tra spettatori e italiani che mediamente si recano alle urne. Lo scrive il sondaggista Antonio Noto sul Giorno in edicola domenica 5 gennaio. Se da un punto di vista commerciale il film sta avendo grande successo, basti pensare che nei primi tre giorni ha totalizzato 18 milioni di euro, circa 6-7 volte in più degli incassi medi degli altri film di successo. Alla performance artistica suprema, Zalone associa sempre due importanti fattori: approfondisce tematiche di stretta attualità da un punto di vista sociale e utilizza una comunicazione in chiave marketing che crea dibattito, aumentando le attese, già prima che la pellicola sia nei cinema. Come però emerge dall' analisi demoscopica condotta dall' Istituto Noto Sondaggi, anche questa volta si registra una diversa percezione di una stessa problematica tra la classe politica e i cittadini. Se i primi hanno voluto conferire a Tolo Tolo un significato e un contenuto politico, per i secondi si tratta solo di un film comico. Quindi se 2,5 milioni di italiani hanno visto il film in soli tre giorni, nella realtà la quota della popolazione che ne ha sentito parlare o che ritiene di sapere la trama supera già i 10 milioni, cioè 1 adulto su 4. Pertanto la cosa paradossale è che anche chi non ha visto il film esprime giudizi nelle discussioni tra amici. Probabilmente presupponendo che il video messo online prima dell' uscita del film fosse una sorta di trailer dal quale comprendere la trama. Ecco dunque che oggi quasi il 35% della popolazione ha dichiarato nel sondaggio che nelle discussioni di fine e inizio anno ha parlato di Tolo Tolo. Comunque sia il 67% ritiene che il film non esprima nessuna posizione politica, ma debba essere visto solo come una performance comica, mentre solo il 17% ritiene che Zalone abbia voluto dare un messaggio politico.

Zalone, film con gli occhi dei migranti. Non fa molto ridere ma va visto. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da  Aldo Cazzullo. Il film di Checco Zalone non fa molto ridere. Alla fine anzi fa piangere, con la scena dell’agnizione (per non dire parolacce: riconoscimento, tra padre e figlio). Per il film di un comico, è un bel guaio. Questo non significa che Checco non abbia infilato le sue gag, le sue battute, le sue trovate. Ce ne sono: molte e godibili come sempre. Ma inserite in un contesto talmente amaro che la risata a volte si strozza in gola. «Tolo Tolo» commuove e ci fa sentire un po’ in colpa, anche se non muore nessuno. Soprattutto, spiazza. Perché affronta un fenomeno epocale del nostro tempo, capovolgendo il punto di vista. Finora abbiamo sempre guardato i migranti con i nostri occhi. Ci siamo impauriti per il dumping sociale – riduzione di salari e diritti – legato all’afflusso di manodopera a basso costo; e per i problemi di sicurezza, che sarebbe ipocrita negare. Checco guarda e racconta la questione dal punto di vista dei migranti. Restando se stesso: l’italiano becero, ossessionato dalle mode – sushi e acido ialuronico —, diffidente dello Stato e degli altri. L’italiano che ieri, in «Quo vado?», raccontava il nostro Paese visto dalla Scandinavia; e ora dall’Africa. Solo lui poteva farlo. Anche perché nessuno, nel nostro cinema notoriamente intento a rimirarsi l’ombelico, può spendere i milioni di euro necessari a girare in Kenya e nel Sahara, sapendo che saranno ripagati dal botteghino. Ieri gli incassi — pur restando eccezionali — hanno un po’ rallentato. Può darsi che il passaparola non sia sempre positivo. All’uscita del cinema, gli spettatori discutono. Di solito «Tolo Tolo» piace più alle donne che agli uomini. Di sicuro non è il film che ti aspetti da Checco Zalone. È anche un film politico, e non solo perché il meridionale senza arte né parte che diventa ministro degli Esteri si chiama Luigi come Di Maio; e perché a un certo punto compare Vendola nella parte di se stesso, distolto dalla cura dei suoi fiori dalla telefonata del pugliese ostaggio dei trafficanti (l’ex governatore si lancia in una delle sue complicate metafore sinistrorse; Macron, chiamato da un francese, paga e lo fa liberare). È un film palesemente antisalviniano, senza per questo voler appiccicare nessuna etichetta a un artista che vuol restare di tutti. I neri non sono buoni. Omar, l’amicone, si rivela un traditore. Però i neri sono poveri. Deboli. In una parola, umani. I buoni non esistono: tantomeno i giornalisti (il francese è un odioso reporter che si fa bello con i reportage umanitari, oltre che con il suddetto acido ialuronico, ma poi abbandona i compagni di viaggio nelle carceri libiche). Checco non tradisce se stesso. Non rinuncia all’ironia, compresa l’irresistibile satira dell’Africa consolatoria della Disney, con la «cicogna strabica che sbaglia rotta», abbandonando i bambini a un destino di miseria, «ed è pure una mignotta». Insomma Zalone non diventa politicamente corretto o sentimentalista. Però «Tolo Tolo» può davvero cambiare, almeno un po’, il sentimento dell’italiano medio verso i migranti. Il produttore Valsecchi non sarà d’accordo; ma questo non vale meno di un incasso record. Che poi magari arriverà comunque: il film va visto. Perché è bellissimo.

I 5 segreti di "Tolo Tolo", il film di Checco Zalone. Dove è stato girato Tolo Tolo? Come sono state scelte le comparse? Sono tante le curiosità che si nascondono dietro il film campione di incassi di Checco Zalone. Francesca Galici, Domenica 05/01/2020, su Il Giornale.  Tolo Tolo di Checco Zalone è il film italiano che ha incassato di più alla sua prima uscita nelle sale e giorno dopo giorno aumenta i suoi introiti, grazie alle 1200 copie distribuite nei cinema italiani. In solo 3 giorni, il film ha incassato circa 18 milioni di euro, che è mediamente 6 volte tanto rispetto alle altre pellicole di successo. Sono numeri monstre per un film italiano, che rappresenta anche la prima esperienza di Checco Zalone come regista. Come dichiarato in più di un'occasione dal regista e dal produttore, la realizzazione di Tolo Tolo ha richiesto un grande sforzo economico e logistico. Questo è stato motivo di ansia per l'attore e regista, terrorizzato dall'idea che la nuova versione si sé non piacesse al suo pubblico affezionato. Ansie che, visti i risultati, sembrano ormai lontane per Checco Zalone, alias Luca Medici. Dietro Tolo Tolo si nasconde una macchina produttiva gigantesca, che sebbene non possa essere equiparata a quella dei grandi kolossal di Hollywood, è comunque notevole per una produzione italiana considerata “leggera.” Sono tante le curiosità che si nascondono dietro Tolo Tolo, a partire dal titolo scelto per il film. Inizialmente, infatti, si sarebbe dovuto chiamare L'amico di scorta ma, nel corso della produzione, un avvenimento ha sconvolto tutto. Una ripresa prevedeva che gli attori dovessero attraversare a nuoto il fiume Sabaki in Kenya. Ogni attore, stando alle direttive di Checco Zalone in versione regista, doveva nuotare "solo solo." Essendo le comparse del film di origine locale e non comprendendo l'italiano, l'interprete di Malindi ha ripetuto la frase detta poco prima da Checco Zalone ma ne ha cambiato la pronuncia, trasformandola in "tolo tolo." L'accaduto ha destato grande ilarità in Checco Zalone, che intuendo la forza di quell'errore, l'ha trasformato nel titolo della pellicola. Il Kenya, precisamente Watamu, è stata solo una delle location individuate da Zalone per il suo film. Molte scene sono state girate anche in Italia. Il regista ha scelto principalmente località della sua Puglia come Acquaviva delle Fonti, Bari, Gravina e Minervino Murge, ma ha girato anche a Roma, Latina e Trieste. Altri set all'estero sono stati allestiti a Malta e in Marocco. Le comparse, che pare siano state circa 5.000, sono state scelte da Checco Zalone principalmente nei centri di accoglienza per quanto riguarda quelle di origine africana. Non veri attori, quindi, ma persone normali che il regista ha scelto per la forza comunicativa. La squadra di lavoro attorno a Checco Zalone, invece, era composta da ben 120 persone che per due anni hanno lavorato alacremente per soddisfare le richieste del regista e realizzare un film capace di far ridere e riflettere allo stesso tempo.

«Tolo Tolo», dal set al titolo, 5 curiosità che forse non conoscete sul film di Zalone. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da «Laura Zangarini. Il film ha totalizzato un giorno 8,7 milioni di euro e sta facendo molto discutere: ma com’è stato realizzato? E dove? La vicenda dell’aspirante imprenditore in «mocassini scalzi» e camicia logata che decide, dopo vari fallimenti e ancor maggiori debiti, di partire per l’Africa sta mietendo un successo dopo l’altro, come il record di incasso al primo giorno d’uscita. Ma com’è stato realizzato il film? E dove? Eccovene i segreti.

Canzoni e musiche. Come sempre, anche musiche e canzoni sono firmate da Zalone. In rete e sui giornali, prima dell’uscita del film, è scoppiata la polemica per i presunti contenuti razzisti del singolo «L’immigrato». Polemiche in risposta alle quali,in una intervista concessa ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera», il comico barese ha risposto dicendo: «L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende». E ancora: «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Il titolo. Il titolo del film doveva essere inizialmente «L’amico di scorta». Poi, nel corso della lavorazione, durante una ripresa che prevedeva l’attraversamento del fiume Sabaki, in Kenya, Zalone ha detto a ciascun attore di nuotare «solo solo». Nassor Said Birya, giovane interprete originario di Malindi, ha ripetuto la frase con una pronuncia sbagliata, trasformandola in «tolo tolo». L’espressione ha divertito moltissimo Zalone, che ha scelto di utilizzarla come titolo della sua opera.

Le location. Il film è stato girato in Marocco, in Kenya (Watamu), a Malta e in Italia, precisamente ad Acquaviva delle Fonti, Bari, Gravina, Latina, Minervino Murge, Roma e Trieste.

Migliaia di comparse. Nel film, le migliaia di comparse di origine africana sono state scelte nei centri di accoglienza. La squadra completa del film era composta da 120 persone

Cara sinistra, Checco Zalone è riuscito dove tu hai fallito. Il film antisovranista del comico pugliese. Davide Varì il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. Non toccate Checco Zalone, ve ne prego. E non toccatelo soprattutto voi, amici di sinistra, che da anni predicate diritti e uguaglianza nel deserto. Perchè Zalone, in due ore scarse di film, è riuscito dove tutti voi, tutti noi, abbiamo fallito in trent’anni e passa di multiculturalismo paternalista. Zalone è una sorta di sardina, una sardina scorretta, grottesca e volgare, ma pur sempre una sardina che è riuscita a cambiare i termini del discorso, smascherando la famosa e fumosa narrazione che da anni diffonde e predica la panzana dell’invasione dei migranti, magari indossando un crocefisso al collo e invocando il cuore immacolato di Maria. È arrivato Zalone, per fortuna, il quale è riuscito a far vedere a frotte di ragazzini abitati dalla vocina subdola del “prima gli italiani”, un film tutto schierato dalla parte dei migranti. Un’operazione geniale e maestosa che nessuna scuola, nessuna Ong e nessuna associazione antirazzista è mai riuscita a realizzare. E tra una parolaccia e una battutaccia, Zalone ha fatto vedere loro i campi di tortura libici e la pena di una donna costretta a prostituirsi per rimediare un biglietto di sola andata in una bagnarola diretta a Lampedusa. Zalone ha squarciato il velo e ha mostrato agli italiani, a tutti gli italiani, salviniani compresi, quanto sia fasulla la favola sovranista. Perché siamo nel 2000 dopo Cristo e le frontiere, come ha spiegato alla fine del suo film, semplicemente non dovrebbero esistere. E questo è un pensiero da artista, da grande artista. Non toccate Zalone, ve ne prego…

Checco Zalone e Tolo tolo, La Russa bombarda: "Il cugino della Boldrini, spicciola propaganda". Libero Quotidiano il 3 Gennaio 2020. "Il cugino di Laura Boldrini". Ignazio La Russa all'opposizione di... Checco Zalone. Il fondatore di Fratelli d'Italia è uno dei pochi che in questi giorni di trionfo (di critica e al botteghino) alza la voce contro il comico pugliese dominatore con il suo ultimo film Tolo tolo. In attesta di diventare il fenomeno cinematografico del 2020 (in fondo, sono passati solo 2 giorni ma è in buna posizione), l'autore di Quo vado e Cado dalle nubi incassa il pollice verso del focoso vicepresidente del Senato, che definisce la pellicola "una noia infinita", in cui si salvano "solo un paio di battute carine, al massimo da sorriso, quando Zalone si ricordava di essere un comico e non una specie di cugino della Boldrini senza nemmeno la passione della ex Presidente della Camera ma solo con un etto di opportunismo". Parole come pietre, affidate a una lettera al Giornale. La Russa quasi si indigna per "tutti i luoghi comuni buonisti sull'immigrazione", apprezza perlomeno la colonna sonora anche se, sottolinea, "viene travisato il messaggio di Faccetta nera che semmai segnò in positivo la diversità del colonialismo italiano rispetto a quello degli altri Paesi europei". Il problema, conclude, è che Luca Medici, in arte Checco Zalone, "pur di ricercare un giudizio positivo della critica radical-chic e di sinistra, rinuncia al meglio della sua proverbiale verve comica per rifugiarsi in un noioso filmetto di spicciola propaganda".

Zalone, incassi record ma La Russa lo stronca: “Film noioso e politico. Checco, a questo punto candidati». Monica Pucci giovedì 2 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Checco Zalone e il suo “Tolo Tolo” fanno registrare incassi record nel week end festivo. A sole 24 ore dall’uscita nelle sale, il quinto film dell’attore pugliese sfiora infatti gli 8,7 milioni di euro di incassi (8.680.232 con 1.175.000 presenze in sala). Diventa così la pellicola con il miglior incasso di sempre nella storia del cinema italiano nel primo giorno di programmazione. A confermarlo, una nota della Taodue di Pietro Valsecchi che ha prodotto il film girato dallo stesso attore, stavolta al suo esordio alla regia. Ma non è tutto. Zalone infatti si batte anche da solo, superando lo stesso record stabilito dal suo “Quo Vado” (7.341.414 milioni di euro).

Zalone s’è convertito alla sinistra. L’interesse iniziale, secondo Ignazio La Russa, non è giustificato dalla qualità della pellicola dell’attore siciliano, impegnato sul set a far passare la teoria che i migranti sono tutti buoni e chi non li vuole è razzista. A dare un lapidario parere è il senatore Ignazio La Russa, che su Twitter stronca la pellicola in meno di 200 caratteri: «Ho appena visto la prima di TOLO TOLO: zero applausi alla fine. Oltretutto – rincara la dose – anche scarso e noioso. Servirebbe ‘soddisfatti o rimborsati». Dopo le iniziali critiche della sinistra per lo spot “poco accogliente”, Zalone si era rapidamente “rposizionato” a sinistra. In conferenze stampa e interviste si era premunito di spiegare a tutti che il suo “Tolo tolo” non era un film di destra, anzi.  Per evitare che contro di lui si scatenasse una campagna svuota-cinema sui grandi giornali, si era affrettato a criticare Salcini.  Così,da film inizialmente etichettato come di destra, “Tolo tolo” si è scoperto film di sinistra, bocciato dalla destra. «Uno dei film più noiosi che abbia mai visto. Di scarso gusto. Zalone hai perso, se volevi fa politica dovevi candidarti…», concluce La Russa.

Checco Zalone non è né di destra né di sinistra, inutile etichettarlo. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Pierluigi Battista. Il comico sa essere sgradevole con tutti e rifiuta gli schemi. Ora sono capaci tutti, schiacciati dai numeri impressionanti del botteghino, a magnificare Checco Zalone. Era un po’ più difficile riconoscere la genialità spettacolare di Luca Medici in arte Zalone una decina d’anni fa, quando l’Ancien Régime culturale spocchioso non si fidava affatto di questo fenomeno scurrile e volgare, dozzinale, scorretto, addirittura «qualunquista» come qualche zdanoviano tardivo arrivò a definirlo. Ora è partita la corsa un po’ ridicola all’accaparramento politico di un comico che sovverte ogni regola. E fa ridere molto Zalone, ma anche chi, ammalato di schematismo ideologico, incapace di guardare la realtà delle cose se non sotto la specie degli schieramenti politici, cerca di incasellare Zalone nel mobiletto di destra oppure in quello di sinistra. Come se ci fosse un dosatore che scorrendo le scene del film che in una sola giornata straccia ogni record di incassi, si metta in cattedra per indicare qui uno spruzzo di sinistra, lì una spolveratina di sinistra, e poi una manciata né di destra né di sinistra, e infine un cucchiaino che mescoli un po’ di destra e un po’ di sinistra. E se fosse così, Zalone non sarebbe il mattatore che è diventato perché nel cuore della sua diuturna dissacrazione («cozzalone» in pugliese sta per «tamarro», mai dimenticarlo) è beffardo con tutti, non ha rispetto sacrale per nessuno, bersaglia vizi e manie nazionali senza distinzioni, non conosce tabù. Fosse un militante di qualche buona o cattiva causa, non se lo filerebbe nessuno. Perché a differenza degli ideologi e degli adoratori degli schemi, ancorché arrugginiti e desueti, le persone che riempiono con entusiasmo le sale dove i film di Checco Zalone fanno il tutto esaurito dagli incasellamenti politici, dai feticci della destra e della sinistra, dal buonismo e dal cattivismo si tengono prudentemente lontani, con entusiasmo, stavolta, pressoché nullo. Checco Zalone è sempre stato così. Sono i suoi critici, i detrattori custodi del correttismo, che sono cambiati, e anche radicalmente. Qualche film riesce meglio, qualcuno peggio, come accadeva persino con Totò, con un paragone forse azzardato, ma non nell’incomprensione con cui sono stati accolti prima l’uno e adesso l’altro. Qualche volta si ride molto, qualche volta si sorride e basta, come in molte delle situazioni di Tolo Tolo. Ma la vera arma di Zalone sta nella sua poliedricità. Poliedricità espressiva, perché sa far ridere, sa imitare, sa suonare benissimo, sa fare le parodie, sa spiazzare, sa demolire il luogo comune, sa fare un sacco di cose tutte insieme. E poliedricità dei bersagli da colpire con le armi del sarcasmo meno sorvegliato. Ecco, Zalone non è un comico sorvegliato, addomesticato. A differenza dei tanti satirici in circolazione non è ossessionato da un nemico, non vuole parlare solo alla sua tribù, ricevere l’applauso solo di chi è giù d’accordo. Direbbero i malati di analisi politica: è «trasversale», gioca con l’alto e il basso, con il grottesco e il sentimentale, con la destra e con la sinistra anche. Sa essere sgradevole, con tutti. Se deve infilzare qualche pallone gonfiato non si chiede, come i chierichetti del politicamente corretto, «cui prodest», se giova o non giova: infilza, e basta. Questa assoluta libertà senza complessi di Checco Zalone la si percepisce ed è la chiave del suo successo. E chi va a vedere i film di Zalone ride anche se sullo schermo ad essere spietatamente preso in giro è lui: ride di chi ha l’ossessione del posto fisso anche se lui ha l’ossessione del posto fisso, ride di chi ha la paura degli immigrati anche se lui stesso ha paura degli immigrati, ride di chi lascia la macchina in seconda fila anche se lui lascia la macchina in seconda fila. E chissà quanto se la ride Zalone nell’assistere ai pensosi dibattiti sulla direzione politica dei suoi film e di quest’ultimo in particolare. Dibattiti dove non si ride mai, perché lo schematismo ideologico sia di destra sia di sinistra è quanto di più anti-ironico si possa immaginare. Ma senza l’ironia, Zalone non esisterebbe più. Mentre può esistere, e anche alla grande, senza il patentino politico che vorrebbero appiccicargli addosso. Ma invano.

Paolo Di Paolo per “la Repubblica” il 6 gennaio 2020. Il suo prossimo film Checco Zalone potrebbe farlo sull' Italia divisa da un film di Checco Zalone. C' è materia interessante: o meglio, ci siamo tutti. C' è chi l' ha subito accusato di razzismo alla vista del trailer con la canzone intitolata Immigrato . C' è chi si è ricreduto, magari dopo aver proposto il comico per la carica di senatore a vita, trovandolo infine insopportabilmente buonista: «Propaganda globalista, immigrazionista». C'è chi invita Salvini a vedere il film - un articolo su Famiglia Cristiana , per esempio; e con Salvini, anche «i leghisti, i sovranisti, i grillini » (nella storia c' è un personaggio che fa pensare alla rapida carriera politica di Luigi Di Maio). C' è chi si aspettava di ridere molto, come per i film precedenti, e dice di avere riso troppo poco. Ma soprattutto c' è il plotone degli esegeti: quelli che vogliono spiegare Zalone a chi - così suppongono - non l' ha capito, finendo per aprire il fuoco degli insulti. Se non lo capite siete ignoranti. Se non lo capite siete razzisti. Se non lo capite siete ipocriti. E via con la consueta canea social fatta di repliche e controrepliche. Voi che dite di capirlo, siete noiosi, siete "sardine" che avete trovato il nuovo araldo. Solo uno come Zalone saprebbe portare sul grande schermo questo sgangherato, esagitato dibattito su Zalone, e lo farebbe così meravigliosamente e crudelmente da fare arrabbiare tutti. Perché la vera notizia è questa: il più popolare attore comico italiano, baciato da un successo fuori misura (l' incasso di una sola giornata è quello che tre quarti dei film non raggiungono nell' intera programmazione), ha scatenato una discussione cine-politica che, per toni e istanze, pare uscita dal numero impazzito di una rivista di trenta, quarant' anni fa, Rinascita o Linea d' ombra. Tolo Tolo come La classe operaia va in paradiso , il film "eterodosso" che non fa contento nessuno? A colpi di tweet, nel secondo giorno di programmazione si sono sfidati cinefili anonimi e illustri, dai benevoli Fiorello e Muccino ai leader politici. Ignazio La Russa che esibisce il suo colpo di sonno e Enrico Letta che elogia un Checco «migliorato». Simone Di Stefano, in quota Casa Pound, che si arrabbia per la «bugia stupida della cicogna che ci fa nascere per caso» (il riferimento è a una geniale trovata finale del film, ma non posso aggiungere altro). Intellettuali: Michela Murgia che elogia il coraggio di uno Zalone che ha preferito «il senso al consenso». All' istante c' è chi risponde che, se il film è piaciuto alla Murgia e a Letta, qualcosa vorrà dire: «Il coraggio di Checco Zalone?

Ma che Paese è questo?» si chiede qualcuno sotto il post di Murgia. E forse è l' unica domanda sensata. «Si attende l' apocalisse» aveva scritto su queste pagine Natalia Aspesi. Eccola. Sceneggiato insieme a Paolo Virzì, Tolo Tolo è di sicuro un film, se non scomodo, poco conciliante. Intelligente al punto che può sgusciare via da sotto qualunque cappello: anche chi si sentisse portatore dello sguardo giusto, etico, umanitario troverebbe la propria caricatura (il personaggio patetico di un reporter francese che dispensa parole alate sulla «dignità » dei migranti). Non ci si spancia dalle risate, è vero; e anche questo è il segno di una strada più impervia presa da Luca Medici alias Zalone, forse un po' più Medici e un po' meno Zalone. Qualcuno gli rimprovera le 1100 sale monopolizzate dal suo film («troppe rispetto al povero Loach!»), e tuttavia da quelle 1100 sale - è un fatto - non ha distribuito dolciumi. C' entra il modello dell' antica e amara commedia italiana? "Meritarsi" Alberto Sordi è come "meritarsi" Checco Zalone? In ogni caso, è più divertente (e istruttivo) vedere come la platea del 2020 riesca a dividersi nervosamente su un film che rappresenta il peggio di quasi tutti, buoni compresi. E se il nuovo Zalone nei panni dell' incendiario involontario ha dato fuoco a qualcosa, è un' immensa e trasversale - italianissima - coda di paglia.

Tolo Tolo, nè buonista nè razzista: cari spettatori non vi meritate nemmeno Checco Zalone. Daniele Priori su Il Riformista il 4 Gennaio 2020. Né buonista né razzista. Luca Medici, in arte Checco Zalone, nel suo esordio da regista, con il discussissimo film Tolo Tolo, è camp allo stato puro. Parodia esasperata, dolceamara, che armata di un’ironia al solito tagliente, si prende gioco del reale e di chi vorrebbe passare una serata a ridere e basta, come per un cinepanettone qualsiasi. Un genere, il camp, fino ad oggi collegato per lo più alle macchiette del cinema e dell’avanspettacolo omosessuale, che tuttavia rivive perfettamente nelle contraddizioni marchiane dell’epopea trash in cui si imbatte Checco, sedicente imprenditore fallito, fuggito in Africa perché vessato dai debiti col fisco. A mettere di fronte alla realtà l’uomo da niente, ma comunque in cerca del sogno che possa condurlo oltre la quotidianità, saranno gli incroci disturbanti: dal resort vacanziero isolato al centro del villaggio del terzo mondo, fino al paradosso dell’esplosivo arrivo dei miliziani dell’Isis nel bel mezzo della stralunata ricerca di una crema antirughe. La sceneggiatura (scritta a quattro mani con Paolo Virzì) del film già campione d’incassi e destinato –  chissà –  a superare anche i record già abnormi del precedente lungometraggio Quo Vado, con queste geniali trovate narrative, sposta l’obiettivo dal Belpaese sempliciotto ma tutto sommato bonario dei capitoli precedenti,  all’anima nera, assolutamente trasversale, di una nazione incattivita e depressa dalla continua ricerca di espedienti e all’inseguimento di improbabili identità marcate al punto da divenire esse stesse parodie di un’epoca. Il neofascismo, il nazionalismo delle felpe, i porti chiusi, un razzismo mai dichiarato ma sul quale sogghignare, come pareva dal trailer ingannevole, sono il contorno deprimente nel quale scorre la storia di un bianco spaesato in mezzo ai neri, accomunato a loro nel grande viaggio attraverso la Libia, il deserto, il mare mostruoso dei naufragi dove si deve essere disposti a tutto pur di scamparla. Le lezioni arrivano una dopo l’altra. Sullo sfondo un’Italia nella quale Checco non vuole proprio tornare: meglio l’Isis dell’Inps. Checco Zalone, fino ad oggi icona comica dell’uomo della strada, diventa così una maschera di cinismo e ironia che nei punti più malinconici ha bisogno di ripiegare su divertissement fumettistici per non uscire dal genere comico che resta pur sempre il metro del suo cinema. Con Tolo Tolo, insomma, si ride e si pensa ma è la sorpresa di una realtà solo triste a lasciare il segno più della comicità. E il bersaglio del genio sì politicamente scorretto di Zalone (ma non come aveva immaginato l’ex ministro La Russa infuriato sui social) diventano così, sorprendentemente, proprio quelli che volevano sghignazzare senza pensieri, confusi dal trailer e offesi, a fine proiezione, dalla presa di coscienza inequivocabile del non averci capito nulla. Tanto da far tornare alla mente un altro regista, lui sì, impegnato e eternamente corrucciato, che potrebbe additare questi ingenui spettatori con un definitivo: non vi meritate nemmeno Checco Zalone.

«Tolo Tolo», parla la giornalista di «TeleMurgia»: «Luca Medici, il mio portafortuna». Azzurra Martino si confessa: per lei è il miglior film di Zalone. Valentino Sgaramella il 09 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Devo sicuramente moltissimo a Luca Medici e credo in ogni caso che Tolo Tolo sia il suo miglior film, nonostante io sia legata a Quo vado? dove, grazie a lui, ho avuto un ruolo importante». Azzurra Martino, 40 anni, una vita trascorsa finora a studiare recitazione e a lavorare sul set, parla di Luca Medici e del suo ultimo capolavoro che sta sbancando nelle sale cinematografiche, Tolo Tolo. L’attrice, pugliese di origine ma residente ormai a Roma, ha reclutato parte del cast di comparse nel film, inserendo numerosi attori minorenni tra gli extracomunitari, scelti a Bari e provincia e a Taranto. Decine di persone. Per lei, reduce da un ruolo molto importante nel film Quo vado? (2016), nel quale era la fidanzata pugliese che lasciava il protagonista perché lui non aveva più il posto fisso, ha adesso un cammeo in Tolo Tolo. «Recito la parte di una giornalista di Tele Murgia, una tv locale - ricorda -. Il mio percorso ha comunque a che fare con la vita artistica di Luca Medici-Checco Zalone e devo sicuramente moltissimo a lui», ribadisce Azzurra Martino. Com’è Luca sul set? «È così come lo si vede sullo schermo. Partiamo dal presupposto che lo stimo molto e che è difficilissimo trovare un regista, un attore, un comico, che sia anche un amico. È una persona molto corretta e precisa, alla mano ed è difficile trovare in questo mondo uno che ti stia così accanto». La Martino ha un ruolo importante anche nella prossima pellicola di Carlo Verdone Si vive una volta sola, girata in Puglia la scorsa primavera: interpreta l’amante di Rocco Papaleo. «Sicuramente, tutto ciò che ho fatto dopo Quo vado? è grazie a Quo vado?. La gavetta prima di quel film è stata un po’ più difficile. È chiaro che poi si sono aperte delle porte. Quando Luca mi ha chiesto di fare un cammeo, nei panni di questa giornalista murgiana, ho accolto l’invito con estremo entusiasmo». Del set ricorda: «Luca ha reso l’ambiente gioviale». Il film «era un successo annunciato». Circa il messaggio insito in Tolo Tolo: «Mi piace molto l’idea del sognatore che riesce a cambiare le cose». Leggendo i commenti degli spettatori sui social la cosa che balza agli occhi è che Luca-Checco punta a sottrarre il tema dei migranti da strumentalizzazioni politiche. La Martino aggiunge: «Il migrante alla fine è un sognatore. Il problema della migrazione va oltre gli schemi politici, appartiene all’umanità. Ci sono persone che soffrono e bisogna mettersi dalla parte del più debole ma farlo in modo ironico non guasta». Circa infine l’evoluzione che l’attore e regista capursese sta vivendo sul piano interpretativo e autoriale, l’attrice afferma: «Con i suoi film ha fatto sempre delle denunce. Solo che ora magari le fa in maniera un po’ più sottile. Credo che Tolo Tolo sia il più bel film di Luca. Glielo dissi subito con un messaggio. Credo che qui abbia fatto altre scelte rispetto al passato e che il film abbia una maturità notevole». Il film ha richiesto una lavorazione molto lunga, durata circa 10 mesi. Un’opera importante, realizzata sia come regista sia come attore protagonista. «Il che rende tutto più difficile - conclude - per una serie di responsabilità. Teniamo conto che la maggior parte del film è stata girata in Africa. Anche sul piano logistico non deve essere stato semplicissimo».

Quel retroscena sul film di Zalone: "Così ho svelato l'illusione dell'Ue". L'attore senegalese e naturalizzato italiano ha raccontato un retroscena sul suo ingaggio nel cast del film Tolo tolo, di Checco Zalone. Serena Granato, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Il Capodanno 2020 ha rappresentato per Checco Zalone una data importante, ovvero quella del suo ritorno al cinema. Gli amanti del grande schermo lo attendevano da tempo nelle sale cinematografiche e il suo debutto con Tolo tolo negli ultimi giorni ha fatto discutere. Secondo la top10, che accoglie i dati dei migliori incassi al botteghino registrati al debutto al cinema, l'attore comico originario di Capurso e classe 1977 è riuscito ad affermarsi in pole-position con Tolo tolo. Il nuovo film - di cui Zalone è sia interprete che regista - ha incassato nella sola giornata del suo esordio la cifra record di 8.680.232 di euro. Nella medesima classifica, al secondo posto figura sempre Zalone con Quo Vado. Checco è, quindi, riuscito a battere se stesso in termini di vendite e, in quanto regista, aveva proposto all'attore Mohamed Ba (nato in Senegal, in Africa occidentale, ndr) di prendere parte al cast del suo ormai best-seller, Tolo tolo. Una proposta a cui, inizialmente, era seguito il rifiuto da parte dell'attore senegalese e naturalizzato italiano, che lavora da oltre un decennio nel Bel Paese. "Se mi chiami perché vuoi una faccia da immigrato davanti al supermercato che chiede elemosina, vai a cercare qualcun altro”. Quest'ultime sono le parole che Ba aveva rivolto a Zalone, in risposta a quanto offertogli dal comico. Lo stesso, nonostante il rifiuto iniziale, alla fine ha però accettato di collaborare con il comico pugliese. Il ruolo che interpreta in Tolo tolo è quello di un medico che riserva al protagonista una sorta di antidoto universale, per curarsi da un virus che - nella pellicola - rende disumani.

In un suo intervento rilasciato al Corriere della Sera, Ba ha riportato alcune dichiarazioni, che ora fanno discutere. In Marocco, le comparse del film erano ragazzi che attendevano la loro occasione per andare in Europa. "Abbiamo vissuto il loro dramma umano - ha fatto sapere l'intervistato -, ho parlato a lungo con loro, ho svelato che illusione sia l’Europa, la maggior parte mi ha giurato che non sarebbe più partita".

Mohamed Ba e l'arrivo in Italia, prima di Tolo tolo. L'immigrazione, che è uno dei temi affrontati nel film di Checco Zalone, Ba l'ha vissuta da protagonista nella vita. Partito dall'Africa, ha raggiunto la Francia dove ha acquistato un dizionario per apprendere la lingua locale ed è poi ripartito per raggiungere Milano, dove - così come lo stesso ha riferito - è stato vittima di un'aggressione. Secondo la sua testimonianza, un ragazzo gli si avvicinò nel milanese, lo accoltellò all'addome e poi fuggì via, senza mai essere rintracciato. Ba avrebbe rischiato di perdere la vita, per poi destinare una lettera al suo presunto aggressore, in cui chiama quest'ultimo "fratello" e gli scrive che "la ricerca dell’umanità è molto più bella dell’etnicità. Cerco di costruire un ponte perché il rischio del razzismo, quello di guardare tutte le cose dall’alto in basso, è più vivo che mai. Anche in Italia".

Checco Zalone, "Tolo Tolo, la mia commedia piena di neri nell'Italia di oggi". Nelle sale la nuova prova di Luca Medici, qui anche regista. A quattro anni dai 65 milioni di 'Quo vado?' il comico pugliese alza l'asticella con un musical sul razzismo: "Non ho fatto il furbo, per un film così ci vuole coraggio". Arianna Finos l'1 gennaio 2020 su la Repubblica. Il 2020 del cinema si sveglia con l'allegria di Checco Zalone. In realtà c’è anche chi ci è andato già a dormire, gli spettatori delle duecento sale che hanno proposto Tolo Tolo ieri sera, subito dopo la mezzanotte. Milleduecento copie per il ritorno del comico da 65 milioni di euro che alza le ambizioni e racconta la sua Africa per parlare della nostra Italia. Quattro anni di silenzio, una lavorazione difficile, le polemiche preventive e una storia che affronta un tema forte. Il film (prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi e distribuito dalla Medusa di Giampaolo Letta), racconta il viaggio di un imprenditore pugliese in fuga dai debiti e costretto dalla guerra a tornare in patria – malgrado i parenti lo preferirebbero disperso – sulla rotta dei migranti. Nel giardino d’inverno dell’albergo romano Gaia, sette anni e un codino di riccioli, finge di salire sul palco e brandisce un immaginario microfono per presentare il papà: "Signore e signori state per vedere... Checco Zalone". Ma il faccia a faccia, stavolta, è con Luca Medici, in comprensibile in ansia da prestazione: è iniziato il conto alla rovescia.

"Tolo Tolo" è pieno di battute e situazioni che fanno ridere, ma sullo sfondo c’è l’Africa con le sue contraddizioni. Che viaggio è stato? 

"Incredibile. A partire dalla durata, un anno e mezzo tra scrittura e riprese. Non ho visto l’inverno per due anni, ero in Kenya, con 50 gradi. Mi sono rimaste dentro le emozioni del viaggio. L’incontro con un bambino in un villaggio, Nassor Said Birya. Era tra quelli che si avvicinavano per chiederti le caramelle, ma era il più vispo, il più brillante. Aveva gli occhioni e il fare dell’attore. Ho tirato fuori il telefonino, ho trovato per caso un interprete e con quel bambino ho provato la scena in cui vende Dolce e Gabbana. All’inizio non sapeva neanche quel che diceva. Alla fine del film ho capito una delle cose più importanti dell’essere regista: saper scegliere una faccia. In quel caso ci sono riuscito". 

Ha compreso la sofferenza dell’Africa.

"La deluderò. Il film è ambientato nel villaggio Saint-Jacques, immaginato vicino al Senegal, dove inizia il viaggio dei migranti, il deserto sub-sahariano. Ma quel villaggio, nella verità, è in Kenya, un’altra Africa. Io non ho visto sofferenza, ho visto bambini ridere, persone vivere con gioia la lentezza delle proprie ore, senza energia elettrica, spesso senza un mezzo per muoversi. Ho visto gente che va a cavallo ed è felice. Mi rendo conto che può apparire retorica".

Mal d’Africa.

"Forse sì, ho un po’ di mal d’Africa".

Ricorda "Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?"

"Ma quel film è molto più bello". 

C’è la scena in cui Sordi e Blier fanno a botte con i portoghesi.

"E se eravamo in tre, te menavamo in tre". 

Quella scena mostra due italiani del '68 che non riescono a trattenere la rabbia di fronte a un gesto eclatante di razzismo. Lei ha rovesciato la posizione e per il 2019 inventato la gag del fascismo che esce fuori da noi con lo stress e il caldo, come la Candida, ma si cura. Ha fiducia nell’italiano?

"Sì. Secondo me il fascismo non tornerà mai, e non solo perché è vietato. Come ho voluto dire nel film, quando ci sentiamo minacciati, anche dalle cose più stupide, viene fuori questo nostro lato intollerante, ma siamo anche quelli capaci di abbracciarci. Non voglio ripetermi, ma non posso non citare De Gregori, le persone "sanno benissimo cosa fare. Quelli che hanno letto milioni di libri. E quelli che non sanno nemmeno parlare". C’è una sequenza del film in cui le mie due mogli, appartenenti a due fazioni politiche diverse, di fronte al fatto che io sono vivo si abbracciano. Un gesto che si presta a diverse interpretazioni. Una è sul trasformismo, sulle note di De Gregori, l’altra è che siamo capaci di superare le difficoltà, sappiamo rinsavire".

Si ride e molto, ma con meno spensieratezza e più sentimento, rispetto agli altri suoi film. 

"Qui ci sono le carceri libiche, c’è quello che accade. C'è la verità, cazzo". 

C’è una scelta di campo, più che politica, di umanità.

"A volte l’intervistatore ti tira fuori cose che avevi dentro e non sapevi dire. E in questo caso è così". 

C’è un balletto onirico in mare con i naufraghi che ha fatto discutere. E altri situazioni e battute a rischio polemica.

"Per trovare l’equilibrio c’è stato un grande lavoro di cesellatura, ma sto facendo pur sempre un film comico. È importante sottolineare che quello del balletto dei naufraghi è un momento onirico. Il testo della canzone, se fosse letto a voce senza la scena intorno, senza contestualizzarlo, darebbe luogo a nuove accuse di scorrettezza, cinismo o peggio ancora. Era difficilissimo raccontare in un film come il mio il momento del naufragio: quelle immagini le vediamo tutti i giorni nei telegiornali, che senso avrebbe avuto riproporlo in chiave realistica? Non ci azzecca proprio. Sono le scene a cui tengo di più. Sto dicendo a un naufrago che c’è sempre “uno stronzo più nero”. È l’idea della speranza, c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi e dobbiamo essere fratelli. Questo è il senso". 

Lei ha saputo, finora, interpretare i sentimenti e le pulsioni degli italiani per lungo tempo non visti, non intercettati. Oggi sono quelli che vogliono chiudere i porti. Si guarderanno allo specchio e sapranno ridere di se stessi?

"Non lo so. So come reagirete voi giornalisti. Tentando di incasellarmi, di tirarmi da una parte. Beh, penso che sia impossibile. È un film che non può essere definito né di destra né di sinistra. Come ha detto lei, è un film sull’umanità".

Di sicuro non è un film razzista.

"Certo che no, non ci sono le razze… Esistono gli stupidi in tutte le razze. Un’altra cosa di cui vado fiero è che il personaggio che sembra più bello, il ragazzo africano appassionato di cinema italiano, interpretato da Souleymane Sylla: colto, pieno di buoni sentimenti, ha il suo lato negativo… Come sono molto contento del personaggio di Idjaba, interpretata da Manda Touré, che riscatta tutte le donne e pure me dalle accuse di sessismo. È un bel personaggio femminile profondo e forte".

Durante questi anni c’erano altre storie, magari più facili, che ha rimpianto di non aver fatto?

"No. Ero convinto di questo film".

Com’è stato il lavoro con Paolo Virzì?

"Risolutivo. L’ho incontrato dopo un periodo di crisi di due anni. Non sapevo cosa fare. Lui mi ha chiamato, mi ha raccontato la storia di un italiano che è costretto a fare il viaggio dei migranti. Virzì aveva questa idea. Poi ci siamo conosciuti e, ancora più avanti, ho sentito che non si capiva se stavamo facendo il film suo o il film mio. Sono sincero. Io, che ho grande rispetto nei suoi riguardi, ho trovato il coraggio di dirgli: “Paolo, forse è meglio che lo faccia io”. Ha compreso la cosa. L’unico rimpianto è che durante le riprese non ci siamo mai visti. Io sono timido, non sembra ma lo sono. Mi imbarazzava moltissimo l’idea che ci fosse lui sul set mentre io dirigevo la gente. Ho fatto questa scelta. E non l'ho più chiamato".

Qual è stato il momento più difficile, di sconforto?

"Ci sono stati tanti momenti. Ci sono stati pianti, le telefonate alla compagna. Sa quando si sta insieme da quindici anni, non è che ci si chiama più così spesso. E, invece, sono stato intere notti al telefono con Mariangela, volevo tornare indietro: “Non ce la faccio”. Ricordare un problema è difficile perché ce ne sono stati così tanti. Nassor, il bambino, per dire. Non era possibile farlo venire in Italia perché in Kenya non c'erano i documenti, lo stavano aspettando cento persone. Poi la nave bloccata per un problema tecnico, la pioggia nel deserto, gli scioperi del cinema: è sacrosanto il diritto di sciopero, ma, cazzo, perché proprio a me quando devo girare la scena più importante del film? A un certo punto, non succedeva da vent’anni, mi sono ritrovato a Malta con lo sciopero, avevo la piscina per le scene acquatiche solo per due giorni e non sapevo come fare. Ci sono stati grandi momenti di sconforto e non so neanche io dove ho trovato la forza di finire".

La famiglia l’ha raggiunta sul set?

"In Africa no, in Puglia sì. C’è la figlia più grande, che si chiama Gaia…"

La bambina ha fatto una sorta di show mentre l’aspettavamo. 

"Sì, fa gli show, però appena si accende la macchina da presa se la fa sotto. Me ne sono accorto quando l’ho inserita nel video finale della canzone con i bambini, La cicogna strabica".

Quello in cui lei è vestito da esploratore esattamente come il Sordi di Riusciranno i nostri eroi…

"Sì. Invece la piccola, Greta, è sconsiderata. A tre anni: “Vai papà vai, azione, azione”. E anche Mariangela fa un piccolo ruolo, il medico. Negli altri film le avevo fatto fare la tamarra, ora si è incazzata e ha detto “basta, voglio una parte seria”".

Il film è una commedia musicale. Da De Gregori a Endrigo, da Pausini a Di Bari. E le sue canzoni. 

"Vagabondo, sarà didascalico ma “ho venduto le mie scarpe” mentre si vede il mio mocassino Prada... non ho resistito. È stato un onore avere Viva l’Italia di De Gregori. Poi ci sono le mie canzoni. La Cicogna Strabica e quella che ho intitolato Se ti migra dentro il cuore perché non siete pronti al titolo originale, che era Gnocca d’Africa. Ho lavorato con Giuseppe Saponari e Antonio Iammarino, che ha scritto l’ultimo brano di Tiziano Ferro: sta vivendo un bel periodo, il ragazzo. Sono i momenti più rilassati, quelli in cui ci mettiamo a suonare, io mi sento più pianista che altro". 

La prima persona a cui ha fatto vedere il film?

"Durante un piovoso pomeriggio ho fatto vedere metà film al mio produttore, Pietro Valsecchi".

Che ha detto?

"Grande film (imita voce roca e accento del produttore)".

Adriano Celentano l’ha sentito?

"No".

Lui le vuole bene.

"Non so se mi vuole ancora bene dopo che non sono andato alla sua trasmissione. Io gliene voglio tanto".

La perdonerà.

"Non so se mi perdonerà, però io gli avevo detto che andavo e non sono andato. E avranno sicuramente pensato che non sono andato perché la trasmissione non ha fatto grandi numeri. In realtà io stavo ancora montando, colorando il film ed ero distrutto fisicamente. Posso chiedere scusa attraverso la sua penna al grande maestro Celentano? "

Lei ha detto che non vuole che il film sia incasellato politicamente. Le darebbe fastidio?

"Fastidio no, ci sono ben altre cose che mi danno fastidio. Non so cosa succederà, prima mi hanno tirato sul carroccio dei vincitori, adesso che potranno vedere il film non so. Penso che si divertiranno, ma non le so rispondere". 

Farà vedere il film al suo regista storico, Gennaro Nunziante?

"Gli mando sette euro per farglielo vedere. Non ci sentiamo da tempo, ma c’è stima". 

Continuerà a dirigere?

"Non so ancora che farò, ma mi piacerebbe. Ho imparato che una delle doti che ho è quella di individuare il talento nell’altro. Maurizio Bousso, il ragazzo che fa l’immigrato nel video tanto contestato. È un bravissimo attore che lavora allo Stabile di Genova. Mi piacerebbe fare un’esperienza di scopritore di talenti. E dire, tra tanti, ecco, “tu sì”. Lo so, è un po’ da stronzi".

Ha mai vissuto la condizione di subire il razzismo? 

"No. In fondo sono un po' provinciale, non ho viaggiato tanto. Mi sono trasferito a Milano ma era piena di terroni. L’essere del Sud non è mai stato un peso. Anzi, nell’epoca di Vendola presidente faceva fighissimo essere pugliesi, con Gino e Michele avevamo una sorta corsia preferenziale a Zelig. Tanto che quasi mi dava fastidio, sono dell’era post-terrona".

Virzi dice che lei è un po’ Borat, lo scorrettissimo personaggio comico inglese. È uno dei suoi riferimenti?

"Sì, Sacha Baron Cohen. Adesso è un po’ difficile quel tipo di comicità, ma lui mi piace perché è un non attore, così selvaggio nell’interpretazione, libero da ogni schema".

E lei, dopo un incasso da 65 milioni, riesce ancora ad essere selvaggio e libero?

"Eh, no. Tento, ma forse dei paletti ce li ho. Anche inconsci".

Tra recensioni splendide e 70 milioni di…

"… Non la faccio neanche finire: 70 milioni di euro d’incassi". 

Le legge le recensioni?

"Sì".

Cosa le piacerebbe che dicessero o scrivessero su questo film?

"Che c’è e si vede il cuore. Che sono autentico, che non sono mai ruffiano".

Le dicono spesso che è furbo.

"Ecco, che mi dicano che non sono furbo: perché per fare un film così costoso, pieno di neri in un’Italia di "candida"… Ci vuole coraggio, non furbizia".

Checco Zalone: «Basta con la psicosi del politicamente corretto». Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. L’attore e le polemiche : «Io razzista? Pensarlo è una vera stupidaggine.». Poi scherza: «Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Luca Medici, anzi Checco Zalone, il suo Immigrato ha scatenato molte polemiche.

«Si sono mossi in milioni per difendermi da Heather Parisi, d’ora in poi Hater Parisi, e dal professor Giuliano Cazzola. Grazie a tutti; ma non era il caso».

Insomma, qualche critica è arrivata.

«Purtroppo non si può dire più nulla. Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Che non avranno gli assorbenti ma però hanno le ali.

«Per volare via, con la fantasia, da questa loro atroce malattia».

Lei non scherniva gli omosessuali, ma coloro che li scherniscono.

«È evidente; anche se forse non a tutti. L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende».

Hanno detto di lei che è diventato razzista.

«Escludo che qualcuno possa essere così stupido da pensarlo davvero. Non sono razzista neanche verso i salentini, che per noi baresi sono i veri terroni. E neppure con i foggiani, anche se molti di loro si sono risentiti per una canzone che ho cantato da Fiorello, La nostalgie de bidet: “Così proprio ogg’ so’ turnuto nella mia Fogg’, la delinquenza la spazzatura la poverté, ma finalment voilà le bidet...”. Ne approfitto per chiedere scusa ai foggiani: lo giuro, non penso che appartengano a una razza inferiore... E chiedo scusa pure ai calabresi: nel nuovo film c’è una battuta terribile su Vibo Valentia».

Altri hanno detto che lei è diventato di sinistra.

«Eh no! Questo è troppo! Qui mi arrabbio davvero».

Sul serio: lei come la pensa?

«Sono del 1977. Ho votato per la prima volta nel 1996: Berlusconi secco. Perse. Per un po’ mi sono astenuto. L’ultima volta ho votato Renzi. E ha perso pure lui».

Come nasce la leggenda del Checco Zalone di destra?

«Eravamo a una festa di paese. Tentavo di provare sul palco, ma da quattro ore un gruppo di comunisti, vestiti da comunisti, andava avanti con la pizzica. A un tratto mi venne spontaneo urlare: “Viva Berlusconi!”. Quel giorno nacque la Taranta de lu Centrudestra».

Che è una satira su Berlusconi e i suoi. L’ha mai conosciuto?

«Sono stato una volta ad Arcore, a cena con lui, il figlio Piersilvio, il mio produttore Pietro Valsecchi, Giampaolo Letta e la mia compagna Mariangela. Era nata nostra figlia Gaia, e per festeggiare bevemmo solo vino di Gaja, il migliore del mondo. Alle dieci di sera Berlusconi si alza sospirando: “Scusate, ma devo andare a scrivere le memorie difensive del processo. Cosa mi tocca, a quasi ottant’anni...”. Un’ora dopo, completamente ubriaco, mi faccio accompagnare al bagno. Ma al ritorno mi perdo nei meandri della villa. Mi oriento ascoltando una voce familiare… entro in una stanza, e trovo Berlusconi con sette donne: la Pascale e le sue amiche. Tutte vestite».

E lui?

«Recitava la parte del prete, che ascolta in confessione i peccati. Mi indignai».

Perché?

«Berlusconi con sette donne, tutte vestite!? E le tradizioni? I valori di una volta?».Lei nel 2013 disse che non le piaceva Renzi, perché piaceva a tutti. Il problema pare superato.«Infatti ora a me piace. Anche perché lui mi ha cercato, mi ha intortato... Amo i perdenti. Lei tifa il tennis?».

Sì.

«A me invece del tennis non me ne frega niente. Ma l’altra sera ho visto una partita in cui un tennista veniva massacrato; e ho cominciato a tifare per lui. Allo stesso modo, tifo Renzi. Mi ricorda don Chisciotte».

Le Sardine?

«Non le ho ancora capite. Non mi esprimo. Certo, questo leader con il cerchietto tra i capelli...».

E Salvini?

«Non ho capito neppure lui. So solo che è un grande comunicatore. E un grande paraculo. Ora vedo che sta tentando di diventare un po’ democristiano...».

Il suo nuovo film si chiama Tolo Tolo. Cosa vuol dire?

«Solo solo. È la storia di un italiano scappato in Africa, inseguito dai debiti. Nel Paese scoppia una guerra civile. E lui tenta di rientrare in patria, unico bianco tra i profughi. Incontra una donna. E un bambino: Dudù. “Ti chiami come il cane di Berlusconi!” gli urla».

La criticheranno per questo. Ma è un film che può cambiare il sentimento degli italiani verso i migranti.

«Non cambierà nulla, né ho questa ambizione. Però è stato un’esperienza straordinaria. Abbiamo girato in Kenya, in Marocco, a Malta, dove abbiamo ricreato i campi di detenzione libici. Venti settimane di lavoro durissimo. Ieri era il Data-Day».

È un termine tecnico? Cosa vuol dire?

«Non lo so: me lo sono inventato io. È il giorno in cui devi consegnare il film alla censura; perché esiste ancora la censura. Da quel momento non puoi più cambiare nulla».

Si è parlato di una lavorazione faticosa. Intanto non c’è più Gennaro Nunziante, il regista dei suoi altri film.

«Ma resta un amico: ci ritroveremo. Stavolta il regista doveva essere Paolo Virzì».

Poi cos’è successo?

«Mi sono reso conto di essere ingombrante. Forse ero troppo preoccupato di ripetere il successo di Quo vado. Fatto sta che gli ho detto: “Voglio farlo io”».

Virzì come l’ha presa?

«Spero male... Comunque ha già visto Tolo tolo. E mi assicura che gli è piaciuto. Ma è toscano, quindi paraculo».

Com’è stato lavorare in Africa?

«I primi provini per scegliere il piccolo protagonista li ho fatti a Roma. Ma erano tutti bambini adottati, pariolini, borghesi: bravissimi, ma troppo romani per essere credibili. Così siamo andati a fare i provini in Kenya. Ho conosciuto ragazzini straordinari, ma non trovavo quello giusto. Fino a quando non ho visto questo bambino con gli occhi enormi, Nassor, che quando ride, ride tutto, e mi sono detto: è lui».

Qual è il suo primo ricordo da bambino?

«Un balcone. Un triciclo. Io che vado su e giù».

Era molto solo?

«Per fortuna dopo tre anni è arrivato mio fratello Fabio. È uguale a me; solo che è povero. E ancora più cinico. Ogni volta che esce un nuovo film e cado in preda all’ansia, alla paura, alla depressione, mi canta balbettando la sigla di “Meteore”, il programma su quelli che hanno avuto successo una volta sola».

Perché balbettando?

«Quando parla con me, balbetta. Con le ragazze invece è spigliatissimo».

Che lavoro fa?

«Lo steward. Prima Ryan Air. Ora è stato promosso alla Norwegian. Capocabina. Una pacchia: dopo ogni volo transoceanico, per legge deve stare tre giorni a Manhattan».

L’ha raccomandato lei dopo Quo vado?

«In Norvegia non accettano raccomandazioni. Però da noi gli hanno offerto 40 mila euro per andare all’Isola dei Famosi come fratello di Checco Zalone. Mi ha telefonato: “Se me ne dai tu 45 mila, non vado”. Non è andato».

E l’altro fratello?

«Francesco è il piccolo di famiglia, anche se è enorme. Ha dieci anni meno di me e lavora nel cinema: attrezzista. Ruolo fondamentale. Se devi girare trenta volte la scena di una porta che sbatte con la maniglia che si stacca, devi riattaccare trenta volta la maniglia. Se servono due ore per girare una scena con il caminetto acceso, il fuoco va tenuto acceso con la stessa intensità. Una grande seccatura».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«Paolo Rossi e il Mondiale 1982. Prima ancora, l’elezione di Reagan. Trovammo una cagnolina e mia madre disse: la chiameremo Nancy, come la first-lady».

Chi è sua mamma?

«Antonietta Capobianco. Si candidò nelle liste del Pci. Prese 18 voti; ma i Capobianco a Capurso erano 36. Metà non la votò. Un fatto gravissimo».

Comunista la madre di Checco Zalone?

«Quello di destra era mio nonno paterno: don Pasquale, capostazione».

Liberale?

«Fascistone. Lo sentivo mormorare: “Quando c’era Lui, i treni arrivavano in orario...”. Chiamò la figlia Rachele, come la moglie del Duce. Pudicamente la chiamavamo Lina. Ha fatto la poliziotta. L’ho stimata tantissimo. Mi ha insegnato cos’è il senso dello Stato, del bene comune. Dopo il terremoto la mandarono in Friuli. Ha chiuso la carriera come vicequestore. E’ stata lei a farmi studiare».

Dove?

«Mi iscrisse a una scuola privata di Bari. La quarta volta che non mi svegliai al mattino per prendere il pullman, mi mandarono alla scuola pubblica di Capurso. Io ero al penultimo banco. Dietro di me c’era Giuseppe De Bellis, che oggi dirige Sky Tg24».Lei si è pure laureato in Legge.

«Sì, ma non mi ricordo niente. Ho anche dato un concorso da ispettore di polizia. Per fortuna non mi hanno preso. Zia Lina tentò di farmi assumere da un avvocato: sarei dovuto andare a fare le fotocopie nello studio di Francesco Paolo Sisto, l’onorevole di Forza Italia. L’altro giorno l’ho incontrato in aereo e gli ho chiesto: “Fammi ‘na fotocopia, dai”».

È stato anche rappresentante di medicinali?

«Un periodo orribile. Piazzavo molta amuchina, che a Bari andava forte per paura del colera. E i cerotti per non russare, che però restarono invenduti».

E suonava ai matrimoni.

«Quello era un mestiere redditizio, perché in Puglia il matrimonio va molto. Settanta euro a serata. La cantante, serissima, annunciava: “Dopo questa canzone saranno serviti gli antipasti”».

Com’era il pubblico?

«C’era di tutto. Anche pregiudicati con amici e parenti in galera. Presi l’abitudine di esordire così: “Il concerto è dedicato ai reclusi della casa circondariale di Taranto, con augurio di presta libertà”. Al Nord scoppiavano a ridere. Al Sud scoppiava un applauso sincero: mi prendevano sul serio».

Ha giocato a calcio?

«Nella Polisportiva Capurso. Che poi non si capiva come mai si chiamasse Polisportiva, visto che – giustamente - si faceva uno sport soltanto: il pallone. Giocavo centravanti, benino. Un giorno incontriamo il Bari. Noto questo bambino di sette anni, piccolo, brutto. Non ci fece toccare palla. Era Antonio Cassano».

Siete diventati amici?

«Ogni tanto ci sentiamo. Ha un senso dell’umorismo totale. Un pomeriggio mi chiama sul telefonino al mare. Sto facendo il bagno, e al mio posto risponde Gennaro Nunziante. “Ricchione!” comincia Cassano. E l’altro, paziente: “Non sono Checco, sono Gennaro Nunziante, il suo regista...”. “E si’ ricchione pure tu!”».

Cassano sostiene di aver avuto 800 donne. E lei?

«Io otto. Anzi, ora che le riconto, sette. Ma perché non si fa i fatti suoi?».

Checco Zalone è un personaggio pubblico.

«La verità è che ho avuto solo due storie. La prima è durata dieci anni. La seconda dura ancora adesso. E sa qual è il segreto?».

Quale?

«Mariangela me l’ha fatta sudare per una vita».

Dicono che gli uomini tendano a innamorarsi prima di andare a letto con una donna, e le donne dopo...«...A volte per giustificare di esserci andate a letto. È assolutamente così».

Come vi siete conosciuti?

«Mariangela cantava in un piano bar della provincia barese, un posto un po’ triste. Io ero con un’amica che non mi considerava, e per ingelosirla vado da questa cantante, bella, prosperosa, a dirle: “Io suono ai matrimoni, se ti interessa...”. Le interessava. Sono innamoratissimo. Dopo Gaia è arrivata un’altra bimba, Greta».

Chi è il suo mito? Sordi? Totò? Benigni?

«Celentano».

Perché?

«Intendiamoci: Sordi ha messo in scena l’italiano come anch’io tento di fare. Ho visto e rivisto Tuttobenigni: straordinario, anche se dopo l’Oscar è un po’ rientrato nei ranghi, ha moderato il linguaggio... Un rischio, l’Oscar, che per fortuna io non corro. Totò è il più grande. Ogni volta che danno in tv Miseria e nobiltà, me lo guardo daccapo; e davanti alla scena in cui lui, finto aristocratico, entra nella casa del borghese impartendo benedizioni come il Papa, rido fino alle lacrime».

Ma perché Celentano?

«Innamorato pazzo, Il bisbetico domato, Asso: li ho visti tutti. Mi ha anche invitato alla sua trasmissione, ma non ci sono andato».

Perché?

«Dovevo ancora finire il film, ero distrutto, non potevo fare tre giorni di prove. Ma sono andato a pranzo con lui, l’ho visto lavorare. Sono pazzo di Celentano. All’orchestra ha detto: questa canzone la interrompiamo qui. “Va bene Adriano, ma perché?”. “Perché la so soltanto fino a qui”. Chiedo scusa pure a Celentano».

E Beppe Grillo?

«Come comico, siamo ai livelli di Totò. Ricordo una sua imitazione di Bossi dopo l’ictus: spietata».

Paolo Villaggio diceva che il comico deve essere cattivo...«...E non deve essere “scopante”. Purtroppo aveva ragione su tutti i fronti. Villaggio poi era cattivissimo: lo ricordo da Santoro criticare con sarcasmo la Lega perché non era abbastanza razzista. I primi due Fantozzi sono tra i film della mia vita».

Quali sono gli altri?

«Bud Spencer e Terence Hill. Rocky 4: la mia prima imitazione era Sylvester Stallone che gridava “Adrianaaaa!” e acchiappava la gallina. Di recente ho visto Una giornata particolare e C’eravamo tanto amati: stupendi. C’è una scena piena di poesia, quando Stefania Sandrelli, dopo essere stata con tutti, dice a Nino Manfredi che ha chiamato il figlio Luigi, e lui esulta: “L’hai chiamato come mi’ zio!”. Commovente».

È vero che una volta la cacciarono da una radio pugliese?

«Sì, ma non posso fare il nome. Comunque è Radio Norba. Facevo la parodia del cantante neomelodico. Interruppero le trasmissioni: volevano solo voci baritonali, impostate. È il Sud che si vergogna di se stesso. Pochi mesi dopo mi videro a Zelig e tornarono a invitarmi. Dissi no».

E quando non la vollero a Sanremo?

«Volevo prendere in giro Povia, che aveva fatto una canzone agghiacciante, “Luca era gay e adesso sta con lei”; come se l’omosessualità fosse una malattia da curare. L’idea era salire sul palco dell’Ariston con una medicina in mano, il Frociadil 600, ovviamente una supposta. Gli autori mi fecero capire che non era il caso».

A Sanremo quest’anno ci sarà Al Bano.

«Al Bano è il nostro Michael Jackson. La sua casa di Cellino San Marco è più grande dell’intero paese».

Siete amici?

«Lo ammiro, ma l’unico amico vero che ho nel mondo dello spettacolo è il mio quasi omonimo, Kekko dei Modà. Siamo anche stati in vacanza in Sardegna insieme, le nostre figlie sono coetanee; a raccontare le barzellette è molto più bravo di me. Sono affezionato anche a Gigi D’Alessio».

Quando l’ha conosciuto?

«Non l’ho mai visto in vita mia. Ma quando i critici stroncarono il mio secondo film, Che bella giornata, mi chiamò per consolarmi e mi tenne ore al telefono. Ho visto invece la Tatangelo, e questo mi ha reso ancora più solidale con Gigi D’Alessio».

Come vede l’Italia tra dieci anni?

«Sono ottimista. Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Sul serio?

«Giuro. Non sono ancora andato a riscuotere, perché temo di non trovare più un euro. Ma resto convinto che noi italiani siamo un popolo straordinario. Oggi va così. Però rinsaviremo».

Malcom Pagani per Vanity Fair il 24 dicembre 2019. «Signor Malcom, mi dica subito, lei ha parentele con quel tale X che negli anni Sessanta difendeva i diritti degli afroamericani?». «Assolutamente no». «Bene, si accomodi e cominci pure con le domande». Chitarra. Voce. Checco Zalone. All’uscita del supermercato ti ho incontrato (“il carrello lo porto io”) / Al distributore di benzina (“metto io, metto io”) monetina / Al semaforo sul parabrezza / C’è una mano nera con la pezza / E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici: “C’ha due euro per panino!” Genesi: «Esco di prima mattina e lo incontro sulla porta. Mi chiede una moneta, gliela do. Due ore dopo lo rivedo in un’altra zona. Mi domanda un euro, glielo allungo. Ormai si è fatta sera. A un semaforo, qualcuno si offre di lavarmi il vetro della macchina. Abbasso il finestrino, è ancora lui. Lo guardo. Mi guarda. Si rende conto, mi rendo conto. Scoppia a ridere, rido anch’io. Diventiamo amici. A fine giornata penso di scriverci una canzone, poi accantono l’idea fino a quando, in una giornata africana particolarmente deprimente, mentre con i miei amici Antonio, Giuseppe e Maurizio cerco di ingannare il tempo tra una pausa e l’altra del set, mi torna in mente quella storia e scrivo Immigrato». Ancora un ciuffo di giorni e Checco Zalone, dopo essere stato un’assenza, un’attesa e un pretesto, sarà una statistica. Su Tolo Tolo, sull’esegesi delle intenzioni e sulla pioggia di interpreti del pensiero di Luca Medici, si aprirà l’ombrello dei numeri. Al protagonista, il dibattito preventivo sul suo film sembra vuoto come la dispensa del suo residence: «Un caffè glielo faccio, ma non ho lo zucchero». Ha girato il suo primo film: «Due mesi di sopralluoghi, quasi 20 settimane di riprese tra Malta, Kenia, Marocco e Belgio, Tolo Tolo è stato faticoso. Tanto. Troppo». Ha affrontato «un tema che era nell’aria e a cui tra un proclama di Salvini e uno sbarco a Lampedusa pensavo da anni. Cercavo una storia da ambientare in Italia fino a quando Paolo Virzì non mi ha dato l’idea di spostare il fuoco e di ambientarlo al di là del Mediterraneo». Si aspetterebbe di più della conta un po’ meccanica dei milioni di euro e di una serie di reazioni a Immigrato «che mi hanno annoiato se non imbarazzato. Siamo messi male. Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente. Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertententissimo».

Chi l’ha attaccata però lo ha fatto con durezza.

«Ma lei pensa che non sapessi cosa andavo a scatenare?».

Lo sapeva?

«Ma no, lo dico per dare soddisfazione a tutti quelli che hanno parlato di geniale operazione di marketing. Di strategia. Di calcolo. Ma dove? Ma quando?».

L’associazione Baobab ha parlato di banale spazzatura per il mercato delle festività.

«Direi che non dobbiamo preoccuparci. Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti. Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire “questo si può o questo non si può dire”. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime».

Che impressione le fanno?

«La soglia della correttezza pretesa e della scorrettezza denunciata dal tribunale degli opinionisti si è vertiginosamente abbassata e in pochissimo tempo. Se si guarda al cinema degli anni ’70 lo si capisce immediatamente. Viviamo nell’assurdo. Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto».

Lei la laurea la prese.

«In Giurisprudenza, ma non feci un solo giorno di pratica. Mentre mia zia Lina, vicequestore di Polizia in appoggio alla Buoncostume, la stessa che anni prima mi aveva spedito al Cirillo di Bari, un mestissimo semiconvitto per soli maschi, si occupava di trovarmi uno studio in cui esercitarmi gratis come legale, arrivò la chiamata di Zelig. Dopo il jazz, il piano bar e gli spettacolini, feci un provino a Milano. Una gag che a Bari, quando la mettevo in scena, lasciava per lo più indifferenti: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Fu un trionfo, il punto di svolta dopo una lunga notte».

Com’era la lunga notte che precedette Zelig?

«Come dice Daniele Silvestri, più in basso di così non si poteva andare. Il picco dell’umiliazione fu quando mi chiesero di suonare un pianoforte vestito da Babbo Natale. Comunque lo picchiassi o per quanto lo scuotessi con delicatezza, quel piano scassato non restituiva mai una nota tenue. Io sul palco, senza renne, vestito di rosso e di bianco per 50 euro di ingaggio e sotto di me il pubblico inferocito che mi chiedeva di fare meno rumore, di non disturbare la festa».

Fa impressione sentirlo dire dal campione d’incassi del cinema italiano.

«Le ho provate tutte. E non mi sono arreso. Sono stato fortunato, anzi fortunatissimo perché senza una buonissima dose di culo non vai da nessuna parte, ma quando ho avuto un’occasione ho dimostrato di sapermela meritare. Mi mandavano in onda, funzionavo, facevo ridere».

Milano le diede un’occasione.

«Il primo migrante ero io. Un migrante disperato come tutti i migranti. Per andare in trasmissione viaggiavo sulla tratta ferroviaria Bari-Milano con la stessa frequenza di mio nonno Pasquale, capostazione, e in tasca non avevo una lira. Parlavo per ore al telefono con Mariangela, con la quale sto da 15 anni perché lo saprà, all’inizio tra fidanzati non si fa altro che parlare e dormivo a casa di Nicola, un mio amico dell’università che vinse il concorso per entrare in Polizia Penitenziaria e da buon ragazzo del Sud comprò subito una casa a Milano. Periferia nord. Fermata Dergano. In pieno luglio, con un caldo sconvolgente, andavo a fare queste prove in viale Monza, combattevo con le zanzare e poi tornavo a Capurso. Una volta in treno incontro uno di Noicattaro».

Un suo conterraneo.

«Lombrosianamente, una faccia da tagliagole. Attacca discorso e mi comincia a raccontare una storia pazzesca: era stato in galera e si era trasferito in Germania perché in Italia non poteva più lavorare per aver rubato un motorino. Si immagini la scena: noi due in piena notte in un vagone deserto. Lui, enorme e poco raccomandabile, mi racconta nei minimi particolari il suo arresto. Io, piccolo e magro, visibilmente terrorizzato penso: “adesso questo, i pochi soldi che ho in tasca, me li rapina fino all’ultimo centesimo”».

E accadde?

«Macché. A un certo punto si commuove, gli si riga il volto di lacrime e mi dice: “L’altro giorno mio figlio mi dice che vuole un motorino. E io sai che ho fatto? Gliel’ho rubato. Così almeno non si sporca la fedina penale pure lui”.  Rimango zitto e intanto penso: “Qui c’è un film, qui c’è l’Italia”».

Lei quando ha capito di aver un potenziale?

«Quando ho inseguito i miei sogni. C’è stata un’epoca abbastanza buia in cui mi sembrava che non esistesse niente di più importante che avere un’indipendenza economica. Volevo qualche euro in tasca, una macchina tutta mia, un orizzonte sereno. Volevo il posto fisso. Mi misi in testa che dovevo fare il rappresentante e mio padre, venditore di medicine, mi trovò un posto di lavoro per sostituire quello dell’Amuchina che andava in pensione per raggiunti limiti d’età. Fui assunto. Avevo 23 anni. Con il colera, in Puglia, il prodotto si diffuse in maniera capillare. Lo usavano per lavare la verdura, pulirsi i piedi, farsi il bidet, la barba e forse anche al posto dell’acqua minerale».

Quindi tutto bene?

«Qual era il problema? Che in questo listino di prodotti da vendere che dovevamo proporre ai farmacisti, oltre al nostro Leo Messi, al nostro gioiello, al nostro vanto, l’Amuchina, c’erano una serie di cadaveri, noi rappresentanti li chiamavamo così, che rasentavano l’invendibilità. Il punto di rottura ci fu sui cerotti».

Racconti.

«I calciatori indossano cerotti per respirare meglio e per un paio di mesi, vedendoli in tv, più di un calciofilo volle imitarli. Tre settimane di follia, ordini alle stelle, pallottolieri che giravano. Poi, all’improvviso, al ventunesimo giorno, dei cerotti non volle saperne più nessuno e dei cerotti a quel punto avrei avuto bisogno io. I farmacisti erano inferociti e arrogantissimi: “Riprenditi questa monnezza e prova a venderla, altrimenti non ti fare più vedere”. Non solo non te li pagavano, ma avevo l’auto che traboccava di casse. A un certo punto i cassonetti li aprii davvero, mi liberai della merce e per un periodo andai proprio in crisi. Ero depresso. Mi sarebbe piaciuto suonare e invece mi rendevo conto che stavo buttando la mia vita. Tre o quattro mesi tremendi con lo spettro del servizio militare a incombere».

E cosa fece?

«Prima tentai di entrare in Polizia. L’esame prevedeva diritto penale, civile e amministrativo. Sui banchi, tutti quelli che facevano il concorso in Magistratura e affrontavano quel concorso in maniera sussidiaria. Avevo perso in partenza. Se l’avessi passato sarei diventato ispettore, mamma mia, poi dici che Gesù non esiste». (ride)

E poi?

«Dopo il liceo, a Capurso, bisognava trovarsi un lavoro. E io un lavoro non ce l’avevo più. Così mi ributtai a studiare, chiusi la partita Iva e pensai a come rimediare alle mie voragini fiscali con lo Stato. Erano cazzi. Ma cazzi veri. Dovevo quasi 20.000 euro all’Inps, una cifra per me impensabile. Zelig, da quel punto di vista, era vitale, ma non avevo più un soldo in tasca, neanche per il treno. Un giorno di luglio, più caldo e cattivo di altri, andai dal produttore e dissi che non potevo più fare avanti e indietro tra Bari e Milano per mancanza di fondi e quello senza eccepire mi firmò un assegno. La cifra, 5.000 euro, mi diede le vertigini. Chi cazzo li aveva mai visti quei soldi tutti insieme?».

Le cose si misero a posto pian piano?

«Grazie alla tv arrivarono le convention. Un miracolo in tempi ancora non straziati dalla crisi. Grandi aziende, gente disinteressata in platea, denaro facile. Ne facevo anche due o tre a settimana. Adesso me la tiro e non le faccio più, ma non so quanto sia una buona idea». (sorride)

Adesso fa il regista.

«Io la parola regista non riesco neanche a ripeterla, mi intimidisce, però a stare fuori scena, quando capitava durante la lavorazione di Tolo Tolo, mi sono divertito molto. Meno divertente è il lato oscuro del mestiere. Quando mi chiedono cosa ne pensi della color correction o chi devo ringraziare sui titoli di coda».

Lo rifarà?

«Temo di sì. È come una droga. Più ci ripenso e più ci voglio riprovare. Tra un po’ però, non domani mattina. Tanto, che sia tra un anno, tre o cinque, la mia condizione di base non cambia».

Quale condizione?

«Quella di chi ha fatto fare soldi e deve farne fare sempre di più».

Al primo gennaio, giorno dell’uscita di Tolo Tolo mancano pochi giorni. Prova ansia?

«Provo ansia prima, dopo e durante un film. Sono nato ansioso, non dormo da sei mesi, devo essere all’altezza delle aspettative. Immagino che se non fossi ansioso però sarei depresso».

L’ansia restituisce solo ansia?

«Da un certo punto di vista è la mia forza. Mi rendo conto che i momenti in cui avrei voluto morire e mi chiedevo “come cazzo faccio adesso?” sono quelli che hanno fatto scaturire le scene più belle del film. Il motore del guizzo è sempre la disperazione».

Sinossi di Tolo Tolo.

«È la storia di un italiano deluso dalla madre patria. Di un individuo che ha fatto una serie di investimenti sbagliati e sostiene di essere un sognatore. Posso usare una parolaccia?».

Prego.

«Se mi passa questo termine osceno, messaggio, il messaggio è proprio questo: Tutti abbiamo diritto di sognare. Il mio sognatore fugge dall’Italia, si trasferisce in Africa e una volta lì assiste allo scoppio di una guerra civile. Arrivano le milizie, una sorta di Isis o di Boko Haram, ed è costretto a tornare indietro, solo che non può farlo perché in Italia è inseguito dai creditori. Si ritrova quindi  nella stessa situazione dei migranti: non c’è nessuno che lo voglia. Se non fosse stato un titolo troppo colto, il film si sarebbe potuto chiamare Il migrante bianco».

Ma il suo protagonista è un figlio di puttana?

«Tutt’altro. Al limite un egoista, una testa di cazzo, un uomo incapace di vedere al di là del proprio ombelico. È uno che alla guerra antepone sempre i suoi problemi. C’è una scena di cui vado molto fiero: il suo numero di telefono è arrivato in diretta tv a Spinazzola, il suo paese, e mentre è in corso un bombardamento gli telefonano tutti. A lui delle bombe che piovono dal cielo non importa nulla, è molto più preso dalle ex mogli, dal commercialista e dai parenti che dal pericolo. Quando si rivolge agli altri, agli africani, con l’aria di saperla lunga fa loro un discorso a cuore aperto: “Sono questi i veri cazzi della vita, questa è la vera guerra”. È la metafora del nostro egoismo congenito visto comicamente, senza però il ditino alzato della morale moralizzante. O almeno spero».

A cosa aspira il suo protagonista?

«È un fuggiasco, uno che non ha più un luogo, uno che nonostante si trovi nei camion dei migranti o nelle navi con altri senza terra e senza patria, non sogna di tornare a Itaca. È cresciuto in mezzo all’amoralità. La madre gli dice: “Sei stato dato per disperso, hai la grande possibilità di estinguerti, se sparisci estingui tutti i tuoi debiti” e lui, in mezzo a un casino gigantesco con il suo amico Oumar, un appassionato di cinema italiano che sogna di andare a Cinecittà nonostante venga quotidianamente dissuaso da me “guarda che non c’è lavoro, non c’è una lira, non c’è una prospettiva”, non pensa al contesto drammatico che lo circonda, ma aspira all’unica salvezza del regime fiscale che troverebbe in Liechtenstein, dove c’è un suo cugino che gli darebbe riparo. Da un certo punto di vista, il mio personaggio è un candido».

Come il Candide di Voltaire?

«Ah, l’ha già scritto lui Tolo Tolo?». (ride)

In cos’altro spera?

«Che si capisca il paradosso. La poesia. Il ribaltamento dello schema. Non solo il valore del film o il fatto che ci abbia buttato dentro tanto sudore».

La più grande soddisfazione a film concluso?

«Aver avuto una canzone dal mio mito, Francesco De Gregori. Viva l’Italia è in una delle ultime scene del film e rispetto a quel che si vede sullo schermo è quasi antifrastica.  Temevo la sua reazione. Quando mi ha telefonato ero quasi certo che mi avrebbe detto “non puoi usarla”. Risponde con la stessa fiducia dei condannati e, incredulo, lo ascolto: “Finalmente, bravo Checco, è bellissima”. Sono momenti di impercettibile felicità». 

Per la prima volta dopo quattro film insieme non è diretto da Gennaro Nunziante.

«Ci siamo allontanati come forse capita alle persone che stanno troppo tempo insieme e magari c’è anche un po’ di imbarazzo, ma io so che ci vogliamo bene. Non c’è nessun rancore da parte mia come credo non ci sia da parte sua».

È stato un set faticoso diceva.

«Mi sono sentito un po’ come Terry Gilliam alle prese con il suo Don Chisciotte, con un film che sulla carta non finiva mai. Il fato si è accanito contro la produzione, abbiamo avuto sfighe inenarrabili, rallentamenti, ritardi. La nave presa per girare alcune scene ha subìto un controllo ed è stata bloccata. C’erano cento persone ferme ad attenderla. Era surreale, una storia nella storia, i migranti nei migranti. I mètamigranti. Poi il bambino».

Il bambino?

«C’è un bambino che mi segue nel film, che mi si affeziona, che mi prende un po’ per un secondo padre. Per una questione burocratica non aveva il visto per venire in Italia. Praticamente un’iperbole. Il Kenia non ce lo mandava con Salvini ministro dell’Interno in carica».

Lei ha detto: «Le cose semplici non mi riescono». Soffre a inventare?

«Non è sofferenza, è lavoro. L’improvvisazione esiste, ma deve muoversi su basi ben solide. Scrivere film come i miei, comici e apparentemente semplici, non è affatto facile. A una cosa penso e ripenso migliaia di volte. Mi chiedo se stia in piedi, se funzioni, se faccia ridere davvero. Poi, se serve, improvviso. La battuta, quando è scritta, perde già il 50 per cento della propria efficacia».

Dove ha imparato a ridere e a far ridere?

«A casa. Simpatici i miei, simpatici i parenti, simpatico il comico della famiglia, zio Nino. È morto due anni fa e a quest’uomo che andava fiero di aver lavorato pochissimo nella vita, ero molto affezionato».

Come faceva a farsi volere bene?

«Aveva – sia detto bonariamente – una clamorosa faccia da culo. Si era specializzato in epitaffi e quando in famiglia moriva qualcuno e tutti, più di qualcuno anche in maniera ipocrita, si stracciavano le vesti davanti al feretro, Nino entrava in scena a modo suo. Ti gelava. Diceva delle cose tremende e irripetibili. Indifferente alla bara e al lutto, Nino ribaltava il quadro. Spesso ingiuriava il defunto e io che avevo 10 anni ridevo come un pazzo. Forse il gusto, il senso, direi il dovere di disturbare con una nota dissonante mi è venuto da lì».

Una certa passione per i suoni l’ha sempre avuta.

«Mio padre suonava il basso con Gli amici del Sud. Dodici dopolavoristi scatenati tra le balere e le sagre di paese. Suonava mio nonno che mi ha lasciato in eredità il Beckstein, un pianoforte dell’800 che – mortacci sua – ha i tasti in avorio il cui acquisto oggi è vietato. I tasti sono rovinati, non posso cambiarli e quindi è inutilizzabile. Suonava anche il fratello di mio nonno, vincitore di un concorso, poi riparato in America ai tempi di Mussolini. E naturalmente suonavo io imitando Celentano, mio idolo assoluto, davanti allo specchio».

Con 24 mila baci / felici corrono le ore.

«Con i miei amici di allora e direi anche di adesso facevamo casino tutto il giorno. Le faccio vedere una cosa». (Checco armeggia con il telefono, escono video antichi in cui lui ha tutti i capelli e anima scherzi telefonici, recite collettive, imitazioni in gita scolastica)

Sembrate una banda.

«Con Beppe De Bellis che adesso, poveraccio, fa il direttore di Sky Tg 24 e non vive più e Rocco Chiodo, un mio amico negato per la fica ma con un cognome da film porno, facevamo scherzi telefonici a metà tra il lazzo ingenuo e l’insostenibile pesantezza. Rocco era un genio dell’elettronica. Con mezzi poverissimi era in grado di inventare sistemi audiovisivi che per noi, una generazione cresciuta con Holly e Benji e Bim Bum Bam, sembravano provenire direttamente dal futuro e ci facevano lo stesso effetto dell’Hal 9000 di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio».

Dal suo luogo d’origine lei ha tratto molti spunti.

«Osservavo il contesto, studiavo e poi rielaboravo. Che si trattasse del prete di Capurso, Don Franco che teneva omelie più teatrali di un testo di Goldoni, o del mio professore, fascistissimo, di filosofia, cercavo i caratteri. Le peculiarità. Le stranezze. Da meridionale mettevo in burla i tipici vizi dei miei conterranei esagerando volutamente. Ce n’era per chi elevava il furto a seconda religione di Stato e per chi giudicava sacrilego, offensivo delle tradizioni familiari, superare la terza media». 

Con Pietro Valsecchi, il suo produttore, come si è conosciuto?

«Premessa: se non avessi detto no a Leonardo Pieraccioni forse non avrei mai lavorato con Valsecchi. Leonardo e Giovanni Veronesi, lo sceneggiatore, mi avevano scelto per Io e Marilyn. Ero arrivato da Roma con mio fratello, che è identico a me, e loro pensavano che Checco Zalone fosse lui. Uno fa l’attrezzista per il cinema e l’altro lo steward per Air Norwegian, le interessa?».

Vorrei tornare a Pieraccioni e a Veronesi.

«Arriviamo da loro in macchina da Bari con una fame pazzesca,  mi genufletto, dico subito di sì preventivamente al ruolo che mi offrono e poi, siccome con la pasta in bianco che avevano preparato soffro i morsi della fame, quando mi chiedono cosa faccia dopo il nostro incontro rispondo: “vado a pranzo”. Risate, accordo fatto, felicità reciproca».

Poi?

«Poi con la sua voce cavernosa a 5 Megahertz, nella mia vita, una settimana dopo, arriva proprio lui, Pietro Valsecchi. Io non sapevo chi fosse. Al telefono capisco soltanto due parole: Cortina e Aereo. Chiamo Gennaro Nunziante e gli dico: “Mi ha cercato un certo Valsecchi”. Sento un silenzio dall’altra parte, poi un gorgoglìo che somiglia a un’esultanza. “Ma sai chi è Valsecchi? Dobbiamo portargli subito una storia”. Così in pochi giorni tiriamo giù il canovaccio di Cado dalle Nubi e lo raggiungiamo in montagna».

Lei si deve liberare dall’impegno con Pieraccioni.

«Fu fantastico. Mi disse: “Ti è accaduta una cosa che è capitata anche a me e che non ti succederà mai più. Vai, cogli l’attimo e non preoccuparti”. A Cortina andai. Pietro versava vino e grattuggiava tartufo, che detesto, come fossero coriandoli o soldi del Monòpoli. Feci finta di niente, stetti male, vomitai fino all’alba e tenni duro. Il resto è una lunga storia. Sono tutti i miei film, fino a Tolo Tolo».

Avete mai litigato?

«In continuazione. Ci urliamo di tutto e poi facciamo pace. Magari non ci parliamo per ventiquattro ore, ma non è mai niente di serio. D’altra parte mi presenti qualcuno che non ha mai litigato con Valsecchi. È un grandissimo produttore. Ha fiuto. Entusiasmo. E poi ha un carattere».

Quanta gente ha conosciuto con un carattere?

«Non tanta. Uno era Ettore Scola. Lo conobbi al Festival di Bari dove era presidente e all’inizio feci l’orgoglioso. Mi chiamò un amico: “Domani c’è una lezione di cinema davanti al pubblico del Petruzzelli, ti andrebbe di venire?”. Dico di sì, ma vengo a sapere che al mio posto era prevista Liliana Cavani che all’ultimo istante non aveva potuto presenziare. Ci rimango male: “Ma allora non vogliono me, sto andando a tappare i buchi di Liliana che rinuncia, non mi va”. Chiamo il mio amico e gli comunico bruscamente di cercarsi un altro al mio posto. Passa poco tempo e mi telefona Ettore: “Vieni subito qui, non fare  l’orgoglioso, non fare la testa di cazzo”. Abbasso la testa e ubbidisco. Scola mi abbraccia: “Porto una croce, lo sai? Ho una nipote che è fan di quei film di merda che fai tu”. (ride) Ricordando il loro Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? in Tolo Tolo omaggio proprio Scola e Sordi».

Cosa la lega ad Alberto Sordi?

«Con le dovute proporzioni, interpretiamo personaggi che riescono a farti immedesimare anche quando sono mostruosi, cinici o servili. Non li giudichiamo e non ci estraniamo, ma restituiamo loro un’umanità in cui tutti possano rispecchiarsi. Sono grevi, spesso orrendi, eticamente discutibili, ma sono esattamente come siamo anche noi, almeno una volta al giorno».

Negli ultimi dieci anni lei ha concesso sì e no dieci interviste.

«In un mondo in cui tutti sentono il bisogno e l’urgenza di dare la propria opinione, io mi rendo conto che la mia non è interessante. Non so cosa dire. Che devo dire? Ho provato ad approcciarmi anche a Twitter, ma poi sono tornato indietro. “Madonna, ma perché devo scrivere ’sta cazzata? Ma è utile? È edificante? Interessa?”».

Cosa si è risposto.

«Di no. E ho deciso di tacere».

·        Chiara Ferragni e Fedez.

Giulio Pasqui per gossipblog.it il 25 dicembre 2020. Articolo del 9 maggio 2017. Tutti siamo stati adolescenti, spesso tamarri e bimbiminkia. Tutti, compresa un'icona di stile come Chiara Ferragni. La fashion blogger italiana più famosa del pianeta, ancor prima di diventare The Blonde Salad, è stata un punto di riferimento per i suoi coetanei milanesi. Quando ancora non esistevano né Instagram né Facebook, le sue foto venivano caricate sul social network milanocentrico (e assai tamarro, come i giovani del periodo) DuePuntoZero e su Netlog. "Kiara", ragazzina che arrivava da Cremona, si faceva chiamare Diavoletta87 ed era sempre in testa alle classifiche delle "più belle". Il successo, già allora, era così forte che decise di aprirsi un sito personale su Altervista chiamato Il Sito Ufficiale di Diavoletta87 (con il supporto di un Diary sulla piattaforma Bloggers, ancora reperibile qui). Chiara era già famosa, invidiata, e doveva fare i conti con i primi hater - e pure con le k: "Inutile dire ke se volete registrarvi solo x insultare me o qualsiasi altra persona sarete blokkati e nn potrete piu' skrivermi...accetto qualsiasi critica,basta ke sia fatta con decenza [...] inutile dire: teste di kazzo astenersi dallo scrivere vero??? va beh..vediamo anke qui cos'avranno da dire", scriveva Kiaretta. Le sue foto riscuotevano un successo clamoroso. Sia quelle in solitaria, con i primi marchi in bella vista, che quelle con i fidanzatini: il primo, quello con il ciuffo biondo piastrato, si faceva chiamare Albertinodj; il secondo, all'epoca della Bocconi, era Riccardo Pozzoli (suo attuale braccio destro e vero fautore del successo della Blond Salad). Poi è arrivato Fedez ed il resto è storia.

ARCHEO-POST DI CHIARA FERRAGNI. VAKANZE DI NATALE...Diavoletta87 del 4 gennaio 2006. il natale è' una delle feste ke odio di più....io nn ho un minimo di spirito natalizio, ogni anno sempre la stessa storia...festeggiare la nascita di gesù...ke poi ormai tutti sanno ke gesù nn è nato quel 25 dicembre, ma ke è una data di konvenzione...tralasciando tutte le skifezze ke girano attorno al natale ciò ke ogni anno m rattristisce è la famiglia ke si riunisce x cene,pranzi,regali...tutte le persone ke si ripromettono ke saranno persone migliori...la mia famiglia??? proprio no...ogni anno ci tokka stare kn mia mamma ed andare da mia nonna a salutare tutti gli zii,ziee ke nn m vedono dal natale precedente ( e viviamo a 40 km di distanza...) e ke m ripromettono ke cerkeranno di stare più vicino a me...nn sopporto la loro ipokrisia, i loro regalini di merda x dimostrarmi un qualke affetto inesistente....natale, la festa della skifezza....ma almeno anke qst anno è passata, e app dopo qll orribile pranzo sn korsa dal mio rifugio dalla maggior parte dei dolori...il mio tesoro..quei 4 giorni a milano sempre kn te sono stati magici, quanto adoro uscire di primo pomeriggio e tornare a kasa stanki ed infreddoliti alle 2 di notte....e poi passare quella giornatina a kasa mia...io kn tutti i miei skleri dopo ke ho fatto i kolpi di sole ke solo ora m konvinkono pienamente...tutte quelle decisioni improvvise...e poi svegliarci dopo 3 ore di sonno, prendere quei mille treni insieme, konoscere andy, fare mille risate kn lui e phil...arrivare a kasa di quella troia di suanne, andare a ballare ogni sera al bonaparte e poi il favoloso king's....qnt m è piaciuta st.moritz.... sklerare come dei matti x delle regole inesistenti, stare akkanto al mio tesoro andy qnd ne aveva bisogno,distraendolo kn diskorsi tr scemi mentre lo medikavano....tornare a kasa della stronza il primo gennaio alle 8 del mattino e skoprire ke tutte le nostre valigie sn sul pianerottolo, i nostri vestiti sparpagliati dappertutto.... inkazzati neri prendere la testa del cervo imbalsamato ke aveva appeso nel korridoio e buttargliela nella neve... kavoli poi surlej era anke lontano da st.moritz...mio dio qnt parlavamo di lei a tutti gli altri,e' diventata l argomento del giorno...ke bello poi konoscere qlla ragazza favolosa ke è xenya...e trasferirici da altri amici konosciuti poke ore prima...abitare in una kamera di poki metri quadrati ke puzzava sempre di fumo in maniera spaventosa...ke bello ogni rikordo di quei giorni favolosi...ke dolce pensare a qnd d notte io ed alby dormivamo su in divano x una persona sola e lui m kopriva kn il suo giubbotto xke' nn esistevano altre koperte in quell appartamento...stupendo poi aver konosciuto persone bellissime...grazie a tutti...m sento pronta ad iniziare al meglio questo nuovo anno....

DAGONOTA il 14 ottobre 2020 - Tra gli addetti ai livori si racconta che il documentario sulla Ferragni ha subito un lungo processo di ''beautyfication'', ovvero un ringiovanimento e smaltamento fotogramma per fotogramma, un lavoro durato mesi. Il problema è semplice: su Instagram tutto passa attraverso filtri leviganti e colori saturati, mentre le crudeli telecamere in alta definizione mostrano ogni brufolo e rughetta. L'effetto era difficile da notare quando il film è stato proiettato al cinema, anche perché siamo tutti abituati a vedere Chiara attraverso micro-schermi, in foto ultra-lavorate o  in video in bassa qualità. E' però apparso in modo clamoroso l'altra sera quando alla fine del patinatissimo Unposted si è passati in studio con Simona Ventura. Nonostante le luci e il trucco pensati apposta per abbellire ed eliminare difetti, era difficile credere che la bambola di porcellana del documentario e la (bellissima) trentatreenne fossero la stessa persona...

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 14 ottobre 2020. La vecchia tv generalista ha incontrato i social e ancora una volta ha vinto. Fossi Chiara Ferragni mai e poi mai avrei accettato di farmi intervistare da Simona Ventura, nelle vesti della zia premurosa e vogliosa di capire le «giovani d' oggi» (Rai2, lunedì). Il «Fenomeno Ferragni» è straordinariamente interessante perché è un mezzo mistero. Le storie di Instagram sono coinvolgenti e lei ha una capacità narrativa unica, sui social è puro spirito, pura narrazione, «esperanto della contemporaneità». L' università di Harvard ha giustamente studiato Chiara come un caso aziendale (lei si definisce «imprenditrice digitale»); la storia di una ragazzina che in meno di dieci anni ha inciso fortemente sul mondo della comunicazione e della moda merita tutta l' attenzione possibile; la vita quotidiana di una coppia di giovani sposi che diventa non solo esposizione continua ma storytelling, condivisione, empatia (o odio) dovrebbe essere materia di studio più dei comizi di Giorgia Meloni. Ma la grandezza di Chiara Ferragni sta proprio in quello che non si riesce a capire di lei: la normalità che si trasforma in spettacolo, il carisma della «biondina di Cremona» (rileggere «La bella di Lodi») che con costanza e professionalità diventa «influenza», la narcisata adolescenziale che sposa l' immediatezza di internet e si fa linguaggio. Il film «Unposted» di Elisa Amoruso è poco più che un documentario aziendale, via via sempre più noiosetto, con certe signore intervistate cui volentieri gireresti alla larga. Ma il vero dramma è l' intervista con Simona Ventura. Qui Chiara si spoglia di ogni fascino, la sua storia d' amore sembra quella fra Albano e Romina, la prima macchina fotografica digitale, vinta con i punti-fragola dell' Esselunga, stinge in neorealismo. La tv generalista s' impossessa della Ferragni, la sintassi diventa fantasia, la grammatica un' illusione e Chiara una specie di Miss Italia.

Giuliano Zulin per “Libero Quotidiano” il 19 giugno 2020. Non è possibile sostituire il ministro Dario Franceschini con Chiara Ferragni e Fedez? Il primo è un incubo per il turismo, che in teoria dovrebbe rilanciare visto che è sua competenza. I secondi, fregandosene degli Stati generali a Villa Pamphilj, hanno invece già cominciato a promuovere sui social le bellezze dell'Italia, così da «aiutare il settore» e da attirare gli stranieri che piano piano torneranno a visitare la penisola fra le più belle al mondo. In più i Ferragnez sono nel podio italiano degli influencer sui social, ovvero delle persone che fanno tendenza. A maggio le interazioni di Chiara sono state quasi 87 milioni, quelle del marito Federico "appena" 12,8 milioni. Insieme hanno generato 100 milioni di commenti, visualizzazioni o "mi piace". Franceschini? Al massimo può mobilitare qualche parlamentare in vista di un ribaltone, di un rimpasto di governo, di una nuova caccia alla poltrona. Nemmeno nella sua Ferrara tira più. In tre mesi non è riuscito a partorire un'idea per salvare la stagione turistica, incerta al massimo causa distanziamento e timore di contagi. A maggio aveva annunciato 2 miliardi per gli operatori del tempo libero. Chissà chi li ha visti...Pochi giorni fa ha rilanciato: bisogna investire sulle infrastrutture. Giusto, ma il suo partito è più o meno al governo da 8 anni. Non poteva pensarci prima? Ora che l'esecutivo possa partorire un progetto per una linea ferroviaria, un'autostrada o un aeroporto, probabilmente il Covid sarà un lontano ricordo. Fedez e Ferragni invece già da un paio di settimane hanno iniziato a promuovere le eccellenze italiane. Certo, loro possono frequentare posti meravigliosi, lussuosi. Ma d'altronde all'Italia dovrebbero interessare i turisti ricchi, non coloro i quali girano una giornata con una bottiglietta e fanno pranzo e cena al McDonald's. E poi se non sogni ad occhi aperti, difficilmente hai voglia di uscire di casa. La regina italiana di Instagram, Chiara, 20 milioni di "seguaci", con la famiglia - onnipresente il piccolo Leone - ha dapprima visitato i luoghi tipici di Milano. Sui social comunica sempre in inglese, lingua che al governo faticano a masticare (vedi il ministro degli Esteri, Di Maio, mister vairus). Poi una scampagnata a Lenna, Valle Brembana, Bergamo, all'agriturismo Ferdy. Posto incantevole immerso nel verde. E «dopo avervi portato al lago di Como, al lago Maggiore, alle Cinque Terre e a Roma, quest' estate vi porterò a Portofino, in Toscana, a Capri, in Sardegna e speriamo anche in qualche altro luogo nascosto...», ha annunciato la Ferragni in una storia su Instagram. «L'Italia davvero è il mio Paese preferito, sono italianissima e lo sarò per sempre». Ed ecco le vacanze cento per cento tricolori della coppia più famosa, che invece di girare il Paese e sfidare paparazzi o fan accaniti potrebbe serenamente "nascondersi" nella propria dimora a Los Angeles. Però «abbiamo la fortuna di vivere nel Paese che è stato la culla della civiltà, questo è un lusso che appartiene a tutti. Che fai te ne privi?» ha commentato Fedez le sue vacanze romane, auto-immortalandosi all'interno della Cappella Sistina. Ovviamente non sono mancate le polemiche. Le invidie. Gli insulti. Ma il bene che fanno questi due al nostro turismo non ha valore. Il governo ha varato il bonus vacanze. Il sussidio spetta alle famiglie con un Isee fino a 40.000 euro e potrà essere speso, fino al 31 dicembre, presso alberghi, agriturismo, e b&b in Italia. Sarà disponibile dall'1° luglio tramite la nuova app dei servizi pubblici "io.italia.it". Per ottenerlo è necessaria la Spid, l'identità digitale per l'accesso ai servizi della Pubblica amministrazione, o la carta d'identità elettronica. Insomma, un meccanismo che ti fa passare la voglia di trascorrere qualche giornata al mare, in una città d'arte o in una pensioncina di montagna...I Ferragnez avevano dato il via, tre mesi fa, alle raccolte fondi per aiutare le strutture ospedaliere bisognose di finanziamenti. La loro sottoscrizione per una nuova terapia intensiva al San Raffaele di Milano fruttò 4,5 milioni. Un successo che ha aiutato, a cascata, anche altre gare di solidarietà per altri ospedali. Anche all'epoca fioccarono le deliranti diatribe, sfociate addirittura in denunce penali. Che follia, abbiamo dei fuoriclasse da "sfruttare" per ripartire, ma dobbiamo sottostare a Franceschini e Speranza che promettono tutto, ma non fanno niente. riproduzione riservata.

Giulio Pasqui per gossipblog.it il 25 dicembre 2019. Articolo del 9 maggio 2017. Tutti siamo stati adolescenti, spesso tamarri e bimbiminkia. Tutti, compresa un'icona di stile come Chiara Ferragni. La fashion blogger italiana più famosa del pianeta, ancor prima di diventare The Blonde Salad, è stata un punto di riferimento per i suoi coetanei milanesi. Quando ancora non esistevano né Instagram né Facebook, le sue foto venivano caricate sul social network milanocentrico (e assai tamarro, come i giovani del periodo) DuePuntoZero e su Netlog. "Kiara", ragazzina che arrivava da Cremona, si faceva chiamare Diavoletta87 ed era sempre in testa alle classifiche delle "più belle". Il successo, già allora, era così forte che decise di aprirsi un sito personale su Altervista chiamato Il Sito Ufficiale di Diavoletta87 (con il supporto di un Diary sulla piattaforma Bloggers, ancora reperibile qui). Chiara era già famosa, invidiata, e doveva fare i conti con i primi hater - e pure con le k: "Inutile dire ke se volete registrarvi solo x insultare me o qualsiasi altra persona sarete blokkati e nn potrete piu' skrivermi...accetto qualsiasi critica,basta ke sia fatta con decenza [...] inutile dire: teste di kazzo astenersi dallo scrivere vero??? va beh..vediamo anke qui cos'avranno da dire", scriveva Kiaretta. Le sue foto riscuotevano un successo clamoroso. Sia quelle in solitaria, con i primi marchi in bella vista, che quelle con i fidanzatini: il primo, quello con il ciuffo biondo piastrato, si faceva chiamare Albertinodj; il secondo, all'epoca della Bocconi, era Riccardo Pozzoli (suo attuale braccio destro e vero fautore del successo della Blond Salad). Poi è arrivato Fedez ed il resto è storia.

Diavoletta87 del 4 gennaio 2006 il natale è una delle feste ke odio di più....io nn ho un minimo di spirito natalizio,ogni anno sempre la stessa storia...festeggiare la nascita di gesù...ke poi ormai tutti sanno ke gesu' nn è nato quel 25 dicembre,ma ke è una data di konvenzione...tralasciando tutte le skifezze ke girano attorno al natale ciò ke ogni anno m rattristisce è la famiglia ke si riunisce x cene, pranzi, regali...tutte le persone ke si ripromettono ke saranno persone migliori...la mia famiglia??? proprio no...ogni anno ci tokka stare kn mia mamma ed andare da mia nonna a salutare tutti gli zii,ziee ke nn m vedono dal natale precedente ( e viviamo a 40 km di distanza...) e ke m ripromettono ke cerkeranno di stare più vicino a me...nn sopporto la loro ipokrisia, i loro regalini di merda x dimostrarmi un qualke affetto inesistente....natale,la festa della skifezza....ma almeno anke qst anno e' passata,e app dopo qll orribile pranzo sn korsa dal mio rifugio dalla maggior parte dei dolori...il mio tesoro..quei 4 giorni a milano sempre kn te sono stati magici,quanto adoro uscire di primo pomeriggio e tornare a kasa stanki ed infreddoliti alle 2 di notte....e poi passare quella giornatina a kasa mia...io kn tutti i miei skleri dopo ke ho fatto i kolpi di sole ke solo ora m konvinkono pienamente...tutte quelle decisioni improvvise...e poi svegliarci dopo 3 ore di sonno,prendere quei mille treni insieme,konoscere andy,fare mille risate kn lui e phil...arrivare a kasa di quella troia di suanne, andare a ballare ogni sera al bonaparte e poi il favoloso king's....qnt m è piaciuta st.moritz.... sklerare come dei matti x delle regole inesistenti, stare akkanto al mio tesoro andy qnd ne aveva bisogno,distraendolo kn diskorsi tr scemi mentre lo medikavano....tornare a kasa della stronza il primo gennaio alle 8 del mattino e skoprire ke tutte le nostre valigie sn sul pianerottolo,i nostri vestiti sparpagliati dappertutto.... inkazzati neri prendere la testa del cervo imbalsamato ke aveva appeso nel korridoio e buttargliela nella neve... kavoli poi surlej era anke lontano da st.moritz...mio dio qnt parlavamo di lei a tutti gli altri, è diventata l argomento del giorno...ke bello poi konoscere qlla ragazza favolosa ke è xenya...e trasferirici da altri amici konosciuti poke ore prima...abitare in una kamera di poki metri quadrati ke puzzava sempre di fumo in maniera spaventosa...ke bello ogni rikordo di quei giorni favolosi...ke dolce pensare a qnd d notte io ed alby dormivamo su in divano x una persona sola e lui m kopriva kn il suo giubbotto xke' nn esistevano altre koperte in quell appartamento...stupendo poi aver konosciuto persone bellissime...grazie a tutti...m sento pronta ad iniziare al meglio questo nuovo anno....

Novella Toloni per il Giornale il 13 febbraio 2020. Sono destinate a far discutere le dichiarazioni fatte da Fedez nell'ultima puntata di "Muschio Selvaggio", il podcast che conduce insieme all'amico Luis Sal. La quinta puntata del programma in streaming ideato dal rapper è stata dedicata alla Bibbia e al suo contenuto, ma alcune affermazioni fatte da Fedez hanno attirato l'attenzione. Ospite del dibattito Mauro Biglino, saggista studioso di ebraico biblico e testi antichi, secondo il quale le traduzioni che abbiamo sulle nostre bibbie non sarebbero fedeli. "Il problema è far capire che non si possono costruire verità assolute partendo da un libro così - ha spiegato Biglino - Dopodiché, la Fede è un'altra cosa. Ognuno può credere a quello che vuole". Affermazioni che hanno stuzzicato Fedez che ha replicato: "Ora dico una blasfemia, è il parere di un ateo. Questa cosa qui è uguale a Harry Potter, il Signore degli Anelli... Però dal momento in cui questo Harry Potter ha messo le fondamenta della società civile, dobbiamo chiederci di cosa parla veramente". Il rapper da alcuni giorni si trova a Los Angeles con la moglie Chiara Ferragni. Fedez è stato ospite insieme alla Ferragni del party di Vanity Fair organizzato dopo la notte degli Oscar. Questo non gli ha impedito di continuare a realizzare le puntate del suo podcast, l'ultima delle quali è stata lanciata oggi su Youtube. Parlando della Bibbia, Fedez ha ricordato un esercizio che Mauro Biglino invita a fare nelle sue conferenze, ovvero sostituire le parole la cui tradizione non è precisa. Quello che ne nasce è un risultato stupefacente, secondo Fedez perché in questo modo la Bibbia assume un altro senso: "La Bibbia diventa quindi un libro di guerra". Nel corso della puntata non sono mancati momenti ironici e battute, ma in alcuni momenti si è rasentata la blasfemia, come ha sottolineato qualcuno nei commenti dell'ultimo post Instagram. Parlando della croce, Luis Sal dice la sua: "Mi sembra un po’ barbaro dover andare in giro con il tuo mito crocifisso, con tutti i modi con cui poteva rappresentare. È come se un fascista girasse con Mussolini a testa in giù".

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2020. Per 14 giorni, Fedez è stato protagonista di una spettacolare caccia all' uomo. «Sono stato un latitante, senza il peso dei crimini addosso». Spiega così Celebrity Hunted , nuovo reality disponibile dal 13 marzo su Amazon Prime Video. «Mi affascinava lavorare con una delle aziende più visionarie: è un format pionieristico. Un ibrido: un thriller montato come una serie ma è un reality. Io e gli altri sette concorrenti dovevamo fuggire da ex militari e agenti dei servizi segreti».

E come è stato?

«Ho partecipato con il mio amico Luis Sal. Ci siamo rifugiati nella villa di un noto personaggio ma ci hanno trovati: hanno accerchiato la casa con auto, droni e unità cinofila. Con un diversivo siamo scappati e ci siamo nascosti in un furgone che portava sterco».

Vi siete confrontati con gli altri concorrenti? Totti?

«Con lui non molto, so che è un' icona ma non seguo il calcio. Sono in contatto con Diana Del Bufalo e Caccamo».

L' idea di partecipare in coppia con sua moglie (Chiara Ferragni, ndr.)?

«Sarebbe stato bello, mi sarei divertito, ma non si poteva per impegni già presi...».

La televisione torna spesso nei suoi progetti: un caso?

«Guardo il progetto più che il mezzo. Ho fatto X Factor finché ha avuto un senso. Poi ho sentito che le mie energie e quelle del programma si stavano esaurendo e ho preferito non andare avanti. Mi spiace che quest' anno sia stato un disastro, gli auguro di riprendersi. E' un programma che mi ha insegnato tanto, rimarrò sempre legato: vederlo andar male non mi fa piacere».

Cosa pensa in generale della televisione?

«Quella italiana ha bisogno di innovarsi: siamo un paese dove il Grande fratello è, non so, alla trentesima edizione; in cui c' è la Corrida : non esiste il rinnovamento, si tolgono ragnatele a format vecchi...servono nuove idee».

Lei non le ha?

«Magari si. Ma c' è un tempo giusto per dire tutto».

Anche Sanremo rientra per lei nei «format vecchi»?

«Bisogna distinguere tra idee impolverate e tradizioni. Anzi, mi pare che negli ultimi anni si sia svecchiato parecchio e abbia anche aiutato molto la discografia italiana».

Tra i protagonisti dell' ultimo Festival c'era Tiziano Ferro, con cui c' è stata una polemica a distanza su bullismo e omofobia. Come è finita?

«Non c' è stato un finale. Avevo proposto di rendere costruttiva una polemica che, a mio parere, non aveva senso. Mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di concreto su una tematica importante, evidentemente non c' era la volontà. Io sono a disposizione, non necessariamente per collaborare artisticamente, anche solo per esporsi, sensibilizzare insieme. Quello che è successo non ha fatto bene a nessuno, non ha aiutato me e nemmeno Tiziano che usciva con il suo disco ma per una settimana ha parlato solo di quello».

Lei però scatena spesso opinioni contrastanti...

«Fa parte del gioco. Ma sconsiglio agli artisti di dire cose su di me quando devono promuovere il loro disco, non aiuta. Anche Ghali: di recente mi ha attaccato (riferendo delle frasi poco gentili che Fedez gli avrebbe detto all' inizio della sua carriera, ndr .), poi ha ritrattato, poi è uscito l' audio delle sue parole che lo ha sbugiardato. Ha fatto tutto lui, non penso gli sia stato utile».

Mesi fa ha raccontato in tv, a Peter Gomez, di essere a rischio sclerosi. Perché?

«Avevo l' esigenza di tirare fuori cose che non sarei riuscito a sviscerare in altro modo, mi ha fatto bene. Qualcuno ha ironizzato, fa niente. Se ti esponi prendi il bello e il brutto: non era per pietismo ma per mettere un punto».

Speranze per il futuro?

«Con Chiara abbiamo lanciato una raccolta fondi per il San Raffaele in questa emergenza. Mi piacerebbe che gli artisti con cui ho avuto dei diverbi supportassero la cosa».

La nonna di Fedez cita Mussolini, lui: "Non puoi dire una cosa così". La nonna di Fedez si è dichiarata a favore della politica adottata da Matteo Salvini e ha anche rivelato di essere una simpatizzante di Benito Mussolini. Serena Granato, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Com'è ormai risaputo, Fedez è temporaneamente lontano dalle scene musicali, per aver scelto di intraprendere una nuova avventura artistica. Il cantautore rap di Cigno nero e consorte di Chiara Ferragni ha deciso di attivarsi nel mondo dei podcast, in collaborazione con lo youtuber a lui molto amico, Luis Sal. Con quest'ultimo, tra l'altro, il cantautore ha di recente avuto già modo di collaborare, partecipando a Celebrity hunted Italia- Caccia all'uomo. Quest'ultimo altro non è che la prima versione vip nostrana dell'ormai già noto reality show inglese, proposto da Channel 4 per la prima volta nel 2015. L'atteso reality andrà in onda su Amazon Prime e, presumibilmente, a partire dal prossimo marzo 2020. E, nelle ultime ore, a far parlare di Fedez è soprattutto il contenuto del suo primo podcast, "Muschio selvaggio". All'appuntamento in questione, hanno partecipato due ospiti dalle ideologie tra loro divergenti, parliamo di Bello figo e nonna Luciana, parente di Fedez. Se da una parte non manca chi, tra i suoi fan veterani, non ama l'idea che il proprio beniamino sia ormai lontano dal mondo della musica, dall'altra parte c'è chi invece sembra apprezzare l'operato di Fedez alle prese con i podcast. Così come emerge da un commento riportato da un seguace, sotto il primo episodio dell'artista: “Fedez, non mi piace la tua musica ma è stra interessante ascoltarti. Ci sai proprio fare, cazzo”. Ma a rubare la scena a Fedez, al primo podcast pensato per gli amanti di YouTube, ci ha pensato la nonna. La signora Luciana Violini, alla veneranda età di ottant'anni, vanta una cifra di 230mila follower su Instagram e in occasione del primo podcast del nipote ha voluto condividere pubblicamente i suoi ideali, che chiaramente rispecchiano il suo orientamento politico. “Pro o contro Mussolini?”, è stata subito incalzata Luciana, la quale di tutta risposta si è detta simpatizzante dell'ex ministro dell'interno, Matteo Salvini. “Io pro, pro, pro. Ci vuole qua oggi- ha fatto sapere -. Ci vuole qua oggi, quello che era prima e non quello che è stato dopo. Io l’ho conosciuto, io ho preso un premio da Mussolini". E la sua confessione non finisce qui. Perché poi, in modo del tutto inaspettato, ha voluto ricordare il Duce, di cui custodisce un ricordo positivo: "Avevo 6 anni. Voi credete nel Mussolini che c’è stato dopo, ma all’inizio ha fatto la Marcia su Roma e oggi ci vorrebbe la Marcia su Roma. Oggi ci vorrebbe". E alle dichiarazioni rilasciate dalla donna, non si è fatto attendere molto l'intervento di Fedez, che ha inizialmente zittito la parente: "Nonna, non puoi dire una cosa del genere. Non sono d’accordo con te, ma ognuno dice quello che pensa“. Nonna Luciana non la pensa affatto come l'amato e stimato nipote-influencer e, all'episodio Muschio Selvaggio, si è anche detta a favore dell'idea di chiudere i porti per combattere l'immigrazione sregolata e clandestina: “Prendono gli aerei e li riportano a casa”.

Da ilmessaggero.it il 14 ottobre 2020. Fedez verrà sentito il prossimo 25 febbraio nel processo in cui è imputato per lesioni davanti al giudice di pace di Milano per una lite con un vicino di casa, che ha riportato 10 giorni di prognosi. Quel giorno, oltre all'esame dell'imputato, deporrà anche un testimone della difesa e si terranno le conclusioni delle parti. L'udienza si svolgerà a porte chiuse. Al centro del processo un litigio avvenuto in zona Tortona intorno alle 6 del mattino del 12 marzo 2016. Nell'udienza dello scorso 21 novembre, davanti al giudice Tommaso Cataldi, ha testimoniato il cantante Fabio Rovazzi, che era presente al momento della rissa e ha riferito che sarebbe stato il vicino a colpire Fedez con un pugno. Il marito della blogger Chiara Ferragni e il vicino di casa avevano entrambi sporto denuncia dopo l'episodio, di cui si era parlato all'epoca sui media. Nell'imputazione a carico del 30enne, si legge che lui avrebbe aggredito il vicino di casa che si era affacciato alla sua porta per via della musica alta che proveniva dell'appartamento, causandogli anche un trauma cranico lieve. "Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

·        Chrissie Hynde.

Barbara Visentin per il Corriere della Sera il 20 luglio 2020. Icone del rock con successi come «Don' t Get Me Wrong» o «I' ll Stand by You», i Pretenders ruotano attorno alla bella voce della leader Chrissie Hynde. Ed è lei, unica componente fissa della band formatasi nel 1978 in Inghilterra, a raccontare il nuovo disco «Hate for Sale», confermando di essere tanto carismatica quanto controversa, definendosi «hippie fino al midollo» e «anti-establishment». Il titolo dell' album, «vendesi odio», «si riferisce alle stupidaggini della società consumistica. È un disco rock pieno di energia e per la prima volta siamo riusciti a lavorarci come una vera band». In passato, spiega, i viaggi e gli impegni dei quattro membri del gruppo rendevano difficile la logistica. La vita frenetica dei musicisti, insomma, che per lei non ha nulla di glamour: «Non vivo da celebrità, anche se ne conosco molte. Prendo l' autobus, esco da sola e voglio essere trattata come tutti - dichiara -. Non ho mai imparato a essere gentile con le persone e se dico di no a una foto si offendono. Non capiscono». Americana dell' Ohio, approdata a Londra ventenne, Hynde ha vissuto gli anni d' oro del punk: «Era una città in bianco e nero, la adoravo, poi i soldi hanno distrutto tutto». Pur di restare in Inghilterra tentò di sposarsi con due membri dei Sex Pistols, suoi amici, poi nell' 85 con i Pretenders partecipò anche al Live Aid. Ma di quegli anni gloriosi «non ricorda», taglia corto, «perché non mi guardo mai indietro». A preoccuparla, piuttosto, è il futuro: «Il virus è stato un miracolo a livello ambientale. Certo, c' è stata tanta sofferenza, ma con il lockdown l' aria era pulita, gli animali ritrovavano i loro spazi, un contrasto pazzesco». La sua speranza è che la tragedia ci obblighi a riconsiderare le priorità: «Abbiamo distrutto le nostre città con l'inquinamento. Dovremmo liberarci delle auto, usare le bici, smetterla con gli allevamenti intensivi e privilegiare l'agricoltura non aggressiva. Non ho fiducia nei leader politici, ma forse c' è speranza negli individui». Vegetariana e attivista, Hynde applica la stessa visione anche alla musica: «Vorrei che la pandemia portasse a concerti più piccoli e a tour di prossimità, senza tanti viaggi in aereo. Non c' è bisogno di tutti questi spostamenti e io non sono mai stata fan delle band da stadio con effetti pirotecnici. Dovremmo darci una calmata tutti quanti, inclusi i gruppi rock». Chitarrista oltre che autrice e cantante, Chrissie Hynde è una delle più apprezzate donne nel rock. E anche su questo ha idee che fanno discutere: «Come mai siamo in poche è il mistero della mia vita. Forse le ragazze preferiscono fare le modelle che le chitarriste?». Lei, discriminazioni, non ne ha mai avvertite: «Forse è perché non mi sono mai vestita da prostituta. La gente ti tratta in base a come ti vesti e so che le femministe non mi amano quando lo dico. Per me la musica non ha mai avuto nulla a che vedere con il gender. Se senti una chitarra non sai se sia un uomo o una donna a suonarla». Il pop, invece, «è come il Big Mac, non è buono, ma tutti lo comprano, e da Mtv in poi si è venduta la musica a suon di cantanti che ammiccano sessualmente e video soft porno. Ma quella è solo pubblicità, non qualità».

·        Christian De Sica.

Christian De Sica: «Scoprii al telefono che papà aveva una figlia con un’altra». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Emilia Costantini. «Il primo consiglio da parte di papà quando stavo per esordire in palcoscenico a 18 anni? Con tono rigoroso mi raccomandò: Christian, prima di entrare in scena, un’ombra di grigio sulle palpebre e basta!». Christian De Sica è un figlio e fratello d’arte (del musicista Manuel) come ce ne sono pochi. Eppure ha iniziato facendo il cameriere in Venezuela. «Mi vergognavo a fare l’attore, con padre attore e grande regista, e madre attrice (Maria Mercader ndr). Mi sentivo un cane, non volevo fare brutte figure e, siccome avevo una fidanzatina venezuelana, me ne andai dall’altra parte del mondo: conoscevo lo spagnolo grazie a mamma e volevo provare a cimentarmi nelle prime esperienze artistiche lontano da casa per non dover subire ingombranti paragoni. All’inizio, non trovando lavoro, mi adattai a fare il cameriere in un albergo lussuoso, il Tamanaco Hotel di Caracas».

I clienti davano buone mance?

«Mica tanto. I sudamericani ricchi sono smargiassi e piuttosto cafoni. Da quelle parti c’è una disparità sociale abissale: i poveri sono poverissimi, i ricchi ricchissimi. Fu la conoscenza di un ricchissimo che mi cambiò le prospettive».

Chi era?

«Renny Ottolina, un produttore radio-televisivo, soprattutto un personaggio molto conosciuto e amato dal pubblico, una specie di Mike Bongiorno. Mi prese in simpatia e mi offrì un contratto da cantante-attore, intrattenitore. Poi mi invitava spesso a viaggiare con lui sul suo aereo: in una di queste vacanze, mi sono beccato l’epatite».

Sull’aereo?

«No! Era un viaggio in Amazzonia. Atterrammo di notte in un piccolo aeroporto: sulla pista, una lunga fila di fiaccole e di indios che ci attendevano con omaggi floreali e cesti di frutta. Erano seminudi e sul pene esponevano una specie di buccia di banana. Uno di loro mi offrì un frutto: evidentemente l’ho mangiato senza lavarlo o sbucciarlo. Dopo qualche tempo diventai tutto giallo in faccia. Mamma al telefono mi disse: che stai a fare là, torna a casa».

E dovette riprendere gli studi...

«Mi ero iscritto alla facoltà di Lettere, papà voleva che mi laureassi. Quando gli avevo espresso il desiderio di fare l’attore, mi aveva risposto a brutto muso: sei matto? Per accontentarlo, frequentavo le lezioni di giorno, però di sera di nascosto cominciavo a esibirmi in qualche locale. Ho dato solo 7 esami: due 30 e lode e cinque 30. Per fortuna non ho continuato, sarei stato un laureato fallito».

Perché?

«Ho perso mio padre che avevo 23 anni e mi sarei ritrovato senza lavoro. Invece, avendo già intrapreso questo mestiere per conto mio, piano piano mi sono fatto strada, ma è stata dura. Ricordo i primi tempi in cui ero fidanzato con Silvia (Verdone): facevamo la fame ed era lei a portare i soldi a casa, pagava l’affitto della casetta in cui vivevamo, perché io, nelle prime apparizioni cinematografiche guadagnavo pochissimo. Solo quando firmai il primo contratto con Carlo Vanzina detti una gomitata a Silvia dicendole: d’ora in poi mangeremo bene».

Se papà Vittorio avesse avuto il tempo di vedere i vituperati cinepanettoni, li avrebbe criticati?

«Assolutamente no. Lui pure ha iniziato la carriera con film comici come Un garibaldino al convento, pellicole di cassetta, tipo Pane amore e Andalusia, oppure film con Maurizio Arena... Secondo me gli sarebbe piaciuto un mio successo come Natale sul Nilo. I cinepanettoni hanno descritto l’Italia di oggi molto meglio di altri film autoriali che nessuno ha visto. Il fatto è che nel nostro Paese il successo non ti viene perdonato: se non sei brutto, se hai una bella famiglia, e fai pure soldi al botteghino è troppo! E pensare che io non sono mai stato uno che se la tira. L’umiltà è l’insegnamento più importante avuto da mio padre, che ha vinto 4 Oscar, ma io ho vinto 32 Biglietti d’oro».

Quanto ha pesato un padre del genere nella sua carriera?

«Pochissimo! Quando stava a casa era un borghese tranquillo come tanti. Se gli chiedevamo qualche curiosità sugli attori che dirigeva in quel momento sul set, rispondeva “per carità! non mi far parlare della Loren, della Lollobrigida, di Mastroianni...”. Un padre severo, questo sì, un uomo nato nel 1901, teneva molto alla nostra educazione: a tavola non si dicevano parolacce, ma non faceva sentire il suo peso di artista internazionale. Mi sono reso conto della sua importanza al funerale: una marea di gente al Verano che gli rese omaggio e alla fine un lungo applauso. Anche da morto faceva spettacolo. Peccato averlo potuto frequentare poco: l’ho conosciuto che aveva già i capelli bianchi. Quando mio fratello e io eravamo piccoli non giocava con noi, non ci portava sulle giostre o al lunapark, semmai ci faceva recitare, a casa, in scenette davanti agli amici».

Però, accanto a lui, avete avuto la possibilità di conoscere personaggi incredibili...

«Certo! Per esempio quella volta che venne a casa Charlie Chaplin e, assieme a mamma, aspettavamo papà. Avrò avuto 5-6 anni e il grande Charlot, già anziano, per intrattenermi nell’attesa, giocava con la sua bombetta. Io non sapevo chi fosse e, quando arrivò mio padre, gli dissi “c’è un vecchio scemo che gioca col cappello!”. Oppure quando, avrò avuto 2 anni, sul set del film Stazione Termini, mi scappava la popò e mi metto sul vasetto a espletare la funzione. Montgomery Clift, protagonista del film, durante una pausa prende un altro vasetto e si accuccia anche lui vicino a me, per farmi compagnia».

Poi Roberto Rossellini...

«De Sica e Rossellini, due amici, due geni, maestri del Neorealismo, due rivoluzionari, i primi a mettere la macchina da presa per strada, in un periodo in cui i film si giravano solo nei teatri di posa e si raccontata tutta un’altra Italia».

Il Neorealismo dava fastidio.

«Non dimentichiamoci la celebre frase di Andreotti: i panni sporchi si lavano in famiglia».

E lei si fidanzò con Isabella Rossellini...

«Frequentavo casa loro con papà e rammento una scenetta divertente. I due registi erano seduti in salotto davanti alla tv, a guardare Lello Bersani che raccontava la notte degli Oscar. Il giornalista, a un certo punto, annuncia con enfasi che era candidato Nanni Loy. Mio padre, con sussiego, chiede al collega: “Chi è questo Loy? Cosa ha fatto?”. L’altro risponde, con altrettanto sussiego: “È un giovane, ha fatto quel film... Le quattro giornate di Napoli”. Poco dopo Bersani annuncia che l’Oscar era stato assegnato a un altro film».

La notizia fu commentata con rammarico?

«Macché! Con evidente soddisfazione, si scatenano entrambi con pernacchie e facendo il gesto dell’ombrello».

Un padre non pesante, anche divertente, ma ingombrante: con due famiglie.

«Eccome! Si divideva tra noi e la prima moglie Giuditta Rissone e la figlia Emy con la quale ci siamo conosciuti la prima volta al telefono. Ci chiama, dicendo: “Pronto sono tua sorella”. Quando papà seppe della telefonata, ci chiese preoccupato: “Che v’ha detto?”. Io gli rispondo: “Che è nostra sorella! E tu papà ce lo potevi dire prima, no?”. Poi riuscì a divorziare e finalmente i miei genitori si sposarono in un paese vicino a Parigi: erano già in là con l’età, eppure mia madre non rinunciò all’abito bianco, molto bello».

Bello come gli abiti di Wanda Osiris?

«No, Wanda ne aveva di pazzeschi, costavano un mucchio di soldi. Ai miei esordi ho lavorato con lei, che era già anziana e pure sorda: quando le parlavi, dovevi scandire bene le parole. E, diciamo la verità, elegantissima nel suo scendere le scale, di innegabile fascino, ma bruttina».

Il difetto maggiore di Vittorio De Sica?

«La passione per il gioco d’azzardo: nei casinò perdeva tutto ciò che guadagnava. Una volta a Montecarlo lasciò sul tavolo talmente tanti soldi che Onassis, comproprietario del Casinò, gli disse: “Con quello che lei ha perso ieri sera, noi rifaremo tutte le aiuole intorno al palazzo”. Meno male che mamma al casinò vinceva parecchio e sosteneva le spese del ménage familiare».

E lei ha messo su famiglia con la sorella di Carlo Verdone. Come vi eravate conosciuti?

«A scuola. Io ero stato precedentemente bocciato e quando entrai nella sua classe, tutti mi guardavano male: essendo figlio “di”, mi consideravano antipatico. Ma vidi Carletto che era seduto da solo al banco e così gli proposi: “se mi fai sedere accanto a te, ti passo tutte le versioni di greco già tradotte”. Affare fatto, e diventammo amici inseparabili».

·        Claudia Gerini.

Dagospia il 28 aprile 2020. Da I Lunatici Radio2. Claudia Gerini è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì, dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice romana ha raccontato alcuni aspetti della sua quarantena: "Io sto bene, la quarantena sta andando bene perché per fortuna stiamo tutti in salute. E' un momento difficile ma da un altro lato abbiamo scoperto che chi doveva rimanere a casa per contenere questo contagio è stato costretto a scoprire un po' più di se stesso. Ovviamente dipende dalla situazione in cui sei, ci sono tante variabili. Si sono create delle occasioni per approfondire la relazione con noi stessi, quello che ci piace fare. E poi anche dalla noia possono nascere alcuni spunti creativi. Lo so che sono banalità, diciamo che adesso siamo ad un livello di sopportazione che si è un po' assottigliato, perché l'aria aperta è importane, vedere un po' di natura, passeggiare. Questa costrizione è tosta. Ma se stare a casa è l'unico rimedio, alla fine ci siamo stati".

Sulle preoccupazioni da mamma: "Le mie figlie? I ragazzi sono molto responsabili e consapevoli. Loro sono già grandi, ho una ragazza di quasi sedici anni e una di dieci. Sono grandi, coscienti, hanno capito tutto quello che le ho spiegato. Non credevo che gli sarebbe mancata così tanto la scuola, non vedono l'ora di tornarci. Per loro è dura. Per i ragazzi il tempo da vivere è questo. Gli adolescenti vedranno sfumare le loro occasioni le loro occasioni di socialità che sono la vita per un ragazzo. Lo stare in gruppo, il confrontarsi, sono cose che mancano. Che vorrebbero adesso, non il prossimo mese o la prossima estate. Per i ragazzi la vita è adesso, hanno meno pazienza di noi, che invece abbiamo una consapevolezza più chiara del tempo che spassa".

Sulle sue giornate tipo: "La giornata vola, non c'è tempo di fare nulla. Io ho una famiglia molto presente, ho ancora una nonna, la mattina faccio varie telefonate, ho fatto molto smart working, letture per i bambini, e poi la mattina le ragazze studiano, hanno la loro giornata online. Poi si pranza, il pomeriggio ognuno ha le sue letture, i suoi video. La sera si cena tutti insieme, abbiamo visto molte serie televisive, per fortuna abbiamo una bella terrazza, abbiamo fatto molti disegni sui muri, abbiamo tirato fuori un po' di creatività, la manualità è stata importante. Ci siamo riscoperti pasticceri, cuochi, la manualità aiuta tantissimo, ti aiuta a distrarti, a concentrarti su altro. Io sono fortunata, lo ripeto, la sto vivendo bene. Avevo in programma tre film e invece mi sto riposando".

Sul cinema: "Si dice che ci torneremo a dicembre o a gennaio, il problema saranno le modalità. Magari il piacere di andare al cinema con gli amici un po' verrà meno se bisognerà stare separati gli uni dagli altri. Quello è un po' triste. Teatri e cinema avranno molti problemi. Ma dobbiamo pensare positivo. Il pensiero negativo ci debilita, ci porta giù, non dobbiamo mai permettere ai pensieri negativi di prendere il sopravvento, perché a volte la mente ci inganna. Quando partono i pensieri troppo negativi, consiglio di scacciarli via dicendo che è solo un inganno della mente. Certamente dei disastri sono avvenuti, però non aiuta pensare negativo".

Su una cosa da cui è stata particolarmente colpita: "Mi sono commossa molte volte in quest giorni. Perché alla fine siamo un Paese meraviglioso. Abbiamo visto cose strazianti, cose che mi hanno fatto male. Molte persone hanno dovuto rinunciare a vedere i propri familiari. E' una cosa molto tosta. Mi hanno fatto arrabbiare i furboni che non rispettano le regole. Anche se la maggior parte della gente le ha rispettate. Mi hanno fatto arrabbiare i pochi che se ne sono fregati".

Telefonate inaspettate ricevute: "Molte. Un mio compagno del liceo. Un po' di compagni di classe, soprattutto in zona liceo. Le loro chiamate mi hanno fatto molto piacere. E' stata l'occasione di fare un punto della situazione. Di riscoprirsi. Di riallacciare rapporti che si credevano perduti. Ci si può dare una mano anche con un pensiero o una telefonata".

·        Claudia Galanti.

Il dramma di Claudia Galanti: "La mia vita distrutta in sei mesi". Dopo tragedie e cadute, Claudia Galanti ha ritrovato la luce buttandosi anima e corpo in un nuovo progetto che asseconda la sua passione per la cucina. Francesca Galici, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Claudia Galanti è una delle poche eccezioni del mondo dello spettacolo. La bellissima sudamericana, che nei primi anni Duemila spopolava in tv e in calendari sexy a ruba tra gli italiani, da qualche tempo si è ritirata a vita privata e centellina le sue apparizioni e interviste. La vita ha picchiato duro contro di lei, il destino non le ha certamente sorriso ed è la dimostrazione che, spesso, dietro i sorrisi e una presunta vita di agi e di felicità si nasconde il mostro della tristezza. Ora, Claudia Galanti ha trovato una strada per ricominciare a vivere, si è reinventata e ha raccontato al Corriere la sua rinascita, che non passa più dalla ricerca di un contratto per la televisione ma per la cucina, dove ha trovato la sua dimensione. "Quando non c'era più nulla che mi faceva felice ho pensato che non erano le medicine a potermi aiutare, ma che dovevo ripescare dal mio passato qualcosa che mi aveva fatto sentire bene", ha detto l'ex showgirl ed è in quel momento che ha riscoperto la passione per la cucina, tramandata dalla sua nonna italiana: "Ho capito che la cucina mi avrebbe salvata e mi sono buttata a capofitto tra i libri di ricette". Ha perso una figlia neonata, il padre e la madre nel giro di pochi anni. Di recente il suo ex compagno, con il quale la separazione non è stata semplice, è stato arrestato: "In sei mesi ho visto andare in fumo la mia vita. In agosto mi sono separata, a dicembre è morta nostra figlia e a gennaio hanno arrestato Arnaud". La morte nel sonno di una figlia di appena 9 mesi è uno choc difficile da elaborare ma Claudia Galanti doveva essere forte, se non per lei almeno per gli altri suoi figli, Liam e Tal: "Cucinare per loro mi faceva sentire meno male, passavamo ore in cucina e a un certo punto ho pensato che potevo farlo a tempo pieno". Claudia Galanti si è aggrappata a questa passione per uscire dalla tempesta, si è rimboccata le maniche e ha ricominciato da zero. Ha trovato lavoro in una pasticceria di Milano e qui si è buttata anima e corpo in questo nuovo lavoro, dove ha imparato i segreti del mestiere guidata dai maestri. Ha spento le luci dei riflettori, ha messo da parte l'immagine da femme fatale e sex symbol e ha dedicato mesi della sua vita allo studio per iniziare una nuova vita. Non è certo la prima volta per Claudia Galanti, che prima di diventare una delle modelle più ricercate del pianeta, a 18 anni lavorava come operaia in una fabbrica di Miami. Oggi, con alle spalle una maggiore esperienza e con più consapevolezza, ha avviato un nuovo progetto imprenditoriale in ambito culinario insieme al socio Matteo Rombolotti. In una società che sta cambiando e dove i ristoranti fanno sempre più fatica, Claudia Galanti ha preferito puntare sul delivery. Piatti pronti che aspettano il tocco del cliente finale per essere completate. Nessuna ricetta straordinaria ma tutte derivanti dall'archivio di Claudia, che negli anni ha fatto sue, personalizzandole, decine e centinaia di idee. Per questo progetto, la Galanti ha rinunciato alle ferie estive in attesa del lancio definitivo di settembre. Punta molto sui social e sulla condivisione, nonostante non abbia sempre avuto un ottimo rapporto con l'ambiente virtuale: "Non ho mai cancellato un insulto in tutti questi anni: come ogni cosa della mia vita, mi assumo le responsabilità fino in fondo". Critica chi passa il suo tempo a cancellare gli insulti sotto i post ma non giudica, lei ha deciso diversamente: "Volevo mostrarmi a tutti per quello che ero, consapevole che dietro a ogni hater c'è una persona che soffre".

·        Claudio Amendola.

Dagospia il 9 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Claudio Amendola è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Amendola ha raccontato alcune cose di se: "Il mio rapporto con la notte? Diverso rispetto a quello che avevo tanti anni fa. Ora la notte dormo, ho cambiato molto i miei orari andando avanti con gli anni, sono stato un nottambulo, tendevo a svegliarmi molto tardi, e in più la notte per noi attori è sempre stato un momento magico, di notte c'è sempre un'atmosfera molto bella quando giri. Ma questo è cambiato col passare degli anni, ora girare di notte mi pesa moltissimo, adesso sono molto attivo la mattina e molto rilassato di notte. Una notte indimenticabile? Ce ne sono tantissime. Quella che mi viene in mente è la prima che passai fuori di casa. Ero con un amico, avevo 14 anni, passammo la notte in giro per Roma con il motorino, fu indimenticabile, una trasgressione terribile, anche se non facemmo nulla di male. Erano gli anni '70, la città era deserta, vuota, spenta, c'era un'atmosfera un po' paura, un po' magica".

Sul rapporto col papà, Ferruccio: "Cosa provo quando risento la sua voce in tv? Mi capita spesso, ma da tutta la vita, ci sono molto abituato. Mi diverte beccarlo nei film anni 50, quando ancora lo chiamavano per dire buongiorno e buonasera. Lui dirigeva il doppiaggio di molti western, una cosa molto complicata da fare erano le scazzottate, mio papà le faceva tutte, io lo riconosco nei grugniti, riconosco la sua mano, l'ho visto all'opera, riconosco tutti i trucchi del mestiere. Mi fa sempre sorridere quando risento la sua voce. Come hanno reagito in famiglia quando hanno saputo che avrei fatto l'attore? Furono loro a spingermi, iniziai in uno sceneggiato in cui mio papà era stato già preso. Il provino me lo fece fare mia mamma. Non sono stati sorpresi che io abbia iniziato questa carriera".

Sull'arrivo della popolarità: "Il film che ha scavallato è stato 'Vacanze di Natale' per quanto riguarda la popolarità. Che però avevo già conosciuto con 'Storie d'amore e d'amicizia', uno sceneggiato che ebbe degli ascolti clamorosi e che mi fece diventare molto popolare. Poi è arrivato il trittico dei film con Vanzina, Vacanze di Natale, Amarsi un po' e Vacanze in America, che mi hanno dato veramente una grande popolarità".

Su Vacanze di Natale: "Il vero capostipite di tutta quella roba lì è stato Sapore di Mare, poi Vacanze di Natale e Vacanze in America. Da quel momento lì ho avuto la fortuna di incontrare un cinema anche diverso, ho fatto tanti film d'autore, di cinema impegnato, ho fatto 'Soldati' che nel 1986 è stato il primo di quel filone. Poi 'La Scorta', 'Mary per sempre', e i cinepanettoni hanno preso una deriva forse imparagonabile rispetto a quello del 1983. Sul set ci divertivamo tantissimo. Sia a Cortina, in Vacanze di Natale, che in America. Era come se fossimo in gita, però pagati. Vanzina teneva un clima di grande serietà, ma ci si divertiva. Non ci rendevamo conto che quei film sarebbero diventati dei cult, però capivamo che divertendoci noi si sarebbero diverti anche gli spettatori".

Sul rapporto con il successo: "La testa l'ho persa. Mi sono sentito arrivato. Ho fatto tutti gli errori che il successo ti propone. Quando da giovane hai soldi, successo e un certo tipo di appeal, capita. Ma sono anche esperienze. Dà un po' alla testa, ci sono periodi in cui ci si esalta un po', però poi questo è un mestiere che ti riporta con i piedi per terra. Anche le carriere più luminose hanno momenti di stasi che ti portano a riflettere. E ben vengano quei momenti. Problemi di lavoro non ne ho mai avuto, sono stato abbastanza onnivoro, ho fatto cinema, tv, ho condotto, negli ultimi anni ho iniziato a scrivere e questo aiuta tantissimo".

Sui ruoli interpretati: "Un ruolo a cui sono particolarmente legato? In un film che si chiamava 'Domenica' facevo un poliziotto al suo ultimo giorno di lavoro. Un ruolo che mi ha dato molta emozione. Ho fatto sia  buoni che i cattivi. Per me è più interessante fare i cattivi".

Sul lockdown: "Mi pare evidente che ne usciremo molto peggiori, su questo non ci siamo dubbi. Non ci smentiamo mai. Io l'ho vissuto bene, in uno spazio grande, senza dovermi affannare, senza tutte le difficoltà del caso. Non posso essere un metro di giudizio".

Sul rapporto con Roma: "Se mi hanno mai chiesto di candidarmi a sindaco? No, ma spesso mi hanno chiesto di entrare in politica, ma è molto lontano dalle mie intenzioni. Rapporto con la città? Basato su un grande amore e un grande senso di appartenenza, ma anche su un grande senso critico, per chi la vive, per chi la governa, ora e prima, per chi la sporca, per chi non la rispetta e anche per la nostra indole, parlo dei romani, anche se ormai i romani a Roma sono pochi. Penso che questo abbandono negli ultimi anni abbia dato voce alla parte che meno piace di Roma e della romanità".

·        Claudio Baglioni.

Un racconto italiano: essere Claudio Baglioni, timido di successo. Pubblicato giovedì, il gennaio 2020 su Corriere.it da Maria Teresa Veneziani. Sul primo 7 del 2020, in edicola il 3 gennaio, Walter Veltroni ripercorre con il cantautore romano la sua straordinaria carriera. Le anticipazioni di Pitti Uomo, dal 7 a Firenze. Ha venduto 55 milioni di dischi, ma tra tutte le sue canzoni sceglie Voglio andar via. «È la ricerca dell’altrove che fornisce senso e coraggio, dà da vivere. È l’idea che c’è un altro posto, ci sono altre, nuove cose da sapere». E se fosse nascosto in questa tensione verso «altri panorami da guardare» il successo di Claudio Baglioni? L’artista, nato 68 anni fa a Roma, architetto laureato (recentemente), racconta a Walter Veltroni la sua straordinaria carriera (e vita) nella storia di copertina del primo 7 del 2020, in edicola venerdì 3 gennaio con il Corriere. Dal primo contratto nel ’67 firmato dal padre («Perché non ero maggiorenne, ma mi lasciarono in una specie di incubatrice per 9 mesi, mi sentivo incompreso...») al nuovo brano in uscita proprio il 3 gennaio, Gli anni più belli, il singolo che accompagnerà i titoli di coda del nuovo film, omonimo, di Gabriele Muccino. «Gli anni più belli li conservo come attesa — racconta Baglioni che ha trascorso l’infanzia nel quartiere di Monte Sacro e l’adolescenza in quello di Centocelle —. Dovendoli configurare in un momento preciso, sono intorno ai 17-20 anni, quelli di passaggio a un’altra categoria umana, quando si cresce, si diventa adulti e autonomi. E poi c’è il giorno più bello che è quasi sempre quando si mette alle spalle qualcosa che è stato una tribolazione, per esempio un lavoro o un processo sentimentale piuttosto complicato. Il giorno dopo una fatica o un successo è il più bello». Con coerenza e coraggio ha affrontato un pregiudizio che lo relegava nel girone dei cantanti leggeri, ed è riuscito a dissolverlo. «Io sono cresciuto in periferia, condizione che ho sempre vissuto non solo come geografia ma anche culturalmente. Per me l’obiettivo è sempre stato cercare un centro possibile, un posto dove venire accettati. In definitiva, potersi considerare non più laterali o marginali ma centrali...». Si consola con la poesia, il giovane Baglioni: affascinato dal senso gotico della vita di Edgar Allan Poe musica Annabel Lee. «Insomma, cantavo queste cose devastanti, ero abituato alle stroncature», osserva. Ma arrivano gli Anni 60 e la liberazione dei costumi. «Mi resi conto che dovevo scrivere con un mio linguaggio, scelto con Questo piccolo grande amore». E fu imperdonabile per molti. «Una sottovalutazione che nel tempo si è rivelata quasi una fortuna», ammette oggi l’artista. «Ho raggiunto, anche grazie al successo e poi agli apprezzamenti critici, quella pace dei consensi che ho accettato». «Alla fine posso dire di aver cercato sempre di fare il meglio che potevo con onestà». Arrivano E tu, Anima mia, fino alla consacrazione a Sanremo come direttore artistico, sapendo, tra l’altro, di non esserci mai andato da cantante. Perché ha accettato? «Volevo prendermi la responsabilità di parlare di canzoni. E poi, capire se il successo che vivo è una botta di culo oppure un qualcosa che ha fondamenta e radici». Ancora versi. Ode alla felicità è il titolo della poesia di Keanu Reeves, l’attore nato a Beirut ma canadese di adozione (55 anni di cui 35 sul set), che nella sua vita è caduto e si è rialzato tante volte, determinato e instancabile, come Neo di Matrix, come John Wick, forse i due personaggi più famosi. Nel 2021 lo ritroveremo al cinema, come ricorda Francesca Scorcucchi nella sezione blu di 7. «La decade dei 50 si fa sentire, è iniziata con campanelli fisici — dice l’interprete, oggi fidanzato con l’amica di sempre, l’artista Alexandra Grant —, ma non ho rimpianti, quelli vengono solo quando non vivi appieno la tua vita». Una vita esageratamente dorata è quella che ha portato al declino (esilio) Imelda Marcos, al centro di un documentario. La «farfalla d’acciaio», raccontata da Michele Farina nella sezione rossa di 7, a 90 anni è tornata nella sua Manila ed è omaggiata da folle di ammiratori. Infine, nella sezione senape, troverete le anticipazioni della moda uomo dell’inverno 2020 presentate al Pitti Uomo di Firenze dal 7 gennaio. La novità? Il ritorno del cappotto: caldo, accogliente ed elegante. Tradizione e futuro.

Claudio Baglioni: «Un tempo andare sul palco era come salire al patibolo». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 ‐ Corriere.it Walter Veltroni.

Claudio Baglioni, sta per uscire un tuo nuovo brano, assai bello. Si chiama Gli anni più belli e sarà la musica dei titoli del nuovo, omonimo, film di Gabriele Muccino. Quali sono stati gli anni più belli?

«In questo caso anni è un sinonimo di istante. Sono momenti, quelli integralmente belli. Dall’ orologio placcato oro regalato per la prima comunione alla prima macchina, la due cavalli sognata per tanto tempo, che doveva essere una specie di cavallo da cavalcare verso un’ipotetica libertà... Gli “anni più belli” li conservo come attesa, come conseguimento e poi come rimpianto. Dovendoli configurare in un tempo preciso della mia vita gli anni belli sono intorno ai diciassette, vent’anni, quelli del passaggio a un’altra categoria umana, quando si cresce, si diventa adulti e autonomi. E poi c’è il giorno più bello che è quasi sempre quando ci si mette alle spalle qualcosa che è stato una tribolazione, per esempio un lavoro, oppure un processo sentimentale piuttosto complicato. Il giorno dopo una fatica o un successo è il più bello».

In questa canzone c’è nostalgia per un tempo che ti sembra si sia perduto?

«Se si vive un buon presente si guarda volentieri anche al proprio passato, è una nostalgia non dolorosa, una nostalgia anche ammiccante, piacevole compagna, amica. È una mistura strana tra il ricordo di quello che è stato e la coscienza che qualcosa, sempre, può ancora accadere. Gli anni più belli in fondo potrebbero essere quelli che sono ad est, quelli che stanno sorgendo».

Come è stato l’incontro con Muccino, che ha anche girato il video che accompagna il suo brano?

«Molto bello. Il suo film ha come protagonista lo scorrere del tempo. È una storia che lega, attraverso quattro vicende di ragazzi amici, la grande storia e quella dei singoli individui. Il brano gli è molto piaciuto e credo che, per il testo e l’atmosfera, si leghi bene al sentimento del film. Che si ritrova anche nel video della canzone».

C’è qualcosa che ti spaventa o ti preoccupa di questo tempo storico?

«Mi spaventa la misurazione bulimica del tempo. Il tempo non ha più tempo. Ha sempre meno tempo il tempo, corre via con una velocità esagerata. O almeno noi lo facciamo correre, siamo in affanno rispetto al suo passo, alla sua marcia e la cosa che mi fa paura è non entrare più dentro le cose, cioè non riuscire più ad approfondire nulla. Mi sembra che viviamo il rischio di separarci dall’analisi, dalla riflessione, che tutto venga vissuto in un turbine incomprensibile, venga portato via in un lampo. Lasciandoci, come unico spazio, la superficie. È come quando guardiamo il mare, che non finisce dove il nostro sguardo finisce. Il mare è profondità, è mistero, è scoperta. E poi mi spaventa anche il troppo, tutto è troppo pieno e si finisce col togliere il fascino e il desiderio del viaggio. Ovunque c’è qualcosa che ti sovrasta e ti sazia, apparentemente ti sazia. La massa di informazioni, la possibilità di arrivare subito a tutto è inebriante, ma confonde e fa smarrire. Il nostro bene più prezioso è il tempo. Non esiste un negozio del tempo, dobbiamo amministrarlo bene da soli».

Pensando a questo momento della storia ti viene più da dire Io sono qui o Voglio andar via ?

«Mah, forse sono ancora affascinato dal “Voglio andar via”. Lo ero da ragazzo e torno ad esserlo. Ad un certo punto “Io sono qui” mi sembrava un atteggiamento importante, responsabile, maturo, coraggioso. Però il “Voglio andar via” è la ricerca dell’altrove che fornisce senso e coraggio, dà da vivere. È l’idea che c’è un altro posto, ci sono altre, nuove, cose da sapere, ci sono altri panorami da guardare. In questo momento sarei di nuovo sul “Voglio andar via”».

Accompagnerai questo disco nuovo con una serie di concerti a Caracalla, una forma abbastanza particolare...

«Nel mondo di oggi si cerca, tutti, di essere un po’ consolati. È il rifugio per le insicurezze del nostro tempo. Il mio bene rifugio è la canzone, la musica in genere, lo scrivere parole, suonare, fare spettacolo. Non so come sia successo che io abbia avuto successo. Ma è successo. Da decine di anni. Forse perché non ho mai smesso di voler imparare, di cercare e di scoprire. Questo concerto di musica e parole cerca di fermare le lancette del tempo, un modo per ringraziare chi mi è stato vicino e un modo per scoprire che cosa è ancora la musica, quali sono i territori, le emozioni, le suggestioni che suonare e cantare possono produrre nelle persone. Suonerò più volte nello scenario di Caracalla, non in uno stadio e questo mi consentirà un rapporto più ravvicinato, quasi fisico, con il pubblico. Ci saranno brani nuovi e quelli della mia storia. Un viaggio nel tempo, avanti e indietro».

Prova ad immaginare due concerti, uno di quando hai cominciato e uno di ora: com’è cambiato il pubblico e come sono cambiati i tuoi occhi su quel pubblico?

«Il pubblico è cambiato. Ho la sensazione che il pubblico via via stia sparendo per essere sostituito da un insieme di persone che sono un po’ più protagoniste della serata. C’è meno divisione di gerarchia tra palco e platea, lo si vede da alcuni atteggiamenti palesi come, per esempio, una minore attenzione a quello che succede sul palco, e una voglia di catturarlo come se fosse un safari. Nel senso che l’acquisizione della serata, dell’avvenimento, dell’evento, viene sempre meno vissuta con una emozione piena e libera ma viene fatta con un telefono, con un tablet, o addirittura con la condivisione, in quello stesso momento, di quello che sta accadendo con qualcun altro che sta lontano. Il concerto è un’occasione, più che una esperienza emotiva. Siccome il tempo scappa via dobbiamo guardare qualcosa solo per commentarla, sottolinearla, criticarla, sbeffeggiarla».

E in te?

«Innanzitutto io sono un po’ meno terrorizzato che all’inizio: per me salire il gradino del palco era come andare al patibolo, non solo in termini di paura, ma di responsabilità. Adesso sento la responsabilità di far bene, di rispondere a quella reputazione che mi sono fatto nel tempo ed essere comunque in sintonia con chi mi sceglie, mi dedica tempo, sottraendosi alla fruizione solitaria. Uscendo di casa, comprando un biglietto. È un atto di fiducia all’altezza del quale bisogna essere. È questa la responsabilità che sento oggi. Sono meno intimorito, ho dovuto imparare a non essere timido. Io non ero fatto per un mestiere pubblico, per essere un personaggio pubblico, tant’è che quando non sono nel ruolo, quando non sono in divisa, io scapperei. Esco poco di casa, passo rasente i muri, metto degli occhiali scuri perché non ho il fisico del ruolo e neanche la psicologia del personaggio pubblico che è sempre eucaristico, si deve sempre dare, si deve offrire. Sono un cantante timido. Forse una stranezza, in questo tempo spavaldo».

Tu sei figlio di un carabiniere e di una sarta, nasci a Montesacro, poi ti sposti a Centocelle. Ricordi il tuo primo impatto con la musica?

«La prima cosa di cui ho memoria abbastanza netta è quando mio padre venne trasferito per comandare una stazione dei Carabinieri a Posta, un paesino in provincia di Rieti, nel profondo centro. Accanto alla caserma c’era una trattoria. Mi hanno raccontato dopo che un giorno, avevo cinque o sei anni, ero scomparso dalla vista dei miei che mi ritrovarono poi nell’osteria. Io, seduto in piedi su una sedia, cantavo La casetta in Canada. Fui retribuito con un’aranciata, butta via.... Io non volevo fare il cantante, devo il mio successo alla determinazione di mio padre e mia madre che erano molto più convinti di me. Io me la tiravo un po’, dicevo che era solo un hobby. Quando dicevo queste cose mio padre mi rinfacciava sempre il fatto che io, da piccolino, quando c’era una riunione con tante persone gli andavo a tirare i pantaloni dicendo “Papà annunciami, che io ora devo cantare”».

Alla faccia della timidezza!

«Infatti non capisco, è come se ci fosse un mostro dentro di me. Come Jekyll e Hyde. Poi tutto questo si perde nella notte dei tempi. Ricordo però che cantavo quando andavamo dai parenti umbri dei miei. Infatti quando andavamo lì ci regalavano frutta, ortaggi. A volte però anche degli animali vivi, da consumare tornando in città. Ma non si potevano portare sui treni e allora mio padre e mia madre, per non far sentire la gallina, cantavano sempre, durante il viaggio, e io con loro. Insomma ho imparato a cantare sui treni per evitare che il controllore scoprisse la gallina nascosta. Verso i miei tredici anni, nel condominio dove vivevo, tutti avevano un complessino beat. Un mio amico si iscrive al festival di Centocelle dove per la prima volta facevano un festival di voci nuove dedicato al santo patrono, San Felice da Cantalice. Decido di partecipare anch’io. Mia madre mi prepara per quella occasione, mi veste come un confetto, pantaloni celesti e camicia rosa. Io mi presento così sul palcoscenico della piazza, a Centocelle, proprio il modo giusto per presentarsi. Era l’ideale, il dress code più adatto. Cantai Ogni volta. L’avevo provata mille volte allo specchio, imparando la mossa con la gamba piegata come avevo visto fare da Paul Anka. Un giorno arrivò un mio zio e disse “Ma che fa Claudio?”. Mia madre rispose “Sta provando una canzone di un cantante americano, Paul Anka”. E mio zio fa: “Infatti si vede che muove un po’ l’anca”».

E poi?

«Un maestro di musica, forse anche interessato che io andassi a lezione da lui, disse a mamma: “Questo ragazzino non è malissimo”. Allora cominciai a prendere lezioni di solfeggio e di pianoforte. Poi con mio padre andammo a Sora, il paese di De Sica, a comprare un pianoforte che papà comprò facendo un sacco di cambiali e poi portò a casa, a Centocelle».

E il primo disco che hai comprato te lo ricordi?

«Forse uno di Celentano, e poi Morandi, con il quale avrei poi fatto una tournée, e Rita Pavone. I dischi che, in quel momento, erano nelle case di tutti gli italiani».

Dove li sentivi? Avevi un mangiadischi o un giradischi?

«Una fonovaligia Lesa di plastica bicolore. Lesa è una marca, non un aggettivo. Un mangiadischi non l’ho mai avuto. Poi, già da cantante, avevo gli stereo otto che erano quei grandi mattoncini di musica, il primo stereo compatibile».

Il primo contratto?

«Il primo nel ‘67, lo firmò mio padre perché non ero maggiorenne. Mi lasciarono in una specie di incubatrice per 8-9 mesi, poi alla RCA mi fecero fare i primi dischi, però non si vendevano, tant’è che io avevo ripreso gli studi. Nel frattempo avevo finito, con una fatica indicibile, i testi di Questo piccolo grande amore. Mi sono detto “Faccio questo disco, questo concept album, e lo consegno alla casa discografica, tanto non succederà nulla”. Mi sentivo incompreso. E invece questa specie di testamento musicale, nel giro di due settimane, arrivò in classifica».

Quando ti accorgesti che era cambiato tutto?

«Quando, tornando a Porta Portese, sentii Porta Portese nel mercato, in diffusione. E poi, quando mi dissero che ero secondo in classifica, giravo per le strade e guardavo le finestre con le persiane chiuse e pensavo: “Lì dentro forse c’è qualcuno che mi conosce”. È strano passare dalla condizione di persona comune a quella di persona che ha una certa notorietà. Tutto successe all’improvviso. Non avevo fatto nemmeno troppa gavetta, anche se dopo quel concorso di voci nuove ne ho fatti altri tre o quattro dove arrivavo quasi sempre ultimo. Ricordo che fu così al Disco per l’estate del 1970 con La valigia blu, e poi alla Gondola d’argento di Venezia. Dovevo vincerla e invece arrivai ultimo. La giuria era costituita dalla ciurma di una nave che stava in laguna. La sera dei risultati accarezzai propositi inquietanti, vedevo le acque limacciose di Venezia, e pensavo: “Adesso mi butto dentro l’acqua perché, prima o poi, dovranno pure capire”».

Che canzone era? Signora Lia ?

«Notte di Natale, una canzone tristissima».

Notte di Natale è una canzone triste. Tu d’altra parte cominci mettendo in musica Edgar Allan Poe. Come ti venne in mente?

«Io sono cresciuto in periferia, condizione che ho sempre vissuto non solo come geografica ma anche culturale. In sostanza per me l’obiettivo è sempre stato cercare un centro possibile, un posto nel quale venire accettati. In definitiva potersi considerare non più laterali o marginali ma centrali, poter guardare il resto del mondo girandosi attorno, invece che il contrario. E per questo assumevamo certi atteggiamenti. Però noi di periferia sbagliavamo sempre: quando abbiamo cominciato a vestirci benino, quelli del centro già si mettevano il maglione col buco sul gomito. Non riuscivi mai ad avere il calendario giusto, eri sempre in differita e quindi automaticamente targato. Un certo tipo di poesia o di cultura, tipo l’esistenzialismo, serviva, nel nostro desiderio di accettazione, a mostrarsi enigmatici e strani. Per questo, in fondo, cominciai ad affascinarmi al senso gotico della vita di Edgar Allan Poe e musicai questo Annabel Lee che era appunto una poesia , come diceva un mio amico, di “Edgar Allampone”. Ho ancora le fotografie di quella fase: maglioni neri e occhiali tanto larghi che ci potevi prendere digitale e analogico insieme. Insomma cantavo queste cose devastanti. Credo che in una recensione Fabrizio Zampa o qualcuno de Il Messaggero scrisse “Ad un certo punto è salito sul palco un tale Claudio Baglioni, cantore di cose tristissime e assurde”. D’altronde io c’ero abituato, alle stroncature. Mio padre cercò di nascondermi una delle mie lacche, uno dei miei primi provini alla RCA. Sul disco Ettore Zeppegno, allora direttore artistico, aveva scritto a caratteri cubitali: “Tanto questo non farà mai niente”».

Cosa diavolo successe a Roma per produrre una generazione di persone che hanno fatto la storia della musica italiana? È esistita una “scuola romana”?

«La leggenda, anzi la cronaca dice che sia esistita una scuola “romana”, ma a me non risulta. C’era il Folkstudio, ma lì più che altro ci si esibiva. A Genova i cantautori si frequentavano. Noi meno. Anche se ricordo che una notte, a casa di Venditti, fondammo una etichetta discografica che doveva un essere cavallo di Troia all’interno della RCA, dalla quale ci sentivamo tutti sfruttati. Pensavamo che la grande industria ci stesse ingabbiando. E con Dalla, De Gregori, Antonello fondammo una etichetta discografica, una specie di Artisti Associati, che si sarebbe chiamata, nelle nostre intenzioni, “L’uovo rotto”. Nome scelto perché simboleggiava la nascita del pulcino e avrebbe dovuto rappresentare un movimento contro, anti industriale. Melis, che allora era il patron unico della RCA, lo venne a sapere. Delazione per la quale ognuno ha poi accusato gli altri. Ci chiamò tutti, facendoci un interrogatorio uno per volta e mettendoci uno contro l’altro. A me e a De Gregori disse “Tanto voi ragazzini passate e noi invece restiamo”. Un cazziatone micidiale. E L’uovo rotto è rimasto intero, non si è mai rotto. Oppure si è rotto L’uovo rotto. Frequentazioni tante, anche momenti di amicizia, però non ricordo nessuna scuola di esperienze comuni».

Forse nel fatto che tanti ragazzi, in tante stanze di adolescenti, si sentissero pronti per scrivere canzoni, pesa anche la grande spinta di liberazione dei costumi degli Anni Sessanta.

«Quello sicuramente. Si moltiplicano in quegli anni coloro che si interessano alla musica come primi attori e non solo come ascoltatori, come pubblico, perché l’arrivo dei gruppi mette tanti ragazzi nella possibilità di imbracciare uno strumento e cominciare a raccontare il proprio mondo. Prima la musica o la studiavi dal punto di vista classico o facevi il cantante di canzoni altrui. Improvvisamente il fare musica diventa molto più diffuso e da un certo punto in poi non c’è solo la ragazza di 13 anni che fa le scale al pianoforte perché vive in una casa borghese, ma un po’ tutti cominciano a strimpellare e scrivere testi. È anche per l’avvento della chitarra, strumento così portabile e poco costoso».

Quanto ti è dispiaciuto nel tempo l’esistenza di un pregiudizio che ti relegava in un girone differente, quello dei “leggeri”, distinguendoti da altri colleghi più “impegnati”? Un pregiudizio che progressivamente si è dissolto. Io, come sai e come scrissi in quegli anni, l’ho sempre trovato il segno di un atteggiamento di distanza da gusti e linguaggi diffusi e popolari.

«Mi dispiaceva, perché mi sentivo come un po’ menomato dall’etichetta affibbiatami. Io sapevo di non avere un certo tipo di linguaggio, quello in quel momento più diffuso e apprezzato. Ma avevo un “mio” linguaggio. Lo avevo scelto proprio con l’album concept Questo piccolo grande amore. Mi resi conto che i testi scritti fin lì erano dei tentativi di assomigliare agli Edgar Allan Poe del mondo senza averne la cultura, la formazione, senza avere quel ritmo dentro. E dissi “Io che cosa so? Se devo raccontare qualcosa a qualcuno devo farlo usando quello che so, quello che so fare” e cominciai a scrivere con il linguaggio parlato, quello più da strada, quello più diretto e fu imperdonabile per molti. E allora questo senso di sottovalutazione c’è stato, un po’ mi sentivo il parente povero. Poi nel tempo quella scelta è diventata quasi una mia fortuna. Ho raggiunto, anche grazie al successo e poi agli apprezzamenti critici, quella pace dei consensi che ho accettato. Alla fine posso dire di aver cercato sempre di fare il meglio che potevo e con una certa onestà. Però sì, ne ho sofferto, tant’è che poi, quando cominciammo a frequentarci con gli altri, io ero contento. Mi faceva piacere rientrare in un ambito riconosciuto».

Delle canzoni che hai scritto quale è quella a cui sei più legato?

«Tra le canzoni più note penso Strada facendo».

Tu hai venduto cinquantacinque milioni di dischi, c’è una canzone italiana scritta da altri che avresti voluto fosse tua?

«Di quegli anni la canzone che amo di più è Il nostro concerto di Umberto Bindi, un musicista formidabile, con una sensibilità straordinaria. Le canzoni italiane degli Anni 60 hanno una fisi