Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2020

 

LE RELIGIONI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Scienza e fede religiosa.

I Templari e L’Ordine di Malta.

I Patriarcati Ortodossi.

Non solo Burqa.

Il Vaticano e le donne.

Le Suore.

L’estinzione della Cristianità.

La Riscoperta del cristianesimo.

I Papi cinematografici.

Il Papa Santo.

Il Papa Emerito.

Il Terzo Papa.

666: il nome dell’Anticristo.

Il Papa Comunista.

I Preti Comunisti.

I Preti non Comunisti.

I Comunisti e la Chiesa.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

Dio, Patria, Famiglia Spa.

Il Vaticano e gli Hacker.

Il Vaticano e le Divisioni interne.

Il Vaticano e gli Scandali.

Il Vaticano e la Pedofilia.

Il Vaticano e l’omosessualità.

Il Vaticano e l’Aborto.

Il Vaticano ed i divorziati.

Il Vaticano e l’Immigrazione Clandestina.

Il Vaticano ed i poveri.

Il Vaticano e le Associazioni Cattoliche.

Il Vaticano ed il Fisco.

Il Vaticano e la Medicina.

Il Vaticano e la Morte.

Radio Maria.

Il Vaticano e l’Islam.

Il Vaticano e gli Ebrei.

La Sinistra e gli Ebrei.

La sinistra e l’Islam.

Amico Terrorista.

Il lato oscuro degli Amish.

Gli Evangelici.

I Mormoni.

«E non abbandonarci  alla tentazione»: così cambia il Padre Nostro.

La morte di Cristo è ancora un "caso".

Chi non vuole i simboli Cristiani?

La Mattanza dei Cristiani.

In odor di Santità.

Islam. Quei Paesi senza diritti.

Odio e Suprematismo Religioso.

L’India e la Religione.

Il Canada e la Religione.

La Francia e la Religione.

La Cina e la Religione.

I Buddisti.

La Chiesa sposa l'ecologismo.

Il Veganesimo è una Religione.

Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani.

Una “Setta per scopare”.

Tra Sacro e Profano: Miracoli, fatture, malocchi, riti occulti e stregonerie.

 

 

 

 

LE RELIGIONI

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Dio, Patria, Famiglia Spa.

Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ..

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ..

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

Dio, Patria, Famiglia Spa. Report Rai PUNTATA DEL 20/04/2020 di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara e Simona Peluso. Con l’esplosione della pandemia il fronte sovranista che si professa ultracattolico è tornato all’attacco di Papa Francesco. Sui siti della destra religiosa americana non hanno dubbi: il coronavirus è la punizione divina per il tradimento di Bergoglio. È solo l’ultima delle accuse mosse al Pontefice, e arriva dopo i violenti attacchi lanciati contro le posizioni assunte su migranti, divorziati, difesa dell’ambiente e omosessuali. Quello degli anti-bergogliani è un network potente che comprende giornali, siti, associazioni, fondazioni e un fiume di soldi che dagli Stati Uniti negli ultimi anni è approdato in Europa e in Italia. Report svelerà in esclusiva quali sono i gruppi politici italiani sostenuti da Oltreoceano e chi sono i cosiddetti dissidenti da Bergoglio all’interno delle gerarchie vaticane e i leader politici che stanno offrendo sponda.

“DIO PATRIA FAMIGLIA SPA” Di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Simona Peluso

PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Dio onnipotente e misericordioso guarda la nostra dolorosa condizione, conforta i tuoi figli e apri i nostri cuori alla speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sotto ad un cielo cupo coperto da nuvole cariche di pioggia, per la prima volta nella storia, un Papa ha parlato di fronte a una piazza san Pietro completamente vuota.

PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’esplosione della pandemia, il Papa concede l’indulgenza plenaria ai credenti nel mondo. Ma in alcuni ambienti del cattolicesimo è il Papa stesso ad essere considerato la causa del coronavirus.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS È sensato immaginare che, anche solo in parte, questa epidemia sia la conseguenza del tradimento compiuto dal Papa contro nostro Signore?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insomma, con il coronavirus Dio avrebbe punito gli uomini per il tradimento del Papa. Ad affermarlo è il direttore di Lifesitenews, uno dei siti ultracattolici più seguiti nel mondo.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Il pontefice ha dato il suo consenso alle comunioni sacrileghe, concedendo la sacra comunione a divorziati e risposati. Questa profanazione della sacra comunione ha un collegamento diretto con la punizione divina.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da settimane questa tesi viene rilanciato da decine di siti ultracattolici e da numerosi predicatori americani del web.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Abbiamo avuto un Papa che per la prima volta nella storia ha introdotto l’idolatria a San Pietro e ha fatto un accordo sconsiderato in Cina.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le accuse di idolatria contro Bergoglio sono iniziate qualche mese fa, quando, in occasione del sinodo sull’Amazzonia, il pontefice ha accolto in vaticano le statue di Pachamama, un’antica divinità Inca, che oggi per i popoli amazzonici simboleggia madre terra.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Lo sanno tutti che, poco prima dell’esplosione del coronavirus, il Papa abbia acconsentito all’ingresso dell’idolatria nel Vaticano. L’idolatria di Pachamama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per il fronte ultraconservatore il sacrilegio compiuto da Bergoglio non poteva restate impunito e così, un ultracattolico austriaco, Alexander Tschugguel, si è filmato mentre ha rubato le statue di Pachamama dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina dove erano esposte per poi gettarle nel Tevere.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Dio non è contento di noi e non è contento del Papato. Vuoi fare false adorazioni? Ti faccio vedere chi devi adorare davvero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma se il coronavirus è davvero la punizione divina per il tradimento compiuto dal Papa, allora l’ira di Dio deve aver sbagliato clamorosamente mira. All’inizio dell’epidemia infatti, a risultare positivo al Covid è stato proprio Alexander Tschugguel. L’uomo che ha buttato le statue di Pachamama nel Tevere.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Alexander Tschugguel ha il coronavirus ed è a letto con febbre alta da una settimana. Si sente davvero molto male e mi ha chiesto di pregare per la sua guarigione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le campagne anti-Bergoglio sul Coronavirus non nascono a caso, ma germogliano dalle dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti delle gerarchie vaticane, come l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti. In varie interviste ha indicato il Coronavirus come punizione divina contro peccati mortali come l’aborto, il divorzio e l’omosessualità. Posizione condivisa e rilanciata da Ralph Drollinger, consulente della Casa Bianca sugli studi biblici, in un documento ufficiale ha collegato di recente l’epidemia al dilagare di omosessualità e lesbismo. Esattamente l’opposto di quanto aveva dichiarato giorni prima il Papa durante un’intervista alla tv spagnola.

PAPA FRANCESCO Dio perdona sempre, noi altri perdoniamo qualche volta. La natura non perdona mai. Cioè, la natura è in crisi. Quindi dobbiamo prenderci cura della natura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nessun riferimento a omosessuali, all’ira e alla punizione divina dei peccati. Tanto è bastato perché le parole del Papa scatenassero la furia dei media ultracattolici statunitensi.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco dire che il coronavirus rappresenta una rivolta della natura, provocata dal nostro mancato rispetto dell’ambiente, non potevo credere alle mie orecchie. Ha già sbagliato tante altre volte su argomenti di fede come contraccezione, convivenza, divorziati e risposati e omosessualità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel dibattito ha preso una posizione netta anche il cardinale statunitense Raymond Burke. In un documento ufficiale sul Coronavirus spiega: “È fuori discussione che grandi mali quali la pestilenza siano effetto del peccato originale e dai nostri attuali peccati. È così, scrive il cardinale, che Dio ripara il caos introdotto dal peccato nelle nostre vite e nel nostro mondo”. Le parole di Burke solleticano gli istinti più belligeranti degli ultracattolici americani, e subito iniziano a propagare online il verbo del cardinale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un verbo al quale sono sensibili alcuni politici italiani. E qualcuno è anche finanziato, vedremo chi. Insomma, però sentire accusare Papa Bergoglio di essere addirittura la causa della diffusione del virus è un’esperienza che sinceramente ci mancava. E però la lista, la galleria di personaggi che critica Bergoglio è ricca. A partire dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, secondo il quale la diffusione del virus è legata a peccati, una punizione contro i peccati, quali l’aborto, il divorzio, l’omosessualità e sulla stessa linea è anche il consulente della Casa Bianca per gli studi biblici, Ralph Drollinger, per il quale il diffondere dell’epidemia è da collegarsi alla omosessualità, il dilagare dell’omosessualità e il lesbismo. Però il punto di riferimento del mondo ultraconservatore che critica di più Bergoglio è da cercarsi a pochi metri da dov’è il Papa nel Vaticano. Ed è il cardinale Raymond Leo Burke. Burke che appartiene anche al collegio del conclave è patrono dell’Ordine Sovrano Militare di Malta, ordine a cui appartengono anche diversi… son appartenuti diversi politici italiani molto importanti e che si comporta un po’ come uno stato a sé, può rilasciare documenti, patenti, passaporti e ha anche dialoghi con gli stati come se fosse uno stato indipendente. Ecco, non è piaciuta a Bergoglio la gestione degli ultimi tempi di questo ordine ha di fatto aperto una commissione per indagare e di fatto l’ha commissariato. Burke però è colui che ha più criticato apertamente il Papa soprattutto per la sua apertura, per il suo dialogo con le altre religioni, per la sua politica sull’accoglienza degli immigranti, e soprattutto per la sua apertura nei confronti dei divorziati. Burke che ha anche criticato il Papa di idolatria, ha detto, ha scritto addirittura spiegando della ragioni della diffusione del virus, “siamo testimoni anche all’interno della Chiesa di un paganesimo che rende culto alla natura. Ci sono quelli, all’interno della Chiesa, che si rivolgono alla terra chiamandola nostra madre, come se noi venissimo dalla terra, un’accusa neanche troppo poco velata insomma. E Burke è stato anche, è presidente di una fondazione per lo più sconosciuta, la Fondazione Sciacca che se da una parte fa attività di beneficienza, opere di beneficienza, dall’atra tesse relazioni. Dentro ci sono finiti i servizi di sicurezza, banchieri e magistrati. Burke è stato anche presidente dell’associazione Dignitatis Humanae, quella che fa riferimento a Steve Bannon, stratega di Trump, è colui che ha fondato Cambridge Analytica, quella che avrebbe violato 50 milioni di profili Facebook e avrebbe condizionato l’esito delle elezioni presidenziali e anche la Brexit. Poi, dopo aver discusso con Trump, cacciato da Trump, ha deciso di porre in Italia la sua scuola internazionale di sovranismo. Ecco, dove l’ha posta? L’ha posta nella splendida Abbazia del 1200 di Trisulti. Una gestione che però avrebbe ottenuta attraverso la presentazione, come ha raccontato Report, di documentazione anomala, non pagando un euro di canone né in ristrutturazione. Ecco, come guardiano ci ha messo quello che possiamo considerare ormai un nostro amico, Benjamin Harnwell. L’unico che ai tempi del coronavirus può passare in completo isolamento la sua quarantena. Il nostro Giorgio Mottola gli ha portato generi di conforto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a pochi mese fa, Raymond Burke presiedeva la Dignitatis Humanae, l’associazione legata a Steve Bannon che ha preso in gestione la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Qui, nella solitudine dell’antica abbazia, dove la quarantena non ha modificato di una virgola le sue giornate, vive ancora Benjamin Harnwell, l’uomo che per conto dell’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon, è diventato custode e concessionario della Certosa di Trisulti, con l’obiettivo di trasformarla in una scuola politica di sovranismo. Vivendo completamente isolato, lontano da supermercati e negozi, l’unica condizione che Benjamin Harnwell ci pone per accettare l’intervista, è un piccolo rifornimento di viveri e sigari.

GIORGIO MOTTOLA Visto che Bannon ti ha abbandonato in quarantena, Report ha pensato a te. Ti ho portato un po’ di viveri, come avevi chiesto, e soprattutto i sigari che mi avevi chiesto.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì, grazie, ma devo mettere i guanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A causa delle irregolarità del bando per l’assegnazione della Certosa che Report aveva portato alla luce, lo scorso giugno il Ministero ci aveva garantito che nel giro di qualche settimana Harnwell e la Dignitatis Humanae sarebbero stati costrette a lasciare la Certosa.

DA REPORT DEL 6 GIUGNO 2019 GIORGIO MOTTOLA Sfratterete Steve Bannon e Benjamin Harnwell dalla Certosa?

GIANLUCA VACCA – SOTTOSEGRETARIO MINISTERO DEI BENI CULTURALI Chiederemo ovviamente la restituzione della Certosa. Cercheremo di capire anche come valorizzare questa stupenda Certosa, questo stupendo monumento che è ricco di tesori al proprio interno.

GIORGIO MOTTOLA Eravamo convinti l’ultima volta di non trovarla più qui.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Ancora... ci siamo ancora.

GIORGIO MOTTOLA Infatti, fa un sorriso bello furbo, mi pare di capire. Finora ci ha fregati tutti. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Finora siamo ancora qua.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In attesa dell’ennesima sentenza del Tar, che a causa del coronavirus è ovviamente slittata, Benjamin Harnwell continua a portare avanti le sue idee sul Papato di Bergoglio.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Il Papa dice le cose che non hanno nessuna radice nella storia della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA Secondo lei Bergoglio dice cose non cristiane.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Dice delle cose che non sono cristiane.

GIORGIO MOTTOLA È forte come espressione, che il Papa dice cose non cattoliche e non cristiane.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Giorgio, non so perché lo fa. Può darsi per malizia. Perché è un nemico della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La tesi di Bergoglio nemico della Chiesa nasce e si consolida oltre oceano. Tale posizione infatti, fin dall’elezione di Trump, ha come capofila politico Steve Bannon, e nonostante il suo isolamento nella Certosa, Benjamin Harnwell ci fa sapere che continua a sentirlo tutti i giorni.

GIORGIO MOTTOLA Steve Bannon del Papa che cosa pensa?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Steve pensa che in certi rispetti questo Papa sia inadeguato.

GIORGIO MOTTOLA In questa battaglia contro il Papa Bannon ha trovato sponda anche dentro la Chiesa?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Senz’altro sì.

GIORGIO MOTTOLA E una delle sponde è il cardinale Burke.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Su queste cose non mi sento sicuro di parlare.

GIORGIO MOTTOLA È Bannon che ha presentato Burke a lei?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE No, io ho presentato Steve Bannon al Cardinale.

GIORGIO MOTTOLA Mi dica la verità, lei avrebbe preferito vedere sul trono pontificio Burke, al posto di Bergoglio. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì.

GIORGIO MOTTOLA Questo è il suo sogno proibito.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Nella pienezza del tempo chi sa.

GIORGIO MOTTOLA Siamo lì che aspettiamo il prossimo conclave insomma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Patrono dell’Ordine di Malta e punto di riferimento mondiale del fronte ultraconservatore, all’interno della curia romana, il cardinale Burke è una delle voci più critiche nei confronti di Papa Bergoglio. Con documenti ufficiali da tempo ha espresso il suo disappunto riguardo alle aperture del pontefice su divorziati, su dialogo tra le religioni e accoglienza dei migranti. In più di un’occasione, il Cardinale ha chiamato i fedeli alla resistenza contro i cambiamenti che il Pontefice sta provando ad apportare in Vaticano.

RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Chiaramente in un tempo di grande confusione e errore nella cultura e perfino nella Chiesa siamo veramente chiamati a difendere e combattere per le verità della fede.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il cardinale Burke coltiva rapporti molto stretti con esponenti dell’amministrazione Trump, sebbene con Steve Bannon la relazione si sia di recente molto raffreddata. In Italia, invece, Burke non ha mai nascosto le sue simpatie per Matteo Salvini. Quando era ministro dell’Interno, durante i blocchi in mare delle ONG, il cardinale lo ha più volte difeso in pubblico.

GIORNALISTA Lei è d'accordo con le azioni del ministro dell'Interno italiano?

RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Beh, io penso che sia comprensibile. La nazione deve prendersi cura innanzitutto dei propri cittadini e poi esaminare attentamente chi sono questi immigrati se sono davvero rifugiati politici o se sono persone che emigrano soltanto per… per… come dire, migliorare le loro condizioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia Burke presiede anche la Fondazione Sciacca, un’organizzazione filantropica cattolica di orientamento ultraconservatore che ha firmato protocolli d’intesa con il ministero della Giustizia e con la Agenzia Industrie Difesa, l’ente pubblico che si occupa di fornire munizioni ed esplosivi all’esercito. È una fondazione completamente sconosciuta, tranne però, almeno pare, nei posti e tra la gente che davvero conta in Italia. Negli organismi direttivi c’è infatti il capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione, generali dell’esercito, giudici del Consiglio di Stato e banchieri come Ettore Gotti Tedeschi, ex direttore dello Ior. L’anima della fondazione è questo prete, Don Bruno Lima. Famoso a L’Aquila per le messe in latino che officia ogni domenica.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.

DON BRUNO LIMA AL TELEFONO Mi dica la domanda, io non faccio interviste telefoniche.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo soltanto chiederle: come avete fatto nella fondazione a mettere insieme così tanti pezzi grossi, capi dei servizi segreti…

DON BRUNO LIMATOLA AL TELEFONO Non sono interessato alle sue domande, buona sera.

GIORGIO MOTTOLA Però siamo interessati noi a capire come ha fatto, Don Bruno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la sua fondazione infatti Don Bruno nel 2018 ha fatto un nuovo prestigioso acquisto, come testimonia questo video inedito recuperato da Report.

PREMIO INTERNAZIONALE “GIUSEPPE SCIACCA” 27/10/2018 PRESENTATORE A premiare sarà il Ministro Matteo Salvini, presidente del comitato scientifico della Fondazione Giuseppe Sciacca. Buonasera Ministro, intanto siamo contenti e onorati ovviamente di averla quest’anno nella famiglia del premio Sciacca e come presidente del comitato scientifico.

MATTEO SALVINI - EX MINISTRO DELL'INTERNO Ma sono io che mi sento onorato e anche inadeguato, sono l’ultimo dei buoni cristiani. Infatti, quando don Bruno mi ha proposto questa cosa ho detto: "Don Bruno stia attento ho poco da testimoniare, sono un peccatore di quelli…”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà cosa fa il presidente di un comitato scientifico di una fondazione come quella Sciacca. Ecco sta di fatto però che Salvini che è un divorziato, che per noi non c’è nulla di male, lo chiariamo, viene nominato presidente da chi critica Bergoglio per la sua apertura nei confronti dei divorziati. La fondazione Sciacca va detto che ha effettuato varie iniziative di beneficienza, questo da una parte. Dall’altra però il dubbio che sia tessitrice di una rete di relazioni. E ci ha scritto l’ufficio stampa, ci ha scritto una nota dove esprimono la solidarietà al cardinale Burke, si dicono indignati per il fatto che sia stato accostato ai cosiddetti nemici del Papa. “Sua Eminenza”, scrivono, “è un insigne giurista e teologo noto in tutto il mondo, svolge i suoi alti incarichi istituzionali a servizio della Santa Sede e con spirito di obbedienza verso il Santo Padre”. Poi accusano anche Report di diffondere fake news, va tanto di moda in questo periodo. Una notizia invece emerge da un’intercettazione della Direzione Investigativa Antimafia. Il cardinale Burke viene intercettato a sua insaputa, finisce per una coincidenza in un’intercettazione, non è indagato, lo chiariamo subito, mentre c’è chi gli chiede una spintarella per far avere un incarico di governo a un Senatore un po’ controverso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno vi avevamo mostrato le immagini della trasferta italiana di Steve Bannon del 7 settembre 2018: nel viaggio in auto verso il Viminale, si trova con un emissario della Lega, Federico Arata, figlio di Paolo: colui che secondo la procura di Palermo sarebbe socio occulto del re dell’eolico, Vito Nicastri, presunto prestanome di Matteo Messina Denaro. Paola Arata è accusato di aver pagato al sottosegretario leghista Armando Siri una mazzetta da 30mila euro per inserire un emendamento a favore dell’eolico. Ed è proprio con il figlio Federico che Bannon parla di strategie elettorali.

DA “THE BRINK” DI ALISON KLAYMAN STEVE BANNON - EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Intendiamo fornire inchieste, analisi di dati, messaggi dal centro di comando.

FEDERICO ARATA È l’idea che con questo possiamo diventare il partito numero uno in Italia. E poi dovrete dir loro che dobbiamo pianificare. “Pianificare” è la parola chiave… la vittoria per le elezioni europee.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Queste immagini che avete appena visto fanno parte del documentario “The Brink” di Alison Klayman, che Report vi mostra in esclusiva per l’Italia. Dimostrerebbero che Arata è il vero artefice dei rapporti tra Bannon e la Lega.

MISCHAËL MODRIKAMEN - PORTAVOCE THE MOVEMENT Sono Mischaël, dal Belgio. Sono di The Movement.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per conto di chi Federico Arata fa da intermediario tra Steve Bannon e la Lega? Nei mesi successivi a questo incontro Giancarlo Giorgetti ha assunto Arata a Palazzo Chigi, come consulente esterno. A che titolo?

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) I requisiti sono ben documentati da un curriculum che è stato pubblicato credo in tutti i giornali, in tutti i media, e che dimostra come questa persona avesse oltre che tre lauree, un’esperienza internazionale di tutto livello.

GIULIANO MARRUCCI E senta come si giustifica il fatto che Arata avrebbe fatto da mediatore tra Bannon e Salvini.

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) Io questo non lo so, dovete chiedere a Bannon, non a me.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma oltre che a Bannon, forse bisogna domandare anche al cardinale Burke. Nel 2018, al momento della distribuzione delle nomine ministeriali, è infatti al monsignore statunitense che si rivolge Paolo Arata. Come emerge dalle telefonate intercettate dalla Dia di Trapani, a Burke, Arata chiede di far arrivare pressioni a Giorgetti per far ottenere al figlio Federico un incarico governativo.

INTERCETTAZIONE 6 APRILE 2018 Il 6 aprile del 2018 Paolo Arata telefona al cardinale Burke. “Io coglievo l’occasione per ricordarle se può fare quel famoso intervento su Giorgetti dagli Stati Uniti” - dice. E la risposta del cardinale è: “Sì, sì, quando è il momento giusto io sono pronto. Quando lei mi dice, io invierò subito”.

GIORGIO MOTTOLA Buona sera Monsignore, sono Giorgio Mottola sono un giornalista di Report, RaiTre. Volevo farle qualche domanda sulle sue telefonate con Paolo Arata.

RAYMOND BURKE – CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA No.

GIORGIO MOTTOLA Come no...sua Eminenza. Chi è l'americano a cui lei telefona per raccomandare il figlio di Paolo Arata, sua Eminenza. Mi dice soltanto questo. Come ha conosciuto Paolo Arata?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la cura delle anime ha la priorità, aspettiamo in religioso silenzio e alla fine delle benedizioni proviamo a riproporre i nostri prosaici argomenti terreni.

GIORGIO MOTTOLA Sua Eminenza mi scusi, come mai si è messo a disposizione di Paolo Arata. Ok. Stavo solo facendo alcune domande…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la Dia, l’intervento che Paolo Arata chiede a Burke su Giorgetti sarebbe innanzitutto per far ottenere un ministero a un senatore della Lega: Armando Siri.

GIORGIO MOTTOLA Lei conosce molto bene il cardinale Burke, Raymond Burke?

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Il cardinale? No, non lo conosco.

GIORGIO MOTTOLA Strano perché si è impegnato davvero tanto, almeno sembra essersi impegnato davvero tanto per la sua nomina a Sottosegretario.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Mah, io non lo so... io non lo conosco...

GIORGIO MOTTOLA E però lo conoscono molto bene Federico Arata e Paolo Arata e lei ha chiesto a Federico Arata una mano per essere nominato…

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, ma lei sta dicendo Burke!

GIORGIO MOTTOLA Sì, chiama Burke in realtà è americano.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, si chiama "Burke". GIORGIO MOTTOLA Lei ha chiesto a Federico Arata di fare pressione sull'ambasciatore americano affinché lei venisse nominato sottosegretario.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Addirittura... e cosa c'entra l'ambasciatore americano con il sottosegretario italiano?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ecco però il testo della telefonata che Federico Arata fa al padre: “Armando mi ha chiamato, mi ha detto se potevo fargli arrivare qualche sponsorizzazione presso l'Ambasciatore americano”. Su questa richiesta però Burke si dimostra pessimista e gli Arata, padre e figlio, ipotizzano di chiedere la spintarella a Bannon. E poche settimane dopo le telefonate in questione, Federico Arata viene assunto a Palazzo Chigi e Armando Siri diventa sottosegretario alle Infrastrutture.

GIORGIO MOTTOLA La sua nomina a sottosegretario quando dipende dall'intervento di Burke?

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Credo che la mia nomina a sottosegretario dipenda da Matteo Salvini che è segretario della Lega e che ha deciso che io dovessi fare il sottosegretario. È la cosa più logica in assoluto.

GIORGIO MOTTOLA Però se dipendeva solo da Salvini, perché ha chiesto aiuto a Federico Arata? Evidentemente lei non era così convinto che Salvini l'avrebbe nominata sottosegretario...

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ma no assolutamente...ma io non ho chiesto assolutamente nulla a nessuno. Guardi che queste sono cose che dice lei.

GIORGIO MOTTOLA Dalle telefonate sembra il contrario però…

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, ma sa, nelle telefonate... chissà quante cose dice lei nelle telefonate...

GIORGIO MOTTOLA Non di diventare sottosegretario sicuramente.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, magari di avere qualche altra cosa....

GIORGIO MOTTOLA Sicuramente non di diventare sottosegretario…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche perché Il nostro Giorgio fa bene il suo mestiere. Insomma cosa è emerso che Paolo Arata che è il consulente, l’esperto della Lega per le politiche energetiche, finisce sotto intercettazioni della Direzione Investigativa Antimafia perché è accusato di corruzione e soprattutto perché accusato di avere come socio occulto Vito Nicastri. Vito Nicastri a sua volta è accusato di aver finanziato la latitanza del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Ora i magistrati dicono che Paolo Arata avrebbe proprio portato in dote al suo socio occulto, i suoi rapporti con la Lega, in particolare con Armando Siri con il quale è indagato per corruzione perché avrebbero tentato di infilare, tentato invano, di infilare un emendamento nella legge di bilancio del 2019 in base al quale avrebbero fatto percepire degli incentivi a tutti coloro che avevano aperto campi eolici nel 2017. Una norma retroattiva della quale avrebbero beneficiato anche loro stessi, Arata e il suo socio. E bene. Che cosa fa Arata? Chiede a Burke, al cardinale Burke una mano perché si rivenga nominato… abbia un incarico di governo. Burke si mette a disposizione, dice sì quando è il momento giusto, io sono pronto. Certamente Burke non conosceva i rapporti di Arata con Vito Nicastri, quello che ha finanziato la latitanza del boss. Tuttavia Arata chiede anche un’altra cortesia. Chiede a Burke di far avere al figlio, Federico, per il nuovo nascente governo della Lega un incarico. E anche qui Burke si dice disponibile, non sappiamo se poi abbia fatto, sia intervenuto. Sta di fatto che quando arriva Steve Bannon a Roma nel 2018 Arata lo va ad accogliere nei panni di consulente della Presidenza del Consiglio. E parla con lui di strategie elettorali come fosse un leader di partito. A che titolo lo fa? Va anche detto che in base anche alle mail che ha raccolto Report in esclusiva dal database del consorzio OCCRP emerge anche che Arata, Federico Arata aveva dei suoi rapporti con gli Stati Uniti già a partire dal 2017, novembre del 2017. È lui che cerca, si presenta come spin doctor della Lega e dice di voler innalzare la Lega a una dimensione internazionale, prepara il viaggio negli Stati Uniti, che poi non si è effettuato, di Giorgetti e Salvini e scrive a Ted Malloch. Ted Malloch è il faccendiere che è stato coinvolto nel Russiagate, colui che ha avuto un ruolo anche nelle mail hackerate dai Russi che erano compomettenti, Hillary Clinton. Insomma, è questo il contesto. E poi Ted Malloch ha contribuito alla campagna elettorale di Trump, è stato in contatto con l’estrema destra americana e anche con quella religiosa, dai cui media partono gli attacchi a Bergoglio. Questa volta le critiche arrivano perché si è deciso di chiudere le chiese per evitare la diffusione del contagio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’inizio della quarantena le porte delle chiese sono serrate e le messe sospese. Ma a Roma c’è chi si è inventato un modo per continuare a pregare in pubblico senza violare l’isolamento.

SUORE SACRO CUORE DI GESÙ Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Oh Santissima…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutti i giorni, alle dodici in punto, le suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, salgono sul tetto del loro convento e, per qualche minuto cantano inni di preghiera per il pubblico affacciato alle finestre. GIORGIO MOTTOLA Si può celebrare la Pasqua anche stando a casa?

SUORA - SACRO CUORE DI GESÙ Assolutamente sì, io penso che si può vivere anche in modo più intenso quest’anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In modo completamente diverso la pensano invece i media del mondo ultracattolico americano che sulla chiusura delle chiese in Italia hanno lanciato una violenta campagna che ha come obiettivo Papa Bergoglio.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER E la nostra risposta è stare zitti: chiudiamo le porte delle chiese, sospendiamo i sacramenti cosi tutti i mezzi per la grazia divina sono… puffff…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La campagna sulla riapertura delle Chiese contro governo e Santa sede è partita dai media ultracattolici americani come Lifesitenews e Churchmilitant ed è dilagata su siti come Breitbart, l’organo di informazione dell’estrema destra americana fondato da Steve Bannon. Gli stessi slogan e le stesse parole d’ordine hanno poi attraversato l’oceano e sono sbarcati in Italia. I primi a rilanciarli sui loro social sono stati i neofascisti di Forza Nuova, capeggiati da Roberto Fiore.

GIORGIO MOTTOLA Salve.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Salve. Salutiamo tutti…

GIORGIO MOTTOLA Lei sta così “nature” senza mascherina, senza guanti.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Io ho fede.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno Fiore si è reso protagonista di una serie di campagne contro il Papa e con l’arrivo del coronavirus il suo partito ha lanciato la teoria del complotto contro i cattolici, avallato da alcune gerarchie vaticane.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA La chiesa ha dovuto cedere a dei poteri forti internazionali che le hanno imposto di chiudere, di non dire più messa, di non dare sacramenti, che è una cosa, ripeto, inedita nella Storia, cioè l’ha fatto il comunismo ma il comunismo è stato più onesto, nel senso: noi siamo atei materialisti non crediamo a ste cose, non le potete fare se no vi sbattiamo in carcere.

GIORGIO MOTTOLA Questi invece vi chiudono le chiese con la scusa dell’emergenza sanitaria?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Con la scusa dell’emergenza sanitaria, esattamente.

GIORGIO MOTTOLA Vogliono chiudere le Chiese per sempre, secondo lei, è questo l’obiettivo?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Oh Dio, oh Dio, attenzione, sicuramente questa è un qualche cosa che loro stessi, sto parlando dell’Oms che secondo me è il cuore dell’operazione, stanno vedendo… è in fieri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per sventare il complotto anticristiano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e degli altri poteri forti su CitizenGO, piattaforma di fondamentalisti cattolici, Forza Nuova ha lanciato una petizione che ha raccolto l’appoggio di Vittorio Sgarbi, Carlo Taormina, e dei principali esponenti italiani del fronte anti-bergogliano. Fiore e gli altri firmatari chiedono la riapertura immediata delle Chiese e il ripristino delle messe.

GIORGIO MOTTOLA E questa vaga contro-argomentazione per cui invece riaprendo le chiese si rischia di aumentare il contagio come la consideriamo? ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Una follia. Il collegamento fra ciò che è fisico e ciò che è spirituale ci dice ma questa è la prima cosa che più una persona è forte spiritualmente e più reagisce alle malattie. Quindi già da quel punto di vista uno dovrebbe dire: non dite scemenze.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che la fede rende immuni al Coronavirus pochi giorni prima di Pasqua, sui profili social del movimento di Fiore iniziano a comparire post minacciosi come questi.

GIORGIO MOTTOLA Avete annunciato che a Pasqua violerete la quarantena.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Domenica in modo pacifico, cattolico, noi celebreremo la Pasqua. Il nostro sacrificio perché alla fine sarà un sacrificio di carattere economico, qualsiasi carattere sia, però è una cosa che noi facciamo per tutti.

GIORGIO MOTTOLA Da fascista diventa ghandiano, in qualche modo.

ROBERTO FIORE - FORZA NUOVA No, non è ghandiano. Se il popolo lì non reagisce come ha detto a badilate e allora loro possono dire: domani noi facciamo tutto. Invece noi dobbiamo fare vedere che il popolo reagisce.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il giorno di Pasqua ci sono anche le telecamere di Report a documentare l’annunciata processione di Forza Nuova davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Ma del sacrificio di Fiore non vi è traccia. Tra i militanti venuti a violare la quarantena manca proprio il leader. AGENTE DIGOS Ragazzi, a casa. Se ce ne avete una!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla fine, i militanti devoti e neofascisti sono solo uno sparuto gruppo e arrivano alla spicciolata.

GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Volevamo avere la libertà di ricordare la santissima Pasqua, solamente perché abbiamo detto che questa era la prima libertà che noi vogliamo riprenderci. Io invito tutti i romani e tutti gli italiani a fare attenzione, stiamo vivendo sotto dittatura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fatto il comizio in favore di telecamere la Digos se li porta via.

GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Viva la libertà, viva l’Italia!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i leader che siedono in parlamento ce n’è solo uno che ha offerto sponda alla campagna di Forza Nuova, rilanciando la petizione sulle Chiese sulle tv nazionali.

MATTEO SALVINI - INTERVISTA SKY Io sostengo le richieste di coloro che dicono in maniera ordinata, composta, sanitariamente sicura, fateci entrare in Chiesa, per Pasqua fateci assistere anche in tre, in quattro, in cinque, alla messa di Pasqua. Mi dicono: si può andare da tabaccaio, perché senza sigarette non si sta. Eh, per molti anche la cura dell’anima oltre che la cura del corpo è fondamentale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’intervento di Salvini non è arrivato a sorpresa: negli ultimi anni la destra italiana ha iniziato ad usare costantemente la religione come strumento di battaglia politica. Nemmeno ai tempi della vecchia Democrazia Cristiana è accaduto che leader nazionali in campagna elettorale brandissero simboli religiosi come armi di lotta politica.

MATTEO SALVINI E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita al cuore immacolato di Maria che son sicuro ci porterà alla vittoria.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana, non me lo toglierete.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E soprattutto mai avremmo immaginato che leader politici potessero arrivare a recitare preghiere in diretta televisiva.

BARBARA D’URSO - LIVE NON È LA D’URSO Tutte le sere io faccio il rosario, non me ne vergogno, anzi sono orgogliosa di dirlo. Quindi l’eterno riposo dona loro signore...

MATTEO SALVINI - LIVE NON è LA D’URSO Siamo in due Barbara.

BARBARA D’URSO - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda per essi la luce perpetua, riposino in pace amen.

MATTEO SALVINI - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, a tanta devozione cattolica finora sono corrisposte altrettante critiche aspre nei confronti del capo della Chiesa.

MATTEO SALVINI Però il Papa è Benedetto, il suo Papa è Benedetto, il mio Papa è Benedetto. Papa Benedetto sull’Islam e sulla convivenza fra i popoli aveva delle idee molto chiare. Quelli che invitato gli Imam in chiesa non mi piacciono.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma esattamente quando e come è accaduto che la destra sovranista italiana ha iniziato ad avere una improvvisa vocazione religiosa e a nutrire al contempo un così forse sentimento anti-bergogliano.

PAPA FRANCESCO – TV2000 Ma la xenofobia è una malattia. E le xenofobie tante volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici, no? Delle volte sento in alcuni posti, discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello.

DONALD TRUMP – PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA Il Papa? Il Papa era in Messico lo sapevate? Ha detto cose negative su di me. Se e quando il Vaticano sarà attaccato dall’ISIS e tutti sanno che per ISIS il trofeo più ambito vi garantisco che il Papa si augurerà e pregherà soltanto che Donald Trump sia presidente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’elezione di Trump è stata uno spartiacque: Report ha consultato i bilanci delle più importanti fondazioni della destra religiosa statunitense. E il risultato è davvero impressionante. Da quando Bergoglio è diventato Papa dalle organizzazioni ultra cristiane degli Stati Uniti sono arrivati in Europa oltre un miliardo di dollari.

PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Si tratta di associazioni cristiane integraliste ricchissime, che vogliono vietare l’aborto e cancellare le leggi in favore degli omosessuali in America e nel mondo. Sicuramente tra i loro obiettivi c’è la destabilizzazione dell’Unione Europea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle fondazioni che hanno inviato denaro in Europa fanno parte del World Congress of Families, l’organizzazione ultra-cristiana che ha avuto nuova vita nel 2013 grazie Konstantin Malofeev, l’oligarca russo estremamente vicino a Putin che Matteo Salvini ha provato ad avere come ospite d’onore al congresso in cui è stato eletto segretario per la prima volta.

DA REPORT DEL 21 OTTOBRE 2019 GIORGIO MOTTOLA Quando ha incontrato Salvini la prima volta?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Molti anni fa. Sarei dovuto andare al congresso quando fu eletto.

GIORGIO MOTTOLA Era stato invitato?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, ma non andai perché avevo altri impegni e non riuscii a venire in Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo stesso anno in cui Salvini viene eletto segretario, Malofeev vola negli Stati Uniti e come abbiamo ricostruito grazie alle mail che abbiamo ritrovato nel database del consorzio Occrp, in quel viaggio l’oligarca russo ha incontrato deputati repubblicani come Chris Smith, rappresentanti del Family Research Council, una delle più importanti associazioni antiabortiste americane, Nation For Marriage di Brian Brown, presidente del World Congress of Families e rappresentanti dell’Heritage Foundation e del Leadership Institute, due delle più importanti fondazioni repubblicane.

GIORGIO MOTTOLA Qual era l’argomento di questi incontri?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Abbiamo discusso di come difendere le famiglie dal totalitarismo dell’agenda sodomita che si sta diffondendo in tutto il mondo.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è in quel momento che è nata la Santa Alleanza?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, l’idea è nata lì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di questa Santa Alleanza fanno parte anche le fondazioni della destra religiosa americana che hanno mandato più dollari in Europa. Si tratta di associazioni finanziate dai multimiliardari che hanno sostenuto a suon di milioni la campagna elettorale di Donald Trump. La famiglia Koch, industriali ultraconservatori che hanno sborsato per le ultime presidenziali americane quasi un miliardo di euro e la famiglia Mercer, fondatore di Cambridge Analytica ed editore di Breitbart, la rivista di estrema destra già diretta da Steve Bannon.

PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Le associazioni della destra religiosa americana e i miliardari conservatori hanno stipulato anni fa un’alleanza per ottenere il controllo del Partito Repubblicano. E oggi con la presidenza di Trump hanno ottenuto il loro scopo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le fondazioni sostenute dai Koch e dai Mercer in Europa non hanno finanziato solo associazioni religiose. Consultando i bilanci di tutti i partiti del parlamento europeo i loro soldi, 43 mila euro tra il 2016 e il 2017, sono arrivati anche ad un gruppo parlamentare: l’alleanza dei riformisti e conservatori di cui Fratelli d’Italia fa parte dal 2019. Secondo quanto ha scoperto Report, l’alleanza dei Riformisti e Conservatori è l’unico partito a Bruxelles finanziato da Heritage Foundation e da Atlas Network, le potenti e danarose fondazioni legate ai miliardari trumpiani. Ma quello tra il mondo trumpiano e il gruppo europeo della Meloni è un rapporto che sembra essersi molto intensificato negli ultimi anni. Questo è l’intervento fatto dall’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon nel 2018 alla festa nazionale di Fratelli d’Italia.

STEVE BANNON – EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Io vi posso aiutare focalizzandoci sulle prossime europee per vincerle. Vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi e analisi di big data. Preparare cabine di regia. Tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa invece è la più importante conferenza della destra americana. L’attrazione principale è l’intervento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’anno scorso a scaldare il pubblico c’era anche un politico italiano.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Signore e signori, grazie per avermi invitato. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insieme all’artefice della Brexit, Nigel Farage, Giorgia Meloni è stato l’unico politico europeo invitato a parlare alla conferenza.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA La crisi dell’Unione Europea è una crisi di democrazia e di sovranità popolare. Questa entità sovrannaturale e antidemocratica ha imposto sulle nazioni europee le scelte di élite globaliste e nichilistiche guidate dalla finanza internazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E chi sa se il riferimento era anche alle stesse élites finanziarie che pagano la conferenza. Come l’NRA, la lobby delle armi, che compare come sponsor principale sul palco accanto a compagnie assicurative ultra-cristiane e criptovalute giapponesi. In Europa da qualche tempo le fondazioni della destra americana hanno iniziato a esercitare un ruolo politico sempre più attivo. A inizio febbraio, in uno degli hotel più lussuosi di Roma, le americane Edmund Burke Foundation e l’International RaeganThatcher society hanno organizzato un mega evento politico internazionale tenuto a battesimo da Giorgia Meloni.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Questo evento è un evento che sono molto orgogliosa di aprire, come sapete è un evento dedicato al mondo conservatore internazionale, sapete che Fratelli d’Italia in questi anni ha lavorato molto a livello internazionale nella tessitura di una serie di rapporti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla conferenza sponsorizzata dalle fondazioni americane partecipano pezzi grossi della scena conservatrice europea. Come Marion Maréchal-Le Pen, astro nascente dell’ultra destra francese e soprattutto, il premier ungherese Viktor Orban. Che in patria, di recente, per l’emergenza coronavirus, ha assunto pieni poteri. Il titolo della manifestazione è di ispirazione religiosa. “Dio, onore e patria”. E ovviamente il Papato di Bergoglio è uno dei principali argomenti.

GIORGIO MOTTOLA Onorevole, potremo semplificarla con…

ADDETTO STAMPA Facciamo un attimo parlare anche gli altri giornalisti.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA No, ma lui mi vuole bene. Dimmi, dimmi. Ci tengo. Come vuole semplificare lei?

GIORGIO MOTTOLA Qui ci saranno anche altre figure molto critiche nei confronti di Bergoglio. Qual è la sua posizione? Lei non ha mai espresso pubblicamente una posizione su Bergoglio.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Non ho da esprimere una posizione su Bergoglio perché io faccio politica, non faccio il cardinale. Penso che il Papa debba portare avanti le sue… il suo lavoro, ecco. E la politica debba fare un altro lavoro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma alla tavola rotonda iniziale il tema è proprio il Vaticano. E le posizioni su Bergoglio vengono esposte in modo estremamente esplicito.

ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Se noi compariamo i due leader della nostra epoca, Papa Francesco e il presidente Donald Trump, scopriamo che abbiamo a che fare con un’inversione di ruoli: Papa Francesco ha rinunciato a essere un leader spirituale, subordinando i valori morali, come la vita e la famiglia, a istanze politiche e sociali. E perciò Papa Francesco è diventato il leader della sinistra internazionale. Dall’altro lato, Donald Trump, si sta avviando alla sua rielezione attribuendo una maggiore valenza morale al suo mandato politico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Papa Francesco è identificato come leader della sinistra internazionale. Forse senza girarci troppo intorno i motivi, il segreto degli attacchi a Papa Bergoglio sono racchiuse in queste parole che il nostro Giorgio Mottola ha registrato nell’intervento di un relatore al convengo dove era ospite Giorgia Meloni. Nel vuoto lasciato da alcuni partiti che incarnavano dei valori come quello dell’accoglienza, dell’abbattimento delle disuguaglianze, del socialismo, della difesa dell’ambiente violentato, anche un Papa che abbraccia l’ideale francescano può diventare il bersaglio dell’estrema destra. E poi abbiamo visto anche che c’è chi lo finanzia questo tiro al bersaglio. L’abbiamo sentito dalle parole dell’oligarca ultranazionalista vicino a Putin, Malofeev, l’ha detto che è in contatto dal 2013 con la Lega di Salvini e lui stesso ha ammesso, ho fatto dei viaggi negli Stati Uniti, ho incontrato deputati, ambienti dell’ultra destra americana, quello delle fondazioni più conservatrici, ecco. Con lo scopo di difendere la famiglia dall’attacco sodomita. E in questo viaggio ha incontrato anche fondazioni fra qui, Heritage e Atlas Network. Come ha scoperto Report hanno finanziato direttamente o indirettamente dal 2016 al 2017 per circa 50 mila euro l’alleanza dei conservatori riformisti europei. È il gruppo europeo al quale ha aderito anche Giorgia Meloni nel 2019. È un po’ il cavallo di Troia di Trump all’interno dell’Europa. È poca roba, ma non bisogna dimenticare che Report ha anche scoperto pochi mesi fa che da quando Papa Bergoglio è diventato Papa dalle fondazioni d’ambienti conservatori americani sono arrivati in Europa una pioggia di dollari, circa un miliardo di dollari hanno finanziato dei movimenti della destra, dell’estrema destra anche ultra religiosi per, da una parte, far implodere l’Europa, dall’altra per mettere in crisi il Papato di Bergoglio. Proprio dopo per aver aderito a questo movimento europeo Giorgia Meloni, dopo anche aver instaurato rapporti con Bannon, è stata invitata alle più importanti convention repubblicane. Ecco a febbraio scorso ha partecipato al prestigioso National Prayer Breakfast, l’evento annuale di politica e preghiera che viene organizzato a Washington, dalla potente controversa fondazione Fellowship e c’era anche il presidente Trump. L’onorevole Giorgia Meloni era tra i pochi politici europei presenti. Ma se l’humus è questo, è facile che germogli anti-bergogliani possano sorgere, spuntare qua e là. Ma c’è un filo che li unisce a partire da quello che c’è all’interno di un prestigioso istituto di ricerca dove c’è chi evoca il fumo di Satana fino ad arrivare alla sede di una televisione online Gloria TV che dietro al celestiale nome che evoca la preghiera di lode, però nasconde tre teste, una delle più attive degli attacchi di Bergoglio. Ha una testa in Svizzera, l’altra in Moldavia, la terza in un paradiso che però non è terrestre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il fronte degli americani anti-bergogliani ha il suo quartier generale qui a Roma, dietro l’antica basilica di Santa Balbina. Varcata la soglia del cortile interno c’è la sede della Fondazione Lepanto, presieduta dal professor Roberto De Mattei, esponente dell’aristocrazia romana, nominato da Berlusconi nel 2008 vicepresidente del CNR, nonostante l’opposizione del mondo accademico.

GIORGIO MOTTOLA Mi pare di capire è su posizioni anti-evoluzioniste?

ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Assolutamente. L'evoluzionismo è un mito, è una leggenda.

GIORGIO MOTTOLA Ma in che senso è una leggenda?

ROBERTO DE MATTEI - PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO È una pura frottola. Tutti gli uomini che esistono discendono da Adamo ed Eva.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha anche una teoria interessante sulla caduta dell'impero romano. Che sarebbe la punizione per la diffusione dell'omosessualità nell'impero, è vero?

PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO L'omosessualità è sicuramente un peccato grave, condannato da Dio. E che può determinare la fine di una civiltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dallo scorso anno la fondazione Lepanto ha iniziato ad organizzare preghiere di protesta in piazza contro la gestione della chiesa da parte di Bergoglio. Si auto definiscono Acies ordinata esercito regolare. La più affollata si è tenuta lo scorso settembre a Roma nel piazzale di Castel Sant’Angelo. Erano presenti i rappresentanti delle più potenti associazioni americane e i direttori di Lifesitenws e di Church Militant, i siti che hanno indicato nella punizione divina inflitta al Papa la causa del coronavirus.

ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Papa Francesco sta indubbiamente contribuendo a determinare la confusione all'interno della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha scritto: il fumo di Satana sta avvolgendo il campo di battaglia.

ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Normalmente nelle situazioni di confusione che la Chiesa ha conosciuto nella sua storia i Papi sono sempre stati la soluzione dei problemi. Oggi noi ci troviamo per la prima volta nella storia in una situazione in cui il Papa invece di essere la soluzione del problema è la causa del problema. Perché è egli stesso, Papa Francesco, purtroppo tragicamente un fattore di autodemolizione della Chiesa e quindi di diffusione del fumo di satana all'interno della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La propaganda anti-bergogliana corre e cresce innanzitutto sul web. Ci sono quotidiani on line monotematici con decine di giornalisti e budget illimitati, pagine Facebook contro il Papa e piattaforme on line come Gloria Tv che ogni giorno produce un telegiornale che spesso dà fake news su Bergoglio. TG GLORIA TV Il problema di Papa Francesco sono le sue parole ambigue ed equivoche, la sua reticenza, astuta e sleale, la sua opportunistica negligenza. E il fatto che dia l’impressione di approvare comportamenti omosessuali. In questo modo Papa Francesco sta compromettendo seriamente il suo compito pastorale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gloria TV è uno dei siti più violenti e virali della galassia online anti-bergogliana. Funziona come un social network e tutti i giorni pubblica vignette contro Bergoglio come questa, in cui viene rappresentato come un pagliaccio, o questa, in cui il Papa si fa un selfie con il diavolo. O ancora questa, in cui Bergoglio abbandona la cristianità per correre tra le braccia di Satana.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Ma c’è una cosa in comune qua. È questa paperella gialla, che ai più non dice nulla ma agli esperti di comunicazione online, la paperella gialla è il simbolo delle proteste contro Putin e la corruzione di Mosca. Per cui praticamente simboleggia il fatto che Bergoglio è contro Putin. È un nemico del popolo russo, è un nemico di Putin e fa capire esattamente da che parte sta Gloria TV.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La redazione di Gloria TV ha sede in un piccolo paese del cantone tedesco della Svizzera, al piano terra di questa casa. Fuori c’è l’insegna, ma dentro la stanza sembra vuota.

GIORGIO MOTTOLA C’è qualcuno di Gloria Tv?

DONNA No, non c’è nessuno. Proviamo a suonare il campanello.

GIORGIO MOTTOLA E da quando non si vede nessuno? DONNA Non c’è nessuno da un anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I responsabili di Gloria Tv non sono irreperibili solo per noi. In Italia hanno ricevuto diverse denunce ma i loro server sono registrati in Moldavia.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE E la cosa interessante è che adesso siamo qua nella pagina italiana, se andiamo nelle lingue…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ci sono tutte le lingue del mondo.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Tutte le lingue del mondo. E ovviamente chiunque sia pratico del web e sappia quanto costa gestire queste migliaia di contenuti in queste lingue, più il sistema come un social network, sa che sono cifre di centinaia di migliaia di euro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma capire chi ce li mette tutti questi soldi è un’impresa impossibile. L’unica cosa che sappiamo, infatti, è che il dominio appartiene a Church Social Media, una società completamente anonima che ha sede nel Delaware, il paradiso fiscale americano. E pensare che ufficialmente a fondare e gestire il sito è questo semplice prete di provincia, Reto Nay, sostenitore della messa in latino, sospeso dalla Chiesa Cattolica per le sua posizioni estremiste.

RETO NAY- FONDATORE GLORIA TV Il punto importante non è fare il bene, fare il bene è un punto assolutamente secondario! Dunque smettete questi discorsi socialisti, comunisti, di gente povera, del povero. Il primo povero della tua vita sei tu.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre siamo davanti la sede di Gloria TV vediamo un uomo che prende la posta dalla cassetta della redazione. Ci sembra incredibilmente somigliante a una delle foto più recenti in cui compare Reto Nay. GIORGIO MOTTOLA È lei don Reto Nay?

GEMELLO RETO NAY No no.

GIORGIO MOTTOLA No, è lei, è proprio lei.

GEMELLO RETO NAY No, non sono io.

GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, sembra lei.

GEMELLO RETO NAY Sembra, sembra. Siamo fratelli.

GIORGIO MOTTOLA Siete identici.

GEMELLO RETO NAY Siamo, siamo, come si dice, zwilling.

GIORGIO MOTTOLA Perché volevo chiedere chi finanzia Gloria Tv.

GEMELLO RETO NAY Ah, no no no! Non c’entro. Non mi interessa, andate via.

GIORGIO MOTTOLA Come mai la società ha sede nel Delaware.

GEMELLO RETO NAY Non mi interessa. Arrivederci. GIORGIO MOTTOLA Anche i server sono registrati in Moldavia, come mai?

GEMELLO RETO NAY Andate via! Vaffanculo! Non mi interessa. GIORGIO MOTTOLA Ma come vaffanculo, non mi dica così.

GEMELLO RETO NAY Arrivederci! Ciao!

GIORGIO MOTTOLA Però non mi spinga così!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal web alla politica il passo è breve Dal 2016 il fronte anti-bergogliano in Europa ha anche un partito ufficiale di riferimento. Si chiama Coalition pour la vie et la famille e lo ha fondato il belga Alain Escada, estremista di destra noto per le sue posizioni antisemite.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE L’obiettivo del Papa è rovesciare la chiesa. Insieme a noi ne sono consapevoli cardinali, vescovi, capi di stato cattolici, capi di partito, presidenti di associazioni e movimenti cattolici del mondo. Tutti hanno capito che il Papa è un sovversivo. E quindi bisogna agire per fare in modo che abbandoni il trono pontificio. Dobbiamo al più presto sbarazzarci di Bergoglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Destituire il Papa non è un obiettivo da poco. Per questo la Coalition, che in Europa è presente in otto paesi, ha chiesto soldi al Parlamento Europeo, e nel 2017 Bruxelles ha stanziato per il partito di Escada e per la fondazione collegata quasi 500 mila euro. Fondi però, sostiene Escada, che non sarebbero mai veramente arrivati. Nonostante ciò, la macchina di propaganda contro Bergoglio non si è mai fermata.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Non è escluso che questo Papa sia manovrato da forze occulte.

GIORGIO MOTTOLA Che intende per forze occulte?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Alle Organizzazioni giudaico-massoniche che agiscono nell’ombra per opporsi all’influenza della chiesa cattolica.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Papa Francesco è l’espressione di un piano giudaico-massonico in Europa?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Oggi Papa Francesco partecipa e collabora al piano del nuovo ordine mondiale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cofondatore e segretario della Colation pour la vie et la Famille, è un italiano, Stefano Pistilli.

STEFANO PISTILLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARKUS NETWORK Salve a tutti, sono Stefano Pistilli, amministratore delegato di Arkus Network, amministratore unico di Amanda Tours.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con le sue società di cui è amministratore lo scorso anno Pistilli ha partecipato all’acquisto del Palermo calcio, senza però riuscire a salvarlo dal fallimento. Ma che c’entra un manager di azienda e aspirante dirigente calcistico come Pistilli con il più anti-bergogliano dei partiti europei, che usa argomenti così neo-nazisti?

GIORGIO MOTTOLA Come ha conosciuto Stefano Pistilli?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Una persona che forse conoscete, Roberto Fiore.

GIORGIO MOTTOLA Lo consociamo molto bene.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Mi ha presentato molte persone.

GIORGIO MOTTOLA E nella coalizione lui rappresenta Roberto Fiore?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Sì, certo. Ma io sono legato anche a molta gente nella Lega.

GIORGIO MOTTOLA Lei con chi ha rapporti nella Lega?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Molti europarlamentari della Lega che mi hanno messo in contatto con l’ex ministro per la famiglia Lorenzo Fontana.

GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti anche con Fratelli d’Italia? Giorgia Meloni?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Certo! Ammiro profondamente la signora Meloni, una vera paladina della famiglia tradizionale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E siamo sempre là insomma. Chi è che attacca Bergoglio in nome dell’integralismo cattolico? Ecco c’è l’estremista di destra, il francese Alain Escada che ha in qualche modo fondato il partito, il movimento, la coalizione per la vita e la famiglia. Ha un cofondatore un italiano Stefano Pistilli, che è quello che ha rilevato il Palermo calcio, poi è fallito. E anche l’amministratore delegato di Arkus, un network che fa riferimento all’imprenditore Salvatore Tuttolomondo, un imprenditore coinvolto in vari fallimenti, tra cui quello della Fiscom, la finanziaria legata alle attività di Enrico Nicoletti, considerato il banchiere della banda della Magliana. Poi Pistilli lo troviamo anche in un trust con la figlia di Roberto Fiore. Un trust londinese. Insomma il giro è quello. E poi c’è Gloriai Tv, una tv online che strizza l’occhio alla Russia di Putin, sforna fake news, attacca continuamente Bergoglio, però ha la proprietà in Delaware. Ecco tra le virtù che predica, manca sicuramente la trasparenza. L’unico a metterci la faccia è il fratello dell’anchorman, fratello gemello che però quando gli chiedi spiegazioni, ha il vaffa facile. Almeno in questi casi, pare che l’integralismo cattolico nasconde invece quello politico. Fa eccezione invece chi osserva con rigore la dottrina cattolica il cardinale Raymond Burke però anche lui, quando gli vai a chiedere spiegazioni sulle intercettazioni imbarazzanti dove Paolo Arata gli chiede raccomandazioni per Siri e il figlio, glissa o preferisce negare. È ovvio che se vai a vedere dal buco della serratura la vita di ciascuno di noi, anche quella dei santi, qualche macchia la trovi. Noi preferiamo non entrare nelle critiche di natura teologica, perché è materia delicata e non è nostra competenza. Tuttavia registriamo che le critiche a Bergoglio nascono soprattutto da ambienti ultranazionalisti vicini a Putin e quelli dell’estrema e della destra ultra-cristiana vicini a Trump. E qua vengono rilanciati da ambienti neofascisti e nazi-fascisti. Insomma, più che un obiettivo al centro di una diatriba teologica Bergoglio sembra essere l’obiettivo di una guerra fredda. Proprio oggi che la Chiesa deve essere unita e deve sembrare unita. Perché ci sarà da raccogliere i cocci di un’umanità quando si uscirà dal virus. Non bisogna dimenticare, come dice lo stesso Francesco, che il vero potere è il servizio, prendersi cura delle persone più anziane, delle persone più fragili, quelle che abitano alla periferia del nostro cuore. E ora invece vediamo come le ha raccolte queste persone, la vita di queste persone, un fotografo, Tony Gentile, che ha osservato la vita degli altri dalla finestra, mentre consumava la sua quarantena. È stato il fotografo dei due Papi, soprattutto quello che ha immortalato Falcone e Borsellino, in quello scatto che è diventato simbolo della resilienza alla mafia.

·        Il Vaticano e gli Hacker.

Papa Francesco, il like dal suo account Instagram alla foto spinta della modella brasiliana? Indagine in Vaticano. Libero Quotidiano il 20 novembre 2020. Ora, si apre una sorta di indagine. Il caso, piuttosto clamoroso e ancor più curioso, è quello del "like galeotto" di Papa Francesco a una foto di Natalia Garibotto, super-modella brasiliana. Un like partito dall'account del Pontefice a una foto che risale allo scorso 6 ottobre, in cui si mostrava in tre quarti, con una minigonna che non nascondeva sostanzialmente nulla. Un look da sexy-alunna in lingerie. Foto molto spinta, insomma. Come detto, dall'account Instagram ufficiale di Bergoglio, "franciscus", è partito il cuoricino, il like di apprezzamento. Come è possibile? Escluso il fatto che Papa Francesco brighi direttamente con uno smartphone e metta, o gli sfugga, un like alla foto spinta di una modella, restano solo altre due possibilità: un hackeraggio. Oppure un disastroso errore di chiunque svolga il ruolo di social media manager per il Pontefice. Come detto, si apprende che il Vaticano avrebbe aperto un'indagine su quanto accaduto. E ancora, avrebbe chiesto spiegazioni ufficiali a Instagram per il sospetto hackeraggio. Resta il fatto che, di dichiarazioni ufficiali, ancora non ne siano arrivate.

Gli hacker cinesi all’attacco del Vaticano? Emanuel Pietrobon il 30 luglio 2020 su Inside Over. Da alcune settimane sono in aumento le indiscrezioni secondo cui le diplomazie del Vaticano e della Repubblica Popolare Cinese sarebbero al lavoro per il rinnovo dell’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi siglato il 22 settembre 2018. I negoziati avrebbero ricevuto un impulso dall’imprevisto scoppio della pandemia, la quale si è rivelata un’occasione per testare le potenzialità di un eventuale sodalizio e ha dimostrato che la chiesa cattolica e l’impero celeste possono collaborare efficacemente ed aiutarsi in maniera concreta e reciproca. Nonostante l’accordo sui vescovi, e il miglioramento dei rapporti bilaterali occorso durante la pandemia, le prospettive di successo dell’agenda cinese di Papa Francesco sono rimaste basse poiché è la diffidenza, e non la fiducia, che ha continuato, e continua, a caratterizzare la complicata relazione sino-cattolica. Ad alimentare ed incrementare i dubbi sulla riuscita del piano del pontefice giunge la pubblicazione di un documento di Recorded Future, un’agenzia per la sicurezza cibernetica che monitora il web, denunciante una serie di hackeraggi a scopo spionistico presumibilmente condotti da Pechino contro i computer vaticani negli ultimi tre mesi.

Le accuse. Il rapporto è stato pubblicato il 28 luglio e, in breve, afferma che gli analisti della compagnia hanno scoperto una serie di hackeraggi, e tentati hackeraggi, compiuti dai soldati cibernetici di Pechino ai danni dei server vaticani con l’intento di rubare informazioni sensibili utili per capire che clima si respira nelle stanze dei bottoni della Santa Sede e quali progetti ha il pontefice per Taiwan e Hong Kong. Gli attacchi sarebbero cominciati a inizio maggio e avrebbero colpito le banche dati e i server del Vaticano, della diocesi di Hong Kong, del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), della Missione di Studio su Hong Kong (MSHK) e di altre organizzazioni legate alla chiesa cattolica. A compiere gli hackeraggi sarebbe stato un gruppo specializzato nella guerra informatica legato al Partito Comunista Cinese (PCC) e noto come RedDelta. I metodi impiegati da RedDelta sarebbero stati i più comuni, e per questo anche i più sottovalutati, come l’invio di email fasulle associate alla Segreteria di Stato e l’uso di malware accuratamente nascosti per entrare negli archivi di arcivescovi ed enti. In un’occasione, gli hacker cinesi avrebbero falsificato, oppure trafugato, una lettera firmata da Pietro Parolin, il numero due del Vaticano, poi infettata con un malware ed inoltrata alla Mshk. La strategia avrebbe permesso agli agenti di Pechino di accedere alla posta della diocesi di Hong Kong, della Mshk e persino della Santa Sede; le infiltrazioni nel Pime sarebbero state tali da causare malfunzionamenti nell’utilizzo della posta per diverse settimane. La compagnia avrebbe anche fatto luce sui malfunzionamenti e i tentativi di hackeraggio denunciati nei mesi scorsi dal sito web AsiaNews, un portale mediatico vicino al Vaticano: sarebbero stati commessi dagli agenti di RedDelta. La conclusione del rapporto di Recorded Future è univoca: gli hacker avrebbero conseguito l’obiettivo stabilito dal Pcc, riuscendo ad accedere alla documentazione sensibile sui rapporti fra il trono petrino e i cattolici cinesi e hongkongesi e a leggere le lettere private dei principali diplomatici aventi come contenuto il rinnovo dell’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi. Per questi motivi, in sede negoziale, i portavoce di Xi potrebbero godere di una posizione di vantaggio rispetto agli omologhi vaticani.

Recorded Future: chi sono? La Recorded Future è una compagnia privata con sede in Massachusetts che opera nei campi della sicurezza informatica e del monitoraggio del web. Ufficialmente non ha legami con il governo degli Stati Uniti, ma la tempistica con cui è stato pubblicato il rapporto, che avviene all’apice delle tensioni fra la Casa Bianca e Pechino, alimenta legittimamente i dubbi sulla sua genuinità. Questo, comunque, non significa che una campagna di attacchi non sia avvenuta, anche perché la compagnia ha presentato le prove per ogni accusa avanzata nei confronti del RedDelta. La Santa Sede ha preferito mantenere un profilo molto basso sulla questione. Un diplomatico vaticano, parlando ai microfoni di AsiaNews sotto anonimato, si è limitato a dichiarare: “Dire che la Cina spia il Vaticano è come scoprire l’acqua calda: ormai lo spionaggio e gli hacker sono divenuti un problema internazionale con cui convivere”. Molto più dura è stata invece la presa di posizione di Pechino. Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli esteri, ha dichiarato che si tratta di congetture e che “dovrebbero essere presentate prove sufficienti” prima di avanzare accuse gravi quali quelle di un hackeraggio ai danni della chiesa cattolica.

Le ragioni di Pechino. Secondo Recorded Future, gli hacker cinesi non sarebbero stati mossi soltanto dal desiderio di entrare nella mente del rivale ma anche da quello di scoprire i suoi segreti, ovvero capire quale ruolo la Santa Sede ha giocato e sta giocando all’interno delle proteste di Hong Kong e quale all’interno delle chiese sotterranee. L’attenzione dedicata dagli hacker cinesi su queste ultime sarebbe “indicativa degli obiettivi del Pcc di consolidare il controllo sulla chiesa cattolica sotterranea […] e diminuire l’influenza percepita del Vaticano all’interno della comunità cattolica della Cina”. Con il termine “chiesa sotterranea” ci si riferisce a tutte quelle comunità di cattolici che agiscono nella clandestinità per evitare la persecuzione religiosa e che vengono considerate una minaccia per la sicurezza nazionale da Pechino in quanto non censite e operanti al di fuori dei controlli orwelliani delle autorità. I numeri, del resto, parlano chiaro. Sebbene l’Associazione dei Cattolici Patriottici Cinesi (ACPC) e il Movimento delle Tre Autonomie (il principale organo di rappresentanza dei protestanti) abbiano rispettivamente 6 milioni e 500mila membri e 20 milioni di iscritti, i cattolici sarebbero verosimilmente più di 12 milioni e i protestanti sarebbero oltre quota 60 milioni. Altre proiezioni, provenienti da centri di ricerca ed università della Cina continentale, stimano invece la comunità cristiana come compresa fra i 50 e i 130 milioni e, pur divergendo sulle sue dimensioni attuali, concordano su una previsione: entro il 2040 più di un terzo della popolazione totale potrebbe indossare una croce, ossia circa 579 milioni su 1 miliardo e 421 milioni di abitanti. Nel Pcc vige la consapevolezza che il messaggio cristiano è portatore di un messaggio rivoluzionario che nei secoli ha rovesciato governi e riscritto l’identità di interi imperi, contribuendo in ultima istanza al crollo del blocco sovietico nell’Est Europa, e il timore che l’assenza di controllo sopra di esso possa determinare la fine dell’esperienza comunista in Cina è tale da aver convinto gli strateghi al servizio di Xi Jinping che l’unico modo per evitare un simile scenario sia la costruzione di un “cristianesimo dalle caratteristiche cinesi“, ovvero deprivato di tutti quegli elementi che lo rendono pericoloso. Nel caso del cattolicesimo, la sinizzazione implica la riscrittura delle sacre scritture in chiave materialistica, la de-divinizzazione di Gesù e della Madonna e il rifiuto del primato petrino. Quest’ultimo è il motivo per cui il pontificato ha lottato per il raggiungimento dell’accordo del settembre 2018, che per la prima volta dal 1951 (l’anno del congelamento dei rapporti bilaterali) ha garantito al vescovo di Roma il diritto alla nomina dei vescovi, come accade nella maggior parte del mondo, e sta lavorando affinché venga rinnovato e funga da testa di ponte per la conclusione di ulteriori trattati funzionali alla fine della persecuzione anticristiana.

Massimo Franco per il ''Corriere della Sera'' il 30 luglio 2020. Forse il Vaticano aveva avuto un presentimento. Nell' estate del 2019, all' inizio dei moti di protesta, la Legatura apostolica di Hong Kong ha deciso di trasferire di nascosto nelle Filippine tutti i suoi documenti più riservati. E da lì sono stati portati in Vaticano, nell' ex Archivio segreto, oggi rinominato «apostolico», per paura che fossero sequestrati o distrutti dai militari e dall' intelligence cinesi. Può darsi che i vertici ecclesiastici percepissero non solo l' occasione storica ma le insidie di un rapporto ravvicinato con la Cina, formalizzato il 22 settembre 2018 con un patto di due anni mai reso pubblico per volontà di Pechino. Adesso, quella diffidenza sembra giustificata dalle notizie su un' infiltrazione nei server del Papa da parte di hacker cinesi, che sarebbe avvenuta a maggio: anche se Pechino parla di «congetture» senza prove. Già nel 1997, all' inizio della lunga transizione di Hong Kong da colonia britannica a isola cinese a tutti gli effetti, seppure con un' autonomia speciale, la Santa Sede aveva riempito decine di valigie diplomatiche per mettere al sicuro i dossier più scottanti: destinazione Manila, perché ufficialmente l' ufficio della Santa Sede a Hong Kong risulta come «missione di studio», una sorta di nunziatura informale, legata alle Filippine. Un anno fa, l' operazione è stata completata con il trasferimento dei dossier a Roma. Insomma, proprio mentre continuavano le aperture al regime di Xi Jinping, gli analisti vaticani erano arrivati alla conclusione che presto l' Esercito di Liberazione sarebbe intervenuto per normalizzare la situazione. La distensione è andata avanti in questi quasi due anni a dispetto del giro di vite cinese sia a Hong Kong, sia contro la minoranza musulmana degli Uiguri, nell' estremo ovest dell' Impero di Mezzo; e nonostante le pressioni degli Stati Uniti, convitato di pietra tra il pontefice argentino e il «nuovo Mao», per isolare Pechino. La Casa Bianca ha mosso le sue pedine geopolitiche in questi mesi, creando una sorta di «corona ostile» di nazioni asiatiche preoccupate dall' espansionismo cinese. E la guerra fredda in incubazione tra i due Paesi sta prefigurando scelte destinate a mettere in mora l' equidistanza vaticana dagli schieramenti strategici internazionali. Il fatto che i vertici della Santa Sede non abbiano mai preso una posizione ufficiale contro la repressione in atto nella ex città-stato è stato visto a Washington come la controprova della volontà di continuare la marcia di avvicinamento a Pechino. Il Vaticano ha optato fin da febbraio su una «diplomazia del coronavirus» che ha portato a colloqui con gli interlocutori cinesi e a scambi di cortesie, osservati con irritazione dagli Usa. E ha preso corpo l' ipotesi di un prolungamento tacito di altri due anni dell' accordo provvisorio e segreto in scadenza a settembre. La scoperta dell' infiltrazione cinese da parte della società americana di monitoraggio Recorded Future si inserisce su questo sfondo politico-diplomatico. Getta ombre pesanti sui negoziati per il rinnovo dell' intesa e la prospettiva ultima di stabilire relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Cina: anche perché lo spionaggio cinese sarebbe cominciato due mesi fa, nel pieno della trattativa. In Vaticano sospettano che sia un siluro americano per sabotare l' accordo e ridare fiato a quel «partito anti cinese» tuttora radicato nel mondo cattolico; e protagonista dal 2018 di un martellamento contro la strategia di Francesco, accusato dal cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, di «svendere i cattolici cinesi». Di Zen in Vaticano si dice che abbia avuto milioni di dollari di finanziamenti per la Chiesa clandestina ostile a Pechino. Ma nei circoli occidentali viene considerato il portavoce delle preoccupazioni e dell' allarme di una vasta area cattolica. In realtà, gli stessi negoziatori vaticani ammettono che il manico del coltello è in mani cinesi. «Quando lo prendiamo, lo facciamo per la lama e sanguiniamo. Ma meglio un cattivo accordo che nessun accordo», ammettono. D' altronde, la motivazione che viene fornita per l' assenza di prese di posizione nette su Hong Kong è che le proteste sarebbero in parte spontanee, in parte fomentate strumentalmente dagli Stati Uniti. Per questo le reazioni sono state delegate alla Chiesa locale. A Roma si è imposta una prudenza che incrocia l' esigenza vaticana di non irritare Pechino, e che sa molto di realpolitik. Rimane da capire se le rivelazioni delle ultime ore, riportate dal New York Times , influiranno sulla strategia asiatica di Francesco. Se davvero è in atto un tentativo di condizionarla e magari farla deragliare, sono prevedibili altre sorprese: sebbene i documenti più scottanti su Hong Kong siano al sicuro da un anno nei meandri blindati dell' Archivio apostolico vaticano. Irraggiungibili perfino dai pirati informatici cinesi.

·        Il Vaticano e le Divisioni interne.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 26 novembre 2020. Papa Francesco parla a nuora perchè suocera intenda. All'udienza generale ha ripetuto che la Chiesa non è un «partito politico» dove tutto funziona secondo il meccanismo delle maggioranze rappresentative, delle cordate o delle primarie. «La Chiesa non è un mercato o un gruppo di imprenditori che lavorano in una ditta» ha detto. Il passaggio dell'udienza è tutto da decifrare ma è sembrato riferirsi a due voragini attualmente aperte. Da una parte la questione dei veleni che stanno agitando la curia, in primis per il caso Becciu che ormai appare per quello che è, una patacca costruita ad arte in una specie di congiura di Palazzo fatta di cordate. Dall'altra, invece, le parole sembrano descrivere quello che accade in Germania dove i vescovi hanno intrapreso un cammino rivoluzionario che sta mettendo in discussione capisaldi del magistero o della tradizione che vanno dall'abolizione del celibato sacerdotale, al sacerdozio femminile, dalla comunione con i luterani alla trasparenza nella gestione degli archivi diocesani, delle finanze o dei risarcimenti alle vittime della pedofilia. Insomma, una rivoluzione in fieri che sta creando non pochi grattacapi a Roma e sta spaccando gli stessi vescovi tedeschi. Alcuni giorni fa persino il cardinale di Monaco, Marx ha aperto – in via teorica – una breccia per una possibile abolizione del celibato sacerdotale al fine di far fronte al calo drastico delle vocazioni e al fatto che ormai, anche in tante diocesi tedesche, le parrocchie non hanno più preti a disposizione. Papa Francesco non è la prima volta che interviene sul cammino sinodale tedesco. Lo aveva fatto anche con una lettera formale, indirizzata all'episcopato l'anno scorso per chiedere unità di intenti e di vedute. Aveva anche ricevuto, a giugno di quest'anno, il presidente della conferenza episcopale e nel corso del lungo colloquio lo aveva incoraggiato ad andare avanti ma tenendo conto il tema dell'unità. Stamattina Francesco ha ricordato i capisaldi sui quali si fonda la vita ecclesiale: «l'ascolto dell'insegnamento degli apostoli, la custodia della comunione reciproca, la frazione del pane e la preghiera. Tutto ciò che nella Chiesa cresce fuori da queste "coordinate", è privo di fondamenta, è come una casa costruita sulla sabbia . E Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere. E la parola di Gesù che riempie di senso i nostri sforzi. E nell'umiltà che si costruisce il futuro del mondo». Francesco ha anche confessato di sentire "tristezza” quando vede «qualche comunità che pensa di fare chiesa con i raduni, come un partito politico: 'Ma cosa penserà la maggioranza e la minoranza?'. Mi chiedo: ma dove è l'amore comunitario? La Chiesa non è una ditta per maggioranza o minoranza. La Chiesa non cresce per proselitismo. La Chiesa cresce per attrazione. Se manca lo Spirito Santo non c'è sinodalità. C'è un club, non c'è la Chiesa». La Chiesa tedesca ha intrapreso un complesso percorso per far fronte alla continua emorragia di fedeli. Solo nel 2019 hanno lasciato la Chiesa cattolica 272.771 persone.  Il cardinale Marx, durante il sinodo sulla Famiglia, spiegando la necessità di ripensare il rapporto tra la base e le istituzioni ecclesiali aveva sbottato: «non sarà di certo Roma a dirci cosa dobbiamo fare». Le cifre ufficiali della emorragia sono state pubblicate di recente dalla Conferenza episcopale. Il calo dei fedeli risulta in aumento rispetto alle 216.078 persone che hanno lasciato nel 2018. Il numero totale dei cattolici in Germania alla fine del 2019 era di 22,6 milioni, pari al 27,2% della popolazione, in calo rispetto ai 23 milioni, pari al 27,7%, del 2018. Le statistiche dei vescovi tedeschi hanno fatto affiorare anche altri aspetti negativi per la vita della Chiesa. Il numero dei cattolici che partecipano regolarmente alle messe è sceso al livello più basso di sempre - 9,1% nel 2019, contro il 9,3% del 2018 - come anche i matrimoni in chiesa (-10%), le cresime (-7%) e le prime comunioni (-3%). Anche il numero dei battesimi cattolici è calato nel 2019 a 159.043 nel 2019 rispetto ai 167.787 del 2018, così come le ammissioni (2.330 nel 2019 rispetto ai 2.442 del 2018) e le riammissioni (5.339 nel 2019 rispetto ai 6.303 del 2018) alla Chiesa. La Chiesa cattolica non è stata la sola a subire un esodo di massa di fedeli. Lo stesso destino riguarda la Chiesa evangelica e i luterani. E' in atto un processo di «declino nella ricezione dei sacramenti» e di erosione dei legami personali della Chiesa.

Uno scisma può sconvolgere la Chiesa di Papa Francesco. Una crisi che rischia di travolgere il mondo cattolico. La sfida ora arriva dalla Germania. E per Roma è un problema. Francesco Boezi, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale.  "Scisma", nella storia della Chiesa cattolica, è una parola che si pronuncia con molta attenzione. Perché una divisione interna alla Ecclesia, dal punto di vista teologico-dottrinale, non può che essere interpretata alla luce dell'opera del demonio. Solo che da qualche tempo quel termine viene ventilato dalle cronache con una certa continuità. Il che succede non tanto per via delle critiche che provengono dalla destra ecclesiastica, ma soprattutto a causa di un'iniziativa dell'episcopato tedesco. La stessa che rischia di far discutere gli ambienti ecclesiastici almeno da qui alla fine del prossimo anno, cioè quando il "Concilio interno" dovrebbe avere fine. I vescovi tedeschi, in buona sostanza, sembrano pensare che le istituzioni cattoliche debbano procedere con un cammino evolutivo, che si dimostri in grado di modificare alcuni paradigmi essenziali, andando incontro "al mondo" ed alla cultura contemporanea. Il che dovrebbe accadere tanto all'interno della vita ecclesiastica quanto all'esterno, ossia nel rapporto tra i consacrati ed i laici. Il "Sinodo biennale" è un appuntamento che il cardinale Reinhard Marx ed i suoi hanno voluto fortemente. Marx è, oltre ad un porporato progressista, anche uno degli uomini più fidati della "cerchia" di papa Francesco. E questo è uno degli elementi che fa discutere. Se non altro perché Roma non può non essere preoccupata dal fatto che i teutonici, nonostante siano dottrinalmente prossimi alla "dottrina Bergoglio", vogliano decidere da soli sul futuro di alcune materie di stretta competenza universale. Quelle per cui spetterebbe decidere proprio al pontefice di Santa Romana Chiesa. Lo strumento scelto è quello della convocazione di un'assemblea che analizzi il momento, che è particolare, e tiri fuori delle soluzioni innovative. Il fattore di fondo è uno: la Chiesa vive una crisi, che è anche vocazionale, dunque deve adattarsi per non scomparire. La strada è già segnata, e qualche prima riflessione collegiale è balzata agli onori delle cronache. C'è già stato inoltre una sorta di ping pong tra le due parti, Berlino e Roma), ma nonostante le preoccupazioni provenienti dalla mura leonine, vale la pena segnalare come da parte tedesca non sia mai stata palesata una volontà d'interruzione dei lavori. Neppure il Covid-19, a dire il vero, sembra influire più di tanto sul progetto germanico. E i tradizionalisti, con toni critici, hanno persino paventato l'ipotesi secondo cui dalle parti del cardinale Marx stiano cercando una sorta di "nuovo Lutero".

I cattolici lanciano l'allarme: rischio "scisma" in Germania. Una figura, insomma, capace di dare una scossa al cattolicesimo globale. Sempre il "fronte conservatore" risulta tuttavia allarmato per via del presunto processo di "protestantizzazione", cioè di avvicinamento alla prassi protestante, che si starebbe consumando. Un fenomeno - quest'ultimo - che coinvolgerebbe tanto la Chiesa tedesca quanto la Santa Sede. Ma cosa vorrebbero approvare in concreto i vescovi della Chiesa teutonica? E perché tra i cattolici si teme uno "scisma"?

Il rapporto tra Benedetto XVI e la Chiesa tedesca. Facciamo prima un piccolo passo indietro. Un pontefice tedesco si è dimesso sette anni fa dal soglio di Pietro. La Germania, insomma, ha avuto la sua grande occasione di "germanizzare" la Chiesa. Il problema, semmai, era che Benedetto XVI la pensava e la pensa in maniera diametralmente opposta rispetto alla visione delle correnti della sinistra ecclesiastica che spopolano nella sua nazione d'origine. Un esempio può valere per tutto: Joseph Ratzinger ha di recente contribuito alla stesura di "Dal Profondo del Nostro Cuore", un libro che si schiera contro l'abolizione del celibato sacerdotale. Ecco, il "Sinodo biennale", tra i suoi punti cardine, ha proprio la volontà di rivedere quella regola. Non è tutto: l'emerito avrebbe anche voluto rivedere l'obbligatorietà della tassa ecclesiastica, che potrebbe essere il vero motivo per cui la Chiesa tedesca pesa così tanto sul consesso mondiale. Interpellato da IlGiornale.it su il rapporto tra l'Ecclesia della Germania e l'ex pontefice, Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior e pensatore che ha contribuito alla stesura di Caritas in Veritate, ci ha detto quanto segue: "..ricordo che nel periodo fine 2011 inizio 2012 il Santo Padre ricevette "sollecitazioni " affinché dimostrasse una "apertura" al luteranesimo tedesco per render più facile un rapporto politico con la Germania. Mi fu detto che non fu sensibile a queste sollecitazioni". I progressisti tedeschi, dopo il passo indietro di Benedetto XVI, avrebbero insomma mano libera o quasi. E questo sarebbe vero nonostante dal Vaticano siano arrivate precise richieste (e una lettera firmata da Jorge Mario Bergoglio) a tema "Sinodo biennale". Sono parole - quelle della Santa Sede - che non nascondono qualche inquietudine. Arriviamo al punto della questione: cosa vorrebbero fare i tedeschi? E perché Santa Marta non può che guardare con attenzione allo sviluppo dei lavori assembleari? C'è veramente il rischio di uno scisma?

Cosa vorrebbe approvare l'ala sinistra della Chiesa tedesca. "La situazione della Chiesa tedesca è confusa per non dire caotica. Da decadi le comunità e associazioni di base di orientamento progressista contraddicono apertamente il magistero, soprattutto per quanto riguarda la morale sessuale, l’intercomunione con i protestanti, il celibato sacerdotale, l’ordinazione delle donne. Una dissidenza dottrinale ripetuta come un ritornello senza fine". A circoscrivere in questi termini il momento odierno della Chiesa teutonica è Mathias Von Gersdorff, il presidente dell'associazione tedesca Tradizione, Famiglia e Proprietà. Le questioni aperte dal cardinale pro migranti Reinhard Marx e dagli altri sono proprio quelle elencate: dal rapporto tra dottrina ed omosessualità, passando per l'abolizione del celibato sacerdotale, per la creazione di "sacerdotesse", per la realizzazione di un rito comune che possa essere considerato valido tanto dai protestanti quanto dai cattolici e per l'estensione della gestione laicale degli ambienti parrocchiani.

"La Chiesa già vive uno scisma e il Papa parla come l'Onu". I tedeschi sono talmente sicuri del loro percorso da aver già iniziato, in alcune circostanze, a benedire coppie formate da persone omosessuali. Il che, in linea teorica, contrasterebbe con gli insegnamenti del Catechismo e con la dottrina sostenuta dal Papa. Von Gersdorff prosegue nella sua analisi, spiegando come sia composto l'ambiente progressista tedesco e da quali leve culturali sia mossa la tendenza dottrinale in oggetto: "L’ala sinistra dell’episcopato si rifiuta di censurare chiaramente questi gruppi. Anzi, mantengono con essi un dialogo cordiale e riconoscono ufficialmente veri “sindacati” cattolici, come il Comitato Centrale dei cattolici tedeschi( ZdK)". Il cuore della "divisione", quindi, non risiede tanto nelle convinzioni dei vescovi filo-Marx, ma in alcuni emisferi con cui però l'episcopato dialoga volentieri. Il punto vero di tutta questa storia - quello che può comportare una frattura anche a livello di scisma - è che il "Sinodo biennale" dovrebbe mettere nero su bianco quei cambiamenti, puntando ad una riforma nazionale del magistero. Come reagirà Roma, in caso? Attorno a questo quesito ruota il futuro del cosiddetto "scisma". Verranno pubblicati dei documenti. E dal Vaticano arriveranno delle repliche. Siamo probabilmente alle soglie di uno scontro, che può essere mitigato da una marcia indietro della Germania. Marx, nel frattempo, si è anche dimesso da presidente dell'equivalente della nostra Cei.

Gli attriti tra i progressisti ed i conservatori. Com'è normale che sia, non tutti gli ecclesiastici, tedeschi o no, pensano che adottare quei cambiamenti serva o sia necessario. Cardinali come l'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gherard Mueller, Walter Brandmueller e Rainer Maria Woelki sembrano, sulla scia del pensiero ratzingeriano, disposti a battagliare per evitare che un quadro scismatico possa prendere effettivamente piede per via del "concilio interno". Esiste insomma chi sostiene che la Chiesa tedesca non abbia il diritto di minare alle basi l'unità della Chiesa cattolica, provando a fare di testa sua fino a provocare un vero e proprio scisma. Tutto questo avviene, come racconta Von Gersdorff, anche per via del venir meno di alcuni equilibri curiali: "Tuttavia negli ultimi anni si è operato un cambio importante. Vescovi seppur progressisti del calibro del defunto cardinale Karl Lehman (presidente della conferenza episcopale dal 1987 al 2008) avevano l’autorità e il prestigio per addomesticare le frange estreme. Insomma, il card. Lehmann sapeva fino a che punto andare avanti senza destare il sospetto che si stava sull’orlo dello scisma e dell’eresia. Non succede lo stesso con i suoi successori i quali non riescono a imporsi sulle teste più calde, sicché danno sempre più l'impressione di essere burattini nelle loro mani". I progressisti di prima, in sintesi, erano meno progressisti dei vescovi odierni.

Ora il Papa teme uno "scisma" tedesco. E la tendenza alla "protestantizzazione" avrebbe a mano a mano conosciuto sempre meno ostacoli lungo il suo cammino, mentre le acredini tra i conservatori ed i progressisti sarebbero divenute più evidenti. Ma è tutto qui? "Non solo - risponde l'esponente teutonico di Tradizione, Famiglia e Prorietà - . Credono (questi vescovi progressisti tedeschi, ndr) che cedendo un tanto eviteranno il peggio e così sono entrati in un meccanismo che gli fa fare promesse sempre più audaci sugli argomenti detti prima. Questa strategia di cedimento continuo è stata persino istituzionalizzata con il “cammino sinodale” che va prendendo sempre più l'aspetto di uno pseudo-sinodo". Un "cedimento" che da parziale sarebbe diventato completo, con l'interessamento indiretto di certe ideologie. Marx, per dirne una, ha volentieri incontrato i leader dei Verdi dopo i risultati delle passate elezioni valevoli per il Parlamento europeo.

La crisi dei numeri. Qual è, a questo punto, il risultato che deriva da quella che sembra essere una confusione generale, signor Von Gersdorff? " Il risultato - rivela l'esperto studioso cattolico - è la situazione deplorevole che vediamo. I progressisti sono sempre più esigenti con i conservatori che accusano giustamente l’episcopato “liberal” di rischiare lo scisma e l'eresia. In mezzo alla polemica, la grande massa dei fedeli va perdendo l'interesse nella Chiesa. Fuori dai recinti più stretti, la Chiesa in Germania è sempre meno rilevante". E in effetti i dati raccontano di un numero abbastanza cospicuo di fedeli disposti ad abbandonare la Chiesa teutonica. Anche perché, differentemente da come succede nelle altre realtà nazionali, in Germania bisogna versare una parte del proprio reddito ogni anno, nel momento in cui si dichiara allo Stato di appartenente alla confessione religiosa cattolica. Tanti fattori lasciano supporre che la Chiesa tedesca assomigli nel tempo sempre di più alla realtà protestante, che appunto da uno scisma è nata. Gli stessi fattori che suggeriscono pure però come il futuro della Germania possa essere privato dal cattolicesimo per com'è comunemente inteso e per come l'Europa l'ha conosciuto.

Ruini: «La Chiesa italiana è in declino. Criticare papa Francesco? Non significa essergli contro». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2020. Il cardinale: «La corruzione, specialmente in alto loco, è una delle più gravi piaghe della Chiesa». «No a un partito dei cattolici, la Meloni sciolga il nodo Europa».

Cardinale Ruini, il nuovo libro di Massimo Franco parla del declino politico-culturale della Chiesa italiana. Lei è d’accordo?

«Sì, purtroppo. La dimensione culturale è strettamente legata alla fede e la dimensione politica ha un’ovvia connessione con quella culturale. Questo declino non può non preoccupare. Occorre reagire: un compito che spetta ai laici credenti, ma anche alla Chiesa come tale. Oggi è più difficile di qualche anno fa; ma non è impossibile».

Lei ha la sensazione che i temi storicamente cari ai cattolici, a cominciare dalla difesa della vita e della famiglia, non facciano più parte dell’agenda politica?

«Direi che ne fanno parte assai meno di prima. Ma non sono spariti, e nemmeno lo potrebbero: nel contesto dell’Occidente contemporaneo sono inevitabilmente oggetto di dibattito. È di pochi giorni fa una buona notizia, almeno dal mio punto di vista: la Santa Sede ha ribadito con forza il rifiuto dell’eutanasia».

Ma l’emergenza Covid non ha restaurato la centralità, se non della Chiesa, della missione dei suoi sacerdoti?

«Per assistere le persone colpite dalla pandemia hanno perso la vita, accanto a tanti medici e infermieri, anche molti sacerdoti e religiose. La Chiesa italiana si è confermata anche in questa occasione una Chiesa vicina alla gente».

In questi mesi abbiamo avuto un po’ tutti paura della morte. Lei ci ha pensato? Ha avuto paura? Siamo usciti dalla fase acuta della pandemia più forti, o almeno più consapevoli?

«Ormai da anni alla morte penso ogni giorno. Anzi, più volte al giorno, soprattutto quando prego. La morte mi fa sicuramente paura. Ma accanto alla paura, e più forte della paura, sento in me la speranza nell’amore e nella misericordia di Dio. La fede in Dio cambia in profondità il nostro rapporto con la morte: oggi ne parliamo troppo poco. La pandemia ci ha fatto riflettere sulle cose che contano veramente. Speriamo di non dimenticarcene troppo presto».

Che cos’ha provato nel vedere i portoni chiusi delle chiese?

«Li ho visti solo in tv: esco raramente di casa. Ne ho avuto un’impressione triste, mitigata dalla fiducia che il Signore possiamo trovarlo ovunque. Anzi, lui per primo trova sempre la strada per incontrarci».

Torniamo al declino della Chiesa. Cosa dovrebbero fare i cattolici per contare di più, sia nella politica che nella discussione culturale? Come si ferma la scristianizzazione?

«Dobbiamo avere più fiducia nella bontà e nell’attualità di una cultura che abbia il cristianesimo alle sue radici. Un rapporto sano e fecondo tra cattolici e politica passa attraverso la mediazione della cultura. Poi naturalmente occorrono capacità politiche e un grande amore per la libertà. Fermare la scristianizzazione è molto difficile. Non si può farlo solo a livello culturale e tanto meno politico. Decisiva è una testimonianza cristiana autentica, personale e comunitaria. In ultima analisi, decisiva è la grazia di Dio».

Non solo Venezia, Torino, Genova, ma persino Milano oggi non ha un cardinale. Non è anche questo un segno di declino?

«Cent’anni fa era italiana la maggioranza assoluta dei cardinali. Con Pio XII è iniziata l’internazionalizzazione, più in sintonia con la cattolicità o universalità della Chiesa, che con Papa Francesco sta conoscendo un ulteriore sviluppo. Naturalmente deve esserci un limite anche a questo processo. Non sarebbe bene che l’Italia fosse sottorappresentata. Anche perché Roma, sede dei successori di Pietro, è la capitale d’Italia».

Qualche cardinale straniero ha teorizzato che il peso degli italiani dovesse diminuire: «Meglio venire da Tonga che da Milano». È diventato un problema essere italiani?

«Non credo che i vescovi italiani avvertano un problema del genere. A ogni modo, la nazionalità sia italiana sia non italiana non deve essere né una colpa né un titolo di merito. Ce lo chiede la natura stessa della Chiesa».

Qualche guaio però in Curia gli italiani l’hanno combinato. Che idea si è fatto del caso Becciu?

«Non ho elementi per una mia valutazione personale. Vorrei dire però che i mezzi di comunicazione sono comprensibilmente attenti alle vicende negative; ma esiste nella Chiesa una moltitudine di persone e di comportamenti che sono invece decisamente positivi, e che la gente conosce perché ne fa esperienza. Per questo la Chiesa è sopravvissuta nei secoli alle sue peggiori crisi».

Però nella Chiesa la corruzione esiste.

«La corruzione, specialmente in alto loco, è una delle più gravi piaghe della Chiesa. Da giovane pensavo che si trattasse di un problema del passato ormai remoto; ma mi illudevo. Continuo a sperare che ne usciremo, con l’aiuto di Dio e facendo ciascuno la propria parte».

Non abbiamo un Papa italiano da quasi mezzo secolo. Essere italiano è ormai un handicap per diventare Papi?

«Penso proprio di no. Direi piuttosto che non è più un vantaggio, o addirittura un pre-requisito; ma è bene che non lo sia più. Papa deve essere eletto colui che è ritenuto più degno e idoneo, indipendentemente dalla nazionalità».

Esiste un movimento conservatore internazionale contro Francesco?

«In qualche modo, esiste; ma ha varie accentuazioni e sfaccettature. Solo pochi possono davvero essere considerati “contro” Papa Francesco: ad esempio, non tutti coloro che hanno formulato qualche critica con intenti costruttivi».

C’è spazio oggi in Italia per un partito dei cattolici? Magari al seguito del premier Conte…

«Non vedo uno spazio del genere. I cattolici devono puntare sui contenuti dell’azione politica, individuati anche alla luce di una visione cristiana dell’uomo e della società; e devono collaborare con chi, cattolico o no, condivide tali contenuti. Oggi purtroppo in larga misura manca proprio l’attenzione a una visione cristiana».

Lei un anno fa disse al Corriere che con Salvini bisognava dialogare. L’hanno molto criticata per questo. Si è pentito? Ora Salvini appare un po’ ridimensionato…

«Non mi sono pentito affatto. Dialogare bisogna. A Salvini e a Giorgia Meloni, che adesso meritatamente è sulla cresta dell’onda, vorrei dire che se vogliono fare il bene del Paese e arrivare al governo devono sciogliere il nodo dei loro rapporti con le forze che sono stabilmente alla guida dell’Unione europea».

Lei cos’ha votato al referendum sul taglio dei parlamentari? È stata una vittoria dell’antipolitica?

«Ho votato No. È stato un successo del desiderio, comprensibile ma ingenuo, di ridurre i costi della politica».

Ora si parla del ritorno a una legge elettorale proporzionale. Lei cosa ne pensa?

«È una proposta sbagliata e soprattutto pericolosa. Fin dall’inizio la nostra Repubblica ha avuto seri problemi di governabilità. Quando De Gasperi aveva la maggioranza assoluta dovette affrontare una crisi di governo all’anno, perché non solo ogni partito ma ogni corrente si sentiva libera di pretendere sempre più spazio. È facile immaginare cosa accadrebbe adesso, quando nessuna forza politica può aspirare all’autosufficienza».

Sarebbe meglio una legge maggioritaria?

«Penso di sì. A mio parere, il maggioritario è stato il principale tra i pochi progressi della Seconda Repubblica».

Cosa ci aspetta per i prossimi mesi? Si annuncia un Natale difficile, con la distanza sociale, la paura per la seconda ondata…

«L’Italia era in difficoltà già prima del coronavirus. Speravamo che la pandemia fosse in via di superamento e che con l’aiuto dell’Europa potessimo riprenderci abbastanza alla svelta. Adesso la minaccia del coronavirus sta di nuovo montando, in Italia ma soprattutto nei Paesi intorno a noi. È difficile fare previsioni. La nostra gente finora ha reagito in modo molto positivo, eccezioni a parte. È il momento di impegnarci tutti ancora di più. Il Bambino che a Natale viene tra noi rimane la nostra più grande speranza, anche per i problemi di oggi».

I bambini e i ragazzi rischiano di pagare il prezzo più alto. Per decenni i giovani italiani si sono formati negli oratori. Oggi la Chiesa cosa può fare per parlare con loro?

«Gli oratori sono ancora un ottimo luogo di formazione. Il problema è che ci sono troppi pochi sacerdoti giovani. Bisognerà affiancarli con dei laici; possibilmente anche loro giovani. Le più difficili sfide per la Chiesa riguardano oggi la fede delle nuove generazioni e le vocazioni al sacerdozio. Il punto sta nel riuscire a esprimere i contenuti della fede nel linguaggio dei giovani, raggiungendo i loro interessi».

Schiaffo al Papa sulla tomba di San Francesco. La sua Enciclica svelata da un sito "contestatore". Il Pontefice ad Assisi per l'attesa «Fratelli tutti». Ma, prima della firma, lo sgarbo...Serena Sartini, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Assisi Lontano dagli scandali e dai veleni vaticani. Il Papa esce dalle mura leonine, in questi giorni travolte dall'operazione di dossieraggio su Angelo Becciu, e sceglie di firmare la sua terza Enciclica, Fratelli tutti, ad Assisi, sulla tomba di San Francesco. Una prima assoluta, una giornata storica, non solo perché l'Enciclica viene «bollata» fuori dal Vaticano, ma anche perché è la prima volta che un Papa celebra messa sulla tomba di San Francesco. L'Enciclica Fratelli tutti è ispirata al santo di Assisi di cui Bergoglio ha voluto prendere il nome. Il pontefice ne ha autografate sei copie: tre regalate ai frati della Basilica, e tre per la Segreteria di Stato. Sarà diffusa ufficialmente questa mattina, dopo l'Angelus, ma ieri intorno alle 15, poco prima che il Papa ancora la firmasse, è stata diffusa dal sito tradizionalista Infovaticana - spesso critico nei confronti di Francesco che ha violato l'embargo pubblicando integralmente il documento. Uno sgarbo al Pontefice? In serata è lo stesso Bergoglio a lanciare un messaggio, su Twitter: «Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole». Ad Assisi il Papa il volto molto sofferente, forse anche per tutto ciò che sta vivendo in questi giorni il Vaticano - celebra una messa semplicissima nella cripta, davanti a una quindicina di persone. Niente omelia, niente discorsi. Poche parole, importantissime, pronunciate prima della firma dell'Enciclica. E un ringraziamento, non casuale, alla Segreteria di Stato, proprio quella presieduta, fino al 2018, da Angelo Becciu, il cardinale licenziato da Francesco al centro dello scandalo finanziario su soldi dell'Obolo di San Pietro investiti in palazzi a Londra. C'è un altro messaggio che, tra le righe, il Papa sembra voler lanciare al mondo intero. Diverse donne cattoliche - da ultimo il Catholic women's Council - hanno criticato la scelta di intitolare la nuova enciclica senza includere, cioè, anche le «sorelle». Chissà se proprio per rispondere a queste critiche, e per dimostrare la sua attenzione anche al mondo femminile, che il Papa ieri ha fatto due visite fuori programma: la prima dalle clarisse del Monastero di Spello; la seconda dalle monache della basilica di Santa Chiara ad Assisi. «Una giornata storica, una giornata di festa», ha commentato padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento, riferendo che il Papa prima di fare rientro in Vaticano ha bevuto un «mate», la tipica bevanda sudamerica, offerta dall'economo dei francescani, Jorge, anche lui argentino.

Lo "Stato profondo" del Papa: ecco chi comanda in Vaticano. Mons. Viganò ha parlato di Chiesa profonda. Un pezzo di Vaticano impegnato a disegnare il futuro e il trono di Pietro. Francesco Boezi, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. Monsignor Carlo Maria Viganò, nella sua lettera a Donald Trump - quella che il presidente degli States ha rilanciato sui social - ha parlato di una "deep Church", ossia di una "Chiesa profonda". Un emisfero che potrebbe essere associato al Vaticano. Uno "Stato profondo" che si oppone, secondo l'analisi dell'ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, anche alla riconferma del candidato repubblicano alla Casa Bianca. Uno strato che guida i processi che incidono sul globo, nonostante non si palesi di fronte a tutto. Il "deep State", nella narrativa sovranista, è composto dai potentati che non accettano che un anti-sistema come Trump possa governare la nazione più importante del mondo. Lo stesso discorso varrebbe per la Santa Sede. In questo secondo caso, però, per "Stato profondo" o "Chiesa profonda" bisognerebbe intendere anche gli autori di una spinta ideologico-culturale che punterebbe a destrutturare la Chiesa cattolica per come l'abbiamo conosciuta in nome del progressismo. Esiste una cerchia più o meno ristretta che influisce sulle posizioni di Papa Francesco e sull'avvenire del cattolicesimo: questa è la convinzione del "fronte tradizionale". Carlo Maria Viganò, nella sua missiva, ha scritto quanto segue: "E non stupisce che questi mercenari siano alleati dei figli delle tenebre e odino i figli della luce: come vi è un deep state, così vi è anche una deep Church che tradisce i propri doveri e rinnega i propri impegni dinanzi a Dio. Così, il nemico invisibile, che i buoni governanti combattono nella cosa pubblica, viene combattuto dai buoni pastori nell’ambito ecclesiastico". La Chiesa cattolica americana appare divisa in vista delle elezioni presidenziali: i conservatori sostengono apertamente The Donald, mentre i progressisti ed i cattolici democratici propendono per Joe Biden. Si tratta di una storia antica, ma la spaccatura interna adesso è più visibile che mai. Jorge Mario Bergoglio insiste nel dire che dividere è opera del diavolo. Gli appelli degli ecclesiastici progressisti in favore del candidato dei Dem, tuttavia, non si contano più. Così come quelli dei pro life in favore di Trump. Chi è, dunque, che sta alimentando le divisioni nella Ecclesia? Il quesito è attuale.

La "guerra santa" di Francesco: così il Papa sfida i sovranisti. A prescindere dalle elezioni americane, il ragionamento vale per molti aspetti della vita ecclesiastica, compresi quelli dottrinali. La partita, in poche parole, avrebbe un valore "universale". Questa "Chiesa profonda" sarebbe accomunata dalla battaglia contro il sovranismo, che viene percepito alla stregua di un pericoloso nemico. E sarebbe dunque abitata dalla sinistra ecclesiastica. Nello stesso tempo, questo "deep State" del Vaticano starebbe infatti spingendo per una revisione complessiva della struttura gerarchica ecclesiale, con accenti posti anche su quello che i conservatori chiamano stravolgimento dottrinale. Si tratta o no di una boutade? Possibile che la Chiesa cattolica sia così immersa nelle logiche correntizie? E quali risvolti avrebbe l'esistenza di una "Chiesa profonda" da un punto di vista squisitamente politico?

Che cos'è uno "Stato profondo". Non è semplice comprendere quali siano i protagonisti di questa stagione. Conosciamo le personalità più importanti della gestione del pontefice argentino, ma comprendere da chi sia animata la "Chiesa profonda", sempre nel caso esistesse davvero, non è un'operazione semplice. Alcune fonti con cui abbiamo parlato si sono limitate ad affermare di non essere nella posizione di comporre un elenco con precisione. Se non altro perché queste fonti non hanno alcun ruolo in quello che sarebbe lo "Stato profondo" della Chiesa cattolica. C'è una certa logica dietro all'impossibilità di diramare un vero e proprio quadro preciso di fondo: soltanto chi opera nella presunta "deep Church" è consapevole di come agisca la presunta "Chiesa profonda". Si può domandare, però, cosa si intende per "Stato profondo", e dunque in questa specifica circostanza per "Chiesa profonda".

La "partita" decisiva per la Chiesa: chi può succedere al Papa. Julio Loredo, presidente per l'Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà, pensa che " si sta diffondendo nel linguaggio giornalistico l’espressione Deep State, cioè Stato Profondo, per designare le strutture di potere nascoste dietro (o dentro) gli organismi dello Stato. Il concetto non è per niente nuovo. Già gli antichi greci parlavano di kratos en kratei, il potere dentro al potere. Nel suo senso moderno l’espressione proviene dal turco derin devlet, e fu usata all’epoca di Kemal Atatürk in riferimento a circoli di potere – servizi segreti, vertici militari, vertici giudiziari, mafia, ecc. – che agivano indipendentemente dallo Sato". Sì, ma nel contemporaneo? "Nel suo senso moderno, Deep State si riferisce a quelle strutture di potere che un governo non può cambiare e che, quindi, vanno avanti imperterrite, costituendo un vero Stato dentro lo Stato che condiziona gli indirizzi del paese, indipendente da chi sieda sulla poltrona presidenziale. Un esempio classico sono gli Stati Uniti, dove ci sono 2,7 milioni di funzionari pubblici, dei quali non più di 30mila sono sotto l’autorità del Presidente e del Congresso. Questo per non parlare dei poteri finanziari, industriali e pubblicistici, che non dipendono per nulla dal verdetto delle urne. I governi passano. Il Deep State permane". Ma non è tutto. Sì, perché "Stato profondo" e "Chiesa profonda" sarebbero in qualche modo alleati. E forse è questa la suggestione più rilevante tra quelle alimentate dalla cosiddetta narrativa sovranista.

Ma esiste davvero una "Chiesa profonda"? Quando monsignor Carlo Maria Viganò ha messo nero su bianco l'espressione "deep Church", in molti si sono scandalizzati. Come può, del resto, esistere una Chiesa nella Chiesa? Un Vaticano nel Vaticano? In linea di principio, non sarebbe neppure possibile presentare un'ipotesi di questo tipo senza ventilare un frazionamento del mondo ecclesiastico. E le "divisioni" tra consacrati rimangono un tabù per definizione. Come l'ex arcivescovo di Buenos Aires ribadisce spesso in questo periodo. E infatti c'è chi, come il religioso Rosario Vitale, smentisce di netto: "Leggere di una “Chiesa nella Chiesa” mi sembra quanto di più fantasioso si possa sperare. La Chiesa per vocazione è una Santa, cattolica ed apostolica. Mi risulta davvero difficile anche solo pensare che alcuni credano a teorie di complotti per installare questo o quel politico, o di piani segreti che porterebbero ad un utopico sovranismo mondiale, che non si sa bene quale obiettivo avrebbe se non quello di alimentare la confusione, che già regna negli ambienti secolari".

Quell'ultimo muro della Chiesa che non si inchina alla sinistra. Come interpretare, allora, il contesto odierno? "In questo come sempre - aggiunge Vitale - ci viene in aiuto la Sacra Scrittura, con il Vangelo di Marco al capitolo 3: 'Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi'. Si commenta da solo, e aggiungo che chiunque tenti di alimentare la divisione all’interno della Chiesa non sta facendo altro che appoggiare i piani del maligno che ci vuole soli e deboli. Seguiamo gli insegnamenti di Cristo che si è fatto prossimo di tutti e per tutti. Le chiacchiere, beh come dice il Santo Padre, anche quelle sono opera del diavolo che come sappiamo significa Il divisore". Il presidente Julio Loredo, per circoscrivere il significato di quel passaggio della missiva destinata al presidente Usa, parte dal piano letterale: "Mons. Carlo Maria Viganò utilizza l’espressione nella sua lettera aperta al presidente Trump: 'Pare che i figli delle tenebre — che identifichiamo facilmente con quel deep state al quale Ella saggiamente si oppone e che ferocemente le muove guerra anche in questi giorni — abbiano voluto scoprire le proprie carte, per così dire, mostrando ormai i propri piani'". Quindi cosa voleva dire Viganò? "Come si vede, l’ex Nunzio a Washington utilizza l’espressione deep state in un senso leggermente diverso e, secondo me, più profondo e coerente con una corretta lettura della storia moderna. Egli si riferisce alle forze rivoluzionarie che, tirando i fili senza mostrare la faccia, hanno sollevato contro Trump una vera e propria rivoluzione di carattere socialista e anarchico. È impossibile, per esempio, che gli stessi moti siano scoppiati in tutti gli Stati nello stesso giorno, con le stesse modalità, gli stessi simboli e gli stessi slogan, senza che vi sia un piano e una mente coordinatrice". Una visione certamente netta quella di Loredo, che però può spiegarci come una parte importante del mondo conservatore cattolico guardi a quanto sta succedendo negli Stati Uniti. Una visione quasi escatologica in cui si affrontano temi che in Italia sembrano distanti anni luce dal dibattito politico, ma che in un mosaico complesso come quello americano possono fare la differenza. E che aiutano anche a comprendere come si muove questo grande cosmo religioso e culturale.

Qualche esempio storico. Il presidente di Tradizione, Famiglia e Proprietà pensa che, pescando nell'armadio della storia, sia lecito far presente come degli "agenti" esistano. Il tutto - ci tiene a sottolineare - senza scadere in "teorie cospirazioniste". Ma qualcosa che muove in una direzione piuttosto che in un'altra c'è, tanto che "questi agenti (quelli del "deep State", ndr) operano, di solito celati, sia nella società temporale sia in quella spirituale. Fa parte della storia, per esempio, il patto segreto sottoscritto dai cattolici liberali sotto l’egida di mons. Félix Dupanloup per opporsi al beato Pio IX e al Concilio Vaticano I, smascherato solo molti anni dopo. Fa pure parte della storia quel “clandestinum foedus” denunciato da san Pio X nel motu proprio Sacrorum Antistitum in riferimento ai modernisti che agivano, appunto, come una società segreta, peraltro vantata dal Fogazzaro ne "Il Santo", dove l’autore vicentino lancia l’idea di una “frammassoneria cattolica”. Poi, Loredo, passa a tempi recenti, con "il “Patto delle catacombe”, sottoscritto da alcuni Padri conciliari nel 1965, impegnandosi a sovvertire la Santa Chiesa dalle fondamenta. E ancora gli accordi, allora segreti, di quella “mafia di San Gallo” che pare abbia condizionato l’ultimo conclave. E questo è solo la punta dell’iceberg". Il "gruppo di San Gallo" - secondo i suoi detrattori una "mafia" - era un gruppo di cardinali progressisti che secondo le accuse avrebbe influito sull'elezione di un pontefice di stampo progressista. Il nome deriva dalla località svizzera in cui si incontravano, appunto San Gallo. Il loro obiettivo è stato per anni quelli di contrastare le pulsioni centralista della Chiesa di Roma, a partire dalla riduzione del potere del Consiglio delle conferenza dei vescovi d'Europa. Uno dei principali avversari di questo gruppo su proprio Joseph Ratzinger, considerato un problema per la sua influenza romano-centrica sulla Chiesa nel periodo di debolezza fisica di Giovanni Paolo II. "Questi cospiratori, poi, tirano i fili che muovono realtà dichiaratamente progressiste, e l’enorme rete di cripto-progressisti, di para-progressisti, di filo-progressisti e di utili idioti, presenti un po’ ovunque", chiosa Loredo, che poi specifica: " Proprio a ciò si riferiva mons. Viganò nella lettera sopra citata: “Come vi è un deep state, così vi è anche una deep Church che tradisce i propri doveri e rinnega i propri impegni dinanzi a Dio”. In questo senso, la denuncia di mons. Viganò non è una novità. Ciò che costituisce novità è il coraggio che ha avuto nel parlarne".

I laici che oggi contano in Vaticano. Il Vaticano ed i laici triangolano: non è un mistero. Le complicazioni, semmai, sorgono nel momento in cui si cerca di comprendere i "perché" ed i "come". Anzi, durante questo pontificato, si sta discutendo sull'allargare la gestione ecclesiastica al laicato, con l'episcopato tedesco che è in prima linea in questa battaglia. Ma come si declina questa collaborazione sul piano politico-culturale? Il presidente di Tradizione, Famiglia e Proprietà parte da un presupposto: "Il Vaticano ha sempre potuto contare sulla collaborazione di laici fidati. Come non ricordare, per esempio, la splendente figura del Conte Stanislao Medolago-Albani, stretto collaboratore di Leone XIII e poi, soprattutto, di san Pio X in ciò che riguarda le questioni sociali ed economiche? Papa Sarto lo riteneva un vero braccio destro". E ancora: "Anche oggi ci sono laici esterni al Vaticano che vi esercitano un’influenza non indifferente. Purtroppo, spesso sono di un orientamento opposto a quello di Medolago-Albani. Potremmo quasi esclamare: “dimmi con quali laici vai e ti dirò chi sei”. Qualche nome che ha asusnto in questi anni un ruolo di primo piano in Vaticano? "Credo che possiamo cominciare da Eugenio Scalfari. Alcune sue interviste al Pontefice – che egli stesso riconosce non essere ipsis verbis bensì una sua personale reinterpretazione –, nonostante smentite da parte vaticana, sono state annoverate nelle Acta Apostolicae Sedis. Credo sia la prima volta nella storia che un laicista di sinistra detta il magistero della Chiesa". Non basta: " In campo economico, ecco Jeffrey Sachs, un ambientalista radicale di scuola maltusiana. Sachs è assessore di Bernie Sanders, il candidato dell’estrema sinistra alle presidenziali americane. Un altro laico vicino a Francesco è Paul Ehrlich, autore di "The Population Bomb", partigiano di una drastica riduzione della popolazione mondiale, anche con l’aborto selettivo. O ancora Hans Schellnhuber, membro della Pontificia Accademia delle Scienze, promotore della teoria di Gaia. Secondo lui, la terra non dovrebbe avere più di un miliardo di abitanti". Il che ha fatto discutere, soprattutto negli ambienti tradizionalisti. Loredo passa ad un'altra questione particolarmente dibattuta, ossia il contributo dato da alcuni laici nella stesura dell'enciclica Laudato Sii, che è associata all'introduzione dell'ecologia quale caposaldo dottrinale: "E parlando della Laudato Sii, possiamo menzionare Leonardo Boff – ormai ex-frate francescano e, quindi, un “laico” – un padre intellettuale dell’enciclica. Boff è uno dei principali esponenti della Teologia della liberazione di ispirazione marxista. “Dobbiamo introdurre il marxismo nella teologia. (…) Vedo segni del Regno nel socialismo sovietico”, diceva." Un laicato di sinistra cui Francesco guarderebbe con spiccato interesse e che rappresenta uno dei possibili grandi elementi di frattura all'interno del Vaticano.

Il Papa adesso è in "trappola": ecco cosa ha fermato Bergoglio. I progressisti spingono per le riforme, mentre i conservatori tifano Trump e sovranisti: papa Francesco alla prova delle pressioni delle correnti interne. Francesco Boezi, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. Il dibattito è aperto sin dai tempi del lockdown, ma già da prima ci si chiedeva quale fosse il futuro della "Chiesa in uscita", la Chiesa cattolica promossa da papa Francesco. I progressisti non hanno smesso di sperare che il futuro sia quello che si sono sempre augurati. Un avvenire riformistico, dove modificare la dottrina non rappresenti un tabù. Perché il mondo che cambia necessita di adattamenti. La convinzione dei conservatori - come noto - è quella opposta. Le cronache dei retroscenisti raccontano di come Jorge Mario Bergoglio fosse stato eletto con questo presupposto: dare il la alla riforma. Quella a cui Ratzinger, in fin dei conti, non era stato disposto. Ma sono mesi ormai che alcuni media si soffermano su come si sia arrestata quella che la Civiltà Cattolica ha chiamato "spinta propulsiva". La rivista diretta da padre Antonio Spadaro - quella no - non pensa affatto che il papato sia oggetto di un "tramonto", come ha invece titolato IlFoglio. Quando ha salutato per la prima volta il suo successore, Benedetto XVI ha consegnato nelle mani del nuovo pontefice un dossier, un'inchiesta portata avanti da tre cardinali, dopo gli scandali che hanno animato quella stagione. Parliamo degli scandali curiali. Ecco, non abbiamo mai saputo quali conclusioni avessero tratto i tre cardinali individuati ai tempi da Benedetto XVI per l'indagine interna. E non sappiamo, quindi, se Francesco sia intervenuto o meno. Questo è solo un elemento. Si è spesso sollevato il tema della Costituzione apostolica, quella cui sta lavorando il C9 e che dovrebbe fornire nuovo impulso alle regole della gerarchia ecclesiastica, ma per ora niente. Il "fronte tradizionale" che all'inizio ha sperato che Bergoglio continuasse ad operare per quello che Ratzinger non era riuscito a concretizzare pensa che una "spinta propulsiva" non sia mai esistita, e che molte delle aspettative siano derivate dalla comunicazione. La mediaticità, insomma, avrebbe ingannato. Ma i tradizionalisti - si sa - sono di parte in questa storia. Dal punto di vista dei progressisti le cose non cambiano poi molto: le aperture di Bergoglio, a conti fatti, sono state mezze aperture. Almeno secondo i parametri della sinistra ecclesiastica. Francesco non ha aperto ai preti sposati, alle diaconesse, alla Messa ecumenica, alla teoria gender, alla revisione in senso relativista della piattaforma bioetica, alla laicizzazione della gestione ecclesiale, alla protestantizzazione del rito e così via. Le aperture, quelle che hanno contraddistinto questi primi sette anni di pontificato, hanno riguardato altri tavoli, come quello diplomatico o quello appunto mediatico-comunicativo. Chi pensava che, con Francesco, la Chiesa avrebbe occupato in modo diverso il terreno culturale dell'ortodossia dottrinale si è ritrovato un vescovo di Roma ecologista sì, ma non disposto alla rivoluzione in senso stretto. Progressisti per antonomasia sono i tedeschi, che hanno organizzato un "Sinodo" apposito per tentare di approvare le modifiche sostanziali su cui Roma non vuole cedere. Una bella spia di come neppure i progressisti, in fin dei conti, stiano esultando troppo per l'andazzo. Sono emersi così due fronti: quello conservatore, che ritiene quanto fatto da Bergoglio troppo a sinistra per non essere criticato; quello progressista, che ritiene quanto fatto da Bergoglio troppo poco di sinistra per non provare a fare qualcosa di più. Sono semplificazioni che in Vaticano non piacciono, perché riducono la Chiesa, che è di Dio, ad un contesto politico, ma il senso di quello che sta accadendo tra le mura leonine ed altrove in questi ultimi mesi andrà pur semplificato in qualche modo. E ognuno dei due fronti preme. Se la Chiesa teutonica continua imperterrita nella sua marcia autocefala, la parte conservatrice, in chiara contrapposizione con le indicazioni date dal pontefice in questi sette anni, organizza rosari per Donald Trump. In mezzo ai due fuochi, risiede il vertice supremo della Chiesa cattolica.

Ci sono due Chiese parallele? Ecco cosa succede in Vaticano. Tra teorici della continuità e teorici della discontinuità, la Chiesa, con Bergoglio e Ratzinger, vive oggi un momento del tutto atipico. E il rischio paventato è quello di una divisione tra la base dei fedeli di uno e i sostenitori dell'altro. Francesco Boezi, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Una situazione atipica: un pontefice regnante ed uno emerito che abitano all'interno delle stesse mura. Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger non sono in lotta, ma le loro "tifoserie" in qualche modo sì. La situazione è tanto strana da aver spinto le gerarchie dal Vaticano alla riflessione sulle regole da seguire per un Papa che si è dimesso. Poi non se n'è fatto niente, ma per qualche settimana in Santa Sede hanno ragionato su come normare gli interventi di Benedetto XVI (e di tutti i possibili pontefici emeriti del futuro). Quand'è che un Papa che non è più Papa può parlare? Possibile che il discorso venga ripreso. C'è chi incolpa Ratzinger per aver alimentato la "confusione" con i suoi interventi. E c'è chi, al contrario, ritiene che la "confusione", più che gerarchica, sia dottrinale e dipenda tutta da papa Francesco e dalla sua spinta progressista. La domanda che circola da sette anni tra gli addetti ai lavori è sempre la stessa e riguarda la "continuità" o la "discontinuità" tra i due pontificati. Una questione che non è semplice da dipanare. Quando Benedetto XVI ha rinunciato al soglio di Pietro, in molti hanno pensato ad una successione naturale. Invece è stato eletto l'ex arcivescovo di Buenos Aires. I retroscena sul Conclave in cui è stato eletto Ratzinger hanno raccontato anni dopo di come i progressisti avessero opposto a quella del teologo tedesco proprio la candidatura dell'argentino. Poi Bergoglio si è ritirato dalla corsa, dando il via libera all'elezione dell'uomo che tanto aveva significato durante il pontificato di San Giovanni Paolo II. Una versione - questa dello "scontro" al Conclave del 2005 - che ha fornito più di qualche assist ai "teorici della discontinuità". Esiste una "battaglia" tra conservatori e progressisti, ma Francesco e Benedetto XVI sono o no i riferimenti dell'uno e dell'altro fronte? Dal punto di vista comunicativo, forse sì. Ma in realtà il duo, che tiene molto all'unità della Chiesa cattolica, non ha mai combattuto. Anzi, Ratzinger ha sfruttato ogni occasione per affermare la "continuità" con il suo successore. Sono le posizioni prese da Benedetto XVI in quanto emerito, semmai, ad aver fatto pensare il contrario. Dal caso della "lettera tagliata" al libro contro l'abolizione del celibato sacerdotale: sono le volte in cui Joseph Ratzinger ha tuonato ad aver suggerito l'ipotesi che le "Chiese" fossero divenute due?

Papa Benedetto parlerà ancora. Ecco la strategia di Ratzinger. Uno "scisma", a ben guardare, è stato ventilato sì, ma per via delle fughe in avanti di certi episcopati. In particolare, il "Sinodo interno" dei tedeschi sembra preoccupare i sacri palazzi. I ratzingeriani, categoria giornalistica oltre che dottrinale, non hanno mai pensato di separarsi dallla Chiesa universale o di provare ad approvare riforme prescindendo dall'opinione del pontefice regnante. In un recente testo pubblicato da Rizzoli, Papa Francesco. Benedetto XVI Papa emerito. Una sola Chiesa, il cardinale e segretario di Stato Pietro Parolin ha introdotto le argomentazioni che propendono per una "continuità" che in fin dei conti sarebbe assoluta. Ma non tutti la pensano alla stessa maniera, in specie nel campo laico.

Elementi di continuità. Bergoglio e Ratzinger sono in continutà per quel che riguarda l'aspro combattimento per la trasparenza in Vaticano ed in relazione alla battaglia contro gli abusi sessuali ai danni dei minori e degli adulti vulnerabili. Questo è un elemento riconosciuto dai più. La "linea della tolleranza zero" è stata introdotta da Ratzinger sulla scia di quanto messo in campo come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede durante il pontificato di San Giovanni Paolo II. Ratzinger è il papa recordman per numero di consacrati ridotti allo stato laicale in seguito all'emersione di evidenza di prove riguardanti episodi legati ad abusi. Francesco ha continuato l'azione del suo predecessore. All'interno delle "mura leonine", peraltro, non sembra essere svanito il "tappo" che ha impedito a Benedetto XVI di riformare la Curia nel profondo. Papa Francesco sta cercando di far approvare una nuova Costituzione apostolica, che modificherebbe gli equilibri interni ai sacri palazzi. Ma per ora, nonostante gli annunci, sembra permanere qualche difficoltà. Un segno della presenza di forze concentriche che spingono affinché i pontefici non mutino le regole della vita ecclesiastica ai più alti livelli? Possibile. O almeno quella è una delle letture che circolano. Un fattore di coincidenza tra i due pontificati, ancora, è costituto dalla ferma volontà di entrambi i successori di Pietro di realizzare pienamente il Concilio Vaticano II. Gli anti-conciliari, loro sì, si sono opposti sia a Benedetto XVI sia a Jorge Mario Bergoglio. Una lettura che preveda un Benedetto XVI "restauratore" e schierato su una zona diametralmente opposta a quella di un "rivoluzionario" Bergoglio è stata spesso presentata. L'antropologo Roberto Libera, intervistato da ilGiornale.it, spiega che molto del pontificato di Francesco ruoti attorno a questa storia del Vaticano II: "Mi capita di leggere spesso sui media, o ascoltare da commentatori, anche qualificati, considerazioni riguardo il pontificato 'rivoluzionario' di Francesco. Personalmente - ha aggiunto l'esperto - non condivido affatto questa diffusa opinione. Ritengo che basterebbe leggere i contenuti dei documenti prodotti dalla Chiesa cattolica al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II per comprendere che l’attuale pontefice, in realtà, sia impegnato in una azione di attuazione dei capisaldi delle costituzioni e dei decreti nati dai lavori conciliari. La vera questione, io ritengo, sia quella della ancora incompiuta realizzazione di quanto auspicato dal Concilio Vaticano II, cioè un cammino di trasformazione, nella Tradizione, di una Chiesa che, come Paolo VI aveva auspicato, volge la mente verso la direzione antropocentrica della cultura moderna, senza, per questo, disgiungere questa attenzione “dall'interesse religioso più autentico”.

Nuovi dubbi sulla sua rinuncia. Ma Benedetto è ancora Papa? La mancata natura "rivoluzionaria" del regno di Bergoglio, insomma, sarebbe la prova effettiva della continuità con Benedetto XVI. L'ex arcivescovo di Buenos Aires inoltre, stando a quanto dichiarato dall'antropologo Libera, non sarebbe poi così "di sinistra": "Il Concilio Vaticano II, almeno nelle intenzioni, diede ampio spazio a realtà ecclesiastiche fortemente impegnate nel sociale, come quella dei 'preti operai', ad esempio. L’intento non era solo quello di dare spazio al pensiero sorto nell’ambito di ambienti ecclesiastici 'progressisti' nella seconda metà dell’Ottocento, quello del cosiddetto movimento modernista. Uno dei motivi dell’apertura 'a sinistra' che sembrava scaturire dalle decisioni conciliari era anche quello di conquistare degli spazi nel mondo del proletariato dominato dalle rivendicazioni comuniste. Ma vorrei chiudere con due riflessioni, a proposito dell’entusiasmo da parte progressista verso l’attuale pontefice, la prima è che in realtà le attenzioni verso i più deboli, i sofferenti, i diversi, sono parte integrante e imprescindibile dell’opera del Cristianesimo, fin dalle sue origini, anzi, costituiscono il messaggio rivoluzionario del Cristo stesso, questo avveniva qualche millennio prima della nascita dell’ideologia marxista; infine, mi permetto di affermare che sbagliano quanti sono soliti attribuire appartenenze di 'destra' o di 'sinistra' ai pontefici, la Chiesa opera su piani molto distanti da quelli politici, la sua visione del mondo deve essere, necessariamente, altra e alta rispetto alle contingenze della politica".

Elementi di discontinuità. Non è un mistero: i membri di un insieme culturale e religioso - quello che nel tempo è stato chiamato "fronte tradizionale" o "fronte conservatore" - pensano che Joseph Ratzinger e Bergoglio siano in assoluta discontinuità. Dalle posizioni politiche, alla centralità cui è stata destinata l'Europa nel corso del regno del tedesco, passando per le posizioni sui migranti (Ratzinger era anche per il "diritto a non emigrare", mentre Bergoglio è per una linea più aperturista, cosiddetta linea "erga omnes", verso tutti): il piano della discussione interessa questi aspetti, oltre a quelli prettamente dottrinali. Gli stessi su cui spesso e volentieri Francesco e Benedetto XVI la penserebbero in maniera diversa. Come giudicare, allora, i tentativi della Santa Sede, e di molti esperti del settore, di continuare a porre accenti sulla "continuità" tra l'attuale Santo padre ed il precedente?

Perché la lettera di Ratzinger ha fatto infuriare i progressisti. Marco Tosatti, vaticanista di lungo corso e oggi animatore del seguitissmo blog chiamato Stilum Curiae, spiega a ilGiornale.it: "A mio modesto parere c’è una fortissima discontinuità fra i due pontificati. Punto. Cercare di affermare il contrario, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, per non creare divisioni all’interno della Chiesa, per non esacerbare sensibilità in sofferenza, per evitare di creare un polo in un certo senso di silenziosa, muta, ma permanente critica e resistenza nei confronti non tanto della persona di Jorge Mario Bergoglio, ma dei frutti dell’azione del suo entourage, vicino e lontano, mi sembra meritevole da un punto di vista morale, fatta salva la sincerità delle intenzioni, e purché non sia un semplice atto di cortigianeria ; ma assolutamente non corrispondente alla realtà". Le diversità tra l'emerito ed il regnante sarebbero dunque sotto gli occhi di tutti. E basterebbe guardare per accorgersi di tutte queste differenze.

Il dibattito in corso. Marco Tosatti incalza: "Posto che di recente è uscito un libro tutto impegnato a dimostrare la continuità, e per non tediare il lettore con risposte eccessivamente lunghe, mi limiterò alla discontinuità. In breve: mentre il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI rappresentavano una sfida continua alla cultura dominante, e che si è imposta nel mondo occidentale – grazie all’appoggio incondizionato dei mass media, contigui o collusi – i temi prevalenti del regno di Bergoglio, quali migrantismo, ecologia, “culto” della Madre Terra e così via sono quanto di più omologo e omogeneo con quanto predica la cultura dei poteri che prevalgono – per ora – nel mondo occidentale". Anche il piano fattuale renderebbe bene l'idea di come i due pontificati non possano in alcun modo essere equiparati sulla base della non pacifica "teoria" della "continuità": "Basta osservare quanto è stato fatto nel campo della difesa della vita - continua il vaticanista - , e come è stato smantellato quello che era il principale strumento di controcultura nei confronti di aborto e uso degli esseri umani come oggetti per rendersene conto".

Vaticano, Francesco prepara l'attacco al capitalismo finanziario. Poi, ovviamente, c'è il macro-tema della gestione dei fenomeni migratori. Un altro ambito in cui Ratzinger e Bergoglio, come i loro rispetti pontificati, non andrebbero d'accordo: "Per non parlare del migrantismo: un fenomeno che ha evidenti connotazioni di tratta di esseri umani e di sfruttamento degli stessi, e in cui la Chiesa, invece di esaltare e dare preminenza a quanto dicono da tempo vescovi e cardinali africani si rende di fatto complice del fenomeno, anche nei suoi risvolti più venali. Credo che sarà qualcosa di cui dovrà rendere conto alla storia (quella con la lettera maiuscola, ndr). E credo che sia qualcosa che sconcerta molti cattolici, qui ed ora". Al contrario, nel libro edito da Rizzoli, Parolin ha rimarcato, come fatto anche da Libera, il trait d'union dettato dal Concilio: "È l’interpretazione autentica del Concilio da parte del pontefice che l’ha indetto, condivisa dal papa che l’ha concluso, Paolo VI, ed espressa da papa Benedetto XVI nella formula 'novità nella continuità'. E la continuità del magistero papale è il solco percorso e portato avanti da papa Francesco, che nei momenti più solenni del suo pontificato si è sempre richiamato all’esempio dei suoi predecessori...". Il commento del segretario di Stato si può approfondire su Avvenire.

Le voci di "scisma" e il problema della convivenza. I due "schieramenti vaticani" potrebbero dare vita ad uno "scisma"? Ratzingeriani e bergogliani potrebbero davvero optare per due percorsi separati? No. Non c'è alcun pericolo che accada. Questo, almeno, è quello che si deduce dalle scelte, dalle dichiarazioni e dalle mosse di ambo le "parti". Per quanto delle voci riguardanti uno scisma si siano abbattute in questi anni su piazza San Pietro e limitrofi. Un "però" però esiste: quello rappresentanto dalle preoccupazioni del "fronte conservatore" per via del ritorno delle chiese nazionali. Realtà autocefale che sembrano procedere ognuna per conto suo o quasi. Il caso d'esempio è, ancora una volta, quello tedesco, dove il "concilio interno" e l'eventuale approvazione di mofiche nazionali a materie di competenza universali costituirebbero due spade di Damocle poste sull'unità ecclesiastica. Cosa accadrà se la Germania deciderà in via autonoma di abolire il celibato sacerdotale? La Chiesa tedesca sarà in caso considerata come a sé stante? Ecco, questo sembra essere l'aspetto più impellente. Con un distinguo: i ratzingeriani sono preoccupati per la spinta progressista che proviene dalla terra teutonica e da altre realtà, mentre gli episcopati coordinati da esponenti della cosiddetta "sinistra ecclesiastica" hanno sempre guardato con favore al pontefice regnante. Si vede bene, dunque, come il problema della "convivenza" non derivi tanto dalla differenza di vedute dell'emerito rispetto alla visione del regnante, ma dalle diverse reazioni delle "basi" a quello che accade all'interno della Chiesa cattolica.

IL PAPA: “BASTA CHIACCHIERICCIO NELLA CHIESA, È UNA PESTE PIÙ BRUTTA DEL COVID”. Di Fabio Beretta su ilfaroonline.it. "Le chiacchiere chiudono il cuore della comunità. Il grande chiacchierone è il Diavolo che sempre va dicendo le cose brutte degli altri. Perché lui è un bugiardo che cerca di disunire la Chiesa, allontanare i fratelli e non fare comunità. Facciamo lo sforzo di non chiacchierare. Il chiacchiericcio è una peste più brutta del Covid. Facciamo uno sforzo: niente chiacchiere". Papa Francesco torna a mettere in guardia i credenti dalle male lingue e dal "vizio" delle chiacchiere. In passato aveva paragonato il pettegolezzo a veri e propri atti di "terrorismo" perché "distrugge tutto e soprattutto distruggono il tuo cuore, che diventa arido. E' come lanciare una bomba". Oggi, affacciandosi in piazza San Pietro per la preghiera dell'Angelus, lo paragona a una malattia peggiore del coronavirus.

20 ottobre 2019 - PAPA FRANCESCO: “CHIACCHIERE E PETTEGOLEZZI INQUINANO”. “Siamo chiamati ad avvicinarci a Dio e agli altri: a Dio, l’Altissimo, nel silenzio, nella preghiera, prendendo le distanze dalle chiacchiere e dai pettegolezzi che inquinano“: solo le parole di Papa Francesco, pronunciate in occasione dell’omelia della messa per la Giornata Mondiale Missionaria.

2 settembre 2013 - PAPA FRANCESCO - MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE: LA MINACCIA DEL PETTEGOLEZZO (da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 200, Lun. - Mart. 2-3/09/2013)

La lingua, le chiacchiere, il pettegolezzo sono armi che ogni giorno insidiano la comunità umana, seminando invidia, gelosia e bramosia del potere. Con esse si può arrivare a uccidere una persona. Perciò parlare di pace significa anche pensare a quanto male è possibile fare con la lingua. Si potrebbe chiudere così, col noto motto di origine medievale, l’insistenza al limite dell’ossessione del Papa nel condannare il pettegolezzo: “excusatio non petita, accusatio manifesta” (vale a dire, “scusa non richiesta, accusa manifesta”). Magari recuperando la famosa battuta del compianto monsignor Marcinkus, uno che la Santa Sede la conosceva benissimo: “Il Vaticano è un paese di 500 lavandaie”. Tramontati i tempi di Ratzinger, un pontefice che al minimo accenno di gossip, parole scortesi o di vociare coatto faceva un secco inchino e girava i tacchi, con l’approdo di Jorge Bergoglio sul sagrato di Pietro dicerie, pettegolezzi, maldicenze hanno preso il sopravvento. E se c’è una comare suprema, golosissima di storielle, è proprio il gesuita argentino. Tant’è che quando era in Argentina aveva un filo diretto con lo spagnolo Luis Francisco Ladaria Ferrer che gli svelava il chiacchiericcio intorno alla sua persona da parte della Curia romana. Una volta diventato vicario di Cristo in terra, Bergoglio ha ricompensato Ladaria promuovendolo da segretario del Sant’Uffizio a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che è il dicastero più importante della Chiesa. Nomina che ha portato al pensionamento anticipato, tra polemiche, del cardinale Gerhard Müller e all’allontanamento dei quattro suoi collaboratori, i più stretti e preparati. Per essere sempre ben aggiornato su pettegolezzi e maldicenze della Curia, Jorge Mario Bergoglio ha nominato il fedelissimo monsignor Giacomo Morandi a numero due della Congregazione per la dottrina della fede. Che si è fatto notare per aver scritto una lettera che invitava i vescovi di non cestinare le missive anonime, meglio archiviarle, non si sa mai...Cestinata l’era della “confidente” Immacolata Chaouqui, silurato il capo dell’Intelligence del Vaticano Domenico Giani, nel cerchio magico del Papa brilla la vaticanista ed editorialista di ‘’Avvenire’’, la ciellina Stefania Falasca. Al suo fianco c’è il marito Gianni Valente, giornalista dell'Agenzia Fides che collabora con il sito "Vatican Insider’’ de ‘’La Stampa’’ e con la rivista di geopolitica ‘’Limes’’. Molto si favoleggia sull’influenza della Falasca su Bergoglio, determinante al punto che a lei si deve la scelta delle nomine più esclusive (ormai sono anni che la designazione dei vescovi italiani non passa più per la Congregazione della Curia) come di bruschi allontanamenti che hanno suscitato risentimenti e veleni. Autrice di diversi libri, tra cui “La smemoratezza di Dio, papa Francesco conversa con Stefania Falasca”, nel 2017 la Piemme edita "Papa Luciani. Cronache di una morte". Un volume che avrebbe fatto incavolare monsignor Enrico Dal Covolo, all’epoca Rettore della Pontificia Università Lateranense nonché postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo I. Nel suo libro la Falasca, che è vicepostulatrice della causa di beatificazione di Papa Luciani, avrebbe incluso testimonianze secretate sul processo di beatificazione. E comunque contravvenuto alla norma che impedisce ai postulatori di lucrare su quello che apprendono durante il processo. Risultato della diatriba: dal 15 gennaio 2019 l’illustre filologo di fama internazionale Dal Covolo si deve accontentare di ricoprire la carica di assessore del Pontificio comitato di scienze storiche. Al suo posto, come Rettore dell’Università Lateranense, siede il prof. Vincenzo Buonomo, un ex seminarista, noto raccoglitore e narratore di chiacchiere di sacrestia. Nel cerchio magico di Bergoglio non poteva mancare il gesuita Antonio Spadaro all'anagrafe Antonino, giornalista, teologo, critico letterario e accademico italiano, attuale direttore della rivista ‘’La Civiltà Cattolica’’ e mons. Marco Mellino segretario aggiunto del Consiglio di Cardinali e membro del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Che cosa raccontano al Papa? Sono in tanti nella Chiesa Italiana e nella Curia che, leccandosi le ferite della loro caduta in disgrazia, si dicono: “ah, saperlo!”. La nomina nel 2018 del fidato Franco Massara ad arcivescovo di Camerino-San Severino Marche e in seguito nominato anche amministratore apostolico della diocesi Fabiano-Matelica, ha invece dato molti dispiaceri al Papa per essere finito nell’inchiesta del magistrato Gratteri chiamata ‘’Scott-Rinascita’’ sulla ’ndrangheta vibonese. Da quanto emerge dalle oltre mille pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip distrettuale Barbara Saccà a carico di 334 indagati - ricostruisce la Gazzetta del Sud -, sul finire dell’agosto del 2017 una riunione si sarebbe addirittura svolta a casa del parroco di Limbadi a cui avrebbero preso parte il “supremo” Luigi Mancuso. All’epoca a guidare la parrocchia del centro del Vibonese “feudo” dei Mancuso era don Franco Massara (il quale non risulta tra le persone indagate) che si era insediato cinque mesi prima. E non è un caso che Bergoglio abbia ricevuto in udienza privata il 13 giugno 2020 Federico Cafiero de Raho, Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. A proposito di guai giudiziari. Nel 2015 l'Istituto per le Opere dei Religione (Ior) incaricò Paola Severino, avvocato rinomato ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, delle questioni di tipo penale. Era successo che il Promotore di Giustizia del Tribunale vaticano, Gianpiero Milano, aveva aperto un'indagine penale nei confronti dell'ex presidente dello IOR Angelo Caloia e dell'ex direttore generale Lelio Scaletti in merito ad un'ipotesi di peculato per operazioni immobiliari avvenute nel periodo 2001-2008 per 23 milioni di euro. Ebbene, sembra che la somma Severino, scaduto il suo mandato di consulenza, sia stata rimpiazzata da un avvocato calabrese alle prime armi, grazie al fatto di essere nipote del cuoco pasticciere che ogni mattina prepara la colazione a Casa Santa Marta a Bergoglio…

Vittorio Macioce per ''Il Giornale'' il 7 settembre 2020. Le strade dell'inferno sono lastricate di gossip. Non che Papa Francesco usi esattamente queste parole. È chiaro, però, che il pettegolezzo lo irrita. Ci vede il marcio di questo tempo. È qualcosa di diverso da un peccato. È la carta d'identità di una civiltà dove si sparla per sentirsi vivi. Ci torna e ci ritorna, magari come ha fatto durante l'Angelus in piazza San Pietro. «Il chiacchiericcio contro gli altri è una peste più brutta del Covid». È un contagio, una malattia, un veleno. Il capomastro dei chiacchieroni, dice, è il diavolo. Siccome non si può intervistare Lucifero o Belzebù, non resta che rivolgersi a chi da lontano vagamente gli assomiglia. Non per l'anima, ma per la barba e per quello sguardo che, se lo incroci, un po' ti scava dentro. È uno che sulle chiacchiere ha costruito una rivoluzione editoriale. Dagospia, se la guardi senza pregiudizi, è una strada della conoscenza. Svela i segreti del potere. Roberto D'Agostino è a Sabaudia e da casa sua sente il mare. Qualche volta è convinto che parli. È lo stesso suono delle storie che gli raccontano. Sta rileggendo un romanzo di Gay Talese. Lo scrittore che ama di più.

«Peccato che in Italia non sia tradotto abbastanza».

La prima cosa che ti dice sulle parole del Papa è: «Ancora?». Ancora. Ripetere aiuta.

«Sì, ma cosi è una fissa. Ogni tanto si affaccia e spara queste prediche contro il chiacchiericcio. Me ne ricordo una nell'ottobre dell'anno scorso, quando disse che i pettegolezzi inquinano. Lo fece addirittura durante la messa per la giornata missionaria».

Non si può?

«Mi chiedo che c'entrano le chiacchiere con i missionari. Non è importante. La prima volta che puntò l'indice contro il gossip fu il 2 settembre 2013 a Santa Marta. Disse che le chiacchiere minacciano la comunità umana, seminando invidie e gelosie, fino a dire una cosa forte. Il pettegolezzo può uccidere una persona».

Ma te le segni tutte?

«È che questa ossessione di Francesco mi incuriosisce. Mi chiedo perché».

Perché cosa?

«Da dove nasce».

Ti sarai dato una risposta.

«È che lui si ritrova al centro delle chiacchiere».

Stai rimproverando qualcosa al Papa?

«Dico solo che la Chiesa è il regno dei pettegolezzi e lui di quel regno è il capo. Lo sai cosa diceva il compianto monsignor Marcinkus?».

No.

«Il Vaticano è un paese di cinquecento lavandaie. Dagospia è niente al confronto. Solo Benedetto XVI ha cercato di frenare la fabbrica del gossip di San Pietro. Quando qualcuno spettegolava, salutava, si girava e se ne tornava nelle sue stanze».

La fonte?

«Me lo hanno raccontato».

Dì la verità: ti scoccia passare per grande peccatore?

«Figurati. Come tutti ho una vita di peccati. Ho sempre pagato per quello che ho svelato. Però siamo sicuri che quello che chiamiamo pettegolezzo sia spazzatura? Il romanzo più bello del secondo Novecento per me è Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino. Mi riferisco alla prima edizione. È il racconto di tutti i pettegolezzi d'Italia. Lo stile poi, certo, fa la differenza. Quello che dico sempre è che da mille portinai può nascere un Proust. Ora ti leggo una cosa, da un Cretino in sintesi di Fruttero e Lucentini».

Vai.

«Noi non scartiamo l'ipotesi che nella maldicenza si debba vedere l'estremo rifugio dell'individuo indipendente (...). Tagliare i panni addosso agli altri è forse l'ultima trincea del libero pensiero».

Cos' è il gossip?

«Gli americani lo hanno sempre detto: il gossip è una bugia che dice la verità».

Ma è o non è una bugia?

«Qualche volta è una mezza verità, altre una verità e mezza. Tutta la letteratura, e il giornalismo, è una storiella che qualcuno ti ha raccontato».

Come nasce?

«Ti faccio un esempio. L'altro giorno mi chiamano da piazza San Lorenzo in Lucina: guarda che c'è Renzi che è entrato nella gioielleria di Pomellato. Ecco, da qui partono le domande. Che è andato a fare? È andato a comprare un bel regalo alla dolce Agnese?».

Saranno affari suoi.

«Certo, ma siccome è un uomo di potere riguarda tutti. Dagospia fa questo. Ti racconta quello che sta accadendo in Mediobanca, quello che fa Casalino. È conoscenza. La conoscenza è potere e resistenza contro il potere. Il gossip è curiosità. C'è una notizia che non trovi da nessuna parte e che vorrei capire».

Quale?

«Paola Severino non è più l'avvocato dello Ior. Al suo posto c'è un ragazzo di trent' anni. Che sta succedendo? Come nasce questa scelta della Santa Sede? Di chi è amico il nuovo avvocato? Cosa c'entrano i gesuiti? Domani lo scrivo».

Cosa dà fastidio ai potenti?

«Le foto. Io le scelgo brutte, così si incavolano. Sapessi quanti mi chiamano per chiedere: ti posso mandare una mia foto ufficiale? Poi scrivi che rubano e non si fanno manco sentire».

C'è un pettegolezzo di cui ti sei pentito?

«Mi è capitato all'inizio, per inesperienza. Poi, come dicono a Roma, anche le breccole maturano. Raccontai la scappatella estiva di una conduttrice televisiva a Porto...».

Dove?

«Lasciamo stare. Il problema è che non avevo indagato sul suo stato di famiglia. Non immaginavo che questa era sposata, con figlia, e mi sono poi ritrovato in tribunale con il marito che rivendicava la patria potestà sulla pupa. Te lo giuro: avrei fatto mille volte a meno di scrivere su quella scappatella».

Mai arrivate polpette avvelenate?

«Valanghe. Fa parte del gioco. Solo che chi te le invia poi deve stare attento».

Esce dal gioco. Fonte sporca.

 «Non solo. Io non sono cattivo, ma stronzo. Molto stronzo. Se mi fanno qualche scherzo mi applico su di loro e li massacro fino all'ultimo giorno».

Quella mano tedesca sulla Chiesa. Francesco Boezi il 20 agosto 2020 su Inside Over. Le statistiche sui fedeli aderenti alla istituzione ecclesiastica in sé non sono positive (si sta assistendo ad una diminuzione), ma la Chiesa cattolica tedesca sta influenzando l’intero panorama ecclesiastico mondiale. Per paradosso, quando il pontefice era tedesco, l’episcopato teutonico contava molto meno. Non che oggi i cardinali provenienti dalla Germania abbiano occupato posizioni particolarmente rilevanti nella curia romana: non è questo il cuore del ragionamento. Semmai sono le tendenze dottrinali del progressismo teologico sbandierato in quella zona di mondo ad aver monopolizzato il dibattito interno agli ambienti ecclesiastici. Dalla Chiesa tedesca è partito l’input sulla fine dell’obbligo del celibato dai sacerdoti. E sempre in quegli ambienti dottrinali è scaturita l’indicazione per far sì che tanto le donne quanto i laici acquisissero spazio all’interno delle dinamiche gerarchiche del Vaticano. Un appello – quest’ultimo – che papa Francesco ha recepito almeno in parte. La partita più grande è quella del “Sinodo interno”: un appuntamento biennale che i vescovi progressisti tedeschi hanno deciso di organizzare, prescindendo pure dalle preoccupazioni fatte pervenire dalla Santa Sede. Due anni che potrebbero persino comportare uno “scisma”. Se non altro perché i tedeschi sembrano voler procedere con delle modifiche sostanziali non condivise da Roma. Il cardinale Reinhard Marx, vero demiurgo del concilio della realtà ecclesiale teutonica, si è dimesso da vertice dei vescovi, ma rimane comunque il più attivo nel campo della ventilata rivoluzione. Se la Chiesa dovesse assumere il volto indicato dai tedeschi – dicono da parte conservatrice – diventerebbe più simile ad una Ong che ad una istituzione spirituale. Per comprendere la radice del dissidio tra i tradizionalisti ed i “modernisti” teutonici, bisogna tornare indietro nel tempo, e più precisamente al dibattito post-conciliare che ha coinvolto da una parte il cardinal Walter Kasper e dall’altra l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger. Lo scontro in atto oggi è una puntata di uno scontro che va avanti da qualche decennio. Ma qual è il rapporto tra i vescovi tedeschi e Jorge Mario Bergoglio? Il papa, almeno sino a questo momento, non ha dato troppo ascolto alle voci di chi vorrebbe una “protestantizzazione” della dottrina. Di Messa ecumenica – cioè di un rito valevole per tutte le confessioni cui si sarebbe dedicata una commissione ad hoc presieduta proprio da Kasper – non si parla più, ma la pastorale Lgbt – uno dei cavalli di battaglia del progressismo ecclesiastico – è ormai una prassi che ha esordito in numerose comunità diocesane, comprese quelle italiane. Bergoglio, insomma, sta cercando di tenere una posizione mediana, ma le spinte riformiste che vorrebbero pure una pronunciata gestione laicale all’interno delle parrocchie del mondo sono molto forti. E vale la pena tenere in considerazione pure come, stando a più di qualche retroscena, i cardinali tedeschi abbiano giocato un ruolo importate per l’elezione al soglio di Pietro dell’ex arcivescovo di Buenos Aires. Tanto la Germania quanto il Sud America avrebbero fatto quadrato attorno al nome di Bergoglio ormai quasi sette anni fa. Kasper e Marx sono sicuramente due “bergogliani”. il “Sinodo interno” serve a modificare parte della dottrina. In Germania non sono tutti d’accordo. Persino lo stesso cardinale Kasper sembrerebbe aver espresso più di qualche perplessità. Il dato di fondo è che la materia su cui l’episcopato vorrebbe intervenire è di stretta competenza pontificia. Il papa decide se modificare o no il Catechismo. E sempre al papa spetta al limite la rielaborazione del rapporto dottrinale, giusto per fare un esempio, con l’omosessualità. La “minoranza creativa” di Joseph Ratzinger è decisamente prioritaria, mentre avanzano le velleità di chi vorrebbe una Chiesa completamente inserita “nel mondo”.La Chiesa cattolica tedesca, che è potente e ricca finanziariamente per via del meccanismo della tassa ecclesiastica, pensa che per traghettare il cattolicesimo al di là del guado della secolarizzazione serva un bagno nella società, con le conseguenti contaminazioni. L’andazzo culturale preferito dalle alte sfere del Vaticano, tedesche o no, sembra procedere proprio in quella direzione.

La "partita" decisiva per la Chiesa: chi può succedere al Papa. In Vaticano ragionano sul futuro della Chiesa. Già da adesso può iniziare la partita per il dopo Bergoglio. Francesco Boezi, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. Parlare del prossimo Papa con Jorge Mario Bergoglio ancora regnante può essere percepito come un esercizio privo di senso, ma di questi tempi alcune case editrici stanno pubblicando alcuni libri che trattano proprio del "Next Pope", del consacrato che sarà chiamato a regnare sul soglio di Pietro. "Perché?", ci si potrebbe chiedere. Le ragioni possono essere soprattutto due: c'è chi evidenzia che i cardinali non si conoscano tra di loro e quindi abbiano bisogno in anticipo dei profili degli altri porporati per scegliere in futuro, ma c'è anche chi pensa che papa Francesco possa persino dimettersi. Joseph Ratzinger ha aperto una breccia nella storia. Benedetto XVI ha creato una figura nuova, il pontefice emerito. E nessuno, a ben vedere, può dare per scontato che Joseph Ratzinger rimanga l'unico papa ad optare per quella scelta dopo la rinuncia del 2013. Quando abbiamo intervistato il vaticanista del National Catholic Register per Inside Over, Edward Pentin ci ha detto che la scelta di lavorare alla sua ultima fatica, "The Next Pope" appunto, è dipesa pure dal fatto che "Ii un conclave, di solito, non è solo il pubblico ad avere poca o nessuna conoscenza del futuro Papa. Forse, sorprendentemente, nemmeno i cardinali che stanno votando per lui. Nell’ultimo conclave del 2013, un cardinale ha dichiarato in modo memorabile di aver trovato confuse le informazioni ricevute e altri si sono lamentati della mancanza di informazioni su chi votavano". Questa è una delle spiegazioni che riguardano la ratio di una delle pubblicazioni comparse sul prossimo vescovo di Roma. L'altra causa di questi libri può essere rintracciata per esempio su quanto scritto anche da Italia Oggi di recente: in Santa Sede avrebbero già iniziato a pensare a qualche nome. E magari anche papa Francesco può aver fatto qualche ragionamento sul suo successore. Ma perché viene ventilata l'ipotesi che il Santo Padre possa intraprendere lo stesso percorso scelto da Joseph Ratzinger? Esiste almeno un motivo per pensare che Jorge Mario Bergoglio possa diventare il prossimo "emerito"?

La lezione di Ratzinger in foto. Dalle ventilazioni dei giornalisti considerati "amici" del pontefice argentino, alle riflessioni che lo stesso papa Francesco ha presentato in relazione alla mossa del 2013 di Ratzinger: questa eventualità non viene del tutto esclusa dalle cronache vaticane, che se ne sono occupate e che ogni tanto tirano fuori questo scenario. Per comprendere cosa potrebbe accadere non è ovviamente sufficiente indagare gli umori dei vari "fronti" che operano sul piano dell'opinione pubblica - ricorderete di come un arcivescovo, Carlo Maria Viganò, abbia persino domandato le dimissioni del Santo Padre - . Non si può che lasciare che il tempo fornisca le risposte. Il cardinale americano Timothy Dolan, stando a quanto riportato dalla Cna, ha inviato ai suoi fratelli cardinali il libro di George Weigel, un altro "The Next Pope". Qualche movimento, se non altro dal punto di vista culturale, sembra esserci. Il fatto che vengano pubblicati libri non dimostra che il papa stia per dimettersi. Certifica, al limite, che il dibattito sull'avvenire ecclesiastico è aperto. Nel corso di questo pontificato, si è parlato spesso pure di "complotti" contro il vescovo di Roma. Tanto i "progressisti" quanto i "conservatori" sono stati accusati di remare in direzione opposta rispetto a quella di Papa Francesco. Un'ultima considerazione è necessaria prima di passare alla disamina sugli "schieramenti vaticani": chi è cattolico può giustamente ritenere che le logiche ecclesiastiche non influenzino il Conclave, perché è lo Spirito Santo, in fin dei conti, a guidare la scelta dei cardinali riuniti in assemblea. Joseph Ratzinger, però, ha dichiarato quanto segue sul tema: "Non direi così, nel senso che sia lo Spirito Santo a sceglierlo. Direi che lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto". Questa dichiarazione è stata rilasciata ai tempi da Joseph Ratzinger ad Avvenire.

Come funziona il Collegio cardinalizio. Non tutti i cardinali votano. C'è un limite anagrafico: i porporati che hanno ottant'anni o più non possono esprimere la loro preferenza. Quelli che hanno meno di ottant'anni, invece, sono parte attiva del Conclave. I cardinali che partecipano al voto, in linea di principio, dovrebbero essere 120, ma non è detto che il Collegio cardinalizio sia composto esattamente da 120 persone. Queste sono le regole di base, che preludono alle celebri "fumate", che possono essere bianche o nere a seconda dell'esito "elettorale". Per eleggere un pontefice è necessario, stando alle regole vigenti, che due terzi dei cardinali votino per la stessa persona. E se l'accordo non si trova? Si continua a tentare sino al trentaquattresimo scrutinio, dove si vota mediante i meccanismi di quello che in politica verrebbe chiamato ballottaggio. I cardinali vengono scelti direttamente dal Papa. La tradizione, nel corso degli anni, è stata parzialmente modificata. La sensazione - quella che viene riportata anche dagli ambienti tradizionali - è che il primo Papa sudamericano della storia proceda molto autonomamente. I condizionamenti, se mai sono esistiti, ora non hanno residenza in Vaticano. Papa Francesco ha soprattutto dimostrato di scegliere prescindendo dalla provenienza diocesana. Alcune realtà ecclesiastiche che hanno spesso donato un cardinale Chiesa cattolica non sono attualmente rappresentate. La Francia, per citare il caso più eclatante, non dovrebbe esprimere cardinali (Philippe Barbarin si è dimesso dall'arcidiocesi dopo un presunto scandalo, mentre l'arcivescovo emerito di Parigi, André Armand Vingt-Trois, compierà ottant'anni tra due anni. Bisognerà vedere se il Papa nominerà cardinali francesi nel corso di un prossimo concistoro. Milano, Venezia e Torino, in cui sono stati spesso incaricati cardinali, sono diocesi gestite da arcivescovi: Cesare Nosiglia, Mario Delpini e Francesco Moraglia non sono stati creati cardinali. Almeno sino all'ultimo concistoro, che ha sancito l'esistenza di una "maggioranza" di cardinali "bergogliani", nel senso di consacrati che l'ex arcivescovo di Buenos Aires ha nominato nell'assemblea cardinalizia. Jorge Mario Bergoglio potrà dunque contare su un successore in linea con i temi della sua pastorale? Impossibile da prevedere. A logica, però, si direbbe di sì.

Lo schieramento progressista. Abbiamo già avuto modo di scriverlo e ci sembra corretto ripeterlo: la Chiesa cattolica non funziona come un partito politico. Per quanto delle diverse correnti di pensiero possano spingere in quella o in questa direzione. Il percorso che il cattolicesimo ha dinanzi a sé prevede due possibilità: continuare con la "Chiesa in uscita" di papa Francesco, e quindi andare incontro al mondo ed alle "periferie economico-esistenziali", oppure "essere del mondo" ma solo in termini di minoranza creativa, che è la via "ratzingeriana". Quella che prevede un restringimento del peso dell'Ecclesia e del numero dei fedeli ma che, nell'ottica dei conservatori, consentirebbe di evitare contaminazioni. Questa è, con buone probabilità, la questione che il prossimo Conclave potrebbe essere chiamato a risolvere. Il che non significa che Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger siano in contrapposizione, ma solo che gli ambienti ecclesiastici - nel corso di qualche ventennio - si sono spesso spaccati attorno al tema che questa dicotomia - "Chiesa in uscita"/"minoranza creativa" - è capace di sintetizzare. Per "schieramento progressista" si intende quella parte di emisferi ecclesiastici meno ortodossi in materia dottrinale, più inclini a possibili riforme e più sensibili ad argomenti quali l'ambientalismo, la gestione aperturista dei fenomeni migratori e la prossimità culturale alle questioni sociali. È lecito affermare che l'azione di papa Francesco sia perfettamente coincidente con le volontà della corrente progressista? Per i tradizionalisti sì, per altri commentatori meno schierati no.

Qualche nome "papabile" tra i progressisti. Una volta esposta questa ampia premessa, diviene più semplice elencare dei nomi: il cardinal Luis Antonio Tagle viene percepito dai conservatori alla stregua di un "delfino" di papa Francesco. E il fatto che Bergoglio abbia scelto il cardinale filippino per Propaganda Fide ha alimentato questa narrativa. I cardinali italiani dati in lizza sono essenzialmente due. Entrambi, con qualche distinguo, vengono spesso inseriti tra i "progressisti". Sono il cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed il cardinal Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e proveniente da Sant'Egidio. Parolin si è distinto per la linea del multilateralismo diplomatico, mentre Zuppi è considerato un cardinale inclusivo, che ha già dato prova di essere favorevole all'accoglienza dei migranti ed alla inclusione erga omnes. Parolin, per alcuni addetti ai lavori, potrebbe anche rappresentare una buona sintesi tra le due principali anime del Vaticano. Zuppi, d'altro canto, sarebbe più "schierato" con il cattolicesimo democratico. Tra i progressisti non si può non annoverare il cardinale Peter Turkson, ghanese e prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Buona parte dei documenti di questo pontificato relativi ai migranti passano per il Dicastero che Turkson presiede. Il vertice del C9, il coordinamento di cardinali che sta lavorando alla riforma della Curia romana e che è stato fortemente voluto da Francesco, è presieduto dal cardinal Oscar Rodriguez Maradiaga, che è honduregno. Un discorso a parte lo merita il cardinal Reinhard Marx, che si è dimesso da presidente dell'episcopato tedesco, ma che sta portando avanti con forza un "sinodo interno" per cui qualcuno, anche all'interno della mura leonine, sembra temere uno "scisma". E ancora vale la pena citare tre nomi: il cardinal Konrad Krajewski, polacco, elemosiniere del Papa balzato agli onori delle cronache per via della storia del contatore riallacciato in uno stabile occupato di Roma; il cardinal Jean Claude Hollerich, presidente dei vescovi europei ed europeista convinto; il cardinale Michael Czerny, canadese, molto attivo a sua volta sul fronte della pastorale sui migranti. Chiudono la lista, che non è e non può essere esasutiva pure per via di quello che potrebbe succedere in futuro, tre porporati degli Stati Uniti: Kevin Farrell, Blase Cupich e Joseph Tobin. Si vocifera infine che il cardinale Donald Wuerl, americano e progressista come gli ultimi tre, abbia giocato un ruolo decisivo nel Conclave che ha eletto Bergoglio (il ruolo che nel Conclave di Ratzinger sembrerebbe essere stato svolto dal compianto cardinale Meisner), ma Wuerl si è dimesso dopo un presunto scandalo da arcivescovo di Washington.

"La Chiesa non sia di sinistra". La rivolta silenziosa dei fedeli. Lo schieramento conservatore. I cardinali conservatori sono eccleasiastici che vorrebbero una Chiesa cattolica meno preoccupata di porre accenti sul piano economico-sociale e più attenta alla spiritualità. Conservatore non è solo chi osteggia dottrinalmente lo "spirito del Concilio", ma anche chi, sul piano politico, ha una visione non proprio in linea con il filo-ambientalismo, cob quello che viene definito "migrazionismo" o con la trasformazione dell'Ecclesia in una Ong. Come nel caso dei progressisti, semplificare può non essere esaustivo: non è neppure corretto definire questi cardinali come "ratzingeriani". Certo è che Benedetto XVI rappresenta un simbolo della strenua lotta per la difesa della civiltà-occidentale. È comune leggere di porporati conservatori che si rifanno alle idee o ai moniti del predecessore di Jorge Mario Bergoglio. Un ultimo dettaglio prima di passare ai "papabili": il fronte conservatore è minoritario all'interno del Collegio cardinalizio.

Qualche nome "papabile" tra i conservatori. Il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, è un conclamato sostenitore dell'eclissi dell'Occidente. In più di una circostanza, cercando una figura che potesse incarnare la visione del mondo dei conservatori, i retroscenisti hanno fato il nome del porporato africano. Il cardinal Raymond Leo Burke è noto per le sue battaglie dottrinali: dai dubia su Amoris Laetitia in poi, il cardinal Burke non ha mai tergiversato quando si è trattato di sollevare perplessità sulla presunta "confusione" imperante. Il cardinal Rainer Maria Woelki è tedesco, ma non la pensa esattamente come il cardinal Marx. Sul "sinodo interno", Woelki e Marx sembrerebbero avere idee diametralmente opposte. Poi ci sono il cardinale olandese, Willem Jacobus Eijk, ed il cardinale ungherese Péter Erdő. Un nome di spicco è sicuramente quello di Gherard Ludwig Mueller, ex prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede. Mueller non è stato confermato da Francesco dopo il primo mandato all'ex Sant'Uffizio. Ma papa Francesco ha inoltrato di recente una lettera al cardinale teutonico, dove Bergoglio sembra cercare una sorta di pacificazione o di alleanza con il mondo conservatore. Altri due nomi che potrebbero corrispondere al profilo ricercato dai conservatori sono quello del cardinale brasiliano Odilo Scherer, che era dato per "papabile" anche in relazione allo scorso Conclave, e quello del cardinale canadese Marc Ouellet. Di recente è balzato agli onori delle cronache un altro cardinale africano, che ha pronunciato un'omelia che ha fatto drizzare le orecchie al mondo conservatore: "Abbiamo occupato i posti dei bianchi, ma non abbiamo usato il potere per servire il popolo", ha tuonato, secondo quanto ripercorso da Tempi, il cardinal Fridolin Ambongo Besungu, che è congoloese. Ambongo si riferiva alla situazione interna della sua nazione.

La "palude". Esiste infine un vasto insieme di cardinali che non possono, per via di mancate prese di posizione, per il moderatismo espresso o per altre ragioni, essere incasellati in questo o in quello "schieramento". Possibile che il futuro Conclave possa essere deciso proprio dall'opinione di questa "palude", intesa come zona non naturalmente circoscrivibile. Dal cardinale Sean Patrick O'Malley, cardinale cappuccino già ventilato quasi sette anni fa come "papabile", al cardinal Luis Francisco Ladaria Ferrer, gesuita, spagnolo e prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede scelto da Bergoglio ma abbastanza conservatore, considerate le non riforme dottrinali cui stiamo assistendo in questa fase, passando per il cardinale americano Timothy Dolan e da un altro cardinale spagnolo, cioè Juan José Omella y Omella: tanti alti ecclesiastici potrebbero essere individuati come successori di Francesco. Ma è possibile che il nome che verrà eletto in un Conclave (che non è previsto e che rimane impronosticabile anche durante il suo svolgimento) non sia neppure tra questi ultimi.

Guerra nella Chiesa, asse tra Trump e monsignor Viganò contro Papa Francesco. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Una coppia che più strana non si può: il presidente Trump e l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, passato nelle file dei contestatori di papa Francesco. L’antefatto di qualche giorno fa (6 giugno) è una lettera a Trump scritta da mons. Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, e pubblicata sul sito cattolico conservatore LifeSiteNews. La tesi è: sostegno a Trump, Presidente dalla parte del “bene” mentre il “male” è rappresentato dal coronavirus (dietro il quale c’è un complotto) e dalle manifestazioni contro il razzismo dopo la morte di George Floyd. Il presidente Trump ha accusato “ricevuta” via Twitter due giorni fa: «sono onorato per l’incredibile lettera di mons. Viganò. Spero venga letta da tutti, religiosi o meno». Di più: mons. Viganò sostiene che la sua è una lettura “biblica”: la battaglia in atto nel mondo è tra «i figli della luce e i figli delle tenebre», schieramenti che «ripropongono la separazione netta tra la stirpe della Donna e quella del serpente». E i figli delle tenebre, seppur in minoranza, hanno in mano un notevole potere dato che «ricoprono spesso posti strategici nello Stato, nella politica, nell’economia e anche nei media». Divisione presente anche nella Chiesa e tra “i figli delle tenebre” ci sarebbe papa Francesco soprattutto da quando ha firmato un documento congiunto negli Emirati Arabi nel 2019 sulla pace e sulla fratellanza umana. Mons. Viganò ed i siti tradizionalisti Usa – con i loro epigoni in Europa, Italia soprattutto – hanno alzato il tiro in vista delle presidenziali statunitensi. Nel 2018 hanno cominciato una campagna per far dimettere papa Francesco. E siccome finora non ci sono riusciti, saldano il fronte conservatore cattolico e non, facendo chiaramente sponda al Presidente Trump. Del resto devono alzare il tiro dopo che il 2 giugno Trump ha ricevuto la pesante sconfessione di mons. Gregory, arcivescovo di Washington, che ha criticato l’uso strumentale della religione di un presidente che si è recato a visitare il Santuario dedicato alla Madonna, scegliendo i simboli religiosi per opporsi alle proteste antirazziste. Il giorno prima si era fatto fotografare con una Bibbia in mano davanti alla chiesa episcopaliana della capitale, collezionando le critiche dei protestanti. E da Roma padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, non le ha mandate a dire, sempre via Twitter: «Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere politico». In un secondo commento ha aggiunto: «Il presidente Trump guida la lotta contro un’entità collettiva più ampia e generica dei “cattivi” o persino dei “molto cattivi”. A volte i toni usati dai suoi sostenitori in alcune campagne assumono significati che potremmo definire “epici”». Trump, da Viganò, incassa la definizione di «sostenitore della vita» e la lettera dell’arcivescovo ha avuto oltre 2,5 milioni di visualizzazioni dal 6 giugno, data di pubblicazione. Siamo davanti ad un altro episodio nella battaglia senza esclusione di colpi che i conservatori cattolici Usa hanno ingaggiato con il papa e contro la linea “verde”, di un’ecologia sostenibile e circolare, a difesa di sviluppo e diritti umani per tutti i popoli, sintetizzata dall’Enciclica Laudato Si’ del 2015. È un fronte trasversale: decine di vescovi cattolici negli Usa, e non solo, appoggiano il network rappresentato da LifeSite: un canale televisivo, più siti collegati, giornali, posti in diversi consigli di amministrazione (compreso il Santuario nazionale di Washington). Con una strizzata d’occhio a quanto accade in Italia, dove ci sono tanti siti ed anche, di nuovo, la scuola di formazione di Steve Bannon nella Certosa di Trisulti. Tra l’altro il Tar ha dato torto nei giorni scorsi al Ministero dei Beni Culturali dichiarando valido il contratto stipulato dai frati con l’associazione Dignitatis Humanae. Il tutto con le elezioni statunitensi in vista. E nei prossimi mesi assisteremo ad ulteriori contrasti e polemiche senza esclusione di colpi.  Del resto mons. Viganò non ha niente da perdere. Da nunzio in pensione può tranquillamente sfogare la sua ira come ha fatto con le prime accuse: 18 pagine fitte pubblicate nell’agosto 2018 per dire come lui avesse fatto di tutto da Nunzio, negli Usa, per segnalare in Vaticano il cardinale di Washington Theodore McCarrick, accusato di abusi. Da lì un profluvio di accuse contro papa Francesco, che peraltro ha preso provvedimenti decisi e inediti proprio contro gli abusi, ad esempio estromettendo McCarrick dal collegio cardinalizio e riducendolo allo stato laicale. Mai avvenuto prima. Ma tant’è: le accuse servono ad altro, a coprire i rilevanti interessi economici in gioco in una elezione presidenziale. E ad occultare la linea di papa Francesco: un mondo sostenibile, verde, impostato sull’economia circolare, sarebbe un mondo migliore per tutti ma con meno affari basati sul consumo, sullo spreco, sullo sfruttamento senza regole delle risorse.

Critiche a Bergoglio frutto di interessi economici più che teologici. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Abbiamo a che fare con un «pontificato ideologico» che si rivolge a «soggetti vittime di situazioni negative: ai popoli, ai movimenti popolari, o ad altri interlocutori analoghi» e abbandona la «dottrina sociale» come via di mezzo tra capitalismo e socialismo?  La tesi è stata avanzata domenica da Ernesto Galli della Loggia in un ampio e articolato commento sul Corriere della Sera.  Vorrei presentare alcune contro-obiezioni.

Primo. È vero che il Papa si rivolge ai «popoli» e ai «movimenti popolari» ma è una caratteristica specifica della teologia di cui padre Jorge Mario Bergoglio è portatore. La «teologia del popolo» è la via argentina della più ampia teologia della liberazione dell’America Latina. Nasce da una riflessione originale dei teologi Juan Carlos Scannone, Ciro Enrique Bianchi, Rafael Tello, Víctor Manuel Fernández. La «teologia del popolo» non è «populismo» e neppure una idealizzazione dei «popoli» e dei «movimenti popolari», salvatori dell’umanità. Certo in Occidente – fuorviati come siamo dal populismo in politica e dalla diffidenza verso tutto ciò che viene «dal basso» – stentiamo a comprendere la portata di questa esperienza. Dal versante ecclesiale, precisa Scannone nel suo libro La teologia del popolo (Queriniana, 2019), la «teologia del popolo» è intesa «a partire dall’unità plurale di una cultura comune, radicata in una comune storia, e proiettata verso un bene comune condiviso. Ma sono i poveri coloro che, almeno di fatto in America Latina, conservano come strutturante, della loro vita e convivenza, la cultura propria del loro popolo, e i cui interessi coincidono con un progetto storico di giustizia e di pace». Lungi dall’essere una questione limitata a un’area geografica precisa, le tre affermazioni (opzione per i poveri come categoria teologica; pietà popolare come locus theologicus; e l’interrelazione tra loro e con l’inculturazione della teologia) sono universalmente valide.

Secondo: la Dottrina sociale. In realtà su questo tema il pontificato sta proponendo a tutta la Chiesa un passo in avanti. La Dottrina sociale sta diventando il «cardine» di un approccio globale ai problemi della vita umana in senso ampio.  Non siamo più nella «bioetica» classica. Per intenderci è la bioetica dei «comportamenti»: ho un problema, come lo risolvo? Ad esempio devo o no abortire, sono lecite le tecniche di procreazione medicalmente assistita, come gestire le fasi finali della vita tra accanimento terapeutico, proporzionalità delle cure, eutanasia, suicidio assistito?

Questi temi restano certamente centrali però vengono «svincolati» dalla «casistica» ed inseriti in una prospettiva di «Bioetica Globale». Cioè la Chiesa protegge e tutela la vita umana ma si preoccupa anche della «qualità» della vita delle persone, delle loro possibilità di crescita umana, economica, spirituale, sociale. Non è un cambiamento da poco. Perché prende almeno due direzioni: vengono interrogati i sistemi sociali (e soprattutto la sanità) per verificare se lavorano per tutti o solo per chi può pagare; ci si preoccupa dello sviluppo tecnologico in quanto strettamente collegato alle possibilità di migliorare globalmente la qualità della vita o di approfondire il divario economico e sociale.

La «Bioetica Globale» inserisce lo sviluppo e la tutela della vita umana all’interno di una precisa presa di posizione ambientale. Anche qui, riassumendo, si potrebbe dire così: ognuno di noi ha a disposizione una sola vita da vivere ed un solo pianeta sul quale viverla. Pianeta che non è «nostro» ma lo abbiamo in prestito dalle generazioni future ed è l’habitat che ci consente di vivere, appunto. Dunque va tutelato.  Dove si trovano queste «radici» del Pontificato? Posso indicare tre documenti e due Dicasteri, solo come indicazione. Il primo documento è l’Enciclica Laudato Si’ (2015) sulla «cura della casa comune» in cui Papa Francesco tematizza la connessione tra crisi ambientale della Terra e crisi sociale dell’umanità. Il secondo documento è la Lettera Humana Communitas (2019) alla Pontificia Accademia per la Vita dove indica i temi del rapporto tra etica, tecnologia, vita.

Il paragrafo 13 li salda così: «La medicina e l’economia, la tecnologia e la politica che vengono elaborate al centro della moderna città dell’uomo, devono rimanere esposte anche e soprattutto al giudizio che viene pronunciato dalle periferie della terra. Di fatto, le molte e straordinarie risorse messe a disposizione della creatura umana dalla ricerca scientifica e tecnologica rischiano di oscurare la gioia della condivisione fraterna e la bellezza delle imprese comuni, dal cui servizio ricavano in realtà il loro autentico significato.  Dobbiamo riconoscere che la fraternità rimane la promessa mancata della modernità. Il respiro universale della fraternità che cresce nel reciproco affidamento – all’interno della cittadinanza moderna, come fra i popoli e le nazioni – appare molto indebolito. La forza della fraternità, che l’adorazione di Dio in spirito e verità genera fra gli umani, è la nuova frontiera del cristianesimo».

Il terzo documento è la Veritatis Gaudium (2018), il documento programmatico che definisce le modalità di lavoro delle Università Pontificie e delle Facoltà teologiche nel mondo, chiamando ad una formazione che sia «inter e trans disciplinare». I due Dicasteri che più degli altri rappresentano la «frontiera» di quanto abbiamo detto sono da un lato la Pontificia Accademia per la Vita e dall’altro il Dicastero dello Sviluppo Umano Integrale. In questo impegno Papa Francesco non è solo. Certamente ha qualche problema «interno» nel coinvolgere la Chiesa in un percorso nuovo, perché la teologia e la riflessione e il Magistero, non sono immutabili. Il Vangelo è sempre lo stesso; siamo noi che lo comprendiamo meglio in rapporto alle esigenze dei nostri tempi. Sul piano della Dottrina Sociale applicata ai sistemi sanitari esiste un illuminante volume a più voci pubblicato negli Usa: Catholic Bioethics and Social Justice (2018), che mostra come l’assistenza sanitaria sia il settore dove si deve vedere in azione la Dottrina sociale ispirata ai princìpi di solidarietà, equità, accesso ai trattamenti, lotta alle disuguaglianze.

Applicato alla sanità statunitense, il libro disegna percorsi concreti innovativi e evidenzia l’ingiustizia strutturale di un’assistenza pensata per chi può pagarla. «Gli eccessi problematici dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti sono più facilmente visti da una prospettiva globale – notano i curatori del volume. Una prospettiva globale rivela anche in che modo l’economia densamente neoliberista ha avuto un impatto negativo sugli esiti sanitari per le persone dei paesi “poveri delle risorse” e ha modellato la struttura dell’assistenza sanitaria e della bioetica statunitensi. Stando in uno spazio non statunitense, si può vedere più facilmente come la bioetica neoliberista è stata esportata – nelle pratiche globali di ricerca medica, uso delle risorse, organizzazione dei servizi – che sono in gran parte invisibili alla bioetica americana».

Non a caso si parla anche di ristrutturare i servizi sanitari su base «locale». Ed intercetta il dibattito italiano sulla «medicina territoriale» che risponderebbe meglio a situazioni come quelle di pandemia globale.  E qui si comprendono i motivi degli attacchi che subisce il Papa da parte dei settori conservatori della Chiesa, soprattutto in Nordamerica, che a loro volta si saldano con i tradizionalisti nostrani ed europei. I loro interessi sono economici – non «teologici» e neppure spirituali – perché una Chiesa «verde» e a favore di una visione equa dei rapporti sociali scardina «naturalmente» un sistema di interessi finanziari e privati. Tuttavia c’è un dato nuovo: l’emergenza Coronavirus. Ora abbiamo compreso il valore della vita umana – proprio quando è minacciata la vita di tutti noi, non solo quella dei bambini non ancora nati! – e abbiamo capito meglio l’interconnessione «globale». Da qui l’esigenza di un nuovo «equilibrio» mondiale. La Chiesa ha qualcosa da dire, nonostante tutto. Il pontificato segna una strada, tutta da valutare, ma stimolante. Liquidarla sbrigativamente come «ideologia a sfondo populistico-comunitario-anticapitalistico» non è certo la soluzione migliore.

Gian Guido Vecchi per il ''Corriere della Sera'' il 9 maggio 2020. «Ma dove volete che vada? Io resto qui, Genova è casa mia». Il cardinale Angelo Bagnasco, 77 anni, sorrideva ieri mattina ai giornalisti che gli chiedevano che cosa avrebbe fatto ora. La decisione era attesa, i vescovi raggiungono l' età della pensione al compimento dei 75 anni, il cardinale aveva presentato la «rinuncia» a Francesco il 14 gennaio 2018 ed era in proroga da più due anni. Dalla Santa Sede è arrivato l' annuncio ufficiale: il Papa ha «accettato la rinuncia» e nominato come nuovo arcivescovo di Genova il francescano Marco Tasca, 62 anni, già ministro generale dei Frati minori dal 2007 al 2019. Per Bagnasco, già presidente della Cei dal 2007 al 2017 e arcivescovo dal 2006, non è né potrebbe essere un addio alla sua città, comunque. «Andrò alla casa del clero con altri sacerdoti e lì continuerò l' ultima rampa della vita. Sapete che esiste un' ultima rampa, vero?». È nato a Pontevico, nel bresciano, solo perché i genitori erano sfollati per la guerra. Ma a Genova sono le sue radici e qui è cresciuto con i genitori e la sorella Anna, Salita Montagnola della Marina 4, dietro il porto, la mamma Rosa casalinga e il papà Alfredo che lavorava in una fabbrica di pasticceria. La vocazione precoce, il liceo classico nel seminario arcivescovile di Genova, l' incontro con il cardinale Siri che lo manda a studiare filosofia all' università Statale per fare esperienza del mondo là fuori. Fino al 2021 Bagnasco rimarrà presidente dei vescovi europei. Ma certo comincia una nuova fase della vita. «Occupare il tempo libero non sarà un problema, mi dedicherò alla preghiera, la meditazione, la lettura. E poi sarò a disposizione secondo i servizi che ogni sacerdote è chiamato a fare», dice. «Quando uno non cerca mai niente è libero. Il che non significa essere insensibili, ma avere il dono della serenità. Anche in questo momento ci si sente e si sa nelle mani del Signore, quindi siamo in buone mani». Con il successore si sono sentiti più volte, «anche lui è in trepidazione come me quando dovevo andare a Pesaro e poi a Genova, è naturale. Bisogna affidarsi alla Provvidenza, e questo è il suo atteggiamento fondamentale». Il nuovo arcivescovo, padre Marco Tasca, è nato a Sant' Angelo di Piove di Sacco, nel padovano. Farà ingresso in città entro tre mesi. Nel frattempo ha scritto una lettera alla diocesi: «Porto con me, come povera dote, ciò che ho cercato di imparare e di vivere in questi ormai quasi quarant' anni di vita religiosa francescana, che si riassume nella fraternità. Come vostro vescovo, desidero essere padre e fratello, con il cuore sempre aperto all' ascolto e all' accoglienza tanto di coloro che verranno a bussare alla mia porta, come - vorrei dire, soprattutto!- di coloro che si trovano o si sentono lontani dalla nostra comunità ecclesiale». Troverà una Genova «sempre più unita», dopo l' ultima tragedia del ponte Morandi e la ricostruzione, la dignità dei genovesi «capaci di dare il meglio di sé» nel dolore. Degli anni da arcivescovo, Bagnasco ricorda «le visite in città di Benedetto XVI e Francesco» e i momenti di sofferenza tra la sua gente, «la crisi economica, le alluvioni, il ponte». Al successore indica il tema del lavoro: «Il rapporto della Chiesa di Genova e del suo arcivescovo con la città è molto particolare, e quello con il mondo operaio non è così da nessuna parte». Resta la pandemia. «Ho vissuto il dopoguerra, in mezzo alle macerie della Genova vecchia. Però la gente si poteva e voleva incontrare, nelle case e nelle chiese, per le strade. Oggi è diverso. Una situazione surreale che si sta risolvendo, almeno lo speriamo tutti».

La Chiesa adesso è a rischio: uno scisma minaccia l'Europa. Dal "concilio" dei vescovi tedeschi alle accuse dei tradizionalisti. La Chiesa di Papa Francesco si sta spaccando. Francesco Boezi, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Scisma" per la Chiesa cattolica rimane una parola impronunciabile. Eppure, da qualche tempo a questa parte, di "scisma" si parla e si scrive con continuità. Mentre si avvicina una delle fasi più complesse di questo pontificato, ossia la rivoluzione delle logiche curiali mediante la pubblicazione della nuova Costituzione Apostolica, con cui Jorge Mario Bergoglio intende rivoluzionare l'assetto romano, i vescovi tedeschi hanno indetto un "concilio interno" della durata di due anni. La parola d'ordine è una sola: riforma. Gli effetti potenziali, invece, sono molteplici. I presuli teutonici hanno deciso di percorrere una strada che può avere come meta delle "decisioni vincolanti". Quello, almeno, è l'obiettivo dichiarato. Poi bisognerà attendere la reazione di Roma. Il Vaticano, sin da principio, ha sollevato più di una perplessità. Il cardinale canadese Marc Ouellet, conservatore e prefetto della Congregazione dei vescovi, lo ha messo nero su bianco: decisioni di così grossa portata non possono essere prese senza tenere in considerazione i pareri - quelli sì "vincolanti" - della Santa Sede. Altrimenti si tornerebbe alle Chiese nazionali, con tanto di autogestione. Un vescovo italiano, Filippo Iannone, lo ha ribadito: "È facile vedere che questi temi non riguardano la Chiesa in Germania ma la Chiesa universale e – con poche eccezioni – non possono essere oggetto di deliberazioni o decisioni di una Chiesa particolare senza contravvenire quel che è espresso dal Santo Padre nella sua lettera". Le dichiarazioni del cardinal Marc Ouellet e di monsignor Filippo Iannone sono approfondibili su Askanews. Papa Francesco stesso, nel mentre Marx era già certo di procedere con il "concilio", ha scritto una missiva al "Popolo di Dio in cammino". La stessa lettera cui si è riferito Iannone. Le gerarchie della Santa Sede sembrano aver interpretato lo scritto del pontefice argentino alla stregua di un monito, per quanto fraterno, diretto al cardinale Rehinard Marx, che è il vero protagonista di questi sviluppi. I tradizionalisti, stando alla loro visione delle cose, evidenziano come episcopato tedesco e vescovo di Roma siano stati spesso d'accordo sulle svolte dottrinali da adottare. Quasi come se tra alcune realtà progressiste presenti nella Compagnia di Gesù, cui pure Bergoglio sarebbe ascrivibile, e le frange teologico progressiste - quelle nate e sedimentatesi in Germania - fosse esistita ed esistesse un'armonia d'intenti. E questo è un aspetto su cui converrà tornare dopo.

Di cosa stanno discutendo i vescovi in Germania. Per capire i perché dietro la palese esitazione del Vaticano, bisogna comprendere quali siano gli oggetti di discussione dell'episcopato tedesco. Il primo punto sollevato nel "cammino sinodale", da un punto di vista cronologico, riguarda il rapporto tra dottrina cristiano-cattolica ed omosessualità, che nel corso delle fasi preliminari del "concilio interno" è già stata dichiarata, in maniera diversa da quanto si trova scritto sul Catechismo, una "forma normale di predisposizione sessuale". Il cardinale Reinhard Marx, nel corso di questi anni, ha per esempio aperto a delle eccezioni sulla benedizione delle coppie gay. Altri vescovi teutonici hanno persino considerato la chance teorica di arrivare all'ordinazione di preti omosessuali. La morale sessuale tutta, a ben vedere, rischia di essere sottoposta a modifica complessiva. In Germania sembra esistere terreno fertile per l'abolizione del celibato sacerdotale, per l'istituzione di un diaconato femminile e per la laicizzazione della gestione parrocchiale. I tedeschi sono partiti dal dramma degli abusi commessi negli ambienti ecclesiastici. I conservatori pensano - come Ratzinger - che le violenze siano dovute alla contaminazione con l'ideologia sessantottina. I progressisti danno la colpa al rigidismo clericalista. Sconvolgere tutto può essere la strada buona per mettere la parola "fine" al "collasso morale". Questa è la tesi di fondo di chi persegue l'ammodernamento a tutti i costi. Perché una Chiesa meno rigida, più aperta al mondo e meno ancorata alla prassi costituita, sarebbe in grado di uscire dall'oscurantismo, che produce clericalismo, dunque abusi. Com'è deducibile con facilità, le questioni di base non possono essere circoscritte alla vita di una chiesa particolare, ma dovrebbero essere sottoposte quantomeno ad un Sinodo universale. La preoccupazione di piazza San Pietro e limitrofi sembra essere più che giustificata. Le risultanti, da qui a due anni, potrebbero essere le seguenti: preti sposati e/o viri probati, diaconesse, parificazione degli incarichi tra uomini e donne, benedizione delle coppie omosessuali e, magari, anche celebrazione dei matrimoni tra persone omosessuali. C'è una possibilità che le vellietà progressiste dei tedeschi restino soltanto delle volontà inefficaci? Sì, ma il fronte tradizionale sventola comunque lo spauracchio dello "scisma".

L'antico scontro teologico tra Joseph Ratzinger e Walter Kasper. Quando il Papa emerito Benedetto XVI ha deciso di condividere con il cardinale Robert Sarah la stesura di "Dal Profondo del Nostro Cuore", con buone probabilità, ha pensato alla "sua" Germania, dove l'abolizione del celibato sacerdotale può divenire una realtà concreta. La mossa di Joseph Ratzinger - un'opera libraria in cui vengono spiegate le ragioni di fondo del celibato, che Sarah chiama "mistero di Dio", e attraverso cui il duo conservatore si è opposto a qualunque progetto di abolizione - è la seconda in poco tempo: l'ex pontefice era già sceso in campo alla fine del 2019, decidendo di coadiuvare la nascita di una fondazione a tutela del giornalismo cattolico. L'iniziativa nascerà attorno al Die Tagespost. Benedetto XVI è preoccupato per le sorti del cattolicesimo tedesco? È molto più di una eventualità. Il teologo bavarese è sempre stato il vertice di una corrente teologica conservatrice, che è poi convogliata nel cosiddetto "ratzingerismo". Dall'altra parte della barricata si è spesso seduto il cardinal Walter Kasper, cui Papa Francesco avrebbe persino affidato lo studio di una commissione per la "messa ecumenica", ossia per un rito valido tanto per i cattolici quanto per i protestanti. Ma di quella commissione, adesso, si è persa ogni traccia. Il "fronte tradizionale" ne è certo: i cardinali Walter Kasper e Reinhard Marx hanno sostenuto l'ex arcivescovo di Buenos Aires nell'ultimo Conclave. E per questa ragione, tra i vertici progressisti tedeschi ed il Papa, non può che esistere un clima di concordia. Anche perché - sostengono sempre da parte tradizionalista - le battaglie del cardinale Marx sono molto simili a quelle portate avanti da alcuni gesuiti nordamericani. James Martin, consultore statunitense della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, oltre ad essere un gesuita, combatte da tempo per una riforma in senso progressista della parte della dottrina che si interessa di morale sessuale. L'espressione più esemplificativa è la seguente: per Martin bisogna edificare un "ponte" la Chiesa cattolica e l'universo Lgbt. Lo schematismo - dicono coloro che correlano la strategia di Marx a quella di Bergoglio - è anche sin troppo semplice da individuare. E basta una rapida ricerca per comprendere in quali parti di mondo abbiano attecchito certe sincronie teologiche, che si sono radicate a partire dal 68' e che vengono associate pure alla teologia della liberazione. E poi c'è l'epico scontro teologico tra Ratzinger e Kasper, che starebbe culminando nel "concilio interno" della Chiesa tedesca. Il secondo, nel lontano 1992, aveva domandato a Giovanni Paolo II di liberalizzare, per così dire, la comunione per i divorziati risposati. All'epoca ha vinto la linea Wojtyla-Ratzinger. Con l'elezione al soglio di Pietro di Jorge Mario Bergoglio, è nato lo spazio per "Amoris Laetitia, cioè l'esortazione in cui l'istanza kasperiana è stata in parte recepita. Le sfumature nella Chiesa cattolica sono all'ordine del giorno: il cardinale Walter Kasper non risulta favorevole né all'abolizione del celibato né a "decisioni vincolanti" in grado di destrutturare quella che è sempre stata la linea del cattolicesimo sulla morale sessuale. Ma che la parte sinistra delle istituzioni ecclesiastiche stia spingendo per travalicare le resistenze conservatrici è un fatto evidente.

Il ruolo di Jorge Mario Bergoglio. Jorge Mario Bergoglio potrebbe dover gestire, tra meno di due anni, una sorta di unicum della recente storia ecclesiastica: una Chiesa dichiaratasi autocefala o quasi, che comunica al Vaticano di aver deliberato in favore di "decisioni vincolanti". Fino a prova contraria, è il Papa ad avere l'ultima parola in circostanze come queste. Ma la Chiesa tedesca vuole proseguire in maniera autonoma. Torniamo per un attimo a quanto dichiarato da mons. Filippo Iannone qualche mese fa: "È chiaro dall'articolo della bozza degli statuti che la Conferenza episcopale ha in mente di fare un concilio particolare che persegua i canoni 439-446 ma senza usare il termine. Se la Conferenza episcopale tedesca è giunta alla convinzione che è necessario un Concilio particolare - ha aggiunto il vescovo - , dovrebbero seguire le procedure previste dal Codice al fine di arrivare a una deliberazione vincolante". I tedeschi, per semplificare, stanno dunque dando vita ad un concilio nazionale. Se fosse vera la ricostruzione dei tradizionalisti - quella sulla presunta alleanza stipulata tra Papa Francesco e il cardinale Reinhard Marx - il pontefice argentino si troverebbe in una situazione abbastanza spinosa: dire di "no" al cardinale Reinhard Marx romperebbe il fronte progressista; dire di "sì" al cardinale Reinhard Marx, quindi alle "decisioni vincolanti", costituirebbe un precedente niente male. In questo secondo caso, altre realtà episcopali potrebbero sentirsi in diritto di organizzare un loro "concilio interno". E si creerebbe così un problema legato al ritorno delle Chiese nazionali. Con tutto quello che ulteriori "decisioni vincolanti" comporterebbero in termini di confusione dottrinale. Lo scenario più probabile prevede che le parti trovino sul filo del gong una quadra capace di evitare strappi. Una variabile indipendente dai buoni auspici prescrive invece che, al traguardo di questo tortuoso percorso biennale e dinanzi ad un "no" proveniente dal Vaticano, la Chiesa tedesca opti davvero per la corsa in solitaria.

La paura di uno "scisma tradizionalista" (che non sembra essere nei piani). Dai cinque dubia dei quattro cardinali su Amoris Laetitia alle prese di posizione di Carlo Maria Viganò: da tempo i progressisti vanno raccontando di un imminente "scisma" provocato da quel tradizionalismo che è tanto critico sul papato odierno. Per ora, però, il "fronte tradizionale" ha sempre rimarcato la necessità dell'unità ecclesiastica, pur scatenando più di qualche bufera pubblica in contrasto con l'andazzo. Uno "scisma tradizionalista" è davvero poco probabile. Il cardinale Reinhard Marx, con il suo "cammino sinodale", ha però servito un facile assist ai tradizionalisti, che adesso possono far notare come, a cercare di prendere decisioni autonome, non siano certo loro. E in effetti il "fronte tradizionale" non ha mai organizzato un "Sinodo interno". Il Papa stesso, comunque la si veda, ha ammesso di non aver paura di uno "scisma". Per quanto Jorge Mario Bergoglio abbia anche specificato di pregare affinché un evento scismatico non si palesi mai. Ma se c'è un lato del campo in cui un processo divisivo pare essere stato avviato, quella è la fascia sinistra. E questa è un'argomentazione che il "fronte tradizionale" non poteva farsi scappare. Un quadro complessivo - questo - in cui, poche ore fa, hanno risuonato con forza le parole pronunciate dal cardinal Gualtiero Bassetti, che è il presidente della Conferenza episcopale italiana: "Se a qualcuno non piace questo Papa lo dica perché è libero di scegliere altre strade. Criticare va bene ma questo distruttismo no", ha tuonato il vertice della Cei. E ancora: "C'è troppa gente - ha argomentato, stando a quanto riportato dall'Adnkronos - che parla del Papa e a qualcuno io ho detto 'fai la scelta di evangelico, se non ti va bene la Chiesa cattolica, se è troppo stretta questa barca. I nostri fratelli protestanti non hanno né il Papa né il vescovo, ognuno faccia le sue scelte. Scusatemi per lo sfogo ma l'obiettivo di tutti deve essere quello di cercare risposte per il bene della Chiesa e dell'umanità". Bassetti, con questa riflessione, non si voleva certo riferire ai tedeschi, cui il Papa piace, ma appunto ai cosiddetti "anti-Bergogliani". Le riflessioni del porporato italiano hanno un peso specifico rilevante. Se non altro perché quei virgolettati segnalano come, all'interno delle alte sfere cattoliche, qualcuno sia disposto a perdere qualcosa in termini numerici, pur di ritrovare l'unità di visione, che sembra essere stata perduta.

Chi si oppone al "cammino sinodale" tedesco. C'è un ultimo elemento da analizzare in maniera certosina: un conto è uno scisma de iure, quello riconosciuto dalle istituzioni, un conto è uno scisma de facto, quello che non ha bisogno di essere battezzato con tutti i crismi dell'ufficialità, in quanto già strisciante per conto suo. Mons. Luigi Negri, in un'intervista rilasciata a La Verità, ha lanciato un allarme, supponendo la presenza di situazioni scismatiche nella Chiesa universale. L'arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio ha parlato del caso in cui un sacerdote non reciti il Credo durante una celebrazione. Qualcosa che, stando a quanto raccontato da Negri, già accade. Rapportando questo discorso al caso germanico, si può immaginare uno spaccato per cui, prescindendo dalle disposizioni che proverranno da Roma, alcuni capisaldi del cattolicesimo vengano comunque riformati. Ma c'è un fronte che si oppone al "percorso sinodale" di Marx e del suo episcopato. I cardinali tedeschi che sembrano più che perplessi sono tre: Gherard Ludwig Mueller, ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Walter Brandmueller, storico ed amico di Benedetto XVI ed il cardinal Rainer Maria Woelki, che ha proprio votato contro l'istituzione di un "concilio interno". Poi i consueti ambienti tradizionalisti, che hanno organizzato una vera e propria manifestazione di protesta in una piazza bavarese, con tanto di presenza dell'ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò. In quella occasione, è stata avanzata la proposta di uno sciopero fiscale nei confronti dell'apparato ecclesiastico teutonico. La Chiesa tedesca, infatti, può vantare il recepimento di una tassa ecclesiastica obbligatoria che corrisponde a circa l'8% del reddito annuo di una persona che si professa cattolica. Questa è una delle particolarità per cui l'Ecclesia di Germania può essere definita più potente delle altre. Il professor Roberto De Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, è il primo ad essere convinto della bontà di uno sciopero fiscale: "Il criterio di appartenenza alla Chiesa cattolica - ha fatto presente in Baviera, come ripercorso sul blog di Marco Tosatti - si fonda sulla fede che ogni cattolico riceve con il battesimo e non può essere ridotto al pagamento di una tassa. Solo un’istituzione profondamente secolarizzata può stabilire un’equazione tra l’appartenenza alla Chiesa e il pagamento di una quota del proprio reddito. La Chiesa tedesca, economicamente ricca, ma spiritualmente sempre più povera, appare agli occhi del cristiano, come un apparato aziendale e burocratico sottomesso all’opinione pubblica e alle autorità civili. Inoltre chi subordina la vita sacramentale al pagamento di un’imposta cade nel peccato di simonia, quella vendita di beni spirituali che ha caratterizzato tutte le epoche di grave crisi nella Chiesa". Contrastare Marx smettendo di pagare le tasse? L'intento sembra recitare così. Si narra spesso di come (ma sono per lo più affari interni), nel corso del suo pontificato, Benedetto XVI avesse provato, senza riuscirci, ad abolire la tassa ecclesiastica in Germania.

"La Chiesa già vive uno scisma e il Papa parla come l'Onu". La Chiesa cattolica deve confrontarsi con il "concilio interno" dei tedeschi. Ma il cammino sinodale teutonico è solo uno degli elementi che preoccupano. Francesco Boezi, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. La Chiesa cattolica vive una fase davvero complessa. Il "concilio interno" dei vescovi tedeschi alimenta le ricostruzioni di chi teme uno scisma. Aldo Maria Valli, vaticanista di lungo corso, è uno di quelli che segnalano la persistenza di una "confusione" evidente. All'interno della sua ultima opera libraria, che è un romanzo, il giornalista disegna la parabola di una Chiesa del domani, che è tristemente immersa nelle "cose del mondo". Una Chiesa, dunque, che ha abdicato a se stessa e al suo ruolo. D'altro canto, però, esistono anche ambienti che non hanno alcuna intenzione di mollare la presa sulla dottrina cristiano-cattolica. Sembra un racconto, ma forse è cronaca pura.

Signor Valli, lei ha da poco dato alle stampe un romanzo edito da Fede e Cultura. "L'ultima battaglia" è un'allegoria della fase ecclesiastica a noi contemporanea?

«Certamente sì. È ambientato in un futuro imprecisato, nel quale alcune tendenze della Chiesa attuale sono portate alle estreme conseguenze. Preti che si possono sposare anche fra uomini, il messaggio di fede ridotto a una vaga consolazione sentimentale, cedimento totale al pensiero del mondo, divieto di pregare e benedire in pubblico, piazza San Pietro ribattezzata piazza del Dialogo. Di fronte a questa deriva, qualcuno decide di resistere».

Che storia racconta nel suo libro?

«Appunto la storia di una Chiesa volutamente svenduta al mondo. Dietro c’è un complotto, da parte di chi di fatto vuole neutralizzare la Chiesa cattolica. Ma non tutti sono disposti ad arrendersi. Un “piccolo gregge” si organizza e passa al contrattacco. L’impresa sembra impossibile, ma il buon Dio non farà mancare il suo aiuto provvidenziale».

Papa Francesco e Benedetto XVI. Pare di poter dire che lei è solito cogliere più di una differenza...

«Le differenze sono evidenti. Da parte di Francesco ambiguità concettuale e dottrinale, con il relativismo che fa il suo ingresso nell’insegnamento papale. Da parte di Benedetto XVI la difesa a oltranza della retta dottrina e l’argine al relativismo. Per quanto molti cerchino di convincerci che tra i due c’è continuità, siamo di fronte a una netta frattura. Che ci porta a interrogarci anche su quale può e deve essere, in generale, il rapporto fra due papi, uno regnante e uno emerito».

Ritiene che quella di Bergoglio per i migranti sia una fissazione?

«È una delle fissazioni. L’altra è quella per l’ecologismo. Nel complesso abbiamo un Papa che parla come il segretario generale delle Nazioni Unite o il capo di un’organizzazione mondialista. Spesso è davvero difficile trovare nella sua predicazione un contenuto cattolico. Ma trovo che l’aspetto peggiore di questo pontificato non sia legato a un tema specifico, bensì alla costante ambiguità, come si vede bene nell’esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016. Francesco dice che per lui è più importante “avviare processi che occupare spazi”. Ma che significa? Il successore di Pietro deve confermare i fratelli nella fede, non deve “avviare processi”, qualunque cosa voglia dire».

"The Economy of Francis". L'appuntamento di marzo ad Assisi può modificare il corso di questo pontificato? E se sì, come?

«Temo che sarà un altro passo in direzione della confusione e del cedimento al mondo. Questo papa che ama chiacchierare con Eugenio Scalfari non parla della salvezza dell’anima e della legge di Dio (oppure ne parla in termini ambigui se non eretici) ed ha una prospettiva tutta orizzontale. Inoltre invita nelle accademie pontificie sociologi ed economisti della scuola mondialista, in certi casi apertamente anti-cattolici. In tutto ciò c’è qualcosa di sconvolgente».

La situazione tedesca è burrascosa. Crede davvero che i vescovi teutonici possano arrivare ad uno scisma?

«Non lo so, ma uno scisma di fatto c’è già. Da una parte una Chiesa in preda alle eresie moderniste, dall’altra i cattolici che non vogliono cedere al mondo. La Chiesa tedesca è economicamente molto forte e in grado di influenzare anche altre aree del mondo, come si è visto nel caso del sinodo amazzonico. Sotto molti aspetti, come il celibato sacerdotale e il sacerdozio femminile, un cardinale come Marx, presidente dei vescovi tedeschi, ha posizioni che non si distinguono troppo da quelle luterane. E questo che cos’è se non uno scisma di fatto?»

La questione del libro di Sarah e Ratzinger è passata agli archivi. Secondo lei, perché ad un certo punto è stata domandata la rimozione della firma del papa emerito?

«Perché sono state fatte pressioni da parte di Santa Marta (la casa di Francesco in Vaticano). Ma il cardinale Sarah, carte alla mano, ha dimostrato di essersi comportato correttamente con Ratzinger. D’altra parte, sarebbe stato folle da parte sua strumentalizzare in qualche maniera Benedetto XVI. Al di là della questione specifica di cui si occupa il libro, ovvero il celibato dei preti, la vicenda dimostra che la compresenza dei due papi è alquanto problematica».

Le chiederei, infine, un commento sulla nomina del cardinale Tagle come prefetto di Propaganda Fide.

«Il cardinale Tagle è un bergogliano di ferro, espressione del misericordismo imperante. La sua promozione fa parte di un disegno che Francesco ha avviato da tempo, come si vede anche nella nomina del nuovo arcivescovo di Philadelphia, Perez, al posto di monsignor Charles J. Chaput, dipinto come “ultraconservatore”. Tagle è considerato un papabile e la promozione al ruolo di “papa rosso” (come viene chiamato il prefetto di Propaganda Fide) va in questa direzione. Nel nuovo regolamento della Curia romana Propaganda Fide avrà il primo posto, prima ancora della Congregazione per la dottrina della fede: per Tagle una vera rampa di lancio. Ma si sa che, come dice un vecchio adagio, “chi entra in conclave da papa ne esce cardinale”. Speriamo».

Gian Guido Vecchi per il Corriere della Sera il 26 gennaio 2020. «Se a qualcuno non piace questo Papa lo dica perché è libero di scegliere altre strade. Criticare va bene, ma questo "distruttismo" no». Il cardinale Gualtiero Bassetti, 77 anni, presidente dei vescovi italiani, è un uomo di indole mite e alza la voce assai di rado. Così, quello che lo stesso arcivescovo di Perugia definisce «uno sfogo», dà la misura della tensione che si respira nella Chiesa per la fronda ricorrente della parte più tradizionalista al pontificato attuale: «C' è troppa gente che parla del Papa e a qualcuno io ho detto "fai la scelta di evangelico, se non ti va bene la Chiesa cattolica, se è troppo stretta questa barca". I nostri fratelli protestanti non hanno né il Papa né il vescovo, ognuno faccia le sue scelte», ha esclamato, prima di sorridere: «Scusatemi per lo sfogo, ma l' obiettivo di tutti deve essere quello di cercare risposte per il bene della Chiesa e dell' umanità». Il cardinale parlava nella sua città, mentre spiegava ai giornalisti il senso dell' incontro «Mediterraneo, frontiera di pace» organizzato dalla Cei a Bari fra il 19 e il 23 febbraio. I vescovi dell' area parleranno anche della tragedia dei naufraghi «che si consuma nel silenzio assordante delle acque del mare». Ma non tratta soltanto delle denunce del Papa in favore dei migranti. Ogni occasione è buona, come dimostra il recente pasticcio editoriale legato alla pubblicazione del libro del cardinale conservatore Robert Sarah, «Dal profondo del nostro cuore», con relative polemiche intorno al fatto che Benedetto XVI ne fosse o meno il «coautore» e quindi all'«ingerenza» sul magistero del successore Francesco. Il Sinodo sull' Amazzonia ha proposto in ottobre di permettere l' ordinazione sacerdotale di uomini sposati nelle zone più remote, per compensare la carenza di clero, l'ultima parola spetterà al Papa e il documento di Francesco è atteso a giorni. Era inevitabile che la pubblicazione del libro, che si oppone a qualsiasi eccezione sul celibato sacerdotale, fosse vista come una forma di pressione sul Papa, dato che si fondava sul nome del predecessore. L'arcivescovo Georg Gänswein, parlando di un «malinteso», ha chiamato il cardinale Sarah per chiedergli «su indicazione del Papa emerito» di «togliere il nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso»: Ratzinger, su richiesta di Sarah, aveva solo concesso come contributo un saggio sul sacerdozio già scritto. Sarah ha sempre sostenuto che Benedetto XVI fosse d' accordo su tutto, ha detto di averlo incontrato e che «non c' è stato alcun malinteso». Al di là delle versioni contrapposte, sul clima che si respira in questi giorni la dice lunga già solo il fatto che un cardinale abbia chiesto al Papa emerito un testo per un libro che si oppone alle proposte del Sinodo prima che si pronunci il Papa in carica. Francesco, peraltro, appare tranquillo. Ieri, parlando alla Rota Romana, ha invitato a evitare «una pastorale di élite che dimentica il popolo» e a «svegliare dal torpore e dal sonno i pastori, forse troppo fermi o bloccati dalla filosofia del piccolo circolo dei perfetti: il Signore è venuto a cercare i peccatori, non i perfetti».

Adesso uno “scisma” può colpire il cristianesimo globale. Francesco Boezi su Inside Over il 22 gennaio 2020. Il cristianesimo statunitense non se la passa meglio del cattolicesimo tedesco. In Germania, per via del “concilio interno” dell’episcopato teutonico, viene paventata un’ipotesi: c’è un rischio “scisma”. Il rapporto tra la dottrina e la morale sessuale può essere il motivo di una divisione interna, che pare esistere de facto, ma che per ora si ferma sul piano delle reciproche rimostranze. Lo strappo istituzionale sembra essere dietro l’angolo, ma non è ancora avvenuto. Forse qualcosa accadrà nel corso del prossimo biennio, che è il tempo che i vescovi di quella nazione si sono concessi per rivedere parti consistenti dell’assetto dottrinale. I progressisti, guidati dal cardinale Reinhard Marx, stanno reinterpretando alcune certezze, che sono contenute nel Catechismo. L’omosessualità, per esempio, è già stata equiparata dai padri conciliari ad un comune orientamento sessuale. I tradizionalisti manifestano contrariati, scendendo persino nelle piazze bavaresi. Roma potrà cassare le decisioni dei tedeschi oppure avallarle senza colpo ferire. Un discorso simile – con l’assenza del parere vincolante di una massima autorità spirituale – vale per la Chiesa metodista americana, che ancora per qualche altro tempo potrà essere definita “Chiesa metodista unita”. Siamo nel campo protestante, cui è attribuita una certa influenza politico-elettorale. Hillary Clinton è metodista. Le persone che nel mondo professano la confessione metodista sono milioni. Tredici secondo una recente disamina pubblicata su IlFoglio. Più o meno la metà di quei tredici risiede negli Stati Uniti. La presidenza di Donald Trump ha coadiuvato un processo di polarizzazione dell’opinione pubblica. The Donald, un convinto pro life, è vicino al cosiddetto “cristianesimo della prosperità”. La predicatrice evangelica Paula White ha persino ricevuto in incarico presso la Casa Bianca. E la religione, in generale, ha assunto una posizione in grado di tracciare una linea di separazione sul terreno dei valori: da una parte i conservatori, dall’altra i progressisti. E questo sta succedendo a prescindere dal tipo di Chiesa di riferimento. Il metodismo è solo una delle correnti protestanti, ma la frattura che sta per concretizzarsi può essere utile anche a comprendere come vadano le cose, in relazione alle grandi questioni etiche, quando mancano solo pochi mesi alle elezioni presidenziali. La Germania – dicevamo – rischia di fare scuola: la Chiesa metodista a stelle e strisce si sta spaccando sull‘omosessualità. Per farla breve: i conservatori metodisti rimangono fedeli alla linea delle origini: l’omosessualità – sostengono, un po’ come sbandierato dai cattolici tradizionalisti in Occidente – non può essere ammessa, in specie per ciò che concerne i matrimoni tra persone dello stesso sesso. I progressisti metodisti, d’altro canto, sono di tutt’altro parere. E questo è il nocciolo della questione che può comportare uno “scisma” interno. Perché nessuno dei due fronti è disposto a cedere un centimetro alla controparte. E gli attori delle due diverse fazioni hanno già reso noto un progetto di scissione pacifica. A riportarlo, tra gli altri, è stato il New York Times. Se il quadro appena esposto dovesse essere confermato, le Chiese metodiste diventeranno due. Colpi di scena dell’ultim’ora – almeno sino a questo momento – non sono previsti. E una parte di fronte protestante si frantumerebbe proprio a ridosso dell’appuntamento elettorale più importante dell’anno, quello che avrà luogo a novembre del 2020 e che vedrà contrapposti Donald Trump e il candidato vincente delle primarie democratiche. Progressismo e conservatorismo – com’è intuibile – stanno giocando una partita su larga scala, che non riguarda soltanto il futuro del cristianesimo-cattolico e che non è riconducibile soltanto ai confini europei. Una battaglia che in alcuni casi, come nel contesto americano, può essere risolta mediante un accordo interno. In Germania, invece, la strada sembra lastricata da difficoltà maggiori. Il rischio di “scisma” in quel caso è meno evidente: si cercherà di evitare una vera e propria separazione.

Marco Marzano per il “Fatto quotidiano” il 20 gennaio 2020. L'ennesima puntata del tormentone sui I due papi è terminata. La disperata marcia indietro compiuta da monsignor Gaenswein non ha cambiato di una virgola la sostanza di quello che è avvenuto e cioè che Joseph Ratzinger ha deciso di entrare, con tutto il suo peso della sua autorevolezza spirituale e politica, nel confronto in atto dentro la Chiesa sul tema del futuro dell' ordinazione sacerdotale. L'ex papa lo ha fatto mostrando di aderire completamente alle tesi dei "cattoapocalittici", ovvero di quella parte della gerarchia e del popolo cattolico che considera inaccettabile, su questo come su altri terreni, anche la più minuscola innovazione organizzativa. Concedere la possibilità, pur in via del tutto eccezionale, ai vescovi dell'Amazzonia di ordinare sacerdoti alcuni diaconi sposati è ritenuto da costoro il "principio della fine" per il celibato del clero cattolico, la minuscola slavina che innescherebbe la valanga di una miriade di richieste analoghe da molte altre parti del mondo. Da qui la supplica rivolta a Francesco di fare muro, di dire no a questo cambiamento. A tinte completamente invertite, dal nero profondo della disperazione al rosso vivo della gioia incontenibile, quello immaginato dagli ultraconservatori è lo stesso scenario dipinto dagli ultraprogressisti. Questi ultimi sperano proprio che accada quel che i conservatori radicali temono: cioè che dall' Amazzonia si propaghi dentro la Chiesa un 'ondata di rinnovamento che giunga a rendere il celibato ecclesiastico, sul modello delle chiese ortodosse, una mera opzione. L' occasione del prossimo scontro è già nota: sarà il sinodo che la chiesa tedesca si appresta a celebrare tra poche settimane avendo in agenda, tra gli altri, proprio il tema rovente della revisione del celibato. In questa situazione è obbligatorio chiedersi cosa pensi papa Francesco, quale sia l' orientamento che il sovrano cattolico ha maturato rispetto a questo conflitto. In molti danno per scontato un profondo conflitto di opinioni tra lui e Ratzinger. Io credo che la differenza esista, ma che non sia così acuta come appare in tante drammatiche rappresentazioni giornalistiche. Tra poche settimane leggeremo probabilmente il documento che il papa avrà prodotto sul tema. Nel frattempo possiamo fare però qualche congettura. Esattamente un anno fa, nel gennaio 2019, nel corso di una conferenza stampa in aereo, un giornalista chiese a Francesco se ritenesse possibile, per il futuro, aprire ai preti sposati. Il papa argentino rispose che quella domanda gli faceva venire alla mente una frase di Paolo VI : "Preferisco dare la vita che cambiare la legge sul celibato". E aggiunse che riteneva il celibato un "dono per la chiesa" e che era assolutamente contrario a renderlo una mera opzione. Qualche eccezione poteva essere pensata, concluse Bergoglio citando le "isole del Pacifico", per dei posti sperduti e remoti, dove fosse impossibile disporre di un numero adeguato di preti celibi e risultasse dunque pregiudicata la possibilità per i fedeli di accedere con regolarità all' eucaristia. In questi luoghi, e solo in questi, potrebbero essere forse in futuro ordinati preti, ma con facoltà e poteri fortemente ridotti, degli adulti sposati. Questa è esattamente la situazione dell' Amazzonia, un luogo dove non è pensabile che un prete dica messa in due parrocchie, perché la distanza tra l' una l' altra è di migliaia di chilometri. Come si può facilmente costatare, tra i due papi (e tra i diversi settori della gerarchia) non sembra esistere in realtà una distanza incommensurabile (quella che invece pare sussistere con la sinistra interna). Entrambi sono a favore del mantenimento del celibato obbligatorio del clero. Le differenza sono per così dire tattiche e non strategiche, di opportunità e non ideologiche. Se anche accogliesse l' indicazione che nel frattempo è provenuta dalla stragrande maggioranza dei partecipanti al Sinodo per l' Amazzonia e concedesse ai vescovi di quella regione di ordinare sacerdote (casomai con facoltà ridotte e in via sperimentale) qualche uomo sposato, Bergoglio, a meno che non abbia cambiato idea in questi dodici mesi, non aprirebbe nel modo più assoluto al celibato opzionale. Per questa ragione è anche assai probabile che egli sia disposto a opporre una decisa resistenza dinanzi a una richiesta analoga proveniente dalla Germania. Non esiste nessun automatismo per il quale quello che viene concesso in un' area molto peculiare come l' Amazzonia debba essere garantito anche agli abitanti di una delle terre più densamente popolate al mondo. Per risolvere il problema del deficit di clero in Europa esistono molte altre vie che possono essere tentate: l' importazione di clero dal secondo e terzo mondo, la chiusura di alcune chiese e la concentrazione del numero sempre più ridotto di fedeli in poche grandi parrocchie, per le quali serva meno personale clericale. E così via. Lo abbiamo già scritto più volte: abolire l' obbligatorietà del celibato significa cambiare radicalmente la forma della chiesa cattolica e di conseguenza accettare la possibilità di scismi, divisioni, lacerazioni molto più profonde di quelle viste in questi giorni. Possiamo sbagliarci, ma non ci sembra che papa Francesco, giunto a questo punto del suo pontificato, ne abbia né la forza né la volontà.

Stefano Filippi per “la Verità” il 13 gennaio 2020. Monsignor Luigi Negri è una delle voci più forti e ascoltate dell' episcopato italiano. Allievo di don Luigi Giussani, è stato vescovo di San Marino e arcivescovo di Ferrara-Comacchio. Ha insegnato all' università Cattolica, ha scritto numerosi libri, ha presieduto la Fondazione internazionale Giovanni Paolo II. Ora, a 79 anni, da «pensionato» è tornato nella sua Milano dove non smette di scrivere e insegnare anche attraverso il sito Luiginegri.it.

Nel recente discorso alla Curia romana papa Francesco ha ripetuto che «quella attuale non è un' epoca di cambiamenti ma un cambiamento d' epoca».

«Non è il solo ad aver detto questa frase».

Che ne pensa?

«Mi sembra che il problema in questo momento non sia quello di cesellare meglio le espressioni. Il problema è molto più radicale».

Cioè?

«Sono venuti meno, più o meno improvvisamente, alcuni riferimenti di fondo su cui l'uomo fino a un certo periodo ha posto la sua fiducia, e in forza di questa fiducia ha affrontato la vita. Oggi l'uomo su che cosa poggia? Ecco la tragedia: su niente. E nessuno se ne accorge, meno che mai l'uomo stesso».

Che si dovrebbe fare?

«Bisogna che qualcuno dica all'uomo di oggi che deve recuperare il senso della sua esistenza, il "mestier duro d'esser uomo", come diceva Cesare Pavese. Il mestiere di affrontare l'esistenza cercando di assecondare le grandi domande che porta nel cuore: il senso del vero, del bene, del bello, del giusto. Queste cose non sono finite, non c'è cambiamento d'epoca che tenga».

Che cosa intende?

«Cambiamento d' epoca non vuol dire che sono sparite le grandi domande, ma eventualmente che è cambiato l'uomo, il quale può anche non porsi più tali domande. Il problema è l'uomo, che cosa vuole, che cosa desidera».

Chi può rispondere a questi interrogativi?

«Bisogna che l'uomo si rimetta in gioco e capisca da che parte andare. Se affrontare la sfida del mistero, di ciò che non conosce se non approssimativamente ma che pure innegabilmente domina comunque la sua vita, oppure se stare quieto nelle proprie quattro cose sistemando e risistemando le quali pensa di trovare una qualche consolazione all'esistenza, come ha più volte sottolineato da par suo il grande Benedetto XVI».

Sintetizzi.

«La questione è questa: che cosa vuole l'uomo per sé. È questa la grande rivoluzione iniziata con la venuta del Signore Gesù Cristo, che ha chiamato l'uomo di ogni tempo a prendere coscienza della sua vita per affrontare dignitosamente gli aspetti della sua esistenza».

Il Papa dice che compito della Chiesa è «lasciarsi interrogare dalle sfide». Le sembra sufficiente?

«Mi pare pochino. Le sfide non sono acqua che, come mi ricordava spesso don Giussani, piove sul marmo lasciando tutto come prima: esse sono provocazioni perché l' uomo si rimetta in moto e vada cercando nelle vicende piccole della vita la grande questione del senso. "E io che sono?", si chiedeva il pastore errante di Leopardi».

Lei dice: cambiano le epoche, ma non cambia la questione umana. È così?

«Ecco. L'uomo senza Dio perde la sua consistenza, non sa più chi è. Questo è quello che mi ha insegnato Benedetto XVI con una profondità e un rigore di cui gli sarò sempre grato».

La Chiesa quali sfide deve affrontare in un mondo che non riconosce più Dio?

«La Chiesa, come io stesso e come chiunque, deve affrontare la sfida della propria identità. Qual è la sfida che ci portiamo addosso per il fatto di essere vivi? Che dobbiamo sapere chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che senso ha il vivere di ogni giorno, il lavorare, il sentire, il morire. La questione umana risorge continuamente nel variare delle circostanze, per cui fare grandi analisi sulle circostanze serve molto poco».

Don Giussani rilanciò una domanda del poeta Thomas Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o è l'umanità che abbandonato la Chiesa?». Lei che risposta dà?

«Quella che umilmente ho sempre dato: entrambe. La Chiesa abbandona l'uomo nella misura in cui non vive la responsabilità di proporgli il senso ultimo della sua vita. Di contro, l'uomo può dimenticare sé stesso se insegue i problemi personali, affettivi, sociali, culturali, etici, pensando di trovare una soluzione adeguata secondo quello che il mondo suggerisce».

I cristiani devono restare fuori dal mondo?

«Mi ha colpito molto, qualche anno fa, quanto mi diceva un esegeta al termine di un convegno. Mi chiese se sapessi qual era l' espressione che statisticamente ricorre più spesso nei testi di San Paolo».

Qual era?

«Questa: "Non conformatevi alla mentalità di questo mondo". Paolo ha insegnato della prudenza, della carità, della castità, dei costumi, ha insegnato tutto il quadro della morale cattolica. Ma la questione fondamentale è che l'uomo dia un senso adeguato al proprio vivere».

E quali sono le responsabilità della Chiesa nell'abbandono dell' umanità?

«Le possiamo concentrare in un punto unico: se la Chiesa vive la sua identità come presenza nel mondo del mondo nuovo di Dio, oppure se evita questa fatica e rincorre problemi importantissimi ma particolari non illuminati dalla domanda sul senso della vita umana».

Intende temi come, per esempio, i cambiamenti climatici o i flussi migratori?

«Dev'essere chiara la gerarchia. A un figlio di 3 anni, un padre non può spiegare un trattato di trigonometria, ma prende il pane e il latte e dice: mangia. Bisogna ricuperare questa fondamentale sanità».

La Chiesa è in pericolo?

«Sì. Si è messa in pericolo, perché nessuno può mettere in pericolo la Chiesa se non sé stessa. La Chiesa non è in pericolo perché ci sono problemi, sono cambiate le epoche o la assediano forze eversive: non c'è periodo della storia in cui la Chiesa non fosse presa d'assalto. Ma la Chiesa di oggi ha pensato che il problema della sua esistenza sia tentare di risolvere i problemi del mondo anziché vivere lo spettacolo sempre nuovo della sua identità».

C'è un rischio di scisma?

«In ogni momento della Chiesa è possibile uno scisma. Ritengo che ci siano spazi, nella Chiesa cattolica, in cui si vive già in una situazione di scisma, non so quanto consapevolmente».

A che cosa si riferisce?

«Io ho dovuto costringere dei preti della diocesi in cui ero vescovo a riprendere a dire durante la messa il Credo, minacciando di togliere loro la facoltà di celebrare».

La messa di precetto senza Credo non è invalida?

«Non è legittima, cioè non è detta secondo il canone».

Insomma, dilaga l' arbitrio.

«Come no».

Tra i preti?

«Non solo, non facciamoli più cattivi di quello che sono. Dilaga l'arbitrio perché l' unica cosa che l' uomo ha a disposizione in questo momento è di fare quello che gli pare e piace».

Non si parla più di valori non negoziabili. È un passo avanti o indietro?

«Non è un caso che i valori non negoziabili di cui ha parlato Benedetto XVI siano scomparsi con lui. Forse la sua estromissione dipende anche dal fatto che tali valori fossero proposti in termini tassativi».

C'è bisogno di un nuovo Ruini?

«Abbiamo bisogno di ecclesiastici che siano uomini di fede. Ruini ha dato questa grande testimonianza: ha camminato nel mondo con la sola preoccupazione che la fede del popolo italiano non si esaurisse perché altrimenti si sarebbe esaurita la civiltà e la cultura italiana. Ruini, Biffi e altri come loro sono stati grandi uomini che hanno segnato il punto».

Cioè?

«Che la Chiesa non può mai rinunciare a mettere al primo posto la fede. Anche se ci fossero 850 milioni di migranti, la Chiesa non potrà mai dire che allora il suo problema sono i migranti, ma che il suo problema è la fede e da ciò tirare fuori la soluzione ai problemi, compreso quello dei migranti. Essere costretti a ripetere queste cose dice l'abbandono di quella che il povero e grande San Tommaso chiamava la grandezza del pensare cristiano. Il pensare cristiano è grande non perché pensa Dio, ma perché imposta il problema della totalità dell'esistenza dell' uomo».

Lei è stato pensionato in modo repentino.

«Sono stato pensionato velocemente, ma verso il Papa attuale, del quale pure non condivido tutto, nutro rispetto e gratitudine: è un uomo libero che lascia libera la sua gente. Non ho ricevuto mai, né per iscritto, né a voce, né surrettiziamente, una sottolineatura negativa a quello che ero e che facevo. Di uomini che lasciano liberi gli altri io sono lieto, perché Dio si comporta così».

Come svolge oggi il suo ministero?

«È un impegno abbastanza intenso. Mi chiamano spesso a parlare della famiglia, gravemente in crisi e abbandonata dalla considerazione normale della Chiesa, dove si parla di tutto fuorché di questo: famiglia, matrimonio, educazione. Tengo delle catechesi in cui cerco di evocare un cammino di comprensione ed espressione della fede. Il cristiano di oggi rischia di avere un grande tesoro, che è la sua fede, ma siccome non l' hanno educato a capirne tutta la potenza, essa rimane nel sottofondo. La fede giace in una sorta di semi abbandono che rimane la grande occasione perduta per la maggior parte dei cristiani».

·        Il Vaticano e gli Scandali.

Antonio Palma per fanpage.it il 18 dicembre 2020. Otto mesi di reclusione ma libero grazie al beneficio della condizionale, questa la condanna inflitta dal Tribunale di Parigi a Monsignor Luigi Ventura, ex nunzio apostolico in Francia finito a processo con l’accusa di aggressione sessuale su diversi uomini durante il suo mandato. Una pena inferiore a quella proposta dall’accusa che per lui aveva chiesto 10 mesi di carcere con la condizionale. Lo scandalo era scoppiato nel febbraio del 2019 quando, in mezzo a molteplici scandali sessuali che hanno colpito la Chiesa cattolica, un ragazzo si era fatto avanti denunciando di essere stato molestato a più riprese dal prelato e ambasciatore della Santa sede in Francia. Si tratta dell'aggressione ad un funzionario comunale che Ventura avrebbe compiuto all'inizio dell’anno scorso durante un ricevimento organizzato dal municipio di Parigi per tutte le autorità civili e diplomatiche. La vittima aveva raccontato di mani sui glutei in almeno tre occasioni durante la cerimonia di auguri alle autorità diplomatiche. Poco dopo si erano fatti avanti altri quattro uomini, tra cui un altro funzionario vittima della stessa scena l’anno precedente. I fatti contestati a Monsignor Ventura risalgono al periodo che va dal 2018 al 2019 cioè nel pieno delle sue funzioni di nunzio apostolico. Secondo l’accusa, in diverse occasioni e durante i suoi impegni diplomatici e pubblici in Francia il prelato avrebbe messo in atto molestie sessuali ai danni di alcuni giovani con palpeggiamenti e commenti a sfondo sessuale. Tra di loro anche un seminarista di 20 anni che ha riferito palpeggiamenti durante e dopo una messa. Accuse che hanno scatenato furibonde polemiche ma che si sono trasformate in procedimento giudiziario solo nel luglio dello scorso anno dopo che il Vaticano ha revocato l’immunità al nunzio. Il 76enne Ventura, che si è poi dimesso dal suo incarico su invito del Vaticano, dal suo canto ha sempre rigettato ogni accusa ma non si è mai presentato davanti ai giudici dopo l’inizio del processo il 10 novembre scorso. L'ex nunzio ha prodotto una nota medica in cui affermava che era troppo pericoloso per lui viaggiare da Roma a Parigi in piena pandemia di coronavirus.  Per questo è stato condannato in contumacia. La condanna prevede anche l’iscrizione nel registro degli autori di reati sessuali, il pagamento di 13mila euro di danni morali a quattro delle vittime che si son costitute al processo e il pagamento di 9mila euro di spese legali.

Una Chiesa piena di scandali: ecco gli "incubi" di Francesco. Dagli abusi alle "coperture" fino ai crac finanziari. Per molti la colpa è di Francesco. Ma c'è chi nega: "È il contrario". Francesco Boezi, Sabato 14/11/2020 su Il Giornale. Il pontificato di papa Francesco, come buona parte degli ultimi pontificati, è stato interessato da parecchi scandali. Un assunto che può essere letto attraverso almeno due differenti interpretazioni: le notizie di questi tempi fuoriescono dalle mura leonine per via della maggiore trasparenza introdotta in Vaticano; la "coorte" di Bergoglio - come pensano i tradizionalisti - è stata coinvolta da scandali in misura maggiore rispetto ad altre "cerchie" papali. E questo non sarebbe avvenuto per caso. Sono due proposizioni molto difficili da provare. Entrambe, in ogni caso, rientrano spesso nelle varie letture giornalistiche che vengono presentate. Jorge Mario Bergoglio, nella circostanza dello scandalo legato al palazzo di Londra, che è poi quello che sarebbe in qualche modo collegato alla gestione dell'Obolo di San Pietro, è stato entusiasta che in Santa Sede abbiano "scoperchiato la pentola" da dentro. Il pontefice argentino ha notato che, per far venir fuori la verità o comunque alcuni dettagli della questione, non fosse stato necessario l'intervento di attori esterni. Il tutto, stando alla disamina dei "papisti", rientra nella battaglia per la trasparenza che Francesco sta combattendo dentro le mura leonine, sulla scia di quanto messo in campo dal predecessore Joseph Ratzinger. Chi critica Bergoglio, invece, accusa il Santo Padre per le sue scelte. E rispetto al caso Becciu, i critici tendono ad evidenziare più gli anni di collaborazione tra il pontefice ed il cardinale che le fattispecie sollevate per l'allontanamento del cardinale. Dallo scandalo abusi della Chiesa cilena a quello simile per contenuti che si è sviluppato negli anni a macchia d'olio in alcune diocesi americane, passando alle cronache sui fondi della segreteria di Stato, dunque alla sospensione di alcuni funzionari, alla fuga di notizie e al cambio della guardia per il comandante della Gendarmeria vaticana: gli elementi per un'inchiesta giornalistica ci sono tutti. E in realtà i commentatori in questi anni hanno potuto lavorare su qualcosa di più di un unico grande filone. In una recente intervista rilasciata all'Adnkronos, Sua Santità ha fotografato così la situazione:"La Chiesa è stata sempre una casta meretrix, una peccatrice. Diciamo meglio: una parte di essa, perché la stragrande maggioranza va in senso contrario, persegue la giusta via. Però è innegabile che personaggi di vario tipo e spessore, ecclesiastici e tanti finti amici laici della Chiesa, hanno contribuito a dissipare il patrimonio mobile e immobile non del Vaticano ma dei fedeli". Bergoglio non nega gli scandali, ma ricorda la continuità storica con cui la Chiesa cattolica è stata costretta ad avere a che fare con condotte non proprio inappuntabili. La differenza, rispetto al passato, dimorerebbe nella ferma volontà di fare pulizia. GlI insegnamenti su cui Francesco si baserebbe sarebbero quelli della linea della "tolleranza zero" di Bendetto XVI. Ma non sono tutti convinti di poter operare mediante similitudini per descrivere la gestione degli scandali da parte dei due ultimi pontefici. La "cacciata" del cardinal Angelo Becciu è solo uno degli ultimi episodi. Un caso condito anche dalla vicenda di "lady Becciu", che è tornata libera dopo essere stata accusata di peculato. L'esperta di geopolitica avrebbe "svilito" il suo incarico, affidatole dall'ex sostituto della segreteria di Stato. Ma sono molti i cardinali che nel corso di questi sette anni e mezzo sono stati interessati dalle cronache. Uno fra tutti è Theodore McCarrick, che ora non è più porporato. "Zio Ted" - com'è noto ai più - è stato "scardinalato" da Papa Francesco dopo essere stato ritenuto colpevole di abusi ai danni di seminariti negli Stati Uniti. Proprio in queste ore il Vaticano ha pubblicato un documento che tende a smentire le ricostruzioni dei critici del Papa su McCarrick. Quella di McCarrick è la vicenda più inflazionata sui media. Tuttavia, sono purtroppo anche altri gli alti ecclesiastici coinvolti in scandali durante il regno di Bergoglio. Si pensi, per fare un ulteriore esempio, al cardinale Donald Wuerl, ex arcivescovo di Washington, che si è dimesso dal suo incarico per via di accuse inerenti alla gestione di alcuni casi di abusi. Per quanto sul sito ufficiale del Vaticano, stando a quanto risulta per esempio ad IlSismografo, Wuerl compaia ancora come arcivescovo in carica della capitale americana. Il "fronte conservatore" tende a sottolineare l'appartenenza cardinalizia dei porporati che hanno presentato al Papa le proprie dimissioni: questi alti ecclesiastici apparterrebbero tutti all'insieme di cardinali che hanno votato Bergoglio nel Conclave in cui è stato eletto. Nello stesso rapporto McCarrick, c'è un passaggio in cui viene rivelato come il cardinale guardasse volentieri al Sud America quale continente da cui eleggere un pontefice. Questi cardinali al centro di scandali sarebbero, insomma, tutti "bergogliani". Ma spesso c'è troppa approssimazione in questo modo di procedere con l'analisi.

La vera "guerra" nel Vaticano: il caso che scoperchia tutto. Il cardinale ed ex arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, per esempio, ha rinunciato per accuse di insabbiamenti a cui i tradizionalisti sembrerebbero non credere, mentre il cardinale polacco Gulbinowicz, che come riporta l'Aci è stato accusato di aver abusato un minore, è considerato dottrinalmente vicino ai pontificati precedenti. In buona sostanza, non è un esercizio semplice, e forse neppure utile, questo di riempire le caselle dei riferimenti correntizi. Se non altro perché il Vaticano, in cui tuttavia esistono degli "schieramenti", non può essere raccontato alla stregua di una bagarre tra fazioni o partiti. Un focus che la destra ecclesiastica ripropone spesso riguarda invece la continuità con cui la cosiddetta "coorte" di Bergoglio sarebbe inciampata in scandali. Un altro discorso, invece, è circoscrivere i fatti avvenuti durante un particolare periodo storico: i primi sette anni e mezzo di Francesco sul soglio di Pietro. Vatileaks 2, lo scandalo del palazzo di Londra, con la cacciata di Becciu sono i principali avvenimenti di cui si è dibattuto a mezzo stampa. Per quel che concerne il "cerchio magico", invece, rischiamo di dover andare indietro nel tempo. Nel corso di una delle sue ultime dissertazioni, come ripercorso da Stilum Curiae, monsignor Carlo Maria Viganò ha presentato una sorta di elencazione in cui accusa alcuni tra i più importanti uomini vinco al Papa di abusi o di tendenze nascoste. Fra questi, secondo l'ex nunzio apostolico, vi sarebbe monsignor Maradiaga, che per chi non lo sapesse, è il vertice del C9, il consiglio ristretto di cardinali che papa Francesco ha voluto per riformare nel profondo la Curia di Roma. I presunti fatti citati da Viganò sarebbero in ogni caso avvenuti prima che il Papa scegliesse Maradiaga per quel ruolo. Sempre Viganò ha deciso anche di lanciare un'altra "bomba", questa volta sul nuovo sostituo della segreteria di Stato, Edgar Peña Parra, che secondo l'ex nunzio apostolico negli Stati Uniti sarebbe stato invischiato in una presunta espulsione dal seminario legata ad accuse interne alla Chiesa. Accuse naturalmente prive di conferme e che sono state lanciate da Viganò in una fase in cui il monsignore ha ingaggiato una durissima battaglia dottrinale e politica contro il pontificato di Francesco. Ma sono parole che fanno ben comprendere il clima estremamente duro e inquieto che pervade tutta la Chiesa di Roma e su cui è scagliato proprio il pontefice in diverse omelie e discorsi. L'ex nunzio apostolico negli States cita anche altri episodi, ma quelli segnalati bastano per comprendere quale sia l'opinione dei "conservatori" almeno su alcuni degli uomini selezionati da Francesco in questi anni per incarichi di vertice.

Vaticano, Viganò accusa il papa di chiamare pure collaboratori gay. Stando ai tradizionalisti, Bergoglio sbaglierebbe dunque nelle scelte. Sempre nel corso di questo pontificato, il cardinale George Pell è stato costretto a non occuparsi più della segreteria per l'Economia per accuse da abusi provenienti dalla sua nazione d'origine, ossia l'Australia. Pell è stato tuttavia scagionato del tutto al termine dei tre gradi di giudizio, dopo un periodo trascorso in prigionia. Che cos'è, in fin dei conti, che muove le accuse dei conservatori? E perché Bergoglio non sarebbe - come invece raccontano le cronache vaticane - il continuatore naturale dell'opera di pulizia messa in campo da Benedetto XVI? Ne abbiamo voluto parlare con una fonte, che ha preferito tuttavia rimanere anomina. L'esordio, nel corso della chiacchierata, si è rivelato tutto un programma: "Viviamo nella assoluta dicotomia tra realtà e finzione: fedeli arrabbiati, disgustati, che non versano più l' otto per mille, che non vanno alle udienze... E giornali che esaltano il sovrano sempre più solo e sempre più bisognoso di elogi, film, documentari e interviste su di sé. Un papa che diventa soggetto cinematografico, che applaude i suoi celebratori". La fonte cita la questione della torta, riferendosi ai festeggiamenti organizzati per il documentario "Francesco", che farebbero da contraltare all'immagine dei cardinali che secondo la fonte contraria a questo pontificato, sarebbero stati "perseguitati". Lo stesso documentario per cui è scoppiata la vicenda dell'apertura dottrinale di papa Francesco sulle unioni civili. E sul caso Becciu? La risposta è lapidaria:"Becciu è stato innalzato per anni, mentre Pell prima è stato accantonato e poi accolto di malanimo ma rimesso in naftalina. Come con Becciu così con McCarrick: amico sino all' evidenza della colpevolezza, poi scaricato. Senza mai fare chiarezza: perché Becciu è stato per anni così potente al suo fianco? Perché su McCarrick non si è ancora voluto fare chiarezza? (Abbiamo parlato con la fonte prima della pubblicazione del rapporto da parte del Vaticano, ndr)...". Le considerazioni finali perseguono lo stesso percorso delle premesse, e bocciano l'operato papale: "Francesco ha cercato sin da subito un appoggio dei giornalisti soprattutto di sinistra, ma non solo, per far raccontare il suo pontificato per l'opposto di ciò che è: unitivo, mentre è divisivo, sinodale mentre è tirannico, aperto mentre è ideologico, nemico della corruzione mentre è stato lui a bloccare ogni tentativo di pulizia, a promuovere Becciu, ad abbandonare Pell... che oggi Viganò, cioè l' uomo che voleva fare pulizia già nel 2011, sia il suo avversario più noto, la dice lunga...".

La difesa del Santo Padre. Sino a questo punto, abbiamo posto per lo più accenti sulla visione di chi è solito opporsi all'azione del regnante. Esiste una larga parte di opinione pubblica, di ecclesiastici e di laici che invece difendono le modalità mediante cui Francesco ha affrontato gli scandali, siano queste ultime curiali o no. Il religioso e studioso Rosario Vitale, che è stato interpellato in merito da IlGiornale.it, è tra questi: "Certamente Papa Francesco, che viene come lui stesso ha detto 'dall’altra parte del mondo', non si sarebbe potuto immaginare che genere di situazioni avrebbe trovato nell’Urbe, lui che arrivava proprio da una diocesi con ben altri problemi, eppure ha dovuto fare i conti con ruberie, pedofilia, corruzione, clericalismo, acquisti pazzi, e ogni altro genere di malaffare".

Bergoglio non poteva immaginare quali situazioni avrebbe dovuto affrontare, ammette Vitale, che poi insiste:"La risposta del Santo Padre di fronte a situazioni poco chiare è sempre stata quella della trasparenza, della carità, ma anche quella dell’azione decisa, come si agirebbe in una famiglia, senza ipocrisie, guardandosi negli occhi e se necessario chiedendo scusa". Ecco la tesi più in voga: Papa Francesco starebbe combattendo una battaglia per la trasparenza della Chiesa.

Papa Francesco: "La corruzione nella Chiesa è male antico". Anche per quanto concerne l'atteggiamento di Francesco, a differenza dell'altra fonte, Vitale ha poco da segnalare: "Il Papa ha sempre affrontato con coraggio e determinazione anche situazioni dolorose, come quelle che hanno interessato i cardinali O’Brien (un altro porporato che si è dimesso per "comportamenti sessuali inappropriati") e McCarrick, tanto per citare i casi che sono balzati a favor di cronaca, senza stancarsi di dire che 'il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore'". In conclusione, possiamo asserire che questo pontificato viene analizzato con due lenti d'ingrandimento diverse: una che, guardando, si rende conto della presunta contiguità tra l'azione di Bergoglio, in specie quella relativa alle nomine, ed alcuni alti ecclesiastici in odore o immersi negli scandali; un'altra che invece, ritenendo la Chiesa da sempre immersa in vicende di questo tipo, rimarca come papa Francesco stia combattendo la medesima battaglia di Ratzinger per la pulizia e la trasparenza.

Fabio Marchese Ragona per ''il Giornale'' il 6 novembre 2020. La Segreteria di Stato Vaticana rimane «senza portafoglio»: addio alla gestione delle finanze, degli investimenti e del tanto discusso Obolo di San Pietro, finito al centro degli ultimi scandali finanziari che hanno scosso le sacre stanze, con il defenestramento del cardinale Angelo Becciu e un'inchiesta che vede indagati laici e monsignori. È una decisione storica quella di Papa Francesco che con una lettera al cardinale Pietro Parolin datata 25 agosto ma diffusa dalla Sala Stampa della Santa Sede soltanto ieri, ha trasferito l'intera gestione del tesoretto della Segreteria di Stato, composto da beni mobili e immobili, all'Apsa, la Banca Centrale Vaticana, guidata da monsignor Nunzio Galantino e quindi sotto il controllo della Segreteria per l'Economia, ufficio che fu guidato dal cardinale Pell e che oggi vede alla testa il gesuita padre Guerrero Alves. Un'operazione di accentramento delle finanze vaticane voluta da Bergoglio in persona che incorona un unico, grande, vincitore morale di tutta la vicenda: proprio il cardinale George Pell che da «Ministro dell'Economia» del Vaticano, tre anni fa, prima di esser rispedito in Australia a difendersi dalle accuse, rivelatesi false, di pedofilia, avrebbe voluto che quei fondi passassero proprio sotto il controllo del dicastero economico che guidava. All'epoca si scatenò una guerra intestina, con accuse e pugni sui tavoli, fino al congedo del «ranger» australiano, che ha scontato anche un anno e mezzo di carcere nel suo Paese. Di ritorno a Roma, Pell, qualche settimana fa ha incontrato il Papa con il quale ha discusso anche di faccende economiche. Nel documento firmato da Francesco si fa un chiaro riferimento anche allo scandalo del palazzo di Sloane Avenue a Londra che ormai da oltre un anno tiene la Segreteria di Stato sotto i riflettori di tutto il mondo. Bergoglio, infatti, nella lettera dice senza troppi giri di parole: «Una particolare attenzione meritano gli investimenti operati a Londra ed il fondo Centurion (un fondo maltese attraverso il quale il Vaticano ha investito i soldi dei poveri in giocattoli, robotica, cinema, ecc., ndr), dai quali occorre uscire al più presto o, almeno, disporne in maniera tale da eliminarne tutti i rischi reputazionali». Francesco, svuotando la Segreteria di Stato, chiede anche ai suoi vertici di «valutare la necessità dell'esistenza dell'ufficio amministrativo», quello che fino a oggi ha fatto partire tutti i pagamenti disposti dal dicastero, fino a poco tempo fa guidato da monsignor Alberto Perlasca, anche lui allontanato e oggi indagato nell'inchiesta finanziaria d'Oltretevere per vari pagamenti sospetti. Un chiaro depotenziamento della Segreteria di Stato che da adesso in poi dovrà render conto alla Segreteria per l'Economia di ogni operazione, non avendo più alcuna autonomia sui fondi, il cui utilizzo era sempre stato a discrezione dei vertici del dicastero. Una mossa, però, che di certo alleggerisce di responsabilità e toglie qualche rogna al Segretario di Stato, Pietro Parolin, e al suo numero due, il Sostituto monsignor Edgar Peña Parra. Francesco, nella sua lettera di agosto, aveva chiesto che il passaggio dei fondi da una struttura all'altra, avvenisse entro il 1° novembre scorso. Richiesta che non è stata realizzata: per questo Bergoglio, qualche sera fa, ha indetto una riunione durante la quale ha istituito una «Commissione di passaggio e controllo», formata da Peña Parra, Galantino e Guerrero Alves, per «portare a compimento, nei prossimi tre mesi, quanto disposto».

“UNA DOMANDA VIENE SUSSURRATA IN VATICANO: SE IL PAPA DOVESSE AMMALARSI, COSA ACCADREBBE?” Dagospia il 26 novembre 2020. Esce oggi per Chiarelettere Il libro del Vaticano (pp. 1.164, 25,00), che raccoglie in una nuova edizione con testi inediti i cinque titoli di Gianluigi Nuzzi (Vaticano S.p.A, 2009; Sua Santità, 2012; Via Crucis, 2015; Peccato originale, 2017; Giudizio universale, 2019) che hanno svelato il volto sconosciuto della Chiesa, fatto di trame di potere, scandali sessuali, speculazioni finanziarie, incroci di mafia e massoneria, persino omicidi mai chiariti. Anticipiamo uno stralcio dell' introduzione.

Estratto del libro di Gianluigi Nuzzi, “il libro nero del Vaticano”, pubblicato da “la Stampa”. Questo libro racconta la storia della Curia romana, della capacità bulimica di sottrarre credibilità alla Chiesa con gli scandali e risorse finanziarie con il malaffare. Questo lavoro si basa unicamente su carte e testimonianze raccolte in dieci anni di inchiesta, partita nel 2008 con Vaticano S.p.A. e arrivata fino agli ultimi scandali che coinvolgono personaggi di primo piano, come il cardinale Becciu. Questo libro documenta, ricostruisce e analizza con migliaia di atti inediti la vita di quel mondo dei sacri palazzi rimasto fuori dallo spettro visivo di una stampa che - quantomeno fino al 2015-2016 - era fortemente orientata, protettiva nei confronti del Vaticano e dei suoi peggiori protagonisti. È un viaggio senza precedenti che intreccia fatti clamorosi di sangue, come l'omicidio di Emanuela Orlandi, morti sospette, come quella di Albino Luciani dopo trentatré giorni di pontificato, fino agli affari più subdoli portati avanti da cordate di spregiudicati porporati. È un'opera completa frutto non solo di un faticoso quanto necessario approfondimento, ma anche figlia del sacrificio di tante persone che pur di rendere noto quanto stava accadendo in Vaticano hanno corso dei rischi. È bene ricordare che per tutti questi saggi raccolti ora in un unico volume non è mai stato pagato un euro alle fonti informative che hanno collaborato cedendo segreti, storie, copie di documenti. Anzi, diversi di loro, da Paolo Gabriele, maggiordomo di Benedetto XVI, a monsignor Ángel Vallejo Balda, coordinatore della commissione d' inchiesta battezzata da Francesco nel 2013 per far luce proprio sui conti della Santa Sede, hanno accettato processo e carcere per aver reso noto fatti che, a differenza del loro agire, avrebbero meritato indagini e manette. Questa inchiesta - in altre parole - ha avuto anche un prezzo altissimo in termini di libertà personale, visto che alcune persone ne sono state private, dopo processi sommari che hanno avuto eco mondiale. Anche il sottoscritto, con il collega Emiliano Fittipaldi, è stato processato, sempre in Vaticano, uscendo prosciolto e assolto nel 2016 da accuse prive di fondamento, come quella di mettere a rischio la sicurezza economica della Santa Sede. Ma c'è anche da credere che questo atteggiamento oscurantista, con il processo a fonti e giornalisti che pubblicano notizie, sia ormai in declino. Per la famosa legge del contrappasso, nel 2017, infatti, avevo portato la prima copia del saggio Peccato originale (la quarta inchiesta ospitata in questo libro) al promotore di giustizia, Gian Piero Milano, che leggendolo ha deciso di aprire un' inchiesta su alcuni fatti denunciati, i presunti abusi ai danni dei chierichetti del Papa ospitati nel preseminario San Pio X, a palazzo San Carlo, in Vaticano. Così, dopo aver interrogato decine di persone, il promotore di giustizia ha disposto il processo contro i presunti responsabili, che si è aperto nell' ottobre del 2020. Per farlo celebrare è intervenuto direttamente papa Francesco che, con un provvedimento senza precedenti, nel luglio del 2019 ha tolto la prescrizione al reato di abusi sessuali contestato a uno dei sacerdoti chiamati in giudizio. Se quindi prima venivano processati i ladruncoli che borseggiavano i fedeli in San Pietro e i giornalisti che pubblicavano notizie fastidiose, oggi l' iniziativa giudiziaria assume uno spettro ben più ampio. Del resto è proprio papa Francesco che tante volte è intervenuto contro la corruzione nella Chiesa, ripetendo accuse che già Benedetto XVI lanciava contro chi abusa della tonaca per saccheggiare il patrimonio dei fedeli. Ecco che proteggere la salute del Papa diventa fondamentale. Per fortuna il gesuita argentino è accorto, cadenza la sua giornata a Santa Marta incontrando pochissime persone. Piazza San Pietro vuota. Papa Francesco nella sua stanza, pochissimi contatti con l' esterno. Il Covid che si aggira come uno spettro in Vaticano non guarda in faccia nessuno, colpisce scrivani, segretari, impiegati e monsignori, suore e vescovi, amici e nemici di Francesco. Una domanda viene sussurrata con gli occhi rivolti proprio alla residenza del Pontefice, è un interrogativo che crea profondo disorientamento: se il Santo padre dovesse ammalarsi, cosa accadrebbe? Cosa succederebbe alla Chiesa che sta vivendo il periodo di maggior difficoltà, il più complesso della storia contemporanea? La crisi che sta attraversando - una crisi della fede, soprattutto, acuita dagli scandali che hanno investito personaggi di rilievo - annuncerebbe un declino forse irreversibile. Per la più grande confessione cristiana al mondo, mai come oggi il Santo Padre assume un rilievo centrale. A lui è affidata la missione di rilanciare la Chiesa, invertendo quella spirale discendente ogni giorno più chiara a partire dal calo delle offerte e delle vocazioni. Solo immaginare un conclave in piena pandemia, con gli anziani cardinali che devono esporsi a viaggi intercontinentali e riunioni plenarie, è impensabile. Ma, soprattutto, l' opera di Francesco non può essere interrotta. Anche gli scandali, nati dalla compravendita di una grossa proprietà immobiliare a Londra, e ampiamente trattati dai media di tutto il mondo, segnano che ormai l' azione di Francesco colpisce persone ritenute a lui molto vicine nell' immaginario collettivo. A differenza di Wojtya e Ratzinger, Bergoglio ha mantenuto le deleghe temporali, teologiche ed evangeliche, caratterizzando fortemente questo pontificato, incentrato sulla sua figura. Se, ad esempio, Benedetto XVI aveva affidato a un nutrito gruppo di cardinali la gestione degli affari economici e finanziari, allontanandosi dalla quotidianità dei giochi di potere e quindi rimettendo alla segreteria di Stato la cura della salute della monarchia, Bergoglio, conscio dei disastri provocati e della situazione drammatica dei conti, studia, vigila e controlla in prima persona. Una posizione che ha necessariamente ridisegnato la mappa del potere interno.

Da corriere.it il 24 novembre 2020. È morto a 54 anni Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo di papa Benedetto XVI, che fu ribattezzato il «corvo» dello scandalo Vatileaks. L'uomo è deceduto alle 9.30 di lunedì mattina al Pronto soccorso del Policlinico Gemelli, dov'era arrivato per le conseguenze di una lunga malattia. Arrestato per avere passato al giornalista Gianluigi Nuzzi notizie e documenti trafugati dai cassetti papali, Gabriele, nella cui abitazione vennero ritrovate migliaia di fotocopie di documenti riservati, venne condannato dal Tribunale Vaticano a 18 mesi di reclusione nell’ottobre 2012 per il furto dei documenti e il 22 dicembre fu «graziato» dal Papa. Una volta scarcerato, l’ex aiutante di camera di Bergoglio, non ha più potuto risiedere né lavorare in Vaticano. La vicenda legata al trafugamento di documenti che è valso all’ex aiutante di camera l’appellativo di «corvo» è andata avanti con undici mesi di indagini. Oggetto dello scandalo fu la scoperta dell'esistenza di profonde divisioni e contrasti interni sugli indirizzi di governo del Vaticano e sulla gestione della sua banca (lo Ior, Istituto per le Opere di Religione). Il libro di Nuzzi «Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI», in particolare, riportava molti dei documenti privati del Papa. Pochi giorni dopo l’uscita del libro, l’allora portavoce vaticano padre Federico Lombardi annunciava che la Gendarmeria Vaticana aveva trovato un uomo in possesso di carteggi riservati del Papa e che aveva proceduto al suo interrogatorio e al suo fermo. L'uomo è risultato poi essere appunto Gabriele, aiutante di camera del Papa dal 2006.

Lucetta Scaraffia per il “Quotidiano Nazionale” il 23 novembre 2020. Domanda: per un cattolico normale, che non conosce né i cardinali né le complesse alchimie vaticane, cioè per quasi tutti noi, è più consolante sapere che ci sono stati gravi sperperi di denaro anche da parte di personaggi di primo piano, ma che ora coraggiosamente l'istituzione stessa fa pulizia (come appariva a chi avesse letto i giornali fino a qualche giorno fa), oppure che questa storia più che una coraggiosa denuncia è una vicenda sporca e confusa, piena di personaggi loschi e di coincidenze inspiegabili? Certo, ognuno di noi vorrebbe che fosse vera la prima ipotesi, e sarà forse per questo che i giornali nel loro complesso stanno ignorando le terribili e inquietanti notizie che la citazione a giudizio depositata dai legali del cardinale Angelo Becciu contro L'Espresso ha reso di pubblico dominio. Non pochi giornalisti hanno ripreso da quell'atto giudiziario solo un elemento che di per sé è ovvio: perdendo i diritti relativi al cardinalato Becciu non dovrebbe partecipare al conclave né come elettore né come potenziale eletto. Al fine di sbeffeggiarlo scrivendo che credeva di diventare papa… Forse sperando così di cancellare l'onta per il giornalismo italiano di avere pubblicata e presa per vera quella che potrebbe essere una clamorosa truffa, poi diffusa in tutto il mondo. Nella citazione legale infatti la prima 'narrativa', quella diffusa da L'Espresso e sollecitamente ripresa da non pochi media, è completamente rovesciata. Il cardinale non ha ricevuto avvisi di garanzia, né da parte del tribunale vaticano né da parte italiana. Ma il particolare più inquietante è che la notizia delle sue dimissioni, richieste come ormai è noto da papa Francesco durante l'udienza a Becciu iniziata alle 18.02 di giovedì 24 settembre, era stata anticipata da L'Espresso in due pagine web recanti il titolo «Si è dimesso»: una predisposta con 7 ore e 50 minuti di anticipo sugli avvenimenti; un'altra pubblicata online 2 ore e 18 minuti prima che il cardinale fosse ricevuto a Casa Santa Marta. Come facevano a saperlo, prima del cardinale stesso e forse perfino prima del Papa, il direttore del settimanale, Marco Damilano, e l'autore dell'inchiesta, Massimiliano Coccia? Sembrava molto ben informata di quello che sarebbe accaduto anche Geneviève Putignani, amica di monsignor Alberto Perlasca - coinvolto nell'indagine sul palazzo di Londra - che già da luglio aveva bersagliato il cardinale e un suo fratello con messaggi e telefonate minacciosi. In uno di questi specificava, addirittura fin dal 10 settembre, che Becciu avrebbe perso la carica fra il 15 e il 30 di quel mese. Tutti più informati del Papa stesso, si direbbe. Cosa sta succedendo in Vaticano? Ha il diritto di chiedersi ognuno di noi. Questa non sembra proprio un'operazione di pulizia e di trasparenza. Per ora nessuno ha risposto alla citazione dell'avvocato di Becciu, nessuno ha spiegato come mai molti sapevano prima del cardinale stesso e del Papa. E nessuno ha chiesto scusa per aver indicato come indagato una persona che non lo è. Se vogliamo trovare una buona notizia, dobbiamo guardare a monsignor Galantino, che qualche giorno fa, intervistato dal Tg2, ha assicurato a tutti i fedeli che nessuna somma di denaro destinata ai poveri è stata stornata per scopi illeciti. Ma allora? Certo tutti vorremmo che i soldi destinati ai poveri vadano a buon fine, ma non basta. Non c'è infatti solo la necessità di soccorrere i poveri. Esiste anche un'esigenza di verità e di giustizia, che non deve essere calpestata con tanta disinvoltura. Anche perché, se a queste domande non arriva una risposta seria e convincente, c'è il pericolo che soldi per i poveri non ne arrivino più.

Renato Farina per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2020. Chi firma questo articolo è solo l'umile e stupefatto dattilografo a cui Radio 1 (Rai) ha offerto lo spettacolo giornalistico di un' intervista esemplare. Gianni Minoli che nell' ora canonica di Garcìa Lorca, alle cinque della sera (il Mix delle Cinque) ha chiamato alla sua Plaza de Toros la professoressa Lucetta Scaraffia. Durata cinque minuti e cinque secondi che se diffusi in mondovisione, o magari dalla Radio vaticana, potrebbero sconvolgere il mondo o, come minimo, il più piccolo Stato del mondo. Emerge nei suoi contorni precisi e nella sua sostanza, senza riccioli né morbidi distinguo, il caso del cardinal Angelo Becciu e delle sue dimissioni imposte dal Papa per indegnità. Quest' affaire era partito il 24 settembre dal sito internet dell'Espresso, ed era stato esposto alla contemplazione dell' opinione pubblica generale e soprattutto del popolo cattolico (1,285 miliardi di fedeli) il nome e il volto di un uomo come «ladro dei soldi del Papa destinati ai poveri». Ora però, dopo l'inchiesta di Vittorio Feltri su Libero, lo scandalo si è capovolto e ha due facce. La prima: trattasi in realtà di un linciaggio ordito contro un cardinale scomodo dall'interno delle mura vaticane, coinvolgendo la buona fede del Santo Padre. La seconda: il silenzio agghiacciante dell'unico giornalone italico e in fin dei conti internazionale. Nessuno dei coristi osa anche solo proporre ai lettori, cui aveva venduto l'anima maledetta del cardinale, un punto di domanda, almeno un "forse". C'è stata un'eccezione notevole, che abbiamo già segnalato. Su Qn, diretto egregiamente da Michele Brambilla, Lucetta Scaraffia ha aperto una breccia nel muro. Infine ieri è stata ospite da Minoli. Eccone la trascrizione.

Gianni Minoli: Lucetta Scaraffia, 72 anni, è stata insegnante di storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, si è occupata del ruolo delle donne nella storia, ha diretto il mensile dell' Osservatore Romano "Donne, Chiesa e Mondo". Professoressa Scaraffia, che io sappia, oltre a Feltri su Libero, lei è l' unica giornalista che ha rotto il muro del silenzio sul caso Becciu. Ma perché un muro così impenetrabile?

Lucetta Scaraffia: Guardi, non lo so, mi ha molto stupita, perché in realtà quando è uscita la prima denuncia al cardinale Becciu su l'Espresso tutti i giornali l'hanno ripresa, mentre invece il dubbio che è stato seminato da Feltri non è stato ripreso da nessuno. Questo fa un po' dubitare che la libertà di stampa in Italia abbia dei limiti.

Minoli: In realtà il cardinale Becciu, screditato sulla stampa di tutto il mondo, non ha nemmeno ricevuto un avviso di garanzia da nessuno. Come si spiega un'operazione così violenta, si è fatta un'idea?

Scaraffia: La mia idea è che c'è sotto qualcosa di grosso, non so che cosa ovviamente. È chiaro che il cardinale è stato scelto come capro espiatorio per nascondere qualcosa di grosso e dare un' idea del Vaticano, rinfrescare l'immagine del Vaticano, diciamo così, come luogo dove si fa giustizia colpendo anche le cariche più alte.

Minoli: L'Espresso ha scritto che Becciu si era dimesso, lo ha scritto sette ore e cinquanta minuti prima che il cardinale addirittura incontrasse il Papa, una magia giornalistica praticamente.

Scaraffia: Sì, suppongo che non lo sapesse ancora neanche il Papa, quindi questo mi ha stupito tantissimo e chiaramente questa è una coincidenza che fa pensare a un complotto.

Minoli: Quando le è venuto il dubbio che più che di una coraggiosa denuncia quella contro Becciu sia una vicenda sporca e confusa? Appunto, quando ha visto le sette ore e cinquanta minuti?

Scaraffia: Sì, quello mi ha veramente convinta che c'era qualcosa di losco in questa storia, e poi il silenzio con cui tutto questo è stato accolto mi ha confermato.

Minoli: Perché quasi tutti i media del mondo hanno ripreso invece degli atti giudiziari, che ci sono, solo il fatto che Becciu, degradato, non potrà partecipare al Conclave né come elettore né come potenziale eletto?

Scaraffia: Sì, questa era una ovvietà però è stata ripresa sempre contro Becciu, per prenderlo in giro, è un aspetto ancora di questo attacco all' immagine del cardinale.

Minoli: Professoressa Scaraffia, i media potrebbero aver preso per vera, nella migliore delle ipotesi, quella che potrebbe essere invece solo una clamorosa truffa.

Scaraffia: Questo è evidente, mi stupisce che i media poi non si siano domandati quando la truffa è stata poi rivelata da queste date, da queste coincidenze sbagliate e che non abbiano detto andiamo a vedere cosa c' è dietro. Il silenzio che è succeduto agli articoli fa pensare che i media non abbiano nessuna intenzione di rivedere quello che avevano già scritto.

Minoli: Anche in Vaticano nessuno ha chiesto scusa per avere indicato come indagata una persona che non lo è. Anche lì, spiegazioni poche.

Scaraffia: Sì, nessuna spiegazione e poi una evidenza, che evidentemente tutto 'sto materiale è uscito dal Vaticano.

Minoli: Lei scrive: «Esiste un'esigenza di verità e giustizia che non deve essere calpestata con tanta disinvoltura». Quindi neanche dal Vaticano, che invece la sta calpestando.

Scaraffia: Bé, sì, il Vaticano ha messo avanti una esigenza vera dei fedeli che è quella di dire i soldi che diamo per i poveri devono arrivare ai poveri. Contro la corruzione. Però né ci sono solo i soldi, né ci sono solo i poveri, c'è anche il bisogno di sapere la verità. E che ogni essere umano, cardinali compresi, siano trattati con giustizia.

Minoli: In tutta questa storia, il Papa può essere stato ingannato e portato fuori strada volutamente, suo malgrado, fino a questo punto?

Scaraffia: Io voglio pensare quello naturalmente, io sono una cattolica e penso che il Papa sia stato anche lui, diciamo così, ingannato, attraverso questa uscita di fonti, queste cose, sia stato ingannato. Spero che adesso, se non lo fanno i giornali italiani, di riflettere sulla situazione, di voler vedere con più chiarezza quello che è successo, spero lo voglia fare il Papa.

Minoli: Un'ultima cosa: siamo solo, quindi, secondo lei, alla prima puntata di questa incredibile e orrenda telenovela.

Scaraffia: Sì, non è la prima, lei sa che da quando è successo il caso del povero Paolo Gabriele (il maggiordomo di Benedetto XVI condannato e poi graziato dallo stesso per la fuga di documenti riservati, nota come Vatileaks 1, ndr) che è morto ieri, in Vaticano non fanno più uscire notizie stranissime, escono dal Vaticano che fanno parte di una guerra, ormai la stampa è diventata la mano armata delle guerre interne al Vaticano.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 18 novembre 2020. Il denaro della Santa Sede alla cooperativa presieduta dal fratello Antonino? «Nessuna elargizione a lui, i 600 mila euro sono stati erogati a favore della Caritas di Ozieri (la diocesi di origine del cardinale Angelo Becciu, ndr ), regolarmente valutati da una commissione e dal cardinal Angelo Bagnasco»; i lavori di falegnameria dati all'altro fratello, Francesco, in Angola, dove il cardinale è stato nunzio apostolico? «Poca cosa e per nulla remunerativa, il cardinale ha preferito il fratello in virtù del rapporto di fiducia»; i favori a un terzo fratello, Mario, produttore di birra? «Il finanziamento non ha nulla a che vedere con la Santa Sede, trattandosi di somme elargite dall'imprenditore angolano Antonio Mosquito». E poi l'investimento fallimentare nel palazzo londinese di Sloane Avenue («Fu gestito da Tirabassi e monsignor Perlasca e approvato dai superiori») e il caso di Cecilia Marogna («Soldi destinati a finalità umanitarie»). La versione del cardinale Angelo Becciu, dimesso da prefetto della Congregazione per le cause dei santi lo scorso 24 settembre al termine di un drammatico incontro con papa Francesco, è in un documento depositato lunedì scorso al Tribunale civile di Sassari a firma dell'avvocato Natale Callipari, che lo assiste. Si tratta di un atto di citazione al settimanale Espresso , il giornale che per primo aveva dato la notizia delle dimissioni, al quale il cardinale chiede 10 milioni di danni «da destinare a opere di carità». L'ipotesi di partenza è roboante: «L'articolo, anticipato al Santo Padre, è stato la causa della richiesta di dimissioni», scrive il legale. Possibile che non ci fosse nient' altro, avvocato? «Abbiamo ricostruito ogni passaggio». Callipari mette poi in fila le conseguenze dello scandalo: «Non può partecipare a un Conclave e alle riunioni dei cardinali, ha perso il proprio ufficio presso il Sovrano Ordine di Malta...». E infine la chance sfumata: «Grazie al suo curriculum poteva risultare fra i papabili».

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it l'1 dicembre 2020. Ieri sera, prima domenica d’Avvento, Papa Francesco ha telefonato a casa a monsignor Angelo Becciu. Dopo lo scoppio dello scandalo del Palazzo di Londra e le “dimissioni” dai diritti e doveri del cardinalato, un colpo di scena. Forse. Sicuramente, un’iniziativa che ha aperto il cuore all’arcivescovo sardo, così ha raccontato, “visto che i pensieri del Santo Padre, sono stati ben altri da quelli dei giornalisti”. La chiamata da Casa Santa Marta è arrivata al termine di un fine settimana duro per Becciu caratterizzato in Vaticano dal nuovo Concistoro (la creazione dei nuovi cardinali), cui sua eminenza, vista la sanzione che gli è stata comminata a fine settembre dal Papa in persona, non ha potuto partecipare (come, allo stato, non potrà partecipare ad un futuro Conclave) . In più il Papa nel Concistoro aveva avuto parole dure nei confronti di chi è un’eminenza ma sbanda e finisce “fuori strada”. Ma il Vangelo di Marco letto durante la celebrazione - ha sottolineato il Papa nella sua omelia - mostra non solo i discepoli che fanno a gara a chi è più grande ma anche l’atteggiamento di Gesù che - come ha ricordato Francesco - non si arrabbia, ma con pazienza, educa gli apostoli non a sbandare, ma a seguirlo su quella strada che lo porterà a Gerusalemme e alla morte in croce. Del resto nell’ultimo libro del Pontefice che esce proprio domani in tutto il mondo ( e in Italia per Piemme -Il quotidiano La Repubblica “Ritorniamo a sognare”) racconta della sua esperienza di governo da provinciale gesuita, lui si era comportato in modo molto duro e a causa di quel suo stile di governo, gli venne imposta “ una speciale quarantena — un anno, dieci mesi e tredici giorni — trascorsa all’inizio degli anni Novanta in una residenza gesuita a Córdoba, in obbedienza ai superiori”. «La cosa più strana» in quella circostanza, annota Francesco nel libro, è stata la lettura dei trentasette tomi della Storia dei Papi di Ludwig von Pastor:  «Avrei potuto scegliere un romanzo, qualcosa di più interessante. Da dove sono adesso mi domando perché Dio mi avrà ispirato a leggere proprio quell’opera in quel momento. Con quel vaccino il Signore mi ha preparato. Una volta che conosci quella storia, non c’è molto che possa sorprenderti di quanto accade nella curia romana e nella Chiesa di oggi. Mi è servito molto!». Insomma anche Bergoglio a suo tempo subì una quarantena imposta per disciplina, ma da una crisi, si può uscire migliori. “ Ne ho imparato che soffri molto, ma se lasci che ti cambi ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore», ha scritto il Pontefice. Del resto, l’Avvento è il tempo della speranza.

Lo stupefacente attacco di Becciu a L'Espresso (e al Papa). L'ex cardinale querela il nostro giornale accusandolo di aver influenzato Francesco nella decisione di licenziarlo. Marco Damilano su L'Espresso il 18 novembre 2020. Angelo Becciu ha fatto arrivare oggi da parte dei suoi legali un atto di citazione nei confronti dell'Espresso, con la richiesta di risarcimento di dieci milioni di euro. Come cittadino italiano ne ha piena facoltà, sarà un tribunale a decidere sul merito e questo giornale non ha nulla da temere. Siamo sicuri di aver compiuto il nostro lavoro e il nostro dovere di informazione, con correttezza e professionalità, consapevoli della eccezionale rilevanza pubblica della questione. Ma Angelo Becciu non è un cittadino comune, come recita la prima riga dell'atto. Si qualifica come Sua Eminenza Reverendissima cardinale Giovanni Angelo Becciu. È un cardinale della Chiesa cattolica, residente in Vaticano, che querela un giornale italiano sentendosi diffamato. Ancora più stupefacenti le motivazioni che il cardinale Becciu espone per spiegare la sua decisione. I lettori conoscono bene la storia: giovedì 24 settembre, due mesi fa, alle ore 18 il cardinale, in quel momento prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, è stato ricevuto in udienza da Papa Francesco. Poco più di due ore dopo, alle ore 20.20, l'Ansa ha dato la notizia che Becciu si era dimesso dalla carica curiale e perfino dal cardinalato, annunciata un'ora prima dal bollettino vaticano, aggiungendo che «la decisione del Papa è stata comunicata poco fa dallo stesso Bergoglio a Becciu in una udienza choc». Intanto era in preparazione l'uscita del nostro settimanale per la domenica successiva, con la copertina con il titolo “Fuori i mercanti dal tempio” e l'inchiesta di Massimiliano Coccia sullo scandalo vaticano. Nessuno sa cosa si siano detti il Papa e il cardinale in quell'udienza, a eccezione di loro due. Almeno fino a oggi, quando è arrivato l'atto di citazione. I legali di Becciu affermano di voler procedere contro l'Espresso perché «una copia dell'Espresso era in mano al Santo Padre ed era la copia che costui aveva in mano al momento del “licenziamento”». “Costui” è il Papa in persona: così si riferisce al Papa un cardinale da lui creato che gli ha promesso fedeltà “usque ad sanguinis effusionem”, fino all'effusione del sangue, come recita la formula del giuramento. Invece, per il cardinale Becciu, il romano pontefice, successore dell'apostolo Pietro, vicario di Cristo, sarebbe una persona suggestionabile, influenzabile, facilmente condizionabile al tal punto che basta un articolo giornalistico per fargli capovolgere il giudizio su un suo uomo di fiducia. Siamo consapevoli del nostro lavoro e orgogliosi di esercitarlo con piena libertà e autonomia, ma questa sembra un'enormità che da sola descrive la drammaticità dello scontro in atto in Vaticano e l'entità della posta in gioco. Se infatti un cardinale importante come Becciu non esita a trattare in pubblico il Papa in questo modo, cosa resta poi da aggiugere? C'è un salto logico in questo ragionamento: se il cardinale possiede il curriculum così puntigliosamente riportato nel documento dei suoi legali e un'immagine specchiata, per quale motivo Papa Francesco ha deciso di credere a un'inchiesta giornalistica e non a lui? Inoltre, era stato lo stesso cardinale Becciu a fornire una versione completamente diversa dei fatti. In pubblico, durante la conferenza stampa di venerdì 25 settembre, dopo il licenziamento. «Il Papa mi ha detto di aver avuto la segnalazione dei magistrati che avrei commesso peculato. Dalle carte, dalle indagini fatte dalla Guardia di finanza italiana emerge che io abbia commesso il reato di peculato», disse in quell'occasione. Perché ora ha cambiato idea? Perché due versioni così diverse su un momento così delicato come l'udienza con il Papa che lo ha costretto a dimettersi? Forse il cardinale dovrebbe farsi queste domande, invece di accanirsi su chi ha condotto un'inchiesta giornalistica solida e ben documentata. Sul merito, sarà il tribunale a stabilire dove sia la verità dei fatti. C'è da aggiungere, in conclusione, che i legali del cardinale Becciu quantificano l'entità del risarcimento alludendo alla cosiddetta chance, la «effettiva occasione di conseguire un determinato bene»: ovvero «la circostanza che il cardinale, sulla base del proprio prestigioso curriculum e in virtù del citato percorso, ben avrebbe potuto risultare tra i Papabili». Così il cardinale svela la sua ambizione. E l'Espresso viene accusato di condizionare non solo il Papa in carica ma anche lo Spirito Santo che avrebbe potuto scegliere Becciu come suo successore, se non fosse intervenuto un articolo a bloccarne l'ascesa. Il soglio di Pietro, per la prima volta, viene valutato: dieci milioni di euro. Verrebbe da dire al cardinale, con l'antico adagio, di non scherzare con i santi. Ma di santi se ne vedono pochi in giro, in questa storia. E di questa storia continueremo ad occuparci, nonostante la chiara volontà di intimidazione di un cardinale che si comporta, anche in questo caso, come il più spregiudicato dei fanti.

Angelo Becciu è stato incastrato? Sacro imbroglio in Vaticano, Vittorio Feltri: le carte che assolvono il cardinale. Ombre su Papa Francesco. Libero Quotidiano il 19 novembre 2020. Il cardinale Angelo Becciu è stato incastrato? Accusato di aver rubato le elemosine in Vaticano, non risulta indagato: stando alle carte in possesso di Libero, i soldi servivano infatti a liberare persone vittima di rapimento. E non solo: L'Espresso diede conto delle sue dimissioni da cardinale ben 7 ore e 50 minuti prima dell'incontro con Papa Francesco, un faccia a faccia decisivo per il passo indietro, voluto da Pontefice: una magia, quella dell'Espresso? A scrivere del "sacro imbroglio", su Libero in edicola oggi, giovedì 19 novembre, è Vittorio Feltri. Più di un sospetto: qualcuno ha incastrato il porporato, portando a Bergoglio l'inchiesta dell'Espresso e innescando il meccanismo che portò alle dimissioni di Becciu. Una vicenda oscura, con troppi aspetti poco limpidi e molti misteri.

Renato Farina per “Libero quotidiano” il 2 dicembre 2020. Che cosa accade dentro le Mura Leonine a proposito del caso Becciu? Si palpa un silenzio carico di presagi. L' Espresso, portavoce unico delle carte avvelenate, è stato tenuto a digiuno. Dopo settanta giorni di mitraglia, è rimasto senza cartucce. È comprensibile, dopo che le bombe cartacee che aveva depositato nel suo archivio gli sono esplose sotto i piedi grazie alla contro-inchiesta di Vittorio Feltri su Libero (18, 19 e 20 novembre). Stiamo parlando - per coloro cui fossero sfuggite le puntate precedenti - del cardinale Angelo Becciu, 72 anni, già sostituto della Segreteria di Stato (numero 3 della Santa Sede) e prefetto per le Cause dei Santi, privato dei suoi diritti e costretto alle dimissioni dalle sue cariche il 24 settembre scorso alle ore 18 e 25, dopo una drammatica udienza con il Papa. Al quale erano state accreditate come verità evangeliche e prove giuridicamente inconfutabili i documenti dell' Espresso contro il prelato sardo, impiccato da quelle carte come predatore dei soldi destinati ai poveri onde deviarli verso i propri parenti voraci. Niente di tutto ciò è accaduto, come ora riconosce l' autorità economica del Vaticano, l' arcivescovo Nunzio Galantino. Resta da capire chi e come abbia potuto tendere una simile trappola. Dopo che Libero ha potuto provare che accuse farlocche sono state messe a disposizione di un falsario certificato per tale dal Tribunale di Roma. Di certo, da dentro i Palazzi apostolici non si sono mosse nuove carte spedite all' Espresso da manine unte dal sacro crisma. Si è interrotto il canale by Vatican City. E così il settimanale diretto da Marco Damilano, dopo la cilecca rimediata nel numero precedente, ha girato i suoi cannoni da un' altra parte. La contro-inchiesta di Libero ha trovato eco in Qn diretto da Michele Brambilla, quindi su Radio 1 Rai grazie a Giovanni Minoli con un' intervista a Lucetta Scaraffia, e sul sito korazym.org. Ma è stata ampiamente censurata dall' universo internazionale dei mass-media politicamente corretti che aveva bevuto come oro colato la fake news, un vero e proprio assassinio morale (character assassination) del cardinale, che ha avuto però la consolazione di una telefonata di Francesco il 29 novembre, prima domenica di Avvento. In attesa che bersaglieri laici cerchino di riaprire una nuova breccia di Porta Pia nel muro dell' omertà difeso dagli zuavi vaticani, segnaliamo:

1. la Frankfurter Allgemeine Zeitung, quotidiano conservatore tedesco di forte prestigio, che a firma di Matthias Rüb ha cominciato a sollevare ampi dubbi sul caso Becciu, citando Vittorio Feltri e il legale Natale Callipari.

2. Fresca di stampa e rintracciabile sul web è la corrispondenza da Roma della Voce di New York. Nicola Corradi fornisce ai lettori italo-americani un quadro chiaro della vicenda la cui unica certezza è oggi la fotografia delle tenebre e delle opacità da cui è stretto Francesco. Titolo: «Francesco e il "caso" Becciu: il cardinale messo alla gogna potrebbe essere la vittima». Sommario: «Costretto alle dimissioni dal Papa per una "inchiesta" pubblicata dall' Espresso poi querelato. Emergono particolari sospetti e non è da escludere la montatura».

Scrive Corradi: «Per qualche settimana la notizia sembra avviarsi verso un assurdo cono d' ombra, fino a quando, sulle pagine di Libero, Vittorio Feltri torna a scrivere del caso. Lo fa con articoli puntuali, precisi e dettagliati, sollevando questioni alle quali è necessario venga data una risposta. Con una contro-inchiesta prova a riabilitare la figura di Becciu. In particolare, Feltri pone all' Espresso 12 domande. Agli articoli di Libero, però, non segue il clamore mediatico che aveva accompagnato le accuse mosse a fine settembre da parte del settimanale di Damilano. Anzi, tutto tace. Alla stampa pare che la vicenda non importi più. O, forse, sono le nuove pieghe assunte dai fatti ad aver allontanato l' interesse dei media». Eccole, le « nuove pieghe». La telefonata del Papa a Becciu con parole «ben diverse da quelle dei giornalisti». E il brusio dentro le Mura: «Qualcuno inizia a parlare di complotto, una congiura ideata dagli alti membri del conclave, in accordo con i giornalisti dell' Espresso, per mettere fuori gioco un collega con alti incarichi all' interno delle mura di San Pietro». La conclusione: «La storia non finirà qui. Anzi, questo sembra essere soltanto uno dei primi capitoli di una serie che potrebbe scuotere dalle fondamenta le rigide istituzioni del Vaticano». Vedremo.

Vittorio Feltri per Liberoquotidiano.it il 10 dicembre 2020. Pare che i magistrati vaticani abbiano finalmente individuato il gravissimo reato di cui si sarebbe macchiato il cardinale Angelo Becciu, bruscamente silurato da papa Francesco lo scorso 24 settembre. Tenetevi forte, perché, quando mi è stata riferita la circostanza, ho temuto di avere un problema otologico: «Offesa al Re». Proprio così, Re, con tanto di maiuscola. L'indiscrezione, uscita come al solito dal Vaticano, circola con insistenza in queste ore. Il mio dovere di cronista m' impone di riferirla, sia pure con notevole sprezzo del ridicolo. È evidente infatti che qui non siamo più in ambito giudiziario, bensì teatrale: farsa o vaudeville, fate voi. Lo so, vi starete chiedendo anche voi, insieme a me: ma l'ultimo Papa Re non fu Pio IX, che vide crollare lo Stato Pontificio a Porta Pia, sotto i colpi dei bersaglieri, nel 1870? E da allora l'unico "In nome del Papa Re" non si udì nel film con Nino Manfredi, girato a più di un secolo dalla fine del potere temporale del Pontefice? Nossignori. Becciu sarebbe stato incriminato in base all'articolo 122 del codice penale del Regno d'Italia, il quale è tuttora una delle fonti del diritto nello Stato della Città del Vaticano. Ve lo trascrivo: «Chiunque, con parole od atti, offende il Re è punito con la reclusione o con la detenzione da uno a cinque anni e con la multa da lire cinquecento a cinquemila». In valuta attuale, farebbero 2,58 euro, nella peggiore delle ipotesi. Applicheranno l'indice di rivalutazione monetaria dell'Istat? Dopo che questo giornale ha svelato il sacro intrigo ai danni del cardinale Becciu, era logico attendersi la reazione dei complottisti. E chi, se non la solita manina che agisce da sempre all'ombra del Cupolone, poteva loro fornire nuove cartucce? Ecco, nelle ultime ore gira voce che il porporato sia finalmente in procinto di ricevere, o forse abbia già ricevuto, quell'avviso di garanzia per peculato che tutti i giornali hanno dato per certo fin dall'inizio, cioè da quasi tre mesi, ma che finora non era mai stato emesso e di cui l'attuale indagato nulla sapeva. Già che c'erano, e giusto per non dar torto all'Espresso, i promotori di giustizia (parola grossa) del Tribunale vaticano avrebbero comunque deciso di spingersi oltre nel compulsare il codice firmato dal ministro Zanardelli nel 1889, e così al ridicolissimo 122 sembra abbiano aggiunto gli articoli 168, 175 e 176, che riguardano rispettivamente il peculato, l'abuso d'ufficio e l'interesse privato. Certo, se si fossero presi la briga di leggere anche le 73 pagine dell'atto di citazione depositato per conto del cardinale Becciu fin dal 16 novembre scorso presso il Tribunale di Sassari, avrebbero trovato elencate pignolescamente tutte le risposte a queste tre ipotesi di reato, prove inconfutabili che dimostrano come il porporato non abbia commesso nessuno degli ignominiosi illeciti finanziari che i suoi detrattori gli hanno cucito addosso. Ed è scandaloso che nessun giornale italiano, dico nessuno, a parte Libero, si sia sentito in dovere di esaminare le prove addotte dal porporato a propria difesa. Se questo imbroglio vaticano non è una congiura, ditemi voi che altro è. Ma interessarsi alle ragioni del cardinale Becciu avrebbe costretto gli zelanti pm circonfusi d'incenso a smontare, al pari dei giornalisti amici del giaguaro, l'infernale tritacarne mediatico messo in piedi da Marco Damilano, il direttore dell'Espresso che da 18 giorni si rifiuta di rispondere alle 12 domande postegli da Libero (ovvio: non può, non ne è capace), con la collaborazione di tale Massimiliano Coccia, un tizio dai trascorsi a dir poco equivoci, mai stato iscritto all'Ordine dei giornalisti, attualmente assegnato in prova ai servizi sociali per ordine del Tribunale di Roma. L'autore della pseudo inchiesta al gusto di velina si era già macchiato in passato del reato punito dall'articolo 476 del nostro codice penale (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici). Mica male come referenza professionale. Sono proprio questi due, Damilano e Coccia, insieme con il gruppo editoriale Gedi, a essere stati chiamati in causa da Becciu, con una richiesta di risarcimento dei danni pari a 10 milioni di euro, da devolversi in opere di carità. E sono sempre loro a non aver mai chiarito alcuni particolari decisivi: è vero o non è vero che alle ore 10.12 del 24 settembre, con 7 ore e 50 minuti di anticipo sull'udienza in cui Francesco fece dimettere il cardinale, sul sito dell'Espresso fu creata una pagina con il titolo «Si è dimesso»? Come faceva il settimanale a conoscere ciò che il Papa non aveva ancora comunicato al diretto interessato? Qualcuno lo aveva informato di ciò che sarebbe accaduto? Chi? È vero o non è vero che alle ore 15.44 dello stesso 24 settembre fu pubblicata sul medesimo sito una pagina con il titolo «Ecco perché il cardinale Becciu si è dimesso»? Come fece L'Espresso a divulgare questa notizia ben 2 ore e 18 minuti prima che cominciasse l'incontro fra il Papa e il cardinale? Naturalmente, mai aspettarsi troppo da promotori di giustizia arrivati non si sa come in Vaticano, uno dei quali tiene da una quindicina di giorni sulla sua scrivania una trentina di domande della nostra Brunella Bolloli: dopo aver chiesto che gli venissero formulate per iscritto, si è guardato bene dal rispondere, da buon emulo del taciturno Damilano. Sì, strane cose accadono in quel sacro organo di giustizia, presieduto da un ex procuratore capo dello Stato italiano che collabora abitualmente con Repubblica (quotidiano edito guarda caso dallo stesso gruppo che pubblica L'Espresso), congedatosi dai ruoli della magistratura tricolore con l'inchiesta denominata Mafia Capitale, nella quale, sempre guarda caso, uno dei succitati promotori di giustizia ora al servizio del Papa difendeva i ben più prosaici interessi di uno dei principali imputati, il famoso Salvatore Buzzi. E che dire del fatto che lo stesso ex procuratore capo, oggi presidente del Tribunale vaticano, non disdegnava di presentare un suo libro facendosi intervistare a Radio Radicale dal falsario Coccia? Come sosteneva Agatha Christie, che di gialli se ne intendeva, un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, o no? E sempre a proposito di indizi ormai divenuti prove grazie al nostro giornale, come mai il Tribunale vaticano ha insabbiato l'esposto presentato da Enrico Rufi, giornalista di Radio Radicale, al quale il Coccia, inventandosi l'identità di un prete che non esiste, don Andrea Andreani, promise di fungere da intermediario per fagli ottenere un'udienza da papa Francesco, dopo che Rufi aveva perso tragicamente la figlia di 16 anni al ritorno dal viaggio in Polonia per la Giornata mondiale della gioventù? Si mosse persino il ministro della Giustizia del Vaticano, che da quelle parti si chiama prefetto della Segnatura Apostolica, il cardinale Dominique Mamberti, per segnalare a Bergoglio che in Vaticano impazzava un mitomane di nome Coccia. Lo stesso Mamberti assicurò per iscritto a Rufi, a proposito di quella denuncia tuttora inevasa: «Sia sicuro che non l'ho dimenticata». Lui magari no, ma i magistrati della Santa Sede di sicuro sì. E qui siamo al punto cruciale di tutta questa farsa. Posto che il Tribunale vaticano non lavora per la giustizia - il caso Coccia ne è un drammatico esempio - ma solo per assurgere all'onore della ribalta, ci si chiede come sia possibile che abbia trascinato la figura del Sommo Pontefice nella formulazione di un'ipotesi di reato, quella di cui si diceva all'inizio, che grida vendetta al buon senso prima che al cielo: «Chiunque, con parole od atti, offende il Re» eccetera eccetera. Quando, come e in quali forme il cardinale Becciu si sarebbe macchiato di questa ridicolissima colpa? In attesa che saltino fuori le prove, se mai ce ne sono, non resta che procedere per congetture. L'unica persona ad avere accusato il porporato sardo di una simile infamia è tale Genoveffa Cifferi Putignani, che si firma Geneviève, forse perché ritiene che il nome alla francese le conferisca maggiore credibilità, e che va dicendo in giro di aver lavorato per i servizi segreti. Con telefonate e messaggi minatori, la signora aveva pronosticato a Becciu (e persino a suo fratello Mario) la perdita della berretta cardinalizia «fra il 15 e il 30 settembre», perché a suo dire egli non aveva convinto il Papa a reintegrare monsignor Alberto Perlasca, l'economo della Segreteria di Stato licenziato da Francesco per lo scandalo dell'investimento immobiliare londinese. Non contenta, la Ciferri lo scorso 22 novembre, dopo che Libero aveva scoperto i suoi altarini, era corsa a sfogarsi con La Verità, che le ha attribuito in un titolone questa frase: «Becciu bestemmiava e insultava il Papa». E nel testo quest' altra: «Bestemmiava Dio e urlava contro il Papa». Ma dài! Ora, sarà perché a me scappa davvero qualche moccolo quando qui in redazione mi fanno incazzare o l'Atalanta perde, da umile battezzato, benché ateo praticante, mi chiedo: ma bestemmiare il Principale non è infinitamente più grave che insultare il suo amministratore delegato, cioè Bergoglio? E allora perché scomodare l'articolo 122 sull'offesa al Papa Re quando semmai Becciu meriterebbe di essere spretato per empietà? Misteri della fede. Per tornare alle cose serie, ma davvero il Tribunale vaticano può essersi mobilitato sulla base delle farneticazioni di un'anziana signora, probabilmente invaghita del monsignore, che va a spifferare consimili deliri ai gazzettieri? Andiamo! C'è da mettersi a piangere se i miei colleghi sono scesi così in basso da raccogliere le stronzate di una tizia che Dagospia classificherebbe senza incertezze come svalvolata. Eppure a questo siamo arrivati. Non soltanto La Verità, foglio fieramente antibergogliano, ha dato credito alla schiodatella, l'ha fatto pure L'Espresso, il cui direttore è ormai abituato a rifugiarsi sotto la candida veste di Francesco, con la benedizione della firma più nobile del settimanale che fu di Arrigo Benedetti, quell'Eugenio Scalfari che vorrebbe convertire il Pontefice e dunque va a fargli visita un giorno sì e uno no a Casa Santa Marta. Nel numero in cui Damilano avrebbe dovuto, ma non ha saputo, rispondere alle 12 domande di Libero - intanto sull'inchiesta del falsario Coccia è sceso il pietoso velo del silenzio - è addirittura apparsa un'intera pagina a firma Geneviève Ciferri Putignani, nella quale la signora ha reiterato nero su bianco i suoi spropositi: «Confermo che, nel corso dell'incontro, intercalò più volte in modo blasfemo, ed espresse valutazioni irriguardose verso la persona del Pontefice, del Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, di S. E. il Sostituto Edgar Peña Parra, e valutazioni di merito negative nei confronti della natura del Tribunale Vaticano, e nei confronti dei Magistrati vaticani titolari dell'inchiesta, con particolare biliosità rivolta maggiormente verso il magistrato Dott. Alessandro Diddi». Che spettacolo. «Venghino, signori, venghino: più gente entra, più bestie si vedono», come urlava il buttadentro del circo dei 7 Fratelli Pivetta. L'ultimo dei nominati dalla mitomane, sempre guarda caso, potrebbe essere proprio colui che ora ha formulato la surreale imputazione di «offesa al Re». A me pare che qua sussista un'unica offesa: all'intelligenza. Il più grave dei delitti. Infatti la sola fonte di questa accusa, la predetta Genoveffa Ciferri Putignani, in arte Geneviève o alias Mata Hari, risulta attualmente denunciata alla Procura della Repubblica di Roma, insieme con La Verità e con L'Espresso, per diffamazione aggravata a mezzo stampa. E ora lasciate che un miscredente quale sono si rivolga all'unica Autorità morale che da sempre riconosce sulla faccia del pianeta: il Papa. Santità, ma a lei, che passa addirittura per comunista, quale effetto fa vedersi sprofondare in una vicenda tanto grottesca da aver trasformato la sua augusta persona in una marionetta, nel fantasma di Luigi XVI? Dica alle toghe che ha dintorno di darsi una calmata. Il giustizialismo porta alla ghigliottina. Adesso che l'hanno promossa a monarca assoluto, la prospettiva dovrebbe inquietarla. Non dimentichi mai che coloro i quali oggi fingono di difenderla sono i degni eredi dei senzadio che tentarono di scaraventare nel Tevere la salma di Pio IX, l'ultimo Papa Re.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 27 novembre 2020. Nuovo punto di svolta dell’ultimo scandalo finanziario vaticano, quello relativo all’acquisto dell’immobile di Sloane Avene 60 a Londra. Con una decisione datata 15 ottobre, ma depositata nei giorni scorsi, il Tribunale federale svizzero ha deciso che il Vaticano ha diritto a ottenere tutta la documentazione bancaria relativa alla cassaforte di Lugano del finanziere Enrico Crasso, l’uomo che per decenni ha amministrato i fondi riservati della Segreteria di Stato , cioè alla Az Swiss & Partners. Az è una fiduciaria ticinese controllata al 51 per cento da Azimut, una società italiana di gestione di fondi quotati in borsa. Crasso, dopo aver lasciato il Credit Suisse nel 2014, si era messo in proprio creando a Lugano la sua impresa, la Sogenel Capital Holding, venduta nel 2016 ad Az Swiss & Partners. Per meglio comprendere le transazioni finanziarie che si sono svolte in relazione agli investimenti della Segreteria di Stato, la Santa Sede aveva presentato quasi un anno fa (dicembre 2019) una rogatoria concernente la società di Crasso. La richiesta è stata accettata dal Ministero pubblico della Confederazione (MPC) nel giugno scorso (2020) ma la fiduciaria si è opposta, rifiutando l’invio di una parte dei documenti. Il 15 ottobre 2020, il Tribunale penale federale ha respinto il ricorso, di cui ha dato per primo notizia il settimanale elettronico svizzero specializzato in reati finanziari Gotham City. Adesso tutta la documentazione di Az verrà trasferita in Vaticano. Nella motivazione della decisione - visionata da Huffpost - il Tribunale svizzero ha spiegato che la finanziaria di Crasso Az voleva consentire la trasmissione soltanto di una piccola parte della documentazione ma che questa disponibilità è stata ritenuta insufficiente prima da MPC e poi dallo stesso Tribunale “vista la natura dei reati contestati agli indagati, di trasmettere tutta la documentazione litigiosa” .

Necessità di consegnare al Vaticano la documentazione completa. Il Tribunale spiega: “Da consolidata prassi, quando le autorità estere chiedono informazioni per ricostruire flussi patrimoniali di natura criminale si ritiene che necessitino di regola dell’integralità della relativa documentazione, in modo tale da chiarire quali siano le persone o entità giuridiche coinvolte (v. DTF 129 II 462 con-sid. 5.5; 124 II 180 conidi. 3c inedito; 121 II 241 consid. 3b e c; sentenze del Tribunale federale 1A.177/2006 del 10 dicembre 2007 consid. 5.5; 1A.227/2006 del 22 febbraio 2007 consid. 3.2; 1A.195/2005 del 1° settembre 2005 in fine; sentenza del Tribunale penale federale RR.2019.257 del 12 febbraio 2020 con-sid. 2.1). Lo Stato richiedente dovrebbe in linea di principio essere informato di tutte le transazioni effettuate attraverso i conti coinvolti. Si tratta di quei conti, come nel caso in esame, suscettibili di un utilizzo con finalità criminali. L’autorità richiedente ha un interesse a essere informata di qualsiasi transazione che possa far parte del meccanismo delittuoso messo in atto dalle persone sotto inchiesta (decisione del Tribunale penale federale RR.2014.4 del 30 luglio 2014 consid. 2.2.2). Naturalmente è anche possibile che i conti contestati non siano stati utilizzati per ricevere proventi di reati o per effettuare trasferimenti illeciti o riciclare fondi, ma l’autorità richiedente ha comunque interesse a poterlo verificare essa stessa, sulla base di una documentazione completa, tenendo presente che l’assistenza reciproca è finalizzata non solo alla raccolta di prove incriminanti ma anche a discarico (sentenza del Tribunale federale 1A.88/2006 del 22 giugno 2006 consid. 5.3; decisione del Tribunale penale federale RR.2007.29 del 30 maggio 2007 consid. 4.2)”.

I due prestiti, gli schemi finanziari sospetti tra novembre 2018 e maggio 2019. La sentenza dei giudici di Bellinzona contiene dettagli molto interessanti e inediti sulla rogatoria vaticana. Secondo gli inquirenti della Santa Sede, citati nella decisione svizzera, l’operazione finanziaria eseguita con i consigli di Enrico Crasso corrisponde a “schemi d’investimento che non sono né trasparenti né conformi alle normali pratiche di investimento immobiliare”. Il fatto che non siano stati utilizzati i fondi dell’Obolo di San Pietro depositati in svizzera, invece di essere una circostanza che alleggerisce i sospetti suscitati dall’operazione, secondo gli inquirenti, li aumenta. Non sono stati utilizzati i soldi dei poveri, si è detto, e questo magari da un punto di vista mediatico può fare notizia, ma dal punto di vista finanziario per le autorità vaticane essa costituisce un forte indizio che si trattasse di un escamotage per occultare la “distrazione compiuta”, pari a circa 300 milioni di euro.

Le operazioni in questione sarebbero avvenute “tra novembre 2018 e maggio 2019”. Ecco il testo della rogatoria vaticana citata nella sentenza del Tribunale penale federale svizzero: “Il ricorso a questa struttura finanziaria, realizzata attraverso la costituzione in pegno dei fondi vincolati anziché attraverso l’impiego diretto delle disponibilità liquide (cd. Credito Lombard), a parere di questo Ufficio, rappresenta la forte evidenza indiziaria del fatto che essa abbia rappresentato un escamotage per non rendere visibile – come del resto avvenuto per moltissimi anni – la distrazione compiuta. Appare inspiegabile il fatto che, a fronte di liquidità disponibili presso la banca M. per oltre 450 milioni di euro e concesse in pegno alla banca, la Segreteria di Stato abbia fatto ricorso ad un finanziamento” (atto 01-00-0039 e 0040 incarto MPC). Dopo aver fornito i dettagli delle tre fasi sopraelencate (v. atto 01-00-0040, 0041 e 0042 incarto MPC), l’autorità rogante - continua la sentenza - afferma che “allo stato delle indagini i danni arrecati al patrimonio della Segreteria di Stato per effetto delle condotte distrattive sopra descritte, risultano di importo ingente (attualmente quantificabili in non meno di 300 milioni di euro)” (atto 01-00-0042 incarto MPC). Adesso la parola passa nuovamente agli inquirenti vaticani.

I reati contestati. Vale la pena infine ricordare quali sono i reati contestati dall’autorità giudiziaria vaticana, così come sono riportati nella rogatoria, nel capo A. “Abuso d’autorità (art. 175 CP/VA), peculato (art. 168 CP/VA), corruzione (art. 171-174 CP/VA), riciclaggio di denaro, autoriciclaggio e impiego di proventi di attività criminose (art. 421, 421 bis e 421 ter CP/VA) e associazione a delinquere (art. 248 CP/VA)”.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 6 dicembre 2020. La condanna a otto anni per riciclaggio, autoriciclaggio e peculato è stata chiesta dal promotore di giustizia Alessandro Diddi per l’ex presidente dello IOR, Angelo Caloia e l’avvocato Gabriele Liuzzo, oltre alla confisca diretta dei 32 milioni di euro già sequestrati sui loro conti anche presso lo IOR, e la confisca per equivalente di altri 25 milioni di euro. Motivazione: essersi appropriati di gran parte del patrimonio immobiliare della cosiddetta banca vaticana, “svenduto” a loro stessi attraverso una complessa operazione di schermatura tramite società offshore e lussemburghesi e dopo che il denaro ha girato per mezza Europa. Sono finiti nella loro disponibilità praticamente tutti gli immobili di proprietà dello IOR (in particolare appartamenti di pregio a Roma e Milano). Sei anni di carcere sono stati chiesti per il figlio di Gabriele Liuzzo, il professore Lamberto (per riciclaggio ed autoriciclaggio). È la prima volta che in Vaticano viene chiesto il carcere per un reato finanziario: gran parte della pena ( 6 anni ) riguarda infatti il reato di riciclaggio e 2 anni per il peculato, per Caloia e Liuzzo padre. A seguito delle notizie sull’inchiesta Caloia, (dirigente di prima grandezza nel sistema bancario italiano e per vent’anni Presidente dello IOR, dopo l’uscita di scena di Paul Marcinkus, e al vertice dell’Istituto quando di lì transitò la maxitangente Enimont) si è dovuto dimettere da tutte le cariche societarie ed accademiche in Italia e anche dalla Veneranda fabbrica del Duomo, proprio il giorno di Sant’Ambrogio del 2014. La requisitoria di Diddi (che è il pubblico ministero dell’indagine sul palazzo di Londra acquistato dalla Segreteria di Stato, al centro dell’ultimo scandalo finanziario vaticano) è arrivata al termine delle due ultime udienze (1 e 2 dicembre 2020) del processo - che è iniziato in Vaticano il 9 maggio 2018 - davanti al Tribunale vaticano presieduto da Giuseppe Pignatone. Anche questa indagine, come quella del palazzo di Londra è stata avviata a seguito della segnalazione dell’Istituto per le opere di Religione, rappresentato dall’attuale Direttore generale Gianfranco Mammì , uomo di assoluta fiducia di Papa Francesco. Lo IOR, insomma, negli ultimi anni sembra essersi trasformato (trasformando la sua fama negativa) in un motore della trasparenza finanziaria vaticana. Lo IOR si è costituito parte civile nel processo sugli immobili svenduti, secondo l’accusa, da Caloia e i due Liuzzo, difeso dall’avvocato Alessandro Benedetti, mentre la Sgir - la società di gestione immobiliare totalmente partecipata da IOR, che era proprietaria degli immobili - è rappresentata nel processo dagli avvocati Roberto Lipari e Marcello Mustilli. L’avvocato Benedetti, nelle conclusioni finali, ha parlato per cinque ore e mezza, ha chiesto una provvisionale (cioè la somma di denaro liquidata dal giudice alla parte danneggiata, come anticipo sull’importo che le spetterà in via definitiva. di circa 35 milioni di euro (complessivamente per IOR che per Sgir). Ma ha commentato con Huffpost che “prima dell’aspetto economico-risarcitorio l’interesse dello IOR è stato l’accertamento delle responsabilità degli imputati e la compiuta ricostruzione dei fatti, tanto che, prima che si instaurasse il processo, è stata respinta da IOR, una proposta risarcitoria avanzata dagli imputati.” Questo processo insomma contiene anche un messaggio, secondo Benedetti. “Il messaggio è che la festa è finita e che c’è oggi c’è tolleranza zero nei confronti di comportamenti che hanno depredato l’Istituto”. Al termine della requisitoria di Diddi, Pignatone ha annunciato che il Tribunale emetterà la sua sentenza il prossimo 21 gennaio 2021. Il processo, iniziato il 9 maggio 2018, ha visto svolgersi due anni e mezzo di udienze, complesse perizie della società di revisione Promontory, chiamata dall’allora presidente IOR von Freyberg, e negli ultimi due anni i risultati delle tre rogatorie presentate in Svizzera, il cui ultimo rendiconto, ha detto Diddi, è arrivato il 24 gennaio 2020, all’inizio di quest’anno. Ebbene il Ministero pubblico della Confederazione ha quantificato in 18, 9 e 7 milioni il contenuto dei conti relativi a due imputati. Il Promotore di giustizia vaticano aveva incriminato anche l’ex direttore generale Lelio Scaletti, ma Scaletti, è morto alla fine del 2015 (soleva dire:”Se parlo io crolla l’Italia”). Fu lui il protagonista di un’operazione “mostruosa” di trasferimento di contante in Vaticano, da Milano, di domenica con una macchina di servizio dello IOR: ben 1 milione e 800 mila euro. “Avete idea di cosa vuol dire?” chiede Diddi. “Hanno tradito per arricchimento personale , per ingordigia”. In effetti gli immobili di maggior pregio sono finiti nelle loro personali disponibilità. Diddi (che pure è un avvocato in Italia, e che quando si tratta di richiedere il carcere soppesa bene la richiesta di pena) parla di “assoluta colpevolezza”. “Caloia ha nascosto in modo astuto e maniacale tutte le loro operazioni al consiglio d’amministrazione”. Caloia ha tentato di giustificare i milioni di euro trovati sui suoi conti con un’eredità della suocera. “Ma durante il suo interrogatorio davanti al Tribunale, non ricordava nemmeno il nome della suocera”. Ad “incastralo”, tra l’altro, proprio quanto dichiarato allo IOR nell’estate 2014, durante le procedure antiriciclaggio rafforzate dopo l’arrivo di Papa Francesco, cioè quando invece non barrò la casella “eredità” per giustificare i milioni di euro rimasti sul suo conto nella Torre di Niccolò V. Liuzzo non ha mai voluto usufruire della volontary disclosure del 2015 per permettere al suo immenso patrimonio di rientrare in Italia dalla Svizzera, perché avrebbe dovuto dichiarare l’origine dei beni. E per questo dal 2016 anche in Svizzera è aperto un processo per riciclaggio e autoriciglaggio in relazione agli immobili “svenduti” che erano dello IOR.

Papa Francesco, il dossier di esplosivo di Viganò sul successore di Becciu: Bergoglio, "cerchio magico di personaggi ricattabili". Libero Quotidiano il 06 novembre 2020. Dopo aver denunciato lo scandalo del cardinale abusatore McCarrick, Mons. Carlo Maria Viganò pubblica un nuovo dossier esplosivo, ricco di date, riferimenti e situazioni che coinvolgono, stavolta, il successore del Card. Becciu, Mons. Edgar Peña Parra, insieme ad altri nomi eccellenti del ”cerchio magico” bergogliano. Il panorama che emerge è sconcertante. Lo riportiamo integralmente: "In un mio recente intervento per la Catholic Identity Conference a Pittsburg, ho parlato dell’eclissi che oscura la Chiesa di Cristo, sovrapponendole una anti-chiesa di eretici, corrotti e fornicatori. Il Cattolico sa che la Chiesa deve ripercorrere le orme del suo Capo, Gesù Cristo, sulla via della Passione e della Croce, e che gli ultimi tempi saranno segnati da una grande apostasia che colpirà il corpo ecclesiale sin nei suoi vertici. Così, come sul Golgota il sinedrio pensava di aver sconfitto Nostro Signore facendolo condannare a morte da Pilato, oggi il sinedrio vaticano crede di poter abbattere la Chiesa consegnandola nelle mani della tirannide globalista anticristiana. Dobbiamo quindi valutare quanto oggi avviene con uno sguardo soprannaturale, alla luce della battaglia che l’élite sta conducendo contro la civiltà cristiana. L’attacco inizialmente mosso dall’esterno contro il monolite cattolico si è evoluto, dal Concilio Vaticano II in poi, in un’azione di infiltrazione capillare, nella società civile con il deep state e in quella religiosa con la deep church. Il nemico è riuscito a penetrare all’interno dello Stato e della Chiesa, ad ascendere ai vertici, a costituire una rete di complicità e connivenze che tiene tutti i suoi membri legati dal ricatto, avendoli scelti proprio in ragione della loro corruttibilità. Non a caso i funzionari onesti sono sistematicamente ostacolati, emarginati, fatti oggetto di attacchi. In queste ultime settimane, la stampa ha dato notizia dell’ennesimo scandalo finanziario vaticano, a seguito del quale Jorge Mario Bergoglio ha rimosso dai suoi incarichi ufficiali e privato delle prerogative cardinalizie Giovanni Angelo Becciu. Chi pensa che questa rimozione servirà a contrastare la corruzione della Curia Romana rimarrà sconcertato dall’apprendere che chi ha preso il suo posto come Sostituto e che dovrebbe sanare i disastri della malagestione e degli intrallazzi di Becciu è altrettanto, anzi ancor più ricattabile del suo predecessore. Questa ricattabilità è il requisito indispensabile per poter essere manovrabili da chi, pur presentandosi come riformatore della Curia e castigatore di un non meglio identificato clericalismo, si è di fatto circondato di personaggi corrotti e immorali, promuovendoli e insabbiando le indagini che li riguardano. Quando arrivò a Roma nel 2018, chiamato da Bergoglio per ricoprire la carica di Sostituto alla Segreteria di Stato al posto di Angelo Becciu, l’Arcivescovo venezuelano era già “chiacchierato”. Un rapporto sul suo conto segnalava la sua condotta immorale: in quanto Delegato per le Rappresentanze pontificie, mi erano pervenute informazioni preoccupanti sul Monsignore e prontamente ne riferii al Sostituto Sandri. Ne ho parlato pubblicamente il 2 Maggio del 2019, nella mia intervista al Washington Post, ma il giornale preferì omettere i passaggi su Peña Parra. Visto che in Vaticano i dossier compromettenti sembrano destinati a non esser consultati, cerchiamo di conoscere meglio quale sia il curriculum che ha condotto questo Monsignore fino alla Segreteria di Stato. Il giovane Edgar Peña Parra, alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, era già segnalato come omosessuale notorio, al punto che nel febbraio 1985 l’Arcivescovo Roa Pérez riferì al rettore del Seminario Leon Cardenas di avere da tempo dubbi sul candidato, di aver appena ricevuto segnalazioni in tal senso, oltre ad aver appreso che già al terzo anno di formazione era stato espulso dal Seminario San Tommaso d’Aquino. La notizia di questa espulsione era stata nascosta, secondo l’assistente spirituale padre Leyre, da un altro sacerdote, don Roberto Lückert Leon, che avrebbe falsificato il rapporto. Lückert Leon, nel frattempo, è diventato Arcivescovo, ora emerito, di Coro e potente presidente della Commissione per le Comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Venezuelana. Le segnalazioni inviate al superiore di Peña Parra non gli impediscono di essere ordinato sacerdote il 23 Agosto 1985 e di essere successivamente inviato alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, dove si formano i futuri diplomatici della Santa Sede. Nel 1990, il 24 Settembre 1990, viene accusato di aver sedotto due seminaristi minori della parrocchia di San Pablo, che sarebbero dovuti entrare quello stesso anno nel Seminario Maggiore di Maracaibo. Il fatto avvenne nella chiesa della Madonna del Rosario, dove era parroco il reverendo José Severeyn; fu denunciato alla polizia dai genitori dei due giovani e fu esaminato dal rettore del Seminario Maggiore, reverendo Enrique Pérez, e dal direttore spirituale, reverendo Emilio Melchor. Il reverendo Enrique Pérez, ex rettore del Seminario Maggiore, ha confermato per iscritto l’episodio. Nell’Agosto del 1992, quando era alunno della Pontificia Accademia Ecclesiastica, Edgar Peña Parra è coinvolto con lo stesso José Severeyn nella morte di due persone, un medico e un certo Jairo Pérez, uccisi da una scarica elettrica nell’isola di San Carlos, nel lago di Maracaibo. Nel dossier si aggiunge il particolare che i cadaveri furono trovati nudi, vittime di macabre pratiche omosessuali. Severeyn viene poi rimosso dalla parrocchia dall’allora arcivescovo monsignor Roa Pérez, e viene nominato Cancelliere dell’arcidiocesi, trovandosi così nella posizione di poter distruggere o contraffare i documenti riguardanti questi casi. Nel Gennaio 2000, il giornalista di Maracaibo Gastón Guisandes López mosse gravi accuse contro alcuni sacerdoti omosessuali della diocesi di Maracaibo, fra i quali Peña Parra. Nel 2001, GastónGuisandes López chiese per due volte di essere ricevuto dal Nunzio Apostolico in Venezuela monsignor André Dupuy, ma il Nunzio si rifiutò di riceverlo, ma l’anno successivo riferì in Segreteria di Stato questi episodi scandalosi in cui era stato coinvolto Edgar Peña Parra. La relativa documentazione si trova pertanto negli archivi della Nunziatura in Venezuela, dove, a partire da quella data, si sono succeduti come Nunzi gli Arcivescovi Giacinto Berloco (2005-2009), Pietro Parolin (2009-2013) e l’attuale nunzio Aldo Giordano. Essi hanno avuto a disposizione i documenti relativi a queste accuse nei confronti del futuro Sostituto, come pure ne hanno avuto conoscenza i Segretari di Stato i Cardinali Tarcisio Bertone e Pietro Parolin, e i Sostituti Leonardo Sandri, Fernando Filoni e Giovanni Angelo Becciu. Nonostante i dossier inviati alla Segreteria di Stato, dal 2003 al 2007 Peña Parrapresta servizio presso la Nunziatura di Tegucigalpa in qualità di consigliere: da qui nasce il rapporto con il Cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga e con mons. Juan José Pineda, il quale fu consacrato Vescovo nel 2005, quando Peña Parra era in Honduras. Maradiaga è noto alla cronaca per scandali finanziari, tra i quali spiccala truffa ai danni di Martha Alegria Reichmann,vedova dell’ex Ambasciatore dell’Honduras presso la Santa Sede. Il Cardinale è uno dei principali consiglieri di Bergoglio, è un personaggio chiave del Consiglio di Cardinali a cui è affidata la riforma della Curia e della Chiesa, e ha svolto un ruolo decisivo in nomine importanti, come quella del Cardinale BlaseCupich (insieme con McCarrick) a Chicago e del nuovo Sostituto alla Segreteria di Stato, l’Arcivescovo Peña Parra. Ricordo inoltre che nell’aprile 2015 la fondazione Open Society di Goerge Soros ha versato 650mila dollari a due organizzazioni cattoliche progressiste, PICO e FPL, per «influenzare singoli vescovi in modo da avere voci pubbliche a sostegno di messaggi di giustizia economica e razziale allo scopo di iniziare a creare una massa critica di vescovi allineati con il Papa». Il Card. Maradiaga, in relazioni con PICO, non fu estraneo nemmeno a questa interferenza del menzionato sedicente filantropo nella politica americana, con la complicità della parte filo-bergogliana dell’Episcopato. Le due organizzazioni destinatarie dei versamenti sono state scelte – spiegano i documenti – perché impegnate in progetti a lungo termine che hanno lo scopo di cambiare «le priorità della Chiesa cattolica statunitense». La grande occasione è data dalla visita del Papa negli Stati Uniti e la fondazione di Soros punta esplicitamente ad usare i buoni rapporti di PICO con il cardinale honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, tra i principali consiglieri di papa Francesco, per «impegnare» il Pontefice sui temi di giustizia sociale e anche avere la possibilità di inviare una delegazione in Vaticano prima della visita di settembre in modo da far ascoltare direttamente al Papa la voce dei cattolici più poveri in America. Pineda è invece accusato di illeciti finanziari, di molestie e abusi sessuali, oltre che di coltivare una rete di relazioni con omosessuali (anche prostituti) in Honduras e all’estero, ai quali avrebbe anche donato appartamenti, automobili, moto e viaggi con i fondi della Diocesi. È parimenti accusato di aver difeso e coperto altri casi di abusi commessi da chierici. Il 28 maggio 2017 un gruppo di 48 seminaristi ha denunciato un modello diffuso e radicato di pratica omosessuale, lamentandosi degli assalti di Pineda. Inutile dire che il Cardinale Maradiaga non ha voluto tener in alcun conto le accuse, nonostante il suicidio di un seminarista di Santa Rosa de Copán, dopo che questi aveva scoperto che il suo amante in Seminario aveva iniziato un’altra relazione. Non basta: si deve ricordare che Maradiaga, nel Dicembre 2017, aveva affidato a Pineda il governo dell’Arcidiocesi, durante le sue continue e prolungate assenze dalla diocesi; e che la maggior parte degli incontri sessuali del suo Ausiliario avvenivano a Villa Iris, residenza del Cardinale. Nello stesso anno 2017, Pineda è stato rimosso dall’incarico di Vescovo ausiliare di Maradiaga senza dare alcuna motivazione ai fedeli di Tegucicalpa. Il Visitatore apostolico mons. AlcidesCasaretto ha consegnato a Bergoglio un corposo rapporto sul suo conto, assieme alle accuse di un gruppo di Cattolici, scandalizzati dal silenzio della Santa Sede. Dal 1993 al 1997 Peña Parra è inviato con incarichi diplomatici alla Nunziatura in Kenya. Nel 1995 diventa Monsignore, nel 1999 viene inviato a Ginevra come membro della Rappresentanza Pontificia alle Nazioni Unite. Nel 2002 è nominato membro della Nunziatura in Honduras e nel 2006 viene mandato alla Nunziatura in Messico. Nel 2011 riceve la Consacrazione episcopale e viene nominato Nunzio in Pakistan, poi nel 2015 in Mozambico. Il 15 Ottobre 2018 Bergoglio lo nomina Sostituto in Segreteria di Stato, su raccomandazione del Cardinale Maradiaga. Emiliano Fittipaldi su Domani ricorda che Peña Parra, in base alle carte dei magistrati della Santa Sede, avrebbe avuto dal 2018 al 2019 un ruolo chiave in alcune scelte finanziarie che causarono alle casse vaticane perdite per oltre cento milioni di euro. I magistrati parlano anche di trattative segrete del Sostituto venezuelano. Sarebbe stato proprio Peña Parra, uno degli uomini più potenti del Vaticano e scelto personalmente da Bergoglio, ad «aprire il cancello del pollaio a volpi fameliche», per usare un’espressione di Fittipaldi. Particolarmente sconcertanti e gravi appaiono il comportamento e le responsabilità del Segretario di Stato Card. Parolin, che non si è opposto non solo alla nomina di Peña Parra a Sostituto – cioè a suo primo collaboratore – ma prima ancora a quella di Arcivescovo e Nunzio apostolico, nel gennaio 2011, quando Parolin era Nunzio a Caracas. Prima di tale importante nomina viene infatti istruito un rigoroso processo informativo per verificare l’idoneità del candidato. Ma ancor più inquietante è che Bergoglio, per un ruolo così importante nella Chiesa, abbia scelto un collaboratore accusato di crimini tanto gravi. Le recenti esternazioni di Bergoglio circa le unioni civili omosessuali; il numero impressionante di Prelati omosessuali dei quali si circonda persino nella sua residenza di Santa Marta, a partire dal segretario personale Mons. Fabian Pedacchio, improvvisamente rimosso e sparito nel nulla; gli scandali che quotidianamente emergono circa la lobby omosessuale vaticana: tutti questi elementi lasciano intendere che l’Argentino voglia legittimare l’ideologia LGBTQ non solo per assecondare l’agenda mondialista e demolire i principi immutabili dalla Morale cattolica, ma anche per depenalizzare i crimini e gli abusi dei suoi collaboratori, proteggendo il cerchio magico che coinvolge Maradiaga, Pineda, Peña Parra, Zanchetta e tutta la lavender mafia vaticana. Mi chiedo se lo stesso Bergoglio, del quale molti ignoravano l’esistenza fino al 13 Marzo 2013, non sia sotto ricatto da parte di chi beneficia così impunemente della sua clemenza. Questo spiegherebbe il motivo che porta colui che siede sul Soglio ad infierire con tanta spietatezza nei confronti della Chiesa di Cristo, mentre usa tutti i riguardi con personaggi notoriamente corrotti, pervertiti e quasi sempre implicati in reati sessuali e finanziari. L’alternativa – circa la cui plausibilità si vanno giorno dopo giorno raccogliendo inquietanti elementi – è che la scelta di Bergoglio di circondarsi di persone viziose e quindi ricattabili sia deliberata, e che lo scopo ultimo che egli persegue consista nel demolire la Chiesa Cattolica, sostituendola con una sorta di ONG filantropica e ecumenica asservita all’élite mondialista. Dinanzi a questo tradimento da parte di chi ricopre il Papato, un’opera di trasparenza e di chiarezza non può escludere, per essere efficace, colui che da oltre sette anni proclama a parole di voler far pulizia in Vaticano e nella Chiesa.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 5 novembre 2020. La lettera inviata dal Papa al Segretario di Stato Pietro Parolin era data 25 agosto 2020, ma sono dovuti passare due mesi e le dimissioni dai diritti del cardinalato richieste da Francesco a monsignor Angelo Becciu, e una riunione presieduta dallo stesso Papa Francesco ieri sera 4 novembre perché venisse nominata una commissione per attuare il passaggio di tutti i beni mobili ed immobili della Segreteria di Stato alla gestione del patrimonio della Sede Apostolica ( Apsa, presieduta da Nunzio Galantino) sotto il diretto controllo della Segreteria dell’Economia. Entro l’inizio del 2021, quindi, la Segreteria di Stato rimarrà un dicastero senza portafoglio, secondo quanto già dal luglio 2014 aveva chiesto avvenisse, l’allora prefetto dell’economia, cardinale George Pell. Dopo più di sei anni Pell (rientrato in Vaticano pochi giorni dopo le dimissioni di Becciu) può vedere adesso realizzato il suo progetto di unificazione di tutti gli asset vaticani sotto il controllo della Segreteria dell’Economia. Il cambiamento è davvero epocale, visto che i fondi della Segreteria di Stato (il cosiddetto fondo Paolo VI, l’Obolo di San Pietro eccetera) erano considerati in Vaticano quasi quelli una terza banca (dopo l’Apsa, che ha dovuto azzerare già da un po’ di tempo la sezione straordinaria, cioè quella finanziaria, e lo IOR), in gran parte depositati in Svizzera. Si parla di una stima di oltre un miliardo di euro. E’ stato proprio grazie a questi fondi dati in garanzia per ottenere due grossi mutui, che stato acquistato il palazzo londinese di Sloane Ave 60, al centro dell’ultimo scandalo finanziario vaticano. Il fatto che sia dovuto intervenire due volte direttamente il Papa (con la lettera di agosto e la riunione di ieri) dimostra quanto il cambiamento inciderà nel profondo. È stato annunciato in tarda mattinata da una dichiarazione del Direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni. Alla riunione di ieri sera hanno partecipato Parolin, Segretario di Stato; Mons. Edgar Peña Parra, Sostituto della Segreteria di Stato (negli ultimi giorni nuovamente sotto accusa da parte dell’ex nunzio negli USA Carlo Maria Viganò), Mons.Fernando Vergez, Segretario generale del Governatorato dello Stato Città del Vaticano; Nunzio Galantino, Presidente dell’Amministrazione della Sede Apostolica; Padre Juan Antonio Guerrero Alves, dal febbraio scorso nuovo Prefetto della Segreteria per l’Economia. Nella stessa riunione il Papa ha costituito, come detto, la ‘Commissione di passaggio e controllo’, che entra in funzione con effetto immediato, per portare a compimento, nei prossimi tre mesi, quanto disposto nella lettera al Segretario di Stato, di cui è stato reso noto il contenuto. “È mia volontà - scriveva il Papa - che in futuro: la Segreteria di Stato trasferisca all’Apsa la gestione e l’amministrazione di tutti i fondi finanziari e del patrimonio immobiliare, i quali manterranno in ogni caso la propria finalità attuale”. “Una particolare attenzione - sottolineava Francesco - meritano gli investimenti operati a Londra ed il fondo Centurion, dai quali occorre uscire al più presto o, almeno, disporne in maniera tale da eliminarne tutti i rischi reputazionali”. “Tutti i fondi che finora sono stati amministrati - proseguiva il Pontefice nella lettera a Parolin - dalla Segreteria di Stato siano incorporati nel bilancio consolidato della Santa Sede”. La Segreteria per l’Economia, aggiungeva, “attui il controllo e la vigilanza in materia amministrativa e finanziaria su tutti gli Enti della Curia Romana” e “questo comporta che la Segreteria di Stato (...) in materia economica e finanziaria non avrà responsabilità di vigilanza e controllo di nessun Ente della Santa Sede”. Infine, “tenendo conto che la Segreteria di Stato non dovrà amministrare né gestire patrimoni, sarà opportuno che ridefinisca il proprio Ufficio Amministrativo, oppure valuti a necessità della sua esistenza”. Proprio quel’ Ufficio amministrativo era stato il motore dello scandalo di Londra. Insomma la Segreteria di Stato sarà d’ora in poi un dicastero senza portafoglio. E lo stesso segretario di Stato non fa più parte della rinnovata Commissione di cardinalizia di vigilanza sullo IOR. Riunificare nell’Apsa tutti i beni della Santa Sede (dovranno confluire anche i conti detenuti dalle Congregazioni vaticane e dagli organicismi centrali presso lo IOR) permetterà anche una migliore valutazione del Comitato Moneyval che deve depositare il suo report durante la prossima primavera. In ogni caso la vendita del Palazzo di Londra dovrà avvenire in modo che non vengano aggirati i protocolli internazionali antiriciclaggio. Come anticipato da Huffpost e annunciato dal Papa stesso nella recente intervista al direttore dell’AdnKronos, GianMarco Chiocci l’operazione di pulizia non è ancora finita e altri cambiamenti sostanziali avverrano entro pochi mesi.

Estratto dell’articolo di Mario Gerevini e Fabrizio Massaro per corriere.it il 5 novembre 2020. (…) È stata anche diffusa la lettera indirizzata a Parolin con la quale lo scorso agosto Papa Francesco aveva disposto questo passaggio. «Nel quadro della riforma della Curia ho riflettuto e pregato sull’opportunità di dare un impulso che permetta una sempre migliore organizzazione delle attività economiche e finanziarie, continuando nella linea di una gestione che sia, secondo i desideri di tutti, più evangelica». Francesco definisce «di somma importanza» che sia definita in maniera chiara la missione di ciascun ente economico e finanziario «al fine di evitare sovrapposizioni, frammentazioni o duplicazioni inutili e dannose». La lettera spiega che «la Segreteria di Stato è senza ombra di dubbio il Dicastero che sostiene più da vicino e direttamente l’azione» del Papa «nella sua missione, rappresentando un punto di riferimento essenziale nella vita della Curia e dei Dicasteri che ne fanno parte. Non sembra, però, necessario, né opportuno che la Segreteria di Stato debba eseguire tutte le funzioni che sono già attribuite ad altri Dicasteri. È preferibile, quindi, che anche in materia economica e finanziaria si attui il principio di sussidiarietà, fermo restando il ruolo specifico della Segreteria di Stato e il compito indispensabile che essa svolge».

Uscire dal fondo Centurion e vendere il palazzo. Alla luce di ciò, Francesco ha stabilito che la Segreteria di Stato «trasferisca all’Apsa la gestione e l’amministrazione di tutti i fondi finanziari e del patrimonio immobiliare, i quali manterranno in ogni caso la propria finalità attuale. Una particolare attenzione — si legge nella lettera — meritano gli investimenti operati a Londra e il fondo Centurion, dai quali occorre uscire al più presto, o almeno, disporne in maniera tale da eliminarne tutti i rischi reputazionali». Aveva destato scandalo l’uso di decine di milioni di euro del Vaticano — provenienti anche dall’Obolo di San Pietro — utilizzati per comprare azioni della società di Lapo Elkann, Italia Independent, o per finanziare il film su Elton John. E persino investiti nella società che controlla Giochi Preziosi, per 3 milioni di euro.

I fondi della Segreteria nel bilancio consolidato della Santa Sede. Ancora, il Papa ha stabilito che «tutti i fondi che finora sono stati amministrati dalla Segreteria di Stato siano incorporati nel bilancio consolidato della Santa Sede» e che in materia economica e finanziaria la Segreteria di Stato operi «per mezzo di un budget approvato attraverso i meccanismi abituali, con le procedure proprie richieste a qualsiasi Dicastero, salvo per ciò che riguarda le materie riservate che sono sottoposte a segreto, approvate dalla Commissione nominata a questo scopo». I dati del bilancio — pubblicato a inizio ottobre e reso noto da Guerrero — mostrano fra le altre cose che i fondi della Segreteria si sono ridotti a circa 360 milioni di euro.

La proposta della Cosea del 2014. Il controllo e la vigilanza spettano alla Segreteria per l’Economia su tutti gli enti della Curia Romana. La Segreteria di Stato, in materia di vigilanza economica e finanziaria «non avrà responsabilità di vigilanza e controllo di nessun ente della Santa Sede, né di quella ad essa collegati». In sostanza il Papa porta a compimento le proposte che erano state presentate nel 2014 dalla Cosea, la commissione che era stata creata per esaminare lo stato e la struttura delle finanze vaticane.

«Chiudere l’ufficio amministrativo della Segreteria». Tenendo conto che «la Segreteria di Stato non dovrà amministrare né gestire patrimoni, sarà opportuno che ridefinisca il proprio Ufficio amministrativo, oppure valuti la necessità della sua esistenza». È l’ufficio finito sotto inchiesta da parte della magistratura vaticana che da un anno conduce un’inchiesta su come sono stati gestiti le centinaia di milioni di euro dei fondi riservati della Segreteria di Stato e dell’Obolo di San Pietro e che ha portato lo scorso giugno all’arresto in Vaticano — per otto giorni — del broker Gianluigi Torzi e, lo scorso ottobre, della manager Cecilia Marogna che ha ottenuto 500 mila euro da parte della Segreteria per ordine del cardinale Becciu. Intanto l’inchiesta dei promotori di giustizia vaticani, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi (ai quali si è affiancato da poco il professor Gianluca Perone) prosegue. Nella mattina di giovedì 5 novembre c’ è stat una nuova acquisizione di documenti riferiti a Raffaele Mincione, il finanziere italo-londinese indagato sulla compravendita dell’immobile di Sloane Avenue. A renderlo noto è stato lo stesso Mincione — al quale già a luglio scorso, su richiesta dell’Ufficio del promotore di giustizia vaticano, erano stati sequestrati cellulari e ipad — spiegando che «nella mattinata odierna è proseguita l’attività richiesta dalle autorità della Santa Sede per l’acquisizione di documenti e informazioni» e che «è stata fornita tutta la collaborazione richiesta. Si è certi — prosegue la nota — che le verifiche compiute confermeranno la totale estraneità di Mincione rispetto a quanto ipotizzato dalle autorità della Santa Sede».

Pioggia di cemento sul parco del Vaticano. La Regione Lazio approva. Il Parco dell'Acquafredda al centro di una lottizzazione voluta dall'ex cardinale Becciu. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 09 ottobre 2020. Nei giorni scorsi è stata approvata dalla Giunta regionale del Lazio guidata da Nicola Zingaretti una delibera di Giunta riguardante il piano della Riserva Naturale dell'Acquafredda di Roma, un'area sottoposta a vincolo nel 1997 al termine di una lunga battaglia intrapresa dall'esponente dei Verdi Angelo Bonelli. Secondo quanto appreso da "L'Espresso" consultando il piano di assetto modificato e che sarà al vaglio del Consiglio Regionale nei prossimi giorni, è previsto al fine di realizzare strutture sanitarie ricettive la cementificazione dell'area di 180 mila metri cubi di proprietà della Santa Sede, che da decenni è stata oggetto di contenzioso tra gli agricoltori e le istituzioni vaticane. La pratica del cambio di destinazione d'uso fu seguita da Monsignor Mauro Carlino, officiale della Segreteria di Stato e dall'ex cardinale Angelo Becciu, che ha seguito l'iter a stretto contatto con il Presidente della Regione. "Il piano - denuncia - il leader dei Verdi Angelo Bonelli - prevede l'edificazione di sei ettari per fare alberghi, residenze assistenziali per un totale di 180 mila metri cubi di cemento. Visto lo scandalo in corso e la rinuncia ai diritti del cardinalato del promotore di questo operazione, il Cardinale Becciu, ho scritto a Papa Francesco per segnalare questo caso. Vista la sua sensibilità a questi temi sono sicuro che sarà stato tenuto all'oscuro su questa vicenda così come su altre come dimostrano le inchieste di questi giorni". Nel frattempo il consigliere Marco Cacciatore del Gruppo Misto presenterà un emendamento per cancellare la lottizzazione. 

Così una "manina" ha cambiato i piani e autorizzato il cemento nel parco del Vaticano. Documenti in esclusiva spiegano come la richiesta di non edificare la riserva dell'Acquafredda sia diventata il suo opposto, nella delibera di giunta. E mostrano gli interessi sull’area della Segreteria di Stato, all’epoca diretta da Angelo Becciu: edificare un polo residenziale sanitario collegato al Bambin Gesù. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 19 ottobre 2020. Dieci giorni fa abbiamo raccontato di come la Giunta regionale del Lazio guidata da Nicola Zingaretti abbia approvato in una delibera il piano di riassetto della Riserva Naturale dell'Acquafredda di Roma che, al suo interno, mantiene il progetto di oltre 17 anni fa che prevedeva la possibilità di edificare nell’area. In una nota, diffusa in reazione alla nostra inchiesta, il gruppo del Partito Democratico in Consiglio regionale del Lazio ci invitava ad approfondire la vicenda per evitare usi strumentali, avendola messa in relazione alle pressioni che la segreteria dell’ex sostituto degli Affari Generali della Segreteria di Stato del Vaticano, Angelo Becciu, per mezzo del suo assistente Monsignor Perlasca, ha mosso alla politica regionale per salvare il progetto di edificazione. Da allora, grazie a documenti di cui siamo venuti possesso, abbiamo riscontrato delle irregolarità importanti che hanno riguardato gli uffici della Regione Lazio, nonché ulteriori precisazioni circa i progetti di edificazione che sull’area dell’Acquafredda aveva la segreteria di Stato. L’8 luglio 2020 Roma Natura, ente regionale preposto alla tutela e alla gestione dei Parchi, invia una nota in cui chiede «alcune parziali modifiche e/o integrazioni alla documentazione di Piano», in particolare «lo stralcio/revoca della scheda progetto n. 9» dichiarando la sostanziale incompatibilità con la zona che è di «notevole valenza ambientale» e quindi «in evidente antitesi con gli interventi di trasformazione urbanistico/edilizia così come previsti dalla Scheda Progetto n. 9, fra l’altro descritti in maniera troppo generica». Una richiesta, questa dello stralcio, che tuttavia cade nel vuoto, perché qualcuno negli uffici della Regione fa sì che quel documento di Roma Natura, insieme coi successivi nei quali si mantiene il parere relativo alla scheda progetto n. 9, venga interpretato, nella determina dirigenziale inclusa nel parere di Giunta, non come una integrazione nella quale l’ente chiede il superamento del progetto, ma come una smentita della nota in cui Roma Natura fa quella espressa richiesta di stralcio. In pratica «l’antitesi» tra gli interventi di edificazione previsti e la «notevole valenza ambientale» viene cancellata. Grazie a questa inversione che ne falsifica il senso, quindi, arriva in Giunta un progetto senza osservazioni che la maggioranza di Nicola Zingaretti approva senza batter ciglio e che successivamente, dopo il nostro scoop, dichiara di voler stralciare in commissione – la cui prossima riunione è prevista per domani, martedì 20 ottobre. A tuonare adesso sulla vicenda è Angelo Bonelli, che nel 1997 da capogruppo dei Verdi fece approvare la legge che tutela la Riserva e negli anni del suo assessorato ha sempre respinto al mittente le pressioni sull’edificazione di quell’area: «La difesa dalla speculazione edilizia dell’Acquafredda , tra gli Ottanta e i Novanta, gli anni più bui ed inquietanti della politica e urbanistica romana, è frutto di una forte mobilitazione del movimento ambientalista», ricorda. E, con riguardo all’oggi, aggiunge: «Non è vero, come sostiene il Pd, che non sono state presentate osservazioni contro l’edificazione all’Acquafredda . Lo hanno fatto i Verdi chiedendolo alla giunta, lo ha fatto Roma Natura, lo hanno fatto i cittadini del comitato dell’Acquafredda . Richieste rimaste inascoltate . Ora il Pd si assuma le sue di responsabilità, perché dentro un parco non è ammissibile realizzare colate di cemento». Una vicenda che assume quindi contorni inquietanti e ci racconta come il progetto di edificazione di quell’area fosse al centro di interessi incrociati che partono da molto lontano e arrivano a coinvolgere lo staff dell’ex Sostituto agli Affari generali Angelo Becciu, che incarica più volte persone a lui vicine di seguire il progetto con gli uffici regionali. Nei carteggi che abbiamo visionato c’era l’intenzione di creare in quegli spazi un polo residenziale sanitario collegato al Bambin Gesù, un nuovo ampliamento che avrebbe dovuto coinvolgere molti dei protagonisti delle vicende collegate all’acquisto del palazzo di Londra in Sloane Avenue. Il pentito della Segreteria di Stato, monsignor Perlasca, già stretto collaboratore di Becciu, davanti agli inquirenti avrebbe rivelato che il mondo della sanità era un asset centrale per gli affari dell’ex sostituto e che lo stesso Gianluigi Torzi, il broker molisano poi accusato di estorsione, oltre alla ristrutturazione del credito di numerosi enti o cooperative sanitarie vicine alla Santa Sede avrebbe puntato alla partita più grossa: una edificazione ex novo. Da quanto emerge nelle ultime ore, nei piani di controllo dell’ex sostituto ci sarebbe stata anche la partita della presidenza del Bambin Gesù, dove lo stesso Perlasca siede in consiglio di amministrazione. A questi interrogativi si sommano ora anche quelli che dovrà dipanare la Regione Lazio per comprendere quale “manina” abbia ritenuto i documenti di Roma Natura sostitutivi e non integrativi del diniego spalancando così le porte ad un sacco immobiliare di cui la politica non si era accorta o che ha fatto finta di non vedere.

Scandalo in Curia, obiettivo Bambin Gesù. La cordata di affaristi protetta dall’ex cardinale Angelo Becciu aveva nel mirino il ricco business della sanità vaticana. Ecco come è stata sventata la manovra. Massimiliano Coccia su L'Espresso l'11 dicembre 2020. Certi soldi non finiscono, fanno dei giri immensi e non ritornano. Sembra essere questa parafrasi di una famosa canzone la sintesi perfetta della ragnatela di interessi e relazioni che, una volta saltato il sistema politico ed economico facente capo all’ex Sostituto degli Affari Generali, l’ex cardinale Angelo Becciu, sta venendo a galla dalla complessa inchiesta dei promotori di Giustizia della Santa Sede e in particolare dai documenti frutto delle rogatorie in Svizzera. Obiettivo la sanità di Francesco. Intanto trapela la volontà dei magistrati vaticani di indagare il porporato per vilipendio: l’offesa sarebbe contenuta nelle dichiarazioni del cardinale che ha sostenuto in pubblico la tesi del pontefice “manipolato”. Becciu afferma di non saperne nulla e ha querelato l’Espresso che in queste settimane si è limitato a riportare i fatti con rigore senza essere mai smentito. Papa Francesco ha riconfermato prima della scadenza naturale l’attuale presidente dell’ospedale romano, avversaria della cordata dell’ex Sostituto di Stato. Attorno alla sanità ruotavano interessi enormi e uno scontro di potere: al centro sembra esserci un uomo legato all’ex cardinale, Guido Carpani, capo di gabinetto della ministra della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone (M5S). dopo aver ricoperto lo stesso incarico con la ministra Giulia Grillo, anche lei del Movimento Cinque Stelle, nel governo gialloverde Conte uno. Carpani fu nominato dal Vaticano nel 2018 vicepresidente dell’Istituto Toniolo che controlla l’università Cattolica e dal governo italiano suo rappresentante nel consiglio di amministrazione della stessa Università. Anche se non c’è una formale incompatibilità, rappresenta due Stati diversi. Intanto, sul fronte delle indagini, trapela la volontà dei magistrati vaticani di indagare il cardinale Becciu per vilipendio al capo dello Stato (che in Vaticano è associato al Re): l’offesa sarebbe contenuta nelle dichiarazioni del cardinale che, dopo essere stato costretto dal Papa a dimettersi, ha sostenuto in pubblico la tesi del pontefice “manipolato”. Un’accusa gravissima e incompatibile con la porpora che Becciu ha ricevuto giurando fedeltà fino alla morte al Papa che ora in pubblico afferma di considerare debole e influenzabile. Sul piano giudiziario, il nuovo procedimento andrebbe ad aggiungersi alle ipotesi di reato di abuso d’ufficio, peculato e interesse privato, come ha scritto il giornale che in modo zelante si è assunto il ruolo di avvocato mediatico del cardinale: una pessima difesa. Becciu afferma di non saperne nulla e ha querelato l’Espresso che in queste settimane si è limitato a riportare i fatti con rigore senza essere mai smentito.   A smontare la bugia di Becciu, semmai, è stato lo stesso Becciu che il 25 settembre così motivò la sua cacciata: «Il Papa mi ha detto di aver avuto la segnalazione dei magistrati che avrei commesso peculato. Dalle carte, dalle indagini fatte dalla Guardia di finanza italiana emerge che io abbia commesso il reato di peculato», disse in una conferenza stampa. Che ora ha dimenticato. 

La cricca del Vaticano prova ad accusare papa Francesco per salvarsi. Il gruppo affaristico che operava intorno all'ex cardinale Becciu vuole chiamare in causa direttamente il Pontefice. Mentre emergono le trame intorno alle nomine all'ospedale Bambin Gesù. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 13 novembre 2020. I giorni passano e cambia la strategia difensiva dell’«associazione a delinquere», come la definiscono le carte dell’inchiesta, nata attorno alla compravendita del Palazzo di Sloane Avenue a Londra e che ha depredato le casse della Segreteria di Stato e l’Obolo di San Pietro. Ora si cerca di alzare il tiro e si tenta di incolpare direttamente Papa Francesco di ogni decisione presa sulla gestione della compravendita dell’immobile londinese. Un disegno difensivo che vede come protagonista proprio l’ex cardinale Angelo Becciu, che nella conferenza stampa dopo le dimissioni auspicò che il Santo Padre agisse in piena autonomia, quindi non condizionato da esterni, e che prosegue con Monsignor Mauro Carlino, prelato pugliese, segretario e braccio destro dell’ex porporato di Pattada. Carlino, classe 1976, leccese, era il vero filtro tra il mondo esterno e Becciu, con il quale prendeva tutte le decisioni di indirizzo che riguardavano la gestione dei denari della Segreteria di Stato, i rapporti da tenere e le strategie da attuare. Secondo gli investigatori vaticani, di monsignor Carlino è da notare «non solo la particolare disinvoltura con la quale si muove nelle alte sfere della gerarchia dello Stato, ma anche l’incessante attività con personaggi del mondo della finanza per realizzare nuove iniziative di tipo imprenditoriale».

Renato Farina contro l'Espresso: fin dove si spinge per ravanare su presunte trame in Vaticano. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2020. Dall'inizio Libero ha scritto che il caso Becciu è in realtà il caso-Espresso. Chi ha armato le pagine del settimanale per attaccare il cardinale sardo, fedele esecutore, come Sostituto della Segreteria di Stato, delle volontà dei Papi (prima di Benedetto XVI e poi di Francesco)? Questa la domanda posta da Vittorio Feltri notando come il diavolo dopo aver costruito le pentole si fosse dimenticato i coperchi. Da cui l'errore bambinesco, la classica pistola fumante, delle dimissioni annunciate prima ancora fossero state decise dal Pontefice, e la vanteria di attribuire a una copia dell'Espresso fatta leggere a Bergoglio il «merito» della defenestrazione ottenuta grazie all'articolo di un falsario condannato per tale e già segnalato da una denuncia ai promotori di giustizia vaticani e allo stesso Guardasigilli della Santa Sede, cardinale Dominique Mamberti. Come capita ai disperati che, secondo il motto romanesco, «nun ce vonno sta'», allo stesso modo si è comportato ancora in questi giorni il direttore che pur chiamandosi Damilano ha fatto suo quel motto alla vaccinara. E così ha ospitato un nuovo assalto alla baionetta di pastafrolla dell'autore dei servizietti ad uso dei calunniatori da dentro le Mura Leonine di Becciu, Massimiliano Coccia, a questo punto ridotto a manzoniano vaso di Coccia. Non è d'uso nostro storpiare i cognomi, ma impossibile sottrarsi alla tentazione, constatando la miseria del nuovo tentativo. Trattasi di un classico rinculo, detto anche ritirata strategica per salvare la faccia. L'amanuense che in passato si è spacciato per don Andrea Andreani, segretario del Papa, ha una sua strana potenza. Non dimentichiamo che è amico di Roberto Saviano ed è autore di interviste in ginocchio all'allora procuratore capo di Roma e attuale presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, assurto a questa carica senza competenze di diritto canonico e per meriti francamente piuttosto misteriosi, visto il clamoroso fiasco dell'inchiesta su Mafia-Capitale (niente mafia, ha sancito la Cassazione) cui doveva popolarità e prestigio. E così Marco Damilano, pur protetto dall'omertà dei media italiani sulla base dell'assunto cane lecca cane, specie se è grosso (e l'Espresso appartiene al gruppo Gedi-Agnelli, con Repubblica, Stampa, Secolo XIX, quotidiani locali, Radio e tivù), ha rimesso in campo il suo campione di turlupinature per tutelare la periclitante reputazione del periodico. E ha investito ancora sul tema mandando lo sventurato Coccia ad addentare la preda. Il risultato pubblicato con enfasi sul web e sul cartaceo è un depistaggio malaccorto. Per eterogenesi dei fini rivela due verità: 1) l'Espresso non ha più carte fresche, deve rimestare roba antica; 2) si capisce che Becciu era stato scelto come bersaglio perché leale e fedele al Papa, fuori però dal cerchio dei bergogliani che stanno pensando al proprio futuro post Francesco: l'attacco era a Becciu, uccidendo lui per indebolire la credibilità della Chiesa e lo stesso Papato, disarticolandone la struttura di governo nella sua giuntura più salda e al di sopra di qualunque diceria di corruzione. Se Becciu è marcio, tutta la Chiesa è marcia. Il suo cadavere - inteso come istituzione materiale - da distribuito a iene ed avvoltoi perché, ufficialmente, sia nuda e pura. In realtà svuotata del tesoro dei poveri per darlo ai ricchi adulatori. Ecco, il secondo punto è quello nuovo fiammante, ma in realtà di antico pelo predatorio. La sanità vaticana fa gola. È un boccone appetitoso. Come si fece a suo tempo nel 1993 con il patrimonio dello Stato italiano, che fini praticamente gratis nel piatto del capitalismo straccione e antipatriottico di Torino e quindi a Parigi e Londra, ora partendo da Becciu si profilerebbe lo smantellamento dei beni della Chiesa e il passaggio di mano delle sue opere: le quali - in nome del «beati i poveri» - ingrasserebbero i soliti ricconi abilissimi nel rendere onore a Francesco purché come Pinocchio affidi al Gatto e alla Volpe le monete d'oro. Si noti il titolo della cosiddetta inchiesta «Scandalo in Curia, obiettivo Bambin Gesù». È l'ospedale che è la gloria pontificia della cura disinteressata per gli innocenti malati. I quali spesso sono scaricati come merce di scarto da cliniche à la page perché senza chance di una vita «normale». L'articolo di Coccia cerca di mettere in relazione i traffici dei lupi intorno alla sanità cattolica mettendoli in conto alle trame di Becciu. Peccato non ci sia neppure non diciamo prova ma neppure indizio contro il piccolo prelato sardo. Il cardinale Angelo Becciu - e ciò vale per i Sostituti predecessori e per l'attuale - non ha mai avuto a che fare con ospedali e simili. La sanità è stata sempre area esclusiva dei Segretari di Stato. Soprattutto sul Bambin Gesù, carissimo ai Pontefici, il Sostituto non vi ha storicamente alcuna competenza, fa semplici accuse di ricevimento delle eventuali comunicazioni provenienti dall'ospedale e le trasmette più in alto. Sulle questioni opache della sanità all'ombra di San Pietro si è diffuso il sito di informazione vaticana più attento al tema (korazym.org), e ha concluso: Becciu non c'entra nulla, prima si smonteranno formalmente le accuse al cardinale, meglio sarà per la Chiesa e per il Papato. Francesco - a quanto ci consta - se ne sta accorgendo.

Vaticano, primo paese al mondo per consumo di alcol: Francia seconda per distacco, ecco le cifre. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2020. C'è un autorevole ente americano, il Californian Wine Institute, che censisce ogni due anni i consumi di vino, Stato per Stato. Non sindaca sulla qualità, probabilmente conta i vuoti. Da quando c'è questo concorso da osteria - dal 2012 - il Vaticano ha vinto i tutti i campionati. Il consumo pro-capite è di 73,8 litri a testa (diciamo cento bottiglie circa), dando un giro alla Francia, seconda con 50,7, e all'Italia, terza con 48,2. Non stupisce questo primato: il vino è l'unica bevanda di Dio, e dunque la sua mescita è nella cittadella dei Papi comprensibilmente larga: evito di scrivere allegra per rispetto, ma non è certo con tristezza, che è caratteristica dell'avarizia, che dentro le mura leonine si tira il collo ai fiaschi. L'istituto californiano non ha considerato - si noti - il vino da messa, che dunque non genera questa abbondanza statistica, così da non mescolare sacro e profano. Resta da capire come mai questa predilezione favolosa. Diciamo che il cristianesimo ha sempre apprezzato il bello. I Papi da sempre sono stati i mecenati delle più strepitose opere d'arte, da Michelangelo a Raffaello a Bernini, e lo stesso impegno posto nello scegliere pittori, scultori e architetti lo hanno posto nel selezionare vitigni ubertosi e vignaioli geniali.

DALLA BIRRA. È noto che le grandi birre ebbero i natali nelle abbazie benedettine, che ancora ne producono di meravigliose, e che fu Dom Perignon, anch' egli monaco, inventò lo Champagne. Molto meno è noto che sono stati i Papi nel passaggio dal Medio Evo al Rinascimento a promuovere, con scienza ed arte, la progenie dei grandi cru non solo d'Oltralpe. Lo fecero specialmente durante il loro esilio avignonese, che pertanto non fu così inutile. Lo racconta splendidamente su Nuova Bussola Quotidiana (Nbq) Chiara Marabini. Benedetto XII e Clemente VI, nel XIV secolo, coltivarono da Avignone cultura, arti e vigne. Petrarca se la prese con il primo, che definì non leggiadramente «ubriacone incallito fradicio di vino, grave d'età e cosparso di umori soporiferi». Il secondo, al secolo Pierre Roger, originario del Limousin, mescolò teologia ed enologia, e inaugurò, scrive Nbq, «l'Europa del vino: Beaune, Baumes de Venise, Cassis, Provence, Languedoc, ma anche Saint-Pourçain, Poitou, Rhin e Cinque Terre, in Liguria, figuravano sulla tavola pontificia. A lui è anche legato il primo terroir di Châteauneuf-du-Pape, il "Bois de la Vieille"». Gli esperti di sociologia osservano che il Vaticano è capofila di chi alza il gomito per ragioni estranee alla fede: i circa 900 abitanti sono in grande maggioranza maschi e su con l'età, cioè consumatori tipici di ombre di bianco e di rosso. Noi aggiungiamo che i residenti nello staterello, per lo più chierici, non hanno la possibilità - così si dice - di alternare Bacco con Venere.

SIGARETTE E AFFINI. Quanto al tabacco, che pure era amatissimo da San Pio X, il quale ne usava una presa per il naso - da alcuni anni Francesco ha vietato la vendita di sigarette e sigari nel supermercato del Vaticano, il cosiddetto "spaccio dell'Annona", dove invece i vini abbondano, e pure quelli di altissima qualità sono abbordabili, a prezzi inferiori che in qualsiasi Paese europeo, essendo sgravati di tasse e balzelli. Fatto sta che già nel 2016, quando per la terza volta il Vaticano stravinse contro il resto del mondo, il Daily Beast, pubblicando la classifica del Wine Institute scelse di titolare la notizia così: «Vatican Priests & Nuns Are Drowning In Wine». Cioè: «In Vaticano preti e suore annegano nel vino». Esagerato. Constatiamo però che di certo nel campo dei drink il dialogo con l'Islam latita alquanto. Com' è noto la sharia punisce con la verga, in Arabia Saudita e in Sudan e in certe zone del mondo musulmano, i sacerdoti che cerchino di introdurre minime quantità di vino per la messa. In attesa che qualche monsignorino astemio metta all'ordine del giorno questo tema con gli scribi musulmani, promuovendo la sostituzione del vino da messa con il tè alla menta, nelle cantine del clero - non solo dalle parti del Colonnato di San Pietro - si resta ancorati allo stile della Chiesa primitiva, preferendo in campo enologico rimanere attaccati alla memoria degli apostoli e dei patriarchi biblici.

L'AMICIZIA. Una vecchia, inestirpabile amicizia lega i fratelli maggiori ebrei, i fratelli minori cattolici, e fratello vino. La Genesi attribuisce a Noè se non l'invenzione enoica di sicuro la prima sbronza della storia. Lungi dal biasimarla, Jahvè approvò la punizione che Noè inflisse al figlio Cam, il quale ne aveva riso stupidamente, mentre Sem e Jafet, che si guardarono bene dallo schernire il costruttore dell'Arca, furono coloro da cui venne la stirpe eletta. Guai a rinunciare al vino. Impossibile. In questa vita e nell'altra. Il tempo eterno del Paradiso è prefigurato da Isaia come un banchetto dove più del cibo conta il succo della vite: «un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). Il vino due volte, due bottiglie a testa. In Vaticano hanno obbedito.

IL BEONE. Del resto i farisei sostenevano che Gesù fosse letteralmente «un beone, amico dei peccatori» lo riferisce Cristo stesso (Matteo 11,19), e lo dice senza rifiutare l'accostamento che i suoi nemici moralisti avevano escogitato per denigrarlo e ferirlo. Mentre a noi, beoni e peccatori, questa predisposizione di Gesù piace molto. Tutti sappiamo, anche chi non frequenta gli inginocchiatoi, che il primo miracolo del Nazareno, istigato dalla Madonna, fu di trasformare l'acqua in vino alle nozze di Cana. Su YouTube si trova un breve filmato di Francesco - i cui antenati in provincia di Asti producevano Barbera - che commenta quel miracolo. Legge il discorso preparato per benino: «L'acqua è necessaria per vivere, ma il vino esprime l'abbondanza del banchetto e la gioia della festa». Poi alza gli occhi dal foglio: «A un certo punto il vino viene a mancare e la festa sembra rovinata. Immaginatevi di finire la festa bevendo tè. Una vergogna. Senza vino non c'è festa". Be', per una volta non si può accusare il Vaticano con tutti i suoi cardinali, vescovi e sacrestani, di non essere coerente. Sulla finanze e sulle lotte di potere, magari non lo è. Ma il giusto onore al vino lo dà, e i calici traboccano. 

La solitudine del Papa, tra la curia che gli si oppone e gli amici caduti in disgrazia. Paolo Rodari su La Repubblica il 25 settembre 2020. Dopo le dimissioni del cardinale Becciu, suo uomo fidato coinvolto nello scandalo del palazzo acquistato a Londra, un'analisi dei sette anni a Roma di Francesco. Passati cercando di riformare il governo vaticano e portare pulizia anche nelle finanze. Il mandato che il collegio cardinalizio diede a Francesco nel marzo del 2013 fu chiaro: riforma la curia romana, elimina la sporcizia, a cominciare dalle finanze. Tant’è che fu proprio dallo Ior che il Papa cominciò a ripulire, accorgendosi presto quanto l’operazione fosse difficile. «I Papi passano, la curia resta», è l’adagio delle sacre stanze. Per quanto chi siede al soglio di Pietro si arrabatti per cambiare ...

Il Papa e il segreto della scatola sacra. Ezio Mauro, Paolo Rodari e Carlo Bonini su La Repubblica il 05 ottobre 2020. Cosa nasconde il nuovo terremoto che ha investito le finanze del Vaticano e illuminato la corruzione della Curia. Avvisarono il cardinale della sera, con un messaggero che bussava alla sua porta. Il Papa voleva vederlo: subito. Sua Eminenza non conosceva il motivo dell'improvvisa convocazione. Era un uomo molto influente, autorevole e potente. Lui stesso aveva posto la tiara in San Pietro, la corona dei papi, simbolo della pienezza del potere temporale, sulla testa del nuovo Papa, che aveva già accanto la mitragliatrice, emblema della dignità episcopale. Quel mercoledì, entrando nella stanza del Santo Padre, era un cardinale di 81 anni. Quando è uscito, 20 minuti dopo, era solo un prete. Il Papa lo aveva invitato a dimettersi, e aveva lasciato sulla tavola del papa l'anello, la croce pettorale e soprattutto la zucca, colorata con il colore della passione di Cristo, nel cardinalato viola. Sembra la storia di Giovanni Angelo Becciu, fino a due anni fa un potentissimo Vice Segretario di Stato, improvvisamente detronizzato da Papa Francesco per sospetto di malversazione, dimesso dall'ufficio di Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, costretto a rinunciare alle prerogative e ai diritti di ogni cardinale, compresa la partecipazione al conclave che un giorno dovrà scegliere il nuovo papa. Si tratta, infatti, di una storia del 1927, e riguarda il contrasto tra Pio XI e il cardinale Louis Billot, teologo gesuita, per l'appoggio esplicito di quest'ultimo al movimento reazionario di "Action Française", contro le indicazioni del Papa. Becciu oggi ha perso ruolo e potere, ma ha mantenuto il titolo di cardinale, l'appartamento in Vaticano e il berretto rosso. Ma l'ordine pontificio di Francesco di partire, dato a uno dei principi della Chiesa. Uno strappo, dunque, o il richiamo di un'antica usanza ormai dimenticata nell'esercizio dell'autorità papale? È chiaro che un secolo dopo, e con il potere temporale svanito, l'autorità al vertice della Chiesa non è più quella del Papa Re, ma nasce da un potere spirituale conferito dalla libera scelta dei cardinali nel Conclave, ispirata dallo Spirito. Santo. Allo stesso tempo, i diritti delle persone, indipendentemente dal loro rango, hanno gradualmente acquisito spazio e peso rilevanti nella coscienza collettiva, a partire dal diritto alla difesa e al diritto a un giusto processo. Ma è anche vero che il Papa è prima di tutto un'autorità morale, e il criterio etico è per forza uno dei suoi parametri nel giudicare l'operato dei suoi collaboratori, insieme all'onestà e alla trasparenza davanti al popolo di fedele. In ogni caso, come dimostrano i fatti, non c'è dubbio che la detronizzazione di un potentissimo cardinale in piena modernità abbia riaperto la porta di bronzo alle domande ricorrenti di ogni scandalo nel perimetro protetto del Vaticano: cosa succede all'interno delle mura pontificie? Che gioco sta succedendo, che cos'è oggi, a sette anni dall'inizio del pontificato di Francesco, l'equilibrio interno del potere? Un viaggio nelle stanze sacre può aiutare a capire.

Lo zoo sacro. Becciu è quindi l'occasione clamorosa per un racconto generale dello stato del governo della Chiesa nell'era Bergoglio, una sensibile cartina di tornasole, un termometro della febbre cronica vaticana. Il Prefetto dei Santi si è probabilmente imbattuto nella sua invulnerabilità. Sette anni in Segreteria di Stato come Sostituto e la sua capacità di manovra, unita all'esperienza maturata nelle Nunziature, gli avevano conferito il potere di dirigere senza frontiere le vicende del Vaticano, che ancora riverberava i suoi lampi dal ruolo svolto nella Congregazione. Ha dovuto accettare due anni fa di lasciare la Terza Loggia per il nuovo ufficio: ma sembrava aver riacquistato la grazia quando il Papa lo ha nominato cardinale, nonostante il consiglio di un nunzio e di alcuni uomini di Curia di pensarci due volte. Un amico del cardinale deposto allarga le braccia. "Allora è venuto semplicemente alla nostra attenzione. Era il più intelligente di tutti, ma aveva una concezione antiquata della famiglia, che i cardinali stranieri non riescono a capire. È sinceramente convinto di non aver fatto nulla di male aiutando i suoi fratelli, e ancora oggi non si rende conto che ci sono operazioni finanziarie che non sono illegali ma comunque sbagliate, e comunque per le organizzazioni della Santa Sede che sono profondamente inadeguate. Ma d'altra parte chi c'è qui che non ha approfittato? L'ambiente finanziario del Vaticano è una specie di zoo sacro, con consulenti che non lavorerebbero da nessun'altra parte, ei preti non ne capiscono nulla. Tutte le encicliche sociali che hanno parlato di economia, hanno sollevato infinite polemiche, dalla Rerum Novarumalla Caritas in veritate , alla Populorum progressio . La verità è che la Chiesa deve occuparsi del mantenimento delle coscienze, non del mantenimento dei patrimoni ”. Poi Francesco arriva allo zoo. Alcuni dicono che sia stato ossessionato dal vegliare sul denaro fin da bambino, quando ha sentito la storia della nonna sul viaggio dal Piemonte all'Argentina con le poche banconote di famiglia cucite nella fodera del pastrano. Mette subito un suo uomo a gestire i fondi dell'8 per mille nella CEI. Poi annuncia una Chiesa "povera, per i poveri". Ha quindi nominato il cardinale George Pell Prefetto del Segretariato per l'Economia e ha iniziato la sua battaglia per la trasparenza e la pulizia, senza indulgenza. Bergoglio, che quando parla per la prima volta di se stesso dice: "Sono un peccatore, sul quale si è posata la misericordia di Cristo", distingue tra peccato e corruzione. Il primo è perdonato, il secondo no, perché i corrotti non si riconoscono peccatori e quindi non accettano misericordia. Ecco perché il Papa della Misericordia non aveva il sospetto che una forma di corruzione fosse operante nella parte superiore del Palazzo Apostolico. "Un vescovo avido di guadagni disonesti - ha detto profeticamente qualche tempo fa - è una calamità per la Chiesa, perché il diavolo esce dalle sue tasche". Il nocciolo della corruzione è l'idolatria, l'aver venduto l'anima al dio denaro ". Non solo un peccato di avidità, che causa un danno illegittimo, quindi: ma un laccio satanico, una tentazione permanente del Maligno, un vitello d'oro sistemato nella casa di Cristo.

Beati i poveri. Così si capisce perché Francesco possa dire che il suo programma è quello che Gesù ha dettato nelle Beatitudini: beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, i perseguitati, i misericordiosi, i puri di cuore, perché di loro è il regno dei cieli. Nella sua pratica quotidiana ha valorizzato il ruolo del mendicante del Papa, che è tornato concretamente a fare carità, si informa direttamente dei casi di disperazione umana di cui è venuto a conoscenza, la scorsa settimana ha chiamato di persona un uomo d'affari che gli aveva donato un rene a una bambina. I quattro pilastri su cui poggia il suo pontificato sono la sintesi di questa visione: povertà, disuguaglianza, migrazione e ambiente. Una visione che sta affrontando, oggi, un'obiezione culturale esplicita, che può diventare un'opposizione. In Vaticano, soprattutto dopo il caso Becciu, nessuno parla ad alta voce contro Francesco. Ma a bassa voce qualcuno va all'attacco.

“Va bene, tutto sacrosanto - obietta un cardinale straniero che non accetta di essere chiamato conservatore - a meno che il Papa non attribuisca questi problemi esclusivamente al capitalismo sfrenato degli ultimi decenni. Nella dottrina sociale della Chiesa, che si basa sul binomio creatore-creatura, l'economia è uno strumento utile per realizzare il benessere delle creature, a beneficio dell'uomo. Il Papa infatti stravolge questo schema, individuando un nuovo binomio: creatore-creato, con la creatura che diventa un semplice sfruttatore della natura creata da Dio. Quindi l'economia che doveva servire la crescita dell'uomo, per beneficiare della ricchezza e ridistribuirla, deve invece puntare sulla decrescita. Ma il cuore della dottrina sociale era il significato della vita come redenzione, la salvezza della vita eterna. Oggi è sempre la salvezza, ovviamente, del pianeta. Come se la Chiesa fosse diventata una sorta di WWF consacrato ”. È facile prevedere, a questo punto, che la partita per il potere in Vaticano sarà una sfida culturale. La Chiesa, secondo un sostenitore di Bergoglio, un italiano, arriva impreparata. “Il momento più alto della riflessione intellettuale e pastorale resta il Concilio, al quale avevano partecipato gli ultimi tre papi, Luciani, Wojtyla e Ratzinger, mentre Bergoglio non ne faceva parte ma ne ha come riferimento costante, forse più di tutti. Sa che in quell'occasione la Chiesa ha potuto capire la modernità, intercettarne le domande e trovare le risposte. Oggi il Papa si è reso conto che occorre un nuovo sforzo di adattamento culturale, ma mancano i grandi teologi, i grandi intellettuali laici e cattolici, i grandi vescovi che hanno animato quel passaggio. Vuole "la Chiesa in uscita" fuori dal recinto, ma non trova compagni di viaggio, paga la mediocrità delle classi dirigenti che coinvolge anche il nostro mondo, la bassa tensione culturale del momento. Gli uomini di Chiesa non riescono a fare una nuova sintesi culturale, mostrano un deficit di comprensione del mondo e di conseguenza rivelano un deficit di capacità argomentativa, possono solo ripetere valori non negoziabili senza creare nulla di nuovo: e questo proprio come il virus e la crisi solleva nuove preoccupazioni e nuove domande nella nostra gente. Per questo il periodo di Papa Francesco è un momento di rinascita annunciata, di rigenerazione: ma la nascita non avviene, resta il grande convulsioni ”. mostrano un deficit di comprensione del mondo e di conseguenza rivelano un deficit di capacità argomentativa, possono solo ripetere valori non negoziabili senza creare nulla di nuovo: e questo così come il virus e la crisi suscitano nella nostra gente nuove preoccupazioni e nuove domande. Per questo il periodo di Papa Francesco è un momento di rinascita annunciata, di rigenerazione: ma la nascita non avviene, resta il grande convulsioni ”. mostrano un deficit di comprensione del mondo e di conseguenza rivelano un deficit di capacità argomentativa, possono solo ripetere valori non negoziabili senza creare nulla di nuovo: e questo così come il virus e la crisi suscitano nella nostra gente nuove preoccupazioni e nuove domande. Per questo il periodo di Papa Francesco è un momento di rinascita annunciata, di rigenerazione: ma la nascita non avviene, resta il grande convulsioni ”.

Il voto del Conclave. Ma la nuova classe dirigente in formazione nella Chiesa non è figlia di Francesco e frutto delle sue scelte? Qui non veniamo ai voti del conclave, che restano segreti, ma al voto dei Padri della Chiesa, cioè all'investitura che hanno dato al nuovo papa insieme alla nomina: si potrebbe dire il mandato, se non fosse per il Papa è ovviamente gratuito da ogni ipoteca e da ogni vincolo se non il suggerimento del ispiratore Paracleto nella Cappella Sistina, dopo che è stato pronunciato l '"extra omnes". Ma se in un conclave si vota e non si discute, accade il contrario nelle Congregazioni che si riuniscono nel pre-conclave: qui è certamente presente il futuro Papa (anche se teoricamente si potrebbe scegliere un non cardinale, anche un non sacerdote) e quindi si parla apertamente in modo che i futuri eletti ancora sconosciuti conoscano le preoccupazioni di ciascuno e la resa di tutti. E Bergoglio in quelle ore prima della sua nomina, con l'avvicinarsi del tempo, percepì il fastidio dei cardinali di diversi paesi per gli intrighi italiani della Curia, l'impazienza per i giochi di potere romani, l'avversione per i anche lobby regionali (“a un certo punto - dice un vescovo - c'erano più cardinali in Liguria che in Germania”), per legami impropri e favoritismi, per consuetudine nazionale, tanto che dietro ogni italiano in In Curia c'è sempre una famiglia ". Come ha detto il cardinale Pell, che si è appena congratulato per la sfortuna di Becciu, Bergoglio è stato scelto perché aveva tutte le qualità per "pulire" la Curia romana. E nella sua totale libertà di sovrano il Papa sembra essere autonomamente convinto che la Curia debba essere controllata con briglie corte, in attesa che finalmente abbia inizio la riforma, il cui testo è pronto. Un pregiudizio anti-italiano? Ma Francesco è italiano nei suoi antenati. Piuttosto, il Papa ricorda l'omelia del Cardinale Ratzinger con il morente Wojtyla il Venerdì Santo, sulla necessità già dichiarata allora, e drammaticamente, di cambiare il governo della Chiesa. Non dimentica le umiliazioni del Segretario di Stato quando il Cardinale di Buenos Aires è venuto a Roma e non ha visto né il Segretario né il Sostituto, che lo ha rimandato dal giovane vescovo Pietro Parolin prima che partisse per il Venezuela. Ha ancora un'immagine nitida degli italiani nel conclave diviso sul nome italiano di Scola e cauto sul suo, le voci sulle telefonate notturne di ragazze che si offrono alle segretarie dei cardinali giunti a Roma a buon mercato uno scandalo preconfezionato da fare. Scoppiano a porte chiuse le fotocopie distribuite a tutti prima del corteo che si stava dirigendo verso la Sistina con l'attacco di un quotidiano inglese a un papabile italiano: ce n'è abbastanza per coltivare un po 'di diffidenza. La Curia, dunque, come atrio di recinzione, palestra degli esercizi del potere italiano, luogo di resistenza. E la Chiesa italiana come calamita di fondi, fabbrica di cardinali, quindi fucina privilegiata della curia e del conclave. Francesco agisce su due fronti. Gli appuntamenti diventano puntuali, il mandato dura tutti e cinque gli anni, poi cambia: una rivoluzione in un mondo che ha la misura del tempo e dell'eternità. E le cattedre episcopali più importanti d'Italia non generano più automaticamente la porpora cardinalizia, come avveniva in passato, rompendo il meccanismo della carriera, sostituita da una scelta per merito e caratteristiche, non per rendita di carica. Quindi Torino, Milano, Venezia, Palermo oggi non hanno cardinali, quasi un'umiliazione. Il livello dell'episcopato italiano scende, anche il suo peso.

La scatola dei due papi. Non ci sarà quindi nessun sovrappeso italiano nel prossimo conclave, quando sarà il momento. Ma cosa ha pesato sul "corpo e sullo spirito" di Benedetto XVI per portarlo all'abdicazione? "Non comprendiamo l'avvento di Bergoglio fino alle dimissioni di Ratzinger", dice un cardinale, facendo scattare l'Apple Watch al polso, "sono passati 7 anni e 8 mesi da quel giorno, e non è ancora finita. il mistero è risolto ”. Le ipotesi rimangono. Il peso insopportabile dello scandalo pedofilia? Il cardinale ha alzato le spalle: “Non posso sapere, sono quello che vedo. Ricordate quella scatola bianca che Benedetto ha consegnato a Francesco sugli schermi del telegiornale, subito dopo la consegna? Ebbene, ci sono i documenti raccolti dalla commissione che indaga sulla fuga di informazioni riservate, guidata dalIl cardinale Julian Herranz , con il mandato di agire in pieno campo su tutte le organizzazioni della Santa Sede. Tieni presente che i commissari facevano 4 o 5 udienze a settimana. Sai cosa significa? In quella scatola ci sono le testimonianze di tutti i passaggi oscuri, le malefatte, le malversazioni, l'abolizione della legge antiriciclaggio voluta dal Papa, la colpa e la responsabilità. È probabile che Benedetto, di fronte alla portata di quei risultati e al necessario intervento, abbia avuto un crollo di forze ”. Ed è possibile che quel palco fosse il pegno del passaggio tra i due Papi, e che Francesco se ne impossessò con la promessa a se stesso di combattere quei metodi e quell'usanza. Ecco perché, secondo i suoi uomini, ha reagito così duramente a Becciu: proprio perché gli aveva dato ampia fiducia, si è sentito tradito. E alcuni, fingendo all'epoca di immaginarlo, avanzano anche l'ipotesi che il Papa abbia intravisto l'ombra di una "confraternita di potere" per stringere patti e alleanze del fronte della resistenza, in vista di un futuro conclave, la nomina a a cui finiscono tutti gli intrighi vaticani, come in un imbuto benedetto. Ma chi sono gli avversari oggi? "Partiamo dagli amici - racconta un vecchio residente dei Palazzi Apostolici -, sono quasi tutti fuori dalla Curia, spesso anche fuori dalla Santa Sede,Antonio Spadaro , il direttore di "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti, Guzman Carriquiry , un diplomatico uruguayano, Eugenio Scalfari , il fondatore di "Repubblica" al quale il Papa ha rivelato la formula dell'unico Dio ". Poi naturalmente l'amicizia di lavoro con il cardinale canadese Michael Czerny , sottosegretario Gesuiti della sezione migranti e porporato honduregno Oscar Maradiaga , Coordinatore del Consiglio dei Cardinali 9 (attualmente sono sette) e Filippino Luis Tagle , a cura del Prefetto della Congregazione dei evangelizzazione popoli, padre Guerrero Alves, anche un gesuita, capo della Segreteria per l'Economia, che ha accettato l'incarico chiedendo a Francesco il favore di non essere nominato vescovo, il cardinale brasiliano Claudio Hummes che era seduto accanto a Bergoglio in conclave e subito dopo l'elezione ha detto che si ricordava dei poveri. "Allora è venuto semplicemente alla nostra attenzione. Ci sono oppositori ideologici, ovviamente, che vogliono mantenere tutto com'è, anche ciò che funziona molto male. Ma poi ci sono tutti quelli in cui il Papa ha creduto all'inizio, che hanno promosso, che lo hanno deluso e sono stati tormentati. Sono gli insoddisfatti: dietro ognuno di loro c'è una cerchia di amici, aiutanti, fan. Moltiplica il numero degli insoddisfatti per 30 o per 40, in alcuni casi anche 50, e qui a Bergoglio avrà il fronte della resistenza ”.

Il seme e i frutti. Dentro, perché fuori, nel secolo, la popolarità di Francesco continua ad essere altissima, nonostante il Covid impedisca viaggi e contatti con la folla. Dal 9 marzo al 18 maggio, in mezzo al blocco delle messe aperte ai fedeli, il Papa ha deciso di far trasmettere alla televisione vaticana (poi seguita dalla RAI, poi rilanciata in streaming) la messa di mezz'ora celebrata ogni mattina alle 7 nel piccolo Cappella di Santa Marta, con un'omelia che normalmente non supera i 6 minuti: boom d'ascolto. È come se il popolo cattolico avesse fatto la sua classificazione tripartita: Wojtyla l'anima, Ratzinger la mente, Bergoglio il cuore. “Vero, ma attenzione - dice un assiduo frequentatore di Santa Marta, citando Spinoza - omnis determinatio est negatio, così non limitiamo il Papa all'empatia, all'umanità. Quando solleva questioni come il clima, le migrazioni, la povertà, le nuove forme di schiavitù, alza l'asticella del suo pontificato, sa che i risultati saranno molto difficili da ottenere nel breve termine. Ma poiché sente l'imperativo morale di farlo, lo fa ostinatamente, persino ostinatamente, senza calcoli di opportunità. Chiede di essere giudicato dai semi, non solo dai frutti, che probabilmente raccoglieranno alcuni dei suoi successori. E questa è davvero una stagione di grande semina ". che probabilmente raccoglierà alcuni dei suoi successori. E questa è davvero una stagione di grande semina ". che probabilmente raccoglierà alcuni dei suoi successori. E questa è davvero una stagione di grande semina ". Per gli avversari, infatti, grandine. Dicono che non esiste un programma concreto, che le riforme sono sconnesse, incomplete, il sistema viaggia a velocità diverse, il risultato è la confusione, l'incertezza, il terremoto permanente, causato anche dalle scelte impulsive del Papa ". troppo sudamericano ”. Aggiungono che è sospettoso, come se a Roma si muovesse "in partibus infidelium", non vuole fare affidamento su un solo segretario (in Argentina non aveva nemmeno un segretario) perché diventerebbe inevitabilmente un centro di potere: quindi ne ha due alternati, così che nessuno ha la chiave che apre tutto l'impegno pontificio e quindi del suo pensiero, e comunque le cambia ogni cinque anni, a differenza dei papi precedenti che hanno tenuto lo stesso collaboratore per tutta la durata del loro regno. Quando padre Spadaro ha chiesto anni fa a Francesco se voleva riformare la Chiesa, ha sentito un'altra risposta: “Voglio davvero molto di più, voglio mettere Cristo al centro della Chiesa. Poi lavorerà per cambiarlo ". Oggi Spadaro su "Civiltà cattolica" risponde alle critiche sull'impulsività latinoamericana del Papa spiegando il suo metodo di governo. Il modello è Sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, per il quale è inutile cercare di cambiare le strutture se le persone non vengono cambiate dall'interno, perché la riforma se non si incarna nella vita delle persone diventa un ' ideologia. Non bisogna quindi credere a un modello astratto ma all'impatto della realtà, avere pazienza perché riformare significa avviare processi di cambiamento, e la strada si sceglie camminando.

Il metodo sacro. Quindi c'è un metodo, nell'epoca di Francesco. Ma c'è anche, rivela il visitatore di Santa Marta, il segreto del misticismo del Papa. La mattina subito dopo il risveglio alle 4:30, durante la messa delle 7, la sera prima di cena e poi prima di coricarsi, il Papa prega, anche per decidere. Nel senso che usa la preghiera come criterio di "discernimento", cercando e trovando quella che percepisce come la strada indicata dal Signore nella lettura dei fatti e degli eventi, in sintonia tra ciò che vuole e deve fare e ciò che sente nella preghiera. . Ha spiegato al suo staff che ha usato tre criteri per decidere: o chiarezza immediata, che non ha bisogno di ulteriori riflessioni, quando si è sentito in dovere di inchinarsi alla delegazione sudanese in visita. dopo aver baciato la sacra scarpetta del papa fino a sessant'anni fa; o pura razionalità, con un calcolo dei pro e dei contro di ogni scelta e una valutazione dei benefici; o proprio la riflessione affidata alla preghiera, in dialogo con il divino. Non è dunque istinto decidere, ma un criterio, che comunque non protegge dagli errori, come ha ammesso Francesco due anni fa nella lettera ai vescovi del Cile sugli abusi del clero: "Riconosco di aver commesso gravi errori di valutazione e percezione della situazione, per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate, chiedo scusa a tutti coloro che ho offeso, e spero di poterlo fare personalmente ”. Non è abbastanza per gli avversari. Ricordano che il Segretario di Stato, appreso dal telegiornale della sera, del licenziamento di Becciu, non ne fu informato né prima né dopo l'incontro del Papa con il cardinale. Affermano che il Papa decide troppo spesso da solo perché è davvero solo, manca di una struttura di sostegno, dialogo e confronto, passa molto rapidamente dalla fiducia al disprezzo e spesso alza la voce liquidando i suoi interlocutori. Chi va a Santa Marta ammette che Francesco a volte perde le staffe. D'altronde è stato lui a teorizzare che bisogna "accarezzare i conflitti", non temerli e non avere paura delle contraddizioni. Il conflitto, infatti, va gestito e non aggirato o nascosto, perché devi essere inquieto proprio quando tutto sembra calmo. Il Papa risponde alle sue critiche indirettamente ma molto duramente, mettendo in discussione il diavolo e le sue tentazioni. Il Maligno, spiega Francesco, per non scontrarsi con la saggezza dello Spirito, a volte cerca di provare sotto le spoglie del bene. In questo caso “la finezza del Nemico diventa estrema, perché chi è tentato crede di dover agire per il bene della Chiesa. La sottigliezza sta nel farci credere che la Chiesa viene distorta e nel cercare di convincerci che poi dobbiamo salvarla, forse anche suo malgrado. È una tentazione presente sotto un'infinità di maschere diverse ma che alla fine hanno tutte qualcosa in comune: la mancanza di fede nella potenza di Dio che vive sempre nella sua Chiesa ”. In questo caso “la finezza del Nemico diventa estrema, perché chi è tentato crede di dover agire per il bene della Chiesa. La sottigliezza sta nel farci credere che la Chiesa viene distorta e nel cercare di convincerci che poi dobbiamo salvarla, forse anche suo malgrado. È una tentazione presente sotto un'infinità di maschere diverse ma che alla fine hanno tutte qualcosa in comune: la mancanza di fede nella potenza di Dio che vive sempre nella sua Chiesa ”. In questo caso “la finezza del Nemico diventa estrema, perché chi è tentato crede di dover agire per il bene della Chiesa. La sottigliezza sta nel farci credere che la Chiesa viene distorta e nel cercare di convincerci che poi dobbiamo salvarla, forse anche suo malgrado. È una tentazione presente sotto un'infinità di maschere diverse ma che alla fine hanno tutte qualcosa in comune: la mancanza di fede nella potenza di Dio che vive sempre nella sua Chiesa ”.

Il rito del rimorchio. Ancora una volta, poi, "Salus extra Ecclesiam non est", e ovviamente "Ubi Petrus, ibi Ecclesia". Ma perché è necessario ribadire questi precetti, nel momento in cui Francesco conquista il cuore del popolo cristiano? Da dove viene la resistenza al Papa e alla sua azione? E fino a che punto può arrivare questa resistenza? Dovrebbe riflettere la reazione di Becciu alla condanna papale: poche ore dopo la defenestrazione, un cardinale della Santa Madre Chiesa, che fu uno dei primi collaboratori del Papa, lo negò in pubblico, convocando una conferenza stampa, di forte influenza. media accumulati negli anni trascorsi alla Segreteria di Stato. Becciu contesta le ragioni che consigliavano al Papa di allontanarlo, si difende dalle accuse come naturalmente è suo diritto, ribadisce che avrebbe "dato la vita" per il Papa ma subito dopo lo accusa di aver sbagliato, ribadendo di aver commesso "un errore", e arriva addirittura a sostenere che nonostante tutto "conferma la fiducia" in Francesco, ribaltando le formule, ruoli e costumi, perché Francesco aveva appena ritirato la sua fiducia e il suo incarico. La legittima difesa dell'ex Prefetto diventa così un attacco politico al Papa e una sfida aperta, come se sapesse di poter contare su un consenso sommerso, guardando quell'appartamento papale vuoto come una vacanza di potere, o almeno di autorità, logora. e perso nella vita senza filtro e senza distanza regale a Santa Marta. e si spinge addirittura a sostenere che nonostante tutto "conferma la fiducia" in Francesco, ribaltando le formule, i ruoli e le abitudini, perché Francesco aveva appena ritirato la sua fiducia e il suo incarico. La legittima difesa dell'ex Prefetto diventa così un attacco politico al Papa e una sfida aperta, come se sapesse di poter contare su un consenso sommerso, guardando quell'appartamento papale vuoto come una vacanza di potere, o almeno di autorità, logora. e perso nella vita senza filtro e senza distanza regale a Santa Marta. e si spinge addirittura a sostenere che nonostante tutto "conferma la fiducia" in Francesco, ribaltando le formule, i ruoli e le abitudini, perché Francesco aveva appena ritirato la sua fiducia e il suo incarico. La legittima difesa dell'ex Prefetto diventa così un attacco politico al Papa e una sfida aperta, come se sapesse di poter contare su un consenso sommerso, guardando quell'appartamento papale vuoto come una vacanza di potere, o almeno di autorità, logora. e perso nella vita senza filtro e senza distanza regale a Santa Marta. Gli amici di Francesco dicono che la verità è un'altra, molto più semplice: "Il prefetto delle cause di canonizzazione ha perso i suoi santi, e ha finito per perdere anche la testa". Certo, spiegano, il Papa sente la solitudine di responsabilità, tipica del vertice della Chiesa, che Paolo VI disegnò come la cuspide di una cattedrale gotica. Solo di fronte al dovere di decidere, un peso che era finalmente diventato insopportabile per le spalle indebolite di Benedetto XVI. Ma Bergoglio, aggiungono persone a lui vicine, ha messo reagenti chimici nel campo di quello che considera il vero pericolo, il momento in cui la solitudine si trasforma, diventando isolamento. E il primo antidoto è Santa Marta, una porta aperta al mondo che le permette di contaminarsi con la vita degli altri, di incontrarsi, ascoltare, vagliare e capire, anche con la sorpresa della sua coincidenza: spezzare il potere di interdizione dell'agenda, del rito, dell'ufficialità, della separazione che rischia di trasformare il Papa in un simbolo sacro piuttosto che in una presenza, irraggiungibile in Appartamento perché lontano e quasi incorporeo nelle sue apparizioni alla finestra. D'altronde qualcuno ricorda che quando Bergoglio dirigeva l'università dei Gesuiti in Argentina, un giorno fu trovato seduto alla porta della portineria, spiegando semplicemente che "devi venire qui, se vuoi davvero capire tutto". irraggiungibile nell'appartamento perché distante e quasi incorporeo nelle sue apparizioni alla finestra. D'altronde qualcuno ricorda che quando Bergoglio dirigeva l'università dei Gesuiti in Argentina, un giorno fu trovato seduto alla porta della portineria, spiegando semplicemente che "devi venire qui, se vuoi davvero capire tutto". irraggiungibile nell'appartamento perché distante e quasi incorporeo nelle sue apparizioni alla finestra. D'altronde qualcuno ricorda che quando Bergoglio dirigeva l'università dei Gesuiti in Argentina, un giorno fu trovato seduto alla porta della portineria, spiegando semplicemente che "devi venire qui, se vuoi davvero capire tutto". In fondo la solitudine è una pedagogia del potere e dell'umiltà, spiega chi conosce il Papa da molto tempo, sostituendosi quotidianamente all'antico rito del rimorchio che proprio nel giorno della sua consacrazione ricordava al nuovo papa la scadenza del potere universale ma transitorio che aveva ha appena assunto su di sé: "Quando il Papa è elevato alla più alta onorificenza - recita un esemplare del 1200 - si accende davanti agli occhi un lino che il fuoco brucia e consuma in un attimo, e gli viene detto" sic transit gloria mundi ”, quindi devi pensare a te stesso cenere e mortale”. Un monsignore che lavora in Vaticano ma non si unisce alle fazioni e si considera un "semplice osservatore dall'interno", dice che c'è nella Chiesa un unico criterio oggettivo per valutare lo stato del pontificato, e cioè gli uffici di Cristo. " cioè i compiti e le funzioni che secondo la Bibbia Gesù si assegnò nel mondo degli uomini, e che poi affidò agli Apostoli, trasmettendoli alla Chiesa fondata su Pietro. Sono i "Tria Munera" che valgono per ogni parroco, vescovo, cardinale e ovviamente anche per il Papa: i doveri del sacerdote, del Re e del profeta. “Ora non c'è dubbio che Francesco è naturalmente un sacerdote, cioè svolge pienamente il suo ufficio spirituale, così come è chiaro che sa leggere il segno dei tempi, così adempie alla funzione profetica, la più difficile e significativa. Resta il compito del Re, l'arte del governo, nella quale si batte di più, come il suo predecessore e come l'ultimo Wojtyla. Tre papi diversi, una sola resistenza, come se il Vaticano fosse ingovernabile ". e che poi ha affidato agli Apostoli, trasmettendoli alla Chiesa fondata su Pietro. Sono i "Tria Munera" che valgono per ogni parroco, vescovo, cardinale e ovviamente anche per il Papa: i doveri del sacerdote, del Re e del profeta. “Ora non c'è dubbio che Francesco è naturalmente un sacerdote, cioè svolge pienamente il suo ufficio spirituale, così come è chiaro che sa leggere il segno dei tempi, così adempie alla funzione profetica, la più difficile e significativa. Resta il compito del Re, l'arte del governo, nella quale si batte di più, come il suo predecessore e come l'ultimo Wojtyla. Tre papi diversi, una sola resistenza, come se il Vaticano fosse ingovernabile ". e che poi ha affidato agli Apostoli, trasmettendoli alla Chiesa fondata su Pietro. Sono i "Tria Munera" che valgono per ogni parroco, vescovo, cardinale e ovviamente anche per il Papa: i doveri del sacerdote, del Re e del profeta. “Ora non c'è dubbio che Francesco è naturalmente un sacerdote, cioè svolge pienamente il suo ufficio spirituale, così come è chiaro che sa leggere il segno dei tempi, così adempie alla funzione profetica, la più difficile e significativa. Resta il compito del Re, l'arte del governo, nella quale si batte di più, come il suo predecessore e come l'ultimo Wojtyla. Tre papi diversi, una sola resistenza, come se il Vaticano fosse ingovernabile ". del re e del profeta. “Ora non c'è dubbio che Francesco è naturalmente un sacerdote, cioè svolge pienamente il suo ufficio spirituale, così come è chiaro che sa leggere il segno dei tempi, così adempie alla funzione profetica, la più difficile e significativa. Resta il compito del Re, l'arte del governo, nella quale si batte di più, come il suo predecessore e come l'ultimo Wojtyla. Tre papi diversi, una sola resistenza, come se il Vaticano fosse ingovernabile ". del re e del profeta. “Ora non c'è dubbio che Francesco è naturalmente un sacerdote, cioè svolge pienamente il suo ufficio spirituale, così come è chiaro che sa leggere il segno dei tempi, così adempie alla funzione profetica, la più difficile e significativa. Resta il compito del Re, l'arte del governo, nella quale si batte di più, come il suo predecessore e come l'ultimo Wojtyla. Tre papi diversi, una sola resistenza, come se il Vaticano fosse ingovernabile ".

L'asino sacro. Ai suoi più insofferenti collaboratori, che vorrebbero forzare modi e tempi, il Papa risponde, sabato scorso, celebrando nella basilica superiore di Assisi la messa di benedizione della nuova enciclica davanti al Sogno di Innocenzo III di Giotto, che vede steso San Francesco pericolo di sostenere la caduta del Laterano, salvandolo. L'iconografia contiene profezie. E poi qualcuno, nella "famiglia" allargata del Papa, ricorda l'antico mosaico dell'abside di San Pietro con una fenice trionfante su sfondo verde, simbolo della resurrezione ma anche della capacità di autogenerarsi eternamente dopo che il fuoco ha attaccato il nido. Ma il saggio cardinale avverte che si dovrebbe piuttosto temere il volo di ritorno del corvo che è entrato nelle stanze di Benedetto scambiando le sue carte segrete, "E speriamo che questa volta non sia un avvoltoio." Anche se nel bestiario divino i tempi dicono che sarebbe piuttosto il tempo dell'asino, su cui nei rituali pontifici dell'alto medioevo sedeva invece a cavallo di un arciprete (i cardinali ancora non esistevano), che da quella posizione inversa doveva tentare per tre volte per afferrare i soldi nella bacinella davanti alla testa dell'animale: impossibile. Il prelato si contorse fino alla caduta, vinse il sacro asino e il popolo applaudì allo spettacolo eterno di infinito esorcismo contro l'avidità del clero. che da quella posizione inversa ha dovuto provare tre volte ad afferrare i soldi nella bacinella davanti alla testa dell'animale: impossibile. Il prelato si contorse fino alla caduta, vinse il sacro asino e il popolo applaudì allo spettacolo eterno di infinito esorcismo contro l'avidità del clero. che da quella posizione inversa ha dovuto provare tre volte ad afferrare i soldi nella bacinella davanti alla testa dell'animale: impossibile. Il prelato si contorse fino alla caduta, vinse il sacro asino e il popolo applaudì allo spettacolo eterno di infinito esorcismo contro l'avidità del clero.

DAGOREPORT il 7 ottobre 2020. Forse invidioso di Eugenio Scalfari, che com’è noto ogni tanto va a Casa Santa Marta per confessare Bergoglio, san Eziolo Mauro, successore di Barbapapà sul soglio di Repubblica, e ora emerito quanto Ratzinger e il Fondatore, s’è impancato a scrivere sul quotidiano che ha diretto per 20 anni tre-pagine-tre di romanzo vaticano. Siccome i republicones sono gente fina, la messa cantata è stata presentata sia in prima pagina che all’interno come «Longform», qualunque cosa significhi. Bisogna capirli: sono 44 anni che si credono il New York Times. Peccato che il polpettone, golosamente intitolato «Il Papa e il segreto della scatola sacra», abbia risentito delle scarse frequentazioni sacramentali di san Eziolo, cosicché le sottane d’Oltretevere da tre giorni si stanno tenendo la pancia dalle risate per gli svarioni storico-religiosi che è riuscito a infilarci. Siccome da quelle parti non si tengono un cecio in bocca (semmai una fava), un’anima pia ci ha segnalato l’elenco delle vatiminchiate sparse a piene mai dal venerato Mauro da Dronero nella sua chilometrica pezza. Eccole.

1. San Eziolo comincia parlando del cardinale Louis Billot, fatto dimettere nel 1927 da Pio XI. «Era un uomo molto influente, autorevole, potente. Proprio lui in San Pietro aveva appoggiato la tiara, corona dei pontefici simbolo della pienezza del potere temporale, sul capo del nuovo Papa». Sbagliato: fu il protodiacono Gaetano Bisleti.

2. Poi scrive: «È chiaro che a distanza di un secolo, e con il potere temporale svanito, l’autorità al vertice della Chiesa non è più quella del Papa Re, ma nasce da un potere spirituale». Sbagliato: l’ultimo Papa Re fu Pio IX.  E comunque lo Stato della Città del Vaticano, di cui il Papa resta sovrano, che cos’è se non potere temporale, rafforzato da Bergoglio con leggi, tribunali, indagini, processi, carcere e così via, fino ad arrivare ad assumere addirittura l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone?

3. San Eziolo afferma che «l’autorità al vertice della Chiesa non è più quella del Papa Re, ma nasce da un potere spirituale conferito dalla scelta libera dei cardinali nel Conclave, su ispirazione dello Spirito Santo». Sbagliato: il prudente Benedetto XVI nel 1997, intervistato dalla televisione bavarese, chiarì una volta per tutte la faccenda: «Non direi così, nel senso che sia lo Spirito Santo a sceglierlo. Direi che lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci».

4. Secondo il venerato Mauro da Dronero, Bergoglio «non dimentica le umiliazioni della Segreteria di Stato quando il cardinale di Buenos Aires veniva a Roma e non vedeva né il Segretario né il Sostituto, che lo rinviavano al giovane vescovo Pietro Parolin prima che partisse per il Venezuela». Sbagliato: l’attuale segretario di Stato era un semplice monsignore, fino a quando non  fu nominato nunzio a Caracas.

5. Secondo san Eziolo, «Francesco agisce su due fronti. Le nomine diventano a tempo, il mandato dura per tutti cinque anni». Sbagliato: non per tutti. Fanno eccezione – si fa per dire – i fedelissimi del pontefice argentino, come Parolin, Baldisseri (fino al compimento degli 80 anni il 29 settembre scorso), Krajewski, Stella, ma anche curiali ereditati dal precedente pontificato, come Sandri, Versaldi, Bertello, Comastri, Mamberti, Piacenza, Sarah, Harvey, Koch, Ouellet, Ravasi, per limitarsi ai cardinali. «Poi si cambia: una rivoluzione», aggiunge l’agiografo di Repubblica. E dove sta allora la rivoluzione, considerate queste vistose preferenze che Francesco fa per i suoi pupilli?

6. Oltre che di religione, Ezio Mauro adesso mastica anche di nuove tecnologie. Infatti scrive: «“Non si capisce l’avvento di Bergoglio finché non si è capita la rinuncia di Ratzinger – dice un cardinale facendo scattare l’Apple Watch al polso – ecco, proprio oggi sono 7 anni e 8 mesi da quel giorno». Sbagliato: dal 28 febbraio 2013 fanno 7 anni e 7 mesi. Bisogna dire al cardinale o a chi per lui di restituire l’Apple Watch che va avanti di circa un mese.

7. San Eziolo cita «il porporato honduregno Oscar Maradiaga, coordinatore del Consiglio dei 9 cardinali (attualmente sono sette)». Sbagliato: sono sei, tanto che per il cosiddetto C9 diminuito a C6 soprattutto per gli scandali è nata la battuta vaticana: «Ci sei o ci fai?».

8. San Eziolo elogia Francesco «quando sente di doversi chinare a baciare i piedi alla delegazione sudanese». Sbagliato: era sudsudanese. Almeno come esperto di politica internazionale dovrebbe sapere che esistono il Sudan e il Sud Sudan.

9. Quindi il turiferario Eziolo si lancia nell’elegia pura: «In fondo la solitudine è pedagogia del potere e dell’umiltà, spiega chi conosce il Papa da molto tempo, sostituisce quotidianamente l’antico rito della stoppa che proprio nel giorno della sua consacrazione ricordava al nuovo pontefice la caducità del potere universale». Sbagliato: era l’incoronazione, perché veniva consacrato solo se non era già vescovo.

10. Non contento di aver rubato il mestiere a Scalfari, san Eziolo strappa di mano il pennello anche a Vittorio Sgarbi, spiegando che papa Francesco sabato scorso ha celebrato nella basilica superiore di Assisi la messa di benedizione della nuova enciclica davanti al Sogno di Innocenzo III di Giotto. Sbagliato: ha celebrato nella basilica inferiore, mentre l’affresco è appunto in quella superiore.

Ora la domanda che circola in Vaticano è: chi sarà la gola profonda che ha imbeccato Ezio Mauro con una tale quantità di sfondoni? «Sicuramente uno degli uomini più vicini al papa», è la risposta unanime. E chi è lo spin doctor ombra (più ombra che doctor) di Bergoglio se non padre Antonio Spadaro, il gesuita che dirige La Civiltà Cattolica? «È proprio vero: Dio li fa e poi li accoppia», alza gli occhi al cielo una delle sottane pettegole di lungo corso. Che sia stato dunque un romanzo di cappa e Spadaro, quello impapocchiato da san Eziolo? Ai posteriori l’ardua sentenza. Amen.

Vaticano, soldi e ricatti sessuali: quando è cominciato tutto, un grosso caso per Papa Francesco. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. Le dimissioni del cardinale Angelo Becciu per le presunte accuse di peculato rappresentano solo l'ultimo dei diversi scandali che, negli anni, hanno travolto il Vaticano. Ma quand'è che sono iniziati i veleni, le minacce, i ricatti a sfondo sessuale all'interno della Santa Sede? Secondo una ricostruzione del Giorno, all'origine c'è la riforma dello Ior, la banca vaticana, ad opera di Papa Benedetto XVI, il predecessore di Bergoglio. Da quel momento si sono susseguiti scandali, fughe di notizie, arresti improvvisi, processi farsa. Il quotidiano prova a fare un'ipotesi: se, come molti sospettano, lo Ior è stato utilizzato per decenni per ripulire il denaro sporco delle organizzazioni criminali, queste ultime difficilmente accetteranno che qualcuno vi metta mano facendo riforme e pulizia. A questo punto si può ipotizzare che vengano fatte delle minacce sulla rivelazione di tale attività sotterranea della banca vaticana ai fedeli di tutto il mondo. Questo spiegherebbe il fallimento di ogni tentativo di riforma economica in Vaticano. E infatti non appena si prova a intervenire, vengono fuori rivelazioni utili alle lotte delle fazioni interne. Spunta così il colpevole, quello che deve essere fatto fuori. E per fare questo, sempre secondo quanto riporta il Giorno, ci si appoggia ai media, che si occupano di diffondere la notizia. Di qui iniziano processi mediatici, non reali. Il quotidiano riporta l'esempio del palazzo comprato a Londra dal Vaticano. In quel caso scoppiò lo scandalo e fu trovato un capro espiatorio, il comandante dei gendarmi Giani, costretto alle dimissioni, non per un processo, ma per una fuga di notizie.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 27 settembre 2020. Per Papa Francesco è un'altra grana che si accumula e si va ad aggiungere alla sfilza dei dossier in attesa di soluzione. L'effetto palude. Gli mancava pure dover far fronte alla grave crisi dei fedeli causata dal Covid. A denunciarla è stato il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione dei Vescovi, e dunque buona sentinella delle performance della Chiesa, il quale lo ha ammesso senza girarci troppo attorno. «Il lungo digiuno eucaristico dovuto al lockdown ha fatto perdere l'abitudine della messa domenicale». Praticamente una campana a martello che è risuonata all'Assemblea delle Conferenze episcopali d'Europa (Ccee). L'incontro doveva tenersi a Praga, ma il picco dei contagi causati dal Covid nella Repubblica Ceca non ha permesso ai vescovi di raggiungere la capitale e così il summit è diventato una videoconferenza. Si tratta di un'altra brutta notizia approdata a Santa Marta, la residenza di Bergoglio diventato ormai un fortilizio. Francesco trascorre le giornate sempre più solo e isolato, privato dalle folle e dai viaggi internazionali, passa ore a studiare, scrivere, pregare e capire come uscire dalla palude dei micidiali problemi di governo che in quest' anno complicato gli si sono accumulati. A volte per rompere l'isolamento si collega in video conferenza con comunità estere; lo ha fatto anche l'altro giorno parlando all'Assemblea dell'Onu, ma certamente non è come avere un contatto diretto con la marea dei pellegrini ai quali era tanto abituato. La prospettiva che ha davanti non è delle migliori, visto che per oltre un anno tutto resterà congelato. Per questo pontificato partito sette anni fa con aspettative rivoluzionarie e prospettive di cambiamenti epocali e riforme radicali è certamente un bel grattacapo. A dare angustia non è solo il Covid con tutte le sue conseguenze, ma gli effetti di un cammino che sembra arrancare. La riforma della curia è al palo, la trasparenza finanziaria da sempre invocata è un obiettivo ancora da raggiungere, basta vedere come si sono sviluppate le vicende di alcune recenti decapitazioni illustri dentro all'Aif, l'authority di controllo. Senza parlare dei processi che non vanno avanti, se è vero che i sei dipendenti della Segreteria di Stato, licenziati il primo maggio perché sospettati di complicità nell'affare del palazzo di Londra, non hanno ancora ricevuto dai magistrati alcuna comunicazione. Di fatto ad oggi non sanno ancora se sono stati iscritti all'albo degli indagati, se verranno convocati o se verranno rinviati a giudizio. Il clima interno si è fatto sempre più cupo, nei dicasteri le persone che vi lavorano non fanno mistero di avere paura, tutti temono di essere spiati. E sicuramente anche l'ultima defenestrazione illustre, quella del cardinale Becciu, suo ex braccio destro, liquidato in modo tanto brutale, togliendogli anche i diritti alla porpora, non contribuirà di certo a migliorare l'atmosfera generale.

Papa Francesco, Franco Bechis e le dimissioni di monsignor Becciu: "Bergoglio ha solo voluto dare un segno". Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. Prima l'edizione straordinaria del bollettino della sala stampa vaticana in cui si annunciano le dimissioni del cardinale Angelo Becciu, poi il giorno dopo la replica del diretto interessato. Per Franco Bechis si tratta di "due atti clamorosi e senza precedenti". A pretendere le dimissioni di Becciu, come già detto precedentemente, è stato niente di meno di Papa Francesco. Il motivo? Nei confronti di Becciu è pendente l'accusa di peculato per avere favorito direttamente o indirettamente con aiuti economici (800 mila euro almeno) e raccomandazioni di varia natura alcune attività imprenditoriali presiedute o amministrate da tre dei suoi fratelli: una cooperativa sociale, un'azienda di distribuzione alimentare e di produzione della birra e una falegnameria. "Secondo l'accusa - prosegue il direttore del Tempo - alcuni di quei fondi (100 mila euro) sono partiti dalla segreteria di Stato che amministra anche parte dell'Obolo di San Pietro". Nella sua difesa però Becciu ha precisato che non c'è stata alcuna "irregolarità o violazione di legge e riconoscendo al massimo un possibile conflitto di interesse almeno nelle raccomandazioni a favore dei fratelli". Nonostante questo per Bechis il "gesto compiuto non può essere stato di impulso per rabbia, amarezza o delusione personale, né inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto. Molte cose difficili da capire e talvolta anche da digerire sono un segno del suo papato". Insomma, per il direttore del quotidiano romano lo scopo di Bergoglio era quello di dare l'esempio: nulla può più essere accettato.

Papa Francesco, la svolta in Vaticano: "Fare pulizia è cosa buona, ma si vada fino in fondo". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 27 settembre 2020. Già Benedetto XVI cercò di fare pulizia nelle intricate e oscure questioni finanziarie del Vaticano e si ebbe la sensazione di un'impresa durissima ai limiti dell'impossibile, addirittura fino a suscitare in alcuni il dubbio che essa abbia influito nella "rinuncia" al pontificato. Jorge Mario Bergoglio, nel 2013, fu eletto anche «per far pulizia nelle finanze del Vaticano», come ha ricordato il cardinale George Pell. In effetti ci ha provato fin dall'inizio, ma questi sette anni sono stati un susseguirsi di tentativi e fallimenti. Anche qui con una serie di nomine, siluramenti, contraddizioni, errori e casi mai ben chiariti, fino a precipitare nel dramma di queste ore che ha investito uno dei principali collaboratori di papa Francesco: il cardinale Angelo Becciu, "licenziato" su due piedi dal pontefice per la gestione dei fondi del Vaticano. Lui che era - come scrive Matteo Matzuzzi - «il potentissimo cardinale, considerato più vicino e in confidenza con il Papa». È un caso tanto clamoroso - anche per i suoi possibili sviluppi - che ieri un giornale titolava: "La Chiesa è nel caos. Siamo al tutti contro tutti". C'è chi si rallegra, come il card. Pell, perché pensa che stavolta sia stata presa la strada giusta (peraltro Pell è ritenuto un conservatore) e chi ritiene di assistere a un incomprensibile sfacelo. Infatti i media che hanno sempre supportato papa Bergoglio non sanno più che spartito suonare, perché quella che viene chiamata "guerra per bande", esplosa con il "caso Becciu", è tutta interna all'establishment bergogliano. Ed è un significativo paradosso che tale guerra scoppi oltretevere proprio mentre il papa sta per firmare la sua nuova enciclica che si intitola Fratelli tutti. Guardando alla sua Curia verrebbe da commentare: fratelli coltelli. Quello che sconcerta nella vicenda di queste ore è - in primo luogo - la gravità delle accuse stavolta abbattutesi su uno dei più stretti collaboratori del papa, da lui sempre sostenuto e promosso cardinale; in secondo luogo la modalità del "siluramento" senza spiegazioni e senza condanne, che ha fatto firmare a Luis Badilla, direttore del sito ultrabergogliano Il Sismografo, molto ben introdotto in Vaticano, un editoriale di fuoco intitolato: "Vicenda Becciu: un tipico caso di cannibalismo mediatico animato dall'interno delle mura vaticane".

UN DRAMMA AGLI INIZI. Dopo aver ricordato che Becciu «non è sotto processo e non è indagato», Badilla scrive: «Il gesto di ieri del Papa assomiglia ad una "esecuzione": sei accusato di ma non puoi difenderti (tranne che tramite la stampa)». Secondo Badilla, «Becciu va processato come Pell e tutti devono attendere la sentenza finale definitiva. Il Papa, nonostante i suoi poteri, non è un giudice né un tribunale. Nonostante tutto, i diritti dell'accusato esistono e le garanzie anche così come la presunzione d'innocenza tanta cara a Francesco Occorre ricordare» ha aggiunto Badilla «che sono decine le persone, alcune collaboratori vicini a Papa Francesco, che hanno finito di colpo le loro mansioni, senza ricevere spiegazioni, prove o ringraziamenti Non si può andare avanti così anche perché causa un danno gigantesco nel cuore dei cristiani semplici, umili e fedeli». Il giudizio del bergogliano Badilla è simile a quello di Riccardo Cascioli, direttore del sito cattolico La nuova Bussola quotidiana: «Quella del cardinale Becciu è l'ennesima epurazione ai vertici della Santa Sede che accade in questo pontificato. Epurazioni degne di giunte militari sudamericane, che evitano di appurare la verità». Eppure stavolta, al di là della durezza del potere e delle formalità controverse, sembra di cogliere in papa Bergoglio una sorta di sbigottimento, di smarrimento e delusione, come di chi si trova di fronte a una mole di problemi imprevisti da cui si sente schiacciato, cosicché reagisce in modo sbrigativo e convulso. Lo ha fatto capire lo stesso Becciu nella sua conferenza stampa, dicendo: «L'ho trovato in difficoltà, ho visto che soffriva». Matteo Matzuzzi, vaticanista del Foglio, ha fatto un affresco drammatico: «Il declinante pontificato bergogliano sta assumendo i tratti della più cupa tragedia shakespeariana siamo alla nemesi del pontificato: dopo aver eliminato senza troppi complimenti gli oppositori dottrinari, magari leali, ma non troppo in linea» con la sua rivoluzione e «averli sostituiti con fidatissimi uomini d'apparato con poco odore di pecora e lunghe carriere tra gli uffici della curia, la mannaia è andata ora a colpire proprio questi ultimi». Il dramma è solo agli inizi, perché non si può pensare di riportare nel silenzio una vicenda così clamorosa senza chiarire tutte le responsabilità. Ma ora l'enormità del problema economico incombe sul papa anche da altri lati. Il 30 settembre - proprio mentre il segretario di Stato americano Mike Pompeo è a Roma per lo scottante problema dei rapporti Vaticano/Cina - inizierà pure l'ispezione del Comitato Moneyval del Consiglio d'Europa, che deve decidere sulla permanenza del Vaticano nell'elenco dei Paesi virtuosi per gestione dei bilanci, lotta a corruzione e riciclaggio.

OFFERTE IN CALO. Inoltre c'è un altro macigno: il crollo delle offerte dei fedeli. Il Vaticano teme che anche casi finanziari come quello in corso alimentino la forte sfiducia dei credenti che negli ultimi anni hanno già tagliato le offerte dell'8 per mille, dell'Obolo di San Pietro e delle altre donazioni: basti dire che l'Obolo di San Pietro è passato dai 101 milioni del 2006 ai 70 del 2015. Ormai i giornali agitano apertamente lo spettro del default vaticano, che sarebbe davvero un dramma singolare considerato che fin dall'inizio papa Bergoglio ha affermato di sognare una Chiesa povera. Adesso forse si capirà che l'ideale della povertà, dell'austerità della vita, dovrebbe essere semmai delle persone (dai semplici cristiani agli alti prelati), ma la Chiesa in quanto tale ha bisogno di grandi mezzi economici per le sue missioni, per le sue opere educative, caritatevoli e assistenziali, per sacerdoti e religiosi, per la sua presenza ai quattro angoli del globo.

È possibile un ripensamento del papa su molte sue parole d'ordine "rivoluzionarie" di questi sette anni? Vedremo. La Chiesa è nella tempesta e c'è chi ha notato che negli ultimi tempi sono arrivati segnali che farebbero pensare a un papa Bergoglio preoccupato della confusione in cui si trovano i fedeli dopo questi anni "rivoluzionari". Per esempio il suo stop all'ordinazione di uomini sposati o certe recenti prese di posizione sul fine vita e sull'aborto o il recente "no" vaticano all'intercomunione con i protestanti. Sono segnali che potrebbero far pensare a una correzione in corso del pontificato (gradita, per esempio, alla Chiesa americana). Ma anche segnali che aumenteranno l'irritazione (già palese nei mesi scorsi) dei settori cattoprogressisti (specie tedeschi). Su queste prese di posizione il papa sa di avere, anche da noi, l'appoggio di quella Chiesa fedele che non ha dimenticato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e che in questi anni è stata relegata ai margini. Quello è il popolo cristiano che resta sempre fedele.

"Il Papa è scandalizzato: farà pulizia. Più controlli e finanze centralizzate". Il cardinale tedesco: "All'elezione ha accettato questo mandato". Fabio Marchese Ragona, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. «Un gesto di vicinanza al cardinale George Pell, ma il Papa ha ben chiaro che le finanze vanno ripulite, è il mandato che ha accettato al momento dell'elezione. E andrà avanti finché non avrà terminato il suo compito». È da sempre considerato uno dei più stretti alleati di Papa Francesco all'interno della Curia Romana: il cardinale tedesco Walter Kasper, teologo di fama internazionale e considerato uno dei grandi elettori di Bergoglio, parla a Il Giornale dopo i recenti scandali e la defenestrazione del cardinale Angelo Becciu, accusato dalla magistratura vaticana, non ancora formalmente, di peculato per trasferimenti di fondi dall'Obolo di San Pietro alla Caritas di Ozieri, Sassari, per esser poi utilizzati dalla cooperativa sociale del fratello.

Cardinal Kasper, nel bel mezzo di questa tempesta il Papa ha chiamato il cardinale Pell dall'Australia.

«L'ho saputo, anche se non credo che tornerà a lavorare sulle finanze vaticane, ormai è emerito come me! Ma il Papa vuole sicuramente mostrargli vicinanza e amicizia per ciò che ha subito».

Il Papa però sta dimostrando che vuol fare pulizia, no?

«È vero, il Papa vuole ripulire il Vaticano, soprattutto in questo ambito della finanza, ma non ho seguito da vicino le ultime vicende del cardinale Becciu. C'è da dire però che Francesco da tempo ha intrapreso questa strada».

Ci può spiegare meglio?

«Quello di mettere a posto le finanze vaticane è un compito che ha accettato dai cardinali quando fu eletto. Se ne parlò nel pre-conclave, quando in tanti rimasero sconvolti per lo scandalo Vatileaks e per ciò che venne fuori. Da quel momento Francesco decise di pulire e rinnovare la Curia Romana. Ovviamente sappiamo tutti, ma lo sa bene anche lui, che questo è un processo molto duro e non facile».

Qualcuno insinua però che il Papa sia rimasto solo e che il pontificato perda pezzi.

«Non è affatto cosi! Figuriamoci! Il fatto è che rinnovare e riformare un'istituzione come la Curia Romana, che è molto antica e complessa non è cosa facile, il Papa fa ciò che può! Non è solo un problema organizzativo: ci vuole anche un cambiamento interno delle persone, cambiare la loro mentalità nel profondo, cambiare certi rituali e questo non può esser fatto da un giorno all'altro!».

In questi anni Francesco, non a caso, si è fatto tanti nemici in Curia.

«Ci sono delle persone che non vogliono le riforme, è evidente, ma non so sinceramente quanti siano. Il Papa è deciso ad andare avanti: un rinnovamento è necessario, non si può lasciare tutto così com'è, questo è chiaro. Già Benedetto XVI aveva iniziato il cammino di riforma e adesso Francesco prosegue».

Secondo lei la colletta per l'Obolo di San Pietro, il 4 ottobre, risentirà di questi ultimi scandali che riguardano proprio i soldi della carità del Papa?

«Ovviamente sono vicende terribili, rappresentano uno scandalo per i fedeli e anche il Papa ne è scandalizzato. Tutto ciò però non deve far fermare la Chiesa: è un processo difficile ma è necessario cambiare le cose in meglio, e sappiamo che non si può fare in un attimo, con un comando immediato».

Un modo per cambiare ad esempio è la centralizzazione delle risorse finanziarie, un processo di riforma che il Papa ha chiesto già due anni fa e su cui si sta lavorando. Secondo lei è la strada giusta?

«Penso sia necessario, ci vuole una organizzazione precisa, un centralismo e un certo controllo. In una istituzione come la Santa Sede è fondamentale. E soprattutto è importante che ci siano sempre più controlli sulle finanze: in Germania si fa ormai da tanto tempo, in Vaticano, per fortuna, le cose stanno andando anche in questo senso».

La Santa Sede in crisi. Gogna contro Becciu è per insabbiare il nepotismo diffuso in Vaticano. Tommaso D'Aquino jr su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Certo se le accuse contro il cardinale Becciu, tali da provocarne il defenestramento, sono quelle che si leggono sull’articolo de L’Espresso uscito domenica, allora siamo davvero messi male. Lo stesso reportage nota in almeno un paio di occasioni che non ci sono reati, semmai comportamenti che hanno favorito la famiglia (nepotismo). Ora intendiamoci, in questi giorni se ne leggono (carta stampata e web) e se ne sentono (tv e via dicendo) di tutti i colori. Tre esempi per tutti: L’Espresso scrive che non sono stati commessi reati. Giusto, a sentire loro, ma secondo quale normativa? Italiana o vaticana? Non sono identiche. Poi si parla di possibile “avviso di garanzia” (anche il Tg2 domenica alle 13): e perché? Mica è indagato in Italia. E in Vaticano non esiste tale procedura. Terzo: si scrive e si dice che il cardinale avrebbe usato fondi dall’ottopermille. Che è una “cosa” tutta italiana e la Santa Sede non c’entra. Troppa confusione tra Italia, Conferenza episcopale italiana alla quale va l’ottopermille e Santa Sede che con questa normativa nulla ha a che fare. Atteniamoci ai pochi fatti noti. Il primo: un cardinale rimosso dal suo incarico si professa innocente e dice che al massimo è stato imprudente nel favorire la famiglia. Secondo: la ricostruzione de L’Espresso parla di fondi distribuiti che tuttavia erano nella disponibilità del cardinale quando ricopriva l’incarico di Sostituto (numero 3 della gerarchia vaticana, dopo Papa e Segretario di stato). E del resto se il numero 3 non può disporre di fondi, cosa sta a fare? Terzo: c’è di mezzo la nota vicenda del palazzo a Londra ma pare che si possa separare dalle questioni del cardinale e – quarto – la rimozione decisa in venti minuti di colloquio secondo uno stile da giustizialismo populista di altri emisferi. Che cosa abbiamo capito? Poco o niente, in verità. Allora ricominciamo a fare ordine e qualche domanda. Se i fatti addebitati sono solo questi, per medesima ammissione de L’Espresso, non ci sarebbero reati (non si capisce in base a quale legislazione, ma insomma sorvoliamo anche su questo). Ci sarebbe una questione di opportunità: sostenere parenti stretti non è il massimo: il nepotismo ha una storia antica e oggi appare fuori luogo. Così ora sembra che la soluzione sarà accentrare tutti i fondi, i conti corrente, le disponibilità, nelle mani della Segreteria per l’economia e dell’Amministrazione del Patrimonio (Apsa). In realtà la decisione non consegue da questa vicenda ma era già stata comunicata prima dell’estate. Resta da vedere se funziona e in che misura sarà possibile un vero accentramento. Ancora non siamo al punto vero. Potrebbe essere questo: come mettere fine al nepotismo? Qui ci vuole il cambiamento profondo – spirituale, delle coscienze, interiore – di cui parla papa Francesco, perché le norme contro il nepotismo esistono. Però non vengono applicate. Da decenni, ad esempio, il Regolamento generale della Curia romana vieta le assunzioni di parenti fino al quarto grado. Ciò non impedisce di avere figli e nipoti che si tramandano posti di lavoro; figli assunti mentre i genitori sono in servizio e via dicendo. Forse il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” non lo sa, o meglio: non glielo ha mai detto nessuno e lui non lo ha chiesto. È il caso di informarsi. Così come le ditte che svolgono degli incarichi o hanno degli appalti: in teoria si fanno fare diversi preventivi, in realtà si sceglie per preferenza o per interesse, non in base a efficienza e costi. Perché accade? Il Vaticano è meno efficiente o più inefficiente di altre realtà? No, lo snodo è teologico. Ogni riforma si affossa proprio sulla teologia. Nella Chiesa si lavora per adempiere il mandato evangelico. Si lavora a servizio del Papa. E l’evangelizzazione non si misura con gli strumenti dei consigli di amministrazione, con i ricavi, con i risultati positivi o negativi dei bilanci e con gli strumenti di gestione del personale. La qualità non conta per oggi, la qualità è proiettata su scala eterna. Lo dicono i papi, i vescovi, i preti, per giustificare la loro mancata efficienza: la Santa Sede non è un’azienda, il lavoro è per il Regno di Dio. Dunque non è un lavoro vero e proprio, è semmai una via di mezzo tra un lavoro e una missione. Tu sei al servizio della Chiesa e del Papa e ti deve bastare. Invece quando vai a fare la spesa e devi far quadrare il bilancio familiare, ti accorgi che lo stipendio non basta e allora tra il lavoro e la missione bisogna trovare dei modi per incrementare i redditi. Semplice? Semplice e triste. Si ricordi la battuta attribuita a Giovanni XXIII la volta in cui gli chiesero: quante persone lavorano in Vaticano? E il Papa rispose: circa la metà. Sappiamo che è vero, però gli stipendi pagati sono per il doppio della metà che lavora, cioè anche per chi non lavora. Non essendoci meritocrazia ma livellamento funzionale, non essendoci strumenti di valutazione della produttività, tutti gli abusi o i sotterfugi diventano possibili. Questa sarebbe l’essenza di una riforma: far capire a cardinali, arcivescovi, vescovi, preti di curia, che sarebbe necessario introdurre elementi oggettivi di valutazione. Ma introdurli davvero. Sulla carta ci sono, restano inapplicati e tutto rimane inalterato. Ecco allora lo spoil system. Sarebbe auspicabile una vera riforma del tipo: tutti i preti che lavorano in Vaticano, a qualsiasi livello, di qualsiasi grado, vadano nelle loro diocesi, se ne tornino da dove sono venuti. Lasciate i laici, prepensionate il più possibile in base a criteri rigorosi, e assumete persone qualificate. In base a un criterio semplice: se oggi ci sono 4 mila dipendenti, ne basteranno 1500, pagati un terzo di più, per avere un risparmio sostanzioso delle spese e un incremento della produttività. Certo il Regno di Dio avanza sulla terra non in base alla produttività dei dipendenti della Santa Sede, pardon dello Stato della Città del Vaticano (e già sulla distinzione ci sarebbe proprio da scrivere tanto…), però farla finita con nepotismi finanziari e non solo, aumenterebbe di molto la credibilità dell’istituzione. Come cambiare? All’interno di strutture ampie e complesse ci sono delle strade da percorrere per avviare un reale cambiamento. Possiamo usare tre parole-chiave: riparazione, riflessività, stile. Riparare vuol dire gestire il conflitto, nascosto o palese; si tratta invece di cominciare a collaborare davvero con tutti, per raggiungere obiettivi di valore collettivo. In questo senso “buttare fuori qualcuno” non è una soluzione tanto adeguata. Riflessività vuol dire far emergere i chiaroscuri (capacità di riflettere insieme) e collegare le conquiste “esterne” alle conquiste “interne” delle persone: il lavoro per ognuno è portatore di significato per la vita, contribuisce a conferire un ruolo sociale ed individuale. Il terzo passo è far crescere l’idea che la leadership è azione e impegno; un leader ha dei veri follower (tanto più nell’era dei social networks), seguaci effettivi, non seguaci per forza, per invidia, per opportunismo. Invece abbiamo assistito al giustizialismo populista: ti conosco da tanti anni, ti ho creato cardinale, dopo anni (!!) scopro che hai operato non in modo criminale ma quantomeno molto inopportuno, dunque ti caccio per dare un segnale a tutto il sottobosco vaticano. Penso di dimostrarmi forte e non comprendo quanto sono debole; agisco per istinto ed impulso: sono debolissimo. Inoltre in un colpo solo il Papa ha esautorato il Segretario di Stato che non sapeva niente, il Dicastero per la comunicazione che tace da una settimana, e grazie a 20 minuti di processo sommario ha affossato il Procuratore generale da poco nominato. E ha rivelato il vero volto di questo potere: monarchico-dittatoriale e fittizio con il risultato di avere una Curia disorientata e spaesata, impaurita fino alla paralisi operativa per non correre il rischio di fare la stessa fine del cardinale sardo. Mentre si pensava di risolvere un problema, la soluzione lo ha acuito. Come dicono gli psicologi cognitivi: la soluzione indica il problema. Se ne esce solo con un drastico spoil system e con una revisione profonda dei meccanismi in favore di un lavoro di squadra.

Papa Francesco, Becciu e lo Ior: "Chi tocca i soldi in Vaticano rischia la vita", ricostruzione inquietante. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 27 settembre 2020. Chi tocca i quattrini dei preti, si brucia. È successo a tutti coloro che si sono avventurati sul terreno insidioso delle transazioni finanziarie vaticane. A partire, nel maggio 2012, dall'inspiegabile licenziamento in tronco del presidente dello Ior, l'Istituto per le Opere Religiose, Ettore Gotti Tedeschi, ancora sotto il pontificato di Benedetto XVI, il quale nel settembre 2009 lo aveva voluto a capo della banca del Vaticano. Uscito dal torrione di Niccolò V per iniziativa dell'allora cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il banchiere temeva di essere ucciso e aveva consegnato a due amici un memoriale sui segreti dello Ior con una raccomandazione: «Se mi ammazzano, qui dentro c'è la ragione della mia morte». Bertone nel frattempo aveva voluto monsignor Angelo Becciu come proprio vice. Nel corso degli anni, dopo l'elezione di Papa Francesco, fu poi la volta di Libero Milone, l'ex revisore generale dei conti della Santa Sede, il quale aveva aperto un'indagine su conti bancari segreti con centinaia di milioni di dollari tenuti "fuori bilancio" da entità vaticane in Svizzera, ma poi fu indagato per peculato e messo alla porta nel giugno 2017 dal cardinale Angelo Becciu, allora sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede, per appropriazione indebita e per aver incaricato una società esterna di «svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede». Tutte le accuse in seguito furono ritirate dalle autorità vaticane. Ma per risalire alle origini della vicenda che vede coinvolto il cardinale Becciu, occorre immergersi ancora una volta nel clima di veleni e vendette che nel 2015 condussero a Vatileaks, il processo contro Francesca Immacolata Chaouqui, detta la Papessa, e i giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.

LA PAPESSA IN GALERA. La principale imputata, che fu trattenuta in custodia cautelare all'interno delle mura vaticane, lo ha ricordato pochi giorni fa sulla sua pagina Facebook, anche se il vincolo della riservatezza non le consente di rivelare nulla sul lavoro svolto all'interno di Cosea, la Commissione Pontificia per lo studio dei problemi economici istituita nel 2013 da Papa Francesco per far luce sui conti della Chiesa cattolica. Lei stessa ne fu travolta, per aver tentato di scoperchiare gli interessi del sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede e non lo nascose nemmeno davanti alla Corte di giustizia della Città del Vaticano. Ribadisce che «il Cardinale Becciu all'epoca ha usato il mio corpo, la mia carne (nel senso che non ha badato a che fossi incinta per montarmi contro quel circo disgustoso) il mio cuore, la mia anima per dimostrare due cose: la prima che Bergoglio non doveva fare nomine senza di lui, la seconda che nessuno, nemmeno un commissario pontificio poteva mettere il naso negli affari della Segreteria di Stato. Nelle sue scelte». Papa Francesco, dunque, potrebbe essere stato ingenuo oppure responsabile per omissione delle presunte malefatte del porporato sardo. In realtà, secondo chi gli è stato vicino nella ricognizione sui bilanci, Becciu lo aveva «obnubilato e imbrogliato». Ed è significativo che, dall'Australia, si sia rallegrato perfino il cardinale George Pell, già Prefetto della Segreteria per l'Economia della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, perché «il Santo Padre è stato eletto per ripulire le finanze vaticane. Va ringraziato e bisogna congratularsi per i recenti sviluppi. Spero che la pulizia continui». In fondo, chi aveva messo i bastoni fra le ruote a entrambi, nel tentativo di rendere trasparenti le casse della Chiesa, era stato proprio Becciu. La sua vittima principale, la Chaouqui, rimane muta ma ripubblica un post eloquente del 2019: «Io scoprii le opacità dell'obolo. Ne ho pagato il prezzo ma quattro anni dopo in Vaticano ogni singolo mio nemico è stato spazzato via dalla verità. Ognuno. Gli accusati sono diventati accusatori. I traditori i vincitori. Ed io, che decine di volte a Becciu ho chiesto in questi anni di spiegarmi come conciliasse l'eucarestia con il bisogno fisico di volermi morta, sono qua». Anzi, lo apostrofa con un «Fanculo se sono qua. Esattamente dove Sua Eminenza non voleva che stessi. Quattro anni dopo, stasera, affacciata al mio balcone, penso all'inchiesta in corso, alla giustizia fatta, penso a quel che ho fatto in Vaticano due giorni fa, e penso che ancora una volta la mia storia è una storia incredibile. Penso che chi pensava che avrei smesso di aiutare il papa per quattro giornalate sbagliava di grosso. Penso che nessuna donna ha mai affrontato la battaglia che ora sto vincendo in Vaticano e un po' di questo vado fiera».

SCONFITTA FINALE. A quei tempi si parlava ancora soltanto dell'investimento immobiliare di Londra e non delle ultime elargizioni. Troppo presto, insomma, per servire fredda la vendetta. Anzi, da parte della donna che fece tremare i Sacri Palazzi, c'è spazio per un atto di clemenza: «Penso che aver perdonato Becciu, non essermi vendicata sia un merito enorme. Al mio essere cristiana in primis. Tanto ci sta pensando la vita per bene. Non mollate mai amici miei. Mai. Resistere è uno stato mentale». Alla lunga, chi la dura la vince. E stavolta è il trionfo della linea intransigente del Pontefice, che non ha fatto sconti a nessuno e ha preteso che si svolgesse un'indagine seria e approfondita. Fino al 2018, in sei anni, il Promotore di Giustizia dello Stato della Città del Vaticano ha segnalato 27 operazzioni sospette all'AIF, l'Autorità di Informazione Finanziaria, con "ipotesi di violazione dell'art. 421 bis c.p" la norma antiriciclaggio. Nove fascicoli sono stati archiviati e per altri sei è stata chiesta l'archiviazione. Ne rimangono 12 ancora aperti. E si attende, per il 29 settembre, la visita dietro il Portone di Bronzo degli ispettori di Moneyval, il comitato del Consiglio d'Europa che valuta l'aderenza agli standard internazionali di trasparenza finanziaria. Chissà dove vorranno andare a curiosare. Magari negli appartamenti cardinalizi ancora a disposizione di Bertone e Becciu.

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 4 ottobre 2020. «We have them on the ropes», li abbiamo messi alle corde. Lo aveva detto con fierezza, con tono sicuro, tirando finalmente un sospiro di sollievo, il cardinale George Pell, al termine di una lunghissima giornata fatta di riunioni e incontri riservati nel suo ufficio. «Dobbiamo garantire ciò che ci ha chiesto il Papa e cioè pulizia», era stato il suo ultimo commento prima di spegnere la luce e chiudere la porta della sua stanza. Era il 2017, il porporato australiano, chiamato dal Papa a Roma nel 2014 a capo della potentissima Segreteria per l' Economia, aveva appena ricevuto la prova schiacciante che inchiodava definitivamente chi aveva deciso di riportare il Vaticano ai tempi di monsignor Marcinkus, con acrobazie finanziarie e pesanti situazioni di malaffare. Sulla scrivania del «ranger» era arrivata documentazione scottante, scovata dall' ufficio del revisore generale dei conti, Libero Milone: tabulati e transazioni che riconducevano ad alcuni personaggi della Curia Romana, laici ed ecclesiastici, che avevano e stavano ancora mettendo le mani sul tesoro vaticano per operazioni spregiudicate, lontane dalla trasparenza tanto invocata da Papa Francesco. La mossa successiva di Pell, sarebbe stata quella di chiedere un incontro a Bergoglio per istituire una commissione d' inchiesta sulle finanze vaticane, che facesse luce su quanto accaduto in vari ambienti della Curia, com' era già successo ai tempi del Vatileaks, quando Benedetto XVI istituì una commissione cardinalizia per indagare su quanto stava avvenendo dentro le mura leonine. Prima di incontrare il Papa, però, c' era da catalogare tutta la documentazione e preparare una relazione dettagliatissima da mostrare a Francesco. Una copia di quelle carte, il porporato l' aveva subito inviata anche in Segreteria di Stato, per informare chi di dovere ma, a quanto pare, i documenti erano finiti anche nelle mani sbagliate, di chi insomma c' era dentro fino al collo. Poche settimane dopo, non a caso, Libero Milone si era dimesso dall' incarico, accusato di esser andato oltre le competenze previste dal suo ruolo. L'ex revisore generale si era subito difeso: «Sono stato costretto a dare le dimissioni e mi hanno impedito di parlare col Papa». A commentare la notizia a caldo era stato l' allora Sostituto della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu: «Milone mi spiava e spiava anche altri superiori, se non si fosse dimesso avremmo dovuto perseguirlo legalmente». Nemmeno una settimana dopo era arrivato un secondo siluro, questa volta contro George Pell: dall' Australia la notizia che il porporato era stato incriminato per gravi reati sessuali su minori, una bomba che lo aveva costretto a congedarsi per tornare nel suo Paese e difendersi dalle accuse. A distanza di oltre tre anni, emerge quanto stava realmente accadendo, il perché, secondo le ultime carte uscite d' Oltretevere, 700mila euro furono inviati dal Vaticano in Australia: il sospetto è che alcuni esponenti della Santa Sede avrebbero fatto arrivare un lauto compenso agli accusatori di Pell, uno dei quali, nell' aprile del 2017, aveva acceso un mutuo per l' acquisto di una casa del valore di 350mila euro, stessa somma che gli sarebbe stata versata per puntare il dito contro il cardinale, in modo da tenerlo lontano dal Vaticano. Il porporato, nel 2019 è stato scagionato dall' Alta Corte australiana da ogni accusa, dopo un anno e mezzo di carcere, per scarsità di prove. «Il ritorno a Roma di Pell non è collegato al caso Becciu e alle ultime vicende finanziarie», ha commentato alcuni giorni fa il Segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, che ieri pomeriggio è tornato sull' argomento, parlando con i giornalisti: «Appoggiamo cordialmente le riforme, credo che la linea sia quella indicata dal Papa: correttezza e trasparenza nella gestione delle finanze». Non è da escludere quindi che, con il porporato australiano rientrato a Roma da qualche giorno, Francesco possa adesso decidere di istituire quella famosa commissione d' inchiesta sulle finanze che avrebbe voluto il «ranger» e di coinvolgere in prima persona proprio Pell. Questa volta, magari, in veste di commissario.

Pell e i presunti bonifici di Becciu ai suoi accusatori. Il legale: "Ora un'indagine internazionale". "Il mio unico interesse - ha detto l'avvocato Richter alla stampa australiana - è essere certi che i flussi denaro siano seguiti correttamente". Viola Giannoli su La Repubblica il 05 ottobre 2020. Il caso Becciu arriva in Australia. L'avvocato del cardinale George Pell, Robert Richter, ha chiesto un'indagine internazionale dopo le indiscrezioni, apparse sulla stampa, secondo le quali l'ex numero due della Segreteria di Stato vaticana, il cardinale Angelo Becciu, avrebbe disposto bonifici per 700mila euro inviati in Australia per "comprare" gli accusatori dell'ex prefetto della Segreteria per l'Economia nel processo per pedofilia nel quale Pell è poi stato assolto. Accuse e presunte interferenze nel processo che Becciu, per mezzo del suo avvocato, ha già smentito in modo categorico. È il "Financial Review", quotidiano australiano di affari e finanza, a raccontare che il legale di Pell ha chiesto alle autorità australiane e italiane di tracciare i 700mila euro che sarebbero arrivati in Australia nell'ambito del "complotto" che sarebbe stato ordito contro il cardinale Pell dal suo presunto rivale in Vaticano. "Il mio unico interesse - ha detto l'avvocato Richter in una intervista - è essere certi che i flussi di denaro siano seguiti correttamente. Credo che questi rapporti richiedano un'indagine adeguata da parte di tutte le autorità fiscali per monitorare il denaro in arrivo in Australia".  Il cardinale Pell è rientrato da pochi giorni in Italia dopo che è stato prosciolto, ad aprile scorso, dalle accuse di pedofilia. "Sono molto felice di essere tornato a Roma" ha detto a Repubblica uscendo dal suo appartamento accanto al Vaticano: giacca blu a quadretti, camicia bianca, pantaloni neri, occhiali e mascherina sul volto, un libro rilegato in una copertina scura in mano. "Vedremo se nei prossimi giorni vedrò il Papa..." ha risposto dietro un sorriso, dopo che l'incontro tra lui e Francesco era stato annunciato e poi smentito dal cardinale Parolin. Ma sul caso Becciu no comment: "Non voglio dire nulla" ha spiegato più volte mentre si recava, "scortato" da un prete, all'adorazione eucaristica nella chiesa di Santo Spirito in Sassia. Sugli "scandali vaticani", ormai, parlano gli avvocati.

Vaticano, «bonifici di Becciu agli accusatori nel processo per pedofilia a Pell». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2020. Il denaro inviato in Australia per danneggiare il «rivale». I 700 mila euro inviati in Australia attraverso alcuni bonifici frazionati potrebbero essere stati utilizzati per «comprare» gli accusatori nel processo per pedofilia contro il cardinale George Pell. È l’ipotesi degli inquirenti vaticani che rischia di provocare una nuova e clamorosa svolta dell’indagine avviata sugli ammanchi da centinaia di milioni di euro dell’obolo di San Pietro e altre disponibilità della Segreteria di Stato. Le verifiche riguardano le movimentazioni disposte da monsignor Angelo Becciu, il Sostituto costretto la scorsa settimana alle dimissioni dall’incarico di Prefetto della Congregazione delle cause dei santi che ha perso anche i diritti connessi al cardinalato. E si allargano ai dipendenti della Segreteria, ma soprattutto ai faccendieri accusati di aver portato a termine «una manovra ben pianificata per realizzare una ingente depredazione di risorse finanziarie della Segreteria di Stato che non ha eguali».

Lo scontro. La rivalità tra i prelati Pell e Becciu non è mai stata un mistero all’interno e fuori dalla Santa Sede. Tanto che nel 2015, quando Pell — allora Prefetto della Segreteria per l’Economia — parlò al meeting di Rimini della necessità di «mettere in ordine i nostri affari in modo che possano essere mostrati al mondo esterno» e annunciò che «la prossima ondata di attacchi alla Chiesa potrebbe essere per irregolarità finanziarie», molti pensarono che si riferisse proprio alla gestione dei soldi destinati agli indigenti e invece utilizzati per investimenti immobiliari. Nessuno poteva però immaginare che all’epoca Becciu e gli altri componenti della Segreteria — primo fra tutti monsignor Alberto Perlasca — si fossero affidati a faccendieri come Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi per acquistare palazzi e spostare soldi in conti esteri.

L’accusatore. E invece proprio analizzando le movimentazioni bancarie è stata trovata traccia di un bonifico partito da un deposito della Segreteria e finito su un conto Ior riconducibile a Becciu nel 2018, prima che il sostituto fosse destinato al nuovo incarico. Si è deciso così di analizzare anche quanto accaduto negli anni precedenti e sono stati scoperti altri bonifici che attraverso alcuni passaggi intermedi sarebbero arrivati, almeno in parte, a uno degli accusatori di Pell. A metà del 2017 il cardinale era stato inquisito per aver molestato sessualmente due ragazzi del coro nella sagrestia della chiesa di San Patrick, a Melbourne, al termine di una messa nel 1996. Uno dei due giovani è morto nel 2014 per overdose, l’altro ha confermato le accuse durante il dibattimento. Nonostante i dubbi e le campagne di stampa soprattutto in Australia sulla possibilità che il dibattimento fosse in realtà «una farsa», Pell è stato condannato a sei anni nel dicembre 2018 e chiuso nel carcere di massima sicurezza di Barwon. Sentenza annullata nell’aprile scorso dall’Alta corte australiana che ha liberato il cardinale ritenendo che la Corte di Vittoria ha «omesso di considerare se esistesse una possibilità ragionevole che il reato non fosse stato commesso», anteponendo così il principio fondamentale del «ragionevole dubbio». A pesare sul verdetto la rivelazione che prima di morire uno dei due coristi avesse confessato alla madre di non aver subito abusi.

La difesa. Le verifiche in corso riguardano anche alcuni investimenti immobiliari effettuati proprio in Australia e che potrebbero essere serviti a fare «pressioni» per l’esito del processo. Nelle ultime settimane contro Becciu si è scagliato monsignor Perlasca — anche lui impiegato nella Segreteria, che ha deciso di collaborare con i promotori di Giustizia vaticani forse per sfuggire all’arresto — che ha fornito centinaia di documenti sulla gestione economica della Segreteria e parlato di dossieraggi per screditare gli avversari. «Tutto falso, lo compatisco», ha reagito lo stesso Becciu. Ora dovrà forse trovare altri argomenti per difendersi.

BECCIU E IL PROCESSO A PELL IL SOSPETTO: TESTE COMPRATO. Valentina Errante per “il Messaggero” il 3 ottobre 2020. Adesso il sospetto è che il processo per pedofilia in Australia a George Pell sia stato organizzato per fare fuori quel prefetto della Segreteria per l'Economia della Santa Sede che, nel 2015, tuonava al Meeting di Rimini con una relazione su Chiesa e denaro, dicendo che era giunto «il momento di mettere in ordine i conti, perché «la prossima ondata di attacchi alla chiesa potrebbe essere per irregolarità finanziarie». La vicenda è all'esame degli inquirenti vaticani, la Gendarmeria sta lavorando per raccogliere tutti gli elementi che confermerebbero l'adagio circolato all'interno delle Mura Leonine negli anni delle accuse e delle condanne al porporato: «I cannoni sono in Australia ma i proiettili sono fabbricati in Vaticano». Il monito di Pell contro i cardinali, «che aprono le porte a ladri e incapaci e si disinteressano di come vengano impiegati i soldi della Chiesa», coincide proprio con gli anni dell'affare di Sloane Avenue, l'acquisto del palazzo di Londra e le trame ordite con il finanziere Raffaele Mincione, per drenare circa 500 milioni di euro dalle casse della Santa Sede. Ed è allora che dalla Segreteria di Stato partono i bonifici per l'Australia.

LE VERIFICHE. Gli accertamenti degli inquirenti Vaticani riguardano soprattutto le movimentazioni bancarie della Segreteria di Stato tra il 2013 e il 2019. Si va indietro nel tempo all'inizio dell'operazione del palazzo di Londra, quando Segretario di Stato era ancora Tarcisio Bertone. In un clima di veleni e accuse reciproche, le parole di monsignor Alberto Perlasca, inchiodato alle sue responsabilità e protagonista dell'operazione Sloane Avenue, hanno già determinato la richiesta di dimissioni da parte del Papa al cardinale Angelo Becciu. Tra le contestazioni mosse dal Santo Padre, i bonifici alla coop del fratello, che sarebbero arrivati tramite la Caritas di Ozieri, ma Becciu, nel 2017, prima di lasciare l'incarico di Sostituto, per diventare prefetto della Congregazione dei Santi, avrebbe fatto un bonifico anche a se stesso, sul suo conto privato allo Ior. Risalgono a un periodo precedente le rimesse che dalla Segreteria finiscono in Australia. Circa 700 mila euro frazionati. L'ipotesi degli inquirenti è che quei soldi, attraverso alcuni prestanome, siano finiti nelle tasche degli accusatori del processo a carico di Pell, per condizionarne l'esito. E liberarsi dell'ingombrante porporato.

IL PROCESSO. Il 29 giugno 2017 la polizia australiana conferma l'imminente stato d'accusa per il cardinale Pell per gravi reati sessuali su minori, fra i quali quello di uno stupro. La vicenda risale a venti anni prima. A puntare il dito contro il porporato è un trentenne, dopo la messa nella cattedrale di San Patrick, a Melbourne, quando aveva 55 anni, Pell, in sacrestia, avrebbe abusato di lui e un altro corista, allora tredicenni. Solo uno dei due chierichetti ha potuto testimoniare, l'altro è morto per overdose nel 2014. Ma aveva negato alla madre di essere stato abusato. La Santa sede annuncia che Pell partirà per l'Australia «per affrontare le accuse che gli sono state mosse». L'11 dicembre 2018 il cardinale viene giudicato colpevole dalla giuria della County Court dello stato di Victoria e il 13 marzo 2019 viene condannato a una pena detentiva di sei anni. Si dichiara innocente, annuncia il ricorso in appello, l'istanza viene respinta. Ma alla luce dei numerosi vizi formali nelle procedure processuali, la Corte Suprema dell'Australia decide di ammetter la richiesta di appello presentata dal cardinale. Il 7 aprile scorso Pell è stato assolto. Sette giudici hanno votato all'unanimità e ne hanno disposto la scarcerazione dopo più di un anno di prigione. Nelle motivazioni hanno concluso che esiste «una significativa possibilità che una persona innocente sia stata condannata perché le prove non hanno stabilito la colpevolezza al richiesto standard probatorio». Ora qualcuno dice che Papa Francesco abbia richiamato Pell e che il cardinale potrebbe tornare in Vaticano.

Estratto dell’articolo di Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 3 ottobre 2020. (…) Nel 2017 il «ranger» australiano fu costretto a tornare in patria perché incriminato con l'accusa di pedofilia. Condannato a sei anni e mezzo di prigione, un anno e mezzo dopo fu scarcerato con un proscioglimento dell'Alta Corte Australiana: le accuse contro di lui, insomma, non reggevano. Forse perché, come sta iniziando ad emergere dall'inchiesta d'Oltretevere, erano accuse costruite ad arte per screditarlo e tenerlo lontano dal Vaticano, dove aveva impedito ad alcuni personaggi di mettere le mani sulle finanze del Papa. Dallo IOR, la banca vaticana, sarebbero partiti ben 700mila euro, transitati in altri conti correnti esteri con destinazione Victoria: proprio nello Stato federale dove si è celebrato il processo contro Pell. I soldi sarebbero stati suddivisi a diversi protagonisti della vicenda tra cui, parrebbe, alcuni personaggi corrotti della polizia locale che avevano provato a utilizzare le accuse contro il porporato, così come dimostrato da alcune email del 2014, per sviare l'attenzione dell'opinione pubblica in un momento in cui il dipartimento era travolto da uno scandalo in cui figurava anche la 'ndrangheta. Una parte considerevole del tesoretto, 350mila euro, sarebbe invece stata versata a un testimone chiave che, proprio nel periodo in cui si era già costruito il castello di accuse contro Pell, era l'aprile del 2017, aveva stipulato un mutuo per l'acquisto di una casa. Dalle carte che Il Giornale ha potuto visionare viene fuori, infatti, che uno degli accusatori del porporato aveva acceso presso una banca locale un prestito da 470mila dollari australiani, l'equivalente allora di circa 350mila euro, per acquistare insieme alla compagna un appartamento. Altri soldi sarebbero stati versati ad un altro testimone che accusava Pell in un'altra vicenda di abusi, poi anche questa finita nel nulla. Non è un caso che all'indomani del licenziamento del cardinale Angelo Becciu, dimesso dal Papa che gli ha tolto anche i privilegi cardinalizi, il porporato australiano abbia diffuso un comunicato in cui si complimentava con Bergoglio per «i recenti sviluppi sulle finanze vaticane», invocando infine «ancora pulizia in Vaticano e a Victoria». Questo perché, appena uscito di prigione, Pell, da uomo libero, aveva avuto modo di confrontarsi con una serie di persone che durante la sua reclusione avevano indagato sulla vicenda, scoprendo appunto la possibilità che dietro quelle terribili accuse ci fosse ben altro. Il «ranger» aveva messo insieme i pezzi del puzzle e qualche giorno fa è arrivato a Roma, atteso anche da Papa Francesco. Tra i temi preparati per l'incontro col Pontefice anche questa storia e quella dei tanti nemici che in Curia avevano provato a sgambettarlo. Non sono pochi quelli che oggi puntano il dito contro il cardinale Becciu, perché lo stesso cardinale sardo, in conferenza stampa, ha rivelato che tra lui e Pell «c'erano modi diversi di vedere le cose», parlando di una sorta di «interrogatorio» sulla corruzione e sulla fedeltà al Papa a cui era stato sottoposto dal «ranger». Becciu, al momento, respinge ogni accusa di coinvolgimento in tutte queste ultime vicende, in attesa che i magistrati dicano come stanno veramente le cose.

Esclusivo - Ecco il piano di Becciu per estromettere il cardinale Pell. Dopo le dichiarazioni di monsignor Perlasca rese davanti alle autorità vaticane emerge la ragnatela che il prelato sardo avrebbe ordito ai danni dell'ex Prefetto della Segreteria per l'Economia. Massimiliano Coccia La Repubblica il 03 ottobre 2020. In queste ore le testimonianze di Monsignor Alberto Perlasca, assistente dell’allora cardinale Angelo Becciu all’interno della segreteria di Stato, davanti ai promotori di giustizia vaticani, aprono scenari inediti. La creazione di un sistema economico parallelo creato dalle consulenze milionarie fuori mercato, dalle donazioni ai familiari effettuate o con soldi della Santa Sede o tramite imprenditori e finanzieri a lui vicino, serviva a Becciu anche per gestire il potere, creare dossier per screditare rivali, funzionari o uomini vicini a Papa Francesco che avrebbero potuto interrompere i piani dell’allora Sostituto alla segreteria. Dalle rivelazioni di Perlasca si è arrivato ad individuare una serie di bonifici che l’ex cardinale di Pattada avrebbe indirizzato in Australia, nello stato di Victoria e che sarebbero serviti per finanziare sia i testimoni contro il grande rivale, il cardinale George Pell e sia per far montare la campagna mediatica per chiederne la condanna. Uno schema che nasce da lontano e che è stato, secondo le rivelazioni, preparato con l’ausilio di una rete di supporto in Australia che si incrocerebbe con alcune persone vicine ad ordini religiosi e associazioni contro la pedofilia. 

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 16 dicembre 2020. Come la salamandra del famoso romanzo di Morris West, George Pell è passato nella prova del fuoco e ne uscito indenne. E nonostante due condanne infamanti annullate per essere del tutto infondate dall’Alta Corte australiana, e oltre 400 giorni scontati in carcere, ritrovo a Roma lo stesso identico uomo che per prima intervistai nel 2014 quando stava appena iniziando il processo della riforma delle finanze vaticane ed era al massimo del suo potere. Non vedo scatoloni. Infatti Il cardinale non sta affatto traslocando. George Pell continuerà ad abitare a lungo nel suo appartamento in Vaticano. Non è tornato a fine settembre per fare i pacchi e rientrarsene in Australia, come pure aveva dichiarato il segretario di Stato , cardinale Pietro Parolin. Non ha incarichi di Curia, ma se e quando lo riterrà opportuno, Francesco gli ha chiesto di scrivere, di scrivere per lui. Magari tornerà Down Under nei mesi estivi, durante la calda estate italiana, per poi fare rientro di nuovo.

C’è un punto fermo nella sua drammatica vicenda degli ultimi tre anni?

«È il pieno sostegno di Papa Francesco che ha sempre sperato che io fossi assolto. Domani viene pubblicato negli Stati Uniti il primo volume delle “sue prigioni”, il diario tenuto ogni giorno in carcere, “Prison Journal”, i diritti d’autore serviranno anche per pagare gli avvocati».

Il Vaticano non ha pagato per le sue spese processuali. È vero?

«È una regola, secondo le nostre norme in Australia quando un prete è sotto processo, paga lui le spese del suo processo».

Quando ci fu il caso Marcinkus e il mandato di cattura per il crack Ambrosiano, Papa Giovanni Paolo II s’è tenuto l’ex presidente dello Ior dentro le Mura vaticane e non lo ha consegnato alla giustizia italiana. Dovevano fare lo stesso con lei?

«Non sarebbe stato giusto. Io ero innocente e rimanere in Vaticano protetto dall’immunità avrebbe lasciato l’ombra del dubbio su di me, per sempre. Ho capito subito che dovevo rientrare nel mio Paese per difendermi nel processo».

Lei ha fatto un parallelo tra la sua vicenda e la morte dei banchieri Calvi e Sindona, teme per la sua vita?

«No».

Calvi e Sindona sono stati uccisi, ma loro stessi facevano parte di un network criminale…

«Con Calvi e con Sindona, faccio un parallelo alla lontana, loro sono stati criminali e io no, anche perché oggi, rispetto a tanti anni fa, si usa un’altra tecnica per eliminare una persona, quella del character assassination, della diffamazione, e di sporcare la reputazione. Io davo fastidio perché ho cercato - insieme al gruppo della Cosea- di evitare i furti e la depredazione dei beni della Santa Sede».

Il 28 giugno 2017 poche ore prima dell’incriminazione contro di lei il giorno di San Pietro e Paolo, in un’intervista al Daily Mail di Londra l’erede della famiglia mafiosa Gambino di New York ha dichiarato che il Papa non avrebbe dovuto minacciare la scomunica ai mafiosi, perché anche ai preti pedofili sudamericani si dà una seconda possibilità…

«Non lo sapevo. Sono molto impressionato, al momento non posso aggiungere altro, ma certamente è interessante».

Lei ha affermato che spera che non ci siano soldi del Vaticano, dietro le accuse contro di lei…

«Si, ma certamente scopriremo qualcosa. La mia stessa famiglia mi ha detto che se hanno cercato di incastrarmi la mafia, la massoneria, eccetera, è grave ma si comprende per l’opera di pulizia che stavo facendo, quello che sarebbe davvero gravissimo, è se nel complotto c’è qualcuno del Vaticano. Vede, molti soldi sono stati trasferiti dal Vaticano in Australia in due occasioni nel 2017 e nel 2018, in coincidenza con alcuni passaggi del mio processo: questi soldi sono già stati trovati. Il loro punto di arrivo in Australia è già stato trovato. E adesso sono in corso indagini della Polizia federale australiana per rintracciare dove sono finiti. Sono molti soldi: 2 milioni di dollari australiani, non solo i 700 mila dollari di cui ha riferito un quotidiano italiano, in base alle dichiarazioni rese agli inquirenti da monsignor Perlasca. Le indagini dovranno accertare se sono stati usati per scopi illegali. Certo, è un po’ anomalo. Normalmente i soldi partono dall’Australia e arrivano in Vaticano e non viceversa».

Monsignor Angelo Becciu, dopo essere stato dimesso dal Papa ha dichiarato in un’intervista di essere stato trattato peggio di un pedofilo. Era a lei che si riferiva?

«Spero di no».

Becciu è stato “dimesso” su due piedi dal Papa dai diritti e doveri del cardinalato. Va bene così?

«Io sono per il giusto processo, le sanzioni devono seguire l’accertamento dei fatti e non viceversa».

Per quello che lei ne sa come vanno adesso le finanze vaticane?

«La situazione è molto seria, a cominciare dal sistema pensioni. C’è un grave squilibrio nei conti notevolmente peggiorato dalla crisi del Covid. C’è carenza di cash, visto che i Musei vaticani sono fermi. La segreteria di Stato sembra aver perso quasi tutti i suoi fondi a seguito della vicenda di Londra, cui mi ero detto, da prefetto dell’Economia, fortemente contrario. Solo lo IOR dopo la pulizia sotto la guida del presidente De Fransu e del direttore generale Mammì è tornato a produrre utili in modo consistente».

Nicola Graziani per agi.it il 15 dicembre 2020. Parla George Pell, processato e condannato in Australia per pedofilia, prosciolto infine con formula piena e quindi tornato in quel Vaticano dai cui veleni – lascia capire – è stato quasi colpito a morte. Ad aprile, quando si seppe dell’assoluzione, Papa Francesco non nascose la propria soddisfazione, unita ad una certa indignazione per tutta la vicenda. Oggi il cardinale, in una intervista a Settestorie, afferma: Bergoglio mi ha sempre sostenuto. Anzi, mi ha detto che avevo ragione su molte cose. Bergoglio effettivamente lo ha ricevuto immediatamente dopo il suo arrivo a Roma. Ci si aspettava un reintegro nelle funzioni svolte prima che su di lui si abbattesse il ciclone giudiziario (accuse, rivelatesi indimostrabili, su fatti avvenuti una trentina d’anni fa), ma il porporato si schermisce: ho 80 anni e non è aria. Non rinuncia però a lasciar intendere di sentirsi al centro di un caso dai molti lati oscuri e probabilmente orchestrato da lontano. Ed evoca – non pare proprio a caso – due nomi molto noti: Calvi e Sindona. Non mi è capitato quello che è successo a loro, dice, ma perché sono altri tempi. Ora ti colpiscono nella reputazione". "Tutti i personaggi di maggiore peso che hanno lavorato insieme alla riforma finanziaria, ognuno di noi – credo con pochissime eccezioni – è stato attaccato dai media sul piano della reputazione in un modo o un altro”, sottolinea, “D’altronde ci ricordiamo tutti cosa è accaduto a Calvi che si è suicidato sotto il ponte di Londra con le mani dietro la schiena, strano modo di impiccarsi. E ricordiamo quello che è successo all’altro, Sindona, avvelenato in carcere… Tempi antichi … Oggi spesso si usa la distruzione della reputazione". Parole pesanti: Calvi e Sindona sono l’emblema di rapporti mai chiariti del tutto tra finanza e Vaticano, Ior e amicizie inconfessabili. Quando fu convocato da Francesco a fare chiarezza e ordine nei conti della Santa Sede “in Vaticano c’erano poche persone, se non addirittura nessuna, in grado di dare un quadro accurato di quella che era la situazione finanziaria”. Nasce “un consiglio di 15 cardinali che hanno gestito le finanze per anni e ci siamo battuti enormemente per avere chiarezza ma senza nessun successo”. Così si scopre che “c’erano soldi ovunque, nascosti.” A questo punto, nel pieno dell’operazione chiarezza, iniziano i problemi. “Un signore che ha lavorato con me e ha fatto un gran lavoro e si chiama Danny Casey (è un business manager a Sidney, molto efficiente e capace) si è trovato guarda caso l’auto bruciata davanti a casa”. Arriva l’accusa di pedofilia, e “criminali sono stati sentiti dire: ‘Pell è fuori gioco. Adesso abbiamo davanti un’autostrada’”. Non solo: “un altro criminale, fin dai primi giorni, diceva: "abbiamo la Corte Australiana per sistemarlo"”. Certo, “tutte queste non si possono ancora considerare prove, ma rimane una possibilità”. Legittimo avere sospetti, insomma, anche perché la stessa condanna per pedofilia "è stata una sorpresa enorme   Non solo i miei avvocati sostenevano che non ci fosse alcun modo per dichiararmi colpevole,  persino il magistrato che mi ha rinviato a giudizio disse che se le prove del mio cerimoniere e del sacrestano fossero considerate credibili, non ci sarebbe mai stata una giuria che mi avrebbe condannato". Ci si aspettava un giudizio sospeso ed un proscioglimento per insufficienza di prove, invece il giudizio sospeso è sfociato nella condanna. Un anno dietro le sbarre, poi il verdetto rovesciato in istanza superiore. A Roma, nel frattempo, che diceva il Papa? "Io ho sempre saputo che lui mi sosteneva, sapevo che credeva nella mia innocenza e che sperava che sarei stato liberato", ha risposto Pell, "E’ stata una grande consolazione. Il Papa mi ha sempre sostenuto attraverso queste difficoltà". Non solo questo: Penso che la prima cosa che mi ha detto è stata: "Grazie per la sua testimonianza". E io gli sono stato molto grato per questo. Più tardi mi ha anche detto: "Lei aveva ragione su molte cose", e io penso si riferisse alle questioni economiche sulle quali davvero non ci sono più molti dubbi". Ma la soluzione delle vicende finanziarie vaticane pare ancora di là da venire, e Pell analizza con fare distaccato: “sono soddisfatto di quello che abbiamo raggiunto nel lavoro. Abbiamo incontrato molti ostacoli, non abbiamo fatto tutti i progressi che avremmo voluto. La situazione economica del Vaticano in questo momento è seria, ma mi sono consolato pensando che abbiamo capito che almeno se giudichi con accuratezza dove sei, se hai gente intelligente e per bene, puoi capire come andare avanti al meglio in una situazione difficile”. Ma, attenzione, “se sei in un mondo di ipocrisia allora è molto difficile".

Salvatore Cernuzio per lastampa.it il 7 dicembre 2020. «Dio nostro Padre, dammi la forza per superare questo, e possa la sofferenza essere unita alla redenzione di tuo Figlio Gesù per la diffusione del Regno, la guarigione di tutte le vittime di questa piaga della pedofilia, la fede e il benessere della nostra Chiesa, e soprattutto per la saggezza e il coraggio dei vescovi». Era questa la preghiera che il cardinale australiano George Pell ha recitato la sera del 27 febbraio del 2019, prima notte trascorsa dietro le sbarre nel carcere di Melbourne. Quel giorno il Tribunale di Victoria aveva ordinato l’arresto dell’ex prefetto della Segreteria per l’Economia vaticana, revocando la libertà su cauzione accordatagli dopo l’incriminazione del dicembre 2018 per abusi sessuali su due chierichetti minorenni negli anni ’90. Accuse dalle quali il cardinale è stato prosciolto, ma solo dopo aver trascorso 404 giorni in cella. Dei primi cinque mesi (27 febbraio - 13 luglio 2019) dei tredici in prigione, il porporato - tornato ad ottobre a Roma - offre un dettagliato resoconto in “Prison Journal: the Cardinal makes his appeal”. Un libro, anzi, un diario che raccoglie riflessioni, meditazioni spirituali e dettagliate osservazioni della routine carceraria, di colui che fino al 2017 è stato uno degli uomini più potenti della Curia romana e che, nemmeno due anni dopo l’aver lasciato Roma per difendersi nel processo in Australia, si è dovuto spogliare delle vesti color porpora per indossare una tuta arancione da galeotto. Il volume è il primo di una collana edita da Ignatius Press, casa editrice dei gesuiti negli Usa, i cui ricavi dovrebbero essere utilizzati per pagare le spese legali del cardinale. La pubblicazione è prevista per il prossimo 15 dicembre. Vatican Insider-La Stampa ha potuto leggere in anteprima il volume in lingua inglese (la traduzione è a cura nostra).  Circa 350 le pagine divise per settimane, venti per l’esattezza, con una minuziosa ricostruzione di luoghi e situazioni in cui vengono citati nomi, cognomi, orari, documenti. L’introduzione è a firma di George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II ed esponente di spicco della Chiesa conservatrice statunitense, che esordisce: «Questo diario della prigione non avrebbe mai dovuto essere scritto». In effetti tutta la vicenda Pell rimane una pagina nera, considerandone l’intreccio - dalle contraddizioni della giuria alla campagna mediatica che ha pesato sull’intero processo - e soprattutto l’epilogo, cioè la sentenza dell’aprile 2020 dell’Alta Corte di Victoria che ha dichiarato il cardinale innocente. Una dimostrazione dell’«accanimento» subito, come egli stesso dichiara in queste pagine e come riconosciuto anche da Papa Francesco nell’udienza al cardinale del 12 ottobre scorso. Il primo volume di “Prison Journal” parte dalla notte precedente all’arresto, passata insonne da Pell che racconta di aver celebrato alle 6 la messa per affidarsi alla Madonna. La scena successiva è quella del Tribunale, dove ad accogliere il porporato c’era «una folla molto ostile, specialmente un pover’uomo di mezza età, la cui faccia era contorta dalla rabbia». «La discussione sulla sentenza è stata molto surreale e kafkiana, poiché il giudice ha elencato le molte ragioni per cui l’aggressione non era plausibile», scrive Pell. In serata era in carcere: «Sono stato arrestato e perquisito da due guardie filippine, entrambe rispettose della legge. Uno di loro mi ha detto di esser stato in Tribunale e di sapere che ero innocente». Pell è stato rinchiuso nell’Unità 8 di isolamento: «Sono stato giudicato a rischio autolesionismo, tenuto sotto regolare osservazione durante la notte». Il racconto si snoda tra i dettagli della vita carceraria: i test psicologici, l’orologio e il rosario sequestrati, gli esercizi in cortile, poi «il cibo molto abbondante, con almeno tre verdure di colori diversi», il letto e il gabinetto «molto bassi» e l’assenza di una qualsiasi sedia. «Questo mi faceva dolere i tendini della gamba sinistra, così ho chiesto una sedia più alta». Ma il direttore del penitenziario «mi ha spiegato che non voleva essere accusato di avermi dato una sedia più comoda. Io ho risposto che si trattava solo una sedia più alta! Tre sedie di plastica sono state sovrapposte l’una all’altra, il che è stato sufficiente». Più volte il porporato accenna a suor Mary O’Shannassy, la cappellana, che gli portava l’eucarestia visto che la più grande sofferenza era di non poter partecipare o celebrare la messa «per la prima volta in più di 70 anni». L’ex ministro delle finanze vaticane si paragona a Giobbe: nel breviario legge delle sue prove e riflette sulla sofferenza. Citando Kiko Argüello, iniziatore del Cammino Neocatecumenale, dice: «Un’unica grande dottrina separa i cristiani dai laici, e cioè i diversi atteggiamenti nei confronti della sofferenza. I laicisti vogliono nascondere la sofferenza o porvi fine. Da qui l’entusiasmo per l’aborto e l’eutanasia. Noi cristiani crediamo che la sofferenza nella fede possa essere redentrice, che la salvezza ci sia stata guadagnata dalla sofferenza e dalla morte di Cristo, e che il peggio possa essere riscattato. Allo stesso modo, nessun gruppo lavora più duramente dei cristiani per alleviare il dolore». Dolore che il cardinale ammette di aver provato durante la reclusione ed in particolare nel corso del processo: in quei mesi, racconta, «ho provato un forte risentimento nei confronti del pubblico ministero, che ha offuscato e confuso, talvolta contraddetto i fatti per permettere alla giuria di prendere la sua bizzarra decisione». Per lui, per i giudici, ma anche per il suo accusatore e tutti  coloro che gli si sono dimostrati nemici, George Pell assicura di aver pregato. Da Roma non gli mancano gli aggiornamenti. L’ex tesoriere vaticano legge libri e riviste - limitati ad un numero di sei a settimana - e guarda tanta Tv, dove segue le partite di rugby o i servizi sul suo caso. Racconta di essersi informato sulla vicenda del cardinale Philippe Barbarin, ex arcivescovo di Lione, accusato di insabbiamenti di abusi, che aveva presentato le dimissioni: «Se lo facesse, sarebbe una perdita». Il cardinale commenta poi la vicenda di Lady Diana dopo aver visto un documentario, le notizie su Donald Trump che descrive come «un po’ un barbaro, ma per certi versi è “il nostro” barbaro (cristiano)» e la sconfitta politica di Tony Abbot, ex premier australiano e suo amico: «La prova del crollo del cristianesimo». A fine marzo Pell ammette di non aver conosciuto gli altri compagni di prigione: «Siamo in dodici nell’Unità 8. Tutti in isolamento. Non so chi siano gli altri, anche se Gargasoulas (James, condannato per l’omicidio di sei persone, conosciuto dal cardinale tramite lettere, ndr) è probabilmente uno di loro e forse anche un terrorista musulmano. Almeno una coppia è mentalmente disturbata». Pell ha ricevuto diverse visite in carcere: familiari, come il nipote George, parenti, amici. Nessun vescovo. Ognuna di queste visite era preceduta da una perquisizione: «Una procedura poco dignitosa». Come quella volta che una guardia gli ordinò di togliersi i calzini. Numerose le lettere recapitate al cardinale, «tutte molto incoraggianti»: «Hanno cambiato il mio tempo in prigione, il mio programma quotidiano, il mio pensiero e la mia preghiera, la mia pace mentale». Tra le missive c’era quella del cardinale Tim Dolan di New York e «un bel paio di pagine» del cardinale Roger Mahony, emerito di Los Angeles, che «ha ricordato che eravamo stati insieme nel Consiglio cardinalizio di 15 membri del Vaticano per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede ai tempi di Papa Benedetto XVI, quando tante delle nostre questioni non avevano mai avuto una risposta soddisfacente e le nostre raccomandazioni non sono mai state prese sul serio». A proposito di finanze, l’ex prefetto dell’Economia ricorda gli anni in cui lavorava «con il denaro» a Roma. Dice che con il maxi Dicastero, guidato dal 2014 al 2017, la situazione era «migliorata, ma non in misura sufficiente, in quanto gli sforzi per la riforma finanziaria sono stati vanificati e inconcludenti». Una critica aperta a certi meccanismi della Curia. La stessa che indirizza al doppio Sinodo sulla Famiglia, osteggiato allora per l’apertura ai Sacramenti per i divorziati risposati. Pell definisce «pericolose» le «interpretazioni “approvate” argentine e maltesi» dell’Amoris Laetitia e il 23 marzo appunta: «Nei due Sinodi sulla Famiglia alcune voci hanno proclamato con forza che la Chiesa era un ospedale o un porto di rifugio. Questo è solo un’immagine della Chiesa e tutt’altro che la più utile o importante, perché la Chiesa deve mostrare come non ammalarsi, come evitare i naufragi, e qui i comandamenti sono essenziali». Mentre redige queste pagine Pell non sa quale sarà la sua sorte: spera in un ripensamento dei giudici, ma il più delle volte ammette lo scoraggiamento per un esito positivo del suo appello. Il caso viene esaminato quotidianamente con «Robert» (Ritcher, l’avvocato) e si studiano strategie legali. Si fanno riferimenti alla presunta vittima che lo accusa di violenze sessuali, verso il quale sembra non mostrare risentimento. Il cardinale insiste però sul fatto che bisognerebbe «richiedere agli accusatori di provare il loro caso» in Tribunale. Questo «non vuol dire essere contro le vittime, ma stabilire che sono vittime», perché «molti sono stati falsamente accusati, me compreso». «Una signora mi ha suggerito che il Signore mi sta facendo fare la riparazione per McCarrick», riflette Pell, riferendosi all’ex arcivescovo di Washington, sporporato e spretato dal Papa per abusi su giovani e minori. «Sarei felice di svolgere un piccolo ruolo in questo, in quanto ha fatto molti danni». Il “Prison Journal” si conclude con una preghiera perché «il mio appello abbia successo e che i miei amici e il mio gruppo di sostegno sapranno avere la saggezza di andare avanti nel modo più efficace per garantire che quello che è successo a me, non succeda ad un altro innocente australiano».

La grande rivincita del cardinale Pell. Andrea Muratore il 29 settembre 2020 su Inside Over. Gettato dagli altari nella polvere, insultato e umiliato con la più grave delle accuse che può travolgere un alto esponente della Chiesa, la copertura della pedofilia, portata avanti con una durezza esasperata nella sua terra natale, l’Australia, anche in base a un’offensiva mediatica e giudiziaria a cui non è risultato estraneo un sensibile pregiudizio anti-cattolico. Il cardinale George Pell, dal 2014 al 2019 primo prefetto della Segreteria per l’Economia voluta da Papa Francesco per fare ordine nell’ircocervo finanziario del Vaticano ha visto franare, con l’inizio dei processi a suo carico, non solo una consolidata carriera nelle gerarchie episcopali ma anche un grande progetto di rinnovamento della gestione economica delle casse pontificie, troppo spesso vittima di operazioni spericolate o di avventurose sortite da parte di finanzieri quali Raffaele Mincione. Pell, che secondo le ricostruzioni più accreditate avrebbe convogliato su Bergoglio diversi consensi conservatori nel 2013, dichiarò al momento della nomina di voler fare piazza pulita. Il Vaticano, disse, deve diventare ‘modello di management finanziario anziché occasionale causa di scandali” quali quelli che hanno travolto l’Obolo di San Pietro a inizio anno e quello, ad esso indirettamente connesso, che ha provocato l’inaspettata caduta del cardinale Angelo Becciu. Becciu e Pell erano stati a lungo rivali nel momento in cui il cardinale sassarese affiancava Pietro Parolin come secondo uomo più importante alla Segreteria di Stato e il porporato australiano portava avanti un’azione di revisione troncata dall’inizio dei processi in Australia. All’origine dello scontro, nota con precisione Il Messaggero, “due diverse visioni della gestione dell’Obolo di San Pietro. Becciu e Parolin difendevano l’autonomia finanziaria della Segreteria di Stato, come è sempre stato dai tempi di Pio XI, mentre Pell puntava ad un controllo centralizzato di tutte le risorse finanziarie esistenti, da quelle della Segreteria di Stato a quelle dell’Apsa”.  A questo modello Pell opponeva “come obiettivo una riforma totale del sistema economico all’interno del Vaticano, puntando sulla totale trasparenza secondo i moderni criteri aziendali” e alla coerente gestione di fondi troppo spesso destinati al personalismo o ai favoritismi della Curia. Fumo negli occhi per Becciu, che da titolare della gestione della “banca riservata” dei papi, ovvero la cassa della sezione Affari Generali della Segreteria di Stato, forte di circa 700 milioni di euro di disponibilità avrebbe in questo modo perso rilevanza e potere nei Sacri Palazzi. L’operazione dell’immobile londinese di Sloane Avenue portata avanti in cooperazione con Mincione è solo l’ultima e la più grande delle problematiche azioni condotte dal Vaticano con i fondi dell’Obolo di San Pietro e la connivenza, secondo quanto risulta delle più recenti inchieste giornalistiche, di numerosi finanzieri amici. Pell si era scagliato duramente contro la prassi di destinare i fondi della carità ad attività for-profit e, secondo quanto riportato da Massimo Franco sul Corriere della Sera,la sua convinzione è che sussista un collegamento tra le inchieste alla base dell’offensiva giudiziaria portata avanti a cavallo tra 2019 e 2020 da parte delle autorità dello Stato australiano di Vittoria e la sua caduta in Vaticano. Dopo un lungo calvario, infatti, Pell ha potuto in due occasioni cantare vittoria. Dopo una condanna a sei anni nel dicembre 2018 e una conferma in appello nell’agosto 2019, tra fine 2019 e inizio 2020 il processo per pedofilia è gradualmente franato sotto le sue contraddizioni. Tempi ha a lungo sottolineato l’incoerenza delle prove, la durezza dell’accanimento mediatico e anche alcune equivoche mosse della polizia e della magistratura, intente più a cavalcare l’emotività del caso che a garantire a Pell un giusto processo, che sommandosi tra di loro hanno portato nello scorso aprile l’Alta corte di Canberra ad assolvere il cardinale con formula piena. 400 giorni in carcere e una lunga serie di umiliazioni sopportate non hanno scalfito la combattività di Pell, che anzi è tornato alla carica in occasione del siluramento di Becciu dal ruolo di prefetto della Congregazione delle cause dei santi e ai diritti e dalle prerogative del cardinalato, con conseguente rinuncia del porporato sassarese alla possibilità di partecipare a un futuro conclave, imposto da Papa Francesco. Pell si è congratulato con Bergoglio per la decisione e, stando a quanto riportano fonti vaticane sentite da Franco, avrebbe detto che “il Santo Padre venne eletto per pulire le finanze vaticane” e nel corso degli anni “ha fatto un lungo lavoro e deve essere ringraziato e congratulato per i recenti sviluppi. Spero che la pulizia nelle stalle prosegua sia in Vaticano che a Vittoria”. Una presa di posizione clamorosa ed estremamente dura: Oltretevere si sta aprendo una partita politica connessa alle istituzioni decisive per il futuro della Santa Sede come istituzione protagonista del contesto internazionale. La credibilità finanziaria e la razionalizzazione delle strutture decisionali si prefigurano come obiettivi chiari: la riforma interrotta di Pell ha in questo senso dettato la strada. E bisogna capire se ora Francesco avrà la capacità di percorrerla con rinnovata energia.

Il cardinale Pell: «Vi racconto le mie prigioni. Da innocente». Il Dubbio l'1 ottobre 2020. Il diario scritto dall’ex capo della segreteria per l’economica del Vaticano durante la prigionia – oltre 400 giorni – per abusi sessuali su minori, reato dal quale è stato assolto. «La mia cella è lunga sette-otto metri, larga più di due sul lato della finestra opaca, dove si trova il mio letto; un buon letto, con una solida base, un materasso non troppo sottile, lenzuola, etc., e due coperte. Siccome la finestra non può essere aperta, abbiamo l’aria condizionata». Così il cardinale George Pell nel suo diario scritto durante la prigionia – oltre 400 giorni – nel carcere di Barwon in Australia, per abusi sessuali su minori (Pell è stato scagionato dalle accuse dall’Alta corte australiana ad aprile scorso). Il manoscritto sarà pubblicato negli Stati Uniti nella primavera del 2021. In esclusiva per l’Italia il mensile di apologetica Il Timone (in uscita l’8 ottobre) pubblica alcuni estratti, per gentile concessione dell’editrice Usa Ignatius Press, e che l’Agi ha anticipato. Nel diario, Pell descrive la sua cella, la numero 11 dell’unità 8 della Melbourne Assessment Prison, «dove sono sta stato rinchiuso assieme a un terrorista musulmano (penso sia quello che ha cantato le sue preghiere stasera (giovedì 14 marzo 2019, ndr), ma potrei sbagliarmi) e Gargasaulas, l’assassino di Bourke Street», prosegue, fornendo anche i dettagli della cella. «Appena si entra, ci sono delle mensole sulla sinistra e un tavolo per la mia teiera e la televisione, e uno spazio per mangiare. Lungo la stretta corsia, sulla destra, c’è un lavandino con acqua calda e fredda, un water con una seduta alta e dei braccioli (viste le mie ginocchia), e un robusto vano doccia con una bell’acqua calda». Poi qualche cenno all’ambiente carcerario, con parole di simpatia per le guardie: «Almeno un paio di prigionieri nelle circa dodici celle spesso urlano disperatamente di notte, ma di solito non per molto. È interessante come ci si abitui a questo rumore, come diventi parte del contesto. Mi trovo in una cella d’isolamento, con il permesso di uscire per un po’ di movimento per il massimo di un’ora e per le visite dei legali, degli agenti, degli amici, dei medici, etc. Le guardie sono differenti nella loro capacita di comprensione, ma sono tutte corrette, molte di loro cordiali, alcune amichevoli e disponibili. Posso ricevere lettere e telefonate nel tempo della ginnastica». E infine un piccolo sfogo sugli spazi, comunque angusti: «Ho richiesto un po’ più di spazio e più congeniale (rispetto al cortile che utilizzo attualmente) per camminare, un rientro più tardivo in isolamento e un po’ di compagnia. Dato il mio status le ultime due richieste non sono possibili e una cella con la propria piccola area per fare movimento sembra essere l’unica opzione».

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 28 settembre 2020. Il Papa ha chiesto al cardinale George Pell di rientrare subito  in Vaticano. E’ atteso domani a Roma. Non è  - come si potrebbe pensare -  solo una “compensazione”, la  conseguenza di una legge  del contrappasso,  viste le dimissioni imposte, giovedì sera,  al principale oppositore  di Curia del cardinale australiano, cioè Angelo Becciu, ex prefetto delle cause dei santi. Non è solo questo, è molto di più. Perché, i guai di Pell in Curia (prima e al di là delle accuse di pedofilia in patria) sono stati legati - questo risulta da fonti qualificate di Huffpost -  alle richieste di accertamento che il Ranger (così veniva soprannominato Pell per i suoi modi spicci) aveva avanzato proprio sull’acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Il palazzo che dal 2019 è sotto la lente degli inquirenti vaticani dopo le denunce dello IOR e del Revisore generale. Né si tratta solo del fatto che la Segreteria di Stato ha potuto dai tempi di Paolo VI farsi forte sotto il profilo finanziario dei suoi fondi riservati (sempre rendiconti al Papa), un vero e proprio tesoretto di svariate centinaia di milioni di euro. Pell aveva denunciato pubblicamente l’esistenza di questi fondi extrabilancio già alla fine del 2014  in quanto secondo lui si tratta di una prassi “anomala” in base ai moderni criteri di gestione, che potenzialmente espone a possibili abusi ed opacità. Una prassi diffusa in maniera minore anche presso altri dicasteri di Curia e che adesso  - anche a causa della necessità di concentrare presso l’Apsa tutta la liquidità del Vaticano a causa della crisi economica - finirà, secondo quanto comunicato ufficialmente un paio di settimane fa dal nuovo prefetto dell’economia, Guerrero Alves, il gesuita, i “guai “ di Pell sono iniziati più di recente, (2016) quando  lui ha cominciato a fare precise  domande sull’operazione  di acquisto sulle sponde del Tamigi, dopo aver ricevuto informazioni poco tranquillizzanti da ambienti finanziari inglesi sulla rete di personaggi e di mediatori che giravano intorno all’affare, come il broker Torzi, finito da tempo nella lista nera delle autorità e alle banche coinvolte. E’ questa la storia che Pell dovrà raccontare al Papa a partire da domani, quando il suo rientro coinciderà con la festa di San Michele Arcangelo, il principe delle schiere celesti che sconfigge il diavolo. Adesso tutti si chiedono se Pell si stabilirà alla Casa Australia, un complesso che ospita prelati e seminaristi australiani nei pressi di piazza Indipendenza, o se sarà ospitato a Casa Santa Marta, il residence dove abita Francesco, a diretto contatto con il Pontefice , con cui potrà avere  colloqui  come e quando vorrà al riparo di occhi indiscreti.

La guerra interna in Vaticano: così hanno fatto fuori Becciu. Dal tentativo di Ratzinger di riformare lo Ior al caso Becciu: un decennio di scandali tra le mura leonine del Vaticano. Bergoglio era stato eletto per la svolta. Francesco Boezi, Domenica 27/09/2020 su Il Giornale. C’è stato un momento preciso in cui il Vaticano e gli scandali hanno iniziato a camminare insieme. Era la fine del primo decennio del nuovo millennio e Joseph Ratzinger aveva palesato l'intenzione di riformare lo Ior, la cosiddetta "banca vaticana". Poi la "pace" avrebbe smesso di dimorare tra le mura leonine. Il primo Vatileaks è del settembre del 2012. Il secondo della fine del 2015. Il resto è cronaca dei nostri tempi. I regni di Benedetto XVI e papa Francesco sono diversi per toni e contenuti della pastorale, ma qualche costante c'è. Una di queste è rappresentata dalla battaglia per la trasparenza. Il caso della "cacciata" del cardinal Becciu è solo l'ultima punta dell'iceberg. Anzi, è possibile che di "cacciate" si parli ancora. Perché Jorge Mario Bergoglio non ammette errori. Il pontefice, quando è emerso lo scandalo legato all'Obolo di San Pietro, si è detto soddisfatto, perché la "pentola" era stata scoperchiata dall'interno. Questa volta senza "ausilio" dei giornalisti o di altri fattori esterni. Tra gli addetti ai lavori c'è chi individua un "tappo" curiale. Una forma di resistenza nei confronti della spinta riformistica di Benedetto XVI prima e di Francesco poi. C'è pure chi, al contrario, pensa che il Papa regnante non abbia proseguito nell'opera di Ratzinger. L'ex arcivescovo di Buenos Aires, insieme ad un consiglio ristretto di cardinali, sta lavorando alla riforma della Curia di Roma, con la nuova Costituzione apostolica: quello, con buone probabilità, sarà il banco di prova in grado di fornire elementi sul cambio di passo in Santa Sede. C'è un fil rouge che collega tutto quello che avviene in termini di scandali nelle mura leonine? Molto difficile rispondere. In linea di principio, ogni vicenda risponde per sé. Cosa c'entra, del resto, il caso del maggiordomo Paolo Gabriele con le accuse di peculato che sarebbero state mosse nei confronti dell'ex sostituto della segreteria di Stato? Niente. Il problema del "tappo", però, è invariato, e gli scandali fanno spesso capolino dalle parti di piazza da San Pietro. Anche durante la "rivoluzione" del primo Papa gesuita della storia della Chiesa cattolica. Dal caso del cardinale George Pell, prima accusato di abusi e poi del tutto scagionato, a quello McCarrick, che si è da poco riaperto per via di un presunto "schema predatorio": di terremoti interni ai palazzi ne sono stati avvertiti parecchi. La "battaglia per la trasparenza", sì, ma anche quella per promuovere la linea della "tolleranza zero" in materia di abusi: gli ultimi due pontefici sono accomunati anche da quest'altro combattimento. Proprio il cardinale Pell, in queste ore, ha plaudito al pontefice argentino per la scelta su Becciu. E dagli antichi piani di Pell dipenderebbe pure il nuovo codice unico per i contratti e gli appalti del Vaticano. Un cardinale conservatore ed ex prefetto della Segreteria dell'Economia, simbolo per i tradizionalisti della resistenza a certi pregiudizi della giustizia, uscito dal carcere australiano dopo 13 mesi: Pell è uno dei volti delle cronache vaticane dell'ultimo ventennio. Una figura diversa da quella di McCarrick, prima "scardinalato" e poi invitato ad una vita di preghiera e penitenza lontano dal potere curiale. Perché rispetto a quel caso le accuse di abusi sono state ritenute credibili. "Scandalo", prescindendo dai vari esiti processuali, è una parola che accompagna le cronache sulla Santa Sede con stabilità. Tutto, dicevamo, è iniziato con il tentativo di Ratzinger di riformare lo Ior. Lo ha notato pure La Nazione. Poi è arrivato un tuono mai visto nell'epoca contemporanea: la rinuncia di un Papa per l'età che avanza, con la conseguente creazione dell'istituto del pontefice emerito. Vicissitudini impronosticabili, storia alla mano. L'elezione di Bergoglio, nei piani dei cardinali, avrebbe dovuto rasserenare il clima, con la spinta diretta ad una riforma non più rimandabile. Ma in questi sette anni le pentole scoperchiate dall'interno o meno hanno comunque segnalato la presenza di qualcosa da scoperchiare. Se davvero esiste un "tappo" in Vaticano è bello spesso.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 27 settembre 2020. Il Covid19 s' aggira come uno spettro nei sacri palazzi. Aggredisce monsignori, sacerdoti, segretari. E isola forzatamente Papa Francesco. Lo fiacca e priva della carica che arriva dalle folle, da una piazza San Pietro solitamente colma. Una clausura alla quale non siamo abituati, ancor meno lui, pontefice dell'abbraccio. Ma Francesco è consapevole di come questa sia l'unica condizione per preservare, oltre alla vita, il proprio ruolo. Inimmaginabile un conclave in piena pandemia, esponendo anziani cardinali a rischi imprevedibili di viaggi, riunioni e assembramenti. Così il Vaticano, fino alla detonazione del caso di Angelo Becciu, sardo di Pattada, classe 1948, entrato in seminario a 12 anni, elevato cardinale da Francesco nel 2018. Becciu rinuncia alle prerogative da cardinale, a ogni incarico nella curia romana, al diritto di entrare nel futuro conclave. Perché? La ferita più profonda in Bergoglio non dev' essere provocata dal presunto malaffare, l'ipotizzato accaparramento familistico attribuito al porporato, il saccheggio celato e maleodorante del quale lo si accusa. Nemmeno dalla delusione psicologica per un uomo forse più narrato che ritenuto vicino. Bergoglio non è giudice terreno delle leggi. Non raccoglie indizi. Non misura prove in chiave giudiziaria. E così i fratelli cardinali che si stringono a lui godono dell'immunità proprio perché non è necessaria nel rapporto di fede e fiducia. Quindi, i flussi di soldi, attinti dall'Obolo di San Pietro e dirottati in Sardegna, l'accusa di peculato, indegna sì noi laici, ma tutto ciò a Santa Marta deve suonare più come effetti, aggravanti più che causa. Allora, perché? L'onta devastante, che pregiudica il rapporto, è la menzogna, il nascondimento. Il fatto che un cardinale menta al Papa, persino nella teologia di un pontefice assai radicato nell'indulgenza, nella misericordia del perdono, è insuperabile. Quando un cardinale mutila la verità di aspetti sostanziali, ne leviga l'essenza per quella che Joseph Ratzinger indica come «l'ambizione umana al potere», l'abbraccio fraterno diventa irricevibile. È quindi questa la chiave d'accesso più logica per interpretare quanto avvenuto, sino al clamoroso ridimensionamento di Becciu, esposto ora sì alla giustizia della uomini avendo privato il Papa della fiducia. La formazione del convincimento in Bergoglio è stata lenta, solitaria. Ma deve aver unito i punti. Ogni volta che sceglieva un uomo decisivo per portare avanti la riforma della curia, corridoio indispensabile per rilanciare la Chiesa nel mondo, ecco che questi veniva impallinato da scandali, accuse che poi puntualmente si rivelavano inconsistenti. Ed erano tutti nemici di Becciu. Così la scontro con George Pell, il cardinale australiano che stava svuotando i cassetti dei segreti e maneggi finanziari, scelto all'esordio del pontificato e messo in mora da un'inchiesta per pedofilia che si è vaporizzata definitivamente a processo. Pell è innocente, furibondo, convinto che dietro le accuse si sia celata una manovra curiale per screditarlo e anestetizzare la riforma del Papa. E in effetti così è stato. Con l'addio al Vaticano di Pell, tornato in Australia a difendersi, la segreteria per l'Economia che presiedeva è rimasto un monolite incompiuto. Creata proprio per bilanciare quella di Stato dove Becciu era eminenza grigia, priva di Pell, è stata di fatto via via rallentata nella crescita e svuotata nelle responsabilità. Sulle accuse a Pell ora corrono addirittura voci di bonifici che dal sud Italia sarebbero partiti alla volta del lontano continente: si vedrà se sono pettegolezzi, balle o verità. Di certo non è un caso isolato. Così lo scontro con Libero Milone, professionista serio, fondatore di Deloitte Italia dalla reputazione univoca. Era stato scelto da Francesco come primo revisore generale, super controllore di appalti e transazioni. Bergoglio lo incontrò nella sala d'aspetto di Santa Marta: «Vada avanti, non tema nessuno, non si fermi mai». Quando Milone ebbe l'ardire di scartabellare la contabilità dei forzieri, i conti dei porporati, a iniziare da quelli di Becciu, percepì che qualcuno lavorava per creare distanza tra lui e il pontefice, che prima incontrava tutte le settimane. Il freddo divenne presto gelo. Fu messo alla porta con la perfida minaccia «o si dimette o l'arrestiamo», facendo riferimento a una presunta indagine contro di lui. Peccato che di questa indagine non si è mai saputo nulla. Nemmeno se sia esistita davvero. La clamorosa defenestrazione conclude una partita cruciale nella storia della Chiesa, avviata da Benedetto XVI quasi dieci anni fa, quando percepì che la mondanità rapace era soverchiante, destabilizzante, capace di far brillare le colonne della Basilica. Quindi la meditazione, la rinuncia al pontificato, la messa in mora dell'italianità curiale, l'arrivo di Bergoglio. «Attenti ai preventivi, alle spese» tuonava Francesco in sala Bologna nel luglio del 2013 agli esterrefatti cardinali, abituati a papi che si occupavano di anime e non di gestire lo sterco del demonio, il denaro. Bergoglio, invece, li scuoteva. E cosi la battaglia a bassa intensità del gesuita argentino per il controllo della Curia con la falcidia inesorabile, silente, di chi con le mani sul Vangelo godeva di fiducia mal riposta. Alla fine, come già raccontato a luglio proprio su queste colonne, era rimasto lui del potente triumvirato delle tre B: Bertone (arroccato nell'attico), Balestrero (spedito in sud America) e appunto Becciu di Pattada, il paese conosciuto in tutto il mondo per i coltelli affilati. E che ora si sono spuntati. Per sempre.  

La cacciata di Becciu una mossa anti Papa, il cardinale licenziato in fretta e senza prove…Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Il cardinale Angelo Becciu ieri si è difeso vivacemente, convocando i giornalisti. «Mi sembra strano essere accusato di questo. Quei 100mila euro, è vero, li ho destinati alla Caritas. È nella discrezione del Sostituto (incarico ricoperto dal 2011 al 2018, terzo per importanza dopo Papa e Segretario di stato, ndr) destinare delle somme che sono in un fondo particolare destinato alla Caritas, a sostenere varie opere. In 7-8 anni non avevo mai fatto un’opera di sostegno per la Sardegna (è originario di Pattada, diocesi di Ozieri, ndr). So che nella mia diocesi c’è un’emergenza soprattutto per la disoccupazione, ho voluto destinare quei 100mila euro alla Caritas». «Quei soldi sono ancora lì, non so perché sono accusato di peculato». Becciu ha spiegato che i soldi non sono transitati dalla Caritas alla cooperativa gestita dal fratello che collabora con la Caritas di Ozieri. E ancora: «Per il palazzo di Londra l’Obolo di San Pietro non è stato toccato, non è stato utilizzato. La Segreteria di Stato aveva un fondo, doveva crescere». Per la Caritas di Ozieri i 100mila euro arrivavano dall’Obolo ma era un fine “caritativo”, ha ribadito Becciu rispondendo comunque che con il Papa, nel colloquio durato “venti minuti”, non si è parlato del palazzo di Londra (operazione, sembra, da 225 milioni di dollari). Ed ha aggiunto che la vicenda è “surreale”, ribadendo poi stima e fedeltà nei confronti del papa che inaspettatamente gli ha chiesto di dimettersi. Sembra dunque che il nodo sia i presunti atti illegali del cardinale riguardo i rapporti tra i suoi fratelli, la chiesa italiana e la Santa Sede da dove avrebbero preso finanziamenti. Quanto all’entità, si parla di 100mila euro ma sembra anche ci siano di mezzo altri 600 mila euro destinati a cooperative riconducibili alla famiglia (i fratelli). Nonostante la ricostruzione del porporato, le domande non mancano. Per esempio: il laconico comunicato del 24 sera annuncia le dimissioni e la perdita dei diritti collegati al cardinalato (non entrerà in un conclave, ad esempio) non spiega il perché. In questo modo le illazioni si moltiplicano. Era proprio necessario tacere i motivi? Non si poteva dire di più? Tra la ricostruzione del cardinale (tutto regolare) e la decisione papale abbiamo una siderale distanza e neppure l’avvio di un processo o un procedimento (così sembra, almeno). Non si poteva aspettare? E se per il papa è tutto chiaro, non si poteva dire di più? I fratelli del cardinale, coinvolti a vario titolo in quanto gestori-percettori di parte delle somme, hanno annunciato vie legali. Ma contro chi? Vale o no, anche in Vaticano, l’idea che se ci sono reati vanno accertati e puniti in base ad una procedura legale? Certo il papa è allo stesso tempo detentore del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, però qualche passo avanti in duemila anni di diritto romano e a 270 da Montesquieu si potrebbe fare. Naturalmente poi c’è l’ambito dell’opportunità: forse non ci sono reati però si parla di una quantità di soldi rilevante e dell’opportunità o meno di metterli nelle mani di parenti, per quanto detentori di incarichi ecclesiali. Nell’accavallarsi delle voci, come sempre, si parla di lavori fatti per le Nunziature a Cuba e in Egitto, dove il cardinale avrebbe affidato appalti alle ditte di famiglia. Di tutto e di più sentiremo nei prossimi giorni. Ma appunto: nel clima di questi anni – da Benedetto XVI in poi, con l’adesione del Vaticano alle procedure di controllo e valutazione internazionale per evitare riciclaggio e reati finanziari – non si poteva essere rigorosi con rendicontazioni inoppugnabili? Oppure nonostante tutte le riforme esiste ancora una gestione un po’ personale del patrimonio ecclesiale? E se invece fosse qualcos’altro: ad esempio (lavorando di fantasia) una maniera per screditare l’operato del papa? Su tutto la considerazione dominante è quanta strada ci sia da percorrere tra il dire e il fare, tra il Vangelo e l’operare con i soldi, come papa Francesco aveva detto parlando alla Curia nel 2014. Se siamo allo stesso punto, sei anni dopo, qualche domanda sui criteri di scelta e selezione andrà pure fatta, prima o poi. E anche ci sarà da chiedersi quando finirà questa partita a scacchi, fintamente ingenua, dove dietro il denaro si vuole certamente coinvolgere sempre più papa Francesco. Lo capiremo nei prossimi mesi.

Che cosa c’è dietro le dimissioni del cardinale Becciu, e perché la tregua in Vaticano è finita. Massimo Franco il 26/9/2020 su Il Corriere della Sera. Il nome è grazioso: Casina del giardiniere. E l’edificio appare come un piccolo gioiello di mattoni rossi con la torretta, incastonato tra grandi putti di marmo bianco e guardato dall’alto da una statua nera di San Pietro, in una piccola conca dei Giardini vaticani. Ma a incrinare l’immagine vagamente bucolica è una garitta di vetro e alluminio, dove una sentinella si alterna ad altre guardie ventiquattr’ore su ventiquattro: c’è il timore che qualcuno si introduca di nascosto nel villino. Il viavai di tecnici e esperti informatici racconta mesi di indagini delicatissime: stanno analizzando e decifrando i computer sequestrati negli uffici vaticani, a caccia di misteri inconfessabili sugli intrecci finanziari di alcuni esponenti eccellenti della Santa Sede. È su questo sfondo cupo, gonfio di sospetti e di misteri, che si è consumata la defenestrazione traumatica del cardinale Giovanni Angelo Becciu. Si tratterebbe di una storia di soldi dell’Obolo di San Pietro dirottati su una cooperativa della Caritas gestita in Sardegna, la sua regione, da uno dei fratelli: un comportamento che ha portato a un’accusa di peculato e che ha provocato l’ira di papa Francesco. Jorge Mario Bergoglio lo ha «degradato» in un amen, togliendogli il cardinalato e sbarrandogli le porte di un futuro Conclave. Frase standard, inappellabile: «Lei non ha più la mia fiducia», sebbene pronunciata con una punta di sofferenza. E pensare che il pontefice lo aveva promosso due anni fa, dopo averlo tenuto fino al 2018 come sostituto segretario di Stato, una sorta di «ministro dell’Interno». Di fatto, lo aveva appoggiato anche nei passaggi più complessi degli ultimi anni. Quando nell’estate del 2017 si era spezzata la carriera di George Pell, cardinale australiano, «zar dell’economia» e avversario di molti, Becciu compreso, Francesco era apparso colpito e rassegnato. Di fronte alle accuse di pedofilia contro Pell e al processo al quale si era dovuto sottomettere in Australia, pur essendo perplesso aveva «congedato» uno degli uomini su cui aveva puntato per ripulire le finanze della santa Sede. E quando alcuni mesi dopo il supervisore generale Libero Milone, braccio operativo di Pell, disse di essersi dimesso perché era stato minacciato di arresto, puntando il dito sulla Gendarmeria e su Becciu, il Papa si era schierato con quest’ultimo. Ma Pell alla fine è uscito indenne e riabilitato dalle vicende giudiziarie. Sulla sua via crucis processuale si è allungata l’ombra di una manovra oscura gestita «con cannoni australiani e munizioni vaticane», a sentire un intellettuale amico del Papa e dello stesso Pell. E la settimana prossima l’ex plenipotenziario tornerà a Roma dalla sua Australia dopo oltre tre anni di assenza, senza più il suo incarico: proprio mentre Becciu è costretto a difendersi non solo da accuse imbarazzanti, ma da una reazione papale che negli ambienti vaticani ha lasciato tutti di stucco; e dopo che il 14 ottobre del 2019 è stato indotto alle dimissioni il capo della Gendarmeria, Domenico Giani, legatissimo al cardinale italiano, con motivazioni ufficiali che non hanno convinto tutti. La storia della cooperativa che ha inguaiato Becciu semina dubbi simili. «Se dovessimo far dimettere tutti i cardinali che danno soldi ai familiari, ne resterebbero pochi», è la battuta venata di cinismo curiale che si raccoglieva ieri tra le cosiddette Sacre Mura. Un’eco dello scontro senza esclusione di colpi che si è consumato in questi anni si è avvertita nella conferenza stampa di ieri mattina di Becciu. Oltre a difendere i versamenti di soldi per i quali è stato accusato di peculato,ha parlato delle tensioni del passato con Pell: tensioni che sembrano essere tuttora incandescenti, se è vera la dichiarazione lapidaria attribuita al cardinale australiano e diffusa ieri. Sono poche parole col sapore del fiele nei confronti di Becciu. «Il Santo Padre venne eletto per pulire le finanze vaticane», avrebbe scritto Pell. «Ha fatto un lungo lavoro e deve essere ringraziato e congratulato (sic) per i recenti sviluppi. Spero che la pulizia nelle stalle prosegua sia in Vaticano che a Vittoria». Lo Stato australiano di Victoria è quello dove, pare di capire, Pell ritiene gli sia stata preparata la trappola giudiziaria. Ma è il versante romano a lasciare presagire contraccolpi più duraturi e traumatici. La fase della resa dei conti si è riaperta in modo virulento; anzi, probabilmente era stata solo congelata durante l’emergenza del coronavirus. E il pontefice, per quanto indebolito, appare deciso a reagire con durezza agli scandali emersi nei mesi scorsi. La storiaccia del palazzo londinese di Sloane Avenue,sul quale il Vaticano ha tentato una sfortunata speculazione immobiliare, investendo oltre 300 milioni di euro, attinti in parte dall'Obolo di San Pietro, continua a sprigionare veleni. E c'è chi sospetta che dietro gli ultimi sviluppi ci sia anche quello scandalo. «Bisogna andare fino in fondo», ha ordinato Francesco, usando, sembra, parole più crude. Becciu è l'ultimo e il più pesante anello che si spezza nella catena di comando bergogliana di questi anni. Si intuisce che al Papa è costato molto sacrificarlo: l'ormai ex cardinale lo ha servito lealmente durante gran parte del pontificato. Ma è chiaro anche che l'ex «ministro degli interni» della Santa Sede si prepara a sua volta a difendersi. «Fino in fondo».

Gian Guido Vecchi per il ''Corriere della Sera'' il 25 settembre 2020. Il comunicato della Santa Sede è arrivato alle otto di ieri sera, tre righe senza spiegazioni per annunciare una cosa che ha rarissimi precedenti nella storia della Chiesa: «Oggi, giovedì 24 settembre, il Santo Padre ha accettato la rinuncia dalla carica di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e dai diritti connessi al cardinalato, presentata da Sua Eminenza il Cardinale Giovanni Angelo Becciu». A Becciu è toccata una sorte analoga a quella del cardinale scozzese Keith O' Brien, il 20 marzo 2015: per una storia di molestie e abusi a seminaristi, Francesco ne aveva «accettato» la «rinuncia ai diritti e alle prerogative del cardinalato»: eleggere il pontefice in un Conclave, «collaborare» col Papa e così via. Un titolo cardinalizio svuotato. Perché? In Vaticano si parla di «peculato», e di un confronto drammatico tra il cardinale e il Papa, ieri pomeriggio: «Le ho sempre voluto bene, la stimo ma non posso fare altro». Becciu lascia filtrare poche parole: «Sono sconvolto, turbato. Un colpo per me, la mia famiglia, la gente del mio paese. Ho accettato per obbedienza ma sono innocente e lo dimostrerò, chiedo al Santo Padre di avere il diritto di difendermi». Tutto è legato al periodo, quasi otto anni dal 2011 a 2018, durante il quale Becciu è stato Sostituto della Segreteria di Stato e ne ha gestito i fondi, compresi quelli riservati e l' obolo di San Pietro. Le indagini del «promotore di giustizia» vaticano Gian Piero Milano e dell' aggiunto Alessandro Diddi erano cominciate l' anno scorso con lo scandalo del palazzo londinese al 60 di Sloane Avenue. Tra gli indagati c' è anche monsignor Mauro Carlino, capo ufficio Informazione e documentazione, per anni segretario personale di Becciu. È chiaro che nel corso delle indagini è stato passato al setaccio l' uso dei fondi, non solo per Londra. La situazione è precipitata perché l' inchiesta si è allargata. Nel corso delle indagini sono saltati fuori soldi su fondi speculativi e una vicenda legata ad una cooperativa sarda impegnata nell' aiuto ai migranti, la «Spes» di Ozieri presieduta da Tonino Becciu, fratello di Angelo. Al cardinale - così racconta chi gli è vicino - sarebbe stato contestato di aver preso 100 mila euro dai fondi riservati per darli (ma non sarebbero ancora arrivati) alla cooperativa presieduta dal fratello. C' è da considerare che Francesco, fin dall' inizio del pontificato, ha avuto parole durissime contro il «cancro» della corruzione: «Meglio peccatori che corrotti».

Fabrizio Massaro per il ''Corriere della Sera'' il 25 settembre 2020. Sereno e tranquillo, come sempre. Fino alle 18 di ieri. Così l' ormai ex cardinale Giovanni Angelo Becciu, 72 anni, viene descritto da chi l' ha visto prima delle dimissioni. Alle 18 era fissato un appuntamento con papa Francesco. Lì si sarebbe consumata la rottura. Ma qualche incrinatura era già latente dopo l' esplodere dello scandalo sul palazzo di Sloane Avenue a Londra e il procedere dell' inchiesta penale dei promotori di giustizia vaticana, che stanno passando a setaccio uno dei segreti più a lungo custoditi: la gestione della «banca riservata» dei papi, ovvero la cassa della sezione Affari Generali della Segreteria di Stato, stimata in circa 700 milioni. È il cuore del governo della Santa Sede, che gestisce anche i milioni dell' Obolo di San Pietro. Per sette anni, dal 2011 al 2018, gli Affari Generali sono sati diretti dall' allora arcivescovo Becciu. In questa fase che verrebbero contestati l' uso di fondi a favore di attività riconducibili ai fratelli. Ma anche un uso disinvolto dei suoi rapporti con la stampa. È lui il protagonista iniziale dell' avventura londinese che tiene ancora impegnato il Vaticano per oltre 350 milioni , secondo i calcoli dei pm del Papa. Proprio seguendo i soldi, i promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi avrebbero esteso l' indagine all' impiego di tutti i capitali della sezione, a cominciare dai circa 50 milioni nel fondo maltese Centurion del finanziere Enrico Crasso, che li ha usati tra l' altro per diventare socio di Lapo Elkann in Italia Independent e per finanziare il film su Elton John. Fu proprio Becciu - che non risulta indagato - a proporre nel 2012 di investire 200 milioni di dollari in una piattaforma petrolifera in Angola. I soldi erano presso il Credit Suisse dove allora lavorava Crasso, banker di fiducia della Segreteria. A chiedere di investire era stato l' amico-imprenditore Antonio Mosquito, conosciuto ai tempi della nunziatura in Africa. Per valutare l' affare Crasso chiamò Raffaele Mincione ma il finanziere lo giudicò estremamente rischioso. La soluzione alternativa fu di investire i 200 milioni nel fondo Athena, dello stesso Mincione, che li userà per comprare il 45% del palazzo di Londra e il resto per avventure di Borsa su Carige, Bpm, Retelit e Tas. Ma le speculazioni, anche sul palazzo, andarono male e a un certo punto il fondo comincia a perdere decine di milioni. Nell' estate del 2018 Becciu è nominato cardinale e sostituito con l' arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra. Si cambia linea. Il Vaticano vuole uscire dall' affare. A fine 2018 si raggiunge una transazione con Mincione tramite il broker Gianluigi Torzi. Parte da lì l' intrigo che porterà all' inchiesta con indagati anche due monsignori della Segreteria, Alberto Perlasca e Mauro Carlino e a giugno all' arresto di Torzi. Un' indagine che si allarga sempre più, partita da un' operazione «opaca», come l' ha definita il Segretario di Stato, Pietro Parolin. Accuse «infanganti», era stata la replica di Becciu, che ritiene di aver agito nell' esclusivo interesse della Santa Sede.

Case, fondi e pozzi offshore: gli affari (a rischio) del cardinale Becciu con i soldi vaticani. Mario Gerevini e Fabrizio Massaro  il 25/9/2020 su Il Corriere della Sera. Sereno e tranquillo, come sempre. Fino alle 18 di gioved 24 settembre. Cos l’ormai ex cardinale Giovanni Angelo Becciu, 72 anni, viene descritto da chi l’ha visto prima delle dimissioni. Alle 18 era fissato un appuntamento con papa Francesco. L si sarebbe consumata la rottura. Ma qualche incrinatura era gi latente dopo l’esplodere dello scandalo sul palazzo di Sloane Avenue a Londra e il procedere dell’inchiesta penale dei promotori di giustizia vaticana, che stanno passando a setaccio uno dei segreti pi a lungo custoditi: la gestione della banca riservata dei papi, ovvero la cassa della sezione Affari Generali della Segreteria di Stato, stimata in circa 700 milioni. il cuore del governo della Santa Sede, che gestisce anche i milioni dell’Obolo di San Pietro. Per sette anni, dal 2011 al 2018, gli Affari Generali sono sati diretti dall’allora arcivescovo Becciu. In questa fase che verrebbero contestati l’uso di fondi a favore di attivit riconducibili ai fratelli. Ma anche un uso disinvolto dei suoi rapporti con la stampa. lui il protagonista iniziale dell’avventura londinese che tiene ancora impegnato il Vaticano per oltre 350 milioni , secondo i calcoli dei pm del Papa. Proprio seguendo i soldi, i promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi avrebbero esteso l’indagine all’impiego di tutti i capitali della sezione, a cominciare dai circa 50 milioni nel fondo maltese Centurion del finanziere Enrico Crasso, che li ha usati tra l’altro per diventare socio di Lapo Elkann in Italia Independent e per finanziare il film su Elton John. Fu proprio Becciu - che non risulta indagato - a proporre nel 2012 di investire 200 milioni di dollari in una piattaforma petrolifera in Angola. I soldi erano presso il Credit Suisse dove allora lavorava Crasso, banker di fiducia della Segreteria. A chiedere di investire era stato l’amico-imprenditore Antonio Mosquito, conosciuto ai tempi della nunziatura in Africa. Per valutare l’affare Crasso chiam Raffaele Mincione ma il finanziere lo giudic estremamente rischioso. La soluzione alternativa fu di investire i 200 milioni nel fondo Athena, dello stesso Mincione, che li user per comprare il 45% del palazzo di Londra e il resto per avventure di Borsa su Carige, Bpm, Retelit e Tas. Ma le speculazioni, anche sul palazzo, andarono male e a un certo punto il fondo comincia a perdere decine di milioni. Nell’estate del 2018 Becciu nominato cardinale e sostituito con l’arcivescovo venezuelano Edgar Pea Parra. Si cambia linea. Il Vaticano vuole uscire dall’affare. A fine 2018 si raggiunge una transazione con Mincione tramite il broker Gianluigi Torzi. Parte da l l’intrigo che porter all’inchiesta con indagati anche due monsignori della Segreteria, Alberto Perlasca e Mauro Carlino e a giugno all’arresto di Torzi. Un’indagine che si allarga sempre pi, partita da un’operazione opaca, come l’ha definita il Segretario di Stato, Pietro Parolin. Accuse infanganti, era stata la replica di Becciu, che ritiene di aver agito nell’esclusivo interesse della Santa Sede.

Caso Becciu, Francesco non arretra «L’unica scelta è quella della verità». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2020. Angelo Becciu lamenta di essere stato «già condannato» dal Papa senza un processo, ma il punto non è l’eventuale responsabilità penale. Per Francesco, evidentemente, le cose erano già abbastanza chiare da dirgli «non ho più fiducia in lei» e imporre al cardinale, oltre alle dimissioni, la rinuncia ai «diritti e le prerogative» della porpora. Bergoglio, spiegano Oltretevere, è determinato ad andare «fino in fondo» a un percorso avviato da tempo. C’è una frase che spiega tutto: «Al di là della eventuale illiceità».

La frase di febbraio.Per capirla bisogna risalire a pochi mesi fa, 15 febbraio 2020, giorno di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale vaticano. Il Papa spiega che «la grande esortazione del Vangelo è quella di instaurare la giustizia innanzitutto dentro di noi, lottando con forza a emarginare la zizzania che ci abita». E fa notare tre cose. La prima, che la Santa Sede ha avviato «un processo di conformazione della propria legislazione alle norme del diritto internazionale» per «contrastare l’illegalità nel settore della finanza». La seconda, che proprio i «presidi interni di sorveglianza e di intervento» hanno fatto scoprire «situazioni finanziarie sospette»: l’inchiesta in corso della magistratura vaticana sull’acquisto del palazzo di Londra e l’uso dei fondi della Segreteria di Stato, gestiti come Sostituto da Becciu fra il 2011 e il 2018. La terza è quella più importante: quelle operazioni «sospette», spiegava Francesco, «mal si conciliano con la natura e le finalità della Chiesa» e questo «al di là della eventuale illiceità».

Gli affari. Becciu ha raccontato che il Papa gli ha parlato di sospetti di «peculato» per aver favorito i fratelli: 100 mila euro della Segreteria e pressioni sulla Cei per finanziare la coop di uno, lavori di falegnameria affidati a un altro, promozione della birra prodotta dalla società di un terzo, Mario, che parla di «un progetto di inserimento di ragazzi autistici». Angelo Becciu ha smentito le accuse: i soldi sono andati alla Caritas, nessun favore. Ma intanto è saltata fuori un’altra vicenda, pubblicata da Domani: il finanziere e petroliere angolano Antonio Mosquito, amico di Becciu — lo stesso che nel 2012 propose all’allora Sostituto di investire 200 milioni di dollari in una piattaforma petrolifera in Angola: poi non se ne fece nulla — ha finanziato l’anno scorso per 1,5 milioni di euro il «progetto birra» del fratello Mario, il quale ha replicato che sono arrivati 800 milioni ed è «tutto regolare». Anche questo, a Francesco, non è piaciuto affatto.

Il codice degli appalti. Del resto, basta vedere il nuovo codice degli appalti in Vaticano contro corruzione e nepotismi, in vigore da luglio dopo unMotu propriodi Francesco: tra le incompatibilità c’è la parentela «fino al quarto grado» o l’affinità «fino al secondo grado». Già a febbraio, il Papa spiegava come le «operazioni sospette» avessero «generato disorientamento e inquietudine nella comunità dei fedeli». Domenica sarà la «Giornata della carità del Papa», una colletta mondiale per finanziare l’Obolo che negli ultimi anni è rimasto intorno ai 50 milioni ma continua a calare; ora si teme un crollo. Di certo il Papa non vuole investimenti speculativi né operazioni «opache». All’Angelus di ieri ha spiegato: «La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna».

Ecco perché il cardinale Becciu si è dimesso. Soldi dei poveri al fratello e offshore: le carte dello scandalo. E il Papa chiede pulizia. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 25 settembre 2020. Dopo la notizia dei fondi dell'Obolo di San Pietro usati per l'acquisto di un palazzo a Londra per 160 milioni, l'inchiesta sale di livello e punta su Angelo Becciu che avrebbe dirottato denaro delle elemosine verso fondi speculativi e favori alla famiglia. Ora Francesco ordina chiarezza e punizioni per i responsabili. Una cosa corrotta «è una cosa sporca e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è un cristiano, puzza», disse Papa Francesco nel 2015. A vedere quanto sta maturando nelle pieghe dell’inchiesta per l’acquisizione da parte della Segreteria di Stato della Città del Vaticano del palazzo di Sloane Avenue a Londra, comprato nel 2014, che ha generato via via «un’enorme voragine» nei conti, la puzza della corruzione nelle stanze vaticane si sente forte in questi giorni. L’utilizzo che è stato fatto dell’Obolo di San Pietro, un collettore di offerte e donazioni per le azioni sociali della Chiesa nei confronti dei poveri, è forse il simbolo di quanto il mandato apostolico sia stato tradito per una speculazione immobiliare e finanziaria; una speculazione che non rappresenta un caso episodico ma, come L’Espresso ricostruisce in queste pagine, un vero e proprio metodo che ha contraddistinto la Segreteria di Stato sotto la direzione del cardinale Angelo Becciu. Un modus operandi che non è mai piaciuto a papa Francesco il quale - mentre speculatori, broker e promotori finanziari giocavano con la cassa della Segreteria di Stato e dell’Obolo di San Pietro - tesseva infatti una rete di nuove norme e di sorveglianza per le finanze vaticane.

Il caso del cardinal Becciu, bonifici a società di famiglia e milioni spariti offshore. Massimiliano Coccia il 24 settembre 2020 su L'Espresso. Ecco le carte dello scandalo, il metodo ricostruito dal settimanale L'Espresso. I soldi delle elemosine, quelli dell’obolo di San Pietro e quelli della Cei, destinati a fondi speculativi e dirottati verso le cooperative dei suoi fratelli. Non un caso singolo, ma un vero e proprio metodo: il metodo seguito dal cardinale Angelo Becciu negli anni in cui ha guidato la segreteria di Stato, prima di essere rimosso nel 2018 da Papa Bergoglio. Un metodo che l’Espresso ha ricostruito e svelato nel numero in edicola domenica 27 settembre ma che, viste le rivelazioni c...

Becciu, la rete dei finanzieri vicini al porporato svelato da un pentito della segreteria. Massimiliano Coccia su La Repubblica il 25 settembre 2020. Ecco come si è arrivati alle dimissioni del cardinale e, secondo le indagini svelate dall'Espresso, come funzionava il sistema tra strani investimenti e fondi in paradisi fiscali. Nessuno ha fatto nulla, nessuno sapeva nulla e nessuno conosce nessuno. Potrebbe essere la sintesi della gragnola incrociata di comunicati e smentite che si sono succeduti nella giornata di ieri. Una serie iniziata dall’ormai ex cardinale Angelo Becciu che afferma di non conoscere le «ramificazioni», ignorare dove finissero davvero i soldi delle casse vaticane, in alcuni casi di non sapere nemmeno le persone in mano alle quali quel denaro girava. Mentre i finanzieri coinvol... 

Peculato, il cardinale Becciu: "Accuse surreali. Il Papa era turbato, soffriva a dirmelo". La Repubblica il 25 settembre 2020. Il cardinale Angelo Becciu si difende, all'indomani delle sue dimissioni per le accuse di aver dirottato i fondi del Vaticano. "È un po' strana la cosa, in altri momenti mi ero trovato per parlare di altre cose, non di me, mi sento un po' stralunato", dice il porporato. "Ieri, fino alle 6.02 mi sentivo amico del Papa, fedele esecutore del Papa. Poi il Papa dice che non ha più fiducia in me perché gli è venuta la segnalazione dei magistrati che io avrei commesso atti di peculato".

Pane, carità e appalti, gli affari in Sardegna del cardinale Becciu e i suoi fratelli. Monia Melis La Repubblica il 25 settembre 2020. Le ultime vacanze nella terra di origine prima delle dimissioni legate allo scandalo dell'immobile di Londra. Gli amici, la famiglia cresciuta con le rimesse del padre emigrato, l’ultimo business per la birra.“Siamo in cinque ma ognuno lavora in autonomia”. Monsignor Giovanni Angelo Becciu, don Angelino per i compaesani, era nella sua Pattada. Tremila abitanti scarsi nel Logudoro, nord Sardegna dell’interno: un’ora in auto da Sassari, venti minuti da Ozieri. Era sabato 29 agosto e, anche nell’anno del Covid, Becciu non ha rinunciato a celebrare la messa delle 11 in onore della patrona santa Sabina. Una cerimonia solenne, con la novità degli ingressi contingentati e dello streaming in rete; al suo fianco sindaco, parroco...

Vaticano, la difesa di Becciu: "Accuse surreali, il Papa sbaglia e spero che non sia stato manipolato". La Repubblica il 25 settembre 2020.  Il monsignore dopo le sue dimissioni per le accuse di aver dirottato i fondi del Vaticano: "Rinnovo la mia fiducia al Santo Padre". Il legale della famiglia: "Nessuna erogazione dall'Obolo di San Pietro diretta ai fratelli del cardinale". "È un po' strana la cosa, in altri momenti mi ero trovato per parlare di altre cose, non di me, mi sento un po' stralunato. Ieri fino alle 6.02 mi sentivo amico del Papa, fedele esecutore del Papa. Poi il Papa dice che non ha più fiducia in me perché gli è venuta la segnalazione dei magistrati che io avrei commesso atti di peculato". Così Angelo Becciu in una conferenza stampa all'indomani delle sue dimissioni per le accuse di aver dirottato i fondi del Vaticano. "Rinnovo la mia fiducia al Santo Padre - dice il cardinale - Diventando cardinale ho promesso di dare la vita per la Chiesa e per il Papa. Quei 100mila euro, è vero, li ho destinati alla Caritas. È nella discrezione del Sostituto destinare delle somme che sono in un fondo particolare destinato alla Caritas, a sostenere varie opere. In 7-8 anni non avevo mai fatto un'opera di sostegno per la Sardegna. So che nella mia diocesi c'è un'emergenza soprattutto per la disoccupazione, ho voluto destinare quei 100mila euro alla Caritas". Quindi Becciu specifica che la somma è transitata dalla Caritas alla cooperativa gestita dal fratello che collabora con la Caritas di Ozieri: "Quei soldi sono ancora lì, non so perché sono accusato di peculato".  "Per il palazzo di Londra - continua - l'Obolo di San Pietro non è stato toccato, non è stato utilizzato. La Segreteria di Stato aveva un fondo, doveva crescere". Mentre per la Caritas di Ozieri i 100mila euro arrivavano dall'Obolo ma era un fine "caritativo", ha ribadito Becciu rispondendo comunque che ieri con il Papa, nel colloquio durato "venti minuti", non si è parlato del palazzo di Londra. "Nessuna sfida al Papa ma ognuno ha diritto alla propria innocenza" ha detto il cardinale parlando con i giornalisti. "Spero che prima o poi il Santo Padre si renda conto che c'è stato un forte equivoco", "spero non sia stato manipolato ". Becciu ha riferito che ieri il pontefice "soffriva" mentre gli chiedeva di fare un passo indietro, "era in difficoltà", "forse ha avuto errate informazioni". Il Papa ha comunque lasciato che Becciu resti nel suo appartamento in Vaticano. Becciu riferisce che non ha ricevuto nessuna comunicazione dai magistrati ma "sono qui, sono pronto a chiarire, tanto più che ora non ho più diritti da cardinale" e quindi non è necessario che il Papa a dare il nulla osta. "Non mi sento un corrotto", ha aggiunto rispondendo anche di non temere alcun arresto. La segnalazione di possibile peculato é arrivata dalla Guardia di Finanza italiana dopo la richiesta di indagine da parte dei magistrati vaticani.

Estratto dell’articolo di Massimiliano Coccia per “la Repubblica” il 27 settembre 2020. […] «Ancora non so di cosa sono accusato» si è sfogato Becciu con alcune delle persone che lo hanno raggiunto al telefono. Ma l'attesa non dovrebbe essere lunga. Un avviso di garanzia potrebbe essergli notificato nei primi giorni della settimana, se non già domani, un atto che formalmente lo renderà indagato. Al reato di peculato si aggiungerà quello di favoreggiamento e connesso a questo potrebbe aprirsi un ventaglio di imputazioni molto vasto. Infatti, come racconta l'inchiesta su L'Espresso oggi in edicola, oltre ai finanziamenti a fondo perduto alla Cooperativa "Spes" del fratello Tonino presi dall'8 per 1000 e dall'Obolo di San Pietro, oltre agli infissi fatti realizzare con incarico diretto al fratello Francesco (titolare di una ditta di falegnameria) e alle partnership per la società Angel's, retta da un terzo fratello, Mario, gli inquirenti sono convinti di avere in mano documentazione importante anche sul ruolo di Becciu nella vicenda della compravendita del palazzo di Londra, vicenda che di fatto ha prosciugato le casse della segreteria di Stato esponendo la Santa Sede alla morsa incrociata di una rete di broker. […] la rete di potere del cardinale si sarebbe iniziata a sfaldare proprio con l'affare del palazzo di Londra, sia perché i meccanismi anticorruzione messi in atto dalla Santa Sede hanno creato delle strettoie e sia perché i defenestrati da Becciu in vari settori della Curia hanno iniziato a reagire, collaborando con gli inquirenti per ricostruire il quadro di insieme. […] Ma non è solamente la magistratura dello Stato più piccolo del mondo a muoversi. C'è attesa anche sul versante italiano dove gli uomini della Guardia di Finanza stanno vagliando i documenti della Angel's srl, che tramite la Procura di Roma, grazie ad una rogatoria, sarebbero già stati inviati ai promotori di giustizia della Santa Sede. […]          

Il terremoto di Bergoglio: la Segreteria di Stato resta senza portafoglio. Paolo Rodari su La Repubblica il 28 settembre 2020. La gestione dei fondi sarà sottratta all’ufficio del Sostituto e affidata all’Apsa di monsignor Galantino sotto il controllo di un gesuita. Il progetto è stato definitivamente avviato circa dieci giorni fa. Secondo quanto apprende Repubblica, Francesco, in seguito allo scandalo del palazzo di Londra e alla destituzione del cardinale Angelo Becciu dai suoi incarichi, ha deciso di togliere qualsiasi risorsa economica alla Segreteria di Stato, compreso il fondo che fino a ora era a disposizione del Sostituto e nel quale confluivano anche parte dei soldi dell’Obolo di San Pietro. Di fatto, a ...

Vaticano, sette uomini sotto accusa. Il Papa: Gesù non diceva menzogne. Giuliano Foschini su La Repubblica il 27 settembre 2020. La caduta di Becciu è solo l’ultimo tassello dell’indagine sui fondi della Santa Sede: insieme a lui altri sei verso il processo. La svolta dopo l’arresto del broker Torzi: il cardinale si rivolse a lui quando era già nella black list delle banche europee. Sono sette, compreso l’ormai ex cardinale, Angelo Becciu. Sono accusati, a vario titolo, di peculato, abuso di autorità e corruzione. E presto finiranno a processo. Il Vaticano ha deciso di accelerare nel procedimento sulla gestione dei fondi dell’Obolo di San Pietro che parte dall’acquisto spregiudicato tra il 2013 e il 2018 di un palazzo nel centro di Londra, con un investimento di circa 300 milioni. Il palazzo a Kensington, al 60 di Sloane Avenue, era la parte pi...

Caso Becciu, quei milioni tolti all'Africa. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 28 settembre 2020. Il magnate angolano che finanzia i familiari del cardinale. Antonio Mosquito Mbakassy è l'uomo più lontano dalla Chiesa di Francesco, quella che predica la povertà evangelica e abbraccia le masse sfruttate del Terzo Mondo. Il magnate africano è arrivato a un passo dall'entrare in società con il Vaticano, grazie all'amicizia con il cardinale Becciu: un sodalizio nato quando il prelato sardo era nunzio apostolico in Angola e consolidato finanziando la società del fratello. Eppure non c'è ...

La versione del cardinale: "Sono accuse surreali Papa? Lo credevo amico". Monsignor Becciu si difende: «Non ho paura di essere arrestato e non tradirò Bergoglio». Fabio Marchese Ragona, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. «Sono fedele al Papa, non lo tradirò mai, anche se mi ha parlato di accuse di peculato dopo un'inchiesta della Guardia di Finanza. Al momento non ho ricevuto alcuna comunicazione dal tribunale vaticano, non temo di essere arrestato perché non ho fatto niente». Il cardinale Angelo Becciu si difende dopo quel fulmine a ciel sereno, lo ha definito così lui stesso, che lo ha colpito e che ha scosso anche le stanze d'Oltretevere con le sue dimissioni da Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e la rinuncia ai diritti connessi al cardinalato. Un faccia a faccia di venti minuti con Francesco, durante il quale Bergoglio lo ha messo a conoscenza di aver saputo dalla magistratura vaticana di flussi di denaro partiti dal Vaticano con destinazione la sua Sardegna. «Fino a qualche minuto prima - racconta il cardinale - pensavo che il Papa fosse mio amico, poi all'improvviso ha detto di non aver più fiducia in me e ne ho preso atto». Al porporato vengono contestate tre operazioni: due versamenti da 300.000 euro che la Conferenza Episcopale Italiana avrebbe prelevato dall'8x1000 per finanziare la cooperativa del fratello di Becciu (che lavora a stretto contatto con la Caritas locale) e un versamento da 100.000 euro prelevati, questa volta dal cardinale, dall'Obolo di San Pietro, il fondo per la carità del Papa, e destinati alla sua diocesi, Ozieri, per attività benefiche attraverso la cooperativa del fratello. «All'epoca ero Sostituto della Segreteria di Stato - si è difeso Becciu - ed è nelle facoltà del Sostituto poter decidere a chi devolvere soldi per opere di carità, forse potrebbero accusarmi di conflitto d'interessi per aver aiutato la mia diocesi ma non ho commesso reati. Peraltro - ha aggiunto - quei soldi sono ancora fermi sul conto della diocesi, è tutto un malinteso». Becciu incalzato dai cronisti ha detto di non sapere se c'è «qualche nemico» che ha orchestrato il tutto. In realtà, da quanto risulta a Il Giornale, sarebbe stata attivata diversi mesi fa una linea telefonica «sicura», tra Sidney e la Città del Vaticano per il passaggio di informazioni confidenziali che hanno portato alle ultime novità sulle finanze d'Oltretevere Dietro la decisione di Papa Francesco di «licenziare» il porporato sardo ci sarebbero alcune rivelazioni del cardinale australiano George Pell, Prefetto emerito della Segreteria per l'Economia che nel 2017 aveva dovuto lasciare l'incarico in Vaticano per difendersi in Australia dalle accuse di pedofilia. Pell scagionato dall'Alta Corte, da uomo libero ha riallacciato i contatti in Vaticano per dare informazioni utili sulle scoperte fatte quando era «ministro dell'Economia» della Santa Sede. Non è un caso che ieri mattina il porporato abbia diffuso un comunicato in cui afferma: «Il Santo Padre venne eletto per pulire le finanze vaticane. Ha fatto un lungo lavoro e deve essere ringraziato per i recenti sviluppi». Chiaro il riferimento del porporato al caso Becciu. Oltre al contributo del cardinale Pell ci sarebbe stato anche un intervento di Libero Milone, l'ex revisore generale dei conti del Vaticano, anche lui allontanato nel 2017 dal suo incarico perché accusato di spiare la vita privata «dei superiori», tra cui il cardinale Becciu. A Milone, secondo il racconto del diretto interessato, prima delle dimissioni sarebbe stato impedito di parlare col Papa. Ma sarebbe riuscito comunque, negli ultimi tempi, a entrare in contatto con alcune persone vicine a Bergoglio per riferire ciò che aveva visto.

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 28 settembre 2020. «Ho dei sospetti su qualcuno, su chi ha orchestrato tutto, ma per il momento taccio, è il momento di pregare e sperare che tutto si risolva». Il cardinale Angelo Becciu si affida alla preghiera e all'affetto dei suoi più stretti amici in questo momento «di grande difficoltà» in cui, a dire di chi lo ha sentito nelle ultime ore, «spera di poter chiarire tutto col Papa, al quale rimane sempre e comunque fedele». L'accusa di peculato non è stata ancora formalizzata e comunicata dalla magistratura vaticana al porporato sardo, che dal canto suo vorrebbe parlare «il prima possibile» con i magistrati di tutto ciò che Francesco gli ha contestato nella drammatica udienza del 24 settembre scorso: «Spero che, se qualche avviso deve arrivare, arrivi presto, già in settimana, per poter dire tutto ciò che so in modo da potermi difendere, ne ho diritto», dice il cardinale. In effetti, già in conferenza stampa, il porporato, aveva invocato il diritto all'innocenza, parlando di possibili «manipolazioni» e di «equivoci» da chiarire, in particolare col Papa. Sullo sfondo rimane, però, l'identità della gola profonda, ma forse sono in due, che ha in qualche modo indirizzato le indagini degli investigatori papali sui flussi di denaro che da Roma hanno raggiunto la diocesi d'origine di Becciu, Ozieri, in Sardegna, per finanziare, con i soldi dell'Obolo di San Pietro, dei progetti benefici della cooperativa sociale del fratello del cardinale: i sospetti di tanti, fuori e dentro le stanze d'Oltretevere, ricadono su un laico già in servizio in Vaticano e che si occupava di questioni finanziarie e su un monsignore che attualmente risiede dentro le mura leonine. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbero, oltre alle vicende legate alla cooperativa del fratello e all'affare del palazzo di lusso a Londra, anche altre operazioni, contatti con uomini d'affari di vari Paesi europei e altri finanziamenti a società umanitarie con sede all'estero. E poi c'è anche la partita che sta giocando il cardinale australiano George Pell che da Ministro delle Finanze del Vaticano, prima di far rientro in patria, nel 2017, per difendersi dalle accuse di pedofilia, aveva messo sotto la lente d'ingrandimento altre transazioni vaticane e aveva avuto degli scontri proprio con Becciu, tanto da aver sottoposto l'allora Sostituto della Segreteria di Stato ad una sorta di «interrogatorio» nel proprio ufficio e in presenza del suo segretario. Da uomo libero il «ranger» australiano ha riallacciato i rapporti col Papa che, subito dopo la scarcerazione gli ha chiesto di raggiungerlo a Roma per incontrarlo in udienza. Il faccia a faccia, secondo persone vicine al porporato, potrebbe avvenire già nel corso di questa cruciale settimana, con le sacre stanze sempre più in fibrillazione e un'atmosfera che sembra aver riportato il Vaticano ai tempi del primo Vatileaks; «si fa ormai la conta degli amici e dei nemici del Papa - sussurrano dalle logge - il pontificato sembra perder ancora pezzi». Il «licenziamento» del cardinale Becciu, in effetti, complica, ancor di più, la vita di Francesco, che va avanti per la sua strada fidandosi ormai soltanto di pochi intimi (per lo più gesuiti o vecchi amici cardinali) per fare le nomine e risolvere i problemi: da un lato la riforma della Curia che ancora non decolla, tra dicasteri da accorpare e altri porporati da salutare e dall'altro la diffidenza sempre più crescente dei fedeli, con relativo calo esponenziale delle offerte. Con questo nuovo scandalo che riguarda l'Obolo di San Pietro, a una settimana esatta dalla giornata della colletta, il prossimo 4 ottobre, le casse per la carità del Papa, questa volta, potrebbero soffrire più del solito.

Da huffingtonpost.it il 25 settembre 2020. “Mi sembra strano essere accusato di questo. Quei 100mila euro, è vero, li ho destinati alla Caritas. E’ nella discrezione del Sostituto destinare delle somme che sono in un fondo particolare destinato alla Caritas, a sostenere varie opere. In 7-8 anni non avevo mai fatto un’opera di sostegno per la Sardegna. So che nella mia diocesi c’è un’emergenza soprattutto per la disoccupazione, ho voluto destinare quei 100mila euro alla Caritas”, “quei soldi sono ancora lì, non so perché sono accusato di peculato”. Lo ha detto il card. Angelo Becciu spiegando che i soldi non sono transitati dalla Caritas alla cooperativa gestita dal fratello che collabora con la Caritas di Ozieri. “Rinnovo la mia fiducia al Santo Padre. Diventando cardinale ho promesso di dare la vita per la Chiesa e per il Papa. Oggi rinnovo la mia fiducia”, ha detto il card. Angelo Becciu parlando ai giornalisti. “E’ un pò strana la cosa, in altri momenti mi ero trovato per parlare di altre cose, non di me, mi sento un pò stralunato. Ieri fino all 6.02 mi sentivo amico del Papa, fedele esecutore del Papa. Poi il Papa dice che non ha più fiducia in me perché gli è venuta la segnalazione dei magistrati che io avrei commesso atti di peculato”, ha aggiunto.

Cardinale Becciu a Domani: “Ho dato 200 mila euro a mio fratello. Che male c’è?”. “Ho detto al papa: ma perché mi fai questo? Davanti a tutto il mondo poi? Mi ha detto che avrei dato soldi ai miei fratelli. Io non vedo reati, sono sicuro che la verità verrà fuori”. Così in una intervista a ‘Domani’ il cardinale Angelo Becciu, che ieri ha rassegnato a Papa Francesco le dimissioni da prefetto della Congregazione dei santi, in relazione all’inchiesta partita un anno fa dalla compravendita di un palazzo a Londra di proprietà della Segreteria di Stato. “Resto cardinale - spiega ancora - ma se c’è il conclave forse non posso entrare. Nel nostro incontro il Santo Padre mi ha spiegato che avrei favorito i miei fratelli e le loro aziende con i soldi della Segreteria di Stato, ma io posso spiegare. Reati di certo non ce ne sono”. Il cardinale Becciu non nega che una coop riconducibile al fratello Tonino venga finanziata con fondi Cei provenienti dall′8 per mille grazie a sua esplicita richiesta: “Confermo, anche perché è tutto rendicontato. Che male c’é?”.

Secondo gli investigatori altri 100 mila euro sarebbero arrivati alla cooperativa direttamente dai fondi della Segreteria di Stato: “Errato - risponde Becciu - io da sostituto non ho mai dato i denari alla cooperativa di mio fratello, ma alla Caritas di Ozimo. Ho appena chiamato il vescovo di Sassari che tra l’altro mi ha detto che quei soldi sono ancora in cassa in diocesi”. “Come sostituto - prosegue il cardinale - avevo a disposizione un fondo con cui, senza dover rendere conto a nessuno, potevo aiutare vari enti e associazioni caritatevoli. Perché non dovrei dare una mano anche alle Caritas sarde come quella di Ozieri?”. C’è anche una srl specializzata in porte e finestre riconducibile a un altro fratello Becciu che avrebbe ottenuto, spiega il quotidiano, commesse rilevanti grazie ai buoni uffici del parente, denaro proveniente dalle nunziature e dunque dalla Segreteria di Stato: “Vero - conferma Becciu - il nunzio in Egitto conosceva mio fratello, e così lui ha fatto lavori per circa 140 mila euro per cambiare gli infissi della sede, ma anche qui francamente non vedo il reato”.

Becciu stesso però avrebbe comprato gli infissi del fratello per ammodernare la nunziatura di Cuba, dove era assegnato tra il 2009 e il 2011, scrive "Domani": “Ma scusi non conoscevo nessun altro - dice al quotidiano - era ovvio usassi la ditta di mio fratello. Poi i lavori non li ho nemmeno terminati io, ma il nunzio che mi è succeduto. Che è stato talmente contento del servizio che, quando è stato spedito nella nunziatura egiziana, lo ha richiamato”. Becciu afferma oggi di non aver “rubato un euro. Non so se sono indagato, ma se mi mandano a processo mi difenderò”.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 26 settembre 2020. “È solo l’inizio”. Questo si sussurra Oltretevere. Cioè le clamorose dimissioni del cardinale Angelo Becciu, non sono affatto l’epilogo di indagini che in Vaticano proseguono da oltre un anno (luglio 2019). Il Papa è abbastanza provato dalla vicenda. Con Becciu ha vissuto ben 5 anni di coabitazione nel ruolo di sostituto della Segreteria di Stato, un po’ il capo di gabinetto del suo governo. Lo ha nominato cardinale nel 2018 affidandogli l’importante dicastero delle Cause dei Santi (che ora ha dovuto lasciare). Ma Francesco ha preso la sua decisione e non molla. Altre teste rotoleranno. Al di là del caso specifico, il Papa non se lo può proprio permettere, ne va dell’eredità del suo pontificato. E della credibilità della Santa Sede. La settimana prossima, il 29 settembre - proprio mentre sarà a Roma il segretario di Stato americano Mike Pompeo - arriveranno in Vaticano gli ispettori del Comitato Moneyval del Consiglio d’Europa per una cosiddetta “visita on site” di controllo sull’adempimento degli standard finanziari internazionali, a cominciare da quelli antiriciclaggio. Non sarà una passeggiata. L’ispezione (la seconda dopo quella della prima del 2012, che fece superare alla Santa Sede gli esami dopo gli scandali dello IOR, anche se con alcuni punti da implementare) inizierà il 30 settembre e durerà fino al 13 ottobre. Due settimane in cui le strutture vaticane e il loro modus operandi saranno passate sotto la lente. E con uno scandalo di tali proporzioni in corso di accertamento (come quello del palazzo di Londra e le altre magagne emerse) potrebbe essere non facile. L’esito degli accertamenti potrebbe essere l’ultimo ‘voto’ degli ispettori per far sì che il Vaticano sbarchi nella cosiddetta ‘white list’, l’elenco dei Paesi virtuosi per la gestione dei bilanci, la lotta alla corruzione e al riciclaggio. Carmelo Barbagallo (ex Bankitalia, nominato capo dell’Autorità finanziaria dopo l’esplosione dello scandalo del palazzo di Londra acquistato sotto la gestione Becciu-Parolin) a luglio 2020, presentando il Rapporto annuale dell’Autorità aveva affermato che per “il Vaticano è cruciale arrivare all’appuntamento con gli ispettori preparati”. Cruciale, appunto. In una conferenza stampa lampo convocata nella mattinata di oggi, a inviti (e dove tutte le regole anti-Covid sono saltate), Becciu ha rivelato che il Papa gli avrebbe detto che i magistrati vaticani avevano sollevato contro di lui accuse di peculato (per i fondi con cui sarebbero stati favori i suoi fratelli, accusa respinta al mittente sia da Becciu che dai suoi familiari). Accuse basate su un corposo rapporto della Guardia di finanza italiana delegata per le indagini richieste da una rogatoria vaticana. Prima si è parlato di un importo di 100 mila euro proveniente dall’Obolo di San Pietro e 200 mila dalla Conferenza episcopale italiana. Ma già oggi si è scritto di 700 mila euro. Becciu, oltre a respingere le accuse, si è detto pronto a essere ascoltato dai magistrati vaticani, di non temere l’arresto, ma ha anche parlato del suo rapporto con il Papa. E questo è interessante. “Soffriva a dirmelo, poverino”. Quanto al palazzo di Londra, ”il Papa mi ha sempre dato fiducia, dicendomi che non ha mai pensato che io abbia approfittato”. “Mi ha detto di restare nel mio appartamento in Vaticano, per il tanto bene che ho fatto”. Ma soprattutto: “Spero che il Papa non si stia facendo manovrare”. Da chi? Al vertice del Tribunale c’è l’ex Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, all’AIF, c’è appunto Barbagallo. Su un’altra - delicata -  questione ha parlato invece l’avvocato della famiglia Becciu, Ivano Iai, ha poi sottolineato un altro fatto che ha dato l’impressione di una guerra per bande: “Mi ha molto colpito l’irridente spettacolo di congratulazioni al Pontefice da parte del cardinale Pell che ha detto che è contento che Becciu sia stato cacciato. Non poteva esimersi dall’intervenire ancorché assolto?”. In effetti Pell ha diramato un comunicato attraverso la sua portavoce per spingere Francesco a pulire le finanze vaticane, perché questo era il compito che gli era stato affidato dal Conclave. Il fatto è che la storia del palazzo di Londra è durata troppi anni, essendo iniziata nel 2012, dopo lo scoppio dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena. E non è una storia che si può chiudere con un’accusa laterale per peculato. C’è infine un’ultima sottolineatura. Becciu resta cardinale ma ha perso i diritti connessi al fatto di esserlo (primo tra tutti quello di entrare in Conclave). Ma, come si sottolinea in Vaticano, mantiene i doveri che lo legano al Papa. Da questo punto di vista, dovrà  conservare il segreto su tutte le numerose vicende di cui è stato testimone.

Il cardinale tiene famiglia. Roberto Marino il 27 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chiede sempre di pregare per lui, i fedeli che lo ascoltano non si rendono conto del motivo di questa insistenza. Forse non lo sapremo mai. Papa Francesco vive anni di grande amarezza, non tanto e non solo per quello che accade nel mondo: la fuga dalle parrocchie, la crisi delle vocazioni, il laicismo imperante; il vero inferno lo affronta dentro le mura discrete del Vaticano, dove imperversa una lotta di poteri contrapposti che va oltre l’immaginazione degli autori delle serie televisive. La vicenda del cardinale Giovanni Angelo Becciu, i settecentomila euro sottratti dalle casse dell’obolo di San Pietro, soldi della generosità delle elemosine, ha creato uno scandalo mondiale. Uno shock per il Pontefice, costretto a licenziare di fatto l’alto prelato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. I soldi sua eminenza Becciu li ha trasferiti a società cooperative gestite dai fratelli, quelli della sua famiglia, non quelli in senso cristiano e apostolico. Papa Francesco, dicono i beni informati, sta vivendo la cosa con grande angoscia, perché ogni giorno c’è una rogna e quando non sono i preti pedofili, spuntano i maneggioni delle rendite, gli imbroglioni, i traffichini dei fondi di investimento. Roba da giudizio universale, tutto a scapito di una credibilità che va a farsi benedire. Anche i cardinali hanno famiglia, pure se la regola del celibato esiste da secoli proprio per evitare tentazioni simili. La storia ricorda per certi versi il prelato Alberto Sordi, rimasto bloccato in ascensore con la conturbante e fragile Stefania Sandrelli. Quell’intimità controversa: da un certo punto di vista è successo tutto, da un altro nulla. Così don Albertone cercherà di spiegare, dopo aver goduto delle grazie della fanciulla, i motivi per i quali la regola della castità non era stata infranta. La carne è debole e a ferragosto chiusi in uno spazio ristretto, con il libero arbitrio condizionato dalla situazione, è facile cadere nella tentazione e nel peccato. Quelle strane occasioni, recitava il titolo del film. L’occasione fa l’uomo ladro, dice da secoli la saggezza popolare. E se l’abito non fa il monaco, figuriamoci i soldi.

Becciu, parla il fratello Mario: "Ma vi pare che un cardinale possa occuparsi della mia birra?" Viola Giannoli La Repubblica il 25 settembre 2020. Settecentomila euro destinati alla carità del Papa finiti in operazioni che avrebbero avvantaggiato i fratelli. Sarebbe questa la contestazione che lo stesso Francesco avrebbe fatto all'ex numero due della Segreteria di Stato vaticana, monsignor Angelo Becciu, che ieri ha rimesso nelle mani di Bergoglio il suo incarico alla Congregazione delle cause dei Santi, rinunciando ai diritti da cardinale. In particolare al centro della discussione con il pontefice ci sarebbe stata l'erogazione di un contributo straordinario di centomila euro - provenienti dai "soldi per i poveri" del Papa, l'Obolo di San Pietro - per sostenere le attività caritative della Caritas di Ozieri che sarebbero alla fine state destinate non alla Caritas ma al suo braccio operativo, la cooperativa sociale Spes di cui il fratello di Becciu, Antonino, è presidente. All'ex prefetto della Congregazione delle cause dei Santi il Papa avrebbe contestato anche altri due contributi da 300mila euro ciascuno elargiti direttamente alla Spes, in seguito a presunte pressioni di Becciu sui vertici della Cei. Analoghe presunte pressioni l'ex numero due della Segreteria di Stato avrebbe effettuato per favorire la sottoscrizione della partnership tra la Caritas di Roma e la società Angel's Srl di cui è amministratore il fratello Mario. Infine, sotto la lente di Bergoglio, ci sarebbero le commesse affidate alla falegnameria di un altro fratello del cardinale, Francesco, da una serie di Nunziature, tra cui quella dell'Angola - dove lo stesso Becciu è stato nunzio a lungo - per una cifra complessiva di 80mila euro, e quella di Cuba, per circa 15mila euro.

La replica della famiglia Becciu. In una nota congiunta della famiglia Becciu firmata dall'avvocato di Sassari Ivano Iai, si legge che "le notizie riportate sono destituite di fondamento e malevolmente false, in particolare per i riferimenti, fantasiosi e indimostrabili, a presunte erogazioni provenienti dall'Obolo di San Pietro e dirette a membri della famiglia del Cardinale, ovvero a enti privati riconducibili a taluni di essi". In particolare, secondo la lettera dell'avvocato, "quanto al signor Tonino Becciu, legale rappresentate della Cooperativa sociale Spes, alcuna somma è stata mai erogata direttamente alla onlus da egli diretta". "I contributi provenienti dalla Cei risultano deliberati ed erogati in piena trasparenza come interventi di sostegno ad attività solidali finalizzate a gratificare la persona umana con il lavoro garantito a ben sessanta famiglie grazie alla collaborazione operativa della onlus Spes". Nello specifico "il contributo di 100mila euro, risalente al 2017 e proveniente dalla Segreteria di stato vaticana, non risulta essere mai stato né diretto né percepito dalla Cooperativa Spes, ma esclusivamente dalla Caritas diocesana, che ancora ne è depositaria in specifico contro corrente" per una "cittadella della solidarietà. Quanto al professor Mario Becciu, titolare di un'azienda che produce birra artigianale, viene smentita qualsiasi erogazione di somme. "La Angel's ha percepito un finanziamento nella totale trasparenza dell'operazione da parte di un investitore estero" la cui identità viene però taciuta per "ragioni di riservatezza contrattuale". Non ci sarebbe stato nemmeno alcun "istituto di culto né altri enti riconducibili alla Santa Sede o alla Chiesa cattolica" che ha intrattenuto operazioni commerciali con la società o il prof. Francesco Becciu, invece, "sarebbe solo stato chiamato nel corso del tempo e grazie alla sua perizia ed esperienza professionale ad eseguire alcuni interventi di falegnameria per conto di enti ecclesiastici non riconducibili al cardinale".

Becciu, parla il fratello Mario: "Ma vi pare che un cardinale possa occuparsi della mia birra?" Pubblicato venerdì, 25 settembre 2020 da Viola Giannoli su La Repubblica.it. Mario Becciu bolla come "falsità" le rivelazioni dell'Espresso sul fratello Giovanni Angelo, che si è dimesso dall'incarico di Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi e ha rinunciato al cardinalato. Mario Becciu, professore di Psicologia all'Università Pontificia Salesiana, risponde al telefono a metà mattinata. E nega con forza che alcune operazioni della società di cui è rappresentante legale e socio di maggioranza, la Angel's Srl, siano state favorite dal porporato.

Professore, è vero che suo fratello l'ha aiutata a produrre e commercializzare la "Birra Pollicina"? 

"È tutto completamente falso, sono stati messi insieme pezzi che non c'entrano nulla". 

Suo fratello non è intervenuto per stringere accordi con enti ecclesiastici o religiosi per l'acquisto della birra? 

"Assolutamente no. Non è mai entrato in questa vicenda. Vi pare che un cardinale possa occuparsi della mia birra? E vi pare che il fratello di un cardinale non possa portare avanti autonomamente una sua attività?".

Quando e come ha iniziato a produrre la Birra Pollicina? 

"La produzione è iniziata a dicembre del 2019, ma per farla fermentare decentemente abbiamo dovuto attendere marzo del 2020". 

Come mai è quasi introvabile nei negozi al dettaglio di birra artigianale? 

"A marzo è iniziato il lockdown che ha di fatto interrotto la commercializzazione". 

Ma parte della Birra Pollicina è stata venduta. A chi? 

"Non l'abbiamo venduta a nessuno, se non a poche persone di nostra conoscenza. E' stata una piccola produzione per conto terzi". 

Per chi? 

"Amici. E poi abbiamo stretto un accordo con la Caritas di Roma. Una piccola parte degli utili viene donato alla Fondazione, il resto va alla società". 

Proprio questi accordi, però, insieme ai finanziamenti alla Angel's srl, sono finiti sotto la lente degli inquirenti. 

"La mia società smentirà tutto anche con comunicati ufficiali e querele. Ho subito un danno e mi devo tutelare". 

Il cardinale Becciu sarebbe estraneo anche alle vicende che riguardano la Spes, la cooperativa di Ozieri in provincia di Sassari gestita da un altro vostro fratello, Tonino, a cui sarebbero andati fondi vaticani? 

"Non c'è nulla di quel che è stato scritto. Siamo cinque fratelli, ma ognuno lavora in autonomia". 

Ha sentito suo fratello Angelo, il cardinale, dopo le dimissioni? 

"Siamo in un momento delicato. È molto molto dispiaciuto e sorpreso. Ma è anche sereno perché è sicuro che potrà spiegare tutto".

Intervista al fratello di Becciu: “La mia birra con i fondi del petroliere angolano, ma Angelo non c’entra nulla”. Viola Giannoli su La Repubblica il 27 settembre 2020. Mario Becciu insegna psicologia all’Università Salesiana, ma è anche produttore della Birra Pollicina: "Non posso, come fratello di un cardinale, realizzare i progetti ai quali tengo?"

"È di una violenza inaudita dover giustificare scelte personali e professionali per difendere me e mio fratello. Trova corretto che un cittadino onesto si debba mettere a nudo per smontare un'assurda macchinazione ordita contro di noi?".

Professor Mario Becciu, lei però insegna psicologia all'Università Salesiana: cosa c'entra la "Birra Pollicina" con il suo lavoro?

"Ho una vita autonoma. Non posso, come fratello di un cardinale, realizzare i progetti ai quali tengo? La mia iniziativa, inoltre, ha anche uno scopo psicosociale legato all'inclusione e alla formazione professionale di soggetti autistici nella filiera della birra".

Come mai la birra è stata prodotta grazie al finanziamento di un petroliere angolano, Antonio Mosquito, amico di suo fratello?

"Il signor Mosquito ha apprezzato il mio progetto per quanto riguarda la produzione e la vendita della birra e ha deciso di parteciparvi con un finanziamento da 1 milione e 500 mila euro. Abbiamo stipulato un contratto regolare che prevede la restituzione dei fondi. Attualmente, sono stati versati sul conto corrente della Società 800 mila euro".

Ma lei come lo ha conosciuto?

"È solito venire a Roma, dove ha molti amici, tra questi mio fratello. Anche tra noi è nato un rapporto di amicizia e, insieme, siamo arrivati all'accordo sul progetto della birra".

Nel 2013 il cardinal Becciu voleva partecipare con 250 milioni a un'operazione per lo sfruttamento petrolifero di un giacimento in Angola propostagli da Mosquito. Non è curioso che ora lei sia in affari con lo stesso petroliere?

"Allora la richiesta arrivò dall'imprenditore a mio fratello, non il contrario, e non fu accolta dalla commissione di esperti che ritenne non vantaggioso l'investimento. Mio fratello non si lasciò influenzare dall'amicizia, anzi seguì il consiglio degli esperti. Non essendoci nulla di nascosto o torbido, non ho mai considerato l'accordo con Mosquito non opportuno. Anzi, ne ero contento perché il progetto al quale lavoravo da tanto poteva avviarsi. Lungi da me l'idea che questo avrebbe potuto mettere un giorno in difficoltà mio fratello, come sta avvenendo per malevoli interpretazioni dei fatti".

Nell'accordo tra lei e Mosquito suo fratello è mai intervenuto?

"Assolutamente no, lo hanno predisposto i suoi legali con quelli della mia società".

Ci sono altri finanziatori della società?

"Il 5% è detenuto da mio figlio Francesco. Sto lavorando anche con consulenti per finanziamenti tramite bandi pubblici".

La Angel's è una piccola azienda ma tra il dicembre 2018 e l'ottobre 2019 ha avuto ricavi per 36 mila euro. Da dove derivano?

"Lavoriamo con agenti di commercio nella distribuzione di birre italiane, estere e di tanti altri prodotti".

Avete un accordo con la Caritas per usarne il marchio in cambio di una donazione del 5% dei ricavi. È stato suo fratello ad agevolare l'accordo?

"Mio fratello non ne sapeva nulla fino a tre giorni fa. Posso lavorare con la Caritas perché sono un apprezzato professionista che collabora da anni con loro e non perché fratello di un cardinale? Tra l'altro il contratto non è ancora attivo perché i fusti a causa del Covid sono in giacenza".

Perché la Angel's si chiama così? Un tributo a suo fratello?

"No, quando ho saputo di poter procedere ero al Golfo degli Angeli a Cagliari. Così è nata l'ispirazione".

Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 28 settembre 2020. Sono sette, compreso l'ormai ex cardinale, Angelo Becciu. Sono accusati, a vario titolo, di peculato, abuso di autorità e corruzione. E presto finiranno a processo. Il Vaticano ha deciso di accelerare nel procedimento sulla gestione dei fondi dell'Obolo di San Pietro che parte dall'acquisto spregiudicato tra il 2013 e il 2018 di un palazzo nel centro di Londra, con un investimento di circa 300 milioni. Il palazzo a Kensington, al 60 di Sloane Avenue, era la parte più importante di un investimento più complesso, con capitali che la Santa Sede aveva in conti svizzeri: un investimento, quello londinese, che si è rivelato svantaggioso per il Vaticano ma che ha permesso al finanziere Raffaele Mincione e al broker Gianluigi Torzi di intascare 16 e 10 milioni come commissioni per la transazione. […] Il broker Torzi, che era stato fermato dalla Gendarmeria Vaticana, ha collaborato alle indagini. […] Gli altri sei sotto accusa - tutti già sospesi dal Papa - sono monsignor Alberto Perlasca, già capo dell'ufficio che gestisce l'Obolo di San Pietro, monsignor Maurizio Carlino, capo dell'Ufficio informazione e Documentazione; due dirigenti della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi; il direttore dell'Aif (l'Autorità di informazione finanziaria) Tommaso Di Ruzza e un'addetta all'amministrazione, Caterina Sansone. Chi conosce il dossier parla di «fatti purtroppo chiari» e «assai documentati». […]

(ANSA il 29 settembre 2020) - Non ci sarebbe solo il palazzo di Sloane Avenue, ma la Segreteria di Stato vaticana avrebbe investito altri 100 milioni di sterline in appartamenti di lusso a Londra. Lo scrive il Financial Times chiamando in causa il ruolo, in questi investimenti, del cardinale Angelo Becciu, all'epoca dei fatti Sostituto. Si tratterebbe di "un portafoglio di appartamenti di altissimo livello a Cadogan Square e dintorni, a Knightsbridge, uno degli indirizzi residenziali più costosi di Londra". "I nuovi documenti, che non configurerebbero alcun illecito - precisa il giornale della City -, gettano ulteriore luce sulle attività finanziarie della Segreteria di Stato".

A.Dar. per “la Verità” il 26 settembre 2020. Gran parte dell'inchiesta che ha portato alle dimissioni del cardinale Angelo Becciu ruota intorno alla gestione dei soldi della segreteria di Stato dal 2011 al 2018. Seguendo i flussi di denaro Alessandro Diddi e Gian Piero Milano, i due promotori che si stanno occupando dell'indagine, scoprirono che 50 milioni di euro erano finiti nel fondo Centurion Global Fund, con sede a Malta, gestito dal finanziere Enrico Crasso, 71 anni, con residenza in Svizzera. Parte di queste risorse fanno parte dell'Obolo di San Pietro, ovvero soldi in teoria destinati ai poveri o spesso ai missionari che vivono in zone di guerra. È un pacchetto di denaro su cui papa Francesco vuole la massima attenzione, anche per evitare troppa pubblicità. Proprio Becciu avrebbe deciso all'epoca di mettere i 50 milioni nel fondo Centurion, anche grazie al rapporto di fiducia con Crasso. Ed è proprio sul rapporto tra i due, il finanziere svizzero e il cardinale, che si incentra la maggior parte delle indagini, che vogliono approfondire anche possibili spostamenti di denaro in paradisi fiscali. Perché proprio su questo asse si sarebbero sviluppati sia l'affare dell'immobile di Londra da 350 milioni di euro sia molti altri simili. Tra questi ci sarebbe anche quello del possibile investimento da 200 milioni di euro in una piattaforma petrolifera in Angola. Anche in questo caso Becciu si sarebbe rivolto a Crasso, che all'epoca era in Credit Suisse. Del resto Crasso è stato per anni il gestore delle finanze della segreteria di Stato vaticana. Sin dal 1993, come ieri ha precisato all'Adnkronos, «Ho avuto l'onore di gestire la Segreteria di Stato dal 9 marzo 1993. Sono cambiati quattro sostituti per gli Affari generali e tutti hanno apprezzato il lavoro svolto». E soprattutto spiega di non «aver mai gestito da solo le finanze vaticane» e di non «aver mai gestito fondi con sede in Paesi in black list». Ora è accusato di estorsione in concorso con il broker Gianluigi Torzi e con Fabio Tirabassi, responsabile dell'ufficio amministrativo della segreteria di Stato. A giugno, dopo l'arresto di Torzi, aveva assicurato di offrire massima collaborazione agli inquirenti, «fiducioso della correttezza» del suo operato. Crasso non è un uomo qualunque nella finanza. Gestisce da anni pacchetti di miliardi di euro. Aveva iniziato negli anni Settanta come responsabile di filiale del vecchio credito italiano, poi dopo un'esperienza in Barclays e in banca Generali c'è stato il salto in Credit Suisse. Da lì si sono aperte le porte del private equity. Sta di fatto che mentre da un lato Becciu scalava le porte di San Pietro fino a diventare cardinale, dall'altro Crasso iniziava a fare carriera. Dopo gli anni in Credit Suisse entra in Azimut, gruppo che nel solo 2019 ha avuto utili per 370 milioni di euro. Crasso è nella divisione svizzera, la Az Swiss. Nel frattempo ha creato nel 2014 una società, la Sogenel, che nel 2016 sarà rilevata proprio dalla Az Swiss, sempre per la gestione di patrimoni e fondi. Sogenel nel solo 2015 gestiva masse per circa 591 milioni di euro, prevalentemente per clienti istituzionali. Ma Crasso non si ferma qui. E stringe accordi anche con Italian Indipendent di Lapo Elkann, rampollo degli Agnelli. È tramite il fondo Centurion, dove sono depositati i 50 milioni di euro dell'Obolo di San Pietro, che avviene la ricapitalizzazione della società che produce occhiali da sole di Elkann. L'investimento è di 6 milioni di euro, per una quota del 25% della società. Proprio nell'aprile 2019 Crasso entra anche nel board di Italian Indipendent. Ma non finisce qui. Perché Centurion si allarga anche a investimenti da 10 milioni di euro con Enrico Preziosi della Giochi Preziosi e arriva a finanziare due film, Men in Black: International e Rocketman, la biografia di Elton John. In Vaticano sospettano che parte dei soldi che Francesco voleva per i missionari abbia preso altre strade.

Carlo Cambi per “la Verità” il 26 settembre 2020. Dicono che da due giorni non faccia altro che passeggiare su e giù nel suo lussuoso e vasto appartamento al piano nobile del Sant' Uffizio. Medita sulla sventura, ma forse anche la rivincita attraverso l'Ordine di Malta. Tolto lui, tra i Cavalieri rischia di scoppiare una «guerra» che indebolisce le finanze e il prestigio del Papa. Va su e giù negli oltre 300 metri quadrati con tutti i comfort, compresa una cucina iperattrezzata con tanto di cappa aspirante tecnologica che non manda fumi all'esterno, accudita da due suore «domestiche». I maligni dicono che la cappa serve a evitare che si confonda il fumo della cottura dell'agnello - uno dei piatti preferiti da sua eminenza, che mai ha dimenticato la sua Sardegna, tanto da averla beneficata con 100.000 euro spediti alla Caritas a Ozieri, dove guardacaso si fanno i sospiri - con la fumata del Conclave, cui Angelo Maria Becciu, per volere del Papa, non potrà più partecipare, ma da cui sperava un giorno di uscire successore di Pietro. Il «licenziamento» di giovedì è stato per Becciu - intimo di Bergoglio - inspiegabile. Giovedì il cardinale di Pattada si è presentato da Bergoglio con la solita lista di santi e beati da promuovere. Lui è prefetto (ora emerito) della Congregazione delle cause dei santi. Ma, finito di leggere, il Papa lo ha stoppato e gli ha detto: da ora non sei più cardinale. Proprio mentre stava per cominciare l'ennesima riunione ristretta con il segretario di Stato, Piero Parolin, il gesuita che tiene i conti del Vaticano, padre Jorge Guerrero Alves, Fabio Gasperini il segretario dell'Apsa, che è la banca centrale del Papa, e monsignor Nunzio Galantino, che dell'Apsa è presidente. Questo conclave si tiene da mesi tutte le settimane per cercare di mettere una toppa al buco milionario londinese. Le dimissioni «spintanee» del porporato sardo aprono un'altra voragine in Vaticano: sia diplomatica che finanziaria. Francesco, nel 2017, per fare fuori del tutto il cardinale americano tradizionalista Raymond Leo Burke lo sollevò dall'incarico come padre spirituale dello Smom e ci ha spedì Becciu. Lo scopo? Riportare il sovrano Ordine di Malta alla totale obbedienza al Vaticano, cercando anche di non perderne la potenza finanziaria. Nel sovrano Ordine di Malta è in corso da anni una «guerra» tra la frazione franco-tedesca, guidata dal Cancelliere dell'Ordine, il barone tedesco Arbrecht Freiherr von Boeselager, che da 40 anni è al comando della burocrazia dello Stato che ha sede in via dei Condotti a Roma, e l'anima americana anglosassone. Fu proprio Boeselager a perorare l'uscita di scena del precedente Gran Maestro, il britannico Matthew Festing, che dovette dare le dimissioni durante un'udienza con Bergoglio, perché aveva osato espellere Boeselager dal «governo». Ma Boeselager restò cancelliere, i Cavalieri scelsero come Gran Maestro il nobile italiano Fra' Giacomo Dalla Torre, che con la nuova costituzione voleva rinsaldare i legami con il Vaticano. Ma Dalla Torre è scomparso in aprile senza aver compiuto l'opera. E la guerra tra i tedeschi che vogliono totale autonomia dalla Chiesa, desiderano una gestione del tutto staccata delle finanze dal rapporto con il Vaticano, in linea sostanzialmente con la nuova teologia della chiesa nazionale voluta dal cardinale bavarese Marx (che strizza l'occhio anche alla pastorale Lgbt e la parte più tradizionalista è riesplosa più forte. Toccava ad Angelo Becciu fermarla e infatti il cardinale sardo alle lettere di Boeselager, che cercava di convocare per novembre a Roma un capitolo generale per eleggere finalmente il successore di Dalla Torre, ha opposto il fatto che toccava a lui gestire la transizione al governo dell'Ordine - ora è retto ad interim dal portoghese Fra' Ruy Gonçalo do Valle Peixoto de Villas Boas - e portare all'approvazione della nuova costituzione. L'improvvisa perdita della berretta cardinalizia apre una crisi anche in via dei Condotti. A questo punto sono possibili due scenari: o Bergoglio ha già in mente un nuovo Gran Maestro, oppure la fazione tedesca della Chiesa è ormai la vera forza. Significherebbe che il cardinale Reinhard Marx - peraltro intimo dell'Elemosiniere del Papa, Konrad Krajewski che molti vogliono successore in pectore di Bergoglio per le sue idee progressiste - ha vinto e il nuovo Gran Maestro deve essere un tedesco fedele alla nuova linea. Il segno della vittoria? Il siluramento di Angelo Becciu.

LA DIFESA DELL’EX CARDINALE. Becciu: «Trattato come un pedofilo, papa Francesco mi ha già condannato». Il prelato sotto accusa: non posso vivere con l’infamia, chiedo un processo. Spero ancora che il Santo Padre di ripensi, ma se non succederà tornerò a fare il prete. Si dica che ho sbagliato, che non dovevo favorire mio fratello: ma non ho compiuto reati. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2020. «Mi sono convinto che sia tutta una bufala. E più ripenso alle accuse che mi sono state rivolte, meno capisco dove ho sbagliato. E, se ho sbagliato, quale sarebbe la gravità dei fatti tale da giustificare il provvedimento preso nei miei confronti dal Santo Padre. Sono stato trattato come il peggiore dei pedofili, messo alla gogna mediatica in tutto il mondo. A questo punto non so neanche se la magistratura vaticana mi convocherà per processarmi: il Papa mi ha già condannato, senza che potessi difendermi. E il marchio di infamia mi rimarrà addosso…».

Chi ha avuto modo di incontrare l’ex cardinale Giovanni Angelo Becciu nelle ultime ore lo ha trovato provato, perfino scosso, ma non ancora rassegnato: al punto che avrebbe deciso di mandare una lettera a Francesco, chiedendogli di ripensarci.

«Spero ancora che lo faccia. In molti casi ho potuto notare la sua umiltà nel capire un errore», avrebbe anticipato. «Ma se non succederà, non alimenterò guerre: chiederò solo di essere mandato a processo. Non posso vivere sotto la cappa di una condanna preventiva…».

Difficile capire che cosa significhi per uno degli uomini più potenti, temuti e forse odiati della cerchia bergogliana, precipitare in venti minuti dal dicastero che decide le cause dei Santi allo status di ex cardinale, colpito dall’anatema papale. Della sua condizione di «prima», racconta chi lo frequenta, rimane solo il grande appartamento nel palazzo dell’ex Sant’Uffizio, coi divani rossi arabescati da disegni dorati, le icone appese alle pareti, i corridoi di marmo e le suorine silenziose: l’unico privilegio lasciatogli dal pontefice dopo il rapido e inappellabile siluramento di tre giorni fa. Ma oggi probabilmente quelle camere gli debbono sembrare non più a un centinaio di metri da Casa Santa Marta, la residenza di Francesco: gli appaiono lontane decine, centinaia di chilometri dalla corte papale e dal potere che monsignor Becciu ha incarnato per anni. E adesso, nonostante i messaggi di solidarietà che riceverebbe, almeno secondo chi racconta la sua verità, il futuro per lui è impastato di incertezza e di incubi. L’ex cardinale sa che essere additati dal Papa come è successo a lui, e privati di «diritti e doveri del cardinalato», significa molte altre cose. A chi ha raccolto le sue confidenze avrebbe detto di temere che scatti «il meccanismo dell’isolamento: quello che ti fa apparire un lebbroso» da tenere a distanza nella piccola e nevrotizzata comunità vaticana. E, benché continui a ripetere di essere «della scuola antica, per la quale il Papa si serve, non si commenta né si critica», fin dalla conferenza stampa organizzata venerdì si è capito che è combattuto: diviso tra l’obbligo di chinare la testa e la tentazione di attaccare; tra l’idea di tacere e l’istinto di chi, colpito in modo inaspettato, si spiega il crollo pensando a un Papa «manipolato». «Mi si dica che ho sbagliato, che non dovevo favorire mio fratello e la cooperativa. Ma da qui ad attribuirmi un reato e trattarmi in quel modo!», ripete agli ecclesiastici che lo chiamano, stupiti e disorientati quanto e più di lui. «In fondo ho distribuito dei soldi alla Caritas, perché come Sostituto alla segreteria di Stato avevo poteri discrezionali per farlo. E il fatto di averli dati a una cooperativa diretta da mio fratello sarà pure stato un errore, ma è servito a favorire un progetto della Diocesi, a dare lavoro a sessanta famiglie sarde». Da quello che ha confidato alle poche persone in contatto con lui ieri, il blitz papale sarebbe stato deciso senza avvisare neanche il segretario di Stato vaticano, il cardinale Piero Parolin, che lo avrebbe saputo dalla televisione. E dunque, il suo rovello continua a essere chi, al di là delle carte della magistratura italiana, abbia architettato quello che per la sua mentalità e conoscenza delle cose vaticane odora di resa dei conti. Le congratulazioni al Papa arrivate subito dal cardinale George Pell, ex prefetto dell’Economia e avversario di Becciu, hanno riaperto vecchie ferite. Eppure, viene da chiedersi se il trattamento subito ora dal potente ex «ministro dell’Interno» di Francesco non riporti anche a quelli subiti in passato, per mano sua, da altri personaggi. Si pensi allo scontro con Pell, chiamato da Francesco a ripulire le finanze vaticane e finito nel tritacarne di un processo per pedofilia in Australia. Quel processo si è concluso con l’assoluzione piena e dubbi inquietanti su un possibile «zampino» dei suoi nemici in Vaticano per inguaiarlo. Oppure al braccio operativo di Pell, il supervisore Libero Milone, costretto a dimettersi per evitare l’arresto, sempre nel 2017. Quando una persona gliel’ha chiesto, Becciu si sarebbe difeso precisando di essere stato sempre e solo «un esecutore della volontà papale». Su Milone, sarebbe stato Francesco a dirgli di chiamarlo e farlo dimettere, ritenendo che avesse esagerato nell’esercizio delle sue funzioni di controllo. Quanto a Pell, Becciu ricorda sempre, a sentire i suoi confidenti, che quando andò in Australia gli scrisse un biglietto per dirgli che «nonostante le nostre contrapposizioni professionali», era dispiaciuto e pregava perché fosse riconosciuta la sua innocenza. Ora, ad essere nella condizioni del sospettato è lui. Anzi, di quello «già condannato; e proprio dal Papa, dal quale fino alle 18.02 del 24 settembre ero considerato un collaboratore fedele, venti minuti dopo un delinquente…», ripeterebbe, incredulo e scosso, nonostante sia famoso per l’autocontrollo. «Mi chiedo quale sia il vero motivo di tutto questo», si tormenta senza darsi una risposta. Da giorni avrebbe cominciato a esprimere dubbi crescenti anche sul modo in cui si muove la giustizia vaticana. Da quanto avrebbe appurato, non si sa nemmeno più se sarà mai possibile un processo contro i mediatori d’affari sospettati per lo scandalo del palazzo londinese di Sloane Avenue: una brutta storia che di nuovo rimanda all’utilizzo anche dell’Obolo di San Pietro. Le indagini sarebbero a un punto morto. Per il resto, spera ancora, disperatamente, in Francesco. «Altrimenti», si sarebbe sfogato, «mi troverò una parrocchietta. In fondo, sono ancora almeno un sacerdote».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 29 settembre 2020. «Voglio proprio togliermi la soddisfazione di guardare Papa Francesco negli occhi». George Pell, il cardinale che voleva ripulire «le stalle vaticane» dalle incrostazioni e dalle gestioni personalistiche quando era zar dell' Economia - prima di finire davanti alla corte australiana con l' accusa di pedofilia uscendone poi assolto - è pronto a farsi 32 ore di volo per arrivare a Roma. E' stato convocato nei prossimi giorni dal Papa. Sarà un viaggio singolare considerando che Francesco sulle riforme finanziarie non volle ascoltarlo e che durante la sua permanenza in carcere, in Australia, nemmeno si fece mai vivo. Il suo arrivo a Santa Marta è da collegare all' inchiesta sul Palazzo di Londra e al riordino delle finanze richiesto dalla maggior parte dei cardinali elettori all' inizio del pontificato per portare nel sistema economico d'Oltretevere i criteri di trasparenza adottati dagli stati europei. Qualcosa, però, ad un certo punto si deve essere inceppato visto che ora nemmeno il bilancio viene più mostrato in chiaro, voce per voce. La mancanza di trasparenza ha portato il Comitato di Moneyval a richiedere una ispezione. Da domani per due settimane una delegazione passerà a setaccio l' amministrazione d'Oltretevere al fine di capire se la Santa Sede si è adeguata agli standard internazionali e può essere mantenuta nell' elenco white-list. L'esame è scattato dopo la perquisizione agli uffici dell' Aif l' Authority finanziaria e il sequestro di informazioni riservate del circuito Moneyval. A fare da garante è il nuovo direttore dell' Aif, ex Bankitalia, Carmelo Barbagallo. L'appuntamento più importante, tuttavia, resta l'incontro Papa-Pell perché potrebbe svelare particolari importanti sui fondi riservati e gestiti dalla Santa Sede. Pell all' epoca li chiamava «i fondi neri». Denaro depositato al Credit Swisse e sul quale si è concentrata l' attenzione dei magistrati. E' lì che la Guardia di Finanza avrebbe raccolto ed elencato movimenti fino a 500 milioni di euro mettendo sotto la lente di ingrandimento, come riporta l'Ansa, anche gli investimenti con un tycoon angolano Antonio Mosquito, conosciuto da Becciu quando era nunzio in Angola e il finanziere svizzero Enrico Crasso, l'uomo che al Credit Swisse opera per conto del Vaticano. Il cardinale Becciu, raggiunto al telefono, si limita a «smentire nel modo più categorico una cosa del genere». Il famoso tesoretto papale che fu al centro di una battaglia tra Pell e il cardinale Becciu. Il cardinale australiano insisteva perché tutte le risorse fossero centralizzate, un po' come accade in qualsiasi azienda, senza subire dispersioni e garantire facili controlli. Becciu, invece, difendeva la autonomia della Segreteria di Stato, quelli erano fondi riservati. Erano due visioni opposte, inconciliabili. Per dare una accelerata alle indagini su Londra - da dove è partito tutto e dove si inserisce anche l'accusa di peculato al cardinale Becciu - Francesco ha rafforzato la squadra degli inquirenti assumendo un professore di diritto bancario come Promotore di Giustizia applicato, nella persona di Gianluca Perone. Si tratta di un esperto di questioni commerciali che potrà dare una mano a decrittare i contratti inglesi accesi per l'acquisto dell'immobile londinese e la costituzione di tante società in Lussemburgo attraverso una serie di scatole cinesi. In Vaticano ora si attendono le prossime mosse, a cominciare dai rinvii a giudizio dei sei funzionari licenziati l'anno scorso oltre che quello del cardinale Becciu, visto che perdendo le tutele proprie del cardinalato potrebbe essere chiamato in giudizio. Tuttavia sono in molti, in Vaticano, a scommettere che non si arriverà mai al processo e che potrebbe esserci una archiviazione. Ma sono supposizioni. Quel che è certo che il Papa si è messo nelle mani dei magistrati che andranno avanti. Resta, invece, insoluto un punto dolente per tutti. I conti vaticani a causa del Covid vanno male e la centralizzazione delle risorse è una strada che per forza di cose si sta facendo largo. Il Papa già nella prima riunione dopo il lockdown dei capi dicastero, a maggio, non solo si raccomandò di risparmiare, non fare assunzioni, eliminare le spese superflue. Ordinò anche di affidare in tempi brevi le risorse dei dicasteri depositate nei vari istituti di credito all'Apsa, il forziere guidato da Nunzio Galantino.

Non solo peculato. Si allunga la lista delle accuse a Becciu. Massimiliano Coccia su La Repubblica il 26 settembre 2020. Il cardinale si difende: "Non so ancora di cosa mi incolpano”. Ma in settimana le prime carte saranno svelate. Secondo la sua vecchia agenda, l’ex porporato Angelo Becciu sarebbe dovuto essere a Napoli per officiare - in qualità di Prefetto della Congregazione pontificia per le Cause dei Santi - la messa di beatificazione di Maria Luigia del Santissimo Sacramento da Casoria, ma il suo posto di rappresentante di Papa Francesco è stato preso dal Cardinale Crescenzio Sepe. Il primo impegno di una lunga serie annullato da Becciu ed il primo pomeriggio di silenzio e solitudine p...

Caso Becciu, il silenzio della Cei agita i vescovi “Non possiamo tacere sempre”. Paolo Rodari su La Repubblica il 26 settembre 2020. Non una parola sui soldi dell’8 per mille spostati su richiesta del cardinale. Gli imbarazzi e i veleni delle ultime ore hanno risvegliato i malumori di chi vorrebbe una conduzione più interventista. L’unico nella Cei che ha battuto un colpo è stato Corrado Melis, vescovo di Ozieri, la terra di origine del cardinale Angelo Becciu: la diocesi sarda ha sempre percepito l’erogazione di fondi da parte della Cei «attestando di non aver mai impiegato un solo centesimo in risorse per finalità diverse da quelle umanitarie e caritatevoli», ha detto. Per il resto, sui fondi provenienti dall’8 per mille che sarebbero stati dest...

Dalle nunziature a Vatileaks il potente che conosceva tutti i segreti della Santa Sede. Marco Ansaldo su La Repubblica il 24 settembre 2020. Origini sarde, scuola diplomatica, organizzatore di storici viaggi papali, per anni è stato il sostituto della segreteria di Stato. Lo strappo è traumatico. Tanto più se arriva da un diplomatico, cioè da una persona abituata già a esprimersi in modo cauto e soffuso. Messo all'interno della Segreteria di Stato vaticana, tra stucchi, silenzi e poltrone piene di ovatta, la combinazione raggiungeva il suo effetto più alto. Questo era Angelo Becciu: il più fine, informato e attento diplomatico all'interno della Santa Sede. Un uomo piccolo di statura, ma di altissimo quoziente...

Estratto dell’articolo di Massimiliano Coccia per “la Repubblica” il 26 settembre 2020. […] La svolta nelle indagini è stata infatti resa possibile dalle confessioni di uno tra i collaboratori più stretti (monsignor Mauro Carlino, monsignor Alberto Perlasca, Fabrizio Tirabassi, Vincenzo Mauriello), una svolta che ha fatto crollare il muro di silenzio che ha sempre avvolto il modus operandi di Becciu. Una svolta che […] chiarisce il ruolo dei banchieri che ruotavano intorno all'allora sostituto della segreteria di Stato vaticana […] Enrico Crasso, anzitutt, l'ex di Credit Suisse oggi Ceo di Sogenel Capital Holding, una fiduciaria di Lugano di cui è presidente, l'uomo al quale Becciu aveva affidato la cassa vaticana, con una operazione lecita ma decisamente insolita, lasciando che investisse i denari della segreteria di Stato verso fondi speculativi. […] Se il cardinale non sapeva cosa facesse lui coi soldi, il finanziere d'altra parte non li gestiva da solo «se non in piccolissima parte». Né, precisa, ha mai «indirizzato investimenti in paradisi fiscali o in paesi offshore ». Eppure la sede del Fondo Centurion capitanato da Crasso che ricorre molte volte nelle cedole di investimento della segreteria di Stato, è a Malta. Negli affari della segreteria di Stato compaiono poi altri due personaggi chiave del sistema dell'ex cardinale, A.dro N.ceti e L.nzo V.gelisti. Il primo è direttore di Valeur Capital, ex credit Suisse. Il secondo amministratore delegato del gruppo Valeur. […] I due hanno agito insieme nella compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra: la vicenda che ha dato origine all'inchiesta ma che è solamente un caso singolo, il prodotto finale di una prassi operativa delle finanze vaticane. La loro azione è testimoniata anche dal bonifico inviato nell'ambito dell'acquisizione del palazzo di Londra a dicembre del 2017 da una società che gestisce alcuni immobili vaticani a Londra a Eight Lotus Petals Ltd, società riconducibile ai due. Bonifico stoppato dall'antiriciclaggio della banca intermediaria. Verrà inviato nuovamente un mese dopo e recapitato questa volta senza problemi a una società riconducibile ad A.dro N.ceti.

Cardinale Becciu, svolta nelle indagini grazie alla confessione di un suo stretto collaboratore. Massimiliano Coccia e Susanna Turco su L'Espresso il 25 settembre 2020. A raccontare il funzionamento del «sistema» è stato uno dei quattro del cerchio magico, con la consegna di carte e conti alle autorità giudiziarie vaticane. Intanto, in conferenza stampa, l'ex porporato nega tutto ma fornisce una ricostruzione che non spiega niente. «L'inchiesta dell'Espresso? L'ho letta solo in parte». «Con il Papa dovevamo solo parlare di alcune cause di beatificazione», dice per spiegare la sua «sorpresa» l'ormai ex cardinale Angelo Becciu alla fine della conferenza stampa sulle sue dimissioni – dopo l'accelerazione per le notizie sul «metodo Becciu» contenute nell'inchiesta dell'Espresso. L'incontro con il Pontefice, giovedì pomeriggio alle sei, era in effetti già fissato da tempo: si trattava di un incontro di rito. Si è invece «a sorpresa» trasformato in altro: nella presa d'atto e comunicazione, da parte di Papa Francesco, dell'ingente materiale in mano agli inquirenti, dopo la collaborazione con le autorità vaticane, circa il funzionamento del sistema Becciu, con la consegna di relative carte e conti, da parte di un componente del cerchio magico del cardinale. L'Espresso è infatti in grado di rivelare che la svolta nelle indagini è stata resa possibile dalle confessioni di uno tra i collaboratori più stretti (monsignor Mauro Carlino, monsignor Alberto Perlasca, Fabrizio Tirabassi, Vincenzo Mauriello). La scelta di Becciu di respingere ogni addebito, evitando di entrare nel merito, è arrivata dal fatto che l'ex cardinale, attraverso il lobbista Marco Simeon, che cura la sua strategia comunicativa e politica, era venuto a conoscenza dell'articolo in uscita sull'Espresso. Un articolo che peraltro in conferenza stampa Becciu afferma aver letto «solo in parte». Davanti ai giornalisti l'ex cardinale si dice «sorpreso», «stralunato», immerso in una situazione surreale. Eppure è, al contrario, in più tratti surreale la ricostruzione che offre circa le motivazioni che hanno portato alle sue dimissioni da prefetto della congregazione della causa dei Santi e la sua rinuncia dalle prerogative cardinalizie, dopo  l'inchiesta con cui l'Espresso ha cominciato a ricostruire il «metodo»  seguito nei sette anni in cui ha guidato la Segreteria di stato. Spiegando in sostanza che è stato il Papa a chiedergli le dimissioni, nel corso di un difficile incontro, e che lui non intende «in alcun modo sfidarlo», ma che si tratta di un «equivoco» che lui è intenzionato a spiegare. Il chiarimento che intende fornire però, in conferenza stampa si rivela opaco, parecchio sfocato, e condito da affermazioni gravi. Come nel momento in cui svela una decisamente scarsa fiducia nelle intenzioni e doti del pontefice, quando chiarisce di «sperare» che il Pontefice non sia manipolato. «Manovrato? Spero di no, spero di no. Oppure gli hanno dato informazioni errate», precisa. Becciu dice che non è vero niente – come del resto farà anche un comunicato diffuso dalla sua famiglia. Eppure non chiarisce, non spiega, non fornisce una difesa strutturata. Arriva addirittura a sfiorare l'argomento celebre dell'«a mia insaputa», quello cesellato da Claudio Scajola a proposito dell'acquisto – a prezzo agevolato - della casa di fronte al Colosseo che gli costò il ministero e la carriera politica. Quando si chiede al cardinale del ruolo di Enrico Crasso nella gestione delle finanze vaticane, infatti, Becciu esibisce un esitante «non so». L'uomo che da sostituto della segreteria di Stato, con una operazione lecita ma decisamente insolita, ha affidato l'intera cassa vaticana a un finanziere proveniente da Credit Suisse, lasciando che investisse i denari della segreteria di Stato verso fondi speculativi con sede in paradisi fiscali, sostiene infatti adesso che di quei giri immensi di denaro non ne sapeva nulla di preciso. «Enrico Crasso non è che io l'ho seguito passo passo: lo incontravo una volta l'anno», ha risposto all'Espresso: «Chi seguiva le operazioni erano i miei dell'amministrazione. Lui, sugli investimenti, fatti mi diceva: 'È stato fatto un investimento per tale e tale opera e tale altra: ma non è che mi diceva la ramificazione di tutti questi investimenti. Quindi non saprei, ecco, Crasso dove abbia investito». Eppure, a quel che risulta da fonti finanziarie e da documenti di cui l'Espresso è venuto in possesso, viene fuori che per anni si è ricorso a fondi di investimento che poggiano le propri e sedi in Lussemburgo, o in Asia, o a malta. Non solo: gli stessi fondi di investimento sui quali poi sarebbero state ricollocati anche i proventi costituiti dalle società dei fratelli del cardinal Becciu. Ma di tutto questo, Becciu dice di non sapere. Sostiene, ripetutamente, di non aver fatto affari e di non aver «mai incontrato» due personaggi chiave dell'inchiesta dell'Espresso e della compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Si tratta di A.dro N.ceti, direttore di Valeur capital ed ex Credit Suisse, e di L.enzo V.gelisti, amministratore delegato del Gruppo Valeur, una società con sede a Lugano che veniva usata per nascondere al Papa centinaia di milioni del Vaticano, attraverso un meccanismo di scatole cinesi. E su entrambi, Becciu dice: «Non so chi siano». Al contrario, proprio come qualsiasi uomo di potere – di Stato o di Chiesa - che abbia smarrito il senso di sé, Becciu nella sua ricostruzione della gestione dei rapporti familiari dimostra di non ravvisare alcun limite morale, di opportunità, nel suo comportamento. Nel momento in cui spiega come si è regolato nei rapporti con le cooperative e le società guidate dai suoi fratelli, infatti, Becciu si preoccupa soltanto di difendersi dall'accusa di aver commesso un reato («dalle indagini che vengono fatte dalla guardia di finanza, quindi italiane immagino, richieste dai magistrati vaticani vaticani, apparirebbe che io abbia commesso crimine reato di peculato», dice), mentre derubrica a «boutade» tutto il resto. Per quel che riguarda le tre tranches di somme dirottate sulla cooperativa Spes, braccio operativo della Caritas di Ozieri e guidata da suo fratello Tonino, Becciu fornisce una qualche spiegazione soltanto su quella da 100 mila euro che riguarda un fondo che attinge all'Obolo di San pietro, di suo diretto controllo: dice sì che l'ha destinata alla cooperativa del fratello, per fini caritatevoli perché «sapevo che era una diocesi in difficoltà», e precisa che il denaro si trova ancora nelle casse della Caritas di Ozieri («quindi non capisco perché vengo accusato di peculato e favoreggiamento: quei soldi sono ancora lì»); nessuna chiarimento invece riguardo alle due tranches da 300 mila euro ciascuna, chieste e ottenute dal cardinale sempre in favore della cooperativa Spes, attinti dalla Cei dai fondi dell'otto per mille: «Sono i soldi della Cei che il Vescovo gli destina, e poi è tutto documentato». Solo questo, dice, Becciu: «Mi si accusa di aver raccomandato la cooperativa, ma lì il peculato non c'è. E poi si tratta di soldi della Cei». Come a dire che non era lui ad erogare il fondo. E che comunque nel raccomandare non c'è nulla di male. Nessuna spiegazione nemmeno circa la società Angel's, che fa capo a suo fratello Mario e che, utilizzando come la Spes il mercato della solidarietà, produrrebbe e imbottiglierebbe la “birra Pollicina”, che tuttavia non si trova in commercio né in distribuzione. «Una boutade» si limita a dire Becciu. Qualche dettaglio in più riguarda i lavori commissionati al fratello Francesco, falegname, tra il 2005 e il 2010, quando Becciu era Nunzio apostolico: dice in sostanza di aver detto al fratello «fammi due porte e mandamele» quando era in Angola e di aver chiamato il fratello per la nunziatura a Cuba, perché era «difficile trovare il materiale e i muratori»: «Chiamatelo conflitto di interessi!», è il commento di Becciu. All'uscita, un giornalista francese chiede lumi: ha capito che si parlava di ferramenta, è disorientato, trova comunque strano si sia parlato di lavori di falegnameria. Prende comunque appunti, mentre l'ex cardinale si allontana verso la sua auto, la cupola di San Pietro sullo sfondo.

Il «sistema Becciu» sempre più a nudo: ecco come finanziava lobby e reti di potere. La società del fratello Mario, la Angels's, non produce da sé la birra Pollicina e risulta «inattiva». Il ruolo di Mosquito, l'affare Falcon Oil, il Fondo Centurion e i finanziamenti ai russi. E adesso il cardinale Pell arriva in Vaticano. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 28 settembre 2020. In queste ore,  dopo le dimissioni del cardinale Angelo Becciu , abbiamo assistito all’evoluzione di una strategia difensiva consolidata, che affonda le radici nell’atavico ed italianissimo «tengo famiglia» prodotto del familismo amorale che attanaglia da sempre la cosa pubblica, anche quando dovrebbe essere oltre che pubblica anche sacra. Ogni formula di addebito descritto dalla nostra inchiesta, che ha portato alla rinuncia del cardinale a carica e privilegio, viene infatti giustificato ora con la carità (i 700 mila euro girati dal cardinale alla cooperativa di un fratello), ora con la naturale inclinazione ad usufruire di un (altro) fratello falegname per cambiare infissi e arredi, e ancora con la possibilità di autonomia imprenditoriale di un (terzo) fratello, docente di psicologia, nel ramo della distillazione della birra. Proprio su quest’ultimo, con l'asserito argomento dell'assenza di irregolarità, si sono concentrate le attenzioni: Mario, titolare dell’impresa “Angel’s srl” che tra le altre cose avrebbe ricevuto un ingente finanziamento di un milione e mezzo di euro, di cui saldati circa la metà, per il progetto di inclusione sociale che sarebbe dietro la Birra “Pollicina”. Tuttavia, come siamo in grado di chiarire, non esiste e non è mai esistito alcun progetto sociale inerente alla realizzazione del prodotto birrario: infatti la Birra Pollicina viene imbottigliata e prodotta dal birrificio “Alta Quota”, una realtà nata nel 2010 a Cittareale, in provincia di Rieti. Il birrificio Alta Quota, che abbiamo contattato, dichiara che: «Si è trattato di una lavorazione conto terzi (come spesso accade nel nostro mondo) che ci è stata commissionata dalla Angel’s Srl. Il nostro birrificio offre commercialmente la possibilità di lavorazioni conto terzi con personalizzazione dell’etichetta. La fornitura è stata effettuata a fine 2019 per circa mille litri di birra imbottigliati in diversi formati. L’intera fornitura è stata regolarmente fatturata e pagata». Il birrificio è esperto della trasformazione del pane raffermo: già porta avanti un progetto di riuso del pane in eccesso della panetteria Eataly di Roma, trasformandolo in birra che viene donata alla Fondazione Slow Food, impegnata col progetto “Menu for change”. Per quel che riguarda la birra Pollicina – nome che allude appunto alla favola di Pollicino e alla raccolta delle molliche per ritrovare la strada di casa - il pane proviene invece da un forno in provincia di Frosinone. A livello aziendale, inoltre, la Angel’s srl risulta ad una visura camerale «inattiva», vale a dire o non ha mai comunicato all’Agenzia delle Entrate il proprio inizio delle attività o non ha presentato i bilanci. Resta quindi da capire come una società inattiva possa movimentare una somma ingente di denaro e come, con un solo dipendente registrato, avrebbe potuto far fronte ad un progetto di socialità così ampio. Inoltre, come si nota dalla pagina Facebook, la Angel’s srl ha continuato a lavorare durante il lockdown con un servizio a domicilio di beni alimentari e di prima necessità e continua tutt’ora le sua attività in un magazzino diverso da quello segnato nella sua visura sociale. Il progetto, quindi, della Birra Pollicina appare chiaro e rappresenta una delle innumerevoli scatole aziendali che servivano per drenare denari e farli girare su una rete economica che avrebbe utilizzato il settore del beverage per una circolazione poco tracciabile del denaro, circuito che sarebbe servito per mantenere viva la rete di clientele e di potere dell’ex cardinale. Il tema che appare evidente, dietro l'asserita casualità degli incontri, è il disegno lobbistico che invece si cela dietro ad ogni singolo affare della famiglia con i contatti dell’ex cardinale. L'uomo d'affari Antonio Mosquito, che tramite una controllata angolana avrebbe finanziato la Birra Pollicina, avrebbe incontrato il cardinale Becciu prima della pandemia, nonostante l’affare “Falcon Oil” non andato in porto, per riprendere il filo di alcuni investimenti effettuati con i soldi della cassa delle segreteria di Stato attraverso il Fondo Centurion del finanziere Enrico Crasso. La Segreteria di Stato avrebbe quindi continuato ad investire insieme al tycoon angolano in operazioni coperte. A latere di uno di questi incontri si è parlato anche del finanziamento della ormai celebre birra Pollicina. Mosquito è una figura molto discussa in Angola e ha spesso fatto affari con la figlia del presidente José Eduardo dos Santos che, come ci racconta Giovanni Pigatto, esperto di geopolitica africana, «è rimasto al potere dal 1979 al 2017, incaricando poi il suo vice João Lourenço. Nei trentotto anni di governo dos Santos, la famiglia presidenziale si arricchì a dismisura soprattutto grazie alle concessioni su petrolio e diamanti, tanto che la figlia del presidente, Isabel dos Santos, è a oggi al 13º posto tra le persone più ricche dell’Africa (prima tra le donne) secondo la rivista Forbes. Proprio per Isabel dos Santos, - continua Pigatto - nel 2014 António Mosquito ha fatto da prestanome per acquisire il 66,7 per cento della compagnia di costruzioni Soares da Costa e il 27,5 per cento di Controlinveste, una holding nel campo della comunicazione che possiede il quotidiano portoghese Diário de Notícias e la stazione radio TSF. Inoltre, la holding GAM (Grupo António Mosquito) risulta per il 20 per cento proprietà proprio di Isabel dos Santos». I rapporti tra Antonio Mosquito nascono proprio negli anni in cui l’ex porporato era Nunzio in Angola e sarebbero stati cementati dalla presenza di Enrico Crasso, che inizia subito a tessere affari con lui tentando di far investire, nella Falcon Oil, lo stesso potenziale economico che sarà disperso nell’operazione del palazzo di Londra (circa 400 milioni di euro). L’affare Falcon Oil, come dimostrano documenti inediti di cui siamo venuti in possesso e che vi mostriamo, arriva ad una fase di lavoro molto avanzata per poi arrestarsi. Quel blocco causerà allo stesso Mosquito un grave problema con il resto della compagine energetica: sarà costretto a chiedere un prestito ad una banca angolana per la somma totale di 250 milioni di dollari, la stessa cifra che l’investimento con la Segreteria di Stato avrebbe assicurato. Ma perché l’affare saltò? Secondo quanto apprendiamo da una fonte finanziaria portoghese, le autorità di Lisbona attenzionavano Mosquito e Isabela Dos Santos proprio in relazione all’affare petrolifero. Un lobbista avrebbe quindi avvertito Crasso, all’epoca ancora in quota Credit Suisse, e l’affare saltò per evitare di finire nelle maglie di indagini internazionali, dirottando le attenzioni dei finanzieri sul mattone londinese. Ma il caso di Mosquito non è il solo: i fondi della Segreteria di Stato gestiti dalla società di Crasso e dirottati sul fondo maltese Centurion hanno finanziato imprese di oligarchi russi e bielorussi. Mentre papa Francesco combatteva la corruzione, i paradisi fiscali, le ingerenze putiniane negli affari Vaticani e cercava di bilanciare la geopolitica dei muri di Donald Trump, l’ex cardinale aveva affidato le proprie casse a chi faceva affluire dividendi ad imprese che andavano ad ingrossare le fila della propaganda antivaticana. Questo ingente fiume di denaro off-shore, come quello angolano che avrebbe finanziato la “Birra Pollicina”, rappresenta uno schema, un esempio di pulizia del denaro, di transito di capitali per finanziare la politica dell'ex cardinale, per oliare meccanismi, disarcionare avversari e ingrossare i conti correnti personali dei familiari. Un piano che lentamente sta emergendo: mollica dopo mollica la birra Pollicina, invece che portarci a evitare gli sprechi alimentari, sta conducendo gli investigatori a ricostruire il sistema Becciu. E intanto martedì il cardinale George Pell, nemico numero uno dell'ex porporato, arriverà in Vaticano.

Preciso che L'Espresso il 28 settembre 2020. Egregio Direttore, la presente è inviata in nome e per conto delle società facenti parte del “Gruppo Valeur” in relazione al recente articolo pubblicato nel quale, in maniera del tutto inopinata e senza alcun appiglio alla realtà dei fatti vengono menzionate più volte società del Gruppo Valeur e sono presentate (senza alcuna necessità se non con un intento volutamente persecutorio) anche le foto dei Sigg.ri L.nzo V.gelisti e A.ndro N.ceti, rispetto ad una vicenda (legata principalmente a fatti attinenti al Card. Becciu) con la quale essi nulla hanno a che spartire. In particolare si rileva come il Vostro articolo riporti sia direttamente, sia facendo riferimento con estesi virgolettati (riferibili evidentemente alle parole che sarebbero state pronunciate da un “ex consulente di Valeur”), circostanze del tutto false nonché fatti e ricostruzioni non rispondenti al vero che sono gravemente calunniose e diffamatorie nei riguardi delle società del Gruppo Valeur e dei soggetti ivi menzionati. Le gravissime accuse che sono lanciate nei confronti di Valeur, prima fra tutte quella di aver operato per anni sostanzialmente in combutta con il Sig. Enrico Crasso e/o con il Card. Becciu per assicurare “un’ampia capacità di nascondimento e transito” ad investimenti della Segreteria di Stato del Vaticano o del Card. Becciu, ed ancora l’accusa di mantenere nelle casse della società “i soldi della speculazione dell’affare londinese” così come “i dividendi che tutti gli attori della vicenda hanno incassato, oltre che alle rispettive finanze private già fatte confluire negli anni passati”, hanno un palese e gravissimo contenuto diffamatorio, dal momento che, contrariamente a quanto affermato nel Vostro articolo:

1) Valeur Group non ha mai operato congiuntamente con il Sig. Enrico Crasso, il quale ultimo peraltro non ha mai presentato L.enzo V.gelisti al Card. Becciu;

2) L.enzo V.gelisti non ha mai incontrato il Card. Becciu né il fratello o altri soggetti a lui affiliati o riconducibili;

3) né Valeur Group né L.nzo V.gelisti o A.ndro N.ceti (nella loro veste di funzionari di Valeur) hanno mai strutturato o concluso gli investimenti con la Segreteria di Stato del Vaticano a cui si fa riferimento nell’articolo, e tantomeno hanno avuto alcun ruolo nella vicenda di cui all’immobile di Sloane Avenue acquistato in passato dalla Segreteria a Londra;

4) non vi sono, né potrebbero esserci, dal momento che non sussiste alcuna relazione diretta tra Valeur, i Sigg.ri V.gelisti e N.ceti ed il Card. Becciu, denari “custoditi” nelle casse di società o altrove da parte di Valeur e derivanti da decisioni di investimento o altro del Card. Becciu o di suoi eventuali sodali;

5) né Valeur Group né L.nzo V.gelisti o A.ndro N.ceti risultano al momento sotto indagine di qualsiasi tipo da parte di qualsiasi organo, del Vaticano o di altre giurisdizioni.

L’articolo contiene inoltre marcate allusioni e riferimenti impliciti ed espliciti ad una sostanziale vicinanza di Valeur e dei Sigg.ri V.gelisti e N.ceti rispetto agli investimenti privati o meno del Card. Becciu o a “schemi consolidati” che sarebbero stati portati avanti negli anni per la gestione di tali investimenti. Nulla di più falso, peraltro presentato artatamente con riferimenti lessicali che nulla hanno di circostanziato (non sussistendo nei fatti alcuna prova a sostegno) ma molto lasciano intendere ed ipotizzare al lettore, ovviamente senza alcuna base concreta. Anche la presunta “documentazione a supporto” che viene citata nel Vostro articolo, per quanto è stato possibile rilevare dall’articolo medesimo, non presenta alcuna attinenza rispetto alle gravissime accuse che sono mosse nei confronti di Valeur. Al contrario, invece, tutte le affermazioni sopra riportate riguardanti Valeur e i Sigg.ri V.gelisti e N.ceti sono ampiamente documentabili da Valeur con dovizia di prove a supporto. Ciò che appare chiaro, invece, è che la Vostra Redazione sia stata indotta in errore – anche se sempre gravissimo ed inescusabile – nell’aver dato credito a quanto raccontato da un soggetto che presentatosi come “ex consulente di Valeur” abbia inteso gettare discredito su un gruppo che ha invece una reputazione ineccepibile sul mercato, un portafoglio di clienti invidiabile, e che da’ lavoro a diverse decine di impiegati in vari paesi del mondo. Ebbene Vi sarebbe bastato fare delle rapide verifiche o chiedere chiarimenti a Valeur per scoprire come proprio pochi mesi fa la stessa Valeur abbia allontanato più di un collaboratore del gruppo per motivazioni attinenti a gravi mancanze rilevate nel loro operato. Non è difficile quindi ipotizzare come tali soggetti, mossi da spirito di rivalsa o di puro calcolo personale, abbiano inteso utilizzare la Vostra testata per bieche manovre di diffamazione. Ciò che lascia veramente stupiti è però la leggerezza con cui affermazioni di inaudita gravità riguardanti Valeur e i Sigg.ri V.gelisti e N.ceti siano state da Voi pubblicate senza la benchè minima verifica o senza premunirsi di ascoltare l’eventuale posizione di Valeur e dei Sigg.ri V.gelisti e N.ceti al riguardo. Alla luce di quanto sopra si richiede e diffida la Vostra Società e la Redazione tutta, a:

1) rimuovere al più presto il suddetto articolo dalla pagina internet espressonline.it o quantomeno ad espungerne tutti i riferimenti al Gruppo Valeur, in quanto palesemente diffamatori, non provati e frutto di manovre architettate ad arte da terzi contro il Gruppo Valeur, ma con inevitabili ripercussioni anche nei confronti della Vostra Società; e

2) bloccare la stampa cartacea della rivista L’Espresso, al fine di espungere dal suddetto articolo ogni riferimento o menzione del Gruppo Valeur.

In mancanza di un immediato positivo riscontro alla presente da parte Vostra, Valeur sarà costretta ad adire tutte le più opportune sedi giudiziarie al fine di tutelare i propri diritti ed interessi, atteso il gravissimo ed ingentissimo danno alla reputazione commerciale nei riguardi di Valeur e personale nei riguardi dei Sigg.ri V.gelisti e N.ceti che l’articolo ha apportato. Né basterebbe, peraltro, a sanare i danni che si stanno già producendo e che si produrranno irrimediabilmente qualora l’articolo dovesse essere pubblicato e permanere nella formulazione attuale, l’eventuale pubblicazione di una smentita o di una richiesta di rettifica da parte di Valeur. Qualora infatti la Vostra Redazione dovesse decidere di assumersi il rischio derivante dal mantenimento dell’articolo in questione nella sua formulazione attuale in relazione a Valeur, si richiede in ogni caso di pubblicare al più presto la categorica smentita proveniente da Valeur e dai Sigg.ri V.gelisti e N.ceti e di cui ai punti da (i) a (v) che precedono, oltre all’inserimento di apposite rettifiche direttamente nella versione prima online dell’articolo, e successivamente nella versione cartacea del Vostro settimanale, per dare conto della posizione di Valeur. Si confida che quanto sopra sarà tenuto nella massima considerazione e che la Vostra Redazione adotterà gli urgentissimi provvedimenti che sono richiesti e necessari per bloccare la diffusione delle gravissime notizie calunniose, diffamatorie e financo ingiuriose che sono contenute nel suddetto articolo. Si rimane in cortese quanto urgente attesa di riscontro, Distinti saluti, Gruppo Valeur

Il sacco del Vaticano: “Svuotato anche il conto del Papa”. Floriana Bulfon il 29 settembre 2020 su L'Espresso. Le carte dell’inchiesta della Santa Sede. Appalti al Bambino Gesù a uomini dei clan. Prelevati perfino 20 milioni di sterline dal deposito riservato di Francesco Un documento straordinario di 59 pagine solleva il sipario sul verminaio di corruzione che ha travolto il Vaticano. Onnipotenti e rapaci, hanno architettato operazioni diaboliche per depredare la Santa Sede e messo persino le mani sul conto riservato di Francesco, la più protetta delle casse vaticane. È il ritratto impietoso dell'assalto alle finanze vaticane che emerge dalla rogatoria presentata dalla procura pontificia: la ricostruzione di un saccheggio da 454 milioni. L&...

ANSA il 29 settembre 2020. "Tutti noi che conosciamo il Cardinale Becciu ci auguriamo presto che gli venga data la possibilità di difendersi e provare l'inconsistenza e assurdità delle accuse. Allo stesso tempo non ho dubbi della rettitudine e lealtà di Papa Francesco che opera per il bene che cresce silenziosamente nella Chiesa". Lo dice il vescovo di Ozieri, monsignor Corrado Melis in un'intervista alla Nuova Sardegna sulla vicenda che ha coinvolto il cardinale sardo Angelo Becciu, finito al centro di un'inchiesta del Vaticano per peculato. "Sulle carte riportate (dalla stampa, ndr) è questione di punti di osservazione e soprattutto di occhi di chi legge - aggiunge il vescovo della Diocesi del Sassarese -: occhi di fede intelligente che vedono soldi del papa e dell'8xmille investiti per raggiungere persone e situazioni indigenti "esistenzialmente periferiche" (direbbe papa Francesco), oppure occhi di condanna mediocre alimentata da un'informazione sempre più coperta da assicurazioni professionali contro le querele e sempre meno guidata da etica e deontologia professionali". L'alto prelato di Ozieri racconta al quotidiano anche di essere "andato a ricercare nell'archivio" trovando "conferma della donazione di questi 25mila euro dalla Segreteria di Stato alla Caritas diocesana in occasione dell'incendio del panificio il 15 settembre del 2014, per la ripresa delle attività panificatrici. Il panificio della cooperativa Spes, nata dalla Caritas diocesana per fare inserimenti lavorativi e dare la dignità del lavoro alle persone disoccupate o disagiate del territorio".

FAMIGLIA BECCIU PRESENTA 2 DENUNCE - Due denunce per diffamazione e calunnia sono state presentate dalla famiglia del cardinale Angelo Becciu. Lo annuncia all'ANSA l'avvocato Ivano Iai, difensore dell'intero nucleo familiare dell'alto prelato sardo finito al centro di un'intricata vicenda finanziaria. "Comunico di aver predisposto e rimesso agli accertamenti delle Autorità competenti, su incarico e a tutela della famiglia Becciu - afferma il legale - due denunce per violazione delle disposizioni penali in materia di calunnia e diffamazione aggravata e di divieto di rivelazione di segreti d'ufficio e d'indagine, fattispecie di malcostume corruttivo che, attraverso la fuoriuscita illecita di informazioni e documenti riservati continuativamente divulgati dai media in forma distorta e denigratoria, ha originato la consumazione di ulteriori reati e la lesione dei diritti di diversi interessati", conclude l'avvocato Iai.

Fabrizio Massaro per il “Corriere della Sera” il 29 settembre 2020. Più di un anno intero di donazioni al Papa. Tanto valgono le commissioni pagate a una manciata di professionisti, banchieri, intermediari che in questi anni hanno avuto un ruolo nelle operazioni finanziarie della Segreteria di Stato del Vaticano. Secondo una stima basata sui contratti di cui si ha notizia, si arriva a circa 70 milioni di euro spesi negli ultimi anni. Spesso a condizioni molto onerose se non addirittura fuori mercato. È uno dei vari rivoli che in Vaticano stanno seguendo per ricostruire i flussi di denaro e le relazioni con professionisti e intermediari degli ultimi anni. Intanto dall'inchiesta sull'investimento da 350 milioni di euro complessivi nel palazzo di Sloane Avenue a Londra emerge un verbale di Giuseppe Milanese, presidente della cooperativa sanitaria Osa e amico di Papa Francesco. Milanese, sentito come testimone, ebbe un ruolo nella trattativa con il broker Gianluigi Torzi per fargli lasciare la gestione del palazzo. Milanese riferisce ai promotori di giustizia vaticana Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, di un incontro con Torzi e alcuni suoi «emissari» avvenuto il 6 gennaio 2019: «Mi raccontarono dei costi sostenuti, delle spese di registro, delle spese delle società lussemburghesi, delle due diligence , dei soldi dati a Mincione, dei costi per eventuali ulteriori mediatori, nonché degli ammanchi di cassa che a loro dire erano stati cagionati alle società lussemburghesi. Io ho contestato loro la fondatezza di questi costi. Ho saputo anche in quell'occasione che flussi di denaro dalle lussemburghesi sarebbero stati convogliati a Santo Domingo. Di fronte alla mia meraviglia e alle mie insinuazioni, che non mi sono state negate, su chi potessero essere i destinatari delle somme, intuii che somme di denaro sarebbero state destinate perfino a (Fabrizio) Tirabassi», ex funzionario della sezione amministrativa della Segreteria di Stato, che è uno degli indagati. Riscontri a queste parole per ora non risultano. Torzi ha collaborato con gli inquirenti e dalle rogatorie in Svizzera non emergerebbero fuoriuscite di denaro verso altri soggetti. Un'altra commissione promessa a Torzi - 4 milioni per un affare di crediti deteriorati nella sanità - che risale a sei mesi prima del suo intervento sul palazzo, rientra anch' essa nell'indagine vaticana. Le commissioni finanziarie sono state oggetto di un taglio pesante da parte di Edgar Pena Parra, Sostituto alla Segreteria dal settembre 2018 al posto del cardinale Giovanni Angelo Becciu. I gestori si sono visti drasticamente ridurre le provvigioni. Resta che per anni alle varie Credit Suisse, BSI, Julius Baer, Azimut sono stati pagati, per contratto, tra lo 0,6% e l'1% su circa 600-700 milioni gestiti. Alcune gestioni erano arrivate oltre il 2% l'anno. Solo a Mincione sono andati 16 milioni in 5 anni. A Torzi 15 milioni per 4 mesi. Infine, avvocati con parcelle da centinaia di migliaia di euro per poche ore di lavoro. Per risultati spesso tutt' altro che soddisfacenti.

Altri 110 milioni investiti. Nuove accuse contro Becciu. Rivelazioni del Financial Times su affari del cardinale. Immobili in uno dei quartieri più costosi di Londra. Serena Sartini, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Nuove scottanti rivelazioni comprometterebbero ulteriormente la posizione del cardinale Angelo Becciu, dimesso da prefetto della Congregazione delle Cause dei santi e da cardinale, in seguito all'inchiesta sull'immobile acquistato a Londra. Nella lista degli investimenti effettuati dal porporato sardo, ai tempi in cui era sostituto alla segreteria di stato, infatti, non ci sarebbe solo il palazzo di Sloane Avenue, per il quale sarebbero stati investiti 200 milioni di euro. Secondo il Financial Times, infatti, la segreteria di stato vaticana avrebbe investito altri cento milioni di sterline (poco meno di 110 milioni di euro) in appartamenti di lusso a Londra: un «portafoglio di appartamenti di altissimo livello - scrive il quotidiano della City - a Cadogan Square e dintorni, a Knightsbridge, uno degli indirizzi residenziali più costosi della capitale britannica». Investimenti che sarebbero stati effettuati nel periodo in cui il cardinale Becciu ricopriva il ruolo di Sostituto, ovvero ministro dell'Interno Vaticano. «I nuovi documenti, (email e conti), non configurerebbero alcun illecito - scrive ancora il prestigioso quotidiano economico-finanziario ma gettano ulteriore luce sulle attività finanziarie della Segreteria di Stato». Il dossier che vedrebbe incriminato l'ormai «ex» cardinale cresce dunque di giorno in giorno e l'inchiesta si allarga. I magistrati vaticani proseguono le indagini e in questi giorni dovrebbero chiarirsi le accuse su cui dovrà difendersi Becciu. In primis quella di peculato, tanto che nei prossimi giorni è atteso un invito a deporre davanti ai pm. Bergoglio, intanto, continua nella sua operazione trasparenza e pulizia, ascoltando i suoi collaboratori che potrebbero far chiarezza sulla vicenda. È atteso proprio in queste ore a Roma il cardinale George Pell, ex prefetto dell'Economia: primo appuntamento a Santa Marta, da Francesco, per rivelare le informazioni in suo possesso risalenti a quando sedeva sulla poltrona di numero uno delle finanze vaticane, e dunque anche sugli investimenti fatti dall'ex sostituto Becciu, con il quale Pell non ha mai avuto un buon rapporto. Un filone di indagine sarebbe stato aperto anche dalla Procura di Roma in seguito alla rogatoria del Vaticano per verificare se siano stati commessi reati anche sul territorio italiano. I grattacapi per Becciu non finiscono qui. La famiglia, infatti, ha deciso di revocare l'incarico al legale di fiducia, Ivano Iai. «Con molto dolore afferma l'avvocato - comunico di aver rinunciato al mandato conferitomi dalla Famiglia Becciu che mi ha onorato della sua fiducia e del suo affetto non comuni». La revoca deriverebbe dalla pubblicazione su Instagram di foto con Iai al mare in costume, finite poi su Dagospia. Scatti che il legale ammette di aver pubblicato con un po' di «leggerezza» e che hanno messo in imbarazzo la famiglia Becciu, già nel mirino per lo scandalo delle donazioni di fondi della Cei alla Coop gestita da Antonino, fratello del cardinale Becciu.

DAGOREPORT il 29 settembre 2020. I soldi c’entrano poco con il defenestramento del cardinale Angelo Becciu, colpito in pieno volto da un papagno sferratogli a freddo da Bergoglio e tuttora a terra privo di sensi. Non è per i suoi presunti maneggi finanziari che l’ex potente sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato vaticana è stato incaprettato. Lo scandalo apparecchiato in mondovisione per i gonzi nasconde ben altro. Per capirlo, basterebbe concentrarsi sull’elemento centrale, il più grosso, dello stemma pontificio bergogliesco: un Sole. Messaggio molto chiaro: nessuno deve fare ombra al Re Sole. In ballo c’è l’elezione del prossimo papa nel conclave, più o meno prossimo. Conclave dal quale a questo punto Becciu – colpito da una misura durissima, e di fatto senza precedenti per le mancanze di cui sarebbe responsabile – resta escluso, mentre era un candidato molto serio. Escluso appunto per la «rinuncia» ai «diritti connessi al cardinalato», come con un eufemismo di stile sovietico è stato reso noto alle 8 di sera, un’ora e mezza dopo l’udienza papale, da un insolitamente tempestivo comunicato. Dopo il quale la comunicazione vaticana è tornata a eclissarsi, com’è ormai suo costume. Per sette anni, dal 2011 al 2018, cioè sin dall’ultimo scorcio del pontificato di Benedetto XVI, il prelato sardo – settantaduenne di Pattada, il paese dei coltelli, circostanza da tenere a mente – era stato «il sostituto», ruolo che in Vaticano corrisponde a quello di un ministro dell’Interno, ma ben più potente. Una posizione di vertice che viene subito dopo quella del papa e del segretario di Stato, carica che nella Città delle sottane corrisponde a quella un primo ministro. Dal 2013 quest’ultimo posto è occupato dal relativamente giovane Pietro Parolin, oggi sessantacinquenne, nominato sì da Francesco ma che dal pontefice cerca di nascondersi più che può. Come mai? Semplice, perché ha paura, come ormai quasi tutti in Vaticano, dato il continuo rotolare di teste tagliate da Sua Santità, la cui parabola discendente è registrata senza pietà in “L’enigma Bergoglio”, l’ultimo libro di Massimo Franco, notista politico del Corriere della Sera che da anni segue anche i retroscena d’Oltretevere. Un posto di vero potere è stato insomma quello esercitato per sette anni dal prelato sardo con una discrezione pari all’efficacia. Tanto è vero che proprio a Becciu, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, il nuovo papa affida le pratiche più rognose, come quella di riformare e rinnovare il ricchissimo ma anchilosato Ordine di Malta. E il sostituto obbedisce, anzi diventa l’unico nella corte dei miracoli bergogliana ad avere il coraggio di dire all’iracondo e sospettoso sovrano le cose come stanno. Poi nel 2018 il papa, com’era prevedibile, lo fa cardinale e lo nomina prefetto dei santi, carica in apparenza di poco peso ma che permette al prelato – promosso ma anche rimosso – di girare letteralmente il mondo a proclamare beati (ai santi ci pensa il pontefice, quasi sempre a Roma). In altre parole, a Becciu, che non è più nella stanza dei bottoni, Francesco senza volerlo apre in questo modo le porte del conclave, quando sarà. Per meglio dire, le spalanca, dato l’avvitarsi su se stesso del pontificato. Il declino del papato argentino è talmente rapido e rovinoso che la gerontocrazia della chiesa sta ormai riflettendo seriamente se non sia venuta l’ora di tornare dalla «fine del mondo» (copyright Bergoglio), ma dall’emisfero australe a quello boreale. Anzi, all’Europa, o meglio all’Italia. Per questo il piccolo sardo si sentiva ben piazzato. Finché qualche nemico – e l’antico sostituto di nemici se n’è fatti parecchi in questi anni – ha confezionato un polpettone talmente avvelenato da far dimenticare al pontefice il garantismo e la misericordia, riservati però solo ad alcuni, come il suo amico monsignor Gustavo Zanchetta, ex vescovo argentino chiamato da Francesco in Vaticano come assessore dell’Apsa e poi colpito da mandato di cattura internazionale spiccato dalle autorità argentine per presunti illeciti finanziari e per abusi su due seminaristi. Ma in Vaticano molti assicurano che la storia non finirà qui, anche perché Becciu si è difeso dichiarandosi pronto ad andare a processo. Un’eventualità che nello Stato delle lavandaie terrorizza molti per quello che potrebbe scoperchiare e che dunque probabilmente non si celebrerà mai. Intanto, l’atmosfera che si respira in Vaticano è descritta lugubremente da Specola, un anonimo spagnolo dal dente avvelenato e dalla prosa tagliente, che descrive la messa a San Pietro del 28 settembre per il settantacinquesimo anniversario dell’ispettorato presso il Vaticano della polizia italiana: «Parolin non è che abbia il volto di un morto – ci sono morti che hanno un aspetto decisamente migliore – è proprio l’incarnazione della morte. Fredda celebrazione, facce molto lunghe», per un momento gravissimo «che riguarda tutti».

Caso Becciu, revocato l'incarico al legale di fiducia dopo le foto in costume. Pubblicato mercoledì, 30 settembre 2020 da Monia Melis su La Repubblica.it. Per l'imbarazzo la famiglia del monsignore dimissionario ha lincenziato l'avvocato Iai. Appena due giorni fa Ivano Iai - legale sardo della famiglia del dimissionario monsignor Giovanni Angelo Becciu - aveva presentato due denunce per calunnia, diffamazione aggravata e divieto di rilevazioni di segreti d'ufficio e di inchiesta. Al centro, in particolare, alcuni documenti riservati "continuativamente divulgati dai media in forma distorta e denigratoria". Ventiquattro ore dopo la stessa famiglia - quei fratelli Becciu che sarebbero stati favoriti negli affari - gli ha revocato l'incarico dopo meno di una settimana. La difesa gli era stata infatti affidata lo scorso venerdì, proprio all'indomani della diffusione del Bollettino papale e del clamore attorno alla decisione di papa Francesco. Ma da ora lo studio associato di cui Iai è partner, con sede a Sassari, non seguirà più la tutela e gli interessi degli ex clienti. Una mossa a sorpresa guidata, probabilmente, da motivi di opportunità per la diffusione di alcune foto dell'avvocato, scattate al mare, e pubblicate su Dagospia. Immagini in cui l'avvocato è in posa, in costume, pubblicate dal professionista sul profilo privato di Instagram, scaricate da qualcuno e poi arrivate fino al noto sito. E che non sono passate inosservate. Il collage di Dagospia le propone accostate a quelle di Becciu, con un accenno nel sommario: "Ma gli occhi in Vaticano sono solo (...) per l'avvocato palestrato". Il legale Iai, 48 anni, (già presidente del Conservatorio Luigi Canepa di Sassari) e legale con una certa esperienza, si dice scosso e dispiaciuto. Aveva preso con convinzione la difesa dei cinque fratelli Becciu: oltre al cardinale (ora carica svuotata) quella di Tonino, docente di religione e soprattutto presidente della coop Spes beneficiaria di contributi dalla Santa sede, Francesco, il titolare di una falegnaneria e Mario,  professiore universitario e imprenditore nel settore della birra. Sua la prima lettera in cui si legge, in riferimento all'anticipazione della inchiesta dell'Espresso: "Le notizie riportate sono destituite di fondamento e malevolmente false, in particolare per i riferimenti, fantasiosi e indimostrabili, a presunte erogazioni provenienti dall’Obolo di San Pietro e dirette a membri della famiglia del Cardinale, ovvero a enti privati riconducibili a taluni di essi". Nelle poche, ultime, righe ufficiali con cui dà la notizia della revoca – senza alcun riferimento alle foto - si dice ''onorato della fiducia e del suo affetto non comuni". E ancora: "Mi rattrista aver dovuto essere causa di ulteriore afflizione che si aggiunge ai patimenti ingiusti subiti in questi giorni da Sua Eminenza il Cardinal Becciu e dai Suoi Familiari".

Alessandro Da Rold per ''La Verità'' il 30 settembre 2020. Un costumino adamitico si abbatte sull'inchiesta del Vaticano e sulle dimissioni del cardinale Angelo Becciu, ex sostituto alla segreteria di Stato nonché ex prefetto della Congregazione delle cause dei Santi. Dopo che lunedì la famiglia del porporato dimissionario aveva annunciato denunce contro la giustizia vaticana e persino contro il settimanale L'Espresso, ieri a fare notizia sono state invece le foto in costume da bagno dell'avvocato Ivano Iai, legale fino a 24 ore fa della famiglia di Pattada, travolta dalle indagini dei promotori di giustizia Alessandro Diddi e Gian Piero Milano. Galeotte sono state le foto sui social network di questo dottore di ricerca in procedura penale nato a Nule, in provincia di Sassari, nel 1972. Gli è stato revocato l'incarico. In una nota, proprio Iai ha spiegato la fine del mandato. «Con molto dolore», si legge, «comunico di aver rinunciato al mandato conferitomi dalla famiglia Becciu , che mi ha onorato della sua fiducia e del suo affetto non comuni». Il legale aggiunge: «Mi rattrista aver dovuto essere causa di ulteriore afflizione, che si aggiunge ai patimenti ingiusti subiti in questi giorni da Sua Eminenza il cardinal Becciu e dai suoi familiari - esempi di onestà e correttezza non comuni - e degni di avere accanto la migliore difesa in una vicenda tanto complessa». Prima del comunicato, Iai aveva già spiegato ai giornalisti che gli scatti erano stati pubblicati forse con troppa leggerezza. E pensare che la giornata non sembrava neanche delle peggiori per la famiglia del cardinale dimissionario, in particolare dopo gli articoli delle scorse settimane. In mattinata ai Becciu era arrivata anche solidarietà del vescovo di Ozieri, Corrado Melis: «Tutti noi che conosciamo il cardinale Becciu ci auguriamo presto che gli venga data la possibilità di difendersi e provare l'inconsistenza e assurdità delle accuse. Allo stesso tempo non ho dubbi della rettitudine e lealtà di papa Francesco, che opera per il bene che cresce silenziosamente nella Chiesa». Ma è sempre di ieri la notizia che anche la Procura di Roma ha aperto un fascicolo su finanzieri e funzionari già sotto indagine in Vaticano. L'inchiesta nasce dalla rogatoria vaticana per l'investimento immobiliare nel centro di Londra, nel quartiere di Chelsea e costato centinaia di milioni di sterline alla Santa Sede. L'indagine è in mano a Maria Teresa Gerace e punta proprio sulle operazioni della segreteria di Stato tra il 2011 e il 2018, sia gli investimenti in Athena sia gli affari con l'uomo d'affari angolano Antonio Mosquito. Sta di fatto che adesso la famiglia di Pattada dovrà trovare un nuovo avvocato. Non sarà facile, dal momento che anche un principe del foro come Franco Coppi è già impegnato come consulente nella supervisione della difesa del finanziere Raffaele Mincione. E soprattutto bisognerà trovare un legale che decida di attaccare il Vaticano. Ma dal momento che oltre all'ex prefetto nelle inchieste vengono citati anche i fratelli Mario e Tonino, tra soldi alle cooperative e ora si dovrà presto impostare di nuovo la linea di difesa. Sino a due giorni fa, l'avvocato in costume da bagno, aveva spiegato di aver fatto partire «due denunce per violazione delle disposizioni penali in materia di calunnia e diffamazione aggravata e di divieto di rivelazione di segreti d'ufficio e d'indagine». Ma ora si ritorna al punto di partenza. Ieri pomeriggio è stato Dagospia a pubblicare per prima gli scatti, «gallery hot», «dell'avvocato palestrato», istantanee che hanno subito fatto il giro delle stanze vaticane scatenando ilarità e frasi di ogni tipo. Iai è molto assiduo su Twitter, Instagram e Facebook. Pubblica foto di viaggi, interagisce spesso, snocciola frasi in latino e soprattutto non disdegna di pubblicare foto del suo fisico in spiaggia. Lo fa almeno dal 2012, come si può vedere facendo una piccola ricerca su Internet. Nessuno gli ha mai contestato nulla. In particolare sul lavoro, dove è ritenuto uno dei massimi esperti di diritto penale. È anche docente di procedura penale presso la scuola superiore di magistratura dal 2013. Maturità classica nel 1991 al «Duca degli Abruzzi» di Ozieri, con il massimo dei voti, poi laurea in giurisprudenza con 110 e lode alla Luiss di Roma, con un professore come Giovanni Conso, sono solo alcuni dei punti forti di un curriculum lungo ben 23 pagine. È stato consulente presso lo studio Andersen Legal di Roma dal 1998 al 2002, poi in Ernst & Young dal luglio 2002 al febbraio 2004. Associato nello studio legale Mereu di Sassari dal marzo 2004 al luglio 2007, ora è partner dello studio legale Pisanu-Iai di Sassari. Ha avuto anche incarichi istituzionali. Il 4 ottobre 2019, quando Dagospia scriveva che papa Francesco stava per ordinare a Becciu di non lasciare la città del Vaticano per le inchieste sulle operazioni sospette, Iai twittava a difesa del cardinale: «Buon viaggio, Eminenza, la sua integrità morale è indiscutibile». Due tweet prima invece l'avvocato sardo pubblicava le sue foto al mare, intento a giocare con l'acqua. Tra i commenti ce n'è ancora uno abbastanza esplicito: «Sexy speedo».

Dagospia il 25 settembre 2020. IL RISCATTO DELLA PAPESSA - LA ROVINOSA CADUTA DI BECCIU È LA VITTORIA DI FRANCESCA CHAOUQUI, CHIAMATA DA BERGOGLIO NELLA COMMISSIONE CHE DOVEVA CONTROLLARE LE OPACHE FINANZE VATICANE E FINITA INVECE NELLE PRIGIONI DELLA SANTA SEDE PER VATILEAKS - ''BECCIU USÒ IL MIO CORPO DI DONNA INCINTA PER DIMOSTRARE CHE NESSUNO DOVEVA METTERE IL NASO NEGLI AFFARI DELLA SEGRETERIA DI STATO. LA GOGNA MEDIATICA DOVEVA UCCIDERMI. INVECE IO SONO ANCORA QUI E LUI…'' (IL POST DI UN ANNO FA). Francesca Immacolata Chaouqui scrisse questo post su Facebook, il 31 ottobre 2019, all'indomani dello scoppiare dello scandalo Londra-Becciu (suo grande nemico in Vaticano): Due foto. Una di 4 anni fa e una oggi. 4 anni fa ero in carcere in Vaticano. Due giorni dopo iniziava una gogna mediatica che aveva un solo obiettivo: uccidermi. Uccidere la mia credibilità professionale, uccidere il mio amor proprio, uccidere la mia dignità, distruggere la mia famiglia, passando sopra ad un gruppetto di cellule di 1,2 mm che era Pietro a quell’epoca. Il Cardinale Becciu all’epoca ha usato il mio corpo, la mia carne (nel senso che non ha badato a che fossi incinta x montarmi contro quel circo disgustoso) il mio cuore, la mia anima per dimostrare due cose: la prima che Bergoglio non doveva fare nomine senza di lui, la seconda che nessuno, nemmeno un commissario pontificio poteva mettere il naso negli affari della segreteria di stato. Nelle sue scelte.

4 anni dopo, 4 anni in cui a volte il ricordo di quella notte mi spacca il cuore, tiro le fila. Io scoprii le opacità dell’obolo. Ne ho pagato il prezzo ma 4 anni dopo in Vaticano ogni singolo mio nemico è stato spazzato via dalla verità. Ognuno. Gli accusati sono diventati accusatori. I traditori i vincitori. Ed io, che decine di volte a Becciu ho chiesto in questi anni di spiegarmi come conciliasse l’eucarestia con il bisogno fisico di volermi morta, sono qua. Fanculo se sono qua.

Esattamente dove Sua Eminenza non voleva che stessi. 4 anni dopo, stasera, affacciata al mio balcone, penso all’inchiesta in corso, alla giustizia fatta, penso a quel che ho fatto in Vaticano due giorni fa, e penso che ancora una volta la mia storia è una storia incredibile. Penso che chi pensava che avrei smesso di aiutare il papa x quattro giornalate sbagliava di grosso. Penso che nessuna donna ha mai affrontato la battaglia che ora sto vincendo in Vaticano e un po’ di questo vado fiera. Penso che aver perdonato Becciu, non essermi vendicata sia un merito enorme. Al mio essere cristiana in primis. Tanto ci sta pensando la vita x bene. Non mollate mai amici miei. Mai. Resistere è uno stato mentale.

Dai necrologi del ''Messaggero'' l'11 dicembre 2020: Dopo una lunga malattia vissuta con cristiana rassegnazione è tornata alla casa del Padre la Contessa. Ne danno l'annuncio i familiari e la fedele RITA. Un sentito ringraziamento a SHAINUR e KAMAL che l'hanno amorevolmente assistita e curata. La Messa funebre sarà celebrata sabato 12 dicembre alle ore 11.00 nella Basilica di Sant' Eugenio Viale delle Belle Arti 10.

Michela Tamburrino per ''la Stampa'' del 1 dicembre 2015. Difficile che si parli d’altro. Nel giro della nobiltà romana che si porta avanti per i festeggiamenti natalizi, si bada a commentare, parecchio a trasecolare ma soprattutto a prendere le distanze. Francesca Chaouqui e Marisa Pinto Olori del Poggio, contessa, non compaiono nella mailing list della nobiltà nera, quella ristrettissima che fa capo a un gruppo di famiglie, aristocrazia dei quattro quarti, del Circolo della Caccia, delle feste possibilmente altrui ma che si chiude a riccio se si tenta un upgrading sgradito. La Pinto Olori - «siete sicuri che sia contessa?» - alla sua protetta Francesca Immacolata ha aperto le porte dei salotti su entrambe le sponde del Tevere. Ma i salotti apprezzano? Tanto per essere chiari, nel «rally» dei cento sarebbe stato inimmaginabile poter vedere le due signore, per motivi di lignaggio e per motivi anagrafici. Il rally è una sorta di club non ufficializzato e non scritto, riservato ai cinquanta ragazzi e alle cinquanta ragazze più nobili del reame. Ne fanno parte i Borghese, i Torlonia, i Colonna, i Barberini e gli Odescalchi, i Massimo, gli eredi Pallavicini e pochi altri. Loro godono di grandi entrature in Vaticano per diritto di classe. Alessandra Borghese in ottimi rapporti di amicizia con l’ex papa Ratzinger, divenne affine per le sue doti di cultura e simpatia ma anche per il cognome che porta, senza dover andare, chiedere, conoscere, cercare entrature, frequentare a dismisura. Lei è, il resto accade con estrema naturalezza. «Oramai la nobiltà nera si è annacquata, è diventata grigia - qualcuno scherza - le persone di cui ai tempi moderni si parla di più si avvicinano pericolosamente al generone e nulla hanno a che fare con l’aristocrazia. Un titolo qualsiasi non si nega più a nessuno». Oltre «la nobiltà della scaletta» voluta in partenza dall’ultimo re d’Italia, ora si aggiunge «la nobiltà della scalata». Più generoso nel giudizio è il principe Carlo Giovanelli: «Sì, la Pinto la incontro, era moglie dello storico stampatore, si dà molto da fare: beneficenza, ricevimenti in ambasciate, soprattutto lì è sempre presente. Una donna intelligente, simpatica. Anche abbastanza potente, ha una villa (sfarzosa vicino al Raccordo Anulare) dove riceve ministri e appunto ambasciatori. Francesca Chaouqui era spesso con lei ma l’ho conosciuta poco». Una classica signora bene romana, con i capelli scolpiti, Marisa Pinto Olori del Poggio, molto vicina al giro del Quirinale in epoca Ciampi, amica di sua Franchezza quando era first lady, come testimoniano anche i resoconti mondani di Dagospia, un giro tendenzialmente laico perciò, nel quale Francesca Chaouqui si muoveva a suo agio. «Avrebbe parlato anche con i muri risultando gradevole anche a questi», si sente dire, fino a quell’invito scellerato sulla terrazza di Lucio Vallejo Balda per festeggiare la canonizzazione di due papi. La si ricorda quasi come padrona di casa conversare con i tanti ospiti. Un invito molto aperto anche ai laici graditi dove si notavano Maria Latella e Bruno Vespa, oltre ai tanti porporati. Ma per la prova del nove basta tornare alle cene da Maria Angiolillo dove le due signore non sono ricordate. Dice Roberto D’Agostino: «Tutto questo non ha niente a che fare con la Roma papalina e con la nobiltà romana. Il giro del Vaticano è un’altra cosa. È difficile spiegarlo, Roma è fatta di tante sfere, è come una matrioska nella quale ti perdi. Dalla Angiolillo giravano i due pontefici, quello laico, Gianni Letta, e quello porporato, Sua Eminenza Re, i due padrini ai pranzi e non mancavano mai». Altri tempi e altri personaggi, nei salotti capitolini ci si chiede come possa essere successo che una donna giovane pur se bravissima e intelligentissima sia giunta ad avere confidenza con il potere, quello vero di Oltretevere. A questo punto si entra nel campo delle illazioni. Ad introdurre Chaouqui ai piani alti in molti dicono sia stato il cardinale Turan, protodiacono del Collegio Cardinalizio, colui che presenta al mondo il nuovo papa, amico della Pinto. Da lì l’interessamento di monsignor Balda e l’incarico che oggi li ha portati a processo.

Giovanni Bucchi per formiche.net del 4 gennaio 2016. Nobildonna molto potente. Editrice, benefattrice, ambasciatrice. Pure un po’ conservatrice. Cattolica romana, con relazioni e referenze di altissimo livello. E un nome che basta già di per sé a descriverne la personalità aristocratica: Marisa Pinto Olori del Poggio. Settantasei anni, originaria di Lecce, vedova dello storico stampatore ed editore romano Luigi Pinto nella cui azienda si sfornavano le copie del Sole24Ore destinate alla capitale e dintorni, la contessa maestra nel tessere relazioni di alto livello, amica degli Agnelli e con ottimi rapporti sia in Vaticano che al Quirinale, è finita suo malgrado nel tritacarne mediatico del Vatileaks 2. Il motivo? Sarebbe stata lei a introdurre Francesca Immacolata Chaouqui – che su Facebook ha raccontato a fine anno cosa farà quando dopo Pasqua andrà in carcere – nei salotti della Roma che conta. Per capire come la giovane pierre calabrese sia finita al cospetto della nobildonna con sfarzosa villa sulla Cassia, bisogna tornare indietro di almeno due anni. Già, perché è la stessa Chaouqui nel settembre 2013 a rivelare su l’Espresso in un dialogo con Denise Pardo di aver conosciuto la contessa nel 2008. Come? Prima la collaborazione con Roma In di Sabino Ricci, quindi l’incontro in Senato con Giulio Andreotti che le suggerisce di bussare alla porta del blasonato studio legale Pavia e Ansaldo, e lì la conoscenza con l’avvocato Ernesto Irace. “Un giorno per caso – racconta Chaouqui -, il marchese Guerrieri Gonzaga, amico di Irace, mi presenta Marisa Pinto Olori del Poggio”, descritta come “una donna di grande intelligenza, sapienza e anche grande potere. E’ moglie di un importante stampatore, unica italiana ad aver ricevuto l’onorificenza russa di Caterina la Grande, è una delle prime a mettere piede in Corea e il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è suo buon amico. E’ anche ambasciatrice a disposizione di San Marino. La contessa che ha immense capacità di relazioni, mi indica, in un certo senso, un metodo: se vuoi mettere in contatto la persona A e con la persona B devi trovare un interesse comune e su questo lavorare. Lei mi insegna tutto: come si apparecchia la tavola, come si riceve, come riuscire a tenersi un marito”. Luigi Bisignani è sempre stato in buoni rapporti con Pinto, marito della contessa Olori del Poggio, e proprietario del giornale Il Mezzogiorno d’Abruzzo dove il giornalista-faccendiere ha mosso i primi passi. Interpellato di recente da Carmelo Lopapa di Repubblica, Bisignani ha spiegato che Chaouqui “me la presentò la mia amica Marisa Pinto Olori del Poggio”. In un’intervista concessa a Franco Bechis di Libero, Bisognani conferma: “Pensi che lei (Chaouqui, ndr) nel 2013 aveva fatto un’intervista a Panorama dicendosi onorata di non avermi mai conosciuto. E invece poi – in tempi più recenti – me l’ha presentata la contessa Olori del Poggio, che è stata la mia prima editrice: mi diede il primo lavoro da giornalista quando avevo 18 anni”. L’intervista citata in realtà era quella de l’Espresso, ma la sostanza non cambia. A metterle in fila tutte servirebbe un libro. Grande Ufficiale per l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, riconoscimento conferitole nel 2003 su iniziativa della presidenza della Repubblica quando l’inquilino del Quirinale era Carlo Azeglio Ciampi, con il quale la contessa manteneva stretti rapporti, in particolare con la moglie Franca Pilla, sua grande amica come scritto da Lettera43. Dal 2012 la contessa è ambasciatore a disposizione della Repubblica di San Marino; come scrisse nel 2012 il quotidiano locale La Voce di Romagna, tale carica le sarebbe stata attribuita per avere avuto “il merito di introdurre nei salotti della Roma bene” il segretario di Stato sammarinese Antonella Mularoni. Dal 2006 Olori del Poggio è anche una Dama di Gran Croce di Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio. In quanto a beneficenza, il suo nome spunta tra i soci onorari della Fondazione Samuel & Barbara Stenberg Onlus, così come tra i consiglieri di Arpai (Associazione per il restauro del patrimonio artistico italiano) guidata dai Marzotto. E’ stata vicepresidente della St. John’s University di Roma, il prestigioso Ateneo presente da vent’anni nella capitale e fondato nel 1870 dalla comunità Vincenzana d’America e legato al carisma di San Vincenzo de’ Paoli. Insomma, la nobildonna “occupa un’infinita serie di poltrone” come ha scritto Marco Damilano su l’Espresso. “Nel board della St. John University, vice-presidente della Fondazione Gerusalemme (guidata da Giancarlo Elia Valori), il suo regno è il club Diplomatia, in cui si radunano imprenditori, ambasciatori, docenti. La signora riceve nell’ufficio di via Sallustiana, accanto all’ambasciata americana di via Veneto, il presidente prima dei guai giudiziari è l’eterno Umberto Vattani, per decenni dominus della Farnesina”. C’è chi l’ha accostata ad ambienti del cattolicesimo tradizionalista e lefebvriano, come scritto da Lettera43, e pure chi alla nobiltà nera della capitale che, stando a la Stampa, l’avrebbe però “scaricata”. E’ soprattutto in Diplomatia che Olori del Poggio tesse relazioni di alto livello. Oltre che vicepresidente senior di questo club (“associazione unica nel suo genere che svolge finalità di carattere istituzionale e di rilevanza internazionale” si legge nella presentazione sul sito), è pure direttrice di Pragmatica. Nel comitato editoriale della rivista, scrive Damilano su l’Espresso, si ritrovano nomi altolocati: “l’ambasciatore Rocco Cangelosi, consigliere diplomatico di Giorgio Napolitano, Vincenzo Cappelletti, direttore dell’Enciclopedia Italiana, Vittorio Grilli, ministro dell’Economia nel governo Monti, Emmanuele Emanuele, presidente della fondazione Roma, Antonio Pedone, Umberto Veronesi”. “In Diplomatia c’è il mondo intero, nel vero senso della parola – aggiunge Alessandro Da Rold su Lettera43 – Dalle banche, con il vicepresidente esecutivo Stefano Balsamo, vice chairman Italia di Jp Morgan Chase Bank, fino a Giovanni Castellaneta, presidente di Sace di Cassa Depositi e Prestiti, consigliere di Finmeccanica, ex ambasciatore italiano in Iran, Australia e Stati Uniti. In Diplomatia transita tutto l’establishment italiano. Nel board siedono Hassan Abouyoub, ambasciatore del Marocco, Sergio Balbinot, membro executive board Allianz, Giuseppe Bono, ad di Fincantieri, Umberto Di Capua, presidente di Elettronica Aster. E poi ancora: Maria Patrizia Grieco, presidente di Enel, Vincenzo La Via, direttore generale del Tesoro, e Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, fino a Mauro Moretti, amministratore delegato e direttore generale di Finmeccanica”. Il filo diretto con il Vaticano alla contessa non manca. Uno è con il cardinale Giovanni Battista Re, l’altro – a quanto pare il più importante – con il cardinale francese Jean-Louis Tauran, per lunghi anni presidente del Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso e ora Camerlengo della Santa Sede. Fabio Marchese Ragona su Panorama ha scritto che la nobildonna è “un’amica di vecchia data” del prelato, che “conosce lo stretto collaboratore del Papa da almeno trent’anni” e – come rivelato da monsignor Lucio Angel Vallejo Balda ai pm vaticani – “teneva Tauran al guinzaglio come un cagnolino”. Secondo il settimanale di Mondadori, sarebbe stata Olori del Poggio nell’inverno del 2012, appena scoppiato Vatileaks 1, a presentare Chaouqui al cardinale Tauran, aprendo così alla pierre calabrese le porte del Vaticano. “Sì, conosco Francesca, ma non l’ho introdotta io in Vaticano, ci è entrata da sola”, si era limitata a dire la contessa a inizio novembre a Lettera43, salvo poi nei giorni scorsi lasciarsi andare sul Tempo a un vero e proprio sfogo dicendosi estranea a tutta questa vicenda. Ma in quali rapporti era la nobildonna romana con monsignor Vallejo Balda, il secondo presunto corvo di Vatileaks 2 dopo Chaouqui? Che i due si conoscessero, lo si evince dalle deposizioni fatte dal sacerdote spagnolo in sede processuale. Ma c’è un altro particolare passato sotto traccia e che porta alla fondazione Messaggeri della Pace. Si tratta di un’organizzazione spagnola, poco conosciuta in Italia, che a Roma può contare sul concreto sostegno della contessa Olori del Poggio, come si legge nel sito spagnolo dell’associazione. Di questa fondazione ne parla anche Bisignani nella sua intervista a Libero. Alla domanda di Bechis se abbia mai frequentato monsignor Balda, il giornalista-faccendiere replica: “L’ho visto una volta sola. Mi sponsorizzava un’attività da fare a Lampedusa con un suo prete spagnolo, tale Angel Garcia che nel 1962 nelle Asturie aveva fondato i Messaggeri della Pace”. Guarda un po’, la stessa associazione guidata in Italia dalla nobildonna.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 dicembre 2020. Il 19 novembre scorso La Verità ha pubblicato lo scoop sul mega investimento da 1,25 miliardi di euro per l' acquisto di 800 milioni di mascherine deciso dal commissario Domenico Arcuri e gestito dal funzionario dell' ufficio acquisti Antonio Fabbrocini. Il titolo del nostro articolo era: «Indagine sulle mascherine di Arcuri». La vicenda partiva da una segnalazione del 30 luglio 2020 inviata all' Unità di informazione finanziaria della Banca d' Italia che evidenziava le provvigioni milionarie (72 milioni per l' esattezza) incassate dalla Sunsky Srl dell' ingegnere aerospaziale Andrea Vincenzo Tommasi e dal suo intermediario Mario Benotti, il giornalista Rai che per aver messo in contatto Tommasi con Arcuri avrebbe intascato ben 12 milioni di euro. Però la Sos (segnalazione di operazione sospetta, ndr) dell' Antiriciclaggio prima di finire sulle pagine del nostro quotidiano era arrivata alla Procura di Roma guidata da Giuseppe Prestipino, dando il via a un' inchiesta riservatissima che potrebbe portare a clamorosi sviluppi. A occuparsene è il pool dei reati della pubblica amministrazione coordinato dall' aggiunto Paolo Ielo. Il procuratore Prestipino non si è sbottonato, ma ha ammesso l' esistenza del fascicolo: «Ci stiamo lavorando. Non posso dire altro perché altrimenti violerei il segreto. Già ci siamo lamentati perché hanno fatto uscire sui media questa Sos. Posso dire che stiamo lavorando da tempo su quella segnalazione». All' incirca da quando è stata trasmessa alla Banca d' Italia nell' estate scorsa. È un' inchiesta importante? «Direi di sì» ammette il procuratore. C' è il massimo riserbo sui nomi degli indagati e sulle ipotesi di reato. Resta il fatto che ci troviamo di fronte a «un' inchiesta importante». «I magistrati e la guardia di finanza stanno lavorando. Dovete avere solo un po' di pazienza», conclude Prestipino. I fornitori delle mascherine erano tre ditte cinesi e secondo i risk manager delle banche gli accordi «parrebbero identici variando solo le date e la carta intestata». Nella Sos si legge pure che «sospette appaiono anche le provvigioni che sembra sarebbero riconosciute oltre che a Sunsky anche a Microproducts It Srl per quasi 12 milioni di euro a fronte di ricavi nel 2019 di circa 72.000 euro». La Microproducts, presieduta da Benotti, è controllata all' 80% da Partecipazioni Spa, di cui il giornalista è fondatore, vicepresidente e «titolare effettivo», come si legge nella segnalazione all' Antiriciclaggio. Sul sito del commissario dell' emergenza, che dipende direttamente dalla presidenza del Consiglio, a proposito delle commesse cinesi, viene data sempre la stessa spiegazione, versione ciclostile: «Il fornitore è stato individuato all' inizio del mandato del commissario tra i pochi che al mondo tra i pochi che erano in grado di offrire, in modo affidabile, notevoli quantità di mascherine a prezzi per l' epoca concorrenziali». Quasi un excusatio non petita. La fornitura che colpisce di più è quella per 450.000.0000 di mascherine chirurgiche acquistate dal commissario al prezzo di 0,49 centesimi, praticamente uguale a quello calmierato deciso la scorsa primavera da Arcuri per la vendita in farmacia. Ma in questi mesi di indagini che cosa avranno scoperto la Procura e la guardia di finanza? I prezzi delle mascherine erano congrui? I dispositivi erano regolari? Qualche politico o tecnico al servizio del governo ha beneficiato di una fetta delle generosissime commissioni pagate da Pechino? Noi nei giorni scorsi abbiamo evidenziato come l' uomo che ha portato l' ingegner Tommasi nelle stanze della politica è stato Benotti, ex stretto collaboratore di tre ministri Pd, Graziano Delrio, Sandro Gozi e Giuliano Poletti. Nella segnalazione all' Antiriciclaggio veniva evidenziato anche un versamento di 53.000 euro in due tranche da parte della società di Tommasi ad Antonella Appulo, ex segretaria dello stesso Delrio e amica di Benotti. Tommasi, una decina di giorni fa, ci aveva fatto sapere che a proporgliela come pierre era stato lo stesso giornalista. E si era vantato anche di aver fatto risparmiare il governo soprattutto sul trasporto dei dispositivi: «Alitalia costava 750.000 euro per ogni viaggio e l' El Al (la compagnia israeliana, ndr) sui 375.000 dollari. Per lo stesso tipo di aereo (Boeing 777, ndr). Il commissario Arcuri non è riuscito a far ragionare l' amministratore di Alitalia per avere la stessa tariffa. Quindi io sono soddisfatto per essere riuscito a fare tutto ciò e a questo prezzo...», ci aveva riferito. Alessandro Sammarco e Giuseppe Ioppolo, legali di Benotti, con La Verità offrono al cronista una pista alternativa: «Siamo svolgendo indagini difensive per scoprire chi possa essere all' origine del gigantesco abbaglio mediatico riguardante questo appalto, tenuto conto che la fornitura di mascherine realizzata dalle società dei nostri assistiti ha fatto risparmiare allo Stato italiano centinaia di milioni di euro e forse ha scontentato altri soggetti che miravano a guadagni personali anche grazie al trasporto delle mascherine». Tommasi ci ha detto che l' Alitalia offriva voli al doppio del prezzo della compagnia israeliana, sta facendo riferimento a questo? «Sì. Questa è una delle ipotesi che stiamo vagliando». Benotti, come detto, è vicepresidente della Partecipazioni Spa (l' amministratore delegato è la compagna del giornalista, Daniela Guarnieri), società di cui ha ceduto il 3% delle quote, nel 2015, all' ottantenne Guido Pugliesi, ex amministratore dell' Enav, l' ente che gestisce il traffico aereo civile in Italia. Il restante 97% della ditta appartiene alla Cardusio fiduciaria, «mentre Benotti», si legge nella segnalazione, «è stato indicato come il titolare effettivo». Nella Sos del 30 luglio 2020 è specificato che Pugliesi e Benotti sono stati «attenzionati» in un altro alert bancario per alcuni bonifici scambiati tra loro o indirizzati a terzi soggetti: «I prestiti personali tra Pugliesi e Benotti», specifica la comunicazione all' Antiriclaggio, «le implicazioni processuali (sono stati entrambi sottoposti a procedimenti giudiziari: il primo è stato prescritto, il secondo archiviato, ndr) e le connessioni societarie tra loro intercorrenti lasciano emergere relazioni non adeguatamente giustificate, tali da non consentire di stabilire con certezza la liceità della destinazione finale delle somme in uscita». Il documento è datato 25 settembre 2019. Dieci mesi dopo alla Banca d' Italia è arrivata la segnalazione sul grande affare delle mascherine. Ed è partita l'«importante inchiesta» della Procura di Roma.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 6 dicembre 2020. Dai misteri di San Marino a quelli vaticani, nell'inchiesta delle mascherine acquistate da tre ditte cinesi dal Commissario straordinario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri sta entrando davvero di tutto. La vicenda è nota ai nostri lettori: la Procura di Roma ha aperto un fascicolo (il 37684 del 2020) per traffico illecito di influenze nei confronti di sei persone accusate di aver portato a casa commesse per 1,25 miliardi di euro grazie ai rapporti con Arcuri di Mario Benotti, a sua volta indagato. Quest' ultimo è un giornalista Rai in aspettativa considerato «esposto politicamente» e con importanti entrature in Vaticano (il padre era il vicedirettore dell'Osservatore romano, Teofilo Benotti). Benotti, difeso dagli avvocati Alessandro Sammarco e Giuseppe Ioppolo, ha incassato attraverso la sua Microproducts It Srl ben 12 milioni di commissioni. Gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria a casa sua, un bell'appartamento con vista su Castel Sant' Angelo, hanno portato via computer e faldoni relativi ai contratti con le aziende cinesi produttrici di mascherine. Perquisizione anche a casa del banchiere sammarinese Daniele Guidi, difeso dall'avvocato Massimo Dinoia, lo stesso, per citare qualche cliente, di Marco Carrai e Cecilia Marogna. I pm romani, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, nei decreti di sequestro hanno scritto: «Risulta altresì che partner di Tommasi sia stato Guidi che, unitamente a Tommasi, ha curato l'aspetto organizzativo e, in particolare, i numerosi voli aerei per convogliare in Italia un quantitativo così ingente (di mascherine, ndr), compiendo i necessari investimenti». Il cinquantaquattrenne originario del Monte Titano è un manager piuttosto chiacchierato. Nel 2019 è finito sotto indagine per la gestione della Banca Cis (Credito industriale sammarinese), di cui era amministratore delegato e direttore generale, nonché socio della stessa attraverso una società lussemburghese, la Leiton. Guidi è sotto inchiesta con l'accusa di associazione per delinquere, concorso in amministrazione infedele, compartecipazione in truffa aggravata ai danni della Repubblica, corruzione e ostacolo alle funzioni di vigilanza. Il procedimento è ancora in fase di indagini preliminari. L'istituto che Guidi dirigeva è stato messo in risoluzione con un buco di oltre 400 milioni, di cui si sta facendo carico lo Stato. Oggi il manager ha lasciato la piccola Repubblica e vive in Italia dove ha intrapreso nuovi business. Quando era alla guida dell'istituto l'Aif, l'agenzia antiriciclaggio di San Marino, aveva denunciato, tra i tanti, un prestito anomalo al fratello di Romano Prodi, Vittorio. Per entrare più nel dettaglio, Banca Cis aveva finanziato con 730.000 euro la società Laboratori Protex Spa a fronte di un pegno su alcuni titoli pari a un valore di 10.000 euro. Una quota di questa società (7,84%) era di proprietà di Vittorio Prodi.Questo cognome è noto a Benotti, il quale, oltre a conoscere personalmente il Professore, è stato un collaboratore del figlioccio politico dell'ex premier, Sandro Gozi. Nell'inchiesta ci sono anche due indagate per ricettazione. Una di queste è Francesca Chaouqui, la «papessa» del caso Vatileaks, accusata per la firma di alcuni contratti di consulenza con Benotti. Anche le perquisizioni negli uffici e in casa della trentanovenne calabrese hanno riservato sorprese. Tra giganteschi spezieri del '600 e gabbie con colorati pappagalli, i finanzieri sono andati alla ricerca di documenti riguardanti le società cinesi o contenenti i nomi di pubblici ufficiali, e, invece, hanno trovato solo carte vaticane, cassetti pieni di incenso con il sigillo pontificio, timbri con stemmi della Santa sede e della Cosea (Pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull'organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa sede), pergamene pregiate con in filigrana la parola «secretum». Nei due appartamenti della View point strategy, società di comunicazione della Chaouqui, non sono passate inosservate le altissime pile di «(Ri)costruzione», l'ultima fatica letteraria di Benotti. La papessa, in base a un contratto di promozione firmato con il giornalista, ha infatti acquistato 1.500 copie del tomo da regalare ai clienti. Durante le operazioni i finanzieri hanno tentato inutilmente di aprire una cassaforte a muro, di cui l'indagata non possiede le chiavi, come confermato dal locatore. In un forziere bianco gli investigatori hanno trovato un archivio di documenti vaticani, distinte, bilanci, lettere e faldoni di documenti su Vatileaks, Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), Papa Francesco, Cosea, nonché diversi faldoni sul palazzo di Londra al centro di un'inchiesta vaticana. I militari hanno solo dato uno veloce a questa mole di materiale, non essendo pertinente all'inchiesta e detenuto dalla Chaouqui in veste di commissario Cosea. Infine i finanzieri si sono scervellati su un quaderno di appunti con versi di poesie ripetuti centinaia di volte. Frasi che nascondevano, attraverso la cosiddetta sequenza di Fibonacci, il codice segreto di uno scrigno. A casa della donna hanno trovato antiche copie della Divina commedia e una frase anch' essa scritta ossessivamente su antichi diari in pelle: «La pace è solo un nemico che ti sta studiando». Anch' essa nascondeva una sequenza alfanumerica. Venerdì le Fiamme gialle hanno bussato pure al dipartimento della Protezione civile. «Siamo totalmente estranei ai fatti» hanno fatto sapere da via Ulpiano, sottolineando che «i documenti acquisiti» dalla Guardia di finanza «non riguardano commesse del Dipartimento». In effetti a interessare gli investigatori erano i pareri (e i relativi documenti) del Comitato tecnico scientifico sulle forniture al centro dell'indagine. I finanzieri si sono presentati con una richiesta di esibizione atti anche in via Calabria, sede della struttura del Commissario straordinario per l'emergenza Covid. I funzionari hanno messo a disposizione la documentazione richiesta. Le perquisizioni sono state il primo atto concreto di ricerca della prova a carico degli indagati, non essendo consentite le intercettazioni per il reato di traffico illecito di influenze. Se l'esito sarà fruttuoso l'inchiesta potrebbe avere nuovi sviluppi, portando al coinvolgimento di altri soggetti e all'accertamento di ulteriori reati.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 7 dicembre 2020. Nel suo libro (Ri)costruire il giornalista Rai in aspettativa Mario Benotti, indagato per traffico illecito di influenze dalla procura di Roma per un appalto da 1,25 miliardi e 801 milioni di mascherine cinesi, non ha mancato di ringraziare l'uomo grazie al quale ha potuto incassare 12 milioni di euro di provvigioni, ovvero il commissario straordinario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri. Tra una ricetta e un'altra per risollevare l'Italia e in mezzo a molti attacchi riservati a Giuseppe Conte e al suo governo, Benotti usa parole di miele per l'ad di Invitalia: «Sulla generosità umana e professionale del commissario all'emergenza e dei suoi pochi collaboratori () è stato rovesciato il compito proibitivo di fornire mascherine e respiratori, reperendoli in tutto il mondo con enormi difficoltà e responsabilità». Ovviamente molti dispositivi l'eroico Mimmo li ha trovati in Cina, grazie allo stesso Benotti. Ma il panegirico non è finito: «Di fatto, Arcuri si è trovato a supplire in poche ore e poche notti alle scelte deliranti assunte dal Paese nel corso degli anni passati, con l'uscita dal mercato dei dispositivi di protezione individuali e dei reagenti». Insomma il commissario, per Benotti, è già pronto per un monumento equestre. Forse perché, secondo gli inquirenti romani, il giornalista, «sfruttando le sue relazioni personali con Arcuri () si faceva prima promettere e quindi dare indebitamente () la somma di 11.948.852 euro». Non è però ancora chiaro da quanto tempo Arcuri e Benotti si conoscano e quando l'indagato abbia attivato il suo canale con il commissario. Sfruculiando tra i contratti di intermediazione che hanno permesso all'ingegnere aerospaziale Andrea Vincenzo Tommasi, alla sua Sunsky Srl, all'ecuadoriano Jorge Solis e a Benotti di incassare 63,5 milioni di commissioni, si intuisce, però, che la presunta cricca delle mascherine (che al momento conta 8 indagati) qualche via preferenziale potrebbe averla trovata. A pagina 4 dei decreti di perquisizione si legge che gli inquirenti hanno scovato le proposte di incarico da parte di due aziende cinesi, aventi a oggetto «consulenza in tema di promozione e vendita - in Paesi diversi dalla Cina - di dispositivi medici». Datate 10 marzo e 16 marzo, sono state accettate dalla Sunsky Srl di Tommasi solo il 28 marzo, quando gli ordini erano già stati formalizzati da tre giorni. Inoltre, le toghe scrivono che le lettere di proposta di mediazione «sono redatte con il medesimo carattere e le medesime impostazioni grafiche». Quindi è lecito pensare che, come spesso succede, sia stata la stessa Sunsky ad averle predisposte e ad aver detto ai cinesi: se vi interessa la fornitura inviatemi questa proposta. Nelle carte c'è anche una bozza di incarico del 12 aprile 2020 della Luokai Trade (Yongjia) con «medesimo oggetto», ma «senza data di accettazione». In ogni caso anche la Luokai ha fornito i suoi dispositivi al commissario e ha pagato le provvigioni. Ma concentriamoci sulle proposte d'incarico del 10 e del 16 marzo. La sera dell'11 dello stesso mese il premier Conte aveva annunciato via Facebook agli italiani la nomina di Arcuri a commissario «per potenziare la risposta delle strutture ospedaliere a questa emergenza sanitaria» e aveva puntualizzato che l'ad di Invitalia avrebbe avuto «ampi poteri di deroga». Arcuri (nominato ufficialmente il 17 marzo 2020) dal 5 marzo partecipava alle riunioni per l'emergenza con Conte e la Protezione civile. Cinque giorni dopo, il 10 marzo, Benotti e Tommasi si erano già attivati per predisporre i contratti per beneficiare delle lucrose commissioni. A quanto ci risulta, prima del 10 marzo, gli indagati non avevano contattato la Protezione civile, come confermano dalla sede di via Ulpiano: «Possiamo dire che con ogni probabilità, anche se non abbiamo potuto fare una ricerca accurata, questi signori non si sono mai palesati con noi, anche perché se ci avessero proposto così tanti dispositivi ce lo ricorderemmo. Era una commessa importante e in quel periodo eravamo alla disperata ricerca di mascherine». Neanche alla Consip, la centrale acquisti dello Stato, ricordano Tommasi e Benotti. Consip richiedeva fideiussioni e la Protezione civile faceva l'esame del sangue a mediatori o fornitori. Chissà se avrebbero preso in considerazione una società come quella di Tommasi impegnata nella consulenza nel settore della Difesa e dell'aeronautica e con un capitale sociale di 100.000 euro a fronte di una fornitura da 1,25 miliardi. A questo punto non si può escludere che Benotti, il trait d'union con Arcuri, disponesse di informazioni privilegiate e che prima del 10 marzo sapesse che l'ad di Invitalia stava per essere nominato commissario e che avrebbe avuto il potere di disporre forniture miliardarie senza gara. Infatti prima del 17 marzo questo tipo di affidamenti era disposto solo dalla Protezione civile. Che però non sarebbe stata contattata da Benotti & C. In alternativa le forniture dovevano avvenire attraverso gare Consip. L'inviato della Rai nel suo tomo elogia pure l'intenso lavoro di Arcuri per la riconversione delle aziende italiane nel settore della produzione delle mascherine. Ma, alla fine, deve ammettere che tutt' oggi «alle gare pubbliche nel settore partecipano - attraverso il principio del massimo ribasso e senza puntare sulle società operanti in Italia - solo aziende provenienti da Cina e Corea o dall'Oriente in generale poiché, se si vuole ottenere una fornitura di mascherine chirurgiche a 8 centesimi - come recentemente accaduto - non vi sono molte altre soluzioni». E pensare, che grazie a lui, Arcuri, a marzo e aprile, le chirurgiche cinesi (460 milioni di pezzi) le aveva pagate tra 49 e 55 centesimi.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 5 dicembre 2020. Il Paese è affamato di mascherine. Il periodo è aprile marzo. Il commissario straordinario Domenico Arcuri è in affanno. Non si trovano i dispositivi. Il giornalista in aspettativa della Rai, Mario Benotti ha però la soluzione in tasca: grazie al suo amico, l'ingegnere Andrea Vincenzo Tommasi con ottimi agganci in estremo oriente, è in grado di far piovere sull'Italia 800 milioni tra chirurgiche, ffp2 e ffp3. Merce made in China. Costo dell'operazione un miliardo e 251 milioni di euro. Fin qui tutto regolare, i prezzi sarebbero in linea con il folle mercato di quei mesi. Ma il dato che fa partire la segnalazione di operazione sospetta (sos) da Bankitalia, la successiva indagine della procura e le perquisizioni del valutario della finanza di ieri sono i denari che la coppia Tommasi-Benotti incassa per aver mediato l'operazione: quasi 60 milioni di euro. Da qui parte l'inchiesta. A Roma la procura, l'aggiunto Paolo Ielo, apre un fascicolo ed iscrive per traffico di influenze illecite Benotti. Implicati nell'inchiesta anche Tommasi e Antonella Appulo ex segretaria dell'ex ministro ai Trasporti e infrastrutture Graziano Delrio. Inoltre anche Francesca Immacolata Chaoqui, nota alle cronache per gli scandali nella vicenda Vatileaks, finisce sotto la lente della procura. Riciclaggio, l'accusa rivolta alla dama nera. La donna, 39 anni, ha incassato con la sua società View Point Strategy, 220mila euro tra aprile e novembre da Benotti. Denaro, si legge nel decreto di perquisizione, frutto «del reato di traffico illecito di influenze commesso» proprio dal giornalista Rai. In sostanza, questa è la tesi degli inquirenti, la Chaoqui avrebbe incassato consapevolmente soldi che provengono da un'operazione sporca. L'operazione sporca in questione sarebbe, come emerge dalle carte della procura, proprio la mediazione esercitata da Benotti nei palazzi romani: «ricorrono gravi indizi del reato contestato (traffico di influenze illecite), essendo emerso dagli accertamenti svolti che le forniture ordinate dal commissario straordinario alle società indicate nell'incolpazione siano state illecitamente intermediate da Mario Benotti». Quest' ultimo, scrivono sempre gli inquirenti avrebbe «sfruttato la personale conoscenza con» Arcuri «facendosene retribuire, in modo occulto e non giustificato da esercizio di mediazione professionale istituzionale». In pratica Benotti si sarebbe mosso all'interno dei palazzi del potere per far recapitare l'offerta a chi di dovere esercitando attività di lobbying mentre il suo socio Tommasi si muoveva in direzione del Dragone per garantirsi la maxi fornitura. Un business concluso con successo con le due società cinesi la Wenzhou Moon Ray e la Wenzhou Light che fanno piovere le mascherine nel paese in virtù di «sei ordini commessi dal governo italiano». Nel frattempo le due aziende cinesi versano una cascata di milioni anche a due società italiane a titolo di provvigione (i 60 milioni di euro). La fetta più grossa va alla Sunsky di Tommasi l'altra alla Microproduts di Benotti. Dopodiché 53mila euro dalla Sunsky approdano sul conto di Antonella Appullo. Così scrivono gli inquirenti «movimento finanziario giustificato mediante false fatturazioni». A richiedere il pagamento a Tommasi è Benotti, si legge sempre nelle carte. «Benotti - compare nel decreto di perquisizione - intrattiene uno stretto rapporto con Appulo, anch' ella con passato politico». La Chaoqui spiega di «non sapere nulla sulla provenienza dei soldi» e che quei compensi incassati sono relativi a dei «servizi di produzioni web e comunicazione richiesti da Benotti che aveva conosciuto in Vaticano». In un nota gli uffici del Commissario straordinario per l'emergenza hanno fatto sapere di aver «consegnato alla Finanza tutta la documentazione relativa ai contratti di forniture dei dispositivi sottoscritti agli inizi dell'emergenza con alcune aziende cinesi».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 dicembre 2020. Per la storia dell'appalto monstre da 1,25 miliardi di euro, spesi dalla struttura del commissario straordinario per l'emergenza sanitaria, Domenico Arcuri, ieri sono scattate le perquisizioni ordinate dai pm romani Gennaro Varone e Fabrizio Tucci. I principali indagati sono Mario Benotti, giornalista in aspettativa, già stretto collaboratore di tre ministri Pd (Sandro Gozi, Giuliano Poletti e Graziano Delrio) e intermediario dell'affare, accusato di traffico illecito di influenze, insieme con il socio Andrea Vincenzo Tommasi, ingegnere aerospaziale, proprietario della milanese Sunsky Srl che ha importato dalla Cina circa 800 milioni di mascherine che avrebbero fruttato almeno 63,5 milioni di euro in provvigioni a Tommasi, Benotti e alla loro presunta cricca. Il cronista viene definito dagli inquirenti «persona politicamente esposta per essere stato già consulente presso la presidenza del Consiglio dei ministri, con notevoli entrature nel mondo della politica e dell'alta dirigenza bancaria». Da quanto si apprende dal decreto di perquisizione consegnato a Benotti, sono accusati di traffico illecito di influenze pure la compagna Daniela Rossana Guarnieri, il quarantanovenne equadoriano Jorge Edisson Solis San Andres, il cinquantaquattrenne banchiere sammarinese Daniele Guidi e il sessantatreenne l'avvocato Georges Fares Skandam Khouzam, nativo di Mantova, ma con origini mediorientali. L'ex funzionaria ministeriale Antonella Appulo e l'imprenditrice Francesca Chaouqui, la «Papessa» del caso Vatileaks, sono invece accusate di ricettazione. In tutto ci sono quindi almeno otto indagati. Nel decreto si legge che Benotti, «sfruttando le sue relazioni personali con Domenico Arcuri, commissario nazionale per l'emergenza Covid, si faceva prima promettere e quindi dare indebitamente da Andrea Tommasi, Daniele Guidi e Jorge Edisson Solis San Andres, la somma di 11.948.852 euro» di cui quasi 9 milioni sono confluiti sul conto della Microproducts It Srl, di cui la Guarnieri è la legale rappresentante, e 3 milioni su quello della controllante Partecipazioni Spa presieduta da Khouzam. Quei 12 milioni sono considerati dai pm romani una «remunerazione indebita () -perché svolta al di fuori da un ruolo professionale/istituzionale - della sua mediazione illecita, siccome occulta e fondata sulle relazioni con il predetto commissario». Le commesse cinesi di cui parliamo da giorni su questo giornale sarebbero state individuate grazie all'intermediazione di Tommasi, Guidi e Solis San Andres, i quali avrebbero ricevuto 59.705.882 euro, sui conti di Susnky, l'azienda di Tommasi, e 3,8 milioni, sui conti della Guernica dell'imprenditore equadoriano. Tommasi avrebbe provveduto a richiedere alle società cinesi «di accreditare il compenso illecito a Benotti sui conti correnti delle due aziende». Quindi in totale le provvigioni ammonterebbero, come detto, a 63,5 milioni e non a 72 come denunciato dall'Antiriciclaggio. Nei decreti di perquisizione si legge che i soldi sono giunti sui conti tra marzo e il 14 luglio 2020, che «c'è l'aggravante» del coinvolgimento di «cinque o più persone» e che «ricorrono gravi e fondati del reato provvisoriamente contestato». Le toghe hanno anche riassunto il presunto disegno criminale: «Lo schema di azione che ne risulta è quello dell'intermediario, il quale, forte del suo credito verso un pubblico ufficiale, ottiene, per sé e per i suoi soci, un compenso per una mediazione andata a buon fine». Ieri mattina gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma si sono presentati prima delle 7 del mattino nelle case degli indagati, hanno copiato le memorie dei cellulari e dei computer alla ricerca di riscontri all'ipotesi accusatoria. Ad almeno uno degli indagati hanno fatto domande anche su Antonio Fabbrocini, funzionario dell'ufficio acquisti della struttura commissariale, e su Mauro Bonaretti, entrambi non indagati. Bonaretti, magistrato della Corte dei conti, è stato inserito la scorsa primavera nello staff ristretto di Arcuri. In passato era stato direttore generale del Comune di Reggio Emilia con Delrio sindaco e al seguito dell'attuale capogruppo Pd della Camera aveva ricoperto gli incarichi di segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri e di capo di gabinetto al ministero dei Lavori pubblici e trasporti e in quello degli Affari regionali. Benotti e Bonaretti hanno affiancato nello stesso periodo Delrio al ministero dei Trasporti. La Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati anche Daniele Guidi «che, unitamente a Tommasi, ha curato l'aspetto organizzativo e in particolare i numerosi voli aerei necessari per convogliare in Italia un quantitativo così ingente (di mascherine, ndr), compiendo i necessari investimenti». Guidi, nel gennaio 2019, è stato posto agli arresti domiciliari dal Tribunale di San Marino (e liberato poco dopo). Ai tempi era direttore generale e ad di Banca Cis. I magistrati nell'ordinanza di custodia cautelare gli avevano contestato i reati di associazione per delinquere, concorso in amministrazione infedele, compartecipazione in truffa aggravata ai danni della Repubblica, corruzione e ostacolo alle funzioni di vigilanza. Il procedimento è in corso. La Procura di Roma, per bocca del procuratore aggiunto Paolo Ielo, si è affrettata a far sapere che «il commissario straordinario Arcuri è totalmente estraneo alle indagini», che il suo nome sarebbe stato «sfruttato» da Benotti per ottenere il maxi appalto e che il dipartimento della Protezione civile sarebbe il «soggetto danneggiato». La difesa di Arcuri da parte della Procura è arrivata quasi a scatola chiusa, mentre i finanzieri effettuavano sequestri e facevano domande. In effetti, se il pubblico ufficiale fosse coinvolto, l'accusa non sarebbe di traffico illecito di influenze, ma, per esempio, di corruzione. Gli inquirenti hanno ribadito che le verifiche sono partite da una segnalazione di operazione sospetta della Banca d'Italia e che «la pubblicazione di quelle informazioni» da parte della Verità «ha danneggiato le indagini». Per i pm «la ragione della segnalazione è nell'anomalia consistente nell'estraneità della rappresentata intermediazione delle due società (Sunsky e Micorproducts It, ndr) rispetto al loro oggetto sociale e nell'incoerenza del volume delle commissioni percepite, rispetto al fatturato degli esercizi precedenti». Avrebbero fatto da intermediari in settori che non compaiono nell'oggetto sociale, con spropositate provvigioni. Nel decreto è specificato che l'azienda di Benotti è nata nel 2015 per l'offerta di servizi di ricerca e sviluppo nel campo delle scienze naturali e dell'ingegneria, non certo per la compravendita di attrezzature mediche. La Microproducts è controllata per il 20% dalla Guarnieri e per l'80 dalla Partecipazioni Spa. Per i magistrati il 76,7 per cento del capitale di quest' ultima appartiene proprio a Benotti, nonostante ufficialmente sia intestato a una fiduciaria. Secondo gli inquirenti il giornalista «è aduso a schermare i suoi rapporti bancari attraverso l'utilizzo di società fiduciarie». La Banca d'Italia ha segnalato anche un'altra impresa con sede a Roma, la Guernica srl, costituita il 28 marzo 2018, avente come socio unico e amministratore Dayanna Andreina Solis Cedeno, una ventiduenne equadoriana studentessa di cinema in un'università romana. Per gli inquirenti sarebbe una «testa di legno» del padre Jorge, amministratore di fatto e indagato, e la sua ditta sarebbe stata «beneficiaria di accredito per euro 3.800.000 dalla (nota) Wenzhou Light». Anche Guernica presenta un oggetto sociale che non c'entra nulla con le mascherine («inconferente con il commercio dei presidi sanitari», scrivono i pm): ufficialmente si occupa di ricerche di mercato nel campo del marketing, strategie di mercato per lancio di prodotti o servizi o strategie pubblicitarie. Inoltre «la Guernica srl, così come la Microproducts It srl di Benotti, non compare in alcuna lettera di commissione». Non è finita. Benotti, sottolineano sempre i magistrati, «intrattiene uno stretto rapporto con Antonella Appulo, anch' ella con passato politico». Sul suo profilo Linkedin la donna si presenta come funzionario del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, dove ha lavorato con un contratto a tempo determinato dal 2015 al 2018. È stata segretaria particolare del solito ministro Delrio. Continuano i magistrati: «Le rimesse di denaro che dall'affare la Appulo ha ricavato è decisamente indicativo dei rapporti intercorsi tra gli attori di questa vicenda». Ed eccoli questi rapporti: «È il Tommasi, su disposizione del Benotti, a versare, dal conto corrente della Sunsky srl alla Appulo 53.000 euro, giustificando il movimento finanziario mediante false fatturazioni, simulando attività di consulenza ricevuta dalla predetta». Per questo alla donna è stata contestata la ricettazione, il reato commesso da chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto. È accusata di ricettazione anche la Chaouqui. Per questo ieri è stata perquisita la sua View point strategy srl, società di comunicazione. La «Papessa» ieri è la sola che abbiamo trovato disponibile a parlare. È accusata di aver ricevuto in due tranche, tra aprile e settembre 2020, sui conti della sua azienda, 232.216 considerati frutto di «un ingiusto profitto», cioè «compendio del reato di traffico illecito di influenze». Gli investigatori sostengono che sarebbe stata a conoscenza della provenienza delittuosa: «Io delle mascherine non sapevo niente, niente, niente» ribatte lei. «La Microproducts era mia cliente e la mia agenzia la sua fornitrice. Ho firmato con loro una serie di contratti: uno per un evento estivo per 150 persone in galleria Borghese, museo che abbiamo affittato in esclusiva, offrendo guide private e catering, al costo di 35-40.000 euro; un altro per la realizzazione del libro (Ri)costruzione firmato da Benotti, per cui ci siamo occupati di tutto, dalla grafica ai contenuti, e di cui abbiamo acquistato 1.500 copie per i clienti. Spesa: circa 60.000 euro. Infine ci siamo occupati di riprese, montaggio, testi e messa in onda del canale Youtube del Democristiano in borghese dello stesso Benotti. Un programma che ha impegnato sette persone per 30 puntate, 21 già online, ognuna delle quali è costata 7-8.000 euro, materiali e trasferte escluse. Abbiamo gestito anche un blog e una rubrica che Benotti tiene su altri due siti e, a partire da aprile, tutti i suoi canali social, fornendo report mensili. Le posso assicurare che abbiamo incassato meno di quanto abbiamo fornito». La View point strategy una settimana fa, dopo il primo scoop della Verità, era stata incaricata dalla Partecipazioni Spa della «comunicazione di crisi». L'ultima parola la concediamo all'avvocato di Benotti, Alessandro Sammarco: «La Protezione civile aveva bisogno di mascherine e le società private le hanno trovate ai prezzi imposti, facendo risparmiare centinaia di milioni allo Stato italiano. A pagare le provvigioni sono state le aziende cinesi. Mi dite dove è il traffico illecito di influenze?». La risposta la dovranno trovare i magistrati.

Vaticano, ecco le carte dello scandalo. Tra finanzieri e spa segrete in Lussemburgo. Lo tsunami giudiziario che fa tremare il Vaticano parte da alcune operazioni finanziarie del 2011. Quando la Segreteria di Stato decide di entrare in affari con il raider italo-londinese Raffaele Mincione. Indagini dei pm del papa su una Sicav del Vaticano nel Granducato, che ha comprato immobili a Londra per centinaia di milioni di euro. Indaga anche l’antiriciclaggio. Emiliano Fittipaldi il 03 ottobre 2019 su L'Espresso. L'inchiesta dei magistrati vaticani su alcune operazioni finanziarie milionarie effettuate dalla Segreteria di Stato è un pozzo senza fondo. Se ieri, dopo una serie di perquisizioni,  l'Espresso ha dato notizia dell'indagine  su pezzi da novanta come don Mauro Carlino (ex segretario del cardinale Angelo Becciu e da pochi mesi capo dell'Ufficio Informazione e Documentazione della Segreteria: il monsignore è stato intercettato per settimane) e del numero uno dell'Autorità di informazione finanziaria Tommaso Di Ruzza, oggi nuovi documenti riservati spiegano la genesi dello scandalo. Che potrebbe portare a conseguenze devastanti per dipendenti laici e monsignori di primissima fila. Gli investigatori vaticani, infatti, stanno indagando sulle operazioni finanziarie avvenute tra Roma, Londra e il Lussemburgo negli ultimi otto anni. Proprio nel Granducato, tra il 2011 e il 2012 la Segreteria di Stato (erano i tempi di Benedetto XVI, a Palazzo Apostolico comandavano Tarcisio Bertone e l'allora sostituto agli Affari generali Becciu) aveva infatti deciso di fare affari con Raffaele Mincione. Non un imprenditore qualsiasi, ma un finanziere italo-londinese assai noto alle cronache: è colui che, attraverso fondi d'investimento controllati in Italia, Russia, Malta e Jersey, da qualche mese sta provando a scalare Banca Carige, di cui è arrivato a possedere il 7 per cento delle azioni. Partiamo dall'inizio della storia. Da quando nel 2011 alcuni emissari vicini a Credit Suisse (che risulta essere consulente del Vaticano per il private banking, e dunque gestore di parte considerevole dei conti riservati a disposizione della Segreteria di Stato, che tra Obolo di San Pietro e Fondo Paolo VI arrivano a circa 800 milioni di euro) mettono intorno allo stesso tavolo i vertici della Segreteria di Stato e gli uomini del finanziere, gran capo della holding WRM e della società d'investimento Athena Capital Found, entrambe con sede in Lussemburgo. Il Vaticano, inizialmente, chiede una consulenza. In merito a un possibile investimento da circa 200 milioni per l'acquisto di una piattaforma petrolifera, Un'affare, però, che non convince né la banca svizzera né i finanzieri di Mincione. Che, rilanciando, propongono al Vaticano di sottoscrivere – con i denari che si vogliono investire nell'affare del greggio - un nuovo fondo lussemburghese gestito da loro. La proposta va in porto: nel 2012 la Segreteria di Stato gira quasi 200 milioni di euro all'Athena Capital Global Opportunities, un fondo che fa negli anni investimenti di varia natura. Inchiesta interna su operazioni finanziarie sospette: sospesi dai loro incarichi cinque dirigenti. Tra loro pezzi da novanta come don Mauro Carlino, capo degli uffici della Segreteria di Stato e Tommaso Di Ruzza, direttore dell'antiriciclaggio. Nel mirino dei magistrati compravendite immobiliari a Londra e la gestione dei conti dell'Obolo di San Pietro. Papa Francesco: non faremo sconti a nessuno. Il più importante di tutti, però, è l'acquisto di alcuni immobili di pregio a Sloane Avenue, nel centro di Londra. Un business a cui partecipa direttamente sia Mincione, che con WRM compra il 55 per cento del palazzo, sia il fondo vaticano, che ne prende il 45 per cento. Mincione, Becciu, monsignor Alberto Perlasca della segreteria di Stato sembrano gestire per anni il fondo senza scossoni e problemi di sorta. Tutto cambia, però, a fine del 2018. Quando Becciu lascia la Segreteria per diventare prefetto alla Congregazione per le Cause dei Santi e al suo posto, come sostituto agli Affari generali, il papa e Pietro Parolin promuovono monsignor Edgar Pena Parra. Il nuovo sostituto prende le carte e nota con dispiacere che i rendimenti della Sicav vaticana in Lussemburgo sono assai meno redditizi di quello ipotizzato all'inizio con Mincione. Ne chiede conto ai suoi sottoposti (tra cui i contabili Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, anche loro sospesi da ieri dall'incarico) e a don Carlino. Le risposte non lo convincono. Pena Parra (non sappiamo se con l'avallo di Parolin) decide allora di acquistare l'intero palazzo, e di uscire dal fondo lussemburghese gestito da Mincione. Il 22 novembre viene infatti firmato un accordo transattivo tra Santa Sede e i gruppi del finanziere che l'Espresso pubblica in esclusiva, con cui si perfeziona l'uscita: di fatto il Vaticano, attraverso nuove società londinesi, diventa proprietario degli immobili di pregio (che prima vengono affidati a un gestore attraverso un contratto, poi gestiti direttamente con nuove società londinesi), mentre i fondi di Mincione restano unici azionisti degli altri investimenti fatti negli anni. Per fare l'operazione di uscita, però, spiegano altre autorevoli fonti vaticane Pena Parra avrebbe chiesto denari, tramite monsignor Carlino, allo Ior. È in quel momento che i vertici della banca – poco felici di vedere i loro conti in gestione ridursi troppo – cominciano a volere vederci chiaro. Dopo qualche mese dalla transazione, così, scatta la denuncia ai magistrati vaticani. A quella dello Ior si aggiunge presto quella del Revisione generale, di fatto l'autorità anti corruzione d'Oltretevere. I pm del papa indagano ora non solo su eventuali irregolarità dell'operazione immobiliare londinese e di quelle della Sicav, ma pure su ipotetici giri di denaro che avrebbero arricchito alcuni mediatori e dipendenti vaticani: sono al setaccio trust e depositi sia in Lussemburgo sia in Svizzera, ma è presto per dire se siano stati o meno trovati illeciti. Per la cronaca, non è la prima volta che in Vaticano qualcuno vuole vederci chiaro sul fondo segreto della Segreteria di Stato: tra il 2013 e il 2014 i commissari della Cosea, la commissione voluta dal papa per mettere ordine tra gli enti economici del vaticano, e in particolare membri come la “papessa” Francesca Immacolata Chaoqui e Jean-Baptiste de Franssu, oggi presidente dello Ior, avevano chiesto le carte riservate dell'operazione immobiliare. Senza mai riuscire, pare, ad ottenerne mezza. Al netto delle ipotesi investigative tutte da dimostrare, dal gruppo di Mincione nessuno parla ufficialmente. Ma voci interne spiegano che il business fatto con la Santa Sede sarebbe del tutto lecito e trasparente, che i fondi lussemburghesi sono controllati dalla Commissione di vigilanza del settore finanziario del Granducato, e che compensi sono stati pagati alla luce del sole solo a soggetti terzi che hanno fatto da mediatori all'inizio dell'avventura finanziaria. Aggiungendo che la transazione (firmata da monsignor Perlasca) è stata fatta davanti a importanti studi inglesi, e che il Vaticano alla fine avrebbe guadagnato dagli investimenti di Athena oltre il 10 per cento. I bassi rendimenti degli affitti degli immobili di cui si lamenta il Vaticano? «Non ci fosse stata la Brexit, le previsioni sui rendimenti sarebbero state rispettate». È il mercato, bellezza.

Vaticano, «I milioni per i poveri in paesi offshore e per operazioni di dubbia eticità». Secondo i pm della Santa Sede i fondi extrabilancio dell'Obolo di San Pietro, pari a circa 650 milioni di euro, sarebbero gestiti dalla Segreteria di Stato per business opachi. Le intercettazioni di monsignor Carlino con manager italiani e tutti i particolari dell'inchiesta shock. Emiliano Fittipaldi il 17 ottobre 2019 su L'Espresso. Papa Francesco è stato durissimo. «L’illecita diffusione del documento» con cui l’Espresso ha dato conto dell’inchiesta della magistratura vaticana su operazioni immobiliari effettuate dalla Segreteria di Stato, «è paragonabile a un peccato mortale». E così all’inferno - prima ancora che l’indagine bis sulla fuga di notizie cominciasse davvero - ci è finito il comandante della Gendarmeria Domenico Giani. Anche se del tutto estraneo al “leak”, qualche giorno fa il superpoliziotto è stato costretto a dimettersi e lasciare l’ufficio che guidava da tredici anni. Ora l’Espresso ha ottenuto una nuova documentazione riservata del Vaticano. Che dimostra come i peccati commessi siano assai più gravi di quelli dei whistleblower e che i peccatori - al netto della rilevanza penale ancora tutta da dimostrare - vadano cercati ai piani alti dei sacri palazzi. Le carte analizzate sono tante. C’è la denuncia del Revisore generale e le accuse arrivate dallo Ior. Report riservati dell’affare immobiliare da 200 milioni di dollari per l’acquisto di un palazzo da 17 mila metri quadri a Londra. E soprattutto le 16 pagine integrali del decreto di perquisizione del Promotore di giustizia con cui sono stati indagati dipendenti della Segreteria di Stato e pezzi da novanta come don Mauro Carlino (l’ex segretario del cardinale Angelo Becciu) e il direttore dell’Autorità di informazione finanziaria Tommaso Di Ruzza, che mostrano come la Santa Sede si trovi di fronte a uno scandalo che ha pochi precedenti nella storia recente. E che potrebbe portare a una drammatica crisi di sistema. Lo tsunami è devastante. I pm del papa Gian Piero Milano e Alessandro Diddi ritengono aver individuato «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio» in merito a comportamenti di ecclesiastici e laici influenti, mentre un’altra relazione del Revisore ipotizza «gravissimi reati quali l’appropriazione indebita, la corruzione e il favoreggiamento». I business finiti nella lente degli investigatori riguardano non solo l’era di Angelo Becciu alla Segreteria di Stato, ma pure quella del nuovo Sostituto agli Affari Generali, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, fedelissimo di Francesco nominato appena un anno fa. Inchiesta interna su operazioni finanziarie sospette: sospesi dai loro incarichi cinque dirigenti. Tra loro pezzi da novanta come don Mauro Carlino, capo degli uffici della Segreteria di Stato e Tommaso Di Ruzza, direttore dell'antiriciclaggio. Nel mirino dei magistrati compravendite immobiliari a Londra e la gestione dei conti dell'Obolo di San Pietro. Papa Francesco: non faremo sconti a nessuno.

L’inchiesta - in cui vengono citati finanzieri d’assalto come Raffaele Mincione e broker meno conosciuti come Gianluigi Torzi - rivela inoltre che la Segreteria di Stato nell’anno di grazia 2019 possieda e gestisca fondi extrabilancio per la bellezza di 650 milioni di euro, «derivanti in massima parte dalle donazioni ricevute dal Santo Padre per opere di carità e per il sostentamento della Curia Romana». Si tratta dell’Obolo di San Pietro, che dovrebbe essere destinato ai poveri e ai bisognosi e che invece il Vaticano investe in spericolate operazioni speculative. Con l’aiuto, in primis, di Credit Suisse, «nelle cui filiali svizzere e italiane risulta versato circa il 77 per cento del patrimonio gestito». Circa «500 milioni di euro», segnala l’Ufficio del Revisore Generale, finiti in operazioni finanziarie che a parere dei magistrati mostrano «vistose irregolarità», oltre ad aprire «scenari inquietanti».

Non è tutto. Altri documenti riservati evidenziano come l’investigazione, partita il 2 luglio grazie a una denuncia del direttore generale dello Ior Gian Franco Mammì, sia probabilmente meno accurata di quanto papa Bergoglio - che l’ha autorizzata con un rescritto il 5 luglio - credesse. Studiando le carte e la scansione temporale degli eventi, è evidente che l’inchiesta possa essere usata per sostenere gli interessi particolari delle tante fazioni che si combattono in Vaticano. Un fuoco incrociato che ha coinvolto persino l’Aif, l’organismo antiriciclaggio voluto da Benedetto XVI, il cui direttore Di Ruzza è stato perquisito e sospeso perché sospettato, si legge nelle accuse degli inquirenti, «di aver trascurato le anomalie dell’operazione» londinese e di aver addirittura favorito «in qualità di intermediario finanziario» il manager Torzi. «Di Ruzza con c’entra nulla in realtà. Così si indebolisce l’Aif, se ne metta in pericolo l’indipendenza con ripercussioni pesanti all’estero» chiosano autorevoli collaboratori del pontefice. «Lo scandalo finanziario è grave, ma non si faccia una caccia alle streghe, sennò precipiteremo tutti nel caos».

IL PALAZZO D’ORO. Partiamo dall’inizio della storia. Dall’ottobre 2012, quando Raffaele Mincione, un finanziere italiano ormai assai noto per aver tentato la scalata alla Popolare di Milano e a Banca Carige, viene contattato da un ex manager di Mediobanca, Ivan Simetovic. «Ivan lo conoscevo da tempo. Mi mise in contatto con Enrico Crasso, allora dirigente di Credit Suisse», spiega all’Espresso Mincione. «Incontrai Crasso nel suo ufficio e mi spiegò che loro gestivano parte importante del patrimonio del Vaticano. Mi chiesero se volevo fare l’advisor per un investimento da 200 milioni di dollari per un’operazione petrolifera in Angola». L’idea della segreteria di Stato, allora guidata dal cardinale Tarcisio Bertone e dal sostituto Becciu (che è stato nunzio in Angola dal 2001 al 2009) era quella di investire in una piattaforma petrolifera al largo delle coste del paese africano. Un business in cui erano già coinvolti l’Eni, la società statale Sonangol (con il 40 per cento a testa) e la Falcon Oil. Una società del finanziere africano Antonio Mosquito. È con lui, mr. Mosquito, che il Vaticano vuole fare l’affare. È a lui che vogliono girare - come evidenziano alcuni documenti riservati della Segretaria di Stato - ben 250 milioni di dollari per comprarsi il 5 per cento delle quote del consorzio. Gli uomini di Mincione (che spiegano di non aver mai girato soldi, o meglio“fees”, a Crasso, ma solo a Simetovic per la mediazione iniziale; per la consulenza il Vaticano pagherà Mincione circa 500 mila euro) ci lavorano per oltre un anno. Alla fine, però, il finanziere segnala ai clienti di Credit Suisse che l’investimento sarebbe del tutto «antieconomico», che Mosquito non è affatto solido finanziariamente (era stata assoldata una società d’investigazione finanziaria) e che i denari d’Oltretevere sarebbero stati bruciati in un amen. Lo tsunami giudiziario che fa tremare il Vaticano parte da alcune operazioni finanziarie del 2011. Quando la Segreteria di Stato decide di entrare in affari con il raider italo-londinese Raffaele Mincione. Indagini dei pm del papa su una Sicav del Vaticano nel Granducato, che ha comprato immobili a Londra per centinaia di milioni di euro. Indaga anche l’antiriciclaggio. Il Vaticano, dopo più di un tentennamento, decide così - siamo ormai nel 2014 - di rinunciare alla piattaforma petrolifera in mezzo all’Atlantico. È allora che Mincione, dismessi i panni dell’advisor, propone al governo della Santa Sede di investire gli stessi denari (che in euro valevano a tassi di cambio 130-140 milioni in una Sicav in Lussemburgo gestita dalla sua holding WRM). Discute dell’operazione con monsignor Alberto Perlasca, citato nelle carte dell’accusa come frequentatore di Mincione ma ad ora non indagato, e il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, considerato dai pm «personaggio centrale nell’operazione londinese descritta» e «titolare di un conto Ior mai movimentato». L’obiettivo finale è quello di vendere al Vaticano il 45 per cento di un palazzo al centro di Londra, al 60 di Sloane Avenue, che lui aveva comprato due anni prima per dare il via a una grande speculazione immobiliare. Il Real Estate è sicuramente più stabile del prezzo volatile del greggio. E l’affare va in porto. La speranza degli strani soci in affari, i cardinali da una parte e il raider che ha battezzato il suo yacht “Bottadiculo” dall’altra , è quella di aumentare tanto e presto l’investimento grazie alla trasformazione del palazzo del 1911 (un ex deposito di Harrods di 17 mila metri quadri) da commerciale a residenziale. Ristrutturarlo, costruire una cinquantina di appartamenti di lusso, venderli e raddoppiare il capitale investito. Con il passare dei mesi, però, i rapporti tra le parti peggiorano. Quando il Vaticano si accorge che i costi di gestione dei fondi lussemburghesi sarebbero troppo alti, Mincione fa notare - in un report - che non sarebbe lui a lucrare, ma che sarebbe la banca svizzera a prendere, tra commissioni e fees per la gestione di tutti i fondi del Vaticano, un tasso altissimo superiore all’8 per cento. Gli extracosti, di fatto, sarebbero a monte. La tensione tocca il suo apice nell’estate del 2018: dopo quattro anni il palazzo non rende affatto quanto sperato e la gestione di Mincione è considerata troppo dispendiosa. Quando Peña Parra sostituisce Becciu come Sostituto agli Affari generali della Segretaria, scatta il panico. Il prelato decide di uscire dal fondo lussemburghese di Mincione, l’Athena Capital Global, il più rapidamente possibile. Ma per farlo e non realizzare la perdita decide, a sorpresa, di comprare tutto il fabbricato. Mincione vende la sua parte, il 55 per cento, con una transazione firmata da monsignor Perlasca il 22 novembre 2018: alla fine il guadagno per il finanziere, tra acquisto nel 2012 e vendita sei anni dopo, è di 130 milioni di sterline secche. «Io non sarei mai voluto uscire, me l’hanno chiesto loro. E l’operazione resta ottima: basta si muovano a ristrutturare e vendere gli appartamenti», chiosa.

IL FINANZIERE MISTERIOSO. Torniamo alle carte dei magistrati di Francesco. Si legge che l’inchiesta penale scatta il 4 giugno 2019. Quando Peña Parra chiede allo Ior, attraverso una lettera al presidente dello Ior Jean Baptiste De Franssu, «di poter disporre, con carattere di urgenza, di liquidità per 150 milioni di euro per non meglio precisate “ragioni istituzionali”», scrivono Milano e Diddi. Il direttore della banca, Mammì, si allarma per la richiesta insolita e risponde picche. Non dà un centesimo e comincia una sua istruttoria. Se il papa si fida ciecamente del direttore generale, i nemici di Mammì malignano oggi che il banchiere di Dio avrebbe solo preso al volo l’occasione per incamerare nello Ior i fondi dell’Obolo, da sempre appannaggio della segreteria di Stato. «Certamente ha detto no a Peña Parra perché non voleva perdere nemmeno un euro dei denari dei conti della sua banca, che ha chiuso il bilancio con un utile dimezzato rispetto al 2018», ci dice velenoso un cardinale influente. Mammì, chiariscono invece i suoi collaboratori, vuole vederci chiaro. Capisce presto, dunque, che i 150 milioni servono ad estinguere il mutuo che pesava sull’immobile del quartiere di Chelsea, acceso da Mincione attraverso due società lussemburghesi controllate dal colosso britannico Cheyne Capital. È lo Ior, dunque, che fa scattare la prima denuncia al Promotore di Giustizia il 2 luglio. Il 5 luglio il papa dà il via libera all’inchiesta penale. A ruota segue l’intervento del Revisore Generale Alessandro Cassinis Righini, che in agosto manda ai promotori «nell’esercizio delle proprie prerogative, ed in via del tutto autonoma» una relazione-denuncia sul business milionario londinese. I pm e la gendarmeria portano avanti le indagini a ritmo serrato (qualcuno dice troppo per analisi complesse) e scoprono quello che molti in Vaticano già sapevano da tempo. Cioè che, uscito di scena Mincione, la segreteria di Stato non si è ripresa il controllo del palazzo, ma s’è affidata a un altro finanziere d’assalto con base a Londra: Gianluigi Torzi. Un raider tempo fa accusato di aver cambiato le serrature di un cancello di una proprietà immobiliare, impedendo l’accesso alle legittime proprietarie di un immobile vicino la sua villa al mare. E finito lo scorso luglio, ha raccontato il Fatto, nelle liste nere del database WordCheck, «per diverse indagini a suo carico avviate dalla procura di Roma e Larino (per la vicenda della villa, ndr) per reati di falsa fatturazione e truffa». Ebbene, gli uomini della segreteria di Stato decidono che Torzi è l’uomo giusto. Come risulta all’Espresso da atti riservati, a fine 2018 l’immobile non è stato rilevato con società riferibili direttamente al Vaticano o all’Apsa, l’amministrazione che per statuto gestisce il patrimonio immobiliare della Santa Sede. Ma è stato acquisito attraverso la Gutt Sa, una società del Lussemburgo «rappresentata» si legge nell’atto transattivo tra Segreteria di Stato e Mincione «dal signor Gianluigi Torzi». La Gutt, scrivono poi i pm nel decreto di perquisizione, sarebbe la «società che ha svolto la funzione di soggetto intestatario fittizio» delle altre società, quasi tutte in nel paradiso fiscale dell’isola di Jersey, che attraverso scatole cinesi «posseggono l’immobile londinese». Ma come mai il Vaticano «ha finanziato» Torzi, come si legge nell’accordo transattivo firmato da monsignor Perlasca in persona e benedetto da Peña Parra, e usato la sua Gutt schermandosi dietro di lei? Perché gli ha dato dal 3 dicembre 2018 in gestione il palazzo appena comprato, tanto da essere pure «pienamente autorizzato a negoziare il presente accordo quadro e qualsiasi altro documento necessario ai fini della transazione» con Mincione? Torzi è un uomo vicinissimo al finanziere di WRM, come pensa qualche investigatore in Vaticano, oppure è entrato nel business grazie ad entrature Oltretevere, come quella con il misterioso architetto Luciano Capaldo? Quest’ultimo, secondo le accuse, «sembrerebbe aver avuto un ruolo fondamentale nell’intera operazione». Non solo perché componente del board della società inglese London 60 Limited (insieme ai monsignori Carlino e Josep Lluis Serrano Pentinat) creata dalla Segreteria nel marzo del 2019 per prendersi finalmente – come vedremo – le quote della Gutt, ma perché secondo i magistrati Milano e Diddi «risulta socio di riferimento unitamente al signor Torzi della Odikon Service e della Sunset Enterprice». Due società su cui indagano i pm, che nel 2017 e nel 2018 avrebbero ricevuto 7,6 milioni di euro per aver «offerto assistenza finanziaria all’Ospedale Fatebenefratelli (applicando commissioni monstre del 20 per cento, ndr) per la cartolarizzazione dei crediti nei confronti della Regione Lazio». L’affaire con il nosocomio cattolico non è comunque nel fuoco investigativo. Lo sono, invece, le attività di Vincenzo Mauriello, minutante della Prima Sezione dell’Ufficio guidato dal cardinale Parolin, e soprattutto quelle di monsignor Carlino, che è stato intercettato per settimane, a partire dal settembre 2019. Ex segretario di Becciu, dalla scorsa estate promosso capo dell’Ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato, secondo le carte dell’accusa Carlino si muove «con particolare disinvoltura nelle alte sfere della gerarchia dello Stato», in una «incessante attività dallo stesso posta in essere con personaggi del mondo della finanza per realizzare nuove iniziative di tipo imprenditoriale». Il 2 settembre il monsignore in effetti incontra il presidente della Snam Luca Del Fabbro, con cui «tratta di nuove operazioni che si dovrebbero realizzare con un certo Casiraghi e con la moglie di Raffaele Mincione... con tale Preziosi di Genova (verosimilmente Enrico Preziosi imprenditore di riferimento della Giochi Preziosi)». Certamente don Carlino è considerato uno degli assoluti protagonisti della storiaccia del palazzo londinese. ( Qui la replica della moglie di Raffaele Mincione).

LA GUERRA DELL’AIF. Ma le carte segnalano che persino l’Aif avrebbe svolto «un ruolo non chiaro» nella vicenda. L’organismo presieduto da René Bruelhart avrebbe infatti «trascurato» le anomalie dell’operazione immobiliare e il direttore Di Ruzza avrebbe «intrattenuto una corrispondenza con lo studio inglese Mischon De Reya (i legali chiamati dalla Segretaria di Stato per seguire la famosa transazione con Mincione e Torzi, ndr) con la quale l’Aif sembrerebbe aver dato il via libera all’operazione di acquisto». Non solo: Di Ruzza avrebbe pure «confezionato e sottoscritto su carta intestata una lettera di “delega ad operare” a favore di Gianluigi Torzi in qualità di intermediario finanziario. In tal modo dando il proprio avallo all’operazione dai contorni opachi». Un’accusa grave che ha portato una perquisizione dell’ufficio del direttore, la sua sospensione dal servizio e il sequestro di documenti secretati dell’Aif. Ora risulta all’Espresso che ci siano però altre evidenze non citate dai magistrati. Se è vero che Torzi ha avuto dalla Segreteria di Stato, per cedere al Vaticano il patrimonio della sua Gutt e il controllo del palazzo londinese che aveva ottenuto per motivi inspiegabili a fine 2018, una commissione da ben 10 milioni di euro, è pur vero che gli uomini di Peña Parra avevano sottoscritto a favore del finanziere vincoli contrattuali stringenti, per di più sotto una giurisdizione estera. «Il Sostituto», spiegano oggi dalla Segretaria di Stato, «lo scorso marzo si accorge che Torzi, scelto da lui, Perlasca e gli altri laici pochi mesi prima, fa di fatto il padrone a casa loro. E che liberarsene d’emblée non sarà affatto semplice». Il rischio è quello di dover sborsare una buonuscita assai più onerosa di quella alla fine concessa: inizialmente le richieste di Torzi per far uscire la sua Gutt dalla gestione del palazzo, raccontano in Vaticano, sarebbero infatti esorbitanti. Per risolvere il pasticcio, così, Peña Parra a marzo corre proprio negli uffici dell’Aif per fare una segnalazione ufficiale sui dissidi con Torzi e l’affare londinese. Il direttore, risulta all’Espresso, avverte subito le autorità antiriciclaggio inglesi e lussemburghesi e ad aprile invia due lettere ai legali britannici del governo vaticano che stanno trattando con gli avvocati di Torzi. Nella prima chiarisce che l’Aif, nella vecchia transazione a favore della Gutt, aveva individuato una serie di irregolarità, e aveva suggerito di bloccare l’operazione, annunciando infine di aver aperto un’indagine antiriciclaggio chiedendo cooperazione ai colleghi d’Oltremanica. Non sappiamo se Torzi, venuto a conoscenza della mossa dell’Aif, abbia deciso così di convenire a un nuovo accordo e accettato la somma (comunque enorme) che gli era dovuta da contratto per uscire dall’affare. È sicuro però che nella seconda lettera Di Ruzza non autorizza alcuna fee - come invece sembrano sospettare Mammì, il Revisore generale e i pm - ma spiega solo che, nel caso il patrimonio della Gutt fosse tornato gratis a una società del Vaticano, e Torzi avesse lasciato la proprietà e il controllo dell’immobile in via definitiva, le parcelle a suo favore già previste dai contratti di fine 2018 (quando nessuno sapeva nulla di quanto stava accadendo nella Segreteria di Stato) sarebbero potute essere pagate. Concludendo con la notizia che l’indagine finanziaria sarebbe comunque proseguita: la speranza degli investigatori dell’Aif era quella di tracciare il flusso dei soldi con la collaborazione delle Uif estere, per capire se parte dei 10 milioni dati a Torzi sarebbero rimasti sui conti del finanziere. O movimentati a favore di qualcun altro dentro il Vaticano. Paradossalmente l’inchiesta sugli investigatori dell’Aif ha per ora bloccato il lavoro dell’intelligence dell’autorità. Ad oggi non sappiamo se i gendarmi, da pochi giorni guidati dal nuovo comandante Gianluca Gauzzi Broccoletti, abbiano trovato nuovi elementi corruttivi che inchiodino gli indagati o altri personaggi rimasti nell’ombra. Sappiamo con certezza che l’inchiesta dimostra come centinaia di milioni di euro destinati agli ultimi e ai poveri vengono ancora gestiti con opacità e nessuna trasparenza, come se il Vaticano fosse una merchant bank di un Paese offshore. Ed evidenzia come carte giudiziarie rischino di essere usate per regolamenti di conti tra le sacre mura. Per Francesco non sarà facile, davanti al nuovo scandalo, districarsi tra nemici veri, falsi amici, buoni suggeritori e cattivi consiglieri.

Preciso che. AGGIORNAMENTO 30 OTTOBRE La replica di Maddalena Paggi Mincione. L’Espresso nell'articolo a firma di Emiliano Fittipaldi dal titolo “Peccati Mortali” ha riportati fatti non veri, sospetti, associazioni e allusioni che, seppur virgolettati, in quanto asseritamente estratti da un non meglio precisato documento, non sono stati certamente verificati e vengono presentati sulla sua rivista in modo diffamatorio e come se fossero veritieri. Tali dichiarazioni, e l’evidenza con cui vengono riportate senza alcun tipo di contraddittorio, non possono che produrre un effetto diffamatorio nei confronti della mia persona al solo scopo di colpire la mia famiglia e la sua serenità. In particolare, il mio nome viene accostato al Vaticano, a Monsignor Mauro Carlino, al Signor Luca Del Fabbro, ad un certo Signor Casiraghi e ad un certo Signor Preziosi e si asserisce che non meglio precisate “nuove operazioni” si sarebbero dovute realizzare con il mio coinvolgimento. Sottolineo che non ho rapporti di nessun genere con il Vaticano e che non conosco né ho mai incontrato nessune delle persone sopra menzionate e indicate nell’articolo. Inoltre, non ho nulla a che fare con le perfettamente legittime attività imprenditoriali di mio marito. La invito, quindi, a pubblicare, senza indugio, nelle pagine principali della sua rivista, dando il medesimo risalto dato all’articolo, delle scuse e una smentita di quanto riportato con l’articolo, specificando che la medesima rivista, in violazione di precisi doveri, non ha svolto alcuna verifica indipendente sul contenuto dell’articolo. Mi riservo, ad ogni buon conto, di agire in ogni competente sede per il risarcimento dei danni subiti e subendi in conseguenza dell’articolo. Distinti saluti. Maddalena Paggi Mincione

La nostra risposta. Prendiamo atto delle precisazioni. Segnaliamo tuttavia che ci siamo limitati a riportare tra virgolette quanto scritto dai magistrati vaticani.

Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 30 ottobre 2020. È il 2014 quando la segreteria di Stato Vaticana compra l'immobile di Sloane Avenue a Londra e avvia una serie di investimenti fallimentari, attraverso l'ingresso al 45 per cento nel fondo Athena, costato alla Santa Sede circa 500 milioni di euro. Ma l'operazione, che ha portato il promotore di Giustizia Gian Piero Milano a indagare per truffa, estorsione, riciclaggio, peculato, e che sta sconvolgendo il Vaticano, parte almeno due anni prima. Gli indagati, intanto sono diventati dieci. E le indagini adesso vanno a ritroso. Mentre entrano in campo anche i pm di Roma, con il pm Maria Teresa Gerace che ha iscritto il nome del finanziere Raffaele Mincione sul registro degli indagati per riciclaggio. Al centro delle indagini le movimentazioni di denaro verso il Liechtenstein e Lussemburgo. Nel fascicolo Vaticano sono stati coinvolti anche il capo dell'Antiriciclaggio, Tommaso di Ruzza, e monsignor Alberto Perlasca, don Mauro Carlino, ex segretario di Angelo Giovanni Becciu, Caterina Sansone, addetta di amministrazione della segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello, minutante dell'ufficio del protocollo della Segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi, minutante dell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Oltre a Mincione e Gian Luigi Torzi, i finanzieri che hanno promosso l'operazione. E ad altri religiosi. Quando segretario di Stato era ancora il cardinale Tarcisio Bertone, che non è indagato. Per questo adesso nell'inchiesta condotta all'interno delle Mura Leonine gli accertamenti riguardano anche i passaggi precedenti e il ruolo svolto dall'allora segretario di Stato. L'indagine è partita nel 2019, ma il terremoto, fatto di veleni e cordate, è cominciato prima. Il palazzo al 60 di Sloane Avenue era stato costruito da Harrods per ospitare uffici e negozi, il progetto è realizzare appartamenti e rivenderlo. Ma in realtà per raggiungere l'obiettivo saranno necessari altri soldi e ancora soldi. Una vicenda sulla quale si allunga l'ipotesi delle speculazioni individuali. Non solo dei finanzieri che l'hanno promossa, mettendosi in tasca cifre a sei zeri, ma anche da parte di religiosi. Ma le indagini vanno ancora più indietro al 2014, quando il cardinale Pell chiedeva conto di fondi extrabilancio. L'idea di quell'investimento nasce nel 2012, quando, sotto Bertone, entra in scena il finanziere Raffaele Mincione negli uffici londinesi del Credit Suisse, che gestiscono circa 650 milioni di euro della Segreteria di Stato, provenienti in gran parte dall'Obolo di San Pietro. All'epoca monsignor Angelo Perlasca è responsabile dell'ufficio amministrativo e consiglia l'allora Sostituto Becciu. Nel 2014 si conclude l'affare. La Segreteria di Stato compra il 45% dell'immobile attraverso il fondo Athena gestito dalla Wrm di Mincione, che a sua volta ne detiene la maggioranza, dei 147 milioni di euro investiti dal Vaticano solo 80 vanno nel palazzo e 65 in altre attività del fondo. Bertone intanto è uscito di scena, lasciando il posto nel 2013 al cardinale Parolin. Becciu resta Sostituto fino al 2018, quando viene promosso alla Congregazione dei santi. Oltre all'oramai famoso palazzo di Sloane Avenue, interamente rilevato dalla Segreteria di Stato nel 2018 ci sono anche altri immobili a Londra. Uno è a North Kensington, acquisito dal fondo Athena. Intanto gli investimenti sono finiti davanti all'Alta Corte di Londra che si dovrà pronunciare su una controversia legale. A chiamare in causa il Vaticano è stato Mincione, che ha chiesto all'Alta Corte di pronunciarsi sulla correttezza dei contratti firmati dalla Segreteria di Stato nel 2013. Secondo i magistrati vaticani quei contratti potrebbero non essere validi, mentre per la controparte, cioè il finanziere Mincione, sono regolarissimi e conformi alle norme inglesi. Per questo ha deciso di fare causa al Vaticano ricorrendo alla corte londinese. Il 14 settembre però il Vaticano è passato alla contromossa, depositando la richiesta di rinvio, sollevando il principio di competenza di giurisdizione. Il giudice inglese dirà se il Vaticano può non presentarsi ritenendo legittimo che si sottragga alla competenza britannica. Tutto dipenderà dalla memoria che verrà presentata e dalle motivazioni addotte.

Dagonews il 30 settembre 2020. Quel che ha contribuito a rovinare l’ex cardinale Angelo Becciu è stato il suo controverso rapporto con il finanziere molisano Gianluigi Torzi, già arrestato in Vaticano - e poi rilasciato dopo dieci giorni - per lo scandalo dell’immobile di Sloane Avenue, acquistato dalla Segreteria di Stato nel novembre 2018. Torzi si muoveva attraverso la società lussemburghese “Gutt Sa”, nonostante nel giro che conta fosse considerato “ad alto rischio” oltre a essere nelle liste mondiali di bad press. Il finanziere era in rapporti di affari con Giancarlo Innocenzi, dirigente Mediaset ed ex sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II. Innocenzi ha portato in dote a Torzi alcuni politici, ingaggiati con il ruolo di consulente, per dare una smacchiata alla sua barcollante reputazione. Tra le persone contattate, ad esempio, c’erano sia Tremonti che Frattini (quest’ultimo però ha rapidamente preso le distanze). L’ex cardinale Becciu, forse abbagliato dal prestigio dei consulenti messi in mostra e sventolati come bandierine (“Eminenza, presto glieli faremo conoscere”), s’è agganciato al tandem Torzi-Mincione (entrambi indagati per accuse che vanno dal riciclaggio al peculato fino all’estorsione e alla truffa). I due sono riusciti a estrarre denari dal Vaticano come neanche due cercatori d’oro nel Klondike: ad esempio, sono riusciti a fare incassare all’avvocato Nicola Squillace 200 mila euro per un generico incarico di consulenza legale. Il contraltare della cricca, feroce nemico di Becciu, è il cardinale Oscar Maradiaga, kingmaker del Conclave che ha portato all’elezione di Bergoglio che suggerì al Papa di nominare George Pell a prefetto della Segreteria per l'economia. Proprio la caduta di Pell, azzoppato da accuse di pedofilia teleguidate da una parte della Curia filo Becciu, ha spalancato le porte del potere al porporato sardo che ha scalato le gerarchie vaticane fino a diventare uomo degli uomini più vicini al Papa. Un punto di riferimento necessario per Bergoglio, dopo le numerose delusioni nelle scelte dei suoi collaboratori. E’ stata proprio l’enorme fiducia tradita a scatenare la furibonda reazione del Pontefice che si è fatto giustizia spingendo Becciu alla rinuncia all'incarico di prefetto della Congregazione delle cause dei santi e privandolo dei diritti e delle prerogative del cardinalato. Cosa mai successa prima in Vaticano. Ma ora lo scenario si è ribaltato: il sardo è nella polvere, l’australiano oggi è tornato a Roma, atteso a Santa Marta dal Papa. Chissà se Pell ha voglia di rivelare le informazioni che erano in suo possesso quando era prefetto per l’economia sugli investimenti fatti dalla Segreteria di stato…

Vaticano, conti segreti e guerra tra i cardinali nei verbali: «Mincione moralmente inadatto». La Segreteria di Stato gli affidò l’acquisto del palazzo di Londra. Gli inquirenti: manovra studiata per depredare le casse del Papa. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2020. Esiste una informativa riservata della Gendarmeria vaticana del 20 giugno 2013 che evidenzia «elementi reputazionali negativi» nei confronti del finanziere Raffaele Mincione. Un documento che la Segreteria di Stato della Santa Sede decise di ignorare rivolgendosi proprio a lui per investire centinaia di milioni di euro in affari immobiliari e investimenti all’estero. Sono i verbali degli alti prelati coinvolti nelle indagini condotte dai promotori di giustizia del Vaticano Gian Piero Milano e Alessandro Diddi su questo fiume di denaro sottratto alle casse della Chiesa e utilizzato a fini personali, che hanno già portato alle dimissioni di monsignor Angelo Becciu, a raccontare la guerra che si è consumata in questi anni all’interno dell’ufficio che dovrebbe invece tutelarne gli interessi e comunque agire seguendo le disposizioni del Papa. Al centro delle verifiche c’è l’acquisto del palazzo di Sloane Avenue 60 a Londra, ma in realtà a leggere gli atti raccolti nell’ultimo anno appare chiaro che l’investimento sia stato soltanto il pretesto per quella che gli stessi inquirenti definiscono «una manovra ben pianificata per realizzare una ingente depredazione di risorse finanziarie della Segreteria di Stato che non ha eguali». Sono quindici le persone finite sotto inchiesta per peculato, abuso di autorità e corruzione — i dipendenti della Segreteria di Stato e faccendieri — ma i protagonisti sono certamente lo stesso Becciu e monsignor Alberto Perlasca, indicato come il vero sostenitore dell’investimento che — forse nel timore di finire agli arresti o comunque di avere conseguenze gravi — ha deciso di collaborare con i promotori scagliandosi proprio contro Becciu. Entrambi dovranno chiarire quali vantaggi abbiano ottenuto tenendo conto che tra le verifiche effettuate ci sono quelle sui conti aperti presso lo Ior, ma anche presso banche italiane ed estere dove potrebbero essere confluiti i proventi degli affari conclusi utilizzando l’obolo di San Pietro e altre disponibilità della Santa Sede. Ma anche spiegare perché si decise di utilizzare faccendieri e banchieri come consulenti pagando loro parcelle da centinaia di migliaia di euro. Un lungo elenco di personaggi che negli ultimi sette anni risultano aver frequentato la Segreteria di Stato con la massima disinvoltura e senza alcun tipo di controllo.

I fondi vincolati dati in pegno. Nel verbale di sequestro dei conti correnti intestati a monsignor Perlasca, gli inquirenti vaticani scrivono: «Le indagini hanno consentito di accertare che per la conclusione dell’operazione londinese la Segreteria di Stato ha fatto ricorso a una complessa struttura finanziaria realizzata attraverso la costituzione in pegno dei fondi vincolati anziché attraverso l’impiego diretto delle disponibilità liquide, il cosiddetto Credito Lombardo, che a parere di questo ufficio rappresenta la forte evidenza indiziaria del fatto che tale struttura abbia rappresentato un escamotage per non rendere visibile, come del resto avvenuto per moltissimi anni, la distrazione compiuta». A partire dal giugno 2013 ci sono state almeno quattro riunioni all’interno della Segreteria di Stato alle quali hanno partecipato faccendieri e banchieri interessati a dividersi i milioni di euro che — con l’avallo prima di monsignor Tarcisio Bertone e poi di monsignor Becciu — si era deciso di utilizzare in affari immobiliari o comunque a dirottare su conti esteri. Ma quella determinante sembra essere avvenuta il 20 giugno 2014, quando monsignor Perlasca incontra Mincione e soprattutto Enrico Crasso, il dirigente di Credit Suisse che aveva portato proprio Mincione in Vaticano e «nel corso della quale è stata assunta la decisione, come visto rivelatasi disastrosa per le finanze vaticane, di intraprendere l’operazione londinese. Le indagini hanno consentito di accertare che la decisione di intraprendere tale operazione è da ascrivere alla competente I Sezione degli Affari Generali dalla Segreteria di Stato».

L’avvertimento della magistratura. Tra i primi ad essere interrogati c’è Vincenzo Mauriello, uno dei dipendenti vaticani inquisiti. Scrivono i promotori: «Il 13 gennaio 2020 questo ufficio ha ascoltato Mauriello, il quale a proposito dell’operazione londinese ha riferito che “nel 2013-2014 mentre si trovava davanti all’ufficio del sostituto monsignor Becciu incrociò il dottor Fabrizio Tirabassi (anche lui indagato, ndr) che usciva dalla stanza del Sostituto. In quell’occasione gli disse che la Segreteria di Stato aveva in animo di fare un investimento ma il Sostituto chiedeva, prima di dar seguito all’investimento stesso, di acquisire informazioni su uno dei partner che Tirabassi gli disse essere Raffaele Mincione”. Mauriello, per come dallo stesso riferito, curò personalmente l’acquisizione delle informazioni su Raffaele Mincione ponendosi in contatto con la Gendarmeria la quale, in un rapporto a firma del dottor Alessandrini, metteva in evidenza le ragioni che avrebbero sconsigliato l’avvio di attività di investimento con il predetto Mincione. In particolare egli “non era persona moralmente adatta ad avere rapporti con la Segreteria di Stato”. Mauriello ha specificato che nel 2013-2014 la persona che aveva deciso di avviare l’investimento per cui a procedimento era proprio monsignor Perlasca. La dichiarazione di Mauriello trova preciso riscontro in quanto accertato, in particolare che monsignor Perlasca ha seguito l’operazione londinese sin dall’origine avendo il 9 luglio 2014 sottoscritto, unitamente a Fabrizio Tirabassi, la proposta di partecipazione della Segreteria di Stato all’investimento che ha visto la destinazione a finalità speculative di fondi con vincolo di scopo».

«Così gestivano le Nunziature». Il 31 gennaio viene convocato, anche lui come indagato e dipendente della Segreteria di Stato, monsignor Mauro Carlino. Scrivono i promotori: «Oltre a delineare il ruolo e le funzioni di Tirabassi, precisa la posizione di assoluto rilievo rivestita da monsignor Perlasca che “si occupava di tutto ciò che ha a che fare con l’amministrazione, dei bilanci semestrali delle Nunziature, ma anche delle risultanze finanziarie dei vari centri di spesa e di entrate come ad esempio quelle dell’obolo di San Pietro”. Dalle dichiarazioni di monsignor Carlino emerge che monsignor Perlasca ha avuto il pieno controllo della gestione del fondo Athena Capital Global e soprattutto della gestione, da lui stesso definita “deleteria”, personalistica e con gravi perdite del fondo, operato da Mincione. Monsignor Carlino ha riferito che l’attuale Sostituto monsignor Edgar Pena Parra, nel gennaio 2019, allorquando cioè si rese conto della gravità di quanto stava accadendo, gli riferì che la responsabilità della gestione deleteria dell’investimento era da attribuire a monsignor Perlasca e che aveva deciso di tenerlo fuori dalle operazioni di recupero dell’investimento». Perlasca ha cominciato a collaborare con le autorità vaticane e secondo quanto riferito dall’AdnKronos avrebbe rivelato la richiesta proveniente da monsignor Becciu di trasferire soldi alle attività dei suoi fratelli attraverso la Caritas e che lo stesso Becciu «si è servito durante il suo mandato dei giornalisti» per veicolare informazioni «su monsignor Battista Ricca, monsignor Edgar Pena Parra, sulla malattia del cardinale Parolin, sulla nascita dell’ospedale Mater Olbia». Ultimo capitolo di una guerra che appare tutt’altro che finita.

Claudio Antonelli per "La Verità" il 19 settembre 2020. Segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi, responsabile dell'ufficio amministrativo della Segreteria e altre figure laterali. In quell'occasione gli inquirenti vaticani accusano il broker addirittura di estorsione, per via del tentativo di costruire una cresta da 15 milioni. In estrema sintesi la strategia di uscita dal fondo che faceva capo a Raffaele Mincione in relazione all'immobile di Sloane avenue sarebbe stata imbastita, a quanto avrebbero ricostruito i magistrati vaticani, con un'operazione che prevedeva da un lato che la Segreteria di Stato rilevasse l'immobile di Londra e dall'altro che la stessa Segreteria versasse a Mincione 40 milioni di euro a titolo di conguaglio. Successivamente la Segreteria, rappresentata da Tirabassi e da Enrico Crasso, avrebbe deciso di triangolare l'acquisizione dell'immobile di Londra attraverso la Gutt Sa di Torzi. Dando il via a una serie di altre operazioni che avrebbero poi portato agli arresti del broker e all'acquisizione dei telefoni e iPad di Mincione. La Verità apprende che almeno due nomi protagonisti del cronache di giugno compaiono in altre operazioni, adesso sotto il faro degli inquirenti.  A febbraio del 2014 Tirabassi e Crasso si scambiano una serie di informazioni in merito a un conferimento di denaro nel fondo immobiliare Sloane & Cadogan investment management. Il funzionario vaticano nel confermare l'adesione monetaria all'operazione specifica che prima di firmare i termini, bisogna accordarsi sulle commissioni. Nel dettaglio Tirabassi suggerisce 2,5% di commissioni di gestione al netto delle tasse e degli altri costi di avvio del veicolo, mentre le fee di performance (cioè la percentuale che il gestore/fondo prende sulla differenza tra il conferimento iniziale e il valore finale) devono essere del 25%. Anche in questo caso, al netto delle tasse. L'investimento del 2014 (unitamente ad altri) si riferisce a quattro immobili londinesi e non si può non notare che le commissioni sono altissime. Il celebre D.E shaw è un hedge fund che chiede ai suoi clienti 3% di gestione e 30% sulla performance. Ma ha un track record da eccellenza, e soprattutto non è un fondo immobiliare. I fondi di questo settore viaggiano invece intorno all'1% di gestione e al 10/15 di performance fee. La domanda che le toghe si pongono è: perché? Perché sottoscrivere a tali condizioni? Ma gli interrogativi non finiscono qui. Nella comunicazioni tra Crasso e Tirabassi si inserisce anche un altro finanziere all'epoca nel gruppo Credit Suisse, A.ndro N.ceti. Il quale avrebbe confermato a Tirabassi le condizioni di avvio. Va notato però che il nome di N.ceti compare anni dopo legato a una società, Five Ruby red limited, ora attenzionata dal Vaticano. La vicenda, infatti, si infittisce circa tre anni dopo i conferimenti in Sloane & Cadogan. A dicembre del 2017 Consortia directors ltd, che gestisce questi quattro immobili vaticani a Londra, avrebbe dato disposizione a un'altra società intermediatrice di effettuare un bonifico da 700.000 sterline a Eight lotus petals ltd con sede alle Isole vergini britanniche. Il bonifico è stoppato dall'organismo di antiriciclaggio della banca della società intermediaria. Dello stop viene a conoscenza anche l'Aif, Autorità di informazione finanziaria, che successivamente informa monsignor Angelo Becciu. Secondo i pm d'Oltretevere, a ridosso di Natale sarebbe sta. A gennaio del 2018 SC Alpha, società londinese collegata a Sloane & Cadogan investment management, versa a Five Ruby red limited, riconducibile allo stesso N.ceti, un importo di 700.000 sterline. La fattura ha come dicitura «servizi relativi al contratto d'investimento». E indica per il pagamento una filiale Barclays in uno dei paradisi del Canale. L'importo è solo una coincidenza? Oppure non lo è? L'ufficio del promotore di Giustizia, a quanto risulta alla Verità, si sta ponendo tali domande, e avrebbe aperto un altro filone d'indagine diverso, e forse nemmeno intersecato con la presunta truffa di Sloane avenue. Secondo informazioni in possesso della Verità, gli investimenti in Sloane & Cadogan non avrebbero alcun contatto con quelli inerenti l'ormai celebre fondo Athena e la holding di Mincione Wrm. Il dossier è delicatissimo perché - è bene ricordarlo - i fondi su cui stanno indagando i procuratori sono, almeno nel caso di Athena, quelli dell'Obolo di San Pietro e quindi soldi destinati ai poveri. In quanto tali, da gestire con oculatezza e un certo rispetto cristiano.

Dom.Ag. per “la Stampa” l'1 ottobre 2020. Sono i monsignori Perlasca, l'ex «braccio destro» nella gestione della «cassa vaticana», e Carlino, storico segretario, che avrebbero rotto la rete di protezione di Becciu dando il via alla svolta delle indagini sui presunti illeciti finanziari del cardinale sardo. Il «tradimento» sarebbe avvenuto attraverso confessioni agli inquirenti, consegna di documentazione «scottante», dettagliate rivelazioni che accuserebbero Becciu anche di dossieraggi per screditare avversari interni, e una lettera al Papa (mandata da Perlasca). «La Stampa» lo apprende da fonti interne al Vaticano. Per anni Alberto Perlasca è stato il potentissimo capo ufficio amministrativo della Prima Sezione della Segreteria di Stato, dove si gestisce un tesoretto di quasi 700 milioni di euro tra immobili e liquidi, compresi i flussi dell' Obolo di San Pietro. Il 4 agosto 2019 gli viene improvvisamente cambiato l' incarico: trasferito al Tribunale della Segnatura apostolica. Ma non è ancora coinvolto in alcuna inchiesta, in cui entrerà nel febbraio successivo. Quel 4 agosto cambia ufficio anche Mauro Carlino, grande frequentatore di broker e imprenditori, a lungo segretario di Becciu e poi di monsignor Edgar Peña Parra, sostituti agli Affari generali della Segreteria di Stato (Becciu dal 2011 al 2018, Pena Parra è il suo successore e attuale): Carlino va a capo dell'Ufficio informazione e Documentazione. Entrerà nel registro degli indagati e sarà sospeso dal servizio della Santa Sede il 2 ottobre 2019, per poi essere rimosso e rispedito nella sua diocesi di Lecce nel maggio 2020. Sul licenziamento di Giovanni Angelo Becciu, Perlasca a caldo ha tagliato corto: «Non so niente». E invece, lui come Carlino, avrebbe confessato il suo ruolo negli investimenti spericolati che hanno gravemente «alleggerito» i conti della Santa Sede, e avrebbe fornito ai magistrati carte e conti che proverebbero il coinvolgimento di Becciu. Tra gli episodi su cui si sarebbe concentrato uno sfogo di Perlasca a un cardinale, secondo l' Adnkronos ci sarebbe anche quello dei 100mila euro per la cooperativa sarda che poi si rivelerà essere la Spes di Ozieri, di cui è presidente il fratello di Becciu, Tonino. È una delle operazione sotto la lente dei magistrati. Perlasca avrebbe rivelato una richiesta ricevuta dall' allora Sostituto perché provvedesse a trovare una soluzione per eseguire un bonifico da 100mila euro a una cooperativa in Sardegna in grave difficoltà. I suoi collaboratori gli avrebbero suggerito di dividere l' importo in più quote per evitare indagini da parte dell' Autorità di vigilanza. Ma poi Becciu avrebbe trovato un' altra via: trasmettere l' intera somma alla Caritas diocesana di Ozieri. Causale: opere di carità del Santo Padre. Secondo Perlasca, ci sarebbe Becciu dietro i dossier circolati nelle Sacre Stanze contro due suoi nemici storici nello scontro di poteri in Vaticano: monsignor Battista Ricca (Ior), e soprattutto Pena Parra.

Lotta tra i cardinali Becciu e Pell. Il versamento di 700 mila euro. Fiorenza Sarzanini il 2/10/2020 su Il Corriere della Sera. Bonifici, dossier e ricatti: la guerra tra alti prelati Una pista porta in Australia. C’è una vera e propria attività di dossieraggio di alcuni prelati dietro la svolta dell’inchiesta che ha portato alle dimissioni di monsignor Angelo Becciu. Monsignori — ma anche funzionari della Segreteria di Stato vaticana — che avrebbero conservato documenti sugli investimenti immobiliari e sulla movimentazione dei conti correnti. Le verifiche riguardano numerosi bonifici, compreso uno da 700 mila euro che l’ex Sostituto avrebbe effettuato su un conto australiano. E tanto è bastato per far scattare i controlli. Proprio in Australia è stato infatti processato e poi assolto dall’accusa di pedofilia uno dei «nemici» di Becciu, monsignor George Pell. E adesso si sta verificando se sia stato effettivamente lui ad ordinare il versamento e chi ne siano i beneficiari. Sono gli atti dell’inchiesta a svelare la guerra che si sta combattendo all’interno della Santa Sede. Decreti di perquisizione e sequestro, richieste di rogatorie, soprattutto verbali di chi ha deciso di collaborare con i promotori di giustizia, probabilmente sperando così di evitare conseguenze ben più gravi. Uno è certamente Alberto Perlasca, per anni capo dell’ufficio che all’interno della Segreteria di Stato gestisce l’Obolo di San Pietro, adesso indagato per l’investimento del palazzo di Sloane Avenue a Londra e per tutti gli altri esborsi milionari che hanno «depredato le casse del Vaticano».

Oltre 100 milioni. Secondo le verifiche compiute dai promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi tra il 2014 e il 2017, Perlasca ha autorizzato il fondo Athena Capital Global riconducibile al faccendiere Raffele Mincione (indagato anche dalla procura di Roma per riciclaggio) ad effettuare una serie di investimenti che si sono rivelati disastrosi per le finanze vaticane: depositi in conti correnti Deutsche Bank per 38 milioni di dollari; acquisizione di azioni della società Stroso Jersey per circa 13 milioni di dollari, sottoscrizione di bond, emessi dalla Time and Life sa (che faceva capo a Mincione) per 16 milioni di dollari; finanziamenti a Cessina Limited (a cui fa capo un’altra iniziativa immobiliare di Mincione) per 20 milioni di dollari; acquisizione del 30 per cento di Alex srl; acquisizione di 26 unità del fondo immobiliare Tiziano San Nicola della Sorgente sgr; acquisizione di azioni di banca Carige; acquisizione di azioni della Banca popolare di Milano; sottoscrizione di 3,9 milioni di euro di obbligazioni della società italiana Sierra One, che aveva acquisito i crediti vantati dal Fatebenefratelli con la Regione Lazio e che si era impegnata a riconoscere i crediti a una società che fa capo a Gianluigi Torzi, l’altro finanziere inquisito nell’inchiesta.

Le rivelazioni. Nel febbraio scorso, quando è stato convocato dai Promotori di giustizia per rendere conto della propria attività nella Segreteria di Stato e ha ricevuto un ordine di perquisizione, Perlasca ha capito che rischiava di finire agli arresti. Nel provvedimento oltre a contestargli le accuse di peculato, abuso di autorità e corruzione in concorso con i dipendenti della segreteria di Stato e i faccendieri che hanno portato avanti gli investimenti, i promotori evidenziano che «la violazione della disciplina sovrana dell’amministrazione dei fondi dello Stato e attraverso lo sfruttamento della posizione ricoperta nella struttura amministrativa della Segreteria; l’aver usato in modo illecito e a vantaggio proprio e di altri le somme vincolate a opere di carità; aver ricevuto per gli atti compiuti denaro e altre utilità». Pochi giorni dopo si è presentato di fronte agli inquirenti e ha cominciato a collaborare ricostruendo quanto accaduto e mettendo in cima alla lista proprio monsignor Becciu. Ha parlato del suo ruolo collegato ai faccendieri, dei soldi fatti arrivare alle imprese dei fratelli attraverso un giro di conti proprio per mascherare la destinazione finale. Ha rivelato che appena dieci giorni fa, l’11 settembre, l’Apsa, amministrazione del patrimonio della sede apostolica, ha pagato l’ultima tranche di 45 milioni, su 150, per riscattare l’immobile di Sloane Avenue. Poi ha aperto il capitolo più scottante.

I ricatti. Secondo Perlasca negli ultimi anni Becciu si sarebbe servito di alcuni giornalisti e di altre fonti per screditare i nemici. E proprio in questo filone rientra il versamento che sarebbe stato fatto in Australia e il possibile collegamento con il processo a Pell. La replica di Becciu è lapidaria: «Pur compatendolo, umanamente e cristianamente, per il difficile momento personale che sta attraversando, respingo decisamente ogni tipo di allusione su fantomatici rapporti privilegiati con la stampa».

Tutti gli uomini del cardinale Angelo Becciu per controllare gli affari del Vaticano. Massimiliano Coccia il 02 ottobre 2020 su L'Espresso. Il porporato non voleva solo dare soldi ai fratelli. Ma imporre il suo dominio nelle mura leonine. Attraverso una rete internazionale di società, fondi e affari non limpidi. Ecco i nomi dietro il "metodo Becciu". Sono passati dieci giorni dalle dimissioni del Cardinale Angelo Becciu, giorni in cui l’ex porporato ha cercato di sminuire e classificare i contenuti della nostra inchiesta come “complotto”, “campagna denigratoria” o semplici affari di famiglia. Ma quello che agli occhi di Becciu appare come un affare privato è invece un affare di Stato, dello Stato più piccolo del mondo ma che coinvolge una rete internazionale senza eguali. L’affare dell’acquisto del palazzo di Londra situato in Sloane Avenue è solamente l’ultimo investimento, finito male, che ha determinato una cesura del meccanismo, messo in atto con l’assenso di Becciu. Quello che aveva come scopo ultimo - secondo le accuse - il drenare risorse per ingrossare i conti correnti dei famigliari e gestire il potere vaticano, sia nella gestione delle casse della Segreteria di Stato, sia nella possibilità di influenzare il prossimo conclave. È questa la leva che ha mosso la dura reazione di papa Francesco. Proteggere la sua idea di Chiesa povera e vissuta come ospedale da campo. La Chiesa meno di apparenza e più di sostanza che Francesco sta riformando e che passa inevitabilmente per le resistenze di una parte delle gerarchie curiali.

Floriana Bulfon per “la Repubblica” il 2 ottobre 2020. La caccia ai soldi del Sacco di San Pietro porta in Svizzera. I magistrati vaticani sono certi che lì siano nascosti i milioni trafugati con truffe, ricatti e corruzioni. Somme che non riescono neppure a quantificare e per questo con una rogatoria di 12 pagine hanno chiesto alle autorità elvetiche di setacciare tutti i conti dei protagonisti dello scandalo. Broker, finanzieri e funzionari della Segreteria di Stato come Fabrizio Tirabassi. Per gli inquirenti è uno dei personaggi chiave: «ha fornito il suo contributo alla realizzazione dell' operazione Gutt Sa che si è conclusa con un esborso di 15 milioni di euro senza alcuna plausibile giustificazione economica». È lui ad aver seguito in prima persona le manovre della società lussemburghese posseduta da Gianluigi Torzi e i magistrati non gli credono quando sostiene di essere stato raggirato. Perché Tirabassi, da 30 anni al servizio del Vaticano, è un commercialista competente, oltre a essere «molto attivo nel proporre investimenti con i fondi della Segreteria di Stato ai vari gestori patrimoniali, stabilendo con essi attività anche a titolo personale». Un funzionario con tanto di conto allo «Ior (saldo pari a 700mila euro) alimentato esclusivamente dagli emolumenti a lui liquidati dalla Santa Sede ma che egli non ha mai movimentato». Ma in Svizzera ha molto altro, tanto che nel 2015 grazie alla voluntary disclosure regolarizza un milione di euro depositati lì. Disponibilità patrimoniali che «non solo appaiono sproporzionate rispetto alla retribuzione a lui erogata dalla Segreteria di Stato, ma che, alla luce delle investigazioni, rendono plausibile l' ipotesi che Tirabassi abbia commesso il reato di corruzione o concorso in appropriazioni indebite». A cui si aggiunge quello di peculato, perché «sono evidenti le collusioni con Enrico Crasso, con il quale era certamente d' accordo per utilizzare i fondi per finalità diverse da quelle istituzionali». Nella rogatoria si sottolinea come Crasso gestisca dal 1990 le finanze della Segreteria di Stato. Un' attività in cui ha coinvolto anche i figli. Ed è lui a introdurre, nel 2012, il raider Raffaele Mincione nelle stanze della Segreteria di Stato. Stando all' accusa era pienamente consapevole di utilizzare somme a destinazione vincolata ed era presente quando sono state assunte decisioni che si sono rivelate disastrose per le finanze vaticane. Non solo, nel portafoglio in deposito presso Credit Suisse della Segreteria di Stato appaiono investimenti effettuati da lui e a lui riferibili: «Con un evidente conflitto di interesse e un possibile rischio di frode». Un quadro desolante, ma quel che è peggio è che «nonostante la Segreteria di Stato sia stata messa in guardia nell' ultimo anno circa l' attività di Crasso continua a dargli fiducia e a non togliergli la delega a operare sui propri conti correnti». Il sospetto è che si sia creata un' associazione per delinquere ai danni della Santa Sede e che un fiume di milioni sia stato disperso nei paradisi bancari. La Svizzera è solo la prima tappa. Qui per ora sono stati congelati i conti di Mincione, il finanziere di Pomezia che per l' accusa ha tratto il maggior vantaggio dall' operazione di Londra. Ben 18 milioni di euro, nonostante l' affare si sia rivelato disastroso per il Vaticano. E la procura vaticana gli contesta anche le scalate lanciate in Italia - come Bpm, Carige e Retelit - perché «ha investito somme della Segreteria di Stato in strumenti finanziari di società a se stesso riferibili nelle quali aveva interessi personali». Il cardinale Angelo Becciu segue dal suo appartamento la continua fuga di notizie che lo riguardano. Ieri, tramite il suo legale Fabio Viglione, ha reagito alle dichiarazioni attribuite dalla stampa a monsignor Perlasca. Il porporato ha espresso «stupore e dolore, denunciandone la plateale falsità», dice Viglione. E ancora: « Sua Eminenza respinge decisamente ogni tipo di allusione su fantomatici rapporti privilegiati con la stampa, che si vorrebbero utilizzati a fini diffamatori nei confronti di alti prelati». Anche Mauro Carlino, ex segretario di Becciu, ha smentito tramite i suoi legali «di aver mai fatto accuse nei confronti del cardinale, di essersi aperto con gli inquirenti dopo la radiazione dal corpo diplomatico e di essersi pentito, avendo sempre legittimamente operato, davanti ai magistrati non avendo nulla da nascondere».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 2 ottobre 2020. C'è una vera e propria attività di dossieraggio di alcuni prelati dietro la svolta dell' inchiesta che ha portato alle dimissioni di monsignor Angelo Becciu. Monsignori - ma anche funzionari della Segreteria di Stato vaticana - che avrebbero conservato documenti sugli investimenti immobiliari e sulla movimentazione dei conti correnti. Le verifiche riguardano numerosi bonifici, compreso uno da 700 mila euro che l' ex Sostituto avrebbe effettuato su un conto australiano. E tanto è bastato per far scattare i controlli. Proprio in Australia è stato infatti processato e poi assolto dall' accusa di pedofilia uno dei «nemici» di Becciu, monsignor George Pell. E adesso si sta verificando se sia stato effettivamente lui ad ordinare il versamento e chi ne siano i beneficiari. Sono gli atti dell' inchiesta a svelare la guerra che si sta combattendo all' interno della Santa Sede. Decreti di perquisizione e sequestro, richieste di rogatorie, soprattutto verbali di chi ha deciso di collaborare con i promotori di giustizia, probabilmente sperando così di evitare conseguenze ben più gravi. Uno è certamente Alberto Perlasca, per anni capo dell' ufficio che all' interno della Segreteria di Stato gestisce l' Obolo di San Pietro, adesso indagato per l' investimento del palazzo di Sloane Avenue a Londra e per tutti gli altri esborsi milionari che hanno «depredato le casse del Vaticano». Secondo le verifiche compiute dai promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi tra il 2014 e il 2017, Perlasca ha autorizzato il fondo Athena Capital Global riconducibile al faccendiere Raffele Mincione (indagato anche dalla Procura di Roma per riciclaggio) ad effettuare una serie di investimenti che si sono rivelati disastrosi per le finanze vaticane: depositi in conti correnti Deutsche Bank per 38 milioni di dollari; acquisizione di azioni della società Stroso Jersey per circa 13 milioni di dollari, sottoscrizione di bond, emessi dalla Time and Life S.A. (che faceva capo a Mincione) per 16 milioni di dollari; finanziamenti a Cessina Limited (a cui fa capo un' altra iniziativa immobiliare di Mincione) per 20 milioni di dollari; acquisizione del 30 per cento di Alex srl; acquisizione di 26 unità del fondo immobiliare Tiziano San Nicola della Sorgente sgr; acquisizione di azioni di banca Carige; acquisizione di azioni della Banca popolare di Milano; sottoscrizione di 3,9 milioni di euro di obbligazioni della società italiana Sierra One, che aveva acquisito i crediti vantati dal Fatebenefratelli con la Regione Lazio e che si era impegnata a riconoscere i crediti a una società che fa capo a Gianluigi Torzi, l' altro finanziere inquisito nell' inchiesta. Nel febbraio scorso, quando è stato convocato dai Promotori di giustizia per rendere conto della propria attività nella Segreteria di Stato e ha ricevuto un ordine di perquisizione, Perlasca ha capito che rischiava di finire agli arresti. Nel provvedimento oltre a contestargli le accuse di peculato, abuso di autorità e corruzione in concorso con i dipendenti della segreteria di Stato e i faccendieri che hanno portato avanti gli investimenti, i promotori evidenziano che «la violazione della disciplina sovrana dell' amministrazione dei fondi dello Stato e attraverso lo sfruttamento della posizione ricoperta nella struttura amministrativa della Segreteria; l' aver usato in modo illecito e a vantaggio proprio e di altri le somme vincolate a opere di carità; aver ricevuto per gli atti compiuti denaro e altre utilità». Pochi giorni dopo si è presentato di fronte agli inquirenti e ha cominciato a collaborare ricostruendo quanto accaduto e mettendo in cima alla lista proprio monsignor Becciu. Ha parlato del suo ruolo collegato ai faccendieri, dei soldi fatti arrivare alle imprese dei fratelli attraverso un giro di conti proprio per mascherare la destinazione finale. Ha rivelato che appena dieci giorni fa, l' 11 settembre, l' Apsa, amministrazione del patrimonio della sede apostolica, ha pagato l' ultima tranche di 45 milioni, su 150, per riscattare l' immobile di Sloane Avenue. Poi ha aperto il capitolo più scottante. Secondo Perlasca negli ultimi anni Becciu si sarebbe servito di alcuni giornalisti e di altre fonti per screditare i nemici. E proprio in questo filone rientra il versamento che sarebbe stato fatto in Australia e il possibile collegamento con il processo a Pell. La replica di Becciu è lapidaria: «Pur compatendolo, umanamente e cristianamente, per il difficile momento personale che sta attraversando, respingo decisamente ogni tipo di allusione su fantomatici rapporti privilegiati con la stampa».

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 3 ottobre 2020. Una vera e propria «cricca», che ha lavorato per depredare risorse di strutture legate al Vaticano, in azione dentro la Santa Sede da ben prima della vicenda dell'investimento di Sloane Avenue a Londra. E che fino alla vicenda dell'immobile al centro dello scandalo operava su un altro settore ugualmente redditizio: i crediti sanitari. È quanto emerge dalla lettura degli atti della vicenda, dalla richiesta di rogatoria avanzata dalle autorità vaticane all'Italia fino al mandato d'arresto di Gianluigi Torzi, incrociata con altri documenti visionati da La Stampa. A parlare esplicitamente di una «associazione» tra Fabrizio Tirabassi, Giuseppe Maria Milanese, Gianluigi Torzi e Luciano Capaldo è la richiesta di rogatoria inviata dalle autorità vaticane alla procura di Roma il 26 novembre scorso. Che analizza anche una serie di operazioni compiute dai quattro nel settore dei crediti sanitari. Tirabassi, ex funzionario della Segreteria di Stato, è uno degli indagati nell'inchiesta sul palazzo di Sloane Avenue nonché una delle prime teste a cadere quando è emersa la vicenda. Milanese, presidente della cooperativa Osa, compare in questa storia come uno dei personaggi chiamati a «mediare» quando esplode la vicenda delle perdite nell'investimento fatto con l'Obolo di San Pietro nei fondi del finanziere Raffaele Mincione. Inizialmente individuato come una figura equivoca e dal discutibile profilo reputazione nella rogatoria di novembre, viene definito «disinteressato» nel mandato d'arresto di Torzi, dopo un interrogatorio durato 8 ore e ampiamente citato nell'atto d'arresto. Torzi, arrestato in Vaticano nel giugno scorso e rilasciato qualche giorno dopo, incassa almeno 15 milioni di euro per la «mediazione» con Mincione sul palazzo grazie anche all'interposizione di una sua società, la lussemburghese Gutt sa. Capaldo, architetto romano con numerosi affari a Londra, è tutt' ora amministratore della London 60 SA Limited, la società controllata dalla Segreteria di Stato alla quale fa capo adesso il palazzo di Sloane Avenue. Risulta però anche legato a Torzi da una serie di incroci societari. I rapporti risalgono almeno al 2016, quando la Osa di Milanese, che fornisce personale specializzato alle strutture sanitarie emette un'obbligazione che viene sottoscritta integralmente dalla Segreteria di Stato con i fondi depositati presso Credit Suisse. Nello stesso periodo, a febbraio 2016, la Sogenel di Enrico Crasso - ex Credit Suisse e uno dei gestori di fiducia delle finanze vaticane - ottiene un mandato da Osa per «analisi e e gestione del recupero dei suoi asset di credito». In realtà il compenso di Sogenel (40 mila euro) rappresenterebbe la commissione per il bond sottoscritto dalla Segreteria di Stato. Nel 2017 parte poi l'operazione di cartolarizzazione dei crediti vantati dal Fatebenefratelli, struttura del Vaticano, nei confronti della Asl Roma 1. Ad orchestrare il tutto sarebbero, secondo i documenti visionati, Torzi e Capaldo. Si tratta in realtà di tre operazioni distinte, tutte con commissioni stratosferiche per gli intermediari: il 20% dei crediti ceduti. Su 14,8 milioni di incasso della prima tranche, al Fatebenefratelli vanno 11,2 milioni mentre 3,6 milioni vanno alla Odikon Services, controllata da Torzi e nella quale Capaldo è stato amministratore fino a novembre 2018. Nel 2018 è poi la Sunset Enterprise a prendere il 20% di commissioni su un'altra cartolarizzazione del Fatebenefratelli. Ovvero, la società di Torzi che un anno più tardi incasserà una parte della «commissione» per la vicenda del palazzo di Londra. In questo caso però il veicolo (Sierra One Spv) non pagherà mai i crediti e la commissione salta. Non salta però qualche tempo dopo, quando il Fatebenefratelli vara una terza operazione di cartolarizzazione: 28,7 milioni di incasso totale e altri 7,2 milioni alla Sunset di Torzi. I bond emessi poi da Sierra finiscono anche (per 3,9 milioni) nel fondo Athena alimentato dai soldi del Vaticano. Il Servicer è la Sunset Credit Yeld di Capaldo. Stessa società che compare anche in un'altra operazione, a fine 2018, sui crediti della Osa di Milanese. Operazione che coinvolge anche Tirabassi: gli inquirenti vaticani annotano che Tirabassi e Capaldo lavorano insieme sui crediti sanitari negli stessi mesi in cui Capaldo («ancora non indagato», dice una fonte della Santa Sede) si occupava anche dell'immobile di Londra. Oltre a essere amministratore della società che lo controlla, una sua società ottiene anche il mandato per la gestione dell'immobile.

L’ex cardinale Becciu scrive a Papa Francesco. Con una lettera, l'ex cardinale avrebbe fatto ammenda per i toni della conferenza stampa post-dimissioni, quando disse del Pontefice «spero non sia manipolato». Ma non si è ancora presentato davanti a chi lo ha messo sotto accusa. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 02 ottobre 2020. C’è un senso di quiete apparente tra le mura vaticane giunta dopo la settimana più difficile del papato di Francesco; una settimana piena di notizie iniziata,  grazie all’inchiesta de “L’Espresso”   con le dimissioni del cardinale Angelo Becciu e proseguita, il giorno appresso,  con la conferenza stampa inusuale  di quest’ultimo Secondo quanto “L’Espresso” ha appreso da fonti interne alla Santa Sede, l'ex porporato sardo di Pattada avrebbe indirizzato una missiva al Pontefice, in un cui chiede scusa per toni, modalità di comunicazione e interazione con la stampa. In particolare, per quella frase piuttosto infelice con la quale l’ex cardinale auspicava che il Pontefice «non fosse manipolato da nessuno». Una lettera che potrebbe segnare un cambio di strategia di Becciu: dopo una difesa iniziale improntata sull’ipotesi del complotto, complice anche il pentimento del suo collaboratore monsignor Alberto Perlasca, l'ex sostituto della Segreteria di Stato si ritrova in una crescente solitudine e con un impianto di accuse non ancora formalmente notificate molto ampio. Inoltre, nonostante la dichiarazione resa nella conferenza stampa all’Istituto Maria Bambina di venerdì 25 settembre, in cui assicurava piena volontà di collaborare con gli inquirenti, ad oggi l’ex porporato non si è ancora presentato davanti ai promotori di giustizia Giampiero Milano e Alessandro Diddi per spiegare la sua versione dei fatti. Un atteggiamento ricorrente da parte di molti uomini coinvolti all’interno del caso del Palazzo di Sloane Avenue: ad esempio Fabrizio Tirabassi, commercialista, licenziato lo scorso anno dalla Santa Sede, da allora non ha più messo piede all’interno delle mura leonine e, nonostante l’invito a comparire più volte avanzato dagli inquirenti, si è limitato alla consegna di una memoria difensiva. Proprio il profilo di Tirabassi è quello più significativo in questa vicenda sia per la piena conoscenza del meccanismo corruttivo che era alla base del  “sistema Becciu” , sia per l’ingente quantità di denaro (in totale più di un milione e mezzo di euro) che nel corso del tempo è confluita sui suoi quattro conti correnti: due dello Ior, uno in una banca svizzera e l’ultimo a New York, al momento tutti sequestrati dalle autorità giudiziarie. Inoltre, nei giorni che hanno preceduto lo scandalo, a chi lo interpellava all’interno delle stanze vaticane circa i rischi cui lo esponeva la sua posizione, Tirabassi rispondeva con una caustica scrollata di spalle e con la specifica che le carte che lui lavorava erano firmate da Becciu, Perlasca e persino dal Papa, dimostrando così di non temere nessuno scandalo o coinvolgimento. Chi invece ha collaborato con gli inquirenti, sin dalle prime battute, è stata Alida Carcano, all’epoca dei fatti in quota Valeur Investment, società che ebbe un ruolo centrale nella creazione del fondo immobiliare che portò all’operazione di acquisizione del palazzo di Sloane Avenue. Fu proprio quell'affare a produrre la rottura tra lei e il suo ex socio, L.enzo V.gelisti, perno centrale dei rapporti tra il finanziere Enrico Crasso, detentore della cassa vaticana, e A.ndro N.ceti, ex Credit Suisse, facilitatore dei rapporti tra acquirenti e Segreteria di Stato. Questi ultimi continuano a non rispondere alle richieste di chiarimenti da parte delle autorità vaticane, nonostante penda una rogatoria internazionale con la Svizzera che in tempi rapidi farà chiarezza su conti e fondi di investimento. Un momento che in molti si aspettano, compreso Papa Francesco.

Preciso cheprecisoche.  L'Espresso il 6 ottobre 2020. Nessun rapporto di lavoro con finanze vaticane. Riguardo all’articolo da voi pubblicato il 2 ottobre sulla lettera dell'ex cardinale Becciu a papa Francesco, desidero precisare che:

1) Non sono stata ingaggiata sulla natura delle informazioni riportate nell'articolo che citano il mio nome.

2) Smentisco le frasi nell'articolo in quando non sono mai stata interpellata in nessun contesto da qualsivoglia autorità, inquirenti con riferimento alla vicenda citata.

3) In passato ho lavorato con L.nzo V.gelisti citato nell'articolo, ma le nostre strade si sono definitivamente separate nel 2015 e la mia società Valeur Fiduciaria SA non ha niente a che vedere con la Valeur Capital citata nell'articolo. Non ho mai partecipato alla creazione di nessun fondo immobiliare e non ho mai avuto a che fare con le operazioni suddette o rapporti di lavoro con finanze vaticane.

Sono quindi assolutamente estranea ad ogni riferimento e, appunto, nessuno inquirente mi ha mai chiesto nulla a riguardo. Le sarei grata pertanto se poteste procedere ad una rettifica sulla mia posizione sia dal sito sia dal magazine già dal prossimo numero. sono a disposizione per qualsiasi chiarimento. Alida Carcano

Massimiliano Coccia per “la Repubblica” il 5 ottobre 2020. In queste ore le testimonianze di monsignor Alberto Perlasca, assistente dell'allora cardinale Angelo Becciu all' interno della Segreteria di Stato, davanti ai promotori di giustizia vaticani, aprono scenari inediti. La creazione di un sistema economico parallelo serviva a Becciu anche per gestire il potere, creare dossier per screditare rivali, funzionari o uomini vicini a Papa Francesco che avrebbero potuto interrompere i piani dell' allora Sostituto alla segreteria. Dalle rivelazioni di Perlasca si è arrivati a individuare una serie di bonifici che il cardinale di Pattada avrebbe indirizzato in Australia, nello stato di Victoria, per finanziare sia i testimoni contro il grande rivale, il cardinale George Pell, sia per far montare la campagna mediatica per chiederne la condanna. Uno schema che nasce da lontano e che è stato, secondo le rivelazioni, preparato con l' ausilio di una rete di supporto in Australia che si incrocerebbe con alcune persone vicine a ordini religiosi e associazioni contro la pedofilia. L' avversione tra Becciu e Pell è antica, ma l' episodio cardine non è quello riferito dallo stesso ex sostituto della Segreteria di Stato nella conferenza stampa dopo le dimissioni, quando raccontò di quella volta che «davanti al Papa, lui mi disse: lei è un disonesto. E lì ho perso la pazienza, e gliel' ho gridato: non si permetta di dire queste cose». Va ancora più indietro. Risale al momento in cui Pell comprende, tra i primi, quale sia il meccanismo che regola i fondi della Segreteria di Stato, quel "metodo Becciu" che L'Espresso ha ricostruito in queste settimane; quando decide di segnalare all' anticorruzione quel sistema fatto di cartolarizzazioni, fondi, consulenze, percentuali fuori mercato, fiumi di soldi ed enormi giri finanziari. Il pericolo per la tenuta del sistema Becciu è evidente. Da qui, la necessità di sbarazzarsi dell' ingombrante presenza del cardinale australiano. Per strutturare il piano, Becciu si sarebbe avvalso di una persona di fiducia, legata a doppio filo a una importante dinastia romana, che conosceva bene il territorio australiano avvalendosi di una rete religiosa ed economica di supporto. Il piano punta sulla pedofilia. Le vittime vengono individuate tra gli ex studenti del Saint Patrick College di Ballarat e tra l' omonima cattedrale di Melbourne, un luogo dove Pell gestiva molteplici attività con i ragazzi tra cui il coro. Tre sono gli uomini che hanno accusato il cardinale Pell: due di origine irlandese e un terzo di origine italiana. Quest'ultimo, deceduto per overdose a 31 anni, non ha mai potuto testimoniare in tribunale contro di lui. Secondo alcuni abitanti di Ballarat, che abbiamo ascoltato via Skype, l' uomo avrebbe in punto di morte più volte negato il coinvolgimento di Pell ammettendo che fu pagato molto bene per accusare il cardinale. Secondo quanto raccolto dagli abitanti, l' uomo parlava di un italiano che aveva vissuto a lungo in Australia che lo aveva arruolato e spesso ripeteva che i soldi ricevuti gli sarebbero serviti per disintossicarsi. Al processo, cui non partecipò mai, testimoniò il padre che confermò le violenze subite. La creazione del dossier su Pell fu di facile realizzazione: sia per l' ampia capacità di liquidità di cui il l' ex Sostituto della segreteria di Stato disponeva, come testimonia il suo conto Ior, sia per lo scarso appeal che Pell aveva nella curia romana. Al vaglio delle autorità vaticane ci sarebbero anche altri movimenti bancari che riguarderebbero la contropartita che il cardinale Becciu avrebbe girato ai basisti di questa operazione. Nella serata di ieri, per mezzo del suo avvocato, ha smentito «in modo categorico qualunque interferenza nel processo nei confronti del cardinale Pell». Ma c'è altro che si muove. Secondo quanto si apprende dal Bollettino ufficiale della Santa Sede, il 24 settembre Papa Francesco ha incontrato Salvatore De Giorgi, cardinale e arcivescovo emerito di Palermo. Al centro dell' incontro ci sarebbe, su indicazione delle autorità vaticane, la volontà di riprendere il lavoro della prima Vatileaks, alla quale De Giorgi lavorò come membro della commissione d'inchiesta in cui c'erano i cardinali Jozef Tomko e Julián Herranz Casado. Quel lavoro fu consegnato da Benedetto a Francesco e potrebbe costituire l' ingranaggio per creare una sorta di maxiprocesso in cui vecchi e nuovi metodi potrebbero unirsi per superare definitivamente certe modalità operative e dare lo slancio definitivo alla riforma delle finanze vaticane. Sullo sfondo rimangono numerosi appuntamenti nell' agenda vaticana, tra cui quello più delicato previsto per novembre: il Conclave del Sovrano Ordine di Malta che avrebbe dovuto seguire proprio il cardinale Becciu, il quale formalmente rimane il delegato di Francesco.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 ottobre 2020. Nelle indagini sulla gestione delle finanze vaticane da parte del cardinale Giovanni Angelo Becciu, già prefetto della Congregazione delle cause dei santi, c' è una nuova pista che porta sempre in Sardegna. Infatti a destare l' attenzione degli investigatori della Santa sede guidati dai promotori di giustizia Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, non sono solo i cospicui aiuti ai tre fratelli imprenditori del porporato (originario di Pattada, provincia di Sassari), ma anche alcuni bonifici inviati dai conti riconducibili a Becciu e al suo vecchio ufficio a Cecilia Marogna, trentanovenne cagliaritana. A Roma i due sono stati avvistati insieme e la donna, bruna e minuta, a quanto risulta alla Verità sarebbe entrata in Vaticano presentata come «nipote» del cardinale. Di lei sotto il Cupolone sanno che vive a Milano, dove il compagno F.B.S., pure lui originario della provincia di Sassari, svolge attività imprenditoriale. La signora, secondo alcune fonti, sarebbe stata ingaggiata e retribuita per curare alcuni rapporti internazionali. Ora gli inquirenti vogliono capire se si tratti di consulenze regolari. Ieri abbiamo provato a contattare Becciu e la Marogna. Il primo ci ha risposto: «Mi hanno detto di stare zitto. Posso solo dirle che la signora non è una mia familiare». Il cellulare della donna, invece, ha suonato a vuoto tutto il giorno. Su Internet si trovano pochissime informazioni su di lei. Tra queste risalta il suo ruolo nel Movimento Roosevelt presieduto da Gioele Magaldi. Quest' ultimo, romano, classe 1971, è una specie di grembiulino di sinistra: Gran maestro del Grande oriente democratico (nato in contrasto con il più noto Grande oriente d' Italia), nel 2015, insieme con Laura Maragnani, ha pubblicato il libro «Massoni, società a responsabilità illimitata. La scoperta delle ur-lodges». Sempre cinque anni fa, Magaldi si è buttato anche in politica. Su Facebook leggiamo: «Il Movimento Roosevelt è stato ufficialmente costituito a Perugia dai soci fondatori, il 21 marzo 2015, con contestuale elezione di un Presidente, di un Segretario generale e di altri organi collegiali. Il Movimento Roosevelt ha natura politica metapartitica, con l' intenzione di aggregare i progressisti, i democratici e i libertari di sensibilità socialista (in senso democratico-liberale) di tutte le latitudini politiche, civili e culturali». Dal sito del movimento apprendiamo anche che la Marogna, nel 2016, è stata «nominata membra della segreteria particolare per le relazioni con gruppi, associazioni e soggetti rilevanti della società civile». La donna ha avuto contatti anche con un altro personaggio in odore di massoneria, Flavio Carboni, condannato in primo grado a 6 anni e 6 mesi per le attività illecite di una presunta associazione segreta, la P3. Lo stesso Carboni è già stato condannato per il crac del Banco ambrosiano ed è sotto processo per reati fiscali e riciclaggio presso il Tribunale di Arezzo. Nelle carte di quest' ultimo procedimento sono state depositate le intercettazioni effettuate sui cellulari del faccendiere sardo. Dai brogliacci risultano decine di chiamate della Marogna: tutte con squilli a vuoto o risposte della segreteria. Agli atti anche messaggi di testo. Il 12 dicembre 2015 la Marogna scrive: «Ciao, come stai? Volevo sapere se sei a Cagliari e magari disponibile domani sera».

Otto giorni dopo: «Ciao, come stai? Ogni tanto cerco di contattarti chiamami appena puoi.

Cecilia». Il 15 febbraio 2016 manda un altro sms: «Ciao Carissimo, come stai? Mi farebbe piacere vederti. Chiamami!».

Il 22 marzo 2016 forse il desiderio si sta per avverare: «Non vedo l' ora di vederti!». Seguono nei giorni successivi molte altre chiamate a vuoto. Il nome di Carboni, classe 1932, in passato è stato associato ad alcuni dei più torbidi intrighi della Santa Sede. Per esempio è stato processato e assolto per la morte del banchiere Roberto Calvi, e la sua figura è stata collegata anche al sequestro di Emanuela Orlandi. Eppure, ancora nel 2015, sembra che conservasse preziose entrature in Vaticano, come rivelato dalla Verità nei mesi scorsi. Cinque anni fa il presunto pitreista era interessato alla presentazione di un progetto legato alla produzione del grafene, un materiale resistentissimo, e per finanziarlo aveva deciso di chiedere aiuto Oltretevere e a un misterioso politico sardo con buoni agganci a Bruxelles. In uno dei faldoni depositati ad Arezzo, nel capitolo intitolato «canali preferenziali», si legge: «Il Carboni cercava di rassicurare i vari interlocutori coinvolti nella realizzazione del progetto, affermando, in molteplici circostanze, di aver ottenuto i più ampi consensi da parte di chi "di dovere", ricorrendo più o meno esplicitamente a riferimenti quali "Piazza sacra" (riferimento al Vaticano, ndr) o "Bruxelles" per far intendere che il progetto, ancora non del tutto definitivo, era già stato posto all' attenzione "ufficiosa" di influenti personaggi riconducibili al Vaticano e/o alla Comunità europea che avevano concesso il loro benestare». In un' intercettazione Carboni si vanta di avere le porte aperte, «soprattutto quelle della Piazza sacra e che sta prendendo appuntamento ovunque a livelli altissimi». Il 14 dicembre 2015 l' ottantottenne originario di Torralba (a 45 chilometri da Pattada) si reca in Vaticano e il giorno successivo riferisce a un interlocutore che «vogliono vedere il progetto perché lo vogliono "benedire" e una volta benedetto poi andrà in "paradiso"». Il giorno dopo il faccendiere spiega al telefono «che hanno chiamato da Roma chiedendo il numero di protocollo della domanda di presentazione del progetto da comunicare all' Accademia Pontificia delle Scienze» e che «ora la cosa urgente è terminare il progetto in quanto devono mandarlo di corsa "su a persone che sappiamo noi"». Ma le conversazioni più importanti sono quelle del 23 dicembre, quando Carboni svela «che il professore (Viktor Petrik, esperto di grafene, ndr) deve fare una visita in Vaticano [] che "deve farsi benedire nella Piazza sacra" e che lo accompagnerà lui in quanto ha un appuntamento alle 16.30». Per gli investigatori il cellulare di Carboni «dalle ore 17.00 circa alle ore 18.30 del 23 dicembre 2015» aggancia «le celle di rilevamento posizionate all' interno della Città del Vaticano». Il 20 febbraio 2016 Carboni sostiene che «il professore può essere ricevuto proprio dal "Vertice" [] compatibilmente con gli impegni di "Sua Santità"» e che «gli hanno dato la massima disponibilità, da parte addirittura del Segretario di Stato (pontificio)». Sebbene sia difficile credere a questa dichiarazioni, qualcuno in Vaticano deve aver ricevuto Carboni. Marcelo Sánchez Sorondo, vescovo argentino molto legato al Papa e cancelliere della Pontificia accademia delle scienze, ci disse, dopo aver consultato email, agenda e registro: «Non c' è nessuna richiesta di Carboni, non c' è traccia di quel signore. Se è entrato in Vaticano, non è venuto da me». Le nostre fonti, allora, ci indirizzarono verso Becciu, all' epoca sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, e il cardinale escluse ogni rapporto: «Ho sentito parlare di Carboni dai giornali, ma non l' ho mai visto in vita mia. Mai. Neppure per sbaglio, né in Sardegna, né da altre parti». Al contrario della sua consulente e presunta «nipote» Cecilia Marogna.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 7 ottobre 2020. Per capire l'affaire del cardinale Angelo Becciu e della sua dama sarda, la collaboratrice Cecilia Marogna, basta raccontare la storia del «lasciapassare» che il porporato ha vergato il 17 novembre 2017. In un foglio intestato alla Segreteria di Stato Becciu ha scritto: «Il sottoscritto, Sua eccellenza monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, dichiara di conoscere la signora Cecilia Marogna e di riporre in Lei fiducia e stima per la serietà della sua vita e della sua professione. La signora Marogna presta servizio professionale come analista geopolitico e consulente relazioni esterne per la Segreteria di Stato-sezione Affari generali». In realtà forse Becciu non sa tutto della signora, che si sarebbe accreditata presso di lui via mail. È difficile immaginare che conosca le frequentazioni della giovane, affascinata da massoni e faccendieri del livello di Flavio Carboni («L'ho voluto conoscere per avere informazioni sulla storia dell'Anonima sequestri», ci ha confidato) e Francesco Pazienza («Sono la figlia che non ha mai avuto»). Forse Becciu non sapeva neanche che la Marogna fosse stata denunciata nel 2010 per appropriazione indebita e nel 2002 per furto. Il documento di Becciu anticipa di un anno circa l'invio dei primi bonifici (per un totale di 500.000 euro) partiti dal Vaticano in direzione della Slovenia, dove la donna, il 28 dicembre 2018, era diventata azionista di riferimento (con il 100 per cento delle quote) e manager della società Logsic d.o.o. di Lubiana. In precedenza la signora, come vedremo, era andata alla ricerca di lavoro e guadagni. Dal 2016 affiancava Becciu come esperta di geopolitica, senza però nessuna entrata regolare. «Prima mi ha messo alla prova» ci ha confermato la Marogna. A fine 2017 le ha preparato la lettera di referenze e un anno dopo ha iniziato a farle arrivare cospicui finanziamenti. La Marogna quella lettera di accreditamento non l'avrebbe usata solo per aprire le porte delle nunziature in giro per il mondo, mentre svolgeva il suo lavoro di diplomazia parallela. A quanto risulta alla Verità in almeno un'occasione l'avrebbe utilizzata come garanzia in un'agenzia immobiliare per cambiare casa e siglare un nuovo contratto di affitto. Ma visto che la signora non pagava la pigione da meno di 1.000 euro, a un certo punto, l'agenzia ha spedito una lettera alla Santa sede chiedendo chi fosse questo Becciu garante della Marogna. Ieri sera Le Iene hanno mandato in onda un servizio in cui si parlava delle spese della donna per beni di lusso nelle boutique di Prada, Moncler, Saint Laurent, Mont Blanc, Tod's, Frau, oggetti acquistati con i soldi depositati in Slovenia. «Una persona con il suo compenso può fare ciò che vuole» ha precisato con noi la trentanovenne sarda. «Nel budget di mezzo milione era compreso anche il mio stipendio che, però, non era stato determinato. Le posso dire che probabilmente sono creditrice verso il Vaticano, anche se posso avere speso 200.000 euro per me».Poi continua: «Ho raggiunto gli obiettivi con i pochi spiccioli che ho avuto, ho ottimizzato le risorse, mi sono accreditata con persone che hanno avuto fiducia in me e hanno riscontrato la mia professionalità. E mi venite ad accusare perché mi sono comprata, forse, una borsetta, una poltrona e un paio di sedie?». Sono lontani i tempi in cui la donna era titolare di due ditte individuali, una di confezionamento di generi alimentari e un'altra che si occupava di cemento e derivati. La Marogna, con tutti quelli che l'hanno contattata in questi giorni, ha specificato di essere un'esperta di geopolitica «autodidatta», di aver concepito una figlia «fuori dal matrimonio» e di avere un'utilitaria. Prova anche a rifilarci la storia del doppio mutuo a carico: quello per pagarsi gli studi e quello per la casa dei genitori (un ex militare e una casalinga).Ma chiacchierando con lei emergono anche questioni molto più rilevanti. Per esempio la donna avrebbe continuato a collaborare con Becciu anche quando il porporato aveva ormai lasciato la Segreteria di Stato. L'ultimo viaggio in versione James Bond in gonnella l'avrebbe fatto l'anno scorso in Turchia. Quest' anno per lei solo trasferte a Londra, in Svizzera e in Slovenia. Tappe più da finanziere che da esperta di terrorismo e aree di crisi. Ieri mattina ci è arrivata una strana mail riguardante i presunti trascorsi da «fonte» dei servizi della Marogna («è possibile che lo sia» butta lì la donna) e il suo ipotetico ruolo avuto nelle trattative per liberare padre Pierluigi Maccalli, sequestrato in Niger. Anche in questo caso la donna non smentisce del tutto, quindi manda un pizzino ai massimi vertici istituzionali: «Vorrei incontrare Gennaro Vecchione (direttore del Dipartimento informazione e sicurezza, ndr) e il premier Giuseppe Conte, persone che non ho mai conosciuto, per farmi due chiacchiere con loro». Successivamente conferma di essere in contatto con un altro noto e chiacchierato 007 (Marco Mancini, nota di Dagospia). «Ho chiesto di confrontarmi con lui attraverso un suo grandissimo amico (Giuliano Tavaroli, nota di Dagospia), una persona che stimo e che conosco da anni (in passato condannato per dossieraggio, ndr) vorrei andare a raccontargli un po' di cose». È abbastanza evidente che la Marogna possa essere utilizzata da qualcuno non solo per una guerra interna al Vaticano, ma anche ai servizi di sicurezza. Per lei il proprio ruolo è chiaro: «Io sono un pacco regalo. Conteso. Scomodo. E di imbarazzo per chi avrebbe dovuto supportarmi con continuità, mentre invece si è perso tra le fresche frasche. Però malgrado tutto ho ottimizzato le mie risorse per raggiungere l'obiettivo». Target che, però, non rivela. Ieri la presunta «dama di Becciu» ci ha inviato dei fogli Excel con alcune delle sue presunte spese effettuate in un'operazione svolta tra febbraio e marzo 2018, per un totale di 236.847 sterline (circa 260.000 euro al cambio attuale). Nelle carte la donna, con precisione, annota anche la media delle uscite quotidiane. Tra i costi ci sono voci come «know-how», «monitoraggio» e «assistenza». Nei fogli si trovano anche molte uscite legate ai voli aerei, al noleggio di auto e al carburante. Alte anche le bollette telefoniche. Dopo averci mandato il materiale la donna diventa imperativa: «Mettiti a scrivere. Titolo: "Non è che la Marogna fa parte di una partita molto più grande di lei?"». Quindi si fa incalzante: «Questa roba la devi mandare alle Iene immediatamente, devi fermare quella merda, perché altrimenti l'inchiesta non te la faccio fare. Scrivo io, tanto so farlo bene, e mi apro un blog e faccio io gli scoop su di me». Insiste: «Non sono una faccendiera, né una lobbista, ma un'analista geo-socio economico-politica non cerco fama, né gloria. Con la storia delle mie spese personali hanno voluto spostare l'attenzione dalla manovra finanziaria da 450 milioni che ruota intorno a Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi». La sedicente esperta ha avuto rapporti anche con diversi politici italiani. Per esempio con gli ex ministri Cirino Pomicino e Lorenzo Cesa. Quest' ultimo risulta averle versato una retribuzione da 2500 euro per lavoro dipendente. Pomicino ricorda: «La Marogna ci combinò un appuntamento con Becciu». A presentargliela sarebbe stato il figlio di un ex deputato democristiano, «una brava persona, quasi un prete»: «Quella ragazza era una persona alla ricerca disperata di lavoro. L'ho mandata in giro per questi centri che si occupano di geopolitica, ma non credo che abbia avuto riscontri. Quando l'ho conosciuta sembrava tutt' altro che una donna dedita al lusso. Piuttosto un pulcino bagnato». Conclude: «Magari era solo una testa di legno. Io dalla fine del 2018 non l'ho più vista». Anche perché la Marogna a quell'epoca aveva iniziato a incassare in Slovenia i soldi del Vaticano. Nel colloquio con la dama sarda spuntano anche i nomi di altri politici. Nel libro di Massimo Franco L'enigma Bergoglio si parla di un pranzo tra il cardinale Becciu, l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, durante la crisi della nave Sea watch. Un incontro a cui il leader della Lega si sarebbe unito all'ultimo momento. «Mi sembra che Salvini e Becciu non si fossero mai visti prima» ci informa la Marogna. «Con Giorgetti aveva invece rapporti di massima stima, anche se il numero dei loro incontri si conta con le dita di una mano». Becciu avrebbe lavorato anche a un vertice con l'attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, summit che, però, non si sarebbe realizzato. La Marogna ricorda pure la presentazione di un libro dell'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, del Pd, a cui presenziò pure Becciu. «Quel giorno c'ero anche io» riferisce la «diplomatica». «Il cardinale aveva un buon rapporto con Minniti, come lo aveva con Gianni Letta. Mentre non mi risulta abbia mai incontrato Silvio Berlusconi». La politica rientra, in un certo senso, anche nell'ultimo, misterioso, aneddoto: «Nel giugno 2020 una donna ha chiesto di incontrare privatamente Becciu e lui le ha dato udienza. Ha detto di chiamarsi Geneviève Ciferri Putignani e ha iniziato a urlare: "La pagherai perché non hai difeso Alberto Perlasca"». Perlasca è l'ex economo di Becciu che ora sta collaborando con gli inquirenti. La Marogna ci chiede di digitare su Internet il nome della presunta assalitrice. Compare come autrice di un libello: L'amore che guarisce la politica italiana. La donna ci consiglia di continuare la ricerca. Scopriamo un'agenzia di stampa del 2006 che parlava delle disavventure di una terremotata, tale Genevieve Ciferri, figlia di Amelia Putignani. Omonima dell'accusatrice di Becciu. «Non credo che esista davvero» conclude la Marogna. «Si ricordi che santa Geneviève è la patrona della polizia francese: la gendarmerie». Oggi i colleghi della gendarmeria vaticana hanno messo sotto inchiesta lei e il suo Angelo protettore.

Caso Becciu, mezzo milione di euro dal Vaticano finiti in borse Prada, Chanel e beni di lusso. Le Iene News il 05 ottobre 2020. Siamo entrati in possesso di un documento esclusivo proveniente da una fonte anonima da cui risulta che dalla Segreteria di stato vaticana è partito mezzo milione di euro destinato a una società estera intestata a una donna. E da altri documenti in nostro possesso risulta che questa donna sia legata da un rapporto fiduciario all’ex cardinale Becciu. Cos’è successo dietro alle impenetrabili mura del Vaticano nell’ormai famoso “caso Becciu”, l’ex cardinale fedelissimo di Papa Francesco e ora costretto alle dimissioni per uno scandalo legato alla gestione finanziaria? Noi de Le Iene siamo entrati in possesso di un documento esclusivo da cui risulta che dalla segreteria di stato vaticana - sezione affari generali - è partito mezzo milione di euro destinato a una società estera intestata a una donna. E da altri documenti in nostro possesso risulta che questa donna sia legata da un rapporto fiduciario proprio all’ex cardinale Becciu. Questi documenti sembrano quindi confermare quanto scritto dal quotidiano La Verità, cioè come le attenzioni degli investigatori sulla gestione delle finanze vaticane si starebbero concentrando su alcuni bonifici inviati dalla Segreteria di stato vaticana - affari generali - a una donna cagliaritana. Ma il problema è piuttosto dove vadano a finire davvero questi soldi: secondo le carte che abbiamo in mano il mezzo milione di euro arrivato direttamente dal Vaticano sia stato speso per l’acquisto di borse di grandi marchi come Prada e Chanel e altri beni di lusso che nulla hanno a che fare con le missioni caritatevoli della Chiesa. Ma in che modo queste rivelazioni bollenti si intrecciano alle dimissioni di Angelo Becciu?

Vaticano, quei bonifici da 500 mila euro dal conto di Becciu alla manager Marogna. Pubblicato martedì, 06 ottobre 2020 da Monia Melis su La Repubblica.it. Vaticano, i 500 mila euro dal conto di Becciu alla manager Marogna spesi per borse e abiti firmati. La donna, 39 anni, è titolare di una società slovena alla quale sono arrivati i soldi. Altri bonifici sospetti partiti dalla Segreteria di Stato vaticana e diretti a una società slovena con a capo una manager sarda: è l'ultimo capitolo dello scandalo attorno alla gestione delle finanze in Vaticano. Al centro l'alto prelato sardo Angelo Giovanni Becciu, già Nunzio apostolico, che meno di due settimane fa si è dimesso - dopo un'udienza con Papa Francesco - dalla carica di prefetto della Congregazione delle cause dei santi, con la perdita dei diritti da cardinale. È la seconda pista che porta da Roma alla Sardegna, seppur con varie triangolazioni, dopo quella legata ai fratelli  Becciu. La cifra si attesta sui 500 mila euro diretti alla Log sic doo, sede Lubiana, con a capo  Cecilia Marogna, in qualità di managing director. In comune Becciu e Marogna hanno l'origine isolana. Non lei, 39 anni non è una parente, ma una persona in cui riponeva "fiducia e stima per la serietà della sua vita e della sua professione"; così scriveva tre anni fa Becciu in una lettera da Sostituto agli Affari generali della Segreteria di Stato. Ed è per suo ordine che il monsignor Alberto Perlasca disponeva il via libera al flusso di denaro. Dal Vaticano al conto della società con il compito ufficiale di fare da mediatrice in Asia e Africa, continente in cui Becciu è stato Nunzio apostolico. Un lavoro da mediatrice soprattutto per i casi di religiosi sotto sequestro, in particolare la sua missione era quella organizzare incontri per conto della Santa sede, tessere rapporti. Ma quei soldi sarebbero stati usati  - secondo gli inquirenti -  nelle boutique di lusso romane: per acquistare borse, abiti firmati e cosmetici. Altri 200mila sarebbero fermi ancora nel conto della manager, domiciliata a Milano. Sulle tracce ci sono appunto gli investigatori della Santa Sede, coordinati dai promotori di giustizia Gian Pietro Milano e Alessandro Diddi. Tutti ora si difendono: lei sostiene di esser una consulente, esperta di politica internazionale e diplomazia. E di aver rispettato il mandato. Alle spalle studi scientifici, di geopolitica, con contatti tra i servizi segreti. Nonché altri informatori e faccendieri: tra cui Flavio Carboni, anche lui di origini sarde, già condannato per il processo P3 e il crack Banco Ambrosiano.  La linea della manager è: nessuna bella vita con i soldi del Vaticano. E ribadisce l'utilizzo del mezzo milione, diviso in quattro anni, per i viaggi in Africa e le spese in zone a rischio. Niente borsette per uso personale: al massimo come regali di rappresentanza con scopi diplomatici. Lui, monsignor Becciu, fa trapelare sorpresa e amarezza per un millantato credito.  Quei bonifici, ufficialmente, servivano per "missioni di intellegence" e non si esclude un'iniziativa legale del prelato contro la sua donna di fiducia.

Cecilia Marogna: «Non sono l’amante di Becciu. Le borse e i regali? Per salvare le Nunziature». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2020. La 39enne manager sarda è titolare di una società slovena che ha ricevuto 500mila euro dalla Segreteria di Stato: «Gli acquisti? Doni a mogli di diplomatici e ministri per proteggere le missioni. Non ho fatto shopping, su di me solo falsità». «Quelle su di me? Tutte falsità! Io amante del cardinale? Assurdo. Sono un’analista politica e un’esperta di intelligence, che lavora onestamente e che vive in affitto mantenendo sua figlia». Cecilia Marogna, 39 anni, di Cagliari, smentisce le indiscrezioni che la vogliono come figura legata all’alto prelato e destinataria di bonifici a una società situata in Slovenia, che si occupa di missioni umanitarie.

Ma chi è davvero Cecilia Marogna?

«Ho alle spalle una formazione scientifica, poi studi di geopolitica perfezionati in Libano. Ho dei forti valori cattolici e una formazione clericale, pur se mia figlia è nata fuori dal matrimonio. Mi definirei una studiosa di temi internazionali. Nel 2013 ho dato il mio contributo al Forum Mediterraneo che si è tenuto a Cagliari, che ha visto la partecipazione di numerosi capi di Stato del Nordafrica. Ho collaborato anche con la Camera di commercio italo-araba di Roma stabilendo rapporti di estrema stima con figure istituzionali dell’Egitto, della Siria, della Giordania e di altri paesi mediorientali».

Come ha conosciuto il cardinale Becciu?

«Gli ho scritto una mail, era il 2015, per capire se le mie analisi fossero corrette, e quali fossero i problemi di sicurezza delle Nunziature e delle Missioni vaticane in contesti pericolosi. Mi ha ricevuto a Roma in Segreteria di Stato, doveva essere un colloquio di 20 minuti ma è durato un’ora e mezzo. Mi disse: “Mi sembra strano che una giovane donna come lei si interessi di questi temi”. Nacque un rapporto di stima sfociato in una collaborazione operativa. Mancava una diplomazia parallela nei Paesi nordafricani e medio-orientali, ma io sapevo cosa fare e come muovermi, anche per ridurre i pericoli derivanti alle Nunziature e alle missioni dalle cellule terroristiche presenti in quei Paesi».

Per questa attività il cardinale ha stanziato 600mila euro?

«Non erano 600mila, ma 500mila su 4 anni e incluso il mio compenso, i viaggi, le consulenze uscite da quel conto, situazioni da gestire in varie aree ad alto rischio. I soldi sono giunti a tranche sulla mia società in Slovenia che si occupa di missioni umanitarie. Ho contatti e rapporti in vari Paesi».

E le borsette?

«Magari la borsetta era per la moglie di un amico nigeriano in grado di dialogare col presidente del Burkina Faso al fine di vigilare su rischi e pericoli per le Nunziature e le missioni vaticane...».

È vero che lei conosce Flavio Carboni e il massone dissidente Gioele Magaldi?

«Carboni lo conobbi per questioni geopolitiche, per farmi raccontare vicende e dare informazioni. Ma anche perché mi interessavo della Anonima sequestri. Magaldi lo conobbi anni fa, aveva costruito un thik thank e mi aveva invitato alla presentazione».

E i rapporti con i Servizi?

«Sono di stima e collaborazione coi vertici dell’apparato dei Servizi italiani.»

Marogna, la dama del cardinale Becciu: «Usata  come un pacco bomba. I fondi? Erano tutti riservati». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2020. Sulla società slovena intestata a Cecilia Marogna, vicina a Becciu, sono confluiti 500mila euro per «operazioni umanitarie». «Usata per distrarre l’attenzione dagli affari di Londra e per lo scontro in Vaticano». La società slovena e i superbonifici, i giochi di potere in Vaticano, gli odi e le invide. Cecilia Marogna, la 39enne sarda definita «la dama del cardinale» la «superconsulente vaticana» cui l’ex numero due della Segreteria di Stato Angelo Becciu ha fatto bonificare mezzo milione di euro in 4 anni, accetta con il Corrieredi andare a fondo sulla complessa vicenda che la vede coinvolta. Lo fa sulla base delle carte slovene che il Corriere è riuscito a visionare. La società creata da Marogna è la Logsic, costituita a Lubjana il 19 dicembre 2018 con un capitale versato di 7500 euro. Una società sui cui bilanci non figurano però movimenti, che non esibisce fatture ma solo alcuni compensi, sia alla Marogna che a terzi. Una srl che ha come ragione sociale «operazioni umanitarie», ma che ad oggi non ha ancora presentato il bilancio 2019. Cecilia Marogna, la «dama del cardinale».

Signora Marogna, lei ha davvero costruito per conto del cardinale Becciu una diplomazia parallela per evitare attacchi terroristici alle Nunziature?

«Si, rivendico il risultato di aver costruito una rete di relazioni in Africa e Medioriente atte a proteggere Nunziature e Missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche».

Perché aprire una società in Slovenia se i rischi sono in Africa e Medioriente?

«Ho aperto la società in Slovenia per motivi geopolitici: pensavo che la prossima polveriera sarebbe stata quella dei Balcani. E per incrementare rapporti con paesi come Georgia, Ucraina, Serbia, Bosnia, Slovenia. La mia società Logsic è specializzata in operazioni umanitarie».

In quanti siete nella Logsic? Ha l’aspetto di una società di copertura.

«Siamo tre in organico, di cui uno situato in Gran Bretagna e l’altro in Africa, ma la società è intestata a me. Mi sembra chiaro che non possiamo fare bonifici in Paesi che figurano nella black list, ma dovevo pagare delle persone in Africa, gestire delle crisi, fare dei bonifici. Pertanto i fondi in Slovenia erano di garanzia per le operazioni in Africa».

Come mai nei bilanci non figurano i 500mila euro che lei ammette di aver preso?

«Trattandosi di operazioni riservate, nei bilanci non figurano compensi e fatture, inoltre il Vaticano non ha una fiscalità vera e propria. E io stessa non potevo certo emettere fatture».

Poteva utilizzare i fondi anche in chiave personale, per scopi riservati?

«Sì, potevo farlo».

La visura camerale della società slovena destinataria dei fondi vaticani

Chi le inviava i soldi?

«Il cardinale Becciu dava l’input a monsignor Perlasca, che faceva i bonifici».

Nella fase in cui lei apre la Logsic e attende i 500mila euro a tranche, da dove le arrivavano i soldi?

«Nella fase iniziale ho utilizzato fondi a disposizione in altre strutture di cooperazione, come per esempio le 220 mila sterline utilizzate nel primo periodo di attività per compensi riservati».

Sia più chiara: come venivano spesi i soldi?

«Venivano spesi in compensi professionali a me e ai miei collaboratori, in spostamenti, spese vive. Una grossa parte dei 500mila euro era quella rimasta su un conto poi chiuso per mancata movimentazione. I conti erano due, appoggiati sulla Unicredit di Lubjana».

E le spese per borsette e poltrone in pelle?

«Ho comprato solo prodotti italiani, tipo Tod’s e Poltrona Frau. Dopo tanto lavoro penso di avere il diritto di comprarmi una poltrona».

Perché lei è stata tirata in ballo, signora Marogna?

«A questo punto mi considero un pacco bomba. Inizialmente potevo essere funzionale per spostare l’attenzione dallo scandalo londinese. Da “benefit” sono divenuta un boomerang, un oggetto di contesa per vicende esterne alle mura vaticane. I grossi interessi girano lì, i bonifici a me sono piccole cose nell’ambito di uno scontro di potere molto più ampio, che ha già visto cadere molte teste e che è solo iniziato, tra le fazioni che si oppongono a Papa Francesco».

Caso Becciu, la manager Marogna racconta dei suoi rapporti con i faccendieri Carboni e Pazienza. Cecilia Marogna. La 39enne sarda: "Volevo avere notizie sull'Anonima sequestri". Monia Melis su La Repubblica il 07 ottobre 2020. Rivendica il suo ruolo da professionista delle relazioni internazionali e la sua versione dei fatti: quel mezzo milione di euro ricevuto dalla Santa sede per quattro anni è stato usato per le sue consulenze in Africa e in Medio oriente. Per spese di viaggio, pagamento informatori e uscite indispensabili per proteggere Nunziature apostoliche e missioni religiose da eventuali sequestri o azioni terroristiche. Cecilia Marogna, la 39enne sarda, famiglia originaria di Sorso, nel Sassarese - a capo della società Logsic con sede a Lubiana, in Slovenia - continua a smentire l'uso improprio del denaro inviatole dal monsignor Alberto Perlasco su ordine del cardinale (ora senza poteri) Giovanni Angelo Becciu, finito al centro dello scandalo internazionale sulla gestione finanziaria. Scenario internazionale, ma anche nostrano con uno sguardo al passato. Perché oltre ai rapporti con i servizi segreti l'analista geopolitica dichiara a il quotidiano La Verità di avere avuto tra i suoi maestri anche Francesco Pazienza (ex agente segreto) e Flavio Carboni (il faccendiere già condannato per la loggia P3 e per il crac del Banco Ambrosiano). "L'ho voluto conoscere per avere informazioni sulla storia dell'Anonima sequestri", dice Marogna. La frequentazione tra i due, entrambi di origine sarda, è una circostanza confermata anche da Gioele Magaldi, alla guida del Grande oriente democratico e suo stretto conoscente. "Fui io – racconta Magaldi all'Adnkronos - a metterla in contatto con Mario Ferramonti, primo segretario della Lega e amico di Carboni ma tutte cose abbastanza alla luce del sole. Cecilia aveva curiosità di quel mondo". La stessa Marogna figura anche tra i fondatori del movimento Roosevelt dello stesso Magaldi dove, nel 2016, è stata nominata segretaria particolare. Massima stima e fiducia nella sua professionalità, difficile abbia portato avanti  "attività truffaldine. Io dubito sia colpevole di alcunché". Massoneria, politica e chiesa: Lorenzo Cesa, eurodeputato Udc, l'aveva accreditata come assistente a marzo 2018. E l'ex ministro Cirino Pomicino che aveva incontrato Becciu grazie a lei, la descrive come "un pulcino bagnato", più che un'abile informatrice. Sul caso Vaticano lei insiste: niente borse di lusso, né abiti firmati ma una poltrona Frau sì. Quella è stata presa: una concessione, un premio a se stessa di fine missione. D'altronde, specifica al Corriere della sera, i soldi -  i 500mila euro - potevano essere utilizzati anche a titolo personale, non erano tenuti ad alcuna fatturazione "data la riservatezza delle operazioni". Due i conti Unicredit intestati alla società, una sorta di srl con meno di dieci mila euro di capitale – fondata a fine 2018 - con altri due dipendenti e campo d'azione operazioni umanitarie, poi allargato all'intelligence per conto terzi. Uno ora risulta anche chiuso "per mancata movimentazione". Grande libertà di movimento per la manager che ora si sente "Una bomba ad orologeria", dopo le pressioni e le indagini giudiziarie che la riguardano. Nonché la posizione trapelata dallo stesso suo committente che ha preso le distanze. Un'operazione che, secondo Marogna è stata messa in piedi: "Per spostare l'attenzione dallo scandalo londinese". Dal 2017 la donna aveva ottenuto una lettera di referenze, il lasciapassare firmato da Becciu in quanto "persona di fiducia", l'aveva conosciuto dopo l'invio di una mail – secondo la sua ricostruzione - nel 2015. Poi la convocazione in Vaticano e l'inizio della collaborazione con l'incarico intercontinentale. Un rapporto che sarebbe comunque continuato anche dopo lo spostamento di Becciu dalla Segreteria di Stato, di cui era Sostituto fino al 2018. E prima della costituzione della società, meno di due anni fa, i soldi necessari venivano presi "da altre strutture di cooperazione". 

Vaticano, il cardinale Becciu: "Estraneo a fatti illeciti, notizie false". Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Paolo Rodari su La Repubblica.it. E su Cecilia Marogna dice: "I contatti con lei attengono esclusivamente questioni istituzionali". Dice di essere “estraneo a qualunque fatto illecito” e che “ogni accertamento confermerà la mia fedeltà al Papa”. E ancora: “Sono sereno”. Ancora una volta parla tramite il suo avvocato, il cardinale Angelo Becciu, dopo le notizie rilanciate dalla stampa relative ai contatti con Cecilia Marogna, la 39enne sarda intestataria di una società slovena dove sono confluiti 500mila euro della Segretaria di Stato. Tramite Fabio Viglione, Becciu ribadisce “la assoluta falsità degli addebiti sul proprio conto veicolati attraverso la stampa, confermando l’estraneità da qualunque fatto illecito”. Becciu “attende con serenità gli esiti di ogni accertamento, in qualsiasi sede, che potranno finalmente confermare la propria fedeltà al Santo Padre e alla Chiesa”, spiega il legale. “In particolare si sottolinea che né il cardinale, né i propri fratelli possiedono azioni od obbligazioni, né tantomeno partecipano a fondi d'investimento o posseggono conti esteri. Inoltre, mai vi è stato trasferimento di fondi di provenienza della Segreteria di Stato nella disponibilità privata e personale dei propri familiari e mai sono stati disposti investimenti della Santa Sede nelle attività della società Angel’s, legate alla produzione della birra o alla sua commercializzazione. E ancora, né il cardinale né i propri fratelli hanno investito ricavi di attività familiari in fondi finanziari di qualunque natura e mai il Cardinale ha effettuato investimenti nell'interesse della Santa Sede in attività economiche di Antonio Mosquito”. “I contatti con Cecilia Marogna - continua ancora l’avvocato - attengono esclusivamente questioni istituzionali e quindi mai il cardinale ha richiesto un finanziamento da 150 milioni di euro all’Istituto per le Opere di Religione. Infine, mai vi è stata alcuna interferenza da parte del cardinale nel processo nei confronti del cardinale Pell. Il cardinale confida nel doveroso equilibrio fra libertà di stampa e diritto ad una corretta informazione nel rispetto di tutti i soggetti coinvolti, riservando il ricorso alle competenti Autorità giudiziarie a tutela dell'onore e della reputazione proprie e dei familiari in ogni caso verrà ritenuto necessario”, conclude Viglione. Nelle scorse ore l’avvocato del cardinale George Pell, Robert Richter, ha chiesto un’indagine internazionale dopo le indiscrezioni, apparse sulla stampa, secondo le quali Becciu avrebbe disposto bonifici per 700mila euro inviati in Australia per “comprare” gli accusatori dell’ex prefetto della Segreteria per l’Economia nel processo per pedofilia nel quale Pell è poi stato assolto. Oltretevere in merito a Pell non trapela nulla. Si dice che più che per incontrare il Papa, il cardinale australiano sia a Roma per traslocare dal suo appartamento adiacente alle mura leonine. Sembra che con il Papa non si sia ancora visto. Francesco segue le vicende da Santa Marta. Presto la Santa Sede scioglierà le riserve su Becciu, farà cioè sapere se il porporato andrà a processo o meno.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2020. «Volete sapere come funzionava in Vaticano? Vi invito a Lugano, ora parlo io...». Per la prima volta parla Enrico Crasso, per 27 anni gestore del patrimonio riservato della Segreteria di Stato. Romano, 72 anni, ex Credit Suisse, da solo è arrivato ad amministrare circa 300 milioni di euro, metà della cassa del Papa, in gran parte composta dall'Obolo di San Pietro. Crasso è anche una figura chiave dell'inchiesta vaticana in cui è indagato con prelati, finanzieri e funzionari della Segreteria. L'appuntamento è negli uffici della sua fiduciaria, Sogenel. Si siede e parte in difesa: «Non ho mai preso né dato soldi, o tangenti, a nessuno. Il cardinale Giovanni Angelo Becciu? Non ha mai fatto pressioni e non c'è alcun suo conto riservato o della famiglia che noi abbiamo gestito o alimentato. Io ho cominciato a lavorare con il Vaticano nel 1993, sempre facendo i loro interessi. E cosa raccolgo oggi? Solo macerie».

Lei è anche il gestore del fondo maltese Centurion (50 milioni della Segreteria) che fra l'altro ha fatto diventare il Vaticano socio di Lapo Elkann e del film su Elton John.

«In Segreteria conoscevano Centurion e sapevano molto bene degli investimenti con Lapo e nel film. Ma dopo il vostro articolo di dicembre sul Corriere mi dissero che il Santo Padre aveva dato indicazione di liquidare il fondo. E adesso lo stiamo chiudendo».

Centurion è la parte più speculativa degli investimenti vaticani. Come si decideva dove mettere i soldi?

«Alcuni investimenti me li indicavano direttamente loro. Per esempio abbiamo preso quote nel fondo inglese Eos perché erano amici di monsignor Alberto Perlasca (allora capo dell'ufficio che gestisce l'Obolo, ndr ). Una volta mi arrivò l'indicazione di investire 30 milioni in Mikro Kapital: fa prestiti alle piccole imprese, un dossier proveniente da un importante studio legale milanese e portato in Segreteria dal capo di Mikro Kapital, Vincenzo Trani (presidente della Camera di Commercio Italo-Russa, ndr ). Lo analizzo: avevano 250 milioni di patrimonio in gestione a 7 anni, il bond rendeva l'8%».

Insomma, era rischioso...

«Infatti informammo Perlasca che al massimo si potevano investire 6 milioni. E così avvenne. Anche il bond sottoscritto per il film su Elton John non era un segreto. Ma sapete quanto renderà? Il 13,5% a fine di quest' anno. Men in Black invece non ha soddisfatto le attese».

Non c'era solo lei, con il Credit Suisse come banca, a gestire i soldi dei fedeli. C'erano anche Bsi, Ubs, Julius Baer. Tutte svizzere.

«I fondi dell'Obolo di San Pietro venivano gestiti dalle banche, anche in hedge fund. Lo sapevano tutti. Ora però il revisore generale del Vaticano (Alessandro Cassinis Righini, ndr ) sostiene che questi fondi erano vincolati ad opere caritatevoli. Ma alle banche non l'hanno mai detto!».

Lei c'era quando i l finanziere angolano Antonio Mosquito propose al suo amico Becciu di investire 200 milioni di dollari del Vaticano in una piattaforma petrolifera offshore. Come andò?

«Era il 2012, allora gestivo poco, 30-40 milioni di euro. Fui chiamato da Becciu, che vedevo per la prima volta e che avrò visto in tutto 5-6 volte. Mi diede l'incarico di fare una verifica professionale sulla proposta di Mosquito. Ne parlai con la mia banca ma alla fine da Londra mi indirizzarono a Raffaele Mincione, che non conoscevo, come finanziere esterno che operava in materie prime. Ricordo un incontro in Segreteria, aprile 2014, con l'intera famiglia Mosquito. Spiegai che senza garanzie da parte loro non potevamo fare il finanziamento. Venne chiamato Becciu, che disse semplicemente "mi dispiace" a Mosquito. La cosa finì lì, senza alcuna pressione».

I soldi poi andarono nel fondo Athena di Mincione e da lì nel palazzo di Sloane Avenue. Con milioni presi a prestito dalla Segreteria.

«Quando Becciu chiese il finanziamento per il palazzo di Londra, presentò una lettera del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, in cui si diceva che Becciu aveva i pieni poteri per mettere a leva l'intero patrimonio della Segreteria. Il palazzo è stato comprato mettendo a garanzia parte delle gestioni patrimoniali».

Ma il Vaticano ci ha perso.

«Dalle nostre gestioni, anche come Sogenel e Az Swiss, la Segreteria ha sempre guadagnato, coprendo pure i costi dei prestiti. Sui 300 milioni la media 2014-2019 è di un rendimento del 3-4% annuo. Eravamo giudicati per i rendimenti finanziari, non anche sulla parte immobiliare».

Vaticano, le mail tra Mincione e la Segreteria di Stato: «Affari speculativi». Mario Gerevini e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2020. Il presidente di Enasarco: rapporto fraterno tra il finanziere e Becciu. «La Banca Popolare di Milano è un’importante opportunità di investimento... Con 50 milioni si ottiene oggi il 2,40% della Banca». «Mons. Perlasca, dott. Tirabassi, oltre a rinnovare i nostri ringraziamenti per essere venuti a trovarci volevo rinnovare l’appello... la Banca Popolare di Milano è un’importante opportunità di investimento... Per darvi un’idea, con 50 milioni... si ottiene oggi il 2,40% della Banca». È il 17 giugno 2016, la mail arriva alla Segreteria di Stato vaticana dagli uffici di Londra di Raffaele Mincione, il gestore del fondo Athena che dal 2014 aveva in portafoglio 200 milioni di dollari del Vaticano. È firmata dal suo vice, Michele Cerqua. Dentro le Mura sono cauti: «Egregio dottor Cerqua, in merito alla proposta (le azioni Bpm, ndr) se ne è presa attenta nota...», risponde il 24 giugno Fabrizio Tirabassi, in copia il suo capo, monsignor Alberto Perlasca, e Mincione.

Le «scalate». È la prova che i due tesorieri del Papa sapevano dell’approccio speculativo di Mincione. Anzi non c’era alcuna remora a discutere di «scalate» bancarie. Tutto ciò due anni prima che si realizzasse in tutta fretta l’uscita dal fondo Athena in pesante perdita, dov’era custodito il palazzo di Sloane Avenue a Londra. Una gestione da mesi sotto esame dei pm del Papa. «Dal nostro incontro l’azione (Bpm, ndr) ha guadagnato il 20%», incalza Cerqua in un’altra mail. Tirabassi replica che ci sarebbe già una posizione su quel titolo «che potrebbe essere tatticamente mediata, raddoppiandola, in virtù delle attuali correzioni di mercato». Si può fare, insomma, dicono in Segreteria, ma eventualmente con il fondo Athena «in quanto al momento non si dispone di ulteriore liquidità».

Il gioco delle valute. Tra i motivi delle perdite del Vaticano ci sono le valute. La Segreteria aveva sottoscritto in dollari un fondo che investiva in euro e aveva comprato un palazzo in sterline. Un triplo rischio di cambio e nessuna copertura. Tanto che a un certo punto Mincione propone di «ridenominare» il fondo da dollari a euro; l’operazione impatta sul valore delle quote, in Vaticano se ne rendono conto e si alza la tensione. Chi si accolla la perdita? Alla fine non se ne fa niente. Il finanziere riesce a calmare le acque facendo forse balenare anche che il palazzo sarebbe stato venduto a breve. Tant’è che Tirabassi scrive il 19 dicembre 2016: «Oggetto 60 Sloane Avenue... Invio i ringraziamenti di mons. Perlasca per le spiegazioni fattuali e circostanziate riguardo gli investimenti in essere e le imminenti potenziali prospettive di vendita» del palazzo. Dalla Segreteria chiedono però anche una relazione su ogni attività del fondo «in quanto dovremo rispondere alle domande del revisore in fase di analisi e certificazione del bilancio». Non sappiamo quanto l’allora revisore Libero Milone abbia guardato nei conti della Segreteria: il 19 giugno 2017 viene licenziato in tronco, senza spiegazioni.

«Operazioni anomale». Il 12 gennaio 2017 alle 5,38 del mattino Perlasca e Tirabassi ricevono da Enrico Crasso il report che avevano chiesto sulla gestione di Mincione nel fondo Athena. Crasso è il finanziere, ex Credit Suisse, da anni custode di una parte consistente del patrimonio del Papa. È critico: «La performance negativa è frutto esclusivo della loro attività di gestione». Crasso evidenzia le difficoltà nell’avere «report chiari e completi» e la richiesta «disattesa» di non comprare azioni Bpm: «Oggi si registra una perdita di 5 milioni solo su questo titolo». Inoltre emerge «un’obbligazione di 20,5 milioni con sottostante azioni Bpm e similari». «Operazioni «anomale», «utilizzo di fondi del cliente per fini del gestore», «la società di proprietà del Sig. Mincione (Time&Life) con questa operazione-ponte sta pagando di interessi meno di una multinazionale quotata». Invita la Segreteria a far valutare il palazzo di Londra da una società indipendente e a chiudere con i bond sottoscritti da Athena ma non autorizzati. Mincione ha comunque sempre spiegato di avere avuto per contratto piena discrezionalità negli investimenti.

«Rapporto fraterno». Poteva essere il momento di chiudere con il finanziere. Invece quello stesso 12 gennaio Mincione porta il presidente di Enasarco, Gianroberto Costa, a incontrare in Vaticano il potente Sostituto della Segreteria Giovanni Angelo Becciu, capo di Perlasca e Tirabassi. L’ente di assistenza degli agenti di commercio, 7,5 miliardi di patrimonio, era stato proprietario del palazzo di Londra prima del Vaticano, sempre con la regia di Mincione. «C’era un rapporto fraterno con Mincione», ricorda oggi Costa, «ciascuno faceva il peana dell’altro, Becciu lo definiva “il mio referente”. Volevano fare qualcosa insieme a noi, era chiaro. Io proposi un convegno sull’etica, la cosa finì lì». Forse l’obiettivo era riportare Enasarco in Athena per sganciare il Vaticano. Le pensioni degli agenti di commercio al posto delle offerte dei fedeli.

Petrolio, sanità e banche svizzere: i nuovi affari dell'ex cardinale Angelo Becciu. Dopo l’Angola, denaro nei pozzi in Irlanda e Australia. E non solo. Ecco gli sviluppi inediti dell'inchiesta sul porporato. Che ora è davanti a un bivio: mantenere l’atteggiamento seguito fin qui o collaborare con i promotori di giustizia per ricostruire la selva di rapporti, investimenti e speculazioni. Massimiliano Coccia l'08 ottobre 2020 su L'Espresso. Il 24 settembre, dopo l’inchiesta condotta dal nostro settimanale, il cardinale Angelo Becciu ha rassegnato le dimissioni dalla carica di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi ed è stato spogliato dei diritti connessi al cardinalato. Una seconda sanzione che fu preceduta dalla rimozione nel maggio 2018 dalla Segreteria di Stato dopo i dubbi sull’operazione dell’acquisto del palazzo in Sloane Avenue a Londra. Il cardinale è davanti a un bivio: mantenere l’atteggiamento seguito fin qui o collaborare con i promotori di giustizia per ricostruire la selva di rapporti, investimenti e speculazioni. La rinuncia ai diritti del porporato fa infatti decadere ogni possibile immunità prevista dal diritto canonico e rende Becciu vulnerabile da un punto di vista giudiziario. C’è irritazione negli ambienti investigativi, si sarebbero attesi già da giorni un riscontro da parte del cardinale. Becciu invece ha cambiato strategia difensiva e avvocato (ora è assistito da Fabio Viglione): la strategia verte sul silenzio, mentre fa parlare altri, ex soci nella gestione delle casse del Vaticano come il finanziere Enrico Crasso che con il Fondo Centurion ha amministrato i tesori della Segreteria di Stato dividendoli in fondi investimento offshore e obbligazioni di società con sede in paradisi fiscali.

Domenico Agasso Jr. per “la Stampa” il 9 ottobre 2020. Due giovedì dopo l'udienza «shock» che ha destabilizzato le fondamenta dei Sacri Palazzi, i protagonisti si sono rincontrati. Ieri Giovanni Angelo Becciu, che del cardinale ha solo più il titolo, avrebbe varcato la soglia di Casa Santa Marta per un colloquio riservato con papa Francesco. Lo riferiscono fonti vaticane. Dopo una conferenza stampa inedita nella storia della Chiesa, quella convocata da Becciu ventilando la possibilità che il Pontefice potesse essere stato «manipolato», dopo sospetti, rivelazioni e veleni sulla gestione della «cassa» della Segreteria di Stato e sull'acquisto del palazzo di Londra, il principale argomento del primo faccia a faccia dopo il «terremoto» del 24 settembre sarebbe stato il futuro del Sovrano Militare Ordine di Malta, di cui il cardinale di Pattada è delegato pontificio. L'ordine religioso-cavalleresco fondato a Gerusalemme nell'XI secolo conta 13.500 membri sparsi in tutto il mondo, circa mille tra ospedali e missioni, un bilancio vicino ai due miliardi. I Cavalieri di Malta sono stati «commissariati» nel 2017, dopo la crisi culminata con le dimissioni del gran maestro Matthew Festing. Gli scontri esplosero nel dicembre 2016, quando Festing rimosse il Gran Cancelliere tedesco, Albrecht von Boeselager, con l'accusa - respinta - di avere acconsentito alla distribuzione di preservativi nel Myanmar. Bergoglio decise per una riforma dei Cavalieri, e mandò l'allora sostituto agli Affari generali, Becciu, a guidare la fase di transizione, che avrà una tappa decisiva a novembre, con l'elezione del nuovo Gran Maestro o in alternativa un «luogotenente del Gran Maestro». In ogni caso, «con ogni probabilità Becciu lascerà anche questo incarico», sostiene un monsignore. «Dopo quella conferenza stampa Becciu con il Papa ha avuto un atteggiamento umilissimo», assicura un altro prelato. E Francesco «lo ha notato», confermando la volontà di non infierire «lasciandogli l'appartamento e lo stipendio. Non ha voluto prendere una decisione disumana». Ma allo stesso tempo il Papa non rallenta la sua accelerazione per andare a fondo nelle vicende finanziarie che coinvolgono Becciu e altri funzionari vaticani, in attesa del processo che si sta predisponendo Oltre tevere. E mentre il cardinale defenestrato ribadisce la sua estraneità agli illeciti che gli vengono attribuiti, spunta anche un investimento in derivati Hertz. Il Vaticano avrebbe investito dei fondi, provenienti dalle donazioni, in derivati che scommettevano sull'affidabilità creditizia della società di autonoleggio statunitense che è andata in default quest'anno. Lo scrive il Financial Times, affermando che nel 2015 parte di un portafoglio vaticano da 528 milioni di euro, «derivato da donazioni», ha acquistato Cds su Hertz, scommettendo sul fatto che la società non sarebbe stata inadempiente e avrebbe ripagato i suoi debiti. La società di autonoleggio ha dichiarato poi bancarotta. Nel frattempo il Papa, incontrando ieri gli ispettori di Moneyval, ha ricordato che «Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza».

Andrea Mainardi per startmag.it l'8 ottobre 2020. Appena stamane, il Papa ricevendo gli esperti del Consiglio d’Europa (Moneyval) – che in questi giorni stanno scandagliando le misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo messe in atto oltre le Mura leonine – ha ricordato quanto il tema gli sia “particolarmente a cuore”. Detta Bergoglio dalla Biblioteca privata del Palazzo apostolico: “Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che ‘non si può servire Dio e la ricchezza’. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale "il denaro deve servire e non governare!"”. Lo ricorda, citandosi dalla Evangelii Gaudium.  Incalzato in passato dai giornalisti su veri o presunti scandali cuciti in veste filettata, Papa Francesco ha spesso ricordato convintamente una locuzione cardine del diritto romano: in dubio pro reo. Con differenti esiti processuali a seconda dei casi. Dopo indagini, rinvii a processo, archiviazioni o inflitte condanne. Di fatto quel “dubio pro reo” si trattava di incipit prudenziale. Che non significa garantismo o giustizialismo ideologico. Per Francesco è sempre apparso come atteggiamento di prudenza esercitata nell’ignaziano discernimento. Anche in faccende giuridiche ed eventuali inciampi. Quanto accaduto al cardinale Angelo Becciu in quella che, si narra – ermeneutica poi implicitamente approvata dal porporato in successive interviste – udienza burrascosa, in quel giorno di inizio autunno (era il 24 settembre) quando il prefetto della Congregazione delle cause dei santi e tra i suoi principali collaboratori in Segreteria di Stato fino al giugno 2018 sale a colloquio con il Papa per una firma ad alcuni decreti riguardanti il sigillo pontificio ad un miracolo, un martirio e due certificati di “virtù eroiche”, poi precipitato in un deciso, richiesto passo indietro, nella rinuncia ai diritti del cardinalato per presunti malaffari economici, è faccenda che lascia in un limbo la persona di monsignor Becciu, alimenta illazioni e costruzioni. Pone, soprattutto, domande. Legittimamente poste dai fedeli. “Il Popolo di Dio ha diritto non tanto alla trasparenza – oggi molto di moda – ma a conoscere la verità dopo che essa è stata accertata. Mi sembra che questa possa essere una ricostruzione giuridica corrispondente a quella ragionevolezza che nella Chiesa traduce l’irrinunciabile conformità alla giustizia. La soddisfazione che qualcuno ha manifestato per questa condanna senza processo mi pare, oltre che senza giustificazione, non genuinamente cristiana”. Così Geraldina Boni, professore ordinario di Diritto canonico, di Diritto ecclesiastico e di Storia del diritto canonico all’Università di Bologna e, tra l’altro, consultore del Pontificio consiglio per i Testi legislativi della Santa Sede.

Professoressa Boni, qual è la valenza della rinuncia dai diritti del cardinalato di monsignor Becciu presentata nelle mani del Santo Padre?

«Con riguardo alla rinuncia ai (piuttosto che "dai", come recita il bollettino della sala stampa della Santa Sede del 24 settembre 2020) "diritti connessi al cardinalato", anzitutto due precisazioni. Contrariamente a quanto è stato scritto in questi giorni, il Codice di Diritto Canonico menziona iura (diritti dei cardinali: can. 351 § 2) e li disciplina: d’altronde, per esempio, la Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis regola lo ius eligendi Romanum Pontificem (n. 33) e altri diritti, oltre che privilegi e facoltà, sono menzionati nell’Elenco dei privilegi e facoltà in materia liturgica e canonica dei cardinali (18 marzo 1999)».

Non manca un travagliato precedente, recente, per ben altre questioni…

«Nel comunicato stampa del 20 marzo 2015, si informava che il Santo Padre aveva accettato «la rinuncia ai diritti e alle prerogative del cardinalato, espresse nei canoni 349, 353 e 356 del Codice di Diritto Canonico, presentata […] da Sua Eminenza il signor Cardinale Keith Michael Patrick O’Brien» (il quale anche nel sito della Santa Sede risulta ancora annoverato tra i cardinali non elettori). Ma ogni buon canonista sa che nell’ordinamento canonico la contrapposizione tra diritto e dovere è speciosa e deviante: ogni diritto, dovendo essere sperimentato nella dimensione comunionale e di servizio, ha un ineliminabile spessore di doverosità».

Cosa è accaduto con quel passaggio nel tardo pomeriggio del 24 settembre nei confronti del cardinale Becciu?

«Al di là della dizione, il Papa, accettando la rinuncia di Angelo Becciu – che di fatto non è stata volontaria ma coartata (come sovente accade nell’ordinamento canonico per evitare una rimozione, se non altro più traumatica e ‘scandalosa’) -, ha inteso, a mio avviso, immediatamente interdire l’esercizio di ogni funzione cardinalizia».

Provvedimento non consueto…

«È evidente come questo atipico provvedimento di accettazione della rinuncia sollecitata, che ovviamente il Papa come titolare del potere supremo può emettere, svuoti completamente la dignità cardinalizia, spogliata di ogni contenuto concreto ed effettivo. Eppure, il non avere privato Becciu della berretta cardinalizia (e, direi, della diaconia) lascia aperta la possibilità che la situazione possa evolvere e risolversi anche in maniera positiva».

Becciu può aspirare a quello che a più riprese ha chiesto e invoca come chiarimento?

«Laddove si accerti mediante la via giudiziaria – e non, si auspica, un’assai meno garantista via amministrativa – l’innocenza di Becciu, potrà essere pienamente reintegrato nel suo ruolo e nelle sue prerogative. Infatti, è vero che il Papa può emettere sentenze senza alcun vincolo processuale (si tratti di cardinali o no, con "diritti" o senza): ma può anche sottoporre il cardinale sia a un processo canonico sia ad un processo vaticano (a seconda del crimine di cui è accusato), operando comunque sempre i tribunali vicariamente, cioè in nome del Romano Pontefice. Tra l’altro il can. 1405 § 1 n. 2 pone la riserva al Papa del diritto esclusivo di giudicare i cardinali: non afferma affatto che non si svolgerà il processo».

Quindi Becciu è ampiamente processabile dal tribunale dello Stato?

«Oserei anche affermare che il Papa, almeno in questo caso, deve avviare un processo: e per molti motivi. Il suo giudizio potrebbe infatti apparire non adeguatamente motivato e dunque arbitrario, se non tirannico: anche tenendo conto che il suo ‘verdetto’ non è in alcun modo impugnabile (e, per questo, i casi dovrebbero essere davvero rarissimi ed eccezionali)».

Un auspicio a passare per le vie dei tribunali…

«In coerenza, inoltre, alla tradizione dell’ordinamento canonico che certamente ha contribuito non poco all’edificazione di quelle garanzie che oggi sostanziano l’universalmente riconosciuto diritto al giusto processo. Per il rispetto, ancora, di molti principi riconducibili al diritto divino naturale, vigente ovviamente in Ecclesia e da cui anche il Papa non è svincolato: primi tra tutti il diritto di difesa ma anche il diritto fondamentale del fedele al giudizio e di essere giudicato secondo le disposizioni di legge, da applicarsi con equità (can. 221 §§ 1-2)».

Senza entrare nei presunti reati economici e finanziari – non ufficialmente contestati a quanto risulta all’arcivescovo – ma almeno a vagliare le differenti ricostruzioni. Per il bene della Chiesa…

«Il Popolo di Dio ha diritto non tanto alla trasparenza – oggi molto di moda – ma a conoscere la verità dopo che essa è stata accertata. Mi sembra che questa possa essere una ricostruzione giuridica corrispondente a quella ragionevolezza che nella Chiesa traduce l’irrinunciabile conformità alla giustizia. La soddisfazione che qualcuno ha manifestato per questa condanna senza processo mi pare, oltre che senza giustificazione, non genuinamente cristiana».

Il sacerdote e la "terza banca": nuovi segreti nel dossier Vaticano. Il cardinale George Pell aveva attenzionato i fondi della "terza banca" del Vaticano. Quella per cui era stato incaricato monsignor Perlasca. Giuseppe Aloisi, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. Dicono che papa Francesco abbia deciso di privare il cardinal Angelo Becciu dei suoi diritti da porporato dopo aver ascoltato monsignor Alberto Perlasca. La voce è ancora di corridoio, ma la sensazione è che Jorge Mario Bergoglio, prima di prendere una decisione così centrale per questa fase del suo pontificato, abbia creduto ai racconti di qualcuno. E quello di Perlasca è il nome rimbalzato su alcuni organi d'informazione. Il consacrato italiano non è uno qualsiasi: ha avuto la responsabilità di quella che in gergo si chiama "terza banca" del Vaticano. La prima sarebbe lo Ior, che però non è una banca. La seconda è l'Apsa, l'amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, che ora è guidata da monsignor Nunzio Galantino, ex segretario generale della Conferenza episcopale italiana. E qual è la "terza"? La sezione amministrativa della segreteria di Stato, ossia una delle sezioni del "ministero degli Esteri" del Vaticano. Quello governato dal cardinale Pietro Parolin, che ora è impegnato anche sul tema del rinnovo dell'"accordo provvisorio" con la Repubblica popolare cinese. Monsignor Becciu, prima di diventare prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, è stato il sostituto di quella segreteria, mentre monsignor Perlasca ha guidato appunto la sezione amministrativa. Becciu e Perlasca, in buona sostanza, dovrebbero aver collaborato parecchio. Mentre Becciu si difende dalle accuse, emergono dettagli sul ruolo di Perlasca all'interno di questo che per le cronache è già un altro "scandalo vaticano". Quello relativo alla gestione dell'Obolo di San Pietro, che sfiora anche il caso del "palazzo di Londra". Il sacerdote sarebbe dunque in grado di rivelare cosa sta succedendo davvero all'interno delle mura leonine. Se non altro per via del ruolo occupato in questi anni. Stando a quanto riportato dall'edizione odierna de La Stampa, è stato il cardinale George Pell ad attenzionare la "terza banca". Pell - non è un mistero - avrebbe voluto riformare alcune modalità di gestione dei conti della Santa Sede. Pare che Becciu fosse contrario alle idee di Pell. Da qui, tutta la narrativa inerente ai presunti contrasti tra i due. Di certo c'è che Pell si è congratulato con Bergoglio dopo la riduzione delle facoltà da cardinale di Becciu. Un segnale che è difficile da non notare. La fonte sopracitata rivela un particolare che, se confermato, renderebbe di certo più chiaro il quadro sulla "guerra" che sarebbe in corso dalle parti di piazza San Pietro: "Il cardinale Pell iniziò ad approfondire i dossier di quella misteriosa sezione, scoprì e focalizzò fondi extracontabili per almeno 600 milioni di euro, per essere falciato da un inconsistente processo per pedofilia che lo richiamò in Australia". Poi qualche specificazione: "In particolare, sarebbe emerso che la "terza banca" avrebbe amministrato sino a 4 miliardi di euro tramite un articolato sistemi di conti correnti, accesi sia all'Apsa, sia allo Ior, sia nel cosiddetto comparto svizzero dal quale partivano i bonifici per alimentare le operazioni immobiliari oggi al vaglio degli inquirenti". Sembrerebbe che una delle contestazioni avanzate di recente nei confronti della riguardi dei presunti bonifici tramite cui sarebbero stati finanziati gli accusatori del processo australiano al cardinale Pell. Bonifici che sarebbero partiti direttamente dal Vaticano. Vale la pena sottolineare come il porporato oceanico abbia trascorso più di un anno all'interno di una prigione della sua nazione, dovendo difendersi in un processo per cui era imputato per abusi. Le accuse - come premesso - sono poi cadute alla fine dei gradi di giudizio previsti. Ma insomma la vicenda ha scombussolato non poco gli equilibri della Santa Sede: basti pensare che Pell era l'uomo che il Santo Padre aveva individuato per guidare la segreteria per l'Economia, un organo creato ad hoc da Bergoglio per risolvere i problemi delle "finanze vaticane". Quelli emersi pure durante il pontificato di Benedetto XVI. Il processo ha in qualche modo costretto Pell a farsi da parte. E Francesco al suo posto, dopo qualche tempo, ha nominato il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves. Il Papa, in quella circostanza, ha spiazzato un po'tutti: Alves non è neppure vescovo. E pare che non sia destinato a diventarlo per via del suo incarico. Ruota qualcosa di questa storia attorno alla "terza banca" del Vaticano? La "guerra" tra schieramenti che si starebbe svolgendo in Santa Sede dimora tutta tra le stanze della segreteria di Stato? E qual è il rapporto tra la segreteria per l'Economia ed il "ministero degli Esteri" del Vaticano durante il regno di Francesco? Sono tutte domande cui solo il tempo sarà in grado di rispondere con contezza. Intanto il cardinale Pell è tornato a Roma, ma non è stato nominato nella commissione che sempre Bergoglio ha istituito per occuparsi delle "materie riservate". La speranza di molti, in specie nel "fronte conservatore", è che Pell faccia presto di nuovo parte della squadra di papa Francesco.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 9 ottobre 2020. Nel pasticciaccio del cardinale Angelo Becciu e della misteriosa Cecilia Marogna, ormai nota come «la dama» del porporato, fa capolino pure James Bond. O meglio i suoi epigoni. Nell'indagine per peculato nei confronti di Becciu, ex numero due della segreteria di Stato del Vaticano, gli investigatori stanno passando al setaccio tutte le spese effettuate negli anni. E uno dei testimoni che gravitavano nella stanza dei bottoni della Santa sede ha fatto puntare i riflettori su due bonifici da 500.000 sterline complessive inviati a una società di intelligence inglese che, come vedremo, non è certo un colosso e non naviga, dal punto di vista finanziario, in ottime acque. Per l'informatore quell'investimento sarebbe stato suggerito dalla Marogna. Nei giorni scorsi la signora, nelle sue numerose interviste, ha parlato della sua attività di intelligence parallela in giro per il mondo e del fatto che i 500.000 euro inviati sul conto della società slovena Logsic d.o.o. dovevano servire proprio a pagare mediatori nelle aree di crisi. Ma la società slovena non ha mai emesso fatture e i conti sui fogli Excel inviati ai giornalisti dalla Marogna valgono poco di più di carta straccia. Anche perché non ci sono i nomi dei presunti percettori dei compensi per le operazioni riservate.Ma ora spuntano questi due pagamenti alla Inkerman training limited, piccola ditta che fa parte del gruppo Inkerman, specializzata nel settore della sicurezza e della gestione del rischio. Il core business è la protezione delle aziende private e non certo di Stati sovrani come il Vaticano. Sul sito Internet la holding si presenta in modo molto pomposo: «Il gruppo Inkerman è un gruppo mondiale con finalità internazionali e la capacità di fornire ovunque nel mondo una risposta in tempi rapidi. Tra i suoi clienti si annoverano multinazionali, imprese, Stati e privati a cui l'azienda fornisce un'intera gamma di servizi di sicurezza e intelligence». Ma dalle nostre ricerche quello che emerge è che le sei società della galassia hanno solo una trentina di dipendenti (il Vaticano può contare su 130 gendarmi) e che i manager sono sempre gli stessi: l'amministratore delegato è Gerald Moor, onnipresente, i direttori sono Karen Englishby, Colin Moor e James Marment. Le sedi indicate sul sito sono tre: una ad Ashford, nel Kent, una a Londra e una a Dusseldorf, in Germania. I bilanci sono quasi tutti in rosso e tutti i crediti sommati superano di poco il milione di sterline (i debiti invece sforano i due milioni). Per fare in confronto, una delle società di sicurezza e investigazioni più note al mondo, la Kroll di New York, ha uffici in 55 città situate in 26 paesi e può contare su quasi 4.000 dipendenti, 1.000 solo in Gran Bretagna dove macina utili. Sul sito della Inkerman compare il logo aziendale, un'aquila a due teste e al centro la «i» dell'alfabeto cirillico. Il nome dovrebbe ispirarsi all'omonima battaglia, svoltasi in un sobborgo di Sebastopoli, in cui la coalizione anglo-franco-turca sbaragliò l'armata russa durante la Guerra di Crimea. Nel capitolo «protezione» c'è questo menù: viaggiare sicuri, tracciamento, protezione ravvicinata per dirigenti, rapimento e riscatto, sicurezza specialistica per eventi, difesa di sicurezza specializzata, indagini sulla sicurezza, gestione della crisi ed evacuazione di sicurezza. La Marogna ci ha parlato dei rapimenti e delle aree di crisi. Ha ammesso di essere stata in rapporti con il presunto bancarottiere-jihadista Giulio Lolli: «Inizialmente era un mio contatto in Libia. L'ho conosciuto tramite un amico italiano e ci siamo scambiati diverse informazioni. Mi aveva anche chiesto forniture di latte. Il personaggio mi ha incuriosito perché dopo un crac era scappato in Africa. Dopo aver fatto il botto mica è andato in Svizzera o alle Bahamas, ma in Libia». La «dama del cardinale» sostiene anche di avere informazioni sui rapimenti di padre Pierluigi Maccalli e Silvia Romano: «Su quest' ultima ne potrei raccontare» ammette, «dopo tutto è casa mia anche la Somalia». Sul sito della Inkerman il tema dei sequestri è centrale: «I rapimenti stanno crescendo a ritmo esponenziale nel mondo». Per questo l'azienda offre «un team di risposta 24 ore al giorno, esperti negoziatori, formazione di prima classe e intelligence in tutto il mondo» e propone anche resoconti sui Paesi a rischio e «copertura di tutte le regioni geografiche e di tutti gli ambiti» si legge. Ma perché la segreteria di Stato, e Becciu in particolare, avrebbe dovuto chiedere aiuto alla Inkerman anziché alla Gendarmeria? Per provare a far liberare i missionari presi in ostaggio? Per proteggere le nunziature sparse per il mondo? Oppure per qualche altro scopo riservato? Alla voce «indagini» scopriamo che i settori di intervento della società sono i seguenti: frodi, estorsione e contaminazione dei prodotti, sorveglianza, bonifiche, informatica forense digitale, verifica del personale e controllo pre-assunzione, tracciamento delle risorse.Il quartier generale si trova ad Ashford, a pochi chilometri dalla Manica, dalle bianche scogliere di Dover e da Canterbury, sede dell'arcivescovo, la massima autorità spirituale della Chiesa anglicana. Dalla Camera di commercio inglese apprendiamo che la Inkerman training, destinataria delle 500.000 sterline papali, ha cambiato più volte il nome, passando da Sorbarix a Global Inkerman a Task international, denominazione che ha mantenuto sino al 2016. Già nel luglio del 1995 Gerald Moor risultava essere il «company secretary». Nel 2019 e nel 2018 aveva un solo dipendente, mentre nell'anno precedente neanche uno. La società ha la sede legale presso uno studio di commercialisti, dentro a un centro multifunzionale. L'oggetto sociale di due pagine comprende un po' tutto, anche l'attività finanziaria non regolamentata. La base operativa, invece, è un'elegante palazzina bianca (Inkerman house, ovviamente), davanti a cui campeggiano le targhe di Inkerman group, Task international e Burravoe translation services. Quest' ultima, fondata nel 1965, è entrata nel gruppo Inkerman dal 2000 ed è un'agenzia di traduzioni e interpretariato. Dal sito apprendiamo che traducono testi in tutte le principali lingue del mondo. Potrebbe sembrare la perfetta copertura per un'agenzia di spie e forse lo è. Anche se la Inkerman, a ben vedere, non appare come un gruppo particolarmente solido. La capofila, come detto, è la Inkerman group limited. Ed è quella con il bilancio più articolato. Nel 2019 i debiti ammontavano a circa 925.000 sterline, la maggior parte dei quali erano finanziamenti. Su 1.134.000 di sterline di crediti, il 93 per cento (1.053.000) era dovuto da altre società del gruppo. Il patrimonio netto della società ammontava al 30 aprile 2019 a 14.432 sterline. La capogruppo un anno fa ha dichiarato di avere 25 dipendenti, 24 nel 2018.Il sessantaseienne inglese Gerald Moor (il quale dovrebbe risiedere in cottage nella campagna di Tenterden, villaggio a 20 chilometri da Ashford), al registro societario, risulta aver ricoperto il ruolo di direttore in 19 diverse aziende e nel suo curriculum sono indicate diversi ruoli: risk management, amministratore delegato, businessman. Attualmente è direttore di Inkerman group, Inkerman group screening, Inkerman private clients, Inkerman group special projects, Inkerman training, Burravoe.Società quasi tutte inconsistenti. Per esempio la Inkerman training, la destinataria dei due cospicui bonifici provenienti da Roma, nel 2019 aveva una situazione patrimoniale in rosso di 227.132 sterline. Nello scarnissimo bilancio risaltano 292.822 sterline di debiti nei confronti di terzi e solo 65.690 di attività correnti. Un anno fa aveva un solo dipendente. Addirittura zero nel 2017.La Burravoe ha due soli impiegati e debiti per 147.000 sterline e attività correnti per 24.450, ovvero un patrimonio netto negativo di 121.600 sterline. Non sono messe bene neppure la Inkerman group special projects (meno 341.718 e due dipendenti) e la Inkerman group screening (meno 301.269 sterline e un impiegato). La Inkerman private clients ha due lavoratori, attività correnti per 23 sterline e debiti per 604 .Tutte le società del gruppo non hanno depositato l'ultimo bilancio al 30 aprile 2020. Forse per questo non si trovano nei conti ufficiali i bonifici provenienti dal Vaticano, che ovviamente, visti i numeri, sarebbero stati come una manna dal cielo. (ha collaborato Niccolò Celesti)

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 9 ottobre 2020. Il Vaticano alle prese con il terzo Vatileaks fa i conti con la giustizia interna aspettando l'esito delle indagini partite l'anno scorso dal palazzo londinese e deflagrate in una crisi istituzionale mai vista, con sospetti di corruzione ad ogni livello e mala gestio sui fondi riservati del Papa destinati ai poveri. Dai “leaks” dei documenti interni, certamente frutto dalla collaborazione di monsignor Alberto Perlasca con i magistrati, emerge uno scenario inquietante popolato da faccendieri, finanzieri d'assalto e persino misteriose donne che millantano l'appartenenza ai servizi segreti. Il cardinale Angelo Becciu, ex Sostituto alla segreteria di Stato fino al 2018 e finito in disgrazia, torna a farsi sentire e difendersi dalle accuse che gli sono piovute addosso. «Sono estraneo a qualunque fatto illecito e ogni accertamento confermerà la mia fedeltà al Papa. Sono sereno» fa sapere attraverso il suo legale, Fabio Viglione. «Sua Eminenza il Cardinale Becciu ribadisce - scrive il legale - la assoluta falsità degli addebiti sul proprio conto veicolati attraverso la stampa, confermando l’estraneità da qualunque fatto illecito. Attende con serenità gli esiti di ogni accertamento, in qualsiasi sede, che potranno finalmente confermare la propria fedeltà al Santo Padre e alla Chiesa». «Il Cardinale confida nel doveroso equilibrio fra libertà di stampa e diritto ad una corretta informazione nel rispetto di tutti i soggetti coinvolti, riservando il ricorso alle competenti Autorità giudiziarie a tutela dell’onore e della reputazione proprie e dei familiari in ogni caso verrà ritenuto necessario», conclude. La difesa del cardinale ruota attorno a cinque punti. Che né il Cardinale, né i propri fratelli «possiedono azioni o obbligazioni, né tantomeno partecipano a fondi d’investimento o posseggono conti esteri». Che «mai vi è stato trasferimento di fondi di provenienza della Segreteria di Stato nella disponibilità privata e personale dei propri familiari e mai sono stati disposti investimenti della Santa Sede nelle attività della società Angel’s, legate alla produzione della birra o alla sua commercializzazione». E ancora. «Mai il Cardinale ha effettuato investimenti nell’interesse della Santa Sede in attività economiche di Antonio Mosquito». Infine un passaggio sulla Mata Hari, la donna misteriosa alla quale il cardinale diede totale fiducia e denaro per non ben precisate operazioni di intelligence. «I contatti con Cecilia Marogna attengono esclusivamente questioni istituzionali». Infine, mai vi è stata alcuna interferenza da parte del Cardinale nel processo nei confronti del Cardinale Pell. Nel frattempo l'ufficio del cardinale australiano George Pell - condannato per abusi di pedofilia, detenuto per oltre un anno e infine scagionato dall'Alta Corte d'Australia - ha negato che egli abbia ricevuto denaro dal Vaticano per finanziare la parcella legale di milioni di dollari per la sua difesa attraverso quattro gradi di giudizio. Rispondendo a notizie di stampa su misteriosi trasferimenti di fondi per 700 milioni di euro della Chiesa all'ambasciata della Santa Sede a Canberra un portavoce di Pell, citato dal quotidiano The Australian, ha negato con enfasi che il Vaticano, o qualsiasi altra parte della Chiesa in Australia o altrove, abbia finanziato i suoi costi legali. Il portavoce ha detto che i fondi sono stati invece donati da sostenitori del cardinale. «Si è trattato di un appello per le donazioni, indipendente dalla Chiesa, organizzato e ampiamente pubblicizzato in pubblicazioni cattoliche». Nell'indagine in corso in Vaticano, si ipotizzano versamenti dalla Segreteria di Stato, quando il cardinale Becciu era Sostituto, sul conto di presunte vittime di pedofilia. L'avvocato dell'ex chierichetto che aveva accusato Pell di abusi di pedofilia, da parte sua ha escluso categoricamente che il suo cliente abbia ricevuto denaro dal Vaticano, come ipotizzato da giornali italiani. La legale del sopravvissuto dei due accusatori di Pell, Viv Valler, ha dichiarato che questi «non ha idea di cio' che viene asserito e nega di aver ricevuto alcun pagamento».

Da corriere.it il 13 ottobre 2020. È stata arrestata a Milano, a casa di un amico, dalla Guardia di finanza Cecilia Marogna, la «dama» del cardinale Becciu: nei suoi confronti gli inquirenti vaticani hanno emesso un mandato di cattura internazionale attivando l'Interpol. La donna, 39 anni, di Cagliari, finora ha smentito le indiscrezioni che la vogliono come figura legata all’alto prelato Becciu e destinataria di bonifici a una società situata in Slovenia, che si occupa di missioni umanitarie. Nel mirino degli inquirenti vaticani sarebbero finiti, come rivelato da un'inchiesta delle Iene, bonifici per mezzo milione di euro ricevuti dalla Santa Sede per operazioni segrete umanitarie in Asia e Africa, e finiti, quasi per la metà, nell'acquisto di borsette, cosmetici e altri beni di lusso. La Marogna, presentatasi come esperta in relazioni diplomatiche e diplomazia parallela, sarebbe entrata in contatto con il cardinale nel 2016, proponendosi come mediatrice su crisi internazionali di vario genere. Becciu, dopo aver fatto filtrare alla luce delle notizie uscite di sentirsi «truffato» e pronto a sporgere denuncia nei confronti della signora, ha anche precisato, attraverso il suo legale, l'avvocato Fabio Viglione, che «i contatti con Cecilia Marogna attengono esclusivamente questioni istituzionali». Quanto a lei, ha rivendicato «il risultato di aver costruito una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente per proteggere Nunziature e Missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche», spiegando che «i fondi in Slovenia erano di garanzia per le operazioni in Africa». E sulle spese in beni di lusso ha chiarito alle Iene: «Era una po' una restituzione degli anticipi che io avevo utilizzato come mie risorse...». D'altra parte, «svolgo una professione sensibile, particolare, non è che noi paghiamo via bonifico o ritenuta d'acconto...», e, nei «due anni prima» dei bonifici, «ho anticipato risorse per 220mila pound...». Marogna, che sarebbe in possesso di una lettera firmata da Becciu che la accredita come persona di sua fiducia, avrebbe ricevuto il denaro in diverse tranche tra il dicembre 2018 e il luglio 2019 sul conto corrente della Logsic d.o.o., la società, con sede a Lubiana, di cui è amministratrice. Versamenti tutti con causale «contributo per missione umanitaria». Di quei circa 500mila euro, però, quasi 200mila sarebbero stati spesi in vestiti, ristoranti e lussuosi accessori (tra l'altro 12mila euro da poltrona Frau, 2.200 da Prada, 1.400 da Tod's, 8mila da Chanel). Peraltro, la stessa Logsic si sarebbe rivelata una società «fantasma», tanto che nel palazzo di Lubiana indicato come sede le Iene hanno trovato solo una casella postale - condivisa con altre cinque società - , e un ufficio chiuso senza nemmeno la targhetta. I bonifici in questione sarebbero stati firmati quando a Becciu era già succeduto come Sostituto agli Affari generali mons. Edgar Pena Parra, ma sarebbe stato proprio l'ex prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi a chiedere a monsignor Alberto Perlasca, all'epoca a capo dell'ufficio amministrativo della SdS (oggi indagato nell'inchiesta vaticana), di onorare gli accordi presi con la managing director della Logsic.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 13 Ottobre 2020. La storia del cardinale Angelo Becciu, della dama sarda Cecilia Marogna e della società di intelligence e sicurezza inglese ingaggiata dalla segreteria di Stato vaticana per non meglio precisate mission ha varcato il Canale della Manica. Dopo il nostro scoop, ieri il Times di Londra ha scritto: «La Verità afferma che la Santa Sede, su consiglio della signora Marogna, ha pagato 500.000 sterline in due rate a una società chiamata Inkerman Training. L' azienda fa parte del gruppo Inkerman». Una presunta «multinazionale» con i conti in rosso e soli 30 dipendenti. In questi giorni abbiamo provato ripetutamente a metterci in contatto con l' amministratore dell' azienda, il sessantaseienne Gerald Moor. La segretaria della sede di Londra, ma anche il contatto Whatsapp del quartier generale di Ashford, nel Kent, sono stati evasivi e non ci hanno passato nessun responsabile. Lasciando che il mistero si infittisse ulteriormente. La Marogna, nel frattempo, sembra sparita dai radar dei media, dopo aver rilasciato per giorni un profluvio di dichiarazioni. Nei giorni scorsi, con noi, ha ammesso di non essersi occupata solo di questioni geopolitiche, mentre lavorava al fianco di Becciu. Per esempio ci ha raccontato di conoscere bene le vicende di Francesca Immacolata Chaouqui, la cosiddetta «Papessa», protagonista nel 2016 del cosiddetto scandalo Vatileaks 2, in cui venne condannata per il mancato rispetto dell' impegno di fedeltà.  «Ce l' ha a morte con Becciu», ci ha spiegato la Marogna. «Ma non è stato lui a licenziarla. È stato il Papa. Il cardinale era solo l' esecutore. Se il Santo Padre dice "questa persona si è comportata male", anche perché ci sono carte però stranamente di quelle carte non esce mai niente. Io so cosa scriveva nei messaggi a Becciu, perché ho il fascicolo. Io non vado in giro a chiedere la tessera per fare la spesa, la benzina e andare in farmacia». La Marogna ha anche preso parte a un incontro con monsignor Tommaso Stenico, il prelato finito nei pasticci nel 2007 per un servizio realizzato con la telecamera nascosta dalla trasmissione tv Exit. Nel video Stenico, teologo e psicologo, rivolgeva a un giovane semidraiato sul divano del suo ufficio apprezzamenti come «sei molto carino» e «quanto sei bbono». E lo congedava così: «Qui finisce la nostra storia perché ti sento molto prevenuto. Non facciamo niente perché vedo che hai tante preclusioni [] Se vuoi mi chiami tu o mi mandi un messaggio». Stenico si difese spiegando di essersi finto gay per smascherare la lobby omosessuale che imperversava in Vaticano. Tema scabroso che aveva approfondito nella sua veste di psicoterapeuta. In tanti, negli anni, hanno provato a mettere le mani sui fascicoli personali dei suoi pazienti, ma lui, a quanto ci risulta, ha sempre mantenuto il segreto professionale. Eppure quella trasmissione gli costò un provvedimento disciplinare che gli fece perdere il lavoro nella Congregazione del clero, dove era stato a capo dell' ufficio catechistico. Ma perché Becciu e la Marogna incontrarono Stenico? La trentanovenne sarda ci ha dato questa spiegazione un po' confusa sull' argomento del colloquio avvenuto in «un monastero di fianco al Vaticano»: «Stenico voleva dire la sua rispetto al fatto che era stata mossa una pedina contro di lui». Il motivo? Il suo lavoro da psicoterapeuta. «L' avevano messo all' angolo perché avevano paura che potesse divulgare dati sensibili su chi non aveva avuto una vita del tutto morale. Ha sofferto tantissimo []. Sa quanti giornalisti sono andati da lui offrendo denaro per avere informazioni? Ma lui mai, fino alla tomba». Per i segreti che custodiva, il monsignore sarebbe stato «denigrato» e «umiliato». Ma cosa voleva il prelato trentino da Becciu? «Voleva poter dire la sua, anche perché aveva scritto più volte lettere sia a Becciu che al Papa. Epistole che forse non sono mai arrivate a destinazione [] Probabilmente il fascicolo con le prove della sua innocenza veniva messo sempre in fondo alla pila». I due che accordo trovarono? «Non ci fu un accordo. Finalmente, però, Stenico aveva potuto dare la sua versione, con tanto di carte []. Aveva potuto levarsi questo peso». Per la Marogna la trasmissione tv era stato solo «uno sputtanamento» e il monsignore incontrando lei e Becciu aveva voluto dimostrare che in Vaticano «non avevano aggiornato la sua cartella personale, anche se erano cadute tutte le accuse ed erano state trovate state le prove inconfutabili sul suo corretto operato». Menzogne e dimenticanze per cui sarebbe stato «sospeso dallo stipendio per dieci anni». Alla fine, grazie a Becciu, le cose sarebbero andate a posto: «Stenico ha riottenuto tutto, perché le carte parlavano chiaro». Ieri abbiamo provato a chiedere al prelato la sua versione su quel singolare summit a tre. «Mi deve scusare, la questione era personale e non intendo dire nulla», è stata la risposta. Non ci siamo arresi e abbiamo provato a fare qualche altra domanda. Ha trovato normale la presenza della consulente geopolitica al vostro incontro? «Quello è un problema tra Becciu e la signora. Io non posso andare da una persona e imporre delle condizioni. Sia gentile, si fermi qua perché non posso dire nulla». Come è finita la vicenda della trasmissione? «Basta che lei si guardi intorno. Tutto quello che io ho detto 13 anni fa si sta verificando puntualmente». In realtà noi ci riferivamo al procedimento «Io non ho mai avuto procedimenti. Sono stato io a portare nei tribunali le persone che mi hanno fatto del male». Allora come si sono concluse queste battaglie legali? «Ero un povero fringuello contro un' aquila, che potevo fare?». Una fonte ci ha riferito che quando Stenico si rivolse a Becciu, in Vaticano stavano per togliergli appartamento di servizio e assicurazione. Chiediamo conferma al diretto interessato. Ma anche in questo caso il monsignore fa catenaccio: «Perché deve preoccuparsi di me? Viva sereno. Sono questioni di 15 anni fa, perché le andate a rivangare?».

Arrestata la "dama di Becciu". Si riapre lo scandalo Vaticano. La Guardia di finanza ha arrestato Cecilia Marogna a Milano. L'accusa riguarda l'utilizzo dei bonifici per le missioni. Renato Zuccheri, Martedì 13/10/2020 su Il Giornale. Cecilia Marogna, la "dama" del caso Becciu è stata arrestata. La manager cagliaritana, che aveva un rapporto di fiducia molto forte con il cardinale Angelo Becciu finito nell'ultimo scandalo che ha scosso i palazzi del Vaticano, è stata bloccata a Milano dalla Guardia di finanza. Il Vaticano avevano emesso nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale dopo l'inchiesta partita dai bonifici per centinaia di migliaia di euro ricevuti dalla Santa Sede e poi utilizzati per acquisti di accessori e beni di lusso. Secondo le accuse, la cosiddetta dama nera avrebbe ricevuto il denaro in diverse tranche sul conto corrente della società di ui è amministratrice e che ha sede a Lubiana. I versamenti, avvenuti tra il 2018 e il 2019, avevano tutti la causale "contributo per missione umanitaria". La cifra si aggira intorno al mezzo milione di euro. Il problema però è che quei soldi non sono mai andati tutti in missione, ma, come ricorda AdnKronos, almeno 200mila sono stati usati per ristoranti, borse, poltrone, profumi. Tutto questo mentre la società di Lubiana, la Logsic, si sarebbe rivelata un'azienda fantasma. In questo movimento di denaro rientra, appunto, il cardinale Becciu che sarebbe stato pienamente a conoscenza di tutte queste operazioni. I bonifici sarebbero stati firmati quando il Sostituto agli Affari generali era mons. Edgar Pena Parra, tuttavia sembra che il suo predecessore, appunto Becciu, avesse chiesto a monsignor Alberto Perlasca, capo dell'ufficio amministrativo della SdS, di concretizzare quanto concordato con Cecilia Marogna, la dama. Un sistema che ha colpito duramente la Curia e gli uomini vicini a Papa Francesco, che adesso sta cercando con molte difficoltà di ripristinare l'ordine in un Vaticano travolto da uno degli scandali più insidiosi del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Becciu ha rinunciato al cardinalato, ma questo non può fermare l'inchiesta né le accuse del fronte che per anni si è opposto al prelato sardo e a tutti i suoi più stretti collaboratori. Molti dei quali sostenitori anche alle riforme promesse da Francesco. "I rapporti con Cecilia Marogna sono stati solo istituzionali", ha dichiarato Becciu. Ma la guerra interna ai Sacri Palazzi sembra essere solo all'inizio.

Lady Vaticano, le mille maschere usate in Rete per nascondersi. Nomi finti, qualifiche improbabili e amici eccellenti: quelle tracce lasciate sui social Cristina Cucciniello e Giuliano Foschini il 14 ottobre 2020 su La Repubblica. Lilian. Ci Emme. Cecile M. Tredici, Cecil Emme. Cecilia Marogna, la nuova dama nera del Vaticano, è una. Ma in realtà è molte altre. È una ragazza sarda, un po’ massone, un po’ esperta di geopolitica, un po’ amante dei servizi segreti ma in realtà è anche una piccola cialtrona del generone romano, una che più che sulla formazione sembra aver investito sull’agenda telefonica, sui contatti, sui sorrisi e le cene nei circo...

Spuntano tre società estere. «Altri fondi del Vaticano per finanziare Marogna». Ilaria Sacchettoni e Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 15/10/2020. La manager, conosciuta come la «dama del cardinale Becciu» sarà ascoltata dal gip di Milano nelle prossime ore. Galantino: «Le cose stanno cambiando, anche se non possiamo cancellare il peccato originale». ROMA La versione della manager Cecilia Marogna sarà ascoltata nelle prossime ore dal gip di Milano, dopo l’arresto avvenuto martedì sera. Nel frattempo l’inchiesta della gendarmeria vaticana si concentra sui conti della slovena Logsic e di altre due società — una tedesca, l’altra inglese — che sarebbero servite a finanziare le attività della Marogna. L’ipotesi è che oltre ai seicentomila euro confluiti nelle casse della Logsic d.o.o. la donna abbia drenato altri finanziamenti alla Segreteria di Stato del Vaticano, complice la disponibilità del cardinale Angelo Becciu. Quest’ultimo sarebbe stato il suo passepartout per accedere a sovvenzioni importanti.

Cecilia Marogna, la «dama del cardinale». Accreditatasi come esperta di relazioni diplomatiche e missioni internazionali, Marogna ha ricevuto fondi del Vaticano. Soldi che nelle intenzioni (e nella causale del trasferimento) avrebbero dovuto sovvenzionare «missioni umanitarie». Ma gli investigatori hanno trovato che la donna aveva attinto al finanziamento per ragioni personali: fare shopping nelle boutique di Prada, Moncler, Saint Laurent, Montblanc, Tod’s, Frau. Ora, nel mirino del promotore vaticano di giustizia Gian Piero Milano e dell’aggiunto Alessandro Diddi, sono finite le società riconducibili alla manager, tutte all’estero. La Marogna, al Corriere, aveva smentito voci di un affaire fra lei e Becciu: «Tutte falsità. Io amante del cardinale? Assurdo. Sono un’analista politica e un’esperta di intelligence, che lavora onestamente». Nell’ultima riunione del Consiglio dei cardinali, martedì, Papa Francesco ha spiegato che «la riforma della Curia è già in atto, anche sotto alcuni aspetti amministrativi ed economici». Il vescovo Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa, spiega al Corriere: «Premesso che non possiamo cancellare il peccato originale, stiamo facendo tutto quanto è umanamente possibile, dietro forte impulso del Papa, per creare le condizioni perché cose del genere non si ripetano». Il Papa ha creato una «Commissione materie riservate» che «dovrà decidere di volta in volta se concedere il segreto di Stato agli atti in materia giuridica o economica dei dicasteri, compresa la Segreteria di Stato», spiega monsignor Galantino, che fa parte della Commissione. Niente più spese riservate: «Se un dicastero ritiene che una materia o un negozio debbano essere segreti, dovrà fare domanda e spiegarne le ragioni, e a quel punto sarà la commissione a decidere». Questo si aggiunge al trasferimento deciso da tempo di tutta la liquidità all’Apsa, il controllo sugli investimenti: ogni dicastero avrà il suo budget, «per rendere più razionale l’amministrazione e più tracciabili tutte le operazioni». Galantino non si pronuncia sulle indagini ma certo «ora non esistono più zone che possano essere sottratte al controllo in base al segreto di Stato». Il presidente dell’Apsa sospira: «Chiaro, è mortificante prendere atto di certe manchevolezze, ma sono cose che vengono da lontano e adesso siamo incoraggiati dai passi che stiamo facendo, dalla trasparenza che ha voluto Papa Francesco sulla base di quanto Benedetto XVI aveva iniziato. Le cose stanno cambiando».

Ferruccio Pinotti per il “Corriere della Sera” il 14 ottobre 2020. Chi è davvero Cecilia Marogna, la «dama del cardinale», la misteriosa superconsulente vaticana cui il cardinale Becciu ha fatto bonificare 500mila euro per non meglio precisate «operazioni umanitarie», ora agli arresti su mandato degli inquirenti vaticani che hanno chiesto all' Interpol un mandato di cattura? Cecilia Marogna, 39 anni, di Cagliari che il Corriere ha avuto modo di intervistare due volte e incontrare in via esclusiva, non si presenta come la fascinosa Mata Hari che è stata dipinta. Piccola, magrolina, bel sorriso («quello è di famiglia, abbiamo la fortuna di avere denti bianchissimi e che non si cariano mai»), al di là dell' aspetto gradevole non ha certo l' aria della «honey trap», la trappola al miele che i Servizi di tutto il mondo utilizzano. È invece un ragazza madre di una bella bimba di 10 anni che copre di baci nel suo profilo social Emmeci, ora rimosso. Lei si dipinge come «una analista», una «esperta di intelligence stimata dai vertici dei Servizi italiani» (fuori intervista butta lì il nome di due generali ai vertici del' Aise: «Mi stimano molto, si informi») e rivendica «il risultato di aver costruito una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente per proteggere Nunziature e Missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche». In realtà non risulta che sia nemmeno laureata, e i fantomatici «studi di perfezionamento in Libano» suscitano quasi tenerezza. Di certo Cecilia Marogna una passione per i segreti e gli intrighi ce l' ha: aveva avvicinato Flavio Carboni «per saperne di più di misteri sardi e dell' Anonima sequestri», Paolo Cirino Pomicino e Lorenzo Cesa per accreditarsi in ambienti politici, Gioele Magaldi, massone del Grande Oriente democratico, per farsi raccontare i segreti di logge e grembiulini. Ma il suo colpo migliore l' aveva realizzato nel 2015 quando, racconta lei, riesce ad agganciare con una semplice mail il numero due della segreteria di Stato, il futuro cardinale Angelo Becciu, che ha accesso ai fondi vaticani e che è un diplomatico di lungo corso essendo stato nunzio in molti Paesi. «Doveva essere un colloquio di dieci minuti, mi ha tenuta un' ora e mezzo», si vantava. Poi però Becciu tramite monsignor Perlasca aveva iniziato a bonificarle a tranche 500mila euro su una società slovena, di cui risulta titolare, la Logsic d.o.o., come risulta dalle carte pubblicate dal Corriere . Peccato che lei stessa abbia ammesso di «non aver mai emesso fatture» e di aver potuto utilizzare anche «in chiave personale» quei fondi riservati. Una parte consistente dei quali risulta essere stata spesa in borsette, vestiti, profumi, una poltrona in pelle Frau: «Dopo tanto lavoro me la posso pure comprare no? », diceva con ironia, sorvolando su due denunce per appropriazione indebita: «Malignità finite in nulla». E aggiungendo sibillina: «Magari la borsetta era per la moglie di un amico nigeriano in grado di dialogare col presidente del Burkina Faso per facilitare la soluzione di qualche crisi». E ieri mattina, prima dell' arresto, lasciava trapelare l' ipotesi di aver avuto un ruolo nella liberazione degli ostaggi. Visto però che lei a Lubiana non è mai stata vista, non è chiaro se la manager fosse davvero la destinataria dei fondi o una testa di legno, una copertura. Sui soldi faranno luce gli investigatori del Vaticano, guidati dai promotori di giustizia Gian Pietro Milano e Alessandro Diddi. Scoppiato lo scandalo si difendeva dicendo di essere un «pacco bomba», la «vittima sacrificale dello scontro tra le fazioni contrarie al Papa». Oggi, ad arresto avvenuto, la difende Gioele Magaldi: «L' arresto conferma il fatto che Marogna è divenuta la pedina di un gioco molto più grosso, un' arma di distrazione di massa». Intanto, però, l' accusa è peculato per distrazione dei beni.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 14 ottobre 2020. Quella di nostra signora delle trame è stata una parabola breve. Un' apprendista stregona, che si è vantata di volere apprendere la lezione di ben altri maestri come Flavio Carboni e Francesco Pazienza, modelli antichi dell' alchimia con cui si fanno soldi evocando segreti. Forse troppo inesperta o troppo rampante per emulare l' incredibile resistenza sulla scena dei suoi miti spioni. Eppure a 39 anni Cecilia Marogna era riuscita a fare breccia nelle mura leonine ed insediarsi nel sancta sanctorum dei misteri, in quell' angolo buio dei palazzi vaticani dove i quattrini prendono strade oscure. Già un' altra giovane donna, Francesca Immacolata Chaouqui, aveva tracciato la via dagli uffici pontifici alla prigione ma questa volta la faccenda è addirittura più tenebrosa, perché la protagonista si muove in un labirinto popolato da agenti dell' intelligence e sigle delle security. O almeno questa è la parte che si è assegnata nelle molteplici interviste: una Pulzella d' Orleans dei tempi moderni, capace di «proteggere Nunziature e Missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche » grazie a «una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente». Nessuno è riuscito ancora a capire come la dama cagliaritana sia entrata nelle grazie del cardinale altrettanto sardo Angelo Becciu e farsi consegnare mezzo milione di euro. «Solo questioni istituzionali», ha precisato in tutti i modi l' alto prelato. Che a dispetto della sua lunga carriera diplomatica in tutto il mondo si è messo nelle sue mani per gestire trattative internazionali, salvo poi scoprire che i denari della Santa Sede invece che foraggiare informatori e contribuire a liberare missionari rapiti dai jihadisti servivano a comprare abiti griffati e comodi divani in pelle. "Versamenti umanitari", li ha classificati la contabilità pontificia, girati però alle boutique Chanel, Prada e Tod' s. Per niente turbata, lei ha rivendicato lo shopping: «Magari la borsetta era per la moglie di un amico nigeriano in grado di dialogare con il presidente del Burkina Faso ». Tutto giustificato dalla missione di difendere la Chiesa. Anche se lo faceva attraverso una minuscola società slovena, la Logsic, senza neppure un ufficio. Una copertura miracolosa, non per nulla benedetta dal cardinale che fino a tre settimane fa giudicava i requisiti di santità. Tanti sono convinti che Marogna sia solo l' inizio di un nuovo capitolo degli scandali vaticani. Come una matrioska, che contiene altre statue intagliate per gestire affari inconfessabili, già appaiono all' orizzonte compagnie di sicurezza inglesi dal pedigree opaco e agenzie dell' intelligence nostrana con i cui vertici ostentava «stima e collaborazione ». Basta citare un nome per intuire la prossima sceneggiatura: Gianmario Ferramonti, l' imprenditore in odore di massoneria passato da tutte le sigle della destra nazionale per arrivare a far sussurrare al padre di Maria Luisa Boschi le nomine di Banca Etruria. «È stato lui a presentarmela», ha detto proprio ieri Flavio Carboni. Così partendo dalla "Dama di Becciu" si rischia di replicare lo stesso gioco di scatole cinesi che dall' immobile di Londra ha scoperchiato un vortice di milioni e ricatti, così spregiudicato da avere saccheggiato persino i conti riservati di papa Francesco. Che, come dimostra l' ordine di cattura emesso dai giudici vaticani, adesso ha deciso di pulire radicalmente a costo di usare le manette. Nonostante la tempesta in arrivo, Cecilia Marogna ha recitato la parte di 007 fino all' ultimo. E almeno il finale è stato all' altezza del copione: per arrestarla si è mossa persino l' Interpol.

Floriana Bulfon per ''la Repubblica'' il 16 ottobre 2020. Cecilia Marogna, consulente per l'intelligence dell'ex cardinale Angelo Becciu, resta in carcere e la procura generale di Milano è pronta a procedere anche per l'estradizione verso lo Stato del Vaticano. Il procedimento si apre oggi ed ha già riscontrato il favore del Sostituto Giulio Benedetti, che ha definito "gravi" gli elementi raccolti su di lei. Oltre all'accusa di peculato formulata dai promotori di giustizia della Santa Sede si potrebbe anche essere un procedimento penale in Italia per autoriciclaggio. «L'estradizione sarà lunga. L'arresto è stato convalidato senza avere gli atti in mano. Non ce li ha nessuno, non so dove siano, saranno ancora in Vaticano», tuona l'avvocato Massimo Dinoia, legale della donna, lasciando il tribunale. Fonti giudiziarie raccontano di un quadro accusatorio sempre più robusto, ma la consulente di Becciu ostenta sicurezza, ritenendo nulli gli addebiti e dichiarandosi pronta a dimostrare tutto "carte alla mano". Ma le carte, che dovrebbero giustificare gli ingenti pagamenti ricevuti dalla Segreteria di Stato, non trovano conferme. Al momento, secondo le verifiche degli inquirenti, quei soldi transitati per una società slovena sono stati usati per l'acquisto di beni personali e non per "trattare con le fonti". Poco importa che lei si giustifichi: «Sarebbe come chiedere a un agente segreto come utilizza i fondi per le attività miste che gli sono stati dati. Io lavoravo per Becciu». Tra le tante missioni Cecilia Marogna, si vanta anche di aver avuto un ruolo centrale nelle trattative per la liberazione dopo due anni di prigionia in Mali di padre Pier Luigi Maccali e di Nicola Chiacchio. Per farlo avrebbe usato tra gli 80 e 100mila presi dalle casse della Santa Sede. Peccato che non si sia trovato alcun riscontro e anzi, dopo la liberazione dei due ostaggi, la sua versione avrebbe mostrato nuove incongruenze. Fonti della nostra intelligence smentiscono poi un qualsiasi ruolo della donna nella complicata operazione avvenuta in Mali, nessuna attività diplomatica né tanto meno un ruolo attivo nelle trattative per il rilascio. Smentite che si accodano a quelle già riscontrate da altre sedi diplomatiche di Paesi africani e mediorientali. La Marogna è una sconosciuta anche per alcune Ong attive da decenni sul campo, organizzazioni che spesso si trovano al centro di scambio di informazioni territoriali importanti. Anche il console onorario del Mali, Daniel Dembélé, sostiene di non aver mai sentito il suo nome. Per questo motivo, dopo l'ennesimo silenzio in merito a questa e ad altre vicende da parte dell'ex porporato Becciu, i promotori di giustizia sono fermi nel voler ascoltare Marogna per chiarire il suo ruolo e i rapporti che ha intessuto nel corso di questi anni. Secondo fonti vaticane, la donna sarebbe stata segnalata al prelato di Pattada da un conterraneo di Sassari, che la presentò come donna vicina all'ambiente diplomatico. Ma l'unica esperienza lavorativa che si riscontra è l'apertura e la chiusura in meno di un anno, nel 2005, di una azienda, la "Linea Principe", specializzata in confezionamento di cementi e derivati. Nulla a che fare con i feluche. Settore che invece interessa un'avvocata di Sassari. Si chiama Gabriella Marogna, è console onorario del Senegal. Al telefono però si fa negare, risponde per suo conto un socio dello studio legale. Ed è perentorio: la collega non rilascia nessun commento né sulla vicenda né sul grado di parentela con la consulente di Becciu.  

Giacomo Amadori per “la Verità” il 16 ottobre 2020. L'arresto della sedicente analista geopolitica Cecilia Marogna è stato convalidato dal presidente della quinta sezione penale della Corte d'appello di Milano e adesso sono iniziate le laboriose pratiche per l'estradizione presso lo Stato Vaticano che ne ha chiesto l'arresto per peculato per distrazione e appropriazione indebita aggravata. Il fermo è avvenuto alle ore 20 del 13 ottobre nei pressi della casa milanese del compagno, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi. Per l'accusa la Marogna «nel periodo dal 18 dicembre 2018 (data del primo bonifico della segreteria di Stato, ndr) al 13 ottobre 2020, con la complicità di altre persone si appropriava di fondi della Santa Sede e utilizzava e si appropriava in maniera illecita dei fondi a lei assegnati per fini istituzionali». Quindi avrebbe utilizzato il conto incriminato su cui erano depositati i 575.000 euro inviati dalla segreteria di Stato vaticana sino all'arrivo della Guardia di finanza. Ci sono poi le 500.000 sterline (circa 550.000 euro) destinate alla Inkerman training limited, società del gruppo Inkerman, piccola azienda di intelligence e security con sedi ad Ashford nel Kent, Londra e Dusseldorf, in Germania. Anche in questo caso i promotori di giustizia vaticani e la Gendarmeria sospettano che quei fondi, che sarebbero stati investiti dal Vaticano su indicazione della stessa Marogna, possano essere rientrati nella disponibilità della consulente sarda. Nel provvedimento di convalida dell'arresto il giudice Antonio Nova sottolinea che la trentanovenne cagliaritana non può essere rimessa in libertà per la «gravità dei fatti e le modalità di realizzazione degli stessi (che denotano rilevante pericolosità sociale) e il concreto pericolo di fuga». Quest' ultimo viene desunto dalla «gravità dei reati commessi, in ragione delle modalità della condotta di appropriazione indebita da parte dell'arrestata (su fondi della Santa Sede a lei assegnati per fini istituzionali) e della complessità e importanza di interessi economici sottesi alla vicenda [] nonché dall'allontanamento dalla propria residenza in pendenza delle indagini». La donna infatti è residente nel centro di Cagliari in una bella palazzina di tre piani, ma è stata fermata a Milano dove risiede il compagno F. B. S., manager di origini sarde. Milano è molto vicina anche a Lugano dove la donna non di rado si è spostata. La toga ribadisce che tali motivi «è probabile che la stessa intenda sottrarsi al processo e alle severe conseguenze penali connesse all'accertamento dei reati (puniti con la reclusione fino a 5 anni) di cui è accusata dall'autorità estera».Il giudice ha inoltre sottolineato di convalidare l'arresto anche per «garantire l'eventuale consegna allo Stato richiedente e considerato che non si ravvisano ragioni ostative all'estradizione». Adesso gli avvocati Massimo Dinoia, Fabio Federico e Maria Cristina Zanni dovranno cercare di evitare la consegna della donna al Vaticano. Ieri le agenzie di stampa hanno riferito che la Procura generale di Milano sarebbe pronta ad accordare l'estradizione della Marogna e in particolare sarebbe favorevole il sostituto procuratore generale Giulio Benedetti. Inoltre la condotta della signora, aggiungono in Procura generale, in astratto, per la legge italiana, porterebbe a configurare anche il reato di autoriciclaggio. La vicenda della Marogna oscilla da giorni tra la cronaca giudiziaria, la spy-story e il gossip. In quest' ultima categoria il sito Dagospia ha aggiunto un capitolo: «Chissà come mai nessuno dei giornali ha ancora scritto che lady Marogna, residente a Milano, quando atterrava a Roma andava a vivere in un palazzo apostolico del Vaticano, ospite di Becciu (al piano superiore c'è la dimora di Bergoglio)» ha scritto ieri. Noi aggiungiamo che su Facebook la donna ha pubblicato diverse foto da una finestra dentro al Vaticano, un palazzo ubicato alla destra della cattedrale di San Pietro: paiono scattate dalla seconda loggia. La redazione di Roberto D'Agostino ha arricchito la nota con un ulteriore particolare: «La Mata Hari della mutua ha trascorso le vacanze estive in Sardegna graditissima ospite di casa Becciu, lo stesso cardinale che si sente da lei raggirato». Nei giorni scorsi avevamo chiesto conferma alla Marogna di un suo viaggio a Pattada (Sassari), il paese natale di Becciu, insieme con il cardinale. La donna ci aveva risposto così: «E quindi? Siamo andati per la festa della patrona, Santa Sabina, quando lui è stato nominato cardinale». A quel punto l'avevamo informata del fatto che in Vaticano qualcuno vociferasse di una relazione tra lei e Becciu. La Marogna aveva risposto scherzosamente: «Dai ti prego almeno quello siamo scivolati sulle bucce di banana. [] ho quarant' anni, avrai pure capito che vita che faccio, sono stanca, vado avanti e indietro, non mi reputo un cesso, però dai, ti prego io relazioni con i preti non ne ho mai avute, scusami, non ho fatto festini né in terrazze, né con personaggi, non mi piace fare le foto, mi piace fare il mio lavoro altamente discrezionale. Come mi puoi descrivere come una che si è approfittata di un prete per 500.000 euro?». Ma torniamo ai festeggiamenti a Pattada. Il 28 giugno 2018 Becciu è nominato cardinale da Papa Francesco e due mesi dopo ha visitato per la prima volta il suo paese con la porpora in testa. Nella locandina celebrativa della giornata si leggeva: «Ben tornato a casa Eminenza». La mattina del 29 agosto, in occasione della festa di Santa Sabina, l'ex numero tre della Segreteria di Stato ha impartito la benedizione alle storiche bandiere, patrimonio del territorio, e ha celebrato la messa. Poi ha salutato i compaesani e gli amici in un hotel del posto. Nelle immagini dell'evento che abbiamo trovato su Internet non abbiamo individuato la Marogna. Per la verità, pure lei, solitamente prodiga sui social di scatti delle sue vacanze, nell'occasione ha scelto il basso profilo: né immagini della festa patronale, né del cardinale. Una trasferta da vera 007.

Il Vaticano parallelo: lo scandalo Becciu svela una diplomazia autonoma da quella del Papa. L’indagine anticipata dall'Espresso si allarga e mira alla rete del Cardinale. Così oltre all'aspetto finanziario si scopre tutto un mondo di relazioni di cui papa Francesco era all'oscuro. Massimiliano Coccia su su L'Espresso il 16 ottobre 2020. L'arresto, qualche giorno fa, di Cecilia Marogna, esperta di intelligence e consulente della Segreteria di Stato, inaugura la fase due dell’inchiesta vaticana nata dallo scoop dell’Espresso che ha portato alle dimissioni il cardinale Angelo Becciu, già Sostituto alla Segreteria di Stato. La trentanovenne sarda, pagata 500 mila euro, tramite la sua società con sede in Slovenia, è considerata un perno importante della strategia attuata dal cardinale Becciu nei confronti di attori internazionali, componenti ostili interne alla Santa Sede. Alla Marogna viene contestato il reato di peculato, lo stesso che Papa Francesco ha rinfacciato all’ex cardinale, lo stesso che sembra essere il punto di partenza di questa inchiesta. Nelle stanze vaticane, c’è la certezza che l’indagine determinerà un prima e un dopo nella storia. Per la prima volta il punto di rottura è incarnato da un pontefice che non teme il pubblico giudizio sugli affari sporchi della Chiesa.

Non solo Cecilia, quante lady Becciu ci sono in Vaticano? Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. Alla fine ieri la storia della “dama” (presunta) del cardinale Angelo Becciu, alias Cecilia Marogna, sarda come lui, 39 anni, attualmente domiciliata a San Vittore (carcere) è atterrata su qualche quotidiano straniero. Una pagina intera per El Pais, un articolo breve sulla Frankfurter, un trafiletto sul cattolico La Croix. In precedenza soprattutto il Financial Times aveva ipotizzato operazioni finanziarie speculative con investimenti in “derivati”. Si vedrà. Nell’insieme la vicenda è molto e tutta italo-vaticana. In effetti di sicuro sappiamo che una signora che si chiama Cecilia Marogna, dal 2017 si è accreditata presso mons. Angelo Becciu, allora Sostituto della Segreteria di stato vaticana (numero 3 della gerarchia, dopo Papa e Segretario di stato) come esperta in geopolitica e sicurezza, capace a quanto pare di garantire una consulenza di alto profilo per tutelare gli interessi della Santa Sede nei più svariati scenari mondiali. E non si capisce a che serviva una consulente (una sola, poi!) quando la Gendarmeria vaticana ha rapporti con le polizie di mezzo mondo (oltre all’Italia). Misteri. Comunque come consulente avrebbe ricevuto 500mila, forse 600mila euro nel corso di due o tre anni. Il resto della storia è abbastanza oscuro, per il momento, sebbene si moltiplichino le carte e i rapporti visionati da diversi giornali e dunque non tanto riservati come dovrebbero essere. Di sicuro la signora è salita all’onore delle cronache subito dopo la tempestosa e irrituale e improvvisa defenestrazione del cardinale Becciu da parte del Papa. Ora sappiamo che è in corso un’indagine. Sicuramente da parte vaticana, da dove è partita la richiesta di arresto per peculato e avremo presto gli interrogatori dei magistrati italiani anche in relazione all’altra richiesta, quella di estradizione in Vaticano. Ci saranno dettagli maggiori e sicuri, non più le gole profonde susseguitesi finora. E comunque cominciando a scavare, e leggendo i vari giornali, soprattutto quelli che aderiscono all’area conservatrice-cattolica, scopriamo un po’ di tutto sul conto della “dama”. Intendiamoci: con il cardinale nessuno ha mai ipotizzato un “affaire”, semmai una spregiudicatezza di manovre economico-finanziarie al di là delle possibilità dei comuni mortali. In ogni caso ora apprendiamo di viaggi della “dama”, metà vacanza metà lavoro, in giro per il mondo (da Ibiza a Dubai), una moltitudine di account diversi sui profili social, dell’esistenza di un figlio e di un compagno, della ricerca di lavoro che coinvolse anche qualche politico a partire dal 2017, un appartamento affittato con la garanzia del cardinale e rate non pagate dello stesso, con la società immobiliare che chiede spiegazioni in Vaticano. E poi sono emersi in queste settimane dei rapporti – chissà se veri o millantati – con persone non propriamente specchiate: intermediari, faccendieri, forse massoni, e chi più ne ha più ne metta. Senza dimenticare almeno una società in Slovenia, forse di comodo, e acquisti di mobili tra cui ha colpito la fantasia dei giornalisti una poltrona Frau. Da notare che la Marogna, subito dopo la defenestrazione del cardinale Becciu non aveva lesinato interviste, dipingendosi appunto come una esperta consulente di alto valore. Una maniera per evitare di finire nel tritacarne mediatico. Tentativo nobile, però non riuscito. In un’intervista al Corriere della Sera la Marogna ha sostenuto di «aver costruito una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente per proteggere nunziature e missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche». Tuttavia non è chiaro l’uso di questi fondi e alcune fonti giornalistiche sostengono che siano stati usati anche per motivi personali (la poltrona…). Nell’intervista, alla domanda se potesse utilizzare i fondi anche in chiave personale, per scopi riservati la Marogna ha risposto: «Sì, potevo farlo». La storia comunque presenta tratti tipici. Vediamo un po’. Prima di tutto le informazioni arrivate ai giornali vengono certamente dalla Santa Sede e quindi fanno probabilmente parte di una orchestrazione con qualche secondo fine. Capiremo di più nell’immediato futuro. Un altro aspetto riguarda la gestione difficoltosa del denaro da parte di alti prelati. In vicende come queste ritornano ciclicamente esperti che si presentano come tali e non lo sono così tanto, insieme a un uso disinvolto dei fondi, senza chiedere risultati e rendicontazioni. E qui infatti troviamo forse un risvolto positivo di tutta la storia. Cioè ora, forse, finalmente, si potrà cercare di mettere ordine nell’universo della moneta elettronica e cartacea che gravita Oltre Tevere. Mons. Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del Patrimonio (Apsa) del Vaticano – l’ente che amministra i beni mobili e non solo – ha puntualizzato la questione, pesando bene le parole, parlando al Corriere della Sera. «Premesso che non possiamo cancellare il peccato originale, stiamo facendo tutto quanto è umanamente possibile, dietro forte impulso del Papa, per creare le condizioni perché cose del genere non si ripetano». Il Papa ha nominato una Commissione materie riservate che «dovrà decidere di volta in volta se concedere il segreto di Stato agli atti in materia giuridica o economica dei dicasteri, compresa la Segreteria di Stato», spiega monsignor Galantino. E così finisce l’era dell’autonomia amministrativa anche della Segreteria di stato e a quanto pare non ci saranno più fondi riservati. Inoltre si attueranno misure «per rendere più razionale l’amministrazione e più tracciabili tutte le operazioni». Infine il presidente dell’Apsa fa notare che «è mortificante prendere atto di certe manchevolezze, ma sono cose che vengono da lontano e adesso siamo incoraggiati dai passi che stiamo facendo, dalla trasparenza che ha voluto Papa Francesco sulla base di quanto Benedetto XVI aveva iniziato. Le cose stanno cambiando». Speriamo. E come dice la nota canzone di De André, “Cominciò con la luna sul posto/ E finì con un fiume di inchiostro/È una storia un poco scontata. È una storia sbagliata”.

Gianluca Paolucci per ''la Stampa'' il 15 ottobre 2020. La Segreteria di Stato sapeva tutto da tempo. Sapeva almeno dal 2016 che il fondo Athena di Raffaele Mincione presentava una serie di aspetti problematici legati agli investimenti in conflitto d'interesse e alla opacità della gestione. E ha sempre saputo anche degli investimenti fatti dal fondo maltese Centurion, da Italia Independent al film Rocketman sulla vita di Elton John. Fondo nel quale doveva entrare anche monsignor Mauro Carlino, uno dei protagonisti dello scandalo, appena due mesi prima del suo siluramento. Nonostante gli allarmi però sono passati quasi due anni prima di decidere di uscire da Athena prendendo la proprietà del palazzo di Sloane Avenue e due anni e mezzo per arrivare all'avvio dell'indagine che ha causato e continua a causare un vero e proprio terremoto in Vaticano. La genesi del terremoto è una lettera del 25 ottobre 2012, firmata («irritualmente», dice una delle fonti interpellate) da Angelo Becciu, con la quale l'allora sostituto chiede ai consulenti della Segreteria di Stato di valutare «in via strettamente confidenziale e riservata» la fattibilità dell'investimento di 250 milioni dell'obolo di San Pietro nel petrolio angolano della Falcon Oil di Antonio Mosquito. Prendendo contatto con i manager della Falcon Oil e «definendo ogni possibile garanzia per il buon esito dell'operazione, che dovrà essere certa, garantita e discreta». Non è andata così, come noto, soprattutto per la discrezione. Sta di fatto che quell'investimento non viene giudicato fattibile e i fondi vengono dirottati sulla Wrm di Mincione. Una serie di documenti visionati da La Stampa mostrano come fin dal maggio del 2016 Enrico Crasso, già gestore «di fiducia» dei fondi della Segreteria, avesse scritto a Alberto Perlasca, all'epoca a capo dell'Ufficio amministrativo della Segreteria, per metterlo in guardia sulle opacità della gestione del fondo Athena, sul quale erano confluiti nel dicembre 2014 circa 250 milioni di dollari della Segreteria di Stato. Lo stesso Crasso che il 12 gennaio 2017 scrive, su richiesta della Segreteria, una nota analitica sulla performance di Athena indirizzata a Perlasca e a Fabrizio Tirabassi, ex funzionario della Segreteria e uno dei protagonista dello scandalo. Nella nota si segnala «l'anomalia» di una gestione caratterizzata da «utilizzo dei fondi del cliente (cioè del Vaticano) per i fini del gestore (ovvero la società di Mincione)». Come i prestiti obbligazionari emessi da società di Mincione, che «sta pagando di interessi meno di una multinazionale europea» o un'obbligazione con sottostante azioni Bpm che di fatto erano prestiti alla stessa società di gestione. E ancora come Athena avesse «trascurato» l'invito a concordare preventivamente le scelte d'investimento e come tutto ruotasse intorno - già dalla fine del 2016 - al buon esito della vendita del palazzo di Sloane Avenue. Eppure, il caso dentro alle mura vaticane esploderà solo nell'estate del 2018, quando a Becciu subentra Edgard Pena Parra. L'indagine parte però solo l'anno successivo. Per deflagrare poi nell'autunno del 2019, quando del caso dell'investimento londinese scrive l'Espresso. Il fondo Centurion, dopo aver cambiato gestori e società di gestione, continua a portare avanti i propri investimenti. Come quello in un palazzo di via Quarnaro a Genova, dal quale è uscito nei mesi scorsi con una ottima plusvalenza sui 2, 5 milioni investiti. Con una lettera del 29 luglio 2019 Pena Parra, che dall'agosto 2018 ha preso il posto di Becciu, dà il suo assenso all'ingresso di don Mauro Carlino, ex segretario di Becciu, nel board degli «uditori» del fondo Centurion, rinominato e trasferito in Lussemburgo. E di Luca Del Fabbro, allora presidente di Snam, nel team di gestione (in conflitto d'interesse, perché legato a uno degli investimenti del fondo, il sito Abbassalebollette). Il 2 settembre, Dal Fabbro e Carlino si trovano per parlare dell'investimento nella Giochi Preziosi. Il trasferimento in Lussemburgo non si farà. Un mese dopo, il 2 ottobre, Carlino e Tirabassi vengono messi alla porta: lo scandalo esplode.Dopo un anno, restano ancora molti punti oscuri.

Michela Allegri per ''Il Messaggero'' il 15 ottobre 2020. I soldi usciti dalle casse della Segreteria di Stato e finiti sui conti di società riconducibili alla manager cagliaritana Celilia Marogna sarebbero molti di più di quelli emersi finora. Non solo bonifici per 500mila euro, destinati a presunti fini umanitari e in parte utilizzati per sedute di shopping nelle boutique di lusso. Dagli accertamenti della Gendarmeria sarebbe emerso che una somma altrettanto consistente sarebbe uscita dalle casse vaticane e sarebbe stata bonificata a favore della donna. O meglio: sui conti di società a lei riconducibili e considerate sospette. Circa un milione di euro, quindi. È questa la cifra sulla quale stanno indagando gli inquirenti, che stanno cercando il denaro nelle casse di almeno tre società che sarebbero vicine alla Marogna: una in Slovenia, una in Inghilterra e un'altra, probabilmente, in Germania, visto che una parte del denaro sarebbe stata accreditata su un conto tedesco. Ma sul punto gli accertamenti sono ancora in corso. La Marogna è stata fermata due giorni fa a Milano dalla Finanza, su richiesta del Vaticano che aveva spiccato un mandato d'arresto internazionale coinvolgendo anche l'Interpol. Il promotore di giustizia Gian Piero Milano e l'aggiunto Alessandro Diddi la accusano di peculato per distrazione di beni e appropriazione indebita aggravata. La Marogna non si sarebbe mossa da sola: nel capo di imputazione c'è scritto che avrebbe agito in concorso con persone allo stato ignote. La donna si era accreditata in Vaticano come esperta di questioni geopolitiche e mediazioni internazionali. Negli ultimi anni avrebbe acquisito la fiducia dell'ex sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, che ora sostiene di essere stato raggirato. Proprio grazie all'appoggio del cardinale - che in settembre, su richiesta di Papa Bergoglio, si è dimesso da prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e ha rinunciato ai diritti del cardinalato - avrebbe ricevuto dalla Santa Sede il denaro. I bonifici sarebbero stati firmati quando a Becciu era già succeduto come Sostituto agli Affari generali monsignor Edgar Pena Parra, ma sarebbe stato proprio l'ex prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi a chiedere a monsignor Alberto Perlasca, all'epoca a capo dell'ufficio amministrativo della SdS, di onorare gli accordi con la Logsic, la società della Marogna con sede a Lubiana. La causale dei bonifici era sempre la stessa: «Operazioni umanitarie». Presunte missioni segrete in Asia e Africa, comprese trattative per la liberazione di missionari rapiti. Invece, parte dei soldi sarebbe stata utilizzata per comprare borsette, cosmetici e altri beni di lusso. La manager cagliaritana si trova ora nel carcere di San Vittore. A breve dovrà sottoporsi all'interrogatorio di convalida. Poi partirà la procedura per l'estradizione in Vaticano. A pronunciarsi, in una scelta senza precedenti, sarà la Corte d'appello di Milano. Entro cinque giorni dalla decisione sulla convalida dell'arresto e sull'eventuale misura cautelare, la Marogna dovrà essere interrogata dai magistrati della quinta sezione penale d'appello. Nel frattempo, attraverso il Ministero della Giustizia, dovranno arrivare dal Vaticano gli atti dell'indagine a carico della manager.

Cecilia Marogna, Dagospia: "In Vaticano ospite di Becciu nell'appartamento sopra Papa Francesco, poi in vacanza col cardinale". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. Quello che i giornali non scrivono su Cecilia Marogna. Come al solito è Dagospia a sganciare la bomba velatamente piccante, stavolta sulla dama di fiducia del cardinale Angelo Becciu che sta letteralmente facendo tremare il Vaticano. "Chissà come mai nessuno dei giornali ha ancora scritto che lady Marogna, residente a Milano, quando atterrava a Roma andava a vivere in un palazzo apostolico del Vaticano, ospite di Becciu (al piano superiore c'è la dimora di Bergoglio)". Non solo, prosegue l'indiscreto di Dago: "La Mata Hari della mutua ha trascorso le vacanze estive in Sardegna graditissima ospite di casa Becciu, lo stesso cardinale che si sente da lei raggirato…". La Marogna è stata arrestata a Milano con l'accusa di aver ricevuto bonifici per 500mila euro dalla Santa Sede per operazioni segrete umanitarie nel Terzo Mondo e finiti  in gran parte nell'acquisto di borsette, cosmetici e beni di lusso.

DAGONOTA il 15 ottobre 2020. Chissà come mai nessuno dei giornali ha ancora scritto che lady Marogna, residente a Milano, quando atterrava a Roma andava a vivere in un palazzo apostolico del Vaticano, ospite di Becciu (al piano superiore c'è la dimora di Bergoglio). Non solo: la Mata Hari della mutua ha trascorso le vacanze estive in Sardegna graditissima ospite di casa Becciu, lo stesso cardinale che si sente da lei raggirato…

Monica Serra per la Stampa il 15 ottobre 2020. Non avrebbe fatto tutto da sola. Il promotore di giustizia vaticana, l' equivalente del nostro pm, accusa Cecilia Marogna, la collaboratrice del cardinale Becciu arrestata l' altra sera, di appropriazione indebita aggravata per mezzo milione di euro «in concorso con ignoti». Inoltre, secondo gli inquirenti, la consulente cagliaritana avrebbe agito sulla base di un «mandato amministrativo» ricevuto da un organo della Santa Sede. Su questo mandato si fonda la seconda accusa, quella di peculato, che martedì sera l' ha condotta al carcere di San Vittore. La manager di 39 anni, che i giornali hanno definito «la dama del cardinale», il dimissionario Angelo Becciu, ex sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato vaticana, è stata fermata dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf non lontano dal tribunale, per strada e non in un appartamento come si era saputo in un primo momento. I finanzieri, che stavano già indagando sul filone milanese dell' inchiesta, nato da una rogatoria dello scorso luglio, monitoravano la donna da qualche tempo, sapevano di trovarla lì. Perché, nel palazzo in cui stava entrando poco prima di essere fermata, vive il suo compagno. Gli uomini della Finanza l' hanno arrestata in base a un provvedimento di cattura che poche ore prima la gendarmeria vaticana aveva inserito nel canale Interpol e diramato così su tutto il territorio nazionale. Marogna ha sempre respinto le accuse, presentandosi come un' esperta di relazioni diplomatiche, una «007» in grado di tutelare la Santa Sede in contesti difficili, capace di «costruire una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente, di proteggere nunziature e missioni da rischi ambientali e cellule terroristiche». Per farlo, avrebbe ricevuto dalla Segreteria di Stato mezzo milione di euro, tramite una società, la Logistic doc, con sede in Slovenia. Denaro che, però, secondo le accuse sarebbe stato in parte speso in acquisti di lusso, borsette Prada, una poltrona Frau. L' arresto della 39enne sarà convalidato dalla quinta sezione della Corte d' appello già nelle prossime ore. Una decisione prevedibile dal momento che, per l' accusa di peculato, anche in Italia è previsto l' arresto. Poi, nei successivi cinque giorni, si terrà il suo «interrogatorio di identificazione», nel corso del quale Marogna, deciderà se opporsi all' estradizione. E solo dopo si aprirà, sempre davanti alla Corte, il procedimento. Al termine, il provvedimento potrà essere impugnato in Cassazione. Ecco perché, prima che la manager arrivi davanti ai giudici della Santa Sede, potrebbero trascorrere mesi.

Giacomo Amadori per "La Verità" il 17 ottobre 2020. Sul profilo Facebook di Cecilia Marogna, la sedicente analista geopolitica arrestata su ordine del Vaticano, ha pubblicato foto che paiono realizzate all'interno della Segreteria di Stato, dei giardini vaticani e pure dell'appartamento/ufficio del cardinale Angelo Becciu. Non solo quello dentro alla Santa Sede, ma pure quello di Pattada (Sassari), paese d'origine del prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi.Ma a colpirci è stato soprattutto uno splendido scorcio di Golfo Aranci, a cui la presunta Mata Hari sarda, il 16 agosto 2017, aveva aggiunto un enigmatico commento: «Chi ti vuole bene condivide il suo paradiso con te!». Il riferimento non sembra alla Sardegna, essendo sia Becciu che la Marogna originari dell'isola, ma a quella precisa località del Golfo, conosciuta come Spiaggia bianca. In un'altra foto, scattata nel medesimo luogo l'estate scorsa, si vede Becciu dire messa. Davanti a lui, una donna con vestito a fiori che secondo le nostre fonti sarebbe proprio Ci Emme, come è conosciuta sui social la Marogna. A partecipare alla funzione ci sono almeno altre dieci persone. Una di queste è Antonio Satta, ex deputato ed ex vicesegretario dell'Udeur di Clemente Mastella, oggi sindaco di Padru in rappresentanza dell'Unione popolare cristiana: «Ad agosto il cardinale è solito passare qualche giorno di vacanza in questa zona e la domenica dice messa in uno spazio vicino al mare». Becciu non ha una casa di proprietà, ma soggiorna in un appartamento in un comprensorio costruito da imprenditori di Pattada, suo paese d'origine. «I costruttori non sono parenti del cardinale. Se paga l'affitto? Non lo so. Le posso dire che la sua casa non ha la vista sul mare e dista 500-600 metri dal luogo della messa». Il sindaco tiene a precisare di avere grande stima per Becciu. In attesa di capire se davvero il prelato sia stato truffato dalla sua consulente, ieri la Marogna si è presentata davanti alla quinta sezione penale della Corte d'Appello di Milano per essere identificata dopo la convalida dell'arresto avvenuta mercoledì e ha rifiutato di essere estradata nello Stato del Vaticano per essere processata con l'accusa di appropriazione indebita aggravata e peculato. In passato la Marogna era già stata denunciata per furto a Cagliari nel 2002 e per appropriazione indebita l'8 marzo 2010. A presentare querela presso la stazione dei carabinieri di Stagno (Livorno) era stato Arcangelo Rizzuti, liquidatore della Master Spa, ditta specializzata nella produzione di telefonia fissa per la Telecom e distributore nazionale della Nokia. La Marogna, venditrice esterna della ditta, non aveva reso auto aziendale, pc, cellulare e altro materiale di cui l'azienda le aveva chiesto la restituzione. La donna all'epoca risultava residente a Cagliari ma, in riferimento alla querela, «è risultata irreperibile» e quindi, almeno inizialmente, non c'è stata la nomina di un avvocato. Non sappiamo come sia finito il procedimento penale. Dopo due lustri Rizzuti non ha più memoria del fatto: «Mi chiamarono come liquidatore, ma di quella denuncia non ricordo. L'azienda poi è fallita. Forse per sapere come sia finita la vicenda bisognerebbe contattare il curatore fallimentare». In ogni caso, dieci anni dopo, la Marogna è di nuovo accusata di appropriazione indebita. Per quanto riguarda il peculato, invece, secondo il codice penale vaticano per commettere il reato occorre essere «il pubblico ufficiale, il pubblico ufficiale straniero o il funzionario di un'organizzazione internazionale pubblica, che sottrae, si appropria indebitamente o usa in modo illecito, a vantaggio proprio o di altri, qualsiasi bene, fondo o valore pubblico o privato o qualsiasi altra cosa di valore che sia stata a lui affidata a causa delle sue funzioni». Costui è punito con la reclusione da tre a cinque anni, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici e una multa non inferiore a euro 5.000. Se il danno è lieve o interamente risarcito prima dell'inizio del giudizio, la interdizione dai pubblici uffici è temporanea e la reclusione è da uno a tre anni. La donna è considerata un pubblico ufficiale a causa della lettera di accreditamento del 17 novembre 2017, firmata dal cardinale Becciu. Nel documento si legge: «Il sottoscritto, Sua eccellenza monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, dichiara di conoscere la signora Cecilia Marogna e di riporre in Lei fiducia e stima per la serietà della sua vita e della sua professione. La signora Marogna presta servizio professionale come analista geopolitico e consulente relazioni esterne per la Segreteria di Stato-sezione Affari generali». I promotori di giustizia vaticani contestano l'uso dei 575.000 euro trasferiti dalla Segreteria di Stato sul conto della società slovena Logsic d.o.o., aperta dalla signora nel dicembre del 2018. Un testimone ha anche accusato la Marogna di aver consigliato alla Santa Sede di inviare 550.000 euro a una società di sicurezza e intelligence con sede in Inghilterra e a Dusseldorf, il gruppo Inkerman. In passato la Marogna, a quanto risulta alla Verità, avrebbe cercato di farsi accreditare, senza fortuna, presso una società impegnata nello stesso settore, ma con quartier generale in Svizzera, il Brasidas group.Adesso la decisione se consegnare o meno la Marogna alla giustizia della Santa Sede spetta ai giudici della Corte d'Appello e, in caso di ricorso, a quelli della Suprema Corte di Cassazione.

Dagospia il 18 ottobre 2020. Dago-Intervista ad Alessandro Gentiloni Silveri, penalista esperto di questioni internazionali.

Avvocato, è frequente l’estradizione dall’Italia al Vaticano di cittadini italiani?

«A quanto consta, questo sarebbe il primo caso. Il motivo si trova nel peculiare assetto dei rapporti tra Italia e Stato Città del Vaticano in materia di giustizia penale. L’articolo 22 del Concordato dispone che le persone responsabili di un reato in territorio vaticano vengano punite in Italia dietro apposita richiesta della Santa Sede, ma aggiunge che ciò debba avvenire «senz’altro» se il colpevole si sia "rifugiato" in Italia. Questa regola, di fatto, supera in radice la necessità di richiedere l’estradizione, pure teoricamente prevista dal trattato. Senonché, il termine rifugiato è stato interpretato dalla giurisprudenza vaticana con rigore, escludendo che la presenza del colpevole in Italia dettata da ragioni di mero fatto possa valere a far scattare la giurisdizione italiana. È verosimilmente per questo motivo che, nel caso di specie, le autorità d’Oltretevere hanno assunto l’inedita decisione di chiedere l’estradizione per processare il presunto colpevole in Vaticano. Viceversa, sono note diverse richieste di estradizione rivolte allo Stato Città del Vaticano, dall’Italia così come da altri Stati».

Cosa si intende per "estradizione" di una persona?

«L’estradizione è la procedura attraverso la quale una persona viene consegnata da uno Stato -definito "richiesto" o "di rifugio"- ad un altro Stato -definito "richiedente"- a causa del suo coinvolgimento in uno o più reati. Il fondamento teorico dell’estradizione è di impedire che l’autore di un illecito penale si sottragga alla giustizia del Paese dove si è verificato il fatto fuggendo all’estero, dove le Autorità di quello Stato non possono agire perché violerebbero la sovranità dello Stato di rifugio. Si tratta di un meccanismo giuridico che ha radici antiche ed è praticato, con sempre più limitate eccezioni, pressoché in tutto il mondo, con modalità analoghe nei diversi Stati».

Da cosa è regolata una procedura di estradizione?

«Nella maggioranza dei casi, l’estradizione è regolata da veri e propri trattati internazionali, bilaterali o multilaterali -ad esempio quello tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea- debitamente ratificati, attraverso i quali il Paese richiedente e quello richiesto si impegnano reciprocamente ad estradare e stabiliscono, oltre alle condizioni per la consegna, le modalità dell’intera procedura. Nell’ambito europeo, inoltre, l’esigenza di favorire la consegna di persone e di velocizzarne l’esecuzione ha condotto all’adozione, nel 2004, di una snella procedura che prende il nome di Mandato di Arresto europeo, che ha soppiantato l’estradizione».

Per venire estradati è necessario essere stati già condannati?

«No. La consegna può essere domandata o perché la persona interessata, essendo già stata condannata in via definitiva nel Paese richiedente, deve scontare la pena -ed allora si parla di estradizione esecutiva- oppure perché deve ancora essere assoggettata ad un processo affinché vengano accertate le sue eventuali responsabilità. È questo il caso di Cecilia Marogna: l’estradizione si definisce processuale. Tuttavia, è necessario che a carico dell’interessato sia stato emesso, nel Paese richiedente, un mandato di cattura. Nel caso di specie, risulta che le autorità vaticane abbiano richiesto l’arresto e la consegna in data 13 ottobre 2020».

Come si sviluppa la procedura?

«In due fasi. La prima si svolge davanti all’autorità giudiziaria dello Stato richiesto. Per l’Italia, è competente in prima istanza la Corte d’Appello e poi, in caso di ricorso, la Corte di Cassazione. L’obiettivo di questa prima fase, definita giurisdizionale, è di stabilire se esistono le condizioni giuridiche per consegnare la persona richiesta. All’atto pratico, si tratta di un vero e proprio procedimento penale, che tuttavia non ha come obiettivo determinare la colpevolezza o l’innocenza, ma solamente verificare se tutti i requisiti legali per l’estradizione sono soddisfatti. La seconda fase scatta solamente se i Giudici hanno emesso una sentenza favorevole all’estradizione, ed ha natura politico-amministrativa. L’autorità competente in questo caso è il Ministro della Giustizia, che emette un decreto di concessione o rigetto dell’estradizione sulla base di motivazioni di opportunità politica, oppure di tutela della sovranità, sicurezza, o di altri interessi essenziali dello Stato italiano. Il Governo, quindi, ha il potere di negare una domanda di estradizione di cui le Corti italiane hanno riconosciuto la legittimità giuridica, ma non l’inverso».

Le autorità italiane quindi non si pronunceranno sulla fondatezza delle accuse vaticane?

«Non con il criterio dell’«oltre ogni ragionevole dubbio», che in un processo penale italiano ordinario è necessario per ottenere una condanna. Se non esiste un trattato di estradizione tra i due Paesi, o se il trattato nulla dispone sul punto, come avviene per il Concordato, i Giudici italiani devono accertare l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e questo impone una valutazione accurata degli elementi di presunta responsabilità della persona richiesta per il reato oggetto di estradizione. Gli elementi in questione vengono presentati dal Paese richiedente insieme alla richiesta di estradizione ed eventualmente smentiti da attività difensive svolte in Italia. Inoltre, per un principio generale, il fatto per cui viene domandata l’estradizione deve costituire reato sia per l’ordinamento del Paese richiedente che per quello del Paese di rifugio».

Per quali altri motivi giuridici l’estradizione potrebbe venire rifiutata?

«L’estradizione può costituire il veicolo attraverso cui regimi dittatoriali o non democratici tentano di ottenere il rimpatrio di dissidenti o oppositori politici. Esistono, sullo scenario internazionale, esempi di Stati dove vengono fabbricate accuse penali poi poste alla base di richieste di estradizione. Per impedire questi fenomeni, la legge prevede che le Corti italiane rifiutino la consegna di persone se il reato per cui si procede ha natura politica, oppure se esiste la ragionevole convinzione che il procedimento penale sia uno strumento di persecuzione del singolo individuo per motivi politici, religiosi, di razza, condizioni personali, solo per citarne alcuni. Anche al di là di questi fenomeni, l’Italia -così come la maggior parte delle democrazie- non può estradare persone se, nel Paese di destinazione, rischiano di subire un processo non equo oppure trattamenti inumani e degradanti negli istituti penitenziari dove potrebbero scontare la condanna. Infine, non si può far luogo ad estradizione se per gli stessi fatti pende in Italia un procedimento penale, oppure c’è già stata condanna».

Il Vaticano potrebbe intervenire nel procedimento italiano, perorando le ragioni a favore dell’estradizione?

«Lo Stato richiedente può partecipare alla procedura di estradizione attraverso un difensore abilitato al patrocinio in Italia, purché l’intervento venga formalizzato entro certi termini e, soprattutto, esista reciprocità, ovverosia il medesimo diritto di intervento venga riconosciuto alla Repubblica Italiana nello Stato Città del Vaticano in casi analoghi».

Durante il procedimento, la persona interessata è trattenuta in carcere?

«Dipende da due fattori: una richiesta in tal senso da parte del Ministero della Giustizia, sulla base di sollecitazione dello Stato estero, e la valutazione rimessa all’autorità giudiziaria italiana circa il grado delle esigenze cautelari, con particolare riguardo all’esigenza di garantire che la persona non si dia alla fuga durante il procedimento. Un fattore importante è quello del radicamento della persona nel Paese di rifugio: il rischio di fuga di un cittadino residente, che lavora o ha consolidati legami familiari è molto inferiore a quello di uno straniero che è stato arrestato in Italia magari casualmente, perché si trovava a transitare per un breve periodo sul nostro territorio. A seconda, quindi, della valutazione della Corte che procede, il regime cautelare potrà andare dalla custodia in carcere, a tutte le altre misure meno afflittive previste dal codice di procedura, per esempio arresti domiciliari, obbligo di firma, divieto di espatrio. Oppure il processo potrà svolgersi con l’interessato in stato di libertà».

La Corte d’Appello di Milano ha già disposto la custodia cautelare. È una decisione definitiva?

«L’arresto è avvenuto in Italia perché le autorità vaticane, come di prassi in questi casi, hanno diramato il mandato di cattura anche all’estero. La Corte d’Appello competente per territorio ha convalidato l’arresto e, valutati gli indizi di legge, in particolare valorizzando la gravità dei reati contestati Oltretevere, ha ritenuto che il pericolo di fuga potesse essere neutralizzato solamente con la detenzione in carcere. La decisione può essere impugnata con un ricorso alla Corte di Cassazione, che si pronuncerebbe, in tempi relativamente brevi, solamente sulla situazione cautelare e non sulla richiesta di estradizione. Nel frattempo, comunque, la difesa può sempre sottoporre istanze di modifica del regime cautelare, motivate però da fatti nuovi rispetto a quelli già valutati».

Quali sono i tempi di una procedura estradizionale?

«Dipende dal calendario stabilito dalla Corte d’Appello che procede, e poi della Corte Suprema se vi è ricorso alla stessa. Se l’estradando rimane in stato di custodia cautelare, i tempi si restringono. Solitamente, in tali casi l’intera fase giurisdizionale di una richiesta di estradizione dura circa sei-otto mesi. Una volta che sia stata emessa una decisione favorevole alla consegna, il Ministro della Giustizia deve adottare il proprio decreto entro quarantacinque giorni».

Il fatto che Cecilia Marogna sia cittadina italiana, e non vaticana, impedisce l’estradizione?

«No. Diversi Stati prevedono il divieto assoluto di estradare dei propri cittadini, o significative limitazioni alla possibilità di consegnarli, ma l’Italia non è tra questi. Si tratta di retaggi storici antiquati, che derivano dall’epoca in cui i soldati di ventura rischiavano, una volta rientrati in patria, di venire riconsegnati al Paese dove avevano combattuto per rispondere di reati compiuti in battaglia. Alcuni trattati internazionali, tuttavia, ancora prevedono limitazioni all’estradizione, o divieti, basati sulla cittadinanza, ma questi vincoli spesso vengono bilanciati dalla clausola aut dedere aut iudicare, vale a dire che in caso di rifiuto della consegna per ragione di cittadinanza, lo Stato richiesto, per evitare l’impunità del presunto colpevole, deve processarlo nel proprio territorio. Lo Stato di cittadinanza, in questo modo, assume responsabilità per il comportamento dei propri cittadini all’estero».

Un’eventuale condanna comporterebbe la permanenza nelle carceri vaticane?

«Non necessariamente. Nel gennaio 2019 la Santa Sede ha ratificato un’importante convenzione internazionale multilaterale sul trasferimento delle persone condannate. Il trattato prevede che, se un cittadino italiano deve scontare una pena detentiva all’estero, in un Paese firmatario della convenzione, ne può essere disposto il trasferimento nello Stato di cittadinanza, così che l’esecuzione della pena avvenga nel contesto socio-familiare di riferimento e favorisca il reinserimento del condannato».

Rogna giuridica (ANSA il 30 ottobre 2020) - Torna libera e con obbligo di firma Cecilia Marogna, la manager arrestata il 13 ottobre nell'indagine vaticana sull'ex cardinale Angelo Becciu. Lo ha deciso la Corte d'Appello di Milano, come riferito dai legali dello studio Dinoia, che la assistono. Marogna, la 39enne cagliaritana coinvolta nell'indagine sull'ex numero due della Segreteria di Stato della Santa Sede, Angelo Becciu (anche lui indagato), è stata scarcerata dopo essere finita a San Vittore il 13 ottobre, arrestata a Milano, tramite Interpol, su mandato di cattura delle autorità vaticane con le accuse di peculato e appropriazione indebita aggravata. Due giorni fa, davanti ai giudici della quinta penale d'appello (presidente del collegio Franco Matacchioni) era stata discussa l'istanza presentata dai legali dello studio Dinoia, che avevano chiesto di farla tornare libera o di disporre quantomeno i domiciliari. I giudici hanno deciso la scarcerazione ma con obbligo di firma. La Procura Generale aveva dato parere negativo alla scarcerazione della donna ravvisando il pericolo di fuga e la mancanza di un indirizzo preciso tra Milano e la Sardegna, fattore che ostacolava l'eventuale concessione dei domiciliari. Uno dei difensori, l'avvocato Fabio Federico, aveva contestato "alla radice" l'arresto che era stato convalidato peraltro dalla stessa Corte con conseguente misura cautelare in carcere, oggi revocata. Secondo il legale, che ha citato l'articolo 22 dei Patti Lateranensi, Marogna "non poteva essere arrestata dato che l'accordo tra Italia e Vaticano consente l'estradizione dal Vaticano all'Italia, ma non quella dall'Italia al Vaticano".  Per la difesa, poi, non sussisteva nemmeno "il pericolo di fuga", poiché il suo arresto è avvenuto "sotto casa mentre stava andando al supermercato". I giudici hanno deciso, in pratica, che le esigenze cautelari possono essere tutelate con la sola misura dell'obbligo di firma. Va avanti, intanto, il procedimento sull'eventuale estradizione (udienza non ancora fissata). Marogna, che qualche giorno fa non aveva dato il consenso alla sua consegna, secondo la ricostruzione della magistratura d'Oltretevere, avrebbe usato parte del mezzo milione che avrebbe ricevuto per operazioni segrete umanitarie in Asia e Africa, per l'acquisto di borsette, cosmetici e altri beni di lusso. Somma che la donna, che si è definita specializzata in relazioni diplomatiche in contesti difficili, ha ammesso di aver ricevuto spalmata su quattro anni e che, a suo dire, includeva il suo "compenso, i viaggi, le consulenze" effettuate.

(ANSA il 30 ottobre 2020) - "La difesa ha introdotto una complessa tematica in ordine alla possibilità di concedere l'estradizione" di Cecilia Marogna, "relativamente alla quale si intravedono profili di apprezzabile sostenibilità, certamente suscettibile di ulteriore e doverosa valutazione nella sede di merito, allorché verrà esaminata la domanda di estradizione formulata dalla Santa Sede". Lo scrive la Corte d'Appello di Milano nell'ordinanza con cui ha scarcerato la manager 39enne coinvolta nell'inchiesta vaticana su Angelo Becciu. La difesa aveva sostenuto che Marogna "non poteva essere arrestata dato che l'accordo tra Italia e Vaticano consente l'estradizione dal Vaticano all'Italia, ma non quella dall'Italia al Vaticano". I giudici, in sostanza, nell'ordinanza spiegano che non è scontato che verrà concessa l'estradizione, ma che il tema introdotto dalla difesa dovrà essere valutato nel procedimento. Scarcerando Marogna, la Corte (Matacchioni-Arnaldi-Siccardi) non ha accolto la richiesta della Procura generale che chiedeva il mantenimento della custodia in carcere "conformemente alla sollecitazione del Ministero della Giustizia". La Corte, poi, fa notare che Marogna "è cittadina italiana e vanta un indubbio radicamento sul territorio nazionale", essendo anche "madre di una figlia minorenne". Dunque, per i giudici la "esigenza di garantire in concreto che la persona della quale è domandata l'estradizione", di cui "sono documentati gli interessi coltivati nella vicina Slovenia", non "si sottragga all'eventuale consegna" può essere tutelata da "misure cautelari meno afflittive". Da qui l'obbligo di firma e non la custodia in carcere, la "cui necessità non è stata, peraltro, al momento nemmeno dimostrata". Marogna avrà l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nella stazione dei carabinieri "competente per il domicilio che verrà eletto all'atto della scarcerazione" nei giorni "di lunedì, mercoledì e venerdì". I giudici hanno anche disposto "il divieto di espatrio" e la "consegna" alle autorità di polizia "del passaporto".

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2020. Il no della Corte d' appello di Milano al carcere per Cecilia Marogna mette anche in dubbio la possibilità di un' estradizione in Vaticano della cagliaritana protagonista della vicenda che ha travolto l'ex numero due della Segreteria di Stato Angelo Becciu, il quale per questa storia si è visto togliere dal Papa la porpora cardinalizia. La donna lascia San Vittore dopo 17 giorni perché non è stata dimostrata la «necessità» del carcere per una madre «di una figlia minorenne» molto radicata in Italia. Per scongiurare una fuga allora è sufficiente che si presenti tre volte la settimana ai Carabinieri per i giudici che, accogliendo le richieste dei difensori, scrivono che ci sono «profili di apprezzabile sostenibilità» della loro tesi secondo la quale i Patti Lateranensi che regolano i rapporti tra Italia e Santa Sede non consentono che un cittadino italiano sia estradato in Vaticano. Questione che per la magistratura vaticana sarebbe, invece, superabile grazie alla convenzione Onu contro la corruzione sottoscritta dai due Stati. «È un atto di giustizia», esultano gli avvocati Maria Cristina Zanni e Fabio Federico, che fanno parte dello studio dell' avvocato Massimo Dinoia, denunciando che Marogna non ha ancora potuto leggere il mandato di cattura straniero per il quale è stata arrestata con l' accusa di appropriazione indebita aggravata contro la Santa Sede, perpetrata utilizzando in modo illecito somme di denaro concessele per uso istituzionale, cospirando con altri individui». La difesa ha insistito sull' assenza delle esigenze cautelari ironizzando sulla rapidità della procedura Oltretevere: in «soli quattro (dicasi quattro!) giorni» ci sono stati in Vaticano deposito dell' informativa della Gendarmeria sulla vicenda, esame della magistratura e ricerche infruttuose della donna che, però, tra il 9 e il 12 ottobre era a casa a Milano per il fine settimana. Sarebbe bastato chiedere informazioni ai suoi «referenti», Becciu e il Segretario di Stato Piero Parolin, che in quei giorni erano in contatto con lei, affermano gli avvocati. Il 7 ottobre Marogna scrive un' email a Parolin chiedendo un incontro per informarlo «degli sviluppi delle attività svolte» affermando di aver «raggiunto la definizione della risoluzione pacifica delle 3 persone (incarico affidatomi dal precedente Generale Capo), l' ultima decade di agosto e immediatamente informato della fase ultima il rappresentante attualmente in carica al vertice dell' apparato estero dei Servizi di Sicurezza (Aise) il Gen. Caravelli, ma da parte sua non ho più ricevuto notizie». Si riferisce alle trattative per la liberazione di una suora rapita in Colombia e di altri due religiosi da ottenere con mezzo milione di euro del Vaticano che, invece, per l' accusa avrebbe in parte speso in borsette firmate e altri beni di lusso. «Può contattarmi per telefono per concordare data e orario incontro», conclude. La riposta di Parolin arriva il 12 ottobre, 24 ore prima del mandato di arresto: «La ringrazio per la sua email del 7 ottobre u.s., della quale ho preso nota con ogni attenzione. Circa la sua richiesta di incontro, tuttavia, non sono in grado per il momento di venirle incontro».

Lady Becciu torna libera "Così trattava per i rapiti". Marogna esce dal carcere di San Vittore. Confermato il suo ruolo nella liberazione degli ostaggi in Mali. Luca Fazzo, Sabato 31/10/2020 su Il Giornale. Milano Alle 10.25 di ieri il portone blindato di San Vittore si apre e ne sbuca lei: Cecilia Marogna, la giovane donna che da un mese incarna, per i suoi rapporti con il cardinale Angelo Becciu, il lato più intrigante della spy story in salsa vaticana, e che proprio su richiesta del Vaticano è stata chiusa in cella per diciassette giorni, nel raggio femminile del carcere milanese. Ieri mattina, la Corte d'appello di Milano ha stabilito che non c'era nessun buon motivo di arrestarla, e che la Marogna può aspettare a piede libero l'esito della richiesta di estradizione presentata dalla Santa Sede: richiesta, peraltro, cui tra le righe i giudici sembrano voler chiudere la porta, quando parlano di «profili di apprezzabile sostenibilità» nelle tesi dei difensori della donna. Intanto, la consulente dell'ex cardinale lascia la cella: è minuta, avvolta in un cappotto scuro, apparentemente fragile e provata. Sale in taxi e via. Sa che una prima battaglia è vinta, ma che lo scontro vero si giocherò sulla sua estradizione in Vaticano. Anche il suo arresto, il 13 ottobre scorso, aveva dimostrato che le autorità d'Oltre Tevere in Italia hanno amici importanti. Non s'era mai visto un cittadino italiano venire catturato in una manciata di ore su richiesta di uno Stato estero (una monarchia assoluta, oltretutto) senza alcun trattato di estradizione, e senza che venissero indicate le fonti di prova a suo carico. E proprio sulla oscurità delle accuse mosse alla Marogna insistevano le memorie difensive che i suoi avvocati Maria Cristina Zanni e Fabio Federico avevano sottoposto alla Corte d'appello. Sono note in cui, per la prima volta, emerge formalmente il retroterra di cui il Giornale aveva parlato il 15 ottobre scorso, ovvero il ruolo della Marogna nelle trattative per la liberazione degli ostaggi italiani, e non solo, in Mali. Secondo gli stessi atti vaticani, la Marogna si sarebbe impossessata di somme affidatele «per finalità istituzionali», ovvero la «liberazione della suora colombiana»: si tratta di Gloria Cecilia Narvaez, la religiosa ormai da tre anni in mano ai rapitori, e che la Marogna aveva inserito in un «pacchetto» di ostaggi da liberare insieme a padre Pierluigi Maccalli. É la prima volta che viene confermato il ruolo «istituzionale» della donna nelle trattative con i rapitori maliani. «Questo era stato il suo incarico - scrivono i legali - e per questo aveva ricevuto gli importi, che rappresentavano il budget per lo svolgimento di tutte le sue attività di intelligence, per le spese da lei sostenute e per il suo compenso». Lavoro ben fatto, visto che Maccalli è stato poi liberato. E in una mail al segretario di Stato vaticano Parolin il 7 ottobre scorso la Marogna indica anche la genesi dell'incarico, dicendo di «avere raggiunto la risoluzione pacifica delle tre persone incarico affidatomi dal precedente generale Carta (è Luciano Carta, ex direttore dell'Aise, ndr) l'ultima decade di agosto e di avere immediatamente informato il generale Caravelli», ovvero il successore di Carta: «da parte sua non ho più ricevuto notizie». Si ritorna, e stavolta nero su bianco, nella guerra di potere e di spie che è il vero contesto della vicenda Becciu, e di cui Cecilia Marogna è stata la prima vittima a tempo di record: il Vaticano firma l'ordine di arresto la mattina del 13, la sera stessa la Finanza va a colpo sicuro a casa della «introvabile» Marogna e la arresta. Forse ci si aspettava che crollasse, ma non è successo.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 31 ottobre 2020. La Corte d' Appello di Milano ha rimesso in libertà Cecilia Marogna, meglio conosciuta come Lady Becciu. I giudici hanno accolto le tesi della difesa guidata dall' avvocato Massimo Dinoia. La donna da ieri, dopo aver lasciato il carcere milanese di San Vittore, ha solo l' obbligo di firma tre giorni alla settimana presso una stazione dei carabinieri. Ha anche il divieto di espatrio e per questo ha consegnato alle autorità il passaporto. La Corte non ha accolto il parere favorevole alla conferma della misura cautelare della Procura generale e del ministero della Giustizia, perché ha condiviso la «complessa tematica» introdotta dalla difesa «in ordine alla possibilità di concedere l' estradizione» della Marogna sulla base delle attuali accuse. Dinoia, però, non ritiene di dover festeggiare: «Una cittadina italiana, con una figlia minorenne, è stata rinchiusa per ben 17 giorni in prigione senza avere ancora nemmeno letto - come chi l' accusava in Italia - il mandato di cattura straniero per cui è stata arrestata». Il primo giornale a parlare dell' inchiesta ai danni della Marogna era stata La Verità, il 5 ottobre scorso. Adesso, grazie alla memoria difensiva, scopriamo che la donna due giorni dopo mandò una mail al segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. E questa sarebbe la prova dell' assenza di pericolo di fuga. Infatti perché, a sei giorni dal proprio arresto, la Marogna chiederebbe lei stessa di recarsi in Vaticano (lo Stato che emetterà il mandato di cattura) se aveva intenzione di darsi alla fuga? Nel messaggio del 7 ottobre si legge: «Le confermo la mia disponibilità a incontrarla []. Può contattarmi per telefono per concordare data e orario incontro». In quella mail l' aspirante 007 annunciava di aver «raggiunto la definizione della risoluzione pacifica delle tre persone», una suora colombiana e due cittadini italiani, padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio. La donna sosteneva di aver ricevuto l' incarico dalla nostra intelligence ad agosto e che aveva «informato della fase ultima» gli attuali vertici, da cui però «non aveva più ricevuto notizie». Forse perché l' 8 ottobre, il giorno successivo, i nostri servizi insieme con i colleghi maliani avrebbero liberato i due ostaggi italiani. Il 12 ottobre, poche ore prima del fermo, Parolin ha risposto così: «La ringrazio per la sua mail del 7 ottobre della quale ho preso nota con ogni attenzione. Circa la sua richiesta di incontro, tuttavia, non sono in grado per il momento di venirle incontro». Peccato che per il Vaticano la donna fosse irreperibile. La difesa evidenzia come l' ultima informativa sul suo conto fosse pervenuta ai promotori di giustizia venerdì 9 ottobre, alla vigilia del weekend. Nei successivi quattro giorni, dopo aver letto la nota investigativa, gli inquirenti avrebbero ordinato le ricerche («Per quale motivo se non era ancora stato spiccato alcun mandato?» chiede ironicamente Dinoia), la Gendarmeria le avrebbe effettuate, i promotori avrebbero preso atto della loro infruttuosità e avrebbero disposto il mandato. Ad aggravare la posizione della Marogna sarebbe stato anche il suo allontanamento dalla residenza di Cagliari. Ma la difesa, anche in questo caso, sottolinea come la propria assistita conviva da tempo a Milano con un compagno e che a quell' indirizzo abbia fatto inviare a giugno dei mobili acquistati all' Ikea e l' 8 ottobre abbia indicato quel domicilio alla motorizzazione per l' invio della patente. Nell' elenco di stranezze, Dinoia, evidenzia come le indagini siano partite da una segnalazione della polizia di Lubiana, in Slovenia (dove la Marogna aveva il conto) alla Santa Sede: «Che c' azzecca il Vaticano?», si chiede l' avvocato. E qui riporta una notizia, spiegando che i 500.000 euro inviati dalla Segreteria di Stato e utilizzati in parte dalla Marogna per acquistare beni di lusso erano partiti da un contro elvetico del Credit Suisse. Scrive il legale: «Ben difficile che il conto svizzero fosse un conto ufficiale registrato nel bilancio dello Stato. Difficile - se non faceva parte del bilancio dello Stato - poterlo considerare pecunia publica».

GIUSEPPE SCARPA per il Messaggero il 15 ottobre 2020. L'expertise dei quadri con carta intestata dei Musei Vaticani e firma del direttore è un assegno circolare a sei zeri. Soprattutto quando svela al mondo l'esistenza di inediti di Picasso, De Pisis, Kandinskij, Utrillo, Warhol, Fattori, Monet, Mirò e Van Gogh. La collezione Brocato farebbe invidia a quelle più prestigiose. Il fatto, però, è che per la procura si tratterebbe di volgari patacche. Ma con quei falsi, compresa la perizia, Paolo Brocato ex firma dell'Osservatore Romano, stava per incassare crediti milionari. Le opere sarebbero state depositate a garanzia del prestito. E invece i carabinieri tutela patrimonio hanno rotto il prezioso giocattolo e hanno sequestrato tutto. Non solo i 13 quadri destinati a finire nel caveau di un istituto di credito, ma anche altri quaranta pronti per essere venduti. In dieci, adesso, sono imputati per associazione a delinquere, ricettazione e falso dal sostituto procuratore Laura Condemi. Il regista dell'operazione carte false sarebbe proprio Brocato. Mentre il profilo finanziario l'avrebbe curato Italo Mari. Il meccanismo è semplice quanto efficace. Il primo passaggio è stato quello di produrre la documentazione che attestasse l'autenticità delle opere. In questo si sarebbe appunto adoperato Brocato. D'altro canto senza la perizia Vaticana le banche non avrebbero mai erogato il mega prestito. Ecco allora che la consulenza è a firma dell'allora direttore dei Musei Vaticani ed ex Ministro dei beni culturali, Antonio Paolucci. È una perizia curata nei dettagli. Un lavoro certosino e per disconoscerne la paternità sono state necessarie le stesse parole dell'ex direttore ed ex ministro: carta intestata ai Musei Vaticani vidimate più volte con diversi timbri della Santa Sede, del Protonotario Apostolico e l'autografo di Paolucci e di Bryan Chestle. Peccato però che Paolucci fosse all'oscuro di tutto e, come ha spiegato ai militari dell'Arma non ha «mai visto quelle opere né fatto le relative autenticazioni». Ma la banda dei falsari, per gli inquirenti, avrebbe fatto anche dell'altro. È questo un giallo che vola lungo l'asse Stato Pontificio, Roma e Principato di Monaco. Per convincere eventuali compratori o banche a incassare i quadri la banda avrebbe spiegato che le opere, dato il valore, non erano custodite in Italia bensì a Monte Carlo. Nel caveau di un istituto di credito. Ma qualcuno ha capito il gioco e denunciato Brocato e soci alle forze dell'ordine. Le opere sequestrate dai carabinieri sono state più di 50. Una stima dei quadri, qualora fossero stati venduti, sfiora il miliardo di euro. È questa una nuova forma di truffa, perché di solito più che le banche si cerca di raggirare il ricco appassionato. Il colpo classico è quello in cui si cerca un estimatore milionario a cui rifilare l'ultimo dipinto, da poco scoperto, con un curriculum che ne certifica l'assoluta originalità, di qualche grande artista contemporaneo. In questo modo un gruppo di truffatori, sempre nella Capitale, aveva agganciato un appassionato americano disposto a sborsare, nel 2015, quasi nove milioni di euro per un quadro di Amedeo Modigliani, la Jeune femme à la guimpe blanche. Il facoltoso appassionato dovrà per sempre essere grato ai carabinieri tutela patrimonio culturale che gli evitarono di appendere al muro una patacca da nove milioni di euro.

Scandalo Vaticano, ecco l’audio dell’incontro segreto all’hotel Bulgari sul palazzo di Londra da cui è nato lo scandalo. Mario Gerevini e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 19/10/2020.  Il broker Gianluigi Torzi, il dirigente della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e il gestore dei fondi del Vaticano Enrico Crasso discutono dell’affare da centinaia di milioni del palazzo di Sloane Avenue a Londra: - Mario Gerevini e Fabrizio Massarro /CorriereTv. Il broker Gianluigi Torzi, il dirigente della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e il gestore dei fondi del Vaticano Enrico Crasso discutono dell’affare da centinaia di milioni del palazzo di Sloane Avenue a Londra: Torzi, da semplice intermediario, ha assunto il controllo dell’immobile; Tirabassi tratta per farlo uscire; Crasso media. E forse registra. E’ il 19 dicembre 2018. Nasce da qui lo scandalo che ha travolto le finanze della Santa Sede. 

Da iltempo.it il 16 novembre 2020. Due milioni di preziosi, medaglioni e monete d'oro e d'argento nascoste in scatole da scarpe. E 600mila euro in contanti. È il clamoroso tesoro nascosto che si sono trovati davanti i promotori di giustizia (corrispondenti ai pm) vaticani insieme alla guardia di finanza italiana dopo la perquisizione ordinata da papa Francesco della casa di padre Fabrizio Tirabassi, economo della segreteria di Stato vaticana all'epoca di Angelo Becciu. Lo svela Emiliano Fittipaldi, giornalista famoso per i suoi libri inchiesta sulle finanze vaticane, sul Domani. È giallo sull'origine del tesoro  trovato in un armadio nella casa di Tirabassi, oggi novantenne. Gestiva  un negozietto di filatelia e numismatica a Borgo di Santo Spirito, vicino a San Pietro, e "gran parte delle monete d'argento trovate in un magazzino della famiglia a Celano - paesino abruzzese di cui è originaria la famiglia - potrebbero essere rimanenze della bottega, e detenute in maniera legittima", scrive Fittipaldi. Ma i dubbi degli inquirenti riguardano soprattutto i preziosi, le medaglie e le monete d'oro.

Vaticano, «Dammi 10 milioni e me ne vado». Il vertice a tre sul palazzo di Londra. Gli audio dell’incontro segreto all’hotel Bulgari di Milano tra broker e dirigenti del Vaticano. Il consulente allude a tangenti e a interventi dei «servizi» sull’affare della compravendita dello stabile di Sloane Avenue. Mario Gerevini e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 19/10/2020. Hotel Bulgari di Milano, saletta riservata. Tre uomini discutono animatamente, di soldi, di affari. Forse di tangenti. Uno è un broker, Gianluigi Torzi. Un altro è un dirigente del Vaticano, Fabrizio Tirabassi. Il terzo è Enrico Crasso, storico gestore delle finanze della Santa Sede. «Tu lo sai che su questa operazione c’è tutto il mondo, sì? Ci sono i servizi vostri, i servizi inglesi... — afferma Torzi — questa cosa va fatta come ti dico io e nessuno si fa male, perché non è che Gianluigi è caduto dal cielo e vi ha salvato l’operazione …». L’operazione di cui parlano, rimasta segreta fino a ottobre 2019, è conosciuta oggi come «lo scandalo del palazzo di Londra», cuore dell’inchiesta penale della magistratura vaticana.

La registrazione. I toni sono alti. Volano imprecazioni. A tratti forse millantano, alludono. Di sicuro negoziano. Ci sono in ballo molti milioni. Intanto fra i presenti nella stanza qualcuno registra, di nascosto. Il Corriere ha ascoltato ampi stralci dell’audio (a tratti incomprensibile). «Fabbrì — incalza il broker — ma sai quanti cazzo di milioni ho guadagnato in vita mia, io? Porc...». I soldi di cui parlano sono quelli riservati della Segreteria di Stato, alimentati dalle offerte dei fedeli a Papa Francesco: l’Obolo di San Pietro. È il 19 dicembre 2018; due settimane prima la Segreteria di Stato aveva raggiunto un faticoso accordo con il finanziere Raffaele Mincione per uscire dal suo fondo in cui erano stati investiti 200 milioni di dollari e per rilevare il 100% del palazzo in Sloane Avenue. La complessa manovra fu affidata all’allora sconosciuto Torzi. «Tu mi hai salvato il culo — sostiene Tirabassi, il laico più alto in grado tra i gestori dei fondi della Segreteria — di fronte a un’operazione di cui... non ero responsabile de’ sape’ cose... e a differenza di tutti non ho preso niente».

Le azioni. Torzi si è autoassegnato mille fondamentali azioni di Gutt, la società lussemburghese che ha rilevato il palazzo. Quelle azioni, che valgono solo il 3 per cento del capitale, gli danno però tutte le leve di gestione dell’immobile del Vaticano. Per Tirabassi è un problema enorme: deve far tornare il palazzo nelle mani della Segreteria perché l’inghippo è stato scoperto dai superiori. Ma non è l’unica questione: «Siamo di fronte alla possibilità — spiega — che da qui all’inizio del prossimo anno sia tutto centralizzato e questo significa che perdiamo noi il controllo come Segreteria... questo non va bene nei tuoi confronti...». Cerca allora di convincere Torzi a cedere le mille azioni Gutt; forse per collocarle in un fondo: «Quale potrebbe essere una possibile... per riconoscerti il lavoro che hai fatto?». Torzi sa di avere buone carte da giocare. E alza la posta, con colorita schiettezza. «Io pensavo di gestire 3-4 anni. Dammi 10 milioni e me ne vado; dammi 8 milioni, che cazzo ti devo dire… Sì, comunque me ne vado... Se mi dai 2 milioni ti dico “mi hai ca... in mano” perché ne ho dati tre e mezzo solo a... (qui cita uno dei protagonisti della storia: non lo riportiamo perché al momento non è stato possibile verificare se sia solo una millanteria, ndr). C’è il bonifico! Ti faccio vedere!».

Il bonifico. È uno dei passaggi più inquietanti. Poco dopo ribadisce: «Ce l’ho qua il bonifico, non è che sto’ a di’ cazzate... con Ubs. Oggi se piglio 10 milioni me ne porto a casa 3 o 4», alludendo a stecche pagate a chissà chi. E getta fumo: «T’assicuro che nessuno ti avrebbe detto metti “l’immobile in mano a Gianluigi” se non c’erano determinate logiche... quindi stai sereno, il mio gioco è troppo più importante di una cazzata del genere». Ma c’è di più: Torzi vuole anche coinvolgere la cassa del Papa nell’acquisto di un bond immobiliare, sul quale evidentemente ha una posizione a rischio: «Domani se non ti compri Augusto io sono nella merda». «Che importo?», chiede Tirabassi. «10 milioni... compratene 8...», risponde il finanziere.

Il terzo uomo. Il terzo uomo, Crasso — con le società Sogenel e Centurion riservatissimo gestore delle finanze vaticane sotto tre pontefici — capisce che è il momento di mediare. Presumibilmente è lui che registra e il file potrebbe essere acquisito dai pm del Papa: «Fate domani un’assemblea … in cui si decide che la Segreteria acquisisce il 100% del veicolo, tu (Torzi, ndr) vieni liquidato con 6-8-10 milioni, quello lo stabilisce un contratto...». Qui emerge l’incredibile circostanza di Torzi coinvolto in un affare da centinaia di milioni senza un contratto che ne definisse il ruolo. I tre — oggi tra gli indagati in Vaticano — si lasciano senza accordo. Da quel giorno lo sconosciuto finanziere molisano terrà in scacco la Segreteria fino a maggio 2019 quando incasserà 15 milioni. Si farà da parte portandosi nel telefonino, tra mille altri documenti, la foto con il Papa del 26 dicembre 2018 e lo scambio di auguri per Pasqua 2019 con Edgar Peña Parra, il numero due della Segreteria succeduto nel 2018 al cardinale Giovanni Angelo Becciu. Secondo i promotori di giustizia quella di Torzi è stata un’estorsione. Arrestato a giugno, è stato liberato dopo 8 giorni. La sua ricostruzione dei fatti avrebbe convinto gli inquirenti. «Tutto chiarito», diranno gli avvocati. La Mani Pulite del Vaticano, partita da qui, è appena cominciata.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 19 ottobre 2020. Pier Luigi Maria Dell’Osso che, da Procuratore generale di Brescia, ha coordinato le indagini sulla scomparsa e la morte della piccola Yara Gambirasio, è stato componente della Direzione Nazionale Antimafia. E per le sue competenze antiriciclaggio membro dello Stability board del nostro Paese. Rappresentante dell’accusa per la bancarotta del vecchio Ambrosiano di Roberto Calvi (e nelle indagini sulla sua morte), ha ottenuto 33 condanne per il crack della più grande banca privata italiana. Adesso insegna all’Università a Roma e a Siviglia.

Che impressione le ha fatto il nuovo scandalo vaticano collegato con l’acquisto del palazzo di Sloane Ave. a Londra?

«Dopo quarant’anni mi sembra di rivedere lo stesso film: incompetenti, truffati, collusi».

Non c’è più di mezzo lo IOR, però. Anzi dallo IOR è partita la denuncia che ha messo in moto le indagini della magistratura vaticana…

«Certo, questa è la differenza, perché a partire dal 2010 sono iniziate le procedure per i controlli degli operatori finanziari professionali all’interno dello Stato vaticano. IOR ed APSA sono sottoposti al controllo dell’AIF, l’Autorità di intelligence finanziaria, la FIU del Vaticano, e alla revisione periodica dei valutatori del Comitato Moneyval».

La seconda visita on site, dopo quella del 2012, è appena finita e darà vita ad un Rapporto di valutazione reciproca nella primavera del 2021…

«Sì, ma il punto che è che per un comparto sottoposto alle regole internazionali, se ne scopre adesso un altro, fuori dalla giurisdizione dell’AIF: il fondo della Segreteria di Stato. E in questo comparto si possono verificare, come dicevo prima, le solite, vecchie dinamiche: una diffusa incompetenza, truffe e collusioni».

Però fu proprio grazie al Fondo Paolo VI della Segreteria di Stato che vennero pagati sull’unghia i creditori esteri del Banco Ambrosiano arrivando a un versamento di 250 milioni di dollari che chiuse il contenzioso con loro. Non è così?

«Certamente, ma anche allora la Santa Sede non riconobbe alcuna responsabilità per le famose lettere di patronage che sono servite a Calvi per creare nell’ultimo anno di vita della banca una distruzione enorme di risorse attirando compratori esteri di azioni che altrimenti non avrebbe potuto avere. Calvi da parte sua scrisse una lettera di manleva o controlettera che sollevava lo IOR, ma creava le condizioni per una truffa nei confronti dei finanziatori esteri. Insomma, una storia opaca dove truffati e truffatori erano difficilmente distinguibili. Anche se la somma “dovuta” ai creditori esteri era molto, molto più ingente anche solo a considerare i debiti dell’Ambrosiano di Milano (per non parlare delle controllate estere), i liquidatori si decisero ad accettare quella cifra inferiore che tuttavia permetteva almeno un ristoro parziale del danno. Anche allora i Vaticano affermò però di essere stato truffato da Calvi. Come si vede sono storie un po’ tutte simili. Anche quarant’anni dopo».

Lei parlava anche di incompetenza, pero?

«Ah certamente, i prelati , quelli che decidono, molto spesso, incolpevolmente, non sanno bene di cosa stanno trattando, perchè non è quello il loro mestiere. Le faccio un esempio: lo stesso Marcinkus, delle Bahamas conosceva il Golf Club, e ci andava per quello, ma a Nassau faceva tutto Calvi. E’ chiaro che in questo quadro di base è facile passare al passo successivo, essere truffati o , per alcuni, ad essere collusi con soggetti esterni che se ne approfittano».

A proposito di Marcinkus, lei spiccò il famoso mandato di cattura contro di lui per la bancarotta dell’Ambrosiano, fu un’iniziativa clamorosa…

«Certo, il mandato di cattura da me richiesto ed ottenuto, riguardava oltre Marcinkus anche i due amministratori delegati dello IOR. Il Vaticano per difendere Marcinkus fino in fondo - nonostante il fatto che lo IOR era stato ritenuto dalla Cassazione, contrariamente alla mia tesi, ente centrale della Chiesa e quindi immune dalla giurisdizione italiana in base al vecchio Trattato del Laterano- lo nominò addirittura presidente del Governatorato. Senza berretta cardinalizia, però. Ma se ne stette rinchiuso, sia pure dentro le Mura Leonine…»

Perché Papa Giovanni Paolo II lo difese a spada tratta?

«Anche per i finanziamenti a Solidarnosc, il sindacato polacco, opera per altro benemerita».

C’è un’altra similitudine tra le due storie, di ieri e di oggi. Lo scenario di Londra, dove è stato acquistato il palazzo dell’ultimo caso e dove Calvi trovò la morte…

«Londra è la maggiore piazza finanziaria europea e dobbiamo dirlo dai non pochi profili offshore, ma Calvi secondo me, dopo aver fatto tappa in Svizzera, si recò a Londra, anche perché convinto che lì fosse sufficientemente vicino ai beni dello IOR, a beni del Vaticano».

Se lei fosse richiesto oggi di un consiglio, cosa suggerirebbe al Vaticano?

«Che l’intero sistema economico vaticano sia non riformato, ma rifondato dalla base, perché altrimenti, dietro un settore che è stato “regolarizzato”, né spunta un altro che riproduce poi i problemi del primo. E’ questo che è avvenuto con l’ultima vicenda. Capisco che ci possano essere motivi di riservatezza nel sostenere le opere religiose in paesi a rischio, ma questo fatto non può essere uno schermo per altri affari».

Anche lo scandalo più recente vede la commistione con vicende bancarie italiane (come la Popolare di Bari)…

«Sì. E vedo anche la presenza di alcuni faccendieri che furono protagonisti della vicenda dell’Ambrosiano: non i figli o i nipoti, ma proprio loro, gli stessi, dopo quarant’anni».

Da “il Messaggero” il 19 ottobre 2020. Mentre infuria la bufera giudiziaria per gli investimenti dissennati e le politiche predatorie in Vaticano, arriva dall' arcidiocesi di Pesaro la notizia di una speculazione che ha fatto andare in fumo 616mila euro. Soldi investiti in Liechtenstein e svaniti. Adesso, a distanza di anni, è stata avviata una causa civile per recuperare i fondi. Le speranze di successo, però, sono deboli. I soldi arrivavano dalle parrocchie ed erano stati investiti tra il 2003 e il 2004, con versamenti a più riprese alla società ValorLife Lebensversichterungs-Aktienegeselschaft di Vaduz, capitale del piccolo principato tra Svizzera e Austria, dove si pagano tasse all' 1,5%. La Curia aveva sottoscritto nove polizze vita, come rivelato ieri da Il Resto del Carlino, edizione di Pesaro, con beneficiari preti e fiduciari vari, della durata di sei anni. I primi versamenti risalgono agli ultimi mesi del 2003, quando l' Arcidiocesi era guidata da Angelo Bagnasco, e sono proseguiti fino ad agosto 2004, quando era già arrivato monsignor Piero Coccia. Al termine dei sei anni, l' Arcidiocesi avrebbe dovuto incassare l' ammontare delle somme versate con gli interessi. Ma nel 2010, alla scadenza delle polizze, la ValorLife si è ben guardata dal farlo nonostante le numerose sollecitazioni. E la Curia, incredibilmente, non aveva ritenuto di avviare una causa. Forse per evitare il clamore. Lo stesso che c' era stato un paio d' anni prima, quando l' Arcidiocesi di Loreto aveva perso circa 11 milioni di euro in un investimento sbagliato: tutta la liquidità della Delegazione Pontificia, suddivisa tra vari istituti di credito del territorio, era confluita in un unico, sembra su suggerimento di un consulente finanziario, e poi sparita. Una vicenda su cui aveva indagato anche il Vaticano: una parte della somma sarebbe poi riemersa nel 2009 nelle Isole Cayman. Con la strada penale ormai sbarrata dalla prescrizione, la decisione dell' Arcidiocesi pesarese, nella persona di Coccia, è stata adesso costretta a intentare una causa civile, dopo che una recente sentenza sempre contro la ValorLife, proposta da clienti del Centro Italia, si è conclusa con una transazione del 15% del valore versato. La causa davanti al Tribunale civile di Pesaro, però, si è subito inceppata, dato che non si riesce a notificare gli atti alla società del Liechtenstein, chiusa dall' autorità di vigilanza circa un anno fa. Secondo il legale della Curia, Tommaso Patrignani, «l' Arcidiocesi ha sottoscritto un contratto di puro investimento speculativo con capitale ad alto rischio e non, come era nelle intenzioni, delle polizze vita con capitale garantito. La ValorLife ha violato tutti gli obblighi di legge addossando alla Diocesi l' intero rischio dell' investimento». Prossima udienza ad aprile 2021 ma sembra difficile che il denaro oramai possa essere recuperato.

Massimiliano Coccia per ''la Repubblica'' il 19 ottobre 2020. Comprendere i segreti e operare in silenzio senza lasciare tracce sono da sempre i postulati degli operatori di intelligence. Ma è difficile riuscirci, nell’era dei social: quando non si ha un’adeguata preparazione alle spalle, come nel caso di Cecilia Marogna, la consulente dell’ex cardinale Angelo Becciu per le relazioni esterne e l’intelligence, si rischia di lasciare troppe tracce che, unite a evidenze, creano certezze. Uno dei profili Facebook della 39enne, detenuta a San Vittore in virtù di un mandato di cattura internazionale spiccato dai promotori di giustizia vaticani con l’accusa di peculato, dopo un’attenta analisi — frutto dell’inchiesta che l’Espresso sta conducendo in esclusiva — è una miniera di informazioni sulle attività svolte da Marogna per conto dell’ex porporato. La donna documenta in prima persona i suoi spostamenti, che si incrociano con appuntamenti che si ritrovano nelle carte dell’inchiesta sulle finanze della Segreteria di Stato. La pubblicazione compulsiva dei luoghi visitati si accompagna a un’attività di pubbliche relazioni che Marogna svolgeva interloquendo con molti giornalisti presenti tra i suoi contatti, chiedendo delucidazioni su articoli relativi alla Santa Sede, proponendo apertivi o caffè, presentandosi come un’analista strategica in servizio presso la diplomazia vaticana. Ma dalla Santa Sede fanno sapere che Marogna non è mai figurata in alcun ruolo ufficiale, non ha mai partecipato come membro di delegazione di alcun dicastero o ufficio, che non è usanza incaricare terzi senza connessione con la gendarmeria e l’intelligence per la risoluzione o la semplice interlocuzione in ambasciate o consolati. Scorrendo la timeline di Facebook si trova ad esempio una lunga permanenza a Dubai nei giorni della visita di Papa Francesco negli Emirati Arabi, a febbraio 2019: una permanenza che, l’Espresso può ricostruire, si estende anche dopo il termine della visita ufficiale, e che vede Marogna protagonista di incontri con esponenti del mondo finanziario e no profit, in nome e per conto del cardinale Becciu. Scorrendo a ritroso si trovano evidenze di molteplici presenze a Londra: le date coincidono con quelle delle riunioni sul palazzo di Sloane Avenue, tra gennaio e aprile del 2018. Un’altra peculiarità di quell’anno, che vede la creazione della società Logsic doc con sede a Lubiana (visitata, come testimonia la foto, il 9 dicembre), è la presenza costante in Vaticano tra giugno e settembre, con numerosi scatti che ritraggono anche ambienti privati, di cui è vietata la riproduzione per motivi di sicurezza. Una meta importante della consulente è Lugano: Marogna ci passa sei volte, la prima il 19 dicembre 2017, quando sarebbe avvenuta una riunione di aggiornamento sugli investimenti vaticani. A volerla presente ad ogni appuntamento ufficiale e in ogni trattativa sarebbe stato lo stesso Becciu: il cardinale non riponeva più totale fiducia in monsignor Perlasca e avrebbe voluto creare un livello ulteriore di sicurezza intorno agli affari che gestiva direttamente.

Gianluigi Nuzzi per ''La Stampa'' il 19 ottobre 2020. Per spiegare il rapporto tra il cardinale Angelo Becciu e la cagliaritana Cecilia Marogna, 39 anni, autoproclamata esperta di geopolitica e intelligence, bisogna spingersi in Puglia e approfondire viaggi inesplorati. Detenuta a san Vittore, la Marogna è accusata di aver incassato «in concorso con ignoti», senza titolo, mezzo milione di euro dalla sezione amministrativa della segreteria di Stato. La Marogna è stata dipinta come «dama del cardinale», «lady Becciu». La vulgata la indica ora amante, ora nipote del potente ex sostituto caduto in disgrazia, ma se superiamo la pruriginosa cortina fumogena, dilatata ad arte da chi ha interesse a spostare l'attenzione mediatica dai forzieri del papa, appaiono altre storie con protagonisti in ombra. Storie dove le date sono importanti. Il primo dato emerge dalla contabilità della Logisic, humantarne dejavnosti, d.o.o., la società che la donna aveva aperto il 19 dicembre del 2018 a Lubiana, in via Dunajska 51, e che è servita per ricevere come «contributo per missione umanitaria» i soldi benedetti. Oltre 400 mila euro in gran parte spesi in beni di lusso e non per opere di bene, mandati dalla sezione amministrativa della segreteria di Stato, che faceva capo a monsignor Perlasca e che a sua volta riferiva al sostituto dell'epoca, l'allora monsignore Angelo Becciu. Stando però alla contabilità appena mostrata in un brillante servizio dalle Iene di Davide Parenti, si evince che gli emolumenti inquisiti siano partiti dallo stesso dicembre 2018 e quindi sei mesi dopo che Becciu aveva lasciato gli uffici di palazzo Apostolico, elevato cardinale e al vertice della congregazione per i santi e i beati. In pratica, il flusso di denaro dal vaticano alla Slovenia, alla protetta o presunta tale di Becciu, sarebbe iniziato e proseguito quando a capo dell'ufficio che sborsava non c'era Becciu ma il suo successore, uno dei religiosi oggi più vicini al papa: Edgar Pena Parra, classe 1960, venezuelano di Maracaibo, fine diplomatico. Infatti, dal 15 agosto 2018 era già lui il nuovo sostituto in segreteria di Stato, numero tre appena un gradino sotto il segretario Pietro Parolin, braccio destro del pontefice. E quindi come mai il successore di Becciu, ha acceso semaforo verde a così tanti bonifici, se la donna era una protetta del porporato sardo, ormai allontanato, e i soldi non avevano reale motivazione, come invece sostiene la donna ora detenuta? Per capirlo forse potrebbe venirci in aiuto uno dei primissimi viaggi che Pena Parra fece, solo qualche giorno dopo la nomina, in Puglia. Con alcuni parenti, andò per una settimana, apparentemente in vacanza, sulle spiagge infinite del Salento. Ospite dalle suore a Lecce, tra una visita a monsignor Bruno Musarò, all'epoca prossimo nunzio in Costarica, e di monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento - santa Maria di Leuca, Pena Parra aveva cerchiato in agenda importanti incontri per capire e risolvere la storia del palazzo di Londra, partita nel 2006 e segnata da errori e opacità, che potevano esplodere da un momento all'altro. Il venezuelano incontrò, a tavola tra portate di pesce a Punta Renas, monsignor Mauro Carlino, classe 1976, nativo di Lecce, uno dei due segretari che per quattro anni aveva servito Becciu, e che ancora non era stato rimosso. Pena Parra era consapevole di avere di fronte uno degli uomini di fiducia di Becciu ma a differenza dell'altro segretario francese, già allontanato, preferì tenere il sacerdote pugliese alle proprie dipendenze. Carlino, infatti, a differenza del collega, costituiva la memoria storica della travagliata vicenda dell'investimento immobiliare nella capitale inglese. Oltre a Carlino, in quei giorni febbrili Pena Parra incontrò diversi personaggi in affari con il vaticano, informati della vicenda di Londra o addirittura parte in causa. Pensare che Carlino facesse passare gli esborsi alla Marogna, all'insaputa di Pena Parra non regge. Quando il venezuelano si liberò dell'ex segretario di Becciu, trasferito il 31 luglio 2019 all'ufficio informazioni di palazzo Apostolico, i bonifici alla Marogna continuarono anche dopo che nei sacri palazzi emerse l'indagine sul palazzo di Londra e sullo stesso Carlino. Insomma, o i rapporti della donna in vaticano potevano essere più strutturati di quanto finora emerso o Becciu godeva di una significativa influenza sull'ufficio di Pena Parra, al punto da poterne condizionare i pagamenti fasulli. O, peggio ancora, ha ragione Becciu quando lamenta di essere vittima di una truffa della donna. L'ultima ipotesi è che le società della Marogna fossero solo una stazione di transito di somme destinate ad altri. Forse per questo la professionista sviluppava la propria rete di relazioni. Voleva supportare la figura di mediatrice in crisi internazionali, coprire i trasferimenti, trattenendo poi somme per la propria mediazione. Dal 2017 la Marogna mosse i passi in ambienti scivolosi, da soggetti periferici ai servizi fino a faccendieri quantomeno discussi, come Flavio Carboni e Francesco Pazienza. Secondo alcune conversazioni telefoniche, la Marogna chiedeva a Pazienza contatti con 007 in sud e centro America, ricevendo risposte evasive. Del resto, ogni medaglia presenta due facce. Da una parte la necessità del vaticano a tutelare il cristianesimo nel mondo, evitare quindi stragi, omicidi e rapimenti di missionari e fedeli. Dall'altra, la preziosa dote della santa sede: la capillarità della rete cattolica sul pianeta - in ogni angolo sperduto del mondo si incontra un sacerdote - che garantisce un'ottima penetrazione informativa ovunque. Anche perché, come recita il vecchio adagio, «ogni confessionale è una spia» e quindi ogni prete raccoglie o può raccogliere confidenze e segreti, il pane quotidiano di chi vive in quei mondi. In mezzo, un sottoscala dove tra millanterie e verosimiglianze vive un mondo pronto a tutto, tranne che servire il vangelo.

Quei messaggi di Becciu al cardinale Perlasca: "Accrediti alla Marogna". I documenti dell'inchiesta inviati al ministro della Giustizia Bonafede. Per l'estradizione. Fabio Marchese Ragona, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. «Il Santo Padre vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». È il 20 dicembre del 2018, a scrivere questo messaggio è il cardinale Angelo Becciu, nominato da qualche mese cardinale e promosso da numero due della Segreteria di Stato a Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Dall'altro lato del telefono c'è monsignor Alberto Perlasca, all'epoca capo della sezione amministrativa dello stesso dicastero dove il porporato sardo svolgeva le funzioni di Sostituto. I due prelati stanno parlando del versamento da 575mila euro da effettuare a Cecilia Marogna, la 39enne sarda che qualche anno prima si era presentata a Becciu come esperta di relazioni internazionali e con il quale il cardinale aveva stretto un accordo per attività d'intelligence in aree calde del mondo, per tutelare le missioni religiose, le nunziature e trattare con rapitori di preti e suore tenuti in ostaggio. Quello e altri messaggi, a distanza di quasi due anni, sono finiti nel fascicolo dell'inchiesta finanziaria che sta scuotendo le stanze vaticane, con il cardinale Becciu licenziato dal Papa e che si è dovuto dimettere da Prefetto rinunciando ai privilegi cardinalizi, monsignor Perlasca indagato e, Cecilia Marogna arrestata a Milano, su mandato Vaticano, con l'accusa di peculato e appropriazione indebita aggravata. Quei soldi della Chiesa, infatti, secondo gli investigatori, anziché esser utilizzati per gli scopi pattuiti, furono spesi in buona parte in shopping di lusso. Nel documento di tredici pagine finito sulla scrivania del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in cui la magistratura vaticana chiede, a fini estradizionali, la convalida dell'arresto della 39enne ancora detenuta a San Vittore, sono contenute le conversazioni Whatsapp tra Becciu e Perlasca in cui il porporato chiede al suo ex sottoposto di inviare i soldi in varie tranche alla Marogna, per la liberazione di una religiosa in Mali. Becciu scrive: «Ti ricordi questione suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore (Marogna, ndr), deve avere subito a disposizione i soldi». «Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò - si legge ancora -. Primo bonifico 75.000 euro intestato a Logsic doo. Causale: voluntary contribution for a humanitarian mission. Ossia contributo volontario per missione umanitaria da inviare alla società della donna con sede in Slovenia». In un altro messaggio, Becciu, scrivono gli inquirenti nel documento visionato da Adnkronos, sottolinea a Perlasca che «lo stesso trasferimento è stato preceduto dall'autorizzazione della superiore Autorità Sovrana». In pratica dal Papa che quindi, a dire di Becciu, sarebbe stato a conoscenza di quella delicata operazione da compiersi in Africa con l'aiuto della donna per liberare la suora. Il porporato scrive: «Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP (il Santo Padre, ndr), e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Perlasca risponde: «Ok per suora». Altri messaggi tra Becciu e Perlasca e tra Perlasca e Fabrizio Tirabassi, il dirigente, anch'egli indagato, che effettuava materialmente i bonifici, vennero scambiati tra gennaio e luglio 2019 in concomitanza di altri versamenti alla società della manager. A segnalare alla Gendarmeria Vaticana l'anomala movimentazione di denaro su due conti intestati a Marogna è stata la polizia slovena perché molte delle spese effettuate «riguardavano attività non compatibili con l'oggetto sociale della società». Infatti, circa 250mila euro furono spesi dalla donna, attraverso 120 pagamenti diversi, in vari negozi di lusso, da Prada a Missoni, da Louis Vuitton a Chanel fino a Frau, per l'acquisto di una poltrona da 12mila euro. Riguardo a queste spese la 39enne si è sempre difesa dicendo che «quei bonifici comprendevano anche il mio compenso».

Inchiesta Becciu, agli atti le chat del cardinale che diceva a Perlasca di pagare Marogna. La Repubblica il 21 ottobre 2020. Le carte dell'inchiesta che ha portato all'arresto di "lady Vaticano" consegnate al ministero della Giustizia. Una serie di conversazioni via Whatsapp tra il cardinale Angelo Becciu e monsignor Alberto Perlasca, all'epoca Capo dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato vaticana, sono agli atti dell'inchiesta vaticana che ha portato all'arresto di Cecilia Marogna, la 39enne cagliaritana divenuta nota come la "dama di Becciu" per il legame fiduciario che la lega all'ex numero due della Segreteria di Stato e che è stata arrestata a Milano il 13 ottobre scorso, su mandato di cattura internazionale richiesto dall'Ufficio del Promotore di giustizia della Santa Sede. In particolare, il 20 dicembre del 2018 Becciu (che già non era più sostituto della Segreteria di Stato) scrive a Perlasca di inviare i soldi alla Marogna, incaricata di mediare per il Vaticano per la liberazione di una suora colombiana rapita, e di farlo suddividendo la somma in diverse tranche. "Ti ricordi questione suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi - scrive Becciu - Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico: 75.000 euro intestato a “Logsic doo”.

Causale: 'voluntary contribution for a humanitarian mission'". In un successivo messaggio, Becciu ribadisce a monsignor Perlasca la finalità che il fondo avrebbe dovuto assolvere, cioè la liberazione della suora colombiana, alludendo "anche al fatto - sottolineano gli inquirenti - che lo stesso trasferimento fosse stato preceduto dall'autorizzazione della superiore Autorità Sovrana", ossia il Papa: "Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto". Messaggio al quale, peraltro, Monsignor Perlasca risponde "ok per suora" lasciando intendere di essere a conoscenza della vicenda.

Agì da pubblico ufficiale. Marogna, che ha chiesto la scarcerazione a San Vittore, "agì da pubblico ufficiale" secondo gli inquirenti vaticani, che per questo le contestano il peculato oltre all'appropriazione indebita aggravata. In particolare, i magistrati della Santa Sede spiegano che "nell'ordinamento vaticano non esiste la differenza - presente invece nell'ordinamento italiano - tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale" e che "qualsiasi persona titolare di un mandato amministrativo (oltre che legislativo o giudiziario) nello Stato, sia esso nominativo o elettivo, a titolo permanente o temporaneo, remunerato o gratuito, ed a prescindere dalla sua collocazione nell'ambito della organizzazione gerarchica, assume la qualifica di pubblico ufficiale". In questo senso ritengono che la manager sarda "per l'incarico ricevuto e la natura delle attività che le erano state affidate attraverso la gestione della Logsic Doo - come visto finanziata esclusivamente con fondi erogati dalla Segreteria di Stato -, abbia rivestito la qualifica di pubblico ufficiale".

Appropriazione di 575mila euro. Gli inquirenti vaticani contestano alla donna, nella qualità di amministratrice della Logsic Doo, società con sede in Slovenia "costituita al fine di svolgere assistenza sociale non residenziale e finanziata dalla Segreteria di Stato", di essersi appropriata di 575mila euro "che le erano stati affidati in ragione delle sue funzioni utilizzandoli per acquisti voluttuari incompatibili con le finalità impresse dalla Segreteria di Stato all'atto dell'affidamento stesso". In particolare, a Marogna viene contestato di aver agito "con più atti esecutivi della medesima risoluzione" e "in concorso con persone allo stato ignote".

La segnalazione degli investigatori sloveni. L'indagine vaticana ha avuto origine da una segnalazione della Polizia slovena. A far nascere i sospetti degli investigatori sloveni sarebbero state una serie di movimentazioni anomale registrate su due conti intestati proprio alla Logsic Doo, la società con sede a Lubiana di cui la manager sarda è amministratrice. A seguito della segnalazione, gli uomini della Gendarmeria Vaticana, attraverso accertamenti bancari, hanno rilevato che i due conti correnti "risultavano alimentati da nove bonifici emessi dalla Segreteria di Stato tra il 20-12-2018 e 1'11-7-2019 per un ammontare complessivo di 575.000 euro" e che molte delle movimentazioni eseguite "riguardavano spese non compatibili con l'oggetto sociale della società". Dalla visura camerale della società, infatti, era emerso che la Logsic Doo avrebbe dovuto svolgere attività di assistenza sociale non residenziale mentre dall'analisi degli estratti conto della società era emerso che le spese sostenute dalla Marogna "non avevano alcuna attinenza con le dette finalità assistenziali e umanitarie". Inoltre, dall'analisi dei conti sono emersi oltre 120 pagamenti tra negozi come Prada, Tod'S, Hogan, Missoni, La Rinascente, Montblanc, Louis Vuitton, Maxmara, Poltronesofa, Auchan, alberghi prestigiosi (come l'Hotel Bagni nuovi di Bormio e l'Hotel Cervo in Costa Smeralda), ristoranti di lusso e, sottolineano gli inquirenti, "ulteriori approfondimenti sono in corso".

Inchiesta Vaticano, nove bonifici da Becciu alla Marogna. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2020.  I dettagli dell’indagine contenuti nella richiesta di convalida di arresto inostrata dalla Santa Sede al ministro Bonafede per l’estradizione della 39enne sarda. Nove bonifici in sette mesi dalla segreteria di Stato a Cecilia Marogna e 120 pagamenti presso hotel e negozi lusso da parte della donna con le somme ricevute. La prova sarebbe anche in una serie di messaggi whatsapp con cui il cardinale Angelo Becciu, numero due della segreteria vaticana, dava disposizioni a monsignor Alberto Perlasca (ex capo dell’ufficio amministrativo della segreteria di Stato) per l’invio dei fondi. È uno dei passaggi fondamentali riportati nella richiesta di convalida dell’arresto della 39enne cagliaritana sottoposta dall’ufficio del promotore di giustizia vaticana al ministro della Giustizia italiano, Alfonso Bonafede, per chiederne l’estradizione in territorio vaticano. Il 20 dicembre del 2018 Becciu (che già non era più Sostituto della Segreteria di Stato) scrive a Perlasca di inviare i soldi alla Marogna, incaricata di mediare per il Vaticano per la liberazione di una suora colombiana missionaria in Mali e rapita dalla città di Karangasso provincia di Bamako nel febbraio 2017, e di farlo suddividendo la somma in diverse tranche. «Ti ricordi questione suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi - scrive Becciu - Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico: 75.000 euro intestato a “Logsic doo”. Causale: “voluntary contribution for a humanitarian mission”». In un successivo messaggio, Becciu ribadisce a monsignor Perlasca la finalità che il fondo avrebbe dovuto assolvere, cioè la liberazione della suora colombiana, alludendo «anche al fatto - sottolineano gli inquirenti - che lo stesso trasferimento fosse stato preceduto dall’autorizzazione della superiore Autorità Sovrana», ossia il Papa: «Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP (Santo Padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Messaggio al quale, peraltro, Mons. Perlasca risponde «ok per suora» lasciando intendere di essere a conoscenza della vicenda. L’indagine sulla «dama di Becciu», arrestata a Milano il 13 ottobre scorso, nasce da una segnalazione della polizia slovena su una serie di movimentazioni anomale registrate su due conti intestati alla Logsic Doo, la società con sede a Lubiana di cui la manager sarda è amministratrice. In particolare, come accertato dalle indagini della Gendarmeria Vaticana i due conti «risultavano alimentati da nove bonifici emessi dalla Segreteria di Stato tra il 20-12-2018 e 1’11-7-2019 per un ammontare complessivo di 575.000 euro» e molte di queste movimentazioni «riguardavano spese non compatibili con l’oggetto sociale della società», ufficialmente attiva nel settore della assistenza sociale non residenziale. Le spese, come detto «non avevano alcuna attinenza con le dette finalità assistenziali e umanitarie» essendo piuttosto pagamenti presso negozi di grandi firme di moda e non solo come Prada, Tod’S, Hogan, Missoni, La Rinascente, Montblanc, Louis Vuitton, Maxmara, Poltronesofa, Auchan e poi alberghi prestigiosi (l’Hotel Bagni nuovi di Bormio e l’Hotel Cervo in Costa Smeralda), ristoranti di lusso. Ulteriori approfondimenti sono in corso. A Marogna vengono contestati il peculato e l’appropriazione indebita proprio in virtù di quell’incarico relativo alla suora rapita. Secondo gli inquirenti vaticani, infatti, la 39 enne «agì da pubblico ufficiale» . I magistrati della Santa Sede spiegano che «nell’ordinamento vaticano non esiste la differenza - presente invece nell’ordinamento italiano - tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale» e che «qualsiasi persona titolare di un mandato amministrativo nello Stato, assume la qualifica di pubblico ufficiale». Agli atti anche lo scambio di messaggi tra Perlasca e Fabrizio Tirabassi, funzionario dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato e suo stretto collaboratore, a cui Perlasca indica i bonifici da fare: «Monsignor Perlasca inoltrava il numero dell’Iban del destinatario – corrispondente al conto corrente intestato alla Logsic Doo – a Fabrizio Tirabassi», rilevano gli inquirenti nelle carte. Peraltro, lo stesso scambio di messaggi tra Becciu e Perlasca e Perlasca e Tirabassi avviene, rilevano gli inquirenti, «anche in occasione della disposizione degli altri bonifici che hanno costituito il deposito della società Logsic doo», avvenuti tra gennaio e luglio 2019. Questo porta gli inquirenti a concludere, «con una certezza che esclude ogni possibile ragionevole dubbio, che la Segreteria di Stato aveva versato alla Logsic doo, affidandole alla signora Cecilia Marogna, somme per finalità istituzionali». E sempre riguardo a Becciu, la polizia federale australiana sta esaminando evidenze di rimesse di denaro dal Vaticano all’Australia, che sarebbero legate a tentativi di influenzare sfavorevolmente il processo per pedofilia a carico del cardinale australiano George Pell, rivale dell’ex cardinale, dal quale poi è stato scagionato. L’indagine è stata avviata dopo che l’ente di controllo dei reati finanziari Australiano ha fornito informazioni alla polizia federale e a quella dello stato di Victoria.

Becciu indagato dai pm vaticani: "Peculato per i soldi ai fratelli". Maria Elena Vincenzi La Repubblica il 22 ottobre 2020. Nel mirino della nuova rogatoria i fondi per la birra Pollicina e la Spes di Ozieri. Angelo Becciu è indagato per peculato. Le autorità vaticane non mollano e continuano a scavare. La procura di Roma ha ricevuto una nuova rogatoria che chiede di fare chiarezza su alcuni dei rapporti, familiari ma anche economici, che hanno causato la rottura tra papa Francesco e il cardinale. E la strada porta dritta ai fratelli del religioso. Il promotore di giustizia ha chiesto ai pm capitolini (che stanno per delegare accertamenti alla Guardia di Finanza) di ricostruire i rapporti tra la Caritas di Roma e la Angel’s, amministrata da Mario Becciu che produce la birra Pollicina. La società ha infatti stretto un accordo di partnership per poter apporre il marchio della Caritas Roma sull’etichetta della bionda, impegnandosi in cambio a donare alla Fondazione il 5 per cento del fatturato delle vendite. Un contratto secondo Oltretevere poco chiaro e che è stato contestato all’ex braccio destro del Pontefice e che rischia di avere anche, in Italia, profili di illegittimità fiscale. Peraltro, rimane da chiarire se il denaro concordato sia stato effettivamente girato alla Fondazione. Nel mirino degli inquirenti c’è anche la diocesi di Ozieri e la Spes, cooperativa il cui titolare è un altro Becciu, Tonino. All’impresa sono arrivati 700 mila euro a fondo perduto e, stando alle accuse vaticane, senza motivo. Finanziamenti inviati in tre tranches: 300 mila euro nel settembre del 2013 per ampliare l’attività e l’ammodernamento del forno, stessa cifra nel 2015 per riparare i danni di un incendio e, infine, 100 mila euro nel 2018 per gli adeguamenti della struttura che si era riconvertita all’accoglienza dei migranti. I primi due finanziamenti chiesti e ottenuti dal cardinale Becciu venivano dalla Cei e facevano parte dei fondi dell’otto per mille. Il terzo, quello più recente, era invece stato disposto dall’Obolo di San Pietro, fondo sotto il diretto controllo del cardinale. Ora la procura di Roma ha aperto un fascicolo rogatoriale e dovrà capire la natura di quei rapporti, quello tra la Caritas di Roma e la Angel’s e quello tra la diocesi di Ozieri e la Spes. E se ci siano altri versamenti dalla Segreteria vaticana a vantaggio del cardinale al quale il Papa ha chiesto di rinunciare ai suoi diritti di porporato.

Ileana Sciarra e Mia Grassi per adnkronos.com il 22 ottobre 2020. Tredici pagine per spiegare le ragioni per cui deve restare in carcere (e poi essere estradata in Vaticano) Cecilia Marogna, la 39enne cagliaritana divenuta nota come la 'dama di Becciu' per il legame fiduciario che la lega all'ex numero due della Segreteria di Stato, arrestata a Milano il 13 ottobre scorso, su mandato di cattura internazionale richiesto dall'Ufficio del Promotore di giustizia della Santa Sede. L'Adnkronos ha potuto visionare la richiesta di convalida dell'arresto a fini estradizionali fatta pervenire al ministro della Giustizia italiano, Alfonso Bonafede, dagli inquirenti vaticani. Tredici pagine, appunto, in cui la magistratura d'Oltretevere ricostruisce passo dopo passo nei dettagli il caso che sta facendo tremare le mura leonine, già messe a dura prova dallo scandalo dell'acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Peculato e appropriazione indebita aggravata: sono questi i reati di cui è accusata la Marogna. Gli inquirenti vaticani contestano alla manager sarda, nella qualità di amministratrice della Logsic Doo, società con sede in Slovenia "costituita al fine di svolgere assistenza sociale non residenziale e finanziata dalla Segreteria di Stato", di essersi appropriata di 575mila euro "che le erano stati affidati in ragione delle sue funzioni utilizzandoli per acquisti voluttuari incompatibili con le finalità impresse dalla Segreteria di Stato all’atto dell’affidamento stesso" e di aver agito "con più atti esecutivi della medesima risoluzione" e "in concorso con persone allo stato ignote". L'inchiesta, si spiega nelle carte, ha avuto origine da una segnalazione della Polizia slovena, insospettita da una serie di movimentazioni anomale registrate su due conti intestati alla Logsic Doo, la società con sede a Lubiana di cui Marogna è amministratrice. A seguito della segnalazione, gli uomini della Gendarmeria Vaticana, attraverso accertamenti bancari, hanno rilevato che i due conti correnti "risultavano alimentati da nove bonifici emessi dalla Segreteria di Stato tra il 20-12-2018 e 1’11-7-2019 per un ammontare complessivo di 575.000 euro" e che molte delle movimentazioni eseguite "riguardavano spese non compatibili con l’oggetto sociale della società". Dalla visura camerale, infatti, era emerso che la Logsic Doo avrebbe dovuto svolgere attività di assistenza sociale non residenziale mentre dall’analisi degli estratti conto della società era emerso che le spese sostenute dalla Marogna "non avevano alcuna attinenza con le dette finalità assistenziali e umanitarie". Inoltre, dall’analisi dei conti sono emersi oltre 120 pagamenti tra negozi come Prada, Tod’S, Hogan, Missoni, La Rinascente, Montblanc, Louis Vuitton, Maxmara, Poltronesofa, Auchan, alberghi prestigiosi (come l’Hotel Bagni nuovi di Bormio e l'Hotel Cervo in Costa Smeralda), ristoranti di lusso e, sottolineano gli inquirenti, "ulteriori approfondimenti sono in corso". Quanto alle modalità dei pagamenti, negli atti che l'Adnkronos ha potuto visionare ci sono una serie di conversazioni via Whatsapp tra il cardinale Angelo Becciu e monsignor Alberto Perlasca, all'epoca Capo dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato vaticana. In particolare, il 20 dicembre del 2018 Becciu (che già non era più Sostituto della Segreteria di Stato) scrive a Perlasca di inviare i soldi alla Marogna, incaricata di mediare per il Vaticano per la liberazione di una suora colombiana rapita, e di farlo suddividendo la somma in diverse tranche. "Ti ricordi questione suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi - scrive Becciu - Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico: 75.000 euro intestato a 'Logsic doo'. Causale: 'voluntary contribution for a humanitarian mission'". In un successivo messaggio, Becciu ribadisce a monsignor Perlasca la finalità che il fondo avrebbe dovuto assolvere, cioè la liberazione della suora colombiana, alludendo "anche al fatto - sottolineano gli inquirenti - che lo stesso trasferimento fosse stato preceduto dall’autorizzazione della superiore Autorità Sovrana", ossia il Papa: "Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto". Messaggio al quale, peraltro, Mons. Perlasca risponde "ok per suora" lasciando intendere di essere a conoscenza della vicenda. Agli atti anche lo scambio di messaggi tra Perlasca e Fabrizio Tirabassi, funzionario dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato e suo stretto collaboratore, a cui Perlasca indica i bonifici da fare: “Monsignor Perlasca inoltrava il numero dell’Iban del destinatario – corrispondente al conto corrente intestato alla Logsic Doo – a Fabrizio Tirabassi”, rilevano gli inquirenti nelle carte. Peraltro, lo stesso scambio di messaggi tra Becciu e Perlasca e Perlasca e Tirabassi avviene, rilevano gli inquirenti, "anche in occasione della disposizione degli altri bonifici che hanno costituito il deposito della società Logsic doo", avvenuti tra gennaio e luglio 2019. Questo porta gli inquirenti a concludere, "con una certezza che esclude ogni possibile ragionevole dubbio, che la Segreteria di Stato aveva versato alla Logsic doo, affidandole alla signora Cecilia Marogna, somme per finalità istituzionali". A spingere gli inquirenti a contestare il peculato, oltre all'appropriazione indebita aggravata, a Marogna, la convinzione che la manager sarda "agì da pubblico ufficiale". In particolare, nella richiesta i magistrati della Santa Sede spiegano che "nell’ordinamento vaticano non esiste la differenza - presente invece nell’ordinamento italiano - tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale" e che "qualsiasi persona titolare di un mandato amministrativo (oltre che legislativo o giudiziario) nello Stato, sia esso nominativo o elettivo, a titolo permanente o temporaneo, remunerato o gratuito, ed a prescindere dalla sua collocazione nell’ambito della organizzazione gerarchica, assume la qualifica di pubblico ufficiale". In questo senso ritengono che la manager sarda "per l’incarico ricevuto e la natura delle attività che le erano state affidate attraverso la gestione della Logsic Doo - come visto finanziata esclusivamente con fondi erogati dalla Segreteria di Stato -, abbia rivestito la qualifica di pubblico ufficiale". Circostanza suffragata anche dalla corrispondenza intercorsa tra Becciu e monsignor Alberto Perlasca, all'epoca Capo dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato vaticana, dalla quale emerge come la Marogna "avrebbe dovuto collaborare ad una operazione delicatissima e di grande importanza, vale a dire contribuire alla liberazione di una suora colombiana, missionaria in Mali e rapita dalla città di Karangasso provincia di Bamako nel febbraio 2017, che certamente può essere considerata di natura pubblica e rientrante nella nozione di mandato amministrativo temporaneo". Ma più di ogni altra cosa, secondo gli inquirenti, conta la dichiarazione del 17 novembre 2017 su carta intestata della Segreteria di Stato sottoscritta da Becciu in qualità di Sostituto della Segreteria di Stato, dove il cardinale attestava che "la signora Marogna presta servizio professionale come analista geopolitico e consulente relazioni esterne per la Segreteria di Stato — Sezione Affari Generali". Una "chiara investitura", secondo gli inquirenti, "implicante l’esercizio di poteri di natura pubblicistica - quale la gestione e conservazione di fondi pubblici destinati ad una finalità non certamente lucrativa - che la signora Cecilia Marogna, invece, ha svilito sfruttandolo e piegando a proprio unico favore il mandato ricevuto". Infine, gli inquirenti, a comprova delle loro deduzioni sul mandato pubblico della Marogna, ricordano nelle carte inviate a Bonafede la Lettera Apostolica 11 luglio 2013 "in forma di Motu Proprio del Sommo Pontefice (fonte normativa vincolante) a norma del quale ogni persona titolare di un mandato amministrativo nella Santa Sede, a titolo permanente o temporaneo, remunerato o gratuito, qualunque sia il suo livello gerarchico, è pubblico ufficiale".

Fulvio Fiano per roma.corriere.it il 22 ottobre 2020. Nove bonifici in sette mesi dalla segreteria di Stato a Cecilia Marogna e 120 pagamenti presso hotel e negozi lusso da parte della donna con le somme ricevute. La prova sarebbe anche in una serie di messaggi whatsapp con cui il cardinale Angelo Becciu, numero due della segreteria vaticana, dava disposizioni a monsignor Alberto Perlasca (ex capo dell’ufficio amministrativo della segreteria di Stato) per l’invio dei fondi. È uno dei passaggi fondamentali riportati nella richiesta di convalida dell’arresto della 39enne cagliaritana sottoposta dall’ufficio del promotore di giustizia vaticana al ministro della Giustizia italiano, Alfonso Bonafede, per chiederne l’estradizione in territorio vaticano. Il 20 dicembre del 2018 Becciu (che già non era più Sostituto della Segreteria di Stato) scrive a Perlasca di inviare i soldi alla Marogna, incaricata di mediare per il Vaticano per la liberazione di una suora colombiana missionaria in Mali e rapita dalla città di Karangasso provincia di Bamako nel febbraio 2017, e di farlo suddividendo la somma in diverse tranche. «Ti ricordi questione suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi - scrive Becciu - Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico: 75.000 euro intestato a “Logsic doo”. Causale: “voluntary contribution for a humanitarian mission”». In un successivo messaggio, Becciu ribadisce a monsignor Perlasca la finalità che il fondo avrebbe dovuto assolvere, cioè la liberazione della suora colombiana, alludendo «anche al fatto - sottolineano gli inquirenti - che lo stesso trasferimento fosse stato preceduto dall’autorizzazione della superiore Autorità Sovrana», ossia il Papa: «Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP (Santo Padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Messaggio al quale, peraltro, Mons. Perlasca risponde «ok per suora» lasciando intendere di essere a conoscenza della vicenda. L’indagine sulla «dama di Becciu», arrestata a Milano il 13 ottobre scorso, nasce da una segnalazione della polizia slovena su una serie di movimentazioni anomale registrate su due conti intestati alla Logsic Doo, la società con sede a Lubiana di cui la manager sarda è amministratrice.In particolare, come accertato dalle indagini della Gendarmeria Vaticana i due conti «risultavano alimentati da nove bonifici emessi dalla Segreteria di Stato tra il 20-12-2018 e 1’11-7-2019 per un ammontare complessivo di 575.000 euro» e molte di queste movimentazioni «riguardavano spese non compatibili con l’oggetto sociale della società», ufficialmente attiva nel settore della assistenza sociale non residenziale. Le spese, come detto «non avevano alcuna attinenza con le dette finalità assistenziali e umanitarie» essendo piuttosto pagamenti presso negozi di grandi firme di moda e non solo come Prada, Tod’S, Hogan, Missoni, La Rinascente, Montblanc, Louis Vuitton, Maxmara, Poltronesofa, Auchan e poi alberghi prestigiosi (l’Hotel Bagni nuovi di Bormio e l’Hotel Cervo in Costa Smeralda), ristoranti di lusso. Ulteriori approfondimenti sono in corso. A Marogna vengono contestati il peculato e l’appropriazione indebita proprio in virtù di quell’incarico relativo alla suora rapita. Secondo gli inquirenti vaticani, infatti, la 39 enne «agì da pubblico ufficiale» . I magistrati della Santa Sede spiegano che «nell’ordinamento vaticano non esiste la differenza - presente invece nell’ordinamento italiano - tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale» e che «qualsiasi persona titolare di un mandato amministrativo nello Stato, assume la qualifica di pubblico ufficiale». Agli atti anche lo scambio di messaggi tra Perlasca e Fabrizio Tirabassi, funzionario dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato e suo stretto collaboratore, a cui Perlasca indica i bonifici da fare: «Monsignor Perlasca inoltrava il numero dell’Iban del destinatario – corrispondente al conto corrente intestato alla Logsic Doo – a Fabrizio Tirabassi», rilevano gli inquirenti nelle carte. Peraltro, lo stesso scambio di messaggi tra Becciu e Perlasca e Perlasca e Tirabassi avviene, rilevano gli inquirenti, «anche in occasione della disposizione degli altri bonifici che hanno costituito il deposito della società Logsic doo», avvenuti tra gennaio e luglio 2019. Questo porta gli inquirenti a concludere, «con una certezza che esclude ogni possibile ragionevole dubbio, che la Segreteria di Stato aveva versato alla Logsic doo, affidandole alla signora Cecilia Marogna, somme per finalità istituzionali». E sempre riguardo a Becciu, la polizia federale australiana sta esaminando evidenze di rimesse di denaro dal Vaticano all’Australia, che sarebbero legate a tentativi di influenzare sfavorevolmente il processo per pedofilia a carico del cardinale australiano George Pell, rivale dell’ex cardinale, dal quale poi è stato scagionato. L’indagine è stata avviata dopo che l’ente di controllo dei reati finanziari Australiano ha fornito informazioni alla polizia federale e a quella dello stato di Victoria.

Scandalo Vaticano, ecco per cosa è indagato il cardinale Angelo Becciu. Dalla birra all'accoglienza dei migranti: la magistratura adesso indaga sui bonifici ai fratelli di Becciu. Il cardinale ha già respinto ogni accusa. Giuseppe Aloisi, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. La notizia era nell'aria, ma ora c'è qualche certezza in più: il cardinale Angelo Becciu - l'alto ecclesiastico che è stato privato di alcune facoltà derivanti dalla porpora - è indagato per peculato. Trattasi di accuse che il consacrato sardo ha già respinto mediante conferenze stampa. Ma la questione, in termini inchiestistici, è andata avanti. Papa Francesco è stato irreprensibile: qualcuno confida nel fatto che Bergoglio cambi idea ma, nel caso le cose dovessero restare come sono adesso, Becciu non parteciperà al prossimo Conclave. Quello che eleggerà il successore dell'ex arcivescovo di Buenos Aires. Il caso de la "dama di Becciu" è un conto, quello dei presunto peculato del porporato italiano è un altro. L'elemento comune è la segreteria di Stato, l'ente del Vaticano al centro di tutta questa vicenda, che è complessa e che tocca il tema della gestione dell'Obolo di San Pietro. Becciu avrebbe in qualche modo favorito alcuni suoi familiari: il condizionale è d'obbligo, ma questo è l'aspetto su cui sembra si stiano concentrando gli inquirenti:"...la procura di Roma - si legge sull'Adnkronos, che ha ripercorso quanto scritto su Repubblica - ha ricevuto una nuova rogatoria che chiede di fare chiarezza su alcuni dei rapporti, familiari ma anche economici, che hanno causato la rottura tra papa Francesco e il cardinale. E la strada porta dritta ai fratelli del religioso". Ma quali sono questi "rapporti economici"? Anzitutti quelli tra la Caritas romana ed una società chiamata Angel's. La seconda, che produce birra, è amministrata da uno dei fratelli del cardinale Becciu: "La società - si legge sulla fonte sopracitata - ha infatti stretto un accordo di partnership per poter apporre il marchio della Caritas Roma sull'etichetta della bionda, impegnandosi in cambio a donare alla Fondazione il 5 per cento del fatturato delle vendite. Un contratto secondo Oltretevere poco chiaro e che è stato contestato all'ex braccio destro del Pontefice e che rischia di avere anche, in Italia, profili di illegittimità fiscale". Il Vaticano starebbe insomma cercando di comprendere se esistono o no profili di illegitimmità in quanto messo in campo da Becciu in alcune operazioni economico-finanziarie. Certo è che la decisione presa dal pontefice argentino - quella di ridimensionare la sfera soggettiva di cardinale di Becciu - è già esaustiva per comprendere cosa pensi il Santo Padre di tutta questa faccenda. Ma le accuse inoltrate al cardinale italiano non sono terminate. L'alto ecclesiastico, che ha negato ogni accusa, ha ricordato di aver giurato da cardinale di essere disposto a morire per il pontefice, ma Bergoglio deve comunque aver creduto ad una versione diversa rispetto a quella presentata dall'ex sostituto della segreteria di Stato ed ex prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Altrimenti Becciu avrebbe ancora tutti i diritti derivanti dal fatto di essere un cardinale. Nel novero delle accuse, poi, c'è almeno un altro rapporto attenzionato da chi è deputato ad indagare: " Nel mirino degli inquirenti - continuano le fonti - c'è anche la diocesi di Ozieri e la Spes, cooperativa il cui titolare è un altro Becciu, Tonino". Poi la specificazione sul quantum: "All'impresa sono arrivati 700 mila euro a fondo perduto e, stando alle accuse vaticane, senza motivo. Finanziamenti inviati in tre tranches: 300 mila euro nel settembre del 2013 per ampliare l'attività e l'ammodernamento del forno, stessa cifra nel 2015 per riparare i danni di un incendio e, infine, 100 mila euro nel 2018 per gli adeguamenti della struttura che si era riconvertita all'accoglienza dei migranti". Nel calderone, in qualche modo, potrebbe finire pure qualcosa d'inerente alla gestione dei fenomeni migratori, ma è presto per tirare le somme. Ad essere certe, sino a questo momento, sono soltanto le fattispecie individuate in sede d'inchiesta. C'è chi chiede a gran voce un processo per fare luce. Una delle anomalie di questa storia è proprio la mancata convocazione, almeno ad oggi, di una fase processuale da parte dei "pm" di Bergoglio. Ora però anche la magistratura italiana potrebbe dire la sua. E il nuovo grande "scandalo Vaticano" potrebbe continuare a far parlare di sé per molto tempo.

«Una associazione a delinquere contro la Santa Sede». Nuove ipotesi di reato dalla rogatoria svizzera che pubblichiamo in esclusiva. Perno della rete che gestiva le operazioni all’ombra della Segreteria di Stato dell’ex cardinale Becciu, Enrico Crasso, il finanziere che in trent’anni ha fatto così tanti soldi al punto che, scrivono: «Non è stato possibile ricostruire le commissioni totalmente incassate». Massimiliano Coccia su L'Espresso il 23 ottobre 2020. Spunta anche l’ipotesi dell’«associazione a delinquere ai danni della Santa Sede», nell’inchiesta vaticana sulle operazioni all’ombra della segreteria di Stato: «Un’ipotesi che non si può escludere», scrivono gli inquirenti nella rogatoria che siamo in grado di pubblicare in esclusiva. Dopo un mese dalle dimissioni del cardinale Angelo Becciu, in seguito all’inchiesta dell’Espresso , le indagini procedono e i promotori di giustizia attendono i riscontri sulle rogatorie internazionali, trasmesse in Svizzera ormai quasi un anno fa, che ricostruiscono il sistema di potere che l’ex porporato di Pattada aveva creato per gestire le finanze della Segreteria di Stato: una rete composta da finanzieri, broker, faccendieri, dipendenti della segreteria di Stato, avvocati e consulenti in genere, i cui nomi abbiamo incontrato in queste settimane, da Enrico Crasso a Raffaele Mincione, Gianluigi Torzi, Fabrizio Tirabassi, Luciano Capaldo e Nicola Squillace. Tutti soggetti per cui gli inquirenti vaticani ipotizzano non soltanto i reati di abuso di autorità, peculato, corruzione e riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di proventi di attività criminose. La complessità e vastità dell’intreccio fa formulare agli inquirenti una ipotesi in più. Scrivono infatti: «Posto che i legami tra i vari personaggi interni ed esterni alla Segreteria di Stato si sono svolti lungo un arco temporale consistente, attraverso la predisposizione di articolati strumenti giuridici con sedi in diversi Paesi, anche di “black list”, e con la realizzazione di molteplici attività delittuose, viene inoltre configurato il reato di associazione a delinquere ai danni della Santa Sede». Il perno di questo sistema, che politicamente faceva capo al suo responsabile, l’ex cardinale Becciu, appare sempre di più, nonostante le sue continue smentite, Enrico Crasso, figura apicale della gestione delle finanze della cassa della Segreteria di Stato. Romano, classe 1948, una vita in Credit Suisse, dal 1990 gestore unico e incontrastato dei soldi della seconda istituzione vaticana, mentore di operazioni senza etica, in perenne conflitto di interesse. Un uomo potente che ha messo la sua base operativa in Svizzera, di cui è cittadino, e dove vive barricato dentro la sua villa che affaccia sul lago di Lugano, dalla quale in questi giorni ha raccontato ai giornali molteplici versioni della sua estraneità ai fatti, preferendo interloquire con la carta stampata che con gli inquirenti. Un professionista quasi infallibile lo dipingono, uno che unisce l’arguzia del ragazzo cresciuto per strada alla competenza degli studi alla Luiss: appassionato di golf, raccontano che arrivasse a Roma con un jet privato e, una volta sbrigate le faccende vaticane, se ne rivolasse via per calcare il green a Montecarlo. Crasso è l’evoluzione contemporanea del “generone romano”, un uomo collocato nella parte alta della società capitolina, che non tradisce nel passo, nelle movenze e nella stratificazione culturale un certo modo di essere arrogante, furbo e spregiudicato. Un uomo che registra tutto, ogni telefonata, ogni riunione e che ha strategicamente scaricato responsabilità a goccia, prima dando agli inquirenti la prova regina delle responsabilità di Gianluigi Torzi, il broker molisano incaricato di chiudere l’affare del palazzo di Sloane Avenue a Londra, una registrazione in cui Torzi spiega con meticolosità il piano di estorsione ai danni della segreteria di Stato. In queste settimane ha poi cercato di caricare ogni responsabilità del disastro finanziario del palazzo di Londra sul faccendiere Raffaele Mincione: ma dalle carte degli inquirenti si evince come i tre agissero in pieno accordo, cercando univocamente di distrarre fondi in modo predatorio dall’Obolo di San Pietro e dagli altri fondi. Secondo gli investigatori della Santa Sede, Crasso avrebbe più volte «contribuito ad utilizzare fondi diversi da quelli istituzionali e per investimenti speculativi non redditizi». Una montagna di soldi che il finanziere romano gestiva con disinvoltura e, per gli inquirenti, «con un evidente conflitto di interessi e un possibile rischio di frode a danno della Segreteria di Stato». Una modalità figlia di una trentennale esperienza che è fruttata a Crasso, tra fee e consulenze, una cifra di difficile individuazione anche per i promotori di giustizia: «Non è stato possibile ricostruire le commissioni totalmente incassate dallo stesso per la sua attività svolta», scrivono infatti. Un tesoro che Enrico Crasso, avrebbe, secondo indiscrezioni, fatto transitare su alcuni conti correnti svizzeri a Santo Domingo, attraverso un fondo controllato tramite la Banca Zarattini che, nel corso dei decenni, sarebbe stato usato come salvadanaio. Soldi provenienti non solo dalle sue consulenze, ma anche distratti con giri di cassa perfettamente contabilizzati anche negli ultimi mesi, che farebbero presagire, come riporta anche la rogatoria svizzera, ulteriori sviluppi: «Nonostante la Segreteria di Stato sia stata allertata ha continuato a dargli fiducia e non togliergli la delega ad operare sui propri conti correnti. Merita - scrivono gli investigatori - un approfondimento il legame stesso che lo stesso ha con i dipendenti della Segreteria di Stato». Da notare come il finanziere romano nel corso dei giorni scorsi abbia lasciato varie cariche come quella di consigliere di amministrazione di “Italia Independent”, società che fa capo a Lapo Elkann, la Cristallina Holding, società del settore delle acque oligominerali, e si appresti a dimettersi anche dal board di New Deal srl, la società gestisce “Giochi Preziosi”, tutte società che ricordiamo essere al centro di investimenti della segreteria di Stato. In queste ore concitate Crasso sta giocando una partita a scacchi, fatta di omissioni, dichiarazioni di innocenza a mezzo stampa e volontà solo teorica di collaborare con gli inquirenti. Chissà se l’asso della finanza, romano con cittadinanza svizzera, riuscirà ancora a mescolare le carte o per una volta sarà costretto a spiegare trent’anni di finanze vaticane, trucchi, raggiri contabili e investimenti in paradisi fiscali fatti all’ombra del Cupolone, sotto pontefici differenti. Neanche lui avrà tenuto conto del “fattore Bergoglio” che ha cambiato il .suo terreno di gioco: da campo da golf a terreno minato.

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 23 ottobre 2020. «Quel che ho letto finora sui giornali non mi tocca, la realtà è diversa», dice Cecilia Marogna. Pacata e quasi imperturbabile: la descrive così chi, in virtù del proprio ruolo di parlamentare, è andato a trovarla per sincerarsi delle sue condizioni. La 39enne originaria di Cagliari è in carcere a San Vittore, arrestata lo scorso 13 ottobre. (…) Ma quel che a Marogna sembra interessare maggiormente, ciò a cui evidentemente tiene di più - anche alla luce del soprannome che le è stato dato, ovvero la "dama di Becciu" - è difendere l' onore, la moralità del 72enne cardinale Giovanni Angelo Becciu, rimosso dalle sue funzioni da papa Francesco dopo lo scandalo sulla gestione dei fondi dell' Obolo di San Pietro. (...) Marogna soppesa parola per parola, non è uno sfogo, giura però che «Becciu è un prete vero». Uno che ci crede sul serio, fedele alle disposizioni. Insomma, lei e il cardinale non erano amanti. La propria tranquillità è tale perché «so quel che ho fatto e non ho fatto», aggiunge al proprio interlocutore. Però rimangono le carte dell' indagine che l' hanno portata in carcere dopo un mandato di arresto internazionale, accusata di appropriazione indebita aggravata e peculato. Ad incastrarla ci sono nove bonifici in sette mesi dalla Segreteria di Stato a un conto straniero e 120 pagamenti in negozi di lusso da parte della donna con le somme ricevute. Spese da Prada, Tod' s, Missoni, Montblanc, Louis Vuitton, Max Mara, alberghi e ristoranti costosi. Soldi che invece dovevano servire per pagare il riscatto di una suora rapita. (…)

L'ex della dama: «Studi di geopolitica? Forse dal divano». Giuseppe China per “la Verità” il 23 ottobre 2020. Cecilia Marogna è diventata un rebus anche per i suoi ex partner. La cosiddetta dama del cardinale Angelo Becciu, accusata dai promotori di giustizia vaticani di appropriazione indebita aggravata e peculato per distrazione, è irriconoscibile agli occhi di chi ha condiviso con lei anni di vita. «Per me è come un fulmine a ciel sereno, una cosa allucinante. Un incubo, non ci dormo la notte. Fino a quando mi informavo sui giornali, da un po' non leggo più, pensavo: «Ma stanno scherzando? Per me è solamente la madre di mia figlia, in questi anni non faceva altro che venire a Cagliari e tenere la bambina. Per il resto cado dal pero». Sono le prime parole di Alessandro C., commerciante cagliaritano legato alla Marogna fino al 2013 e padre della loro figlia. I due però non si sono mai sposati, né con rito civile né soprattutto in chiesa. Spieghiamo all' interlocutore che il nostro obiettivo è cercare di approfondire la conoscenza sul personaggio Marogna, gli interessi e i contatti che coltivava in epoca non sospetta. Quest' ultima le ha mai parlato dei suoi rapporti con Becciu? «Mai sentito nominare». Magari le ha accennato della passione per i servizi segreti?  Anche in questo caso la risposta è negativa. Non ci resta che provare con il forte interesse per la geopolitica, materia che a detta della stessa Marogna «non si studia all' università» ma per cui lei ha sempre avuto un' inclinazione, tanto da farne un lavoro come si legge sul suo profilo Instagram. Dunque, la vocazione per le relazioni internazionali? « Al di là che non capisco cosa voglia dire quella parola (geopolitica ndr), scusi la mia ignoranza. Ho dei limiti cognitivi. Ma da dove, dal divano? Mi faccia capire, non riesco a capirlo», risponde Alessandro C..Insistiamo sul fatto che la donna si dica esperta dell' area che comprende il Medio Oriente e il Nord Africa, la cosiddetta «Mena Region». «Con me non c' è mai andata, perché in quel periodo stavamo prevalentemente a casa». Sul tema potrebbe aver comprato dei libri per ampliare la sua preparazione. «No», ripete più volte Alessandro C. Capitolo beni di lusso, per essere più espliciti gli acquisti presso le grandi boutique di moda. D' altronde sono state proprio le presunte acquisizioni, per circa 200.000 euro, di capi e borse firmate ad inguaiare la donna con la giustizia. Dalle carte emergono 120 pagamenti per spese «non compatibili con l' oggetto sociale della sua società Logsic doo». «Capisce stiamo parlando di cose, cifre 200.000 euro non li ho mia visti in vita mia. Poi mi scusi me ne sarei accorto (se la Marogna fosse stata particolarmente attratta dalle compere di abbigliamento ndr). Ripeto io parlo sempre riferendomi a sette anni fa». Quindi non ci sarebbero analogie tra la vita mostrata sui social - dove i viaggi (Londra, Dubai, Madonna di Campiglio e Lubiana solo per citarne alcuni) erano quasi all' ordine del giorno, fino allo scoppio dell' inchiesta - e quella precedente? «Minimamente, la nostra era un' esistenza normalissima». Lontana dal mondo del Vaticano, visto che «anche questo ingresso (ai piani più alti delle mura leonine, ndr) quando è avvenuto, senza dubbio non stavamo insieme». Come abbiamo già raccontato fino a sette anni fa circa, la Marogna lavorava nel commercio. Circostanza che ci viene confermata da Alessandro C.: «Faceva la rappresentante per Nokia (in realtà l' azienda di riferimento era Master spa, ndr), vendeva cellulari. Una professione ordinaria, come tante altre». Eppure la Master avrebbe denunciato la Marogna per appropriazione indebita, dato che a detta dell' azienda non avrebbe restituito un' automobile e un computer; e a qualche anno prima risalirebbe un' altra denuncia per furto nei confronti della donna. «Queste circostanze che mi sta citando», replica Alessandro C, «le ho apprese dai giornali, sono scioccato». «Forse questo aggettivo non è abbastanza eloquente, o non mi ha sentito, perché tra le altre cose sono costretto a gestire l' attenzione mediatica. Io sono un persona normale con un lavoro normale. Non ho capacità di gestire e capire certe cose, queste ancora di più. Tra l' altro io sono una persona che non è mai stata curiosa. Sono preoccupato da genitore, vorrei solo capire come si evolverà la vicenda: è chiaro che se ha commesso degli errori dovrà pagare. Nonostante la storia sia finita da anni, quello che vedo mi dispiace [] Io sono preoccupato per un discorso genitoriale. La bambina vuole la mamma. Io non posso trasformarmi in donna, per quanto ci sia un rapporto spettacolare. Però adesso c' è questa assenza. Vorrei capire questa cosa come si sviluppa questa cosa. Io ho solo una speranza che essendo comunque un genitore, c' è una figlia tutto si concluda nel miglior modo possibile. Mia figlia si merita una mamma libera». Dopo questo sfogo, riprendiamo a fare domande concentrandoci ancora una volta su Becciu. Risposta: «Questo discorso esula da quello che è il presente, magari dovreste chiedere più al compagno attuale , a chi le è più vicino e non a me. Io non posso asserire cose che non conosco». E così abbiamo fatto, peccato che Fabio B.S. ci abbia dato solo il tempo di presentarci telefonicamente. «In questo momento non posso parlare», ha ripetuto più volte prima di chiudere la conversazione. Inutili i tentativi di riprendere il colloquio. Così abbiamo contattato Enrico C., un' altra «storia importante» della Marogna, ingegnere di Cagliari: «Non ho la più pallida idea di cosa facesse questa signora nella vita. Guardi l' unica cosa che posso dirle è che se sta a San Vittore (carcere di Milano, da dove la donna è rinchiusa dallo scorso 13 ottobre, in seguito all' arresto su mandato di cattura internazionale ndr) vuol dire che lo merita. Noi ci siamo lasciati anni fa e buonanotte». I legami con il Vaticano sono il fulcro dell' inchiesta, per questo motivo chiediamo se Marogna fosse una cattolica molto praticante, in una parola devota. «Se ci andava (in chiesa ndr), ci andava senza me». Chiediamo della passione per la geo politica, ma anche in questo caso senza troppa fortuna. «Ripeto non ho la più pallida idea di che lavoro facesse», racconta Enrico C, «sempre che l' abbia avuto il lavoro». Non ci perdiamo d' animo. «Rapporti tra Marogna e Carboni (Flavio ndr)? Mai sentiti, so solo che Carboni era implicato nel caso Calvi (Roberto, banchiere morto nel 1982 a Londra ndr)». All' epoca della vostra relazione le ha mai parlato di Becciu e Pazienza (Francesco, ex agente segreto ndr)? «No». Appena proviamo a sapere come si siano conosciuti, Enrico C. ribatte: «Dai chiudiamola qui».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 23 ottobre 2020. «Lo giuro su Evita Peròn», esclama con la voce raschiata dal tabacco. «La adoro. Mi alzo tutte le mattine alle 6 per farle l' iniezione di insulina visto che è diabetica». Evita è una cagnolina, una West Highland, e l' intervistato è Francesco Pazienza, una delle figure più discusse della nostra storia recente. Nato il 17 marzo del 1946 in provincia di Taranto («sono terrone e me ne vanto» ci dice), è laureato in medicina e chirurgia («Con 110 e lode»), ma nella sua vita ha fatto tutt' altro. Per Wikipedia «è un ex agente segreto italiano, noto per essere stato coinvolto in varie indagini sugli episodi di terrorismo e stragismo». È stato condannato a 10 anni di prigione per aver depistato le indagini sulla strage di Bologna, nonostante si sia sempre professato innocente («I giudici di Milano hanno contestato la decisione dei colleghi di Bologna sottolineando come io fossi nemico di Gelli e della P2»). Ha preso anche sei anni per il crac del Banco ambrosiano. È stato consulente del Sismi, i servizi segreti militari. Nel 1982 si è trasferito negli Stati Uniti a fare il finanziere, il suo lavoro di sempre. Un anno dopo è scattato il mandato di arresto nei suoi confronti. Ha trascorso 12 anni in cella, di cui quasi 6 in isolamento («Hanno cercato di farmi diventare matto») e l' ultimo anno e mezzo di condanna l' ha trascorso in affidamento ai servizi sociali facendo il volontario della pubblica assistenza di Lerici (La Spezia). Per il suo impegno durante il terremoto dell' Aquila ha ricevuto un attestato di benemerenza firmato dal prefetto Franco Gabrielli, l' attuale capo della Polizia. Ha scritto un libro intitolato Il disubbidiente: «Ma è introvabile, l' hanno fatto sparire. Su Amazon costa 170 euro». Detesta barba e baffi, quindi guai a chiamarlo «barba finta». Prima di iniziare a rispondere si ricarica la pipa.

Cecilia Marogna, la cosiddetta Lady Becciu, nonché aspirante 007, dice di essere la figlia che lei non ha mai avuto.

«Io non sono mica responsabile di quello che dice la gente. Di persona non l' ho mai vista. L' ho sentita solo al telefono. Doveva venire a trovarmi a Lerici, ma era sempre occupata».

Davvero non l' ha mai incontrata?

«Lo giuro su Evita. La prima volta che ho visto la sua faccia è stata sui giornali. La verità è che in Italia quando si parla di intelligence e spionaggio si fa riferimento a me. Chiederò a qualche università di darmi una cattedra, almeno guadagnerei qualche soldo».

Come siete entrati in contatto?

«Mi è stata presentata nel 2018 da una persona dell' intelligence di cui non posso fare il nome, ma che era per me credibile».

È un agente in attività?

«Non credo. Non posso dirle altro. La Marogna vantava un rapporto di grande fiducia con i vertici dei Servizi segreti. Poi per curiosità ho fatto un giro di telefonate e ho scoperto che in effetti aveva un collegamento con loro».

Che cosa le chiese?

«Voleva dei consigli. Non si stupisca. Hollywood vuole fare un film su di me e non le sto dicendo una stronzata. Non si dimentichi che il Billygate che coinvolse il fratello del presidente statunitense Jimmy Carter, è un' operazione che feci io. Trovai le prove delle commistioni di Billy con Muammar Gheddafi e in America scoppiò un casino. E anche l' incontro del Papa con il leader palestinese Yasser Arafat l' ho organizzato io».

La Marogna aveva un motivo particolare per cercarla?

«Era gasata dal mondo dello spionaggio e voleva conoscere un' icona, diciamo così».

Ho letto che le chiedeva contatti di fonti in Sud e Centro America.

«Esattamente. Li cercava anche in alcuni Paesi africani, ma io svicolavo. Io ho dei contatti, ma non è come dare un consiglio su dove comprare un paio di scarpe».

Non le ha concesso nessuna informazione?

«Assolutamente niente».

Quante volte l' ha chiamata?

«Prima che l' arrestassero mi ha cercato 3-4 volte, forse cinque. Era appena scoppiato il caso Becciu. Non la sentivo da circa un anno e mezzo. E prima avevamo parlato altre 3-4 volte».

Nei giorni scorsi perché l' ha contattata?

«Perché era sicura che sarebbe andata a parlare con il segretario di Stato Pietro Parolin. Voleva dei consigli su come comportarsi, siccome sapeva che avevo avuto dei rapporti stretti con il Vaticano. Ma il mio Vaticano non ha niente a che vedere con quello di adesso. Il mio Vaticano era Marcinkus, Silvestrini, Casaroli, Giovanni Paolo II. Non si dimentichi che io ho mandato per conto della Santa Sede 3 milioni di dollari in lingottini d' oro a Lech Walesa (il leader di Solidarnosc, Ndr) nel gennaio del 1981 in maniera molto avventurosa».

Vale a dire?

«Li nascondemmo a Trieste nel doppio fondo di una Lada che venne ritirata a Danzica da un prete».

Torniamo alla Marogna. Le ha dato l' impressione di essere preoccupata?

«Assolutamente no. Anzi. Credeva di poter gestire la questione delle sue attività direttamente con il vertice della Segreteria di Stato. Io le dissi che non sapevo cosa consigliarle, dal momento che ignoravo di che cazzo stesse parlando. Era convinta di aver fatto liberare tanti preti e suore sequestrati. Non solo pensava che non le sarebbe successo niente, ma che anzi Parolin avrebbe voluto continuare a sviluppare un rapporto con lei, a prescindere da Becciu».

E del suo legame con il cardinale che cosa le ha detto?

«Un cazzo di niente. Parlava solo dei suoi rapporti con la Segreteria di Stato e addirittura con Parolin».

È vero che in una recente telefonata le ha parlato male di Francesca Chaouqui, la sua acerrima nemica?

«Uuuuuuuuuuuuuh. Erano come cane e gatto. Diceva che si erano scontrate. Pensava che dietro ai suoi guai e a quelli di Becciu ci fosse la Chaouqui».

Quando ha sentito la Marogna l' ultima volta?

«Ero a pranzo con un alto funzionario della Deutsche bank. Le ho detto che l' avrei richiamata. Ma poi è stata arrestata. Due o tre giorni prima, invece, era convinta che sarebbe stata convocata dal cardinale Parolin o da un suo segretario».

I conoscenti in Sardegna sostengono che non si fosse ma occupata di intelligence, che era una tranquilla casalinga che commerciava in telefonini.

«È la stessa impressione che ho avuto io. Però nella vita quando passa un treno che si ferma solo dieci secondi ci sali al volo. Ho letto sui giornali che girava per lavoro con la figlia. Non è la cosa più indicata, eufemisticamente parlando, per chi fa l' agente segreto. Non si può portare una bambina in missione, cazzo».

Come ha fatto a diventare una 007 dal nulla?

«È una questione abbastanza misteriosa anche per me. Per fare le cose che ha fatto o dice di avere fatto lei, devi avere un certo background».

La Marogna ha mai speso il nome di Flavio Carboni?

«Con me mai».

E lei ha mai parlato con Carboni della Marogna?

«Per carità. Ogni tanto lui mi chiama al telefono, è sempre lui a farlo, e mi dice (imita l' accento sardo, ndr): "Ciao come stai, devo venire a trovarti perché dobbiamo fare delle belle cose insieme", poi scompare per sei mesi. Mi ha chiamato quest' estate e mi ha detto: "Ho questo prodotto, il grafene che rivoluzionerà". Io ho tagliato il discorso: "Sì, va bene Flavio quando vuoi sono qua, c' è sempre un pesce al forno per te"».

Un' intervista sulla Marogna sta stretta a Pazienza. I suoi aneddoti ci inondano.

«L' ultimo prigioniero scambiato al Check point Charlie tra Est e Ovest è stato un mio amico, un agente cecoslovacco, che è venuto a trovarmi anche a Lerici» ci racconta. Poi ricorda che il premio Pulitzer Gerald Posner gli ha dedicato diverse pagine nel suo libro «I banchieri di Dio».

«Nell' ambiente sono abbastanza conosciuto» precisa con malcelato orgoglio. «Tre giorni fa mi hanno mandato i saluti di Rudolf Giuliani (l' ex sindaco di New York, Ndr), che sta facendo la campagna elettorale di Donald Trump, che io conosciuto a Palm Beach».

Prego? Era in missione?

«Ma quale missione, era nel 1983 e io non c' entravo più un cazzo (l' Italia aveva chiesto il suo arresto, ndr). Eravamo davanti a un caffè e siamo stati una mezz' oretta insieme e ha parlato solo di figa. Se qualcuno mi avesse detto "sei stato a tavola con il futuro presidente degli Stati Uniti", avrei chiamato il 911, il numero delle ambulanze. È stato mezz' ora a chiedermi se mi piacessero di più le bionde o le more».

Evita attira la sua attenzione. Il tempo dell' intervista è finito: «Sì, adesso ti do da mangiare. Ma non rompere i coglioni».

"Quell'arcivescovo è gay e pedofilo":..."Quell'arcivescovo è gay e pedofilo": spuntano i nuovi dossier falsi per i ricatti in Vaticano. Monsignor Peña Parra, il sostituto di Angelo Becciu che doveva mettere ordine nelle finanze della Chiesa, è finito al centro di un dossieraggio con informazioni inventate. E così lo hanno costretto ad affidarsi agli stessi uomini responsabili degli affari sballati di Londra. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 29 ottobre 2020. L'ombra di un possibile ricatto nelle fasi finali dell’affare del Palazzo di Londra; l’individuazione di sodalizio che sfocia in «associazione a delinquere». Sono due filoni, diversi, gli elementi di novità che intervengono ad arricchire la già complessa ricostruzione della rete su cui si compone la gestione del potere da parte di Monsignor Angelo Becciu, dimessosi da Prefetto della Congregazione per le cause dei santi, deposto dai suoi diritti connessi al cardinalato dopo l’inchiesta dell’Espresso e dal 28 ottobre formalmente indagato dalle autorità vaticane. Una ragnatela di soldi, società, vasi comunicanti, personalità, azioni apparentemente scollegate tra loro e distribuite in un tempo lungo, che convergono però a un risultato finale sempre identico, a un obiettivo costante: distrarre a favore di amici e familiari fondi dell’Obolo di San Pietro e in più in generale della cassa della Segreteria di Stato. La regia è dell’ex porporato di Pattada, l’azione è affidata al finanziere Enrico Crasso.

Spunta un dossier in Vaticano: "Se mi mandi tue foto hard..." Spunta una chat tra un giornalista ed un "professionista": una foto con il Papa in cambio di una frequentazione. Altro scandalo all'ombra delle mura leonine. Giuseppe Aloisi, Sabato 24/10/2020 su Il Giornale. Il Vaticano di questi tempi è chiamato a gestire una serie di scandali, ma ora la lista di quest'ultimi rischia in qualche modo di allungarsi. L'ultimo retroscena balzato agli onori delle cronache riguarda una presunta richiesta a sfondo sessuale inoltrata da un giornalista, che le cronache odierne raccontano essere anche in buoni rapporti con il cardinal Angelo Becciu, ad un'altra persona, che aveva manifestato il desiderio di riuscire ad essere fotografato di fianco al Papa. Come si comprende bene, la vicenda non riguarda in maniera diretta le sacre stanze. Ma esisterebbe un fascicolo riguardo questa storia che starebbe circolando dalle parti delle mura leonine. Il racconto riportato stamattina su La Verità è più o meno questo: un addetto ai lavori, nello specifico un vaticanista, riceve una richiesta: "Comunque il mio obiettivo è avere la foto con il Papa. Cani e porci ce l'hanno. Nelle guardie svizzere ci sono molti gay, ma non sono potenti", gli scrive una persona, che evidentemente non conosce troppo le "cose vaticane" e non ha modo di intraprendere corsie preferenziali per ottenere l'agognata foto col pontefice argentino. La risposta del giornalista alla richiesta del "professionista" sarebbe pure la seguente: "Tu frequentami e avrai tutto". E ancora: "Sei tu quello che ha 22 cm, non io!". Poi le repliche alle domande di quello che la fonte sopracitata ha chiamato "professionista", cioè le risposte alle questioni poste dalla persona che parla con il giornalista, si fanno più dirette e piccanti: "A letto sono insaziabile. Devi frequentarmi e avrai ciò che desideri. Quando ci vediamo?". Probabilmente, entrambe le persone di questo dialogo sono omosessuali, ma non è di certo questo il punto che potrebbe essere sollevato attorno alla vicenda. La Santa Sede e gli ambienti circostanti vengono attenzionati con una certa costanza quando si tratta di morale e di morale sessuale. Quello che può stupire, semmai, è la ventilazione della prossimità con certi ambienti sacri che il giornalista sbandiera nella conversazione che sarebbe avvenuto a mezzo WhatsApp. Nel frattempo, il Vaticano è stato tirato in ballo per ben altre ragioni: ieri è stata la giornata in cui sono emerse le fattispecie riguardanti lo scandalo relativo alla gestione dell'Obolo di San Pietro. Il cardinal Becciu è accusato di peculato. Papa Francesco - com'è noto - ha privato l'alto ecclesiastico sardo dei diritti derivanti dalla porpora, ma non è ancora chiaro se e quando si terrà un processo in Santa Sede. Il "fronte conservatore", che di certo non è vicino a Becciu, sta ponendo la questione della necessità di una fase processuale in cui venga accertata la verità dei fatti. Le modalità tramite cui Bergoglio ha deciso di allontanare Becciu dalla Curia romana sono del resto più uniche che rare. Il "caso Becciu" è relativo pure ai bonifici che sarebbero partiti dalla segreteria di Stato in direzione della "dama" Cecilia Marogna, che nel frattempo è stata arrestata. Sembra però che le carte nelle mani degli inquirenti possano ridimensionare in parte la vicenda giudiziaria: la Marogna, che avrebbe tuttavia "svilito" l'incarico ricevuto, avrebbe agito in quanto "pubblico ufficiale". E anche il Papa, sulla base di un Motu Proprio, avrebbe contezza - più o meno diretta - del ruolo che la Maronga ha svolto per la Santa Sede. Tutto questo avviene in contemporanea con una forte dialettica dottrinale innescatasi tra gli "schieramenti" in funzione dell'apertura del pontefice alle "unioni civili". L'espressione "convivencia civil", in Sudamerica, può essere tradotta con "unione civile". Quella è la dicitura che presentano alcune leggi nelle nazioni sudamericane che regolano i rapporti giuridici tra persone dello stesso sesso. E dal Vaticano non sono arrivate smentite sul punto. Prescindendo da tutte le ricostruzioni di questi giorni, è possibile fotografare l'esistenza di un'apertura sul punto da parte del pontefice. Le reazioni dei tradizionalisti alle dichiarazioni di Bergoglio hanno scosso l'ambiente, che è già chiamato a fronteggiare gli effetti mediatici del "caso Becciu" ed altre faccende meno complesse, ma comunque attenzionate dai media.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 24 ottobre 2020. In Vaticano la caduta del potentissimo cardinale Angelo Becciu potrebbe dare la stura a una nuova stagione di veleni e dossier. Il porporato è indagato per peculato e la sua misteriosa collaboratrice, Cecilia Marogna, arrestata a Milano il 13 ottobre, per peculato e appropriazione indebita aggravata. Con la traumatica perdita dei diritti connessi al cardinalato da parte di Becciu, sono a rischio anche le guarentigie degli uomini della sua corte. Nelle Sacre stanze sta girando da qualche giorno un fascicoletto davvero imbarazzante che riguarda un vaticanista considerato molto vicino al porporato. Noi ne conosciamo l'identità, ma abbiamo deciso di non fornire informazioni dettagliate sul suo conto per non consentirne l'identificazione. Ebbene nella pruriginosa documentazione ci sono gli screenshot di un dialogo su messenger tra il cronista e un cinquantacinquenne professionista, probabilmente gay, alla ricerca di una foto con papa Francesco. Alle 10 di una mattina di alcuni mesi fa l' uomo contatta Paolo (chiameremo così il vaticanista) per chiedergli se sia uscito di casa e lui di rimando risponde di essere ancora a casa. «Se puoi» scrive l' amico. Replica del giornalista: «Per te tutto». E allega la foto del pene in erezione di un uomo che pare in pigiama (blu) e sdraiato su un letto. Il professionista non si scompone: «Che sei carino! E visto che ci sei mi spieghi che devo fare per diventare come te». Quindi prosegue: «Comunque il mio obiettivo è avere la foto con il Papa. Cani e porci ce l' hanno. Nelle guardie svizzere ci sono molti gay, ma non sono potenti». Paolo è incuriosito dall' affermazione: «In che senso non sono potenti?». L' interlocutore sgombra il campo da possibili equivoci: «Perché io non ho la foto con il Papa, la guardia svizzera non ha poteri». L' ego del cronista si inturgidisce: «Tu frequentami e avrai tutto. Hai foto in costume?». Obiezione dell' amico: «Serve la prefettura». Paolo: «Taci! Certo che si può». Il cinquantacinquenne timidamente: «Cioè tu potresti?». Da questo momento il dialogo prende una piega scabrosissima. Vaticanista: «Yes. Ma solo se ci frequentiamo». Amico: «No vabbè e poi dici di essere normalissimo». Vaticanista: «Sei tu quello che ha 22 cm, non io!». Amico: «Ahahah». Vaticanista: «Frequentiamoci. Io ti apro tutte le porte». Amico: «Mi apri proprio». Vaticanista: «Sììììì». Amico: «Ahahah». Vaticanista: «Ma sarai bello aperto». Nonostante le battute da trivio, l' amico sembra davvero interessato a capire qualcosa in più sulla mitologica lobby gay della Santa Sede: «No, ma seriamente come si fa ad essere così protetti. Non ci riuscirò mai». Vaticanista: «In che senso?». Amico: «Tu sei gay e in Vaticano nessuno ti dice nulla vero? Come si fa?». Vaticanista: «Sono riservatissimo». Amico: «Non è possibile». Vaticanista: «Tu non sei riservatissimo?». Evidentemente non abbastanza, dal momento che i messaggi stanno pericolosamente passando di mano in mano, tanto che qualcuno arriva a ipotizzare che Paolo abbia abboccato all' esca di un nemico. Suo o di Becciu? Non lo sappiamo. Di certo si è molto esposto. E quando il professionista ha chiesto al vaticanista la tessera che permette di fare acquisti Oltretevere, il giornalista ha dato l' impressione di avere un solo pensiero in testa: «A letto sono insaziabile. Devi frequentarmi e avrai ciò che desideri. Quando ci vediamo?». Dunque per i Sacri palazzi si muove un cronista, apparentemente timorato di Dio, che offre foto con il Santo Padre in cambio di sesso. Come detto, questo signore, come molti altri giornalisti, aveva ottime entrature con Becciu. Francesca Immacolata Chaouqui, esperta di intrighi vaticani e grande accusatrice del porporato, descrive così il rapporto tra il cardinale e i media: «I cronisti appoggiano delle fazioni in cambio di favori. In queste ore il cardinale Becciu ha un portavoce ufficioso che è l' immarcescibile Marco Simeon che sta facendo pubblicare molti articoli in difesa del cardinale. Non mi stupisce visti i dossier e le notizie che entrambi hanno passato ai giornali in passato». Va detto che Becciu e la Marogna non sono i soli indagati nella vicenda. Per esempio c' è anche monsignor Alberto Perlasca che firmava i bonifici contestati dagli investigatori. Ma la «Papessa» lo difende: «Lui è una brava persona. Era solo un esecutore della volontà di Becciu che tratta le persone come burattini». Nel frattempo sul cardinale è calata una rogatoria inviata dal Vaticano alla Procura di Roma per fare chiarezza su alcuni rapporti familiari. L' inchiesta, affidata alla pm Maria Teresa Gerace, punta dritta sui suoi fratelli. In particolare i magistrati, che delegheranno per gli accertamenti la guardia di finanza, accenderanno un faro sul canale tra Caritas di Roma e Angel' s, società amministrata da Mario Becciu, congiunto del cardinale. L' azienda, che produce la birra Pollicina, aveva sottoscritto un contratto di partnership per poter apporre il logo della Caritas sulle proprie bottiglie, in cambio del 5 per cento del fatturato da devolvere poi alla Caritas. Un contratto che Oltretevere è considerato poco chiaro. Anche perché l' operazione garantiva agevolazioni con l' Erario, con la conseguente e possibile configurazione, in Italia, di reati fiscali. Resta anche da chiarire se il denaro sia stato effettivamente girato all' organismo pastorale, come concordato. Il Vaticano, inoltre, vuole avere maggiori informazioni sul rapporto tra la diocesi di Ozieri (Sassari) e la Spes, cooperativa di proprietà di un altro dei fratelli Becciu, Tonino. Secondo l' accusa all' impresa sono arrivati 700.000 euro a fondo perduto, peraltro, pare, senza motivo. Finanziamenti inviati in tre tranche: 300.000 euro nel settembre del 2013 per ampliare l' attività e l' ammodernamento del forno, stessa cifra nel 2015 per riparare i danni di un incendio e, infine, 100 mila euro nel 2018 per l' adeguamento della struttura che si era convertita all' accoglienza dei migranti. I primi due finanziamenti chiesti e ottenuti dal cardinale Becciu provenivano dalla Conferenza episcopale italiana e facevano parte dei fondi dell' otto per mille. Il terzo, quello più recente, era invece stato disposto dall' Obolo di San Pietro, fondo destinato ai poveri e sotto il diretto controllo del porporato sotto inchiesta. Una seconda rogatoria, con ipotesi più gravi, è partita per la Svizzera: «Associazione a delinquere ai danni della Santa Sede». Secondo quanto rivelato dal settimanale l' Espresso, che ha messo online una copia della richiesta spedita nella federazione elvetica, al vertice dell' organizzazione ci sarebbe il finanziere Enrico Crasso, definito «figura apicale della gestione delle finanze della cassa della Segreteria di Stato». Un nome che si lega a doppio filo a quelli di Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione, tutti accusati per il contestato acquisto del palazzo di Londra effettuato con i soldi del Vaticano. «Ma dalle carte degli inquirenti», scrive l' Espresso, «si evince come i tre agissero in pieno accordo, cercando univocamente di distrarre fondi in modo predatorio dall' Obolo di San Pietro e dagli altri fondi». Secondo gli investigatori della Santa Sede, Crasso avrebbe più volte «contribuito ad utilizzare fondi diversi da quelli istituzionali e per investimenti speculativi non redditizi». Dal 1990 Crasso gestisce i fondi della seconda istituzione vaticana, riuscendo a mettere da parte un tesoretto incalcolabile. «Nonostante la Segreteria di Stato sia stata allertata», scrivono gli inquirenti nella rogatoria, «ha continuato a dargli fiducia e non togliergli la delega a operare sui propri conti correnti». Ed è per questo che i promotori di giustizia ritengono di approfondire «il legame che lo stesso ha con i dipendenti della Segreteria di Stato». Dove erano di casa Becciu e la Marogna, ma non solo loro.

L'ex cardinale Angelo Becciu è indagato. L'ex porporato è indagato nel filone d’inchiesta sulla vicenda di Cecilia Marogna. Lo apprende l'Espresso da fonti vaticane. Massimiliano Coccia su La Repubblica il 28 ottobre 2020. L’ex cardinale Angelo Becciu secondo fonti giudiziarie vaticane è indagato nel filone d’inchiesta sulla vicenda di Cecilia Marogna. Le accuse formulate dalle autorità vaticane si riferiscono alle cospicue elargizioni determinate da Becciu in favore della consulente sarda e sull’omessa vigilanza sull’utilizzo dei fondi. Si apprende inoltre che il prelato sardo, nonostante gli annunci delle scorse settimane, non si è ancora presentato davanti ai promotori di giustizia per chiarire la sua posizione.

Val.Err. per “il Messaggero” il 29 ottobre 2020. L'elargizione dei fondi e l' omessa vigilanza. Sarebbe questa l' ultima accusa del promotore di giustizia Vaticano, Gian Piero Milano, a carico di Angelo Becciu, cardinale, senza più diritti. Dopo le ipotesi di peculato per le somme e i favori, assicurati dalla sua posizione, ai fratelli Tonino e Mario, gli accertamenti sui soldi volati in Australia durante il processo al suo nemico George Pell, le indagini sull' associazione a delinquere che ha gestito dissennate operazioni finanziarie, la magistratura della santa Sede, come era già emerso, contesta a Becciu le spese della sedicente 007 Cecilia Marogna. La trentanovenne che millantava rapporti con i servizi segreti e si autodefiniva esperta di geopolitica. La signora, che sostiene di avere trattato la liberazione di alcuni religiosi sequestrati, ha speso almeno 200mila euro, dei 500mila che le sono stati accreditati per la presunta attività di intelligence, in beni di lusso. Detenuta a San Vittore, su mandato della magistratura Vaticana, ieri, Marogna si è presentata davanti alla Corte d' Appello di Milano, che dovrà pronunciarsi sulla sua scarcerazione. La procura generale ha dato parere contrario e la decisione arriverà entro cinque giorni. Indagata per appropriazione indebita aggravata e peculato (in concorso con Becciu) Marogna si è presentata ieri davanti alla quinta Corte d' Appello, presieduta da Franco Matacchioni, alla quale i suoi legali, in attesa della conclusione del procedimento per l' estradizione, hanno chiesto la scarcerazione. La procura generale ha dato parere negativo, ravvisando il pericolo di fuga e la mancanza di un indirizzo preciso tra Milano e la Sardegna, un elemento che ostacola anche l' eventuale attenuazione della misura cautelare con la concessione dei domiciliari. Mentre il difensore, Fabio Federico, ha contestato «alla radice» l' arresto, convalidato per altro dalla stessa Corte con conseguente misura cautelare. Secondo il legale, che ha citato l' articolo 22 dei Patti Lateranensi, Cecilia Marogna «non poteva essere arrestata dato che l' accordo tra Italia e Vaticano consente l' estradizione dal Vaticano all' Italia, ma non quella dall' Italia al Vaticano». Inoltre, l' avvocato ha lamentato di non avere avuto modo di leggere il mandato di cattura, che non è neppure a disposizione dei pm milanesi. Il legale ha precisato che le notizie circolate «si basano su ciò che ha scritto il promotore di giustizia del Vaticano al Ministero della Giustizia per sollecitare l' estradizione, ma non sulle accuse contestate nel mandato di cattura». Le carte, ha ribadito, «qui non sono ancora arrivate». Infine, altro punto evidenziato dalla difesa, non sussiste nemmeno «il pericolo di fuga», dal momento che l' arresto è avvenuto «sotto casa mentre stava andando al supermercato. Il pericolo di fuga riguarda chi sta cercando di scappare». Non così per il sostituto pg Giulio Benedetto che ha formulato il parere scritto e per la collega Laura Gay, intervenuta in udienza e che ha replicato al legale sostenendo che in genere le convenzioni bilaterali internazionali sono reciproche e le estradizioni sono possibili «in entrambi i sensi». Marogna, che qualche giorno fa non ha dato il consenso all' estradizione, secondo la ricostruzione della magistratura di Oltretevere, avrebbe usato parte del mezzo milione ricevuto per operazioni segrete umanitarie in Asia e Africa, per l' acquisto di borsette, cosmetici e altri beni di lusso. I soldi, in realtà sarebbero il doppio rispetto a quelli contestati, oltre ai 500mila euro accreditati sul conto di una società slovena, alla Marogna sarebbero arrivate anche 500mila sterline attraverso una società inglese.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 21 ottobre 2020. «L'unica cosa che può nuocerti davvero (gli affari con Tirabassi, Crasso, Mincione, a Zurigo ecc. con i soldi dell'obolo) la tengo per me. Io non ti odio. Ascolta ti offro la pace per la seconda volta». Francesca Immacolata Chaouqui, classe 1981, nativa del cosentino san Sosti, pregiudicata vaticana, affila le parole e verga il messaggio all'allora monsignore Angelo Becciu, potente numero tre della segreteria di Stato. E' fine settembre del 2017. A rileggerla oggi, questa rassicurazione suona inquietante e solleva diverse domande che meriteranno risposta. All'epoca in Vaticano nessuno metteva in discussione le compravendite immobiliari di Londra, la gestione dell'obolo di san Pietro, ovvero dei soldi raccolti in nome del pontefice per la diretta beneficenza a favore dei poveri. L'inchiesta sulla compravendita del palazzo a Londra deve ancora decollare ed emergerà solo due anni dopo. Cosa ne sapeva allora la Chaouqui delle operazioni opache e del (presunto) ruolo di Becciu, perché glielo rinfacciava? E ancora, più in radice: nessuno nemmeno immaginava che proprio Becciu fosse sotto assedio dall'unica donna mai condannata nel piccolo stato a dieci mesi di reclusione. Con lei che per anni gli manda decine di messaggi in posta privata sui social con pressioni, allusioni, veri o presunti retroscena, confidenze, e richieste. Perché? La domanda diventa strategica se si incastona questa storia nello scenario che oggi emerge dove Becciu è stato ridotto nei poteri ecclesiastici da Francesco perché, tra l'altro, è accusato di peculato e di aver dirottato senza titolo a un'altra donna, Cecilia Marogna, la 39enne cagliaritana ora detenuta nel carcere di san Vittore, mezzo milione di euro dai forzieri della segreteria di Stato. Dunque Chaouqui e Marogna, due donne all'apparenza cattoliche e devote, dalle relazioni anche ambigue, avversarie tra loro, dall'agire talvolta spregiudicato con un obiettivo primario: stringere un patto d'acciaio con Becciu, ottenere favori, e soprattutto affidavit da utilizzare come apriporta nelle relazioni e negli affari. Un porporato "conteso", ci sarebbe da ironizzare, se non fosse il religioso per molti anni appena due gradini sotto il papa. Infatti, in una recentissima telefonata la Marogna con Francesco Pazienza, discusso ex agente segreto italiano, esprimeva rabbia nei confronti della Chaouqui, attribuendole un ruolo nel suo coinvolgimento nell'inchiesta vaticana. Per quasi due anni la Chaouqui aveva avviato un rapporto con l'allora sostituto della segreteria di Stato, mandandogli decine di messaggi in una chat privata. Certo, un rapporto univoco visto che Becciu non rispondeva mai. Ma è sorprendente come non solo l'alto prelato non avesse bloccato la Chaouqui sin dai primi messaggi subdoli ricevuti, ma nemmeno avesse denunciato le pressioni patite. E soprattutto non avesse vietato al un suo diretto sottoposto, l'allora capo della gendarmeria, Domenico Giani, di intrattenere rapporti con quella signora. Invece, stando almeno al contenuto degli stessi, per anni la Chaouqui dopo la condanna incontrava nientemeno che il capo della polizia vaticana, condividendo o millantando confidenze e segreti. Ma torniamo ai messaggi. I primi sono molto ruvidi: «Fra qualche tempo ti scriverò una lettera chiedendoti di incontrare il Papa e porre fine alla guerra, () poi mi rifai avere la tessera della spesa e della benzina quando esco per favore. Hai la mia parola che tutto finisce, mai più guerra tra di noi, (), facciamo pace. Ti sto offrendo la mia alleanza, ti serve e lo sai bene. () Pensaci e datti una regolata, () non cercare di stravincere o finisci che commetti degli errori e perdi tutto. () Vedi don Angelo, sono stata nella tua terra ad informarmi prima su di te prima di scrivere». E prosegue in modo allusivo: «Portare le carte in procura.() Ora sono vittima ma se diventassi carnefice? ()». E quindi avanza delle richieste che però non vengono accolte: «Ho scritto a Giani, vedremo cosa dice lui su come andare avanti. Posso esserti più utile da amica che da nemica». Inizia anche a relazionare Becciu su potere e cordate avversarie in vaticano con tono allusivo: «Se non riusciremo a trovare un quadro decente la mia figura diventerà quella del centro di smistamento dei veleni curiali per far salire o scendere quella o quell'altra cordata. () Questa triangolazione di informazioni che ricevo, se decidessi di giocare al di fuori, sarebbe dannosa. Non avrei regole o padroni, solo il mio tornaconto». E si propone: «Io sono la numero uno a fare fund raising sui progetti.() Mi piacerebbe una sorta d'ufficio nella Cabina grandi eventi. () Ti chiama don Carmelo per venirti a trovare e consegnarti la lettera di grazia affinché sia tu a darla al Papa. Il Papa e molti suoi amici devono sapere della nostra alleanza». Il diniego vaticano non ferma la Chaouqui che torna a scrivere a Becciu, ammiccando: «Don Angelo ti ho visto per strada, ti avrei voluto tanto salutare. Sei dimagrito tanto, stai benissimo grazie a dio. () Io mi confronto sempre con il comandante e gli racconto sempre le cose di cui vengo a conoscenza». Becciu né risponde, né la incontra e lei si picca: «Avrà le sue ragioni poi però non si lamenti. Ci ripensi. Mi dia retta, mi riceva». Becciu non cede, la Chaouqui si accontenta di cenare qualche volta con monsignor Vincenzo Paglia, ma un'altra domanda rimane senza risposta: come può Becciu sostenere di essere stato truffato dalla Marogna se era così attento con la Chaouqui?

Renato Farina per Liberoquotidiano.it il 18 dicembre 2020. Che la Chiesa della Misericordia, nel suo braccio giudiziario, sia più giustizialista di quella italiana? E che sia propensa a maneggiare il diritto con la finezza di una monarchia assoluta? Così pare. Almeno considerando la sentenza della Corte di Cassazione che ha bocciato sonoramente le pretese del Vaticano di afferrare una signora per il collo, sbatterla in galera in Italia, e poi consegnarla alla gattabuia papalina. Ieri i supremi giudici hanno infatti annullato senza rinvio, cioè senza possibilità di ricorso, l'ordine di carcerazione contro Cecilia Marogna, cittadina italiana, voluto da Oltretevere. Non è la prima sentenza che lo dice. Ma questa è definitiva e persino tagliente. La donna, 39 anni, era stata catturata ed era rimasta diciassette giorni a San Vittore, su mandato dei promotori di giustizia (i pm) Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, i quali per ottenere questo provvedimento di custodia cautelare hanno trascurato il fatto che non esistono trattati di estradizione tra Italia e Città del Vaticano. Non proprio un'inezia. È singolare che i magistrati milanesi abbiano bevuto l'ukase dei magistrati papali e messo le manette ai polsi senza che la legge lo consentisse e senza verificare la praticabilità giuridica di una misura che priva della libertà una concittadina, per conto di uno Stato straniero che non è stato in grado di citare alcuna clausola che lo consentisse. Hanno fatto riferimento alla «Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione cui aderiscono Italia e Santa Sede». Cavoli a merenda. La Santa Sede non ha prigioni, non estrada nessuno. La Santa Sede non è la Città del Vaticano. All'esame per matricole di diritto canonico tornate più preparati, signori promotori di giustizia. Questa faciloneria, con il discredito che ne sarebbe seguito, era apparsa subito evidente e pure indecente a chi frequenta le aule del Tribunale vaticano. Impossibile però sollevare la questione in pubblico, pena la scomunica. Per una volta clericali e anticlericali hanno fatto comunella. Il vento dell'opinione dominante è stato più forte di quello dello Spirito Santo. La campagna diffamatoria dell'Espresso, culminata con l'omicidio morale del cardinale Angelo Becciu, trovava ovunque plauso. È allora che una certa tracotanza deve aver avuto la meglio, dentro le Mura Leonine, sulla santa prudenza. La pratica è stata così portata avanti con festosa baldanza dal dottor Diddi, arrivato sotto il Cupolone senza studi specifici di diritto canonico, carenza non banale, dato che quel codice è fonte primaria della legislazione del piccolo Stato. Da mesi in Vaticano si ha la sensazione di trovarsi al Palazzo di Giustizia di Milano durante Mani pulite, con seguito di cronisti zelanti e adoranti. Che importa il diritto quando vince l'euforia delle manette? Prevale il farne udire il clangore metallico perché chi ancora ne è risparmiato lo intenda e parli. Non abbiamo elementi per discettare su colpevolezza o innocenza della Marogna. Di certo vale, forse persino in Vaticano, la presunzione di innocenza e neppure i promotori di Sua Santità hanno l'autorizzazione divina per saltare come cervi le siepi del diritto internazionale. Un po' di cronaca. Il 13 ottobre finì a San Vittore un'avvenente sarda, battezzata già da giorni «dama di Becciu». Alla vigilia erano state fatte trapelare notizie di borse firmate e poltrone di lusso acquistate dalla Marogna con i soldi del Papa destinati ai poveri. Becciu! Borse di lusso! Soldi dei poveri! La strega vada al rogo, e al diavolo il diritto. In quel momento nessuno eccepì. Ed appare singolare che nessuno - neppure al Copasir - abbia preso sul serio e interrogato sul punto «i due generali dell'Aise» cui la «studiosa di geopolitica» aveva fatto riferimento nei suoi colloqui con il Corriere della Sera, e il cui nome, con strano pudore, non era stato riferito dall'intervistatore Ferruccio Pinotti. In effetti la Marogna risulta essere collaboratrice dei servizi segreti italiani. Come tale la sua opera era stata messa a disposizione della segreteria di Stato della Santa Sede dall'allora capo dell'intelligence militare italiana (Aise), il generale Luciano Carta. Compito nobile: aiutare la liberazione di sacerdoti e suore ostaggi delle bande jihadiste in Africa. La stessa rassicurazione sulla credibilità di Cecilia in materia era stata fornita dal successore di Carta, il generale Giovanni Caravelli. Figure entrambe al di sopra di ogni sospetto. Perché la magistratura vaticana non li ha sentiti, e ha preferito operare l'arresto di una donna con apparato scenografico, peraltro senza sporcare il proprio bugliolo, ma quello della nostra Repubblica? Francesco, che non sopporta soprusi e violazioni dei diritti personali, si porrà certo qualche domanda, e troverà risposte conseguenti. Ricordano in tanti come papa Bergoglio abbia spinto alle dimissioni il fedele comandante della gendarmeria, generale Domenico Giani, per le foto segnaletiche di funzionari e monsignori sospesi dal servizio, finite inopinatamente sui giornali, non certo per mano dell'onesto gendarme.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 9 ottobre 2020. Nel caos ipnotico che scuote il Vaticano per riportare la Chiesa alle origini, come vuole Francesco e dove l'azione giudiziaria diventa un'efficace leva per accelerare questi processi, due personaggi sono stati poco scandagliati, seppur rappresentino delle efficaci chiavi per capire come quello che sta accadendo nei sacri palazzi andrà a condizionare questo e il prossimo Pontificato. Il primo nome è quello di Alberto Perlasca, comasco del 1960 e ordinato sacerdote nel 1992.  Perlasca è stato indicato superficialmente come la «gola profonda» del promotore di giustizia nell'inchiesta sui mercanti nel tempio, sulle distrazioni attribuite al cardinale Angelo Becciu. Non è emersa la approfondita e per certi versi devastante conoscenza delle finanze vaticane più occulte di questo religioso, che dal luglio del 2009 per dieci anni ha ricoperto un ruolo cruciale come responsabile della potente sezione amministrativa della segreteria di Stato. Perlasca aveva quindi ereditato la gestione della cosiddetta potente e semisconosciuta «terza banca» in Vaticano, nata agli inizi degli Anni Settanta con Paolo VI, ai tempi di Michele Sindona e che andava a posizionarsi dopo il famigerato Ior e l'Apsa, la banca centrale dello Stato, all'insaputa dello stesso Papa regnante, ovvero Giovanni Paolo II. In quegli anni un diplomatico formato nella scuola piemontese e di lungo corso come monsignor Gianfranco Piovano, classe 1938, raccolse i finanziamenti di alcuni imprenditori milanesi e costituì questo comparto finanziario, autonomo dallo Ior di Paul Casimir Marcinkus, capace di alimentare le necessità pontificie in caso d'emergenza. Tant'è che proprio dai fondi di questa semisconosciuta «terza banca» si attinsero quei 406 milioni di dollari necessari a risarcire i piccoli azionisti del banco Ambrosiano, dopo la bancarotta di Roberto Calvi. Quando Tarcisio Bertone divenne segretario di Stato, scelse Perlasca come successore di fiducia di Piovano, diventando punto di riferimento finanziario in terza loggia per le questioni finanziarie. La particolarità di questa «terza banca» non è solo quella di aver coordinato le gestioni fiduciarie più riservate e le operazioni più defilate del monolite curiale, ma quella di aver avuto in pancia pochi depositi, gestiti come un normale istituto di credito. In particolare monsignor Francesco Salerno e altri attenti religiosi di curia hanno indicato proprio la «terza banca» come intestataria di conti riservati della Conferenza episcopale dei vescovi, all'insaputa della Cei stessa e sui quali sarebbero affluiti somme dell'otto per mille. Un'ipotesi mai verificata pienamente ma che dà la cifra delle potenzialità che la «collaborazione» di Perlasca con l'autorità giudiziaria vaticana assume. Il cardinale Pell iniziò ad approfondire i dossier di quella misteriosa sezione, scoprì e focalizzò fondi extracontabili per almeno 600 milioni di euro, per essere falciato da un inconsistente processo per pedofilia che lo richiamò in Australia. In particolare, sarebbe emerso che la «terza banca» avrebbe amministrato sino a 4 miliardi di euro tramite un articolato sistemi di conti correnti, accesi sia all'Apsa, sia allo Ior, sia nel cosiddetto comparto svizzero dal quale partivano i bonifici per alimentare le operazioni immobiliari oggi al vaglio degli inquirenti. Ancora, la gestione dell'obolo di San Pietro da parte della squadra di Perlasca - dal cavaliere Fabrizio Tirabassi, prezzemolo nelle indagini, al meno conosciuto monsignor Tullio Poli - creava un'impressionante contiguità tra i denari che venivano raccolti per la beneficenza diretta del Santo Padre e quelli che servivano a compensare mere speculazioni finanziarie. La deflagrazione di questa indagine deve quindi ancora avvenire, considerando che le deposizioni di Perlasca - ad oggi - sono conosciute da pochissime persone in Vaticano nella loro interezza. A iniziare certamente dal Santo Padre che chiede un aggiornamento pressoché quotidiano degli sviluppi. Del resto, quando Bergoglio divenne Papa, Perlasca, che era stato anche in Argentina vicino agli oppositori del cardinale gesuita, rilasciò al Corriere di Como nel marzo del 2013 una delle sue rarissime interviste che riletta oggi suona profetica: «Penso che Bergoglio farà scelte non propriamente conformi a quello che gli uomini si aspetterebbero. Ci dà una sveglia su tante cose sulle quali ci siamo adagiati». Ma in quelle prime settimane di pontificato Perlasca di certo non pensava che il sistema sarebbe stato colpito alle fondamenta. E invece fin da subito la ragnatela della galassia finanziaria (dalle fondazioni come la san Michele Arcangelo, la cardinale Salvatore de Giorgi e le fiduciarie elvetiche) venne preso di mira. Perlasca resisteva agli ispettori vaticani ma non aveva considerato il contraccolpo emotivo che il trasferimento alla signatura apostolica del luglio 2019 gli avrebbe cagionato. Un momento di cambiamento intercettato dagli inquirenti per far breccia in uno dei sistemi più occulti e profondi della finanza curiale. «Senza Perlasca avremmo impiegato decenni - racconta una fonte - a ricostruire le operazioni esterovestite che hanno segnato certi affari». Si tratta ora di capire fin dove si è spinto Perlasca e fin dove vuole spingersi il Pontefice. Ma questo lo si intuirà presto, prestissimo già nelle prossime settimane. 

Franca Giansoldati per "ilmessaggero.it" il 10 ottobre 2020. In Vaticano spiegano che si tratta di un normale avvicendamento, tuttavia nel chirografo papale dell'anno scorso si legge che i cinque cardinali che fanno parte del team sono in carica per cinque anni e confermabili per un successivo mandato - Dalla commissione cardinalizia di controllo dello Ior esce un pezzo da novanta. Papa Francesco ha deciso di rinnovare la composizione dell'organismo di vigilanza, togliendo dal ruolo il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato. In Vaticano spiegano che si tratta di un normale avvicendamento, tuttavia nel chirografo papale dell'anno scorso si legge che i cinque cardinali che fanno parte del team sono in carica per cinque anni e confermabili per un successivo mandato. Il Vaticano ufficialmente non ha fatto nessun commento. Ad accorgersi di questo avvicendamento è stato il giornale cattolico l'Avvenire. L'uscita di Parolin - per tempistica - fa riflettere poichè arriva a ridosso dello scandalo dell'immobile a Londra e dello scontro tra Ior e Segreteria di Stato per il controllo dei fondi riservati del Papa. Uno scontro che ha portato all'avvio della inchiesta sulla gestione delle finanze vaticane. 

La composizione dell'organismo. Dei cinque membri del precedente mandato allo Ior rimangono lo spagnolo Santos Abril y Castelló, 85 anni, già arciprete di Santa Maria Maggiore, che mantiene la carica di presidente, e l'austriaco Christoph Schönborn, 75 anni, arcivescovo di Vienna. Accanto a loro arrivano le new entry, il filippino Luis Antonio Gokim Tagle, 63 anni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli; il polacco Konrad Krajewski, 56 anni, elemosiniere apostolico; e l’italiano Giuseppe Petrocchi, 72 anni, arcivescovo de L'Aquila e membro della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano. Non fanno, invece, più parte della Commissione Parolin, 65 anni, il canadese Thomas Christopher Collins, 73 anni, arcivescovo di Toronto, e il croato Josip Bozanic, 71 anni, arcivescovo di Zagabria. La notizia, ha spiegato l'Avvenire, si trovava dentro un comunicato pubblicato sul sito dello Ior - nel silenzio generale - il 21 settembre. Una notizia che stranamente non è stata affidata ai media vaticani. Nel comunicato in questione si spiega che la Commissione cardinalizia, «nella sua nuova composizione» ha approvato «ad experimentum per due anni, il regolamento attuativo dello Statuto a cui è demandata inter alia la descrizione particolareggiata dei poteri e delle competenze» del Consiglio di sovrintendenza, il board laico di sette membri che governa l’Istituto, e della direzione. La precedente commissione era stata nominata da Francesco  nel 2014. In quella occasione era stato nominato anche il cardinale Tauran, deceduto nel 2018. Il cardinale Bozanic era stato aggiunto, come sesto membro, nel luglio 2014. La Commissione cardinalizia vigila sulla fedeltà dell’Istituto alle norme statutarie e svolge le altre attività previste dallo Statuto. Nomina e revoca poi i membri del Consiglio di sovrintendenza e, su proposta di quest’ultimo, i relativi presidente e vicepresidente. La Commissione inoltre approva la nomina e la revoca del direttore e del vice direttore fatta dal Consiglio di sovrintendenza. E verifica infine con cadenza almeno annuale che i membri del Consiglio e della direzione siano in possesso dei requisiti di competenza e onorabilità prescritti dalla legge e dettagliati nel regolamento e non versino in condizioni di conflitto di interessi né siano interessati da altri impedimenti. Nel frattempo proprio stamattina e' stato pubblicato il Decreto del Presidente del Governatorato, il cardinale Giuseppe Bertello, con il quale sono state apportate modifiche alla Legge XVIII, dell'8 ottobre 2013, in materia di trasparenza, vigilanza e informazione finanziaria. I cambiamenti si inseriscono nel processo di riforma voluto da Papa Francesco perchè la gestione delle risorse economiche vaticane sia sempre più corretta e trasparente. La nuova legge arriva al termine della ispezione di Moneyval che si è conclusa alcuni giorni fa. Le normative vaticane introdotte recepiscono le leggi europee in materia di anti riciclaggio. 

Caos Vaticano, vertice Papa-cardinali. Domani via web riunione d'urgenza del "C6": sul tavolo finanze e riforma della Curia. Fabio Marchese Ragona, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Una riunione del «C6» presieduta dal Papa, a distanza, tramite internet, per dare uno sprint finale alla riforma della Curia Romana, all'indomani degli ultimi scandali finanziari che stanno facendo tremare le mura leonine. Domani, per la prima volta, il Pontefice si collegherà tramite un'applicazione digitale, la stessa usata anche dagli altri cardinali del consiglio, per riaprire i lavori del team che da anni lavora alla nuova Costituzione Apostolica e che, a causa dell'emergenza Covid-19 non si riuniva dallo scorso febbraio. Gli incontri del «C6» si erano sempre tenuti dal vivo, a Casa Santa Marta, ma dopo l'esplosione della pandemia era diventato impossibile per i porporati provenienti dai cinque continenti raggiungere il Vaticano. Per questo, Francesco, ha accettato la proposta di riunirsi virtualmente con i «saggi», bloccati nei loro Paesi: India, Germania, Honduras e Stati Uniti. Alla riunione parteciperanno infatti il cardinale Sean Patrick O'Malley da Boston, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga da Tegucigalpa, il cardinale Reinhard Marx da Monaco e il cardinale Oswald Gracias da Bombay. Con loro anche i membri italiani del consiglio che vivono però in Vaticano o comunque nel Lazio, come il Segretario di Stato Pietro Parolin, il «Governatore» del Vaticano, card. Bertello, e i monsignori Marcello Semeraro e Marco Mellino, segretario e aggiunto del consiglio. All'ordine del giorno anche la richiesta al Papa di avere una data per la pubblicazione della nuova Costituzione: durante la «Fase 2» dell'emergenza sanitaria, era stato il cardinale Marx a portare a Santa Marta al Papa un dossier contenente una copia stampata del documento con tutte le ultime modifiche richieste. A quel punto la palla è passata a Bergoglio per la revisione finale con i cardinali geograficamente più vicini, Parolin e Bertello. Durante la riunione online di domani, però, emergerà anche un'analisi della situazione finanziaria che ha sconvolto i fedeli che hanno anche drasticamente ridotto le donazioni dell'Obolo di San Pietro. Anche per questo Francesco e i suoi consiglieri vogliono adesso un'accelerata verso la realizzazione della riforma. Un primo segnale è stata anche la sostituzione, dopo aver completato e «sforato» il mandato quinquennale rinnovabile una sola volta (erano stati nominati nel gennaio del 2014), di tre membri della Commissione Cardinalizia di Vigilanza sullo IOR, la banca Vaticana. Escono dalla commissione i cardinali Parolin, Collins e Bozanic ed entrano il filippino Tagle, l'elemosiniere Krajewski e l'arcivescovo dell'Aquila, Giuseppe Petrocchi. Qualcuno aveva letto la sostituzione del Segretario di Stato come un contraccolpo dopo gli ultimi scandali e la vicenda dell'acquisto del Palazzo di Londra, gestita appunto dal dicastero guidato da Parolin. Da Santa Marta rassicurano, però, che da parte del Papa non c'è alcuna intenzione di puntare su qualcun altro per il ruolo di Segretario di Stato.

Vaticano, Papa Francesco riceve in udienza il cardinale Pell: "Grazie della sua testimonianza". L'incontro del Pontefice con il porporato rimasto in carcere 404 giorni prima di essere prosciolto dall'accusa di pedofilia. Paolo Rodari su La Repubblica il 12 ottobre 2020. È durata circa mezzora l’udienza che questa mattina il Papa ha avuto con il cardinale George Pell, ritornato a Roma dopo essere stato assolto dall’accusa di abusi sessuali su minori. Poche parole pronunciate da Francesco al termine dell’incontro hanno fatto comprendere molto dei contenuti che i due hanno trattato: “Grazie della sua testimonianza”, ha detto il Papa a Pell, riferendosi ai 404 giorni che il cardinale ha trascorso in carcere prima dell’assoluzione. Pell non ha rifiutato il processo. È tornato nel suo Paese e si è sottoposto all’iter giudiziale. L’udienza è stata chiesta al Papa da Pell, non il contrario come alcuni media avevano fatto intendere nei giorni scorsi. E il fatto che sia avvenuta poco dopo le dimissioni del cardinale Angelo Becciu dal suo incarico resta una coincidenza. Non è escluso che i due abbiano parlato anche di Becciu, ma l’oggetto principale dell’incontro sembra siano stati gli ultimi mesi trascorsi dal porporato nella sua terra natìa. Pell rimarrà a Roma ancora per qualche mese. Nella capitale deve sistemare diverse faccende burocratiche che riguardano il suo appartamento. In Australia è ancora oggi sottoposto a non poche pressioni da parte della stampa ed anche di singoli cittadini. Per questo sembra sia intenzionato per il momento a non fare ritorno. Negli anni passati Pell ha avuto diversi motivi di attrito in Vaticano, con la Segreteria di Stato e con l’ex sostituto Becciu. Secondo quanto ha raccontato in una recente conferenza stampa lo stesso Becciu, uno scontro fra i due è avvenuto anche durante una riunione dedicata alla riforma della curia alla quale era presente il Papa. Tuttavia, sembra che Pell creda poco al fatto che dietro le accuse di pedofilia vi possa essere la mano di Becciu. L’incontro di oggi non porterà a un reintegro di Pell negli incarichi vaticani che ricopriva prima di lasciare Roma. Il porporato rimane in pensione.

Il Papa incontra Pell: «Grazie per la sua testimonianza». Ritrovata vicinanza con il cardinale che Bergoglio volle vicino a sé per ristrutturare le finanze vaticane, di nuovo a Roma dopo l'assoluzione dell'Alta corte di Canberra. Le riforme che l'australiano non riuscì a realizzare sembrano ora ad un passo. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 12 ottobre 2020. «Dove eravamo rimasti?». Un interrogativo di tortoriana memoria potrebbe riassumere il senso dell’incontro tra il cardinale George Pell e Papa Francesco. Un momento di dialogo che era nell’aria da molto tempo, specie da quando - a seguito della nostra inchiesta che ha condotto alle dimissioni del cardinale Angelo Becciu - Pell era tornato dall’Australia dopo essere stato assolto dalle accuse di pedofila dell’Alta Corte di Canberra. Il carico di amarezza che il porporato australiano ha dovuto sopportare in questi anni di accuse, dossier e gogna mediatica è stato molto ampio: all’inizio dell’incontro col Papa, oltre alla commozione, c’è stata una riflessione intorno alla solitudine attraversata. Pell ha poi rivendicato l’assoluta fiducia e fedeltà al Pontefice, sia quando era Segretario per l’Economia, sia durante i processi. Anche per questo motivo, Papa Francesco ha esordito con la frase: «Grazie per la sua testimonianza», a voler sottolineare il diverso approccio tra Pell e Becciu nei rispettivi casi che li hanno coinvolti. Pell ha raccontato al Pontefice i giorni della detenzione e il grande conforto che ha trovato nella preghiera, in un momento che sarebbe errato definire di riconciliazione, ma che è stato di ritrovata vicinanza. Anche perché fu proprio Papa Francesco a volere accanto a sé Pell nella difficile missione di ristrutturare il modus operandi delle finanze vaticane; un ruolo che, secondo il convincimento di tanti, sarebbe costato caro al cardinale australiano. Pell ha citato il detto «nessuno è profeta in Patria», ricordando gli alert inviati - invano - sulla modalità operativa della cassa degli Affari Generali della Segreteria di Stato gestita da Becciu, e come, per converso, il cambio ai vertici dello Ior abbia aiutato a creare una rete di sicurezza sui conti vaticani. Nell’incontro c’è stato anche spazio per una riflessione sul futuro delle finanze che, dopo il nuovo scandalo che ha animato le mura vaticane, possono essere riformate senza ulteriori resistenze interne: insomma, le riforme che Pell non è riuscito a compiere, sembrano ora ad un passo. Non sembrano tuttavia all’orizzonte per lui nuovi incarichi nella Curia, sia per i sopraggiunti limiti di età, sia per la scarsa voglia del prelato australiano di rientrare all’interno di un meccanismo che lo ha visto gradualmente isolato all’interno delle stanze vaticane. All'uscita dell'incontro, a un cronista che gli domandava come fosse andata, il cardinale ha riposto: «Molto bene». 

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 13 Ottobre 2020. Il Papa che sorride e gli stringe con calore la mano, «è un piacere rivederla», poi dice: «Grazie per la sua testimonianza». E mentre lui china il capo, «grazie a lei, Santo Padre», Francesco gli ripete: «Grazie. Più di un anno...». Il riferimento è ai 404 giorni passati in una cella di isolamento per pedofili, prima del proscioglimento definitivo. E le immagini diffuse dai media vaticani si mostrano come una sorta di risarcimento morale, per il cardinale australiano George Pell, che all'uscita si limita a dire: «Com' è andata? Molto bene». Quella di ieri mattina era un'udienza molto attesa: la prima volta che Pell vedeva il Papa tre anni dopo la sua partenza da Roma per affrontare un processo per abusi sessuali su minori, la gente che gli gridava «sei un mostro» e «brucerai all'inferno, maniaco» fuori dal tribunale, la condanna in primo grado e in appello e la cella di sette metri per due in un carcere di massima sicurezza, infine l'assoluzione dell'Alta corte australiana, il ritorno in libertà e di lì a poco lo scandalo degli investimenti nella Segreteria di Stato che ha travolto il cardinale Angelo Becciu, suo storico avversario quando Pell era il potente prefetto della Segreteria per l'Economia e Becciu il Sostituto della Segreteria di Stato che gestiva le operazioni finanziarie della Terza Loggia. Nell'inchiesta della magistratura vaticana si indaga anche su 700 mila euro di bonifici che sarebbero finiti in Australia, il legale del cardinale Pell ha chiesto una «indagine internazionale» per verificare se hanno tentato di incastrarlo, Becciu ha parlato di «assoluta falsità». La mattina in cui Pell venne prosciolto, il Papa a Santa Marta disse: «In questi giorni abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l'accanimento». Ed è inevitabile che nel corso dell'udienza, durata mezz' ora, il Papa e il cardinale abbiano parlato del processo e dell'esperienza in carcere, come pure delle vicende che hanno convinto Francesco a far dimettere Becciu e togliergli «i diritti e le prerogative» della porpora. Lo stesso Pell, dall'Australia, aveva annunciato da mesi il suo arrivo in Italia: quando partì, nel giugno 2017, non pensava sarebbero passati tre anni e così voleva rientrare nel suo appartamento in piazza della Città Leonina per fare il trasloco prima di tornare in patria. Dopo l'udienza drammatica di Francesco a Becciu, il 24 settembre, Pell aveva diffuso un comunicato eloquente: «Il Santo Padre è stato eletto per pulire le finanze vaticane. La partita è lunga e bisogna ringraziarlo e fargli le congratulazioni per gli ultimi sviluppi». Poi è arrivato a Roma il 30 settembre, «è un piacere essere qui». Ma «non c'è nessuna connessione tra le due vicende», ha chiarito il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato: «Non c'è stata nessuna convocazione da parte del Papa, è stato lui che ha chiesto di venire a Roma per chiudere la sua permanenza, perché aveva l'appartamento. Non so quali siano i suoi progetti». Nel frattempo Pell ha superato i 79 anni e Francesco ha nominato prefetto dell'Economia il gesuita Juan Antonio Guerrero, il Vaticano ha voltato pagina. Da oggi il Papa tornerà a incontrare il Consiglio dei sei cardinali - in videoconferenza, causa pandemia - per completare la riforma della Curia. Restano le vecchie ruggini e una storia ancora da chiarire. «Con il cardinale Pell c'è stato contrasto professionale perché lui voleva applicare leggi che non erano state promulgate», ha raccontato lo stesso Becciu: Pell gli fece «un interrogatorio» per sapere «se credevo nella riforma, se ero contro la corruzione»; un'altra volta «mi disse: lei è un disonesto, e io ho perso la pazienza». Questo era il clima tra cardinali.

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2020. Quattro giorni fa, il quotidiano The Australian ha rivelato che a cavallo tra il 2017 e il 2018 circa 700mila euro furono trasferiti dal Vaticano in Australia per finanziare gli accusatori del cardinale australiano George Pell. Quel cardinale, accusato di pedofilia - nello specifico, di aver molestato negli anni '90 due adolescenti di 13 anni a Melbourne - e poi assolto in appello dall'Alta corte australiana il 7 aprile 2020 dopo aver trascorso più di un anno in prigione. Adesso, sempre stando alle rivelazioni del quotidiano australiano, si scopre che la cifra destinata a influenzare il procedimento a carico del cardinale sarebbe stata ben più alta: due milioni di dollari. Una vicenda da inquadrare all'interno delle tensioni nella Curia vaticana. Curia terremotata, a settembre, dalle dimissioni del cardinale Giovanni Angelo Becciu dalla Congregazione delle cause dei Santi. Ma Becciu, tra il 2011 e il 2018, periodo nel quale esplode il "caso Pell", era sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato. Quella Segretaria di Stato - secondo la stampa australiana che cita fonti investigative locali - regista degli spostamenti di denaro verso l'Australia in vista del processo a carico di Pell. Sullo sfondo l'ostilità di Becciu nei confronti di Pell, all'epoca delle accuse di pedofilia prefetto della Segreteria vaticana per l'economia. Come ricostruito sul proprio blog dal giornalista - ed ex vaticanista del Tg1- Aldo Maria Valli, nel 2016 inizia nella Curia vaticana lo scontro tra i due cardinali. Origine del contrasto, la decisione del porporato australiano di disporre l'audit - una valutazione indipendente - delle finanze vaticane. Mossa avversata dal cardinale italiano, attualmente indagato dal promotore di giustizia vaticano per peculato, che infatti neutralizza la decisione di Pell. Il primo invio di denaro, come riportato dai media australiani, risale al febbraio del 2017. Importo: 415mila dollari. Poco dopo, la polizia locale conclude la sua "istruttoria" al termine della quale nei confronti di Pell scatta l'accusa di violenza sessuale sui minori. Un secondo pagamento, presumibilmente di circa 280mila dollari, avviene a maggio, vale a dire un mese prima della formalizzazione delle incriminazioni a carico del cardinale australiano. A quel punto Pell - che si dichiara innocente - lascia Roma e torna in patria per affrontare il processo. Gli ultimi due trasferimenti di denaro - per un totale di 1,3 milioni di dollari - sarebbero stati effettuati dalla Segreteria di Stato vaticana nel dicembre 2017 e nel giugno 2018. Il successivo 11 dicembre, Pell è dichiarato colpevole dalla giuria della County Court dello Stato di Victoria e condannato a una pena detentiva di sei anni di reclusione. Sentenza, come ricordato, poi cancellata dalla Corte suprema dell'Australia dopo la richiesta di revisione del processo di appello presentata dal cardinale Pell il 13 novembre 2019. La ricostruzione dei media australiani si basa sul lavoro dell'ente di controllo sui reati finanziari, Austrac, che avrebbe inviato segnalazioni sia alla polizia federale che a quella dello Stato di Victoria. In particolare, Austrac ha confermato che grandi somme di denaro sarebbero state trasferite «da fonti vaticane a persona o persone in Australia». D'altro canto, la polizia australiana - citata dall'Associated Press - ha negato di indagare su movimenti di denaro Vaticano-Australia. E il cardinale Becciu ha ribadito di «non aver mai interferito in alcun modo» sulla vicenda processuale di Pell.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 13 Ottobre 2020. La cifra dell' incontro è racchiusa in una piccola fotografia pubblicata sull' ultima pagina dell' Osservatore Romano, quasi nascosta, con sopra scritto: Udienza del Pontefice al cardinale George Pell. Sul giornale del Papa è l' ultima cosa che si nota in basso a destra, nello spazio delle attività di routine, benché ieri la notizia fosse tutt' altro che di routine. Anzi. Era talmente consistente che ha fatto subito il giro del mondo. Il Papa e il cardinale australiano sono seduti, uno di fronte all' altro, intenti a conversare. Francesco sembra quasi ritrarsi, appoggiato allo schienale, con un sorriso di circostanza. Dall' audio registrato il Papa gli rende l' onore delle armi. «Grazie per la sua testimonianza dopo un anno...» Peccato solo che il filmato diffuso dal Vaticano sia stato troncato lasciando incompleta - ma facilmente immaginabile - la frase a proposito dell' anno trascorso in carcere da Pell. L' ex Prefetto dell' economia vaticana ieri mattina tornava a metter piede nel Palazzo Apostolico dopo un processo per pedofilia durato tre anni. Prima di essere assolto dall' Alta Corte ha trascorso in carcere, in isolamento, 400 giorni dove ha sperimentato la solitudine e l' umiliazione più totale. Nelle foto di rito, scattate prima del colloquio, il Papa in piedi accanto a lui sembra piccolo piccolo. Pell ha le spalle più incurvate ma la corporatura dell' ex giocatore di rugby capace di assorbire duri colpi. «Che piacere di vederla». «Il piacere è mio Santità, questo è il mio segretario Josef» gli ha risposto Pell. Si sono stretti la mano con slancio, incuranti di mantenere le distanze sociali, entrambi senza mascherina, poi si sono accomodati e le porte si sono chiuse. Il faccia faccia è durato in tutto trenta minuti, compreso il tempo per le foto. Considerando la portata dell' incontro non è poi un granché. Più tardi l' entourage papale si è premurato di far sapere che c' era «un clima di grande cordialità». I veleni e le inchieste di questi giorni hanno fatto da corollario al colloquio così come la pesantezza di questi tre anni di confino. Per Pell è difficile dimenticare quando nel 2017 ha lasciato Roma, la sua' famiglia cardinalizia, il suo lavoro per difendersi da accuse orribili. Avrebbe potuto fare come il defunto cardinale americano Bernard Law (sepolto a Santa Maria Maggiore nonostante abbia insabbiato un orribile caso di pedofilia a Boston). Invece Pell, spronato dal Papa, ha affrontato tutti i gradi del processo sperimentando l' abbandono. Pochissimi, infatti, sono stati i cardinali che si sono fatti vivi. Nemmeno Papa Francesco, in quel periodo, sembra lo abbia fatto. Cosa che troverebbe conferma nelle dichiarazioni rilasciate da Pell quando è uscito di prigione. Ha ringraziato tutti la famiglia, i sostenitori che gli hanno pagato le spese legali, i consiglieri, il team dei legali e gli amici - ma ha taciuto sul Papa rendendo ancora più macroscopica la dimenticanza. Come un intrigo di corte sul suo processo pesano tanti sospetti; lo stesso Pell è convinto che qualcuno in Vaticano si sia mosso nell' ombra per neutralizzarlo. E' per questo che quando ha saputo della defenestrazione del cardinale Becciu decisa dal Papa con l' accusa di peculato prima di partire per Roma e riprendere possesso del suo vecchio appartamento, ha diffuso un comunicato sibillino nel quale ringraziava Francesco per la pulizia in corso «nelle stalle vaticane» augurandosi pulizia «anche in quelle di Victoria», alludendo allo Stato australiano dove si è svolto il processo. Nel frattempo l' inchiesta sull' immobile a Londra ha portato alla luce un misterioso bonifico diretto in Australia per 700 mila euro per il tramite di una donna, una specie di Mata Hari, incaricata da Becciu di svolgere «incarichi istituzionali». Sospetti e veleni che difficilmente sono stati tenuti fuori da quei 30 minuti di udienza. Uscendo Pell è stato intercettato. Come è andata? «Molto bene». Qualche sassolino è possibile se lo sia tolto dalla scarpa. Il Papa gli ha comunque manifestato la sua solidarietà: «Dispiaciuto per il trattamento che ha subito»

Dagoreport il 12/10/2020. Che per i preti e i laici che lavorano nel Vaticano di Bergoglio ormai tiri una brutta aria, è cosa assai nota. Ma che dentro le sacre mura non tutti abbiano alzato le mani, e portato il cervello all’ammasso sembra sfuggire a molti. La “trimurti vaticana” è composta dal segretario di stato Pietro Parolin, dal segretario per i rapporti con gli stati, l’irlandese Paul Richard Gallagher e dal sostituto agli affari generali, scelto da Parolin per rimpiazzare Angelo Becciu, il venezuelano Edgar Peña Parra. Sono loro che detengono i veri “segreti” vaticani, quelli che riguardano realmente il futuro dell’azione della Chiesa in chiave geopolitica, comprese le “clausole segrete” degli accordi con la Cina. Dentro le mura leonine a nessuno sfugge il fatto che da circa due anni, la “trimurti” vola basso, si sfila dalle situazioni imbarazzanti, si dimette da commissioni e organismi da dove (per mezzo stampa) prima o poi qualcuno tirerà la secchiata di fango da lanciare contro l’ennesimo nemico. L’ultimo colpo da veri maestri volponi è stato il comunicato che annunciava (dopo tre anni: la carica era quinquennale) che il cardinale Parolin lasciava la Commissione Cardinalizi di controllo dello Ior insieme al cardinale di Toronto Thomas Christopher Collins e quello di Zagabria Josip Bozanic. Defenestrazione? No, ritirata strategica. Mentre gli ispettori di Moneyval stanno investigando, per conto dell’Unione Europea, se veramente il Vaticano si è dotato di quei controlli antiriciclaggio datti per contrastare i lupi che si preparano ad assaltare la pioggia di miliardi in arrivo con il Recovery fund, sullo Ior sta per abbattersi un’altra tegolata. Lo scorso marzo, un tribunale di Malta ha autorizzato due società d’investimento maltesi a far sequestrare tre quarti dell’utile che lo Ior dichiarava aver ottenuto nella gestione 2019, cioè 29,5 milioni di euro. Le società lamentano un danno causato dallo Ior che prima aveva promesso di investire 33 milioni in un ennesimo loffio affare immobiliare (l’acquisto e la ristrutturazione del palazzo dell’ex borsa di Budapest, in Ungheria) per poi tirarsi indietro all’ultimo momento. Quindi, zitto zitto, Parolin e i due confratelli amici se ne sono usciti alla chetichella così come è ormai un suo costume certificato. Veramente il segretario di stato apprende fatti eclatanti come il siluramento di Becciu “dai giornali”? Questo suo modo di fare, dare l’impressione di cadere sempre dal pero, non è forse un “tirarsi fuori” dalla sgangherata curia bergogliana ormai indirizzata velocemente verso un sacro default per rendersi disponibile ad una chiamata verso un papato da rimettere in sesto e in funzione? Veramente dal club delle berrette porpora al segretario di stato non giungono lamentele e proposte? D’altronde, con un Papa intrattabile e ciecamente convinto della sua visione minimalista del papato (mentre in Cina, nei Paesi islamici e persino in Europa i cattolici sono sbeffeggiati e perseguitati), ormai autoreclusosi dentro una strana, e assai improvvisata, cerchia di amici e consiglieri (Massimo Franco li chiama “il cortile di Santa Marta”) riesce benissimo a alzare una continua cortina fumogena a protezione, suo malgrado, di coloro che stanno tentando di salvare il salvabile dall’ormai generale fallimento. E d’altronde, anche gli “amici” di Bergoglio sembrano piuttosto lavorare “a futura memoria”, tentando di sopravvivere al papato, in cerca di un futuro assicurato e retribuito. Il nume tutelare del “cerchio marcio” del Papa è certamente il gesuita Antonio Spadaro. Due anni fa, il generale del suo Ordine ha tentato di dargli una regolata mettendo come superiore di Villa Malta e membro del collegio degli scrittori della Civiltà Cattolica padre Federico Lombardi. E infatti, da allora non lo si vede più nel vorticoso giro delle cene nelle ambasciate accreditate a Roma (dove distribuiva perle di saggezza e notizie) e anche la sua frequenza a Santa Marta viene sottoposta a controlli: nei primi anni del pontificato di Papa Francesco forniva a giornali e televisioni video ripresi all’insaputa del Papa. Fece rumore in Vaticano all’epoca quello pubblicato sul sito del Corriere, e trasmesso via l’agenzia La Presse, dove chiedeva al Papa, ripreso mentre seduto su un divano sfogliava un album fotografico cosa chiederebbe a Gesù se l’avesse incontrato. E il Papa rispondeva, mentre il Nostro sghignazzava, che gli avrebbe chiesto perché i bambini soffrono. I gesuiti italiani sono inferociti con lui perché la Civiltà Cattolica è ormai diventata una delle tante riviste della Compagnia di Gesù. Prima, era la voce ufficiale della segreteria di stato. Snobbato da chiunque nella curia romana abbia un po’ di cervello, padre Spadaro è diventato il guru della Federazione Nazionale della Stampa e dell’Usigrai, ai quali fa credere che il Papa (che più volte ha detto di non leggere i giornali e di non vedere, del 1979, la televisione) dia suggerimenti e consigli e anche pagelle a questo o quel personaggio, a questo o quel direttore. I favoriti di padre Spadaro sono, ovviamente, giornalisti che senza il qualificativo “cattolico’’, e la spinta di vescovi e cardinali, in redazione sarebbero entrati solo per svuotare il cestino della carta.

Crac Popolari Bari e gli incroci con il «buco» del Vaticano. I 30 milioni chiesti alla Santa Sede per il palazzo londinese «Sloane Square» dovevano finire nella banca pugliese.  Massimiliano Scagliarini il 14 Ottobre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un lungo e sottile filo internazionale potrebbe unire il palazzo londinese di Sloane Square, quello al centro dello scandalo sugli investimenti del Vaticano, con il crac della Banca Popolare di Bari. Il trait d’union di questa storia sarebbe Gianluigi Torzi, 41 anni, il finanziere molisano protagonista dell’operazione che avrebbe causato un buco milionario nei conti della Santa Sede. Sugli affari del quarantenne finanziere lavorano, al momento, almeno tre Procure. 

Popolare Bari, richieste per 380 milioni ai vecchi vertici e l’intreccio con lo scandalo dei fondi vaticani. Gianluca Paolucci il 9 ottobre 2020 su La Stampa. L’azione di responsabilità contro 19 ex amministratori e manager più Pwc. I rapporti con Torzi e Mincione e i soldi della Santa Sede finiti in una delle operazioni spericolate. Richieste per 380 milioni di euro contro 19 ex amministratori e manager della Popolare di Bari e contro il revisore Pwc. E un intreccio quantomeno curioso con la vicenda dei fondi del Vaticano. L’azione di responsabilità avviata giovedì dai commissari della banca pugliese, Antonio Blandini e Enrico Ajello, tocca tutte le operazioni più spericolate condotte dai vertici dell’istituto negli ultimi cinque anni.

L’affaire Vaticano e il broker: 4 inchieste dei pm di Milano. Le manovre di Torzi - I magistrati indagano su società lussemburghesi

. Gianni Barbacetto il 6 ottobre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Un poker d’indagini e una rogatoria arrivata dal Vaticano: anche la Procura di Milano entra nella partita delle inchieste che stanno scuotendo la Santa Sede. Sotto la lente dei magistrati milanesi è finito uno dei finanzieri protagonisti degli affari promossi da monsignor Giovanni Angelo Becciu e dai suoi collaboratori presso gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. È quel Gianluigi Torzi che nel 2018 sostituisce Raffaele Mincione, altro mago della finanza offshore, nella gestione dell’ormai famoso palazzo di Londra al numero 60 di Sloane Avenue, fonte – secondo gli investigatori vaticani – di perdite milionarie. Ci sono ben quattro fascicoli sugli affari di Torzi aperti a Milano sulle scrivanie di quattro diversi sostituti procuratori, per reati che vanno dalla truffa alla bancarotta. Il più antico, di molto precedente alle indagini vaticane, riguarda il crac di Banca Mb, saltata nel 2012. Il più recente, aperto a luglio, nasce invece da una rogatoria inviata dal Vaticano. Riguarda proprio il ruolo di Torzi nella gestione dell’immobile londinese, ex sede dei magazzini Harrods. Le due indagini milanesi hanno un personaggio in comune: l’avvocato Nicola Squillace, con studio a Milano, a un indirizzo un tempo molto noto, quello dello studio Libonati-Jaeger, fondato dal suocero di Squillace, Pier Giusto Jaeger. Squillace è stato in passato indagato proprio per la bancarotta Mb, come poi anche Torzi. Oggi invece i magistrati stanno cercando di ricostruire le operazioni dalla Gutt sa, società lussemburghese di Torzi che viene alla ribalta nel 2018. Il 15 agosto di quell’anno, Becciu viene rimosso dal suo incarico e mandato a pensare ai beati, come prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Lo sostituisce agli Affari generali della Segreteria di Stato l’arcivescovo venezuelano monsignor Edgar Peña Parra. Nel novembre del 2018, il nuovo arrivato mette alla porta Mincione, accusato di aver provocato pesanti perdite alle finanze vaticane. A prendere il suo posto arriva Torzi con la Gutt. Lo assiste, da Milano, l’avvocato Squillace. Ora l’indagine della Procura milanese, in risposta alla rogatoria vaticana, dovrà ricostruire l’operazione per i promotori di giustizia Giampiero Milano e Alessandro Diddi, i “pm del papa”, fornendo loro anche i documenti sequestrati a Squillace. Torzi era entrato nell’operazione a fine 2018, quando la Santa Sede aveva cercato di venire in possesso del palazzo londinese, liquidando con 40 milioni le quote del fondo Athena Capital Global Opportunities di Mincione, che aveva avviato con Becciu l’affare di Sloane Avenue nel 2014. Torzi, entrato in partita, aveva ceduto al Vaticano 30 mila azioni della Gutt senza diritto di voto, mantenendo per sé 1.000 azioni con diritto di voto, che gli avevano permesso di mantenere il controllo del palazzo. Per cederle al Vaticano aveva chiesto 30 milioni, ma ne aveva ottenuti solo 15. Poi, il 5 giugno, era stato arrestato dalle autorità vaticane, con l’accusa di estorsione. Si fa ora strada l’ipotesi che i 30 milioni chiesti al Vaticano servissero a Torzi per chiudere un’operazione con la Popolare di Bari. È quella raccontata dal Fatto Quotidiano nel luglio 2019: Vincenzo De Bustis, allora consigliere delegato della banca pugliese, aveva annunciato l’arrivo di titoli per 30 milioni sottoscritti da una società maltese, la Muse Ventures Ltd, fondata da Torzi con un capitale di soli 1.200 euro. I 30 milioni non arrivano a Bari. In compenso, arrivano gli allarmi del servizio antiriciclaggio della Popolare di Bari, che sottolineano la “sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore” (la Muse) “e l’importo della sottoscrizione dei titoli”; rilevano che “l’anagrafica e l’identificazione della società in discorso”, cioè la maltese Muse di Torzi, “risultano incomplete, essendo carenti le informazioni relative al titolare effettivo e al codice fiscale”; e che l’amministratore di Muse, Gianluigi Torzi, insieme al padre Enrico, è presente “nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico”. L’operazione con questo personaggio è classificata “ad alto rischio” e con “evidenza antiriciclaggio negativa”. Bloccato a Bari, Torzi ci prova comunque a Roma. Ora i nodi vengono al pettine a Milano.

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci, Floriana Bulfon e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 24 ottobre 2020. L'arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra ha avuto un ruolo di primo piano nell' affaire londinese del palazzo di Sloane Avenue, che ha provocato la perdita di centinaia di milioni di euro per le casse della Santa Sede. Cinque documenti riservati […] raccontano come l'attuale sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato abbia consapevolmente deciso di mettere il denaro dell' obolo di San Pietro e delle donazioni dei fedeli nelle mani di Gianluigi Torzi. […] È grazie alle disposizioni di monsignor Peña Parra, successore del cardinale Becciu (indagato), che Torzi intasca, praticamente senza muovere un dito, quindici milioni di euro, sulla base di un accordo non scritto che i promotori di giustizia della Santa Sede, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, non esitano a definire «incomprensibile». […] L'analisi dei cinque documenti visionati da Repubblica riportano questa storia al novembre del 2018, quando la Segreteria di Stato, […] decide di interrompere i rapporti con […] Raffaele Mincione […] la Segreteria potrebbe rilevare direttamente la società che detiene le quote del palazzo, la 60 Sa-2 Limited, e chiuderla lì. Invece, e «per ragioni che non risultano ancora chiarite» […] decide di avvalersi dei servigi della Gutt, società lussemburghese che fa capo a Torzi. […] […] Il nome sui contratti siglati con le società di Torzi è quello di monsignor Alberto Perlasca […] ma il mandante è il sostituto. Con una lettera firmata da Peña Parra e datata 22 novembre 2018, infatti, Perlasca riceve la delega a «sottoscrivere con firma singola» il contratto con la Gutt di Torzi. […] Nella delega […] ci sono già le clausole del contratto […]: dodici pagine di intesa che mettono la Segreteria di Stato nelle mani del finanziere italiano. Il contratto prevede tre cose: 1) il Vaticano ricompra un palazzo che avrebbe dovuto essere già suo; 2) lo fa attraverso una terza società, la Gutt; 3) Torzi di fatto ha la gestione del palazzo grazie a 1.000 azioni, che sulle 31.000 totali sono le uniche con diritto di voto. Affidatosi a dicembre in modo apparentemente ingiustificato a Torzi, ora l' arcivescovo venezuelano Peña Parra ne è l'ostaggio. […] c'è la clausola secondo cui la Gutt agirà in qualità di agente della Segreteria di Stato per il controllo dell' immobile. È una clausola del diavolo, di cui in Vaticano si pentono nell' arco di 24 ore. Per rinunciarci, Torzi pretende il 3 per cento dell' affare, ossia 15 milioni. […] Nella Santa Sede qualcuno parla di estorsione. Ma gli inquirenti vaticani non credono al ricatto, perché tutto «era ben esplicitato nell' accordo». […] 15 milioni finiti nelle tasche di Torzi per comprare un palazzo che era già della Segreteria dello Stato, e, per giunta, sulla base di un accordo che […] non era sancito per iscritto in nessun contratto. «Ci siamo impegnati verbalmente», si legge in una nota interna di uno dei funzionari della Segreteria di Stato. Se l'accordo era solo verbale, e il contratto era capestro tanto da far parlare qualcuno di "ricatto", perché Peña Parra ha pagato Torzi?

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci, Floriana Bulfon e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 25 ottobre 2020. Chi è, veramente, Gianluigi Torzi? Perché il suo nome […] rimbalza nelle procure italiane di Milano, Larino e Bari? Si sa che il broker molisano […] è riuscito a spillare alle casse della Segreteria di Stato della Santa Sede almeno 15 milioni di euro per fare da intermediario nel disastroso affaire della compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra, conclusosi con una perdita, per il Vaticano, di un centinaio di milioni. Una traccia di quella clamorosa parcella porta al crac della Popolare di Bari […] A dicembre del 2018 […] Vincenzo De Bustis […] viene nominato consigliere delegato della Popolare di Bari, in quel momento in difficoltà economica. De Bustis nel primo consiglio di amministrazione porta in dote 30 milioni. Di chi sono? De Bustis spiega che una società maltese, la Muse Ventures, è pronta a sottoscrivere obbligazioni della PopBari per quella cifra. Perché si perfezioni l' accordo, però, PopBari deve acquistare 51 milioni di azioni dal fondo lussemburghese Naxos. La maltese Muse Ventures è una società di Torzi, con un capitale di appena mille e 500 euro. Una scatola vuota. Dove li ha i 30 milioni di cui parla De Bustis? Anche la lussemburghese Naxos, però, è legata al broker molisano: è del suo partner d' affari Enrico Danieletto. Secondo la procura di Bari, Torzi, grazie alla futura liquidità vaticana, sta provando una triangolazione di denaro a rischio riciclaggio. Il cda della banca - quando si accorge che il nome di Torzi è nelle black list di mezza Europa - blocca tutto. Ma l' operazione, si scopre oggi, non è del tutto sfumata. […] Torzi. Classe 1979, il finanziere di Guardialfiera, comune di neanche mille abitanti in provincia di Campobasso, ne ha fatta di strada […] a Londra aggancia i contatti giusti e affina, al ritmo di investimenti e transazioni milionarie, il suo metodo […]: rileva quote di società con denaro che fisicamente non ha, ma che detiene in portafogli complessi che comprendono crediti deteriorati, obbligazioni, strumenti finanziari complicati; rivende le quote a terzi, incassando soldi veri. Anche perché la vicenda Vaticano e PopBari non sono episodi isolati. La procura di Larino ha su Torzi indagini avanzate. Quella di Milano ha più di un fascicolo aperto per reati che vanno dalla truffa alla bancarotta. […] Torzi siede nei salotti buoni, esibisce relazioni politiche e propina lezioni da esperto di strategia internazionale. Lo testimonia il saggio scritto la primavera scorsa […]: "Thinking outside the box. Pandemia e geopolitica: i nuovi assetti globali". […]La lunga postfazione è firmata da Franco Frattini […] Nel board di una sua società britannica figurano altri nomi noti: Giancarlo Innocenzi, ex sottosegretario alle Comunicazioni con Silvio Berlusconi; Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa; Fabrizio Lisi, ex generale della Guardia di Finanza in contatto con Luigi Bisignani. […] L'ultimo ad andarsene è stato il top manager Alfredo Camalò. […]

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 5 novembre 2020. La trattativa con il finanziere Gianluigi Torzi per il palazzo londinese di Sloane Avenue venne condotta «con l' avallo del Santo Padre» e venne fissato a monte anche l' importo massimo della «compensazione» per il finanziere, pari a 20 milioni di euro. La trattativa avvenne sotto la guida dell' attuale sostituto, Edgar Pena Parra. E infine lo Ior, dalla cui denuncia è partita l' inchiesta vaticana che ha fatto emergere lo scandalo degli investimenti della Segreteria, aveva dato «più volte» la disponibilità a finanziare la Segreteria stessa per chiudere la vicenda. In una lettera a La Stampa, il difensore di Monsignor Mauro Carlino, Salvino Mondello, ricostruisce il ruolo del suo assistito nello scandalo dei fondi della Segreteria di Stato. Aggiungendo una serie di circostanze finora inedite. Carlino, già segretario del cardinale Angelo Becciu poi a capo dell' ufficio informazione della Segreteria di Stato, era stato sospeso dall' ufficio con altri quattro funzionari laici nell' ottobre dello scorso anno. Il suo ruolo nella vicenda è stato scandagliato dagli inquirenti della Santa Sede e quella che pubblichiamo, per il tramite del suo legale, è la sua versione della vicenda. «Innanzi tutto - scrive l' avvocato - è assolutamente erroneo ed improprio definire mons. Carlino "uno dei protagonisti dello scandalo", poiché il suo intervento nella vicenda fu estremamente limitato nel tempo (da febbraio a maggio del 2019) e raggiunse lo scopo specifico cui era diretto, ovvero di salvaguardare gli interessi economici della Santa Sede». Pena Parra, scrive l' avvocato, «interessò monsignor Carlino solo dopo che l' immobile di Londra era stato acquisito dalla Gutt, società lussemburghese gestita da Giancarlo Torzi. Quest' ultimo, attraverso 1.000 azioni con diritto di voto, aveva mantenuto il pieno controllo della società e la gestione del palazzo, sebbene la Segreteria di stato Vaticana fosse titolare della parte di gran lunga preponderante del capitale della società stessa (30.000 azioni, ma senza diritto di voto)». Prima di allora, «monsignor Carlino non si era mai occupato dell' immobile di Sloane Avenue, né direttamente né indirettamente». Secondo la ricostruzione, «la necessità della trattativa con Torzi era stata già decisa con l' avallo del Santo Padre ed inoltre era già stato indicato il prezzo della transazione in 20 milioni di euro». Carlino «ebbe il merito di ridurre a 15 milioni di euro le richieste di quest' ultimo, con un risparmio di ben cinque milioni di euro». È un passaggio chiave: proprio questo «accordo» ha fatto scattare l' accusa di estorsione per Torzi, arrestato e rilasciato nel giugno scorso. E poi il ruolo dello Ior: «La presenza di un possibile "scandalo" relativo al palazzo londinese fu evidenziata dal direttore dello Ior, il dottor (Gian Franco) Mammì, il quale, nonostante avesse più volte assicurato i Superiori di essere pronto a finanziare la Segreteria di Stato per l' estinzione di un mutuo che gravava sul bene, presentò una denuncia nel luglio del 2019, affermando che la richiesta di finanziamento appariva opaca e ventilando una serie di ipotesi di reato che, a suo dire, lo avrebbero impedito». «Spero - conclude la lettera - che queste circostanze consentano anche ai lettori del Suo giornale di apprezzare l' operato onesto, corretto e trasparente di monsignor Mauro Carlino».

Quella "mano" che ha fermato la "vera" riforma di Ratzinger. Benedetto XVI aveva optato per una legge anti-riciclaggio. Ma quel testo è stato modificato fermando la trasparenza. Francesco Boezi, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Si fa presto a parlare di Joseph Ratzinger come di un pontefice immobile che ha inciso poco sugli equilibri della Curia romana. Così come si fa presto a giudicare il pontificato di Benedetto XVI come un semplice momento di transizione della storia della Chiesa cattolica. Quella di un Benedetto XVI debole e privo di velleità riformistiche è una vulgata comune che non corrisponde al vero. Allo stesso modo, liquidare il regno di Ratzinger come breve o senza troppo significato è tipico delle ricostruzioni progressiste. Questo genere di narrativa, centrata o meno sulla "debolezza", non vale solo per il "mite teologo" di Tubinga: dicono che papa Luciani volesse chiudere lo Ior, ma che la prematura scomparsa abbia impedito al primo Giovanni Paolo di poter quantomeno lavorare a quell'obiettivo. Eppure di Luciani si racconta soprattutto la mitezza. E Francesco? Jorge Mario Bergoglio ha esordito nel suo pontificato domandandosi se la Chiesa cattolica avesse davvero bisogno di una "banca". Per ora lo Ior è ancora lì. Le "finanze vaticane" costituiscono del resto da sempre un argomento utile per chiarire quali siano le reali intenzioni programmatiche di un pontefice, oltre che un discreto terreno di "scandali". Quelli con cui hanno dovuto fare i conti soprattutto gli ultimi quattro pontefici. Ratzinger e Bergoglio hanno stili comunicativi e priorità pastorali diverse, ma vengono spesso accomunati dagli addetti ai lavori per via di un'intenzione che li riguarda entrambi (quella che per i critici di Bergoglio è per lo più presunta o comunque tutta da verificare): rendere trasparente la situazione economico-finanziaria della Santa Sede e dei suoi istituti. Si tratta di una volontà che vale tanto per l'interno, con questa trasparenza che deve giocoforza interessare le "banche" del Vaticano, quanto per l'esterno, quindi per esempio per i rapporti tra lo Ior, che non è una vera "banca" ma un istituto per le opere di religione, e gli enti finanziari comunemente intesi. Quelli che operano dentro e attraverso i confini degli altri Stati.

La "battaglia" interna per la legge anti-riciclaggio. Tra voci di corridoio e ventilazioni che non sono state corroborate dai fatti (le teorie complottistiche sono sempre dietro l'angolo quando si ha a che fare con le "cose vaticane"), è comunque certo che Joseph Ratzinger abbia provato a fare qualcosa di mai sperimentato. La stessa operazione che Francesco starebbe cercando di portare a termine: un'opera di riforma complessiva in materia economico-finanziaria. Facciamo qualche passo indietro. Era il 2009, e il pontefice tedesco aveva appena nominato Ettore Gotti Tedeschi alla presidenza dello Ior. Una figura di spicco, che poi è stata messa da parte dai sacri palazzi, con ogni probabilità non per ordine di Benedetto XVI. Anzi, nostre fonti (e non solo quelle) sostengono che Joseph Ratzinger abbia semplicemente appreso la notizia, quando insomma la "cacciata" era già avvenuta. Un altro dei protagonisti di questi passaggi storici è stato il cardinal Attilio Nicora, che è deceduto del 2017 e che ha ricoperto, durante il regno di Benedetto, l'incarico di primo presidente dell'Autorità d'informazione finanziaria, un ente che proprio l'allora Papa aveva deciso di creare. Il ruolo di Nicora sarebbe dovuto essere determinante per la battaglia di Ratzinger in favore della trasparenza tra le mura leonine. E l'Aif non sarebbe dovuta sottostare ad altri "poteri" o al controllo diretto o indiretto di una segreteria della Santa Sede. Qualcosa, però, non sembra essere andato nel verso che il cardinale ed altri avevano scelto. E il "controllante" sarebbe finito per poter essere "controllato".

La vera "guerra" nel Vaticano: il caso che scoperchia tutto. Quest'ultimo, almeno, è un elemento che deriva sempre dalle riflessioni delle nostre fonti. Veniamo per un momento all'attualità:"Si può parlare di bancarotta - ci ha rivelato di recente don Nicola Bux, già collaboratore di Ratzinger presso l'ex Sant'Uffizio ed altrove - . Ma nessuno dei cortigiani e degli opportunisti potrà scamparla: non tanto per la provenienza del denaro dall’Obolo di san Pietro, dai Fondi CEI ecc., e nemmeno per il fatto che Becciu aveva già suscitato sospetti sulle operazioni da lui condotte, fino all’immobile di Londra, ma per essersi opposto alla legge antiriciclaggio voluta da Benedetto XVI e aver fatto allontanare il presidente IOR Gotti Tedeschi e il defunto card. Nicora". Esisteva un'opposizione che ha impedito una concretizzazione della riforma di Ratzinger? Monsignor Becciu - l'alto ecclesiastico che Bergoglio ha privato delle facoltà di cardinale - faceva parte di un "tappo" curiale in grado di limitare l'azione del Papa?

Cosa avrebbe voluto Benedetto XVI per le "finanze vaticane". Siccome è praticamente impossibile comprendere se questo "tappo" esista davvero o no, conviene chiedersi quale fosse lo strumento che Benedetto XVI aveva individuato affinché la situazione degli istituti economico-finanziari tendesse al miglioramento. Una legge. Nello specifico, un macro-disegno di legge che toccasse più ambiti, da quello procedurale a quello sanzionatorio. Qualcosa che avrebbe equiparato "i conti" del Vaticano e la loro gestione alle normative internazionali. Il pacchetto ha preso il nome di "legge anti-riciclaggio", e di questi tempi sembra esistere chi intravede nell'interruzione del parabola riformistica ratzingeriana una delle chiavi, se non la "chiave", per interpretare i "disastri" odierni. Quelli che le cronache di questi giorni, che tuttavia non riguardano lo Ior, hanno fatto emergere.

Quel fiume di soldi alla Chiesa tedesca che Ratzinger voleva eliminare. Se non altro perché, ad un certo punto, quella normativa ha smesso di essere (almeno in parte) la stessa che gli uomini della "gestione" di Benedetto XVI - ossia soprattutto il cardinal Attilio Nicora e l'uomo che era stato scelto per la presidenza dello Ior, cioè Ettore Gotti Tedeschi - avevano immaginato in prima battuta. Come mai? Per un intervento di modifica legislativa che non era stato pronosticato e che non forse non poteva neppure essere previsto. Se c'è stato un momento in cui il "tappo" si è palesato, è stato proprio questo. L'atteggiamento di Ratzinger sulle finanze vaticane, e più in generale sul rapporto tra la Chiesa cattolica ed il denaro, è sintetizzabile peraltro mediante il pensiero relativo alla "tassa ecclesiastica" della Chiesa tedesca: "...gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo". Ratzinger era, insomma, per la semplificazione e la trasparenza.

Le modifiche al progetto iniziale. Stando a questo articolo pubblicato all'epoca su Il Corriere della Sera, la legge anti-riciclaggio voluta da Ratzinger e confezionata dal cardinal Nicora e da Gotti Tedeschi era cosa fatta. Poi, per mezzo di alcune modifiche, alcuni principi cardinale sono stati rivisitati. Questo è vero almeno per qualche passaggio, che però, secondo i promotori di quel provvedimento, non era di poco conto. Tutto ruoterebbe attorno a questo decreto, che ha coinvolto più di un articolo ritenuto centrale per la struttura originaria del testo. Con quell'atto normativo, sarebbero state estese, rispetto alla versione precedente, le facoltà ispettive della Segreteria di Stato, mentre l'Aif, l'Autorità d'informazione finanziaria, che era stata voluta da Benedetto XVI quale ente strettamente indipendente, avrebbe subito un parziale ridimensionamento.

La finta pulizia dello Ior: nessuno tocca i trenta conti "sporchi". In questa ricostruzione de Il Giornale del 2013, si legge che "quei poteri ispettivi previsti dalla legge 127 erano stati depotenziati, nonostante l'8 marzo precedente il Vaticano fosse per la prima volta finito nella "black list" dei Paesi a rischio riciclaggio". E ancora: "...le modifiche alla "127" prevedevano anche che lo scambio di informazioni con le autorità finanziarie degli altri Paesi fosse vincolato a un protocollo d'intesa da sottoporre al nulla osta della segreteria di Stato vaticana, presieduta da Bertone". Ecco il ruolo preminente del "ministero degli Esteri" del Vaticano. La "legge 127" è quella "anti-riciclaggio", mentre la modifiche sostanziali sono quelle che il cardinal Attilio Nicora (ma anche gli altri giuristi ed economisti che avevano lavorato alla prima versione) non avrebbe poi recepito in maniera positiva. In termini politici, oggi si parlerebbe di una "manina" in grado di riorientare la ratio di una disposizione (e di remare contro il progetto originario ratzingeriano). Il cardinal Nicora, ai tempi, ha anche scritto una missiva (la lettera che ha de facto aperto il caso Vatileaks) tramite cui, in buona sostanza, segnalava "un passo indietro". Un retrocedere che sarebbe dipeso da quelle modifiche. Con quel decreto, la "battaglia" per la trasparenza - quella che Benedetto XVI, dopo le ultime fasi del pontificato di San Giovanni Paolo II - fasi in cui si dice abbia governato per lo più il "sottobosco" curiale - aveva deciso d'intraprendere, aveva subito una battuta d'arresto. Almeno secondo l'opinione dei ratzingeriani di ferro. "Riservatezza" - il concetto prediletto dal duo formato da Nicora e Gotti Tedeschi - "contro" "segretezza", che era invece preferita da un "tappo": quello che alcuni vaticanisti definiscono alla stregua di una barriera ecclesiastica per nulla incline ai cambiamenti.

La strana "cacciata" di Ettore Gotti Tedeschi. Ettore Gotti Tedeschi è stato "cacciato" dalla presidenza Ior con un voto di sfiducia del Consiglio di Sovrintendenza. Era maggio del 2012. Possibile che la "manina" che aveva cambiato la legge ci abbia messo del suo pure in questo caso? Difficile a dirsi. La stima di Joseph Ratzinger per Gotti Tedeschi è nota. Altrimenti l'emerito non avrebbe coinvolto il banchiere nella stesura di quella che forse è, ancora oggi, il manifesto del pensiero economico-sociale ratzingeriano: Caritas in Veritate. E poi qualcosa di questa storia non torna. In Ultime Conversazioni, un libro-intervista di Peter Seewald su e con il papa emerito - Ratzinger sembra rivendicare la scelta del cambio di guardia, ma c'è la sensazione che Benedetto XVI possa non aver compreso la domanda che gli era stata posta. Forse - questo è il succo della questione - Joseph Ratzinger rispondendo si è confuso con il presidente che ha preceduto allo Ior Gotti Tedeschi. E questa ipotesi può essere corroborata da quello che poi ha dichiarato monsignor Georg Gaenswein, segretario particolare dell'emerito ex ex prefetto della Casa pontificia: "Benedetto XVI che aveva chiamato Gotti allo Ior per portare avanti la politica della trasparenza, restò sorpreso, molto sorpreso...". E ancora, come si legge su Avvenire: "...lo stimava e gli voleva bene, ma per rispetto delle competenze di chi aveva responsabilità scelse di non intervenire in quel momento". In conclusione, Gaenswein ha aggiunto che "successivamente, per motivi di opportunità, anche se non ha mai ricevuto Gotti Tedeschi, ha mantenuto i contatti con lui in modo adatto e discreto". Argomentazioni più che sufficienti - considerato il dichiarante - per affermare che Gotti Tedeschi non è stato rimosso dal pontefice tedesco.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 29 settembre 2020. «In Vaticano non si controllavano abbastanza le operazioni finanziarie. Dobbiamo correggere ciò che abbiamo sbagliato e che non funziona nel nostro sistema». Lo riconosce Óscar Rodríguez Maradiaga, l'eclettico cardinale honduregno che nella foto profilo di whatsapp è alla guida di un aereo, coordinatore del C6, il Consiglio dei porporati che collaborano con il Papa nel governo della Chiesa. Centralizzazione dei bilanci e degli investimenti, che potranno essere verificati da un «comitato di saggi». Severità e rigore nell'applicazione del codice appalti. Sobrietà, trasparenza e buon esempio. Mentre il caso Becciu scuote la Chiesa, Oltretevere si lavora a un piano anti-corruzione per purificare una volta per tutte le Sacre Stanze dal malaffare, colmare quei vuoti nelle procedure di verifica, e ripulire così l'immagine sporcata dagli scandali finanziari.

Eminenza, che cosa pensa della rimozione di Giovanni Angelo Becciu?

«Sono dispiaciuto per lo scandalo che ha creato. Ma allo stesso tempo ritengo che la ricerca della verità in questa vicenda sia una tappa di un processo di pulizia iniziato con la prima riunione del nostro Consiglio, nell'ottobre 2013, quando papa Francesco disse: "È urgente la riforma dell'economia", all'insegna della trasparenza e dell'onestà».

Che cosa non funziona in particolare in Vaticano?

«Il sistema di controllo delle operazioni finanziarie era insufficiente: da 7 anni stiamo lavorando per correggerlo e renderlo efficiente, e abbiamo già ottenuto buoni risultati».

Ci fa qualche esempio?

«I più importanti sono la creazione della Segreteria per l'Economia e le riforme dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica (Apsa) e dell'Istituto per le Opere di Religione (Ior)».

Come è cambiato lo Ior?

«La gestione in passato era viziata da tanti conti di provenienza "incerta", sconosciuta, aperti solo perché si era "amici" di qualche funzionario. C'erano prelati che portavano nello Ior fondi "strani" da fuori. Ora quel tempo è finito. Lo Ior ha incrementato la lotta antiriciclaggio. Adesso se uno ha un conto nello Ior e vuole ritirarlo gli si domanda il motivo. E se una persona ha un deposito si indaga sulla provenienza di quel denaro».

Quali sono i più grandi ostacoli che avete incontrato?

«I nemici interni, perché quando si mettono le mani nei fondi economici e nelle amministrazioni dei dicasteri si trovano cose che non vanno e questo provoca reazioni molto dure».

Qual è il prossimo grande obiettivo di «correzione»?

«La centralizzazione degli investimenti. Prima l'amministrazione generale prevedeva che ogni dicastero e congregazione avesse i suoi fondi e budget, che poteva gestire in autonomia. In troppa autonomia, con alcune conseguenze negative che abbiamo constatato. Stiamo lavorando affinché il controllo venga sempre più centralizzato. Il Pontefice ha trasferito il Centro Elaborazione Dati alla Segreteria per l'Economia».

Su quali strumenti puntate?

«Centralizzazione del bilancio e applicazione rigorosa del codice appalti».

Ce li spiega?

«Papa Francesco ha varato con un Motu Proprio un codice per gli appalti. Serve a chiudere l'epoca in cui ogni dicastero o ente poteva stabilire autonomamente a chi affidare i propri lavori o consulenze. L'obiettivo è annullare i favori a conoscenti o parenti, le "opacità" varie».

Ci illustra la questione del bilancio?

«Fino ad alcuni anni fa non esisteva un bilancio di tutta la Curia romana, adesso c'è. Il Consiglio per l'Economia e la Segreteria per l'Economia sono chiamati ad approvare i bilanci di ogni dicastero ed ente, che a loro volta sono obbligati a presentarli. Non si potrà più puntare a evitare i controlli dicendo: "Ho ricevuto questi fondi e li metto da parte per un altro progetto", o altre motivazioni generiche facilmente strumentalizzabili e manipolabili».

E per quanto riguarda la gestione degli investimenti? È un punto dolente, alcuni sono stati «spericolati».

«Ha detto bene il prefetto della Segreteria per l'Economia, padre Juan Antonio Guerrero Alves: "Puntiamo ad avere un comitato serio, di persone di alto livello, senza conflitti di interesse, che ci aiuti (per quanto possibile) a non sbagliare". Lo scopo è promuovere investimenti etici, e possibilmente legati all'ecologia».

Qual è la strategia per riacquistare la fiducia dei fedeli, crollata dopo gli scandali?

«Intanto va fatta una considerazione: è un bene che si sia saputo subito delle perquisizioni in Segreteria di Stato, delle indagini e delle rimozioni. Una volta si faticava di più a fornire questo tipo di informazioni. Così ora la gente sta vedendo che maggiore attenzione e severità nei confronti dei corrotti sono in atto, non solo a parole. Il grande passo avanti è che oggi è il Vaticano a denunciare i presunti illeciti di uomini di Chiesa. E poi, celebrando il processo, si dimostrerà ulteriormente la volontà concreta di debellare il malaffare».

Alessandro Rico per “la Verità” il 28 settembre 2020.

Ci scherza su, il vaticanista Aldo Maria Valli: «Alla luce del caso Becciu, il Papa valuti se circondarsi solo di prelati figli unici...».

Allude ai fratelli di monsignor Angelo Becciu?

«Quando uscirà l'enciclica Fratelli tutti, qualcuno potrebbe pensare male...».

Dunque, è vero che l'obolo di San Pietro è stato usato per l'acquisto dell'immobile a Londra e che i soldi della Caritas sono finiti alla coop del fratello di Becciu?

«Non ho in mano le carte e non posso giudicare. Il problema è capire perché questi scandali scoppino sempre più spesso».

Che idea s'è fatto?

«Le finanze vaticane sono senza pace da decenni. Penso al licenziamento di Ettore Gotti Tedeschi, che voleva fare pulizia, dallo Ior. O, risalendo fino agli anni Settanta, al coinvolgimento di monsignor Paul Marcinkus nel crac del Banco Ambrosiano e in altre vicende oscure».

Qual è la causa?

«Nelle casse vaticane confluiscono da tutto il mondo somme enormi. Ma le amministrazioni e i centri di spesa sono tanti e differenziati».

Quindi?

«Molti hanno fatto in modo di non dover rendere conto a nessuno. Ne sa qualcosa il cardinale George Pell».

Il quale, ostacolato dal segretario di Stato, Pietro Parolin, e dallo stesso Becciu, voleva centralizzare le finanze della Santa Sede.

«Nel 2014, fu nominato prefetto della nuova Segreteria per l'economia, proprio per centralizzare e controllare le amministrazioni».

Obiettivo fallito?

«Io andai in Vaticano per vedere come lavorava la Segreteria».

E cosa scoprì?

«Un collaboratore di Pell mi raccontò della fatica che facevano, con scarsi risultati, nel farsi dare i conti dalle amministrazioni vaticane».

Non consegnavano le carte?

«Questi conti, spesso, nemmeno esistevano. O erano stilati in modo approssimativo, magari per celare operazioni opache. Era una situazione di anarchia».

Che non fu sanata.

«Sappiamo come finì Pell».

Travolto dal processo per abusi in Australia, in cui alla fine è stato assolto. Allora, la regia dello scandalo fu vaticana?

«Non lo penso. Ma sicuramente vennero stappate bottiglie di spumante, in Vaticano, per la brutta fine di Pell...».

La «fine» di Pell, però, non è stata un caso isolato, giusto?

«Niente affatto. Pensi a Gotti Tedeschi, appunto».

E Libero Milone, il revisore dei conti, poi licenziato?

«Idem. E non dimentichi Carlo Maria Viganò: dal 2009 al 2011 fu segretario del Governatorato. Tentò di razionalizzare le spese, di stroncare il clientelismo. Parlò con il Papa di sperperi di denaro, fenomeni di corruzione e operazioni finanziarie o appalti opachi».

Ad esempio?

«Il presepe di Piazza San Pietro del 2008, costato qualcosa come 550.000 euro».

A cosa portarono le indagini di monsignor Viganò?

«Fu allontanato: trasferito negli Usa come nunzio. Il problema, alla fine, è sempre quello».

Ovvero?

«Chi lavora per la trasparenza viene estromesso, mentre le amministrazioni vaticane vogliono restare svincolate da ogni controllo. Inclusa la Segreteria di Stato».

Ma papa Francesco vuole davvero fare pulizia?

«La narrativa dominante è quella del povero Papa solo, tradito dai collaboratori».

Le cose non stanno così?

«Il Papa non è stato eletto ieri. Ormai, tutti i principali incarichi nella curia romana sono ricoperti da persone scelte da lui. Eppure...».

Eppure?

«Tutto verte intorno ad accuse che nascono spesso da carte uscite sulla stampa, con l'interessato che si difende... E alla fine non succede nulla».

In che senso?

«Non c'è un vero processo. Ci sono provvedimenti repentini del Papa, che di tanto in tanto fa saltare qualche testa».

Lo stesso Becciu si è lamentato di questa sorta di giustizialismo.

«Esatto. Ma come si può pensare di amministrare il Vaticano in questo modo? Io comincio a pensare che il problema stia proprio a Santa Marta, forse nelle caratteristiche psicologiche di questo Pontefice».

Cosa intende?

«Si racconta che Francesco passi rapidamente dall'entusiasmo per una persona alla condanna - e che, in questi passaggi, si lasci influenzare facilmente».

Ad esempio?

«Un prelato liquidato così: "Mi dicono che lei sia diventato mio nemico". Si tagliano teste in base ai "mi dicono"? Qualcuno ha parlato di clima da junta sudamericana».

Condivide?

«Non siamo lontani dal vero. Ci troviamo spesso di fronte a provvedimenti soggettivi, dettati dalle circostanze, presi in base a chi vince la guerra tra bande. È molto triste, soprattutto per noi credenti».

Da dove dovrebbe partire la pulizia delle finanze vaticane?

«Dall'indagine affidata a tre cardinali - Julián Herranz, Josef Tomko e Salvatore De Giorgi - da Benedetto XVI».

A quando risale?

«Iniziò dopo il Vatileaks. I tre lavorarono bene. Ricorda la foto dei due Papi a Castel Gandolfo?».

Benedetto e Francesco?

«Sì, con lo scatolone consegnato da Benedetto a Francesco, quasi un passaggio di consegne».

Ebbene?

«Di quel rapporto non si parla più. Quali sono stati i risultati? Chi era implicato? Se serve più trasparenza, questo rapporto dovrebbe saltare fuori».

L'obolo di San Pietro dovrebbe servire a finanziare la carità del Papa. Ma investirlo non può servire ad accrescerne la dotazione?

«Il denaro per le attività caritative deve essere utilizzato solo per quelle. Le altre somme possono essere investite, il Vaticano lo fa dall'unità d'Italia, quando la Santa Sede si è trovata senza risorse di altro tipo e poi, dopo i Patti lateranensi del 1929, con le somme ricevute in risarcimento di espropri e confische».

In fondo, una Chiesa «povera» rischia di essere anche una Chiesa senza mezzi per la carità.

«Quella della Chiesa "povera per i poveri" è una retorica assurda. Per evangelizzare, la Chiesa ha bisogno di risorse. Ma deve trovarle in modo onesto e trasparente».

Nella vicenda dell'immobile di Londra, colpisce la facilità con cui gli investitori ecclesiastici sono stati avvicinati da speculatori inaffidabili. Come mai?

«Anche questa è una costante. La mancanza di trasparenza e la sensazione di essere svincolati da ogni regola attirano i disonesti».

Lo scandalo londinese parte dal fallito investimento nel fondo petrolifero angolano.

«Esattamente».

Lei ha scritto che monsignor Becciu, da nunzio apostolico in Angola, intratteneva «frequentazioni e amicizie quanto meno sospette». A cosa si riferiva?

«A una fonte vaticana che mi ha riferito che, nel periodo angolano, Becciu venne a contatto con italiani che, da quelle parti, non si comportavano in modo molto corretto...».

A Roma sapevano?

«Ci fu una richiesta per far rientrare Becciu in Italia. E che lui abbia pensato di investire nel petrolio, conferma che fosse coinvolto in vicende strane».

Francesco sarebbe furioso per il presunto dossieraggio di Becciu ai danni di uomini a lui vicini, come monsignor Gustavo Zanchetta, accusato in Argentina di abusi sui seminaristi. A giugno, è stato avvistato in Vaticano...

«Sì, pare si trovi lì».

Dal sinodo sugli abusi è emersa una volontà punitiva, di nuovo, quasi giustizialista, ma Zanchetta, accusato di abusi, continua a ricoprire l'incarico di assessore all'Apsa?

«Ha ragione. C'è una totale mancanza di trasparenza e di rigore. Tutto è affidato agli umori del Papa: si può essere protetti, o cadere in disgrazia, o finire nelle mani della giustizia esterna».

L'effetto degli scandali, sull'opinione pubblica, quale sarà?

«Vedo un grande calo di fiducia nelle gerarchie. E questo calo di fiducia si sta trasformando in un calo di donazioni».

Avremo finalmente la Chiesa «povera per i poveri»...

«In effetti, si può iniziare ad avanzare un sospetto».

Quale?

«Un Papa che ha destrutturato tutto, inclusa la sua figura, non vorrà per caso destrutturare anche il governo centrale della Chiesa per toglierle risorse?».

A che pro?

«Per rendere la Chiesa sempre più annacquata, mescolata al mondo, priva d'identità, sempre più simile a una grande Ong».

Francesco ha annullato l'incontro con Mike Pompeo, Segretario di Stato americano. «Speravo che Pompeo e l'amministrazione Trump riuscissero a far rinsavire il Papa, che ha scelto una linea incomprensibile di cedimento al regime comunista di Pechino».

Il Papa deve rinsavire?

«Le relazioni dalla Cina parlano di un peggioramento delle condizioni dei cattolici da quando è stato firmato l'accordo con il regime».

Che è tuttora segreto.

«Anche per chi dovrebbe conoscerlo, come il povero cardinale Joseph Zen. Qui è in gioco la libertas Ecclesiae. E non solo».

Che altro?

«Scendere a compromessi con il regime significa anche mancare di rispetto a schiere di martiri».

Addirittura?

«Pensi a vescovi come Ignazio Kung Pinmei, 30 anni in carcere, morto in esilio, o Giulio Jia Zhiguo, più di 15 anni in prigione. È inaccettabile».

Inaccettabile?

«Personaggi di spicco in Vaticano, tipo l'arcivescovo Marcelo Sánchez-Sorondo, molto ascoltato da Francesco, dicono che la Cina è il Paese nel quale la Dottrina sociale della Chiesa è applicata meglio. È pazzia».

In effetti...

«Questo va detto chiaramente, nel nome di chi in Cina, tutti i giorni, patisce la persecuzione».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 14 luglio 2020. Decine di allegati, documenti firmati da plenipotenziari del Vaticano, autorizzati direttamente da Papa Bergoglio, dal Segretario di Stato o dal Sostituto. C' è pure il regolamento dei Fondi di Athena Capital, i memo sui trasferimenti delle quote, gli accordi di sottoscrizione, le copie delle procure di monsignor Alberto Perlasca, il Transfert Agreement. Almeno nella prima fase il Vaticano sembra fosse pienamente a conoscenza di ogni dettaglio delle operazioni finanziarie. Sul tavolo dei magistrati d' Oltretevere nelle scorse settimane e stata depositata la corposa memoria difensiva del finanziere italo-inglese, Raffaele Mincione, anch'egli indagato come Gianluigi Torzi, il finanziere molisano arrestato e rilasciato dopo 9 giorni di cella con vista su San Pietro, per la ingarbugliata vicenda del famoso immobile a Londra. Secondo il Vaticano Mincione si sarebbe reso responsabile di «condotte illecite» nell' ambito della compravendita delle azioni della società intestataria dell' immobile. Ma nella memoria presentata dagli avvocati Luigi Giuliano e Andrea Zappala emergono accordi regolarmente firmati, mail, lettere, comunicazioni sia formali che informali che certificano che ogni fase è stata effettivamente condivisa dal Vaticano. «Non c' è nessun comportamento penalmente rilevante ascrivibile a Mincione, ne alle sue società». Vi e la sua «completa estraneità alle ipotesi contestate» Il Promotore di Giustizia lo ha indagato per peculato e truffa per come e avvenuto il disinvestimento del Fondo Athena e l' acquisto della intera proprietà dell' immobile da parte della Santa Sede (posseduta solo al 45% per mezzo della società GUTT di Torzi, subentrata nel 2018 al Fondo di cui Mincione era solo uno degli amministratori). Mincione per il Vaticano sarebbe «il soggetto che ha tratto il maggior vantaggio economico» dall' intera operazione. Ma il finanziere, carte alla mano, passa al contrattacco sottoponendo la correttezza del suo agire al giudizio della magistratura inglese e trascinando in tribunale la Segreteria di Stato per una azione di accertamento. Una cosa che non era mai accaduta in passato. Ora sarà un giudice di Londra a decidere se tutto e stato formalmente condotto in modo ineccepibile oppure no. Mincione potrebbe, inoltre, avviare una causa (milionaria) contro il Vaticano per i «danni reputazionali subiti», per il congelamento dei suoi conti correnti in Svizzera (poi sbloccati dalla magistratura elvetica che non ha riconosciuto valida l' azione legale dei magistrati vaticani). Insomma un pastrocchio tale che, a questo punto, non si sa dove possa condurre anche se il Papa continua a ripetere ai suoi magistrati lo stesso mantra, di andare avanti, di non guardare in faccia nessuno e chiudere velocemente l' indagine iniziata a ottobre con il licenziamento di cinque funzionari. Nel novembre 2018 la Segreteria di Stato decide di interrompere i rapporti con il Fondo lussemburghese di Mincione poiché riteneva che l' investimento del palazzo londinese fosse in perdita. Nel 2014 come si sa - il Vaticano aveva investito 147 milioni di euro: il 55% era servito ad acquistare il 45% dell' immobile mentre il 45% residuo era stato investito in strumenti finanziari di societa ritenuti da Mincione buone opportunità. Secondo il Vaticano, l' aver investito in Fiber, Carige, Retelit, Bpm aveva però «generato ingenti perdite» con il sospetto che questo fosse avvenuto «in complicità con funzionari della Segreteria di Stato». Il clima iniziò a deteriorarsi fino all' avvio della inchiesta che per ora non sembra considerare che ogni operazione e stata regolarmente autorizzata e periodicamente monitorata dalla Segreteria di Stato. Dai carteggi depositati Mincione non sarebbe personalmente coinvolto in nessuna delle operazioni contestate, anche perché era solo uno degli amministratori di WR - una regolare società di gestione risparmio - a sua volta socia accomandataria e gestrice del Fondo Athena che, per il diritto societario inglese e lussemburghese poteva agire in totale autonomia, come del resto spiegano anche gli accordi sottoscritti dal Vaticano al momento dell' acquisto delle quote. In ogni caso, a conti fatti, il Palazzo londinese si rivelerà effettivamente un buon investimento. Tanto che a maggio e stata trasmessa in Vaticano una offerta per 308-336 milioni. Al momento nessuno ha risposto. Forse anche il Papa non vuole privarsi di un bene che, se gestito diligentemente, potrebbe fruttare fino a 15 milioni l' anno di rendita. Non proprio noccioline di questi tempi.

Maria Antonietta Calabrò per "huffingtonpost.it" il 4 luglio 2020. C’è anche un’operazione sospetta di finanziamento del terrorismo internazionale, tra quelle segnalate a fine 2019 dall’Autorità d’informazione finanziaria della Santa Sede. È una new entry assoluta per il Rapporto annuale dell’intelligence unit del Vaticano, l’organismo per il contrasto al riciclaggio e appunto il finanziamento al terrorismo. Il Rapporto segnala tuttavia “che, a seguito degli approfondimenti esperiti, si è rilevata priva di elementi soggettivi o oggettivi che potessero effettivamente ricondurre l’operazione ad attività di finanziamento del terrorismo”. Nel contempo, l’AIF ha mantenuto un approccio preventivo e propositivo, “assicurando la propria collaborazione a livello internazionale e garantendo un supporto costante alle UIF delle giurisdizioni maggiormente esposte al rischio di attacchi terroristici”. Visto che nel contesto attuale la lotta al finanziamento al terrorismo costituisce “una priorità”. Nello scorso anno sono state in tutto 64 le segnalazioni di attività sospette (contro le 58 dell’anno precedente) di cui 4 da parte di autorità della Santa Sede, tra cui quella famosa della Segreteria di Stato vaticana (prima che partisse l’indagine del Promotore di giustizia cui si era rivolto il revisore generale) circa gravi irregolarità nella finalizzazione, a cavallo tra il 2018 e il 2019, dell’acquisto del famoso palazzo di Londra acquistato nel 2014 dal finanziere Raffaele Mincione. 15 di queste segnalazioni sono state esse stesse trasmesse, dopo verifica, all’Ufficio del Promotore di giustizia dello Stato pontificio, perché se ne occupi la magistratura (contro 11 del 2018). 370 soggetti sono state sottoposti ad accertamenti in una collaborazione internazionale con le autorità di molteplici giurisdizioni per individuare gli schemi finanziari di azioni potenzialmente illecite. Un’attività corposa, nonostante il fatto che tra il 1 di ottobre e fine novembre l’AIF (un ente giovane per i tempi della Santa Sede, istituito da Benedetto XVI nel 2011) sia stata decapitata proprio a seguito delle indagini del Promotore vaticano sul palazzo di Sloane Ave (sotto indagine l’ex direttore generale Di Ruzza, mandato non rinnovato allo svizzero René Bruelhart). Ma adesso è scattata la fase due della trasparenza finanziaria, che si inserisce in un momento di maggiore debolezza economica, causa Covid, della Santa Sede (il crollo degli incassi dei Musei vaticani causa pandemia e i minori profitti derivanti dallo IOR). Qualche settimana fa il nuovo presidente dell’AIF Carmelo Barbagallo (ex capo della Vigilanza della Banca d’Italia) ha tenuto un seminario per i responsabili degli enti vaticani, una specie di “lezione” in cui aveva affermato che “la criminalità nei momenti di crisi riesce a insinuarsi nel tessuto dell’economia …E quindi questo è un momento nel quale assolutamente bisogna avere gli occhi più aperti del solito”. Questa necessità per il Vaticano cade proprio quando lo stato più piccolo del mondo sarà di nuovo messo sotto la lente dei valutatori di Moneyval (l’organismo del Council of Europe ) che compiranno Oltre Tevere la loro seconda “visita in site” dopo quella della primavera del 2012 (avrebbe dovuto tenersi ad aprile, ma è slittata a causa Covid). Barbagallo ha affermato che si tratta di un “appuntamento cruciale”, visto che da esso dipenderà anche la valutazione dei mercati finanziari sul Vaticano. Intanto dovranno essere adeguati gli Statuti dell’organismo, che cambierà anche nome (AISF) per sottolineare la sua competenza nella vigilanza prudenziale (è in corso un’ispezione generale presso lo IOR, proprio sotto questo punto di vista), è stato raddoppiato il personale (da sei a 12). È stato nominato il nuovo Direttore generale, Giuseppe Schlitzer, e il suo vice Federico Antellini Russo. Il finanziamento del terrorismo è un considerato un reato di natura finanziaria sia dal Gafi-Fatf (organismo intergovernativo del G7) sia da Moneyval. Basterà pensare, per fare un esempio, che pochi giorni fa il Gico della Guardia di Finanza ha sequestrato a Salerno un ingentissimo quantitativo di droga (Captagon), prodotta in Siria, Libano e Iran, che avrebbe fruttato se venduta, un miliardo di euro. C’è un precedente storico. Nel generale ripulisti dei conti dello IOR portata avanti dall’ex presidente von Freyberg il 2 ottobre 2013 vennero chiusi i conti che si riferivano a quattro ambasciate in Siria, Indonesia, Iran e Iraq. Allora si voleva ridurre “il rischio che lo IOR potesse essere non solo un canale di riciclaggio ma anche di finanziamento del terrorismo”. Com’è noto, tutti i vertici delle Ambasciate presso la Santa Sede (dal numero uno al numero tre) possono detenere conti presso la cosiddetta banca vaticana. Ne seguì un braccio di ferro diplomatico, il 5 novembre successivo un missile colpi la Nunziatura a Damasco. “Esorto la comunità internazionale a sostenere gli sforzi che questi Paesi compiono nella lotta per sconfiggere la piaga del terrorismo, che sta insanguinando sempre più intere parti dell’Africa, come altre regioni del mondo”, ha detto quest’anno, il 9 gennaio, al Corpo diplomatico Papa Francesco, in un contesto internazionale arroventato dalle azioni missilistiche iraniane e dallo strike americano in cui è stato ucciso in Iraq il generale iraniano Soleimani. L’alert dell’AIF ha tanto più valore in un momento in cui non cala la tensione per la minaccia terroristica. Dopo gli ultimi attacchi avvenuti in diversi paesi europei a fine 2019, e i più recenti nelle settimane scorse, sono tornati al centro dell’attenzione di intelligence e forze dell’ordine proprio il Vaticano e lo stesso Papa Bergoglio. Il ministero dell’Interno, a fine febbraio, ha deciso di rafforzare la presenza del personale di Polizia a San Pietro proprio per i rischi da terrorismo. L’Ispettorato di sicurezza Vaticano ha comunicato - è scritto in una circolare - “che presso l’Ufficio verrà costituita una Unità operativa di primo intervento in considerazione del perdurare della minaccia terroristica internazionale che ha spesso colpito luoghi turistici e di culto”. La decisione di creare un reparto composto da personale super specializzato è stata presa per garantire maggiore “sicurezza pubblica nell’area prossima allo stato Città del Vaticano e del Sommo pontefice”. I rinforzi di Polizia destinati all’operazione si erano andati ad aggiungere a quelli già potenziati per l’emergenza coronavirus.

 (ANSA il 3 luglio 2020) - L'Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano ha ricevuto nel 2019 64 segnalazioni di attività sospette, di cui 55 dagli enti vigilati e 4 da Autorità della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano.  Ha disposto 4 misure preventive, incluso il blocco di 1 conto corrente. Ha inoltre trasmesso 15 Rapporti all'Ufficio del Promotore di Giustizia, confermando il trend di crescita nella proporzione tra Rapporti inviati e segnalazioni ricevute. E' quanto si legge nel Rapporto Aif 2019. Nel 2019, l'Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano ha dunque disposto 4 misure preventive: 3 sospensioni di transazioni e operazioni per complessivi 240.000 euro e il blocco di 1 conto per 178.970,65 euro "a conferma del consolidamento del rigoroso approccio preventivo nel contrasto di potenziali attività sospette". E' quanto si legge nel Rapporto Aif 2019. In ambito vigilanza, sono state condotte - si legge ancora nel Rapporto - due ispezioni in loco presso lo Ior. La prima, nel mese di giugno, mirata a una verifica di conformità tecnica al quadro legislativo e regolamentare vigente in materia di servizi di pagamento, nonché della sussistenza di tutti i requisiti necessari per l'adesione dell'Istituto agli schemi di pagamento Sepa. La seconda, nel mese di agosto, mirata alla verifica di conformità in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, nonché dell'efficace funzionamento delle misure e presidi adottati. In generale "la maggioranza dei potenziali reati di natura finanziaria - sottolinea il direttore dell'Aif Giuseppe Schlitzer - sullo sfondo coinvolgono soggetti stranieri o condotte intraprese in, o in connessione con, giurisdizioni estere. I principali potenziali reati presupposto sono frode internazionale, inclusa frode fiscale, e appropriazione indebita".

Vaticano, il Papa commissaria la Fabbrica di San Pietro: acquisiti computer e documenti. Pubblicato martedì, 30 giugno 2020 da La Repubblica.it. Funziona l'opera di controllo interna di conti e appalti in Vaticano. Dopo una segnalazione proveniente dagli uffici del Revisore Generale sono stati acquisiti questa mattina documenti e apparati elettronici presso gli uffici tecnico e amministrativo della Fabbrica di San Pietro. L'operazione è stata autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale, Gian Piero Milano, e dell'Aggiunto, Alessandro Diddi, previa informativa alla Segreteria di Stato, e ha portato alla nomina papale del nunzio Mario Giordana come Commissario straordinario: dovrà fare chiarezza sull'amministrazione della stessa Fabbrica e aggiornarne gli Statuti. Recita una nota della Santa Sede: "A seguito della recente promulgazione del Motu Proprio 'Sulla trasparenza, controllo e concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano' il Santo Padre, ha nominato ieri 'Commissario straordinario per la Fabbrica di San Pietro' il nunzio apostolico mons. Mario Giordana, affidandogli l'incarico di aggiornare gli Statuti, fare chiarezza sull'amministrazione e riorganizzare gli uffici amministrativo e tecnico della Fabbrica. In questo delicato compito il Commissario sarà coadiuvato da una commissione". La Fabbrica di San Pietro (in latino Reverenda Fabrica Sancti Petri) è un ente creato appositamente per la gestione dell'insieme delle opere necessarie per la realizzazione edile e artistica della Basilica di San Pietro in Vaticano. L'ente è tuttora operante per la gestione del complesso. Secondo la costituzione apostolica "Pastor Bonus" di Giovanni Paolo II la Fabbrica si occupa di tutto quanto necessario per il restauro e il decoro dell'edificio, nonché della disciplina interna dei custodi e dei pellegrini e opera in accordo con il Capitolo della Basilica Vaticana. Recentemente il Vaticano ha aperto gli archivi agli studiosi: fra i preziosi documenti catalogati vi sono migliaia di note, progetti, contratti, ricevute, corrispondenze (ad esempio fra Michelangelo e la Curia), che costituiscono una documentazione del tutto sui generis sulla quotidianità pratica degli artisti coinvolti. La Fabbrica è attualmente presieduta dal cardinale Angelo Comastri. Venne nominato da Giovanni Paolo II.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” l'1 luglio 2020. Lo scandalo stavolta ha travolto la basilica più grande del mondo, il centro del cattolicesimo. Per il commissariamento della Fabbrica di San Pietro Papa Francesco ha scelto la giornata del 29 giugno. Una data d'eccezione, simbolica, che di fatto si è trasformata in un segnale di avvertimento per il piccolo Stato vaticano dove all'interno ormai regna - in seno alle varie amministrazioni - un clima di terrore. Francesco ha firmato due giorni fa le carte necessarie per dare il mandato a un nunzio di fiducia Aldo Giordana - di assumere il comando dell'organismo costituito in parallelo alla nascita della basilica vaticana per gestire la conservazione e il decoro dell'edificio, «e la disciplina interna dei custodi e dei pellegrini che accedono per visitare il tempio», recita la costituzione apostolica Pastor Bonus. Monsignor Giordana dovrà «aggiornare gli statuti, fare chiarezza sull'amministrazione e riorganizzare gli uffici amministrativo e tecnico della Fabbrica. In questo delicato compito il commissario sarà coadiuvato da una commissione», i cui membri sono ancora definire. Allo stesso tempo però è partita anche una indagine penale. I magistrati del Papa pare stiano indagando sulle ipotesi di peculato e abuso d'ufficio, anche se il Vaticano non ha voluto specificare nulla di più, affidando la notizia ad uno scarno comunicato di poche righe. Un atto di sfiducia del genere da parte di un Papa nei confronti del cardinale arciprete della basilica ruolo attualmente ricoperto da Angelo Comastri, 77 anni, in via di uscita per avere raggiunto l'età pensionabile - non ha memoria storica e probabilmente è la prima volta che la Fabbrica di San Pietro viene commissariata in modo tanto plateale. Le informazioni che erano arrivate al Papa sembra che però fossero talmente evidenti e gravi da giustificare un passaggio tanto duro. L'amministrazione della basilica da tempo era chiacchierata, additata per avere metodi poco trasparenti, soprattutto nella gestione degli appalti, nella definizione dei lavori, delle sponsorizzazioni, spesso caratterizzate anche da una vena di nepotismo. Ad aggiudicarsi i lavori di restauro e manutenzione, pare fossero sempre e solo le stesse aziende, senza che vi fosse la possibilità di fare confronti sui preventivi. Tutto sarà da accertare naturalmente. I gendarmi ieri mattina hanno perquisito alcuni uffici amministrativi portando via carte, schedari, computer. Ora il materiale acquisito sarà passato a setaccio dalla magistratura che, in parallelo alla dimensione amministrativa, avrà un altro nuovo ingombrante filone di indagine da sbrogliare. Secondo l'Adnkronos le irregolarità sarebbero state rilevate dal Revisore Generale esaminando le fatture delle ditte appaltatrici: in alcuni casi sarebbero state duplicate e in altri riguarderebbero prestazioni non previste dal contratto. Ultimamente poi ci sarebbero stati controlli sul grande restauro della cupola michelangiolesca. Un maxi restauro assegnato senza gara anche se piuttosto complicato da realizzare per la dimensione del Cupolone. I lavori sarebbero stati sottoposti ad analisi di tecnici interni dopo l'allarme scattato per il rischio dell'eccessivo peso dei ponteggi. Naturalmente sul cantiere nessuno può salire ed è una notizia difficile da verificare, tuttavia il timore di possibili danni era stato segnalato alla Fabbrica di San Pietro. Il Papa in persona aveva incaricato il Governatorato di effettuare una verifica. Il Direttore del Governatorato pare avesse suggerito una seconda opzione, individuando una ulteriore ditta capace di effettuare montaggi di strutture più leggere ma il cardinale Comastri si sarebbe rifiutato. Anche questo ora dovrà essere verificato.

Terremoto nella Basilica Vaticana, Francesco azzera uffici e amministrazione: “Basta sprechi e opacità”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Un nuovo capitolo della verifica amministrativa si è aperto in Vaticano e riguarda la Fabbrica di San Pietro, l’ente che si occupa della gestione della Basilica Vaticana e delle opere d’arte che contiene. La notizia viene da uno stringato comunicato reso noto ieri. «A seguito della recente promulgazione del Motu Proprio “Sulla trasparenza, controllo e concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”», il Papa «ha nominato “Commissario straordinario per la Fabbrica di San Pietro” il nunzio apostolico mons. Mario Giordana, affidandogli l’incarico di aggiornare gli Statuti, fare chiarezza sull’amministrazione e riorganizzare gli uffici amministrativo e tecnico della Fabbrica. In questo delicato compito il Commissario sarà coadiuvato da una commissione», di cui al momento non si conoscono i nomi. «Tale scelta – prosegue il comunicato – segue anche una segnalazione proveniente dagli uffici del Revisore Generale, che ha portato all’acquisizione di documenti e apparati elettronici presso gli uffici tecnico e amministrativo della Fabbrica di San Pietro». E affinchè non ci siano dubbi sulla regolarità della procedura si specifica che la perquisizione «è stata autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale e dell’Aggiunto, previa informativa alla Segreteria di Stato». La Fabbrica di San Pietro si occupa della Basilica di San Pietro in Vaticano, con tutto quello che comporta sul piano del restauro e del mantenimento. Nella forma attuale la Fabbrica esiste dal 1988 (riforma della Curia voluta da Giovanni Paolo II), quando assorbì le precedenti commissioni e congregazioni e dal 5 febbraio 2005 è presieduta dal cardinale Angelo Comastri, che opera in regime di proroga avendo già raggiunto l’età pensionabile. L’Ufficio Tecnico include gli addetti al personale e i responsabili della Necropoli Vaticana. Vi sono poi archivi e laboratori di studio e restauro per mosaici e arazzi. Tra l’altro l’Archivio storico contiene migliaia di note, progetti, contratti, ricevute, corrispondenze (ad esempio fra Michelangelo e la Curia), che costituiscono una documentazione tutta particolare sui rapporti tra gli artisti rinascimentali e la committenza pontificia. La verifica amministrativa è attuata in base alla nuova normativa sulla trasparenza e sul controllo amministrativo e gestionale che risale all’1 giugno e ne sarà un banco di prova importante. Eloquente il fatto che l’annuncio è stato dato proprio all’indomani della importante festa dei Santi Pietro e Paolo. Una data simbolica, per un segnale che viene giudicato come un nuovo corso, dettato dalla necessità di fare chiarezza soprattutto in un’epoca di disagio economico che tocca anche la Santa Sede, i cui minori introiti vanno compensati con misure più rigorose per evitare perdite o sprechi non altrimenti giustificabili. Nella «lettera» di accompagnamento alla nuova normativa, papa Francesco aveva delineato il senso generale dei cambiamenti, ribadendo che «la diligenza del buon padre di famiglia è principio generale e di massimo rispetto, sulla base del quale tutti gli amministratori sono tenuti ad attendere alle loro funzioni». Tanto più in un’epoca in cui «l’economia mondiale e un’accresciuta interdipendenza hanno fatto emergere la possibilità di realizzare notevoli economie di spesa come effetto della operatività di molteplici offerenti di beni e di servizi. Tali possibilità devono essere utilizzate soprattutto nella gestione dei beni pubblici, ove è ancor più sentita e urgente l’esigenza di un’amministrazione fedele e onesta, posto che in tale ambito l’amministratore è chiamato a farsi responsabile degli interessi di una comunità, che vanno ben oltre quelli individuali o facenti capo ad interessi particolari». Servono dunque «buone pratiche» soprattutto tenendo presenti «i principi fondamentali e le finalità proprie dell’ordinamento canonico e la peculiarità di quello dello Stato della Città del Vaticano». Alla Chiesa spetta a maggior ragione il compito di vigilare evitando sprechi e custodire un patrimonio artistico e religioso patrimonio di tutta l’umanità. Adesso spetta al 78enne ex Nunzio in Slovacchia, mons. Mario Giordana, trovare il bandolo della matassa e aggiornare gli Statuti della Fabbrica di San Pietro e riorganizzare gli uffici. Nel compito assegnato, è inscritto già anche un giudizio di inadeguatezza.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it l'1 luglio 2020. Un nuovo terremoto in Curia. Ma questa volta si può ben scrivere che lo scandalo è all’ombra del Cupolone. Non solo metaforicamente, ma proprio letteralmente. Il Cupolone inteso come la Cupola della Basilica di San Pietro. Questa mattina la magistratura vaticana (Promotore di giustizia Giampiero Milano, e il sostituto Alessandro Diddi) ha sequestrato apparati informatici di due alti dirigenti della Fabbrica di San Pietro, cioè l’ente che gestisce i lavori di completamento e restauro della Basilica, cuore del Cattolicesimo. Gli uffici sono stati perquisiti e sono stati sequestrati carte relative a presunte irregolarità in appalti per completare il restauro della Cupola di San Pietro. Quattro sarebbero le ditte sotto la lente, mentre sarebbe stato superato l’importo di 4 milioni di euro preventivamente autorizzato. Altri appalti sarebbe stati assegnati senza gara e sarebbero stati riscontrati ammanchi nei conti. Al tempo stesso con la data di lunedì (festa dei Santi Pietro e Paolo) Papa Francesco con un suo atto diretto ha commissariato la Fabbrica di San Pietro, esautorando il cardinale 77 Angelo Comastri che ne è stato il Presidente dal febbraio 2005 (oltre ad essere il vicario del Papa per la Città del Vaticano e le ville pontificie), e nominando commissario il Nunzio apostolico Mario Giordana per  fare chiarezza sull’amministrazione dell’ente. L’organismo istituito nel 1523 da Clemente VII gestisce un patrimonio culturale unico al mondo - per fare solo qualche nome degli artisti coinvolti nella costruzione della Basilica Michelangelo, Maderno, Raffaello, Bernini, Bramante -, e l’immensa struttura della più grande basilica del mondo. Oltre ad investimenti per decine di milioni di euro provenienti dalle offerte raccolte nella basilica e dai ticket di ingresso al tesoro di San Pietro.

La Basilica infatti finora ha goduto di un’amministrazione autonoma che gestisce gli appalti dalle pulizie ai restauri ordinari e straordinari: è uno dei maggiori centri di spesa dell’intera Città-Stato. Una nota della Sala Stampa vaticana ha sottolineato che la decisione presa dopo la  recente promulgazione del Motu Proprio “Sulla trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazioni dei contratti pubblici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”. Ma in realtà  risulta che già da un anno la Segreteria di Stato (al centro a sua volta del caso dell’immobile di Londra che ha portato all’arresto del broker Torzi, ora tornato libero, e che potrebbe portare ad altre clamorose novità) sollecitò il rispetto delle procedure di appalto, già prima quindi della riforma, mentre i quesiti sollevati dal Revisore generale non hanno ricevuto risposta. Dai mancati chiarimenti è partito l’avvio dell’indagine penale, mentre il nuovo codice degli appalti entra in vigore domani, 1 luglio 2020. Il cardinale Comastri (per molti anni il porporato italiano più giovane) ha iniziato la sua “carriera”  vaticana durante il pontificato di Giovanni Paolo II grazie alla vicinanza al segretario particolare, Stanislaw Dziwisz (la nomina a Presidente della Fabbrica avvenne due mesi prima della morte del Papa polacco, dopo essere stato presidente del Comitato italiano per il grande giubileo del 2000), ed è stato fatto cardinale da Benedetto XVI nel 2007. Vicino alle denunce moralizzatrici di monsignor Carlo Maria Viganò, e inviso ai bertoniani, il suo nome fu evocato nel corso del processo Vatileaks 1 dal maggiordomo Paolo Gabriele (condannato per la fuoriuscita di documenti dall’Appartamento papale) che si difese asserendo: “Fui suggestionato dai cardinali Comastri e Sardi e da monsignor Cavina”. Affermazioni che l’ex maggiordomo si rimangiò in dibattimento affermando di non essere stato aiutato da nessuno. Mentre Comastri sdegnato smentì. Con Francesco, Comastri è stata una delle poche figure a “durare” a lungo, ed è rimasto nella stessa posizione fino ad oggi. Nel 2015, in un comunicato diffuso dalla Fabbrica di San Pietro, il vescovo delegato Vittorio Lanzani e il responsabile amministrativo Claudio del Cavaliere respinsero come infondate le accuse a Comastri contenute in uno dei due libri del Vatileaks2, “Avarizia” di Emiliano Fittipardi, mentre fu lo stesso cardinale che dichiarò infondate le accuse di abusi sessuali sui chierichetti della Basilica (ospitati nel pre-seminario di Palazzo San Carlo) contenute in un libro del 2017 di Gianluigi Nuzzi. A metà settembre 2019 due sacerdoti sono stati rinviati a giudizio dai magistrati vaticani. Durante la pandemia da coronavirus ed il lockdown, il cardinale Comastri è stato l’unico ad essere presente in San Pietro durante le Messe e le cerimonie papali per Pasqua, Pentecoste e Corpus domini. Fino alla Messa per San Pietro e Paolo di ieri, la prima concelebrata dopo il lockdown da Bergoglio con i 9 cardinali-vescovi, e con lo stesso Comastri. 

Massimo Franco per il ''Corriere della Sera'' l'11 giugno 2020. Il Papa vorrebbe che lo scandalo del palazzo di Londra si chiudesse quanto prima, magari entro giugno: con nomi e cognomi dei responsabili di quella che si configura come una «stangata». Ma è improbabile che si rispettino i tempi rapidi chiesti da Francesco alla giustizia della Santa Sede. Lo scaricabarile su un'operazione che odora di truffa sta impazzando. «Si fronteggiano ex e nuovo Sostituto della Segreteria di Stato», sostiene una delle persone coinvolte, «con lo Ior sullo sfondo ed i Promotori e la Gendarmeria che tessono la propria narrativa».  Ma evocare i nomi del cardinale Giovanni Angelo Becciu, l'ex, e di monsignor Edgar Pena Parra, attuale Sostituto, rischia di semplificare un conflitto combattuto con la pletora di mediatori e finanzieri coinvolti nella compravendita dell'edificio in Sloane Avenue 60. Dietro quell'«affare» che avrebbe fatto spendere finora al Vaticano 350 milioni di euro per un palazzo comprato nel 2012 da una società a circa 150, affiora un mondo pronto a difendersi nel momento in cui si sente minacciato. Jorge Mario Bergoglio è tuttora deciso a raddrizzare le finanze vaticane dopo i tentativi compiuti in oltre sette anni. Il nuovo codice sugli appalti ne sarebbe la controprova. In più, sta per nominare un numero due all'Apsa, la cassaforte immobiliare della Santa Sede. E sembra volere rilanciare le riforme affidate nel 2014 al cardinale australiano George Pell; ma interrotte bruscamente dal processo per molestie, con l'assoluzione di Pell in appello a Melbourne, e dal siluramento quasi in contemporanea del revisore dei conti Libero Milone, nel 2017. Ma del processo a Pell, un amico di Francesco sostiene che è stato imbastito «con cannoni australiani e munizioni vaticane»: come dire che qualcuno aveva interesse a metterlo fuori gioco per colpire lo stesso pontefice. La sensazione è che ora la guerra tra cordate finanziarie sia esplosa di nuovo. Dopo l'arresto del mediatore Gianluigi Torzi, al termine di un drammatico interrogatorio di alcuni giorni fa in Vaticano, lo scontro si è inasprito. E' stata fatta filtrare la notizia che Francesco il 26 dicembre del 2018 ha incontrato Torzi e la famiglia a Casa Santa Marta, la sua residenza vaticana, con tanto di foto. E il finanziere Raffaele Mincione, ex proprietario del palazzo dello scandalo, ha evocato ricadute traumatiche dell'inchiesta in corso. Il 6 giugno ha dichiarato all'agenzia Adnkronos: «C'è una foto di Torzi con il papa, io ce l'ho. Ha avuto questo incarico da Pena Parra, messo dal papa. Pena Parra verrà arrestato, immagino, insieme a Torzi, visto che è lui che ha delegato». E ancora: «Lì è in corso una guerra politica, giusto? Il papa va d'accordo con Becciu? No. E chi ha messo il papa al posto di Becciu? Pena Parra. Ecco, il palazzo lo ha comprato lui, che è arrivato dopo quell'altro, su ordine del papa». Troppo semplice, forse. Viene il dubbio che sia un tentativo di scaricare sul passato recente operazioni partite all'inizio del pontificato. Si indovina un formicaio di interessi opachi, sfiorati dalle ultime decisioni papali. Si parla di documenti coi quali da Casa Santa Marta sono stati autorizzati i movimenti di denaro dell'Obolo di San Pietro per gli investimenti immobiliari. E si conferma la sensazione che la cerchia bergogliana sia infiltrata e usata da personaggi a dir poco controversi, ecclesiastici e non, col pontefice strattonato da segnali contrastanti. La vera domanda è come mai, per decidere alcuni investimenti all'estero, il Vaticano si infili in vicende così opache. Il pasticcio immobiliare rimanda a mediazioni nelle quali appaiono e scompaiono decine di milioni di euro; e passaggi azionari nei quali non è chiaro se alcuni esponenti della Santa Sede siano vittime o complici, o entrambe le cose. La magistratura sta cercando cinque milioni di euro scomparsi nella trattativa tra Torzi e il Vaticano. Ma probabilmente ci sono altri rivoli di denaro da rintracciare all'estero. L'esito non è scontato. Tra l'altro, ci si chiede chi in futuro accetterà di farsi interrogare in Vaticano, col rischio di essere messo in carcere. Il papa appare deciso ad andare fino in fondo: ne va della credibilità di un pontificato che sulle riforme ha vissuto alti e bassi; e che nei giorni scorsi ha potuto registrare il raddoppio degli utili dello Ior, saldamente in mano al direttore «bergogliano» Gianfranco Mammì. Anche all'Apsa, come accennato, aspettano la nomina del nuovo numero due: un «laico» italiano. Ma intanto a metà maggio, finito l'isolamento per il Covid-19, i dipendenti hanno avuto una sorpresa: sarebbe ricomparso monsignor Gustavo Zanchetta, amico di Bergoglio, contro il quale la magistratura argentina ha spiccato nel novembre del 2019 un mandato di cattura per abusi sessuali. Zanchetta, nominato «assessore» dell'Apsa nel 2017, avrebbe ripreso il suo lavoro: un altro dei misteri di questa fase.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” l'8 giugno 2020. «Gli italiani celano i soldi delle offerte in tanti cassetti nascosti, noi dobbiamo trovarli. Subito». Eravamo nel novembre del 2014, a Santa Marta, Francesco rileggeva il resoconto riservato dei fondi paralleli finora trovati: 600 milioni di euro mimetizzati tra depositi, fondi, fondazioni, riserve non contabilizzate. Un magma nero di potere e denaro, dilatatosi all’ombra di san Pietro dai tempi di Paolo VI, fortificatosi con Wojtyla prima e ancor più con Ratzinger poi. Bergoglio non si sorprese né scompose. Ne aveva già viste tante in Argentina. Da cardinale a capo dei gesuiti accertò che metà dei loro depositi in banca erano investiti nientemeno che in aziende produttrici di armi E questo lo aveva raccontato ai signori della curia, a chi in questo magma nero affondava mani predatorie o vizi inconfessabili. Già nel primo incontro, in sala Bologna il 3 luglio 2013 Francesco chiese fatture e appalti trasparenti a degli attoniti monsignori e cardinali dall’anello d’oro lucido, lucidissimo. Rimasero senza parole a sentir un papa parlare di denaro e trasparenza, il primo era affar loro, il secondo era una parola utile al massimo per qualche titolo rincuorante sui giornali. Insomma, non gli credettero. Alcuni di loro, ritenevano di impagliare la sua riforma, svuotare tutti i nuovi organismi creati per dare nuova luce alle finanze, impallinare i delfini che lo avrebbero sostenuto. Ma sbagliavano. Il gesuita è lento ma inesorabile. Prima ha tracciato i confini di queste strutture parallele, individuando ruoli e responsabilità. E allontanando da subito figure controverse, come quel monsignor Jessica che in pochi giorni sparì dal balcone di piazza san Pietro, dove dai tempi di Giovanni Paolo II era solito assistere il pontefice di turno. O Paolo Mennini, incredibilmente figlio del braccio destro di Paul Casimir Marcinkus e che ancora occupava ruoli di rilievo nella banca centrale. Al tempo stesso ha avviato le riforme, iniziato a colpire le seconde file delle strutture curiali più compromesse e poi sempre più su fino all’allontanamento del numero uno dell’Apsa, (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) la banca centrale, il plenipotenziario Domenico Calcagno, soprannominato cardinale Rambo per l’arsenale di armi - anche da guerra - che amava collezionare. I tempi sono lenti, lentissimi, biblici appunto ma quello che si assiste oggi è l’ultima puntata di una guerra sotterranea, lontana dai riflettori dei media e che coagula particolarità senza precedenti. Bergoglio dopo aver utilizzato strumenti convenzionali (allontanamenti, ridimensionamenti), passa a quelli più incisivi. Infatti è la prima volta che in Vaticano si arresta qualcuno per reati finanziari. Il precedente è Marcinkus per il crac dell’Ambrosiano di Calvi ma era la magistratura milanese a chiedere l’arresto che venne invalidato. È un segno importante di autonomia e di progressivo allineamento della giustizia del piccolo Stato – invero finora abbastanza narcolettica – al volere di Bergoglio. Grazie all’innesto di figure nuove – come il magistrato Giuseppe Pignatone, il generale Saverio Capolupo – e al progressivo miglioramento delle competenze della gendarmeria. L’emersione nell’inchiesta di figure come monsignor Alberto Perlasca indicano ancora la profondità di questa inchiesta che va a colpire nel cuore del piccolo Stato figure non note al grande pubblico ma di elevato potere. Perlasca è di certo uno di questi. Nato a Como nel 1960, due lauree, è stato protagonista di un’ascesa incredibile da Delebio, piccolo paese arroccato con tremila anime in provincia di Sondrio, al terzo istituto di credito del Vaticano. Sì perché non tutti forse sanno che oltre allo Ior degli scandali e all’Apsa del cardinale Rambo, c’è appunto un’altra sorta di banca in segreteria di Stato. Ed è questo forse lo snodo nevralgico di tutta la rete di potere, di quel magma nero che produceva fino a 600 milioni di fondi fuori la contabilità ordinaria. Perlasca dal 2009 è l’indiscusso capo della sezione amministrativa della segreteria di Stato. È nella sua memoria la ragnatela di conti, depositi, fondi d’investimento, operazioni immobiliari. È lui che si prende come collaboratore quel cavaliere Fabrizio Tirabassi che oggi troviamo negli atti del promotore di giustizia. Ma è lui soprattutto che gestisce l’Obolo di san Pietro, la più poderosa raccolta di denaro in contanti che avviene una volta l’anno in ogni angolo del mondo. Soldi raccolti per le opere di bene del Papa – almeno così si incentiva la donazione – ma che vede ormai il 90% di questi finire a sanare i conti in rosso della curia romana. Non è quindi solo una storia di compravendite di palazzi a Londra, di ipotizzate estorsioni, stecche e truffe. Prova ne è della chiamata in causa del cardinale Angelo Becciu, una delle menti politiche più attente oltre le mura. Sardo di Pattada, il paese famoso in tutto il mondo per gli affilati coltelli, Becciu oggi si occupa di santi e beati ma nell’era Ratzinger faceva parte del triumvirato Bertone-Becciu-Balestrero che avevano il controllo assoluto dello stato. Bertone è chiuso nel suo attico. Balestrero si sta difendendo da un’accusa di riciclaggio internazionale. Rimane Becciu che in queste ore di tensione pone i dovuti e attesi distinguo per sfilarsi da un’inchiesta, che, seppur non lo vede indagato, rischia di metterlo fuori gioco per sempre. È l’ultimo atto di una guerra che si consuma dentro e fuori il Vaticano. Perché il Papa è ben consapevole della tenaglia che stanno mettendo in atto gli ambienti più conservatori americani.

Da adnkronos.com il 17 giugno 2020. Ricatti, mazzette, minacce, pressioni, video di alti prelati: sembra nascondersi una trama alla Dan Brown dietro lo scandalo che scuote il Vaticano. Le indagini, innescate dall'acquisto da parte della Segreteria di Stato della Santa Sede dell'immobile di Sloane Avenue 60, a Londra, avevano portato all'arresto, il 5 giugno scorso, del broker anglo-molisano Gianluigi Torzi, da ieri in libertà provvisoria dopo aver avviato un'ampia collaborazione con gli investigatori dell'Ufficio del promotore di giustizia Gian Piero Milano e del suo aggiunto Alessandro Diddi. Ed è proprio dalle importanti rivelazioni che avrebbe fatto Torzi (difeso dagli avvocati Ambra Giovene e Marco Franco) agli inquirenti che, a quanto apprende l'Adnkronos, emergerebbero alcuni dettagli clamorosi che potrebbero dare nuovo impulso all'azione di pulizia che Papa Francesco sta portando avanti già da tempo con energia Oltretevere. Nel lungo interrogatorio e anche in una memoria con allegata una corposa documentazione a supporto delle affermazioni del broker (memoria di cui hanno parlato alla stampa sia Franco al Messaggero che Giovene al Corriere della sera) Torzi darebbe una sua versione dei fatti che getterebbe ulteriore luce sugli ulteriori, e clamorosi, sviluppi delle indagini condotte dalla procura vaticana che in parte si erano tradotte nel mandato di cattura emesso nei suoi confronti. Lo spaccato che verrebbe fuori dalle indagini e dalle nuove rivelazioni è di quelli da brividi: giri di (presunte) tangenti sotto forma di "provvigioni" che coinvolgerebbero persone molto vicine alla Santa Sede ma ai quali il broker non si sarebbe mai voluto prestare, ricavandone prima blandizie (addirittura la promessa di una escort o di opere d'arte o di affari lucrosi, a cui comunque non avrebbe mai ceduto), e poi finanche minacce e ricatti, rispediti anche in questo caso al mittente. E, a suffragare e riscontrare le rivelazioni di Torzi e a rendere il quadro se possibile ancora più complesso, sempre a quanto risulta all'Adnkronos, ci sarebbero decine di chat e di scambi di messaggi e di email con personaggi importanti del Vaticano, e non solo. Tra l'altro, il broker sarebbe in grado di provare in maniera documentale che i suoi interlocutori nei palazzi vaticani fossero a conoscenza delle famose mille azioni (le uniche con diritto di voto) della Gutt Sa, la società che deteneva l'immobile di Londra, che Torzi si era tenuto (le altre 30mila quote le aveva vendute per un euro ciascuna alla Segreteria di Stato Vaticana) e che, nel mandato di cattura, venivano considerate come lo strumento attraverso il quale avrebbe messo a segno l'estorsione da 15 milioni alla Santa Sede. Così emergerebbe anche la sussistenza di un accordo verbale con emissari della Santa Sede circa l'affidamento di un remunerativo contratto di gestione del palazzo di Sloane Avenue in cambio della sua attività di intermediazione. Dalle indagini della procura vaticana si profilerebbe l'ipotesi che sia esistito Oltretevere un vero e proprio "sistema" grazie al quale nel tempo si sarebbero riuscite a incassare "stecche" e provvigioni non dovute, con fiumi di denaro finiti in Svizzera, a Dubai o in America Latina. Ipotesi che necessitano di approfondite verifiche sullo sfondo un clima di 'ricatti' incrociati, addirittura con alti prelati “sotto schiaffo” di personaggi senza scrupoli che magari, in alcuni casi arrivando a usare materiale audio-video compromettente, sarebbero riusciti a fare il bello e il cattivo tempo, lucrando in modo spregiudicato sui fondi delle finanze vaticane. Il riferimento a questi presunti video, per l'avvocato Franco non corrisponde a realtà. Contattato dall'Adnkronos il legale di Gianluigi Torzi ha smentito che ne sia stato fatto cenno nell'interrogatorio del suo assistito così come nella memoria consegnata alla magistratura vaticana.

Vaticano, la magistratura svizzera sequestra i conti di Monsignor Perlasca e di tutti gli indagati dell'inchiesta sul palazzo di Londra. Pubblicato sabato, 06 giugno 2020 da La Repubblica.it. Un'estorsione da 15 milioni al Vaticano. E' l'ipotesi che emerge dall'inchiesta che ha portato all'arresto di Gianluigi Torzi nell'ambito delle indagini sull'acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra da parte della Santa Sede, e al sequestro in Svizzera di conti con depositi milionari, uno dei quali nella disponibilità di monsignor Alberto Perlasca, responsabile degli investimenti della Segreteria di Stato in Vaticano. Monsignor Perlasca e Fabrizio Tirabassi, responsabili dell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato Vaticana, sono indagati per peculato in concorso con Gian Luigi Torzi e Raffaele Mincione in relazione all'investimento di 454 milioni di euro derivanti - secondo gli investigatori vaticani - dalle donazioni dell'Obolo di San Pietro, nella disponibilità della Segreteria di Stato e da questa possedute con vincolo di scopo per il sostegno delle attività con fini religiosi e caritatevoli. In particolare, ai 4 viene contestato dalla procura di Oltretevere di avere consentito a Mincione di "appropriarsi convertendola a proprio profitto" di parte della liquidità versata nel fondo Athena Capital Global Opportunities Fund (da lui gestito attraverso Athena Capital Fund Sicav) per un totale, sempre a detta degli investigatori, di oltre 200 milioni. Torzi, broker molisano, stando alle ricostruzioni dell'accusa, sarebbe entrato in contatto con la Segreteria di Stato per aiutarla a risolvere l'impasse della partecipazione al fondo Athena. Il broker ora agli arresti, però, stando alle accuse, si sarebbe ben presto trasformato nell'uomo in grado di tenere in pugno la segreteria di Stato fino a portare a compimento un'estorsione di 15 milioni. In particolare,Torzi, avrebbe trattenuto senza farlo sapere alla Segreteria di Stato mille azioni (le uniche con diritto di voto) della società, con ciò impedendo di fatto al Vaticano (cui aveva ceduto 30mila azioni ma senza diritto di voto) di disporre del palazzo. Su richiesta del promotore di giustizia vaticano, la magistratura svizzera ha sequestrato anche i conti di Torzi e Tirabassi, quelli del finanziere Mincione e di Enrico Crasso, gestore dell'Obolo di San Pietro.

Fabio Marchese Ragona per ''il Giornale'' l'8 giugno 2020. Monsignor Alberto Perlasca è uno dei protagonisti dell'affare milionario d'Oltretevere che riguarda l'acquisto del palazzo di lusso a Sloane Avenue a Londra su cui sta indagando la magistratura vaticana. Dopo l'arresto del broker molisano Torzi accusato, tra le altre cose, di aver estorto 15 milioni alla Santa Sede, il prelato, che compare tra gli indagati, rompe il silenzio.

Monsignor Perlasca, le hanno sequestrato un conto in Svizzera?

«Assolutamente no. Per il semplice fatto che non ho conti personali in Svizzera e sono pronto a querelare chiunque dichiari il contrario. È stata fatta una notevole confusione, spero non ad arte, tra conti personali e conti della Segreteria di Stato, sui quali, peraltro, non avevo alcun potere di firma in quanto lo avevano solo i superiori. Io avevo potere di firma solo congiuntamente ad un altro Superiore. Non ricordo di averne mai dovuto fare uso, perché non ce n'è mai stato bisogno. In altri termini: io non potevo spostare un solo centesimo».

Lei gestiva gli investimenti per conto della Segreteria di Stato all'epoca dell'operazione riguardante il palazzo di Londra. A un certo punto entra in scena il finanziere Torzi per gestire la transazione per l'acquisizione del palazzo. Grazie a chi arrivò in Vaticano?

«Non è vero che io gestivo gli investimenti. L'Ufficio Amministrativo, nel quale peraltro esiste un'apposita sezione finanziaria, si interfacciava con i referenti esterni della Segreteria di Stato, i quali suggerivano le diverse strategie che, a loro parere, potevano essere seguite. Le proposte, poi, erano valutate dall'Ufficio ed inoltrate ai superiori, i quali decidevano al riguardo. Il signor Torzi entra in scena nell'ottobre del 2018, quando si trattò di uscire dal rapporto con il dottor Mincione. Venne introdotto dal professor Giovannini e dall'avvocto Intendente, a loro volta presentati dal Dr. Milanese. Il Sostituto era monsignor Peña Parra».

Torzi riceve mandato dalla Santa Sede per l'acquisizione delle quote del palazzo in modo da ottenere la piena proprietà dell'immobile. Perché la Segreteria di Stato decise di seguire questa triangolazione tramite la società Gutt SA di Torzi?

 «Devo premettere che questa transazione fu approvata dal Segretario di Stato il quale autorizzò l'operazione. A questa domanda dovrebbero peraltro rispondere il dottor Tirabassi (dell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, ndr) e il dottor Crasso (all'epoca gestore delle finanze della Segreteria di Stato, ndr) ai quali avevo cortesemente chiesto di seguire da vicino la complessa questione. Sinceramente non saprei dirle perché si seguì questa strada. Al tempo, mi fidai di quanto riferito da Tirabassi e da Crasso. Del resto, non c'era mai stato alcun motivo per dubitare della loro correttezza. Una società, comunque, doveva essere costituita, in quanto la Segreteria di Stato non possiede direttamente proprietà immobiliare».

Ci fu una riunione in cui emerse che Torzi chiedeva 20 milioni di euro per restituire alla Santa Sede mille quote della società con diritto di voto. Può raccontarci qualcosa di quella riunione in cui emerse, secondo gli inquirenti, il tentativo di estorsione?

«Appena si palesò la richiesta del signor Torzi dissi chiaramente che bisognava denunciarlo, in quanto avanzava pretese del tutto ingiustificate e di evidente indole ricattatoria. Purtroppo fui l'unico a sostenere questa tesi, mentre si preferì scendere a trattative con la controparte. Non è che io escludessi la trattativa, ma la contemplavo solo dopo aver sporto denuncia per truffa e chiesto il sequestro conservativo del bene».

È vero che il tentativo di estorsione avvenne anche in presenza del Papa?

«Mi sembra molto brutto chiamare direttamente in causa il Santo Padre in questa vicenda. So che, alla fine di dicembre del 2018, ci fu un incontro con Lui, al quale però nessun rappresentante dell'Ufficio amministrativo venne invitato. Forse perché si sapeva fin troppo bene la relativa e irremovibile posizione circa la denuncia».

Perché alla fine il Vaticano ha pagato 15 milioni a Torzi?

«Perché alla fine prevalse la linea della trattativa. Le dirò di più. Il primario studio londinese - assolutamente il migliore - che curò la transazione si impegnò sino a 10 milioni, in quanto, oltre quella cifra, nessun controllo interno ed esterno avrebbe potuto non rilevare i contorni della truffa, rispetto al valore del bene. Non le so dire nulla sugli altri 5 milioni sempre che siano stati effettivamente dati perché io ero già stato trasferito ad altro incarico».

Mario Gerevini e Fabrizio Massaro per corriere.it il 7 giugno 2020. Un monsignore che è stato molto vicino al Papa. Il banchiere storico del Vaticano. Il funzionario della Segreteria di Stato. I due finanzieri dell’affare della palazzo di Londra. Ecco i nomi dietro i conti svizzeri sequestrati. Conti milionari intestati o gestiti da monsignor Alberto Perlasca, figura centrale dentro la Segreteria di Stato vaticana in quanto responsabile degli investimenti. Gli sono stati sequestrati nei giorni scorsi dalla magistratura svizzera, su richiesta del Promotore di giustizia Vaticano (il corrispettivo del nostro pm) che indaga sullo scandalo da 300 milioni di euro dell’acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Ma non solo.

I finanzieri nel mirino. Sono finiti sotto sequestro anche conti intestati al finanziere Raffaele Mincione. E poi quelli del gestore dell’Obolo di San Pietro e del patrimonio della Segreteria di Stato, Enrico Crasso, già dirigente del Credit Suisse e ora fondatore e responsabile del fondo maltese Centurion che ha in mano una cinquantina di milioni di euro sempre del Vaticano e investiti, fra l’altro, in Italia Independent di Lapo Elkann e nel film su Elton John. Ci sono poi i conti intestati o gestiti dal funzionario dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi. E infine i conti correnti del broker residente a Londra Gian Luigi Torzi, arrestato venerdì dentro il Vaticano al termine di un interrogatorio. In totale si parla di decine di milioni di euro ma non ci sono conferme ufficiali. Enrico Crasso, contattato dal Corriere della Sera, ha prima replicato via Whatsapp con un «nessun commento» alla richiesta di chiarimenti, precisando solo che i sequestri nei suoi confronti riguardano conti «comunque solo gestiti». Poi ha aggiunto di aver «offerto massima collaborazione agli inquirenti» e di essere «fiducioso che gli accertamenti in atto consentiranno di verificare l’assoluta correttezza del suo operato».

L’inchiesta voluta dal Papa. È un’ulteriore svolta nello scandalo sul palazzo di Londra e sulla gestione dei capitali della segreteria di Stato, che da oltre un anno squassa gli equilibri tra i vari poteri dentro le Sacre Mura. Un’indagine delicatissima, voluta direttamente da Papa Francesco che ha ordinato un’operazione di pulizia dal di dentro. L’indagine avrebbe fatto emergere una «enorme voragine» nei conti dello Stato Vaticano «compiuta da funzionari della Segreteria di Stato» con la complicità di «soggetti esterni».

Il giallo sulla proprietà del palazzo di Londra. Il funzionario vaticano Tirabassi e monsignor Perlasca sono indagati per peculato, in concorso con i finanzieri Torzi e Mincione per il complicato passaggio, tra novembre e dicembre 2018, della società con sede a Jersey, la 60 Sa, che deteneva il palazzo, dal fondo Athena Capital Global Opportunities gestito da Mincione — in cui aveva investito fin dal 2013 — alla Segreteria stessa, che divenne così titolare del 100% dell’immobile. In questo passaggio Torzi intervenne come intermediario, con una società lussemburghese creata ad hoc, la Gutt sa. Il peculato riguarderebbe la cifra di 40 milioni di euro pagata dalla Segreteria a Mincione per sciogliere l’investimento del Vaticano nel fondo Athena: si trattò di un conguaglio in denaro determinato dalla valutazione degli investimenti del fondo, a cominciare dal palazzo di Sloane Avenue, che sarebbe stato sopravvalutato. Altri 15 milioni li ha incassati invece Torzi nell’aprile 2019, dopo quattro mesi di lavoro, tra commissioni per l’intermediazione e la transazione per rinunciare all’amministrazione del palazzo, che lo stesso Torzi avrebbe ottenuto contrattualmente forzando — da qui l’accusa di truffa aggravata — l’effettiva volontà della Segreteria.

La collaborazione delle autorità svizzere. È in questo contesto che matura l’accusa di peculato, che si affianca a quelle di truffa, estorsione e autoriciclaggio. I sequestri hanno riguardato, a vario titolo, conti personali o riferibili a società, e conti sui quali gli indagati avevano la delega ad operare, anche per ragioni di servizio ma che potrebbero aver usato per scopi personali. Quest’ultimo è il passaggio chiave ed è da dimostrare. Intanto però diversi conti sono stati sequestrati presso il Credit Suisse, storica banca che gestisce il patrimonio riservato della Segreteria, stimato in oltre 500 milioni di euro che ora sono in gestione (e in sicurezza) all’italiana Azimut. «Credit Suisse non è soggetto all’indagine in corso condotta dal Vaticano, ma collabora con le autorità nel rispetto delle normative vigenti», è la dichiarazione rilasciata al Corriere della Sera dall’istituto elvetico. La collaborazione tra l’autorità giudiziaria vaticana e quella svizzera era stata confermata nei giorni scorsi dal portavoce del ministero della giustizia di Berna, che aveva confermato la consegna di alcuni documenti e di altro materiale alle autorità vaticane, sulla base degli accordi di collaborazione internazionale. Mancavano i nomi.

Giuliano Foschini per ''la Repubblica'' il 7 giugno 2020. «Ma a chi si affida per i suoi affari i il Vaticano?». La domanda, da mesi, gira negli uffici della Guardia di Finanza e di quelle procure italiane, non poche, che conoscono bene Gianluigi Torzi il cui curriculum giudiziario, già prima della storia del palazzo di Londra, non era affatto illibato. Repubblica è infatti in grado di raccontare come la Direzione nazionale antimafia già a ottobre del 2019 avesse per le mani un' informativa della Finanza che raccontava Torzi come non il miglior partner a cui rivolgersi. Meglio: come un finanziere nelle black list dell' antiriciclaggio di mezzo mondo. «Insieme con il padre Enrico - scrive il Nucleo di polizia valutaria di Roma in un' informativa di 26 pagine - è nelle liste mondiali di bad press in relazioni a svariate indagini avviate dalle procure di Roma e Larino per falsa fatturazione e truffa». Il nominativo «ricorre in plurime inchieste penali, anche presso l' autorità giudiziaria milanese ». Il nome di Torzi, inoltre, sarebbe segnato da «un' evidenza negativa ai fini antiriciclaggio, classificata ad alto rischio». Non si trattava di informazioni troppo riservate. Ma di notizie di cui il Vaticano poteva facilmente entrare in possesso. Le aveva avute, per esempio, la Banca popolare di Bari il cui consiglio di amministrazione bloccò un' operazione proposta dall' allora amministratore delegato Vincenzo De Bustis, poi interdetto dalla procura di Bari proprio per la gestione della banca. Torzi aveva assicurato a De Bustis l' acquisto di bond che la banca avrebbe emesso per una cifra vicina ai 30 milioni. La stessa che, ipotizza oggi l' inchiesta del Vaticano, l' affarista pensava di incassare dall' operazione del palazzo londinese. Torzi avrebbe usato come strumento una società maltese, la Muse Ventures Ltd, con un capitale sociale da 1.200 euro. L' operazione saltò, perché si mosse l' antiriciclaggio interna, «ma non per ragioni interne dalla banca», annota ancora la Finanza. Ma l' inchiesta non si è fermata. Né a Bari, dove l' indagine su De Bustis e gli Jacobini è ancora in corso. E né a Roma, in via Giulia, dove il nucleo di Polizia valutaria ha anche inviato una nota sulla vicenda Torzi alla Direzione nazionale antimafia. Che, scrivono, «aveva manifestato interesse» su quel consulente del Vaticano.

(Adnkronos il 7 giugno 2020) - "Auspico che ora venga fatta luce, soprattutto sulle  responsabilità dei sacerdoti che in quel momento hanno ritenuto di  utilizzare i fondi dell'Obolo come fossero le casse di casa loro. La  lobby finanziaria è disposta ad uccidere", dice la Chaouqui spiegando  che esisterebbe una cupola gestita da clero e laici dietro le  (presunte) ruberiei. "Conservo le prove, coperte da segreto  pontificio, che non ho violato nemmeno per difendermi quando la cupola ha deciso di farmi arrestare". "Arrivarono addirittura a istituire un processo mediatico, indebolendo così l'immagine delle persone all'interno della Commissione quando si  stava per giungere al nocciolo della questione. Papa Francesco, dal  canto suo, pur consentendo il processo, allo stesso tempo ha dato  l'opportunità di continuare a indagare", aggiunge l'ex collaboratrice  laica del Vaticano. "Ho impresse alcune parole di mons. Perlasca quando mi arrestarono  incinta e stetti male", riferisce Chaouqui ricordando gli anni dello  scandalo Vatileaks II. "Papa Francesco non si è fermato ed è andato  avanti. Io ho sofferto e ho visto la mia vita sgretolarsi durante  Vatileaks. Ma se questo è servito a contribuire al risultato di oggi,  allora posso dire che ne è valsa la pena. Io sarò sempre in prima  linea, perché la chiesa è di chi la ama. Non di chi ruba".

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 7 giugno 2020. Ha passato il primo giorno dentro una delle camere di sicurezza della Gendarmeria vaticana il broker molisano Pierluigi Torzi arrestato la sera di venerdì 5 giugno, dopo che si era recato in Vaticano per essere interrogato dal Promotore di giustizia Milano e dal sostituto Diddi. Era arrivato dall’estero con le sue carte, ed è finito dietro le sbarre, dopo otto ore di interrogatorio, mettendo a segno il primato del primo cittadino italiano (che non sia dipendente Vaticano) a finire ristretto Oltretevere. La sua versione evidentemente non ha convinto gli inquirenti vaticani (i suoi avvocati parlano di un malinteso e di piena collaborazione) che nelle settimane scorse hanno ricevuto un imponente materiale probatorio a seguito di regolare rogatoria in Svizzera. Il primo invio, con corriere diplomatico, è avvenuto il 30 aprile.Nel frattempo sono stati posti sotto sequestro in Svizzera - sempre su richiesta vaticana - svariati conti correnti per diverse decine di milioni di franchi svizzeri presso il Credit Suisse. La banca - ha dichiarato un portavoce - ha pienamente collaborato. L’accusa più pesante nei confronti di Torzi riguarda il reato di estorsione (per cui rischia fino a 12 anni di carcere) e poi peculato , truffa aggravata e autoriciclaggio. Estorsione perché Torzi avrebbe minacciato il Vaticano di non restituire il controllo della proprietà del famoso palazzo di Londra di Sloane Avenue comprato in tempi diversi (e del valore complessivo di 300 milioni di euro) se non dietro il pagamento di trenta milioni di euro, ridotti poi a quindici, effettivamente pagati dalla Segreteria di Stato, momento in cui si è consumata per gli inquirenti vaticani l’estorsione. Addirittura secondo quanto ricostruito dall’ufficio del Promotore di Giustizia, in base alle testimonianze raccolte, Torzi non si sarebbe fatto scrupolo ad avanzare le sue richieste persino davanti al pontefice, incontrato brevemente il 26 dicembre 2018, a margine di una riunione sul caso del palazzo avvenuta a Casa Santa Marta, salvo poi disattendere gli impegni presi. E qui la complessa storia vaticana dell’acquisizione (dal finanziere Raffaele Mincione, iniziata nel 2012, fermatasi e poi parzialmente perfezionata nel 2014, fino ad essere completata negli ultimi mesi del 2018, “grazie” all’intervento di Torzi) del palazzo di Sloane Avenue 60 si incrocia con l’ultimo scandalo bancario italiano e i destini della Banca Popolare di Bari. Gli inquirenti hanno acquisito le dichiarazioni di Manuele Intendente, ex avvocato dello studio Ernst & Young, interlocutore di Torzi per condurre la trattativa con la Santa Sede. Intendente avrebbe specificato a verbale come nel corso di una riunione in Vaticano alla presenza, tra gli altri, di monsignor Alberto Perlasca, (responsabile Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato) Torzi avrebbe chiesto se gli si potesse concedere formalmente un incarico di gestione dell’immobile, visto che fino a quel momento aveva operato a titolo gratuito. Aspettativa che però, secondo le indagini condotte dal Promotore di Giustizia Gian Piero Milano e del suo aggiunto Alessandro Diddi, rimase delusa, ingenerando una vera e propria escalation di richieste di denaro che poi porterà a quella che per la procura vaticana è a tutti gli effetti un’estorsione da 15 milioni di euro, pagati tra l’aprile e il maggio 2019” per evitare gravi danni patrimoniali alla Santa Sede, visto il valore dell’immobile. Il punto di svolta sarebbe arrivato nel corso di una riunione all’Hotel Bulgari di Milano: Tirabassi, responsabile dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato, ed Enrico Crasso, gestore delle finanze della Segreteria, avrebbero spiegato a Torzi di aver intenzione di proporre la cessione al Fondo Centurion delle quote di Gutt Sa, la società che gestisce l’immobile di Londra, di cui l’imprenditore aveva ceduto al Vaticano 30mila azioni senza diritto di voto (mantenendo però per sé le 1000 con diritto di voto senza che il Vaticano lo sapesse) .In quel momento, sempre secondo quanto riferito da Michele Intendente agli investigatori, Torzi, avrebbe maturato l’idea dell’estorsione, ossia di condizionare la restituzione delle quote con diritto di voto al versamento di un’ingente somma di denaro. Secondo la procura vaticana tuttavia, le ragioni del cambio di posizione di Torzi starebbero nell’impegno preso dall’imprenditore con il manager della Banca Popolare di Bari Vincenzo De Bustis di sottoscrivere un bond di 30 milioni di euro. Per gli inquirenti sarebbe quindi la mancata disponibilità del Vaticano a sottoscrivere il bond a scatenare la reazione di Torzi e la sua determinazione a non restituire le azioni della Gutt Sa se non a fronte di una cifra cospicua. Insomma per rilevare l’immobile di Londra, anziché procedere in modo lineare all’acquisto della “60 Sa Limited”, la società con sede in Jersey che lo deteneva attraverso una catena di ulteriori società, nella seconda parte del 2018 ,la Segreteria di Stato rappresentata da Fabrizio Tirabassi ed Enrico Crasso (quest’ultimo delegato ad operare sui conti della Segreteria di Stato con la sua società “Sogenel Capital Holdig”) decideva - per ragioni ancora da chiarire - di triangolare l’acquisto attraverso la “Gutt Sa” facente capo a Torzi. Venne dunque sottoscritto un contratto quadro (framework agreement) con il quale si provvede all’acquisto da parte di “Gutt Sa” dell’intera catena societaria proprietaria dell’immobile londinese. Il 22 novembre (2018) viene sottoscritto un secondo contratto (share purchase agreement) con il quale la Segreteria di Stato acquistò da Torzi 30mila azioni della “Gutt Sa” al valore simbolico di un euro. Vengono effettuati i pagamenti previsti per la parte residua dell’immobile ancora in mano al finanziere Raffaele Mincione ( si è parlato di un bonifico 44 milioni di sterline via Credit Suisse). Ma quello stesso 22 novembre, senza che la Segreteria di Stato ne sapesse nulla, Torzi modificò il capitale della società “Gutt Sa” introducendo accanto alle 30mila azioni senza diritto di voto, le 1000 azioni con diritto di voto, che non facevano parte dell’impegno di cessione. In questo modo il broker continuava ad avere il pieno controllo sull’immobile. Crasso, Tiraboschi, con monsignor Mauro Carlino (segretario per anni del sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, che ha ormai lasciato il Vaticano e adesso è un sacerdote del clero di Lecce) sono indagati insieme a monsignor Perlasca, la cui abitazione è stata perquisita in febbraio. Alcuni conti sotto sequestro in Svizzera sono intestati o gestiti dagli indagati. A cominciare da quelli di Perlasca. Il fatto nuovo è che ci sarebbe un nesso tra le due vicende finanziarie che hanno tenuto banco negli ultimi mesi del 2019 in Italia e Vaticano. I due finanzieri italiani (padre e figlio) Enrico e Gianluigi Torzi sono stati infatti anche al centro del tentativo estremo di “salvare” la popolare di Bari proprio negli stessi mesi in cui Enrico “sistemava“ per il Vaticano la vicenda del palazzo di Londra. La procura di Bari, su segnalazione della Banca d’Italia, sta ora indagando su un’operazione risalente al periodo tra il dicembre 2018 e il marzo 2019, che per l’allora amministratore delegato De Bustis avrebbe potuto rappresentare quasi un asso nella manica, cioè l’operazione che gli avrebbe permesso, disse, di mettere in sicurezza i ratio patrimoniali: un’emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro per rafforzare il capitale, che una società maltese, la Muse Ventures Ltd, di Gianluigi Torzi, figlio di Enrico, aveva fatto sapere di voler sottoscrivere interamente. La Muse di Torzi si rivelò però una semplice società di consulenza, nata a ottobre del 2017 e con un capitale sociale di appena 1.200 euro. Un po’ poco per sottoscrivere un’intera obbligazione da 30 milioni e infatti Bnp Paribas, la banca incaricata di curare l’operazione, e la stessa struttura antiriciclaggio della Popolare avanzarono forti perplessità sul sottoscrittore maltese. Il fondo maltese Muse, amministrato da Gianluigi Torzi, insieme al padre Enrico, è - sostenne allora l’organismo antiriciclaggio della Popolare - nella lista “nera “del sistema bancario e al centro di alcune inchieste giudiziarie. Nonostante questo è a Torzi che si rivolse nell’autunno del 2018 il sostituto per la segreteria di Stato Pena Parra. In quelle stesse settimane del 2018, Larino (patria di Torzi) diventa intanto l’ombelico degli interessi baresi, tanto che Isabella Ginefra, sostituto procuratore a Bari e moglie la Gianvito Giannelli (famiglia Jacobini) ultimo presidente della Popolare prima del recente commissariamento, nel settembre 2018 viene nominata dal CSM Procuratore della Repubblica della città: una della poche donne Procuratore capo. Ma questa nomina viene poi giudicata irregolare e annullata il 1 agosto 2019 dal TAR del Lazio. Per comprendere quanto gli interessi baresi fossero pervasivi a Roma, basti pensare che la Popolare di Bari era riuscita a scalzare Banca Intesa come titolare dello sportello interno proprio a Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio Superiore della Magistratura.( E questo casocaso è riesploso pochi giorni fa a seguito delle intercettazioni del caso Palamara). Va anche aggiunto che fu lo stesso sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Edgar Pena  segnalò - siamo al marzo 2019 - Torzi all’AIF vaticana (allora ancora presieduta da Rene Bruelhart) che iniziò accertamenti coinvolgendo le Financial Intellingence Unit di 5 paesi (Italia, UK, Lussemburgo, Malta, Svizzera).  Fu in seguito a queste indagini che monsignor Perlasca dovette lasciare la Segreteria di Stato nell’estate 2019. Ieri intanto ha parlato di nuovo del caso il finanziere italo-londinese Mincione .Mincione non avrebbe ricevuto alcuna comunicazione giudiziaria dalle autorità vaticane e anche da quelle quelle svizzere. Così risulta dall’Ufficio di giustizia elvetico, dal momento che nessuna richiesta da parte del Vaticano è stata fatta nei suoi confronti. “Il palazzo l’ho venduto a Edgar Pena Parra (cardinale venezuelano, Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede dal 2018, quando è subentrato a Giovanni Angelo Becciu, ndr), allo sceriffo messo da altre persone per fare questa cosa. Non l’ho venduto a Torzi. Torzi è stato incaricato dal Vaticano di comprare il palazzo per loro: è differente la storia. Questa storia mi fa impazzire dalla rabbia, ogni volta. Bisogna stare attenti a quello che si scrive”, ha dichiarato all’AdnKronos. Secondo Mincione, è l’attuale sostituto della segreteria di Stato, Parra, lo “sceriffo scelto dal papa” (così lo definisce) a comprare l’edificio e a “scegliere” Torzi come tramite. E ancora: “Il papa ha scelto Pena Parra, che ha scelto Torzi. Perché la delega gliela dà lui e la dà ad avvocati che gli chiedono la firma autenticata del segretario di Stato”.

Vaticano, il retroscena sullo scandalo: "Un ricatto davanti al Papa..." Spunta un retroscena sullo scandalo che sta interessando il Vaticano: il broker avrebbe avanzato le sue richieste anche a Papa Francesco. Giuseppe Aloisi, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. Addirittura un "ricatto" in presenza fisica di Papa Francesco: il quadro è ancora da chiarire, e l'utilizzo del condizionale è d'obbligo, ma sembrerebbe che l'uomo arrestato ieri per via delle accuse che arrivano sino all'estorsione, sia stato addirittura presso Santa Marta, il luogo che Jorge Mario Bergoglio ha scelto per risiedere, nel corso delle vicenda che ha preceduto il provvedimento emanato ieri sera dall'autorità giudiziara della Santa Sede e che riguarda Gianluigi Torzi, un broker molisano cui il Vaticano si sarebbe affidato per riuscire ad ottenere la piena disponibilità del lussuoso palazzo di Londra che è al centro dello scandalo. Il retroscena, con tanto di fotografia di un incontro avvenuto all'interno di un'udienza del Santo Padre, è approfondibile sull'Adnkronos. La questione del palazzo londinese continua a presentare sorprese. L'ultima in ordine di tempo è questa del summit che si sarebbe tenuto tra Torzi e Papa Francesco. C'è una data: il 26 dicembre del 2018. Quello è il giorno cui il broker molisano avrebbe avuto modo di parlare con l'ex arcivescovo di Buenos Aires. Vale la pena sottolineare come gli avvocati che rappresentano Torzi abbiano parlato di "grosso malinteso". Vedremo se ci saranno evoluzioni nel corso delle prossime ore. Tornando alla questione di quello che è già stato definito "ricatto", bisogna fare un passo indietro, e cioè rammentare che Torzi è attualmente detenuto per via di accuse che riguardano varie fattispecie, tra cui l'estorsione. Circola pure una cifra precisa: sarebbero 15 i milioni domandati. Un testimone, stando sempre a quanto si apprende per mezzo dell'agenzia, avrebbe confermato che "Torzi non si fece scrupolo di avanzare richieste davanti al Papa". Ma di quali "richieste" si parlerebbe? Forse del denaro che Torzi avrebbe richiesto per cedere anche le sue quote del palazzo alla Santa Sede, dopo essere intervenuto per finalizzare la piena acquisizione dello stesso immobile, piena acquisizione che si era resa necessaria per via dell'appartenenza di alcune quote ad un'altra società: presumibilmente Athena, di Raffaele Mincione. Ma la vicenda è davvero molto complessa e prima di circoscrivere ogni dettaglio converrà che la chiarezza derivi dal lavoro di chi sta indagando a livello giudiziario. Comunque sia, esiste l'evidenza di una battaglia combattuta dal Papa per favorire la trasparenza. Questo è un fatto poco smentibile. Ulteriori elementi, poi, riguardano il sequestro di conti correnti in Svizzera. Sequestro che è stato disposto per via della collaborazione prevista dalle norme vigenti. Tra i nomi che sono stati elencati tra i possessori di conti correnti sequestrati, figura anche quello di Torzi, che però non è l'unico della lista resa nota: sono presenti anche persone legate direttamente alla Santa Sede. Bisognerà ovviamente comprendere quale sia la ratio dietro a questa mossa. Non è detto che i soggetti interessati dai sequestri siano indagati. Una vera e propria bufera, che rischia di riportare tutti ai tempi di Vatileaks, almeno dal punto di vista mediatico-narrativo. La sensazione rimane quella che si debba attendere per comprendere a pieno ogni sfumatura ed ogni dettaglio di questa serie di vicissitudini.

Vaticano, tutti i misteri del palazzo dello scandalo. L'arresto del broker è il primo colpo di scena di una storia molto complessa, che non difetta di misteri. Ecco le questioni irrisolte della storia del palazzo di Londra, un immobile che sembra in grado di far tremare le mura leonine. Giuseppe Aloisi, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. Nonostante il colpo di scena di ieri sera, non tutto il quadro dovrebbe essere già stato chiarito dagli inquirenti: il caso del palazzo londinese acquistato dal Vaticano continua a tenere banco. La storia è complicata perché è un intreccio di più fasi, per comprendere le quali è facile pensare che servirà altro tempo. Una novità, e grossa, però c'è. Poche ore fa, abbiamo dato la notizia dell'arresto di un broker molisano, Gianluigi Torzi, che la Santa Sede avrebbe coinvolto solo in un secondo momento, e cioè quando si sarebbe trattato di acquisire del tutto la proprietà assoluta dello stabile. Pare infatti che nella fase precedente, per tutta una serie di meccanismi finanziari (su cui si starebbe indagando), la Santa Sede non fosse riuscita, nonostante l' iniziale operazione d'acquisto, ad ottenere una piena disponibilità del palazzo sito a Londra. Uno stallo che qualcuno, forse il sostituto Pena Parra, ha provato a sbloccare. Da qui, l'esigenza di un'intermediazione risolutiva che, per usare un eufemismo, non sembra essere andata proprio nella maniera in cui era stata immaginata dalle alte sfere. Ma il primo mistero è arrivato in concomitanza con le dichiarazioni rilasciate all'Adnkronos dall'avvocato del broker: "Non sono autorizzata a dire nulla in questo momento. Posso solo dire che il mio assistito è stato fermato per fare delle verifiche di carattere istruttorio, quindi è in stato di fermo", ha fatto sapere l'avvocato Giovene all'agenzia citata. Il bollettino ufficiale parla di "mandato di cattura". Arresto o fermo? Con ogni probabilità, ne sapremo di più nelle prossime ore. Per quanto il Vaticano sia stato cristallino nell'annunciare la disposizione. Certo è che il palazzo di Londra sta diventando un simbolo: della battaglia condotta da Papa Francesco per far sì che la trasparenza divenga prassi tra le mura leonine; del fatto che la Chiesa cattolica stia vivendo un momento storico complesso in cui si confronta con problemi molto diversi tra loro; di come "una pentola", per usare un'espressione del pontefice argentino, possa essere "scoperchiata" anche dall'interno delle mura leonine. Un elemento - quest'ultimo - che Bergoglio ha voluto rivendicare. Nel momento in cui scriviamo, Gianluigi Torzi è accusato di "estorsione, peculato, truffa aggravata e autoriciclaggio". L'arresto (o il fermo) è stato preceduto da un interrogatorio. Il broker però - come premesso - avrebbe avuto il compito di far acquisire una volta per tutte lo stabile, che di base è costato 200 milioni e per il quale la Santa Sede avrebbe perso alcuni milioni di euro. Perché il palazzo di lusso, acquistato dal Vaticano, non era tutto del Vaticano? Come si dice che si sia verificata una perdita? Bisogna fare un passo indietro. La trama è molto complessa: dal fondo Athena alle presunte plusvalenza, passando per l'inchiesta che riguarda da vicino il finanziare Raffaele Mincione. E ancora l'obolo di San Pietro, ossia le offerte al Papa dei fedeli ed i fondi fuori bilancio: abbiamo già avuto modo di ricostruire quello che è emerso. Più nello specifico in relazione all'immobile, la sensazione è che la Santa Sede volesse come detto riappropriarsi del palazzo per l'intero, dopo essere inciampata in "operazioni finanziarie" sulle quali si starebbe indagando. E sulle quali conviene soprassedere. Anche perché la compravendita ed altre operazioni, sino a prova contraria, potrebbero essere state regolari. Si vedrà. Comunque sia, la Santa Sede si affida in qualche modo a Torzi, che però ieri viene arrestato per via di un provvedimento firmato dal "Promotore di Giustizia, Prof. Gian Piero Milano, e del su Aggiunto, Avv. Alessandro Diddi". Perché questa disposizione? Il retroscena che circola a partire da qualche ora racconta di un'estorsione che il broker sarebbe riuscito ad operare nei confronti della segreteria di Stato. Trattasi, va sottolineato, di una mera ipotesi. L'Adnkronos spiega così: "In particolare, a quanto apprende l'Adnkronos, Torzi, che con la sua Gutt Sa aveva triangolato per la Santa Sede l'acquisto da Mincione dell'immobile di Londra al centro dell'inchiesta, avrebbe trattenuto senza farlo sapere alla Segreteria di Stato mille azioni (le uniche con diritto di voto) della società, con ciò impedendo di fatto al Vaticano (cui aveva ceduto 30mila azioni ma senza diritto di voto) di disporre del palazzo". Di sicuro c'è che Torzi, all'inizio di questa storia, sembrava essere una figura secondaria, in quanto intervenuta in una fase successiva all'acquisto. Ma ora non è più così. L'estorsione consisterebbe in 15 milioni di euro. Per arrivare ai quali, sarebbe persino nata una trattativa. Torzi avrebbe chiesto di più. Ed un dirigente ed un monsignore, ossia Tirabassi e Perlasca, avrebbero suggerito di prendere il necessario dal Fondo discrezionale del Santo Padre. Ma la cosa sarebbe finita nel dimenticatoio per via del niet di monsignor Mauro Carlino, che è sospeso. Un vero e proprio ginepraio narrativo in cui risulta essere molto difficile districarsi. E c'è molto di più. Va annotato, per esempio, il fatto che il cardinal Angelo Becciu ha detto di non conoscere Torzi. Quando Torzi entra in scena, Becciu non è più il sostituto alla segreteria di Stato. Questo lo ha dichiarato il porporato italiano. Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che è di sicuro arrivato dopo lo svolgimento dei fatti relativi al palazzo, aveva parlato di "operazione opaca". Uno scontro al vertice ecclesiastico? Possibile. Un altro mistero riguarda di sicuro le presunte prossimità dei finanzieri con il ceto ecclesiastico: chi ha presentato i broker agli uomini di Chiesa? Non è un mistero - questo no - che in Vaticano non sia semplice ottenere la fiducia delle alte sfere. Questa non è l'ultima domanda. Nel comunicato della Sala Stampa della Santa Sede, si legge che le "vicende legate alla compravendita...hanno coinvolto una rete di società in cui erano presenti alcuni Funzionari della Segreteria di Stato". Ci si riferisce alle cinque persone che sono state sospese? Sono questi i funzionari che facevano parte della "rete di società"? Oppure ci si riferisce ad altri? E qual è il filo che lega tutte queste vicissitudini? Sempre che ci sia. La domanda delle domande riguarda comunque il proseguo: com'è destinata a proseguire questa vicenda? La risposta, con buone probabilità, è nelle carte e nell'azione dei "pm del Papa".

Scandalo del palazzo a Londra, in manette broker in Vaticano. Gianluigi Torzi detenuto nella caserma della gendarmeria: rischia fino a 12 anni. Coinvolte società con funzionari della Segreteria di Stato. Francesco Boezi, Venerdì 05/06/2020 su Il Giornale.  La storia del palazzo di Londra, quella che aveva tenuto banco in Vaticano e non solo per qualche mese, presenta da oggi un nuovo capitolo: Gianluigi Torzi, un broker che era già balzato agli onori delle cronache quando avevamo dato degli aggiornamenti relativi all'inchiesta interna, è stato arrestato. La notizia è stata battuta poco fa dalle agenzie, tra cui l'Adnkronos. La disposizione è stata emanata dal Promotore di Giustizia del Tribunale della Santa Sede, che ha deciso di procedere nella direzione dell'arresto dopo aver interrogato la persona che è ora interessata dal provvedimento. Da qualche mese a questa parte, la vicenda era passata in secondo piano: almeno dal punto di vista mediatico se n'è parlato con meno incidenza rispetto ai primi tempi. Ma le corso della serata di oggi è arrivato un colpo di scena. Papa Francesco aveva espresso soddisfazione per via del fatto che la "pentola" fosse stata "scoperchiata" dall'interno delle mura leonine. Jorge Mario Bergoglio aveva pure citato l'ipotesi corruzione: "Il Promotore ha studiato la cosa, ha fatto le consultazioni e ha visto che c’era uno squilibrio nel bilancio e poi ha chiesto a me il permesso di fare le perquisizioni. E io ho firmato le autorizzazioni. È stata fatta la perquisizione in cinque uffici. Sebbene ci sia la presunzione di innocenza, ci sono i capitali che non sono amministrati bene, anche con corruzione", aveva specificato il pontefice argentino a novembre del 2019.

I reati contestati. Tra le fattispecie elencate dall'Agi - quelle per cui Torzi è imputato, vengono citate il peculato, l'estorsione, l'autoriciclaggio e la truffa aggravata. Nel momento in cui scriviamo, l'uomo dovrebbe già risultare detenuto. Il broker, secondo le ricostruzioni emerse in questi mesi, era stato interpellato dalla Santa Sede, dopo che lo stesso Vaticano aveva optato per la riacquisizione del palazzo di Londra. Quello che rientra nella vicenda giornalistica delle "operazioni finanziarie sospette". E che portato anche a delle perquisizioni effettuate in alcuni uffici della segreteria di Stato, oltre che ad alcuni provvedimenti di sospensione. Il comunicato della Sala Stampa della Santa Sede specifica come i reati contestati a Torzi possano comportare una pena sino a 12 anni di detenzione. Ma non è solo questa l'informazione che si può dedurre dalla nota: nel testo si trova anche scritto che le "vicende" legate alla "compravendita" hanno "coinvolto una rete di società in cui erano presenti alcuni Funzionari della Segreteria di Stato". E questo potrebbe essere il prossimo capitolo di questa storia. Ma bisognerà vedere se emergeranno ulteriori elementi dall'inchiesta interna che si è svolta, e potrebbe ancora svolgersi, tra le mura leonine.

La questione dell'estorsione. Stando alla ricostruzione complessiva dell'Adnkronos, Torzi, che nei piani del Vaticano avrebbe dovuto far sì che la proprietà del palazzo di lusso, sito nel quartiere di Chelsea, tornasse nella disponibilità proprietaria ed unica della Santa Sede, sarebbe riuscito ad estorcere alla segreteria di Stato ben 15 milioni di euro. Questa, almeno, è la tesi della procura vaticana. Un alone di mistero, dunque, continua ad adombrarsi su queste vicissitudini, perché la sensazione è che Torzi possa non essere l'unico soggetto coinvolto in una vicenda economico-finanziaria che rischia di tramutarsi in una vera e propria bufera a discapito della credibilità della Chiesa universale. E questo è un ragionamento. L'altra riflessione non può che riguardare la ferma trasparenza pretesa dal Papa. La stessa che, con buone probabilità, ha consentito alla "pentola" di essere "scoperchiata". Il cardinal Angelo Becciu, nel frattempo, ha dichiarato di non conoscere il broker molisano.

Soldi, ville e Picasso: il "povero" broker. Il professionista dichiarava 5mila euro l'anno, ma viveva da re grazie al riciclaggio. Paola Fucilieri, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale.  Milano. Il nome di Alessandro Jelmoni ai più potrà non dire assolutamente nulla. Eppure quattro anni fa questo broker milionario - che sul suo sito si definisce esperto di pianificazione fiscale e fondi etici - era già apparso nell'inchiesta giudiziaria sui cosiddetti «Panama Papers», indagine basata sulle rivelazioni del funzionamento del mercato dell'arte internazionale - per molti versi opaco e con quotazioni davvero stellari - e di un traffico di capolavori che coinvolgevano dinastie di mercanti, opere requisite dai nazisti e persino una nipote di Pablo Picasso. Il 52enne Jelmoni, che in circa dieci anni avrebbe dichiarato al fisco meno di 5mila euro lordi anche se abitava in un lussuoso appartamento del centro di Milano per cui pagava circa 110mila euro di affitto all'anno, un'opera del genio spagnolo la teneva proprio lì, appesa ai muri di casa. L'altroieri il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano, su disposizione della Sezione misure di prevenzione della Procura, oltre a preziose tele (insieme al quadro di Picasso anche opere di Lorenzo De Caro e Niccolò Cassana, detto «Nicoletto») e a varie sculture, gli ha sequestrato un'enorme e lussuosa villa ad Arzachena, in Sardegna, pagata oltre 16 milioni di euro. Nato a San Donà di Piave (Venezia), Jelmoni era già stato arrestato nel 2012 con gli imprenditori Corrado ed Elena Giacomini, amministratori dell'omonima azienda piemontese leader nel settore dei rubinetti. Il broker, tra le altre cose, avrebbe gestito un trust lussemburghese proprio a favore della coppia. Una tranche dell'inchiesta è poi passata a Milano in mano ai pm Stefano Civardi e Giordano Baggio e, nei giorni scorsi, per Jelmoni è arrivata in primo grado una condanna a dieci anni e sette mesi di reclusione. Stando agli atti l'uomo sarebbe stato a capo «di un'associazione per delinquere a carattere transnazionale con interessi in Italia», Lussemburgo, Svizzera e Gran Bretagna, «dedita al riciclaggio di ingenti proventi derivanti da evasione fiscale» e «realizzata mediante la costituzione di società estere» con «sede anche in paradisi fiscali». I giudici, disponendo il sequestro come misura di prevenzione, hanno accertato la sua «pericolosità sociale» dal punto di vista economico-finanziario. Il valore delle opere d'arte a cui sono stati messi i sigilli è di un milione e mezzo di euro. Oltre alle tele ci sono 67 oggetti di antiquariato, mobili argenterie, gioielli antichi e pendoli risalenti al XVII e XVIII secolo.

Vaticano, Papa Francesco smantella le holding svizzere dei Patti Lateranensi. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Mario gerevini e Fabrizio Massaro. È una parte del patrimonio estero dell’Apsa, la banca centrale del Vaticano. L’operazione si è conclusa pochi giorni fa: sono state chiuse contemporaneamente 9 società (immobiliari e finanziarie) di Losanna, Ginevra e Friburgo, con il trasferimento del loro patrimonio sotto una sola holding, la più “anziana”: la Profima Société Immobilière et de Participations di Ginevra, costituita nel 1926 dal banchiere della Comit, Bernardino Nogara, su incarico di Pio XI. Ma di quale patrimonio si tratta? La sua storia intreccia politica, diplomazia, finanza. Il “tesoretto” originario — che poi è stato investito attraverso le società svizzere — era rappresentato dagli indennizzi assegnati alla Santa Sede (750 milioni di lire in contanti e un miliardo in buoni del Tesoro al 5%) nell’ambito dei Patti Lateranensi firmati da Benito Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri. In un panorama politico quanto mai incerto per l’avvento del fascismo, la Svizzera era stata scelta in un’ottica di «diversificazione del portafoglio», si direbbe oggi. Insomma, capitali portati lontano da Roma. Questo patrimonio di immobili, terreni e investimenti liquidi è ora confluito in Profima Sa e — secondo i documenti dell’operazione consultati dal Corriere della Sera — valutato 44,3 milioni di euro. Ma è un valore «storico», quindi non riflette gli attuali e ben più elevati prezzi di mercato. La cassaforte con sede a Ginevra non è però una società speculativa ma rientra nel patrimonio dell’Apsa, la potentissima istituzione che gestisce in Italia e all’estero i beni immobiliari e mobiliari di proprietà della Santa Sede, presieduta dal giugno 2018 da monsignor Nunzio Galantino che ha sostituito il cardinale Domenico Calcagno, dimessosi per raggiunti limiti d’età. I proventi di questa attività servono per sostenere le funzioni e le spese della Curia romana. La rete estera dell’Apsa è adesso concentrata in tre holding, ciascuna per Paese: Profima in Svizzera, la British Grolux Investments per la Gran Bretagna, e il polo francese di Sopridex sa, che controlla interi blocchi di edifici nel centro di Parigi. Non è un patrimonio sterile e statico ma amministrato anche per produrre reddito. Per fare due esempi estremi: sono dell’Apsa, in Italia, gli immobili dell’ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo così come, in Gran Bretagna, i locali al 168 di New Bond Street a Londra che ospitano il negozio di Bulgari. I primi sono concessi in comodato gratuito, i secondi a prezzo di mercato. Nessuna contraddizione, la mission in estrema sintesi è questa: guadagnare con i ricchi per aiutare i poveri.La Profima è diventata dunque l’unica cassaforte svizzera di quella galassia creata in gran parte tra il 1930 e il 1933 e che ora è stata smontata. Nel dettaglio sono state chiuse le quattro Société Immobilière Florimont nate nel 1930 (e ognuna distinta da una lettera dell’alfabeto: B - C, ecc), le tre Société Immobilière Sur Collonges del 1933, la più recente SI Rieu-Soleil (1973) e infine la Diversa sa (1930) che è, allo stesso tempo, la più ricca e la più impenetrabile. Solo in quest’ultima finanziaria è concentrato il 90% dei beni trasferiti alla Profima: 40,3 milioni di franchi svizzeri di attivi e 12,7 milioni di debiti verso terzi. Un portafoglio che un tempo comprendeva anche partecipazioni azionarie poi vendute, come quella nella casa farmaceutica elvetica Roche. Nel lontano 1943 la Profima divenne persino azionista rilevante della banca colombiana Sudameris, nell’ambito di un patto parasociale tra Vaticano, l’allora Paribas e la Comit, sempre con l’ingegnere-banchiere dei papi, Bernardino Nogara, come regista finanziario. Ora ad amministrare la società ci sono, tra gli altri, il presidente Bernard De Sénépart, architetto, Giorgio Franceschi, un manager trentino appena nominato, e Franco Dalla Sega, docente della Cattolica, da sei anni «consulente speciale» dell’Apsa. Quella dentro l’Apsa è un‘operazione di razionalizzazione nel solco della linea tracciata da Papa Francesco per la gestione delle sofferenti finanze vaticane: taglio dei costi (in Svizzera si passa a un solo consiglio di amministrazione, una sola sede, un solo revisore invece di dieci: è un taglio netto), più organizzazione, trasparenza e uso efficiente delle risorse al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa. Un’urgenza ancora più pressante dopo lo scandalo del palazzo di Londra, acquistato dalla Segreteria di Stato e al centro di un’inchiesta per corruzione. Una missione ribadita nei giorni scorsi dal neo prefetto della Segreteria per l’Economia, il padre gesuita Juan Antonio Guerrero Alves, 60 anni, arrivato a gennaio 2020. C’è un problema di cassa, ha spiegato: la Santa Sede brucia in media 50 milioni di euro l’anno. Cioè il saldo negativo tra spese, per 320 milioni di euro, ed entrate, 270 milioni in buona parte dagli introiti dei Musei Vaticani e dalle donazioni dell’Obolo di San Pietro. Quest’anno, a causa del Covid-19 gli introiti saranno inferiori del 25%- 45% in base ai diversi scenari, quindi il buco si amplierà. Tuttavia, ha assicurato Alves, «il Vaticano non rischia il default».

Nino Sunseri per “Libero quotidiano” il 14 maggio 2020. Il virus ha colpito dove meno te l' aspetti: le finanze vaticane. Lo Stato Pontificio dichiara di non essere all' insolvenza a di certo la situazione deve essere molto critica se padre Juan Antonio Guerrero Alves, Prefetto della Segreteria per l' Economia (in sostanza il ministro delle Finanze del Papa) ha sentito il bisogno di lanciare l'allarme con una intervista a Vatican News. Racconta una situazione finanziaria quanto meno delicata con un buco delle entrate che potrebbe variare dal 25% al 45%. Una forbice molto larga che dimostra qualche sbandamento. Come non capire. I Musei vaticani, che rappresentano una delle voci di entrata più importanti sono chiusi e quando riapriranno sarà molto difficile vedere le consuete file di turisti in attesa di entrare. Le rendite da affitti sono in calo vista la volontà di andare incontro ai negozianti e a tutti coloro che sono stati pesantemente toccati dalla crisi. Stallo anche sulle offerte e non si sa quando si tornerà alla normalità Ma il Vaticano «non è in default» e non esiste il concetto di «deficit» perchè il suo è «un bilancio di missione» dice padre Guerrero Alves. Insomma non bisogna fare i ragionieri perchè dietro ai numeri «c' è la missione della Santa Sede e del Santo Padre, c' è la pienezza della vita e del servizio ecclesiale». Poi però ci sono incombenze meno spirituali da fronteggiare: bollette da pagare, stipendi da versare, fornitori da saldare. «Abbiamo sicuramente davanti anni difficili -dice padre Guerrero Alves- La Chiesa compie la sua missione con l' aiuto delle offerte dei fedeli. E non sappiamo quanto la gente potrà donare. Proprio per questo dobbiamo essere sobri, rigorosi». L'emergenza sanitaria sta provocando un calo delle entrate: «Abbiamo fatto alcune proiezioni, alcune stime. Le più ottimistiche calcolano una diminuzione delle entrate intorno al 25%. Le più pessimistiche intorno al 45%. Noi non siamo in grado di dire oggi se ci sarà una diminuzione delle donazioni all' Obolo» che viene alimentato con le elemosine raccolte durante le messe.  Di sicuro sono in calo le rendite degli affitti «perché lo abbiamo deciso noi e per la difficoltà di pagare il canone da parte di alcuni affittuari». Ma «ci sono tre cose che non sono in discussione, nemmeno in questo tempo di crisi: la retribuzione dei lavoratori, gli aiuti alle persone in difficoltà e il sostegno alle Chiese bisognose. Nessun taglio riguarderà chi è più vulnerabile. Non viviamo per salvare i budget». Infine il Prefetto dell' Economia, nella conversazione con il direttore editoriale di Vatican News, Andrea Tornielli, rivela l' esborso in tasse italiane: la Santa Sede versa ogni anno all' Italia 17 milioni di euro, «il 6 per cento circa del budget» Vaticano.

Musei chiusi e crollo delle offerte dei fedeli. Il bilancio del Vaticano è in profondo rosso. Il deficit sale a 53 milioni. E Lourdes e Medjugorje riaprono ai pellegrini. Serena Sartini, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale. La situazione economica non è affatto positiva, ma il neo Prefetto della Segreteria per l'Economia, padre Juan Antonio Guerrero Alves, frena gli allarmismi: «Il Vaticano non rischia il default». In una intervista a Vatican News, parla il ministro dell'Economia della Santa Sede, chiamato da Papa Francesco per fare pulizia sui conti e puntare sulla trasparenza. E snocciola i numeri del bilancio. «Tra il 2016 e il 2020 sia le entrate che le uscite sono state costanti. Le entrate intorno ai 270 milioni, le spese in media intorno a 320 milioni». Ma il coronavirus ha colpito anche il piccolo stato vaticano (che conta circa 5mila dipendenti) e il bilancio preventivo per il 2020 è stato approvato con 53 milioni di deficit. Una situazione che dovrà essere monitorata attentamente nei prossimi mesi. Anche se vengono confermati stipendi e posti di lavoro. Il gesuita Guerrero Alves, che succede al cardinale Pell, rientrato in Australia per affrontare il processo che lo accusava di pedofilia e poi assolto dall'Alta Corte, illustra nel dettaglio i conti. Le entrate, spiega, derivano da «contributi e donazioni, rendimenti degli immobili e in misura minore dalla gestione finanziaria e dalle attività degli Enti». Una buona fetta dei profitti arriva dai Musei Vaticani, ad oggi ancora chiusi. Le uscite, invece, sono rappresentate per il 45% dal personale, per il 45% dalle spese generali e di amministrazione, il restante da donazioni (7,5%) e altre spese residue. «E poi - annuncia il ministro dell'Economia - ci sono le tasse italiane, che paghiamo: il 6 per cento circa del budget, cioè 17 milioni». Il deficit negli ultimi anni ha oscillato fra 60 e 70 milioni. Una buona fetta delle uscite va per il costo del personale che lavora sulla comunicazione, più di 500 persone. «Comunicare quello che il Papa fa in 36 lingue - spiega -attraverso la radio, la tv, il web, i social, un giornale, una tipografia, una casa editrice, la sala stampa è una impresa che non ha eguali al mondo». L'emergenza Covid preoccupa non poco il gesuita. «Abbiamo fatto alcune proiezioni - sottolinea -. Le più ottimistiche calcolano una diminuzione delle entrate del 25%. Le più pessimistiche del 45%. Ma lo scenario dipende in parte da noi (da quanto saremo capaci di ridurre i costi) e in parte da fattori esterni, da quanto realmente le entrate diminuiranno. In ogni caso, se non ci sono ricavi straordinari, è evidente che ci sarà un aumento del deficit. Tuttavia non tutto può essere misurato solo come deficit, e nemmeno come mero costo, nella nostra economia». «Perché - spiega padre Guerrero Alves - non siamo una impresa e nemmeno una azienda. Il nostro obiettivo non è fare profitto». Per Alves l'impegno deve essere quello della massima sobrietà. «Il nostro deve essere un bilancio di missione - ribadisce il gesuita - ovvero un bilancio che mette in relazione i numeri con la missione della Santa Sede». Non c'è rischio default ma ci saranno «anni difficili». Infine, una promessa: «Mi piacerebbe che il bilancio fosse pubblico, per spiegare bene come spendiamo il denaro». A proposito di deficit, dopo l'annuncio di una perdita prevista di 8 milioni di euro, il rettore del Santuario di Lourdes ha annunciato la riapertura (parziale) da sabato 16 maggio. Riaperto anche il santuario di Medjugorje con messe e confessioni celebrate all'aperto. Resta chiuso, invece, il Santuario di Fatima che proprio ieri, per la prima volta nella storia, ha celebrato la festa della prima apparizione ai veggenti senza pellegrini.

Franca Giansoldati Umberto Mancini per ilmessaggero.it il 10 aprile 2020. Come nel sogno biblico delle sette vacche grasse che si mangiano le sette vacche magre con Giuseppe che svela al faraone il significato dei tempi difficili. In Vaticano gli effetti del coronavirus, soprattutto con la chiusura dei musei vaticani, la principale fonte diretta di introiti, cominciano a farsi sentire pesantemente sul bilancio corrente. In questi giorni sta seminando panico tra i dipendenti, i collaboratori, i fornitori esterni di servizi una disposizione emessa dal Governatorato due giorni fa dalla quale si capisce bene che la situazione non è più tanto florida, visto che si prevede il taglio di parecchie voci dal bilancio, facendo salvo l'unico punto sul quale il Papa si è sempre battuto: mantenere gli attuali livelli occupazionali, non licenziare nessuno. Tuttavia visto che i numeri non lasciano spazio a troppe fantasia, il Governatorato ha deciso di passare ai provvedimenti immediati. I contratti a tempo determinato, per esempio, sono destinati a non essere più rinnovati. Ecco il passaggio chiave del documento: «Alla luce di quanto esposto, sono state prese alcune decisioni che dovranno orientare la gestione economica di tutti gli organismi nei prossimi mesi e di cui di seguito si indicano le modalità di applicazione: drastica riduzione dei costi delle consulenze, sospensione, ove possibile, dei contratti a tempo determinato. Blocco di assunzioni e promozioni. Cessazione di prestazioni di lavoro straordinario, salvo imprescindibili motivi istituzionali, da attuarsi attraverso la flessibilità o le turnazioni». L'elenco continua con il ricorso obbligato alle ferie forzate, alla composizione di un monte ore negativo costituito da giorni di assenza dove l'attività in smart-working non è realizzabile. Infine l'annullamento per tutto l'anno di convegni, congressi, mostre, fiere, la cancellazione dei viaggi e delle trasferte di lavoro e la sospensione di acquisti per arredi e suppellettili. In piano è draconiano e si è reso obbligatorio per arginare i costi variabili, fermo restando che per i costi fissi non c'è nulla da fare. I dipendenti complessivamente sono poco più di 4 mila e pesano per circa 6 milioni di euro al mese sul bilancio. Denaro che viene pagato dall'Apsa, con il via libera della Segreteria di Stato che stacca l'assegno. «Seppur non siano certi i tempi della inevitabile retrocessione economica, i superiori della Santa Sede e del Governatorato, nell'ambito di riunioni periodiche, sul tema economico-finanziario, sono ben consapevoli che sarà necessario un periodo non breve per una piena ripresa delle attività sia degli organismi della curia romana sia delle direzioni e degli uffici del Governatorato» si legge. La lettera protocollata, firmata dal cardinale Bertello l'8 aprile, è indirizzata agli uffici della segreteria generale, ai direttori dei vari dipartimenti, ai capi uffici, al direttore della farmacia vaticana (uno dei pochissimi uffici aperti ancora al pubblico, sebbene in modo scaglionato, mantenendo rigorose misure di sicurezza) e al direttore della Specola Vaticana, l'osservatorio astronomico dei gesuiti che è situato a Castel Gandolfo ma ha anche una sede distaccata in Arizona. La stretta riguarda, dunque, l'ufficio filatelico, quello della floreria, gli uffici addetti al reperimento delle merci per l'Annona e il magazzino degli abiti, gli ambulatori medici, la gendarmeria, i sistemi informativi, il coordinamento eventi, l'archivio, la direzione delle ville pontificie. La chiusura ai rubinetti era stata anticipata da un altro documento interno, stavolta datato 24 marzo, che di fatto anticipava poi il sentieri attuale sul blocco delle assunzioni, degli straordinari, delle trasferte, dei convegni, delle consulenze esterne. Fatto salvo, naturalmente, particolari situazioni lavorative che dovranno essere valutate di volta in volta. Per esempio quelle sui viaggi papali visto che per prepararli occorrono diversi sopralluoghi da parte del personale vaticano in loco al fine di mettere a punto la visita e il programma papale. Una eventualità che al momento non è nemmeno all'orizzonte poiché non c'è nemmeno un viaggio fissato, tutto è stato congelato o rimandato sine die, come la trasferta a Malta che era prevista per la fine di maggio.

Gianluigi Nuzzi: “Viaggiate con me tra i segreti del Vaticano…”.  Beatrice Gigli il 04/03/2020 su Il Giornale off. Gianluigi Nuzzi, giornalista, scrittore (Vaticano S.p.A. del 2009 è diventato un bestseller internazionale, tradotto in 14 lingue) e volto noto del piccolo schermo (Gli intoccabili, Le inchieste di Gianluigi Nuzzi, Quarto grado), ha svolto indagini che hanno portato alla luce scandali e segreti che si annidano nei palazzi del potere. Lo scorso 5 febbraio ha ritirato a Nola il premio Artis Suavitas, per la sua capacità di infrangere i tabù anteponendo sempre il racconto dei fatti alle opinioni. Nel suo ultimo libro Giudizio universale (Chiarelettere, 368 pagine, 2019, euro 19) scrive di tutte le problematiche che ha affrontato Papa Francesco per una Chiesa giusta. Su quali documenti si fonda?

«Giudizio universale è un viaggio nei segreti del Vaticano realizzato grazie a tremila documenti inediti raccolti in due anni che affrontano le spese, i conti correnti segreti dei potenti e l’enorme disavanzo che Francesco combatte ogni giorno. Gran parte di questi documenti proviene dal Consiglio per l’Economia e dalla segreteria per l’Economia, i due organi più qualificati e vicini a Bergoglio nella gestione di tutte le questioni finanziarie e di politica economica».

Il Vaticano è vicino al disastro finanziario?

«Il rischio di default, paventato da Bergoglio già nel maggio del 2018 in un drammatico incontro riservato con il cardinale Marx, coordinatore del Consiglio per l’Economia, è messo nero su bianco in diversi documenti. Ed è proprio questo pericolo che spinge Francesco ad approvare l’istituzione di un gruppo di lavoro di esperti per evitare il dissesto».

Da Vaticano spa, uscito nel 2009, a Giudizio Universale (2019) è cambiata la situazione della Chiesa?

«Oggi le finanze soffrono quella crisi della Fede già indicata da Benedetto XVI come la peggiore delle piaghe che la Chiesa cattolica sta affrontando.  All’epoca, nel 2009, c’era un sistema di potere curiale fortemente caratterizzato da mercanti, che agivano lontano dai precetti evangelici. Dopo la rinuncia di Ratzinger questo sistema si è progressivamente indebolito, ma permane. Ancora oggi Francesco fa enorme fatica a portare avanti le riforme messe in cantiere».

La battaglia di Papa Francesco per ristabilire l’ordine servirà a qualcosa? Riuscirà a vincerla?

«Francesco è nella morsa di una tenaglia: da una parte c’è chi lo critica per le scelte dottrinali, dall’altra chi ostacola il cambiamento per interessi personali. L’esito è imprevedibile».

Quanto le situazioni che descrive nei suoi libri hanno ispirato Paolo Sorrentino per The Young Pope e The New Pope?

«Dovreste chiederlo a lui. Ritrovo molte pagine nei suoi film e questo mi fa piacere, ma non ho mai avuto la fortuna di conoscerlo».

Qual è la sua opinione su Benedetto XVI?

«Uno dei più grandi intellettuali viventi, un vero rivoluzionario. Basta riflettere: è più rivoluzionario rinunciare al pontificato o fare un tweet?»

Lei è credente?

«Si certo, peccatore e credente».

Ha mai temuto per la sua vita?

«La vita è un dono e va protetto: se l’avessi messa a repentaglio avrei fatto peccato. E’ capitato, ma non a causa dei miei libri, piuttosto in occasione di reportage di guerra come in Albania durante la guerra civile».

Ha mai vissuto un episodio OFF, che non ha mai raccontato a nessuno, magari proprio durante le sue indagini?

«Ne ho vissuti tantissimi, ma li custodisco dentro di me».

A.B. per agensir.it il 18 febbraio 2020. La comunità monastica di Bose ha annunciato che è stata oggetto dall’inizio dello scorso dicembre di una visita apostolica “nel momento di un passaggio che non può non essere delicato e per certi aspetti problematico per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno”. A compierla p. Guillermo León Arboleda Tamayo, osb, abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, p. Amedeo Cencini, fdcc, consultore della Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, e m. Anne-Emmanuelle Devêche ocso, abbadessa di Blauvac. “I fratelli e le sorelle di Bose – si legge in una nota – esprimono sincera gratitudine al Santo Padre Francesco per questo segno di vicinanza e di sollecitudine paterna, che intende aiutarli, secondo quanto da Lui stesso scritto in occasione del 50° anniversario della fondazione, a ‘meditare più intensamente sulla vostra chiamata e sulla vostra missione, affidandovi allo Spirito Santo per avere saldezza e coraggio nel proseguire con fiducia il cammino e a perseverare nell’intuizione iniziale: la sobrietà della vostra vita sia testimonianza luminosa della radicalità evangelica; la vita fraterna nella carità sia un segno che siete una casa di comunione dove tutti possono essere accolti come Cristo in persona”. “Essi accolgono con gioia questa opportunità preziosa di ascolto e di dialogo”.

Da monasterodibose.it il 18 febbraio 2020. Dal 6 dicembre u.s., il Rev.do P. Guillermo León Arboleda Tamayo, osb, Abate Presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, il Rev.do P. Amedeo Cencini, fdcc, Consultore della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita apostolica, e la Rev.da M. Anne-Emmanuelle Devêche ocso, Abbadessa di Blauvac, stanno compiendo una visita alla nostra Comunità monastica di Bose, nel momento di un passaggio che non può non essere delicato e per certi aspetti problematico per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno. I fratelli e le sorelle di Bose esprimono sincera gratitudine al Santo Padre Francesco per questo segno di vicinanza e di sollecitudine paterna, che intende aiutarli, secondo quanto da Lui stesso scritto in occasione del 50° anniversario della fondazione, a “meditare più intensamente sulla vostra chiamata e sulla vostra missione, affidandovi allo Spirito Santo per avere saldezza e coraggio nel proseguire con fiducia il cammino” e a “perseverare nell’intuizione iniziale: la sobrietà della vostra vita sia testimonianza luminosa della radicalità evangelica; la vita fraterna nella carità sia un segno che siete una casa di comunione dove tutti possono essere accolti come Cristo in persona”. Essi accolgono con gioia questa opportunità preziosa di ascolto e di dialogo. L’Avvento ci fa levare lo sguardo verso il Signore che viene: abitata da tale attesa, la Comunità vive questa “visitazione” come tempo di grazia e verità. Agli amici e agli ospiti chiede il ricordo e la compagnia nella preghiera.

Dagospia il 18 febbraio 2020. Alberto Carrara per santalessandro.org - Articolo del 9 gennaio 2020 poi rimosso. Papa Francesco a Bose tre "visitatori apostolici". Al monastero di Bose è in corso, già dal 6 dicembre scorso, una "visita apostolica". Papa Francesco ha mandato suoi inviati per una indagine interna alla comunità. La notizia viene data dallo stesso sito ufficiale del monastero, il quale pubblica anche i nomi dei "visitatori", cioè le persone che la Santa Sede ha scelto per questo atto importante - anzi: nel caso di Bose è lo stesso Papa Francesco che ha preso l'iniziativa. Uno è il Padre León Arboleda Tamayo, benedettino, Abate che presiede una delle famiglie benedettinie, quella che si chiama Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese. Il secondo è il padare Amedeo Cencini, canossiano, Consultore della Congregazione vaticana per gli istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita apostolica. La terza è Madre Anne-Emmanuelle Devéche, trappista, Abbadessa di Blauvac, villaggio che si trova nel Vaucluse, Sud della Francia, il cui capoluogo è Avignone. "I fratelli e le sorelle di Bose, dice il comunicato, esprimono sincera gratitudine al Santo Padre Francesco per questo segno di vicinanza e di sollecitudine paterna, che intende aiutarli, secondo quanto da Lui stesso scritto in occasione del 50° anniversario della fondazione, a meditare più intensamente sulla vostra chiamata e sulla vostra missione, affidandovi allo Spirito Santo per avere saldezza e coraggio nel proseguire con fiducia il cammino e a perseverare nell'intuizione iniziale: la sobrietà della vostra vita sia testimonianza luminosa della radicalità evangelica; la vita fraterna nella carità sia un segno che siete una casa di comunione dove tutti possono essere accolti come Cristo in persona. Essi accolgono con gioia questa opportunità preziosa di ascolto e di dialogo".

Il fondatore Enzo Bianchi si è dimesso. Manicardi al suo posto. Ci sono alcuni elementi che fanno pensare a qualcosa di particolare. Intanto si tratta di una visita non ordinaria - che rientra nella routine delle comunità monastiche - ma di una visita straordinaria. Se la visita è straordinaria è pensabile che ci siano anche motivi straordinari che l'hanno resa necessaria.

Un motivo denuncia lo stesso comunicato: Enzo Bianchi, il fondatore, si è dimesso e Luciano Manicardi, una delle figure più note della comunità, è stato eletto al suo posto. Il fondatore, però, rimane nella comunità. Situazione che non è quasi mai facile e che è spesso fonte di incertezze. Lo riconosce lo stesso comunicato che parla di "momento di un passaggio che non può non essere delicato e per certi aspetti problematico per quanto riguarda l'esercizio dell'autorità, la gestione del governo e il clima fraterno" (questa frase era presente in una versione precedente del comunicato. È stata omessa nella versione ancora on line). Situazione nota: il fondatore che resta nella comunità che ha fondato finisce per essere come la statua dell'imperatore per don Giovanni: non dovrebbe esserci, ma c'è; non dovrebbe decidere, ma non si può decidere senza di lui. Soprattutto non si può cambiare senza di lui perché fare qualche cosa di diverso da quello che ha fatto lui è come sconfessarlo e non si può sconfessare il fondatore.

Padre Amedeo Cencini, un "visitatore" un po' speciale. Così si capisce la composizione della commissione visitatrice. Due figure sono pacificamente normali: un monaco per i monaci e una monaca per le monache (a Bose esistono, come noto, due comunità, una maschile e una femminile). La figura che fa pensare a qualcosa di particolare nella situazione di Bose è il terzo, il padre Amedeo Cencini. Questi ha fatto parlare di sé negli ultimi anni perché era stato nominato, a suo tempo, "visitatore apostolico" per la comunità religiosa di Villaregia. Questa comunità - comunità missionaria che ha la sua sede principale a Villaregia, nel delta del Po - aveva gravi e intricati problemi interni e padre Cencini si è dato da fare per sbrogliare la situazione. Pare che l'abbia fatto bene: la comunità di Villaregia, dopo gli scossoni piuttosto violenti della crisi, ha ripreso il suo cammino. Ora lo stesso "visitatore" che si è conquistato i galloni sul campo delle comunità religiose difficili è stato mandato a Bose. L'osservatore esterno è portato a pensare che anche a Bose qualche problema c'è e, forse, vista la statura del visitatore, non si tratta di problemini di poco conto perché se i problemi fossero di poco conto bastavano gli altri due visitatori.

Paolo Rodari per repubblica.it il 2 giugno 2020. Alla fine, dopo alcuni giorni di confronto interno, Enzo Bianchi, Goffredo Boselli e Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, "seppure in spirito di sofferta obbedienza", tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Lino Breda, invece, la quarta persona della comunità monastica di Bose a cui era stato chiesto l’allontanamento, aveva dichiarato di accettare il Decreto immediatamente, al momento stesso della notifica. Lo rende noto una breve nota pubblicata sul sito web della stessa comunità. A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, Bianchi e gli altri tre "vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità". L'allontanamento, quindi, non rappresenta un'uscita dalla comunità e, come aveva detto lo stesso Bianchi in un recente comunicato, è "temporaneo". Certo, al momento non si conoscono i dettagli del Decreto, ma stando al comunicato appena pubblicato dalla comunità sembra che così stiano le cose. Scriva la comunità: “Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere”. E ancora: “Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo”. In queste ore Enzo Bianchi ha fatto ancora sentire la sua voce via Twitter: “Giunge l’ora in cui solo il silenzio può esprimere la verità, perché la verità va ascoltata nella sua nudità e sulla croce che è il suo trono – scrive –.  Gesù per dire la verità di fronte a Erode ha fatto silenzio. “Jesus autem tacebat!” sta scritto nel Vangelo”.

Enzo Bianchi, il monastero, l'opinione pubblica. Problemi che sono, dunque, vale la pensa sottolinearlo, interni alla comunità. E anche questa è una complicazione ulteriore. Enzo Bianchi, che è monaco, ha però vaste entrature in ambienti ecclesiastici, vescovi in primis. Ma soprattutto è molto altamente considerato dall'opinione pubblica in genere e quella laica in specie (da qualche tempo collabora stabilmente con "La Repubblica", dopo aver collaborato, negli anni passati con "La Stampa" e con diversi altri organi di informazione stampata e televisiva). Sicché eventuali problemi dovuti alla sua figura sarebbero molto noti all'interno ma poco noti all'esterno. L'opinione pubblica faticherebbe a capire dei contrasti legati alla vita del monastero perché, per capire quei contrasti bisognerebbe conoscere il monastero. Ma l'opinione pubblica conosce bene Enzo Bianchi, conosce molto meno bene i monaci, la loro vita di comunità, la loro preghiera, il loro lavoro, i ruoli e le relazioni, complesse e talvolta complicate... cioè la realtà nascosta al mondo esterno dove quei contrasti si annidano. E quindi l'opinione pubblica rischia di non capire quei problemi e di derubricarli a banali beghe di frati e di suore. Ma non è così, evidentemente. Tanto è vero che non è così che il Papa stesso si è scomodato. E proprio perché non è così c'è da augurarsi, da parte dell'opinione pubblica ecclesiale molto più che da parte di quella laica, che i contrasti si risolvano, possibilmente bene e possibilmente presto.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it l'1 maggio 2020. E' una strana festa dei lavoratori quella che si celebra in Vaticano oggi. Per certi versi persino contraddittoria. Se da una parte Papa Francesco celebra - durante la messa a Santa Marta - il Primo Maggio ricordando San Giuseppe e rivolgendo un pensiero a tutti coloro che lavorano («Preghiamo per tutti i lavoratori, perché a nessuna persona manchi il lavoro e tutti siano giustamente pagati, possano godere della dignità del lavoro e della bellezza del riposo») proprio oggi ha autorizzato i licenziamenti dei cinque dipendenti mentre è ancora in corso l'indagine del tribunale per la vicenda dell'acquisto del famoso palazzo di Londra, un affare controverso e ingarbugliato ma dove ogni operazione è sempre stata avallata dai superiori e, in ultima istanza, dal Papa. Nei provvedimenti della Segreteria di Stato fatti arrivare alle persone indagate e per le quali sono ancora in corso gli interrogatori, non è stata fornita nessuna motivazione giudirica e questo, probabilmente, per rendere impossibile l'impugnazione dell'atto amministrativo. La notizia di questi licenziamenti è arrivata dalla Sala Stampa ieri sera alle 21, con un telegrafico comunicato semi incomprensibile e piuttosto oscuro in diversi passaggi. Nell'ambito delle indagini su alcune operazioni finanziarie «sono stati disposti provvedimenti individuali per alcuni dipendenti della Santa Sede, alla scadenza di quelli adottati all'inizio dell'indagine sugli investimenti finanziari e nel settore immobiliare della Segreteria di Stato». La comunicazione si riferiva al caso del palazzo londinese emerso ad ottobre quando cinque funzionari erano stati sospesi cautelativamente dal servizio e dallo stipendio (anche se poi parzialmente reintegrati). Si tratta di due dirigenti della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, di un'addetta all'amministrazione, Caterina Sansone, e di due alti dirigenti vaticani: don Maurizio Carlino, capo dell'Ufficio informazione e Documentazione, e il direttore dell'Aif Tommaso Di Ruzza, che ha lasciato il suo incarico per fine mandato ed è stato di recente sostituito. Successivamente si è aggiunto anche monsignor Alberto Perlasca, che nel frattempo era stato già stato spostato ad altro incarico in curia. I licenziamenti sono stati presi direttamente da Papa Francesco che evidentemente non ha voluto aspettare la fine della indagine avviata dal Tribunale, un eventuale rinvio a giudizio e nemmeno la sentenza definivita. Uno degli indagati - il funzionario laico Mauriello - ad oggi non è nemmeno stato interrogato dai magistrati e la sua permanenza è stata prorogata fino al 31 luglio. Caterina Sansone è stata destinata ad un altro dicastero ed è l'unica a non avere perso il posto di lavoro. La sua colpa è di avere fatto da prestanome per il passaggio di proprietà della società londinese e avere così permesso la gestione burocratica delle pratiche amministrative sotto indicazione dei vertici vaticani. Il funzionario Di Ruzza, ex Aif, invece, non è stato semplicemente confermato nel suo incarico come aveva già comunicato il Vaticano. I cinque funzionari erano finiti sotto la lente d'ingrandimento per la vicenda dell'acquisto del palazzo londinese, un investimento fatto con i soldi dell'Obolo di San Pietro. L'investimento venne definito dal cardinale Parolin opaco (anche il Papa lo giudicò tale) ma poi a Brexit consumata risulta avere il triplo del suo valore, come aveva spiegato anche il cardinale Angelo Becciu che quando era Sostituto si era occupato direttamente della vicenda, procedendo in ogni passaggio previa autorizzazione dei superiori. Man mano che l'inchiesta sull'edificio londinese si stringeva, affiorava parallelo il garbuglio che conduceva direttamente a Santa Marta. Il Papa avrebbe voluto arrivare a definire il ruolo di alcuni finanzieri esterni al Vaticano che, tra un passaggio e l'altro, avrebbero potuto trarre benefici. Un aspetto che sembra destinato a restare insoluto. I licenziamenti odierni fanno affiorare un altro caso emblematico di un licenziamento in tronco, fatto direttamente dal Papa tre anni fa. Quello di Eugenio Hasler che lavorava ai vertici del Governatorato ed è stato cacciato senza alcun motivo formale. Pare non sia mai stato aperto un procedimento amministrativo su di lui e il suo casellario risulta a tutt'oggi immacolato. Alcuni giorni fa Hasler su Facebook ha rotto il silenzio con un lungo sfogo: «Con oggi si compiono tre anni dal “fatto” o dal “caso”: insomma chiamatelo come volete. Il 27 marzo 2017 ricevevo un biglietto di convocazione (...) in dieci anni di lavoro in una Segreteria Generale ne ho viste di lettere anonime: tutte, puntualmente cestinate senza dare alcun credito. Era la regola. Alcune erano molto dettagliate e precise, oserei dire, ipoteticamente veritiere. Quella di cui ho pubblicato alcuni stralci e seguirà il completamento, è stata presa come spunto per addebitarmi colpe nel colloquio con il Papa del 28 marzo 2017, esattamente tre anni fa. Ora, non è difficile comprendere la dinamica di chi e come possa aver fatto passare per veritiere cose assolutamente non vere o delle quali esistono prove inconfutabili del contrario (ovviamente mai prese in considerazione). Come pure è estremamente facile capire e sapere chi ha dettagliatamente prodotto i numeri delle ore straordinarie da me effettuate, tralasciando di dire però che non era il sottoscritto a decidere di farle e a disporre a piacimento. (...) Dopo tre anni alcune cose vengono a galla, altre necessiteranno di qualche tempo in più. Ma è giusto che si sappia. Poiché quasi tutte queste persone, sottolineo quasi tutte, sono ai loro posti di comando ed in parte ricoprono posti di maggior rilievo (ovvero promozioni)… Non si tratta di solo laici (...)"» 

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2020. La scelta è arrivata dopo l' ispezione disposta sei mesi fa, una decisione clamorosa, nella storia della Chiesa italiana: Il Vaticano, con un decreto «approvato in forma specifica dal Papa», ha disposto di allontanare Enzo Bianchi dal monastero di Bose, la comunità che l' ex priore ha fondato in provincia di Biella a metà degli anni Sessanta. Fratel Enzo Bianchi, 77 anni, è una delle voci più ascoltate del pensiero cristiano e tre anni fa aveva lasciato la guida della comunità: al suo posto, nel 2017, è stato eletto come nuovo priore fratel Luciano Manicardi. Qualcosa nel frattempo non ha funzionato, tra le nuove e le vecchie gerarchie, perché dal 6 dicembre 2019 il Vaticano aveva mandato a Bose una «visita apostolica», cioè degli ispettori, «nel momento di un passaggio che non può non essere delicato e per certi aspetti problematico per quanto riguarda l' esercizio dell' autorità, la gestione del governo e il clima fraterno». Già la «visita apostolica» era il segno che la situazione era giunta al limite della rottura, troppe tensioni tra il nuovo governo della comunità e il suo fondatore. Si trattava di consentire al nuovo priore di guidare la comunità senza interferenze. Le tensioni continuano, peraltro. Il decreto, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin, porta la data del 13 maggio, la notizia è filtrata nelle ultime ore. E ieri sera la comunità ha diffuso un comunicato con nomi e cognomi perché «l' annunciato rifiuto dei provvedimenti da parte di alcuni destinatari ha determinato una situazione di confusione e disagio ulteriori». Alcuni non vorrebbero andare via, insomma. Così la comunità precisa che il fondatore, due confratelli e una consorella, «Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi» dovranno «separarsi» da Bose e «trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti». La comunità parla di «una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l' esercizio dell' autorità del fondatore e il clima fraterno». Dice che era necessario «superare gravi disagi e incomprensioni» che «potrebbero indebolire o addirittura annullare» il ruolo di Bose. Nelle diocesi, quando un vescovo va in pensione si fa da parte. Solo che qui si tratta del fondatore: una decisione difficile e traumatica, considerato lo spessore di Enzo Bianchi, del quale peraltro papa Francesco ha sempre avuto grande stima. A dicembre, saputo dell' ispezione, la comunità aveva scritto: «I fratelli e le sorelle di Bose esprimono sincera gratitudine al Santo Padre Francesco per questo segno di vicinanza e di sollecitudine paterna, e accolgono con gioia questa opportunità preziosa di ascolto e di dialogo». La nascita di Bose viene fatta risalire alla fine del 1965, alla conclusione del Concilio Vaticano II, quando Enzo Bianchi decise di andare ad abitare in quella frazione abbandonata del comune di Magnano, sulla Serra di Ivrea, con l' intenzione di dare inizio a una comunità monastica ispirata ai cristiani dei primi secoli, impegnata del dialogo ecumenico e aperta a tutte le confessioni e quindi anche alle donne. Oggi è composta da circa novanta membri, tra fratelli e sorelle, di sei nazionalità, quasi tutti laici.

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2020. Chi gli è vicino parla della sua «grande amarezza». È dura accettare di essere mandato via così, dopo tutto questo tempo. La data di nascita simbolica è l' 8 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio. Di certo fu alla fine dell' anno che quel giovane ventiduenne della Fuci, dopo la laurea in Economia, decise di rinunciare alla carriera universitaria e ritirarsi, da solo, in una cascina abbandonata di Bose, una frazione del comune di Magnano, nel biellese. Fratel Enzo Bianchi non ha mai voluto diventare sacerdote, «volevo restare un semplice cristiano, laico come lo sono i monaci. Ho voluto seguire questa via controcorrente perché il monachesimo è tutto "clericalizzato" e oggi resta essenzialmente seguito da monaci-preti. Ma io volevo tornasse alle origini». Molti magari non sanno che erano monaci laici anche San Pacomio, monaco egiziano vissuto tra il III e IV secolo nonché fondatore del cenobitismo, il padre del monachesimo occidentale San Benedetto e pure San Francesco d' Assisi. Enzo Bianchi voleva risalire alle radici del cristianesimo, alla Chiesa indivisa che non conosceva separazioni tra cattolici, ortodossi e protestanti, e aperta alle donne: «A partire dai primi secoli vi sono stati uomini e donne, chiamati ben presto monaci, che hanno abbandonato tutto per tentare di vivere radicalmente l' evangelo nel celibato e riuniti in comunità». I primi «fratelli e sorelle» lo raggiunsero tre anni più tardi nel '68, e lì Bianchi scrisse la «regola» sull' esempio benedettino. Una vita di preghiera e lavoro - frutteto e orto, atelier di ceramica e di icone, la falegnameria, una casa editrice - scandita dagli uffici quotidiani e dalla lectio divina, il dialogo ecumenico. Non è stato facile. Ci volle un intervento del cardinale Michele Pellegrino per superare l' «interdetto» del vescovo di Biella, nel '67. «All' inizio, un ragazzo che si mette a vivere insieme con altri, in campagna, che fa una Liturgia delle Ore già da subito, destava dei sospetti soprattutto perché uno di noi era protestante», raccontava. L' amaro paradosso è che con Francesco pareva tutto superato, finalmente. «Noi abbiamo bisogno di questo cristianesimo semplice, quello che ci ha insegnato Gesù». L'ultimo messaggio che ha lasciato su Twitter, due giorni fa, suona amaro: «Ciò che è decisivo per determinare il valore di una vita non è la quantità di cose che abbiamo realizzato ma l' amore che abbiamo vissuto in ciascuna delle nostre azioni: anche quando le cose che abbiamo realizzato finiranno l' amore resterà come loro traccia indelebile».

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2020. «In quanto fondatore, oltre tre anni fa ho dato liberamente le dimissioni da priore, ma comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema. Mai però ho contestato con parole e fatti l' autorità del legittimo priore, Luciano Manicardi». Dopo un giorno di silenzio, Enzo Bianchi affida a un comunicato il tentativo di ricomporre una situazione che ha portato la Santa Sede a disporne, con un decreto approvato dal Papa, l' allontanamento della Comunità di Bose, da lui fondata alla fine del 1965. «Temporaneamente», scrive, come a dire che non tutto è finito: «Io, fra' Enzo Bianchi, il fondatore, suor Antonella Casiraghi, già sorella responsabile generale, fra' Lino Breda, segretario della comunità, e fra' Goffredo Boselli, responsabile della liturgia, siamo stati invitati a lasciare temporaneamente la comunità e ad andare a vivere altrove». Enzo Bianchi ricorda che il suo successore è stato «un mio collaboratore stretto per più di vent' anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità» e «ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità». E fa capire di voler sapere che cosa, di preciso, gli si contesti: «In questa situazione, per me come per tutti, molto dolorosa, chiedo che la Santa Sede ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto». Il decreto di allontanamento era motivato da «una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l' esercizio dell' autorità del fondatore e il clima fraterno». Bianchi replica: «Invano, a chi ci ha consegnato il decreto, abbiamo chiesto che ci fosse permesso di conoscere le prove delle nostre mancanze e di poterci difendere da false accuse». Ma aggiunge: «In questi due ultimi anni, durante i quali volutamente sono stato più assente che presente in comunità, soprattutto vivendo nel mio eremo, ho sofferto di non poter più dare il mio legittimo contributo come fondatore». Senza però contestare l' autorità del nuovo priore, chiarisce: «Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia. Nella sofferenza e nella prova abbiamo altresì chiesto e chiediamo che la comunità sia aiutata in un cammino di riconciliazione». Così il fondatore di Bose conclude: «Ringrazio dal profondo del cuore i tanti fratelli e sorelle di Bose che in queste ore di grande dolore mi sostengono e le tante persone che mi e ci hanno attestato la loro umana vicinanza e il loro affetto sincero». E, «nella tristezza più profonda», assicura di essere «sempre obbediente, nella giustizia e nella verità, alla volontà di papa Francesco, per il quale nutro amore e devozione filiale».

DAGOREPORT il 30 maggio 2020. Secondo la mitologia catto-progressista, la comunità di Bose è nata l’8 dicembre del 1965, il giorno in cui Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II indossando per la prima volta paramenti vescovili e non pontificali, con il pastorale in mano come un qualunque vescovo, sul sagrato della Basilica di San Pietro, con l’altare rivolto verso i fedeli. Da quel fatidico giorno il fondatore di Bose Enzo Bianchi, e fino al 2017 unico “priore” della comunità, è riuscito nel non far capire a nessuno cosa avesse nella testa. Il mantra ufficiale era: siamo una forma di vita monastica. Anzi, un forma di comunità perfetta, fatta apposta per piacere a tutti, anche ai fighetti di sinistra del Belpaese: niente separazione e piena uguaglianza tra uomini e donne, niente divisione tra confessioni cristiane, infatti, ne fanno parte cattolici, protestanti, ortodossi e luterani, niente divisione tra laici e preti perché nella comunità sono anch’essi uguali. Ma proprio di “comunità di vita monastica” si trattava? Bianchi non è prete, si è fatto monaco e priore da sé, si è inventato una “regola di vita” mai approvata da alcuna autorità ecclesiastica perché prevede la convivenza di monaci e di monache. Inoltre accetta cristiani di varie confessioni cristiane comprese quelle che in teoria, come i luterani e i calvinisti, della teologia cattolica su monaci, monache e monasteri ci vomitano volentieri addosso. Forse anche per questo, a Bose seguivano leggi e liturgie (intoccabili per il resto del mondo cattolico) mischiate elegantemente con tutto quello che il pensiero dominante imponeva lungo i decenni. Contrariamente a tutti i monaci e le monache del mondo cattolico, vanno a messa una volta a settimana. Il loro calendario è ecumenico, e le feste e i santi cattolici fanno fatica a fare capolino: quelle della Madonna quasi non appaiono, del Sacro Cuore e Corpus Domini neanche a parlarne. Però vengono inserite e pompate molte feste protestanti e ortodosse. E non solo: Gandhi viene venerato il 30 gennaio come “giusto tra le genti”, David Livingstone il 30 aprile e Martin Lutero il 18 febbraio. Poi recitano preghiere di ringraziamento anche per Buddha, venerato il 27 novembre, ma anche per Visnù, Shiva e Maometto. Niente di strano se la pancia cattolica sulle teorie di Bianchi sulla Madonna, Eucarestia e cose simili inondano la rete con una valanga di perplessità.  Mentre i più colti hanno sommerso gli uffici dottrinali e disciplinari della Dottrina della Fede, e le denunce avrebbero subito un’impennata feroce durante gli anni di Benedetto XVI. Quindi, in altre parole, da quando esiste, Bianchi e i suoi hanno fatto di tutto per guadagnarsi l’appellativo che il Vescovo di Vercelli dell’epoca Albino Mensa aveva affibbiato a Bose: «casa di tolleranza religiosa». Cosa sia, realmente, nella Chiesa Cattolica la Comunità di Bose non è mai stato facile comprendere. Anzi, i molti malpensanti che inondano la rete sono addirittura convinti che del qualificativo “cattolico” a Bose facciano volentieri a meno sia il fondatore sia la novantina di seguaci, uomini e donne che sembravano accompagnarlo in questa avventura. Sembravano, perché ormai tutti sanno che benché si attribuissero volentieri il titolo di fratello e sorella, in mezzo a loro i serpenti e i coltelli stavano strisciando e volteggiando da anni. Nel 2014 Enzo Bianchi (allora priore) aveva già chiesto una visita da parte di persone esterne alla comunità e nel 2011 aveva dichiarato al settimanale Jesus: “Negli ultimi anni ho avuto l’esperienza della falsità, qui al nostro interno, non verso di me in particolare, ma verso tutta la comunità. Non pensavo di poter vivere, passati i sessant'anni, una tale destabilizzazione interiore da restare in alcuni momenti profondamente confuso. Non avevo mai provato questa esperienza: la cattiveria sì, la si può capire, ma la falsità non è nel mio orizzonte. È stata la prova più dura che ho sofferto nella mia vita nella Chiesa e nella vita monastica”.  Ora, per subire la mazzata che ha ricevuto, quale altra cattiveria gli hanno fatto? Si tratta dei soliti abusi?

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 maggio 2020. Cinquantacinque anni dopo averla fondata, Enzo Bianchi deve fare le valigie e lasciare la Comunità monastica di Bose. Per ordine del Vaticano, con un decreto firmato dal segretario di Stato il cardinale Pietro Parolin. E con l' avallo, sofferto, del Papa. Dalla Santa Sede arriverà un delegato pontificio, «con pieni poteri». Non è un fulmine a ciel sereno, però, perché da tempo venti di burrasca hanno oscurato l' orizzonte del monastero nel biellese simbolo di ecumenismo e dialogo tra cristiani. La tempesta si è abbattuta dopo una lunga a approfondita ispezione di tre inviati del Pontefice, padre Guillermo León Arboleda Tamayo, padre Amedeo Cencini e madre Anne-Emmanuelle Devêche, che hanno alloggiato nelle celle di Bose dal 6 dicembre al 6 gennaio scorsi. I tre «visitatori apostolici» hanno appurato che «gravi problemi» minano «l' esercizio dell' autorità interna». E lo hanno scritto nella loro relazione consegnata alle autorità vaticane. Fuori dall'ecclesiale: Bianchi «deve separarsi dalla Comunità» perché dopo essersi dimesso, nel gennaio 2017, ha continuato a imporre la sua autorità di fondatore, mettendo in difficoltà il suo successore, il priore fratel Luciano Manicardi. Con Bianchi devono andarsene i suoi fedelissimi fratel Goffredo Boselli, fratel Lino Breda e suor Antonella Casiraghi. Tutti decadono dai loro incarichi, come conferma una nota di Bose. «Non ha saputo fare davvero un passo indietro, e neanche di lato», è l' accusa mossa da decine di confratelli, che hanno «testimoniato liberamente». Le questioni sono esclusivamente confinate alle «mura» del monastero dunque, e riguardano la gestione del comando e dell' amministrazione. Altro che clima fraterno tra «fratelli e sorelle», monaci e monache da anni sarebbero «spaccati da correnti, invidie e lotte di governo». Complicate dalla celebrità del fondatore, considerato «eretico» da gran parte della galassia cattolica ultraconservatrice, ma allo stesso tempo seguitissimo punto di riferimento spirituale oltre che letterario. Da Oltretevere arriverà anche un delegato pontificio, lo stesso Cencini, che avrà il compito di supervisionare questa fase di transizione così travagliata e fare in modo che Manicardi possa guidare liberamente e senza interferenze la Comunità. «Finalmente», sospirano in molti. La prima sfida è superare i grandi «disagi e incomprensioni». Ma anche le forti resistenze dello stesso Bianchi, che secondo fonti di Bose non ha accettato lo strappo e vuole proseguire nella sua dimora perlomeno studi e lavori di scrittura, spesso diventati libri ai primi posti delle classifiche editoriali. Oltretevere fanno notare che già nel 2014 c' era stata una visita apostolica con rappresentanti del Vaticano, «e già allora la richiesta di un controllo era arrivata dalla stessa Comunità con il consenso di fratel Enzo Bianchi». Sarebbe il segno che da almeno sette anni è «tesa e problematica la situazione nella nostra Comunità per quanto riguarda l' esercizio dell' autorità del Fondatore». Bianchi, 77 anni, dopo gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio dell' Università di Torino, si è trasferito a Bose, una frazione del Comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l' intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Nel 1968 lo seguono e raggiungono i primi fratelli e sorelle futuri monaci, che oggi sono un' ottantina di cinque diverse nazionalità. I suoi 60mila follower hanno notato due tweet eloquenti di queste ultime ore. «Ciò che è decisivo per determinare il valore di una vita non è la quantità di cose che abbiamo realizzato ma l' amore che abbiamo vissuto in ciascuna delle nostre azioni: anche quando le cose che abbiamo realizzato finiranno l' amore resterà come loro traccia indelebile». Ma soprattutto il più duro: «Quando giunge il fallimento, la sconfitta, non rinunciare mai alla verità, perché anche nell' umiliazione la verità va glorificata: solo se ferisce la carità la verità può essere celata, e maledetto sia colui per il quale la verità va detta senza pensare alla carità fraterna». Quel «maledetto» non suona propriamente come una resa. Né rassegnazione.

Monastero di Bose, il retroscena sulla cacciata di Enzo Bianchi. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Che accade a Bose? La comunità monastica fondata da Enzo Bianchi, a quanto pare, è capofila nella teologia ecumenica e nel dialogo tra le religioni, ma naufraga nel dialogo interpersonale. Uno dei risultati/esperimenti più interessanti del dopo Concilio Vaticano II, è «esploso» all’attenzione dei media. Motivo: il comunicato reso noto sul sito monasterodibose.it in cui si parla di un decreto, firmato il 13 maggio dal segretario di Stato, cardinale Parolin e approvato in forma specifica da papa Francesco. Enzo Bianchi, fondatore nel lontano 1965, due monaci e una monaca dovranno abbandonare Bose e trasferirsi altrove. Il testo è stato letto e presentato ai diretti interessati il 26 maggio. Il decreto segue una «visita canonica», motivata da «certi aspetti problematici per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno» nella comunità oggi guidata dal monaco Luciano Manicardi dopo le dimissioni di Bianchi nel 2017. Ancora un tassello: l’ex priore Enzo Bianchi, in una nota, si è appellato alla Santa Sede «perché ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia». Ma in realtà Roma locuta, Roma ha già parlato. E «qualcosa» è stato davvero fatto, a quanto pare. Finita la causa, vale la pena di “guardare dentro” la situazione. Una tipica situazione ecclesiale a metà tra grandi ideali e impegni a livello mondiale e la pochezza tipica delle rivalità e gelosie. Umano, troppo umano, dunque. La comunità di Bose è peculiare: «monastica» ma non riconosciuta nell’Ordo monasticum; non ha quindi le forme giuridiche e amministrative classiche delle abbazie, né il sistema di pesi e contrappesi comuni ai monasteri. In secondo luogo, è una comunità laica: né Bianchi né gli altri monaci interessati alle disposizioni sono parte del clero e la comunità non fa riferimento al dicastero dei religiosi. L’intervento vaticano è “atipico” perché non avrebbe giurisdizione diretta e proprio per questo si comprende la gravità della situazione, tolta dal controllo del vescovo locale, al quale poteva andare “per competenza” territoriale. C’è poi un problema comune alle esperienze del dopo Concilio Vaticano II, destinato ad acuirsi nell’immediato futuro. Dopo il Concilio sono nati molti movimenti e forme associative: Focolarini, Sant’Egidio, Neocatecumenali e tanti altri, giuridicamente riconosciuti dalla Chiesa. A differenza degli Ordini e Congregazioni religiose più antiche, questi sono attesi alla prova del cosa accade dopo che il “Fondatore” si fa da parte o muore. La seconda generazione saprà reggere oppure no? Le regole di vita saranno abbastanza solide? È la chiave di volta decisiva per dire se un’esperienza ecclesiale ha un futuro oppure è destinata a finire presto. I Legionari di Cristo, ad esempio, sono stati capaci di rinnovarsi dopo gli scandali che hanno travolto il loro fondatore Maciel, i cui abusi di potere (e sessuali) hanno rischiato di travolgere tutto l’istituto. Ma quando il “fondatore” è ancora in vita e si fa da parte, che cosa accade? È ancora un fatto nuovo, poco regolato. E i problemi eccoli qui. Le procedure chiare ci sono per i vescovi: quando uno va in pensione si ritira altrove per non interferire con il successore. Nelle congregazioni religiose le procedure sono consolidate: un superiore generale termina l’incarico e si trasferisce continuando nel suo lavoro apostolico senza problemi. Il caso di Bose vede il “fondatore” lì, mettendo alla prova la capacità di riuscire ad andare d’accordo accettando un ruolo di secondo piano e – fatto delicatissimo – lasciando che la “creatura” da lui fondata affronti la prova della maturità e decida come e cosa fare in futuro. A Bose ci si è incagliati nelle diatribe, come lasciano trasparire gli scarni comunicati. E non si tratta di “complottismi” (siccome Bose e Bianchi sono cari a papa Francesco, “commissariare” è un attacco al Papa). Si tratta proprio di incapacità a gestire i rapporti interpersonali. Non a caso è la nota dolente della Chiesa che stenta ad accettare una realtà interpersonale che è anche fatta di gelosie, rancori, rivalità, carrierismi. Una Chiesa in cui la formazione teologica del clero è di buona qualità ma la dimensione umana e la capacità gestionale-relazionale sono carenti. Del resto alla Chiesa non serve il “consenso”: lo Spirito Santo basta e avanza per tutti. Salvo scoprire che nella realtà i rapporti non vanno proprio così e la tentazione del potere e della prevaricazione è sempre forte. Lo si diceva per gli abusi: i “colpevoli” approfittano del loro “potere sacro” per soggiogare i minori. È un tema bollente, non analizzato ancora abbastanza. Gli psicologi sanno bene che il conflitto è una “chiave” per comprendere il clima relazionale e le dinamiche presenti tra le persone. Temi poco abituali nel mondo cattolico che preferisce un’immagine idealizzata (una grande e buona “famiglia” unita dal compito di annunciare il Vangelo) ed è poco incline ad analizzare le difficoltà delle interazioni. Nelle organizzazioni (si pensi alle analisi di M. Kets de Vries e D. Miller, pubblicate in italiano da Cortina Editore) si presentano di frequente situazioni di doppio legame per stroncare i tentativi di creare fiducia reciproca. Si provoca ira, si soffocano conflitti, si incoraggia un’atmosfera di falso consenso. È il caso del sacerdote che decide tutto da solo o al massimo con un piccolo gruppo che gestisce attività e sceglie le persone in base a criteri poco trasparenti. E nella Chiesa? Papa Francesco dall’inizio del pontificato ha ripetutamente stigmatizzato “pettegolezzo” e “chiacchiericcio”. Nel 2014 a cardinali e vescovi della Curia romana aveva descritto 15 tipi di “malattie”: dal carrierismo al desiderio di potere, dall’approfittarsi degli altri al sentirsi immortali, fino alla «schizofrenia esistenziale» di chi vive una doppia vita «frutto – disse – dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare». Il rimedio? Pregare e cambiare. Certo, ma in concreto come si esce dalle «secche» di rapporti interpersonali bloccati? La soluzione a Bose è esemplare: allontanare alcuni per lasciar lavorare gli altri. Del resto la problematica è antica: le divisioni sono già state raccontate da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: «Non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, E io di Cefa, E io di Cristo!». Come se ne esce?. Sappiamo che nelle strutture religiose, come altrove, si litiga e ci si accapiglia per il prestigio e per il potere. Tanto vale ammetterlo e non ammantarlo di religiosità, trovando strumenti per affrontare i dissidi in maniera intelligente e matura. Magari andrebbe superata ogni sospetto tra psicologia e teologia. La teologia potrebbe utilizzare ad esempio la teoria di derivazione junghiana dei «Tipi» per comprendere le «differenze individuali» e contribuire a rendere la Chiesa (e forse il mondo) un luogo dove le persone litighino di meno e lavorino di più per il bene dell’umanità.

Andrea Cionci per liberoquotidiano.it 11 febbraio 2020. Che la cronaca riporti presepi oltraggiati o crocifissi rimossi, sempre più spesso si levano voci in difesa della nostra tradizione cristiano-cattolica. Sì, ma quale? Quella secondo cui Cristo è Figlio di Dio, la Madonna è vergine, Dio è buono - ma anche giusto - e perdona i peccati solo a condizione di pentirsi? Se siete cattolici, preparatevi a un duro corso di aggiornamento: non è vero nulla di tutto ciò e i Concili, da quello di Nicea del 325, fino al Vaticano II del 1962, hanno finora dichiarato scempiaggini. Questo, almeno, è quello che afferma il monaco laico Enzo Bianchi, "il teologo di papa Francesco", ispiratore del suo pontificato tanto che nel 2018 ha predicato i suoi insegnamenti al Ritiro mondiale per i preti ad Ars. Nato nel '43 in provincia di Asti, si laurea in Economia. Folgorato sulla via di qualcosa, abbandona il futuro da commercialista e, in pieno '68, fonda nel borgo di Bose (Ivrea) una comunità monastica non cattolica per religiosi ambosessi, di vari paesi e chiese cristiane. Per tale ecumenismo, la sua carriera decolla con Woityla e poi con Ratzinger sotto il cui pontificato, nel 2007, tira fuori una prima "bomba" subito rilanciata da Repubblica in cui sostiene che la Madonna non fu davvero vergine e madre (come da dogma cattolico) poiché già altre divinità come la assiro-babilonese Astarte, o la greca Artemide erano considerate tali. I cattolici avrebbero mutuato la leggenda dai culti pagani. Invece di interpretare - da cattolico - quelle credenze pagane come intuizioni di ciò che sarebbe stato rivelato da Cristo, Bianchi fa un percorso inverso prendendo qui e là dalla Scrittura ciò che è funzionale alle sue tesi e trascurando il resto. Come quando ricorda la misericordia di Gesù verso l' adultera omettendo di citare, tuttavia, il divino ammonimento: «Và, e non peccare più». Non stupisce quindi che, il priore di Bose intervistato da Gad Lerner, abbia dichiarato: «Gesù è nato uomo, completamente uomo. Chi lo deifica sulla terra sbaglia, lo deifica troppo presto». Del suo parere sembra lo stesso Bergoglio, che il 17 gennaio (come riporta Vatican News), durante l' omelia, ha detto che Gesù era «un uomo di Dio». Non "Suo Figlio", dunque? Saremmo in contrasto con quanto affermato per 2000 anni dal Cattolicesimo. Secondo Bianchi, Cristo, partorito normalmente da una donna come tutte, non era affatto «Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del Padre», ma una specie di santone che, per aver annunciato una misericordia elargita da Dio a piene mani, senza "meritocrazia", sarebbe finito in croce suo malgrado. Come se non bastasse, tre giorni fa, in un tweet, Bianchi ha dichiarato che dopo la morte «ce ne andiamo per sempre». Il leghista cattolico Pillon ha subito polemizzato: «Ma Cristo non aveva vinto la morte?». Opinioni rispettabili, per carità, ma per il Cattolicesimo - di cui Bianchi dovrebbe essere garante - si tratta di agghiaccianti eresie. Ma oggi nessuno osa fermare Bianchi , vista l' aria che tira, (si pensi alla povera vigna di Ratzinger). Così, il priore di Bose, invitato da vescovi ossequiosi, tiene ovunque conferenze e seminari spandendo le sue idee che proliferano nell' humus del misericordismo papale. Qualcuno ha paragonato la sua contro-teologia a un cancro che sta divorando la Chiesa cattolica. Come esplicita Scalfari - suo grande sponsor - Enzo Bianchi, insieme a Bergoglio, ha iniziato a demolire la Chiesa come depositaria della verità rivelata da Cristo, per trasformarla in una Ong, in uno dei tanti movimenti che contribuiscono al "nuovo ordine mondiale", mirando all' annullamento delle differenze tra le religioni e infine a quello della religione stessa. Sconcertante come un simile scenario ricordi non solo le profezie della beata Khatarina Emmerick, ma lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica che, all' articolo 675 cita: «Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti: un' impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell' apostasia (il rifiuto della verità)».

Enzo Bianchi rompe il silenzio: "Santa Sede ci aiuti. Mai ho contestato il legittimo priore". Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Paolo Rodari su La Repubblica.it Con una nota il fondatore di Bose prova a ricucire i rapporti all'interno della comunità monastica. Enzo Bianchi rompe il silenzio. E, come prevedibile, prova a ricucire con la comunità monastica di Bose da lui fondata, nell’estremo tentativo di superare le divisioni interne e rendere così irrilevante il decreto della segreteria di Stato vaticana che ha previsto - "temporaneamente", spiega lui stesso - il suo allontanamento. Le parole di questa sera dicono che una parte della vicenda deve ancora essere scritta, non tutto sembra essere definitivo. Bianchi dice di non avere mai contestato la “legittima autorità” dell’attuale priore Manicardi. E si appella alla Santa Sede poiché “invano, a chi ci ha consegnato il decreto abbiamo chiesto che ci fosse permesso di conoscere le prove delle nostre mancanze e di poterci difendere da false accuse”. E ancora: “Nella tristezza più profonda, sempre obbediente, nella giustizia e nella verità, alla volontà di papa Francesco, per il quale nutro amore e devozione finale”. In una nota Bianchi ricorda che “la visita apostolica condotta da tre visitatori ha avuto nei giorni scorsi il suo esito e le sue conclusioni”. “Io, fra Enzo Bianchi, il fondatore, suor Antonella Casiraghi, già sorella responsabile generale, fra Lino Breda, segretario della comunità, e fra Goffredo Boselli, responsabile della liturgia – dice –, siamo stati invitati a lasciare temporaneamente la comunità e ad andare a vivere altrove”. “In questi due ultimi anni, durante i quali volutamente sono stato più assente che presente in comunità, soprattutto vivendo nel mio eremo, ho sofferto di non poter più dare il mio legittimo contributo come fondatore. In quanto fondatore, oltre tre anni fa ho dato liberamente le dimissioni da priore, ma comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema. Mai però ho contestato con parole e fatti l'autorità del legittimo priore, Luciano Manicardi, un mio collaboratore stretto per più di vent'anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità, che ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità”. Per questo Bianchi invoca l'aiuto della Santa Sede: “In questa situazione, per me come per tutti, molto dolorosa, chiedo che la Santa Sede ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia. Nella sofferenza e nella prova abbiamo altresì chiesto e chiediamo che la comunità sia aiutata in un cammino di riconciliazione. Ringrazio dal profondo del cuore i tanti fratelli e sorelle di Bose che in queste ore di grande dolore mi sostengono e le tante persone che mi e ci hanno attestato la loro umana vicinanza e il loro affetto sincero”.

Papa: «Scandali finanziari sono inconciliabili  con la natura della Chiesa». Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Gian Guido vecchi. L’espressione chiave è «al di là della eventuale illiceità». Papa Francesco inaugura il 91° Anno giudiziario del Tribunale vaticano, si rivolge a magistrati e avvocati e spiega che i controlli interni «hanno recentemente portato alla luce situazioni finanziarie sospette» che «mal si conciliano con la natura e le finalità della Chiesa e hanno generato disorientamento e inquietudine nella comunità dei fedeli». E tutto questo, appunto, «al di là della eventuale illiceità», perché «si tratta di vicende all’attenzione della magistratura» che «devono essere ancora chiarite nei profili di rilevanza penale: su di esse perciò non ci si può pronunciare in questa fase». Il riferimento ovvio è alla vicenda del Palazzo londinese al 60 di Sloane Avenue, un investimento speculativo da 200 milioni di dollari nella zona più prestigiosa della capitale inglese. Francesco ne aveva parlato anche di ritorno dal viaggio in Giappone, a fine novembre, in risposta alle domande dei giornalisti. E aveva spiegato che di per sé non è un male investire le somme dell’obolo di San Pietro, perché «non è una buona amministrazione» mettere «i soldi nel cassetto» ed è giusto cercare un buon investimento: «Da noi si dice un investimento da vedove, due qua, tre là, se cade uno c’è l’altro, in modo che non si rovini e sia sempre sicuro e morale». Ma il punto è questo: «Se tu fai un investimento e per anni senza toccare il capitale non va, l’obolo si deve spendere in un anno, un anno e mezzo, fino a che arriva l’altra colletta che si fa mondialmente e questa è buona amministrazione, sul sicuro. E si può anche comprare una proprietà, affittarla e poi venderla, ma sul sicuro con tutte le sicurezze per il bene delle gente e dell’obolo». Niente speculazioni di lungo periodo, insomma. Più volte Francesco ha ammonito che «i soldi non si fanno con i soldi ma con il lavoro» e la Chiesa per prima deve essere coerente con ciò che dice. Le indagini sono in corso, ma intanto Francesco ha già cambiato i vertici dell’Autorità di informazione finanziaria. Il presidente René Brüelhart ha lasciato l’incarico alla scadenza del mandato e al suo posto è stato nominato, a fine novembre, Carmelo Barbagallo. Nel frattempo aveva nominato anche un nuovo Prefetto della Segreteria per l’Economia, una carica vacante da mesi dopo le dimissioni del cardinale George Pell, finito sotto processo un Australia per abusi su minori e coperture: ora al vertice dell’economia vaticana c’è un confratello di Bergoglio, il gesuita spagnolo Juan Antonio Guerrero Alves, 60 anni, consigliere generale della Compagnia di Gesù. Il lato positivo, in tutto questo, è che «i meccanismi interni che Papa Benedetto aveva iniziato, cominciano a funzionare», aveva spiegato Francesco a novembre: «Di questo io ringrazio Dio, non che ci sia la corruzione, ma che il sistema di controllo vaticano funzioni bene». Ora ripete ai magistrati: «Proprio in questo caso, le prime segnalazioni sono partite da Autorità interne del Vaticano, attive, sia pure con differenti competenze, nei settori della economia e finanza. Questo dimostra l’efficacia e l’efficienza delle azioni di contrasto, così come richiesto dagli standard internazionali». La legislazione vaticana ha registrato nell’ultimo decennio «significative riforme rispetto al passato», spiega il Papa: «La Santa Sede ha avviato un processo di conformazione della propria legislazione alle norme del diritto internazionale e, sul piano operativo, si è impegnata in modo particolare a contrastare l’illegalità nel settore della finanza a livello internazionale». Lo scopo principale delle riforme «va inserito all’interno della missione della Chiesa, anzi fa parte integrante ed essenziale della sua attività ministeriale: ciò spiega il fatto che la Santa Sede si adoperi per condividere gli sforzi della comunità internazionale per la costruzione di una convivenza, giusta ed onesta, e soprattutto attenta alle condizioni dei più disagiati e degli esclusi, privati di beni essenziali, spesso calpestati nella loro dignità umana e ritenuti invisibili e scartati».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 19 febbraio 2020. La perquisizione anche stavolta è stata autorizzata dal Pontefice esattamente come aveva fatto per i 5 impiegati finiti alla gogna ad ottobre. «Il provvedimento, assunto nell'ambito dell'inchiesta sugli investimenti finanziari e nel settore immobiliare della Segreteria di Stato, e da ricollegarsi, pur nel rispetto del principio della presunzione di innocenza, a quanto emerso dai primi interrogatori dei funzionari indagati e a suo tempo sospesi dal servizio» ha informato il Vaticano. Ieri mattina monsignor Alberto Perlasca, un prete comasco molto schivo e di poche parole che vive a Santa Marta e che non ha mai ostentato stili di vita sopra le righe, ha consegnato tutto quello che aveva nelle mani dei gendarmi e gli hanno bloccato il conto allo Ior. Laureato in giurisprudenza alla Cattolica prima di farsi prete, ha diretto dai tempi di Papa Ratzinger l'ufficio nella Prima Sezione dove si effettuano investimenti e si controllano le rendite del tanto discusso Obolo di San Pietro e dei fondi di pertinenza della Segreteria, un tesoretto dell'ammontare di qualche centinaio di milioni di euro che serve allo Stato per il suo funzionamento. Da agosto Perlasca non lavora più lì. Da tempo voleva essere spostato e il Papa lo ha mandato a fare il giudice della Segnatura, una sorta di Corte Suprema, un luogo che ha spesso definito pieno di scartoffie. In realtà una specie di cimitero degli elefanti. L'ex capo amministrativo della Segreteria di Stato si può quindi considerare uno dei principali testimoni dei passaggi interni relativi all'acquisto dell'ormai famoso immobile londinese, un edificio sul quale è stato fatto un investimento definito dal Papa opaco ma che, a Brexit consumata, vale esattamente il triplo del suo valore, come ha affermato anche due giorni fa il cardinale Angelo Becciu, durante la presentazione di un libro sugli ultimi conclavi, scritto da Francesco Grana. «Oggi quell'immobile tutti ce lo invidiano». Man mano che l'inchiesta sull'edificio londinese si stringe, affiora parallelo un garbuglio istituzionale che conduce direttamente a Santa Marta. Forse è anche per questo che si cerca una composizione veloce per arrivare a definire il ruolo di alcuni personaggi esterni che, tra un passaggio e l'altro, avrebbero tratto benefici. Sicuramente il nodo che presenta maggiori ambiguità è quello che ha visto nel 2018 - l'ingresso nell'operazione di Londra Gianluigi Torzi, un broker molisano fino a quel momento sconosciuto in curia. Venne introdotto da un amico del pontefice, Giuseppe Maria Milanese, presidente di una cooperativa sanitaria, l'Osa. Milanese - in virtù della sua vicinanza al pontefice ebbe subito spalancate tante porte aperte. In pratica fu lui a presentare Torzi al funzionario della Segreteria di Stato, Tirabassi. In quel periodo il Vaticano stava cercando di trovare una soluzione alla uscita di Raffaele Mincione dopo i durissimi scontri per come questo finanziere d'assalto utilizzava le risorse con speculazioni non concordate (Carige, Retelit, Bpm). È a questo punto che Milanese propone come intermediario il broker molisano per l'acquisto del palazzo. Il suggerimento di fare entrare Torzi nella operazione non fu messo in discussione perché tutti sapevano che a proporlo era una persona di fiducia del Pontefice. Così Milanese accompagnò a Londra Torzi per una serie di riunioni, assieme all'avvocato Intendente della Ernst & Young. Fu redatta una bozza e nel 2018 venne firmato un accordo ma a questo punto cominciarono a non quadrare un po' di cose. Era sfavorevole al Vaticano, fu costretto a pagargli quasi 10 milioni di euro, altri 44 per liquidare il fondo e almeno 2 per consulenze. In Vaticano esisterebbero note vergate e autorizzate per ogni passaggio. Naturalmente il cardinale Parolin era a conoscenza di tutto tanto che su un paio di documenti lui stesso siglò a margine: «sembra una buona operazione». Meno male che poi è arrivata la Brexit a far salire la quotazione del palazzo.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Quale spettro agita i cuori sensibili del Vaticano? Un fatto passato in sordina e ricordato, en passant, nella scheda fornita dalla segreteria di Stato a gennaio, quando il pontefice ha ricevuto il corpo diplomatico per gli auguri di buon anno. Il 15 gennaio 2019, la Santa Sede ha aderito, a nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano, alla Convenzione del Consiglio d' Europa sul trasferimento delle persone condannate (21 marzo 1983), e al Protocollo addizionale alla Convenzione sul trasferimento dei condannati (18 dicembre 1997), e ha quindi ratificato il Protocollo di emendamento del Protocollo addizionale alla Convenzione sul trasferimento dei condannati (22 novembre 2017). Cosa comporta, lo si legge al numero 112 del trattato dove viene stabilito che, per favorire il reinserimento delle persone condannate alla prigione in uno degli Stati aderenti, uno straniero può scontare la pena nel Paese d' origine. Insomma, d' ora in poi quando i tribunali vaticani condanneranno qualcuno a pene detentive, da qualche parte si apriranno le patrie galere. Sinora nei processi relativi alle brutte vicende narrate dalla cronaca, le pene stabilite non hanno superato il livello simbolico; anche nel caso di Carlo Alberto Cappella, reo confesso di pedopornografia, condannato a cinque anni. Il Vaticano dispone solo di due celle, arredate con ottocenteschi tavolacci, al piano terra della palazzina dei penitenzieri, motivo per cui i maschi venivano, per così dire, trattenuti nel convento dei frati minori che officiano in San Pietro; e nel caso di una signora venne approntata una stanza nei locali del comando della gendarmeria. Ora al nuovo presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, non mancano gli strumenti. Sempre che sia lasciato libero di usarli.

(ANSA il 6 febbraio 2020) - E' stata confermata in Appello, con la formula "perché il fatto non sussiste", l'assoluzione dall'accusa di riciclaggio per Paolo Cipriani, ex direttore generale dello Ior, e Massimo Tulli, ex vicedirettore della banca Vaticana. La vicenda era legata a presunti illeciti legati alla movimentazione di 23 milioni, sequestrati nel 2010. Lo hanno deciso i giudici a Roma, che hanno anche dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione per le altre accuse, per le quali in primo grado erano stati condannati a quattro mesi (pena sospesa). Si trattava di tre episodi relativi all'omessa comunicazione di operazioni, per piccoli importi, alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt. Il processo aveva preso spunto dall'inchiesta che ha riguardato la violazione, da parte dello Ior, degli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio. La vicenda assunse grande rilievo quando, nel 2010, la procura di Roma ottenne il sequestro di 23 milioni frutto della richiesta dello Ior al Credito Artigiano di trasferimento di quella somma alla J.P. Morgan (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). "La sentenza riconosce la correttezza del comportamento del direttore Paolo Cipriani e del suo vice Massimo Tulli", è il commento dell'avvocato Luigi Chiappero, che ha difeso gli imputati insieme ai colleghi Franco Coppi e Massimo Ferrandino, alla pronuncia della Corte d'appello di Roma. Chiappero ribadisce che la dichiarazione di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione riguarda "solo tre contravvenzioni minori" e che per l'imputazione principale, legata alla movimentazione di 23 milioni, c'è stata assoluzione piena. Una "vicenda terribile", ora "possiamo ricominciare a vivere", commentano Paolo Cipriani e Massimo Tulli: "Non avevamo mai frequentato le aule dei tribunali ma dall'8 settembre 2010 ci siamo trovati catapultati in un vortice terribile con l'accusa più grave che potesse colpirci per il ruolo che rivestivamo: riciclaggio e mancata osservanza delle norme. Invece avevamo effettuato soltanto due regolari giroconto di 20 e 3 milioni di euro, poi sequestrati". Da quel giorno "ci sono stati costantemente vicini gli avvocati Michele Briamonte e Stefania Nubile dello Studio Grande Stevens e l'avvocato Luigi Chiappero. Gli dobbiamo la vita e il nostro pensiero va a loro che poi con gli avvocati Franco Coppi e Massimo Ferrandino hanno costituito il collegio di difesa. Allontanati dallo Ior e colpiti nella persona, oggi la sentenza lenisce le sofferenze e dice che possiamo ricominciare. A vivere e poi a lavorare". "Questa vicenda è stata anche professionalmente terribile - proseguono Cipriani e Tulli - per noi che siamo stati allontanati dai nostri ruoli in Vaticano che abbiamo sempre coperto con dedizione filiale e cristiana al Santo Padre Benedetto XVI e ai cardinali segretari di Stato che ci hanno sempre assicurato in questi anni il conforto della preghiera e vicinanza spirituale, anche con messaggi scritti nei momenti più difficili per noi".

Il Vaticano apra davvero le segrete stanze. Panorama un anno fa ha raccontato decine di casi di abusi e pedofilia nella Chiesa, che pare oggi aver cambiato atteggiamento. Ma serve una rivoluzione vera. Maurizio Belpietro il 30 dicembre 2019 su Panorama. Il Papa ha tolto il segreto di Stato (Vaticano) sui preti pedofili. D’ora in poi la magistratura italiana potrà chiedere di ottenere dalle diocesi i documenti riservati sulle denunce ricevute nei casi di molestia sessuale. Giornali e televisioni, di fronte all’annuncio della Santa sede, hanno parlato di una svolta epocale, perché fino a ieri gli abusi erano coperti da una spessa cappa di piombo. Anche molte delle associazioni di molestati hanno applaudito, sebbene con minor entusiasmo di certa stampa. Di fronte alle denunce, finora vescovi e alti prelati preferivano opporre il silenzio, qualche volta rimuovendo il sacerdote accusato di comportamenti inappropriati, altre semplicemente insabbiando i casi, come se non parlandone questi non fossero mai esistiti. Il risultato è che quasi sempre i pedofili in tonaca hanno potuto continuare indisturbati a comportarsi da predatori sessuali. Quando divenni direttore di Panorama, all’incirca un anno fa, scandalizzando qualche lettore, affidai ad Antonio Rossitto un’inchiesta sulla pedofilia nella Chiesa, raccontando spesso casi già passati in giudicato o comunque già oggetto di sentenza della magistratura. L’elenco era lungo e non di rado mi è capitato di leggere di sacerdoti ormai condannati che pure continuavano a esercitare nelle parrocchie d’Italia. Per la legge italiana erano colpevoli, ma per le diocesi no e infatti non erano stati ridotti allo stato laicale, ma potevano continuare a dire regolarmente messa come un normale parroco. Mi viene in mente il nome di «Don Lu», così lo chiamavano i parrocchiani. Primo grado, appello e Cassazione: per tre volte gli atti processuali furono concordi nel ritenere il prete ligure responsabile di violenza sessuale su una chierichetta, tanto da condannare il sacerdote a una pena di sette anni e otto mesi di carcere, oltre a 200 mila euro di risarcimento nei confronti della ragazzina, che all’epoca dei fatti aveva solo 11 anni. Tuttavia, quella sentenza inappellabile non fu ritenuta sufficiente dalla Chiesa, tanto che il tribunale ecclesiastico riabilitò «Don Lu», con l’incredibile decisione che «non consta che abbia commesso i delitti a lui ascritti». Un caso limite? Non proprio. Basti ricordare la vicenda che ebbe per protagonista don Giorgio Carli, un prete bolzanino. Nel 2003 una giovane parrocchiana lo accusò di molestie per un periodo di almeno cinque anni. La vicenda finì in tribunale e in primo grado il sacerdote fu assolto, poi in appello fu condannato a sette anni e mezzo, mentre quando si arrivò in Cassazione il procedimento fu dichiarato estinto per intervenuta prescrizione. Il caso avrebbe potuto avere strascichi civili, ma prima che arrivassero, don Giorgio trovò un accordo extragiudiziale con la vittima e, a spese anche della diocesi, pagò una cifra che secondo alcuni giornali fu di 760 mila euro, a causa anche dei danni biologici provocati alla giovane parrocchiana. Fin qui la cronaca di una faccenda scabrosa. Ma poi un inviato de La Stampa scoprì che il prete, lungi dall’essere stato allontanato dalla diocesi, era stato semplicemente spostato in un’altra parrocchia, ossia non più a Bolzano, ma a Vipiteno. Se racconto questi due casi non è per riesumare vicende che hanno provocato dolore e orrore, ma per dire che non basta aprire gli archivi vaticani e delle diocesi, serve un’opera di denuncia alla quale nei sacri palazzi non sembrano essere abituati.

Certo, è giusto consegnare alla magistratura i fascicoli sul tal sacerdote se il pm li richiede: la trasparenza innanzitutto. Ma forse, prima della collaborazione con le Procure, servirebbe un lavoro di pulizia che comporti anche la prevenzione. Per troppo tempo le lettere e le testimonianze di denuncia sono rimaste ferme nelle segrete stanze vescovili, consentendo dunque al pedofilo non solo di farla franca, ma di continuare la sua opera di corruzione dei giovani. Lo testimonia proprio il caso di «Don Lu». Una suora andò dal parroco a segnalare gli abusi sulla chierichetta, ma questi, dopo aver promesso di parlare al vescovo del comportamento del curato, la obbligò al silenzio. Un’omertà che ha consentito a «Don Lu» di celebrare messa come se gli abusi non ci fossero mai stati. Condannato dalla giustizia terrena, benedetto da quella vescovile.

La Chiesa dei potenti. Da Marcinkus ad oggi le finanze del Vaticano sono al centro di movimenti ed investimenti misteriosi, di certo non verso i bisognosi. Maurizio Belpietro il 16 dicembre 2019 su Panorama. È passato molto tempo, ma la fotografia di Paul Marcinkus che gioca a golf l’ho ancora impressa nella mente. Certo, non c’è nulla di male nel colpire una pallina cercando di mandarla in buca su campi lisci come un tavolo da biliardo. Ma l’immagine di un arcivescovo con in mano la mazza invece che la pisside nella mia mente non coincide con quella del pastore di anime. Veniva da Cicero, il sobborgo dove era nato Al Capone, e come il capo della mafia a un certo punto finì nel mirino della magistratura che, se lui non avesse goduto delle prerogative concesse a un uomo della Santa sede, probabilmente non avrebbe esitato ad arrestarlo. Marcinkus era il capo dello Ior, la banca vaticana coinvolta in mille traffici, e muovendosi come uno spregiudicato finanziere aveva intessuto affari con gente non molto raccomandabile. Gli agenti dell’Fbi indagarono a lungo su un giro di falsi titoli azionari acquistati dalla mafia, mentre quelli italiani cercarono di capire che ruolo avesse avuto l’arcivescovo nel crac del Banco Ambrosiano e nella sparizione del suo presidente, quel Roberto Calvi che poi fu ritrovato impiccato sotto il Ponte dei Frati neri a Londra. Se ricordo Marcinkus nonostante sia morto da parecchi anni è perché, sebbene diversi papi siano passati da allora, le finanze vaticane sembrano rimaste a quei tempi, vale a dire opache. Mi hanno molto colpito alcune notizie delle scorse settimane, a cominciare da una speculazione immobiliare nel centro di Londra. Con l’obolo di San Pietro, la Segreteria di Stato ha comprato un palazzo a Chelsea, investendo altri soldi in azioni Carige, Retelit e Tas. Operazioni ad alto rischio, anche perché condotte da finanzieri spregiudicati, che si sono concluse con una perdita secca. Centinaia di milioni gettati dalla finestra, attraverso scatole cinesi e fondi d’investimento, scorribande che hanno attirato l’attenzione della magistratura vaticana la quale, dopo aver ordinato perquisizioni nella Segreteria di Stato e negli uffici dell’Antiriciclaggio, ha individuato «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio», mentre i revisori della Santa sede hanno ipotizzato «gravissimi reati, quali l’appropriazione indebita, la corruzione e il favoreggiamento» a carico di cinque funzionari della Segreteria di Stato e dell’Autorità antiriciclaggio del Vaticano: quattro laici e un monsignore, poi sospesi dal servizio. Ma non c’è solo lo strano affare di Sloane Street, a Chelsea. Ne esiste uno altrettanto oscuro che ha per teatro un altro Paese dove è facile occultare i soldi. Parlo dell’investimento che il Vaticano ha realizzato in un fondo con base a La Valletta, sull’isola di Malta. In questo caso i capitali investiti non sono centinaia di milioni, ma decine, tuttavia il rischio pare lo stesso. Il Centurion Global Fund, fondo gestito da un italiano residente in Svizzera, un certo Enrico Crasso con un passato in Credit Suisse, ha investito i soldi del Papa in una serie di operazioni assai discutibili. Qualche esempio? Un milione è servito a finanziare la produzione di Rocketman, il film sulla vita di Elton John: non proprio un testimonial del messaggio evangelico. Oltre tre milioni sono stati dirottati alla produzione di un action film, occupandosi questa volta di alieni invece che di star. Sei milioni sono invece finiti nelle casse di Italia Indipendent, la società fondata da Lapo Elkann per produrre i suoi occhiali. Dieci milioni sono stati messi nella New Deal, comprando il 14 per cento di una finanziaria che ha in pancia l’11,7 per cento di Giochi Preziosi. L’elenco potrebbe continuare, passando dagli immobili alle start-up, per finire alle acque minerali, ma la sostanza non cambierebbe, perché la sensazione è che tra le tante operazioni non ci sia alcun collegamento, se non quello dell’opacità. Anche queste speculazioni, peraltro, hanno collezionato solo perdite. Certo, qui non c’è un banchiere che scappa con la cassa e viene trovato morto, né si parla di mafia o di altro. Ma il comune denominatore degli scandali finanziari degli anni Ottanta e di quelli di oggi è lo stesso. Soldi che dovrebbero servire per aiutare i poveri finiscono, grazie ad arcivescovi e cardinali che si improvvisano speculatori, nelle mani di ricchi finanzieri, che con l’obolo di San Pietro diventano ancora più ricchi. Bergoglio, quando fu eletto Papa, preferì le stanze di Santa Marta a quelle dorate della residenza ufficiale. Fu un messaggio di povertà, un invito a spogliarsi del superfluo. A distanza di sei anni non si può dire che il messaggio sia stato raccolto. Quasi quarant’anni fa Marcinkus si fece beccare con la mazza in mano. Oggi i cardinali si fanno cogliere con in mano la mazzetta. Dalla Chiesa dei poveri a quella dei potenti. Di Cristo neanche l’ombra.

Giuseppe Pietrobelli per ilfattoquotidiano.it il 15 gennaio 2020. Altro che accuse di essere un prete leghista. O preoccupazione per alcune prese di posizione sul tema dei migranti e della legittima difesa. Oppure per la partecipazione alle selezioni del Grande Fratello. È soltanto una vicenda di mancato rispetto dell’osservanza del celibato all’origine del trasferimento di don Marino Ruggero dalla parrocchia di San Lorenzo in Roncon di Albignasego, in provincia di Padova. Lo ha annunciato la curia, probabilmente indispettita dalle interviste concesse dall’ex parroco. Ma questo, anziché sopire il caso, rischia di ampliarlo. Perché don Marino reagisce a sua volta minacciando rivelazioni su preti pedofili o su aborti suggeriti da sacerdoti ad alcune donne che avevano messo incinta. Una bufera che imbarazza la diocesi e il vescovo Claudio Cipolla.

Partiamo dalla struttura ecclesiastica. “Si comunica che in data 13 gennaio 2020 è iniziato, su mandato del vescovo di Padova, il processo canonico nei confronti di don Marino Ruggero, presso il Tribunale ecclesiastico diocesano”. Insomma, il parroco è sul banco degli imputati. “A don Marino, alla luce di precise accuse avvalorate da prove, vengono contestati comportamenti non consoni allo stato clericale, inerenti agli impegni derivanti dall’obbligo del celibato per i preti”. Trovano così conferma le voci che circolavano ad Albignasego su frequentazioni personali del sacerdote, ma che l’interessato aveva respinto. La Curia confuta alcune dichiarazioni del prete che avevano alimentato il sospetto di una persecuzione immotivata. “Don Marino Ruggero – contrariamente a quanto finora egli stesso ha dichiarato pubblicamente – era a piena conoscenza dell’ambito delle accuse a lui rivolte, che hanno portato il vescovo a disporre un’indagine previa e successivamente al fermo invito a dimettersi spontaneamente, proprio per dargli la possibilità di difendersi nelle sedi adeguate (tribunale ecclesiastico), dalle accuse che gli sono state rivolte”. Una doccia fredda ad Albignasego dove un migliaio di fedeli hanno già firmato una petizione per chiedere che il sacerdote torni ad essere il loro parroco. Anzi, in un primo tempo, dalla curia era venuto l’annuncio di un trasferimento temporaneo e non definitivo. Probabilmente si trattava di una forma di cautela, visto che il processo è solo iniziato. Al momento la parrocchia è retta da don Giovanni Brusegan, direttore dell’Ufficio per l’Ecumenismo, che fu mandato dal vescovo anche a San Lazzaro, a Padova, tre anni fa, quando ci fu lo scandalo di don Andrea Contin, il prete che organizzava incontri a luce rosse, perfino con annunci sui giornali. La reazione di don Marino, intervistato da Il Gazzettino rischia di attizzare ancor di più il caso. “Se loro si comportano in modo così grave e scorretto nei miei confronti, allora io sono vendicativo. Non mi aspettavo assolutamente quel comunicato. Lo reputo un comportamento fortemente scorretto da parte della Curia. Secondo me è opera del vicario generale, può essere che il vescovo non sapesse nemmeno di questo comunicato”. Ma il processo? “Io sapevo di alcune accuse, certo, ma non c’è ancora niente di accertato. Mi pare vergognoso scrivere certe accuse quando non si sa ancora se siano vere o meno. Questo la Curia non avrebbe dovuto farlo. È solo una delle tante accuse che mi vengono fatte, dall’essere leghista in poi. Ci sono stati i provini al Grande Fratello, le mie posizioni sui Rom, le comunioni a separati e divorziati. Evidentemente sono considerato un prete scomodo e i preti scomodi vogliono eliminarli”.

Don Marino sfida la Curia. “Se questo è il metodo che usano, allora io inizio a fare l’elenco, con tanto di prove, di preti pedofili, gay o che hanno la donna che ha abortito, che sono a capo di grandi parrocchie della Diocesi di Padova. So bene chi sono e dove sono, ma i loro nomi non sono mai stati resi pubblici. Il trattamento deve essere uguale per tutti”.

Michela Nicolussi Moro per corriere.it il 15 gennaio 2020. Il caso di don Marino Ruggero è solo l’ultimo di una lunga serie che ha creato non pochi grattacapi alla Diocesi di Padova. Le prime storie venute allo scoperto, tra il 2004 e il 2007, furono quelle dei «preti innamorati», cioè don Federico Bollettin di Tencarola, don Fabiano Prevedello di Vigonza e don Sante Sguotti di Bagnoli, che hanno lasciato la tonaca per mettere su famiglia con le rispettive «fidanzate». Federico, uscito sua sponte dalla Chiesa inviando una lettera di dimissioni all’allora vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, nel 2004 si è sposato con Fidelia, una ragazza nigeriana conosciuta sulla strada. Nello stesso anno Fabiano rinunciò al ministero per Barbara, pediatra incontrata a Cittadella, dove lui era cappellano prima di passare a Cinto Euganeo come co-parroco.

Don Sante Sguotti. La coppia fu unita in matrimonio da don Giovanni Brusegan, per questo motivo richiamato da Mattiazzo e dopo qualche anno, ironia del destino, inviato nella parrocchia di Monterosso (Abano) per risolvere «il caso Sguotti». Don Sante Sguotti, prima sospeso a divinis da Mattiazzo, poi scomunicato e infine ridotto allo stato laicale, nel 2007 andò a convivere con Tamara Vecil, quarantenne sua parrocchiana, separata e madre di due figli, dalla quale ha avuto un bambino. Lui e Bollettin, oggi operai, hanno pubblicato un libro sulle rispettive storie d’amore, sui disagi del celibato e sugli altri problemi del clero.

Don Paolo Spoladore. Sollevò invece un polverone l’ex «don Rock» Paolo Spoladore, ora 59enne «esperto ricercatore e tecnico del sistema percettivo» che tiene «corsi di formazione interiore» pagati fino a 12mila euro da migliaia di persone, ma fino al 2015 parroco di San Lazzaro. «Donpa», come lo chiamavano i parrocchiani, scriveva libri e canzoni, teneva concerti e incontri. Fino al 1999, quando una psicologa cinquantenne lo indicò come il padre del proprio figlio di 9 anni. Il Tribunale del minori certificò la paternità con il test del Dna, mentre «don Rock» gestiva il suo business attraverso la società «Usiogape». Anche per lui la Chiesa ha disposto la dimissione dallo stato clericale.

Don Andrea Contin e gli altri. L’8 marzo 2018 è stato ridotto allo stato laicale pure il suo successore nella parrocchia di San Lazzaro, don Andrea Contin, denunciato da una fedele cinquantenne e madre di famiglia per minacce e lesioni aggravate anche dall’uso di coltello. L’indagine dei carabinieri scoprì che il sacerdote, oltre ad avere rapporti sessuali con la donna, conditi da sex toys e pratiche sadomaso, la costringeva ad averne con altri uomini, tra cui don Roberto Cavazzana, allora parroco di Carbonara di Rovolon. Lui, dopo un anno trascorso in una comunità religiosa, nel marzo 2019 è stato reintegrato nel servizio ministeriale dal vescovo Claudio Cipolla. Contin invece ha patteggiato un anno di reclusione (pena sospesa) e 11.500 euro di risarcimento alla parrocchiana che lo denunciò. E’ finito in Tribunale pure don Armando Rizzioli, ex parroco di Due Carrare accusato di atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minore, che il 4 novembre 2007, a 71 anni, patteggiò otto mesi. Il 19 luglio di quell’anno il sacerdote, in vacanza sul lago di Garda, girava in perizoma sulla spiaggia e fece autoerotismo davanti ad un bambino di 9 anni, il cui padre lo denunciò. Fu sospeso. Nei guai infine l’ex parroco di Pontecorvo, don Silvio Caoduro, che nel 2008 chiese in prestito ai fedeli 80 mila euro e non li restituì. La Diocesi s’impegnò a ridare i soldi ai creditori e «pensionò» l’anziano prete.

Presunti illeciti finanziari nella curia, il vescovo: tutto regolare. Tra i presunti illeciti anche il nuovo villaggio del fanciullo e la chisa di Santa Maria. Il vescovo Pisanello prende le distanze e chiarisce: tutto regolare. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 08 gennaio 2020. Ci sarebbero anche i lavori di ristrutturazione ed edificazione di due luoghi sacri manduriani nella lettera firmata da una sedicente “Associazione di volontariato dei martiri e perseguitati” che accusa il vescovo di Oria, Vincenzo Pisanello, di irregolarità nell’affidamento di tali lavori ad un’impresa della provincia di Lecce. Si tratta della ristrutturazione della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli per 400 mila euro e del rifacimento della chiesa di San Giovanni Bosco e dell’intero annesso villaggio del fanciullo per altri 8milioni di euro. La lettera di accuse che l’avvocato Franz Pesare ha depositato alla Procura della Repubblica di Brindisi allegandola ad una precedente querela, sempre contro lo stesso vescovo di Oria, presentata dal suo cliente, don Antonio Longo, allontanato dalla curia oritana e reso allo stato laicale direttamente dal papa Francesco Bergoglio. Secondo gli autori della lettera firmata da ignoti “volontari dei martiri e perseguitati”, il monsignore Pisanello avrebbe affidato all’impresa leccese, in cambio di presunti favori di cui non si conosce la natura, questi due lavori manduriani ed altri eseguiti in alcune chiese e luoghi sacri della curia oritana, tra cui la nuova copertura della chiesa esterna del santuario di San Cosimo alla Macchia. Accuse, ora al vaglio della magistratura brindisina, che costringono il vescovo Pisanello a prendere le distanze con un intervento in cui si dice estraneo a tutto. «Tutti i cantieri già realizzati o aperti presso la diocesi di Oria – dichiara l’alto prelato -, sono stati affidati a ditte attraverso gare d’appalto pubbliche, nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza. Così come, al saldo dei lavori – aggiunge il vescovo – si è proceduto attraverso bonifico bancario tracciabile». Il prelato si difende così. «Tutti i cantieri sono stati affidati alle ditte attraverso gare d’appalto, nel pieno rispetto dei principi di massima trasparenza e legalità … e in sede di assegnazione – precisa Pisanello -, il vescovo non è presente». Per la cronaca, almeno in una occasione, quella della gara per i lavori nella cattedrale, come dimostrerebbe la documentazione di stampa, il monsignore avrebbe aperto le buste della gara aggiudicata poi alla impresa Marullo di Galatina. Molto infastidito da tali accuse, il capo della curia di Oria, che rivendica il suo ruolo pluridecennale di economo dell’arcidiocesi di Otranto, confida nel lavoro della magistratura sollecitandola ad accelerare i tempi delle indagini. «Le attese di questa natura per i fedeli sono laceranti», dichiara il religioso rivolgendo a loro «un ringraziamento per i moltissimi attestati di fiducia, stima e vicinanza». Dicendosi all’oscuro del contenuto della «lettera dei veleni», come anche della querela presentata contro di lui dal don Antonio Longo, il vescovo Pisanello spera non si tratti di una «ripicca personale». Nazareno Dinoi

La guerra delle due curie: da Ascoli le accuse contro il vescovo Pisanello. L’argomento è sempre lo stesso: Antonio Longo, il religioso già viceparroco della Don Bosco di Manduria che per la curia di Oria non è più sacerdote per decreto papale...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 20 novembre 2019. Continua la lotta a distanza tra le sacrestie della curia di Oria retta dal vescovo Vincenzo Pisanello e quella di Ascoli Piceno affidata a monsignor Giovanni D’Ercole. L’argomento è sempre lo stesso: Antonio Longo, il religioso già viceparroco della Don Bosco di Manduria che per la curia di Oria non è più sacerdote per decreto papale, mentre per la curia marchigiana lo è ancora non avendo mai ricevuto alcun decreto dal Vaticano. Per questo il presunto ex sacerdote Longo ha querelato il vescovo Pisanello. Ieri abbiamo dato conto della lettera del Collegio dei Consultori della Diocesi di Oria che è una levata di scudi a difesa del loro monsignore descritto come persona «umile e buona» che si è «spesa per cercare di aiutare Longo, coinvolgendosi in prima persona in maniera discreta e generosa, proponendogli a più riprese un percorso di verifica e di sostegno». Di tutt’altro tenore il contenuto di una nota stampa diffusa oggi dal vicario generale della curia ascolana, monsignore Emidio Rossi. Secondo il portavoce del vescovo D’Ercole, che interviene «in qualità di persona coinvolta nel caso don Antonio Longo, monsignor Pisanello sarebbe tutt’altro che persona buona e disponibile al confronto e all’aiuto dei propri sacerdoti. «Il sottoscritto a più riprese – scrive il prelato marchigiano -, ha fatto appello a monsignor Pisanello, scrivendogli due lettere “imploranti” la carità di un incontro con don Antonio; l’incontro – prosegue lo scritto – non solo non c’è mai stato, ma per di più il Vescovo non s’è degnato di rispondere una parola a queste mie lettere che chiedevano solo paternità episcopale». Questo presunto rifiuto all’ascolto da parte del monsignore di Oria, che per la dottrina del clero è una gravissima mancanza, sarebbe stato verificato da più religiosi di Ascoli. «Il sottoscritto assieme ad un gruppo di sacerdoti della diocesi di Ascoli Piceno – scrive Rossi –, siamo stati testimoni che il vescovo Pisanello aveva bloccato il numero di cellulare di questo suo sacerdote (don Antonio Longo, Ndr), proprio per non dargli la possibilità di essere contattato». La lunga lettera del vicario generale contiene altre accuse di supposta scarsa collaborazione e trasparenza del vertice della curia di Oria per non aver mai fatto leggere gli atti d’accusa nei confronti del loro ex sacerdote nemmeno al suo avvocato «facendo così venir meno il diritto alla difesa». Infine si insiste sul giallo del decreto papale che avrebbe tolto l’abito sacerdotale a Longo. «Il Vescovo Pisanello – conclude la nota – non ha mai fatto firmare né tanto meno dato a don Antonio Longo, alcun decreto che recasse la firma del Papa e con il quale, a dire del Vescovo Pisanello, don Antonio Longo sarebbe stato dimesso dallo stato clericale». L’intricata vicenda sta creando molti nervosismi nella sede vescovile di Oria e in alcune parrocchie della diocesi i cui parrocchiani cominciano a chiedere maggiore chiarezza sull’oscura storia. N.Din.

Don Antonio Longo è stato “licenziato” dal Papa. L'ex sacerdote è molto noto negli ambienti ecclesiastici tra Manduria e Oria per essere stato l’ex collaboratore parrocchiale della chiesa San Giovanni Bosco. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 13 novembre 2019. Dopo essere stato sospeso quattro anni fa dal vescovo di Oria, adesso arriva il conto anche da parte del Santo Padre. Don Antonio è originario di Latiano (Brindisi) e negli anni scorsi è già stato protagonista di diverse vicende giudiziarie. “Il 26 luglio 2019 la Congregazione per il Clero – si legge nel comunicato stampa - ha comunicato al Vescovo di Oria la decisione assunta da sua Santità Papa Francesco di dimettere il sacerdote Antonio Longo dallo stato clericale, con relativa dispensa dagli obblighi sacerdotali, compreso il sacro celibato. Tale decisione è inappellabile e non è soggetta ad alcun tipo di ricorso”. L'ex sacerdote è molto noto negli ambienti ecclesiastici tra Manduria e Oria per essere stato l’ex collaboratore parrocchiale della chiesa San Giovanni Bosco. Nel 2015 fu sospeso dal vescovo da ogni attività religiosa dopo alcuni “rimproveri” da parte della curia. Il religioso esonerato, oggi 45enne, è stato il braccio destro di don Dario De Stefano, parroco della chiesa Don Bosco del Villaggio del Fanciullo di Manduria (Taranto). L’ex sacerdote era stato già colpito da un precedente provvedimento disciplinare da parte del vescovo di Oria che nel 2011 lo declassò a padre spirituale e lo trasferì a Manduria. Longo che era stato anche parroco a Erchie (Brindisi), aveva realizzato nella sua chiesa un gazebo del valore di ventimila euro senza avvertire i suoi superiori che lo punirono. Nel 2012 le cronache si occuparono ancora di don Antonio per una vicenda legata ad una eredità contesa. In quella occasione il sacerdote latianese denunciò un suo nipote che fu condannato a otto mesi di reclusione per ingiurie e violenze private nei confronti dello zio prete. Attualmente Antonio Longo si trova ad Ascoli Piceno (così come fa sapere il vescovo di Ascoli a La Voce di Manduria ndr). “Mi si dice – scrive il vescovo di Ascoli che sia stato dimesso dallo stato clericale, ma egli non ha mai ricevuto il Decreto della Santa Sede, pur avendolo domandato insistentemente al Vescovo di Oria e, mi pare, continua a chiederlo”. “Con certezza – continua il Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno – don Antonio non esercita nessun ministero di sacerdote in nessuna parrocchia della Diocesi e per quanto posso sapere, intende trasferirsi definitivamente in questo territorio. Da un mese gli ho affidato il compito di curare gli ospiti (persone in difficoltà ndr) della casa di accoglienza Sant’Emidio annessa alla Curia di questa Diocesi”. Intanto però arriva la comunicazione da parte della Diocesi di Oria che afferma quanto detto in precedenza e cioè che don Antonio Longo sia stato esonerato da Papa Francesco. “La decisione del Papa –si legge ancora nel comunicato della Curia di Oria - costituisce l’esito di un approfondito procedimento canonico avviato dalla Diocesi nel 2018 e portato avanti sulla base di indicazioni e richieste da parte della Congregazione per il Clero. Il procedimento non ha riguardato imputazioni penali, né canoniche né civili, inerenti persone minori, ma ha riguardato aspetti fondamentali della vita sacerdotale. Una pena nella Chiesa viene inflitta sempre in vista di un bene maggiore, sia per colui che ne viene raggiunto, sia per l’intera comunità cristiana. Accogliamo con docilità questa decisione, custodendola nella preghiera”. “Antonio Longo non è scomunicato; - continuano - rimane in comunione con la Chiesa in quanto fratello battezzato in Cristo ed è invitato ad attingere, come ogni fedele, alla grazia del Vangelo e dei Sacramenti. Ogni procedimento penale canonico prevede che sia garantito il pieno diritto alla difesa, il suo concreto esercizio anche attraverso l’assistenza di un avvocato e un’effettiva condizione di parità processuale fra l’accusa e la difesa. Così è stato, rigorosamente, anche per don Antonio Longo. Nel corso del procedimento canonico, don Antonio Longo ha avuto la possibilità di difendersi e l’ha esercitata attraverso le sue deposizioni orali e scritte e dei testimoni da lui indicati e dal suo legale” concludono.

Curia contro curia, veleni e denunce in canonica. Don Antonio Longo, già viceparroco della chiesa don Bosco di Manduria, non è più sacerdote per la curia vescovile di Oria ma lo è ancora per quella di Ascoli Piceno. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 16 novembre 2019. Don Antonio Longo, già viceparroco della chiesa don Bosco di Manduria, non è più sacerdote per la curia vescovile di Oria ma lo è ancora per quella di Ascoli Piceno dove il 45enne di Latiano esercita su incarico del vescovo monsignor Giovanni D’Ercole la funzione di responsabile della casa diocesana per l’accoglienza di persone in difficoltà annessa a quella Curia vescovile. Un vero enigma che varca le blindatissime porte del Vaticano coinvolgendo addirittura il Papa. Per il vescovo di Oria, monsignor Vincenzo Pisanello, «Sua Santità papa Francesco, il 25 luglio 2019, ha dimesso il sacerdote Antonio Longo dallo stato clericale, con relativa dispensa dagli obblighi, compreso il sacro celibato». Non è più un «don», insomma, in maniera «inappellabile e non soggetta ad alcuni tipo di ricorso», rimarca il monsignore di Oria che nel comunicato stampa precisa che il benservito «ha riguardato aspetti fondamentali della vita sacerdotale» e non per «imputazioni penali inerenti persone minori». Di diverso parere il suo collega di Ascoli Piceno, il vescovo Giovanni D’Ercole, che attraverso il vicario generale, monsignor Emidio Rossi, ha diffuso una nota secondo la quale il sacerdote latianese «non ha mai ricevuto alcun decreto né del Santo Padre Francesco, né della Congregazione per il clero, né tanto meno del Vescovo di Oria che attesti la sua dimissione dallo stato clericale». Elencando le doti del sacerdote conosciuto anche a Manduria per avere affiancato don Dario De Stefano nella conduzione della parrocchia della Don Bosco, il vicario della Curia di Ascoli Piceno descrive il religioso come «persona stimata da tutti coloro che ad Ascoli lo hanno conosciuto e lo stanno avvicinando perché sempre disponibile ad aiutare chiunque si trovi in situazioni di bisogno, avendo lui stesso sperimentato l’abbandono più totale e crudele di un cuore umano». Come per sgomberare dubbi o sospetti di immoralità del sacerdote, il monsignore ascolano ci mette la faccia per assicurare che don Antonio Longo «non è pedofilo, non è omosessuale, non ha avuto problemi economici con traffici illeciti, non si è macchiato in rapporti con l’altro sesso, non è dedito all’alcol, non è dedito a sostanze stupefacenti, è sanissimo di mente e di comportamenti con un casellario giudiziale, rilasciato dagli organi competenti, limpidissimo, non ha commesso “delitti” che potrebbero giustificare una pena così grave come quella della dimissione dallo stato clericale». Un santo, insomma, che non si addice alla figura che viene fuori dagli ambienti oritani che hanno avviato il procedimento canonico concluso con la riduzione allo stato laico per volere papale. La lettera dell’alto prelato di Ascoli Piceno non risparmia accuse dirette al vescovo Pisanello invitato «finalmente a dare le reali e chiare motivazioni (più volte richieste) di tanto suo accanimento nei confronti di questo sacerdote, il cui calvario – prosegue – è iniziato circa quattro anni fa per motivi ben precisi». Dei quali non si parla e niente trapela dalle massicce porte e dai ben collaudati silenzi degli ambienti clericali. N.Din.

·        Il Vaticano e la Pedofilia.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 17 novembre 2020. Nel 2005, a poche ore dalla morte di Papa Wojtyla, in una via della Conciliazione talmente piena di persone in preghiera che non si poteva attraversare, spuntò un cartello enorme: «Santo Subito». Da quel messaggio partì immediatamente una campagna trasversale e martellante da parte di diversi settori della Chiesa per accelerare l'iter verso la santità del Papa polacco anche se, alcuni cardinali, mostrarono subito qualche perplessità, non tanto per la caratura del pontefice, quanto per le regole fino a quel momento in vigore che richiedevano tempi più lunghi, meditati, prudenti in attesa di mettere a fuoco l'intero pontificato. Le cose non andarono così, perchè il cartello che indicava «Santo Subito» effettivamente fu anticipatorio e così nell'arco di dieci anni, dalla morte alla canonizzazione, il pontificato più lungo dopo quello di Pio IX divenne storia. Adesso da più parti, davanti al sospetto di coperture a terribili casi di pedofilia, c'è chi si chiede se quel cartello non fosse inopportuno. Negli Stati Uniti, l'influente quotidiano National Catholic Reporter ha esortato i vescovi a «sopprimere il culto» del defunto Papa. Allo stesso modo anche il New York Times si è posto lo stesso quesito. Non è stato fatto santo un po' troppo presto? «È tempo di fare i conti con le difficoltà. Quest'uomo ha minato la testimonianza della Chiesa globale, ha distrutto la sua credibilità come istituzione, e ha dato un esempio deplorevole ai vescovi nell'ignorare i resoconti delle vittime di abusi» si legge sul National Catholic Reporter. Nei giorni scorsi è stato pubblicato il terribile Rapporto McCarrick dal quale emerge uno spaccato devastante riguardante un sistema che non funzionava nella vigilanza interna. Tra le pagine dello studio si capisce che Giovanni Paolo di fatto negava il coinvolgimento di McCarrick negli abusi, probabilmente influenzato dalla sua esperienza nella Polonia comunista, quando i servizi segreti continuavano a produrre dossier falsi sul clero per screditarlo. Lo stesso scetticismo Wojtyla lo avrebbe avuto anche con padre Maciel Marcial Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, pedofilo conclamato, corruttore, morfinomane. Un vero delinquente. Anche in quel caso Wojtyla avrebbe girato la testa dall'altra parte, anche se il suo segretario, il cardinale Dziwisz ha recentemente spiegato che non è mai stato raggiunto da notizie del genere, altrimenti avrebbe agito subito. «I problemi che sono sorti per il trattamento di McCarrick da parte del Papa dimostrano che è stato un errore essere stati troppo frettolosi nel canonizzarlo» ha detto padre Tom Reese, gesuita ed editorialista di America. «Sono contrario a canonizzare i papi perché spesso si tratta più di politica della Chiesa che di santità. I santi dovrebbero essere modelli da imitare». Quando Papa Benedetto XVI è stato eletto nel 2005 ha avviato la canonizzazione solo poche settimane dopo la sua morte, bruciando i tempi e mandando all'aria le regole prudenziali che fino a quel momento erano state sempre rispettate. Scrive il New York Times: «Oggi dopo più di un decennio di dubbi, la reputazione di Giovanni Paolo II è caduta. Dopo che lo stesso Vaticano si è precipitato a canonizzarlo, ha pubblicato questa settimana il rapporto Mc Carrick che ha deposto ai piedi del santo la sua responsabilità per l'avanzamento di carriera del cardinale». Mc Carrick è stato punito e spretato solo nel 2018 da papa Francesco con la accusa di abusi sessuali, in particolare su minori. Non solo. Il Rapporto «fornisce la prova schiacciante che la Chiesa si è mossa con velocità spericolata per canonizzare Giovanni Paolo e ora è intrappolata nelle sue stesse macerie».

Stefano Filippi per “la Verità” il 16 novembre 2020. Negli ultimi due mesi le vicende vaticane sono tornate in prima pagina: il 24 settembre le dimissioni del cardinale Angelo Becciu e il riemergere degli scandali finanziari, il 21 ottobre le parole del Papa sulle unioni civili nel film Francesco, il 25 ottobre l' annuncio di 13 nuovi cardinali, infine la settimana scorsa la pubblicazione del dossier McCarrick, l' ex cardinale colpevole di abusi che aveva mentito anche a Giovanni Paolo II. L'enciclica Fratelli Tutti, resa nota il 3 ottobre, che riordinava il magistero sociale del pontefice in un testo organico, non ha creato un dibattito paragonabile, per esempio, alla Laudato Si' o all' esortazione Amoris Laetitia. Edward Pentin, vaticanista del quindicinale National Catholic Register, il più antico periodico cattolico degli Stati Uniti, aiuta a capire che cosa sta accadendo nei sacri palazzi.

Partiamo dal Rapporto McCarrick. Perché è stato pubblicato proprio ora? Ci sono stati ritardi?

«Il Rapporto è stato pubblicato per coincidere con l'incontro annuale dei vescovi Usa che si svolge oggi e domani. È stato anche diffuso lo stesso giorno in cui dovevano essere rese note altre due storie di abusi sessuali: l' inizio di un processo per accuse di violenza sessuale dell'ex nunzio apostolico in Francia e la comunicazione dei risultati di un'indagine per accuse di abusi sessuali nella Chiesa di Inghilterra e Galles. La scelta di tempo potrebbe anche avere avuto qualcosa a che fare con le elezioni americane e il fatto che i media avrebbero potuto essere distratti da ciò. Funzionari vaticani hanno detto che i ritardi erano dovuti alla portata delle informazioni da raccogliere, ma anche perché si continuava a ricevere dichiarazioni dei testimoni anche quest' anno e il Vaticano non voleva produrre un documento che ne fosse privo».

Il Rapporto spiega l'operato di papa Francesco ma getta ombre sui collaboratori di Giovanni Paolo II: è così?

«Il documento attribuisce la parte del leone della colpa al pontificato di San Giovanni Paolo II, meno a quello di Benedetto XVI, e quasi nulla a papa Francesco. Il rapporto documenta numerosi esempi di comportamento inappropriato, e che Giovanni Paolo II inizialmente fece cadere la candidatura di McCarrick per Washington sulla base di tali resoconti. A quel punto McCarrick persuase il segretario di Giovanni Paolo II, l' attuale cardinale Stanislaw Dziwisz che era in amicizia con lui, della propria innocenza, il che gli consentì di essere nominato».

È credibile che San Wojtyla sia stato ingannato?

«Le prove suggeriscono che egli lo fu, almeno in parte. Il biografo di Giovanni Paolo II, George Weigel, dice che McCarrick era una "personalità patologica" e che la sua abilità a mentire e ingannare chi gli stava attorno era un "segno distintivo" della sua carriera ecclesiastica. Giovanni Paolo II si era fidato di McCarrick con il quale aveva stretto un rapporto durante un precedente viaggio negli Stati Uniti. È anche vero, e non è una novità, che l'esperienza del comunismo fatta da Giovanni Paolo II lo aveva reso scettico circa le voci di cattivi comportamenti del clero, e il suo approccio al governo della Chiesa, per sua stessa ammissione distaccato, non lo ha aiutato».

Alcuni osservatori hanno detto che il Rapporto smentisce la denuncia di monsignor Carlo Maria Viganò, che per primo due anni fa scoperchiò lo scandalo McCarrick: è d'accordo?

«Il rapporto mira chiaramente a screditare l'arcivescovo Viganò piuttosto che ad affrontare in modo equo le accuse che egli mosse nella sua testimonianza del 2018, il cui contenuto accusava un certo numero di prelati ancora vivi o attivi nella Chiesa. La loro strategia sembra essere quella di deviare le critiche lontano dalle figure che hanno legami con McCarrick, incluso papa Francesco, così come una cricca omosessuale che ha aiutato l'ascesa di McCarrick».

Quanto è diffusa l'omosessualità nella Chiesa?

«Ovviamente è impossibile dirlo con precisione, ma la domanda chiave per molti è se la castità sia praticata tra il clero, e fino a che punto il comportamento omosessuale sia ritenuto inaccettabile. Il Rapporto McCarrick suggerisce che sia stato tollerato troppo liberamente, cosa che alcuni, incluso Benedetto XVI, ritengono indichi un allontanamento da Dio, una mancanza di fede in colui che inscrive la legge naturale nel cuore di ogni uomo».

E la lobby gay ha ancora potere in Vaticano?

«Il 28 novembre papa Francesco inserirà 9 nuovi cardinali elettori nel Collegio cardinalizio, tre dei quali hanno stretti legami con la comunità Lgbt e sono in sintonia con la loro agenda. Il mese scorso, Francesco ha detto di approvare le unioni civili tra persone dello stesso sesso. L'anno scorso il Vaticano ha reso pubblica un' udienza papale privata con il gesuita padre James Martin, una figura di spicco nella normalizzazione del comportamento omosessuale nella Chiesa. La sintesi vaticana del Rapporto McCarrick non ha menzionato l'omosessualità e ha appena accennato agli abusi omosessuali dei preti sui seminaristi».

Le dimissioni del cardinale Becciu hanno riportato l' attenzione sulle operazioni finanziarie della Santa Sede: è possibile che il Papa ne fosse totalmente all'oscuro?

«Il Papa può avere saputo solo metà di quanto stava accadendo, ma le prove sembrano suggerire che egli ne sapesse molto di più. Per come è strutturato il Vaticano, poco accade senza l'approvazione dei superiori, ed è altamente improbabile che egli non sia stato informato di simili investimenti di capitali e di transazioni così significative».

La scelta del Papa di trasferire all'Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) la gestione dei fondi della Segreteria di Stato contribuirà alla trasparenza delle finanze vaticane?

«Francesco ha recentemente restituito la supervisione dell'Apsa al Segretariato per l'economia, come era sotto il primo prefetto del Segretariato, il cardinale George Pell, fino a quando l' Apsa non si è sottratta a quel controllo intorno al 2016. Il tempo dirà quanto sarà efficace il Segretariato nel controllare l' Apsa».

Che bilancio possiamo fare delle riforme finanziarie introdotte dal Papa?

«L' approccio del Papa alla riforma finanziaria è stato incoerente poiché apparentemente è stato influenzato da chiunque gli fosse più vicino. Le riforme sono cominciate in modo solido, ma non ci è voluto molto perché Francesco permettesse alla "vecchia guardia" di prendere il sopravvento. Ora egli ascolta di nuovo i primi riformatori e si mettono in pratica i cambiamenti raccomandati dal cardinale Pell. Questi ha generosamente detto che Francesco sta giocando "una partita lunga", ma i suoi critici dicono che i suoi errori vacillanti e percepiti sono stati immensamente costosi per il Vaticano».

Ha creato polemiche e anche sconcerto tra molti cattolici il film Francesco con le parole del Papa sui diritti delle coppie gay. Davvero non ci sono novità nella dottrina, come si legge nella lettera esplicativa inviata dal Segretario di Stato Parolin ai nunzi apostolici nel mondo?

«In realtà, ci viene detto che l' insegnamento della Chiesa sulla materia non è stato cambiato né può esserlo, ma Francesco usa i media per far sembrare comunque al mondo esterno che l' insegnamento è cambiato. A detta di tutti, non è turbato da questo, il che fa credere ai suoi critici che abbia l' intenzione di sovvertire l' insegnamento della Chiesa, forse, alcuni sostengono, per compiacere i progressisti e la lobby omosessuale che lo hanno aiutato a farlo eleggere. I suoi sostenitori dicono che sta semplicemente sviluppando la dottrina di fronte alle complessità odierne, ma i suoi critici ribattono che sta insegnando l' eresia modernista».

Si è chiarito il giallo sulla provenienza delle sequenze inserite nel film che i funzionari vaticani avevano tagliato dall' intervista originale al Papa?

«A parte una nota ai nunzi preparata dalla Segreteria di Stato che sottolineava le precedenti posizioni di papa Francesco sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, il Vaticano non ha mai emesso una correzione formale delle parole del Papa, né ha chiarito la sequenza della clip nel film».

Lei ha pubblicato di recente un libro, The New Pope, con i profili di 19 possibili candidati alla successione di Francesco: dovrebbe aggiornarlo dopo la nomina dei 13 nuovi cardinali? C'è tra loro qualche papabile?

«È davvero troppo presto per dirlo, ma nessuno di loro sembra esserlo. Un paio di italiani, dato che non hanno ancora 60 anni, potrebbero presumibilmente diventare papabili in futuro».

Lei pensa che anche Bergoglio si dimetterà come ha fatto Ratzinger?

«Ha spesso lasciato intendere che l' avrebbe fatto, ma le probabilità sono scarse, sicuramente non finché Benedetto XVI sarà ancora vivo».

Il dossier. Papa Francesco pubblica un dossier sul cardinal McCarrick e fa luce sugli abusi. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'11 Novembre 2020. La Segreteria di Stato vaticana ha pubblicato ieri un voluminoso rapporto, oltre 450 pagine, contenente tutta la documentazione sulle vicende che hanno visto protagonista il cardinale statunitense Theodore McCarrick, potente arcivescovo di Washington, ridotto allo stato laicale da Papa Francesco. Emerge la rete di falsità, omissioni, sottovalutazioni, che hanno protetto e favorito la carriera del 90enne ex-arcivescovo, tacendo sugli abusi sessuali su minorenni e maggiorenni, commessi decenni fa con l’aggravante dell’uso della confessione e dell’abuso di potere nei confronti di seminaristi con cui intratteneva rapporti intimi. Al momento della nomina ad arcivescovo di Washington, nel 2000, la Santa Sede ha agito sulla base di informazioni “parziali e incomplete”. Si sono verificate “omissioni e sottovalutazioni”, sono state compiute scelte poi rivelatesi sbagliate, anche perché, nel corso delle verifiche a suo tempo richieste, non sempre le persone interrogate hanno raccontato tutto ciò che sapevano. Fino al 2017, sebbene molti sapessero, nessuna accusa circostanziata ha mai riguardato abusi o molestie ai danni di minori. «Nessuno ha fornito alcuna documentazione sugli addebiti», si legge nel rapporto in cui si specifica che sono emersi dalle testimonianze “racconti traumatizzanti”. Il testo porta alla luce una lettera che l’ex porporato scrisse all’allora segretario particolare del Pontefice polacco, mons. Stanislaw Dziwisz, proclamandosi innocente. E venendo creduto. In precedenza un invito alla cautela da parte del cardinale O’Connor, arcivescovo di New York, che aveva raccolto voci e denunce anonime, era stato prima accolto dalla Santa Sede e poi messo da parte. Ma solo nel 2017, con il cardinale ormai pensionato, venne avviato il processo canonico. Ora la ricostruzione della vicenda, con particolare attenzione a ciò che è accaduto negli anni “dentro” la Chiesa, è arrivata, grazie al rapporto fortemente voluto da Papa Francesco. Si tratta di 450 pagine, basate sull’esame di numerosi documenti dei vari Dicasteri della Curia romana e della Nunziatura di Washington, cui si aggiungono 90 interviste testimoniali, raccolte fra maggio 2019 e ottobre 2020, a prelati, cardinali e vescovi degli Stati Uniti, ex seminaristi e sacerdoti informati sui fatti. Il dossier non affronta la questione della colpevolezza dell’ex cardinale per il diritto canonico, poiché già definita dal processo della Congregazione per la Dottrina della fede, e conclusosi con le dimissioni dallo stato clericale. «Pubblichiamo il rapporto con dolore per le ferite che la vicenda ha provocato alle vittime, ai loro familiari, alla Chiesa negli Stati Uniti, alla Chiesa Universale», ha detto il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, commentando la diffusione del dossier. «Come ha fatto il Papa, anch’io ho potuto visionare le testimonianze delle vittime contenute negli ‘Acta’ sui quali il rapporto è basato e che sono depositate negli archivi della Santa Sede. Il loro contributo è stato fondamentale», spiega Parolin. E aggiunge che «negli ultimi due anni, mentre veniva condotta l’indagine che ha portato a questo dossier, abbiamo fatto dei passi in avanti significativi per assicurare maggiore attenzione alla tutela dei minori e interventi più efficaci per evitare che certe scelte avvenute in passato possano ripetersi». Ma «dalla lettura del documento emergerà che tutte le procedure, compresa quella della nomina dei Vescovi, dipendono dall’impegno e dall’onestà delle persone interessate». «Nessuna procedura, conclude il cardinale Parolin, anche la più perfezionata, è esente da errori, perché coinvolge le coscienze e le decisioni di uomini e di donne. Ma il dossier avrà degli effetti anche in questo: nel rendere tutti coloro che sono coinvolti in tali scelte più del peso delle proprie decisioni o delle omissioni». E conclude: «Sono pagine che ci spingono a una profonda riflessione e a chiederci che cosa possiamo fare di più in futuro, imparando dalle dolorose esperienze del passato».

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2020. Due anni di indagine, 461 pagine fondate sui documenti degli archivi vaticani, la nunziatura di Washington, le diocesi Usa coinvolte e su più di novanta interviste a testimoni e vittime. La Santa Sede ha pubblicato ieri il «Rapporto McCarrick», un' inchiesta interna senza precedenti per capire com' è stato possibile che un predatore sessuale, un maniaco che per decenni ha abusato del suo potere per violentare «giovani adulti» e seminaristi minorenni, sia potuto diventare arcivescovo di Washington (nel 2000) e cardinale (2001), uno degli uomini di spicco della Chiesa fino alla pensione nel 2006 e oltre. Theodore McCarrick oggi ha 90 anni, Francesco lo ha cacciato dal collegio cardinalizio il 27 luglio 2018 e «dimesso dallo stato clericale», cioè spretato, il 16 febbraio 2019. L' inchiesta mostra una serie ripetuta di falsità, reticenze, omissioni, sottovalutazioni, errori e inerzie curiali che hanno permesso la facesse franca per decenni. Nel Rapporto le descrizioni degli abusi sono repellenti, si avverte: «Potrebbero risultare traumatizzanti». Lo sono. Non c' è una «pistola fumante», ma un giorno fatale sì: il 6 agosto 2000. McCarrick sa che le accuse sono arrivate a Roma, Washington è sfumata. Così quel giorno scrive a Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II, e giura: «Nei settanta anni della mia vita non ho mai avuto rapporti sessuali con alcuna persona, maschio o femmina, giovane o vecchio, chierico o laico». Il Papa si convince, cambia idea e lo nomina nella capitale Usa. Wojtyla viene ingannato, oltre che dallo spergiuro di un uomo che conosceva dal '76, dalle informazioni omertose arrivate alla Santa Sede. Del resto, «fino al 2017» non giunsero in Vaticano accuse «circostanziate» di abusi su minori. Ma vengono incredibilmente sottovalutate le violenze sui «giovani adulti». Giovanni Paolo II aveva nominato McCarrick vescovo di Metuchen (1981) e poi di Newark (1986). Prima di Washington, si era ritenuto «imprudente» promuoverlo a Chicago (1997) e New York (1999-2000). Nel '92 e '93 delle lettere di denuncia non vennero considerate perché anonime. Ma «si sapeva che McCarrick avesse condiviso il letto con giovani uomini adulti a Metuchen e Newark e nella casa al mare del New Jersey». Il 28 ottobre 1999, una lettera del cardinale di New York O' Connor riassume al nunzio le accuse e avverte che si rischia un «grave scandalo». Il nunzio interpella quattro vescovi del New Jersey ma tre di essi «fornirono informazioni non accurate e incomplete».

Nel 2005 le accuse riemergono. Benedetto XVI chiede a McCarrick di dimettersi. Nessuna sanzione, ma la «raccomandazione», ignorata, di ritirarsi a vita privata. Nel giugno 2017 arriva «la prima accusa di abuso» su un minore. Francesco non aveva cambiato «quanto stabilito dai predecessori», ma ora dispone il processo canonico e lo spreta. Di certo il Rapporto racconta una storia assai diversa rispetto al «dossier» di Viganò, l' ex nunzio in odore di scisma che arrivò a chiedere le dimissioni di Francesco.

Domenico Agasso jr. per lastampa.it il 10 novembre 2020. A luglio del 2018 Theodore McCarrick è ancora un’eminenza cardinalizia, arcivescovo emerito di Washington, tra le personalità più influenti degli Stati Uniti; sette mesi dopo, nel febbraio 2019, neanche più prete. Una parabola senza precedenti per un «principe della Chiesa», terminata con uno schianto che ha scosso molte Sacre Stanze, in Vaticano e negli Stati Uniti, con la comunità cattolica sconcertata per la scalata riuscita dall’ex cardinale nelle gerarchie ecclesiastiche. McCarrick è giudicato colpevole di fatti gravi. Innanzitutto di avere violentato un adolescente 46 anni fa quando era sacerdote a New York. La denuncia è stata resa nota il 20 giugno 2018. Poi, si è aggiunta un’altra segnalazione, quella di James Grein, un uomo della Virginia che ha dichiarato di essere stato molestato da McCarrick negli anni Settanta durante una confessione avvenuta non in un confessionale ma in una stanza. A tutto questo si aggiungono le voci sulla cattiva condotta sessuale dell’ex porporato, che si sentono dagli anni Novanta, quando era arcivescovo di Metuchen e di Newark, nel New Jersey. Le vittime erano anche componenti di famiglie che il prelato frequentava abitualmente, tanto da essere chiamato confidenzialmente lo «zio Ted». Eppure, McCarrick, erogatore ogni anno di generose donazioni alla Santa Sede, ottiene la prestigiosa e influente sede di Washington, dove Giovanni Paolo II lo assegna nel 2000, creandolo poi cardinale. La spinosa questione degli occultamenti da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche che sarebbero state a conoscenza dei comportamenti scorretti di McCarrick restava dunque ancora aperta. Fino a oggi, 10 novembre 2020, giorno della pubblicazione del «Rapporto sulla conoscenza istituzionale e il processo decisionale della Santa Sede riguardante l’ex Cardinale Theodore Edgar McCarrick (dal 1930 al 2017)». L’indagine è durata due anni. È iniziata dopo l’estate 2018, durante le settimane di «fuoco» dell’invettiva di Carlo Maria Viganò: l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti (ruolo ricoperto dal 2011 al 2016) e capofila dell’opposizione più dura al pontificato di Francesco, a cominciare dal 26 agosto 2018 invoca, attraverso un’operazione mediatica internazionale, le dimissioni di Bergoglio per presunte coperture a favore di McCarrick.

I contesti delle decisioni prese e non prese. Dalle 400 e oltre pagine di report emerge che al momento della nomina a Washington, nel 2000, la Santa Sede agisce basandosi su informazioni parziali e incomplete, causate e aggravate da omissioni e sottovalutazioni. È necessaria una precisazione: fino al 2017 nessuna accusa circostanziata ha mai riguardato abusi o molestie ai danni di minori. Non appena è arrivata «la prima denuncia di una vittima minorenne all’epoca dei fatti, Papa Francesco ha agito in modo rapido e deciso nei confronti dell’anziano cardinale già ritirato dalla guida della diocesi dal 2006, prima togliendogli la porpora e poi dimettendolo dallo stato clericale», scrive in un’analisi su Vatican News il direttore editoriale dei Media vaticani Andrea Tornielli.

Le lettere anonime degli anni ’90. Negli anni Novanta alcune lettere anonime giungono a porporati e alla nunziatura di Washington. Accennano ad abusi, ma senza fornire indizi, nomi, dettagli, contesti. Vengono ritenute non credibili. La prima accusa circostanziata che coinvolga minori è quella di tre anni fa.

Nessuna informazione negativa. Nel Rapporto si legge che nel momento della prima candidatura all’episcopato, nel 1977, come anche al tempo delle nomine a Metuchen, 1981, e poi a Newark, 1986, nessuna delle persone consultate per ottenere informazioni fornisce indicazioni negative su McCarrick. Una prima verifica, di carattere informale, su alcune accuse riguardanti gli atteggiamenti dell’allora arcivescovo di Newark nei confronti di seminaristi e preti della sua diocesi viene realizzata a metà degli anni Novanta, prima del viaggio di papa san Giovanni Paolo II nella città statunitense. La compie il cardinale arcivescovo di New York, John O’Connor: domanda informazioni ad altri vescovi americani e poi conclude che non ci sono «impedimenti» alla visita papale nella città di cui McCarrick è, in quel momento, il pastore.

Il rischio scandalo. Ma poi iniziano a circolare indiscrezioni su una possibile nomina ad arcivescovo di Washington, diocesi tradizionalmente cardinalizia. Ci sono autorevoli pareri positivi, ma si registra quello negativo di O’Connor. Non ha notizie certe né dirette, ma in una lettera del 28 ottobre 1999 indirizzata al nunzio apostolico scrive di ritenere un errore la nomina di McCarrick. Mette in guardia dal rischio di uno scandalo, parlando di condotte inopportune dell’arcivescovo, che avrebbe in passato condiviso il letto con giovani adulti in canonica, e con seminaristi in una casa al mare. Papa Wojtyla allora chiede al nunzio di indagare. Ma l’inchiesta scritta, anche questa volta, non porta ad alcuna prova concreta: tre dei quattro presuli del New Jersey consultati forniscono informazioni definite nel Rapporto «non accurate e incomplete». Giovanni Paolo II, che conosce McCarrick dal 1976, accoglie la proposta dell’allora nunzio apostolico negli Usa Gabriel Montalvo, e dell’allora prefetto della Congregazione per i Vescovi Giovanni Battista Re, di lasciar cadere la candidatura. McCarrick sembra destinato a rimanere a Newark. Sembra. 

Il giuramento di innocenza cambia tutto. Ma viene a conoscenza delle riserve sul suo conto, e il 6 agosto 2000 scrive all’allora segretario particolare del Pontefice polacco, Stanislaw Dziwisz. Nella missiva si proclama innocente e giura di non avere «mai avuto rapporti sessuali con alcuna persona, maschio o femmina, giovane o vecchio, chierico o laico». Dziwisz consegna la lettera a Giovanni Paolo II. Il Pontefice polacco crede a McCarrick. Così, con precise indicazioni impartite all’allora segretario di Stato Angelo Sodano, stabilisce che McCarrick rientri nella rosa dei candidati. E poi lo sceglierà per la sede di Washington. Secondo alcune testimonianze, può aiutare a comprendere la situazione anche l’esperienza personale vissuta dall’allora arcivescovo Wojtyla in Polonia, dove per anni ha assistito all’uso strumentale di «false accuse» da parte del regime per screditare preti e vescovi.

L’intervento di Benedetto XVI. Nulla viene segnalato durante l’episcopato di McCarrick a Washington. Quando nel 2005 riemergono echi di molestie e abusi nei confronti di adulti, il nuovo pontefice, Benedetto XVI, pretende la rinuncia del cardinale statunitense. McCarrick lascia nel 2006, diventando un arcivescovo emerito. Nel Rapporto si legge che in questo periodo Viganò, da delegato per le rappresentanze pontificie, segnala ai superiori in Segreteria di Stato le informazioni provenienti dalla nunziatura, rimarcandone la gravità. «Ma, mentre lanciava l’allarme, anche lui comprendeva di non trovarsi di fronte ad accuse provate», afferma Tornielli. Il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone presenta la questione a Papa Ratzinger. In assenza di vittime minorenni, e trattandosi di un prelato ormai dimesso, si sceglie di non aprire un processo canonico.

Le raccomandazioni (non «sanzioni»). La Congregazione per i Vescovi chiede a McCarrick di condurre una vita più riservata, di rinunciare ai frequenti appuntamenti pubblici. Inutilmente. Il porporato americano continua a viaggiare da una parte all’altra del mondo. «Questi spostamenti erano in genere conosciuti e almeno tacitamente approvati dal nunzio». Dai documenti e dalle testimonianze del Rapporto appare infatti evidente che le «restrizioni» richieste a McCarrick non sono «sanzioni». Sono raccomandazioni, comunicate oralmente nel 2006 e per iscritto nel 2008, senza che sia «esplicitamente menzionato l’imprimatur della volontà papale». Poi sopraggiunge una nuova denuncia contro McCarrick, di cui si ha notizia nel 2012. Viganò, diventato nunzio negli Stati Uniti, riceve l’incarico di indagare dal Prefetto della Congregazione dei Vescovi. Da quanto emerge dal report, il Nunzio «però non compie tutti gli accertamenti che gli erano stati richiesti. Inoltre, continuando a seguire lo stesso approccio usato fino a quel momento, non compie passi significativi per limitare le attività e i viaggi nazionali e internazionali di McCarrick».

Cacciato da papa Francesco. McCarrick è già ultraottantenne e quindi escluso dal Conclave che elegge papa Francesco. Continua a viaggiare, e al nuovo Pontefice «non vengono consegnati documenti o testimonianze che lo mettano al corrente della gravità delle accuse, ancora solo in relazione ad adulti, rivolte contro l’ex arcivescovo di Washington». A Bergoglio vengono citati «comportamenti immorali con adulti» prima della nomina di McCarrick a Washington. Francesco considera però che le accuse sono state analizzate e respinte da Giovanni Paolo II, e, appurando che McCarrick è rimasto operativo durante il pontificato di Benedetto XVI, non ritiene necessario modificare «quanto stabilito dai suoi predecessori»: dunque «non corrisponde al vero affermare che abbia tolto o alleggerito sanzioni o restrizioni all’arcivescovo emerito». Fino alla conoscenza della prima accusa di abuso su un minore: a quel punto il Papa argentino stabilisce immediatamente un provvedimento gravissimo e senza precedenti: la dimissione dallo stato clericale, a conclusione di un veloce processo canonico.

Armando Cardarilli: condanna di sei anni per l’impiegato del Papa. Notizie.it il 23/10/2020. Ha drogato e fatto prostituire una minorenne, condanna per Armando Cardarilli, impiegato del Papa nella direzione Telecomunicazioni. Aspra condanna per Armando Cardarilli, dipendente del governatorato della Santa Sede. Il 57enne lavorava nella direzione telecomunicazioni, fino all’arresto avvenuto nel marzo 2019 e la conseguente sospensione dal posto di lavoro. Le accuse per Cardarilli sono davvero molto pesanti: ha procurato droga e fatto prostituire una studentessa di 17 anni, conosciuta online su un sito per incontri. Ieri, 22 ottobre 2020, per l’uomo è arrivata l’amara condanna a 6 mesi di carcere, anche per aver avuto rapporti sessuali con la ragazzina ed averla pagata 100 euro per l’atto. Prostituzione minorile, cessione di stupefacenti e violenza sessuale, questi i capi d’accusa per Armando Cardarilli. Per quanto riguarda l’ultimo reato, il 57enne lo avrebbe commesso nel tentativo di ricattare la minorenne, minacciandola di diffondere un suo video pornografico se lei non avesse accettato ad avere un ultimo rapporto con lui. Secondo quanto denunciato dalla vittima, dopo aver conosciuto Cardarilli su di un sito per incontri, le ha dato della cocaina dopo un rapporto sessuale, il giorno seguente l’ha persino accompagnata a scuola. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando l’uomo ha cercato di organizzare un’agenda di prostituzione per lei, da allora ha iniziato a farsi chiamare “Il Professore”. Dopo averle procurato un cliente, riceve un rifiuto da parte della ragazzina che decide di uscire dal giro: è in questo momento che la minaccia, spingendola invece a proseguire con la denuncia. Nessuno ha mai trovato il filmato nominato da Armando Cardarilli, anche se è plausibile esista dato che la sua casa è piena di telecamere, ora lui passerà 6 mesi dietro le sbarre.

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera” il 24 ottobre 2020. «Il professore». Così per due mesi Armando Cardarilli, dipendente del governatorato della Santa Sede, direzione Telecomunicazioni, si è fatto chiamare da Laura (nome di fantasia), una liceale conosciuta sul web. Motivo del nomignolo: l' insegnamento impartito al la ragazza, 17 anni, su come intrattenere i clienti attraverso video hard. Ora «Il professore», 57 anni, esperto informatico, sospeso dal lavoro, è stato condannato a sei anni di carcere per aver fatto prostituire la studentessa, con cui si a sua volta è intrattenuto numerose volte pagandole ogni incontro cento euro. Le accuse contestate: prostituzione minorile, cessione di stupefacenti e tentata violenza sessuale. Reato quest' ultimo che Cardarilli avrebbe commesso quando ha provato a ricattare Laura minacciandola di diffondere un loro filmato hot se lei non si fosse convinta ad avere un ultimo rapporto intimo. La giovane però non ha ceduto alle pressioni, anzi si è ribellata al ricatto andando a denunciare il 57enne, nonostante la paura che diffondesse davvero il video. L' incontro tra l' informatico e la studentessa risale all' aprile del 2019, quando una sera Laura scopre che, a contattarla sul suo profilo sul sito «Bacheca incontri», è un tale Armando. Per qualche sera chattano, finché «l' Armando» - come Cardarilli s' identifica nelle prime conversazioni online - convince la ragazza a vedersi. Da quel momento i due hanno frequenti rapporti, sempre a pagamento. Lui - difeso dall' avvocato Marco Zaccaria - le fornisce anche cocaina. Succede le volte in cui Laura si ferma a dormire a casa sua dopo aver avuto un rapporto. Lui si premunisce persino di accompagnarla a scuola la mattina successiva. A un certo punto c' è una «svolta»: l' imputato cerca di organizzare un' agenda d' incontri alla studentessa. Le dice che vale almeno 300 euro a incontro e poi le mostra video a luci rosse per trasformarla in una prostituta. È da quando iniziano queste «lezioni» che Cardarilli chiede di essere chiamato «Il professore». Il 57enne trova alla 17enne pure un cliente, un tale «Luca Pezzolo», 34 anni. Laura e «Pezzolo» - che non è stato identificato - però non s' incontreranno mai. La studentessa, infatti, decide di troncare con quel mondo creato da Cardarilli. Ha paura della dipendenza dalla cocaina perché in un caso è stata male. Comunica quindi all' informatico la sua scelta. Il 57enne, però, reagisce male. Dice alla giovane che vuole un ultimo rapporto, altrimenti utilizzerà un loro video hard per screditarla. All'inizio Laura ha paura. Un timore fondato perché Cardarilli ha la casa disseminata di telecamere. Tuttavia Laura non si arrende e seppure con il timore di vedere il filmino finire su internet denuncia il 57enne, che viene arrestato su richiesta del pm Antonio Verdi. Della clip, finora, non è mai stata rinvenuta traccia.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 16 ottobre 2020. In Polonia un caso di pedofilia sta choccando l'opinione pubblica anche perché sta mettendo in dubbio la figura del cardinale Stanislaw Dziwisz, ex segretario personale di San Giovanni Paolo II, sospettato - assieme ai vescovi polacchi - di non essersi mosso per far luce sulla scabrosa vicenda riguardante Janusz Szymik, presunta vittima di padre Jan Wodniak, abusato quando era ragazzino. Il National Catholic Reporter si chiede perché una vittima deve ancora lottare per la giustizia per oltre 25 anni. Szymik afferma che tra il 1984 e il 1989 fu costretto a subire quasi 500 abusi sessuali da padre Wodniak nel villaggio di Miedzybrodzie Bialskie, circa due ore a sud-est di Cracovia. «Durò tutto così a lungo perché ero un bambino che veniva messo all'angolo, vivevo in una trappola perché non c'era nessuno a cui potevo rivolgermi per chiedere aiuto, e Wodniak lo sapeva perfettamente», ha spiegato Szymik al NCR, aggiungendo che a causa di questa esperienza traumatizzante è arrivato a sfiorare il suicidio. Dal 1992 il paese in cui Szymik è stato abusato è diventato parte di una nuova diocesi, Bielsko-Zywiec, fondata da San Giovanni Paolo II. Una diocesi diretta da uno dei più stretti collaboratori del Papa: il vescovo Tadeusz Rakoczy. «Nel 1993, andai a denunciare gli abusi dal vescovo Rakoczy, sperando che fosse dalla parte della vittima e non di chi abusava. Ho scritto anche una memoria relativa al periodo 1984-1989. Purtroppo né il vescovo né nessun altro della curia vescovile mi ha mai contattato in merito». Quando Szymik si rese conto che il vescovo non intendeva assumere provvedimenti in merito, decise di fare rapporto alla procura ma anche in quel caso andò male. «Il mio capo all'epoca mi venne a trovare e mi chiese di ritirare la denuncia. Cosa che ho fatto perché avevo paura di perdere il lavoro». Tuttavia la notifica di Janusz Szymik fu regolarmente registrata presso l'ufficio del procuratore distrettuale di Zywiec nel 1993 e fu archiviata lo stesso anno. Per parecchio tempo la vittima fu costretta a restare in silenzio, poi nel 2007, davanti a notizie di altri casi di abuso, e dopo la promulgazione del Motu Proprio Sacramentorum sanctitatis tutela da parte del Vaticano contro la piaga della pedofilia, si fece coraggio e ritentò. «Sono dunque tornato dal vescovo e ho presentato il mio rapporto dove descrivevo quello che era accaduto dal 1984 al 1989. Più tardi venni a sapere che i miei appunti erano stati messi nelle mani del cardinale Stanislaw Dziwisz. Anche stavolta nessuno della curia di Cracovia mi contattò». A conferma di quanto raccontato da Szymik, un sacerdote di Cracovia ha detto a NCR che i documenti furono effettivamente consegnati a Dziwisz. Nel frattempo di questo caso si sta interessando anche la Fondazione Fratel Albert, uno dei più grandi gruppi no-profit della Polonia che aiuta le persone con disabilità fisiche o mentali. Il cardinale Dziwisz però si difende con forza e nega di avere mai ricevuto informazioni su un possibile insabbiamento. «Non rispondo solo in base alla memoria, ma anche dopo aver controllato nei relativi registri della curia: posso dire che non c'è traccia di corrispondenza da parte di nessuno. In genere ogni lettera che ricevo viene protocollata e riceve una puntuale risposta».

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 20 luglio 2020. Dal 2000 al 2020, la Chiesa cattolica è stata umiliata per le gesta dei preti pedofili e abusatori. Per vent' anni, Vaticano e gerarchie cattoliche sono stati guardati come la Spectre della pedofilia universale. Eppure, comparando i dati oggettivi e indipendenti, come "categoria professionale" quella clericale è stata tra le meno colpite da questa lebbra morale. I più recenti stimano a 80 mila gli italiani (30 per cento donne) che "villeggiano" nel Sud del mondo per darsi a questo vizio. Gli italiani sono tra i primi fruitori di bimbe e bimbi (dai 5 ai 12 anni) in Thailandia, Santo Domingo, Colombia, Brasile. E sono i primi in Kenya nell'abuso di circa 15 mila bambine (all'anno), il 30 per cento vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. Tanto ha potuto il martellamento messo in atto dai media anglosassoni, nel mostrare il dito e nascondere la luna. I prossimi decenni si annunciano sotto l'ombra universale di un altro falso, quello secondo cui i soldi offerti alla Chiesa dovrebbero essere unicamente destinati ai poveri, senza alcuna considerazione per le necessità di gestione delle opere e dei luoghi di culto. I migliori alleati di questa montante ondata di fango? Le autorità vaticane, quelle giudiziarie in primis, che ad ogni atto imitano il malcostume delle procure italiane diffondendo comunicati ricchi di sottintesi capaci di alimentare cattivi pensieri. Per un conto privato (150 mila euro) bloccato allo Ior, la stampa si è sentita autorizzata dal fumoso comunicato dei promotori di giustizia, gli avvocati Milano e Diddi, a teorizzare addirittura un «finanziamento al terrorismo». Su questa nuova ondata di miserie dovrebbe vigilare il Dicastero della Comunicazione. Pare vi lavorino giornalisti consapevoli di dove vada a parare una campagna di stampa. Pare. 

Tra voci sull'”adrenocromo” e pedofilia reale, certa moda ammicca agli orchi? Da Il blog di Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 6 luglio 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

L’impressione è che si stia per scoperchiare un enorme, raccapricciante vaso di Pandora. Dell’altro ieri i 50 arresti in 15 regioni italiane per traffico di materiale pedopornografico che confermano anche il progressivo affermarsi dell’”infantofilia”: l’atroce abuso sui neonati, a volte persino impiegati – come è stato documentato - in pseudo-rituali a sfondo esoterico. Questo è confermato dall’Associazione “Meter”, fondata da don Fortunato Di Noto, che ha da poco divulgato il report 2019 nel quale si denuncia il raddoppio del materiale pedopornografico segnalato (7 milioni di foto rispetto ai 3 del 2018) e l’aumento pauroso di questa criminale parafilia forse in parte collegata anche alla sparizione di minori, decuplicata in Italia negli ultimi in 10 anni. Anche in Germania, Gran Bretagna, Belgio - scrive Benedetta Frigerio sulla Nuova Bussola Quotidiana - negli ultimi mesi, ci sono stati centinaia di arresti per violenze su migliaia di bambini, ma si teme a indagare nel mondo civile: le prove scompaiono, i bravi detective vengono sostituiti e i processi si arrestano. La Germania ha riconosciuto la corruzione di Polizia e istituzioni, ma le pene sono state minime. La grande stampa tace o riduce tutto a "brevi" di cronaca. Eppure l’argomento, sebbene scabrosissimo, sembrava giornalisticamente interessante, basti ricordare la tempesta di abusi da parte di preti citati dalla stampa durante l’ultimo anno di pontificato di Benedetto XVI. Poi è passato di moda. Alcuni cattolici fedeli al papa emerito sostengono che si fosse trattato di una precisa strategia per costringere Ratzinger alle dimissioni, peraltro recentemente messe in discussione in un nostro articolo tradotto in quattro lingue dal decano dei vaticanisti italiani, Marco Tosatti. Eppure, la situazione si è aggravata: le vociferazioni sul coinvolgimento delle “élite” progressiste in tali crimini sono diventate realmente ossessive negli Stati Uniti dove ormai il tema dell’”ADRENOCROMO” è conosciuto da tutti e viene messo in relazione al cosiddetto PIZZAGATE, vicenda oscurissima che ha visto coinvolto John Podesta, il braccio destro di Hillary Clinton e altri dem.  L’adrenocromo è una sostanza secreta per ossidazione dell’adrenalina da persone sottoposte a violenze e torture che, se assunta da altri, avrebbe un forte potere rivitalizzante per le cellule: una sorta di elisir di lunga vita. Tuttavia, siccome tale sostanza prodotta da adulti darebbe dei serissimi effetti collaterali, si preferirebbe – stando alla leggenda metropolitana - utilizzare quella proveniente da bambini. Una diceria ormai diffusissima in America vuole che siano stati scoperti dei tunnel dove sono stati segregati bambini a decine di migliaia, per essere torturati e utilizzati per l’estrazione di questo adrenocromo, di cui farebbero uso politici, attori, vip di area progressista. Tale scoperta dovrebbe essere divulgata da Trump a ridosso delle elezioni. Ovviamente si tratta di notizie del tutto NON VERIFICATE, ma l’insistenza con cui se ne parla è indicativa di un certo clima. Per quanto riguarda la reputazione delle cosiddette elite, non giova la foto choc – E QUESTA E’ UN FATTO -  che due giorni fa ha scandalizzato il Regno Unito: seduti sul trono di Elisabetta II, Kevin Spacey - sotto processo per abusi su minori - e l’amica di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, che procurava minorenni al magnate americano pedofilo, poi suicidatosi in carcere (almeno stando alle fonti ufficiali). E la posizione del principe Andrea, amico di Epstein e accusato da una ragazza allora minorenne, si complica. Eppure, nonostante il clima esplosivo e le raccapriccianti leggende che circolano, il mondo della moda sembra stranamente non comprendere.  Anzi, diciamo che qualcuno proprio “non collabora”.

Da alcuni giorni, sui social circola un video, segnalatoci dallo youtuber Decimo Toro, intitolato “Non lasciate che i vip demonizzino i vostri bambini le cui visualizzazioni stranamente sono passate da varie decine di migliaia (forse almeno 30-40.000 come ricordano alcuni, insieme allo scrivente) di due settimane fa ad appena 715. Perché? Poi si lamentano dei complottismi che vogliono i social “complici delle macchinazioni mondialiste". Mah. Comunque: in tale video si cita lo spot di una casa di moda per bambini israeliana, in cui la testimonial, una famosissima cantante canadese, si introduce nottetempo nel reparto maternità di un ospedale, scoprendo qualcosa per lei di inaccettabile: i neonati maschi sono vestiti di azzurro e le femmine di rosa. Così, soffiando su una polvere magica, fa riapparire i neonati abbigliati di nero e grigio, con teschi e pentacoli sui pigiamini, in compagnia di mostruosi bambolotti, sotto cupe croci greche (antico simbolo pagano) sospese nell’aria. E ancora, ovunque, occhi “onniveggenti”, simbolo degli Illuminati, il numero apocalittico 6, la piramide esoterica dei Rosacroce, alfabeti da tavola Ouija per la negromanzia. Insomma: l’Anticristo diventa chic? La tematica vera dello spot è però quella del GENDER: nascere maschi o femmine sarebbe un’”imposizione culturale”, da combattere. Il marchio era stato già accusato, nel 2018, di rimandi satanisteggianti per i suoi sinistri motivi decorativi, ma ora si scoprono ben altre foto del catalogo, che poco hanno a che vedere con suggestioni da Halloween: una bambina indossa una maglietta con la scritta “Ho” che in inglese vuol dire “puttana”. L’impronta di una manaccia adulta ricorre sul pigiamino di un neonato, sulla maglia di un maschietto e sul costume da bagno di una femminuccia entrambi di circa 10 anni. Ancora, due bimbe orientali sono riprese sotto una scritta al neon: “Let’s get physical”, “passiamo al contatto fisico”. È il titolo di una vecchia canzone sull’aerobica che recita: “L'amore comune non è per noi. Abbiamo creato qualcosa di fenomenale”. Altri bambini indossano magliette con la scritta “New order” che forse evoca il Nuovo ordine Mondiale (NWO) una teoria complottista che mescola satanismo, massoneria e pedofilia. Stando al sito del marchio israeliano, le due proprietarie seguono un’“agenda” vestendo “i bambini del futuro, consentendo loro di mettere in evidenza la loro essenza interiore, aiutandoli a combattere l'ingiustizia”. Ma perché questo apparentemente lodevole obiettivo dovrebbe essere fatto ammiccando esplicitamente ai simboli del Male, alla sessualizzazione precoce dei bambini e al loro sfruttamento? Cosa prevede questa “agenda”? Don Fortunato Di Noto, che con Meter da 30 anni combatte pedofilia e pedopornografia, spiega: «Preoccupa il pensiero dei “bambini del futuro”. I BAMBINI SONO BAMBINI e unico compito è aiutarli ad essere uomini e donne maturi, responsabili, rispettosi e che rifiutino la violenza, la discriminazione, l’oscurità del male, la manipolazione mentale, ogni tipo di colonialismo ideologico, qual è il gender, come dice Papa Francesco. È in corso una massiccia e continuata campagna ideologica sul fatto che “anche la pedofilia è amore”. Sappiamo benissimo che ci sono poteri internazionali che esercitano forti pressioni affinché l’uomo diventi indistinto dal punto di vista sessuale. Questo fa il gioco dei pedofili perché loro guardano ai bambini al di là del sesso di appartenenza”. Colpisce come anche una rivista internazionale di moda, dopo le polemiche furibonde del 2011 per i suoi scatti di baby-modelle di 7 anni in pose sexy, nell’ultimo numero di giugno pubblichi un servizio intitolato “Our New World” (NWO?) dove, oltre a curiose fiabe europeiste, spiccano foto con bimbi seminudi e in pose “adulte”, opera di contestatissimi fotografi come Tierney Gearon. La stessa, che ha suscitato scandali tanto da far intervenire Scotland Yard, ama infatti fotografare bambini e adulti nudi insieme, piccoli seminudi spaventati da mostri o imprigionati in piramidi, bimbe scosciate. La risposta è sempre quella: “E’ arte, la malizia è solo di chi guarda”. Può essere, ma siccome la realtà ci propone una situazione di aggressione all’infanzia mai vista nella storia, anche nello sdoganamento culturale della pedofilia, la domanda lecita è: “Perché?”. In tale contesto, dove campagne come quella del marchio israeliano, almeno al solo LIVELLO DI MARKETING, confondono le carte tra “diritti civili”, genderismo e ammiccamenti alla sessualizzazione precoce dei bambini, preoccupa il ddl Zan-Scalfarotto “contro l’omotransfobia” sostenuto da Pd e M5S, depositato il 30 giugno in Commissione Giustizia alla Camera. In questi giorni in tutta Italia si stanno preparando manifestazioni contro il ddl visto come liberticida per le sue pesanti sanzioni contro chiunque si opponga all’indottrinamento lgbt per i bambini.

La Cei ha infatti protestato contro il disegno di legge, dato che metterebbe il bavaglio alle più elementari basi della dottrina cattolica, per la quale la pratica del sesso omosessuale resta un grave peccato e disordine morale,  ma colpisce un silenzio assordante: quello di Papa Francesco, che, pure, sempre pronto a pronunciarsi nelle questioni italiane, soprattutto in materia di migranti, in questi giorni non ha detto assolutamente nulla sul ddl, lasciando sbigottita buona parte dei cattolici, quegli stessi pro-vita che si sentirono già abbandonati ai tempi del Family Day. Tale silenzio offre poi facilmente adito ai detrattori di Bergoglio che lo accusano di tacere per non perdere l’appoggio delle lobby gay-massoniche del clero e per proseguire sulla tabella di marcia del Nuovo ordine Mondiale. Insomma: dal punto di vista comunicativo, il silenzio di Francesco appare abbastanza disastroso. Anche perché, se questa legge - che lascia spiragli interpretativi molto ampi - fosse già in vigore, don Di Noto potrebbe essere spedito in galera per le dichiarazioni di cui sopra. E alla già insufficiente lotta alle atroci aggressioni all’infanzia denunciate da associazioni come Meter, il ddl Zan-Scalfarotto non gioverebbe di certo. Alcuni se ne potrebbero servire per blindare una svolta culturale che cambierebbe radicalmente l’idea che, da un paio di milioni di anni, abbiamo dell’infanzia.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 16 giugno 2020. Una iniziativa del genere per la Cei sarebbe semplicemente pura fantascienza. A Limburg il vescovo Georg Baetzing (che è anche presidente della Conferenza Episcopale) ha iniziato a pubblicare - per la prima volta - tutti i nomi dei vescovi, dei vicari generali e dei dirigenti diocesani che, negli anni passati, hanno insabbiato le cause dei preti pedofili, e hanno contribuito ai trasferimenti dei parroci abusatori in altre parrocchie o in altre zone della Germania, rendendo in questo modo ancora più traumatica l'esperienza delle vittime degli abusi. In questa lista, ha informato la KNA, l'agenzia dell'episcopato tedesco, è incluso anche il precedente vescovo di Limburg, Franz Kamphaus, così come il vicario generale, monsignor Raban Tilmann. L'iniziativa concretizzata in questi giorni ha in realtà una lunga storia e genesi, e  nasce dal bisogno sempre più crescente dell'opinione pubblica di avere a che fare con una Chiesa trasparente. Per realizzare questa lista è stato necessario un laborioso lavoro di ricostruzione ed indagini interne nella diocesi di Limburg. In tutto si tratta di un rapporto monstre, di circa 420 pagine. «Dovevano essere prese delle misure, cosa che è stata fatta, anche se sono dolorose e hanno alimentato accese discussioni» ha spiegato Baetzing, fautore della linea della trasparenza totale. Una strategia, a suo parere, necessaria per fare riacquistare alla gente fiducia nella Chiesa. Il rapporto è frutto di un lavoro di squadra che ha richiesto l'apporto professionale di una settantina di esperti incaricati di setacciare i documenti diocesani dal 1950 ad oggi. Una piattaforma dalla quale elaborare una strategia capace di indicare come prevenire ogni rischio in futuro. In un passaggio della relazione, a proposito dell'operato di un  prelato di nome Wanka che in precedenza era stato responsabile dell'ufficio del personale, si legge: «egli ha ammesso inizialmente in una dichiarazione scritta che nel caso del sacerdote accusato C., aveva commesso gravi errori nella percezione e nella successiva valutazione dell'abuso sessuale che è stata nel frattempo accertata. A tale riguardo, il ricorrente sostiene di non aver chiesto informazioni con maggiore fermezza, perseveranza e precisione. Secondo il suo attuale stato di conoscenza, egli valuta l'abuso sessuale in modo diverso e giunge a conclusioni diverse. Inoltre, tutti i membri della Camera del personale sono stati sempre informati tempestivamente quando sono pervenute le prime segnalazioni relative a comportamenti sessuali da parte di un chierico. A questo proposito, dalle informazioni fornite dal prelato Wanka si deduce che, a causa del comitato interno composto da 35 membri, sono state registrate solo le decisioni rilevanti per il trasferimento, al fine di preservare la riservatezza».

Da ilmessaggero.it il 7 aprile 2020. La comunità dei credenti di Villavicencio, una cittadina colombiana nella terra della guerriglia, è sotto choc dopo l'annuncio di sospendere 15 sacerdoti sotto inchiesta per presunti abusi sessuali. Una specie di maxi retata. La notizia è stata confermata dalla stessa chiesa locale che in un comunicato ha rivelato di aver ricevuto il 14 febbraio una denuncia di una persona riguardante «fatti contro la morale sessuale da parte di alcuni sacerdoti». A seguito di questo, la Commissione arcidiocesana di protezione dei minori ha informato della vicenda la Procura, offrendo la disponibilità a «collaborare con le indaghino che dovessero svolgersi su questo caso». Contemporaneamente la chiesa colombiana ha aperto una indagine preliminare per permettere l'avvio del «processo canonico penale» previsto per questi casi, rispettando i diritti degli imputati. Nella sua comunicazione l'Archidiocesi ha manifestato «profondo dolore per questa situazione», assicurando che «le vittime e le loro famiglie verranno per noi prima di tutto», nell'impegno di sradicare «il terribile male degli abusi dentro e fuori della nostra istituzione». Secondo Radio Caracol di Bogotà, infine, ai 15 sacerdoti sotto inchiesta se ne aggiungerebbero altri quattro, due dei quali si trovano in dipartimenti colombiani (Meta e Guaviare) e altri due in Italia e Stati Uniti. Papa Francesco aveva visitato Villavicencio durante il suo viaggio in Colombia tre anni fa.

Il Papa: “Prego per chi ha subito una sentenza ingiusta”. Il Dubbio il 7 aprile 2020. Nel giorno dell’assoluzione del Cardinale Pell Francesco cita la persecuzione di Gesù da parte dei dottori della legge. Introducendo la messa del mattino a Casa Santa Marta, riportata da Vatican News, il Papa legge un’antifona tratta dal Salmo 26: “Non consegnarmi in potere dei miei nemici; contro di me sono insorti falsi testimoni, gente che spira violenza”. Quindi aggiunge: “In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento”. E’ di oggi la notizia del proscioglimento, all’ultimo grado della giustizia australiana, del cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede, che stava scontando una condanna a 6 anni per abuso su minori.

L’accusa di pedofilia, otto anni di processi. Poi l’assoluzione…Il Dubbio il 13 aprile 2020. Il racconto del prete accusato di aver abusato di minori: “”Il momento più buio è stato vedere il mio nome appeso fuori dall’aula del tribunale: in quell’attimo ho capito di essere un uomo costretto a dimostrare la sua innocenza, senza essere un colpevole.” “Il momento più buio è stato vedere il mio nome appeso fuori dall’aula del tribunale: in quell’attimo ho capito di essere un uomo costretto a dimostrare la sua innocenza, senza essere un colpevole. Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie”. E’ iniziata così, con queste parole di dolore, la meditazione scritta e recitata venerdì scorso da don M, un prete accusato di pedofilia e assolto dopo otto lunghi anni di processi e pene infinite. Una storia che il Papa ha voluto venisse raccontata nella Via Crucis di venerdì scorso: “Ogni volta, nei tribunali, cercavo il Crocifisso appeso: lo fissavo mentre la legge investigava sulla mia storia. La vergogna, per un istante, mi ha condotto al pensiero che sarebbe stato meglio farla finita”, racconta il prete.

Infine la liberazione: “Il giorno in cui sono stato assolto con formula piena, ho scoperto di essere più felice di dieci anni fa: ho toccato con mano l’azione di Dio nella mia vita. Appeso in croce, il mio sacerdozio si è illuminato.” 

Pedofilia, il cardinale George Pell prosciolto dall'Alta Corte australiana. Il porporato, condannato a 6 anni, torna in libertà. La Repubblica il 7 aprile 2020. Clamorosa sentenza dell'Alta corte australiana. E' libero il cardinale Geroge Pell, che stava scontando una condanna a 6 anni per pedofilia nel suo Paese. Il porporato di 78 anni, ex capo della Segreteria per l'Economia del Vaticano, ha vinto il ricorso presso l'Alta Corte australiana che ha deciso il suo proscioglimento. Era rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Barwon, in seguito alla sentenza emessa a dicembre del 2018 che lo ha riconosciuto colpevole di molestie sessuali nei confronti di chierichetti nella cattedrale di Melbourne 20 anni fa. Lui si è sempre dichiarato innocente. Il proscioglimento ha rimediato ad "una seria ingiustizia" ha detto il cardinale George Pell, commentando la sentenza dell'Alta Corte australiana che lo ha prosciolto rispetto alle accuse di pedofilia. In una nota, diffusa prima del suo rilascio, Pell ha detto che il suo processo "non è nè un referendum sulla Chiesa cattolica e nè un referendum su come le autorità della Chiesa in Australia affrontano i casi di pedofilia".

Il cardinale Pell assolto dall’accusa di pedofilia. Il Dubbio il 7 aprile 2020. L’Alta corte australiana: «Possibilità che un innocente sia stato condannato con prove che non ne attestano la colpevolezza». Il cardinale australiano George Pell è stato prosciolto da ogni accusa dall’Alta corte, l’organo che rappresenta l’ultimo grado di giudizio in Australia. Ribaltata, dunque, la sentenza della Corte d’Appello dello stato di Victoria, che lo scorso agosto aveva dichiarato colpevole Pell di aver abusato sessualmente nel 1996 di due coristi di 13 anni. Il cardinale era stato condannato sulla base di cinque capi di imputazione, diventando così il primo vescovo dichiarato colpevole in un tribunale penale per abusi sessuali su minori. Tuttavia, l’Alta corte ha riscontrato che per tutti e cinque i capi di accusa sono presenti diversi elementi d’improbabilità non prese in considerazione dalla giuria. Secondo l’Alta corte, infatti, esiste «una significativa possibilità» che «una persona innocente sia stata condannata». I sette giudici dell’Alta corte australiana hanno deciso il verdetto all’unanimità. Secondo la sintesi del dispositivo della sentenza di oggi, letta in un’aula semivuota per via dell’emergenza del coronavirus, sussiste una «significativa possibilità che un uomo innocente sia stato condannato a causa di prove che non ne attestassero la colpevolezza secondo gli standard richiesti». In altre parole: insufficienti, ma non se ne è tenuto conto. Nessun commento al momento dal Vaticano. Ma stamane, celebrando la messa a Santa Marta, lo stesso Papa Francesco ha invitato a pregare per quanti sono rimasti vittima di una sentenza ingiusta, motivata dall’accanimento. «In questi giorni di Quaresima», ha detto il Pontefice all’inizio liturgia trasmessa in streaming e seguita non solo in Italia, «abbiamo visto come i dottori della legge si siano accaniti contro Gesù, come lo abbiano giudicato con accanimento. Chiedo di pregare per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per accanimento». Come dice il Salmo 26: «Non consegnarmi in potere dei miei nemici; contro di me sono insorti falsi testimoni, gente che spira violenza». Con ogni probabilità la notizia dell’assoluzione definitiva di Pell gli era già giunta.

Pell: “Corretta una grave ingiustizia”. Dopo la sentenza, l’ex tesoriere vaticano ha commentato che è stata «corretta una grave ingiustizia».  Il porporato 78enne, che si è sempre dichiarato innocente, è tornato in libertà, ha lasciato il carcere di Barwon per recarsi in un istituto religioso presso Melbourne. Il cardinale Pell, dopo la decisione dell’Alta Corte, ha ribadito di aver «costantemente sostenuto» la sua innocenza e che l’ingiustizia che ha ricevuto è stata ora sanata. Rivolgendosi alla persona che lo ha accusato per un fatto avvenuto negli anni ’90, a quel tempo un chierichetto della Cattedrale di Melbourne, il porporato ha detto di non provare risentimento. «La base della guarigione a lungo termine – ha affermato – è la verità e l’unica base della giustizia è la verità, perché giustizia significa verità per tutti». Il porporato ha ringraziato i legali e tutti coloro che hanno pregato per lui e lo hanno aiutato e confortato in questo tempo difficile.

Chi è Pell. George Pell, di anni 78, cardinale di Santa Romana Chiesa, è stato uno dei consiglieri più fidati del Pontefice. Condannato a sei anni per pedofilia in un giudizio, viene stabilito dall’Alta Corte australiana, viziato dall’incuria. L’errore giudiziario è stato commesso a Melbourne, la sentenza che all’unanimità lo ha capovolto è stata emessa a Brisbane. Nel mezzo un lungo periodo di incarcerazione per un prelato cui Bergoglio aveva affidato una gestione pulita e trasparente delle risorse finanziarie della Chiesa. Doppia la valenza del caso: per la funzione dell’uomo nella gerarchia vaticana e per il tipo di accusa mossagli. In un solo colpo dubbi venivano sollevati sulla volontà e sulla capacità della Chiesa di combattere battaglie essenziali, indicate come obiettivi primari nell’ambito del rinnovamento della comunità cattolica ai suoi massimi livelli. Per non dire delle voci che sussurravano riguardo la capacità di discernimento del Pontefice nello scegliersi i collaboratori. Ma la vicenda non è rimasta senza conseguenze personali: amareggiato dalla scia di polemiche e sospetti, desideroso di voltare e far voltare pagina alla Chiesa francese, il prelato ha insistito per lasciare l’incarico, e Francesco ne ha accettato definitivamente le dimissioni un mese fa.

Le reazioni. Il primo ministro australiano Scott Morrison ha commentato: «Deve essere rispettata» la decisione dell’Alta Corte di prosciogliere dalle accuse di pedofilia il cardinale George Pell. Continuare «a discutere di queste cose non fa altro che causare molto dolore» a molti australiani «e quando queste cose accadono, i miei pensieri sono sempre con loro», ha aggiunto Morrison. «L’Alta Corte, il tribunale più importante, ha preso la sua decisione e deve essere rispettata», ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa a Canberra sull’emergenza coronavirus. Anche Matteo Renzi è intervenuto: “Ciò che è accaduto al cardinale australiano Pell è incredibile. La persecuzione nei suoi confronti è una delle pagine nere della (in)giustizia mondiale. Oggi che emerge la verità, molti dovrebbero farsi qualche domanda. Buona Pasqua al Cardinale e a chi soffre per false accuse”.

Finita la caccia alle streghe, Pell assolto dopo anni di tritacarne. Paolo Guzzanti de Il Riformista l'8 Aprile 2020. Ho dovuto superare un primo momento interno di vigliaccheria: e adesso? Come commentare l’assoluzione, con formula piena per non aver commesso il fatto, di un vecchio cardinale accusato e per due volte condannato, di pedofilia? Non sarebbe obbligatorio dire – coi tempi da caccia al le streghe che corrono – che un grave delitto è stato commesso dall’Alta corte australiana che ha deciso di assolvere il cardinale George Pell dal marchio dell’infamia? Il momento di mia personale viltà sta in questo: va bene sparare contro il governo, passi fare il tifo per Trump (per quanto…) ti senti – mi sento – perfino in colpa per il mio adorato matto-da-legare Boris Johnson che porta sul volto la pena del virus e la minaccia della morte che aveva imprudentemente sfidato, passi tutto: ma sei sicuro che sia il caso di applaudire una sentenza contro un prete che era stato accusato di pedofilia? Non avevamo forse detto che tutti questi luridi maiali devono finalmente pagarla e soccombere nella galera e nella vergogna? E adesso ci troviamo di fronte a questo disgraziato prelato che si è già fatto un anno di cella d’isolamento, dopo due processi conclusi con una condanna, e che si vede da un giorno all’altro riconosciuta la totale innocenza e la restituzione dell’onore, oltre che della libertà. Dei due accusatori che avevano nutrito le accuse contro il vecchio prelato, uno ha detto di essersi inventato tutto in compagnia dell’altro, che nel frattempo è morto. I giudici della Corte suprema australiana sono sette e tutti e sette hanno emesso un verdetto di innocenza perché il fatto non sussiste: il vecchio prete e principe della Chiesa non ha compiuto alcun abuso sessuale su alcun bambino, benché fosse per queste accuse finito nel tritacarne del trend in corso che impone di mettere nel tritacarne chiunque sia soltanto accusato di essersi unito a Satana, cioè di essere un pedofilo. Il Papa ha reagito con sollievo. Senza esagerare perché è stato proprio Bergoglio, finalmente, a spezzare la catena di omissioni, complicità e cover-up ecclesiali che aveva reso famosa in senso demoniaco Santa madre Chiesta apostolica romana. Ha detto di voler pregare per tutti gli innocenti condannati ingiustamente. È stato composto. Non ha cantato vittoria, se non perché in questo caso la vittoria coincide con la verità. Francesco è un Papa di sinistra, è stato sempre vicino alla Chiesa latino-americana dei curati con mitra e crocefisso. E ha avuto il coraggio di mollare tutta quella parte della Chiesa che aveva protetto se stessa, vizi compresi, e andandosene a vivere a Santa Marta, disertando le dorate stanze vaticane. Aveva deciso di tagliare questo nodo della pedofilia che è il marchio dell’infamia cattolica: ovunque, ma specialmente nelle nazioni di lingua inglese, sono saltate fuori generazioni di uomini e donne che hanno dichiarato di avere avuto la vita distrutta dagli abusi sessuali subiti in sacrestia, in parrocchia, negli spogliatoi della squadra di calcetto o nel confessionale. Dunque, i tempi sono quelli della giustizia che impugna la spada di fuoco. Il cardinale Pell era stato scelto, all’inizio del suo pontificato, da Jorge Bergoglio come segretario di Stato agli affari generali ed economici, avendo di lui una stima personale. L’accusa di pedofilia ha spezzato la carriera di Pell ed è stata certamente una coltellata per Bergoglio, che però non ha fatto una mossa, almeno in pubblico, per difendere l’uomo che aveva scelto nel suo governo. L’Australia è lontana, ma non troppo: le notizie dei processi ai preti cattolici accusati di aver cercato rimedio al celibato dedicandosi ai minori che si trovavano a disposizione, sono diventate il pane quotidiano per una campagna non soltanto giudiziaria, non soltanto a favore dei diritti del bambino e dei minori, ma anche a favore di una corrente di pensiero che si sta affermando con rabbia perentoria: i preti, tutti pedofili. Gli uomini, tutti stupratori. Ecco perché provo timore a scrivere di questa assoluzione. Perché occorre sapersi opporre insieme sia a ogni caccia alle streghe, che alla tentazione dei minimizzatori dell’infamia dei crimini di pedofilia e abusi sessuali. Confesso, di non essere un fan sfegatato di Bergoglio. Ma in questa occasione, oltre che per la sua aperta richiesta di salute e giustizia per i detenuti, il papa è sembrato compostamente perfetto: avrebbe potuto gridare: ne ero sicuro, non poteva essere che così, oppure, per la political correctness in cui si è un po’ troppo impigliato, avrebbe potuto ignorare e mollare il vecchio prete assolto, ma che ancora irradia colpevolezza mediatica. Non lo ha fatto. E ha mostrato il profondo dolore per la sofferenza di tutti gli innocenti ingiustamente avviati sul calvario dell’ingiusto processo, dell’ingiusta condanna, fra ali di plaudenti con i forconi. È stato un esercizio di stile, se possiamo laicamente permetterci, da cristiano credibile. E ha autorizzato l’uscita di una nota che non mette al primo posto il riconoscimento dell’innocenza di George Pell, ma “la fiducia nell’autorità giudiziaria australiana”. Anche questo ci sembra un esercizio di stile che piace a noi laici perché implica il riconoscimento della sottomissione degli uomini della Chiesa alla giustizia degli Stati, nelle cause che mettono alla sbarra i comportamenti del clero cattolico in una società fondamentalmente protestante. Il cardinale Pell è stato a sua volta scarno e molto civile: ha subito una violenza fisica reale, avendo passato alla sua età prossima agli ottanta, in una cella d’isolamento in galera, dopo anni di gogna e di rogo mediatico.

Gianni Cardinale per “Avvenire” l'8 aprile 2020. Il cardinale George Pell è innocente. Lo ha stabilito in maniera definitiva l' Alta Corte australiana che lo ha prosciolto dall' accusa infamante di abuso su minori, ribaltando la sentenza della Corte d' appello emessa nell' agosto dell' anno scorso che confermava la decisione del Tribunale di Melbourne del dicembre 2018. Il porporato, che compirà 79 anni a giugno, si è sempre dichiarato innocente. E ora la giustizia australiana gli ha dato finalmente ragione. È stato subito liberato e ha lasciato il carcere di Barwon per recarsi in un istituto religioso a Melbourne. La Santa Sede ha accolto la sentenza «con favore». I sette giudici della suprema istanza giudiziaria australiana hanno deciso il verdetto all' unanimità. E in una nota hanno spiegato che Corte d' appello nella sentenza di condanna «ha mancato di affrontare la questione se rimaneva una ragionevole possibilità che il reato non avesse avuto luogo», cioè dell' assenza di ogni ragionevole dubbio. L'Alta Corte ha poi ritenuto che le testimonianze di altri testimoni erano incongruenti con quella del denunciante». Pell ha ribadito di aver «costantemente sostenuto» la sua innocenza e che l'ingiustizia che ha ricevuto è stata ora sanata. Rivolgendosi alla persona che lo ha accusato il porporato ha detto di non nutrire alcun risentimento. Quindi ha auspicato che la sua assoluzione non aggiunga altro dolore. Nella sua dichiarazione Pell ha poi affermato: «Il mio processo non era un referendum sulla Chiesa cattolica, né un referendum sul modo in cui le autorità della Chiesa in Australia hanno fronteggiato il crimine di pedofilia nella Chiesa. Il punto era solo se io avevo o no commesso quei crimini orribili, e io non li ho commessi». Pell ha ringraziato quindi i suoi legali e tutti coloro che hanno pregato per lui e lo hanno aiutato e confortato in questo tempo difficile. Il porporato infatti ha trascorso ben tredici mesi in prigione. E, secondo quanto riferito all' emittente statunitense Ewtn da John Macauley, che è stato ministrante del cardinale, a Pell sarebbe stato vietato di celebrare la Messa e anche di tenere e leggere il breviario. A nome della Conferenza episcopale australiana, il suo presidente, l'arcivescovo di Brisbane, Mark Coleridge, ha riconosciuto che la decisione dell' Alta Corte sarà accolta con favore da coloro che credono nell' innocenza del cardinale, mentre sarà devastante per gli altri. Quindi ha ribadito l' impegno incrollabile della Chiesa per la sicurezza dei bambini e per una risposta efficace ai sopravvissuti e alle vittime di abusi sessuali su minori. Da parte sua l'arcivescovo di Sydney, Anthony Fisher, ha ringraziato i giudici per la loro «meticolosa revisione dei fatti» che ha portato all' assoluzione. Ma ha aggiunto: «Questo non è stato solo un processo al cardinale Pell, ma anche al nostro sistema giuridico e alla nostra cultura. La sentenza invita a una più ampia riflessione sul nostro sistema di giustizia, sul nostro impegno per la presunzione di innocenza e sul trattamento di figure di alto profilo accusate di crimini». Pell è stato arcivescovo di Melbourne dal 1996 al 2001 quando è stato trasferito alla sede di Sydney. Creato cardinale nel 2003, dal 2014 al 2019 è stato prefetto della Segreteria vaticana per l'economia. Come osservato da VaticanNews in tutta questa vicenda, la Santa Sede ha sempre preso atto delle decisioni dei giudici australiani, ribadendo il massimo rispetto per le autorità giudiziarie nei suoi vari gradi, ma restando in attesa di conoscere gli eventuali ulteriori sviluppi del procedimento. Ieri con un comunicato della Sala Stampa vaticana la Santa Sede, rimarcando che «ha sempre riposto fiducia nell'autorità giudiziaria australiana», ha accolto «con favore la sentenza unanime pronunciata dall' Alta Corte». La nota sottolinea come il porporato - «nel rimettersi al giudizio della magistratura» - abbia «sempre ribadito la propria innocenza, attendendo che la verità fosse accertata ». Con l'occasione poi la Santa Sede ha riaffermato «il proprio impegno a prevenire e perseguire ogni abuso nei confronti dei minori». Ieri mattina nella Messa a Santa Marta, celebrata quando già si conosceva la sentenza pronunciata in Australia mentre a Roma era notte fonda, papa Francesco nell' introdurre il rito, senza fare riferimento esplicito alla vicenda, ha rivolto il suo pensiero agli innocenti perseguitati. «In questi giorni di Quaresima - ha detto - abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l' accanimento». La sentenza dell' Alta Corte ribalta quindi quella di primo grado confermata lo scorso agosto dalla Corte d' appello di tre giudici dello Stato di Victoria con un voto di due a uno. La condanna era stata di 6 anni, con 3 anni e otto mesi da scontare prima di una eventuale libertà condizionale. Pell era stato dichiarato colpevole di aver abusato sessualmente nel 1996 nella sacrestia della Cattedrale di Melbourne, quando era arcivescovo della diocesi, di due coristi di 13 anni sorpresi a bere il vino della Messa. Ricorrendo all'Alta Corte i legali di Pell si sono basati in gran parte sull'opinione dissenziente del terzo giudice della Corte d'appello, che aveva messo in dubbio la credibilità e l'affidabilità dell' unica vittima ancora in vita, raccomandando il proscioglimento da ogni accusa. L'avvocato di Pell, Bret Walker, aveva sostenuto che i giurati che avevano condannato il cardinale in prima istanza avevano sbagliato a respingere le argomentazioni della difesa sull'improbabilità dell' offesa. Aveva affermato che vi era tempo insufficiente per commettere le molestie, che la Cattedrale era un alveare di attività e che comunque sarebbe stato fisicamente impossibile scostare gli ingombranti paramenti per commettere l'aggressione. Walker aveva inoltre ricordato che il maestro di cerimonie di Pell al tempo dei fatti ha testimoniato durante il processo che Pell dopo la Messa sarebbe rimasto sui gradini della Cattedrale per salutare i parrocchiani e non avrebbe avuto alcuna possibilità di commettere i reati in sagrestia. E aveva chiesto che la condanna venisse annullata e Pell fosse rilasciato. L' Alta Corte ha fatto proprio questo.

Alessia Grossi per “il Fatto quotidiano” il 15 aprile 2020. Il sapore dell' innocenza George Pell l'ha assaporato per una sola settimana. Rilasciato martedì dall' Alta Corte australiana - che ha annullato la sentenza del Tribunale di Melbourne che lo aveva condannato per violenza sessuale su due minori ritenendo quella decisione sbagliata perché non teneva conto del ragionevole dubbio - ora il cardinale simbolo della pedofilia nel clero si trova a dover affrontare un' altra accusa per lo stesso reato. Un' inchiesta annunciata dalla News Corporation, che in realtà era nell' aria già il giorno del rilascio dell' alto prelato che in prigione aveva passato 400 giorni "da innocente" come lui stesso aveva sottolineato. Questa volta l' atto di pedofilia - già noto e sempre negato con veemenza dal cardinale - risalirebbe agli anni 70, quando Pell esercitava il sacerdozio nella città vittoriana di Ballarat. La polizia di Victoria non ha voluto commentare la notizia dell' inchiesta su Pell, benché anticipata in qualche modo dalle dichiarazioni del procuratore generale, Christian Porter, che martedì scorso mentre l' ex ministro delle Finanze del Vaticano si rifugiava nel monastero carmelitano, aveva assicurato che le denunce raccolte nel fascicolo sul suo conto non sarebbero state archiviate con l' assoluzione, ma che anzi, visto l' interesse pubblico sulle accuse di pedofilia al cardinale, sarebbero state analizzate dalla procura. La polizia locale non ha voluto commentare la nuova inchiesta. A parlare, invece, guarda caso proprio nel giorno delle accuse è George Pell in persona, o meglio, in video, su Sky News, intervistato dal suo amico e sostenitore di lunga data, Andrew Bolt. Nell' anticipazione dell' intervista, Bolt, che ha scritto numerosi articoli e commenti a sostegno di Pell prima che si chiudesse il caso dei due coristi di Melbourne, accennava già alla possibilità di nuove indagini sul conto dell' ex arcivescovo voluto da Bergoglio a Roma. "Come reagiresti se la polizia vittoriana continuasse a pescare a strascico altre vittime, se continuasse a pescarle per tentare di perseguirti?".

La riposta di Pell: "Be', non sarei del tutto sorpreso. Ma chi lo sa. Sono affari loro". Insomma il cardinale avrebbe deciso di preparare, anche a livello mediatico e con l' aiuto del suo amico, il terreno per continuare a indossare i panni della vittima perseguitata. Teoria questa che anche la sua portavoce, Katrina Lee, citata dall' Herald Sun che per primo ha dato la notizia della nuova inchiesta a carico del prelato, sostiene: "Qualsiasi cosa faccia la polizia, dovrebbe esserci un giusto processo attraverso i canali appropriati", ha fatto sapere Lee. Accuse queste che il vice commissario della polizia di Victoria, Shane Patton, non ha voluto neanche commentare. Fatto sta che per George Pell potrebbe non essere questo l'ultimo guaio. La commissione d' inchiesta aperta in merito alle accuse di abusi sessuali all' interno della Chiesa in tutta l' Australia infatti, dal suo rapporto finale del 2017 aveva stralciato le pagine relative al cardinale per non intralciare il processo a suo carico allora ancora non concluso. Ma ora una nuova indagine potrebbe mettere in dubbio quella cancellazione di quelle testimonianze inserite nelle indagini sulle azioni delle autorità ecclesiastiche a Ballarat, al tempo in cui Pell era sacedote in quella regione. In quell' occasione, Pell era già stato oggetto d' indagine perché amico del prete pedofilo di Ballarat, Gerald Ridsale. Interrogato, l' ex ministro delle Finanze aveva dichiarato che "si trattava di una storia triste e non molto interessante" per lui. "Non avevo motivo di interessarmi ai mali perpetrati da Ridsale", aveva spiegato. Contro questa "indifferenza" all' epoca si era scagliato anche il giornalista Bolt che però in seguito si era scusato con Pell per averlo giudicato "come tutti gli altri". Tra "gli altri" ci sarebbero anche tutti coloro che lo starebbero minacciando dopo l' assoluzione. Motivo per cui l' arcidiocesi di Sydney ha confermato che il cardinale è stato raggiunto per essere protetto dalla squadra antiterrorismo della polizia nel seminario di Good Shepherd, a Homebush.

Il caso del processo a Pell sia di lezione anche per noi. Federico Baffi, Giorgio Varano su Il Riformista il 10 Aprile 2020. L’amara vicenda del Cardinale George Pell è il simbolo della globalizzazione del processo mediatico, ma soprattutto della debolezza ormai strutturale del ruolo del giudice rispetto al ruolo assunto dalle procure e dai media, giurie implacabili del suo operato. Lo scopo in questo caso è stato comunque raggiunto, l’annullamento senza rinvio della condanna è un dettaglio del tutto irrilevante rispetto alle conseguenze extra-processuali già consumatesi. Questa storia è emblematica rispetto al tema della prescrizione e dell’importanza di avere più gradi giudizio. L’assenza di un termine ragionevole per azionare la pretesa punitiva di uno Stato, unita al processo mediatico e al fastidio per un giudizio strutturato su più gradi, è una miscela esplosiva che conserva la sua carica detonante per un tempo indefinito.

Il giudizio al Cardinale Pell è iniziato a distanza di circa vent’anni dai fatti di cui era accusato. Nel giudizio d’appello uno dei tre giudici, in disaccordo con gli altri due, ha scritto una lunga opinione dissenziente (in alcuni sistemi processuali di common law è possibile), molto più articolata rispetto alle motivazioni della condanna, sostenendo che la giuria agendo razionalmente sull’insieme delle prove raccolte avrebbe dovuto avere un ragionevole dubbio e quindi assolvere Pell. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se il giudizio d’appello fosse stato celebrato da un solo giudice (come forse accadrà in Italia per alcuni giudizi), anche perché quell’opinione dissenziente in appello è stata con ogni probabilità la base del ragionamento che nel terzo grado di giudizio (un misto tra cassazione e corte suprema) ha spinto l’Alta Corte australiana all’unanimità dei suoi componenti ad annullare, di fatto senza rinvio, la sentenza di condanna. Nel suo primo documento ufficiale l’Alta Corte definisce sussistente nel caso di specie una significativa possibilità che un innocente sia stato condannato sulla base di prove non in grado di sorreggere un giudizio di colpevolezza secondo normali standard probatori. Ma non c’era solo “un giudice a Melbourne”. Infatti anche il giudice di primo grado aveva apertamente dichiarato il proprio dissenso rispetto alla decisione della giuria di condannare Pell, nel particolare reciproco confronto previsto da quel tipo di ordinamento, durante e dopo la camera di consiglio che precede l’emissione del verdetto. Il giudice è stato dunque messo “in minoranza” dalle varie giurie (tribunale e media mondiali) e questo è un segnale sempre più preoccupante della marginalizzazione del ruolo del giudice nel processo e nella cultura della giurisdizione (una vera e propria seccatura per alcuni procuratori d’assalto e alcuni media). Questo annullamento ha riguardato solo la condanna, mentre resteranno per sempre pene ben più gravi. Resta circa un anno di prigione scontato ingiustamente. Resta lo sconvolgimento dell’istituzione di uno Stato (il Cardinale Pell era la terza carica dello Stato Città del Vaticano e non ha invocato l’immunità). Un dato è infine da rimarcare. Tutto questo è avvenuto per un processo che per i tre gradi di giudizio è durato solo poco più di due anni ma che ha causato comunque danni enormi. Un tempo nettamente inferiore a quello che un fascicolo del pubblico ministero trascorre in media in Italia sullo scaffale della sua segreteria, prima di arrivare in una aula di tribunale. Speriamo che almeno tutta questa vicenda serva a non lasciare sopito il nostro dibattito sulla giustizia, sulla prescrizione e sui vari gradi di giudizio, che non restino come “brocardi dei nostri tempi” i vari “senza la riforma l’avrebbe passata liscia”, “la prescrizione non è giustizia”, “riduciamo i tempi dei processi eliminando la prescrizione”, “dopo la condanna di primo grado c’è un accertamento di colpevolezza quindi si può bloccare la prescrizione”, “limitiamo l’appello”, “tre gradi di giudizio sono troppi”, “come è possibile che quel giudice ha assolto?”. C’era più di un giudice a Melbourne. Ci sono tanti giudici in Italia, ma le loro opinioni vivono nell’ombra perché il fascio di luce è tutto per i pubblici ministeri. Illuminiamo allora le dissenting opinion dei giudici. Magari così qualche loro timore di esprimerle pubblicamente verrà meno.

Papa Francesco accetta le dimissioni del cardinale di Lione Barbarin. La rinuncia arriva oggi, nonostante il porporato fosse stato assolto, il 30 gennaio scorso, dalla Corte d’appello di Lione proprio per omessa denuncia di violenza sessuale su minori. Paolo Rodari su La Repubblica il 06 marzo 2020. Il Papa ha accettato questa mattina le dimissioni dell'arcivescovo di Lione, il cardinale Philippe Barbarin. Il porporato è accusato di non avere denunciato abusi sessuali su minori da parte dell'ex sacerdote Bernard Preynat. Quest'ultimo, sotto processo, è stato dimesso dallo stato clericale lo scorso luglio perché riconosciuto colpevole di violenze commesse tra il 1971 e il 1991, quando era assistente di un gruppo di scout a Sainte-Foy-lès-Lyon. Barbarin, che si è sempre dichiarato innocente ed è stato assolto nel secondo grado di giudizio, in primo grado era stato condannato a sei mesi di carcere con sospensione della pena. "Ai miei fratelli e sorelle nella diocesi di Lione, nel momento in cui papa Francesco mi solleva dalla mia carica pastorale" rivolgo "un grande grazie e una consegna molto semplice: seguite Gesù da vicino, in una Chiesa al servizio, fraterna e missionaria". È il congedo, affidato ad un tweet. del cardinale Barbarin. In seguito alla condanna, il cardinale aveva presentato la rinuncia al Papa che però l'aveva respinta, accettando invece la richiesta da parte del presule di un periodo di "sospensione", nominando così un amministratore apostolico. La rinuncia arriva oggi, nonostante il porporato fosse stato assolto, il 30 gennaio scorso, dalla Corte d'appello di Lione proprio per omessa denuncia di violenza sessuale su minori. La rinuncia arriva probabilmente anche per il troppo clamore suscitato dalla vicenda.

Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 5 marzo 2020. "Quel prete era stato condannato per violenza sessuale nei confronti di una chierichetta di undici anni e adesso dice di nuovo messa". Don Lu, così veniva chiamato dai parrocchiani Luciano Massaferro, è tornato sull' altare della chiesa di Sant' Antonio da Padova a Borghetto. La sua presenza non è passata inosservata in una diocesi, quella di Albenga, che in passato era stata definita "refugium peccatorum" dei sacerdoti pedofili. "Un giorno a messa ci siamo trovati davanti proprio lui, don Lu", racconta un parrocchiano. Aggiunge: "All' inizio non credevamo ai nostri occhi, invece ha continuato a venire. Ci hanno detto che era stato scelto come vice parroco perché il titolare è malato". Il volto di don Massaferro (55 anni) da queste parti lo conoscono tutti. Sono passati quasi dieci anni da quando l' ex parroco di Alassio venne accusato dal pm savonese Giovanni Battista Ferro di aver avuto rapporti sessuali con una chierichetta minorenne. Il pm Ferro nelle sue conclusioni contestava tre episodi riferiti dalla bambina di undici anni. Nel primo la piccola aveva raccontato che, mentre era in moto con il sacerdote per benedire le case, don Massaferro le avrebbe detto di essere nudo sotto la tonaca e le avrebbe chiesto di toccargli il pene. In seguito il sacerdote, disse la bimba, l' avrebbe portata in un capanno dove si sarebbe spogliato nudo davanti a lei chiedendole di toccarlo. Lo stesso sacerdote, secondo l' accusa, avrebbe poi toccato la minore. Un' esperienza che avrebbe provocato nella minore un trauma profondo. Arrivò una condanna definitiva a 7 anni e 8 mesi. Dopo l' inchiesta della magistratura, nel 2013 fu avviato un processo ecclesiastico. "La Congregazione per la Dottrina della Fede" riferiscono fonti della curia di Albenga, "lo affidò al Tribunale ecclesiastico di Genova". I giudici della Curia di Angelo Bagnasco nel 2018 arrivarono a una conclusione opposta rispetto a quella della magistratura italiana: assoluzione. Il testo della sentenza ecclesiastica stabiliva che don Massaferro "deve essere completamente riabilitato in quanto non consta che egli abbia commesso i delitti a lui ascritti". Francesco Zanardi, presidente della Rete l' Abuso che da anni denuncia i casi di pedofilia, usa parole severe: "Già eravamo rimasti stupiti quando, dopo la condanna da parte della Cassazione, era poi arrivata l' assoluzione del tribunale della Chiesa di Genova. A noi risulta che non abbiano sentito la vittima. Adesso scopriamo anche che don Massaferro celebra di nuovo messa, nella stessa diocesi dove sono avvenuti i fatti. Cosa penseranno i familiari della vittima?", si chiede Zanardi. E sottolinea: "Si era detto di voler cambiare corso, ma i fedeli parlano di una piena restaurazione con messe talvolta celebrate in latino, con il sacerdote rivolto verso l' altare che dà le spalle ai fedeli e l' ostia che non viene più data in mano. Proprio il contrario di quello che chiede Francesco". Guglielmo Borghetti è il vescovo di Albenga. Nel 2016 proprio papa Francesco lo aveva inviato qui dopo i ripetuti scandali che avevano toccato la diocesi: c' era stato anche il caso del seminario che era stato praticamente 'decimato' (7 studenti su 11 convinti ad abbandonare gli studi). Oltre alla questione, il Fatto ne aveva scritto, che diversi sacerdoti condannati per pedofilia in altre regioni d' Italia si erano rifugiati a vivere proprio ad Albenga e dintorni. Borghetti commenta così il ritorno sull' altare di don Lu: "Il sacerdote ha pagato tutto il suo debito con la giustizia italiana, è stato anche in carcere ed è interdetto dai pubblici uffici. Non sarà nominato parroco. Però la Chiesa nel suo ambito è sovrana e c' è stata anche l' assoluzione da parte del Tribunale Ecclesiastico che è molto severo. Bisogna seguire anche la ragione e non solo l' emotività: don Massaferro può dire messa". Borghetti aggiunge: "Don Luciano non ha una chiesa fissa. In questi mesi si è prestato, con molta disponibilità, a celebrare ovunque mancasse un prete".

Papa Francesco, la denuncia di Viganò: "Losche manovre" per coprire un criminale, terremoto in Vaticano. Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. L'arcivescovo Carlo Maria Viganò torna a bussare alla porta di Papa Francesco. Dopo la soffiata sui comportamenti pedofili dell'allora cardinale McCarrick, il nunzio apostolico presenta una nuova nota. Questa volta Viganò racconta il controverso passato di un altro cardinale, Leonardo Sandri, attuale prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali. Sandri - come riporta Il Messaggero - avrebbe coperto uno dei più grandi criminali del XX secolo, padre Marcial Maciel Degollado, morto nel 2008 a 83 anni e ritenuto responsabile di aver violentato almeno 60 minorenni, corrotto diverse persone in Vaticano, aver messo in piedi un sistema di controllo e lavaggio delle coscienze.  È lo stesso Viganò a raccontare di un'udienza, quella del 2013, in cui Bergoglio gli chiese un parere su Sandri. "Colto di sorpresa da quella domanda su un mio caro amico, nell'imbarazzo non risposi. Allora Francesco, accostando le due mani aperte, le fece oscillare - come per dire: 'Così, così… si barcamena' – e mi fissò negli occhi cercando il mio consenso. Di riflesso, mi venne di confidargli: "Santo Padre, non so se lei sa che il Nunzio Justo Mullor, Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, fu rimosso dalla Nunziatura in Messico perché si opponeva alle direttive provenienti dalla Segreteria di Stato volte a coprire le gravissime accuse contro Marcial Maciel". Viganò poi fa riferimento alla sua prima testimonianza, quella in cui disse che il principale responsabile della copertura dei misfatti commessi da Maciel fu l'allora Segretario di Stato Angelo Sodano. "Purtroppo per lui - prosegue Viganò -, anche Sandri si lasciò coinvolgere da Sodano in questa operazione di copertura degli orribili misfatti di Maciel. Per sostituire Mullor a Città del Messico occorreva nominare una persona di sicura fedeltà a Sodano". Ed ecco che subentra Sandri: "Lui ne aveva già dato prova come Assessore della Segreteria di Stato. Allora Nunzio in Venezuela da poco più di due anni, fu trasferito in Messico. Di queste losche manovre, che i responsabili qualificherebbero come normali avvicendamenti, sono stato diretto testimone in una conversazione da loro tenuta, il 25 gennaio 2000, festa della Conversione di San Paolo, mentre ci stavamo recando alla Basilica" chiosa Viganò facendo tremare per una seconda volta il Vaticano. 

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 3 febbraio 2020. L'arcivescovo Carlo Maria Viganò torna a mettere in mora Papa Francesco. Stavolta, dopo averlo fatto due anni fa, rivelando di aver fornito al pontefice neo eletto tutte le informazioni sui comportamenti pedofili dell'allora cardinale McCarrick (successivamente spretato), torna a farsi sentire con una lunga nota in cui evidenzia il passato complicato di un altro cardinale di curia a lui molto vicino, Leonardo Sandri, attuale prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali. Ma non tanto per vicende legate ad abusi, ma per avere coperto uno dei più grandi criminali del XX secolo, padre Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, una sorta di demonio morto nel 2008 a 83 anni, ritenuto responsabile di aver violentato almeno 60 minorenni, corrotto diverse persone in Vaticano, avere messo in piedi un sistema di controllo e lavaggio delle coscienze senza eguali. Maciel ha anche avuto due mogli e dei figli (due dei quali abusati). Viganò, ex nunzio negli Usa e prima ancora segretario generale del Governatorato, racconta che durante una udienza nel 2013 il Papa gli chiese un parere su Sandri. «Colto di sorpresa da quella domanda su un mio caro amico, nell’imbarazzo non risposi. Allora Francesco, accostando le due mani aperte, le fece oscillare - come per dire: “Così, così… si barcamena” – e mi fissò negli occhi cercando il mio consenso. Di riflesso, mi venne di confidargli: “Santo Padre, non so se lei sa che il Nunzio Justo Mullor, Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, fu rimosso dalla Nunziatura in Messico perché si opponeva alle direttive provenienti dalla Segreteria di Stato volte a coprire le gravissime accuse contro Marcial Maciel». Il racconto di Viganò prosegue: «Questo dissi al papa, affinché lo tenesse in conto ed eventualmente rimediasse all’ingiustizia che Mullor aveva subito per non essersi compromesso, per essere rimasto fedele alla verità e per amore alla Chiesa». L'episodio al quale fa riferimento riguarda l'ex nunzio in Messico che pagò con l'emarginazione totale per avere denunciato le malefatte di Maciel Marcial Degollado. All'epoca Degollado non si poteva toccare perchè era considerato uno vicino a Giovanni Paolo II. «Già scrissi nella mia prima testimonianza che il principale responsabile della copertura dei misfatti commessi da Maciel fu l’allora Segretario di Stato Angelo Sodano (..) Purtroppo per lui, anche Sandri si lasciò coinvolgere da Sodano in questa operazione di copertura degli orribili misfatti di Maciel. Per sostituire Mullor a Città del Messico occorreva nominare una persona di sicura fedeltà a Sodano. Sandri ne aveva già dato prova come Assessore della Segreteria di Stato. Allora Nunzio in Venezuela da poco più di due anni, fu trasferito in Messico. Di queste losche manovre, che i responsabili qualificherebbero come normali avvicendamenti, sono stato diretto testimone in una conversazione da loro tenuta, il 25 gennaio 2000, festa della Conversione di San Paolo, mentre ci stavamo recando alla Basilica».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. Condannato in primo grado nel 2016, condannato in secondo grado nel 2018, e condannato in via definitiva anche in Cassazione per aver commesso da sacerdote, in una canonica vicino alla parrocchia milanese nel 2009-2011, venti atti sessuali di prostituzione minorile con un minorenne tossicodipendente pagato 150/250 euro a volta. Eppure il prete è graziato dalla prescrizione proprio in Cassazione, a causa del paradossale effetto dell' unico leggero ritocco procedurale alla sentenza sulla questione della sospensione condizionale o meno della pena. Nel 2013 innesca le indagini del pm Giovanni Polizzi la psicologa che raccoglie le confidenze di un 16enne dopo che questi ha tentato il suicidio. Tra le pieghe del suo vissuto di minorenne disadattato e cocainomane, emerge così la storia delle chat online con un tal Alberto, che il minore associa agli atti sessuali a pagamento con il 48enne parroco (e insegnante a scuola del fratello minore del ragazzino) don Paolo Alberto Lesmo. Il sacerdote propugna l'inattendibilità calunnatoria del problematico ragazzo, ma gli elementi raccolti dal pm (che chiede 3 anni e 4 mesi) convincono nel 2016 il gup Gennaro Mastrangelo a condannarlo in abbreviato a 1 anno, 10 mesi e 20 giorni per «prostituzione minorile», senza attenuanti generiche e senza sospensione condizionale della pena. Verdetto confermato dall'Appello. E nel 2019 dalla Cassazione su due (responsabilità e attenuanti) dei tre motivi di ricorso del difensore Filippo Andreussi: il terzo è invece accolto dalla Suprema corte, che boccia «illogica» la motivazione del diniego della sospensione condizionale della pena (per «mancata resipiscenza») a fronte del fatto che il prete fosse stato sospeso dal ministero e spostato in una comunità di sostegno psicologico. E qui scatta il colpo di biliardo procedurale: la fondatezza del terzo motivo di ricorso fa sì che si formi «un valido rapporto di impugnazione» al momento della sua presentazione, «e quindi consente di rilevare» adesso «la prescrizione del reato» (6 anni più un quarto: 7 anni e mezzo dall' ultimo atto sessuale l'1 gennaio 2011) «maturata» l'1 luglio 2018 «successivamente alla impugnata sentenza» d' Appello del 20 giugno 2018. Accade di rado in Cassazione, dove si prescrive solo l' 1,2% dei processi. E in futuro, in casi analoghi, comunque non sarebbe più potuto accadere in forza del cambio di norme sulla prescrizione: prima perché dal 2017 la legge Orlando avrebbe dato 18 mesi supplementari per rifare Appello-bis e Cassazione-bis, e ora perché la legge Bonafede, in vigore da un mese, avrebbe bloccato il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

Abusi su minorenne, don Barone condannato a 12 anni: “Nessuna violenza su altre due fedeli”. Redazione de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Una condanna a 12 anni di carcere, dieci in meno rispetto a quanto chiesto dai pm Pannone e Di Vico. Si è concluso così il processo di primo grado presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di don Michele Barone, l’ex prete del Tempio di Casapesenna accusato di lesioni nei confronti di una 13enne di Maddaloni e di violenza sessuale su altre due fedeli. L’ex sacerdote, ridotto allo stato laicale dal Vaticano, è stato assolto da quest’ultima accusa. Nel processo erano imputati anche i genitori della 13enne, 4 anni e 5 mesi per il padre e 4 anni per la madre (erano stati richieste condanne rispettivamente a 8 e 7 anni), mentre il poliziotto Luigi Schettino, dirigente del commissariato di polizia di Maddaloni, è stato assolto perché “il fatto non sussiste” (era stata richiesta una condanna a 5 anni, ndr). Per i giudici sammaritani Schettino infatti non ostacolò la sorella maggiore della 13enne dal denunciare don Barone. Le accuse per il prete del Tempio di Casapesenna erano gravissime: l’ex sacerdote avrebbe schiaffeggiato e picchiato la 13enne durante riti esorcisti ai quali assistevano anche i genitori della ragazzina, provocandole anche una lesione permanente ad un orecchio. A porre fine alle violenze è stata la denuncia della sorella maggiore della vittima, che ha presentato un esposto contenente prove dei soprusi. Don Barone venne quindi arrestato nel giorno di San Valentino del 2018, fermato dagli agenti della Squadra mobile dall’aeroporto di Capodichino a Napoli, di rientro con i suoi fedeli da un pellegrinaggio in Polonia, a Cracovia.

C'è qualcuno che sta riorganizzando la setta di don Barone? Le Iene News il 23 giugno 2020. L’incubo di violenza della setta di don Barone, che negli anni avrebbe riguardato varie ragazze, per fortuna è finito. Sembra però che ci sia qualcuno che vuole portare avanti comunque quella setta: Gaetano Pecoraro incontra testimoni che ci raccontano quello che starebbe accadendo. “Le mise i piedi in testa, poi calci e pugni”. La donna che potete ascoltare nel servizio di Gaetano Pecoraro sta raccontato un pestaggio che avrebbe visto di persona ai danni di una ragazzina. L’autore? “Solo don Michele”. Quest’incubo di violenza, che negli anni avrebbe riguardato varie ragazze, oggi è finito. Almeno secondo le autorità giudiziarie, che hanno arrestato l’ormai ex prete grazie alle inchieste del nostro Gaetano Pecoraro (clicca qui per l’ultimo servizio). Da quanto ci dicono nuovi testimoni però la setta esisterebbe ancora: “Io sono stata nella setta per un anno”, ci racconta la donna. Dopo l’arresto di don Michele “si parlava che stesse subendo il calvario di Gesù. Solo che Gesù fu crocifisso, lui è stato arrestato”. Il don Michele di cui parla la ragazza è don Michele Barone, di cui noi de Le Iene ci siamo occupati per primi e che è stato condannato in primo grado a 12 anni per violenze. Torniamo a parlavi di questo caso perché sembra stiano succedendo un sacco di cose nuove: “Il gruppo continua ancora”. Secondo quanto ci viene raccontato, tra gli adepti ci sarebbe stata addirittura una “prescelta”, che all’epoca dei fatti era minorenne, capace di leggere nel cuore di ogni fedele. “Erano una squadra”, ci racconta un’ex seguace di don Michele. Una squadra che sembra continuare a produrre “miracoli” anche oggi, nonostante il prete sia stato assicurato alla giustizia. Il gruppo, stando a quanto ci racconta la donna intervistata da Gaetano Pecoraro, crederebbe ciecamente nei poteri della “prescelta”. La Iena ha cercato di parlare coi genitori di questa ragazza, ma senza ottenere risposta. Parlando con alcune ex appartenenti alla setta, sembra che ci fossero 3 o 4 persone impegnate a organizzare i “miracoli” e poi c’era il gruppo: decine di altri seguaci che avrebbero creduto ciecamente e seguito le indicazioni di don Barone. “Eri allontanata dalla tua vita, non potevi parlare con altri di cosa succedeva dentro”, ci raccontano le ex adepte. “Lui sazia la sua carne con atti sessuali con le ragazze”, ci dicono ancora. “Un po’ ci provava con tutte”. “Una volta mi stavo confessando e mi mise le mani sul seno”. A sapere di questi comportamenti sarebbe stata anche la madre di don Michele, sempre secondo il racconto delle ex adepte. “Era sempre presente a tutti gli incontri, perché doveva controllare il figlio”, ci dice una di loro. “Lei lo diceva sempre: don Michele è prete ma voi gli dovete stare lontani”. A questo punto Gaetano Pecoraro ha cercato di parlare anche con la madre di don Michele, senza però avere risposta. Tra le persone della setta, secondo il racconto di una ex appartenente, ci sarebbe stato anche un certo Umberto: “Era un perno principale del gruppo, perché era uno dei più ‘potenti’ spiritualmente del gruppo. Il suo ruolo era stare sempre a fianco a Maria”, cioè la ragazza “prescelta” capace di parlare con l’angelo. Secondo alcune testimonianze, sarebbe proprio lui a cercare di tenere in piedi la setta di don Barone. Un’altra testimone ci dice che “lui accompagnava la mamma di don Michele dall’avvocato”. Ci sono sempre giri di soldi? “Sì, questo avvocato prende un sacco di soldi. Ogni volta che accompagna la mamma là ci porta sempre una busta piena di soldi”. Ovviamente non c’è niente di illecito nel raccogliere denaro per pagare un avvocato, a patto che non si ricorra a raggiri basati sulla credulità popolare. Così Gaetano Pecoraro cerca questo Umberto: “Le voci delle persone sono sempre bugie”, dice alla Iena. A quanto ci dicono, comunque, Umberto e Maria da soli difficilmente sarebbero in grado di portare avanti l’organizzazione di don Barone: servirebbe qualcuno che prenda direttamente il posto del prete. “La sorella di don Michele Barone, è una monaca non consacrata”, ci dice una delle ex adepte. “Lei avrebbe dovuto prendere il posto del prete”, aggiunge un’altra. Cosa che in passato avrebbe già mostrato di sapere e voler fare, sempre secondo il loro racconto. È possibile ipotizzare che ci siano nuove vittime? “È probabile, altrimenti voglio dire su quale testa si va a giocare? Ci deve stare qualcuno da esorcizzare”, dice una delle ex adepte. Gaetano Pecoraro cerca di parlare con la sorella di don Michele, che però non risponde alle domande.

Da ilfattoquotidiano.it il 15 gennaio 2020. Si è aperto a Lione il processo contro Bernard Preynat, l’ex parroco di Sainte-Foy-les-Lyon accusato di pedofilia, ora privato della tonaca. Deve rispondere alle accuse di violenze sessuali sugli scout che frequentavano la parrocchia dagli anni Settanta agli anni Novanta: rischia fino a 10 anni di carcere. Davanti ai giudici ha confessato: “Succedeva tutti i fine settimana, durante i campi scout, potevano essere quattro o cinque bambini in una settimana“. “Non realizzavo il male che ho fatto ai bambini”, ha dichiarato l’ex religioso secondo le dichiarazioni riportate su Twitter dalla giornalista di France 24, Alexandra Renard. “Per me, erano dei gesti di tenerezza”. All’epoca dei fatti, le vittime di Preynat erano tutte fra i 7 e i 10 anni di età. “Anni dopo, i genitori mi hanno fatto comprendere il male che avevo fatto ai loro figli. Mi è servito del tempo per capire che era male”. Il processo era inizialmente previsto per lunedì 13 gennaio, ma è stato rinviato al giorno successivo a causa dello sciopero degli avvocati che protestano contro la riforma delle pensioni. Il caso è diventato l’emblema dello scandalo pedofilia nella Chiesa francese, coinvolgendo anche il cardinal Philippe Barbarin, già condannato a 10 mesi con la condizionale per omessa denuncia. Sui banchi delle parti civili presenti 10 vittime sulle decine segnalate dall’associazione La Parole Libérée. Al loro fianco, cinque associazioni per la protezione dei minori.

Da ilmessaggero.it il 29 gennaio 2020. Nove religiosi sono indagati dalla procura di Prato per presunte violenze sessuali nei confronti di due fratelli, entrambi minorenni all'epoca dei fatti contestati. Si tratta di cinque sacerdoti, un frate e altri tre religiosi, come riporta oggi il quotidiano «La Nazione». Gli abusi sessuali, secondo quanto ipotizzano gli inquirenti, si sarebbero consumati per anni fra le mura delle sedi di Prato e di Calomini (Lucca) dell'ex comunità religiosa «I Discepoli dell'Annunciazione», soppressa ufficialmente un mese e mezzo fa, con decreto emesso dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata della Santa Sede, per una serie di problemi fra i quali «forti perplessità sullo stile di governo del fondatore e sulla sua idoneità nel ricoprire tale ruolo». Tra i nove indagati figura anche il fondatore della comunità religiosa, don Giglio Gilioli, 73 anni, sacerdote veronese trasferitosi a Prato da oltre dieci anni. Le indagini sulla comunità religiosa che doveva accogliere e fare crescere i ragazzi, aiutarli, sostenerli, tirandoli fuori dalle difficoltà, avrebbe fatto emergere, invece, un inferno di perversione e violenza nei confronti dei minorenni ospitati. Questo almeno ipotizza la Procura pratese che ha messo nel mirino nove componenti della comunità religiosa dei «Discepoli dell'Annunciazione», realtà di ispirazione mariana, soppressa ufficialmente dal Vaticano nel mese di dicembre dopo poco più di 14 anni di attività, a seguito di una visita canonica voluta dalla Santa Sede. Su quell'ex confraternita formata da sacerdoti, religiosi e consacrati, nata a Prato per volontà del fondatore don Giglio Gilioli, indagato, si è abbattuto oggi un sospetto tremendo, che sembra svelare un mondo fatto di abusi sessuali e violenze ai danni di due fratelli che furono affidati dai genitori ai «Discepoli dell'Annunciazione» perchè li crescessero nel modo migliore. Invece, sostengono gli stessi ragazzi, già ascoltati dagli investigatori, c'erano violenze ripetute e inenarrabili, anche in gruppo, per anni e anni. Due vittime accertate finora, ma potrebbero essercene altre, almeno stando a quanto fanno emergere le testimonianze dei due fratelli, che sembrano inoltre suggerire la presenza di altri adulti, le cui identità sono ancora in corso di accertamento, in occasione degli episodi di violenza. A finire nei guai il fondatore dei «Discepoli dell'Annunciazione» insieme ad altri otto ex confratelli, fra sacerdoti e religiosi, che nei giorni scorsi sono stati sottoposti a perquisizioni. L'inchiesta sarebbe partita proprio dalle dichiarazioni rese dai due fratelli a distanza di alcuni anni dalle violenze, ma anche da altre persone ascoltate dagli uomini della squadra mobile della questura di Prato. Per una delle vittime i fatti risalirebbero al periodo che va dal 2008 all'estate del 2016 e gli abusi si sarebbero consumati sia nella sede di Prato che in quella di Calomini, in provincia di Lucca. Otto dei nove indagati si sarebbero approfittati del ragazzino, abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica, e costringendolo a compiere e a subire atti sessuali, anche con più persone. L'altro fratello, invece, sarebbe stato oggetto di violenze sessuali da parte di due degli indagati. Anch'egli minorenne all'epoca dei fatti, sarebbe stato costretto a compiere e a subire atti sessuali all'interno della sede dei «Discepoli dell'annunciazione» in un lasso di tempo che va dal 2009 al 2012. Gli episodi sarebbero stati confermati dalle stesse vittime, ritenute credibili dalla Procura. I magistrati nel disporre le perquisizioni personali a carico dei nove religiosi e una serie di accertamenti approfonditi nelle tre sedi dell'ex associazione religiosa (a Prato, ad Aulla e a Calomini), non esclude la possiblità di trovare documenti cartacei e informatici - comprese registrazioni audio e video - capaci di testimoniare quelle violenze. L'inchiesta è solo all'inizio e potrebbe approdare a sviluppi clamorosi: forse nuove vittime, forse nuovi aguzzini. Quel che è certo che a dicembre il Vaticano c'era andato giù pesante nelle motivazioni che accompagnavano il provvedimento di chiusura della congregazione religiosa. Indicando «forti perplessità sullo stile di governo del fondatore e sulla sua idoneità nel ricoprire tale ruolo». Ma anche «limiti nel reclutamento e nella formazione dei membri» e «deficienze nell'esercizio dell'autorità».

Angela Marino per fanpage.it il 29 gennaio 2020. Don Marino Genova, condannato in appello a 4 anni per abusi sessuali su una giovanissima parrocchiana, Giada Vitale, all'epoca dei fatti 13enne, è tornato a indossare la tonaca. Nonostante la sospensione a divinis fino al pronunciamento definitivo del Tribunale italiano, ovvero fino alla sentenza definitiva sulla sua condotta, don Marino partecipa attivamente alla vita religiosa della comunità di Subiaco, dove è stato ripreso e fotografato in alcuni video apparsi sulla pagina Facebook, Subiaco il borgo più bello d'Italia. Don Marino è dimagrito e appare molto diverso dalle vecchie foto pubblicate dai giornali, alcune delle quali lo mostravano con Giada, all'epoca praticamente una bambina. La ragazza, orfana di padre, cominciò a frequentare la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Portocannone, dove viveva, come organista. Fu nella primavera del 2009 che don Marino la invitò per la prima volta in sacrestia dando il via a un ciclo di abusi sessuali che sarebbe durato per tre anni, fino a quando Giada, ormai diciassettenne, trovò la forza di denunciare. "Mi spogliava abusava di me e poi mi congedava con la benedizione" ha raccontato Giada alle telecamere di Fanpage.it.

Il processo canonico. Per quanto accaduto nel retro della Chiesa, don Marino è finito a processo e ha incassato la prima condanna, confermata in appello, a quattro anni e dieci mesi di carcere per gli abusi sessuali avvenuti prima del compimento del 14esimo anno di età, limite anagrafico oltre il quale lo Stato italiano ha bollato la ragazza come ‘consenziente'. Sul caso, peraltro, si espressa anche la Chiesa. "La Diocesi di Termoli-Larino – si legge in una nota – comunica di rispettare la sentenza. Si precisa anche che la legge della Chiesa considera la minore età quella inferiore ai 18 anni senza la distinzione, per questa tipologia di reati, di periodi antecedenti o successivi ai 14 anni come prevede, invece, l’ordinamento penale italiano". "Per questo motivo – continua – il sacerdote è stato già processato con sentenza in autonomia dallo Stato italiano secondo quanto previsto dall’ordinamento canonico. Il vescovo, Gianfranco De Luca, appena ricevuta la notizia dei fatti contestati a don Marino Genova da parte di Giada Vitale ha immediatamente proceduto per verificare la verosimiglianza delle accuse con una indagine preliminare che ha accertato i fatti contestati; ha quindi allontanato dalla parrocchia di Portocannone il sacerdote e ha istituito il Tribunale ecclesiastico diocesano per svolgere il processo canonico che ha emesso  la sentenza". Il verdetto del  tribunale ecclesiastico, spiega la nota "consiste nella sospensione a divinis fino al pronunciamento definitivo del Tribunale italiano, nell’interdizione all’ufficio di parroco e nell’invito a vivere in una casa religiosa”. il Gip Maria Rosaria Vecchi deciderà se archiviare definitivamente accogliendo la richiesta del Pm Toncini o se andare avanti con le indagini per gli abusi subiti da Giada dopo il 14esimo compleanno. Tre gli scenari possibili per questo secondo troncone di inchiesta: l'archiviazione, la continuazione delle indagini o l'imputazione coatta. L'imputazione coatta consiste nell'obbligare il pubblico ministero a formulare entro 10 giorni un capo di imputazione. In quest'ultimo caso, il pubblico ministero non potrà sottrarsi a questa decisione del gip perché costretto a esercitare l'azione penale. Nell'attesa Giada ha raggiunto importanti obiettivi di vita come la laurea, ma continua a fare i conti con il demone dell'abuso, oggi più che mai, di fronte alle immagini di don Marino con la tonaca.

Vaticano, nel 2019 segnalati mille casi di abusi nel mondo: «Noi sopraffatti». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 da Corriere.it. L’ufficio vaticano che riceve le denunce di abusi sessuali da parte del clero ha registrato quest’anno la cifra record di mille casi segnalati da tutto il mondo, anche da Paesi di cui non aveva mai sentito parlare prima, e potrebbe non essere finita qui. John Joseph Kennedy, il capo Ufficio della Sezione Disciplinare nella Congregazione per la dottrina della fede, lo ha detto all’Ap, precisando che l’enorme afflusso di denunce ha «sopraffatto» il personale. Quasi due decenni dopo che il Vaticano si è assunto la responsabilità di rivedere tutti i casi di abuso, se ne torna a parlare proprio a pochi giorni dalla decisione di Papa Francesco di abolire il segreto pontificio per le cause canoniche di abusi sessuali su minori. Il numero degli episodi nel 2019 è aumentato del quadruplo rispetto a un decennio fa. «So che la clonazione è contro l’insegnamento cattolico, ma se potessi davvero clonare i miei funzionari e farli lavorare tre turni al giorno o lavorare sette giorni alla settimana, potrebbero fare il necessario passo avanti», ha detto monsignor John Kennedy, capo ufficio della Sezione disciplinare nella Congregazione, che elabora i casi. Qualche giorno fa Papa Bergoglio ha annunciato l’abolizione del segreto pontificio per le cause canoniche di abusi sessuali su minori: questo significa che i magistrati civili degli altri Paesi potranno finalmente avere accesso agli atti dei processi canonici.

Da ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre 2019. Centosettantacinque minori abusati e responsabilità accertate per 33 sacerdoti. Sono i numeri contenuti nel dossier della Congregazione dei Legionari di Cristo, che ha pubblicato un rapporto sugli abusi sessuali su minori commessi da membri dell’associazione dalla sua fondazione in Messico, il 3 gennaio 1941, ad oggi. Il rapporto, che sarà presentato il 20 gennaio a Roma in occasione del Capitolo generale della Congregazione, precisa che il suo fondatore, il padre messicano Marcial Maciel Degollado, è responsabile di almeno 60 casi di abusi di minori. Casi che sono inclusi nei 175 di cui parla il documento. Con la sua pubblicazione, “i Legionari di Cristo desiderano fare un ulteriore passo per conoscere e riconoscere il fenomeno dell’abuso sessuale su minori e favorire la riconciliazione con le vittime”. Il rapporto inoltre, pubblicato nel portale ceroabusos.org e realizzato in sei mesi da una commissione interna alla congregazione, “condanna e deplora” gli abusi commessi, così come “quelle pratiche istituzionali o personali che possano aver favorito o propiziato qualsiasi forma di abuso o rivittimizzazione“. Dopo aver sottolineato che fra i 175 minori abusati sono inclusi le 60 vittime dello stesso fondatore della Congregazione, padre Maciel, lo studio precisa che i 33 sacerdoti responsabili degli abusi rappresentano il 2,44% dei 1.353 legionari ordinati nel corso della storia dell’associazione. Dei responsabili, “sei sono morti, otto hanno abbandonato il sacerdozio, uno ha lasciato la Congregazione e 18 vi sono rimasti. Di questi ultimi, il 100% è escluso da rapporti pastorali con minori, quattro hanno restrizioni nell’esercizio del ministero e osservano un piano di sicurezza, mentre 14 non esercitano il ministero sacerdotale pubblico“. Il Vaticano in possesso delle prove di abusi dal 1943: ma li tenne nascosti fino al 2006 – A inizio anno la Congregazione vaticana per gli Istituti di vita consacrata ha riconosciuto che il Vaticano era in possesso fin dal 1943 di documenti probatori sulla pederastia di Marcial Maciel Degollado (1920-2008), che rimasero però nascosti. Il prefetto del dicastero, il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, 71 anni, aveva dichiarato alla rivista spagnola Vida Nueva che “chi lo ha coperto era una mafia, non rappresentava la Chiesa“. “Ho l’impressione che le accuse di abuso cresceranno”, aveva continuato De Aviz, “ci siamo nascosti per tutti questi anni ed è stato un errore enorme”. È noto che il processo sugli abusi di Maciel – colpevole di una doppia e tripla vita con figli da diverse donne, di abusi su giovani seminaristi – fu tenuto per molto tempo fermo in Vaticano, grazie soprattutto alle sue amicizie in alto grado, e a sbloccarlo fu Joseph Ratzinger, già prefetto dell’ex Sant’Uffizio, una volta diventato Papa. Fu solo il 19 maggio 2006, dopo un’indagine durata più di un anno, ma con denunce che risalivano già al 1956, la Congregazione per la Dottrina della Fede – risparmiandogli comunque il processo canonico per “età avanzata e salute cagionevole” – inflisse a un Maciel ormai 86enne la pena della rinuncia a ogni ministero pubblico e gli impose “una vita riservata di preghiera e di penitenza” per gli abusi sessuali e i delitti di pedofilia continuati per decenni su numerosi seminaristi della sua congregazione e per averne successivamente assolti alcuni in confessione. Per quest’ultimo delitto era già incorsa la scomunica "latae sententiae". La decisione fu approvata personalmente da papa Benedetto XVI. Come si apprende però dalle ultime dichiarazioni, la Sede pontificia era in possesso delle prove di colpevolezza del fondatore dei Legionari già da più di 60 anni.

Francesco Antonio Grana per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2019. Soldi a Wojtyla e Ratzinger in cambio del silenzio sulla pedofilia. È la sconcertante accusa che emerge da un’accurata inchiesta del Washington Post, finora non smentita dalla Santa Sede, che punta il dito nuovamente contro l’ex cardinale Theodore McCarrick, ridotto allo stato laicale da Papa Francesco proprio per aver commesso abusi sessuali su minori. Violenze che lo “zio Ted”, come si faceva chiamare dalle sue vittime, avrebbe coperto per decenni versando ben 600mila dollari, nell’arco di due decenni, prima a San Giovanni Paolo II e poi a Benedetto XVI. In questo modo, l’ex arcivescovo di Washington si sarebbe garantito quell’omertà che gli ha permesso una lunga e incontrastata carriera all’interno delle gerarchie della Chiesa cattolica, diventando il porporato più potente negli Usa. Cioè fino al 2018 quando Bergoglio lo ha prima privato della porpora, cosa che non succedeva dal 1927, e poi lo ha ridotto allo stato laicale, caso più unico che raro. Un provvedimento durissimo frutto della linea della tolleranza zero sulla pedofilia messa in atto con determinazione da Francesco. McCarrick avrebbe versato 90mila dollari a San Giovanni Paolo II, soprattutto negli ultimi anni del suo pontificato, e 291mila dollari in favore di Benedetto XVI. Anche i Segretari di Stato vaticani Angelo Sodano e Tarcisio Bertone avrebbero ricevuto soldi. Il primo 19mila dollari e il secondo 7mila. Sempre il Washington Post ha rilevato come proprio la Segreteria di Stato possa aver deciso di usare le cifre provenienti dall’ex cardinale per la beneficenza, molto probabilmente facendole finire all’interno dell’Obolo di San Pietro, fondo col quale sono sovvenzionate non solo le opere di carità del Papa, ma anche le strutture della Chiesa cattolica in tutte le parti del mondo, come per esempio le nunziature apostoliche. Ma le finalità con le quali sono stati adoperati quei soldi non scagionano di certo l’ex porporato, intenzionato, stando a quanto emerso dall’inchiesta, ad apparire agli occhi dei due Pontefici come un grande benefattore, assicurandosi così la loro omertà davanti alle pesanti accuse nei suoi confronti già emerse in Vaticano durante gli anni dei loro pontificati. Gli assegni delle donazioni ai due Papi sono stati collegati a un conto corrente poco noto trovato presso l’arcidiocesi di Washington, di cui McCarrick è stato arcivescovo dal 2000 al 2006, quando si è dimesso per raggiunti limiti di età. Il “Fondo speciale dell’arcivescovo” gli avrebbe così permesso di raccogliere denaro da ricchi donatori cattolici e di spenderlo come voleva, senza alcuna supervisione, secondo la testimonianza resa da diversi ex funzionari dell’arcidiocesi di Washington. Soldi che alla fine arrivavano nella Segreteria di Stato vaticana nelle mani di chi avrebbe dovuto aprire un fascicolo contro McCarrick e indagare per le pesanti accuse di pedofilia fatte dalle sue vittime. Accuse che, come ha rivelato l’ex nunzio negli Usa, monsignor Carlo Maria Viganò, nei sacri palazzi erano note da molto tempo, forse già dall’inizio degli anni Novanta. Eppure McCarrick continuava a fare carriera e a ricevere per giunta, dalle mani di Wojtyla, la porpora nel concistoro del 2001, lo stesso in cui ricevette la berretta rossa anche Jorge Mario Bergoglio. Un modo per accrescere a dismisura il potere dello “zio Ted”, che per decenni ha controllato tutte le nomine episcopali negli Stati Uniti, rendendolo così anche elettore nel conclave che sarebbe seguito alla morte di San Giovanni Paolo II. Proprio monsignor Viganò ha chiesto a Francesco di dimettersi accusandolo di aver coperto anche lui McCarrick. Ma come è emerso dalle indagini, Bergoglio, appena ha appreso che le accuse di pedofilia nei confronti del cardinale erano credibili, gli ha subito tolto la porpora prima di ridurlo allo stato laicale. Non un dollaro risulta donato da McCarrick a Francesco, mentre è stata inviata un’offerta di mille dollari al cardinale Pietro Parolin dopo la sua nomina a Segretario di Stato vaticano, nella seconda metà del 2013. Donazioni che questa volta non hanno impedito all’ex porporato di essere finalmente condannato per i suoi abusi, rompendo così un muro di omertà che andava avanti da due pontificati.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 27 dicembre 2019. La storia che segue è assolutamente inedita. Il Washington Post oggi diretto da Martin Baron, che come direttore del Boston Globe scoperchiò nel 2002 il cosiddetto caso Spotlight, ha documentato donazioni “personali” da 600 mila dollari nell’arco di due decenni dello spretato (da papa Francesco, il 13 febbraio 2019, quindi meno di un anno fa) cardinale McCarrick, già arcivescovo di Washington, agli alti gradi della nomenklatura vaticana, tra cui ufficiali della Curia che avrebbero dovuto “vigilare” sulla sua condotta che si è rivelata - pubblicamente a partire dall’estate 2018 - di abusatore di seminaristi e minorenni. Gli assegni in questione sono stati collegati a un conto corrente poco noto trovato presso l’arcidiocesi di Washington, dove McCarrick ha iniziato a servire come arcivescovo nel 2001. Il “Fondo speciale dell’arcivescovo” - ha scritto ieri il WaPo - gli ha permesso di raccogliere denaro da ricchi donatori cattolici e di spenderlo come voleva, con poca o nulla supervisione, secondo testimonianza di ex funzionari”. Tra i beneficiari anche due papi: Giovanni Paolo II, 90.000 dollari dal 2001 al 2005, e Benedetto XVI, che da solo ha ricevuto 291.000 dollari, cioè praticamente la metà di tutte le donazioni, in gran parte in forza di un singolo assegno da 250.000 dollari nel maggio 2005, un mese dopo l’elezione al Soglio di Pietro. “I rappresentanti degli ex papi - continua il quotidiano americano - hanno rifiutato di commentare o hanno affermato di non avere informazioni su tali controlli specifici. Un ex segretario personale di Giovanni Paolo II ha detto che le donazioni al papa sono state inoltrate al Segretario di Stato, il secondo posto più potente in Vaticano. A quei tempi rivestiva questa carica Angelo Sodano, che si è dimesso dall’incarico di Decano del Sacro Collegio il 21 dicembre scorso, chiudendo un’epoca, e che avrebbe ricevuto 19 mila dollari tra il 2002 e il 2016 .Il suo successore Tarcisio Bertone avrebbe ricevuto 7.000 dollari in totale dal 2007 fino al 2012. Non un dollaro risulta donato a Papa Francesco dopo l’elezione. Mentre è stata inviata un’offerta di mille dollari a Pietro Parolin , dopo la sua nomina a segretario di Stato (2013). L’articolo riaccende il faro sul “caso McCarrick” (aperto in modo clamoroso a fine agosto 2018 dalle accuse dell’ex Nunzio Carlo Maria Viganò): accuse che però - al contrario delle intenzioni iniziali del Nunzio che aveva chiesto le dimissioni di papa Francesco - investono non solo il Papato di Giovanni Paolo ma anche quello di Benedetto e gli oppositori di Francesco. Tra poche settimane peraltro ci sarà la pubblicazione dell’investigazione vaticana voluta da Pontifex (6 ottobre 2019), preannunciata dal Papa stesso ai vescovi americani in visita ad limina (tra novembre e dicembre): un dossier “su chi sapeva cosa” sul cardinale spretato. Le donazioni che sono state rivelate dal Washington post non vanno però confuse con i fondi che attraverso ad esempio la Papa Foundation (ma anche altri canali) arrivavano in Vaticano. Si tratta - negli anni - di centinaia di milioni di dollari. A tutto questo va aggiunto che alcune vittime di McCarrick, usando una nuova legge dello Stato di New York che ha abolito la prescrizione per gli abusi, a fine dello scorso novembre hanno fatto causa direttamente alla Santa Sede per 165 milioni di dollari, in quanto disporrebbero di prove circa il fatto di aver avvisato già nel 1988 della condotta di McCarrick. E forse anche a questo si deve la decisione di Francesco di togliere il segreto pontificio sulle cause per pedofilia (nel Motu Proprio del maggio 2019 questa prescrizione non era prevista). Il messicano Marcial Maciel (fondatore dei Legionari di Cristo ) e gli statunitensi - sotto indagini vaticane - Michael Joseph Bransfield (vescovo emerito di Wheeling-Charleston) e Theodore Edgar McCarrick (ex cardinale ed ex sacerdote, in passato arcivescovo di Washington) “in epoche diverse e in circostanze differenti, hanno messo in atto un metodo al dir poco ripugnante poiché chiaramente concepito per corrompere, e cioè offrire, donare e consegnare, in modo periodico e molto generoso, ingenti somme di denaro (dollari) ad altri loro confratelli nella gerarchia, a membri in servizio della nomenklatura vaticana, senza una precisa e puntuale giustificazione e tutte operazioni non trasparenti, occulte, sulle quali oggi sappiamo qualcosa per via delle indagini giornalistiche”, ha commentato l’autorevole sito paravaticano Il Sismografo.

Preti pedofili, Papa Francesco abolisce il segreto pontificio per le cause di abusi sui minori. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi e Claudio Del Frate. Juan Carlos, Marie, Francesco, dal Cile all’Italia, ecco le voci di chi ha subito abusi: «Quello del Pontefice è un atto importante, un cambiamento reale e decisivo. Da oggi nessuno di noi si deve sentire più solo». La decisione è storica, Francesco ha abolito il segreto pontificio per le cause canoniche di abusi sessuali su minori. «Non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni», si legge nell’Istruzione «Sulla riservatezza delle cause» diffusa nel giorno dell’83esimo compleanno del Papa. Nel testo si legge anche che «a chi effettua la segnalazione, alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo ai fatti di causa». Come spiega il giurista Giuseppe Dalla Torre, già presidente del Tribunale Vaticano, il provvedimento «riguarda sia le procedure che si svolgono in sede locale, sia quelle che hanno luogo a Roma, presso la Congregazione per la Dottrina della Fede». Resta il «segreto d’ufficio», come in ogni ordinamento giuridico, ma l’Istruzione del Papa stabilisce che «il segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo alle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili». Questo significa che i magistrati civili degli altri Paesi potranno finalmente avere accesso agli atti dei processi canonici.

Da repubblica.it il 17 dicembre 2019. Un sacerdote argentino, accusato di abusi sessuali nei confronti di minori si è suicidato ieri a La Plata, a 60 chilometri da Buenos Aires. Lo riferisce il quotidiano Clarin. Si tratta di padre Eduardo Lorenzo, accusato di almeno cinque casi di abuso, che si è sparato un colpo di pistola alla tempia nella sede della Caritas dove era temporaneamente alloggiato. Fonti giudiziarie hanno indicato che le vittime sarebbero bambini che partecipavano ad attività parrocchiali nella capitale argentina, a Olmos e a Berisso. Proprio ieri pomeriggio era stata diffusa la notizia che il giudice di garanzia Marcela Garmendia aveva accettato la richiesta di incarcerazione del religioso sollecitata dal pm, Ana Medina, in risposta alle richieste delle famiglie delle vittime.

PAOLO RODARI per repubblica.it il 17 dicembre 2019. Una svolta storica. Con due documenti Francesco abolisce il segreto pontificio nei casi di violenza sessuale e di abuso sui minori commessi dai chierici, e decide, insieme, di cambiare la norma riguardante il delitto di pedopornografia facendo ricadere nella fattispecie dei “delicta graviora” - i delitti più gravi - la detenzione e la diffusione di immagini pornografiche che coinvolgano minori fino all’età di 18 anni. È trascorso meno di un anno dal summit sugli abusi convocato per la prima volta dal Papa in Vaticano. In quell’occasione furono soprattutto le vittime a dire la loro e, alcune, a uscire con l’amaro in bocca per decisioni drastiche ancora non prese. Oggi è a loro che la Santa Sede di fatto guarda, con un cambio di passo che, come spiega il direttore editoriale di Vatican News Andrea Tornielli, è proprio “frutto” di quel summit. I due documenti, infatti, comportano, spiega ancora Tornielli “che le denunce, le testimonianze e i documenti processuali relativi ai casi di abuso conservati negli archivi dei Dicasteri vaticani come pure quelli che si trovano negli archivi delle diocesi, e che fino ad oggi erano sottoposti al segreto pontificio, potranno essere consegnati ai magistrati inquirenti dei rispettivi Paesi che li richiedano. Un segno di apertura, di disponibilità, di trasparenza, di collaborazione con le autorità civili”. Il primo e più importante documento è un rescritto a firma del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin. Dice che il Papa il 4 dicembre scorso ha disposto di abolire il segreto pontificio sulle denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti citati nel primo articolo del recente motu proprio “Vos estis lux mundi”, vale a dire: i casi di violenza e di atti sessuali compiuti sotto minaccia o abuso di autorità; i casi di abuso sui minori e su persone vulnerabili; i casi di pedopornografia; i casi di mancata denuncia e copertura degli abusatori da parte dei vescovi e dei superiori generali degli istituti religiosi. La nuova istruzione specifica anche che le “informazioni sono trattate in modo da garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza” stabiliti dal Codice di Diritto canonico per tutelare “la buona fama, l’immagine e la sfera privata” delle persone coinvolte. Ma questo ‘segreto d’ufficio’, si legge ancora nell’istruzione, “non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali”, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, “nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili”. Inoltre, a chi effettua la segnalazione, a chi è vittima e ai testimoni “non può essere imposto alcun vincolo di silenzio” sui fatti. Con il secondo rescritto firmato da Parolin e dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria Ferrer, vengono rese note le modifiche di tre articoli del motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” (del 2001, già modificato nel 2010). Si stabilisce che ricada tra i delitti più gravi riservati al giudizio della Congregazione per la dottrina della fede “l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori di diciotto anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento”. Fino ad oggi quel limite era fissato a 14 anni. In un altro articolo si permette che nei casi riguardanti questi delitti più gravi possano svolgere il ruolo di “avvocato e procuratore” anche fedeli laici provvisti di dottorato in Diritto canonico e non più soltanto sacerdoti. Il rescritto papale ovviamente non cambia il segreto della confessione che rimane. E nemmeno comporta la pubblicazione e la divulgazione dei documenti dei processi. La riservatezza per le vittime e per i testimoni è infatti sempre tutelata. “Ma ora – scrive ancora Tornielli – la documentazione dovrà essere messa a disposizione delle autorità civili per le indagini riguardanti i casi già interessati da un procedimento canonico”.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 17 dicembre 2019. Trasparenza e collaborazione: sono le due chiavi per capire il nucleo della decisione storica del Papa. Si tratta di una mossa che va a modificare l'ordinamento canonico sul segreto pontificio per rendere più efficace la lotta alla pedofilia e alla violenza. Il che significa che se la legge civile di uno Stato prevede l'obbligo di denuncia da parte del vescovo, nessuno potrà trincerarsi più dietro il segreto pontificio e non potrà più insabbiare i casi negando a chi la chiede la lettura di documenti contenuti negli archivi necessari a fare luce sul caso di molestie. È come se il Papa avesse predisposto una sorta di cinghia di trasmissione tra le autorità civili e quelle ecclesiastiche per abbattere i muri di gomma del passato, facendo salvo solo il segreto della confessione, che resta inalterato. I canonisti spiegano che il Papa ha voluto sostituire l'atteggiamento di diffidenza e di difesa nei confronti degli ordinamenti statali con un atteggiamento nuovo, di sana collaborazione. Ma riguardo a queste inchieste cosa accade oggi in Italia? Se in tanti Paesi esiste l'obbligo di denuncia da parte dei vescovi degli abusi commessi da ecclesiastici, in Italia i vescovi sono solo moralmente impegnati a collaborare. Ancora nel 2012 la Cei in un vecchio documento intitolato «Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici» affermava di essere esonerata dall'obbligo di deporre in un tribunale italiano o di esibire agli inquirenti italiani documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragioni del proprio ministero, e di non avere l'obbligo giuridico di denunciare all'autorità giudiziaria le notizie ottenute in confessionale in merito ad abusi sessuali da parte del clero. La questione da un punto di vista strettamente giuridico si basa sul quarto comma dell'articolo 4 del Concordato del 1984, e sugli articoli 200, 25 e 331 del Codice di Procedura Penale italiano: di fatto ogni vescovo può rifiutarsi di testimoniare in un processo penale così come ogni sacerdote può farlo appellandosi al segreto derivante dal proprio ministero. Sul tema della pedofilia, a parte rari interventi da parte del mondo politico, nessun partito si è mai fatto seriamente carico di cambiare le disposizioni in materia e avviare un percorso in grado di portare ad una revisione pattizia dell'articolo 4. In Italia, due anni fa, il deputato grillino Matteo Mantero aveva presentato in Parlamento una interrogazione per sapere quali fossero gli elementi statistici «sui procedimenti, definiti e ancora pendenti, nelle procure della Repubblica per reati sessuali contro minori, che vedono indagati o imputati ministri di culto». Inoltre chiedeva quali iniziative intendesse assumere il Governo dell'epoca «nell'ambito dei rapporti bilaterali con la Santa Sede, per promuovere il rafforzamento dello scambio di informazioni ovvero per introdurre strumenti di cooperazione finalizzati alla prevenzione e repressione dei reati di molestie e abusi sessuali perpetrati da ministri di culto in Italia». La Cei, che tra tutte le conferenze episcopali italiane in materia di lotta agli abusi è sempre stata il fanalino di coda dell'Europa, non ha mai pubblicato nessuna statistica e, ancora oggi, alle conferenze stampa, ai giornalisti risponde infastidita che i numeri sono bassi, i più bassi d'Europa. Quanto siano bassi, però, non è dato sapere, così come è impossibile conoscere che fine abbiano fatto i preti pedofili processati dai tribunali ecclesiastici. A questo si aggiunge che ci sono diocesi come Milano, Napoli, Genova, Lecce, Savona sulle quali pendono pesanti sospetti di insabbiamenti e gestioni poco trasparenti di casi di abusi.

Preti pedofili, le voci di chi ha subito abusi: «Tanti vescovi contro il Papa». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi e Claudio Del Frate. Juan Carlos, Marie, Francesco, dal Cile all’Italia, ecco le voci di chi ha subito abusi: «Quello del Pontefice è un atto importante, un cambiamento reale e decisivo. Da oggi nessuno di noi si deve sentire più solo». «Come vittima e sopravvissuto, ringrazio il Papa per il suo coraggio. Io so che nella Curia e in tutto il mondo ci sono cardinali e vescovi contro di lui, gente che finora si è nascosta dietro il segreto pontificio — leggi l’approfondimento su che cos’è — per coprire il terrore e insabbiare. È caduta una muraglia oscura». Al telefono con il Corriere, la voce di Juan Carlos Cruz, 56 anni, suona sollevata prima che felice, come si fosse tolto un peso. Era ancora un adolescente quando subì abusi dal sacerdote pedofilo seriale Fernando Karadima, spretato da Francesco l’anno scorso. Potente e temuto fin dagli anni di Pinochet, nella parrocchia di El Bosque a Santiago, Karadima è all’origine degli scandali che hanno devastato la Chiesa cilena, una delle prove più difficili del pontificato. Con altre due vittime di Karadima, un anno e mezzo fa, Cruz era stato ricevuto da Francesco a Santa Marta, «voglio che nessuna vittima si senta più sola». Le denunce erano rimaste inascoltate per anni, vescovi e cardinali cileni gli davano del calunniatore. «Ne avevamo parlato al Papa, certo. Ma come noi, tante vittime non hanno smesso di chiedere l’abolizione del segreto pontificio. Così si fa giustizia e trasparenza». Considerazioni che si ripetono, in chi ha patito violenze e incredulità. Alessandro Battaglia, 22 anni, vorrebbe non pensarci più. «Si figuri che neanche lo sapevo. Però sono contento, chiaro. Lo chiedevamo da anni. Certo i vescovi non hanno più scuse, ora: non potranno insabbiare con la scusa che rischiano la scomunica». Alessandro era un ragazzino legato alla sua parrocchia, a Rozzano, diocesi di Milano. «Andavo in oratorio ogni giorno, ero uno scout, cantavo nel coro, i miei amici erano lì: a quindici anni, per me, l’oratorio era tutta la vita», raccontava nei giorni dell’incontro in Vaticano per la protezione dei minori. Lo ha ripetuto fin da quella notte: «Sono stato abusato alla fine del 2011 da don Mauro Galli». Don Galli è stato condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi. Ma intanto sono passati anni di inerzia, coperture. «La Chiesa è così, una macchina lentissima, però bisogna apprezzare le cose positive, e questa decisione lo è». Una decisione che ha fatto il giro del mondo. La signora Marie Collins, irlandese di Dublino, aveva tredici anni quando fu abusata da un sacerdote negli anni Sessanta. Nel 2014 fu nominata da Francesco nella prima Commissione antipedofilia, tre anni più tardi si dimise contro le resistenze vaticane. Ora commenta, asciutta: «Una notizia eccellente. Lo avevamo raccomandato durante il primo mandato della commissione, è bello vedere che è stato applicato. Finalmente un cambiamento reale e positivo». Anche Miguel Hurtado, 36 anni, ha l’aria sollevata: «Una buona notizia, una richiesta storica delle organizzazioni di vittime dei preti pedofili». La sua storia riguarda il monastero di Montserrat, in Catalogna. «Avevo sedici anni, fui abusato da un monaco benedettino, Andreu Soler, che guidava il nostro gruppo scout». Anche qui denunce ignorate, silenzi. Ora sospira: «Mai più casi trattati in segreto. I vescovi devono collaborare con la giustizia e consegnare i documenti interni». Si vedrà. Francesco Zanardi, fondatore di «Rete l’Abuso», osserva: «La Procura di Roma ha mandato una rogatoria per acquisire gli atti del fascicolo di don Gabriele Martinelli sugli abusi nel preseminario San Pio X, il collegio dei chierichetti del Papa. Ora vedremo l’efficienza della norma». Zanardi ha 48 anni, ne aveva undici quando a Spotorno fu violentato dal viceparroco, «si chiamava don Nello Giraudo, andò avanti tre anni». Resta la faccenda dell’obbligo di denuncia alle autorità civili, che in Italia non c’è per i preti: «Ma questa è una vergogna italiana: è il nostro Stato a doverlo disporre, almeno per i vescovi».

Abusi, grazie a Papa Francesco la Chiesa difenderà i suoi figli. Don Fortunato Di Noto il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il Papa ha le idee chiare in tema di pedofilia: il tempo del segreto, del muro impalpabile che impediva a chi cercasse giustizia nei casi d’abuso da parte di un sacerdote, è crollato. Con le ultime norme presentate il 17 dicembre scorso, Francesco ha riaffermato che al centro, prima di tutto, c’è la vittima. Non è difficile pensare ai suoi incontri con le vittime d’abuso che ha avuto nel corso del pontificato; come non è difficile ipotizzare che questa sua azione nasca anche dalla frequentazione col Papa emerito e sommessamente con la presenza discreta di tanti, come la Meter, associazione a tutela dei minori, da 30 anni impegnata contro la pedofilia e gli abusi. Il popolo dal basso, dalle periferie che pioneristicamente ha dato le prime attenzioni. Penso a tutte le volte in cui Joseph Ratzinger ha pianto insieme alle vittime che ha incontrato nel corso del suo tormentatissimo pontificato. Ha portato su di sé anche questa croce. Grazie ai due rescritti che modificano le Normae de gravioribus delictis riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede secondo il Motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela di Giovanni Paolo II del 2001 (aggiornato poi sotto Benedetto XVI nel 2010) e l’altro contenente l’Istruzione sulla riservatezza delle cause, nel primo caso è stata alzata l’età delle vittime di pornografia minorile da 14 a 18 anni (e in questo la normativa canonica si è avvicinata, e molto, a quella civile: si pensi che il codice penale, all’art. 600 ter, tratta la stessa fattispecie e appunto parla di pornografia minorile intendendo tutti i minori degli anni 18) e si apre alla possibilità di avere dei laici – a condizione che abbiano il dottorato in diritto canonico – come avvocati (ma non come magistrati né cancellieri: quelli restano sacerdoti). Nel secondo caso, che è quello più rilevante, è caduto il segreto nei processi canonici per questi reati.Messa così la cosa non vuol dire niente per tanti. I reati che vengono trattati sono: violenza o minaccia mediante abuso d’autorità a compiere o subire atti sessuali; atti sessuali con minore o persona vulnerabile (pensate per esempio a qualcuno che abbia un ritardo cognitivo); produzione, esibizione, detenzione o distribuzione di materiale pedopornografico e reclutamento o induzione di minore o persona vulnerabile a partecipare a esibizioni pornografiche; intralcio alle indagini canoniche, civili, amministrative o penali sul tema. E ancora: abuso sessuale commesso da chierico con minore di 18 anni; acquisizione, detenzione o divulgazione di materiale pornografico di minori sotto i 14 anni (si sale a 18 dal 1° gennaio 2020). Bene, per tutti questi reati d’ora in poi non varranno né il segreto pontificio, che colpisce tutta l’attività della Congregazione per la Dottrina della Fede (che come si sa è il tribunale riservato agli abusi sessuali dei sacerdoti su minori); né tantomeno il segreto d’ufficio che riguarda quindi lo svolgimento del processo. Di più: il Papa non ha introdotto l’obbligo di denuncia da parte del vescovo nei confronti del sacerdote pedofilo o abusatore, però impone la denuncia se è prevista dalla legge statale. Insomma, da un punto di vista strettamente giuridico, in futuro le vittime di un crimine di abuso avranno sia la possibilità di rivolgersi alla giustizia laica che a quella canonica; e la giustizia canonica si occuperà di collaborare con quella laica. Nessun vescovo potrà fare scena muta davanti a un giudice laico, non potrà trincerarsi dietro alcuna riservatezza. E non potrà essere imposto il silenzio anche a chi, vittima o testimone, vorrà rendere pubblico il suo abuso e la sua richiesta di giustizia. Che cosa ne penso? Penso che difendere i piccoli e i deboli, come già disse Paolo VI nel 1978, non è una moda o un impegno passeggero per la Chiesa; e tantomeno lo è per il Papa. Queste norme sono estremamente chiare e non prestano appiglio a fraintendimenti, dal momento che questi rescritti non sono un punto d’arrivo ma di partenza. Per essere più chiari: la Chiesa piangerà ogni singola vittima d’abuso sino alla consumazione dei secoli; ma sta sempre più mettendo in campo delle soluzioni credibili per porre rimedio alla piaga dell’abuso. Madre e Maestra, e non più matrigna, la Chiesa adesso propone non solo questo ma soprattutto suggerisce un percorso di formazione, informazione, cultura per la difesa dei piccoli e deboli da ogni tipo di abuso. Ed è un esempio che vale non solo per i cattolici, ma per qualsiasi culto e persino – mi permetto di dire – per chi non crede. È un messaggio realmente cattolico e cioè universale: ed è un impegno per tutti. Soprattutto per gli Stati laici, che ancora hanno una legislazione deficitaria: ci sono Paesi che non hanno una legge contro la pedopornografia e non hanno definito la fattispecie, come anche l’età del consenso dei minori e il segreto di ufficio (cosa che, dobbiamo dirlo, vige in ogni sistema garantista!). Francesco ha lanciato una sfida non da poco: ne saremo all’altezza? Saremo capaci, insieme di dichiarare la pedofilia un crimine contro l’umanità? Tutti e non solo una parte di questa umanità?

·        Il Vaticano e l’omosessualità.

Paolo Isotta per “Libero quotidiano” l'11 novembre 2020. Sono assai perplesso. E desidererei tanto che qualche anima buona mi aiutasse a trovare una risposta a quel che mi pare un mistero, inspiegabile. La settimana scorsa ho pubblicato, su "Il Fatto Quotidiano", un articolo su di un avvenimento che mi pare al centro degli interessi degli italiani. Parlo di fatti che in apparenza sono irrelati ma in piena sostanza posseggono uno stretto nesso. Sua Santità, in un' intervista che, quanto a valore canonico, conta meno di zero, ha annunciato che gli omosessuali, rei, ricordo, di peccato mortale, quanto a dottrina ecclesiastica, peccano assai meno se, stretti da un vincolo d' amore, convivono quale coppia matrimoniale nel senso della carità cristiana. Un tempo la Chiesa professava opposta dottrina: esser meno grave il peccare occasionalmente, seguito dalla Confessione e dal suo Sacramento, rispetto a un vincolo fisso, al qual peccato s' aggiungeva la pertinacia: dunque esso diventava irredimibile portando direttamente all' Inferno. I ricchioni "sposati", che oggi ispirano tanta tenerezza quando li si vede la domenica mattina nei supermercati scegliere tra il "pacchero" e la "linguina" per tutta la settimana, ispirano tenerezza e indulgenza: dal Santo Padre alla Casalinga. C' è il Vincolo dell' Amore. E lì venivo a trattare di un caso pratico. C' è un quarantottenne attore, popolarissimo presso le ragazzine, che personalmente giudico assai attraente, il quale per decennî ha dovuto fingere focosissime storie d' amore femminili perché - egli ha dichiarato - glielo imponevano i suoi padroni: produttore, uffici stampa et similia. Essendo egli, Gabriel Garko (nome d' arte) di Casale Monferrato, al suo posto mi sarei consultato con don Gonzalo Fernandez di Cordoba e Alessandro Manzoni. Posto che fossi stato in grado di capire la grammatica dei Promessi sposi. Li hai mai letti, Gabriel? Ma egli è stato costretto dai suoi padroni (ufficio stampa, produttore, agente e non so che altro) a fingersi eterosessuale: tanto che io, gravemente errando, lo sfottevo di continuo, parendomi assai difficile che un bel ragazzo, dai tratti così spiccatamente - e vorrei dire ultroneamente - effeminati, avesse intense storie d' amore con improbabili e, per me, racchissime donne. Or che va a capitare: le azioni di Gabriel erano purtroppo in ribasso; i suoi padroni l' hanno capito: ed egli ha effettuato in diretta televisiva un coming out nel quale dichiarava la sua vera natura, piacergli solo i maschi, e intrattenere al momento un focoso rapporto d' amore (vincolo familiare, s' intende) con un ragazzo ventitreenne di Torre Annunziata, residente dalle parti della Malpensa perché ivi impiegato nello spostare i bagagli o qualcosa di simile: Gaetano Salvi: niente di che, se vedete le innumeri fotografie su Wikipedia. Di ciò s' è parlato moltissimo, specie nelle trasmissioni televisive e sui settimanali. Lagrimevoli confessioni (omnibus perpensis) di Gabriel. Beh, da coglione ho ritenuto di aggiungere anche la mia. Mi dichiaravo fortemente pentito per avere sfottuto un ragazzo palesemente fragile. Gli chiedevo perdono per averlo preso in giro su di un fatto così delicato che doveva causargli (credevo; e ancora oso credere) profondi traumi psichici. E dichiaravo che questo Gabriel, da qualche tempo in ribasso, fosse stato costretto dai suoi padroni a fingere un dolorante coming out televisivo per dolorosamente (o dolosamente, visto il fine per che l' avevano mandato?) proclamare la sua identità erotica: in realtà, per far parlare, comunque, di sé. I suoi padroni debbono avergli detto: "Non rendi più come velata, adesso tu ti dichiari in televisione, noi ti troviamo un fidanzato fisso, a posto, bruttino e sottoproletario, tu dichiari di aver incontrato il grande amore della tua vita, e tutto va in regola." E così è andata avanti la ridda televisiva e dei settimanali. Nel mio articolo sul "Fatto" dichiaravo tutto ciò: beninteso, la mia - secondo me inconfutabile - ragione dei fatti. Ma guai a voler postulare una ragione! Che volete, mi piace trattare anche di quisquilie reificato. Ora, è vero o non è vero che Garko è al centro degl' interessi nazionali? È vero o non è vero che dove mette, o se lo fa mettere, il cazzo, è cosa da superare per importanza tutta la nostra politica estera? E che il lavoratore della Malpensa è un personaggio d' interesse e importanza patriottiche, quasi maresciallo Badoglio? Infine, anche per la mia età, è vero che io sia uno scrittore di un qualche rilievo sul terreno italiano? Il mio articolo si concludeva, peraltro, con le scuse per averlo preso in giro nel passato, Garko, e con l' espressione di tenerezza e pietà perché un essere umano, quale egli è, fosse privato dai suoi padroni del minimo della libertà personale? Allora, o egli è un essere moralmente inqualificabile o, come propendo a credere, un essere reificato, trasformato in una mera res, ossia di una cosa fungibile alla quale ogni diritto è sottratto? La risposta è facile. E qui viene la mia perplessità. Su di Garko appaiono servizî anche quando acquista un nuovo cavallo: che, evidentemente, gli sta a cuore - buon per lui - più di Salvi Gaetano? Eppure, non un giornale, non una trasmissione radio o televisiva, ha raccolto quel che mi pareva una argomentata riflessione. Volta, ora, a tentare di far capire a un mio sventurato fratello ch' è giunto il momento di viversela in proprio, la vita, quali che fossero le conseguenze: pure quelle di mettersi per istrada e "battere", ma liberamente. Acchiappa dieci ragazzi al giorno, tanto sei bello e te lo puoi permettere! Ma, a quel che pare evidente, l' ufficio stampa di Gabriel esercita in fatto più potere di quello della Presidenza del Consiglio? E che, per riprendere l' aforisma in campo filosofico di Wittgenstein, "di ciò di che non si può parlare, parlare non si deve?" Partivamo da un piccolo gossip di ricchioni e siamo arrivati a una questione etica: e profonda. A me di Garko non importa nulla; ma ch' egli possa esercitare una libertà di uomo, diciamolo pure, importa per ragioni di principio. E, alla fine, ciò investe tutti noi. Mi aiuti, amato Direttore Vittorio, a capirci qualcosa? Sono incorso nel Sacrilegio? Verrò scomunicato, per "offesa alla sacralità della Famiglia", donec aliter provideatur: ossia, quel rogo che per tanti motivi mi merito…

Papa Bergoglio sempre più a sinistra: “Sì alle unioni civili per le coppie gay”. E chiama due “mammi”. Lucio Meo mercoledì 21 Ottobre 2020 su Il Secolo D'Italia. “Le persone omosessuali nel mondo hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo”. Parole destinate a far discutere, quelle pronunciate da Papa Bergoglio in un documentario in uscita oggi alla Festa di Roma a firma di Evgeny Afineevsky. Un vero e  proprio endorsement di sinistra su un tema da sempre tabù per la Chiesa, che nella sua dottrina aveva sempre posto al centro la tutela della famiglia tradizionale. Finora sulla questione delle unioni civili per gli omosessuali, si erano registrate solo fughe in avanti di qualche cardinale, ma senza conseguenze nella traduzioni in atti e documenti dogmatici e politici del Vaticano. Nel documentario, secondo quanto racconta “Repubblica”, si vede il Papa telefonare a una coppia di gay con tre figli piccoli a carico, in risposta ad una loro lettera in cui mostravano il loro grande imbarazzo nel portare i loro bambini in parrocchia. Nella chiamata Bergoglio consiglia ai “mammi” di portare i bambini in parrocchia al di là degli eventuali giudizi. Nei mesi scorsi il Vaticano aveva annunciato di aver aperto una “riflessione” sulle unioni civili per i gay. Oggi l’uscita pubblica del Papa, su cui da tempo si ragiona rispetto alla sua collocazione politica, che non riguarda solo i diritti degli omosessuali ma anche i messaggi politici sul tema dell’immigrazione. Posizioni mai condivise negli scritti e nelle dichiarazioni del suo predecessore, Papa Ratzinger, con lui nella foto in alto.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 21 ottobre 2020. «Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo, gli omosessuali godrebbero di una copertura legale. Io ho difeso questo». Le parole del Papa sono contenute nel documentario «Francesco» di Evgeny Afineevsky, presentato mercoledì pomeriggio alla Festa del cinema di Roma, e rappresentano un passaggio importante — è la prima volta che un pontefice si dice favorevole alle unioni civili omosessuali — di un percorso che la Chiesa peraltro preparava da qualche anno. «Gli omosessuali hanno diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio, e hanno il diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe esserne buttato fuori o essere infelice per questo», afferma Francesco nel documentario. Negli ultimi anni, del resto, diversi porporati e personalità vicine al Papa avevano sostenuto la stessa linea. Francesco ha più volte chiarito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», come spiegò nel 2016 alla Rota romana: il «matrimonio tra uomo e donna» va distinto da altre unioni. A favore del riconoscimento delle unioni civili, tra gli altri, si sono pronunciati in questi anni i cardinali Walter Kaspere Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, e il vescovo Marcello Semeraro, molto vicino a Francesco, di recente nominato a capo della Congregazione dei Santi al posto del cardinale Becciu. Il pontificato di Francesco è scandito da aperture nei confronti del mondi Lgtb. Il mese scorso, ai genitori dell’associazione «Tenda di Gionata», aveva detto salutandoli al termine di un’udienza generale: «Il Papa ama i vostri figli così come sono perché sono figli di Dio». Un cambio di atteggiamento che fece il giro del mondo fin dall’inizio del pontificato, la riposta ai giornalisti che nel 2013 gli chiedevano, di ritorno da Rio de Janeiro, se ci fosse una lobby gay in Vaticano: «Si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby, non tutte sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». Nel documentario, il papa fa riferimento a Andrea Rubera, un uomo che insieme con il partner ha adottato tre bambini e che, una mattina, consegnò al Papa una lettera nella quale spiegava di voler crescere i figli nella fede cattolica, temendo però per come sarebbero potuti essere accolti nella locale parrocchia. Il Papa — dice Rubera nel film — gli aveva poi telefonato, dicendogli di essersi commosso, e spingendolo a introdurre i figli nella vita della parrocchia, preparandosi però a trovare resistenze. Rubera, nel film, dice di aver effettivamente fatto frequentare ai figli la parrocchia, e di essere felice della scelta compiuta.

Coppie gay, papa Francesco: "Sì a legge sulle unioni civili". Il Papa apre al sostegno della Chiesa per le leggi sulle unioni civili tra persone omossessuali. La novità che arriva da un documentario. Francesco Boezi, Mercoledì 21/10/2020 su Il Giornale. Una dichiarazione che farà discutere, in un contesto culturale già particolarmente interessato da contrasti interni e da polemiche: Papa Francesco si è espresso in maniera favorevole rispetto alle unioni civili. Il virgolettato di Jorge Mario Bergoglio deriva dalla visione di un documentario andato in onda nel corso del Festival del Cinema di Roma: "Le persone omosessuali - ha fatto presente il pontefice - hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo", ha detto il pontefice argentino, stando pure a quanto riportato su Il Corriere della Sera. Una presa di posizione che arriva come un fulmine a ciel sereno. Nel corso di questi anni, giusto per fare un esempio, si è spesso sottolineato come Bergoglio e Ratzinger, sulla materia bioetica, fossero in sintonia. Ma queste dichiarazioni del pontefice non combaciano affatto con i dettami e le istanze ratzingeriane sui "nuovi diritti". Era difficile prevedere che un vescovo di Roma, sulla base della dottrina, della tradizione e del Catechismo, aprisse ad un'ipotesi di questa tipologia. La riforma di Francesco è dunque anche di natura bioetica: il vertice assoluto di Santa Romana Chiesa si è schierato dalla parte di quei legislatori progressisti che ritengono strettamente necessario allargare il campo dei diritti destinati alla comunità Lgbt.

La Festa di Roma è divenuta allora il palcoscenico per un'apertura dal tenore storico. Il lungometraggio in cui l'ex arcivescovo di Buenos Aires è intitolato "Francesco" e contiene appunto anche un'intervista al Santo Padre, che si è soffermato - secondo quanto ripercorso dalla Lapresse - su altri accenti della sua pastorale, quale l'accoglienza erga omnes, l'ecologia e la tutela quindi delle periferie "economico-esistenziali". Bergoglio, nel corso di questi sette anni e mezzo di pontificato, ha tuonato contro l'aborto e l'eutanasia, mentre era apparso meno chiuso sul tema dei diritti da garantire alle persone omossessuali. A ben vedere, la dichiarazione emersa poco fa può essere interpretata anche alla stregua di una conferma del pensiero del primo pontefice gesuita della storia: è capitato spesso che i tradizionalisti attaccassero Francesco per via della "confusione dottrinale" che scaturirebbe da alcune impostazioni teologiche. Certo è che quelle battaglie, in sintesi, sono per lo più sostenute da una parte politica. Diventa dunque abbastanza semplice prevedere le voci provenienti dal coro dei contrari. Quelle che, con ogni probabilità, si alzeranno dal "fronte conservatore". In termini generale, sembra che la polarizzazione sia finita con l'interessare anche la Chiesa cattolica, dove alti ecclesiastici la pensano diversamente su alcune, se non su molte, questioni fondamentali dell'epoca contemporanea. Le parole sulle unioni civili, però, non sono state pronunciate da un consacrato tra tanti, ma dal pontefice e successore di Pietro. Il primo vescovo di Roma seduto su quel soglio ad aver dato il suo benestare ad una delle grandi rivendicazioni degli emisferi progressisti in questi decenni.

DAGOREPORT il 22 ottobre 2020. Ormai da almeno due anni, in Vaticano lo chiamano "il ventriloquo" per la sua abitudine di presentarsi davanti ai ricchi di mezzi e poveri di spirito aprendo i suoi occhioni particolarmente ampi a causa di una disfunzione alla tiroide per intimare, con tono sempre tassativo, "il Papa mi ha detto; il Papa vuole; il Papa chiede...". L'ultima volta che il Padre Spadaro ha avuto un breve colloquio con il Papa è stato durante il viaggio di ritorno dal Giappone, quindi più di un anno fa. Cosa confermata dalla monumentale grezza che ha preso ieri sera, durante un'intervista su TV2000, dichiarando il contrario di quello che il Papa ha detto nello spezzone dell'intervista del 2019 a Televisa, e censurato, su ordine dell'allora capo ufficio informazione e documentazione della segreteria di stato Carlo Maria Polvani, subito dopo licenziato e cacciato dal corpo diplomatico da Papa Francesco) e ora riapparso all'improvviso. (Polvani è nientedimeno il nipote di monsignor Carlo Maria Viganò che due anni fa chiese le dimissioni del Papa con un’iniziativa clamorosa. Lo stesso Viganò, che l’aveva giurata al cardinale Bertone per la mancata porpora quando era segretario del Governatorato, è all’origine del caso Vatileaks.) Quindi il filmato smentisce quello che Spadaro dice di sapere "dal Papa" anche perché nel 2019, all'epoca dei fatti, evidentemente o non ne era a conoscenza o ha collaborato alla censura delle parole del Pontefice. Resta da sapere come fa Papa Francesco a non accorgersi che quasi tutti quelli che dicono di essergli vicino stanno chiaramente lavorando perché tolga il disturbo. Mentre gli attribuiscono fatti, intenzioni, volontà e pensieri che lui, uno dopo l'altro, smentisce con i fatti e con le parole...

di Redazione Blitz il 22 ottobre 2020. Intervistato dal Tg2000, Padre Antonio Spadaro parla di Papa Francesco e della sua apertura nei confronti delle unioni civili tra omosessuali. Ma secondo Spadaro il Pontefice sarebbe stato travisato: “Papa Francesco parla di un diritto alla tutela legale di coppie omosessuali ma senza in nessun modo intaccare la Dottrina”. Spadaro quindi spiega: “Il regista del film ‘Francesco’ mette insieme una serie di interviste che sono state fatte a Papa Francesco nel corso del tempo dando una grande sintesi del suo pontificato e del valore dei suoi viaggi. Tra l’altro ci sono vari brani tratti da un’intervista a Valentina Alazraki, una giornalista messicana, e all’interno di questa Papa Francesco parla di un diritto alla tutela legale di coppie omosessuali ma senza in nessun modo intaccare la Dottrina”. “C’è anche un’altra testimonianza all’interno del film – ha aggiunto Padre Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica – in cui si dice esplicitamente che Papa Francesco non intende cambiare la Dottrina ma nello stesso tempo Papa Francesco è molto aperto alle esigenze reali della vita concreta delle persone”. “Quindi – ha concluso Padre Spadaro a Tv2000 – non c’è niente di nuovo. Si tratta di un’intervista data già parecchio tempo fa e già passata dalla recezione della stampa. Nello stesso tempo però comprendiamo come all’interno di questo film si ribadisce l’importanza che Papa Francesco affida a parole di ascolto e tutela di persone che vivono situazioni di crisi o difficoltà. Quello che rimane e colpisce è la capacità di ascolto che Francesco dimostra”.

Le parole del pontefice. “Gli omosessuali hanno diritto ad essere parte della famiglia. Sono figli di Dio e hanno il diritto ad una famiglia. Nessuno dovrebbe essere respinto, o emarginato a causa di questo. Quello che dobbiamo fare e una legge per le unioni civili. In questo modo sono garantiti”, avrebbe detto Papa Francesco. Quando era vescovo di Buenos Aires, ricorda l’agenzia Ap, Francesco aveva appoggiato le unioni civili per le coppie gay come una alternativa al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nonostante questo non si era mai espresso a riguardo da quanto era stato creato Papa. Come ha riferito Paolo Rodari su Repubblica, “tra i momenti più toccanti del film, c’è la telefonata del Papa a una coppia di omosessuali. Con tre figli piccoli a carico. In risposta ad una loro lettera in cui mostravano il loro grande imbarazzo nel portare i loro bambini in parrocchia”. (Fonti TG2000 e Repubblica).

C'è una lobby gay in Vaticano? Così preme su papa Francesco. James Martin, il consultore pro Lgbt che opera in Vaticano, esulta per la svolta di Bergoglio. È lui il consacrato che sussurra al Papa? Francesco Boezi, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. Il Papa della Chiesa cattolica ha o no pronunciato una frase che apre alle unioni civili? In linea di principio ed in mancanza di una rettifica del Vaticano, si può ancora dire di sì. Ma non è questo il punto. Jorge Mario Bergoglio potrebbe anche aver parlato solo di una legge che regoli la "convivenza civile" riservata alle persone omosessuali affinché possano vivere in serenità nelle loro famiglie d'origine e non essere allontanati (questa è una delle versioni che circolano in queste ore sul web: la verità verrà a galla o mediante la diffusione del documentario o attraverso un comunicato ufficiale della Sala Stampa della Santa Sede), ma la questione focale riguarda l'atteggiamento dell'Ecclesia sui "nuovi diritti". Lo stesso che sembra essere mutato nel corso di questo settennato. James Martin, padre Martin, è forse l'emblema di questo cambiamento. Favorevole alle cosiddette istanze Lgbt, il gesuita americano ha commentato più volte le notizie relative alle presunte dichiarazioni del vescovo di Roma sulle unioni civili: "Cosa rende i commenti di Papa Francesco a sostegno delle unioni civili tra persone dello stesso sesso oggi così importanti? In primo luogo, le ha dette da Papa, non da Arcivescovo di Buenos Aires. In secondo luogo, sta chiaramente sostenendo, non semplicemente tollerando, le unioni civili. Terzo, lo dice davanti alla telecamera, non in privato. Storico", ha scritto Martin in seconda battuta. Poco prima, sempre a mezzo Twitter, aveva già scritto qualcosa poco dopo la pubblicazione della notizia nel mondo"Il sostegno di Papa Francesco alle unioni civili omosessuali è un importante passo avanti nel sostegno della Chiesa alle persone LGBTQ. È in linea con il suo approccio pastorale alle persone Lgbt, compresi i cattolici Lgbt, e invia un segnale forte ai paesi in cui la chiesa si è opposta a tali leggi". Martin, insomma, è tra coloro che hanno esultato in Vaticano. Qualche conclusione può già essere tratta: intanto padre Martin è convinto che Bergoglio abbia davvero proferito quelle parole. Il che, sulla base di alcune verifiche che stiamo facendo, potrebbe non rivelarsi vero. Ma Martin è anche un interlocutore del Santo Padre. Uno di quegli ecclesiastici, insomma, con cui il primo pontefice sudamericano della storia si è confrontato in udienza. Martin oggi è impegnato anche a sostenere in maniera più o meno diretta la causa di Joe Biden. Prima di questa fase, però, si è speso parecchio per costruire un "ponte" - la definzione del suo libro - che fosse in grado di collegare la Chiesa cattolica, dunque il Vaticano, e la comunità Lgbt. James Martin è arrivato persino a parlare di "Santi gay" nella storia del cattolicesimo. Papa Francesco - dicevamo - ha avuto più di un summit con Martin. E poiché Bergoglio non sembrava essere disposto a troppe aperture sulla dottrina ai tempi di Buenos Aires, qualcuno sospetta che le argomentazioni del gesuita nord americano abbiano fatto breccia. Altri, al contrario e con toni moderati, pensano alcune problematiche stiano sorgendo per via di una certa "confusione comunicativa" che proverrebbe da Santa Marta. Di sicuro qualche anno fa gli episcopati non immaginavano di predisporre percorsi di pastorale legate alla comunità Lgbt. E sempre qualche anno fa, era abbasta inimmaginabile pensare ad un "concilio interno" della Chiesa tedesca che, tra i vari punti programmatici, avesse la rivistazione in chiave progressista del rapporto tra dottrina ed omosessualità. Una modifica quest'ultima che potrebbe essere apportata a prescindere dalle indicazioni di Roma. Il clima interno sta cambiando. E qualunque affermazione abbia fatto il pontefice all'interno dell'ormai noto documentario intitolato "Francesco" - quello che è stato presentato ieri al Festival del Cinema di Roma - , la Chiesa cattolica ed il Vaticano non possono nascondere il periodo di forte polarizzazione. Ieri, forse anche in funzione delle imminenti elezioni americane, alcuni vescovi statunitensi hanno pubblicamente sostenuto la presunta favorevolezza del pontefice alle unioni civili, mentre altri presuli cattolici, come quello di Providence Thomas Tobin, hanno preso le distanze. Possibile che James Martin sia l'uomo che sussurra al pontefice sui "nuovi diritti"? Difficile a dirsi. Conosciamo invece il ruolo centrale svolto da padre Antonio Spadaro, che ieri ha commentato le frasi di Bergoglio, sostenendo che non le volontà del pontefice non interessano dei cambi dottrinali.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 22 ottobre 2020. Tra silenzi imbarazzati e sospetti di censure in Vaticano è scoppiato il giallo sulla frase pronunciata da Papa Francesco davanti alle telecamere a proposito della storica svolta sulle famiglie gay. Quei pochi minuti di pellicola sembrerebbero estrapolati da una vecchia intervista rilasciata dal Papa due anni fa a Televisa, la televisione messicana, ma mai messi in circolazione. Le immagini (relative alla frase sulle famiglie gay) sono contenute nel lungo documentario dedicato all'attuale pontificato - intitolato “Francesco” e diretto dal regista russo Evgeny Afineevsky: una opera che sta scatenando un autentico polverone all'interno della Chiesa per l'evidente cambio di dottrina in corso. Si vede il Papa seduto su uno scranno, su uno sfondo marrone, mentre pronuncia in spagnolo la frase: «Le persone omosessuali hanno diritto a stare in una famiglia, sono figli di Dio (…) quello che dobbiamo creare è una legge che contempli le unioni civili, in questo modo sono legalmente coperti. IO mi sono battuto per questo». E' la stessa inquadratura, la stessa luce, lo stesso sfondo che appare anche nella intervista alla tv messicana. Peccato però che quella frase non compaia poi nell'intervista a Televisa e nemmeno nel testo che a suo tempo fu diffuso dal Vaticano. Come se fosse stato sottoposto a monte a un taglio o a una specie di censura. Chissà. Nel silenzio dei media vaticani avanzano tanti dubbi, sospetti, ipotesi visto che quel pezzetto registrato - contenente la frase tabù - ha fatto capolino ora nel documentario proiettato al Festival del Cinema di Roma. Intanto il regista russo del film-documentario su Papa Francesco assicura che la sua pellicola è stata visionata personalmente dal pontefice quest'estate che ha visto il film sul suo tablet. E che l'intervista con la frase sulle famiglie gay è stata fatta in esclusiva per il suo progetto cinematografico. Il regista non menziona affatto l'intervista del Papa a Televisa. E' proprio questo passaggio che sta sollevando il sospetto di un progetto studiato a tavolino. Sulla questione il Vaticano è naturalmente stato interpellato ma per ora ha mantenuto un insolito silenzio e sui canali ufficiali non sono apparse rettifiche, spiegazioni, chiarimenti. Intanto la frase sull'apertura della Chiesa alle unioni civili omosessuali si è diffusa in tutto il mondo facendo discutere vescovi e cardinali anche perché non sembra sia stato ancora cancellato un provvedimento dottrinale firmato dall'allora cardinale Joseph Ratzinger , quando era prefetto della dottrina della fede, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Nel documento dottrinale si invitano i fedeli, i parroci, i vescovi a non collaborare in alcun modo all'avanzata delle legislazioni civili che tendono a parificare la famiglia formata da un uomo e una donna a famiglie formate da persone dello stesso sesso. «La Chiesa - si legge - insegna che il rispetto per le persone omosessuali non può portare in nessun modo alla approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali». Sotto al documento resta la spiegazione che l'allora Papa Giovanni Paolo II nel 2003 aveva concesso udienza al cardinale Ratzinger e aveva approvato quelle considerazioni dottrinali decise nella sessione ordinaria della Congregazione, ordinandone la divulgazione e pubblicazione.

Da ilfattoquotidiano.it il 23 ottobre 2020. (...) Ciò nonostante il Papa, prima della consueta udienza generale di mercoledì 21 ottobre, ha ricevuto in un saletta adiacente l’Aula Paolo VI il regista e tutti i suoi collaboratori, dando così la sua benedizione al lavoro. Ma anche considerando che il documentario, il giorno dopo l’udienza papale e la presentazione alla Festa del cinema di Roma, diretta da Antonio Monda, fratello del direttore de L’Osservatore Romano Andrea, è stato insignito, proprio nei Giardini Vaticani, del Premio “Kinéo Movie for Humanity Award”, assegnato a chi promuove temi sociali e umanitari.

Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 23 ottobre 2020. Jorge Mario Bergoglio è a favore delle unioni civili. L'endorsement è arrivato con il documentario Francesco firmato da Evgeny Afineevsky e presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, diretto da Antonio Monda, fratello del direttore dell'Osservatore Romano, Andrea, in sala. Nel lungometraggio il Papa dice: «Le persone omosessuali hanno il diritto di stare in famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere cacciato o reso infelice per questo». Lo dice in spagnolo, chiedendo esplicitamente «una legge sull'unione civile» e ricordando di essersi battuto in passato per questo. Tra i protagonisti del documentario c'è Juan Carlos Cruz, vittima cilena di abusi sessuali del clero. Cruz, che è omosessuale, racconta che durante i suoi primi incontri con il papa nel maggio 2018, Francesco rassicurò dicendo: «Non importa che tu sia gay, Dio ti ha fatto così e ti ama in questo modo». Bergoglio nel documentario approfondisce tutti i temi più cari al suo pontificato: l'ambiente, la povertà, le migrazioni, la disuguaglianza razziale e di reddito, le discriminazioni. Questa non è la prima volta che Bergoglio apre alle unioni civili tra coppie omosessuali, ma questa volta lo fa da Papa. Le aveva approvate da arcivescovo di Buenos Aires come alternativa ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, eppure, sulla questione, non si era mai espresso pubblicamente da Pontefice. L'appoggio del successore di Pietro è più concreto che morale e chiede che le coppie gay siano tutelate legalmente.

Estratto dall'articolo di Matteo Matzuzzi per ''Il Foglio'' il 23 ottobre 2020. Il trappolone nel quale è finito (di nuovo) il Papa sta già mostrando le attese conseguenze. (…) Il Vaticano non ha preso le distanze dalla furba operazione di Evgeny Afineevsky, il regista del documentario "Francesco" presentato mercoledì alla Festa del cinema di Roma. Le dichiarazioni papali finite sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, infatti, sono state sapientemente estrapolate dalla lunga intervista concessa dal Pontefice nel maggio del 2019 alla decana dei vaticanisti, la giornalista messicana Valentina Alazraki. Quattro estratti diversi di quella conversazione sono stati estrapolati e assemblati alla perfezione per rendere chiaro il messaggio che ha fatto scalpore (..:) Peccato che nella versione originale Francesco stava parlando d'altro, e in particolare della celebre massima del 2013 che gli valse il premio di "uomo dell'anno" da parte della rivista gay The Advocate: "Chi sono io per giudicare?". A Valentina Alazraki, infatti, Bergoglio disse di essersi molto arrabbiato per come le sue parole erano state interpretate. Lui intendeva parlare proprio dell'integrazione in famiglia degli omosessuali. Peccato che nel lavoro di Afineevsky la premessa e il contesto manchino del tutto. Come manca il passaggio in cui Francesco precisa che "ciò non significa approvare gli atti omosessuali, nel modo più assoluto". Infine, come ha ben documentato il sito Aleteia, il quarto estratto "sembra essere stato tagliato dalla giornalista messicana. S' indovina però nel video il punto del taglio". Ebbene, Alazraki ricorda che Bergoglio a Buenos Aires si era opposto al matrimonio omosessuale. (…)

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2020. «Tutto questo ha creato una grande confusione, ho ricevuto centinaia di chiamate, i fedeli sono totalmente smarriti: che cosa voleva dire, il Papa? Possibile? Perché non si esprime chiaramente?». Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, 73 anni a fine dicembre, teologo e curatore dell' opera omnia di Ratzinger, fu nominato nel 2012 da Benedetto XVI prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed è rimasto in carica fino al 2017. «In Germania, con Benedetto, mi dicevano che ero troppo papista, adesso sono diventato un nemico del Papa! Una cosa assurda, per me: sono un cattolico, un sacerdote, ho scritto tanti libri sul primato del Papa, l' ho sempre difeso contro protestanti e liberali. Però...».

Però, eminenza?

«Però il Papa non è al di sopra della Parola di Dio, che ha creato l' essere umano maschio e femmina, il matrimonio e la famiglia. Sono cardinale e sempre dalla parte del Papa, ma non a tutte le condizioni. Non è una lealtà assoluta. La prima lealtà è alla Parola di Dio. Il Papa è il Vicario di Cristo, non è Cristo. E io sono credente in Dio».

Ma Francesco non ha parlato di matrimonio, ha detto che ci vorrebbe un riconoscimento giuridico per le coppie omosessuali, le unioni civili...

«E qual è la differenza, in fondo? In molti Stati le cosiddette unioni sono state soltanto la premessa del riconoscimento dei matrimoni gay. Per questo tanti fedeli sono disturbati, pensano che queste parole sarebbero solo il primo passo verso una giustificazione delle unioni omosessuali, per la Chiesa, e questo non è possibile».

E perché?

«Dall' inizio della Scrittura, nella Genesi, si dice che Dio ha creato l' uomo e la donna. Gesù lo ricorda ai farisei: l' uomo si unirà con sua moglie e i due saranno una sola carne. Per questo il solo matrimonio possibile è tra uomo e donna e i rapporti sessuali sono riservati esclusivamente al matrimonio. Non vogliamo condannare le persone con tendenza omosessuale, anzi vanno accompagnate e aiutate: ma secondo le condizioni della dottrina cristiana».

La Scrittura non parla di unioni civili...

«Questo è un sofisma! La Parola di Dio vale per tutti i tempi. E parla del diritto naturale, morale. La costituzione antropologica non è rispettata in questa nuova antropologia Lgbt: dicono non esista una natura umana definita, uomo e donna, e il sesso sarebbe solo un costrutto ideale, con tutte le conseguenze del caso, compreso il diritto di cambiarlo. Ma non esiste un futuro dell' umanità senza riconoscere la complementarietà fra uomo e donna, il dato biologico e psichico, un rapporto che fonda la cultura umana. Il Papa è anche il primo interprete della legge naturale: perché interviene in queste cose degli Stati senza sottolineare la dimensione della legge naturale?».

La Chiesa non può riconoscere le unioni civili?

«Non è possibile per un pensiero cristiano. Per questo la Chiesa si è sempre opposta: anche lo Stato laico deve rispettare la legge naturale, riconoscere i diritti fondamentali degli umani».

E dove si violerebbero i diritti umani?

«Con l' adozione dei bambini, ad esempio. Un bambino ha diritto di crescere con un padre e una madre. E non parliamo della maternità surrogata, delle donne povere che hanno bisogno di denaro e vendono il proprio corpo. Un grande mercato contro la dignità umana».

Che cosa ha detto ai fedeli che l' hanno chiamata?

«Noi rispettiamo il Papa, chiaro, è principio dell' unità della Chiesa. Ma anche Pietro e Paolo hanno discusso e un Papa, Onorio I, fu perfino giudicato da un Concilio. La persona non è totalmente identica con il papato. Ci sono stati dei pontefici non sempre chiari nella dottrina».

E questa volta?

«La dichiarazione di Papa Francesco non è ufficiale, è arrivata da un' intervista, e questo la relativizza e genera malintesi. Tutto ciò non è buono perché un Papa, così come ogni vescovo, deve essere sempre molto cauto e chiaro, specie in questi tempi così delicati. Alcuni dicono, non so se sia vero, che nel documentario hanno combinato citazioni diverse. Perché la Santa Sede non ha dato una spiegazione? E la Congregazione per la Dottrina della Fede? Eppure ha pubblicato testi su omosessualità e matrimonio, elaborati scientificamente. È un problema di confusione, nel mondo ora si dice "il Papa benedice le unioni omosessuali": non lo ha detto, ma le conseguenze sono queste. Dovrebbe essere più attento».

Unioni gay, conservatori contro Papa Francesco ma non è uno scisma. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Eresia, scisma, chi più ne ha più ne metta per definire il terremoto provocato dalle frasi di Papa Francesco sull’auspicato riconoscimento dei diritti civili per le unioni omosessuali. Partiamo dalle parole precise del Papa. Esattamente ha detto così: «Quello che dobbiamo fare è una legge sulle unioni civili. In questo modo essi sono coperti legalmente». «Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia», e aggiunge: «Nessuno dovrebbe essere buttato fuori o reso infelice per questo». Da qui in avanti è il caos da parte dei soliti noti. L’arcivescovo Viganò scomoda “l’ombra dello scisma”. Il vescovo Schneider, ausiliare di Astana, in Kazakistan, non è da meno ed è in compagnia con il cardinale Muller e del cardinale americano Leo Raymond Burke. Tutti iper-conservatori, distintisi dal 2014 per avere iniziato un’accesa campagna anti-Bergoglio. Non mandano giù l’approccio di Papa Francesco sui temi della famiglia e della morale familiare. E infatti il cardinale Muller ha detto che «ci vuole una enciclica profetica contro aborto, eutanasia, traffico di organi». Ci sarebbe da chiedere: che c’entra con il tema di oggi? Non si sa, non possiamo saperlo ma solo sperare che nell’intervista il pensiero del cardinale non sia stato tagliato. In attesa, ci atteniamo a quanto pubblicato e dunque la domanda è: che c’entra? La questione apre una partita molto più ampia. Chi non digerisce le aperture del Papa si trincera dietro un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2003. In effetti il testo sembra chiaro quando dice: «Ci si può chiedere come può essere contraria al bene comune una legge che non impone alcun comportamento particolare, ma si limita a rendere legale una realtà di fatto che apparentemente non sembra comportare ingiustizia verso nessuno. A questo proposito occorre riflettere innanzitutto sulla differenza esistente tra il comportamento omosessuale come fenomeno privato, e lo stesso comportamento quale relazione sociale legalmente prevista e approvata, fino a diventare una delle istituzioni dell’ordinamento giuridico. Il secondo fenomeno non solo è più grave, ma acquista una portata assai più vasta e profonda, e finirebbe per comportare modificazioni dell’intera organizzazione sociale che risulterebbero contrarie al bene comune. Le leggi civili sono principi strutturanti della vita dell’uomo in seno alla società, per il bene o per il male. Esse svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una mentalità e un costume ». Le forme di vita e i modelli in esse espresse non solo configurano esternamente la vita sociale, bensì tendono a modificare nelle nuove generazioni la comprensione e la valutazione dei comportamenti. La legalizzazione delle unioni omosessuali sarebbe destinata perciò a causare l’oscuramento della percezione di alcuni valori morali fondamentali e la svalutazione dell’istituzione matrimoniale». Il documento aggiunge subito dopo che «lo Stato non potrebbe legalizzare queste unioni senza venire meno al dovere di promuovere e tutelare un’istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio». E sempre in seguito abbiamo affermazioni del tipo: «Le unioni omosessuali non svolgono neppure in senso analogico remoto i compiti per i quali il matrimonio e la famiglia meritano un riconoscimento specifico e qualificato. Ci sono invece buone ragioni per affermare che tali unioni sono nocive per il retto sviluppo della società umana, soprattutto se aumentasse la loro incidenza effettiva sul tessuto sociale». Basta così con le citazioni: la questione è chiara. La domanda è: che c’entra tutto questo con il Papa? Abbastanza poco se consideriamo come dal 2014 il Papa si è più volte espresso sulle questioni relative all’omosessualità ed alle persone e alla loro condizione, ricordando quanto afferma su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica. Così come più volte il Papa ha preso le distanze da qualsiasi rischio di confusione tra matrimonio e unioni civili. «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», ha spiegato ad esempio il 22 gennaio del 2016 alla Rota Romana, facendo riferimento al «percorso sinodale sul tema della famiglia», in cui questa affermazione è stata ribadita. Ricevendo poi in udienza il Forum delle famiglie, il 16 giugno 2018, Papa Francesco ha abbandonato il testo scritto per parlare a braccio con i partecipanti. Il matrimonio «non è una lotteria», ha esordito, mettendo in guardia dalla “superficialità” sul «dono più grande che Dio ha dato all’umanità». «Oggi – fa dolore dirlo – si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglie»; «sì, è vero che la parola famiglia è una parola analoga – spiegò citando espressioni come “famiglia delle stelle, degli alberi, degli animali” – ma la famiglia immagine di Dio, uomo e donna, è una sola». Dove è il problema? In realtà i problemi sono due. Il primo è relativo al “progresso” che la teologia cattolica può fare, magari alla luce dei risultati scientifici, superando pregiudizi o riuscendo a comprendere meglio le situazioni. Un esempio è relativo a san Tommaso d’Aquino, secondo il quale l’infusione dell’anima nell’embrione avviene per gradi e dunque in qualche modo un aborto nelle prime settimane di vita non sarebbe poi così grave. Un’idea che francamente suscita qualche orrore ma all’epoca l’embriologia non si poteva certo considerare una scienza sviluppata! Come dire che se ci fermiamo o se fermiamo l’evoluzione delle idee, della cultura, della scienza, non andiamo da nessuna parte. E qui naturalmente i detrattori del Papa e fustigatori di ogni progresso, avrebbero buon gioco nel dire che i valori fondamentali non si svendono e bisogna sempre essere contro il disordine morale, qualsiasi significato abbia una tale espressione. Tuttavia questa impostazione confonde perché Papa Francesco parlava in un altro modo ed aveva davanti altre situazioni. E qui è il secondo aspetto. L’approccio dogmatico è ben diverso dall’approccio pastorale. È la questione fondamentale. Se anche la Chiesa proclama per i suoi fedeli che l’omosessualità è un comportamento “disordinato”, cosa dovrebbero fare parroci, sacerdoti, vescovi, teologi, catechisti e via dicendo, nei confronti delle concrete persone omosessuali? Sbattere loro la porta in faccia? Cacciarli? Scomunicarli? La pastorale, messa al centro da Papa Francesco, implica un atteggiamento di dialogo e di ascolto, di presa in carico delle sofferenze, di riconoscimento dei dolori e dei drammi, per avviare un percorso di conversione. Da notare le parole-chiave: percorso e conversione. Potrebbe volerci tutta la vita e una vita intera potrebbe non bastare. Nel frattempo che dobbiamo fare? Per i fustigatori della morale la soluzione è semplice e la demarcazione tra bene e male è netta e invalicabile. Per fortuna non sono ancora saliti al soglio di Pietro, e per fortuna la misericordia e l’approccio pastorale vanno al primo posto. Come sanno bene tutti quei sacerdoti – dai pastoralisti ai teologi morali – che conoscono le fragilità delle persone e hanno compreso l’inutilità delle condanne.

Lucetta Scaraffia, Storica e docente de La Sapienza, per “la Stampa” il 23 ottobre 2020. Papa Francesco ha dato di nuovo prova - e questa volta proprio di sorpresa, attraverso un canale comunicativo inedito - di avere scelto un indirizzo decisamente progressista. In realtà, quello che ha detto è praticato già da molti parroci che hanno accolto fedeli omosessuali conviventi nella vita della parrocchia, ma al tempo stesso non possiamo negare che si distacca fortemente da quella che è la morale ufficiale della chiesa cattolica. L' immagine di Francesco si arricchisce quindi di un nuovo aspetto, dopo quelli, già largamente conosciuti, del Papa misericordioso verso i peccatori e i non credenti, e del combattente contro il cattivo uso del denaro della chiesa. Un aspetto che lo caratterizza come uomo libero non solo rispetto alla morale rigida dell' istituzione, ma anche svincolato dalla tradizionale attenzione a mantenere gli equilibri interni alla comunità dei fedeli. E che lo conferma come Papa capace di capire i tempi in cui viviamo: era terribilmente anacronistico, infatti, continuare a sostenere una opposizione alle unioni civili omosessuali quando ormai stanno diventando legali in quasi tutti i Paesi avanzati. È stato però rischioso affermare che anche le coppie omosessuali non solo devono poter difendere il loro legame legalmente - fatto ormai generalmente accettato - ma pure «hanno diritto a una famiglia». Forse Francesco non sa che questa frase è usata abitualmente per chiedere il riconoscimento al diritto alla «parentalità», cioè a ottenere, con mezzi diversi, di avere figli. È molto difficile pensare che la sua apertura si estenda anche a questo punto, ma la frase usata appare ambigua. Se infatti l' apertura fosse completa, si aprirebbero problemi enormi perché andrebbe contro una morale bioetica che si è sempre pronunciata contro la fecondazione assistita, l' inseminazione eterologa, l' utero in affitto. Con questa affermazione papa Francesco si avvicina molto al nodo dei principi non negoziabili, che finora aveva evitato di affrontare apertamente, limitandosi a declassare l' urgenza della loro difesa. Anzi, quando si era espresso in proposito - sull' aborto o sull' eutanasia - aveva tenuto posizioni molto tradizionali. È chiaro che la nuova affermazione segna una svolta nell' affrontare un tema eticamente sensibile, che è sempre stato oggetto di battaglie politiche. Una svolta che personalmente condivido, che sembra più che altro dettata dal buon senso e dal riconoscere che non tutto il progresso ispirato al tanto criticato ampliamento dei diritti individuali è sbagliato e pericoloso. Forse poteva essere formulata con maggiore prudenza, perché questo è un campo in cui le parole sono pietre. Non si può però negare che quei cattolici impegnati in politica i quali per decenni hanno dovuto combattere ogni proposta di legge aperta al riconoscimento delle unioni omosessuali - pena l' esclusione dal riconoscimento dell' etichetta di cattolici - oggi si sentano disorientati e anche un po' traditi. Le loro richieste in proposito, che ci sono state, non hanno mai trovato ascolto, non si è mai aperta una discussione. Sembrava una questione chiusa, ed è stata riaperta all' improvviso, in modo inaspettato, da un intervento dall' alto. Penso che la svolta fosse inevitabile, e positiva, ma doveva essere preceduta da una discussione, da un processo culturale che preparasse il cambiamento. Nella Chiesa è proibito discutere di questioni bioetiche, lì i laici devono solo obbedire. E ogni problema viene affrontato solo dal punto di vista teologico, lasciando poco spazio ad altri punti di vista, altrettanto necessari. Oggi, improvvisamente, e ancora una volta dall' alto, piomba il nuovo corso. Ma quando mai i laici, i veri esperti, potranno discutere liberamente di identità sessuali, di vita e di morte, di proprietà del corpo umano? Quando mai saremo considerati adulti, capaci di capire e di consigliare l' intoccabile casta sacerdotale, della quale anche papa Francesco fa parte, e al cui stile nei fatti si adegua con il suo decisionismo improvviso?

Paolo Rodari per ''la Repubblica'' il 17 settembre 2020. «Ci ha detto che il Signore e la Chiesa amano i nostri figli perché sono tutti figli di Dio. Per me e per tutti noi è stata una grande luce dopo anni difficili e bui». Mara Grassi è una donna credente, madre di Giovanni, 40 anni, omosessuale. Ieri, dopo l' udienza generale del mercoledì, ha potuto incontrare brevemente il Papa e a nome dell' associazione "Tenda di Gionata". E consegnarli il libro Genitori fortunati nel quale sono raccolte le testimonianze di genitori cattolici con figli Lgbt. È la prima volta che l' associazione è convocata per un seppur breve incontro con il Papa.

Che sensazioni ha provato ieri?

«Molto forti. Per anni sono stata come cieca. Dopo che ho saputo dell' omosessualità di mio figlio ho sofferto a lungo perché le regole della Chiesa mi facevano pensare che lui fosse escluso dall' amore di Dio. Nessuno mi ha aiutato».

Poi cosa è capitato?

«Ho partecipato per caso a Reggio Emilia a una veglia contro l' omofobia nella parrocchia Regina Pacis. Ho conosciuto altri genitori credenti con figli omosessuali e, attraverso in particolare l' incontro con un prete, don Paolo Cugini, ho compreso che fede e omosessualità non sono in contrapposizione, che Dio ama mio figlio così com' è».

Sono anche le parole che il Papa le ha detto. Se le aspettava?

«Lo speravo. Volevo dire al Papa che quello che abbiamo capito noi, la Chiesa deve far sì che lo capiscano tanti altri genitori come me, affinché non soffrano quanto ho sofferto io».

Lei cosa ha detto a Francesco?

«Sono una mamma di un ragazzo gay che ha lasciato la Chiesa perché non si è sentito accolto nella sua diversità. Ho detto al Papa che, grazie a mio figlio, ho cambiato il mio punto di vista. Quando ho incontrato altri genitori e giovani Lgbt sono riuscita a vedere anche in mio figlio la bellezza e l' amore di Dio. Gli ho detto che siamo genitori fortunati perché la scoperta dell' omosessualità dei nostri figli, seppure all' inizio destabilizzante, ci ha fatto cambiare sguardo e vedere cose che non eravamo in grado di vedere. E ne siamo rimasti arricchiti. Abbiamo scoperto che Dio supera regole e norme, il suo amore è totalizzante verso tutti».

E Francesco ha risposto che Dio ama i vostri figli come sono?

«Prima ci ha detto che Dio ama i nostri figli perché sono tutti figli di Dio. Poi, quando gli ho spiegato che vogliamo aiutare la Chiesa a fare un cammino che porti a far sì che nessuno si senta escluso al suo interno, che vogliamo abbattere le barriere per una strada più accogliente e inclusiva, ha risposto di essere d' accordo e che la Chiesa ama i nostri figli così come sono».

Quando ha saputo dell' omosessualità di suo figlio?

«Quindici anni fa. Gliel' ho chiesto io perché avevo captato segnali inequivocabili. Si era allontanato dalla Chiesa per questo e ancora oggi ne è lontano. Per anni ho continuato a frequentare la mia parrocchia tenendo per me questo peso. Poi alla veglia contro l' omofobia, per grazia di Dio ho aperto gli occhi e ho smesso di soffrire. Pensavo che la sua omosessualità fosse sbagliata, mi sbagliavo io».

La Chiesa ha un atteggiamento di chiusura con i gay?

«Ancora sì, in molte sue parti. Per molti fede e omosessualità sono termini in contrapposizione. Nella testa di molti un gay non può essere credente. Tanti ragazzi e ragazze Lgbt ci dimostrano il contrario».

ANDREA MORIGI per Libero Quotidiano il 21 luglio 2020. Si era tanto convinto che la Chiesa cattolica fosse un'istituzione retriva, che don Saffo ha creduto fosse suo dovere morale celebrare il matrimonio fra due donne per recuperare il tempo perduto. Una fuga in avanti, secondo la diocesi di Civita Castellana, il cui vescovo, monsignor Romano Rossi, appena informato del caso, comunica all'Adkronos che il sacerdote, parroco della chiesa di San Lorenzo nel paese di Sant' Oreste, comune della provincia di Roma con poco più di 3.600 anime, «si è dimesso spontaneamente. Ha capito l'inopportunità e farà un periodo di riflessione e di verifica». Va precisato che don Emanuele Moscatelli, questo il vero nome del prete, non si era spinto proprio fino a sposare due lesbiche in chiesa. Invece di indossare in paramenti liturgici, si era cinto di una fascia tricolore e con il permesso, anzi la delega, del sindaco Valentina Pini, l'11 luglio in Municipio aveva presieduto all'unione. In realtà, il primo cittadino si aspettava che non tutto filasse liscio: «Avendo una certa confidenza col parroco ho detto pure di valutare l'opportunità di questa cerimonia. Ecco come sono andate le cose».

LIBERO CITTADINO. Ormai il dado era tratto. E poi c'è il timore molto clericale di essere etichettati come omofobi. È così che uno finisce per schierarsi dalla parte del ddl Zan, che minaccia perfino la libertà di predicare il Vangelo e il catechismo, che giudicano gli atti omosessuali come un disordine. Dopo aver preso per buona la leggenda nera sulla Chiesa che avrebbe oppresso per due millenni la libertà degli esseri umani, alla fine anche i presbiteri avvertono la pressione psicologica e cedono alla tentazione di legalizzare quello che non è moralmente lecito. Del resto, c'è anche una certa teologia accondiscendente a influire sui costumi e su una diffusa prassi di sfida aperta al magistero pontificio.

IDENTITÀ LIQUIDE. In più sono tempi favorevoli alle identità liquide e vaganti, non soltanto quando si tratta di fluidità di genere. Soltanto che togliersi temporaneamente l'abito talare e mascherarsi da ufficiale di stato civile, per poi tornare all'altare come se nulla fosse, testimonia uno sdoppiamento dei ruoli che nella realtà non sono compatibili. O l'uno o l'altro. Così domenica prossima i fedeli avranno un nuovo parroco, anche se il Gay Center, attraverso Fabrizio Marrazzo, chiede al vescovo clemenza, visto che lo "sposalizio" non è avvenuto in un luogo di culto, ma in una sede istituzionale, esercitando i diritti riconosciuti senza distinzione a tutti gli italiani maggiorenni. Certamente, ammette il vescovo Rossi, «il parroco è un libero cittadino ma c'è un canone che impedisce ai sacerdoti di officiare cerimonie civili a prescindere da chi si sposa. Ma si dialoga nella Chiesa e così ho fatto con don Emanuele». La parresia, cioè il dovere di dirsi le cose apertamente, è un elemento irrinunciabile della tradizione cristiana. Si sono confrontati, rivela: «Abbiamo dialogato a lungo, non si è trattato di una decisione di autorità. Non è incorso in nessuna censura, ha deciso che era opportuno dimettersi». Dopo il periodo di riflessione, don Emanuele, anticipa l'ordinario diocesano, «non potrà fare il parroco a sant' Oreste ma una volta chiarite certe cose potrà fare tutto, quando sarà il momento». Quanto alle nubende, si sono contrattualizzate a vicenda «in nome dell'amicizia serena, non erano sconosciute al parroco queste donne. Sono battezzate», spiega monsignor Rossi. Chissà se valga anche per loro il diritto canonico.

Barbara Acquaviti per “il Messaggero” l'11 giugno 2020. Per ora, ci sono cinque proposte. Non esiste ancora, invece, un testo base, ovvero quello che facendo la sintesi delle diverse opzioni sul campo - funge da canovaccio di lavoro in Parlamento. Potrebbe arrivare la settimana prossima. Ma la Conferenza episcopale italiana, evidentemente, non ha bisogno di aspettare.

LA POLEMICA. Le norme contro l'omotransfobia, all'esame della commissione Giustizia della Camera, per i vescovi semplicemente non servono, perché l'ordinamento giuridico dicono - già tutela dalle discriminazioni, anche quelle di genere. Di più: per la Cei il rischio è quello di una deriva «liberticida». Insomma, è l'obiezione degli alti prelati, con una legge di questo tipo potrebbe diventare un «reato di opinione» anche dire che «la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma». Il timore è che la legge si trasformi in un'arma del cosiddetto pensiero unico contro esternazioni che sono proprie del sentire cattolico. Va detto che era stato lo stesso papa Francesco, in Amoris laetitia, a sottolineare che «nessuna persona deve essere discriminata sulla base del proprio orientamento sessuale». Per la Cei, tuttavia, il rischio è che le cinque proposte finiscano per generare un nuovo problema nel tentativo di risolverne un altro.

I TESTI. Ma cosa c'è nei testi depositati alla Camera che genera in loro questo timore? In tutto, si tratta di cinque disegni di legge a prima firma Boldrini (Pd), Scalfarotto (Iv), Perantoni (M5s), Bartolozzi (Fi) e Zan (Pd), che è anche il relatore. Il lavoro parlamentare parte dal presupposto che ci sia un vuoto normativo da colmare. Si propone, dunque, di intervenire sugli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale con l'idea di inserire l'orientamento sessuale e l'identità di genere all'interno dell'attuale impianto giuridico in materia di reati e discorsi d'odio. In pratica, un allargamento della cosiddetta legge Mancino. La politica, come sempre in questo tipo di materie, si divide. Plaude, per lo più, l'opposizione. Il relatore, Alessandro Zan, si dice sorpreso dall'intervento della Cei e assicura che «non c'è nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio». La presidente della commissione Giustizia, la grillina Francesca Businarolo, sottolinea come «affermare che esistono già adeguati presidi per contrastare questo fenomeno significa non voler prendere atto di una dura realtà di discriminazione nei confronti della quale noi sentiamo la responsabilità politica ed etica di intervenire». Anche la dem Laura Boldrini sottolinea come la legge in discussione «ha per obiettivo non le opinioni e la libertà di espressione, come afferma erroneamente la nota della Cei, ma gli atti discriminatori o violenti e l'istigazione a commettere questi reati come condotte motivate dal genere».

LA DIVISIONE. Nel Pd, tuttavia, si confrontano due anime, una delle quali, di ispirazione cattolica, è molto sensibile ai richiami dei vescovi e non vuole rinunciare ad essere punto di riferimento delle istanze della Chiesa all'interno dell'arco parlamentare. «La Cei – spiega il capogruppo dem in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli – pone dei paletti e io penso che siano ragionevoli. Si tratta di una preoccupazione legittima a cui rispondo che ne siamo perfettamente consapevoli e non abbiamo alcuna intenzione di muoverci in quella direzione».

Parroco prega contro la legge anti omotransfobia. Sindaca con i cittadini, intervengono i carabinieri. Le Iene News il 15 luglio 2020. È successo a Lizzano, in provincia di Taranto, dove i carabinieri stavano identificando i cittadini che con le bandiere arcobaleno protestavano contro l’iniziativa del parroco. La sindaca li riprende: “Siamo un paese democratico”. Non capita tutti i giorni di vedere un sindaco che riprende animatamente dei carabinieri. È quello che è successo a Lizzano (provincia di Taranto), dove la sindaca Antonietta D’Oria è intervenuta in piazza per rimbrottare i carabinieri che stavano identificando alcuni cittadini. Tutto inizia con la decisione del parroco, come si apprende dalla stessa pagina Facebook della sindaca, di organizzare “un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l'omotransfobia”. La notizia arriva alla scrittrice e attivista Francesca Cavallo, che racconta la vicenda sui social. “In risposta al post”, scrive Francesca Cavallo su Facebook, “alcuni ragazzi hanno deciso di radunarsi davanti alla Chiesa con alcune bandiere arcobaleno. Saremo stati una quindicina di persone. Il parroco ha chiamato i carabinieri che hanno iniziato a chiedere i documenti a tutti”. “Ho telefonato alla sindaca Antonietta D’Oria”, continua Francesca, “per informarla della situazione”. Così la sindaca, arrivata sul posto, risponde all’azione dei carabinieri con le parole che potete sentire nel video qui sopra. “Cosa significa che state prendendo i nomi?”, dice visibilmente arrabbiata. “Signor sindaco per pubblica sicurezza noi siamo tenuti a identificare le persone”, risponde un carabiniere. “Allora identificate prima quelli che stanno dentro!”, replica la sindaca. “Perché è una vergogna per Lizzano. Lizzano è un paese democratico!”. Insomma, la sindaca li ha strigliati ben bene, tra gli applausi delle persone che si trovavano in piazza. Dopo l’accaduto, sulla sua pagina Facebook la sindaca pubblica una foto della bandiera arcobaleno, in cui prende le distanze dall’iniziativa del parroco, aggiungendo che “non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli”. E continua: “A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia. Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi? Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Omofobia, in chiesa fedeli pregano contro i ddl Zan: fuori esplode la protesta. In piazza a Lizzano i manifestanti contro la preghiera in chiesa. Le proteste dei carabinieri e l'intervento del primo cittadino. Il prete: "A nessuno può essere impedito di pregare". Emanuela Carucci, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. A Lizzano, un piccolo Comune in provincia di Taranto, il parroco della chiesa San Nicola, don Giuseppe Zito, ha organizzato un "rosario per la famiglia". L'iniziativa, come enuncia il manifesto che ha radunato diversi fedeli, è stato pensato per " difendere la famiglia dalle insidie che la minacciano tra cui il disegno di legge contro l'omotransfobia".

Lo scontro in piazza. La funzione religiosa è stata organizzata, appunto, contro il Ddl Zan-Scalfarotto, la legge per contrastare l'omofobia e la transfobia. In particolare sul foglio della preghiera era specificato che il rosario sarebbe servito per "implorare il fallimento del ddl". Affisse, poi, sul colonnato della chiesa frasi come "Dio ti insegna a odiare le lesbiche", "Dio ti insegna a non amare il diverso", "Dio ti insegna a discriminare", "Dio ti insegna a limitare le libertà", "Dio ti insegna a odiare i gay" e "Dio ti insegna a odiare i transgender". Su ogni foglio (stando alle parole del prete sono state messe dai manifestanti) una frase e al centro un grande punto interrogativo. In occasione del rito, nella piazza di Lizzano, era stata organizzata una manifestazione dei cittadini in difesa dei diritti degli omosessuali. Durante il flash mob è arrivata una pattuglia dei carabinieri per prendere i nominativi dei partecipanti. Il sindaco Antonietta D'Oria è, però, intervenuta in difesa dei manifestanti. Il primo cittadino ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione in base al quale "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". In piazza era presente anche la scrittrice pugliese Francesca Cavallo che sui social ha scritto di essere "orgogliosa di Lizzano" e che questa è una "bella storia di cittadinanza attiva e di sana partecipazione democratica".

Le proteste politiche. Il Comune di Lizzano ha preso le distanze dall'iniziativa del parroco della chiesa di San Nicola. "Noi prendiamo, fermamente, le distanze", hanno scritto in un post pubblicato su Facebook. "Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare - si legge - ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale amministrazione comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli. Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale." Per l'amministrazione comunale di Lizzano, sono altre le minacce "che incombono sulla famiglia e per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia". "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?", chiedono gli amministratori comunali. "Tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo - conclude il post - non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende.". Il video ha fatto il giro del web ed è stato condiviso anche sulla pagina Facebook di Anna Rita Leonardi, dirigente provinciale di "Italia Viva" di Salerno. "Il sindaco è intervenuto per capire con quale criterio venissero identificate le persone in piazza. Non stavano dando fastidio a nessuno. Ha fatto bene il primo cittadino perché non c'era nessun motivo per cui quei cittadini non potessero partecipare ad un flash mob, era una manifestazione simile a quella della preghiera: dentro erano contro la legge e fuori a favore. Perché chiedere i documenti agli uni e non agli altri?" ha dichiarato a ilGiornale.it Anna Rita Leonardi.

Il parroco si difende. Il prete della parrocchia di San Nicola sul caso del "rosario" si è difeso. In una nota stampa don Giuseppe Costantino Zito ha, infatti, dichiarato di non aver fatto parte alla funzione liturgica in quanto impegnato "in un'istruttoria matrimoniale", ma ha solo concesso a un gruppo di fedeli, che ne avevano fatto richiesta, "l'aula liturgica della chiesa per un semplice momento di preghiera a favore della famiglia naturale", specificando che il rosario non era stato organizzato dalla parrocchia. In merito al Ddl Zan don Giuseppe Zito ha poi fatto riferimento a quanto già dichiarato dalla conferenza episcopale a giugno scorso e cioè che la chiesa guarda "con preoccupazione alle proposte di legge contro i reati di omotransfobia" in quanto "non si riscontrano lacune che giustifichino l'urgenza di nuove disposizioni. Anzi, un'eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide".

Ci mancava la sindaca contro la messa per la famiglia.  Marco Gervasoni il 15 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Immaginate se un sindaco, non gradendo la preghiera di un parroco, appoggiasse un gruppo di manifestanti intenti a interromperla e, una volta arrivati i carabinieri, li invitasse a schedare non i disturbatori ma i fedeli in chiesa a pregare. Cose da Urss e, oggi, da Corea del Nord e Cina (a Cuba e in Venezuela non si permetterebbero una cosa del genere, il che è tutto dire). E invece siamo nella cittadina di Lizzano in provincia di Taranto, in quella terra di Puglia tanto aspra quanto legata a una fede ricca di santi e martiri. Fede che evidentemente infastidisce i militanti Lgbt, venuti a contestare una preghiera del parroco, don Giuseppe Zito, reo di discutere niente meno che la legge Scalfarotto-Zan. La quale, tra l’altro, se fosse già approvata, porterebbe a sanzionare il povero Zito. Ma, cari Lgbt, la legge bavaglio ancora non è passata, e speriamo, visto anche il vostro codice di comportamento, non venga approvata mai. I fedeli avevano diritto di pregare e gli Lgbt di manifestare. La parte peggiore della pochade l’ha recitata infatti il sindaco, Antonietta D’Oria, guarda caso pediatra esperta di famiglie. La quale, non paga della piazzata, sulla sua pagina Facebook, dopo una citazione di rito di Alex Zanotelli, rimprovera il parroco di non pregare per “le anime dei disperati che giacciono in fondo  al Mediterraneo” e per le “vittime innocenti di abusi”, con un riferimento a quelli compiuti da religiosi, ovviamente: il tutto accompagnato da un bel bandierone arcobaleno. La contesa parroco-sindaco comunista (cosi mi viene da classificare la D’Oria) era un classico di Guareschi. Ma attenzione, per quanto Peppone fosse uno stalinista, l’idea di obbligare don Camillo alla propaganda di partito in chiesa o di indicare al sacerdote su cosa pregare, non gli era venuta mai. Si, è vero, Peppone una volta organizza una gazzarra fuori dalla chiesa, come a Lizzano, ma ci rimedia una figura barbina e pure gli scappellotti della moglie. La sindaca di Lizzano però va ben oltre il suo antico erede staliniano: vorrebbe che in Chiesa si pregasse solo per le leggi governative, per San Giuseppi e Santa Luciana (Lamorgese). E se qualcuno andasse in chiesa a sentire i sermoni non graditi al podestà… ehm al sindaco, che sia schedato dai carabinieri! Potrebbe sembrare un caso da baraccone, prodotto dalla calura estiva. Ma in realtà dovrebbe mettere in guardia i credenti riguardo la cultura politica della sinistra, intrisa come sempre di fanatismo ideologico. Non a caso, qualche settimana fa, quando la Cei aveva criticato la legge Scalfarotto-Zan, un esponente del Pd milanese si era spinto a chiedere non si sa bene a chi di “prendere provvedimenti” contro i vescovi; che al 99% lodano i provvedimenti del governo di sinistra e tuonano contro i suoi avversari. L’unica volta che sgarrano, però, non viene loro perdonato. Anche perché dentro il Pd e la sinistra i gruppi di pressione e le organizzazioni Lgbt contano, eccome, e spingono, e fanno pendere minacce su capo dei dubbiosi (ricordiamo che uno dei partiti di cui è composto il Pd sarebbe la ex Dc). Non sei a favore della Zan-Scalfarotto? Sei sospetto di omofobia. Un sospetto che equivale alla condanna, e al rogo. Per cui, cari amici cattolici, magari non vi staranno simpatici Salvini o Meloni. Ma nessuno dei sovranisti pensa di schedarvi quando andate in chiesa né tanto meno di imporre al vostro parroco cosa pregare. Lo vedete un sindaco leghista organizzare una simile pagliacciata come a Lizzano, quando un sacerdote raccoglie le preghiere ai migranti? Non mi risulta sia mai accaduto ma nel caso lo facesse sarebbe da ricovero. Ricordate, fedeli, nell’urna Dio vi vede, Scalfarotto no.

A Lizzano prove tecniche di regime in vista del ddl Scalfarotto. La sindaca vuole mandare i Carabinieri a identificare persone che dicono il rosario. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 luglio 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. In gergo calcistico si dice: “sono saltate le marcature”, ma l’espressione ben si presta al caso di Lizzano (Taranto) dove, in un sol giorno, sono saltati i principi della legalità, della democrazia, del Cattolicesimo, del rapporto Stato-Chiesa e di quello Istituzioni-Forze dell’Ordine. Non male. L’ultimo numero di attrazione del “Circo Italia” è un sindaco che interviene per bloccare dei Carabinieri mentre proteggono della gente che prega dentro una chiesa e anzi, indirizza i militari a schedare i partecipanti al rosario. In sostanza: una esponente delle Istituzioni che oppone forme di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 33 C.P.) contestando i motivi per cui dei privati cittadini all’interno di una chiesa si sono liberamente riuniti in preghiera. Cose così. La questione è nata perché, l’altro ieri, il parroco di Lizzano, don Giuseppe Zito, ha ospitato un rosario nella propria chiesa per pregare affinché non passi alla Camera il disegno di legge Zan-Scalfarotto-Boldrini contro l’omotransfobia, che prevede pene severissime per chiunque osi pronunciare opinioni contrarie alla propaganda omosessualista, o se addirittura esprima concetti eversivi tipo: “I bambini hanno bisogno di un papà e di una mamma”. Gli è che, da un paio di millenni, per il Cattolicesimo, il sesso gay è un grave peccato e per questo don Giuseppe ha accolto un gruppo di fedeli laici che volevano prender parte a una veglia di preghiera a favore della famiglia naturale. Per toglierci un dubbio siamo andati a verificare sul Catechismo e, ai seguenti articoli, abbiamo trovato:

2333 Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale.  

2357 Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni,  la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ».  Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.

Altro che “Chi sono io per giudicare” di bergogliana memoria; col ddl Scalfarotto, che consente ampie interpretazioni, si potrà andare in galera solo per aver citato pubblicamente questi articoli della dottrina cattolica. Lecito quindi che dei credenti abbiano deciso di riunirsi per pregare Maria affinché eviti l’amaro calice di questa legge considerata lesiva della loro libertà di culto. Non è un caso che, dello stesso avviso, siano anche alcuni musulmani, scesi in piazza con cattolici, atei e omosessuali “non allineati”. L’iniziativa del rosario era circolata sui social e così, fuori della chiesa, si è subito raccolta una folla di attivisti gay con striscioni e grida varie. Rischioso e non poco: come scriveva Avvenire nel 2014, prima del proprio, inspiegabile outing a favore del ddl Scalfarotto: “A Bologna come a Torino, ad Aosta e a Napoli – scriveva l’articolista di Avvenire - difendere pacificamente la famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna, e la stessa libertà di espressione, in Italia può costituire un rischio per la propria incolumità. Al punto da scatenare, contro i gruppi delle “Sentinelle in piedi”  episodi di intolleranza e, in molti casi, di vera e propria aggressione fisica”. Quelli che hanno partecipato a questo tipo di iniziative riferiscono spesso di pomeriggi ad alto tasso adrenalinico: restare in piedi, in silenzio, tentando di leggere un libro mentre una folla inferocita, intorno, urla e insulta, non deve essere molto piacevole. Per questo, i Carabinieri di Lizzano sono intervenuti identificando i manifestanti fuori della chiesa: una misura cautelativa che non comporta, di per sé, alcuna sanzione. L’operazione è stata però interrotta dalla sindaca, Antonietta D’Oria, eletta con una lista civica, che si è schierata a difesa degli attivisti lgbt. Alzando la voce, ha cercato di convincere i Carabinieri a non identificare i manifestanti o, quantomeno, a cominciare dalle persone in chiesa. I militari hanno fatto rispettosamente notare alla D’Oria che la misura era nell’ottica di evitare disordini o risse e hanno proceduto secondo gli ordini ricevuti. Per la sindaca, pure garante della legalità e delle istituzioni, potrebbe forse configurarsi  il reato di Resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 C.P.) dato che esso contempla anche atti volti semplicemente a ostacolare l’esplicazione di una funzione pubblica pur senza aggressioni fisiche. La sua carica pubblica, inoltre, dovrebbe costituire un'aggravante. “Per quanto ci riguarda – spiega il senatore Simone Pillon, capofila della resistenza al ddl Scalfarotto – ci basta che la sindaca, tentando persino di piegare l’attività delle FdO, abbia fornito un saggio di quello che sarebbe la nostra società se questo decreto liberticida dovesse passare: diverrà ordinario chiudere la bocca a chiunque non la pensi come le lobby lgbt. Peraltro, la sindaca dovrebbe capire che delle persone intente nel rosario, in chiesa, non stanno turbando l’ordine pubblico e che pregare affinché una legge non passi, non corrisponde ad essere “contro” le persone o “per l’odio””. Facile immaginare che  i partecipanti all’iniziativa #restiamoliberi avranno un’ulteriore freccia al loro arco grazie al recente autgol del fronte lgbt. Per #restiamoliberi sono scese fino ad oggi in piazza oltre 10.000 persone in 83 città italiane, che arriveranno a 100 nell’arco di 10 giorni. La richiesta all’opposizione è di un “no” compatto al momento del voto "poiché questa è l’arma concreta che un politico ha in mano per difendere la libertà"; alla maggioranza chiedono di fermarsi, in nome della democrazia e della libertà di espressione. Al Presidente della Repubblica Mattarella chiedono che non permetta l’approvazione di una legge incostituzionale. Richieste con le quali si può essere più, o meno d’accordo, ma espresse in buon italiano e senza accenti violenti. Eppure, nessuno dei media ha dato spazio a queste mobilitazioni, tranne i quotidiani locali: il segnale è veramente inquietante. Inoltre, questo controllo, o auto-controllo dei media offre il fianco a tutti coloro che parlano di “prove tecniche di dittatura”. E la sindaca di Lizzano ci ha messo del suo.

Se il vescovo di Taranto si schiera contro chi prega per la famiglia. Dopo il sindaco di Lizzano, anche il monsignore di Taranto ha dato ragione ai manifestati contro la preghiera in favore delle famiglie tradizionali e contro il ddl Zan. Francesca Galici, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale.  La libertà di pensiero e di religione, oltre a essere garantita dall'articolo 21 della Costituzione italiana, è sancita anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Si direbbe in una botte di ferro, inviolabile e in alcun modo contestabile. Ma ciò che raccontano le attuali cronache dal nostro Paese sembrano dire il contrario. L'ultimo caso riguarda una movimentata manifestazione pro LGBT che si è tenuta al di fuori di una chiesa di Lizzano, in provincia di Taranto, dove un gruppo di fedeli si è riunito pin preghiera a favore della famiglia tradizionale e contro il ddl Zan. A meno che non sia vietato o sconveniente creare un gruppo di preghiera come quello che si è ritrovato all'interno della Chiesa di San Nicola di Lizzano, i fedeli sarebbero dovuti essere liberi di farlo. Non la pensano così tutti quelli che, venuti a conoscenza dell'iniziativa, si sono precipitati all'esterno dell'edificio religioso per protestare contro la libertà di pensiero e di religione. Un gruppetto di esponenti arcobaleno non hanno gradito la preghiera, il cui diritto non può essere limitato nel suo esercizio perché sovrasta qualunque legge. Gli esponenti protestano per i contenuti delle preghiere, non per l'atto, in sé ma il significato è lo stesso, perché interferire significa attentare alla Costituzione italiana. Si crea un po' di confusione e quindi le forze dell'ordine sono costrette a intervenire e, come da prassi, cercano di effettuare il riconoscimento dei presenti. Il caos al di fuori della Chiesa di San Nicola di Lizzano cresce e viene informato il sindaco, che si reca sul posto. Antonietta D'Oria si schiera dalla parte delle bandiere arcobaleno, perché quella "preghiera è una vergogna per un paese democratico come Lizzano". Il primo cittadino si appella alla democrazia, quindi, che non vale per l'espressione di un diritto sancito costituzionalmente. "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?", si chiede il sindaco in un post su Facebook, suggerendo quindi ai fedeli il contenuto delle loro preghiere. Nella nuova idea di democrazia, quindi, il diritto alla preghiera è difeso solo se orientato verso ciò che viene suggerito dall'istituzione. A dar man forte è arrivato anche l'arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, che invece di difendere i suoi fedeli ha optato per il più conveniente politicamente corretto. "Un momento di preghiera, che per natura è, e dovrebbe essere, un momento aggregativo, che riunisce la Comunità Cristiana, è diventato purtroppo un motivo di divisione e di contrapposizione", ha dichiarato il religioso. Il suo discorso sembra suggerire di aderire alla corrente predominante nel nostro Paese in questo momento per evitare le "divisioni e contrapposizioni", calpestando il diritto al pensiero libero, in una sorta di appello al quieto vivere che, però, di democratico conserva ben poco.

Da ilsicilia.it il 23 luglio 2020. Finisce sui social l’omelia all’aperto di don Calogero D’Ugo, parroco di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, contro la legge sull’omofobia. Dal sagrato allestito davanti all’ingresso della chiesa, il sacerdote, come riporta l’edizione on line di Repubblica, ha lanciato un anatema contro il provvedimento. “In Senato c’è una legge bavaglio che vogliono approvare – ha detto il parroco nella sua omelia – E’ una legge che parla del reato di omofobia. Cioè che se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galere. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato. Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo“. Il parroco ha poi proseguito la sua dura rampogna sostenendo che “adesso in Italia abbiamo le "categorie protette". Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo“. Il sacerdote ha infine concluso la sua omelia affermando: “Se passa questa legge io con questa predica rischio la denuncia. Non ho problemi”.

"Zan-Scalfarotto", il don tuona: "Se parli di omosessuali vai in galera". Don Calogero D'Ugo, parroco siciliano, si scaglia contro la "Zan-Scalfarotto". Per il consacrato ormai in Italia esistono delle "categorie protette". Giuseppe Aloisi, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. "Se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galera. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato". A parlare è don Calogero D'Ugo, un parroco del palermitano, che ha deciso di contrastare in maniera pubblica, ossia mediante una vera e propria omelia, l'avanzata in commissione parlamentare della cosiddetta "Zan-Scalfarotto", la legge portata avanti dalla maggioranza giallorossa, che intende introdurre il reato di omofobia. Nel corso di queste settimane, la mobilitazione del mondo cattolico è stata incisiva. Dalla presa di posizione della Conferenza episcopale italiana alla campagna "restiamo liberi" dei movimenti pro life: la "base" è scesa nell'agone per manifestare ferma contrarietà. I vertici, questa volta, hanno assicurato il loro sostegno. Per quanto persista più di una lamentela su una mancata discesa in campo istituzionale della Chiesa cattolica. La maggioranza giallorossa, a parte qualche ragionamento su qualche possibile modifica, non sembra essere intenzionata a tornare indietro sul provvedimento. Don Calogero non è l'unico parroco ad aver esposto le sue preoccupazioni. Don Antonello Iapicca, per esempio, ha scritto su Facebook che: "Il Coronavirus ha solo evidenziato l'epidemia del peccato e della paura della morte che infetta il cuore di ogni uomo. Il virus prima o poi passerà, e sarà tutto come prima, solo qualche angoscia in più, alle quali corrisponderanno più alienazioni. Mentre con il Ddl Zan convertito in legge davvero nulla sarebbe più come prima. Più grave addirittura dell'aborto. E non solo perché si tratterebbe di una legge liberticida". Una legge "liberticida", insomma, che avrebbe persino effetti peggiori del "cigno nero". Il clero, in misura maggiore rispetto ad altre circostanze, sembra preoccupato per l'avvenire. E don Calogero non ne ha fatto mistero quando ha parlato di "legge bavaglio": "Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo", ha aggiunto il parroco siciliano. La parte più significativa del discorso è stata forse quella in cui il don ha parlato di "categorie protette": "Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua - ha aggiunto il parroco, come ripercorso su Dagospia - non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo". Si ventila l'ipotesi che anche i preti possano incorrere in sanzioni nel momento in cui decidessero di citare alcuni passaggi biblici. Anche gli insegnanti, però, potrebbero essere coinvolti: si pensi, a titolo esemplificativo, ad alcuni versi della Divina Commedia. I contrari segnalano pure come il governo, nonostante le urgenze economico-sociali, abbia deciso di concentrarsi sull'approvazione di questo provvedimento. Qualcosa di simile sta succedendo in Francia, dove i vescovi si stanno ribellando alla riforma bioetica di Emmanuel Macron. Un altro progetto che rischia di passare in un momento davvero particolare per l'Occidente.

Papa Francesco, Antonio Socci: Bergoglio costretto a benedire i gay per non finire sotto inchiesta. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. C'è chi - anche in Vaticano - si pone con inquietudine una domanda: perfino il Papa, domani, potrebbe essere "inquisito" - in via di principio - in base alla legge, appena presentata in Parlamento, sull'omotransfobia? O potrebbero esserlo vescovi, preti e fedeli che ne riportano il magistero? I promotori della legge sostengono che la libertà di parola non viene toccata (bontà loro), tuttavia gli oppositori sostengono che non è così. Secondo il senatore Quagliariello «quel Ddl prevede un reato di opinione chi esprime un'opinione senza usare violenza e offendere può essere incriminato». E il cardinale Ruini concorda con lui: «Questo è un tipico esempio di dittatura del relativismo». In effetti la fattispecie dei reati, in questo Ddl, è così generica che la critica - per esempio - al matrimonio omosessuale o alla teoria del genere o ad altre richieste Lgbt, potrebbe domani essere impugnata e giudicata come «discriminazione» o «istigazione all'odio». Il relatore Alessandro Zan (Pd) non dissolve affatto i dubbi. Ha dichiarato: «Le polemiche di una parte della destra sulla libertà di espressione sono pretestuose, perché quando questa diventa istigazione all'odio non può essere più un principio assoluto». Ma proprio qui sta il problema: quando è che la libertà di critica diventa istigazione all'odio? Qualcuno lo deciderà a sua discrezione. Quando è che un giudizio negativo diventa odio o discriminazione? Non sono questioni secondarie essendoci addirittura un rischio penale. Per la Chiesa cattolica ne va della sua stessa libertà. Come la mettiamo con i testi biblici che non sono teneri con l'omosessualità: si censura la Bibbia? E il Catechismo della Chiesa Cattolica?

Quando disse... - Papa Bergoglio, di certo, ha sempre manifestato comprensione e rispetto verso le persone omosessuali, condannando discriminazioni e violenze ai loro danni. Tuttavia sulle questioni relative all'omosessualità e al gender, si è espresso con parole che potrebbero urtare la suscettibilità del mondo Lgbt. Ad esempio, il 25 maggio 2018, il sito Vatican Insider della Stampa titolava: «Il Papa: "Se c'è il dubbio di omosessualità, meglio non far entrare in seminario"». Il pontefice - si legge nell'articolo - «ha esplicitamente menzionato i casi di persone omosessuali che desiderano, per vari motivi, entrare in seminario. Quindi ha invitato i vescovi ad un "attento discernimento", aggiungendo: "Se avete anche il minimo dubbio, è meglio non farli entrare"». Tutto questo potrà domani essere considerato discriminatorio? Sarà sottratto alla Chiesa il diritto di scegliere chi ammettere in seminario? Ci sono molti altri pronunciamenti del Papa. Nell'esortazione post-sinodale Amoris laetitia (2016), tanto osannata dal mondo progressista, il Papa ha esaltato «la dignità e la missione della famiglia», sottolineando che «i Padri sinodali hanno osservato che "circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia"; ed è inaccettabile "che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all'introduzione di leggi che istituiscano il "matrimonio fra persone dello stesso sesso"». Il 1° ottobre 2016, durante il viaggio in Georgia e Azerbaijan, incontrando i sacerdoti, il Papa ha messo in guardia da «un grande nemico del matrimonio, oggi: la teoria del gender. Oggi c'è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche». In quel viaggio tornò su questi argomenti: «Quando si parla del matrimonio come unione dell'uomo e della donna, come li ha fatti Dio, è uomo e donna Questa è la verità (). Uomo e donna che sono una sola carne quando si uniscono in matrimonio. Quando si distrugge questo, si "sporca" o si sfigura l'immagine di Dio». Poi racconta: «Io ho accompagnato nella mia vita di sacerdote persone con tendenza e con pratiche omosessuali. Le ho accompagnate, le ho avvicinate al Signore... Questo è ciò che va fatto. Le persone si devono accompagnare come le accompagna Gesù. Quando una persona che ha questa condizione arriva davanti a Gesù, Gesù non gli dirà sicuramente: "Vattene via perché sei omosessuale!", no. Quello che io ho detto riguarda quella cattiveria che oggi si fa con l'indottrinamento della teoria del gender. Mi raccontava un papà francese che a tavola parlavano con i figli - cattolico lui, cattolica la moglie, i figli cattolici, all'acqua di rose, ma cattolici - e ha domandato al ragazzo di dieci anni: "E tu che cosa voi fare quando diventi grande?" - "La ragazza". E il papà si è accorto che nei libri di scuola si insegnava la teoria del gender. E questo è contro le cose naturali».

Uomo e donna li creò - Nella stessa Amoris laetitia il Papa scrive: «Un'altra sfida emerge da varie forme di un'ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un'identità personale e un'intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L'identità umana viene consegnata ad un'opzione individualistica, anche mutevole nel tempo. È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l'educazione dei bambini. Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare».

Scuola e ideologia - Il 19 gennaio 2015, durante il viaggio nelle Filippine è tornato a tuonare contro «la colonizzazione ideologica», facendo un esempio «che ho visto io». Riguardava un ministro dell'Istruzione Pubblica che aveva ottenuto dei fondi per le scuole di poveri, ma «a condizione che nelle scuole ci fosse un libro per i bambini di un certo livello. Era un libro di scuola, un libro preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender . Questa è la colonizzazione ideologica: entrano in un popolo con un'idea che niente ha da fare col popolo e colonizzano il popolo con un'idea che cambia o vuol cambiare una mentalità o una struttura. Durante il Sinodo i vescovi africani si lamentavano di questo, che è lo stesso che per certi prestiti (si impongano) certe condizioni . Ma non è una novità questa. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso. Sono entrate con la loro dottrina. Pensate ai Balilla, pensate alla Gioventù Hitleriana. Hanno colonizzato il popolo, volevano farlo. Ma quanta sofferenza. I popoli non devono perdere la libertà». Si potranno dire ancora queste cose?

Ecco la legge contro l'omofobia che spaventa i vescovi. Il rischio di "deriva liberticida" non c'è. La Cei si è scagliata contro il ddl Zan perché limiterebbe la libertà critica ai gruppi anti-Lgbt. Eppure il testo, che L'Espresso ha letto in anteprima e che pubblica, esclude il reato di propaganda di idee. In sintesi le persone Lgbt diventano soggetti vulnerabili. Ma si potrà persino dire liberamente che sono malate. Simone Alliva l'11 giugno 2020 su L'Espresso. La legge contro l'omotransfobia c'è. La norma bollata come "deriva liberticida" dalla Cei e dai gruppi anti-lgbt no. Il testo di di legge unificato che sarà depositato in Commissione Giustizia martedì prossimo e votato dai deputati il giorno successivo, l'Espresso lo ha letto in anteprima. Un testo snello che riunifica cinque ddl (Boldrini, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi) e che inizierà il suo percorso alla Camera.  Ieri vescovi italiani sono scesi in campo contro il ddl: «Non serve una nuova legge. Anzi, l’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide». La legge, al contrario, mette sullo stesso piano la discriminazione per orientamento sessuale a quello razziale, interviene su due punti del codice penale e attraverso un'aggiunta alla legge Mancino, mira a sanzionare gesti e azioni violenti di stampo omotransfobico. Di una legge contro l’omofobia nel nostro paese si parla esattamente da 24 anni. Il cuore della legge Zan punta a inserire l'orientamento sessuale e l'identità di genere all’interno dell’attuale impianto giuridico in materia di reati e discorsi d’odio, allo scopo di estendere la normativa già esistente alla protezione della popolazione Lgbt. Tale impianto risiede nella Legge n.654 del 13 ottobre 1975 (la cosiddetta “Legge Reale), modificata con il Decreto legge n. 122 del 26 aprile 1993 (meglio noto come “Legge Mancino”) che attualmente si limitano entrambe a punire i reati e i discorsi d’odio fondati su caratteristiche personali quali la nazionalità, l'origine etnica e la confessione religiosa. Proprio la Mancino è stata per anni una legge discussa, bistrattata, le pene sono state notevolmente attenuate dalla legge n. 85/2006. E poi, recentemente, minacciata di abrogazione dall'ex ministro alla Famiglia Lorenzo Fontana. 

L'anima di questa rivoluzione legislativa che spaventa vescovi e anti-lgbt della proposta Zan è visibile nei primi tre articoli. Tre modifiche che, molto semplicemente, inseriscono “il genere, l'orientamento sessuale e l'identità di genere" nel calderone delle discriminazioni per odio etnico, razziale o religioso. Il colpo d'occhio farebbe pensare a una legge che difende, come per tutte le categorie già citate dalla legge Mancino, anche le persone lgbt dal reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, come dichiarato ieri dalla Conferenza Episcopale Italiana  ("finirebbe col colpire l'espressione di una legittima opinione, più che sanzionare la discriminazione"). Ma non è così. Il ddl grazie a un espediente giuridico esclude tale reato nei confronti delle persone Lgbt. Si legge nella legge Zan: del primo comma sono aggiunte, in fine, «oppure fondati sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Il termine comma, nel diritto italiano, indica una parte dell'articolo di una legge. Insomma una frase. Inserire "in fine", vuol dire sostanzialmente saltarlo. Quindi resta per la legge Mancino la questione razziale ed etnica che viene sì tutelata dal reato di propaganda. Cioè restano le pene per coloro che diffondono idee fondate sulla superiorità o l'odio razziale o etnico. Ma si esclude da questa tutela la comunità Lgbt che viene difesa solo in caso di "istigazione a commettere " o in caso commissione di atti di discriminazione. Per esempio: viene punita un'associazione che pubblicando la foto di un attivista gay invita i suoi seguaci a linciarlo. Non viene punita una persona che potrà ancora liberamente dire: l'utero in affitto è un abominio, il matrimonio omosessuale è sbagliato. Giuridicamente si rispetta quel confine sottile tra determinatezza e indeterminatezza, quello che caratterizza il reato di diffamazione per intenderci, e riserva dunque ai gruppi anti-lgbt quella libertà di pensiero che oggi sentono minacciata. Determinare un soggetto, metterlo all'indice e invitare alla discriminazione è un reato già ampiamente condannato dal già citato reato di diffamazione che con la legge Zan, potrebbe diventare "aggravato" in caso di soggetti vulnerabili come le persone Lgbt. 

Le persone lgbt diventano soggetti vulnerabili. Proprio la "vulnerabilità" delle persone lgbt viene certificata giuridicamente. Lo status di vittima vulnerabile non viene accertato di volta in volta ma desunto da elementi oggettivi: le caratteristiche personali della vittima e la natura e le circostanze del reato. La legge intervenendo sull'Articolo 90 quater del Codice di procedura penale, inserisce la frase "o fondato sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere". e riconosce così gay, lesbiche e transessuali come vittime vulnerabili nell'Italia di oggi. L'articolo 4 concede un patrocinio gratuito alle vittime di omotransfobia. Per la legge italiana, al fine di essere rappresentata in giudizio, la persona non abbiente può richiedere la nomina di un avvocato e la sua assistenza a spese dello Stato. Dal 2013 è stato disposto che per le vittime vulnerabili fosse previsto la concessione di un gratuito patrocinio anche sopra il limite di legge. Le spese processuali di una persona Lgbt vittima di omotransfobia andranno dunque a carico dello Stato, come avviene per i reati con violenza di genere. Si interviene anche sulla "recupero" degli omofobi che aggrediscono le persone lgbt. Dopo un processo, il condannato che non si oppone può, eventualmente chiedere la sospensione della pena e fare attività non retribuita. Ad esempio potrebbe farla presso un'associazione Lgbt come come Arcigay. Il cosiddetto lavoro socialmente utile da parte di chi dopo aver offeso la collettività cerca di restituirne una parte, magari formandosi anche su quel pezzo di mondo che ha tentato di distruggere.  

L'educazione e le case rifugio. Infine, gli ultimi articolo del disegno di legge, prevedono un percorso culturale che vuole portare politiche positive per il Paese. C'è l'istituzione della giornata nazionale contro l'omotransfobia il 17 maggio, che prevede incontri e cerimonie anche da parte delle amministrazioni pubbliche. Una strategia nazionale di contrasto all'omotransnegatività con misure relative all'educazione e all'istruzione, al lavoro, alla situazione carceraria, alla comunicazione dando espressa copertura legislativa alle strategie già realizzate dall’Unar, attraverso una estensione delle competenze dell’ufficio. E poi l'istituzione di un fondo dedicato alle cosiddette "centri antidiscriminazione e case rifugio" che in questi anni, quasi sempre in solitudine e grazie a crowdfunding e iniziative indipendenti, hanno offerto assistenza sanitaria, sociale alle vittime: ai ragazzi e alle ragazze cacciate di casa per il loro orientamento sessuale, alle persone che per l'odio omotransfobico si sono ritrovate senza un tetto sopra la testa o prospettive per il futuro. A margine si aggiunge un monitoraggio attraverso l'istituto di statistica sull'andamento dell'omotransfobia in Italia.

·        Il Vaticano e l’Aborto.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 30 novembre 2020.  Stavolta, nella nuova super-commissione, sono in 300. Forse per smentire la certezza di Benedetto Croce secondo il quale, in politica, «l' unica commissione in grado di fare qualcosa è quella con un numero di componenti pari che sia inferiore all' uno». Ovvero, zero. Sennò si straparla e si litiga senza approdare a nulla. Magari in questo caso non sarà così e viene da canticchiare «Eran trecento, giovani e forti...», anzi no perché quella spedizione (di Pisacane) non andò bene. Il fatto è che la Repubblica delle commissioni, dei comitati, delle task force, dei commissari e dei conferenzieri (quelli degli Stati Generali di maggio non resteranno nella storia della concretezza politica) ha trovato il suo apice e il suo apogeo in questo ultimo anno un po' per via del Covid, che richiede la moltiplicazione degli sforzi, e un po' per un altro motivo. Ossia per via dello pseudo machiavellismo per cui il modo migliore per decidere in proprio, o per non decidere proprio, è quello di allargare a dismisura gli organi di consulenza. Nella speranza di suscitare l' effetto bla bla. Fin dall' inizio della vicenda Recovery, la Repubblica dei commissari che rischia la paralisi per eccesso di commissari aveva pensato che per coordinare le politiche di sviluppo bastasse moltiplicare i titolari o presunti tali: e via con il Cipess, il Dipe, il Mattm, Benessere Italia, Investitalia, Commissione nazionale per lo sviluppo sostenibile, più il Ciae (Comitato interministeriale affari europei) e corrispondente Dipartimento per le politiche europee. E adesso a dare manforte (sembra quasi di stare alle Termopili) sono arrivati i 300 di Leonida-Conte contro Serse re di Persia che sarebbe la crisi provocata dal Covid. Ma c' è poco da sorridere. E infatti il titolare della celebre Task Force per la Ripresa, Vittorio Colao alla guida di 15 super-esperti con il compito di non fare ombra al premier e al governo, ha sempre rilasciato pochissimi sorrisi. Una giungla popolata dall' inizio dell' emergenza virus da una ventina di commissioni - più tutte quelle regionali, provinciali, comunali - e da 1400 incarichi affidati, secondo il calcolo di Openpolis, a uomini e donne. Poche donne e basti pensare che il Comitato tecnico-scientifico è al 100 per cento maschile. Un commissario come Arcuri può anche essere pluri-commissario, ossia moltiplicare l' eccezionalità di cui è investito. E lo stesso posto di commissario può passare di mano anche quattro volte in pochi giorni come nel caso Calabria. In verità si rischia di perdere il conto: task force Carceri (40 componenti), task force Giustizia (in 20 e 3 tavoli tecnici), task force Finanza Sostenibile (del ministero Ambiente, 9 componenti), due task force della ministra Azzolina ( 115 persone in tutto), la task force Donne per un Nuovo Rinascimento (in 13 nominate dal dicastero Pari opportunità), la task force Data Drive per Immuni (74 componenti). E via così, in una sbronza collettiva che, in nome della semplificazione, non semplifica. Generando sovrapposizioni, e anche invidie e ripicche. Mentre Palazzo Chigi coordina il procurato caos animato da virologi ed epidemiologi (e fin qui ci siamo) ma anche da tuttologi, politologi, sociologi, psicologi, manager veri e manager emozionali, sapienti veri e imbucati. Se non sei un commissario, non conti nulla. E c' è chi dice che la commissionite e la commissarite rappresentano la via italiana al problem solving. Già descritta da Cesare Pascarella più di un secolo fa: «E invece de venì a 'na decisione, / Sa, je fecero, senza complimenti, / Qui bisogna formà 'na com

·        Il Vaticano ed i divorziati.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” l'1 dicembre 2020. «Gira e riggira, er mezzo più mijore / è forse quello de spaccaje er core». Gela il sangue rileggere oggi, a cinquant' anni esatti dall' approvazione alla Camera dopo una seduta fiume della legge Fortuna-Baslini che apriva finalmente al divorzio, la poesia di Trilussa intitolata «Un punto d' onore». Dove Carlo Alberto Salustri coglieva con amarissimo sarcasmo, agli esordi del Novecento, l'ipocrisia tra l'ostilità assoluta verso il divorzio (proposto la prima volta nel 1878 dal deputato Salvatore Morelli, incenerito subito da una vignetta che lo vedeva circondato da donne in giacca, cravatta, sigaro e cilindro) e la comprensione (meglio: complicità) verso gli assassini «per onore». «È provato, defatti, che la gente» , proseguiva il poeta, «nun vô er divorzio e dice ch'è immorale: / ma appena legge un dramma coniugale / s' associa cór marito delinquente, / che in fonno fa er divorzio a l'improviso / perché manna la moje in Paradiso ...». Certo, i fatti dimostrano anche in questi giorni di ripetuti femminicidi che il passaggio epocale del divorzio non ha magicamente risolto tutti i problemi. Magari! Occorre però ricordarsi come andava «prima» per capire perché l'approvazione della legge presentata nell' ottobre del '65 fu così tormentata, così a lungo avversata («Dichiariamo che il divorzio è un attentato contro Dio e contro il Paese!», tuonava nei cinematografi padre Tondi) e infine così benedetta dopo il voto finale da cori entusiastici e da un cartello dei Radicali: «Argentina Marchei ha vinto, Paolo VI ha perso». Aveva ottant'anni, allora, la popolana romana amatissima da Marco Pannella che non perdeva una manifestazione rivendicando il suo diritto, mezzo secolo dopo essere stata piantata dal marito mai più rivisto, di sposare il compagno d' una vita col quale era diventata madre e nonna. Ne aveva 73, dall' altra parte, Giovan Battista Montini, di cui L'Osservatore pubblicherà nel 2010 un appunto autografo che la dice lunga sulla sua sofferenza in quei mesi: «Far sapere all' Ambasciatore d' Italia che la promulgazione della legge sul divorzio produrrà vivissimo dispiacere al Papa: per l' offesa alla norma morale, per l' infrazione alla legge civile italiana, per la mancata fedeltà al Concordato e il turbamento dei rapporti fra l' Italia e la Santa Sede, per il danno morale e sociale...». Spaccò davvero il Paese, quella legge. Ne valeva la pena? Il referendum quattro anni dopo dirà: sì. È difficile rimuovere la foto che di quel Paese scattò Miriam Mafai: «È una Italia ipocrita e codina, ricca di figli illegittimi di matrimoni infelici condannati all' indissolubilità e di situazioni irregolari, che tuttavia alcuni, i più ricchi, riescono a regolarizzare ottenendo il divorzio all' estero e facendolo poi trascrivere da un nostro tribunale oppure chiedendo e ottenendo l' annullamento della Sacra Rota». Ce l' aveva solo con la destra beghina? Difficile...Dentro l'«altra» chiesa, quella rossa, nessuno poteva dimenticare certe didascalie come «Palmiro Togliatti con la segretaria Nilde Iotti» o l' addolorata e furente lettera al Corriere di Teresa Noce, la moglie di Luigi Longo, che proprio dal nostro giornale aveva appreso, per dirla con Filippo Ceccarelli, «di aver chiesto e ottenuto l' annullamento del matrimonio a San Marino. Un divorzio di fatto, di quelli che potevano permettersi i ricchi dell' epoca e per giunta estortole in modo truffaldino». Così andava, «prima». Basti ricordare le denunce e i processi contro Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. Travolti dall' amore, già sposato lui, già sposata lei, fecero tre figli (Renato detto Robertino e le gemelle Isabella e Ingrid) e li iscrissero all' anagrafe di Roma come figli di lui e di «donna che non consente d'esser nominata, ma non è parente né affine a lui». Un guaio. Lei risultava ancora (al di là delle nozze farlocche per procura in Messico) moglie di Peter Lindstrom e l' articolo 231 del codice civile era spietato: «La presunzione legale di paternità a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio, può essere vinta soltanto con l' azione di disconoscimento di cui all' art. 235 c.c. e, quindi, da parte dei soggetti, nei termini e nelle condizioni all' uopo previste, ancorché vi sia stata declaratoria di nullità del matrimonio tra i coniugi». A dispetto del buon senso i figli del regista e dell' attrice andavano iscritti all' anagrafe non col cognome Rossellini ma Lindstrom. Un assurdo. Che rovinò la vita non solo a quella ma a innumerevoli famiglie più o meno conosciute. Tra cui quella di Fausto Coppi e della Dama Bianca Giulia Occhini. Anche loro avevano un matrimonio (con figli) alle spalle, anche loro non si erano sposati, anche loro dopo un matrimonio messicano avevano deciso di fare un figlio «di contrabbando», partorito a Buenos Aires. A lei, però, andò perfino peggio che a Ingrid. Lo ricordano un titolo della Stampa («La signora Locatelli arrestata dai carabinieri e trasferita nel carcere di Alessandria / II mandato di cattura è stato spiccato per "violazione degli obblighi di assistenza familiare, adulterio e condotta contraria al buon ordine della famiglia"»), le pressioni perché il grande campione assumesse la donna come segretaria con tanto di libretto di lavoro, tessera Inps, bollini e un processo dove il giudice tempestò la domestica: «Dormono insieme o in camere separate?». Un supplizio, amplificato da Enrico Locatelli, il marito, che si vendicò così: «Non chiederò il disconoscimento di questo figlio e neppure di altri, se ne dovessero venire». Aggiungendo: «Prima si sono divertiti loro, adesso mi voglio divertire un po' io». Quella era la legge. Al punto che un pretore si spinse ad attribuire la paternità del figlioletto nero d' un marine Usa alla madre e al suo marito da anni disperso in Russia. E un altro magistrato condannò a quasi tre anni di galera (tre anni!) un siciliano, Alfredo Marsala, che aveva riconosciuto i sette figli fatti con la sua compagna (rea d' esser da anni separata dal marito) facendo dunque «dichiarazioni false». Orrori. Chiusi solo col superamento dell' articolo 231 grazie al nuovo diritto di famiglia del 1975. Una svolta attesa da una moltitudine di vittime di norme insensate. Basti sfogliare l'«Enciclopedia di polizia» di Luigi Salerno del 1952 a uso dei funzionari pubblici. «La moglie non può donare, alienare beni, immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali... Senza autorizzazione del marito». «È indiscutibile come il danno che dall' adulterio della donna ricade sul marito sia infinitamente più grave del danno che dall' adulterio del marito ricade sulla moglie: una moglie tradita, dice il Moggione, può essere compianta, un uomo ingannato è ridicolo se ignora, disonorato se sopporta, vituperevole se accetta cinicamente il suo stato». «Omicidi a causa d' onore. Non è richiesta assolutamente la sorpresa in flagranza, perché vi possono essere anche altri casi nei quali...». «Non è ammessa l' azione di separazione per l' adulterio del marito, se non quando egli mantenga la concubina in casa o notoriamente in altro luogo...». La separazione «non conferisce alla donna la facoltà di assumere cittadinanza diversa da quella del marito». Quello era il contesto. E la sola rilettura di qualche manciata di parole oggi impronunciabili fa capire perché quel giorno è ricordato da milioni di italiani, soprattutto, ma non solo donne, come una festosa liberazione.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 5 dicembre 2020. A un certo punto, nelle sentenze della Sacra Rota, non mancò neppure la «mascolinità sicula». Accadde nel 2003, quando il «Tribunal Rotae Romanae» si trovò a valutare la richiesta di annullamento del matrimonio di una moglie siciliana decisa a far notare come il marito l' avesse fin dal principio sposata pensando che, non fosse andata bene, lui l' avrebbe piantata senza tenere conto della sacralità delle nozze. E poiché «è ormai pacifico che il fermo proposito di ricorrere al divorzio, nella sua molteplice e varia motivazione, comporti nullità del consenso», scrisse il giudice rotale, «si riconosce che la radicata mentalità dell' uomo e la esagerata supremazia della mascolinità sicula non potevano non comportare l' esclusione dell' indissolubilità». Sono stati tanti, nella storia, i ricorsi al tribunale della Chiesa per sciogliere l' insolubile. Basti ricordare tra i casi più noti quelli di Guglielmo Marconi, Carolina di Monaco, Francesco Cossiga, Vittorio Gassman. E certe sentenze furono scritte con un linguaggio così contorto e barocco, come dimostrò Mauro Mellini nel libro Le Sante Nullità , da essere spassose. E da lasciare spesso il dubbio su certe scappatoie. Dubbio che toccò perfino Papa Wojtyla che nel 2005 parlò di «interessi individuali e collettivi che possono indurre le parti a ricorrere a vari tipi di falsità e persino di corruzione allo scopo di raggiungere una sentenza favorevole». Sarebbe un peccato, però, in occasione del Cinquantenario della legge sul divorzio contrapposta anche in questi giorni all' andazzo della Sacra Rota, non ricordare un capolavoro comparso tanti anni fa. Era arrivata la notizia che i magistrati rotali, che già su questo tema si erano esibiti più volte, avevano concesso l' annullamento a una coppia con la motivazione che lui era impotente e non poteva assolvere a una parte fondamentale dei suoi doveri. Il pezzo finì nella pagina curata da Dino Buzzati. Narra la leggenda che lo straordinario cronista e scrittore bellunese girò e rigirò tra le mani il dattiloscritto: come poteva raccontare tutto senza turbare certi lettori un po' bigotti, senza usare parole esplicite, senza un minimo di spazio dovendo fare il titolo con meno di ventisette caratteri? In quel momento scese dal cielo un raggio di sole e lo illuminò. Ne uscì un prodigio basato sullo stacco d' una virgola: «Non coniugava, l' imperfetto».

Il Papa apre ai divorziati "Se non c'è più amore non nega il sacramento". Chi si separa «attesta la santità del vincolo dichiarando non realizzabile il suo senso». Serena Sartini, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale.Sì al divorzio se non c'è più amore nella coppia. La Pontificia Commissione Biblica, organismo della Congregazione per la Dottrina della Fede, apre alla possibilità del divorzio. Pur ribadendo «l'indissolubilità» del matrimonio, lo studio voluto dal Papa e presentato ieri nella sala stampa della Santa Sede sottolinea che «non fa un atto contro il matrimonio» il coniuge che, costatando che il rapporto coniugale non si fonda più sull'amore, decide di divorziare. Si intitola Che cosa è l'uomo, il volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana che ha dedicato un intero paragrafo al tema del divorzio. «Il Maestro asserisce perentoriamente l'indissolubilità del matrimonio, vietando il divorzio e nuove nozze». E tuttavia, i teologi ricordano che «non fa un atto contrario al matrimonio il coniuge che - constatando che il rapporto sponsale non è più espressione di amore - decide di separarsi da chi minaccia la pace o la vita dei familiari; anzi, egli attesta paradossalmente la bellezza e la santità del vincolo proprio nel dichiarare che esso non realizza il suo senso in condizioni di ingiustizia e di infamia». Il Papa aveva ventilato la possibilità del divorzio «cristiano» già nel maggio 2018, quando aveva sottolineato: «Non dobbiamo soffermarci sul fatto se si possa o meno dividere un matrimonio. Alle volte accade che il rapporto non funzioni e allora è meglio separarsi per evitare una guerra mondiale, ma questa è una disgrazia». Lo studio presentato ieri è una lettura antropologica sistematica della Bibbia aggiornata ai nostri giorni. Come ha spiegato il gesuita, padre Pietro Bovati, segretario della Pontificia Commissione Biblica a Vatican News: «La richiesta è venuta dal Papa in persona e il risultato sono i quattro capitoli di indagine conoscitiva della creatura umana e del suo rapporto col Creatore, così come narrati dalla Scrittura. Nella sua storia millenaria - si legge nell'introduzione l'umanità ha progredito nella conoscenza scientifica, ha via via affinato la sua consapevolezza dei diritti dell'uomo, testimoniando un crescente rispetto per le minoranze, gli indifesi, i poveri ed emarginati». Il testo della Commissione dell'ex Sant'Uffizio affronta anche altre tematiche spinose, come la questione del gender. «Ci sembra - ha aggiunto padre Bovati - di aver risposto proprio a quello che la Chiesa chiede a noi, cioè di non dire delle cose che non sono quelle che la Bibbia presenta. Quindi abbiamo accettato di affrontare le questioni, rispettando il livello di informazione che noi abbiamo dalla Scrittura. Ci sono delle domande che gli uomini pongono oggi che non trovano un'immediata e precisa risposta nelle Scrittura, perché le situazioni culturali del tempo antico non sono le nostre. Noi formuliamo, anche in queste questioni, alcuni principi, come per esempio l'importanza della differenza che è iscritta nella creazione stessa, come un elemento per comprendere il disegno di Dio anche nei confronti di ogni singola creatura. Questo come un principio che può aiutare, forse, altre discipline teologiche, psicologiche, pastorali a svilupparle poi in maniera adeguata tenendo conto delle circostanze, delle culture, delle riflessioni che oggi vengono anche dal mondo sapienziale. Quindi la Bibbia offre alcuni principi, alcune indicazioni utili per una riflessione che però è affidata anche ad altri interpreti del pensiero cristiano, come i teologi, i moralisti, i pastori, per poter rispondere in maniera più adeguata alla domanda che l'uomo comunque rivolge alla Chiesa».

·        Il Vaticano e l’Immigrazione Clandestina.

L’Osservatore Romano benedice le Ong e intima: “Accogliere è un obbligo, vanno sostenute”. Eleonora Guerra venerdì 13 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Il Vaticano scende nuovamente in campo per le Ong. Una benedizione in piena regola, quella che arriva dalle colonne dell’Osservatore Romano, secondo il quale “non dovrebbero essere lasciate sole, tantomeno ostacolate”. Anzi, “semmai sostenute e affiancate”. In un articolo intitolato “Non sono numeri”, che prende le mosse dal naufragio di ieri al largo della Libia, L’Osservatore Romano scrive che “le Ong, per mesi oggetto di una campagna denigratoria smascherata da numerose indagini e di fatto rimaste le uniche a prestare soccorso ai migranti in mare, non dovrebbero essere lasciate sole, tantomeno ostacolate, semmai sostenute e affiancate“. Secondo il giornale ufficiale del Vaticano, che non è nuovo a prese di posizione del genere, infatti, “c’è un obbligo di soccorso al quale gli Stati non dovrebbero sottrarsi, al pari di quello di accogliere chi fugge da situazioni di pericolo, e che prescindono da ogni posizione e strumentalizzazione politica sul fenomeno migratorio. L’Europa – si legge ancora – non dovrebbe sottrarvirsi”. Il quotidiano ricorda poi che “in Europa si sta rivedendo il regolamento di Dublino, giungendo a un testo  che rappresenta un passo avanti, ma che è ancora migliorabile“. Per L‘Osservatore Romano non è abbastanza neanche quello che ha fatto il governo italiano con la cancellazione dei decreti sicurezza. “In Italia, con Grecia e Spagna uno dei Paesi di primo approdo, hanno cancellato i decreti sicurezza; anche qui le norme relative ai migranti sono state riscritte cancellando alcune norme troppo restrittive. Ma – è il diktat vaticano – si può e si deve  sempre fare di più e meglio, come dimostrano le tragedie consumatesi ieri”.

L'elemosiniere del Papa ancora una volta tra i migranti. Il cardinal Konrad Krajewski di nuovo tra i migranti della piana di Gioia Tauro. Questa volta la scia seguita è quella dell'enciclica di papa Francesco. Giuseppe Aloisi, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. Le priorità della Chiesa di papa Francesco non sono cambiate: i migranti sono ancora al centro dei pensieri del pontefice e dei cardinali. L'ennesima dimostrazione è arrivata in questi giorni, con la visita del cardinale elemosiniere Konrad Krajewski agli "ultimi" che dimorano a Rosarno, in Calabria. Il porporato polacco è noto per una serie di cose: intanto è considerato molto vicino a Bergoglio, sia in termini curiali sia in quelli curiali, e poi c'è la storia relativa all'allaccio dell'impianto elettrico al palazzo occupato sito nella capitale. Da quella vicenda, è nato il soprannome giornalistico di "cardinale elettricista". Krajewski, insomma, è una delle immagine plastiche, per così dire, della Chiesa in uscita, quella che si muove in direzione del "popolo" di Francesco e delle "periferie economico-esistenziali". Il gesto di queste ore è un'altra conferma. "Sono venuto qui a nome del Papa per sostenere chi da 20 anni sta accanto ai più deboli, anticipando quello che papa Francesco ha scritto nell’Enciclica Fratelli tutti – ha dichiarato Krajewski ad Avvenire –. Qui c’è tanta sofferenza ma anche tante persone che aiutano chi è in difficoltà. Dobbiamo essere al loro fianco e sostenerli materialmente. Sono loro che mettono in pratica le parole del Vangelo". Krajewski si è presentato con un camion pieno di viveri e di altre forme d'ausilio in grado di soddisfare i bisogni di una realtà povera come quella l'associazione Il Cenacolo. L'ultima enciclica dell'ex arcivescovo di Buenos Aires ha nel cardinale polacco uno dei suoi primi interpreti, dunque. "Fratelli Tutti" - com'è nella tradizione delle encicliche firmate dal vescovo di Roma - è un'opera inclusiva, che guarda all'accoglienza erga omnes, e che in qualche modo nega la preminenza gerarchica del ratzingeriano "diritto a non migrare". Il Papa cita quella facoltà nella sua opera, ma sottolinea come i tempi odierni non consentano di ragionare sul rimanere in patria, senza considerare l'ipotesi di recarsi altrove. E questo vale in specie per le "periferie economico-esistenziali". Il cardinal Krajewski di recente è anche stato nominato nella commissione della Santa Sede che è deputata a "controllare" lo Ior, l'istituto per le opere di religione. Un altro segno di prossimità col pontefice sudamericano. Inutile nascondersi: la porpora dell'Est Europa balza spesso agli onori delle cronache quando si tratta di tirare ad indovinare per individuare i possibili successori di Jorge Mario Bergoglio. Sarebbe, in caso, un altro pontefice polacco dopo San Giovanni Paolo II. In "Fratelli Tutti", Francesco disegna le prospettive per un mondo coinvolto in un imprevedibile status pandemico. E i migranti sono tenuti in considerazione alla maniera di Bergoglio, ossia con tutti gli accenti che il successore di Joseph Ratzinger ha voluto porre all'interno della sua pastorale, in questi primi sette anni di pontificato. La visita di Krajewski a Rosarno, con ogni probabilità, non sarà l'ultima: il cardinale elemosiniere (è stato scelto per quell'incarico nel 2013) è molto attivo anche sull'isola di Lesbo. Nel corso di questi mesi, il Vaticano è riuscito a far arrivare in Italia anche alcune persone provenienti da quella zona di mondo: un'altra mossa simbolica per il tipo di società che Bergoglio vorrebbe realizzare. Una Chiesa cattolica, dunque, che dovrebbe essere in linea con le indicazione papali anche se non soprattutto per mezzo delle azioni dei suoi più alti rappresentanti. Rosarno e la piana di Gioia Tauro sono soltanto due degli scenari individuati da uno dei "preti di strada" per affermare sul pratico quello che Bergoglio fa e scrive. Questo - com'è noto - comporta anche le critiche di vorrebbe che le istituzioni cattoliche, durante queste fasi pandemiche, guardino di più alla spiritualità e meno alle questioni economico-sociali. Ma la linea di Francesco è ormai scalfita su pietra.

I vescovi ora fanno festa per la fregatura sui migranti. I vescovi italiani esultano per le nuove disposizioni Ue in materia di migranti. Il segretario Russo è soddisfatto, ma il piano Ue è un pasticcio per l'Italia. Giuseppe Aloisi, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Le decisioni che arrivano da Bruxelles in materia di gestione dei fenomeni migratori producono reazioni diverse, ma i vescovi italiani sono certi della bontà delle novità derivanti dalle disposizioni dell' Ue. "Pare significativa l’iniziativa della Commissione europea sul fronte dei migranti" è il commento del segretario della Conferenza episcopale italiana, Stefano Russo. Gli alti ecclesiastici italiani si schierano ancora una volta al fianco delle istituzioni sovranazionali europee. La bozza del trattato, come spiegato da Gian Micalessin, prevede che le nazioni siano ancora in obbligo di garantire tutta una serie di diritti agli irregolari. Quelli riservati a coloro che giungono a ridosso delle nostre coste senza avere le carte in regola: stando a quanto appreso sino a questo momento, l'Italia non potrà ricollocare queste persone. Ma i vescovi, che sono per l'accoglienza erga omnes, ossia in favore di tutti, esultano. Gli accenti posti da monsignor Russo riguardano proprio il riconoscimento di un "diritto all'accoglienza", che l'Unione europea avrebbe, secondo l'interpretazione della Cei, finalmente recepito a pieno. Qualche "però" può rimanere sullo sfondo, in questo clima di concordia rinnovata: "Poi i modi in cui sono accolte saranno da approfondire: penso che sia molto importante prendersi i tempi giusti per valutare le diverse situazioni", ha aggiunto Russo, come ripercorso dall'Agi. Ci sarà spazio, insomma, per eventuali rimostranze. La sensazione è che l'Ue abbia finalmente recepito le indicazioni provenienti dalla Santa Sede, dunque pure dalla Chiesa cattolica italiana. Russo ha manifestato tutta la sua soddisfazione, quando ha sottolineato che "l’accordo che prevede il superamento di Dublino è interessante. Può essere migliorato, ma mi sembra importante che il percorso continui, che ci sia la volontà di arrivare a situazioni condivise", ha fatto presente. Il tema è dunque quello di andare passo passo in direzione di una gestione sempre più "aperturista" e sempre meno disposta ad assecondare quelle realtà nazionali che preferiscono una linea restrittiva. Poi c'è il piano della diplomazia, che com'è noto è molto apprezzato dal clero: "In generale è una buona cosa" che il problema della gestione dei fenomeni migratori sia stato "messo a tema e non solo in linea di principio, ma con qualcosa che si prospetta concretamente rispetto all’accoglienza e soprattutto che sia l’Europa intera a prendersi a cura di questo e che ci sia un accordo tra i Paesi". Viene garantito alla questione un primato gerarchico che per i vescovi italiani è necessario, mentre è meglio che le nazioni che possono intervenire procedano mediante la dialettica, piuttosto che decidere ognuna per sé. Questo sembra, in estrema sintesi, il senso di queste posizioni. E le Ong? La Chiesa cattolica viene spesso criticata da parte conservatrice e tradizionalista per via della presunta sovrapposizione delle sue istanze con quelle delle Organizzazioni non governative. Russo non ha evitato di commentare anche il nuovo ruolo che verrebbe assegnato alle Ong nel caso in cui la bozza divenisse qualcosa di più: "Anche le ong, le organizzazioni non governative, hanno un ruolo importante nel momento in cui partecipano in modo condiviso all’interno di un programma", ha continuato il segretario della Cei, che dunque riconosce alle Ong una certa rilevanza. E ancora: "È importante non lasciare isolate le persone, le associazioni e tutti coloro che sono disponibili ad assicurare una accoglienza responsabile. Alcune deviazioni che ci possono essere state e che probabilmente ci sono, legate a interessi - ha dichiarato a stretto giro il segretario Cei -, possono essere attenzionate e risolte soprattutto se ci si prende cura in modo condiviso e non scaricare il problema ai Paesi che sono più prossimi dal punto di vista geografico". Vigilare, dunque, ma neppure demonizzare. I vescovi italiani si schierano per l'ennesima circostanza con chi ritiene giusto che i porti vengano aperti e che anche gli irregolari dimorino nelle nazioni in cui arrivano.

Migranti, spunta il cavillo nel piano Ue: "Vietato criminalizzare le Ong". Il nuovo Patto sui migranti dell'Ue favorisce le Ong. Nessun codice di condotta. Ecco tutte le novità contenute nei documenti. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. L'assistenza umanitaria “non può e non deve essere criminalizzata”, quindi “la criminalizzazione delle Ong (...) non è consentita dal diritto dell'Ue”. Più chiari di così, si muore. Sono le parole contenute nei documenti pubblicati dalla Commissione europea e allegati al nuovo Patto sulle migrazioni. La bozza di accordo che, a detta di Ursula Von der Leyen, dovrebbe tradursi nel "nuovo inizio" per una gestione sana delle migrazioni. Ma che invece non solo non contiene alcuna restrizione alle scorribande delle Ong nel Mediterraneo, ma anzi rischia di trasformarsi in un vero e proprio tappeto rosso. I documenti insidiosi sono due. Da una parte una “raccomandazione” scritta con l’intento di favorire la cooperazione tra Stati di fronte all’attività delle navi umanitarie. Dall’altra invece una “guida” all’attuazione delle norme dell'Ue sul favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Partiamo dalla prima. Salta subito all’occhio l’invito rivolto agli Stati a fare in modo che i migranti recuperati vengano sbarcati “non appena possibile” nel porto “sicuro più vicino”. Cioè in Italia, a Malta o in Grecia. Non è una sorpresa, certo. Però è un fatto politico rilevante, visto che Roma da tempo chiede che le Ong portino altrove gli stranieri imbarcati. Di fatto l’Ue persevera sulla scia che negli ultimi anni ha riempito Lampedusa e il Belpaese di immigrati, con tanti saluti alle proteste italiane. Ed è difficile immaginare che il piano per i ricollocamenti o il sistema dei rimpatri sponsorizzati, se mai verrà accetato, possa alleviare il peso che grava sugli Stati di frontiera. Chi sperava infatti che la Commissione col nuovo Piano riuscisse a mettere ordine al caos umanitario nel Mediterraneo dovrà ricredersi: manca una proposta coerente e pratica. L’unica novità riguarda la costituzione di “un gruppo di esperti” col compito di studiare le normative, mettere in contatto tutti gli attori e provare a far collaborare gli Stati di frontiera con quelli di bandiera delle navi private (magari per stabilire le responsabilità dello sbarco). Per il resto, la raccomandazione contiene solo un generico invito ai Paesi a scambiarsi “informazioni sulle navi coinvolte” nelle operazioni Sar e “sui soggetti che le gestiscono e le possiedono”, così da verificarne “la conformità alle norme di sicurezza” e controllarne le attività. A parte questo, nient’altro: nessun codice di condotta per le Ong; nessuna limitazione alle operazioni. Solo il monito a “non criminalizzare”. Ed è qui che entra in scena la “Guida” contro il favoreggiamento all’immigrazione clandestina. La leggi comunitarie, come quelle nazionali, prevedono infatti condanne penali per i cosiddetti “facilitatori”, cioè chi favorisce l’ingresso irregolare di clandestini nel territorio europeo. Tra questi, a rigor di logica, potrebbero rientrare anche le Ong, che di fatto caricano i migranti di fronte alla Libia e li portano senza documenti in uno Stato membro. La normativa però ammette alcune eccezioni, tra cui proprio gli interventi Sar realizzati a scopi umanitari e di salvataggio. In sostanza: se salvi un naufrago irregolare perché sta affogando e lo porti in Europa, non sei passibile di denuncia. Norma sacrosanta, sia chiaro. Ma nella sua “Guida” l’Ue non si limita a riaffermare alcuni principi di diritto internazionale. Va oltre, affermando tout court che “la criminalizzazione di Ong o di altri attori che svolgono operazioni di ricerca e soccorso in mare” costituisce “una violazione del diritto internazionale”. Quindi guai a mettere i bastoni tra le ruote alla flotta di navi solidali che solcano il Mare nostrum. Negli ultimi tempi infatti le Ong non hanno fatto altro che lamentare una sorta di persecuzione nei loro confronti. Soprattutto in Italia e in particolare durante il governo gialloverde. Lo hanno comunicato a Bruxelles durante una serie di consultazioni avute negli ultimi mesi, esprimendo “crescenti preoccupazioni” e affermando di temere le “sanzioni da parte delle autorità”. L’Ue ci ha ragionato su e ovviamente gli ha dato subito ragione. Va detto che la Commissione negli atti riserva alcune strigliate alle Ong. Ad esempio intima loro di rispettare il “quadro giuridico” internazionale e nazionale (e non è poco, visto il caso di Carola Rakete). Ammette poi che i trafficanti potrebbero “approfittare” delle operazioni di salvataggio umanitarie per allargare il loro business (ipotesi sempre esclusa dalle Ong). E lancia una stoccata a chi utilizza carrette inadatte a soccorrere migranti: visto che i salvataggi riguardano “un gran numero di persone” e investono gli Stati costieri - ragiona la Commissione - è necessario almeno che le navi “siano adeguatamente registrate e attrezzate per soddisfare i requisiti di sicurezza”. Un passaggio importante, considerato che più di una volta le imbarcazioni (l’ultima: Sea Watch 2) sono state bloccate dalle autorità italiane a causa di diverse irregolarità a bordo. A parte questo, però, la “rivoluzione” tanto attesa non c’è. Se mai la proposta di Ursula Von der Leyen venisse approvata dal Consiglio, le Ong potranno perseverare indisturbate nelle loro attività. L’Italia continuerà ad accoglierle in porto. E intanto i buonisti potranno gioire per quel divieto alla “criminalizzazione” che suona come un vero e proprio “tana libera tutti”.

Adesso il Papa si piega all'Ue e scoppia la rivolta dei fedeli. Il Vaticano si è unito all'Europa in nome del "migrazionismo". Ma c'è un fronte conservatore già sul piede di guerra. Francesco Boezi, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Il Vaticano e l'Unione europea sono due istituzioni che in questi anni hanno avuto modo di dialogare, arrivando a conclusioni che possono essere state interpretate come omogenee. Papa Francesco, a dire il vero, non si è mai risparmiato rispetto all'Ue, in specie sull'urgenza di ridisegnare la distribuzione della ricchezza tra le varie zone europee, ma di certo in questi anni le gerarchie ecclesiastiche, pontefice compreso, non si sono distinte per una critica continua mossa in direzione di Bruxelles e Strasburgo. Le "bacchettate" sono arrivate in materia di gestione dei fenomeni migratori. Da un punto di vista squisitamente politico, però, il vescovo di Roma e buona parte degli altri consacrati hanno individuato un avversario più temibile: i sovranisti. L'attivismo pro Ue della Chiesa cattolica è emerso durante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo: è stata in quella occasione che la Santa Sede, con tutte le gerarchie, ha fatto capire di aver operato una scelta di campo. Quella contro la presunta ricomparsa del nazionalismo novecentesco, e dunque contro la possibilità che il sovranismo-populista divenisse maggioritario in seno ad un contesto istituzionale.

Le posizioni dei vescovi europei in favore dell'Ue. I vescovi europei, ad esempio, si sono schierati con quelle realtà politiche che non hanno chiuso all'accoglienza dei migranti. Lo hanno fatto indirettamente, ma lo hanno fatto. E il tutto in nome dei precetti evangelici. Il punto più alto è stato raggiunto con gli appelli di Bergoglio contro il sovranismo. Anche le scelte relative ai cardinali creati in Concistoro nell'ottobre del 2019 sono incasellabili in questa scia ideologica, culturale e dottrinale: si è trattato, per lo più, di consacrati che si erano distinti per le loro posizioni "aperturiste". Tra quei nuovi cardinali, c'era (e c'è) Jean Claude Hollerich, arcivescovo lussemburghese e vertice dei presuli che agiscono all'interno del territorio coperto pure dall'Ue, nel Comece. Un alto ecclesiastico che rispetto al sovranismo ha parlato pure di "gioco infame". Pure per questo motivo, forse, alcune realtà sovraniste hanno iniziato a simpatizzare per Benedetto XVI, senza che questi rappresentasse una vera alternativa al papa regnante (non c'è polemica o divisione tra i due) e senza che Ratzinger avesse mai espresso idee contrarie alla bontà del progetto sovra-istituzionale europeo. Benedetto XVI è sempre stato un europeista convinto. Dopo l'exploit politico delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Ue, il cardinale Reinhard Marx ha incontrato i Verdi tedeschi, nel senso del partito, segnando un punto su una probabile alleanza attorno ai temi ecologici. Questo è l'andazzo, e i conservatori spesso lo contestano con rivendicazioni che il Vaticano e le autorità episcopali hanno sempre rispedito al mittente, continuando ad attaccare il fronte populista. Come quando proprio Hollerich ha detto che "In Europa, che sta perdendo la propria identità, si costruiscono identitarismi, populismi di destra, in cui la nazione non è più vissuta come comunità politica - ha scritto nero su bianco all'epoca il vertice dei vescovi europei, così come ripercorso da Rai News -, ma diventa un fantasma del passato, uno spettro che trascina dietro di sé le vittime delle guerre dovute ai nazionalismi della storia. I populismi vogliono allontanare i problemi reali, organizzando danze intorno a un vitello d'oro" . Un "vitello d'oro" contro cui la Chiesa cattolica non può che scagliarsi. L'indirizzo è stato chiaro sin dall'inizio della gestione del gruppo che coordina i vescovi d'Europa, insomma. E Hollerich oggi è solo una delle voci levate in favore dell'Ue, che garantisce quel clima pacifico che i sovranismi comprometterebbero.

La battaglia del Papa contro il sovranismo. Papa Francesco non ne fa mistero: è un critico del sovranismo. L'ex arcivescovo di Buenos Aires, nel corso di questo primo settennato da pontefice, si è espresso anche attraverso queste parole: "Sono preoccupato - ha detto a La Stampa, come riportato dall'Agi - perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. 'Prima noi. Noi noi': sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un'esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre". In un passaggio di quei virgolettati, è visibile una sorta di elogio alla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen. Ma come mai il pontefice argentino è così schiacciato su queste istanze? Donald Trump, che è considerato un sovranista, ha raggiunto importanti traguardi in politica estera, con i trattati di pace, come quello tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, che superano di gran lunga i conflitti scatenati o innescati (che sono più o meno pari allo zero). Eppure Bergoglio è convinto che il sovranismo-populista rappresenti un pericolo. Abbiamo domandato di questo "perché" al professor Roberto De Mattei, presidente della Fondazio Lepanto, cui abbiamo chiesto di tratteggiare quali siano le caratteristiche della linea del pontefice in relazione all'Unione europea: "L’atteggiamento di papa Francesco nei confronti dell’Unione Europea si situa in aperta discontinuità con l’atteggiamento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che hanno sempre insistito sulla necessità di difendere le radici cristiane dell’Europa", ha esordito il professore. E ancora: " Giovanni Paolo II, il 16 dicembre 2000, contrappose l’Europa di Carlo Magno a quella di Bruxelles, denunciando il carattere secolarista della Carta dei Diritti di Nizza, che rappresenta oggi la Magna Charta dell’Unione Europea". Quindi esisterebbe una strategia precisa. Una tattica che passa pure dal tipo di gestione dei fenomeni migratori da proporre.

La "guerra santa" di Francesco: così il Papa sfida i sovranisti. Il professor De Mattei prosegue senza incertezze: "Lo stesso papa Wojtila, nel 2003 ha dedicato a questo tema (la necessità di difendere le radici cristiane, ndr) l’esortazione apostolica Ecclesia in Europa. Papa Francesco esalta l’Europa di Bruxelles e oppone al modello dell’Europa cristiana quello di un’Europa “meticcia”, in cui religioni, etnie e culture si dissolvano in un processo di vorticosa ibridazione". Ecco che arriva la specificazione del professore: “Mescolare – ha dichiarato a La Repubblica nel settembre 2019 - ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità". Il “sovranismo, ha aggiunto, “vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato”. La battaglia di papa Francesco contro il “sovranismo” è, a mio parere, una battaglia contro l’identità storica, culturale e politica dei popoli, che la loro sovranità salvaguarda". Il nocciolo della questione, per la parte conservatrice, è semplice: in un'epoca così scivolosa per l'identità cristiana, la Chiesa cattolica dovrebbe rappresentare un baluardo in difesa dell'Occidente per come l'abbiamo conosciuto. E invece Jorge Mario Bergoglio - affermano i conservatori - ha in qualche modo prestato il fianco a quelle forze che stanno destrutturando la tradizione e l'identità del Vecchio continente. Sono accuse forti. Ma sono anche sempre le stesse. Quelle che accompagnano il vescovo di Roma dalle settimane successive all'elezione in Conclave.

La linea sui fenomeni migratori: Ue e Vaticano per un'Europa multiculturale. L'Ue - com'è noto - è a favore del multiculturalismo, mentre il Vaticano lo è diventato nel tempo. Con Joseph Ratzinger - difficile smentire questa tesi - gli accenti sul multiculturalismo non erano stati così acuti. Un capitolo a parte, a dire il vero, lo meriterebbero le contiguità tra Ue e Santa Sede sull'ecologia: tanto l'Unione europea quanto il Vaticano hanno iniziato a guardare con favore ai temi ambientalisti ed alla loro emanazione movimentista: Greta Thunberg ed il "gretinisimo". Ue e Vaticano, in poche parole, agiscono in sincrono o quasi, Ma è attorno all'annoso tema dei migranti che la sintonia tra i due attori geopolitici mondiali diviene evidente, così come notato dal professor Renato Cristin, ordinario di ermeneutica filosofica all'Università di Trieste, che abbiamo voluto sentire anche in questa circostanza: "Sulla questione dei migranti, l’Unione Europea ha una linea oscillante - afferma Cristin a ilGiornale.it - , dettata da situazioni contingenti esterne (emergenze o esigenze internazionali) ed interne (mutate maggioranze parlamentari, legittime convenienze politiche o anche solo l’eventuale pressione dell’opinione pubblica), che va da fasi di accoglienza quasi illimitata a momenti di maggiore cautela, ma nella sostanza la sua linea corrisponde a quella dettata dall’Onu e dal suo braccio operativo su questo fronte, che è l’Alto commissariato per i rifugiati, che mira, abilmente, a scardinare le protezioni che gli Stati possono erigere per difendersi da un’immigrazione indiscriminata (corrispondente cioè all’apertura totale invocata – e purtroppo anche praticata – dall’Onu), percepita come una forzatura, un’imposizione inaccettabile che proprio perciò va respinta al mittente".

Un'immigrazione senza muri: ecco il piano di papa Francesco. Cristin prosegue: "...è su questo punto che la politica immigratoria Ue e l’esortazione (da anni pressoché quotidiana) immigrazionista di papa Bergoglio coincidono, perché per entrambi l’identità non è un valore, non è un bene da salvaguardare, ma un deposito da svuotare, per fare spazio – sia in senso metaforico sia in senso letterale concreto – all’alterità. E a tal fine le varie Ong operanti nel Mediterraneo sono uno strumento privilegiato e, come sappiamo da varie dichiarazioni di Bergoglio, particolarmente sostenute". Un'alleanza, in poche parole, che verte pure sulla reciproca tutela delle Organizzazioni non governative e del loro spirito programmatico.

Il ruolo del Vaticano per la stesura del Global Compact. Le gerarchie ecclesiastiche del Vaticano si sono spese per il Global Compact, il discusso patto promosso dall'Onu che la Ue alla fine non ha trasformato in un vincolo (se ne era discusso), ma che è stato di sicuro ben recepito dai palazzi di Strasburgo e Bruxelles. Non solo: dalla Santa Sede sono arrivati dei veri e propri suggerimenti, oltre che dei passaggi testuali. Il Global Compact è forse il simbolo di quello contro cui i sovranisti hanno combattuto negli ultimi cinque anni. Una figura palese di un'indicazione legislativa calata dall'alto, che tanto la Ue quanto il Vaticano hanno recepito con favore. Sempre Cristin delimita il campo d'azione del patto Onu: "L’ideologia del Global Compact - annota il professore triestino - mira a una omogeneizzazione forzata dei popoli, alla loro unificazione non meramente formale data dal sentimento della comune appartenenza al genere umano, bensì sostanziale, perché punta a una unificazione spirituale e materiale, e soprattutto pensa di sostituire alcune popolazioni demograficamente in calo con altre, a prescindere dalla compatibilità culturale. Come ho scritto nel mio libro - " i padroni del caos" - , questo atteggiamento di mera contabilità demografica è talmente cieco e violento, finalizzato al riequilibrio della popolazione mondiale, da applicare quella che ho definito una "tecnica zoologica": spostare, con apparente compassione ma in realtà con totale freddezza, masse di persone verso dove c’è più spazio, non in senso geografico ma in senso sociale e culturale, togliendole da dove, pur essendoci immensi spazi fisici e demografici, ci sono maggiori ostacoli sociali, climatici o etnici". I conservatori sono estremamente contrari al Global Compact, mentre il Vaticano la pensa al contrario.

"L'Ue lavora per rendere il Global compact obbligatorio". Il professor Cristin ricorda come la Santa Sede abbia contribuito alla stessa stesura del trattato: "In questa operazione, il Vaticano ha un ruolo fondamentale, come sappiamo da un discorso del 2019 di papa Bergoglio, in cui ha dichiarato che "la Santa Sede si è adoperata attivamente nei negoziati e per l’adozione dei due Global Compacts"; una collaborazione sancita dalla presenza nel dicembre 2018 a Marrakech del cardinale Parolin, il quale, dichiarando che "poter migrare è un diritto" e che "la non accoglienza non è un diritto", ha certificato che la Chiesa è il garante religioso della politica migratoria dell’Onu". Ecco che il professor Renato Cristin individua un trait d'union ideologico-dottrinale: "Questa convergenza è perfettamente spiegabile, poiché l’humus politico da cui è sorto il Global Compact (penso ovviamente al Compact per le Migrazioni, non a quello per i Rifugiati, che va rispettato) e quello in cui si sviluppano le odierne posizioni della Chiesa sui migranti è omogeneo alle tesi della teologia della liberazione, che hanno permesso di superare la frattura tra la laicità secolarizzata ostile al Cristianesimo dell’ideologia-Onu e l’ineliminabile religiosità della visione bergogliana". Il pontefice e le gerarchie ecclesiastiche, stando all'analisi dei conservatori, si sono piegati all'Ue e alle sue priorità.

Pietro De Feo per Libero Quotidiano il 15 settembre 2020. Follow the money, segui i soldi, e trovi anche le connessioni culturali, per non dir politiche. Ecco quel che ha scoperto Aciprensa, agenzia di stampa cattolica peruviana ma dal respiro internazionale: le fondazioni dei Gesuiti, che operano per vari obiettivi nel campo dell'immigrazione e dell'educazione, hanno ricevuto da George Soros, o meglio dalla sua fondazione Open Society, negli ultimi quattro anni la bellezza di 1.702.577 dollari. Il sito dell'agenzia ricostruisce nel dettaglio quantità e destinazioni. La Fondazione Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati ha ricevuto 176.452 allo scopo di «sostenere il lavoro del beneficiario sui diritti dei migranti» in America Latina nei Caraibi. Inoltre, sul "Servizio Gesuiti per i Migranti-Spagna" sono piovuti 75 mila dollari nel 2016 e 151.125 nel 2018. Non è finita: il Programma di Educazione Superiore dei Gesuiti negli Stati Uniti, che si rivolge a giovani emarginati di tutto il mondo, ha beneficiato di 890.000 dollari nel 2016 e 410.000 nel 2018. Aciprensa spiega che quest' ultima realtà è l'unica ad aver esplicitamente riconosciuto sul proprio sito Open Society, la fondazione di Soros, come "partner". Qui finisce il dato monetario e inizia quello cultural-politico. Sì, perché la filantropia di Soros all'ordine dei Gesuiti apre a un punto dolente e fornisce una conferma. Il punto dolente risiede nel fatto che esistono prese di posizione e iniziative della Open Society a favore dell'aborto, dimostrate dal sostegno economico per alcune associazioni schierate su questa posizione - in Irlanda, ad esempio. dove nel 2018 uno referendum ha abolito la legge che vietava l'interruzione di gravidanza. Ma non è l'unico caso. Come ricorda sempre Aciprensa, nel 2018 Open Society ha donato 200 mila dollari «all'organizzazione falsamente cattolica a favore dell'aborto Catholic for Choice», letteralmente "Cattolici per la scelta". È un gruppo nato negli anni '70, che nel sito si autodefinisce «parte della grande maggioranza di credenti nella Chiesa cattolica che dissentono dai dettami del Vaticano su materie relative al sesso, al matrimonio, la vita di famiglia e la maternità». Sull'interruzione di gravidanza, l'associazione è esplicita: «Crediamo in un mondo in cui tutti abbiano uguale accesso alla gamma di servizi di assistenza sanitaria riproduttiva, compreso l'accesso a servizi di aborto sicuri e legali e a forme di contraccezione convenienti ed affidabili». La vicenda delle donazioni alle realtà gesuitiche, però, sancisce anche una conferma. Di quel legame culturale che allaccia i due protagonisti, Papa Bergoglio e George Soros. E li colloca nel comune schieramento del "no muri, sì ponti" sulle politiche migratorie. È noto come l'"inclusività" propugnata da Open Society attraverso le sue iniziative sia tesa a un mondo senza frontiere, così come l'impostazione di una piena accoglienza dei flussi migratori sia al centro della predicazione bergogliana. Soros e Bergoglio si ritrovano dalla stessa parte della barricata non solo sul tema generale, ma anche nel confronto tra famiglie politiche. Appena qualche mese fa, il finanziere parlò del progetto di Matteo Salvini come «una minaccia esistenziale per l'Ue». Lo scorso anno, in un'intervista a La Stampa, il Papa si scagliò contro il sovranismo, esprimendo preoccupazione sulla sua crescita di consensi. Ora, se è normale che un noto finanziere intervenga a piedi uniti nel dibattito politico, lascia perplessi lo faccia con la stessa disinvoltura un Pontefice, specie se nella porzione di pensiero politico che lui attacca si riconoscono molti cattolici. Evidentemente, l'Internazionale dell'Accoglienza non bada, oltre che alle spese, alle regole di opportunità. riproduzione riservata Qui sopra a sinistra, George Soros, 90 anni, filantropo e miliardario americano, e a destra Papa Fancesco, 83.

L’Italia di Don Malgesini non è quella di Salvini. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Un sacerdote di 51 anni, Roberto Malgesini, è stato ucciso ieri mattina a Como a coltellate. Don Roberto da diversi anni si occupava soprattutto di assistere e difendere i migranti, i “clandestini”, i poveri. Anche ieri mattina aveva preparato le colazioni da distribuire ai senzatetto. Qualche minuto dopo le sette, in piazza san Rocco, è stato aggredito alle spalle e ucciso. Sembra che il colpo decisivo sia stato quello al collo. Probabilmente è morto in pochi minuti. Non si conosce un motivo plausibile per questo delitto. Pare che l’assassino sia un tunisino di 53 anni che don Roberto aveva sempre aiutato. Si è costituito. Probabilmente il delitto è senza movente, cioè, il movente è la follia. Il Vescovo ha commentato descrivendo Malgesini come il “Santo della porta accanto”. È una bella immagine. Magari molti di noi, non credenti, possono non usare la parola santo, però chiunque l’ha conosciuto lo descrive come una persona e un sacerdote straordinario. Capace di amare gli altri, di dedicarsi a loro, con un senso fortissimo della giustizia, con una fede vera nei valori cristiani: uguaglianza, fratellanza, solidarietà, carità. Credeva così tanto nella sua missione, o nel suo lavoro se vogliamo usare un linguaggio molto laico, da essere arrivato al punto di dare la vita. Sarebbe bello, almeno per un giorno, tenere i commenti rasoterra. Inchinarsi di fronte al ricordo di questa persona fantastica e basta. Purtroppo non è possibile. Il mondo politico, talvolta, non sa tacere quando deve tacere. Anche ieri Matteo Salvini, che è il leader di quello che i sondaggi dicono sia il primo partito italiano, ha voluto rilasciare commenti rivolti contro i profughi e gli immigrati irregolari. Cioè quelli per i quali lavorava Roberto. È una cosa molto triste. Ci fa capire che qui in Italia esistono mondi lontanissimi. Chi lavora in silenzio, faticando duro, rischiando la pelle, e non fa propaganda. E chi crede che la propaganda sia il sale e scopo della vita. Peccato.

E il giornalista del Tg2 disse: “Il prete degli ultimi ucciso da un immigrato clandestino”. Il Dubbio il 16 Settembre 2020. La denuncia di Faraone: «Per questo signore qui, uno di quelli che non incontri al bar ma ogni sera alle 20 al Tg2 il killer di Don Roberto Malgesini non è un folle ma, testuale, “da un cazzo di immigrato clandestino che grazie agli immigrazionisti e ai buonisti era ancora in giro». “Per questo signore qui, uno di quelli che non incontri al bar ma ogni sera alle 20 al Tg2, perché fa il giornalista e dovrebbe attenersi ai fatti, per questo signore qui il killer di Don Roberto Malgesini non è un folle. In un post su Facebook, che ha prontamente cancellato ma che rimane nelle istantanee di chi lo ha fotografato, un giornalista del servizio pubblico sostiene che il povero prete sia stato ammazzato non da un pazzo squilibrato ma da un cazzo di immigrato clandestino che grazie agli immigrazionisti e ai buonisti era ancora in giro”. E a chi gli fa notare che era solo uno squilibrato e che lo status di immigrato o il colore della pelle è un problema suo, lui risponde indispettito ribadendo che il killer era un immigrato clandestino e che, udite, udite, la responsabilità della morte e’ di chi la pensa come quel suo collega che, in un commento al suo post, gli aveva fatto notare che stava dicendo una stratosferica cavolata”. Lo scrive su Facebook, il presidente dei senatori di Italia Viva, Davide Faraone. “Non contento – prosegue – il giornalista del Tg2 della Rai conclude la conversazione con una frase che lo qualifica per quello che è, e cioè un cattivo esempio che non può stare nella principale industria culturale del Paese: “Gli italiani decideranno nelle urne. A noi il compito di ricordare i crimini e le violenze quotidiane di cui si rendono responsabili gli immigrati”. Ecco, gli italiani decideranno alle urne e lo faranno con la testa e con il cuore. Non ho alcun dubbio. Così come non ho il minimo dubbio che su queste affermazioni gravi deciderà la Commissione di Vigilanza Rai a cui, nel momento esatto in cui clicco su questo post, mi rivolgerò”, conclude Faraone.

Ucciso il prete degli ultimi: “Una tragedia che nasce dall’odio”. Il Dubbio il 15 Settembre 2020. Don Roberto Malgesini, 51 anni, è stato ucciso con una coltellata a Como. era conosciuto in città per il suo impegno a favore degli ultimi. Non aveva una parrocchia, ma la sua pastorale era quella dell’assistenza ai bisognosi. Portava la colazione ai senzatetto e ai migranti e assisteva tutte le situazioni di marginalità. Un prete, don Roberto Malgesini, 51 anni, è stato ucciso con una coltellata questa mattina a Como da un senzatetto con problemi psichici. L’uomo, di origini straniere, si è poi costituito ai carabinieri. Don Malgesini era conosciuto in città per il suo impegno a favore degli ultimi. Non aveva una parrocchia, ma la sua pastorale era quella dell’assistenza ai bisognosi. Portava la colazione ai senzatetto e ai migranti e assisteva tutte le situazioni di marginalità. Viveva nella parrocchia di San Rocco, a pochi passi dal punto dove questa mattina è stato accoltellato. Sul luogo dell’omicidio è arrivato anche il vescovo mons. Oscar Cantoni. Il quartiere di san Rocco, all’ingresso della convalle di Como, con molte case vecchie, da tempo è abitato principalmente da immigrati. Sul luogo del delitto si è formata una folla di fedeli, parrocchiani e immigrati. Molti non trattengono la commozione. “Dov’è il don? No, non può essere lui” dice un immigrato ad alta voce. Don Roberto Malgesini “era una persona mite, ha votato tutta la sua vita agli ultimi, era cosciente dei rischi della sua missione. La città e il mondo non hanno capito la sua missione”, dice all’Agi Roberto Bernasconi, direttore della Caritas. Malgesini seguiva proprio per la Caritas le situazioni di povertà più estrema in città. “Questa tragedia – prosegue – è paragonabile a un martirio, voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. E’ una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società”. Bernasconi fa riferimento anche a delle “contrapposizioni” nate sul tema dei poveri a Como “che fanno perdere la razionalità”, precisando di non riferirsi però al gesto dell’assessora che, nei giorni scorsi, ha tolto una coperta a un senzatetto (“Non c’entra nulla”). “Mi riferisco a chi usa queste persone per portare avanti dei discorsi che sono personali per cui non è che fanno il bene di queste persone. Va messa al centro la persone per quello che è, come faceva don Roberto”. “Il mio ricordo personale è di questi ultimi 15 giorni che ho trascorso in ospedale per problemi miei di salute. Veniva tutti i giorni a trovarmi, solo per un saluto e assieme abbiamo risolto un paio di casi, io davo indicazioni e lui era la mano. Non aveva subito minacce, c’erano solo le fatiche solite che ci sono quando ci si occupi di queste persone”.

Coltelli, preti uccisi e migranti. Cosa c'è dietro queste storie. Le chiese, i coltelli, la carità: due storie simili a 20 anni di distanza. E quei parroci dei poveri, uccisi dagli immigrati che aiutavano. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. Le due cronache sono così simili che viene la pelle d’oca. Stessa provincia. Stessa arma del delitto. Il sagrato di una parrocchia come scenario di un macabro delitto. E quegli assassini (o presunti tali, nell’ultimo caso) che uccidono il parroco che donava loro un po’ di dignità.

Clandestino e mai rimpatriato. Ecco chi ha ucciso il parroco. L'omicidio di don Roberto Malgesini è una tragedia che si ripete. Si ripete dopo venti anni dopo quelle coltellate inferte all’addome a don Renzo Beretta, parroco di Ponte Chiasso, ammazzato da un marocchino cui faceva la carità. È una fredda mattina del gennaio 1999 quando don Renzo apre a Abdel Lakhoitri, uno dei tanti stranieri che bussano ogni giorno alla sua porta. L’uomo chiede un prestito che il parroco non può o non vuole concedere, il marocchino lo aggredisce, lo accoltella e il don si accascia sul sagrato della sua chiesa. In pieno giorno. Inutile la corsa in ospedale e il tentativo di salvargli la vita: i colpi all’addome sono mortali. Lakhoitri tenta la fuga in autobus, ma viene catturato e confessa. Condannato a 14 anni di carcere, dopo otto anni è stato scarcerato e rimpatriato in Marocco. Di lui restano gli articoli di cronaca di quel tragico delitto. Che ora sembra tornare come un’ombra su Como.

Prete ucciso in strada a Como: è stato accoltellato da un tunisino. Leggendo i resoconti dell’epoca e i racconti di oggi su don Roberto le storie dei due parroci sembrano somigliarsi. A parte l’anagrafica. Don Renzo era nato a Camerlata nel 1922, divenne sacerdote nel 1948 e dopo alcuni giri fu nominato parroco di Ponte Chiasso nel 1984. Nel pieno della crisi migratoria degli anni ‘90 aprì la sua parrocchia e la casa a extracomunitari e tossicodipendenti. Un po’ come don Roberto, che invece era nato a Morbegno nel 1969 ed era stato ordinato nel 1998, un anno prima che don Renzo perdesse la vita. A Como non gestiva alcuna parrocchia mi si dedicava anche lui alle situazioni di “marginalità”, visto che coordinava un gruppo di volontari che ogni mattina portava un pasto caldo ai senzatetto della città. Tra loro anche molti migranti, come il tunisino irregolare che avrebbe confessato il delitto.

Prete ucciso in strada a Como: è stato accoltellato da un tunisino. Già, perché un altro filo rosso che lega queste due vicende così lontane nel tempo è l’identità delle persone coinvolte. Le cronache dell’epoca dicono che Lakhoitri era “sprovvisto di documenti, frequentava la parrocchia e il centro di assistenza, era quindi ben conosciuto dal prete che gli aveva aperto la porta della sua casa senza sospetti”. Allo stesso modo, anche il presunto assassino di don Roberto è un tunisino irregolare, di 53 anni, arrivato in Italia nel 1993, sposato con un'italiana, con precedenti per rapina, furto e un’ordine di espulsione (datato 8 aprile) mai eseguito causa Covid. Anche lui era conosciuto dal parroco che era solito aiutare lui e tanti altri: è stato ucciso alle 7, poco distante dalla canonica di San Rocco e dalla sua auto colma di aiuti per i senzatetto. Infine, il coltello. Dopo aver colpito don Renzo, Lakhoitri gettò la lama del delitto lungo la strada. La stessa arma usata anche per uccidere don Roberto, e trovato poco lontano dalla chiesa di San Rocco. Ultimo particolare in comune di due vicende tragiche. Che a distanza di 20 anni sembrano quasi legate da un filo rosso. Sporco di sangue.

Anna Campaniello per corriere.it il 15 settembre 2020. Un sacerdote di 51 anni, don Roberto Malgesini, molto conosciuto a Como per il suo impegno al fianco degli emarginati, è stato ucciso a coltellate martedì mattina poco dopo le 7 in piazza San Rocco, a poca distanza dalla parrocchia. Il presunto responsabile, uno straniero, attorno alle 8 si è presentato in caserma dai carabinieri e si è costituito. L’uomo, dalle prime informazioni, sarebbe un senzatetto con problemi psichici. Don Roberto, originario della provincia di Sondrio, sarebbe stato colpito alla schiena, mentre camminava sulla stradina in salita che porta alla vicina chiesa. Alcuni passanti che hanno notato il corpo a terra hanno chiamato i soccorsi, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare. Gli agenti della polizia, intervenuti in piazza San Rocco, hanno trovato un coltello, in tutta probabilità l’arma del delitto. Sul luogo della tragedia è arrivato dopo pochi minuti anche il vescovo di Como, monsignor Oscar Cantoni. Don Roberto Malgesini non era titolare di una parrocchia, in quanto la sua pastorale era quella dell’assistenza ai bisognosi. Era il coordinatore di un gruppo di volontari di Como che ogni giorno portano la colazione ai senzatetto e ai migranti, e assisteva tutte le situazioni di marginalità. Viveva nella parrocchia di San Rocco, a pochi passi dal punto dove è stato accoltellato.

Manuela D'Alessandro per agi.it il 16 settembre 2020. Davanti alla Chiesa di San Rocco, la sua Panda grigia era colma, come sempre, di biscotti, brioche e caffé. Don Roberto Malgesini stava per iniziare alle sette di una mattina di sole il suo consueto giro di colazioni per i poveri di Como quando proprio uno degli uomini in difficoltà che sfamava e aiutava da tempo, tanto da avergli procurato un avvocato per difendersi nei processi in cui era imputato, lo ha avvicinato. Non è ancora chiaro cosa abbia detto, una fonte investigativa riferisce che avrebbe chiesto al religioso del ghiaccio, pronunciando poi delle frasi senza senso. Di certo lo ha colpito al collo con un grosso coltello da cucina procurandogli più ferite, risultate mortali. Col sangue sugli abiti, lasciando ampie chiazze per terra nel tragitto,  ha imboccato un sottopasso si è presentato alla vicina caserma dei carabinieri dichiarando di avere ucciso il prete amatissimo dagli ultimi che hanno dato vita per tutto il giorno a una sorta di "processione", tra lacrime e urla di dolore, davanti alla canonica. Radhi Mahmoudi era irregolare in Italia dal 2014. Arrivato nel 1993 dalla Tunisia, si era sposato con una donna italiana e lavorava. Poi, si era sgretolato tutto. Si era separato, non lavorava più, dormiva nella parrocchia di Sant’Orsola e vagava per la città sempre con uno zaino in spalla e un vecchio cellulare, ora sotto sequestro. Spesso la colazione gliela portava proprio don Roberto. Condannato in via definitiva per estorsione e maltrattamenti in famiglia, aveva visto scivolare via anche il permesso per stare in Italia. Non risulta che fosse radicalizzato o avesse legami con ambienti di terrorismo. Era destinatario di due provvedimenti di espulsione rimasti sulla carta. Il primo, nel 2018, che aveva impugnato e, per questo, riferiscono dalla Questura, i tempi per l’esecuzione si erano dilatati fino al 2021. Il secondo, datato aprile 2020, non era stato eseguito per via del blocco dei voli determinato dal Covid. Era uno dei tanti “ultimi”, non affetto da disturbi psichiatrici accertati da medici ma che, riferisce chi lo conosceva, “soffriva di sbalzi d’umore e manie di persecuzione”, che don Roberto, 51 anni, seguiva con devozione da anni. Durante l'interrogatorio, Mahmoudi ha 'giustificato' il suo gesto affermando  di essere vittima di un complotto per farlo tornare nel suo Paese d'origine.

Chi era la vittima. Stefano e Pietro sono due persone in difficoltà che hanno dormito per diverso tempo nella parrocchia di San Rocco, la chiesa davanti alla quale il prete è stato accoltellato. "Una sera - racconta all'AGI il primo - gli ho detto che avevo bisogno delle scarpe perché non ne avevo. Il giorno dopo si è presentato con un paio di scarpe nuove, c'era ancora lo scontrino nella busta. Gli chiedevo quando andava a dormire perché di notte preparava le colazioni da portare in giro sulla sua Panda grigia, lui rispondeva un paio d'ore al pomeriggio". "Era una persona eccezionale - dice in lacrime Jasminka, una donna croata in Italia da molti anni - gli dicevo sempre che non mi sembrava neanche un prete. Le mie amiche spesso si sono rivolte a lui perché avevano problemi. Gli procurava cibo e vestiti, tutto quello di cui avevano bisogno". Il medico Teresa Parrillo rievoca quando gli regalò delle scarpe nuove perché andava in giro con le calzature rotte. Lui le prese e poi le donò a un povero. Alla fine dell'anno scorso quando il sindaco aveva vietato  la distribuzione di alimenti sotto ai portici ai poveri tra le proteste della Caritas,  i volontari del gruppo da lui guidato avevano continuato a nutrirli e la Polizia Locale gli aveva inflitto una multa, poi "archiviata". "Non aveva reagito - ricorda chi gli stava vicino - niente commenti, né interviste. Non ne ha mai concessa una sebbene fosse molto popolare". “Era una persona mite, era cosciente dei rischi che correva - racconta all’AGI Roberto Bernasconi, direttore della Caritas di Como per la quale don Roberto si prodigava -. La città e il mondo non hanno capito la sua missione". Paragona l'omicidio a un martirio: "Voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. È una tragedia che nasce dall'odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società".

Una città divisa sui senzatetto. L’uccisione di Malgesini arriva a Como in un clima di polemiche sulla gestione dei senzatetto e degli ‘ultimi’ in città tra l’amministrazione comunale di centrodestra, guidata dal sindaco Mario Landriscina, e diverse associazioni e cittadini impegnati nel volontariato. L’ultima, quella che ha visto protagonista l’assessore alle Politiche Sociali del Comume, Angela Corengia, ripresa  in un video mentre toglieva e buttava su un prato la coperta utilizzata da un senza dimora per riscaldarsi di fronte all’ex chiesa di San Francesco. "Il mio compito è quello di fare in modo che coloro che trascorrono la notte sotto il porticato liberino temporaneamente l’area per consentire pulizia e sanificazione, anche nel loro interesse – continua – per questo personalmente sveglio con un ‘buongiorno ragazzi' e un ‘per favore puoi alzarti?' gli ospiti e capita che l’invito debba essere più volte reiterato. Succede anche che si concordi con i ragazzi quello che deve essere buttato: lo fanno loro direttamente e talvolta vengono aiutati, con il loro consenso, per accelerare le operazioni, che hanno un costo e per lasciar libera rapidamente la squadra impiegata stanza spostare alcunché sul prato bagnato”. Negli ultimi mesi, il coronavirus ha fatto esplodere il problema, già presente da anni, dei senzatetto nel centro di Como acuito anche da un focolaio di contagi. Quasi una trentina di persone staziona ormai regolarmente  sotto i portici di San Francesco, di fianco al Tribunale, e l’insofferenza dei residenti e dei commercianti sale ogni giorno di più, con sullo sfondo la discussione sul nuovo dormitorio che la Lega, parte della maggioranza di centrodestra guidata dal sindaco Mario Landriscina, non vuole.  Caritas e Polizia Locale hanno più volte sgomberato e sanificato l’area, ma chi non ha una casa ha sempre recuperato la sua postazione nelle ore successive. Il 13 giugno scorso, circa duecento persone, su iniziativa dei volontari di ‘Como accoglie’, si erano radunate in piazza Cavour, il  ‘salotto’ della città, ciascuna con una propria coperta prima in spalle e poi stesa per terra. “Como è una città ricca – aveva detto Marta Pezzati, presidente dell’associazione, in un video visibile sul sito comozero.it – ci sono tanti edifici vuoti, un terzo settore molto attivo e pieno di benessere. Ma adesso la cosa più importante è ‘basta portici’”. I volontari chiedono da tempo un nuovo dormitorio, una prospettiva che, secondo Bernasconi, non risolverebbe tutto perché una fetta consistente dei senzatetto sono persone senza permesso di soggiorno che, come tali, non potrebbero avervi accesso. La Lega con la ex vicesindaca e parlamentare Alessandra Locatelli ha raccolto delle firme in piazza contro la prospettiva del nuovo dormitorio.  Intanto, spiega una cittadina ed ex volontaria, “la situazione e non solo sotto i portici, ma anche per esempio nella ex dogana dove alcuni vivono tra i topi, è difficile. Quelli sotto i portici sono giovani e arrabbiati e vivono un forte disagio”.  Il sindaco Landriscina ha proclamato il lutto cittadino, per questa sera è previsto un rosario in Duomo dove potrebbero svolgersi i funerali, in alternativa si pensa allo stadio. Saranno in tantissimo a volerlo salutare. 

Il senso di aiutare gli altri per don Roberto. Un avvocato, Simone Gatto, racconta di avere incontrato il don in carcere una volta e di avergli posto una domanda. "Gli chiesi che senso aveva aiutare certe persone che non dicono neanche grazie. Almeno noi abbiamo la parcella, obbiettai. La sua risposta me la ricordo perfettamente: “Gesù perdonò e salvò coloro che lo stavano mettendo sul crocifisso”".

Il caso del prete ucciso. L’indecente propaganda sull’omicidio di Don Roberto Malgesini. Giulio Cavalli su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Che spettacolo indecente la cronaca e la politica quando si mischiano, la cronaca nera che diventa un manganello da agitare per svendere un senso che la politica si rifiuta di approfondire e noi qui ogni volta a ripeterlo, provare a rimettere tutti i tasselli al loro posto, provare a raccontare un efferato fatto di sangue riabilitando le persone, che siano le vittime o i presunti colpevoli, per smontare la propaganda. E così il fatto del giorno, quello che viene usato come clava per scambiarsi mazzate a destra e a manca finisce per travolgere un uomo schivo, umile, riservato, uno di quelli che mai avrebbe voluto essere immischiato con la foga bavosa di certi comizi, uno di quelli che anche quando avrebbe avuto l’occasione, avrebbe potuto puntare il dito invece faceva altro. Don Roberto Malgesini, prete comasco 51enne che ieri si è accasciato a terra tagliato dalla lama del suo assassino, si occupava di preparare le colazioni all’alba da distribuire ai senza tetto, passava le notti accanto a chi rimane sulla strada, distribuiva coperte, pantaloni, offriva una doccia o anche semplicemente una parola di conforto a chiunque bussasse alla sua porta. Don Roberto era un prete, vero, uno di quelli che si innamora degli ultimi e che non ha paura di frequentare i cunicoli bassi della disperazione. Certi giornali oggi lo descrivono come “l’amico dei migranti” con la solita logica di contrapporre razze (che non esistono) e di criminalizzare l’essere straniero, ma don Roberto, nato nella provincia di Sondrio e da oltre dieci anni in servizio nel comasco, si occupava semplicemente dei disperati, senza nessuna distinzione, l’unica differenza che vedeva nelle persone era quella che divide gli oppressi dagli oppressori, i poveri dai non poveri. Che poi a Como, come in tutto il resto d’Italia, spesso l’equazione disperazione-stranieri sia l’angolo per accendere una certa xenofobia di fondo è tutto un altro discorso, sempre il solito, sempre lo stesso, sempre parole, niente a che vedere con l’azione. Dalle notizie che arrivano si sa che l’assassino (che avrebbe già confessato) di don Roberto sarebbe un uomo di 53 anni, uno dei senzatetto che il prete conosceva molto bene: su di lui ovviamente si è accesa la ridda di voci, con il solito pelo della cronaca nera che cerca gli appigli per costruire la polemica, e così mentre la Caritas afferma che l’uomo avrebbe avuto problemi psichiatrici gli altri ci informano che fosse già sottoposto a decreti di espulsione. Sì, perché l’assassino è di origine tunisina e probabilmente clandestino, apriti cielo, il piatto perfetto per buttarcisi dentro. In un gioco meschino che setaccia gli ammazzamenti per trovare il negro e lo straniero la morte di don Roberto è l’oggetto perfetto. Eppure forse bisognerebbe raccontare, poiché la realtà è composta da centinaia di toni di grigi, che lui e i suoi volontari proprio a Como erano stati multati dall’amministrazione comunale perché violavano l’ordinanza contro l’accattonaggio del Comune di Como. Una polemica che aveva avuto risalto su tutta la stampa nazionale, ma che anche in quel caso aveva visto il parroco rimanere in disparte. Bisognerebbe ricordare che proprio lì a Como la politica ha chiuso tutti i centri di accoglienza e ha chiuso gli spazi di aggregazione, ha perfino chiuso i bagni pubblici per motivi di “ordine pubblico” (con la solita tattica del mettere la polvere sotto il tappeto senza occuparsi della polvere) e ha tolto alla Caritas la gestione della raccolta degli abiti usati in favore di un’azienda privata. A Como, da tempo si combatte una battaglia in nome del “decoro” che ha infiammato gli animi e che ha appuntito gli scontri. A Como qualche giorno fa l’assessora alle politiche sociali era stata ripresa in un video mentre strappava una coperta a dei senza tetto. Questo è il contesto sociale in cui si è consumata questa ultima tragedia e a questo si riferisce il comunicato della Caritas che dice: «È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno». L’odio, appunto, che accende uno scontro sociale in questo Paese in cui le persone come don Roberto Malgesini rimangono schiacciate. «Era troppo buono, glielo dicevamo sempre», continuano a ripetere quelli che lo conoscevano e un Paese in cui essere buono diventa una colpa, un’esposizione rischiosa, perfino una presunta causa di pericolo è un Paese che dovrebbe deporre le armi e interrogarsi a fondo. Ma anche questa volta non accadrà. Sicuro.

Tiziana Paolocci per il Giornale il 17 settembre 2020. «Il prete faceva parte di un complotto contro di me». Ridha Mahmoudi, 53 anni, il tunisino che due giorni fa ha massacrato a coltellate in strada a Como don Roberto Malgesini, ieri non è apparso minimamente pentito davanti agli agenti della squadra mobile, che l' hanno interrogato. L'assassino, confuso e spaventato, ha rivendicato con una freddezza disarmante l' omicidio del religioso, per tutti «il sacerdote degli ultimi», che anche martedì mattina, poco prima dell' aggressione mortale, stava raggiungendo piazza San Rocco per portare la colazione ai senzatetto, come faceva da sempre. «Don», così lo chiamavano i poveri che assisteva, aveva aiutato spesso anche il suo carnefice. Sul tunisino, allo stato delle indagini, non è emersa alcuna perizia che confermi un problema psichiatrico. Eppure l' interrogatorio dell' uomo, che ha passato la maggior parte della sua esistenza da irregolare in Italia, è stato tutt' altro che semplice e i rari momenti di lucidità hanno lasciato il posto a momenti di follia, in cui vaneggiando ha ammesso la mattanza del sacerdote. «È morto come un cane - ha raccontato orgoglioso Mahmoudi -. È giusto così». Ma cosa abbia armato la mano del killer non è chiaro. Di certo il tunisino voleva uccidere e sarebbe arrivato a rivolgere il coltello contro chiunque, magari lo stesso giudice di pace davanti al quale avrebbe dovuto presentarsi proprio martedì per rispondere di essere rientrato clandestinamente in Italia nonostante l' espulsione. Al pubblico ministero Massimo Astori, che ha condotto l' interrogatorio, ha chiarito però che non esiste alcun movente religioso. «Mi seguono dappertutto e per questo a giugno ho comprato un coltello», ha blaterato convinto di essere spianto e seguito da mesi. Era sicuro che don Roberto, il prefetto di Como, i giudici, perfino i suoi avvocati e i medici che avevano firmato la perizia escludendo che la sua malattia agli occhi fosse incompatibile con l' espulsione, facessero parte di un complotto per mandarlo via dall' Italia. Alle autorità italiane e all' ambasciata tunisina aveva inviato documenti e dossier terrorizzato dall' ipotesi di dover tornare in Tunisia. Il suo legale, Davide Giudici, ha fatto già sapere che chiederà sul tunisino una perizia psichiatrica. «È una persona che soffre di un disagio psichico - ha sottolineato l' avvocato - se poi questo abbia influito sulla sua capacità di intendere e di volere e su quello che è successo ieri credo che lo debba stabilire una perizia. Credo che anche la Procura si muoverà in questa direzione». Inizialmente la vita del tunisino era stata regolare, ma dal 2015 aveva collezionato sei denunce per violazione della legge sull' immigrazione. E quando aveva divorziato dall' italiana che aveva sposato nel '93, gli era stato revocato il permesso di soggiorno inizialmente concesso per motivi familiari. Così aveva presentato appello al Giudice di Pace contro tutte le espulsioni, una dopo l' altra. La prima espulsione, nel 2015, era stata annullata nel 2017 per un problema che aveva avuto agli occhi. In seguito, però, una perizia medica aveva stabilito che la malattia poteva essere curata anche in Tunisia, dando così il via libera all' allontanamento, non eseguito ad aprile a causa del lockdown legato al Covid. Ma ora la storia si chiude e oggi il tunisino comparirà davanti al giudice per le indagini preliminari per l' udienza di convalida dell' arresto.

Prete ucciso a Como, il tunisino ritratta: "Non sono stato io". Ridha Mahmoudi, interrogato dal gip nel carcere di Como, ha cambiato versione: "Non sono stato io a uccidere don Roberto". Il gip convalida l'arresto. Martina Piumatti, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. Quarantotto ore dopo ha già cambiato versione. Ridha Mahmoudi, il 53enne tunisino reo confesso dell'omicidio di don Roberto Malgesini, ha ritrattato e non ha voluto sottoscrivere il verbale dell'interrogatorio reso in questura, secondo quanto appreso dall'Agi da fonti investigative. Interrogato questa mattina nel carcere del Bassone (Como) dal giudice per le indagini preliminari ha negato di aver ucciso il sacerdote. "Non sono io l'autore del delitto, non c'entro nulla" ha detto di fronte al gip. Appena due giorni fa il 53enne si era costituito ai carabinieri ammettendo il gesto e fornendo dettagli e motivazioni. Don Roberto sarebbe stato colpevole di un complotto ordito per rispedirlo nel suo Paese di origine. E per questo meritava di "essere ucciso come un cane", aveva specificato. Adesso però le cose sarebbero andate diversamente. Nel corso dell'interrogatorio in carcere, Mahmoudi attribuisce tutta la colpa allo Stato. Insomma gli unici responsabili dell'omicidio sarebbero le istituzioni, in particolare il prefetto, colpevole di aver emesso due provvedimenti di espulsione a suo carico. Il primo in sospeso perché impugnato, il secondo non eseguito per via del blocco aereo causa coronavirus. Per il gip, come già anticipato ieri da fonti della questura di Como, l'uomo sarebbe capace di intendere e di volere. E dunque imputabile. Il dietrofront del tunisino sarebbe un cambio di strategia in corsa secondo l'assessore regionale alla sicicurezza Riccardo De Corato. "Il gip conferma che Radhi Mahmoudi, l'omicida di don Roberto Malgesini, è imputabile, cioè capace di intendere e di stare nel processo. Per tutta risposta, il tunisino, che probabilmente confidava nell'infermità mentale per farla franca, ha ritrattato affermando di non essere stato lui ad uccidere il sacerdote", ha commentato l'assessore. E a confermarlo sarebbero proprio le dichiarazioni del legale di Mahmoudi che sta già valutando la richiesta di una perizia psichiatrica del suo assistito, attualmente in isolamento al carcere del Bassone per precauzione anti contagio. "Valuteremo questo aspetto è probabile. Faremo una valutazione sulla base della convalida e se necessario presenterò istanze ai giudici ", aveva specificato l'avvocato Davide Giudici all'Adnkronos. queste le parole dell'ex vice Sindaco di Milano ed assessore regionale alla sicurezza, immigrazione e polizia locale, Riccardo De Corato in merito all'interrogatorio avvenuto questa mattina del senzatetto clandestino che si era costituito alle forze dell'ordine dopo l'aggressione. A condurre l'inchiesta il pm Massimo Astori, lo stesso che ha seguito le indagini della strage di Erba. Intanto stamattina la salma di don Roberto Malgesini è partita, su richiesta dei familiari, per Regoledo di Cosio (Sondrio), il paesino della Valtellina dove era nato e dove vivono i genitori e i tre fratelli. I funerali saranno celebrati dal vescovo di Como Oscar Cantoni. Il feretro, sempre su richiesta dei parenti, ha fatto una sosta davanti alla chiesa di San Rocco, dove il don viveva e dove 20 metri più in là, nella piazzetta, è stato ucciso. A salutare per l'ultima volta il prete degli ultimi, i fedeli e molti dei senzatetto che aveva sempre aiutato. Anche alle sette del 15 settembre quando è stato colpito a morte proprio da uno di quegli "ultimi".

Don Malgesini ucciso a Como: l’omicida voleva decapitarlo. Anna Campaniello il 20/9/2020 su Il Corriere della Sera. L’omicida di don Roberto Malgesini, il «prete degli ultimi» ucciso a Como martedì scorso, voleva decapitare il sacerdote. Il tunisino irregolare di 53 anni in carcere con l’accusa di omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione, avrebbe infierito sulla vittima, quando ormai era a terra dopo aver subito i primi colpi con un grosso coltello da cucina. L’ampia ferita al collo in particolare farebbe pensare a un tentativo di tagliargli la testa, poi non portato a termine. L’ipotesi, secondo quanto rivelato dall’agenzia Agi, sarebbe indicata nell’ordinanza di convalida dell’arresto del tunisino, Mahmoudi Ridha, firmata dal giudice dopo l’interrogatorio in carcere del 53enne. Il gip farebbe riferimento ai primi riscontri dell’autopsia effettuata sul corpo del sacerdote dall’anatomopatologo Giovanni Scola. Il medico, incaricato dalla procura, avrebbe riscontrato un’ampia ferita al collo «che appare suggerire un tentativo di decapitazione non portato a termine per la volontà di resecare il piano osseo della colonna vertebrale». Nell’interrogatorio davanti al giudice, Ridha ha cambiato versione rispetto alla confessione resa poche ore dopo l’omicidio di don Roberto Malgesini e ha ritrattato, negando di averlo ucciso. Martedì scorso invece aveva ammesso di aver colpito a morte il sacerdote e anzi aveva rivendicato l’aggressione, indicando il prete che lo aveva sempre aiutato come uno dei responsabili di un fantomatico complotto per allontanarlo dall’Italia del quale il tunisino si sente vittima. Il 53enne avrebbe detto di voler colpire anche gli avvocati che lo hanno assistito e che non avevano fatto annullare l’ordinanza di espulsione. Per l’accusa dunque, Mahmoudi aveva pianificato l’omicidio, tanto che gli viene contestata la premeditazione. Dopo la convalida dell’arresto, Ridha nelle scorse ore è stato trasferito dal carcere di Como per il timore di ritorsioni dei detenuti, che conoscevano e apprezzavano don Roberto.

Un'immigrazione senza muri: ecco il piano di papa Francesco. Papa Francesco è il pontefice degli "ultimi", quindi anche dei migranti. Ma la destra ecclesiastica non ci sta e rilancia contro il multiculturalismo. Francesco Boezi, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale.  Quante volte papa Francesco ha lanciato appelli in favore dei migranti nel corso di questi primi sette anni di pontificato? In alcune circostanze, Jorge Mario Bergoglio ha parlato di gestione dei fenomeni migratori in senso "aperturista" per più giorni, all'interno della stessa settimana. Le medie riguardanti queste occasioni, per via delle tante volte in cui un pontefice si esprime in pubblico o no, con dichiarazioni o commenti ufficiali o no, sono difficili da calcolare ma, nel caso in oggetto della tutela dei migranti e dunque della necessità della loro accoglienza, per Jorge Mario Bergoglio sono alte. Coloro che cercano rifugio sulle nostre coste, provenendo da quelle che il Santo Padre chiama "periferie economico-esistenziali", abitano certamente nel cuore della pastorale dell'argentino. L'ultimo monito è arrivato nel corso di un incontro con i primi cittadini delle realtà italiane più interessate dal fenomeno degli sbarchi, con Lampedusa ed il suo sindaco in prima linea: "...nessuno può rimanere indifferente alle tragedie umane che continuano a consumarsi in diverse regioni del mondo", ha detto il pontefice argentino, che poi ha continuato: "Lo scenario migratorio attuale è complesso e spesso presenta risvolti drammatici. Le interdipendenze globali che determinano i flussi migratori sono da studiare e capire meglio". E ancora, il niet: "Non accettiamo mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso". Sono argomentazioni che l'ex arcivescovo di Buenos Aires usa presentare sin da poco dopo l'elezione al Conclave. Una pastorale - quella di Francesco - che non è monopolizzata dal tema dei migranti, ma che certo riserva ai diritti di quest'ultimi uno spazio esteso. I cattolici conservatori vorrebbero che la Chiesa cattolica si occupasse più di spiritualità e meno di questioni che attengono alla politica. Anche la gestione dei fenomeni migratori farebbe parte del paniere di competenza del legislatore. A questa argomentazione, si ribatte di consueto con gli insegnamenti del Vangelo. O almeno una larga fetta di base cattolica usa quella "difesa". Ma non basta: i tradizionalisti continuano a criticare Francesco per la continuità con cui questo tema viene posto. Nel 2019, Bergoglio ha lanciato una quarantina di appelli in metà anno. Giusto per fare un esempio. Poi c'è la macro-questione del "diritto a emigrare": la destra ecclesiastica si è schierata con Joseph Ratzinger e con il suo "diritto a non emigrare". Benedetto XVI non è stato un papa sovranista, ma Ratzinger non poneva il tema dei migranti con la stessa cadenza con cui lo pone Francesco. Anzi, l'emerito durante il suo pontificato, ha spiegato come, in primis, debbano essere garantite le condizioni affinché una persona possa restare, e lavorare, nella propria patria. Una differenza che i conservatori non fanno fatica a sottolineare, mentre i progressisti rimarcano come la tipologia pastorale di Bergoglio sia prossima agli "ultimi", com'è peraltro proprio dell'Ecclesia. Lo scontro tra gli "schieramenti" non è relativo soltanto a questo ambito, ma attorno alla linea del vescovo di Roma sui migranti ruota parte della dialettica contemporanea degli ambienti culturali, politici e comunicativi, siano essi ecclesiastici o no.

Perché Bergoglio parla sempre di migranti. Come mai la pastorale del vertice universale della Chiesa cattolica è così centrata su chi arriva in Occidente dalle "periferie economico-esistenziali"? Molti addetti ai lavori, in questi anni, hanno provato a fornire delle spiegazioni. Gli ambienti culturali della sinistra politica sono rimasti sorpresi: non si aspettavano di poter contare su un "alleato" così importante. E tanti radical chic hanno iniziato a simpatizzare per il primo pontefice sudamericano della storia. Ma Bergoglio è davvero di sinistra? Le letture divergono. C'è pure chi afferma che Francesco è un populista di sinistra. L'antropologo Roberto Libera, interpellato di recente da ilGiornale.it, ha allontanato qualunque etichetta ideologica associata al vescovo di Roma, ricordando la centralità del Vaticano II: "Uno dei motivi dell’apertura “a sinistra” che sembrava scaturire dalle decisioni conciliari era anche quello di conquistare degli spazi nel mondo del proletariato dominato dalle rivendicazioni comuniste. Ma vorrei chiudere con due riflessioni, a proposito dell’entusiasmo da parte progressista verso l’attuale pontefice, la prima è che in realtà le attenzioni verso i più deboli, i sofferenti, i diversi, sono parte integrante e imprescindibile dell’opera del Cristianesimo, fin dalle sue origini, anzi, costituiscono il messaggio rivoluzionario del Cristo stesso, questo avveniva qualche millennio prima della nascita dell’ideologia marxista; infine, mi permetto di affermare che sbagliano quanti sono soliti attribuire appartenenze di “destra” o di “sinistra” ai pontefici, la Chiesa opera su piani molto distanti da quelli politici, la sua visione del mondo deve essere, necessariamente, altra e alta rispetto alle contingenze della politica", ha dichiarato l'antropologo. Bergoglio, insomma, parlerebbe spesso di migranti per via di quanto scritto sul Vangelo.

La Chiesa cattolica ha aderito al "migrantismo"? Da parte tradizionalista, d'altro canto, sollevano polemiche per via della presunta adesione ad un'ideologia: il cosiddetto "migrazionismo" o "migrantismo". La dottrina che vorrebbe ogni muro abbatutto ed ogni frontiera divelta, in funzione di un globo terrestre non più basato sui confini. Nella interpretazione del maestro Aurelio Porfiri, cui ci siamo rivolti per dipanare i dubbi sul presunto "migrazionismo" della Chiesa contemporanea, qualche problema sembra persistere: " I fenomeni migratori sono certamente parte del cammino dell’umanità. Quello che dobbiamo chiederci se essi siano accettabili quando passano una certa misura, quando vanno a scontrarsi con difficoltà già presenti nei luoghi d’arrivo. E non tutte le migrazioni sono uguali. Roger Scruton diceva che “non tutte le culture sono tutte ugualmente da lodare e che non con tutte si può convivere pacificamente a fianco a fianco”. Poi arriva la fotografia del momento: "Questa consapevolezza mi sembra assente in alcuni settori della Chiesa attuale, per via di alcune “parole d’ordine” che con la scusa del Concilio vengono propalate a ogni piè sospinto e di cui parlo nel libro scritto con Aldo Maria Valli “Decadenza”, a cui rimando". Il "migrantismo", insomma, farebbe rima con il multiculturalismo. E il Vaticano II non basterebbe a giustificare certe tendenze, che non sarebbero proprie del pontefice, bensì di "alcuni settori". Questo, almeno, secondo l'opinione di Porfiri che, oltre ad essere un compositore ed un maestro di coro, è anche un editore ed un autore.

La vicinanza della Chiesa di Bergoglio alle Ong. "Muri" e "confini" non piacciono all'ex arcivescovo di Buenos Aires, che preferisce un mondo aperto. La nave di Sea Eye sostenuta dalla Chiesa cattolica è forse il simbolo più evidente: il "popolo" delle Ong è parte integrante del "popolo di Francesco". Ma di casi simili ce ne sono stati altri. Come quello della donazione del cardinale teutonico Reinhard Marx. La "Chiesa in uscita" promossa da Jorge Mario Bergoglio è tanto vicina alle Ong pro migranti da essere accusata di essere diventata a sua volta qualcosa di simile ad una Ong. Del resto, il pontificato di Francesco è quello dei migranti. Diventa legittimo domandarsi il perché filosofico di questa spinta. Il professor Renato Cristin, professore di ermeneutica filosofica all'Università di Trieste, non ha dubbi: "Bergoglio ha portato in Europa la visione anti-occidentale della teologia della liberazione, che ha come obiettivi socio-politici la distruzione di quello che essa chiama "l’uomo nord-atlantico" e la creazione dell’uomo nuovo. E i migranti oggi sono funzionali a questo obiettivo, sia perché permettono la sostituzione dell’uomo europeo sia perché rappresentano il concetto di povertà, che è il principale cardine teologico-politico di Bergoglio. L’avversione bergogliana al sistema capitalistico trova infatti nei migranti una sponda non solo simbolica ma anche operativa". E il processo di trasformazione della Chiesa in una Ong a che punto è? Il professor Cristin ci racconta di come sia già avvenuto: "Con Bergoglio, la Chiesa è già diventata una Ong: una trasformazione coerente con la logica di una "Chiesa povera per i poveri"". E la "base"? Perché molti reagiscono con scontentezza? "Ovvio che la gran parte dei fedeli, in Italia e in Europa, si senta a disagio in questa situazione imposta da Bergoglio, e la stessa sensazione prova una parte non marginale del clero, al punto che in un paese di radicata tradizione cattolica come la Polonia, fedeli e clero hanno sui migranti una posizione opposta: chiusura totale, perché vedono nell’accoglienza indiscriminata l’inizio della distruzione della civiltà europea", ha concluso Cristin.

Chi ha occupato spazi "grazie" a questo pontificato. Non si tratta soltanto di messaggi scagliati contro la cattiva distribuzione delle risorse, che sarebbe dovuta alla presunta ed altrettanto cattiva gestione dei processi legati alla globalizzazione, ma anche di disegnare il futuro del cattolicesimo sulla base delle istanze portate avanti in questi sette anni: i conservatori ne sono sicuri. Il Papa avrebbe dunque premiato quei consacrati "fedeli alla linea", e poco inclini a criticare chi pensa che i porti debbano essere sempre aperti a tutti. Un caso di specie sarebbe di certo rappresentato dalla sostituzione nella diocesi di Ferrara-Comacchio di monsignor Luigi Negri, considerato conservatore, col vescovo Giancarlo Perego, della fondazione Migrantes. Ogni papa, del resto, organizza la Chiesa "a sua immagine e somiglianza". Più in generale, sembra vero che correnti dottrinali e gruppi, più o meno politicizzati, di sacerdoti abbiano acquisito spazio comunicativo nel corso di questo settennato. Ambienti ecclesiastici che, durante il regno di Joseph Ratzinger, non avevano grosse possibilità di emergere e che sarebbero invece emersi, distribuendo anche opinioni dal tenore politico. Più che di sigle associative, dunque, si parla di uomini e delle loro espressioni. Quelle che vertono anche sull'ideologia. Per illustrare la situazione, basta citare l'attivismo dei "preti di strada": dai "digiuni a staffetta" contro l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini agli attacchi subiti dallo stesso per via dell'utilizzo del rosario in campagna elettorale. Sarebbe avvenuto anche con un altro pontefice ed un altro "clima"? Difficile rispondere a questa domanda senza le evidenze storiche.

Il caso dei finanziamenti di Open Society alle fondazioni dei gesuiti. Stando a quanto riportato da Marco Tosatti nel suo blog Stilum Curiae qualche giorno fa, un altro collegamento potrebbe essere operato tra la "Chiesa in uscita" e i fautori di un mondo privo di confini: "Tre enti di beneficenza gesuiti hanno ricevuto negli ultimi anni più di 1,5 milioni di dollari da Open Society Foundations, la fondazione del magnate pro-choice George Soros. La Jesuit Refugee Service Foundation ha ricevuto 176.452 dollari nel 2018 per “sostenere il lavoro del beneficiario sui diritti dei migranti” in America Latina e nei Caraibi", si legge nelle prime righe del testo, che è ripreso da un'inchiesta di Aciprensa. I gesuiti odierni sono per lo più "aperturisti" in materia di fenomeni migratori. Il pontefice regnante, che è un gesuita, non può essere chiamato in causa da un punto di vista politico, ma ha più volte espresso simpatie nei confronti dell'universo che comprende le Ong. E questo, con buone probabilità, deriva anche, nella disamina del pontefice, da un "vuoto" che sarebbe stato lasciato dalla politica.

L'ultimo appello di Francesco. Nell'udienza all'organizzazione Snapshot from the Borders, Bergoglio ha espresso pure quanto segue: "La comunità internazionale si è fermata agli interventi militari, mentre dovrebbe costruire istituzioni che garantiscano uguali opportunità e luoghi nei quali i cittadini abbiano la possibilità di farsi carico del bene comune (...). Nel contempo - ha proseguito il Santo Padre, nel corso del suo intervento -, non accettiamo mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso (...). Certo - si legge su quanto ripercorso pure dall'Agi - , l'accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia, è impensabile poterlo affrontare innalzando murì. Di fronte a queste sfide - ha continuato - , appare evidente come sono indispensabili la solidarietà concreta e la responsabilità condivisa, a livello sia nazionale che internazionale. 'L'attuale pandemia ha evidenziato la nostra interdipendenza: siamo tutti legati, gli uni agli altri, sia nel male che nel bene. Bisogna agire insieme, non da sol". In questo senso, l'universo Ong, in specie quello che sarebbe dedito ad evitare le tragedie in mare, riuscirebbe a sanare un gap che sarebbe dipeso dal non interventismo delle istituzioni.

 “Dio ci chiede di sbarcare”, dice Papa Francesco. Ma sul Catechismo c'è scritto tutt'altro. Andrea Cionci su Libero Quotidiano l'1 agosto 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. In molti si chiedono come mai i cittadini italiani vengano sottoposti a stretta sorveglianza, addirittura sorvegliati con droni e app, mentre decine di immigrati infetti vengono fatti sbarcare in Italia senza la minima precauzione e poi, “saggiamente” disseminati qui è là sul territorio nazionale, pur sapendo che molto facilmente, come riporta la cronaca, si daranno alla macchia. Il rischio è che, dopo tanti sforzi, massacranti per l’economia, questi possano diffondere nuovamente il virus. Ma ciò di cui vogliamo parlare è l’inspiegabile lontananza che esiste tra ciò che scrive il Catechismo in materia di immigrazione e ciò che Bergoglio ripete instancabilmente circa il “nuovo dogma dell’accoglienza”.  Dopo aver inserito una nuova litania sulla Madonna, Maria solacium migrantium, sollievo dei migranti”, tre settimane fa, Francesco affermava: “E’ Dio che ci chiede di poter sbarcare”. Siamo sicuri? No, perché ecco cosa c’è scritto all’art. 2241 del Catechismo della Chiesa, fino a prova contraria il “libretto di istruzioni” della fede cattolica: “Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL POSSIBILE, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l'ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono SUBORDINARE l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al RISPETTO DEI DOVERI DEI MIGRANTI nei confronti del paese che li accoglie. L’IMMIGRATO E’ TENUTO A RISPETTARE CON RICONOSCENZA IL PATRIMONIO MATERIALE E SPIRITUALE DEL PAESE CHE LO OSPITA, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri”. Emergono diverse condizioni sull'accoglienza – e molto precise fra l’altro -  già in questo documento scritto nel 1992, in un periodo in cui l’immigrazione non aveva ancora nemmeno raggiunto i livelli parossistici di oggi. Strano. Il testo dice quindi che i migranti devono essere accolti “nella misura del possibile”, solo in condizioni di emergenza per la loro sopravvivenza. E qui, simbolo monumentale del migrante economico proveniente da paesi sicuri, siamo arrivati ai tunisini che sbarcano coi barboncini e i trolley. Inoltre, le autorità politiche hanno tutto il diritto, secondo il Catechismo, di sospendere il diritto di immigrazione se i migranti non si comportano bene. (Strano che Salvini, al posto del rosario, non abbia brandito il ponderoso volume per giustificare le sue scelte da ministro). Il problema è che lo stesso Capo della Polizia Gabrielli ha dichiarato, nel 2019, che un terzo dei reati è commesso da stranieri. (Crediamo non si riferisse ai turisti giapponesi, ma più probabilmente ai migranti). Siccome gli stessi sono il 12% della popolazione residente in Italia, stando a Gabrielli, uno straniero è mediamente e statisticamente 3,5 volte più “pericoloso” di un italiano. (I tassi di reato pro-capite infatti sono rispettivamente di 0,76 per un italiano e di 2,664 per uno straniero residente in Italia). Non si discute. Quindi non si capisce su quali basi teologico-dottrinali Bergoglio poggi le sue posizioni sull’immigrazione, anche a fronte dei nuovi e più gravi rischi per la salute pubblica. I suoi avversari individuano, piuttosto, una precisa strategia a favore del Nuovo Ordine Mondiale, un disegno tradizionalmente ritenuto di matrice massonica che prevederebbe il superamento del concetto di nazione sovrana: tutte le frontiere dovranno dissolversi per la libera circolazione delle merci e delle genti. Qualsiasi entità politica che rimandi al concetto di nazione deve essere ostracizzata e assimilata al Nazifascismo. Bergoglio ha spesso citato, in difesa delle sue posizioni sull’immigrazione, la parabola del Buon samaritano che aiutò un giudeo ferito anche se non era un suo compatriota, ma apparteneva a una etnia considerata quasi nemica in Samaria. A parte il fatto che il buon samaritano pagò di tasca propria l’albergo al giudeo ferito, senza imporlo in casa ai propri familiari e poi rispedendolo per conto suo, qui si devono fare i conti con un Catechismo che invece ha già messo specificatamente a fuoco la questione immigrazione, anche basandosi sulla dottrina dell’”ordo amoris”, ovvero sull’ordine con cui il cristiano deve amare il suo prossimo. (Se si deve amare tutti nella preghiera e nelle intenzioni, nella attività materiale questo non può avvenire nella stessa misura perché le risorse (tempo, denaro, spazio) sono limitate. E così occorre seguire una gerarchia di priorità). Quindi la posizione di Bergoglio appare in aperta antitesi con quanto scritto sul Catechismo.  Qualcuno ci spiegherà perché? Temiamo di no.

 “Maria sollievo dei migranti”. Bergoglio cambia le Litanie: sfregio ai suoi oppositori? Su quali basi dottrinali? Il Catechismo raccomanda tutt'altro sui migranti, ma lo sanno in pochi. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, ha svolto reportage dall'Afghanistan e dal Libano. Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Con papa Benedetto a Ratisbona, la prima iniziativa di Bergoglio è stata quella di inserire nelle Litanie Lauretane (che si recitano alla fine del Rosario) tre nuove invocazioni alla Madonna: "Mater misericordiae" (Madre della Misericordia), "Mater spei" (Madre della Speranza", e "Solacium migrantium" (aiuto, soccorso, sollievo dei migranti). Giusto ieri, avevamo citato - con preoccupazione - il fatto che l’idea fissa per i migranti di Bergoglio venga spesso accostata dai suoi oppositori all’agenda del Nuovo Ordine Mondiale, un presunto complotto satanico-massonico che avrebbe tra i suoi principali obiettivi, appunto, l’implementazione massima dell’immigrazione: leggi qui. Non abbiamo fatto in tempo a scriverlo, che è uscita l’ultima novità. E non ci aiuta granché nel difendere Francesco, anche perché la cronaca riserva proprio in questi giorni fatti tristissimi con protagonisti gli stranieri. Subito, in quella minoranza cattolica “ortodossa” di cui Libero è quasi l’unico giornale a scrivere, sono esplose  una serie di contestazioni: “Consolatrice degli afflitti c'è già – scrive Francesco B. su Facebook  - allora si dovrebbe aggiungere ad esempio: - rifugio dei senza tetto - sostegno dei disoccupati - consolatrice degli emarginati - fiducia degli indebitati - augurio dei compleanni - ecc. Ma si aggiunge solo questo perché Bergoglio deve battere il chiodo dei migranti, deve fare politica e contribuire all'islamizzazione dell'Europa”.

Pesante. Molte le dimostrazioni di delusione nei confronti del Card. Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino che, pur essendosi dimostrato fino a poco tempo fa un baluardo contro le innovazioni bergogliane, da qualche tempo sembra essersi arreso completamente. Nel 1917, papa Benedetto XV, per la Grande Guerra, aveva aggiunto ai titoli di Maria “Nostra Signora della Pace”, e una settimana dopo apparve la Madonna a Fatima. Negli anni ’60 , Paolo VI aggiunse “Madre della Chiesa” per sostenere il Concilio Vaticano II (e la Madonna non apparve). Giovanni Paolo II ha associato “Regina della famiglia”, durante il suo pontificato. Si tratta di soggetti che possiedono tutti un valore spirituale intrinseco così come i profeti, le vergini, i martiri, gli infermi, i cristiani, di cui Maria è detta protettrice nelle Litanie, soggetti “innocenti” e densi di significati spirituali. E’ pur vero che la Vergine è anche rifugio dei peccatori, ma si intende, ovviamente, quelli penitenti. E’ quindi paradossale che, mentre nessun papa si è mai pronunciato contro la Pace, la Chiesa o la Famiglia, sia Wojtyla che Ratzinger parlassero, invece, del diritto a NON emigrare, on una visione opposta a quella di Bergoglio. Stupisce anche che la Madonna possa essere il “sollievo dei migranti” che, come noto, sono in buona parte ISLAMICI. E’ vero che, nell’Islam, Maria è considerata una delle quattro donne “eccellenti”, ma allora perché alcuni anni fa, a Perugia, dei migranti  distrussero una Sua statua, per giunta orinandovi sopra? Non sembra nemmeno che nei centri di accoglienza gestiti da preti cattolici si proceda a “battesimi di massa” o a particolari evangelizzazioni tali da giustificare particolari invocazioni dei migranti verso Maria. Forse perché Bergoglio ha dichiarato nel 2013 che il proselitismo è “una solenne sciocchezza senza senso”? La divinizzazione dei migranti è una cifra talmente personale di Bergoglio che uno zelante gesuita cecoslovacco, Michael Czerny, creato cardinale da Bergoglio, ha inserito nel proprio stemma ecclesiastico un barcone carico di omini neri. Per non parlare dei presepi con chiatte e gommoni, delle “improvvisazioni nautiche” a Messa degli ultimi anni che rievocano il più esplicito monumento ai migranti eretto nel 2019 in Piazza San Pietro.  

In tale neo-culto dei migranti è difficile però trovare una chiara spiegazione dottrinale cattolica. Infatti, il Catechismo  all’art. 2241, recita: «Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero nella misura del possibile. Le autorità politiche, in vista del bene comune, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L'immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». Quindi, è un fatto: il Cattolicesimo non impone nessuna accoglienza “senza se e senza ma”, bensì legittima completamente lo Stato nazionale, in vista del bene comune, a operare distinzioni e chiusure dei confini. Su questo è ora di fare finalmente luce, o di cambiare il Catechismo. Obiettivamente, non c’è nulla di particolarmente spiritualizzante nel migrare, come invece nel profetizzare, nel farsi martiri, nel soffrire per malattia o nel pentirsi dei peccati. Migrare è un’azione come un’altra, tanto che lo si può fare perfino per meri motivi economici o per voluta colonizzazione demografica. La realtà, poi, ci mette del suo: il Capo della Polizia Gabrielli, in ottobre, certificava come statisticamente, su tre reati, due sono commessi da stranieri. E il trend è pure in crescita. Anche la matematica si rivela spietata: se un terzo dei reati, stando a Gabrielli, è commesso dagli stranieri che sono il 12% della popolazione residente in Italia, significa che uno straniero è mediamente e statisticamente 3,5 volte più “pericoloso” di un italiano. ( I tassi di reato pro capite infatti sono rispettivamente di 0,76 per un italiano e di 2,664 per uno straniero residente in Italia). Non si discute. Quindi perché la Madonna dovrebbe essere “soccorso” di una variegata categoria di persone, di cui in gran parte islamiche, che migra per i più svariati motivi e che incide così tanto sul crimine compiuto statisticamente in Italia? A quale titolo? Tra l’altro, proprio in marzo Bergoglio aveva lamentato il fatto che a Maria fossero stati tributati troppi titoli, tanto da negarle quello di Corredentrice. E ora perché ne aggiunge altri tre?

Sono tutte DOMANDE LEGITTIME.  I critici più feroci di Bergoglio ritengono che, dopo l’emersione della vicenda circa la presunta “falsa rinuncia” di Benedetto, si tratti di un suo “SFREGIO” ai sostenitori di Ratzinger che invece, hanno la caratteristica di essere particolarmente devoti alla Madonna e di contestare decisamente l’immigrazionismo bergogliano. Anche in questo caso, l’esperienza ci dice che non proverrà alcun chiarimento o replica dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma così facendo, purtroppo, si darà spazio alle peggiori supposizioni. E lo sdegno aumenta giorno per giorno, pericolosamente ingrossando le file dei credenti e dei religiosi che NON RITENGONO BERGOGLIO IL VERO PAPA. Inaudito: sono 7 secoli che non si parla di antipapi, i media fanno gli gnorri e il fenomeno viene ogni tanto minimizzato dalle gerarchie vaticane sempre con la solita risposta: “si tratta di una piccola minoranza di cattolici “tradizionalisti”, “bigotti” e “duri di cuore”. Siamo sicuri che sia la giusta strategia?

"Maria aiuto dei migranti? Meglio Evangelizzatrice". Per il Papa, Maria è "soccorso dei migranti". Ma alcuni sacerdoti non sono d'accordo. E non si nascondono. Francesco Boezi, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. Le nuove litanie decise da papa Francesco fanno discutere. Tra le novità apportate, c'è "Maria aiuto dei migranti". Per qualcuno non era necessario che Bergoglio inserisse quella espressione. Il termini "afflitti", per esempio, comprenderebbe già anche coloro che cercano rifugio sulle nostre coste. Insomma, è inutile girarci attorno: esiste chi pensa che quella litania sia il frutto di un pensiero ideologico. Quasi come se il Papa della Chiesa cattolica avesse voluto che la parola "migranti" entrasse a far parte di diritto delle invocazioni. Certo, Jorge Mario Bergoglio non si è limitato solo a quella litania: sono state introdotte anche "Mater spei" e "Mater misericordiae", ossia "Madre della speranza" e "Madre della misericordia". Ma in questi giorni si è parlato soprattutto di "Maria soccorso dei migranti". "Solacium", in latin,o ha più di un'accezione, ma in questo caso si intende associare la figura della Vergine all'ausilio fornito in favore degli "ultimi" e dei "penultimi" del globo terrestre. La pastorale di Francesco è chiara sul punto. A condire il quadro c'è il fatto che la notizia sia arrivata per mezzo di una comunicazione ufficiale firmata dal cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e per la Disciplina dei sacramenti. Sarah, che certo non è etichettabile, è considerato un "conservatore". Nel corso degli anni passati, il porporato africano ha espresso posizioni critiche sul tema dell'immigrazione. Ma la Curia romana è governata dal pontefice argentino. E questo è un elemento che non può non essere evidenziato. Quello che pensa Sarah, insomma, è relativo rispetto all'opinione del Papa quando si tratta di documenti contraddistinti dal crisma dell'ufficialità come questo sulle tre nuove litanie. Ma chi è che sta riflettendo su quanto disposto dal successore di Pietro? Monsignor Nicola Bux, per esempio, che abbiamo voluto sentire in merito, ha detto quanto segue: "Non dirò dell'amico Solazzo di cognome, che mi ha comunicato d'essere finito nella Litanie Lauretane! Dirò invece di una convinzione di Paolo VI: Montini non esiste più, è come morto. Cioè, il papa, come ogni ministro ecclesiastico, non insegna o addirittura impone la sua idea, ma la fede della Chiesa, altrimenti il magistero diventa ideologia". Il rischio sarebbe quello di rendere il magistero "ideologizzato'. Bux ha continuato: "Forse, chi ha suggerito l'idea della nuova invocazione mariana, scomparsa la classe operaia, vuole sostituirla col discusso fenomeno migratorio. Ma, una volta cessato il fenomeno, l'invocazione sarà tolta dalle Litanie? Se invece durasse indefinitamente, starà a ricordare la parola di Gesù: "i poveri li avete sempre con voi"? Forse, sarebbe stata più efficace l'invocazione: "Stella evangelizationis migrantium"? Questa, sì, un'azione propria e permanente della Chiesa, di cui Maria è immagine compiuta". Questa ratio è altrettanto cristallina: sarebbe stato preferibile un riferimento alla natura evangelizzatrice della Chiesa, dunque della Madre di Dio. A Monsignor Nicola Bux ha fatto eco don Alfredo Maria Morselli: "Avrei preferito 'Evangelizzatrice dei migranti', visto che oggi il flusso migratorio è soprattutto di islamici". Il sacerdote entra dunque a gamba tesa, per così dire, sul tema della fede di appartenenza di coloro che migrano in direzione del Belpaese, e non solo. Morselli chiarisce con una battuta: "Speriamo che non chieda agli angeli di trasferire una moschea in Italia per par condicio con la Santa Casa di Loreto". Quando Bux ha nominato "l'amico Sollazzo" si è riferito a padre Francesco Sollazzo, un altro consacrato che su "Maria soccorso dei migranti" sembra avere più di qualche dubbio. Il passionista, che è stato a sua volta contattato da IlGiornale.it, pensa che "Il primo pensiero che si è portati a fare, è che se ne siano introdotte tre per introdurne una, cioè l’ultima. Se essa fosse stata introdotta da sola, è facile immaginare che avrebbe incontrato molte più resistenze da parte dei fedeli cattolici". Ma non è tutto. Padre Francesco insiste: "La recente decisione della Santa Sede, infatti, sembra più rispondere ad una esigenza politica che non teologica, infatti l’immigrazione è un tema che occupa le discussioni politiche di questi tempi. Ed è proprio questo fatto che dà più perplessità". "Perplessità": questa è la parola attorno cui ruotano queste disamine. Ma il Papa e i vertici del Vaticano sono fermi sulle loro posizioni.

Migranti, l'appello dei cardinali: "Adesso aprite tutte le chiese". Tre cardinali hanno scritto ai vescovi d'Europa per ricordare la necessità evangelica di accogliere i migranti. La linea del Papa va seguita. Giuseppe Aloisi, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Se c'è una costante della pastorale cattolica odierna, questa è di certo la preoccupazione per le sorti dei migranti, che per buona parte delle alte sfere del Vaticano vanno accolti. Il "fronte progressista" non fa che sottoscrivere appelli volti a garantire l'ingresso a coloro che cercano rifugio sulle coste europee. Spesso, in questi anni, fedeli e non hanno chiesto alla Chiesa cattolica, magari con qualche polemica, di caricarsi i costi dovuti alla cosiddetta "linea dei porti aperti". Gli ecclesiastici, considerando le prediche, dovrebbero dare l'esempio. E dovrebbero farlo per primi. Tre cardinali sembrano aver preso alla lettera le rimostranze provenienti dal basso, chiedendo al resto del clero europeo di mettere a disposizione tanto le parrocchie quanto i monasteri del Vecchio Continente. Parliamo di tre consacrati di altro profilo. Si tratta del cardinale Jean Claude Houllerich, creato porporato da Bergoglio nell'ultimo Concistoro e già noto per le sue posizioni, del cardinale Konrad Krajewsky - l'elemosieniere di Papa Francesco che è stato ribattezzato "elettricista" per via del riallaccio di un contatore elettronico presso un'occupazione romana - , e del cardinale Michael Czerny, che è uno dei vice del cardinale Peter Turkson presso la Segreteria della Santa Sede che si occupa anche di migranti e migrazioni. Sono tre cardinali provenienti dall'Europa: uno è belga, l'altro è polacco e l'ultimo, per quanto abbia abitato per lo più in Canada, è originario della Repubblica Ceca. Per questo, il testo dell'invito, che è rivolto ad ogni singolo sacerdote, è stato inoltrato mediante il Comece, ossia la Conferenza episcopale dell'Unione europea. Le argomentazioni, stando a quanto riportato dall'Adnkronos, riguardano una problematica specifica, cioè la "situazione di drammatico sovraffollamento e di sofferenza nella quale si trovano oltre 20 mila profughi nell'isola di Lesbo e molte altre migliaia nei diversi hot spot della Grecia". Il Papa della Chiesa cattolica si è preso personalmente a cuore le condizioni di quei migranti. E i tre cardinali, per mezzo dell'appello reso noto oggi, non fanno che porsi in continuità con i messaggi lanciati in questi sette anni e mezzo dal Santo Padre. Ogni parrocchia d'Europa - questa è la sintesi - dovrebbe mettersi a disposizione per un nucleo familiare proveniente da Lesbo. E ogni realtà ecclesiastica europea, così facendo, alimenterebbe e coadiuverebbe la creazione dei "corridoi umanitari", sui quali Papa Francesco insiste da tempo. Lesbo può rappresentare il punto di partenza, la prima drammatica circostanza da risolvere. Poi, il medesimo esempio, potrebbe essere adottato per contesti similari. La "Chiesa in uscita" di Papa Francesco - è noto - non prevede chiusure a riccio. E i cardinali, scrivendo ai vescovi dell'Unione europea, lo hanno ricordato ad ogni sacerdote.

Immigrazione, Monsignor Mario Delpini: "Basta assistenzialismo con gli stranieri". Renato Farina su Libero Quotidiano il 29 Gennaio 2020. Arci-miracolo a Milano, visto che c' è di mezzo l' arcivescovo della Madonnina, l'innovazione al vecchio titolo del film di De Sica ci sta tutta. Al Pirellone, sede del Consiglio regionale, si aspettavano tutti, da monsignor Mario Delpini, una tirata alla Savonarola, una bastonatura al popolo ricco e ai suoi rappresentanti, com'è ormai costume dei pastori di grandi città europee ed italiane. Non è andata così. Non è stato neppure - sia chiaro - il ricamo elegante e colto di un adulatore. Tutt' altro. Si è usciti tutti come irrobustiti dalla voglia di fare, aprendo gli occhi dinanzi ad un' eredità che va riconquistata. Il titolo della lectio magistralis del dotto prelato è stato: «Elogio dell' umanesimo lombardo». Esso esige di essere all'erta. Ascoltarlo, per chi c' era, è stato come immergersi nelle acque sorgive così lombarde o nei laghi prealpini. Retorica asciutta, quotidiana e alta. Le sorgenti antiche dei padri sono state riproposte misteriosamente fresche e sempre nuove. La tensione operosa e «capace di stupore» dell'«identità lombarda» (ha pronunciato questa formula senza schifarla quasi fosse lessico sovranista) può sfidare senza esasperazione i problemi di oggi: che sono quelli che state pensando tutti. Non sono un'immaginazione dei preti. Riguardano la famiglia nella sua sostanza tradizionale, e nei suoi bisogni di casa, lavoro, educazione, meno tasse, occhio ai giovani.

CATTOLICESIMO LOMBARDO. Interessantissime, esposte con piglio originale e non colpevolizzante, le indicazioni date sull' immigrazione. Con un afflato ambrosiano, pratico, senza radicalismi che spaccano la gente in due partiti: i buoni e i cattivi. Invece: «Buon senso», che è il prodotto sapienziale del cattolicesimo lombardo, fatto proprio anche dagli spiriti laici e socialisti. Delpini ha fatto vibrare l' aula con questa descrizione della Lombardia: «Quando lo sguardo e il pensiero percorre il territorio della Regione, ne resta incantato, per la sua bellezza, per la varietà del paesaggio, per la entusiasmante ricchezza delle attività, per l' indole dei suoi abitanti, operosi, ingegnosi, inclini alla solidarietà e all' intraprendenza, con una radicata fiducia nella provvidenza di Dio e una imprevedibile capacità di stupore, sotto un cielo così bello quando è bello. La laboriosità creativa della nostra gente si è resa famosa per l' eccellenza dei suoi prodotti. Possiamo esserne fieri». La fierezza non chiama alla superbia, ma alla responsabilità e alla condivisione: «Non possiamo però ignorare il pericolo che la ricchezza comporta: diventa oggetto di un desiderio avido di possesso, diventa un idolo al quale sacrificare i principi dell' onestà, della legalità, dei valori dell' umanesimo lombardo». Occorre vigilanza per non consentire al cancro della corruzione di insediarsi nella società e nella politica. Qualche capitolo.

Famiglia. «Da tempo si chiede che la politica consideri la famiglia un bene irrinunciabile per la società e ne promuova la serenità, che si favoriscano anche fiscalmente le famiglie che generano figli, che la questione della casa, delle case popolari in particolare, sia adeguatamente affrontata».

Lavoro: «Occorre stimolare la politica nazionale, immaginando soluzioni regionali che, insieme a imprenditori, organizzazioni sindacali e associazioni, sappiano provocare quel salto di qualità che tante famiglie e tanti disoccupati o male occupati si attendono». Non astratto centralismo, ma concreto regionalismo comunitario, sussidiarietà, autonomia.

Immigrazione: «Dobbiamo liberarci dalla logica del puro pronto soccorso; dobbiamo andare oltre le pratiche assistenzialistiche mortificanti per chi le offre e per chi le riceve, anche oltre una interpretazione che intenda "integrazione" come "omologazione" (alla francese, ndr). Si tratta di dare volto, voce e parola alla convivialità delle differenze, passando dalla logica del misconoscimento alla profezia del riconoscimento. Siamo chiamati a guardare con fiducia alla possibilità di dare volto a una società plurale in cui i tratti identitari delle culture contribuiscano a un umanesimo inedito e promettente; siamo chiamati mostrare come le nostre tradizioni, la nostra identità lombarda e ambrosiana è così ricca di valori e dimensioni da dar vita a riedizioni inedite e inaspettate delle nostre radici».

CULTURA DEL LAVORO. Marchiamo questi concetti: non più pronto soccorso, basta assistenzialismo, ma integrazione che in Lombardia vuol dire cultura del lavoro. Identità nelle differenze. Come il risotto, scrisse Guido Piovene, dove i chicchi sono mantecati, uniti e però distinti. Integrati all' onda nel brodo lombardo. Con la solita umiltà, che giunse persino a individuare nel suo nome di battesimo, Mario, il segno della propria piccolezza, l' Arcivescovo si pone come «profeta minore», e si paragona non a Isaia o Elia, ma ritiene al massimo di immedesimarsi in un Carneade biblico, lo sconosciuto Aggeo terza fila della schiera biblica, che disse al popolo deluso e scoraggiato una meravigliosa sillaba esortativa: «Su!». Ecco Delpini mettersi su questa scia di semplicità: «Io mi permetto di rivolgermi a questa assemblea e al popolo di Lombardia con le sue stesse parole: "Su, ora coraggio, popolo tutto del paese, e al lavoro, perché Io sono con voi... il mio Spirito sarà con voi, non temete!". Quel patrimonio di valori, di stili di vita, di tratti caratteristici che ho chiamato umanesimo lombardo è un patrimonio di cui siamo riconoscenti, non nostalgici, è una risorsa per cui possiamo essere fiduciosi, non orgogliosi, è una responsabilità che impegna a servire e a condividere». Sul libro d' onore della Regione, che compie 50 anni, ha scritto: «Sono lombardo, figlio di lombardi, fiero dell' umanesimo lombardo e perciò umile, riconoscente, animato da senso di responsabilità, perché ho molto ricevuto da ogni cultura». Bello, c' è molto del cardinal Borromeo. Molto del Duomo di Milano. Che punta in alto con la guglia della Madonnina d' oro. Ma che non ha la verticalità radicale del gotico nord-europeo. La facciata è più larga che alta, unicità assoluta e milanese, le statue sono 3.600, senza confusione, senza "pastrugni", ognuno al suo lavoro.Renato Farina

Migranti, nuovo appello del Papa: "Accogliete i naufraghi esausti". Bergoglio torna a predicare accoglienza: "Siate sensibili ai tanti naufraghi della storia che approdano esausti sulle nostre coste". Sergio Rame, Mercoledì 08/01/2020, su Il Giornale. Un nuovo monito del Papa all'accoglienza sferza l'Unione europea. Un occasione dell'udienza generale in Aula Paolo VI, Bergoglio è infatti tornato a invitare i governi a "essere sensibili ai tanti naufraghi della storia che approdano esausti sulle nostre coste". "Anche noi sappiamo accoglierli con quell'amore fraterno che viene dall'incontro con Gesù", ha poi continuato il Santo Padre sottolineando che questo "salva dal gelo dell'indifferenza e della disumanità". Quindi, a questo proposito, ci ha tenuto a rendere omaggio all'accoglienza del popolo di Malta "i cui abitanti - ha detto - dimostrano una premurosa accoglienza. I maltesi sono accoglienti, sono un popolo buono". Quando all'inizio dell'Udienza generale, nell'aula Paolo VI, si è avvicinato per salutare i fedeli che lo stavano aspettando, c'è stato un simpatico siparietto tra Francesco e una suora. Come di consueto il Pontefice si è soffermato a stringere le mani e a benedire i rosari e altri oggetti. Percorrendo il corridoio che lo portava al palco, si è trattenuto davanti a una suora africana molto entusiasta che gridava "Viva il Papa!". E Bergoglio, che nei giorni scorsi è finito nella bufera per aver schiaffeggiato una fedele che lo aveva strattonato in piazza San Pietro (guarda il video), ha detto (ovviamente scherzando): "Tu mordi! Io ti do il bacio ma tu stai tranquilla.. Non mordere!". E poi ha baciato la suora. Poi, riprendendo il ciclo di catechesi sugli Atti degli Apostoli, ha incentrato la sua meditazione sul tema dell'accoglienza degli immigrati. "Non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi. La prova del naufragio: tra la salvezza di Dio e l'ospitalità dei maltesi", questo il titolo. Nel corso della catechesi, papa Francesco ha sottolineato che "la navigazione incontra fin dall'inizio condizioni sfavorevoli" ricordando che "il viaggio si fa pericoloso e si è costretti a sbarcare a Mira, salire su un'altra nave e costeggiare il lato meridionale dell'isola di Creta" e che "Paolo consiglia di non proseguire la navigazione, ma il centurione non gli dà credito e si affida al pilota e all'armatore". "Il viaggio prosegue e si scatena un vento così furioso che l'equipaggio perde il controllo e lascia andare la nave alla deriva - ha quindi continuato Bergoglio - quando la morte sembra ormai prossima e la disperazione pervade tutti, Paolo interviene. Egli è l'uomo della fede e sa che anche quel “pericolo di morte” non può separarlo dall'amore di Cristo e dall'incarico che ha ricevuto". Durante l'Udienza generale ha anche spiegato che nel Vangelo di San Luca viene mostrato come il disegno che guida Paolo verso Roma metta in salvo non solo l'Apostolo, ma anche i suoi compagni di viaggio: "Il naufragio, da situazione di disgrazia, si muta in opportunità provvidenziale per l'annuncio del vangelo". Al naufragio segue poi l'approdo sull'isola di Malta i cui abitanti, come ha ricordato lo stesso Pontefice, "dimostrano una premurosa accoglienza. I maltesi sono accoglienti, da quel tempo, sono un popolo tanto buono". In conclusione papa Francesco ha, infine, spiegato la morale: "Questa è una legge del Vangelo: quando un credente fa esperienza della salvezza non la trattiene per sé, ma la mette in circolo. Un cristiano “provato” può farsi di certo più vicino a chi soffre perché sa cosa è la sofferenza e rendere il suo cuore aperto e sensibile alla solidarietà verso gli altri".

Germania, cardinale Marx sotto accusa per soldi a ong pro-migranti. Marx era divenuto già nel 2018 e nel 2019 bersaglio di critiche per colpa delle sue donazioni a vantaggio di ong dedite al soccorso in mare. Gerry Freda, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Il cardinale tedesco Reinhard Marx è divenuto recentemente oggetto di feroci critiche in patria a causa di una sua donazione a vantaggio di una ong pro-migranti. L’arcivescovo di Monaco e Frisinga, riferisce Deutsche Welle, ha infatti versato 50mila euro nelle casse dell’organizzazione United4Rescue, supportata dalla Chiesa evangelica di Germania. L’associazione in questione, precisa l’emittente, è impegnata nel salvataggio di immigrati in mare e, negli ultimi mesi, aveva sollecitato donazioni per finanziare l’acquisto di una nave che solcasse il Mediterraneo in cerca di profughi da soccorrere. Il contributo elargito dal religioso, di conseguenza, rappresenta una risposta a tale appello lanciato dall’ong. Ad avviare la polemica nei confronti di Marx sono stati gli esponenti di AfD, che hanno esortato il cardinale a chiarire la provenienza di quel denaro e se la sua iniziativa aveva o meno il nulla osta degli appartenenti alla rispettiva diocesi. Ad esempio, Stephen Brandner, portavoce del partito nazionalista, ha pubblicato ieri su Twitter un atto di accusa all’indirizzo del porporato, in cui appunto esorta quest’ultimo a rivelare se i 50mila euro incriminati sono stati prelevati dalle offerte dei fedeli oppure costituiscono una donazione fatta dall’arcivescovo di tasca propria. Il documento redatto dal rappresentante di AfD prosegue tuonando: “Mi sentirei sconvolto se dovessi scoprire che le mie consistenti tasse pagate per trent’anni alla Chiesa cattolica siano servite a finanziare attività di soccorso in mare, poiché non è affatto mia intenzione favorire gli affari dei trafficanti di esseri umani”. Il testo posato sui social da Brandner denuncia quindi il fatto che la presenza nel Mediterraneo di navi di ong pro-migranti invoglierebbe “sempre più persone a tentare una traversata in mare suicida verso l’Europa”. Critiche a carico di Marx sono giunte, fa sapere sempre Deutsche Welle, anche da Johannes Huber, deputato del partito sovranista, che, citato dal network, ha rinfacciato al religioso di avere, donando 50mila euro a un’organizzazione votata al soccorso marittimo di stranieri, impiegato le offerte dei cittadini per uno scopo illegale, ossia per “alimentare il business dei trafficanti”. Una prima risposta alle accuse lanciate da AfD contro il cardinale è giunta, riporta l’organo di informazione, direttamente dall’arcidiocesi guidata dal religioso incriminato. L’ente ecclesiastico ha appunto comunicato che i soldi utilizzati da Marx a sostegno dei progetti umanitari di United4Rescue provengono da fondi speciali del bilancio diocesano. Tali riserve sono a disposizione del cardinale per essere destinate ad associazioni di beneficenza o per finanziare “interventi urgenti” e possono essere prelevate da Marx senza bisogno di fornire motivazioni dettagliate. A sostegno del porporato si è subito schierata la Chiesa evangelica tedesca, grande sostenitrice dell’ong beneficiaria di quei 50mila euro. Il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, a capo dell’organo direttivo della confessione protestante, ha infatti, sottolinea Deutsche Welle, elogiato il finanziamento elargito a United4Rescue dall’autorità cattolica, denunciando contestualmente di avere finora ricevuto “minacce di morte” per il suo attivismo a favore del soccorso in mare dei migranti. Non è la prima volta, ricorda l’emittente, che le donazioni effettuate da Marx diventano bersaglio di polemiche. Contestazioni analoghe erano appunto esplose nel 2018 e nel 2019, perché l’arcivescovo aveva accordato 50mila euro in ciascun anno a organizzazioni attive nei salvataggi marittimi.

Migranti morti in mare, Papa Francesco: "Vittime dell'ingiustizia di chi li respinge, bloccare le navi non serve". Le parole d'accusa del Pontefice durante l'incontro con un gruppo di rifugiati arrivati in Italia con i corridoi umanitari: "Siamo tutti responsabili del nostro prossimo. La nostra ignavia è peccato". La Repubblica il 19 dicembre 2019. "E' l'ingiustizia che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È l'ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. È l'ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare". Queste le parole di papa Francesco, che prende in mano e mostra un giubbotto salvagente di un migrante morto a luglio nel Mediterraneo, "un'altra morte causata dall'ingiustizia", dice. L'occasione è l'incontro con i rifugiati arrivati da Lesbo nelle scorse settimane attraverso i corridoi umanitari, ospitati dalla Santa Sede e dalla comunità di Sant'Egidio, durante il quale il Papa ha esitazione a scagliarsi contro le colpe di chi, indifferente, si gira dall'altra parte. "Bisogna mettere da parte gli interessi economici - avverte - perché al centro ci sia la persona, ogni persona, la cui vita e dignità sono preziose agli occhi di Dio. Bisogna soccorrere e salvare, perché siamo tutti responsabili della vita del nostro prossimo, e il Signore ce ne chiederà conto nel momento del giudizio". "Questo è il secondo salvagente che ricevo in dono - racconta Francesco ricordando l'impegno della Chiesa - il primo mi è stato regalato qualche anno fa da un gruppo di soccorritori. Apparteneva a una fanciulla che è annegata nel Mediterraneo. L'ho donato poi ai due sottosegretari della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Ho detto loro: 'Ecco la vostra missione!'". "Non è bloccando le navi che si risolve il problema - aggiunge il Pontefice - bisogna impegnarsi seriamente a svuotare i campi di detenzione in Libia, valutando e attuando tutte le soluzioni possibili. Bisogna denunciare e perseguire i trafficanti che sfruttano e maltrattano i migranti, senza timore di rivelare connivenze e complicità con le istituzioni". Tanta commozione durante l'abbraccio del Papa ai 33 profughi, in maggioranza afghani. Nel gruppo, due ragazzi, poi famiglie e donne vittime di violenza, una delle quali ha lasciato la figlia nel Togo e ha espresso il desiderio di potersi ricongiungere presto con lei. Una giovane afghana, appassionata di pittura, ha donato al Papa un ritratto dello stesso Bergoglio ricavato da una fotografia che l'elemosiniere Konrad Krajewski aveva lasciato in occasione di una precedente visita nel campo profughi di Lesbo. "La nostra ignavia è peccato - tuona Francesco - come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi e alle violenze di cui sono vittime innocenti, lasciandoli alle mercè di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo "passare oltre", come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano, il facendoci così responsabili della loro morte?". Alla fine dell'incontro è stata collocata una croce nell'accesso al Palazzo Apostolico dal Cortile del Belvedere in ricordo dei migranti e dei rifugiati. "Adesso - l'esortazione del Papa - guardando questo giubbotto e guardando la croce, ognuno in silenzio preghi".

Il Vaticano e Gesù? Giudeo, grazie a Dio! Mercoledì, 18 dicembre 2019, Nino Spirlì su Il Giornale, a Taurianova, 3.161 Km da Gerusalemme, Capitale di Israele. … e finiamola con questa sciocchezza che Gesù Nazareno fosse palestinese, immigrato, clandestino, rifugiato, senzatetto, eccetera eccetera… Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nacque, in Giudea, nella Famiglia di Giuseppe e Maria della stirpe di Davide, che non erano in fuga, ma si recarono a Betlemme per un normale censimento!

Matteo – Capitolo 1. I. NASCITA E INFANZIA DI GESU’.

Ascendenti di Gesù. [1]Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. [2]Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, [3]Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, [4]Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, [5]Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, [6]Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, [7]Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, [8]Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, [9]Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, [10]Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, [11]Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. [12]Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, [13]Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, [14]Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, [15]Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, [16]Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. [17]La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici.

Giuseppe assume la paternità legale di Gesù. [18]Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. [19]Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. [20]Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. [21]Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». [22]Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: [23]Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. [24]Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, [25]la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù.

Matteo – Capitolo 2. La visita dei Magi. [1]Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: [2]«Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». [3]All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. [4]Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. [5]Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: [6]E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele. [7]Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella [8]e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». [9]Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. [10]Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. [11]Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. [12]Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Luca – Capitolo 1. L’annunciazione. [26]Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, [27]a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. [28]Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». [29]A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. [30]L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. [31]Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. [32]Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre [33]e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». [34]Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». [35]Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. [36]Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: [37]nulla è impossibile a Dio». [38]Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l’angelo partì da lei.

La visitazione. [39]In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. [40]Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. [41]Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo [42]ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! [43]A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? [44]Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. [45]E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore».

Il Magnificat. [46]Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore [47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, [48]perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. [49]Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: [50]di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. [51]Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; [52]ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; [53]ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. [54]Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, [55]come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre». [56]Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Luca – Capitolo 2. Nascita di Gesù e visita dei pastori. [1]In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. [2]Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. [3]Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. [4]Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, [5]per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. [6]Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. [7]Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. [8]C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. [9]Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, [10]ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: [11]oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. [12]Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». [13]E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: [14]«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». [15]Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». [16]Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. [17]E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. [18]Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. [19]Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. [20]I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro... … leggiamoli, i Vangeli, leggiamoli…

·        Il Vaticano ed i poveri.

La casa dei poveri nel palazzo del Papa con vista su piazza San Pietro. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Sembrava destinato a diventare un hotel di lusso ma Francesco ha voluto offrirlo ai senzatetto. La Comunità di Sant’Egidio si occupa della gestione. Permesso, scusi l’invasione… «Ma le pare, si accomodi». È ancora presto ma Silvano è già infilato nel suo letto, in una stanza al terzo piano, dalla coperta spuntano un ciuffo di capelli radi e dei baffi distesi in un sorriso placido. Sta leggendo alla luce del comodino, maglia e pantaloni sono posati sul calorifero sotto la finestra, di là dai vetri appare il Colonnato del Bernini, scorre la gente che va a vedere il presepe in piazza San Pietro. «Bello, eh? Pensi che io passavo la notte sotto i portici, sa, davanti alla libreria. Quello è stato il mio posto per otto anni. Umido e freddo, come stasera. Ora invece mi sono appena fatto una doccia calda e domattina scenderò a colazione, s’immagini se sono contento, cosa vuoi di più?». Benvenuti a Palazzo Migliori, il nome della famiglia che lo aveva fatto costruire alla fine del Settecento e che nel 1930 donò la residenza nobiliare alla Santa Sede. Fino a un anno fa ospitava una casa alloggio per ragazze madri delle suore calasanziane, che nel frattempo si sono trasferite altrove. Restava questo edificio vuoto, soffitti lignei a cassettoni, pareti affrescate, pavimenti policromi. Un palazzo molto ambito, largo degli Alicorni 28, una delle posizioni più belle al mondo. Zona extraterritoriale, Stato vaticano. Dalla terrazza, oltre il Colonnato, si dominano la piazza, il Palazzo Apostolico, la Basilica, si ha la sensazione di poter allungare la mano e sfiorare la Cupola di Michelangelo. Sembrava destinato a diventare un hotel di lusso ma Papa Francesco ha deciso altrimenti e lo ha donato ai più poveri attraverso l’Elemosineria apostolica, affidandone la gestione alla Comunità di Sant’Egidio. Se gli si dice che una vista simile, a Roma, ce l’ha solo il Papa, Silvano agita la mano con noncuranza, «io ci ho pranzato quattro volte con il Papa, grazie a padre Corrado!». «Padre Corrado» sarebbe il cardinale polacco Konrad Krajewski, l’Elemosiniere di Francesco che la notte gira per Roma con viveri e coperte, i clochard della città lo salutano tutti così. Ogni martedì arriva qui con i volontari e, nella cucina del Palazzo, prepara il cibo caldo che la sera porta ai senzatetto intorno alle stazioni Termini e Tiburtina: la chiamano «la minestra del Papa», contiene ogni sorta di verdure fresche. «Ha visto com’è bello il Palazzo, eh?». Il cardinale ne parla al Corriere come fosse una cosa normale: «Ma è normale! Se lei è innamorato, che fa? Cerca di trovare e donare i fiori più belli del mondo. Noi vogliamo fare lo stesso con i poveri. E questo è il Vangelo puro. Attraverso la bellezza vogliamo ridare loro la dignità». Come quando radunò i clochard intorno a San Pietro e li portò a vedere gli affreschi di Michelangelo… «Sì, è lo stesso, con una differenza: la Cappella Sistina si può ammirare un giorno, qui invece si tratta di vivere, di tornare a un’esistenza normale anche attraverso un posto come questo. Il Santo Padre abita in una stanza d’albergo, a Santa Marta, e dona ai poveri un palazzo, un palazzo vero e proprio. Quando entra un ospite nuovo, a volte si guarda intorno ed esita, teme di essersi sbagliato! Questo significa ridare la dignità». Stasera ci sono venticinque persone, stranieri e italiani, «la capienza è di una trentina, ma ci prepariamo a ospitarne di più nei giorni dell’emergenza freddo», spiega Carlo Santoro, 57 anni, mentre gira le stanze al terzo e quarto piano per controllare se i caloriferi funzionano a dovere. È un funzionario di Palazzo Chigi, fa parte della segreteria del Comitato nazionale di bioetica. «Finito il lavoro mi tolgo la cravatta e vengo qui», sorride. Nella comunità di Sant’Egidio da quand’era un ragazzo, «ricordo che nell’84 venivamo qui fuori a portare i panini», è lui a dirigere il palazzo: «Si chiama così per volontà del Papa. Non vuole essere un dormitorio - siamo riusciti a fare entrare persone che dicevano: in un dormitorio non andrò mai - ma una casa per chi non ha casa. Una casa bella, molto bella. Ce lo ha detto Francesco, quando è arrivato per inaugurarla: la bellezza guarisce». Stanze singole, da due o tre letti, massimo quattro. Tredici bagni nuovi, ciascuno con la doccia. Pareti intonacate di fresco. Le lavatrici. L’ascensore. E il refettorio al secondo piano, non un salone ma diverse stanze con pochi tavoli a ridosso della grande cucina. In pochi mesi sono riusciti a sistemare il palazzo in tempo per la stagione fredda. Alle pareti quadri e opere regalate negli anni al Papa e che Francesco ha donato al palazzo. Tutto si regge grazie alle donazioni. «Anzitutto ci siamo preoccupati di dare loro una casa. Nel futuro vogliamo aprire un centro diurno al piano terra e al primo piano». Già si stanno preparando le sale con televisore, pc, libri, quotidiani. C’è una cappella per la preghiera. Il direttore sale a salutare gli ospiti che stanno cenando, «la mattina si fa colazione dalle sette alle otto, la sera si cena dalle 19», li saluta uno a uno, si informa delle varie necessità. Passa una volontaria, Maria Grazia, «Carlo, sai se Elena ha preso l’antibiotico?». Elena è una delle ospiti più anziane, 76 anni e la volontaria è un medico, la gente di Sant’Egidio dedica a poveri e anziani le ore libere dal lavoro. «L’essenziale è l’accompagnamento personale, avere cura di ciascuno», spiega Santoro. «Molti hanno scoperto di essere malati, anche gravi, e non lo sapevano. Vorremmo che questo fosse un luogo di passaggio, per aiutare le persone a transitare verso una nuova vita, rimettersi in piedi e trovare una situazione stabile, un lavoro». Chi ha vissuto sulla strada non ama parlare della propria storia. È per dimenticarla che è finito sul marciapiede. Frammenti di confidenze compongono scorci di vite spezzate dal dolore. Prima della perdita del lavoro o del tracollo economico ci sono separazioni, lutti, genitori o mariti o mogli o figli che d’improvviso lasciano il vuoto. Molti uomini non si sono più ripresi dalla morte della madre. Molti sono diventati alcolisti. «Da qualche tempo, sulla strada, troviamo sempre più donne». Accogliere, accompagnare, offrire un’altra possibilità. Tra i tanti volontari di Sant’Egidio, l’unico dipendente con uno stipendio è Marco, il custode, che si occupa un po’ di tutto e resta anche la notte. All’ingresso del palazzo c’è una foto di diverso tempo fa, mostra il pranzo per i senzatetto che la Comunità apparecchia ogni Natale dall’82 a Santa Maria in Trastevere, e tra gli ospiti di quella giornata ormai remota si vede anche lui.

Ecco un altro prete “rosso”: si allea con i centri sociali al grido «no a Salvini». Federica Parbuoni lunedì 24 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Non solo le intemerate di Don De Capitani. Ora l’invito a boicottare le leggi targate Matteo Salvini arriva esplicitamente anche dalle alte sfere vaticane: «Non tutte le leggi sono uguali e sono giuste. Ci sono delle leggi che un cristiano non può condividere proprio alla luce della fede». A parlare così è stato monsignor Paolo Lojudice, segretario della Commissione episcopale per le migrazioni, citando «l’obiezione di coscienza». Fra queste leggi alle quali ribellarsi ci sono anche quelle di Salvini? «Io direi di sì…», è stata la risposta il monsignore.

La strategia del Vaticano. Lojudice è stato intervistato dal Giornale, nel corso di un incontro organizzato dai movimenti per la casa al quartiere Eur di Roma. Insieme a lui c’era anche Andrea Alzetta, il fondatore di Action, meglio noto come “Tarzan”. E proprio Alzetta ha parlato di una precisa strategia vaticana. «Credo che il Papa si stia facendo promotore di un’alleanza tra le nuove povertà per costruire delle politiche che riducano le diseguaglianze e restituiscano i diritti alle persone», ha chiarito Tarzan.

Il precedente dell’elemosiniere. Un segnale in questo senso, del resto, era già arrivato forte e chiaro: l’intervento dell’elemosiniere del Papa, Konrad Krajewski, per riattaccare la corrente allo Spin Time Labs, l’occupazione di cui lo stesso Alzetta è animatore. Un intervento che fu difeso, si direbbe rivendicato, da Oltretevere. «Il gesto dell’elemosiniere è riuscito a ribaltare il racconto e a far vedere – ha raccontato Alzetta – che esistono persone che fanno dei lavori talmente mal pagati che non possono permettersi un affitto». E il risultato c’è stato. Tarzan ha rivelato che ora le istituzioni sono molto più disponibili nei confronti di quella occupazione (che al suo interno contempla anche numerose attività ludico-commerciali).

L’alleanza tra Vaticano e Action. Monsignor Lojudice poi ha chiarito che, in questa strategia di opposizione a leggi che loro giudicano sbagliate, «la cosa più importante è fare in modo di animare l’opinione affinché quella legge sia cambiata». Insomma, il Vaticano stringe un’alleanza politica con Action in chiave antigovernativa e lo ammette apertamente, inviando un suo messo a sancire il patto finora implicito. «Non è mio compito entrare nel merito, ma certamente i decreti sicurezza  su alcune cose lasciano un po’ perplessi. Bisogna affrontare queste questioni in maniera un po’ seria e non con slogan solo perché in questo momento – ha sentenziato Lojudice – si prendono più voti».

Elemosiniere del Papa riattiva la luce elettrica in uno stabile occupato a Roma. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Corriere.it. È stato monsignor Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, a calarsi nel vano del contatore sabato sera e a riattivare l’elettricità nel palazzo occupato Spin Time in via Statilia, nel quartiere Esquilino, staccato da una settimana. Prima, i contatti con Comune e Prefettura per cercare di ripristinare il rifornimento di acqua e luce, che però non avrebbero prodotto risultati. A quel punto, monsignor Krajewski si è presentato nel palazzo ex Inpdap dove vivono 450 persone, tra cui un centinaio di minori tutti scolarizzati, per portare doni ai più piccoli. Dopo averli incontrati, e aver constatato il profondo disagio degli occupanti, il cardinale è intervenuto nella cabina elettrica dove ha lasciato un biglietto, per assumersi la responsabilità del gesto. «E a chi gli diceva preoccupato: «Monsignore, ma è illegale!», ha risposto: «Siete qui illegalmente da 5 anni e adesso vi preoccupate?». Ha poi aggiunto: «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi». «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha stigmatizzato Krajewski. Appena reduce dall’isola greca di Lesbos, dove ha portato la solidarietà del Pontefice ai profughi visitando il campo di Moria, il cardinale Krajewski ha risposto così all’appello di due giorni fa degli occupanti dello stabile. «Siamo senza acqua e luce da tre giorni. Qui vivono 420 persone (tra cui 98 minorenni) e ci sono 25 realtà culturali. Ma non sarà certo il buio a fermarci. Questo è un appello alla città di Roma»: così, in una nota, dicevano gli attivisti di SpinTime Labs tra quanti occupano lo stabile ex Inpdap di via Santa Croce di Gerusalemme 55, incitando alla partecipazione «con torce e ogni fonte di luce possibile ad una serata a sostegno di chi si fa strada tra il buio creato da chi alimenta odio, razzismo e disparità». Lo stabile è stato occupato il 12 ottobre 2013 dal movimento «Action» a scopo abitativo. Oggi all’interno ci sono anche un’osteria, un laboratorio di birra artigianale, una falegnameria, una sala prove e «un punto di approdo, aperto a tutti, attento ai giovani, agli ultimi e ai più bisognosi». Secondo quanto appreso dagli occupanti, il Campidoglio non salderà le bollette della luce arretrate dovute, dopo che, nei giorni scorsi, la società di fornitura di energia, Hera, ha staccato la corrente per morosità. Sembra che il debito accumulato dal 2013 - anno di inizio dell’occupazione dell’ex sede Inpdap - sia di oltre 300 mila euro. E gli occupanti hanno organizzato un’assemblea pubblica per lunedì: «Chiediamo ancora il sostegno della città affinché a Spin Time la luce non si spenga più».

Roma, l'elemosiniere del Papa toglie i sigilli al contatore della luce nel palazzo occupato. Il cardinale Krajewski si cala nella centralina elettrica per ripristinare la corrente nell'immobile abitato da 450 persone, in via Santa Croce in Gerusalemme: gli occupanti hanno accumulato un debito di 300 mila euro. Il porporato: "E' stato un gesto disperato". Salvini: "Ora paghi gli arretrati". Arianna Di Cori il  12 maggio 2019 su La Repubblica. La scorsa notte la luce è tornata a Spin Time, nel palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme 55, a Roma, al buio e senza acqua calda da lunedì 6 maggio. Ma i problemi per le 450 persone che ci vivono - tra cui quasi 100 minori - non sembrano cessare. Mentre Comune e I Municipio sono in contatto con gli occupanti alla ricerca di una soluzione, per far fronte a un debito accumulato di 300 mila euro con la società fornitrice di energia, è intervenuta la Santa Sede. Come raccontano infatti gli attivisti, a staccare i sigilli e ripristinare la corrente elettrica è stato Konrad Krajewski, l'elemosiniere del Papa. "Il Cardinale è arrivato nel pomeriggio, ha portato regali a tutti i bambini e ha promesso che se entro le 20 non fosse stata ripristinata la corrente nello stabile l'avrebbe riallacciata lui stesso", spiegano gli occupanti. "E così è stato - continuano - Padre Konrad si è calato nel pozzo, ha staccato i sigilli e ha riacceso la luce. E si è preso, a nome del Vaticano, la piena responsabilità dell'azione con Prefettura e Acea". "Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. E' stato un gesto disperato. C'erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi", ha spiegato all'Ansa il cardinale Krajewski. "Non l'ho fatto perché sono ubriaco", ha aggiunto. Il porporato "è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone, tra cui numerosi bambini - riferiscono all'AdnKronos fonti vaticane vicine all'Elemosineria Pontificia - Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all'edificio", che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, "è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d'ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie". Lo stabile di via di Santa Croce è stato occupato 12 ottobre 2013 da Action a scopo abitativo. L'ex sede dell'Inpdap, da anni in abbandono, fu occupata, liberata ed aperta da subito per diventare la casa per centinaia di persone bisognose. Lo spazio è anche al centro di un progetto che i ragazzi di Scomodo stanno cercando di portare avanti per creare una grande casa aperta alla città 24 ore su 24. "Siamo increduli, quello che è successo la scorsa notte è qualcosa di incredibile, Non possiamo altro che ringraziare il cardinale", ha spiegato Paolo Perrini, presidente di Spin Time. "Il cardinale, che già in passato è stato nostro ospite perché viene a prendersi cura di anziani, malati e bambini che vivono nella struttura - ricostruisce quanto accaduto Perrini -, era arrivato nel pomeriggio di ieri, verso le 17, a bordo di un furgone carico di regali per i più piccoli. Sapeva che eravamo da tre giorni senza corrente. Appena giunto ha chiamato al telefono in prefetture e al Comune di Roma chiedendo di riattivare, entro le 20, l'energia elettrica altrimenti lo avrebbe fatto lui stesso. E così è stato. Alle 20:15 circa, il cardinale è tornato, ci ha spiegato che era competente di energia elettrica perché prima di prendere i voti, in Polonia, aveva lavorato nel settore, ha di nuovo chiamato le autorità cittadine per esplicitare il suo intento, poi si è calato nella buca dove c'è il nostro impianto di media tensione, ha attuato una serie di manovre, come si usa nel gergo tecnico, e la luce è tornata. Non so bene come abbia fatto, ma lo ha fatto". La corrente è stata riattivata attorno alle 22, ma immediatamente Areti spa, che gestisce l'infrastruttura per il gruppo Acea, si è accorta dell'anomalia ed è giunta sul posto scortata da alcune camionette della Polizia. Gli occupanti, al grido di "senza luce non si vive", hanno presieduto in massa la cabina elettrica fino alle 3 di notte circa, quando le forze dell'ordine hanno abbandonato lo stabile. E' stata indetta un'assemblea pubblica, domani alle 18 a Spin Time, per spiegare l'accaduto. Salvini: "Ora paghi gli arretrati". "Conto che l'elemosiniere del Papa, intervenuto per riattaccare la corrente in un palazzo occupato di Roma, paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate". Il leader della Lega Matteo Salvini interviene così, a un comizio elettorale a Bra (Cuneo), sul caso. "Penso che voi tutti, facendo sacrifici le bollette le pagate - dice rivolgendosi ai presenti -. Se qualcuno è in grado di pagare le bollette degli italiani in difficoltà siamo felici...".

Il cardinale che di notte distribuisce coperte ai poveri. Chi è Konrad Krajewski, l'elemosiniere polacco che ha tolto i sigilli al contatore del palazzo occupato a Roma e aveva rinunciato al suo appartamento per ospitare una coppia siriana. Paolo Rodari il 12 maggio 2019 su La Repubblica. Il cardinale Konrad Krajewski, 55enne polacco, elemosiniere di Sua Santità, ha preso sul serio l’incarico datogli da Francesco nel 2013. “La scrivania non fa per te, puoi venderla; non aspettare la gente che bussa, devi cercare i poveri”, gli disse al momento della nomina. E lui, fin da subito, si è adoperato in questo senso. Don Corrado, come lo chiamano tutti Oltretevere, gira di notte per le strade di Roma con un furgoncino carico di viveri, coperte, generi di prima necessità e li distribuisce ai senzatetto. Si deve a lui la creazione di una barberia sotto il colonnato si San Pietro, così l’installazione di alcune docce. Due anni fa, saputo dell’arrivo tramite i corridoi umanitari promossi da Sant’Egidio di una coppia siriana, Krajewski ha ceduto l’appartamento che il Vaticano gli aveva concesso in quanto dipendente. E si è trasferito in ufficio, all’ultimo piano della piccola palazzina in dotazione all’elemosineria entro le mura leonine. Per qualche settimana ha abitato in una stanza al pian terreno, dove sono conservate le pergamene che l’elemosineria compila con la benedizione apostolica a chi ne fa richiesta. Poi, lo spostamento a un piano superiore dove ha almeno garantita un po’ di privacy. “È una cosa normale, nulla di eccezionale”, raccontò allora Krajewski a Repubblica. Così scorrono le giornate del braccio destro del Papa per la carità. Tutte spese per gli ultimi, in giro per Roma, rispondendo nel limite del possibile alle esigenze di ognuno.

 “Don Corrado”, l’elemosiniere del papa: «I sigilli strappati? L’ho fatto per quei bimbi». Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Gian Guido Vecchi e Maria Egizia Fiaschetti su Corriere.it. Salvini sostiene che ora deve pagare le bollette arretrate, che ne dice? «Da questo momento, da quando è stato riattaccato il contatore, pago io, non c’è problema... Anzi, pagherò anche le sue, di bollette». Il cardinale Konrad Krajewski ride sereno, «vede, non voglio che diventi una cosa politica, io faccio l’elemosiniere e mi preoccupo dei poveri, di quelle famiglie, dei bambini... Intanto, hanno luce e acqua calda, finalmente. Adesso tutto dipende dal Comune, aspettiamo che riaprano gli uffici...». Quando Francesco, da poco eletto, lo chiamò a guidare l’Elemosineria apostolica — l’istituzione vaticana che coordina la carità del Papa è testimoniata dall’inizio Duecento in una Bolla di Innocenzo III — , gli raccomandò: «La scrivania non fa per te, puoi venderla. Non aspettare la gente che bussa, devi uscire e cercare i poveri». L’arcivescovo lo ha preso alla lettera. Polacco, 55 anni, la notte gira per Roma con un furgoncino bianco e distribuisce viveri, coperte, soldi, aiuti vari. Si devono a lui molti servizi per i senzatetto aperti intorno al colonnato di San Pietro: il barbiere, le docce, il presidio medico, i bagni pubblici, i pasti caldi. Ha accompagnato i clochard a pranzo col Papa, li ha portati al circo, mostrato loro la Cappella Sistina, perché non si vive di solo pane. Da tempo i poveri della capitale hanno imparato a chiamarlo semplicemente «don Corrado», molti di loro non sospettano neppure che sia un cardinale. Guai a chiamarlo «eminenza», del resto. Francesco gli ha dato la porpora l’anno scorso e lui sorrideva solo all’idea: «Scherza? Quando mi chiamavano “eccellenza” facevo pagare 5 euro per i poveri, adesso almeno 10...».

Che cos’è successo nel palazzo di Santa Croce in Gerusalemme?

«Mi assumo tutta la responsabilità. E non devo dare spiegazioni, c’è poco da darne. Ci ricordiamo cosa accadde l’ultima volta che ci fu un blackout a Roma? Mancò la luce per poche ore e fu un dramma. Ecco, adesso s’immagini cosa può significare restare senza luce per sei giorni. Ci sono quasi cinquecento persone, in quel palazzo, un centinaio di bambini...». 

Lo conosceva già? 

«Ma certo, sono elemosiniere, conosco la situazione da tanto tempo. Dal Vaticano mandavamo l’ambulanza, i medici, i viveri. Stiamo parlando di vite umane. Guardi, sono appena tornato da Lesbo». 

Dove ha guidato la delegazione vaticana in visita all’isola dove Francesco andò tre anni fa, nei campi profughi di Moria e Kara Tepe, portando i fondi perché la Caritas costruisca uno spazio giochi per i bimbi. Com’è la situazione là?

«Sono dei campi di concentramento. Eppure i soldi non mancano: sono le scelte che si fanno, il problema. E lì parliamo della periferia dell’Europa, i confini ai quali arrivano i profughi dalla Siria, l’Iraq, l’Afghanistan. La cosa assurda è che qui siamo nel cuore di Roma. Quasi cinquecento persone abbandonate a se stesse. Sarebbe bello combattere anche solo per una persona, si figuri 500». 

In un certo senso, anche quel palazzo è periferia…

«Sì, e non è certo l’unico caso. Sgomberi, famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere… Roma è anche questo, basta andare a farsi un giro nelle nostre stazioni. Dove sono finiti i diritti umani dell’Europa? Se qualcuno non capisce questo, provi a staccare la corrente a casa sua per qualche ora e vedrà che cosa vuole dire». 

E le bollette non pagate?

«Si parla di soldi ma non è questo il primo problema. Ci sono i bambini. E allora la prima domanda da porsi è: perché sono lì, per quale motivo? Com’è possibile che delle famiglie si trovino in una situazione simile?». 

È vero che sabato ha provato invano a chiamare gli uffici comunali perché riallacciassero la corrente? 

«Sabato e domenica con chi potevo parlare, col portiere? A Roma il fine settimana non funziona nulla, salvo bar e ristoranti! Adesso aspettiamo la riapertura, speriamo intervengano». 

Ma è stato lei a calarsi nel tombino per staccare i sigilli?

«Cosa vuole, era una situazione particolare, disperata… Lo ripeto: mi assumo tutta la responsabilità. Dovesse arrivare, pagherò anche la multa». 

Uno degli inquilini dice che lei era pratico e in Polonia, prima di prendere i voti, lavorava in questo campo… 

«Ma no, questo no! In Polonia abbiamo avuto un presidente, Lech Walesa, che era stato elettricista, si saranno confusi con lui! Io non sono un elettricista, sono un liturgista. Ma in fondo i liturgisti accendono candele, spostano i microfoni, qualcosa ne capiscono…».

Ecco il giudice che difende Krajewski: "Ha ricostituito la legalità costituzionale". Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, difende il cardinale Krajewski e sulla proprietà privata dice: "Il bene abbandonato non appartiene più al proprietario ma alla comunità". Elena Barlozzari, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale. All’assemblea pubblica indetta lunedì scorso nel palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme, alla fine, il cardinale Konrad Krajewski non si è presentato. C’era invece il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, a difendere le ragioni dei 450 abusivi che dal 2013 vivono nell’ex sede Inpdap. L’ex capo di gabinetto al ministero della Pubblica istruzione fino al 1991 con Gerardo Bianco, leader della sinistra democristiana e vicino a Rosi Bindi, ci ha spiegato il perché della sua presenza.

Professor Maddalena, perché un uomo di diritto difende un’occupazione abusiva?

"Perché c’è ancora la convinzione che la proprietà privata sia quella scritta nell’articolò 832 del codice civile, secondo il quale il proprietario gode e dispone della cosa in modo pieno ed esclusivo."

Cosa ci è sfuggito?

"Che l’articolo 42 comma 2 della Costituzione ha modificato questa definizione stabilendo che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge allo scopo di assicurarne la funzione sociale."

Quindi?

"Quindi il bene abbandonato non appartiene più al proprietario nominale ma alla comunità che risiede nel luogo dove la cosa si trova."

Ma è un esproprio... 

"No, chi parla di esproprio è seguace del pensiero unico dominante del neoliberismo, secondo cui la ricchezza deve rimanere nelle mani di pochi."

In una città dove ci sono centinaia di immobili abbandonati, non si rischia, così facendo, di legittimare l’abusivismo?

"Non sto legittimando l’occupazione, sto dicendo che la pubblica amministrazione non deve vendere a privati i propri beni e che gli immobili abbandonati vanno dati a chi ne ha bisogno."

Cosa pensa del gesto di Krajewski?

"Io dico che il cardinale ha fatto un’opera coraggiosa e legittima. Non lo si può accusare di aver compiuto un atto illegale."

Perché?

"Perché è andato contro ad una legge (la Lupi-Renzi, ndr) contraria alla Costituzione, che viola diritti fondamentali come quelli alla luce e all’acqua. Quindi l’elemosinere ha ricostituito la legalità costituzionale. Sarebbe assurdo se un giudice lo condannasse."

Qualcuno ha trovato singolare la saldatura tra i centri sociali e la Santa Sede…

"È la conseguenza della politica del governo, che agisce nell’interesse dei ricchi e contro quello del popolo, noi spesso ci troviamo a doverci difende dalla legge."

In che senso? 

"Basti pensare che il decreto sicurezza toglie il principio di umanità dall’ordinamento giuridico. Non lo può togliere, perché l’ordinamento giudico non lo fa Salvini, e dire prima gli italiani è una bestemmia. Stiamo ridiventando barbari."

È diventato il Vaticano la vera opposizione al governo?

"Questa è una favola, se c’è qualcosa di buono nel mondo è Papa Francesco. Si tratta semplicemente di scegliere se siamo egoisti o altruisti, se vogliamo la comunità o l’isolamento, se vogliamo essere solidali oppure no."

Il Vaticano si schiera con gli abusivi: "La vita delle persone viene prima della legalità". La suora che ha contattato l'elemosiniere del Papa per riallacciare la corrente agli abusivi di via di Santa Croce in Gerusalemme spiega a Il Giornale: "Non so più chi sia più illegale, se lo Stato che lascia la gente in mezzo alla strada o loro che hanno occupato questo posto". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Lunedì 13/05/2019, su Il Giornale.  E luce fu. Al termine di un’attesa biblica è stato un uomo di Dio a riportare luce e speranza nell’immobile occupato di via Santa Croce in Gerusalemme. Stiamo parlando di Konrad Krajewski, elemosiniere del Vaticano e simbolo dei valori che scandiscono il pontificato di Papa Francesco. L’uomo giusto per intervenire in uno scenario scomodo come quello dell’ex sede Inpdap, dove alle ragioni della povertà si contrappone una situazione di illegalità che perdura da quasi un un decennio. E che lunedì scorso è sfociata nel distacco della corrente elettrica da parte di Acea che vanta nei confronti degli abusivi un credito di 300mila euro. Una decisione improvvisa e inattesa che ha lasciato al buio quasi 500 persone tra italiani e stranieri. “Da quando la corrente è andata via abbiamo ricevuto sostegno dalle istituzioni, ma solo a parole, l’unico aiuto concreto lo abbiamo ricevuto dall’elemosiniere vaticano che è venuto a vedere il contatore e si è rimboccato le maniche”, ci spiega Cecilia Carponi di Spin Time Labs, il collettivo di artisti nato nel palazzo occupato. Prima di tutto Krajewski contatta il neo prefetto di Roma Gerarda Pantalone. Il messaggio è un aut-aut: se entro le venti di questa sera non riallacciate la corrente, ci penso io e me ne assumo tutte le responsabilità. E così è stato. Il porporato si è calato giù per un tombino, sotto lo sguardo incredulo degli occupanti, ha tolto i sigilli al contatore e dopo aver armeggiato per qualche ora gli ha restituito la luce. Un epilogo che ha lasciato di stucco persino Andrea Alzetta detto “Tarzan”, ras delle occupazioni romane e fondatore di “Action”, il movimento di lotta per la casa che gestisce l’occupazione. “Ci siamo stupiti - ha ammesso Tarzan - che sia arrivata una figura simile a metterci la faccia, cosa che la politica non ha fatto”. La vicinanza della Santa Sede alla occupazione di via di Santa Croce non è cosa di oggi, eppure nessuno si immaginava che si sarebbe arrivati ad un gesto così estremo. “Anche il Vaticano - ci conferma il regista teatrale Roberto Andolfi, responsabile culturale di Spin Time Labs - ha una mission in questo spazio, all’interno dell’ex sede Inpdap c’è suor Adriana che rappresenta il vicariato e da qui fa attività sociale per il quartiere e per le famiglie povere”. È stata lei, quando i canali politici non hanno sortito nulla di più di qualche attestato di solidarietà, a chiamare Krajewski. “Dopo sei giorni senza corrente elettrica con bambini e malati bisognosi di elettricità per le cure primarie - ci racconta suor Adriana - la situazione era disperata e così mi sono decisa a chiamare padre Konrad, che già nei giorni addietro si era occupato di mandarci i medici solidali del Vaticano per curare le persone all’interno dell’occupazione”. “Non credo abbia tenuto conto delle leggi - prosegue - perché la vita delle persone viene al primo posto”. E parlando di legalità dice: "Non so chi sia più illegale, se lo Stato che lascia la gente in mezzo alla strada o loro che hanno occupato questo posto". Tuttavia il blitz dell’elemosiniere potrebbe avere delle conseguenze giudiziarie. Stando a quello che riferisce l’AdnKronos, infatti, il Gruppo Acea è pronto a presentare un esposto in procura visto che la manomissione della cabina elettrica “avrebbe potuto portare conseguenze anche mortali qualora fosse stata effettuata una manovra errata”. Dal canto suo, sentito dall’Agi, Krajewski si dice pronto a fronteggiare “qualsiasi conseguenza”. “Per me conta che quella gente abbia la luce e l’acqua calda, il resto non ha importanza. Non mi interessa quello che altri commentano o come giudicano”. Il riferimento è a Matteo Salvini che ha criticato il gesto del porporato: “C’è questo palazzo occupato a Roma dove ci stavano 3-400 persone che non pagavano le bollette e quindi giustamente la società che gestisce l’elettricità ha staccato la corrente”. Poi la provocazione: “Conto che dopo aver riattaccato la luce adesso paghi anche i 300 mila euro di bollette arretrate. A proposito di diritti e doveri, penso che voi tutti, magari facendo dei sacrifici, le bollette le pagate”. “Noi - si difendono quelli di Spin Time Labs - le bollette non le abbiamo mai ricevute perciò non ci è mai stato permesso di pagarle". "Ora - promettono - vogliamo metterci in regola ed estinguere questo debito”. Ed in segno di riconoscenza verso il porporato, gli attivisti, si autodenunceranno al prefetto e al sindaco. “Quello del cardinale - dicono - è stato un gesto di grande coraggio, tecnicamente illegale ma secondo noi legittimo”.

E luce fu. L’elemosiniere del Papa riallaccia la corrente nel palazzo occupato. Il cardinale Konrad Krajewski riallaccia la luce allo Spin Time, palazzo occupato da 450 persone a Roma. Lui: «È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente». Il Dubbio il 12 maggio 2019. A riallacciare la luce allo Spin Time, palazzo occupato da 450 persone a Roma, è stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, di ritorno da Lesbo dove ha portato la solidarietà di Papa Francesco ai profughi presenti nell’isola greca. Gli inquilini, di cui quasi 100 minori, erano al buio e senza gas dal 6 maggio, quando la società fornitrice di energia aveva deciso di staccare le utenze a causa di un debito di circa 300 mila euro. «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi», dichiara il cardinale  Krajewski. «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha ironizzato. Il porporato «è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone, tra cui numerosi bambini – riferiscono all’AdnKronos fonti vaticane vicine all’Elemosineria Pontificia -. Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all’edificio», che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, «è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d’ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie». Diversa però è la ricostruzione dell’episodio fornita da Andrea Alzetta, storico volto di Action, movimento capitolino per il diritto all’abitare, e portavoce di Spin Time Labs. «Per una volta è stata ripristinata la giustizia invece della legalità», dice, prima di smentire alcuni “dettagli”. «È un’esagerazione giornalistica» la notizia che sia stato l’elemosiniere vaticano a «fare il miracolo», spiega Alzetta. «Della vicenda si è interessata la responsabile della distribuzione del cibo dei poveri, quella di medicina solidale, le persone che lavorano lì, visto che la politica non riusciva a risolvere la situazione. L’elemosiniere del Papa non credo faccia l’elettricista, oltretutto non c’erano sigilli, semplicemente avevano staccato la corrente. Anche questa è una fantasia giornalistica», argomenta l’esponente di Action.  «La corrente elettrica fa funzionare l’impianto idraulico e le fognature, oltretutto è fondamentale per chi vive qui con un polmone artificiale. Nell’edificio di proprietà di Banca Finnat si fa un percorso di rigenerazione urbana e sociale, era un palazzo rimasto invenduto e abbandonato a se stesso al quale noi nel 2013 abbiamo ridato vita con un progetto fatto insieme alle università di Roma e tante realtà del territorio. Facciamo concerti di musica classica, spettacoli: per questo molti artisti ci hanno sostenuto».

L’elemosiniere del Papa riattacca la luce del palazzo occupato: il centro sociale ringrazia. Davide Ventola domenica 12 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. L’elemosiniere del Papa ha tolto i sigilli al contatore di un palazzo occupato abusivamente. La notizia è di queste ore. A compiere il gesto tanto insolito quanto simbolico è stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio. Il porporato è arrivato in un palazzo occupato da un centro sociale nel 2013 al centro di Roma, ha visto lo stato di difficoltà per tante persone prive della luce da giorni e ha riallacciato la corrente elettrica che era stata staccata dall’azienda per morosità. Il cardinale «è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone. Tra loro numerosi bambini, riferiscono fonti vaticane. Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all’edificio», che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, «è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d’ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie».

“Tarzan” Alzetta conferma la notizia. I centri sociali ringraziano ma sembrano infastiditi dal fatto che si sia diffusa la notizia Il portavoce del centro sociale che ha occupato lo stabile nel 2013, Andrea Alzetta, nome di battaglia Tarzan, conferma a malincuore il fatto.

Chi è Tarzan Alzetta. Il militante di estrema sinistra, re delle occupazioni abusive, bolla però come “un’esagerazione giornalistica” il fatto che sia stato l’elemosiniere vaticano a “fare il miracolo”. «Nel palazzo vivono 450 persone di tutte le nazionalità, tra i quali 98 minori, alcuni in gravi condizioni di salute, e per una volta è stata ripristinata la giustizia invece della legalità» sostiene Alzetta. E liquida con una battuta il fatto che la luce sia tornata grazie al Vaticano. «L’elemosiniere del Papa non credo faccia l’elettricista, oltretutto non c’erano sigilli, semplicemente avevano staccato la corrente». Poi l’arrivo del porporato polacco che, interpellato da diversi giornali, ha confermato la notizia.

VATICANO: PATRIMONIO IMMOBILIARE, SOLDI E DEMAGOGIA. IL “BEAU GESTE” DEL CARDINALE. (PAGANO GLI ALTRI…). Marco Tosatti il 12 Maggio 2019.  Leggiamo dal Messaggero di un “beau geste” compiuto dall’elemosiniere del Pontefice, il cardinale Konrad Krajewski, che ha spezzato i sigilli apposti ai contatori di uno stabile occupato (il che, in Italia è ancora un reato, come peraltro ovunque altrove; forse in Vaticano no), sigilli apposti perché gli occupanti non avevano pagato da anni bollette della luce per circa trecentomila euro. Ecco il testo: “Ha staccato i sigilli del contatore e ha riacceso la luce nel palazzo occupato da 450 persone in via di Santa Croce in Gerusalemme (Spin time Labs) nonostante le bollette non siano state pagate e gli occupanti rimangano morosi. A staccare i sigilli è stato l’elemosiniere del Papa, Konrad  Krajewski, che ieri è andato nel palazzo occupato a portare doni e cibo. «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi» ha detto il cardinale elemosiniere Krajewski, “braccio” caritativo di Papa Francesco per i casi di disagio. «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha aggiunto Krajewski”. Ubriaco di demagogia, forse. Come molti di quelli che in Vaticano soffrono di un singolare disturbo. Cioè, davvero, applicano il Vangelo alla lettera, e la mano sinistra non sa quello che fa la mano destra. La sinistra riattiva l’elettricità – che qualcun altro, non il Vaticano, dovrà pagare – e la destra…La destra per esempio chiede alla Papal Foundation 25 milioni di dollari, una cifre incredibile. Per i migranti? Per i senzatetto italiani? No, per risistemare le finanze dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, dopo il crack della struttura, su cui indagò per tutta una serie di reati la magistratura…Magari trecentomila euro di quei milioni (ridotti poi a otto, pare) avrebbero potuto essere usati per pagare la morosità, senza andare contro la legge, e dare esempi di illegalità. San Martino ha tagliato metà del suo mantello, mica ha preso quello di un passante. Oppure la stessa somma poteva essere chiesta alla Sezione Economica della Segreteria di Stato, che raccoglie il denaro regalato al Papa, e il cui tesoretto, secondo chi ha avuto esperienza in quel campo, si avvicina quello dello IOR. La sinistra (mano) preferisce però fare demagogia a buon mercato – Krajewski è cardinale, polacco, e vive in Vaticano, chi mai lo perseguirà? – mentre la destra…Riportiamo sotto qualche interessante stralcio sulle proprietà immobiliari della Chiesa, particolarmente fitte a Roma e in Veneto.

Viaggio tra le proprietà immobiliari della Chiesa: un patrimonio da 4 miliardi l’anno. “Il Vaticano è uno dei più grandi proprietari immobiliari italiani, con un patrimonio di almeno 115mila unità che equivale al 20% dell’intero patrimonio immobiliare italiano. Propaganda Fide, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, vanta da sola 957 beni tra terreni e fabbricati, in aree spesso di pregio come piazza di Spagna, via Margutta, via del Babuino o via del Governo Vecchio a Roma. Ed intorno a queste proprietà ruota un giro d’affari di oltre 4 miliardi di euro l’anno legato al turismo religioso, grazie all’impiego  di questi immobili come bed & breakfast ad esempio. Di seguito l’elenco delle entità che fanno capo alla Santa Sede e le relative proprietà. 

Propaganda Fide possiede 957 beni tra terreni e immobili a Roma in via di San Teodoro, via di San Giovanni in Laterano, via Boncompagni, via delle Mura Aurelie, piazza Mignanelli, via Margutta, piazza di Spagna, via Bocca di Leone, via del Babuino, via della Conciliazione via dei Corridori, via dell’Orso, via dei Coronari, via della Vite, via del Governo Vecchio.

La Sacra Congregazione per l’evangelizzazione ha 80 terreni e immobili tra via Venti Settembre, piazza Trasimeno, via della Conciliazione, via Monte Acero, via del Governo Vecchio.

Il Vicariato di Roma è titolare di 191 beni tra terreni e immobili in via del Colosseo, via di Santa Croce in Gerusalemme, via di Fara Sabina, via Flaminia, piazza di S. Eurosia”.

La lista è tutt’altro che esaurita e vi rimandiamo all’articolo originale.

Scrive invece “Qui Finanza”: “Secondo il Gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze al Vaticano sul tema, il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è tutt’oggi proprietà della chiesa: si tratta di 115 mila fabbricati. Un “tesoro” continuamente alimentato da investimenti e donazioni di privati cittadini. Solo nella Capitale si calcola che “ogni anno vengono registrati dagli 8 ai 10mila testamenti a favore del clero”.

AFFITTI A PREZZI AGEVOLATI – Ad occuparsi di questo “impero” in particolare due istituti operativi: Propaganda Fide e Apsa. Governerebbero appartamenti di lusso per circa 9 miliardi di euro di valore. Molte delle 957 case di proprietà (725 sono a Roma) verrebbero poi date in affitto, e a volte vendute, a prezzo agevolato, a nomi illustri. Per esempio l’ex ministro Pietro Lunardi comprò il palazzetto di tre piani in via dei Prefetti. Quanto agli affitti, il giornale fa l’esempio dell’”ex vicedirettore della Rai Antonio Marano, del capo delle missioni della Protezione Civile Mauro Della Giovampaola, del direttore Enac Vito Riggio, dell’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino, dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio”. E anche “l’attico di Bruno Vespa e l’appartamento di Cesara Buonamici sarebbero di Propaganda Fide”.

LE CASE-REGGIA DEI CARDINALI- Repubblica parla anche dei 5.050 appartamenti dell’Apsa – Amministrazione patrimonio sede cattolica –affittati a prezzo di mercato agli sconosciuti e a canone zero a chi ha servito la chiesa: giuristi, letterati, direttori sanitari. Sono 860 le locazioni gratuite. Innanzitutto, quelle per le case-reggia dei 41 cardinali di prima fila: tutti intorno a San Pietro. Nel tentativo di ricostruire e mettere a sistema i possedimenti Apsa, monsignor Lucio Vallejo Balda, a capo della commissione Cosea, ha scatenato l’ultima guerra in Vaticano, che poi è diventata il processo Vatileaks 2.

EX CONVENTI TRASFORMATI IN B&B – Da ultimo non bisogna dimenticare la presenza immobiliare della Santa Chiesa nel settore turistico. Vecchi monasteri, abbazie ed altri locali trasformati in hotel e bed and breakfast, con circa 200mila posti letto corrispondenti a 4,5 miliardi di valore di un crescente turismo religioso”.

Invece lettera 43 parlava dei conventi vuoti, e dell’appello del 2013 da parte del Papa: “Sono decine i grandi e antichi conventi chiusi o semi abbandonati, difesi strenuamente da pochi frati e suore spesso 80enni, determinati a tenere viva la speranza di un nuovo utilizzo legato a una ripresa delle vocazioni. Ed è attorno a questo enorme patrimonio immobiliare che ruotano gli interessi di gruppi privati, spesso legati alla stessa Chiesa cattolica italiana, i quali vorrebbero trasformare le strutture in hotel, residence o case di cura e di riposo. Di fronte a questa realtà che riguarda centinaia dei circa 100 mila immobili che la Chiesa possiede, papa Francesco ha preso una posizione chiara: i conventi non utilizzati diventino ostelli per i rifugiati, non alberghi perché l’obiettivo non è fare soldi, ma aiutare i più deboli”.

Quattro anni più tardi Il Messaggero scriveva: “Città del Vaticano – Dopo quattro anni dall’appassionato appello del Papa alle parrocchie romane, «aprite le porte ai nostri fratelli immigrati», questo è il risultato: solo 38 tra parrocchie e  istituti religiosi presenti a Roma hanno ospitato 121 persone (57 in prima accoglienza e 64 in seconda accoglienza). I dati sono stati forniti stamattina dal Vicariato. Forse un risultato decisamente sotto le aspettative vista l’alta concentrazione nella capitale di istituti religiosi e conventi (spesso semivuoti per mancanza di vocazioni o trasformati tout cour in redditizi b&b per pellegrini). E pensare che nella diocesi del Papa si contano ben 332 parrocchie e circa 700 istituti religiosi. Difficile dimenticare l’appello che Bergoglio fece pochi mesi dopo la sua elezione, visitando il Centro Astalli dove funziona da anni una mensa per profughi. Davanti a tanti rifugiati senza nulla, parlando «con il cuore in mano», invitava «gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità» come segno dei tempi il fenomeno migratorio che bussano alle porte. «Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti: Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio». Il coraggio richiesto forse è risultato carente in molti casi. In tanti si chiedono, cosa è restato di quell’appello? Perché non è stato ascoltato? Basterebbe solo andare sul sito ospitalitàreligiosa.it e dare una occhiata al grande ventaglio di possibilità alberghiera fornita da conventi e istituti di suore o frati. Centinaia di strutture con migliaia di posti letto disponibili”. Alla luce di tutti questi elementi, che dire? Che la demagogia costa poco e frutta molto in termini di immagine e popolarità. E sempre alla luce delle cifre, le battaglie per l’accoglienza assumono un altro aspetto. Accoglienza sì, se pagata dai soldi dei cittadini.

Papa Francesco e la "dimenticanza" del Vaticano: i 115mila alloggi che non danno agli immigrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Dal Vangelo secondo Matteo: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta». Traduzione: con la mano sinistra, se sei un prete, rompi pure i sigilli della corrente a degli occupanti che non pagano la bolletta da sei anni (non l' hanno mai pagata) e fallo pure passare come «beau geste» che riaccende il frigorifero ai bambini e che dà un tetto ai senza casa: tanto sei un prete, nessuno ti punirà e semmai incasserai il plauso di qualche partito in campagna elettorale. Poi però hai la mano destra: con quella, a nome del Vaticano, puoi continuare a gestire discretamente un patrimonio di almeno 115mila unità che equivale al 20 per cento dell' intero patrimonio immobiliare italiano senza pagare la bolletta a nessuno, anzi, pagando meno anche le tue, questo per via delle mille agevolazioni che la Chiesa può rivendicare. Antipastino: la sola Propaganda Fide (Congregazione per l' evangelizzazione dei popoli, hanno sempre questi nomi così) vanta 957 beni in zone anche come piazza di Spagna, via Margutta, via del Babbuino eccetera, e trattasi di proprietà con un giro d' affari di oltre 4 miliardi di euro annui legati al celebre «turismo religioso», quello che fa sì che gli alberghi, se sono del Vaticano, non si chiamano più alberghi. Ecco, i soliti brutali, già risuona la sirena dei solidali: e suvvia, e che dovrebbe fare la Santa Chiesa Cattolica, cedere i suoi millenari palazzi ai rom? O, comunque, a tutti i disperati da centro sociale che l' incenso porporale se lo fumerebbero tutto? No, certo, mica puoi piazzare una roulotte nei giardini di Castelgandolfo, ma - per dire - basterebbe il costo di un solo spot dell' 8 per mille per ripianare tutte le bollette non pagate in certi stabili occupati. Perché le cifre, forse, non le avete capite bene. Se il patrimonio immobiliare italiano supera quota 6.400 miliardi di euro (Rapporto dell' Agenzia del territorio e dal dipartimento delle Finanze) quello in mano alla Chiesa si aggira perlomeno attorno ai mille miliardi: in più ci sono da aggiungere 700mila complessi immobiliari all' estero tra parrocchie, scuole e strutture di assistenza: e la stima giunge a 2mila miliardi. Due-mila. Ma nessuno ufficialmente - nella Chiesa - ve lo confermerà mai: sono dissociati, tutti con mano destra e sinistra che vanno per conto loro, tra l' altro senza menzionare investimenti e depositi bancari di cui non si sa nulla. E ora tocca tornare al prete, come si chiama, il polacco, il cardinale Konrad Krajewski. Ci tocca il riassuntino a modo nostro, vista da un marziano a Roma: c' è un esponente religioso, cosiddetto elemosiniere del Papa in una monarchia di soli uomini chiamata Città del Vaticano, che ha deciso dolosamente di compiere un' illegalità e cioè di togliere i piombi dal contatore che sino a una settimana fa riforniva elettricità a uno stabile abusivamente occupato dal 2013, dove, da appunto 6 anni, nessuno pagava la bolletta della luce. Parentesi: in quello stabile nessuno paga da altrettanti anni neppure l' affitto, ma ora questo è passato in secondo piano. Dicevamo dell' elettricità: in genere non impiegano 6 anni a staccartela se sei moroso, bensì un paio di settimane (allo scrivente, per combinazione, è successo ieri mattina per un intoppo burocratico) e quindi l' azienda energetica, nel caso, aveva già soprasseduto per moltissimo tempo per via della situazione: nello stabile ci sono infatti 500 persone (circa un centinaio sono bambini) rimaste senza corrente ormai da una settimana. Il debito era di 319mila euro.

IL PESO DEL VOTO. Comunque, sul Pianeta Terra, e persino a Roma, in genere chi invade le proprietà altrui e non paga la pigione e neppure le bollette, beh, compie dei reati, e quindi viene cacciato dalla forza pubblica. Ma se a compiere i reati sono una moltitudine di persone, ecco che la questione diviene immediatamente politica; se poi c' è pure l' imminenza di una scadenza elettorale, le interpretazioni e il rispetto delle leggi si prestano alle posizioni più variopinte. La prosecuzione di questo articolo è dunque risevata a chi non è candidato alle Europee e può quindi limitarsi a un' analisi secca non solo del gesto - che è una violazione di legge, non ci piove - ma dei suoi interpreti principali: gli abusivi dello stabile e il religioso stacca-piombi.

17MILA METRI QUADRI. Gli abusivi, per cominciare: non costituiscono il corpo palpitante di un orfanotrofio, ma di 17mila metri quadri di stabile con 180 nuclei familiari (sì, ovvio, in buona parte extracomunitari) ma più notoriamente di esercizi commerciali quali osteria, falegnameria, teatro, birrificio, sala concerti e attività di ogni genere. L' invasione porta il cappello di un «movimento per la casa» chiamato Action e, nonostante lo stabile fosse occupato dal 2013, lo stabile «Spin Tabs Lab» non figura tra la ventina di edifici che la prefettura aveva deciso di sgomberare prossimamente. Non è nota con precisione la natura del rapporto tra gli abusivi e il Vicariato cattolico, ma il rapporto c' era, e c' è, tanto che alcune iniziative sono state condivise.

NON PUNIBILE. E veniamo al prete, anzi al Cardinale, anzi al religioso che, secondo il Concordato aggiornato nel 1984, non può essere perseguito come capiterebbe a un cittadino qualsiasi. Già questo è un primo punto importante, perché il cardinale Krajewski ha preannunciato il suo gesto e l' ha pure firmato - lasciando il suo biglietto da visita sul contatore - ben sapendo che sarebbe rimasto impunito: l' esposto presentato dall' azienda energetica, penalmente, andrà a vuoto. Lui ora dice che è «pronto a pagare le conseguenze del suo gesto», ma dirlo è facile: legalmente non ce ne saranno, anche se il reato prevede da sei mesi a tre anni senza contare le aggravanti. In concreto il cardinale ha telefonato al Prefetto per far riattaccare la luce, e poi, ottenuto un diniego, ha detto che entro sera avrebbe fatto da solo, e così ha fatto. Ha rotto i sigilli e la luce è tornata.

«BOLLETTA SOCIALE». Poi sono tornati anche i tecnici del gruppo Acea per staccarla di nuovo, addirittura scortati da camionette della polizia: ma hanno dovuto desistere - una desistenza molto criticabile - perché qualche occupante si è opposto con la forza e con il corpo.

Tutto semplice, forse troppo. La resistenza degli occupanti però era nel copione, e così pure la penosa e irritante e vittimistica pretesa, per il futuro, di pagare una «bolletta sociale» con sanatoria sul passato. Non del tutto a copione, per contro, la reazione di quei partiti - grillini e Pd in primis - che hanno applaudito l' illegalità porporale come se il cardinale avesse riacceso un luna park. Culturale, certo. Antifascista, sì.

Papa Francesco e l'elemosiniere, don Negri: "Non esistono solo i migranti. No al tradimento della missione". Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. "Non esistono solo i migranti, ma anche gli italiani poveri". La lezione a Papa Francesco e al suo elemosiniere Konrad Krajewski arriva da monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio e rappresenta al meglio il malumore che si respira in Vaticano e nella chiesa "di base" per il gesto di "Don Corrado", che si è calato nel pozzetto di un palazzo occupato abusivamente a Roma per riallacciare l'elettricità sospesa a causa di 300mila euro di bollette non pagate.  "Noi non possiamo avere come unico problema, e neanche come argomento determinante, quello dei migranti. Dobbiamo pensare a tutto l'uomo, a tutti gli uomini, a ogni situazione - spiega in una intervista a La Stampa -. Siamo chiamati a essere solidali con ogni persona che viene al mondo, a cui abbiamo il dovere di proporre Cristo". "La Chiesa - spiega ancora il monsignore - deve concentrarsi sull'educazione di un popolo per renderlo consapevole della sua anima e capace di vivere generosamente la sua missione, senza presunzione e senza depressione. Benedetto XVI quando venne in visita nel Montefeltro, nella diocesi che reggevo io, invocò laici vivi, attivi e intraprendenti". L'obiettivo, spiega ancora, è quello di creare una umanità nuova. La distanza con la missione sociale del "qui e ora" di Bergoglio è totale: "Ogni prossimo è in difficoltà, non solo qualcuno. E la prima difficoltà è che la maggior parte non conosce Cristo. Perciò il primo modo di assumersi la sfida della povertà del mondo è annunciare Gesù". Un ritorno al Vangelo che spesso è stato oscurato da gesti e parole eclatanti. "Non è possibile evangelizzare senza accettare l'obbedienza alla realtà così com'è, che non dipende da noi ma che ci ritroviamo attraverso la storia. Cercare di imporre una visione astratta, artificiosa e ideologica costituisce un gravissimo errore. E se lo fanno uomini di Chiesa diventa un tradimento alla nostra missione".

Papa Francesco, Franco Bechis accusa l'elemosiniere: "Chi è stato umiliato dal suo gesto". Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Se c'è una lezione che arriva circa la "bravata" dell'elemosiniere di Papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski, di certo è quella che a comportarsi onestamente in Italia non si ottengono applausi e complimenti. Padre Corrado ha incassato solo elogi e incitamenti ad andare avanti da buona parte della politica e della stampa, che in quel palazzo vedono solo 450 disperati e bisognosi. In pochi, tra i quali Franco Bechis sul Tempo, hanno provato a ricordare che non si può ignorare il fatto che quel palazzo sia occupato abusivamente sotto la regia dei soliti professionisti delle occupazioni delle case a Roma. Non si è ricordato mai abbastanza gli affari messi in piedi dal centro sociale Spin Time, che là dentro organizza anche attività commerciali e concerti. Ma soprattutto quasi nessuno ha sottolineato quanto quello del cardinale sia stato un gesto che giustifica ogni futura azione di prepotenza: "Perché in questo Paese - scrive Bechis - i furbi sono quelli che la schiena non la spezzano, l'affitto non lo pagano, le bollette le buttano nel cassonetto quasi fosse un insulto riceverle, il necessario si prendono e il per il superfluo sanno che basta fare la voce grossa". E chi invece si alza al mattino presto e torna a casa con la schiena spezzata dopo aver guadagnato una miseria, ma paga regolarmente quanto deve alla collettività, ormai non possiamo dire altro che: "Bravo scemo". Chiarissimo il pensiero di Bechis sin dal titolo del suo pezzo di apertura de Il Tempo: "Vincono sempre i prepotenti". Catenacci: "Tutti applaudono la bravata del cardinale e gli occupanti illegali chiedono ancora di più. Umiliati grazie a questa vicenda i veri poveracci che tirano la cinghia e rispettano le leggi". Poco da aggiungere.

Hanno vinto i prepotenti. Il sig. Pietro si spacchi pure la schiena. Franco Bechis il Tempo 15/05/2019. C'è una sola cosa che si è sentito dire ieri da gran parte della classe politica e della stampa italiana il povero signor Pietro, che si spacca la schiena all'alba al mercato a caricare e scaricare cassette di frutta, e con quel poco mantiene la sua famiglia, paga le tasse, le bollette e pure l'affitto nella casa popolare, pur negando ai figli quel che magari hanno quasi tutti i loro compagni di scuola: «Bravo scemo!». E scemo anche lui si deve essere sentito senza bisogno di quel coro collettivo, perché in questo paese i furbi sono quelli che la schiena non la spezzano, l'affitto non lo pagano, le bollette le buttano nel cassonetto quasi fosse un insulto riceverle, il necessario si prendono e per il superfluo sanno che basta fare la voce grossa. A Roma come in Italia vincono solo i prepotenti, perché davanti a loro tutti se la fanno addosso. E alti prelati, perfino un cardinale vicino al Papa si commuovono pure, facendo le sciocchezze che abbiamo visto compiere sabato notte. Il coro di simpatia e gli applausi riscossi dall'elemosiniere pontificio Konrad Krajewski sono il punto di caduta più basso registrato da anni del senso della legalità e del vivere civile, ben più scandaloso di qualche sceneggiata di Casapound o altri che tanta indignazione ipocrita ha provocato. Applaudire quel che è avvenuto nella assoluta illegalità e prepotenza di tutti è insulto alla fatica e al sudore di italiani e immigrati per bene che rispettano zitti la legge. È beffa ai veri poveri e ai disgraziati (ne raccontiamo alcuni oggi) costretti a vivere in auto o in roulotte. Che pena!

Un rave party gay nel palazzo salvato dall'uomo di Bergoglio. Il mega-rave abusivo di Capodanno nel palazzo occupato salvato dall'elemosiniere del Papa è andato in scena nonostante il divieto del questore. Bianca Elisi, Giovedì 02/01/2020 su Il Giornale. Da quanto l’elemosiniere del Papa, Konrad Krajewski, è interceduto per riattaccare la corrente, la "fabbrica dello sballo" di via di Santa Croce in Gerusalemme 55 è tornata a macinare rave-party. L’ultimo si è tenuto la notte del 31 dicembre, in spregio alla diffida del questore notificata ad Andrea Alzetta e i suoi a poche ore dall’inizio maxi-evento abusivo. Carta straccia per gli occupanti dello Spin Time Labs che hanno i loro santi Oltretevere. Sin da subito, infatti, gli squatter dei centri sociali hanno fatto sapere che sarebbero andati avanti per la loro strada incuranti dei divieti. E così il "Capodanno giovane, frocio, libero e ribelle" si è tenuto come da programma. All’insegna dell’illegalità. Non solo perché lo spazio in cui si è svolto è occupato abusivamente nel 2013 e, da allora, non è stato pagato un centesimo di bollette. Anzi, dopo il blitz del cardinale, la centralina elettrica è stata messa sotto chiave e i tecnici di Acea non possono più accedervi. Ma anche perché l’incolumità delle migliaia di avventori e dei 450 inquilini è a rischio. Nell’ex sede Inpdap mancano le uscite di sicurezza e le vie di fuga e probabilmente anche gli estintori non vengono revisionati da un bel pezzo. Non è dato sapere se almeno dei buttafuori siano stati ingaggiati per monitorare l’evento al quale hanno preso parte quasi 5mila persone. Il piatto è troppo ricco per guardare a questi "dettagli", avranno pensato gli organizzatori. Il Messaggero parla infatti di un giro di affari di almeno 80mila euro, tra ingressi e consumazioni in nero, che sono finiti dritti dritti nelle tasche dei centri sociali. Un business che sfiora i 300mila euro annui e si maschera dietro alla solidarietà. Perché guai a ricordare agli abusivi che esistono delle regole. Alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, la prima a chiedere al Viminale di intervenire per vietare il party, hanno replicato dicendo che "anche i poveri hanno il diritto di festeggiare il Capodanno". Bella ipocrisia. Tra gli avventori del mega-rave di fine anno non c’erano i clochard della stazione Termini. Chi vive all’addiaccio si è accontentato di un programma più frugale: un pasto caldo e qualche coperta in più. In coda per entrare c’era invece un’orda di ragazzi determinati a ballare fino al mattino. Persone che hanno sborsato tra i 20 e i 10 euro di ingresso e che in alcuni casi sono arrivate nella Capitale da altre regioni pagando centinaia di euro di biglietto. E infatti, sempre come racconta il quotidiano di via del Tritone, non sono mancati gli inconvenienti. Attorno alle 2 la polizia è intervenuta per sedare una rissa e un’ora più tardi un ragazzo che aveva esagerato con l’alcol è stato portato via dall’ambulanza. Ma non solo. Il primo giorno del 2020 è anche quello delle polemiche. In tanti se la prendono con lo staff dello Spin Time perchè sono rimasti fuori dai cancelli dopo ore di attesa. Gente che aveva acquistato le prevendite su Eventbrite e che è stata letteralmente truffata. "Ho pagato in prevendita, sono salito dalla Calabria e mi avete sbattuto le porte in faccia. Infami", è uno dei tanti sfoghi comparsi sulla pagina Facebook dello Spin Time Labs. Una storia diversa da quella che predicavano gli organizzatori alla vigilia del party. Il grattacielo di Spin Time Labs, scrivevano su Facebook, è "un palazzo occupato che non morde e semmai accoglie, include e dà spazio".

Stefano Filippi per “la Verità” il 2 gennaio 2020. L'allarme era partito qualche giorno fa. Sarebbe stata la festa di Capodanno più a rischio di Roma: si svolgeva all' interno di un palazzo occupato abusivamente, senza vigilanza e sicurezza, privo di uscite d' emergenza e per giunta abitato da 450 persone. Nessun permesso del Comune, nessuna licenza per spettacoli, nessuna autorizzazione per la vendita di alcolici e di cibo, nessun controllo sull' età di chi compra. E pure una bella diffida del questore, Carmine Esposito. Naturalmente nulla sarebbe andato alla Siae per i diritti sulla musica trasmessa né all' erario come tassa sui biglietti, come si usa oggi: 20 euro se si paga prima della mezzanotte e si vuole mangiare, 10 euro senza cena. L' ultima cena dell' anno: «Un Capodanno giovane, frocio, libero e ribelle!», così era scritto sugli inviti per il party in via Santa Croce in Gerusalemme 55 propagandato come «il Capodanno del decennio». Ma loro, quelli di Spin time labs, gli abusivi che più abusivi non si può, sono ormai degli intoccabili. Tutto è tollerato e concesso ai collettivi per i quali si è mobilitato il cardinale Konrad Krajewski, l' Elemosiniere di papa Francesco che lo scorso maggio si è infilato nella centralina elettrica dello stabile all' Esquilino per riattaccare la corrente agli alloggi rimasti senza luce. Il delegato del Papa per la carità tolse i sigilli al contatore dell' Acea, la multiutility romana per i servizi, per consentire agli occupanti di continuare ad avere la corrente senza pagarla. Di fatto il porporato ha legittimato una serie di azioni illegali e loro ringraziano oggi con una «festa frocia». Fu una benedizione per quelli di Spin time labs, oltre che una cospicua elemosina: Krajewski infatti promise che avrebbe saldato i 300.000 euro di arretrati. Denari raccolti nelle chiese nella Giornata per la carità del Papa, spiegò Avvenire. Ma ai centri sociali abusivi, in realtà, degli arretrati non interessa nulla, né da dove arrivano i soldi per pagarli. Il palazzo è allacciato abusivamente alla rete elettrica dal 2013 e in sei anni nessuno ha mai pagato una bolletta. E non gli importa nulla nemmeno delle bollette future: ora il contatore è stato chiuso con una catena e per i tecnici dell' Acea è impossibile controllare i consumi. Gli abusivi sanno che non pagheranno mai e forti di questa impunità continuano ad alzare il tiro. Il cardinale paga la bolletta? Bene. Non la paga? Tanto meglio. Intanto nello stabile ti faccio i rave party, ti porto le sardine per organizzare le campagne anti Salvini e ora per Capodanno ospito la festa gay. A pagamento, ovviamente: soldi che restano nelle tasche dei collettivi. Per quelli di Spin time labs, gli abitanti dello stabile sono diventati degli scudi umani. «Vogliamo stare dalla parte dei deboli», proclamano. Lo hanno ripetuto anche le sardine romane. Per primo l' aveva detto il cardinale Krajewski: «Io faccio l' Elemosiniere e mi preoccupo dei poveri, delle famiglie, dei bambini facendo avere luce e acqua calda». La falange di scudi umani abusivi serve soprattutto per lucrare un fiume di denaro. I collettivi riscuotono gli affitti dai 450 occupanti ai quali garantiscono che nessuno li sfratterà mai, più gli incassi per le feste e il contorno: discoteca da 1.000 posti, ristorante, scuola per birrai, corsi di danza e di «ritmo in movimento», cinema, falegnameria, sala prove. Fanno circa 300.000 euro ogni anno. In aggiunta, questi furbacchioni fanno pure la morale sbandierando il Vangelo. «Potete staccarci la luce, ma noi abbiamo la fede», scrivevano mentre il cardinale riattaccava la corrente. La prima festa organizzata a maggio dopo l' intervento di Krajewski, una serata disco, era intitolata «Amen». E l' altro giorno, per difendere scandali e abusivismi, hanno ricordato che «circa 2.000 anni fa un tizio disse: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Noi ci teniamo i nostri sassolini, altri sopportino i loro macigni». Loro invece sono «gli ultimi, anzi dietro agli ultimi»: gli scudi umani, appunto. Con tanti saluti ai veri ultimi, gli autentici indifesi, cioè i cittadini italiani che pagano le tasse, saldano le bollette entro la scadenza, rispettano le leggi, non creano caos nel cuore di Roma e vengono presi per i fondelli dai centri sociali abusivi che la fanno sempre franca e in più ti ridono dietro. Il proprietario dell' immobile (nella fattispecie una banca) non incassa gli affitti? Chissenefrega anche se i mancati introiti verranno ripartiti tra gli incolpevoli clienti. La società elettrica (l'emiliana Hera con 198 azionisti pubblici) non può riscuotere le bollette? Chissenefrega bis, benché vengano danneggiati tutti gli utenti. Il cenone è stato poi un disastro, e chissenefrega tris. Ai centri sociali interessa unicamente prendere i soldi delle prevendite e lucrarci sopra con la scusa di stare «dalla parte degli ultimi». La pagina Facebook del collettivo tracima di proteste di gente lasciata fuori nonostante i biglietti pagati o i soldi in mano. Centinaia di persone chiedono il rimborso perché era impossibile entrare. Gente che ha fatto quasi due ore di fila si è vista chiudere il cancello in faccia. A un certo momento gli ingressi sono stati sbarrati senza riguardi per chi aveva acquistato il ticket e pretendeva di entrare. Eppure, la pubblicità delle scorse settimane parlava di 400 metri quadrati all'aperto, 18.000 al coperto, 11 palchi all' interno dello stabile (che ha 7 piani), 60 musicisti e buffet senza limiti con cibo di 29 Paesi diversi. «Il grattacielo di Spin time labs, un palazzo occupato che non morde e semmai accoglie, include e dà spazio», si leggeva su Facebook. Già: spazio alla «festa frocia» con le bollette (non) pagate dalla Chiesa.

Indagine a Roma sul Capodanno nel palazzo occupato. Indagine sullo stabile di Spin Time Labs, famoso per aver avuto la corrente elettrica gratis grazie all'intervento del card. Krajewski. Panorama il 5 gennaio 2020. C'è un'indagine della Procura che la coinvolge: «Facessero l'indagine». Ma nel mirino c'è il conto corrente dove sono finiti i soldi dell'incasso del megarave di Capodanno? «Scusa devo prendere un treno. Ciao». Tarzan, al secolo Andrea Alzetta, leader di Action, non mostra preoccupazione ma non vuole dire di più sulle conseguenze del festone abusivo ed esentasse nel palazzo occupato di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, dove il 31 dicembre si sono riunite circa 5.000 persone nella completa illegalità. Dopo una prima ricognizione della Digos, sul tavolo degli inquirenti sono finiti i nomi dei tre responsabili dell'organizzazione della festa malgrado la diffida della questura di Roma. Si tratta di Andrea Alzetta, appunto, Paolo Perrini, a capo dello Spin time labs, il centro sociale che gestisce la cultura dell'occupazione (discoteca, ristorante e pub all'interno dello stabile), e Tommaso Salaroli, a capo del mensile studentesco Scomodo, sponsor dell'iniziativa. Su loro tre grava la completa responsabilità di aver violato la diffida del questore, Carmine Esposito, notificata la mattina del 31 dicembre e di aver organizzato nel palazzo occupato dal 2013 una notte di follia, con migliaia di persone rimaste fuori dai cancelli tra urla, spaccio, risse, malori e disagi per i cittadini residenti, senza un servizio d'ordine ma soprattutto senza rispettare alcuna norma di sicurezza. E anche se le infrazioni ipotizzate sarebbero di carattere amministrativo, sembra che il procuratore facente funzioni Michele Prestipino voglia affidare il fascicolo alla supervisione del procuratore aggiunto Francesco Caporale, coordinatore del pool antiterrorismo di piazzale Clodio. «Non c'era nessun tipo di pericolo a farla. Era una festa conviviale, allegra con quattro cucine etniche, sale da ballo e laboratori per bambini», aveva già detto Tarzan. Eppure proprio chi non è riuscito a entrare pur avendo un biglietto acquistato online, ha denunciato di essere stato truffato.

·        Il Vaticano e le Associazioni Cattoliche.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 14 dicembre 2020. In Italia esistono più di 1.200 "associazioni cattoliche" riconosciute dalle autorità centrali della Chiesa e da sempre considerate "strategiche". Spesso sono dotate di un patrimonio fatto di fondi e immobili e, in alcuni casi, anche di elargizioni ordinarie e straordinarie attinte dal "fondo discrezionale" della dirigenza della Conferenza episcopale. Sulla carta sono tutte vive e vegete, con regolare rinnovo dell'"assistente ecclesiastico" incaricato di «accompagnarle nella loro testimonianza cattolica». In realtà, fatte poche eccezioni, sono scatole vuote dove un manipolo di prodi continua a rinnovare gli organi societari, più preoccupato della salvaguardia del patrimonio che della pratica religiosa. Non a caso la Cei non fornisce, quando richiesto, il numero degli iscritti (i "tesserati" di un tempo). Vista la quantità delle sigle e le finalità dichiarate dovrebbero coprire l' intero orizzonte socio culturale italiano: dalle parrocchie alle università, dal mondo educativo a quello del lavoro. Eppure, tranne che per sporadiche manifestazioni di massa, i "cattolici impegnati" sembrano scomparsi. Da almeno un decennio nessuna associazione cattolica è stata in grado di interloquire nella costruzione di un vero dialogo sociale e politico. In questo deserto, l'unica realtà che regge, ma solo numericamente, sembra la Coldiretti, che dichiara ancora un milione e seicentomila associati. Ai tempi di papa Pacelli, era la sola ad essere ricevuta in Vaticano. Nel novembre del 2016, però, all'incontro mondiale dei movimenti popolari, papa Francesco decise che fosse un presidente della Confagricoltura, competitor storico della Coldiretti, a illustrare il modello di agricoltura sociale. Ci doveva pur essere un motivo.

·        Il Vaticano ed il Fisco.

Quel fiume di soldi alla Chiesa tedesca che Ratzinger voleva eliminare. La Chiesa tedesca gode di uno status particolare: è la tassa ecclesiastica versata dai cattolici a garantire ricchezza. Ma i cattolici non ci stanno più. Francesco Boezi, Sabato 19/09/2020 su Il Giornale. La "tassa ecclesiastica" della Chiesa tedesca distingue il contesto cattolico teutonico da tutti gli altri. È anche per questo che l'episcopato tedesco ha più potere degli altri, ammettono i conservatori. Quelli che sono da sempre favorevoli ad una revisione della regola. In qualche modo, Joseph Ratzinger ci aveva provato. Ma l'abolizione della "decima" prevista per i cattolici che risiedono in Germania è rimasta un tabù. Dopo il pontificato del tedesco, a parte le affermazioni del "fronte tradizionale", non se n'è più parlato. Il procedimento per questa tassazione è praticamente automatico. Per essere sottoposti al regime di prelievo della Chiesa cattolica tedesca basta il solo battesimo. Poi scatta un obbligo di versamento, che corrisponde all'8-9% del proprio reddito lordo. Ne sa qualcosa il campione del mondo Luca Toni cui, ad un certo punto, venne chiesta di punto in bianco una cifra pari a circa un milione e settecentomila euro in quanto cattolico. Joseph Ratzinger non è mai stato convinto della bontà di quella imposizione. Il Papa emerito è stato piuttosto chiaro quando, da regnante, ha scritto proprio in riferimento alla Chiesa tedesca che "gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo". Non c'è scritto "abolizione della tassa ecclesiastica", ma si può dedurre. Il contesto ed i dettagli sono stati ripercorsi tempo fa dal vaticanista Sandro Magister sul suo blog. E gli ambienti ratzingeriani sono pronti a testimoniare: Benedetto XVI avrebbe voluto rivedere quella regola. Se non altro perché le possibilità della Chiesa cattolica non dovrebbero essere legata alla rendicontazione dei battezzati: "Non muovono da una dinamica di fede. Credo che questo rappresenti il grande pericolo della Chiesa in Germania: ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l'istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana.... . Mi rattrista questa situazione, questa eccedenza di denaro che poi però è di nuovo troppo poco, e l'amarezza che genera, il sarcasmo delle cerchie di intellettuali". Queste sempre le parole di Ratzinger, che in quel discorso ha ammesso tuttavia di non essere contrario in sé e per sé alla "decima". Certo è che diviene difficile immaginare una profonda riforma del sistema tedesco senza uno stravolgimento della sua norma principale, la "tassa" appunto. E se qualcuno avesse ancora dubbi, basterebbe guardare cosa hanno proposto i ratzingeriani in questi sette anni. Un esempio su tutti, l'opera di monsignor Gregor Maria Hanke, il quale si è schierato apertamente per l'abolizione. Il dibattito si è riaperto un minimo in funzione del "Sinodo biennale" dell'episcopato tedesco, l'appuntamento mediante cui il fronte progressista vorrebbe modificare alcuni temi dottrinali, che tuttavia sono di stretta competenza della Chiesa universale (almeno alcuni). Il "fronte tradizionale" è sceso in strada, in segno di contenuta protesta. E tra i punti sollevati c'era appunto la scomparsa di una tassa considerata inopportuna. A capitanare quel gruppo di fedeli, c'era mons. Carlo Maria Viganò. L'ex nunzio apostolico che ha domandato le dimissioni di papa Francesco in funzione del caso McCarrick. Ma la necessità dell'abolizione è condivisa anche da altre personalità legate agli insegnamenti ratzingeriani. Gli effetti della persistenza della tassa non sono neutri. Sono i numeri a fotografare la situazione: ha scritto Emanuel Pietrobon su InsideOver che "272.771 persone hanno deciso di abbandonare deliberatamente la Chiesa cattolica, in aumento significativo rispetto alle 216.078 del 2018". E il dato vale solo per il 2019, mentre la progressione del fenomeno rischia la mancata soluzione di continuità. Non si tratta più tanto di evitare la "protestantizzazione", quanto di prendere atto di un fenomeno che appare più urgente da analizzare: il sistema, così com'è, non trova il placet di tanti cattolici, tedeschi o meno che siano ma comunque residenti in Germania. Ratzinger aveva avvertito.

Vaticano, ogni anno 17 milioni di euro di tasse allo Stato italiano. Parla il Prefetto della Segreteria per l’Economia: "Il Vaticano non rischia il default". Paolo Rodari il 13 maggio 2020 su La Repubblica. “Non siamo un’azienda e non tutto può essere misurato come deficit. Viviamo grazie all’aiuto dei fedeli e paghiamo 17 milioni di euro l’anno di tasse all’Italia. Lavoriamo per un sistema trasparente e per la centralizzazione degli investimenti”. Vatican News intervista il nuovo prefetto della Segreteria per l’Economia, padre Juan Antonio Guerrero Alves, che lo scorso novembre è succeduto al cardinale George Pell, che svela per la prima volta l’ammontare delle tasse che la Santa Sede paga all’Italia: 17 milioni di euro. Chiamato da Papa Francesco a portare a termine una riforma che punta alla trasparenza economica della Santa Sede e a un uso sempre più efficiente dei beni e delle risorse che sono al servizio della sua missione evangelizzatrice, padre Juan Antonio Guerrero Alves si trova ora a doversi confrontare con la crisi causata dal Covid-19: “Stiamo vivendo è un tempo unico”, dice. “Un tempo difficile che ci pone davanti alle nostre responsabilità. Dobbiamo trovare il modo per assicurare la nostra missione. Ma dobbiamo anche capire cosa è essenziale e cosa non lo è. Allo stesso modo non tutto può essere misurato solo come deficit, e nemmeno come mero costo, nella nostra economia”. Guerrero spiega che il Vaticano non è un’impresa. “Non siamo una azienda”, dice. “Il nostro obiettivo non è fare profitto. Ogni Dicastero, ogni Ente, compie un servizio. E ogni servizio ha dei costi. Il nostro impegno deve essere quello della massima sobrietà e della massima chiarezza. Il nostro deve essere un bilancio di missione. Cioè, un bilancio che mette in relazione i numeri con la missione della Santa Sede. Questa che sembra una premessa, è la sostanza della questione. E dunque non va mai persa di vista”. Quanto ai numeri, quelli della Santa Sede “sono molto più piccoli di quanto in tanti immaginano. Sono più piccoli di una media università americana, per esempio. E anche questa è una verità spesso ignorata. In ogni caso i conti ci dicono che tra il 2016 e il 2020 sia le entrate che le uscite sono state costanti. Le entrate intorno ai 270 milioni. Le spese in media intorno a 320 milioni, a seconda dell’anno. Le entrate derivano da contributi e donazioni, rendimenti degli immobili e in misura minore dalla gestione finanziaria e dalle attività degli Enti. Un contributo importante è quello del Governatorato dello Stato Città del Vaticano; e dipende in larga (ma non esclusiva) misura dai Musei oggi chiusi e nella restante parte dell’anno in probabile difficoltà per la ripresa che sarà lenta. Se guardo solo ai numeri e alle percentuali, potrei dire che le uscite si distribuiscono più o meno così: 45% personale, 45% spese generali e di amministrazione e 7,5% donazioni. O potrei dire che il deficit (la differenza fra entrate e uscite) negli ultimi anni ha oscillato fra 60 e 70 milioni. Ma sulla sola base di questi numeri qualcuno potrebbe pensare che il deficit è un buco che deriva da cattiva amministrazione. O che finanzia una burocrazia immobile. Non è così. Niente a che vedere con questo. Dietro questi numeri c’è la missione della Santa Sede e del Santo Padre, c’è la pienezza della vita e del servizio ecclesiale. Non è giusto dire che il deficit si finanzia con l’Obolo di S. Pietro come se l’Obolo riempisse un buco. L’Obolo anche è una donazione dei fedeli: finanzia la missione della Santa Sede, che include la carità del Papa, e che non ha ricavi sufficienti”. Quando parla di “bilancio di missione”, Guerrero intende il lavoro di comunicazione di quello che il Papa fa in 36 lingue, “attraverso la radio, la tv, il web, i social, un giornale, una tipografia, una casa editrice, la sala stampa (e così via) è una impresa che non ha eguali al mondo”. Un’impresa con costi e ricavi. “Assorbe circa il 15 per cento del budget. Ci lavorano più di 500 persone”. Un altro dieci per cento del budget “va alle nunziature”. “Qualcuno magari pensa che siano chissà cosa. Sono piccole ambasciate del Vangelo, che difendono nelle relazioni internazionali i diritti dei poveri, che portano avanti una diplomazia del dialogo, della pace, della cura della terra come nostra casa comune.  Un altro dieci per cento si spende per le Chiese Orientali, che sono spesso perseguitate o nella diaspora. Per l’attenzione alle Chiese più povere, alle missioni, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, si eroga un altro 8,5 per cento. Poi c’è la tutela della unità della dottrina, ci sono le cause dei Santi. C’è la preservazione di un patrimonio dell’umanità come la Biblioteca Vaticana e gli Archivi. C’è la manutenzione, doverosa, degli edifici: un altro dieci per cento. Ci sono le tasse italiane, che paghiamo: il 6 per cento circa del budget, cioè 17 milioni. E così via…”. Con la pandemia le più ottimistiche calcolano “una diminuzione delle entrate intorno al 25 per cento. Le più pessimistiche intorno al 45 per cento”. C’è un rischio default? “No. Io credo di no”, dice. “Il Vaticano non rischia il default. Questo non vuol dire però che non dobbiamo affrontare la crisi per quella che è. Abbiamo sicuramente davanti anni difficili”.

DAGONEWS il 22 gennaio 2020. Sorrentino meglio del mago Otelma. Dopo la frecciatina a Meghan (e relativa anticipazione della sua volontà di diventare influencer) e la santificazione del cardinale Newman (il cardinale Brannox-Malkovich si ispira in tutta la serie al cardinale che Papa Francesco ha nominato santo lo scorso Ottobre) ora la polemica delle tasse sugli immobili non pagate dal Vaticano. Nella serie, alla quarta puntata, il Presidente del Consiglio chiede a The New Pope tutti gli arretrati, fa la voce  grossa, minaccia, ma Stato e Chiesa hanno in comune alcuni segreti…

Franca Giansoldati e Fabio Rossi per “il Messaggero” il 22 gennaio 2020. Diecimila immobili, magari, saranno difficili da censire. Ma il Campidoglio, in realtà, non partirebbe proprio da zero, nella partita sul recupero dell'Imu non versato per le strutture commerciali di proprietà della Chiesa. E così mentre dal Vaticano arriva un assist al Comune di Roma - sotto forma di un conteggio degli immobili di proprietà della Santa Sede - si scopre che a Palazzo Senatorio già da tempo c'è una lista di circa 300 strutture ricettive di enti e congregazioni religiose. Case vacanza e B&b, ma anche veri e propri alberghi con tutti i comfort, con tariffe comprese tra i 100 e i duecento euro per notte. Di queste strutture, 233 risulterebbero non in regola con il pagamento delle imposte locali, da quelle sulla proprietà alla tariffa rifiuti: un potenziale contenzioso da 19 milioni di euro che rientra nel conto dal 200 milioni annui di potenziali incassi per Roma Capitale stimati nel 2016 proprio dal M5S, durante la campagna elettorale che ha condotto Virginia Raggi sul colle capitolino. A mettere in fila queste strutture è stato il deputato radicale Riccardo Magi, pescando tra quelle censite sul sito del dipartimento turismo del Campidoglio e accertando la loro posizione contributiva con gli stessi uffici comunali. Insomma, una lista già pronta a cui poter presentare i conti arretrati. Tanto che a Palazzo Senatorio c'è chi teme un danno erariale: «Roma Capitale potrebbe essere chiamata a recuperare quanto non richiesto», si legge in verbali interni all'amministrazione. Al di là del Tevere, intanto, monsignor Nunzio Galantino, a capo dell'Apsa, l'ente finanziario al quale fa capo il patrimonio immobiliare della Santa Sede, è intervenuto per spiegare per l'ennesima volta che il Vaticano ha fatto e sta facendo la sua parte, non solo pagando regolarmente le tasse dovute al Comune e sborsando ogni anno oltre 9 milioni di euro per l'Imu, ma ultimando il primo conteggio degli immobili vaticani che sia mai stato fatto. Un importante studio che l'arcivescovo ha messo in cantiere proprio ai fini della trasparenza. In pratica entro qualche mese sarà finita la mappatura finale di tutte le proprietà che il Vaticano possiede a Roma e in tutta Italia. I dati con ogni probabilità verranno pubblicati sul sito istituzionale. «Noi non abbiamo nessun motivo per essere opachi» ha affermato l'arcivescovo, precisando che questa ricerca innovativa ha richiesto tante energie e tempo. Un passaggio resosi necessario per la determinazione e il controllo degli asset. Tuttavia il problema della classificazione e della composizione del patrimonio ecclesiastico appartamenti, edifici, stabili, negozi, capannoni, palazzi, terreni, centri commerciali, ostelli resta purtroppo aperta e non per colpa del Vaticano ma degli ordini religiosi. Monsignor Galantino spiega che ogni ente religioso avendo una propria una personalità giuridica, di conseguenza, è indipendente nella gestione economica. «Il che significa, per farla breve, che non vengono a comunicare i bilanci a noi. Non sappiamo nulla di quello che fanno. Sono autonomi in tutto e per tutto, e non li possiamo nemmeno controllare». In passato su disposizione di Papa Francesco era stata diramata una sorta di comunicazione interna rivolta a tutti gli ordini religiosi residenti in Italia ad essere più coerenti e trasparenti possibili nella propria amministrazione. Sono anche stati organizzati dei corsi annuali rivolti agli economi degli ordini, al fine di aggiornarli sulle legislazioni, le modalità fiscali e dare ad ognuno di loro gli strumenti conoscitivi per svolgere il compito. «Ma più di questo non possiamo fare». Il problema che affiora dalle parole di monsignor Galantino fa riferimento al vastissimo arcipelago degli ordini religiosi sia maschili che femminili presenti in Italia. Un vero ginepraio. Francescani, cappuccini, gesuiti, salesiani, vincenziani, maristi, domenicani, calasanziani, ai quali si aggiungono i rami femminili (molto più numerosi) che, nel corso dei anni hanno anche subito sdoppiamenti giuridici o accorpamenti. Probabilmente nemmeno la Congregazione dei Religiosi ha un elenco completo del caotico mondo religioso, peraltro sottoposto ultimamente a veloci mutamenti ed accorpamenti per la drastica mancanza di vocazioni. Monsignor Galantino ha studiato però il problema della mappatura finale e l'unico suggerimento concreto (e attuabile) che si sente di fare arrivare al Campidoglio è quello di lavorare sul Catasto. «Lì ci dovrebbe essere tutto, i riferimenti, le modifiche, i passaggi». Ma si tratta di tirarsi su le maniche e iniziare a comporre davvero un puzzle macchinoso.

·        Il Vaticano e la Medicina.

San Giuseppe Moscati, il medico santo e i miracoli con cui ha guarito i napoletani. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2020. Considerato il medico dei poveri, San Giuseppe Moscati è stato beatificato da Papa Paolo VI nel corso dell’Anno Santo 1975 e canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, a 60 anni dalla sua morte. La sua capacità di conciliare scienze e fede lo ha reso uno dei medici più conosciuti del Novecento. In particolar modo a Napoli, dove ha trascorso gran parte della sua vita anche se nacque a Benevento. Settimo di nove figli, Giuseppe Moscati proveniva da una famiglia di laureati in giurisprudenza, ma lui non continuò il tradizionale lavoro di famiglia e decise di iscriversi alla facoltà di Medicina per seguire la sua vocazione. Infatti San Giuseppe Moscati diventa noto in tutto il mondo per i suoi miracoli, che tuttora portano tantissimi fedeli a rivolgersi a lui per ottenere una guarigione. Il medico dei poveri vedeva nei suoi pazienti il Cristo sofferente, e per questo era spinto da uno slancio di amore generoso nei confronti di chi soffriva. Non attendeva che i malati andassero da lui, ma li andava personalmente a cercare e curare gratuitamente nei quartieri più poveri ed abbandonati della città. Moscati diventa così l’apostolo divino, colui che porta l’amore, la solidarietà e la compassione nel mondo dei più bisognosi attraverso le sue cure.

LA STORIA – Venuto al mondo il 25 luglio 1890, all’età di quattro anni si trasferì con la sua famiglia nel capoluogo campano dove ha conseguito gli studi e ha sviluppato la sensibilità per gli ammalati, che poteva osservare dalla finestra della sua abitazione che affacciava sull’Ospedale degli Incurabili. Il primo ammalato con cui ebbe a che fare fu proprio suo fratello Alberto, il quale caduto da cavallo subì un trauma cranico che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento ebbe un effetto persuasivo su Moscati tanto che lo spinse ancora di più a proseguire la sua vocazione per la medicina. Conclusi gli studi universitari il 4 agosto 1903, dall’anno successivo dopo aver superato due concorsi, presta servizio di coadiutore all’ospedale degli Incurabili a Napoli. Inoltre, organizza l’ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e grazie alla sua capacità di agire tempestivamente ha assistito i ricoverati nell’ospedale di Torre del Greco, durante l’eruzione del Vesuvio nel 1906. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia, ed i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni. Negli anni si succedono le nomine a coadiutore ordinario negli ospedali e, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a primario. Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell’insegnamento. Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, diventando uno dei più ricercati nell’ambiente partenopeo e non solo, conquistando anche una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Ma ciò che più ha caratterizzato il professor Moscati è la sua dedizione verso i più deboli e la sua vita impregnata di fede e di carità. Infatti sono numerosi i racconti di pazienti che hanno testimoniato la sua benevolenza restituendo i soldi delle visite mediche. Per lui i pazienti erano delle anime divine, da amare come noi stessi. Giuseppe Moscati morì di infarto il 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina. I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è  svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975. A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987.

I MIRACOLI – Ancora oggi i miracoli di San Giuseppe Moscati sono ricordati con amore dal popolo, che celebra la festa liturgica del medico Santo ogni anno il 16 novembre. Il 16 novembre del 1930, infatti, i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Dopo due anni la beatificazione, sempre il 16 novembre, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione. Tra i miracoli più noti del medico troviamo tre guariti: Costantino Nazzaro, Raffaele Perrotta e Giuseppe Montefusco. Il primo miracolato fu Costantino Nazzaro, maresciallo degli agenti di custodia, in salute fino a quando nel 1923 un ascesso alla radice della gamba destra non lo portò ad ammalarsi. Durante la convalescenza nell’ospedale militare di Genova, le sue condizioni fisiche peggiorarono e gli fu attribuito il morbo di Addison, considerata all’epoca dai trattati di medicina una diagnosi mortale. Nella primavera del 1954 Costantino, entrato in chiesa del Gesù Nuovo pregò dinanzi la tomba di San Giuseppe Moscati ritornando ogni due settimane per quattro mesi. Una notte Nazzaro sognò di essere operato da Giuseppe Moscati e l’indomani era guarito, con l’incredulità dei medici che non riuscirono a spiegarsi la sua guarigione.

Il secondo miracolato invece, Raffaele Perrotta, fu guarito istantaneamente da meningite cerebrospinale meningococcica nel febbraio del 1941. La patologia di cui soffriva Perrotta gli fu diagnosticata da piccolo già in forma grave e stava così male che il professore che lo aveva in cura non gli aveva dato nessuna speranza. Le condizioni del bambino, infatti, si aggravarono e la madre invocò Giuseppe Moscati. Passate alcune ore il ragazzo riprese conoscenza e la malattia fu dichiarata debellata. Giuseppe Montefusco fu l’unico dei miracolati presente alla canonizzazione di Giuseppe Moscati nel 1975. Dopo pochi anni, quando lui ne aveva venti, cominciò ad accusare astenia, pallore e vertigini tanto da ricorrere al ricoverato in ospedale. Al ragazzo gli fu diagnosticata una leucemia acuta mieloblastica, una patologia che lo avrebbe portato in poco tempo alla morte. Una notte, la madre sognò la fotografia di un medico in camice bianco. Segnata dall’evento, l’indomani mattina la donna racconta il sogno al suo parroco che pensò subito che potesse trattarsi di Giuseppe Moscati. Così la madre di Giuseppe si recò nella chiesa del Gesù Nuovo, dov’è sepolto Moscati, a pregare. Suo figlio dopo meno di un mese guarì. Anche in questo caso i medici parlarono di una morte non spiegabile.

DAGOREPORT il 19 settembre 2020. In Vaticano è cominciata una nuova stagione di Dr. House. Il regista è Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano, nonché nipote meno dotato del defunto Riccardo Misasi, ministro dc della Pubblica Istruzione. Lì, sul giornale ufficiale della Santa Sede, tale Lucio Coco ha pubblicato una serie di articoli sugli archiatri, cioè i medici dei papi, nella storia. Figure defilate ma ovviamente decisive e che aiutano a capire come vanno le cose nell’antica corte che papa Francesco detesta, senza accorgersi del cortile, e del pollaio, che ha intorno. Nelle pagine culturali del foglio vaticano, l’ultimo articolo sugli archiatri, quello dedicato al Novecento, non era soltanto reticente al limite del ridicolo, ma sbagliava clamorosamente il nome del più famigerato, e cioè Riccardo Galeazzi Lisi. Costui è diventato infatti Riccardo Galeazzi Nisi, e in un sommario è stato addirittura trasformato in Galeazzo Nisi (mentre più avanti Wojtyla è diventato Woytila, con la sussiegosa “l” polacca tagliata, evidente lascito grafico dei 27 anni in cui regnò il pontefice slavo, che si accompagna però all’imperdonabile scambio tra “j” e “y”). L’autore si spinge imprudentemente fino a Benedetto XVI e scrive dunque anche di Renato Buzzonetti, che il papa bavarese aveva ereditato da Giovanni Paolo II, ma rimuove del tutto il suo collega Patrizio Polisca, che segue tuttora Joseph Ratzinger (e che l’ha accompagnato di recente in Baviera nella visita al fratello Georg morente). La ragione è presto detta: Polisca è stato anche il primo medico di Bergoglio, che all’improvviso ha deciso di sostituirlo con Fabrizio Soccorsi, poi messo da parte anche lui, senza successori ufficiali. Il motivo? Secondo gli immancabili spifferi vaticani, l’incazzoso pontefice argentino, fidandosi dei suoi giovanili studi chimici, non sopporta i medici e preferisce curarsi da solo. Ma torniamo a Galeazzi Lisi, l’oscuro oculista divenuto l’archiatra di Pio XII. Il medico venne mantenuto nella sua carica nonostante una caratteristica non proprio adatta al suo ruolo: aveva continuo bisogno di denaro che perdeva al gioco e nella prima metà degli Anni ‘50 divenne l’informatore, ovviamente ben pagato, di giornalisti e testate. Fino a vendere le foto di papa Pacelli sul letto di morte a giornali e rotocalchi. «Sembra che ci sia stata una incrinatura nel patto che lega medico e paziente» sintetizza serafico il quotidiano vaticano. Più avanti l’autore dell’articolo sfida la lingua italiana, descrivendo in termini contorti e surreali Mario Fontana, l’archiatra di Paolo VI: «La sua persona la si vede stilare e sottoscrivere un referto per una ferita di arma da taglio infertagli da un attentatore nell’aeroporto di Manila il 27 novembre 1970», il pittore boliviano Benjamín Mendoza, autore del fallito attentato che venne subito immortalato sui muri di Milano dalla scritta «Mendoza, grazie lo stesso». Nulla invece si legge della tormentata storia sanitaria di Giovanni Paolo II. A questo punto è d’obbligo chiedersi se il direttore del giornale sappia qualcosa di storia, ma anche se legga gli articoli di cui autorizza la pubblicazione. Se qualcuno lo interrogasse gli si può suggerire la risposta del suo storico predecessore Giuseppe Dalla Torre a un ambasciatore che gli chiedeva conto indignato di un articolo uscito sul foglio vaticano: «Quale articolo, eccellenza? Io L’Osservatore Romano non lo leggo!».

Da Wikipedia il 20 settembre 2020. Oculista, membro onorario della Pontificia accademia delle scienze, fu archiatra pontificio e medico personale di papa Pio XII dalla sua elezione e per tutto il suo pontificato. Nel 1953 fece parte della commissione medica che decretò l'appartenenza all'apostolo Pietro delle ossa umane avvolte in un panno di porpora rinvenute durante gli scavi nelle Grotte Vaticane; tre anni dopo, tuttavia, venne escluso dalla commissione a causa di alcuni debiti di gioco. Nel 1954, il suo nome apparve sui giornali a causa dei suoi rapporti con Ugo Montagna, all'epoca tra i maggiori protagonisti del Caso Montesi. Durante l'agonia di Pio XII, Galeazzi Lisi scattò una ventina di fotografie al pontefice steso sul letto con la cannula dell'ossigeno in bocca, vendendole poi ad alcuni giornali francesi, e già nei mesi precedenti aveva più volte venduto agli organi di stampa indiscrezioni sulla salute del pontefice, che non lo aveva licenziato solo per rispetto nei confronti del fratello, architetto e importante funzionario del Vaticano, limitandosi a dispensarlo de facto dal suo incarico di archiatra. Il Galeazzi Lisi fu inoltre responsabile della prematura errata notizia della morte di Pio XII. Ai molti giornalisti che attendevano incessantemente sotto l'appartamento papale, egli disse infatti che avrebbe aperto la finestra della camera da letto del pontefice non appena morto il papa. La finestra venne però aperta da una monaca presente ma ignara che pertanto diede l'annuncio della morte di Pio XII quando ancora il papa stava combattendo tra la vita e la morte. Dopo la morte del pontefice, poiché i papi vengono tradizionalmente imbalsamati, Riccardo Galeazzi Lisi annunciò di voler utilizzare sul corpo del papa defunto una tecnica conservativa da lui stesso definita "rivoluzionaria", che aveva illustrato a Pio XII ancora vivente, il quale era apparso all'epoca assai restio all'idea che, dopo la morte, il suo corpo dovesse essere denudato e manipolato. A sostegno della sua "invenzione", Galeazzi Lisi portò in visione al papa la mano imbalsamata di un automobilista morto in un incidente anni prima, ottenendo così l'approvazione di Pacelli. Alla morte di Pio XII, avvenuta il 9 ottobre 1958, Galeazzi Lisi, incaricato di imbalsamare il pontefice, applicò il suo metodo sperimentale: l'avvolgimento della salma dentro alcuni strati di cellophane insieme a una miscela di erbe aromatiche, spezie e prodotti naturali, simili a quelle, secondo lui, che erano state utilizzate per seppellire Gesù Cristo. Tale metodo si rivelò però fallimentare dal momento che, lungi dal preservare la salma, ne accelerò la decomposizione, causando problemi nel corso delle esequie, come lo svenimento di alcune guardie d'onore stordite dai miasmi sprigionati dal corpo, che come da tradizione fu esposto pubblicamente per nove giorni su un catafalco all'omaggio dei fedeli nella Basilica di San Pietro. Per rimediare, venne convocato un gruppo di medici legali esperti nel campo dell'imbalsamazione per eseguire un nuovo trattamento conservativo con ovatta e formalina, volto a rallentare il processo di decadimento organico: la situazione era però ormai tanto compromessa da rendere necessaria la posa sul volto del papa (sfigurato dalla putrefazione) di una maschera di cerone miscelato a composti alcalini. Una volta che fu emersa la speculazione delle foto, Galeazzi Lisi il 20 ottobre 1958 venne licenziato in tronco dal Collegio cardinalizio che lo sostituì col professor Antonio Gasbarrini (già membro del suo team medico), e venne radiato dall'Ordine dei Medici per comportamento indegno. Il successore di Pio XII, papa Giovanni XXIII, lo bandì a vita dal Vaticano. Nel 1960 scrisse un libro intitolato Dans l'ombre et dans la lumière de Pie XII[8] che fu pubblicato dalla casa editrice francese Flammarion, con la riproposizione delle fotografie di Pio XII durante l'agonia e l'imbalsamazione.

Da Wikipedia. Secondo la storia ufficiale Riccardo Galeazzi Lisi, per gli amici Ricky se solo avesse avuto amici, si laureò nel 1915 in Medicina applicata allo smaltimento dei rifiuti risultando il migliore del suo corso, che oltre a lui annoverava come studenti Virna la scimmia tabagista e un vecchio in coma da sedici anni. Successivamente furono molti i colleghi che contestarono il titolo di studio di Galeazzi Lisi. In effetti c'era qualcosa di sospetto: I professori che avevano firmato il suo libretto avevano tutti la medesima calligrafia. E tutti si firmavano con delle X. La Facoltà di medicina nel 1915 non era agibile perché era stata bombardata. Il rettore era suo padre. Ai suoi accusatori Galeazzi Lisi rispondeva dicendo: "Hai una scarpa slacciata", dopodiché aspettava che si chinassero, li colpiva in testa con un cric e tumulava i corpi in aperta campagna.

Primi impieghi. Sì, Galeazzi Lisi era anche un valente dentista. In quanto neolaureato nemmeno tanto intelligente Galeazzi Lisi trovò lavoro come anatomopatologo a progetto in un obitorio di Roma. Le giornate passavano liete e felici, tra qualche dente d'oro sottratto a un morto e una diagnosi fatta alla cazzo di cane. "È morto di cause naturali, senza dubbio alcuno!" - diceva di un magrebino preso a sprangate e arso vivo da una banda di skinhead. "Le analisi hanno evidenziato la presenza di una strana sostanza... è stricnina, senza dubbio alcuno! Arrestate i parenti, l'hanno avvelenata!" - diceva di una vecchietta morta placidamente nel sonno. "Le diagnosi non le ho fatte io. Ricordo che toccavano a quello nuovo, come si chiama? Albertozzi! Le ha fatte Albertozzi, senza dubbio alcuno! Licenziatelo immediatamente, è un incompetente quello lì!" - diceva quando i suoi superiori volevano sapere di chi fosse la colpa dell'ennesimo macroscopico errore. Fu dopo trent'anni di onorata carriera e quarantotto colleghi licenziati che Riccardo Galeazzi Lisi si licenziò dall'obitorio: era diventato così abile e veloce nell'arte di preservare i cadaveri dalla putrefazione che poteva imbalsamare una persona mentre quella faceva un sonnellino. Quello fu anche il motivo per cui si licenziò: ma la colpa era del suo assistente, che aveva il vizio di sdraiarsi sui lettini per le autopsie e che quando dormiva pareva morto.

Medico del Vaticano. Nel 1953 fece il grande salto e partecipò a un concorso per diventare archiatra pontificio. Quando gli spiegarono che archiatra significa medico del papa era troppo tardi: Galeazzi aveva vinto il concorso. Anche perché gli unici candidati oltre a lui erano Virna la scimmia tabagista e un vecchio in coma da cinquantaquattro anni. Che beffa! Da aspirante ginecologo per top model brasiliane a medico personale di Pio XII, un povero rincitrullito che girava con un buffo cappello bianco, pensava di parlare con Dio e alla veneranda età di settant'anni era ancora vergine!

Registrazione audiovisiva degli ultimi istanti di vita di Pio XII. Quello stesso anno fu chiamato a far parte della commissione che doveva stabilire a chi appartenessero le ossa umane rinvenute durante gli scavi nelle grotte vaticane. Galeazzi le attribuì all'apostolo Pietro. Inutilmente gli altri membri della commissione cercarono di spiegargli che erano i resti di un muratore albanese. « Ma guarda! Il cappellino fatto con la carta, la canottiera sporca di malta, la mano che ancora stringe la cazzuola! E qua, nell'angolo, c'è persino un permesso di soggiorno scaduto! È un muratore albanese, ti dico!» Galeazzi Lisi fu irremovibile e le ossa divennero una reliquia che aumentò i già smisurati introiti della Chiesa. Pio XII lo ripagò nominandolo membro onorario della Pontificia Accademia delle Scienze. In realtà lo fece per via di un vecchio debito nei confronti del medico, che aveva mantenuto il più stretto riserbo sui suoi dolori lancinanti all'ano e sul vasetto di vasellina ritrovato sul suo comodino.

Lo scandalo. Una mercoledì mattina, mentre vomitava con la testa nel water dopo la solita sbronza, i suoi due neuroni fecero contatto e Riccardo Galeazzi Lisi inventò lì per lì una rivoluzionaria tecnica imbalsamatoria. Dopo averla testata sul suo gatto corse a proporla a Pio XII, dato che secondo tradizione tutti i pontefici vengono imbalsamati purtroppo solo dopo la morte. Pio XII era assai restio all'idea che il suo corpo dovesse essere denudato e manipolato. Per convincerlo Galeazzi estrasse dalla tasca una mano perfettamente imbalsamata.

- Galeazzi Lisi: “Questa mano appartiene a una guardia svizzera. L'ho trattata con la mia nuova tecnica. Come vede è estremamente efficace.”

- Pio XII: “Notevole, in effetti...”

- Da fuori: “AAAAAAAARGH!”

- Pio XII: “Cos'erano quelle urla?”

- Galeazzi Lisi: “Oh, sarà la guardia svizzera a cui ho tagliato la mano che si risveglia. Ho dovuto sedarlo, sa? Non me la voleva prestare.”

Pio XII accettò di venir imbalsamato da Galeazzi. Sancirono l'accordo con una stretta di mano (svizzera). Il 9 ottobre 1958 il pontefice tirò le cuoia dopo lunga agonia: erano più di ottant'anni che pisciava da seduto. La carcassa aveva appena iniziato a puzzare quando Galeazzi Lisi si presentò con la cassetta dei ferri e un grembiule da barbecue. "Ci penso io" - disse ai presenti, e si chiuse nella stanza col morto. La riuscitissima imbalsamazione. Il tanfo di papa frollato impregnò la camera ardente e causò alla moltitudine di fedeli svenimenti e allucinazioni, che furono interpretati come manifestazioni divine. Quando ne uscì, tre ore dopo, era sudaticcio e ricoperto di pus e altri liquidi organici repellenti benché appartenenti al papa. Nella stanza c'era un persistente odore di vecchiume, incenso e fiamma ossidrica. Il corpo di Pio XII era avvolto in uno spesso strato di carta da imballaggi insieme a spezie ed erbe aromatiche. Nella bocca aveva un arbre magique, per mantenere l'alito fresco. I portantini presero in consegna la salma. Nessuno badò al sommesso mormorio di scarico intasato che proveniva dal corpo. Durante il trasporto il mormorio si tramutò in brontolio di stomaco, e poi in lieve scossa tellurica. I portantini spaventati aprirono con circospezione la bara: in quel momento il corpo di Pio XII, gonfio e violaceo, si squarciò con un boato assordante e l'onda d'urto si propagò per 500 metri. I portantini, un cane che stava pisciando all'angolo e una donna che in quel momento stava guardando fuori dalla finestra vennero dilaniati dall'esplosione degli intestini e dei gas putrefattivi di Sua Santità. Ma quello fu il minore dei mali. Nello stesso momento Chi, Novella 2000, Famiglia Cristiana e tutte le maggiori testate scandalistiche uscirono in edicola con edizioni straordinarie che titolavano: « Imperdibile: tutti gli scatti osè di Pio XII!» Riccardo Galeazzi Lisi aveva infatti approfittato della sua intimità col papa per costringerlo nei suoi ultimi istanti di vita a indossare costumi scabrosi e poi fotografarlo. Le immagini di Pio XII travestito da Wonder Woman, crocerossina, Hulk, Karl Marx e perfino da diavoletto fecero il giro del mondo. A causa dell'oltraggiosa speculazione Galeazzi fu radiato dall'Ordine dei medici, fu bandito dal Vaticano e non gli strapparono la tessera dell'autostrada solo perché era plastificata. Nel 1960 scrisse un libro intitolato ''Come far scoppiare la pancia a un papa'' e altri trucchi per ravvivare un party. Successivamente si ritirò a vita privata, concedendosi solo qualche sporadica presenza su Youtube con video in cui insegnava a imbalsamare il proprio nonno morto in modo da ritirare lo stesso la pensione.

·        Il Vaticano e la Morte.

DAGOREPORT il 22 settembre 2020. Sono anni che i comunicatori vaticani – impietosamente e periodicamente bersagliati sul Venerdì di Repubblica dall’informato quanto caustico don Filippo Di Giacomo, spesso predicatore dai microfoni della Rai – si preparano allo scenario della morte di Benedetto XVI. Si dice a Roma che in questo modo si allunga la vita dell’interessato, e Ratzinger per la verità sta benino, tenendo conto dell’età e degli inevitabili acciacchi: ha compiuto 93 anni lo scorso 16 aprile ed è reduce da una dolorosa infezione sulla pelle del viso, ormai superata. Così come da qualche giorno è a casa in convalescenza il suo segretario Georg Gänswein, ricoverato d’urgenza per calcoli renali ma dato quasi per morto. Stando ai boatos d’Oltretevere, la novità è però un’altra. Il gruppo di addetti alla comunicazione voluto da papa Francesco starebbe pensando anche alla dipartita del capo – com’è peraltro ovvio dato che il pontefice argentino compirà 84 anni il prossimo 17 dicembre – e avrebbe iniziato ad approntarne il coccodrillo. Il guaio è che la notizia, nel minuscolo villaggio popolato da lavandaie (copyright Marcinkus), nelle scorse settimane è arrivata fino all’orecchio del Papa che, sempre secondo il chiacchiericcio vaticano non a caso di continuo martellato da Bergoglio, non avrebbe gradito per nulla e ne avrebbe chiesto conto agli interessati, esigendo addirittura di leggere in anticipo il suo elogio funebre. Non si sa se l’estemporanea richiesta del Pontefice sia stata esaudita, ma la sua curiosità è del tutto legittima, visto che dopo non potrà farlo...Pare che i responsabili del Dicastero per la comunicazione, capeggiato da Paolo Ruffini e Andrea Tornielli, si siano sentiti gelare, affannandosi come Fantozzi a spiegare a Sua Santità che quella di preparare un pezzo con le lacrime incorporate (donde il sostantivo coccodrillo) è una prassi del tutto normale nelle redazioni che non vogliano trovarsi con il culo per terra quando i personaggi eccellenti tirano le cuoia, magari in orario di chiusura del giornale. Il problema è che anche per il coccodrillo vale il famoso detto «si fa ma non si dice», mentre i gazzettieri pontifici non si tengono un cecio in bocca e i loro protettori al massimo una fava. Amorale della favola: siate più professionali, zelanti chierici della comunicazione, come opportunamente da tempo vi suggeriscono le “Cronache celesti” del Venerdì di Repubblica, ma anche i curiali e gli stessi vaticanisti. I quali, fra l’altro, per colpa del coronavirus, in senso non mariano bensì virale, non possono nemmeno più fare i turisti aggratis in giro per il mondo sull’aeroplanino dell’indefesso Bergoglio. Quanto al Papa, non ha proprio alcuna voglia di passare a miglior vita. Anche se ogni mattina, dopo essersi guardato intorno, i suoi cortigiani allo sbaraglio gliela fanno venire.

Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". Pubblicato martedì, 22 settembre 2020 da Paolo Rodari su La Repubblica.it. Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". L'ex Sant'Uffizio stabilisce la dottrina sul tema come "insegnamento definitivo". La Chiesa si oppone all'accanimento terapeutico: "Procura solo un prolungamento precario e doloroso della vita". "La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l'eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l'uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente". Ha il tono delle definitività la Lettera Samaritanus bonus della Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Dopo dibattiti accesi, negli ultimi mesi soprattutto in Italia, in merito, il Vaticano dice la sua ricordando come a suo avviso "coloro che approvano leggi sull'eutanasia e il suicidio assistito si rendono complici del grave peccato che altri eseguiranno". E ancora: "Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli". L'eutanasia, spiega ancora l'ex Sant'Uffizio, "è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza". "Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale" e "qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata a un tale atto è un peccato grave contro la vita umana". "Dunque, l'eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva". Per la Santa Sede "una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri e nega se stessa come soggetto morale. Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio", e "di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l'alleanza che costituisce la famiglia umana". Per questo "aiutare il suicida è un'indebita collaborazione a un atto illecito". "Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire", spiega l'ex Sant'Uffizio, e "si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata". "È per questo che l'eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica". La Chiesa ribadisce di stare dalla parte di coloro che favoriscono il diritto a morire "nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta". Per questo, "tutelare la dignità del morire significa escludere sia l'anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”. La medicina odierna dispone, infatti, di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva in taluni casi un reale beneficio". Nel caso specifico dell'accanimento terapeutico, prosegue il documento, "va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati “non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte” o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare". "La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria".

  Filippo Facci per Libero Quotidiano il 23 settembre 2020. Gli italiani non leggono - dicono - però secondo il Vaticano dovrebbero leggere l'intera lettera «Samaritanus bonus» a cura della «Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» (complimenti al titolista) e tutto per sapere come dovrebbero e dobbiamo morire: 105mila battute infinite (con traduzione in inglese, spagnolo e portoghese) comprese 99 note modernissime che comprendono il Concilio di Trento del 1545; parliamo di uno scritto presentato ieri in una triste conferenza stampa che dovrebbe dare un «orientamento» e farci risapere che l'eutanasia è un crimine, e che, invece, non lo sono le cure palliative e l'obiezione di coscienza. Traduzione nostra: il Vaticano finge d'ignorare che certe cure palliative in pratica sono già un'eutanasia (perché ti addormentano e ti tengono addormentato sinché sei morto) mentre lo Stato italiano finge d'ignorare che l'obiezione di coscienza di cui parla il Vaticano dovrebbe esserlo, un crimine: perché significa che i medici cattolici impallinati rifiutano la legge italiana qualora a loro dire legittimi «sotto qualsiasi forma di assistenza medica, l'eutanasia o il suicidio assistito». C'è una cosa da fare, testuale: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». In Iran, forse. E dove sia un un dio a pagargli lo stipendio. Non è abbastanza chiaro? Allora ecco: «Non esiste il diritto al suicidio né quello all'eutanasia anche quando l'eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato». È sempre un estratto della «Samaritanus bonus». Chissà che cosa ne penserebbe Sergio Zavoli, morto nell'agosto scorso e autore del poco ricordato «Il dolore inutile» (Garzanti 2005), o chissà che cosa ne penserebbe anche l'oncologo Umberto Veronesi, morto nel 2016 e autore di ben due testi, «Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza» (Mondadori 2005) e «Il diritto di non soffrire» (Mondadori 2012). E chissà che cosa ne pensate voi, perché no, forse non occorre attendere un rapporto Censis per sapere che la maggior parte degli italiani (sani di mente) si ritiene padrona della propria vita o perlomeno titolata a morire - scusate - come stracazzo vuole. Né ci vuole un genio della politica per sapere che molte posizioni «bioetiche» della maggioranza degli italiani, pur attenendo ai diritti individuali, non vengono mai trasformate in legge perché la classe politica che non vuole inimicarsi il Vaticano, come se il Vaticano contasse ancora qualcosa. Così, da un numero insopportabile di anni, finisce che in materia, a legiferare, è indirettamente la magistratura (o la Corte Costituzionale, se fa differenza) come di recente è accaduto con il caso di Cappato e il suicidio assistito, ma come accadde a partire dal caso di Eluana Englaro e in molti altri casi: poi dicono l'invadenza della magistratura. Eh sì, è davvero un peccato che perlomeno una parte d'Italia si sia laicizzata, modernizzzata, e che gli ospedali non siano più come erano nell'era pre-San Raffaele, quando a gestirli era culturalmente la Chiesa e non erano intesi come centri di ricerca e di studio, di previdenza, di assistenza sociale, quando c'erano le cliniche dei baroni che si portavano appresso i malati (ricchi) come dei pacchi, in mano quasi sempre a religiosi accomodanti, oppure, ecco, per il resto erano lazzaretti, casermoni con camerate e file di cinquanta letti, lugubri cronicari con le suore e la cultura del dolore e della penitenza (Sergio Zavoli, appunto, ne ha fatto bellissime inchieste) e insomma: altro che diritti del malato, altro che rispetto sacrale dell'infermo e altre sciocchezze che un laico-religioso come Don Luigi Verzè, da noi, immaginò per primo ottenendone lo scandalo e l'ostracismo di tutte le curie. Si facciano i loro ospedali, le loro cliniche, le loro farmacie e le loro leggi, i cattolici impallinati nonché leggitori integrali della «Samaritanus bonus», che da sola è già una penitenza. In questi ultimi anni la scienza del dolore ha compiuto notevoli progressi (anche se la morfina è disponibile solo dal 2009, dopo iter infernali) e sono stati messi a punto nuovi farmaci che però vengono centellinati sempre in omaggio a una vetusta cultura che quella no, non muore mai. All'estero fanno sempre una gran fatica a capire perché in Italia si affronta con tanta parsimonia la sofferenza dei malati: non capiscono perché esista e resista una «cultura del dolore» che pesca nel torbido e nella labilità dei confini tra le cure di fine vita (lasciar morire) e il suicidio assistito (aiutare a morire) e l'eutanasia (provocare il morire). Solo quando si finisce in ospedale (cioè troppo tardi) ci si accorge che forse qualcosa si poteva fare, legiferare, regolare: come per anni hanno chiesto una parte della società civile, i medici, tutti i livelli della Magistratura, la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore di sanità, persino qualche politico nonché l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, oltre ai soliti e benedetti Radicali. E intanto la società e i medici stessi, da anni e per anni, se la cavano segretamente da soli: altro che «Samaritanus bonus». Da una vita si inseguono i casi di Terri Schiavo, Giovanni Nuvoli, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, dj Fabo, mentre gli anni passano e le leggi non arrivano, sicché la società e i medici stessi, nell'attesa, sono costretti a cavarsela segretamente da soli. L'eutanasia c'è già, manca solo la legge. Si fa, ma non si dice: è il nostro Paese.

La polemica sul Samaritanus bonus. Samaritanus bonus, quel documento Vaticano senza misericordia. Tommaso D'Aquino jr su Il Riformista il 25 Settembre 2020. La Congregazione per la Dottrina della Fede fa il suo mestiere: emana documenti vincolanti dove ribadisce cosa i cattolici possono o non possono fare. Come è accaduto martedì con la Lettera “Samaritanus Bonus”, in cui in sostanza ribadisce diversi divieti: no all’eutanasia, niente sacramenti e via l’assistenza spirituale nel momento letale finale (si tratti di eutanasia o suicidio assistito). Certo si riconosce che dietro tali scelte c’è una “disperazione” esistenziale che deriva da condizioni di dolore fisico o sofferenza psichica. Ma la condanna è netta, compresi i legislatori: «L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli». La Congregazione fa il suo mestiere. Ma lo fa bene? Possiamo discuterne a partire dal titolo della Lettera: “Samaritanus Bonus”. Veramente nel Vangelo di Luca (10, 29-37) si parla di un “Samaritano”, cioè un uomo proveniente da una regione nota per essere abitata da idolatri. La scelta di una figura positiva è un modo che usa Gesù per invitare ad andare oltre le apparenze e le facili etichette. E fin qui tutto chiaro. Resta da dire che “buon” non c’è nel Vangelo; l’aggettivo è un’aggiunta posteriore, una connotazione morale della retorica che guarda alla forma e dimentica la sostanza. Come nel caso di questa Lettera. La retorica usata ci dice che la Chiesa è compassionevole, aiuta, sta vicino, è misericordiosa. Però il sacerdote esce dalla stanza dove si praticherà eutanasia o suicidio assistito perché altrimenti sarebbe colpevole di “collaborazionismo”. E i funerali in chiesa vanno negati (ci ricorda qualcosa?) sempre. Non sembra molto compassionevole. Poi troviamo alcune affermazioni da rimarcare: «In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. La Chiesa vede in queste difficoltà un’occasione per la purificazione spirituale, che approfondisce la speranza, affinché divenga veramente teologale, focalizzata in Dio, e solo in Dio». Sarebbero state utili la statistica e la metodologia (discipline si sa, molto scomode…) perché “decine di migliaia” non significa niente e se non c’è una fonte affidabile cui appoggiarsi e citare, allora è solo una frase ad effetto. Conta niente – direbbe Giovanni XXIII (ricordate il “discorso alla luna”? «… La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi…»). Bontà della Congregazione riconoscere la presenza di sofferenze psicologiche e depressione, aggravate da isolamento e sconforto. E che fare? Invece di utilizzare gli strumenti della psicologia (del profondo, relazionale, clinica), si fa prima a consigliare la criptica strada della “purificazione spirituale”. In realtà la lettura del testo solleva diverse questioni importanti.

Primo: il linguaggio è normativo, cioè assolutamente non misericordioso. Secondo: che deve fare lo Stato? Si stigmatizzano le legislazioni che aprono alla possibilità di praticare eutanasia e/o suicidio assistito. Si dimentica che lo Stato legifera per credenti e non credenti perché grazie al cielo l’Occidente non è un insieme di ordinamenti confessionali (non più da secoli…). Lo riconosce addirittura il Concilio Vaticano II: «Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’equilibrio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il cammino della storia; ma sempre devono mirare alla formazione di un uomo educato, pacifico e benevolo verso tutti, per il vantaggio di tutta la famiglia umana» (Gaudium et Spes, par. 74). Si dimentica quanti pochi siano i casi in questione (visto che “decine di migliaia” non ha una fonte) dove la legge interviene in maniera rigorosa per definire e circoscrivere le situazioni. L’applicazione è all’interno di limitazioni, controlli, protocolli, dopo aver esperito tutte le strade possibili per evitare di farne ricorso. Certo è una questione che sfugge ai più: i casi di cronaca diventano eclatanti e fanno rumore. Ma si tratta di situazioni estremamente particolari. Certamente abusi possono sempre essere possibili però appunto la legislazione cerca di evitarli ed i protocolli medico-sanitari e le direttive delle associazioni professionali hanno lo scopo di arginare le deviazioni. Dimenticarlo, come fa il documento vaticano, vuol dire “cavalcare” un’ondata di protesta ideologica: formalmente invoca il rispetto della vita (ma solo qui e contro l’aborto, poi si muore sparati a migliaia e va bene!) e manca clamorosamente il doveroso dialogo con scienziati e laici. Che avrebbe evitato di confondere la sedazione palliativa profonda con la «terapia analgesica che usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza». Ignoranza, è il caso di dirlo e tutto l’impianto crolla un bel po’. Nel documento vaticano non si parla dei Comitati di bioetica, che sono nati proprio per dirimere le questioni controverse e le situazioni più difficili. Proprio lo sviluppo della medicina e delle tecnologie hanno portato all’allungamento della durata della vita e alla nascita di molte questioni: rianimare e tenere in vita oggi è possibile molto più di trenta o quaranta anni fa. Ma dopo? Chi si occupa di questi pazienti? E quale è la loro “qualità” della vita? E se non hanno lasciato direttive anticipate, ognuno può trasformarsi in un campo di battaglia tra opposte visioni. Lo abbiamo visto nei casi Englaro, Lambert e pochi altri. Pochi, appunto; hanno diviso la società e non hanno fatto bene ad un sereno dibattito. Altri aspetti problematici del documento vaticano? Collegare le Cure Palliative alla “assistenza medica alla morte” è un grave errore. Accade nel Nord-America (Canada, Usa) in alcune situazioni ma i protocolli internazionali e la definizione internazionale di Cure Palliative non lasciano spazio ad equivoci. Abbiamo di fronte un documento “occidentale” che si riferisce a quanto accade nei paesi del nord benestante del mondo dove tutto si tiene e giustifica in nome della “qualità della vita” in versione individuale. La Lettera lo dice così: «La vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa». E allora in nome di questa impostazione, nei paesi poveri cosa dovrebbe accadere? Eutanasia a go-go? Ma no, si tace del tutto sulla disparità terribile sull’accesso alle cure, il che vanifica l’intento del documento stesso: non posso difendere la dignità della vita umana se ho in mente solo un pezzo di mondo, largamente minoritario. Ed eccomi alla tematica di fondo. Siamo sicuri che la visione teologica della Lettera sia l’unica possibile? Il dilemma è serio. Tommaso D’Aquino sottolineava che la legge non è una causa, ma una guida per l’azione di esseri consapevoli e responsabili. Le ragioni per agire (la presenza di Dio, cosa dice la Chiesa ecc.) devono essere introiettate per governare le nostre azioni. L’interiorizzazione porta alla valorizzazione della coscienza personale. E la radice della libertà si trova nella ragione che l’uomo possiede. Ed allora se una persona ha ponderato una scelta, ha effettuato una valutazione di sé, della qualità della vita, delle sue condizioni e possibilità, valutando il futuro che lo attende; e se sa che la scelta da attuare – anche terminare in anticipo la propria esistenza – non danneggia altri, rispetta la coscienza del prossimo (cfr. Catechismo, par. 1789), allora dove sarebbe il problema? Il documento su questo tace. Non ammette che un’altra via è possibile, in situazioni particolari e limitate. Non lo dice perché considera la sofferenza un valore in se stesso, mentre non lo è. La sofferenza, per la Chiesa, è sempre una prova che viene da Dio. Prima la Chiesa cattolica abbandonerà ideologie masochiste, meglio sarà per un dibattito davvero libero da preconcetti e precondizionamenti, speculando nel frattempo sulle condizioni di vita di tanti, pretendendo di dire loro cosa devono o non devono fare. E intanto soffrire.

«Scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa necessità». Simona Musco su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Fine vita, parla Mario Riccio, il medico anestesista che assistette Piergiorgio Welby. «La Chiesa è un’agenzia etica e ha il pieno diritto di esprimere il proprio punto di vista su questi argomenti. Ma deve farlo in maniera logica, avendo rispetto delle leggi di un Paese». A parlare è Mario Riccio, il medico che nel 2006 accettò di interrompere la terapia sanitaria alla quale era sottoposto Piergiorgio Welby, procedendo al distacco della ventilazione, e oggi consigliere dell’associazione Luca Coscioni.

Dottore, cosa ne pensa delle parole del Vaticano?

«Credo che si stia tornando sul principio del “sicario”, come fummo apostrofati noi medici per quanto riguarda l’aborto. E questo mi offende: è un’affermazione ai limiti della querela. Qui si fa confusione tra peccato e reato. L’eutanasia o il suicidio assistito sono un peccato per l’agenzia etica che il Papa rappresenta. Viene tirata in ballo la legge naturale, ma si tratta di un concetto giuridico molto discusso: non si sa se esiste o meno. E così si fa commistione tra teologia e giurisprudenza. Esistono molte morali, ma la legge naturale non esiste».

In un passaggio viene sottolineato che chi compie un atto eutanasico o il suicidio assistito non è soggetto morale…

«È grave, perché soggetto morale è chiunque possa esprimere una propria visione della vita. È una grave offesa anche all’intelligenza. La Chiesa, in questo caso, è solo un soggetto che ha una morale diversa. E poi si parla di atto illecito, ma non è così, come dimostra il fatto che in diversi Stati tale pratica è legge. È solo un atto che, dal punto di vista del Papa, è immorale. Con queste affermazioni, in pratica, si sta affermando che tutti i giudici della Consulta, che hanno definito lecito il suicidio assistito entro certi parametri, non sono soggetti morali».

Crede che il messaggio sia rivolto al legislatore?

«È chiaro: il Vaticano ha già fatto questo gioco con la storia dell’aborto, chiamandoci sicari, appunto, e sostenendo che la donna che decide di ricorrervi non osserva un proprio diritto ma chiede ad un altro di uccidere suo figlio. È un atteggiamento poco rispettoso: io sono un medico che applica una legge e ho il diritto di non essere offeso. Ma qui si va oltre: mi si priva addirittura della coscienza perché applico una legge dello Stato. Non è accettabile questo piano di discussione. Il Papa può continuare ad affermare la propria contrarietà, è un punto di vista rispettabilissimo, ma non può dire che si tratta di un atto illecito. Non è suo compito. Ma la Chiesa ha sempre giocato saltando da un campo all’altro.

La lettera, secondo lei, può influire sull’approvazione di una legge che da tempo è inspiegabilmente ferma?

«È evidente: in Italia è riconosciuta un’unica autorità morale, il Papa, che piace tantissimo a tutti. Si dice sia leader del centrosinistra italiano e a me questo fa sorridere, perché vuol dire che la sinistra è davvero ridotta male se deve trovare la propria leadership in un Papa. Il dibattito è molto interessante, ma va chiarito che è un suo punto di vista. Non si può confondere peccato e reato».

Però arriva anche il no all’accanimento terapeutico. È una buona notizia?

«Non esiste un concetto di accanimento terapeutico, perché è soggettivo, e infatti non esiste altrove, lo si usa solo in Italia. Per alcuni rimanere attaccati ad un ventilatore è accanimento, per altri no. Penso a Welby: per lui era diventato insopportabile. Io sono stato suo medico e ricordo che la Chiesa gli chiuse le porte in faccia, negandogli i funerali, proprio perché assimilò la rinuncia alla terapia all’eutanasia. Quindi mi sembra un’ipocrisia. Quello che emerge, dunque, è il relativismo etico, che riguarda anche la Chiesa: come si comprende, certi concetti si modificano nel tempo e ora riconosce che la rinuncia a terapie a trattamenti ad oltranza, in certe condizioni, è lecita».

Quindi pensa che in futuro possa rivalutare le proprie posizioni?

«Guardi, i valdesi, che sono cristiani ma non cattolici, con molti limiti hanno aperto al suicidio assistito e dell’eutanasia. Quando parliamo di Vaticano parliamo di Chiesa cattolica, ma va detto che il mondo cristiano ha già manifestato la sua disponibilità alla morte medicalmente assistito. I protestanti del nord Europa, ad esempio, hanno già accettato, con molti limiti e condizioni, questa possibilità».

Secondo lei perché questo monito arriva proprio ora?

«Teoricamente Stato e Chiesa non si influenzano, ma praticamente sì. Questa lettera arriva due settimane dopo l’annuncio del capogruppo il deputato del M5s Giorgio Trizzino, medico palliativista, che ha confermato la calendarizzazione del ddl entro ottobre, dopo una sintesi di due anni di audizioni. Ma sarà una coincidenza. La lettera rappresenta una sorta di anatema per chi promuove queste leggi, le osserva o partecipa in maniera attiva. Beh, è evidente che è una fatwa».

Nella lettera viene ribadita la necessità di prevedere l’obiezione di coscienza, esortando il medico a farla valere.

«Sono favorevolissimo all’obiezione di coscienza, perché capisco che c’è un problema morale estremamente delicato. In tutte le legislazioni che hanno riconosciuto la morte clinicamente assistita tale diritto è stato riconosciuto. E per me ciò vale anche per l’aborto. Ma per favore, non mi si chiami più sicario».

Il Parlamento ha disatteso due volte le sollecitazioni della Consulta. Crede che si perderà ancora tempo?

«Anche la sentenza per la morte di Davide Trentini ha ribadito quanto detto dalla Consulta in due occasioni. Le indagini demoscopiche dimostrano che oltre il 90% delle persone è favorevole al suicidio assistito. Se il Parlamento dovesse continuare a temporeggiare allora sarebbe l’ennesima prova di una politica scollata dalla volontà popolare e che chi sta in Parlamento vive in un mondo diverso rispetto a chi lo ha votato. Il politico non è chiamato ad esprimere il proprio parere, nel campo dei diritti civili è chiamato a riconoscere le richieste che vengono dalla cittadinanza. Poi sta al popolo scegliere se usufruire o meno di uno strumento previsto dalla legge. Non c’è l’obbligo al divorzio o all’aborto. E scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa una necessità».

Il documento "Samaritanus bonus". Eutanasia, così il Vaticano nega i diritti del malato. Marco Cappato su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Con la lettera Samaritanus bonus la Congregazione Vaticana per la dottrina della fede fornisce, con l’approvazione del Papa, un contributo alla violazione delle leggi dello Stato italiano e alla negazione del diritto all’autodeterminazione dei malati. La Santa Sede afferma che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana, ed arriva a definire “complici” non solo coloro che aiutano i malati a interrompere la propria vita, ma anche i Parlamentari che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito. Con il consenso del Papa, l’ex Sant’Uffizio arriva a spaventare i malati terminali, sostenendo che «una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia deve mostrare il proposito di annullare tale iscrizione prima di ricevere i sacramenti». La lettera Samaritanus bonus rappresenta un atto di sfida esplicito e frontale contro le sentenze della Corte costituzionale che hanno legalizzato in Italia il suicidio assistito in determinate condizioni e che hanno per due volte richiamato il Parlamento a intervenire per legiferare. Con le loro parole, la Congregazione e il Papa, favoriscono l’aggravarsi delle azioni – quelle sì criminali – che sono concretamente perpetrate ai danni di malati terminali costretti a scegliere tra la violenza di una condizione di sofferenza nella quale non vorrebbero vivere e i rischi dell’eutanasia clandestina. Contro tale crimine, con Mina Welby e Gustavo Fraticelli continuiamo l’azione di disobbedienza civile, come abbiamo fatto con le oltre 1.000 persone – cattolici e non – che si sono rivolte a noi finora per ottenere aiuto a morire. Il XVII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, che si apre online venerdì 25 settembre alle 17.30, discuterà le nuove iniziative da assumere per aiutare i cittadini italiani ad accedere all’aiuto alla morte volontaria seguendo le indicazioni della Corte costituzionale e per richiamare il Parlamento alle proprie responsabilità. Ma quando parliamo di aiuto, di che aiuto stiamo parlando? «Mi chiamo Chiara (nome di fantasia, ndr) ho 55 anni e sono una malata oncologica dal 2012. Purtroppo nel 2018 mi è stato diagnosticato un secondo tumore, un melanoma molto aggressivo. Tre settimane fa mi è stato detto che non ci sono più terapie utilizzabili e che mi restano solo le terapie del dolore e le cure palliative. Conscia della situazione in cui mi trovo, e che per sfortunate circostanze ho dovuto vivere precedentemente come parente, e amica di malati oncologici, vi scrivo questa mail per avere informazioni relative a come poter riuscire a gestire in maniera serena ed indipendente la mia morte». Questo è solo uno dei tanti messaggi che abbiamo ricevuto dall’inizio della disobbedienza civile con la quale aiutiamo le persone ad accedere all’aiuto alla morte volontaria, chiedendo che finalmente il Parlamento discuta la proposta di legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale presentata nel settembre 2013 e firmata da oltre 136.000 italiani. Nel frattempo, tante cose sono cambiate. La scossa data da vicende come quelle di Piergiorgio Welby, Beppino Englaro, Fabiano Antoniani, Davide Trentini hanno portato il Parlamento ad approvare la legge sull’interruzione delle terapie e il testamento biologico, e far muovere la giurisprudenza nel senso di un più ampio riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Ammalarsi fa parte della vita. Come guarire, morire, nascere, invecchiare, amare. Le buone leggi servono alla vita: per impedire che siano altri a decidere per noi. Chi chiede l’eutanasia o il suicidio assistito vuole solo morire con dignità, essere libero di scegliere, dall’inizio alla fine della propria vita. Si tratta solo di riconoscere un diritto umano. Le decisioni di fine vita sono decisioni personalissime e, in quanto tali, devono essere prese con la massima libertà dalla persona per sé stessa. In Italia, la Costituzione riconosce che nessuno può essere obbligato ad alcun trattamento sanitario contro la propria volontà e prevede altresì che la libertà personale è inviolabile. «Mi chiamo Davide, ho 52 anni – scriveva nell’aprile 2017, pochi giorni prima di morire – sono malato di sclerosi multipla dal 1993. […] Le ho provate proprio tutte. Ora da 1.92 sono diventato uno sgorbio con le gambe lunghe, gobbo fino quasi in terra, ma SOPRATTUTTO dolori lancinanti e insopportabili h24. Non ce la faccio proprio più senza nessuna prospettiva, ogni giorno sto sicuramente peggio del giorno prima, e dopo una lunghissima riflessione ho deciso di andare in Svizzera per il suicidio assistito (…). Spero tanto che l’Italia diventi un paese più civile, facendo finalmente una legge che permetta di porre fine a sofferenze enormi, senza fine, senza rimedio, a casa propria, vicino ai propri cari, senza dover andare all’estero, con tutte le difficoltà del caso, senza spese eccessive. (…) Tra poco partirò per la mia tanto sognata “vacanza”!!! Evviva». Davide non aveva i soldi per andare in Svizzera. Ma è tollerabile che il diritto a scegliere di morire senza soffrire dipenda dai soldi o dalla “tecnica” attraverso la quale una persona è tenuta in vita? Il Vaticano e il Papa non credono che tale diritto debba essere riconosciuto in nessun caso. Lo Stato italiano ha fatto dei passi avanti grazie alla Consulta. Noi però crediamo che il diritto alla libertà di scelta debba dipendere dalla valutazione che ciascun malato terminale può fare su quanto ritenga tollerabile la propria sofferenza ed accettabile la qualità della propria vita.

·        Radio Maria.

Radio Maria: "Il coronavirus è un complotto sotto l'impulso di Satana". Il direttore dell'emittente, don Livio Fanzaga: "Questa epidemia è un progetto del demonio che attraverso menti criminali prepara un colpo di Stato sanitario o massmediatico". La Repubblica il 15 novembre 2020. La pandemia di coronavirus è effetto di un complotto mondiale delle elites per conquistare, sotto l'impulso di Satana, il mondo entro il 2021. Lo sostiene, parlando dai microfoni della sua emittente, il direttore di Radio Maria, don Livio Fanzaga. "A livello religioso si è già detto che la pandemia non viene da Dio. Dal punto di vista umano non si è voluto approfondire da dove venga, questa epidemia", ha spiegato, "ho insistito sul fatto che la Cina abbia testato un'arma tecnobiologica, che sarebbe proibita, ma la Cina non ha firmato la Convenzione di Ginevra". Secondo Fanzaga "questa epidemia è un progetto che io ho sempre attribuito al demonio che agisce attraverso menti criminali che l'hanno realizzato con uno scopo ben preciso: creare un passaggio repentino, dopo la preparazione ideologica, politica e mass mediatica, per un colpo di Stato sanitario o massmediatico". Vale a dire "un progetto volto a fiaccare l'umanità, metterla in ginocchio, instaurate una dittatura sanitaria e cibernetica, creando un mondo nuovo che non è più di Dio Creatore, attraverso l'eliminazione di tutti quelli che non dicono sì a questo progetto criminale portato avanti dalle élites mondiali, con complicità magari di qualche Stato." Obiettivo quello di "costruire un mondo nuovo senza Dio. Il mondo di Satana. Dove saremmo tutti degli zombie. È un progetto, non una cosa campata per aria. Vorrebbero realizzarlo entro il 2021, a mio parere". Quanto al neopresidente degli Usa Joe Biden, la sua elezione sarebbe "la ciliegina sulla torta".

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 21 novembre 2020. Appunti sparsi: «Il Coronavirus è un complotto sotto l'impulso di Satana». «Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale». «La donna? Cucina, stira, lava i panni e fa la spesa». «Il premier Conte parla di nuovo umanesimo spesso. Che significa? Adozioni gay, eutanasia, droga libera». A parlare dal più grande microfono d'Italia - era una radio, adesso è una media company con le dirette Youtube, il digitale terrestre, le pagine Facebook […] è padre Livio Fanzaga. Giornalista (già sospeso), prete dalle parole rigide che in questi anni ha trasformato Radio Maria nella palestra della destra reazionaria italiana. I nemici sono i comunisti e i migranti, gli islamici e gli omosessuali. «Quelli che vogliono spalancare la porta al diavolo». Ma anche i preti poco ortodossi, e persino Papa Francesco. Gli amici sono invece i cattolici integralisti, le associazioni anti aborto […] […] Ma cosa muove davvero Radio Maria? […] Radio Maria è […] un florido business, che incassa come una grande azienda (20 milioni di euro all' anno), ha un patrimonio di 73 proprietà in tutta Italia e paga le tasse come un dipendente pubblico: 1.300 euro ogni mese. […] Radio Maria viene fondata nel 1986 […] da padre Mario Galbiati, ma è con l'ingresso cinque anni dopo di Emanuele Ferrario, imprenditore caseario […] che l' emittente diventa internazionale. Negli anni del far west dell' etere, e fino al 1990, Radio Maria fa quello che fanno tutti: rastrella frequenze. Poi però Ferrario inaugura un'aggressiva politica commerciale: compra antenne con l'obiettivo di arrivare ovunque […] Oggi l'emittente ha 874 impianti sparsi per l'Italia. […] è gestita da un'associazione (in teoria) senza scopi di lucro, trasmette programmi autoprodotti per gran parte del tempo con limiti sulla pubblicità. In quanto radio comunitaria, fino al 2016 ha goduto di contributi statali che oscillavano tra i 500mila e gli 800mila euro annui. […] […] Radio Maria si finanzia principalmente con i soldi dei suoi ascoltatori. C'è un conto corrente postale, ma si può pagare anche con la carta di credito e tramite bonifico. «All' inizio del lockdown - spiega una fonte interna - don Livio era preoccupato che i nostri ascoltatori, per lo più anziani, malati e persone sole, non potessero andare più alla posta. Così ha messo su un call center». […] […] Radio Maria ha un patrimonio immobiliare […] di 26 terreni e 47 fabbricati, da Trani alla Sardegna, dalla Lombardia alla Sicilia. Nel 2019 ha incassato 22 milioni e 575mila euro. Di questi, 20 sono arrivati dalle donazioni, 1,9 dall' 8 per mille. Più complesse le uscite. Poco meno di dieci milioni vanno via con la gestione e la manutenzione delle infrastrutture. Tre sono di "gestione ordinaria" tra stipendi (1 milione e 250) consulenze amministrative e legali (807mila), informatiche (489mila) e spese legali (317mila). Il capitolo più interessante sono però i 5,6 milioni indicati come "Progetti di cooperazione e comunicazione". Al netto di 7mila euro spesi in beneficenza, Radio Maria fa sapere di aver distribuito cinquemila radioline e settemila libretti di preghiera, di aver speso 2,8 milioni per "progetti di terzi" senza specificare quali, di avere versato 2,2 milioni per la quota associativa della World Familiy e 600mila per la Fondazione Formare. I soldi però non sono mai andati via. World Family e Formare altro non sono che costole, costosissime, delle radio più grande d' Italia. La radio di don Livio.

·        Il Vaticano e l’Islam.

Iraq, il sogno dei Papi. Emanuel Pietrobon su Insid Over il 9 dicembre 2020. Francesco I diventerà il primo pontefice della storia a visitare l’Iraq, culla delle civiltà mesopotamiche e luogo di primo piano nell’epopea millenaria del popolo ebraico riassunta nella Bibbia. Il viaggio, che avrà luogo dal 5 all’8 marzo 2021, sarà l’occasione per mostrare ai cristiani iracheni la vicinanza della Chiesa cattolica alla loro sofferenza e per coronare il sogno incompiuto di San Giovanni Paolo II, strenuo oppositore della detronizzazione di Saddam Hussein e teorico di una santa alleanza fra le tre religioni abramitiche (cristianesimo, islam ed ebraismo) con cui combattere gli eccessi del capitalismo e della modernità, delegittimare il terrorismo religioso e favorire il dialogo tra civiltà.

Il viaggio di Papa Francesco. Iraq, cuore della Mezzaluna fertile e culla delle antiche civiltà mesopotamiche, ma anche terra di Abramo, il patriarca che unisce i destini di ebrei, cristiani e musulmani. Abramo, infatti, il cui nome significa “patriarca di molti”, secondo le cronache della Torah sarebbe nato a Ur dei Caldei, l’attuale Tell el-Mukayyar. È in Iraq, quindi, terra degli ziggurat, che ha avuto inizio la storia delle tre religioni che, con il loro impatto senza tempo, hanno esercitato gli effetti più profondi sull’umanità, estendendosi in ogni continente e contribuendo alla formazione di usi, costumi e pensieri di diverse civiltà. Le diplomazie vaticana e irachena hanno raggiunto l’accordo fra fine ottobre e inizio novembre, dopo oltre due anni di negoziati, ma hanno atteso che iniziasse il periodo di Avvento per rendere pubblica la notizia, a riprova della sacralità che circonda l’evento. Le tappe del viaggio, del resto, riflettono pienamente la sua natura messianica: il pontefice visiterà la piana di Ur, legata ad Abramo, la piana di Ninive, menzionata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, passando per Baghdad ed Erbil. Nella piana di Ninive, che ha mantenuto il carattere biblico di luogo di guerre e massacri indicibili, Papa Francesco si recherà a Mosul e Qaraqosh, due città che hanno vissuto in maniera particolarmente cruenta l’era dello Stato Islamico e che stanno lentamente avviandosi verso la normalità, anche grazie all’aiuto della Chiesa cattolica. Il viaggio apostolico servirà a portare un messaggio di speranza al popolo iracheno, che non conosce pace dal lontano 2003, anno della caduta di Saddam Hussein, l’evento che mise in moto quella catena di eventi che avrebbe condotto dapprima alla guerra civile e poi all’avvento dello Stato Islamico. Musulmani e cristiani hanno pagato in egual misura gli effetti collaterali della Guerra al Terrore, ma sono questi ultimi ad aver subito le ripercussioni più gravi negli anni del dominio di Abu Bakr al-Baghdadi, venendo perseguitati e uccisi in ragione della loro fede e obbligati alla fuga per sopravvivere. Le cifre descrivono un vero e proprio genocidio: dal 2003 al 2020 i cristiani iracheni sono quasi scomparsi, passando da un milione e 500mila a circa 100–300mila.

Sulle orme di San Giovanni Paolo II. Marocco, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Iraq; sarà per gli eventi accaduti in questi quattro Paesi a maggioranza musulmana che l’attuale pontificato verrà ricordato dalla posterità. In Marocco, infatti, Papa Francesco e re Mohammed VI hanno firmato una storica intesa per la protezione di Gerusalemme, Egitto ed EAU sono i teatri in cui è stata siglata l’alleanza interreligiosa tra Chiesa cattolica e il sunnismo ruotante attorno all’autorità di Al-Azhar, consacrata dalla firma del Documento sulla fratellanza umana, e in Iraq verrà esaudito il sogno del defunto San Giovanni Paolo II, colui che per primo volle recarsi nel Paese. Cristianesimo e islam, nemici-amici, uniti da Abramo, Cristo e Maria, eppure divisi dalla storia e della politica, come ricordano e dimostrano l’espansionismo del califfato omayyade, le Crociate, le guerre tra le potenze europee (e la Russia) e l’impero ottomano, i conflitti di faglia huntingtoniani e il terrorismo islamista. Vi sono le basi (teologiche) per la collaborazione e la coesistenza pacifica, e vi sono altrettanti elementi (politici) che alimentano indifferenza, incomprensione, odio e violenza. I pontefici, costruttori di ponti per antonomasia, a partire da San Giovanni Paolo II hanno tentato di enfatizzare gli elementi in comune e di limitare l’influenza di quelli divisivi con l’obiettivo di costruire un’alleanza cattolico-islamica in grado di contribuire realmente e concretamente al benessere dell’umanità. L’agenda dell’attuale pontefice, almeno dal punto di vista geopolitico, è perfettamente in linea, in sintonia e in continuità con quella dei due predecessori. Il futuro del cattolicesimo è al di fuori dell’Occidente, in teatri che, oggi, gli sono ostili per una serie di ragioni e che richiedono, perciò, un maggiore attivismo da parte vaticana. Dialogare con la Cina significa voler ridurre le pesanti limitazioni alla Chiesa da parte del governo di Pechino, ugualmente un patto con le potenze del mondo musulmano equivale ad agire in alcune delle aree del mondo che mostrano i più alti tassi di persecuzione contro i cristiani.

Quella roccaforte della Chiesa che adesso sfida gli islamisti. In questi ultimi anni, papa Francesco ha costruito numerosi ponti con l'islam. Ma non tutti nella Chiesa concordano. Francesco Boezi, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Gli attentati di Nizza e di Vienna contribuiscono ad attualizzare un quesito: che tipo di rapporto può intercorrere tra cattolicesimo e l'islam? Si tratta di una domanda che interessa giocoforza anche il dialogo tra la cosiddetta "civiltà occidentale" e quella "islamica". Il terrorismo è tragicamente balzato di nuovo alle cronache, con una serie di azioni messe in atto in alcune delle principali città europee. Sono tempi questi in cui anche la Chiesa cattolica cerca di rispondere al quesito sopracitato. Papa Francesco non ha troppi dubbi: l'enciclica "Fratelli Tutti" - l'ultimo testo del pontefice argentino - è stata ispirata, tra gli altri, dall'imam di al-Azhar, che ha condannato duramente quanto avvenuto in questi giorni sul suolo europeo. Lo sappiamo perché è stato lo stesso Bergoglio a scriverlo. Eppure, nonostante il dialogo interreligioso faccia grossi passi avanti attraverso questo pontificato, una parte degli ambienti ecclesiastici continua ad avvertire l'Occidente del rischio prodotto da un'eccesiva e presunta sudditanza alla confessione ed alla cultura musulmana. Tra chi chiede all'Europa di reagire e chi opera un giusto distinguo tra il terrorismo jihadista e la civiltà musulmana, anche gli ecclesiastici stanno prendendo posizione sul tema. Il fondamentalismo islamico esiste: su questo non si possono avere dubbi. Diverso, invece, è comprendere quali siano i confini che separano il terrorismo dall'islam moderato: linee di separazione enormi per i più; differenze non così marcate per altri. Sappiamo quanto questo focus occupi le menti degli intellettuali occidentali, con tutte le differenze di visione del caso. E gli ecclesiastici non fanno eccezione. Il cardinal Robert Sarah, che spesso dice la sua riguardo al confronto tra Occidente e islam, ha scritto quanto segue a mezzo social: "L'islamismo è un fanatismo mostruoso che va combattuto con forza e determinazione. Non interromperà la sua guerra. Noi africani lo sappiamo purtroppo troppo bene. I barbari sono sempre i nemici della pace. L'Occidente, oggi la Francia, deve capirlo. Preghiamo". Il cardinale e prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti si è spesso espresso in questi termini sull'islamismo, che sarebbe dunque un'ideologia. Sarah si è espresso subito dopo gli attentati. Don Salvatore Lazzara, in relazione agli ultimi eventi terroristici, non le ha mandate a dire: "#Vienna: la polizia fa sapere che sono 6 i punti della città attaccati dai terroristi. I segni sono importanti per gli islamisti: simbolicamente stanno ripartendo dalla sconfitta del 1683, quando l'impero ottomano, guidato dal sultano Solimano, cercò invano di conquistare Vienna", ha scritto su Twitter. E ancora: "#Vienna: come contrastare il terrorismo? Ce lo ricordava #SanGiovanniPaoloII: "... il riconoscere esplicitamente le radici cristiane dell'Europa nel testo del Trattato costituzionale dell'#UnioneEuropea, diventa per il Continente la principale garanzia di futuro". Esisterebbero dunque strumenti di natura giuridico-culturale per evitare la proliferazione dell'islamismo. E le cose non succederebbero proprio per caso. In termini di "schieramenti", il punto è quello che vale pure per la dottrina, per la pastorale e per le priorità che la Chiesa dovrebbe porsi: per una parte di Chiesa cattolica, ossia per il lato conservatore, il dialogo non è la corsia preferenziale. Per la maggior parte degli ecclesiastici, invece, la strada intrapresa da Jorge Mario Bergoglio - quella di una dialettica che dovrebbe persino portare alla istituzione di una giornata Onu a tema "Fratellanza universale" - è l'unica possibile. Certo, il fondamentalismo e l'islam sono due fenomeni molto diversi tra loro, ma c'è chi teme in ogni caso per la civiltà occidentale. E questo timore, anche secondo la visione di certi ecclesiastici, è legato in modo irrimediabile alla gestione dei fenomeni migratori ed alla loro declinazione. Papa Francesco è per il dialogo. Per i tradizionalisti, quello del dialogo "bergogliano" è un vero e proprio "paradigma" che l'ex arcivescovo di Buenos Aires ha adottato, modificando in parte l'atteggiamento della Chiesa nei confronti delle altre confessioni, islam compreso. L'ultima enciclica firmata dal Santo Padre sarebbe parte di un processo. La dichiarazione sulla Fratellanza universale firmata con l'imam di al-Azhar è forse il passo più importante nella direzione individuata dal Santo Padre. La "lezione" di Ratisbona di Joseph Ratzinger è ormai solo un ricordo. E i rapporti che si erano incrinati tra istituzioni religiose si sono riallacciati e consolidati grazie all'impostazione del primo Papa gesuita della storia. Ma con tutto questo dialogare, la Chiesa non rischia di lasciare per strada qualcosa in termini d'identità? Lo abbiamo domandato ad un ecclesiastico italiano, che ha tuttavia preferito rimanere anonimo. Secondo il nostro interlocutore, prima di addentrarsi nell'argomento serve una precisazione: "Cosa intendiamo per dialogo? Se dialogo tra le altre fedi religiose, delle religioni del libro e le fedi Abramiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Oppure se si parla del dialogo con il mondo secolarizzato e della secolarizzazione in questa fase attuale e del suo processo. Le cose sono distinte e da distinguere per formulare un’analisi più oggettiva possibile". Il dialogo non è sempre uguale a se stesso. Veniamo dunque alle due fattispecie complete: "Nel primo caso - ragiona a voce alta la nostra fonte anonima - il rischio, più di essere sottomessi è di fare il gioco di coloro che vorrebbero ridurre tutte le religioni ad una stessa unità. Nel secondo caso - continua la stessa - il rischio di un dialogo con la società laica, il dialogo si è già risolto ad una sottomissione a quello che è una cultura e a quelle che sono le istanze, le imposizioni della civiltà attuale dominata da una visione scientifico tecnologico da assumere come dogmatica e governata da entità sovrannazionali (istituzioni a vario livello) che si impongono a tutti i livelli. Anche la Chiesa sembra non debba contrastare, almeno in un certo modo, a ciò che è un comando assoluto. In questo caso il dialogo finisce e diventa accettazione. Le sacre scritture, la tradizione e il Magistero rimangono i tre punti fermi fondamentali dove confrontarsi". Ci troveremmo, insomma, dinanzi ad una sorta di accettazione passiva delle spinte culturali che provengono da al di fuori della civiltà occidentale e non solo. Un modo di fare che potrebbe persino comportare una sorta di "sottomissione", per dirla con Michael Houllebecq. "Per taluni il rischio è concreto, di una sottomissione di ordine religioso. Per altri il rischio è di creare una omologazione fra tutte le fedi religiose attraverso un ecumenismo malamente inteso, come secondo alcune 'interpretazioni' del documento di Abu Dhabi, per cui alla fine se tutte le religioni sono uguali, e hanno pari dignità e sullo stesso livello, nessuna risulta sostanzialmente valida o vera". A parlare è ancora la nostra fonte anonima, che circoscrive ancora meglio il problema. La dichiarazione di Abu Dhabi è quella in cui, stando al parere di alcuni tradizionalisti come il vescovo kirghiso Athanasius Schneider, Bergoglio avrebbe equiparato gerarchicamente cristianesimo ed islam. E questo, in punta di dottrina, non sarebbe possibile. Il rischio sarebbe dunque quello di sottomettersi ad una narrativa che prevede che ci si possa salvare sia mediante la confessione religiosa cristiana sia attraverso quella islamica. La diversità tra religioni non può essere voluta da Dio. Questa è la ratio di chi sostiene che si debba ribadire una verità dottrinale: quella secondo cui solo la fede cristiana darebbe accesso alla salvezza. Altrimenti - dicono da parte tradizionalista - si genera "confusione". Ma gli attentati - quelli degli ultimi giorni - hanno modificato qualcosa del rapporto tra istituzioni cristiane ed istituzioni musulmane? E in termini culturali è prevedibile che a breve l'Occidente abbia un qualche tipo di scatto in avanti? Padre Abbè Guy Pàges è un sacerdote francese, un teologo, incaricato presso la diocesi di Parigi. Quella dove l'arcivescovo è il pro life Michel Aupetit. Pàges si occupa da anni di islam. Contattandolo per capire meglio quale sia ad oggi la prospettiva del rapporto tra la confessione musulmana e quella cristiana, padre Pagès, che risponde in primo luogo ad un quesito relativo agli effetti degli ultimi attentati in materia di dialogo, sgombra subito il campo da ogni dubbio: " Purtroppo - ci dice -, non credo che il rapporto tra cattolicesimo e islam sia cambiato dopo questi recenti attacchi. Non è cambiato dopo gli attacchi al Bataclan che hanno provocato 137 morti e 413 feriti nel 2015, né dopo l'omicidio di padre Hamel e l'attacco di Nizza che ha provocato 87 morti e 434 feriti nel 2016. Non è cambiato o nonostante la persecuzione quotidiana e istituzionale in tutti i paesi musulmani, che ha causato, ad esempio, 1.202 morti nella sola Nigeria nella prima metà del 2020 ...". Inutile girarci troppo attorno: non sono e non saranno le azioni dei jihadisti a compromettere la dialettica tra il Vaticano e le istituzioni musulmane. E quel "purtroppo" di padre Abbè potrebbe non essere condiviso da buona parte delle gerarchie ecclesiastiche. Ma il consacrato che abbiamo voluto interpellare ne fa una questione complessa, che interessa tanto il piano dottrinale quanto quello strategico: "Modificare il rapporto - continua - comporterebbe una messa in discussione troppo umiliante dell'irenismo ecclesiale che incoraggia l'immigrazione di massa ed era colpevole dell'islamizzazione dell'Occidente, un peccato mortale che svuota le chiese e riempie le moschee, e 'Inferno ... Pochi vescovi vogliono scacciare l'Islam come il buon pastore scaccia il lupo. Se l'Islam è una religione voluta da Dio, come ha dichiarato Francesco (cfr. Dichiarazione sulla fratellanza umana), perché resistervi? E come si può dire che la Chiesa cattolica sia l'unica vera religione?". Le alte gerarchie della Chiesa, insomma, non avrebbero nessuna intenzione di tornare indietro sui loro passi. E questo comporterebbe una serie di effetti. "Queste sono le comunità tradizionali. È un caso che siano stati loro, e non i vescovi, ad ottenere dal Consiglio di Stato la revoca del divieto di culto pubblico promulgato dal governo francese durante la lotta al Covid-19?". Il presupposto del sacerdote che abbiamo intervistato è che con l'islam non si possa dialogare. Si tratta di una posizione forte, ma è anche quella di molti altri "tradizionalisti". L'assunto da cui spesso partono i tradizionalisti è che un islam moderato non esista. Una posizione su cui non tutti concordano, anzi. Esiste più di un indizio per sostenere l'esatto contrario. E i passi in avanti fatti da papa Francesco riguardano pure una ferma condanna da parte delle autorità religiose islamiche del terrorismo. No che Bergoglio abbia ottenuto questo (era già vero prima), ma quando la massima autorità cattolica incontra quelle islamiche, spesso vengono sottolineati questi aspetti di condanna del jihadismo. Tuttavia i tradizionalisti non intravedono grossi distinguo. E padre Abbè ci ha detto quanto segue: "Senza l'Islam non c'è l'islamismo. Il presidente della Turchia ha detto senza mezzi termini: 'L'espressione 'Islam moderato' è brutta e offensiva. Non esiste un Islam moderato. Islam is Islam (Kanal D TV, agosto 2007) ". La distinzione tra Islam moderato e radicale non si basa su alcuna differenza fondamentale poiché entrambi si riferiscono allo stesso Allah, allo stesso Corano, allo stesso Maometto". Si tratta di due visioni del mondo distinte, e per ora a trionfare è stata la linea di papa Francesco.

L'abbraccio del Papa all'islam: "Ecco cosa accadrà all'Europa". Da Abu Dhabi al multiculturalismo, le idee di Francesco cambiano la Chiesa. Ma preoccupano molto i conservatori. Francesco Boezi, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. Sette anni di pontificato per cambiare i rapporti tra il cattolicesimo e le altre confessioni religiose. Papa Francesco, in questo primo settennato, ha inciso anche su questo aspetto. L'islam non è più un avversario. A guardar bene, per il cristianesimo contemporaneo non lo è mai stato. Almeno quello moderato. Ma ora sembra si stia procedendo verso una sorta di "alleanza" tra le gerarchie ecclesiastiche del Vaticano e quelle musulmane visto che Jorge Mario Bergoglio è per il dialogo interreligioso. La frangia tradizionalista è contraria a qualunque appiattimento. In principio, sembrava che il centro delle rimostranze fosse la "protestantizzazione" della Chiesa cattolica, con la presunta commissione istituita per arrivare ad una Messa ecumenica (un rito che andasse bene a tutti i cristiani), con il resto delle diatribe dottrinali. Poi, nel tempo, anche lo sviluppo di relazioni tra la religione musulmana e quella cattolica è divenuta oggetto di malcontento da parte degli ambienti conservatori. Il punto più alto della dialettica tra cristianesimo e religione musulmana è stato raggiunto con la dichiarazione di Abu Dhabi. Il "Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune" è stato criticato, come spesso accade in relazione al pontefice argentino, dai cattolici più conservatori. Era il febbraio del 2019. Il principale problema posto riguardava l'equiparazione gerarchica tra cattolicesimo ed islam: i tradizionalisti affermano che non può esserci parità. E che la "diversità delle religioni" non può aver avuto luogo per via della volontà divina. Una lettura certosina è stata fornita ai tempi dal vescovo Ahtanasius Schneider.

Il problema del "futuro dell'Occidente". Sono due i temi del ministero di Francesco che si intersecano e offrono il fianco alle critiche della parte più conservatrice della Chiesa di Roma- L'immigrazione come uno strumento per una modifica profonda delle radici della società. E l'islam come nuova prospettiva cui guardare per l'Occidente. Un avvenire che i cattolici tradizionalisti - non è un mistero - vorrebbero evitare, per non dire scongiurare ad ogni costo. Una delle situazioni più indagate è quella francese, dove l'humus della civiltà sembra essere stato modificato dai tempi: le statistiche non fanno che raccontare una crescita dell'islam. Un fenomeno inverso, invece, riguarda il destino del cattolicesimo d'Oltralpe, con sempre meno battezzati. Quale sarà l'Europa del futuro? Se lo chiedono un po' tutti, compresi i critici del pontefice. I numeri, al momento, sono lì che ballano. Ma scandalizzarsi per la secolarizzazione, e magari per la conseguente ricerca di altre identità religiose da parte degli europei, significa spesso essere politicamente scorretti. Rappresenta un tabù, forse, sostenere che il Vecchio continente possa divenire a maggioranza islamica nel corso dei prossimi secoli. Le cifre però sono lì anche per essere interpretabili. Lo stesso Schneider, in un'intervista rilasciata a IlGiornale.it, aveva anche espresso questa posizione sul tema della gestione dei fenomeni migratori: "Il fenomeno della cosiddetta "immigrazione" rappresenta un piano orchestrato e preparata da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei. Questi poteri usano l’enorme potenziale morale della Chiesa e le loro strutture per conseguire più efficacemente il loro obiettivo anti-cristiano e anti-europeo. A tale scopo si abusa il vero concetto dell’umanesimo e persino il comandamento cristiano della carità". E l'identità, in questo caso religiosa, è anche il convitato di pietra delle vicissitudini attorno alle forme di dialogo da adottare con la religione musulmana. Tra i due fenomeni esiste un link, un collegamento. Il "fronte tradizionale" non ha dubbi.

La storica svolta di Abu Dhabi. Perché tra i tradizionalisti circolano tutti questi allarmismi per la dichiarazione congiunta di Abu Dhabi? Nel testo, che Francesco ha firmato con l'ima di Al-Azhar, c'è scritto anche quanto segue: " Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano". Ecco, quel "pluralismo delle religioni" rappresenta l'espressione che i cattolici tradizionalisti proprio non digeriscono. Al di là del comune appello contro il terrorismo, in quel documento c'è scritto, nero su bianco, che la diversità tra cristianesimo ed islam dipende da Dio. E certi emisferi cattolici eccepiscono quanto sedimentato nella dottrina, ossia che che il cristianesimo sia l'unica confessione religiosa strettamente dipendente dal volere dell'Alto. C'è un cambio di rotta rispetto al pontificato precedente? Lo abbiamo domandato al professor Renato Cristin, che è ordinario di ermeneutica filosofica presso l'Università di Trieste: "Ratzinger - ha esordito il professore - è il Papa del discorso di Regensburg, di un confronto con l’islam fondato sull’affermazione dell’identità cristiana e occidentale; mentre Bergoglio è il Papa del discorso di Lampedusa, di un’apertura illimitata all’alterità e di un abbandono dell’identità. Nella distanza simbolica fra Regensburg a Lampedusa - ha continuato Cristin - si misura la differenza di atteggiamento verso l’islam: da un lato consapevolezza di sé e distanza, pur nel dialogo, rispetto al mondo islamico; dall’altro lato abdicazione alla propria identità e atteggiamento rinunciatario verso l’islam, che nella sua essenza è una religione totalitaria".

Il ruolo del multiculturalismo nel processo d'avvicinamento. Per multiculturalismo va intesa la tendenza alla ricerca di un altro pluralismo, quello delle culture. Una "società aperta" le dovrebbe recepire, sino a renderle compatibili. Anche qui: i tradizionalisti pensano che l'identità dei popoli, a questa maniera, sia destinata a svilirsi, per poi essere cancellata. Sempre Cristin ha idee piuttosto nette in merito. E il pontefice della Chiesa cattolica, sostenendo la bontà del multiculturalismo, asseconderebbe un certo tipo di processo: "La teologia politica di Papa Bergoglio esprime un sincretismo spirituale e culturale sostanzialmente estraneo alla tradizione cattolica, come si vede per esempio dall’esortazione apostolica Querida Amazonia, che finisce per stemperare l’identità cristiana in concezioni indigeniste e panteistiche, estranee e per molti versi ostili alla tradizione cristiana", ha affermato il professore, per via dei quesiti che gli abbiamo sottoposto. E con il macro-tema del multiculturalismo, che sarebbe sinonimo di accoglienza e pacificazione, come la mettiamo? "Nella medesima prospettiva, Bergoglio ha adottato l’ideologia multiculturalista, come logica conseguenza sul piano socioculturale di quell’intreccio sociopolitico fra cristianesimo e marxismo praticato dai teologi della liberazione e più in generale da tutti coloro che definiamo catto-comunisti. E’ un fatale errore scambiare il multiculturalismo per interculturalità, come lo è snaturare l’identità del cristianesimo per il miraggio di un dialogo con l’islam", ha chiosato il professore. Ma un andazzo così avrà pure un'origine filosofico-culturale, o no? "Bergoglio - ha tuonato Cristin - non ha interesse, né spirituale né politico, per l’Europa e per la sua identità, e ha trasformato il giusto universalismo della Chiesa in un cosmopolitismo globalista in cui l’identità è un fardello di cui bisogna sbarazzarsi, per concretizzare la visione terzomondista e antioccidentale. Questa è la premessa culturale del suo avvicinamento all’islam, fondato su una fallacia e su una semplificazione". Un "avvicinamento" che passa anche per iniziative comuni. La domanda sul dove risieda questa "fallacia" viene naturale. E Cristin replica: "La fallacia: che la civiltà occidentale debba sciogliersi nell’indistinto multiculturale e multireligioso, e che la religione cristiana e quella musulmana possano collocarsi sullo stesso piano, mentre in realtà esse hanno così pochi punti di contatto che hanno bisogno di essere cercati razionalmente, più che spiritualmente. La semplificazione: Bergoglio - continua il professore - chiede giustamente reciprocità per quanto riguarda il culto cristiano nei paesi musulmani, ma ciò non è più sufficiente, perché la reciprocità deve oggi andare al di là della libertà di culto, ed esigere dagli islamici in Europa integrazione piena, osservanza totale delle regole sociali e rispetto formale delle nostre tradizioni. Questo è ciò che Bergoglio non fa e non vuole fare". Il punto di vista di Cristin è chiaro. Ma il Papa non sembra avere intenzione di cambiare rotta. Anzi, gli abbracci nelle occasioni pubbliche tra Bergoglio e l'imam di Al-Azhar sembrano essere il preludio ad una serie di proposte che già sono state inoltrate agli organi competenti. La prima, la più importante, è stata rivolta all'Onu e punta a far sì che ogni 4 febbraio ricorra la "Giornata della Fratellanza Umana", sulla scia della dichiarazione di Abu Dhabi. E l'Onu, stando a quello che si è appreso sino ad ora, dovrebbe essere disposto al via libera.

Il sogno ottomano di Erdogan passa (anche) per le moschee. Il complesso bizantino di Chora riconvertito in luogo di culto a Istanbul. Ezio Menzione su Il Dubbio l'1 novembre 2020. L’ unico monumento bizantino a Istanbul – la capitale Bisanzio di quella civiltà – rimasto sostanzialmente integro nei secoli, segno del suo passato splendore, è stato “oscurato” ed è tornato ad essere moschea, dopo che per più di cinquant’anni era stato adibito a museo. Proprio ieri sono ricominciate le funzioni di culto islamico. Affreschi e mosaici sono stati coperti da velatini e sono ormai invisibili, perché l’lslam non tollera la rappresentazione dell’uomo. È stata cambiata anche la reggenza del monumento, passando dal Ministero della Cultura alla Presidenza degli Affari Religiosi: il nucleo più duro dell’islamismo in Turchia. Contrariamente a quanto accadde con la rimoscheizzazione tre mesi fa di Santa Sofia, quando il partito d’opposizione che amministra Istanbul non ebbe da dire nulla in contrario, questa volta qualche flebile voce d’opposizione si è fatta sentire. Dunque l’edificio del complesso bizantino di Chora torna ad essere la Kariye Giami, la Moschea Rossa, come ancora oggi, per la verità, tutti gli stanbuloti la conoscevano: sarà una moschea anomala, abbastanza piccola, perché costituita da due meravigliose chiese adiacenti, in forme di basiliche cristiane, non orientata verso La Mecca. Costruita nel 534 come complesso conventuale del Salvatore, è stata moschea dal 1511 al 1948, quando fu restaurata e nel 1958 adibita a museo. Negli ultimi quattro anni ha subito un nuovo importante e costosissimo restauro, in una Turchia dove i restauri su edifici non ottomani sono cosa rarissima. Ora, ovviamente, si capisce il perché. Non per lo splendore ed il fascino unico della sua struttura e soprattutto della sua decorazione: marmi e pietre semipreziose che incorniciano mosaici di varie epoche e vari stili, sempre tutti risalenti nel tempo, che si alternano con gli affreschi; fantasia dei temi trattati sia nella decorazione musiva che in quella a fresco. No, non era quello che interessava restaurare. Evidentemente già si puntava a farla tornare moschea. Così Erdogan ed il suo partito AKP pagano le cambiali sottoscritte all’MHP, il partito islamista integralista e dichiaratamente fascista che sorregge il governo, senza il quale l’AKP non avrebbe avuto la maggioranza alle ultime politiche. Certo, la riconversione in moschea di Chora può apparire, e forse lo è, faccenda secondaria rispetto allo scontro fra Erdogan e l’Europa, via Macron. Una faccenda che non è cero questione solo di barzellette e vignette (semmai suona ridicola l’iniziativa della Procura Generale di Ankara che ha aperto un fascicolo contro Charlie Hebdo per violazione dell’artricolo del codice penale sulle offese al presidente della Repubblica: articolo che dall’inizio dell’anno ha colpito decine e decine di dissidenti). Certo, essa non può essere comparata con gli attentati in Francia che stanno costando vite umane. E tanto meno con la politica espansiva ed aggressiva della Turchia nei paesi del Mediterraneo orientale ( guardateli sulla carta geografica: dalla Siria alla Libia, passando per Grecia e Cipro e spingendosi fino all’Azerbaijan): è la riproposizione delle mire espansionistiche ottomane. Erdogan non è Solimano il Magnifico ed il sistema mondiale sa come difendersi da chi esagera nelle mire espansionistiche, ma l’area a cui Erdogan punta è la stessa che l’impero ottomano copriva fino a due secoli fa. Mancano i Balcani, ma è facile previsione che saprà inserirsi anche in quelli, sfruttando chissà quale occasione. L’islamismo e l’ottomanesimo del “sultano” di oggi intendono coprire ( come ha analizzato giustamente Stefano Polli proprio qui sul Dubbio il 29 ottobre) le difficoltà interne, prima fra tutte quella economica: i prezzi dei generi alimentari sono cresciuti del 31,2 su base annua, con punte del 49,5 per ortaggi e frutta. E mentre la lira turca continua ad affondare ( oggi occorrono 8 lire par un dollaro, mentre quattro anni fa ne bastavano 3), rischia di scendere anche il consenso popolare al regime. In questo clima il governo corre ai ripari: cosa meglio dell’aggressività verso i governanti europei e l’aggressione verso paesi limitrofi per far dimenticare la miseria di casa? La ricetta è sempre valida ed ha sempre funzionato, almeno per un po’.

Siria, iniziata la costruzione della nuova Santa Sofia. Emanuel Pietrobon l'8 settembre 2020 su Inside Over. Santa Sofia continuerà ad essere il cuore pulsante ed il simbolo della cristianità ortodossa, meta di pellegrinaggio da tutto il mondo e geograficamente localizzata tra Occidente e Oriente. Ma non si tratterà della stessa Santa Sofia di Istanbul, che è stata riconvertita in moschea lo scorso 10 luglio, quanto di una nuova costruzione che vedrà luce in Siria nei prossimi anni. La Siria è un Paese che non conosce pace da quasi un decennio, dapprima vittima di uno scontro fratricida e in seguito martoriata da una guerra con l’autoproclamato Stato islamico, perciò è apparsa sin da subito il teatro perfetto in cui far sorgere un luogo destinato ad essere un ponte tra fedi e civiltà in un’epoca caratterizzata dalla costruzione di muri e barriere.

Avviati i cantieri. Nella giornata del 5 settembre, secondo quanto riportato dal portale di informazione Al Masdar News, con sede in Libano ma noto per essere un megafono della famiglia Assad, sono ufficialmente iniziati i lavori di costruzione della nuova chiesa: la posa della prima pietra è avvenuta. Alla cerimonia hanno preso parte delegazioni del governo siriano, del governo russo e della chiesa ortodossa siriaca. Sulla pietra fondante è stata inciso il seguente messaggio, destinato ad essere trasmesso alla posteriorità: “Durante il regno del presidente Bashar Hafez Al-Assad, presidente della Repubblica Araba di Siria, [con] la benedizione di Nicolas Baalbaki, vescovo di Hama, e dei suoi subordinati, e [con] la benedizione della Federazione Russa, rappresentata dal comandante delle forze russe operanti nella Repubblica Araba di Siria, il generale Alexander Yuryevich Chaiko, è stata posta la pietra fondante della Chiesa di Santa Sofia, presentata da Nabel Shafiq Alabdalla in ricordo dei martiri di Al Skeilbiyyeh, della Siria e dei suoi alleati, e come tributo alla Grande Santa Sofia”. Si legge ancora che “questo passo è stato supportato e benedetto dai capi religiosi cristiano-ortodossi sia in Siria che in Russia, che lo hanno considerato un gesto di solidarietà con la madre chiesa di Santa Sofia e come una garanzia che il presidente turco non riuscirà a cancellare i tratti di questo (luogo di culto) nella lista dell’Unesco, che ha avuto un impatto globale e ha giocato un ruolo centrale nella storia cristiana per 1500 anni”. Il luogo di culto, pensato per fungere da ponte in un’epoca di muri, sorgerà ad Al Skeilbiyyeh, una città a maggioranza greco-ortodossa sita nella parte occidentale del governatorato di Hama, nella Siria centrale, ed è stato annunciato al pubblico mondiale il 29 luglio, all’indomani della riconversione in moschea di Santa Sofia, avvenuta il 10 dello stesso mese al termine di un breve ma intenso braccio di ferro diplomatico che ha visto la Turchia scontrarsi con diversi governi occidentali e con le chiese ortodosse dell’Europa orientale. La celerità con cui è stato dato avvio ai cantieri sembra essere l’indizio che la nuova chiesa vedrà realmente luce, poiché vi è un interesse concreto e apolitico alla base del progetto, e che l’inaugurazione potrebbe avere luogo in tempi brevi.

Il progetto. La piccola Santa Sofia sorgerà ad Al Skeilbiyyeh, una città a maggioranza greco-ortodossa sita nel governatorato di Hama, nella Siria centrale, e verrà realizzata con capitale siriano e russo. Pensata per essere una chiesa in grado di ricordare la basilica che per secoli è stata il simbolo della cristianità ortodossa, diventando poi il sigillo dell’islam e dell’impero ottomano dopo la cattura di Costantinopoli, la sua costruzione è stata svelata al pubblico il 29 luglio dal governo siriano. Il credito dell’intera operazione è di Nabel Alabdalla, il capo della Forza di difesa nazionale, che ha presentato l’idea al governo, al contingente russo in loco e, ovviamente, alla chiesa greco-ortodossa, ottenendo un riscontro positivo da ognuno dei tre. Una volta ricevuto l’appoggio finanziario del governo e del Cremlino, oltre che la benedizione del vescovo metropolita dell’arcidiocesi greco-ortodossa di Hama, Nicolas Baalbaki, Alabdalla ha elaborato in tempi rapidissimi un piano di costruzione grazie alla collaborazione di architetti russi, dopo di che ha donato un proprio terreno: il terreno sul quale sta venendo costruita la futura cattedrale. Alabdalla, con questo gesto, vuole mostrare al mondo che una coesistenza tra cristianesimo e islam è possibile e che, per ogni politico impegnato a strumentalizzare la religione e a sventolare la bandiera dello scontro di civiltà per fini elettorali, vi sarà sempre qualcuno disposto a lottare nel nome del dialogo tra fedi e civiltà. Non vi era e non vi è luogo migliore della Siria per un simile gesto: dilaniata fino a ieri dal fondamentalismo omicida e terroristico dello Stato Islamico, oggi è pronta a rinascere e a riconquistare l’antico e storico ruolo di paradiso interconfessionale.

Chiesa timida contro l'islam aggressivo. Pensavo non dicesse nulla. Ormai sono talmente abituato ai silenzi diplomatici, troppo diplomatici, di Papa Francesco. Camillo Langone, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. Pensavo non dicesse nulla. Ormai sono talmente abituato ai silenzi diplomatici, troppo diplomatici, di Papa Francesco, che pensavo non dicesse nulla nemmeno sulla trasformazione in moschea di quella che fu per mille anni la più grande chiesa della cristianità. E invece qualcosa ha detto: «Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato». È un brevissimo inciso all'interno dell'Angelus domenicale, una manciata di parole che sono troppo poco e magari sono troppo. Troppo poco per noi cristiani che conosciamo un minimo di storia e che avremmo gradito una reazione leggermente più tonica. Senza peraltro sperare nell'energia di Pio II, per l'appunto un Papa organizzatore di crociate, autore dei «Commentari» in cui si scagliò contro coloro che «insozzano di brutture maomettane il nobilissimo tempio di Santa Sofia» (si riferiva agli antenati di Erdogan, per intenderci). Ma forse le timide, rassegnate parole dell'Angelus sono troppo per il presidente turco e i suoi giannizzeri, non proprio dei sostenitori della libertà di espressione. Qualcuno rammenta le reazioni al discorso di Ratisbona di Papa Benedetto? In quel 2006 Ratzinger aveva ricordato, all'interno di un ragionamento espresso negli abituali toni pacati, come l'islam avesse fatto proselitismo a colpi di scimitarra: gli islamici indignandosi non fecero che confermare il concetto, mettendo a ferro e fuoco le chiese cattoliche nei paesi a maggioranza musulmana (a Mogadiscio una suora italiana finì trucidata). Nel frattempo il clima è se possibile peggiorato. In Turchia le minoranze cristiane ed ebraiche vengono sottilmente discriminate e meno sottilmente minacciate, i seminari sono stati chiusi, molti templi sono stati confiscati. Inoltre è proibito parlare del massacro dei cristiani armeni, il primo genocidio del ventunesimo secolo: chi lo fa rischia da sei mesi a due anni di reclusione, e se ti chiami Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, magari vieni assolto ma intanto vieni processato. In un contesto così ostile non è difficile immaginare che le parole del Papa possano essere usate contro i non musulmani che si ostinano a vivere nella patria di San Paolo, San Basilio, San Gregorio di Nissa, San Giovanni Crisostomo, San Simeone stilita.

La diretta di CulturaIdentità: Edoardo Sylos Labini-Magdi Cristiano Allam. Di Redazione il Giornale Off il 14/05/2020. Magdi Cristiano Allam è stato uno dei primi a denunciare l’Islam radicale. Il rientro in Italia di Silvia Romano, secondo quelle modalità, sta dando dei segnali pericolosi. La Turchia sostiene l’islamismo radicale in Iraq, in Siria e, in Somalia, al Shabaab, il gruppo terrorista che ha rapito la giovane cooperante milanese. Preoccupa la sua conversione, che lei sostiene essere stata spontanea. Quando gli estremisti islamici prendono il potere, per prima cosa impongono il velo alle donne: non è affatto vero che il velo sia una libera scelta. Gli estremisti islamici, che hanno le mani grondanti il sangue sia dei cristiani che dei musulmani, non possono in alcun modo essere additati come testimoni di una adesione libera all’Islam: la lettura del Corano mostra che Allah ordina in modo esplicito la guerra contro i miscredenti, cioè i non musulmani. Aisha, che è il nuovo nome di Silvia Romano, è il nome della seconda moglie di Maometto, che lui sposò a 50 anni quando lei ne aveva 6. L’Eurabia è già una realtà. Oriana Fallaci fu testimone della tragedia epocale del crollo delle Torri Gemelle: la radice del male è l’Islam stesso. Quando noi non diciamo la verità in libertà vuol dire che stiamo morendo interiormente, rinunciando alla nostra dignità e alla nostra libertà. La donna nell’Islam. Negli ultimi della sua vita, Maometto entrò in moschea dalla parte posteriore, dalla parte delle donne. E disse loro: ho visto in sogno l’inferno e in gran parte è popolato dalle donne, perché la donna è manchevole sul piano dell’intelletto e della ragione. I versetti coranici dicono esplicitamente che la donna vale la metà dell’uomo e che l’uomo può avere fino a 4 mogli e che può ripudiare e picchiare le sue mogli. La donna nell’Islam è antropologicamente inferiore. Il Paradiso è un bordello per soli uomini. O il musulmano è totalmente laico o la conseguenza è la violenza verso la donna. Dove sono le femministe? Il ritorno in Italia di Silvia Romano si è tradotto in uno straordinario successo dei terroristi somali di al Shabaab, sia sul piano mediatico che sul piano finanziario che sul piano propagandistico. Questo ci fa capire che l?islam è uno solo: non ce n’è uno moderato e uno per i terroristi. I musulmani possono assumere posizioni diverse solo se hanno percentuali diverse di ragione e di cuore: l’Islam come religione, in Italia, è fuori legge, perché totalmente incompatibile con le leggi di questo Paese. La scelta di diventare cristiano da musulmano. Condannato a morte da Hamas, Magdi Cristiano Allam vive da anni sotto scorta.

L’incontro con Benedetto XVI a San Pietro: la capacità di coniugare fede e ragione. La fede senza ragione non è vera fede.

Bergoglio: il relativismo religioso di Bergoglio mette sullo stesso piano il Cristianesimo e l’Islam. Ma l’Islam non predica nè l’amore nè la pace. Storicamente ha sempre cercato di sottomettere l’Europa con la violenza. Senza la Reconquista e senza Lepanto anche l’Europa avrebbe fatto la fine della sponda del Mediterraneo.

Ma il nemico è dentro casa nostra: l’Islam non ottempera l’articolo 8 della nostra Costituzione. Ma lo Stato italiano si comporta come se l’Islam fosse una religione riconosciuta. Ci stiamo comportando come se fossimo già sottomessi all’Islam.

Le lacrime del Ministro Bellanova ricordano le lacrime della Fornero. Ci si commuove assumendo degli atti contro gli Italiani. Gli italiani in Italia sono discriminati rispetto agli stranieri. Come disse Ratzinger, l’Occidente odia se stesso: recuperiamo l’amor proprio attraverso la rinascita culturale. Dovrebbe essere un fatto ovvio dire che l’Italia è la casa degli italiani, invece è quasi un reato. Dobbiamo reimparare l’abc della nostra cultura e della nostra umanità: se non vogliamo bene a noi stessi non ne vorremo nemmeno per il nostro prossimo e ci sottometteremo a lui. Dobbiamo riscattarci dal nuovo ordine mondiale attraverso un processo politico culturale che ridia voce alla nostra dignità: andiamo avanti forti di libertà con il coraggio della verità: ce la faremo.

Ora gli Emirati premiano il Papa per la fratellanza con l'islam. Gli Emirati Arabi Uniti, in virtù dell'anniversario della Dichiarazione sulla Fratellanza, hanno premiato Papa Francesco e l'imam di al-Azhar. Giuseppe Aloisi, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Papa Francesco è stato insignito di un premio dedicato alla Fratellanza. Un riconoscimento che il pontefice argentino deve condividere con Ahmad Al-Tayyib, l'imam di al-Azhar. Ad istituire l'onorificenza sono stati gli Emirati Arabi Uniti. L'occasione è offerta dall'anniversario della stipulazione del documento sottoscritto dal pontefice argentino e dall'autorità religiosa sunnita. La sottoscrizione solenne è avvenuta un anno fa. Un testo - quello sulla Fratellanza - che il "fronte conservatore" contesta soprattutto per l'equiparazione gerarchica della religione cristiano-cattolica con quella musulmana. Tra i critici più noti, vale la pena citare il vescovo Athanasius Schneider, che ha domandato al vescovo di Roma di rettificare almeno una parte di quella Dichiarazione. Quella in cui non viene rimarcato il primato gerarchico del cattolicesimo. Dio - questo è il punto sollevato dagli emisferi tradizionalisti - non può aver voluto la pluralità religiosa, che è invece derivata soltanto dalla volontà degli uomini. E questo è solo uno dei contenuti convalidati dalla firma di Jorge Mario Bergoglio, ma non condivisi dagli oltranzisti dottrinali e dai tradizionalisti. Gli Emirati Arabi Uniti hanno in qualche modo dato atto al Papa della Chiesa cattolica di aver riaperto un canale di dialogo con il mondo islamico, in specie dopo la lectio magistralis tenuta da Joseph Ratzinger a Ratisbona. Quell'episodio aveva contribuito ad allontanare le parti. Stando a quanto riportato da IlSismografo, Abu Dabi, attraverso questo "premio della Fratellanza Umana", si propone infatti di "onorare tutti coloro che lavorano senza sosta e con onestà per unire la gente". L'obiettivo di fondo, che è quello della pacificazione tra i popoli, è condiviso dalla Santa Sede e dalle autorità politiche della nazione araba. "Oggi - ha fatto sapere Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, che è il vertice dell'esecutivo - gli Emirati Arabi Uniti hanno l’onore di conferire questo premio inaugurale a Sua Santità Papa Francesco e a Sua Eminenza Dr. al-Tayyib per gli sforzi esemplari e determinati volti a promuovere la pace tra i popoli di tutto il mondo”. Il dialogo interreligioso promosso dal Santo Padre non conosce interruzioni di sorta. Dopo la storica visita nella capitale sopracitata, Jorge Mario Bergoglio, sempre in accordo con l'imam di al-Azhar, ha proposto all'Onu di istituire una Giornata Mondiale della Fratellanza. Un altro passo che in Vaticano ritengono essere necessario per la definitiva scomparsa dei conflitti e delle acredini religiose. La data individuata dovrebbe essere propria quella odierna, il 4 febbraio di ogni annualità. Il Papa, in questi sette anni e mezzo di pontificato, è stato spesso criticato per l'atteggiamento scelto per la dialettica con l'islam. In molti ritengono che Jorge Mario Bergoglio non marchi abbastanza le distanze culturali. Altri, invece, plaudono alle mosse papali in materia di dialogo interreligioso.

·        Il Vaticano e gli Ebrei.

Alessandro Zaccuri per “Avvenire” l'8 aprile 2020. Bisogna arrivare fino in fondo per apprezzare pienamente l' importanza di un libro come “Gesù non fu ucciso dagli ebrei”, curato dallo statunitense Jon M. Sweeney e tempestivamente tradotto da Anna Montanari per Terra Santa (pagine 208, euro 15,00, disponibile in ebook). Bisogna arrivare alla postfazione firmata da Amy-Jill Levine, figura di spicco nella ricerca accademica e, nel 2019, prima docente ebrea a tenere un corso sul Nuovo Testamento al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Con molto garbo e con erudizione impeccabile, la studiosa non rinuncia a esprimere le proprie riserve su alcuni dei saggi presenti nel volume, ma non per questo ne contesta la necessità. Al contrario, una ricognizione su quelle che il sottotitolo italiano definisce «le radici cristiane dell' antisemitismo» rimane quanto mai opportuna e il fatto che sia condotta con uno stile divulgativo, con le inevitabili semplificazioni su cui Levine occasionalmente eccepisce, non ne sminuisce affatto la portata. Il libro, come dicevamo, arriva dagli Stati Uniti, e nell' edizione italiana è integrato da una puntuale prefazione di padre Etienne Vetö, direttore del Centro Cardinal Bea per gli Studi giudaici della Gregoriana, che mette sull'avviso il lettore: quello denunciato dall' équipe di autori convocata da Sweeney non è un problema di cui il nostro Paese si possa disinteressare. Ci sono di mezzo le leggi razziali del 1938, certo, e il fatto che senza il precedente del fascismo difficilmente il regime nazista sarebbe riuscito ad attecchire in Germania, ma più ancora del contesto storico è il pregiudizio del deicidio a dover essere messo in questione, quello stesso pregiudizio che per lungo tempo ha trovato ospitalità nella Chiesa e che solo nel 1965, con la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, è stato ufficialmente superato. Non per questo il percorso si può considerare concluso, come ricorda nella sua premessa Abraham Skorka, il rabbino di Buenos Aires con il quale papa Francesco intrattiene un rapporto particolarissimo fin da quando era arcivescovo della capitale argentina (insieme i due hanno firmato il best seller Il cielo e la terra). È Skorka, tra l' altro, a richiamare l' attenzione sul ruolo svolto da Jules Isaac (1877-1963), lo storico francese al quale si deve la documentata rivendicazione dell' ebraicità di Gesù e, nello stesso tempo, l' avvio di un dialogo interreligioso che, sancito da Vaticano II, ha poi trovato ulteriore slancio sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e oggi, appunto, di Francesco. Fin qui il quadro complessivo, all'interno del quale il caso statunitense occupa una posizione peculiare. Lo si coglie in diversi passaggi di Gesù non fu ucciso dagli ebrei, che è tra l' altro un libro ricchissimo di testimonianze personali. La più rilevante è forse quella implicitamente resa dallo stesso curatore (cattolico, Sweeney è sposato con una rabbina), ma non meno significativi sono gli accenni autobiografici che trapelano dall' intervento di Wes Howard-Brook, aderente a una denominazione del giudaismo messianico, la Via del Gesù ebreo. Da bambino, racconta, era terrorizzato «dai cristiani» del suo quartiere di Los Angeles: «Non che ne conoscessi di persona - spiega -. Però avevo sentito dire che i cristiani pensavano che io, in quanto ebreo, fossi responsabile della morte di Gesù Cristo». Il timore, purtroppo, non era affatto infondato. Poco meno di un anno fa, il 27 aprile 2019, un giovane californiano di soli 19 anni, Jon Earnest, si è reso responsabile di una sanguinosa aggressione contro la sinagoga di Poway, nella contea di San Diego, dove si stava celebrando la conclusione della Pasqua ebraica. Ed è proprio a partire da questo episodio o, meglio, dalla concatenazione di eventi del quale l' attentato di Poway fa parte (pochi mesi prima, il 27 ottobre 2018, si era consumata la strage in una sinagoga di Pittsburgh, in Pennsylvania), che Sweeney ha deciso di realizzare Gesù non fu ucciso dagli ebrei. Ormai abbandonata dalla teologica cattolica, la dottrina "della sostituzione" (nel volume è illustrata dal biblista Richard C. Lux: con l'avvento del cristianesimo verrebbe meno il patto tra Dio e Israele, che sarebbe quindi destinato a estinguersi) ha ancora corso nell'affollato panorama delle congregazioni evangelicali, caratterizzate dalla tendenza a un'interpretazione letterale e fortemente decontestualizzata delle Scritture. Lo sforzo di Sweeney e dei suoi collaboratori - citiamo, tra gli altri, monsignor Richard J. Sklba, l'ebraista Walter Brueggemann, lo storico Massimo Faggioli e la rabbina Sandy Eisenberg Sasso, che offre illuminanti spunti pedagogici - consiste nel ribadire alcune nozioni di base, incredibilmente ancora poco recepite a livello generale. Quali? Che Gesù era ebreo, anzitutto, e che professava la fede del popolo di Israele. E poi che lo stesso Nuovo Testamento fu composto in ambito ebraico, in una fase nella quale il cristianesimo stava ancora assumendo connotati autonomi e ancora non era del tutto uscito dal complesso intreccio delle varie correnti dell' ebraismo. Una delle tesi messa in discussione da Levine è quella, più volte ribadita, per cui le "parole dure" che i Vangeli riservano a scribi e farisei, quando non agli stessi «giudei», sarebbero da intendere nella prospettiva di un dibattito interno all' ebraismo. Resta chiaro, in ogni caso, l' assunto centrale: la partecipazione di alcuni ebrei alla condanna di Cristo non autorizza in alcun modo ad assumere atteggiamenti di discriminazione o, peggio ancora, iniziative di persecuzione. Dopo la Nostra Aetate, sintetizza padre Nicholas King in Gesù non fu ucciso dagli ebrei, «i cristiani cattolici non hanno giustificazioni per l' antisemitismo».

Le indecisioni della Chiesa di Pio XII nei rapporti con i regimi fascisti. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Marcello Flores. Anche se è il primo contributo storiografico che utilizza la nuova documentazione messa a disposizione dal Vaticano sul pontificato di Papa Pacelli (in appendice vi è una selezione di testi), il libro di David Bidussa La misura del potere (Solferino) rifugge da quella «venerazione delle carte» che fa spesso sperare, e illudersi, che negli archivi si trovino documenti cruciali per rispondere a interrogativi su cui per molto tempo gli storici si sono divisi. Sulla scia dell’insegnamento di Claudio Pavone, infatti, Bidussa è convinto che gli archivi raccontino prevalentemente la storia delle istituzioni a cui appartengono o la storia che quelle istituzioni vorrebbero che si raccontasse. Lo studioso David Bidussa (Livorno, 1955)Anche se il libro affronta estesamente la questione del «silenzio» o meno di Pio XII sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei da parte del nazismo, esso tende ad abbracciare una questione più ampia, cronologicamente e concettualmente: l’atteggiamento della Chiesa e del Papa nei confronti dei regimi totalitari. La domanda di fondo, infatti, è cosa potesse fare (e cosa abbia fatto) la diplomazia della Santa Sede nei confronti del nazismo, del fascismo, dello stalinismo, ma anche del franchismo. La copertina del libro di David Bidussa «La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi fra il 1922 e il 1948 (Solferino, pagg. 272, euro 17) Assodato che è il comunismo il nemico «irrecuperabile», verso cui la condanna è totale, politica e morale, l’analisi di Bidussa si dipana soprattutto attorno ai regimi fascisti, sia quelli che aderiscono ai principi dottrinali della Chiesa sia quelli che se ne distanziano, offrendo un contributo serio e interessante su tutto il periodo fra le due guerre. A emergere di continuo sono la «freddezza» quando non la «condanna» nei confronti della democrazia, ma anche il perdurare di un giudizio sul rapporto tra ebraismo e comunismo che Pacelli, nunzio a Monaco, riassume nel ritratto che fa di Kurt Eisner nel novembre del 1918: «Ateo, socialista, radicale… e per di più ebreo galiziano, Kurt Eisner è la bandiera, il programma, la vita della rivoluzione». L’ossessione del pericolo bolscevico, tuttavia, che spinge a opporsi all’alleanza delle forze politiche cattoliche con la sinistra, può venir meno nel caso l’alleanza con la destra — il riferimento è alla contrarietà di Pacelli per l’alleanza con il Partito popolare nazionale tedesco nel 1925 — «dia sostegno o contribuisca all’egemonia di realtà vicine alle Chiese riformate e a realtà protestanti». Di fronte alla condanna che Papa Ratti compie nel 1937 del neopaganesimo nazista con l’enciclica Mit brennender Sorge, Bidussa si domanda se si tratti di una condanna analoga a quella verso il comunismo, concludendo di no, perché quest’ultima «è, invece, impolitica e riguarda la natura strutturalmente culturale del regime». Nei confronti dei fascismi esiste una possibilità di «interlocuzione» che deve continuare, mentre la condanna del comunismo appare «irreversibile». Nel libro sono numerosi gli accenni alle divisioni e spaccature interne alla Chiesa che spiegano in parte la necessità di non «trascendere nelle reazioni» alle violenze e alla persecuzione nazista. Di grande interesse le pagine sulla Spagna, dove il coinvolgimento della Chiesa «a difesa dell’Europa, della cristianità» testimonia anche la volontà di controbilanciare la centralità della Germania nel sistema dei fascismi europei. Bidussa riconosce i mutamenti che avvengono nella Chiesa tra il 1937 e il 1939 e sottolinea come Pio XII, appena eletto, sia vicino alle riflessioni di Georges Bernanos, ma cerchi anche di ritessere il dialogo con la Germania, mantenendo la condanna dottrinale del nazismo, ma usando «maggior cautela nella valutazione politica degli atti del regime, nei confronti del quale si mantiene il silenzio». Illuminanti, in ogni modo, sono le riflessioni del futuro segretario di Stato Tardini: per il quale nel settembre 1939 è la Russia a istigare e spingere «diabolicamente» alla guerra per rimanerne fuori e goderne i frutti; per il quale l’operazione Barbarossa è l’occasione a lungo sperata di poter eliminare il comunismo; il quale scrive di una lettera di Roosevelt che invita la Chiesa a «prendere posizione»: «Mi ha fatto una penosa impressione. È una fredda (ma non riuscita) apologia del comunismo». Sul «silenzio» rispetto agli ebrei Bidussa ricorda la Croazia, il cui governo avrebbe anche fatto del bene (nell’elenco che controbilancia il genocidio degli ebrei serbi da parte di Pavelic ci sono: la lotta all’aborto, alla pornografia, l’abolizione della massoneria, la guerra al comunismo). Pacelli era convinto, e Bidussa mette in evidenza la necessità di comprendere le ragioni del suo operato, che «la migliore tattica operativa fosse quella dell’azione pressante ma cauta, senza indicare o dichiarare pubblicamente politiche di principio». Anche se l’azione del Vaticano è incerta e ambigua proprio nei mesi cruciali che vive Roma tra il 1943 e il 1944: «Quel silenzio, se è segno di incertezza, indica anche un momento di profonda indecisione». A rendere più completa l’analisi del rapporto con i totalitarismi Bidussa si spinge fino al secondo dopoguerra, affrontando due temi già presenti nelle pagine precedenti: la situazione della Polonia, dove l’intreccio tra regime comunista, identità nazionale e fede religiosa cattolica crea una situazione complessa anche nei confronti dell’antisemitismo feroce che si manifesta in quel Paese; e quella della Palestina che, giungendo alla sua conclusione diplomatico-statuale nel 1948 con la nascita di Israele, vede ancora l’opposizione della Chiesa a uno Stato autonomo ebraico, perché i cattolici «non potrebbero non vedersi feriti nel loro sentimento religioso» da una simile scelta. Circa l’atteggiamento di Pio XII verso la Shoah è intervenuto sul «Corriere» del 13 maggio Andrea Riccardi, per sottolineare come lo stesso Papa Pacelli fosse consapevole che la sua mancata condanna esplicita dei crimini nazisti lo avrebbe esposto a dure critiche. Riccardi ha rilevato come la Chiesa sapesse di certo dello sterminio, portando anche una nuova importante documentazione fotografica in materia.

Pio XII, trasparenza totale: 81 anni dopo l’elezione si apre l’Archivio vaticano sulla guerra e la Shoah. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. I 28 vagoni piombati partono dalla stazione Tiburtina di Roma nel pomeriggio del 18 ottobre 1943, il treno arriverà alla Judenrampe di Birkenau (Auschwitz) la sera del 22. I deportati sono 1.022: 1.021 ebrei e una cattolica che non ha voluto abbandonare la signora anziana della quale si prendeva cura. Torneranno in sedici. Il più piccolo ha un giorno, è nato la notte del 17 nel Collegio militare di via della Lungara, a due passi da San Pietro, dove gli ebrei romani, gli «ebrei del Papa» rastrellati dai nazisti nella razzia del 16 ottobre, sono rimasti trenta ore senza cibo nella speranza che accadesse qualcosa che non accadde mai. Bisogna partire da qui, dal buco nero di quelle due notti, per capire l’attesa planetaria che accompagna l’apertura degli archivi del pontificato di Pio XII, e in particolare quelli relativi alla Seconda guerra mondiale e alla Shoah. Papa Francesco lo aveva annunciato l’anno scorso e adesso ci siamo: il 2 marzo — ottantunesimo anniversario dell’elezione di Eugenio Pacelli nonché giorno del suo compleanno — i documenti dell’intero pontificato saranno a disposizione degli storici di tutto il mondo. Ci sono voluti tredici anni per ordinare sedici milioni di fogli, più di quindicimila buste e duemilacinquecento fascicoli dal 1939 al 1958. Ed ora, si spiega in Vaticano, è arrivato il momento della pazienza, di «un lungo lavoro di studio e analisi, come ben sanno gli storici». È «un’illusione» da inesperti pensare che il 2 marzo o nei giorni successivi sapremo la verità. Perché non si troverà né esiste la «pistola fumante», il documento capace di risolvere da solo il conflitto decennale intorno ai «silenzi» di Pio XII, a dire l’ultima parola su un pontificato complesso e tragico, segnato dagli anni più spaventosi del Secolo breve e sospeso tra la «leggenda nera» del «Papa di Hitler» e la versione rosea del «Defensor civitatis» senza dubbi né ombre.Molti sono convinti che l’essenziale fosse già contenuto nella «sintesi» pubblicata nel 1965 in undici volumi, gli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale. Ma certo agli storici non poteva bastare. Da una parte chi giustifica i silenzi di Pio XII con la necessità di tutelare un’opera nascosta di salvataggio di migliaia di ebrei, dall’altra chi non può accettare l’attesa vana di un suo intervento il 16 ottobre, il silenzio sullo sterminio anche dopo la fine della guerra.L’Archivio segreto vaticano, ribattezzato «Archivio apostolico» per volontà di Francesco, contiene molto altro e aiuterà ad approfondire le ricerche. Agli studiosi verranno aperti anche gli archivi storici della Segreteria di Stato, dell’ex Sant’Uffizio, di Propaganda Fide, della Congregazione per le Chiese orientali, della Fabbrica di San Pietro e degli altri dicasteri vaticani. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio, ha spiegato che in particolare sarà a disposizione il «documentario» della Segreteria di Stato per il periodo 1939-1958, 151 mila «posizioni», ciascuna composta da «decine di fogli», con relative descrizioni informatiche e 68 volumi di indici su carta. Oltre al fondo ordinario ci sono 538 «buste separate» per singoli temi, le «Carte Pio XII» con i manoscritti di Pacelli e tre «fondi» speciali. Alla documentazione della Segreteria di Stato si aggiunge tra l’altro quella delle rappresentanze diplomatiche in tutto il mondo: 81 indici per oltre 5.100 buste, consultabili nella rete intranet dell’Archivio. La sfida è dunque aperta. Francesco l’ha presentata così: «La seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio, anche momenti di gravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori».

Pio XII, il rabbino di Roma: «Non ci fu la volontà di fermare il treno del 16 ottobre». Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. «Nulla cambierà nei rapporti tra noi e la Chiesa di Roma, con la grande intesa che s’è ormai creata negli anni — assicura Riccardo Pacifici, esponente del mondo ebraico italiano —. Io però mi identifico totalmente in ciò che ha detto il rabbino Di Segni».Il rabbino capo di Roma, ieri, ha reagito con indignazione alle parole del direttore dell’archivio della Sezione Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana, Johan Ickx, che nel giorno della pubblicazione dei documenti del pontificato di Pio XII ha voluto anticipare il contenuto di alcuni fascicoli che a suo giudizio confermerebbero gli aiuti di Papa Pacelli agli ebrei durante gli anni della persecuzione nazista. Ma il rabbino capo di Roma ha contestato con forza questa lettura: «È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio — ha detto Di Segni —. Basta poco per rendersi conto che le scarse rivelazioni si riveleranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo. Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre 1943 e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati». Il treno «del 16 ottobre» sono i 28 vagoni piombati che dopo il rastrellamento del Ghetto ebraico a Roma partirono due giorni dopo dalla stazione Tiburtina alla volta di Auschwitz con 1022 deportati. Torneranno in 16.«Dopo aver detto che ci vorranno anni di studio — ha continuato ieri Di Segni — ora la soluzione uscirebbe già il primo giorno come il coniglio dal cilindro del prestigiatore. Per favore, fate lavorare gli storici». In effetti, ci sono voluti 13 anni per ordinare 16 milioni di fogli, più di 15 mila buste e 2.500 fascicoli dal 1939 al 1958. Ma Papa Francesco è stato di parola e ieri, 2 marzo — 81° anniversario dell’elezione di Eugenio Pacelli nonché giorno del suo compleanno — le carte sono state pubblicate. «Ora servirà un lungo lavoro di studio», aveva detto il prefetto dell’Archivio apostolico vaticano, Sergio Pagano. E invece è subito polemica: «Resto convinto — conclude Pacifici — che non vi fu alcun ordine di salvare gli ebrei da parte di Pio XII e penso anzi che più si tenta di riscrivere la storia in suo favore, meno si dà onore alle tante azioni coraggiose di singoli uomini e donne di Chiesa, di singoli conventi, che misero a rischio la propria sorte per salvare gli ebrei».

Il rabbino Di Segni: “Appello al Vaticano per sapere la verità sulla Shoah”. Umberto De Giovannangeli de Il Riformista il 6 Marzo 2020. Quell’accusa riapre una ferita che non si è mai rimarginata. E che chiama direttamente in causa il ruolo di papa Pio XII nella tragedia della Shoah. Da parte del Vaticano «non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre» del 1943, che deportò in Germania dalla stazione Tiburtina 1022 ebrei prelevati dai tedeschi nel primo rastrellamento romano. Il possente j’accuse è di una delle figure più autorevoli e rappresentative dell’ebraismo italiano: il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Un atto di accusa che coincide con il giorno in cui Oltretevere sono stati aperti gli archivi dedicati al pontificato di Pio XII. La tempistica dell’operazione del Vaticano non convince neanche un po’ Di Segni, che attacca: «È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio. Ma basta poco per rendersi conto che già le scarse rivelazioni saranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo. Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati. Dopo aver detto che ci vorranno anni di studio, ora la soluzione uscirebbe il primo giorno come il coniglio dal cilindro del prestigiatore. Per favore, fate lavorare gli storici». Il riferimento, nemmeno tanto velato del rabbino capo di Roma, è a un articolo de L’Osservatore Romano, scritto dal professore Johan Ickx, direttore dell’archivio storico della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana. In questo testo, infatti, lo studioso afferma che le prime carte degli stessi archivi confermerebbero gli aiuti di Pacelli agli ebrei. La discussione è aperta e, per molti aspetti dolorosa. Il Riformista ha raccolto le considerazioni di esponenti di primo piano dell’ebraismo italiano e internazionale. «Proprio perché sono stati messi a disposizione, dopo decenni, qualsiasi valutazione sul significato dei documenti resi disponibili – dice Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) – dovrà essere espletata dalla comunità dei ricercatori, alla quale anche il professor Ickx è chiamato a far riferimento prima di rilasciare dichiarazioni conclusive, quanto meno affrettate e di parte». «Quello di cui si sta parlando è un tema per tutti noi fondamentale e profondo, e non si deve prestare ad una strumentale dialettica politica», aggiunge la presidente dell’Ucei. «Adesso che finalmente si sono aperti gli archivi, con nostra grande soddisfazione visto che lo richiedevamo da tempo, aspettiamo di vedere che cosa gli esperti troveranno in questi archivi», afferma la professoressa Anna Foa, tra i massimi esperti italiani di storia ebraica, studiosa e saggista autrice di numerosi volumi di successo, collaboratrice da dieci anni del quotidiano dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche 24, del portale dell’ebraismo italiano moked.it e del mensile Pagine Ebraiche. Lo scorso anno, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha insignita del titolo di commendatore, tra i più significativi assegnati dal Capo dello Stato a cittadini distintisi per il loro contributo nelle professioni, nella cultura e nella società. «Qualunque anticipazione in questo momento – rimarca la professoressa Foa – mi sembra eccessiva e fuori luogo. Potremo confrontarci con una documentazione e non con ipotesi o leggende di vario segno». Resta la forza del j’accuse. «Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati», incalza il rabbino capo di Roma. «Naturalmente l’apertura di un archivio è una notizia in sé – annota Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) -, ma la ricerca che vi si compie ha bisogno di tempo e non si presta a dichiarazioni sensazionalistiche come quella del professor Ickx. Sicuramente ci saranno documenti che attestano l’assistenza di ecclesiastici, più o meno di livello nella gerarchia della Chiesa cattolica, a ebrei. Uno degli elementi degli storici che “sondano” l’archivio valutare la vastità o meno di questa assistenza». «È un fatto storico – rimarca il direttore del Cdec – quello evidenziato dal rabbino Di Segni sul silenzio di Pio XII sulla razzia del 16 ottobre 1943. Speriamo che la documentazione contenuta in quell’archivio ci spieghi i perché di quei silenzi». L’eco della denuncia arriva fino a Gerusalemme. «Conosco e ammiro il rabbino Di Segni, e so che è una persona equilibrata, che misura il peso delle parole – dice Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, raggiunto telefonicamente nel suo ufficio -. Di tutto c’è bisogno meno di uscite o indiscrezioni che sembrano tendere a annacquare responsabilità o a minimizzare eventi tragici. Che sia dato il tempo agli storici di lavorare con serenità e senza condizionamenti di qualunque genere e da qualunque parte possano provenire – aggiunge Zuroff -. Questioni così delicate vanno affrontate col massimo rigore e serietà d’intenti. Ci sono due domande da chiarire: la prima è: quali informazioni ebbe il Vaticano sui crimini della Shoah? E la seconda è quando Pio XII fu raggiunto da tali informazioni». Il ventitré ottobre 2018 il ministro per gli Affari sociali di Israele, Isaac Herzog, si schierò contro il tentativo di far diventare santo Pio XII.

Pio XII, è scontro sulle carte desecretate. Vaticano: “Aiutò gli ebrei”. Il rabbino di Roma: “Non volle fermare treno con mille deportati”. Per Riccardo Di Segni, da parte del Vaticano “non ci fu la volontà di fermare il treno del 16 ottobre” del 1943 che deportò dalla stazione Tiburtina oltre mille ebrei prelevati dai tedeschi nel primo rastrellamento romano. Un’accusa che ha l’intento di spegnere sul nascere l’entusiasmo della Santa Sede per aver aperto agli studiosi del mondo intero tutto il materiale sul controverso pontificato.  Francesco Antonio Grana il 2 marzo 2020 su Il Fatto Quotidiano. Non c’è tregua su Pio XII. L’apertura degli archivi vaticani sul pontificato di Pacelli, decisa da Papa Francesco, e avvenuta il 2 marzo 2020, a 81 anni dall’elezione di Pio XII, ha suscitato infatti nuove e pensati critiche del mondo ebraico. Per il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, da parte del Vaticano “non ci fu la volontà di fermare il treno del 16 ottobre” del 1943 che deportò dalla stazione Tiburtina oltre mille ebrei prelevati dai tedeschi nel primo rastrellamento romano. Un’accusa che ha l’intento di spegnere sul nascere l’entusiasmo della Santa Sede per aver aperto agli studiosi del mondo intero tutto il materiale sul controverso pontificato di Pio XII che coprì un ventennio assai burrascoso del Novecento, dal 1939 al 1958. Pacelli, che divenne Papa dopo essere stato prima nunzio in Germania e poi Segretario di Stato vaticano di Pio XI, si trovò, infatti, a dover governare la Chiesa durante il Secondo conflitto mondiale, la promulgazione delle leggi razziali e la persecuzione degli ebrei con l’orrore dei campi di sterminio. Davanti a tutto ciò, hanno sempre pesato moltissimo i suoi silenzi. Mai una sola parola pubblica di condanna. Eppure la Chiesa cattolica, ieri come oggi, ha ribadito che Pio XII fece tantissimo per salvare gli ebrei di Roma nascondendoli nella residenza estiva dei Pontefici, Castel Gandolfo. Francesco stesso, aprendo gli archivi di quel pontificato, ha affermato che “la Chiesa non ha paura della storia, anzi, la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio! Quindi, con la stessa fiducia dei miei predecessori, apro e affido ai ricercatori questo patrimonio documentario”. Ma la tempistica dell’operazione del Vaticano non convince per nulla Di Segni, che attacca: “È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio. Ma basta poco per rendersi conto che già le scarse rivelazioni si riveleranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo. Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati. Dopo aver detto che ci vorranno anni di studio, ora la soluzione uscirebbe il primo giorno come il coniglio dal cilindro del prestigiatore. Per favore, fate lavorare gli storici”. Il riferimento, nemmeno tanto velato del rabbino capo di Roma, è a un articolo de L’Osservatore Romano, scritto dal professore Johan Ickx, direttore dell’archivio storico della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana. In questo testo, infatti, lo studioso afferma che le prime carte degli stessi archivi confermerebbero gli aiuti di Pacelli agli ebrei. Tra i documenti già fruibili in formato elettronico, precisa Ickx, spiccano i fascicoli sugli ebrei con 4mila nomi e le loro richieste di aiuto. Per lo storico, “tra questi c’è una maggioranza di richieste per aiuto da parte di cattolici di discendenza ebraica, ma non mancano i nomi di ebrei”. Per Di Segni, invece, si tratta di una conclusione affrettata e scritta in anticipo.

Con l’apertura degli archivi vaticani sapremo non solo “cosa” si è taciuto ma anche “perché” si è taciuto. Il Dubbio il 3 marzo 2020. Il pontificato di papa Pacelli finirà sotto la lente degli storici. E’ il 2 marzo del 1939 quando Eugenio Pacelli – nel mezzo degli anni bui dell’occupazione nazista a Roma – viene eletto Papa col nome di Pio XII. Oggi – a poco più di ottant’anni di distanza ma nello stesso giorno – Papa Bergoglio decide non a caso di rispolverare proprio quella data per consentire la tanto attesa apertura degli Archivi Vaticani. In particolare, l’accesso alla documentazione archivistica relativa al Pontificato di Papa Pacelli, documentazione sinora rimasta secretata. “Assumo questa decisione con animo sereno e fiducioso – ha spiegato fa Papa Francesco –, sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio, anche momenti di gravi difficoltà e di tormentate decisioni che a taluni poterono apparire reticenza”. Così la chiama Bergoglio, reticenza, ma in realtà l’accusa che da anni e da più parti viene mossa a Pio XII è assai più grave: il Pontefice avrebbe taciuto davanti ai rastrellamenti e alle deportazioni degli ebrei romani e la Santa Sede sarebbe stata in qualche modo responsabile della Shoà. Accuse pesanti che i sessanta – tra studiosi e ricercatori – che oggi varcheranno le porte del Vaticano sono chiamati a confermare o a confutare. Un’enorme mole di documentazione da esaminare e rispetto alla quale il giudizio rischia facilmente di farsi preconcetto, apologetico o accusatorio che esso sia.

“Per amore della verità – ha scritto qualche giorno fa il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni – sarebbe utile trovare prove decisive in un senso o nell’altro, e potersi ricredere in base ai dati oggettivi; ma già è stato detto, e a ragione, che se ci fossero stati documenti decisivi da proporre, sarebbero stati divulgati da molto tempo, e che se ci sono effettivamente documenti decisivi non pubblicati non ci sono garanzie che vengano messi a disposizione degli studiosi”. Soprattutto in un momento in cui è in atto il processo di santificazione di Papa Pacelli. E quei silenzi pesano, nonostante nessuno neghi l’ospitalità che a molti tra i perseguitati venne data da conventi, monasteri o semplici cattolici che misero a repentaglio anche la propria vita rischiando di soccombere sotto le brutali rappresaglie dei nazifascisti. Ma la storia è altrove. Quando il nazismo prese il potere in Germania e l’antisemitismo si avviò a diventare una vera e propria ideologia, la Chiesa di Roma si trovò del tutto impreparata ad affrontare il problema con la dovuta chiarezza. Certo non erano mancate nel passato recente della Chiesa, prese di posizione – politiche e giornalistiche – che avevano guardato con simpatia all’antisemitismo ma le gerarchie ecclesiastiche avevano cercato di mantenere le distanze dagli eccessi razzistici di tipo biologico. Tuttavia, qua e là, una sostanziale benevolenza continuava a trasparire come hanno dimostrato alcune corrispondenze private tra numerosi membri della Curia. Con l’avvento al potere di Hitler il quadro si modifica radicalmente: rinnegare il recente passato sarebbe stato impossibile ma altresì sarebbe stato imbarazzante dimostrare simpatia per il razzismo e l’antisemitismo dei nazisti, peraltro teorizzati da un regime che non nascondeva la sua ostilità nei confronti della stessa Chiesa cattolica. L’imbarazzo delle gerarchie vaticane era tangibile e certo non facilitò l’assunzione da parte delle autorità ecclesiastiche di una presa di posizione in favore degli ebrei. Restano emblematiche di un tentativo di svolta sulla questione antisemita le parole pronunciate da Pio II proprio nei giorni in cui, in Italia, venivano emanate le leggi razziali: “L’antisemitismo – sosteneva il pontefice nel settembre del ’38 – è un movimento antipatico, un movimento al quale non possiamo, noi cristiani avere alcuna parte”. Il pontefice si era indirizzato decisamente verso una aperta presa di posizione contro l’antisemitismo. Affidando al gesuita americano La Farge la stesura di una specifica enciclica sull’argomento, egli aveva avviato una svolta che non saremo mai in grado di valutare nelle sue possibili conseguenze: l’enciclica, completata già a settembre del ’38, non vide mai la luce. La morte di Pio XI impedì che il progetto seguisse il suo corso e il nuovo papa, Pio XII, fece proprio il diffuso desiderio degli ambienti vaticani di dimenticare tensioni e contrasti. Quella di Pio XI rimase una sterzata isolata e l’iniziativa di Pio XII di avviare – già all’indomani della sua elezione e con l’appoggio dei cardinali tedeschi – un nuovo tentativo di distensione e di riavvicinamento con il Terzo Reich confermò ancora una volta che, nell’ottica del Vaticano, la “questione ebraica” e l’antisemitismo non rappresentavano un ostacolo per la realizzazione di questo fine. Bastava, semplicemente, non parlarne. Con lo scoppio della guerra anche il riserbo si accentuò sino a diventare un silenzio assordante. Oggi, con la riapertura degli Archivi vaticani, è finalmente arrivato il momento di sapere non solo “cosa” si è taciuto ma anche “perché” si è taciuto.

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 3 marzo 2020. C' è la lettera di Margareth Bach, la figlia del rabbino capo di Vienna che, nel luglio del 1944 ringrazia il Papa per gli aiuti ricevuti, c'è l' elenco dei fucilati delle Fosse ardeatine e poi foto e lettere di bambini bisognosi tedeschi che ringraziano anche loro Pacelli per degli aiuti spediti nelle loro case. Da ieri, l' Archivio Apostolico Vaticano per volere di Papa Francesco ha aperto agli studiosi di tutto il mondo la possibilità di consultare i faldoni riguardanti tutto (...) (...) il pontificato di Pio XII, fino alla morte del Papa avvenuta nel 1958. Ci sono voluti 14 anni per sistemare 16 milioni di fogli e 2500 fascicoli. «La Chiesa non ha paura della storia, anzi, si mette al servizio della storia», spiega il cardinale Josè Tolentino da Mendonça, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, assicurando che l' apertura degli archivi permetterà finalmente di diradare il fumo che in tutti questi anni è stato diffuso sulla figura di Eugenio Pacelli. Anche Il Giornale ha avuto modo di visionare alcuni documenti d' epoca del Vaticano che riguardano Pio XII, in particolare alcune testimonianze chiave di figure vicine al Pontefice, terrorizzate dal piano di Hitler di occupare il Vaticano e rapire il Papa, recludendolo in un castello in Germania. Tra i racconti spicca quello di Suor Pascalina Lehnert, la governante del pontefice che scrive: «Durante la guerra si sparse la voce che Hitler voleva portare prigioniero in Germania il Santo Padre. Egli non volle prendere alcuna precauzione perché diceva di fidare unicamente in Dio, che poteva fare quanto voleva. Non tralasciò nemmeno la consueta passeggiata nei giardini vaticani, nonostante che persone autorevoli lo avessero sconsigliato, e avesse notato che i suoi passi erano controllati da aerei». La religiosa delle Suore Insegnanti della S.Croce, racconta anche di un incontro clamoroso tra il cardinale Michael Von Faulhaber, arcivescovo metropolita di Monaco e Frisinga, e Adolf Hitler: «Il Card. Faulhaber, come mi disse a Monaco dopo la guerra, si era recato un giorno a Berchtesgaden dove il Führer s' era fatto costruire un castello fortificato. In quest' occasione Hitler, arrabbiatissimo, si scagliò inveendo contro Pio XII e, fra l' altro, disse: Vorrei sapere dove quell' uomo così miserabile, che non ha altro che pelle ed ossa, attinge tanta forza da resistere a me e ostacolare quello che io voglio. Non posso distruggere Roma, cosa che avrei fatto con molto piacere. Quanti ebrei ha salvato, ed io non sono stato capace di impossessarmi di lui!. Hitler pronunciò pure tante altre minacce che l' Eminentissimo, mi disse, non riuscì a comprendere, in quanto strillava istericamente». Ai racconti della governante di Pacelli si aggiungono anche quelli del maggiordomo del Papa, Giovanni Stefanori che scrive: «Mi sovviene ora che una mattina entrai nello studio del Santo Padre e trovai che il tavolo era senza libri. Gliene chiesi la ragione e mi disse che aveva inteso che i tedeschi avrebbero voluto portarlo via. Soggiunse: Ma io sono il Vescovo di Roma e non intendo muovermi». Pio XII non lasciò mai Roma pur sapendo di essere nel mirino dei nazisti; un altro breve racconto è affidato a suor Maria Conrada Grabmair, addetta alle cucine del Pontefice che in un altro documento racconta: «Quando le voci di un rapimento divennero più forti, Pio XII ebbe a dire: Se mi vogliono avere, devono venire qui; io non abbandono mai volontariamente il mio posto, anche se mi dovesse costare la vita». Entrambe le suore, Suor Pascalina e Suor Maria Conrada, hanno raccontato anche che il Papa aveva preparato uno scritto di protesta contro l' operato di Hitler ma che alla fine decise di non pubblicarlo per paura di ritorsioni verso gli ebrei, venendo anni dopo accusato di aver taciuto. Dall' Archivio emergono però anche altri faldoni: come anticipato da Johan Ickx, a capo dell' Archivio Storico della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato Vaticana sulle colonne de L' Osservatore Romano, in archivio sono già stati ritrovati alcuni faldoni che proverebbero l' aiuto di Pio XII dato agli ebrei. In particolare un fascicolo «Ebrei» che contiene 4000 nominativi di ebrei che chiesero aiuto al Pontefice e un fascicolo sulle accuse contro monsignor Ottaviani, un collaboratore del Papa che concesse documentazione falsa ad ebrei, facendoli riparare all' interno di edifici vaticani. Immediata la reazione del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni: «È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio. Ma basta poco per rendersi conto che già le scarse rivelazioni si riveleranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo».

I cristiani ancora in esilio perché aiutarono Israele. Crearono il Libero Stato e combatterono l'Olp. Ma dopo il ritiro israeliano divennero reietti. Marco Valle, Domenica 22/12/2019, su Il Giornale. Il Libano è una nazione piccola e deliziosa ma tormentata. Vaso di coccio tra i vasi ferro, il Paese dei cedri da decenni rimane sospeso in una parentesi di «non guerra» e «non pace». L'equilibrio, sempre precario, tra comunità e fedi si regge su una serie di compromessi e tanta corruzione. Un buco nero che ha arricchito a dismisura un ceto politico rapace quanto inetto e ha finito per scatenare lo scorso ottobre la rabbia dei pazienti e molto disincantati beirutini provocando le dimissioni del primo ministro Saad Hariri. Si tratta di una protesta di popolo trasversale e multiconfessionale, del tutto inedita per un Paese uscito da una lunga guerra civile e tutt'oggi imperniato su una rigida spartizione dei poteri in base alle confessioni (il presidente deve essere cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita). Insomma, i massimi responsabili del collasso hanno ricostruito, loro malgrado, una traccia d'identità nazionale. A fine novembre, per tentare di calmare le piazze il presidente della Camera Nahih Berri, ha proposto una vasta amnistia comprendente gli estremisti sunniti, i narcotrafficanti sciiti e (guarda caso) i «colletti bianchi» implicati nelle frodi fiscali e nel riciclaggio di denaro sporco. Insomma, una sorta di «liberi tutti» con una sola, significativa, eccezione: i reduci dell'Armée du Liban-Sud (ALS), la milizia cristiana fondata da Saad Haddad nel 1976. La questione è spinosa per tutti. Lo scorso 4 settembre è rientrato a Beirut, dopo un lungo esilio negli Stati Uniti, Amer Fakhoury, uno dei comandanti dell'ALS condannato a 15 anni per collaborazionismo con Israele. Appena atterrato l'uomo è stato arrestato e la sua pena è stata subitamente allungata di cinque anni per «crimini contro l'umanità» e a nulla è valso l'appello alla clemenza lanciato dai deputati cristiani della Courant patriotique libre un cartello sostenuto dalle Forces Libanaise di Samir Geagea e dal Kataëb dei Gemayel che nel 2011 avevano fatto approvare una legge (mai applicata per il veto di Hezbollah) che prevedeva processi equi per i miliziani che rientravano e assicurava garanzie alle loro famiglie. Resta così aperto il pluridecennale nodo dei circa 7500 cristiani libanesi che per vent'anni hanno combattuto sulla frontiera meridionale a fianco d'Israele, prima contro le formazioni palestinesi e poi contro Hezbollah. Costretti, dopo il ritiro di Tsahal nel 2000, ad abbandonare il Libano, gran parte di loro vive da allora nello Stato ebraico che ha concesso a questa piccola tribù di «soldati perduti» e ai loro familiari cittadinanza e passaporti; faticosamente integratisi nel contesto israeliano, gli antichi militari svolgono per lo più attività nella sicurezza privata o si sono riciclati come agricoltori e, con l'aiuto della chiesa maronita di Haifa, cercano di conservare la loro identità, le loro tradizioni senza rinunciare a una malinconica fierezza. Elias Noura, uno dei rappresentanti della comunità, continua a difendere le scelte del passato. «Nella nostra regione non vi sono traditori. Noi siamo soltanto gente che ha imbracciato le armi per difendere i nostri villaggi. Poi, alla fine della guerra, i vincitori hanno potuto decidere chi era un traditore e chi no, chi poteva parlare e chi doveva tacere». Tutto iniziò nel 1975 con lo scoppio della guerra civile e lo smembramento dell'esercito libanese divisosi tra sunniti pro palestinesi (l'Armée du Liban arabe) e cristiani filo occidentali (l'Armée de libération libanaise); al sud il maggiore greco-cattolico Saad Haddad e il suo battaglione si unirono ai loro correligionari con l'obiettivo di liberare le province meridionali dai fedayn palestinesi: considerati i rapporti di forza uno scontro impari e dall'esito scontato. Per sopravvivere Haddad, personaggio pragmatico e realista, si rivolse allora a Israele, il «nemico storico», che da subito non lesinò aiuti agli imprevisti quanto provvidenziali alleati. La vera svolta arrivò nella notte tra il 14 e il 15 marzo 1978 quando Gerusalemme lanciò un'invasione in piena regola che si fermò a quaranta chilometri sopra la frontiera, sulle rive del fiume Litani. Formata una «zona di sicurezza», gli israeliani ne affidarono il controllo proprio a Haddad che nell'aprile proclamò la creazione dello «Libero Stato del Libano», ribattezzando il suo piccolo esercito, rimpolpato da volontari drusi e sciiti, Armée du Liban-Sud. Nel giugno 1982 i miliziani parteciparono all'ennesima invasione israeliana contro l'OLP di Arafat e arrivarono sino alle porte di Beirut. Una vittoria brevissima. L'assassinio, il 14 settembre, di Bachir Gemayel, presidente della Repubblica e leader del Kataëb, infranse i sogni dei cristiani e privò i «sudisti» di un alleato di peso. Nel 1984, morto Haddad, il comando dell'ALS passò al generale Antoine Lahad; nel 2000 il nuovo ministro israeliano Ehud Barak decise di disimpegnarsi dal Libano meridionale: la fine della milizia e del «Libero Stato». Per evitare rappresaglie e vendette, Lahad e i suoi si rifugiarono in Israele e in Francia. Un esilio amaro e senza fine. Considerati in patria «traditori e collaborazionisti» e puntualmente esclusi da ogni possibile amnistia, i più si sono adattati alla loro nuova vita pur continuando, come Noura, a rivendicare il loro patriottismo: «Noi siamo come i curdi abbandonati dagli americani. Abbiamo difeso la nostra terra e avevamo una sola bandiera, la nostra. Israele alla fine ci ha venduto a Hezbollah per i suoi interessi, con il tacito accordo dell'Occidente. Abbiamo pagato il prezzo ma non siamo dei rinnegati».

·        La Sinistra e gli Ebrei.

Il paradosso. Il paradosso dell’antirazzismo antisemita, perché tanto odio verso Israele? Valentino Baldacci su Il Riformista il 13 Dicembre 2020. Israele ha, in Italia e nel mondo, molti buoni amici le cui ragioni sono basate sulla conoscenza della realtà, in particolare della realtà del conflitto arabo-israeliano. Ma non ci si può nascondere che è diffuso, in Italia e nel mondo, un atteggiamento di ostilità verso lo Stato ebraico, che assume spesso la forma di un vero e proprio odio. È un odio difficile da contrastare perché basato in larga parte su elementi irrazionali che non hanno a che fare con la causa apparente di questo atteggiamento, di solito individuata con la posizione dello Stato ebraico nel conflitto con i palestinesi. Ma anche le posizioni apparentemente irrazionali hanno le loro radici. Individuare queste radici significa fare un grosso passo avanti per combattere l’ostilità contro Israele. Per quanto riguarda l’Italia, è relativamente agevole individuare queste radici sia a sinistra come a destra. A sinistra, con la svolta politica del 1992-94, le forze politiche e culturali di indirizzo laico e democratico sono state spazzate e via e oggi ne restano solo il ricordo e la presenza in gruppi relativamente ristretti. Lo spazio politico-culturale a sinistra è stato occupato pressoché interamente dagli eredi della cultura del PCI e della sinistra cattolica che avevano costantemente mantenuto, a partire dagli anni ’50, una posizione di ostilità verso lo Stato ebraico. Tali posizioni non si identificano meccanicamente con quelle di un partito, in particolare il Pd. Si tratta in realtà di un’area molto più vasta, che si può definire di sinistra diffusa, che trova, per esempio, nell’Arci e nell’Anpi le sue punte di diamante, e la cui presenza è significativa nella stampa, nelle televisioni, nelle Università, nella scuola, in altre forme di aggregazione anche informali, in particolare giovanili, nelle quali l’ostilità verso Israele è un dato di fatto non suscettibile di essere messo in discussione. È quindi di un’ostilità di tipo ideologico e l’ideologia è difficile da sradicare, se si riflette sul fatto che per decenni decine di milioni di persone hanno creduto, in buona fede, che l’Unione Sovietica e gli altri Paesi socialisti fossero il regno del benessere e della giustizia e solo vicende traumatiche come quelle che si sono verificate tra il 1989 e il 1991 hanno potuto, e forse solo in parte, scardinare certezze consolidate. Ma anche a destra ci sono certezze ideologiche difficili da superare. Qui continuano a giocare un forte ruolo – nonostante i mutamenti intervenuti nelle posizioni ufficiali dei partiti rappresentativi di questa area – i tradizionali pregiudizi antisemiti che, se apparentemente sono esibiti solo da gruppuscoli di estrema destra, continuano in realtà ad agire in profondità in una parte cospicua dell’opinione pubblica di destra e non solo, sotto forma di sotterranea accettazione di complottismi e di negazionismi di varia natura. Accanto a questi pregiudizi antisemiti, questa parte dell’opinione pubblica continua a essere influenzata dalle tradizionali posizioni della Chiesa cattolica. Il Concilio Vaticano II con la dichiarazione “Nostra Aetate” ha avuto un’influenza sul piano religioso ma non su quello politico-culturale. La Chiesa ha assunto una posizione simile a quella che si ritrova nell’art. 20 della Carta dell’Olp: gli ebrei costituiscono una religione, non un popolo, e quindi non hanno diritto ad avere uno Stato. Non a caso la Santa Sede ha riconosciuto diplomaticamente lo Stato d’Israele solo nel 1993, dopo che con gli accordi di Oslo sembrava aprirsi una nuova fase e una posizione intransigente appariva insostenibile. Ma da allora e fino ad oggi sull’Osservatore Romano e sull’Avvenire, organo dei vescovi italiani, non viene quasi mai usata l’espressione “Stato d’Israele” e si parla invece di “Terrasanta”, per esprimere una perdurante riserva sulla liceità stessa dell’esistenza dello Stato ebraico. Se in Italia le radici politico-culturali dell’ostilità contro Israele sono abbastanza chiare, esse possono essere individuate anche a livello europeo. Alcune delle cause presenti in Italia sono le stesse che agiscono negli altri Paesi dell’Europa occidentale. Anche se la sinistra come rappresentanza politica si è indebolita, tuttavia il suo sistema ideologico continua ad avere una forte presa per lo meno in alcuni Paesi, come la Spagna e la Francia. I pregiudizi antisemiti che sono presenti nella cultura di destra continuano ad agire in tutta Europa e anche l’influenza delle Chiese non può essere trascurata. Ma a livello europeo – anzi mondiale – va soprattutto tenuto conto dell’affermarsi della cultura del “politicamente corretto” che ha in larga misura sostituito quella che era la vecchia egemonia culturale del marxismo. Il “politicamente corretto” agisce quasi spontaneamente in senso antiisraeliano dando vita a forma di antirazzismo antisemita, che sembrerebbe una contraddizione in termini e che è invece una realtà ampiamente diffusa. Se queste sono le radici dell’ostilità contro Israele, appare difficile combattere con efficacia convinzioni così capillarmente diffuse. E tuttavia, come è stato in passato nei casi del nazismo e del comunismo, non si deve mai disperare nelle risorse della ragione e della conoscenza. È una battaglia dura ma che non può essere abbandonata. Non ci si deve mai stancare di far conoscere la realtà del conflitto arabo-israeliano, il costante rifiuto palestinese di giungere a una pace di compromesso, che consenta la realizzazione dell’obiettivo due popoli – due Stati. I recenti Accordi di Abramo hanno aperto prospettive che modificano profondamente un quadro che sembrava immutabile. Può sembrare un eccesso di enfasi retorica e tuttavia credo che si possa dire che gli Accordi di Abramo possono rappresentare per il Medio Oriente quello che per l’Europa rappresentò il collo del muro di Berlino. Ci vorrà tempo, naturalmente, perché tutte le conseguenze degli Accordi si facciano sentire e soprattutto sta agli amici di Israele farne comprendere appieno il significato. Ma la strada è stata aperta è appare possibile percorrerla fino a risultati che fino a ieri sembravano impossibili.

Noemi Di Segni: «In Israele ho respirato cultura, mai odio». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. Presidente delle comunità ebraiche italiane: «In Italia non ho mai ricevuto offese, ma dialogare è difficile». Noemi Di Segni, 50 anni, doppia laurea in Economia e commercio e in Giurisprudenza, una specializzazione in Diritto ed economia della Comunità europea, guida dal luglio 2016 l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, ovvero il complesso, dialettico, articolato mondo israelitico del nostro Paese: 25.000 iscritti. Di fatto, rappresenta tutti gli ebrei italiani di fronte alle istituzioni del nostro Paese. Bionda, occhi azzurri, raffinata ed elegante, sorridente, sempre molto pacata, mai un tono di voce inutilmente alto. Ha una doppia nazionalità: italiana e israeliana (in Israele ha anche svolto il servizio militare) perché è nata a Gerusalemme il 24 febbraio 1969 da una famiglia ebrea di origine romana e torinese, ha tre figli, da poco è nonna. È sposata da 27 anni.

Il primo ricordo di Noemi Di Segni bambina a Gerusalemme.

«La fluidità con cui si passava da una parte all’altra della città, a bordo dell’autobus numero 4. Dai quartieri ultraortodossi a quelli di origine araba passando per il centro dove si svolgono mille attività. Ecco, mi viene in mente proprio il concetto di fluidità, in una città che è molto, molto più piccola della rappresentazione mediatica. Così come è diversa la realtà che si vive lì: c’è un racconto diffuso di luogo pericoloso, attraversato dalla paura, che non corrisponde minimamente alla verità».

Fluidità, convivenza. Un simbolo forte.

«Certo, lo sento anche oggi nel mio lavoro istituzionale. È possibile la coabitazione tra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi, in vicoli larghi mezzo metro... Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi».

La sua famiglia registra un continuo via-vai tra Italia e Israele dal 1945. Lei è nata a Gerusalemme. Si è sempre sentita italiana?

«Sempre. Al cento per cento. In casa era tutto italiano: lingua, cibo, libri, dischi. Insomma, cultura. Come è tipico in Israele: chi è figlio di immigrati, mantiene le proprie peculiarità. C’è una sommatoria di tante diversità, ed è la ricchezza di Israele. Alle Elementari ogni anno si organizzava una serata ispirata alla diversità delle nostre provenienze nelle musiche e nei cibi: francese, americana, marocchina, persiana. Ovviamente italiana».

Lei ha svolto anche il servizio militare per due anni.

«Sì, nel gruppo dell’Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non all’odio verso un nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C’era sempre il concetto di difesa, di tutela. Impressiona pensare che Israele affidi le sorti della propria difesa ai giovanissimi. Succede anche oggi. Quando vedo certi ragazzi in giro, più o meno sfaccendati, penso a quelli che in Israele oggi, a 18 anni, sono al mio posto di allora».

Ma dove si sente «a casa», Noemi Di Segni?

«Ho sempre vissuto, e vivo, una situazione di schizofrenia. Perché sono inevitabilmente attraversata dalle due dimensioni: Italia e Israele, dove ora sono i miei tre figli. Io vivo qui, ho un grande impegno personale nel lavoro e nell’Unione delle Comunità ebraiche. Ma non nascondo il senso di colpa di non essere in Israele. Per anni non mi sono iscritta a nessuna Comunità italiana proprio per la precarietà che avvertivo, perché pensavo “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Poi mi sono iscritta alla Comunità ebraica romana, per passione culturale ma anche per una scelta alla fine di rispetto, coerenza e senso di dover contribuire alla Comunità all’interno della quale vivevo».

Perché tornò in Italia alla fine del 1989?

«Per amore. Conobbi mio marito in un campeggio estivo in Italia organizzato per i giovani. E decisi di trasferirmi a Roma con lui».

In cosa si sente israeliana?

«In un certo stile di vita, nella facilità di aprire la casa, di ospitare. O di educare i figli. C’è una minore riservatezza complessiva rispetto al modello italiano. Per tornare al concetto iniziale, c’è più fluidità».

Una sua paura?

«Ho una sola angoscia. Se dovessi morire, ora o tra cinquant’anni, non sopporterei l’idea di essere sepolta qui per sempre, lontana da Gerusalemme».

Lei guida gli ebrei italiani. Una realtà complessa.

«Complessa, antichissima e vivissima di tradizioni e beni culturali. Girando per il nostro Paese ci si rende conto di quanto l’ebraismo italiano sia variegato rispetto ad altri ebraismi. E sia poco conosciuto. Un vero peccato. Io avverto l’orgoglio di rappresentare una catena di generazioni secolari che appartengono insieme all’ebraismo e all’Italia».

Antica domanda. Si è «ebrei italiani» o «italiani ebrei»?

«Secondo me ebrei italiani. La componente dell’identità ebraica può essere molto forte o anche blanda ma alla fine la fiammella interiore è quella ebraica. Poi per tutto il resto si è italiani, nel costume, nella lingua, nelle tradizioni di famiglia. Ed è per questo che gli ebrei del nostro Paese vedono nell’Italia la propria Patria, con orgoglio, un legame fortissimo».

Lei porta un nome biblico importante, Noemi. Una storia segnata dal dolore, dalla perdita dei figli, ma anche dalla capacità di legare le generazioni, con grande generosità. Le pesa?

«Non nascondo che quel nome può rappresentare un fardello importante riferito al racconto biblico e so di essere esigente e faticosa. Ma la radice di Noemi porta, in ebraico, anche al concetto di piacevolezza. Ecco, vorrei essere percepita nel mio modo di essere con questo significato».

È difficile essere un’ebrea italiana? Domanda diretta: ha mai avuto attacchi personali, o episodi di discriminazione legata all’antisemitismo?

«No, per la verità non ho ricevuto particolari offese personali, né ho dovuto accettare limitazioni di alcun genere. Ho avuto, questo sì, spesso difficoltà a confrontarmi con persone che in qualche modo non riescono a ragionare, ed esprimono pregiudizi o generalizzazioni. Un fenomeno molto frequente».

Parliamo di antisemitismo in Italia? Lasciamo da parte numeri, statistiche. Che percezione ha del fenomeno? È stabile, in crescita, sta diminuendo?

«Secondo me è in crescita. So che esiste una quota di antisemitismo legata alla crescita dell’estremismo e al terrorismo islamico, sempre più diffuso e pericoloso, e che individua come obiettivi di odio e morte non solo gli ebrei. Poi c’è un antisemitismo crescente di gruppi di destra strutturati e che si richiamano al fascismo, forse, al neonazismo, comunque all’estremismo. Li vediamo e li percepiamo sempre di più. Magari non abbiamo un contatto diretto con loro ma vivono nei nostri stessi spazi quotidiani, organizzano cerimonie e manifestazioni. Io non vado certo a Predappio ma le immagini che arrivano da lì impressionano e preoccupano. Soprattutto perché sono giovani. Si riferiscono a modelli fascisti di cui nemmeno conoscono bene le radici storiche e cosa riecheggiano. La rilevanza del fenomeno sta nel fatto che poi dilaga sulla Rete con una modalità fatta di rapidi slogan, semplificazioni. Inviti agli ebrei a sparire, andarsene, tornare nei forni. Sono forme che emergono e fanno del male. E che crescono appunto sul web. Poi c’è il tema dell’anti-israelianismo, che si traduce anche in un odio contro gli ebrei italiani, identificati come rappresentanti di Israele in Italia. Un antisemitismo che passa per Israele e torna in Italia. Lo si vede in tante forme di boicottaggi: all’università, nei supermercati, nei festival, nelle fiere dei libri...».

Tema attualissimo: la parità tra uomo e donna. Lei è presidente dell’Unione delle comunità ebraiche. Suo marito è impegnato nel commercio di preziosi. A casa vostra c’è mai stato un ordine di priorità?

«No, mai. Un problema che non è mai stato all’ordine del giorno. Mai una discussione. Forse il mio doppio impegno, professionale, personale e istituzionale, genera sacrifici nel tempo dedicato alla famiglia che produce una richiesta di infinita pazienza agli altri familiari...».

Domanda molto ebraica: l’anno prossimo a Gerusalemme?

«Forse sì. L’anno prossimo a Gerusalemme. Forse, finalmente».

Antisemitismo, non solo stereotipi: si nutre anche dell’odio nei confronti di Israele. Barbara Pontecorvo e Emanuele Calò (Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni) su Il Fatto Quotidiano  il 24 gennaio 2020. A partire dal 2016 il mondo è stato costretto ad adottare, Paese per Paese, la definizione di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). L’Italia, come prevedibile, è fanalino di coda. Questa iniziativa è destinata a proteggere chi, come noi, è nato dopo l’Olocausto, ma è figlio della generazione superstite alla demolizione morale delle leggi razziali e alla demolizione materiale della Repubblica Sociale (“sociale”?) e del Terzo Reich. Si è costretti ad approvare questo provvedimento come argine morale, per quanto non vincolante (nemmeno per il giudice), alle idiozie che costituiscono, al contempo la linfa e l’humus dove si abbevera l’odio verso gli ebrei. Qui, l’offesa s’interseca con l’oligofrenia, con una tale violenza che finisce per confluire in quest’ultima. Dal sondaggio sull’antisemitismo appena realizzato da Euromedia Reseach di Alessandra Ghisleri per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni si apprende che l’antisemitismo non si nutre solo degli antichi stereotipi sugli ebrei, ma anche dell’odio trasposto nei confronti dello Stato d’Israele in quanto ebreo collettivo. A meno che non sia smaccato il pregiudizio di non voler riconoscere ad Israele il diritto ad esistere (contro ogni principio di autodeterminazione del suo popolo), che cosa dovrebbe essere l’antisionismo che genera antisemitismo in maniera cosi cospicua? Esistono ebrei che non amano il sionismo (esempi ne abbiamo anche in Italia), ai quali andrebbe forse riconosciuto il diritto di non voler andare in Israele, se non altro sulla base del principio della libera circolazione e del suo inevitabile corollario di poter restare legittimamente dove ci si trova. Ma ad un non ebreo cosa dovrebbe importare se un ebreo vuole o meno tornare in Israele? Potremmo, convintamente, essere contrari al diritto di un discendente di africani di voler tornare, per dire, in Nigeria, sulle orme del “Back to Africa movement”? Per il sionismo si fa un’eccezione, poiché il termine – non a caso mai definito dai cosiddetti antisionisti – viene inteso come una volontà imperiale di prevaricazione e conquista senza limiti. “Distinguiamo fra antisemitismo e antisionismo”, si sente spesso dire. È una frase vera nella misura in cui siano veri i pregiudizi di ogni natura e tuttavia è spesa a livello interclassista ed a prescindere dallo spessore culturale di chi ne fa scientemente uso. Anche per loro si approva la definizione IHRA di antisemitismo, perché certi getti di fango non saranno sanzionati, ma cambieranno colore. E quando un intellettuale farà ascoltare la voce di un anonimo che dice “le vittime di ieri sono diventate i carnefici di oggi”, non ci penserà due volte, perché ormai l’odio gli ha deformato l’eloquio e la mente, ma, vivaddio, gli si potrebbe finalmente rispondere con solidi argomenti. Si troverà sicuramente in buona compagnia con coloro che sostengono che gli ebrei controllano l’economia, lo sport, i media, la cultura, la salute, la filatelia, il sesso, le bocciofile, l’enigmistica, il teatro, la filosofia, l’aria, la terra, il sottosuolo e perfino gli scantinati. Forse è stato pensando a tutti costoro che Erich Fromm (ebreo, come Gesù, Marx, Freud, Einstein..) scrisse Paura della libertà. Eh sì, senza l’antisemitismo vi è il rischio, per gli ebrei e per i non ebrei, di sentirsi liberi, molto più liberi. E la libertà, in quanto comporta anche l’assunzione di responsabilità, mette paura.

Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio  della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.

Eurispes, il rapporto choc: per il 15% degli italiani  la Shoah non è mai esistita. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. La Shoah? Per un italiano su sei non è mai esistita. È scritto nel rapporto Eurispes 2020, e a scorrere i suoi dati vengono i brividi, e non soltanto perché il 15,6 per cento degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta ma anche perché poi c’è un altro 16,1 per cento di italiani che dice sì, la Shoah c’è stata ma non è stata un fenomeno così importante. Nel 2004 il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani . «Sono dati allarmanti che non dobbiamo sottovalutare», dice Matteo Mauri, vice ministro dell’Interno, aggiungendo: «Il negazionismo continua ad infangare la memoria di questa tragedia». Il negazionismo degli italiani non guarda soltanto al passato. Secondo l’Eurispes c’è un fenomeno molto diffuso che riguarda i giorni nostri. Ben il 61,7 per cento, infatti, dichiara candidamente che i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non sono indice di un reale problema. Di più: il 37, 2 per cento la butta sull’ironia, sostenendo che quegli episodi di antisemitismo altro non sono che «bravate messe in atto per provocazione o per scherzo». Ma non è finita. Nelle pagine dell’Eurispes si legge che un italiano su cinque rivaluta Benito Mussolini. Per il 19,8 per cento, infatti «Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio», omettendo che fu proprio Benito Mussolini che nel 1938 emanò le leggi razziali, in linea con le altre affermazioni negazioniste contenute nel rapporto.

L’inchiesta choc: il 15% degli italiani non crede alla Shoah. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. I dati del “Rapporto Italia 2020” di Eurispes. Secondo il 24% gli ebrei controllerebbero il potere economico e politico mondiale. E l’antisemitismo si annida in tutti gli schieramenti politici. Una parte minoritaria, ma comunque significativa della popolazione italiana, coltiva anche oggi pregiudizi antisemiti, quando non un clamoroso oblio della storia:secondo quanto emerge dal “Rapporto Italia” 2020 dell’Eurispes, il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 15,6% la nega. L’affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, raccoglie il generale disaccordo degli italiani: il 76% (il 39,6% per niente d’accordo ed il 36,4% poco), non manca però chi concorda con questa idea: il 23,9% (18,9%«abbastanza» e 5% «molto» d’accordo). Gli ebrei controllerebbero i mezzi d’informazione a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%; il 4,3% molto, il 17,9% abbastanza), mentre i contrari arrivano al 77,7% (con un 46,4% del tutto in disaccordo). La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane, spiega il Rapporto Eurispes, incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari. Rispetto all’affermazione che l’Olocausto degli ebrei non è mai accaduto, la quota di accordo si attesta al 15,6% (con un 4,5% addirittura molto d’accordo ed un 11,1%abbastanza), a fronte dell’84,4% non concorde (il 67,3% per niente, il 17,1% poco). Invece l’affermazione secondo cui l’ Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1% (il 5,5% è molto d’accordo), mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% (con il 64,9%per niente d’accordo ed il 18,9% poco d’accordo). La credenza che la Shoah non abbia mai avuto luogo vede il picco di intervistati «molto» d’accordo tra chi si riconosce politicamente nel Movimento 5 Stelle (8,2%), concordi complessivamente nel 18,2% dei casi; la più alta percentuale di soggetti concordi (abbastanza o molto) si registra però tra gli elettori di centrosinistra (23,5%). I revisionisti risultano più numerosi della media a sinistra – per il23,3% l’ Olocausto degli ebrei è avvenuto realmente, ma ha prodotto meno vittime di quanto si afferma di solito – ed al centro (23%), meno a destra (8,8%).Secondo il Rapporto dell’Eurispes tra il 2004 e il 2020 è in aumento chi pensa che l’ Olocausto non sia mai avvenuto (dal 2,7% al 15,6%). A distanza di oltre 15 anni, nel confronto l’indagine condotta dall’Eurispes su questi stessi temi, la percentuale di italiani secondo i quali gli ebrei determinano le scelte politiche americane è oggi più bassa: dal 30,4% al 26,4%. Nel 2004 per oltre un terzo del campione (34,1%) gli ebrei controllavano in modo occulto il potere economico e finanziario, nonché i mezzi d’informazione, mentre oggi la percentuale risulta inferiore ad un quarto. Aumenta invece il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio per mano nazista degli ebrei non è mai avvenuto: dal 2,7% al 15,6%. Risultano in aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche coloro che ne ridimensionano la portata (dall’11,1% al 16,1%).

Partito antisemita è il quarto d’Italia, secondo un sondaggio il 12% non crede alla Shoah. Emanuele Fiano il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Gli ebrei hanno troppo potere dicono in tanti che hanno risposto a un sondaggio. E l’antisemitismo si nutre sempre dello stesso cibo. Questa volta la ricerca sullo stato dell’arte dell’antisemitismo in Italia, è condotta da una ricercatrice, universalmente apprezzata, in genere dedita alla misurazione degli umori politici come Alessandra Ghisleri, e i risultati non sono affatto incoraggianti. Circa il 12% degli italiani crede sostanzialmente che la Shoah sia una bufala. Il 6,1% della popolazione si dichiara non favorevole alla religione ebraica, ma i valori che riguardano le motivazioni di questo plateale schieramento antisemita, sono ancora superiori (il 14% pensa che i palestinesi siano oggetto di un genocidio da parte degli ebrei, l’11,6 che gli ebrei dispongano di un potere economico troppo forte, il 10,7 che si occupino solo di se stessi etc etc ). Come al solito in questo tipo di ricerche, ancora più del valore assoluto sarebbe utile il valore comparativo, con gli anni precedenti. Nel caso della ricerca della Ghisleri non abbiano raffronti, ma tutte le ricerche che monitorano l’andamento storico degli atti e delle espressioni antisemite, anche sui social, misurano un cospicuo aumento. Quale giudizio dare dunque di questi dati?

Il primo: l’antisemitismo non è mai morto, e non morirà mai. La necessità dell’individuazione di un nemico, della circoscrizione del proprio territorio dove la diversità non è accettata, vale sempre. L’antisemitismo ha una sua peculiarità, una sua storicità, ma appartiene a una famiglia più grande, del razzismo e della discriminazione, che ha una persistenza storica formidabile e preoccupante.

Secondo: la concomitanza di fattori che inducono a un peggioramento della situazione, come le crisi economiche e (come dimostra anche per esempio il famoso post del senatore Lannutti), le crisi bancarie, aumentano l’intensità del fenomeno. Di fronte a un problema esistenziale così grande come la propria condizione materiale di vita, la precarietà della propria situazione, l’incertezza del futuro, l’impressione di essere impotenti contro un destino cinico e baro, scatta la ricerca di un nemico un po’ indecifrabile, un oscuro complotto, un popolo strano con strane usanze, qualcuno o qualcosa la cui alterità giustifica il sospetto di attività pericolose e nemiche.

Terzo: l’antisemitismo ha chiare e plurime matrici. Ai nostri giorni se ne ritrova uno classico di matrice neofascista o neonazista, i cui esiti ricorderemo tra poco nel Giorno della Memoria; ci sono le forme contemporanee, che usano lo Stato d’Israele come obiettivo, negandone il diritto all’esistenza e dunque attaccando un principio generale, sancito dal consesso internazionale e dall’Onu, che ovviamente è cosa ben diversa dal diritto di critica delle singole scelte dei governi che si succedono in Israele; ce n’è uno di matrice islamica, ovviamente in crescita nel mondo arabo e islamico, ma anche nei Paesi europei a forte presenza islamica; ci sono ancora presenti le matrici di origine cristiana, risalenti all’accusa di deicidio, anche se mi pare molto rarefatte. E credo si possa dire che la questione delle forme contemporanee dell’antisemitismo, delle sue matrici, non si distanzi molto da ciò che è stato osservato nel passato, e dalle sue radici storiche, anche se, sicuramente per l’Italia, oggi, la concomitanza di un’onda politica che fa della spinta identitaria, intesa come ricerca del proprio carattere originario come unico argine al globale, sta amplificando molto ogni sentimento discriminatorio.

Quarto: dobbiamo avere coscienza che Internet, e i social in particolare, hanno prodotto un’amplificazione esasperata dei peggiori sentimenti di odio, discriminazione e razzismo, magari nascosti dietro l’anonimato, come se la rete fosse una specie di terra di nessuno dove tutto è concesso. Dove io, anonimamente, posso finalmente togliermi il giogo delle norme, dei divieti, dell’etica pubblica. È la terribile questione dei discorsi di odio, che attraversano tutto il mondo della rete, e di cui l’antisemitismo è molta parte. Oggi dunque, questa è la mia impressione, i fattori contingenti si sommano all’eredità storica, nella stagione in cui peraltro sono destinati a scomparire gli ultimi testimoni della Shoah, con un connubio preoccupante. Serve un investimento complessivo. Non basteranno i divieti. Serve investire nella cultura, nella formazione e nel sociale. Ogni centimetro tolto al terreno dove sorge il pregiudizio è un centimetro guadagnato per il futuro.

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 31 gennaio 2020. I negazionisti? Sono soprattutto a sinistra. Qualcuno sarà sorpreso o deluso, ma il dato è certificato nel Rapporto Italia 2020, lo studio Eurispes che è stato presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori. Contrariamente alla vulgata sull' allarme-fascismo infatti, dal rapporto emerge che la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. Certo, gli esiti del 32esimo rapporto Eurispes sono preoccupanti. Lo studio - un volume di 200 pagine - sviscera questioni molto diverse tra loro. E grande attenzione ha riscosso, giustamente, il «capitolo» dedicato alla Shoah, anche perché il tema è tornato sotto i riflettori: si teme un ritorno di sentimenti ostili agli ebrei, e purtroppo questo rigurgito sembra confermato come un pericolo concreto. Gli stereotipi sono sempre in agguato e in crescita. L' affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, in generale non trova consenzienti gli italiani, ma non manca una fetta consistente che condivide (23,9%). Quanto alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l' affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d' accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d' accordo), mentre i contrari raggiungono l' 84,4%. Il numero dei negazionisti oltretutto è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Eppure, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l' orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all' 8,8% a destra. È chiaro che dati del genere smontano una narrazione sempre più in voga a sinistra. Anche se non si vedono significative forme di movimentismo fascista, infatti, ha avuto notevole successo il «revival» della mobilitazione antifascista, che viene collegata immancabilmente all' allarme antisemitismo, a sua volta infilato nel calderone di un generico «razzismo». L' obiettivo è politico: vogliono far coincidere l' antisemitismo e il fascismo, e il fascismo col centrodestra, o con la Lega. Però questa «narrazione» è insincera: non solo non tiene conto dell' antisemitismo islamista, ma come si vede dai dati Eurispes tende a rimuovere il fenomeno dell' antisemitismo di sinistra, che c' è e si vede. E attenzione: qui non si parla di sionismo o di Israele, ma di stereotipi e pregiudizi anti-ebraici in senso stretto. Qualcuno dovrebbe forse guardare alla trave nel proprio occhio, anche perché l' antisemitismo a sinistra ha radici antiche e profonde, come documentato da un recente saggio della storica Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. E le radici sono marxiste e comuniste.

Negazionisti soprattutto a sinistra: ecco i numeri. Alberto Giannoni su Il Giornale il 31 gennaio 2020. I negazionisti si trovano soprattutto a sinistra. Al “Giornale” da tempo mettiamo in guardia contro una lettura parziale e strabica del tema-antisemitismo. Ora lo certifica il “Rapporto Italia 2020″, uno studio Eurispes presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori: contrariamente a quanto afferma la “vulgata” sull’allarme-fascismo, la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. In generale, limitandoci alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l’affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d’accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d’accordo), mentre i contrari raggiungono l’84,4%. Un dato preoccupante, anche perché il numero dei negazionisti è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Però, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l’orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all’8,8% a destra. Ed eccoli, i numeri di Eurispes. E analizzando i dati secondo la provenienza per macro area geografica, emerge che le opinioni totalmente negazioniste arrivano soprattutto dal Centro-Italia, come le risposte di chi si dichiara d’accordo con una lettura che minimizza la portata della Shoah.

Salvini e il no all’antisemitismo «Chi è contro Israele  è contro la libertà». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. «Mi ritengo un amico di Israele. Chi è nemico di Israele è nemico della libertà e della pace. Viva l’Italia e viva Israele». Matteo Salvini raccoglie una congrua dose di applausi chiudendo nella sala Zuccari del Senato, a palazzo Giustiniani, il convegno che ha fortemente voluto e attentamente organizzato, «Le nuove forme di antisemitismo». La storia è nota, aveva invitato anche la senatrice Liliana Segre che ha declinato per i troppi impegni ricordando che «la lotta all’antisemitismo non deve e non può essere disgiunta dalla ripulsa del razzismo e del pregiudizio». Le risponde Matteo Salvini indirettamente e senza nominarla: «Mi dispiace che qualcuno non sia oggi qui perché avremmo dovuto parlare di tutto: è una classica metodologia italiana». I temi evocati da Liliana Segre, esplicitamente non sono all’ordine del giorno in questa mattinata incentrata sull’antisemitismo e le sue nuove forme, in particolare l’antisionismo e le diverse modalità con cui nel mondo (governo iraniano in testa) si teorizza la fine di Israele come Stato indipendente, o addirittura la sua distruzione. Al tavolo, coordinato dal direttore dell’Agenzia Italia Mario Sechi, i relatori: Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs ed ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti; Douglas Mourray, accademico britannico, noto scrittore e saggista, autore di best seller; Rami Aziz, ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs. Il saluto iniziale è della presidente del Senato, Elisabetta Casellati: «A più di settant’anni dall’abrogazione delle leggi razziali, quello dell’avversione etnica verso gli ebrei è tornato ad essere un tema di forte attualità. Un tema estremamente ampio ed articolato, che si nutre anche di una forte campagna di disinformazione su Israele. A ciò occorre aggiungere la percezione, sempre più diffusa, di come questo rigurgito antisemita sia anche espressione di un più generale sentimento di intolleranza verso ogni diversità: di etnia, di genere, di fede religiosa o di opinione politica». In quanto all’immigrazione, il messaggio della presidente è molto forte: «Mi chiedo se rinunciare alle nostre tradizioni in nome di un’esasperata globalizzazione non sia stato un errore. Una strategia che anziché placare le tensioni del tessuto sociale abbia invece avuto l’effetto di accrescerle. Mi chiedo se difendere il nostro essere italiani e il nostro essere europei, difendere le nostre radici culturali, non sia invece la strada migliore per creare presupposti solidi per costruire relazioni fondate sul rispetto e sulla considerazione reciproca». In sala molti giornalisti e volti televisivi: Lucia Annunziata, Fiamma Nirenstein, Monica Maggioni, Maria Latella, Antonio Di Bella, Paolo Liguori, Giancarlo Loquenzi, Annalisa Chirico. E poi - dato molto interessante - numerosi comunicatori italiani del mondo ebraico: Daniel Rerichel (Unione Comunità israelitiche), Daniel Fuinaro (Comunità ebraica romana), Fabio Perugia (Ospedale Israelitico di Roma). Si apre col saluto emozionante dell’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar : «I miei quattro figli rappresentano la quarta generazioni di sopravvissuti alla Shoah per parte di madre, se i nazisti avessero portato fino in fondo il loro progetto criminale, non sarebbero mai venuti al mondo. Oggi il vecchio antisemitismo assume la nuova maschera dell’antisionismo, dell’odio contro Israele che è l’unico Paese rappresentato nell’Onu di cui altri Paesi mettono in discussione l’esistenza. La lotta contro il vecchio e nuovo antisemitismo va a beneficio di tutto il Paese, della sua società». Dore Gold cita dati allarmanti: «Gli incidenti legati all’antisemitismo, in Gran Bretagna, sono stati 500 nel 2013 e nel 2018 ben 1600, una crescita del 300%. In Francia, nel 2018, sono cresciuti del 75%». Murray racconta come degli ebrei si possa dire «tutto e il contrario di tutto, che si isolano o che vogliono integrarsi, che sono troppo ricchi o troppo poveri, che non hanno uno Stato o che lo hanno e anche molto forte….». Aziz arriva al punto: «Non c’è alcuna differenza tra l’antisemitismo, l’antisionismo e l’essere anti-israeliani». Sotto accusa, come emerge anche in altri passaggi dei relatori, l’antisionismo della sinistra europea. Aziz mostra una foto del leader laburista britannico Jeremy Corbyn in una manifestazione pro-Palestina: «Tra i manifestanti c’è chi alza cartelli violentemente anti-israeliani e nessuna ha qualcosa da dire. L’antisionismo è un nuovo modo di attirare soprattutto i giovani verso l’antisemitismo». Sullo sfondo del dibattito, l’imminente discussione e votazione in Parlamento della definizione di antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (IHRA), secondo cui ogni forma di odio contro Israele in quanto Stato legittimo è una forma di antisemitismo. Il testo è già stato votato dal Parlamento Europeo e da alcuni Paesi europei, tra cui la Francia (dicembre scorso) e l’Austria. Avverte Salvini: «Arriveremo in aula e così vedremo chi alzerà la mano e dirà di sì». Infine arriva una domanda su Carola Rackete: «Ritengo che Liliana Segre abbia tanto da insegnare a me e al resto del mondo, Carola Rackete no, e mi ritengo in diritto di sostenerlo liberamente».

Salvini: "L'antisemitismo in Italia? È colpa dei migranti islamici". Intervistato da un giornale israeliano, Salvini prende le distanze dai movimenti antisemiti. E rilancia: "Stop boicottaggio di Israele". Angelo Federici, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Matteo Salvini come Donald Trump. In un'intervista concessa oggi al quotidiano Israel HaYom, il leader della Lega ha affermato che è pronto a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele nel caso in cui dovesse diventare premier. Salvini, inoltre, riprendendo alcune affermazioni rilasciate questa settimana, ha assicurato che il suo partito non ha più alcun legame con organizzazioni - che Israel HaYom definisce antisemite - come CasaPound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore. Nella sua intervista, Salvini parte con l'analizzare la situazione in Italia: "Tra i partiti seduti al governo c'è chi sostiene la Palestina, il Venezuela e l'Iran. La definizione di antisemitismo consentirà di chiarire le posizioni di queste persone, come nel caso del Bds (la campagna di boicotaggio di Israele, Ndr). C'è chi lotta per uno stato per i palestinesi, ma nega il diritto all'autodeterminazione per gli ebrei. Questa contraddizione si basa sull'ipocrisia. L'Italia è stata troppo lenta nell'adottare questa definizione internazionale (di antisemitismo, Ndr)". Poi, il leader della Lega si concentra su ciò che sta accandendo in Europa, dove si stanno registrando sempre più attacchi contro gli ebrei: "C'entra il fanatismo islamico", dice Salvini, che poi prosegue: "Ora la presenza massiccia in Europa di immigrati provenienti da Paesi musulmani, tra i quali ci sono molti fanatici che ricevono il pieno sostegno di alcuni intellettuali, sta diffondendo l'antisemitismo, anche in Italia".

Ci sarebbero, secondo il leader della Lega, due forme di antisemitismo in Occidente: quello dell'estrema destra e quello "istituzionalizzato dell'estrema sinistra. Pensa a Jeremy Corbyn o agli attivisti di sinistra in Germania che non vogliono essere come i nazisti ma si ritrovano a confiscare i prodotti israeliani". Salvini, inoltre, si è detto pronto, una volta al governo, a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. In questo modo, il leader leghista sposa, con ancora più forza, la linea dell'amministrazione Trump sul Medio Oriente. Era stato proprio il presidente Usa, il 6 dicembre del 2017, a riconoscere questa città come capitale dello Stato ebraico. Questa decisione è stata duramente contestata dalla comunità internazionale che ha visto nella mossa di Trump un possibile pericolo per l'area. Il leader di Hamas, invece, ha parlato di "una dichiarazione di guerra contro i palestinesi". Lo status di Gerusalemme è contestato. La città è stata occupata da Israele nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, e nel 1980 la Knesset, ovvero il parlamento israeliano, ha proclamato "Gerusalemme, unita e indivisa capitale di Israele". Come ricorda The Post Internazionale, però, "quella legge costituzionale fu definita però nulla e priva di validità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 478. Fu considerata una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente". Per questo motivo, nessun Paese aveva mai spostato la propria ambasciata a Gerusalemme, preferendo Tel Aviv. Matteo Salvini è sempre stato un sostenitore di Israele e, in particolare, del premier Benjamin Netanyahu, che aveva incontrato il 13 dicembre del 2018. In quell'occasione, si era registrata una delle prime fratture all'interno del governo gialloverde. Il leader della Lega aveva infatti definito il Partito di Dio libanese un movimento terroristico: "Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione". Queste parole avevano provocato l'ira dell'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta: "Non vogliamo alzare nessuna polemica, ma tali dichiarazioni mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a Sud nella missione Unifil, lungo la blue line. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area". In seguito all'uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani, Salvini si è schierato al fianco del presidente americano Trump dicendo: "Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Unione europea, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato Soleimani uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà". Solamente tre giorni fa, Salvini ha organizzato un incontro in Senato, intitolato "Le nuove forme dell'antisemitismo", in cui ha affermato che "chi vuole cancellare Israele ha in noi un avversario sempre" e ha chiesto che il Parlamento acceleri "l'approvazione del documento su come si identifica l'antisemitismo oggi". Come notava tempo fa Francesco Giubilei su IlGiornale, il leader della Lega è molto legato ai neoconservatori americani, in particolare alla galassia che ruota attorno a John Bolton, che rappresentano i più importanti sostenitori (e alleati) di Israele nel mondo: "I sostenitori di Salvini sono più al di fuori del governo piuttosto che al suo interno a partire dai leader tradizionali del movimento conservatore e dal gruppo di intellettuali legati all'area del national conservatism".

Dacia Maraini per corriere.it il 24 dicembre 2019. Mi capita di scrivere queste poche righe proprio sotto Natale. Un giorno in cui si festeggia la nascita di un bambino straordinario che ha cambiato le sorti di una grande parte del mondo. Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. In nome di Cristo sono state fatte delle orribili nefandezze. La scissione fra etica e politica è accaduta nel momento in cui la Chiesa, da idealistica e innovativa forza rivoluzionaria si è trasformata in un impero che ha subito costruito il suo esercito, le sue prigioni, i suoi tribunali, la sua pena di morte. Ma molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra. Oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore. I movimenti che abbiamo conosciuto finora, perfino il grande Sessantotto, usavano le parole Lotta, Guerra, Appropriazione, Distruzione, Nemico da abbattere, ecc. Mentre le piccole sardine , (che spero tanto non si facciano trasformare dai media in tonni pronti per la mattanza), rifiutano l’insulto e l’aggressività. Non pretendono di cambiare il mondo, ma di introdurre in una società sfiduciata e cinica, una nuova voglia di idealismo. Non hanno sbagliato simbolo secondo me, perché la sardina da sola non esiste, ma in una massa di corpi volanti, aiuta il mare a compiere i suoi cicli vitali. Inoltre possiamo dire che la sardina è ormai il solo pesce che non provenga da allevamenti intensivi, non si nutre di farine sintetiche, e non viene rimpinzata di antibiotici. Il fatto che riescano a smuovere tante persone, soprattutto giovani, è segno di una richiesta di nuove idealità, ovvero fiducia nel futuro, progetti comuni, spirito di solidarietà e collaborazione. Certuni li ridicolizzano, ma non si accorgono che fanno del male prima di tutto a se stessi. Con il sarcasmo perpetuano il vizio tutto italiano di disprezzare tutto ciò che è comunitario, di sentirsi superiore a ogni manifestazione di indignazione civica, di criticare tutto e tutti in nome di una conoscenza del mondo più antica e superiore.

LA RISPOSTA DEL RABBINO DI SEGNI ALL’ARTICOLO DI DACIA MARAINI. Da shalom.it il 24 dicembre 2019. “Capisco che in questi giorni festivi si esaltino i buoni sentimenti e la non violenza. Capisco che si cerchi di sottolineare che il nuovo movimento politico che riempie le piazze porti una ventata di freschezza. Quello che mi riesce più difficile da capire è che si debba per forza trovare nelle complesse anime di questo movimento un afflato religioso natalizio. E ancora di meno capisco che si debba trovare in tutto questo una opposizione religiosa. Da una parte il vecchio testamento violento e misogino, dall'altra la rivoluzione cristiana pacifica e le sardine. Perché se è innegabile la presenza di violenza e di un atteggiamento maschilista nelle antiche pagine della Bibbia, è anche vero che le stesse pagine parlano di pace, perdòno e amore, esaltando ruoli femminili. E che tutto questo si trascina e cresce nella tradizione successiva. E che la rivoluzione cristiana è tutt'altra cosa. Oggi un cristiano informato sa evitare le banalità e le menzogne di questa antica opposizione (che ha un nome preciso: marcionismo), che è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti. Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni. È normale che un nuovo movimento politico cerchi di ispirarsi agli insegnamenti antichi, ma dovrebbe essere cauto nelle semplificazioni. Dopo il Gesù socialista, rivoluzionario più o meno armato, femminista ecc., oggi abbiamo anche, grazie a Dacia Maraini, il Gesù sardina. A me pare quasi una bestemmia, ma fate voi.”  Lo scrive il rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, nella sua pagina di Facebook, in risposta all’articolo di Dacia Maraini.

Dacia Maraini per corriere.it il 25 dicembre 2019. Mi dispiace se senza volere ho offeso la sensibilità di qualcuno con il mio articolo di martedì 24 dicembre sul «Corriere della Sera». Non avevo nessuna intenzione di criticare o offendere la religione ebraica. Non ho scritto un saggio sulla Bibbia ma solo un breve articolo di venti righe, semplificando per forza di cose, sulla nascita di Gesù bambino e su come le sue parole siano state poi tradite da una Chiesa cattolica troppo preoccupata del potere e gelosa delle sue prerogative. Non intendevo affatto riferirmi alla religione ebraica o alla Torah, ma solo a una storia tutta italiana di scontri fra una Chiesa diventata impero e una Chiesa che nella sua base continuava a credere nelle parole di Cristo. Considero la Bibbia un meraviglioso testo, di grande profondità e di grande poeticità. Ma certamente non può essere presa alla lettera. Le religioni savie hanno sempre storicizzato. E credo che anche la religione ebraica lo abbia fatto con saggezza. Per quanto riguarda le Sardine e l’accostamento che qualcuno ha considerato blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario «il pesce, essendo un animale che vive sott’acqua senza annegare, simboleggia il Cristo che può entrare nella morte pur restando vivo». Fra l’altro chiederei un poco di rispetto per una persona che, seppur bambina, ha subito due anni di campo di concentramento in Giappone per antifascismo e antirazzismo. Sento da sempre il dolore per le incommensurabili sofferenze del popolo ebraico, che ho sempre difeso e di cui ho spesso parlato nei miei libri con partecipazione e affetto.

Lettera del dottor Massimo Finzi a Dagospia il 25 dicembre 2019. La merda più la tocchi più puzza: se Dacia Maraini avesse tratto tesoro da questo vecchio adagio avrebbe evitato di peggiorare la situazione nel tentativo di correggere i contenuti di un suo precedente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Purtroppo per lei “verba volant, scripta manent”. Riferendosi a Gesù, Dacia Maraini aveva scritto testualmente: “ Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono.” Una frase che contiene un pregiudizio duro a morire (la religione ebraica improntata a giustizia severa e vendicativa) e un grave errore storico (Gesù avrebbe introdotto nella cultura monoteista il concetto del perdono). Nella tradizione ebraica giustizia e misericordia hanno eguale importanza (….senza misericordia il mondo non esisterebbe….) e sono in equilibrio tra loro come le due ali di un aereo il cui assetto di volo è garantito da entrambe le ali e mai da una sola. A proposito del perdono l’ebraismo ha sempre assegnato ad esso una importanza fondamentale tanto da dedicare  un giorno intero del calendario al Kippur(il giorno dell’espiazione e del perdono). Una ricorrenza rispettata con il digiuno assoluto anche dagli ebrei meno osservanti e addirittura nei campi di sterminio dove un solo boccone di pane poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Durante i dieci giorni che separano il capodanno ebraico dal Kippur, gli ebrei operano una ricognizione profonda alla ricerca delle colpe o delle offese che possono essere state commesse nei riguardi della Divinità, o nei confronti dei propri simili  o anche contro la natura. Questa accurata introspezione culmina nel giorno del kippur con il proposito a non ripetere gli errori, con il pentimento e soprattutto con l’invocazione del perdono. Dio, nella sua grande misericordia concederà il perdono per le offese rivolte a Lui se il pentimento è stato sincero. Il perdono per le colpe tra gli esseri umani deve essere diretto nel senso che la richiesta deve essere avviata da chi ha commesso la colpa e può essere concesso solo da colui che ha ricevuto l’offesa. La tradizione ebraica non contempla un perdono “conto terzi” e neppure permette di porgere la guancia di un altro; di conseguenza neppure i discendenti diretti possono concedere il perdono per le offese rivolte ad un loro parente. Vorrei consigliare a Dacia Maraini una breve visita alla libreria di Via Elio Toaff dove potrebbe trovare una ricca esposizione di libri di cultura ebraica: eviterebbe di scrivere “inesattezze” e imbarazzanti tentativi di correzione. Lo dico con il rispetto che debbo ad una persona come lei il cui padre fu rinchiuso, insieme alla sua famiglia, in un campo di concentramento giapponese per essersi rifiutato di servire nella repubblica sociale di Salò.

«Antisemitismo, Sala non si limiti a tagliare i nastri». Alberto Giannoni il 17 gennaio 2020 su Il Giornale.

Walker Meghnagi, past president della Comunità ebraica, che significa Memoria?

«Mi rifaccio al testamento di rav Laras, grande rabbino capo e grande uomo, che aprì con un altra grande figura come il cardinal Martini il dialogo fra cristiani ed ebrei. Laras spiega che la Shoah ha segnato per sempre la sua esistenza. Ma aggiunge che la Giornata della Memoria è anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione».

Le pietre di inciampo sono un ricordo toccante e doveroso, non le pare?

«Sono belle, ma serviranno per le prossime generazioni. Sollecitano la memoria, devono essere fatte, perfetto, ma io dico: fermiamo gli antisemiti, quelli del passato e quelli del futuro! Io ho pagato sulla mia pelle, so cosa vuol dire antisemitismo dalla mia infanzia in Libia».

Che ricordo ne ha?

«Frequentavo la scuola italiana, che ci dava le aule di nascosto, per studiare ebraismo. Quando lo hanno scoperto, lì ci hanno ammazzato di botte. Ho tredici ferite, una volta usarono un vetro. Io non abbassavo la testa, ero già come mio padre, che era stato minacciato per questo, dagli islamisti. Aveva un’azienda e un giovedì sera, lui a un capotavola e mia madre all’altro, disse ai noi figli maggiori: Lunedì partiamo. Mia madre ci raggiunse in Italia dopo 45 giorni coi piccoli. Abbiamo dovuto lasciare tutto, le nostre radici, le scuole, le sinagoghe, i nostri cimiteri. L’odio che colpisce gli ebrei non arriva da una parte sola».

Cosa intende dire?

«Quando si dice razzismo uguale antisemitismo è un errore. Vedo Sala che marcia contro l’odio. L’antisemitismo esiste da sempre, milioni di ebrei sono stati uccisi, ma l’antisemitismo ha delle specificità e va combattuto per quello che è oggi. Non si può relegare a una sola espressione della destra, forse 70-80 anni fa era così, oggi non più».

Oggi cosa vede?

«Vedo il Bds, movimento antisemita mascherato da anti-sionismo. Vediamo legami documentati fra aree vicine a questo movimento e il terrorismo. Tutto ciò dietro una facciata di difesa dei diritti umani. Ci sono persone che alimentano l’odio per Israele e considerano gli ebrei italiani responsabili di ogni cosa faccia. Io da italiano esigo rispetto».

La rassicura la mozione del centrodestra in Regione?

«Mi rassicura tutto ciò che va in questa direzione, anche il convegno di Salvini. Sono disponibile a parlare con tutti. Sono antirazzista, potevo nascere nero e arrivare su un barcone dalla Libia. Dialogo con tutti, ma non si faccia un calderone parlando genericamente di odio. Ci sono valori che non si possono sacrificare».

La preoccupa l’islamismo?

«Io non ho paura dei musulmani, temo gli antisemiti e il terrorismo di matrice islamica. Certo se non si blocca e si cavalca la tigre corre. In Italia, al di là di quelle manifestazioni che nessuno ha condannato, non ce ne sono molte come in altri Paesi europei, vedi la Francia. In piazza San Babila, il 25 aprile, al 90% sono centri sociali ad aggredire la Brigata ebraica. E si sente dire: Dovevate restare nei lager. Mi sfugge il motivo per cui le autorità consentano certe manifestazioni come quelle del 2017 o quella recente che in stazione Centrale definiva terroristi gli Stati Uniti, sull’Iran».

Nel 2017 la condanna del sindaco arrivò, lenta e rituale.

«È raro che alcune forze politiche di sinistra dicano: Anche tra di noi esiste l’antisemitismo. Sono cerimonie, sindaci, conferenze, tagli di nastri. Io vorrei una presa di posizione per un fenomeno che non è più strisciante».

Il Pd parlò di matrice neofascista di quegli slogan.

«C’è difficoltà a difficoltà a riconoscere la realtà, che è sfaccettata. Erano musulmani, non c’entrava niente il fascismo. Il fascismo è stato una brutta bestia, terribile, ma questo non vuol dire che tutto sia fascismo. E oggi chi non è di sinistra è definito fascista. O accusato, tacciato di essere salviniano, o di Fdi. Bisogna uscire fuori da questi luoghi comuni».

Lei al convegno di Salvini sarebbe andato, a differenza di Liliana Segre che ha detto no.

«Assolutamente sì, se qualcuno mi chiama per dialogare io devo essere disponibile. Ci sono intellettuali divisivi, portatori di una cultura di intolleranza, che vedono la violenza da una parte sola. Una dipendente del Comune ha insultato Israele, non mi interessa parlare della persona, ma nessuno ha preso posizione».

Lei avrebbe voluto un provvedimento del sindaco?

«No, e ha ragione che non può e non deve controllare tutti, ma avrei voluto una presa di posizione ufficiale, non parlare con due tre persone della Comunità. Doveva dire che era contro quella violenza verbale. Invece niente. Se fosse stato qualcuno di destra sarebbe scoppiata l’Italia».

La sinistra antisemita a braccetto con l’islamismo. Alberto Giannoni su Il Giornale il 20 dicembre 2019. Si sa ormai che il Partito laburista di Jeremy Corbyn, per fortuna travolto alle ultime elezioni nel Regno Unito, è stato pesantemente infettato dall’antisemitismo. Il centro Wiesenthal lo inserito nelle liste dei peggiori antisemiti e a pochi giorni dal voto il rabbino capo inglese Ephraim Mirvis lo ha definito pubblicamente un pericolo per gli ebrei inglesi, lanciando un allarme che è stato condiviso anche dal capo della Chiesa anglicana, l’arcivescovo Justin Welby. Meno noto è il fatto che anche i Democratici americani stiano rischiando la stessa deriva, a causa di esponenti vicini all’islam politico. Adesso lo stesso virus ha attecchito in Francia, dove il comunista Mélenchon – proprio commentando la sconfitta di Corbyn, nel tentativo di difenderlo – si è scagliato contro la Comunità ebraica, con accuse strampalate e cospirativiste che in Francia qualcuno ha iscritto direttamente nel solco dei collaborazionismo filo nazista del regime di Vichy. Mélenchon è un riferimento per i gilet gialli, in cui si trova un inquietante impasto di islamismo ed estremismo politico, rosso e nero. E fra le vergogne dei gilet gialli c’è l’aggressione ad Alain Finkielkraut, il filosofo ebreo parigino. Questa situazione non trova riscontro nei grandi partiti italiani, ma alcuni segnali di convergenze inquietanti ci sono da tempo, basti pensare ai vessilli di Hezbollah che sventolavano in piazza San Babila durante l’infame aggressione alla Brigata ebraica nel giorno (teoricamente consacrato a celebrare la Liberazione). Ma, poco notate dai più, c’erano anche bandiere con la falce e il martello, a Milano, nella piazza Cavour delle grida jihadiste, a dicembre 2017. E questo incontro fra islam politico e sinistra estrema, che da anni aleggia, a Milano e non solo, trova una ambiente naturalmente propiziatorio nel bds, il movimento per il boicottaggio di Israele che si dice antisionista e fa – neanche proseliti fra vecchi arnesi della sinistra estrema e i nuovi  militanti dell’islam politico che inneggiano all’Intifada (“un sasso qua e un sasso lì) e manifestano per la Palestina invocando Allah (come nel noto corteo che nel gennaio 2009 si concluse con la preghiera sul sagrato del Duomo).

Dall’antisemitismo di Corbyn a quello nostrano “di maniera” pieno di ambiguità. Secondo il rabbino della Rocca dalla persecuzione degli ebrei è derivato un senso di colpa che è una chiave per comprendere le spinte antisemite di oggi. PIetro Di Muccio De Quattro il 21 Dicembre 2019. Con due editoriali, documentati e argomentati, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli hanno affrontato sul Corriere della Sera il tema dell’antisemitismo in Italia e Gran Bretagna. Mieli dimostra che il leader del partito laburista Jeremy Corbyn che ha perso rovinosamente le elezioni anche per ambiguità su questo tema – merita appieno le accuse e le censure di antisemitismo che svariate parti, anche autorevolissime, della società britannica gli muovono da tempo. E si stupisce che «la sinistra politica e culturale del nostro Paese ( con alcune, purtroppo poche, lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury». Mieli dunque stigmatizza non solo “l’ambigua sinistra inglese” ma anche la sinistra italiana che evidentemente, Mieli non lo dice ma lo lascia supporre, fa prevalere a riguardo la scelta dell’affinità politica sul dovere della condanna morale. E qui soccorre Galli della Loggia, che investigando “la realtà profonda dell’antisemitismo” ne pone in luce la peculiarità italiana, definita una sorta di antisemitismo “indiretto” o “di risulta”. Sicché la variante italiana della peste antisemita ( espressione nostra, questa) sarebbe alimentata anche “da un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei, cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei – solo loro, solo e sempre esponenti della politica e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati – fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo. ” Antisemitismo “di rivalsa” e “d’invidia”, “vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”, come si esprime Galli della Loggia, il quale pare considerarlo anche il risvolto dell’attestazione di un preteso “impeccabile status etico- ideologico”, non proprio “la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei” ma una forma strumentale, occasionale ed enfatica, di adesione (“vicinanza/ solidarietà/ amicizia/ stima ecc. ecc.”) all’Ebraismo. Il rabbino Roberto Della Rocca ha scritto sulla stessa testata che Galli della Loggia “ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo.” A nostro modo di vedere, esiste un’altra linea di demarcazione che si diparte dalle considerazioni di Galli della Loggia. Troppi ambigui personaggi, anche non screditati, affollano la rumorosa categoria degli anti- antisemiti, come vorremmo definirla a nostra volta. Costoro sfoggiano un anti-antisemitismo cerimoniale, di maniera, ad uso e consumo di telecamere, talk show, “social” e consigli comunali. Nelle aporie dell’esibita contrarietà all’antisemitismo, tipica di un certo strato politico- culturale della società italiana, è riscontrabile invece un latente cripto antisemitismo. Gl’Italiani anti- antisemiti, infatti, non sempre sono filo- israeliti, per non dire filo- israeliani. Dell’antisemitismo avversano il mallo anziché il gheriglio.

La vita impossibile degli ebrei in Francia. Roberto Vivaldelli su Inside Over  il 24 gennaio 2020. Islamismo fa rima con antisemitismo. Lo sanno bene gli ebrei francesi, che ogni giorno devono fare i conti con l’avanzata dell’islam radicale, soprattutto nelle periferie e nei sobborghi cittadini, interamente dominati dagli islamisti, com’è è emerso da un documento riservato inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti. Come già spiegato da Inside Over, il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. No-go zone dove lo stato è totalmente assente e dove la vita per gli ebrei è diventata impossibile. È solo l’ultima conferma di una situazione che si fa davvero allarmante. Come riporta lo Spectator, gli attacchi antisemiti  nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto all’anno precedente e le cifre per l’inizio del 2019 hanno rivelato un aumento del 78% rispetto allo stesso periodo del 2018. “Gli ebrei, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione, sono soggetti a più della metà degli atti razzisti commessi in Francia”, ha dichiarato Francis Kalifat la scorsa settimana. Kalifat, che è presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia (Crif), ritiene inoltre che il numero di vittime sia più elevato. “Molte persone non sporgono denuncia”, ha osservato. “O perché non serve a niente o perché temono rappresaglie”.

55.000 ebrei hanno già lasciato la Francia. I numeri dell’antisemitismo in Francia fanno davvero impressione. Dodici ebrei sono stati uccisi specificamente a causa della loro religione dal 2003 ad oggi. La vittima più recente è Sarah Halimi nel 2017, picchiata a morte dal suo vicino musulmano, Kobili Traoré.  Secondo quanto riferito, Traoré e la sua famiglia avevano insultato l’anziana donna ebrea in numerose occasioni e l’assassino ha ammesso che vedere un candelabro ebraico e un libro di preghiere ebraiche nell’appartamento di Halimi aveva scatenato l’aggressione mortale. Peccato che poi, nonostante l’efferatezza dell’omicidio, i giudici del tribunale lo abbiano in parte graziato, poiché non era a conoscenza “degli effetti negativi” dell’abuso di cannabis. La verità è che, come racconta lo Spectator, gli ebrei in Francia si sentono abbandonato a loro stessi. Negli ultimi anni circa 55.000 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, soprattutto da Parigi e Marsiglia. Ad Aulnay-sous-Bois, un quartiere vicino a Saint-Denis nel nord di Parigi, il numero di famiglie ebree è sceso da 600 a 100 negli ultimi anni. Rimangono appena 460.000 ebrei in Francia, che con l’avanzare dell’islamismo nel Paese, rischiano di essere sempre meno.

L’allarme di Finkielkraut: “L’antisemitismo è di sinistra”. Alain Finkielkraut, uno dei più importanti filosofi e intellettuali francesi, è intervenuto di recente per lanciare l’allarme sull’avanzata dell’antisemitismo e dell’islamismo nel Paese. “In Francia l’antisemitismo fa parte dell’estrema sinistra e di una parte crescente della popolazione con un background migratorio”, ha dichiarato alla rivista tedesca Der Spiegel. “È particolarmente preoccupante che l’estrema sinistra difenda l’Islam radicale e antisemita per due ragioni: ideologicamente, perché per loro i musulmani sono i nuovi ebrei; ma anche per ragioni tattiche, perché oggi ci sono molti più musulmani che ebrei in Francia. Quindi, anche l’islamismo di sinistra ha un futuro, e ne ho timore”. “L’antisemitismo non è una cosa del passato, ha anche un futuro”, ha detto Finkielkraut. È evidente che la sinistra che parla di antisemitismo senza condannare con fermezza l’islam radicale non può essere credibile. Il caso francese è emblematico.

·        La sinistra e l’Islam.

Vittorio Feltri e "l'incontestabile verità" che la sinistra non vuole far dire: "Proteggiamo l'islam, addio pace". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 19 luglio 2020. Non sopporto l'islamismo, religione che ritengo insensata, mentre sopporto il cristianesimo perché ha favorito il diffondersi di una cultura civile, a lungo termine. Quando i cattolici arrostivano gli eretici facevano schifo. Adesso fanno schifo i musulmani con la loro passione per le decapitazioni, gli attentati, l'odio per gli occidentali a cui poi chiedono ospitalità. Ma ciò che più stupisce è che noi europei, nonostante tutto, tolleriamo questa gente imbevuta di una fede che la porta a commettere stragi, a incendiare le cattedrali, ad ammazzare chi rispetta il crocefisso. Non solo la tolleriamo, la proteggiamo. In un recente passato sono stato processato e censurato dall'Ordine dei giornalisti per un articolo scritto su Libero in cui deploravo il comportamento e la mentalità di certi seguaci di Allah dediti a umiliare e vessare le donne, senza contare le loro violenze che hanno insanguinato mezza Europa. Incredibile. Mi hanno punito per aver espresso una opinione dai contenuti incontestabili. Significa che gli islamici hanno intimidito anche la libera stampa, piegandola a una ideologia tanto sgangherata quanto potente. Io, cronista da mezzo secolo, non sono autorizzato a criticare persone che trattano le femmine quali schiave, che occupano le nostre città pretendendo di imporre ai locali i propri costumi privi di umanità. Un tribunale speciale costituito da professionisti dell'informazione mi ha sanzionato per aver esposto la mia libera opinione sul modo vergognoso di agire di uomini che suppongono ingenuamente di essere attesi in paradiso da 77 vergini e che si fanno esplodere nella speranza di accelerare i tempi per abbracciarle. Scusate, cari lettori, vi sembra normale che un redattore non possa mettere in ridicolo ciò che tale è? E venga bastonato soltanto perché afferma una verità inconfutabile? Nella mia lunga vita nelle redazioni ne ho viste di ogni colore e ormai non mi stupisco più di niente, però mi domando come mai trionfi sempre di più la stupidità di chi invece dovrebbe difendere la categoria chiamata a raccontare la realtà. La stampa è governata da personaggi quasi tutti di sinistra i quali interpretano il nostro mestiere come riguardasse l'igiene dei loro cessi lordati dal politicamente corretto, parente stretto del soffocamento del pensiero individuale la cui espressione è garantita dall'articolo 21 della Costituzione. Addirittura questi sacerdoti ostili all'anticonformismo si sono inventati un codice deontologico arbitrario e oscurantista che vieta di usare il linguaggio del popolo, ignorando che la parola appunto popolare è l'unica forma di democrazia genuina. Noi reclamiamo il diritto di dire ai musulmani che rifiutiamo la loro maniera di vivere contraria alla nostra cultura.

In Italia è boom di moschee abusive. Così si nasconde il pericolo integralista. Sono più di un migliaio. Hanno sede in negozi, magazzini e garage. Contano sui fondi milionari. E sono fuori controllo. Fausto Biloslavo, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. A Milano le moschee «abusive» sono nove e quattro quelle autorizzate. In tutta la Lombardia sarebbero circa 70-75 i centri di preghiera irregolari, ma alla Regione hanno risposto poco più della metà dei comuni. E non città importanti per la presenza islamica come Brescia e Bergamo. «Ancora una volta al centro dell'islamizzazione violenta c'è un luogo di culto abusivo: quello di via Carissimi a Milano, gestito dall'associazione Al Nur» sottolinea l'assessore regionale alla Sicurezza, Immigrazione e Polizia locale, Riccardo De Corato. «Chiediamo la chiusura immediata di tutti i centri islamici abusivi che, come confermano le indagini, sono luoghi al di fuori di ogni controllo anche da parte delle stesse associazioni» spiega l'assessore. Il convertito italiano, Nicola Ferrara, adepto della guerra santa, frequentava proprio la moschea «abusiva» di via Carissimi in mano ai bengalesi. E all'esterno del centro islamico adescava i giovani per circuirli con la Jihad. «Quattro, cinque ragazzini, anche minori, prevalentemente italiani convertiti» spiega il tenente colonnello Andrea Leo, che guida il Reparto operativo speciale dei carabinieri coinvolto nelle indagini. L'aspetto più strano è che Issa, il nome islamico del talebano italiano, frequentasse una moschea non vicina a casa sua e di riferimento per i bengalesi. Non solo: l'antiterrorismo, secondo informazioni raccolte prima del suo caso, monitorizzava gli ambienti islamici del Bangladesh a Milano almeno dal 2017. Nel capoluogo lombardo esiste una costola islamista bengalese legata alla Jamat e Islami, una specie di Fratellanza musulmana che tende all'estremismo salafita. Alcuni membri avevano addirittura accusato le autorità di Dacca della strage di turisti, compresi 9 italiani, in realtà perpetrata dai terroristi dell'Isis il primo luglio 2016. Abu Hanif Patwery è la «faccia presentabile» della comunità, in realtà «un finto moderato» secondo gli addetti ai lavori. Grazie alla sua regia i bengalesi hanno manifestato per le vie del capoluogo lombardo a favore dei «fratelli» giustiziati o in carcere a Dacca con l'accusa di terrorismo. Munshi Delowar Hossain, il presidente del centro islamico frequentato dall'italiano jihadista non aveva informato il Comune della mutazione d'uso dei 200 metri quadrati di via Carissimi registrati come «laboratorio». La polizia municipale ha accertato che si trattava di un ruolo di culto con regolari orari di preghiera. Il Consiglio di stato ha respinto il ricorso dell'associazione Al Nur, che gestisce la moschea abusiva, contro le irregolarità riscontrate dalle autorità. Il comune di Milano ha regolarizzato la posizione di quattro centri di preghiera islamici in via Padova/Cascina Gobba, via Maderna, via Gonin e via Quaranta. Altri nove sono abusivi, ma continuano a venire utilizzati come «moschee». Il 2019 aveva registrato un'impennata delle nuove «moschee» in tutta Italia. Rispetto ai 1251 luoghi di culto islamici nel paese l'obiettivo non dichiarato è di arrivare al doppio. Grazie ai fondi privati e pubblici che giungono da Qatar, Turchia e Arabia Saudita. Solo dal 2013 al 2017 la Fondazione caritatevole del Qatar ha investito 25 milioni di euro per i centri islamici in Italia. Molte delle associazioni musulmane hanno sede in appartamenti privati, negozi, garage, magazzini, che non potrebbero venire utilizzati come moschee. Centri abusivi di culto dove si annida il pericolo della serpe jihadista. Le regioni più a rischio rimangono la Lombardia, il Lazio e il triangolo pericoloso è sempre quello di Milano-Brescia-Bergamo. I centri islamici abusivi, però, si stanno insediando anche in provincia. In Lombardia, Lazio e Campania si concentrano il 60% delle 12.034 intercettazioni dell'antiterrorismo dal 2005 al 2017. Solo in Lombardia i «bersagli» sospetti monitorati, nello stesso periodo, sono stati 4567.

·        Amico Terrorista.

Calipari, la giornalista Sgrena: «Mi disse “ora sei libera”. Poi gli spari e il silenzio terribile in auto». Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Walter Veltroni. Giuliana Sgrena fu rapita quindici anni fa. Quando fu liberata l’uomo che gestì sapientemente l’operazione, per conto del governo italiano, fu ucciso dal fuoco aperto da una pattuglia americana. Non la vedevo da quei giorni, quando tutti ci mobilitammo perché non fosse uccisa. Ora la incontro con suo marito, Pier Scolari, mio vecchio amico. «Ero già stata varie volte in Iraq. Non ero un’inesperta. Mi hanno rapita all’uscita di una moschea dove ero andata per incontrare dei profughi di Falluja. Uno sceicco mi fece parlare con lui, fece due strane telefonate e poi mi intimò di andar via. Avevano organizzato tutto. Mi prelevarono dalla macchina. Stavo chiamando dei giornalisti italiani con cui dovevo pranzare. Mi cadde il cellulare, sentirono tutto e avvertirono l’Italia. Fui portata in una villetta a schiera, poco fuori Bagdad. Ricordo che c’erano fuori delle biciclette. Era abitata da una famiglia. Non l’ho mai raccontato ma una volta, andavo al bagno, un bambino mi vide e trasalì. Mi avevano tolto tutto. Non avevo nulla, se non me stessa. Volevano farti sentire alla loro mercé. Una volta, stavo tornando dal bagno, ho chiesto: “Mi fate vedere un attimo la televisione?”. “Va bene” e hanno girato su un canale che potessi capire, Euronews. In quel momento ho visto l’immagine della vostra manifestazione in Campidoglio, inquadrarono le due Simona, che erano state rapite e rilasciate e questa cosa un po’ mi aveva rassicurato. Ho pensato: non mi abbandonano. Però subito dopo c’era la rivendicazione della jihad islamica che diceva, era domenica, “se entro lunedì sera non ritirate le truppe, noi l’ammazziamo”. Quella notte agghiacciante. Quella notte, è stata agghiacciante. Passavo le giornate a letto perché faceva freddo e non c’era il riscaldamento A Bagdad non c’era quasi mai l’elettricità. Avevo paura di perdere la memoria e non sapevo come fare. Allora ogni giorno mi imponevo di ricordare un pezzo della mia vita, per tenermi legata a qualcosa, per cercare di mantenere la mia identità. Naturalmente dopo due minuti la cosa spariva, allora ritentavo all’infinito. Così ho ripercorso parte della mia vita. Il primo appello video me l’hanno fatto fare imponendomi più o meno quello che dovevo dire. Insistevano perché mi rivolgessi direttamente a mio marito, volevano un forte impatto emotivo. Questo mi ha provocato una grande emozione perché mi rivolgevo a lui e lo caricavo di una responsabilità enorme. La seconda volta era la domenica prima del mio rilascio, avvenuto il venerdì. Hanno registrato questa cosa e poi è ricominciata la settimana. Chiedevo e loro mi dicevano: “Sì sì adesso vediamo, sì sì siamo d’accordo”. Ma restavo lì. Doveva essere successo qualcosa». Pier Scolari, il marito di Giuliana, ha vissuto l’altra faccia della storia. Da Roma, con il direttore del Manifesto Gabriele Polo, a contatto con i vertici della politica e della sicurezza. Racconta: «Un giorno, credo che fosse il venerdì prima, ci chiamano da Letta. C’era Pollari che ci informa di una novità: la Croce Rossa, attraverso il presidente Scelli, che è nella stanza a fianco, ha stabilito un nuovo, possibile contatto. A questo punto dobbiamo decidere se continuare con il nostro contatto oppure se scegliere quest’altra strada. Voi cosa dite? Siamo perplessi e stupiti ma diciamo no. Ci eravamo pienamente fidati di Calipari, che si muoveva con tatto e intelligenza, e volevamo andare avanti così. Scelli voleva intromettersi nella vicenda e aveva con questo ritardato la conclusione, perché i rapitori vista la possibilità di una doppia trattativa pensavano di giocare al rialzo. Calipari era una persona normale, affabile, intelligente, competente. Dopo il primo video ci tranquillizzò: “Il segnale è positivo perché non è velata, parla in francese. Le hanno detto di dire quelle cose, poi certo si è messa a piangere ma insomma questo è comprensibile. Però il video è un segnale positivo, quindi noi continuiamo”. Le poche volte che io l’ho visto ho avuto una sensazione di sicurezza, quella che fornisce sempre la competenza e l’equilibrio interiore del tuo interlocutore. Calipari era una persona tranquilla, molto professionale, per nulla impegnata a esibire il suo ruolo». Riprende Giuliana: «Il venerdì sento in casa del trambusto. Viene uno dei carcerieri e mi dice: “Stai tranquilla, l’unico problema è il momento della liberazione. Perché ci sono troppi americani in giro ed è un po’ rischioso”. Io la sera sento l’ultima chiamata alla preghiera e penso che non accadrà nulla, ancora una volta. Invece entrano, vestiti di tutto punto, e mi dicono: “Complimenti torni a Roma. Mettiti la sciarpa sulla testa, perché se ti riconoscono si apre il fuoco e tutti saltiamo per aria”. Mi fanno mettere gli occhiali da sole e sugli occhi del cotone in modo che non veda fuori e poi mi dicono: “Abbiamo promesso alla tua famiglia che tu ritornerai sana e salva in Italia, ma gli americani non vogliono”. Penso che sia una loro tirata ideologica. Avevano, questo non l’ho mai detto, il ritratto di Saddam sul calcio della pistola. Mi portano su una macchina, seduta dietro. Andiamo per un po’, ho calcolato venti minuti e ad un certo punto sento che la macchina si ferma, come bloccata da una pozzanghera. Aveva piovuto, quel giorno. Invece loro dicono: “Siamo arrivati. Adesso tu aspetti in macchina, ti verranno a prendere”. Loro scendono, io sento che si allontanano ma li ascolto parlare in lontananza, quindi non sono molto distanti. Sento un elicottero che volteggia e ho paura. Torna uno dei rapitori e mi dice di aspettare ancora dieci minuti. Dopo un po’ avverto dei fari contro la macchina. Sono terrorizzata, non vedo, non posso capire. Sono vestita tutta di nero, compresi spolverino e sciarpa, e per non farmi vedere scivolo indietro sul sedile, per confondermi con la tappezzeria. Infatti non mi notano e vanno via. Dopo un po’ torna questa macchina, si avvicina. Sento aprire la portiera. Una voce mi dice: “Giuliana tranquilla, sono Nicola, amico di Gabriele, di Pier. Adesso ti portiamo via”. La prima volta Calipari era arrivato all’appuntamento e se ne era andato, pensando che il posto fosse sbagliato. Al buio non era facile scorgermi. Potevano pensare fosse una trappola, che aprendo la portiera saltasse tutto. Ma mentre uscivano dalla stradina qualcuno gli ha detto che ero lì. E allora sono tornati, hanno rischiato e sono venuti a prendermi. Poi uno mi porta sulla loro macchina e mi fa sedere dietro l’autista. Vicino a me si mette Calipari: “Mi siedo vicino a te così stai più tranquilla”. Solo dopo che ci siamo allontanati un pochino mi dice: “Adesso puoi togliere gli occhiali, anche la sciarpa, adesso tu sei libera”. Calipari mi parla di amici comuni, e intanto tenta di chiamare in Italia. Vuole farmi parlare con Pollari e invece non riesce a prendere la linea. Ad un certo punto l’autista Carpani, che io non ho mai visto neanche dopo, dice “mancano novecento metri e siamo all’aeroporto”. Mi spiegano che all’aeroporto c’è un aereo che ci riporta a casa. Proprio allora Calipari riesce a prendere la linea con l’Italia. Ma nello stesso momento dice: “Ci attaccano”. Cominciano ad arrivare spari da destra, dalla strada. Ma non c’è nessun posto di blocco, solo dei jersey di cemento per rallentare la velocità. La macchina è quasi ferma ma continuano a sparare contro di noi. Calipari, immediatamente dopo aver detto “ci attaccano” mi spinge giù tra i due sedili e si butta sopra di me. Da quel momento io non sento più Calipari parlare. Sento l’autista che urla “siamo italiani, siamo italiani”, poi scende dalla macchina ed è circondato da soldati americani che nel frattempo sono arrivati. Erano fuori dalla strada con uno di questi checkpoint mobili. Carpani è circondato e gli urlano di spegnere il telefono. Lui dice: “Ma sono in linea col governo italiano” e loro rispondono secchi “spegni il telefono”, non gliene frega proprio niente. Io sono lì e non sento più Calipari, avverto che si appesantisce su di me. Sono nel terrore: prima parlava sempre e adesso non parla più. Sono lì sotto schiacciata con questo peso e non so più cosa pensare. Prima, quando ci ha detto “ci attaccano” ho pensato solo, ma chi ci può attaccare? Però non arrivo neanche a pensare che siano gli americani a spararci contro, solo dopo mi viene in mente quello che mi hanno detto i rapitori. Sono talmente scioccata che non ho avvertito il colpo che mi è arrivato nella spalla. Di Calipari sento il rantolo, perché sta morendo. Vengono da me, mi tirano giù, mi stendono in mezzo alla strada. Mi manca il fiato, non riesco a respirare. Poi arriva un soldato americano che vuole infilarmi una flebo in un braccio, ma l’ago è troppo grande e infatti arrivo in ospedale e il braccio è già blu. Mi tagliano con una forbice la camicia e c’è un lago di sangue, perché il proiettile è esploso dentro. Ho un buco di 4 centimetri nella spalla e urlo che voglio acqua, voglio un po’ di acqua. Non riesco a respirare. Ho un pneumotorace e mi portano all’ospedale militare americano. L’ambasciatore italiano mi fa parlare al telefono con Letta che mi dice: “Domani ti portiamo via da lì”». Pier Scolari ha vissuto la scena da Palazzo Chigi: «Andiamo io e Gabriele. Siamo lì e arriva Berlusconi, Berlusconi non si era mai visto, aveva fatto tutto Letta. Abbracci, eravamo tutti felici. Pollari si assenta un attimo perché parla con Carpani. Rientra di corsa, bianco in volto, dicendo: “Gli stanno sparando, gli hanno sparato, Calipari è morto”. Carpani è al telefono e Berlusconi credo gli chieda: “Ma la signora come sta?”. Carpani l’ha vista, è viva. A quel punto Pollari a Carpani che gli diceva: “Vogliono che spenga il telefono” risponde: “Ma tu spiegagli”. Chiuse la telefonata. Siamo lì e non c’è nessuna comunicazione, non si sa che cosa sta succedendo, che cosa succederà. Io urlo: “Ma telefonate a qualcuno. Chiamate l’ambasciatore, Bush!”. Berlusconi mi fa capire che è inutile chiami lui. Letta prende in mano la situazione e chiama l’ambasciatore. Berlusconi dice: “Partite e andate a prenderla, portate anche Pier”. Per fortuna. Quindi io chiedo a Berlusconi: “Ma presidente cosa devo dire?”. Perché io non sapevo niente. Non sapevo se c’erano altri italiani coinvolti, se c’era un’operazione in corso: “Io cosa dico alla gente che mi chiederà?”. Berlusconi mi dice: “Tutta la verità”». Giuliana riprende: «Il filmato girato da Lozano — il soldato americano che ha sparato e poi ha avuto il sangue freddo di riprendere il dopo — mostra che la macchina aveva le luci accese e non spente. Quei fari accesi volevano dire: siamo alleati, non nemici. E quel filmato è stata la conferma della versione che io e Carpani, senza parlarci, abbiamo fornito. Come sul fatto che la macchina procedesse lentamente. Ma loro hanno sparato dentro, l’ultimo proiettile contro il motore e gli altri cinquantasette dentro l’auto. L’unica cosa che posso immaginare è che gli americani ce l’avessero con gli italiani, in particolare con Calipari e quella componente dei Servizi che voleva trattare per la liberazione degli ostaggi e non farli ammazzare, come gli americani avrebbero voluto. Io penso sia l’unica possibile. Ma, al tempo stesso, mi sembra assurdo che questa sia una motivazione valida per uccidere il numero due della sicurezza italiana. Che era un Paese alleato con gli americani, in Iraq. Rosa Calipari mi ha aiutato molto a combattere il mio senso di colpa per la morte di Calipari. Mi ha detto: “Era il suo mestiere, pensa se lui fosse arrivato vivo e tu morta. sarebbe stato distrutto”. È una donna forte e straordinaria. Io, da quel giorno, non sono più la stessa persona. Sono sopravvissuta. A una tragedia di cui sono stata vittima incolpevole anche io». Conosco Rosa Villecco Calipari da quella sera del 4 marzo. Andai, da sindaco di Roma, a casa sua. Da quel momento con lei e i suoi figli Silvia e Filippo si è stabilito un rapporto di amicizia e di solidarietà profonda. Forse per questo Rosa accetta di parlarmi di quei giorni. «Nicola si era occupato del rapimento delle due Simona, riuscendo a farle liberare. Il giorno del sequestro di Giuliana dovevamo partire per una settimana di vacanza — la prima che lui prendeva da anni — con i nostri figli e degli amici. Quando arrivò la notizia io, che ero abituata, gli dissi che sarei andata da sola. Lui mi chiese di aspettare e dopo disse che ci avrebbe accompagnato e poi lasciati lì. Partimmo all’alba del 5 febbraio, lui in viaggio ricevette delle telefonate anche difficili. Nel mese di febbraio l’avrò visto due volte. Nicola andava in Iraq e, quando era qui, stava chiuso a Palazzo Chigi o nel suo ufficio. Tornava tardi la notte e usciva presto al mattino. L’ultimo weekend della sua vita lui era a Roma ma io ero in Calabria per questioni familiari. Non ci siamo incrociati. Il lunedì mattina mi disse che doveva partire subito, sembrava che ci fosse un’apertura. Nicola parlava sempre poco. Non solo il suo mestiere lo spingeva ad essere riservato, ma il suo carattere. Non l’ho mai sentito gridare. Mi chiamò il mercoledì. Era molto teso. Parlava a scatti, io riconoscevo da questo il suo stato d’animo. Mi disse: “Se ognuno si prendesse le sue responsabilità...”. Gli risposi che lui non doveva caricarsi ogni onere, che ciascuno facesse il suo. La mattina del venerdì, il suo ultimo giorno, lui fece tre telefonate. Al figlio, alla madre, a me. Mi sembrò più sereno. Mi disse: “Spero che le cose vadano meglio e si risolvano, potrebbe essere oggi”. Era il 4 marzo, giorno del compleanno di suo figlio e di sua madre. A me disse che, rientrando, avrebbe preso un pallone a Filippo. Io gli risposi di stare tranquillo, che quella sera saremmo stati a cena con i due festeggiati e che, al suo ritorno, saremmo stati tutti insieme. Lo chiamai uscita dall’ufficio. Credo di averlo fatto mentre gli stavano sparando, gli orari coincidono. Era staccato. Poi andai dal parrucchiere e lì mi chiamò il mio capoufficio, il prefetto Del Mese, che mi chiese dove fossi e se sarei tornata a casa. Non capivo il senso di quelle domande. Quando aprii la porta li vidi tutti, i vertici dei servizi. Lanciai un urlo, buttai a terra la borsa e capii subito che era successo qualcosa di grave. Non mi dissero cosa, accennarono al fatto che qualcosa non era andato bene. In casa avevano fatto chiudere tutte le televisioni perché i ragazzi non avessero informazioni in quel modo. Ma vedevo le loro facce e capivo che era successo qualcosa di grave. Pensavo che Nicola e Giuliana fossero stati sequestrati dagli iracheni. Poi mi dissero che gli avevano sparato gli americani. “Che c’entrano gli americani, non sono nostri alleati?” chiedevo. Pensavo fosse ferito e dissi che volevo andare a Bagdad. Quando arrivò Pollari mi diedero la notizia. E io precipitai. Giuliana la vidi al Celio. Volli andare a conoscerla, la mia richiesta sorprese molti. Incrociai i procuratori Amelio, che segue con cura la vicenda ancora oggi, Ionta e Pietro Saviotti, che era un vecchio amico di Nicola e aveva le lacrime agli occhi. Giuliana era l’unica che mi potesse raccontare gli ultimi momenti di Nicola. Quando sono entrata ho visto questa donna ferita, spaurita, che faceva fatica a respirare. Era fragile. Non ho mai pensato che lei avesse delle responsabilità. C’erano responsabilità, ma non erano certo le sue. E avrei voluto che fossero tutte acclarate, la parte nazionale e quella internazionale. Con Giuliana ho avuto subito la sensazione che noi due, donne, fossimo unite da una tragedia che ci aveva colpito, entrambe. Quella morte era il nostro filo di sangue e ci univa, come fossimo parenti». Chiedo a Rosa quale sia il più bel ricordo di Nicola. Lei mi risponde: «Il mio incontro con lui. Fu per caso. A una festa di amici. Lui ha sempre sostenuto di essersi innamorato a prima vista. Io non ci ho mai creduto. Ma lui mi colpì. Quella sera fu protagonista, fu divertente, pieno di ironia, ma anche pieno di garbo. Nicola era un introverso, uno che ascoltava gli altri. L’attuale questore di Roma, Esposito, mi ha raccontato un episodio di quando lui era un giovane funzionario della Criminalpol di Napoli. Nicola era alla mobile di Roma e si occupava del contrasto del traffico di droga. Aveva saputo che c’erano dei napoletani che avrebbero fatto passare un carico da Fiumicino e aveva organizzato il loro arresto. Il giovane funzionario partenopeo gli chiese se poteva lasciare che facessero loro l’operazione. Nicola accettò, fece seguire i trafficanti fino al punto concordato in cui la Criminalpol di Napoli, che stava seguendo il caso, prese il carico e, insieme, il merito. Era inclusivo, pacato, meditava parole e scelte. Torniamo a quella sera. Io dovevo partire per la Germania, ma rimasi colpita da quel ragazzo. Io avevo 24 anni, lui 29. Lui lasciò la fidanzata e si presentò ai miei. Faceva sul serio, come ha sempre fatto nella vita. Se devo dirti la sensazione più forte che mi trasmette il ricordo di Nicola è questa: non era alto né grande, ma ti dava un infinito, enorme, senso di sicurezza. Sapevo che per qualunque cosa lui c’era». Mentre Rosa parla mi vengono alla mente le parole che Nicola ha detto a Giuliana in macchina, il gesto di sedersi vicino a lei e di coprirla con il suo corpo. Proteggere gli altri: esiste qualcosa di più chiaro, di più corretto, per definire la figura dell’eroe? Rosa aspetta con tristezza la data del quindicesimo anniversario della morte di Nicola. Il 4 marzo. Mi dice: «Quella data è scolpita nella vita della nostra famiglia. In quel giorno è nata la mamma di Nicola. È nato Filippo, suo figlio. Quella cena, quella del nostro incontro, fu il 4 marzo 1983. E lui è morto il 4 marzo del 2005. Ora forse riesco a liberarmi del rapporto tra Nicola e la tragedia. Ora Nicola torna da me ogni momento, nella memoria. Torna con il suo sorriso dolce e la sicurezza che effondeva. Lui è rimasto giovane, io sono invecchiata. Ma siamo sempre insieme».

·        Il lato oscuro degli Amish.

Il lato oscuro degli amish. Giovanna Pavesi su Inside Over il 30 gennaio 2020. Si riconoscono facilmente grazie al loro abbigliamento: barba lunga e senza baffi per gli uomini, un abito grigio, lungo appena sopra le caviglie e un cappello per le donne. Si muovono su carrozze trainate da cavalli e conducono una vita apparentemente semplice. Rifiutano, anche se in parte, la tecnologia e la contemporaneità e vivono come contadini e artigiani, in campagna. La loro comunità, soltanto negli Stati Uniti, conta circa 342mila persone, tutte sparse nelle aree rurali della Pennsylvania, dell’Ohio, dell’Indiana, del Kentucky, dello Stato di New York, del Michigan e del Wisconsin. E se in tanti li conoscono per il loro isolamento e le loro abitudini, nelle ultime settimane, in America, agli amish vengono ritenuti responsabili di abusi sessuali perpetrati (negli anni) sui bambini all’interno della comunità e, soprattutto, dentro i nuclei familiari. A raccontare i diversi casi di violenza sessuale, omissioni e stupri è un’inchiesta di Sarah McClure che, su Cosmopolitan, ha ricostruito le vicende di alcune vittime, le quali hanno raccontato (nel dettaglio) le loro personali storie di violenza, vissute spesso in silenzio e taciute per anni. La maggior parte degli abusi si sono consumati all’interno delle mura domestiche o dentro gli spazi della comunità: niente denunce alla polizia, né coinvolgimento di persone esterne al gruppo religioso. Il muro di omertà è cresciuto così, sconvolgendo la vita di decine di bambine e bambini che, nel tempo, sono diventati spesso adulti terrorizzati dalla sofferenza e dilaniati dal senso di colpa.

I 52 casi accertati. Secondo quanto emerso dal rapporto pubblicato sulla rivista americana, negli ultimi dieci anni, i casi ufficiali di violenze sessuali su minori amish sarebbero 52, tutti avvenuti nei sette stati in cui la comunità vive da secoli. Ma il numero riportato dall’inchiesta non illustrerebbe il quadro completo. Questo perché è necessario considerare il sommerso, ovvero le storie mai raccontate e gli abusi tenuti nascosti per anni. In base a quanto riportato dall’inchiesta, infatti, praticamente ogni vittima ascoltata (maschio o femmina) avrebbe dichiarato di essere stata dissuasa dalla famiglia o dai leader della comunità dal denunciare le violenze e tutti hanno affermato di essere stati condizionati a non chiedere aiuto all’esterno. In molti hanno fatto sapere di essere stati intimiditi o, addirittura, minacciati di scomunica e le storie raccolte mostrano un’idea diffusa, soprattutto in passato, che le violenze sessuali sui minori (anche da parte delle autorità religiose amish) dovevano rimanere all’interno della comunità, o peggio, della famiglia. E per fare presa sulla coscienza, a molti di loro, per esempio, veniva detto che non era “cristiano” denunciare un parente e, più in generale, una violenza.

Chi sono gli amish. La comunità religiosa, nata in Svizzera nel Cinquecento, si trasferì in America nel Settecento. Attualmente, il gruppo più nutrito si trova in Ohio ed è stato calcolato che, in media, per famiglia, ci siano sette figli. Anche per questo motivo, sono tra le popolazioni a maggior incremento demografico al mondo e proprio perché il nucleo familiare è così centrale nelle loro vita è molto più complesso affrontare episodi di sfruttamento o abuso (quando ci sono). La stragrande maggioranza di loro parla, tradizionalmente, un dialetto tedesco chiamato “tedesco della Pennsylvania”, ma una minoranza comunica con due diversi dialetti alemanni. Anche il fattore linguistico, in effetti, ha contribuito a separarli dal resto della società e a rendere più difficile la rottura del silenzio, nei casi in cui gli elementi più deboli, come le donne e i bambini, hanno avuto bisogno di denunciare casi di abuso o di violenza. Mancando di un leader centralizzato, vivono in congregazioni locali o distretti ecclesiali, ciascuno composto da 20 a 40 famiglie.

Come vivono gli amish. Gli amish vivono all’interno di una comunità dal tessuto sociale molto robusto, basato proprio sui forti legami familiari e su un’ancora più forte identità religiosa. Per gli elementi della comunità, nel tempo, è stato fondamentale salvaguardare questo tipo di società e le azioni di ogni suo componente sono state votate a questo. Compresi la copertura e l’insabbiamento di violenze sessuali (soprattutto negli anni passati). Così, a partire dall’infanzia, gli amish sono “protetti” da ogni influenza esterna: nessuna intrusione deve arrivare dal mondo e, fino a qualche anno fa, la maggior parte dei componenti di questa comunità vietava l’utilizzo della televisione o l’ascolto della musica pop (e c’è chi lo fa ancora). Niente deve intaccare i principi di una comunità dalle caratteristiche rigide: i bambini amish, infatti, studiano fino a 13 anni sotto la supervisione di un loro insegnante, in una scuola di stanza unica. Le maestre sono, di frequente, donne nubili della comunità, che non possiedono un vero e proprio curriculum professionale ma sono promosse dagli anziani e dai religiosi per le loro virtù morali. Tutto è progettato per uno stile di vita umile, ben disciplinato e, soprattutto, devoto.

La storia di “Sadie”. Nell’inchiesta pubblicata dal sito americano emerge, fra le altre, la storia di Sadie, una ragazza amish stuprata da bambina, il cui nome è stato modificato e che oggi ha 32 anni, un marito e cinque figli. Dal 2013, è uscita definitivamente dalla comunità. Un percorso di terapia l’ha aiutata a gestire la rabbia, la paura e la diffidenza, ma a chi la intervistava ha dichiarato di avere ancora delle difficoltà nel vedere degli uomini adulti vicino ai suoi bambini. Tra i primi ad approfittarsi della sua infanzia, quando era piccola, era stato uno dei suoi fratelli che, in base ai suoi racconti, si introduceva nel suo letto, nel cuore della notte, per abusare di lei. Poi un altro che, la mattina, all’alba la afferrava, dopo che aveva finito di dare da mangiare ai maiali, e la violentava. E anche se lei, piccola e minuta, avesse voluto liberarsi da quella morsa, farlo era impossibile vista la stazza dei suoi familiari, tutti più grandi e più forti di lei.

Abusata dai fratelli e dal padre. La 32enne ha raccontato di aver subito il primo stupro da uno dei suoi fratelli a nove anni. Il padre, invece, abusò di lei tempo dopo, quando di anni ne aveva 12. Secondo quanto emerso dall’inchiesta, l’uomo, un chiropratico della comunità, l’avrebbe penetrata con le dita sullo stesso tavolo in cui era solito visitare i pazienti. Davanti allo sguardo perplesso della figlia, forse alla ricerca di una motivazione che non poteva esserci, le disse che la stava toccando per “tastare il suo utero”, al fine di garantire la sua fertilità. Appena diventata adolescente, a 14 anni, altri tre fratelli l’avrebbero violentata più volte alla settimana. Di quegli episodi, in seguito, sarebbe stata lei a vergognarsi, senza un motivo reale ma tutto culturale. Secondo quanto riportato da Sadie, le sue sorelle, che con lei condividevano la camera e qualche volta anche il letto, non si sarebbero mai opposte a quel tipo di violenza e tempo dopo la 32enne sarebbe venuta a sapere che anche loro venivano abusate con una certa regolarità.

L’intervento delle autorità (e il silenzio). Tra le virtù richieste agli appartenenti a questa comunità, in particolare in passato, c’erano l’adesione alle regole e, in particolare, il silenzio, perciò nessuna di loro pensò mai di raccontare ad altri quegli episodi. E così, a lungo, nessuno disse nulla. In base a quanto riportato dall’inchiesta, infatti, il giorno in cui le forze dell’ordine si presentarono a casa di Sadie (allora ancora 12enne) per interrogare il padre a proposito dei presunti abusi sulle figlie, lei non disse nulla. Così come il resto della famiglia. E la stessa cosa accadde tempo dopo, quando il genitore venne condannato da un giudice a soli cinque anni di libertà vigilata. Rimase zitta anche quando durante uno stupro da parte di uno dei suoi fratelli, che la accantonò nella dispensa e la violentò sul lavandino, probabilmente ebbe un aborto spontaneo, visto che il sangue, dopo quel rapporto forzato, le scese lungo la gamba.

La “punizione” per chi abusa. Dopo che gli abusi del padre di Sadie erano diventati di dominio pubblico, i dirigenti della chiesa locale decisero di infliggergli una punizione. Così venne “evitato” per sei settimane, una forma comune di disciplina in cui l’accusato è socialmente ostracizzato e gli è proibito mangiare allo stesso tavolo dei membri della chiesa, per esempio. Dopo questa forma di allontanamento, è previsto che la persona confessi in chiesa il suo peccato e che la comunità sia costretta a perdonarlo, “dimenticando” così il peccato. Che, a quel punto, è come se non fosse mai accaduto. Nella vicenda di Sadie raccontata nell’inchiesta, dopo quel procedimento, a casa sua tutto tornò alla “normalità”, cioè prima delle accuse. Quando la polizia tornò a casa di Sadie per fare altre domande a suo padre, lui rispose che il problema era stato superato, anche se aveva confessato di avere fatto sesso con due dei suoi figli almeno tre volte ciascuno, insistendo però di non averli feriti e di non aver fatto loro del male.

Il volere della famiglia. Nel caso della famiglia di Sadie, un parente aveva ricordato che la madre, in seguito a quanto accaduto, aveva detto agli assistenti sociali di mettere in pratica ogni strategia possibile per impedire che il marito fosse incarcerato. E la cosa funzionò, in effetti. Il padre di Sadie, nel 2001, si dichiarò colpevole di abuso sessuale ma non di incesto, proprio perché la famiglia non voleva fosse messo in un penitenziario. Così, invece di scontare una pena che (all’epoca) poteva durare almeno cinque anni, ottenne la libertà vigilata. La 32enne, oggi, sostiene che da quel momento il padre abusò di lei per altri cinque anni.

Un “segreto” condiviso da generazioni. In base ai dati forniti dalla giornalista, dopo aver interpellato quasi circa 36 persone amish, oltre a polizia, giudici, avvocati, operatori, specialisti e studiosi della questione, sarebbe emerso che l’abuso sessuale all’interno di questo tipo di comunità rappresenta una sorta di “segreto condiviso“, che coinvolge intere generazioni. Così le vittime, tempo dopo, raccontano storie di avvicinamenti inappropriati, rapporti ambigui, carezze, esposizione ai genitali degli adulti, penetrazioni digitali, sesso orale coatto, sesso anale e stupri di ogni genere da parte di familiari e leader religiosi con un minimo comune denominatore: l’occultamento e il silenzio assoluto. Perché chi decide di parlare, spesso viene deriso o, addirittura, incolpato. E perché l’idea di non dire nulla è radicata.

Cosa si sta muovendo oggi. Eppure, siccome da qualche anno, di violenza sulle donne si parla con maggiore frequenza, anche la parte femminile della comunità ha imparato a confrontarsi con le denunce, anche se con lentezza. Linda Crockett, fondatrice e direttrice di Safe Communities, un’organizzazione che si adopera per prevenire l’abuso sessuale sui minori ha fatto notare come questo movimento di denuncia da parte delle donne amish sia meno visibile ma che, comunque, negli ultimi dieci anni sia anche cresciuto. Secondo la direttrice, infatti, le vittime (o ex vittime) si sentono e si sostengono reciprocamente, proprio all’interno delle comunità stessa. Secondo quanto testimoniato da Craig Stedman, ex procuratore distrettuale della contea di Lancaster, in Pennsylvania, che ospita circa 40mila amish, e che ha fatto parte di un gruppo che collega la comunità alle forze dell’ordine e ai servizi sociali, di frequente, però, sono gli uomini a chiamare al posto delle loro mogli, per esempio.

Perché gli abusi nelle comunità amish. Tra gli elementi che favoriscono la diffusione degli abusi dentro la comunità come quella degli amish esistono una serie di fattori oggettivi, come un’impostazione sociale profondamente patriarcale, uno stile di vita isolato in cui le vittime hanno poche occasioni di esporsi al mondo esterno, un sistema educativo che finisce all’inizio dell’adolescenza e non fornisce alcun insegnamento legato alla sessualità o al corpo, una cultura legata al senso di inadeguatezza, vergogna e biasimo della vittima, un limitato accesso agli strumenti tecnologici che possono consentire la comunicazione o, almeno, una certa consapevolezza sociale e, soprattutto, una religione che privilegia il perdono rispetto all’effettiva punizione. Inoltre, i leader amish tendono anche a diffidare dalle forze dell’ordine, preferendo gestire le proprie controversie in autonomia.

La storia di Lizzie Hershberger. Oltre alla storia di Sadie, il cui nome è stato cambiato per ragioni di riservatezza, dall’inchiesta di Cosmopolitan è emersa anche la vicenda di Lizzie Hershberger, che a a 14 anni venne assunta da una famiglia di amish per aiutare il nucleo con il loro quattro figli nei lavori contadini. La donna ha raccontato che a quell’età, una notte, dopo aver munto le mucche, il capofamiglia 27enne la baciò, la spinse contro ai sacchetti di cibo e le tolse i vestiti che lei, faticosamente, cercava di tenersi addosso. Le avrebbe detto “rilassati”, prima di violentarla, e lei per molto tempo non riuscì a capire la ragione per cui, durante quello stupro, sentisse dolore e sangue tra le gambe. Nessuno le aveva mai parlato di come funzionava un rapporto sessuale, delle mestruazioni, né della rottura dell’imene. Per molte ragazzine violentate, raccontare un abuso diventa ancora più difficile proprio per la scarsa conoscenza che le giovani hanno del loro corpo e della loro sessualità.

Il senso di colpa. Dopo quello stupro, Hershberger iniziò a provare un forte senso di colpa, dovuto principalmente al fatto di non essersi allontanata prima da quella stalla. Secondo quanto riportato dall’inchiesta, dai diari della donna e dai documenti del tribunale, il 27enne la stuprò altre 25 volte, per circa cinque mesi. Accadeva nel fienile, all’esterno e, persino, all’intero di casa sua. In base a quanto testimoniato da Hershberger qualcuno vide quelle scene, ma nessuno la aiutò o allontanò il suo persecutore. Che, alla fine, confessò. Venne evitato, come il padre di Sadie, per sei settimane e la chiesa lo perdonò. Hershberger, invece, a lungo è stata additata come una schlud o una hoodah, termini olandesi utilizzati in Pennsylvania che stanno per troia o puttana. Derisa, bullizzata e incolpata, secondo quanto riportato dalla donna, nessuno le chiese come si sentisse. La comunità sostenne che fosse affetta da disturbo mentale ed è comune che le vittime amish siano viste colpevoli almeno quanto gli aggressori, perché ritenuti “partner consenzienti” che commettono adulterio (anche se si tratta di bambini). Ci si aspetta che le vittime condividano certe responsabilità e che, dopo il perdono della chiesa, arrivi anche il loro.

Gli amish in tribunale. In base a quanto ricostruito, quando un caso, raramente, è finito in tribunale, gli amish hanno parteggiato (in maniera palese) per chi abusa. Secondo quanto testimoniato da vittime e forze dell’ordine, i colpevoli, infatti, entrano nelle aule di giustizia accompagnati quasi con le loro intere congregazioni dietro di loro. Così, quasi nessuno difende chi è abusato e la maggioranza si schiera con gli stupratori. In alcuni casi le giovani vittime sarebbero state costrette a perdonare il padre e i fratelli dopo la violenza, addirittura con l’obbligo di scrivere lettere di supplica al tribunale per impedire l’incarcerazione dei familiari. Accordi come questi, probabilmente, hanno contribuito a salvare gli imputati da quelle che avrebbero potuto essere condanne da 25 a 30 anni di reclusione.

La “struttura” per problemi mentali. Secondo quanto raccontato, poi, esisterebbero delle strutture (gestite da amish o da mennoniti) per la riabilitazione delle vittime di stupro. Luoghi in cui, secondo le testimonianze, non si approfondisce per davvero il trauma, ma si lavora sugli stati emotivi delle vittime e le consulenze sono basate sui testi biblici. Nessuno possiede una licenza per ciò che fa e le aggressioni sessuali non sembrano essere trattate nel modo più adeguato. Secondo quanto ricostruito dall’inchiesta, le vittime sarebbero state costrette, in alcuni casi, all’assunzione di farmaci e tranquillanti, e sarebbero tornate a casa come sotto effetto di sostanze stupefacenti. In base a quanto testimoniato dalle cartelle cliniche di una vittima di violenza sessuale, in uno di quei centri, le era stata prescritta l’olanzapina, un farmaco antipsicotico che tratta solitamente malattie mentali come la schizofrenia. E rifiutarsi di prendere quelle medicine non è un’opzione contemplata, né consigliabile. Solitamente, poi, i certificati di rilascio consigliano alle vittime di stupro di “sfidare i pensieri malsani utilizzando pensieri positivi e buoni”. In base alla testimonianza di una delle vittime (comparsa sempre nell’inchiesta di Cosmopolitan), i leader amish utilizzerebbero questi soggiorni coatti per mettere a tacere le donne che, negli ultimi tempi, hanno deciso di parlare e di non tenere nascosti abusi ed episodi di violenza.

Voci di speranza. Ma siccome la sopportazione di certe situazioni si è fatta più complicata, anche grazie all’evolversi della società, più sensibile a certe tematiche, negli ultimi anni si sono formati gruppi e strutture in grado di ascoltare e accogliere le vittime di stupro. Circa due anni fa, Lizzie Hershberger e Dena Schrock (entrambe ex componenti della comunità amish) hanno lanciato Voices of Hope, unìassociazione per donne maltrattate. Altre persone, invece, trovano uno spazio in “The Plain People”, uno spettacolo lanciato nel 2018 che racconta episodi accaduti nelle comunità di amish e mennoniti di soprusi e violenza. Intanto, in Pennsylvania, in diversi stanno lavorando per riformare la cultura amish. Nella contea di Lancaster, infatti, esiste una task force, composta da polizia, procuratori e agenzie di servizi sociali che incontra, alcune volte l’anno, i leader religiosi. Anche se, come riportato dall’inchiesta, nessuna donna è inclusa tra i rappresentanti amish del gruppo.

La volontà di cambiare. Tuttavia, la sensibilità legata a questo tema sembra stai trasformando le abitudini di queste comunità e alcuni amish hanno avviato iniziative per combattere questi fenomeni. In diversi Stati, infatti, i loro comitati si mettono in contatto con le autorità locali per riferire e perseguire i casi di stupro. Secondo quanto testimoniato da diversi leader amish, l’urgenza è quella di informare ed educare le famiglie e l’atteggiamento sembra essere cambiato anche nei confronti del concetto di perdono. Processo molto complesso, quando non impossibile.

·        Gli Evangelici.

Argentina, la crisi del cattolicesimo e l’avanzata degli evangelici. Emanuel Pietrobon su Inside Over the world il 6 marzo 2020. Sono passati ormai sette anni dall’intronizzazione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio, il primo uomo proveniente dal Sud globale a ricoprire tale carica, l’evento spartiacque della storia recente della chiesa cattolica. Era chiaro fin da subito che la scelta fosse stata dettata da ragioni geopolitiche: è stato il fallimento del piano per la nuova evangelizzazione del Vecchio Continente elaborato dallo storico duo Wojtyła-Ratzinger all’indomani della guerra fredda a spianare la strada per il ri-direzionamento dell’agenda vaticana altrove, nel resto del mondo, nelle “periferie globali” per utilizzare un termine bergogliano. Si era deciso di eleggere qualcuno che conoscesse da vicino le dinamiche del Sud globale, in particolare dell’America Latina, per fronteggiare la guerra delle croci in corso con l’internazionale evangelica e non perdere ulteriore terreno nel mercato delle fedi. Ma l’elezione di Francesco, per quanto sia stata fondamentale nell’espansione della sfera d’influenza vaticana nel mondo ortodosso, nel mondo islamico e in Cina, non ha sortito gli effetti sperati nel contenimento dell’avanzata protestante nell’America latina.

Cattolici: sempre meno e secolarizzati. Dal Brasile a Cuba, passando per il Venezuela, le plurisecolari roccaforti del cattolicesimo latinoamericano stanno cedendo una dopo l’altra e, adesso, sembra essere arrivato il turno della terra natale del Papa, l’Argentina. Una recente inchiesta della Commissione episcopale per il sostegno dell’azione evangelizzatrice della chiesa cattolica argentina, che è stata anche ripresa dal Vaticano, ha fatto luce sulla situazione attuale del cattolicesimo nel paese, svelando una situazione drammatica: il cattolicesimo continua ad essere la prima religione del paese, seguita dal 70% degli intervistati, ma è afflitto da un’emorragia di consensi, fedeli e fiducia. Soltanto il 36% di coloro che si professano cattolici contribuisce economicamente al sostentamento della chiesa, poiché la maggioranza ritiene che il finanziamento debba provenire dal Vaticano o dallo stato e che, comunque, la chiesa “ha abbastanza denaro” per auto-finanziarsi; 3 cattolici su 10 frequentano le messe in maniera regolare, ossia una volta a settimana; il 44% ha un’immagine negativa della chiesa in sé; il 50% non compra i periodici cattolici e non segue in alcun modo i canali mediatici della chiesa, e, infine, il 61% degli intervistati non è a conoscenza delle attività sociali svolte dalla chiesa, come l’aiuto ai senzatetto, alle famiglie indigenti e numerose, le comunità di recupero per i tossicodipendenti ed ex criminali. L’inchiesta acquisisce ulteriore importanza alla luce del test che la chiesa sarà tenuta ad affrontare nelle prossime settimane, ossia il ritorno della questione aborto in sede legislativa, perché è chiaro che dal suo livello di popolarità dipende, e dipenderà, la capacità di mobilitare la società civile, di riempire le piazze. Ed è stata proprio la questione della legalizzazione dell’interruzione di gravidanza ad aver mostrato quanto la società argentina sia profondamente polarizzata, divisa in una metà saldamente contraria e una metà fermamente favorevole, e quanto la classe politica sia poco interessata all’intrattenimento di un rapporto privilegiato con la Santa Sede. Infatti, il governo neo-peronista del presidente Alberto Fernandez condivide le posizioni etiche del predecessore, il liberale e liberista Mauricio Macri, e ha annunciato l’intenzione di terminare il lavoro iniziato da Macri, colui che ha cominciato la discussione sull’aborto, proprio all’indomani della visita effettuata in Vaticano a fine gennaio, durante la quale si è assicurato l’aiuto del Papa nella gestione della crisi economica che attanaglia il paese e che ha reso l’incubo bancarotta di nuovo realtà, come a inizio anni 2000.

L’avanzata protestante. Stando all’inchiesta della commissione episcopale, i cattolici rappresenterebbero il 70% della popolazione ma altre fonti riportano numeri largamente inferiori. Nel 2018, Latinobarometro riportava un panorama religioso diviso fra cattolici, il 63,3%, protestanti, l’11% e inaffiliati, il 24%. Al sondaggio ha fatto seguito, l’anno seguente, un‘inchiesta nazionale del CEIL-CONICET, un centro studi para-statale, che ha certificato la presenza cattolica ferma al 62,9% e quella protestante al 15,3%. I dati differiscono, ma comunque evidenziano una realtà incontrovertibile: i cattolici stanno diminuendo, i protestanti aumentando, ed è una tendenza tanto forte da mostrare i suoi effetti su base annua. Per capire la gravità della crisi che sta affrontando la chiesa, basti pensare che nel 1960 il 90,5% della popolazione si definiva cattolico. Le chiese protestanti, che sono essenzialmente di stampo evangelico e neo-pentecostale, hanno saputo sfruttare l’ultimo ventennio di congiunture economiche negative, realizzando un sistema sociale ricalcante il tradizionale welfare cattolico e basato su mense per i poveri, distribuzione di beni primari e secondari agli indigenti, dormitori. Secondo Ruber Proietti, leader dell’Alleanza Cristiana delle Chiese Evangeliche della Repubblica Argentina (Aciera), è stata propria la dedizione al sociale, sottratta al decadente monopolio cattolico, ad aver posto le basi per un “boom protestante”. Nell’intera provincia di Buenos Aires, oggi, operano più di 5mila enti, centri e chiese protestanti, e l’Aciera, inoltre, offre delle stime alternative sulla demografia religiosa del paese, sostenendo che il 20% della popolazione adulta sia affiliato a chiese protestanti. La macchina di proselitismo ha iniziato a lavorare ed è altamente probabile che nei prossimi due decenni avrà luogo una rivoluzione religiosa in stile Brasile, perché come sottolinea Proietti “in ogni quartiere ormai ci sono più templi evangelici che chiese cattoliche”.

·        I Mormoni.

ANSA il 17 dicembre 2019 - Scandalo tra i mormoni: un ex gestore degli investimenti della chiesa ha denunciato una truffa da 100 miliardi di dollari. L'informatore, secondo quanto riportato dal Washington Post, ha dichiarato all'Internal Revenue Service (Irs), l'agenzia governativa deputata alla riscossione dei tributi negli Stati Uniti, che i dirigenti della chiesa hanno accumulato le donazioni invece di utilizzarle per opere di beneficenza. E in particolare, con il denaro avrebbero finanziato due business privati. La denuncia è stata presentata da David A. Nielsen, un mormone di 41 anni che ha lavorato fino a settembre come manager presso la Ensign Peak Advisors, la divisione investimenti della chiesa. L'esenzione dalle tasse richiede che la Peak Advisors operi esclusivamente per scopi religiosi, educativi o di altro genere, una condizione che, secondo Nielsen, l'azienda non ha soddisfatto. Ai mormoni viene chiesto di contribuire ogni anno con il 10% delle loro entrate, una pratica conosciuta come decima, e l'organizzazione religiosa, una delle più visibili degli Usa, con sede a Salt Lake City, raccoglie circa 7 miliardi di dollari ogni anno. Nessun commento dalla chiesa, che "non fornisce informazioni su transazioni specifiche o decisioni finanziarie", come ha spiegato il portavoce Eric Hawkins in una nota.

Il «tesoro» nascosto dei mormoni: 100 miliardi (tolti alla beneficenza). Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 da Corriere.it. Scandalo tra i mormoni: un ex gestore degli investimenti della chiesa ha denunciato una truffa da 100 miliardi di dollari. L’informatore, secondo quanto denunciato per la prima volta dal Washington Post qualche giorno fa e poi ripreso da tutti i media americani, ha dichiarato all’Internal Revenue Service (Irs), l’agenzia governativa deputata alla riscossione dei tributi negli Stati Uniti, che i dirigenti della chiesa hanno accumulato le donazioni invece di utilizzarle per opere di beneficenza. E in particolare, con il denaro avrebbero finanziato due business privati. La denuncia è stata presentata da David A. Nielsen, un mormone di 41 anni che ha lavorato fino a settembre come manager presso la Ensign Peak Advisors, la divisione investimenti della chiesa, insieme a suo fratello gemello Lars, un ex membro della Chiesa. L’esenzione dalle tasse richiede che la Peak Advisors operi esclusivamente per scopi religiosi, educativi o di altro genere, una condizione che, secondo Nielsen, l’azienda non ha soddisfatto. Ai mormoni viene chiesto di contribuire ogni anno con il 10% delle loro entrate, una pratica conosciuta come decima, e l’organizzazione religiosa, una delle più visibili degli Usa, con sede a Salt Lake City, raccoglie circa 7 miliardi di dollari ogni anno. La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi giorni, comunemente chiamata Chiesa Mormone, ha replicato: «Le notizie diffuse si basano su una prospettiva ristretta e informazioni limitate- ha scritto in un comunicato diffuso dalla Cnn- La Chiesa rispetta tutte le leggi che regolano le donazioni, gli investimenti, le tasse, i depositi. E saremo ben contenti di accogliere i funzionari che vorranno porci domande in merito». Per quanto riguarda i fondi, ha aggiunto che la maggior parte del denaro donato è stato utilizzato per l’educazione, il supporto umanitario, le chiese per le riunioni, le missioni e i templi. Ma che altri soldi sono stati effettivamente risparmiati: «Una riserva prudente per il futuro», hanno spiegato. I mormoni nel mondo sono oltre 15 milioni, oltre la metà in America, dove sono la quarta religione e quella che cresce più rapidamente: secondo il Pew Research Center hanno un milione di nuovi seguaci ogni tre anni, anche grazie al proselitismo attivo che è una delle colonne portanti di questa chiesa. Cinquantamila giovani missionari girano gli Usa per convertire nuovi fedeli. In Italia, sono circa 26 mila: il primo tempio è stato inaugurato a Roma, a gennaio. Uno sfarzo di guglie e cupole dorate. La loro dottrina si fonda sul Libro di Mormon, versione rivista e corretta della Bibbia: si definiscono cristiani cattolici e rifiutano dogmi come la trinità, reinterpretano i sacramenti, ma non permettono la poligamia, che viene praticata solo da alcuni fondamentalisti che rischiano la scomunica. I loro leader spirituali sono laici e vigilano su un codice di condotta rigido. Particolarmente severe sono le prescrizioni igieniche: il corpo è un «dono di Dio» e quindi ai mormoni sono vietati tabacco, alcolici, caffè e tè, droghe. Recentemente, sono stati alla ribalta delle cronache internazionali per la strage dei mormoni in Messico ad opera dei narcos.

·        «E non abbandonarci  alla tentazione»: così cambia il Padre Nostro.

C'è la "rivoluzione" sulla Messa. Preghiere e canti: cambia tutto. Il nuovo Messale romano si presta ai canti in Chiesa: pure il Padre Nostro entra nel dibattito tra i fedeli, che continuano a spaccarsi nonostante gli appelli del Papa. Giuseppe Aloisi, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Dicono sia "colpa" del Concilio Vaticano II, ma forse i perché vanno ricercati altrove. Nella quotidiana contrapposizione tra progressisti e conservatori, la Chiesa cattolica si misura pure con il problema degli "abusi liturgici". La sinistra ecclesiastica parla quasi di evoluzioni naturali. La destra si scandalizza. Lo abbiamo visto anche durante il lockdown, con delle forme di fantasia liturgica a cui i fedeli possono non essere abituati. Dalla corsa tra i banchi del prete sorrentino al liquidator per il battesimo, passando per le "messe rock": lo stato dell'arte non è questo, ma una certa tensione alla fantasia c'è. Per i tradizionalisti non esiste appello: il fenomeno, che non può più essere stroncato sul nascere perché datato, non è accettabile. C'è un altro punto che risiede da un'altra parte: nello spazio destinato alle "urgenze" della fede. Il lockdown e le disposizioni delle autorità governative hanno costretto l'Ecclesia a sospendere le celebrazioni. Poi, anche in Italia, c'è stata un po' di polemica per via del restringimento delle misure da parte del governo giallorosso. Quello che in prima battuta non aveva previsto la "riapertura" delle chiese. "Ritornare all'eucaristia con gioia" è la strada indicata dal cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e per la disciplina dei sacramenti, così come ripercorso dalla Catholic News Agency. Il testo, che è stato condiviso con e da papa Francesco, nasconde una preoccupazione non da poco: che la pandemia possa ridurre la Messa ad un fatto occasionale, se non direttamente residuale. E per la Chiesa cattolica - questo è pacifico - un andazzo così non è concepibile. Non si tratta tanto di evitare "abusi liturgici", insomma, ma di salvaguardare la celebrazione in sé e per sé. La diffusione del nuovo coronavirus ha sconvolto il piano delle cose da fare. Ma le rimostranze sulle originalità di certi preti persistono. Il nuovo Messale romano, secondo pure quanto riportato da Libero, si presta alla rivisitazione. Il testo rinnovato prevede alcune modifiche, come quella sul Padre Nostro (i fedeli non diranno più "non indurci in tentazione", bensì "non abbandonarci alla tentazione"), ma non sono gli aspetti dottrinali a preoccupare i parroci, soprattutto quelli legati all'ortodossia della celebrazione. I canti, in poche parole, sarebbero aumentati, fornendo un assist a chi intravede nell'apporto di novità a tutti costi un pendio scivoloso. Pure il Padre Nostro ora si presta alla musicalità ed al contributo del coro: c'è chi non è d'accordo e prova nostalgia per i tempi che furono. Ma l'andazzo è questo. La Pontificia commissione Ecclesia Dei, quella che dovrebbe tutelare quelle realtà diocesane che richiedono la Messa antica, dovrebbe scomparire del tutto a breve. Il cosiddetto "rito tridentino" è divenuta una bandiera per la parte tradizionalista della Chiesa cattolica, ma le gerarchie ecclesiastiche propendono per la riforma e non per la restaurazione. E la Messa antica sembra destinata a finire nel dimenticatoio della fede, nonostante i movimenti ecclesiastici che la prediligono rimangano una fucina di vocazioni. Stando a quanto ripercorso su Avvenire in relazione al nuovo Messale romano, "Per la prima volta le partiture entrano a pieno titolo nel corpo del testo e non finiscono in appendice come era accaduto nel Messale ancora in uso, quello datato 1983. Non solo. Aumentano i brani proposti. E si torna a privilegiare le formule ispirate al gregoriano evitando che il libro dell’Eucaristia diventi un luogo di sperimentazione". C'è chi esulta per l'estensione degli spazi destinati ai canti e chi storce il naso. Il pontefice argentino dice che dividere è opera del diavolo, ma il dibattito in seno alla Chiesa - è solo una fotografia del momento - prevede che due fronti dicano due cose diverse.

Bergoglio "cancella" Ratzinger: il cambio (storico) nella Messa. Il nuovo Messale romano presenta ancora l'espressione "per tutti", che Ratzinger voleva modificare in "per molti". Bergoglio preferisce la versione corrente. Un passo indietro rispetto alla versione di Benedetto XVI. Francesco Boezi, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. "Quest'ultimo prende prende in contropiede l'azione del suo predecessore, e rafforza una traduzione che possiamo giustamente qualificare come errata, poiché non rispetta né il testo del messale, né il testo del Vangelo, ispirato da Dio, da cui è tratta". Il soggetto della proposizione è papa Francesco, mentre l'accusa proviene dalla Fraternità sacerdotatale San Pio X. Jorge Mario Bergoglio - in estrema sintesi - ha approvato un testo, un Messale romano, che l'emerito riteneva essere sbagliato. Non tutto il testo: si parla, nello specifico, di un passaggio che Joseph Ratzinger aveva modificato in funzione della sua interpretazione. Un cavillo? Un passaggio di poco conto? Non proprio. Si tratta dell'antica disputa riguardante "pro multis", quelli per cui il sangue di Cristo è stato "versato". Siamo più o meno tutti abituati ad ascoltare, durante le funzioni, la dicitura "per tutti", che segue "per voi". Benedetto XVI pensava che in realtà "pro multis" andasse tradotto con "per molti". Il che, in certe interpretazioni fornite dai tradizionalisti, può restringere la platea di coloro per cui Gesù ha operato "in remissione dei peccati". È, come premesso, una disputa datata di natura teologica, filologica e dottrinale, ma Ratzinger era stato piuttosto chiaro: "In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale e non insieme già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”. Vorrei qui far notare che né in Matteo, né in Marco c’è l’articolo, quindi non “per i molti”, ma “per molti”. Se questa decisione è, come spero, assolutamente comprensibile alla luce della fondamentale correlazione tra traduzione e interpretazione, sono tuttavia consapevole che essa rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa". E ancora, scriveva l'ex papa: "...se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell’Ultima Cena Egli ha detto “per molti”? E perché allora noi ci atteniamo a queste parole di istituzione di Gesù?". Benedetto XVI - come si apprende sul sito ufficiale del Vaticano - aveva invitato alla stesura di una catechesi sul "pro multis" in grado di spiegare i perché della necessità di una traduzione letterale. Il Messale romano in oggetto, dunque, avrebbe dovuto presentare la traduzione ratzingeriana. Ma l'ultima versione è come la penultima: Un'aspettativa condita dal fatto che lo stesso papa Francesco aveva utilizzato nel recente passato l'espressione "pro multis". Il testo che Bergoglio ha approvato durante questi giorni, tuttavia, continua a riportare il "per tutti", smentendo le intenzioni dell'emerito e assecondando forse il parere di chi pensa che una limitazione del novero di coloro per cui Cristo ha versato il sangue, almeno dal punto di vista letterale, sia da considerare come negativa. La ratio di fondo dell'altro "fronte", invece, segnala come non tutti, per la dottrina cristiano-cattolica e secondo l'insegnamento evangelico, siano destinati alla salvezza. Tutto questo avviene mentre un libro edito da Rizzoli, "Una sola Chiesa", ribadisce la continuità dottrinale tra il regnante e l'ex pontefice. Un'opera introdotta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. Difficile che la scelta di Francesco si declini in una nuova polemica "vaticana", ma la San Pio X ha letto la mossa di Bergoglio alla stregua di un "contropiede" diretto a modificare l'impostazione ratzingeriana. "I'molti' che sorgeranno per la vita eterna devono essere intesi come i 'molti' per i quali il sangue di Cristo è stato versato", aveva affermato l'ex arcivescovo di Buenos Aires nel 2017. Nel Messale della Cei che è stato da poco consegnato nelle mani di Jorge Mario Bergoglio, però, c'è ancora scritto "per tutti". Il "nuovo" Padre Nostro, invece, era condiviso anche dall'emerito: chi si recherà a Messa pronuncerà "non abbandonarci alla tentazione" invece di "non indurci alla tentazione".

Il Papa cancella il plurale nei battesimi. Nulli i sacramenti impartiti col "noi" invece di "io" nella formula: "Vanno rifatti". Fabio Marchese Ragona, Venerdì 07/08/2020 su Il Giornale. Papa Francesco impone una stretta sui battesimi fai da te e dice basta ai preti troppo creativi che hanno battezzato bambini e bambine utilizzando una formula del rituale innovativa, al plurale, per coinvolgere l'assemblea presente al rito. Il Vaticano ha reso noto con un documento ufficiale la non validità del battesimo conferito con la formula «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Chi è stato battezzato con questa formula deve tornare nuovamente al fonte per ripetere il rito, questa volta con la dicitura prevista dalla tradizione, quella cioè al singolare: «Io ti battezzo». La decisione del Papa è arrivata dopo che le autorità ecclesiastiche avevano sollevato seri dubbi sulle implicazioni teologiche che l'utilizzo della formula creativa avrebbe creato. Per questo il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha portato in udienza dal Papa, lo scorso giugno, due quesiti con le relative risposte e il Pontefice ha approvato il tutto, ordinandone la pubblicazione. Nella prima domanda si chiede se è valido il battesimo conferito con la formula al plurale. E la risposta è negativa. Nella seconda si chiede se «Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta». E la risposta è positiva. Dovrà esserci quindi nuovamente la celebrazione del Sacramento, questa volta senza derive fantasiose da parte di sacerdoti un po' troppo estrosi. «Recentemente - si legge in una nota dottrinale diffusa dalla Congregazione vaticana -, vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti»; niente di più sbagliato, secondo il Vaticano, che bolla l'utilizzo di questa formula come una «deriva soggettivistica e una volontà manipolatrice». Il sacerdote non può decidere a proprio piacimento quale formula usare e, si legge nella nota, «non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini o dei familiari, perché il ministro agisce in quanto segno-presenza dell'azione stessa di Cristo che si compie nel gesto rituale della Chiesa». Una decisione, quella di Francesco, che secondo alcuni potrebbe creare confusione nel popolo di Dio, in particolare tra quei genitori che adesso rimarranno col dubbio se il proprio figlio o la propria figlia sia stata battezzata con la formula incriminata. A indicare una via d'uscita è il noto canonista Filippo Di Giacomo che spiega: «Da sempre c'è un'azione suppletiva agli errori e agli abusi che arriva da una norma millenaria, l'attuale canone 144 del codice di diritto canonico. Questo dice che negli errori di diritto e di fatto o nel dubbio probabile, supplisce la Chiesa. Cioè quando preti e laici si ingarbugliano con le norme o con gli abusi e hanno appunto un dubbio, il Sacramento rimane comunque efficace perché viene coperto dal tesoro di grazia che la Chiesa ha. Insomma, Dio non è prigioniero neanche dei Sacramenti! C'è da chiarire però che chi da ora in avanti si permetterà di manipolare la formula Sacramentale dovrà essere corretto dal proprio vescovo».

«E non abbandonarci  alla tentazione»: così cambia il Padre Nostro. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. La Cei: nelle chiese italiane la nuova traduzione obbligatoria dal 29 novembre. Il nuovo Messale sarà pubblicato dopo Pasqua, che quest’anno cade il 12 aprile, ma la data da segnarsi per i fedeli è il 29 novembre, prima domenica di Avvento: da allora, in tutte le chiese italiane, sarà obbligatorio recitare il Padre Nostro nella nuova traduzione definita dalla Cei, nella quale si dice «non ci abbandonare alla tentazione» e non più «non ci indurre in tentazione». Non si tratta, naturalmente, di cambiare il Padre Nostro: i Vangeli sono scritti in greco e il testo originale della preghiera di Gesù è immutabile. Il problema, non solo in Italia, è piuttosto la traduzione, come rendere quella voce verbale che si legge nel Vangelo di Matteo (6,13), riferimento della tradizione liturgica: eisenénkes , dal verbo eisféro, che per secoli è stato tradotto con l’«inducere» latino della Vulgata di San Girolamo, da cui l’ «indurre» italiano. Questione delicata, perché tutti hanno imparato fin da piccoli a dire «e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male». Solo che «questa è una traduzione non buona», aveva spiegato alla fine del 2017 Papa Francesco: «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, aiuta ad alzarsi subito. Chi ci induce in tentazione è Satana, è questo il mestiere di Satana». Così, aveva aggiunto, «il senso della nostra preghiera è: “Quando Satana mi induce in tentazione tu, per favore, dammi la mano, dammi la tua mano”». Certo non si può chiedere ai fedeli, per andare sul sicuro, di fare come Simone Weil, la filosofa che recitava ogni mattina il Padre Nostro in greco. Così i vescovi hanno discusso sulla traduzione che si avvicinasse di più al testo evangelico. E alla fine si è deciso per la versione, «non ci abbandonare alla tentazione», già scelta dalla Cei nell’edizione della Bibbia del 2008. Con la pubblicazione della terza edizione del Messale Romano, dopo sedici anni di lavoro, la formulazione approvata in Vaticano entra nell’uso liturgico. L’arcivescovo Bruno Forte, del Consiglio permanente della Cei, spiega che fino al 29 novembre ci saranno sussidi ed opuscoli per aiutare i fedeli a prendere familiarità con la nuova traduzione, come già accadde nel 2017 in Francia , dove nelle chiese si è cominciato a dire «ne nous laisse pas entrer en tentation». Cambierà anche la versione del Gloria: «Pace in terra agli uomini, amati dal Signore».

Il nuovo Padre Nostro in vigore dopo Pasqua. Il passo su cui si è tanto discusso è "non abbandonarci alla tentazione". Paolo Rodari il 28 gennaio 2020 su La Repubblica. Verrà pubblicata ufficialmente dopo Pasqua, ma nelle chiese italiane sarà recitata soltanto dalla prima domenica di avvento, il prossimo novembre. La nuova preghiera del Padre Nostro che su sollecitazione del Papa è cambiata nel punto in cui i fedeli finora invocano Dio a “non indurci in tentazione” per un più corretto “non abbandonarci alla tentazione”, è pronta per essere introdotta. Lo anticipa all’AdnKronos monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti e Vasto e teologo fra i più influenti in Vaticano, a margine del Forum internazionale di Teologia in corso alla Pontificia Università Lateranense: “Il Messale con la nuova versione del Padre Nostro uscirà subito dopo Pasqua”, che quest'anno cade il 12 aprile, mentre “l'uso liturgico della preghiera modificata sarà introdotto a partire dalle messe del 29 novembre prima domenica di Avvento”. Il passaggio della preghiera che è stato cambiato è sempre stato oggetto di dibattito. Il Papa è voluto intervenire perché il testo appare in quel punto contrario al senso della preghiera stessa, al volto paterno di Dio che invece, come ha detto mesi fa ad Avvenire monsignor Claudio Maniago vescovo di Castellaneta e presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia, “secondo la precedente formulazione, sarebbe addirittura all’origine del nostro cadere nelle tentazioni”. “La nuova traduzione recupera la dimensione paterna di un Dio che non ci abbandona neppure nel momento, che non viene risparmiato a nessuno, della tentazione”. Già da ora, in verità, in alcune parrocchie la preghiera viene recitata nella nuova formulazione. Soltanto da novembre, tuttavia, il via libera diverrà ufficiale per tutti.

A fine novembre cambia il Padre Nostro: «Non abbandonarci alla tentazione». Sergio Valzania il 7 febbraio su Il Dubbio. Il motivo: dimostrare che il nostro è un dio che ci soccorre, non che ci tende una trappola. Molte parrocchie già si sono adeguate. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti- Vasto, ha annunciato ufficialmente la data di pubblicazione del nuovo messale approvato dalla Conferenza Episcopale Italiana, il cui utilizzo nel culto inizierà il 29 novembre, con la prima domenica di avvento del prossimo anno liturgico. La maggiore innovazione contenuta nel messale, quella della quale si è parlato e discusso a lungo, consiste nella modifica del testo italiano della più celebre e diffusa preghiera cristiana, il Padre Nostro. La sesta domanda non reciterà più “non indurci in tentazione” ma bensì “non abbandonarci alla tentazione”. Il problema della traduzione del messale cattolico nasce immediatamente dopo il Concilio Vaticano II, con la decisione di modificare la liturgia riducendo l’uso del latino e sostituendolo invece con le lingue nazionali. In questo modo essa risulta comprensibile per tutti i fedeli rendendo più agevole la loro partecipazione. Fu allora che “et ne nos inducas in tentationem” divenne “e non indurci in tentazione”, con un affidamento in seguito giudicato eccessivo all’assonanza delle parole, il cui significato si era andato modificando dall’originale greco – prossimo al “fa che non entriamo in tentazione” sostenuto originariamente da Bruno Forte – fino a trasformarsi in una frase che ipotizza interventi tentatori messi in atto da Dio stesso. La questione della traduzione nelle lingue nazionali della sesta domanda del Padre Nostro non è stata affrontata solo in Italia. Anche altre Conferenze Episcopali si sono misurate con la delicatezza dell’argomento, che si intreccia con i misteri del peccato originale, del perdono divino, del libero arbitrio, dell’esistenza del male e della tentazione. Realtà che possono essere contemplate, senza ambire a giungere a una loro conoscenza compiuta. In spagnolo, si è affermata la soluzione diretta ‘ fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo una serie di cambiamenti successivi a fronte dei quali in Italia si è preferito agire senza nessuna fretta, si è passati da una traduzione che era ‘ non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘ non lasciarci entrare in tentazione’. In Germania invece ci si è trovati di fronte a una problematica ancora diversa e di maggiore complessità: dato che il testo accettato è il risultato di un lavoro comune svolto da cattolici e protestanti non si è voluto provvedere ad una modifica unilaterale, preferendo mantenere la lezione condivisa piuttosto che individuarne una forse teologicamente più corretta che rischiava di portare a un allontanamento tra le chiese tedesche. Nel momento della comunicazione delle date individuate per l’entrata in vigore del nuovo testo, Bruno Forte ha voluto fornire un contributo teologico precisando che “l’espressione ‘ tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.” L’elaborazione della modifica al testo del Padre Nostro, come è facile capire, ha comportato un lungo processo di studio, di valutazione e di composizione di pareri diversi. Durante tale percorso c’è stato un momento di particolare visibilità per la notizia del prossimo cambiamento, inserita quasi in sordina nel volume edito dalla Rizzoli nel 2017 Quando Pregate dite Padre Nostro, tratto dall’introduzione di Papa Francesco alla serie televisiva Padre Nostro di TV 2000. Nel libro veniva mantenuto il testo tradizione, ma nello stesso tempo il pontefice ne segnalava l’inadeguatezza, auspicando un prossimo cambiamento che ne avvicinasse il senso all’ispirazione originale. La versione concordata dalla Cei diventerà dunque ufficiale per la Chiesa italiana a partire dal 29 novembre, ma già oggi essa è stata fatta propria in molte parrocchie che la recitano nel corso della messa, dimostrando l’attenzione con la quale la questione della modifica è stata seguita dai credenti, sempre nella consapevolezza che le parole da sole non conquistano la salvezza se non si incarnano in pratiche concrete della quotidianità.

·        La morte di Cristo è ancora un "caso".

Da tio.ch il 23 novembre 2020. Un archeologo britannico è convinto di aver trovato la casa di pietra dove Gesù Cristo venne allevato nei primi anni di vita da Giuseppe e Maria. Secondo Ken Dark, dell'università inglese di Reading, a nascondere lo straordinario segreto è un edificio di pietra a Nazareth, che risale agli inizi del I secolo. La cronologia quindi corrisponde e lo studioso ha utilizzato per le sue ricerche e scavi un testo antico, il "De Locis Sanctis" (Dei luoghi santi) scritto nel 670 da Sant'Adamnano di Iona che aveva raccolto le testimonianze di un pellegrinaggio a Nazareth. Inoltre nel Medioevo l'edificio era stato inglobato all'interno di chiese a sottolineare la sua grande importanza. Lo stesso Dark ha però dovuto ammettere, scrivendo sulla "Biblical Archeological Review", che non ha le prove inconfutabili per la sua scoperta ma "non c'è nessuna buona ragione" perché quella non possa essere la casa di Gesù.

Martina De Marco per "newnotizie.it" il 23 ottobre 2020. Da oramai molti anni si dibatte sulle scoperte fatte dal geologo e ricercatore israeliano Aryeh Shimron, che dal 1980 conduce studi su tombe e ossari, come la tomba di Talpiot, che vengono attribuiti a Gesù. Dopo anni di lunghi dibattiti, soprattutto fra i credenti, in quanto la presenza di ossa negherebbe la resurrezione, un nuovo studio condotto su alcuni chiodi rinvenuti a Gerusalemme potrebbe dare una svolta alle ricerche sulla crocifissione. Gli scavi in quella zona iniziarono nel 1990, ma i chiodi rinvenuti nella tomba sparirono. Il regista Simcha Jacobovici, noto per il film documentario “La tomba perduta di Gesù” avrebbe trovato i chiodi in seguito, giungendo a sostenere che fossero stati usati per crocifiggere Gesù  nel documentario del 2011, “Nails Of The Cross” (letteralmente, i chiodi della croce). A quel tempo Jacobovici venne ritenuto un bugiardo, e furono in tanti a smentire che si trattasse degli stessi chiodi che vennero rinvenuti nella tomba di Caifa.

Trovati nei chiodi frammenti ossei e legno antico. Il nuovo studio, però, ha dato risultati sconcertanti: i chiodi sono quelli che vennero rinvenuti nel sepolcro del sacerdote e furono utilizzati per crocifiggere qualcuno. Il Dott. Shimron è giunto a tali conclusioni dopo aver confrontato il materiale dei chiodi con quello degli ossari rinvenuti nella tomba, ossia scatole di calcare utilizzate per conservare le ossa dei defunti. Shimron ha dichiarato che “I materiali che invadono le grotte differiscono sottilmente da grotta a grotta a seconda della topografia, della composizione del suolo nella zona, del microclima e della vegetazione circostante. Di conseguenza le grotte hanno caratteristiche fisiche e chimiche distinti” e ha aggiunto “Le proprietà fisiche e chimiche dei materiali che, nel corso dei secoli, hanno invaso la tomba e i suoi ossari sono state studiate. La nostra analisi dimostra in modo chiaro e inequivocabile che questi materiali sono chimicamente e fisicamente identici a quelli che, nel corso dei secoli, si sono anche attaccati ai chiodi“. La parte maggiormente rilevante della scoperta è l’analisi chimica effettuata dai chiodi, attraverso la quale Shimron è riuscito ad identificare al loro interno sottili schegge di legno: “È ben conservato e interamente pietrificato […] il legno è quindi antico e non è un attaccamento casuale o artificiale nei chiodi“, ha specificato il ricercatore. Ma non solo: all’interno dei chiodi sono stati rinvenuti anche frammenti ossei microscopici: “Credo che l’evidenza scientifica che i chiodi siano stati usati per crocifiggere qualcuno sia davvero forte”, ha detto. La presenza dei chiodi nella tomba è un’ulteriore prova: ai tempi, infatti, i chiodi utilizzati nelle crocifissioni venivano conservati perché si riteneva che avessero importanti proprietà curative, e dunque erano tenuti come amuleti. Il regista Jacobovici sostiene che, probabilmente, i chiodi potrebbero essere stati conservati da un Caifa pentito. Ovviamente Shimron non è giunto a dichiarare ufficialmente che siano i chiodi con i quali Gesù è stato crocifisso, ma ci sono prove scientifiche sufficienti per continuare l’indagine. Quel che è certo, è che quei chiodi abbiano crocifisso qualcuno. 

La morte di Cristo è ancora un "caso". Torna "Patì sotto Ponzio Pilato?", il bestseller di Vittorio Messori ricchissimo di dettagli storici. Rino Cammilleri, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Nel 1992, molti anni dopo Ipotesi su Gesù, Vittorio Messori continuò la sua ricerca sul «caso Cristo» con un altro bestseller, Patì sotto Ponzio Pilato?, che la Ares oggi ripropone col sottotitolo Un'indagine storica sulla passione e morte di Cristo (pagg. 486, euro 19,90). L'indagine di Messori proseguì poi con la Resurrezione e un'opera su Maria, sempre di taglio storico e contenente, secondo lo stile dell'autore, un'infinità di dettagli e citazioni che rendono pressoché impossibile una recensione sintetica. Qui, perciò, possiamo limitarci solo a fornire qualche assaggio. Come questo: «Tutti i responsabili della condanna di Gesù conobbero la malasorte». Morto Tiberio, Caligola sottopose a impeachment Erode Antipa su delazione del di lui fratello Agrippa. Erode, com'è noto, si era preso Erodiade, moglie di un altro fratello, cosa che Giovanni il Battista gli rimproverava. Erodiade, istigando sua figlia Salomé, aveva fatto decapitare il Battista. Accusato di tradimento in favore dei Parti, Erode fu destituito e mandato in esilio con Erodiade a Lione, «tra il freddo e le nebbie delle Gallie». Pilato, uomo di Seiano, aveva seguito la sorte del suo protettore: rimosso e chiamato a Roma a rendere conto. Gli andò bene che non fu ucciso come Seiano (ma non è sicuro); comunque, di lui si perse anche il ricordo. Caifa, sommo sacerdote, fu destituito da Vitellio, successore di Pilato. Era genero di Hanna, la cui famiglia si tramandava il sommo sacerdozio, ma che finì massacrata dagli zeloti cominciando dall'ultimo esponente, Anano, ucciso nel 67 per collaborazionismo coi romani. Tre anni dopo, Gerusalemme e il Tempio venivano distrutti, gli ebrei sterminati e i sopravvissuti venduti come schiavi in tutto l'Impero. «Non abbiamo altro re che Cesare», avevano gridato a Pilato per convincerlo a crocifiggere Gesù. Ebbene, fu proprio Cesare a dar loro il benservito. Avevano complottato per far fuori Gesù, per paura che i romani venissero a «distruggere la Nazione e il Tempio». E i romani proprio questo fecero. Con un re che insegnava di dare «a Cesare quel che è di Cesare» il disastro non sarebbe successo. Se i Vangeli fossero stati una pia invenzione della comunità cristiana, come molti ancora credono, probabilmente avrebbero creato un personaggio olimpico, uno che, magari, davanti a Pilato si sarebbe prodotto in una performance oratoria da tramandare ai posteri, come quella di Socrate. Invece, stupendo anche Pilato, sta zitto. E viene venduto per trenta sicli, il valore di uno schiavo non qualificato. Un insospettabile Jean-Jacques Rousseau soleva dire: «Invenzioni, queste? Amici, non è così che si inventa». Nel Vangelo si narra che i sinedriti avevano già in animo di catturare Gesù, ma temevano le folle. Era il tempo di Pasqua e a Gerusalemme erano convenuti ebrei da tutto il mondo, forse un milione di persone. E Gesù era diventato famosissimo per via dei miracoli. Ma ecco che cambiano idea e piano: Giuda si impegna a dire dove si trova. Potranno arrestarlo in sordina, di notte, e farlo condannare ai romani così da pararsi dai suoi ormai molti seguaci. Potrebbero lapidarlo loro, ma temono tumulti. Meglio farlo fare ai romani, contro cui il popolo non oserà ribellarsi. Se la narrazione evangelica fosse un'invenzione, avrebbe di certo utilizzato i canoni letterari dell'epoca. Così, Gesù si sarebbe nobilmente suicidato, mentre il crocifisso sarebbe stato Giuda. Infatti, nel Vangelo apocrifo detto di Barabba, è Giuda a finire in croce. Ma i vangeli apocrifi, come ben sa Dan Brown, sono testi gnostici del II e III secolo, in cui compaiono espedienti narrativi come questo: Gesù bambino che si diverte a fabbricare uccellini di fango e poi dà loro vita (nei Vangeli autentici non ci sono miracoli inutili, e sull'infanzia di Cristo tacciono: chi sa qualcosa è solo Luca, infatti riporta soltanto quel che ha sentito da Maria e che, ispirato, decide di narrare). Per il resto, non rimane che rimandare al testo di Messori, che è una vera miniera.

·        Chi non vuole i simboli Cristiani?

Filippo Di Giacomo per "il Venerdì - la Repubblica" 21 dicembre 2020. Nella Roma antica il popolo misurava il tempo dividendo la giornata in 12 horae e la notte in 4 vigiliae, i turni di guardia. Le horae andavano dall' alba al tramonto e quindi, più o meno e secondo il variare delle stagioni, la hora prima diei aveva inizio tra le 6 e le 7 del mattino. E così anche la prima vigilia noctis, legata all' avanzare del buio, sempre secondo le stagioni, misurava il tempo tra le 18 e le 21. La liturgia della Chiesa, che calcola gli anni non da gennaio ma da novembre, con la prima domenica di Avvento, segue ancora questa tradizione e ritma la vita spirituale di quanti sono tenuti alla Liturgia delle ore, cioè del Breviario, con tre liturgie legate alle horae (Terza, Sesta, Nona) e altre tre legate alle vigiliae (Lodi, Vespro, Compieta). La settimana e il giorno liturgico cominciano sempre con i primi vespri della domenica cioè al tramonto del sabato, ne consegue che il Santo Natale di quest'anno in Italia inizierà tra le 16.40 e le 16.55, ora del tramonto del 24 dicembre. Da quel momento alle 21, supponendo che la Messa duri un'ora, c'è tempo per celebrarne, nella stessa chiesa, almeno 4. Se invece di discettare su quando far nascere Gesù e su dove guardare la Messa i ministri e le ministre (Ursula von der Leyen compresa) avessero fatto una telefonata al parroco della chiesa vicino al ministero, avrebbero evitato di fare brutta figura. Ed evitato a milioni di europei l' impressione che la libertà di culto sia diventata un "favore governativo" da concedere o togliere secondo i casi. Oltretutto, per i cattolici il "tempo di Natale" va dal 24 dicembre alla domenica "del battesimo del Signore", che quest' anno cade il 10 gennaio. Quindi, i preti hanno 18 giorni a disposizione per far fare il Natale, con tutte le dovute cautele imposte dalla pandemia in corso, a chiunque lo desideri.

La Bibbia, il libro dei libri anche per chi non ha una fede. Luigi Mariano Guzzo il 20 dicembre 2020. “… ma è stà un peccato aver brusado quel libro”, esclama Menocchio riferendosi alla Bibbia. Per quel mugnaio friulano, mandato al rogo dall’Inquisizione alla fine del Cinquecento, la cui vicenda ci consegna Carlo Ginzburg nel suo libro “Il formaggio e i vermi” (Einaudi, 1976), bruciare la Bibbia è un peccato. Persino per lui, che del peccato ha un’idea tutta particolare. Nella sua riduzione della religiosità a morale il peccato è, semplicemente, commettere del male al prossimo. Punto. Un’idea del tutto moderna. Inoltre, per questo mugnaio, Dio è poco più che aria e fiato, confessarsi davanti a un prete equivale a farlo davanti ad un albero, l’atto creativo può spiegarsi con l’immagine dei vermi che nascono dal formaggio putrefatto. La sua cosmogonia, in fin dei conti, ruota tutta intorno al formaggio e ai vermi. Menocchio è pur sempre un mugnaio del suo tempo, il sedicesimo secolo dopo la venuta di Cristo. Ma bruciare quel libro, la Bibbia, è un peccato, questo sì. D’altronde, è grazie alla lettura della Bibbia, e di altre sue interpretazioni, in particolare di quelle databili al periodo medievale, che Menocchio riesce ad immaginarsi una realtà metafisica diversa da quella che viene proposta (o, meglio, imposta) dalle gerarchie ecclesiastiche. Quando parla di questa visione religiosa (che di religioso, in senso tradizionale, ha ben poco) Menocchio mantiene la schiena dritta – “in posizione eretta”, senza “funi”, la condizione che in Levitico 26,13 è propria degli uomini liberi, di chi agisce e parla, nel Nuovo Testamento, con “parresia” – dinnanzi ai compaesani e, soprattutto, agli inquisitori, che lo accusano e lo condannano di eresia.

Di fronte alla moglie del cugino che, per sfuggire all’inquisizione, getta la Bibbia nel forno, il mugnaio avverte nel libro che brucia una potenza sacrale. Probabilmente non del libro in sé, è ovvio, ma della parola ivi contenuta, certamente. Che sia o meno di Dio, è comunque una parola che ha contributo, in maniera determinate, ad emanciparlo, finalmente, dalle nebbie dell’ignoranza. Ma, sia chiaro, l’esclamazione del nostro Menocchio non è un accento di residuale o recondito devozionismo. È peccato bruciare la Bibbia, per lui, non lo è, però, leggerla, nonostante le gerarchie della Chiesa di Roma proibissero al popolo di approcciarsi al testo sacro, specie in alcune sue parti considerate nocive alla vita spirituale. È anche su questo aspetto, per altro, che si basava la contestazione di Martin Lutero. Per questo motivo Menocchio veniva apostrofato di essere “luterano”. “Sola Scriptura” sottolineava il monaco agostiniano, di origine tedesca, che, come riformatore religioso, da lì a poco, avrebbe, con la sua riflessione teologica, ridotto in frantumi la cristianità europea, per riprendere la bella immagine di Mark Greengrass. D’altronde, poco più di sessant’anni prima dell’affissione delle 95 tesi di Lutero (1517), Gutenberg aveva già proiettato il continente nella modernità lavorando al primo libro stampato in Europa con la tecnica dei caratteri mobili: la Bibbia. Ai nostri giorni l’esemplare della Bibbia di Gutenberg è stato dichiarato dall’Unesco, nel 2001, patrimonio dell’umanità. E si comprende facilmente il perché. La Bibbia a stampa è, nei fatti, il primo libro moderno. La Bibbia da segno conteso di autoritarismo ecclesiastico diventa, essa stessa, simbolo di modernità e di libertà e – come la vicenda del mugnaio Menocchio insegna – di rivalsa della cultura popolare su quella dotta. C’è tutto nella Bibbia; la Bibbia è tutto, nelle sue plurime contraddizioni. Ne “L’usignolo di Wittenberg” (1903), lo scrittore e drammaturgo svedese August Strindberg fa dire a Lutero che la Bibbia è un libro “terribile” (etimologicamente parlando, che “atterrisce”), in quanto contiene “tutto”. “C’è qualcosa di personale in quel libro, di personale per ogni persona”, sostiene il Lutero di Strindberg. Ed ha ragione. Tanto che non credo di sbagliare se paragono la Bibbia, come simbolo, alle due forze, opposte e complementari, del pensiero taoista, Yin e Yan: l’eterna dualità della realtà delle cose è la totalità dell’universo. Una totalità che la Bibbia è capace di contenere e di farne una mirabile sintesi. Un’intuizione, questa, che è confermata anche dalla lettura “non ebraica, non cattolica, non protestante e certamente non laica” che della Bibbia propone Roberto Calasso (“Il libro di tutti i libri”, Adelphi, 2019), secondo il quale il testo sacro è una “compagine elusiva e informe”, “un magma in perpetuo movimento”, un campo di forze dove elementi incompatibili tentano di neutralizzarsi o di eludersi. Ma spesso sussistono, forse anche perché così incompatibili non erano…”. Tutto questo agli occhi dell’interprete occidentale potrebbe apparire privo di senso pratico. La presenza di frammenti contradditori, nel loro significato, può facilmente essere spiegata con la stratificazione storica, nel tempo, di più fonti letterarie. Per lo sguardo occidentale sul mondo, mediato dalla lente della logica aristotelica – che si costruisce sui tre principi dell’identità, della non-contraddizione e del terzo escluso -, la razionalità equivale al sistema e, banalmente, due affermazioni contraddittorie non possono coesistere in uno stesso sistema. Ma questo non significa che nella Bibbia non ci sia razionalità. La razionalità della Bibbia, propria della tradizione talmudica, è altra rispetto a quella occidentale di tipo sistematico, ma rimane sempre una razionalità. Seguendo quanto scrive il comparatista H. Patrick Glenn, nel suo “Tradizioni giuridiche nel mondo” (il Mulino, 2011, traduzione italiana di Sergio Ferlito) lo stile del ragionamento talmudico resiste, con i testi, le sue interpretazioni e le disparate forme di vita, alla sistematizzazione in quanto “respinge i tipi di prova semplici e apparentemente soddisfacenti” e “nulla è stabilito… tutto è costantemente rimescolato nel turbinio del confronto di opinioni”. Per questo motivo, la Bibbia è effettivamente il libro di tutti i libri. E, sempre, rimane alla cima delle classifiche di vendita. Ma ovviamente della Bibbia ci sono ormai diverse interpretazioni, letture, traduzioni. La Bibbia ebraica è diversa, ad esempio, dalla Bibbia che troverete a casa di un cristiano, per quanto riguarda i libri che la compongono. La Bibbia cristiana rispetto a quella ebraica, accanto ad un “Vecchio Testamento” ha un “Nuovo Testamento”, sulla vita di Gesù. Ma, anche nella stessa tradizione cristiana, la Bibbia cattolica è diversa, in parte, da quella protestante. Forse è stata quindi un’operazione di onestà intellettuale quella di Philippe Lechermeier che, con le illustrazioni di Rébecca Dautremer, “una bibbia” (Rizzoli, 2014) con l’articolo indeterminativo. “La Bibbia – ci dice Lechermeier – non appartiene solo alla religione. La Bibbia appartiene a tutti. Che si sia credenti o no, che lo si voglia o meno, le storie che vi sono narrate e i personaggi che vi sono raccontati hanno plasmato il nostro modo di pensare, le nostre idee, i nostri valori e sono anche la materia dei nostri sogni”.

Festività di dicembre in tutto il mondo, perché si celebra Santo Stefano il 26 dicembre. Redazione su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. È dedicato alle feste di dicembre il doodle di Google. Festività che riguardano non soltanto il Natale e non solo la religione cristiana. L’immagine è un uccellino appollaiato, lettere colorate e luci natalizie. Un omaggio a festività che quest’anno saranno necessariamente in tono minore viste le restrizioni, le misure anti-contagio e anti-assembramento per via dell’emergenza coronavirus. Sono tre i giorni festivi in Italia. Cominciano l’8 dicembre con la Festa dell’Immacolata Concezione; il 25 Natale; il 26 Santo Stefano. Non solo festività cristiane ma anche l’Hanukkah ebrea e l’Ōmisoka in Giappone. Tante tradizioni anche in altri Paesi: in Germania si festeggia San Nicola, il 6 dicembre; in Islanda non c’è un solo Babbo Natale ma 13, chiamati jólasveinar, che arrivano nell’arco di 26 giorni, e la festa il giorno dell’Epifania, il 6 gennaio; in Danimarca i bambini si travestono da folletti durante l’avvento; in Finlandia esiste anche Mamma Natale. Perché si celebra il 26 dicembre la festa di Santo Stefano? La festa viene celebrata il 26 dicembre perché nei giorni seguenti alla nascita di Gesù Cristo furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio. Il primo a essere festeggiato è S. Stefano, primo martire della cristianità. A seguire, il 27, san Giovanni Evangelista, il 28 i Santi Innocenti, meglio conosciuta come la Strage degli Innocenti. Inizialmente il 29 giugno si festeggiava san Pietro e san Paolo apostoli, che si festeggiano il 29 giugno. Nel mondo anglosassone è conosciuto il 26 dicembre è chiamato Boxing Day.

Francia, cresce l’odio anticristiano: decapitata la statua della Madonna a Tarn-et-Garonne. Redazione sabato 7 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Orrore e allarme per la quotidiana persecuzione anticristiana in Francia. Proseguono gli atti di profanazione degli oggetti di culto e dei simboli cristiani. Spesso nel silenzio generale. Mentre la nazione è nel mirino continuo dei terroristi in una spirale di sangue che parte dalla decapitazione del professore fino all‘attacco di Nizza, continua lo scempio delle icone del cristianesimo. Teste decapitate al grido di “Allah Akbar”. L’ultima profanazione, diffusa sui social, riguarda la decapitazione della statua della Madonna che si trova in una piccola grotta in rue du Château a Tarn-et-Garonne. L’annuncio in un tweet di don Lazzara. “In #Francia oltre a decapitare le teste al grido #AllahAkbar,  in odio alla fede centinaia di statue vengono decapitate. Come quella della Madonna a Tarn-et-Garonne. L’allarme è rosso. Ma non tutti vogliono vederlo”. ““A volte vado a questa statua per recitare un rosario”. Racconta padre Neussi, vicario residente. “Ma lunedì sera, scendendo, nella penombra, non mi sono accorto di nulla. È stato un parrocchiano a informarmi. Sono molto sorpreso. Nulla giustifica questo atto. Nel periodo in cui viviamo ci poniamo delle domande. Fa male. È un simbolo della nostra fede”.

Il vescovo della diocesi: Deploro l’ignoranza del sacro. “La decapitazione in questo momento è una parola sconvolgente”, commenta monsignor Ginoux,  vescovo della diocesi. “Sembrerebbe che siano giovani oziosi. Mi dispiace e deploro questa ignoranza dell’oggetto sacro. La statua è stata lapidata. Dobbiamo concludere che una delle pietre ha colpito per caso la testa? O dobbiamo pensare che questi siano cattivi tiratori. Che hanno mirato alla testa e hanno lapidato il corpo?”.

Profanate chiese e cimiteri. L’allarme è altissimo. Nel mese di giugno più di cento tombe sono state rovesciate e danneggiate nel  cimitero cattolico di Tolosa. Gli attacchi prendono di mira edifici, cimiteri e altri oggetti simbolici. Spesso la Chiesa si rifiuta di  parlare di persecuzione. Per non infiammare lo scontro sociale.  Oggi l’ennesimo atto vandalico.

Arrestato un sospetto dell’agguato al sacerdote di Lione. Intanto un sospetto è stato arrestato in Francia in relazione all’agguato compiuto una settimana fa a Lione contro un sacerdote. L’uomo avrebbe confessato di essere il responsabile dell’attacco durante il quale sono stati esplosi colpi di arma da fuoco contro il prete. Ferito gravemente. Secondo il quotidiano Le Parisien, il movente dell’attacco sarebbe legato ad un’infedeltà coniugale. L’agguato era stato compiuto poco dopo l’attentato nella basilica di Notre-Dame a Nizza.

PAOLO MANZO per il Giornale il 20 ottobre 2020. «Uh uh uh, ah ah ah!». Con questo coro tribale, domenica scorsa un gruppo di giovani Antifa cileni hanno filmato e diffuso su Youtube la loro gioia primitiva per il crollo del campanile della chiesa dell'Asunción, a Santiago. Poco prima l'avevano incendiata senza troppi problemi. Loro obiettivo era «celebrare come si deve» il primo anniversario delle manifestazioni che, dal 18 ottobre 2019 in poi, hanno cambiato per sempre il volto del Cile, trasformandolo da paese con tutti i migliori indicatori dell'America latina in termini di economia, istruzione e Pil pro capite in una bomba ad orologeria e che, stando agli slogan Antifa, vuole abolire pensioni, sanità e scuole private. Oltre a distruggere chiese. Di certo c'è che il prossimo 25 ottobre il Cile andrà al voto in un referendum per cambiare la Costituzione, che in materia di diritti economici è rimasta quasi uguale a quella di Pinochet, e l'esito è scontato: tutti i principali partiti e dunque i sondaggi danno vincente il sì e, dunque, più beni comuni, più comunità, più tasse per chi lavora e sussidi di Stato a pioggia per tutti. Prima dell'ottobre 2019 nessuno avrebbe mai anche solo sognato una riforma costituzionale sotto così tanta pressione, neanche Michelle Bachelet che per due mandati aveva governato il Cile negli ultimi 15 anni, l'ultima volta con i comunisti, ma tant' è, l'esplosione di rabbia popolare con annessa violenza vandalica iniziata per un ridicolo aumento del 5% nel prezzo della metropolitana è riuscita nel miracolo. Verrà finalmente sotterrato Pinochet anche sul fronte economico per, poi, tornare al modello che fu già di Allende? Nessuno lo sa, ma di sicuro c'è che ieri, di fronte alla chiesa dell'Asunción, sembrava di stare nel Pianeta delle Scimmie. Così com' è altrettanto sicuro che il Covid19, che tante vittime ha fatto anche in Cile è l'ottavo Paese al mondo per morti ogni milione di abitanti, quasi 14mila i decessi aveva fatto dimenticare il problema dell'insurrezione Antifa, appoggiata da tutti i partiti di centro sinistra e dai grandi media mainstream. Certo, lo scorso 15 luglio, quando la curva della pandemia aveva subito un repentino calo e il virus sembrava già domato, Santiago del Cile si era svegliata di nuovo in fiamme. Nella notte precedente almeno 6 commissariati di polizia erano stati incendiati. Ma era solo il preludio di quanto accaduto l'altroieri, che oltre a 107 attacchi a commissariati, supermercati e proprietà privata ha visto tra le vittime sacrificali anche le chiese. Oltre all'Asunción, del 1876 e già danneggiata nell'insurrezione di un anno fa, i giovanissimi ma tecnologicamente organizzati Antifa cileni hanno infatti anche distrutto la chiesa degli odiati Carabineros, in pieno centro. Un gruppo di 5, tutti incappucciati, è riuscito ad entrare nel tempio dedicato al Santo gesuita Francesco Borgia, appiccando il fuoco e facendo finire in cenere parte del tempio con relativi cimeli sacri. Drammatico l'appello lanciato da Monsignor Celestino Aós, arcivescovo di Santiago, che su Youtube ha supplicato i vandali di fermarsi: «Chi semina violenza raccoglie distruzione». Per poi chiarire: «I poveri sono i più colpiti. Speravamo che le azioni di un anno fa non si sarebbero ripetute. Sentiamo la distruzione dei nostri templi e di altre proprietà pubbliche, ma soprattutto il dolore di tanti cileni di pace e generosità. Queste immagini colpiscono e feriscono il Cile, ma anche altri popoli del mondo, soprattutto i nostri fratelli cristiani». Per oggi gli Antifa hanno in programma un'altra giornata di guerra, contro il sistema capitalista e contro le chiese.

Cile, proteste contro il governo e chiese assaltate. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 20 ottobre 2020. Il 18 ottobre ha avuto luogo una manifestazione popolare ampiamente partecipata per le strade di Santiago del Cile. L’obiettivo dei dimostranti era la celebrazione del primo anniversario del movimento di protesta antigovernativo che dall’anno scorso sta combattendo contro la corruzione, la mala-politica e i rimasugli dell’ordine pinochetiano nel sistema istituzionale. Ad un certo punto della giornata, dopo ore di marcia sostanzialmente pacifica e priva di tensioni, la violenza e il caos hanno prevalso sulla bonarietà e sull’ordine quando centinaia di facinorosi hanno dato inizio ad una guerra urbana contro le forze dell’ordine e ad una serie di attacchi contro le chiese cattoliche del centro storico, riuscendo nell’obiettivo di distruggerne una per mezzo di un rogo.

Una giornata di proteste. La parata del 18 ottobre non aveva obiettivi religiosi ma politici: in primis la celebrazione del primo anniversario dell’inizio delle proteste che da un anno hanno trasportato il Cile in una condizione di instabilità semi-cronica, in secundis una mobilitazione a favore del plebiscito nazionale sul futuro della costituzione cilena. Il 25 di questo mese, infatti, i cittadini cileni saranno chiamati ad una decisione sul testo fondamentale della repubblica: mantenerlo inalterato, pur trattandosi di un prodotto dell’era Pinochet, o modificarlo, completando definitivamente il processo di democratizzazione e di superamento del passato.

I moventi legittimi della protesta sono stati oscurati ad un certo punto della giornata, quando centinaia di black bloc hanno assunto il controllo delle strade e dato vita a degli scontri pesanti con le forze dell’ordine e proceduto a devastare gli arredi urbani, le auto parcheggiate, gli esercizi commerciali e, infine, ad assaltare le chiese cattoliche toccate dalla marcia. Le violenze sono state particolarmente gravi contro due luoghi di culto: la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione e la chiesa di San Francesco Borgia. All’interno della prima è stato appiccato un rogo la cui violenza è stata tale da provocare il collasso parziale della struttura e la caduta della guglia. La seconda è stata vandalizzata, subendo la distruzione degli arredi, la profanazione dei simboli religiosi ivi contenuti, come le croci e la raffigurazioni dei santi, e altre azioni di danneggiamento. In ambedue i casi le azioni sono state fotografate e filmate dagli stessi assalitori, le cui immagini e i cui video di giubilo sono diventati virali nell’arco di pochi minuti. È altamente probabile che gli obiettivi siano stati selezionati in accordo ad un disegno preciso: la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione era una delle più importanti della capitale, anche detta la “chiesa degli artisti” per via degli affreschi ivi contenuti, mentre quella di San Francesco Borgia è la sede delle cerimonie istituzionali dei Carabineros, la forza di polizia e gendarmeria nazionale. Alla luce di queste considerazioni il rogo è interpretabile come un messaggio al clero, divenuto oggetto d’odio generalizzato per via del ruolo giocato durante l’epoca Pinochet e per i recenti scandali sessuali, mentre l’attacco contro la casa spirituale dei Carabineros ha un chiaro valore anti-istituzionale.

Le origini del malcontento. Le proteste antigovernative che da un anno stanno avvolgendo il Cile hanno condotto ad un aumento significativo delle violenze anticristiane, sotto forma di chiese vandalizzate e date alle fiamme e clero esposto in maniera crescente ad aggressioni fisiche. La chiesa di San Francesco Borgia, ad esempio, era entrata nel mirino dei dimostranti già a inizio anno: a gennaio, nel corso di una manifestazione, un gruppo di persone aveva fatto irruzione nel luogo di culto e appiccato un incendio. Anche la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione era stata già attaccata a novembre dell’anno scorso, subendo il furto di statue raffiguranti il Cristo e la Madonna, successivamente distrutte in piazza, e degli arredi, come i banchi, utilizzati per erigere barricate contro la polizia. Non si può comprendere l’ondata di cristianofobia senza un quadro completo del contesto socio-politico cileno. Il malcontento verso la gerarchia ecclesiastica, e il cattolicesimo in generale, non nasce negli anni recenti ma si origina durante la dittatura militare di Augusto Pinochet. È noto, infatti, che alcuni esponenti della chiesa cattolica abbiano supportato l’esperienza dittatoriale in chiave anticomunista; meno noti sono, invece, il ruolo giocato dal Vaticano nel processo di democratizzazione e l’attivismo di personaggi come Raul Silva Henriquez, arcivescovo di Santiago e fondatore del Comitato di Cooperazione per la Pace in Cile e del Vicariato della Solidarietà, le due principali organizzazioni per la giustizia sociale dell’epoca.

Lo scandalo degli abusi. Il prevalere di una lettura anticlericale sui fatti che hanno circondato il paragrafo più cupo della storia cilena ha determinato la nascita dell’associazione antistorica tra chiesa cattolica e dittatura militare, ed è stato seguito da un altro evento che ha avuto riflessi profondi sulla percezione del cattolicesimo nell’opinione pubblica: gli scandali sessuali. Il riferimento è al caso Karadima, come è stato ribattezzato dalla grande stampa. Dopo anni di indiscrezioni, nel 2010, una delle figure più influenti del cattolicesimo cileno, Fernando Karadima, veniva accusata ufficialmente di aver consumato abusi sessuali ai danni di giovani fedeli, chierichetti e aspiranti sacerdoti. Le indagini su Karadima hanno portato all’apertura di un fascicolo che, molto presto, ha travolto l’intera struttura ecclesiastica nazionale, coinvolgendo oltre settanta personalità, complici a vario titolo di coperture, insabbiamenti e coinvolgimento diretto nelle violenze. Diversi chierici dalla statura elevata sono stati toccati dallo scandalo, come Juan Barros Madrid, il vescovo dell’ordinariato militare, che si è concluso nella riduzione allo stato laicale di Karadima, nell’apertura di un processo per il risarcimento danni alle vittime, e nelle dimissioni in blocco dell’intero episcopato nazionale. I danni del caso Karadima all’immagine dell’istituzione-chiesa, già pesantemente colpita dall’associazione con la dittatura, possono essere compresi pienamente soltanto dando uno sguardo ai numeri: la comunità cattolica si è ristretta di undici punti percentuali soltanto nel periodo di riferimento 2013-2017, passando dal 56% al 45% della popolazione totale. Quella drastica diminuzione, che non mostra segni di una possibile inversione di tendenza, ha comportato l’entrata del Cile nel piccolo alveo dei Paesi latinoamericani in cui i cattolici hanno cessato di rappresentare la maggioranza, del quale oggi fanno parte soltanto Honduras e Uruguay ma che in futuro potrebbe allargarsi e abbracciare l’intero subcontinente. Gli attacchi anticristiani del 18 ottobre e dell’ultimo anno, quindi, non sono da leggere come degli episodi di natura estemporanea, degli effetti collaterali di una mobilitazione antigovernativa al cui interno è attiva una minoranza di provocatori, ma come la manifestazione più palese di un sentimento irreligioso molto più diffuso, generalizzato e radicato. Eloquente è, a tal proposito, quanto catturato dai video diffusi in rete da coloro che hanno dato fuoco alla chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione: la gioia e l’esultanza della folla nell’assistere al lento collasso dell’edificio.

Il parroco vuole benedire il nuovo scuolabus ma il sindaco dice no: "Quel pullmino è laico". Il nuovo scuolabus al centro della polemica (da Facebook - Scuola dell'infanzia San Marcellino, Bibiana). Disputa in stile don Camillo e Peppone a Bibiana, nel Pinerolese. Il parroco ora smussa: "Troppi pettegolezzi". Carlotta Rocci su La Repubblica il 14 ottobre 2020. Il nuovo scuolabus in servizio al comune di Bibiana, che il parroco del paese vorrebbe benedire, finisce al centro di uno scontro in stile Don Camillo e Peppone. Il sindaco Fabio Rossetto, infatti, ha detto no: il mezzo "è laico" e non ha bisogno della consacrazione. La vicenda ha sollevato polemiche nel piccolo comune del Torinese, vicino a Pinerolo, dove all'inaugurazione del nuovo scuolabus - una settimana fa -  ha partecipato anche il presidente della Regione Alberto Cirio. Quel giorno il diacono della parrocchia di San Marcellino si  è presentato, in vece del parroco don Gustavo Bertea, invitato in qualità di direttore della scuola parrocchiale. Avrebbe voluto benedire il mezzo dedicato al trasporto degli studenti ma il sindaco lo ha fermato. "Avevamo deciso di soprassedere già il giorno prima, quando io e il diacono ci siamo sentiti al telefono-  precisa il primo cittadino - Non c'è stata nessuna presa di posizione il giorno dell'inaugurazione che è stata invece una festa condivisa con tutte le scuole della città e i dirigenti scolastici". Una cerimonia in piazza per mandare in pensione il vecchio scuolabus dopo 24 anni di servizio. Il diacono ha incassato il rifiuto, ma la questione è rimasta in sospeso e il sacerdote è tornato a parlarne alla fine della messa di domenica per informare i suoi parrocchiani. "Questa storia ormai è diventata un pettegolezzo", dice adesso, consapevole del polverone che si sta sollevando attorno a questa vicenda. Il sindaco motiva invece la sua decisione. "Ho detto di no alla benedizione perché non si trattava di una festa o di una ricorrenza religiosa, ho valutato che non fosse necessario -  spiega-  ll contesto era laico e addirittura politico, vista la presenza del governatore del Piemonte. Ho ritenuto fosse bene lasciare fuori la religione. Ci sono tante religioni e c'è anche chi di religione non ne ha nessuna". Rossetto non si aspettava che la sua decisione avrebbe avuto strascichi. "Se avessi immaginato che quella decisione poteva aver infastidito il parroco ne avrei discusso in modo più approfondito. Invece la vicenda si era chiusa con una telefonata". Sindaco e parroco si sono incontrati lunedì per chiarirsi. "E' stato un incontro cordiale e ci siamo lasciati con reciproca stima e rispetto", dice il sindaco, che rimane comunque sulle sue posizioni. "Si sono fatti tanti pettegolezzi", taglia corto ora il parroco.

Da "leggo.it" il 28 settembre 2020. Chiara Ferragni come la Madonna e il Codacons la denuncia per «blasfemia e offesa al sentimento religioso». L'associazione dei consumatori ha avviato l'azione legale dopo la diffusione di una immagine apparsa su Vanity Fair a corredo di un'intervista in cui la nota influencer appare raffigurata come una Madonna, e che, afferma il Codacons, «ha generato indignazione e raccapriccio nell'opinione pubblica e sul web». «Presentiamo un esposto alla Procura della Repubblica e al Ministro dei beni culturali Dario Franceschini affinché intervengano su quella che non è una provocazione, ma una grave mancanza di rispetto per i cristiani, per l'intero mondo religioso e per l'arte in genere - spiega il Codacons - L'immagine che raffigura la Ferragni nei panni di una moderna Madonna con bambino dipinta da Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato sfrutta la figura della Madonna e la religione a scopo commerciale, essendo noto come la Ferragni sia una vera e propria 'macchina da soldi' finalizzata a vendere prodotti, sponsorizzare marchi commerciali e indurre i suoi follower all'acquisto di questo o quel bene». Quello che il Movimento dei consumatori definisce «sfruttamento indegno della figura della Madonna che ha scatenato le proteste dell'intero mondo cristiano» potrebbe quindi, per il Codacons, «realizzare fattispecie penalmente rilevanti per blasfemia e offesa al sentimento religioso, motivo per cui l'esposto viene inviato anche a Papa Francesco affinché si pronunci contro tale squallida e inutile provocazione».

Dagospia il 30 settembre 2020. Da La Zanzara – Radio 24. “Abbiamo molti cattolici nella nostra associazione, facciamo tanti esposti per blasfemia. Ci segnalano tante immagini che profanano la sacralità dell’immagine della Madonna  e di Gesù bambino. Ma ti pare che uno può mettere la testa del bambino della Ferragni al posto di Gesù bambino, e dai su…”. Ma è un’opera d’arte, Rienzi, dice Cruciani, e il bambino della Ferragni non c’è: “Noi rappresentiamo anche i cattolici, chiediamo di verificare alle autorità se è un comportamento dignitoso o no. Hanno utilizzato immagini sacre che la gente è abituata  a rispettare  per speculare e guadagnare soldi. Se uno fa una battaglia contro la violenza sulle donne e mostri gli stupri, non lo devi fare. L’immagine illecita prescinde dagli obiettivi che uno ha”. Ecco il battibecco a La Zanzara su Radio 24 fra il conduttore Giuseppe Cruciani e il presidente del Codacons Carlo Rienzi, dopo le accuse dell’associazione dei consumatori a Chiara Ferragni. L’Italia è un paese laico, non siamo in Iran: “Questa è la tua opinione e la rispetto” . Voi cercate visibilità: “Non ne abbiamo bisogno, se avessimo saputo che avrebbe avuto questo risalto non l’avremmo fatta. Non abbiamo bisogno della Ferragni”. “Se mettessi la tua testa, Cruciani – dice Rienzi - al posto dell’immagine di Cristo, sarebbe blasfemia. Cruciani non può stare con l’immagine al posto di quella di Cristo, che è sacra. Al massimo si potrebbe con Barabba. La Ferragni è una di quelle che vende l’immagine del suo bambino per fare soldi e vendere dei marchi, delle griffes, dunque non può stare al posto della Madonna”. “Nessuno metterebbe Cruciani – continua Rienzi – in un presepe vivente al posto di Cristo, non ci può stare, dice tutte quelle parolacce, e una che vende l’immagine di un bambino per fare soldi non ci può stare al posto della Madonna”. Comunque quella era un’opera d’arte, ribatte ancora Cruciani: “In un quadro che rappresenta la Madonna, l’arte non è quella con la faccia della Ferragni”. Ma non lo decidi tu cosa è arte e cosa non è arte: “Non voglio censurare nulla. Abbiamo solo segnalato un comportamento che ci sembra offensivo dei sentimenti religiosi dei cattolici”. Ma secondo me se ne fottono, voi volete solo rompere le scatole alla Ferragni: “Ma non ce ne frega nulla della Ferragni, non ce ne può fregare di meno. Semmai tuteliamo l’immagine dei bambini che sono indifesi”. Ma lei è la madre, dice ancora Cruciani: “Ma non basta. Non basta il consenso, i visi devono essere oscurati. Non va bene. Fosse per me cancellerei le pubblicità coi bambini”.

La blasfemia la vede solo chi guarda con un occhio. Elvira Fratto il 4 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. È la vecchia storia della pagliuzza nell’occhio altrui e della trave nel proprio, soltanto risceneggiata da capo e portata nel 2020, fuori dalle pagine del Vangelo di Matteo e con l’aiuto sapiente di Photoshop. A riesumare – senza saperlo – l’eterno insegnamento di Cristo è il Codacons, che torna all’attacco di Chiara Ferragni, influencer e imprenditrice, per la pubblicazione di un fotomontaggio, a corredo di una recente intervista, in cui la blogger assume le sembianze della Madonna con in braccio Gesù bambino, riprendendo un dipinto di Giovanni Battista Salvi. “Presenteremo un esposto alla Procura della Repubblica e al Ministero dei Beni Culturali”, ha fatto sapere il Codacons con una nota, “questa è una grave mancanza di rispetto per tutti i cristiani, per la religione in generale e per l’arte stessa”. Le parole del Codacons per la Ferragni sono poco lusinghiere: senza troppe cerimonie, viene apostrofata come “macchina da soldi finalizzata a vendere prodotti e indurre i suoi seguaci a comprare questo o quel bene”. Una storia infinita quella tra l’Associazione dei Consumatori e Chiara Ferragni, che promette di diventare una di quelle appassionanti saghe che ricordano Batman e Joker perché tornano alla ribalta quando meno ce lo si aspetta. La più recente occasione di scontro era stata la raccolta fondi per creare nuovi posti in terapia intensiva promossa durante il lockdown dai “Ferragnez” sulla piattaforma GoFundMe. Peraltro, nel tanto chiacchierato numero di Vanity Fair in cui compare la “scabrosa” immagine della Ferragni, compaiono altre note donne italiane, come Barbara D’Urso e Maria De Filippi, “sostituite” ai soggetti di alcuni dipinti. È la prova del nove: il Codacons punta proprio la giovane imprenditrice digitale. Come ne I vestiti nuovi dell’imperatore, si imbastisce ogni giorno una gara a chi si veste di uno sdegno più lucente, a chi si indigna più forte. Peccato che, paradossalmente, la tendenza alla critica a tutti i costi diventa inesorabilmente oggetto di critica a sua volta. Rasenta il ridicolo una chiamata in causa del Ministero dei Beni Culturali sulla rivisitazione artistica di alcuni dipinti: da quando la tecnologia lo consente, sono sempre di più gli artisti o i personaggi dello spettacolo che rielaborano famose opere d’arte modificandole con i propri tratti. Per non parlare dei richiami ai punti di riferimento principali della religione come quello azzardato da Achille Lauro nei panni di San Francesco d’Assisi: una rilettura sdoganata del Santo, quella portata sul palco di Sanremo durante l’ultimo Festival della Canzone Italiana, che ha inteso esaltare i grandi rivoluzionari della Storia. Proprio come il Poverello di Assisi, che si spogliò di tutti i suoi averi per votarsi a Cristo. Eppure Achille Lauro, che non è certo il portabandiera della sobrietà, non è mai stato oggetto della disistima del Codacons. Forse è appena il caso di sottolineare che ciò che lede severamente l’immagine della fede cristiana ed offende i fedeli sono, piuttosto, le mortificazioni dei precetti cristiani ad opera di chi, spesso e volentieri, opera all’interno della Chiesa o per la Chiesa. O ancora, le strumentalizzazioni dei simboli religiosi, la loro esibizione gratuita al solo fine di attrarre l’attenzione dei fedeli come il pifferaio magico con i topolini: come mai al Codacons sono sfuggiti gli sventolii di rosari e immagini sacre ad opera di noti politici? E in che modo, a detta del loro eloquente silenzio, questi comportamenti risultano meno offensivi di un ritocco al computer del quadro di una Madonna? La blasfemia, a quanto pare, è negli occhi di chi guarda, ed ha spesso quel retrogusto relativo che fa sfigurare una bilancia per nulla imparziale, i cui pesi sui due piatti risultano sempre visibilmente impari. Dei precetti cristiani bisognerebbe far tesoro anche da atei: il rispetto per gli altri, la pietà verso i più deboli, il soccorso nei confronti degli ultimi; nulla che non dovrebbe far parte anche di un buon decalogo laico. Senza dimenticare che anche Cristo mostrava i propri evidenti lati umani, e che se proprio vogliamo seguire i suoi passi, non va dimenticato quel famoso episodio che avvenne al Tempio, quando infuriato rincorse i mercanti con una frusta.

DAGONOTA il 29 settembre 2020. Facciamo il controcanto ai geni bacchettoni del Codacons che hanno denunciato quella poverina di Chiara Ferragni per “blasfemia e offesa al sentimento religioso” per essere apparsa su Vanity Fair, ad opera di Francesco Vezzoli, nei panni della Madonna (a quando una denuncia per il ''Giudizio Universale" di Michelangelo?). L’americano Andres Serrano, fingendo di ritrarsi dallo scandalo generato da “Piss Christi”, lanciò anni fa la serie “Holy Works”, pannelli di situazioni e figure dei Vangeli ai quali hanno dato volto dei poveri newyorkesi. Peccato che in “Madre e Bambino” la faccia sia quella di Casey Anthony, la madre più famosa d’America per essere stata incriminata dell’omicidio della figlia di due anni. Ancora: il “Presepio” allestito da Wolfango Peretti Poggi nel 2006 al Palazzo comunale di Bologna dove, fra le 200 statuine, ce n’era una che raffigurava la pornostar Moana Pozzi ecc ecc. Ma il più luciferino è senz’altro Jam Montoya. La serie “Sanctorum” farebbe venire un coccolone a quelli del Codacons: un transessuale usato come Madonna in “Nuestra senora de Lourdes”. Nato a Badajoz nel 1953, JAM Montoya è anche fotografo, ricercatore e insegnante. Ha insegnato in diversi centri e corsi accademici presso l'Università dell'Estremadura e il suo lavoro è stato oggetto di dibattito in congressi universitari e un argomento di ricerca in relazioni di laurea e tesi di dottorato. Nel 1990 ha ottenuto la borsa di studio per le arti plastiche dal Council of Culture of the Junta de Extremadura. Stralcio da: "No pretendo ofender, sino criticar" di Venesa Rogrìguez da “20minudos”.

D - Qual è l'obiettivo del tuo lavoro artistico?

A - Se mi chiedi in generale della mia carriera fotografica, devo dire che intendo esprimere solo quello che penso e quello che provo attraverso la fotografia, se mi chiedi di Sanctorumrisponderei la stessa cosa, è stato il mio modo di criticare eventi specifici che hanno a che fare con certi atteggiamenti di un settore molto specifico dell'establishment ecclesiastico.

D- Perché hai scelto l'iconografia cattolica come tema?

R - È chiaro, perché è stata la mia educazione, è stata la convinzione che mi è stata instillata da quando ero piccolo e nessun altro. Ora mi dicono perché non faccio lo stesso con Maometto, perché dovrei se la religione islamica non è quella che ha condizionato la mia educazione? Questo non è gratuito, questo è dovuto al mio modo di sentire, al mio modo di criticare questioni che hanno a che fare solo ed esclusivamente con l'establishment clericale, e ovviamente non devo criticare nient'altro che ciò che mi ha offeso, ad esempio, la pedofilia nella Chiesa cattolica, lo stupro dei novizi africani da parte di sacerdoti, l'arricchimento del clero di fronte alla povertà. Le mie foto parlano proprio di questo…

D- Sei consapevole che il tuo lavoro può offendere un gran numero di spagnoli?

R - Certo, la mia intenzione non è mai stata quella di offendere credenti sinceri, non ipocriti, chi vive la religione dalla verità, spero che tutti capiscano che questa raccolta non è dedicata a loro, insisto, è una critica dell'ipocrisia di alcuni membri dell'establishment clericale…

[…]

D - Hai ricevuto qualche tipo di denuncia ufficiale dalla Chiesa cattolica riguardo al contenuto di queste fotografie?

A - Mai, per di più, ti darò informazioni che nessuno conosce. Quando alcune di queste foto sono state esposte alcuni anni fa alla Fiera d'Arte Contemporanea di Cáceres (Foro Sur) in uno spazio fornito dalla Chiesa cattolica, il Vescovo della diocesi di Coria-Cáceres ha inviato due sacerdoti di cui si fidava per intervistare privatamente. Con me e parlando del motivo del mio lavoro, abbiamo avuto una conversazione molto gentile e cordiale, ciascuna delle parti parlando delle proprie ragioni, e nient'altro, è vero che si è formato un piccolo scalpore mediatico, ma insisto, niente di più. La Chiesa cattolica in questo senso è stata molto più corretta del numero di persone che si definiscono cattolici e che mi insultano e mi minacciano sotto la copertura dell'anonimato.

D - La Giunta ha presentato il suo sostegno agli attacchi del PP al tuo lavoro?

R - Naturalmente, tutti noi che crediamo nella libertà di espressione e di pensiero dobbiamo sostenerci a vicenda. Non ho alcun tipo di collegamento con nessun gruppo politico. Le istituzioni non dovrebbero mai censurare l'espressione plastica, in nessun senso, e questo è ciò che ha fatto il Consiglio, consentire quella libertà culturale e di pensiero. Solo quello.

D- La controversia vende?

R - Per chi crede che lo faccia per vendere di più, informo che curiosamente non ne ho bisogno. Sanctorumè stata la collezione più venduta di tutto ciò che ho fatto, non ora, ma prima, senza bisogno di tutto questo clamore. Ora ho offerte da tutto il mondo che prima non avevo…

D - Dovrebbero esserci barriere all'arte?

A - Non dovrebbero, l'arte è un gioco, un modo per far pensare la gente, non solo un piacere estetico, è molto di più. Tuttavia, se analizzi la storia vedrai che è afflitta da tutti i tipi di censura, in ogni momento. Se la libertà dell'arte è ostacolata, avremo fatto un gigantesco passo indietro.

D - Pensi che i cattolici possano capire il tuo lavoro?

R - Certo, ci sono molti che lo capiscono, soprattutto se hanno una formazione nel campo della plasticità e possono liberarsi delle proprie convinzioni e vedere solo l'immagine.

D - Qual è la tua fonte di ispirazione?

A - Sempre la vita.

Chi difende la Vergine Maria? La Chiesa? No, il Codacons. Il dogma: rispettare la sensibilità religiosa di tutti, tranne che dei cristiani. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il  29 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Una delle cose più grottesche di quella sub-ideologia d’importazione conosciuta con il nome di “politicamente corretto” è che, volendo democratizzare tutto, nella presunzione infantile di creare un mondo più equo e giusto, poi però funziona solo a vantaggio di alcuni e non per altri, con atroci e inaccettabili disparità di trattamento. Lo vediamo in continuazione e questo ci offre la dimostrazione di quanto la militante negazione della realtà si rivolti poi contro il suo stesso negatore, delegittimandolo completamente. L’ultimo caso riguarda la nota intellettuale antifascista Chiara Ferragni che, evidentemente costretta dal bisogno economico, non ha trovato di meglio che farsi raffigurare, in un fotomontaggio, nei panni della Vergine Maria. (Quando si ha il conto in rosso, dopotutto, bisogna pur cavarsela in qualche modo). Il tutto sbattuto in prima pagina su una rivista che, dichiaratamente, si occupa di cose vane, per sponsorizzare, non a caso, i soliti sproloqui novordinemondialisti-femministi-genderisti. Il paradosso è che questo avviene negli stessi giorni in cui viene approvata la censura sulla nostra arte che “potrebbe offendere le altre religioni”. E’ infatti appena passata alla Camera la Convenzione di Faro sul valore del nostro patrimonio culturale che, d’ora in poi, potrà essere soggetto soltanto “a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico, degli altrui diritti e libertà”. Come già evidenziato da alcuni, si tratta del ritorno del fantasma di Daniele da Volterra, detto Braghettone, lo stesso pittore che, per volere di Pio IV, dipinse drappi multicolori per coprire le pudenda michelangiolesche dei personaggi del Giudizio Universale. Infatti, il nostro straordinario patrimonio artistico potrà subire alcune censure per evitare di offendere le sensibilità degli islamici e di tutti quegli altri gentili ospiti che, in piena ottemperanza alle regole dell’ospitalità, in casa altrui dettano legge sull’arredamento. (Almeno Pio IV faceva censurare i SUOI di affreschi, e non quelli del sultano). Quindi va bene coprire i nostri nudi classici e le nostre Madonne col Bambino per non offendere i mussulmani, ma Saviano può permettersi di mostrare la Santa Vergine discinta, a gambe larghe, mentre partorisce e la Ferragni si può agghindare nelle vesti di Maria col Bambino Gesù. E se i cattolici protestano sono pure bacchettoni. Ma infatti non protestano. Dalla Chiesa – forse distratta dalla piccola Notte di San Bartolomeo in corso - non è stato detto “bai” e il popolo cattolico, ormai completamente inebetito dalla flebo di melassa buonista-immigrazionista, accetta qualsiasi cosa che possa far sentire a proprio agio gli “ospiti”, meglio se questo avviene con lo smantellamento e la ridicolizzazione dei simboli della propria identità religiosa. Chissà cosa ne pensa San Michele Arcangelo, la cui festa ricorre proprio oggi. Ci ha dovuto pensare il CODACONS a difendere la fede: dismettendo per un attimo i panni dell’associazione a difesa dei consumatori e indossando cotta di maglia e scudo rosso-crociato, ha denunciato la Ferragni per blasfemia, attirandosi pure il dileggio dei benpensanti laici a corrente alternata. Ovviamente, la pratica finirà presto archiviata, figuriamoci. Ma, capite? Ci ha dovuto pensare il Codacons. Eppure, rabbini, imam e il loro fedeli sono sempre pronti a scattare come tagliole non appena qualcuno si azzarda a mettere in burletta le loro credenze e divinità. Anzi, qualche islamico “depresso” tira pure fuori il machete o il tritolo (scherzi della melancolia, che volete). Quindi siamo tornati alla legge della giungla? Per ottenere quel minimo rispetto base per la sensibilità religiosa conta, dunque, solo l’energia applicata alla reazione? Una cosa è certa: non vi aspettate che il non-pensiero politicamente corretto sia in grado di concedere la giusta fetta di rispetto anche ai cristiani: per essere equi occorre un’impostazione logica e qui siamo in un’altra parrocchia. Per fortuna, Gesù, Giuseppe e Maria possono almeno contare sul CODACONS.

Giovanni Sallusti per ''Libero Quotidiano'' il 25 settembre 2020. Un ribaltamento più totale del messaggio cristiano non era pensabile. Gesù che lapida l' adultera. Sì, avete letto bene. Non è l' ennesima provocazione di qualche pseudoartista sciroccato della rive gauche. No, è qualcosa di molto più serio e allarmante per la contemporaneità: è la riscrittura del Vangelo secondo il Partito Comunista Cinese. La notizia l' ha data UcaNews, la principale agenzia cattolica d' informazione sull' Asia. La bufala evangelica è contenuta in un libro di testo destinato alle scuole secondarie, pubblicato dall' editrice governativa (cioè dal Politburo) dell' Università di scienza elettronica e tecnologia, che ha l' obiettivo di insegnare negli istituti del Dragone «la legge e l' etica professionale», cioè di lavare i cervelli degli studenti col colore unico del postmaoismo. Il sussidiario prevede un' unica, lievissima modifica rispetto alla versione originale contenuta in Giovanni, 8,1-11. Quando la folla sembra rinunciare all' idea di punire la donna, Cristo improvvisamente esclama: «Anch' io sono un peccatore. Ma se la legge potesse essere eseguita solo da uomini senza macchia, la legge sarebbe morta». E si accanisce sulla donna, fino a ucciderla. Capite che in questo Gesù repressore, lapidatore, omicida, non rimane nulla del Gesù come lo conosciamo da un paio di millenni in Occidente (e non solo). Del resto, Wang Yang, membro del Comitato Permanente del Pcc, la cricca criminale che regge il Paese insieme a Xi Jinping, già nominato da quest' ultimo "responsabile per la supervisione sulle fedi riconosciute", una sorta di correttore ideologico delle credenze religiose, pochi mesi fa aveva sentenziato: "Bisogna creare una teologia con caratteristiche cinesi". Bene, nella teologia cinese Gesù ammazza l' adultera. Lo fa in nome della superiorità della "legge", del culto positivo e immanente dello Stato, contro i sussulti della coscienza individuale, lo fa in nome di Cesare, per usare il dettato neotestamentario, ovvero di Mao, di Deng Xiaoping, di Jiang Zemin, di Hu Jingao, oggi di Xi e di tutti coloro che si susseguiranno alla guida del Partito. È il capovolgimento integrale della rivoluzione filosofica cristiana, e l' annuncio della rivoluzione politica comunista: date a Cesare quel che è di Cesare, e anche quel che è di Dio. Di modo che il Messia diventa l' allevatore del paradiso (socialista) in terra, qualcuno che ha anticipato le magnificenze della Cina totalitaria, la Buona Novella come il Libretto Rosso. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Bergoglio, di questa torsione assassina impressa al racconto evangelico da un regime con cui la Santa Sede si appresta a confermare un accordo che non solo non garantisce la libertà dei fedeli e le pratiche liturgiche, ma nemmeno la lettera del testo sacro. "Il Vaticano metterebbe a rischio la sua autorità morale, se rinnovasse l' accordo", ha detto qualche giorno fa il Segretario di Stato americano Mike Pompeo. I giornaloni nostrani lo hanno trattato come un eversore. Sono gli stessi che fanno ogni giorno le fusa alla massima autorità teologica odierna: il Partito Comunista Cinese.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 25 settembre 2020. Un tempo a segnare l' orizzonte della cultura «di sinistra», era l' Unità o tutt' al più un rotocalco come Rinascita. Oggi, invece, più ancora di Repubblica, il portabandiera ideologico dei liberal è Vanity Fair. Una rivista «patinata», laddove la patina consiste nei presunti valori progressisti con cui si avvolgono le brame del capitalismo senza limiti. Tra una pubblicità di un marchio di moda e l' altra, Vanity Fair è un concentrato delle ossessioni contemporanee: lotte Lgbt, fissazione per le minoranze, antirazzismo totalitario, e ovviamente antifascismo in assenza di fascismo. In qualche modo, dunque, è perfettamente coerente la santificazione di Chiara Ferragni che appare sul nuovo numero della rivista. Si tratta di un' edizione speciale curata da Francesco Vezzoli, artista molto celebrato anche fuori dai confini italici, e ovviamente lisciato da tutti i Vip. Con grande originalità, Vezzoli e il direttore di Vanity Fair, Simone Marchetti, hanno scelto di dedicare l' intero fascicolo alle donne, mostrando quelli che dovrebbero essere i modelli femminili del nostro tempo, gli «esempi di una cultura progressista che cerca il dialogo e che si oppone allo schema patriarcale per estirpare gli stereotipi di genere». L' assurdità di tutta l' operazione si evince già dalla copertina, su cui compare «la modella Roberta De Titta Graziano». La quale, si dà il caso, è una transgender, un maschio diventato femmina. Davvero curioso: in un numero dedicato alle donne c' è in copertina un trans, quasi un furto con scasso ai danni del femminile. Il direttore Marchetti giustifica la scelta spiegando che «c' è un salto culturale storico da fare per tutti. Siamo chiamati ad abbandonare finalmente una cultura patriarcale che ci imprigiona in una logica perversa, prevaricatrice, violenta e soprattutto non inclusiva». Come volevasi dimostrare: polverosa ideologia di sinistra utile ad assecondare le tendenze imposte dal pensiero semi totalitario che impera nella moda e altrove. Tratteggiato il quadro d' insieme, veniamo al punto. Vezzoli ha modificato per l' occasione alcune opere d' arte del passato, sostituendo i volti dei soggetti femminili originali con quelli di donne celebri di oggi. Ad esempio ha preso la Giovanna D' Arco di John Everett Millais e l' ha trasformata in Luciana Lamorgese. Operazione piuttosto blasfema, se non altro perché la Pulzella d' Orleans combatté (e diede la vita) per la sua patria e il popolo francese sottomesso dagli inglesi, mentre la Lamorgese sembra fare di tutto per garantire che l' Italia sia invasa. L'«opera» più irritante, tuttavia, è appunto quella che ritrae Chiara Ferragni, presentata nei panni di Maria sotto al velo azzurro della Madonna con bambino attribuita da Federico Zeri al Sassoferrato (Giovan Battista Salvi). Il titolo dell' intervista all' influencer è: «Madre, figlio e spirito social». Ora, la pagliacciata non è particolarmente originale (la dissacrazione è continua almeno dai lontani tempi dei jeans Jesus) e nemmeno sorprende. Dopo che Michele Serra, su Repubblica, ha incoronato la Ferragni martire dell' antifascismo, era ovvio che Vanity Fair non potesse esimersi dal fornire il suo contributo. A intristire, tuttavia, è il senso di stanca abitudine con cui ormai si accoglie questo genere di operazioni. Siamo talmente assuefatti alla banalizzazione e allo svilimento che la sensazione di offesa risulta come ovattata. Eppure il ritratto di Vezzoli offensivo lo è eccome. Non solo per i cristiani, ma per l' intera cultura europea. Vanity Fair dice di voler abbattere il «patriarcato violento». E come la fa? Prendendo il femminile perfetto - cioè la Madonna - e riducendolo a Chiara Ferragni. Cioè una che - per esprimersi sull' omicidio di Willy - non è nemmeno riuscita a elaborare un pensiero tutta da sola. No, ha dovuto ripubblicare un pensiero altrui, quello del profilo Spaghettipolitics. In quel «pensiero» condiviso dalla Ferragni si metteva in risalto la presunta matrice «nera» della violenza di Colleferro, con queste esatte parole: «No, Amo, il problema lo risolvi cambiando e cancellando la cultura fascista». Ecco, in quel «No, Amo», c' è il declino dell' Occidente. Non - come hanno creduto Serra e altri - l' affermazione dei «valori di sinistra» all' interno del mainstream, ma la fine dello stesso pensiero progressista. Che viene rimasticato e pervertito dalla superficialità social. È la stessa perversione a cui viene sottoposta la Madonna con bambino. Un' altra Chiara, santa Chiara, definiva Maria colei che può renderci «eredi e regine del Regno dei cieli». E guardate come la trattano, senza alcun rispetto, come una che mette in vendita la vita online. «Si aspetti un pugno chi offende mia madre. La libertà di parola ha dei limiti», disse Francesco nel 2015, poco dopo il massacro di Charlie Hebdo. Il Papa arrivò a pronunciare una frase che appariva quasi una giustificazione dei terroristi islamici, per di più di fronte a una carneficina tremenda. Ma nessuno si scandalizza, oggi, per l' offesa alla Madre Celeste (forse perché non ci sono minoranze aggressive da giustificare, chissà). Per altro, a insultare sono proprio i difensori a oltranza di tutte le minoranze piagnone: sostengono leggi bavaglio pur di non offendere gli Lgbt, ma non si fanno scrupoli a colpire i cristiani. In fondo, tutto si tiene: nella fiera delle vanità che sovverte ogni cosa, i trans sono femmine, la Ferragni è Maria, e i diritti delle donne sono la loro rovina.

Spoleto, furto shock: rubato il sangue di Giovanni Paolo II. "Ritornate, restituite la reliquia alla Cattedrale. È un gesto di responsabilità e di serietà, quello che sto chiedendo", dice padre Renato Boccardo. Federico Garau, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. La reliquia sacra "ex sanguine" di Giovanni Paolo II, custodita all'interno del Duomo di Spoleto, è stata rubata. A darne notizia il vescovo di Spoleto e Norcia padre Renato Boccardo. L'ampolla, che si trovava nella Cappella del Crocifisso, conservata in un reliquiario dorato, conteneva delle gocce di sangue di Karol Wojtyla, l'ex Papa poi santificato dalla chiesa romana. Sarebbe stata la sacrestana a rendersi conto della trafugazione ed a dare l'allarme, poco prima dell'orario di chiusura dell'edificio religioso. Le indagini sono affidate ai carabinieri, che hanno raccolto la denuncia da parte della curia e potranno fare affidamento anche sulle immagini probabilmente riprese dalle telecamere di sorveglianza interne. "Con sorpresa e con dolore abbiamo appreso la notizia del trafugamento della reliquia di San Giovanni Paolo II che era custodita e venerata nella Cappella del Crocifisso della nostra Cattedrale", racconta in un video caricato sul web il vescovo di Spoleto e Norcia. "È un atto grave. Grave perché naturalmente ferisce la sensibilità e le devozione di tante persone. Ma grave anche perchè manifesta una mancanza di rispetto e di considerazione nei confronti dei sentimenti di coloro che in questi anni si sono recati direi quasi in pellegrinaggio alla Cappella del Crocifisso per affidare gioie e dolori, fatiche e speranze all'intercessione del santo pontefice. Voglio sperare che si tratti di un atto di superficialità", aggiunge ancora padre Renato Boccardo,"e non fatto con l'intenzione di offendere la sensibilità dei fedeli. Voglio sperare altresì che questo gesto sconsiderato non sia stato compiuto a fini di lucro. Purtroppo sappiamo che succede anche questo". Il timore, pertanto è che si sia trattato di un furto riferibile al diffuso traffico delle reliquie. L'"ex sanguine" di san Giovanni Paolo II fu donato alla cattedrale di Spoleto il 28 settembre 2016 dal cardinale Stanislaw Dziwiszd, a quel tempo arcivescovo di Cracovia. Per essa era previsto successivamente il trasferimento all'interno della nuova chiesa di San Nicolò in Spoleto intitolata proprio a Karol Wojtila, la cui consacrazione dovrebbe avvenire il prossimo 22 di ottobre. Il vescovo di Spoleto e Norcia rivolge ai fedeli del santo l'esortazione a "continuare ad affidarsi a lui, che è intercessore potente presso il signore", poi si rivolge direttamente ai trafugatori della reliquia: "Rivolgo un appello accorato a chi è stato l'autore di questo gesto. Ritornate, restituite la reliquia alla Cattedrale. È un gesto di responsabilità e di serietà, quello che sto chiedendo. Non è facendo operazioni del genere che si ottiene pubblicità o successo".

Dalla lingua al significato: tutti i segreti di Jerusalema. Ritmo irrefrenabile, testo incomprensibile, significato profondo. Jerusalema è il tormentone dell'estate che non ti aspetti ma capace di conquistare tutti. Vi sveliamo perché. Novella Toloni, Sabato 19/09/2020 su Il Giornale. Il mondo della musica sta cambiando. Il successo planetario di "Jerusalema", brano dance pop del musicista sudafricano Master KG, ne è la prova. Prendi un pezzo gospel vecchio di un anno, lancialo su Tik Tok, spingilo con una challenge e il tormentone è presto fatto. Jerusalema è uno dei brani più ascoltati e scaricati di questo strano anno dominato dal coronavirus. E i numeri parlano da soli: oltre 140 milioni di visualizzazioni di Youtube, 160 milioni di view su Tik Tok e canzone più cercata al mondo su Shazam. Gli ingredienti per far diventare "Jerusalema" un successo mondiale c'erano tutti. Ritmo coinvolgente, testo incomprensibile ma orecchiabile e balletto riproponibile con facilità sui social network più in voga. Nel 2019 però il brano gospel dal sapore afro-house del produttore e musicista africano Master KG non è riuscito a sfondare. Solo grazie alla dance challenge lanciata sulla piattaforma cinese Tik Tok lo scorso aprile, "Jerusalema" è riuscita a far breccia nel cuore degli ascoltatori, diventando uno dei tormentoni del 2020.

I segreti di Tik Tok. In un mondo in cui la musica sta diventando sempre più virtuale, dove i concerti si faranno sempre meno dal vivo e sempre di più in streaming (a causa soprattutto della pandemia) il fenomeno "Jerusalema" non deve sorprendere. Le piattaforme social, oggi, sono il motore trainante di mode e hit. Poco importa se il brano, che il 24enne Master KG canta in collaborazione con l'artista Nomcebo, è in realtà una preghiera in una lingua a noi sconosciuta. Piace perché canta un domani migliore, quello che ai tempi delle quarantene e della pandemia è diventato ormai un miraggio. Il brano gospel, uscito in Sudafrica a novembre 2019, infatti è un'invocazione in lingua venda - idioma che nasce dal dialetto bantu parlato principalmente in Sudafrica e Zimbabwe da un gruppo ristretto di nativi - che regala una sonorità "asciutta e ritmata" alla quale è difficile resistere. Un'ode a Dio e un vero e proprio omaggio alla città santa Gerusalemme che "è la mia casa, guidami, portami con te, non lasciarmi qui. Il mio posto non è qui, il mio Regno non è qui, guidami, portami con te", recita il brano. E così il mondo intero è stato travolto dal ritmo della canzone, dalla gioia incontenibile e da quell'irrefrenabile voglia di ballare che scatena. Non c'è da sorprendersi, dunque, se milioni di ragazzini in tutto il mondo hanno riproposto il loro personale balletto su Tik Tok. Jerusalema non ha lasciato indifferenti neppure suore, frati e preti, che hanno deciso di scatenarsi a ritmo di musica postando i propri video sul web, diventati virali in poco tempo. C'è solo da far cambiare idea al giovane musicista Master KG che all'esordio non è stato compreso, come ha svelato lui stesso in un'intervista a una stazione radio sudafricana: "Quando ho cominciato la gente diceva cose brutte, ma ho proseguito e adesso continuerò a spingere, voglio far ballare più gente possibile, voglio unire le persone".

I misteri di San Gennaro: I luoghi della prima liquefazione e l’insospettabile legame con un grande poeta. Amedeo Junod Il Riformista il 14 Settembre 2020. Il nostro viaggio alla scoperta della Napoli insolita e misteriosa prosegue risalendo l’antica Via Antiniana. All’altezza dell’attuale Via Salvator Rosa e continuando lungo Via Conte della Cerra, riscopriamo i luoghi storicamente legati al passaggio del Santo. Una lapide discosta, spesso ignorata da passanti e turisti, reca memoria del primo miracolo storicamente documentato di liquefazione del sangue del patrono, siamo nel 1389, quando durante il trasporto delle reliquie di Gennaro le ampolle del sangue si urtarono, originando la prima liquefazione. Meglio conosciuta della lapide commemorativa, è la Chiesa di San Gennaro ad Antignano, anche nota come “la piccola Pompei”, luogo di culto del Vomero e tappa obbligata per chiunque volesse ripercorrere le tappe significative del martirio e della trasposizione delle reliquie del Santo. Alcuni storici, nel corso dei secoli hanno azzardato un’ipotesi che lascia sbalorditi: negli stessi luoghi dove oggi sorge la lapide, sarebbe infatti sepolto il sommo poeta Virgilio. Non è certo infatti che le spoglie di Virgilio riposino a Piedigrotta, dove risiede il mausoleo ufficiale che ospita i corpi del poeta latino e di Giacomo Leopardi. Quello che è certo è che il ruolo simbolico che Virgilio ha ricoperto per la città di Napoli in epoca pagana, riporta molte similitudini con il culto del martire Gennaro. Ritenuto mago oltre che poeta, Virgilio veniva consultato dalla città come un nume tutelare, in grado di difendere il popolo partenopeo da pestilenze e carestie e di assicurargli, tramite la sua protezione, un fulgido avvenire. Ai suoi poteri è attribuita addirittura la comparsa della grotta che collegava il centro a Pozzuoli, e che avrebbe in seguito evitato ai pellegrini di dover superare le colline lungo il percorso sacro che giunge fino al Rione Terra. Le reliquie del martire, dopo la sua morte, furono invece trasportate lungo la via “per colles” (letteralmente “lungo le colline”), ritenuta più sicura, passando per l’attuale Via Terracina, fino al luogo dove oggi sorge il Santuario intitolato al Santo, dove esiste un culto ancora forte, alimentato continuamente da folle di devoti fedeli. La sovrapposizione dei culti non ebbe però vita facile, soprattutto nel  medioevo, quando il papato intervenne per restituire il primato del culto di Gennaro, rigettando il culto pagano per Virgilio nei cassetti della Storia.

Vaticano, svolta del Papa nell'annuario: scompare "vicario di Cristo". Nell'annuario pontificio del 2020 manca l'espressione "vicario di Cristo". Critiche da parte dei tradizionalisti per l'ultima scelta di Papa Francesco. Francesco Boezi, Lunedì 10/08/2020 su Il Giornale. Papa Francesco è un pontefice che guarda più alla sostanza che alla forma, ma per molti cattolici l'adesione allo schema formale è sinonimo di rispetto della dottrina. L'ultima polemica, in ordine di tempo, riguarda la mancata presenza del titolo "vicario di Cristo" nell'edizione del 2020 dell'annuario pontificio. Il pontefice argentino, come ogni successore di Pietro, è il "vicario di Cristo", ma in quel documento sembra che alcuni titoli, compreso quello appena citato, vengano considerati alla stregua di connotazioni storicistiche. Quando Jorge Mario Bergoglio si è affacciato per la prima volta su piazza San Pietro, del resto, ha ricordato ai fedeli di tutto il mondo di essere il "vescovo di Roma". Il messaggio è stato chiaro sin da principio. La preferenza del sudamericano può essere interpretata almeno in due modi: attraverso la natura "popolare" del pontificato di Francesco, e dunque per il tramite di una preminenza assegnata al ruolo di pastore del gregge; mediante le considerazioni del cosiddetto "fronte tradizionale", che intravede in alcune scelte dell'ex arcivescovo di Buenos Aires un allontanamento dai canoni propri della dottrina cristiano-cattolica. Silvana De Mari su La Verità ha scritto quanto segue: "Se non è e non vuole essere il Vicario di Cristo, allora sarebbe corretto si trovasse un nuovo lavoro. E invece no. Bergoglio continua a farsi considerare papa. Il fatto che non sia più Vicario di Cristo permette alla parola Cristo di non comparire, cioè permette che Cristo sia lasciato fuori dalla scena, sia lasciato fuori dalla storia, una storia che Bergoglio preferisce scrivere da solo". Questo è il secondo modo d'interpretare la scelta del Santo Padre. Altri direbbero che Bergoglio, in quanto "teologo del popolo", disdegna le formalità elitiste. Ma il titolo di "vicario di Cristo" è una pura formalità? Sia come sia, il risultato non cambia: "vicario di Cristo" è un'espressione che non è presente sull'annuario pontificio, con tutto quello che questa assenza può comportare in termini di polemiche negli ed attorno agli ambienti ecclesiastici. Ma non è finita. Sempre i tradizionalisti ritengono che la figura stessa del "pontefice" stia cambiando, con il proliferare di quella che i conservatori chiamano "confusione imperante". La voce della Chiesa cattolica, insomma, sarebbe diventata corale, e le "Chiese nazionali" starebbero prendendo il sopravvento. Si pensi, per esempio, al caso della Germania, dove l'episcopato nazionale, nonostante le preoccupazioni provenienti da Roma, sta discutendo di modifiche dottrinali che, per prassi e tradizione, spetterebbero semmai alla Chiesa universale ed al suo massimo rappresentante. Il ritorno delle "Chiese nazionali" accompagnerebbe naturalmente la visione di chi, più che "vicario di Cristo", penserebbe soprattutto di essere il "vescovo di Roma". Un atteggiamento - quello di papa Francesco - che starebbe contribuendo alla riemersione di differenze dottrinali tra un episcopato e l'altro: la Chiesa polacca, giusto per fare un esempio, sarebbe molto diversa dalla Chiesa tedesca o dalla Chiesa argentina. "Vescovo di Roma" e "vicario di Cristo" non sono in contraddizione tra loro: il papa è l'uno e l'altro. Ma Bergoglio - questa è la sintesi della critica dei conservatori - avrebbe posto l'accento soltanto su una delle due titolazioni. Un'opzione che verrebbe confermata dall'ultimo annuario pontificio.

Ma Papa Francesco crede ai dogmi? Le acrobazie verbali per non dire “Vergine” Maria. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 06 agosto 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Il grande teologo (definizione di Benedetto XVI) Hans Urs von Balthasar, diceva, citando i padri della Chiesa, che “Maria da sola ha vinto tutte le eresie”. In pratica, il culto mariano è una specie di cartina al tornasole per verificare chi è veramente cattolico. Infatti, soprattutto il dogma sulla Sua verginità perpetua, prima, durante e dopo la nascita del Bambin Gesù, non è questione di lana caprina, o un dettaglio trascurabile, è, piuttosto, un fattore dirimente nell’impianto della fede cattolica, in base a un corollario logico:  se Maria non ebbe un parto soprannaturale e miracoloso, Cristo era un uomo come tutti e quindi la Sua parola non viene direttamente da Dio. In tal caso, i Suoi insegnamenti possono essere piegati e adattati alle contingenze del mondo come fa più comodo.  Sulla verginità di Maria si apre quindi un bivio per la Chiesa: o seguire il mondo, o mettersi contro di esso, fedeli fino in fondo alla Parola di Dio e alla Tradizione, anche se tali precetti risultano scomodi e impopolari. Ecco perché, per secoli, su questo dogma si sono combattute lotte asperrime, culminate con lo scisma protestante, tanto che le chiese evangeliche, ancor oggi, tendenzialmente, rifiutano la devozione mariana. Viceversa, nella preghiera del Credo, che riassume le basi della fede cattolica, resta scritto: “(Cristo) per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. Così, non stupisce che il clero modernista attuale, proiettato sulla via dell’”aprirsi al mondo” indicata dal teologo progressista Karl Rahner, “vincitore” nel Concilio Vaticano II e “avversario” di von Balthasar, tenda a “demistificare” tutti gli elementi soprannaturali della Bibbia esponendosi, però, a un pericoloso cortocircuito. Credere a quell’evento miracoloso  è questione di fede,  anche se un debole appiglio farebbe ipotizzare una possibile connessione tra i fatti soprannaturali biblici e i più reconditi misteri dell’energia, della fisica quantistica e della materia. Qui l'approfondimento: Ma se ad essere accusato di non credere ai dogmi mariani è proprio il papa, che trae la sua legittima autorità solo in quanto CUSTODE della fede, allora c’è un grosso problema.

A Francesco si attribuisce, infatti, l’aver definito delle “tonterias” - "sciocchezze", i dogmi mariani (accusa gravissima). Siamo andati a controllare e abbiamo ritrovato quest’espressione nell’omelia da lui pronunciata il 12 dicembre 2019 per la ricorrenza della Beata Vergine di Guadalupe. Qui il testo: Ed ecco l’espressione “incriminata” di Francesco, verso la fine dell’omelia: “Quando ci vengono a dire che bisognava dichiararla tale (la Madonna), o fare quest’altro dogma, non perdiamoci in chiacchiere (tonteras nella versione spagnola): Maria è donna, è Nostra Signora, Maria è Madre di suo Figlio e della Santa Madre Chiesa gerarchica e Maria è meticcia, donna dei nostri popoli, ma che ha meticciato Dio”.

Ad essere precisi e onesti, qui Bergoglio definisce “tontera” solo la proposta del nuovo dogma di “Maria Corredentrice”, che è stato da lui negato – legittimamente, s’intende – pur dopo un processo durato molti anni e anche dopo significative aperture di Benedetto XVI. Quanto ai dogmi che sono già patrimonio basilare della fede, colpisce però che, nell’omelia, Maria Immacolata, nata purissima, priva del peccato originale,  diventi addirittura “meticcia” (perché?) e che Maria Assunta in cielo sia solo una comune “discepola”. A dire il vero, poi, solo una volta in tutto il testo, si intuisce appena, indirettamente, che Maria è anche “Madre di Dio” (dogma sostanziale) quando Francesco dice: “Questo è il grande mistero: Maria Madre “meticcia” Dio, vero Dio e vero uomo, nel suo Figlio”. Ma la cosa SCONCERTANTE è che nel testo non si riesce a trovare il MINIMO ACCENNO A MARIA COME VERGINE. (Verificabile nel testo riportato in fondo). Oltre a una serie di acrobazie verbali per non citare quella che sembra una vera parola “proibita”, altre frasi, de facto, demistificano - per via logica - il parto miracoloso della Madonna. Maria, spiega Francesco, è “donna”, “signora” e “discepola”, poi “Madre di suo Figlio” (ovviamente), “Madre della Santa Madre Chiesa gerarchica”, “Donna dei nostri popoli”. Tanti splendidi titoli, ma NON Vergine: proprio il Suo attributo dogmatico più noto, identificativo ed essenziale. Anzi, continua Bergoglio: “La pietà cristiana nel corso dei tempi ha sempre cercato di lodarla con nuovi titoli: erano titoli filiali, titoli dell’amore del popolo di Dio, ma che NON TOCCAVANO IN NULLA QUESTO ESSERE DONNA-DISCEPOLA”. E ancora: “Maria donna, Maria madre, senza altro titolo essenziale. Gli altri titoli — pensiamo alle litanie lauretane — sono titoli di figli innamorati cantati alla Madre, ma non toccano l’essenzialità dell’essere di Maria: DONNA E MADRE”. Eppure, le litanie insistono tantissimo sul parto miracoloso: “Santa Vergine delle vergini, Madre purissima, Madre castissima, Madre sempre vergine”… Il titolo essenziale c’è eccome, ovunque, ed è “vergine”. A questo punto, se quanto riportato dal sito vaticano è corretto, secondo Bergoglio, il dogma della verginità della Madonna va inteso solo come un “complimento” e non una verità di fede intoccabile e basilare. Insomma, la domanda è legittima, anche se, al solito, nessuno risponderà: ma Francesco ci crede o no ai dogmi mariani? Perché il problema è che “coloro che non ritengono per vere le verità di fede o di morale definite come dogma, si autoescludono dalla comunità ecclesiale e vengono definiti ERETICI, cioè persone che hanno scelto una parte e non il tutto”. Dato che un papa non può essere eretico (pena il decadere come papa) varrebbe quindi la pena di chiarire. Perché questa ritrosia nel ribadire una delle più banali certezze di fede dei cattolici? Torna in mente quando, a Bari, il 23 febbraio scorso, Bergoglio si fece allontanare il microfono proprio poco prima di citare le “fatali” parole del Credo relative all’argomento. La “Madonna meticcia” non si era mai sentita, anzi, secondo qualcuno sarebbe  uno spot immigrazionista “subliminale”. Ai cattolici suona invece molto più familiare, da un paio di millenni, la “Beata sempre Vergine Maria”, verità assoluta di fede in una realtà soprannaturale che profuma di purezza e di miracolo.

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO Basilica Vaticana Giovedì, 12 dicembre 2019. La celebrazione di oggi, i testi biblici che abbiamo ascoltato, e l’immagine di Nostra Signora di Guadalupe che ci ricorda il Nican mopohua, mi suggeriscono tre aggettivi per lei: signora-donna, madre e meticcia. Maria è donna. È donna, è signora, come dice il Nican mapohua. Donna con la signoria di donna. Si presenta come donna, e si presenta con un messaggio di un altro ancora, ossia è donna, signora e discepola. A sant’Ignazio piaceva chiamarla Nostra Signora. Ed è così semplice, non pretende altro: è donna, discepola. La pietà cristiana nel corso dei tempi ha sempre cercato di lodarla con nuovi titoli: erano titoli filiali, titoli dell’amore del popolo di Dio, ma che non toccavano in nulla questo essere donna-discepola. San Bernardo ci diceva che quando parliamo di Maria non bastano mai la lode, i titoli di lode, ma non toccano per nulla questo suo umile discepolato. Discepola. Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola. E c’è un Santo Padre che dice in giro che è più degno il discepolato della maternità. Questioni di teologi, ma discepola. Non ha mai rubato per sé nulla di suo Figlio, lo ha servito perché è madre, dà la vita nella pienezza dei tempi a questo Figlio nato da una donna. Maria è Madre nostra, è Madre dei nostri popoli, è Madre di tutti noi, è Madre della Chiesa, ma è anche immagine della Chiesa. Ed è Madre del nostro cuore, della nostra anima. C’è un Santo Padre che dice che ciò che si dice di Maria si può dire, a suo modo, della Chiesa, e, a suo modo, dell’anima nostra. Perché la Chiesa è femminile e la nostra anima ha questa capacità di ricevere da Dio la grazia e, in un certo senso, i Padri la vedevano come femminile. Non possiamo pensare la Chiesa senza questo principio mariano che si estende. Quando ricerchiamo il ruolo della donna nella Chiesa, possiamo seguire la via della funzionalità, perché la donna ha funzioni da compiere nella Chiesa. Ma ciò ci lascia a metà cammino. La donna nella Chiesa va oltre, con questo principio mariano, che “maternalizza” la Chiesa, e la trasforma nella Santa Madre Chiesa. Maria donna, Maria madre, senza altro titolo essenziale. Gli altri titoli — pensiamo alle litanie lauretane — sono titoli di figli innamorati cantati alla Madre, ma non toccano l’essenzialità dell’essere di Maria: donna e madre. E il terzo aggettivo, che le direi guardandola: si è voluta meticcia per noi, si è meticciata. E non solo con Juan Dieguito, ma con il popolo. Si è meticciata per essere Madre di tutti, si è meticciata con l’umanità. Perché? Perché ha “meticciato” Dio. Ed questo è il grande mistero: Maria Madre “meticcia” Dio, vero Dio e vero uomo, nel suo Figlio. Quando ci vengono a dire che bisognava dichiararla tale, o fare quest’altro dogma, non perdiamoci in chiacchiere: Maria è donna, è Nostra Signora, Maria è Madre di suo Figlio e della Santa Madre Chiesa gerarchica e Maria è meticcia, donna dei nostri popoli, ma che ha meticciato Dio. Che ci parli come ha parlato a Juan Diego da questi tre titoli: con tenerezza, con calore femminile e con vicinanza di meticciato. Così sia.

Da ansa.it il 19 luglio 2020. Un violento incendio è divampato all'interno della cattedrale gotica di Nantes, ora domato. La Procura della Repubblica ha aperto un'inchiesta per "incendio doloso", ha annunciato il procuratore Pierre Sennes, secondo il quale tre inneschi sono stati trovati in tre punti diversi all'interno della cattedrale: uno accanto al grande organo, gli altri due ai lati della navata. I pompieri hanno fatto sapere che le fiamme sono state circoscritte, ma che il grande organo della cattedrale "sembra distrutto" mentre la piattaforma su cui poggia "sembra sul punto di crollare", riferiscono i vigili del fuoco sul posto, secondo i quali però i danni "non sono comparabili a quelli provocati dall'incendio che colpì due anni fa Notre-Dame di Parigi". La cattedrale gotica dei Santi Pietro e Paolo di Nantes, che ha già subito gravi danni dai bombardamenti del 1944 e un incendio del tetto nel 1972, è stata completata solo nel 1891, dopo 457 anni di lavori. La fabbrica fu avviata infatti nel 1434 dal duca di Bretagna Giovanni V nello stile gotico "fiammeggiante" in voga allora. Dal 1862 la cattedrale della cittadina sulla Loira è stata dichiarata monumento storico dal governo francese. La sua navata centrale supera in altezza di vari metri quella di Notre-Dame di Parigi, devastata due anni e mezzo fa da un incendio.

Francia, il cristianesimo sotto assedio. Emanuel Pietrobon il 19 luglio 2020 si Inside Over. Nantes, Francia, sabato 18 luglio. Sono quasi le 8 del mattino quando si diffonde la notizia che è scoppiato un incendio all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, l’edificio-simbolo di questa piccola città della Loira ed uno dei massimi capolavori dell’architettura gotica francese. Le fiamme sono così violente che per domarle ed evitare che avvolgessero l’intera struttura si è reso necessario l’intervento di una maxi-squadra composta da cento vigili del fuoco, che è durato diverse ore. La comparsa improvvisa delle fiamme e la sensazione che non si trattasse di un incendio uniforme, ovvero che non avesse un unico punto di origine, hanno contribuito sin dai primi momenti ad alimentare i dubbi sulla sua reale natura. Una volta estinto il rogo, gli inquirenti sono entrati nell’edificio e hanno fatto la macabra scoperta: erano presenti tre inneschi.

L’incendio di Nantes: che cosa sappiamo. Il dipartimento dei vigili del fuoco di Nantes è stato avvisato dell’incendio poco prima delle 8 di mattina e ha rapidamente mobilitato sul posto una squadra di cento pompieri. Nonostante l’impiego immediato e massiccio di personale e di acqua, per contenere l’incendio sono state necessarie più di due ore, durante le quali si è temuto il peggio, ossia che la struttura potesse cedere. I vigili del fuoco sono poi entrati nella cattedrale alla ricerca di indizi sulle origini del rogo e i dubbi si sono trasformati in certezze: tre inneschi sono stati ritrovati ai lati della navata centrale e nei pressi del grande organo che, naturalmente e conseguentemente, sono anche le parti che sono state maggiormente danneggiate e compromesse. La navata è in pessime condizioni, mentre il grande organo e la piattaforma che lo circonda sembrano essere in procinto di cedere da un momento all’altro. Alla luce del ritrovamento degli inneschi, la Procura della Repubblica ha annunciato l’apertura di un fascicolo per incendio doloso a carico di ignoti. Negli stessi momenti, il presidente francese Emmanuel Macron affidava a Twitter il proprio cordoglio: “Dopo Notre Dame, brucia un altro gioiello”. In effetti, la cattedrale di Nantes è un vero e proprio gioiello artistico ed architettonico la cui costruzione è durata ben 457 anni, dal 1434 al 1891; prova eloquente della cura, dell’impegno e della mania perfezionista che hanno caratterizzato ed accompagnato la lunga nascita dell’edificio. Non è la prima volta, comunque, che un luogo di culto cattolico nantese viene avvolto dalle fiamme. Nel 2015 era stato il turno della basilica dei Santi Donaziano e Rogaziano, anch’essa vittima di un incendio scoppiato curiosamente sempre alle 8 del mattino, che da allora è chiusa al pubblico per via dei lavori di restauro.

Lo strano caso delle chiese bruciate. Le immagini provenienti da Nantes hanno riportato la mente del pubblico al 15 aprile 2019, il giorno in cui un incendio apparentemente accidentale, ma le cui cause non sono mai state chiarite, ha distrutto la cattedrale di Notre Dame di Parigi; uno dei luoghi-simbolo della Francia e dell’intera cristianità. Ma che si tratti un rogo doloso, appiccato in odio alla fede (in odium fidei), oppure accidentale, causato dalla carenza di manutenzione e/o dallo stato di abbandono e degrado, vi è un filo conduttore che lega e spiega gli eventi di Nantes e Parigi: il declino del cristianesimo. Le chiese in funzione hanno difficoltà a restare in funzione per via della carenza di fedeli, e quindi di donazioni che mantengano in piedi la vita comunitaria e rendano possibile lavori di ristrutturazione e servizi caritatevoli, ed affrontano anche la crescente minaccia rappresentata da crimini d’odio che, nella maggior parte dei casi, restano insoluti, senza un colpevole. La cattedrale dei Santi Pietro e Paolo è soltanto l’ultima vittima di una lunga scia di attacchi perpetrati nei confronti dei luoghi di culto e dei simboli del cattolicesimo. I roghi di chiese sono ormai una realtà con cui la Francia ha a che fare da diversi anni e, sebbene abbiano registrato un vero e proprio picco nei tempi recenti, le autorità continuano a trascurare la gravità e la portata del fenomeno. All’indomani dell’incendio di Notre Dame di Parigi, France24 ha indagato sullo strano caso delle chiese francesi date alle fiamme, scoprendo come nei dieci mesi precedenti a quel fatale 15 aprile almeno quattro luoghi di culto cattolici fossero stati colpiti da roghi dolosi: la chiesa di Nostra Signora delle Grazie di Revel, la chiesa di Saint-Jean-du-Bruel di Rodez, la cattedrale di Saint Alain di Lavaur, e la chiesa di Saint Sulpice di Parigi. Nello stesso periodo preso in considerazione, altre chiese erano state vittime di “strani incidenti”, a volte imputati a dei corto circuiti, come nel caso delle chiese di Villeneuve d’Amont nel Doubs, di Sainte-Thérèse a Rennes e di Saint-Jacques a Grenoble, ed altre volte rimasti senza spiegazione, come nel caso della chiesa di Angoulême, vittima di un rogo il 13 gennaio 2019. Infine, è degna di nota l’epidemia di vandalismi che ha fatto da preludio a Notre Dame. Nella prima settimana di febbraio, più precisamente dal 3 al 10, cinque chiese erano state assaltate da ignoti in diverse parti del paese: i loro interni erano stati danneggiati e l’oggettistica sacra era stata profanata. Tutto questo accadeva sullo sfondo del fenomeno suscritto degli strani corto circuiti e degli incendi dall’innegabile dolosità.

Profanazioni e vandalismi. Le forze anonime che stanno muovendo guerra alla realtà cristiana di Francia non si stanno limitando al rogo delle chiese; il fenomeno è molto più esteso e multidimensionale. Ad esempio, fra il 2015 ed il 2019 lungo i Pirenei si è verificata un’ondata di attacchi, compiuti da ignoti che non sono mai stati identificati, contro le croci installate sulle sommità delle montagne. Il costo di riparazione delle croci danneggiate, e della loro sostituzione quando rubate, ad un certo punto è stato ritenuto eccessivo, anche alla luce del costante aumento dei vandalismi. Infatti, in quei quattro anni erano state vandalizzate e rubate più croci di quante il Consiglio Dipartimentale dei Pirenei orientali fosse stato in grado di aggiustare e rimpiazzare; perciò nel settembre del 2019 le autorità hanno deciso di arrendersi, comunicando che sulle vette non sarebbero state installate nuove croci, né riparate in caso di danneggiamento, e che quelle ancora intatte e presenti sarebbero state abbandonate al loro destino. Vi è, poi, il capitolo delle profanazioni di matrice politica e religiosa. Nel primo caso si tratta delle sempre più frequenti irruzioni, a scopo vandalico, nei luoghi di culto ad opera di attivisti appartenenti al mondo anarchico e del femminismo radicale; nel secondo caso si tratta di episodi riconducibili a gruppi satanisti che dissacrano sia le chiese che i cimiteri per compiere rituali e rubare oggettistica sacra. Secondo il giornale Libération, il 60% delle profanazioni è attribuibile al mondo dell’estrema sinistra, del neonazismo e del satanismo.

La culla dell’anti-cristianesimo in Europa. I numeri forniti dalla polizia francese dipingono una realtà estremamente cupa. Fra il 2008 e il 2019 gli attacchi anti-cristiani sono quadruplicati ed ogni anno viene stabilito un nuovo record. Ad esempio, fra il 2018 e il 2019 il numero delle azioni anti-cristiane è cresciuto da 877 a 1.052. La portata del fenomeno, che è già di per sé esteso e preoccupante, assume una rilevanza ancora maggiore quando si procede ad una comparazione con il resto dell’Europa. È in Francia, infatti, che avviene il maggior numero degli attacchi anti-cristiani che hanno annualmente luogo nel Vecchio Continente. L’anno scorso, in tutta Europa sono stati commessi circa 3mila attacchi anticristiani, dei quali, come già scritto, 1.052 sono avvenuti nella sola Francia. Questo significa che, numeri alla mano, nel paese si consuma un terzo di tutti gli attacchi anticristiani del continente. Sarebbe sbagliato, però, credere che l’ondata di anti-cristianesimo che sta travolgendo le strade francesi sia interamente imputabile all’islam radicale. L’indagine di Libération, ad esempio, ha contribuito a ricostruire il fenomeno nella sua complessità, mostrando come la galassia degli attori coinvolti in questi gesti sia molto variegata ed eterogenea. La consapevolezza di un accerchiamento multi-fronte dovrebbe spingere la comunità cattolica ad organizzare una controffensiva, soprattutto sul piano culturale, mentre le autorità dovrebbero investire maggiori risorse nel tracciamento e nel successivo perseguimento penale degli autori di roghi e profanazioni; altrimenti l’impassibilità dei primi (i fedeli) e la negligenza dei secondi (gli inquirenti) non potranno che esacerbare ed accelerare questa campagna di scristianizzazione coercitiva e violenta.

Nantes, confessa il volontario accusato di aver appiccato l'incendio alla cattedrale. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da La Repubblica.it. Una settimana dopo l'incendio nella cattedrale di Nantes il volontario della diocesi, che era stato fermato e poi rilasciato, ha confessato di aver provocato il rogo accendendo i tre inneschi all'interno della chiesa. L'avvocato dell'uomo, in difficoltà con il rinnovo del permesso di soggiorno, ha detto che il suo cliente era "pieno di rimorsi" e che la confessione è stata "una liberazione". Poche ore dopo il rogo che il 18 luglio scorso ha distrutto completamente l'organo centrale della cattedrale gotica di San Pietro e Paolo di Nantes, frantumato le vetrate e annerito l'interno della chiesa XV secolo, le autorità francesi avevano arrestato un 39enne ruandese, volontario a cui era affidato il compito di chiudere il portone e assicurasi che tutto fosse in ordine. Dopo averlo interrogato, i gendarmi lo avevano rilasciato. Si trattava di una procedura di indagine normale, avevano affermato i funzionari. L'incendio era apparso doloso già dopo i primi rilievi. Fermato nuovamente questo fine settimana per ulteriori interrogatori, il volontario ha ammesso la responsabilità dell'incendio, come ha confermato il suo avvocato, Quentin Chabert. "Ha confessato e si rammarica dei fatti. Questo è certo. È pentito". Il procuratore di Nantes ha affermato che il 39enne ha acceso tre fuochi: due agli organi della cattedrale e uno a un quadro elettrico. Il movente resta sconosciuto.Ora rischia una pena di dieci anni di carcere.

Tullio Giannotti per l'ANSA il 27 luglio 2020. Emmanuel non ce la faceva più. Da mesi chiedeva invano il rinnovo del permesso di soggiorno, ormai avrebbe dovuto lasciare la Francia e tornare in Rwanda. "Era impaurito, era qualcosa più grande di lui, adesso si sente sollevato": l'avvocato dell'uomo che ha confessato di aver appiccato il fuoco alla cattedrale di Nantes provocando gravissimi danni lo scorso 18 luglio non vuole parlare della condizione di clandestino del suo cliente. "Meglio non alimentare l'estrema destra", taglia corto. Ad incastrare Emmanuel A. , 39 anni, da 8 in Francia, volontario della diocesi che godeva della piena fiducia del rettore della cattedrale, sono state le immagini della videosorveglianza. Lo si vede, al contrario di quanto riferito ai magistrati, uscire dalla cattedrale non la sera prima dopo averla chiusa - questo era l'incarico che gli era stato affidato - ma la mattina dopo, addirittura 10 minuti dopo la prima telefonata ai pompieri da parte di una persona che aveva visto le fiamme nella cattedrale. Tre inneschi erano stati scoperti fin da subito. Era da quei tre punti, molto distanti fra loro, uno proprio accanto al contatore dell'elettricità, che si erano sviluppate le fiamme che avevano distrutto il prezioso "grande organo" del XVII secolo. Subito la pista dell'incendio doloso era stata quella privilegiata dagli inquirenti, che avevano interrogato Emmanuel in stato di fermo. Lui aveva negato in modo netto ma il procuratore di Nantes, Pierre Sennès, aveva lasciato trapelare la convinzione degli inquirenti che il ruandese fosse coinvolto direttamente nel disastro. A convincerli della causa scatenante è stata una email che Emmanuel aveva inviato a tutta la diocesi la mattina prima dell'incendio, venerdì 17. Il volontario, apprezzato e benvoluto da tutta la parrocchia, esprimeva nel messaggio la sua esasperazione per il rifiuto della prefettura di rinnovare il suo visto di soggiorno. Era ormai stato raggiunto dal temuto OQTF, l''"obbligo di lasciare il territorio francese", il più temuto dei provvedimenti da parte dei sans papiers. La sera di domenica 19, Emmanuel tornò libero nell'alloggio sociale in cui abitava, la polizia non aveva in mano elementi sufficienti per trattenerlo. Le analisi degli esperti sono proseguite sui tre inneschi dell'incendio sono andate avanti tutta la settimana, giovedì i primi risultati sono arrivati dalla scientifica: nessun corto circuito, tracce di liquido infiammabile ritrovate sul posto, nessuna traccia di effrazione dall'esterno. L'incendio accidentale veniva escluso, Emmanuel tornava il sospetto numero uno. Appena convocato dal giudice per il nuovo stato di fermo, sabato sera, non ha resistito ed ha confessato tutto. Le immagini giunte in possesso degli inquirenti, in cui lo si vede uscire 10 minuti dopo la chiamata ai pompieri, non lasciavano più spazio a dubbi. In altri spezzoni dei filmati della videosorveglianza lo si vede, in stato evidentemente alterato, fare avanti e indietro dalla cattedrale alla sua abitazione, probabilmente lacerato dai dubbi e dal desiderio di attirare l'attenzione sul suo caso. Subito arrestato, ora rischia 10 anni di carcere.

Nantes, il sospetto di Antonio Socci: "Perché nessuno parla di cristianofobia?" Antonio Socci su Libero Quotidiano il 19 luglio 2020. Secoli di fede, di storia e di arte che vanno in cenere: così va in cenere la nostra anima, la nostra identità. Stavolta il fuoco ha colpito la cattedrale gotica di Nantes. Dopo l'incendio che ha devastato Notre Dame a Parigi nell'aprile 2019 è un altro colpo durissimo alla millenaria cristianità francese. E se per Notre Dame si è escluso l'attentato (ma si aspettano altre convincenti spiegazioni), nel caso di Nantes si indaga sulla pista dolosa. Prima c'era già stato l'incendio nella famosa chiesa di Saint Sulpice, sempre a Parigi e di molte altre chiese cattoliche. Secondo i dati ufficiali del ministero dell'Interno, nel 2018 sono stati censiti 1.063 "fatti anticristiani" e nel 2017 erano stati 1.038. Si tratta di chiese bruciate, vandalizzate, saccheggiate o profanate in Francia. Un'enormità! Ma nessuno parla di cristianofobia e nessuno fa leggi per proteggere i cristiani. Eppure è evidente l'attacco alla Chiesa e la volontà di distruzione di ogni traccia della cristianità. È chiaro che il cattolicesimo è oggi bersaglio di un odio violento che porta a profanazioni, saccheggi, distruzioni di statue, devastazione di tabernacoli, dispersione di ostie e scritte tracciate con le feci. C'è addirittura un terrorismo che è arrivato a sgozzare un prete direttamente sull'altare: accadde al povero padre Jacques Hamel, a Saint-Étienne-du-Rouvray, il 26 luglio del 2016. «Alla fine della Messa» ricorda Vatican News «padre Hamel, 85 anni, viene sgozzato da due estremisti che avevano giurato fedeltà allo Stato islamico. Prima di essere ucciso, il sacerdote viene costretto a inginocchiarsi. Le sue ultime parole sono state: "Vattene, Satana!", "lontano da me, Satana!"». Papa Bergoglio, in una messa di suffragio, volle ricordare proprio queste sue ultime parole e aggiunse: «Padre Jacques Hamel è stato sgozzato sulla Croce, proprio mentre celebrava il sacrificio della Croce di Cristo. Uomo buono, mite, di fratellanza, che sempre cercava di fare la pace, è stato assassinato come se fosse un criminale. Questo è il filo satanico della persecuzione». In effetti è un odio anticristiano che si scatena oggi senza alcun motivo, perfino senza alcun pretesto.

MARTIRIZZATI. Quando, nel 2002, pubblicai il mio libro I nuovi perseguitati, fui sconvolto dalle sconosciute dimensioni del martirio dei cristiani nel Novecento, iniziato con il genocidio degli Armeni e poi proseguito con il macello avvenuto sotto i totalitarismi, soprattutto sotto il comunismo che si protrae ancora. Ma ancor più mi colpirono le sconosciute dimensioni della persecuzione tuttora in atto in tutti quei regimi islamici o comunisti o comunque autoritari in cui i cristiani sono comunità inermi, spesso marginali e del tutto innocue, a cui nessuno poteva imputare nulla. Tutto questo, a quel tempo, nel 2002, non si leggeva sui giornali, ma anche oggi che il martirio dei cristiani - spesso orribile - riesce a far notizia, non si riconosce l'enormità della persecuzione e dell'odio verso di loro e si evita di riconoscerli come vittime e di trarne conseguenze civili e politiche. Oggi anche sul Corriere della Sera (le pagine interne) si può trovare un titolo così: «Pakistan: cristiano muore arso vivo perché non si voleva convertire all'Islam». Sommario: «La moglie denuncia la violenza ai poliziotti che la stuprano davanti ai due figli di 7 e 12 anni».

INDIFESI. Ma da questi casi - per nulla isolati - non deriva qua da noi una più drammatica sensibilità sulla condizione dei cristiani. Eppure - ovviamente in forma pacifica, non violenta com' è nello stile cristiano - ci sarebbero tutti i motivi per veder nascere un movimento «Christian Lives Matter» (per riprendere una formula che oggi in voga). Purtroppo spesso sono le stesse le gerarchie cattoliche che evitano di parlare di persecuzioni e martiri e dialogano con regimi e ideologie avverse talvolta fino alla resa. Il fallimento di questa eccessiva arrendevolezza è evidente. Basti considerare la recrudescenza delle persecuzioni in Cina, dopo quella resa che è l'accordo segreto fra Vaticano e Pechino, oppure la recente trasformazione della basilica di Santa Sofia in moschea, dopo tutte le discusse aperture del Papa al mondo islamico. Analoga accondiscendenza ecclesiastica c'è oggi verso l'ideologia laicista che ha cominciato a dilagare in Europa da 25 anni e che ha voluto la cancellazione delle «radici giudaico-cristiane» dal testo costituzionale.

DIMENTICATI. Fu proprio la Francia quella che più si oppose a quel richiamo alle radici cristiane e quando, per l'incendio di Notre Dame, un'ondata di commozione percorse quel Paese, si notò l'imbarazzo del presidente Macron nell'esprimere il dolore del suo popolo: avrebbe dovuto riconoscere che la cattedrale non era solo un «monumento nazionale», ma esprimeva l'anima cattolica della storia francese. E non lo fece. Anche nei confronti della cultura laicista che domina nelle élite europee, la mano tesa delle gerarchie vaticane non ha prodotto nessuna apertura, ma - anzi - serpeggia la tentazione di limitare e condizionare la libertà di insegnamento della Chiesa. Non basta dunque propagandare una Chiesa che "non vuole avere nemici", per non averne. Ma gli incendi di Nantes e di Notre Dame non riguardano solo i cattolici: è anche la Francia laica (con l'Europa laica) che deve decidere una buona volta cosa vuole fare della propria storia e della propria identità. Giustamente Marco Gervasoni ha ricordato che pure nei casi in cui le chiese crollano o bruciano per motivi accidentali lo si deve all'incuria dello Stato francese che ne ha l'esclusiva gestione: è dunque il segno di un disinteresse culturale e politico. Marcel Proust era innamorato delle cattedrali e come pochi ne ha difeso e ne ha celebrato l'importanza per noi. Ma oggi? Notre Dame è stata costruita in 300 anni e in poche ore è stata devastata. La cattedrale di Nantes pure. La grande battaglia attuale è - come diceva Charles Péguy, grande poeta della Francia cristiana - tra il "partito dell'aratro" e il "partito dell'acciarino". Tra il partito di chi lavora per mesi per far crescere un campo di grano e chi, con un accendino, lo brucia in un'ora. La Chiesa ci ha messo secoli per "civilizzare" i popoli europei e insegnare loro la dignità di ogni uomo, la libertà, il dovere della fraternità, l'amore, la sacralità della vita, l'aspirazione alla verità, alla bellezza, all'eterno. Vogliamo bruciare tutta questa eredità e sprofondare in un nichilismo senza radici, senza Dio, senza bellezza e senza patria?

Ilaria Del Prete per "leggo.it" il 4 aprile 2020. Foglioline e fiori freschi cresciuti sui rami secchi che compongono la corona di spine appoggiata ai piedi del crocifisso. È quanto accade da alcuni mesi nella chiesa Parrocchiale dei Santi Silverio e Domitilla, che si affaccia sul porto di Ponza. La corona fu intrecciata dai marittimi dell'isola e posta per devozione ai piedi del Cristo. Grande è stata la sorpresa di parrocchiani e fedeli quando, nel periodo di Natale dello scorso anno, alcune piccole foglie hanno cominciato a spuntare dai rami secchi. Un fenomeno che si è ripetuto negli ultimi giorni e stavolta anche con una fioritura di gemme rosse, proprio in corrispondenza dei piedi di Gesù, lì dove c'è il chiodo che lo lega alla croce. Il parroco della chiesa del porto di Ponza ha condiviso su Facebook le foto del lieto evento e ha commentato: «Questo mi fa oggi pensare, che dalla sofferenza il Signore fa scaturire la salute, la pace, la vita, la gioia. Sono già 4 mesi che continua a regalarci delle foglie e dei fiorellini rossi. Che questo sia un segno di speranza per noi e per tutta l'umanità». Dello stesso parere anche i fedeli, come Erika, che ha spiegato: «Per chi è credente, questo è un segno che le nostre preghiere in questi giorni di dura prova vengono in qualche modo ascoltate. È un buon segnale».

San Pietro approdò a Leuca. Santa Maria di Leuca e Galatina sono luoghi eletti dell’itinerario della Via Petrina. Carlo Franza il 28 marzo 2020 su Il Giornale. Un team di guide, archeologi e ricercatori al lavoro per nuovi itinerari turistici: al centro del progetto, il passaggio di San Pietro dalla cittadina di Galatina. Galatina e il suo territorio rientrano nell’itinerario “La Via Petrina: il viaggio di San Pietro dalla Puglia a Roma”. Il progetto di un team di archeologi, ricercatori e guide turistiche, mira alla mappatura completa dei luoghi di Puglia che rivendicano la cosiddetta “tradizione petrina”. Cioè il presunto passaggio di San Pietro in Italia alla metà circa del primo secolo, con tanto di  patrimonio culturale, e cioè  chiese, siti archeologici e monumenti. Il progetto ha permesso, attraverso itinerari turistici e culturali, la conoscenza di un insieme di territori legati al viaggio apostolico di San Pietro. Proprio nel mese di dicembre 2019, come da progetto, si è chiuso questo percorso finalizzato ad incrementare l’offerta turistica regionale, valorizzandone il patrimonio materiale e immateriale. Come riporta un’iscrizione latina posta sul Santuario di Santa Maria di Leuca,  San Pietro giunse sulle sponde Salentine nel 43 dopo Cristo, esattamente dieci anni dopo la morte di Cristo. Le “mappe petrine”, che saranno il prodotto finale di una prima fase progettuale, collegheranno tra di loro diversi territori della Puglia, dal Gargano fino al Capo di Leuca  per un turismo lento e sostenibile. Galatina si pone come luogo eletto per ragioni storiche e di tradizione. Risale al 1188 il primo documento storico relativo a Galatina, menzionato non a caso come casale “Sancti Petri in Galatina”.  Sulla scia della tradizione petrina in questo luogo, infatti, sostò il pescatore di Cafarnao reduce del viaggio da Antiochia verso Roma, dove tra il 64 e il 67 subì il martirio per crocefissione. “San Pietro in Galatina” figura anche in una delle quaranta carte geografiche affrescate sulle pareti di una galleria dedicata, all’interno dei Musei Vaticani.  Le carte raffigurano le regioni italiane e i possedimenti della Chiesa all’epoca di papa Gregorio XIII e furono dipinte tra il 1580 e il 1585, sulla base di cartoni di Ignazio Danti, famoso geografo del tempo. Fu l’arcivescovo di Otranto, Gabriele Adarso de Santander, residente nel castello galatinese dei Castriota per timore delle incursioni turche, ad alimentare la devozione verso il santo, facendo collocare all’interno della chiesa matrice, dedicata ai Santi Pietro e Paolo, un masso rinvenuto in contrada San Vito e utilizzato da Pietro, secondo la leggenda,  per riposare. Il culto si radicò fino a tal punto che solo dopo l’Unità d’Italia la città mutò il nome e, pur rimanendo sotto l’ala protettiva del vicario di Cristo in terra, venne denominata solo ed esclusivamente Galatina.

Perché si festeggia il Carnevale? Significato e origini della festa. Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 da Corriere.it. Da Venezia a Rio De Janeiro, tra maschere, travestimenti, dolci e scherzi. Il termine Carnevale deriva dalla locuzione latina «carnem levare» — «privarsi della carne» –, con un riferimento al banchetto finale che secondo la tradizione si teneva l’ultimo giorno prima di entrare nel periodo di Quaresima. La data — infatti — è strettamente legata a quella della Pasqua: al termine dei festeggiamenti del Carnevale arriva il Mercoledì delle Ceneri che segna l’inizio della Quaresima, periodo caratterizzato da maggiore sobrietà (anche spirituale, per i credenti). Una piccola differenza è rappresentata dal Carnevale ambrosiano, la cui durata – finisce infatti con il «sabato grasso», quattro giorni dopo rispetto al tradizionale «martedì» («il martedì grasso» è il giorno che precede la Quaresima e la tradizione vuole che nella giornata si consumino i dolci fatti in casa, in vista del periodo di digiuno che seguirà) – sembra risalire a un pellegrinaggio del vescovo Ambrogio che aveva annunciato il suo ritorno «in tempo per celebrare con i milanesi le ceneri». La popolazione decise quindi di posticipare il rito alla domenica successiva per aspettare il suo rientro. Nel 2020 — ad esempio — Pasqua sarà il 12 aprile: il giovedì grasso cade il 20 febbraio, mentre il martedì grasso è il 25 febbraio. Da mercoledì 26 febbraio (mercoledì delle Ceneri) inizierà la Quaresima. Fanno eccezione Milano e le parrocchie che seguono il rito cosiddetto «Ambrosiano» che proseguono quest’anno le feste fino al 29 febbraio. Il Carnevale italiano si distingue per le sue maschere regionali e tradizionali, ognuna con le proprie caratteristiche: da Arlecchino a Pulcinella. E ogni regione ha anche i propri dolci tipici e tradizionali, come le chiacchiere, conosciute anche come frappe o bugie. L’Italia vanta la presenza di alcuni dei Carnevali più belli e famosi del mondo: Venezia, Viareggio, Putignano, Ivrea e altri. Una curiosità? Uno dei simboli del Carnevale sono, assieme alle stelle filanti, i coriandoli di carta che nacquero nel 1875 da un’idea dell’ingegnere Enrico Mangili di Crescenzago (Milano). L’ingegnere li realizzò a partire dalle carte traforate usate per l’allevamento dei bachi da seta. Un’invenzione contesa con un altro ingegnere di Trieste, Ettore Fenderlche, che nel 1876 ritagliò dei triangolini di carta.

Carnevale. Il Digiuno cristiano della carne.  Testo di Cenap Aydin, Istituto Tevere per il dialogo Interreligioso, per Dagospia il 20 febbraio 2020. In questi giorni, nelle società in cui prevale la cultura cattolica, si assiste alle celebrazioni di Carnevale. Ma chi ricorda il significato originario di questa festa? È la sfilata in strade di persone mascherate? È la baldoria sfrenata che va in scena in Brasile? Come le altre tradizioni religiose influenzate dalla secolarizzazione, anche il Carnevale si è allontanato dal suo significato primordiale. Il termine deriva dalla locuzione latina “carnem levare” con significato di “privarsi della carne” e si riferiva all'ultimo banchetto che si teneva l’ultimo giorno prima del digiuno in vista della Pasqua, ossia il giorno prima di entrare in Quaresima. Mentre nella tradizione ortodossa in questo periodo ci si allontana da tutti gli alimenti animali; in quella cattolica, a seguito in particolare delle riforme del 1965, si evita di mangiare, per quaranta giorni, quei cibi gustosi che possono creare una certa dipendenza. Ad esempio, gli italiani cattolici evitano gelati, caffè, vino e dolci. Un’altra tendenza è quella di sospendere l’uso dei social media ed astenersene dall’uso. Non manca anche chi mette da parte i soldi dei dolci non mangiati o dei caffè non bevuti per darli ai bisognosi. In ogni caso considerare la Quaresima come astinenza dalla carne non permette di coglierne la dimensione spirituale. Nel senso più profondo, è abbandonare il corpo fatto di carne, desideri e piacere mondani, rafforzando la dimensione spirituale e morale. Il primo giorno di Quaresima, ovvero il Mercoledì delle Ceneri, i partecipanti alla messa in chiesa ritornano a casa con la cenere cosparsa sulla fronte. La cenere è il segno della fragilità e mortalità del corpo umano, rammentando la sua origine e la sua fine. “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, ovvero: “Ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai”. Si tratta pertanto di un periodo di preparazione e riabilitazione spirituale per tutto l’anno. Oltre ad evitare pettegolezzi, calunnie, parole offensive, si dovrebbe fare del bene al prossimo, comportarsi in modo gentile e generoso. Attraverso le preghiere e meditazioni aggiuntive durante la giornata e le letture settimanali della Bibbia. Quest’anno, mentre il 26 febbraio, con il mercoledì delle Ceneri, i cristiani manifesteranno la loro intenzione di entrare nello spirito della Quaresima, il giorno subito dopo nella Notte dei Doni, Laylat al-Raghaib, che segna l’inizio dei tre mesi sacri dell’Islam, i musulmani esprimono la loro intenzione di entrare nello spirito di Rajab, Sha'ban e Ramadan e vivere un periodo molto simile a quello della Quaresima. Questa coincidenza potrebbe essere una bella occasione per i credenti delle due religioni per scoprire la dimensioni spirituale del dialogo e abbandonare i pregiudizi reciproci.

Lucia Valori per ospiti.peacelink.it il 20 febbraio 2020. All’inizio di questa Quaresima un amico mi ha invitato a riflettere su un testo di Enzo Bianchi, monaco Priore della Comunità Monastica di Bose, sul senso del digiuno. Ne sono rimasta molto colpita, perchè Bianchi ha messo in luce il significato di una pratica importantissima, ma poco compresa ed esercitata dai cattolici di oggi, sottolineando, con parole forti e penetranti, l’alto senso ascetico di essa. Padre Bianchi arriva ad affermare che il digiuno è “una professione di fede con il corpo”. Questa affermazione mi ha accompagnato durante tutto il percorso quaresimale, mettendomi in crisi quando mi sentivo fragile ed incapace di rinunciare a qualcosa. Approfondendo questa pratica in un’ottica comparatistica, è evidente che il digiuno viene praticato, seppur con significato diverso, anche nelle altre religioni monoteiste: Islam ed Ebraismo. I musulmani digiunano durante il mese di Ramadan, il nono del calendario lunare e sacro, perchè i fedeli credono che il quel periodo Maometto abbia ricevuto dall’arcangelo Gabriele la rivelazione del Corano. Il digiuno rappresenta uno dei cinque pilastri obbligatori per il fedele musulmano e consiste nell’astenersi, dall'alba al tramonto, dal bere, mangiare, dal fumare e dal praticare attività sessuali. Chi è impossibilitato a digiunare (perché malato o in viaggio) può anche essere sollevato dal precetto, ma appena possibile, dovrà recuperare il mese di digiuno successivamente. Il motivo del digiuno per i musulmani è sostanzialmente l’autocontrollo. Essi credono che, attraverso questa pratica, l’anima dell’uomo venga liberata dalle catene delle sue voglie corporali, sia svincolata dalle tentazioni e possa volare verso l’Altissimo, purificata da tutto quello che di materiale e corrotto esiste nel mondo. Inoltre, nella sua dimensione sociale, il digiuno fa comprendere il valore dei doni di Dio e quindi permette di aprirsi con più compassione e carità verso i bisognosi, invogliando il fedele a versare la zakat, ossia l’elemosina o tassa coranica verso i diseredati. Quando tramonta il sole il digiuno viene rotto. La tradizione vuole che si debba mangiare un dattero, perché così faceva il Profeta Maometto. Gli Ebrei praticano vari periodi di digiuno come espressione di espiazione dai peccati, di lutto o di supplica (come nel caso del digiuno di Ester). Il digiuno più noto e maggiormente osservato è, però, quello dello Yom Kippur, il cosiddetto Giorno dell'Espiazione che ricade il 10 del mese di Tishri, dieci giorni dopo Rosh Hashanah (Capodanno Ebraico), ossia tra settembre ed ottobre del nostro calendario. E’ il giorno destinato ad espiare i peccati commessi nel corso dell’anno, sia nei confronti di Dio, sia nei confronti degli uomini. E’ un digiuno completo, dal tramonto, prima del crepuscolo, alla notte seguente. Vengono prescritte anche quattro ulteriori restrizioni: non ci si può lavare il corpo, indossare scarpe di cuoio, acque di colonia, oli o profumi, o avere rapporti sessuali. Noi Cristiani d’occidente, pur avendo consapevolezza che un tempo analogo lo vivono i musulmani e gli ebrei, e continuano a viverlo i cristiani di tradizione ortodossa e orientale, non riusciamo a comprendere la specificità cristiana di questo tempo e non riusciamo a credere che il rapporto con il cibo sia un luogo di esperienza spirituale, nonostante, paradossalmente, si parli spesso di digiuno per motivi dietetici ed estetici. Nella nostra religione cristiana il digiuno fa parte normalmente del tempo di Quaresima, periodo di penitenza, e si accompagna alle altre due pratiche importanti come la preghiera e l'elemosina. Si distingue tra digiuno, inteso come obbligo a consumare un unico pasto durante la giornata, rendendo frugale l’altro, e l’astinenza, ossia la rinuncia alle carni. Secondo quanto chiarisce la CEI ne “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza”, il digiuno e l’astinenza, nel senso sopra precisato, devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì santo; sono consigliati il Sabato Santo sino alla Veglia pasquale. L’astinenza, invece, deve essere osservata in tutti i venerdì di Quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19 festa di San Giuseppe o il 25 marzo, festa dell’Annunciazione). In tutti gli altri venerdì dell’anno, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità, si deve osservare l’astinenza nel senso detto oppure si deve compiere qualche altra opera di penitenza, di preghiera, di carità. Ma perchè proprio la privazione dal cibo? Il senso del digiuno cristiano è la metanoia, ossia la trasformazione spirituale che avvicina l’uomo a Dio. Secondo Enzo Bianchi, questa pratica “svolge la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale.” Gesù, nei quaranta giorni di digiuno nel deserto, ci ricorda che: “Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.” ( Matteo 4,4). Padre Bianchi chiarisce che attraverso la moderazione nell’appetito della fame, che è vitale e fondamentale per l’uomo, si impara ad avere disciplina nelle nostre relazioni con gli altri e con Dio. Il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù. Questa à la sostanziale differenza rispetto al digiuno praticato nelle altre religioni. Il grande monaco benedettino tedesco Anselm Grun afferma: “Il digiuno è il pianto del nostro corpo che sta cercando Dio, il grido del nostro animo più profondo, del nostro profondo più profondo col quale, nella nostra estrema impotenza, noi affrontiamo la nostra vulnerabilità e la nostra nullità, per gettarci completamente nell’abisso della incommensurabilità di Dio” Il digiuno dei cristiani è sentire la mancanza di Cristo, è sentire il desiderio di Cristo, desiderando di mettersi alla Sua sequela nel suo mistero di morte e nella Sua resurrezione.

Per il cristiano il periodo penitenziale tende alla luce della Pasqua. Ma è fondamentale rimarcare che, essendo il digiuno un esercizio per coltivare il nostro cammino spirituale, non si digiuna solo astenendosi dal cibo, ma dal peccato e da tutte quelle cose che creano in noi una dipendenza, perchè è un vero e proprio combattimento contro lo spirito del male. Ci ricorda il Papa emerito Benedetto XVI, nella sua enciclica Deus Caritas est che digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente. Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Allora, considerata in questa ottica, la pratica del digiuno non deve essere per noi un castigo o un’afflizione, ma un’occasione speciale e gioiosa di nutrimento della nostra anima.

Quell'opera su Maria e l'umanità del parto. Il dolore. Il sangue. La potenza del generare. Un progetto fotografico mostra la Vergine come una donna uguale alle altre. E scandalizza chi non lo capisce. Roberto Saviano su L'Espresso il 13 gennaio 2020. Il casus belli è stato un post che ho pubblicato sui social a Natale. Ho condiviso un lavoro secondo me importantissimo della fotografa britannica Natalie Lennard che si intitola “Birth Undisturbed”. Lennard raffigura storie di donne sia reali sia immaginate, alcune famose altre sconosciute, mentre partoriscono. È un progetto che ci costringe e interrogarci sull’atto della nascita, su come lo immaginiamo, su come lo intendiamo, su come crediamo avvenga e su come realmente avviene. È un progetto che crea uguaglianza e quindi fratellanza: la regina Elisabetta partorisce esattamente come una donna senza alcun titolo nobiliare, soffre come lei, sanguina come lei, è impaurita come lei e magari, alla fine, rasserenata come lei. Nel mio post mostravo un’opera di Lennard per me particolarmente significativa: si intitola “The Creation of Man” e mostra la Vergine Maria nell’atto di partorire Gesù, nel momento in cui, sofferente, mette fine al suo travaglio e dà alla luce il Cristo. Quando si partorisce in modo spontaneo, il più delle volte la partoriente viene semplicemente assistita durante l’atto più naturale di cui l’essere umano abbia memoria: mettere al mondo un figlio. Molte donne che conosco raccontano il momento del parto come il più bello della loro vita, il più potente e straordinario. Ricordano di aver provato dolore e paura, ma poi arriva il primo vagito a dare uno scopo a quel dolore e a quella paura. Ho sentito ginecologi affermare, dopo aver assistito a centinaia di parti, che avrebbero voluto nascere donna per provare cosa accade dentro, nella mente, quando arriva la consapevolezza di aver messo al mondo una nuova vita, di aver generato materia e respiro, carne e anima, presente e futuro, occasioni e possibilità. Cambiamo argomento, ma solo per poco. Sapete cos’è la Candelora? È la festa con cui la Chiesa cattolica celebra la Purificazione di Maria Vergine e la Presentazione di Gesù al Tempio. Cade ogni anno il 2 febbraio, ovvero 40 giorni dopo la nascita di Gesù, giorno in cui i fedeli portano candele in chiesa perché vengano benedette. Secondo la legge mosaica, ogni primogenito doveva essere offerto al Signore, da qui la presentazione al Tempio e sempre secondo la legge mosaica, ogni donna, dopo il parto, avendo versato sangue (ricordatelo questo dettaglio), necessitava di un tempo di purificazione di 40 giorni nel caso avesse partorito un maschio e di 66 giorni nel caso avesse partorito una femmina. Non mi soffermo sul perché l’impurità si protraeva per più tempo se a nascere era una bambina; non lo trovo razionale, ma di razionale c’è ben poco quando si ha a che fare con la fede. Il post che ho pubblicato nel giorno di Natale, nel quale, supportato dal lavoro fotografico di Natalie Lennard, descrivevo la nascita di Gesù come un atto umano, ha generato indignazione e in fondo ne sono contento; ben venga l’indignazione di chi non si rassegna all’evolversi della sensibilità, anche e soprattutto della sensibilità dei credenti, anche e soprattutto della sensibilità delle donne. Per una donna credente che si rivolge alla Vergine nei momenti di intimità e bisogno, di sconforto e preghiera percepirla più vicina, più simile a se stessa, è una vera rivoluzione. E più simile a se stessa significa anche sofferente, sanguinante, partoriente. Del resto il 2 febbraio la Chiesta cattolica celebra la Vergine Maria purificata dal sangue versato durante il parto; quindi Gesù non muore solo come un comune mortale, tra pene e sofferenze, ma nasce anche come un comune mortale da una donna che partorisce e sanguina. Esiste ovviamente una ragione, che non può essere esclusivamente ricondotta al dogma, per negare la naturalità e l’umanità del parto di Maria e per me è questa: il parto è un atto di creazione che appartiene al mondo femminile. La donna partorisce, la donna crea: questo immenso potere che le donne hanno può risultare inaccettabile, tuttavia non si può cancellarlo, tanto vale sublimarlo, trasfigurandolo.

Valentina Perrore per "ilmattino.it" il 3 febbraio 2020. Suggestione, casualità o altro. Chi può dirlo? Fatto sta che a Guagnano nel Leccese, stasera, il fuoco buono, in cima alla focara, ha regalato qualcosa che di certo alla devozione si lega assai stretto. Tanto dimostra lo scatto - di Andrea Tondo - in cui il fuoco in cima al falò, acceso in onore di Sant’Antonio Abate in Largo Pertini, sembra raffigurare, senza un grande sforzo di fantasia, proprio l’immagine del santo del fuoco a cui Guagnano è da sempre devota. Solo pochi minuti prima dell’accensione, il parroco Don Cosimo Zecca aveva sottolineato come la festa non sia soltanto un momento di tradizione e folklore, ma anche massima espressione di fede, grazie al fuoco buono che illumina, purifica e infonde speranza. Poi l’immagine nello scatto, che per chi è credente si traduce, di certo, in un’emozione immensa.

DAGONEWS l'8 gennaio 2020. Messa ballata nella chiesa di Nuestra Senora de los Angeles nella città di Malaga, in Andalusia dove padre Jose Palmas si è esibito davanti a fedeli in uno scatenato flamenco. Il sacerdote, esaltato dal coro e da alcuni musicisti, ha lasciato l’altare e ha iniziato a ballare nella navata centrale, alzando i paramenti per permettere ai piedi di muoversi liberamente. Il video della sua esibizione è finito sui social ed è diventato virale. Niente di strano per il prete che ha commentato: «Mio nonno era uno zingaro e la danza è sempre stata molto naturale nella mia famiglia. Mi è sempre piaciuto ballare, non solo il flamenco. La danza dà un'immagine gioiosa dei vangeli, della messa e della cultura. È anche un bel modo di attirare le persone in chiesa e aiutarle a godersi la messa». Padre Palmas sostiene di aver ballato anche di fronte a Papa Giovanni Paolo II quando visitò la regione in occasione della beatificazione del martire spagnolo della guerra civile Ceferino Gimenez Malla, nel 1997.

Anziana ascolta Radio Maria a tutto volume: aggredito il figlio. Alberto Pastori il 10/01/2020 su Notizie.it.  Lite furiosa per “colpa” di Radio Maria. L’incredibile storia arriva da una palazzina situata a Vicenza, dove una signora di 85 anni sintonizzava tv e radio fin dalle primissime ore del mattino sulla popolare stazione radiofonica religiosa: ovviamente al massimo volume. Alla lunga però tale modo di agire dell’anziana ha finito per far innervosire (e non poco) i vicini di casa. A volte, l’85enne, teneva addirittura le finestre aperte con la messa celebrata a tutto volume. Alle prime lamentele del vicinato, il figlio dell’anziana signora aveva risposto comprando un apparecchio acustico per la madre, nella speranza che questo potesse risolvere la situazione. Purtroppo non è andata così: tutto era rimasto come prima. E questo ha portato a conseguenze peggiori: presto, infatti, le circostanze hanno iniziato ad assumere toni più violenti. Un vicino di casa di 47 anni non si è trattenuto ed ha deciso di affrontare il figlio di persona. L’abitazione del 47enne è separata dall’appartamento della signora soltanto da una sottilissima parete. L’uomo si è recato dal figlio spingendolo contro un muro del palazzo e dandogli un pugno. Quando l’anziana si è affacciata dalla finestra per vedere che cosa stesse succedendo, l’inquilino gli avrebbe urlato pieno di rabbia: “Darò fuoco alla casa, alla radio, alla tv”. Ora sarà un giudice a stabilire le colpe. Infine, è bene sottolineare che la celebre emittente cattolica, nella vicenda, è solo parte chiamata in causa.

Sale sull'altare e bestemmia: immigrato scatena il panico in chiesa a Milano. Paura durante la Messa dell'Epifania. Dopo essere salito sull'altare, l'immigrato ha danneggiato il leggio del parroco. Se l'è cavata con 102 euro di multa. Sergio Rame, Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. Momenti di paura durante la Santa Messa dell'Epifania in una chiesa di Milano. Un immigrato egiziano di 21 anni è salito sull'altare e ha urlato una bestemmia, poi ha danneggiato il leggio dal quale il parroco stava svolgendo la funzione. Dopo l'arresto se l'è cavata con una multa da 102 euro per il reato di bestemmia, previsto dall'articolo 724 del codice penale. "È questa l'integrazione modello-Milano? È questo il rispetto per la nostra cultura?", chiede ora il capogruppo di Fratelli d'Italia in Regione Lombardia, Franco Lucente. Il blitz nella parrocchia della Beata Vergine Immacolata e di Sant'Antonio in viale Corsica è scattato ieri. Erano da poco passate le sei di sera quando, a funzione già inoltrata, l'egiziano è entrato in chiesa di Milano e, dopo essere salito sull'altare, ha lanciato una bestemmia gelando il sangue dei presenti. Poi si è fiondato contro il leggio da cui il parroco stava svolgendo la funzione. I fedeli hanno immediatamente chiamato la polizia e, quando le volanti sono arrivate sul posto, hanno ammanettato il 21enne che è apparso agli agenti particolarmente agitato. Una volta portato fuori dalla chiesa, lo hanno arrestato per resistenza e denunciato per le bestemmie proferite. "Alla fine se la cava con appena cento euro di multa per aver offeso la nostra religione...", commenta il deputato leghista Paolo Grimoldi. "Siamo in Italia e a questo egiziano è andata bene - continua l'esponente del Carroccio - se un cristiano in uno Stato islamico avesse bestemmiato contro Allah in una moschea sarebbe stato linciato subito dai fedeli o giustiziato dalle autorità. Altro che multa da cento euro". Nelle tasche dell'immigrato i poliziotti hanno trovato diversi grammi di droga e per questo è stato anche accusato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio. Da Fratelli d'Italia fanno sapere che da parte del sindaco di Milano Beppe Sala non è arrivata "neanche una parola" mentre "da parte di tutti i buonisti da salotto" solo una "alzata di spalle". "Questo è il valore delle nostre tradizioni, che possono essere calpestate da tutti?", si è chiesto Lucente. "Se fosse stato un cristiano a bestemmiare in una moschea di Milano - ha rimarcato l'assessore regionale alla Sicurezza, Riccardo De Corato - oltre alle reazioni violente dei musulmani, avremmo dovuto assistere a chissà quanti strepiti della sinistra, che invece è sempre silenziosa quando a essere insultata è la religione cristiana, usando due pesi e due misure".

Perché la Befana riempie la calza di dolci e carbone? Leggende e curiosità dell’Epifania. Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 da Corriere.it. «L’Epifania tutte le feste porta via». E ancora: «La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte...», recitano un popolare proverbio e una filastrocca diffusi in Italia. Il 6 gennaio si celebra l’Epifania (dal greco, significa «rivelazione improvvisa», «manifestazione»), giornata che mette fine alle festività natalizie. Nella tradizione cristiana si ricorda l’adorazione dei Magi che, venuti da lontano, si dirigono verso Betlemme per festeggiare la nascita di Gesù Bambino, portandogli in omaggio dei preziosi doni: oro, incenso e mirra. Un’occasione che non in tutto il mondo si festeggia allo stesso modo. Un esempio per tutti? La chiesa ortodossa la festeggia il 19 gennaio. Uno dei simboli legata a questa festività è la Befana, figura tipica di alcune regioni italiane e meno conosciuta nel resto del mondo. Nell’immaginario collettivo si tratta di una donna anziana che porta dolciumi (e anche carbone) ai bambini la notte tra il 5 e il 6 gennaio. Ma perché ad essere riempite sono delle calze? Secondo una delle versioni più accreditate, i Magi diretti a Betlemme non trovando la mangiatoia chiesero informazioni a un’anziana, incontrata lungo la strada. La donna, pur sapendo che i Magi si recavano dal piccolo Gesù, non volle andare con loro in un primo momento. Quando si pentì della decisione presa, preparò un cestino ricco di dolci e si mise in cammino alla ricerca dei Magi, sperando di raggiungerli. Bussò a ogni casa per trovarli e a ogni bambino incontrato regalò dei doni, nella speranza di imbattersi anche nel piccolo Gesù. Da allora la Befana girerebbe il mondo, regalando dolci per farsi perdonare e i piccoli metterebbero fuori dall’uscio di casa calze e scarpe per la vecchia signora: se nel suo vagare ne avesse avuto bisogno poteva usarle, altrimenti riempirle di dolci. Se la tradizione della calza in Italia è legata all’Epifania, in altri Paesi è a Natale che si appendono le calze al camino, come negli Stati Uniti. Proprio come il Babbo Natale italiano, il Santa Claus Usa scende dal camino e oltre a portare doni, riempie anche di dolciumi le calze che trova appese. Un ruolo affidato anche in alcuni Paesi europei a San Nicola. Protagonisti non solo i dolci ma anche le arance, il frutto che richiama il colore dei tre lingotti d’oro che San Nicola (personaggio realmente esistito, vescovo di Myra nell’odierna Turchia, morto nel 343 dopo Cristo) avrebbe regalato a tre fanciulle povere, permettendo loro con la dote ricavata dal dono di sposarsi. Anche in Italia questa tradizione si è conservata per lungo tempo. La Befana nella tradizione incarna anche l’anno vecchio che se ne va per lasciare posto al nuovo. In molte Regioni italiane, c’è l’usanza di bruciare un fantoccio, per salutare l’anno passato. Il carbone è una reminiscenza del falò di fine anno fatto come rito propiziatorio: quello dolce è quindi stato associato nel tempo a una sorta di punizione per i bambini cattivi. Un’altra curiosità? Solo nel Vangelo di Matteo sono citati questi personaggi che arrivano da lontano per rendere visita al piccolo Gesù: nel capitolo 2 (versetti 1-3) si legge): Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». Dunque, solo secondo la leggenda i re magi erano tre. I loro nomi — Melchiorre, Baldassare e Gaspare —sono anch’essi frutto della tradizione. E ancora: l’evangelista Matteo non parla mai di cometa, ma di astro, cioè una stella. Matteo, invece, fa riferimento ai tre doni: oro, incenso e mirra, una resina aromatica, che era già conosciuta nell’antico Egitto dove era utilizzata per le imbalsamazioni e — per i cristiani — simbolo del sacrificio che Gesù avrebbe dovuto compiere sulla Croce («...Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese...»).

Natale: i nostri politici ne sanno qualcosa? Le Iene il 24 dicembre 2019. Natale è alle porte e la nostra Sabrina Nobile fa gli auguri ai politici a modo suo: interrogandoli! E tra presunte città d’origine di Gesù in Africa e nomi fantasiosi dei Re magi, chissà che il panettone non rimanga indigesto a qualcuno di loro

Manca poco alla vigilia di Natale e si sa, durante le feste siamo tutti più buoni! Quindi, dopo aver passato anni a torturarli la nostra Sabrina Nobile, ci ha tenuto ad andare a fare gli auguri ai nostri politici! Per strada però le è venuto un dubbio: ma i nostri rappresentanti nelle istituzioni sanno la storia di Gesù e del Natale?

Dove sarà mai nato Gesù, per esempio? “Nel cuore dell’uomo”, sentenzia una deputata di Fratelli d’Italia. “Nasce in una stalla a Nazareth”, ci ricorda sicuro un politico di Forza Italia: “Voi siete lo strumento per diffondere l’ignoranza che anche in questi luoghi qui abbonda”, ci ricorda. E ha ragione, perché Gesù è nato a Betlemme… Ma c’è anche chi pensa sia nato a Gerusalemme. “La città la stanno cercando ancora”, chiosa un esponente del M5S: in bocca al lupo per la ricerca! Però occhio: se vi mettete a cercarla in Africa orientale, come ci ha suggerito un ex senatore della Margherita, la caccia alla stalla andrà avanti per un bel po’…

Proviamo con i Re Magi, che a furia di metterli nel presepe ormai dovrebbero conoscere! Si chiamano “Putifarre, Melchiorre e….vabbè erano tre Re magi”, ci ricorda il nostro nuovo amico di Forza Italia. “Baldacchiarre, Messore e… non ha importanza!”, lo corregge subito un collega del Pd. Ma tiratevi su il morale: i parlamentari si sono impegnati quest’anno e hanno composto anche una canzone di Natale! Ci tenete proprio a sentirla? Guardate il video qui sopra… e buone feste!

Ernesto Galli della Loggia per il “Corriere della Sera” il 27 dicembre 2019. Uno spettacolo surreale e a suo modo agghiacciante: definirei così il video mandato in onda qualche giorno fa dalla trasmissione televisiva delle Iene in occasione del Natale. Non so quanti lettori l' abbiano vista: sugli schermi è passata una breve galleria di deputati e senatori - del cui nome è opportuno che non si perda la memoria: Dal Mas, Bucolo, Ciaburro, Modena del centrodestra, Giacobbe del Pd, Vallone (ex, della Margherita), Giarrusso (5 Stelle), Bonafede (5 Stelle anche lui e ministro della Giustizia) - i quali, intervistati davanti ai palazzi del Parlamento su alcune nozione elementari di storia del Cristianesimo (tipo dov' è nato Gesù Cristo) si sono prodotti in una serie di silenzi imbarazzati e di sfondoni madornali (come collocare Betlemme «in Africa»). Ancora peggio: per mascherare la propria ignoranza gli interrogati cercavano di fare gli spiritosi, ciurlavano nel manico (per esempio alla domanda di cui sopra rispondere «in una stalla...»), si producevano in patetiche risatine di sufficienza o come marpioni cercavano di schivare l' intervistatrice senza darla troppo a vedere. Che cosa si può dire di fronte a uno spettacolo simile? Innanzi tutto questo, forse: che anche se siamo giustamente invitati ogni giorno a non cadere nella trappola dell' antipolitica, ci vergogniamo di essere rappresentati da personaggi di questa fatta gente. Che siamo parecchi italiani a trovare insopportabile che simili figuri siano incaricati di fare le leggi a cui poi noi siamo chiamati ad obbedire. In parecchi a considerare a dir poco ignobile un sistema elettorale che consente a un segretario di partito - a un Renzi, a un Di Maio, a un Salvini, a un Berlusconi qualsiasi - di scegliere a proprio arbitrio chi dovrà rappresentarci, scaraventandoci così tra i piedi simili incroci tra il semianalfabeta e il guitto da Commedia dell' arte unicamente perché questi promettono di obbedire senza fiatare ai loro voleri. Perché diamine gli italiani, mi chiedo, specie quelli che hanno letto un paio di libri, non dovrebbero disprezzare la politica e le sue istituzioni se per primi la disprezzano i partiti facendo arrivare in Parlamento e nelle istituzioni questa gente? Ma ciò detto viene anche da farsi un' altra domanda: e cioè, va bene che c' è stata la secolarizzazione, che oltre la metà degli italiani non si sposa più in chiesa, ma dove sta scritto che la secolarizzazione debba per forza significare non sapere dove si trova l' antica Giudea (chiamiamola pure Palestina), dove sta scritto che alla domanda «che cosa dicono i dieci comandamenti?» il secolarizzato debba farfugliare per tutta risposta un imbarazzato «non fornicare» e basta? Perché alla fine è questo ciò che più colpisce di quel video: l' assoluta mancanza di cultura religiosa che esso testimonia. Dirò meglio: l' assoluta mancanza di quelle conoscenze che ogni persona appena istruita sa essere parte irrinunciabile della cultura in generale. Ma non lo sanno evidentemente i parlamentari della Repubblica. Era questa la cosa più intollerabile di quel video: il tono stupidamente divertito e sforzatamente ironico della loro voce, il sorrisetto ebete e lo sguardo un po' sperduto del loro volto, lo stupore nel vedere che qualcuno potesse rivolgergli delle domande sulla nascita di Cristo anziché sul futuro di Matteo Renzi. Che qualcuno potesse addirittura supporre che essi fossero capaci di rispondere.

Saviano blasfemo su Gesù: “Un uomo come tutti”. E perfino i suoi fan s’indignano. Marta Lima giovedì 26 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Non poteva tacere, Roberto Saviano. Neanche a Natale. Troppa la tentazione di entrare negli algoritmi dei social, con una qualsiasi dichiarazione butatata lì, quasi a casaccio. Stavolta, il 24 dicembre, la star della serata era Gesù Bambino, sul quale lo scrittore di Gomorra si è lanciato a capofitto con una lunga dichiarazione che a tanti è parsa blasfema. La sintesi? Siccome lui non è credente, allora Gesù è un uomo come tutti gli altri…“Stanotte la nascita di un bambino, nato tra contrazioni, dolori e sangue, come tutti. Da una madre carica di una responsabilità troppo grande, come tutte le madri. Con un padre spaventato, incerto su ciò che è giusto fare, come tutti i padri. Nato povero, in una famiglia costretta dalla burocrazia del censimento a un viaggio sfiancante. Celebro la nascita del Gesù uomo che, come tutti, viene scaraventato senza chiederlo nella vita e che, a guardarlo così, mi fa sentire meno solo. Buon Natale!”. Che voleva dire? Si sono chiesti in molti. Semplice: che Gesù non ha nulla di divino ma la sua è solo una storia “umana”, come tante altre. Quale momento migliore per dire una cosa così irritante per i cattolici? La notte di Natale, of course. Saviano il guru ha parlato ancora, a casaccio. E sul fronte politico Fratelli d’Italia non gli lesina critiche. Sulla sua pagina Fb, sotto il post, Saviano raccoglie come al solito migliaia di commenti dei suoi fans. Ma stavolta si fa fatica a trovarne di positivi. Quasi tutti sono indignati, non capiscono il perché di quella intemerata contro Gesù, a poche ore da quella che per i cattolici è la sua nascita. “Apprezzo i tuoi sforzi nel trasmettere messaggi, ma spesso dai l’impressione di voler solo far girare bene l’algoritmo di FB… Spero non sia così…”, scrive uno. “Lei dimostra di nuovo il suo esser privo di ogni tipo di formazione storica. Povero? Ma vada a studiare. Non sempre puo copiare materiale altrui per il successo…”, posta un altro. Ed ancora, critiche, ironie. “Savià, Gomorra non esisteva 2020 anni fa… non è tutto brutale nella vita. M tu, proprio tu che vivi nel lusso, la brutalità non hai proprio idea che cosa sia. la nascita di un bambino non è mai stata questa immagine che usi tu per far capire che hai un problema esistenziale. Lascia perdere, non usare la nascita di Gesù, sei proprio un codardo”.

L’amarezza dei cattolici su Fb. I cattolici, poi, sono indignati. “La Madonna è nata senza peccato originale ha concepito per opera dello spirito Santo e partorito senza dolore. Gesù è vero Dio e vero uomo. Questo è il fondamento della fede cattolica cristiana alla quale io credo fermamente!! Questa immagine è a dir poco blasfema!!”. “Celebrare la nascita di un Gesù uomo equivale privarlo della componente inseparabile che è la sua divinità. Farlo equivarrebbe ad adorare un uomo ed un uomo non può rimettere i peccati dell’umanità anche se morisse per essa. Diventerebbe un idolo, alla mercé dell’uomo. Così non è”, conclude un altro. “I miei occhi rifiutavano di capire questa immagine. Nessuna donna accetterebbe di essere vista in questa luce! La maternità è intimità, tenerezza, anche dolore che qui mancano del tutto. Inguardabile!”. “Post davvero irrispettoso e pieno di falsità. Se lei non è credente le conviene tacere piuttosto che fare queste figuracce. Lei celebra la nascita di un uomo, ma lei invece si crede dio. Un po’ di umiltà non guasterebbe, e anche rispetto per chi non la pensa come lei. Le auguro che babbo Natale le porti un po’ di neuroni in buono stato”. E lui? Notoriamente scrive, a senso unico. Non replica, non si abbassa a commentare i suoi scivoloni… In principio era il Verbo. E il Verbo si fece carne. Vorrei che tu fossi ignorante. Ma hai scritto questo post solo per far parlare di te sapendo benissimo che hai offeso il sacro e milioni di credenti. Tu il rispetto lo pretendi e basta. Buon Natale comunque. Dio abbia misericordia di te.

Isa Grassano per "il Venerdì - la Repubblica" il 24 dicembre 2020. Perché si scambiano i regali? Perché Babbo Natale si veste di rosso? Cosa ci fanno il bue e l' asinello nel presepe se i Vangeli non ne parlano? Sapevate che uno dei re magi è diventato italiano? A rispondere a queste curiosità pensa Anche a te e famiglia di Isabella Dalla Vecchia e Sergio Succu (selfpublishing, pp. 109, euro 9, anche audiolibro), una guida che rivela il significato di alcune tradizioni legate al Natale. «La prima curiosità sono proprio gli auguri, che si portano dietro quel "anche a te e famiglia" come un' azione di contrattacco benevolo verso amici e parenti» dice Isabella Dalla Vecchia.

«Un àugure era un sacerdote che aveva il compito di interpretare il volo degli uccelli, considerati messaggeri degli dei, quindi un segno poteva essere di buono o di pessimo auspicio».

Tra le pagine si scopre che alcune reliquie dei magi si trovano a Milano nella chiesa di Sant' Eustorgio, costruita proprio per ospitarle, giunte e rimaste qui dopo mille avventure.

«Grazie alla ricercatrice Nicoletta Travaglini abbiamo saputo che la famiglia di Baldassarre si sarebbe intrecciata a uno dei rami della famiglia del Balzo, che governava nella cittadina abruzzese di Guardiagrele (Chieti)».

Gli autori, che curano il sito luoghimisteriosi.it, hanno catalogato decine di posti inaspettati. Così si arriva a Piteglio (Pistoia) dove si conserva un' ampolla con il sacro latte della Madonna.

«Fu portata in Toscana, nel 1266, da Guido Guerra di Dovarola dei Conti Guidi dopo averla ricevuta in dono da Luigi IX e dal re di Napoli».

Ma ci sono anche leggende raccolte durante i numerosi viaggi della coppia di scrittori.

«La più simpatica narra della presenza di una gatta tigrata nella mangiatoia. Una micia che partorì quella stessa notte, tanto che la Madonna l' avrebbe accarezzata, lasciando una M sulla sua fronte, un segno che conservano tutti i felini di questa razza».

Una storia nata non a caso, come sottolinea ancora Dalla Vecchia.

«Il gatto ha sempre affiancato divinità femminili, come Bastet, dea egizia della famiglia, Artemide, dea protettrice delle vergini e Shasti, dea indiana della fertilità. E dunque non poteva mancare una gatta anche accanto alla vergine Maria».

DAGONEWS il 23 dicembre 2020. Siete sicuri che Babbo Natale sia sempre stata una figura rassicurante? Se credete di sì, dovete ricredervi. Lo dimostrano alcuni ritratti del diciannovesimo secolo che lo raffigurano con un vecchietto ricurvo e infelice. L’immagine del nonnetto panciuto è sostanzialmente moderna: i bambini di oggi non riuscirebbero mai a pensare a una figura diversa da quella dell’anziano dalle guance rosse, con la pancia contenuta da una cintura e con il sorriso sempre acceso sul viso. In realtà i bambini del 1880, ad esempio, non dovevano essere rassicurati dall’immagine di quell’uomo magro e col bastone. Men che meno quelli del 1890 che, come mostrano alcuni cartoline, vedevano questo Babbo Natale come una figura spettrale. Agli inizi del ‘900 i pargoli erano terrorizzati da Krampus, un personaggio simile al diavolo che percuoteva e trascinava i bimbi cattivi all’inferno (altro che elfi e renne di babbo Natale). Solo negli anni '20 Babbo Natale è diventato l’uomo grassoccio che tutti conosciamo e dobbiamo ringraziare sostanzialmente la Coca-Cola: per la pubblicità il marchio aveva bisogno di un personaggio allegro, grassoccio e rassicurante. Detto, fatto. Solo da allora Santa Claus è quel nonnetto di cui non si può fare a meno a Natale.

Chi è davvero Babbo Natale? Ecco i migliori film sulla sua storia. Che aspetto avrà Babbo Natale e quale sarà la sua storia? Ogni bambino ha provato ad aspettare sveglio la sua venuta, nella speranza di poter conoscere il suo eroe. Ma nessuno è riuscito a vederlo. Il mondo del cinema ha più volte provato a immaginarlo con questi risultati. Marina Lanzone, Giovedì 24/12/2020 su Il Giornale. Santa Claus, Père Noël, Weihnachtsmann, Sinterklaas, Papá Noel, Babbo Natale. Qualsiasi sia il suo nome, quel simpatico vecchietto è il simbolo per eccellenza delle feste natalizie. Non c’è bambino al mondo che la notte tra il 24 e 25 dicembre non lo aspetti in trepidante attesa dei suoi regali, magari cercando di rimanere sveglio per poterlo incontrare. Ma chi può dichiarare di essere riuscito a vederlo con assoluta certezza? La leggenda di Babbo Natale nasce dal mito di San Nicola, un vescovo cristiano, vissuto probabilmente nel IV secolo d. C. La tradizione lo ricorda come il protettore dei marinai, dei bambini e delle vergini. Pare che una volta San Nicola avesse salvato tre ragazzine dalla prostituzione, regalando loro dei sacchi pieni d’oro, affinché potessero usarli come dote. La storiella divulgatasi ai tempi del Medioevo ha regalato al vescovo la fama di portatore di doni. Ancora oggi, il 6 dicembre in molti Paesi europei, tra cui anche alcune regioni del Nord Italia, si festeggia la notte di San Nicolò, la versione alternativa di Babbo Natale. In tutto il mondo, però, Santa Claus è immaginato come un uomo molto anziano e un po’ in carne con la barba folta e candida, il completo rosso e gli stivaloni neri. Questo ritratto è stato tracciato per la prima volta dallo scrittore e professore americano Clement C. Moore, che descrisse Babbo Natale in una sua poesia nel 1822. Ma il cinema come immagina sia Santa Claus?

Un uomo comune.

Specie nel secolo scorso, le pellicole a tema natalizio rappresentavano Santa Claus come una persona semplice ma con un grande dono. Questo è il caso di "Miracolo sulla 34esima strada" (1947) che ogni anno viene trasmesso sui nostri schermi, specie nella versione più moderna del 1994: il Signor Kringle, dipendente di un grande magazzino, crede di essere il vero Babbo Natale. La sua convinzione finisce con il coinvolgere anche Dorey e sua figlia Susan, una bambina che stenta a credere nella magia, ma che vedrà avverarsi ogni suo desiderio e dovrà ravvedersi.

"La vera storia di Babbo Natale" è un film del 1985. Un vecchio falegname di nome Claus, ogni anno, prepara dei giocattoli di legno da donare ai bambini. Il 25 dicembre, insieme alla moglie Anya, su un carretto trainato da due renne, va per i villaggi vicini a consegnare i regali. Ma durante una vigilia, vengono travolti da una tempesta di neve e perdono i sensi. Al loro risveglio si ritrovano al Polo Nord, circondati da dei simpatici e coloratissimi folletti che nominano Claus come nuovo Babbo Natale.

Al 1994 risale "Santa Claus", uno dei primi capolavori Disney sul tema. Il protagonista è Scott Calvin, pubblicitario di successo e padre divorziato. La sua vita e il suo corpo verranno stravolti dopo una notte turbolenta: un incidente sul tetto di casa sua lo trasforma nel vero Babbo Natale. Le avventure di Scott Calvin proseguono anche in "Che fine ha fatto Santa Claus" e "Santa Claus è nei guai".

Potreste mai immaginare un Babbo Natale in pensione? Lo ha fatto il regista Peter Werner in "Babbo Natale cercasi" (2001). Una produttrice televisiva è alla ricerca di un attore che possa interpretare il ruolo di Santa Claus in uno show. Alle selezioni si presenta, però, il vero Babbo Natale che ha 200 anni e vorrebbe trovare il suo degno sostituto.

Nel cartone animato spagnolo "Klaus, i segreti del Natale" (2019) ritorna la figura di un falegname, che con la sua bontà genera una reazione a catena e placa la faida di paese, conquistandosi il ruolo di Babbo Natale.

Eroe di rosso vestito.

Decisamente sui generis il Babbo Natale descritto in "Le 5 Leggende" (2012), in cui Santa Claus è un russo, tutto muscoli e bontà. Insieme agli altri Guardiani (il Coniglio Pasquale, la Fatina dei denti, l'Omino del sonno e Jack Frost) riuscirà a sconfiggere il malvagio Uomo nero e a restituire i loro sogni ai bambini.

Santa Claus sarà coinvolto in un’incredibile impresa in "Qualcuno salvi il Natale" (2018). Babbo Natale, aiutato da Teddy e Kate, due bambini orfani di padre, riuscirà a consegnare ancora una volta tutti i regali in tempo, nonostante qualcuno abbia danneggiato la sua slitta e sia stato arrestato per errore.

Un Babbo Natale "cattivello".

Completamente in antitesi con l’immaginario tradizionale sono i protagonisti di "Nightmare Before Christmas" (1993), "Il Grinch" (2000), "Babbo Bastardo" (2003) e "Un amico molto speciale" (2014).

Nel capolavoro dei registi Tim Burton ed Henry Selick, "Nightmare Before Christmas", Babbo Natale si ritrova in serio pericolo: il re delle zucche, Jack Skeletron, vorrebbe "rubare" il suo ruolo e organizzare insieme ai suoi concittadini la festa di Natale nel Paese di Halloween, con dei risultati davvero catastrofici che lo riporteranno indietro sui suoi passi.

Il protagonista de "Il Grinch" è un esserino verde e peloso che odia il Natale e la compagnia. Vestito di rosso, nel tentativo di rovinare le feste natalizie, si trasforma nell’anti-Santa Claus che sottrae i regali ai bambini, anziché portarli. Ma dietro questa apparente cattiveria, si nasconde un passato di bullismo e solitudine, ferite curate dalla dolcezza di Cindy Chi Lou, una bimba di 6 anni ma con il coraggio di un leone.

La trama di "Babbo Bastardo" e "Un amico molto speciale" è simile: un ladro, vestito da Babbo Natale, cerca di sfruttare le festività per portare a termine il furto del secolo ma l’amicizia con un bambino stravolge i suoi piani. Lo spirito natalizio fa tornare in entrambi i protagonisti la voglia di sognare un futuro migliore, fatto di onestà e amore, il regalo più bello che si possa trovare sotto l’albero.

Jessica D'ercole per “la Verità” il 25 dicembre 2020. Negli ultimi cinquant'anni il Santo Natale s'è trasformato nella festa dell'abbondanza e del consumismo. Ma non è sempre stato così. Nel dopoguerra, ricorda Aldo Cazzullo nel suo Giuro che non avrò più fame, «accanto al presepio - l'albero non si usava -, la maggioranza dei bambini italiani trovò come regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli. Iva, una bambina di Gallicano, in Garfagnana, che allora aveva dieci anni e ora ne ha ottanta, ricorda un sacchetto di fichi secchi, ceci, castagne. Sulle Langhe la piccola Anna ebbe una mucca di terracotta piena di caramelle». Sempre a Cazzullo sul Corriere Maria Romana De Gasperi ha raccontato il suo Natale del 1927 quando il padre Alcide, che non aveva soldi, ritagliò le fotografie da un National geographic che gli avevano mandato in carcere: «Erano immagini della Palestina. Pastori con le pecore. I prati fioriti della Galilea, con il mare di Tiberiade sullo sfondo. I luoghi di Gesù». E siccome le didascalie erano in inglese «lui le traduceva. E aggiungeva qualche riga per raccontarmi la storia di Gesù. Ecco, questa è la fontana di Nazareth. Papà mi spiegava che qui la Madonna era andata ad attingere l'acqua per il Bambino. E mamma mi leggeva la storia ad alta voce». Viktorija Mihajlovic, figlia dell'allenatore Sinisa, ricorda che il suo «papà era così povero che come regalo di Natale poteva scegliere fra una mela e una banana». Nacque povero pure Cristiano Ronaldo: «Anch'io ho visto arrivare Natale senza trovare neanche un regalo, perché in casa non c'erano soldi». Andò un pochino meglio, ma non troppo, a Francesco Guccini che un Natale si ritrovò con una copia di Senza famiglia donatagli dal padre: «Un libro di una tristezza allucinante». Un altro anno il papà gli rifilò un suo vecchio rasoio elettrico ma solo perché «non ci si trovava bene». Il piccolo Lino Banfi, all'epoca Pasquale Zagaria, ricorda che da piccolo giocava con una spada fatta con il manico di una scopa e che per un Natale ricevette un fischietto. Ogni anno poi improvvisava spettacoli con un vecchio teatrino di marionette e si faceva pagare in mandorle. Benedetto XVI da piccolo aveva una passione per gli orsi di pezza. In un'intervista il fratello George ricordava un peluche di cui si era innamorato: «Poi lo aveva avuto in regalo a Natale. Era davvero affezionato a quel pupazzo. L'orso di san Corbiniano usato nel suo stemma è diventato il simbolo del suo cammino». Un peluche fu anche il regalo di Natale di Alan Turing. L'uomo che decifrò il codice Enigma lo chiese alla madre nel 1934 quando aveva 22 anni, con la motivazione che da bambino non ne aveva mai avuto uno. Lo chiamò Porgy. Non amava i pupazzi la gorilla Koko, la prima a parlare con la lingua dei segni. Nel 1983, anche lei ventiduenne come Turing, chiese per Natale un gattino. I ricercatori sgomenti le diedero un peluche, lei lo rifiutò continuando a usare la parola «triste». Non era certo di pezza la tigre che l'ex pugile Floyd Mayweather ha ricevuto nel 2015 dai suoi amici russi del Moneyteam di Mosca. Era una cucciola di due mesi, proveniente dall'India. Un cane di ceramica fu il regalo che Dino Buzzati ricevette nel 1920, a quattordici anni, appena morto il padre, quand'era appassionato di Antico Egitto, libri illustrati dell'acquerellista inglese Arthur Rackham e animali di maiolica o porcellana: «Era un cane in rozza ceramica con la superficie opaca e tutta sporgenze irregolari. Una statuetta di pochi soldi». Ne ricordò «l'amara delusione e la tenerezza indicibile» in un articolo apparso sulla rivista Arianna nel 1971, quello che poi sarà il suo ultimo Natale. Deluso fu anche Riccardo Muti, quando a sette anni, scartò il regalo e al posto del fucile di legno che aveva sognato trovò un violino. Ancor più deluso fu suo padre che sentenziò: «Mio figlio non è portato per la musica». Fu accontentato invece Roberto Calasso quando, ragazzino, ricevette l'edizione Pléiade della Recherche di Marcel Proust. «È un regalo di Natale che ho chiesto quando avevo 13 anni, da lì sono partito. In quei giorni mi trovavo a letto, per un incidente. Così ho cominciato a leggere la Recherche in una situazione ideale, sfruttando i vantaggi della malattia, come diceva Sigmund Freud». Ancor più felice fu il giovane Dino Zoff quando sotto l'albero trovò una canotta di lana bianca a coste sulla quale la mamma aveva amorevolmente ricamato il numero 1. Ancora meglio andò a un giovane Massimo Boldi il cui nonno regalò una cinepresa Bolex Paillard 8 millimetri: «Caricavi la molla e filmavi per tre minuti». Un proiettore cinematografico fu il regalo di Natale più bello per Pupi Avati. Ricorda il regista: «Era a manovella con un pezzo di pellicola ad anello, il Robin Hood con Errol Flynn che saliva sulla torre per salvare Marian e arrivato in cima ricominciava da capo». I regali che lui fece ai suoi figli però non venivano apprezzati, indossati, usati o letti, «così all'albero dove una volta c'erano i mandarini ora ci sono buste con assegni di varia entità. È diventato così il nostro Natale». A Margherita di Savoia, re Umberto I regalò delle ricevute. Quel Natale il re aveva chiesto a uno dei segretari della regina quale avrebbe potuto essere un regalo gradito alla moglie. Ricorda Luciano Regolo nella biografia Margherita di Savoia: «Questo gentiluomo, piuttosto un amico che un cortigiano, ebbe il coraggio di suggerire al re che la regina aveva parecchie fatture di gioielli e vestiti da saldare. Il re disse subito che desiderava fossero date tutte a lui per provvedervi. Al pranzo di Natale, Umberto mise tutte le ricevute sotto il piatto di Margherita. Non c'era alcun altro regalo. Si dice che la regina accettò lo scherzo e che dopo sia diventata meno spendacciona». Clamorosa la gaffe che fece Diana quando per Natale regalò alla famiglia reale maglioni di cashmere. Alla corte della regina Elisabetta i doni, che vengono aperti alle 5 del pomeriggio del 24, devono essere semplici e costare poco. Il mattino del 25 la regina fa trovare appesa al letto dei suoi familiari una calza di leccornie. Apprezzata la forma di Parmigiano reggiano che il cantante John Legend fece trovare sotto l'albero a sua moglie Chrissy Teigen. «Il sogno di una vita», commentò la modella che s' apprestò a trasformare la forma in recipiente per un caldo piatto di spaghetti. Non era certo una delikatessen, invece, la barretta dolce che l'attrice britannica Emma Thompson ricevette da una sua vecchia zia. Era già mezza mangiata. Sorpresa a costo zero quella che Nicola Carraro fece ai suoi genitori: li aveva avvisati che non sarebbe stato presente, invece si vestì da Babbo Natale e si nascose in un grande sacco che venne messo sotto l'albero, per poi saltare fuori all'improvviso. Non è piaciuta a Ivanka Trump la Barbie che mamma e papà le regalarono per il suo sesto Natale. Alla bambola perfetta preferiva le costruzioni che ricevettero i suoi fratelli. La piccola di casa non ci pensò due volte, rubò i Lego ai fratelli, armata di un tubetto di colla, mattoncino dopo mattoncino, riprodusse la Trump Tower, per l'orgoglio di papà Donald. I regali, anche se belli o costosi, possono non piacere. È successo anche a Zucchero quando, lui che non apprezza la tecnologia, ricevette un paio di Ipod: «Li ho riciclati». Anche per Lella Costa il riciclo è un rito: «Ci troviamo a casa mia e ognuno porta il regalo più brutto che ha ricevuto. Numeriamo i pacchi e li assegniamo con una sorta di riffa. Alle volte si migliora». Impossibile migliorare il regalo che Elton John scartò il 24 dicembre 1991. Era un pregiato dipinto di fine Ottocento del pittore inglese Henry Scott Tuke, avvolto in una federa per cuscini. Ma a renderlo prezioso non era né la sua bellezza né il suo valore, ma il fatto che lo ricevette dall'aldilà. Il quadro era un dono che Freddie Mercury, morto un mese prima per una broncopolmonite dovuta all'Aids, aveva pensato per lui. Ricorda Elton John: «Ero sopraffatto, a 44 anni, all'epoca, piangevo come un bambino. Questo bellissimo uomo stava morendo e nei suoi ultimi giorni era riuscito in qualche modo a trovarmi un bel regalo di Natale. Per quanto triste fosse quel momento, è ciò a cui penso più spesso quando ricordo Freddie, perché rappresenta perfettamente il carattere di quell'uomo. Nella morte, mi ha ricordato ciò che lo ha reso così speciale in vita».

Il caso del "gran rifiuto" natalizio. La Campania regala presepi a tutta Italia ma la Regione Lombardia lo rifiuta: ora è fermo a Bergamo. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Si potrebbe immaginare come una scena di defilippiana memoria quella intercorsa a distanza tra la Regione Campania e la Regione Lombardia. La prima avrebbe infatti offerto in dono alla seconda il simbolo natalizio dell’artigianato locale per manifestare solidarietà in questo momento così difficile, che però sarebbe stato rifiutato con uno scambio di imbarazzi tra le segreterie dell’assessorato al turismo delle due regioni. E dunque: “Te piace ‘o presepio?”, “No nun m’piace”. L’iniziativa lanciata dalla Regione Campania per promuovere il turismo solidale a sostegno dell’artigianato locale si chiama ‘Viaggio in Italia del presepe napoletano’. Un presepio, fedele all’antica arte napoletana, è partito da Palazzo Frizzoni, sede istituzionale del comune di Bergamo. Inizia proprio dalla città italiana più duramente colpita nella prima fase della pandemia da Covid-19, il viaggio in Italia del presepio napoletano. Ad accogliere il dono della Regione Campania, il sindaco Giorgio Gori, che ha dichiarato: “A nome dell’amministrazione comunale di Bergamo desidero ringraziare il presidente Vincenzo De Luca, l’assessore Felice Casucci e tutta la giunta regionale della Campania per la donazione alla città di Bergamo. Il gesto, molto significativo, offre la possibilità di apprezzare la bellezza di un’opera artigianale ricca di storia che valorizza il patrimonio culturale napoletano e le antiche tradizioni folcloristiche. Un gesto che unisce i territori ed esprime un messaggio di speranza in un momento di grande difficoltà collettiva”. In viaggio i primi nove manufatti artigianali, realizzati da altrettante botteghe, che stanno raggiungendo in queste ore, dopo la sede lombarda, i luoghi espositivi indicati dalle amministrazioni pubbliche Italiane: palazzo Rospigliosi nel Comune di Zagarolo per la Regione Lazio, palazzo Guadagni Strozzi a Firenze per la Toscana, il Santuario regionale di San Francesco di Paola per la regione della Calabria, il Museo Sigismondo Castromediamo di Lecce per la regione della Puglia, la Chiesa dei Martiri di Torino per la il Piemonte, la sede della Regione Emilia Romagna, il Salone nobile di Palazzo Sceriman di Venezia per la Regione Veneto, la sede dell’assessorato Regionale della Sicilia. “La festività natalizia, con il suo carico simbolico rappresentato dalla natività, rinnova un forte bisogno di unità e coesione, un messaggio di speranza in un momento difficilissimo per la nazione, ma anche un gesto concreto che inaugura un paradigma di dialogo istituzionale fondato sulla straordinaria bellezza del nostro patrimonio artistico e artigianale come fonte di attrattività turistica”. Così l’assessore della Regione Campania alla Semplificazione amministrativa e al Turismo, Felice Casucci. Radici, cultura e lavoro, recita la deliberazione della giunta regionale della Campania, sono il cuore di questo progetto. Il ‘Viaggio in Italia del presepio napoletano’ inaugura un nuovo grand tour delle cose, ancor prima della mobilità delle persone” ha ribadito Casucci, che incalza: “I manufatti resi disponibili in favore di regioni e province autonome italiane saranno a carattere permanente, in modo che potranno essere esposti anche per periodi più lunghi rispetto alle sole festività natalizie, tenendo in considerazione la previsione futura di flussi turistici prevalentemente interni e di prossimità”. Le regioni hanno accettato il dono e lo stanno esponendo nei luoghi deputati. Ma in Regione Lombardia qualcosa non è andata, tanto che il presepe è rimasto a Bergamo e non a Milano dove doveva stare. Per l’assessore regionale al Turismo, Moda e Marketing territoriale di Regione Lombardia, Lara Magoni, si tratterebbe di un malinteso e non di un gran rifiuto: “Ho chiamato l’assessore al Turismo della Regione Campania, Felice Casucci, non appena mi è stata offerta la meravigliosa opportunità di ospitare in Regione Lombardia il presepe, come omaggio dalla Regione Campania – ha scritto in una nota – Un pensiero molto apprezzato, di affetto e di unione, soprattutto dopo un anno tragico come quello che la nostra Italia e la nostra Lombardia hanno vissuto. Urge quindi una precisazione: l’assessore campano, Felice Casucci, con una nota del 7 dicembre scorso, inviata a tutti gli assessori al Turismo d’Italia, aveva chiesto agli assessori regionali di potergli indicare dei luoghi a vocazione turistica, nei quali poter destinare i manufatti della tradizione napoletana”. “Dopo aver fatto una verifica di natura tecnica che ha evidenziato come la procedura campana – prosegue Lara Magoni – prevedesse un’assegnazione a partire dal 18 dicembre, tempo quindi non utile per un’iniziativa regionale, sono stata io stessa a ringraziare l’assessore Casucci per l’idea, rappresentandogli tutta la questione legata ai tempi stretti. Da assessore lombardo e da bergamasca gli ho poi suggerito di valutare Bergamo per questo meraviglioso dono: abbiamo entrambi convenuto infatti che fosse particolarmente significativo portare nella città simbolo del Covid il presepe, come messaggio di speranza e simbolo di rinascita per la nostra Bergamo”. Ma tra i corridoi di Palazzo Santa Lucia si vocifera che le cose non siano andate proprio così. Forse che, oltre al diverso colore politico, al governatore lombardo non siano piaciuti i numerosi attacchi di De Luca?

Carolina Saporiti per "vanityfair.it" il 26 dicembre 2020. C’è chi l’albero di Natale lo fa il giorno dell’Immacolata e chi invece ama addobbare casa con anticipo. Chi al pranzo del 25 preferisce il Cenone della Vigilia, chi mette il Gesù Bambino nel presepe subito e chi aspetta la mattina di Natale, chi copre di lucine l’esterno della propria casa e chi addobba solo all’interno. Ma seppure con qualche differenza tra un posto e l’altro, molte tradizioni di Natale sono ricorrenti. Ce ne sono altre invece, di cui magari non conosciamo nemmeno l’esistenza, che sono tipiche solo di alcuni Paesi o di aree geografiche. In Austria per esempio l’albero lo si addobba la vigilia di Natale mentre il resto del periodo natalizio – l’avvento – viene scandito dalla corona natalizia che viene tradizionalmente preparata in casa con rami di pino e decorata con nastri, palline, cannella e scorze d’arancia e su cui poi vengono poste 4 candele, una corrispondente a ogni domenica antecedente al Natale. La tradizione vuole che ogni domenica mattina in famiglia si accenda la candela e si prepari una ricca colazione con biscotti fatti in casa. A queste però si aggiungono molte altre tradizioni natalizie che oltre a essere specifiche di un solo Paese, sono soprattutto strane… assurde, qualcuna fa addirittura ridere, altre sembrano senza senso. In Venezuela, a Caracas le persone vanno a messa nel periodo pre natalizio con i pattini, in Norvegia  nascondono le scope… Ogni cultura festeggia in modo diverso. C’è chi si affida ad altri “personaggi” rispetto a Babbo Natale per la consegna dei regali, chi addobba l’albero in maniera insolita e che addirittura cerca di scoprire il proprio destino lanciando scarpe. La cosa più bella è che a ogni tradizione corrisponde una storia, o si potrebbe dire una motivazione, che è la parte più interessante da scoprire.

Giappone: mangiare pollo fritto. Altro che tacchino di Natale, molti giapponesi preferiscono il Kentucky Fried Chicken per la cena di Natale. È così popolare che di solito è necessario addirittura prenotare con anticipo se si vuole mangiare da KFC il 25 di dicembre. Non solo, per tutto il periodo natalizio la statua del Colonel Sanders fuori dai locali viene vestita come Babbo Natale e il pollo viene servito in una confezione speciale natalizia. La domanda è così alta che hanno creato la possibilità di ordinare in anticipo online.

Norvegia: si nascondono le scope.In Norvegia la vigilia di Natale è il giorno in cui streghe e spiriti maligni girano per le strade. Per questo motivo i norvegesi, il 24 sera, prima di andare a letto, nascondono tutte le loro scope, così da scoraggiare le streghe a rubarle per volare.

Venezuela: a messa con i pattini. A Caracas, capitale del Venezuela, nelle settimane che precedono il Natale, i fedeli partecipano a una funzione quotidiana chiamata Misa de Aguinaldo (la messa di prima mattina) e ci vanno con i pattini a rotelle. Ed è così comune che molte strade rimangono chiuse al traffico fino alle 8 del mattino per garantire sicurezza ai fedeli.

Austria: affrontare i demoni in strada. Si chiamano Krampus e sono creature mostruose che fanno la controparte di San Nicola che avrebbero il compito di punire i bambini cattivi prima di Natale. La sera del 5 dicembre per le strade o nelle piazze delle città austriache uomini travestiti con abiti di pelliccia, maschere di demoni e campanacci al collo vagano alla ricerca dei bambini disobbedienti.

Catalogna: ceppo di Natale. Si chiama Tiò ed è un ceppo di legno con gambe, occhi, bocca e il berretto catalano rossa. Il Tiò arriva nelle case il giorno dell’Immacolata e viene nutrito fino alla vigilia, quando i bambini muniti di un bastoncino di legno cantano una filastrocca che invita il Tiò a “cagà”. E lui, solitamente, regala dolciumi, torroni e piccoli regali (quelli più grossi li portano i Re Magi). Il ceppo si può bruciare il giorno di Natale nel camino o salutarlo e farlo tornare l’anno successivo… è spesso il sostituto ufficiale di Babbo Natale.

Groenlandia: una cena da dimenticare. Altro che lamentarsi per i tortelli in brodo o per la faraona al posto del tacchino… In Groenlandia le specialità di Natale sono il mattak, pelle cruda di balena con un po’ di grasso, e il kiviak che è fatto avvolgendo un piccolo uccello artico nella pelle di foca. La pelle di foca può contenere diverse centinaia di uccelli e, una volta sigillata, viene e posizionata sotto un cumulo di rocce per diversi mesi prima del Natale. Durante il periodo natalizio è tradizione dissotterrare il kiviak per poi mangiarlo rigorosamente crudo.

Guatemala: pulizie di Natale. In Guatemala le persone credono che il diavolo e gli spiriti maligni vivano negli angoli oscuri e sporchi della casa, quindi trascorrono la settimana prima di Natale a spazzare e spolverare la casa, ammucchiando tutto lo sporco accumulato fuori dalla casa. Sopra mettono un’effige del diavolo e danno poi fuoco a tutto. Questo rito si chiama La Quema del Diablo e rappresenta il bruciare il male dell’anno precedente e l’inizio di quello nuovo.

Ucraina: un ragno sull’albero di Natale. In Ucraina oltre alle palline, lucine e qualche decorazione “tradizionale”, sull’albero di Natale si usa mettere anche un ragno finto con la sua ragnatela. La leggenda dice una donna molto povera non avendo soldi per decorare il suo albero si svegliò la mattina di Natale e trovò l’albero ricoperto da una scintillante ragnatela. È simbolo di buon auspicio.

Portogallo: dare da mangiare ai morti. Durante la “consoda”, la festa di Natale portoghese, in alcune famiglie vengono aggiunti posti a tavola che rimarranno vuoti o meglio sono destinati ai parenti defunti. Questo sembra porterà buona fortuna alla famiglia. In alcune zone vengono lasciate anche delle briciole sul focolare per i defunti.

Repubblica Ceca: lancia una scarpa e scopri il tuo destino. Il destino delle donne della Repubblica Ceca si può leggere attraverso le scarpe. La vigilia di Natale le donne single si mettono ferme dando le spalle alla porta di casa e lanciano una scarpa dietro di loro. Se atterra con la punta rivolta verso la porta significa che si sposeranno entro l’anno.

No, il Natale 2020 non è il peggiore della nostra storia: basta guardare il Cinegiornale. Ripercorrendo i filmati dell'istituto Luce dal 1933  si scopre come le feste siano state a lungo segnate da mancanze, disparità sociali, oppressione. È una storia famigliare, che ci riguarda da vicino. Sino alla puntata del 1969 sull'epidemia influenzale che viene dalla Cina. Patrizia Ruviglioni il 22 dicembre 2020 su L'Espresso. Natale 1933, "dodicesimo dell'era fascista". Novantadue madri italiane, una per ogni provincia, vanno in visita a Roma. Hanno il capo coperto da lunghi veli neri, salgono gli scalini dell'Altare della Patria per deporre una corona di fiori. Si inginocchiano, fanno il saluto romano. E il cinegiornale dell'epoca titola : "Nella solennità del Natale, il Fascismo esalta la maternità e l'infanzia". Propaganda. Nel Ventennio la donna è madre per definizione: deve mettere al mondo il maggior numero possibile di bambini, che il Regime educherà e manderà al fronte. Come eroi, si dice. Come carne da macello, si scoprirà. Meno di due anni dopo, il cannone ha già ripreso a sparare. Per noi quello del 1935 è il primo Natale di guerra, ma è una guerra lontana. In Etiopia, alla ricerca "dell'Impero". Ai figli dei soldati chiamati alle armi, il Regime distribuisce « cibarie e giocattoli » per alleviare la nostalgia. Sul campo di battaglia, un sacerdote celebra la messa fra le truppe. Il consenso è alle stelle; l'atmosfera, già lugubre. L'isolazionismo della Società delle Nazioni sta spingendo l'Italia sempre più verso la Germania Nazista. L'edizione del 24 dicembre del LUCE è dedicata alla " giornata della Fede ". Che non è cattolica, ma nuziale: i cittadini sono chiamati a donare i loro anelli alla Patria per sostenere lo sforzo bellico; è una sfilata di anziani e poverissimi e persino reduci della Grande Guerra, che restituiscono le medaglie al valore. E poi: «Due coppie di rurali hanno chiesto e ottenuto di celebrare il loro matrimonio dinanzi all'Ara dei caduti. Hanno versato i loro anelli nuziali nel crogiuolo della Patria». E questo degli sposini, è emblematico: basta guardarsi indietro nei servizi dei cinegiornali, per scoprire come le Feste degli italiani siano state a lungo segnate da sacrifici, mancanze, disparità sociali, oppressione. È una storia famigliare, che ci riguarda da vicino, in filmati e racconti d'archivio che vanno dal 1930 al 1970. E che quest'anno torna di dolorosa attualità.

Ricominciamo. Natale 1941, il terzo dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. La voce dello speaker è diventata marziale. Per le Feste, chi è rimasto a casa scopre l'autarchia, la povertà . Quelli che combattono in Russia, il gelo e la nostalgia. Ricevono i pacchi-dono in trincea . Esattamente un anno dopo verranno travolti dai sovietici sul Don, e molti di loro non faranno mai ritorno in Italia. Ma la guerra prosegue, e l'ultimo Natale di sangue è quello del 1944. Il più duro. Un Mussolini ormai sfiduciato tiene un discorso pubblico, ospite del teatro Lirico di Milano. Nella città, perno della Repubblica Sociale contro l'avanzata degli Alleati, in quei giorni la neve cade sui palazzi sventrati dalle bombe. Il tono del LUCE è epico e funereo al tempo stesso. Il Duce passa in rassegna le truppe, saluta i cittadini. Dagli altoparlanti, lo ascoltano: qualche fanatico, molti disperati, diversi feriti. Poi benedice la caserma della Legione Autonoma Ettore Muti, un corpo di polizia fascista che in agosto, come rappresaglia a un attentato partigiano, ha fucilato quindici detenuti politici esponendo i loro corpi in piazzale Loreto. Sono stati creati per questo. E a Milano, nel Natale del 1944, ci si deve guardare le spalle anche dalle forze dell'ordine.

Finisce la guerra, comincia la Pace. Nel 1949 l'Italia è libera. È una democrazia, una repubblica. Ma è anche il Paese della miseria, della polvere, degli sfollati che sono ancora troppi e del cibo che è troppo poco. «Papà Natale distribuisce doni ai mutilatini», i bambini rimasti feriti durante i bombardamenti degli anni prima. E il tacchino diventa una leccornia su cui far sognare gli spettatori. Per il 1950, una famiglia – moglie, marito, quattro bimbi – trasloca: lascia uno dei « campi di battaglia della miseria », le tante baraccopoli venute nell'emergenza abitativa di allora; la aspetta un appartamento nella periferia di Roma. Sembra in imbarazzo davanti alla telecamera. Poi il tono si fa malinconico: un metronotte, di turno durante la notte della Vigilia, sorveglia una vetrina di giocattoli a Milano; «guarda i balocchi su cui gli tocca di vegliare: più modesti quelli che lui ha comprato» per i figli. Poi di nuovo nella capitale: nel 1953, si fa vedere addirittura il presidente del Consiglio Giuseppe Pella, che consegna regali a «cinquecento bambini delle borgate», invitati a pranzo in un hotel extralusso. È ancora l'Italia della carità.

Quindi arrivano il boom, il benessere, lo shopping. Ma le ferite restano aperte. Dopo dodici anni di prigionia in Russia, per il Natale del 1955 in Germania dell'Ovest tornano i reduci di guerra tedeschi. Lo attende anche una commissione d'inchiesta del nostro Paese, guidata da Luigi Meda. «Cerchiamo 65mila dispersi italiani; è mai possibile che siano morti tutti?», chiede a un tedesco appena arrivato. Gli risponde: «Non posso dire nulla di preciso. Ho incontrato tanti italiani, laggiù. Ma non so dire se siano tornati». Solo negli anni Novanta si avranno dati relativamente precisi sulla tragedia. Intanto, l'onorevole deve tornare a casa con un niente di fatto. Troverà un Paese che cerca di mettere da parte il dolore con le luci, i presepi, le vetrine piene. L'economia si pone in sciopero »: si spende, si prova a dimenticare.

Ma qualcuno resta indietro. Da Sud verso Nord, una generazione parte dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Campania, e va a Torino e Milano. A lavorare nelle fabbriche, a dormire negli scantinati. Un filmato del 1963 mostra un treno riporta a casa gli emigrati. L'Italia scorre bianca dal finestrino. In molti hanno il volto stanco, domina la nostalgia. È la tregua delle Feste. E qualcuno, dalle rughe, sembra dichiararsi implicitamente troppo vecchio per dover lasciare il posto dov'è nato. Ma è stato costretto a farlo lo stesso.

Infine, il 1969. A Milano, il 12 dicembre è iniziata la stagione del terrorismo. Mentre nel bianco e nero atavico del LUCE si intravede già di un Paese moderno. Con una certa euforia, lo speaker racconta della chiusura delle vie del centro di Roma alle auto: sono state convertite ad aree pedonali per lo shopping natalizio, creando «un'isola di tranquillità in un mare di traffico sempre più agitato e frenetico». Ci sono le decorazioni, le luci, le file ai negozi. E l'influenza. Un'epidemia che «viene dalla Cina», «ci ha colti del tutto impreparati» e ha già fatto passare «5mila persone a miglior vita». Gli ospedali sono pieni; in tredici milioni, a letto. Il tono è leggero, ma severo: non bastano i classici rimedi, occorre «prevenire» o intervenire col vaccino. Quella puntata del cinegiornale lo dice all'Italia di cinquant'anni fa; e lo ripete, per una strana coincidenza, a quella del 2020. Che queste storie di sacrifici, così famigliari, non era mai tornata a sentirle tanto vicine.

Quando è nato davvero Gesù Cristo. La nascita di Gesù Cristo del 25 dicembre trova una motivazione su dei documenti precisi. Ecco perché la data non è campata in aria. Giuseppe Aloisi, Venerdì 25/12/2020 su Il Giornale. Sul Gesù storico ormai pochi dubbi: Cristo è esistito, al netto di chi lo ritiene il figlio di Dio e chi no. Lo confermano anche i più scettici. Più problematico è invece stabilire il giorno di nascita di Gesù di Nazareth. Un argomento su cui si dibatte ormai da secoli. In specie durante queste festività natalizie, per via delle misure dovute alla pandemia, la politica si è interessata persino dell'orario in cui Cristo è apparso al mondo: il ministro dell'esecutivo italiano Francesco Boccia ha preso posizione sulla Messa di Natale, dichiarando che far nascere Gesù due ore prima non costituisce un problema. Una necessità che deriva appunto dal coprifuoco, che è a sua volta conseguenza prescrittiva della diffusione del Sars-Cov2. E questo ha suscitato una lunga scia di polemiche, che sono state assecondate anche da qualche sacerdote. L'argomento "nascita", per farla breve, è tornato alla ribalta, non nella maniera tradizionale e non per volontà della storiografia. Tra archeologi che annunciano di aver scoperto la vera dimora dell'infanzia di Gesù e movimenti politici occidentali che abbattono volentieri le statue del Messia del cristianesimo, il fondatore della religione cristiana è oggetto di studi continui anche nel mondo contemporaneo, dove le confessioni religiose sembrano tuttavia subire un attacco continuativo. Gesù e la sua vicenda però resistono alla secolarizzazione ed al relativismo di ratzingeriana memoria, così come il Natale, che per buona parte della vox populi è una festività che cade a dicembre per via della sovrapposizione temporale con il pagano solstizio d'inverno. A Natale, come sappiamo, festeggiamo la ricorrenza della nascita del Cristo, ma è possibile che questi sia davvero nato il 25 dicembre? In un'intervista rilasciata a IlGiornale.it, padre Ariel Levi di Gualdo ha detto quanto segue: " ...vorrei fosse chiaro, a chi oggi polemizza anche sul versante cattolico o sedicente tale, che anzitutto noi non sappiamo in quale preciso giorno e in quale ora esatta è nato Gesù Cristo". La convenzione, dunque, fa da base alla scelta della data. E sono gli stessi consacrati ad ammetterlo. Non tutti, però, la pensano così. C'è infatti chi si dice convinto che Cristo sia davvero nato il 25 dicembre. O almeno il periodo della venuta al mondo, secondo alcuni studi, combacia con quello in cui ricorre il Natale dei tempi odierni. È il caso dei documenti di Qumran che, come ripercorso pure dalla rivista Tempi, Gesù sarebbe nato proprio nella data in cui la Chiesa universale festeggia. Il problema, come spesso capita in ricostruzioni di questo tipo, può trovare una soluzione nelle fonti. Il fatto è che i Vangeli - com'è noto - non calendarizzano molti degli eventi che raccontano, tra cui appunto il principio della parabola del figlio di Dio sulla terra. Le tesi in circolazione sono essenzialmente due: Gesù è nato il 25 dicembre per via della scientificità con cui i cristiano-cattolici si sarebbero impossessati delle festività pagane (un'operazione che avrebbe avuto a che fare anche con l'influenza sui ceti popolari ed in particolare sulle donne, sempre legate alle feste tradizionali): Gesù è nato il 25 dicembre. Se la prima versione è sempre stata sostenuta, soprattutto durante fasi in cui una voce grossa ha trovato ristoro nella storiografia anti-cristiana, la seconda versione si poggia sulle date di nascita di un altro religios da sempre vicini all'esistenza del Cristo, cioè Giovanni Battista, e su un evento evangelico specifico, ossia l'Annunciazione, che sarebbe avvenuta all'interno di circostanze temporali precise. Come spiegato dalla fonte sopracitata " la successione dei fatti, disposti su un arco temporale di quindici mesi"... è la seguente: "...in settembre l’annuncio a Zaccaria e il concepimento di Giovanni; a marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria; a giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; infine sei mesi dopo, il 25 dicembre, la nascita di Gesù". La Chiesa ed i cattolici, in buona sostanza, non avrebbero inventato nulla, ma si sarebbero concentrati sul calcolare i nove mesi dall'Annunciazione, così come stabilito dalle fonti. Datazione dell'Annunciazione che, a sua volta, è stata dedotta partendo da un altro annuncio, ossia quello della nascita di Giovanni. Un evento che, stando alle periodicità sempre rintracciata da chi ha studiato i documenti di Qumran, sarebbe avvenuta sei mesi prima l'Annunciazione a Maria, che ha avuto invece luogo a 9 mesi dalla nascita del fondatore del cristianesimo. Da settembre a marzo, da marzo a dicembre. Con buona pace di chi nega qualsivoglia ragione alla datazione natalizia.

Gesù Bambino, ecco perché è splendente e luminoso: iconografia tradizionale, la spiegazione nelle Scritture. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2020. È Natale e si ricorda uno dei dogmi mariani più importanti: quello della verginità perpetua della Madonna (prima, durante e dopo il parto). Già San Girolamo e San Gregorio Magno sostenevano che Gesù Cristo fosse risorto "esfiltrando" in modo immateriale dal Sepolcro, così come il Bambin Gesù, alla nascita, era fuoriuscito in modo miracoloso dal grembo della Madonna, "non per vie naturali", come afferma San Giovanni. E fin qui, si tratta esclusivamente di fede. Eppure, già da 50 anni, la scienza ha elaborato un'ipotesi - teorica, si badi, ma mai smentita - sulla Sindone, molto affascinante. Per più di un secolo si è tentato di riprodurre sperimentalmente l'immagine sindonica con mezzi fisici o chimici (pigmenti, calore, acidi, etc.) ma senza riuscire a ottenere tutte le sue caratteristiche. Già agli inizi del 1900 alcuni studiosi fecero riferimento ad un fenomeno di tipo "radiativo" molto intenso. Nel 1978, il fisico John Jackson, arrivò a supporre un'esplosione di energia molto breve, ma intensa, proveniente dal cadavere, per descrivere le particolarissime caratteristiche dell'immagine. Afferma il prof. Giulio Fanti, docente di Misure Meccaniche e Termiche all'Università di Padova (con all'attivo più di 100 pubblicazioni scientifiche sulla Sindone): «Si può pensare all'immagine sindonica come ad una "fotografia divina" ottenuta su un elemento sensibile - il tessuto di lino - impregnato di "gel fotosensibile" (fluidi corporei e spezie), mediante un flash. Parliamo della stessa esplosione di luce ed energia ipotizzata da John Jackson, ma comprendente sia fotoni che elettroni ed altre particelle». L'ipotesi risolverebbe anche il nodo del Carbonio C14, i cui risultati (peraltro già cassati dal prof. Marco Riani e altri su riviste specializzate) farebbero risalire il Lino a un'epoca più tarda. Infatti, l'esplosione di energia avrebbe potuto alterare i parametri radioattivi del tessuto falsandone la datazione. In assenza di tracce di movimentazione del corpo dal sudario, torna l'ipotesi di John Jackson il quale supponeva che il corpo, in seguito a quell'esplosione altamente energetica, divenne "meccanicamente trasparente" e passò attraverso la Sindone senza alterarla fisicamente. Insomma, secondo vari scienziati - laici e cattolici - l'Uomo sindonico si sarebbe "smaterializzato in un lampo di luce" all'interno del suo sudario. E allora, il passaggio logico-induttivo è: se questo fenomeno dovesse realmente essere avvenuto dopo la morte di Cristo, perché non potrebbe essersi verificato anche alla nascita, giustificando così il dogma del parto verginale di Maria? Se nell'iconografia tradizionale il Bambino viene sempre raffigurato splendente e luminoso, questo "mistero di luce" trova un'eco anche a livello delle Scritture. Isaia profetizza: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide «una grande luce», perché un bambino è nato per noi (Is 9, 1)». Vi è poi il Cantico di Zaccaria (padre del Battista): «Verrà a visitarci dall'alto un «sole» che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre». Dei pastori, scrive l'evangelista Luca: «Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di "luce"». La visione mistica di S. Brigida tramanda, poi, che la Madonna si trovò fra le braccia il bambino "in un bagno di luce" senza nemmeno sapere come fosse avvenuto il parto. Per credere a un evento del genere c'è bisogno, ovviamente, di un salto di fede, ma se alcuni credenti, per quanto riguarda la Risurrezione, vengono confortati dalle citate teorie scientifiche sulla Sindone circa l'effetto di una luce reale, fisica, sottile e potentissima, lo stesso discorso potrebbe essere "esportato" per il parto virginale di Maria. A meno di non immaginare un'improbabile tecnologia fecondativa e ostetrica, sconosciuta per quei tempi, se si vuol credere al dogma, non restano molte altre soluzioni "tecniche". Una ipotetica azione dello Spirito sulla materia, tra l'altro, si sarebbe potuta manifestare anche in molti miracoli di Cristo il quale, oltre a fuoriuscire immaterialmente dal grembo materno - e poi dal sepolcro - allo stesso modo, avrebbe potuto dominare la natura fisica, moltiplicando i pani e i pesci, camminando sulle acque, trasformando l'acqua in vino, guarendo sordi, ciechi, paralitici etc. Naturalmente, solo la scienza del futuro - in un rapporto di "reciproca fecondità" con la fede, come auspicava Benedetto XVI - potrà fornire maggiori informazioni sull'organizzazione più sottile e profonda della materia, della quale ancora conosciamo ben poco. Tuttavia, se fosse vero che Cristo era il Figlio di Dio (come il dogma del parto virginale "certifica" per i credenti), sarebbe ragionevole supporre che avrebbe potuto manipolare senza difficoltà la materia creata da Suo Padre. Commenta per noi Vittorio Messori, intervistato sulla proposta: «Non dimentichiamo l'osservazione di Pascal: "Per preservare la libertà delle sue creature, Dio ci ha dato abbastanza luce per credere, ma ha conservato abbastanza ombra per chi voglia dubitare»" La ricerca attorno ai fatti misteriosi è benemerita, purché fatta nella consapevolezza che, per volere divino, sino a quando saremo sulla terra non ci sarà dato di convincere tutti. La fede nel Vangelo è una proposta, non una minaccia perché si creda».

Così è nato il presepe di San Francesco. La storia della nascita del primo presepe. Così Francesco d'Assisi ha creato una tradizione che sarebbe divenuta mondiale. Francesco Boezi, Giovedì 24/12/2020 su Il Giornale. No, nelle prime versioni dei presepi non dimoravano statuine con mascherine o migranti intenti a sbarcare. L'attualizzazione delle rappresentazioni è arrivata dopo, qualche anno fa. Il presepe di San Francesco non era fantasioso come quello odierno. Molti anni dopo il 1223, l'anno dell'inaugurazione del primo presepe a Greccio, un altro Francesco, e cioè il Papa, dirà: "Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura". Può sembrare strano, ma la presenza della mangiatoia durante le feste di Natale nelle istituzioni pubbliche è divenuto motivo di discussioni e polemiche. Neppure la greppia sfugge alla morsa progressista, che la vorrebbe fuori dalle scuole, per esempio. Presepe è una parola per cui non esiste sinonimo ma è anche un'immagine plastica della semplicità. Nel secondo decennio del 1200, Francesco d'Assisi ha appena visitato i luoghi cristologici per eccellenza, Nazareth però non è replicabile altrove, così come Betlemme o Gerusalemme. I francescani sono appena nati in qualità di Ordine, e il poverello cerca un modo di vedere di nuovo quanto percepito in Palestina. Scatta un meccanismo creativo, che genererà tradizione, cultura popolare ed incanto. A Greccio, il posto dove i seguaci del fondatore hanno deciso di dimorare, si predica la povertà. Forse è per questo che il presepe, differentemente da altre simbologie del sacro cristiano, è così scarno. Come ogni bambino sa, un ingrediente essenziale è il muschio. Poi certo, il legno ed al massimo il materiale con cui sono composte le figure e gli oggetti che vengono posizionati sul terreno, ma non ci sono elementi sfarzosi. Anche perché è Cristo che è nato nella semplicità assoluta.

Il presepe, pure se San Francesco può non saperlo mentre dà vita al primo esperimento di rappresentazione vivente, avrà un portato artistico, come questa frase di San Giovanni Paolo II può spiegare bene: "L’arte è esperienza di universalità. Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva, nel senso che viene prima e sta al fondo di ogni altra parla. È parola dell’origine, che scruta, al di là dell’immediatezza dell’esperienza, il senso primo e ultimo della vita". E cosa c'è di più primitivo, immediato, universale ed esperienziale di un presepio? Il fondatore dei francescani celebra una Messa in prossimità di un contesto molto simile a quello della capanna della Natività, con tanto di modestia dello scenario. Come spiegato bene in questa intervista sul sito dei frati cappuccini, il presepe verrà imitato solo dopo la morte del patrono d'Italia. Sarà la narrazione orale di quello che succede a Greccio durante il Natale a produrre il desiderio d'imitazione. E il presepe diventerà prima un fatto nazionale e poi, come lo stesso cattolicesimo, universale. Oggi il vescovo incaricato per la diocesi di Rieti, quella che comprende l'eremo di Greccio, è monsignor Domenico Pompili. In piena dialettica politico-culturale sulla necessità del presepe nel Belpaese, il Papa della Chiesa cattolica, lo scorso anno, si è recato proprio dal vescovo Pompili, come segno di vicinanza al presepe, al suo significato, al suo valore teologico ed alla sua vicenda francescana. Mentre Bergoglio opta per quel gesto, l'inventiva irrompe sulle statuine natalizie. Tra il politicamente corretto e i dispositivi di sicurezza per il Covid-19 adagiati sulle statuine, la mangiatoia sembra subire la volontà di chi pretende un'evoluzione della dottrina a tutti i costi. Di solito sono i laici che lasciano andare la fantasia ed aggiungono o modificano elementi per tagliare politicamente certe opere. Chesterton, come ripercorso da Avvenire, parlerà di "codice identificativo". Qualcosa che, almeno per ora, resiste all'avvento della de-sacralizzazione. Il Natale 2020, nonostante la pandemia e la sensazione che alcune tradizioni e simbologie cristiane stiano a mano a mano venendo dimenticate, sarà ancora all'insegna dell'invenzione francescana.

Francesco Lettere Apostoliche su vatican.va.

LETTERA APOSTOLICA Admirabile signum DEL SANTO PADRE FRANCESCO SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE

1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui. Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.

2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe. Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana. Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia. Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti. È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero. Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».

3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio. Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato. Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).

4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79). Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.

5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore. «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.

6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi. I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato. Spesso i bambini – ma anche gli adulti! – amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano…: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.

7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5). Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.

8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque. La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita. «La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo. Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.

9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura. Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia. I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.

10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi. Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli. Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato. FRANCESCO

Eventi di rilievo. Il Presepe oggi San Francesco e la storia di una tradizione natalizia. Da fraticappuccini.it. Chi ha inventato il Presepe?, Perché lo ha fatto? Che c’entra San Francesco con la storia del presepe? Che significato ha? Perché una tale tradizione resiste nel tempo?

Per conoscere e approfondire la storia del Presepe e la sua attualità anche nel mondo moderno dell’oggi, ZENIT ha intervistato Padre Pietro Messa Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum.

Che c’entra San Francesco con il presepio? Nel 1223, esattamente il 29 novembre, papa Onorio III con la bolla Solet annuere approvò definitivamente la Regola dei frati Minori. Nelle settimane successive Francesco d'Assisi si avviò verso l'eremo di Greccio dove espresse il suo desiderio di celebrare in quel luogo il Natale. Ad uno del luogo disse che voleva vedere con gli "occhi del corpo" come il bambino Gesù, nella sua scelta di abbassamento, fu adagiato in una mangiatoia. Quindi stabilì che fossero portati in un luogo stabilito un asino ed un bue - che secondo la tradizione dei Vangeli apocrifi erano presso il Bambino - e sopra un altare portatile collocato sulla mangiatoia fu celebrata l'Eucaristia. Per Francesco come gli apostoli videro con gli occhi del corpo l'umanità di Gesù e credettero con gli occhi dello spirito alla sua divinità, così ogni giorno mentre vediamo il pane ed il vino consacrato sull'altare, crediamo alla presenza del Signore in mezzo a noi. Nella notte di Natale a Greccio non c'erano ne statue e neppure raffigurazioni, ma unicamente una celebrazione eucaristica sopra una magiatoia, tra il bue e l'asinello. Solo più tardi tale avvenimento ispirò la rappresentazione della Natività mediante immagini, ossia il presepio in senso moderno.

Perché lo ha fatto? Francesco era un uomo molto concreto e per lui era molto importante l'Incarnazione, ossia il fatto che il Signore fosse incontrabile mediante segni e gesti, prima di tutto i Sacramenti. La celebrazione di Greccio si colloca proprio in questo contesto.

Come si spiega la popolarità e la diffusione dei presepi? Francesco morì nel 1226 e nel 1228 fu canonizzato da papa Gregorio IX; fin da quel momento la sua vicenda fu narrata evidenziandone la novità e, grazie anche all'opera dei frati Minori, la devozione verso il Santo d'Assisi si diffuse sempre più e in modo capillare. Di conseguenza anche l'avvenimento del Natale di Greccio fu conosciuto da molte persone che desiderarono raffigurarlo e replicarlo, iniziando a rappresentare e diffondere il presepio. In questo modo divenne patrimonio della cultura e fede popolare.

Che significato ha e perché la Chiesa invita i fedeli a rappresentare, costruire, tenere presepi in casa e in luoghi pubblici? La Chiesa ha sempre dato importanza ai segni, soprattutto liturgico sacramentali, sorvegliando però che non sconfinassero in una sorta di superstizione. Alcuni gesti furono incentivati perché ritenuti adatti per la diffusione dell'annuncio evangelico e tra questi si segnala proprio il presepio nella cui semplicità indirizza tutto alla centralità di Gesù.

Quale rapporto tra il presepe e l’arte? Perché tanti artisti lo hanno dipinto, scolpito, raccontato, ….? Proprio per la sua plasticità il presepio si presta a rappresentazioni in cui il particolare può diventare segno della concretezza della quotidianità della vita. E proprio tali particolari della vita umana - i vestiti dei pastori, le pecore che brucano l'erba, il fanciullo attaccato alla gonna di mamma, eccetera - sono stati rappresentati anche come ulteriori indizi del realismo cristiano che scaturisce proprio dall'Incarnazione.

Cosa pensa della devozione popolare nei confronti del presepe ancora molto diffusa tra la gente? Va incoraggiata o limitata? Come san Francesco ogni uomo e donna ha bisogno di segni; alcuni risultano ormai incomprensibili mentre altri per la loro semplicità e immediatezza hanno ancora un'efficacia. Tra questi possiamo porre il presepe e quindi ben venga la sua diffusione.

In considerazione di questo dibattito venerdì 18 novembre si è svolto un incontro alla Pontificia Università Antonianum (Aula Iacopone da Todi), con Fortunato Iozzelli e Alessandra Bartolomei Romagnoli proprio sui luoghi di Francesco d’Assisi nel Lazio con particolare attenzione al santuario francescano di Greccio. (di Antonio Gaspari - zenit.org)

Luoghi dell'Infinito. L'inedito di Chesterton: i riti nascondono l’essenza del Natale? Gilbert Keith Chesterton domenica 1 dicembre 2019 su Avvenire. Il contrario: per il grande scrittore inglese donano un “codice identificativo” a un tempo marcato dalla gratuità. Insomma, a renderci umani è la festa. Il testo inedito di Chesterton, di cui pubblichiamo qui solo una parte ridotta, è tratto dal nuovo numero di “Luoghi dell’Infinito, in edicola con “Avvenire” da martedì 3 dicembre. Lo speciale numero 245 è dedicato alle arti e alla loro capacità di dare corpo e forma al mistero del Natale. Nell’editoriale Ermes Ronchi riflette sulla notte che cambia la storia: l’Infinito si fa finito, il «vasaio diventa egli stesso argilla». È di Antonio Paolucci l’articolo di apertura dello speciale “L’arte del Natale”: lo storico dell’arte racconta sei pittori, da Giotto a Caravaggio, in adorazione a Betlemme. L’editore Roberto Cicala traccia una sorta di autobiografia poetica attraverso gli autori che hanno dedicato le proprie rime al presepe. La storica dell’architettura Maria Antonietta Crippa ci porta a Barcellona per raccontarci la facciata della Natività della Sagrada Familia di Gaudì. Lo studioso di iconologia Roberto Filippetti ci fa vedere il presepe con gli occhi di Giotto. Il critico musicale di “Avvenire” Pierachille Dolfini medita la storia della natività al suono di brani extranatalizi, da Bach a Verdi. Lo speciale si conclude quindi proprio con l’inedito di Gilbert Keith Chesterton, sul profondo e antichissimo senso della festa e del rito. Il Natale è stato al centro di innumerevoli controversie e ha la fortuna di essere stato salvato più volte dai suoi nemici. Infatti, come molte altre belle realtà, ha sofferto di più per la freddezza dei suoi amici scettici che non per il calore dei suoi nemici fanatici. Il fanatismo dei suoi detrattori ha solo incoraggiato il fedele alla sfida e ha confermato l’importanza del rito; al contrario, trasformandolo in una routine, il Natale rischia veramente di scomparire. Il rito è l’esatto opposto della routine. Il mondo moderno è fuori strada perché è caduto sempre più nella routine. L’essenza del vero rito sta nel compiere qualcosa di significativo: può sembrare rigido, lento o cerimonioso nella forma perché dipende dalla natura artistica che assume. Ma viene celebrato in quanto ha un significato. L’essenza della routine sta invece nella sua insignificanza. Colui che celebra il rito è consapevole di ciò che sta facendo. Invece il lavoratore costretto alla catena di montaggio non conosce ciò che sta facendo. Forse è un vantaggio il fatto che compia tali noiose mansioni in modo così distaccato; ma si può discutere se tale ripetitività sia un bene per il mondo del lavoro. Forse è un bene, per chi lo apprezza, che il lavoro sia così inconsapevole, forse è un bene che si diventi come degli animali o degli automi. Ma tutto cambia se qualcuno agisce in conformità a determinate idee, anche se le consideriamo antiquate. Tutto cambia se qualcuno professa l’arte sacra e solenne del mimo, anche se non ci piace la mimica. Il principio dei rituali antichi è quello di compiere gesti inutili ma che significano qualcosa. Il principio della routine moderna è quello di fare cose utili, come se non significassero nulla. Si dice spesso che le modalità della festività natalizia nacquero nell’antico mondo pagano e furono tramandate al nostro nuovo mondo pagano. Ma ognuno, sia un nuovo o un antico pagano o persino (le vie del Signore sono infinite) un cristiano, rispetta questa significativa pantomima così come si rispetta ogni rituale cristiano. Il professore di etnologia potrà attribuire la tradizione del vischio ai Druidi o a Baldr [la divinità nordica del Sole, ndt]. Ma deve riconoscere che certe cerimonie venivano sempre celebrate con il vischio e anche l’etnologia ammetterà che persino alcuni professori le hanno celebrate così. Il critico musicale o lo studente di storia dell’armonia potrà paragonare la qualità delle antiche carole a quella delle canzoni moderne. Ma dovrà acconsentire che pure nei tempi più remoti i bambini iniziavano a cantare le carole natalizie durante il periodo dell’Avvento. Come tutti i bambini sono al passo coi tempi e non intoneranno di certo le carole di Natale in una notte di mezza estate. In breve, se qualcuno osserva ancora le tradizioni natalizie sa che sono caratterizzate da un preciso rituale legato al succedersi del tempo e delle stagioni. Esso viene celebrato in un tempo specifico cosicché la gente si renda conto di una verità specifica, come in tutte le cerimonie, come il silenzio nel giorno del ricordo dei caduti o il saluto del nuovo anno con i cannoni o le campane. Si tratta di fissare nella mente una data festa o un ricordo. Il trascorrere del tempo si carica di significato. Troppo spesso il concetto di emancipazione tende a rendere tutti i momenti della vita insignificanti. L’antica concezione della liberazione era quella di elevare la persona a una consapevolezza più intensa; la concezione moderna è quella di farla cadere in un vuoto mentale. Ecco perché si dice, e molti giornalisti lo sostengono, che una civiltà di robot sarebbe più efficiente e pacifica. Essere del tutto privo di consapevolezza è il vantaggio del robot. Posso ammettere tutti i difetti delle antiche usanze, ma non che siano morte o prive di senso. È la società senza usanze a essere morta e insignificante. Se un professore mi dicesse in tutta sincerità: “Non voglio baciare la ragazza sotto la decorazione di vischio in quanto mi fa pensare a ciò che sto facendo, preferisco baciare ogni genere di ragazza dove voglio senza pensare a ciò che sto facendo”, lo considererei un tipo onesto e potrei discutere con lui su fatti concreti dell’etica etnologica. Se un ragazzino di strada mi dicesse: “Mi piace schiamazzare quando voglio e non devo aspettare un particolare giorno dell’anno per farlo”, ammetterei che è nella natura dei ragazzini fare chiasso e nutrirei una certa simpatia per lui, essendo stato anch’io un ragazzino. Ma se mi dicessero che i gesti e le canzoni rituali sono meno significativi degli istinti naturali di baciare chiunque o schiamazzare ovunque non mi troverei d’accordo sul piano puramente intellettuale. Mi sembra che così la vita stia diventando troppo monotona e meccanica. Se l’obiettivo è quello di vivere in modo più intelligente e intenso, di aumentare l’immaginazione, cioè di donare un significato alla realtà, allora penso che si possa raggiungere questo scopo molto meglio mantenendo i gesti simbolici, le stagioni, le ricorrenze, piuttosto che lasciare andare ognuno alla deriva. (da “Illustrated London News”, 21 dicembre 1935, per la prima volta edito in Italia. Traduzione di Andrea Colombo)

Natale sotto attacco, stravolto dai laicisti che bestemmiano: anche Dio oggi canta Bella ciao…Annalisa Terranova venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Il significato del Natale è semplice, a tutti accessibile. Si fa festa per la nascita di Gesù. Ogni altro significato risulta superfluo. Nulla più che vano filosofare. E’ esegesi che sconfina nella superbia di chi non si attiene all’evidenza della parola dei Vangeli. Tutt’al più, possiamo aiutarci con le riflessioni dei padri della Chiesa: “Colui che era adagiato nella mangiatoia è divenuto debole ma non ha perduto la sua potenza: assunse ciò che non era ma rimase ciò che era. Ecco, abbiamo davanti il Cristo bambino: cresciamo insieme con lui”. Tale fu l’esortazione di Sant’Agostino. Il Cristo bambino possiede una dimensione sacra che lo rende soggetto di adorazione. La sua nascita umile e povera nulla toglie al suo essere Dio, alla sua potenza.

Il mistero del Natale. Eppure il laicismo progressista quest’anno ha voluto impossessarsi del mistero del Natale per fare un po’ di propaganda plebea. Per diffondere anticristianesimo allo stato più puro e velenoso. Gesù era solo un brav’uomo. Nulla di più. È il caso dell’articolo di Dacia Maraini sul Corriere che accosta l’avvento di Gesù sulla terra addirittura alla “predicazione” d’amore delle sardine. Non un colpo di testa ma una strategia ben radicata in quel mondo ideologizzato. Del resto non hanno tentato in tutti i modi di trasformare anche San Francesco in una sorta di no global pacifista? Ora puntano più in alto. E arrivano direttamente al Cristo bambino di cui parla Sant’Agostino. Ecco cosa scrive Dacia Maraini: “Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri”. Ecco chi era per lei Gesù. Parole che offendono tanto i cristiani quanto gli ebrei. Ma in questo, al limite non ci sarebbe nulla di nuovo. Anche un materialista come Thomas Hobbes parla di Gesù come semplice profeta. C’è una tradizione razionalista e illuminista che interpreta la sua figura in questo modo del tutto desacralizzato. E del resto non è diventato di successo il libro di un ateo come Corrado Augias, “Inchiesta su Gesù”?

Il delirio di Dacia Maraini sul Natale. E’ solo un segno dell’appannarsi del sacro questo rincorrere la figura di Cristo vedendone solo gli aspetti umani, quelli più rassicuranti e in fondo più banali. Ma Dacia Maraini fa un passo ulteriore. Secondo lei “oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore”. Significativo che le sardine abbiano la lettera maiuscola mentre il pastore ce l’ha minuscola. Quel pastore non è altri che Gesù, il quale dice nel Vangelo di Giovanni: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato”. Ebbene come Gesù predicava la salvezza, nel delirio ideologico di Dacia Maraini le sardine predicano la salvezza dal sovranismo, vogliono preservare il gregge dal “lupo” Salvini. E’ paradossale questo bisogno di sacralizzare con similitudini azzardate ciò che rientra nella sfera umanissima della politica. Se vogliamo, il tentativo non è diverso dall’ostentazione del Crocifisso che Salvini fa nei comizi. Anche mettere l’aureola a Mattia Santori, uno dei leader del movimento delle sardine, è ostentazione di simboli religiosi. Ma laddove Salvini da buon populista si affida alla devozione popolare Dacia Maraini si pretende teologa, sconfinando in una drammatica comicità. Proprio lei poi che, come osserva Giulio Meotti, è ancora ferma all’elogio fotografico della rivoluzione maoista.

Montanari: Dio canta Bella ciao. Il bello, o il brutto, è che trova anche seguaci in questa folle deriva. Un altro influencer radical chic come Tomaso Montanari si sente a sua volta in dovere di fare auguri di Natale in versione laico-comunista. “Oggi il Dio lontano si fa carne- ha scritto su Twitter – Sente freddo e fame. Da padre si fa fratello e compagno. Sente dentro di sé il potere della morte. Capisce finalmente gli uomini fino in fondo. E da oggi inizia a liberarli, a farli risorgere. Davvero oggi anche Dio canta Bella Ciao”. Appunto, canta Bella Ciao. Forse Montanari si è sentito incoraggiato in questa sua sciocchezza dal canto di Bella Ciao in chiesa autorizzato da parroci con pruderie rivoluzionarie. E ci si mette a questo punto anche Jasmine Cristallo, la leader delle sardine calabresi che cita padre Zanotelli e chiude il cerchio: Gesù di Nazareth fu il primo marxista della storia. “La non violenza attiva non è pacifismo, è ben altra cosa. Ho cominciato leggendo Gandhi, Martin Luther King, Milani, Mazzolari e questi mi hanno aiutato a capire che era stato Gesù di Nazareth a praticare per primo la non violenza in quella Galilea schiacciata dall’imperialismo romano. Vi vorrei pregare, con tutto il cuore, di avere il coraggio di una scelta radicale di non violenza. Questo sistema è violento per natura. Noi dobbiamo costruire un sistema non violento, una civiltà della tenerezza”. Questa la citazione di padre Zanotelli scelta da Jasmine Cristallo. Val la pena di ricordare che padre Zanotelli è uno che preferisce cantare Bella Ciao al posto di “Tu scendi dalle stelle”, l’inno natalizio settecentesco di Sant’Alfonso de’ Liguori.

Meglio il film di Ficarra e Picone. Ormai è un coro, quello dei laicisti che fanno a gara nello stravolgere il significato del Natale. Si aggiunge prontamente Roberto Saviano con la sconcia immagine di una Madonna partoriente e un Gesù insanguinato che viene alla luce. E si dicono pure colti, letterati, contrapposti al populismo ignorante, alle fake news dei sovranisti e dei troll pagati da Putin… Loro, proprio loro che si permettono di manipolare anche il Vangelo. Alla fine due comici come Ficarra e Picone, nel loro film natalizio – Il primo Natale –  hanno compreso più di loro. Il loro messaggio un po’ smielato, nella pura tradizione dei racconti natalizi alla Dickens, è pur sempre più accettabile dei disgustosi accostamenti fatti dai progressisti. San Francesco ci ha lasciato il presepe, immagine viva e vicina dell’Evento degli eventi, perché tutti comprendessero. Anche chi non sa leggere. I laicisti sanno leggere, ma ancora non ci hanno capito nulla. C’è sempre tempo per riemergere dai loro vaneggiamenti. E’ l’unico augurio di Natale che meritano.

Quei progressisti nemici dell’Occidente che odiano il Natale. Corrado Ocone, 24 dicembre 2019 su Nocolaporro.it. Che ne è del Natale in tempi di anticristianesimo diffuso? Quando l’Occidente, che da questa religione è stato plasmato, è preso da un inspiegabile “senso di colpa” e ha vergogna e paura della propria storia? La quale, pur travagliata e mossa da mille contraddizioni, è l’unica che è approdata ad un esito di libertà per la propria gente. Quell’esito, in verità, era scritto già nella sua origine cristiana e il Dio fattosi uomo che oggi celebriamo sta lì proprio a ricordarcelo: a ricordarci che se voltiamo le spalle a Lui, e alla tradizione che sul suo insegnamento si è costruita, non facciamo altro che tagliare le gambe alla sedia su cui siamo seduti. Saremo in grado di ascoltarlo? Tutto lascia presumere il contrario, e ciò avviene per la forza odierna di movimenti esterni all’Occidente ma anche per il saldarsi di essi con le varie forme di antioccidentalismo progressista che hanno da sempre accompagnato, in età moderna, la nostra storia (e che in qualche modo attestano e contrario che essa è stata una “storia di libertà”). Si ha quasi paura a pronunciare il nome del Natale, e negli auguri si parla sempre più spesso di generiche “festività”. I simboli della festa, l’albero e il presepe, sono edulcorati o nascosti, si dice “per non offendere” le diverse sensibilità culturali e religiose (cosa che, qualora fosse per assurdo vera, non si capisce perché non dovrebbe valere anche al contrario per l’ostentazione ad esempio di burqua e veli da parte degli islamici nelle nostre strade). Non è raro vedere così presepi “politicamente corretti”, ove sono rappresentate tutte le minoranze possibili e il “dolce Natale” di sottofondo è sostituito dalle note di “Bella ciao”. E che dire poi dei cibi della tradizione, che è oggi d’uso rivedere e correggere secondo i dettami del dieteticamente corretto e dell’ecologicamente sostenibile? ll mistero tragico del Dio che si è fatto uomo per redimerci dai nostri mali viene fatto affogare in un generico umanitarismo, in un ipocrita “vogliamoci tutti bene” che spesso non è corrisposto da chi ne è destinatario. Ci indigniamo giustamente per ogni violazione dei “diritti umani” e per l’ “offesa” ad ogni minoranza culturale, anche la più intollerante, ma taciamo e affoghiamo nell’indifferenza assoluta il fatto più rilevante di questi tempi: la persecuzione e lo sterminio nei paesi non cristiani di comunità cristiane secolari. In barba a chi ha lottato per testimoniare in Cina il messaggio cristiano in un regime ateistico di Stato, firmiamo un accordo che li sconfessa e accetta tutti i diktat del governo illiberale di Pechino. Più in generale la Chiesa cattolica, che sull’insegnamento di Cristo ha posto le proprie fondamenta, sempre più sembra trasformarsi in una agenzia etica umanitaristica, un po’ come quelle dell’ONU e anche con tutti loro limiti e difetti. Come fa la Chiesa a dimenticare i secoli di sapienza teologica che ha saputo profondere sui problemi della vita e della morte, della conoscenza e del bene, e su tante altre questioni fondamentali, e che non hanno il pari con la dominante e appicicaticcia cultura mainstream dei nostri tempi? Siamo sicuri che “Medioevo” fosse quello cristiano e non il nostro?. Il Papa stesso, nell’ansia di corrispondere al secolo, rasenta a volte l’eresia (persino quella pagana), e sembra venuto più per distruggere una tradizione che per preservare e costruire ulteriormente sulle sue solide fondamenta. Certo, Cristo disse: “bussate e vi sarà aperto”(Matteo 7,7-14), ma il rischio per chi bussa è di non trovare presto più nemmeno la porta e la casa in cui abitiamo. Corrado Ocone, 24 dicembre 2019

“Facciamo riposare mamma”, l’originale presepe che ha commosso Papa Francesco. Redazione de Il Riformista il 24 Dicembre 2019. Nel corso della sua ultima udienza generale, il 18 dicembre 2019, papa Francesco è tornato a parlare del Presepe. Il Pontefice ha raccontato che nel giorno del suo compleanno gli era stata donata una rappresentazione della Natività unica nel suo genere, nella quale si vede Maria che dorme mentre Giuseppe, poco più in là, tiene in braccio un Gesù Bambino che sembra stiracchiare le braccia, forse nel sonno. “Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina, che si chiamava: "Lasciamo riposare mamma". C’era la Madonna addormentata e Giuseppe con il Bambinello lì, che lo faceva addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte fra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange?”, ha domandato il Papa nel corso della catechesi. Francesco si è detto commosso da quella immagine così intima e domestica e ha spiegato che questo è il messaggio del Presepe: “Lasciate riposare mamma è la tenerezza di una famiglia e di un matrimonio. Possiamo invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e sonno vicini alle persone più care. Il presepe è un Vangelo domestico”.

DAGONEWS il 25 dicembre 2019. Siete sicuri che Babbo Natale sia sempre stata una figura rassicurante? Se credete di sì, dovete ricredervi. Lo dimostrano alcuni ritratti del diciannovesimo secolo che lo raffigurano con un vecchietto ricurvo e infelice. L’immagine del nonnetto panciuto è sostanzialmente moderna: i bambini di oggi non riuscirebbero mai a pensare a una figura diversa da quella dell’anziano dalle guance rosse, con la pancia contenuta da una cintura e con il sorriso sempre acceso sul viso. In realtà i bambini del 1880, ad esempio, non dovevano essere rassicurati dall’immagine di quell’uomo magro e col bastone. Men che meno quelli del 1890 che, come mostrano alcuni cartoline, vedevano questo Babbo Natale come una figura spettrale. Agli inizi del ‘900 i pargoli erano terrorizzati da Krampus, un personaggio simile al diavolo che percuoteva e trascinava i bimbi cattivi all’inferno (altro che elfi e renne di babbo Natale). Solo negli anni '20 Babbo Natale è diventato l’uomo grassoccio che tutti conosciamo e dobbiamo ringraziare sostanzialmente la Coca-Cola: per la pubblicità il marchio aveva bisogno di un personaggio allegro, grassoccio e rassicurante. Detto, fatto. Solo da allora Santa Claus è quel nonnetto di cui non si può fare a meno a Natale.

Babbo Natale è un migrante turco. Silvia Ronchey per “Robinson – la Repubblica” il 24 dicembre 2019. Babbo Natale è un migrante turco. Viene dalle coste dell' Asia Minore, da quello che oggi è un paese di pescatori, Demre, in Licia, vicino ad Antalya. In realtà non è proprio turco, perché quando visse, e si chiamò Nicola, e fu amato e venerato vescovo della città che allora si chiamava Myra, quel quadrante di mondo faceva parte dell' impero bizantino ed era stato per secoli e ancora era, contrariamente a oggi, un teatro di civiltà e tolleranza in cui etnie e culture si incontravano e convivevano in armonia. E in realtà non è proprio un migrante, perché a lasciare Bisanzio, negli anni 80 del Mille, sette secoli dopo la sua morte, fu costretto da certi avventurieri occidentali - pirati, o mercanti: non che all' epoca tra le due categorie vi fosse gran differenza - che trafugarono e trasportarono le sue venerate reliquie oltremare, nella Puglia normanna. Proprio della navigazione e dei marinai era del resto protettore, secondo le leggende agiografiche greche, san Nicola il taumaturgo, futuro Santa Klaus - dal latino Sanctus Nicolaus, frantumato in una pletora di calchi e abbreviazioni linguistiche - , ipòstasi cristiana di Poseidone, come dimostra la conversione al suo culto di antichi templi microasiatici dedicati al dio del mare, che già nel mito portava doni ai bambini: cos' altro erano quelle conchiglie ritorte e madreperle e coralli e tutti quei frammenti di oggetti trasformati e politi dalle onde che depositava sulle spiagge, per la loro meraviglia, il potente respiro del mare? È questo forse, più di narrazioni tardive come la leggenda delle tre adolescenti salvate dalla prostituzione, accolta in Iacopo da Varazze e ripresa da Dante, a legare ancestralmente ai bambini il culto di san Nicola, che da Bari, dove intorno alle reliquie rubate fu innalzata la basilica che porta il suo nome, si trasmise, al tempo di Ottone II, consorte della bizantina Teofàno, in tutta Europa: nella Roma dei papi e nella Francia delle corti, nella Mitteleuropa, in Svizzera, in Belgio, in Olanda e nelle regioni germaniche e nordiche in cui il suo culto si ibridò con quello, proprio del folklore dei popoli di laggiù, del potente Odino, il dio viandante dotato, come Polifemo, di un occhio solo. Era il mito della caccia notturna di Odino e del fantasmatico esercito dei suoi guerrieri defunti, alla vigilia del solstizio d' inverno, a indurre i bambini a riempire di paglia le loro scarpe per sfamare il cavallo volante del dio, placandolo e propiziando la metamorfosi in cibo e doni di quella misera offerta lasciata accanto al camino. Se il cavallo bianco diventerà un altro attributo del primo Babbo Natale nordico, la discesa attraverso la canna fumaria è uno dei tratti più resistenti della leggenda che da allora ha associato, in tutto il Nordeuropa, san Nicola a Odino. A introdurla è una sua antica variante, sempre di origine tribale germanica, in cui il nume del solstizio si sdoppia nella figura di un " uomo santo", ammantato e barbuto come un vescovo bizantino, e in quella di un demone o troll, un Uomo Nero che calandosi dalla cappa del camino uccide in sogno, o nel sonno, i più piccoli. E secondo alcuni di questi racconti Babbo Natale non è la figura primaria, vescovo greco o dio norreno che fosse, bensì la sua ombra demoniaca, l' Uomo Nero stesso, quando, circondato da elfi e folletti, è convertito e rabbonito. Ma non del tutto, se è vero che in altre ramificazioni folkloriche ad alcuni bambini porta doni ma altri li mette nel sacco, rapendoli, portandoli ai pirati mori e ricomponendo così circolarmente, quanto inconsapevolmente, la vicenda del corpo del santo da cui prende il nome. Se era uso medievale eleggere, a dicembre, un episcopus puerorum, un " vescovo dei bambini", che rimaneva in carica, circondato dalla sua corte infantile, sino alla fine dell' anno, il rapporto di Santa Klaus con i pueri non fu sempre, quindi, benevolo. Anzi. Babbo Natale, nelle sue più primitive incarnazioni occidentali, è un goethiano Re degli Elfi, un molestatore di minori che a volte, vuoi per attirarli, vuoi per fare ammenda, li lusinga con doni e dolci, ma che sostanzialmente incarna il loro più tenebroso incubo. Del resto l' Orco ha sempre due facce, di cui una buona; ed è proprio nella sua ambiguità la sua terribilità. Non stupisce allora che Babbo Natale, nella lunga storia della chiesa, o delle chiese, sia stato più volte messo al bando, o condannato al supplizio. Già dal Cinquecento nelle comunità protestanti la sua figura fu criticata, processata e condannata. Verso la fine di quel secolo il Natale fu proibito dalla chiesa di Scozia. Negli anni della prima rivoluzione inglese, tra il 1642 e il 1645, il governo di Cromwell gli dichiarò guerra: la festa, con le sue lassità materialiste e le sue risonanze pagane, fu abolita. Il 25 dicembre, dal 1643, i mercanti puritani di Londra tennero aperti i negozi e i parlamentari si presentarono in aula, in segno di disprezzo per l' uso, già radicato, delle vacanze di Natale. Nel 1952 sui Temps Modernes, la rivista diretta da Sartre, apparve un articolo di Claude Lévi-Strauss, poi ampliato nel libro Le père Noël supplicié. Partendo da un fatto di attualità - l' autodafé del 24 dicembre 1951, in cui Babbo Natale, condannato come eretico dal locale clero, fu messo al rogo in effigie, attorniato dai bambini degli asili cattolici, sul sagrato della cattedrale di Digione - Lévi- Strauss descrive l' onnipresenza antropologica «di un rituale la cui importanza ha molto fluttuato nella storia » e la cui americanizzazione, politicamente flagrante nel dopoguerra nazionalista francese, « è solo il più moderno degli avatar». Il vischio e l'albero di Natale, anche se attestati nelle fonti solo dal XVII- XVIII secolo, sono residui di culti arborei druidici. Le decorazioni vegetali e luminose delle case provengono, nota Lévi-Strauss, dai Saturnali romani, la prima della gran scia di feste pagane di dicembre. Le renne cui è aggiogata la slitta volante del Père Noël, sostituite al cavallo di Odino, sono del resto un simbolo lunare, legato alla Grande Madre, e dunque a un rituale di transito nell' oltretomba, di cui pure l' ambiguo " Padre" è tenebroso mediatore. Che cosa ha a che fare con tutto questo il Babbo Natale vestito di rosso - che sia stato o no per iniziativa pubblicitaria della Coca-Cola, tema su cui la filologia dei postmoderni iconografi accanitamente dibatte - che muove la logistica di Amazon, che presidia i centri commerciali e i siti web, che in un solo giorno, in quella battuta di caccia di Odino, in quel sabba merceologico del solstizio di inverno, fa aumentare il Pil, ancorché illusoriamente, inducendo i genitori ad ammucchiare sotto il dio- albero merci acquistate, spesso indebitandosi, in sacrificale e ancestrale immolazione a quelle antiche vittime della brutalità degli adulti, oggi transitori sovrani idoleggiati dall' altrettanto brutale potere del consumismo, che sono i bambini? Ha a che fare moltissimo. L' Orco, l' Uomo Nero che l' altra faccia di Babbo Natale incarna, aleggia come una maledizione sul rituale delle feste natalizie abolite da Cromwell. Ci adesca con i suoi dolci e con le sue seduzioni materiali. Ci rapisce boccheggianti nel sacco enorme di un' illusione di felicità non mistica, ma consumistica.

Aurelio Picca per “Robinson - la Repubblica” il 23 dicembre 2019. Mio nonno giocava a carte col cappello. Silenzio assoluto. Chi infrangeva il rito poteva beccarsi una coltellata. Non sto parlando del Seicento caravaggesco, né delle osterie dove si giocava senza un soldo in tasca e né della plebe papalina e belliana. Lui era nato nel 1907. È roba di ieri. Mio zio Armando, invece, deportato nei campi nazisti, quando rivide la luce di casa non smise più di giocare a Mediatore e a Sestiglio. Giochi di testa. Di testa lucida e complicata. Armando stava con le carte incollate tra le dita per dodici ore al giorno. In famiglia gli affidarono i denari per andare a comprare la farina e lo misero sul treno, pregandolo di tornare presto. Si rivide dopo tre giorni senza farina né quattrini: li aveva scialacquati a Tressette. Gli italiani, prima e dopo il boom (la uso ma odio la parola), non giocavano a tennis. Si scalmanavano per il calcio, per il pugilato, per il ciclismo; e giocavano a carte. Ogni bar aveva una saletta fumosa e maleodorante nella quale molti passavano i giorni della vita. In realtà, mi si perdoni i rafforzativi di senso: il tennis era e è uno sport per narcisi; il calcio appartiene alla squadra e dunque al collettivo e quindi in una partita accade tutta la vita di un uomo in novanta minuti: noia, esaltazione, gioia, delusione. Eccetto la morte. Anche il gioco del biliardo miniaturizza l'intera esistenza. Ma il giocatore con la stecca, non combatte contro l' avversario bensì con il panno verde e le biglie. È un piccolo eroe che si scontra con il proprio destino. Il ciclista appare simile al giocatore di biliardo, invece egli è un sognatore. Crede unicamente nel dovere di pedalare, di raggiungere e scavalcare le Cime. La vittoria, semmai arriva, sembra essere marginale rispetto al combattimento che ha affrontato fra sé e sé in sella. Il gioco delle carte, presuppone due divinità: abilità e fortuna. Non a caso era il gioco che piaceva a Machiavelli quando rifletteva sul Principe. E se un giocatore non possiede l'una né l' altra è destinato alla sconfitta. Ecco, solo nel gioco delle carte c' è rovina e morte. Mio nonno e mio zio, furono due eccezioni: erano sfortunatissimi ma di una abilità geniale. Vincevano sugli errori degli avversari. Nato da una famiglia di giocatori di carte incalliti, ho sempre detestato il gioco in genere. Non solo quello delle carte. Capitò che da ragazzo mi ritrovai solo a Courmayeur. Una coppia di miliardari milanesi, dediti alla roulette e assidui frequentatori di casinò, adottandomi, in quella estate, mi raccontarono che per un intero mese a Saint-Vincent fecero solo il tratto Albergo-Sale da gioco passando per il tunnel. Una sera mi invitarono al Casinò di Chamonix, regalandomi quattro milioni di fiches. Le puntai in mucchietti di due e tre allo scopo di disfarmene al più presto. "Scommettevo" sul mio numero di nascita: il 17. Ero talmente impaziente che prima che la pallina si arrestasse nel vortice della roulette, avanzavo un altro mucchietto. Mi sgridò perfino il croupier. Però il desiderio di buttare via tutto era irrefrenabile: gioco, fiches, roulette E così accadde. Ma è a Natale che il Bambino Gesù, a partire da una certa ora, non è chiamato neppure a fare l' arbitro. A sette anni mi mettevano le carte in mano per giocare a l'Asino. Le percepivo come cinque pezzi di ferro arroventati. Le briscole erano colonne d' Ercole. Bisognava "rispondere" alla carta superiore; bisognava "ammazzare" con le briscole; e fare "scalpo" quando si aveva in mano l' asso. Se sbagliavo le giocate (perché le sbagliavo), rischiavo il linciaggio come se il gioco avessi dovuto averlo impresso nel Dna. Non esisteva la Pietà, la Misericordia. La legge era la ferocia pagana, il rito tribale. Pregavo perché tutto finisse. Con gli anni, quelle salette spoglie e puzzolenti dei bar, si sono trasformate in bische. Oltre al proliferare delle bische clandestine. E in un vortice di corsa sfrenata verso la Fortuna, si è centuplicato il gioco del Lotto, del SuperEnalotto, del Gratta e Vinci; e poi il mercato delle slot Machine e online. Il gioco si è fatto patologico. Bisognerebbe scrivere un saggio (io ne ho scritto un romanzo) intitolato: Patologia di una Nazione. Però la bisca delle bische, che dura dalla vigilia di Natale e termina nella notte della Befana, avviene in casa. Dentro le case degli italiani. Conosco storie di chi a poker ha perso case e terreni e svuotato conti correnti. E distrutto famiglie. È inutile recuperare gli aneddoti: c' è una sterminata documentazione televisiva, cinematografica e tonnellate di carta straccia che narrano le gesta di vincitori e vinti; di storditi di gioia e abbrutiti. In certe case, "ovvio", si usa la gentilezza del burraco e della canasta, se non del bridge. Ma nelle case di Natale ghettizzate dal gioco tosto, trasformate in covi fumanti, l' antico gioco del Sestiglio o del Mediatore fa posto al Piatto, appunto al poker sempre verde coi suoi cuori Come il Caffè Borghetti e il Long John hanno lasciato il posto al rum e alla grappa. Ormai il gioco delle carte è una epidemia a cui nessun vaccino può porre rimedio. E a Natale è il risorto virus della spagnola. Comunque il gioco del Male è quello afrodisiaco, orgiastico, arrapante, privo di scrupoli. Non ha confini morali. È il gioco delle carte che ammazza Paperone e Lsd, facendoti dondolare sull' altalena del sogno della ricchezza. Si chiama Bestia. Proprio come il Demonio. Dante, la Bestia, cioè Lucifero, lo sprofonda nella voragine che si legge nel Canto XXXIV dell' Inferno. Egli ha tre facce e tre ali, proprio come il gioco delle carte di Natale chiamato Bestia. Dove il mazziere distribuisce tre carte a testa.

Gli alberi di Natale da record: dai più grandi ai più costosi del mondo. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Jacopo Storni. Gli alberi di Natale da record: dai più grandi ai più costosi del mondo. L’Italia vanta il guinness dell’albero di Natale più grande. In Medio Oriente quello più caro. Ecco dove sono.

Incredibile a dirsi, ma l’Italia vanta il guinness dell’albero di Natale più grande del mondo. È quello che viene realizzato sul monte Ingino di Gubbio (Perugia), dove ogni anno, al termine di quattro lunghi mesi di lavoro, si accende la sagoma formata da 950 lampadine. L’albero sulla collina si estende per 750 metri d’altezza. Solo la stella in cima copre una superficie di mille metri quadri. Ideato nel 1980 da Enzo Grilli e Pietrangelo Farneti, è stato realizzato la prima volta nel 1981. ll Comitato dei volontari che provvede alla realizzazione dell’opera è attualmente costituito da 48 soci, con un Consiglio di sette membri che ne coordina tutte le attività. L’iniziativa pensa anche all’ambiente, infatti l’installazione è alimentata da luci a basso consumo che utilizzano soltanto 35 Kw. Ammontano invece a 1.350 le prese e le spine utilizzate per le connessioni di cavi e punti luce che compongono l’albero.

Il più alto a Lisbona. Secondo le principali rilevazioni internazionali, l’albero più alto del mondo, oltre a quello di Gubbio che però è «sdraiato» su un colle, è quello di Lisbona, in Praça do Comércio. L’albero raggiunge un’altezza di 75 metri. L’albero pesa 280 tonnellate e per montarlo servono due mesi e l’impegno di circa 300 operai.

Il più costoso ad Abu Dhabi. L’albero più costoso è quello di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi. Per realizzarlo, è stata spesa una cifra da capogiro: 11 milioni di dollari. È alto circa 13 metri e dai suoi rami, invece che le tradizionale palle di Natale, pendono gioielli di ogni genere: bracciali d’oro, collane, almeno 200 pietre preziose fra diamanti, zaffiri, rubini, smeraldi. L’albero si trova nell’Emirates Palace Hotel, un hotel molto lussuoso.

Il più famoso a New York. Difficile dire quale sia il più famoso, certo è che nell’immaginario collettivo c’è quasi sempre l’albero di Natale al Rockefeller Center di New York (quadra qui la cerimonia di accensione), una città che nel periodo natalizio si trasforma e diventa magica. La cerimonia d’inaugurazione dell’albero di natale è un vero e proprio evento seguito alla televisione da molti americani. L’albero newyorchese è sempre un abete rosso alto tra i 20 e i 30 metri. Viene decorato con circa 50mila lucine. Ma da dove proviene questo albero? Durante tutto l’anno, vengono eseguite ricerche nei boschi attorno a New York in cerca dell’abete perfetto. Se l’albero è di proprietà privata, i proprietari vengono convinti a donare l’albero attraverso il dono di grandi ceste natalizie. Dopodiché, una volta scelta e ottenuta l’autorizzazione, a inizio novembre l’abete viene tagliato e portato a New York con un camion decorato di fiocchi rossi. Una tradizione antica, quella dell’albero di Natale nella Grande Mela, che risale al 1931 quando, nel periodo durante la Grande Depressione, alcuni operai impiegati nella costruzione del Rockefeller Center misero insieme il loro primo stipendio per decorare con ghirlande di carta un abete balsamico alto sei metri.

Il più solidale a Ferrara. A Ferrara nell’abitazione privata dei fratelli Felisati è stato realizzato un singolare albero di Natale realizzato con scarpette rosse per sensibilizzare contro la violenza sulle donne. «Il nostro obiettivo – hanno detto i fratelli Felisati alla Nuova Ferrara – sarà centrato se anche un solo bambino chiederà spiegazioni».

In Islanda non è Natale senza le canzoni dei Ricchi e Poveri, di Toto Cutugno e di Zucchero (tradotte). Perché? Pubblicato mercoledì, 25 dicembre 2019 su Corriere.it da Chiara Severgnini. In Islanda, non è Natale se non si canta Ef ég nenni. Nel 2014, il brano di Helgi Björnsson — l’Antonello Venditti locale, per intenderci — è stato eletto da una giuria «canzone islandese di Natale più bella di tutti i tempi». A un ascoltatore italiano, però, la canzone suona molto familiare. E non a caso: le parole sono in islandese, ma la melodia è quella di Così celeste di Zucchero. Non si tratta di un’eccezione isolata: durante le festività, gli islandesi sono soliti intonare anche Allt í einu (versione islandese di Serenata di Toto Cutugno), Þú og ég (Ci sarà di Al Bano e Romina) e Fyrir jól (Voulez vous danser dei Ricchi e Poveri ): ormai è una tradizione, tanto che nel 2010 il più diffuso giornale islandese, il Morgunblaðið, ne ha parlato come di «una parte indispensabile delle celebrazioni festive». Eppure nessuno di questi brani è stato scritto e cantato dagli interpreti originali italiani con spirito natalizio: si tratta di canzoni d’amore. In Islanda, però, i Ricchi e Poveri, Toto Cutugno e Marcella Bella (tra gli altri) sono stati — per così dire — natalizzati: la melodia è rimasta, ma il testo parla di cose come la neve e la dolcezza di stare insieme ai propri cari durante le feste. Quest’usanza è stata raccontata in un popolare tweet dallo scrittore Leonardo Piccione, autore di Il libro dei vulcani d’Islanda (Iperborea), che da sei anni si divide tra l’Italia e l’Islanda. Piccione ha raccolto una lunga serie di esempi (li trovate in questa playlist) e ha cercato di ricostruire le origini di questa curiosa tradizione chiedendo lumi agli islandesi. «Non ho mai passato il Natale in Islanda», racconta al Corriere, «ma lì mi è capitato spesso di sentire alla radio dei brani che mi suonavano familiari, per poi rendermi conto che si trattava di canzoni italiane! Una volta, ad esempio, ero nel bar di una stazione di servizio nel villaggio dove vivo, Húsavík, quando a un tratto è partita Che sarà dei Ricchi e Poveri; un’altra volta, mentre guidavo, hanno passato in radio la versione islandese di Non ho l’età. Così mi sono incuriosito e ho iniziato a indagare». Risultato? «Una conoscente mi ha spiegato che la consuetudine di tradurre brani della tradizione italiana è molto comune da decenni: i Ricchi e poveri sono tra i più saccheggiati». Certo, tradurre canzoni straniere cambiandone il testo è stata a lungo una prassi comune anche in Italia — basti pensare a Ragazzo triste di Patty Pravo, cover italianizzata di But You’re Mine di Sonny e Cher. In Islanda, però, spesso la traduzione comporta anche una natalizzazione dei testi e degli arrangiamenti. E non è un caso: il Natale, ipotizza Piccione, potrebbe essere stato il catalizzatore della passione islandese per la musica leggera italiana. Intendiamoci, le canzoni europee — e quindi anche italiane — sono sempre piaciute agli islandesi, soprattutto grazie all’Eurofestival: «Quando viaggiare era ancora molto costoso», spiega Piccione, «il festival era un modo per appagare la curiosità degli islandesi per l’Europa: essendo molto isolati, sono sempre stati desiderosi di aprirsi al mondo esterno». Nel 1987, però, succede qualcosa che segna un cambio di passo: esce l’album di Natale Jólagestir, del famosissimo cantante Björgvin Halldórsson, che trasforma in hit delle feste ben quattro adattamenti natalizi di brani italiani. Halldórsson è un po’ il Peppino Di Capri islandese: classe 1951, sull’isola è una vera e propria istituzione del pop. Grazie alla sua interpretazione, Quanto ti amo dei Collage (tradotta in Svona eru jólin, che significa Questo è Natale) e le già citate Allt í einu e Þú og ég sono diventate dei classici, cantate ancora oggi. «Finora non ho trovato nessun esempio di canzoni italiane tradotte in islandese in senso natalizio precedenti al 1987», racconta Piccione, «quindi è ragionevole pensare che sia stato Halldórsson a inaugurare questa tradizione». Da allora sono passati più di trent’anni, ma l’usanza non si è sbiadita. Nel 1995 l’uscita di Ef ég nenni/Così celeste rafforza ulteriormente il legame degli islandesi con la musica leggera italiana. «Ma la tradizione si rinnova tutti gli anni», racconta Piccione, «basti pensare all’annuale tour natalizio di Björgvin, che è ancora popolarissimo: durante le esibizioni il cantante è accompagnato da alcuni bambini, che vengono selezionati attraverso un contest chiamato Jólastjarnan (“La stella di Natale”, ndr). Ecco, a questo contest, che inizia a ottobre, i cantanti under 14 si sfidano cantando i classici natalizi più amati, e i brani tradotti dall’italiano abbondano!». Ma gli islandesi sono consapevoli del fatto che molte delle loro carole natalizie sono nate in Italia? «La stragrande maggioranza di loro lo sa, ma il più delle volte si tratta di una consapevolezza vaga. Solo pochi saprebbero a collegare la “loro” canzone all’equivalente italiano», risponde Piccione, «del resto è normale: se hai ascoltato e cantato queste canzoni sin da piccolo, non ti fai troppe domande». «A me diverte molto l’idea di questi bambini islandesi che si sfidano a colpi di Zarrillo e Tozzi per diventare il fortunato o la fortunata che accompagnerà Björgvin nei concerti natalizi in giro per l’isola», ammette lo scrittore, «ma la cosa più curiosa che ho scoperto facendo questa piccola indagine è un’altra. Gli islandesi durante le feste cantano anche Þú og ég og jól, ispirata a Gente come noi di Ivana Spagna. Su Twitter mi hanno fatto notare che Gente come noi, a suo tempo, era stata accusata di essere troppo simile a Last Christmas degli Wham!, che in tutto il mondo è una delle canzoni di Natale più famose. In Islanda il brano di Ivana Spagna è diventato natalizio per davvero: quel cerchio, in qualche modo, si è chiuso».

Quali sono le 10 canzoni di Natale più vendute? Alcune non le immaginereste mai. «All I Want for Christmas Is You» e gli altri brani natalizi che hanno venduto milioni di copie tra States e Regno Unito (e non solo). Arianna Ascione il 19 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera.

1. All I Want for Christmas Is You. Soltanto ora la canzone «All I Want for Christmas Is You» di Mariah Carey, scritta nel 1994 dalla cantante statunitense insieme al compositore Walter Afanasieff, è riuscita ad arrivare al primo posto della classifica Billboard dei singoli più popolari negli Stati Uniti. Meglio tardi che mai, si dice. L'anno prossimo finirà nel Guinness dei primati come canzone festiva con i migliori risultati nella classifica Hot 100 di Billboard (come artista solista), traccia più trasmessa su Spotify in 24 ore (artiste) e record di permanenza nella top 10 del Regno Unito (per quanto riguarda le canzoni natalizie), per cui non può assolutamente rimanere esclusa quando si vuole parlare delle canzoni natalizie più vendute (e scaricate) di sempre.

2. White Christmas. Recordman nonché re delle canzoni di Natale è sicuramente Bing Crosby: la sua versione di «White Christmas», pubblicata nel 1942, è stata certificata nel 2012 dal Guinness dei primati come canzone natalizia più venduta di tutti i tempi e come singolo più venduto in assoluto.

3. Mistletoe. Anche Justin Bieber non è riuscito a resistere al fascino dell'album natalizio: nel 2011 ha pubblicato «Under the Mistletoe», che oltre a contenere una cover di «All I Want for Christmas Is You» incisa con Mariah Carey, ha al suo interno la hit multiplatino «Mistletoe».

4. Do They Know It's Christmas? Ogni volta che in televisione viene trasmesso il videoclip di «Do They Know It's Christmas?» scatta la gara per riconoscere tutti i volti dei protagonisti del progetto Band Aid (da Boy George a George Michael, dai Duran Duran a Sting): la canzone fu scritta da Bob Geldof e Midge Ure nel 1984 e fu pubblicata per raccogliere fondi per aiutare l'Etiopia.

5. Do You Want to Build a Snowman? Curiosamente, a proposito di download digitali, subito sotto il brano di Mariah Carey tra le canzoni di Natale più vendute negli Stati Uniti troviamo «Do You Want to Build a Snowman?», brano interpretato da Kristen Bell, Agatha Lee Monn e Katie Lopez che fa parte della colonna sonora del film Disney «Frozen».

6. Rockin' Around the Christmas Tree. «Rockin' Around the Christmas Tree», interpretata da Brenda Lee, è stata scritta nel 1958 da Johnny Marks. Il brano, che cita il ritornello della tradizionale canzone natalizia «Deck the Halls», è stato ricantato più volte da quando è stato pubblicato: ne esiste una versione di Cyndi Lauper, una degli Hanson e persino una di Alvin and the Chipmunks.

7. The Chipmunk Song (Christmas Don't Be Late). Nello stesso anno Ross Bagdasarian (sotto lo pseudonimo di David Seville) scrisse e registrò «The Chipmunk Song (Christmas Don't Be Late)», che ben presto diventò un'amatissima canzone per bambini. Protagonisti del brano erano i tre Chipmunk Alvin, Simon e Theodore, le cui strane voci erano ottenute modificando la velocità di riproduzione del nastro su cui erano state registrate.

8. Blue Christmas. «Blue Christmas», ovvero il racconto malinconico del Natale di Billy Hayes e Jay W. Johnson: i due musicisti scrissero la canzone nel 1948 ma devono la sua popolarità alla cover incisa da Elvis Presley (che nel 1957 trasformò il brano da country a rock & roll).

9. Merry Xmas Everybody. Pubblicata dai britannici Slade nel 1973 «Merry Xmas Everybody» è la canzone di Natale che mai ti aspetteresti di trovare tra le più vendute: eppure questo brano natalizio, secondo una stima del 2015, ogni anno genera alla band ben 500.000 sterline soltanto di royalties.

10. Last Christmas. Proprio quest'anno «Last Christmas» degli Wham! compie 35 anni: è un brano talmente popolare nelle settimane che precedono il Natale che nel 2010 è stato inventato un gioco-meme chiamato whamageddon per evitarlo (scopo: riuscire a non incappare nella canzone in radio dall'1 al 24 dicembre di ogni anno). Però, nonostante sia il singolo britannico più venduto di sempre, non è mai riuscito ad entrare in classifica al primo posto. Come insegna Mariah Carey...per ora.

Last Christmas: la vera storia dietro l'inno natalizio degli Wham! La canzone, pubblicata 35 anni fa e oggi di nuovo disponibile in vinile, è un gioiello pop malinconico e gioioso allo stesso tempo. Arriverà nel 2019 al primo posto in UK? Gabriele Antonucci il 16 dicembre 2019 su Panorama. Il Natale è una festività che, da 35 anni, è legata a filo doppio a Last Christmas degli Wham. Pubblicata in Inghilterra il 3 dicembre 1985, la canzone è una gemma senza tempo in grado di mostrare come il pop, qualora venga declinato con gusto, qualità e sensibilità, non è una parolaccia, ma una delle più alte espressioni dell’arte popolare, in grado di toccare i cuori di milioni di persone con canzoni solo apparentemente semplici. Last Christmas, composta e prodotta interamente da George Michael, faceva parte di un 45 giri con un doppio lato A insieme a Everything She Wants, altro grande successo degli Wham. Il doppio singolo è stato ristampato pochi giorni fa dalla Sony Music in edizione limitata e restaurata in vinile bianco 7 pollici da collezione. Il 19 dicembre Last Christmas sarà anche un film al cinema, ispirato alla musica di George Michael e degli Wham! e diretto da Paul Feig, scritto insieme all’attrice vincitrice dell’Oscar Emma Thompson, con la partecipazione di Emilia Clarke (Game of Thrones),Henry Golding (Crazy Rich Asians), Michelle Yeoh e la stessa Emma Thompson. Ma com'è nata la canzone natalizia contemporanea più amata e celebrata insieme a All I want for Christmas is you di Mariah Carey?

La storia di "Last Christmas". La canzone, in realtà, ha poco a che fare con il Natale, se non per la frase iniziale "Last Christmas I gave you my heart" ("Lo scorso Natale ti ho dato il mio cuore"). La storia è basata su una relazione fallita e sul ritrovarsi faccia a faccia, un anno dopo, con la propria ex, che nel frattempo ha iniziato un'altra storia. Il brano è nato quando Andrew Ridgeley si trovava a cena dai genitori di George, con il quale era amico dall'infanzia. "Avevamo mangiato qualcosa e stavamo seduti insieme rilassandoci con la televisione in sottofondo quando, quasi inosservato, George era scomparso di sopra per circa un'ora. Quando tornò giù, era eccitato come se avesse scoperto l'oro", ha raccontato Andrew Ridgeley ai microfoni di "Smooth Radio". "Siamo andati nella sua vecchia stanza, in cui avevamo trascorso ore da bambini a registrare dei piccoli programmi radiofonici, dove teneva una tastiera e un registratore. Quando mi ha fatto ascoltare l'introduzione, la melodia e il coro, accattivante e malinconico al tempo stesso, è stato un momento di grande meraviglia". Il cantante anglocipriota è riuscito a distillare l'essenza del Natale in una canzone pop moderna, aggiungendo un testo che raccontava la storia di un amore tradito, in grado di toccare i cuori delle persone anche al di fuori del periodo natalizio. Dal punto di vista musicale, la base strumentale è realizzata da una drum machine LinnDrum e da un sintetizzatore Roland. A differenza della stragrande maggioranza delle canzoni pop, Last Christmas ha una struttura uguale tra strofa e ritornello, ma è la magnifica melodia, gioiosa e malinconica, a fare qui la differenza.

L'iconico video della canzone. Indimenticabile il video della canzone, un compendio dell'edonismo degli anni Ottanta tra spalline ipertrofiche, capelli cotonati e Moon Boot, che vede George Michael e Andrew Ridgeley, con le chiome intonse anche sotto la neve battente grazie a ettolitri di lacca, acompagnati dalle loro nuove ragazze per riunirsi con gli amici in una baita nell'esclusiva località sciistica di Saas-Fee, in Svizzera. L'ex del cantante, interpretata dalla modella Kathy Hill, ora è la ragazza di Andrew, come si evince anche dalla spilla, invero dozzinale e di pessimo gusto, che il suo nuovo fidanzato ha appuntato con sicumera sul bavero della giacca nera, mentre gli amici mangiano e ridono (probabilmente anche per la sua improbabile bigiotteria) intorno alla tavola imbandita a festa.

La stessa spilla che George le aveva regalato un anno prima, davanti al romantico tepore di un camino, come pegno d'amore eterno.

Il messaggio della canzone, in quel momento, arriva forte e chiaro: non regalate spille a Natale, se non volete che la vostra ex le ceda l'anno dopo, in comodato d'uso, al bietolone di turno. Nel video, che pochi giorni fa è stato ripubblicato su Youtube in una versione rimasterizzata in 4K (guarda la clip in fondo all'articolo), appaiono anche le coriste degli Wham, Pepsi e Shirlie, oltre al bassista degli Spandau Ballet Martin Kemp, allora fidanzato e poi futuro marito di Shirlie Holliman. Gli Wham! hanno donato tutti i diritti d'autore di Last Christmas per combattere la carestia che affliggeva allora l'Etiopia. La canzone non ha mai raggiunto il numero uno, che allora andò a Do They Know It's Christmas del charity supergroup 'Band Aid' a cui aveva partecipato lo stesso George Michael, ma è il singolo britannico più venduto di sempre a non arrivare in cima, con oltre 2 milioni di copie vendute.

Le cover e la causa per plagio. Last Christmas è stata oggetto di numerose cover da parte di Coldplay, Kylie Minogue, Ariana Grande, Carly Rae Jepsen, Taylor Swift, Whigfield, Billie Piper, Jimmy Eat World, Joe McElderry, Crazy Frog , Cascada, Gwen Stefani e dal cast del musical Glee. Il brano fu oggetto allora anche di una causa per plagio, che si risolse però in un nulla di fatto, per la sua somiglianza con Can't smile without you di Barry Manilow. La Dick James Music, che possedeva i diritti del brano, composto da Christian Arnold, Geoff Morrow e David Martin, fece causa a George Michael, autore unico di Last Christmas. La domanda non fu accolta perchè, secondo un musicologo, circa 60 spartiti di canzoni avevano sequenze di accordi e di melodie simili sia a Can't smile without you quanto a Last Christmas.

Il film e la colonna sonora di "Last Christmas". Dal 6 novembre è disponibile in radio e su tutte le piattaforme digitali This Is How (We Want You To Get High), primo brano inedito di George Michael dal 2012. La canzone, scritta e prodotta da George Michael in collaborazione con James Jackman, è pubblicata come singolo da Universal Music e fa parte della colonna sonora del film Last Christmas, ispirato alla musica di George Michael e degli Wham!. “This Is How (we want you to get high)”, registrato durante le ultime sessioni in studio di George, è il primo brano originale che viene condiviso dal 2012: un classico di George Michael dal ritmo funky, registrato presso gli Air Studios di Londra. Il testo, scritto esclusivamente da George, racconta dei mali della società con la caratteristica miscela di umorismo e autoironia tipica della pop star inglese. Il singolo accompagna perfettamente la scena finale di “Last Christmas”, la nuova commedia romantica di Universal Pictures, ispirata dall'omonimo successo degli Wham!. Thompson aveva incontrato George nella sua casa nel nord di Londra, nella primavera del 2013, per parlare della sceneggiatura. L'attrice aveva poi sviluppato varie versioni della storia prima della improvvisa scomparsa di Michael, il giorno di Natale 2016. Parlando del suo incontro con George Michael, momento importante che aveva portato alla realizzazione del film, Emma Thompson ha detto: "La saggezza e la portata emotiva dei testi di George mi hanno sempre colpita. Tanti hanno pensato che le sue canzoni fossero state scritte appositamente per il film. Dopo aver incontrato George ed aver vissuto da vicino la sua compassione e la sua capacità di comprensione, mi sono resa conto che in realtà il film era stato scritto proprio sulla base di quei testi". Nella primavera del 2018, dopo aver discusso su quali canzoni sarebbero state inserite nel film, Emma Thompson ha avuto un'anteprima esclusiva di quattro brani inediti di George Michael. Sin dall’inizio l’attrice si è innamorata di “This Is How (We Want You To Get High)”, soprattutto per il testo che rispecchia i temi centrali del film. Il film “Last Christmas”, definito dal regista Paul Feig come "una lettera d'amore a George", sarà dal 19 dicembre nelle sale italiane. La colonna sonora, che contiene tre brani degli Wham! e dodici canzoni della carriera solista di George Michael, è disponibile in digitale, cd e vinile. Tutte le canzoni sono state scritte arrangiate e prodotte da George Michael, tranne “This Is How (We Want You To Get High)” - scritta e co-prodotta da George Michael e James Jackman, e faranno commuovere tutti i fan che sono cresciuti con la sua musica ma, soprattutto, faranno conoscere alle nuove generazioni il suo straordinario virtuosismo e la sua ampia gamma musicale.

"Last Christmas" al primo posto in classifica? Il team di George Michael, di concerto con i suoi fan, sta lavorando affinchè Last Christmas arrivi finalmente al primo posto in classifica. La canzone avrà una rinnovata attenzione questo Natale con l'uscita del film omonimo che ha ricevuto la benedizione di George prima della sua scomparsa. "Tutti lavoreranno duramente per far sì che ciò accada", ha dichiarato Chris Organ of Russells, avvocato di George, sulle possibilità del singolo numero 1. "George non è stato solo uno dei più grandi cantanti britannici di tutti i tempi, è stato uno dei più grandi cantautori britannici di tutti i tempi." Chris ha concluso che sarebbe stato un "bel tributo" per Last Christmas in cima alle classifiche 35 anni dopo la sua uscita. L'etichetta di George afferma che raggiungere un pubblico più giovane è una parte fondamentale della loro strategia quest'anno. "Le canzoni di George saranno sempre rilevanti e i suoi valori parlano davvero ai millennial di Gen-Z: filantropia, attivismo, individualismo", ha spiegato Joanna Kalli, responsabile marketing del Sony Music Commercial Group. Pubblicata il 3 dicembre 1984, Last Christmas raggiunse il picco al numero 2 dietro a Do They Know It's Christmas di Band Aid. Lungo la strada, la canzone è diventata la traccia più venduta a non raggiungere mai la vetta della classifica ufficiale dei single, tornando in classifica ogni anno dal 2007 e arrivando alla sua posizione di picco nel 2017. Lo scorso Natale, nel 2018, è salita fino al numero 3. Ma quest'anno potrebbe davvero essere la volta buona per la canzone moderna più amata del Natale.

«All I Want for Christmas Is You», le curiosità sul grande classico natalizio firmato da Mariah Carey. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. Nonostante sia stata scritta soltanto nel 1994 si è fin da subito trasformata in un grande classico delle feste: parliamo di «All I Want for Christmas Is You», la hit natalizia più venduta nella storia, che negli anni è stata riproposta in numerose versioni (da quella di Michael Bublé a quella di Justin Bieber). Ma la vera e prima interprete è soltanto lei, Mariah Carey, che al termine del suo «All I Want for Christmas is You Tour» ha ricevuto una sorpresa che attendeva da ben 25 anni: il brano è balzato per la prima volta al primo posto della classifica dei singoli più popolari negli Stati Uniti stilata da Billboard. Il suo commento, affidato a Twitter, non poteva quindi che essere: «We did it/Ce l'abbiamo fatta».

Mariah Carey è da 25 anni la regina del Natale con "All I want for Christmas is you". Gabriele Antonucci il 18 dicembre 2019 su Panorama. Nel 1994 Mariah Carey, allora poco più che ventenne, rivaleggiava ad armi pari con Whitney Houston e Celine Dion, a colpi di ottave, per la palma di ugola d’oro della musica pop internazionale. Pubblicato il 28 ottobre di 25 anni fa, il suo album natalizio Merry Chistmas, uno dei più venduti di sempre, è stato trascinato dalla splendida All I want for Christmas is you che, a differenza della maggior parte dei brani dedicati al Natale, è divertente e ballabile. Eppure la canzone è stata ispirata dall’infanzia difficile della cantante a Long Island, New York, dove è cresciuta in una famiglia povera formata da una madre bianca irlandese e da un padre nero afro-venezuelano, che hanno divorziato quando lei era solo una bambina. “Mia madre aveva scelto di vivere in quartieri prevalentemente bianchi, dove la gente aveva più soldi di noi e là non mi trovavo affatto bene -ha dichiarato l’artista americana a Pitchfork nel novembre del 2018- Oppure abitavamo in un quartiere tutto nero quando i miei genitori erano insieme; come coppia mista, avevano problemi anche lì. Sembrava che, per una famiglia come la nostra, non ci fosse un posto adatto”. Mariah ha confessato recentemente a Usa Today di aver sempre sognato di trascorrere il Natale perfetto, lei che aveva sofferto fin da piccola di far parte di una famiglia disfunzionale e con pochi mezzi economici, e di "mettere ogni grammo di desiderio per quel momento perfetto" quando ha iniziato a lavorare alla canzone All I want for Christmas is you insieme al compositore e produttore Walter Afanasieff. Allora la cantante aveva meno di cinque anni di carriera discografica, nei quali aveva pubblicato due soli album (Mariah Carey ed Emotions) e un EP (Mariah Carey: MTV Unplugged), per cui, quando la sua etichetta le chiese di incidere un album di Natale, che di solito si realizza in età più matura, era piuttosto riluttante. “Allora non ne ero consapevole”-spiega nel documentario “Mariah Carey is Christmas: The Story of 'All I Want for Christmas is You”-“ma, con il senno di poi, fu davvero un’ottima idea perché ha catturato un determinato periodo storico”. Un album di cover natalizie, formata da brani scritti tanti anni fa dai migliori compositori americani, è un rifugio sicuro per tutti i cantanti perché le persone amano ascoltare gli standard, di cui conoscono ogni melodia e ogni parola. Eppure Mariah voleva comporre alcuni brani originali, anche se questo costituiva un grosso rischio di sfigurare con i classici natalizi del passato. Una sera dell'estate del 1994 si trovava nella sua piccola casa nella parte settentrionale di New York, quando mise nello stereo la colonna sonora di La vita è meravigliosa e si sedette alla tastiera, che sapeva suonare in modo scolastico, iniziando a farsi guidare dall'ispirazione del momento. In un momento quasi magico, senza pensarci troppo, arrivò poco dopo la melodia della canzone, come un magnifico regalo inaspettato, cui seguirono a poco a poco le parole del testo, che trasformarono quella che originariamente era stata pensata come una canzone di Natale in un brano sull’amore perduto. Dopo aver composto da sola sia la melodia che il testo, Mariah si incontrò con Walter Afanasieff, suggerendogli di inserire un inizio lento, prima di arrivare a una deflagrazione di suoni e di ritmo sullo stile del “wall of sound” di Phil Spector, che avesse la stessa gioiosa esuberanza dei brani dei Jackson 5 e di alcune canzoni Motown degli anni Cinquanta e Sessanta. In alcune parti della canzone, i cori diventano quasi più importanti della voce principale, esattamente come accadeva nella musica delle Ronettes, la creatura artistica più riuscita di Spector.

All I Want for Christmas is You doveva avere il calore e la familiarità di un classico del Natale, pur essendo un brano nuovo di zecca. Per raggiungere l’ambizioso obiettivo, lo studio di registrazione fu decorato con le luci natalizie e con un albero di Natale, anche se era agosto, inoltre la temperatura del climatizzatore fu portata al minimo, tanto che i musicisti dovettero indossare degli abiti pesanti. “La mia parte preferita della canzone è ‘non desidero nemmeno la neve’ perché io ho sempre desiderato la neve e che il Natale fosse speciale per me. Non dimenticherò mai la quiete di quella stanza mentre suonavo e scrivevo da sola il pezzo”. Un mix irresistibile tra pop, soul, r&b, rock e gospel, che suona più come un brano degli anni Sessanta che degli anni Novanta, in cui il testo e il sound sono strettamente correlati per trasmettere un'inebriante sensazione di gioia negli ascoltatori. Mariah ha eseguito la canzone per la prima volta nel 1994 in un concerto di beneficenza a St. John The Divine, accolta senza particolare entusiasmo dal pubblico di allora. Curiosamente, All I Want for Christmas is You non fu subito una hit, piazzandosi al massimo al 12 posto della classifica Usa nel 1994. Il suo successo è cresciuto anno dopo anno, fino a diventare molto rilevante negli anni Duemila. Alla fine del 2010, la canzone ha iniziato a scalare gli Hot 100 durante le festività natalizie, raggiungendo il picco al n. 21 nel 2013. Dal 2014 la cantante è tornata in tour con un serie di show natalizi con tappe a Las Vegas, New York, Parigi, Londra e Madrid, accompagnata da un coro gospel, dai due figli, da undici alberi di Natale, neve finta e l'immancabile Santa Claus. Nel 2017 aveva raggiunto la posizione n. 7 e nel 2018 la n. 3. All I Want For Christmas Is You vanta anche il record del brano con più streaming su Spotify in un unico giorno: oltre dieci milioni nella giornata del 25 dicembre 2018. La canzone è stata aggiunta a oltre 12 milioni di playlist e sono oltre 1.000 le cover effettuate da altri artisti tra cui Michael Bublé, Milos Foreman, Clementine Duo e Fifth Harmony. Due giorni fa, a 25 anni dalla sua uscita, All I Want for Christmas is You è arrivata finalmente ai vertici della classifica americana dei singoli, grazie anche al traino di un nuovo video, con immagini inedite, e del mini-documentario intitolato Mariah Carey is Christmas: The Story of "All I Want for Christmas Is You", incentrato sulla realizzazione della hit natalizia. Il video ufficiale ha superato 600 milioni di visualizzazioni su YouTube, mentre il "nuovo" video ha già raggiunto 8 milioni di views. Il documentario, realizzato su Amazon Music in occasione del 25° aniversario del suo album Merry Christmas, presenta interviste con Mariah, il produttore Randy Jackson supporter di lunga data di Mariah e suo ex manager, la giornalista Shirley Halperin, Executive Editor for Music presso Variety, Gary Trust, Senior Director of Charts di Billboard, e Trey Lorenz. il cantante di supporto e amico da oltre 25 anni di Mariah. Si tratta del suo 19esimo singolo ad arrivare in vetta alla Hot 100, un record assoluto per quella che, con 200 milioni di album venduti, è considerata l’artista femminile di maggior successo di tutti i tempi, come certificato dai numerosi numerosi Grammy Awards e American Music Awards vinti, senza considerare i premi “Top Female Artist of All Time”, “Icon Award” e “Artist of the Decade” di Billboard, il World Music Award per “L’artista femminile di maggior successo al mondo del millennio” e l' “Icon Award” della BMI per i suoi eccezionali successi nel cantautorato. Vincitrice del premio Congressional Award, Mariah ha generosamente donato il suo tempo e la sua energia a una serie di cause filantropiche, tra cui Save the Music, la Fondazione Make-A-Wish, World Hunger Relief e la Elton John AIDS Foundation, tra molte altre. Grande sostenitrice delle organizzazioni benefiche per bambini, sia nazionali che internazionali, Mariah ha fondato Camp Mariah in collaborazione con il Fresh Air Fund, un’associazione attraverso la quale i bambini che vivono in città possono esplorare lo sviluppo di una carriera. Insomma, quella bambina di una famiglia povera di Long Island, che voleva semplicemente trascorrere un Natale perfetto con i suoi cari, è riuscita a comporre la canzone di Natale perfetta che, ogni volta che l'ascoltiamo, per quattro minuti rende più gioiose le fredde giornate invernali. Un record, quest'ultimo, che nessuno le potrà mai togliere.

A scuola adesso nel presepe ci va pure la nave Mediterranea. Un presepe realizzato da un gruppo di studenti che tra Giuseppe, Maria e il Bambin Gesù hanno messo anche la nave Mediterranea. La docente: "I genitori sono contenti", Roberto Chifari, Lunedì 23/12/2019, su Il Giornale. C'è una nave con la scritta in verde su sfondo nero Mediterranea, con dei bambini raffigurati che indossano la maglietta azzurra dell'equipaggio. Sul tetto della imbarcazione una zattera con Gesù bambino e la Madonna con San Giuseppe. Un presepe particolare, quello che hanno voluto realizzare gli studenti della scuola media di Nonantola, piccolo comune di circa 15 mila abitanti della provincia di Modena, in Emilia-Romagna. La notizia è stata riportata da AdnKronos. L'idea è stata dell'insegnante di religione Giusy D'Amico. "Come docente di religione di terza media svolgo una programmazione finalizzata al rispetto della dignità umana e, nel corso dell'anno scolastico, vengono toccati temi importanti come quello dell'immigrazione, del diverso - spiega l'insegnante in una intervista all'Adnkronos -. Abbiamo avuto, tra gli altri, l'intervento di Don Mattia Ferrari che ha coinvolto i ragazzi nel progetto di accoglienza e loro hanno sviluppato la loro idea nel presepe. Abbiamo fatto delle indagini sui loro desideri e così abbiamo elaborato il progetto. Lo hanno voluto loro...". Ogni sezione dell’istituto ha realizzato una composizione della Natività di Gesù Cristo utilizzando materiali di riciclo. Il tema scelto per l’edizione 2019 è stato quello legato all’accoglienza. Da novembre ogni classe ha avuto un suo spazio destinato al presepe. L’attività si è svolta durante le ore di religione cattolica nelle classi dei tre anni della scuola secondaria Dante Alighieri di Nonantola, dove anche quest'anno si è svolta l'edizione di “Presepi di Classe”. Don Mattia, un giovane prete, è stato in missione sulla nave di "Mediterranea Saving Humans", finanziata tramite raccolta fondi e animata da volontari, dal 30 aprile al 10 maggio, quando è rientrata a Lampedusa dopo aver tratto in salvo una trentina di profughi in balia del mare al largo delle coste libiche. Don Mattia Ferrari è tornato nella sua parrocchia di Nonantola dopo l'esperienza sulla nave umanitaria ma nel frattempo ha proseguito il suo impegno per il progetto e spesso incontra i parrocchiani o i giovani. Così c'è stato l'incontro con i giovanissimi alunni della media di Nonantola. "Hanno deciso loro di raffigurarsi sulla nave con la divisa azzurra di Mediterranea - dice ancora la docente Giusy D'Amico -. Abbiamo fatto testi sul tema dell'accoglienza e loro hanno fatto dei temi e visto il film "Quando sei nato non puoi più nasconderti" del regista Marco Tullio Giordana il cui protagonista è un adolescente. Loro hanno visto come ognuno di noi può trovarsi in una situazione diversa". Una scelta che i genitori hanno condiviso in pieno, soprattutto perché per molti è stato un importante momento per riflettere sui temi dell’accoglienza e dell’immigrazione attraverso un vero e proprio laboratorio multidisciplinare che ha coinvolto in primis i giovani studenti e i docenti di diverse discipline. "Tutti hanno apprezzato e ammirato questa decisione di fare un presepe particolare dedicato alla nave Mediterranea". E loro, i responsabili della Ong, oggi, su Twitter hanno espresso la loro felicità per quel presepe anomalo. "Un presepe che ci emoziona, realizzato dagli studenti della 3G delle scuole medie Dante Alighieri di Nonantola. Grazie", hanno scritto sul social. Alla domanda se la politica debba fare di più per i giovani sul tema dell'accoglienza, la docente risponde: "Serve soprattutto l'educazione delle nuove generazioni, è quella che deve fare un passo in più". Perché "con le esperienze possiamo cambiare idea".

Agrigento, preside annulla messa di Natale: "Rispetto per minoranze". Bufera ad Agrigento per la scelta di una preside di annullare la messa natalizia. Salvini: "Vergogna, invierò presepe". Fabio Franchini, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Niente crocifisso, niente presepe e - questa volta - anche niente messa di Natale. E così un'altra, l'ennesima scuola italiana finisce al centro delle polemiche. Spieghiamo. In Sicilia, ad Agrigento, la preside di un istituto ha deciso di annullare la tradizionale messa natalizia a scuola "per rispetto delle minoranze". C'è chi, facendo parte di altri credi religiosi ha apprezzato e chi, invece, essendo cristiani cattolici, non l'ha presa affatto bene, visto il nuovo attacco alla tradizione. E infatti qualche genitore ha fatto gruppo ed è andata a protestare al Comune dove la capogruppo della Lega Nuccia Palermo parla di "censura" e "sottomissione", come riportato dall'Adnkronos. Teatro della spinosa vicenda è l'istituto comprensivo di Agrigento-Centro, dove la dirigente scolastica Anna Gangarossa ha deciso di punto in bianco di festeggiare l'arrivo del Natale con alcune manifestazioni ed eventi alternativi rispetto al consueto precetto natalizio, in seguito ad una richiesta che sarebbe arrivata da un gruppo di famiglie appartenenti ad altre religioni. Quindi la decisione di cancellare la messa e lo scoppio della polemica. Tutto parte da alcuni gruppi WhatsApp, dove diversi genitori hanno esternato il proprio malcontento. L'esponente locale del Carroccio, come registrato dall’agenzia stampa, ha dichiarato: "La preside ha sbagliato perché ha ceduto a una forma di ricatto su un estremismo, questa è una censura bella e buona, siamo alla sottomissione". E ha aggiunto: "Un gruppo di genitori si è vista privare di una tradizione sacrosanta che non nuoce a nessuno, se non a chi viene private dalle nostre radici. Questo non è un atto di insegnamento la preside dovrebbe imparare meglio il testo costituzionale". Nuccia Palermo, infine, ha così chiosato: "Per me è un precedente molto molto grave, perché limitare la libertà altrui sulle tradizioni è scandaloso. Se cominciamo dalla scuola a cedere a un ricatto morale si arriverà presto a una sottomissione indecorosa, una vera censura. E io sono pronta a difenderla davanti a tutti. La scuola deve insegnare la libertà, il rispetto, mentre annullare un precetto natalizio è una forma di mancanza di rispetto". La presidente, contattata dall'Agi, ha spiegato il perché della controversa scelta: "I genitori degli alunni e le associazioni mi stringono la mano per la scelta che ho fatto. Sono rispettosa del pluralismo e soprattutto sono una donna di legge, per questo devo attenermi alle norme che mi impongono di non impegnare ore curriculari al culto visto che la scuola deve essere laica e ci sono precise regole imposte dal ministero dell'Istruzione". La dirigente, inoltre, ha così continuato: "La mia è stata una decisione sofferta ma giusta, mi si accusava di impegnare ore del percorso scolastico in attività religiose, come è il precetto, e ciò non era possibile. Ho solo applicato la legge, dispiace essere attaccata da chi vuole strumentalizzare la vicenda per scopi politici".

Il commento di Salvini. Il segretario della Lega Matteo Salvini, venuto a conoscenza del caso, lo ha così duramente commentato: "Vergogna, incredibile vergogna". Dunque, il leader del Carroccio ha espresso solidarietà "a tutti i bimbi, agli insegnanti e ai genitori a cui viene negato il bello del Natale, nel nome di una inaccettabile sottomissione culturale e valoriale. Invierò personalmente un presepe a questa preside, che evidentemente ha fallito nella sua missione educativa".

Salta la messa di Natale, i genitori protestano: "Cancellano le nostre tradizioni". Non sono tardati ad arrivare i pareri contrastanti da parte delle famiglie e del mondo della politica, tutti concordi nell'esprimere un disappunto sulla decisione della dirigente, adesso si sta cercando di organizzare una messa al di fuori della scuola per lanciare un messaggio alle minoranze. Sofia Dinolfo, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Fioccano le polemiche ad Agrigento sulla decisione della dirigente scolastica, Anna Gangarossa, di annullare la partecipazione degli alunni al precetto natalizio per “rispetto delle minoranze”. Tra le domande che i genitori dei ragazzini si stanno ponendo in queste ultime ore vi è il perché della presa di posizione. Quello che i genitori da noi raggiunti raccontano è il non aver sentito mai nessuno esprimere apertamente un disappunto su come venisse gestita la differenza e il conseguente rispetto del credo religioso da parte della scuola. Ad essere coinvolto nella clamorosa vicenda è l’istituto comprensivo Agrigento -Centro che dispone di strutture ubicate nelle zone centrali della città. Le classi accolgono più di mille i ragazzi agrigentini che frequentano l’istituto e una decina gli extracomunitari. Stando a quanto raccontato da alcuni testimoni, non si capisce da quale famiglia con fede religiosa diversa da quella cattolica sia provenuta la richiesta di annullare la partecipazione al precetto. A quanto pare, nei giorni scorsi, era stata diffusa una circolare a firma della dirigente dove si dava appuntamento a giorno 19 dicembre, alla basilica dell'Immacolata di Agrigento, per "lo scambio degli auguri". Una frase detta in maniera vaga ed imprecisa proprio per evitare problemi (?) ai bambini che professano un altro credo. Sempre nella stessa circolare, contestualmente all'orario della messa, veniva dato un altro appuntamento: la visita guidata ad una mostra fotografica al collegio dei Filippini (una struttura comunale adibita a diverse manifestazioni culturali). La sera precedente agli eventi, però, di punto in bianco, la preside, tramite messaggi inviati a docenti e rappresentanti di classe, ha annullato tutti gli appuntamenti senza dare una chiara spiegazione. Da qui lo stupore e l’incredulità delle famiglie. Nessuno sa ufficialmente cosa sia accaduto e i pareri che esprimono il disappunto sulla decisione presa dalla dirigente sono unanimi.

I genitori sulle barricate. "Perché dobbiamo rinnegare le nostre tradizioni?". Questo il parere di uno dei genitori che prosegue: "La preside aveva organizzato due eventi differenti proprio per non creare dissapori tra le diverse religioni e poi alla fine a rimetterci siamo noi che dobbiamo rinunciare alle nostre tradizioni. Non è giusto!" "La dirigente- ci dice un altro genitore- non doveva comportarsi in questo modo. Noi contestiamo il fatto che lei abbia ceduto alle richieste di poche persone che si contano sulle dita di una mano e non sappiamo nemmeno chi sia stato perché nessuno ha mai avanzato delle lamentele in modo diretto e palese. Siamo per il rispetto di tutti e di tutto- prosegue la persona da noi interpellata- e il rispetto delle tradizioni è segno di tolleranza e di amore. Se la preside fosse rimasta ferma sui suoi passi avrebbe rispettato il diritto di tutti. La scuola è laica, non atea". I commenti piovono anche su Facebook dove il padre di un bambino dice:" L’istituto Comprensivo Agrigento Centro ha annullato il Precetto Natalizio a causa di proteste di qualche famiglia. A quanto pare la Preside ha subito forti pressioni. Chi non vuole partecipare è libero di restare a casa, gli consiglio per coerenza, di andare a scuola anche per le vacanze Natalizie. Italia paese senza futuro". Sotto il post si sono accodate numerose disapprovazioni all’annullamento del precetto natalizio: "È veramente assurdo- si legge tra i commenti- il nostro è un paese cattolico, non dobbiamo essere noi ad adeguarci". E poi ancora un altro commento:" Chi ha deciso ciò si vergogni! Bisogna rispettare i valori della nuova generazione che dovranno essere i pilastri di questa società. Lasciate a casa questa gente, con tutto il rispetto!."

Anche la politica locale si mobilita. La notizia ha fatto eco anche negli uffici del presidente della Regione siciliana Nello Musumeci che prende le distanze dall’atteggiamento della Gangarossa: "Celebrare a scuola una messa natalizia è tradizione plurisecolare, che si alimenta della matrice cristiana, giudaica ed ellenica alla quale si ispira la civiltà occidentale. In una scuola ormai multiculturale, la partecipazione degli alunni ad una funzione cattolica non può che essere libera e autonoma: ognuno preghi il proprio Dio. Ma avere rispetto per le religioni degli altri non significa dovere rinunciare alla nostra. Per questo ritengo che la dirigente scolastica abbia agito con un eccesso di prudenza che può costituire, però, un grave precedente". Da Agrigento nelle ultime ore, con una nota, si è espresso anche il vice coordinatore di Fratelli D’Italia, Giuseppe Milano:"Apprendiamo dagli organi di stampa che la preside della scuola primaria di Agrigento, ha annullato il precetto natalizio per le proteste di alcuni genitori che lo reputavano non rispettoso della laicità ed offensivo nei confronti delle minoranze che professano altre religioni. Qualora la notizia venisse confermata riteniamo si tratti di un episodio di discriminazione al contrario, inaccettabile, di una gravità inaudita ed oltraggioso per le nostre radici cristiane. Invitiamo, pertanto, la Preside a tornare sui propri passi dando la possibilità, a chi volesse, di partecipare alla Messa di Natale". Ed in effetti un gruppo di genitori sta cercando di organizzare al di fuori della scuola una "messa last minute" per lanciare un forte messaggio agli “ospiti” della Città.

A Grosseto varato l’obbligo di presepe: «Va fatto in ogni scuola». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. «L’obbligo di presepe», probabilmente il primo d’Italia, è stato approvato, non senza schermaglie e polemiche politiche, dal consiglio comunale di Grosseto. Che, con i voti della maggioranza di centrodestra, ha dato il via libera a una mozione presentata da Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e da un consigliere di Casa Pound-gruppo misto. La mozione impegna sindaco e giunta ad adoperarsi «affinché all’interno di ogni scuola comunale e del palazzo comunale sia allestito in vista delle prossime festività un presepe, ben visibile e di consone dimensioni». Previsto anche un fondo (500 euro) per, l’acquisto di statuine e addobbi per la Natività, per le scuole squattrinate. La mozione è stata approvata con i 19 voti della maggioranza e quelli contrari, con qualche astensione di singoli consiglieri, di Pd e M5S e l’astensione di Italia Viva. Dunque, da oggi le scuole comunali di Grosseto dovranno allestire un proprio presepe che, secondo il sindaco Antonfrancesco Vivarelli Colonna (uno dei papabili per la candidatura alla presidenza della giunta regionale toscana) e la sua giunta non è solo un simbolo religioso ma rappresenta le radici della storia dell’Italia e dell’Europa. L’idea della mozione sembra essere nata dopo alcuni episodi nei quali la Natività era stata negata per non provocare turbamenti negli scolari di altre religioni. L’opposizione, tra i quali alcuni consiglieri cattolici, hanno però contestato il provvedimento considerandolo un’imposizione che serve soltanto a dividere e non a creare un senso di appartenenza alla comunità scolastica. Il Pd ha stigmatizzato l’idea di un obbligo politico a un simbolo religioso. I Cinque Stelle hanno invece parlato di provocazione perché «i presepi ci sono da sempre nelle nostre scuole» e nessuno li vuole eliminare.

Natale nel mondo: da Palermo, con Gesù Bambino nero, alle Filippine, devastate dal tifone. Pubblicato mercoledì, 25 dicembre 2019 da Corriere.it. Una messa di Natale nel segno dell’accoglienza ai migranti quella celebrata a mezzanotte dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice. Un Bambin Gesù nero è stato deposto sull’altare della cattedrale della città, la stessa dove riposa don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia. Un’iniziativa fortemente voluta dal presule, da sempre in prima linea nella difesa dei migranti e delle persone più deboli. La scena della Natività è stata riproposta a conclusione di una processione in cattedrale. Dal corridoio centrale, procedendo verso l’altare, si è fatto avanti una piccolo corteo formato da otto bambini vestiti di bianco e di blu, sei italiani e due stranieri, che portavano candele e composizioni floreali. Dietro di loro un italiano e una donna di colore hanno portato la statuetta di Gesù di carnagione nera.

Il don fa politica anche in chiesa: invita ad accogliere con Gesù nero. Nel corso della Santa Messa di Natale celebrata dall'arcivecovo, don Corrado Lorefice, è stato mostrato ai fedeli un Bambino Gesù di colore. Serena Pizzi, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. A Natale si è tutti più buoni. Dicono. Ci si scambia i regali, ci si fa gli auguri e si va ad ascoltare la Santa Messa. Negli ultimi anni, però, è più volte capitato che un sacerdote o un vescovo facessero più una predica politica che cristiana. Con il tempo, infatti, nella casa del Signore si è passati dal parlare dell'amore per il prossimo al creare ad hoc invettive contro Matteo Salvini. C'è anche chi non passa alle parole forti o agli inviti ad accogliere, ma si limita a rompere con la tradizione introducendo qualche "novità". Ed esattamente questo è successo ieri sera a Palermo. Nel corso della Santa Messa di Natale celebrata dall'arcivecovo, don Corrado Lorefice, nel duomo arabo-normanno della città dove sono ospitate le spoglie di don Pino Puglisi, i fedeli hanno ricevuto una bella sorpresa. Allo scoccare della mezzanotte si sono visti adagiare sulla mangiatoia un Gesù Bambino di colore. Nello specifico, dal corridoio centrale del duomo si è fatta avanti una piccola processione di otto bambini e bambine vestiti di bianco e di blu, sei italiani e due stranieri. Come descrive nel dettaglio Repubblica, dietro ai bimbi sono comparsi un uomo italiano e una donna di colore che reggevano e mostravano ai fedeli un Bambino Gesù nero. Dopo la passerella, i due hanno consegnato all'arcivescovo il pargolo. Don Corrado Lorefice lo ha preso in braccio, lo ha mostrato (di nuovo) ai fedeli che riempivano la cattedrale, lo ha baciato e poi lo ha consegnato a un membro del clero che lo ha deposto nella mangiatoia. I bambini, quindi, hanno posizionato le luci e le corone natalizie intorno al piccolo Gesù appena venuto al mondo che, in questo caso specifico, è di colore. Una provocazione? Un invito ad accogliere? Un modo per farsi pubblicità? Di certo, mostrando Gesù Bambino di colore ha solo creato del chiacchiericcio e non ha cambiato nulla. Il problema dell'immigrazione e dell'accoglienza non si risolve di certo in un questo modo.

Uk, preside di una scuola elementare modifica canto natalizio per renderlo "inclusivo". I genitori degli alunni della scuola hanno subito contestato la preside, ma una diocesi anglicana ha approvato la scelta della dirigente. Gerry Freda, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. Nel Regno Unito infuriano le polemiche dopo che la preside di una scuola elementare ha deciso di modificare un tradizionale canto natalizio in nome del “politicamente corretto”. Zakia Khatun, dirigente della londinese Whitehall Primary School, ha infatti disposto, riporta Fox News, che i suoi alunni canteranno, per celebrare il Natale 2019, una versione “emendata” della melodia di fine ottocento Away in a Manger (Lontano in una mangiatoia). Le strofe che verranno intonate dai bambini, per effetto delle modifiche ordinate dalla preside, non presenteranno quest’anno la parola “Signore”, sostituita dal più generico termine “bambinello”. L’istituto ha subito giustificato questa revisione dei versi della canzone appellandosi alla necessità di renderla “inclusiva verso i piccoli di ogni credo”. La Khatun, spiega l’emittente americana, si sarebbe convinta a stravolgere il testo di Away in a Manger dopo avere constatato che le celebrazioni natalizie dello scorso anno sarebbero state disertate, per motivi religiosi, da ben 60 bambini su 500 alunni dell’istituto. Di conseguenza, la dirigente si è mossa di recente per fare sì che il Natale di quest’anno sia finalmente “accessibile a tutti” e, precisa il Christian Broadcasting Network, rispecchi i “valori britannici”, tra cui vi sarebbe appunto la “tolleranza verso le altre religioni”. La trovata della preside ha subito indignato molti genitori, che hanno esternato la loro rabbia ai media britannici, citati da Fox News. I familiari degli studenti della scuola elementare hanno innanzitutto accusato la dirigente di avere, per colpa della sua revisione della canzone, fatto intristire i bambini. Le critiche all’indirizzo della Khatun si sono poi concentrate sul tema dei legami tra i canti natalizi e l’identità cristiana dell’Occidente. Ad esempio, una mamma ha tuonato: “Porto avanti questa protesta affinché la fede e la tradizione cristiane, che sono importantissime per tante persone di ogni età, non vengano sacrificate e messe a tacere per fare prevalere l’integrazione e il politicamente corretto”. Un’altra mamma ha quindi biasimato la preside per “discriminazione contro i cristiani”, affermando poi: “La signora Khatun non vuole che le persone di credo diverso si sentano escluse, eppure non si fa alcun problema nel maltrattare chi ha fede in Cristo”. Contro la rimozione della parola “Signore” dai versi di Away in a Manger hanno preso posizione anche autorità anglicane come il vescovo di Rochester Michael Nazir-Ali. Egli, afferma la Fox, ha contestato con queste parole la scelta fatta dalla dirigente della scuola londinese: “Se alcuni genitori non vogliono che i loro figli partecipino alle iniziative dirette a celebrare la nascita di Gesù, allora deve essere data loro la possibilità di manifestare il proprio dissenso e la scuola deve di conseguenza organizzare un’attività alternativa per quei bambini. I fondamenti della religione cristiana non vanno quindi assolutamente stravolti, accettando il rischio di scontentare qualcuno”. Tuttavia, proprio il fronte ecclesiale sta paradossalmente mostrando di recente palesi divisioni interne riguardo alla decisione “politicamente corretta” della Khatun. La diocesi anglicana di Chelmsford ha infatti emesso un comunicato, rilanciato sempre da Fox News, con cui si schiera di fatto a difesa della trovata della preside, dichiarando che la sortita di quest’ultima non inciderebbe affatto sul tradizionale messaggio di gioia racchiuso nel Natale, ma, al contrario, servirebbe a rendere le celebrazioni della nascita di Cristo “accessibili a chiunque, comprese le persone di altre religioni e i non credenti”.

Da iltempo.it il 16 dicembre 2019. Gesù con una evidente erezione davanti a un bambino inginocchiato, e la scritta "Ecce homo", con sotto in piccolo: "Erectus". È il manifesto choc comparso al museo Macro Roma nell'ambito di una serie di poster affissa all'esterno del polo. Una messaggio che molti hanno giudicato blasfemo e offensivo. "Il manifesto affisso all'esterno del Macro di Roma, Museo di arte contemporanea della Capitale, è di una vergogna inaudita", è la denuncia di Fratelli d'Italia che arriva con un nota congiunta di Fabrizio Ghera, capogruppo del partito alla Regione Lazio, e Andrea De Priamo capogruppo in Campidoglio. "Stamane, recandoci sul posto abbiamo notato un'immagine volgare che ritrae un bambino in ginocchio davanti a Gesù Cristo, quest'ultimo in evidente stato di eccitazione e con la mano in testa al bimbo. È inaccettabile che roba del genere venga esposta al pubblico, in un museo importante della città  - peraltro con fondi pubblici - e frequentato anche da famiglie. Come Fratelli d'Italia chiediamo alla sindaca Raggi di far rimuovere urgentemente la locandina blasfema, indegna e offensiva non solo dei cristiani ma anche di Roma". La polemica sta già infiammando i social a pochi giorni dal Natale in uno dei musei più apprezzati dai turisti in visita nella Capitale. E pensare che già due anni fa gli stessi manifesti blasfemi erano spuntati alle pensiline Atac. In quella circostanza era stato denunciato uno street artist romano di 28 anni rintracciato dagli agenti della Digos e denunciato per "offese a una confessione religiosa mediante vilipendio" e "affissione abusiva di manifesti". Come dire l'amministrazione comunale ci ricasca...

Da liberoquotidiano.it il 27 dicembre 2019. Nel Vangelo secondo Netflix, Gesù è un soggetto turbato che scappa nel deserto per cercare se stesso ed è pure gay, confidando le sue emozioni per un ragazzo in un diario segreto. Per molti la compagnia brasiliana Porta dos Fundos, che vanta un canale YouTube da 16,2 milioni di iscritti, è andata troppo oltre portando l'omosessualità nella scena sacra con La prima tentazione di Cristo. Pubblicato su Netflix lo scorso 3 dicembre, il programma umoristico ha fatto scandalo, tanto che in Brasile milioni di persone hanno firmato una petizione per bloccarne la diffusione. Netflix ha risposto picche, la reazione è stata durissima e certamente da condannare: la mattina della vigilia di Natale sono state lanciate delle molotov contro il quartier generale di Porta dos Fundos. L'attacco, avvenuto a Rio de Janeiro, sarebbe stato filmato dalle telecamere di sorveglianza: il collettivo satirico di videomaker brasiliani ha condannato "qualsiasi atto di violenza" e spera che "i responsabili siano trovati e puniti". Nel frattempo è arrivata anche la dura presa di posizione del vescovo di Pernambuco, che ha dichiarato di aver annullato l'abbonamento a Netflix perché la piattaforma è "posseduta dalla forza demoniaca, quel video è blasfemia volgare e irrispettosa".

Brasile, attacco molotov contro il video che raffigura Gesù gay. Ira del vescovo di Pernambuco: "Il video è una blasfemia volgare e irrispettosa". Ha annunciato l'annullamento dell'abbonamento a Netflix: "È posseduto dalla forza demoniaca". Luca Sablone, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. Polemiche contro il collettivo satirico di videomakers brasiliani "Portas dos Fundos", che su Netflix hanno trasmesso un discusso programma umoristico in cui Gesù è ritratto come gay. La mattina del 24 dicembre il gruppo è stato vittima di un attacco - ripreso dalle telecamere di videosorveglianza del posto - in cui sono state lanciate bombe molotov che non avrebbero causato né morti né feriti. Il video intitolato "La prima tentazione di Cristo", dalla durata di 46 minuti, è stato pubblicato da Netflix martedì 3 dicembre: le immagini hanno scatenato diverse proteste specialmente tra evangelici e cattolici. Addirittura migliaia di persone hanno firmato una petizione per chiederne il ritiro. Henrique Soares da Costa, il vescovo di Pernambuco, ha annunciato di aver annullato l'abbonamento alla piattaforma che a suo giudizio sarebbe "posseduta dalla forza demoniaca". Il video inoltre è stato definito una "blasfemia volgare e irrispettosa". Portas dos Fundos ha fatto sapere sul proprio profilo Twitter che "una delle guardie di sicurezza è riuscita a controllare il principio del fuoco e non è rimasta ferita anche se l'azione ha messo in pericolo diverse vite innocenti in strada". Il gruppo ha ribadito di condannare "qualsiasi atto di violenza e ha messo a disposizione delle autorità le riprese della telecamera di sicurezza e si aspetta che i responsabili degli attacchi vengano individuati e puniti". Tuttavia al momento la priorità è rappresentata dalla "sicurezza dell'intero team che lavora con noi". Infine hanno voluto lanciare un messaggio chiaro: "Per ora prevediamo che andremo avanti, più uniti, più forti, più ispirati e fiduciosi che il paese sopravviverà a questa tempesta di odio e l'amore prevarrà insieme alla libertà di parola". Sulla vicenda si era espresso Edoardo Bolsonaro, figlio del premier Jair: "Siamo a favore della libertà di espressione, ma vale la pena attaccare la fede dell'86% della popolazione?". Più dura era stata invece la presa di posizione da parte del deputato Julio Cesare Ribeiro: "In questo film, nostro Signore Gesù viene mostrato come omosessuale. In più, i discepoli sembrano degli ubriaconi. Inammissibile! Si tratta di una presa in giro verso i cattolici e gli evangelici".

Nel film Gesù è omosessuale. Netflix assolto: "Nessuno stop". La Corte Suprema brasiliana ha dato ragione a Netflix. Il giudice: "Non indebolisce i valori cristiani". Il tribunale aveva chiesto il ritiro della fiction. Francesca Bernasconi, venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Gesù è rappresentato come omossessuale e ha un fidanzato. Per questo, si era scatenata la bufera intorno alla fiction satirica della compagnia comica Porta dos Fundos, trasmessa da Netflix. Ma ora, la Corte Suprema brasiliana ha dato ragione a Netflix. La puntata, uno speciale natalizio, intitolata La prima tentazione di Cristo, era andata in onda dal 3 dicembre. Il lungometraggio è incentrato sul personaggio di Gesù che, in occasione della festa organizzata per i suoi 30 anni, decide di presentare alla famiglia e agli apostoli il suo fidanzato. Ma l'idea non è stata apprezzata da alcuni fedeli e la polemica era esplosa. Sulla vicenda era intervenuto anche il figlio del premier Bolsonaro: "Vale la pena attaccare la fede dell'86% della popolazione?", si era chiesto. Dure anche le parole del deputato Julio Cesare Ribeiro: "In questo film Nostro Signore Gesù viene mostrato come omosessuale. In più, i discepoli sembrano degli ubriaconi. Inammissibile! Si tratta di una presa in giro verso i cattolici e gli evangelici", aveva detto. Un giudice di Rio de Janeiro aveva ordinato a Netflix di rimuovere la puntata dalla sua programmazione, dopo che la Chiesa cattolica in Brasile aveva presentato una petizione, sostenendo che il film fosse lesivo per "l'onore di milioni di cattolici". Il tribunale aveva dichiarato che il ritiro della puntata rappresentasse un "beneficio non solo per la comunità cristiana, ma per la società brasiliana, che è in gran parte cristiana". Ma ora, la sentenza della Corte Suprema, cui Netflix aveva fatto ricorso, ha ribaltato completamente la sentenza, annullando la decisione del giudice del tribunale brasiliano. Il presidente della Corte ha sostenuto che lo speciale natalizio abbia tenuto conto della "necessità di rispettare la fede cristiana", aggiungendo che "non possiamo pensare che una satira umoristica abbia la capacità di indebolire i valori della fede cristiana, la cui esistenza risale a più di 2000 anni fa e che è interiorizzata nella convinzione della maggioranza dei brasiliani". Netflix aveva espresso l'intenzione di far ricorso alla Corte, per combattere e difendere "l'espressione artistica".

Netflix nella bufera per Gesù gay in "La prima tentazione di Cristo". Avvenire: "Irride il Vangelo". Il quotidiano della Cei riprende la denuncia di Pro Vita & Famiglia contro il film del collettivo satirico brasiliano Porta dos Fundos perché "discriminatorio e blasfemo". I tribunali brasiliani intanto hanno negato la rimozione dalla piattaforma. Rita Celi il 21 dicembre 2019 su La Repubblica. Quando compie trent'anni, Gesù torna a casa con un ospite speciale da presentare alla sua famiglia, ma lo accoglie una festa a sorpresa. Inizia così La prima tentazione di Cristo, lo "speciale di Natale" firmato dal collettivo satirico brasiliano Porta dos Fundos che ha scatenato polemiche nel mondo cattolico contro gli autori e contro Netflix che ha prodotto e distribuito il film di 46 minuti in portoghese (disponibile anche in Italia con i sottotitoli). In Italia la "versione omosessuale" di Gesù non è stata gradita da Pro Vita & Famiglia che ha diffuso una nota contro la piattaforma streaming e ha lanciato una petizione per chiedere di eliminare la programmazione del film. Protesta ripresa da Avvenire che ricorda anche il precedente "speciale di Natale" di Porta dos Fundos del 2018: "L’ultima sbronza, una parodia feroce dell’ultima cena", scrive il quotidiano, "con Gesù e gli apostoli rappresentati come un gruppo di ragazzotti avvinazzati intenti a celebrare un party d’addio tra droga, donnine e battute volgari, scivolando nella blasfemia (soprattutto sulla crocifissione di Cristo) con una stupidità disarmante". Netflix avverte del contenuto "irriverente" e segnala il divieto ai minori di 14 anni per A primeira tentação de Cristo, presentato come "un'altra parodia di proporzioni bibliche" dei comici Gregorio Duvivier e Fábio Porchat che interpretano rispettivamente Gesù e il suo fidanzato Orlando. Il trailer offre un assaggio della stramba festa di compleanno, tra canzoni natalizie, "nuove sfide" e importanti rivelazioni: "Sono tuo padre" dice Dio a Gesù, facendo infuriare Giuseppe. Gesù è gay, Dio è innamorato di Maria, i Re Magi discutono su tutto e gli invitati bevono e si divertono. "Questi lavori non fanno neanche ridere" scrive Avvenire, La prima tentazione di Cristo "è una accozzaglia di 'trovate' sgangherate: alla festa per i suoi 30 anni Gesù si presenta a Nazareth con un biondo, baffuto e caricaturale fidanzato, deve fare i conti con una Maria che fuma, un Giuseppe geloso e un Dio Padre prepotente e seduttore, lottare con un Lucifero tipo Star Wars, chiedere consiglio a Buddha e Shiva e partire per la sua missione. Più che ridere" conclude il quotidiano dei vescovi, "non ci resta che piangere". Mentre infuria la polemica, in Brasile il film sta registrando il record di visualizzazioni su Netflix. Il collettivo Porta dos Fundos ha risposto alle accuse con una serie di provocazioni: non solo ha condiviso il link della petizione in cui si chiede la rimozione della Prima tentazione di Cristo (lanciata da alcuni religiosi che criticano il film, a partire dal vescovo Enrico Soares da Costa, e firmata da mezzo milione di persone) ma ha anche realizzato un nuovo video, Inri-tado, che ha sempre protagonista Gesù pubblicato sul canale YouTube che ha oltre 16 milioni di iscritti e ha annunciato un nuovo film per il 2020. Nel frattempo i media brasiliani riportano le decisioni dei vari tribunali di Rio e San Paolo che hanno negato la richiesta di ingiunzione per rimuovere lo speciale di Natale di Porta dos Fundos da Netflix. Secondo la giudice Adriana Sucena Monteiro Jara Moura non vi è motivo per rimuovere il film dalla piattaforma streaming, una decisione diversa sarebbe "inequivocabilmente censura decretata dalla magistratura". "Discriminatorio e blasfemo" viene definito dal presidente di Pro Vita & Famiglia Toni Brandi e il vice presidente Jacopo Coghe. "Questa volta Netflix ha superato il limite della decenza. In Brasile ha lanciato il film blasfemo A primeira tentação de Cristo (La prima tentazione di Cristo), dove Gesù viene raffigurato in versione omosessuale, con un fidanzato, e dove non ha nessuna intenzione di dedicarsi alla sua missione di diffondere la parola di Dio. Come se non bastasse" prosegue la nota, "il film prodotto dal gruppo di comici-videomaker Porta dos Fundos mette in scena la Vergine Maria come una vera e propria disgraziata e i discepoli come un gruppo di alcolisti. È un attacco alla religione cristiana, mascherato da arte cinematografica, piuttosto intravediamo più un vilipendio alla religione". "Poiché Netflix non è una nuova nel mettere online tematiche di dubbio gusto, appoggiando posizioni e politiche che discriminano i diritti più sacrosanti come accaduto nei mesi scorsi in Georgia, negli Stati Uniti, dove il colosso dello streaming video ha minacciato di non fare più affari dopo che lo Stato ha approvato la legge sul battito cardiaco, quella che vieta l'aborto dopo il primo battito del cuore del bambino nel grembo materno, riteniamo che il fatto sia ancora più grave. Già 126mila persone hanno eliminato i loro abbonamenti in Georgia" concludono Brandi e Coghe, "e anche qui impediremo che Netflix faccia propaganda anti-cristiana senza opporci".

Avvenire riporta poi la dichiarazione di Netflix al quotidiano O estado de Sao Paulo in cui difende la "libertà creativa degli artisti" con cui lavora e sottolinea la vasta possibilità di scelta offerta dalla piattaforma, che comprende anche storie bibliche. "Giustificazione assai debole" commenta il quotidiano della Cei, "anche perché di artistico La prima tentazione di Cristo non ha proprio niente, ma piuttosto risulta una insulsa, quanto irritante, goliardata che prende di mira il vangelo. Comicità demenziale?" conclude. "Piuttosto una facile scorciatoia per cercare di ottenere più contatti video, un calcolo commerciale che se ne infischia allegramente della sensibilità dei tanti fedeli soprattutto se presentato come Speciale di Natale".

Manifesto shock al Macro, Gesù ha un'erezione davanti a un bimbo. Al museo Macro di via Nizza sono riapparsi i manifesti "Ecce Homo" che raffigurano Gesù in preda a un'erezione davanti a un bimbo inginocchiato. Bianca Elisi, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. C’era una volta l’arte sacra, c’erano i Caravaggio, i Michelangelo e i Raffaello. C’erano opere capaci di coniugare bellezza e riflessione. Oggi, invece, l’iconografia religiosa è diventata appannaggio di un esercito writer in cerca di popolarità. E allora, se la filosofia è quella del “purché se ne parli”, tutto diventa lecito. Anche raffigurare Gesù Cristo in preda a un’erezione davanti a un bimbo inginocchiato. L’ennesima profanazione artistica accade nella Capitale. È affissa in bella mostra su una delle vetrate esterne di un museo comunale: il prestigioso Macro di via Nizza. A denunciare l’accaduto sono gli esponenti di Fratelli d’Italia, Fabrizio Ghera e Andrea De Priamo, rispettivamente capogruppo in Regione Lazio e in Consiglio comunale. “Stamane abbiamo notato quell’immagine volgare - raccontano i due in una nota - che ritrae un bambino in ginocchio davanti a Gesù Cristo, quest’ultimo in evidente stato di eccitazione e con la mano in testa al bimbo”. Proprio così. Sotto alla scritta “Ecce Homo” campeggia la squallida rappresentazione del Messia pedofilo. Più sotto, per chiarire meglio il concetto, si legge ancora la parola “Erectus”. “È inaccettabile - tuonano i due esponenti di Fratelli d’Italia - che roba del genere venga esposta al pubblico, in un museo importante della città, peraltro con fondi pubblici, e frequentato anche da famiglie”. “Questa vergogna - concludono - deve sparire subito e i responsabili siano sanzionati”. Una richiesta rilanciata anche da Giorgia Meloni, che al sindaco Virginia Raggi ha chiesto di attivarsi con urgenza per rimuovere “la locandina blasfema, indegna e offensiva non solo dei cristiani ma anche di Roma”. Alla fine a censurare il manifesto ci ha pensato direttamente la società che gestisce il polo museale e che era all’oscuro di tutto. L’Azienda Speciale Palaexpo ha fatto sapere che “si dissocia dal messaggio del manifesto e comunica che lo stesso è stato rimosso”. Battendo così sul tempo chi stava pensando di ricorrere al fai-da-te. Come i cattolici del movimento politico Militia Chirsti, che dal loro account Twitter avevano ventilato l’ipotesi di una discesa in campo. “Il manifesto schifosamente blasfemo - si legge nel tweet dei cattolici oltranzisti - lo dobbiamo andare a togliere noi?”. Manifesti identici a quelli finiti nell’occhio del ciclone in queste ore erano già apparsi a Roma. Qualcuno li aveva affissi nel luglio del 2017 su alcune pensiline dell’autobus. All’epoca la dinamica dei fatti fu la medesima. Anche la municipalizzata dei trasporti capitolina, infatti, si era dichiarata totalmente estranea alla vicenda, catalogandola come un “atto vandalico”.

Quale Gesù? Alessandro Bertirotti su Il Giornale il 20 dicembre 2019. È tutta questione di… disperazione. Ne Il nome della rosa, Umberto Eco, fa dire, sul finale, a Jorge da Burgos, che “il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede”. Questa è considerazione che emerge in me, dalla lettura di questa notizia. In effetti, di fronte a queste manifestazioni di intelligenza umana (perché, certamente, gli autori, i creativi, di questo manifesto si ritengono al di sopra degli altri esseri umani religiosi cristiani) è spontaneo porsi una serie di domande. La prima: cosa sarà mai accaduto nella storia di questi autori di così grave, traumatico e drammatico da indurli a produrre tanta creatività geniale? La seconda: quale obiettivo socio-culturale vorranno mai perseguire persone così, con un manifesto di questo genere? La terza (non ultima, anche se mi fermo…): quale idea avranno mai di un Dio se riescono a presentarlo in una dimensione che esula completamente dal messaggio che lo stesso Dio ha proposto al mondo, attraverso la figura di Gesù? Insomma, in poche parole, sarebbe davvero interessante ascoltare eventuali risposte alle mie semplici domande. Sarebbe importante, sempre dal mio punto di vista, cercare di comprendere l’origine, lo sviluppo e il fine di un’idea alla Charlie Hebdo. Per quanto mi riguarda, ritengo che tali manifestazioni di apparente libertà cognitiva, come se tale libertà avesse a che fare con la tradizione etico-morale di un popolo, rivelino in realtà un forte disagio mentale e relazionale. In effetti, quando, in una nazione, il sentimento del limite, specialmente rispetto alle proprie tradizioni religiose, viene considerato una gabbia etica, e dunque anche morale, invece di costituire il luogo della libertà, siamo di fronte ad un notevole e generale sbando. Se volessimo parafrasare Jean Paul Sartre diremmo che la libertà è il luogo delle scelte possibili, e non di quelle impossibili, e che l’umanizzazione in senso becero e volgare di un Dio, per dare sfogo alle proprie frustrazioni emotive, è segno di egocentrismo mortifero e triste. Ecco perché non mi scandalizzo più di tanto, rispetto a queste manifestazioni, mentre emerge in me un sentimento sempre più diffuso di pena e compassione, ma che non porta con sé il bisogno di aiutare questi individui a crescere sul serio. Ci penserà la vita a farlo, che vogliano o meno loro stessi. E se non cresceranno, periranno prima, secondo tempi, modi e motivazioni che non ci è dato sapere. Non c’è alternativa. Una grande fortuna, in fondo.

Da liberoquotidiano.it il 20 dicembre 2019. Robe che soltanto Vauro. L'ultimo delirio del vignettista comunista arriva direttamente dallo studio di Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio su Rete 4, dove si discute delle tradizioni e di un Natale sempre più consumista. E il vignettista prende la parola per affermare quanto segue: "È vero che a Natale si festeggia la nascita del Bambin Gesù, ma la stragrande maggioranza dei bambini aspetta Babbo Natale, un ciccione con un'aria anche vagamente pedofila vestito di rosso". Insomma, Babbo Natale pedofilo. Parole che scatenano un putiferio in studio, tra ululati e grida di disapprovazione. Anche Del Debbio prende le distanze: "Ma che roba è? Perché devi dire delle bischerate? Ma quale aria? Sei te... sei l'unico in Italia che ci vede un pedofilo". Ma Vauro non arretra. "È inquietante. Ce l'ha quest'aria...". Convinto lui...

Vauro manda Gesù a Bibbiano: l'ignobile vignetta sul presepe. Forti polemiche dopo l'ultima fatica del vignettista toscano. La Meloni attacca: "La satira è sempre legittima. Ma ridicolizzare uno scandalo che ha rovinato la vita di tanti genitori e bambini per il semplice gusto di attaccarmi è ripugnante". Federico Garau, Mercoledì 18/12/2019 su Il Giornale. Vauro Senesi torna a scatenare una mare di polemiche con la sua ultima fatica, l'ennesima vignetta dissacrante con la quale riesce ad ironizzare anche sulla vicenda di Bibbiano, in un connubio con le celebrazioni per il Natale che lascia un retrogusto decisamente amaro. Il nuovo lavoro del vignettista toscano compare su "Left", e prende spunto dal Presepe, altro tema caldo del periodo natalizio, viste tutte le battaglie tra i sostenitori del tradizionale simbolo di matrice cristiana e chi invece si oppone ad esso, in nome di una troppo decantata pluralità culturale. Polemica ripresa, tra l'altro, proprio a partire dal titolo della stessa raffigurazione ("In difesa del #presepe"), come a voler ulteriormente alimentare la diatriba in corso sminuendo allo stesso tempo l'importanza del valore che in tanti attribuiscono alla rappresentazione della Natività. Nell'immagine diffusa da Vauro sul suo profilo Twitter sono raffigurati un San Giuseppe con le fattezze del leader della Lega Matteo Salvini, come sempre uno dei principali obiettivi della sua matita, ed una Madonna coi tratti somatici del presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. In mezzo ai due quello che dovrebbe essere il bambin Gesù il quale, terrorizzato dopo essersi reso conto dell'identità dei genitori, si lascia andare ad una esternazione decisamente infelice e poco delicata: "Mi sa che quest'anno chiedo asilo politico a Bibbiano". Il riferimento è abbastanza esplicito e non lascia spazio ad interpretazioni di alcun tipo. Il fatto di aver calpestato con tanta leggerezza la tragedia vissuta da numerose famiglie vittime del sistema Bibbiano non ha lasciato insensibili gli utenti del social network. Una delle prime a sfogarsi è proprio Giorgia Meloni, che commenta con grande amarezza: "La satira è sempre legittima e sacrosanta. Ma tentare di ridicolizzare uno scandalo che ha rovinato la vita di tanti genitori e bambini, per il semplice gusto di attaccarmi, è veramente qualcosa di ripugnante. Che pena". Non si è fatta attendere neppure la replica del popolo di Twitter, fortemente indignato per la mancanza di sensibilità mostrata da Vauro. "Aspettiamo (come sempre) che il suo cuore pieno di eroico coraggio si lanci anche in una vignetta contro Maometto...ma credo che resteremo delusi, visto che tutti quanti conosciamo fin troppo bene la sua cara e vecchia codardia, tipica dei vecchi comunisti falliti", attacca un utente. "Sei un poveretto. Primo perché se non credi non devi nemmeno nominarlo il Presepe e secondo perché su una storia come quella di Bibbiano starei molto attento a fare dell'ironia. La satira è altro, un dono che tu hai perso da tempo", replica un altro. "In un colpo solo hai denigrato i cristiani, Gesù, la famiglia, i bambini e genitori vittime del sistema affidi illeciti di Bibbiano. Sei l'esempio perfetto della sinistra, prima fai la morale per i ladri uccisi durante una rapina, poi ti fai beffe dei bambini. Orrore vomitevole", si legge in un altro commento.

Vauro, ignobile vignetta su Bibbiano. Meloni lo distrugge con un post: «Una cosa ripugnante». Ezio Miles martedì 17 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Vauro riesce anche a sporcare il Natale. Non ci stupisce. Ma almeno poteva risparmiare le piccole vittime della follia ideologica di Bibbiano. Nell’ultima vignetta pubblicata su Left è rappresentato uno strano presepe. San Giuseppe con il volto che assomiglia a Matteo Salvini. La Madonna con il volto che assomiglia a Giorgia Meloni. E in mezzo Gesù Bambino che dice: «Mi sa che quest’anno chiedo asilo politico a Bibbiano». Vauro ha pensato di prendere evidentemente tre piccioni con una fava. Attaccare la Meloni. Attaccare Salvini. E attaccare tutti coloro che hanno scoperchiato la botola degli orrori piddini di Bibbiano. Un vero pacco natalizio per i suoi beceri ammiratori. Ma un “pacco” tout court per tutti. Ammiratori e detrattori. Perché certi argomenti sarebbe meglio lasciarli perdere. Sarebbe meglio lasciare fuori l’infanzia che soffre dalla satira più scomposta. Indignata la reazione della Meloni. Che distrugge Vauro con post. «La satira è sempre legittima e sacrosanta. Ma tentare di ridicolizzare uno scandalo che ha rovinato la vita di tanti genitori e bambini, per il semplice gusto di attaccarmi, è veramente qualcosa di ripugnante. Che pena». Il fatto è che Vauro in certi casi offre il peggio di sé. Il vignettista  si butta a pesce tutte le volte che ha l’opportunità di sporcare i sentimenti più sacri e più profondi di tanti italiani. La dissacrazione è la sua  vera vocazione . Le sue vignette producono normalmente solo un sogghigno. O, nella migliore delle ipotesi, una risata scomposta. Sono le reazioni più consone ai suoi sostenitori e fan. Gente che evidentemente non conosce la differenza che passa tra ironia e sporcizia. Tra lo scherzare e l’infangare. Tra l’allegria sana e l’euforia malata. La sinistra, al dunque, non sa né sorridere né irridere. Sa solo ridere in modo sguaiato. Si merita proprio Vauro. E tutta la schiera dei tristi disegnatori dalla matita intina nel fiele.

Milano, gesto shock nel presepe: spunta una bottiglietta di urina. Una bottiglia piena di urina è stata posizionata accanto alla Madonna nel presepio allestito presso il Municipio 4. Fabio Franchini, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. La mamma dei cretini è sempre incinta. E infatti qualcuno ha pensato bene di posizionare una bottiglietta piena di urina accanto alla Madonna, all'interno del presepe allestito presso il Municipio 4 a Milano. Un gesto di sfregio, senza rispetto alcuno. E per una vigliaccata del genere, c'è fortunatamente anche chi sa rispondere con una "carezza". Come quella signora che dopo aver saputo della deturpazione, si è recata sul posto per lasciare una pianta. A raccontarlo a ilGiornale.it è Paolo Guido Bassi, esponente della Lega e presidente, per l'appunto, del Municipio 4, teatro del fattaccio. "La vicenda, purtroppo, è molto semplice ed è tutta in quella foto. Ieri mattina, sul presto, qualcuno evidentemente disturbato, ha lasciato questa bottiglia di urina proprio di fronte alla Madonna del presepio che abbiamo allestito all'ingresso dell'aula consiliare del municipio. Un gesto esecrabile, sul quale non voglio fare congetture, pensando a chi possa essere stato: non vi sono né sicurezze né garanzie di colpevolezza, quindi non voglio fare ipotesi sulla matrice. Ciò detto, è un gesto volgare che si commenta da solo", le parole di Bassi, contattato telefonicamente. Da una brutta storia, al bel gesto di civiltà e distensione dell’anonima cittadina meneghina, come sottolineato dallo stesso presidente di municipio: "Una signora ha portato una piantina e l'ha messa lì per abbellire ulteriormente il presepio. Da un fatto negativo, ecco una reazione positiva che riempie davvero il cuore". Il Municipio 4, peraltro, si è molto impegnato per valorizzare il presepe come simbolo di pace, speranza e tradizione, attraverso una serie di eventi, coinvolgendo la comunità, scuole, parrocchie e centri anziani, oltre che negozi e condomini del quartiere.

La condanna. "Chi tace è complice. Oggi col ritrovamento di una bottiglia di urina accanto alla Madonna del presepe allestito presso il Municipio 4, siamo di fronte a un atto blasfemo e vigliacco, che nella nostra città non vorremmo mai vedere, tantomeno in un luogo di democrazia", il commento di Alessandro Morelli, capogruppo della Lega a Palazzo Marino una volta appresa la notizia dello sfregio. Un misfatto condannato in toto anche da Francesco Rocca, presidente della Commissione Sicurezza proprio di Municipio 4: "La mamma degli stupidi è sempre incinta, questo ne è un esempio. Lo sfregio al presepe è un segno della mancanza di valori che va affermandosi sempre più nella nostra città". Molto duro, infine, anche l'ex vice sindaco di Milano - e attuale assessore alla Sicurezza in Regione Lombardia, Riccardo De Corato: "A Natale ne avevamo viste già di tutti i colori contro il 'povero' presepe, ma non era mai successo di vedere una bottiglia di urina appoggiata accanto alla Madonna. Il vile sfregio, che condanno, avvenuto in un quartiere pieno di no-global e anarchici, non può sicuramente essere ascritto ad una goliardata".

Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 13/11/2015, su Il Giornale. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immerso nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che infastidisce i seguaci di Gesù. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.

Babbo Natale è una fake news. Augusto Bassi il 17 dicembre 2019 su Il Gioirnale. Caro Babbo Natale, per queste festività voglio smettere di odiare e imparare ad amare: amare come le Sardine amano i leghisti, come Hamas ama gli israeliani, come gli israeliani amano i palestinesi, come gli islamisti amano gli omosessuali, come i piddini amano la democrazia, come Greta ama i treni regionali di seconda classe e la scuola dell’obbligo. Il mio piccolo contributo partirà dall’azione: pretendo da te un Natale meno cristocentrico, più femminista, terzomondista ed ecosostenibile. Un presepe vivente meno omofobo ed islamofobo, con due Madonne in chador, mamme di un bambin Gesù negretto nato in Finlandia da fecondazione assistita, che sceglierà da solo in età adulta se finire in croce o meno, per evitare di offendere sensibilità differenti; e ancora Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, sacerdoti di Zoroastro e di Trasgender, in gay pride verso Betlemme, inseguiti dal folklore di alcuni salafiti intransigenti. Noi che siamo stati buoni, che siamo rimasti umani, mentre intoneremo le tipiche canzoni della tradizione come Jingle Bells, Oh Happy Day, White Christmas, Tu Scendi Dalle Stelle e Bella Ciao, che cosa pretenderemo sotto l’albero? Quale albero, innanzitutto, caro Babbo? Estirpare un albero naturale dal proprio ambiente, deforestare?! Sradicarlo per renderlo più dinamico e cittadino del mondo è lecito, ma esporlo al calore dei termosifoni, alle correnti d’aria delle finestre, a cani, gatti e bambini inferociti?! Mai! Allora ne pretenderò uno artificiale. Mi chiedo tuttavia, sarà ecosostenibile? Un albero artificiale ha impatto sull’atmosfera pari a 40 chilogrammi di CO2: insostenibile. Ma i regali vanno pur messi sotto qualcosa. Così ho domandato all’amica Concita De Gregorio, la quale mi ha consigliato di addobbare il filippino buddista di casa per una maggiore integrazione e meditazione, con tappi di sughero di vini rigorosamente bio, candele ecologiche al posto delle luminarie, fiori di loto, conchiglie, vasi del tesoro, vecchie Jimmy Choo usate, scatole di carta con disegni di animali in via d’estinzione e Cecchi Paone, banana di Cattelan a mo’ di puntale concettuale. Pretendo dunque anch’io, caro Babbo, un filippino buddista di casa. Filippino da intendersi come professione, non come nazionalità, va da sé, perché un uomo che ama, non emargina lo straniero ed è sempre aperto all’altro. La xenofobia è un retaggio medievale, almeno quanto la monogamia, che trasuda discriminazione e chiusura; chi sono io per preferire, ogni giorno della mia vita, finché morte non ci separi, una donna a tutte le altre?! E a preferirla pure a tutti gli uomini, che ho finalmente iniziato ad apprezzare da quando mi sono spogliato di ogni omofobia? Verità che una brava moglie italiana dovrebbe afferrare in fretta, mentre fa la spesa per il cenone della Vigilia con delle festose corna natalizie in testa, dopo aver portato le bimbe a piloxing ed essere stata in ufficio e dal gommista, come ogni donna emancipata e me too. Tu, piuttosto, perché sei Babbo, al maschile? Il tuo gretto sessismo patriarcale è rivoltante e puoi startene a casa, in Lapponia, in Alta Padania o in qualche altra landa barbara e desolata da dove provieni. Ok, boomer, tanto i ragazzi di oggi sono svegli e hanno smesso di credere alle fake news che riguardano un matusa barbuto figlio del boom economico che gira per il mondo su una slitta carica di regali e trainata da renne volanti; ora credono ai movimenti spontanei contro il populismo e a una bambina speciale che salverà il pianeta. 

Se la sindaca Raggi odia il Natale. Dopo l'odissea di Spelacchio, a Roma Babbo Natale è salvo. Ma non la Befana. Giuseppe Marino, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Da qualche anno a Roma si vive come in una puntata di Game of thrones. Buche, bus in fiamme e alberi che crollano suonano come un monito: «The winter is coming». Ma quando arriva dicembre, l'atmosfera vira su Dickens: tutto congiura per rovinare lo Spirito del Natale. Il mondo intero ancora ride della storia di Spelacchio, l'abete arrivato morto a Roma e finito anche sul New York Times, ma per capire fino in fondo il livello di degrado che c'è dietro il caso Spelacchio, bisogna riassumerne la storia partendo dall'inizio della giunta grillina. Il primo albero di Natale firmato Virginia Raggi è triste e spoglio. Fioccano i paragoni con le luci e i colori delle altre capitali e in particolare di Milano, che da anni si affida a privati per sostenere la spesa. La giunta Raggi replica che è orgogliosa di non avere ceduto agli sponsor e di avere sborsato «solo» 15mila euro. Di fronte alle polemiche, però, pressa la ditta fornitrice perché aggiunga un po' di luminarie.  E se la Raggi fosse il Grinch? L'anno dopo, Raggi si intestardisce: niente sponsor. Il nuovo abete, però, come è noto, arriva già morto. Nuove polemiche e figuraccia mondiale, alimentata anche dall'estro dei romani che affibbiano al povero tronco rinsecchito il nomignolo di Spelacchio. Nel 2018 la giunta cede: via a un bando aperto ai privati ma, per rendere meno sfacciato il dietrofront, si chiede di sostenere le spese in cambio soltanto di un «grazie» da parte della sindaca: assolutamente no a sponsorizzazioni evidenti. Ovviamente nessuno si candida. Quando già si va prospettando un altro triste Natale, l'arcigno integralismo grillino si piega: via al mega sponsor Netflix. Che non solo sfrutta il nome di Spelacchio in modo geniale, ma ottiene di adornare l'albero con cento palle griffate con il logo della società americana. La foglia di fico è imporre che il puntale non riporti alcun simbolo. Ma la sindaca farà addirittura da comparsa alla serata inaugurale recitando un macchiettistico dialogo con Spelacchio cui dà voce l'attore Pino Insegno. Nel 2019 stesse modalità. E stavolta Babbo Natale è salvo. E invece no: il tradizionale mercatino della Befana che si tiene a piazza Navona quest'anno è stato messo sotto sequestro per varie irregolarità. Ma chi odia il Natale a Roma? Un sospetto serpeggia in città: Virginia, in realtà, è il Grinch.

Che diritto abbiamo di abbattere gli abeti per festeggiare il Natale? Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Frondolino su Corriere.it. Per una volta non parliamo di animali, ma di alberi: anzi, dell’Albero per eccellenza, quello di Natale. A Roma, seguendo una barbara usanza in uso ormai da decenni, ne sono stati eretti addirittura due: uno comunale a piazza Venezia e un altro vaticano a piazza san Pietro. Il primo, quello comunale, era – bisogna usare il verbo al passato, perché parliamo di una creatura vivente che è stata uccisa – un abete del Caucaso (Abies nordmanniana) di quarant’anni alto quasi 23 metri: è stato abbattuto a Cittiglio, in provincia di Varese, e per trasportarlo i rami più grandi sono stati tagliati, numerati e impacchettati per essere poi rimontati a Roma. Viene invece dall’Altipiano di Asiago e ha qualche anno in più l’abete rosso (Picea abies) eretto in Vaticano: era alto 26 metri e aveva un diametro di 70 centimetri e, prima di essere abbattuto, viveva felice nei boschi del comune di Rotzo in compagnia di abeti bianchi, larici e faggi. Che diritto abbiamo noi di togliere la vita a piante così maestose, così straordinarie, così imponenti? Che diritto abbiamo di sradicare un albero dalla sua foresta, trasportarlo al centro di una città, addobbarlo di lucine sceme (quello di piazza Venezia, informa con orgoglio un comunicato stampa, «sarà illuminato con 80mila luci led accese ventiquattr’ore al giorno e decorato con mille addobbi tra sfere e cristalli di neve») e poi buttarlo in una discarica il giorno dopo la Befana? E che divertimento proviamo nel vedere il cadavere di un albero un tempo libero e rigoglioso reggersi artificialmente in una piazza impazzita di traffico? Le piante sono esseri senzienti, proprio come noi: ma siccome, diversamente dagli animali, non si muovono e non parlano, nella nostra sovrana e arrogante ignoranza pensiamo siano pietre. Senza di noi gli alberi vivrebbero senz’altro meglio: senza di loro, moriremmo in pochi mesi. E, soprattutto, sono esseri intelligenti: se non ci credete, leggete «Verde brillante», un entusiasmante saggio sulla sensibilità e sull’intelligenza del mondo vegetale scritto da uno dei maggiori esperti mondiali, il professor Stefano Mancuso, che all’Università di Firenze ha fondato e dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale. Le piante, spiega e dimostra Mancuso, hanno una personalità, possiedono i nostri cinque sensi ma ne hanno molti altri in più, si scambiano informazioni e interagiscono con gli animali. Per sopravvivere adottano strategie mirate, hanno una vera e propria vita sociale, sfruttano al meglio le risorse energetiche e alimentari di cui dispongono. Sono capaci di scegliere, imparare e ricordare, e sentono perfino la forza di gravità. Le radici sono in grado di decidere dove dirigersi in base alla presenza di acqua e nutrienti, e tuttavia non hanno occhi né nasi né radar. Le piante non hanno un cervello così come lo intendiamo noi, e neppure un sistema nervoso centrale, e tuttavia sono in grado di acquisire informazioni, elaborarle e scegliere di conseguenza grazie ad un sistema modulare che somiglia molto alla nostra internet: ogni «nodo» è indipendente dagli altri e sa fare (quasi) tutto, di modo che la pianta è in grado di funzionare, cioè di sopravvivere, anche se una sua parte significativa viene amputata. Certo, di fronte ad una motosega gli alberi non possono nulla, sono del tutto indifesi e cadono morti a terra. Intendiamoci: non sto dicendo che abbattere un albero per farci un tavolo o un armadio sia riprovevole o immorale. Così come mangiamo molti animali e molte piante, possiamo anche servirci di loro per ripararci dal freddo o abbellire la nostra casa. Naturalmente il taglio del bosco dev’essere regolamentato per evitare il disboscamento selvaggio, che in Italia è fra le cause principali delle frane e delle inondazioni sempre più rovinose, e per ogni albero tagliato sarebbe utile piantarne almeno un altro. Ma qui non parliamo di legname o di arboricoltura industriale: qui ci sono due abeti che hanno impiegato la bellezza di quarant’anni per crescere più alti di una casa sfidando il vento e la neve, il sole e la tempesta, che hanno vissuto per quasi mezzo secolo in un bosco, indisturbati dall’uomo e, per quanto ne sappiamo, felici di esserlo, che hanno respirato l’aria cristallina delle montagne assorbendo anidride carbonica e donandole nuovo ossigeno, e che improvvisamente, per un capriccio sciocco, vengono abbattuti ed esibiti come trofei in una città lontana che in un attimo si è già dimenticata di loro.

Francia, interrotto presepe con bimbi al grido: "Stop ai fascisti". Manifestanti di estrema sinistra hanno interrotto un presepe vivente al grido di "Stop agli sbirri e ai fascisti", noi "siamo gli anticapitalisti". Le condanne del sindaco di Tolosa e dell'Arcivescovo locale. Matteo Orlando, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale.  In Francia una cinquantina di manifestanti di estrema sinistra hanno interrotto un crèche vivante, vale a dire un presepe vivente, al grido di "Stop agli sbirri e ai fascisti", noi "siamo gli anticapitalisti". La rappresentazione, con figuranti umani (prevalentemente bambini), della nascita di Gesù, doveva svolgersi presso la Place Saint-Georges di Tolosa fino alle 18 di sabato 14 dicembre ma è stata interrotta con due ore di anticipo a causa delle intemperanze verbali della cinquantina di militanti di sinistra che, raggruppati sui muretti che circondano la piazza, scandivano slogan contro i tutori dell’ordine pubblico e contro i "fascisti" (arruolando, a quanto pare, tra i "fascisti" i pastori, le pecorelle e i componenti della Sacra Famiglia: Gesù, Giuseppe e Maria!). Secondo La Dépêche tutto era iniziato bene, intorno alle ore 15, quando era cominciato lo spettacolo organizzato dall'associazione Vivre Noël che aveva portato in piazza un presepe vivente "vecchio stile", organizzato secondo una tradizionale presentazione provenzale, cioè su un camion agricolo che è solitamente destinato ad iniziative di solidarietà legate al reinserimento delle persone senza lavoro. Erano in programma diversi cori, che avrebbero dovuto susseguirsi ogni mezz'ora: il gruppo vocale femminile Mélina, un trio "flûte piano voix", suonate di Bach, Vivaldi, Donzetti, la corale dei Domenicani, il gruppo Only Voices style gospel, il Coro Evangelous, il coro "Jeune éclats de voix". Ma alle 16 questa gioiosa esibizioni di bambini, adolescenti e adulti è stata interrotta dopo che i bambini sono stati spaventati dalle urla dei manifestanti che, prima gridando da lontano, poi avvicinandosi al camion teatrale, cercavano lo scontro con i giovani teatranti. Così i bambini sono stati fatti scendere dalla piattaforma e sono state bloccate le esibizioni di tre dei cori che ancora dovevano esibirsi. Il sindaco di Tolosa, Jean-Luc Moudenc, ha condannato il comportamento irresponsabile dei manifestanti scrivendo, domenica 15 dicembre, su Twitter: "mi dispiace profondamente e condanno il comportamento irresponsabile dei manifestanti che ha causato l'interruzione del presente vivente organizzato dall'associazione Vivre noël autrement, che ho autorizzato come gli anni scorsi". Anche l'Arcivescovo di Tolosa ha fatto sentire la sua voce. Attraverso un comunicato stampa monsignor Robert Le Gall, ha condannato l’interruzione di quello che ha definito "un gioioso evento durante il quale vengono cantati canti natalizi, scene del presepe interpretate da bambini e adulti, aiutati da qualche animale", un evento che "non ha altro scopo se non quello di dare profondità a questa celebrazione". L’alto prelato di Francia si è detto rammaricato "che il semplice promemoria della nascita di Gesù e dei valori che trasmette (accoglienza degli altri, annuncio della pace e segno di tenerezza di cui tutti abbiamo bisogno) non sia più rispettato in Francia e provoca persino atti di violenza, fisica e verbale, da parte di coloro che si mettono in piedi come difensori della libertà. Invito tutti a difendere pacificamente la libertà di espressione e a rispettare la storia e le tradizioni della Francia". Una volontaria, di nome Cécile, che prendeva parte allo spettacolo, ha dichiarato con ironia: "tutti coloro che strillano non sanno che Gesù non era un borghese, ma un povero, un indigente. Mi dispiace per loro". Solo pochi giorni fa Papa Francesco aveva rilanciato nel mondo il significato e il valore del presepe attraverso la lettera apostolica "Admirabile Signum" mentre non erano mancate, anche quest'anno, polemiche politiche sui presepi nelle scuole.

Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it l'11 dicembre 2019. C’era una volta il presepe… Che l’Occidente cristiano sia prossimo all’implosione, alla sua fine senza possibile remissione di peccati, l’ho intuito pochi giorni fa. Mi è accaduto esattamente a Napoli, capoluogo planetario d’ogni presepe che voglia e possa essere immaginato, concepito, messo in opera e così infine allestito da mani attente e provette. Tuttavia, senza nulla togliere agli artigiani che lavorano a ridosso del Vesuvio, devo aggiungere che certo genere di pii personaggi in miniatura brillano pure tra i Sassi di Matera, dove qualche settimana prima ho avuto modo di imbattermi in una bottega colma d’ogni dettaglio d’arredo presepizio, compresi i meloni gialli da appendere dinanzi alle ideali botteghe dell’anno zero dopo Cristo. Cosa sia esattamente il presepe nella nostra post-modernità è facile a dirsi: si tratta sostanzialmente dell’antagonista autoctono dell’albero di Natale, oggetto decorativo di derivazione statunitense, presidiato da un Santa Claus che, rosso o verde abbigliato, scampanella tra le sue renne e il carico di doni, faccione da Hemingway rimasto disoccupato o, pensando a noi, da Abatantuono, testimonial non meno gagliardo, il primo, della Coca-Cola, sfavillante al centro della pista di pattinaggio del Rockefeller Center di Manhattan, la stessa dove Snoopy volteggia lì sul ghiaccio. Questo e nient’altro. Poco male che perfino i sessantenni, già baby boomer, da sempre ignorino che si tratti di un prodotto d’importazione, convinti invece di poterlo associare alla tradizione perenne di dicembre. Tornando all’annunciata cessazione della civiltà d’Occidente, bene, è avvenuto esattamente nella storica strada partenopea dei presepi, San Gregorio Armeno, che la certezza del tracollo valoriale si è manifestata in modo netto. Con una statuetta, non meno votiva di quelle altre dei pastori, dedicata a Cristiano Malgioglio. Proprio Malgioglio, presente con solennità sugli scaffali a surclassare nella medesima fila sia un’Angela Merkel sia Giuseppe Conte oppure Salvini o il capocannoniere della locale squadra dalla maglia azzurra non meno antologizzato nella leggenda quotidiana. Con l’irruzione di Cristiano Malgioglio nel teatro del mistero festivo, ripeto, muore ogni possibile dibattito presente e futuro sul valore d’uso simbolico, allegorico e perfino sentimentale del presepe, o presepio, o che dir si voglia. Illusi e masochisti appaiono in questo senso sia il giornalista Mario Giordano, che sulla berlusconiana Rete4 ne allestisce quasi quotidianamente uno proprio in prima serata sotto il titolo davvero appropriato di "Fuori dal coro" con Maria Giovanna Maglie e Daniele Capezzone nel ruolo delle cornamuse sovraniste, più che di Maria e Giuseppe; a Giordano, si devono infatti queste parole riferite alle obiezioni non meno natalizie dello storico dell’arte Tomaso Montanari: “Fare il presepe? «Inaudita violenza». Chiedere di fare il presepe? «Razzismo». Anzi, «banalità del razzismo». Accidenti, non si smette mai di imparare nella vita: abbiamo appena finito di sentirci dire che la capanna con Gesù Bambino è una terribile offesa nei confronti delle altre religioni e che perciò va bandito dalle scuole; abbiamo appena finito di ascoltare parroci pronti a spiegare che il simbolo della tradizione cattolica va eliminato in quanto ipocrita”. E ancora, sempre chiamando in causa il laico prof: “Un uomo di cultura come Montanari conosce il valore degli aggettivi, quindi è chiaro quello che vuole dirci: non c'è mai stato niente di così violento sulla Terra come cantare Astro del Ciel in una terza elementare”. Oh, se solo entrambi sapessero che il presepe è ormai, nel migliore dei casi, come dire, un plastico di urbanistica fantastica, dove Gesù bambino e ogni altro suo protagonista sono semplici dettagli, simulacri. Nessun razzismo e nessuna banalità, dunque, semmai innanzitutto una piccola forma ingegneristica, da affiancare al Meccano, al Lego, ai plastici ferroviari oppure, se proprio volete vederci qualcosa di epico, alle battaglie di Austerlitz o, che so, di El Alamein, con tutti i personaggi, poco importa se angeli o ussari, schierati, posizionati nei punti esatti. Credeteci, così va immaginato, fuori da ogni pregressa sacralizzazione: il presepe come teatro abitato da piccoli volti in scala, una forma artigianale e spettacolare che va perfino oltre il sincretismo culturale. Nel senso che perfino sempre nuove figure possono farvi la loro apparizione nonostante alcuni suppongono si tratti di un mistero sacro, fossero anche i Peanuts. Tuttavia, nel momento in cui vi giunge Malgioglio dovrebbe essere chiaro a chiunque quanto le parole di Benedetto Croce sul “perché non possiamo non dirci cristiani” abbiano cessato di avere senso, al massimo, sia a tutti chiaro, possiamo dirci “bricoleur”, amanti del bricolage, un po’ come i fissati con il modellismo aereo: Gaspare, Baldassarre e Melchiorre come Lindbergh, De Pinedo e Italo Balbo trasvolatori o forse perfino, per chi ne ha memoria, i capitani Bellini e Cocciolone della guerra del Golfo, o, restando in tema, come il Barone Rosso sia nella variante von Richthofen sia in quella di Snoopy sul tetto della cuccia trasformata idealmente nella carlinga del Sopwith Camel. Talvolta basta poco perché millenni di storia dell’Avvento, e della stessa incarnazione del cristianesimo, che è tale in quanto pone la propria presenza al centro della Storia, svanissero, e nessuno provi a supporre che dietro tutto ciò vi sia il trionfo della greve società dello spettacolo, no, c’è assai di meno e assai di più: a cominciare, ripeto, dal muschio artificiale, della carta stellata e su tutto del Bostik per fare il lavoro al meglio. Se solo ci ripenso alla scena iniziale de “La dolce vita” di Federico Fellini, dove un elicottero trascina nel cielo dell’Eur di Roma con i suoi attici eleganti la statua di un Gesù non più bambinello, sembra di scorgere anche in quel caso il gettonatissimo Malgioglio. Adesso mi credi quando dico che il sacro è ormai alla portata di tutti?

·        La Mattanza dei Cristiani.

I cristiani perseguitati e la tutela del diritto a non emigrare. Andrea Muratore su Inside Over il 26 dicembre 2020. La voce dei cristiani perseguitati nel mondo, negli anni scorsi, ha avuto la possibilità di ricevere ascolto nelle istituzioni italiane. Poco noto ma di grande rilevanza politica, sociale e simbolica è il fatto che a partire dalla Legge di bilancio messa in campo nel 2018 dal governo Conte I l’Italia abbia istituito un fondo a favore della tutela dei cristiani che nel mondo soffrono e sono perseguitati per la loro fede. Fondo forte di una dotazione di due milioni di euro per gli anni 2019 e 2020 e di quattro milioni a partire dal 2021 la cui paternità è legata a un apposito emendamento presentato ai tempi dall’onorevole leghista Paolo Formentini. Formentini, 40enne bresciano eletto deputato col Carroccio nel 2018 e membro della Commissione Esteri di Montecitorio, si batte da tempo per ampliare nel contesto politico la sensibilità riguardante la necessaria tutela verso i cristiani oppressi nel mondo. “I numeri sono impressionanti, e questo fa pensare chi ritiene che la parola martire nella religione cristiana possa essere riferito solo al passato”, ci dice Formentini con cui abbiamo dialogato riguardo il suo interessamento per questo tema fondamentale. “I cristiani perseguitati nel mondo sono dai 260 milioni ai 300 milioni, per quanto una stima certa sia difficile e i dati varino da Ong a Ong”, mentre i cristiani uccisi nel mondo per la loro fede ammontavano a ben 3mila, con 10mila chiese distrutte. Il tema della persecuzione religiosa, inoltre, non è affrontato con il giusto vigore nei consessi internazionali: “il diritto dell’uomo più trascurato e sottovalutato è quello alla libertà religiosa”, del resto tutelato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani come altri che ricevono più attenzione agli occhi di dibattito pubblico e media mainstream. L’autore dell’emendamento che, ai tempi, suscitò grande ammirazione da parte di organizzazioni come “Aiuto alla Chiesa che Soffre”  saluta con favore l’aumento dell’interesse che il tema dei cristiani perseguitati sta ricevendo negli ultimi tempi. “Con dolore”, spiega, “noi della Lega constatavamo che non ci fosse una pronuncia forte, notando soprattutto la mancanza di dichiarazioni di parte del mondo ecclesiastico su questo tema”. E proprio da un’audizione parlamentare di Aiuto alla Chiesa che Soffre, a lungo vox clamantis in deserto sul dossier delle sofferenze cristiani del Medio Oriente e delle altre aree dove avvengono persecuzioni, Formentini ricorda che è nata l’idea di dedicare loro un fondo apposito. Il nuovo emendamento ha passato il vaglio della commissione Bilancio e aumenta del 10 per cento (400mila euro all’anno) il Fondo costituito due anni fa a favore dei Cristiani perseguitati nelle zone di crisi”. Anche in tempi complessi per l’economia italiana questo significa lanciare un grande messaggio di continuità e impegno, nota il deputato leghista. Ma per Formentini la questione della tutela dei cristiani assume un valore politico-culturale di ampio respiro che trascende il semplice sostegno economico. Proteggere i cristiani perseguitati, per Formentini, significa ribadire la tutela di quel “diritto a non emigrare” che è stato affermato con forza da diverse figure del mondo ecclesiastico in passato, tra cui Formentini ricorda due Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e il cardinale guineano Robert Sarah. Tutti loro, sottolinea Formentini, “hanno ribadito la necessità per i Paesi meno sviluppati di avere a disposizione le migliori risorse umane per un concreto sviluppo, specie quei giovani preparati che sono i più propensi ad emigrare”. All’interno di questi processi si inserisce quella che Formentini ha definito una “diaspora”, la fuga dei cristiani dai luoghi che sono stati la culla di civiltà plurisecolari di cui le loro comunità erano parte integrante: “Pensiamo solo a quei cristiani d’oriente che parlano ancora oggi la lingua di Gesù”. In diverse aree del Medio Oriente la presenza cristiana è in ritirata. In Iraq i cristiani sono calati dal 12% del secondo dopoguerra al 6% del 2003 e a percentuali ancora più basse adesso. La Piana di Ninive e le aree circostanti, patria dei cristiani caldei e assiri, saranno dal 5 all’8 marzo prossimi oggetto di uno dei più delicati viaggi papali di sempre. E l’annuncio della visita di Francesco in Iraq è accolto con favore dal nostro interlocutore, per il quale è positivo il fatto che “la Chiesa si interessi con sempre più forza al problema della sopravvivenza della testimonianza di fede” in Medio Oriente. Testimonianza che, come hanno notato giornalisti di spicco come Giulio Meotti, Gian Micalessin e Fulvio Scaglione, risulta fondamentale come lezione alla tiepida cristianità dell’Occidente e merita la giusta attenzione per garantire la tutela della culla di una religione che, nel corso dei secoli, ha plasmato la civiltà europea e quelle ad essa collegate. Come ci ricorda spesso anche Sarah, sottolinea Formentini, “è giusto riportare alla luce e far conoscere la testimonianza di chi oggigiorno è martire”. E molto spesso è poco ascoltato da chi, “pur facendo del multilateralismo e dei diritti umani una religione” in chiave progressista a questo richiamo è sordo. In occasione della festa di S. Stefano, primo Martire cristiano, mons. Joseph Tobji, arcivescovo maronita di Aleppo si collegherà con Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) e ilGiornale.it per parlare dei “fratelli cristiani di Siria, ancora oppressi da dure prove”. “È un modo – afferma Alessandro Monteduro, direttore Acs-Italia – per rinsaldare i legami fra le comunità cristiane italiana e siriana, legami che nessun virus potrà aggredire o indebolire”. L’incontro si terrà alle ore 17.00 sulla pagina Facebook de ilGiornale.it. Per Formentini un altro teatro da tenere d’occhio negli anni a venire sarà quello caucasico del Nagorno Karabakh: “Dovrebbero essere più diffuse le immagini dei cristiani che lasciano per sempre le proprie terre dopo aver caricato sulle macchine le loro poche cose, bruciato le abitazioni e portato addirittura con sé i propri morti abbandonando i cimiteri”. Questa rappresenta per il deputato leghista la nuova trincea dove si rischia di aprire un nuovo fronte per la persecuzione dei cristiani a seguito della ritirata armena, in un’area già teatro degli eccidi legati al genocidio armeno iniziato nel 1915, al cui riconoscimento ufficiale da parte italiana Formentini ha peraltro contribuito con una apposita mozione d’aula. Passato e presente che si incontrano in terre in cui la precarietà diventa sempre di più la condizione determinante dell’esistenza dei cristiani: comunità antiche, popoli che necessitano tutela e sostegno, progenitori e fratelli identitari dell’Europa vedono il loro futuro a rischio. È dunque positivo sapere che l’Italia ha messo in campo risorse e fondi per contribuire a ridurre le loro sofferenze e gli ostacoli alla loro sopravvivenza. E che ogni ampliamento degli sforzi in tal senso sarà solo benvenuto negli anni a venire.

La Siria piange il vescovo che denunciò il massacro dei cristiani. Alessandra Benignetti su Inside Over il 12 dicembre 2020. Portare fede e speranza in una terra devastata dall’odio e dal fondamentalismo. È stata questa la missione di monsignor Selwanos Boutros Alnemeh, Arcivescovo siro-ortodosso di Homs. Anche grazie a lui gli orrori del conflitto siriano e le persecuzioni nei confronti della comunità cristiana sono arrivate sotto gli occhi dei politici occidentali, a Bruxelles e a Ginevra. La guerra lo ha segnato nel corpo e nell’anima. Ha visto suo fratello morire per le ferite riportate durante l’esplosione che nel 2014 ha devastato la cattedrale di Homs. E ha assistito al massacro di 45 cristiani a Sadad, la sua città natale. Decine di donne e bambini uccisi e buttati nelle fosse comuni dalle milizie ribelli che volevano rovesciare il presidente siriano Bashar al Assad. “Per una settimana, 1.500 famiglie sono state tenute come ostaggi e scudi umani”, denunciava monsignor Alnemeh nell’ottobre del 2013. “Abbiamo gridato soccorso al mondo ma nessuno ci ha ascoltati. Dov’è la coscienza cristiana? Dov’è la coscienza umana? Dove sono i miei fratelli? Penso a tutte le persone sofferenti, oggi nel lutto e nel disagio: ho un nodo alla gola e mi piange il cuore per quanto è successo nella mia arcidiocesi”, gridava contro quell’Occidente che allora sembrava ancora sordo e cieco di fronte alle atrocità del conflitto. Oggi è la Siria a piangere per lui, nel giorno in cui viene seppellito nella stessa Sadad. Monsignor Selwanos è morto lunedì scorso a Damasco, stroncato a soli 52 anni da una grave malattia. “Grazie al suo zelo abbiamo potuto realizzare quasi 40 progetti, in tempi di terribili sofferenze e di guerra”, spiega Regina Lynch, responsabile dei progetti della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, che lo ricorda come “un baluardo di resistenza contro la disperazione, un combattente per la salvezza della comunità cristiana e un esempio di ecumenismo”. Le atrocità vissute durante gli anni più duri della guerra siriana non hanno scalfito la sua fede. Quando, dopo il cessate il fuoco, le famiglie cristiane hanno iniziato a fare ritorno ad Homs, è stato uno dei primi a rimboccarsi le maniche per riedificare una città e un’intera comunità dalle macerie. Alla “speranza”, che evidentemente non ha mai perso, ha intitolato l’asilo aperto ad Hama, e un’iniziativa che ha coinvolto i bambini della città vecchia di Homs, che hanno colorato con i graffiti i muri delle case distrutte. Un messaggio forte per chi avrebbe voluto cancellare la comunità cristiana da quella terra. E poi l’impegno per garantire borse di studio ai giovani studenti per proseguire la loro formazione nonostante le difficoltà. La devozione agli orfani, ai poveri e a quei sacerdoti che si sono ritrovati al fronte, a dover curare le ferite del corpo oltre a quelle dell’anima. “È un uomo che ha sofferto con il suo popolo e per il suo popolo”, prosegue Regina Lynch. “Sono stato cresciuto da orfano, la Chiesa era mia madre. Ora tutti in Siria si sentono orfani”, diceva monsignor Selwanos durante la fase più dura degli scontri, quando tutto sembrava perduto. Oggi è la Siria ad essere rimasta orfana di un grande sacerdote. Ma è anche grazie alla sua eredità che può sperare in futuro di pace.

I genocidi di cristiani dell’Impero Ottomano. Andrea Muratore su Inside Over il 18 dicembre 2020. Per lunghi secoli la dominazione turco-ottomana di vaste regioni del Medio Oriente e dell’Europa orientale portò sotto l’autorità dei sultani di Istanbul numerose popolazioni cristiane. Nonostante una narrazione da “scontro di civiltà” ed effettivi momenti in cui la battaglia tra l’Impero turco e le principali potenze europee assunse connotati da scontro tra cristianità ed Islam (come dimostrato dalla battaglia di Lepanto del 1571) per lunghi secoli le popolazioni cristiane furono parte integrante della società imperiale. Tanto che nella “leva” compiuta dalle autorità ottomane nelle terre abitate da cristiani, il devishirme, i sultani di Istanbul più volte trovarono l’occasione di creare corpi militari come quello dei giannizzeri e burocrazie capaci di controbilanciare la tradizionale nobiltà turca. La fase conclusiva della storia dell’impero fu però caratterizzata da un tragico strascico, essendo caratterizzata da ben diversi episodi di stermini di massa di popolazioni cristiane che per secoli erano state fedeli all’Impero: l’ultimo mezzo secolo che precedette la disfatta nella prima guerra mondiale fu un climax ascendente di tensioni e violenze che esplosero nei tre grandi genocidi dell’era della Grande Guerra. Al genocidio armeno, in cui furono uccisi oltre 1,5 milioni di cristiani appartenente alla nazione armena, si aggiunsero due massacri sistemici meno noti nel contesto della drammatica storia del Novecento, ma nel cui contesto perì un numero di persone superiore a quello del massacro degli armeni: il genocidio dei cristiani assiri che vivevano nell’attuale Iraq (di rito nestoriano, siriaco e caldeo), che provocò 900mila vittime, e quello delle popolazioni di etnia e cultura greca e religione cristiane viventi in Anatolia, proseguito fino al 1922, in cui furono uccise 700mila persone. Il bagno di sangue in cui l’Impero Ottomano, nella fase conclusiva della sua storia, trascinò popolazioni che erano state parti integrante della sua storia ha le sue radici in tre fattori avviatisi a inizio XIX secolo: il progressivo ridimensionamento territoriale del dominio della Sublime Porta, l’ascesa di crescenti appetiti coloniali stranieri sui suoi territori strategici e lo sdoganamento del nazionalismo turco da parte di numerose èlite di potere alternatesi nel controllo decisionale delle strategie dell’Impero. Nei primi due casi, l’Impero ottomano subì numerose amputazioni territoriali, molte delle quali legate a proclamazioni d’indipendenza in cui l’elemento religioso cristiano assunse a fattore determinante (come quella della Bulgaria) o agli appetiti delle potenze europee (pensiamo all’annessione della Bosnia da parte dell’Austria-Ungheria e all’invasione italiana della Libia); l’orgoglio nazionale ferito fu utilizzato come elemento catalizzatore della svolta politica imposta da gruppi come quello dei Giovani Turchi per evolvere le dottrine politiche dominanti nell’Impero. I Giovani Turchi guidarono dal 1908 in avanti un’agenda politica fatta di graduale incentivazione del nazionalismo turco in cui venivano considerati come esterni al ceppo “puro” della nazione quegli elementi ritenuti di importazione straniera, come il cristianesimo. La complessa ideologia fatta di nazionalismo esasperato e di un tentativo di conciliazione tra Islam e positivismo portò i Giovani Turchi a indicare nei cristiani dell’Impero un potenziale nemico alla sua unità, che solo nella progressiva assimilazione alla nazione dominante avrebbe potuto trovare coesione. Questa ideologia incendiaria provò a trovare giustificazione nel fatto che, tra XVIII e XIX secolo, nei territori mediorientali dell’Impero potenze europee come Russia e Francia si erano fatte garanti delle comunità locali cristiane, utilizzando questa possibilità come strumento di soft power per rendere il regime delle “capitolazioni” una proiezione di influenza regionale. Più volte questo fatto era stato strumentalizzato per far ricadere sui cristiani la colpa per il regresso politico dell’Impero, la sua debolezza di fronte alle potenze stranieri, la sua fragilità interna. L’autorità imperiale di Istanbul, a fine XIX secolo, trovò a sua volta nell’ostilità contro i cristiani un pretesto per riaffermare un’agenda di ordine opposto, quella della sempre più farinosa volontà di garantire l’unità panislamica. In questo contesto mautrarono i “massacri hamidiani”, in cui tra il 1894 e il 1896 da 80 a 300mila cristiani armeni e assiri furono uccisi in una sequela di pogrom. Ma è solo quando alla miscela tossica di nazionalismo esasperato e fanatismo etnico del governo dei Giovani Turchi (dal 1913 al potere in un regime monopartitico guidato dal triumvirato dei “tre Pasha”, Talat, Enver, Ahmed) si aggiunse lo scoppio della Grande Guerra che i progetti di annientamento trovarono un’applicazione su larga scala. I cristiani di varie fedi, abitanti millenari di terre in cui avevano convissuto con grande capacità di adattamento con diversi dominatori alternatisi tra l’Anatolia e il Medio Oriente, iniziarono a essere visti come agenti di potenze straniere nemiche della Turchia, potenziali focolai di rivolta nel decadente impero, a esser ritenuti nemici in quanto tali. Distruzioni di villaggi, marce della morte nel deserto, esecuzioni di massa: i tre genocidi presentano una sequela continua di episodi di questo tipo, in una drammatica riproposizione di quello che si è sviluppato come un processo in grado di autoalimentarsi, in una spirale di violenza crescente. “Ucciderò ogni uomo, donna e bambino cristiano”, affermò il 19 aprile 1915 il governatore di Van di fronte alla prospettiva di ribellione della città abitata dagli armeni; in Mesopotamia la tenace ribellione di numerose comunità cristiane, guidate dall’imprendibile generale Agha Petros, andò di pari passo con la campagna di sterminio operata dai turchi, che arrivarono a sconfinare nel territorio della neutrale Persia per distruggere i villaggi di un’etnia ritenuta nemica; i pogrom anti-greci in Anatolia proseguirono anche dopo la fine della guerra, sulla scia di nuovi e ripetuti scontri greco-turchi. Questi genocidi, a cui si associarono centinaia di migliaia di morti per le carestie e i disastri naturali collegati alla guerra, furono un campanello d’allarme per quello che il Novecento sarebbe stato e il più grande caso di persecuzione anti-cristiana della storia umana. Larga parte di questa storia è ancora sottaciuta, tenuta nascosta per non urtare la sensibilità politica di quella Turchia divenuta oggi attore chiave sull’asse euro-atlantico e mediterraneo. A oltre un secolo di distanza, mentre i cristiani nelle terre che furono in passato ottomani vivono ancora una grande tribolazione, il ricordo di queste sofferenze e delle capacità di comunità antiche di proseguire la loro storia nonostante la sistematica campagna di annientamento ottomana e un susseguirsi di crisi politiche e sociali nei decenni successivi ci è di lezione e di monito. Di lezione, per insegnarci a capire al meglio quanti drammi abbiano contraddistinto il XX secolo. Di monito, perché ricordiamo l’importanza di aiutare comunità che sono fratelli della civiltà europea e testimoni di un passato di incontro e dialogo che neanche la marea della storia ha potuto sommergere.

Così il fondamentalismo islamico perseguita i cristiani del Bangladesh. Federico Giuliani su Inside Over il 16 dicembre 2020. Ostaggio dei movimenti islamici, da una parte Al Qaeda e dall’altra il califfato dell’Isis – o ciò che ne resta – il Bangladesh, forte dei suoi 146 milioni di musulmani, rappresenta una seria minaccia per la minoranza cristiana locale. Qui la Chiesa cattolica conta circa 400mila fedeli, ovvero quasi lo 0,25% degli oltre 161 milioni di abitanti. Nonostante il Paese garantisca, almeno sulla carta, una stampa libera e la libertà politica, accompagnate da una sorta di democrazia di fondo, il clima sociale è sempre più teso. Nel corso degli alti sempre più musulmani hanno scelto di convertirsi al cristianesimo. Eppure il contesto non è affatto dei migliori dato che il Bangladesh, stando a quanto riportato da Open Doors appena un anno fa, è stato classificato come il 48esimo Paese peggiore al mondo in cui praticare il cristianesimo. I motivi sono molteplici e radicati nel tempo. Innanzitutto i cristiani vivono nella paura perenne di subire espropri forzati. Nel 2018, ha scritto l’agenzia Asianews, nella città di Dinajpur ben 1.500 cristiani sono stati sfollati in seguito a una disputa terriera, con tanto di violenze da parte dei musulmani e polizia compiacente. A Dacca, la capitale, un cattolico ha continuato a pagare le bollette della propria abitazione nonostante fosse occupata, illegalmente, da un musulmano. Episodi del genere si sono susseguiti numerosi nel corso degli anni. E ancora oggi i cristiani continuano a subire persecuzioni su persecuzioni, un po’ in tutti gli ambiti della loro vita.

L’arrivo del fondamentalismo. Dal 2015 in poi il Bangladesh è stato vittima di ben otto attacchi dell’Isis. Non solo: il sistema scolastico del Paese ha subito il fortissimo influsso del fondamentalismo. Basti pensare che quasi 50 milioni di studenti, dalle elementari al liceo, si sono abituati a leggere su libri “purificati”. Probabilmente, dall’esterno, può sembrare qualcosa di banale ma quello che segue è un esempio che sottolinea il puntiglioso lavoro psicologico che i fondamentalisti stanno operando sulle menti più giovani e malleabili. Gli abecedari usati nelle scuole sono soliti riportare per ogni lettera un oggetto. Accanto alla “O”, un bel giorno, è sparito il riferimento a ol di patata dolce; al suo posto è spuntato il termine orna, ovvero una specie di velo hijab. E non è certo finita qui, perché all’interno di tutte le antologie scolastiche sono spariti i testi degli autori non islamici, i riferimenti all’induismo e le canzoni sufi. Tutto questo sta accadendo sotto il governo guidato da Sheikh Hasina, primo ministro appartenente alla Awami League.

I cristiani perseguitati. Ricordiamo che stiamo parlando dello stesso governo che, in risposta alle uccisioni di blogger cristiani, ha risposto che coloro che insultano le sensibilità religiose sono in parte responsabili del proprio destino. Nel frattempo i cristiani pagano un prezzo altissimo. Lo scorso novembre alcuni vescovi cattolici locali hanno bussato alla porta del primo ministro Hasina per chiedere maggiori tutele nei confronti della comunità bengalese. “Le abbiamo espresso la nostra preoccupazione a proposito delle persecuzioni di cui i cristiani sono oggetto. Spesso le vittime sono nostri fedeli dei gruppi etnici di minoranza. L’abbiamo informata, così lei potrà agire subito se si verifica qualche caso”, ha spiegato uno dei vescovi facente parte della delegazione. Il clima astioso nei confronti dei cristiani si è recentemente mescolato all’odio nei confronti dell’occidentalismo laico incarnato dalla Francia. Ricordiamo infatti che lo scorso novembre oltre 10mila persone hanno sfilato per le strade di Dacca contro Emmanuel Macron, reo di aver offeso Maometto dopo l’uccisione del professore Samuel Paty. In quell’occasione la folla ha chisto non solo il boicottaggio dei prodotti francesi, ma anche la chiusura dell’ambasciata transalpina in Bangladesh, con la minaccia di distruggerla.

Un centro per aiutare le donne vittime di Boko Haram. Daniele Bellocchio su Inside Over il 19 dicembre 2020. Maiduguri, capitale del Borno, un tempo avamposto britannico nel nord est della Nigeria, oggi una delle città più pericolose al mondo. Questo centro abitato, immerso nelle sabbie del Sahel e sferzato dalle raffiche dell’Harmattan, è il luogo in cui la setta jihadista nigeriana ha preso vita, dove sono iniziate le predicazioni di Mohammed Yusuf e dove la formazione terroristica africana ha creato la propria roccaforte. Solo negli ultimi sei mesi più di 200 persone sono state uccise o rapite lungo le arterie che conducono nel centro abitato da membri della formazione islamista e gli agguati dei mujaheddin di Boko Haram hanno interessato anche politici, uomini delle forze speciali e operatori umanitari. Ma la violenza è endemica da anni nella città che conta due milioni di abitanti, 300mila dei quali sono sono sfollati che vivono nei 14 campi profughi che puntellano il capoluogo. In un vecchio fienile adattato a moschea, nel 2002, Mohammed Yusuf diede vita a Boko Haram, dichiarando già nel nome del gruppo, che in lingua hausa significa ”l’educazione occidentale è proibita”, la sua volontà di combattere tutto ciò che avesse legami con l’occidente e ergendosi, nei suoi sermoni, a promotore di un’applicazione radicale della sharia. Nel 2009 gli adepti di Yusuf invasero le strade del capoluogo del Borno, il loro leader venne arrestato e assassinato, la guida del gruppo venne assunta da Abubakar Shekau e da quel momento la storia dell’insurrezione jihadista nigeriana è nota. Boko Haram ha dato vita a una guerra che ad oggi ha provocato la morte di 36’000 persone e l’esodo di 2milioni di cittadini e la città di Maiduguri è stata in tutti questi anni al centro dell’insurrezione jihadista. Gli attentati nelle Chiese e tra i banchi dei mercati hanno caratterizzato la vita nella città nigeriana che è stata anche il proscenio di una delle peggiori efferatezze compiute dal gruppo islamista. Nel 2015, alcune bambine di 8, 9 e 10 anni sono state costrette a compiere attacchi kamikaze tra le vie cittadine e da quel momento il mondo ha compreso che gli jihadisti africani non conoscono la pietà né si pongono limiti nel compimento della ”guerra santa”. Sempre nel 2015 Shekau ha dichiarato l’adesione di Boko Haram a Daesh dando così vita alla ”Provincia Occidentale dello Stato Islamico”, con il desiderio di fare di Maiduguri la capitale del Califfato africano. Oltre ad essere flagellata dalle esplosioni e dagli scontri armati la città africana negli anni è stata travolta anche da una profonda crisi economica. Miglaia di bambini vagano per le polverose vie cittadine, famiglie di sfollati vivono sui marciapiedi del capoluogo ed è proprio tra queste persone divorate dalla miseria che Boko Haram miete vittime, soprattutto tra le donne. E per aiutare le bambine e le donne che sono state travolte dalla ferocia degli jihadisti oggi, a Maiduguri, è nato lo Human Resources Skills and Acquisition for Trauma Care, un centro specializzato nell’aiutare le donne e le ragazze che sono state vittime di violenza fisica e psicologica degli islamisti. Il centro, creato grazie all’impegno dell’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre e di altri benefattori internazionali è gestito da Padre Joseph Fidelis, che a InsideOver ha raccontato: ”La situazione a Maiduguri non è facile. A soli due chilometri dalla città ci sono i terroristi e spesso si infiltrano nel centro abitato, compiono rapimenti e fanno stragi. Inoltre noi cristiani viviamo discriminati e perseguitati, la domenica le chiese sono presidiate dall’esercito e oltre alle esplosioni e le vittime provocate dagli scontri armati, la guerra ha causato enormi danni anche a livello psicologico tra la popolazione”. Proseguendo e spiegando di cosa si occupa il centro appena creato nella capitale del Borno, padre Joseph Fidelis ha proseguito dicendo: ”I terroristi compiono ogni sorta di violenza nei confronti delle donne, non solo stupri ma anche violenze psicologiche indicibili. Ci sono casi di ragazze e bambine che hanno assistito alle decapitazioni dei propri genitori e madri che hanno visto morire i propri figli. È necessario che noi ci impegniamo ad aiutare le persone vittime di questi orrori e per questo ringrazio tutti coloro che hanno creduto e supportato questo piccolo ma importantissimo progetto”.

La lezione di Asia Bibi. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Insid Over il 10 dicembre 2020. Il silenzio dell’Europa sulle drammatiche vicissitudini dei cristiani è stato sempre evidente. Forse perché nell’immaginario collettivo del Vecchio Continentale le persecuzioni contro i cristiani sono finite durante l’impero romano prima che il cristianesimo diventasse religione di Stato? O forse perché l’Europa ha completamente smarrito la sua anima cristiana? In questo contesto di “disorientamento” il caso di Asia Bibi si è rivelato fortemente emblematico. La donna accusata di blasfemia per 10 anni, ha trovato asilo in Canada mentre l’Europa rimaneva silente.

L’incubo di Asia Bibi. Il credo religioso di Asia Naurīn Bibi ha rappresentato una certezza fondamentale della sua vita, al punto da ritrovarsi catapultata in una situazione che mai avrebbe potuto immaginare nemmeno con la più spiccata fantasia. Nell’ormai lontano giugno del 2009 hanno avuto inizio dieci lunghi anni di sofferenza in nome della libertà religiosa. Con cinque figli da crescere e mantenere assieme al marito Ashiq Masih, Asia era una lavoratrice agricola del Pakistanimbattutasi un giorno in un diverbio con delle donne musulmane che volevano impedirle di prendere l’acqua per come le era stato ordinato per portare avanti il ​​lavoro nei campi. Asia, secondo le altre donne, non doveva mettere le mani sul recipiente in quanto cristiana. Pochi giorni dopo le stesse protagoniste del diverbio hanno denunciato ad Asia alle autorità locali affermando che in quello scontro lei avrebbe offeso Maometto. Da qui ha avuto inizio il calvario della vittima. Picchiata, stuprata e arrestata senza alcuna prova, nel 2010 è stata emessa nei suoi confronti la sentenza di condanna a morte per blasfemia da un tribunale del distretto di Nankana . Anni di soprusi, vissuti dentro una piccola cella in condizioni fisiche e psichiche assolutamente precarie superate solo grazie allo spirito di fede che non ha mai abbandonato Asia. Nel 2014 l’ Alta Corte di Lahore ha confermato la pena capitale per la carcerata. Nel 2015 è aperto il primo spiraglio di luce per la Bibi: la Corte Suprema ha infatti sospeso la pena capitale. La sentenza di assoluzione definitiva per insufficienza di prove è stata emessa 3 anni dopo: Asia Bibi veniva assolta perché il fatto non era stato commesso.

Il silenzio dell’Europa su Asia Bibi. Promotrice della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, l’Europa però non è mai intervenuta sul caso di Asia Bibi. A nulla sono valsi i continui appelli lanciati in ogni parte del mondo dai personaggi di maggior rilievo nello scenario internazionale: la questione sembrava essere solo un problema di carattere personale della sola Asia e della sua famiglia. Il fatto che la donna al termine del processo si sia trasferita in Canada assieme al marito e alle due figlie sotto falso nome è l’emblema di questa assenza. Dubbi che non ha una spiegazione: “L’assenza di reazione dell’Europa – afferma l’avvocato Elisabetta Aldrovandi su InsideOver – è preoccupante e inspiegabile, poiché riflette una debolezza a livello di politica internazionale che, anche per la collocazione geografica del Vecchio Continente , non ci possiamo permettere. E mi chiedo quale sia il motivo di questo atteggiamento neutrale, di cui sarebbe opportuno fornire spiegazioni ufficiali”. “La storia di Asia Bibi – prosegue l’avvocato Aldrovandi – è terrificante e al contempo emblematica del fatto che esistono ancora Stati in cui la libertà religiosa è solo formale, e in cui basta nominare invano il dio della religione” ufficiale “per essere condannati a morte “. L’esperienza di Asia Bibi è la storia di tante persone che, come lei, devono patire pene e sofferenze pur di proteggere il proprio credo religioso. Persecuzioni , accuse e condanne che non hanno motivo di esistere:” Il problema, a mio avviso – continua Elisabetta Aldrovandi – non era che Asia Bibi avesse o no offeso Maometto, ma la reazione giudiziaria e sociale contro chi si permette di farlo, che giustifica torture e trattamenti disumani contro persone che, in realtà, non hanno commesso nessun crimine nel senso in cui questo termine va inteso. E che in ogni caso mai possono essere giustificati, neppure contro il peggiore dei delinquenti. Su questo comportamento e questa mentalità – conclude – tutta la comunità internazionale dovrebbe intervenire, perché Asia Bibi non è l’unica ad aver subito queste ingiustizie e si è salvata soltanto perché è riuscita a fuggire in Canada ”.

Il contesto pakistano. C’è un episodio, all’interno della vicenda di Asia Bibi, che meglio di ogni altro elemento può esprimere l’arco sociale e politico in cui tutto è avvenuto. Si tratta, in particolare, dell’omicidio di Salmaan Taseer . Musulmano ma profondamente legato a valori laici, Taseer era governatore della regione pakistana del Punjab quando nel 2010 è stato uno dei primi rappresentanti politici pakistani ad andare a trovare in carcere Asia Bibi. Questo gesto gli è valsa la condanna a morte da parte degli estremisti islamici: il 4 gennaio 2011 Mumtaz Qadri , una delle sue guardie del corpo, ha ucciso il governatore assumendo come movente proprio la sua visita ad Asia Bibi e la sua contrarietà alla legge contro la blasfemia. Sta proprio qui la delicatezza della situazione pakistana, la cui società è perennemente in bilico tra le aspirazioni verso la costituzione di uno Stato moderno e le pressioni sempre più pesanti impresse dagli estremisti. Una fragilità che ha origini molto lontane, risalenti al momento stesso della nascita del Pakistan. Ali Jinnah, padre della Patria, era affascinato dall’ideologia di Ataturk, fondatore della moderna Turchia, e dalla possibilità di coniugare Islam e laicità. Quando nel 1947 ha dato vita al nuovo Stato pakistano, retto proprio dalla necessità di garantire agli indiani musulmani una propria Patria, ha sempre immaginato un Paese in grado di accogliere le minoranze religiose. Ma a distanza di decenni, le ideologie più radicali hanno coinvolto strati sempre più larghi della società. Il concetto stesso di Patria islamica è stato estremizzato e strumentalizzato dalle fazioni fondamentaliste. E oggi chi in Pakistan difende le minoranze rischia di essere perseguitato al pari dei cristiani stessi. I giudici che nel 2018 hanno definitivamente assolto Asia Bibi vivono sotto scorta. Chi ha dato ragione alla donna cristiana, teme ogni giorno per la sua vita.

“Libertà di culto violata nel silenzio del resto del mondo”. La liberazione di Asia Bibi per i cristiani pakistani e per il Pakistan stesso può considerare una vittoria a metà. Perché se è vero che oggi la donna ha potuto riprendere in mano la sua vita, è anche vero che la situazione dei cristiani e delle minoranze da allora non è migliorata. I nodi venuti al pettine con quella vicenda sono ancora spine molto dolorose poste costantemente sui fianchi della società pakistana. Asia Bibi non ha subito soprusi e violenze soltanto in quanto donna, ma anche in quanto cristiana. Dopo di lei però, altre donne e altri uomini hanno subito la stessa sorte: “Sicuramente il fatto che Asia Bibi fosse una donna e vivesse in un ambiente rurale non l’ha aiutata – sostiene Elisabetta Aldrovandi – data la forte disuguaglianza tra uomo e donna , istituzionalmente riconosciuta, ancora sussistente in quella parte del mondo. In questo contesto, lo stesso avvocato ha ricordato un altro episodio simile di cui al momento si parla molto poco, quello cioè di Asif Pervaiz : “Quest’uomo di 37 anni è in carcere dal 2013 – ricorda Aldrovandi – ed è stato condannato a morte per blasfemia in quanto si sarebbe rifiutato di convertirsi all’Islam come imposto dal suo datore di lavoro ”. La stessa accusa che riguardava Asia Bibi, la stessa sorte da cui la donna è riuscita a fuggire soltanto dopo anni di violenze in carcere: “Si tratta – ha concluso l’avvocato – di una situazione di gravissima lesione della libertà e dei diritti umani perpetrata” da anni nei confronti di uomini e donne, nel silenzio inaccettabile del resto del mondo ”. Per Asif, vieni per migliaia di cristiani in Pakistan, anche questo Natale trascorrerà tra paura e terrore. Il tutto nell’indifferenza da parte dei Paesi europei.

La “morte vivente” delle donne cristiane perseguitate. Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo su Inside Over il 13 dicembre 2020. In quelle zone del mondo dove i cristiani sono perseguitati la prima vittima è la donna. E questo non solo perché è vista come l’obiettivo più facile da colpire, ma anche perché, in quanto appartenente al genere femminile, è il simbolo pulsante di una determinata comunità. Quindi colpirla vuol dire affondare l’intera comunità. Le varie vicende degli ultimi anni emerse da Paesi dove i cristiani appaiono come una minoranza perseguitata, l’hanno tragicamente confermato.

Le sofferenze inflitte alle donne cristiane. Violenze, mutilazioni, stupri e tanto altro. Porre in essere azioni che possano causare un dolore fisico permanente con ripercussioni tangibili anche a livello psicologico, è l’obiettivo dei gruppi islamisti che perseguitano le donne cristiane. Spinti dall’obiettivo di affermare la loro religione quale unica fede da professare, gli estremisti sono mossi anche da un profondo odio verso i cristiani. Con queste azioni cruente umiliano, torturano e “puniscono” gli infedeli e le donne, in questo caso, rappresentano la mira maggiormente simbolica. Lo stupro e la conversione forzata delle donne è un “dovere” per i miliziani. Sono gli stessi leader dei gruppi che incitano alle violenze e agli stupri verso le donne cristiane. Diventa facile colpire il sesso femminile e questo perché le donne in alcuni Paesi, come il Pakistan, rischiano di essere addirittura condannate per adulterio. Quindi cosa succede? Chi è vittima di stupro preferisce la via del silenzio e tenere il dolore dentro perché sa che raccontare quanto subito vuol dire rischiare di andare incontro a condanna sicura. Dal momento che provare di aver subito una violenza in alcuni paesi è pressoché impossibile, è quasi scontato che la donna venga arrestata, fustigata o condannata a morte per lapidazione. Solamente in Pakistan, l’88% delle donne in carcere sono quelle che hanno denunciato uno stupro che non hanno potuto provare.

Una vita in sottomissione. Se la fortuna è quella di non essere vittime di abusi e violenze fisiche, non mancano però le torture psicologiche per le donne professanti il credo cristiano. Dall’obbligo di indossare un certo tipo di abbigliamento ai matrimoni forzati, fino alla rinuncia dell’affidamento dei figli. Sono questi gli scenari che fanno parte della quotidianità delle donne per rimarcare il loro ruolo di inferiorità “causato” dal fatto di appartenere al sesso femminile e di essere cristiane. Impossibile in alcuni Paesi pensare di andare in giro senza indossare il velo che copra il volto, mettere dei pantaloni o più semplicemente, poter cospargere il corpo di profumi. Il “mancato rispetto” del “codice di abbigliamento” è causa certa di violenze o stupri. E che dire allora dei matrimoni forzati dove le donne vengono rapite dalla loro famiglia cristiana per essere convertite all’Islam? Ci sono poi anche i paradossi: le donne convertite al cristianesimo vengono date in spose agli islamisti per ricondurle sulla “retta via”. Se una donna si converte al cristianesimo già da sposata e, nelle migliori delle ipotesi, il marito chiede il “divorzio forzato”, lei perderà l’affidamento dei figli. Una vita di sottomissione in tutti i sensi. A raccontare su InsideOver quello che accade in questi Paesi è Cristina Merola, specialista sulla persecuzione di genere di “Porte Aperte Onlus”: “La violenza sessuale – afferma la specialista – e il matrimonio coatto, sono i principali strumenti per perseguitare le donne cristiane che hanno una vita da noi definita “morte vivente” perché sono donne invisibili e isolate dal momento che queste violenze si consumano dentro la loro famiglia”. “La condizione di donne cristiane ha forti ripercussioni nella vita giornaliera – prosegue Cristina Merola – basti pensare che nei loro confronti viene applicato il divieto di attingere l’acqua da sorgenti che si trovano nel raggio di pochi chilometri dal villaggio perché si pensa che possano contaminare ciò che toccano proprio perché cristiane. Il caso di Asia Bibi ne è un esempio, ma ci sono tante Asia Bibi in Pakistan. Le donne sono quindi obbligate a ricorrere a sorgenti più lontane con tutti i rischi di violenza che ne derivano durante il tragitto. E i casi di persecuzione delle donne ma anche dei cristiani in genere è notevolmente aumentata nel corso di questo 2020”.

Il caso di Boko Haram in Nigeria. Aprile 2014: il mondo sta conoscendo gli orrori dell’Isis in medio oriente, si è infatti alla vigilia della proclamazione dello Stato Islamico tra Siria e Iraq. Ma i riflettori vengono poi puntati improvvisamente sulla Nigeria. Qui, nella città settentrionale di Chibok, 276 studentesse vengono rapite all’interno di un college. L’azione è stata prontamente rivendicata da Boko Haram, il gruppo islamista attivo nel nord del Paese africano e che l’anno dopo giurerà fedeltà all’Isis. Il video mostrato pochi giorni dopo il rapimento ha fatto il giro del mondo: nelle immagini, tutte le ragazze indossavano il velo e vistosi copricapi. Per molte di loro quei vestiti hanno rappresentato una forzatura: almeno 165 erano infatti cristiane. Il rapimento non è stato a scopo estorsivo, bensì intimidatorio. Daniel Agbiboa, professore nigeriano dell’università di Harvard, in un volume del 2014 dedicato a questo fenomeno ha spiegato come la strategia di rapire le donne viene usata da Boko Haram per intimidire governo e popolazione. E, in particolare, costringere i cristiani ad abbandonare il nord della Nigeria. Delle 276 studentesse rapite a Chibok, alcune sono state rilasciate. Tra queste soprattutto le ragazze musulmane. Altre invece sono riuscite a scappare, mentre di 100 di loro non si è saputo più nulla. A confermare la barbarie perpetuata da Boko Haram contro le ragazze cristiane, è la testimonianza di una studentessa fuggita nel 2017 dal sequestro: “Mi hanno picchiata e violentata fin quando non mi sono convertita forzatamente all’Islam – si legge nel racconto riportato da Cornelia Toelgyes su AfricanExpress – Mi sono dovuta sposare e sono rimasta incinta. Oggi il rientro in società è molto difficile”. Il caso di Chibok è solo uno dei tanti che ha preso di mira le ragazze cristiane in Nigeria. Sono diversi gli episodi di rapimenti, uccisioni, sequestri e violenze attuati da Boko Haram contro le donne a scopo intimidatorio. Nelle zone settentrionali del Paese africano anche questo Natale sarà all’insegna dell’insicurezza: celebrare la festività potrebbe infatti esporre molte comunità cristiane alle persecuzioni del gruppo islamista.

Le violenze contro le donne in guerra. Il Natale potrà festeggiarsi dopo diversi anni anche ad Aleppo e in molte altre parti della Siria. Seppur in tono minore e con addosso le cicatrici di una guerra non ancora finita. Il ritorno di vaste zone del Paese sotto il controllo del governo di Assad ha permesso alla locale comunità cristiana di tornare a vivere. Ma quanto accaduto soprattutto contro le donne negli anni più bui del conflitto, non è facilmente cancellabile. E ha dimostrato come anche nelle persecuzioni attuate durante le guerre, la donna si conferma come il soggetto più vulnerabile. Secondo un rapporto della Caritas dello scorso marzo, dall’inizio del conflitto avvenuto nel marzo del 2011 sono 28.076 le donne uccise, 10.363 quelle scomparse nel nulla. Tra di esse, molte sono cristiane. Quando i gruppi islamisti hanno preso il sopravvento in alcune aree di Aleppo, di Idlib o della stessa Damasco dove erano presenti le comunità cristiane, lo stupro è stato usato come arma di persecuzione. In tutta la Siria, si legge sempre nel rapporto Caritas, “gli stupri di guerra sono spesso stati intesi come forme di ritorsione verso esperimenti sociali di emancipazione e governo al femminile”. In quelle zone controllate per anni dalle fazioni jihadiste, in alcuni casi le donne cristiane sono state imprigionate e vendute come schiave. Molte di loro non hanno fatto ritorno a casa. E molte famiglie, come nelle intenzioni degli estremisti, si sono viste private del principale simbolo dell’integrità della comunità. Per questo, anche se oggi in buona parte del Paese le armi tacciono, il Natale per i cristiani sarà comunque triste. Con ferite difficilmente rimarginabili.

 “Prima le violentano, poi le sposano”: gli abusi anti cristiani in Pakistan. Fausto Biloslavo su Inside Over il 9 dicembre 2020. Capelli corvini, occhialoni, velo bianco che le copre leggermente la testa e rossetto senza paura, l’avvocato Tabassum Yousaf è l’ancora di salvezza per le minorenni cristiane rapite e costrette a convertirsi all’Islam oltre che a sposare i loro stupratori. Laureata in legge nella provincia pachistana del Punjab esercita come avvocato a Karachi, una megalopoli infiltrata dai fondamentalisti. La fondazione pontificia Aiuto alla chiesa che soffre raccoglie fondi per aiutare legalmente le giovani vittime cristiane. Tabassum in questa intervista esclusiva al Giornale.it racconta la sua battaglia.

Quante sono le giovani cristiane rapite e obbligate al matrimonio in Pakistan?

“Ogni anno duemila ragazze delle minoranze religiose vengono forzatamente convertite e costrette al matrimonio oltre che stuprate, secondo le relazioni del dipartimento dei diritti umani. Però molti casi non sono neppure denunciati. Le giovani vengono prima violentate e poi, per nascondere questo odioso crimine, si impone come copertura un matrimonio con le minori”.

Quali sono i casi di cui si sta occupando e gli ostacoli per ottenere giustizia?

“Sto assistendo due ragazze, Huma (Huma Younus rapita a 14 anni, Nda) e Arzoo (Arzoo Raja sposa bambina, Nda) e le loro famiglie. Il problema principale in Pakistan è che la polizia, la pubblica accusa, i magistrati e lo Stato, nonostante esista una legge sui matrimoni imposti alle minorenni, sono restii a garantire giustizia alle famiglie cristiane. È passato un anno nel caso di Huma Younus ed i suoi genitori vogliono ottenere giustizia. Sono stati emessi dei mandati di arresto, ma la polizia non li esegue e il rapitore e stupratore della minorenne musulmana è convinto che il caso è chiuso”.

Qual è la situazione delle due ragazzine cristiane?

“La giovane Huma è ancora nelle mani del suo rapitore e stupratore. Gli abusi sessuali e psicologici continuano. Arzoo è stata messa in salvo, ma si trova ancora in un rifugio. Perché le autorità non riconsegnano le due ragazze minorenni ai loro genitori?”.

È a conoscenza di altri, nuovi, casi?

“Molte minorenni vengono convertite con la forza e costrette a sposarsi con il loro stupratore in città come Karachi o Faisalabad”.

Quali sono stati i momenti più difficili nella difesa di queste vittime?

“Essendo una donna, madre e avvocato mi sento impotente di fronte ai genitori che chiedono giustizia e non la ottengono. I giudici sostengono spesso che le ragazze si sono convertite e sposate provando a scoraggiare i familiari. I genitori scoppiano in lacrime ed è il momento peggiore”.

È stata minacciata perché difende le spose bambine cristiane?

“Le minacce sono inevitabili, ma preferisco concentrarmi sul mio lavoro come avvocato. Quando torno a casa alla sera ho paura, ma Gesù Cristo non permetterà che mi capiti qualcosa di brutto. Non mi fermo e continuo a tenere incontri in diverse zone di Karachi per aiutare le famiglie perseguitate”.

Cosa dovrebbe fare il Pakistan per sradicare questa piaga?

“Bisognerebbe approvare una nuova legge sulla conversione forzata ed emendare quelle esistenti sui matrimoni con minori. A livello nazionale costringerti ad abbandonare il tuo credo non è un crimine riconosciuto come a livello internazionale”.

Il pericolo incombente per i cristiani tigrini costretti alla fuga. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 7 dicembre 2020. Cristiani perseguitati in Nigeria, religiosi messi in fuga dall’estremismo islamico nel Sahel, chiese prese di mira in molti Stati dove la fede cristiana è in minoranza. Quello africano è un continente dove le varie comunità sono falcidiate e martoriate dalla povertà, dal fanatismo, dal terrorismo. Di recente si è aggiunta la piaga del coronavirus, che rischia di rendere ancora più isolate diverse comunità che aspettano aiuti e sostegni per sopravvivere. Adesso si è aggiunto anche un altro fronte: quello dei cristiani tigrini in fuga dal loro stesso Paese, peraltro a maggioranza cristiana. Un paradosso che ha dell’incredibile e che potrebbe portare al disastro umanitario: in Etiopia un premier che vuole rilanciare un “etiopianismo” basato sulla comune radice cristiana ha scatenato un conflitto in grado di creare migliaia di profughi cristiani.

Il conflitto in Etiopia. Il 4 novembre del 2020 è la data che ha segnato la fine del periodo di tregua vissuto per due anni dall’Etiopia, dopo il pluridecennale scontro con l’Eritrea. L’origine di un nuovo conflitto è dovuta alla volontà del primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed di imporre l’intervento dei militari nelle regioni settentrionali del Tigray, area al confine con l’Eritrea. Un’azione richiesta dal premier dopo un lungo e duro scontro con il Partito per la Liberazione del Tigray (Tplf). L’obiettivo del primo ministro etiope è quello di porre fine all’attuale sistema costituzionale che si basa sul federalismo etnico e introdurre lo Stato centralizzato, con la forte guida di Addis Abeba. Un nuovo concetto di nazione quindi,  basato sulla lingua amarica e sulla religione cristiano-ortodossa. Questo progetto ha trovato però l’opposizione del Tplf, il quale ha egemonizzato per anni la politica etiope e che ha come obiettivo il mantenimento dell’attuale impostazione costituzionale. Un braccio di ferro trasformatosi adesso in una drammatica resa dei conti.

L’esodo verso il Sudan. La nascita del conflitto nelle regioni settentrionali del Tigray ha avuto tra i vari effetti quello di mettere in fuga migliaia di abitanti verso altri territori. Lo Stato che ha iniziato a registrare i maggiori arrivi è il Sudan. Qui da novembre hanno iniziato ad entrare più di 4 mila persone al giorno e la maggior parte di loro sono cristiani. Tutti partono portando dietro poche cose, a volte solo i vestiti che indossano. Senza distinzione di sesso o di età, più di quarantamila persone sono scappate dalla guerra alla ricerca di un po’ di tregua. L’afflusso dei rifugiati nel Sudan sta mettendo a rischio il sistema di accoglienza con difficoltà nella gestione di questi numeri. Nonostante gli appelli internazionali che invitano le forze combattenti a deporre le armi, al momento non vi sono segnali che fanno sperare ad una rapida fine del conflitto. E ora che l’esercito federale etiope è entrato a Macallè per catturare i dirigenti tigrini, si teme che gli scontri possano causare centinaia di vittime civili. Prosegue quindi la fuga della popolazione che pur di sottrarsi alla guerra non tiene conto di altri possibili rischi derivanti dall’esodo. A lungo andare la presenza imponente dei cristiani nel  Paese musulmano che li ospita, potrebbe generare nuovi problemi per la loro incolumità e non sono quelli legati all’accoglienza.

L’antica tradizione cristiana dei tigrini. Il cristianesimo nel corno d’Africa rappresenta un grande elemento di identità. L’insegnamento del Vangelo è arrivato da queste parti ben prima della colonizzazione europea. Addirittura le origini vanno ricercate nel grande regno di Axum, lì dove tra il IV e il V secolo la religione cristiana è diventata quella ufficiale nella corte. Saheed A. Adejumobi, uno degli storici più importanti dell’Etiopia, ha fatto risalire l’avvento del cristianesimo allo sbarco di due fratelli, Frumenzo ed Edesio, dalla città di Tiro. Questi ultimi, condotti come schiavi alla corte, hanno convertito Re Ezanà alla nuova religione. E da allora la storia della regione orientale del continente è cambiata per sempre. “Il cristianesimo per etiopi ed eritrei è uno dei pochi punti in grado di unirci – ha confermato ad InsideOver un cittadino eritreo da anni residente in Italia – Puoi parlare tante lingue, appartenere a tante etnie, ma l’appartenenza alla religione cristiana ci accomuna”. E questo vale anche per i tigrini. Sono più di cinque milioni i tigrini in Etiopia, molti dei quali vivono nella regione coinvolta nel conflitto esploso a novembre. La stragrande maggioranza è cristiana, per la precisione cristiana copta. Anche questo un elemento da non trascurare nell’identità dei tigrini e del resto dei popoli etiopi: la loro Chiesa è quella che fa capo al Patriarca d’Alessandria, la cui origine è da individuare dallo scisma consumatosi nel concilio di Calcedonia del 451. Lo stesso premier Abiy Ahmed, come spiegato da Alessandro Lutman, quando parla di “etiopianismo” fa riferimento alla comune appartenenza alla Chiesa cristiano copta. In barba però al plurisecolare cammino comune sul fronte religioso, adesso i tigrini sono costretti a scappare dalla propria terra. E a mettersi in salvo in territori lontani dalle proprie abitazioni.

Il pericolo dei cristiani in Sudan. L’esodo di tigrini verso il confinante Sudan è contrassegnato da mille incognite. In primo luogo, si sta scappando verso un Paese in forte difficoltà. I segni di un trentennale dominio da parte di Bashir, al pari di quelli provocati dalle ferite del golpe dell’aprile del 2019, rendono il Sudan il posto meno adatto a dare accoglienza. L’Unhcr ha stimato in un milione il numero possibile di tigrini che oltrepasseranno la frontiera. Per loro sarà difficile ricevere cibo, medicine e altri materiali di prima necessità. Il loro Natale sarà trascorso probabilmente dentro improvvisate tendopoli, difficili da raggiungere dalle organizzazioni internazionali. Dall’Europa poi, per il momento nessuna voce si è levata a loro difesa. Nessun governo al momento sembra accorgersi di un possibile disastro umanitario capace di coinvolgere una grande comunità cristiana. A confermare le difficoltà anche le testimonianze rese all’agenzia cattolica Sir dai missionari salesiani: comunicazioni interrotte, strade sbarrate, gente lasciata allo sbaraglio. In secondo luogo, occorre considerare che i tigrini si stanno ritrovando in massa rifugiati in un territorio a maggioranza musulmana. La Chiesa, cattolica e copta, in Sudan non sono ben viste. Yunan Tombe Trille Kuku Andali, vescovo della città sudanese di El-Obeid, lo scorso anno su VaticanNews è stato molto chiaro: “Qui la Chiesa è vista come una comune Ong, siamo trattati come tali”. La domanda sorge quindi spontanea: sono possibili delle persecuzioni contro i cristiani tigrini in Sudan? Le preoccupazioni in tal senso sono molto forti: “Non credo però che si arriverà a una persecuzione – ha dichiarato una fonte diplomatica che ha voluto rimanere anonima – Ma verranno trattati come merce da quei trafficanti, attivi in Sudan, che proveranno a farli arrivare in Italia”. L’allarme è quindi lanciato. Spetta alla coscienza dell’Europa coglierlo prima che sia troppo tardi.

La storia dimenticata dei cristeros. Emanuel Pietro Bon su Inside Over l'8 dicembre 2020. Questo racconto inizia dalla fine, ossia il 16 ottobre 2016. Quel giorno il pontefice regnante, Francesco I, ha canonizzato uno dei martiri più giovani e coraggiosi che la Chiesa cattolica abbia conosciuto in duemila anni di storia: José Sanchez del Rio. Messicano, quattordicenne e cattolico osservante, del Rio fu ucciso a Sahuayo, nel Michoacan, da un plotone d’esecuzione il 10 febbraio 1928 per un’accusa apparentemente banale, eppure tanto gravosa da portarlo al patibolo: la sua fede. Ogni iniziativa popolare volta ad ottenere la liberazione del giovane fallì; il governo, infatti, voleva che la sua punizione servisse da esempio per l’intera nazione. Al giovane fu concessa un’unica via di fuga: un atto pubblico di abiura, di rinuncia formale al cattolicesimo, e sarebbe sopravvissuto. Giunti sul luogo della fucilazione, però, del Rio prese la parola per lanciare un grido ben conosciuto ai suoi esecutori, decretando di conseguenza la propria morte: “¡Viva Cristo Rey!“. La martirizzazione del 14enne avrebbe dovuto spaventare i fedeli cattolici, spronarli ad abbandonare la via delle armi e ad accettare la persecuzione istituzionalizzata dell’allora presidenza Calles, mostrando loro che nessuno – neanche i bambini – sarebbe fuggito al fuoco delle baionette. Accadde il contrario: nel nome di Cristo e di del Rio, consegnato eternamente alla leggenda, la rivolta cattolica avrebbe assunto proporzioni tali da determinare la fine della dittatura atea, segnando per sempre la storia del Messico.

Il contesto storico. La prima rivoluzione di popolo del Novecento non ebbe luogo in Unione sovietica, come si tende a credere erroneamente, ma in Messico. Fu l’esito di una guerra civile durata sette anni, dal 1910 al 1917, provocata dalla volontà di ogni ceto sociale, dai contadini all’alta borghesia, di porre fine al porfiriato, un regime dalle venature dittatoriali legato alla figura di Porfirio Diaz e in piedi dal 1884. Il fronte rivoluzionario, essendo estremamente eterogeneo, si frammentò quasi naturalmente all’indomani della morte di Diaz, avvenuta nel 1915, iniziando una battaglia fratricida per le redini della nazione. Vinsero i costituzionalisti, l’equivalente messicano dei giacobini, che esclusero i rivoluzionari cattolici dapprima dalla scrittura della nuova costituzione e in seguito dalla formazione del governo. Il potere politico fu monopolizzato da Alvaro Obregon e Plutarco Calles, i capifila del blocco costituzionalista, che progressivamente implementarono una legislazione fortemente anticlericale con gli obiettivi di secolarizzare coercitivamente la popolazione e di creare una chiesa nazionale, indipendente dal papato e ispirata ai valori massonici dei padri fondatori del nuovo Messico.

Le persecuzioni. I cattolici messicani non avrebbero potuto sapere che l’insediamento alla presidenza di Alvaro Obregon, avvenuto nel 1920, avrebbe dato il via ad una lunga stagione di persecuzioni che, infine, avrebbe condotto ad una nuova guerra civile. L’evento premonitore di quel che avrebbe atteso i cattolici negli anni a seguire accadde il 14 novembre 1921, ad un anno dall’inizio della presidenza Obregon. Quel giorno un attivista filogovernativo, Luciano Perez, introdusse un ordigno nella basilica di Nostra Signora di Guadalupe per distruggere il simbolo del cattolicesimo messicano, il mantello miracoloso della Vergine di Guadalupe. L’attentato fallì clamorosamente – la bomba distrusse l’altare, lasciando intatto il mantello – ma il messaggio raggiunse la Chiesa cattolica. Di lì a poco ebbe inizio una persecuzione morbida basata sulla rimozione dell’insegnamento della religione cattolica dalle scuole pubbliche, sul rimpatrio del clero straniero e sull’imposizione di limitazioni alla presenza del sacro nella vita pubblica. Sarebbe stato Plutarco Calles, però, il braccio destro di Obregon, ad iniziare ufficialmente la guerra al cattolicesimo. Eletto alla presidenza nel 1924, uno dei suoi primi atti fu la proclamazione della cosiddetta legge Calles (1926), una delle formulazioni più anticlericali mai prodotte in un regime (semi-)democratico, la cui applicazione alla lettera avrebbe gradualmente condotto ad una nuova guerra civile. La legge Calles fu il fondamento che diede legittimità all’instaurazione di un ordine giuridico tanto anticlericale quanto antireligioso, dietro la scusante della gestione della libertà di culto, dal cui ventre furono partorite una serie di disposizioni molto severe, punibili con ammenda, incarcerazione ed esilio, tra le quali l’obbligo di apostasia per i dipendenti pubblici, l’espropriazione con annessa nazionalizzazione di chiese, conventi e monasteri, e l’accelerazione della campagna di espulsioni dei chierici di nazionalità straniera iniziata da Obregon. Il nuovo codice legislativo consacrò l’inizio di una persecuzione di stato, legale e istituzionalizzata, la cui intensità, però, non fu uniforme. Gli stati federati, infatti, in quanto liberi di applicare la legge Calles a propria discrezione e interpretazione, si adattarono alla nuova realtà in maniera differente. Nel Chiapas, ad esempio, il governatore Tomás Garrido Canabal, ordinò “l’assassinio di numerosi sacerdoti e la chiusura delle chiese del Tabasco, vietò l’abito talare, i libri che menzionavano Dio e l’uso di croci sopra le tombe; sostituì le feste religiose con celebrazioni regionali e cambiò le denominazioni di città e villaggi che contenevano nomi di santi; obbligò, infine, i sacerdoti a sposarsi”. In altri stati federati, invece, oltre all’adozione del divieto dell’abito talare e dell’obbligo di matrimonio, furono introdotte norme intrinsecamente liberticide, de facto trasformanti i sacerdoti in cittadini di serie C, come la privazione del diritto di voto e la proibizione di organizzare e/o partecipare a manifestazioni politiche. La creazione di gruppi paramilitari da parte della presidenza e dei governanti federati aventi l’obiettivo di terrorizzare – e uccidere – i dissidenti, sia preti che fedeli, fece da cornice alla persecuzione legale e istituzionalizzata. Espulsioni e omicidi condussero gradualmente il clero messicano sull’orlo dell’estinzione: dei circa 4.500 sacerdoti operanti nel 1926, nove anni dopo ne sarebbero stati censiti 308 e celebrare messa sarebbe stato impossibile in diciassette stati federati a causa dell’assenza di personale. Dopo due anni di dialogo infruttuoso tra Chiesa cattolica e presidenza – cadde nel vuoto una petizione firmata da oltre due milioni di persone e non produssero alcun effetto le marce di protesta e i boicottaggi popolari dei prodotti fabbricati da compagnie statali – il primo agosto del 1926 le campane delle chiese messicane suonarono per l’ultima volta su ordine dell’allora pontefice Pio XI. Fu l’inizio della clandestinità e l’avvio della cosiddetta cristiada o guerra cristera.

La guerra cristera. Non è possibile realizzare una stima realistica dei cristeros, coloro che al grido “¡Viva Cristo Rey!” dichiararono guerra al presidente Calles e alle sue milizie, anche se gli storici credono che possano essere stati circa 80mila all’apice della cristiada. Questo esercito godette del supporto di ampi strati della popolazione, come dimostrato dalla sua composizione estremamente variegata: gente di ogni età, da bambini ad anziani, sesso ed estrazione sociale. La mente che rese possibile la trasformazione della cristiada da una ribellione a bassa intensità ad una guerra asimmetrica su larga scala fu Enrique Gorostieta Velarde, un imprenditore e reduce della rivoluzione. Gorostieta fu colui che professionalizzò i cristeros, creando delle divisioni, istruendoli all’utilizzo delle armi e introducendoli all’arte della guerra regolare ed irregolare, riuscendo a portare il conflitto dalle campagne alle città e, soprattutto, a mettere in pericolo la stabilità del governo grazie ad una scia di vittorie sul campo contro le forze armate, tra le quali la celebre battaglia di Tepatitlan. Calles, incurante delle crescenti pressioni diplomatiche provenienti da Stati Uniti e Vaticano, tentò di colpire il morale dei guerriglieri ricorrendo alla carta della brutalità: alle forze armate, regolari e irregolari, fu data carta bianca in termini di saccheggi e uccisioni sommarie e, inoltre, fu abbassata la soglia d’età dei condannati a morte. Fu in questo contesto di escalazione del conflitto che avvennero le impiccagioni di José María Robles Hurtado e Cristóbal Magallanes Jara, due presbiteri carismatici e conosciuti a livello nazionale, e le brutali esecuzioni don Sabás Reyes Salazar e del giovane José Sanchez del Rio. La morte di del Rio, lungi dal demoralizzare i cristeros e spronarli ad abbandonare definitivamente la via delle armi, fu seguita da un’ondata travolgente ed irrefrenabile di violenza e da una generalizzazione del malcontento popolare. Fu in questo clima di sgomento, esasperazione e crescente anarchia che, a pochi mesi di distanza dall’eternizzazione del Rio, il 17 luglio, un cristero di nome José de Leòn Toral riuscì nell’impossibile e nell’impensabile: assassinare Obregon, rieletto alla presidenza sei giorni prima. La scomparsa prematura e violenta di Obregon, l’eminenza grigia dell’agenda anticattolica, convinse il presidente ad interim, Emilio Portes Gil, ad avviare un tavolo negoziale con Dwight Whitney Morrow, ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, e padre John Burke, presbitero americano agente su delega vaticana. Le trattative condussero alla firma degli accordi (Ios arreglos), un piano di pace basato su diversi punti, tra i quali l’entrata in inattività permanente della legge Calles e la concessione della grazia ai combattenti. Il 27 giugno 1929, dopo quasi due anni di silenzio, le campane delle chiese messicane tornarono a suonare, sancendo l’inizio di un lungo ritorno alla normalità, costellato dalla continuazione di scontri intermittenti e a bassa intensità, che sarebbe terminato soltanto nel 1934. Quell’anno si insediò alla presidenza Lazaro Cardenas, il “papà dei messicani”, colui che riabilitò ufficialmente il cattolicesimo e che, inoltre, condannò Calles all’esilio perpetuo negli Stati Uniti con le accuse di aver mosso una guerra ai suoi concittadini e di aver creato uno stato nello stato, il cosiddetto maximato.

L’attualità della guerra cristera. La cristiada è uno di quegli eventi del passato dall’attualità imperitura e la cui conoscenza può rivelarsi una fonte sempreverde e inalterabile di spunti e riflessioni, al di là del tempo trascorso. Le persecuzioni di Obregon e Calles provocarono fra i 100mila e i 300mila morti, causando la quasi-estinzione del clero, rendendo impossibile l’esecuzione della messa in diciassette stati per assenza di sacerdoti e alimentando una piccola ondata di emigrazione verso la California. L’attualità perenne di questa guerra di religione volutamente relegata all’irrilevanza, sulla quale pesa una condanna velata alla damnatio memoriae da parte della storiografia, è data dal fatto che le cristiade non sono mai finite: avvengono ovunque, quotidianamente, nel silenzio e nell’indifferenza di politica, opinione pubblica e grande stampa. Il cristianesimo, infatti, è la prima religione al mondo per numero di fedeli e, anche e purtroppo, per numero di perseguitati. Il livello delle violenze anticristiane è tale che, secondo un rapporto del 2019 commissionato dal parlamentare britannico Jeremy Hunt, si starebbe progressivamente giungendo ad una situazione genodiciale: infatti, ogni dieci persone perseguitate nel pianeta a causa della fede professata, otto appartengono ad una confessione cristiana. Secondo l’ultima relazione dell’agenzia missionaria Porte Aperte (Open Doors), fra il 2019 e il 2020 è aumentato del 9% il numero dei cristiani perseguitati nel mondo, salito a quota 250 milioni, e in alcuni paesi la violenza è tale che l’emigrazione in massa è l’unica via di salvezza: in Iraq, ad esempio, la popolazione cristiana si è ridotta dell’87% nell’era dello Stato Islamico. Fare una stima di coloro che ogni anno vengono uccisi in odium fidei non è semplice: alcuni centri studi fanno rientrare nell’elenco dei “martirizzati” anche le vittime delle guerre civili, fratricide e tra clan che insanguinano l’Africa, dalla Nigeria al Congo, ed altri impiegano dei criteri di calcolo più rigidi. A seconda del metodo utilizzato, comunque, i numeri dipingono una realtà che ricorda le persecuzioni del cristianesimo delle origini: si passa dalla media di 100mila morti l’anno del Centro per lo Studio della Cristianità Globale alla stima, sempre annuale, di 10mila morti della Società Internazionale per i Diritti Umani; Porte Aperte, invece, offre delle cifre meno pessimistiche, ma comunque elevatissime, 4.305 assassinati in odium fidei nel 2019, ossia una mattanza che avviene al ritmo di undici omicidi al giorno.

Le persecuzioni avvengono anche in Occidente. L’associazione persecuzioni anticristiane e Sud globale è fondamentalmente erronea e frutto di una visione stereotipizzata del mondo. I fedeli cristiani subiscono delle persecuzioni morbide e velate anche nelle cosiddette società avanzate dell’Occidente, ormai ampiamente secolarizzate e, quindi, post-cristiane. La Francia, dove vige la legge sulla separazione tra stato e chiesa più rigida d’Europa, è il caso più emblematico: fra il 2008 e il 2019 gli attacchi anti-cristiani sono quadruplicati ed ogni anno viene stabilito un nuovo record. Ad esempio, fra il 2018 e il 2019 il numero delle azioni anti-cristiane è cresciuto da 877 a 1.052. Queste azioni, lungi dall’essere circoscritte al fenomeno delle profanazioni di cimiteri e ai furti di ostie, includono roghi di chiese, aggressioni ai sacerdoti e vandalismo contro croci e statue cristiane in luoghi pubblici. La portata del fenomeno, che è già di per sé esteso e preoccupante, assume una rilevanza ancora maggiore quando si procede ad una comparazione con il resto dell’Europa. È in Francia, infatti, che avviene il maggior numero degli attacchi anti-cristiani che hanno annualmente luogo nel Vecchio Continente. L’anno scorso, in tutta Europa sono stati commessi circa 3mila attacchi anticristiani, dei quali, come già scritto, 1.052 sono avvenuti nella sola Francia. Questo significa che, numeri alla mano, nel paese si consuma un terzo di tutti gli attacchi anticristiani del continente. I cristiani, in breve, sono perseguitati ovunque in ragione del loro credo, sia nella turbolenta e conflittuale realtà del Sud globale che nel quieto mondo sviluppato, e la loro condizione peggiora su base annua. Abituarsi a vivere in uno stato di persecuzione onnipresente e globale può suonare terrificante, ma questo è il futuro che attende la cristianità – e i numeri lo confermano – ed è il motivo per cui gli ultimi pontefici, incluso Francesco I, hanno invitato i fedeli a scoprire, o riscoprire, un libro del 1907 di Robert Hugh Benson: Il padrone del mondo (Lord of the World). Benson, in quelle pagine, aveva immaginato un futuro cupo, dominato dall’irreligiosità e dalla riduzione dei cristiani ad una minoranza esigua e perseguitata, prossima all’estinzione. Pura distopia, frutto dell’immaginazione fervida di uno scrittore, che, però, dieci anni più tardi si sarebbe materializzata in Russia, dove i bolscevichi trasformarono la Terza Roma nella prima dittatura atea del pianeta, venti anni dopo si sarebbe ripresentata in Messico, teatro della guerra cristera, e, infine, ad un secolo di distanza, avrebbe riguardato l’intero cristianesimo, divenuto la religione più perseguitata del mondo.

La guerra dimenticata fra azeri e armeni. Casella strategica dell’eterno Grande Gioco. Si combatte nel Nagorno Karabakh fra cristiani e islamici, ma sullo sfondo c’è sempre lo scontro fra Russia e Turchia. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 29 settembre 2020. Perché una guerra remota e incancrenita tra armeni e azeri nel Nagorno Karabakh dovrebbe interessarci? Ce lo dovrebbe saper spiegare il segretario di stato Usa Mike Pompeo che arriva oggi in Italia. Questo conflitto potrebbe essere il nuovo banco di prova per gli scenari futuri. Quella del Nagorno Karabakh, una regione di poche migliaia di chilometri quadrati e 140mila abitanti – in maggioranza armeni – è il più lungo conflitto ereditato dall’era post-sovietica. La chiamano anche la “guerra dei trent’anni”: si presenta come un conflitto tra cristiani e musulmani ma anche come l’ennesimo confronto, dopo quello in Siria e in Libia, tra la Russia, sponsor dell’Armenia, e la Turchia grande protettrice dell’Azerbaijan. Ma le implicazioni sono molto più vaste: la Turchia è un Paese della Nato e nell’intricata vicenda sono coinvolti, più o meno direttamente, stati dalla geopolitica ribollente come la Georgia e l’Iran. Se gli Stati Uniti decidessero di appoggiare la Turchia in funzione anti-russa ecco che la questione del Nagorno Karabakh diventerebbe assai più rilevante. Oltre tutto la regione è attraversata da interessi economici di primo piano legati alle pipeline: l’Azerbaijan con il gasdotto che arriverà anche in Italia punta a diventare un fornitore importante nei Balcani e in Europa facendo in parte concorrenza anche al gas russo al centro delle grandi manovre che oggi agitano l’Europa, dalla Bielorussia al caso Navalny. Ecco alcune delle ragioni perché un conflitto lontano e in gran parte ignorato può diventare una questione di bruciante attualità. Questa guerra dimenticata comincia ancora prima del crollo del Muro di Berlino e della fine dell’Unione sovietica. Siamo infatti nel 1988 quando gli armeni del governo del Nagorno chiedono di passare dalla repubblica sovietica dell’Azerbaijan a quella, sempre sovietica, dell’Armenia. Gli armeni di questa regione hanno sempre rifiutato l’”azerificazione” voluta da Stalin negli anni Venti quando li aveva obbligati a entrare nella repubblica di Baku. Fu così che con la dissoluzione dell’Urss gli armeni del Nagorno si autoproclamarono repubblica indipendente facendo esplodere la guerra tra l’Armenia e l’Azerbaijan: in sei anni sulle montagne e gli altipiani di questa parte del Caucaso si è combattuto un conflitto che ha fatto almeno 30mila morti. Fino alla tregua siglata nel 1994, 26 anni fa, che in realtà è stata costellata da continue violazioni del cessate il fuoco che hanno contribuito a mantenere alta la tensione. Ora lo scontro si è riacceso. Le prime scintille dell’incendio risalgono alla primavera di quest’anno poi a luglio, sfruttando l’emergenza Covid e l’assenza sul campo dei funzionari Ocse, che dovrebbero monitorare la tregua, gli azeri hanno ricominciato a soffiare sul fuoco. Gli armeni non sono certo degli angeli ma gli azeri si sono pesantemente riarmati per sostenere un nuovo conflitto e riprendersi il Nagorno: in un decennio le spese militari di Baku sono aumentate del 500 per cento, grazie anche agli introiti delle vendite di gas e petrolio. Baku, come già ha fatto la Libia di Sarraj, si è buttata nelle braccia della Turchia che fornisce assistenza militare diretta, come del resto fa anche la Russia con l’Armenia. Ma secondo Yerevan e alcuni siti specializzati l’Azerbaijan ha ricevuto dalla Turchia anche l’invio di mercenari già impiegati in Libia e in Siria, oltre ai droni che hanno cambiato la faccia del conflitto libico e portato alla sconfitta del generale Haftar nell’assedio di Tripoli. Per ora sono falliti i tentativi diplomatici di ricomporre il conflitto. Stati Uniti, Francia e Russia, che guidano ala mediazione del gruppo di Minsk dell’Osce, non sono mai riusciti a portare la pace tra Baku e Yerevan. La stessa Russia vorrebbe un mantenimento dello status quo è non ha mai riconosciuto la repubblica armena del Nagorno. Agli occhi di Putin un nuovo conflitto con la Turchia potrebbe minacciare gli accordi che Mosca sta tentando di raggiungere con Erdogan sia in Siria che in Libia, dove russi e turchi vorrebbero spartirsi in zone di influenza l’ex colonia italiana. Inoltre Mosca intrattiene affari importanti con Ankara soprattutto nel settore del gas (Turkish Stream) e non vuole irritare troppo il Sultano turco. Il pericolo è che Erdogan veda nella guerra in Nagorno una nuova occasione per estendere il raggio d’azione della sua politica neo-ottomana anche nel Caucaso e assumere un ruolo sempre più importante: come membro storico della Nato Ankara si confronta aspramente con altri Paesi dell’Alleanza sia in Libia (Francia) che nel Mediterraneo orientale (Grecia). Non è un caso che Pompeo prima di arrivare a Roma abbia fatto tappa ad Atene. Ecco perché il Nagorno non è poi così lontano.

Nagorno Karabak, le radici di un conflitto lungo un secolo. Un missile inesploso nei pressi di Stepanekert, in Nagorbo-Karabakh (afp). Gli scontri sono riesplosi nei giorni scorsi: ma il braccio di ferro sulla sovranità di questa parte di Caucaso va avanti dall'inizio del '900, coinvolgendo tutti gli attori regionali. Aldo Ferrari su La Repubblica il 13 ottobre 2020. I violenti scontri scoppiati il 27 settembre nell’Alto Karabakh sono l’esito ultimo di un conflitto che ha origini lontane. Senza prendere in considerazione le sue fasi più antiche, legate a dinamiche pre-moderne, si deve partire almeno dalla cosiddetta guerra armeno-tatara del 1905-1907. In quegli anni gli armeni  e i  tatari, come erano allora chiamati gli odierni azerbaigiani, si combatterono in molte zone del Caucaso meridionale, che faceva parte dell’impero russo. Benché gli armeni fossero cristiani e i tatari/azerbaigiani musulmani (di lingua turca), le ragioni di quel conflitto erano socio-economiche ancor più che religiose. Se ne accorse lucidamente anche il giornalista italo-inglese Luigi Villari, autore di un importantissimo libro – Fire and Sword in the Caucasus (1906) – che rimane utilissimo per comprendere le radici storiche del conflitto odierno. Anche gli anni seguiti al crollo dell’impero russo e alla nascita delle effimere repubbliche indipendenti di Armenia e Azerbaigian (1918-1920) videro violenti scontri tra questi Paesi per il controllo di tre regioni etnicamente miste: Zangezur, Nakhichevan e Alto Karabakh. Dopo la sovietizzazione delle due repubbliche caucasiche, Mosca decise che la prima di queste regioni sarebbe spettata all’Armenia, le altre due all’Azerbaigian. Soprattutto la scelta riguardante l’Alto Karabakh, che per quattro quinti era abitato da armeni, ha avuto conseguenze decisive, che giungono sino ad oggi. L’insoddisfazione degli armeni dell’Alto Karabakh per l’inserimento nell’Azerbaigian, sia pure con lo status di regione autonoma, si manifestò con forza già negli ultimi anni sovietici, ma esplose in guerra aperta con il crollo dell’URSS nel 1991. Al termine di un sanguinoso conflitto, che ha provocato circa 30.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati, gli armeni dell’Alto Karabakh – sostenuti anche da quelli della repubblica d’Armenia e della diaspora –  riuscirono non solo a prendere il controllo di quasi tutto il territorio della regione contesa, ma anche ad occupare sette distretti circostanti in precedenza abitati pressoché solo da azerbaigiani. In seguito a questa vittoria, tuttavia, l’Alto Karabakh non si unì alla repubblica d’Armenia, ma si rese indipendente, non venendo peraltro  riconosciuto da nessun Paese della comunità internazionale. Questo stato de facto ha da allora assunto l’antica denominazione armena di Artsakh. Dal punto di vista giuridico il confitto tra armeni e azerbaigiani per l’Alto Karabakh vede contrapporsi due principi del diritto internazionale. Uno è quello dell’integrità territoriale degli Stati, favorevole all’Azerbaigian, l’altra è quello del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorevole agli armeni. Per trovare una soluzione diplomatica al conflitto lavora sin dal 1992 – dal 1995 sotto l’egida dell’OSCE – il  Gruppo di Minsk, guidato da una copresidenza  composta da Francia, Russia e Stati Uniti. Ne fanno inoltre parte, oltre ai rappresentanti di Armenia e Azerbaigian (l’Alto Karabakh ne è invece escluso), quelli di Bielorussia, Finlandia,  Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Turchia e Svezia. Il risultato più notevole della sua mediazione, sinora decisamente poco efficace, è costituito sinora dai cosiddetti “Principi di Madrid”, stabiliti nel 2007, ma mai sottoscritti dalle parti in causa. Questi principi, infatti, prevedono un processo operativo che dovrebbe svilupparsi per tappe successive, ma che non riesce a soddisfare le aspirazioni delle due parti, in particolare per quel quanto riguarda la questione cruciale dello status definitivo dell’Alto Karabakh. In tutti questi anni la situazione creatasi sul campo nel 1994 ha retto nonostante uno stillicidio di scontri alla frontiera tra il l’Alto Karabakh e l’Azerbaigian, che nell’aprile del 2016 avevano toccato un livello molto intenso. La crisi odierna è però apparsa sin dall’inizio molto più grave. Anche se, come di consueto, le parti in causa si sono reciprocamente accusate di aver dato inizio agli scontri, la recente recrudescenza del conflitto è da attribuirsi principalmente a Baku. Gli armeni, molto più deboli sia numericamente che economicamente, detengono già il controllo dei territori contesi e non hanno quindi alcun desiderio di pregiudicare lo status quo. In effetti è solo Baku che ha interesse a riprendere il conflitto per recuperare i territori perduti. Frustrato dal pluridecennale stallo delle trattative diplomatiche e forte di un notevole rafforzamento economico e quindi militare, l’Azerbaigian appare ormai deciso a riprendere con le armi l’Alto Karabakh e gli altri territori occupati dagli armeni tra il 1991 e il 1994. In questi due decenni e mezzo l’Azerbaigian è molto cresciuto economicamente grazie alle sue ricchezze energetiche e ha sviluppato una notevole rete di collaborazioni internazionali. Tra l’altro, proprio l’Italia è suo il principale partner commerciale, sulla base di un interscambio basato sinora in primo luogo sull’importazione di petrolio ma che nei prossimi mesi, con l’avvio del TAP, vedrà anche un abbondante flusso di gas.. L’Azerbaigian investe buona parte dei proventi energetici in armamenti e anche nella ricerca di una credibilità internazionale non così scontata, almeno in Occidente, alla luce della natura autoritaria e “ereditaria” del Paese, il cui presidente è figlio del precedente presidente, che era stato anche segretario del Partito comunista in epoca sovietica. Un aspetto che sarebbe bene tenere a mente quando si valuta la questione dell’Alto Karabakh. In ogni caso, il rafforzamento  degli ultimi anni ha come conseguenza diretta una rivendicazione sempre più assertiva da parte di Baku della piena sovranità sull’Alto Karabakh e sugli altri territori occupati dagli armeni. I quali, d’altra parte, non sembrano disposti a rinunciare all’indipendenza dell’Alto Karabakh neppure sotto la guida di Nikol Pashinyan, che pure ha portato molti cambiamenti politici a Erevan con la cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 2018. A differenza dei due precedenti leader armeni, i presidenti Kocharian e Sargsyan, Pashinyan non è originario della regione contesa, ma la sua posizione al riguardo è rimasta altrettanto ferma. Alla luce di questa situazione, la ripresa delle ostilità è stata tutt’altro che sorprendente. Una ripresa iniziata già dai violenti scontri del 12-14 luglio di quest’anno,  avvenuti tra l’altro non nella regione contesa, ma in quella di Tavush, lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian Ciò avrebbe potuto in teoria determinare l'intervento della CSTO, l’alleanza militare guidata dalla Russia a favore dell’Armenia che ne fa parte. E, parallelamente, quello della Turchia a fianco dell’Azerbaigian, al quale è legata da una solida alleanza. Un’ulteriore segnale dell’aggravarsi della situazione è da considerare anche la manifestazione, almeno in parte non preordinata dalle autorità dell’Azerbaigian, che ha avuto luogo a Baku il 15 luglio chiedendo la ripresa delle ostilità contro gli armeni. Inoltre, nei giorni successivi si sono verificati disordini tra azeri e armeni residenti in diversi paesi del mondo, dalla Russia sino agli Stati Uniti, ampliando quindi la dimensione internazionale della crisi.  Nel corso dell’estate le autorità di Baku hanno notevolmente rafforzato la propaganda revanscista con il pieno sostegno del presidente turco Erdogan. La Turchia, erede diretta dello stato che nel 1915 ha compiuto un genocidio ai danni degli armeni, e senza mai riconoscerlo, ha in effetti una grandissima responsabilità nella crisi attuale, anche per l’indiretto ma sostanzioso sostegno militare fornito all’Azerbaigian.  Si tratta di una situazione quanto mai delicata, che rischia seriamente di innescare un ampliamento del conflitto potenzialmente molto rischioso a livello internazionale, soprattutto per il posizionamento opposto di Ankara e Mosca. La prima, che fa parte della NATO, sostiene l’Azerbaigian e sin dal 1993 ha chiuso unilateralmente le frontiere con l’Armenia. La seconda, come si è detto, è invece alleata dell’Armenia, che fa parte della CSTO. Occorre però ricordare che l’appoggio di Mosca riguarda solo l’Armenia e non il Nagorno-Karabakh. Il contrasto nel Caucaso tra Turchia e Russia è quindi quanto mai pericoloso, anche se i due paesi sono sinora stati capaci di gestire altre situazioni in cui si trovano su fronti opposti, dalla  Siria alla Libia. Di fronte ad una escalation così forte del conflitto tra Armenia e Azerbaigian, lo stallo negoziale tra le parti e la sostanziale inazione della comunità internazionale accrescono il rischio concreto di una guerra su larga scala. Il semplice mantenimento dello status quo, che a lungo è sembrato a molti attori della scena politica internazionale l’opzione preferibile, pur se non certo ideale, appare ormai sempre più difficile da perseguire. In questa situazione  la responsabilità principale ricade ancora una  volta sul Gruppo di Minsk, ma per uscire da questa impasse, geopolitica oltre che giuridica, è assolutamente necessario un cambio di marcia nelle trattative diplomatiche. La comunità internazionale è chiamata ad affrontare con maggior impegno e idee nuove un problema che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti. Anche le parti in causa, peraltro, dovrebbero abbandonare il massimalismo delle loro posizioni, accettando un compromesso che inevitabilmente le costringerà a rinunciare a parte di quanto rivendicano.  

Aldo Ferrari è Professore di Storia del Caucaso e dell’Asia Centrale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

Direttore del Programma Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’ISPI di Milano 

Presidente dell’Associazione per lo Studio in Italia dell’Asia centrale e del Caucaso  

Paolo Valentino per il Corriere della Sera il 16 ottobre 2020. Il calcio, almeno per un breve periodo della loro vita sportiva, li ha uniti. La guerra del Nagorno-Karabakh li sta dividendo. Uno è Mesut Özil, tedesco di origine turca, trequartista dell'Arsenal e campione del Mondo con la Germania nel 2014, prima di accusare di «razzismo e mancanza di rispetto» i vertici del calcio tedesco e annunciare il suo gran rifiuto alla nazionale. L'altro è Henrikh Mkhitaryan, armeno, anche lui fantasista di centrocampo dell'Arsenal tra il 2018 e il 2019, prima di venire in Italia a deliziare i tifosi della Roma. «Le pene dell'Azerbaigian sono le nostre pene, la sua gioia è la nostra gioia», ha scritto in un tweet Özil citando Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna. Il post era completato dallo slogan «una nazione due Stati». Il Nagorno-Karabakh, l'enclave nel cuore dell'Azerbaigian governata da separatisti armeni ma abitata anche da una forte minoranza azera, è stato teatro in queste settimane di un nuovo e più intenso conflitto armato tra le forze di Baku e Yerevan, con la partecipazione di attori stranieri: la Turchia di Erdogan appoggia l'Azerbaigian, mentre Mosca, che ha un patto di mutua difesa con l'Armenia, ha negoziato un cessate il fuoco subito violato dai duellanti. Özil ha fatto anche una lunga dichiarazione, invocando la risoluzione dell'Onu del 2008, dove viene riaffermata l'integrità territoriale dell'Azerbaigian e chiesto il ritiro delle truppe armene dall'enclave: «Per me è importante che tutti nel mondo sappiano che la regione è legalmente riconosciuta come parte dell'Azerbaigian ed è illegalmente occupata. Costruiamo la pace e lavoriamo un futuro giusto, senza violenza. Ogni morte è una perdita per tutti». Non è la prima volta che Özil si schiera politicamente. All'inizio dell'anno ha denunciato la repressione in atto in Cina contro la minoranza musulmana degli Uiguri. Più controverso è il sostegno al presidente turco Erdogan, che nel 2019 è stato anche suo testimone di nozze e che fu all'origine della sua rottura con la nazionale tedesca. Sul fronte opposto, Henrikh Mkhitaryan si muove con un codice più diplomatico, anche se non risparmia accuse molto gravi. Il centrocampista giallorosso ha scritto una lettera aperta indirizzata a Donald Trump, Vladimir Putin e Emmanuel Macron, invitandoli ad agire per fermare «l'Azerbaigian aggressore» e contro «il terrorismo internazionale». «L'Armenia dove sono nato e l'Artsakh (il nome armeno per il Nagorno-Karabakh, ndr ) continuano a difendere il proprio diritto di essere una nazione indipendente, esistere sui territori storicamente occupati e preservare il proprio patrimonio di valori cristiani conosciuto in tutto il mondo». Mkhitaryan ha accusato gli azeri di «bombardare deliberatamente scuole, asili e ospedali». Nella polemica è intervenuto anche un altro calciatore, Maksim Medvedev, capitano della nazionale azera, che ha definito «false» e «infondate» le accuse del giocatore armeno. Parafrasando von Clausewitz, questa volta è il calcio a essere la prosecuzione della guerra con altri mezzi.

Viaggio nella città dei sepolti vivi "Solo Mosca può salvare noi cristiani". A Martuni, devastata dalle bombe, gli abitanti vivono nascosti nelle catacombe. "L'Europa non aiuterà, ma la Russia tarda". Gian Micalessin, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale.  Martuni. È stata la prima ad esser attaccata. La prima a piangere le vittime dei missili azeri. La prima città del Nagorno Karabakh a esser abbandonata dai suoi abitanti fuggiti in massa verso l'Armenia. È la città degli uomini perduti. Delle sue seimila anime ne restano quattrocento. Forse meno. Ma anche di quei pochi è difficile scorgere l'ombra. Martuni è una città fantasma, addormentata e silenziosa. Il palazzo del Comune, un maestoso edificio circolare in pietra grigia, naviga su un mare di detriti e vetri infranti. Erano le sue finestre e i suoi portali. In venti giorni missili e bombe li han trasformati in un tappeto di rovine e distruzioni. Tutt'attorno non c'è pietra, pezzo d'asfalto o albero che non porti i segni di schegge ed esplosioni. E qua e là, infilzate nei prati e nell'asfalto, le sagome minacciose di missili ancora inesplosi. Dei sopravvissuti, invece, nemmeno l'ombra. Per scovarli bisogna costeggiare il palazzone grigio, raggiungere l'ala opposta alla linea del fronte distante solo due chilometri. Lì i fantasmi di Martuni s'affacciano lenti e guardinghi da una botola buia. S'arrampicano su una scala a pioli, sporgono la testa, fanno cenno d'attendere. Sono sospettosi, impauriti, frastornati. Prigionieri di questa Stalingrado in miniatura guardano in cagnesco chiunque possa svelare la loro tana, mettere a rischio i loro rifugi, render ancora più precaria la loro sicurezza. Ti tengono lì in sospeso tra il deserto e l'abisso per più di mezz'ora, poi uno salta fuori. Si chiama Armen. Ha il pallore grigio di chi da giorni non vede la luce, le occhiaie scavate da troppe notti insonni. «Vengo io con voi! Vi mostro cos'hanno fatto a questa città...». Sale a passo svelto, si butta di corsa verso la piazza. Venti passi dopo capisci il perché di tanta fretta. Il primo colpo di mortaio cade con un sibilo a duecento metri da noi. Un secondo e un terzo s'infilano più lontano. «Questa era la casa di mio padre - ti racconta Armen indicando una voragine detriti - il missile l'ha colpita appena undici ore dopo l'inizio del cessate il fuoco, mio padre, un anziano di 79 anni che non faceva male a nessuno, è stato fatto a pezzi nel suo letto». Sempre di corsa Arman ci riaccompagna ai sotterranei del municipio. Tra le rovine della città non incrociamo un'anima. «Le donne - dice lui - sono andate in Armenia con i bambini. Noi uomini abbiamo ricevuto le armi e ci alterniamo tra il fronte e i rifugi in città. Chi, come mia moglie, non è partita per stare vicino a chi è in prima linea vive sottoterra». Ora siamo di nuovo al municipio. Due piani sotto la luce fioca e giallastra di fioche lampadine illumina i volti scavati di donne e anziani. Siedono silenziosi sulle brande allineate alle mura incalcinate, tra bottiglie d'acqua, sacchi di pane, borse di patate, sporte di pomodori, mucchi di melograni. Una donna continua a piangere, un'altra si tiene il volto tra le mani. Solo Veniera, la moglie di Armen, si sforza d'abbozzare un sorriso. «Non ho figli, potevo solo restare accanto a mio marito e a chi combatte per la propria patria. Ma sono contenta che tu sia venuto dall'Europa e dall'Italia a raccontare la nostra disperazione». Le chiedo se può bastare. Veniera alza gli occhi, sorride. «Siamo cristiani come voi, ma dall'Europa sappiamo di non poterci aspettare molto. Se qualcuno ci salverà sarà solo la Russia. In passato è sempre stato così. Mi chiedo solo perché stavolta ci metta tanto tempo».

Per i Cristiani uccisi in Africa non c’è nessun Black Lives Matter. Di Federico Cenci il 22 Luglio 2020 su culturaidentita.it. Fonte ilgiornale.it. L’ipocrisia dell’Occidente nel silenzio del massacro da parte dei jihadisti. Mentre l’Occidente progressista si strugge per l’uccisione di un nero negli Stati Uniti, decine di migliaia di neri sono vittime di persecuzioni anti-cristiane in Africa. Per loro, tuttavia, non viene inscenata alcuna mobilitazione di massa. Non si registrano cortei, campagne social, solidarietà delle multinazionali o atleti in ginocchio per i seguaci di Cristo vessati, incarcerati, torturati, massacrati. Sarà che forse i loro persecutori hanno la pelle nera o che la loro causa non genera profitti né si presta a strumentalizzazioni ideologiche e politiche, sta di fatto che il calvario dei cristiani d’Africa è avvolto nell’oblio. Eppure, i numeri della persecuzione sono spaventosi. Li svela nel suo periodico rapporto la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. L’ultimo, che risale all’ottobre scorso e raccoglie fatti avvenuti nel biennio 2017-2019, rivela che tra i 20 Paesi al mondo in cui desta più preoccupazione la condizione dei cristiani, 8 si trovano nel Continente Nero: Egitto, Eritrea, Sudan, Repubblica Centrafricana, Camerun, Nigeria, Niger, Burkina Faso. Sotto la linea del Sahara il jihadismo islamico è penetrato come una calamità: dei 18 sacerdoti e una suora uccisi nel 2019, ben 15 sono stati assassinati in Africa. In Paesi come la Nigeria, dove imperversano i terroristi di Boko Haram e i nomadi Fulani, si svolge un vero e proprio circo degli orrori. Nelle prime settimane del 2020 sono stati diffusi in Rete video raccapriccianti: undici cristiani bendati e poi decapitati dai miliziani, stessa sorte per una donna in abito da sposa e per le sue damigelle poco prima di entrare in chiesa per il matrimonio a Maiduguri, nello Stato di Borno. E poi, ancora, un giovane ucciso con un colpo di pistola alla testa sparato da un bambino soldato. La Nigeria si conferma – rivela l’organizzazione Open Doors – il luogo al mondo in cui vengono uccisi più cristiani. Secondo il rapporto dell’intergruppo parlamentare per la libertà religiosa di Westminster, dal 2015 ne sono stati ammazzati oltre 6mila, 600 soltanto nei primi mesi del 2020. Nell’introduzione al testo, il presidente dell’intergruppo, Jim Shannon, parla dell’islamismo come di una “ideologia distruttiva e divisiva che porta a crimini contro l’umanità e che può spianare la strada verso il genocidio. Non dobbiamo esitare a dirlo”. Ma il termometro della persecuzione non si misura soltanto con il sangue, che pure sgorga a fiotti. L’oppressione che insidia la sequela di Cristo stringe pure le catene sui polsi. Centinaia di persone sono in prigione in Eritrea con la sola “colpa” di essere cristiani. Per lo più si tratta di appartenenti a gruppi evangelici, ma non è affatto serena la condizione cui soggiacciono i cattolici. Tra giugno e luglio dello scorso anno il feroce regime di Asmara ha confiscato 22 strutture sanitarie cattoliche e, nei mesi successivi, ha messo le mani anche su delle scuole affidate ai gesuiti. “Il tutto – denuncia una fonte locale ad Aiuto alla Chiesa che Soffre – avviene nell’indifferenza. Ma il mondo ci vede? Oppure si accorge dell’Eritrea soltanto quando si parla dei nuovi migranti che giungono sulle coste italiane?”. Questo è un punto nevralgico della questione. L’instabilità dell’Africa provoca emorragie che premono sulle coste settentrionali del Mediterraneo. Un’Europa che assiste indifferente alla persecuzione dei cristiani africani non soltanto compie un’opera di omissione morale, condanna anche sé stessa a subirne gli effetti in termini di ondate migratorie.

 (ANSA il 21 giugno 2020) - E' un richiedente asilo libico e si chiama Khairi Saadallah il 25enne arrestato ieri a Reading, in Inghilterra, con l'accusa d'aver accoltellato 6 persone in un parco cittadino uccidendone tre. Lo riferiscono fonti dell'intelligence all'agenzia Pa, precisando che la vicenda - considerata di natura terroristica dalla polizia locale - ha a che fare anche con un problema di "salute mentale". Il giovane, residente a Reading, risulta essere stato già in carcere in passato, ma per presunti reati minori di criminalità comune.

Cristina Marconi per “il Messaggero” il 22 giugno 2020. Si chiama Khairi Saadallah, ha venticinque anni, è di origine libica ed era già finito sotto la lente dei servizi segreti nel 2019 l'uomo che nel tardo pomeriggio di sabato ha accoltellato alcune persone scelte a caso in un parco di Reading con una lama di quindici centimetri, facendo tre vittime e tre feriti gravi. Saadallah è stato arrestato sul posto, immobilizzato da un agente disarmato con una mossa da rugby appena cinque minuti dopo la prima chiamata, e gli inquirenti ritengono che abbia agito da solo, aggiungendo il nome di Saadallah alla lista dei lupi solitari' che negli ultimi anni hanno condotto una serie di attentati nel Regno Unito. Nella serata di sabato la sua abitazione in un caseggiato popolare di Reading è stata perquisita dall'antiterrorismo e i vicini di casa hanno parlato di un forte botto, forse legato a un'esplosione controllata. L'anno scorso Saadallah era stato oggetto di attenzione da parte dell'MI5, che sospettava volesse viaggiare all'estero, probabilmente in Siria, «per ragioni legate all'estremismo», ma l'intelligence aveva concluso che non ci fossero rischi e che l'ipotesi non fosse credibile, sebbene il giovane avesse manifestato problemi mentali e un'indole violenta. Non ci sono per ora indicazioni che l'attacco di Forbury Gardens sia legato a un'affiliazione a al-Qaeda o a Isis, ma le indagini, affidate alla squadra antiterrorismo, proseguono. «Dalle indagini condotte fino ad ora gli agenti non hanno trovato nulla che suggerisca che ci fosse qualcun altro coinvolto nell'attentato e al momento non stiamo cercando nessun altro in relazione al caso», ha spiegato il capo dell'antiterrorismo Neil Basu, aggiungendo: «Anche se il movente di questo crimine orribile è tutt'altro che chiaro, l'antiterrorismo ha assunto la responsabilità di guidare le indagini». Non esisterebbero invece legami «di nessun tipo» con la manifestazione antirazzista e pacifica di Black Lives Matter che si era tenuta poche ore prima nello stesso parco, secondo Basu. A Saadallah era stato concesso l'asilo dopo che era venuto come turista nel Regno Unito nel 2012: non conducendo uno stile di vita «strettamente rispettoso della religione», sarebbe stato vulnerabile agli attacchi degli estremisti. Secondo quanto riferito al Mail Online da un cugino, il venticinquenne «si è messo nei guai in Inghilterra e poteva essere aggressivo, ma non mi capacito che si sia fatto trascinare in qualcosa di così grave». Saadallah era infatti già stato in carcere per 12 mesi per reati non legati al terrorismo. Lì si sarebbe convertito al cristianesimo e si sarebbe fatto tatuare una croce su un braccio. Prima di Reading, viveva a Manchester. La prima delle tre vittime si chiama James Furlong ed era un professore di storia in un liceo di Wokingham, vicino a Reading. Sedeva in un gruppetto di uomini di mezza età e stava bevendo una birra quando Saadallah si è avventato su di loro con il coltello. La sua corsa è stata interrotta da un agente che lo ha immobilizzato al suolo. Fino ad ora sono 41 le persone che si sono fatte avanti come testimoni e esistono numerosi filmati dei minuti successivi all'attacco, in particolare dei tentativi di rianimazione delle persone colpite. Secondo Lawrence Wort, un personal trainer di vent'anni seduto accanto al gruppo, Saadallah avrebbe urlato qualcosa di incomprensibile prima di iniziare il suo attacco.

Gli attentati sventati tra il 2012 e il 2019. Giovanni Giacalone su Inside Over l'11 febbraio 2020. Lo scorso 3 febbraio, i servizi di sicurezza della polizia norvegese (Politietse Sikkerhetstjeneste-Pst) hanno pubblicato un report dal titolo “Come evitare gli attentati terroristici” (Hvordan avverges terrorangrep), nel quale vengono presi in esame 91 casi di attentati sventati nel periodo tra il 2012 e il 2019 in Occidente (inteso come Europa, Nord America, Australia e Nuova Zelanda). Lo studio si focalizza in particolar modo sulle modalità con le quali le autorità sono giunte a conoscenza dei piani di attacco degli attentatori, evidenziando e rilanciando l’importanza della “sicurezza partecipata“, intesa come contributo essenziale della cittadinanza nell’allertare le forze dell’ordine nel momento in cui vengono percepiti comportamenti sospetti. Il documento incoraggia apertamente il cittadino ad “affidarsi al proprio istinto”, in quanto qualsiasi informazione potrebbe rivelarsi utile alle indagini. Lo studio, reperibile qui in lingua originale, è stato tra l’altro tradotto in inglese e pubblicato sul sito del ricercatore britannico di origini irachene, Aymenn Jawad al-Tamimi, esperto di jihadismo dell’area siriano-irachena.

I contenuti. Il report è suddiviso in due parti, nella prima vengono discusse le modalità con le quali gli attacchi sono stati preventivamente individuati e prevenuti; nella seconda parte vengono invece fornite informazioni su come la cittadinanza può contribuire ad allertare le forze dell’ordine norvegesi in caso di attività sospette. Un primo elemento d’interesse riguarda i numeri, con ben 91 attentati sventati, in 13 paesi, in un periodo che va dal 2012 al 2019 e con ben 60 di questi scongiurati tra il 2017 e il 2018 (Norvegia inclusa). Lo studio, per ovvi motivi, non fornisce dettagli sulle operazioni o sui casi specifici, ma elabora interessanti statistiche sugli attori che hanno contribuito a sventare gli attacchi, mettendo da subito in evidenza come la PST faccia affidamento su differenti interlocutori per quanto riguarda l’azione preventiva di monitoraggio. I dati parlano chiaro: il 43% degli attacchi sono stati sventati in base a informazioni reperite dall’Intelligence e dai Servizi di Sicurezza; il 28% dalla Polizia; il 18% su allerta della cittadinanza e l’11% grazie a segnalazioni giunte da istituzioni pubbliche e private. Scendendo ulteriormente nei dettagli sulla provenienza degli “alert”, emerge come nel 45% dei casi sono stati gli stessi attentatori, attraverso attività online, ad allertare le autorità, già attive con il monitoraggio del web. E’ risultato poi di estrema rilevanza il contributo delle segnalazioni provenienti dalle cosiddette “terze parti”, intese come enti pubblici, datori di lavoro, colleghi o osservatori occasionali.  Vi sono poi due 10% provenienti da ambienti vicini agli attentatori (amici e parenti) ed altre categorie occasionali non coperte dagli altri indicatori. Un 9% riguarda poi attacchi individuati in seguito a operazioni di polizia non collegate al terrorismo: ovvero indagini legate a traffico di stupefacenti, furti e semplici perquisizioni e controlli. Il 3% dei casi è invece il risultato di minacce o dichiarazioni esplicite fatte dagli attentatori; in poche parole, l’aver resa nota la volontà di compiere attacchi. I dati forniti dallo studio mettono in evidenza un aspetto interessante per quanto riguarda gli ambienti vicini agli attentatori, intesi come familiari e amici, che spesso non segnalano nulla alle autorità, nonostante i sospetti. Il report ipotizza che i motivi siano essenzialmente due: il fatto che il sospetto in sè non sia sufficiente ad allertare la polizia e il timore di conseguenze negative (es: vendette, rappresaglie, problemi legali). Il contesto sociale vicino agli attentatori è certamente complesso, come dimostra ad esempio il profilo di Sudesh Mamoor Faraz Amman, il ventenne britannico che lo scorso 2 febbraio ha ferito tre persone in un quartiere a sud di Londra prima di venire abbattuto dalla polizia. Sul suo profilo sono emerse opinioni contrastanti, con la madre e alcuni vicini di casa che lo descrivevano come “persona tranquilla ed educata” e i suoi ex compagni di scuola che lo indicavano invece come “soggetto strano, disturbato e che aveva più volte reso nota la volontà di diventare un terrorista”.  La percezione dell’individuo può infatti variare in base a una moltitudine di fattori, tra cui i legami affettivi, la frequenza con la quale si è in contatto con il soggetto in questione e la durata dell’interazione. Un ulteriore elemento emerso dal report della PST è l’importanza ricoperta dal web, in quanto nel 45% dei casi, il potenziale attentatore risultava attivo con esplicita attività online. Un aspetto che indica ancora una volta l’importanza del monitoraggio di internet, divenuto mezzo fondamentale per l’attività di propaganda e reperimento di informazioni da parte del jihadismo e dell’estremismo politico e religioso in generale.

L’importanza della “sicurezza partecipata” e i consigli della PST alla cittadinanza. La seconda parte del report si concentra invece sull’importanza della sicurezza partecipata, intesa come partecipazione attiva della cittadinanza nell’allertare le autorità competenti in caso di fenomeni sospetti. La PST norvegese incoraggia la cittadinanza a fare affidamento sul proprio istinto ed elenca alcuni elementi che possono aiutare il cittadino ad individuare possibili comportamenti sospetti, come ad esempio l’esprimere palesemente la volontà di sostenere o perpetrare attacchi terroristici di stampo politico o religioso; l’essere attivi nella divulgazione di materiale o nella ricerca di informazioni su armi ed esplosivi. Ulteriori comportamenti indicati come sensibili sono l’eventuale isolamento dalla famiglia ed eventuali riprese fotografiche e video di zone ed edifici che potrebbero diventare target di attacchi. In aggiunta, viene fatto riferimento a potenziali acquisti (o furti) di materiale “sensibile” che va da petardi ed esplosivi, fino a componenti chimici, armi da fuoco o parti separate che le compongono, munizioni, indicando anche di prestare attenzione a forti odori fuori norma ed eccessiva ventilazione (che potrebbero indicare la lavorazione di ordigni). Il report conclude poi ricordando come l’identità di chi decide di procedere con eventuali segnalazioni, sia accuratamente tutelata nella massima riservatezza. Il coordinamento tra società civile e Forze dell’Ordine risulta fondamentale per la prevenzione di attacchi. Un occhio vigile, se adeguatamente indirizzato, può contribuire ampiamente alla sicurezza, segnalando per tempo attività sospette. L’impreparazione e il mancato coinvolgimento della cittadinanza comporta rischi maggiori e predispone terreno fertile al potenziale attentatore.

Da repubblica.it il 3 gennaio 2020. Un uomo ha pugnalato alcune persone in piazza nel primo pomeriggio a VilleJuif, cittadina di circa 50 mila abitanti dell’Ile de France, alle porte di Parigi. È successo al parco Hautes Bruyères, nei pressi di un supermercato. L’uomo, armato di coltello, ha cercato di colpire quattro persone scelte a caso, riuscendo a portare a segno alcuni colpi. Una delle persone è morta, altre due sono gravissime. L’aggressore ha tentato la fuga ma la polizia gli ha sparato ed è morto. Lo riferisce BfmTv.

La ricostruzione. Secondo la ricostruzione dell’emittente tv Bfm, è stato colpito da almeno tre colpi di pistola sparati da alcuni agenti presenti sul posto. Il profilo Twitter della polizia francese ha confermato l'operazione in corso. La stessa fonte riferisce di alcuni testimonianze secondo cui l'aggressore, con caratteristiche fisiche europee e con la barba, avrebbe urlato Allahu akbar prima di procedere con l'assalto.

La Bibbia forata dai proiettili nella parrocchia  di don Andrea. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Ester Palma. «Andrea era l’ultimo di noi tre figli. Alla fine della seconda media annunciò ai nostri genitori e a noi sorelle che voleva entrare in seminario. Mio padre provò a dirgli di aspettare almeno un anno, per finire la scuola, ma lui rispose che era pronto a scappare di casa per vivere la sua vocazione. E conservo ancora una sua letterina al nostro parroco, dell’anno dopo, quando era già in seminario, in cui diceva che era felice perché finalmente si stava preparando per diventare un sacerdote». Maddalena Santoro è una delle sorelle di don Andrea, il prete ucciso a 61 anni nel febbraio 2006 a Trabzon in Turchia dove operava dal 2000 come fidei donum, cioè concesso dalla diocesi di Roma alla Chiesa turca come sostegno pastorale. Dopo essere stato parroco a Roma in vari quartieri periferici e non, da Monteverde a Villa Fiorelli. «Andrea era felice in Turchia, sentiva che stava compiendo la sua missione, nonostante le difficoltà — racconta la sorella —. Proprio da Trabzon il 1° febbraio dell’anno precedente alla sua morte scriveva: “Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne”». Nel pomeriggio di domenica 5 febbraio 2006, mentre don Santoro era nella sua chiesa, quella di Santa Maria, con il suo aiutante turco, vide entrare tre giovani che iniziarono a insultarlo e minacciarlo, prima di uscire. Don Andrea prese la sua Bibbia in turco, lingua che aveva voluto imparare con impegno, e iniziò a pregare, ma poco dopo un uomo entrò in chiesa e gli sparò due colpi di pistola gridando «Allah akbar». Proprio quella Bibbia, su cui sono presenti i segni dei proiettili che trapassarono il corpo del sacerdote, ora è esposta nella parrocchia di Gesù di Nazareth, a Verderocca, zona nata ai bordi del Collatino negli anni Ottanta: don Andrea ne era stato il primo parroco, quando ancora non c’era nemmeno la chiesa e le Messe si celebravano in un condominio: «Il suo ricordo fra la gente della zona è ancora molto vivo — racconta l’attuale parroco, don Giuseppe Russo —. È stato qui dal 1981 al 1993, ma in molte case della parrocchia la sua foto è in mostra fra quelle di famiglia, nonostante siano passati così tanti anni». «Andrea era fatto così: un uomo di grande spiritualità, che viveva di fede e preghiera, ma che si interessava personalmente ai problemi dei suoi parrocchiani — spiega ancora la sorella —. Se qualcuno era malato lui andava anche tutti i giorni a visitarlo, se le coppie avevano dei problemi cercava di mettere pace, sempre. Si interessava dei giovani, delle loro vite». Ora i parrocchiani avranno un suo ricordo davvero significativo. In chiesa sarà posto in una teca fatta realizzare apposta e vicino alle icone sacre che lui stesso aveva voluto: «Quella Bibbia piena di sottolineature e appunti e la giacca che indossava al momento dell’omicidio siamo riusciti ad averle dalla polizia turca solo un anno dopo la sua morte — racconta Maddalena, che per far conoscere la spiritualità profonda del fratello e mantenere i rapporti fra la diocesi di Roma e il vicariato di Anatolia ha fondato una onlus che porta il suo nome —. Abbiamo ancora molti suoi scritti inediti, come le lettere ai suoi superiori, soprattutto i cardinali Poletti e Ruini, in cui descriveva la sua vita e pregava per l’unità della Chiesa e delle parrocchie. E l’importanza per lui della presenza cristiana e dell’evangelizzazione in Medio Oriente. E forse non è un caso che sul suo comodino fu ritrovato un testo di Robert Royal: “I martiri del ventesimo secolo”». La diocesi di Roma sta valutando l’apertura del processo di beatificazione.

Venezia, la confessione choc di un bimbo magrebino: "Mi farò esplodere". La rivelazione del ragazzo di 11 anni ha scatenato il panico. I carabinieri stanno indagando dopo la denuncia da parte di una madre. Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Andare in Siria per farsi esplodere in nome di Allah. Questo il piano rivelato da un bambino di origine magrebina ai suoi compagni di classe nel corso dell'intervallo: il piccolo avrebbe dunque confessato agli amici l'intenzione di farsi saltare in aria. Il fatto è avvenuto nel comune di Cavarzere, che conta appena 13mila abitanti in provincia di Venezia: qui è scattato l'allarme dopo la denuncia da parte di una madre. "Andrò in Siria a combattere, dove c’è anche mio zio e mi farò esplodere in nome di Allah". A pronunciare tali parole sarebbe stato un bimbo, non un fantomatico integralista islamico. Il caso è subito esploso sui social, dove una donna ha sollevato la questione: "Apprendo, senza troppo stupore, da mia figlia che frequenta l’ultimo anno della scuola primaria, di un suo compagno di classe di origine magrebina che, con orgoglio e convinzione, racconta ai suoi amichetti che si farà saltare in aria in nome di Allah e che vuole andare in Siria a combattere con suo zio". L'imprenditrice sul proprio profilo Facebook ha scritto: "Questo è un bimbo che mi auguro non capisca cosa dice ma che purtroppo cresce in un ambiente di odio verso chi li ospita. Benvenuta integrazione!". A rivelarlo è La Nuova Venezia.

Indagano i carabinieri. La versione dei fatti ora è al vaglio dei carabinieri che, di concerto con l'autorità giudiziaria, si stanno occupando del caso con grande discrezione. Si tratta di una confidenza segreta rivelata per togliersi un peso oppure una marachella per sentirsi importante e attirare le attenzioni? Le verifiche ora ruotano attorno a due questioni di estrema importanza: da una parte bisognerà appurare l'esistenza o meno, all'interno della famiglia, di un presunto combattente affiliato all'Isis che si troverebbe in Siria insieme ai tagliagole del nuovo Califfo; dall'altra bisognerà stabilire da chi e in quale occasione il giovane possa aver ascoltato un proposito del genere. Nel frattempo nella giornata di ieri la mamma del bimbo ha incontrato la dirigente scolastica e il corpo docente: in attesa di accertare i dettagli della vicenda, non è stato adottato alcun provvedimento nei confronti del ragazzino che ora può tornare tranquillamente tra i banchi di scuola. Come riportato dall'edizione odierna de La Verità, l'11enne vive nel paese veneto con la mamma e i cinque fratelli; il padre invece si sarebbe trasferito in Francia per motivi di lavoro e tornerebbe di rado nel paese veneto. 

(Agenzia Nova il 27 maggio 2020) - Il Federal Bureau of Investigation (Fbi) degli Stati Uniti ha trovato le prove che collegano all’organizzazione terroristica Al Qaeda il sottotenente dell’aeronautica saudita Mohammed Saeed al Shamrani, protagonista di una sparatoria che lo scorso anno provocò la morte di tre militari Usa all’interno della base di Pensacola, in Florida. Lo riferisce il “New York Times” citando due fonti vicine alle indagini. Sul caso dovrebbe tenere una conferenza stampa nelle prossime ore il procuratore generale Usa William Barr, che già lo scorso gennaio aveva parlato di “atto di terrorismo”. In particolare, gli investigatori statunitensi hanno scoperto che Al Shamrani comunicò con un operativo di Al Qaeda prima di entrare in azione. Le prove sarebbero state ottenute attraverso la violazione dei sistemi di sicurezza di uno dei due iPhone del militare saudita, avvenuta solo di recente e “senza l’aiuto di Apple”. È probabile che la notizia possa alimentare nuove tensioni tra la multinazionale di Cupertino e l’Fbi, che già in passato, nel quadro di altre indagini, avevano chiesto senza successo l’accesso a dispositivi Apple. Durante la sparatoria, il saudita distrusse entrambi gli iPhone in suo possesso, circostanza che spinse gli investigatori a ritenere che i due dispositivi dovessero contenere informazioni importanti. Non è tuttavia ancora chiaro se Al Qaeda abbia ordinato l’azione di Al Shamrani, nella quale rimasero uccisi tre militari della Marina statunitense e altri otto furono feriti. In un audio registrato lo scorso anno, la responsabilità dell’attacco fu rivendicata dall’allora leader Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqpa), Qassim al Rimi, poco dopo ucciso in un attacco condotto dalle forze Usa con un drone in Yemen.

(ANSA il 27 maggio 2020) - L'attacco di ieri alla base aeronavale Corpus Christi in Texas nel quale l'assalitore è morto e un militare è rimasto ferito è legato al terrorismo. Lo ha riferito il dirigente dell'Fbi Leah Greeves in una conferenza stampa, senza rendere nota l'identità del killer e descrivere i motivi del suo gesto. "Potrebbe esserci una seconda persona di interesse in fuga nella comunità ma incoraggiamo la gente a stare calma", ha aggiunto Greeves. La guardia all'ingresso è rimasta ferita (non gravemente) ma è riuscita a fermare l'assalitore attivando la barriera che ha impedito alla sua vettura di entrare. Il personale della base ha risposto al fuoco "neutralizzando" il killer ma il lockdown è durato varie ore. La sparatoria arriva tre giorni dopo che l'Fbi ha rivelato che Mohammed Saeed Alshamrani, il militare saudita autore della strage nella base aeronavale americana di Pensacola (Florida) dove si stava addestrando, era rimasto regolarmente in contatto per anni con Al-Qaida, anche la notte prima del suo attacco.

Da laregione.ch il 7 settembre 2020. Osama Bin Laden forse comunicava con la sua rete di complici attraverso messaggi segreti codificati in video porno. A rivelarlo è un documentario di National Geographic intitolato 'Bin Laden's Hard Drive', che analizza il materiale digitale recuperato dal fondatore di Al Qaida, ucciso dai Navy Seal nel suo bunker di Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011. I membri del Team Six hanno scoperto che aveva una collezione "abbastanza ampia" di video a luci rosse. Non è però chiaro se lui stesso guardasse i filmini, visto che aveva diversi televisori nel bunker, ma nessun computer né la connessione internet. Le forze speciali americane hanno trovato anche delle chiavette Usb, che potrebbero essere state usate dai corrieri per trasportare messaggi da e per Bin Laden. 'Bin Laden's Hard Drive' sarà presentato in anteprima su National Geographic il 10 settembre, alla vigilia dell'anniversario delle stragi del 2001.

11 settembre e guerra al terrore: ecco cosa hanno scatenato nel mondo. Alberto Bellotto l'11 settembre su Inside Over. Spesso è difficile stabilire quando un evento smette di essere cronaca per diventare storia. Un buon modo per capirlo è quello osservare i suoi effetti. È il caso degli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York. 19 anni dopo molti potrebbero pensare che quei fatti siano da relegare ai testi di storia ma in realtà gli effetti degli attentati di Al-Qaeda si sentono ancora. Il prossimo 7 ottobre la guerra in Afghanistan entrerà nel suo 20esimo anno e il mondo si trova ancora a fare i conti con quello che è successo dopo il crollo delle Torri gemelle. Gli effetti della “War on terror” lanciata dall’amministrazione di George W. Bush e in parte portata avanti da quella di Barack Obama ha avuto esiti durissimi con ripercussioni su milioni di persone. Pensiamo alle vittime. Secondo le ultime rilevazioni disponibili datate fine 2019, almeno 800mila persone hanno perso la vita nelle guerre in Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Pakistan. Questa cifra non conta le persone ferite, quelle morte in maniera indiretta per la distruzione delle infrastrutture o la contaminazione ambientale. Tra le vittime almeno 330mila sono state registrate tra i civili, seguite dai miliziani, come talebani o jihadisti, e da 177mila tra militari degli eserciti nazionali e forze di polizia. Ma gli effetti degli interventi americani non si sono limitati a questo. A inizio settembre il Waston Institute della Brown University ha pubblicato uno studio sui costi umani derivanti dalle guerre scatenate dopo l’11 settembre 2001. Secondo i dati collezionati negli ultimi 19 anni almeno 37 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Di questi, otto sono rifugiati e richiedenti asilo che hanno lasciato i Paesi coinvolti e 29 sono gli sfollati interni.

La portata dei numeri: vicini alla Seconda guerra mondiale. Ovviamente si tratta di una stima. Gli analisti che hanno lavorato al progetto hanno detto di aver arrotondato per difetto e che il numero potrebbe essere quasi due volte superiore, cioè sfiorare 45 milioni di persone. Per avere un’idea della portata si può fare un confronto con altri eventi storici. La rivoluzione russa costrinse alla fuga sei milioni di persone. La Grande guerra oltre dieci, il conflitto in Vietnam 12 e l’invasione sovietica dell’Afghanistan 6,3 milioni. Solo la Seconda guerra mondiale detiene il triste primato con con una cifra compresa tra 30 e 54 milioni di persone. Raid aerei, colpi silenziosi dei droni, raffiche di artiglieria e gli scontri a fuoco casa per casa nei quartieri coinvolti, sono solo alcune delle ragioni per cui si fugge dalla guerra. In molti casi dopo l’intervento americano sono scoppiati scontri settari, come avvenuto nel nord dell’Iraq a partire dal 2011. Ma le partenze hanno riguardato anche altri aspetti. La necessità di lasciare le proprie case per la distruzioni di coltivazioni e posti di lavoro o l’impossibilità di accedere a cibo, acqua, ospedali e infrastrutture minime. Per capire natura e origini di questi numeri bisogna guardare attentamente a dove la “War on terror” è stata combattuta e ai suoi effetti complessivi. In due decenni gli Usa si sono impegnati su più scenari in modi diversi. In prima linea con le guerra in Afghanistan e Iraq; in modo più defilato, come in Siria, Libia e Filippine; in modi più segreti come la campagna di droni in Somalia, Pakistan e Yemen. Ovviamente non si possono imputare tutti questi effetti solo all’intervento americano. In molti Paesi erano attive organizzazioni terroristiche come Al Qaeda o Stato islamico, oppure combattenti estremisti come le milizie sciite e sunnite in Iraq o i talebani in Afghanistan. Ma in molti casi è stato proprio l’intervento americano a dare il via agli eventi.

La “long war” americana tra Afghanistan e Iraq. Nel 2000, un anno prima dell’invasione americana, l’Afghanistan contava 758 mila sfollati interni e 4,4 milioni di rifugiati all’estero, una pesante eredità dell’invasione sovietica degli anni 80. Dal 2001 in poi quasi un quarto del popolo afghano, il 26%, ha lasciato le proprie case: 2,1 milioni di persone fuori dal paese e 3,2 all’interno del territorio nazionale. Dati forse sottostimati dato che solo tra il 2012 e 2019 ben 2,4 milioni di persone hanno lasciato il Paese. In Iraq lo scenario è stato analogo. Nel 2007, quattro anni dopo la deposizione di Saddam Hussein nel paese si contavano circa 4,7 milioni di sfollati interni. Numeri destinati comunque ad aumentare nelle fasi successive dell’occupazione. In primo luogo con la violenza settaria scoppiata tra il 2006 e 2008 e poi a partire dal 2014 con l’avanzata dello Stato islamico. Ancora oggi, 650 mila persone vivono all’estero, mentre 1,4 milioni attendono una nuova casa nei campi profughi dell’Iraq.

Gli effetti delle guerre segrete in Siria, Libia e Filippine. Rispetto ai due scenari precedenti in Siria, Libia e Filippine il coinvolgimento dei “boots on the ground” è stato minimo, ma gli effetti si sono fatti comunque sentire. Da quando nel 2014 l’amministrazione di Barack Obama ha iniziato la sua campagna contro l’Isis in Siria oltre 7,1 milioni di persone, il 37% della popolazione, sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Il numero però è piuttosto conservativo e tiene conto solo delle province in cui le forze americane hanno combattuto. Ma se allarghiamo lo spettro, aggiungiamo tutte le province siriane e portiamo l’orologio a quando gli Usa hanno avviato il programma di sostegno ai ribelli siriani nel 2013, il numero aumenta enormemente. In Libia la musica non è stata diversa. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre circa l’8% della popolazione era stato costretto a lasciare le proprie case come sfollato dopo l’inizio delle Primavere arabe. Gli effetti più devastanti della decisione americana e francese di far cadere Muammar Gheddafi sono però arrivati solo in un secondo momento. Il vacuum di potere e il conseguente scoppio della guerra civile con il proliferare di milizie, ha creato le condizioni ideali per favorire i flussi migratori dall’Africa subsahariana verso l’Europa. Se guardiamo i passaggi nella rotta centrale del Mediterraneo tra il 2009 e 2018 vediamo molto bene gli effetti del conflitto. Nel 2011, anno della caduta del Rais, gli arrivi in Italia sono stati circa 59 mila, mentre nel 2014 è iniziato il flusso più grosso con 170 arrivi seguiti dai 153 mila del 2015 e dai 181 mila del 3017. Perfino le Filippine non sono state immuni. Già a partire dal 2002 unità delle forze speciali americane e addestratori sono stati dispiegati nell’isola di Mindanao per fronteggiare l’insurrezione islamista composta da una serie di sigle alcune delle quali legate ad al Qaeda. Secondo le informazioni disponibili, negli anni almeno 6 mila unità di personale americano si sarebbero avvicendate nell’isola – anche grazie a basi segrete -, con risultati quanto mai discutibili. Ancora oggi il controllo del territorio nel Sud del Paese da parte delle autorità di Manila non è completo e come in altri scenari anche qui gli sfollati ne hanno pagato il prezzo. In 19 anni 1.7 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le case e nel 2019 ancora 182 mila di loro risultavano sfollati interni.

Il peso delle Drone Wars. Negli ultimi anni diverse operazioni americane condotte sotto traccia hanno avuto effetti ben visibili sulla popolazione di Somalia, Pakistan e Yemen. Nel primo caso gli Usa sono stati impegnati fin dal 2002 con operazioni mirate grazie ai raid di droni armati, mentre nel 2006 hanno appoggiato l’invasione del Paese da parte dell’Etiopia per rovesciare le corti islamiche. Questo ovviamente non ha indebolito l’islamismo radicale, ma ha portato alla nascita di Al Shaabab (affilata con al Qaeda dal 2012). Dal 2002 il 46% dei civili residenti in Somalia hanno abbandonato le proprie case e nel 2019 si contavano 800 mila rifugiati all’estero e almeno 3,4 milioni di sfollati interni. Persino il Pakistan, sulla carta alleato di Washington, ha sentito i morsi dei mietitori americani. Dopo l’invasione dell’Afghanistan gran parte dei miliziani di al Qaeda e molti combattenti talebani hanno trovato rifugio nelle regioni tribali nell’Ovest del Pakistan. Da quel momento è iniziata una vasta operazione dei velivoli senza pilota per dare appoggio alle forze armate pakistane nel combattere i miliziani. Anche in questo caso la fuga dei civili è stata inevitabile. Dal 2002 3,4 milioni di persone sono state costrette a lasciare le aree di confine per convergere verso Peshawar e Islamabad e oggi ancora 90 mila sono senza casa. Il Paese che forse più di tutti ha pagato le “drone wars” è stato però lo Yemen. Già nel 2002, quando la Cia aveva delineato le responsabilità del ramo yemenita di al Qaeda, i velivoli senza pilota erano entrati in azione. Secondo i dati raccolti dal Bureau of investigative journalism tra il 2002 e 2019 gli americani avrebbero condotto 336 strike e ucciso tra le 1.020 e 1.389 persone, di queste 174-225 sarebbero civili e tra loro almeno una cinquantina bambini. A complicare una quadro già compromesso ci ha pensato poi la guerra civile del 2014 tra miliziani sciiti houthi e la coalizione a guida saudita appoggiata sul indirettamente da Washington. Complessivamente dal 2002 in poi almeno 4,4 milioni di yemeniti si sono dati alla fuga, 3,6 dei quali all’interno del Paese. Il quadro generale è però desolante con 24 milioni di persone sulle 30 residenti che hanno necessità di assistenza umanitaria.

Le altre conseguenze: il collasso dell’economia. Chiaramente guerra e migrazioni di massa portano con se una serie di altri effetti meno raccontati ma altrettanto pericolosi. Per prima cosa in quasi tutti questi Paesi è esploso il debito pubblico. In Yemen tra il 2014 e 2017 il rapporto debito/Pil è passato dal 48,7% all’84,2%. In Iraq tra il 2014 e 2015, gli anni più duri della guerra allo Stato Islamico, il balzo è stato dal 32,8% a 56,8%. Per il Medio Oriente, si legge nelle valutazioni del Fondo Monetario internazionale, la decade tra il 2009 e il 2019 ha registrato una crescita economica tre volte inferiore al decennio precedente. Non solo. A fronte di redditi pro capite stagnanti la disoccupazione giovanile è peggiorata sensibilmente. Stando a un rapporto dell’Escwa, la Commissione economica e sociale per l’Asia Occidentale dell’Onu, i Paesi colpiti dai conflitti tra il 2010 e 2015 hanno perso 614 miliardi di dollari pari al 6% del Pil regionale.

I costi per gli Stati Uniti. Chiaramente la stagione iniziata con l’11 settembre 2001 ha portato pesanti conseguenze anche per Washington. Sul fronte dei costi umani tra l’inizio della guerra in Afghanistan e il 2020 gli Usa hanno contato 7.014 vittime tra i soldati, la maggior parte dei quali tra Iraq (4.572) e Afghanistan (2.298) e 7.950 tra i contractor. Sul piano economico invece il disavanzo è mostruoso. In poco meno di 20 anni sono stati dilapidati 6,4 triliardi di dollari, uno solo dei quali per la cura e il sostegno dei veterani. Nei 5,4 restanti c’è di tutto, dagli stanziamenti diretti per la guerra da parte del Congresso, agli incrementi per tutte le attività del Pentagono passando per i fondi destinati alla sicurezza nazionale e ai pagamenti degli interessi per i prestiti di guerra. Il problema, ha sottolineato uno studio della Brown University, è che anche quando tutti i ritiri dagli scenari di guerra saranno completati si continuerà a pagare. Gran parte delle operazioni sono state finanziate con prestiti e questo da un lato ha aumentato il debito nazionale e dall’altro comporta una certa mole di interessi, con ogni probabilità 8 trilioni di dollari entro il 2050.

Gli attentati dell’11 settembre 2001. Mauro Indelicato il 3 giugno 2020 su Inside Over. L’attentato dell’11 settembre 2001 ha rappresentato uno dei più gravi episodi di cronaca degli Stati Uniti, nonché uno spartiacque per la storia più recente. Per la prima volta, infatti, è stata colpita al cuore la potenza americana con specifici attacchi verso i più importanti simboli economici e politici del Paese. A pianificare l’attentato è stata l’organizzazione terroristica jihadista Al Qaeda, guidata dal saudita Osama Bin Laden. Quest’ultimo, ricercato già da diversi anni, in quel momento si trovava in Afghanistan protetto dal gruppo dei talebani, i quali dal 1996 erano al potere a Kabul. Gli attacchi sono stati portati a termine con l’impiego di alcuni aerei di linea dirottati verso gli obiettivi da colpire: le Torri Gemelle di New York e il Pentagono a Washington.

Come si è arrivati all’11 settembre. Negli anni ’90 si è assistito a livello internazionale ad una forte ascesa del terrorismo di matrice islamista. Diverse organizzazioni spinte dall’ideologia salafita e da una rigida interpretazione dell’Islam sunnita, hanno iniziato a pianificare diversi attacchi contro obiettivi occidentali. Le radici del terrorismo islamico vanno però ricercate più indietro e, in particolare, alla guerra innescata dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel Paese asiatico, in particolare, sono confluiti da diverse nazioni molti  gruppi di ispirazione islamista che hanno iniziato a combattere la presenza sovietica. Tra questi, a spiccare sono state proprio quelle organizzazioni il cui obiettivo era portare la Guerra Santa non solo in Afghanistan, ma anche nel resto del mondo. I gruppi jihadisti sono stati pagati ed addestrati da alcuni governo del Golfo, tra cui l’Arabia Saudita, ma anche dall’Occidente e in particolare dagli Stati Uniti. Ad ammetterlo, diversi anni dopo, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Washginton, nell’ambito della guerra fredda contro Mosca, ha appoggiato i gruppi islamisti per accelerare la disfatta sovietica in Afghanistan, ritenuta una delle cause del crollo dell’Urss. Tra questi gruppi, a spiccare è stato quello denominato Al Qaeda, che in arabo vuol dire “La Base”. Fondato da Osama Bin Laden, membro di una delle più ricche famiglie saudite, già nei primi anni ’90 il gruppo ha fatto un deciso salto di qualità portando il terrorismo islamista al di fuori dei confini afghani. Nel 1998 l’organizzazione terroristica ha portato a segno una delle più gravi azioni terroristiche contro gli Usa: il 7 agosto infatti, due autobomba sono state quasi contemporaneamente fatte saltare in aria dinnanzi le ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salam. L’attacco ha provocato 224 morti, tra questi 12 cittadini americani. Per Washington un campanello d’allarme: Osama Bin Laden, ritenuto responsabile dell’attentato, è diventato da quel momento il nemico numero uno. Contro di lui, il 20 agosto 1998, sono stati lanciati diversi attacchi tra Sudan ed Afghanistan. Tuttavia, gli effetti dei raid sono stati disastrosi: Bin Laden non è stato né individuato e né eliminato, in Sudan è stata bombardata una fabbrica farmaceutica ed il mito del terrorista saudita negli ambienti islamisti è cresciuto enormemente. Due anni più tardi, Al Qaeda è quindi tornata a colpire obiettivi Usa: in particolare, la nave militare Uss Cole, ormeggiata a largo dello Yemen, è stata attaccata da una barca imbottita di esplosivo. Le conseguenze sono state pesanti: in quell’occasione sono morti 39 marinai, mentre gli Stati Uniti si rivelarono ancora una volta vulnerabili al terrorismo islamista.

La pianificazione dell'attentato. Ma per Bin Laden e per Al Qaeda, il vero obiettivo era un altro: attaccare gli Usa nel proprio territorio con un attentato destinato ad entrare nei libri di storia. La maxi operazione terroristica era nelle mire dell’organizzazione jihadista. Così come poi ricostruito dalle indagini, l’attentato contro un obiettivo strategico negli Stati Uniti è stato concepito nel 1996. A prospettare la possibilità di attacchi con aerei dirottati, è stato Khalid Shaykh Muhammad: pakistano, con un trascorso come studente negli Usa, negli anni ’80 era tra le migliaia di combattenti anti sovietici giunti in Afghanistan. È stato lui a proporre a Bin Laden l’idea di attaccare gli Stati Uniti colpendo con l’ausilio di kamikaze alcuni strategici obiettivi. Ed è stato sempre lui ad indicare le Torri Gemelle come possibile bersaglio. Questo perché il nipote di Khalid Shaykh Muhammad, Ramzi Yusef, è stato responsabile di un attentato attuato nel parcheggio sotterraneo delle Torri Gemelle, avvenuto il 26 febbraio 1993. Un’anticipazione di 8 anni di quanto avverrà l’11 settembre 2001. Dopo un’iniziale titubanza, il via libera all’attacco da parte di Osama Bin Laden è arrivato tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999. Essere sopravvissuto ai raid Usa del 20 agosto 1998, potrebbe aver dato al terrorista l’idea di essere pronto per colpire gli americani dentro il loro territorio. Dalla metà del 1999 sono iniziati i preparativi per l’attacco. Bin Laden ha scelto la lista dei kamikaze che dovevano portare a termine la missione di morte, così come ha garantito il supporto finanziario a tutte le fasi preparatorie. Ed è in questo contesto che si è arrivato all’11 settembre 2001.

Ore 8:46: il primo aereo si schianta sulla Torre Nord. Era un martedì come tanti altri: l’estate stava volgendo al termine, i principali network americani stavano dando la notizia di un viaggio del presidente George W. Bush, insediato nel mese di gennaio del 2001, a Sarasota. Qui, in questa località della Florida, era previsto un incontro all’interno di una scuola elementare. A Manhattan in quella mattina c’è qualcosa che non va con l’impianto del gas: in una strada non lontana dal quartiere di Ground Zero, alcuni cittadini hanno chiamato il 911 per via di un cattivo odore di gas. Sul posto sono giunti i Vigili del Fuoco, che hanno quindi iniziato a perlustrare la zona per capire l’origine del problema. Ad un certo punto, ad essere avvertito è un forte rumore. Ma non era un’esplosione, nulla c’entrava il problema con l’impianto del gas della zona. Il rumore veniva dal cielo, sembrava il rombo del motore di un aereo. Difficile da credere, visto che per via della presenza di molti grattaceli gli aeroplani raramente sorvolano questa zona di Manhattan a bassa quota. Ma visto il frastuono, istintivamente gli stessi Vigili del Fuoco hanno alzato lo sguardo al cielo. E l’immagine è stata quella poi immortalata da una telecamera presente lì sul posto: un aereo era andato dritto verso la Torre Nord del complesso del Word Trade Center. Erano le ore 8:46, l’aereo ha colpito l’edificio in una delle sue parti più alte. Da quel momento, si è intuito di non trovarsi all’interno di una mattinata come le altre. Sul posto sono subito arrivati i mezzi di soccorsi e di Polizia, così come le telecamere dei principali network.

Ore 9:03: un aereo colpisce la Torre Sud. Molti americani della costa est stavano ancora entrando negli uffici e stavano iniziando la mattinata quando la Cnn ha iniziato a mostrare il denso fumo che fuoriusciva dalla torre appena colpita. Nella costa ovest invece, forse ancora in tanti dovevano alzarsi e le immagini hanno rappresentato un brusco risveglio. In Europa ed in medio oriente era invece da poco passata l’ora di pranzo, in molti ricordano cosa stavano facendo nelle prime ore del pomeriggio mentre ci si chiedeva cosa fosse accaduto a New York. La parola attentato era solo sussurrata, sia sui media che tra i pensieri delle tantissime persone che in tutto il mondo guardavano attonite la Torre Nord in fiamme. Improvvisamente, la scena trasmessa in diretta è diventata ancora più drammatica: un’altra esplosione è stata immortalata dalle telecamere che riprendevano Manhattan dagli elicotteri, questa volta il movimento di un altro aereo verso l’altra torre gemella è stato ben visibile in diretta a tutti coloro che osservavano. A quel punto, gli Usa ed il mondo hanno capito di essere davanti ad un grave attacco.

Il primo discorso del presidente Bush da Sarasota. Mentre le immagini proiettavano oramai entrambe le torri avvolte dal fumo degli incendi provocati dall’impatto dei due aerei, su tutti i principali network internazionali spuntava il presidente Bush. Come detto in precedenza, il capo della Casa Bianca si trovava a Sarasota, cittadina della Florida in cui stava parlando all’interno di una scuola elementare. Bush è apparso su un podio dinnanzi ai bambini, ai docenti ed ai giornalisti, parlando per la prima volta pubblicamente di attentato. Ha quindi promesso una rapida indagine in grado di catturare tutti i responsabili. Il presidente Usa ha appreso dell’attacco mentre era seduto in una classe della scuola elementare. Andrew Card, capo di gabinetto della Casa Bianca, si è avvicinato a Bush per comunicargli la notizia del secondo aereo sulle Torri Gemelle. L’immagine di Card che sussurra al capo dello Stato l’informazione circa il nuovo attacco, è diventata come una delle più emblematiche dell’11 settembre. Dopo alcuni minuti, George Bush ha tenuto il suo discorso e successivamente ha abbandonato l’edificio. Per diverse ore il presidente è rimasto a bordo dell’Air Force One, il quale non è stato fatto atterrare fino a quando le condizioni di sicurezza a terra sono state ristabilite.

Ore 9:37: un aereo si schianta sul Pentagono. Mentre il presidente Bush parlava da Sarasota, sui network americani passava la scritta di un possibile terzo aereo dirottato. Infatti, era già stato accertato, grazie a dichiarazioni dell’Fbi e ad alcune testimonianze, che gli aerei che avevano colpito le Torri erano entrambi dei Boeing. Mezzi di linea dunque, partiti da alcuni aeroporti americani poco prima. Dai radar, si apprendeva da notizie di stampa subito rilanciate in diretta, mancava almeno un altro aereo e dunque si faceva strada l’ipotesi di un altro possibile attacco. Per questo tutti gli obiettivi più sensibili del Paese sono stati fatti evacuare. L’allarme, in tal senso, iniziava a spostarsi da New York a Washington, dove in tutti gli edifici governativi dipendenti ed impiegati venivano fatti uscire repentinamente. Dal parlamento al Pentagono, dal dipartimento di Stato alla stessa Casa Bianca, dalle 9:30 era iniziata una grande opera di evacuazione di tutti i punti più strategici della capitale federale americana.

Alle 9:37 i riflettori si sono accesi anche su Washington: del fumo denso infatti è iniziato a fuoriuscire da un’ala del Pentagono, sede del ministero della Difesa. L’incendio, hanno raccontato i primi giornalisti accorsi sul posto, si è verificato per via dell’impatto di un aereo contro l’edificio. A quel punto ben si è intuito come il terzo aereo di cui si parlava era quello dirottato dai terroristi verso la sede della Difesa americana. La serie di attacchi dunque non era ancora finita.

Il crollo delle Torri Gemelle in diretta televisiva. Le autorità Usa hanno chiuso lo spazio aereo e dirottato tutti i voli diretti verso il territorio americano in Canada ed in Messico. I cieli del Paese dovevano quindi rimanere sgombri, al fine di evitare ulteriori attacchi e di identificare eventuali altri aerei sospetti. Il dramma non era però finito, anzi quanto visto fino a quel momento ha rappresentato soltanto l’inizio di una giornata destinata ad essere molto lunga. Alle 9:59 si ha un altro cambiamento di scena: alle spalle del giornalista della Cnn che in quel momento stava parlando, il fumo proveniente dalle due Torri Gemelle è aumentato di intensità ma non era più soltanto nero. Al contrario, una nuova bianca emergeva in corrispondenza della Torre Sud, la seconda ad essere stata colpita. Quando le telecamera hanno puntato l’obiettivo sulla zona, la sagoma dell’edificio non c’era più: tra lo stupore generale, uno delle due Torri Gemelle è collassata su sé stessa, trascinando con sé le centinaia di persone che ancora erano dentro. Le proporzioni del disastro sono quindi apparse ancora più importanti, oramai tutto il mondo guardava a New York e Washington recependo ancora una volta di trovarsi dinnanzi a qualcosa destinato a passare tragicamente nella storia.

Dopo il crollo della prima torre, l’intera parte meridionale di Manhattan è stata quindi fatta evacuare: migliaia di persone a piedi hanno iniziato a raggiungere zone ritenute più sicure, anche perché l’aria si è subito resa irrespirabile per via della presenza della nuvola di calcinacci che circondava il quartiere. Poco dopo, le stesse scene viste alle 9:59 sono state osservate alle 10:28. In quel momento infatti, le telecamere hanno inquadrato il cedimento strutturale anche della Torre Nord, la prima ad essere stata colpita quasi due ore prima. Le Torri Gemelle, tra i simboli più importanti di New York e degli Stati Uniti, non esistevano più.

L’episodio del volo United Airlines 93. Mentre ancora i principali network internazionali trasmettevano le immagini provenienti da Manhattan, iniziano ad affluire anche i dettagli circa i voli presi di mira dai terroristi che hanno poi dirottato gli aerei. In particolare, il primo volo attaccato dal commando è stato quello n.11 dell’American Airlines, decollato da Boston e diretto a Los Angeles e con 92 persone a bordo. È stato questo aereo a schiantarsi alle ore 8:45 sulla Torre Nord. Anche il secondo volo dirottato copriva la rotta Boston – Los Angeles: si trattava, in particolare, del volo 175 dell’United Airlines, schiantatosi poi sulla Torre Sud. A bordo in totale erano sedute 65 persone. L’aereo che ha invece terminato la sua corsa sul Pentagono, era quello del volo 77 dell’American Airlines, partito da Washington e diretto a Los Angeles. A bordo vi erano 64 persone. Dopo lo schianto di quest’ultimo aereo sul Pentagono, diversi media riportavano la possibile presenza di altri aerei dirottati. Una circostanza non smentita dalle autorità, ma su cui al contempo non esistevano certezze. Intorno alle 11:00 però, si è avuta notizia di un incidente aereo nelle campagne di Shanksville, in Pennsylvania. Nessuno, sia tra i membri del governo che tra gli investigatori, si è però da subito sbilanciato circa la possibile connessione tra questo episodio e la catena di attacchi in corso nel Paese. Il volo era il n.93 dell’United Airlines, decollato da Newark e diretto a San Francisco con a bordo 44 persone. Lo schianto al suolo è avvenuto alle 10:03, quasi mezzora dopo l’impatto fatale del volo 77 dell’American Airlines sul Pentagono. Dunque, tutti gli elementi hanno portato a pensare che quell’incidente aereo in realtà era da ricollegare alla catena di attacchi in corso.  Le indagini hanno poi portato a confermare questa ipotesi: all’interno del volo diversi passeggeri hanno intuito il dirottamento, ribellandosi ai terroristi. Forse l’aereo era destinato a schiantarsi in un altro simbolo del potere politico Usa: la Casa Bianca od il Campidoglio, sede del congresso.

Il bilancio finale delle vittime. Al termine di quella giornata, i morti accertati sono stati 2.974. A questi, nel computo totale, occorre aggiungere anche i 19 terroristi dirottatori a bordo degli aerei. Gran parte delle vittime erano civili, mentre al Pentagono sono morti 55 militari in quel momento all’interno dell’edificio. Nell’elenco di chi ha perso la vita in quel tragico martedì di settembre, complessivamente anche 10 tra medici e paramedici, 341 Vigili del Fuoco, 23 agenti di Polizia, 37 agenti della Polizia Portuale. Si trattava di persone che erano entrate nelle Torri per soccorrere i feriti dopo l’impatto dei due aerei. Delle 2.974 vittime, ad oggi ne sono state identificate 1.638. Tutte le altre hanno soltanto un nome nel memoriale eretto sul luogo degli attacchi a New York, ma i familiari non hanno tombe in cui piangere i propri cari. Al numero delle vittime, occorre aggiungere anche almeno 24 dispersi di cui a distanza di anni non si sa più nulla. L’elenco dei morti sale a 2.999 se si considerano anche le persone rimaste uccise dalle malattie generate dall’inalazione dei fumi prodotti dal crollo delle Torri. Sono stati infatti 25 coloro che ufficialmente sono deceduti per via di tumori e patologie polmonari riconducibili alla presenza nel luogo dell’attentato dell’11 settembre.

Nell’elenco delle vittime sono rappresentate almeno 90 diverse nazionalità. Dopo gli Usa, a piangere il maggior numero di morti è stata la Gran Bretagna con 67 persone decedute. Subito dietro vi è la Repubblica Dominicana, con 47 vittime tra i cittadini dello Stato caraibico. A morire quel giorno anche dieci italiani.

Il commando di Al Qaeda che ha eseguito l’attacco. Subito dopo l’attacco al Pentagono, poco prima delle 10:00, in una tv di Abu Dhabi è arrivata una chiamata in cui alcuni esponenti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina rivendicava gli attentati in corso negli Stati Uniti. Tuttavia poco dopo lo stesso gruppo ha smentito la rivendicazione. Durante la giornata comunque, i sospetti degli inquirenti riportati dai media erano indirizzati su Al Qaeda. Già sul finire dell’11 settembre 2001, il nome di Bin Laden era quello più riportato dai vari network internazionali. Ed anche se inizialmente non c’è stata una rivendicazione del gruppo islamista, nelle settimane successive lo stesso Bin Laden in alcuni video inviati alla tv Al Jazeera ha ammesso la paternità degli attacchi. Le indagini successive sveleranno in che modo l’attentato è stato pianificato nei due anni intercorsi dalla decisione, da parte del leader di Al Qaeda, di colpire gli Usa usando kamikaze a bordo di quattro aerei. Per finalizzare l’operazione, il gruppo islamista aveva bisogno di persone fidate in grado di mimetizzarsi nella società Usa: qui infatti dovevano imparare a pilotare aerei e vivere per tutto il tempo necessario prima di compiere l’attacco. Per questo sono stati scelti alcuni affiliati che vivevano ad Amburgo, in Germania: si tratta di Mohammed Atta, Marwan ash-Shehhi, Ziad Jarrah. Atta era il leader di questo gruppo ed è arrivato negli Usa il 3 giugno del 2000: da allora, come riportato da Alberto Bellotto su InsideOver, ha iniziato corsi di addestramento per pilotare aerei in Florida. A questa prima cellula iniziale, nei mesi successivi se sono affiancate altre operative negli Usa per gli addestramenti. Il cuore dell’operazione rimaneva però in Afghanistan, lì dove Bin Laden ed i suoi collaboratori vivevano protetti dal governo dei Talebani. Non è un caso che a lanciare l’allarme, nei mesi antecedenti l’attentato, sia stato tra gli altri anche Ahmed Shah Massud: capo dell’Alleanza del Nord, il gruppo che si opponeva ai Talebani, è stato lui ad inviare alle forze di sicurezza americane l’allarme circa la possibilità di un attacco mirato contro gli Usa. Il 9 settembre 2001, due giorni prima dei tragici fatti, Massud ha accolto nel suo rifugio in Afghanistan una troupe televisiva per un’intervista. In realtà, si trattava di terroristi camuffati come giornalisti, i quali hanno poi ucciso lo stesso Massud. È stato forse quello il vero segnale per dare il via all’azione.

La reazione Usa. Da parte americana, è stata subito promessa una pronta reazione contro i responsabili degli attacchi. Dopo l’11 settembre, dalla Casa Bianca e dal Pentagono sono partiti i preparativi per organizzare un attacco contro i Talebani in Afghanistan ed iniziare a dare la caccia ad Osama Bin Laden. Il 7 ottobre 2001 i primi raid Usa sono stati condotti a Kabul, con i bombardamenti che hanno poi riguardato le province più importanti del Paese. Gli americani hanno dato manforte politica e militare all’Alleanza del Nord, la quale ha iniziato ad avanzare verso Kabul. Poco dopo, i Talebani sono stati eliminato dal potere, ma il radicamento territoriale del gruppo non è mai venuto meno. La guerra iniziata il 7 ottobre 2001 non si è mai realmente conclusa, nonostante ingenti stanziamenti di uomini e mezzi da parte sia degli americani che degli alleati della Nato. La mente degli attacchi, ossia Khalid Shaykh Muhammad, è stata catturata nel 2003 in Pakistan. La caccia a Bin Laden invece, è terminata il 2 maggio 2011: ad Abottabbad, sempre in Pakistan, il leader di Al Qaeda è stato scovato ed ucciso all’interno di un compound.

Le conseguenze dell'11 settembre. Dopo l’attacco, il presidente americano Bush ha inaugurato la strategia della lotta al terrorismo, la quale oltre alla guerra in Afghanistan comprendeva anche l’inserimento di alcuni Stati all’interno di una lista di “nazioni canaglia” accusate di sostenere l’islamismo. Una strategia che ha portato, nel marzo del 2003, anche all’attacco contro l’Iraq di Saddam Hussein, con quest’ultimo ritenuto reo di fabbricare armi di distruzione di massa e di sostenere il terrorismo. Accuse in larga parte poi rivelatesi false, che hanno però comportato la fine del suo governo. Anche in Iraq la situazione è ancora oggi molto instabile, con i gruppi terroristici ben presenti all’interno del Paese. In generale, la guerra al terrorismo ha rappresentato un fallimento: gli attentati nel corso degli anni in occidente sono stati parecchi ed hanno preso di mira molte città anche in Europa, i gruppi terroristici islamisti possono contare su molti affiliati in tutto il mondo. In questi anni, oltre ad Al Qaeda, l’universo jihadista ha visto l’ascesa di altri gruppi quali, tra tutti, quello dell’Isis. A livello sociale, l’11 settembre ha rappresentato uno degli choc più importanti subiti dagli Usa ma anche dall’occidente. Da quel momento, negli aeroporto e nei punti più sensibili, le misure di sicurezza sono sempre più aumentate ed il tema relativo alla prevenzione di attacchi terroristici è uno dei più sentiti dall’opinione pubblica.

Guantanamo, vanno a processo (ma da testimoni) gli psicologi Usa che inventarono il waterboarding. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. I loro metodi di tortura sono stati utilizzati sui detenuti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Mitchell e Jessen hanno ricevuto dalla Cia 81 milioni di dollari. Quando è entrato nel tribunale della base navale di Guantánamo a Cuba, l’avvocato di Khalid Shaikh Mohammed ha scosso la testa più volte. Ieri il suo assistito, accusato insieme ad altri quattro di essere uno degli ideatori degli attacchi dell’11 settembre, ha rivisto James E. Mitchell. L’uomo che insieme al collega John Bruce Jessen gli ha praticato il waterboarding per 183 volte era seduto lì, a meno di un metro da lui. Sia Mitchell che Jessen sono stati chiamati a Gitmo a spiegare sulla base di quali tecniche hanno estorto le informazioni agli imputati. Poi il giudice dovrà decidere se quelle confessioni siano ammissibili o meno. Una responsabilità pesante dato che tutti gli accusati rischiano la pena di morte. Ma anche perché con Mohamed e gli altri nei black site della Cia non hanno usato solo l’acqua. Li hanno rinchiusi in scatole piene di scarafaggi, li hanno appesi al muro con ganci e corde, li hanno tenuti svegli per ore con la musica ad alto volume e hanno praticato loro l’alimentazione rettale. Indietro veloce di 45 anni. Mitchell è un esperto di esplosivi dell’areonautica che ha conseguito un master in psicologia. Viene dalla Florida, famiglia povera. Negli anni ‘80, dopo aver conseguito un dottorato, inizia ad addestrare gli istruttori del Sere (Survival, Evasion, Resistance and Escape), programma di resistenza creato dall’areonautica Usa negli anni ‘60. L’obiettivo è evitare quanto successo durante la guerra di Corea, ossia caduti nelle mani del nemico, subiscano il lavaggio del cervello e rivelino informazioni. All’epoca il sistema per evitarlo è «semplice»: i militari vengono sottoposti alle medesime tecniche di tortura inventate dai cinesi. Le stesse che hanno subito Mohamed e soci. «Sapevi che non saresti morto, solo perché era un corso», ha raccontato un allievo. Dopo qualche anno, al programma Sere si unisce anche Jessen. È cresciuto in una fattoria di patate in Idaho. Come Mitchell è mormone. Il suo curriculum in psicologia non è più lungo di una paginetta. I due diventano amici. Escursioni in montagna, viaggi. Fino alla pensione. Poi, nel 2002 arriva l’occasione che la «mormon mafia», come li chiamano i colleghi, stanno aspettando. Per il New York Times, ad un incontro a Filadelfia Mitchell mostra particolare apprezzamento per gli studi di Martin Seligman sull’«impotenza appresa». Lo psicologo statunitense aveva scoperto che un animale sottoposto ripetutamente a una scossa elettrica, una volta messo nelle condizioni di poter fuggire dalla gabbia non lo faceva. Affascinati dall’idea, i due psicologi prima fondano una società. Il loro «core business» diventano le «tecniche di interrogatorio rinforzato». Tradotto nella lingua dei giusti: torture. Poi in aprile arriva l’affare. Uno dei luogotenenti di Al Qaeda più importanti, Abu Zubaydah, viene catturato in Pakistan. È ferito. Viene curato e mantenuto in vita. L’Fbi riesce a farlo parlare usando tecniche basate sulla costruzione di un rapporto di fiducia. Un successo, dunque. Ma per la Cia si tratta di uno smacco. L’ordine dell’allora direttore Tenent è: «Facciamolo noi e facciamolo meglio». Ed è qui che entrano in gioco Mitchell e Jessen. Per le loro consulenze all’inizio ricevono 1.800 al giorno al giorno. Poi incassano 81 milioni di dollari, prima che il loro contratto venga rescisso nel 2009. In alcuni casi — secondo quanto confermato anche dal rapporto Rapporto del Comitato di sorveglianza sul’intelligence del Senato — i due partecipano direttamente agli interrogatori, pur non sapendo una parola di arabo e non avendo alcuna conoscenza di Al Qaeda. Eppure Jessen e Mitchell sono ancora lì fuori, seduti sul banco dei testimoni, non su quello degli imputati. Vanno in kayak e amano ancora fare trekking insieme. Mitchell poi va in giro dicendo ai giornalisti di essere diventato ateo e di essere un sostenitore di Amnesty International.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 22 gennaio 2020. Quando è entrato nel tribunale della base navale di Guantánamo a Cuba, l' avvocato di Khalid Shaikh Mohammed ha scosso la testa più volte. Ieri il suo assistito, accusato insieme ad altri quattro di essere uno degli ideatori degli attacchi dell' 11 settembre, ha rivisto James E. Mitchell. L' uomo che insieme al collega John Bruce Jessen gli ha praticato il waterboarding per 183 volte era seduto lì, a meno di un metro da lui. Sia Mitchell che Jessen sono stati chiamati a Gitmo a spiegare sulla base di quali tecniche hanno estorto le informazioni agli imputati. Poi il giudice dovrà decidere se quelle confessioni siano ammissibili o meno. Una responsabilità pesante dato che tutti gli accusati rischiano la pena di morte. Ma anche perché con Mohamed e gli altri nei black site della Cia non hanno usato solo l' acqua. Li hanno rinchiusi in scatole piene di scarafaggi, li hanno appesi al muro con ganci e corde, li hanno tenuti svegli per ore con la musica ad alto volume e hanno praticato loro l' alimentazione rettale. Indietro veloce di 45 anni. Mitchell è un esperto di esplosivi dell' areonautica che ha conseguito un master in psicologia. Viene dalla Florida, famiglia povera. Negli anni '80, dopo aver conseguito un dottorato, inizia ad addestrare gli istruttori del Sere (Survival, Evasion, Resistance and Escape), programma di resistenza creato dall'aeronautica Usa negli anni '60. L' obiettivo è evitare quanto successo durante la guerra di Corea, ossia caduti nelle mani del nemico, subiscano il lavaggio del cervello e rivelino informazioni. All' epoca il sistema per evitarlo è «semplice»: i militari vengono sottoposti alle medesime tecniche di tortura inventate dai cinesi. Le stesse che hanno subito Mohamed e soci. «Sapevi che non saresti morto, solo perché era un corso», ha raccontato un allievo. Dopo qualche anno, al programma Sere si unisce anche Jessen. È cresciuto in una fattoria di patate in Idaho. Come Mitchell è mormone. Il suo curriculum in psicologia non è più lungo di una paginetta. I due diventano amici. Escursioni in montagna, viaggi. Fino alla pensione. Poi, nel 2002 arriva l' occasione che la «mormon mafia», come li chiamano i colleghi, sta aspettando. Per il New York Times , ad un incontro a Filadelfia Mitchell mostra particolare apprezzamento per gli studi di Martin Seligman sull'«impotenza appresa». Lo psicologo statunitense aveva scoperto che un animale sottoposto ripetutamente a una scossa elettrica, una volta messo nelle condizioni di poter fuggire dalla gabbia non lo faceva. Affascinati dall' idea, i due psicologi prima fondano una società. Il loro «core business» diventano le «tecniche di interrogatorio rinforzato». Tradotto nella lingua dei giusti: torture. Poi in aprile arriva l' affare. Uno dei luogotenenti di Al Qaeda più importanti, Abu Zubaydah, viene catturato in Pakistan. È ferito. Viene curato e mantenuto in vita. L' Fbi riesce a farlo parlare usando tecniche basate sulla costruzione di un rapporto di fiducia. Un successo, dunque. Ma per la Cia si tratta di uno smacco. L' ordine dell' allora direttore Tenent è: «Facciamolo noi e facciamolo meglio». Ed è qui che entrano in gioco Mitchell e Jessen. Per le loro consulenze all' inizio ricevono 1.800 al giorno al giorno. Poi incassano 81 milioni di dollari, prima che il loro contratto venga rescisso nel 2009. In alcuni casi - secondo quanto confermato anche dal rapporto Rapporto del Comitato di sorveglianza sul' intelligence del Senato - i due partecipano direttamente agli interrogatori, pur non sapendo una parola di arabo e non avendo alcuna conoscenza di Al Qaeda. Eppure Jessen e Mitchell sono ancora lì fuori, seduti sul banco dei testimoni, non su quello degli imputati. Vanno in kayak e amano ancora fare trekking insieme. Mitchell poi va in giro dicendo ai giornalisti di essere diventato ateo e di essere un sostenitore di Amnesty International.

Sono 260 milioni i cristiani perseguitati. FdI: “Il governo italiano è complice”. Redazione mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. “260 milioni di cristiani perseguitati nel mondo, 8 cristiani uccisi ogni giorno per la loro fede. È genocidio ed è ora di dirlo. Soprattutto è ora di reagire: bisogna subordinare i fondi per la cooperazione a precise garanzie di libertà religiosa per i cristiani. Ma anche specifici fondi ai cristiani d’Oriente per il diritto a non emigrare, nessun trattato bilaterale con Paesi che perseguitano i cristiani. Tutto il contrario di un Governo che, a partire dalla Via della Seta, dimostra di subordinare diritti religiosi a presunti e non dimostrati vantaggi economici. È ora di esercitare un vero e proprio hard power per difendere il diritto dei cristiani ad esistere”. E’ quanto dichiara il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro delle Vedove, in una conferenza stampa alla Camera, nel giorno della  presentazione della WORLD WATCH LIST 2020.

Il rapporto sulle persecuzioni dei cristiani. Primo dato degno di nota del rapporto: cresce ancora la persecuzione anticristiana nel mondo in termini assoluti. “Oggi salgono da 245 a 260 milioni i cristiani perseguitati nei paesi della WWL. Sostanzialmente 1 cristiano ogni 8 subisce un livello alto2 di persecuzione a causa della propria fede. Su circa 100 paesi potenzialmente interessati dal fenomeno monitorati dalla ricerca, 73 hanno mostrato un livello di persecuzione definibile alta, molto alta o estrema. Il numero di cristiani uccisi – è scritto ancora nella WWL – per ragioni legate alla fede scende da 4.305 dello scorso anno a 2.983 del 2019, con la Nigeria ancora terra di massacri per mano soprattutto degli allevatori islamici Fulani, ben più letali dei terroristi Boko Haram”.

Gli altri paesi più a rischio. Il rapporto prosegue così. “La Repubblica Centrafricana e, in particolare, lo Sri Lanka, con il terribile attentato di Pasqua 2019, sono rispettivamente il 2° e 3° paese per numero di uccisioni. Al di là delle uccisioni legate alla fede, sconcerta il notevole aumento della “pressione” sui cristiani 11 le nazioni che rivelano una persecuzione definibile estrema, di fatto le stesse dell’anno scorso, con Sudan ed Eritrea scambiandosi le posizioni. Al primo posto sin dal 2002 troviamo ancora la Corea del Nord: qui non cambiano le stime sui cristiani detenuti nei campi di lavoro per motivi legati alla fede (tra i 50 e i 70 mila). Anche Afghanistan (2°), Somalia (3°) e Libia (4°) totalizzano un punteggio uguale o superiore ai 90, ma con fonti di persecuzione diverse rispetto alla Corea del Nord, connesse a una società islamica tribale radicalizzata e all’instabilità endemica di questi paesi: la fede va vissuta nel segreto e se scoperti (specie se ex-musulmani), si rischia anche la morte. Il Pakistan rimane stabile al 5° posto, nonostante il 2019 venga ricordato come l’anno del rilascio (o forse dovremmo dire fuga) di Asia Bibi; questo paese rimane ai primi posti in tutti gli ambiti della violenza anticristiana, mantenendo elevata anche la pressione nelle altre aree della vita quotidiana dei cristiani (la famigerata legge contro la blasfemia rimane tutt’oggi vigente).

"L'Islam è una religione che predica l'odio". E a 16 anni è costretta a lasciare la scuola. La ragazzina minacciata di morte per un post considerato blasfemo. Il caso diventa politico. Le Pen: «Non possiamo accettare che venga condannata». Francesco De Remigis, Sabato 25/01/2020, su Il Gioirnale. Minacciata di morte e di stupro per aver insultato l'islam. L'odio in rete, stavolta, si scaglia sulla studentessa 16enne Mila, rea di aver pubblicato un video su Instagram giudicato troppo virulento nella critica alla religione musulmana. Lei, francese dell'Isère, sta diventando un simbolo per due parti contrapposte: quelli che la considerano la nuova paladina della libertà d'espressione e chi invece vorrebbe condannarla, isolarla, lasciarla sola alle prese con una buriana che dal virtuale rischia di raggiungerla fin sotto casa. Uno dei compagni di scuola ha infatti pensato bene di pubblicare il suo indirizzo on line. Domenica è scoppiato il caso e in pochi giorni è diventata un bersaglio reale, mentre in rete fioccano gli hashtag #IoSonoMila e il suo contraltare: #JenesuispasMila. Uno a supporto, l'altro di stigma. Ma cosa ha detto, Mila? E perché? Tutto è cominciato con una diretta su Instagram in cui un uomo cerca di importunarla in strada. Lei si allontana, filma. «Perché non mi piace che mi venga chiesta l'età a ripetizione, così ha iniziato a insultarmi», ha chiarito su Libération. La scuola ha invece preferito allontanarla affidandola agli psicologi. In un secondo video, dopo aver ricevuto le prime cyber-minacce, il tono di Mila diventa più acceso. «Un ragazzo ha iniziato a chiamarmi sporca lesbica, razzista. L'argomento è scivolato sulla religione e ho detto cosa ne pensavo». «La tua religione è una merda», risponde. Più tardi, si scusa sui social: «Mi dispiace, non volevo offendere. Ho parlato troppo velocemente. L'errore è umano». Ma era già diventata un bersaglio fisico e il suo video virale: rilanciato su Twitter da chi invitava a stuprarla, ha superato in poche ore 1,6 milioni di visualizzazioni. Blasfemia o diritto di critica? Due le inchieste della magistratura, che indaga anche sulle parole di Mila, per «incitamento all'odio razziale», e non solo su chi in rete la sta ancora minacciando di morte e stupro. Francia divisa in due. Chi ha ragione? Il magazine Têtu riferisce che alcuni uomini lunedì l'hanno aspettata davanti al suo liceo. Da allora non è più tornata nel plesso di Villefontaine. La scuola ha infatti deciso di non schierarsi. Abdallah Zekri, delegato generale del Consiglio francese per il culto musulmano (l'istituzione deputata a rappresentare i fedeli), taglia corto: «Chi semina vento, raccoglie tempesta», dice a Sud Radio lasciando i cronisti a bocca aperta. Per Marine Le Pen, «le parole di questa ragazza sono la versione orale delle caricature di Charlie Hebdo. Volgari, ma non possiamo accettare che la condannino a morte in Francia nel XXI secolo». «La legge Avia (il testo «anti haters» di recente approvazione parlamentare, ndr) punirà gli islamisti che la minacciano su Internet o è riservato solo agli oppositori di Macron?», chiede il sovranista Nicolas Dupont-Aignan, già candidato alle presidenziali. Il caso rilancia il dibattito sul «reato di blasfemia». Non esiste infatti nella legge transalpina: «Possiamo insultare una religione, ma non dei cittadini per la loro appartenenza religiosa», spiega Nicolas Cadène, relatore dell'Osservatorio sulla laicità. Michel Houellebecq nel 2002 definì l'islam «la religione più stupida» e fu assolto dall'accusa di istigazione all'odio. Oggi la Francia fa di nuovo i conti con i suoi fantasmi, tra politically correct e rischi concreti per una 16enne dalla lingua sciolta.

"Dopo l'attentato? Ho preso un menù di pesce al Mc Donald's", tutte le confessioni di Salah Abdeslam. Ascoltato dall'intelligence in carcere, l'unico jihadista sopravvissuto agli attacchi del 13 novembre 2015 parla con altri due detenuti e ricostruisce, con cinismo, tutti i momenti dopo la sua fuga. Giovanna Pavesi, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. È l'unico sopravvissuto al commando di jihadisti dello Stato islamico che, il 13 novembre 2015, hanno messo in ginocchio Parigi, con gli attentati che hanno ucciso 131 persone e ne hanno ferite più di 450. Ma in queste ore, il documento di nove pagine, inserito nel file appena prima della chiusura dell'indagine per il suo processo, chiarisce dei dettagli del viaggio di Salah Abdeslam, incarcerato da quasi quattro anni nella prigione di massima sicurezza di Fleury-Mérogis (Esonne), in Francia, dopo l'attentato al Bataclan. E tra i nuovi elementi, ci sono anche i dialoghi che il terrorista francese ha avuto con gli altri detenuti.

Il documento. Secondo quanto riportato da Le Parisien, nelle conversazioni con altri carcerati, Abdeslam, proprio nel raccontare i momenti vicini all'attacco, avrebbe mostrato tranquillità, distacco e un certo cinismo. Il tutto sarebbe stato raccolto in un documento di nove pagine, che raccoglie i dati di intercettazioni telefoniche effettuate dalla sicurezza dello stato belga, che sarebbe l'equivalente di un servizio di intelligence interno, nella primavera del 2016, quando il terrorista venne incarcerato a Bruges.

Le registrazioni audio. Nel periodo di detenzione, il jihadista avrebbe risposto a poche domande dei giudici sul suo coinvolgimento nell'attacco. Durante le indagini, infatti, Abdeslam avrebbe parlato in circostanze piuttosto saltuarie, spesso solo per denunciare le sue condizioni di detenzione, sdoganare un presunto complice o lanciarsi in discussioni contro l'Occidente. Ed è proprio da proprio questi scambi con alcuni "complici", registrati a loro insaputa, che si delineano i tratti della personalità di Abdeslam. Quella di un giovane uomo impassibile, senza rimpianti, né rimorsi per quanto accaduto nella capitale francese nel 2015.

L'incontro in carcere. Con i detenuti, infatti, Abdeslam avrebbe parlato, in più occasioni, della dinamica degli attacchi del 13 novembre 2015. È il 2016: il terrorista è stato appena arrestato in Belgio e nella prigione di Bruges incontra Mehdi Nemmouche, autore dell'attacco al museo ebraico di Bruxelles, nel maggio del 2014, e Mohamed Bakkali, sospettato di essere uno dei logisti del commando del 13 novembre. I tre detenuti riescono a comunicare e tra il 22 marzo e il 17 aprile 2016 le loro parole vengono ascoltate dall'intelligence belga.

Le conversazioni. Nel pomeriggio del 14 aprile 2016, Abdeslam racconta a Bakkali, un po' in arabo e un po' in francese, come la sera degli attacchi a Saint-Denis a Parigi, sia scappato a Châtillon (Hauts-de-Seine), dopo aver lasciato tre attentatori suicidi allo Stade de France e la sua macchina, una Clio, nel 18° arrondissement. Poi spiega anche di come si sarebbe sbarazzato del suo giubbotto esplosivo. Il tutto come se stesse spiegando un'azione quotidiana, con tono quasi leggero.

La cintura esplosiva. "Avevi già gettato quella cosa?", chiede Mohamed Bakkali, dove "quella cosa" è la cintura esplosiva. Lui, ridendo, risponde: "Si certo, evidentemente. Sei matto o cosa? In effetti, avevo chiesto informazioni a un tipo. Lui mi ha guardato dalla testa ai piedi, poi ha guardato la mia giàcca. Ha visto che c'era qualcosa di strano". Il "logista" del 13 novembre comprende il motivo di tale incredulità. E Abdeslam ricorda: "Sembrava che pesassi 90 chili, fratello mio. Con la borsa e tutto sembrava che avessi delle natiche enormi. Era troppo appariscente, sapevo che dovevo liberarmene".

La mancata esplosione. La borsa di cui stanno parlando, in realtà, è il famoso giubbotto esplosivo, ritrovato abbandonato a Montrogue, che il terrorista non aveva azionato il 13 novembre, rimanendo così l'unico kamikaze ancora in vita. Le relazioni degli esperti tecnici non hanno mai mostrato con certezza se il giovane avesse provato ad attivare o meno il dispositivo. Ma esistono, oggi, delle prove che mostrano che quel sistema era difettoso, il che evitò una carneficina. Nel comunicato stampa ufficiale dello Stato islamico, infatti, oltre agli attacchi allo Stade de France e al Bataclan, veniva menzionato anche il 18° arrondissement, lo stesso punto dove l'attentatore aveva abbandonato la sua auto.

"Sono stato da Mc Donald's". E continuando a raccontare con tono leggero quando accaduto il 13 novembre, Abdeslam, in carcere, parla anche di come avrebbe terminato quella serata, culminata con la sua fuga all'alba, in Belgio. L'inchiesta, infatti, ha mostrato come il giovane terrorista abbia trascorso la notte nella tromba delle scale di un edificio a Châtillon. "Mi sono nascosto in un edificio vicino a Mc Do, vedi?", spiega. "E non hai mangiato niente? Hai comprato qualcosa", replica Bakkali. E lui: "Sono andato da Mc Donald's. Al Mc Drive ho preso un menù di pesce". La risposta, tra le risate: "Sei un assassino, eh".

L'incontro con i ragazzini. Secondo quanto riportato, mentre i complici di Adeslam proseguono con l'attentato al Bataclan, lui fa amicizia con un gruppo di ragazzini all'interno dell'edificio. "Erano davvero giovani, fumavano canne", spiega al suo vicino di cella, "Ho parlato con loro perché, in realtà, avevano un telefono, dalla quale si potevano sentire le novità. Mi hanno permesso di restare aggiornato. Parlavano di ciò che stava succedendo. Io parlavo con loro di ragazze, di scuola e di lavoro". Secondo quanto raccontato dal terrorista, si sarebbe poi addormentato sui gradini, in attesa dell'arrivo dei suoi due amici, che devono aiutarlo ad allontanarlo da lì il mattino seguente.

L'intervista con la giornalista. Il racconto del jihadista, poi, prosegue con la descrizione di un episodio che, ascoltato dalle forze dell'ordine, sembra davvero credibile. Abdeslam, spiegando i controlli ai posti di blocco, ai due compagni di cella dice che al terzo "blocco" vengono intervistati da una troupe televisiva belga e dice: "Lei, la giornalista, mi dice: 'Lei trova normale che ci siano blocchi stradali come questo?'. Io ho risposto: Sì, è normale, date le cirocstanze, è necessario rafforzare i controlli'. Io ero nella parte posteriore".

La fuga verso il Belgio. Il jihadista dichiara di avere paura solo quando vengono schierati i poliziotti: "Erano con le loro mitragliatrici. Avevano circondato la macchina, era scioccante...ho pensato che quella fosse la fine e che non c'era via d'uscita". Ma in quel momento, Abdslam non era ancora stato identificato e il giovane riuscì a raggiungere il Belgio. Il 29 marzo 2016, invece, il giovane parla del suo arresto a Bruxells, quattro mesi dopo la sua fuga.

La lettera caduta. Il giorno dell'arresto, Abdeslam dimostrava tutta la sua preoccupazione per una sua lettera, che temeva potesse finire nelle mani delle forze dell'ordine. "Il giorno in cui la polizia mi ha preso, mi è caduta dalla tasca. Dovrei essere diffidente o altro?", aveva chiesto a Bakkali. "Non ci ho messo il mio nome, pensi che sappiano possa essere mia?", aggiunge rivolgendosi a Mehdi Nemmouche, che gli aveva consigliato di tacere di fronte agli investigatori. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano francese, se Abdeslam risulta essere così preoccupato è perché nella lettera ha fatto un bay'ah, cioè ha promesso fedeltà assoluta a Daesh. Nessuno, però, sa con certezza se stesse pianificando un attacco in Belgio, come i suoi presunti complici all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, nel marzo del 2016.

Le volontà. La missiva di Abdeslam, persa nel giorno del suo arresto, non è mai stata ritrovata. Tuttavia, nelle sue volontà, il jihadista avrebbe glorificato le sue azioni mortali (se fossero state portate a compimento): "All'inizio ho pensato di venire nella terra di Sham (cioè la Siria, ndr), ma riflettendo ho concluso che la cosa migliore fosse finire il lavoro qui, con i fratelli". Lo scorso 21 novembre, la procura nazionale antiterrorismo ha richiesto di inviarlo alla corte speciale dedicata agli omicidi e agli atti di terrorismo. E sarà proprio in quella sede che potrebbe essere definito il ruolo esatto del jihadista.

L’attacco silenzioso alle chiese. Marco Gombacci su Inside Over il 7 gennaio 2020. Sono stati oltre 3mila i simboli cristiani vandalizzati, distrutti o danneggiati in Europa durante il corso del 2019. Gli obiettivi sono stati per la maggior parte chiese, scuole cristiane, cimiteri, monumenti raffiguranti Santi o immagini bibliche. È quanto rileva uno studio del think thank Gatestone Institute che ha passato in rassegna articoli di giornale, rapporti delle forze dell’ordine, inchieste parlamentari, e diversi post sui social media per tutto il 2019. I Paesi più colpiti da questi attacchi anti-cristiani sono la Francia, dove questi atti sacrileghi si sono verificati addirittura ad una media di tre al giorno, e la Germania, con una media di due per giorno, secondo quanto dichiarato dalla polizia federale. Anche altri Paesi europei hanno dovuto subire questa tipologia di violenze: Belgio, Spagna, Italia, Irlanda, Danimarca e Regno Unito con una media di quasi dieci al giorno.

Le cause degli attacchi. Gli attacchi includono profanazione di tombe, chiese date alle fiamme, saccheggi, razzie, furti, scherni e defecazioni in luoghi sacri. Non sempre i perpetratori di questi atti sono stati fermati o arrestati e ciò rende difficile capire le ragioni esatte di queste violenze. In Francia e Germania, segnala il report, questi attacchi sarebbero causati prevalentemente dalle recenti ondate migratorie da Paesi a prevalenza musulmana mentre in Spagna, ad esempio, la maggioranza di questi attacchi è di matrice anarchica o è realizzata da femministe radicali che hanno come obiettivo la cancellazione di tutti i simboli religiosi dalla sfera pubblica. “Tutti questi atti anti cristiani sono stati solo raramente riportati sui media occidentali, preferendo il silenzio alla denuncia”, accusa il report.

In Italia. Anche l’Italia non è indenne ad attacchi anti cristiani. Solo nel dicembre 2019 vi sono stati numerose denunce di attacchi contro i presepi esposti pubblicamente nelle piazze delle città durante il periodo natalizio. Dalle Alpi alla Sicilia, decine di presepi sono stati vandalizzati. Addirittura a Lodi, la statua di Gesù bambino è stata decapitata e rubata. A Milano dei delinquenti hanno posizionato una bottiglia di urina accanto alla statuetta della Madonna. L’ultimo caso ad Aquileia, in Friuli Venezia Giulia, dove dei vandali hanno distrutto l’intero presepe in legno il giorno antecedente all’Epifania. Di diversa entità ma pur sempre attacchi contro i simboli cristiani, sono tutti quei tentativi di boicottare le festività religiose annullando le recite natalizie, evitando di allestire i presepi oppure più semplicemente conformandosi al politicamente corretto e augurando un neutro “Buone feste” invece del tradizionale “Buon Natale”.

Altri attacchi alla cristianità. Grandi marchi come la Nestlé avevano cancellato la croce cristiana in cima alle chiese greco-ortodosse dalle confezioni di yogurt greco oppure il Real Madrid che ha rimosso la croce dal suo stemma per poter giocare in Medio Oriente. In Inghilterra, in alcune scuole del Sussex, è vietato fare riferimenti temporali “prima di Cristo” o “dopo Cristo”, rivoluzionando la dicitura del calendario gregoriano che vige dal 1582. “La religione cristiana viene utilizzata per giustificare comportamenti omofobi o forme di neo-colonialismo”, si leggeva invece in un testo di alcuni studenti dell’Università inglese di Oxford che metteva al bando un’associazione studentesca cristiana. In Germania, a Karlsruhe, un artista aveva vinto un bando pubblico per dipingere le fermate della metro con affreschi che raffigurassero la Genesi, il primo libro della Bibbia. “Arte troppo cristiana!”, l’ignobile capo d’accusa che pendeva sul malcapitato pittore.

In Europa non vi sono solo attacchi fisici veri e propri, come segnalato dal Gatestone Institute, ma vi è un continuo attacco ai simboli e alle tradizioni cristiane tanto da far definire questi comportamenti “Cristianofobici” dal cardinale Louis Raphaël I Sako. L’obiettivo è quello di cancellare il passato, per obbligare a dimenticarci delle nostre radici cristiane sulle quali si dovrebbe fondare proprio quell’Europa odierna che tende invece a rinnegarle.

L’odio islamista non è stato sconfitto. Andrea Indini il 27 dicembre 2019 su Il Giornale. Un messaggio firmato con il sangue alla Nazione della Croce. Era il 15 febbraio del 2015. Ventuno egiziani copti, sequestrati in Libia qualche mese prima, vengono portati dai tagliagole dello Stato islamico su una spiaggia che guarda in faccia l’Italia. E da lì mandano un nuovo messaggio di minaccia all’Europa e all’Occidente: “Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a sud di Roma… in Libia”. E ancora: “Avete buttato il corpo di Osama bin Laden in mare, mischieremo il suo sangue con il vostro”. Gli ostaggi sono tutti vestiti con la classica tuta arancione. Hanno giusto il tempo per rimettere l’anima a Dio, prima che i coltelli dei jihadisti affondino nella loro gola (video). Quasi cinque anni dopo lo stesso inferno. Stavolta siamo in Nigeria. Undici cristiani, catturati nelle ultime settimane nello stato nord-orientale di Borno, vengono fucilati e pugnalati dai sanguinari uomini di Boko Haram per vendicare la morte del califfo Abu Bakr al Baghdadi. E dire che, sconfitto lo Stato islamico in Siria e allontanato l’incubo degli attentati in Europa, i più hanno creduto di aver chiuso con la minaccia islamista. E così sono caduti nel dimenticatoio la lama di Jihadi John, che ha ammazzato una sfilza di ostaggi occidentali, il prigioniero giordano bruciato vivo in gabbia (video) o le yazide stuprate e poi vendute al mercato delle schiave. E nemmeno vengono più ricordati i migranti cristiani affogati in mare dagli islamici che li accusano di “portare sfortuna” o padre Jacques Hamel fatto inginocchiare davanti all’altare della sua chiesa e poi sgozzato come un agnello sacrificale. Tutto troppo lontano. Persino i camion sulla folla e le stragi nei teatri sembrano non far più paura a noi occidentali, assorbiti da altre ansie inconsistenti. È bastato che i lupi solitari dello Stato islamico smettessero di versare il nostro sangue per credere che fosse tornato tutto alla normalità. Ma è una menzogna che ci raccontiamo per andare a letto tranquilli e riprendere a salire su un aereo senza imbottirci di Xanax per vincere la paura che uno jihadista non lo schianti contro un grattacielo. In questi giorni ho letto Le altissime torri, il libro di Lawrence Wright che cala nella Storia il terribile attacco di al Qaeda all’America di George Bush e non lo isola, come fanno molti, a un blitz estemporaneo. Un progetto che inizialmente era stato solo abbozzato tra i campi di addestramento in Sudan e le montagne dell’Afghanistan e che, per quanti credessero di non poterlo realizzare, ce ne erano altrettanti pronti a morire pur di portarlo a termine. E alla fine ce l’hanno fatta, aprendo così un decennio di sangue puntellato da continui attacchi all’Occidente. Non si può capire quell’attentato senza legarlo, come viene fatto nel libro edito da Adelphi, al padre fondatore del jihad moderno, Sayyid Qutb, che negli anni Quaranta è stato accolto (guarda un po!) proprio in America. E che dopo quel viaggio, prendendo a prestito le parole di Zawahiri, ci ha apertamente dichiarato guerra: “Tirate dritto, fratelli, giacché la vostra strada è intrisa di sangue. Non voltate la testa né a destra né a sinistra; guardate invece soltanto in alto, al paradiso”. Come non si può capire lo Stato islamico senza collegarlo, come ho già spiegato con Matteo Carnieletto nel libro Isis segreto, a quei miliziani che, dopo la Seconda Guerra del Golfo, sono finiti a Camp Bucca e lì hanno covato per anni sentimenti di vendetta fino teorizzare non più soltanto le azioni terroristiche ma anche la nascita di un Califfato che riunisse gli Stati islamici sotto un’unica bandiera nera del terrore. E ancora: non possiamo capire l’odio nei confronti dell’Occidente se non approfondiamo, come ha già fatto Michel Houellebecq in Sottomissione, la nostra incapacità di arginare l’immigrazione, la volontaria cancellazione della nostra cultura per non far torto ai musulmani e soprattutto il disprezzo che le frange più estreme dell’islam hanno nei nostri confronti. La minaccia islamica ha un unico filo conduttore. Ed è l’odio. Questo non è stato ancora estirpato. Oggi ce lo dimostrano i jihadisti di Boko Haram facendo carne da macello di undici cristiani e le due belve 16enni che, in una delle tante banlieue parigine, hanno stuprato una ragazza inneggiando ad Allah. È un incubo che si ripete. E, per quanto facciamo finta di niente, tornerà in continuazione per strapparci l’anima (e la vita) dal cuore. Perché questo è il loro jihad. La guerra santa conto gli infedeli. Che siamo noi.

È Al Salbi il capo dell’Isis. Nominato subito dopo la morte di Al Baghdadi. Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi, tra i fondatori dell’Isis, sarebbe l’uomo scelto come nuovo leader dell’Isis. Ha guidato la persecuzione della minoranza yazida in Iraq. Pietro De Re su La Repubblica il 21 gennaio 2020. Lo Stato islamico ha forse un nuovo capo, nominato dopo l’uccisione del sedicente califfo Abu Bakr Al Baghdadi lo scorso ottobre. Il suo successore si chiamerebbe Amir Mohammed Abdul Rahman Al Mawli Al Salbi, ed è tra i fondatori del movimento islamista sconfitto militarmente a marzo nella sua ultima roccaforte di Baghuz, sulle rive dell’Eufrate nell’Est della Siria. Secondo quanto scrive il Guardian, che cita diverse fonti d’intelligence, Al Salbi sarebbe stato scelto nuovo capo dell’Isis già tre mesi fa. Secondo quanto ha ricostruito il quotidiano britannico, l’islamista ha guidato la campagna contro la minoranza yazida intorno a Sinjar e nella piana di Ninive in Iraq nel 2014, e ha supervisionato le operazioni in tutto il mondo messe in atto dai seguaci del gruppo terroristico. Al Salbi sarebbe stato scelto solo poche ore dopo l’uccisione di Al Baghdadi. Allora fu diffuso un altro nome, come successore del califfo: Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, che però non ha ricevuto nessun riscontro. Al Salbi, nato da una famiglia turcomanna irachena nella città di Tal Afar, è uno dei pochi non arabi nella dirigenza dell’Isis. Noto come Haji Abdullah, è salito nella gerarchia interna grazie alla sua nomea di studioso del Corano dopo aver conseguito una laurea sulla sharia all’Università di Mosul. Nel 2004 è stato rinchiuso nella prigione di Camp Bucca nel sud dell’Iraq ed è lì che avrebbe conosciuto Al Baghdadi. In questo momento in cui l’organizzazione terrorista sta cercando di riorganizzare le proprie falangi per portare avanti la sua sanguinaria jihad è di vitale importanza ricostruire anzitutto un vertice capace di riunire gli uomini che dopo la sconfitta di Baghuz hanno trovato rifugio nei villaggi sunniti nel deserto tra Siria e Iraq.

Al Salbi nuovo leader dell’Isis, sulla sua testa una taglia da 5 milioni di dollari. Redazione de Il Riformista il 21 Gennaio 2020. Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi: sarebbe questo il nome del nuovo leader dell’Isis. A rivelarlo è il quotidiano britannico The Guardian, che cita fonti anonime all’interno di due diversi servizi segreti. Tra i fondatori del gruppo terroristico, Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi ha preso il posto di Abu Bakr al Baghdadi dopo la sua uccisione da parte dell’esercito statunitense. Una notizia che, se confermata, avrebbe del clamoroso: al Salbi è iracheno di etnia turcomanna e sarebbe così il primo leader dell’Isis non arabo. Nell’articolo di Martin Chulov viene precisato che al Salbi sia stato nominato nuovo leader col nome di battaglia di Abu Ibrahim al Hashimi al Quraishi, fino a quel momento ignoto ai servizi segreti internazionali. Il cambio di guida all’interno dell’Isis sarebbe avvenuto a poche ore dal raid statunitense che ha provocato la morte di al Baghdadi lo scorso ottobre. Nella ricostruzione del quotidiano inglese viene spiegato che al Salbi avrebbe conosciuto il vecchio leader al Baghdadi nel 2004, quando era detenuto dalle forze militari statunitensi in una prigione del sud dell’Iraq. Su di lui c’è il sospetto che sia stato uno dei principali responsabili del genocidio degli yazidi in Iraq. Sulla sua testa pende già una taglia da 5 milioni di dollari spiccata dal Dipartimento di Stato americano.

Da ilmessaggero.it il 22 gennaio 2020. Il nuovo leader dell'Isis è stato smascherato dalle intelligence occidentali, mentre prosegue l'offensiva contro l'organizzazione terroristica a colpi di raid, arresti e cyber-attacchi. Il nuovo Califfo, che ha scelto di chiamarsi formalmente Abu Ibrahim, è stato identificato in Amir Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi, noto con il nome di guerra di Hajji Abdullah. La rivelazione è arrivata dal Guardian, che ha citato due fonti di due diversi servizi di intelligence. Il nuovo leader è originario di Tal Afar, in Iraq, e sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari spiccata di recente dal Dipartimento di Stato Usa. Soprattutto, la sua famiglia ha origini turcomanne e non arabe, una rarità tra gli alti ranghi dell'organizzazione. In questi mesi dall'uccisione di Abu Bakr al Baghdadi, il 27 ottobre scorso in un'operazione delle forze speciali Usa in Siria, gli 007 occidentali ed iracheni hanno rimesso insieme i pezzi del puzzle che hanno portato alla sua identificazione. Tra i più stretti sodali di Baghdadi, con cui ha condiviso nel 2003 la cella nel Camp Bucca di Bassora messo in piedi dagli americani in Iraq, prima di farsi strada nella piramide dell' Isis al-Salbi era noto per i suoi studi religiosi ed è stato tra i principali ispiratori - scrive il Guardian - del tentato genocidio degli Yazidi in nord Iraq. Attualmente si troverebbe nell'area a ovest di Mosul, un fazzoletto di terra culla del jihadismo iracheno sin dagli anni '90. Il fratello, Adel Salbi, è un responsabile del Fronte turcomanno iracheno in Turchia, e con lui avrebbe mantenuto stretti rapporti fino all'ottobre scorso. L'Isis, ridotto allo sbando, in Iraq però «continua a pagare gli stipendi» e a «far addestrare i suoi uomini». Gli attacchi negli ultimi mesi si sono moltiplicati e l'instabilità nel Paese può agevolare i jihadisti. A Baghdad «hanno bisogno di forti capacità per evitare che l' Isis ritorni. Stiamo studiano cosa fare nella regione», ha avvertito il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. In questo quadro, il Cyber command statunitense ha portato a termine «con successo» una vasta operazione hacking contro l' Isis. La rivelazione è emersa dalla pubblicazione di documenti top secret declassificati e si tratta della prima operazione offensiva di hackeraggio rivelata dal Pentagono. L'operazione Glowing Symphony è iniziata nel 2016 e ha minato la «capacità di reclutamento dell'Isis» e la sua propaganda online. Negli ultimi giorni sono arrivati altri due colpi poderosi: Shifa al-Nima, imam dell'organizzazione e padre delle fatwa contro chiunque non si piegasse al volere dell' Isis, è stato arrestato in un sobborgo di Mosul. Soprannominato “Jabba the Hutt” - uno dei cattivi della saga Star Wars - per il suo peso (254 kg), le forze speciali hanno dovuto utilizzare un camion per trasportarlo. Mentre un emiro del petrolio basato nell'est siriano, Abu al-Ward al-Iraqi, che ancora pompava i soldi del traffico illecito nel network jihadista è stato ucciso in un raid delle forze statunitensi.

Spie confermano: Al-Salbi è il nuovo leader dell’Isis. Andrea Massardo su Inside Over il 21 gennaio 2020. Il suo nome è Amir Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi e, secondo quanto riportato dal quotidiano inglese The Guardian, sarebbe il nuovo leader dello Stato islamico. Al-Salby rappresenta uno dei veterani dell’Isis ed è al tempo stesso uno dei fondatori dell’organizzazione terroristica. Braccio destro di Abu Bakr al-Baghdadi, avrebbe preso il suo posto subito dopo la sua morte, secondo quanto riferito alla testata britannica da due agenti segreti operativi in Iraq. Tra le sue numerose “imprese”, si annovera la persecuzione contro gli Yazidi dell’Iraq e l’organizzazione degli attacchi terroristici compiuti contro l’Occidente (e non solo). Ad oggi, è considerato l’uomo più potente dell’Isis, nonché punto di contatto con le cellule terroristiche che rispondono all’organizzazione. Di discendenza turkmena ed originario di Tal Afar, nel Sud del Paese, Al-Salbi è uno dei pochi esponenti di spicco dello Stato islamico a non avere una discendenza araba diretta. Nonostante ciò, il ruolo centrale svolto negli ultimi anni al servizio dell’Isis gli è valso la carica di leader dell’organizzazione. Sulle sue tracce si sarebbero già messa le intelligence più importanti al mondo, che avevano già identificato il ruolo chiave della sua figura sin dall’estate precedente all’uccisione di Al-Baghdadi. Tuttavia, nonostante la taglia di cinque milioni di dollari sulla sua testa, i servizi di spionaggio non sono riusciti a portare a termine la sua cattura in tempi utili per evitare che diventasse il successore del califfo nero. Sin dalla sua identificazione, la sua posizione è stata ignota, rendendo particolarmente difficili le operazioni di ricerca. Esperto in legge islamica e laureatosi all’università di Mosul, avrebbe conosciuto al-Baghdadi durante la reclusione nel campo di internamento americano di Camp Bucca, nel 2004. Anche in questo caso, come in quello del precedente leader dello Stato islamico, si tratterebbe di un nome conosciuto all’intelligence americana, che si è lasciata sfuggire un pericoloso terrorista. Al momento non è conosciuta quale sia la roccaforte dalla quale operi Al- Salbi, che è stato in grado di far perdere completamente le proprie tracce. Tuttavia, l’impressione è che si possa essere rifugiato nel nord dell’Iraq, verso il confine con la Turchia, anche per motivi legati a possibili sostegni familiari. Suo fratello, Adel, appartiene infatti alla fazione politica turca che sostiene i diritti della popolazione turkmena e irachena che vive nella regione e non è escluso che i rapporti siano continuati anche a seguito della sua nomina alla guida dell’Isis. Le possibilità dunque che abbia trovato rifugio a Mosul sono molto alte, considerando anche come negli ultimi mesi sia stato il campo base di molte alte cariche dello Stato islamico che hanno cercato di confondersi tra la popolazione, nell’attesa di una riorganizzazione del movimento. La sua presenza nei paraggi della città di Mosul sarebbe stata suggerita anche in relazione al crescente numero di attacchi terroristici subiti dalla popolazione curda dalla metà dell’estate scorsa. Questo fatto ha trovato conferma anche dalle testimonianze delle milizie curde e dei funzionari delle forze dell’ordine irachene, che hanno stimato una media di due attacchi al giorno negli ultimi sei mesi del 2019. Tuttavia, nessun riscontro ufficiale ha potuto confermare la sua presenza nella regione. Il nuovo Califfo, proprio come Al Baghdadi, è ormai invisibile.

Isis, Iraq annuncia l’arresto di Qardash erede al califfato di al Baghdadi. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2020. L’intelligence irachena ha arrestato Abdulnasser al-Qardash, candidato in lizza per succedere ad Abu Bakr al-Baghdadi come califfo dello Stato islamico. Lo riferisce al Arabiya online, citando quanto fatto sapere dai servizi iracheni ai media locali. “Il terrorista di nome Abdulnasser al-Qardash, il candidato a succedere al criminale al-Baghdadi, è stato arrestato. (L’arresto) è arrivato dopo un’accurata intelligence”, afferma la dichiarazione del Servizio di intelligence nazionale iracheno riportata da al Arabiya. Abu Bakr al-Baghdadi era stato ucciso dalle forze statunitensi nel corso di un raid nella città siriana di Idlib, il 26 ottobre scorso.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 21 maggio 2020. Dopo appena più di cinque mesi dalla sua incoronazione al comando dell'Isis, l'intelligence irachena ha arrestato Abdul Nasser Qardash, il capo terrorista che aveva preso il posto del defunto al Baghdadi. L'agenzia di stato di Baghdad Iraqi News ha lanciato il comunicato ieri nella tarda serata, nella sorpresa generale. Il messaggio non è accompagnato da dettagli. Non è chiaro il luogo dove è avvenuto l'arresto, né la sua modalità, ma l'autorità della fonte lascia pensare che una delle organizzazioni terroristiche più pericolose del mondo arabo sia stata ancora una volta decapitata, e che questa volta il leader si trovi nelle mani della polizia locale. Sul suo capo pendono accuse di ogni tipo, ma gli investigatori vorranno prima di tutto appurare il ruolo che Qardash ha avuto nell'organizzare e disegnare il genocidio della minoranza yazida in Iraq, e la riduzione in stato di schiavitù delle donne del gruppo religioso. Altri comunicati in lingua araba, tra i quali quelli di al Arabia, confermano l'arresto e il fatto che Qardash avesse iniziato ad assumere il comando dell'organizzazione, sconfitta militarmente in Siria e in Iraq, dispersa sui tanti fronti della jihad islamica, ma pur sempre combattiva e capace di reclutare seguaci sulla base dei successi di tante operazioni militari del passato, a partire dall'abbattimento delle Torri Gemelle di New York. L'ironia del destino ha voluto che la notizia dell'arresto sia coincisa con un'altra di segno opposto. Negli Stati Uniti l'ideatore della strage dell'11 settembre Zacarias Moussaoui ha fatto sapere ieri dalla cella della prigione in cui giace, che ha abiurato il terrorismo, e che intende testimoniare nella prossima seduta del processo intentato contro lo stato saudita dalle famiglie delle vittime dell'attacco terrorista. Moussauoi ha anche indicato in Rudy Giuliani o nel decano del foro newyorkese Alan Dershowitz il legale dal quale vuole essere difeso nel procedimento. La successione tra Baghdadi e Qardash era stata indicata a fine ottobre dall'agenzia interna all'Isis, Amaq. Il nome del nuovo capo era stato al tempo indicato come Abu Ibrahim al Hashemi al Quraishi. Nome sconosciuto alle agenzie internazionali che si occupano di terrorismo. Il professor Aymenn al Tamimi, ricercatore alla Swansee University in Galles, avanzava l'ipotesi che si trattasse di una figura di spicco nell'organizzazione soprannominata Hajj Abdullah o «Il Distruttore» che gli Usa avevano già indicato come possibile nuovo capo militare dell'Isis, e il cui vero nome è al Qardash. Anche lui iracheno di origine turkmena, compagno di prigionia di al Baghdadi nel campo statunitense di Bucca a Bassora, e poi capo Abu Ibrahim al Hashemi al Quraishi della sicurezza in Siria con il compito da fare da guardia del corpo al suo capo. Lo scorso agosto un altro lancio della stessa agenzia Amaq lo aveva già proclamato nuovo leader del califfato, ma l'autenticità della notizia era stata messa in discussione, così come la legittimità di Qardash ad aspirare ad un simile incarico senza godere la stessa discendenza che Baghadadi vantava dal clan dei Quraishi, direttamente risalenti a Maometto. La trasformazione del nome, ora che la sostituzione è improrogabile: da Qardash a Quraishi, sembrerebbe propizia alla sua riabilitazione agli occhi del mondo jihadista.

Non è il Califfo dell’Isis l’uomo arrestato a Baghdad: la foto del vero leader dello Stato Islamico. Toni Capuozzo il 22/05/2020 su Notizie.it. La foto del vero leader dell'Isis dimostra che non si tratta dell'uomo arrestato a Baghdad, come hanno riportato molti giornali italiani. Non è proprio una fake news, ma qualcuno a Baghdad ci ha marciato sopra. Mercoledì 20 maggio molti siti e giornali italiani, tra cui il Corriere, La Repubblica e La Stampa, hanno dato notizia dell’arresto del possibile successore – e per qualcuno già asceso alla carica – del Califfo dello Stato Islamico, identificato come Abdul Nasser al Qardash. Come sapete Abu Bakr al Baghdadi, il leader dell’Isis che proclamò il califfato in una moschea di Mosul, avendo al polso un Rolex, è stato ucciso nell’ottobre dello scorso anno.

I dubbi sulla notizia.

Primo dubbio: la notizia è stata ripresa solo dai giornali italiani, e non sappiamo chi abbia il primato: le vittorie hanno molti padri, le sconfitte sono sempre orfane. 

Secondo dubbio: Abdul Nasser al Qardash non è stato catturato pochi giorni fa. Pochi giorni fa è stato consegnato dagli americani alle forze di sicurezza irachene, in un’operazione che di brillante ha solo la tuta gialla fatta indossare al carcerato.

Terzo dubbio: Abdul Nasser al Qardash è stato catturato dai curdi nella battaglia di Baghouz, molto prima che al Baghdadi fosse ucciso: come poteva essere il suo successore?

A sciogliere ogni dubbio c’è l’identità del vero nuovo capo dell’Isis, che qui vedete ritratto come “wanted”. È, preparatevi, un nome lungo: Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi. È un iracheno di origine turcomanna, come rivela uno dei suoi nomi di battaglia, quasi non bastassero gli altri: nomi come medaglie. Abdul Nasser al Qardash chi è, allora? Un nome importante dell’Isis, membro del comitato esecutivo, ma non il Califfo e mai vicino a esserlo. Com’è nato lo scambio di persona? Uno dei nomi di battaglia del nuovo califfo è Abdullah Qardash, simile a quello del più modesto membro dell’esecutivo. Al Arabiya e Sky News Arabia, riprendendo la stampa irachena, che ha enfatizzato la semplice consegna di un prigioniero, l’hanno promosso sul campo, o meglio in cella. Ultimo atto. Abdul Nasser al Qardash viene intervistato da al Arabiya, la televisione di Doha. E non ne approffitta per lanciare chissà quali proclami, anzi. Mestamente, smentisce di essere il nuovo capo di Daesh. Disciplina gerarchica? No, perché il prigioniero ne approfitta per prendere le distanze dal vecchio califfo, definito “persona ingiusta”. Che cosa c’è dietro? Molto probabilmente il trasferimento del prigioniero agli iracheni è dovuto al fatto che in Iraq per il terrorismo è prevista la pena di morte, come Abdul Nasser al Qardash sa, essendo iracheno ed avendo servito come ufficiale di Saddam. Una pena che i curdi non praticano e gli americani non possono praticare in Siria. Finchè c’è vita c’è speranza.

L’America abbandona l’Africa. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. La fazione nigeriana dello Stato islamico ha vendicato, nel suo stile barbaro, la morte del Califfo Al Baghdadi: dieci ostaggi cristiani decapitati. Strage documentata da un video poi diffuso in rete. Quasi contemporaneamente altro eccidio in un villaggio, sempre cristiano, ad opera di Boko Haram mentre l’Isis ha rivendicato un attacco in Burkina Faso. Dozzine le vittime provocate dalla guerriglia jihadista alleata di componenti ribelli locali in Mali e Niger, entità fragili ed esposte. È questa la situazione nell’Africa Occidentale e nel Sahel, vecchia/nuova linea del fronte. Ed ecco che spunta lo scenario di un possibile disimpegno statunitense dalla regione. Il segretario alla Difesa Mark Esper — ha scritto il New York Times — vorrebbe ridurre il numero di militari o persino ritirarli del tutto. Verrebbe anche chiudere una base per droni creata da poco in Niger e costata 110 milioni di dollari. La spiegazione ufficiale è che le unità saranno rischierate su teatri prioritari, davanti a russi e cinesi. Attualmente il Comando Africa dispone di circa 6 mila uomini sparpagliati in diversi Stati. Una parte addestra gli eserciti, partecipa a missioni con forze speciali, svolge attività di intelligence, garantisce un network logistico in supporto dell’Operazione Barkhane dei francesi (con una spesa di 45 milioni annui). Non meno significativo lo scudo contro gli Shebaab in Somalia: solo quest’anno i raid aerei sono stati 60. Si tratta di un dispositivo di qualità ma non certo gigantesco se teniamo conto dell’ampiezza del teatro e della portata della minaccia. Inoltre, come spesso è accaduto in altri scacchieri — Nord della Siria —, le idee della Casa Bianca non collimano con quelle degli alti gradi. I generali non sono favorevoli a levare le tende e hanno già programmato per il 2020 massicce esercitazioni nel continente africano. In parallelo il Dipartimento di Stato ha creato una task force dedicata al Sahel in quanto è preoccupato dalla pressione dei mujaheddin. L’agenda degli strateghi, però, non va d’accordo con la visione di Trump: per il presidente l’America ha partecipato a troppe campagne, è ora di tornare a casa lasciando il fardello sulle spalle degli alleati. Solo che il momento scelto per sgombrare il campo arriva in una fase di grande instabilità. Gli Stati del Sahel e la Nigeria sono incapaci di tenere testa ai movimenti armati, anche perché i conflitti sono sfruttati a loro vantaggio dagli insorti islamici. Saldature per nulla insolite, tra i primi a cucire relazioni con clan tribali il celebre Mokhtar Belmokhtar, alias il Guercio, apostolo della Guerra santa. I traffici di armi, persone e droga prosperano. La Francia, pur con sacrifici di soldati e risorse, ha margini di manovra limitati e la sua presenza (4.500 uomini) è sempre più sgradita a popolazioni che devono vedersela con problemi cronici. Servono interventi sociali e meno opzioni militari, ma al tempo stesso se non garantisci sicurezza è un’utopia pensare che le cose procedano da sole. La verità è che Macron non sa cosa fare. Poi, poco più a nord, c’è la Libia, terra di conquista. Emirati ed Egitto garantiscono mezzi al generale Haftar, Parigi lo coccola, i russi lo puntellano con i mercenari. Ankara, invece, è pronta a intervenire con un corpo di spedizione al fianco di Tripoli, storicamente avversaria della Cirenaica. E girano news di militanti pro-turchi in arrivo dalla Siria con il classico schema dei «volontari», della guerra per procura. L’Italia, per ora, gioca sulle due sponde. Gli Usa lanciano appelli, ogni tanto colpiscono l’Isis libico, però restano cauti. Vedremo se davvero abbandoneranno una parte dell’Africa.

La mattanza continua: è sempre strage di cristiani. Undici decapitati. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cristiani senza pace in quella parte del mondo dove impazzano i seguaci dello Stato islamico. Il sangue scorre in Nigeria in coincidenza con le celebrazioni del Natale per mano dell'Isis. Un drammatico video documenta l'esecuzione di 11 uomini per mano dell`organizzazione terroristica e sembra riportare l'orologio della Storia indietro di qualche anno. Se ci si era illusi di aver imposto una sconfitta irreversibile al sedicente Stato islamico con l'uccisione, lo scorso ottobre in Siria, del suo leader e del suo portavoce, Abu Bakr al-Baghdadi e Abul-Hasan al-Muhajirfa, il filmato girato in un'area non identificata nello stato nord-orientale di Borno, in Nigeria, gela queste speranze. Undici cristiani uccisi e decapitati. Un video di 56 secondi prodotto da Amaq, sedicente agenzia di stampa dell`organizzazione terroristica, con 11 uomini di fede cristiana resi prigionieri e uccisi. Colpito a morte quello nel mezzo mentre gli altri 10 spinti a terra e decapitati. La strage assume connotati ancora più inquietanti in coincidenza della recente celebrazione del Natale.  Questo secondo le precise volontà dell`Isis, dicono gli analisti. E così trova posto nella campagna annunciata dall`organizzazione terroristica per “vendicare” le morti del suo leader al-Baghdadi e del suo portavoce al-Muhajirfa.

In Nigeria una raffica di attacchi. In particolare in Nigeria, la voglia rappresaglia ha fatto partire una raffica di attacchi. L’organizzazione integralista fedele al Califfato nel paese africano, Boko Haram, ora combatte con la bandiera di “Provincia dell`Africa occidentale dello Stato islamico” (Iswap) e l`anno scorso ha ucciso due ostetriche che aveva preso in ostaggio. Iswap ha anche rivendicato l`attacco più sanguinoso subito dall`esercito del Niger il 10 dicembre con l`uccisione di 71 soldati a Inates, base militare a confine con il Mali. Negli ultimi 4 mesi almeno 230 i soldati uccisi in attacchi jihadisti in Niger, Mali e Burkina Faso. Qui, insieme a Ciad e Mauritania, c’è la forza di sicurezza G5 Sahel con il sostegno francese. E proprio il presidente francese Emmanuel Macron ospiterà il mese prossimo un incontro dei presidenti africani di questo coordinamento. Secondo le stime rese note all`inizio di questo mese dal Comitato internazionale della Croce Rossa, inoltre, sono 22.000 le persone che mancano all`appello nella parte nord-orientale della Nigeria, il più alto numero mai registrato dalla Croce Rossa in qualsiasi paese. Quasi la metà di questi scomparsi erano minorenni al momento della sparizione e Boko Haram è considerata la principale responsabile di queste scomparse.

Il dramma dei cristiani d'Africa: "Jihadisti ci uccidono e le ong tacciono". Joseph Fidelis ha criticato l'atteggiamento dell'occidente il quale sembra essersi girato dall'altra parte sulla persecuzione dei cristiani in Nigeria: "Qui ci attaccano, solo Dio può aiutarci". Mauro Indelicato, Lunedì 23/12/2019, su Il Giornale. Un’Europa politicamente corretta che non si occupa dei cristiani perseguitati e che, per timore di essere etichettata islamofoba, si gira dall’altra parte. Una descrizione del genere del vecchio continente non arriva questa volta da una critica interna alla stessa Europa, bensì da un sacerdote nigeriano impegnato con i suoi fedeli ogni giorno a vivere la faticosa quotidianità del più popoloso paese africano. Padre Joseph Fidelis è in prima linea con i cristiani in una delle regioni nord della Nigeria, le più minacciate dai fondamentalisti islamici di Boko Haram, il gruppo nato negli anni 2000 e che dal 2015 risulta affiliato all’Isis. Intervistato da Lorenza Formicola su La Verità, è stato proprio padre Joseph a parlare della situazione che vivono i suoi fedeli e di come, in primo luogo, i cristiani in Nigeria si sentano abbandonati soprattutto da quell’Europa che predica tolleranza e rispetto a fasi alterne. “A livello globale c’è il timore di essere etichettati come islamofobi – ha risposto il sacerdote nigeriano alla domanda sul perché in occidente non si interviene – Così, piuttosto che combattere le forme di intolleranza e discriminazione religiosa, l'Europa e l'America sono cadute preda del cliché di essere viste come islamofobe”. “Il problema è il politicamente corretto – ha poi continuato padre Joseph – I leader politici e le grandi organizzazioni globali evitano di denunciare il crimine e condannare il terrorismo, e così facendo stanno diventando indifferenti, mentre fingono di promuovere la globalizzazione”. In poche parole, si ha paura di dire la verità in quanto si è più attenti a non passare per islamofobi: “Senza dubbio ogni religione può scadere nell' estremismo – si legge ancora nell’intervista al parroco nigeriano – ma l' oppressione delle minoranze e l' esclusione dell' altro è l'attività preferita dei gruppi islamici. Basta guardare all'Isis, Al Qaeda, Boko Haram, Al Shabab. Le principali organizzazioni terroristiche hanno nell'Islam la loro origine. Detto ciò, ci saranno anche musulmani moderati, ma credo che se della persecuzione ai cristiani si evita di parlare, è perché si teme di essere mal visti”. La situazione nella sua diocesi viene descritta come molto grave. In questa parte settentrionale della Nigeria non ci sono soltanto i problemi di natura economica e sociale che si riscontrano in tutto il paese africano. Qui, dove Boko Haram ad un certo punto ha controllato un territorio grande quanto il Belgio, padre Joseph racconta come il pericolo non è soltanto dato dall’estremismo islamico ma anche da una certa discriminazione della minoranza cristiana. “I cristiani, specialmente nella parte settentrionale del Paese, sono emarginati, perseguitati, aggrediti fisicamente – ha raccontato il sacerdote – Trattati con disprezzo, privati di alcuni diritti a scuola, nella società, nella quotidianità. Per noi è una sfida costante per la sopravvivenza e le cose stanno peggiorando”. Dall’Europa e dall’occidente in generale però, nessun segnale e nessuna concreta promessa di aiuto per la protezione dei cristiani presenti in questa parte del continente africano. E così, alla domanda su chi potrà proteggere i fedeli di religione cristiana, padre Joseph ha risposto in maniera tanto lapidaria quanto chiara: “Solo Dio può proteggere i cristiani nigeriani. Troppo pochi sono disposti a fare qualcosa per noi”.

Gabriella Colarusso per “la Repubblica” il 30 dicembre 2019. La sera del 27 dicembre, la base militare irachena Kaywan (K-1), nel governatorato di Kirkuk, che ospita i militari della coalizione anti-Isis, è stata colpita da una serie di razzi: nell' attacco sono rimasti feriti diversi soldati americani e un contractor civile è morto. A diciotto anni dall' inizio della guerra in Afghanistan, e a 16 dall' intervento in Iraq, l'America continua a impiegare in Medioriente circa 50 mila contractor privati, 49.652 secondo i dati del Centcom, il comando militare responsabile della regione, la metà dei quali tra Afghanistan, Siria e Iraq. Di questi, solo 20 mila circa sono americani: le compagnie private tendono a ingaggiare personale locale perché costa meno. Dall' inizio degli anni 2000, l'uso di contractor privati è cresciuto ovunque nel mondo, in America, in Russia, in Cina, negli Emirati, in Africa. La Cina ha cominciato a ingaggiare contractor per proteggere gli investimenti della nuova Via della Seta che attraversa Paesi caratterizzati da instabilità politica o problemi di sicurezza. Ci sono circa 5 mila società di sicurezza private cinesi registrate, e circa 3 mila agenti privati di sicurezza cinesi in Stati come l' Iraq, il Sudan, il Pakistan. Parallelamente è cresciuto l' impiego nelle zone di conflitto di veri e propri mercenari, con conseguenze imprevedibili e rischi molto alti per i soldati regolari e per i civili. Le compagnie militari private hanno contratti regolari con i ministeri della Difesa e sono sottoposte alle leggi internazionali e locali: per l'omicidio di 17 civili inermi a Falluja in Iraq nel 2007 quattro operativi della Blackwater, il principale contractor del governo americano, sono stati condannati e la società ha dovuto cambiare le sue regole interne. Le aziende che gestiscono mercenari armati come la russa Wagner, vicina al Cremlino e ai servizi segreti militari russi, invece non rispondono a nessun governo e a nessun tribunale. «Costano meno, non impegnano formalmente uno Stato ma consentono a uno Stato di perseguire i propri obiettivi strategici, che è quello che sta facendo la Russia con la Wagner in Libia a sostegno di Haftar», dice Claudio Bertolotti, ricercatore dell' Ispi e direttore di Start Insight. A febbraio dello scorso anno, uno scontro armato tra mercenari e truppe regolari ha rischiato di far esplodere un conflitto diretto tra Russia e Stati Uniti, in Siria. Per quattro ore, i militari americani hanno fronteggiato 500 mercenari russi della Wagner che avevano attaccato l' impianto petrolifero di Conoco, nei pressi di Deir al Zour. Decine di mercenari sono stati uccisi, ma non ci sono cifre ufficiali. La Wagner ha schierato mercenari in Siria, in Ucraina, ora in Libia, ha inviato consulenti e addestratori nella Repubblica Centrafricana. «Le aziende come Blackwater sono pittoresche rispetto al gruppo Wagner e ad altri mercenari contemporanei», ha scritto in un recente saggio per la National Defence University, Sean Mcfate, ex militare, docente alla Georgetown University e uno dei principali esperti internazionali di guerre private. «Non abbiamo un quadro giuridico o norme per affrontare con competenza questo problema». Nessuno sa veramente quanti miliardi di dollari girino nel mercato delle private military companies , meno ancora in quello dei mercenari: nel 2016 l' organizzazione britannica War on Want aveva stimato il giro d' affari tra i 200 e i 400 miliardi di dollari. Tra il 2007 e il 2012, per dare un' idea, l' America ha speso circa 160 miliardi di dollari in private security contractors , che sono più "convenienti" dei soldati regolari. L' agenzia indipendente The Congressional Budget Office ha calcolato «che un battaglione di fanteria in guerra costa 110 milioni di dollari all' anno, mentre un' unità militare privata 99 milioni». 

Tutti i rischi della crisi Usa-Iraq. L'assalto all'ambasciata statunitense a Baghdad rischia di coinvolgere l'intero medioriente, primo tra tutti l'Iran. Stefano Graziosi il 2 gennaio 2020 su Panorama. E’ stata una crisi molto grave quella che gli Stati Uniti si sono trovati a fronteggiare in Iraq negli ultimi giorni. Martedì scorso, l’ambasciata americana a Baghdad è stata presa d’assalto da svariati manifestanti: una reazione ai raid statunitensi che, domenica, avevano colpito alcune strutture dell’organizzazione paramilitare sciita e filoiraniana Kataib Hezbollah, uccidendo venticinque persone. La mossa di Washington era stata a sua volta una ritorsione all’attacco che questa stessa organizzazione aveva condotto venerdì scorso contro basi statunitensi in Iraq: un attacco che aveva ucciso un contractor americano, ferendo inoltre alcuni soldati. Le proteste contro l’ambasciata (cui gli americani hanno reagito con il lancio di lacrimogeni) si sono disperse nelle ultime ore, mentre il Pentagono – dopo un primo arrivo di cento marines – ha già annunciato l’invio di ulteriori settecentocinquanta soldati sul territorio. Donald Trump ha tacciato l’Iran di aver “orchestrato” l’assedio: un’accusa che l’ayatollah, Ali Khamenei, ha rispedito seccamente al mittente. Se sul campo la situazione sembra al momento essersi fatta più tranquilla, la tensione sul fronte geopolitico resta particolarmente alta. E l’Iraq rischia sempre più di ritornare ad essere una polveriera mediorientale. Il contesto di quest’area risulta del resto non poco complicato. L’Iraq è infatti soggetto a pressanti influenze geopolitiche di natura contrapposta. In primo luogo, gli Stati Uniti detengono sul territorio circa cinquemila soldati, inviati in loco a partire dal 2014, quando l’amministrazione Obama iniziò la strategia di contrasto ai miliziani dell’Isis. Al di là della questione jihadista, il Pentagono considera tuttavia l’Iraq un territorio strategico: non solo per la sua vicinanza alla Siria ma anche – e soprattutto – per contenere l’influenza iraniana nello scacchiere mediorientale. E qui veniamo all’altro attore che può vantare una fortissima voce in capitolo sul territorio iracheno: la Repubblica Islamica. Teheran esercita un profondo ascendente sull’area, soprattutto grazie a numerose organizzazioni paramilitari sciite dislocate in loco. L’influenza iraniana ha inoltre luogo attraverso saldi legami di natura economica e grazie anche ad attività di pressione all’interno dello stesso parlamento iracheno. Schiacciata tra questi due rivali, Baghdad – soprattutto nei primi mesi del 2019 – ha cercato di adottare una sorta di strategia del pendolo. Da una parte, ha rinsaldato le proprie connessioni politiche ed economiche con la Repubblica Islamica, dall’altra – lo scorso aprile – ha avviato un disgelo diplomatico con l’Arabia Saudita (che di Washington costituisce un alleato di ferro). Non solo: perché il premier iracheno, Adil Abdul Mahdi, ha anche siglato con Riad una nutrita serie di accordi economici. Del resto, il pendolo iracheno aveva una duplice funzione: il bilanciamento tra Stati Uniti e Iran sul fronte geopolitico e l’approvvigionamento energetico. Questo equilibrismo ha iniziato a subire colpi sempre peggiori a partire dallo scorso ottobre, quando in Iraq hanno cominciato a verificarsi dure proteste: proteste, principalmente dettate dallo scontento per la corruzione della classe politica locale. Ma che, in realtà, hanno celato un profondo astio verso l’influenza di Teheran sul territorio. Pensiamo del resto che, a novembre, è stato assaltato il consolato iraniano nella città di Najaf e che le Guardie della Rivoluzione sono state coinvolte nella feroce repressione delle rimostranze: repressione che – in questi mesi – avrebbe portato a oltre quattrocento morti. Tutto questo ha condotto alle dimissioni di Mahdi alcune settimane fa e sta ulteriormente accentuando le divisioni interne alla politica irachena che, pur essendo articolata in numerose fazioni, risulta a livello generale divisa in due grandi blocchi: uno nazionalista e uno filoiraniano. E proprio i filoiraniani sono gli artefici dell’assalto all’ambasciata americana dell’altro ieri. Il grattacapo per Trump è evidente. Nonostante la sua postura aggressiva verso Teheran, il presidente americano non ha mai fatto mistero nei mesi scorsi di voler tentare un dialogo con l’Iran. D’altronde, ciò che teme maggiormente è proprio un escalation che possa condurre gli Stati Uniti ad una guerra con la Repubblica Islamica: un’eventualità che potrebbe costargli caro nel pieno della campagna elettorale per la rielezione. Non dimentichiamo d’altronde che, nel 2016, Trump abbia vinto anche grazie alla promessa di porre un freno alle “guerre senza fine” disseminate da Washington in Medio Oriente: avviare un conflitto con Teheran in questa fase non gli consentirebbe quindi di tener fede a quel fondamentale impegno elettorale. Anche per questo, in Florida, il presidente ha ieri cercato di scacciare l’ipotesi di una guerra. “Voglio avere la pace. Mi piace la pace. E l’Iran dovrebbe volere la pace più di chiunque altro”, ha non a caso dichiarato. Il nodo restano tuttavia le pressioni internazionali ed interne. L’Arabia Saudita chiede da mesi un maggiore coinvolgimento statunitense nell’area mediorientale in funzione anti-iraniana. E una linea simile è sposata anche dai falchi repubblicani al Senato americano, come Lindsey Graham, Marco Rubio e Tom Cotton: falchi che, nelle ultime ore, hanno usato parole molto severe nei confronti di Teheran. Il risultato si sta quindi rivelando una via di mezzo: se da una parte Trump cercherà prevedibilmente di evitare un conflitto e tenere aperta la possibilità di un accordo, dall’altra ha comunque dovuto aumentare considerevolmente la presenza militare americana in Medio Oriente. E questo nonostante i suoi tentativi di disimpegno, nel corso del 2019, da aree come la Siria e l’Afghanistan. Tra l’altro, nella crisi dell’ambasciata di Baghdad, Trump riscontrava anche un problema di ordine politico. Il rischio, per lui, era che l’evento venisse assimilato a due episodi incresciosi della storia americana: la crisi degli ostaggi in Iran del 1979 e l’attacco di Bengasi del 2012. Il primo rappresentò la fine politica dell’allora presidente Jimmy Carter, il secondo una controversia che ancora oggi perseguita Hillary Clinton (la quale, all’epoca dei fatti, era segretario di Stato). Trump aveva dunque bisogno di una risposta energica, anche per mettersi al riparo dagli strali del Partito Democratico. Alla luce di tutto questo, è chiaro che l’Iraq rischi di diventare una polveriera dal sapore yemenita. E il timore della sua classe dirigente è proprio quello che lo Stato possa restare attanagliato in un conflitto tra Washington e Teheran. L’Iran, dal canto suo, è attraversato da divisioni intestine sulla questione dei rapporti con Washington. Rispetto alla linea tendenzialmente più cauta del presidente Hassan Rohani, i pasdaran auspicano infatti da mesi la linea dura (come dimostrato anche dall’abbattimento di un drone americano lo scorso giugno) e soffiano sul fuoco della tensione. Non dimentichiamo d’altronde che – come detto – le Guardie della Rivoluzione abbiano svolto un ruolo significativo nella repressione delle proteste irachene dello scorso autunno, senza dimenticare i loro legami con le forze paramilitari sciite presenti in loco (a partire proprio da Kataib Hezbollah). La situazione è resa ancora più tesa poi dal fatto che, il prossimo febbraio, in Iran si terranno le elezioni parlamentari. D’altronde, la questione dei difficili rapporti tra Washington e Teheran va oltre il solo scacchiere mediorientale: pochi giorni fa, si sono infatti concluse le esercitazioni navali congiunte tra Iran, Russia e Cina nel Golfo di Oman. Pechino e Mosca, insomma, non hanno alcuna intenzione di restare a guardare.

Raid Usa a Bagdad, ucciso il generale iraniano Soleimani. Il Pentagono: "L'ordine partito da Trump". Missili contro le auto del gruppo sciita che ha assediato l’ambasciata. Otto morti, tra cui 5 membri del movimento iracheno e due emissari di Teheran. Washington conferma: "Proteggeremo sempre i nostri interessi". E ora si rischia la guerra. Gianluca Di Feo il 03 gennaio 2020 su La Repubblica. Un attacco notturno rischia di portare Stati Uniti e Iran sull'orlo della guerra. Un raid statunitense sull'aeroporto di Bagdad ha ucciso il generale Qassem Soleimani, responsabile delle operazioni coperte di Teheran e uomo chiave del regime degli ayatollah. L'ordine di colpire è stato impartito direttamente dal presidente Trump: mai il confronto tra i due Paesi era arrivato a un punto di tensione così alta. Intorno alla mezzanotte alcuni missili hanno distrutto un convoglio delle Pmu, le Forze di mobilitazione popolare irachene, che stavano accompagnando all’aeroporto una delegazione dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran. Due auto sono state incenerite, ammazzando cinque esponenti del movimento iracheno e due iraniani. Tra le vittime, il leader delle Pmu Abu Mahdi Al-Muhandis, l’uomo che il 30 dicembre ha spronato la folla ad assaltare l’ambasciata americana. E soprattuto il generale Soleimani, un personaggio fondamentale nella storia recente del Medio Oriente: la sua morte è stata confermata dal Pentagono e da Teheran. Soleimani era al comando delle brigate Qods, un'unità leggendaria che ha avuto un ruolo decisivo nei conflitti della regione. Ha animato la seconda fase dell'insurrezione anti-americana in Iraq, ha armato hezbollah libanese contro Israele, ha pilotato la repressione del regime di Damasco contro la rivolta. Poi ha indirettamente collaborato con i suoi storici nemici americani per riuscire a sconfiggere lo Stato islamico. Più volte chiamato in causa come mente di attentati contro bersagli israeliani e statunitensi, era sempre sfuggito ai tentativi di eliminarlo o catturarlo: l'ultimo poche settimane fa. Il raid letale è scattato meno di 24 ore dopo la fine dell'assedio all'ambasciata americana di Bagdad. All’inizio sembrava che fosse stata lanciata una salva di razzi Kathyusha, tipici delle milizie, contro una caserma irachena nei dintorni dell’aeroporto. Le prime notizie parlavano di undici soldati feriti. Pareva quindi un episodio secondario. Poi però lo scenario è cambiato radicalmente, assumendo la dinamica di un attacco condotto da droni o bombardieri. I rapporti iniziali indicavano un'unica vittima eccellente: Muhammed Reda, numero tre della formazione irachena. Più tardi sono state fonti dello stesso movimento a parlare di un’azione mirata, che ha ucciso cinque dei suoi uomini e due “ospiti importanti”, tutti a bordo delle vetture distrutte mentre si trovavano già all’interno dello scalo internazionale. La tv di stato irachena ha infine fatto i nomi di Soleimani e Al-Muhandis, i veri bersagli dell'operazione killer. Alcune ricostruzioni sostengono che ad aprire il fuoco sia stato un elicottero americano. E collegano l’attacco alle parole del capo del Pentagono, Mark Esper, che mercoledì aveva minacciato “azioni preventive” qualora gli Usa avessero rilevato “altri comportamenti offensivi da parte di questi gruppi, che sono tutti sostenuti, diretti e finanziati dall’Iran”. In pratica, l’Iraq si sta trasformando nel fronte più incandescente del confronto tra Washington e Teheran. La comunità sciita irachena è da sempre legata al paese vicino, la cui influenza è continuata a crescere dopo la fine del regime di Saddam Hussein. Le milizie filo-iraniane negli ultimi mesi hanno assunto un atteggiamento sempre più aggressivo contro la presenza americana, protestando contro le basi create per combattere contro l’Isis. Una settimana fa una raffica di razzi è piovuta contro un’installazione alle porte di Kirkuk, ammazzando un contractor statunitense. La rappresaglia non si è fatta attendere. Droni hanno bombardato una struttura di Kataeb Hezbollah, la branca militare delle Forze di Mobilitazione Popolare, uccidendo venticinque uomini. Come risposta, il 30 dicembre Al-Muhandis ha lanciato un appello e radunato la folla contro l’ambasciata americana della capitale. Le recinzioni esterne sono state divelte e per due giorni la sede diplomatica è stata stretta d’assedio, riportando sugli schermi degli States l’incubo di una replica di quanto accadde a Teheran nel 1979. Solo le imponenti difese del complesso, la più grande ambasciata statunitense del mondo, hanno impedito che accadesse il peggio. Mercoledì primo gennaio, i leader delle Pmu hanno ordinato di interrompere la protesta. E per poche ore è tornata la calma. Iran e Stati Uniti si sono scambiati accuse di fuoco. Mentre il Pentagono ha deciso di rinforzare lo schieramento in Medio Oriente: è stata disposta la partenza di 750 paracadutisti verso la capitale irachena e di 3000 marines verso il Kuwait. Giovedì per tutto il giorno è stato segnalato un intenso traffico di velivoli militari americani diretti verso la regione, con decine di grandi cargo C-17 che hanno attraversato il Mediterraneo, atterrando nelle basi in Turchia e Arabia Saudita. Un ponte aereo senza precedenti in tempo di pace, tale da far pensare alla premessa per un conflitto. E il raid contro l'aeroporto di Bagdad rischia di scatenarlo realmente, perché è facile prevedere una risposta durissima di Teheran.  La morte di Soleimani è una perdita troppo grave, che mina la credibilità degli ayatollah in un momento di pesanti proteste interne. Inevitabile che la reazione sia altrettanto forte: "Il martire sarà vendicato con tutta la forza", ha promesso il fondatore dei Guardiani della Rivoluzione Mohsen Rezai. 

La morte di Soleimani in diretta. Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 5 gennaio 2020. Un video dello strike che ha ucciso il generale iraniano Soleimani ad opera degli Stati Uniti venerdì scorso, nei pressi dell’aeroporto internazionale di Bagdad, circola nei social media arabi insieme a materiale fotografico del luogo dell’attentato nell’immediatezza dell’attacco, dei corpi fatti a pezzi, quasi annichiliti, e alle foto di vari fogli e documenti che sono già stati sottoposti ad analisi di intelligence. Si tratta di una documentazione eccezionale di un avvenimento destinato a cambiare i destini del Medio Oriente e a influire anche sulla politica estera e di sicurezza italiana, che Huffpost pubblica in esclusiva per il suo valore testimoniale.

Lo strike. Il filmato che - allargato fa emergere i simboli grafici della condivisione su social  - documenterebbe il momento il cui drone aggancia l’obiettivo, il pulmino dove viaggiava il bersaglio: il quadrante del mirino è lievemente spostato a sinistra rispetto al mezzo, ma proprio per questo riesce a centrarlo. Una voce dall’accento americano fa da guida. Le sovraimpressioni del video sono tutte in arabo. Ci si deve chiedere come mai. La circostanza alimenta uno delle opzioni che viene presa in considerazione in questi giorni in Medio Oriente, ovvero la collaborazione di Servizi arabi nell’operazione. Cosa che potrebbe essere probabile. Un elemento importante anche per la valutazione della legittimità dell’intera operazione ha in fatti a che fare con una delibera dell’Onu del 2007, secondo cui Soleimani non doveva mettere piede in Iraq.

Esterno notte. Un altro video (che Huffpost ha deciso di non pubblicare le immagini e alcune foto per la particolare crudezza), mostra le riprese nell’immediatezza dello strike. A Baghdad è notte, il buio circonda i resti del generale Soleimani e delle altre persone morte nell’operazione, tutto è ancora sull’asfalto.

I corpi. I corpi di Soleimani e di chi viaggiava con lui sono annichiliti, anneriti, il volto stravolto, massacrato e gonfio. I corpi sono fatti a brandelli, dilaniati. Si vede il tronco di un uomo, poi a distanza un piede e una gamba sono sull’asfalto.

L’anello. Una mano troncata indossa un anello che si è sostenuto fosse quello abitualmente indossato da Soleimani. In realtà l’identificazione non è avvenuta ad opera di quell’anello, molto diverso sia per fattura sia per lo spessore della pietra rispetto ad altre immagini di Soleimani vivo. Naturalmente nulla vieta che Soleimani ne avesse più di uno simile. Lasciando da parte questo dettaglio, per certo l’identificazione è avvenuta attraverso l’esame del Dna, come già avvenne per Osama Bin Laden e Abu Bakr al Baghdadi.

I documenti. Altre foto mostrano i documenti che sono “sopravvissuti” all’impatto: banconote iraniane, fogli, armi. Tutto materiale già sottoposto ad analisi di intelligence.

Generale Qasem Soleimani, il ritratto dell'uomo forte dell'Iran. Stratega politico e militare, uomo forte nel mondo dell'Iran, ecco chi era il generale Soleimani ucciso da un raid Usa a Baghdad. Panorama il 3 gennaio 2020. Qasem Soleimani non era semplicemente un generale, era in assoluto uno degli uomini più potenti e temuti non solo in Iran ma in tutto il Medio Oriente, nel Golfo Persico, in Asia. Di sicuro stiamo parlando di una figura centrale nel governo di Teheran di cui Soleimani di fatto gestiva la parte principale della politica estera, militare ma anche diverse questioni interne. Qasem Soleimani di fatto è stato il principale nemico della politica estera Usa in quella parte del mondo; la sua missione principale infatti è sempre stata quella di bloccare le mire espansionistiche e di controllo di Stati Uniti-Israele ed Arabia Saudita negli ultimi 20-30 anni. Ma non solo. Soleimani infatti è stato l'uomo che ha gestito, anzi, combattuto e sconfitto le avanzate dell'Isis e delle altre forze terroristiche a matrice islamica in Iran e Siria. E' stato lui in prima persona con la sua unità speciale "Al Quds" (o "Brigata Gerusalemme") a evitare la caduta nelle mani del Califfato di Teheran e di Damasco. In Iran per tutto questo era diventato un po' un eroe nazionale una sorta di figura di "tutela" per tutto il paese. Ed è proprio come abilissimo generale, come stratega militare, che Soleimani vede crescere la sua forza popolarità e peso politico in Iran. Dopo diversi successi sul campo di battaglia che lui stesso definisce come il "Paradiso", Soleimani riorganizza  la élite del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, composta da 5000 uomini fidatissimi e sceltissimi in qualcosa di più di una formazione militare e bellica, facendola diventare una potenza anche di intelligence e politica per arrivare alla nascita di quello che in Iran tutto chiamano "l'asse della resistenza" all'egemonia di Usa, Israele ed Arabia Saudita in quell'area del mondo. I successi sui campi di battaglia e la sua devozione totale alla Rivoluzione lo porta a crescere in maniera esponenziale il suo peso politico. Di fatto diventa il gestore dell'intero servizio di intelligence del paese e responsabile della politica estera. Senza il suo assenso nulla viene deciso neanche dal Presidente iraniano Hassan Rouhani. Soleimani era temuto e ricercato dalle principali intelligence di tutto il mondo. In questi giorni, durante l'assedio dell'ambasciata Usa a Baghdad la Cia era certa della presenza del generale nell'area e certa anche della sua responsabilità nell'accaduto.

Chi è Qassem Soleimani. Redazione de Il Riformista il 3 Gennaio 2020. “Per gli sciiti in Medio Oriente, Qassem Soleimani, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga“, ha scritto l’ex analista della CIA Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time che lo ha inserito nell’elenco delle 100 le persone più influenti al mondo nel 2017. E quest’anno The Times l’aveva inserito tra i 20 personaggi potenzialmente protagonisti del 2020. Dall’Afghanistan al Libano, dalla Siria all’Iraq, negli ultimi vent’anni non c’è stata operazione politica o militare nell’area che non abbia portato la sua firma. Qassem Soleimani, 62 anni, comandava dal 1998 le forze Quds, cioè le unità speciali delle guardie rivoluzionarie iraniane. Era praticamente l’uomo più potente del Medio Oriente: responsabile di tutte le operazioni all’estero di Teheran e punto di riferimento strategico degli ayatollah. L’uomo che ha ridisegnato gli scenari geopolitici del Medio Oriente in favore dell’Iran. Nei primi anni del suo operato militare, fino all’ 11 settembre del 2001, il generale era ritenuto assai affidabile dall’Amministrazione americana, tanto da essere ritenuto il punto di riferimento Usa nella lotta ai Talebani afgani. Ma la caduta delle Torri gemelle e l’inserimento dell’Iran, da parte di George W. Bush, nella lista nera degli Stati Uniti aveva cambiato radicalmente le prospettive di fiducia tra i due paesi e da quel giorno il generale aveva iniziato la sua dura lotta contro gli Usa. Una battaglia che si è inasprita con Donald Trump. Era molto amato dagli iraniani: Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da IranPoll e dall’Università del Maryland, l’83% degli iraniani intervistati aveva un’opinione favorevole di Soleimani, superiore persino a quella del presidente Rohani e a quella del capo della diplomazia Zarif. Il comandante dei Pasdaran ha stretto nel tempo anche un legame fortissimo con Hezbollah, il gruppo armato sciita libanese al quale ha fornito supporto, armi e soldi. Assieme a Hezbollah, Soleimani ha sostenuto Assad al potere in Siria mantenendo un fortissimo controllo a Damasco, anche grazie alle amicizie russe del generale iraniano. Con il comando di Soleimani le truppe iraniane e irachene hanno fermato l’avanzata dell’Isis e grazie proprio a queste ultime operazioni il carisma del generale, soprattutto in patria, era cresciuto a dismisura. Tanto da diventare una sorta di star con milioni di follower sul suo account Instagram. In Iran era considerato un eroe tanto da aver paventato l’ipotesi di una sua futura candidatura alle presidenziali del 2021. È morto a Baghdad a pochi passi dell’aeroporto il 3 gennaio 2020 in un raid americano ordinato da Trump.

Soleimani, uomo chiave dell’influenza iraniana  in Medio Oriente. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. Non è una frase fatta e neppure un’esagerazione bombastica: l’assassinio del generale Qassem Soleimani cambia le regole del gioco in Medio Oriente e nei fatti accelera la già strisciante guerra a basso profilo tra Stati Uniti e Iran. Teheran risponderà inevitabilmente con durezza. L’escalation militare è inevitabile e ciò coinvolgerà anche le truppe italiane in missione sotto comando Usa in Iraq. Lo stesso scenario libico ne sarà affetto. Israele è già in allarme, l’Hezbollah libanese affila i coltelli, sono state tra l’altro chiuse le piste da sci sull’Hermon. E ciò per il fatto che il 62enne Soleimani non era semplicemente un pezzo da novanta dell’apparato militare iraniano, bensì a tutti gli effetti il vero artefice della politica del suo Paese riguardo ai dossier più importanti: dall’Iraq, alla Siria, al Libano, al confronto con Israele, sino allo scontro con gli Stati Uniti. Tanto da essere il candidato più gettonato alle massime cariche dello Stato iraniano nel prossimo futuro. Nato nel 1957 vicino alla storica città di Rabor, la sua infanzia la trascorse tra le montagne in una famiglia contadina. A 13 anni è operaio, quindi impiegato nella compagnia Kerman per la gestione del sistema idrico. Taciturno, riservato, il giovane rappresenta l’ideal-tipo delle falangi di volontari che nel 1979 proprio dalle campagne e le province più remote iraniane si uniscono ai ranghi delle Guardie Rivoluzionarie che garantiscono al movimento dell’Ayatollah Khomeini di rovesciare lo Shah Reza Pahlavi, battere nel sangue l’opposizione laica e comunista e infine prendere il potere. Subito dopo si guadagna meriti e rispetto tra i militari per il suo diretto coinvolgimento nella lunga guerra con l’Iraq. Si distinse però anche per la sua opposizione a quelle che allora venivano definite le «morti senza significato»: le terribilmente celebri ondate di giovani combattenti mandati a correre sui campi minati verso le trincee nemiche per spianare la strada alle truppe corazzate. L’Iran perse oltre un milione di soldati. Si dice che allora egli cadde in disgrazia presso il presidente Hashemi Rafsanjani dal 1989 al 1987. Ma subito dopo venne nominato comandante delle forze Al Quds: il fiore all’occhiello delle truppe d’élite iraniane. Fu il suo trampolino di lancio verso i massimi vertici dell’apparato militare del suo Paese. Da allora la sua stella non ha mai cessato di brillare. E’ stato lui a coltivare i rapporti con l’Hezbollah, il «Partito di Dio», che rappresenta il braccio armato degli sciiti libanesi. Dopo l’invasione americana in Iraq nel 2003 fu ancora lui a costruire le brigate sciite che poi tra il 2014 e 2017 paradossalmente hanno combattuto spalla a spalla con le truppe americane contro Isis, specie nella zona di Mosul. Ma i suoi rapporti con l’amministrazione americana sono sempre stati difficili. Tanto che al Pentagono l’hanno sempre visto come un pericoloso avversario, mai come un alleato. Furono gli Usa a premere sull’Onu perché già nel 2007 venisse messo sulla lista delle persone da sanzionare. In seguito Soleimani divenne l’uomo chiave del sostegno iraniano al regime di Bashar Assad contro le rivolte scoppiate nel 2011. Più volte venne dato per morto. Nel 2006 sopravvisse fortunosamente ad un incidente aereo dove persero la vita parecchi suoi collaboratori. Nel 2012 ancora se la cavò uscendo indenne dagli attentati contro i vertici militari siriani e tre anni dopo ancora sfiorò la morte nella battaglia di Aleppo. Questa volta però il suo decesso è confermato da Teheran. Il drone americano che ha sparato evidentemente era stato ben programmato. L’intelligence americana ha seguito con attenzione le mosse del generale iraniano sino all’ultimo. L’assassinio è stato programmato con meticolosa precisione. Le conseguenze però sono ancora tutte da valutare.

Soleimani, l'uomo più potente del Medio Oriente che voleva "punire" l'America. Il generale iraniano regista della riorganizzazione sciita. Dall’Afghanistan al Libano, dalla Siria all'Iraq: negli ultimi vent'anni non c'è stata operazione politica o militare nell'area che non abbia portato la sua firma. Lucio Luca il 3 gennaio 2020 su La Repubblica. Qassem Soleimani, 62 anni, comandava dal 1998 le forze Quds, cioè le unità speciali delle guardie rivoluzionarie iraniane. Una figura leggendaria: responsabile di tutte le operazioni all’estero di Teheran e punto di riferimento strategico degli ayatollah. L’uomo che ha ridisegnato gli scenari geopolitici del Medio Oriente in favore dell’Iran. Tanto che l’ex agente Cia John Maguire lo aveva definito "la persona operativa più potente in Medio Oriente". Negli ultimi vent'anni Soleimani ha praticamente firmato tutte le più importanti “vittorie” militari dell’Iran. E dire che fino al tragico 11 settembre del 2001, il generale era ritenuto assai affidabile dall’Amministrazione americana, tanto da accreditarsi come il punto di riferimento Usa nella lotta ai Talebani afgani. Ma la caduta delle Torri gemelle e l’inserimento dell’Iran, da parte di George W. Bush, nel cosiddetto “asse del male” aveva cambiato radicalmente le carte in tavola e da quel giorno il pensiero fisso del generale iraniano era stato quello di infliggere colpi mortali al nemico di Washington. Ancora di più da quando il comandante in capo è diventato Donald Trump.  Il comandante dei Pasdaran ha stretto nel tempo anche un legame fortissimo con Hezbollah, il gruppo armato sciita libanese al quale ha fornito supporto, armi e soldi. Assieme a Hezbollah, Soleimani ha sostenuto Assad al potere in Siria mantenendo un fortissimo controllo a Damasco, anche grazie alle amicizie russe che al generale iraniano non sono mai mancate. Con il comando di Soleimani le truppe iraniane e irachene hanno fermato l’avanzata dell’Isis e grazie proprio a queste ultime operazioni il carisma del generale, soprattutto in patria, era cresciuto a dismisura. Tanto da consacrarsi come una vera e propria star con milioni di follower sul suo account Instagram. Per i suoi sostenitori come per i suoi detrattori, Soleimani è stato dunque l'uomo chiave dell'influenza iraniana in Medio Oriente, dove ha rafforzato il peso diplomatico di Teheran, in particolare in Iraq e Siria, due Paesi nei quali gli Stati Uniti sono impegnati militarmente. "Per gli sciiti in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga", ha scritto l'ex analista della CIA Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time dedicata alle 100 le persone più influenti al mondo nel 2017. E quest'anno The Times l'aveva inserito tra i 20 personaggi potenzialmente protagonisti del 2020. Per l'Occidente, era responsabile di aver esportato la Rivoluzione islamica dall'Iran e di aver sostenuto i terroristi. Nell’Iran in piena crisi economica era invece considerato un eroe e tanti gli avevano suggerito di lanciarsi sulla scena politica. Ma il generale iraniano, fino a qualche settimana fa, aveva continuato a respingere le voci secondo cui avrebbe potuto candidarsi alle elezioni presidenziali del 2021. Un alto funzionario iracheno, qualche tempo fa, lo aveva descritto come un uomo calmo e loquace. "È seduto dall'altra parte della stanza, da solo, con molta calma. Non parla, non commenta: ascolta soltanto", aveva detto all'inviato del New Yorker. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da IranPoll e dall'Università del Maryland, l'83% degli iraniani intervistati aveva un'opinione favorevole di Soleimani, superiore persino a quella del presidente Rohani e a quella del capo della diplomazia Zarif. La sua corsa è finita nella notte a due passi dall’aeroporto di Bagdad.

Chi era Soleimani, issata la bandiera rossa in Iran: “Segno che precede la battaglia”. Lavinia Nocelli il 04/01/2020 su Notizie.it. Iran, sale la tensione dopo la morte di Qassem Soleimani. Issata a Qom la bandiera dell’Imam Hussein, nipote del Profeta. Le parole di un’antropologa esperta di Iran: “Segno che precede la battaglia”.

Issata la bandiera in Iran. Continuano a salire tensione e rabbia in Iran dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani. E’ stata infatti innalzata nella Santa moschea di Jamkaran, a sei chilometri dalla città santa di Qom, la bandiera rossa dell’Imam Hussein, nipote del Profeta. Un gesto non casuale e con un profondo significato, così come ha voluto spiegare l’antropologa esperta di Iran Tiziana Ciavardini: “Avviene ogni volta l’Iran vuole comunicare che ci si trova davanti ad un imminente battaglia”. La foto, diffusa su Facebook, è stata ricondivisa dalla stessa, che ha così commentato: “La bandiera rossa di Hussein, innalzata sopra la moschea, simboleggia la forza della battaglia come quella di Kerbala ed il colore del sangue che presto verrá versato come sacrificio”.

Una vendetta per la morte del Generale Qassem Soleimani, “ormai diventato Shahid Soleimani, martire Soleimani”. L’imam Hussein, nipote di Maometto, è difatti il più venerato nell’Islam Sciita: secondo la tradizione, quest’ultimo fu ucciso e decapitato nel Settimo secolo nella battaglia di Kerbala insieme a decide di seguaci, un fatto che contribuì a creare la scissione dai sunniti, il ramo maggioritario dell’islam.

Le manifestazioni in Iran e Iraq. Dopo la morte di Soleimani, migliaia di persone sono scese in piazza in Iran e Iraq al grido di “morte all’America”. Un gesto che ha scatenato numerose folle inferocite, e dove si sono viste bruciare molte bandiere americane. Il gesto ha spinto il Dipartimento di stato Usa a evacuare i cittadini americani a Baghdad, per paura del peggio, mentre le forze Nato hanno dato lo stop all’addestramento dei militari in Iraq e l’Italia ha sospeso la missione di addestramento delle truppe irachene “in linea con la coalizione”. Da fonti del ministero della Difesa, si tratta di una misura di sicurezza: la missione “una volta stabilizzata la situazione, verrà ripresa quanto prima”.

Che Guevara iraniano. Umberto De Giovannangeli il 4 Gennaio 2020 su Il Riformista. Per i Guardiani della Rivoluzione era diventato una leggenda vivente. Per le milizie sciite mediorientali era l’uomo che le legava, militarmente e finanziariamente, alla casa madre iraniana. Qassem Soleimani non era l’efficiente “strumento” di tutte le operazioni della Repubblica islamica d’Iran all’estero. Era molto di più. Ne era la mente, oltre che l’uomo di fiducia, assoluta, di colui che detiene realmente il potere a Teheran: la Guida Suprema della rivoluzione islamica, l’ayatollah Ali Khamenei. Il “comandante ombra” era uno dei personaggi più popolari in Iran, aveva milioni di follower sui social e The Times, proprio negli scorsi giorni, lo aveva inserito nella classifica dei 20 personaggi protagonisti del 2020.

«Per gli sciiti in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga», come ha scritto l’ex analista della Cia Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time dedicata alle 100 le persone più influenti al mondo nel 2017. Fino all’11 settembre del 2001, il generale è il punto di riferimento degli Usa nella lotta ai talebani afghani. Ma dopo la caduta delle Torri gemelle e l’inserimento dell’Iran, da parte di Bush, nel cosiddetto asse del male gli Usa per lui diventano un nemico. Il Pentagono lo considera così un avversario pericoloso. Da eliminare. Un alto funzionario iracheno, qualche tempo fa, lo aveva descritto come un uomo calmo e loquace. «È seduto dall’altra parte della stanza, da solo, con molta calma. Non parla, non commenta: ascolta soltanto», aveva detto all’inviato del New Yorker. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da IranPoll e dall’Università del Maryland, l’83% degli iraniani intervistati aveva un’opinione favorevole di Soleimani, superiore persino a quella del presidente Rohani e a quella del capo della diplomazia Zarif.  «Soleimani – annota Pierre Hasky, direttore di France Inter – era una figura mitica della rivoluzione islamica, una sorta di Che Guevara iraniano, protagonista della vittoria dell’ayatollah Khomeini nel 1979 e diventato l’incarnazione del fervore e del messianismo della rivoluzione, anche oltre le frontiere iraniane.  Lo abbiamo visto ovunque: in Siria, in Libano, in Yemen e naturalmente in Iraq. Lo abbiamo visto vittorioso tra le rovine di Aleppo, che Bashar al-Assad non avrebbe mai potuto riconquistare senza l’aiuto dei Guardiani della rivoluzione. Lo abbiamo visto a Mosca mentre parlava di strategia con Vladimir Putin. Ma soprattutto Soleimani ha manovrato per anni per aumentare l’influenza iraniana in Iraq, attraverso le stesse milizie sciite che in settimana hanno preso d’assalto l’ambasciata degli Stati Uniti». I servizi di intelligence occidentali, e con essi quelli arabi e il Mossad israeliano, concordano su un punto cruciale: l’eliminazione di Soleimani da parte americana è il colpo più duro sferrato alla nomenclatura teocratica-militare che regna a Teheran. Perché il sessantaduenne comandante della Forza Quds (lo era dal 1998) reparto di élite dei Guardiani della rivoluzione islamica (i Pasdaran) era lo stratega della penetrazione della mezzaluna rossa sciita in Medio Oriente, sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. Non solo: Soleimani era anche al centro della “Pasdaran holding”. Un impero economico, oltre che una potenza militare. Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il 40% dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rouhani. Se si somma il potere diretto di Kamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Un sistema che ha sempre più condizionato le politiche della Repubblica islamica dell’Iran. Per sostenere direttamente il regime di Assad, l’Iran, come Stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all’aeroporto di Damasco, destinanti principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli hezbollah, a fianco dell’esercito lealista. Non basta. Almeno 50mila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di 300 dollari. Lo Stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio. E al centro di questo impero c’era Qassem Soleimani. Un impero che ruota attorno alla Forza Quds un network esteso in tutto il Medio Oriente, con forze in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Per esse, Soleimani è diventato il “Martire” da vendicare. Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”, riattivando così la sua milizia ufficialmente dissolta da quasi un decennio e che aveva seminato il terrore tra le fila dei soldati americani in Iraq. E vendetta promettono Hamas e la Jihad islamica palestinese, come Hezbollah libanese. Da comandante-ombra a shahid per cui immolarsi: Qassem Soleimani fa paura anche da morto.

Ecco il testamento di Qassem Soleimani. Mauro Indelicato su Inside Over l'8 gennaio 2020. Forse si sentiva coperto da immunità, come ha scritto Guido Olimpio nei giorni scorsi, oppure semplicemente si sentiva al sicuro specialmente in Iraq, territorio che conosceva molto bene. In un articolo scritto lo scorso 4 gennaio, Matteo Carnieletto ha sottolineato come il generale Qassem Soleimani è atterrato a Baghdad con un volo di linea. L’uomo artefice della linea politica e militare di Teheran nel medio oriente, ha viaggiato da Damasco con aereo civile insieme ad altri civili. Lui, ucciso poi in un raid americano all’uscita dello scalo della capitale irachena, credeva forse di essere sì nel mirino ma non di avere la pistola già puntata sulla sua testa. Ma, in fondo, il suo ruolo ed il suo mestiere lo hanno sempre fatto vivere in ogni caso contemplando la possibilità di poter rimanere vittima. Di un attentato, così come di una congiura interna oppure, come poi è stato, di un raid nemico.

Il testamento. Ed allora, ecco che ai suoi familiari Qassem Soleimani ha lasciato un testamento in cui sono state disposte le sue ultime volontà. Un documento, quello pervenuto in nostro possesso, in cui il generale iraniano ha specificato dove voler essere sepolto e cosa scrivere nella lapide commemorativa: “Mia cara moglie – si legge nelle pagine del testamento – ho già scelto la mia tomba e voglio che sia nel Cimitero dei Martiri di Kerman. Mahmood lo sa. Fai sì che la mia tomba sia semplice come quella dei miei compagni di martirio”.

Kerman è la città natale di Soleimani, la stessa dove proprio in queste ore la ressa per assistere all’ultima solennità in suo onore prima della sepoltura ha provocato la morte di almeno 50 persone. Una folla di enormi proporzioni, capace di riempire anche le colline sovrastanti il cimitero in cui poi nelle prossime ore il generale troverà l’ultima dimora. Immagini che sembrano aver compattato nuovamente l’Iran, dopo le proteste per l’aumento del prezzo della benzina delle ultime settimane del 2019 ed il generale malcontento interno alla società per un’economia sempre più falcidiata. La folla di Kerman è stata la stessa vista a Teheran e nelle altre città iraniane dove la bara di Soleimani è stata mostrata ai cittadini per l’ultima volta. Una marea di gente vista anche in Iraq, sia nel corteo solenne effettuato il giorno dopo il raid a Baghdad, sia nella città santa degli sciiti di Kerbala.

“Sulla tomba scrivete soltanto il mio nome”. Dunque la scelta di essere sepolto nella sua città natale è stata dello stesso generale. Molti familiari e diverse persone a lui vicine, hanno parlato nei giorni scorsi proprio del fatto secondo cui Soleimani, nonostante una vita trascorsa in giro per l’Iran e per il medio oriente, fosse comunque rimasto molto legato a Kerman ed alla regione circostante. Nel testamento, oltre l’indicazione del luogo di sepoltura, era contenuta anche la frase da incidere sulla tomba. Anzi, per la verità Soleimani non ha voluto alcuna parola da scrivere sulla lapide: “Scrivete soltanto Generale Qassem Soleimani”. E così probabilmente sarà non appena le autorità iraniane daranno il via libera definitivo alla sepoltura, la cui cerimonia è stata posticipata per via dei problemi di ordine pubblico causati dalla ressa prima ricordata. L’impressione, vedendo le immagini questi giorni ed osservando quanto accaduto a Kerman, è che questo remoto luogo delle regioni sud orientali dell’Iran sia destinato a diventare, già dai prossimi giorni, un vero e proprio luogo di pellegrinaggio.

L’Iran è pronto a reagire: Medio Oriente in stato d’allerta. Lorenzo Vita su Inside Over il 3 gennaio 2020. Donald Trump pubblica una foto con una bandiera americana su Twitter, l’Iran risponde che è un atto di codardia e terrorismo e che sono pronte reazioni. Attendendo cosa comporterà l’ultimo raid americano in termini di escalation in tutto il Medio Oriente, l’uccisione del generale Qassem Soleimani, capo delle forze Quds dei Pasdaran, in un raid a Baghdad rischia di far esplodere il già fragile equilibrio mediorientale.

Il raid americano. Il raid è avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 nel centro di Baghdad. Come affermato dal Pentagono, l’ordine è arrivato dallo stesso presidente degli Stati Uniti che avrebbe dato il semaforo verde all’attacco come risposta all’assalto all’ambasciata americana nella capitale irachena. Nel raid – c’è chi dice sia avvenuto con elicotteri d’assalto, chi solo con l’uso di droni – è stato ucciso, oltre a Soleimani, il vice comandante delle milizie Pmu irachene, Abu Mahdi al-Muhandis. Due figure chiave della strategia mediorientale dell’Iran: soprattutto in Iraq. Le proteste che in queste settimane hanno scandito le fronte dell’Iraq, culminate con l’assalto all’ambasciata americana nella Green Zone di Baghdad, erano il segnale di un’escalation di tensione in tutta l’area che avrebbe portato a un’esplosione di violenza tra Iran e Stati Uniti. Mark Esper, segretario alla Difesa Usa, aveva annunciato il dispiegamento di centinaia di uomini per proteggere i funzionari americani in Medio Oriente, e lo stesso capo del Pentagono aveva parlato di altre “misure preventive” per colpire gli iraniani qualora l’intelligence avesse avuto sentore di nuove azioni contro le strategie americane. L’azione è avvenuta: ma non è solo un attacco preventivo. Quello di questa notte è un gesto che supera la misura preventiva, è un nuovo livello superato nello scontro tra Iran e Stati Uniti. E ora da Teheran giurano vendetta.

Il Medio Oriente attende il suo destino. La vendetta per la morte del generale Soleimani pone in allerta tutto il Medio Oriente. Le forze in campo sono quasi tutte in stato d’allarme, perché è del tutto evidente che le ramificazioni delle forze iraniane, in particolare dei Pasdaran e della forza Quds, possano colpire ovunque sia le forze alleati degli Stati Uniti che le forze americane stesse. Ritorsioni per quanto avvenuto questa notte a Baghdad possono arrivare in Siria, in Libano, in Israele così come infiammare di nuovo il Golfo Persico dove Hormuz è da tempo sotto stressa osservazione di tutte le potenze mondiali. Le esercitazioni congiunte tra Iran, Russia e Cina a largo del Golfo dell’Oman, la partenza dell’Operazione Sentinella a guida americana così come il dispiegamento di migliaia di americana in tutti i regni alleati di Washington nella Penisola Araba rende impossibile pensare che questa uccisione possa avere solo ripercussioni localizzate in Iraq. Ma le scintille di questo attacco possono lambire anche l’Afghanistan, dove l’influenza iraniana esiste, così come infiammare nuovamente lo Yemen o la guerra in Siria.

Israele in stato d’allerta. Il primo a muoversi dopo l’uccisione del generale è stato Israele. Paese che da tempo aveva messo il generale dei Pasdaran in cima alla lista dei suoi più pericolosi avversari e che per molto tempo aveva tenuto nel mirino dei servizi segreti esterni insieme all’alleato americano. Come riportano i media dello Stato ebraico, il ministro della Difesa Naftali Bennett ha deciso di riunire tutti i vertici delle forze armate israeliane insieme al capo di Stato maggiore Aviv Kochavi. La radio dell’esercito israeliano, subito dopo l’attacco a Baghdad, ha dichiarato che i militari erano tutti in stato d’allerta, e la Difesa ha aumentato il livello di allerta anche per i militari impiegati oltre confine. E il Monte Hermon è stato chiuso immediatamente ai visitatori. Nei quartier generali di Gerusalemme e di Tel Aviv si temono ritorsioni sia sul fronte di Gaza (Soleimani aveva intrecciato legami forti sia con Hamas che con la Jihad islamica) sia sul fronte settentrionale, con Hezbollah che è pronto a colpire il nemico come segnale di risposta alla morte di colui che aveva in mano il destino dell’Iran in Medio Oriente.

Il Golfo Persico rischia di esplodere. Ma l’allerta non riguarda solo Israele. Nel Golfo Persico tutte le unità americane sanno di poter entrare in azione da un momento all’altro. La Guida Suprema Ali Khamenei, che aveva pi volte minacciato la chiusura di Hormuz già l’anno scorso con il ripristino delle sanzioni da parte di Trump, ora potrebbe chiamare a raccolta i Guardiani della Rivoluzione e procedere con un nuovo incendio nel mare che collega i giacimenti arabi, iraniani e iracheni dall’Oceano Indiano e dai ricchi mercati europei e asiatici. I droni di Teheran sono pronti a colpire così come i missili a medio e lungo raggio. In molti temono un attacco di ritorsione contro i pozzi sauditi come avvenuto con il devastante incendio che colpì i giacimenti di Saudi Aramco dopo un bombardamento nello Yemen. In Bahrein, la Quinta Flotta americana è pienamente operativa. Nel frattempo si sono unite le forze legate all’Operazione Sentinella per la libertà di navigazione a Hormuz e Bab el Mandeb, in particolare quelle europee, che hanno nella base francese di Camp de la paix, negli Emirati, il loro centro di controllo. In molti pensano che i Pasdaran possano colpire lì: Guido Olimpio per il Corriere.it parla di possibili uccisioni mirate proprio per replicare all’azione di Baghdad. In ogni caso, Hormuz tornerà al centro dell’attenzione mondiale proprio a pochi giorni dall’arrivo di unità della flotta russa e cinese per manovre congiunte con la marina di Teheran nel Golfo dell’Oman. Uno scenario di guerra che terrorizza anche sul fronte petrolifero, dove già si notano i primi forti rialzi del prezzo dell’oro nero in seguito all’uccisione di Soleimani all’aeroporto di Baghdad.

Forze Quds pronte all’azione. Intanto le milizie mediorientali legate ai Pasdaran – unite dal collante della Forza Quds (responsabile delle azioni dei guardiani della Rivoluzione all’estero) – sono pronte a colpire. Se il primo raid americano è avvenuto in seguito a un bombardamento contro una base Usa da parte di Kata’ib Hezbollah, è segno che tutte le forze alleate dell’Iran e tutti i proxy di Teheran possono riprendere la guerra. Con la Siria sotto l’ombrello russo (e forse anche cinese dopo l’invio di radar di Pechino), il colpo potrebbe partire come detto da Hezbollah, ma anche dalle milizie Houthi oltre che incendiare le basi Usa dispiegate intorno al perimetro delle frontiere iraniane. Servizi segreti iraniani e dei Pasdaran hanno i loro uomini ovunque, fino all’America Latina. E ora gli Stati Uniti sanno che con il raid di Baghdad tutto è tornato in dubbio.

Quel dossier degli Stati Uniti sulle capacità militari dell’Iran. Marco Pizzorno su Inside Over il 3 gennaio 2020. Il campo K1 a Kirkuk, che ospita le forze della coalizione, nei giorni scorsi è stato colpito da alcuni missili, secondo quanto riferito dall’esercito iracheno mediante i social. L’attacco è avvenuto intorno alle 19.20 dello scorso venerdì e ha ucciso un contractor operativo sul territorio e ha ferito un numero consistente di soldati americani che stazionavano nella base. L’accaduto è stato comunicato via e-mail da operatori dell’Operation Inherent Resolve al Military Times, che ha successivamente diffuso la notizia. Secondo quanto diffuso, le forze irachene hanno proceduto alle investigazioni senza però aver riscontrato fattori rilevanti atti ad identificare gli autori degli attentati. Nessun comunicato né da parte di forze regolari, né da gruppi ostili alle truppe statunitensi è stato ufficializzato. Il comandante in capo dell’esercito americano, il generale Miley, ha affermato: “Affrontiamo un momento molto delicato con l’Iran e consigliamo vivamente al regime di non proseguire in questa direzione””Da tale comunicazione già sembrava trapelare una possibile reazione militare, anche in virtù di una telefonata del Segretario della Difesa al primo ministro iracheno e dello stesso Segretario di Stato Mike Pompeo che, con toni chiari, aveva avvertito i leader iraniani di una tremenda risposta americana qualora gli attentati fossero continuati.

I raid di Washington. E la risposta non ha tardato a farsi sentire. Un bombardamento aereo su obbiettivi strategici è stato il messaggio chiaro dell’esercito statunitense dopo i danni riportati all’apparato logistico di Kirkuk. Washington ha dichiarato di aver effettuato solo attacchi mirati contro la milizia irachena sostenuta dall’Iran. Tali operazioni, secondo Washington, erano nel diritto della propria difesa ed orientati a proteggere gli interessi statunitensi sul territorio. I raid hanno colpito cinque siti del Kateb Hezbollah in Iraq e Siria con lo scopo di evitare ulteriori lanci missilistici verso le basi americane. Inoltre il Pentagono ha specificato che tale obiettivi sono diversi dal gruppo militante di Hezbollah libanese e che si è agito in questa direzione in quanto, si sospettava, l’ombra dei finanziamenti dell’Iran dietro questi attacchi. Pronta però è stata la risposta del responsabile alla comunicazione del Kateb Hezbollah che ha fortemente negato la partecipazione del gruppo agli attentati presso Kirkuk e che le operazioni militari americane sono solo un pretesto per attaccare l’Iran. I numeri dei raid aerei americani riferito all’Associated Press dallo spokesman Mohieh contano 25 morti e 51 feriti tra le milizie. Lo stesso ha denunciato come “crimini e massacri” tali azioni. Intanto il ministero degli Esteri iraniano si è pronunciato su tali operazioni come: “Ovvio caso di Terrorismo” imputando agli Usa anche la colpevolezza di avere violato la sovranità dello spazio aereo e territoriale iracheno.

Le manovre del Pentagono contro l’Iran. Da quanto sembra gli Usa erano pronti già prima del 19 novembre scorso, quando il Pentagono ha pubblicato il report sulle capacità militari dell’Iran. Un vero e proprio breviario che indirettamente mette a nudo potenzialità e fragilità di Teheran. La superpotenza americana esplica in soli tre punti le capacità belliche iraniane. Indicando, indirettamente, proprio quelli che potrebbero essere gli obiettivi strategico-militari in un probabile attacco. Il primo punto fa riferimento ai missili balistici, unica vera risorsa dell’Iran identificata come “la più grande forza missilistica del Medio Oriente”. Differentemente, le analisi sul comparto aereo hanno fornito valutazioni molto basse sull’aeronautica, giudicata come del tutto inesistente. L’operazione potrebbe infatti essere quella di annientare l’apparato logistico e di sviluppo nel settore missilistico, visto anche il timore delle aspirazioni spaziali iraniane che porterebbe l’uso di tali attività ad essere invece un banco di prova per l’industrializzazione tecnologica di missili balistici intercontinentali. Il secondo obiettivo è la forza navale che, sebbene costretta nelle sue limitate possibilità, è indicata come capace di poter minacciare la navigazione nel Golfo Persico e nello Stretto di Hormuz. Inoltre abile ad enfatizzare le “tattiche asimmetriche” mediante l’utilizzo di piattaforme dotate di armamento con missili da crociera anti-nave lanciati a terra e da nave, piccole imbarcazioni, mine navali, sottomarini, veicoli aerei senza pilota, missili balistici anti-nave e difese aeree. Al terzo punto, l’intelligence denota alcune potenzialità di Teheran nella “guerra non convenzionale” e le possibilità di combattimento mediante l’uso di partner e delegati all’estero. L’unica perplessità che trapela dal rapporto è l’incertezza sulle piattaforme Uab, Unmanned Aerial Vehicles e Isr, in quanto fortemente versatili per la varietà di operazioni in merito alla sorveglianza e l’intelligence. Escludendo il sistema di difesa, SA-20C di fabbricazione russa, neanche il settore del cyberwafare iraniano sembra preoccupare l’amministrazione Usa che sa come, dove e quando colpire. Come ha dimostrato l’attacco di questa notte contro il generale Qassem Soleimani.

Da huffingtonpost.it il 3 gennaio 2020. “L’Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso un negoziato!”. Questo il primo commento su Twitter di Donald Trump al raid della notte scorsa a Baghdad nel quale è stato ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani, l’uomo simbolo dell’influenza di Teheran in Medio Oriente. Prima di questo tweet, il presidente americano - che aveva già espresso lo stesso concetto a fine luglio - aveva postato la bandiera degli Stati Uniti. Poche parole, nuove provocazioni e un’antica critica alla politica del suo predecessore, Barack Obama, il cui sforzo negoziale appare oggi lontanissimo nel tempo e nelle intenzioni. A undici mesi dal ritorno alle urne, l’amministrazione Trump ha impresso una svolta aggressiva nei confronti dell’Iran destinata ad avere profondi impatti in Medio Oriente e sulla politica nazionale, con il Senato chiamato a esprimersi sulle accuse di impeachment mosse dal Congresso contro il presidente. In due tweet successivi, il presidente rivendica di aver eliminato, con l’uccisione di Soleimani, il “responsabile diretto o indiretto della morte di milioni di persone, tra cui un gran numero di manifestanti recentemente uccisi nello stesso Iran”. “Il generale Qassem Soleimani ha ucciso o gravemente ferito migliaia di americani nel corso di un lungo periodo di tempo, e stava tramando per ucciderne molti altri... ma è stato preso!”, recita il tweet del presidente. “Anche se l’Iran non sarà mai in grado di ammetterlo veramente, Soleimani era sia odiato che temuto all’interno del Paese”. Gli iraniani - prosegue Trump - “non sono neanche lontanamente rattristati come i loro leader vogliono far credere al resto del mondo. Sarebbe dovuto essere eliminato molti anni fa!”. “La decisione del presidente Trump ha salvato molte vite umane”, ha detto il segretario di Stato americano Mike Pompeo alla Cnn spiegando come con l’uccisione di Qassami Soleimani ”è stato sventato un imminente attacco”.  Pompeo non ha specificato la natura dell’imminente attacco sventato e il luogo in cui sarebbe stato sferrato. Ha invece sottolineato come il popolo iracheno sostiene la decisione americana desideroso di avere un Paese sovrano, indipendente e libero da ogni influenza da parte dell’Iran.

Quando Obama incontrò l’uomo che ha assaltato l’ambasciata Usa. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 3 gennaio 2020. Uno degli uomini identificati dal segretario di Stato Mike Pompeo come leader della protesta contro l’ambasciata americana a Baghdad fu accolto alla Casa Bianca nel 2011 dal presidente Barack Obama. Hadi al-Amiri, fotografato questa settimana fuori dall’ambasciata americana durante l’assalto all’ambasciata in Iraq, fu uno dei membri di una delegazione irachena che si era unita all’ex primo ministro Nouri al Maliki durante un incontro con l’amministrazione Obama presso lo Studio Ovale, secondo quanto riportato dal Daily Mail e da alcuni media americani. Capo di una fazione sciita filo-iraniana di spicco, Amiri, già ministro dei trasporti dal 2010 al 2014, esercita un grande potere all’interno delle Forze di mobilitazione Popolare (Pmf) ed è stato uno degli organizzatori dell’assalto all’ambasciata americana per protestare contro i raid lanciati domenica contro diverse strutture della milizia filoiraniana Kataib Hezbollah al confine tra Iraq e Siria. “L’attacco oggi è stato orchestrato da terroristi, Abu Mahdi al-Muhandis e Qais Khazali, e favorito dai delegati iraniani Hadi al-Amiri e Falih al-Fayyad. Sono stati immortalati fuori dalla nostra ambasciata” ha scritto su Twitter il Segretario di Stato Mike Pompeo nei giorni scorsi.

Chi è Hadi al-Amiri. Hadi al-Amiri, capo della Fatah Alliance, il secondo più grande partito politico in Iraq e leader della forza paramilitare Organizzazione Badr, è uno degli uomini più potenti dell’Iraq. Costituito nel 1983 con il nome di “Brigate Badr”, il gruppo originariamente era l’ala militare del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), un partito politico sciita iracheno che mirava a portare la rivoluzione islamica dell’Iran in Iraq. Durante la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, le Brigate Badr hanno combattuto a fianco dell’esercito iraniano della Guardia rivoluzionaria contro l’esercito iracheno. Nel 2003, le Brigate Badr sono tornate in Iraq per approfittare del vuoto politico lasciato dopo la caduta del regime di Saddam Hussein: Hadi al-Amiri, diventato nel frattempo leader della forza paramilitare, venne accusato dal Dipartimento di Stato americano di uccidere “i suoi avversari con un trapano elettrico”. Tuttavia, negli ultimi anni, l’organizzazione di al-Amiri è stata protagonista della lotta contro lo Stato islamico in Iraq e oggi è la milizia più potente all’interno delle Forze di mobilitazione popolari (Pmf), un’alleanza di gruppi di milizie prevalentemente sciite che combatte spesso a fianco dell’esercito iracheno.

L’incontro con Obama. Con l’assalto all’ambasciata americana in Iraq, divampa la polemica contro l’allora presidente Barack Obama che ospitò Al-Amiri alla Casa Bianca nel 2011. Nel 2011, Ros-Lehtinen, repubblicana della Florida, dichiarò al Washington Times che “era estremamente inquietante che la Casa Bianca avrebbe ritenuto opportuno accogliere al-Amiri in una discussione sul futuro dell’Iraq”. Semmai, disse, “dovrebbe essere soggetto a interrogatori da parte dell’Fbi e di altre agenzie di contrasto e antiterrorismo statunitensi” osservò. “Le vittime delle torri Khobar e le famiglie delle migliaia di truppe statunitensi che hanno pagato l’ultimo sacrificio in Iraq non meritano questo”. Hadi al-Amiri, infatti, fu sospettato di aver collaborato all’attentato dinamitardo alle Torri Khobar del 1996 in Arabia Saudita che uccise 19 membri del personale dell’aeronautica militare americana.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 4 gennaio 2020. Né George Bush né Barack Obama si erano sognati di uccidere Qassem Soleimani. Il timore che l' esecuzione dell' eroe dell' Iran militarista e integralista potesse portare a una vera e propria guerra con Teheran fermò sia il presidente della guerra afghana e irachena, sia quello della guerra siriana. Che a troncare la vita di Soleimani, e con lui quella del generale iracheno Abu Mahdi al-Mihandis, sia stato proprio Donald Trump, che da civile aveva condannato sia Bush che Obama per le loro «eterne guerre», non deve però stupire più di tanto. Trump, che aveva promesso di governare da «colomba», scopre pian piano quanto invece gli può tornare utile agire da falco, soprattutto in un anno elettorale, e quando il processo di impeachment sta per inaugurarsi al Senato. L' attacco contro il sanguinario Machiavelli del Medio Oriente ha infatti le carte in regola per suscitare nel pubblico americano un anelito patriottico, e possibilmente contribuire a produrre per il suo autore una vittoria elettorale il prossimo novembre. Donald Trump come George Bush, dunque, bandiera in mano, Patria sulle labbra, e migliaia di soldati (almeno 3.500) che partono alla volta del Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno anche preallertato le loro truppe di stanza a Vicenza: potrebbero essere dispiegate in Libano a difesa dell' ambasciata Usa a Beirut dai 130 a oltre 700 militari. Eppure Donald insiste: «Non voglio la guerra. Voglio la pace». Lo ha detto poche ore dopo aver dato il via all' attacco contro Soleimani. Ma se non vuole la guerra, forse Trump crede davvero ai consigli del genero Jared Kushner, il quale è convinto che per riportare l' Iran al tavolo dei negoziati bisogna «stritolarlo». E stritolare è effettivamente quello che Trump ha tentato di fare con Teheran sin dal sua insediamento, quando ha gettato alle ortiche il trattato faticosamente negoziato da Barack Obama e i leader di cinque altre nazioni con l' Iran perché questi rinunciasse alla corsa al nucleare. Ritiratosi dal trattato, e alla ricerca di un «un nuovo accordo più forte», Trump ha continuato ad agire da solo, imponendo severissime sanzioni economiche contro il Paese degli ayatollah, con l' effetto di metterlo in ginocchio economicamente e generare proteste nelle strade. La sua politica della «massima pressione» è dunque andata facendosi sempre più severa. Ma se molti sono d' accordo che sia stato giusto uccidere «l' uomo più malefico del Medio Oriente», come Soleimani era soprannominato, è anche forte la sensazione che l' atto non sia stato condotto nel modo migliore e che difficilmente porterà a nuovi negoziati. Ancor più forte è il dubbio che il presidente abbia in mente una chiara strategia di lungo termine: «Uccidere Soleimani è un atto moralmente giustificato ha commentato l' analista repubblicano Max Boot, già consigliere di George Bush -, ma dove vuole arrivare il presidente? Ha deciso quale sarà il prossimo passo? Quale impatto strategico di lunga durata sta cercando?» D' altronde Trump al solito ha operato segretamente: non ha informato gli alleati, non ha informato i membri del Congresso, e ha colto tutti di sorpresa. I repubblicani difendono comunque il suo operato, contenti che un acerrimo nemico di Israele e degli Usa sia stato eliminato. I democratici stessi sono soddisfatti della fine di Soleimani, ma protestano per la tendenza autocrate di Trump di procedere fingendo che il Congresso non esista. Non ci sono dubbi: con la clamorosa missione militare e con l' invio di altre migliaia di soldati in Kuwait, Trump ha voluto spostato il discorso politico su temi in cui il Paese tende a unirsi patriotticamente. Quanto durerà questo anelito rimane però un mistero. C' è già chi ricorda il film Wag the dog, in cui un presidente in difficoltà lancia una finta guerra per distrarre l' opinione pubblica. E c' è chi ricorda come Bill Clinton bombardò l' Iraq di Saddam Hussein nel dicembre del 1998, alla vigilia dell' inizio del dibattito alla Camera sul suo impeachment. Difficile peraltro non ricordare che a giorni dovrebbe inaugurarsi al Senato il processo vero e proprio contro Trump, dopo che la Camera ha spiccato contro di lui due mandati di accusa per abuso di potere e ostacolo del Congresso sulla faccenda dell' Ucraina.

Trump: «Soleimani stava preparando nuovi attacchi». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. È l’ora dei falchi a Washington e, probabilmente, anche a Teheran. L’operazione Soleimani segna un drammatico cambio di passo dell’amministrazione. Donald Trump ha deciso di assecondare l’ala più intransigente dei suoi consiglieri, dando l’ordine di attaccare e uccidere il comandante delle Guardie rivoluzionarie iraniane, cioè la figura chiave delle strategie paramilitari. O, secondo l’intelligence americana e i generali del Pentagono, l’efficiente esecutore delle trame terroristiche contro gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel Medio Oriente. «Il generale Soleimani stava preparando nuovi attacchi — ha detto Donald Trump parlando da Mar-a-Lago, in Florida —. Il suo regno di terrore è finito». Ma, ha aggiunto parlando per la prima volta in pubblico dopo il raid «non abbiamo ucciso Soilemani per un cambio di regime o per iniziare la guerra. Ma siamo pronti a qualunque risposta sia necessaria. Il futuro dell’Iran appartiene al popolo che vuole la pace, non ai terroristi». Sui siti dei media e sulle tv i commentatori spiegano come gli ayatollah abbiano sottovalutato le intenzioni di Trump, pensando che, alla fine, il presidente fosse solo una tigre di carta. Ruggiti nei comizi, ma linea rinunciataria nell’area pericolosamente più instabile del mondo, che va dalla Siria all’Iraq. In realtà l’errore di valutazione è stato generale. Da almeno 7-8 mesi era chiaro come a Washington stesse crescendo il partito dello scontro diretto con l’Iran. La Cia e i servizi segreti militari hanno fornito i dati di partenza. Le forze d’élite di Soleimani hanno partecipato alla distruzione delle raffinerie saudite, ai blitz contro le petroliere in transito nello Stretto di Hormuz e, da ultimo, all’assedio dell’ambasciata statunitense a Bagdad. Nel giugno scorso Trump aveva bloccato all’ultimo momento la rappresaglia missilistica già pronta dopo che gli iraniani avevano abbattuto un drone. Sembrava si potesse liberare un margine per la diplomazia. Ma la finestra si è richiusa a novembre, quando Brian Hook, inviato speciale del Dipartimento di Stato per l’Iran avvertiva l’Occidente: «L’Iran nasconde materiale nucleare e sta riducendo i tempi per la costruzione della bomba atomica: la situazione è gravissima, ora anche l’Europa deve reagire» (frase tratta da un’intervista con il Corriere). L’allarme di Hook fu semplicemente ignorato dagli europei, ma anche dalla Russia e dalla Cina. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si rispecchiò nella solita paralisi dei veti incrociati. Nessuno fece nulla. A quel punto il Dipartimento di Stato capì che in quelle condizioni era difficile arginare i fautori dello scontro aperto, senza rete. Pompeo, come spesso gli capita, ha fiutato il nuovo clima politico e si è prontamente allineato. Il vice presidente Mike Pence ha verificato che i repubblicani nel Congresso appoggiassero, in generale, l’idea di un’azione punitiva. E il 3 gennaio 2020 alcuni dei senatori conservatori, come Marco Rubio, Tim Cotton e Jim Risch, presidente della Commissione Affari Esteri, hanno pubblicamente giustificato l’eliminazione di Soleimani. La Casa Bianca, naturalmente, aveva messo in conto l’aspra polemica dei democratici. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, però, solleva anche il problema che ora si presenta davanti ai «duri» dell’amministrazione: «Non possiamo mettere a rischio le vite dei nostri funzionari, dei nostri diplomatici, con queste provocazioni sproporzionate». «Il consiglio di guerra» a Washington si sta preparando a fronteggiare l’attesa reazione di Teheran. Intanto Trump continua a lanciare tweet da quando è stata diffusa la notizia dell'uccisione del generale. Il primo «cinguettio» è stato senza parole: soltanto l'immagine della bandiera degli Stati Uniti e nient'altro. Con il passare delle ore il presidente ha spiegato che Soleimani «ha ucciso o ferito migliaia di americani in un lungo periodo di tempo e stava pianificando di ucciderne molti altri...ma lo abbiamo preso». «È stato direttamente o indirettamente responsabile - va avanti Trump - della morte di milioni di persone, compresi i tanti manifestanti uccisi in Iran: anche se l'Iran non lo ammetterà mai, Soleimani era odiato e temuto nel suo Paese: non sono rattristati come i leader fanno credere al mondo esterno: avrebbe dovuto essere eliminato molti anni fa».

Federico Rampini per “la Repubblica” il 5 gennaio 2020. La tensione Usa-Iran apre una nuova crisi nell' Alleanza atlantica. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, lo dice esplicitamente: nel momento del pericolo l' America non si sente abbastanza appoggiata dagli alleati. «Gli europei - dice Pompeo in un' intervista alla tv Fox News, nella quale elogia invece i partner in Medio Oriente - non sono stati d' aiuto come speravo potessero essere. I britannici, i francesi, i tedeschi devono capire che ciò che gli americani hanno fatto, ha salvato delle vite anche in Europa. Qassem Soleimani e i Guardiani della rivoluzione hanno condotto campagne d' omicidi in Europa. Chiediamo a tutti nel mondo di appoggiare ciò che gli Stati Uniti stanno tentando di fare, per far sì che l' Iran si comporti come una nazione normale». L'uccisione del generale Soleimani si aggiunge così al lungo contenzioso che avvelena i rapporti nella Nato. Da quando è alla Casa Bianca, Donald Trump martella gli alleati accusandoli di essere dei parassiti della sicurezza, perché spendono troppo poco per la difesa e scaricano l' onere sul contribuente americano. Trump non ha esitato a colpire gli europei con i dazi, alla stregua di quel che ha fatto con i cinesi. Lo stesso dossier iraniano era già causa di divergenze serie: Trump ha stracciato in modo unilaterale quell'accordo nucleare voluto da Barack Obama e di cui erano co-firmatari anche Germania Francia Regno Unito (oltre a Russia e Cina). Dopodiché gli Usa hanno varato sanzioni contro Teheran che, come di consueto, hanno valenza extra-territoriale. Benché illegali dal punto di vista dell' Unione europea, quelle sanzioni possono colpire aziende italiane o tedesche o francesi che conducano affari con l' Iran (perfettamente legittimi per l' Europa, ma vietati da Washington). Le ultime accuse di Pompeo colpiscono un' Europa divisa su quasi tutto: anche sulla linea da tenere riguardo all' uccisione del generale Soleimani. Parigi e Londra avrebbero frenato su una condanna esplicita che stava per partire da Bruxelles. Visto dagli Stati Uniti, questo è l' ennesimo remake di un film stranoto. L' Europa che si dissocia dagli Stati Uniti sul Medio Oriente, e al tempo stesso si spacca al proprio interno: è esattamente quel che accadde 17 anni fa. Anno 2003, invasione dell' Iraq voluta da George W. Bush. Anche allora scoppia una seria crisi dentro l' Alleanza atlantica perché l' asse franco-tedesco si dissocia dalla guerra americana. Jacques Chirac e Gerhard Schroeder rompono la solidarietà e la loro defezione è una sfida aperta a Bush. Però altri europei scelgono la strada opposta. Anzitutto c' è il premier laburista britannico Tony Blair che abbraccia la linea Bush e ne diventa un fautore zelante. Scelgono una linea filo-americana anche il governo Berlusconi e quello di Aznar in Spagna. Più in generale il segretario Usa alla Difesa nell' Amministrazione Bush, Donald Rumsfeld, parla allora di un contrasto tra «vecchia e nuova Europa», infilando un cuneo nelle divisioni tra alcuni soci fondatori dell' Ue pacifisti a oltranza, e paesi dell' Est come la Polonia e i Baltici molto più vicini alle posizioni americane. Un saggio del politologo Robert Kagan lancia la metafora per cui «gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere». Gli americani vivono nel mondo della dura storia, della realpolitik, una giungla popolata di belve feroci, mentre gli europei sognano di essere in un giardino dell' Eden dove la loro «superpotenza erbivora" » può esercitare un soft power tutto basato su regole e valori. Il 2003 è una delle crisi più gravi nel rapporto tra le due sponde dell' Atlantico, ma non è l' unica né la prima. All' origine ci fu il 1956, il disastro di Suez, quando Inghilterra e Francia si lanciarono in una guerra contro l' Egitto di Nasser e vennero stoppate dal presidente repubblicano Dwight Eisenhower. È dunque la regola, non un' eccezione: sul Medio Oriente non è mai esistito un vero allineamento d' interessi fra l' America e l' Europa (quest' ultima a sua volta divisa soprattutto per gli opposti obiettivi di potenze ex coloniali come Francia e Regno Unito). Le divergenze sono geopolitiche e geoeconomiche, anche se si preferisce ammantarle di grandi principi. L' uccisione del generale Soleimani non sfugge alla regola. Alcuni progressisti americani, come Bret Stephens sul New York Times , ricordano agli europei che quel capo militare era un criminale plurimo, noto per le sue convergenze con Al Qaeda, responsabile di stragi terroristiche in cui persero la vita anche cittadini occidentali, e dell' eliminazione di almeno uno statista straniero, il premier libanese Hariri.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica”  il 5 gennaio 2020. C'è una sottile linea blu che oggi è diventata il posto più caldo del pianeta. Da una parte Israele, dall' altra Hezbollah. In mezzo più di mille soldati italiani con la bandiera dell' Onu, appostati sulle colline lungo il corso del fiume Litani. Il movimento sciita libanese è il figlio prediletto di Qassem Soleimani: lo ha fatto nascere e crescere, fino a renderlo il nemico più temuto da Israele. Due giorni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha promesso che vendicarlo «sarà responsabilità di tutti i combattenti ». Mentre il sito web dell' organizzazione ha usato parole inequivocabili: «È guerra!». Ora tocca ai nostri militari, in gran parte Granatieri di Sardegna provenienti da Roma, cercare di arginare la tempesta annunciata e il pericolo concreto che Hezbollah scateni la rappresaglia contro Israele. Sostanzialmente da soli, perché l' Italia pare avere dimenticato quel contingente strategico per la pace nel mondo. Nel 2006 il premier Romano Prodi e il ministro Massimo D' Alema erano riusciti a renderci protagonisti, imponendo la nostra presenza a garanzia della tregua. Ma ormai non abbiamo più una politica estera e siamo esclusi dai tavoli chiave, anche quando sono in gioco interessi vitali. E rischiamo di pagare un prezzo altissimo. Questa crisi infatti potrebbe esporci a ripercussioni gravi, facendo ricadere su di noi un peso drammatico per la morte di Soleimani. Oltre agli uomini in Libano, circa 150 carabinieri e incursori sono asserragliati in una caserma alle porte di Bagdad. Erano lì per addestrare le forze irachene destinate a combattere l' Isis; si ritrovano adesso in un Paese infuriato e ostile. Il vertice americano della missione ha sospeso le attività e tutti si sono barricati nella struttura, pronti a correre nei rifugi a prova di razzo. Pericoli, seppur più ridotti, per gli 800 soldati dell' Ariete di Pordenone che presidiano la base afghana di Herat e hanno la responsabilità della regione al confine con l' Iran. «Abbiamo innalzato la sicurezza, ma le missioni proseguono », ha detto ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il problema è che, in Iraq come in Afghanistan, gli italiani operano sotto comando americano, fianco a fianco con i militari statunitensi: la furia della vendetta potrebbe non distinguere le uniformi. Allo stesso tempo, però, i venti di guerra offrono una chance al governo Conte. Gli Stati Uniti non possono affrontare la prospettiva di un conflitto senza contare sulle basi della Penisola, le uniche sicure del Mediterraneo. Da tre giorni dozzine di aerei americani le sfruttano per trasferire truppe verso il fronte della crisi: ad Aviano e a Sigonella c' è un via vai ininterrotto di atterraggi e decolli. A Vicenza la 173ma aerobrigata, la "punta di lancia" per le operazioni in Medio Oriente, è stata mobilitata per andare in Libano. A Napoli il quartier generale della VI flotta è diventato la prima linea dell' emergenza: la mini-portaerei Bataan carica di marines fa rotta verso est; sottomarini e caccia si preparano a intervenire con i loro missili cruise. Se le cose dovessero peg giorare, sarà poi inevitabile ricorrere alle scorte di Camp Darby. Nella pineta livornese infatti c'è il più grande deposito mondiale di armi e proiettili americani, con una quantità colossale di equipaggiamenti bellici. Queste strutture sono potenziali bersagli per gli attentati della rete di Soleimani, che ha dimostrato negli anni di sapere agire ovunque. L' altro lato della medaglia è che le basi americane possono essere uno strumento di politica estera per riequilibrare le relazioni con Washington, che in queste ore ha completamente ignorato Roma. Una leva raramente impugnata dai governi italiani, tanto da rendere storica l'eccezione di Bettino Craxi nella notte di Sigonella del 1985 o il no di Giulio Andreotti all' uso degli aeroporti per il raid contro Gheddafi dell' anno successivo. Episodi remoti nel tempo, quando la Prima Repubblica - come ha ricordato ieri D' Alema su questo giornale - aveva una strategia "intelligente" nei confronti del mondo arabo. Oggi però c'è la necessità di bilanciare in modo diverso i rapporti con Donald Trump e tentare di non essere solo succubi della crisi iraniana. Secondo diversi analisti, Erdogan si è già mosso e sta paventando un prezzo molto alto per concedere agli Usa l' impiego della base turca di Incirlik, la più vicina all' Iran. A spese dell' Italia, perché la contropartita sul tavolo potrebbe essere il via libera americano allo sbarco a Tripoli. Ma il Sultano ha una politica estera chiara e spregiudicata, mentre noi stiamo a guardare. Il fronte più caldo è in Libano dove i nostri soldati dividono Hezbollah e Israele Soldati Usa in partenza.

Marco Patucchi per “la Repubblica”  il 5 gennaio 2020. Italia regolarmente tagliata fuori dalle interlocuzioni tra grandi Paesi (compreso il giro di telefonate diplomatiche del sottosegretario di Stato Usa, Pompeo, per il raid contro il comandante Soleimani) ma, proprio perché politicamente defilata, sempre nel cuore degli interscambi economici con Teheran. Fin dal 1957 quando l'Eni di Mattei siglò un primo, storico accordo con la Nioc (National Iranian Oil Company) per scalzare le "sette sorelle" dai giacimenti iraniani. Da allora i legami economici tra Roma e Teheran non si sono mai interrotti, nonostante appunto l' esclusione del nostro Paese da passaggi decisivi come il vertice di Guadalupe (1979) alla vigilia della Rivoluzione islamica; il negoziato di Francia, Regno Unito e Germania sul nucleare iraniano (2003); e, dieci anni dopo, il trattato Jcopa. Anzi, con il viaggio romano del presidente Rohani del 2015 è iniziato un percorso che ha portato l' Italia ai vertici dell' interscambio con l' Iran: 5,1 miliardi di euro nel 2017 (primo partner commerciale Ue di Teheran), 4,6 miliardi l' anno successivo, fino alla frenata del 2019 per i dazi Usa e il surriscaldamento geopolitico in Medio Oriente. In testa alla graduatoria dei prodotti italiani esportati in Iran, i macchinari, i medicinali e i prodotti chimici. I venti di guerra scuotono, ovviamente, anche gli interessi economici in Iraq dove, tra l' altro, il Gruppo Trevi ha fatto appena in tempo a completare i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Presenti sul territorio Eni, Bonatti-Renco, Nuovo Pignone e decine di imprese, mentre l' interscambio nel 2018 ha sfiorato i 3 miliardi di euro. Sono soprattutto gli effetti sul settore petrolifero a far tremare l' Italia, visto che nel 2019 l' Iraq è stato il nostro primo fornitore di greggio con 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei consumi totali (l' Iran nel 2018 era al terzo posto con una quota intorno al 10%). Tutto gravita intorno allo stretto di Hormuz, un budello di 34 chilometri tra Iran e Oman, attraverso il quale le petroliere trasportano greggio pari a un terzo del volume di scambi del mercato mondiale. Eventuali attacchi iraniani nello stretto (ma anche ai pozzi dell' Arabia Saudita, quarto fornitore di petrolio all' Italia), non intaccherebbero più di tanto gli interessi degli Stati Uniti, ormai a un passo dall' autosufficienza petrolifera (grazie soprattutto al fracking ), ma peserebbero sul resto dell' Occidente. Come spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, fino ad oggi le tensioni mediorientali, anche nei momenti di crisi più acuta, sono state ammortizzate dall' abbondanza di offerta di oro nero e dal rallentamento della domanda per le miti temperature invernali. Il facile parallelo tra gli assedi delle ambasciate Usa in Iran (1979) e a Bagdad (2019) suscita però una minacciosa suggestione, perché proprio dall' assalto di quaranta anni fa a Teheran scaturì il secondo shock petrolifero mondiale. 

Proteste in Iran: Italia, tacere è essere complici di Teheran. Elisabetta Zamparutti l'8 Dicembre 2019 su Il Riformista. Da oltre venti giorni è in corso in Iran una protesta anti-regime che si è estesa a 189 città con una repressione terrificante. Ieri l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha parlato di almeno 7 mila persone arrestate e 208 vittime, precisando però che i morti potrebbero essere il doppio. La Resistenza iraniana, infatti, traccia un bilancio ancora più drammatico: oltre 1000 morti, 4000 feriti, 12000 arrestati. Si tratta di dati raccolti grazie a una parziale riapertura di internet che ha permesso altresì di identificare 320 manifestanti uccisi. In questi momenti tragici della storia, dare un nome a chi è morto, documentare caso per caso, resta una delle forme di rispetto della dignità umana di fronte allo scempio che ne fanno le forze dell’ordine iraniane sparando alla testa o al petto dei manifestanti. È così che sono morti anche almeno 11 ragazzini. Una realtà che il regime iraniano cerca di nascondere, limitando l’uso di internet, rifiutando di restituire le salme alle famiglie o impedendo i funerali. Mentre l’ondata di arresti continua, le carceri di Teheran sono sovraffollate. In altre città gli arrestati sono detenuti in scuole o palazzi governativi. Esponenti della magistratura in varie province dicono di voler istituire corti speciali. Le massime autorità religiose invocano impiccagioni per i “sabotatori in guerra con Dio”. Questi annunci e proclami avvengono in un Paese in cui il ministro della giustizia e capo della magistratura è quell’Ebrahim Raisi che ha fatto parte della “Commissione della morte” responsabile dell’esecuzione di almeno 30mila militanti politici nel 1988. Molti Paesi occidentali, tra cui Francia, Germania, Norvegia, Olanda, Usa e Svezia, hanno condannato la repressione, quando l’Italia mantiene un rigoroso silenzio mentre oggi si chiude all’hotel Parco dei Principi la conferenza Roma MED – Dialoghi Mediterranei dove avrebbe dovuto intervenire il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif su invito della Farnesina e dell’ISPI. Diciamo che Zarif ha avuto più senso delle cose di quanto ne abbiano il nostro ministro degli Esteri Di Maio e il presidente Conte, che lo avrebbero accolto di buon cuore. Perché oggi alla conferenza è previsto l’intervento di Seyed Mohammad Kazem Sajjadpour, presidente del think tank iraniano Ipis – Institute for Political and International Studies – noto a livello mondiale per negare la veridicità dell’Olocausto. Nel curriculum dell’Ipis non vi è solo la conferenza negazionista organizzata nel 2006 a Teheran, a cui centri di ricerca di tutto il mondo reagirono firmando una dichiarazione in cui si chiedeva di non accettare inviti da parte dell’istituto né di invitarlo. Vi è anche l’audizione alla Commissione esteri della Camera nel 2018, quando i ricercatori dell’IPIS definirono la creazione dello Stato ebraico un errore della storia, negando il diritto all’esistenza d’Israele. Nel comunicato stampa sul sito della Farnesina si legge che la conferenza Roma MED intende «contribuire ad affrontare le sfide e le opportunità del Mediterraneo “allargato”, valorizzando le grandi opportunità che offre attraverso lo sviluppo di un’agenda positiva». Quale può essere la credibilità dello sviluppo di “un’agenda positiva” se i popoli non sono considerati e i diritti umani sono negati? Ecco perché il silenzio di questo Governo diventa una forma di complicità inaccettabile. Tanto più che l’Italia ha il merito, riconosciuto nel mondo, di aver fatto proclamare una moratoria delle esecuzioni capitali da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu grazie a una grande battaglia popolare. A tutela della credibilità del Paese, è urgente che il Governo prenda posizione sulla repressione in Iran e chieda una moratoria delle esecuzioni capitali insieme a una indagine internazionale. È evidente a tutti la necessità di un cambio di rotta rispetto all’Iran dei Mullah che non può continuare a essere considerato come una soluzione delle crisi regionali, di cui è esso stesso causa. Serve invece sostenere movimenti di opposizione iraniani che abbiano programmi ispirati ai principi universali di rispetto dei Diritti Umani e dello Stato di Diritto.

Antonio Martino, "Atteggiamento dell'Ue incomprensibile. C'era un pericolo grave, Trump ha agito". Libero Quotidiano il 5 Gennaio 2020. Antonio Martino, uno dei principali fondatori di Forza Italia, è stato ministro degli Esteri e della Difesa nei governi Berlusconi tifoso da sempre della politica filo-americana, boccia l'attuale numero uno della Farnesina, Luigi Di Maio. Lo fa in un intervista pubblicata sulla Stampa domenica 5 gennaio. "Sapremo presto le forti motivazioni che hanno portato al raid americano a Baghdad, ma una cosa è sicura: è stato eliminato un pericolo reale per gli Stati Uniti e non solo". Gli Usa però non avvertito il governo italiano del raid: "Il nostro Paese è ricco di storia e cultura ma quando guardo la politica italiana mi viene da piangere. Una volta a Fiesole, era il 1991, incontrai la signora Thatcher a un convegno. Durante la pausa caffè mi avvicinai a lei: stava guardando estasiata Firenze sotto il sole. Mi disse: Il suo è un Paese bellissimo con un governo marcio. Io le risposi: "Sarebbe meglio il contrario". E la situazione è peggiorato dal 1991 ad oggi... Hanno fatto ministro degli Esteri Luigi Di Maio, una persona che non sa parlare nemmeno l'italiano".

Sull'Iran Trump si dimentica di Giuseppi e dell'Italia. Gli Usa hanno avvertito Francia, Gb e Germania del raid contro Soleimani, ignorandoci. Sullo scacchiere del mondo contiamo zero, eppure ci dicono il contrario. Panorama il 5 gennaio 2020. Se c'è una cosa che questo Governo ed i partiti che lo compongono ci stanno raccontando da agosto scorso è che senza Salvini "abbiamo recuperato forza, credibilità e considerazione in Europa e nel mondo". Vi ricordate, su tutto, il famoso tweet con cui Donald Trump diede il suo benestare alla permanenza di "Giuseppi" Conte a palazzo Chigi? Eccola la prova regina dello splendore internazionale del nostro paese. Poi però, finite le dichiarazioni, contano i fatti e questi raccontano una cosa diversa. Già in Europa, con la creazione della nuova Commissione, si è visto che alla fine decidono sempre loro: Germania e Francia. A questo possiamo aggiungere i fallimenti sulla gestione dei migranti, dove solo 4 paesi hanno aderito al pre-accordo di Malta. Gli altri ci hanno ignorato, come sempre. E non è che uscendo dal continente le cose vadano meglio. Sulla Libia siamo allo stallo assoluto e di certo non abbiamo la forza di trovare una soluzione. Eppure la guerra è alle porte di casa. Arriva poi il raid Usa in Iraq contro Qassem Soleimani, il numero due di Teheran, il vero uomo forte della politica militare ed estera del paese. Washington ha comunicato la notizia solo a Francia, Germania e Gb, oltre Russia, Arabia Saudita ed Israele. Roma no. Nessuno squillo all'amico Giuseppi e nemmeno alla Farnesina. Questi i fatti. Messi tutti insieme ci dicono una cosa sola: sullo scacchiere europeo ed internazionale contiamo zero, se non meno dato che ci raccontiamo l'esatto contrario. In molti puntano il dito in queste ore contro il capo della Farnesina. Chi Di Maio sia inadeguato al ruolo di Ministro degli Esteri è cosa chiara a chiunque. Che non sia tutta e solo colpa sua lo è altrettanto.

Di Maio, l'ultima di Gigino: si fa crescere la barba e diventa musulmano. Libero Quotidiano il 5 Gennaio 2020. Trump ha scatenato l' inferno in Iran per uccidere il tristemente famoso boia Soleimani e, insieme con molti applausi, inclusi i nostri, ha ricevuto altrettanti insulti, come se avesse compiuto una strage gratuita. In realtà il presidente Usa, uomo di successo, ha fatto fuori un personaggio noto nel mondo per la sua propensione ai massacri seriali, un odiatore degli Stati Uniti, organizzatore indefesso di attentati terroristici. Ma il governicchio privo di dignità, attraverso le dichiarazioni del sedicente ministro degli Esteri, tale Di Maio, si è subito schierato a favore del bandito islamico e, quindi, contro la Casa Bianca. Motivo? Ignoto. Probabilmente Gigino, allineatosi con la sinistra che simpatizza per i musulmani, non è riuscito a togliersi un brandello di burqa dagli occhi, e si è fatto addirittura crescere la barba onde sottolineare la propria adesione al verbo coranico. Altra spiegazione convincente non siamo in grado di darla. È scontato che noi un giorno stiamo sul melo americano e un altro ci arrampichiamo sul pero di Allah. Ci professiamo amici degli yankee quando conviene al nostro portafogli e voltiamo loro le spalle, immediatamente, se si tratta di compiacere quelli dell' Isis e loro compari macellai. Cosicché pure nella presente circostanza l' esecutivo nazionale ha scelto di lisciare il pelo all' Iran e di rimproverare gli alleati storici di Oltreoceano. Gigino non si è trattenuto e ha manifestato dolore per la morte di Soleimani nonostante questi fosse un soggetto protagonista di eccidi a iosa. Va da sé che l' irresponsabile della Farnesina abbia compiuto l' ennesima topica offrendo il fianco a critiche aspre. Il Paese rimedia così l' ennesima figuraccia per colpa di gente priva di coscienza e di coerenza. Il premier Conte preso alla sprovvista non ha saputo fare di meglio: ha manifestato preoccupazione per l' incolumità dei militari italiani in missione nel Medioriente, come se costoro fossero stati mandati laggiù in vacanza premio. Giustamente il ministro statunitense ha sottolineato che l' Europa si sta distinguendo per viltà. E noi compatrioti siamo costretti ancora ad essere cornuti e mazziati. Allorché riusciremo a liberarci di questo governo imbarazzante potremo aggiornare i contenuti della festa del 25 aprile. 

Lucia Annunziata: "Italia esclusa sull'Iran, se fossimo in un Paese normale Luigi Di Maio si dimetterebbe". Libero Quotidiano il 6 Gennaio 2020. Lucia Annunziata, in un durissimo editoriale sull'Huffington Post, affonda Luigi Di Maio: "Se questo fosse un Paese normale, e il nostro fosse un governo efficiente, e i capi dei partiti fossero responsabili, come pure ripetono di essere, oggi noi discuteremmo delle possibili dimissioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Questione non di punizione, per carità, ma di opportunità e sicurezza". C'è infatti un evento di cui nessuno parla: "Il segretario di Stato Mike Pompeo, poche ore dopo l'assassinio del generale Qassam Soleimani, ha parlato, per spiegare le ragioni americane, con i ministri degli Esteri di diversi paesi alleati, europei inclusi. Ma ha escluso l'Italia". Una "omissione", attacca Annunziata, che "appare come una scelta gravissima, qualcosa che somiglia a un incidente politico", è "inspiegabile perché un alleato dell’importanza dell’Italia non sia stato contattato neanche informalmente - neanche Palazzo Chigi - né sia stato considerato nelle ore e nel giorno successivo". Ragiona la Annunziata che non può trattarsi di una "svista – queste telefonate sono accuratamente preparate, persino nell'ordine in cui vengono fatte. Se non è una svista, sarà frutto di un incidente diplomatico occorso con gli Usa, di cui non sappiamo molto? In un caso del genere avremmo comunque avuto almeno un segnale dagli Usa". Insomma, conclude, "è inutile girarci intorno. Il capo politico dei 5 stelle non è preparato per la Farnesina che, del resto, come ben si sa, è stata chiesta per lui dal Movimento 5 stelle per rafforzare il suo ruolo politico. La politica estera è una specializzazione e Di Maio non ha avuto né il tempo, né forse la vocazione, per specializzarsi". 

Lucia Annunziata per huffingtonpost.it il 5 gennaio 2020. Se questo fosse un Paese normale, e il nostro fosse un Governo efficiente, e i capi dei partiti fossero responsabili, come pure ripetono di essere, oggi noi discuteremmo delle possibili dimissioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Questione non di punizione, per carità, ma di opportunità e sicurezza. Il segretario di Stato Mike Pompeo, poche ore dopo l’assassinio del generale Qassam Soleimani, ha parlato, per spiegare le ragioni americane, con i ministri degli Esteri di diversi paesi alleati, europei inclusi. Ma ha escluso l’Italia. Un’omissione che nelle drammatiche circostanze di queste ore appare come una scelta gravissima, qualcosa che somiglia a un incidente politico. O no? La versione che informalmente arriva dalla Farnesina è che Pompeo ha chiamato i paesi con una rappresentanza nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma rimane comunque inspiegabile perché un alleato dell’importanza dell’Italia non sia stato contattato neanche informalmente - neanche Palazzo Chigi - né sia stato considerato nelle ore e nel giorno successivo. Qui le domande diventano tante. Come mai non siamo entrati nella lista di Pompeo? Certo non sarà un svista – queste telefonate sono accuratamente preparate, persino nell’ordine in cui vengono fatte. Se non è una svista, sarà frutto di un incidente diplomatico occorso con gli Usa, di cui non sappiamo molto? In un caso del genere avremmo comunque avuto almeno un segnale dagli Usa. Né può essere stata una scelta di campo della Washington di Trump contro un Governo che considera non simpatizzante, visto che questo è il Governo sdoganato questa estate proprio da un caloroso tweet del presidente Trump in cui lodava “Giuseppi”. Domande tante e non una risposta è arrivata da una classe politica rimasta in un silenzio quasi totale. Salvo una breve comunicazione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini sul fatto che per i nostri soldati all’estero “sono state innalzate le misure di sicurezza”. C’è poi un appello attribuito da fonti di Palazzo Chigi al Premier Giuseppe Conte “alla moderazione, al dialogo, al senso di responsabilità  delle parti”, e un identico appello “al dialogo e alla responsabilità” del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Quest’ultimo, fotografato in attesa di un volo per tornare in Italia, ma non preoccupatevi, non ha rotto le regole M5S perché ha preso un volo di linea. L’universo politico che ci informa con interviste permanenti, nelle ultime 24 ore non ha trovato il tempo o le idee per dire qualcosa di meglio agli Italiani, non fosse altro per rassicurarli. È questo dunque, davvero, il punto in cui siamo? Siamo stati esclusi dalle consultazione di Washington alla vigilia di una nuova fase drammatica in Medio Oriente, dove abbiamo qualche migliaia di uomini e dove abbiamo contato non pochi morti, e dobbiamo accettare di non sapere come intendiamo muoverci? Dobbiamo accettare che gli interessi che abbiamo in Iran siano una tomba anche della nostra inquietudine? O più semplicemente dobbiamo immaginare come inevitabile che saremo parte di questo conflitto senza che nessuno ci spieghi esattamente nemmeno quali sono le forze in campo, qual è la differenza fra sciiti e sunniti, e fra sciiti e sciiti, fra interessi da una parte o dall’altra? Certo in tutto questo non c’è una colpa del ministro Di Maio. Abbiamo un problema di irrilevanza del paese che risale nel tempo di almeno un paio di decenni, mentre il ministro è entrato in carica solo a settembre, e gli Esteri non sono davvero il suo mestiere. Ma non si può nemmeno accettare che un ministro di primissimo piano, nonché capo politico di uno dei due maggiori partiti di governo, non assuma la responsabilità piena del suo incarico. L’esclusione di Pompeo è uno smacco per il nostro paese, ci piaccia o meno. È il risultato, uno dei tanti, dell’instabilità e della inaffidabilità che ha contraddistinto il nostro ultimo anno e mezzo di due governi. Ma Luigi Di Maio, a sua volta, in questi suoi primi tre mesi di incarico non può vantare grandi contributi. L’Italia ha dato segnali di recupero in Europa, ma il dossier europeo è fuori dalle mani se non della Farnesina, certo del ministro, gestito com’è nei fatti da una sorta di Troika Italiana, composta da Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri e David Sassoli. Il rapporto con l’America di Trump è passato nelle mani di Palazzo Chigi e del Quirinale. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, i primi due viaggi di Di Maio, uno a novembre del 2017 appena nominato capo politico e l’altro a marzo del 2019, si sono distinti soprattutto per la mancanza di incontri rilevanti. Solo al seguito della visita del presidente Mattarella, nell’ottobre scorso, è riuscito a entrare alla Casa Bianca. Sulla Cina ricordiamo, a parte le gaffe, che il tema più divisivo, Huawei e il 5G, non è nelle mani di Di Maio, ma di Palazzo Chigi e dei Servizi. Della Libia meglio non parlare. Nel carniere del ministro degli Esteri, dunque, non ci sono grandi successi, e in un paese in cui la collocazione nei confronti degli Usa è stata alle radici di fortune e sfortune di politici, dalla caduta di Giulio Andreotti a quella di Bettino Craxi, un bilancio del genere avrebbe costituito una volta un epitaffio su una carriera. È inutile girarci intorno. Il capo politico dei 5 stelle non è preparato per la Farnesina che, del resto, come ben si sa, è stata chiesta per lui dal Movimento 5 stelle per “rafforzare” il suo ruolo politico. La politica estera è una specializzazione e Di Maio non ha avuto né il tempo, né forse la vocazione, per specializzarsi. In politica, l’uomo sa fare bene quello che serve al suo partito. Impara presto e sa combattere. Non a caso il suo ruolo più rilevante è quello di capo politico M5S.  E infatti è il lavoro a cui si dedica indefessamente: oggi si è visto con Nicola Zingaretti per decidere sulla verifica di governo, e martedì affronterà la questione delle espulsioni dal Movimento. Ma, e questa è la domanda, in tempi che ogni giorno diventano sempre più complicati e difficili, con altre guerre all’orizzonte, ci possiamo permettere di tenere alla Farnesina un uomo che non è tagliato, né formato, per quell’incarico, e soprattutto che non lo esercita a tempo pieno? La risposta la conosciamo: nessun ministro si può toccare in questo Governo, meno di tutti Di Maio, pena una crisi interna. Ma speriamo che nel suo cuore il Governo sappia la verità: che mettere le ragioni interne di un Governo davanti alla responsabilità di come viene condotta la Farnesina in epoca di scontri internazionali costituisce un grave errore politico.

Da ilblogdellestelle.it il 5 gennaio 2020. Potrebbe cominciare con la parafrasi del suo stesso fondo, giusto per riordinare le idee a chi da tempi non sospetti mostra di confondere l’arroganza con l’intelligenza, la presunzione con la sapienza. E allora cominciamo così, cominciamo dal titolo: cercasi Lucia Annunziata. Perchè non più di 24 ore fa, proprio la direttrice di Huffington Post ha pubblicato un articolo sul suo blog dal titolo “Cercasi ministro degli Esteri a tempo pieno” nel quale, piuttosto goffamente, responsabilizza di ogni colpa mondiale Luigi Di Maio, sottolineando però al contempo che di colpe il ministro degli Esteri in fondo non ne ha poi molte. Un modo straordinariamente articolato per giungere alla banale conclusione che il ministro Di Maio non è in grado di svolgere il ruolo che ricopre alla Farnesina. Per carità, opinione personalissima di Lucia Annunziata. La rispettiamo come tale. E oggi, mai ci saremmo ritrovati a scrivere se non fosse stato per la scivolosa ambizione della giornalista a spiegare agli altri ciò che lei stessa purtroppo ancora non ha capito. Tutto il suo editoriale contro Luigi Di Maio si regge infatti su una domanda amletica e da un milione di dollari: perché il segretario di Stato Mike Pompeo subito dopo il raid Usa in Iraq ha informato Francia, Regno Unito, Cina, Russia, Germania e non ha chiamato anche l’Italia? Perché Mike Pompeo ha dunque avvisato mezzo mondo e mezza Europa e non ha fatto un colpo di telefono al nostro Paese? “Ci piaccia o meno per noi è uno smacco”; ha accuratamente scritto Lucia Annunziata nel suo fondo; domandandosi, ancora: “Come mai non siamo nella lista di Pompeo? Non può essere una svista, quelle sono telefonate preparate. Un incidente diplomatico? Avrà chiamato Chigi? Il Quirinale?”. Bene. Lungi da noi voler sentenziare la libera opinione di una professionista, ma ci rincresce doverle rimproverare stavolta di aver fatto il passo più lungo della gamba. Ci rincresce ricordarle – malgrado il suo passato da corrispondente – anche le basi della più elementare politica internazionale, dei protocolli, delle liturgie e della forma. Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, non ha informato mezzo mondo e mezza Europa tranne l’Italia. Il segretario di Stato americano ha informato in prima battuta i Paesi del P5+1. Appunto: i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (vale a dire Cina, Francia, Russia, Regno Unito; più la Germania, che per il biennio 2019/2020 è anche membro non permanente del Consiglio). Gli stessi Paesi che il 14 luglio 2015 a Vienna raggiunsero l’accordo sul nucleare iraniano, poi sfumato. Allora, a guidare la diplomazia italiana non c’era Luigi Di Maio, bensì l’ex ministro Paolo Gentiloni che, a parere di Lucia Annunziata, formidabile giornalista che si distingue per non dire niente di intelligente ma per dirlo bene, insieme a “Roberto Gualtieri e David Sassoli” oggi avrebbe sottratto il dossier europeo dalle mani di Di Maio dando finalmente “segnali di recupero” dell’Italia in Europa. Sia chiaro, questo non vuole, neppure indirettamente, apparire come un processo all’attuale commissario per gli Affari Economici e Monetari dell’Ue, che il governo sostiene con convinzione. Al contrario, tutto ciò mette perfettamente a nudo lo stato confusionale di una giornalista che ha evidentemente perduto il senso analitico della storia, sopraffatta dal pregiudizio e da una ingiustificata supremazia morale. Preferiamo invece non commentare “le possibilità” elencate dalla Annunziata circa l’ipotesi che Mike Pompeo abbia potuto informare Palazzo Chigi o il Quirinale, perché anche un praticante è a conoscenza del fatto che esiste una silenziosa grammatica istituzionale secondo cui un segretario di Stato o un ministro non interloquiscono (quasi) mai direttamente con un presidente eletto di un Paese estero. Nondimeno, a Lucia Annunziata sarebbe bastato alzare la cornetta del telefono per verificare di persona la notizia. Non lo ha fatto, auguri. Come non ha verificato neanche la sequenza delle agenzie battute nelle ultime 48 ore, visto che il primo ed unico messaggio sul raid Usa è giunto il 3 gennaio dal ministro Luigi Di Maio e da nessun altro esponente di governo. Quanto alle presunte “rassicurazioni” a cui allude sempre Lucia Annunziata e che Di Maio avrebbe dovuto fornire agli italiani, siamo fortunatamente ben lontani, noi, da confondere il servizio per il Paese con la propaganda. In un quadro del genere non ci sono molte rassicurazioni da fare. La storia ci ha insegnato che l’uso della forza ha sempre finito per alimentare la minaccia terroristica e ulteriori flussi migratori, come ha ribadito lo stesso Luigi Di Maio nella sua nota stampa. Non starà a noi giudicare se il nostro capo politico è preparato a ricoprire l’incarico di titolare della Farnesina. Lo ammettiamo, saremmo di parte. Spetterà ai cittadini trarre le conclusioni opportune, sulla preparazione di Luigi Di Maio e, adesso, anche su quella di Lucia Annunziata.

L’Huffington Post vorrebbe cacciare gli americani dalle basi in Italia. Tre motivi per cui è un’idiozia colossale. Mirko Giordani su Il Giornale il 6 gennaio 2020. Nei giorni immediatamente successivo all’attacco americano in cui è rimasto ucciso Qassem Soleimani era ovvio trovare nei giornali italiani qualche tranvata bella grossa. Ne abbiamo viste a bizzeffe, e sicuramente le più clamorose sono state i dubbi di Mentana sulla provenienza del drone (Sigonella si, Sigonella no) e gli allarmi di una terza guerra mondiale. Ma l’oscar per la castroneria più bella e clamorosa va sicuramente all’analista dell’ISPI Matteo Pugliese, che sull’Huffington Post ci delizia con un’analisi sopraffina: “Se Trump sarà rieletto, riconsideriamo le basi USA in Italia”. Ora, ad un articolo con un titolo siffatto andrebbe solo concesso l’onore delle armi, una salva di cannoni ed andrebbe buttato nel cestino seduta stante senza troppe analisi da fare. Ma siccome è l’Epifania e nei giorni di festa mi piace lavorare, mettiamoci un attimo con impegno a smontare questa roba. Dall’analisi di Pugliese, sembra che il multilateralismo, al contrario delle decisioni unilaterali di Donald Trump, sia la panacea di tutti i mali. Rivolgersi sempre alle organizzazioni internazionali, buttare la palla in tribuna e aspettare che passi la nottata. Me la ricordo molto bene infatti l’epoca delle decisioni multilaterali con Obama, quando scientemente si distrusse un paese come la Libia (tra l’altro usando la base di Aviano, ca va sans dire). L’avallo di Obama alla guerra personale di Sarkozy, tutto in ottima molto multilaterale, sarebbe stato un motivo per rimuovere le basi aeree del nostro più importante alleato? Tornando alle azioni avventate di Trump che dovrebbero spingerci a sbattere fuori i nemici yankee, Pugliese cita anche l’abbandono dei curdi. Se gli europei e gli italiani avessero tenuto tanto ai curdi, dopo l’abbandono americano avrebbero potuto inviare corpi di spedizione a fare da cuscinetto tra i turchi e i curdi. Nessuno lo ha fatto. Poi Pugliese parla, ironicamente, della relazione tra Trump e “Giuseppi” Conte sull’affare Libia. Secondo Pugliese, Trump avrebbe abbandonato a se stessa l’Italia. Ora, se Pugliese dice che non dovremmo avere le basi americane in Italia, perchè mai noi avremmo bisogno del sostegno americano in Libia? Siccome la politica estera non si fa solo con i research paper ma anche con il piombo, la crisi in Libia dovevamo gestirla noi, il nostro esercito e quello di qualche altro paese europeo, senza l’endorsement americano. Ovviamente questo non succederà mai, almeno con questa classe politica. Ed in quanto ad inaffidabilità, l’Italia ha certamente un curriculum di tutto rispetto. Ricordate quando Renzi promise ad Obama di prendere le redini dell’operazione militare in Libia? Non se ne fece nulla, ovviamente. Pugliese risponderà sicuramente che questo è il motivo per cui serve un esercito europeo. Sommessamente io suggerirei che prima l’Italia deve capire molto bene quale è il suo posto nel Mediterraneo, quali sono le sue linee rosse, quali sono gli interessi da difendere e quali mezzi usare per difenderli e soprattutto quanto spendere in punti di PIL. Prima di ciarlare a vuoto di interesse nazionale ed europeo (sic!) messo a rischio dalle basi americane, dobbiamo decidere per cosa valga la pena combattere, come combattere, quanto combattere e quanto spendere. Se non si è disposti a tracciare alcune linee rosse invalicabili, la parola “interesse nazionale” è vuota.

Antonio Socci contro l'editoriale di Eugenio Scalfari: "Gli Usa sono una dittatura? Cosa sta dimenticando". Libero Quotidiano il 7 Gennaio 2020. «Viviamo in un mondo di dittature, grandi o piccole che siano. Quella americana è la più forte». Così iniziava ieri l'editoriale di Repubblica, che è il vangelo del progressismo italico. Editoriale di prima pagina (che quindi esprime la posizione del giornale) firmato dal suo fondatore, Eugenio Scalfari. Prevedendo lo sbalordimento di qualche lettore, Scalfari subito dopo (bontà sua) spiegava che «formalmente non è una dittatura» quella americana, perché «c'è un presidente che governa, sotto il controllo del Parlamento. Ma si chiama Trump e abbiamo visto in queste ore di che cosa è capace». Scalfari si riferisce all'azione contro l'uomo forte dell'Iran, il generale Soleimani. Questo episodio gli basta per affermare che gli Stati Uniti sono la dittatura più forte del mondo. Dittatura che non c'era con Obama, il quale faceva bombardare la Libia per rovesciare Gheddafi, con tutta la catastrofe che ne è seguita, ma non veniva annoverato da Scalfari fra i dittatori. Anzi, lui era un benemerito premio Nobel per la Pace. E l'Iran di Soleimani? Quell'Iran che a novembre e dicembre pare aver fatto circa 1.500 morti fra i manifestanti, con arresti di massa? L'Iran degli Ayatollah che, solo dal 2014 secondo Amnesty International, ha messo a morte più di 2.500 persone (compresi minorenni), in palese violazione del diritto internazionale? Questo Iran per Scalfari non è una dittatura? Il Fondatore si è dimenticato di annoverarlo fra le dittature. Anzi, ritrae Soleimani in un modo tale che sembra un rispettabile generale e un autorevole statista, assassinato dagli Usa di Trump (la dittatura che si è detto). Ecco le testuali parole di Scalfari: «Trump ha fatto uccidere un soldato e uomo politico che aveva in mano l'Iran e l' Iraq e amministrava l'essenza di quei Paesi, le loro ricchezze e la loro potenza politica, il petrolio iraniano e lo scontro che, secondo lui, bisognava superare tra quei due Paesi, che dovevano collaborare tra loro». Insomma: sembra un lungimirante e pacifico statista. Infatti - prosegue Scalfari - «si occupava anche del popolo dei curdi. Ma perché» si chiede ancora il Fondatore «Trump ha commissionato l'uccisione di Soleimani e chi era realmente questo generale? Non faceva parte del governo del suo Paese, ma in realtà era lui che lo governava. Farlo uccidere aveva l'intento non solo anti-iraniano, ma di eliminare una personalità che aveva una forza politica decisamente estesa a vari e numerosi territori del mondo arabo. Questa è la motivazione che Trump ha dato». In realtà Trump ha detto che - due giorni dopo l'assalto all'ambasciata Usa a Baghdad - questa azione ha voluto prevenire altri attacchi e attentati programmati: «(Soleimani) ha ucciso o ferito gravemente migliaia di americani durante un lungo arco di tempo e stava complottando per ucciderne molti altri». Sulla Stampa l'iraniana Ladan Boroumand, attivista per i diritti umani in esilio, ha spiegato che personcina era Soleimani: «nessun uomo al mondo è stato direttamente coinvolto in più conflitti, in più Paesi, per un periodo più lungo di Qasem Soleimani». Egli ha sostenuto e fondato «milizie armate in Siria, Yemen, Iraq e Libano. I Guardiani della Rivoluzione (i Pasdaran) sotto la sua guida hanno esportato terrorismo e instabilità in tutto il Medio Oriente. Per il regime degli Ayatollah è stata una perdita enorme». Scalfari non ci dice nulla di quel regime. Ci spiega invece che, insieme agli Usa, «la dittatura più estesa» è «la Russia di Putin». Mentre «l'Europa è il solo continente dove le dittature vere e proprie non ci sono». Quindi apprendiamo che la Russia non fa parte dell'Europa. E la Cina comunista non viene annoverata da Scalfari fra le dittature. Gli Stati Uniti sì. Questo è il giornale che impartisce a tutti lezioni di difesa della democrazia e di lotta alle fake news. Antonio Socci

(ANSA il 6 gennaio 2020.) - Il presidente americano Donald Trump ha ribadito che se l'Iran attaccherà gli Usa ci sarà una "grave rappresaglia" da parte degli Stati Uniti. Continua la forte crescita del prezzo del petrolio sulle tensioni tra Usa e Iran, che si estendono in Medio Oriente: in avvio di settimana a New York il greggio viene scambiato a 64,3 dollari al barile con un aumento del 2% rispetto a venerdì, quando già era salito di oltre tre punti percentuali. I futures sul Brent europeo oltrepassano la soglia psicologica dei 70 dollari, in crescita del 2,3%. "Se gli Stati Uniti non ritirano le forze dalla regione, affronteranno un altro Vietnam". Lo ha detto Ali Akbar Velayati, consigliere del leader iraniano Ali Khamenei, citato da Farsnews. "Nonostante le vanterie dell'ignorante presidente degli Stati Uniti, l'Iran intraprenderà un'azione di ritorsione contro la stupida mossa degli americani che li farà pentire", ha sottolineato. Una folla di milioni di persone ha invaso le strade di Teheran e si sta concentrando all'università della capitale dove si terrà la cerimonia funebre per il comandante delle forze di Qods Qassem, Soleimani, ucciso in Iraq dalle forze statunitensi venerdì. A guidare le preghiere per il generale iraniano sarà Ali Khamenei, guida Suprema dell'Iran. Le famiglie dei soldati statunitensi di stanza in Medio Oriente "dovrebbero aspettarsi la morte dei loro figli". Lo ha detto la figlia del generale Qassem Soleimani, Zeinab, durante la cerimonia funebre per suo padre all'università di Teheran. Sottolineando la necessità di una vendetta immediata verso gli Stati Uniti, ha definito Trump, come fece una volta il padre, un "giocatore d'azzardo". "Hai fatto un errore storico - ha aggiunto - non potrai seminare discordia tra Iran e Iraq". Anche il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha tenuto un discorso durante la cerimonia. Ai funerali del generale iraniano Qassem Soleimani hanno partecipato anche il leader di Hamas Ismail Haniyeh, il suo vice Salah al-Aruri ed il leader della Jihad islamica Ziad Nakhale. Lo riferiscono i media di Gaza secondo cui la loro presenza alle esequie rischia ora di provocare frizioni con i principali Paesi sunniti: Egitto ed Arabia Saudita. Con un implicito riferimento ad aiuti assicurati dall'Iran alle milizie palestinesi, Haniyeh ha affermato: "Il progetto delle resistenza nella terra di Palestina e nella Regione non sarà indebolito né retrocederà. Le eliminazioni hanno il solo risultato di infonderci nuova forza per la liberazione di Gerusalemme. Qassem Soleimani ha dedicato la vita alla resistenza ed è un martire di al-Quds", il nome arabo di Gerusalemme. "La resistenza è uscita vittoriosa in Libano e a Gaza e avrà ragione del progetto sionista". A quanto risulta, Haniyeh sarà ricevuto dal leader supremo dell'Iran Ali Khamenei.

Marea umana a funerali Soleimani. La Ue vuole incontrare Zarif. Alberto Zanconato per l'ANSA il 6 gennaio 2020. I militari americani devono essere cacciati dall'Iraq: è quanto ha chiesto domenica il Parlamento iracheno al governo di Baghdad. La prima risposta al blitz americano in cui venerdì notte è stato ucciso il generale Qassem Soleimani è di natura politica, ma potenzialmente più incisiva dell'attesa rappresaglia iraniana. Con un'altra contromossa, Teheran ha annunciato un'ulteriore riduzione dei suoi obblighi relativi all'intesa nucleare del 2015, riservandosi di rendere operativo un numero illimitato di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. Intanto da Ahvaz, nel sud-ovest dell'Iran, a Mashhad, città santa sciita nel nord-est, una marea umana si è radunata per l'ultimo saluto al capo della Forza al Qods dei Pasdaran e al suo fedele alleato Abu Mehdi al-Mouhandis, capo delle Brigate Hezbollah irachene alleate di Teheran. Una partecipazione in parte spontanea, in parte frutto di una mobilitazione organizzata dal regime, per dare una dimostrazione di compattezza in questa pericolosissima sfida con gli Usa. Un camion ornato di fiori e coperto da un telo con disegnata la cupola della Roccia di Gerusalemme ha trasportato le bare dei due martiri facendosi strada lentamente attraverso la folla ad Ahvaz, capoluogo del Khuzestan, provincia devastata dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988), durante la quale la stella del generale iniziò a brillare. L'omaggio a Soleimani si è ripetuto a Mashhad, dove la grande partecipazione popolare, secondo le autorità, ha fatto allungare i tempi previsti, costringendole a cancellare le cerimonie in programma successivamente a Teheran. Martedì è prevista la sepoltura del generale dei Pasdaran nella sua città natale, Kerman. Bandiere verdi dell'Islam e rosse a simboleggiare il sangue dei martiri sventolavano tra la folla, dalla quale si è levato a più riprese il grido di "Morte all'America". Lo stesso slogan è stato scandito dai deputati durante una seduta del Parlamento di Teheran, che ha fatto appello alla rappresaglia contro gli Usa. Mentre a Beirut il capo dell'Hezbollah libanese, Seyed Hassan Nasrallah, ha parlato di ''bare dei soldati americani'' che presto cominceranno ''a tornare negli Stati Uniti''. La risposta dell'Iran all'uccisione di Soleimani "sarà sicuramente militare e contro siti militari", ha affermato Hossein Dehghan, consigliere militare della Guida suprema iraniana Ali Khamenei. Ma Teheran soppesa ancora le prossime mosse, consapevole che un passo falso potrebbe avere conseguenze catastrofiche. E intanto valuta la possibilità di seguire le vie diplomatiche. Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha avuto un colloquio telefonico con Josep Borrell. Il responsabile della politica estera della Ue ha invitato a Bruxelles il ministro iraniano, chiedendo a Teheran di cooperare alla riduzione delle tensioni. Ma intanto Gran Bretagna e Francia esprimono solidarietà a Trump. "Non piangeremo" la morte di Qasem Soleimani, "una minaccia per tutti i nostri interessi", ha detto il premier Boris Johnson. Mentre il presidente Emmanuel Macron condanna ''le attività destabilizzatrici della forza Al Qods sotto l'autorità del generale Qassem Soleimani". L'Iran ha intanto deciso di procedere con un nuovo passo - il quinto - nella riduzione delle restrizioni sul suo programma nucleare, togliendo ogni limite al numero delle centrifughe in attività. Una nuova reazione al ritiro dall'accordo del 2015 degli Usa, che hanno reintrodotto pesantissime sanzioni contro Teheran. La Repubblica islamica ha però assicurato che continuerà a permettere l'accesso ai propri siti agli ispettori dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea). In Iraq, intanto, la Coalizione anti-Isis a guida americana - di cui fa parte anche l'Italia - ha sospeso l'attività in coincidenza con la mozione del Parlamento perchè il governo revochi la richiesta di aiuto fatta dall'esecutivo nel 2014 alla forza internazionale di fronte all'avanzata delle milizie del Califfato. Per il momento non si parla ancora di ritiro, in attesa della decisione del governo. "Sarà la Coalizione, con tutti i suoi componenti - ha sottolineato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini - a determinarne gli sviluppi, nel quadro dei contatti sempre frequenti fra gli Stati Maggiori della Difesa dei Paesi Membri". Anche la Nato aveva sospeso sabato le attività addestrative e il segretario generale Jens Stoltenberg ha convocato per lunedì una riunione degli ambasciatori dei 29 paesi membri per un esame della situazione.

(ANSA il 6 gennaio 2020) - I leader di Germania, Francia e Gran Bretagna hanno chiesto all'Iran di tornare ad applicare pienamente l'accordo sul nucleare del 2015, dopo l'annuncio di Teheran che non rispetterà più i limiti all'arricchimento dell'uranio. ''Chiediamo all'Iran di ritirare tutte le misure che non sono in linea con l'intesa sul nucleare'', affermano in una dichiarazione congiunta la cancelliera Angela Mekel, il presidente Emmanuel Macron e il premier Boris Johnson.

Funerali Soleimani: in migliaia a Baghdad gridano “Morte all’America”. Laura Pellegrini il 04/01/2020 su Notizie.it.  Il 4 gennaio 2020 si svolgono i funerali per il generale iraniano Qassem Soleimani e per il suo luogotenente in Iraq Abu Mehdi al-Mouhandis. I funerali del generale iraniano Qassem Soleimani si sono svolti a Baghdad nel giorno successivo alla sua morte: in migliaia si sono radunati per l’ultimo saluto. Nella Capitale irachena i fedeli hanno intonati un grido: “Morte all’America”. Infatti, Soleimani è stato ucciso da un raid Usa contro l’aeroporto di Baghdad, in Iraq, insieme al luogotenente Abu Mehdi al-Mouhandis. Sabato 4 gennaio il corteo funebre per il luogotenente e per il generale ha sfilato tra le vie del distretto di Kazimiya, nei pressi di un santuario sciita.

Baghdad, funerali Qassem Soleimani. Il 3 gennaio 2020 è morto il generale iraniano Qassem Soleimani, dopo che un raid lanciato dagli Stati Uniti ha colpito l’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Insieme al generale ha perso al vita anche il suo luogotenente Abu Mehdi al-Mouhandis. I funerali per Soleimani e per al-Mouhandis hanno avuto luogo il 4 gennaio nella capitale irachena. Moltissime le persone che si sono radunate per l’ultimo saluto all’uomo più potente del Medio Oriente: i video sui social dimostrano grande partecipazione. Tutti insieme hanno intonato un grido mentre trasportavano il feretro: “Morte all’America”. Dopo il corteo che ha sfilato tra le vie del distretto di Kazimiya è previsto il funerale nella zona verde di Baghdad. Presenti alle esequie anche il primo ministro iracheno e altre figure istituzionali. I resti del corpo del generale ucciso verranno poi trasferiti nella sua città natale, a Kerman, dove martedì 7 gennaio si terranno nuovi funerali.

La guerra di Trump: migliaia ai funerali del generale Soleimani e Teheran minaccia: «Morte agli Usa». Alessandro Fioroni il 4 gennaio 2020 su Il Dubbio. Migliaia di persone hanno partecipato per le strade di Baghdad al corteo funebre per il generale iraniano Qassem Soleimani ucciso in un raid americano. Migliaia di persone hanno partecipato per le strade di Baghdad al corteo funebre per il generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso in un raid americano. I funerali anche nelle due città sante sciite di Najaf e Kerbala. ll corpo del generale iraniano ucciso da un raid Usa sarà trasferito in Iran in serata, dove inizieranno tre giorni di lutto nazionale. Nel raid sono morte altre sette persone. Continua l’offensiva statunitense contro le forze iraniane e i loro alleati in Iraq. Nella notte è stato ucciso un comandante del gruppo paramilitare iracheno filo-iraniano in un raid aereo di Washington a nord di Baghdad. E ora cosa succederà? E’ questa la domanda che il mondo si sta ponendo a poche ore dall’uccisione, per mano americana, di Qassem Soleimani, il leggendario generale iraniano, capo delle brigate Quds, colpito nei pressi dell’aeroporto di Baghdad mentre viaggiava su un convoglio di auto. L’attacco Usa è stato compiuto da droni, alcuni razzi hanno centrato i veicoli, provocando la morte anche del numero 2 della milizia paramilitare sciita Hashd Shaabi, Abu Mahdi al- Mohandes. Ad annunciarlo è stato un portavoce del gruppo stesso. Per il Pentagono l’uccisione di Soleimani è stata ‘ un’azione difensiva’ per contrastare la presenza iraniana in Iraq soprattutto dopo il tentativo di assalto all’ambasciata statunitense di lunedì scorso. Soleimani era un uomo chiave della strategia di Teheran, la sua morte non potrà non avere conseguenze e tutti si aspettano una risposta che potrebbe essere tra le più dure. Una prima avvisaglia sta nelle parole pronunciate da chi, solitamente, riveste i panni del mediatore. Il ministro degli Esteri Javad Zarif ha definito l’attacco «estremamente pericoloso. Sugli Stati Uniti ricade la responsabilità di tutte le conseguenze di questo avventurismo criminale». E anche un cosiddetto “riformatore” come il presidente Hassan Rohani ha fatto sentire la sue voce: «Indubbiamente, l’Iran e altri Stati indipendenti vendicheranno questo crimine terribile commesso dagli Stati Uniti». Le prossime ore o giorni saranno dunque cruciali per capire se Usa e Iran saranno coinvolti in una guerra dagli esiti più che imprevedibili e che potrebbe estendersi a tutta l’area del Medioriente. Uno dei primi effetti è stato l’inevitabile aumento del prezzo del greggio mentre le principali compagnie petrolifere straniere stanno evacuando il loro personale dal sud dell’Iraq attraverso l’aeroporto di Bassora. La figura del generale ucciso era fondamentale per Teheran. Soleimani da più parti era visto come un possibile protagonista della vita politica iraniana, tanto da essere considerato il vero ministro degli Esteri. La sua popolarità lo aveva reso protagonista dei notiziari, oggetto di dococumentari e persino di alcune hit musicali. Nato in una famiglia di umili origini, si era fatto strada nell’esercito mantenendo un profilo basso, un atteggiamento sfuggente e carismatico nello stesso tempo che non gli aveva impedito di diventare protagonista e capo delle operazioni “coperte”, non solo in Iraq ma anche in Siria. Vicino alle posizioni di Rhoani ma non sgradito ai vertici del governo teocratico. Ha sostenuto fattivamente Damasco per sconfiggere le forze anti Assad, ha combattuto anche l’Isis in maniera determinante. Ma il suo capolavoro è stato quello di tessere alleanze utili con le fazioni sciite irachene costruendo una rete di appoggio nel paese. Uno sfoggio di abilità diplomatica btale che il Times lo ha definito recentemente come il Machiavelli del Medioriente, capace di determinare il corso degli eventi nel 2020. Per il giornale britannico “… In qualità di capo della Forza al Quds, egli ha realizzato il sogno iraniano di un corridoio terrestre da Teheran al Mediterraneo controllato da milizie leali…”. Intanto in Iran sono stati convocati tre giorni di lutto nazionale durante i quali risuonerà sempre più forte l’appello della Guida Suprema, Ali Khamenei, che ha già promesso «vendetta immediata e dura». Decine di migliaia di persone si sono già riversate ieri per le strade di Teheran e in centinaia di altre città in Iran per protestare contro il raid. Durante le manifestazioni sono stati intonati slogan di ” Morte all’America” e ” Vendetta, vendetta”. Washington ha al momento sollecitato i cittadini statunitensi a lasciare il paese immediatamente. Fonti diplomatiche americane hanno fatto sapere: «I cittadini americani partano per via aerea dove possibile, altrimenti raggiungano altri paesi via terra». In queste ore a Teheran si è riunito in via straordinaria e permanente il Consiglio nazionale supremo della sicurezza per valutare le prossime mosse. Sia i Pasdaran che il comandante delle Unità di mobilitazione popolare sciite irachene ( Hashed al- Shaabi), Qais al- Khazali, hanno cominciato i preparativi militari minacciando in primo luogo il nemico più vicino: Israele, dove è stato innalzato al massimo il livello di sicurezza interno. Naftali Bennet, ministro della Difesa, ha iniziato una serie di consultazioni con i militari temendo una reazione di Hezbollah libanesi qualora venisse individuata una responsabilità di Tel Aviv nell’eliminazione di Soleimani.

Le lacrime di Khamenei per «il martire» Soleimani. Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. I martiri vivono per sempre nella memoria, e ora il generale Soleimani è uno di loro. Atterrati all’aeroporto di Teheran, i passeggeri in attesa dei bagagli sono sovrastati da uno schermo gigante su cui scorre un filmato che celebra le gesta del guerriero ucciso dagli americani. Ora imbraccia un lanciarazzi, ora scruta l’orizzonte col binocolo. Le bandiere nere sventolano accanto a quelle tricolore su ogni ponte che incontriamo in auto verso il centro. Una delle immagini più popolari mostra Soleimani accolto in paradiso dall’Imam Hussein, nipote di Maometto che morì martire a Karbala: è attaccata con l’adesivo anche sul motorino di un fattorino che consegna cibo a domicilio, l’unico veicolo che riesce a districarsi nel traffico micidiale di Teheran in questo terzo giorno di lutto. La processione funebre del braccio destro della Guida Suprema Ali Khamenei, iniziata sabato scorso in Iraq, ha toccato domenica Ahvaz e Mashhad in Iran, e ieri è giunta nella capitale, per poi far tappa a Qom e infine oggi alla natìa Kerman, dove verrà sepolto. Qui in Iran la partecipazione popolare è considerata seconda solo ai funerali dell’Imam Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica. Due fiumi umani convergono alle 8 del mattino sull’Università di Teheran: uno da piazza Azadi ad ovest e l’altro da piazza Ferdowsi a est. A giudicare dalle immagini riprese dall’alto potrebbero essere 3-4 milioni di persone. I feretri di Soleimani e delle sue guardie galleggiano sul tetto di un furgone che li trasporta tra le ondate di gente. Khamenei piange, la figlia di Soleimani minaccia le truppe americane in Medio Oriente, e il capo dell’aviazione dei Pasdaran Amir Ali Hajizadeh assicura che un solo attacco non basterà: «Lanciare un paio di missili, colpire una base o perfino assassinare Trump non può ripagare il sangue del martire Soleimani. L’unico modo è la totale rimozione dell’America dalla regione». Ci sono il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e quello della Jihad Islamica, Ziad Nakhale. Un manifesto mostra un razzo che fa breccia nel cuore di Israele: «A soli 7 minuti», dice la didascalia in inglese. Solo che quando ci accostiamo, a una a una, alle persone di questa folla che in coro grida «Vendetta!» e «Morte all’America e a Israele», quasi tutti dicono di sperare che la guerra non scoppi davvero. Molte sono famiglie: non solo uffici e negozi ma anche scuole e nidi sono chiusi, così si sono dovuti portar dietro i figli. «Questo non è un messaggio per la guerra, ma una dimostrazione di rispetto per il nostro eroe ucciso da Trump, che ora vuole anche bombardare i nostri siti culturali», dice Farhad, un professore d’inglese, seguito dal figlio col cappello di lana da Spiderman. «Soleimani aveva due tratti, quello religioso e quello nazionalista», aggiunge Farhad. «Qui li troverai entrambi». Quella che è scesa in piazza a Teheran è per lo più la parte tradizionalista e devota della società. Quasi tutte le donne portano il chador, alcune con gli occhiali da sole. Un giovane hojatoleslam con il turbante bianco si arena con il passeggino nel corteo. Sul cappellino rosa di una bimba sui due anni seduta sulle spalle del papà spicca una bandana rossa con la scritta: «Sono anch’io Soleimani». La signora Mahan, moglie di un soldato, spiega che è venuta per dimostrare la sua devozione al regime, il figlio di dieci anni annuisce. «O Zahra, O Zahra» gridano le donne sollevando le braccia al cielo, evocando la figlia di Maometto. Gestualità, slogan e colori ricordano a Farnaz Fassihi del New York Times l’Ashura (l’anniversario del quarantesimo giorno dopo la morte di Hussein), ma non c’è autoflagellazione (neanche simbolica), il corteo è più simile a un comizio. Sventolano le bandiere rosse, segno di chiamata alla battaglia, come quella eretta nei giorni scorsi sulla sommità della moschea Jamkaran di Qom con la scritta «Coloro che vogliono vendicare il sangue di Hussein». «È un linguaggio nuovo — secondo il fotografo Mehran Falsafi —. L’uso del rosso non era affatto comune in situazioni come questa, anzi durante l’anniversario del martirio di Hussein era addirittura vietato indossare quel colore. Il colore dell’Islam è il verde, ma forse il cambiamento è dovuto al fatto che il Movimento Verde del 2009 ha creato confusione». Non vediamo tra la folla molti iraniani appartenenti alla fetta laica e progressista della società. Alcuni li incontriamo più tardi al parco. «Non sono andato, vedo troppe contraddizioni», ci dice Morteza, che con la figlia si è fermato ad accarezzare un gatto di strada. «Fino a qualche giorno fa la gente parlava dei problemi economici, ma oggi tutti sono erano ai funerali perché il nostro governo spinge il popolo all’emotività. Io temo la guerra: alle autorità non importa del popolo, sono pronte a tollerare la rovina di gran parte del Paese pur di restare al potere in una sua piccola parte». «Noi sì, siamo andati ai funerali», dice un altro capofamiglia nello stesso parco. Poi aggiunge: «Non è vero. Ma la maggior parte della gente non dice la verità, perché ha paura delle conseguenze. Io sono un impiegato comunale, ci hanno detto che oggi gli uffici avrebbero chiuso perché volevano che andassimo alla cerimonia. I dirigenti devono farlo, perché hanno paura di perdere il posto, ma gli impiegati come me no. Comunque, siamo usciti di casa, per dire che abbiamo partecipato». Questo non significa che condivida le scelte di Trump: «L’uccisione di Soleimani non sarà di beneficio al popolo iraniano e le sanzioni hanno rovinato la nostra economia. Io ho uno stipendio abbastanza buono, ma non so come arrivare a fine mese. Ho tre figli e ho paura per il loro futuro».

Iraq, ok Parlamento a espulsione truppe Usa. (LaPresse/AP il 5 gennaio 2020. ) - Il Parlamento iracheno ha approvato una risoluzione che chiede di metter fine alla presenza di tutte le truppe straniere nel Paese. L'obiettivo del testo è far sì che gli Usa ritirino i circa 5mila militari presenti in varie regioni dell'Iraq, a seguito dell'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.

Bagdad si divide: folla al funerale, giovani in festa. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. Il sanguinoso blitz americano che venerdì nella notte ha ucciso il capo iraniano delle Brigate Al Quds esaspera le frizioni interne. Ieri sera almeno due colpi di mortaio sono caduti nella «zona verde» di Bagdad dove ci sono anche le ambasciate (compresa quella italiana). Due razzi hanno preso di mira la base americana di Balad, a nord della capitale. In tarda mattinata facciamo in tempo a vedere le bara di Soleimani avvolta nelle bandiere tradizionali sciite e iraniana accompagnata dalla folla piangente nei pressi della mosche sciita di Kadimia. Poco dopo i funerali sono ripresi con decine di migliaia di persone nella città santa di Karbala, prima di partire per l’Iran, dove continueranno sino a domani. «Morte a Trump, a morte l’America, a morte Israele. Assassini. La pagheranno nel sangue», urlano sotto un cielo che prima era ridente di sole e ora si sta facendo plumbeo. Ma appena tre isolati più in là, attorno alla centralissima piazza Tahrir, ecco reazioni opposte. «Per fortuna l’hanno ucciso. Per l’Iraq e il mondo islamico è una liberazione. Soleimani assieme ai capi delle milizie sciite, come Abu Mahdi Al Muhandis delle Hashid al Shaabi, ci stavano rovinando la vita. Siamo iracheni, non vogliamo essere servi dell’Iran», dicono in coro decine di giovani incontrati in questa che da fine settembre è diventata la piazza simbolo della lotta degli iracheni «in nome della dignità», contro la politica e i partiti. È una sorpresa. Abbiamo così ignorato l’Iraq negli ultimi tempi, le sue lotte interne, l’esasperazione popolare, che adesso l’assassinio per mano americana del grande timoniere della politica militare iraniana al nono chilometro della superstrada, che era stata voluta da Saddam Hussein per collegare il centro della capitale con l’aeroporto internazionale, ci propone una realtà inaspettata. Credevamo di trovare un Paese unito nel condannare il blitz voluto da Trump. E invece scopriamo un universo frazionato in modo radicale, con due piazze che si sfiorano, parlano la stessa lingua, figlie della stessa storia, eppure inneggiano a slogan opposti con valori agli antipodi. «Il cadavere di Soleimani mette a nudo la guerra tra gli sciiti. Quelli che sono per l’indipendenza e quelli che sono a rimorchio del regime degli ayatollah a Teheran. Dei sunniti neppure parliamo, perché se contestassero apertamente li accuserebbero subito di essere pro-Isis», mi dice un ufficiale della dogana mentre attendo il visto d’entrata all’aeroporto. Anche i suoi colleghi e molti tra i passeggeri che frettolosi cercano di trovare un mezzo che dribbli i posti di blocco e le manifestazioni previste in città per commemorare i «martiri barbaramente uccisi da Trump», come ripetono le televisioni locali, paiono quasi indifferenti. «Questa guerra non è la nostra guerra. Che Iran e Washington se la facciano a casa loro, non a spese nostre», dice Muthanna al Baghdadi, un giovane ingegnere con due figli in braccio. Dieci minuti dopo il taxista rallenta sul luogo dello scoppio dei razzi. Ma non troppo, teme di essere arrestato dalle pattuglie militari. «Mi hanno detto che è vietato fare foto», mi dice teso mentre giro un veloce video. Gli spazzini hanno già pulito. A meno di 30 ore dal blitz, occorre fare attenzione per individuare tre ampi aloni neri sull’asfalto, alcune rose e un manifesto di cordoglio, oltre alle schegge conficcate nel muro che corre lungo la strada e un paio di lampioni spezzati dallo spostamento d’aria. Poi Bagdad è nel caos. Ricorda il periodo delle ondate di attentati kamikaze tra 2004 e 2009, quando i posti di blocco imposti dagli americani assieme alla polizia irachena da loro addestrata costringevano ad attese in coda di ore e ore. Tra le auto ferme si aggirano giovanissimi e anziani che vendono tazze di caffè, sigarette, fazzoletti di carta, banane e mele. Arrivando nei pressi dei cortei funebri scopriamo che molti sono giunti nella notte dalle campagne, alcuni con gli autobus da Nassiriya, Kut, Najaf, Karbala e Bassora. Le tv locali diffondono filmati della guerra dell’Hezbollah libanese contro Israele nel 2006, oltre a vecchie immagini dell’ayatollah Khomeini genuflesso in preghiera. C’è un dipinto dell’Imam Hussein, considerato tra i massimi fondatori del credo sciita, che abbraccia Soleimani mentre assurge al cielo. Non c’è nulla in questi cartelloni colorati — dominano il giallo e il verde — dello spartano e iconoclasta puritanesimo wahabita di cui sono pervasi i radicali sunniti. «Trump ha commesso un errore grave. La pagherà cara. Presto il nostro parlamento voterà l’espulsione delle truppe Usa assieme a tutti i contingenti militari stranieri, compresi gli italiani», ci dice il 46enne Eitham Al Khazali, direttore di Al Adaf, una fondazione culturale sostenuta da Teheran. Ma è nella tenda dei «dottori della protesta», una delle centinaia costruite con coperte e plastica a piazza Tahrir, che la narrativa del lutto per Soleimani si scontra con le voci di giovani generazioni decise a raccontare un altro Iraq. «Quando abbiamo sentito che era morto, abbiamo festeggiato. Sono stati lui e le milizie a dividere noi iracheni tra sciiti e sunniti. È stata la politica repressiva dei sunniti voluta da Soleimani dopo l’invasione americana del 2003 a contribuire alla nascita di Al Qaeda e Isis in queste regioni. Le milizie hanno avuto un ruolo positivo a fianco dell’esercito regolare per battere Isis, ma adesso vanno sciolte al più presto. Non vogliamo più sentire parlare di divisioni settarie o religiose, siamo tutti iracheni allo stesso titolo», dice Ahmad al Harithin, 33enne ginecologo, figlio di una facoltosa famiglia della capitale che dai primi di ottobre è accampato nella zona degli scontri urbani. Un suo compagno, anestesista presso l’ospedale della città universitaria, teme invece che il riaccendersi della tensione metta in secondo piano le rivolte, già costate oltre 600 morti e quasi 25.000 feriti tra i manifestanti. «Alla grande maggioranza degli iracheni la morte di Soleimani interessa molto poco — afferma —. Ciò che importa è invece cambiare questa classe politica corrotta, trovare lavoro, pane, infrastrutture. La guerra la facciano altrove, noi abbiamo già sofferto troppo».

Cantare «Bella ciao» a Bagdad: in piazza con Rua, Fatima, Hussein e gli altri. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato a Bagdad. Le parole del loro «Bella ciao» sono «noi siamo qui, restiamo qui, resteremo sempre qui». Diverse dal motivo dei partigiani italiani, ma cantate battendo le mani allo stesso ritmo. Semplici e pregnanti, come del resto è lo slogan madre delle proteste: «arida watan», voglio un Paese, che spesso è seguito da «nazel achuf aqqi», «vengo a prendere i miei diritti». Li ripetono di continuo Fatima Ramadan, 23enne studentessa di Farmacia, e Rua Zeidi, tre anni più anziana e laureata in Economia alla ricerca del primo impiego. «Sono le canzoni, i motti della nostra giornata. In questi giorni dormiamo a casa e non più qui nelle tende di piazza Tahrir, perché ora fa freddo e girano i cecchini delle milizie pagate da Teheran. È pericoloso la notte. Ma dalle 10 alle 19 siamo presenti. Non abbiamo alternative, non si torna indietro. L’Iraq deve cambiare», spiegano felici. Le abbiamo incontrate ieri pomeriggio di fronte alla «Casa degli artisti», una delle centinaia di tende che costellano il paesaggio della rivoluzione irachena nel centro di Bagdad. La chiamano proprio così, «thaura», rivoluzione, molto più profonda e importante di una semplice «intifada» (rivolta). Sono serissime e allo stesso tempo allegre. «I nostri genitori sono con noi. Mio papà, professore di giornalismo qui all’università, dice che dobbiamo stare in piazza e farci sentire. Mia mamma aggiunge solo che devo scappare se sento sparare. Quasi tutti i giovani che conosco fanno lo stesso, partecipano con il sostegno delle famiglie. Così, per sapere quanti siamo, non dovete contare solo chi protesta in pubblico. Dietro di noi c’è gran parte degli iracheni», dice Rua. Il suo programma preferito alla televisione è il talk show al venerdì sera di Ahmad Bashir, un giovane giornalista minacciato di morte che adesso parla dagli studi dell’emittente Dijla Tv in Germania: i loro uffici a Bagdad e quelli della popolare emittente Al-Hurra sono stati di recente attaccati dalle milizie. Dalla tenda emerge incuriosito «Gibuti», un 21enne studente alla scuola d’arte, che gira e musica brevi filmati della rivolta. «Non rivelo il mio nome vero. Appena uno di noi diventa noto viene eliminato», spiega. Ma intanto mostra un suo video che sta andando forte: un appello alla gente, perché torni a manifestare. Il ritmo ricorda quelli del Sessantotto europeo: stessi slogan, come «continuare uniti la lotta». Ama declinare «Bella ciao» in arabo. «Mi sono messo a fare canzoni dopo i nostri primi morti. Molti erano scappati per paura. E noi abbiamo contribuito al loro ritorno», aggiunge. Più avanti due ambulanzieri, Ala Karim di trent’anni e Ali Mohammad, 26, si sono offerti volontari per intere giornate. «Dal primo ottobre ci sono stati almeno 600 morti e oltre 22.500 feriti. I danni più gravi li causano i cecchini che sparano dai tetti. Ma ci sono anche sicari delle milizie che accoltellano di nascosto per le strade. I punti più pericolosi sono le periferie della piazza. E c’è anche un largo numero di rapiti di cui non si sa nulla», raccontano mostrando la carrozzeria dell’ambulanza, danneggiata dai candelotti. Sicuri che siano le milizie sciite? «Certo, qui tanti dicono che Qassem Soleimani era venuto a Bagdad per organizzare la repressione totale delle nostre rivolte. Ma ovvio che nessuno lo dirà mai a Teheran e neppure tra i loro alleati iracheni. Non volevano ammettere le loro responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino neppure di fronte alle prove schiaccianti presentati da Nato e canadesi, come possiamo credere che confessino le loro colpe qui in Iraq?» Dove vogliono arrivare questi ragazzi? «Qui sta nascendo un nuovo Iraq laico, senza differenze tra sciiti, sunniti, cristiani, ebrei, yazidi o atei. Una società civile che rispetta i diritti del cittadino a prescindere da etnia, fede o appartenenza tribale. I nostri riferimenti devono essere Voltaire e Montesquieu, non il Corano», risponde netto Hussein Basem, 22enne studente di Legge. Concorda senza riserve il 23enne Abdel Rachman, che abbassa la voce quando si dice «ateo» e alterna la mobilitazione politica con la pratica da violoncellista in una scuola di musica lungo l’Eufrate. Per la prima volta dall’invasione americana e la caduta della dittatura di Saddam Hussein nel 2003 sono queste migliaia di manifestanti a marcare un vero salto di qualità. Chiedono lavoro, fine della corruzione, politici nuovi. «Continuerete a sentire le nostre parole come raffiche di mitragliatrice», dice una loro canzone, che esalta la povertà dei tuc tuc. E la ricchezza generosa di chi per la causa è pronto a morire.

Teheran avvisa Washington: “Si ritirino o sarà un altro Vietnam”. Federico Giuliani il 6 gennaio 2020 su Inside Over. Non solo un funerale, ma anche l’occasione per lanciare un avvertimento agli Stati Uniti. A dare l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, ucciso venerdì scorso in un raid americano nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq, hanno risposto presente milioni di persone. La folla ha letteralmente invaso le strade di Teheran per dirigersi all’università della capitale, là dove si è svolta la cerimonia funebre per il comandante delle forze speciali al-Quds. La salma di Soleimani è stata accolta dalla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Kahamenei. In un misto di lacrime e commozione, la processione è stata trasmessa in diretta televisiva sulla televisione di Stato. È questo l’ultimo onore concesso all'”amato martire” ucciso dagli Yankee, contro i quali tutti, in Iran, chiedono adesso vendetta. Ma non c’è solo Washington nel mirino degli iraniani. Nelle piazze sono stati scanditi slogan contro gli Usa, ma anche contro Gran Bretagna e Israele. L’allerta per eventuali rappresaglie di Teheran in uno di questi Paesi è massima.

Il rischio di “un altro Vietnam”. Tornando al funerale, ad accompagnare nelle preghiere Khamenei c’erano anche Hassan Rouhani, Ali Larijani, Hossein Salami ed Ebrahim Riassi, rispettivamente presidente dell’Iran, numero uno del Parlamento, comandante dei Guardiani della rivoluzione e capo dell’autorità giudiziari. Dispiegati accanto alla bara di Soleimani, presenti pure gli uomini di Abu Mahdi Al-Muhandis, il leader di una colazione di milizie filoraniane in Iraq. Durante la processione la folla ha bruciato numerose bandiere americane e israeliane; a un certo punto qualcuno ha esposto un’immagine di Donald Trump con una corda stretta attorno al collo. L’Iran, oggi, chiede solo vendetta. Le autorità hanno continuato a rilasciare inequivocabili dichiarazioni di guerra all’indirizzo degli Stati Uniti: “Se Washington non ritirerà le forze dalla regione dovranno prepararsi ad affrontare un altro Vietnam. Nonostante le vanterie dell’ignorante presidente degli Stati Uniti, l’Iran intraprenderà un’azione di ritorsione contro la stupida mossa degli americani. Se ne pentiranno per quello che hanno fatto”.

La folla chiede vendetta. Nel frattempo il nuovo comandante della Quds Force, Esmail Ghaani, ha affermato, citato dall’agenzia di stampa Irna, che il “martirio” del generale Soleimani sarà vendicato: “Cacceremo gli Stati Uniti dalla regione. È una promessa fatta da Dio perché Dio è il principale vendicatore”. Ricordiamo che l’Iran ha recentemente affrontato proteste a livello nazionale sui prezzi della benzina stabiliti dal governo che, secondo quanto riferito, avrebbero ucciso oltre 300 persone. Quella rabbia adesso non c’è più ed è stata sostituita dall’odio antiamericano. L’intero popolo iraniano, adesso, si è stretto attorno alla Guida suprema ed è pronto a fare la sua parte. Nella mente degli iraniani è ancora impressa l’ultima provocazione di Trump, che ieri si è scatenato scrivendo un tweet al vetriolo all’indirizzo di Teheran: “L’Iran sta parlando in modo molto audace di colpire alcuni beni statunitensi come vendetta per aver liberato il mondo del loro leader terrorista che aveva appena ucciso un americano e ferito gravemente molti altri, per non parlare di tutte le persone che aveva ucciso durante la sua vita, incluso di recente centinaia di manifestanti iraniani. Stava già attaccando la nostra ambasciata e si stava preparando per ulteriori colpi in altre località. L’Iran non è stato altro che problemi per molti anni. Che questo serva da avviso che se l’Iran colpisce qualche americano o beni americani, abbiamo nel mirino 52 siti iraniani (che rappresentano i 52 ostaggi americani presi dall’Iran molti anni fa), alcuni ad un livello molto alto e importante per l’Iran e la cultura iraniana, e quegli obiettivi e l’Iran stesso, saranno colpiti molto velocemente e molto duramente. Gli Stati Uniti non vogliono più minacce”.

 Papa Francesco, il pericolo attentati in Vaticano: "Intensificare misure di sicurezza, effetto immediato". Libero Quotidiano il 6 Gennaio 2020. C'è anche Papa Francesco nel mirino della possibile rappresaglia islamica legata al caos in Medio Oriente. L'uccisione nel raid americano a Baghdad del generale iraniano Qassem Soleimani ha avuto un effetto domino in tutto il mondo, dall'Iraq fino alla Libia, con il regime sciita di Teheran che influenza militarmente gran parte degli Stati più pericolosi. L'Italia, alleato (riluttante) degli Usa, è a rischio soprattutto per il suo contingente in Iraq e Libano, ma ripercussioni devastanti si temono anche in Vaticano, dove oggi il Pontefice celebrerà la messa dell'Epifania. Come ovvio, i terroristi potrebbero colpire anche la cristianità e i suoi luoghi sacri. Nell'ordinanza dell'intelligence italiana, riporta il Giornale, si legge chiaramente: "In relazione alla persistenza della minaccia terroristica internazionale, tutto il personale dovrà essere sensibilizzato sulla necessità di avere un atteggiamento vigile e reattivo. Attesa la rilevanza mediatica degli eventi presso la Basilica Vaticana, in piazza San Pietro e la partecipazione di numerosi fedeli, si ribadisce la necessità di intensificare, con effetto immediato, i servizi di prevenzione a carattere generale e i dispositivi di vigilanza e controllo del territorio, con particolare riferimento agli obiettivi ritenuti sensibili per la circostanza" per "garantire l'assoluta sicurezza del Santo Padre". Saranno centinaia gli agenti schierati sul campo, in divisa e in borghese, e "non è escluso che possano essere utilizzati cani anti esplosivo, droni e metal detector". 

La vendetta dell’Iran nel Golfo Persico? Lorenzo Vita il 6 gennaio 2020 su Inside Over. La domanda adesso è solo una: come e dove si vendicherà l’Iran. Fino a questo momento, le reazioni sono state politiche. Teheran ha minacciato (e giurato) vendetta, e ha annunciato di ritenere ormai superate tutte le clausole dell’accordo sul programma nucleare, svincolandosi da quel patto già infranto da Donald Trump. Il rischio è altissimo ma da più parti, in Iran, ritengono che sia arrivato il momento di colpire gli Stati Uniti con un’azione “militare”, confermando il rischio paventato da molti analisti e diplomatici che l’escalation potrebbe colpire gli interessi strategici americani in Medio Oriente partendo proprio dalle basi militari Usa o alleate. Non una decisione facile. Colpire una base statunitense con il rischio di uccidere dei soldati impegnati all’estero significherebbe per l’Iran l’arrivo della contro-risposta Usa. E con un presidente come Trump che non ha esitato a far uccidere Qasem Soleimani è impossibile pensare che un tale attacco possa essere “accettato” da Casa Bianca e Pentagono. C’è chi ritiene che l’annuncio della ripresa (di fatto) del programma nucleare possa essere già la reazione della Repubblica islamica: ipotesi che potrebbe anche scatenare la reazione di Israele e degli alleati Usa nella regione col rischio di un attacco alle infrastrutture iraniane legate al programma atomico (attacco cyber o anche con un bombardamento chirurgico). Ma si può supporre anche che Teheran – in particolare i Pasdaran – possano vendicare Soleimani partendo dal cuore della sfida tra Stati Uniti e Iran: il Golfo Persico. Lo stretto di Hormuz, choke point fondamentale per il traffico petrolifero mondiale, potrebbe essere il primo punto su cui potrà puntare l’Iran. E in molti ricordano la crisi delle petroliere di questa estate, quando i Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato alcune petroliere (risposta al sequestro da parte del Regno Unito di una super-cargo iraniana a Gibilterra) e quando il Golfo Persico si era trasformato in un vero e proprio fronte di guerra tra attacchi, rapimenti e esplosioni più o meno misteriose. La possibilità che il Golfo Persico (Mare arabico per gli Usa) possa di nuovo essere il teatro dello scontro è alta. A tal punto che anche H I Sutton, per Forbes, ha analizzato almeno dieci modi in cui l’Iran potrebbe attaccare le petroliere nel Golfo come risposta a quanto avvenuto a Baghdad con la morte del capo delle forze Quds. L’Iran schiera nel Golfo una marina potente, oltre che doppia. Da una parte c’è quella statale, la Marina iraniana, erede di quella persiana. Una dottrina navale rivolta verso l’oceano, la necessità di tenere sempre aperto uno sbocco verso i mari e un legame forte ma meno diretto con la Rivoluzione. Dall’altra parte c’è la Marina dei Pasdaran, che invece ha il pieno controllo e il monitoraggio del Golfo Persico e che gestisce una flotta che si sviluppa quasi esclusivamente come forza di guerriglia navale: i suoi motoscafi, centinaia, possono colpire a sciami qualsiasi nave o flotta percorra le ricche rotte del Golfo. E la possibilità di proteggersi da un attacco simultaneo di decine di motoscafi leggeri (con a bordo molte volte mine anti nave) è scarsa. Le (due) marine di Teheran si sono concentrare da decenni sullo sviluppo di una capacità di guerriglia in acque poco profonde. Incapaci di colmare il gap con il nemico americano, l’alternativa era quella di spostare il conflitto su altri fronti. E così è stato fatto. La flotta di sottomarini è estremamente numerosa, composta da mezzi piccoli ma molto reattivi e soprattutto di matrice nazionale. A questi si aggiungono i classe Kilo ceduti da Mosca e il Fateh, sottomarino made in Iran, che possono invece lanciare siluri nettamente più potenti rispetto ai 14 sottomarini di classe Ghadir. Molti pensano che questi siano utilizzabili dall’Iran per colpire petroliere, mercantili, mezzi militari, ma anche siti al di là del Golfo, come pozzi, raffinerie o addirittura basi Usa o degli alleati arabi. Altra tattica che l’Iran potrebbe usare in questo momento è quella dei barchini esplosivi. Non una strategia di piccolo calibro: gli Hothi, avamposto sciita in Yemen, utilizzano da tempo non solo missili dalle postazioni costiere ma anche queste piccole imbarcazioni trasformate in ordigno. E la marina iraniana si addestra da tempo all’uso di queste barche (con o senza pilota) anche esercitandosi su portaerei americane (la Uss Truman è operativa nell’area). Ipotesi che la marina degli Stati Uniti sta tenendo sotto controllo, anche perché sembra che il drone che ha lanciato il missile contro il convoglio di Soleimani sia partito da Al Udeid, in Qatar. Ed è il Golfo a dividere le basi dei Pasdaran dall’avamposto americano. Ma sono ipotesi che preoccupano anche un altro stretto di quello stesso settore: Bab el Mandeb. La porta del Mar Rosso è considerato uno dei possibili obiettivi della marina iraniana, visto che come Hormuz rappresenta un collo di bottiglia per il traffico mercantile e petrolifero da e per il Mediterraneo. Gli Houthi sono posizionati sulla costa yemenita di Bab el Mandeb e potrebbe offrire da subito basi per colpire le navi che solcano le acque tra Aden e il Mar Rosso. E non a caso l’Operazione Sentinella varata dagli Usa per la libertà di navigazione e l’Iran coinvolga sia Hormuz che l’altro stretto tra Africa e Penisola Arabica. Missili e barchini esplosivi ci sono, ma in quel caso l’Iran non potrebbe sequestrare petroliere: un’idea che invece a Teheran potrebbe essere considerata a basso rischio di conflitto ma ad alto tasso di incidenza nel mercato dell’oro nero. Anche se il target che pensano al quartier generale dei Pasdaran non sembra essere esclusivamente economico: ci si attende, specie nei segmenti più impulsivi e arrabbiati, una risposta eclatante. La vendetta per Soleimani sarà più di un semplice sequestro. Ma un blocco navale a Hormuz sarebbe ben altro discorso.

Soleimani: un indebito omicidio per un nuovo 11 settembre. Piccole Note il 3 gennaio 2020 su Il Giornale. Washington afferma che l’assassinio del generale Qassem Suleimani è giustificato dal fatto che il capo delle Guardie della rivoluzione iraniane stava preparando attacchi contro gli Usa in risposta ai raid contro Hezbollah in Siria e Iraq avvenuti a fine dicembre. Un attacco legittimo, dunque. Eppure le circostanze dell’omicidio dicono tutt’altro.

Il nemico necessario. Per capire cosa è avvenuto occorre tener presente chi è Suleimani. Per accennarne usiamo la penna di un suo detrattore, Anshel Pfeffer, che su Haaretz ne fa un ritratto al vetriolo; ritratto di parte, parte israeliana ovviamente, il Paese che da tempo aveva identificato il generale iraniano come il suo più acerrimo e temibile nemico. “Nessuno poteva tenere in mano tutti i fili scollegati del mutevole gioco di potere regionale e maneggiarli come fili di marionette, come faceva lui”, scrive Pfeffer. Era stato Soleimani a ideare la strategia di contrasto alle legioni jihadiste sostenute dai Paesi del Golfo e dall’Occidente – e collegate con l’Isis e al Qaeda – scatenate in Siria e Iraq per destabilizzare la regione (obiettivo finale: Teheran). E a impedire che il magma ribollente tracimasse. Ma evitando escalation. Così, “senza Soleimani a guidare la campagna, l’Iran potrebbe ora, per la prima volta, decidere per una risposta drastica e condurre una guerra totale”, scrive Pfeffer. Che poi è l’obiettivo che si è proposto chi l’ha assassinato. “Negli ultimi 22 anni – aggiunge -, Soleimani è stato un nemico stabile anche se ruvido; senza di lui, le cose diventano molto meno prevedibili“.

L’insostenibile leggerezza di Soleimani. Ma davvero egli stava progettando azioni contro gli Stati Uniti? Soleimani, come accennato, era in cima alla lista dei target israeliani e americani. Le intelligence di mezzo mondo l’hanno braccato per decenni, senza riuscire a scovarlo: per anni ha eluso sorveglianza e trappole, oltre a diversi tentativi di omicidio. I suoi spostamenti erano tutelati dal segreto più stretto. Nascosto in sicurezza, “appariva” dove doveva arrivare, invisibile a tutti. L’uomo più ricercato del mondo aveva anche ricevuto una minaccia diretta dagli Stati Uniti il giorno prima del suo assassinio. Il generale Mark Esper, a Capo del Pentagono, aveva dichiarato che gli Stati Uniti si riservavano il diritto di agire in via preventiva per evitare rappresaglie contro obiettivi americani. Così l’uomo più ricercato del mondo, progetta piani che gli attirano le bombe americane, prende un aereo e sbarca nell’aeroporto internazionale di Baghdad… Una leggerezza che stride con l’acuta intelligenza del personaggio, riconosciuta anche dai suoi nemici. Se davvero progettava qualcosa, l’avrebbe fatto da luogo sicuro, in Iran.

Luce verde? Così andiamo al giorno precedente al suo omicidio. Non c’erano state solo le parole di Esper, ma anche quelle di Trump, il quale aveva dichiarato che avrebbe ritenuto responsabile Teheran per i danni provocati dalle proteste anti-americane in Iraq seguite ai raid. E probabilmente il viaggio quasi-pubblico di Soleimani in Iraq trova una spiegazione proprio in questo monito. Il generale sapeva bene che un’escalation contro gli Usa avrebbe attirato disastri al suo Paese, tanto che l’ha sempre evitata. È possibile così che volesse sedare gli animi, incanalare il risentimento delle milizie di Hezbollah verso iniziative meno a rischio. Da qui il viaggio quasi ufficiale in Iraq, che immaginava senza pericoli. Chissà se addirittura avesse informato riservatamente gli americani sullo scopo della visita e se avesse ricevuto una qualche luce verde. D’altronde è noto che manteneva canali di comunicazione sottotraccia con i suoi nemici, come evidenzia anche l’articolo di Haaretz, che rammenta come gli Stati Uniti “hanno collaborato indirettamente con lui nella speranza che ciò potesse stabilizzare l’Iraq e contribuire a combattere Al Qaida e lo Stato islamico” (cosa avvenuta: Soleimani è stato protagonista assoluto della battaglia vittoriosa contro  l’Isis, vedi Piccolenote). Ma tant’è, ormai è morto.

L’ambiguità di Trump. Inspiegabile la decisione di Trump di avallare il raid, giunto peraltro alla fine delle esercitazioni navali congiunte delle flotte russe, cinesi e iraniane, sanguinario memento anche a Pechino e Mosca per una convergenza indesiderata. Un voltafaccia della politica condotta finora nei confronti dell’Iran, verso la quale ha esercitato massima pressione, ma evitato interventi. E del suo approccio morbido verso la Cina e soprattutto verso la Russia. Ambiguo anche il twitt di Trump dopo l’omicidio: “L’Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso una trattativa!” Come a chiedere di non iniziare un conflitto, aprendo a concessioni. Richiesta fuori registro, almeno oggi che il sangue è fresco. Trump sembra frastornato. I suoi gli hanno teso una trappola da cui non può più uscire? È quanto pensa Tucker Carlson, opinionista di Fox News vicino dal presidente che. criticando l’assassinio di Soleimani, ha detto che Trump è stato “manipolato” dallo Stato profondo che da anni cerca la guerra contro l’Iran (The Week). L’assassinio di Soleimani è stata una vittoria dell’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, il neocon John Bolton, ha chiosato, non senza ragione (Dayli Caller). Quanto avvenuto, infatti, riecheggia i fasti dell’11 settembre, quando i neocon presero il potere in America. Si spera che i danni conseguenti siano limitati.

Iraq, nuovo raid Usa nella notte: ucciso Shibl al Zaidi, leader delle milizie filo iraniane. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Foschi. Un convoglio delle milizie irachene a nord di Baghdad è stato attaccato nella tarda serata di venerdì da raid aerei Usa che hanno provocato sei morti e tre feriti gravi: lo riporta l’agenzia di stampa Reuters sul proprio sito citando una fonte dell’esercito iracheno. Secondo quanto riferito dall’emittente iraniana Press Tv, nel corso dell’attacco sarebbe stato ucciso Shibl al Zaidi, leader delle Brigate Imam Ali, milizia che fa parte delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu) allineata con l’Iran. Con lui sarebbero stati uccisi suo fratello e cinque guardie del corpo.

Così è stato ucciso Soleimani: il generale, che sei sentiva al sicuro, tradito da un drone. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato in Iraq, Davide Frattini, Paolo Foschi. C’era una finestra di opportunità – così spiegano – e gli Usa hanno ucciso Qasem Soleimani. Ma per farlo hanno preparato il terreno e da tempo. Il generale non era una pedina, servivano una decisione politica e mosse accurate. Le ricostruzioni iniziali attribuiscono lo strike ad un drone, il cecchino dei cieli, l’arma preferita dei presidenti americani. Da Obama a Trump. Testimonianze aggiungono l’ipotesi della presenza di elicotteri d’attacco Apaches, già schierati da tempo nelle installazioni statunitensi in Iraq. La morte è arrivata dal cielo, con precisione. I missili hanno distrutto i due veicoli sorpresi su una strada vicina all’aeroporto di Bagdad. Fondamentale l’intelligence. Agli americani non mancano orecchie elettroniche e occhi umani, hanno molti alleati che avevano un conto aperto con Soleimani (leggi il suo ritratto). Il network che fa riferimento all’apparato guidato dal generale è possente ma anche ampio, questo apre fessure per le infiltrazioni. L’alto ufficiale aveva scelto di spostarsi con un convoglio minimo, appena due veicoli e scorta ridotta. Si sentiva al sicuro o non eccessivamente esposto, in fondo ricopriva un doppio ruolo. Leader di un sistema segreto e personaggio che doveva intervenire personalmente per necessità ma anche per ambizione. Se – come raccontano - è arrivato in aereo ha attraversato uno spazio dove le antenne Usa sono in grado di captare molto. Stazioni di monitoraggio e velivoli-spia sono una presenza costante. È anche probabile che vi fossero sul terreno membri delle forze speciali o paramilitari Cia che hanno date le ultime conferme. Immaginiamo la catena. Trump ha autorizzato l’inserimento di Soleimani nella lista dei bersagli. Le spie hanno raccolto il dato cruciale: è in arrivo a Bagdad. È scattata l’operazione esecutiva su due livelli: i cacciatori si sono preparati con i droni, il Pentagono ha fatto affluire rinforzi nella regione come risposta all’assalto all’ambasciata da parte delle milizie. Gli spotters che seguono sulla rete i movimenti degli aerei hanno segnalato nelle 48 ore precedenti al raid i voli in arrivo dagli Usa e da altre basi. Il trasferimento di parà dell’82esima, lo schieramento di 100 marines giunti dal Kuwait, le ricognizioni hanno fatto in qualche modo da schermo per mettere in piedi un dispositivo nel caso di una rappresaglia. Su The Guardian hanno ricordato le parole pronunciate dal generale diciotto mesi fa: «Mr Trump, ti avverto, siamo vicini a te in luoghi dove tu non puoi immaginare…Tu inizierai la guerra, ma saremo noi a finirla». Soleimani, però, non ci sarà.

Michele Serra per “la Repubblica” il 4 gennaio 2020. L'assassinio politico viene esaltato, tradizionalmente, dai sovversivi, dai rivoluzionari, dai regicidi anarchici, dalle frange marginali e disperate che considerano di non avere altro mezzo, per esistere, se non la violenza; e per questo la sbandierano. Anche il Potere, anche gli Stati ne commettono, di delitti politici. Comprese le democrazie. Ma non li rivendicano; oppure, se decidono di farlo, lo fanno con gravità, quasi con solennità, con la coscienza che si sta parlando di una soluzione estrema, si sta parlando di sangue e di morte. Utile rivedere e riascoltare, soprattutto in queste ore, come caso di scuola, la dichiarazione di Obama dopo l' uccisione di Bin Laden, che pure era uno dei capi indiscussi del terrorismo islamista, responsabile di decine di migliaia di morti in tutto il mondo. Caso ben diverso (ben più giustificabile, diciamo) da quello di Soleimani, esponente di primissimo piano di un Paese importante come l' Iran. Trump è il primo boss di una democrazia occidentale che rivendica l' assassinio di un nemico politico (e non è la prima volta, accadde anche con Al Baghdadi) con gongolante spensieratezza, come se fosse una vittoria sportiva da rinfacciare alla tifoseria nemica. Gli sciocchi (pochi, per fortuna) che da questa parte dell' Oceano gli si accodano, non si rendono conto che se la democrazia ragiona e parla come il capo di una gang, significa che la Storia sta compiendo un vero e proprio cambio di passo. Le persone serie lo capiscono, se ne preoccupano, vivono momenti di angoscia. Gli sciocchi festeggiano insieme a Trump.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 4 gennaio 2020. «È la mossa più rischiosa compiuta dall'America in Medio Oriente dopo l'invasione dell' Iraq nel 2003». Così il New York Times giudica l' uccisione del generale Qassem Soleimani, il capo militare iraniano eliminato su ordine di Donald Trump. La reazione da Teheran è così minacciosa che lo stesso Trump sembra in cerca di giustificazioni, o di un' improbabile distensione. Dice che la sua decisione era necessaria, perché «Soleimani preparava attacchi imminenti e sinistri contro diplomatici e militari americani». Questa motivazione ufficiale è la risposta alle accuse dell' opposizione democratica americana. Trump aggiunge: «Ho deciso quest' azione per fermare una guerra, non per cominciarla». Ma davvero la Casa Bianca è sorpresa dalla reazione dell' Iran, di cui ha eliminato uno dei massimi capi militari? Ora Washington teme una vendetta durissima: il Dipartimento di Stato esorta gli americani a lasciare l' Iraq, cioè uno Stato alleato, dove l' America ha investito migliaia di vite umane e risorse economiche ingenti. L' eliminazione di un singolo nemico, per quanto importante, può valere la perdita d' influenza in Iraq?

Il fattore Golfo. Per spiegare quel che ha condotto all' eliminazione di un combattente di quel livello, mentre si trovava sul territorio iracheno "invitato come consulente" dal governo di Bagdad, bisogna ricostruire le ultime puntate di un crescendo di tensione. Gli attacchi iraniani contro navi petroliere di diverse nazionalità, nel Golfo Persico: una sfida diretta al ruolo degli Stati Uniti come garanti della libertà di navigazione in quella parte del mondo (anche se il petrolio che vi transita non viene più importato dagli americani, ormai autosufficienti, è tuttavia vitale per alleati come Europa India e Giappone, o rivali come la Cina). La distruzione di un drone Usa da parte degli iraniani. Il micidiale attacco, sempre ad opera di droni iraniani, che mise fuori uso importanti impianti petroliferi dell' Arabia saudita: un colpo tremendo ad un alleato strategico di Washington, non tanto per il danno economico ma per l' enorme caduta di credibilità militare di Riad. Da ultimo, l' uccisione di un cittadino americano in Iraq e l'assalto-assedio all'ambasciata Usa a Bagdad, attribuiti a fazioni filo-iraniane manovrate dagli ayatollah e forse dal generale Soleimani. Da mesi l'Iran stava sfidando l' America, colpo su colpo ne logorava la credibilità in tutto il Medio Oriente. Questa sfida risponde a uno scenario di deterioramento programmato delle relazioni: fu Trump a stracciare l' accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, che aveva offerto la fine dell'embargo all'Iran in cambio di un congelamento del piano nucleare. Quell'accordo secondo Trump era un grave errore. Allineandosi con le preoccupazioni di Israele e dell' Arabia saudita, i suoi due "mentori" in Medio Oriente, Trump ha optato per la linea del regime change: la teocrazia sciita di Teheran va rovesciata, a meno che si ravveda completamente dai suoi crimini e rinunci alle sue ambizioni egemoniche in alcune aree limitrofe (Libano, Siria, Yemen). Indurendo le sanzioni Trump sperava di indebolire Khamenei e i falchi iraniani; forse ha ottenuto l' effetto opposto di indebolire i moderati del regime come il presidente Rohani. L'economia iraniana si avvita in una crisi grave, la popolazione si rivolta contro il regime; quest'ultimo non esita a rispondere con una repressione sempre più sanguinosa (centinaia di morti).

Il crescendo. L' una e l' altra parte sembrano avviate verso un crescendo quasi ineluttabile, rafforzato da due narrazioni contrapposte, bellicose e belliciste. Washington è convinta che il regime iraniano cerchi la guerra per distrarre dal suo malgoverno e dalle sue difficoltà interne; affrontare il Grande Nemico americano giustifica leggi marziali e zero tolleranza contro le proteste. Teheran ribatte descrivendo un Trump che vuole la guerra per sfuggire all' impeachment o risollevare le sue chance elettorali. Sul fronte interno americano, colpisce la divisione. Questa non è un' America che si compatta di fronte a un conflitto internazionale. Dalla presidente della Camera Nancy Pelosi in giù, i dirigenti del partito democratico criticano o condannano Trump; c' è chi paventa l' illegalità dell' esecuzione di Soleimani, e chi denuncia l' esautorazione del Congresso. E' lontana l' unità nazionale che dopo l' 11 settembre consentì a George W. Bush di trascinare il paese nell' invasione dell' Iraq. Un' altra divisione interna indebolisce gli Stati Uniti: quella fra la Casa Bianca e il Pentagono. I militari non vogliono affatto ritirarsi dal Medio Oriente, costringono questo presidente a uno stop-and-go, prima si ritira dalla Siria poi manda nuove truppe in Arabia saudita. Più che guerrafondaia quest' America sembra indecisa a tutto, e così facendo incoraggia ogni sorta di avventure. E ancora una volta, come ai tempi di Jimmy Carter quarant' anni fa, la sorte di una presidenza americana può dipendere dal comportamento dell' Iran.

Iran, Massimo D'Alema "Trump ha tradito i patti, conseguenze incalcolabili". Libero Quotidiano il 4 Gennaio 2020. Il presidente Massimo D'Alema, da ex ministro degli Esteri, valuta l' uccisione del generale Soleimani "un evento gravissimo, dalle conseguenze non facilmente calcolabili, che avrà l'effetto di moltiplicare odi, tensioni e instabilità, ma non vedo all'orizzonte una guerra mondiale", racconta in una intervista a Repubblica. "Trump vuole andare al voto a novembre in un clima di tensione, creando una situazione in cui non si può cambiare il comandante in capo. Ma quando le ragioni della politica interna dominano quelle della politica estera allora la spiegazione è sempre una leadership in difficoltà". Per D'Alema poi "l'Europa non è in grado di usare la propria forza, economica e militare. Il Medio Oriente ha bisogno dell' Europa, per ragioni economiche. Ci vorrebbe ua missione dell' Unione Europea in grado di interloquire con i protagonisti per fermare l' escalation e costruire una soluzione nella quale gli attori fondamentali della Regione possano sentirsi garantiti". Anche l' Italia non incide? "Sono anni che l' Italia non esercita un ruolo nella regione. In passato svolgemmo una funzione che portò alla pace tra Libano e Israele. Ma il nostro errore più grande è stato quello di non avere esercitato un ruolo in Libia per fermare il conflitto in corso: la nostra presenza, per evidenti ragioni storiche, era pure richiesta", conclude D'Alema. 

(LaPresse/AP il 5 gennaio 2020) - "Qualsiasi obiettivo che colpiremo sarà un obiettivo legittimo, e sarà un obiettivo progettato per una singola missione, a difesa e protezione dell'America". Lo ha dichiarato il segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo, parlando a 'This Week' di ABC. Gli è stato domandato delle affermazioni del presidente Donald Trump, che su Twitter ha parlato di 52 obiettivi iraniani nel mirino degli Usa, "alcuni dei quali a livello molto alto e importanti per l'Iran e la cultura iraniana". "Ci hanno attaccato e noi abbiamo contrattaccato. Se attaccano di nuovo, cosa che consiglio vivamente di non fare, li colpiremo più forte di quanto non siano mai stati colpiti prima!". Lo scrive il presidente americano Donald Trump su Twitter a proposito delle relazioni con l'Iran. "La risposta sarà certamente militare, contro siti militari". Lo ha dichiarato il generale Hossein Dehghan, consigliere militare della Guida suprema iraniana, ayatollah Ali Khamenei, in un'intervista esclusiva a Cnn. "Fatemi ribadire che non abbiamo mai cercato la guerra, né la cercheremo. È stata l'America a iniziare la guerra, quindi devono accettare l'adeguata risposta alle loro azioni. L'unica cosa che può mettere fine a questo periodo di guerra è che l'America riceva un colpo pesante quanto quello che ha inferto. In seguito, non cercheranno un nuovo ciclo", ha proseguito Dehghan, ex ministro della Difesa. Inoltre, ha detto, "possiamo dire che l'America, Trump, ha agito direttamente contro di noi, quindi noi agiremo direttamente contro di loro".

DAGONEWS il 5 gennaio 2020. Stati Divisi d’America: dopo l’assassinio di Soleimani ordinato da Trump la politica americana dimostra ancora una volta di essere totalmente polarizzata. I democratici più di sinistra, come Elizabeth Warren e Alexandria OCasio Cortez, parlano di crimini di guerra e stanno criticando il presidente. La senatrice, candidata alla primarie dem, ha sollevato il dubbio che il presidente abbia ordinato l’attacco per distrarre l’opinione pubblica dall’impeachment (cosa che effettivamente fece Bill Clinton nel 1998 quando bombardò l’Iraq): “le persone si chiedono perché questo momento?”. “Pocahontas” ha detto che Trump è un mostro per le sue minacce di colpire i siti culturali protetti dall’Unesco del paese del Golfo. Il segretario di Stato Mike Pompeo, da par suo, ha accusato Obama e la sua strategia compiacente nei confronti del regime degli ayatollah: “È importante che capiscano che l’America non si comporterà già come ha fatto durante l’amministrazione Obama/Biden. Non faremo ‘appeasement’, non tollereremo più le loro minacce”.

L'anti-Trump Michael Moore sull’uccisione di Soleimani. Federico Dedori il 04/01/2020 su Notizie.it. Il regista anti-Trump Michael Moore ha commentato sui social la morte del generale iraniano Soleimani: “Americani, preparatevi a mandare in guerra i vostri figli”.

Michael Moore commenta l’uccisione di Soleimani. Il regista e produttore statunitense Michael Moore, famoso per i suoi documentari Bowling, Columbine e Fahrenheit 11/9, ha commentato via Twitter l’uccisione del generale iraniano Soleimani.

“Salve compagni americani. Conoscete quest’uomo?”, debutta così nel post il regista, al quale allega anche una foto del capo delle forze iraniane al-Quds, Qassem Soleimani. “Sapevate – continua Moore su Twitter – che era il vostro nemico? Cosa? Mai sentito parlare di lui? Entro la fine di oggi sarete addestrati a odiarlo. Sarete felici che Trump lo abbia assassinato. Farete come vi è stato detto. Preparatevi a inviare i vostri figli e le vostre figlie in guerra“.

L’uccisione del generale. Attraverso un raid ordinato dal presidente americano Donald Trump vicino all’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Due auto sono state polverizzate e otto persone hanno perso la vita. Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif lo ha definito “un atto di terrorismo”. Ali Khamenei ha invocato una dura vendetta, ma dal Pentagono hanno assicurato: “Proteggeremo i nostri interessi”. Nell’attacco hanno perso la vita il capo delle forze iraniane al-Quds, Qassem Soleimani, Abu Mahndi al-Muhandis, il numero due delle Forze di mobilitazione popolare, alcuni tra le Forze di mobilitazione popolare e un esponente di Teheran.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 4 gennaio 2020. Se c' è una cosa che unisce i grillini è l'Iran. Ieri, per dire, Di Battista ha subito definito il raid americano «vigliacco», «pericoloso» e «stupido». E non rinuncerà al suo annunciato soggiorno iraniano. Il fatto è che anche la Farnesina ha atteso le 13 per emettere una nota anodina, «nuovi focolai di tensione non sono nell' interesse di nessuno». A novembre, alla Camera, Di Maio spiegò la linea: «L' Italia vuole mantenere il dialogo con l' Iran». Al margine dei Med dialogues gli iraniani annunciavano felici che l' incontro tra Di Maio e il suo omologo iraniano Zarif era vicino, e con la Farnesina c' erano stati vari passi preparatori. La stampa iraniana aveva riportato con toni gongolanti la concordia tra il sottosegretario italiano agli esteri Manlio Di Stefano e l' ambasciatore iraniano a Roma, Hamid Bayat, dopo l' incontro a metà novembre. Ma un po' tutta la storia grillina è un lungo, irriflesso flirt geopolitico con Teheran, con sprezzo del pericolo, e del ridicolo. Vi sono stai episodi grotteschi. Per esempio quando il sottosegretario Angelo Tofalo finì ascoltato a Napoli, non indagato, in un' indagine contro una coppia accusata di traffico d' armi tra Iran e Libia, con cui era entrato in contatto. O quando i 5S Vito Petrocelli e Marta Grande organizzarono un evento alla Camera invitando due esperti iraniani di un think tank famigerato per aver organizzato conferenze nagazioniste dell'Olocausto a Teheran. Forse, qualche riga la merita anche Grillo. Mai tenero, diciamo così, su Israele. Empatico, invece, con l'Iran. Il comico è sposato con un' iraniana, Parvin Tadjik. «Un giorno - disse Grillo in un' infausta intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot - «ho visto impiccare una persona a Isfahan. Ero lì. Mi son chiesto: cos' è questa barbarie? Ma poi ho pensato agli Usa. Anche loro hanno la pena di morte: hanno messo uno a dieta, prima d' ucciderlo, perché la testa non si staccasse. E allora: cos' è più barbaro?». E i diritti delle donne? «Mia moglie è iraniana. Ho scoperto che la donna, in Iran, è al centro della famiglia. Le nostre paure nascono da cose che non conosciamo». Ma le violenze, il regime, il terrorismo? «Mio suocero iraniano m' ha spiegato che le traduzioni non erano esatte». Grillo lo rivelò come una delle sue eminenti fonti geopolitiche.

Carmelo Caruso per “il Giornale” il 4 gennaio 2020. È un regime per il resto del mondo, ma per il M5s è il migliore dei mondi possibili. Se le passate dichiarazioni sono ancora valide - e al momento lo sono ancora - rischiamo di finire alleati dell' Iran con Beppe Grillo al posto del maresciallo Badoglio. In Sudamerica hanno spedito una delegazione per celebrare Hugo Chávez, in Cina, Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, si sente più a casa di Pomigliano D' Arco, mentre a Teheran, a curare i rapporti diplomatici, è stato distaccato il suocero di Grillo, uno che già nel 2012 aveva impaurito il giornale israeliano Yediot Aharonot: «Se un giorno Grillo farà parte del governo, il suocero avrà un ruolo fondamentale nelle politiche estere». Grazie al corso intensivo del padre della moglie, Parvin Tadjk, il fondatore del M5s era giunto a conclusioni decisive destinate a rovesciare i lavori di giornalisti e storici: «Ho scoperto che la donna in Iran è al centro della famiglia, le nostre paure nascono da cose che non conosciamo». Infatti conosciamo il numero delle donne lapidate in Iran fino ad agosto di quest' anno: 94. Attenzione, non era quella di Grillo un' informazione parziale, ma un' adesione convinta. Nella stessa intervista Grillo commentava pure l' economia iraniana, a suo giudizio, un po' simile a quella dell' Italia meridionale. Siamo in area: il problema dell' Iran è che non possiede il reddito di cittadinanza. A sentire Grillo, «l' economia in Iran va bene. Quelli che scappano, sono oppositori. Chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all' estero. Lì le persone lavorano». Ma da quali fonti attingeva i suoi dati? «Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati». Spettatore lui medesimo di un' impiccagione in piazza, la liquidò così: «Mi son chiesto: cos' è questa barbarie? Ma poi ho pensato agli Usa. Anche loro hanno la pena di morte». A farlo parteggiare per l' Iran fu la sensibilità che i militari utilizzarono prima di tirare il cappio al condannato: «Prima di ucciderlo lo hanno messo a dieta perché la testa non si staccasse». E non erano altro che cattive traduzioni, a suo parere, le minacce pronunciate da Osama Bin Laden, terrorista senza dubbio più spietato di quel Qassem Soulimani ucciso ieri dagli Usa, perché «quando uscivano i discorsi di Bin Laden, mio suocero, iraniano, mi ha spiegato che le traduzioni non erano esatte». Se quelle di Grillo rimangono (pesantissime) opinioni, ben più discutibili, e oggetto di indagine da parte della Dda di Napoli, furono gli incontri fra Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, e una coppia di coniugi arrestata con l' accusa di aver trafficato armi con Libia e Iran. Nel 2017, il deputato del M5s preferì presentarsi in procura per provare a spiegare i sui rapporti. Perfino un moderato come il senatore del Pd, Nicola Latorre disse: «Le ammissioni di Tofalo sono gravi, si dimetta». Per difendersi, Tofalo querelò Matteo Renzi che in tv lo accusò platealmente: «L' esperto di sicurezza del M5s è andato in Libia a trattare dalla parte sbagliata». E impossibile sarebbe contare tutte le note di solidarietà rilasciate, in questi anni, a favore dell' Iran inserito in passato da George Bush nell' asse del Male, «clamoroso errore» per i 5s. E però, occorre riconoscere a Manlio Di Stefano il primato, la visione estera a cinque stelle e dunque anche gli abbagli presi. Come ha scritto pochi mesi fa il sito Formiche, nella veste di sottosegretario agli Esteri, Di Stefano ha manifestato apprezzamento verso l' Iran per la sua cooperazione con lo Yemen tralasciando la complicità, deplorata dall' Onu, con il gruppo Houthi, sciiti yemeniti accusati di crimini di guerra. Altri due protagonisti 5s, Marta Grande e Vito Petrocelli, hanno invece interloquito con un think thank iraniano che ancora oggi nega l' Olocausto. Di Alessandro Di Battista, in viaggio in Iran, è nota la volontà di «trattare con i terroristi». Ieri ha aggiunto che «quello in Iran è stato un raid vigliacco». Manca solo che proclamino l' Iran come loro governatorato...

I pasdaran rossi tifano Iran per colpire (ancora) Salvini. Pd, Leu e SI attaccano il leader della Lega: "Esulta per Soleimani". E l'ex ministro reagisce: "Difendo valori cristiani". Angelo Scarano, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. La parola d'ordine è sempre la stessa: attaccare Salvini. E poco importa se lo si fa ignorando i valori Occidentali che hanno identificato il nostro Paese negli ultimi 70 anni: conta solo colpire il nemico politico. E così nel day-after della morte di Soilemani su cui la nostra politica è riuscita (come sempre) perfettamente a spaccarsi, il posto delle Ayatollah grilline viene preso dai pasdaran rossi che difendono Teheran e attaccano Salvini. La sua colpa? Aver esultato per la morte del capo delle Guardie della Rivoluzione che, come riferito dagli Usa, preparava attentati contro i diplomatici a stelle e strisce. Il primo a mettere nel mirino il leader della Lega è l'ex governatore della Toscana, Enrico Rossi, che in un lungo post su Facebook non usa giri di parole: "Forse per Salvini finché c’è guerra ci sono profughi e quindi c’è speranza. L’esultanza di Salvini alla notizia dell’azione ordinata da Trump che ha provocato l’uccisione del generale iraniano Soleimani e che potrebbe portare a una ulteriore pericolosa spirale di guerra in Medio Oriente con conseguenze drammatiche sul piano umano, sociale ed economico, è allo stesso po stupefacente e sospetta". Poi è il turno del viceministro degli Interni, Matteo Mauri del Pd, che accusa Salvini in modo diretto: "A me ha colpito molto quello che ha detto Matteo Salvini. Fare l’ultrà in generale, e del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in particolare, mi sembra molto pericoloso e rischia di mettere in pericolo chi opera sul territorio italiano e anche tutti i nostri militari in questo momento all’estero: sono tanti, in situazioni molto scomode e calde". Ma in questo coro anti-Salvini non poteva certo mancare l'intervento di Fratoianni di Leu: "Non poteva mancare all'appello, a festeggiare per un atto di guerra, il rappresentante italiano degli irresponsabili. È questo che si intende per 'aiutiamoli a casa loro'? Cioè continuiamo a portare guerra, distruzione e mettere le mani sulle loro risorse". Ma a dar sostegno alle accusa da sinistra, arrivano anche i grillini con Agostino Santillo, senatore del Movimento 5 Stelle: "Il ricorso alla violenza non deve mai essere oggetto di gioia o complimenti @matteosalvinimi. Ora spero che l'uccisione di #Soleimani non provochi una pericolosa escalation e che il dialogo sia l'unica arma", scrive su Twitter. E a zittire le accuse da sinistra ci pensa lo stesso Salvini che afferma: "Fra l'estremismo e la violenza islamica e la libertà, non ho dubbi su chi scegliere: sempre e comunque la libertà, la pace, il rispetto dei diritti umani e dei nostri valori cristiani". Insomma adesso l'affaire Usa-Iran si trasforma in un terreno di scontro per la politica interna.

Il blitz di Trump spacca i sovranisti: solo Salvini esulta ma resta isolato. Francesco Lo Dico il 4 Gennaio 2020 su Il Riformista. Bombe, minacce, una nuova guerra in Medioriente alle porte. Tutto il mondo guarda a Baghdad con il fiato sospeso, ma Salvini esulta e la politica italiana si spacca in fronti contrapposti. O meglio: di qua il leader della Lega, di là tutte le altre forze politiche. Fratelli d’Italia compresi, che dopo il raid di Trump compiono una scissione sul rissoso fronte dell’internazionale sovranista. «Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Unione europea, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà», cinguetta il leader della Lega poche ore dopo il raid Usa in Iraq che ha ucciso il generale iraniano Qasem Soleimani.

Ma le parole di Giorgia Meloni, sembrano una dura reprimenda al gongolante alleato. «La complessa questione mediorientale, in cui si innesta la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, non merita tifoserie da stadio ma necessita di grande attenzione», è l’affondo della leader di FdI. Che poi mette ancora più in chiaro il senso del suo intervento: «In questo quadro – scrive Meloni – esprimo la più ferma condanna al gravissimo assalto all’ambasciata statunitense in Iraq e una forte preoccupazione per le conseguenze della reazione americana che ne è seguita».  A cogliere appieno la vera posta in gioco della distanza tra Meloni e Salvini è Benedetto Della Vedova. «Altro che sovranismo – chiosa il segretario di +Europa –  la necessità di un’unione diplomatica e di difesa comune europea è ormai una condizione imprescindibile per la rilevanza, la difesa dei valori e degli interessi dei cittadini europei». Assai meno festosi di quelli di Salvini anche i toni che usa la Farnesina, che definisce «gli ultimi sviluppi della situazione in Iraq molto preoccupanti», sottolineando che «negli ultimi giorni abbiamo assistito a una pericolosa escalation culminata nell’uccisione del Generale iraniano Soleimani. L’Italia lancia un forte appello perché si agisca con moderazione e responsabilità, mantenendo aperti canali di dialogo, evitando atti che possono avere gravi conseguenze sull’intera regione. Nessuno sforzo deve essere risparmiato per assicurare la de-escalation e la stabilità», si legge nella nota rilasciata dal ministero degli Esteri. Che infine ammonisce i fan trumpiani. «Nuovi focolai di tensione – scrive la Farnesina – non sono nell’interesse di nessuno e rischiano di essere terreno fertile per il terrorismo e l’estremismo violento». Per una volta, dopo il ciclone Paragone, Di Maio e Di Battista sembrano di nuovo dalla stessa parte. «Quello a Baghdad è un raid vigliacco perché i droni sono vigliacchi. È un raid pericoloso perché il Medio Oriente è una polveriera. È un raid stupido perché ricompatterà l’opinione pubblica iraniana a sostegno del governo di Teheran», tuona Di Battista. Che invita il governo al dialogo con l’Iran, che «non ha mai rappresentato una minaccia per il nostro Paese». Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, guarda oltre. L’Italia deve cambiare passo sul fronte della politica estera: «Il 2020 della politica italiana è iniziato con sterili discussioni da cortile. Quello che sta accadendo in Libia e in Medio Oriente dovrebbe farci cambiare passo e chiamare l’Italia – e l’Europa – a tornare ad avere un ruolo in politica estera». Dichiarazioni in linea con quelle del neocommissario europeo, Paolo Gentiloni. L’eliminazione di Soleimani, twitta, «può avere conseguenze molto serie. Da Italia e Europa serve impegno immediato contro rischi di escalation e di destabilizzazione». Sulla stessa lunghezza anche il segretario dem, Nicola Zingaretti. «Grande preoccupazione per l’altissimo livello di tensione in #Iraq dopo le violenze dei giorni scorsi contro l’ambasciata Usa e l’eliminazione di #Soleimani. L’Italia e l’Europa assumano tutte le iniziative utili per scongiurare un’escalation incontrollabile nell’area», è il cinguettio del leader Pd. Di mettere in circolo altra dinamite in una polveriera, insomma, non salta in mente a nessuno. A nessuno che non sia Salvini.

Maurizio Molinari per “la Stampa” il 6 gennaio 2020. L’eliminazione di Qassem Soleimani da parte dei droni del Pentagono è un tassello della sfida strategica che vede la regione del Grande Medio Oriente - dal Maghreb all'Afghanistan - contesa fra quattro potenze portatrici di interessi rivali: l'Iran di Ali Khamenei, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump. È uno scenario che contrappone leader, armamenti, risorse ed alleati in un mosaico di conflitti di dimensioni e intensità variabili ma con una costante: la determinazione di ognuno dei quattro rivali ad imporsi sugli altri. Nell'evidente assenza di protagonisti europei per le lacerazioni interne all'Ue e l'incapacità di chi tenta di agire da solo - come la Francia in Maghreb - di ottenere risultati capaci di essere durevoli. L'Iran punta all'egemonia sul Medio Oriente sfruttando l'indebolimento degli Stati arabo-sunniti per affermare i propri interessi. Lo strumento sono le milizie sciite locali create, armate, addestrate e guidate dalla Forza Al Quds dei Guardiani della rivoluzione, guidata negli ultimi 22 anni da Qassem Soleimani. Gli Hezbollah in Libano, le milizie sciite che hanno salvato il regime di Assad in Siria e i nuovi Hezbollah iracheni formano una «Mezzaluna sciita» che consente di avere una continuità territoriale dall'Iran alle coste del Mediterraneo, premendo da Nord sul nemico di sempre: l'Arabia Saudita leader dell'Islam sunnita. L’intento di Khamenei è assediare i sauditi e per questo la Forza Al Quds sostiene anche i ribelli houthi in Yemen -che bersagliano l'Arabia con droni e incursioni - e tenta di fomentare rivolte sciite nelle regioni saudite orientali e nel Bahrein. L'altro tassello è Gaza, dove l'Iran arma la Jihad islamica palestinese pianificando un conflitto contro Israele anche qui su più fronti: Hezbollah da Nord, milizie sciite dalla Siria e jihadisti palestinesi dalla Striscia. La strategia iraniana è assediare Arabia Saudita ed Israele con conflitti ibridi affidati a milizie e guerriglie per trasformare la «Mezzaluna sciita» nell'unica area di stabilità e sicurezza regionale. A tal fine serve anche il controllo delle rotte marittime: da qui la crescita delle attività navali dei pasdaran con i barchini e le mine nel Golfo capaci di minacciare petroliere straniere e navi della flotta Usa. Ma ciò che più conta in Medio Oriente è proiettare potenza. Da qui i due pilastri della strategia di Khamenei: il programma nucleare - legittimato dall'intesa di Vienna del 2015 - di cui ora l'Aiea sospetta aspetti militari e lo sviluppo di un formidabile arsenale balistico inclusi missili intercontinentali capaci di portare testate atomiche.

Il progetto neo-ottomano. Il presidente turco ha l'ambizione di strappare all'Arabia Saudita la leadership dell'Islam sunnita e per farlo si muove su tre teatri. Il primo è la Siria dove gli interventi di terra contro i curdi ad Afrin e nel Nord hanno creato altrettante enclave trasformando Erdogan nel protettore dei sunniti davanti al risorto regime di Assad. Il secondo è il sostegno alla Fratellanza Musulmana ovvero il movimento sunnita che professa l'Islam politico ed è considerato da Riad il suo più pericoloso avversario. In questa scelta Erdogan ha per alleato il Qatar, con cui ha siglato un accordo strategico che prevede anche truppe turche a Doha. Ovunque vi sono Fratelli musulmani arriva il sostegno turco: avvenne in Egitto quando il presidente era Morsi, avviene ora a Tripoli e Misurata a sostegno del presidente Feyez al-Sarraj. Anche fra i palestinesi di Gerusalemme Est e gli arabo-israeliani in Galilea Erdogan si fa spazio grazie alla Fratellanza. Il terzo teatro è invece il Corno d'Africa dove imprese turche operano por-ti, aeroporti e ferrovie nell'area di Mogadiscio al fine di ipotecare le rotte fra l'Oceano Indiano ed il Mar Rosso. La corsa alla leadership sunnita rispolvera l'eredità ottomana della Turchia, consentendole di riacquistare un ruolo di leader negli stessi spazi, dal Maghreb al Golfo Persico, che appartennero al Sultano di Costantinopoli prima dei moderni Stati arabi. 

Il domino russo. Dall'intervento militare in Siria nel settembre 2015, Putin persegue l'obiettivo di riassegnare alla Russia il ruolo da protagonista in Medio Oriente che aveva l'Urss fino al 1991. E lo fa con la tattica del domino: una mossa dopo l'altra, in rapida successione, avanzando ove possibile. Aver salvato il regime di Assad dal crollo gli garantisce non solo le basi aeree e navali sul Mediterraneo ma una piattaforma operativa sulla quale ha cementato intese con i maggior partner della regione: con Iran e Iraq contro i jihadisti sunniti, con la Turchia per porre fine alla guerra civile siriana, con Israele per la sicurezza nei cieli. E adesso sta ripetendo l'operazione in Libia: l'invio dei mercenari di «Wagner» a fianco del generale Haftar segue intese con l'Egitto ed i Paesi del Golfo sebbene siano alleati di ferro di Washington. Ovunque Putin si presenta come il difensore della stabilità degli Stati arabi esistenti, l'avversario spietato dei jihadisti e il garante di equilibri inclusivi con tutti tranne gli Stati Uniti, che punta a indebolire ovunque. Anche nelle acque dell'Oman con le inedite manovre navali con Iran e Cina. Dietro a tutto ciò c'è la volontà di assicurarsi il controllo delle rotte del gas naturale nel Mediterraneo Orientale e nel Golfo che potrebbero competere con i propri giacimenti. E poi c'è la novità del soft power russo: reti tv e siti web in ogni lingua regionale per imporsi anche sul fronte dei media. Il ritorno degli UsaKhamenei, Erdogan e Putin sono diventati protagonisti in Medio Oriente sfruttando abilmente gli errori dell'amministrazione Obama -dall'instabilità creata in Libia ne12011 al mancato intervento in Siria nel 2013 fino all'avallo al nucleare iraniano nel 2015 - a cui ora Trump vuole porre rimedio con una strategia su quattro binari.

Primo: guerra senza quartiere a Isis e gruppi jihadisti come l'eliminazione di Al-Baghdadi ha dimostrato.

Secondo: rafforzare l'alleanza con Stati sunniti e Israele, portandoli ad un patto regionale sulla sicurezza e il commercio. 

Terzo: assediare l'Iran con sanzioni economiche e pressione militare - come il raid contro Soleimani conferma - per far deragliare la «Mezzaluna sciita». Quarto: ridefinire la presenza strategica nella regione con unità aeronavali e armamenti hi-tech ma diminuendo i contingenti di terra ereditati dai predecessori. Si spiegano così anche i negoziati in Afghanistan con i taleban per porre fine all'intervento iniziato nel 2001. 

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 6 gennaio 2020. Com'è Donald Trump? Un pazzo che ci porterà alla guerra mondiale. Ma non era un isolazionista che si occupava solo di affari e soldi? Com'è Matteo Salvini? Un populista atlantista prono agli USA perché a caccia di altri consensi. Ma non era amichetto di Putin e in odore di affari loschi con lui, tanto che Trump si schierò con Giuseppi al cambio d'abito di governo, e allora, in quella occasione, il parere di Trump fu ripreso come molto autorevole, addirittura come uno spartiacque nella legittimazione dei giallorossi? Com'è la situazione della politica estera americana? Nel caos, senza alcuna possibilità di capire quale direzione prenderà, soprattutto dopo che è stato licenziato brutalmente John Bolton. Ma Bolton non era il falco mostruoso dei Bush, che voleva a tutti i costi conflitti con gli stati canaglia del Medio Oriente, a differenza del presidente che pensa di poter usare il famoso metodo del bastone e della carota? Com'è l'atteggiamento dell'Unione Europea? Cauto, preoccupato, senza alcun intento di tifoseria, perché la situazione in Medio Oriente è complessa e richiede grande iniziativa diplomatica. Ma non ci siamo fatti sfilare completamente la Libia dove non ne abbiamo azzeccata una a partire dal 2011 e ora l'abbiamo consegnata alla Turchia del satrapo Erdogan, ovvero a uno stato canaglia, e in questo modo la Turchia ci controlla dal punto di vista della sicurezza, energetico, della gestione a lauto pagamento degli immigrati? Com'è che gli States hanno ordinato l'esecuzione di un militare di grande livello, che aveva combattuto l'Isis, uno al servizio del suo Paese, un patriota, anzi un eroe (giuro che lo hanno detto, è stato scritto, e non solo da Diego Fusaro in delirio antiYankee)? Ma Qassen Soleimani non è forse stato il Mastermind, lo stratega raffinatissimo, l'ideologo principe del terrorismo degli Ayatollah, uno responsabile della morte non solo di centinaia di americani, ma anche di occidentali e musulmani, fatti saltare in aria finanziando il terrorismo internazionale, dai gruppi paramilitari latino americani del narcotraffico ad al Qaeda, uno che faceva piazzare missili  balistici nelle aree più densamente popolate sacrificando civili senza neanche sollevare un sopracciglio? Come si fa ora, che anche se non scatenano la guerra perché non gli conviene, vista la incommensurabile disparità di forze, gli Ayatollah sono capaci di non commerciare più lucrosamente con noi e di tagliarsi la luce? Peccato che a Trump non gliene possa fregare di meno di questo tipo di problemi, visto che di smettere di fare affari con una nazione che ha disatteso gli accordi di smetterla di fabbricare nucleare, in base ai quali si è ripreso a farci affari, lo aveva chiesto da tempo. E visto che gli Stati Uniti sono autosufficienti ormai dal punto di vista energetico, anzi tra poco lo esportano il greggio, la politica estera americana non sarà più condizionabile dal ricatto di fermare la produzione di greggio, vale per tutti, anche per l'Arabia Saudita. Ma   porterà a ridurre anche l’influenza della Russia sui Paesi europei che fino ad ora dipendevano dal gas russo per alimentare la loro economia, in genere a cambiare completamente lo schema degli scambi energetici. Chi ha completato il piano, rovesciando le scelte green di Barack Obama e le geremiadi di quelli dell' accordo di Parigi, per giungere a questo risultato? Quel pazzo di Trump, guarda un po'. Com'è che gli Stati Uniti non si sono resi conto dell' immensa ammirazione degli iraniani e dei musulmani sciiti per il generale Soleimani, un mito, un' icona alla Che Guevara, e delle possibili conseguenze della rabbia, che già si è manifestata in queste ore durante i funerali impressionanti di massa del martire, termine quest'ultimo utilizzato testualmente dall'inviata del Tg3 Rai? Peccato che le vere manifestazioni di massa siano state un mese fa, di protesta disperata contro un regime insopportabile. Cito da Amnesty International, fonte che spero non vada bene solo quando parla male degli Stati Uniti: Gli arresti, sono stati migliaia: persone che prendevano parte alle proteste, studenti, giornalisti, difensori dei diritti umani, persino ragazzi di 15 anni. Non esiste ancora un dato ufficiale, ma il 26 novembre Hossein Naghavi Hosseini, portavoce del comitato parlamentare per la sicurezza nazionale, ha parlato di 7000 persone arrestate e di 400 morti. Molti degli arrestati sono stati torturati, trattenuti in isolamento, fatti sparire...Nella prigione di Raja’i Shahr di Karaj, una delle più famigerate dell’Iran, colonne di camion hanno scaricato centinaia di detenuti, ammanettati e bendati e accolti con calci, pugni, manganellate e frustate. Gli arresti sono stati accompagnati da una narrativa ufficiale estremamente ostile: dalla Guida suprema al capo della magistratura fino agli organi d’informazione statali, i manifestanti sono stati etichettati come “banditi” e nei confronti degli organizzatori delle proteste è stata invocata la pena di morte. Ecco, basta con le domande compulsive ispirate dalla lettura dei giornaloni e dall'ascolto di telegiornali condotti da commossi viaggiatori. L'Iran è una dittatura dove comanda la feccia dell'umanità, e' l'inferno per chi ci vive. Eppure fino al 2008 la situazione era diversa e la fine del regime si poteva intravvedere nel sacrificio di tanti oppositori. Poi arrivo' lui, il mitico Barack Obama col discorso del Cairo, la mano tesa, l'equilibrio del terrore, la Primavera araba, la guerra a Gheddafi, e non si sa quanta fu stupidità e quanto fu progetto diabolico. Fratelli Musulmani e Iran scelti per gestire l'equilibrio del terrore, fu miracolato graziosamente un Iran che era al collasso economico e politico, le truppe americane furono ritirate dall'Iraq nonostante successi straordinari del generale Petraeus, che non a caso in queste ore esulta come uno che si sente vendicato. Dietro la propaganda obamiana si è accodata entusiasta l'Europa a caccia di affari con un Iran diventato sorridente e promettente. Intanto ci hanno riempito di Hezbollah  e ci hanno esportato i pasdaran, si sono accomodati in Iraq dove come si è visto Soleimani entrava e usciva come fosse a casa sua, e, convinto che la politica America first volesse dire isolazionismo e debolezza nelle reazioni, aveva organizzato una escalation, da attacchi alle petroliere ad assalti all'ambasciata americana di Baghdad. Trump glielo aveva detto di non superare la linea rossa, non lo ha preso sul serio, il Mastermind, lo stratega diabolico ha commesso l'errore di sottovalutare la forza e la libertà di azione dell'avversario. Ora impazza insieme a tutte le altre domande  sulla stampa europea quella sull'utilità elettorale anti impeachment in nome della quale il presidente americano avrebbe preso l'infame decisione. Chiunque capisca qualche cosa di politica americana sa che un conflitto in anno elettorale non conviene mai a chi lo autorizza perché gli americani, specialmente se c'è una buona economia, in pace preferiscono stare anche se poi alla guerra per sé e per gli altri ci sono sempre andati. Quanto all'impeachment, i democratici non riescono a farlo neanche approdare al Senato, per ora non sono riusciti neanche a istruire il processo. Infine, non è igienico per nessuno assalire un' ambasciata americana dopo Teheran nel 1979, quando Carter, un imbelle come pochi (infatti ha preso anche lui il Nobel per la pace), diede al mondo un'immagine di debolezza che gli americani non hanno dimenticato mai. Per il resto vedremo come va a finire. Noi, con Giuseppi a Palazzo Chigi e Giggino alla Farnesina, non dovremmo metterci seduti tanto comodi a guardare lo spettacolo. E nelle arrampicate tardo andreottiane delle dichiarazioni degli esponenti politici del nostro Paese, si distingue un solo leader capace di chiamare le cose con il loro nome, è Matteo Salvini.

Maria Giovanna Maglie esulta per l'uccisione di Soleimani: "Senza gli americani Israele non esisterebbe". Libero Quotidiano il 3 Gennaio 2020. Maria Giovanna Maglie spezza una lancia a favore di Donald Trump. Dopo l'attacco in Iraq e l'uccisione del comandante iraniano Qassem Soleimani, in molti si sono schierati con gli Stati Uniti. Primo fra tutti Matteo Salvini che in un tweet ha ricordato: "Donne e uomini liberi devono ringraziare il presidente Trump e la democrazia americana per aver eliminato Soleimani, uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell'Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà". A fargli eco anche la giornalista che in un cinguettio ha esultato: "Bravo! È il momento di far capire dove si sta agli antiamericani e agli antisemiti. Meglio chiarire equivoci". E poi: "Senza gli americani Israele non esisterebbe più da tempo". 

Da liberoquotidiano.it il 4 gennaio 2020. Paola Ferrari si schiera dalla parte di Donald Trump per aver ordinato l'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, figura chiave della strategia di Teheran in Medio Oriente. "E' un atto di terrorismo", ha detto il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. Ali Khamenei chiama alla vendetta. E il Pentagono replica: "Proteggiamo i nostri interessi". La Ferrari non ha dubbi: questa è stata una "grande azione dell'intelligence americana contro un loro nemico giurato", scrive in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. E conclude: "Finalmente qualcuno con le palle. Ne avessimo anche noi, invece di politicamente corretti capaci solo di subire e criticare".

Ecco il ruolo degli 007 israeliani dietro l’attacco contro Soleimani. Mauro Indelicato il 3 gennaio 2020 su  Inside Over. Gli echi delle esplosioni che nella notte tra giovedì e venerdì a Baghdad hanno ucciso il generale Soleimani, sono subito arrivati anche in Israele. Lo Stato ebraico è direttamente interessato dagli eventi accaduti in Iraq: il generale iraniano rimasto vittima del blitz era nella lista dei principali nemici del paese, un personaggio visto con sospetto per il suo ruolo di braccio militare e diplomatico di Teheran proteso verso il medio oriente. Per questo la notizia della sua morte non è certo potuta passare inosservata. Tuttavia c’è un altro motivo per il quale il governo israeliano deve essere interessato al blitz avvenuto a Baghdad: secondo il sito Debka files, a fornire supporto all’operazione americana potrebbe essere stato anche il servizio di intelligence di Tel Aviv.

Un ruolo israeliano nella morte di Soleimani? Debka files, come riporta l’AdnKronos, è un sito molto vicino ai servizi di sicurezza israeliani. E dunque i redattori potrebbero avere tra le mani notizie provenienti direttamente da fonti molto accreditate tra gli 007 di Tel Aviv. Per tal motivo, l’indiscrezione lanciata su questo sito potrebbe non essere così distante dalla realtà. In particolare, in un articolo pubblicato a poche ore dalla morte di Soleimani, si fa riferimento al possibile supporto degli israeliani alle mosse dell’intelligence Usa a Baghdad. I servizi segreti dello Stato ebraico, avrebbero dunque dato un decisivo supporto alla riuscita dell’operazione che ha eliminato uno dei volti più rappresentativi dell’Iran e dunque del paese accreditato come il peggiore nemico di Israele.

“Le nostre fonti – si legge sul sito – riportano che l’operazione contro Soleimani rappresenta una straordinaria impresa di intelligence da parte degli Stati Uniti, a cui è molto probabile che abbiano partecipato anche i servizi israeliani”. In che modo però, non è stato al momento specificato. Le forze americane hanno colpito chirurgicamente a botta sicura, consapevoli di centrare il bersaglio. Una sicurezza che lascia presumere un accurato e delicato lavoro di intelligence, che ha anticipato il blitz. Un lavoro a cui avrebbero contribuito anche gli 007 israeliani.

A Tel Aviv riunione dei capi militari e di intelligence. Adesso il governo israeliano ha come principale obiettivo quello di tutelare i propri obiettivi più sensibili da possibili contrattacchi iraniani. Subito dopo la notizia della morte di Soleimani, la radio militare in piena notte ha interrotto le trasmissioni per trasmettere aggiornamenti da Baghdad. A Tel Aviv, dove vi è la sede del ministero della difesa, il titolare del dicastero Naftali Bennett ha convocato una riunione di urgenza. Presenti i vertici militari e dei servizi segreti: all’ordine del giorno, la valutazione dei rischi e le misure da prendere per scongiurare ritorsioni. La prima mossa in tal senso, è stata la chiusura delle stazioni sciistiche sul monte Hermon, considerate troppo vicine ai confini con il Libano meridionale e con la Siria. Elevate le misure di sicurezza in tutti i luoghi considerati più vulnerabili. Alla riunione era assente il premier Benjamin Netanyahu, impegnato ad Atene per un’importante visita volta a saldare l’asse con Grecia e Cipro ed a rilanciare i progetti energetici messi in discussione dal memorandum tra Libia e Turchia. Possibile che il primo ministro faccia repentino ritorno in Israele per valutare più da vicino la situazione.

Iran lancia missili contro basi Usa in Iraq. E' arrivata la risposta di Teheran dopo l'uccisione del generale Soleimani. Per l'Iran ci sono 80 vittime; notizia smentita da Washington. Panorama l'8 gennaio 2020. E' arrivata la risposta dell'Iran all'attacco Usa in cui è stato ucciso il generale Qassem Soleimani; nella notte una trentina di missili sono stati lanciati dall'Iran contro due basi statunitensi in Iraq. La tv nazionale iraniana ha parlato di 80 morti tra i militari Usa; da Washington invece si parla di danni strutturali ma non di vittime tra i soldati. Lo stesso Donald Trump con un tweet ha dichiarato che "va tutto bene". L'operazione della notte è stata denominata "Soleimani martire" e per Teheran non si è trattato di un aggressione ma di "legittima difesa". L'attacco è avvenuto in piena notte, poco dopo l'1.20. Obiettivo dei missili lanciati dalla Guardia Rivoluzionaria sono stati le basi di Ayn al-Asad e di Erbil. Immediatamente dopo lo scoppio dei missili alcuni caccia Usa si sono alzati in volo sorvolando anche lo spazio aereo della Siria. Ad Erbil si trova anche una base di soldati italiani. Il Ministero della Difesa ha comunicato che i nostri militari non sono stati interessati dall'attacco e tutti gli uomini sono stati portati al sicuro nei bunker della base. Ma la tensione resta altissima. La televisione di Stato iraniana ha annunciato che circa 80 "terroristi americani" sono stati uccisi, ed altre 200 sono rimaste ferite, in seguito al raid. "Grandi perdite sono state inflitte a numerosi droni, elicotteri e equipaggiamento militare nella base" di al-Asad. Secondo la Guardia Rivoluzionaria almeno 15 missili hanno colpito basi statunitensi, e nessuno è stato intercettato dall’esercito americano. "Circa 104 obiettivi degli Stati Uniti e dei suoi alleati locali sono osservazione da parte dell’Iran, e se commetteranno un errore, siamo pronti ad attaccarli". 

L’ipocrisia sull’omicidio Soleimani e la questione droni. E se il vero obiettivo del missile del drone Usa fosse un altro? Luciano Tirinnanzi il 7 gennaio 2020 su Panorama. Chi pontifica sul significato dell’uccisione di Qassem Soleimani, dimentica che il vero obiettivo del raid americano era Abu Mahdi Al Muhandis, leader delle milizie filo-iraniane Kataib Hezbollah che operano in Iraq. Solo il caso ha voluto che quel giorno al suo fianco ci fosse anche Qassem Suleimani, deus ex machina della politica militare iraniana in Siria e Iraq da quasi un decennio, il quale proprio quel giorno si trovava a Baghdad per incontrare rappresentanti di Riad. Era stato Al Muhandis a impartire l’ordine alle forze di mobilitazione popolare Hashd Shaabi (una coalizione di paramilitari sciiti, nata nel contesto della guerra civile irachena contro l’ISIS) di assaltare l’ambasciata americana di Baghdad nei giorni scorsi. Ed è stata proprio quest’azione ad aver convinto il Pentagono e la Casa Bianca a colpirlo, come monito per inibire futuri assalti anti-americani da parte degli iraniani. Per Washington DC, infatti, nulla è più sacro della sicurezza delle proprie ambasciate e dei propri uomini impegnati all’estero, specie se rievocano i fantasmi dell’assalto all’ambasciata di Teheran del 1979 e della susseguente crisi degli ostaggi. Da qui, senza la panna montata di complotti o segreti inconfessabili che il giornalismo main stream e i social ci propinano inopportunamente a ogni lancio di agenzia, la decisione di uccidere con un drone Al Muhandis. Ottenuta la conferma della presenza anche del generale Suleimani nel convoglio di Al Muhandis, il consiglio di guerra di Donald Trump ha dovuto decidere se dare luce verde o meno all’uccisione del capo dei Pasdaran, che il governo americano nel 2018 ha inserito nella lista dei «most wanted terrorists» e che rappresentano pertanto un obiettivo strategico da eliminare per Washington, al pari del Califfo dello Stato Islamico Abu Bakr Al Baghdadi e di altri terroristi. Una decisione, dunque, drammaticamente logica, pur nel suo cinismo e in tutta la sua crudeltà. I Pasdaran, infatti, da più di un quinquennio agiscono sotto la guida diretta di Suleimani con il placet della Guida Suprema dell’Iran, e sotto il suo comando hanno compiuto le più brutali azioni di guerra, vedi l’assedio di Aleppo in Siria. Le Guardie rivoluzionarie coordinano, inoltre, tutte le milizie fedeli a Teheran, anche se non ufficiali: gli Hezbollah in Libano, Hamas e Jihad Islamica in Palestina, gli Houthi in Yemen, Hashd Shaabi in Iraq, e migliaia di volontari asiatici impegnati in Siria almeno dal 2014 in poi. Tutte realtà che il Dipartimento di Stato americano ha definito senza mezzi termini «terroristi» e che, pertanto, il Pentagono combatte con ogni mezzo possibile. Proprio quest’ultima affermazione – «ogni mezzo possibile» – dovrebbe essere al centro delle discussioni, e non altro. Perché il punto nodale della morte di Qassem Suleimani non è tanto sull’essere pro o contro l’omicidio, ma se esso rientra o meno nei parametri della legge internazionale. La discussione non dovrebbe cioè vertere sul fatto che la morte di Suleimani rappresenti o meno un atto di guerra di Washington contro Teheran (spoiler, non lo è), piuttosto se ciò sia legale o se invece rientri in un atto di terrorismo internazionale. Quali sono le basi giuridiche dell’utilizzo di droni armati per operazioni militari anti-terrorismo? L’utilità dei droni è indubbia nelle guerre moderne, tuttavia va fatta una riflessione seria sull’argomento, che riguarda quasi esclusivamente gli Stati Uniti d’America e il loro modus operandi. La CIA, innamoratasi dell’efficacia dei velivoli spia senza pilota, che le consentono di spiare ogni angolo del pianeta senza rischiare uomini sul campo, ha progressivamente quasi abbandonato l’attività di human intelligence a favore dell’elettronica e, dunque, dei droni. Il che l’ha resa se possibile più cinica, ma anche più violenta. L’origine di questo vulnus è nel post 11 settembre 2001, con l’adozione di misure eccezionali per la lotta al terrorismo che, con l’andare del tempo, hanno portato a una drastica mutazione genetica della struttura e della filosofia operativa della stessa CIA che, sotto la guida del generale David Petraeus (2011-2012), si è trasformata progressivamente da organismo di intelligence in una vera e propria struttura paramilitare. Sotto John O. Brennan, che ha lasciato la guida nel 2017 per Mike Pompeo (oggi Segretario di Stato e vero artefice della morte di Suleimani), Langley sarebbe dovuta diventare meno militare e più civile. Lui è il grande ispiratore della campagna per l’uso massiccio dei velivoli senza pilota in funzione anti-terrorismo e, sotto la sua guida, la CIA si è definitivamente abituata ad agire secondo uno schema che non è altro se non killeraggio indiscriminato. Sinora, questo approccio ha fatto centinaia di vittime e conosciuto un uso massiccio di omicidi mirati autorizzati dal presidente in persona (motivo per cui l’Amministrazione USA è finita sotto inchiesta anche da parte dell’ONU), che continuano a provocare numerose vittime civili, come Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano rapito in Pakistan nel 2012 da una formazione jihadista e poi ucciso per errore da un drone statunitense nel gennaio 2015. Sotto la presidenza Obama, i droni sono divenuti perciò vere e proprie «killing machines» che hanno decretato anche gli omicidi intenzionali di cittadini americani commessi oltre i confini nazionali, però senza alcuna sentenza di un giudice né un giusto processo. Per stessa ammissione di Barack Obama, dal 2009 a oggi i droni USA hanno messo a morte almeno quattro cittadini americani tra lo Yemen e il Pakistan. Un fatto che non solo è anti-americano, ma del tutto incostituzionale. Eppure, Obama è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Ad aprire gli occhi agli americani per la prima volta è stata l’uccisione di Anwar Al Maliki, cittadino americano divenuto capo operativo di Al Qaeda nella Penisola arabica (AQAP), colpito da un drone nello Yemen nel settembre 2011. La sua morte, stabilita a distanza e inflitta al di fuori di un contesto bellico e della tutela dei diritti costituzionali, è stato il primo campanello d’allarme della disinvoltura con la quale la CIA – che non è il Pentagono e che non dovrebbe svolgere funzioni militari – agisce. Ma il Pentagono non è stato da meno e, nel contesto bellico dichiarato della guerra siro-irachena, ha portato lo strumento dell’uso di droni al suo livello più alto, anche in ragione della pervicace volontà di diminuire le truppe sul campo di guerra, senza però perdere la primazia geopolitica. Prova ne sia l’uccisione di Abu Bakr Al Baghdadi, a riguardo del quale però nessuno si è sentito di protestare o sollevare il dubbio di costituzionalità. Il diritto e la licenza di uccidere che i presidenti degli Stati Uniti, da George W. Bush a Barack Obama fino a Donald Trump, si sono arrogantemente auto-assegnati dietro la giustificazione della lotta al terrorismo, presentano insomma non pochi problemi di liceità anche in termini di diritto internazionale. Questo, e non altro, dovrebbe essere oggi il grande tema da trattare oggi, anziché quella triste litania dell’antiamericanismo spicciolo che non fa onore né agli analisti geopolitici né ai nostri rappresentanti degli affari esteri.

COME MAI TRUMP HA DECISO DI UCCIDERE SOLEIMANI ADESSO? Dagospia il 7 gennaio 2020. IL THREAD DELLA GIORNALISTA DEL “NEW YORK TIMES” RUKMINI CALLIMACHI: “SECONDO LE MIE FONTI, LA PROVA CHE CI FOSSE UN ATTENTATO IMMINENTE SU OBIETTIVI AMERICANI ERA SOTTILISSIMA. LE INDICAZIONI ERANO TRE” – “TRUMP INIZIALMENTE AVEVA SCELTO L’OPZIONE MODERATA, POI DOPO LE PROTESTE ALL’AMBASCIATA AMERICANA…” Ho pututo consultare alcune fonti, inclusi due ufficiali americani che sono stati informati dall'intelligence dopo l'attacco a Soleimani. Ecco cosa ho capito. Secondo loro, la prova che ci fosse un attentato imminente su obiettivi americani era ''sottilissima''. Di fatto, le indicazioni che puntavano a un simile esito sono tre:

a) una serie di viaggi di Soleimani in Siria, Libano e Iraq per incontrare emissari sciiti con posizioni ''offensive'' verso gli Stati Uniti (come ha detto una fonte, business as usual per Soleimani).

b) Più interessante il fatto che il generale avesse chiesto al leader supremo l'approvazione per un'operazione. Gli è stato detto di venire a Teheran per consultarsi e avere indicazioni, cosa che sottintende un'operazione in grande scala – ma, di nuovo, potrebbe trattarsi di qualunque cosa.

c) infine, a) e b) sono state lette nel contesto di una posizione iraniana sempre più bellicosa verso gli interessi americani in Iraq, inclusi l'attacco che ha portato all'uccisione di un contractor americano e le recenti proteste davanti all'ambasciata USA.

Ma come mi ha detto una fonte, a) + b) + c) sono difficilmente prova di un attacco imminente capace di uccidere centinaia di persone, come dice la Casa Bianca. Secondo questo funzionario americano, leggere l'intelligence e fare questo salto è illogico. Un ufficiale ha descritto la preparazione dello strike come caotica. Sostiene che, dopo l’attacco in una base irachena che ha ucciso un contractor americano, intorno al 27 Dicembre, fu presentato a Trump un “menù di opzioni” su come vendicarsi. E uccidere Soleimani era quella più improbabile. Trump aveva scelto un’opzione molto più moderata, cioè quella degli strike del 29 dicembre contro alcune postazioni delle milizie spalleggiate dall’Iran. Poi è arrivata la protesta alle porte dell’ambasciata americana a Baghdad. È stato solo dopo le proteste all’ambasciata che il presidente, secondo quanto riferisce un funzionario americano, ha scelto “l’opzione Soleimani”, ma il problema a quel punto è che l’intelligence americana non sapeva in quel preciso momento dove si trovasse esattamente. Per localizzarlo, hanno dovuto faticare. Secondo il funzionario, l’attacco a Soleimani è stato messo in piedi in così poco tempo che inizialmente gli Stati Uniti non erano sicuri che il leader delle Forze di Mobilitazione Popolare fosse nel convoglio. Anche lui è stato ucciso. Dal momento dello strike, l’Iran ha convocato I suoi capi della sicurezza nazionale. Una conversazione intercettata dall’intelligence americana indica che stanno considerando una serie di opzioni. Finora sono stati citati cyber-attacchi, attentati contro gli stabilimenti petroliferi e agli avamposti diplomatici. Ma tra le “opzioni del menù” che non avevo mai sentito prima c’erano  il rapimento e l’esecuzione di cittadini americani. (Questo spiegherebbe perché il dipartimento di stato ha ordinato l’evacuazione di tutti i cittadini americani in Iraq e non solo quella degli impiegati del governo e dell’ambasciata. Un’altra riguarda gli attacchi agli avamposti diplomatici e militari americani non solo in Iraq, Libano e Siria, ma anche più lontano, in posti come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain. Il funzionario con cui ho parlato era particolarmente preoccupato per le truppe americane stanziate in Iraq, alcune delle quali si trovano nello stesso luogo di alcune milizie sciite. Come impatta tutto questo sulla guerra contro l’ISIS? Ho chiesto a @Mikeknightsiraq di darmi delle dritte. Lui studia l’Iraq dagli anni ’90. Quello che mi ha detto è che mesi prima dell’uccisione di Soleimani le tensioni con l’Iran avevano già deteriorato le possibilità dell’America di combattere l’Isis in Iraq. Nel 2019 è stato negato all’America lo spazio aereo e l’accesso a operazioni in Iraq contro l’Isis nei mesi per volere dei gruppi spalleggiati dall’Iran. È stato detto agli Stati Uniti di interrompere le comunicazioni con le tribù Sunnite. Si tratta di battute d’arresto importanti che hanno già indebolito la posizione americana in Iraq. È sempre stato in discesa, mi ha detto @Mikeknightsiraq, in termini di accesso americano alla battaglia all’Isis in mesi recenti, a causa della pressione iraniana sui funzionari iracheni. Un risultato? Le forze speciai americane erano sull’offensiva nelle province di Diyala, Nineveh e Kirkuk. Un esito probabile dello strike è che gli avamposti piccoli e lontani per le forze per le operazioni speciali saranno giudicate troppo vulnerabili e saranno eliminate. Combattere l’isis non sarà più la priorità se il muro esterno dell’ambasciata americana viene attaccato. Nessuno sta provando a minimizzare I crimini di Soleimani, la questione è perché ora? I suoi movimenti erano conosciuti da tempo. Il suo “curriculum” da assassino per procura non è un segreto. È difficile separare la sua uccisione dalla saga dell’impeachment.

Crisi Usa-Iran, anche Trump è caduto nel teorema Cipolla. Ugo Intini il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. L’Iraq era nemico di Teheran, ora, dopo Saddam, è una sua provincia. E il disastro dell’occidente in Medio Oriente continua. Assad è ancora lì, come I talebani. Il famoso “teorema di Cipolla“ ( l’economista Carlo, che fu professore emerito a Barkeley) classifica l’intelligenza e stupidità degli uomini in base al risultato pratico del loro comportamento. Indica pertanto come quella migliore la performance di chi giova a se stesso e agli altri; come la peggiore quella di chi danneggia allo stesso tempo se stesso e gli altri, dimostrandosi così nel contempo egoista e inetto. Dispiace banalizzare una situazione potenzialmente devastante a livello mondiale, ma proprio gli ultimi sviluppi collocano purtroppo in quest’ultima categoria la performance storica degli Stati Uniti in Iraq. Supponiamo che l’Iran costituisca davvero nel Medio Oriente il principale pericolo per Washington (“supponiamo“, perché secondo molti non è affatto così). In tal caso, gli americani hanno fatto una guerra sacrificando migliaia di soldati e spendendo centinaia di miliardi di dollari. Per cosa? Per cacciare un governo arci nemico di Teheran e per portare conseguentemente l’Iraq sotto la crescente influenza iraniana. Della quale sono un simbolo impressionante gli ultimi sviluppi a Baghdad. Prima una folla immensa, con il primo ministro Mahdi, che piange come “martire” il generale Soleimani ucciso da Trump come “terrorista”. Poi il Parlamento a maggioranza filo iraniana ( Washington voleva la democrazia, no?) che delibera la cacciata degli americani dall’Iraq. La Casa Bianca ha provocato un disastro per il proprio Paese e naturalmente anche per l’Iraq. Che è stato liberato, sì, da un infame dittatore come Saddam Hussein, il quale uccideva decina di oppositori all’anno e ne incarcerava centinaia. Ma ha perso decine di migliaia di vite nella guerra contro gli americani ed è poi precipitato nella guerra civile, che ha provocato altre migliaia di morti all’anno, oltre a danni economici catastrofici. Saddam Hussein era inoltre un laico, spietato sterminatore dei fanatici religiosi. Via lui, intere aree del Paese sono caduta nelle mani dei terroristi islamici e dell’Isis, per essere poi riconquistate grazie a nuovi sacrifici e alle milizie scite filo iraniane: quelle appunto guidate a distanza dal generale Soleimani e inserite a pieno titolo nelle Forze Armate regolari irachene. La catastrofe dell’Iraq è colpa dei soli americani e del britannico Blair. Non certo dell’Europa, dove Francia e Germania si sono opposte ( non l’Italia guidata da Berlusconi). Ma i successivi disastri in Medio Oriente portano la firma dell’intero Occidente. Volevamo cacciare il dittatore Assad per portare la democrazia in Siria. Il risultato è che abbiamo avuto una guerra civile entrata nel suo ottavo anno, oltre 300 mila morti, uno Stato dell’Isis eliminato a caro prezzo ( come in Iraq), milioni di profughi verso l’Europa. E Assad è ancora lì. Peggio. E’ ancora lì dopo che Mosca ha ristabilito sulla Siria una egemonia simile a quella dell’Unione Sovietica nei suoi tempi d’oro. Storia simile in Libia ( e qui il povero Berlusconi non era d’accordo). Diversamente dalla Siria, è stato sì cacciato e ucciso il dittatore Gheddafi. Ma il Paese non si è più ripreso, è precipitato in una guerra civile che dura da nove anni, rischia di diventare un “failed State” ( uno “Stato fallito”) come l’Iraq. Anche qui con un ruolo crescente di Mosca e anche della Turchia, che sta mandando i suoi soldati. Si. Proprio quelli che cacciammo ai tempi di “Tripoli bel suol d’amore”. I turchi ( in Libia e non solo) sono in espansione e noi in ritirata. Ma allora a Roma c’erano Giolitti e il suo ministro degli Esteri marchese di San Giuliano, temuto e rispettato in tutte le Cancellerie del tempo. Non Conte e Di Maio. Per concludere il bilancio dell’Occidente nel mondo islamico, si arriva all’Afghanistan, dove dopo quasi vent’anni di presenza militare ( anche italiana) i talebani non sono stati affatto cancellati ( anzi). I morti si ammucchiano, le spese e la guerra civile continuano. Al punto che a Washington ha sollevato scandalo un rapporto sconcertante appena svelato dal New York Times: vi si legge che nessuno, né al Pentagono né al Dipartimento di Stato, sa più perché e per cosa gli americani siano lì. Proprio partendo dall’Afganistan, una mia piccola esperienza diretta può portare a una riflessione più generale. All’inizio del 2000, servivo al ministero degli Esteri come sottosegretario. L’ex re dell’Afganistan Mohammed Shah Zahir, un vecchio capo tribale ancora autorevole e rispettato assolutamente da tutti, abitava in esilio all’Olgiata ed era diventato un amico dell’Italia. C’era la guerra tra i talebani che controllavano Kabul e il generale Massud ( laico) che si era radicato nel Nord. Emergency di Gino Strada gestiva due ospedali: uno a Kabul e uno, sul fronte opposto, nell’area controllata dall’Alleanza del Nord. Forse in modo velleitario, pensavamo che l’Italia potesse trattare con entrambi e fare da “facilitatore” nell’aprire la strada a una trattativa di pace gestita innanzitutto dagli americani. Incontrai Muttawakil, ministro degli Esteri talebano e portavoce del leader Mullah Omar ( che non si faceva vedere mai). E anche il generale Massud. Concordammo la possibilità di un “corridoio umanitario” tra i due ospedali che speravamo diventasse il primo passo per un dialogo. Le cose da farsi nel contempo erano assolutamente evidenti: Washington doveva aiutare il generale Massud per rendere chiaro ai talebani che non potevano vincere sul piano militare e che pertanto dovevano trattare. Bisognava anche premere su di loro perché isolassero Bin Laden, che stava in Afganistan e che aveva da poco organizzato un attentato terroristico contro gli americani uccidendo diciassette marinai sul cacciatorpediniere Cole al largo dello Yemen. Gli Stati Uniti non fecero nulla di tutto questo. Qualche mese dopo, Bin Laden attaccò le torri gemelle e, come mossa propedeutica, uccise poco prima Massud con una telecamera imbottita di tritolo. Tornato dall’Afganistan, ricevevo a Roma la visita di un garbato professore americano della Rand Corporation ( un centro studi vicino ai repubblicani). Riferivo con la diligenza di un leale alleato, perché capivo che non era soltanto un professore. E qui nasce la riflessione più generale. Perché mai gli americani tendono sempre a cadere nella performance peggiore tra quelle del “teorema di Cipolla”? Sono disinformati o incompetenti? Niente affatto. Il garbato professore era Zalmay Khalilzad, era nato in Afghanistan, dove andava e veniva continuamente, parlava perfettamente pashtun, sarebbe diventato dopo l’invasione americana ambasciatore a Kabul ( lo chiamavano il vice re), poi ambasciatore a Baghdad e infine rappresentante degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Aveva, come è evidente, una cultura strategica immensamente superiore alla mia e sapeva assolutamente tutto sull’Afganistan, dove aveva contribuito a organizzare la resistenza contro i sovietici dei mujaheddin e delle “brigate internazionali islamiche” ( in cui ri-ve-sti va un ruolo importante proprio il saudita Bin Laden). Tuttavia, le cose sono finite come si è visto. Si potrebbe aggiungere che il diretto superiore di Khalilzad, come segretario di Stato, era la brillante professoressa Condoleeza Rice: un’altra personalità di straordinario spessore. E allora? La contraddizione clamorosa tra le grandi capacità dell’establishment americano e la disastrosa natura dei suoi risultati resta un mistero. Almeno per me. Nel caso dell’Afghanistan poi, il mistero si accompagna a un tragico gioco dell’oca, in cui si ritorna al punto di partenza. Khalilzad infatti è stato nominato da Trump suo rappresentante speciale per la trattativa di pace in Afganistan. E si può giurare che ( come si doveva fare vent’anni fa), tra i suoi interlocutori ci sia proprio Muttawakil, ritornato a Kabul dopo una lunga detenzione ( anche a Guantanamo) e considerato un “talebano moderato”. Insieme a Abdul Zaif, suo vecchio amico, da lui nominato a suo tempo ambasciatore in Pakistan, ovvero nel Paese strettamente alleato degli Stati Uniti che pure, come diceva a me il povero Massud, ha sempre aiutato e finanziato i talebani. Speriamo che non finisca come in Iraq. Certo, non depongono bene i precedenti storici. Nel diciannovesimo secolo, il “gioco dell’oca”, per la sua interminabile catena di morti tra le grandi potenze in conflitto perenne ( e irrisolvibile), si chiamava “la danza degli spettri”.

Quei maledetti “yankee” La lunga cavalcata dell’anti- americanismo. Lanfranco Caminiti l'8 gennaio 2020 su Il Dubbio. Vietnam, Sudamerica, Medio Oriente come la politica di Washington ha condizionato l’opinione globale. «Imperialisti, capitalisti sfrenati, gendarmi del pianeta», l’ostilità verso gli usa ha radici profonde, ma farne il “male assoluto” è pura ideologia. Alzi la mano, tra le signore e i signori di una certa età, chi non ha mai gridato almeno una volta – Yankee, go home. Alzi la mano chi non ha mai detto almeno una volta – la Coca- cola non la bevo, perché è un segno dell’imperialismo americano. Certo, oggi farebbe alzare il sopracciglio agli astanti, ma quelli di noi che sono cresciuti a pane e Vietnam sapevano che a bruciare le bandiere americane non c’erano solo gli studenti dei campus, c’erano i veterani che tornavano da quella guerra. E quelli, avevano visto com’erano le cose. Sapevamo che a una postazione antiaerea con i nipotini di zio Ho si era fatta fotografare Jane Fonda – Hanoi Jane. We are all un- americans, avremmo potuto rivendicare tutti tranquillamente, rovesciando la metafora inquisitoria della Commissione McCarthy, quella che aveva perseguitato e messo all’indice per attività anti- americane mezza Hollywood. Era anti- americanismo di principio, quello? No. Quelli che crescevamo a pane e Vietnam amavamo il cinema di Peckinpah e Paul Newman e Robert Redford che facevano Butch Cassidy e Sundance Kid – come potevamo essere anti- americani? Quelli di noi che sapevano che la United Fruits era il vero motore della politica estera americana in Centro e Sud America, e faceva golpe su golpe – quelli, che avevamo amato Steinbeck e Dos Passos, come potevamo essere anti- americani? Quelli di noi che vedevamo da lontano la pop- art di Rauschenberg e Lichtenstein e il dripping di Pollock, come potevamo essere anti- americani? E quelli che ascoltavamo Zappa e i Velvet, l’inno americano straziato da Jimi Hendrix e la voce disperata di Janis Joplin, quelli che ripetevamo il ritornello di Bob Dylan – how many times must the cannonballs fly / Before they’re forever banned? / The answer, my friend, is blowin’ in the wind – come potevamo essere anti- americani? Eravamo contro i golpe che la Cia organizzava, eravamo contro Nixon, eravamo contro il napalm nel Vietnam, eravamo contro la continua minaccia di guerra che la Nato rappresentava – Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia: questo gridavamo. Per la verità, continuerei a dirlo ancora oggi che molto probabilmente le basi americane in Italia sono punti di partenza per operazioni di guerra in cui ci troviamo coinvolti senza avere alcuna voce in capitolo. È stato l’atto di guerra – di terrorismo? Davvero conta? le guerre asimmetriche non sono ormai questo strano e orribile miscuglio tra tattiche militari da accademia e operazioni di terrorismo? – contro il generale iraniano Qasem Soleimani a far ripartire ovunque l’odio contro l’America. «Death to America », gridavano ieri in Iraq, in Siria, in Iran, e non ci vuol molto a immaginare che le piazze del sud- est asiatico si infiammeranno presto. Le chiacchiere in Italia si sono sprecate. C’entra questo anti- americanismo con il nostro anti- americanismo? Non c’entra nulla, direi. «Siamo tuti americani», scrisse de Bortoli, allora direttore del Corriere della Sera all’indomani dell’ 11 settembre. Non era così. L’attacco alle Torri Gemelle di bin Laden lasciò tutti attoniti, ma le sfumature di quello sbalordimento erano, per così dire, in un ventaglio molto ampio. Per me, a esempio, la domanda era semplice: si poteva stare dalla parte dei mullah o degli sceicchi? Un califfato, una teocrazia poteva essere augurabile? La risposta era forte e chiara: no. Ma, per tanti, quello che era chiaro oltre ogni evidenza – al Qaeda aveva pianificato per anni uomini e mezzi per quella cosa inimmaginabile – divenne sfocato, oscuro, contestato. C’era lo zampino del Mossad, un aereo non era mai davvero caduto sul Pentagono, le agenzie segrete americane si erano organizzate l’attentato – bin Laden, non l’avevano allevato loro? – per giustificare i propositi di guerra. Scempiaggini colossali – anche quando sciorinate da professoroni e giornalistoni – che avevano un solo segno in comune: l’anti- americanismo di principio. L’anti- americanismo di principio ha un solo articolo costitutivo: gli Stati uniti sono il male assoluto. Per le bizzarre incongruenze della storia, l’anti- americanismo di principio è associato alla sinistra radicale europea e italiana. Che non ha mai fatto nulla, va detto, per scrollarselo di dosso. Vi alligna, bellamente. Ma l’anti-americanismo di principio è in realtà un pensiero teorico profondamente radicato nella destra. Per Martin Heidegger l’Europa era stretta «nella grande tenaglia tra Russia e America», fra il totalitarismo sovietico da un lato e il regime monopolista dall’altro, ma accomunati entrambi dal fatto di esprimere «lo stesso triste correre della tecnica scatenata». Per Carl Schmitt, i nuovi “padroni del mondo”, quegli Stati Uniti che erano riusciti attraverso la talassocrazia ( il potere sul mare) a imporsi sulle potenze di terra europee, sarebbero riusciti a trasformare l‘hostis, il nemico, in un criminale, al fine di eliminarlo. L’universalismo dell’egemonia anglo- americana avrebbe sancito un sistema unico globale cancellando distinzioni e pluralità spazio- temporali. Un mondo dominato dalla tecnologia generata da una sola potenza, da strategie economiche transnazionali e finanche da una “polizia internazionale”. Per Heidegger e per Schmitt l’idea che l’individuo fosse rivestito di diritti avrebbe significato solo che lo Stato sarebbe finito ai suoi piedi – anti-liberalismo, anti-globalizzazione, anti-cosmopolitismo, sono queste le tracce ricorrenti dell’anti-americanismo di principio. Tracce che certo richiedono profondità e complessità di analisi e riflessione, suggestive come sono e a volte profetiche, ma che nulla c’entrano con la battaglia politica contro questa o quell’amministrazione americana, contro i suoi provvedimenti, i suoi interventi, i suoi programmi, proprio perché qualunque scelta gli Stati uniti facciano – sia quella del “gendarme del mondo” sia quella dell’isolazionismo – finisce sempre per modificare tutti gli equilibri.

Crisi Iran, gli americani abituati alla guerra ma la temono e non la amano. Paolo Guzzanti il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ero in mezzo al traffico di New York quando è arrivata la notizia dell’attacco ed eliminazione di Qassem Soleimani. Il traffico feroce ha avuto un sussulto, gli schermi televisivi dei taxi hanno cominciato a trasmettere, la gente ha appreso al volo da strisce di parole volanti e parlate ovunque. Il presidente aveva detto che enough is enough, quando è troppo è troppo e che aveva preso la sua decisione dopo aver visto nei dettagli il filmato dell’attacco all’ambasciata americana a Baghdad. He’s fucking mad, mi dice l’autista afroamericano usando un’espressione che può voler dire sia che Trump è incazzato nero, sia che è pazzo come un cavallo. Reazione? Noi in Europa non siamo americani e non sappiamo quanto la guerra sia parte del panorama di ogni singolo americano: tutte le famiglie hanno avuto caduti fra i parenti e i conoscenti in guerre successive alla Seconda guerra mondiale. Si tratti della Corea, Vietnam, Golfo, Afghanistan, Medio Oriente e anche Somalia, Grenada, guerre e interventi spesso dimenticati. Dunque, lo shock per una possibile guerra imminente non ha lo stesso impatto. In Usa si discute freneticamente se fosse proprio il caso di abbattere “the bad guy”, il cattivo, viste le conseguenze possibili, ma sul fatto che Soleimani fosse un uomo degno di attenzione militare, nessuno ha dubbi. Tutti ammettono, sia per strada che nelle interviste, di aver appreso la notizia con soddisfazione ma anche con preoccupazione. Ma non con troppo scandalo, come fanno vedere invece pubblicamente i democratici come Nancy Pelosi impegnata in una sua partita a scacchi e all’ultimo sangue contro The Donald, cominciata con la procedura di impeachment e che dovrebbe concludersi al Senato con una battaglia frontale da cui il Presidente uscirà scagionato, sì, ma forse azzoppato in vista delle presidenziali.  È quello che tutti sperano fra i democratici; e naturalmente sia la gente della strada che i commentatori politici e i politici stessi dicono che la mossa di Trump è probabilmente legata al suo desiderio di far passare in secondo piano il suo processo, di fronte a una emergenza nazionale e militare, caso in cui l’intero popolo americano si schiera con la propria bandiera, semmai ne riparleremo dopo. Ma la gente ricorda anche che Barak Obama era totalmente “addicted” al joystick con cui dava l’ok all’eliminazione dei brutti ceffi che il Pentagono e la Cia gli proponevano quasi quotidianamente. Questa sua inclinazione a dare l’ok per ammazzare i singoli nemici, o anche a gruppi e famiglie, lo aveva esposto a molte critiche da cui si era sempre difeso ricordando che l’America è in guerra contro il terrorismo e che quando si è in guerra in genere si colpisce il nemico. Dunque, sarebbe come se Giuseppe Conte, o Matteo Renzi, o Gianni Letta, in passato avessero dato il loro ok per far fuori qualche nemico dell’Italia e tutti lo sapessero senza essere in disaccordo. Non è così per noi, ma lo è per gli americani. Coloro i quali sono furiosi con Trump, lo sono non per questioni morali, se fosse giusto o no eliminare dalla faccia della terra un uomo come Soleimani. La riprovazione o la rabbia o il disprezzo o la paura nascono solo dalla valutazione delle conseguenze: What’s next?, che cosa succede dopo? Avete calcolato o no? Avete idea della loro risposta, della nostra contro risposta e prima di tutto se davvero siamo intenzionati a fare una guerra con tutte le armi disponibili per vincerla, schiacciare il regime iraniano, occupare il Paese vinto e instaurare un governo provvisorio amico? Trump giura di non avere questa intenzione e probabilmente è sincero: ciò che non si vede in televisione e sui giornali quando ci mostrano le folle urlanti “Morte all’America!” è che in Iran l’ucciso Soleimaini era odiato come una belva: è stato lui a far uccidere migliaia di dissidenti e a organizzare la repressione nel sangue degli insorti. Il Generale Maggiore aveva anche l’abitudine di eseguire personalmente molte condanne a morte, cioè si divertiva ad assassinare i prigionieri, era considerato da mezzo Iran come un feroce macellaio ed era odiatissimo in Libano, Siria e nello stesso Iraq, proprio l’ Iraq in cui gli americani intervennero per liberarlo della dittatura di Saddam Hussein, ultimo di una generazione di tiranni del socialismo Baath da sempre filo-nazista (il Grand Muftì di Gerusalemme era un ospite regolare di Hitler, per fornire assistenza alla soluzione del problema ebraico e reggimenti di Ss furono reclutati proprio dalle aree petrolifere del Medio Oriente). Gli americani temono che una guerra oggi potrebbe durare chissà quanto e che i giovani siano sottoposti a draft, alla leva obbligatoria. Ciò, come ai tempi del Vietnam, porterebbe all’esodo di migliaia di diciottenni in Canada per sottrarsi. Bisogna avere anche presente la scena tipica e terribile della famiglia americana tipo, che ha un figlio sotto le armi oltre oceano. E la scena è quella di una limousine nera che si ferma davanti al cancello di casa, da cui escono due marine in alta uniforme con cappello bianco e cintura bianca, portando in un pacco una bandiera americana piegata secondo il cerimoniale. È a quel punto che la moglie o madre o figli svengono, piangono e si rifiutano di aprire la porta. Gli americani sono abituati alla guerra anche se la temono e non la amano. Ma sanno di essere loro stessi parte di una entità mondiale che pensa di avere dei doveri superiori. Su questo sono d’accordo tutti, magari bestemmiando Trump, il quale come forma di rassicurazione dice: «Ho speso due miliardi di dollari per rinnovare interamente le forze armate e il loro arsenale. Sarà il più potente del pianeta anche nel caso in cui dovessimo batterci da soli contro tutti. Risponderemo in modo proporzionato, ma senza temere il combattimento totale». Gli americani, per primi quelli musulmani di origine araba, milioni, non hanno alcuna simpatia per gli sciiti iraniani da cui si sentono divisi quanto i cattolici irlandesi dagli odiati inglesi. Gli ebrei americani stanno in guardia perché si sentono in prima linea come vittime potenziali e dunque i livelli di guardia si alzano ovunque. Né bisogna dimenticare che dall’11 Settembre del 2001 gli Stati Uniti sono in stato di guerra, una nazione in armi e non in pace, che si è data leggi di guerra e procedure di guerra perché la guerra, sia a bassa intensità che ad alta, è in corso da vent’anni e con l’Iran fin dal 1979, da quando gli iraniani si impossessarono della loro ambasciata e trattarono ferocemente gli ostaggi americani umiliando senza essere stati provocati “il grande Satana” americano. Dunque, l’americano medio e anche suburbano spera che non finisca malissimo, ma sa anche che può succedere, è già successo e che ogni generazione paga il suo tributo a Giano, dio della guerra, fin dall’inizio dell’Unione.

Come si è arrivati all’omicidio di Soleimani? Giovanna Pavesi su Inside Over l'8 gennaio 2020. Con la sua morte è diventato uno shahid, ovvero un martire. Il martirio, soprattutto per i musulmani sciiti, rappresenta ben più di un simbolo. È un emblema sociale, religioso e sacro. Così, il decesso del potente generale Qassem Soleimani, avvenuto il 3 gennaio 2020 e causato da un attacco americano nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq, ha assunto diversi significati. Quello messianico, per i tanti iraniani che per quattro giorni di lutto piangono la scomparsa di uno dei più brillanti ed efficaci strateghi militari che la Repubblica islamica abbia mai avuto. E quello politico, che assume i tratti di un epilogo inevitabile, che da almeno due anni ha fatto salire la tensione tra gli Stati Uniti e Iran. Perché prima di Donald Trump, nessun presidente americano aveva osato un’azione così roboante – tanto audace quanto rischiosa – verso un Paese considerato nemico dell’America ma con cui l’America, almeno formalmente, non è in guerra. Prima di Trump, l’ipotesi di un’eliminazione così spettacolare era stata esclusa per il timore di esacerbare una tensione internazionale già alta, che nella regione (e non solo) avrebbe potuto costituire una minaccia concreta alla pace. Il governo iraniano ha definito l’operazione ordinata da Trump un vero e proprio “atto di guerra” e ha, ovviamente, minacciato ritorsioni. Soleimani, capo delle forze al Quds, il corpo speciale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, incaricato di compiere operazioni all’estero, non è stato soltanto un capo militare di primissimo piano, ma anche il custode di informazioni di intelligence riguardanti operazioni svolte (spesso in segreto) fuori dal territorio iraniano. Oggi, il generale nato a Rabor resta una figura chiave per il Paese: braccio destro della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, per molti, quando era in vita rappresentava una personalità di spicco che, per rilevanza politica e militare, superava persino quella del presidente eletto Hassan Rouhani, dal temperamento pubblico sicuramente più mite, politicamente meno conservatore e più incline al dialogo e alla diplomazia. Ma per comprendere come si è arrivati alla morte del generale Soleimani è necessario analizzare i rapporti tra Iran e Stati Uniti che, dal 2015 in poi, hanno mutato il loro aspetto e la loro sostanza più di una volta.

L'accordo sul nucleare del 2015. Nell’aprile del 2015, a Losanna, in Svizzera, era stato annunciata la prima bozza di un accordo che si sarebbe poi concretizzato nel luglio successivo. In quella circostanza, era stata presentata una serie di parametri generali sul nucleare iraniano tra i rappresentanti della Repubblica islamica e quelli dei Paesi del cosiddetto “5+1”, ovvero i cinque stati che hanno il potere di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, cioè gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito, la Russia e la Cina, insieme alla Germania. Tra i parametri decisi a Losanna e siglati nell’estate dello stesso anno, era prevista una significativa riduzione della capacità dell’Iran di arricchire l’uranio e, di conseguenza, la rimozione delle sanzioni internazionali imposte sull’economia del Paese. L’accordo era stato raggiunto a Vienna, in Austria, il 14 luglio del 2015 e, una volta approvato, aveva preso il nome di Piano d’azione congiunto globale, il cui acronimo è PACG o JCPOA. Tutti, però, hanno imparato a conoscerlo semplicemente come “accordo sul nucleare iraniano”, una formula storica sul piano internazionale, che sembrava avere attenuato le tensioni tra Stati Uniti e Iran. Oltre ai 5 Paesi +1, aveva preso parte all’accordo anche l’Unione europea. Ma, prima di arrivare all’approvazione dell’estate del 2015, occorre ricordare che i negoziati del piano d’azione congiunto globale sul programma nucleare iraniano erano iniziati nel 2013, con l’adozione del “Piano d’azione congiunto”, cioè un accordo provvisorio, firmato nel novembre di quell’anno tra l’Iran e i Paesi del 5+1, quando i leader dei due principali stati coinvolti erano Barack Obama e Hassan Rouhani. Nel corso dei venti mesi successivi, l’Iran e gli stati del 5+1 avevano proseguito le trattative fino a raggiungere l’accordo di Losanna.

Cosa dice l'accordo del 2015 (nel dettaglio). In base a quanto stabilito nel trattato approvato nel 2015, l’Iran accettava di ridurre le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per 13 anni. Secondo il patto, poi, la Repubblica islamica avrebbe potuto arricchire l’uranio soltanto al 3,67% e concordava di non costruire alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante per lo stesso lasso di tempo. Inoltre, le attività di arricchimento dell’uranio avrebbero dovuto essere limitate a un singolo impianto, utilizzando centrifughe di prima generazione per circa dieci anni. Secondo i patti, altre apparecchiature, poi, avrebbero dovuto essere convertite per evitare il rischio di proliferazione nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto di questo accordo da parte dell’Iran, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica si impegnava a verificare che Teheran rispettasse gli accordi. Il punto centrale di questo patto prevedeva che la Repubblica islamica, in cambio del rispetto degli impegni presi, ottenesse la cessazione delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti, Unione europea e Consiglio di sicurezza Onu, emanate con la risoluzione 1747, proprio a causa del suo programma nucleare.

Perché il patto era così importante. A dare un peso particolare alla riuscita di quel trattato, era stata la svolta storica che quel patto aveva rappresentato. Per tutte le nazioni coinvolte. I Paesi occidentali, i loro alleati e Israele, da sempre, avevano sostenuto (e temuto) che la Repubblica islamica volesse sviluppare un’arma nucleare molto potente. Teheran ha sempre negato di aver avviato un programma di quel tipo, ma per molti aveva mantenuto nel corso del tempo un atteggiamento ambiguo (soprattutto durante la presidenza dell’incendiario Mahmoud Ahmadinejad), rifiutando, per esempio, i controlli degli ispettori internazionali sui suoi territori. La risoluzione del 2015 era stata accolta positivamente dalla gran parte delle potenze, tranne dai due nemici giurati della Repubblica islamica in Medio Oriente, ovvero Israele e l’Arabia Saudita. In sostanza, l’accordo era stato voluto e firmato da Obama sulla base di uno scambio molto semplice: con la riduzione della capacità di arricchire l’uranio da parte della Repubblica islamica, privandosi della possibilità di costruire la bomba nucleare, gli Stati Uniti e gli altri Paesi firmatari avrebbero rimosso le disposizioni che rallentavano la sua economia. Ma l’elezione (inaspettata) di Donald Trump alla Casa Bianca nel novembre 2016 ha cambiato tutto, soprattutto in tema di politica estera.

La posizione di Trump nel 2016. Già durante la sua campagna elettorale, nel 2016, Trump aveva espresso il suo parere fortemente negativo rispetto all’accordo siglato un anno prima dal suo predecessore. Insieme a una parte consistente dei conservatori americani, l’ex tycoon riteneva che il patto non fosse abbastanza favorevole agli Stati Uniti e che la rimozione delle sanzioni avrebbe soltanto rafforzato Teheran (che, in quel modo, secondo la visione di Trump, avrebbe avuto più denaro da investire nei suoi programmi missilistici e nelle sue campagne di aggressione in altri Paesi del Medio Oriente). Una volta eletto presidente, Trump non ha mai nascosto la sua aperta ostilità nei confronti della Repubblica islamica. Così il presidente americano ha alzato i toni e si è scontrato apertamente più con la Guida suprema che con Rouhani (che all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 2017, la prima di Trump, aveva mantenuto argomentazioni più pacate rispetto al suo omologo americano).

Maggio 2018: Trump esce dell'accordo. La decisione ufficiale di Trump di abbandonare il patto siglato nel 2015 è arrivata l’8 maggio 2018, quando il presidente ha annunciato l’uscita degli Stati Uniti da un negoziato molto delicato, durato circa 12 anni. In base a quanto riporta uno studio condotto dall’Ispi, la scelta del capo della Casa Bianca sarebbe stata guidata dalla politica che ne ha contraddistinto tutta la sua campagna elettorale, cioè quella dell’America First, secondo la quale le decisioni degli Stati Uniti vengono prese esclusivamente in base a motivazioni di interesse nazionale, senza tenere conto né di impegni assunti in precedenza con gli alleati, né di considerazioni di sicurezza collettiva. In base a quanto riporta il Post, nel giorno in cui Trump ha annunciato l’uscita dell’America dal patto, l’Iran non aveva compiuto alcuna violazione consistente dei termini del trattato. Il primo a “violare” l’accordo era stato proprio il presidente americano che, tempo prima, aveva deciso di reintrodurre unilateralmente le sanzioni tolte nel 2015. La scelta americana di lasciare il patto, nei mesi successivi ha avviato una crisi importante nelle relazioni tra le due potenze. Ma non solo. L’Unione europea, in particolare, che nel 2015 aveva contribuito alla negoziazione dell’accordo e che a partire dal 2016 aveva instaurato con l’Iran un dialogo importante e su più livelli, aveva espressamente manifestato il proprio disappunto per la decisione dell’ex tycoon e si era così impegnata a mettere a punto strumenti e misure in grado di aggirare (in parte) le sanzioni americane e salvaguardare le già precarie relazioni economiche e commerciali con la Repubblica islamica. La sopravvivenza del legame economico era la condizione posta da Teheran a Bruxelles per continuare a rimanere parte dell’accordo, nonostante l’inadempienza americana.

Le motivazioni di Trump. Nel discorso pronunciato da Trump alla Casa Bianca, contestualmente alla firma del memorandum presidenziale che ufficializzava l’uscita dellìAmerica dall’accordo, l’ex tycoon aveva reiterato le accuse all’Iran di essere il principale sponsor statuale del terrorismo e di agire solo con lo scopo di destabilizzare l’equilibrio sociale in Medio Oriente. Nella stessa circostanza, Trump annunciava la reintroduzione delle sanzioni verso Teheran e dopo il suo discorso, Mike Pompeo delineava la nuova strategia statunitense nei confronti dell’Iran e gli obiettivi americani: porre fine alle attività di destabilizzazione regionale del regime teocratico di Teheran, impedire che potesse continuare a finanziare gruppi terroristici, vietare che si potesse dotare di missili e altri sistemi di armamento e, infine, proibire ogni accesso alla tecnologia per lo sviluppo dell’arma nucleare. Al momento dell’uscita, era parso subito chiaro che le motivazioni addotte dall’amministrazione Trump per giustificare la propria decisione non erano legate a reali difficoltà nell’implementazione dell’accordo. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica, infatti, aveva verificato l’effettivo mantenimento delle promesse da parte di Teheran. In base a quanto riportato dallo studio Ispi, a determinare la decisione di Trump di lasciare il patto sembrava essere stata piuttosto la volontà da parte dell’amministrazione di dare attuazione a una linea di politica estera che individuasse nell’Iran il nemico numero uno, la principale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati in Medio Oriente. L’idea dell’amministrazione repubblicana sembrava essere quella di chiedere all’Iran di abbandonare il proprio programma missilistico, di ritirare il proprio sostegno ad alcuni movimenti filo-iraniani presenti in altre aree della regione (in particolare Hezbollah, in Libano) e di accettare un accordo che, a differenza di quello siglato nel 2015, prevedesse diverse scadenze temporali.

Gli effetti e la crisi successiva. L’approccio unilaterale da parte di Washington è stato (ed è rimasto) una delle cause principali della crisi tra i due Paesi dal secondo dopoguerra a oggi. Anche perché la reintroduzione delle sanzioni americane, subito dopo l’abbandono del patto, aveva iniziato ad avere conseguenze dirette sull’economia iraniana, in particolare rendendo più difficile la vendita del petrolio. Nell’immediato, la scelta di Trump, che spingeva per il massimo isolamento del Paese, era sembrata la più corretta dal punto di vista americano. La destabilizzazione più grande che aveva seguito la decisione di Trump si era concretizzata, infatti, direttamente nella politica iraniana: l’uscita degli Stati Uniti aveva indebolito la parte di regime che aveva negoziato e voluto l’accordo, ovvero la fazione più moderata e meno conservatrice (quella del presidente Rouhani), favorendo i conservatori (tra cui Khamenei e le Guardie rivoluzionarie, il corpo militare guidato da Soleimani), contrari a scendere a patti con l’Occidente e con gli americani.

Gli attacchi del 2019. Con il rafforzamento dell’area più conservatrice iraniana, la speranza di rinegoziare un trattato e un cambio ai vertici della teocrazia si erano trasformate in ipotesi praticamente impossibili. Secondo quanto riportato da Il Post, a partire dall’estate del 2019, le Guardie rivoluzionarie iraniane avevano iniziato a compiere diversi attacchi contro petroliere straniere nel Golfo Persico e, in particolare, nello Stretto di Hormuz, il tratto di mare che divide il Golfo persico da quello dell’Oman. In quelle circostanze, erano state sequestrate navi ed equipaggi e, per la prima volta, veniva violato l’accordo sul nucleare del 2015 e veniva abbattuto un drone americano. Il 20 giugno 2019, in risposta a quell’azione, Trump aveva annunciato di aver approvato e poi annullato un’operazione militare contro la Repubblica islamica.

La questione siriana. Un altro terreno di scontro (militare e politico) tra Iran e Stati Uniti è rappresentato dalla Siria, dove l’America aveva mantenuto un piccolo contingente militare con il fine di assicurarsi la definitiva sconfitta dello Stato islamico e di frenare la crescente (e indisturbata) presenza iraniana nel Paese, garantita proprio dalle Guardia rivoluzionarie e dalle milizie guidate da Soleimani (che in Siria entrava e usciva di continuo). La principale preoccupazione statunitense era quella che Teheran avesse l’intenzione di creare un corridoio sciita tra la Repubblica islamica e la parte meridionale del Libano, passando da Iraq e Siria. Se il progetto fosse stato portato a compimento, l’influenza nella regione avrebbe potuto cambiare gli assetti geopolitici della zona. Poi c’è stato l’annuncio del ritiro americano dal Medio Oriente, ritrattato in svariate circostanze dal presidente Trump stesso.

L'uccisione di Soleimani. In molti, nelle ore successive all’attacco, si sono chiesti quali fossero le vere motivazioni legate al tempismo in cui il capo della Casa Bianca abbia ordinato di uccidere proprio adesso il generale Soleimani. In un primo momento, le ragioni sembravano essere legate a presunti attacchi contro obiettivi americani in Libano e in Iraq. Secondo quanto riportato dalla stampa statunitense, la decisione di intervenire e colpire Soleimani sarebbe stata presa da Trump la settimana prima del lancio del drone, dopo l’uccisione di un contractor americano in una base militare irachena, durante un bombardamento compiuto dalla milizia filo-iraniana Kataib Hezbollah, mentre non è ancora stato chiarito che ruolo abbia avuto l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad compiuto nei giorni scorsi da gruppi sciiti, sempre filo-iraniani. Ma l’ipotesi più diffusa attribuisce la causa della morte di Soleimani alla frustrata situazione tra i due Paesi. Un epilogo considerato quasi inevitabile, anche se inaspettato, perché il decesso di Soleimani per l’Iran rappresenta necessariamente un punto di svolta.

Le intenzioni di Iran e Stati Uniti. Ciò che, invece, non è ancora stato chiarito sono le intenzioni dei due Paesi sulle prossime mosse. Nessuno sa con certezza se l’Iran abbia davvero intenzione di rispondere all’attacco di Trump con un conflitto concreto e sicuramente violento nella zona. Né esiste la certezza che il presidente americano non abbia sottovalutato l’operazione. Di certo, per ora, c’è il simbolo di una morte che nel Paese e nell’intera area lascerà sicuramente il segno. Nei quattro giorni di esequie pubbliche, celebrate in onore del generale che, per 22 anni, è stato comandante delle forze al Quds, il fiore all’occhiello delle truppe d’élite (con sede nell’ex ambasciata americana a Teheran), la partecipazione è considerata inferiore soltanto a quella dei funerali del fondatore della Repubblica islamica, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, nel 1989.

La vendetta iraniana. Secondo un’analisi di Guido Olimpio per il Corriere della Sera, fonti iraniane citate dal New York Times sembrerebbero confermare un giudizio condiviso dagli esperti. Khamenei vorrebbe rispondere in maniera netta all’azione degli Stati Uniti e, quindi, non vorrebbe affidarla a fazione amiche, ma firmare un’operazione militare come Paese. Prima di tutto, per ragioni di prestigio. Sui tempi, invece, non ci sarebbe ancora un’idea chiara: nello stato a maggioranza sciita, infatti, vige un periodo di lutto da osservare, utile a evitare mosse avventate e a logorare (con l’attesa) l’America.

Il simbolo Soleimani. A salutare Soleimani, infatti, non resteranno soltanto le (rare) lacrime di Khamenei, ma anche le bandiere e gli slogan che affollano le strade. Fotografie, bandiere, disegni e ritratti del generale che ammantano ogni angolo del Paese. Da Teheran a Isfahan, fino a Qom, la città santa dove, nei giorni scorsi, sul minareto della moschea di Jamkaran, una preghiera incessante ha accompagnato l’innalzamento della bandiera con il suo volto. E, infine, l’emblematica illustrazione di Soleimani, che raffigura il suo arrivo in paradiso, accolto da Hussein, il nipote di Maometto ucciso nel massacro di Kerbala, simbolo dell’islam sciita, e dai padri della Repubblica islamica. Che, sorridendo, lo accolgono.

Andrea Nicastri per il ''Corriere della Sera'' il 7 gennaio 2020. Non basta Google per capire chi è Anis Nakash. Quando era tra i terroristi più ricercati del mondo, Internet non esisteva ancora. Quest' uomo calvo, un poco sovrappeso, poliglotta, dalla voce pacata all' inizio degli anni '70 ha imparato a sparare con istruttori sovietici e poi sperimentato con la pratica come dirottare aerei, mettere bombe, prendere ostaggi. Il Libano era l' università del terrorismo internazionale e Nakash un «professore» capace di insegnare ai primi Pasdaran iraniani e, poi, alle prime milizie libanesi di Hezbollah. Questione di contatti con il mondo di sotto, servizi segreti e bande armate; prima del generale Soleimani, l' amico più famoso di Nakash era Carlos, lo «Sciacallo», il super terrorista con cui sequestrò 60 ostaggi nella sede Opec di Vienna nel 1975. Nakash era il suo vice. I morti furono tre. Al tavolino di un Illy Caffè di Beirut, ogni 10 minuti qualcuno viene a omaggiarlo. Qualcun' altro cambia locale. Difficile sapere quante vite abbia sulla coscienza.

Signor Nakash, chi è lei oggi?

«Un militante, come sono sempre stato, un libanese che lotta per la Palestina con l' aiuto degli iraniani».

Com' è giunto a Teheran?

«Con gli accordi di Camp David, l' Egitto ha tradito la Palestina e solo Teheran avrebbe potuto sostituirlo. Per questo sono andato a Parigi - a tentare di uccidere Shapour Bakhtiar l' ultimo primo ministro dello scià, colpendo però al suo posto un' anziana e un poliziotto, ndr - e sono stato in prigione per 10 anni e 10 giorni. Mi hanno amnistiato in cambio di ostaggi occidentali, ma prima un gruppo marocchino aveva dirottato un aereo e un tunisino aveva messo una bomba a Parigi».

Perché la volevano libero?

«I ribelli ragionano così. Feci un' operazione con italiani, tedeschi e libanesi. Perché? Ci univa il nemico comune. L' imperialismo e il capitalismo. E poi c' è sempre un grado di opportunismo. Dimostrare efficienza significa ricevere finanziamenti».

Per uccidere?

«Per la causa».

Il generale Soleimani non aveva bisogno di soldi. Era a capo di un' organizzazione governativa.

«E in ogni discorso, lettera, preghiera chiedeva il martirio.

Sperava accadesse. Mai visto uno così. Era responsabile dell' intera regione eppure era come un qualunque soldato in prima linea. "Generale è pericoloso". "Bene, seguitemi".

L' ho visto agire così a Ghuta, in Siria. Era ovunque: nel sud del Libano nel 2006, a Mosul contro lo sceicco Al Baghdadi, ad Aleppo, a Bagdad era un Che Guevara moltiplicato per dieci».

Cosa succederà ora?

«La decisione principale è presa. Non ci sarà un' operazione speciale per vendicare il generale, ma si perseguirà il suo obbiettivo strategico: cacciare gli Usa dalla regione. Il Parlamento iracheno ha votato perché gli americani se ne vadano. E' chiaro che, da qui alle elezioni presidenziali di novembre, gli attacchi saranno continui. Cosa farà Trump? Manderà 100mila soldati chiedendo di essere rieletto? E lo stesso accadrà in Afghanistan, in Yemen e in Arabia Saudita. C' è una logica economica. Se il prezzo internazionale del petrolio sale, anche se gli Usa sono autosufficienti, il prezzo della benzina sale e gli elettori di Trump non saranno contenti».

La tecnica della guerriglia: far pagare troppo cara la presenza straniera. Ma con le nuove tecnologie è ancora efficace? Gli Usa possono colpire da lontano.

«In parte è vero. Ma anche da parte nostra qualcosa è cambiato. Oggi Hezbollah ha missili ad alta precisione. L' Iran ha abbattuto un drone americano superando le sue difese elettroniche. L' attacco ai pozzi petroliferi sauditi di settembre è stato un trionfo: 25 droni non intercettati dai radar, non fotografati dai satelliti, non bloccati dai Patriot, ma capaci di seminare il panico nel mercato petrolifero. La tecnologia non aiuta solo gli americani».

Il ruolo di Russia e Cina?

«In comune con noi hanno i nemici: l' imperialismo americano e l' estremismo sunnita. Sanno che è meglio fermare qui la gente dello Stato islamico, altrimenti se li trovano in Cecenia, in Daghestan, nello Xinjiang. Cina e Russia vogliono creare un equilibrio internazionale con sistemi di pagamento e un mercato alternativo a quello occidentale. Ha cominciato Mosca con una carta chiamata Mir accettata anche in Turchia e presto in Iran. Gli Usa non sono gli unici padroni della modernità».

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. «Ma voi in Europa sapevate che Qassem Soleimani è stato direttamente coinvolto nel rapimento di oltre 12.000 iracheni? Di loro dal 2015 non si hanno notizie e quasi certamente sono stati brutalmente assassinati dalle sue milizie estremiste sciite». Nonostante sia il giorno dei giganteschi funerali in Iran, il politico sunnita iracheno Ahmed al Mutlak non si tira indietro nel puntare il dito contro lo storico comandate delle Brigate Al-Quds, assassinato dagli americani cinque giorni fa in un raid alle porte di Bagdad. Figlio di un grande clan tribale di Falluja, la città simbolo della resistenza sunnita contro l' invasione americana del 2003, il 72enne Mutlak ha avuto due figli assassinati da Isis otto anni fa, è stato eletto due volte al parlamento dal 2010 al 2018 e oggi è segretario generale del partito Negoziato e Cambiamento in lotta per quello che chiama «un Iraq democratico senza discriminazioni».

Le sue accuse sono molto gravi. Può provarle?

«In Iraq questa è una verità nota e confermata da migliaia e migliaia di testimoni. Sono le famiglie delle vittime, per lo più giovani sunniti che tra il 2014 e il 2015 fuggivano verso sud da Mosul e le regioni occupate dalla guerriglia di Isis. Vennero fermati dalle milizie che Soleimani stava contribuendo a costruire reclutando giovani, specie dalle province sciite nel Centro-Sud del Paese.

Le loro vittime vennero rapite e massacrate nei mesi seguenti: all' inizio nella regione di Nassiriya si parlò di almeno 5.000 desaparecidos. Il gruppo Kataeb Hezbollah, comandato da quello stesso Abu Mahdi al-Mohandis ucciso dagli americani assieme a Soleimani, massacrò poi altri 900 in fuga dalla zona di Saqlawie. La cifra di 12.000 morti è la sommatoria dei desaparecidos in più località. Ma i nostri governi sono troppo deboli per condannare o aprire inchieste. E questo è un altro segnale di quanto gli apparati dello Stato iracheno siano già nelle mani degli iraniani. Teheran ci ha spodestati della nostra sovranità nazionale».

Cosa pensa del raid Usa: Trump ha fatto bene? E ora non sarà l'Iraq a pagarne le conseguenze più gravi?

«Premesso che nell'Islam la morte di ogni individuo va sempre rispettata, tengo a ricordare che Soleimani ha a sua volta provocato la morte violenta di centinaia di migliaia di civili innocenti. È stato l' architetto della repressione in difesa del regime di Bashar Assad in Siria, che dal 2011 è costata almeno mezzo milione di morti oltre a 12 milioni tra profughi e sfollati, orchestrava la guerra in Yemen, era stato tra i massimi fautori dell' apparato militare di Hezbollah in Libano. In Iraq le conseguenze del suo operato sono state gravissime».

Può spiegare?

«Le più recenti si consumano quotidianamente davanti ai nostri occhi. Soleimani ha personalmente ordinato ai cecchini delle milizie sciite addestrate dagli iraniani di fare fuoco contro i giovani di piazza Tahrir. In tre mesi registriamo 600 morti e 22.000 feriti. Ma il governo non fa nulla, non cerca di arrestare gli assassini. Niente, tutti zitti. Teheran ci ha già trasformati nel loro campo di battaglia contro gli americani. Ma c' è di più: Soleimani voleva trasformarci in una loro provincia».

Che forza hanno le milizie sciite?

«Sono almeno 67 e contano oltre 140.000 combattenti, un vero esercito i cuoi comandanti dirigono anche le forze regolari irachene. Per esempio, il capo militare delle Ashad al Shabi, le Forze di Mobilitazione Popolare sciite, è quello stesso Faleh al Fayaz che comanda il servizio d' informazione militare e il cui numero due era Muhandis, che a sua volta aveva diretto l'attacco contro l'ambasciata americana una settimana fa. Questo per dire che l' Iran controlla ormai i gangli vitali dello Stato iracheno».

Alessandro Rico per “la Verità” il 7 gennaio 2020. Oltre a Qassem Soleimani, capo dei corpi speciali iraniani, Donald Trump sembra aver bombardato anche i sostenitori nostrani del regime degli ayatollah. Quelli che, confidando nell' evanescente diplomazia europea, pensavano di poter costruire un sistema di alleanze alternativo a quello suggerito da Washington dopo l' arrivo del tycoon alla Casa Bianca. Il fronte di Bruxelles, però, è stato sparigliato dalla Germania, che ha assolto The Donald. Massimo D' Alema, la sua «missione Ue per fermare l' escalation», invocata sulle colonne di Repubblica, potrà giusto sognarla di notte. Capofila dell' utopia euroiraniana era l' ex Alto rappresentante per la Politica estera dell' Unione, ossia la Federica Mogherini che, nell' agosto 2017, si presentò velata a Teheran, alla cerimonia d' insediamento del presidente Hassan Rouhani. La stessa che nel 2014 celebrava l' intesa sul nucleare negoziata dall' amministrazione Obama, annunciando «una nuova stagione di dialogo» con l' Iran su «energia, trasporti, diritti umani, ambiente e traffico di droga». Non a caso, il suo principale sponsor politico, Matteo Renzi, nel gennaio 2016 fece coprire le statue nude dei Musei Capitolini per «islamizzare» la passerella dello stesso Rouhani, volato in visita a Roma. Il leader sciita ne fu entusiasta («Italiani molto ospitali», commentò), mentre l' allora ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, fu costretto a definire «incomprensibile» la scelta di censurare le sculture. A quel tempo, il titolare del dicastero degli Esteri un certo Paolo Gentiloni, quello che venerdì, nella sua nuova veste di commissario Ue per l' Economia, twittava la propria apprensione per i «rischi di escalation e destabilizzazione» del Medio Oriente. Rischi che evidentemente egli non intravedeva, quando (novembre 2014) su Repubblica definiva l' abbattimento del raìs libico, Muhammar Gheddafi, «una causa sacrosanta». D' altronde, tutta la sinistra s' indignava con Silvio Berlusconi, perché il Cav riceveva in pompa magna il dittatore nordafricano. La stessa sinistra favorevole allo scellerato intervento militare in Libia, che innescò la più grave crisi umanitaria e migratoria del decennio. Salvo poi ricredersi, puntando però sul cavallo sbagliato: Fajez Al Serraj messo alle strette dal rivale Kalifah Haftar e ormai più vicino a Recep Tayyip Erdogan che a Luigi Di Maio, l' attuale, attuale inquilino della Farnesina. Forse la guerra libica e le lodate primavere arabe, caldeggiate da Barack Obama, non generavano rischi di escalation e destabilizzazione? E forse Hillary Clinton, la candidata che i dem italiani sognavano alla Casa Bianca nel 2016, non era quella che si vantava di essere pronta ad «annientare totalmente l' Iran»? Si vede che la bomba di sinistra è magica: non distrugge, anzi porta la pace. Nella galleria di chi appare più spiazzato dal durissimo blitz di Trump, non si può non includere un' altra femminista velata: nel 2015, alle Nazioni Unite, Laura Boldrini tenne un cordialissimo bilaterale con lo speaker del Parlamento iraniano, Ali Larijani. Un incontro in cui fu ribadita la volontà di cooperare su turismo ed energia, senza fare cenno al rispetto dei diritti umani di donne e omosessuali, che a sentire la Boldrini, persino in Occidente sono costantemente sotto segregazione. Copione simile con l' ex governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, in missione istituzionale a Teheran nel gennaio 2016. Ovviamente, con un velo che ne occultava la chioma scura: «Preferisco coprirmi e aprire dialoghi», si giustificò lei. L' intesa sul nucleare, come nel caso della Corea del Nord, era solamente la maniera in cui Obama fingeva di non accorgersi delle operazioni iraniane di arricchimento dell' uranio: a fine dicembre, Teheran si vantava di averne decuplicato la produzione. A sostenere l' accordo, nondimeno, c' era anche l' ex ministro degli Esteri radicale, Emma Bonino. La quale almeno invocava controlli autentici da parte degli osservatori internazionali, in luogo della fede incondizionata nelle buone intenzioni degli ayatollah. Tra gli amici del regime, sicuramente delusi dal raid di Trump, figura, manco a dirlo, la gerarchia cattolica progressista. Comprensibile che, nelle ore successive al blitz, il nunzio apostolico a Teheran, Leo Boccardi, avesse sintetizzato così i sentimenti dell' opinione pubblica iraniana: «Incredulità, dolore e rabbia. Credo che la tensione sia arrivata a un livello che non si era mai visto e questo preoccupa e complica ancora di più la situazione». Sacrosante le preghiere per la pace del Papa, ma meno comprensibile la mezza santificazione di Soleimani redatta sulle pagine del quotidiano dei vescovi. Avvenire, ieri, attribuiva al generale nientemeno che la vittoria sullo Stato islamico, celebrandolo come uno «stratega», una sorta di condottiero povero per i poveri: «Lo si vedeva spesso insieme ai soldati, con gli stivali sporchi di fango, oppure seduto per terra a bere tè, a mangiare, a pregare». Mica come quel diavolaccio di Trump.

L’attacco dell’Iran contro le basi americane spiegato. Iside over il 9 gennaio 2020. L’operazione è stata chiamata “Martire Soleimani” e il codice che identifica l’attacco è stato denominato “O Zahra”, in onore della figlia di Maometto e madre di Hussein, figura chiave dell’islam sciita e dell’Iran, in particolare. L’intervento iraniano contro gli Stati Uniti ha avuto inizio intorno all’1.20 della notte tra il 7 e l’8 gennaio 2020, alla stessa ora in cui il generale Qassem Soleimani è stato colpito da un drone militare americano, che lo ha ucciso nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq, il 3 gennaio 2020. Un altro simbolo che caratterizza il piano di vendetta di Teheran che, tramite la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha giurato di voler vendicare la morte della guida dei pasdaran, mettendo la firma della nazione. In un attacco mirato e preciso, ma volutamente contenuto e non eccessivo.

Chi ha attaccato cosa. L’intervento di Teheran ha colpito due basi militari irachene che, però, ospitano soldati americani. Secondo quanto riportato da Il Post, l’attacco principale è avvenuto contro la base di Ayn al Asad, che si trova circa 230 chilometri a nord-ovest di Baghdad dove, secondo l’esercito locale, sarebbero caduti 22 missili. Il secondo attacco, invece, si è consumato contro una base di Erbil, nel Kurdistan iracheno, regione dell’Iraq settentrionale. È importante fare una riflessione sulle distanze dei due luoghi colpiti rispetto alla Repubblica islamica: la base al Asad, infatti, si trova a 370 chilometri dal territorio iraniano, mentre quella di Erbil a 105, distanze che possono essere effettivamente percorse da molti dei missili in possesso alle forze iraniane.

I dispositivi utilizzati. Secondo quanto riportato in una ricostruzione del Corriere della Sera, dagli anni Ottanta, la Repubblica islamica ha dimostrato di poter sviluppare gli ordigni utilizzati nell’ultima operazione, impiegati anche nella storica guerra contro l’Iraq. Negli anni successivi, i dispositivi sono stati forniti anche agli alleati della Repubblica islamica. Anche l’attacco ai siti petroliferi dello scorso settembre, per esempio, sarebbe stato eseguito con la combinazione droni-missili e alcuni analisti sostengono che per l’attacco dell’8 gennaio siano stati usati i Qiam 1 e i Fateh.

Chi ha compiuto l'attacco. Ad avviare la prima ufficiale forma di rappresaglia contro gli Stati Uniti sono stati i Guardiani della rivoluzione, noti semplicemente anche con il nome di Pasdaran, di cui il generale Soleimani aveva ricoperto un ruolo di guida, essendo stato a capo delle milizie Al Quds per più di 20 anni (la divisione che si occupa delle operazioni all’estero). Il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica venne istituito nel 1979, dopo la fondazione della Repubblica islamica da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Nati come una milizia forgiata da una profonda fede ideologica, con gli anni hanno ampliato il loro potere all’interno dello Stato. Totalmente fedeli alla Guida suprema, dispongono di circa 120mila uomini, suddivisi in forze di terra, aeree e navali. Il gruppo, nel tempo, ha imparato a controllare anche i basiji, milizie volontarie organizzate militarmente in cui si arruolano i più giovani. Entrare a far parte di questo gruppo prima e della milizia poi rappresenta per molti iraniani un buon punto di partenza per la propria carriera militare. In base a quanto riportato da Associated Press, l’offensiva alle basi militari irachene rappresenta “l’attacco iraniano più diretto contro gli Stati Uniti dall’assalto dell’ambasciata americana a Teheran, nel 1979”, che diede inizio alla nota “crisi degli ostaggi“.

La minaccia dei pasdaran. In base a diverse ricostruzioni, nelle ore successive all’attacco iraniano, i Pasdaran avrebbero fatto sapere che in caso di un ulteriore attacco da parte degli americani, Dubai, Haifa e Tel Aviv sarebbero potute essere i bersagli ideali da colpire in una ipotetica terza rappresaglia. In un secondo momento, poi, come riferito anche da Cnn, sul canale Telegram delle Guardie della rivoluzione sarebbe comparsa anche la minaccia di colpire gli Stati Uniti direttamente sul suo territorio. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, la dichiarazione ufficiale dei Pasdaran avrebbe contenuto quattro moniti: “Avvertiamo il Grande Satana che qualsiasi provocazione o aggressione conseguente a questo attacco avrà una reazione ancora più dolorosa e distruttiva. Avvertiamo tutti i Paesi alleati degli Stati Uniti che se verranno lanciati attacchi contro l’Iran dalle basi collocate nei loro stati, anche loro saranno ritenuti un obiettivo di rappresaglie. Riconosciamo Israele come complice dei crimini americani e quindi lo riteniamo un target militare. Invitiamo il popolo americano a richiamare i soldati per evitare maggiori perdite di vite umane”.

A cosa servono (e a chi) le basi colpite. In base a quanto riportato dal New York Times, l’Iran non avrebbe colpito per caso proprio quelle strutture. La base di al Asad, per molto tempo, per esempio, è stata utilizzata dall’esercito americano nell’ovest dell’Iraq. Nel 2017 ospitava circa 500 persone, tra personale militare e civili. La struttura è la più importante base americana in Iraq, anche perché accoglie l’agenzia Ap e circa 1.500 soldati (sia americani, sia della coalizione). Trump l’aveva visitata il 26 dicembre 2018, insieme alla moglie Melania. Dopo la sconfitta dello Stato islamico nel Paese, la presenza statunitense si è ridotta considerevolmente nell’area, ma rappresenta comunque un bersaglio importante perché ancora consistente. La base di Erbil, che si trova vicino all’aeroporto della città, invece,  è stata utilizzata soprattutto dalle forze speciali nelle operazioni che hanno riguardato il nord del Paese e la Siria orientale. In base alle prime informazioni avute subito dopo l’intervento, nell’attacco contro quest’ultima struttura i missili iraniani sarebbero tutti caduti all’esterno dell’edificio e il contingente italiano presente in loco si sarebbe rifugiato in un bunker, salvando tutti i membri del suo gruppo.

I numeri e le vittime. L’azione, che almeno inizialmente aveva allarmato mezzo mondo, non avrebbe ucciso nessun cittadino americano (informazione confermata anche dall’esercito iracheno), ma decine di iracheni. Diversa, invece, è stata la versione immediata fornita della televisione di stato iraniana, che avrebbe parlato di “80 terroristi americani” uccisi nell’attacco, senza però dare dati e prove certe. Resta evidente che se le strutture avessero contenuto il numero di persone presenti normalmente, il bilancio dell’operazione sarebbe stato diverso, in termini di vittime  e di potenziali feriti.

Il primo commento di Donald Trump. Nelle ore successive alla diffusione della notizia, dall’America non si è fatto attendere il commento del presidente Donald Trump, arrivato direttamente dal proprio account Twitter. Il capo della Casa Bianca, tramite il suo profilo personale, ha infatti usato toni più rassicuranti e ha scritto: “Fino a qui, tutto bene. Abbiamo di gran lunga i militari più potenti e ben equipaggiati del mondo”. Intanto, nella mattinata dell’8 gennaio, le autorità americane hanno deciso di imporre “restrizioni d’emergenza” nello spazio aereo sull’Iraq, l’Iran e il Golfo Persico. L’ex tycoon, nella giornata del 9 gennaio, in un discorso molto atteso, circondato dal suo stato maggiore, ha scelto di utilizzare (come in tanti prevedevano) toni più concilianti verso Teheran, tendendo la mano alla Repubblica islamica, pur restando fermo nelle sue posizioni: “Siamo pronti alla pace“.

La replica di Mohammad Javad Zarif. Ma nelle ore successive all’azione, anche il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, rappresentante dell’ala più moderata dell’establishment ha analizzato pubblicamente l’accaduto. Secondo quanto riportato dal Corriere della sera, Zarif avrebbe detto di aver subito inviato un messaggio agli americani, utilizzando i canali abituali, per informarli dell’operazione. Secondo il ministro, l’intervento (che somiglia più a un’azione dimostrativa) sarebbe stata condotto per “legittima difesa” in risposta all’uccisione di Soleimani, definita un vero e proprio “attacco terroristico”.

Zarif, che ha definito il lancio dei missili “una risposta proporzionata“, ha anche dichiarato: “Ciò che è certo è che la Repubblica islamica ha preso di mira una base americana da cui avevano colpito il comandante Soleimani e che avevano usato, in passato, per attacchi contro le forze della Resistenza. Un obiettivo legittimo, secondo il diritto internazionale”. Nel suo messaggio, però, il ministro degli Esteri ha voluto chiarire che Teheran non è intenzionata a provocare “un’escalation delle violenze o una guerra”. Segno che un conflitto non conviene proprio a nessuno.

Un attacco misurato. La prima azione (e probabilmente l’ultima) per vendicare la morte del generale Soleimani sarebbe stata significativa, ma dalle dimensioni piuttosto contenute. Le autorità iraniane, infatti, nelle ore precedenti all’intervento, avrebbero messo al corrente delle proprie intenzioni il presidente iracheno Adil Abdul Mahdi che, a sua volta, avrebbe avvertito gli americani, pronti così a prendere le misure necessarie per mettere al sicuro il proprio personale.

In questo modo, Teheran ha risposto all’uccisione del suo brillante stratega prendendo una posizione pubblica, ma evitando però di alzare troppo i toni e di avviare un conflitto reale contro l’America di Trump. L’ipotesi di un’azione missilistica, infatti, era stata presa in considerazione (insieme a un attacco con i droni) e le installazioni americane erano state già messe in allarme. In particolare, l’intelligence aveva segnalato attività dei reparti iraniani che hanno nel loro arsenale vettori a medio e lungo raggio. Nonostante ci si aspettasse una replica di Teheran, in pochi pensavano a un’azione così rapida. L’intervento ha, quindi, permesso alla Repubblica islamica di vendicare formalmente Soleimani, ma al tempo stesso di non aprire a una guerra totale. In base ad alcune versioni, infatti, le testate avrebbero centrato le aree più remote delle basi colpite. Quattro, infatti, sarebbero persino cadute lontano.

«Sono stati i Patriot a salvare gli italiani». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. «Sono stati i missili antimissile Patriot americani a salvare la zona dell’aeroporto di Erbil, dove stanno le basi di parte della coalizione internazionale. I soldati americani erano l’obiettivo dei missili balistici iraniani. Ma anche quelli italiani avrebbero potuto rimanere vittime». Quello che è forse il capitolo più drammatico per gli italiani del racconto relativo all’attacco missilistico iraniano ieri mattina alle 2 (mezzanotte in Italia) contro le basi e gli interessi americani in Iraq ci viene spiegato da Raed Abu Ayman, giovane interprete residente a Erbil, che in passato ha lavorato con i militari italiani e oggi è impiegato in loco da un’organizzazione umanitaria di Roma. «Come ben sapete, la base americana si trova a meno di 500 metri da quella italiana. Noi in città abbiamo udito nettamente il rombo della partenza dei Patriot americani, almeno due, se non tre. Subito dopo il missile iraniano è caduto in pezzi a una distanza di circa uno o due chilometri dal perimetro della base italiana», racconta. Una versione che viene ascoltata con un frettoloso «no comment» dai portavoce militari sia italiani che dell’intera coalizione internazionale. In verità, è dalle ore appena seguenti il blitz americano sei giorni fa contro il leader iraniano delle brigate Quds, Qassem Soleimani, e il dirigente delle milizie sciite irachene pro-Teheran, Abu Mahdi al Mohandes, che i vertici militari italiani si sono adeguati all’ordine dei comandi americani di evitare contatti con i giornalisti. Ciò che possiamo comunque provare a raccontare è che l’attacco con missili balistici (tra 15 e 22) sparati direttamente dal territorio iraniano è avvenuto simultaneamente su due obbiettivi. Il principale è stato la base di Al-Asad, vicina alla cittadina di Al Qaim presso il confine siriano, dove sono concentrati circa 2.000 dei 5.200 soldati americani. «È una base gigantesca. La sua pista d’atterraggio è lunga almeno 5 chilometri. La volle Saddam Hussein nei primi anni Ottanta, poi dal 2003 gli americani ne hanno fatto una roccaforte ben munita», ci spiega l’ex pilota da caccia dell’aviazione di Saddam, il 58enne Ahmed al Sharifi, che oggi è consigliere militare di Alì al Sistani, il massimo leader spirituale sciita in Iraq. Secondo i media iracheni e le informazioni da Washington, nonostante la propaganda iraniana parli della morte di «almeno ottanta terroristi americani», non pare vi siano vittime. Erbil, il secondo obbiettivo della rappresaglia iraniana, ha invece interessato da vicino il contingente italiano. Dopo l’evacuazione tre giorni fa della base Union3 all’interno della «zona verde» nella capitale (dove al momento resta ancora il comandante del contingente, generale Paolo Fortezza, con una decina di collaboratori), gli italiani sono stati spostati su Erbil, dove oggi contano oltre 600 soldati. Oltre 200 Carabinieri pare invece restino a Camp Dublin, presso l’aeroporto internazionale di Bagdad. Anche noi abbiamo potuto verificare il 24 dicembre durante la visita natalizia al contingente assieme al ministro della Difesa Lorenzo Guerini e al capo di Stato Maggiore, generale Enzo Vecciarelli, che la base italiana è prospicente a quella americana. Sono entrambe comprese nel recinto dell’aeroporto civile. «Se un grosso missile balistico mirasse agli americani, quasi automaticamente anche gli italiani sarebbero investiti dallo scoppio», ribadiscono fonti sul posto. Ottanta chilometri più distante si trova la base di Harir, pare presa di mira da almeno altri 5 missili, anch’essi incappati nel sistema antimissilistico Usa. Altri due o tre missili hanno investito Bardarash, 30 chilometri a est di Erbil, dove sono situati gli impianti della compagnia petrolifera britannica Chevron Oil. Ma le baracche del personale, compresi i dipendenti americani e inglesi, erano state evacuate parecchie ore prima. I media e iracheni tendono ora a credere che il peggio sia passato. Almeno per il momento. Ma non è escluso che le milizie sciite non provino a loro volta a vendicare la morte di Mohandes. In questo caso, le basi americane potrebbero tornare ad essere prese di mira dai molto più tradizionali colpi di mortaio e Katiuscia tirati dei gruppi locali.

L’Iran bombarda le basi Usa, ma dei morti non c’è traccia. Alessandro Fioroni il 9 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il regime afferma di aver ucciso 80 militari , sia Washington che Baghdad smentiscono. Trump smorza I toni: «no a escalation di guerra». La guida suprema Khamenei minaccia ancora: «vi taglieremo le gambe». Nella notte di ieri (l’ 1,20 ora italiana), è arrivata la risposta iraniana all’uccisione del generale Qassem Soleimani, una dozzina di missili sono stati lanciati dalla forza militare di Teheran colpendo due basi aeree statunitensi in Iraq. Gli obiettivi centrati sono stati quelli di Erbil e Al Asad ad ovest di Baghdad. La ritorsione è stata messa in pratica a poche ore dalla sepoltura di Soleimani nella sua città natale. Gli iraniani hanno subito parlato di almeno 80 vittime ma è apparso chiaro ben presto che non esisteva chiarezza su possibili morti, da Washington infatti è stato risposto che non si aveva conoscenza circa la perdita di vite umane e Trump si è limitatato a twittare: “va tutto bene”. Così come il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi che ha anche aggiunto di essere stato preavvertito da Teheran dell’imminente rappresaglia. La Guida Suprema ayatollah Alì Khamenei ha definito il lancio di missili «uno schiaffo in faccia» agli Stati Uniti seguito dal presidente Hassan Rouhani il quale ha minacciato «una risposta finale» con cui saranno cacciate fuori dalla regione «tutte le forze americane». Parlando con i giornalisti, a margine di una riunione del Consiglio dei Ministri a Teheran, il portavoce del governo Ali Rabiei ha addirittura minacciato direttamente Trump: «per lui non ci sarà un posto sicuro». Ma l’esibizione di muscoli da parte del regime cozza il qualche maniera con il senso delle parole pronunciate dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif che via twitter ha specificato come: «l’Iran ha adottato e concluso misure proporzionate di autodifesa ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite», negando in qualche modo di voler inasprire il conflitto. Anche la scelta degli obiettivi, basi molto grandi che sono state progressivamente sguarnite o adibite a compiti di addestramento dei militari locali, sembra far intendere che l’attacco non volesse fare troppo male o provocare vittime che avrebbero costretto Trump ad una risposta dura e immediata. Fonti del Pentagono, riportate dalla Cnn, avvalorano questa interpretazione degli avvenimenti. L’idea avanzata dall’emittente è che gli Stati Uniti abbiano dato all’Iran ‘ l’opportunità di fare quello che dovevano fare senza far salire la tensione”, lo stesso Trump avrebbe voluto parlare in tv immediatamente dopo il lancio dei missili iraniani ma sè stato convinto a soprassedere in attesa di valutazioni più attente. La risposta del presidente è così arrivata solo nel pomeriggio di ieri con una dichiarazione dalla Casa Bianca, Trump ha confermato innanzitutto che non sono state registrate «ne vittime americane ne irachene». Ha poi ribadito che finchè sarà in carica «l’Iran non avrà mai l’arma nucleare». Un discorso attento insolitamente ai termini da usare e dai toni poco bellici, solo un accenno, comunque sfumato, a possibili «nuove sanzioni» se Teheran «non cambierà il suo comportamento destabilizzante». Inoltre un riferimento alla necessità di «una nuova intesa» sul nucleare iraniano. «L’Iran deve abbandonare ogni ambizione nucleare – ha detto l’inquilino della Casa Bianca – occorre lavorare insieme ad un nuovo accordo che renda il mondo più sicuro e pacifico». Unica concessione al personaggio, una piccola stoccata all’Alleanza Atlantica: «chiederò alla Nato di impegnarsi di più in Medio Oriente».

Sale a 50 il numero di soldati USA feriti dai missili iraniani. Daniele Dell'Orco su Inside Over il 30 gennaio 2020. Aveva twittato “va tutto bene” Donald Trump la notte dell’8 gennaio. La notte, cioè, della collera iraniana. Quella dell’attacco missilistico alle basi militari di Erbil e Ain Al Asad, in Iraq. Durante la conferenza stampa successiva alla rappresaglia del regime degli ayatollah per l’omicidio di generale Qasem Soleimani, il Presidente degli Stati Uniti disse testualmente: “Il popolo americano deve essere grato e felice, nessun americano è rimasto ferito, non abbiamo subito vittime, ma soltanto piccoli danni alla nostra base militare”. A distanza di una settimana, però, oltre a una conta dei danni parsa tutt’altro che “piccola”, un comunicato della Coalizione anti-Isis parlava di 11 soldati statunitensi rimasti vittime di commozioni cerebrali e trasferiti in Germania e in Kuwait per le cure del caso. Solo allora, dal Pentagono, sono arrivare le conferme. Il mistero, tuttavia, non è ancora del tutto risolto, visto che col passare delle ore nelle diverse comunicazioni provenienti dagli Stati Uniti il numero dei feriti è aumentato di continuo. Il totale dei militari trattati per lesioni cerebrali è passato da 11, a 34, a 50, oltre la metà curati sul posto e reintegrati. 18, invece, evacuati presso gli ospedali militari americani in Germania e Kuwait. I sintomi delle lesioni concussive includono mal di testa, vertigini, ipersensibilità alla luce e nausea. E per stessa ammissione del portavoce del Pentagono, Thomas Campbell, “i numeri potrebbero cambiare ancora”. Trump in persona, a margine del suo intervento a Davos, aveva minimizzato l’entità degli infortuni. Alla domanda sulla discrepanza delle informazioni aveva detto di aver appreso delle ferite solo “molti giorni dopo”. E aveva aggiunto: “Ho sentito che hanno avuto mal di testa e un paio di altre cose, ma direi e posso riferire che non sia nulla di grave. Non le considero lesioni molto gravi rispetto ad altre lesioni che ho visto. Ho visto persone senza gambe e senza braccia”. Un atteggiamento per niente apprezzato da alcuni gruppi di veterani statunitensi, come William Schmitz, il comandante nazionale dei veterani delle guerre straniere, che ha detto di aspettarsi “delle scuse dal presidente ai nostri uomini e alle nostre donne di servizio per i suoi commenti sbagliati”. Anche perché si tratta di infortuni che dal 2000 hanno colpito oltre 400mila membri dell’esercito. Niente a che vedere, comunque, con le informazioni rilasciate dai media governativi iraniani, che avevano parlato di 80 membri dell’esercito americano uccisi o feriti e volati via di nascosto dalla base di Ain Al Asad all’alba dell’8 gennaio. Ma si tratta in ogni caso di numeri che contraddicono gli annunci inizialmente trionfali e rassicuranti. Un misterioso silenzio che sta a suggerire con ogni probabilità un tentativo da parte degli USA di non creare allarmismo circa la possibilità di inviare nuove truppe in Iraq (e per nulla gradite dagli iracheni), ma anche la volontà di proseguire sul percorso di distensione con l’Iran dopo la spirale di violenza iniziata a fine dicembre.

Iran: ok Camera Usa a limitazione poteri guerra Trump. Casa Bianca: "Risoluzione ridicola". La misura, denominata Iran War Powers e passata con 224 voti a favore e 194 contrari, dovrà ora passare il vaglio del Senato a maggioranza repubblicano. Trump: "Soleimani voleva colpire Usa non solo a Baghdad". La Repubblica il 10 gennaio 2020. Via libera della Camera dei Rappresentanti Usa, controllata dai democratici, alla limitazione dei poteri di guerra di Donald Trump contro l'Iran. La misura, denominata Iran War Powers, è passata con 224 voti a favore e 194 contrari. La risoluzione dovrà ora passare il vaglio del Senato a maggioranza repubblicano. Tre deputati repubblicani hanno votato a favore della risoluzione, sfidando Trump che aveva esortato il Grand Old Party a bocciare il provvedimento. "Spero che tutti i repubblicani alla Camera voteranno contro la War Power Resolution della pazza Nancy Pelosi", aveva twittato il tycoon ieri mattina, attaccando la Speaker dem. Quella licenziata dalla Camera è una concurrent resolution che non richiede la firma del presidente e che generalmente viene considerata non vincolante. I democratici tuttavia, invocando il War Power Act del 1973 che fissa i poteri di guerra di Congresso e Casa Bianca, ritengono che questo rappresenti un caso particolare. La risoluzione della Camera per limitare i poteri di guerra di Trump è "ridicola, è solo un'altra mossa politica". Lo afferma la Casa Bianca, commentando il via libera dei deputati al provvedimento che impedisce qualsiasi azione contro l'Iran senza un via libera del Congresso. "Il presidente ha il diritto e il dovere di proteggere il Paese e i cittadini dal terrorismo", aggiunge la Casa Bianca, precisando che la decisione di Trump di attaccare il generale Qassem Soleimani è stata "giusta". Il generale iraniano Qassem Soleimani ucciso dagli americani in Iraq voleva colpire non solo l'ambasciata Usa a Baghdad ma anche in altre città del mondo. Lo ha dichiarato il presidente Donald Trump durante un comizio in Ohio, sottolineando come Soleimani "non sia più il terrore" perchè "è morto". "Se minacci i nostri cittadini - ha rincarato Trump - lo fai a tuo grande rischio".

Trump: "Eravamo pronti contro Iran ma non siamo andati". L'Iran non avrà l'arma nucleare. Lo ha detto Trump nel corso di un comizio a Toledo, in Ohio. "Quando mi hanno detto 16 missili" lanciati contro due basi in Iraq "eravamo pronti ad andare" e rispondere all'Iran. "Ho chiesto quanti morti e feriti ci fossero - ha spiegato il presidente usa - mi hanno detto nessuno. E così non siamo andati, ma eravamo pronti, non che io lo volessi".

Ecco il team che ha supportato Trump nell’operazione Soleimani. Roberto Vivaldelli su Inside Over l'11 gennaio 2020. C’è molta più coesione fra il presidente Donald Trump e il suo team per la sicurezza nazionale rispetto al passato. Lo rivela il Wall Street Journal, che spiega come la velocità con cui si sono svolti gli eventi dall’uccisione del generale iraniano Soleimani in poi siano facilmente spiegati dall’affinità all’interno della nuova squadra di consiglieri per la sicurezza nazionale e militari che ora circonda il presidente. Secondo il Wall Street Journal, infatti, il team, che include il nuovo segretario alla Difesa Mark Esper, il capo di stato maggiore Mark Milley e il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien, insieme al segretario di stato Mike Pompeo, ha appoggiato la decisione del presidente di uccidere il comandante militare iraniano e si è subito mossa per eseguire gli ordini di Trump.

“Piena affinità con Donald Trump”. Sono lontani in tempi in cui il Presidente Donald Trump veniva “frenato” dal generale James Mattis o dall’ex Segretario di Stato Rex Tillerson. Secondo quanto riportato da the American Conservative, Mattis non avrebbe mai acconsentito all’operazione Soleimani e ha più volte dissuaso il presidente da azioni eclatanti. Ora The Donald può fare affidamento un team che supporto appieno la strategia di “massima pressione” dell’amministrazione americana contro Teheran. Mark Esper, sottolinea il Wall Street Journal, era un vecchio compagno di classe di Mike Pompeo e supporta l’idea di ridurre l’influenza iraniana nella regione. Robert O’Brien, avvocato diventato Consigliere per la sicurezza nazionale lo scorso 1° ottobre, è decisamente più “moderato” del suo predecessore, il “falco” neoconservatore John Bolton, mentre il generale Milley, che ha assunto l’incarico a settembre, è più disposto, rispetto al suo predecessore Joe Dunford, ad affrontare direttamente Teheran e pronto ad assumersene i rischi. Il senatore Lindsey Graham, che avrebbe consigliato a Donald Trump di procedere con l’eliminazione di Soleimani, ha confermato che i nuovi consiglieri “comprendono il presidente. C’è grande affinità tra di loro”. Il generale Milley, ha osservato Graham, “è la sorpresa più grande. È molto più disposto a correre dei rischi per raggiungere i propri obiettivi”. Graham, che è anche a capo del comitato giudiziario del Senato e ha un ruolo chiave nella difesa di Trump nel processo di impeachment, così come nella contro inchiesta sul Russiagate, potrebbe aver avuto un ruolo decisivo nel persuadere il presidente a dare l’ok all’opzione estrema di uccidere Soleimani. The Donald ha preso la sua decisione mentre si trovava nel suo resort a Mar-a-Lago, dove il senatore Graham era stato ospite per qualche giorno. Secondo il Daily Beast, nella settimana che ha preceduto l’attacco, Trump ha iniziato a “lasciare indizi ai soci e ai frequentatori del club che stava per succedere qualcosa di enorme”, e “ha detto specificamente che era stato in stretto contatto con la sua massima sicurezza nazionale e consulenti militari sulle opzioni da valutare per un’azione aggressiva che potrebbe concretizzarsi rapidamente”.

Mike Pompeo: “Non sappiamo dove e quando Soleimani avrebbe colpito”. All’indomani dell’uccisione di Soleimani, Donald Trump ha spiegato che il generale iraniano “ha ucciso o ferito gravemente migliaia di americani durante un lungo arco di tempo e stava complottando per ucciderne molti altri… ma è stato preso”. Tuttavia, il segretario di Stato Mike Pompeo ha spiegato a Fox News che gli Stati Uniti non sapevano dove o quando il generale iraniano Qasem Soleimani stesse pianificando di attaccare le truppe Usa stanziate in Medio Oriente. “Non c’è dubbio che ci sarebbero stati una serie di imminenti attacchi pianificati da Qasem Soleimani”, ha detto Pompeo pur ammettendo che “non sappiamo esattamente quando e non sappiamo esattamente dove, ma era reale”. Secondo la Cnn, oltre a Lindsey Graham, sarebbe stato proprio Mike Pompeo a convincere Donald Trump a far fuori il generale della Brigata al-Quds. Non sorprende, viste le posizioni dello stesso Pompeo. Il Segretario di Stato americano è “un avversario di lunga data della Repubblica islamica, e da anni sostiene una politica di regime change a Teheran”, osserva il The Middle East Institute. “Ha sempre lavorato per preparare il terreno a un conflitto militare tra Stati Uniti e Iran”. Un’ostilità che ha promosso anche da direttore della Cia, nei suoi 14 mesi di lavoro.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 9 gennaio 2020. «L' Iran si è piegato». I sei giorni di fuoco di Donald Trump si concludono con una dichiarazione trionfale del presidente americano. La pioggia di missili iraniani su basi Usa «non ha fatto vittime». La rappresaglia per l' uccisione del generale Qassim Soleimani è stata un misto tra fuochi d' artificio e fuoco "amico"; quasi che Teheran tema davvero di sfidare il Grande Satana. Per gli avversari il discorso di ieri sera alla nazione può ricordare l' infausto striscione "Mission Accomplished" di George W. Bush, quel prematuro cantar vittoria meno di due mesi dopo l' invasione dell' Iraq nel 2003. A cui seguirono non pochi rovesci. Ma per adesso la cronaca di questi sei giorni è un crescendo molto trumpiano, con il presidente che s' impadronisce del trofeo militare dopo alcune pause d' incertezza, confusione, perfino paura.

Il raid. La cronaca dei sei giorni ha inizio la sera del 2 gennaio, quando arriva la prima notizia: un blitz di droni Usa ha ucciso il generale Soleimani, capo delle forze speciali Quds, regista occulto o palese delle tante milizie parallele che dal Libano alla Palestina, dalla Siria allo Yemen seminano il terrore da anni. Trump all' inizio si limita a twittare la notizia, non convoca conferenze stampa né annuncia solenni discorsi al paese, quasi che lui stesso non colga tutta la portata di quel colpo. L' esecuzione - che insieme a Soleimani elimina un capo degli Hezbollah e altri 8 miliziani - è avvenuta vicino all' aeroporto di Bagdad, quindi sul suolo iracheno. Nelle prime ore dopo l' annuncio prevalgono le critiche. I democratici Usa accusano il presidente di aver agito senza consultare il Congresso. Gli alleati Nato lamentano di non essere stati informati. L' Iraq denuncia una violazione della sua sovranità.

Le critiche. L' onda negativa si amplifica per i due giorni successivi. Germania, Italia e Canada annunciano di aver messo al sicuro i propri soldati dispiegati in Iraq, sospendendone le missioni. La Nato interrompe l' addestramento dell' esercito iracheno. Il petrolio s' impenna sui mercati. Nei commenti dei media prevale il catastrofismo: dalla recessione imminente alla terza guerra mondiale, ogni sorta di scenario apocalittico viene addebitato a Trump. Vacilla la stessa squadra di comando che ha coordinato le operazioni tra Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato. Esce un' indiscrezione imbarazzante, su una lettera dei vertici militari americani che sembrano cedere alle richieste di ritiro che vengono dal Parlamento di Bagdad. La diplomazia Usa è costretta a dare un ordine di evacuazione di tutti i concittadini dall' Iraq, compreso il personale dell' ambasciata, il che appare una vittoria per l' Iran. Si moltiplicano gli appelli alla calma - in provenienza da Mosca e Pechino, dalle capitali europee, dagli Stati del Golfo - e sembrano rivolti più a Trump che alla guida suprema Khamenei. Il presidente americano approfitta di un summit bilaterale col premier greco per rilanciare il suo messaggio: Soleimani «era un mostro, un terrorista sanguinario, con centinaia di vittime americane sulla coscienza ». Ma oltre ai suoi nemici, buona parte dell' Occidente lo accusa di giocare all' apprendista stregone, di scatenare uno scontro di cui non ha previsto gli esiti. Poi arriva, al quinto giorno, il primo segnale d' inversione di tendenza. È una tragedia nella tragedia, avviene quando nel corso di una cerimonia funebre per Soleimani muoiono calpestati almeno 50 iraniani. Crudele e terribile fatalità.

La ritorsione. Nella notte tra il quinto e il sesto giorno, la tempesta di fuoco che parte dall' Iran contro le basi militari Usa in Iraq si rivela uno spettacolo ad uso della propaganda di Teheran. Neanche un soldato americano o iracheno viene colpito. Mentre le ong umanitarie sembrano già pronte a denunciare stragi innescate da Trump, non è chiaro se il flop dei missili sia voluto dal regime degli ayatollah perché non vogliono scatenare nuovi castighi americani; o se sia una semplice prova d' inefficienza. Si aggiunge il tragico mistero del Boeing caduto, con i sospetti che uno dei missili iraniani possa averlo colpito. Trump stavolta parla alla nazione, e il primo bilancio gli dà ragione: la terza guerra mondiale è rinviata. Lui ne approfitta per saldare i conti con la Nato a cui chiede un maggiore impegno anche in quell' area. Offre agli iraniani un futuro radioso, se solo rinunceranno all' espansionismo ideologico-militare. Sottolinea che mai e poi mai l' Iran avrà l' atomica, finché lui è presidente. Quest' ultima forse è la promessa più azzardata fra tutte.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 9 gennaio 2020. Il presidente Trump ha deciso di rispondere ai missili lanciati martedì notte dall' Iran su due basi irachene imponendo nuove sanzioni, ma non ha minacciato altri attacchi come quello che aveva ucciso il capo dei pasdaran Soleimani. Nonostante altri due missili siano caduti ancora ieri sera sulla Green Zone di Baghdad. Il presidente americano ha chiesto alla Nato di aumentare il suo impegno nella regione mediorientale, e soprattutto ha sollecitato Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Cina ad abbandonare ciò che resta dell' accordo nucleare Jcpoa. Così ha aperto la porta al negoziato per una nuova intesa più ferrea sulle armi atomiche, ma allargata ad altre questioni scottanti come le aggressive ingerenze di Teheran nell' area e il suo programma missilistico. Anche la Repubblica islamica aveva segnalato la volontà di evitare una guerra aperta, se però fermerà le rappresaglie dei suoi alleati, e tornerà a trattare, è tutt' altro che scontato. Martedì l' Iran ha lanciato 22 missili, anche se le stime variano, contro le basi di al Asad ed Erbil che ospitano soldati americani. Prima di farlo ha avvertito gli iracheni, che hanno informato gli Usa. Il sistema di allarme dell' intelligence americana stava già controllando gli spostamenti dei missili, e quindi sono state evitate vittime. Gli ayatollah in sostanza volevano lanciare un messaggio domestico e internazionale senza però provocare un conflitto. Infatti il ministro degli Esteri Zarif ha subito detto che la rappresaglia era conclusa, e il giorno dopo il leader spirituale Khamenei l' ha definita «uno schiaffo» agli Usa. Così Teheran ha aperto lo spazio per fermare l' escalation, che Trump ha deciso di usare. Parlando ieri mattina ha esordito dicendo che «fino a quando sarò presidente l' Iran non avrà l' atomica». Poi ha sottolineato che i missili lanciati martedì non avevano fatto vittime o danni seri, e ha notato che la Repubblica Islamica «sembra abbassare le armi, una cosa buona per tutte le parti. Gli Usa sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la cercano». Il capo della Casa Bianca ha annunciato nuove sanzioni e ha chiesto alla Nato una presenza maggiore nella regione, ma non ha minacciato altri attacchi, anche perché il bilancio dell' ultimo scontro è stato positivo per lui: Washington ha eliminato il principale comandante militare di Teheran, che ha risposto solo con una rappresaglia simbolica. Così ha ristabilito la deterrenza, e da questa posizione di forza ha chiesto ai paesi membri del Jcpoa di abbandonarlo, per negoziare un nuovo accordo. Questa partita dunque si chiude qui. Le incognite ora sono due: primo, se gli ayatollah fermeranno anche i loro «proxy», oppure le ritorsioni continueranno; secondo, se sono disposti ad esplorare il dialogo, come hanno fatto negli ultimi giorni usando gli intermediari svizzeri, oppure vogliono rilanciare la sfida sperando che Trump perda le elezioni di novembre.

Trump: «Volevano attaccarci a Bagdad». Ma il presidente tende all’Onu la mano. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. I sospetti sull’aereo ucraino precipitato a Teheran stanno complicando le manovre americane per disinnescare la crisi con l’Iran. Donald Trump dice di «condividere» i dubbi, ma non forza le conclusioni e soprattutto evita di accusare direttamente gli ayatollah: «Forse qualcuno ha fatto un errore». A Washington è evidente lo sforzo di riportare lo scontro con Teheran sul piano politico e diplomatico. L’ambasciatrice Usa all’Onu, Kelly Craft, ha inviato una lettera al Consiglio di sicurezza e ad António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. «Siamo pronti a impegnarci in negoziati seri e senza precondizioni con l’Iran, con l’obiettivo di evitare ulteriori pericoli per la pace e la sicurezza internazionale e di fermare un’escalation da parte del regime di Teheran». Secca e immediata la risposta della delegazione iraniana al Palazzo di Vetro: «Impensabile dialogare con le sanzioni americane in vigore». Poco prima Trump aveva annunciato: «Abbiamo già rafforzato le restrizioni economiche. Erano già molto dure e incisive, ora lo saranno ancora di più». Così, accantonati droni e missili, la situazione resta bloccata. L’«eliminazione» di Soleimani continua ad avvelenare ogni tentativo di mediazione. Trump, parlando con i giornalisti, ha rivendicato «la necessità» dell’operazione, rivelando pubblicamente ciò che il segretario di Stato Mike Pompeo e la direttrice della Cia, Gina Haspel, avevano taciuto mercoledì scorso nei briefing con i deputati e i senatori, sollevando aspre polemiche. «Soleimani stava cercando di far esplodere la nostra ambasciata a Bagdad. Le sue milizie avrebbero potuto prendere ostaggi e uccidere molte persone, se non avessimo agito rapidamente. Abbiamo evitato che Bagdad diventasse un’altra Bengasi», ha detto il presidente riferendosi all’assalto contro la sede diplomatica nella città libica, nel settembre del 2012, dove venne ucciso l’ambasciatore statunitense Chris Stevens. A New York la stessa Craft prova a dare una veste legale alle parole di Trump, scrivendo nel messaggio a Guterres: «Abbiamo agito (contro Soleimani, ndr) in conformità dell’articolo 51 della Carta Onu, che ammette misure di auto difesa. Siamo pronti a prendere altre iniziative nella regione se dovremo proteggere il nostro personale e i nostri interessi». Ma per l’amministrazione Trump ora il problema è come spezzare l’isolamento internazionale. Il vice presidente Mike Pence ha detto in un’intervista a Fox News che «nei prossimi giorni il presidente chiamerà gli alleati e chiederà loro di ritirarsi dal disastroso accordo sul nucleare con l’Iran e di premere su Teheran perché abbandoni la sua lunga storia di sostegno al terrorismo, abbandoni le sue ambizioni atomiche e si riunisca alla famiglia delle nazioni». L’appello è rivolto ai governi di Gran Bretagna, Germania e Francia che però sono stati tagliati fuori nel momento decisivo del blitz contro Soleimani. Per gli americani sarà ancora più difficile trovare una sponda nella Russia e nella Cina, gli altri firmatari dell’intesa con Teheran del 2015.Per il momento Trump incassa solo la «disponibilità» del Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg: «Ho parlato con il presidente che ci ha chiesto un maggior coinvolgimento nel Medio Oriente. La Nato ha il potenziale per contribuire maggiormente alla stabilità regionale. Stiamo esaminando che cosa fare di più». C’è poi il fronte interno. Ieri la Camera dei Rappresentanti ha messo ai voti una risoluzione per limitare i poteri di guerra del presidente nei confronti dell’Iran. Il provvedimento, però, con tutta probabilità, verrà affossato al Senato, dove i repubblicani hanno la maggioranza. La Speaker Nancy Pelosi ha di nuovo criticato duramente la Casa Bianca: «Impedire la guerra è la nostra principale priorità. Trump ha messo a rischio l’America. Prego per la pace». Il presidente ha risposto via Twitter, definendo «folle» la mozione dei democratici.

Trump: “Uccisione Soleimani era per fermare una guerra non per iniziarla”. Vittorio Ferla il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Ho ordinato l’attacco per fermare una guerra, non per cominciarne una. Il mondo è un posto più sicuro dopo l’uccisione di Qassem Soleimani». Donald Trump aveva spiegato così il blitz contro il leader militare iraniano. E, nonostante la sua fama di gran bugiardo, è assai probabile che stavolta il presidente americano abbia detto la verità. Certo, la sensazione iniziale è che Trump abbia agito sulla base dell’impulso dei “falchi” repubblicani. Tra questi i senatori Tom Cotton e Lindsey Graham che nei mesi scorsi hanno sempre sostenuto che l’inazione avrebbe soltanto peggiorato il comportamento dell’Iran. Secondo la Cnn, il loro messaggio era netto: «L’Iran comprende solo il linguaggio della forza: devi essere in grado di usarla se vuoi avere dei risultati». Una influenza rilevante nella scelta di attaccare a fini di deterrenza è stata esercitata anche dal segretario di Stato Mike Pompeo e da alcuni leader militari: anche il generale Mark Milley, capo dello stato maggiore congiunto dall’ottobre 2019, ha appoggiato la linea dei falchi. Tuttavia Trump dice il vero quando afferma che la guerra non è nelle sue intenzioni. Per capirlo bisogna innanzitutto ricordare il licenziamento, nel settembre 2019, di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale, animato da convinzioni imperialiste e guerrafondaie che lo hanno portato a scontrarsi con Trump sui dossier di politica estera più scottanti: Iran, Corea del Nord e Afghanistan. Ma anche le reazioni dei personaggi più influenti del mondo Gop, ovvero del partito repubblicano americano, aiutano a capire le intenzioni del presidente. Alcuni di loro – in particolare il conduttore di Fox News, Tucker Carlson e il senatore del Kentucky Rand Paul – hanno criticato l’attacco aereo su Soleimani. Proprio Carlson, leader dei repubblicani anti-interventisti, teme che «l’America possa procedere pesantemente verso una nuova guerra in Medio Oriente» ed evidenzia le potenziali insidie di uno scontro. Altri giustificano l’attacco come una iniziativa necessaria contro il regime islamista iraniano, ma proprio perché si tratta di una mossa limitata. Un punto chiave che ricorda a Trump le promesse di liberare gli Stati Uniti dal peso delle guerre in Medio Oriente. Mike Cernovich, animatore dei social media di destra, figura influente nei circoli online pro-Trump, aveva criticato gli attacchi in Siria, ma non è preoccupato per il recente blitz: «Non sono a favore, ma non sono certo contrario, e non sto andando fuori di testa». Il motivo è semplice: per Cernovich – come per altri – «l’intervento in Siria appariva come una ingerenza in una guerra civile con il rischio di trascinare gli Stati Uniti in un altro pantano. La rappresaglia per la morte degli americani in Iraq è giustificata, ma ci opporremo a una ulteriore escalation». Anche Seth Weathers, che in passato aveva coordinato la campagna di Trump in Georgia nel 2015, ha affermato che sosterrà gli attacchi aerei se l’Iran si vendicasse di Soleimani, ma non certo la guerra di terra perché «farebbe incazzare molte persone». Perfino il leader di Turning Point Usa, Charlie Kirk, un attivista che diffonde il verbo di Trump nei campus universitari, ha twittato: «Questo presidente ha proclamato chiaramente e con coraggio che le grandi nazioni non combattono guerre infinite. Spero che Donald Trump farà la cosa giusta come comandante in capo per evitare che gli Stati Uniti restino impelagati nella regione di sabbia e morte». Il sentimento espresso da Kirk non è affatto isolato in America. Come spiega Alessandro Maran, già senatore del Pd ed esperto di politica internazionale, «è da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla “normalità” e che le amministrazioni Usa, compreso Obama, fanno a gara per rassicurare gli americani che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Specie dopo i fallimenti in Afghanistan e in Iraq». Gli Stati Uniti non vogliono mandare più i propri giovani a morire in guerre complicate e interminabili. Trump è stato eletto anche per questo: anche lui è un “restrainer”. Come ha spiegato infatti Barry Posen, professore di scienze politiche al Mit, nel libro intitolato appunto Restraint, l’America deve fare meno nel mondo e investire soltanto in ciò che sa fare meglio, ovvero il controllo dei beni comuni globali attraverso la forza aerea e marittima (e il dominio dello spazio), riducendo le forze militari sul terreno. Se questo è il clima avrebbe senso oggi un impegno militare in Iran? Come spiega Joseph W. Sullivan, già membro del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca dal 2017 al 2019, «a partire dal settembre 2019, gli Stati Uniti sono diventati un esportatore netto di petrolio, per la prima volta dagli anni 40. Da quel momento, pertanto, gli aumenti globali del prezzo del petrolio sono diventati positivi per l’economia degli Usa». «Questa novità – chiarisce Sullivan – impedisce all’Iran di colpire gli Stati Uniti con lo shock dei prezzi del petrolio: per la prima volta nella storia della Repubblica islamica, interrompere il flusso di petrolio dal Medio Oriente non causerebbe danni agli Stati Uniti». Di fronte ad un avversario così modesto perché Trump dovrebbe fare la guerra?

La fine di Soleimani destabilizzerà il mondo islamico. Passator Cortese il 9 gennaio 2020 su Il Dubbio. L’omicidio mirato del generale avviene nel pieno del conflitto geopolitico tra sunniti e sciiti, con l’Arabia che teme come la peste l’egemonia degli ayatollah iraniani. Quando nel luglio 2015 fu firmato a Vienna l’accordo tra l’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU più la Germania, per limitare e controllare l’azione di Teheran nel campo nucleare, l’attenzione dei media occidentali si concentrò sull’importanza storica della intesa raggiunta e sulla fondatezza o meno della dura reazione polemica di Israele. Il premier Netanyahu disse apertamente che era illusorio e pericoloso fidarsi delle parole degli ayatollah, che l’ipotesi di un Iran potenza atomica era ancora attuale e che di conseguenza Israele, per garantire la propria sopravvivenza, non sarebbe rimasto inerte, avrebbe agito. Per settimane si ipotizzo un "intervento militare chirurgico e risolutivo". Oggi, dopo l’uccisione di Solimani e la annunciata volontà di vendetta iraniana, nessuno è in grado di predire cosa avverrà. Se era solo probabile che Teheran avrebbe rilanciato il suo programma nucleare dopo che Trump nel 2018 lo aveva affossato, oggi, dopo la morte del suo alto esponente, è certo che lo farà. Non può non farlo.A tale proposito, oltre a nutrire la fondata preoccupazione di una escalation della tensione con gli Stati Uniti, gli europei sarebbe opportuno ricordassero come reagirono all’accordo di Vienna molti paesi arabi. La paura che Vienna fosse una riedizione di Monaco 1938, con Khamenei al posto di Hitler come scrissero i giornali sauditi, era largamente diffusa. E se l’occidente fosse stato più attento alle complesse dinamiche del mondo musulmano avrebbe dovuto capire perché il timore di un arsenale atomico a Teheran era in Arabia Saudita forte ( quasi) quanto in Israele. Perché la prospettiva che la spada dell’Islam fosse innalzata dagli ayatollah sciiti era inaccettabile per i dirigenti musulmani sunniti. Lo era nel 2015 e lo è ancora oggi e non solo in ragione delle sanguinose, fratricide dispute sulla ortodossia religiosa, ma soprattutto per le implicazioni di carattere geopolitico che una leadership iraniano sciita determinerebbe in tutta la Ummah ( comunità ) musulmana. Tutti sanno che la minoranza sunnita irachena era al potere con Saddam Hussein, mentre oggi il potere è, in buona parte del paese, nelle mani di dirigenti sciiti sostenuti attivamente dai fratelli iraniani. Situazioni analoghe caratterizzano il Libano degli hezbollah, la Palestina di Hamas, la Siria dei sostenitori alawiti di Assad. Paesi a larghissima maggioranza musulmana in cui molti già guardano a Teheran come garante di assetti ed interessi economici e politici che ben poco hanno a che fare con … il successore del Profeta. L’Arabia Saudita è più estesa e più ricca di petrolio dell’Iran ma assai meno popolosa e militarmente forte. Anche per questo è il più affidabile alleato degli americani nel mondo arabo. Riad considerava l’Iraq di Saddam lo scudo che proteggeva il regno Saudita, dove si trovano le città sante di Mecca e Medina, dall’espansionismo iraniano- sciita.Cosa potrebbe accadere oggi che l’Irak è smembrato e sempre più influenzato dall’Iran, mentre l’imprevedibile inquilino della Casa Bianca comunica al mondo con un tweet di aver improvvisamente deciso di ritirare le truppe usa dalla Siria? Il timore dell’Arabia Saudita verso un Iran più potente politicamente e militarmente è così forte che all’inizio del 2006, pochi mesi dopo Vienna, 47 prigionieri sciiti furono giustiziati nello stesso giorno e pubblicamente con l’accusa di terrorismo. Contemporaneamente da esponenti della famiglia reale fu fatta trapelare la volontà di acquistare ordigni atomici dal Pakistan sunnita. Una voce probabilmente falsa, ma è certo che poco tempo dopo l’ambasciata Saudita a Teheran fu data alle fiamme e da allora le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono interrotte. Che nel prossimo futuro l’uccisione di Solimani possa provocare nel mondo mussulmano forti ripercussioni, è un ipotesi tutt altro che remota. Anche perché, in aggiunta a quanto sopra, è ormai evidente il ritrovato attivismo della Turchia, erede lontana ma sempre più nostalgica, della egemonia ottomana tra i fedeli di Allah. E infine c’è anche da chiedersi fino a quando resterà assente quel che resta dell’Isis o fino a quando resterà pacifico l’Egitto, dove solo il golpe militare del 2O13 ha posto fine alla leadership del radicale Morsi, esponente della Fratellanza mussulmana eletto dal popolo sovrano solo un anno prima….In conclusione: la decisione di Trump di uccidere Solimani può davvero cambiare molte cose, ma non è detto che sia solo l’occidente a dover far fronte alle imprevedibili novità che si avvicinano.

Saeid l’iraniano a Napoli: “Trump ha fatto una scemità a uccidere un grande generale”. Redazione de Il Riformista l'8 Gennaio 2020. "Trump ha fatto una scemità ad uccidere un grande generale come Soleimani”. Sono queste le parole rilasciate da Saeid Haselpour, l’iraniano che vive a Napoli. Saeid è scappato dall’Iran 8 anni fa e ha trovato rifugio a Napoli dove ha chiesto e ottenuto l’asilo politico. Nel suo Paese aveva dei problemi, voleva cominciare un’altra vita e rinascere per realizzare i suoi sogni. Il suo sogno lo ha realizzato nel capoluogo campano, dove ha aperto un ristorante nel cuore del centro storico. Oggi è il presidente di Tobilì, una cooperativa sociale a cui ha dato vita Less Impresa Sociale Onlus e con la cooperativa gestisce il ristorante “Meikhane”.

“Stamattina ho saputo che i voli per andare in Iran e in Iraq sono sospesi e non si può partire, dopo 8 anni ho fatto in tempo a portare qui in Italia mia mamma”, racconta Saeid, “Il generale Soleimani era molto importante per me ma anche per tutti gli iraniani che stanno malissimo perché era un pezzo di cuore. Era una persona molto potente, una persona che aveva molto coraggio a combattere l’Isis, Israele e l’America. Oggi che lo abbiamo perso, ho sentito la mia famiglia e sono molto preoccupati e stressati”. Sono giorni infuocati quelli che caratterizzano non soltanto l’Iran ma l’intero scenario mondiale. Dopo il raid americano a Baghdad dove ha perso la vita il generale iraniano Qassem Soleimani, è susseguita una mobilitazione internazionale che ha fatto presagire delle tensioni irreversibili. Una serie di botta e risposta tra Iran e Stati Uniti che si presuppone sia soltanto l’inizio. L’ultima notizia è quella che riguarda l’operazione “Soleimani Martire”, in cui una salva di missili balistici  sono stati lanciati contro basi militari irachene che ospitano truppe americane mietendo 80 vittime. Sulla scia degli eventi si prevede una serie di contraccolpi, anche se è nell’interesse collettivo procedere verso una de-escalation. Come sottolinea Saeid: “Noi persiani siamo sempre molto forti e coraggiosi, non abbiamo paura di nessuno. Ma siamo contro la guerra, questa scemità fatta da Trump porta solo morte di civili, per cosa? Per i soldi e il petrolio? La cosa più importante per me oggi è la pace.” “In persiano Meikhane vuol dire osteria – racconta Saeid – è un tipo di locale dove si va per bere un bicchiere di vino, mangiare qualcosa tipo tapas e fare due chiacchiere in amicizia”. A pranzo ci sono alcuni piatti principali, poi a cena è il momento delle tapas: 8 portate di piatti tipici iraniani uniti alla tradizione della cucina napoletana. A dirla alla maniera modaiola si tratta di “cucina fusion”, ma di fatto si tratta di integrazione a tavola. Gusti orientali si mescolano abilmente con quelli caserecci napoletani grazie all’inventiva dello Chef Andrea Di Martino che ha deciso di aderire al progetto. Li assaggi e ti accorgi che in un solo piatto l’integrazione tra italiani e stranieri è cosa fatta. Tobilì nasce nel 2016 come startup creata da migranti e italiani con la passione per la cucina. Piatti etnici diventano strumento di mediazione interculturale e sono l’occasione per svolgere numerosi attività tra cui la gestione di un laboratorio di preparazione di cibi etnici, l’offerta di servizi di catering etnico, l’organizzazione di corsi di cucina per la preparazione di piatti tipici dei paesi dell’Africa e del Medioriente, lo svolgimento di iniziative di promozione del dialogo interculturale attraverso la tradizione culinaria di diversi paesi. È formata in maggioranza da giovani migranti richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e costituisce una prassi di autoimprenditorialità replicabile come strumento di integrazione economica e sociale dei migranti. L’attività sin ora ha coinvolto con successo già 50 ragazzi italiani e stranieri.

Contro Washington si spacca il fronte sciita. Davide Bartoccini su Inside Over l'11 gennaio 2020. I pasdaran si sono fermati. Erano pronti sferrare decine raid, impiegando migliaia di missili su obiettivi americani in Medio Oriente, ma hanno preferito non farlo. Così il fronte sciita si spacca, e tutto rischia di finire in mano alle milizie filo-iraniane che in Iraq vorrebbero dare filo da torcere agli americani, ma possono portare avanti soltanto tattiche di guerriglia. Non ci sarà nessun “nuovo Vietnam” per gli Usa dopo la morte di Qasem Soleimani quindi. Anzi, se tutto va bene, forse si tornerà al tavolo dei negoziati. Sarebbero stati pronti ad “andare avanti per settimane”, anche a costo di provocare il primo confronto termonucleare della storia, ma dopo una fase di tensione scandita da gravi minacce e toni altissimi per l’assassinio del loro generale a Baghdad, i vertici iraniani hanno lasciato intendere che la vendetta nei confronti di Washington si fermerà qui. Dopo molta propaganda, “essenziale” per il governo di Teheran, e una dimostrazione di capacità balistiche da parte delle forze armate iraniane che hanno distrutto, secondo gli ultimi report, un’istallazione radar, un elicottero e un drone statunitensi che riposavano nelle basi finite nel mirino dei missili, tutti sembrano aver fatto un passo indietro. Aveva ragione Trump a twittare “Fin qui tutto bene”? Nulla è accaduto poi, solo un duello di parole tra social e dichiarazioni alla stampa, che però sembrano dare ragione al Tycoon: che ha firmato l’ordine di eliminazione di un obiettivo importante quale “Atto di autodifesa”, incassando solo minacce da parte degli ayatollah. Sebbene il generale Hajizadeh avesse dichiarato che le forze iraniane erano (e sarebbero) pronte ad affrontare a una lunga campagna. “Eravamo pronti a lanciare centinaia di missili, poi migliaia” se ci fosse stata una rappresaglia americana a seguito della prima battuta dell’operazione “Soleimani Martire” ha detto il generale. Ma sembra che ancora una volta abbia trionfato la propaganda. E che alla fine dei conti, il fronte sciita si stia spaccando proprio per questo. La distruzione di “equipaggiamento militare” come rappresaglia non basta. La rabbia di tutte le altre bandiere che sventolavano dietro il comandante dei Quds Qassem Soleimani: “Hashd al-Shaabi, le milizie irachene, e quelle dell’ Hezbollah libanese, di Hamas, delle milizie afghane e pachistane Fatemiyoun e Zeinabayoun, protagoniste della guerra in Siria”, riassume Giordano Stabile su La Stampa, volevano una vera vendetta. Si erano uniti per questo. Sembrava infatti che prima della de-escalation il fronte arabo-sciita avesse risposto ad un’adunanza per vendicare il “martirio” di Soleimani, ma che un istante dopo, tutto era già sfumato. Se da una parte il nuovo leader delle milizie filo-iraniane irachene Qais al-Khazali, aveva minacciato una vendetta “implacabile” per l’uccisione del loro martire (che era nello stesso Suv che trasportava Soleimani, ndr), un altro dei maggiori leader dei movimentisti sciiti, l’ imam Moqtada al-Sadr, raffreddava gli spiriti e invitava ad essere “pazienti”, sconsigliando le via delle “azioni militari”. Si conferma così ruolo chiave di Soleimani, che dettava una linea a tutta la costellazione di movimenti, ed era seguito e rispettato da tutte le fazioni sciite, fungendo da “grande coordinatore”. Ciò motiva, allo stesso tempo, la sua eliminazione strategica. Che ha privato un fronte diviso in molte bandiere, di un uomo forte e ben voluto, che si era guadagnato la fiducia delle diverse formazioni e che per questo fungeva da guida. Dopo l’attacco subito, seguito da un secondo piccolo lancio di razzi a Baghdad, la Casa Bianca non ha mostrato nessuna intenzione di reagire militarmente (almeno per adesso) annunciando solo l’applicazione di nuove, ulteriori, sanzioni che verranno imposte per volere di Trump a un Iran già pesantemente indebolito dall’ultimo biennio. A questa mossa, sembra essersi aggiunta però la promessa, inviata per lettera alle Nazioni Unite, che il governo degli Stati Uniti è pronto a “impegnarsi in seri negoziati con l’Iran“; dopo questo ultimo botta e risposta in Medio Oriente. Se il dialogo tra Washington e Teheran davvero venisse riaperto, e i toni tornassero quelli del pre 2018, sarebbe davvero da togliersi il cappello dinanzi agli strateghi di Washington. Per non parlare dei “win-win” che incasserebbe the Donald.

Dagospia l'8 gennaio 2020. Traduzione del thread di Ian Bremmer, editorialista, analista e fondatore di Eurasia Group. Sono tutt'altro che un sostenitore di Trump. Ma è impossibile non vedere nell’esito della situazione in Iran una vittoria per il presidente degli Stati Uniti e una grande opportunità per il futuro. Le due più rilevanti vittorie di politica estera di Trump sono escalation massicce contro paesi molto più deboli: minacciare il Messico con una catastrofe economica se non avessero serrato il loro confine. Lo hanno fatto. La decapitazione militare dell’Iran dopo gli attacchi alle basi e all’ambasciata statunitense. Praticamente non c’è stata ritorsione. Ovviamente questo non funzionerà contro la Cina, che ha la capacità e la volontà di dire no agli americani. Dovremmo aspettarci un peggioramento significativo delle relazioni USA-Cina quest'anno. Ciò non significa che il conflitto USA-Iran sia finito; non c’è un "missione compiuta". Ma per tutti coloro che pensavano che uccidere Soleimani avrebbe portato alla guerra, no ... ha ristabilito linee rosse e deterrenza. Se ora gli Stati Uniti vogliono impegnarsi nella diplomazia, c'è una vera finestra.

Mosul tra i fantasmi dell’Isis. Dove la giustizia diventa vendetta. A due anni e mezzo dalla liberazione la città simbolo della guerra al Califfato prova a vivere. Risorgono le Moschee, ma la comunità è divisa da paure e sospetti. Francesca Mannocchi il 16 gennaio 2020 su L'Espresso. Ai al-Baroodi dice di sé che è un sopravvissuto. Per questo non lascerà Mosul, perché «i sopravvissuti non scappano». Ali non ha provato a fuggire da Mosul durante i tre anni di occupazione, ha vissuto il dominio dell’Isis sulla città, la sua, il luogo dove è nato e cresciuto e dove nei sette anni precedenti all’estate del 2014, che segnò la proclamazione del Califfato nella seconda città irachena, ha insegnato inglese all’Università. «Non sono certo che restare sia la soluzione giusta per me, so però che è l’unica. Non posso certo dire che vivo, posso però dire che respiro attraverso i miei studenti». Cammina lungo la riva del Tigri, in equilibrio su una conduttura dell’acqua che attraversa le due sponde. Non esita mai, come se la sua condizione di reduce lo rendesse invulnerabile. Sul limite del canale e delle tubature si ferma a osservare le macerie della città vecchia di Mosul, colorate d’ambra dal sole del pomeriggio. Tra le rovine, gli edifici carbonizzati ridotti dalle bombe a scheletri sbriciolati, risaltano tre edifici, uno colore della sabbia, uno celeste e uno verde come il muschio. Sono le case di chi è tornato a vivere in città vecchia, nonostante tutto. Nonostante sotto i massi ci siano ancora resti di cadaveri. Sono passati due anni e mezzo dalla fine della guerra ma i detriti sono ancora lì, hanno disegnato una mappa nuova della parte antica della città, che ha il sapore di una punizione. La velocità con cui Mosul cadde nel 2014 sotto il dominio dell’Isis ha coperto la popolazione di un manto di sospetto e diffidenza ancora difficili da sradicare. Come ti vedi tra dieci anni, Ali? «Più giovane». Lo dice perché sa che nessuno potrà restituirgli quello che Isis gli ha strappato via, e il tempo oggi per lui ha una durata nuova. Ha vissuto quello che non avrebbe voluto vivere, oggi vede quello che altri non vedono. Il tempo per lui ha il sapore della memoria e dell’oblio. Ali al-Baroodi ha lo sguardo vitreo mentre osserva le abitazioni distrutte, gli edifici piegati dalle bombe accasciati a terra come un animale in cattività, poi abbattuto. Anche Ali ha vissuto in cattività, e quando ha rivisto la luce, l’8 gennaio del 2017, giorno in cui il suo quartiere è stato liberato dalle forze militari irachene, ha stabilito che quella sarebbe stata la data di una seconda venuta al mondo. L’otto gennaio, dice, «è il mio secondo compleanno. Sono nato di nuovo quando ho potuto salire le scale che dalla cantina mi hanno riportato alla luce. Per prima cosa ho fatto un the, all’aperto. E un mese dopo sono tornato a insegnare». Le prime lezioni in un edificio di Bartella, villaggio trenta chilometri a est di Mosul. E poi in primavera nel campus di Mosul est, che allora era ancora distrutto e non bonificato dalle mine e dagli ordigni. Il giorno della prima lezione dopo Isis, Ali è entrato in aula e ha detto: «Buongiorno ragazzi, sono felice che siamo sopravvissuti. Dunque, ditemi, come è andata la vita?». La risposta generale: «È stata vita, quella, professore?». Avevano vissuto da ostaggi per tre anni, dovevano imparare di nuovo a respirare. Alla domanda: quando sei nato? Ali al-Baroodi risponde: «Sei guerre fa». La guerra è l’unità di misura del tempo. Come per i suoi studenti, molti nati negli anni appena precedenti al 2003, l’invasione americana. Un anno spartiacque: «I miei ragazzi hanno vissuto l’infanzia e l’adolescenza in anni aspri e crudeli. Come me, che sono nato nel 1982 subito dopo l’inizio della guerra con l’Iran. Quattro generazioni dopo giriamo ancora in tondo, tra conflitti, e atrocità». Perché la guerra combattuta con le armi è finita, ma la guerra a Mosul c’è ancora, anche se non si vede. «Non cadono più le bombe, è vero. Ma dobbiamo spiegare ai giovani che hanno sulle spalle diciassette anni di guerra e che sentono di essere morti mille volte al giorno, che sono invece gli unici semi di rinascita. Chi muore mille volte al giorno non si può seppellire, va riportato in vita piano piano. Invece il governo una volta ancora fraintende cosa significhi vittoria. Pensa che tutto termini con il conflitto armato, e dopo le parate celebrative, hanno lasciato macerie e vuoti che nessuno sa riempire». Il grosso a Mosul lo hanno fatto le organizzazioni internazionali e le Nazioni Unite. Il governo di Baghdad ha asfaltato le strade e ripristinato i semafori, lavora alla ricostruzione dei ponti e chiede ai cittadini di tornare a casa. «La ricostruzione non è una pillola da dare a un malato», dice Ali, «perché la guerra qui è una malattia cronica. Servono altre cure». E la gente ha paura di tornare a casa, perché quello che non si può ricostruire coi mattoni e con i fondi internazionali è la sicurezza e un progetto di comunità. Ali al-Baroodi ricorda gli anni della sua infanzia. Negli anni Novanta, il decennio delle sanzioni economiche, la gente aveva fame e il regime di Saddam Hussein si occupava dello sfarzo dei palazzi presidenziali e della costruzione di moschee. Oggi a Mosul molti edifici hanno i ponteggi e le impalcature, qualche bottega ha riaperto, sacchi di spezie e scaffali di frutta e verdura tornano ad animare gli antichi suq, ma gli unici edifici davvero lustrati a nuovo sono le moschee. La gente cammina per le strade, si ferma a osservare le moschee ricostruite, e ridipinte, ma nelle loro tasche non c’è nulla. In città ci sono pochi centri giovanili, per Ali dovrebbero essere la priorità di un governo lungimirante, perché è precisamente nei vuoti che restano dopo le dichiarazioni di vittoria che si depositano le radici dei fondamentalismi futuri. Ogni mattina prepara la lezione e porta un libro nuovo al Campus, il giorno del nostro incontro aveva letto in aula I diari di Anna Frank, per aiutare i suoi studenti a esprimere un dolore indicibile: «Abbiamo il dovere di tenere occupati i ragazzi. Il governo conosce la parola ricostruzione, ma non conosce il vocabolario del supporto psicologico. Ci vorranno almeno dieci anni a bonificare la città vecchia, quanto ci vorrà a guarire i nostri giovani?». Nella città vecchia di Mosul sono stati distrutti undicimila edifici, le case e le botteghe, gli alabastri e gli archi, gli stucchi, le decorazioni. E la Moschea al Nuri, che della città è stata il simbolo, fatta saltare in aria dai miliziani dell’Isis nel 2017, nelle ultime fasi della guerra. Oggi intorno alla Moschea al Nuri lavorano operai e ingegneri. Ci vorranno cinque anni per ricostruire sia la moschea che il minareto adiacente, “al-Hadba”, il minareto gobbo. Un progetto Unesco, finanziato dagli Emirati Arabi Uniti che hanno donato 50 milioni di dollari. Per riportare la città allo stato precedente alla guerra, però, secondo il governatorato, servono almeno quindici miliardi di dollari. E il governo di Baghdad non stanzia fondi a sufficienza. Dalla fine di Novembre Mosul ha un nuovo governatore, è Najm Abdullah al-Jabouri, già generale delle Forze di sicurezza irachene, sindaco di Tel Afar dal 2005 al 2008. Lavorò a supporto delle operazioni anti insurrezione con le forze della coalizione prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove è rimasto fino al 2015. Durante la guerra contro Isis, Jabouri è stato comandante della Nineveh Operation, e con quella carica ha contribuito a guidare la vittoria. Vanta un solido rapporto con il governo del Kurdistan, appartiene a una potente tribù sunnita, è considerato un eroe dalla gente di Mosul. La gente si fida di lui, e il suo ufficio è lo specchio del consenso. L’entrata del governatorato è presidiata da soldati e affollata da cittadini che aspettano di essere ricevuti, nell’anticamera anche delegati dei ministeri di Baghdad, accompagnati da una troupe televisiva locale. Portano fiori e regali che Jabouri frettolosamente fa portare via. Non ama i convenevoli e ha il tono schietto di chi non nasconde i problemi, ha anzi l’audacia di chiamarli per nome. Durante le ultime fasi della guerra, mentre ci ospitava nella caserma, quartier generale delle operazioni, disse di fronte a una tazza di the: «Dobbiamo occuparci delle famiglie dell’Isis. Dedicarci ai bambini, che devono dimenticare quello che sono stati costretti a imparare». Cadevano ancora le bombe, Jabouri in divisa pensava già alla riconciliazione necessaria ma faticosa. Oggi appare meno disinvolto di quanto non lo fosse al fronte, ma non ha perso la virtù dell’onestà. È appena tornato da Baghdad, è andato a chiedere soldi, perché i fondi arrivati finora non sono sufficienti e Jabouri sa che non basta ricostruire i ponti e le moschee per risanare la città, sa che servono scuole e ospedali, cliniche e fogne. «Bisogna ricostruire i ponti della comunità», dice, «e garantire sicurezza ai cittadini». Mosul, la più grande città sunnita irachena, dalla fine della guerra è pattugliata da forze di sicurezza che sono principalmente sciite, tra queste Hashd al-Shaabi (o Forze di Mobilitazione Popolari) emanazione dell’influenza iraniana nel paese, che continuano a combattere le cellule dormienti di Isis nelle aree desertiche intorno Mosul e che sono accusate di intimidazioni e violenze da chi è tornato a vivere in città. «Abbiamo riaperto molte scuole, non è ancora sufficiente perché i bambini possono frequentare solo tre ore al giorno in tre turni, non ci sono posti per tutti. Né soldi a sufficienza per pagare gli insegnanti. Baghdad manda un miliardo l’anno, una goccia nel mare», dice Jabouri, pensando soprattutto a aree come al-Tanak, tra le più povere della regione, ancora prive di infrastrutture e servizi di base, quartiere delicato che è stato uno dei bacini del reclutamento e una delle zone di resistenza tenace da parte dei miliziani di Isis. Due anni fa mi disse di essere ottimista sul destino degli sfollati e delle famiglie considerate affiliate a Isis, lo è ancora? «Lo sono ancora, sì. E lo sono perché so che è il principale ostacolo del dopoguerra, non maschero il problema e so che va risolto». Il campo profughi di Hassan Sham, nel Kurdistan iracheno, ospita mille famiglie, circa seimila persone. La maggior parte donne e bambini. Non c’è elettricità a sufficienza e i soldi per gli stipendi degli operatori arrivano a singhiozzo. Questo in un campo profughi significa non avere abbastanza fondi per pagare gli insegnanti, ridurre il tempo che i bambini trascorrono a scuola e gli strumenti che li aiutano a superare il trauma. Oggi nel campo i bambini in età scolare sono più o meno mille, il governo finanzia due soli insegnanti. Ad abitare il campo vedove e orfani, gli uomini sono pochi. Le donne per lo più sono mogli di miliziani o sostenitori dell’Isis e non possono tornare a casa. O perché rifiutate dalle comunità di origine, o perché i servizi segreti iracheni non concedono i documenti o perché temono ritorsioni da parte delle forze di sicurezza e delle milizie. Famiglie come quella di Rashid, che vive qui con sua moglie e i suoi due figli. Vivevano a al-Tanak, faceva il meccanico e suo figlio Adnan aveva tredici anni quando il convoglio dell’Isis è entrato in città, non studiava già più, vendeva libri al mercato di Bab al Tob. Una mattina è uscito per andare a lavorare e non è più rientrato, suo padre ha chiesto di lui e gli ambulanti gli hanno detto che le macchine dell’Isis avevano prelevato i ragazzi del mercato per portarli a una scuola coranica. Adnan è tornato a casa dopo un mese, suo padre l’ha chiuso a chiave in una stanza, e gli ha fatto rivedere la luce alla fine della guerra. Oggi la famiglia di Rashid e Adnan è sulla lista dei sostenitori dell’Isis nel database dei servizi iracheni. Non possono tornare a casa, né uscire dal campo di Hassan Sham, rischierebbero di essere arrestati al primo check point, Adnan sarebbe processato e condannato a quindici anni di carcere con l’accusa di terrorismo. Così hanno fatto con un suo amico, aveva trascorso tre mesi in una scuola a imparare il corano, è stato condannato a 15 anni di galera. Da una giustizia che oggi non fa distinguo, ma si vendica. La madre di Adnan piange e si dispera, vede sicurezza nel campo, certo. Ma non vede dignità. Se la tua famiglia è classificata non c’è scampo, vivi in una reclusione di fatto. Adnan abbassa la testa, mortificato dal suo dolore e dall’umiliazione che la sua scelta di ragazzino, di tredicenne reclutato dall’Isis, ha provocato. «È colpa mia, lo so», dice, pentito. E non c’è soluzione. O meglio, ce n’è una sola. Il sacrificio del proprio figlio, l’estremo tradimento. L’intelligence irachena ha chiesto a Rashid di consegnare suo figlio. Consegna Adnan, gli hanno detto, e ti restituiamo i documenti, ti facciamo uscire dal campo e tornare a casa e alla tua attività. Abbandona, tradisci, sacrifica. E potrai tornare libero. L’altra forma della vendetta è la distruzione pezzo pezzo delle famiglie sospettate di connivenza, supporto, semplice prossimità. Rashid ha rifiutato, e ora non vede rimedio, a una condanna che non ha scadenza, ma è uno stato del vivere. 

L’Iran come Truman show, un popolo vittima di pregiudizi che diventano un vaccino. Roberta Caiano il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. “Si ricordi che quel che ha permesso ai persiani di restare persiani per duemilacinquecento anni, quello che ci ha permesso di restare noi stessi malgrado tante guerre, invasioni e occupazioni, è stata la nostra forza spirituale, non quella materiale; la nostra poesia, non la tecnica; la nostra religione, non le fabbriche. Che cosa abbiamo dato al mondo? Gli abbiamo dato la poesia, la miniatura e il tappeto. Come vede, tutte cose inutili dal punto di vista produttivo. Ma è proprio in esse che abbiamo espresso noi stessi. Abbiamo dato al mondo questa meravigliosa e irripetibile inutilità. Gli abbiamo dato qualcosa che non serviva a rendere più facile la vita, ma ad abbellirla, sempre che una distinzione del genere abbia senso. Per noi, per esempio, il tappeto è un bisogno vitale. Se lei stende un tappeto in mezzo a un deserto rovente e ci si sdraia sopra, le sembra di stare in un prato. Sì, i nostri tappeti ricordano i prati in fiore. Si vedono fiori, giardini, laghetti e fontane. Tra i cespugli si aggirano pavoni. Un tappeto dura per sempre, un buon tappeto mantiene i colori per secoli. Per cui anche vivendo in un deserto spoglio e monotono, è come se lei vivesse in un eterno giardino che non perde mai si suoi colori e la sua freschezza. Può anche sbizzarrirsi a immaginarne i profumi, il mormorio del ruscello, il canto degli uccelli. E allora si sente felice, si sente fortunato, è vicino al cielo, è un poeta”. A citare il libro “Shah-in-Shah” di Ryszard kapuscinski è Davide Viola, un ragazzo italiano originario di Bari appassionato esploratore con l’amore per il viaggio. Non molto tempo fa si trovava in Iran, proprio nella giornata in cui si è diffusa la notizia dell’uccisione del generale Qassem Soleimani. A tal proposito, Davide ci racconta: “quella mattina ero nella città di Shiraz, nel Sud-Ovest dell’Iran. Venni informato dei fatti da amici che in Italia erano preoccupati a seguito delle prime pagine delle varie testate online. E, mentre il mondo si interrogava su quando e come sarebbe scoppiata la scintilla che avrebbe portato alla terza guerra mondiale, io camminavo con la reflex in mano per le vie eleganti e tranquille della bellissima Shiraz. Nelle prime ore della giornata complice il fatto che fosse venerdì, giorno di riposo, e che quindi le strade fossero semi deserte, non riuscivo a cogliere nessun gesto, manifestazione o discorso riconducibile a quella che, ovviamente non solo in Iran, era la notizia del giorno. Solo verso sera, quando i commercianti che chiudevano botteghe e bazar si riversavano per le strade generando un po’ più di movimento, ho notato che molti di loro tendevano a raggrupparsi attorno alle radio o alle tv accese nei negozi ancora aperti. Facce attente ma nessun segno di rabbia, protesta o voglia di vendetta, a differenza delle facce che invece fanno vedere in tv: persone che urlano nelle piazze, piangono Soleimani e inveiscono contro Stati Uniti e occidente, facce di uomini con barbe lunghe, abiti scuri e turbanti. Facce “cattive” in qualche modo ma con un piccolo dettaglio, non mi risultano familiari. Gli iraniani vestono occidentale nella stragrande maggioranza dei casi. Portano jeans e camicie, scarpe da ginnastica, giubbotti in pelle e giacche in velluto ma, soprattutto, sono davvero in pochi gli uomini che si fanno crescere la barba e praticamente nessuno indossa il turbante a differenza di molte delle persone viste in TV”. Il giorno dopo Davide arriva a Teheran:“per la prima volta a più di 24 ore dai fatti, vedo con i miei occhi un assembramento di persone che urlano con in mano le foto incorniciate di Soleimani. Di nuovo quelle facce, di nuovo la barba lunga e il turbante. Allora inizio a chiedermi, vuoi vedere che è tutta una montatura? Che è tutto organizzato? Che il regime quando ne ha bisogno porta in piazza la gente mostrando l’immagine di un paese arrabbiato, conservatore nei modi e nei costumi, e soprattutto pronto all’attacco del nemico? E per finire, vuoi vedere che i nostri media vanno a braccetto con questo modo di fare perché a loro volta non vedono l’ora di dare in pasto alla gente le foto di uomini che urlano frasi contro l’occidente in abiti scuri, con la barba lunga e il turbante perché sono il perfetto stereotipo del mediorientale nemico dell’occidente? Sullo schermo del mio telefono apro la pagina di un giornale a caso che ritrae barbe nere che urlano, mentre attorno a me gente che mangia nei fast food hamburger e patatine fritte bevendo coca cola, gruppi di ragazzini che giocano e si rincorrono e ovunque vetrine illuminate. Eccolo il Truman Show mi dico. In quel momento è maturata la consapevolezza di quanto il mondo sia così diverso dalle narrazioni mainstream. Gli unici momenti in cui ho percepito una tensione reale e un senso di preoccupazione per quello che stava accadendo sono stati nel mio Hotel a Teheran il giorno prima di ripartire. Infatti 48 ore dopo il mio rientro c’è stato l’abbattimento dell’aereo ucraino decollato dall’aeroporto internazionale di Teheran, con la conseguente morte di tutte le persone a bordo e della chiusura dello spazio aereo iraniano con conseguente blocco dei voli in partenza e in arrivo”. Come sappiamo sono giorni infuocati quelli che caratterizzano non soltanto l’Iran ma l’intero scenario mondiale. Dopo il raid americano a Baghdad dove ha perso la vita il generale iraniano Qassem Soleimani, è susseguita una mobilitazione internazionale che ha fatto presagire delle tensioni irreversibili. Una serie di botta e risposta tra Iran e Stati Uniti che si presuppone sia soltanto l’inizio. Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tra le tante cose ha annunciato tramite Twitter che nelle sue intenzioni ci sarebbe anche quella di attaccare i siti culturali iraniani:“A loro è consentito uccidere, torturare e mutilare la nostra gente e a noi non è consentito toccare i loro siti culturali? Non funziona così” . Il Presidente però è costretto a rispettare l’accordo internazionale sottoscritto da ben 175 paesi nel mondo dove colpire siti culturali è un crimine di guerra come stabilisce la Convenzione dell’Aia per la protezione dei siti culturali del 1954. Per questo le dichiarazioni hanno allarmato non solo Teheran ma anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. A bloccare in maniera definitiva la minaccia del presidente statunitense infatti è stato l’Unesco, ricordando a Washington che ha firmato la convenzione per la protezione dei siti culturali e che quindi gli Stati Uniti si sono impegnati a preservare i luoghi inseriti nel patrimonio mondiale. Davide, ad esempio, ha deciso di partire per l’Iran raccontando che “nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità dell’Unesco figurano 24 siti iraniani e la voglia che avevo di vedere tra questi almeno quelli che fanno parte, consciamente o meno, anche del nostro bagaglio culturale fin dalle prime lezioni di storia alle medie, è stata alla base della decisione di organizzare il mio viaggio in Iran in solitaria”. Avendo vissuto l’Iran ed esplorando le sue bellezze, Davide espone la sua reazione come se fosse stato colpito nel profondo: “Il giorno dopo la dichiarazione di Trump circa la messa a punto di una lista di 52 siti da colpire importanti per la cultura iraniana mi sono sentito come… non saprei dire, un umano tradito dalla stessa umanità. Ma come si fa? Non era la solita minaccia, il solito proclamo, la solita provocazione. Non alludeva a un attacco a obiettivi che definiscono strategici come un ponte o una strada o una centrale energetica. Il messaggio rivolto agli iraniani era chiaro e di un’altra natura: colpiremo il vostro patrimonio culturale, cancelleremo la vostra storia. Perché quella è la vostra essenza, la vostra anima, il vostro nome. Perché lì farà più male. Non una risposta militare ma una damnatio memoriae”. Infatti secondo lui “per capire il senso, ammesso che sia possibile farlo, credo sia utile soffermarsi un secondo sul rapporto tra il popolo iraniano e il proprio patrimonio culturale. Patrimonio che è vario, incredibilmente ricco e testimone dell’importanza avuta nei secoli dalla Persia, oggi Repubblica Islamica dell’Iran. Si va dai siti più celebri del periodo achemenide, ai palazzi imperiali degli Scià, passando per enormi Ziggurat, cittadelle abbandonate nel deserto, templi zoroastriani e chiese armene oltre che, naturalmente, grandiose moschee e piazze smisurate”. 

IL VIAGGIO – Attraverso il suo racconto è possibile catapultarsi in quei luoghi respirandone la storia e la magia: “In due settimane di strada ho visitato le città di Teheran e di Esfahan, il villaggio di Varzaneh, la città nel deserto di Yazd, le isole del Golfo Persico Qeshm e Hormoz e infine Shiraz. Teheran non è una città particolarmente rilevante dal punto di vista storico-artistico, fatta eccezione per il Palazzo Golestan e per qualche museo e galleria. Ma se la capitale iraniana manca di un grande patrimonio artistico, in città puoi vedere le mille e spesso contrastanti facce dell’Iran, una città che incarna perfettamente l’essenza di un paese la cui storia è stata segnata dalla contaminazione, spesso forzatamente a dire il vero, tra oriente e occidente. Dopo Teheran è stata la volta di Esfahan, sicuramente la città più ricca del Paese in quanto a palazzi, saloni, ponti monumentali, piazze e moschee, e quindi anche la più visitata dagli stranieri. Fiore all’occhiello della città è la piazza Naqsh-e jahān, una delle piazze più grandi al mondo e il primo tra i patrimoni Unesco che ho visitato durante il mio viaggio. Un luogo al tempo stesso cartolina per turisti e punto di ritrovo e commercio per la gente locale e che, forse anche per questo, infonde un fascino particolare. Non è un caso che in farsi il suo nome significhi ‘modello del mondo’ – continua Davide –  L’ultima tappa del mio viaggio, il dulcis in fundo, è stata però Shiraz. La città dei poeti e dei giardini di arance, della Moschea Rosa che regala per poche ore al mattino uno dei giochi di luce più incredibili mai visti in vita mia. Ma soprattutto la città da usare come base per visitare la vicina Persepoli, uno dei posti dove respiri la storia del mondo e dove gli occhi non riposano mai. I luoghi come Persepoli sono quelli dove risiede la coscienza collettiva di un popolo (come per noi italiani potrebbe essere il Colosseo) e la propria memoria storica. Sono il loro rifugio e il loro orgoglio”. Davide per passione e per lavoro ha vistato oltre 34 Paesi nel mondo. Dell’Iran ci descrive il suo viaggio come un’avventura con “zaino in spalla via terra per oltre 1500 km con addosso tutti i contanti portati dall’Italia (in Iran non funzionano i nostri circuiti di bancomat e carte di credito) e due macchine fotografiche. Ci sono ovviamente delle cose da tenere in conto come il modo di vestirsi, specie per le donne, o la non disponibilità di bevande alcoliche, ma nel complesso nulla in più di quanto il buon senso suggerisca circa il comportamento da tenere in un paese straniero la cui costituzione tra l’altro è ispirata alla sharia. Viaggiare in Iran è certamente un’esperienza piacevole per via della bellezza e ricchezza del paese di cui abbiamo già parlato, ma è anche altro. Perché significa, secondo me, almeno altre due cose: avere la possibilità di vedere con i propri occhi quanto siano a noi vicini persone e culture che invece immaginiamo lontani e, quindi, quale che sia il nostro punto di vista sul mondo, avere maggiori elementi di giudizio; ma significa anche tendere la mano a quelle persone che vorrebbero sopra ogni cosa liberarsi dalle etichette e dagli stereotipi che gli offendono e non gli appartengono”.

PREGIUDIZI E FAKE NEWS – Nell’immaginario collettivo occidentale l’Iran appare un Paese islamico pieno di pregiudizi e contraddizioni. Nelle sue due settimane di viaggio Davide ha avuto modo di condividere del tempo con le persone del luogo. In particolare riporta la conversazione avvenuta con Reza, un giovane informatico di Teheran: “Vedi Davide, quello che a me fa più male oggi, la cosa più insopportabile per tutti noi iraniani, potrai anche non credermi, non è la crisi economica o occupazionale”, parole alle quali seguono diversi esempi su cosa significhino in termini reali, quindi nella vita delle persone, le sanzioni imposte all’Iran (inflazione alle stelle con salari al palo, prezzi triplicati su tutti i prodotti di importazione, disoccupazione quasi raddoppiata in due anni e così via), non è addirittura la situazione politica ma è l’immagine che noi iraniani abbiamo agli occhi del mondo”. Secondo Davide “questo è un bene per il suo paese  data l’esplosione del turismo di questi ultimi anni. Perché sempre più gente tornando a casa porterà racconti di esperienze dirette in contrasto con tutti i principali pregiudizi di cui sono vittime”. Addirittura racconta di Navid, un ragazzo iraniano che vive all’estero il quale vede cambiare l’espressione facciale, il tono della voce e l’atteggiamento in generale del suo interlocutore non appena saputo il suo paese di provenienza. “Dopo un po’ non ci fai più caso” dice “ed è come se fossi vaccinato” . In merito Davide ci tiene a spiegare alcuni dei pregiudizi di cui l’Iran è vittima: “Non è un Paese sicuro per gli stranieri e nel paese c’è un clima di rancore nei confronti dell’occidente. È vero proprio il contrario. Gli iraniani adorano raccontarsi agli occidentali e lo fanno apertamente. Cercano spesso di offrirti il proprio aiuto. Ad esempio, una sera ero a cena in un ristorante e, mentre me ne stavo da solo sfogliando la guida e segnando dei punti sulla cartina, fui invitato al suo tavolo da un padre di famiglia che non parlava una parola di inglese ma che, davanti ai figli, ci teneva a sincerarsi che avessi visto tutti i monumenti più importanti della città. Quando gli dissi che avevo poco tempo e che sarei ripartito la mattina seguente, si offrì di accompagnarmi in macchina per farmi vedere quelli che mi ero perso. Ed erano le dieci di sera.  Gli iraniani vogliono la guerra. In Iran è obbligatorio professarsi musulmano, e a me viene da sorridere se penso a tutte le persone conosciute che affermavano senza nessun timore di essere non credenti o credenti non praticanti. L’Iran, oggi, è governato da un regime a tutti gli effetti. Una teocrazia spesso feroce che lascia pochi spazi alle regole democratiche. Un potere autoritario che si regge, come sempre fanno i regimi, su controllo, censura e paura. Per questa ragione le prime vittime di questo regime sono gli iraniani stessi. La madre di tutti i pregiudizi sull’Iran sia ritenere la maggioranza degli iraniani in accordo col proprio governo, associando l’immagine di un regime fondato sull’integralismo religioso e la negazione dei diritti ad un’intera nazione. Semplicemente non è così. E gli iraniani, oggi, sono vittime due volte: del loro governo in casa, dei nostri pregiudizi fuori”. Riguardo le fake news, la prima falsa credenza cui Davide tiene a specificare è quello che riguarda l’Iran come un paese arabo: “Un errore grossolano la cui causa principale spiace dirlo ma risiede proprio nel bagaglio culturale personale. L’Iran fino al 1935 si chiamava Persia ed è una terra con una celebre e gloriosa storia a sé, intrecciata tra l’altro a doppio filo con la culla della nostra civiltà, quella greca. Infatti in Iran non si parla l’arabo ma il farsi e non tutti sanno che la parola Iran deriva da “ariano”, a testimonianza della presenza nel suo passato di tribù di origine germanica. Tra l’altro l’Iran è uno dei pochi paesi al mondo tra quelli di religione musulmana a essere a maggioranza sciita, a differenza della quasi totalità dei paesi arabi che sono sunniti. Solo a un osservatore superficiale queste differenze, l’ultima in particolare, potranno sembrare di poco conto ma è come se, parlando di storia antica, si confondessero per dire greci e romani, ritenendo che in fondo erano comunque degli antichi europei”. Un altro grande errore che si commette quando si parla di Iran è ritenere che la popolazione iraniana nutra sentimenti anti occidentali. Per Davide “non c’è nulla di più sbagliato se proviamo per un secondo a indagare sia ragioni storiche che fatti di stretta attualità. Le prime raccontano di un Paese che dalla metà degli anni 30 e fino alla rivoluzione del 1979 era stato sottoposto, forzatamente e grossolanamente va detto, a un processo di “occidentalizzazione”. Se da un lato l’esperienza di quegli anni seminò nel paese un comprensibile sentimento anti occidentale, dall’altro avviò inevitabilmente un processo di contaminazione culturale unico nel panorama mediorientale. Passando dalla storia comunque recente alla strettissima attualità, c’è una foto che circola in rete in questi giorni e mostra un gruppo di studenti che, per protestare contro il regime a seguito dell’abbattimento dell’aereo ucraino (anche se ad essere precisi sono mesi che si susseguono a intervalli più o meno regolari proteste contro il governo), si rifiuta di calpestare una bandiera americana dipinta sul pavimento. Il paradigma si è completamente rovesciato: la gente manda infatti segnali di apertura addirittura verso il nemico dei nemici, gli Stati Uniti, in virtù dell’atteggiamento di chiusura a quel sistema di valori imposto da parte del regime di oggi. Una cosa non è cambiata in questi anni, ovvero l’assenza di un sistema realmente democratico nel paese, e la conseguente insofferenza degli iraniani nei confronti dell’ordine costituito. Un ragazzo con cui parlavo esattamente di questo, Ahamad, mi diceva che la situazione nel paese è di una costante calma apparente, “come il fuoco sotto la cenere” furono le parole usate per descrivere il rapporto tra la gente e il governo.” Un ultimo tassello per sdoganare l’idea che si ha dell’Iran, così come la maggior parte degli stati del Medio oriente, come uno stato culturalmente chiuso anche nei confronti delle donne: “Le donne vivono in una situazione di subalternità culturale ancor prima che materiale. È un dato di fatto che le donne vivono in tutto il mondo, non solo in medioriente, in situazioni di non pari diritti e opportunità rispetto agli uomini. Basti pensare a quanti leader e capi di stato donne esistano rispetto agli uomini, o al fatto che la stragrande maggioranza dei messaggi pubblicitari  utilizzano il nudo femminile per attrarre la clientela, o ancora alla differenza di salari tra uomini e donne a parità di livello professionale. La questione risulta ancora più evidente poi se circoscriviamo la nostra analisi ai contesti religiosi. Che sia per il cristianesimo, o che sia per l’Islam, le due principali religioni monoteiste al mondo, le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini: non una mia opinione ma piuttosto un’ovvietà. Ma la condizione della donna non è la stessa in tutti i paesi mediorientali. L’Iran nello specifico è un paese a maggioranza sciita, ed è uno dei pochissimi paesi al mondo tra quelli di fede musulmana ad esserlo. Una delle differenze più facilmente visibile di questa caratteristica è proprio la condizione delle donne, qui certamente più aperta che altrove. In Iran la gente veste in maniera non così diversa da noi. E questo vale anche per quanto riguarda le donne, al netto di due differenze facilmente intuibili: l’assenza di minigonne o abiti che scoprano parti del corpo come la pancia o il seno, e l’utilizzo dalla pubertà in poi del Hijab come copricapo. Ma ad esempio questo tipo di velo che copre parte della testa e delle spalle, nelle città e dalle donne più giovani viene spesso sostituito da una semplice sciarpa appoggiata sulla testa, da un cappello largo oppure, ancor più semplicemente, da felpe con cappuccio. Mentre non è vero che siano vietati tatuaggi, largamente diffusi tra le teenager, o piercing. Ancora, ovunque ho visto donne gestire in autonomia negozi e botteghe, e ricoprire funzioni pubbliche come i posti di controllo negli aeroporti o nelle biglietterie delle stazioni. In questo caso in un rapporto rispetto agli uomini del tutto simile ad un qualsiasi paese europeo. Riassumendo, in Iran non vedremo mai una donna libera di stare in spiaggia in bikini, o di indossare una minigonna, o semplicemente un vestito che metta in risalto le forme del proprio corpo. Intendo dire che, come spesso accade, le discussioni che si fanno su questo tema, per di più quando si cerca di fare un raffronto tra il nostro modello di vita e quello dei paesi musulmani, spesso sono parziali. Siamo così sicuri ad esempio che, parlando in termini collettivi, valga sempre la pena sacrificare la propria dignità in favore della libertà di vestirsi come si vuole? Al di là di quanto detto in merito alle limitazioni sul vestirsi, o alla divisione degli spazi nelle moschee tra uomini e donne, alle donne in Iran è concesso di fare grosso modo tutto quello è permesso agli uomini in termini di lavoro e vita sociale”.

Aereo caduto in Iran, le nuove ipotesi dell’Ucraina: «Non escludiamo sia stato missile o atto di terrorismo». Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. Il segretario del Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa di Kiev: «Cerchiamo di capire se il Boeing 737 sia stato abbattuto». Nel disastro aereo dell’Ukraine Airlines, caduto poco dopo il decollo da Teheran, sono morte 176 persone. Il team di investigatori ucraini inviato in Iran cercherà di capire se il Boeing 737-800 della Ukraine International Airlines precipitato dopo il decollo a Teheran con 176 persone a bordo sia stato abbattuto da un missile. È una delle ipotesi — spiega sul suo profilo Facebook Oleksiy Danilov, segretario del Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell’Ucraina — che aggiunge ulteriore confusione attorno a un incidente che il giorno dopo resta ancora avvolto nel mistero. Anche perché Danilov ha parlato di voci «non confermate» di frammenti di missile terra-aria di fabbricazione russa nei pressi del luogo dello schianto. Il volo PS752 Teheran-Kiev era operato da un velivolo di tre anni e mezzo che il giorno prima si era affacciato a Milano Malpensa e che due giorni prima era stato sottoposto ad alcuni controlli di routine. L’ente iraniano dell’aviazione civile con un rapporto preliminare di tre pagine — e solo in farsi — ha confermato quanto anticipato dal Corriere: «L’aereo, che inizialmente era diretto verso ovest per lasciare la zona dell’aeroporto, ha virato a destra a seguito di un problema e faceva di nuovo rotta verso l’aeroporto al momento dello schianto. L’aereo è scomparso dai radar quando ha raggiunto gli 8.000 piedi. Il pilota non ha inviato messaggi radio riguardo le circostanze insolite». La Repubblica islamica ha fatto sapere che non invierà a Washington le due scatole nere (una registra i dati di volo, l’altra gli audio in cabina): gli accordi internazionali non obbligano il Paese a consegnarle al produttore del jet. È probabile che venga chiesto l’aiuto dell’ente francese investigativo Bea. Il Corriere ha contattato l’ufficio transalpino ma senza ottenere una risposta al momento della pubblicazione dell’articolo. Teheran e Kiev devono ancora raggiungere un accordo di massima sul ruolo che gli investigatori ucraini (ben 45) dovranno avere nelle indagini — che secondo l’Icao, l’agenzia Onu per l’aviazione civile sono sotto la giurisdizione iraniana — a partire dal tipo di accesso, se diretto o mediato, alle prove fisiche, a partire dalle registrazioni delle due scatole nere. Sei minuti dopo il decollo il Boeing 737-800 di Ukraine International Airlines si è schiantato non molto lontano dall’aeroporto di Teheran. Secondo le autorità iraniane il velivolo era in fiamme prima di precipitare, ma non avrebbe inviato alcuna richiesta d’emergenza. Una circostanza, questa, che viene ritenuta non solo strana, ma anche poco probabile dal momento che in cabina di pilotaggio si trovavano ben tre piloti e tutti abbastanza esperti. Non viene escluso — a sentire alcuni tecnici — la possibilità che la distruzione di uno dei due motori potrebbe aver messo fuori uso i sistemi di trasmissione con la torre di controllo. Con una nota stampa l’Ufficio nazionale di indagine sugli incidenti aerei dell’Ucraina ha fatto sapere che i propri rappresentanti con un gruppo di consulenti ed esperti — senza precisarne la natura e la nazionalità — è intanto arrivata nella Repubblica Islamica dell’Iran. «Gli investigatori dovranno raccogliere quanto più materiale possibile sul luogo dell’impatto — c’è scritto nella nota —, valutare i detriti al fine di controllare l’obiettività e l’imparzialità del processo di indagine». Non solo. Perché secondo l’Ufficio «i rappresentanti ucraini, secondo gli standard Icao, parteciperanno alle procedure di lettura, elaborazione e analisi dei dati di volo e voce, ottenuti dalle scatole nere».

Aereo precipitato in Iran, Trudeau e gli 007 americani: abbattuto da un missile. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi e Guido Olimpio. Un missile di fabbricazione russa sparato — forse per errore — dall’esercito iraniano contro un aereo civile. Sarebbe questa la causa dell’incidente del Boeing 737-800 di Ukraine International Airlines precipitato mercoledì mattina, sei minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran, con 176 persone a bordo. A sostenerlo è l’intelligence americana dopo aver ricevuto le informazioni raccolte dai satelliti. Gli 007 conservano un po’ di prudenza e ritengono «altamente probabile» che il velivolo ucraino sia stato abbattuto da «missili antiaerei» anche se soltanto uno avrebbe centrato la fusoliera. «Qualcuno dall’altra parte (quella iraniana, ndr) potrebbe aver commesso un errore», ha spiegato il presidente Usa Donald Trump scartando i problemi meccanici (qui il nuovo video: il momento dello schianto). Scenario che il Canada ha confermato in serata attraverso il primo ministro Justin Trudeau («L’aereo è stato abbattuto da un missile terra-aria iraniano»). Nello schianto sono morti 63 cittadini canadesi, mentre Teheran smentisce. Fonti dell’Easa, l’Agenzia europea per la sicurezza aerea, riferiscono al Corriere che quella di Washington «è una ricostruzione che coincide con il materiale a disposizione dei servizi segreti» del Vecchio Continente, tanto da suggerire di evitare l’area. I voli Lufthansa e Austrian Airlines diretti in Iran sono tornati indietro. Un video girato a ovest del punto in cui il jet smette di inviare i segnali e circolato su Telegram mostra il lancio e l’esplosione in quota di un razzo. A supportare l’ipotesi dei funzionari americani sarebbero le foto termiche. A una prima analisi — a quanto si apprende — quelle istantanee mostravano il surriscaldamento eccessivo di uno dei motori. Ma dopo un ulteriore approfondimento sarebbero stati notati i preparativi, l’accensione del radar, il lancio di almeno un missile, la sua scia e il bagliore provocato dall’impatto con il Boeing. Questa ricostruzione sarebbe supportata — secondo gli esperti — da due elementi. L’assenza di qualsiasi comunicazione d’emergenza dalla cabina di pilotaggio e la sparizione del segnale radar all’improvviso. Quello che continua a non essere chiaro è come abbia fatto il velivolo a procedere per altri tre minuti (forse perché colpito a un’ala) e a virare a destra per dirigersi verso lo scalo di Teheran. Ulteriori dettagli sono stati forniti dalla società privata Aireon. È la stessa che ha mostrato come il Boeing 737 Max 8 di Ethiopian Airlines fosse caduto lo scorso marzo con la medesima dinamica di un altro 737 Max inabissatosi nell’ottobre 2018 in Indonesia, portando al fermo globale del modello. Dal quartier generale di Aireon confermano via e-mail al Corriere di aver inviato «alle autorità competenti i dati raccolti sui movimenti dell’aereo» fino all’impatto. Ma soltanto le scatole nere — una registra le informazioni di volo, l’altra gli audio in cabina — potranno fornire una versione quasi definitiva. I dispositivi sono nelle mani dell’ente iraniano dell’aviazione civile che ieri con un rapporto preliminare di tre pagine ha confermato che il Boeing «ha virato a destra dopo un problema e ha fatto rotta verso l’aeroporto al momento dello schianto. L’aereo è scomparso dai radar quando ha raggiunto gli 8.000 piedi (2.438 metri) e il pilota non ha inviato messaggi radio riguardo le circostanze insolite». La Repubblica islamica non invierà negli Usa le scatole nere. È probabile che venga chiesto l’aiuto dei francesi del Bea. «Finora non abbiamo ricevuto alcuna richiesta dall’Iran», risponde al Corriere un portavoce dell’ente investigativo.

Il team ucraino in Iran. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha spiegato che l’omologo iraniano Hassan Rouhani ha «garantito piena collaborazione» per una «obiettiva indagine» che secondo l’Icao, l’agenzia Onu per l’aviazione civile, è sotto la giurisdizione di Teheran. Ieri nella capitale sono arrivati 45 investigatori ucraini. I team dovranno vagliare anche altre cause: l’attacco terroristico, il drone e il problema tecnico.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha spiegato che l’omologo iraniano Hassan Rouhani ha «garantito piena collaborazione» per una «obiettiva indagine» che secondo l’Icao, l’agenzia Onu per l’aviazione civile, è sotto la giurisdizione di Teheran. Ieri nella capitale sono arrivati 45 investigatori ucraini. I team dovranno vagliare anche altre cause: l’attacco terroristico, il drone e il problema tecnico.

Dubbi, depistaggi e indagini: la (difficile) verità sul Boeing. L'Iran respinge le accuse ma le prove ormai sono consistenti. L'aereo potrebbe essere stato abbattuto da un missile. Federico Giuliani Venerdì 10/01/2020 su Il Giornale. La certezza degli 007 americani, le "prove" sventolate dal premier canadese Justin Trudeau, le dichiarazioni di Boris Johnson e, nella tarda serata di ieri, un video amatoriale che mostra l'istante esatto in cui l'aereo della Ukraine International Airline è stato abbattuto da uno (o forse due) missili. L'incidente avvenuto nei cieli dell'Iran è sempre meno misterioso ogni ora che passa. Se in un primo momento si pensava che la causa della tragedia – costata la vita a 176 persone, cioè l'intero equipaggio del velivolo – fosse da attribuire a un guasto tecnico, probabilmente un problema al motore, la giornata di ieri ha fugato ogni dubbio: tutta colpa dell'artiglieria dei Guardiani della Rivoluzione iraniana.

La nebbia si dirada. In base alle ultime novità è possibile offrire una nuova ricostruzione dei fatti. L'aereo civile colmo di passeggeri – volo PS752 - parte alle 6:12 del mattino dell'8 gennaio dall'aeroporto Imam Khomeini di Teheran. Il decollo fila liscio, le condizioni atmosferiche sono buone. Dopo aver raggiunto un'altezza di 2.400 metri e una velocità di 510 chilometri orari, alle 6:14 le comunicazioni tra la cabina di pilotaggio del Boeing e la torre di controllo si interrompono bruscamente. L'aereo precipita e si schianta su un campo situato nella periferia della capitale dell'Iran. L'Ente iraniano per l'Aviazione civile fa sapere che il mezzo “ha virato a destra a seguito di un problema” e stava cercando di rientrare in aeroporto “a seguito di un problema”. Un funzionario del ministero delle Infrastrutture ha confermato l'ipotesi di un guasto tecnico a un motore. In un primo momento l'ambasciata ucraina in Iran prende per buona questa versione e pubblica un comunicato ufficiale in cui conferma che “l'aereo si è schiantato a causa di un guasto al motore per motivi tecnici” ma soprattutto che le possibilità “di un attacco terroristico o di un attacco missilistico” possono essere tranquillamente essere escluse. Più tardi l'emittente saudita Al Hadath riferisce che ad abbattere il Boeing è stato un missile sparato dagli iraniani. L'indiscrezione inizia a esser presa sul serio. Il presidente ucraino, Volomir Zelensky, apre un'indagine e invia una commissione sul luogo dell'impatto per fare chiarezza sulla vicenda. L'ambasciata cancella il vecchio comunicato e fa sapere che “eventuali dichiarazioni relative alle cause dell’incidente prima di una decisione della commissione non sono da ritenersi ufficiali“. Dunque: bisogna attendere le indagini. Da Kiev arrivano le prime conferme. L'aereo sarebbe stato abbattuto da un missile di produzione russa, probabilmente sparato da un sistema missilistico antiaereo Tor-M1. L'Iran nega ogni coinvolgimento anche se le autorità locali si rifiutano di consegnare alla Boeing le due scatole nere rinvenute. Tradotto: gli iraniani vogliono condurre le indagini "in casa". Per smorzare la tensione Teheran si dice pronta a offrire la massima collaborazione per risolvere l'enigma e invita la Boeing a partecipare alle indagini. Eppure ci sono troppi aspetti che non quadrano: intanto il velivolo era nuovo (costruito nel 2016), aveva appena superato una revisione (il giorno prima dell'incidente), l'equipaggio era esperto (il capitano aveva alle spalle 11.600 ore di volo sul Boeing 737) e sapeva come condurre in salvo il mezzo in caso di un guasto al motore (engine failure). Come se non bastasse, prima dello schianto, dalla cabina di pilotaggio non è partito alcun segnale di allarme: evento alquanto improbabile e sospetto in casi di problema tecnico. L'ipotesi del missile continua a farsi strada, fino a quando fonti del Pentagono la confermano in via ufficiosa. A colpire il Boeing sono stati uno o due missili antiaerei Sa-15, di fabbricazione russa, facenti parte delle difese aeree iraniane. Probabilmente i razzi sono partiti da un sistema missilistico antiaereo rimasto operativo dopo l'attacco notturno alle basi militari situate in Iraq.

Le "prove" di Stati Uniti-Canada-Regno Unito. A quel punto arrivano le prime reazioni dei leader mondiali. Donald Trump si lascia sfuggire un “qualcuno d'altra parte potrebbe aver fatto un errore”, seguito poco dopo da “gli Stati Uniti si stanno convincendo sempre di più del fatto che l’Iran abbia per errore abbattuto l’aereo ucraino”. L'Iran continua a smentire. Il ministero dei Trasporti iraniano pubblica una nota inequivocabile: “Voci senza senso. Questa storia dell'attacco missilistico contro l’aereo non può assolutamente essere esatta”. A ruota arrivano le reazioni di Canada e Regno Unito, Paesi che nell'incidente hanno perso rispettivamente 63 e 4 cittadini. Il premier canadese Justin Trudeau è stato chiaro: “Abbiamo informazioni d'intelligence da diverse fonti. Le prove indicano che l'aereo è stato abbattuto da un missile iraniano terra-aria". Gli fa eco il primo ministro britannico, Boris Johnson: “C'è una quantità di informazioni secondo cui il volo è stato abbattuto da un missile terra-aria iraniano. Questo potrebbe essere stato involontario".

La versione dell'Iran non regge. L'Iran, che parla di “sospetta messinscena”, ha chiesto al Canada di fornire le sue informazioni sull'aereo. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Abbas Mousav, ha inoltre fatto sapere che Teheran “ha avviato le indagini sulle cause dell'incidente aereo nel rispetto degli standard internazionali e dei criteri dell'Organizzazione internazionale dell'aviazione civile” e ribadito di aver invitato “Ucraina e Boeing a partecipare alle indagini”. Il portavoce del governo iraniano, Ali Rabiei, non si è mostrato diplomatico come il collega degli Esteri: “Nessuno si assumerà la responsabilità di una così grande menzogna una volta che si saprà che l'ipotesi del missile si tratta di una tesi disonesta”. Rabiei ha parlato espressamente di un' ”operazione di guerra psicologica” portata avanti dal “governo degli Stati Uniti”. Le indagini proseguono. A inchiodare gli iraniani troviamo i satelliti americani che, a quanto pare, hanno captato il lancio dei missili di Teheran. Le agenzie di intelligence hanno poi intercettato varie comunicazioni tra le stesse autorità iraniane che confermerebbero, in maniera definitiva, l'ipotesi del missile. C'è poi un video amatoriale che mostra gli ultimi istanti dell'aereo prima dello schianto al suolo. Nelle immagini si vede l'aereo esplodere improvvisamente e precipitare a terra. Secondo gli esperti non ci sono dubbi: tutta colpa di un missile.

Un lampo nel cielo di Teheran: "Ecco il missile che colpisce l'aereo". Il filmato verificato dal New York Times dimostrerebbe che il Boeing 737 ucraino è stato colpito da un missile. Federico Giuliani, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. L'aereo caduto in Iran in circostanze misteriose potrebbe davvero essere stato colpito da un missile. La conferma arriva da un video "verificato" Cnn e New York Times, in si vede cui il Boeing 737 della Ukraine International Airlines esplodere in volo pochi minuti dopo il decollo dall'aeroporto di Teheran, esattamente nell'ora in cui sarebbe avvenuto l'incidente.

Il video che conferma l'ipotesi...Le immagini pubblicate sui social da un utente mostrano come il missile abbia centrato l'aereo. Il velivolo avrebbe continuato a volare per alcuni minuti senza esplodere, salvo poi illuminare il cielo oscuro e schiantarsi al suolo. Già nel pomeriggio gli Stati Uniti ritenevano possibile la pista del missile lanciato per errore dai pasdaran. Secondo alcuni funzionari del Pentagono, infatti, l'aereo è stato abbattuto da due missili Sa-15 sparati da una batteria antiaerea iraniana, probabilmente rimasta attiva a seguito dell'attacco missilistico condotto da Teheran contro le forze americane stanziate in Iraq. Come se non bastasse, l'intelligence americana ha affermato di aver visto il segnale radar degli iraniani puntato sull'aereo ucraino prima che fosse abbattuto.

Tutta colpa di un missile? L'Iran respinge ogni accusa e, per bocca del responsabile del comitato investigativo iraniano sull'incidente, Hassan Rezaeifar, ha invitato la Boeing a partecipare alle indagini, in quanto produttore del velivolo. Il presidente Hassan Rohani ha garantito la massima collaborazione ma sia il premier canadese Justin Trudeau che quello britannico Boris Johnson hanno rilanciato a gran voce l'ipotesi dell'incidente missilistico. In attesa di ulteriori sviluppi, nel pomeriggio Donald Trump aveva rilasciato dichiarazioni ambigue, facendo intendere – riferito al governo iraniano - che “qualcuno” “potrebbe aver fatto un errore”. Il presidente americano ha inoltre definito l'accaduto “qualcosa di orribile”. Non è da escludere che eventuali sviluppi sulla vicenda possano influire sulle tensioni politiche tra Stati Uniti e Iran.

Le prove del Canada e la risposta dell'Iran. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha dichiarato che esistono "prove" che indicano "che l'aereo è stato abbattuto da un missile iraniano terra-aria". L'episodio potrebbe tuttavia "non essere stato un episodio intenzionale".

L'Iran, stizzito per le conclusioni di Trudeau, ha chiesto ufficialmente al Canada di fornire le informazioni d'intelligence in base alle quali è giunto alla conclusione che lo schianto dell'aereo ucraino è stato causato da un missile iraniano. Secondo il portavoce del governo iraniano, Ali Rabiei, "tutte queste notizie sono una guerra psicologica contro l'Iran". Nel frattempo, l'ambasciatore iraniano presso l'Onu, Majid Takht Ravanchi, ha espresso "profonde condoglianze ai familiari delle vittime", assicurando che "un'accurata indagine è in corso sull'incidente".

Biagio Simonetta per ilsole24ore.com il 9 gennaio 2020. È uno scenario fitto di misteri, quello cresciuto attorno al volo Ps752 della Ukraine International Airlines, con l’ipotesi dell’abbattimento accidentale che cresce con il passare delle ore. La mattina dell’8 gennaio, il Boeing 737-800 si è staccato dal gate del Tehran Imam Khomeini International Airport alle 6:08 (le 3:38 italiane), mentre il cielo sulla capitale iraniana era ancora buio. Era diretto a Kiev, in quattro ore di volo. A bordo 176 persone: 167 passeggeri e nove membri dell’equipaggio. Nessuno è sopravvissuto.

Nessuna ipotesi è esclusa. Un incidente aereo che a oltre 24 ore di distanza, non ha ancora una spiegazione ufficiale. E che potrebbe incrinare i già precari equilibri geopolitici fra l’Iran e l’Occidente, oppure far malissimo all’americana Boeing, già alle prese con i disastri del famigerato 737 MAX. Ora le autorità (quelle ucraine, nello specifico, ma anche la stessa Boeing) vogliono vederci chiaro. E attualmente sono al vaglio tutte le possibilità. Anche quella che l’aereo sia rimasto vittima di un attentato, come sostiene la rivista americana Newsweek, che citando tre fonti (del Pentagono, dell’intelligence americana e dei servizi segreti iracheni) afferma che il Boeing sarebbe stato abbattuto per errore da un missile anti-aereo Tor-M1 di fabbricazione russa. Anche la Cbs accredita la tesi dell’abbattimento del Boeing ucraino a Teheran. In particolare, secondo le fonti citate dall’emittente Usa, l’intelligence americana avrebbe intercettato segnali di due missili lanciati dagli iraniani, seguiti poco dopo da un'esplosione. Anche in questo caso l’ipotesi è che l’aereo sia stato colpito involontariamente. L’ipotesi è seccamente respinta dalle autorità di Teheran, ma l’incidente è avvenuto nelle ore immediatamente successive all’offensiva iraniana contro le basi americane in Iraq. E questo non è un dettaglio, a certe latitudini. Intanto le autorità americane hanno deciso di imporre restrizioni per i voli commerciali nello spazio aereo che sorvola Iraq, Iran e Golfo Persico. E diverse compagnie hanno sospeso i loro voli in quella zona. Mentre fonti iraniane hanno bocciato categoricamente l’ipotesi che l’aereo possa essere stato abbattuto.

Cosa sappiamo finora. L’impressione è che di questo volo Ps752 si parlerà a lungo. Le informazioni ufficiali che si hanno fino a questo momento sono frammentarie, e spesso vengono smentite dopo poche ore. Quello su cui concordano un po’ tutti è che l’aereo fosse in fiamme prima di schiantarsi. Lo dice l’aviazione iraniana e lo conferma anche un video girato da un cittadino e trasmesso da tutte le tv del mondo.

Ma cosa è successo? Il Boeing 737-800 decolla alle 6:11, e tre minuti dopo – mentre è già a 8mila piedi di altezza – fa perdere ogni contatto radar. Torna indietro, verso l’aeroporto, ma si schianta al suolo senza lasciare scampo alle persone a bordo. Nelle difficili e controverse comunicazioni iraniane, non è chiaro se sia arrivato dai piloti un messaggio di allarme. Anche se il messaggio dell’aviazione civile locale nega questa ipotesi: «L’aereo che inizialmente era diretto verso ovest per lasciare la zona dell’aeroporto - è scritto nel loro messaggio – ha virato a destra a seguito di un problema e faceva di nuovo rotta verso l’aeroporto al momento dello schianto. L’aereo è scomparso dai radar quando ha raggiunto gli 8.000 piedi. Il pilota non ha inviato messaggi radio riguardo le circostanze insolite».

I dubbi ancora senza risposta. Le domande su questo incidente sono tantissime. Innanzitutto la causa dell’incendio: le autorità stanno prendendo in considerazione una serie di possibili scenari. Oleksiy Danilov, capo del Consiglio di sicurezza ucraino, in un post su Facebook ha scritto che non si esclude niente: il colpo di un missile antiaereo, una collisione con un drone e l’esplosione di un motore. Relativamente a quest’ultima ipotesi, giova ricordare che il Boeing 737-800 – uno dei velivoli più commercializzati dalla casa americana – dispone di due motori. Ed è progettato per poter sopperire (cioè volare) anche con un solo motore funzionante. Nell’agosto del 2019, per esempio, proprio un Boeing 737-800 in viaggio dalla Grecia alla Repubblica Ceca, aveva volato per un lungo tratto del suo viaggio con un solo motore (il secondo si era spento, misteriosamente, durante il volo). La prima domanda che attanaglia gli addetti ai lavori, dunque, è proprio questa: com’è possibile che un Boeing del genere non riesca nemmeno a tornare all’aeroporto di partenza, tre minuti dopo il decollo, per il malfunzionamento di un solo motore? E perché – se di guasto al motore si è trattato – i piloti non hanno segnalato niente via radio? Altro argomento spinoso riguarda le scatole nere. Perché è lì dentro che si cela la verità sull’incidente del volo Ps752. Quelle montate sul Boeing 737-800 sono due: una tiene traccia dell’audio in cabina, l’altra registra tutti i dati del volo. Analizzando le scatole nere è possibile risalire con estrema certezza alle cause dello schianto. Ma le autorità iraniane, nelle ore successive all’incidente, hanno fatto sapere che non le consegneranno all’americana Boeing. Le regole mondiali dell’aviazione glielo permettono, ma la questione fa storcere il naso e pone altri pesanti interrogativi. Del resto, in genere i produttori dei velivoli vengono coinvolti in queste fasi delle indagini, anche perché non tutti i Paesi sono in grado di analizzare le scatole nere. Di solito il National Transportation Safety Board degli Stati Uniti svolge un ruolo di primo piano in tutte le problematiche internazionali che coinvolgono Boeing. Ma per agire ha bisogno del permesso del Paese straniero in cui si è verificato l’incidente. E da Tehran non sembrano della stessa idea. La faccenda, però, è controversa: sulla base della convenzione ICAO, il Paese di origine della compagnia aerea, i costruttori dell’aereo e i fornitori dei suoi principali sistemi hanno il diritto di nominare un rappresentante per partecipare alle indagini di un incidente aereo. Ciò significa che, oltre al governo ucraino e alla Boeing, anche CFM International - la joint venture tra General Electric Co. e la francese Safran SA che produce il motore per il 737-800 - potrebbe richiedere di partecipare alle indagini. I prossimi giorni, insomma, saranno cruciali. Ultimo dettaglio: secondo il Corriere della Sera, il Boeing 737-800 della Ukraine International Airlines, meno di 24 ore prima di schiantarsi sul suolo di Tehran, era atterrato a Milano Malpensa, proveniente da Kiev. E dai controlli effettuati allo scalo lombardo non sarebbe emersa alcuna anomalia.

(ANSA l'8 gennaio 2020) - L'Iran non darà a Boeing le scatole nere dell'aereo ucraino caduto subito dopo il decollo da Teheran con 176 persone a bordo. Lo riporta l'agenzia iraniana Mehr detto il capo dell'aviazione civile iraniana Ali Abedzadeh senza senza specificare in quale Paese saranno inviate per essere analizzate. L'Ukraine International Airlines (UIA) ha sospeso i voli per Teheran a tempo indeterminato a causa dello schianto del suo aereo. Lo ha annunciato il servizio stampa della compagnia. "A partire da oggi Ukraine International Airlines ha deciso di sospendere i suoi voli per Teheran per un periodo indeterminato", ha detto la UIA su Facebook. La società ha notato che sta facendo tutto il possibile per scoprire le cause dell'incidente. "Il volo è stato effettuato su un aeromobile Boeing 737-800 NG con il numero di registrazione UR-PSR. L'aeromobile è stato fabbricato nel 2016, ricevuto dalla compagnia aerea direttamente dalla fabbrica. L'ultimo manutenzione programmata è stata effettuata il 6 gennaio 2020", ha detto la compagnia aerea aggiungendo che l'aereo "è scomparso dai radar pochi minuti dopo la partenza dall'aeroporto internazionale di Teheran". Lo riporta la Tass. "L'aereo era in buone condizioni, uno dei migliori". Lo ha detto il presidente della Ukraine International Airlines Evgeny Dykhne parlando dell'incidente a Teheran. "Garantiamo la qualità di tutti i nostri aeromobili e le elevate qualifiche di tutti gli equipaggi", ha sottolineato Dykhne, escludendo l'ipotesi di un errore del pilota. Allo stesso tempo i vertici hanno aggiunto di non poter fornire versioni fino a quando non verranno stilati i risultati dell'indagine ufficiale. Lo riporta la Tass.

Aereo precipitato in Iran, Teheran:  abbattuto dai militari per un errore umano. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Foschi. Colpo di scena nel disastro aereo del jet ucraino precipitato dopo il decollo da Teheran proprio nel giorno dell’attacco dell’Iran contro le basi americane in Iraq. La tv di Stato, citando fonti militari, ha ammesso che l’aereo è stato «abbattuto» per un «errore umano». E’ la prima ammissione di responsabilità, anche se non ufficiale, dopo che fino a poche ore prima le autorità iraniane avevano respinto qualsiasi accusa. Il Quartier generale delle Forze armate iraniane ha affermato che il Boeing precipitato quattro giorni fa poco dopo il decollo dall’aeroporto `Imam Khomeini´ di Teheran è stato «erroneamente» e «involontariamente» preso di mira dalle forze di difesa aerea iraniane che lo hanno scambiato per un «aereo nemico». Tutti i 176 tra passeggeri e membri dell’equipaggio del 737 dell’Ukraine International Airlines sono morti a seguito dell’incidente. Fino a ieri l’Iran aveva negato di aver abbattuto il velivolo con un missile.

Iran, aereo abbattuto per "errore umano": è stato scambiato per un "velivolo ostile". Rohani: "Imperdonabile". "Erroneamente" e "involontariamente" preso di mira dalle forze di difesa aerea iraniane. Zarif: "Colpa avventurismo Usa". Mosca: "Teheran impari lezione da disastro". Alberto Custodero l'11 gennaio 2020 su La Repubblica. E alla fine l'Iran lo ha ammesso: sono stati i loro missili ad abbattere l'aereo ucraino. "La Repubblica islamica dell'Iran si rammarica profondamente per questo errore disastroso" e le "indagini proseguiranno per identificare e perseguire" gli autori di questa "grande tragedia" e "questo sbaglio imperdonabile", afferma il presidente iraniano Hassan Rohani con un post sul suo account Twitter. "Coloro che sono coinvolti nello schianto dell'aereo ucraino saranno presto processati", assicura Rohani. Esprimendo rammarico e condoglianze a nome della Repubblica islamica, il presidente dell'Iran ha sottolineato che sono state prese misure legali contro "coloro che hanno commesso l'errore" e la gente sarà informata dei risultati. Rohani ha infine auspicato la rimozione delle debolezze del sistema di difesa del Paese.

Le scuse dell'esercito e le accuse agli Usa. Il Quartier generale delle Forze armate iraniane ha affermato che il Boeing precipitato quattro giorni fa poco dopo il decollo dall'aeroporto Imam Khomeini di Teheran è stato "erroneamente" e "involontariamente" preso di mira dalle forze di difesa aerea iraniane che lo hanno scambiato per un "aereo nemico". Scusandosi e porgendo le condoglianze alle famiglie delle vittime dell'aereo ucraino abbattuto dopo il decollo da Teheran, il Quartier generale delle Forze armate iraniane afferma in un comunicato che metterà in atto "riforme essenziali nei processi operativi per evitare simili errori in futuro" e che perseguirà legalmente "coloro che hanno commesso l'errore". Il ministro degli Affari esteri iraniano Mohammad Javad Zarif afferma che "l'errore umano" dietro all'abbattimento dell'aereo di linea ucraino da parte delle forze armate dell'Iran è accaduto nel "momento di crisi causato dall'avventurismo degli Usa".

Mosca: "Teheran impari lezione da disastro". L'Iran, che ha ammesso di aver abbattuto per sbaglio un aereo di linea ucraino uccidendo 176 persone, deve "imparare la lezione" da questo disastro, ha detto il presidente della commissione Esteri del Parlamento russo. "Se la decrittazione delle scatole nere e il lavoro dell'inchiesta non dimostrano che l'esercito iraniano lo ha fatto intenzionalmente, e non ci sono ragioni logiche per questo, l'incidente deve essere chiuso". "Sperando che si imparino le lezioni e si prendano provvedimenti da tutte le parti", ha detto Konstantin Kosachev.

La cronaca dell'abbattimento dell'aereo ucraino. Tutti i 176 tra passeggeri e membri dell'equipaggio del 737 dell'Ukraine International Airlines sono morti a seguito dell'incidente. Fino a ieri l'Iran aveva negato di aver abbattuto il velivolo con un missile.  Lo schianto al suolo del volo 752 dell'Ukraine International Airlines non ha lasciato possibilità ai passeggeri: l'impatto ha causato la morte di tutte le 176 persone a bordo, tra cui 57 canadesi. Mike Pompeo, parlando alla Casa Bianca, aveva affermato "crediamo sia probabile che l'aereo sia stato abbattuto da un missile iraniano", aggiungendo che, quando arriveranno le prove definitive, "noi e il mondo adotteremo la risposta adeguata". L'Iran in un primo tempo aveva negato, invitando gli stessi esperti Usa della Boeing a partecipare alle indagini. Le autorità ucraine ieri avevano avuto accesso ai dati registrati nelle scatole nere. Ma contro l'Iran si era puntato un j'accuse internazionale, con il primo ministro canadese Justin Trudeau che giovedì in serata aveva affermato di essere in possesso di prove che dimostrerebbero che l'aereo potrebbe essere stato colpito in maniera "non intenzionale" da un missile iraniano. Ma a incastrare le autorità iraniane c'era un video - la cui autenticità è stata verificata dal New York Times - che mostrava l'impatto tra l'aereo e un proiettile, forse un razzo, poco distante dall'aeroporto di Teheran. La ripresa era stata girata proprio nell'area in cui il velivolo di linea ucraino ha smesso di trasmettere il suo segnale poco prima di schiantarsi a terra lo scorso mercoledì. Una piccola esplosione si era verificata nel momento in cui l'aereo sarebbe stato colpito da un missile, senza però esplodere. Il jet aveva continuato a volare per diversi minuti dirigendosi di nuovo verso l'aeroporto. Per poi schiantarsi al suolo.

Aereo caduto in Iran, proteste contro il regime a Teheran: scontri con la polizia. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. A Teheran una manifestazione di commemorazione delle vittime dell’aereo ucraino, abbattuto da un missile iraniano nei cieli della capitale iraniana l’8 gennaio, si è trasformata in una manifestazione contro il regime. Migliaia di persone, soprattutto giovani, si sono radunati davanti alle due università di AmirKabir e di Sharif e hanno scandito la loro rabbia per il fatto che il regime abbia taciuto per due giorni la propria responsabilità nello schianto del Boeing 737. In particolare chiedono le dimissioni del comandante supremo delle forze armate, ovvero l’ayatollah Ali Khamenei. Tra gli slogan scanditi «Morte ai bugiardi», «Non sacrifichiamo vite per venerare un leader assassino». Secondo informazioni che circolano su Twitter, in una delle università sarebbe già arrivata la polizia che avrebbe lanciato lacrimogeni e arrestato alcuni manifestanti.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 13 gennaio 2020. Piazza Azadi, piazza della Libertà. Questa volta i giovani di Teheran hanno puntato a un luogo simbolo della capitale, ai piedi della grande torre che segna lo skyline della città. Un assalto al centro del potere che è terminato con durissime cariche della polizia, lacrimogeni, poi colpi di arma da fuoco. La morte dei 176 passeggeri del Boeing ucraino, abbattuto per sbaglio dalla contraerea dei pasdaran all' alba di mercoledì scorso, ha innescato una catena di reazioni incontrollabili e messo la dirigenza della Repubblica islamica in affanno. La rabbia degli studenti è cresciuta per mesi, man mano che la morsa del regime si faceva sempre più stretta. L'uccisione di Qassem Soleimani ha risvegliato per qualche giorno l' orgoglio patriottico, ma la negligenza dei Guardiani della rivoluzione nella notte della rappresaglia contro gli Usa, la sequela di bugie, ha spinto gli iraniani a scavalcare tutte le linee rosse. Dopo le veglie e le proteste davanti alle università di sabato, ieri le manifestazioni si sono allargate ad altre città, Isfahan, Mashhad, Sanandaj, Amol. Ma l' epicentro è stata la marcia verso piazza Azadi, con le candele accese in mano, al canto di «morte al dittatore», «chiedete scusa e dimettevi», «vergogna», «il nemico non è l' America, è fra noi», e ancora «via il capo delle forze armate», un altro modo per dire via la guida suprema Ali Khamenei, protetta da una severa legge contro il vilipendio e mai nominata in prima persona. Khamenei è però il bersaglio principale, il simbolo. Altri simboli vengono invece rovesciati, le immagini di Soleimani strappate, studenti che si rifiutano di camminare sulle bandiere americana e israeliana dipinte all' ingresso degli atenei. Un campionessa esaltata dal regime, la medaglia olimpica nel taekwondo, Kimia Alizadeh, che annuncia la sua fuga in Europa. La rapidità del cambio di umore sembra spiazzare le autorità. A Teheran, Internet e i cellulari funzionano in maniera regolare, e alimentano la protesta, mentre due mesi fa la Rete era stata bloccata nella settimana del massacro, a partire dal 15 novembre, e la repressione era stata implacabile. Adesso un flusso continuo di video porta le manifestazioni davanti all' opinione pubblica mondiale. Ne approfitta Donald Trump, su Twitter, anche in farsi, per ammonire la dirigenza iraniana a «non uccidere la propria gente» ed esprimere solidarietà agli studenti, mentre il premier britannico Boris Johnson condanna l' arresto, per alcune ore, dell' ambasciatore a Teheran, colpevole di essersi unito agli studenti sabato sera. La tragedia del Boeing, subito dopo l' uccisione di Soleimani, ha aperto una crepa. Lo testimoniano le parole, inusuali, del presidente Hassan Rohani contro i responsabili del disastro, «un errore imperdonabile». Il fronte oltranzista appare indebolito dalla perdita del comandante delle Forze Al-Quds, architetto dell' espansione nel Levante arabo e uomo chiave sul fronte interno. I riformisti prendono fiato. Mehdi Karroubi, ex candidato presidenziale e leader dell' Onda verde nel 2009, da dieci anni ai domiciliari, torna a parlare, appoggia la protesta, chiede anche lui le dimissioni di Khamenei. Gli studenti erano tra le forze trainanti nelle manifestazioni del 2009, non in quelle dello scorso novembre, guidate da lavoratori poveri e disoccupati. Se il blocco urbano si salda con i sobborghi devastati dalla crisi economica, per il regime la sfida diventerà insidiosa. Basij e Pasdaran sono scossi dalla smacco dell' 8 gennaio. Ieri il Parlamento ha elogiato il comandante delle Forze aeree, Amir Ali Hajizadeh, per il «coraggio» nell' ammettere le sue responsabilità. Ma l'abbattimento del Boeing ha segnato un giro di boa nella psicologia sia del popolo sia dell' establishment.

Iran, scontri con i manifestanti: la polizia spara. Trump: "Non uccidete il vostro grande popolo". Manifestazioni si segnalano anche in altre città iraniane, come Mashhad, Rasht, Kashan, Sanandaj e Amol. Bruciata la bandiera britannica davanti all'ambasciata. Un video diventato virale mostra gli studenti dell'università Beheshit a Teheran non calpestare le bandiere di Israele e Usa. La Repubblica il 12 gennaio 2020. La polizia ha caricato i manifestanti riunitisi sulla Azadi Square, a Teheran dando inizio a violenti scontri. Alcuni video che circolano sui social mostrano spari da parte degli agenti. Le proteste, che continuano da ieri, sono contro il regime per le bugie sull'abbattimento del jet ucraino. Manifestazioni si segnalano anche in altre città iraniane, come Mashhad, Rasht, Kashan, Sanandaj e Amol. "Non uccidete i vostri manifestanti". Donald Trump su Twitter si è schierato a fianco dei manifestanti iraniani in un messaggio indirizzato 'ai leader dell'Iran'. "Migliaia di persone sono già state uccise o incarcerate da voi e il mondo sta guardando. Ancora più importante, gli Stati Uniti stanno guardando. Ripristinate le connessioni Internet e lasciate che i giornalisti lavorino liberamente! Smettete di uccidere il vostro grande popolo iraniano!", scrive il presidente degli Stati Uniti. Gli agenti, in parte anche in borghese, sono radunati in vari punti della città, tra cui davanti all'università. Membri dei Pasdaran pattugliano le strade. La rabbia contro il governo si è riaccesa dopo che per tre giorni le autorità hanno smentito categoricamente ogni responsabilità sullo schianto, in cui sono morte 176 persone, e poi le Guardie della rivoluzione hanno ammesso la responsabilità del lancio di un missile per errore. Le vittime sono in gran parte iraniane o iraniane-canadesi.

L'arresto dell'ambasciatore britannico. Anche l'ambasciatore britannico Rob Macaire è stato brevemente fermato dalla polizia ieri, con conseguente condanna di Londra. Stamattina una folla di manifestanti filo-governativi ha bruciato una bandiera britannica di fronte all'ambasciate di Londra a Teheran. Al grido di "Morte alla Gran Bretagna", in circa 200 hanno così protestato contro la presunta presenza dell'ambasciatore a una protesta non autorizzata contro le "bugie" del governo sull'abbattimento dell'aereo ucraino. Ma Macaire, ieri fermato dalle autorità e poi rilasciato, ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle proteste in corso nella Repubblica islamica. Sulla questione è intervenuto anche il segretario agli Esteri britannico, Dominic Raab: "L'arresto del nostro ambasciatore a Teheran senza motivi o spiegazioni è una flagrante violazione della legge internazionale".

Studenti rifiutano di calpestare bandiere Israele e Usa. La notizia non è confermata, ma c'è un video che sta diventando virale che mostra gli studenti dell'università Beheshit a Teheran infrangere un obbligo, mai sancito formalmente dalle autorità iraniane ma moralmente imperativo nei momenti di maggiore crisi tra l'Iran e l'Occidente: calpestare la bandiera israeliana e quella americana. Il filmato diventato virale, mostra gli studenti universitari durante le proteste evitare accuratamente di passare sopra le due bandiere disegnate per terra dai sostenitori del regime proprio affinché si possa calpestarle. Quelli che lo fanno vengono fischiati dagli altri studenti.

V.Ma. per il “Corriere della Sera” il 12 gennaio 2020. Shehad Sahar, la «città del testimone», è il nome di un poverissimo quartiere nel Sud della capitale iraniana, a pochi chilometri dall' aeroporto Imam Khomeini. Qui l' aereo della Ukraine International Airlines è precipitato in fiamme mercoledì scorso, mancando per 800 metri una centrale elettrica e una fabbrica di batterie, e per molto meno le case degli abitanti. È esploso in uno spiazzo non edificato, davanti a un parco giochi che abbiamo visitato ieri, accompagnati da un anziano tassista veterano di guerra, che serve il tè in macchina per riscaldarsi. Non può credere che sia stato un missile, «non ha senso». Aspettiamo che la luna piena ceda il posto all' alba, dice. «Aspettiamo che si schiarisca un po' l' aria». Attraverso le inferriate del cancello da cui pende il nastro giallo della polizia, sono visibili grossi pezzi di metallo accartocciato accanto alle giostre dei bambini. La fusoliera, fotografata qui nel giorno dell' incidente, è stata rimossa lasciando nel fango una scia di sedili imbottiti, pezzi di finestrini insieme agli oggetti più intimi dei 176 passeggeri, reggiseni, taccuini. Nell' esaminare la cabina di pilotaggio l' altro ieri gli investigatori ucraini erano certi: a colpirla è stato un missile. Dopo tre giorni di smentite, a sorpresa il governo iraniano ha annunciato l' esito ieri mattina: è stato un missile terra-aria dei Guardiani della Rivoluzione - ha ammesso - ad abbattere l' aereo. «Un errore umano». L'aria si è schiarita, ma la scelta dell' onestà tardiva non è bastata. I paradossi e la rabbia sono troppo grandi. È stata una settimana spaventosa per gli iraniani, con lo sguardo puntato sui confini, per poi trovarsi colpiti in patria. Il Wall Street Journal ha rivelato che gli americani hanno contattato Teheran tramite l'ambasciata svizzera dopo l uccisione di Soleimani, per evitare l'escalation, e che ai toni di scontro in pubblico hanno alternato scambi più moderati in privato. La Repubblica Islamica si è pure assicurata che gli iracheni fossero avvertiti prima di colpire due basi nella «severa vendetta» per il generale: non volevano fare vittime. Ma i voli civili dall' aeroporto erano rimasti invariati. «Il Boeing 737-800 è stato scambiato per un missile cruise americano, l'operatore aveva solo dieci secondi per decidere», spiega il generale Amir Ali Hajizadeh, capo della divisione aerospaziale. Il mea culpa tocca a lui che lunedì, ai funerali del generale, aveva assicurato: «Lanciare un paio di missili, colpire una base o perfino assassinare Trump non basterà». E adesso giura che avrebbe preferito «morire» piuttosto che vedere un simile incidente. I ragazzi e le ragazze di Amirkabir, Sharif e altre due università della capitale sono scesi in strada: non possono credere che fino a ieri i leader della Repubblica Islamica non sapessero niente della vera causa della tragedia. Molti dei passeggeri morti su quel volo erano studenti come loro. «Morte ai bugiardi», gridano, filmando le proteste con i telefonini. Slogan durissimi: «Khamenei assassino, si dimetta». Esigono una vera punizione per i responsabili. «Guardiani della Rivoluzione, giù le mani dall' Iran». L'ambasciatore britannico Rob Macaire, che ha fotografato i manifestanti, è stato arrestato per alcune ore. Anche nei pressi dell' ambasciata italiana l' atmosfera era tesa, le proteste di 1.500 studenti sono state arginate con i lacrimogeni. Quella fetta della popolazione, progressista e laica, che ai funerali di Soleimani non c' era, ora accusa non solo la forza militare, economica e politica che sono i Pasdaran, ma l' intero sistema. Non sono milioni, come le persone mosse dall' orgoglio nazionale e dall' emotività nei giorni scorsi. Ma l' orgoglio nazionale ha anche ucciso 56 persone e ne ha ferite oltre 200, schiacciate dalla folla a Kerman martedì scorso. E l' emotività non fermerà le nuove sanzioni. La classe media cui appartiene Zahra, casalinga e madre 52enne di due figlie trentenni che incontriamo al bazar, è allo stremo. Deve vendere l' oro di famiglia per aiutare le figlie a pagare l' affitto. Trentenni, laureate in Ingegneria, fanno la parrucchiera e la segretaria di un dentista, perché non c' è lavoro. Vuole vederle volare in Canada, proprio come decine di iraniani uccisi su quel volo. «I veri pericoli non sono all' esterno - gridano gli studenti -, ma all' interno del Paese».

Aereo caduto in Iran, le storie delle vittime: gli studenti, i 4 sposini e i 63 ingegneri canadesi. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. È stata, tra le altre cose, anche una tragedia di cervelli quella del volo Ukraine International Airlines PS752 precipitato subito dopo il decollo dell’aeroporto di Teheran. Cervelli fuggiti dall’Iran per dare il massimo in Occidente oppure «coltivati» dalle istituzioni accademiche del Nord America. Tra i 167 passeggeri morti nel Boeing 737 ben 63 — più di un terzo — erano canadesi. O meglio: avevano passaporto del Canada. Di questi — come ricostruiscono i quotidiani locali — una trentina vivevano, studiavano e lavoravano a Edmonton, capitale della provincia dell’Alberta. A bordo, freschi di nozze, c’erano due coppie: Arash Pourzarabi, 26 anni, con Pouneh Gourji, 25 (sposati il 1° gennaio scorso) e Siavash Ghafouri Azar, 35 anni, con Sara Mamani, 36. Gli ultimi due, ricordano i colleghi, erano ingegneri e avevano appena comprato una casa alla periferia di Montreal. «Almeno dieci membri della nostra comunità accademica hanno perso la vita nell’incidente tra studenti e ricercatori», calcola David Turpin, presidente dell’Università dell’Alberta all’agenzia Reuters . La rotta Teheran-Kiev-Toronto operato dalla compagna aerea ucraina era diventata molto popolare nella comunità di espatriati iraniani in Canada data la mancanza di voli diretti dopo la rottura diplomatica nel 2012 e questo spiega l’alto numero di canadesi con origini mediorientali. Seduta dentro il Boeing c’era anche un’intera famiglia, composta da Mojgan Daneshmand, docente 43enne di Ingegneria all’Università dell’Alberta, suo marito Pedram Mousavi, professore 47enne di Ingegneria meccanica nello stesso ateneo della moglie, e le due figlie Dorina e Daria rispettivamente di 9 e 14 anni. Un’altra famiglia distrutta è quella di Shekoufeh Choupannejad, 56 anni, che secondo il quotidiano Edmonton Journal , era ginecologa e ostetrica. Tornava in Canada con le figlie Sara Saadat, 23 anni, e Saba, 21. La più giovane, al quarto anno all’Università dell’Alberta (Facoltà di Scienze) era anche attivamente impegnata nel sociale.

L’Italia, partner da 4 miliardi. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 da Corriere.it. «Alla rincorsa del tempo perduto», era il titolo di un report della Sace — la società della Cdp che si occupa dell’internazionalizzazione delle imprese attraverso l’assistenza finanziaria e assicurativa — del novembre 2015, quando la fine delle sanzioni dopo l’accordo sul nucleare aveva fatto sperare in un’impennata nelle relazioni commerciali. Senza le sanzioni, stimava Sace, l’Italia avrebbe potuto cumulare maggiori esportazioni per circa 17 miliardi di euro nel periodo 2006-2018. Ma la realtà si è rivelata più difficile di quanto prevedevano gli analisti. Se le attese per il 2018 erano di un export verso l’Iran pari a 2,5 miliardi di euro, il conteggio finale si è fermato a soli 1,7 miliardi. Per il 2019 è stimato in calo di oltre un quarto, a 1,2 miliardi. Agli iraniani le nostre imprese, in buona parte pmi vendono soprattutto meccanica strumentale (61%), poi chimica (10%), apparecchi elettrici (9%), metalli (4%), gomma e plastica (3%). Ma sempre meno. La verità è che società italiane che fanno affari con l’Iran non ne sono rimaste tante. L’Eni non c’è più da tempo, e il petrolio era la principale fonte di importazione, con una quota del 12,5% del fabbisogno italiano acquistato all’estero. In totale nel 2018 l’import dall’Iran valeva 2,8 miliardi di euro, ed era già in contrazione del 13%. Lavorare con l’Iran è diventato sostanzialmente impossibile o quasi, spiega un manager che ha avuto relazioni con Teheran. Di fatto il Paese è isolato finanziariamente. Il sistema di interscambio tra banche Swift non funziona e i tentativi di mettere in piedi un sistema alternativo non hanno avuto successo. Di conseguenza i pagamenti avvengono con difficoltà o devono essere conclusi attraverso triangolazioni con Paesi terzi come Cipro o Dubai, con rischi significativi tali da scoraggiare iniziative imprenditoriali per timore di ritorsioni sul mercato degli Stati Uniti. Insomma, con effetti extraterritoriali effettivi per chi vuole mantenere buoni rapporti con gli Usa. È questo lo scopo vero delle sanzioni: isolare economicamente un Paese, al di là di quanto prevedano le singole sanzioni, che ieri hanno colpito individui e entità operanti nel settori delle costruzioni, del manifatturiero, del tessile e del minerario come acciaio e alluminio.

Il lato segreto della notte di Teheran. Lorenzo Vita su Inside Over il 132 gennaio 2020. L’aereo abbattuto dai missili iraniani nei cieli di Teheran non è “solo” un disastro che ha ucciso centinaia di persone innocenti. I suoi effetti sono molto più importanti di quello che può sembrare, con un sistema di governo che traballa di fronte alle accuse occidentali e una popolazione che ha dimenticato ben presto l’unità di intenti dopo la morte di Qasem Soleimani per riversare la rabbia contro le autorità. La notte di Teheran sembra interminabile. Dopo l’omicidio di Soleimani, le lancette dell’orologio sembrano essersi fermate in Iran: bloccate in un incubo da cui il sistema degli ayatollah non sembra in grado di riprendersi. E i primi a esserne indeboliti sono i Guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran, che hanno perso non solo il loro uomo di punta in Medio Oriente e cerniera con le potenze straniere e la Guida Suprema Ali Khamenei, ma anche una credibilità che è fondamentale per rimanere ancorati al sistema di potere costruito in questi decenni. L’aereo dell’Ukraine Airlines è stato colpito da un missile partito da una base dei Guardiani. E il comandante delle forze aeree dei Pasdaran, Amir Ali Hajizadeh, si è assunto la “piena responsabilità” per l’abbattimento. “Ci assumiamo la piena responsabilità dell’errore, e qualunque cosa il governo decida siamo pronti a obbedire”, ha detto l’ufficiale in una conferenza stampa drammatica. E ha anche rivelato che avrebbe preferito morire dopo aver visto cosa era accaduto. Hajizadeh non è morto. Ma certamente la sua figura adesso è particolarmente debole, soprattutto perché la piazza chiede la testa di coloro che hanno abbattuto l’aereo e nascosto le prove. Ma soprattutto è una piazza che inizia m a non avere fiducia nella forza dei Pasdaran. E questo è un nodo particolarmente importante per una Repubblica islamica che vive una crisi sistemica di notevole importanza dovuta alle proteste di questo inverno (fonti non ufficiali parlano di centinaia di morti) e alle sanzioni che strangolano l’economia, e che attende le elezioni del prossimo mese con molte incognite. Arrivare a questa crisi con Soleimani ucciso, Hajizadeh indebolito e con una Guida Suprema messa sotto accusa da parte della popolazione, complica la vita dei Guardiani e dello stesso Khamenei. Mai come questa volta assediato e colpito nei suoi punti di forza. Con la morte di Soleimani, Khamenei ha perso il raccordo tra Teheran e il Medio Oriente e uno degli uomini a lui politicamente più vicini. Il generale rappresentava una minaccia strategica per gli Stati Uniti e per gli alleati mediorientali di Washington, a partire da Israele. Ed era stato l’unico in grado di rovesciare le sorti della guerra all’Isis in favore dell’Iran, penetrando in tutti i Paesi con una forte comunità sciita. A questa esperienza e abilità politica e militare di Soleimani, si univa la forza di Hajizadeh, a capo di una delle branche più temute dei Guardiani: le Forze aerospaziali (Afagir). Guida del programma missilistico delle Irgc, Hajizadeh ha più volte minacciato direttamente gli Stati Uniti (in questi ultimi giorni) e Israele (nel corso degli anni) di colpire le loro basi e le loro città. Ed è in sostanza il vertice della seconda forza più pericolosa dei Pasdaran proprio dopo le Quds. I tunnel per il lancio dei missili, le nuove tecnologie per l’abbattimento dei droni, le capacità balistiche dimostrate (secondo alcuni) anche nel raid contro le basi di Ein al-Asad e Erbil, ma soprattutto il programma che ha portato l’Iran a sviluppare capacità di colpire le basi Usa nel Golfo e tutte le più grandi città del Medio Oriente sono tutti elementi che hanno reso le forze aerospaziali dei Pasdaran un elemento chiave della strategia degli ayatollah. Tanto è vero che nel mirino delle sanzioni Usa e dei negoziati sull’accordo con Teheran c’è sempre il programma missilistico. Programma nucleare, programma missilistico, rete di alleanze regionali e sistema di potere centrale sono da sempre gli obiettivi principali dell’assedio politico, militare e finanziario messo in piedi dagli Stati Uniti. Sono questi i capisaldi dell’agenda “anti Iran”. E in due sole notti, in un’interminabile settimana nera per la Repubblica islamica, questo sistema ha tentennato. Le forze Quds sono decapitate, le forze aerospaziali gravemente indebolite nella loro leadership, l’immagine dei Pasdaran è ferita e il cerchio dei fedelissimi di Khamenei si stringe. Soleimani ha pagato con il sangue. Hajizadeh con un errore di qualcuno che sicuramente sarà una macchia indelebile nella sua carriera e agli occhi degli iraniani. L’impressione è che in Iran ci sia qualcosa di molto più importante delle proteste. C’è un cambiamento di potere interno a quello Stato nello Stato da sempre obiettivo degli Stati Uniti: i Guardiani della Rivoluzione. Con l’obiettivo finale, forse, di indebolire definitivamente Khamenei.

 Da Corriere.it il 15 gennaio 2020. Immagini esclusive ottenute e verificate dal New York Times mostrano che ad abbattere in Iran il Boeing 737 della Ukrainian Airlines precipitato l’8 gennaio — poco dopo il decollo da Teheran, con 176 persone a bordo — sono stati due missili. I missili, riporta il Nyt, sono stati lanciati a 23 secondi di distanza l'uno dall'altro, da una base iraniana a circa 12 chilometri dal velivolo. I filmati sono stati registrati da una telecamera di sicurezza e condivisi inizialmente su Twitter dal giornalista Babak Taghvaee: quella notte — ha spiegato il giornalista — era stato emesso l’ordine di colpire qualsiasi oggetto volante che provenisse da direzione sud-sudest rispetto alla base. Il video è stato poi verificato dal pool investigativo del Nyt.

I primi arresti. La magistratura iraniana ha intanto annunciato che sono stati effettuati i primi arresti per l'abbattimento del Boeing mercoledì scorso: «Sono state condotte indagini estese e alcune persone sono state arrestate», ha detto il portavoce della magistratura Gholamhossein Esmaili a una conferenza stampa televisiva.

Rohani: «Trasparenza sulle indagini». Il presidente iraniano Hassan Rohani ha assicurato trasparenza sulle indagini in corso sull'abbattimento dell'aereo ucraino, commesso «per errore» da Teheran, che ha causato proteste di piazza nella capitale e in diverse città del Paese. «Come rappresentante della nazione iraniana e come presidente, seguirò e informerò il popolo sui risultati, qualsiasi essi siano, che otterremo nelle prossime fasi», ha detto Rohani, intervenendo a un evento a Teheran dedicato all'agricoltura.

Trudeau: vittime aereo sarebbero vive senza escalation. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha dichiarato che le vittime dell'aereo ucraino che ha ucciso 176 persone tra cui 57 canadesi, sarebbero in vita in questo momento se le tensioni nella regione non fossero aumentate. «Se non ci fosse stata un'escalation di recente nella regione, quei canadesi sarebbero ora a casa con le loro famiglie. Ciò accade quando si hanno conflitti e la guerra. Gli innocenti ne sopportano il peso», ha dichiarato Trudeau in un'intervista a Global News Television.

Il NYT: "Il Boeing ucraino in Iran è stato abbattuto da due missili a 30 secondi l'uno dall'altro". Primi arresti. Trenta persone sono state fermate durante le "proteste illegali" scoppiate sabato, incluso l'autore del video che filmava il missile. La magistratura di Teheran: "Condotte indagini estese". Trudeau accusa: "Colpa dell'escalation di violenza". Pietro del Re su La Repubblica il 14 gennaio 2020. Il Boeing ucraino abbattuto per errore dalle forze iraniane sopra i cieli di Teheran è stato colpito non da uno, ma da due missili. Lo dimostrano immagini esclusive ottenute e verificate dal New York Times: i due missili sono stati sparati ad una distanza di 30 secondi l'uno dall'altro. I missili, riporta il Nyt, sono stati lanciati da una base iraniana a circa 12 chilometri dall'aereo. Il nuovo video spiega anche perché il transponder del velivolo ha smesso di funzionare prima di essere colpito dal secondo missile. Il video pubblicato dall'account Twitter di Babak Taghvaee, che il New York Times ha verificato grazie all'impegno di quattro reporter. La data visibile sul video non indicherebbe che il video è falso; si tratterebbe invece di un settaggio non corretto dell'impianto di registrazione.

I primi arresti, fermato anche autore del video. Il governo iraniano ha ammesso le proprie responsabilità dopo giorni di smentite e dinieghi e ha promesso che i responsabili saranno assicurati alla giustizia. Questa mattina ci sono stati primi arresti, ha annunciato dal portavoce della magistratura di Teheran, Gholamhossein Esmaili. "Sono state condotte indagini estese e alcune persone sono state arrestate", ha detto senza tuttavia specificare quante persone sono state fermate. E' in stato di fermo anche l'autore del video circolato sui social media in cui si vede uno dei due missili nel momento in cui colpiva il Boeing ucraino. Lo riferisce la Bbc in persiano citando l'agenzia Tasnim. Subito dopo l'annuncio, il presidente ha ripetuto in un discorso televisivo la sua volontà di punire i colpevoli, aggiungendo che il "tragico evento" sarà oggetto di un'indagine approfondita. "È stato un errore imperdonabile e una sola persona non può essere l'unica responsabile dell'incidente aereo", ha dichiarato Rohani. "Le forze armate iraniane che ammettono il loro errore è già un buon primo passo ma adesso dobbiamo assicurarci che episodi del genere non si riproducano più", ha anche detto, aggiungendo che il suo governo è "responsabile nei confronti della nazione iraniana e di altre nazioni che piangono vittime nell'incidente". Tra queste, Canada, Regno Unito, Ucraina, Svezia e Afghanistan, che hanno tutte chiesto un'indagine approfondita sull'accaduto. In risposta a questa richiesta, Rohani ha anche ordinato alla magistratura di istituire un "tribunale speciale" che porti avanti l'indagine. "La magistratura deve creare un tribunale con un giudice senior e decine di esperti. Questo dossier non riguarda un caso comune. Il mondo ci sta guardando". Il presidente iraniano ha poi espresso soddisfazione per la comunicazione "trasparente" da parte delle forze armate riguardo "all'errore" commesso. Sempre il portavoce della magistratura Esmaili, ha fatto saper "circa 30 persone" sono state fermate durante le proteste illegali" scoppiate da sabato in Iran per l'abbattimento dell'aereo ucraino, alcune delle quali sono già state rilasciate. "Siamo tolleranti verso la manifestazioni legali, non nei confronti di altri assembramenti di persone", ha aggiunto il portavoce. L'Iran aveva negato ieri di aver sparato contro i dimostranti, ma sui social sono stati pubblicati diversi video che mostrano persone a terra, ferite da colpi di pistola.

Trudeau: "Senza escalation, l'aereo non sarebbe stato abbattuto". Intanto, il premier canadese Justin Trudeau ha dichiarato che se non ci fossero state le tensioni nella regione, le 176 vittime dell'aereo abbattuto nei dintorni di Teheran sarebbero vive: "Credo che se non ci fosse stata una escalation di recente nella regione, quei canadesi sarebbero a casa proprio adesso, con le loro famiglie", ha detto in un'intervista alla Global News TV, parlando del velivolo abbattuto per errore da un'unità di difesa aerea iraniana all'alba di mercoledì. Nell'intervista, Trudeau aggiunge anche che il Canada non era stato avvisato in anticipo del raid contro il generale Soleimani e che "ovviamente" avrebbe preferito esserlo. "Gli Stati Uniti prendono le loro decisioni. Cerchiamo di lavorare come comunità internazionale sulle questioni più importanti. Ma a volte i Paesi intraprendono azioni senza informare i loro alleati", s'è lamentato. Trudeau ha quindi assicurato che il governo sta lavorando con la massima velocità possibile per riportare a casa i corpi per le sepolture, ma malgrado questo l'intero procedimento potrebbe richiedere settimane "o forse mesi". Intanto una delegazione di funzionari canadesi ha raggiunto alle prime ore di oggi Teheran per prendere parte alle indagini sulle cause del disastro aereo.

Mattia Feltri per “la Stampa” 16 gennaio 2020. All'alba degli anni Venti una donna iraniana si ribella e urla la sua libertà, e si strappa il velo davanti a un mullah che la stava rabbiosamente invitando a sistemarselo meglio. Ora questa donna è molto meno sicura e solo un po' più libera, ma lasciamo perdere cose più grandi di noi. Bisognerebbe ricordare le donne iraniane degli anni Venti, ma del secolo scorso, del Novecento, quelle dell' Association of patriotic women che si strappavano il velo in piazza per urlare la loro, di libertà, e a metà degli anni Trenta ottennero dallo scià il diritto al capo scoperto. Cent' anni dopo siamo ancora lì. Ogni tanto bisognerebbe andare su Internet a guardare le foto delle donne iraniane prima della rivoluzione teocratica del '79, con le loro minigonne, i loro bikini, i sandali, gli shorts, le acconciature accattivanti, verrebbe da dire l' intero armamentario occidentale, se non fosse che l' Iran ebbe il suo primo ministro donna nel '68, otto anni prima dell' Italia, che dunque a un certo punto progredì e diventò un po' iraniana. Il Guardian ha dato notizia delle dimissioni di tre giornaliste della tv di Stato, stanche di raccontare menzogne di regime. Un pensiero va sempre a Marjane Satrapi, finita in carcere per una vignetta, o a Nasrin Sotoudeh, avvocatessa dei diritti umani e perciò condannata a trentatré anni di reclusione e a tante altre che, sempre di più e sempre più spesso, salgono alla prima fila della protesta perché, nell' oscena dittatura maschilista della sharia, le grandi vittime sono loro. Non servirà a nulla, ma per una volta dico #metoo.

Da ansa.it 16 gennaio 2020. La giornalista iraniana Gelare Jabbari ha scelto Instagram: "Scusatemi, ho mentito per 13 anni". Zahra Khatami ha prima ringraziato "grazie per avermi accettata come anchor fino ad oggi", poi l'addio: "Non tornerò mai più in tv. Perdonatemi". E la sua collega della rete pubblica iraniana Irib, Saba Rad, ha fatto altrettanto: "Grazie per il sostegno in tutti questi anni di carriera. Annuncio che dopo 21 anni di lavoro in radio e tv non posso continuare a lavorare nei media. Non posso". All'indomani dall'abbattimento dell'aereo ucraino la cui responsabilità era stata in un primo momento negata da parte del regime di Teheran, in Iran sembra essere in corso una sorta di "crisi di coscienza" fra i giornalisti, scrive il Guardian nel riportare la decisione comunicata nel giro di pochi giorni dalle tre giornaliste iraniane. Una crisi - prosegue il quotidiano britannico - che ha portato anche alcune delle agenzie di stampa considerate più vicine al regime, a dar conto delle proteste di piazza o almeno a cominciare a menzionare ipotesi su un potenziale insabbiamento. Intanto, l'Associazione dei giornalisti iraniani di base a Teheran - aggiunge il Guardian - ha diffuso un comunicato in cui sottolinea come il Paese stia assistendo al "funerale della fiducia pubblica" che sta danneggiando la già traballante reputazione dei media ufficiali in Iran.

«Scusatemi, ho mentito per 13 anni» Si dimette presentatrice della tv iraniana. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. La tv di Stato iraniana aveva riportato la notizia della morte dei 80 soldati americani negli attacchi contro le basi in Iraq, in risposta all’uccisione del generale Soleimani. Non era vero. Poi per giorni ha continuato a ripetere che l’aereo ucraino partito da Teheran era precipitato per problemi tecnici, anche questa una notizia rivelatasi falsa. Così, tra le proteste nel mondo della cultura, ci sono state lunedì scorso quelle di tre presentatrici della televisione di Stato iraniana, che hanno annunciato le dimissioni.

Una di loro, Gelare Jabbari, ha scritto su Instagram: «Perdonatemi per avervi mentito per 13 anni. Non tornerò mai più in televisione». A farle eco è anche l’associazione dei giornalisti di Teheran, che ha diffuso una dichiarazione molto dura: «Ciò che mette a rischio la nostra società in questo momento non sono soltanto i missili o gli attacchi militari, ma la mancanza di media liberi. Nascondere la verità e diffondere bugie traumatizza l’opinione pubblica. Quel che è accaduto è una catastrofe per i media in Iran». L’impatto è più che altro simbolico, dato che l’influenza della tv di Stato è da tempo in declino e la maggior parte degli iraniani non apprendono là le notizie. Da tempo gli iraniani hanno accesso attraverso la tv satellitare e internet a canali anche in farsi gestiti dall’estero. Il fatto stesso che Jabbari abbia dato la notizia su Instagram, raggiungendo così milioni di potenziali lettori, lo conferma. Anche Telegram e WhatsApp sono molto usate. Molti siti di informazione stranieri non sono bloccati e se lo sono è possibile usare il VPN per connettersi. Per questo lo scorso novembre le autorità hanno deciso di bloccare completamente internet per una settimana. Secondo un sondaggio di Gallup condotto nel 2012, gli iraniani sono sospettosi sia nei confronti dei contenuti della loro tv di Stato che dei media stranieri. I media locali possono creare confusione e dubbi nella mente delle persone, e far loro dubitare la narrativa occidentale, ma mai sostituirla del tutto. Le dimissioni di tre presentatrici mostrano tuttavia i limiti di questa strategia.

L’arbitra di scacchi si toglie il velo: «Non posso più tornare in Iran». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Ricci Sargentini. Bayat era stata criticata per una foto senza l’hijab scattata a Shanghai durante un torneo internazionale: «È come se mi avessero già condannata». Shohreh Bayat è un’arbitra di livello internazionale. Un ruolo prestigioso che poche donne nel mondo hanno raggiunto e nessuna prima di lei in Asia. Eppure nel suo Paese, l’Iran, a fare notizia è stata una fotografia in cui la giovane, 32 anni, appariva senza l’hijab mentre, la scorsa settimana, arbitrava a Shanghai la Women’s World Chess Championship, prestigiosa gara mondiale di scacchi femminile. «Non posso pensare a nessun altra iraniana che abbia lavorato in un torneo di così alto livello. Ma la sola cosa che conta per loro è il mio velo, non i miei titoli», si è sfogata con la Bbc. La questione non è di poco conto. Dopo la rivoluzione islamica, in Iran è stato imposto alla cittadine di indossare il velo in pubblico e per le donne che gareggiano nelle gare sportive l’obbligo vale anche all’estero. Chi viola la legge può essere multato o persino arrestato. E ora Bayat ha paura a rientrare in patria. «Quando ho visto il clamore che aveva causato quella foto sono entrata nel panico. Dicevano che la mia era una protesta politica. Sono molte le iraniane finite in prigione a causa del velo. Magari mi usano come un esempio». In verità la giovane non aveva alcuna intenzione di compiere un gesto clamoroso, anche se tollera a malincuore il dress code: «Siccome vivo in Iran, non ho altra scelta. Però penso che ognuno dovrebbe potersi vestire come vuole», ha detto alla Bbc da Vladivostok in Russia dove si svolge la seconda parte del torneo. Forse in quell’immagine il foulard le era semplicemente scivolato, tanto che quel giorno, in altre foto, la si vede con l’hijab, seppur portato in modo poco «ortodosso». Per sentirsi al sicuro Bayatha chiesto alla Federazione scacchi iraniana di garantire la sua libertà ma i dirigenti, per tutta risposta, l’hanno invitata a scrivere una lettera di scuse in cui avrebbe dovuto difendere l’obbligo del velo, cosa che lei non ha fatto. Anzi, a questo punto, ha deciso di «essere se stessa» e apparire in pubblico con il capo scoperto: «Tanto mi avevano già condannato. Non cambia nulla». Certo non tornare a casa le pesa: «È una decisione dura, sono triste perché mi mancherà la mia famiglia. Se potessi rientrare lo farei». La Federazione Internazionale di scacchinon ha commentato ufficialmente la situazione ma il vice presidente Nigel Short ha lodato Bayat su Twitter: «La prima donna a diventare Segretaria Generale di una federazione sportiva in Iran, l’unica arbitra internazionale di categoria A in Asia. Una grande ambasciatrice per il suo Paese». All’inizio di gennaio la responsabile della squadra di scacchi iraniana Mitra Hejaziour era stata espulsa dalla nazionale per non aver indossato l’hijab ai Mondiali Rapid e Blitz a Mosca. Lo stesso campionato in cui il fuoriclasse Alireza Firouzja ha dovuto giocare sotto un’altra bandiera dopo che Teheran aveva ritirato la sua squadra a causa della presenza di israeliani. Pochi giorni fa Kimia Alizadeh, campionessa ventunenne di taekwondo e medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Rio del 2016, aveva annunciato su Instagram di essersi trasferita all’estero perché si era sentita usata per fini politici dalle autorità: «Sono una delle milioni di donne oppresse in Iran. Ho indossato tutto quello che volevano e ripetuto qualunque cosa mi venisse chiesta ma per loro siamo solo strumenti». Alizadeh ora è in Olanda dove si sta allenando per Tokyo 2020.

Crisi in Iran, l’esperta: “Il governo teme le giovani donne e le loro lotte”. Antonella Napoli il 19 Gennaio 2020 su Il Riformista. Una giovane con il viso coperto che viene trascinata via dalla calca lungo la strada principale che da Azadi Square si estende verso il centro, lasciando una lunga scia di sangue. Decine di dimostranti che fuggono in preda al panico mentre si sentono in sottofondo esplosioni e spari. Le immagini arrivate da Teheran nell’ultima settimana non lasciano adito a dubbi: uso di gas lacrimogeni e di armi da fuoco testimoniano la repressione violenta della manifestazione contro il regime. Eppure la polizia nega di aver sparato sulla folla. Tra i volti delle nuove proteste tante donne e la violenza con cui vengono colpite testimonia l’importanza del loro ruolo. Molte di loro difendono apertamente i diritti umani e per questo sono accusate di guidare proteste alimentate da governi stranieri, in particolare dagli Stati Uniti. E oggi sono ancora più in pericolo che in passato. «Il governo ha paura delle giovani donne e delle loro lotte. Ha paura della loro dignità, della loro forza. Le persone chiedono oggi le stesse cose che le donne hanno chiesto per anni e i politici sanno che le donne hanno imparato a reagire ai tentativi di sopprimere le loro richieste» sostiene Negar Mortazavi, giornalista iraniana con nazionalità americana e opinionista per Cnn e Indipendent che vive e lavora a Washington. L’indignazione dopo le ammissioni del regime della propria responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino ha ridato vigore alle proteste per il rincaro dei prezzi del carburante che aveva suscitato profondo malcontento e dissenso in Iran dei mesi scorsi. Le università della capitale sono presidiate dai Pasdaran che pattugliano le strade. Ma l’onda del dissenso arriva anche da altre città iraniane, da Sanandaj a Mashhad, da Rasht,  Amol e Kashan. Mentre la tensione interna cresce, in Qatar, dove sono in corso consultazioni e tentativi di cooperazione per la sicurezza dell’intera regione, si respira aria di de-escalation. L’emiro del paese mediorientale che si è proposto come mediatore, Tamim bin Hamad Al-Thani, dopo un lungo colloquio con il presidente iraniano Hassan Rohani ha ribadito la volontà dell’Iran a stemperare le tensioni con gli Stati Uniti. Per la Mortazavi la crisi tra Iran e Usa è in una fase di calma temporanea. «Ma la tensione tra le parti è altissima. La guerra per procura continuerà a meno che Trump e Teheran non cambino la loro politica e non ridimensionino le rispettive rivendicazioni». Sul fronte interno, l’analista politica di origini iraniane ha sin dal primo momento sostenuto che l’uccisione di Soleimani non avesse suscitato emozione e sdegno in tutti gli iraniani. «Per molti Soleimani era il “comandante” che aveva combattuto e sconfitto l’ISIS, che è l’incubo di ogni iraniano – prosegue Mortazavi – Si è conquistato così lo status di eroe. Ma ciò che ha spinto le persone a radunarsi attorno alla propria bandiera è stata la rabbia per le minacce di una potenziale guerra da parte degli Stati Uniti. Ecco perché tutte le fazioni politiche e milioni di persone sono insorte contro l’azione americana». Sentimento diffuso anche tra i tanti membri della comunità iraniana negli Usa, che vive all’ombra delle animosità tra le parti da 40 anni e sotto l’amministrazione Trump ha visto peggiorare lo stato dei propri diritti: dure sanzioni, divieto di viaggio e ora paura per la guerra e la sicurezza dei familiari in Iran. «Le tensioni continueranno – sostiene la giornalista e analista politica iraniana – Entrambe le parti stanno evitando la guerra ma la regione è instabile e le cose possono sfuggire di mano. La situazione è davvero molto pericolosa. Speriamo che altri paesi, oltre al Qatar, si facciano avanti per mediare tra Trump e Iran». Auspicio che dovrebbe essere favorito dal passo indietro statunitense rispetto al clima di belligeranza delle scorse settimane. Stando a quanto riferito dal segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Mark Esper, il presidente Trump sarebbe pronto a sedersi e a discutere «senza precondizioni» una nuova via da seguire con l’Iran. Nonostante i tweet minacciosi con i quali l’inquilino della Casa Bianca ha avvertito Teheran di non reprimere le proteste popolari.

Iran, è resa dei conti tra moderati e conservatori. Giuseppe Acconcia il 14/01/2020 su Notizie.it. Con l'uccisione di Soilemani e gli scontri di piazza in Iran, viene meno il mito dell’infallibilità dei conservatori in Medio Oriente. “Si tratta di una vittoria per chi vuole fare affari con gli Stati Uniti“: con queste parole un attivista dell’Iran ha commentato l’uccisione di Qassem Soleimani all’alba del 3 gennaio 2020. Un’affermazione che sembrava smentita dalla prova di forza della mobilitazione di massa per i funerali di Soleimani, avvenuti il 6 gennaio. Eppure le lacrime dei conservatori, a cominciare da quelle della guida suprema, Ali Khamenei, ai funerali del comandante delle milizie al-Quds, e le nuove proteste anti-sistema iniziate il 11 gennaio gli hanno dato ragione.

Iran, scontro tra moderati e conservatori. Il presidente Hassan Rouhani, e il ministro degli Esteri, Javad Zarif, rappresentano la corrente moderata in Iran, con l’appoggio esterno riformista, che più ha cercato il dialogo con gli Stati Uniti, ottenendo nel 2015 la firma dell’accordo sul nucleare con Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Cina (P5+1). Rouhani alla vigilia della sua elezione nel 2013 si disse addirittura pronto a rinunciare al presidente Bashar al-Assad in Siria, subito smentito da Khamenei. Che i moderati, o tecnocrati (come erano definiti al tempo della presidenza Rafsanjani), possano beneficiare di una rinegoziazione dell’accordo sul nucleare da mercati regionali, dalla Siria all’Iran, aperti al business con gli Stati Uniti, non ci sono dubbi. E così quando Trump ha reagito ai raid iraniani contro le basi Usa di Ain al-Asad, concordati con le autorità irachene e che non hanno causato morti statunitensi, ha anche aggiunto che le vie del commercio sono aperte e di volere la “prosperità” del popolo iraniano. In altre parole, Trump vuole ricominciare a fare “business” con l’Iran. Questa debacle dei conservatori potrebbe aprire perciò una strada nuova ai moderati di Zarif e Rouhani per rinegoziare l’accordo sul nucleare, reso carta straccia dall’uscita unilaterale voluta da Trump nel 2018, dalla ripresa dell’arricchimento dell’uranio, dalle debolezze europee e dalle nuove sanzioni annunciate dagli Usa. Questa componente politica potrebbe aprire la strada a una nuova pagina nei rapporti bilaterali con Washington. I moderati iraniani potrebbero anche sfruttare questa fase per avvantaggiarsi in vista del voto per le presidenziali del 2021 che sembravano sicuro appannaggio delle componenti conservatrici di Raisi e Qalibaf, approfittando delle nuove mobilitazioni e della dura sconfitta che l’uccisione di Soleimani chiaramente ha avuto per i conservatori iraniani, come conferma l’impossibilità per i pasdaran di volere una risposta militare dura contro gli Stati Uniti per evitare un conflitto che distruggerebbe la Repubblica islamica per come la conosciamo.

Le conseguenze dell’assassinio di Soleimani. L’assassinio del carismatico generale Soleimani e la reazione iraniana, incluso l’abbattimento “non intenzionale” del Boeing 737 ucraino, hanno avuto come primo effetto di riaprire la spaccatura tra riformisti e conservatori. La sua morte ha suscitato da una parte il risveglio dei sostenitori della rivoluzione iraniana della prima ora, che sono scesi a milioni in strada (con decine di morti nella calca) per partecipare ai suoi funerali e ricordarlo, in un moto di unità nazionale che mancava in Iran dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988); dall’altra, non sono mancati i giovani iraniani, della diaspora nel mondo e anche nel Paese, che hanno gioito su Instagram e altri social network per questa uccisione, augurandosi un attacco statunitense che finalmente mettesse fine al regime degli ayatollah e alle restrizioni che opprimono tanti giovani iraniani.

Una nuova fase di proteste. L’uccisione di Soleimani ha avuto come effetto secondario anche di archiviare la stagione delle proteste anti-governative per il caro vita, la disoccupazione e il ritardo nel pagamento dei salari del 2018 e del 2019 per aprire forse una nuova stagione di contestazioni. Le contestazioni dei giovani iraniani, che si sono riuniti alle porte dell’Università di Teheran e a Isfahan dopo l’ammissione di responsabilità nell’abbattimento del Boeing ucraino da parte dei pasdaran iraniani lo scorso sabato, hanno natura anti-sistemica (tra gli slogan si sente “Via il bugiardo”, “Morte a Khamenei”) in continuità con le ondate di proteste, che nel 1999, nel 2003, nel 2009 e nel 2011 chiedevano una radicale riforma del khomeinismo, delle istituzioni e delle consuetudini su cui si fonda la Repubblica islamica. L’uccisione di Soleimani e le successive rappresaglie hanno risvegliato nuove richieste di accountability per la classe politica iraniana da parte delle componenti riformiste del sistema politico iraniano, da tempo sopite, riproponendo la storica divisione tra sostegno incondizionato alle istituzioni post-rivoluzionarie e la necessità di modernità e riforma che parte dai giovani iraniani.

Crolla il mito dei conservatori. E così, con il 2020, si archivia il mito dell’infallibilità dei conservatori iraniani in Medio Oriente. Il suo mito di invulnerabilità, di capacità militare, di difensore anti-imperialista in Iraq, Siria e Afghanistan risulta offuscato. I pasdaran fanno errori di calcolo, come tutti gli altri attori regionali, e l’abbattimento del Boeing ucraino lo dimostra. Anche le Guardie rivoluzionarie iraniane sono malviste, come gli Stati Uniti, da parte delle popolazioni di questi Paesi, e le proteste in Iraq lo dimostrano. L’Iran non può fare passi falsi sul piano militare, pena l’annientamento, e la reazione ai raid Usa lo dimostra. Tutto questo non vuol dire che da domani le Guardie della Rivoluzione spariranno dalla regione. Anzi, l’Iran continuerà a essere un attore regionale essenziale e questo lo dimostra la nomina del successore di Qassem Soleimani, l’altrettanto conservatore, Ismail Qani. Tuttavia, con il 2020, si archivia anche la stagione di mobilitazioni anti-governative del 2018 e del 2019 che aveva preso di mira i moderati, aprendo la strada a forme più radicali di dissenso contro i conservatori, che includono classe media e studenti, sulla forma collaudata delle mobilitazioni riformiste dei tempi dell’ex presidente Mohammad Khatami (1997-2005). Queste mobilitazioni potrebbero ridefinire gli equilibri parlamentari in Iran e aprire una stagione di vero cambiamento (per esempio rispondendo favorevolmente alla richiesta di stop all’obbligatorietà del velo che viene dalle strade iraniane), bloccato sin dagli anni Novanta, dal Consiglio dei Guardiani, appannaggio degli ayatollah più oltranzisti. I riformisti sapranno sfruttare oggi questa nuova opportunità?

L’orrore di abbattere gli aerei “per errore”, intramontabile scelta di guerra stragista. Giorgio Cavagnaro il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio.

Ultimo caso. I 176 morti per colpa dell’Iran. Prima, una lista lunga che passa per I separatisti ucraini, l’ 11 settembre, il dc9 Itavia, il missile Usa contro Iran air. Centosettantasei persone. Uomini, donne, bambini cancellati a Teheran ( forse) da un missile di cui il governo iraniano si assume la paternità, dopo un primo momento di imbarazzo. Ancora una volta passeggeri inermi e innocenti sono le vittime di una guerra, mai ufficialmente guerreggiata ma cruenta, che sembra aver trovato nel cielo il suo campo di battaglia preferito. Una guerra che dura, a pensarci bene, dai tempi in cui Enrico Mattei, eretico inventore del petrolio italiano trovò la morte nel cielo di Bascapè, Lombardia, 1962, portando con sé le speranze di un’Italia con ambizioni autonome mai più così vive e concrete come allora. Un brutale cambiamento di prospettiva nazionale, costato la vita al brillante manager italiano, al giornalista inglese che lo accompagnava e al pilota del piccolo aereo precipitato “in circostanze misteriose”. Da allora, altri crocevia storici sono stati caratterizzati da dirottamenti o disastri aerei tutt’altro che casuali. E’ ancora fresca la memoria del volo Malaysia Airlines MH17, rotta Amsterdam- Kuala Lumpur, colpito nel 2014 con ogni probabilità da separatisti filorussi ucraini mentre divampava il conflitto tra Ucraina e Russia: più di 300 vittime, in prevalenza olandesi e malesi e nessuno può dimenticare, naturalmente, il fatto più eclatante, il dramma dell’undici settembre 2001, quando alle vittime dei quattro voli dirottati e precipitati negli Stati Uniti si sono aggiunti i 3000 morti delle torri gemelle. Anche in quel caso, gli eventi seguiti alla tragedia subirono quantomeno notevoli accelerazioni, con l’invasione americana dell’Afghanistan e la guerra senza quartiere al terrorismo, identificato nella figura di Osama Bin Laden, volute dalla triade George W. Bush- Cheney- Rumsfeld, cui seguirono la seconda guerra del Golfo e l’eliminazione di Saddam Hussein. Appena un mese dopo, il 4 ottobre 2001, durante un’esercitazione, l’esercito ucraino sparò un missile che sorvolò la zona dei bersagli ma colpì un aereo di linea della Siberia Airlines che transitava sul Mar Nero. 76 civili morti, russi e ucraini si rimpallarono le colpe, per poi accusare concordi i ribelli ceceni. Ma già in precedenza, negli anni ottanta, c’erano stati altri due incidenti: Larry Mc Donald, un membro del congresso USA era tra le 269 vittime dell’aereo Korean Air Lines volo 007, abbattuto dai russi nel 1983, momento critico di una guerra fredda che fu sul punto di diventare conflitto nucleare. Nel 1988 invece 290 persone morirono su un aereo Iran Air, volo 655, colpito sullo stretto di Hormuz da un missile americano. Le modalità e le circostanze di questi episodi sono, come si vede, sempre incerte e di ardua decifrazione a tutti i livelli, a partire dalle loro ricostruzioni fisiche per arrivare a certezze praticamente impossibili su volontarietà, errori umani ed eventuali moventi politici, uno su tutti il caso per noi più doloroso del jet Itavia precipitato nel mare di Ustica nel 1980. Fatto sta che il numero di vittime, civili assolutamente innocenti, è in preoccupante aumento. I’impressione è che l’abbattimento di aerei di linea, scelti a caso o con motivazioni ben studiate a tavolino, rientri ormai in strategie di guerra parallela, o psicologica, un’evoluzione di tattiche terroristiche stragiste che in Italia abbiamo ben conosciuto e che inquadra gli scenari delle rotte aeree come ideali per facilità di bersaglio e relativa cassa di risonanza. C’è poi da dire che la gestione delle informazioni da parte dei governi su simili atti di guerra rientra spesso e volentieri nel peacekeeping, settore tra i più delicati da maneggiare da parte delle intelligence di tutto il mondo, consentendo l’applicazione di un certo calmiere mediatico con l’obiettivo di attenuare contraccolpi difficili da arginare. In sostanza, uccidere civili mediante attentati in quota garantisce all’esecutore due risultati importanti: l’invio di un messaggio forte e chiaro al destinatario selezionato e, contemporaneamente, la possibilità di intorbidare le acque nei confronti dell’opinione pubblica su modalità, autori e moventi reali dell’azione. Come dire gettare il sasso e nascondere la mano. Niente di nuovo sotto il sole, in fondo.

Iran. L'Ucraine Airlines abbattuto. Errore o guerra elettronica? Piccole Note de Il Giornale il 20 gennaio 2020. Nuovi dubbi sull’abbattimento dell’Ucraine Airlines da parte della contraerea iraniana, avvenuto il giorno in cui Teheran lanciava dei missili contro due basi americane, in risposta all’assassinio del generale Qassem Soleimani. Sarebbe un errore della contraerea iraniana, che ha scambiato il velivolo decollato da Teheran per un missile nemico. E però è davvero incredibile scambiare un aereo di linea decollato da Teheran per un missile diretto in direzione opposta. Su Piccolenote avevamo accennato come alcuni comandanti della Difesa iraniana avessero denunciato disturbi alle comunicazioni che facevano ipotizzare un attacco informatico da parte di entità ostili. A rafforzare l’ipotesi l’ex analista della Cia, con funzioni antiterrorismo, Philip Giraldi in un articolo dell’American Herald Tribune.

Il transponder dell’Ucraine Airlines. Giraldi fa notare che “il transponder dell’aereo [sistema che comunica “l’identità” del velivolo ndr] si era spento e ha smesso di trasmettere diversi minuti prima che i missili fossero lanciati. E sono stati registrati problemi nella rete di comunicazione del Comando della Difesa aerea” iraniana. Il disturbo delle comunicazioni ha fatto sì che i sistemi di Difesa attestati presso l’aeroporto di Baghdad, i Tor di fabbricazione russa, venissero gestiti “manualmente”. Tali difese, spiega Giraldi sono dotati “sia di un radar in grado di rilevare e tracciare gli obiettivi, sia di un sistema di lancio indipendente, che include un sistema Identification Friend o Foe (IFF) in grado di leggere sia i segnali in arrivo che i segnali dei transponder, così da prevenire incidenti”. “L’arresto del transponder, che avrebbe automaticamente segnalato all’operatore e all’elettronica Tor che l’aereo era civile – continua Giraldi -, ha indicato così automaticamente che si trattava di un velivolo ostile. L’operatore, informato sulla possibilità di missili da crociera americani in arrivo, ha quindi sparato”. “Dato quanto accaduto quella mattina a Teheran, è plausibile supporre che qualcosa o qualcuno abbia interferito deliberatamente sia con le difese aeree iraniane sia con il transponder sull’aereo”, spiega Giraldi.

Ipotesi guerra elettronica. Il sistema Tor iraniano, prosegue Giraldi, è vulnerabile: “Può essere hackerato o ‘manipolato’, consentendo a un intruso di identificarsi con un utente legittimo e assumerne il controllo”. “Secondo quanto riferito, la Marina e l’Aeronautica degli Stati Uniti hanno sviluppato tecnologie ‘che possono ingannare i sistemi radar nemici con falsi obiettivi […] Il Guardian ha anche riferito attraverso un’inchiesta indipendente come i militari degli Stati Uniti hanno da tempo sviluppato sistemi che possono alterare a distanza l’elettronica e il puntamento dei missili disponibili in Iran”. “La stessa tecnologia può, naturalmente, essere utilizzata per alterare o persino mascherare il transponder di un aereo di linea civile in modo tale da inviare informazioni false sull’identità e sulla sua posizione”.

“Gli Stati Uniti hanno capacità di guerra informatica ed elettronica in grado di bloccare e alterare sia i segnali dei transponder di un aereo di linea che quelli delle difese aeree iraniane, così come Israele”.

Il video sospetto. Non solo l’abbattimento. Interpella anche il subitaneo filmato dell’impatto dei missili sul velivolo, che ha fatto il giro del mondo. Il video è stato pubblicato su Istagram dall’utente “Rich Kids of Tehran” (i bambini ricchi di Teheran…). Giraldi pone una domanda interessante: come è possibile che “Rich Kids of Teheran” si trovasse alla periferia di Teheran, in un quartiere povero nei pressi dell’aeroporto, “alle 6 del mattino dell’8 gennaio con fotocamere” puntate proprio su quello spicchio di cielo e proprio nel momento in cui il missile ha colpito l’aereo ucraino? Per la cronaca la domanda se la sono posta anche le autorità iraniane, tanto da fermare l’autore del video…Conclude Giraldi: “Metti insieme i Rich Kids e la possibilità di una guerra elettronica e tutto ciò suggerisce un evento premeditato e attentamente pianificato di cui l’assassinio di Soleimani era solo una parte”. Ribaltamento delle percezioni. Quale lo scopo dell’abbattimento dell’aereo? Si chiede Giraldi. Il mondo, dopo l’assassinio di Soleimani, aveva protestato contro l’avventurismo americano e il popolo iraniano, addolorato, si era stretto attorno ai suoi governanti. Dopo l’abbattimento, l’improvvido omicidio è passato in secondo piano. Il mondo protesta contro l’improntitudine iraniana che ha causato vittime innocenti. E contro l’iniziale, asserito, tentativo di insabbiamento, dato che nelle prima ore l’Iran aveva parlato di un guasto tecnico (avvalorato da un twitt di Trump, basato su informazioni di intelligence Usa…). L’accusa di improntitudine e di insabbiamento ha riacceso la fiamma delle proteste contro le autorità iraniane che già avevano avuto luogo nel mese scorso (funzionali, allora come oggi, al regime-change) e che erano state sedate proprio dall’assassinato Soleimani…Purtroppo sarà impossibile sapere se qualcuno ha davvero immolato 176 persone, tante le vittime, al sogno di un regime-change in Iran. Teheran ha accennato a tale possibilità, ma a bassa voce, come avesse paura solo di ipotizzare tale mostruosità. Il punto è che un’eventuale denuncia, anche se solo ipotizzata, svuoterebbe i cieli di Teheran di voli commerciali, dato che le tensioni con gli Usa permangono. E l’Iran dovrebbe peraltro dire al popolo iraniano che le sue difese, di cui ha fatto vanto finora per rassicurarlo a fronte delle minacce Usa, sono altamente vulnerabili. Il silenzio, ovviamente, sta bene ai suoi antagonisti, che negherebbero una simile, criminale, ipotesi, accusando peraltro gli iraniani di voler stornare l’attenzione dalle loro responsabilità.

Il carnefice è Teheran, non solo Soleimani. Elisabetta Zamparutti il 12 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il 1° gennaio scorso l’Iran ha impiccato 8 uomini nel carcere di Rajai-Shahr della città di Karaj. Si è lasciato alle spalle almeno 285 esecuzioni nell’anno appena passato, il che, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino, porta ad oltre 3.882 i giustiziati sotto la presidenza Rouhani, in carica dal 1° luglio 2013. Il 1° gennaio era anche il 48° giorno in cui cittadini iraniani in massa scendevano in piazza contro il regime, nonostante la repressione di quelle manifestazioni avesse provocato almeno 1.500 morti tra uomini, donne e bambini, freddati per lo più da proiettili sparati a bruciapelo dai Pasdaran, e almeno 12.000 arresti. Di loro oggi non si sa più nulla e nessuno se ne interessa, nonostante penda la minaccia di finire con un cappio intorno al collo. Poi è accaduto che il 2 gennaio un iraniano, tra i più feroci tra i generali in circolazione, Qassem Soleimani, capo delle forze Quds, corpo speciale dei Pasdaran, fosse ucciso da un drone americano e diventando perciò, da carnefice, un martire e un eroe. Questo ha acceso i riflettori sull’Iran, ma di una luce che non dirada le tenebre perché non fa conoscere la vera natura del regime di Teheran e i crimini di cui costantemente si rende responsabile. Soleimani era disprezzato dalla stragrande maggioranza degli iraniani. Durante le rivolte, nel 2018 e nel 2019, i dimostranti hanno strappato i suoi manifesti in diverse città. E in Iraq, dove i manifestanti ne chiedevano da tempo l’espulsione, hanno accolto la sua morte con favore, come un segno della fine del controllo del regime dei mullah sul loro Paese. Soleimani è stato descritto come uno stratega a capo di milizie implicate in vari scenari funzionali a un disegno espansionista iraniano, ma non è stata comunicata con altrettanta enfasi la natura sanguinaria delle sue milizie. Alcuni magari le ricordano per l’assedio di Aleppo in Siria. Io le ricordo per il massacro di 141 oppositori al regime iraniano, membri dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano, che godevano dello status di rifugiati in Iraq, dove, inermi, sono stati attaccati a più riprese tra il 2009 ed il 2016. Ricordo in particolare l’attacco del 1° settembre 2013 a Campo Ashraf, quando in 52 furono freddati dai miliziani di Soleimani. Il tentativo di una soluzione finale degna di un regime nazista. E non uso questo termine a sproposito, perché l’Iran proclama la cancellazione di Israele dalla carta geografica. Lo stesso successore di Soleimani, quell’Esmail Ghaani che per vent’anni è stato suo vice e il cui curriculum nulla ha da invidiare al suo defunto capo, sembra oggi assai più incline a un approccio violento contro Israele. D’altro canto parliamo di uno Stato in cui componenti della “commissione della morte”, che nel 1988 si rese responsabile del massacro di 30.000 prigionieri politici, ricoprono tutt’ora posti apicali, a partire dall’attuale Ministro della Giustizia Ebrahim Raisi. Di fronte a questo, non sono risposte adeguate gli appelli alla moderazione rivolti alle parti in causa da chi non distingue le responsabilità, non fa differenza tra aggressori e aggrediti e non pone il rispetto dei diritti umani quale unico indice, serio ed universalmente riconosciuto, per valutare se un Paese rappresenta una minaccia alla pace e alla sicurezza. L’Italia questa moderazione l’ha invocata in nome di una normalizzazione e di una stabilità necessarie a evitare che dalla tensione traggano vantaggio l’estremismo violento e il terrorismo. Come se il detonatore dell’estremismo violento e del terrorismo non fosse l’Iran stesso! Né la soluzione può essere quella dei droni, non solo perché il loro uso avviene al di fuori di ogni norma e disciplina previste dal diritto internazionale, ma anche perché questo metodo mascherato, sbrigativo e segreto di esecuzione capitale avviene nei confronti di acerrimi nemici dell’America, come Soleimani, e anche di cittadini americani all’estero sospettati di attività anti-americane: cittadini stranieri e americani uccisi sommariamente con i droni, che in America avrebbero avuto un processo con tutte le garanzie possibili, anche quelle previste dal sistema arcaico della pena capitale. Vale dunque anche per Qassem Soleimani il nostro «Nessuno tocchi Caino», motto che Pannella applicò anche per Saddam Hussein, non per difendere il carnefice, ma per denunciare l’aberrazione di uno Stato che nel nome di Abele diventa esso stesso Caino! 

Soleimani svela le tre anime Usa in politica estera. Federico Giuliani su Inside Over il 14 gennaio 2020. L’uccisione di Qasem Soleimani ordinata da Donald Trump in persona ha scoperchiato per l’ennesima volta il vaso di Pandora della politica estera americana. Che gli Stati Uniti fossero attraversati da più correnti, non tutte sovrapponibili a quella del presidente, era un fatto conclamato; le ultime tensioni con Teheran hanno tuttavia fatto luce su tre linee di azione ben definite, l’una in contrasto con l’altra. Prendiamo il dossier Iran: Trump, la sua amministrazione e il Pentagono sono sembrati (sembrano tutt’ora essere) in disaccordo su come comportarsi. La linea ufficiale di The Donald è l’America First: prevede l’isolazionismo più totale e quindi, in ambito militare, il ritiro delle truppe statunitensi da ogni scenario di guerra lontano dai confini nazionali. Numerosi ingranaggi dell’amministrazione presidenziale la pensano in tutt’altro modo. Sono i cosiddetti neoconservatori che, come spiega dettagliatamente New Republic, mirano al regime change. In poche parole: alla rimozione da ogni cartina geografica dei nemici della democrazia. Il modus operandi prediletto è l’intervento militare. In mezzo ai due estremi troviamo il punto di vista del Pentagono, nei termini sempre piuttosto neoconservatore ma in aperto contrasto con la persona di Trump. Il raid che ha ucciso Soleimani è un mix tra le prime due strade. Il tycoon ha accontentato, in parte, i neocon togliendo di mezzo uno degli uomini più importanti di Teheran senza però scatenare alcuna guerra. Washington ha infatti risposto alla contromossa degli iraniani (missili sulle basi Usa in Iraq) imponendo nuove sanzioni economiche sulla testa degli Ayatollah.

Il Pentagono contro Trump. La diversa veduta in politica estera di Trump e del Pentagono è riemersa nei giorni immediatamente successivi alla morte del generale iraniano. Il presidente ha giustificato il raid di Baghdad parlando di “rischio imminente” per la sicurezza statunitense: Teheran stava organizzando un attentato a quattro ambasciate americane, quindi era necessario colpire il nemico quanto prima. La versione del tycoon è stata clamorosamente smentita da Mike Esper. Il segretario alla Difiesa Usa, intervistato da Cbs, è stato chiaro: “Io non ho visto alcuna prova”. Altri ufficiali del Pentagono hanno detto di essere stati ignari della possibilità di un presunto e imminente attacco iraniano. Trump si è difeso a modo suo puntando il dito contro i media progressisti: “Loro e i loro partner democratici stanno lavorando duro per capire se i futuri attacchi del terrorista Soleimani sarebbero stati imminenti o meno. La mia risposta a entrambi è un forte sì, ma non importa davvero niente a causa del suo orribile passato”.

Isolazionisti e neoconservatori. Al di là della diatriba Trump-Pentagono-”media progressisti”, vale la pena considerare le reazioni dei due schieramenti citati, isolazionisti e neocon, all’uccisione di Soleimani. John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale Usa, si è così espresso al New York Post: “Questa uccisione è un duro colpo contro le attività di al-Quds in giro per il mondo. Spero che rappresenti il primo passo verso il regime change a Teheran”. Il suo è un classico ragionamento neocon. Sulla sponda opposta degli isolazionisti troviamo ad esempio Tucker Carlson, giornalista di Fox News: “Nessuno a Washington è in vena di domande ovvie: è l’Iran la più grande minaccia con cui abbiamo a che fare? E chi trae beneficio da questo potenziale conflitto? E perché continuiamo a ignorare il declino del nostro paese ma piuttosto ci precipitiamo verso un ennesimo pantano dal quale non c’è nessuna via d’uscita certa?”. lapGestire la politica estera destreggiandosi tra tre fuochi incrociati è un’impresa assai ardua e complicata.

 “Si vis pacem” spara per primo e offri la trattativa. Giorgio Cavagnaro il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Trump rivisita il motto latino alla luce dell’America prepotente e «di nuovo grande» l’Europa si trincera nella sua prudenza. La spietata operazione con cui Donald Trump, assumendosene la personale responsabilità, ha fatto fuori l’uomo- simbolo della sanguinaria determinazione militare iraniana, il generale Soleimani, è stato un pugno in faccia per tutti quelli che si apprestavano a salutare l’alba del nuovo decennio con un briciolo di fiducia nel futuro. Le implicazioni, partendo da quell’ordigno esplosivo sempre innescato che è il Medio Oriente, sono talmente pesanti e complesse che nessuno può esimersi dal formulare, o almeno abbozzare, un giudizio su quanto avvenuto e sulle sue conseguenze. Si tratta di un avvenimento della massima rilevanza, su questo gli analisti e gli esperti di geopolitica sono tutti concordi, divergendo però subito in modo radicale perfino sulla sua definizione etico- politica: per alcuni atto di guerra improvvido e illegittimo, in quanto inquadrato in una guerra non dichiarata. Per altri, provvidenziale intervento di chirurgia preventiva. Questi ultimi tendono insomma ad inquadrare l’assassinio a freddo del generale Soleimani in una strategia, nota fin dai tempi degli antichi romani e sintetizzata nel celebre aforisma latino “Si vis pacem, para bellum”. Cioè Trump, dietro il cipiglio guerrafondaio attribuitogli dall’opinione pubblica di tendenze democratiche, nasconderebbe una linea di condotta, certamente ambivalente e rischiosa, mirata a un duplice obiettivo: riaffermare l’immagine prepotente dell’America great again su cui ha basato il suo quadriennio vincente, in chiave elettorale; e, privando l’Iran di un pilastro tattico ed emozionale come Soleimani, allontanare di fatto l’eventualità bellica almeno fino a una completa e non facile riorganizzazione delle strategie militari iraniane. Il tutto nella consapevolezza che a pagare il prezzo dell’ira dell’ayatollah Khamenei saranno forse sì i contingenti americani ( valutabili in 60/ 70mila unità), ma soprattutto Israele e gli stati direttamente coinvolti nella conflittualità permanente in Medio Oriente per interessi economici, orientamenti religiosi e collocazione geografica. Come sempre c’è da registrare l’atteggiamento a dir poco prudente dell’Europa, anche di fronte a eventi clamorosi come quello del 3 gennaio a Baghdad. La ragione è da ricercarsi soprattutto nelle divisioni di ordine politico che caratterizzano le opinioni pubbliche di un continente poco propenso a guardare con simpatia all’amministrazione Trump o anche alla tirannia putiniana in Russia, ma al contempo scosso, nell’ultimo decennio, da pulsioni sovraniste e populiste tendenti a smontare l’idea stessa di unità europea per inseguire poco fondate suggestioni nazionaliste. Sono lontani i tempi in cui la cortina di ferro divideva rigidamente le zone d’influenza delle maggiori potenze nel mondo, consegnando a tutti una chiave di lettura ideologica degli eventi internazionali chiara, infallibile ed estremamente comoda, nelle sue distinzioni manichee tra la destra e la sinistra del pianeta. Ora, per capirci qualcosa, tocca faticare molto di più. L’impressione, sempre più diffusa, è che con un funerale a cui partecipano milioni di persone e in cui i morti da accompagnare al cimitero aumentano di trenta unità solo per aver voluto essere presenti, ci sia poco da scherzare. E che il detto latino, nel corso dei secoli e nell’indifferenza generale, possa essere diventato “Si vis bellum, para bellum”.

Da ansa.it il 17 gennaio 2020. "Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci, un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l'Iran ha attaccato le basi Usa sono stati Giorni di Allah. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria". Lo ha detto la Guida suprema iraniana Ali Khamenei nel suo primo sermone dopo 8 anni alla preghiera islamica a Teheran. Intanto undici soldati americani sono stati ricoverati in ospedale dopo avere accusato sintomi di commozione cerebrale ad alcuni giorni dall'attacco missilistico iraniano alla base irachena di Al-Asad. Lo ha confermato alla Cnn il capitano Bill Urban, portavoce del comando centrale degli Stati Uniti, che sovrintende alle truppe in Medio Oriente. Il Pentagono, all'indomani dell'attacco, aveva affermato che vi erano stati danni alle strutture ma non alle persone. "I sintomi sono emersi alcuni giorni dopo il fatto e sono stati trattati con abbondante cautela", ha precisato Urban interpellato dalla Cnn sulla discrepanza dalle prime informazioni fornite dal Pentagono. Era stata inizialmente la coalizione anti-Isis a dichiarare in una nota che "mentre nessun membro del servizio americano è stato ucciso nell'attacco iraniano dell'8 gennaio alla base aerea di Al Asad, molti sono stati curati per sintomi di commozione cerebrale dall'esplosione e sono ancora in fase di valutazione". Il portavoce del Pentagono ha poi precisato che otto persone sono state trasportate al Landstuhl Regional Medical Center in Germania e tre sono state inviate a Camp Arifjan in Kuwait per "accertamenti". "La procedura standard prevede che tutto il personale presente sul luogo di una esplosione venga sottoposto a screening per lesioni cerebrali traumatiche e, se è il caso, viene sottoposto ad un livello di assistenza più elevato", ha detto. "Tutti i soldati nelle immediate vicinanze dell'esplosione sono stati visitati e valutati secondo la procedura standard, secondo il Dipartimento della Difesa. Se saranno ritenuti idonei al servizio dopo lo screening, torneranno in Iraq".

L’attacco iraniano alle basi Usa ha provocato feriti. Andrea Massardo su Inside Over il 17 gennaio 2020. Nonostante il governo degli Stati Uniti d’America avesse affermato che a seguito dell’attacco iraniano alla base di Al-Asad in Iraq avesse sostenuto il contrario, alcuni soldati americani hanno riportato ferite a seguito delle esplosioni causate dai missili dell’Iran. A riportarlo è la Cnn, i seguito alle dichiarazioni dei portavoce della coalizione militare di istanza per la lotta contro l’Isis. I sintomi riportati consistono principalmente in commozioni cerebrali ed i feriti sono stati trasferiti per le idonee analisi del caso in Germania ed in Kuwait; non appena però le loro attuali condizioni saranno valutate idonee, riprenderanno la missione in Iraq. Stando a quanto riportato dalla testata DefenseOne, i militari che hanno riportato lesioni a seguito dell’attacco balistico iraniano sarebbero state 11, tutte trasportate in Germania repentinamente per aver accesso alle cure adeguate. Al momento non è noto quali siano le tempistiche per le dimissioni dalle strutture, che tuttavia dovrebbero avvenire già nei prossimi giorni. Sino ad oggi e dalla controffensiva iraniana dell’8 gennaio causata dall’uccisione del generale Qasem Soleimani, il governo degli Stati Uniti guidato da Donald Trump aveva escluso la possibilità che qualche membro dell’esercito avesse riportato ferita alcuna. La segretezza è stata mantenuta soprattutto per disincentivare le offensive di Teheran, nell’attesa che la situazione si stabilizzasse, e per non alimentare la richiesta di risposte armate da parte dell’opinione pubblica americana. Tuttavia, nell’area ha reso inutile un pro-iterarsi del segreto di Stato, con le rivelazioni effettuate dagli stessi portavoce dei gruppi militari statunitensi. Nessuno dei soldati rimasti feriti dall’attacco è attualmente in pericolo di vita e la loro degenza nelle strutture mediche è limitata alla riabilitazione ed ai controlli del caso. L’assistenza sanitaria che hanno ricevuto sarebbe comunque in linea con il modus operandi americano, con il trattamento che viene riservato a tutti i militari vicini alle aree di esplosioni. Nessuna pratica straordinaria sarebbe dunque stata messa in atto a seguito dell’attacco balistico iraniano. A seguito dell’attacco, le truppe americane operative in Iraq sono state sottoposte dai massimi funzionari dell’esercito americano a più stringenti misure di sicurezza, per evitare che un nuovo attacco di Teheran possa questa volta andare a segno. La necessità per il Pentagono, oltre a garantire la stabilità del Medio Oriente, è anche quello di esporre al minor numero possibile di rischi i propri contingenti operativi nell’area; nell’attesa anche di osservare le prossime mosse di Teheran, cui controffensiva è stata limitata anche dagli accresciuti problemi interni del Paese, con la stessa figura dell’Ayatollah Ali Khamenei che è stata messa in discussione dal popolo iraniano.

Iran, Khamenei guida la preghiera: «Abbiamo schiaffeggiato gli arroganti. Trump? È un clown». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 da Corriere.it. «Il fatto che l’Iran abbia il potere di schiaffeggiare un arrogante» come gli Stati Uniti «dimostra che Dio ci sostiene». Lo ha detto la Guida suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, guidando la preghiera del venerdì a Teheran per la prima volta dal 2012. L’ultima volta che l’ayatollah Khamenei guidò la preghiera del venerdì, solitamente delegata ad altri imam, fu nel febbraio 2012, nel 33/mo anniversario della fondazione della Repubblica islamica. Intanto la Cnn rivela che nell’attacco iraniano alla base Usa di Al-Asad, in Iraq, 11 soldati hanno riportato traumi o ferite, al contrario di quanto sostenuto all’indomani dell’attacco dal Pentagono. In riferimento all’attacco condotto dai Guardiani della Rivoluzione iraniana (i Pasdaran) contro due basi americane in Iraq e alla folla che ha partecipato alle cerimonie funebri per il generale Qassem Soleimani, Khamenei ha parlato di «giorni divini»: «Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci,un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l’Iran ha attaccato le basi Usa sono stati giorni divini. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria». Il leader supremo dell’Iran ha anche dichiarato che Donald Trump «è un clown» che finge si sostenere il popolo iraniano. «Gli Stati Uniti non sono stati in grado di affrontare direttamente» il generale iraniano Qassem Soleimani, che dal 1997 guidava le Forze al-Quds. Lo ha detto la Guida suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, guidando la preghiera del venerdì a Teheran per la prima volta dal 2012. Identificati come dei pagliacci, gli Stati Uniti hanno assassinato «in modo codardo e non sul campo di battaglia» quello che Khamenei nel suo sermone ha definito «il comandante più forte nella lotta contro il terrorismo». Ammettendo il loro «atto di terrorismo», gli Usa hanno quindi «commesso una vera disgrazia per Washington». Definendo le Forze al-Quds una «organizzazione umanitaria guidata da valori umani», Khamenei ha quindi accusato Washington di aver fondato lo Stato Islamico.

Iran, il regime teme proteste degli studenti: “Pagliacci manipolati”. Umberto De Giovannangeli il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. La Guida Suprema sfida la piazza democratica. E rivendica la sua leadership, politica più ancora che religiosa, della Repubblica islamica dell’Iran. «Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci, un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l’Iran ha attaccato le basi Usa sono stati “Giorni di Allah”. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria». Così dixit la Guida suprema iraniana Ali Khamenei nel suo primo sermone dopo 8 anni alla preghiera islamica a Teheran. Khamenei oscura il presidente Hassan Rouhani, e rilancia la sfida al Grande Satana americano. Con l’attacco missilistico contro la base militare statunitense in Iraq della settimana scorsa, l’Iran «ha colpito il prestigio e l’orgoglio dell’America», sentenzia Khamenei durante l’atteso sermone nella grande moschea. A Teheran un’immensa folla ha assistito alla preghiera guidata dal leader religioso e l’intervento è stato trasmesso in diretta dalla Tv di stato. Khamenei, parlando dello scontro tra Iran e Stati Uniti, l’ha paragonato alla «resistenza opposta da Mosé ai Faraoni» egiziani, superpotenza dell’epoca. La “tragedia amara” dall’abbattimento dell’aereo ucraino a Teheran «non deve oscurare il sacrificio di Soleimani». «Il fatto che l’Iran abbia il  potere di schiaffeggiare un arrogante» come gli Stati Uniti «dimostra che Dio ci sostiene». In riferimento all’attacco condotto dai Guardiani della Rivoluzione  iraniana (i Pasdaran) contro due basi americane in Iraq e alla folla che ha partecipato alle cerimonie funebri per il generale Qassem Soleimani, Khamenei ha parlato di ”giorni divini”. «Il presidente terrorista dell’America», Donald Trump «ha commesso il crimine» di uccidere il generale iraniano Qassem Soleimani «non nel campo di battaglia, ma in modo vigliacco». Soleimani «combatteva nelle prime linee contro i terroristi dell’Isis. Era il più importante comandante nei combattimenti contro l’Isis in Siria e in Iraq ma gli americani non hanno avuto il coraggio di affrontarlo sul campo di battaglia e lo hanno ucciso mentre era in vista a Baghdad dietro invito del governo iracheno», ha rimarcato Khamenei. La Guida Suprema affonda a piene mani nella retorica antiamericana, con le forze di sicurezza schierate per cercare di indirizzare le persone ed evitare incidenti collegati a eventuali proteste. Khamenei ha continuato affermando che «usando tecnologia, armi, politiche ingannevoli e falsa propaganda, l’Occidente ha cercato di dominare la regione e dividere le nazioni di Iran e Iraq. Alcune persone irresponsabili (riferendosi ai manifestanti anti-Iran, ndr), che si sono fatte influenzare dalla propaganda satanica dei nemici, hanno fatto dichiarazioni gli uni contro gli altri, ma il martire Soleimani ha sventato questo complotto». Ed ancora: «Quei pagliacci che sostengono di essere dietro il popolo sono bugiardi – ha aggiunto riferendosi ai manifestanti anti-regime – Sono manipolati dai nemici e non hanno dedicato le proprie vite alla sicurezza dell’Iran, diversamente da gente come Soleimani». Ma i giovani che hanno riempito le piazze iraniane chiedendo la fine del regime teocratico-militare, sfidando il carcere, la repressione e le brutali milizie Basiji, mettendo direttamente sotto accusa l’Ayatollah Khamenei, sono“pagliacci” indomiti che fanno paura alla Guida Suprema e ai suoi Pasdaran. Sono quei “pagliacci” la speranza di un nuovo Iran.. 

Aereo abbattuto in Iran, il discorso del piccolo Ryan: “Mio padre era forte, ci volevamo tanto bene”. Redazione de Il Riformista il 17 Gennaio 2020. “Mio padre era forte e se fosse qui non vorrebbe che parlassi di cose triste”. E’ il commovente messaggio di Ryan Pourjam, il ragazzino di 13 anni che nelle scorse ore ha parlato all’università Carleton a Ottawa, in Canada, dove ha ricordato papà Mansour, scomparso insieme ad altre 175 persone che viaggiavano a bordo del  Boeing 737 della Ukraine International Airlines abbattuto “per errore” a Teheran da due missili iraniani lo scorso 8 gennaio. Durante il suo discorso, Ryan ha trattenuto forte il respiro ed con la voce strozzata dall’emozione ha ricordato gli insegnamenti ricevuti dal genitore.  “Non riesco a ricordare un singolo momento della mia vita in cui mio padre, Mansour, avesse negatività nella sua voce e nei suoi comportamenti. Mi diceva di essere sempre positivo, sia nei momenti buoni che nei momenti più difficili. Sia quando rimanevamo bloccati nel traffico o quando non riuscivo a prendere il caffè che desideravo. Non voglio parlare delle cose negative perché se lo oggi fosse qui non lo farebbe”. “Se potessi descrivere mio padre con una parola, sarebbe forte. Ha vissuto tragedia dopo tragedia, muro dopo muro, strade sbagliate dopo strade sbagliate ed è sempre rimasto forte. Era fantastico. Ci volevamo tanto bene” aggiunge. Poi la conclusione: “Sono qui in piedi una settimana dopo questa terribile tragedia e ancora non ci posso credere. Mi sembra ancora di sognare. Ma so che se stessi sognando e che se mio padre mi svegliasse mi direbbe che andrà tutto bene. E così sarà. Grazie”. A bordo dell’aereo di Ukraine International Airlines viaggiavano 176 persone: 82 iraniani, 63 canadesi, 11 ucraini (fra cui nove membri dell’equipaggio), 10 svedesi, sette afghani e tre tedeschi. Nessuno di loro è sopravvissuto.

Daniel Mosseri per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. La differenza l' ha fatta l' abbattimento del Boeing 737 della Ukraine International Airlines da parte della contraerea iraniana lo scorso 8 gennaio. Durante le manifestazioni inscenate per protesta contro il regime responsabile della morte dei 167 passeggeri e nove membri dell' equipaggio, gli studenti dell' Università Beheshit di Teheran non hanno camminato sopra le bandiere statunitense e israeliana disegnate su un vialetto dell' ateneo proprio per essere calpestate. Come si è potuto vedere nei video circolati sui social media, gli iscritti all' università si sono attentamente tenuti ai lati, evitando di passare con le scarpe sopra ai simboli dei due Paesi; altri hanno addirittura fischiato e protestato contro i pochi colleghi barbuti, fieri invece di calpestare i due stendardi. Perché l'oltraggio alla bandiera degli Usa e di Israele - rispettivamente il grande Satana e il piccolo Satana secondo la definizione del padre della Repubblica islamica, Ruhollah Khomeini - è ormai uno sport nazionale in Iran. Più correttamente è uno sport largamente praticato nel mondo arabo e islamico ma in cui la Persia eccelle. Le immagini di manifestanti che saltano sopra la bandiera a stelle e strisce o su quella con la stella di David finendo per bruciarle non si contano. Ma in Iran, un Paese colpito da dure sanzioni della comunità internazionale che affossano l' economia, c' è chi ha pensato di sfruttare l' animosità contro i due "Satana" per fare affari. È stata la Reuters a svelare che a Khomeyn, città 320 km a sud di Teheran, la fabbrica di bandiere "Diba Parcham" si è specializzata proprio nella produzione di stendardi dei due Paesi nemici. Duemila bandiere statunitensi e israeliane escono dai telai dello stabilimento, seguite anche da un buon numero di Union Jack britanniche, ha aggiunto il Guardian ricordando che la Gran Bretagna è un altro Paese sommamente inviso al governo iraniano. Un nome, un destino, Khomeyn è anche la città natale dell' ayatollah Khomeini: è quindi forse naturale che la fabbrica da un milione e mezzo di metri quadri di bandiere all' anno sia sorta in quel luogo. Il proprietario della manifattura, Ghasem Ghanjani, è stato onesto, e alla stampa internazionale ha dichiarato che alla Diba Parcham «non abbiamo alcun problema con il popolo americano e quello israeliano». Attento a non finire vittima della repressione, Ghanjani ha subito aggiunto che gli iraniani hanno invece un problema con i dirigenti delle due entità straniere. «Abbiamo un problema con i loro presidenti, con la loro politica sbagliata». Conclusione: «Se la gente brucia le bandiere di questi Paesi in diverse manifestazioni è solo per protesta». Più diretto e spigoloso si è invece mostrato il responsabile del controllo qualità della fabbrica, identificato solo con il nome di Raize. «Rispetto alle azioni codarde degli Stati Uniti come l' assassinio del generale Qassem Soleimani, bruciare una bandiera americana è solo il minimo che si possa fare». Parole che non stupiscono: i due manager proteggono il loro business approfittando del fuoco propagandistico antiamericano e antisionista, dottrine ufficiali del credo khomeinsta al potere ormai dal 1979. Nei video che arrivano in Occidente, di norma le bandiere sono prima calpestate, poi inzuppate nella benzina made in Iran e infine bruciate. Purtroppo per il governo e per i poderosi interessi economici dei Guardiani della Rivoluzione (i pasdaran), per appiccare il fuoco alle bandiere dei nemici bastano poche gocce di benzina. Troppo poca per ridare fiato al settore della raffinazione del petrolio, un' industria messa in difficoltà dalle sanzioni occidentali che impediscono a giganti come Eni e Total di venire in soccorso dell' Iran. Per ora il tessile delle bandiere regge e fa notizia. Ma le passeggiate ai bordi delle bandiere osservate all' università della capitale dovrebbe impensierire gli imprenditori di Khomeyn. Dopo 40 anni di sforzi del regime, l' antiamericanismo e l' antisionismo militanti mostrano le prime rughe anche nella Repubblica islamica.

L’Iran è tornato alla corsa atomica. Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. L’Iran sta arricchendo «più uranio di quanto facesse nel 2015», prima della firma dell’accordo sul nucleare. Ad annunciarlo è il presidente iraniano Hassan Rouhani. «Il nostro governo lavora quotidianamente per impedire la guerra» ha aggiunto Rouhani, che però ha anche avvertito che l’appoggio europeo alla politica di Trump potrebbe avere effetti collaterali sulle truppe europee nella regione, a riprova di quanto sia sottile la linea tra la guerra economica e l’escalation militare. «Oggi il soldato americano è in pericolo, domani potrebbe toccare al soldato europeo».

Nel 2015 il governo di Rouhani ha negoziato l’intesa con i «5+1», i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania. Il Piano d’azione congiunto globale o «Jcpoa» (le iniziali in inglese) prevedeva il ridimensionamento del programma nucleare di Teheran in cambio della rimozione delle sanzioni. Ma dopo il ritiro unilaterale di Donald Trump e il ripristino delle sanzioni americane nel 2018, a partire dalla scorsa estate Teheran ha risposto sottraendosi progressivamente ai suoi impegni, fino a comunicare questo mese (dopo l’uccisione del generale Soleimani il 3 gennaio) che non rispetterà più i limiti sull’arricchimento. Allo stesso tempo, le autorità iraniane continuano a sottolineare che vogliono tenere vivo il patto e che tutte le misure sono reversibili se le sanzioni verranno rimosse. Germania, Francia e Regno Unito — i Paesi europei firmatari dell’accordo — hanno avviato l’altro ieri il cosiddetto «meccanismo di risoluzione delle dispute», una procedura prevista dall’articolo 36 del Jcpoa nel caso in cui le parti vengano meno agli impegni presi. Se la «disputa» non viene risolta, in un paio di mesi possono essere riattivate le sanzioni Onu, il che porterebbe alla fine effettiva del patto. L’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell, fino a ieri assicurava che l’Europa vuole tener viva l’intesa del 2015, affermazioni simili a quelle fatte da Berlino. Ma il premier britannico Boris Johnson ha suggerito in un’intervista alla Bbc che il Jcpoa dovrebbe essere sostituito con «l’accordo voluto da Trump», che affronti questioni come l’appoggio dell’Iran a gruppi armati nella regione e il programma di missili balistici. I rapporti tra Londra e Teheran erano degenerati già dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, quando il ministro della Difesa Ben Wallace ha difeso il diritto di Trump a eliminarlo come «autodifesa», in quanto il generale iraniano stava «coordinando omicidi e attacchi contro cittadini americani». Poi, sabato scorso, l’ambasciatore di Londra a Teheran Rob Macaire è stato brevemente arrestato ad una veglia per le vittime dell’aereo ucraino, trasformatasi in protesta: ayatollah e media locali lo accusano di fomentare i disordini e ne chiedono l’esplusione. Ieri Macaire era rientrato a Londra «per una visita». L’Europa ha difeso a lungo l’accordo del 2015 ma non è riuscita a contrastare l’effetto delle sanzioni americane. Il Washington Post ha rivelato che una settimana fa Trump avrebbe fatto pressione sugli europei minacciando dazi del 25% sulle auto, se non avessero attivato il meccanismo di risoluzione delle dispute. Lo ha confermato ieri il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer. L’Iran ha criticato la scelta «illegale» e «strategicamente sbagliata» dell’Europa, ricordando che i primi a non rispettare gli impegni sono stati gli americani. «Se volete vendere la vostra integrità, fate pure», ha commentato il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, che nel 2015 negoziò in prima persona il Jcpoa a Vienna. «Avete ceduto al bullo del liceo».

Iraq, l'ayatollah Khamenei alla folla in preghiera: "Proteste manipolate dai nemici". Sono 11 i soldati Usa feriti nel raid. Davanti a migliaia di persone che hanno cominciato a radunarsi dalle prime ore del mattino la Guida Suprema officia la grande preghiera musulmana: in passato lo aveva fatto solo in periodi di crisi, non accadeva dal 2012. Il presidente Trump smentito dal comando Usa a Bagdad: soldati feriti curati per trauma cranico. Pietro Del Re il 17 gennaio 2020 su La Repubblica. Per via delle gravi tensioni nazionali e internazionali che funestano l'Iran, oggi è la Guida Suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, a presiedere a Teheran la grande preghiera del venerdì, davanti a una folla immensa che ha cominciato a radunarsi dalle prime ore del mattino. "Quei pagliacci che sostengono di essere dietro il popolo sono bugiardi. Sono manipolati dai nemici e non hanno dedicato le proprie vite alla sicurezza dell'Iran, diversamente da gente come Soleimani", ha detto la Guida suprema, accusando i manifestanti che nelle proteste dei giorni scorsi hanno strappato i poster appesi per commemorare il generale Qassem Soleimani. "Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci, un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l'Iran ha attaccato le basi Usa sono stati Giorni di Allah. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria", ha aggiunto Khamenei. Che poi è tornato a parlare dell'assassinio del generale Soleimani, "era un comandante anti-terrorista nella regione, è stato uno scandalo che ha portato infamia sugli Usa, perché lo hanno ucciso vigliaccamente e non sono stati capaci di farlo sul campo di battaglia, usando lo stesso metodo del regime sionista". La "tragedia amara" dall'abbattimento dell'aereo ucraino a Teheran "non deve oscurare il sacrificio di Soleimani". Per quanto riguarda il nucleare: "Ho detto sin dall'inizio che non ho alcuna fiducia nel dialogo con l'Occidente sulle nostre attività nucleari e nei gentiluomini che siedono ai tavoli negoziali e vestono guanti di seta sulle loro mani di ferro. Sono al servizio degli Usa. Il dialogo con loro è un inganno". In passato, Khamenei ha officiato la grande preghiera musulmana solo in periodi di crisi: lo fece nel 2009, in concomitanza con le proteste contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla guida del Paese; e poi nel 2011 per la "primavera araba". L'ultima volta che Khamenei tenne il sermone durante le preghiere del venerdì fu nel febbraio del 2012, sempre in occasione di proteste, all'epoca diffuse in tutto il Medio Oriente. Dopo le manifestazioni antigovernative dei giorni scorsi seguiti all'abbattimento dell'aereo iraniano, Khameini vuole dimostrare di avere ancora il pieno sostegno del popolo, soprattutto in un momento delicato come questo, con il presidente iraniano Hassan Rouhani che ieri ha nuovamente difeso la sua politica di apertura internazionale, "difficile, ma possibile", e con la Guida Suprema che ripete da anni che non ci si deve fidare degli occidentali proibendo qualsiasi negoziato con l'amministrazione Trump. Per questo, l'appello di Khamenei all'unità nazionale, in un momento di crisi interna e grande tensione con gli Usa.

11 militari feriti nel raid di Teheran.  Sempre oggi, è stata pubblicata la notizia che undici militari americani sono rimasti feriti nel raid missilistico di Teheran contro basi statunitensi in Iraq, lanciato come ritorsione per l'uccisione del generale Qassem Soleimani. Lo scrive il sito Defence One, smentendo Trump che aveva assicurato che il raid missilistico non aveva fatto vittime né feriti tra gli americani. Il sito precisa che i militari sono stati trasferiti in Germania e in Kuwait dove sono stati sottoposti a trattamenti per trauma cranico e ad ulteriori esami. "Per un eccesso di cautela, alcuni militari sono stati trasportati dalla base Al Asad, in Iraq, al centro medico di Landstuhl in Germania, e altri al Camp Arifjan, in Kuwait, per screening di follow-up", ha riferito a Defence One il colonnello Myles Caggings, portavoce del comando Usa a Bagdad. Al termine dei controlli, i militari feriti dovrebbero tornare in Iraq. Secondo fonti di Defence One, almeno un militare ha subito una commozione cerebrale. La notizia è stata confermata alla Cnn dal capitano Bill Urban, portavoce del comando centrale degli Stati Uniti, che sovrintende alle truppe in Medio Oriente. Un portavoce del Pentagono ha poi precisato che otto persone sono state trasportate al Landstuhl Regional Medical Center in Germania e tre a Camp Arifjan in Kuwait per accertamenti: "Tutti i soldati nelle immediate vicinanze dell'esplosione sono stati visitati e valutati secondo la procedura standard, secondo il Dipartimento della Difesa. Se saranno ritenuti idonei al servizio dopo lo screening, torneranno in Iraq".

L’Iran ignora Washington e si prepara a lanciare un nuovo satellite. Davide Bartoccini su Inside Over il 28 Gennaio 2020. L’Iran si sta preparando a lanciare un altro satellite in orbita. A suggerirlo sarebbero alcune immagini “catturate” dai satelliti spia (e non solo) che orbitano sul Medio Oriente e le indiscrezioni di alcuni funzionari di Teheran, che sembrano aver rivelato come la Repubblica islamica – nonostante i tre fallimenti collezionati lo scorso anno – voglia proseguire nel suo ambizioso progetto. Secondo gli analisti di Washington questo lancio rappresenta un tassello del programma missilistico iraniano. Un motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti che non vogliono permettere in nessun modo a Teheran di diventare una potenza nucleare nella regione, e che non hanno ancora scongiurato del tutto il rischio di un’escalation dopo l’attacco sferrato da Teheran sulle basi militari alleate in Iraq. Come riportato da Associated Press , gli esperti del Middlebury Institute of International Studies hanno analizzato attentamente le immagini satellitari catturate dal satellite di Planet Labs Inc: queste mostrano dei lavori in corso per la costruzione di un launchpad nello “spazioporto” Imam Khomeini, situato nella provincia iraniana di Semnan. Il sito, dal quale sono stati lanciati anche i precedenti tentativi, si trova a circa 230 chilometri a sud di Teheran. Contestualmente è stata registrata attività crescente di automezzi e personale, a conferma che qualcosa sta “bollendo in pentola”. L’aumento di attività corrisponderebbe, inoltre, ad un aumento delle informazioni rilasciate attraverso canali ufficiali e semi-ufficiali iraniani riguardo i prossimi lanci programmati per la celebrazione del 41° anniversario della sua rivoluzione islamica del 1979. In questa data l’Iran è solito “svelare” i traguardi tecnologici raggiunti nel campo delle forze armate, del suddetto programma spaziale, e gli sforzi nel proseguire il programma nucleare osteggiato dagli Stati Uniti. Mohammad Javad Azari Jahromi, ministro dell’Iran per la tecnologia dell’informazione, ha risposto ieri sera su Twitter ad un cinguettio di dell’emittente statunitense Npr che aveva pubblicato la foto satellitare domandandosi se davvero l’Iran fosse al suo “quarto tentativo” di lanciare un satellite in orbita e acquisire un occhio nello spazio, affermando che l’Iran sta pianificando il lancio di sistema satellitare che è stato battezzato Zafar. Informazione concordante con un precedente rapporto rilasciato dall’agenzia di stampa statale iraniana Irna che citava la pianificazione del lancio di sei satelliti in orbita nel 2020. Il lancio del satellite Zafar 1 – dato che è già previsto uno Zafar 2 – arriverebbe dopo i due fallimenti di lancio dei satelliti Payam e Doosti nella prima metà del 2019, e dopo l’esplosione di un razzo che trasportava un terzo satellite – il Safir – nel mese di agosto. La centrale spaziale Imam Khomeini è stata inoltre colpita da un incendio scoppiato sempre all’inizio dello scorso anno nel quale persero la vita tre ricercatori iraniani. Non è stato reso noto la causa dell’incendio. Gli Stati Uniti, che hanno sempre monitorato i progressi del programma spaziale iraniano, ritengono che il lancio di questi satelliti sia strettamente collegato alla volontà di Teheran di diventare una potenza nucleare, dunque si traducono in una sfida alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invita l’Iran a non intraprendere alcuna attività relativa ai missili balistici che potrebbero essere armati con testate nucleari – sospettate essere l’obiettivo del programma nucleare iraniano per l’arricchimento di uranio. Nell’ultimo decennio l’Iran ha portato in orbita, con successo, alcuni satelliti di breve durata, e nel 2013 ha inviato una scimmia nello spazio lasciando intendere che il prossimo passo sarebbe stato forse quello di inviare il primo cosmonauta iraniano nella volta celeste. Teheran, in risposta alle obiezioni di Washington, continua ad affermare che il suo programma nucleare non ambisce all’ottenimento di armi nucleari; motivo per il quale non condivide l’uscita dall’accordo sul nucleare che il presidente americano Donald Trump ha scelto di compiere nel 2018. Asserendo che tutti i lanci satellitari e i test missilistici compiuti nel centro spaziale Imam Khomeini non hanno alcun legame con la componente militare.

Dorian Gray per atlanticoquotidiano.it il 4 febbraio 2020. Rouhani e Zarif sapevano! Appena poche ore dopo la tragedia dell’aereo ucraino, sia il presidente che il ministro degli esteri iraniani erano a conoscenza del fatto che ad abbattere quel volo con 176 civili innocenti a bordo erano stati i Pasdaran. È questa la terribile notizia riportata oggi, in esclusiva, dal sito d’informazione Iran Wire. Una notizia esplosiva, che Iran Wire ha ottenuto non per sentito dire, ma direttamente dalle rivelazioni di un anonimo diplomatico iraniano. E che esce proprio mentre l’Alto Rappresentante Ue Borrell si trova a Teheran, a stringere la mano di Zarif nel tentativo di salvare il fallimentare accordo sul programma nucleare. Secondo questo diplomatico, il giorno della tragedia (8 gennaio 2020) ci fu una enorme confusione al Ministero degli esteri iraniano. I diplomatici vennero infatti a sapere, da consiglieri del ministro Zarif, che ad abbattere l’aereo civile ucraino erano state le Guardie Rivoluzionarie. Il diplomatico rivela di non sapere chi avesse informato lo staff di Zarif, ma di aver finalmente avuto accesso al comunicato inviato dal Consiglio per la sicurezza nazionale al ministro degli esteri in cui gli veniva intimato di non rivelare l’informazione. Chiaramente, se il comunicato arrivava direttamente dal Consiglio per la sicurezza nazionale, ad esserne informato era in primis lo stesso Rouhani, che di quel comitato speciale non solo è stato segretario, ma è a tutt’oggi il presidente. Questa amara verità, che toglie definitivamente il velo sull’ipocrisia della Repubblica Islamica, è stata poi confermata a Iran Wire da un altro diplomatico iraniano, approcciato dai responsabili del sito per verificare l’attendibilità della rivelazione. Anche il secondo diplomatico, in forma sempre anonima, ha confermato l’accaduto. D’altronde, ormai il regime iraniano ha lasciato intendere a tutti di avere tanto ancora da nascondere rispetto a quel tragico evento. Solamente ieri, l’Ente nazionale per l’aviazione civile ha reso noto di aver interrotto i rapporti con la controparte ucraina, perché Kiev ha divulgato un audio in cui il pilota di un aereo in atterraggio a Teheran diceva chiaro e tondo alla torre di controllo di aver visto un missile colpire l’aereo ucraino in fase di decollo. Il diplomatico iraniano ha anche spiegato a Iran Wire che la comunità diplomatica iraniana si sente come un gruppo di marinai che provano, con tutte le loro forze, a salvare il salvabile mentre la nave affonda. Le Guardie Rivoluzionarie, sempre a detta del diplomatico iraniano, hanno manipolato le elezioni del 2009 ed esteso il loro potere in tutti i progetti industriali nel Paese, generando corruzione e incapacità manageriale. Non solo: Soleimani è stato il diretto responsabile del caos nella politica estera iraniana, il cui vero cambiamento è avvenuto dopo l’invio del messaggio diretto di Soleimani al generale americano David Petraeus (quello in cui Soleimani diceva di essere lui il vero capo dell’Iraq). La notizia esclusiva di Iran Wire dimostra, ancora una volta, come in Iran sia lo stato parallelo ad esercitare il vero potere, ma prova anche che non esistono rappresentanti del governo di Teheran veramente “moderati” e che il presidente Rouhani – e lo stesso Zarif – sono direttamente conniventi con gli abusi del regime.

La grande caccia degli Stati Uniti. Lorenzo Vita l'8 febbraio 2020 su Inside Over.  “One shot, one kill”: la politica degli Stati Uniti contro i suoi nemici è cambiata nel corso degli ultimi anni. Washington sa che vincere le guerre è difficile: se non quasi impossibile. Ma sa che può colpire comunque i suoi avversari con un sistema di uccisioni che portino alla decapitazioni dei comandi nemici. Omicidi mirati che se non hanno il risultato di distruggere l’avversario – fin troppo ramificato e solido per essere colpito definitivamente da una morte – sicuramente inviano un segnale di avvertimento in tutto il mondo. E colpiscono soprattutto l’establishment di un Paese o di un’organizzazione terroristica che per gli Usa rappresenta un avversario strategico. L’amministrazione di Donald Trump ha da tempo deciso che deve essere questa una delle armi a disposizione di Cia e Pentagono. Il presidente Usa è asceso alla Casa Bianca promettendo ai suoi elettori di termine le “endless wars”: le guerre senza fine. Trump ha compreso che non può farlo così rapidamente come aveva previsto. Troppi gli interessi, troppi gli incastri, troppe – soprattutto – le difficoltà di gestire amici e nemici nel corso della ritirata strategica. Ma può mostrare lo stesso ai suoi cittadini e ai suoi nemici che può combattere anche senza usare il proprio esercito. Di qui la decisione di aumentare l’uso di droni e il numero delle operazioni delle forze speciali, ma soprattutto la necessità di mostrare l’efficacia di questa scelta. Necessità manifestata da almeno tre morti eccellenti: Abu Bakr al Baghdadi, Qasem Soleimani e Qasim al Rimi, leader di Al Qaeda nella Penisola Arabica. Tre morti che per Trump non rappresentano solo tre trofei di guerra da esporre nel suo mandato presidenziale, ma anche tre simboli di cosa vogliano in questo momento gli Stati Uniti. Trump ha elevato in questi ultimi tempi l’asticella degli omicidi mirati andando a colpire anche al di là del perimetro delle organizzazioni terroristiche. La morte del generale Soleimani ha infranto una sorta di tabù del Pentagono e della Cia che non pensavano di colpire il capo di un esercito avversario con cui non c’è, formalmente, una guerra in corso. Ma se l’omicidio di Soleimani ha fatto capire quanto Trump dia importanza a questo tipo di operazioni, anche a costo di colpire il muro della guerra al terrorismo vera e propria, è anche vero che questo non ‘ha distolto dalle operazioni nei confronti dei leader locali e non di Al Qaeda e Stato islamico. Anzi, il percorso iniziato con Barack Obama (a parte rari casi precedenti le ultime due amministrazioni) è un segnale di come per gli Stati Uniti sia ormai essenziale la guerra combattuta con i droni per colpire singoli individui o cellule specifiche nella guerra al terrore. E non a caso il presidente americano ha voluto annunciare l’uccisione di Al Rimi, leader di Al Qaeda in Yemen, nello stesso discorso del dopo assoluzione nell’impeachment: segnale molto rilevante dell’importanza data dalla Casa Bianca a questo tipo di attacchi.

Omicidio Soleimani Merkel denunciata da otto deputati. Il Dubbio il 28 febbraio 2020. L’inziativa della “Linke”. Denuncia penale nei confronti della cancelliera, Angela Merkel, accusa di complicità nell’omicidio del generale iraniano. Otto deputati della Linke, il partito della sinistra tedesca, hanno presentato denuncia penale nei confronti della cancelliera, Angela Merkel, nonchè dei ministri all’Interno e alla Difesa, Horst Seehofer e Annegret Kramp- Karrenbauer. L’accusa è complicità nell’omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani. Dietro la clamorosa denuncia, di cui riferisce tra gli altri la Zeit online, vi sono relazioni e dichiarazioni secondo cui dei «flussi di dati» volti a favorire gli attacchi compiuti con i droni da parte delle forze militari Usa sarebbero passati attraverso la base aerea americana di Ramstein, che si trova in Germania. Soleimani era stato ucciso lo scorso 3 gennaio nei pressi dell’aeroporto di Baghdad da alcuni razzi partiti da droni del tipo Reaper.

(ANSA il 29 giugno 2020) - L'Iran ha emesso mandati d'arresto per 36 cittadini di Stati Uniti e altri Paesi, incluso il presidente americano Donald Trump, con l'accusa di aver ordinato, preparato o attuato l'uccisione il 3 gennaio scorso a Baghdad del generale Qassem Soleimani, comandante delle forze Qods dei Pasdaran. Lo ha annunciato il procuratore di Teheran, Alghasi Mehr, citato dalla Fars. "La magistratura iraniana ha emesso un'allerta rossa' all'Interpol per le 36 persone ricercate, che sono figure politiche e militari. Queste persone - ha dichiarato il procuratore di Teheran - sono condannate per 'omicidio' e 'terrorismo'. Il presidente Donald Trump è in cima alla lista e continuerà a essere perseguito anche al termine del suo mandato presidenziale". "Gli Stati Uniti e alcuni altri Paesi coinvolti" nell'uccisione lo scorso 3 gennaio a Baghdad del generale dei Pasdaran Qassem Soleimani, "compreso l'Iraq" dove è avvenuto "questo crimine contro la sicurezza nazionale e la sovranità dell'Iran, dovranno pagare per le loro azioni contro il diritto internazionale". Lo ha dichiarato il viceministro degli Esteri di Teheran, Mohsen Baharvand, commentando i mandati di cattura annunciati oggi dalla magistratura della Repubblica islamica nei confronti di almeno 36 stranieri con ruoli politici e militari per il ruolo svolto nell'assassinio di Soleimani, tra cui il presidente americano Donald Trump. "L'Iran li perseguirà attraverso le organizzazioni internazionali", ha dichiarato Baharvand, sostenendo che "presto altri americani, che hanno operato i droni" impiegati nell'operazione Usa, "saranno identificati e subiranno un mandato d'arresto". Il mandato d'arresto iraniano per il presidente Donald Trump è "una trovata propagandistica che nessuno prende seriamente": lo ha detto l'inviato speciale Usa per l'Iran Brian Hook.

Iran, mandato d'arresto per Trump per l'uccisione del generale Soleimani. Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. La procura di Teheran ha emesso un mandato d'arresto per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e per altri 36 cittadini tra cui alti funzionari dell'amministrazione americana, per l'omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso in un raid Usa all'aeroporto di Baghdad il 3 gennaio scorso. La notizia è stata data dall'agenzia di stampa Fars e dall'agenzia semi-ufficiale Isna. Ali Alqasimehr, procuratore di Teheran, ha spiegato ai giornalisti che le accuse sono "di omicidio e terrorismo" e che il processo contro Trump andrà avanti anche dopo la fine della sua presidenza. Non ha detto al momento chi siano gli altri oltre 30 ricercati, ma ha specificato che l'Iran ha inoltrato una richiesta di collaborazione all'Interpol perché emetta un "red notice", una allerta rossa per i ricercati sotto accusa, che significa il livello di allerta più alto dell'agenzia. Questa procedura non obbliga gli Stati che aderiscono all'Interpol ad arrestare o a estradare i sospettati. Prima di essere ucciso nel raid del 3 gennaio, Qassem Soleimani è stato il comandante della forza Quds, un corpo speciale dei Guardiani della rivoluzione (Pasdaran) iraniani che si occupa delle operazioni all'estero: per più di due decenni ha plasmato la politica iraniana in Medio Oriente, rafforzando anche sul piano militare l'alleanza anti-americana che dalla rivoluzione Khomeinista del 1979 l'Iran ha intessuto con una serie di milizie sciite nella regione, dalla Siria al Libano all'Iraq. Nell'aprile del 2019, l'amministrazione Trump ha inserito l'intero corpo dei Pasdaran, che in Iran è più potente dell'esercito regolare e dipende direttamente dal Leader supremo, Khamenei, nella lista delle organizazzioni terroristiche che minacciano la sicurezza nazionale americana. L'anno prima Trump aveva deciso di ritirare gli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015. L'uccisione di Soleimani è arrivata dopo mesi di tensioni tra Teheran e Washington, nello stretto di Hormuz e in Iraq, culminate a fine dicembre con l'assedio di alcune centinaia di uomini delle milizie irachene filo-Iran all'ambasciata americana a Baghdad. Nel raid sull'aeroporto della capitale irachena morì anche Abu Mahdi al-Mohandes, il vice capo delle forze di mobilitazione popolare, una milizia irachena che ha stretti legami con le Quds iraniane. "Il generale Qassem Soleimani è il responsabile della morte di migliaia di americani. Stava progettando di ucciderne molti altri. Non glielo abbiamo permesso", scrisse Trump dopo l'attacco.

Cosa accadde la notte in cui fu ucciso il generale Soleimani. Mauro Indelicato su Inside Over il 19 dicembre 2020. Il 2020 non si è presentato nel migliore dei modi. Ancor prima che da Wuhan giungessero notizie su un focolaio di un nuovo coronavirus, il 3 gennaio il mondo ha temuto di essere sull’orlo di una nuova guerra. In piena notte, le agenzie di stampa hanno iniziato a battere la notizia di alcune esplosioni che avevano interessato l’area attorno l’aeroporto di Baghdad. Si era pensato a un nuovo episodio relativo alle tensioni in corso nel Paese mediorientale, scosso dalle proteste popolari contro il governo che, solamente pochi giorni prima, avevano portato anche all’assalto dell’ambasciata Usa. Nel giro di poche ore, invece, la situazione è risultata del tutto diversa: i boati descritti nelle prime notizie arrivate dalla capitale irachena erano frutto di un raid ordinato da Washington. L’obiettivo era uno dei leader iraniani più importanti: il generale Qassem Soleimani.

Il raid del 3 gennaio. A capo della brigata Al Quds, Soleimani era uno degli elementi di maggior spicco dei Pasdaran,  i guardiani della rivoluzione. Ma la sua importanza nella gerarchia iraniana non la si doveva unicamente al suo ruolo militare, quanto anche a quello politico: è stato lui l’architetto della strategia della mezzaluna sciita. Un corridoio cioè in grado di collegare idealmente le capitali di Paesi a guida sciita: Teheran, Baghdad e Damasco, fino ad arrivare a Beirut. Un progetto volto ad espandere l’influenza iraniana nella regione, circostanza questa certamente mal vista in primis dagli Stati Uniti e da Israele. Nei giorni precedenti al raid statunitense, in più occasioni si era parlato della presenza di Soleimani in Iraq. Alle ore 00:32 del 3 gennaio 2020, il generale era tornato a Baghdad atterrando nella capitale irachena con un normale volo di linea da Damasco. Gli Usa erano da alcune settimane sulle sue tracce. Il 29 dicembre in California il presidente Donald Trump si era riunito con i principali vertici e consiglieri militari: all’ordine del giorno la situazione iraniana, le informazioni su Soleimani e la possibilità di compiere un raid contro il generale. L’ordine di eliminare l’artefice della politica estera di Teheran sarebbe stato impartito in quelle ore. Dopo il suo arrivo a Baghdad, le forze Usa si sono messe in azione. Da una base statunitense in Iraq si è alzato in volo un drone Mq-9, il quale ha individuato il corteo che trasporta Soleimani dall’aeroporto verso il centro della città. Poco dopo quattro missili sono stati lanciati verso le auto che correvano in direzione di Baghdad. Il raid non ha lasciato scampo al generale e ad altre nove persone che si trovavano assieme a lui ma in due auto diverse. Tra le vittime anche Abu Mahdi al-Muhandis, capo delle milizie sciite irachene. Le conferme della morte di Soleimani sono giunte già in nottata sia dal governo iracheno, che da quello iraniano e statunitense. La notizia ha fatto il giro del mondo e all’alba il medio oriente si è svegliato con gli spettri di una nuova guerra.

Cosa ha voluto significare colpire Soleimani. C’è un piccolo dettaglio che può spiegare l’intero contesto attorno all’operazione: Soleimani era atterrato a Baghdad con un volo di linea. Si è parlato nei giorni successivi alla sua morte della convinzione del generale di essere protetto da una sorta di immunità diplomatica. Ma in realtà più semplicemente Soleimani si sentiva immune proprio per l’importanza della sua figura. Colpire lui equivaleva per gli iraniani a un raid su Teheran. Forse non si aspettava che l’astio tra Iran e Usa fosse arrivato a livelli così alti. Alcuni giorni prima in Iraq era stata assaltata l’ambasciata di Washington, mentre le milizie filo sciite avevano lanciato ordigni contro alcune basi statunitensi nel Paese mediorientale. Anche per questo dalla Casa Bianca si era deciso di alzare la posta in palio. Uccidere Soleimani non voleva significare solo tagliare la testa della cabina di regia della politica estera iraniana, ma anche colpire uno sei simboli più popolari sia nel suo Paese che nel mondo sciita. Durante la guerra contro l’Isis in Siria, spesso il generale è apparso al fronte in supporto sia dell’alleato siriano che delle milizie iraniane. Il suo continuo viaggiare da un capo all’altro del medio oriente, ovunque fossero presenti interessi iraniani, ne ha fatto una delle figure più emblematiche sia a livello politico che sociale. Nella città santa di Qom sono stati innalzati vessilli di lutto in tutte le moschee, la salma di Soleimani ha percorso tutto il Paese prima della sepoltura, ai suoi funerali hanno partecipato migliaia di persone. Non era morto solo un generale, ad essere ucciso era stato uno “shadid“, ossia un martire.

La reazione iraniana. Di fronte a un’azione del genere, i vertici di Teheran non potevano non reagire: rimanere fermi dopo l’uccisione di un simbolo del potere iraniano, avrebbe dato una dimostrazione di fragilità e debolezza sia all’interno che all’estero. Per questo il mondo ha avuto il timore di trovarsi dinnanzi alla possibilità di una guerra su vasta scala, capace di mettere a diretto confronto Usa ed Iran assieme ai rispettivi alleati regionali. Tuttavia Teheran, complice anche la crisi economica innescata dalle sanzioni reintrodotte da Washington pochi anni prima a causa dell’affaire sul nucleare, non poteva rispondere a muso duro. La reazione è sì arrivata, ma si è rivelata controproducente: nella notte dell’8 gennaio missili sono stati lanciati verso diverse basi statunitensi in Iraq. Il governo iraniano aveva avvisato del raid quello iracheno, che a sua volta ha girato le informazioni alle autorità militari Usa. Le bombe non hanno provocato molti danni, né tanto meno vittime sul versante statunitense. Quella stessa notte a Teheran, un volo di linea della Ukraine International Airlines diretto a Kiev è precipitato poco dopo il decollo. L’11 gennaio il governo iraniano ha ammesso l’errore umano: il velivolo era stato centrato da un ordigno sparato nella notte dei raid contro le basi Usa in Iraq.

Guerre antiche e nuove dell'Iran "apocalittico". L'uccisione del leader del progetto nucleare di Teheran riapre anche il dibattito geopolitico. Fiamma Nirenstein, Mercoledì 16/12/2020 su Il Giornale. Mohammed Al Saaed, l'analista politico del giornale saudita Okaz scrive il 30 novembre «come si può condannare l'uccisione di un uomo che ha dedicato la sua vita a costruire una sinistra bomba atomica per un regime malvagio, mentre non condannano l'uccisione di tanti innocenti nella regione. L'Iran uccide Siriani, Iracheni, Libanesi, ha distrutto lo Yemen, e sponsorizza gruppi terroristici...». A cui, aggiungiamo noi, l'Iran uccide americani, francesi cittadini di ogni origine, colore, credo... e programma il genocidio in un intero Paese che «verrà cancellato dalla faccia del mondo», Israele. L'uomo di cui qui si parla è Moshen Fakhrizadeh. È stato definito scienziato, fisico, professore universitario. Ma non c'è nulla che rappresenti meglio delle reazioni pietistiche di questi giorni all' eliminazione di Fakhrizadeh la confusione e l'ignoranza sul regime degli Ayatollah e sui suoi molteplici significati. In realtà le condoglianze, se si da ai dolenti il beneficio di inventario, sono suonate più che altro come una nota di amaro biasimo nei confronti di Israele. È stata un'occasione irresistibile per mostrare i propri colori, per dare di gomito al regime più feroce del mondo che perseguita, soprattutto, i propri cittadini soggiogati e perseguitati dalle Guardie della Rivoluzione degli Ayatollah. Ma le lacrime sullo «scienziato nucleare» Moshen Fakhrizadeh sono lontane dalla comprensione di quel che Fakhrizadeh rappresentava per la guerra iraniana. Il punto di vista umanitario, tipico della nostra cultura, non funziona quando si parla di un generale in guerra, e qui di questo si tratta: di un altissimo ufficiale, responsabile del programma fondamentale per uno scontro in atto nel presente. Fakhrizadeh, infatti, non era uno in primis scienziato o professore universitario, ma un generale della Guardia Rivoluzionaria che, mentre insegnava fisica all'Università delle Guardia Imam Hussein, aveva un ruolo strategico nel maggiore fra i disegni di conquista di uno Stato islamico mondiale, da compiersi per passi successivi, in cui l'atomica è fondamentale. E Fakhrizadeh era il padre della bomba da quando, nel 1998, era stato messo alla testa del programma nucleare, col ruolo di capo del PHRC, il centro di ricerche per lo sviluppo nucleare. La determinazione di Fakhrizadeh a raggiungere la bomba si articola in mille invenzioni e cambiamenti di strada. La maggioranza degli sciiti appartiene all corrente dei duodecimani: crede alla sequenza dei dodici imam succeduti a Mometto. Il dodicesimo, Muhammad ibn Hossein al Mahdi, nato nell'869, è sparito a 72 anni e dal suo divino nascondimento ma prepara il suo ritorno e il giorno del giuzio. Dal '79, momento della rivoluzione khomeinista, esso diventa, per l'Iran, imminente. La guida degli imam verso l'obiettivo è variamente interpretata, ma sicura, e nella battaglia è fatale l'uso della Taqiyya, ovvero la dissimulazione per il bene supremo della comunità, consente di procedere verso l'obbiettivo con bugie e mosse diplomatiche mentre prosegue lo scontro col mondo degli infedeli e dei traditori della fede. Il così detto Mahdismo è molto rilevante nella leadership odierna, gli sciiti, che hanno molto sofferto la loro condizione di minoranza islamica, pensano che coll'avvento del Profeta le sofferenze avranno fine. E come Ahmadinejad e anche Khamenei hanno ripetuto, per il ritorno del Mahdi occorre una conflagrazione universale. Che quindi non è temuta, ma auspicata: il grande momento del mahdismo è stato quello di Ahmadinejad. Ma anche se c'è chi lo ritiene più immediato e chi meno, gran parte della leadership civile e militare è comunque fedele o vicina a questa ideologia compreso il moderato Rouhani. La bomba atomica, la distruzione di Israele, le ossessive minacce all'Occidente, la violenza con cui il regime reprime il comportamento indipendente, sia nel campo delle opinioni che il quello personale (basta pensare all'oppressione delle donne e dei gay, fino alla condanna a morte), la spesa enorme che si carica per finanziare gli Hezbollah, Hamas, gli attentati terroristici che ne fanno il primo Stato terrorista, il mantenimento di milizie come i Basiji e Quds, tutti addestrati, feroci, pronti a colpire... sono tutti segnali dell'esistenza di uno stato di guerra continua, la guerra messianica che invoca la rivoluzione mondiale. Un saggio scritto per l'ASMEA da Norvell B. De Atkine, Historical considerations in understanding Iran's Military and their way of war, traccia il rapporto fra la guerra iraniana odierna e quella dei secoli trascorsi. De Atkine cita fra i molti testi History of Warfare di John Keegan che dipinge le guerre persiane contro i greci come «evasive, indirette, molto astute psicologicamente e nell'uso delle informazioni segrete», mentre Kaveh Farook con Ombre nel deserto spiega che i persiani ottenevano la distruzioine del nemico con l'uso dei loro arceri, da lontano, prima di dover entrare in un copro a corpo. Potevano «oscurare il sole» con una nuvola di frecce che piovevano dall'alto. Bravi e coraggiosi combattenti, tuttavia, come dice Erodoto, avevano metodi di combattimento di cui il saggio sostiene la permanenza; così anche un intenso senso di identità di fronte alle ripetute invasioni occidentali e orientali, dagli arabi agli inglesi; si loda, nel saggio, la capacità persiana di raffinata immaginazione, di uso della diplomazia e delle informazioni, e anche la superba capacità di lanciare immense folle nella lotta. Oggi basta pensare alle folle difronte a Khamenei che gridano «morte all'America», dimostrando una incredibile hubris e fiducia in sè stesse e nella propria fede. Per capire Tom Holland nel suo The Persian Fire, sempre citato da De Atkine: «se si guarda a come i Persiani vedono sè stessi, nessun popolo ha una maggior fiducia nella propria virtù». Virtù di guerrieri e conquistatori, iscritta nel loro carattere nazionale e nell'evidente ambizione delle elite, dalla loro convinzione che il loro ruolo nel mondo è sottostimato e non riconosciuto per ciò che vale. Recentemente poi l'amara esperienza della guerra con l'Iraq ha insegnato a cercare di vincere i conflitti evitando la perdita umana ed economica di uno scontro diretto, ha esaltata l'uso antico di gruppi locali proxy come gli Hezbollah o Hamas, la raffinato l'uso del sorriso diplomatico alla Zarif. Tutto questo rientra nella tecnica di una guerra in corso, oggi, ma guerreggiata in stile diverso. Una guerra in cui Fakhrizadeh era un generale combattente.

La Casa Bianca conferma: «Ucciso il numero 2 di Al Qaeda al Raymi». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 da Corriere.it. Il fondatore e leader di al-Qaida in Yemen, Qassim al Raymi, in cima alla lista dei terroristi più pericolosi e su cui pendeva una taglia da 10 milioni di dollari, è stato ucciso in un raid americano ordinato da Donald Trump. Lo rende noto la Casa Bianca confermando così le indiscrezioni di stampa dei giorni scorsi. Al Raymi, 41 anni, era il vice del capo di Al-Qaida Ayman al-Zawahiri. Al Rimi, riferisce una nota della Casa Bianca, si era unito ad Al-Qaida negli anni Novanta, lavorando in Afghanistan per Osama bin Laden. Sotto la sua guida, il gruppo terroristico «ha commesso violenze incalcolabili contro civili in Yemen e ha cercato di compiere e ispirare numerosi attacchi contro gli Usa e le nostre forze». «La sua morte indebolisce Al-Qaida nella penisola arabica e a livello globale, e ci porta più vicini all’eliminazione delle minacce che questi gruppi pongono alla nostra sicurezza nazionale». Nei giorni scorsi il New York Times aveva riportato che al Raymi sarebbe stato colpito in un raid condotto non lontano dalla capitale yemenita Sanaa lo scorso 25 gennaio, in un’area conosciuta come la roccaforte del gruppo Aqap. Gruppo di cui Raymi è divenuto leader nel 2015 dopo la morte, sempre in un raid aereo americano, di Sheikh Abu Basir Nasser al Wuhaishi.

La black list di Aqap. La morte di Qasim al Rimi è solo l’ultima di una lunga serie. E la black list dei leader locali di Aqap da parte degli Stati Uniti ha proprio nello Yemen uno dei principali palcoscenici. A maggio del 2012, proprio in Yemen venne ucciso Fahd al Quso, uno dei leader di Al Qaeda che prese parte all’attacco alla nave americano Uss Cole nel 2000. Primo colpo ad Al Qaeda in Yemen e prima vendetta nella regione per gli attacchi contro gli Stati Uniti. L’anno successivo è stata la volta di Said Ali al-Shihiri, fondatore di Aqap (la costola qaedista nella penisola) insieme a al Wuhaysi. Come nel caso di a Quso, anche per Shiri è stata la stessa Al Qaeda a confermarne la morte per mano di un drone Usa. Due anni dopo, sempre in Yemen, tre morti eccellenti tra aprile e giugno del 2015: Muhammad al Rubaish, Nasser bin Ali al-Ansi e Nasir al Wuhayshi. Il primo, mufti di Aqap dal 2009 fino alla morte ed ex detenuto di Guantanamo, è stato ucciso da un drone Usa nei pressi di Mukalla. Il secondo, altro leader di Aqap, è stato colui che inviò un messaggio in cui definiva la sua organizzazione come responsabile dell’attacco a Charflie Hebdo. Mentre al Wuhayshi, ucciso a giugno nella regione di Hadramout, è stato non solo leader di Al Qaeda nella Penisola arabica ma anche secondo di Ayman al Zawahiri. Il suo successore, al Raymi, ha subito la sua stessa condanna a morte: colpito da un drone ad al Bayda. Con la differenza che Trump ha deciso di annunciarlo di fronte al mondo.

Le morti di eccellenti di Al Qaeda. Non c’è solo la costala “araba” di Al Qaeda nel mirino dei droni americani. Con alcune operazioni chirurgiche, gli Stati Uniti hanno colpito diversi leader dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden, confermando non solo l’interesse per lo Yemen, ma diversificandosi anche in Afghanistan e Siria: nei santuari della rete qaedista in Asia. La prima morte eccellente fu a Kabul, con l’uccisione, durante un bombardamento, di Muhammad Atef, considerato il capo militare di Al Qaeda e considerata una delle prime e più importanti morti della guerra al terrorismo. La seconda vittima eccellente fu invece, ancora una volta, in Yemen. E questa volta, come per le volte successive, a opera di un drone. Il 3 novembre 2002, a Sana’a, la Difesa americana approvò lo strike contro Qaed Salim Sinan al Harethi: anche lui, come Quso, coinvolto nell’attacco alla Uss Cole. Dopo quell’uccisione, un lento silenzio di droni. La guerra al terrorismo islamico aveva preso altre forme e nel frattempo, in Iraq, gli Stati Uniti avevano dato il via all’invasione. Il drone non era ancora considerato la principale arma contro Al Qaeda in Medio Oriente e i velivoli Usa erano usati soprattutto in Pakistan. Ma il cambiamento dei conflitti in Asia centrale e Medio Oriente, la nascita dello Stato islamico e la presenza di altre forze in campo hanno modificato la strategia di Cia e Pentagono. E i droni – sofisticati, chirurgici e soprattutto senza vittime fra i soldati americani – sono diventati l’arma prediletta. Nel 2011, i droni statunitensi tornano a colpire in Yemen uccidendo Anwar al Awlaki. Poi, in due anni, i droni Usa uccidono a Sarmada Mushin al Fadhli, uno degli uomini più vicini a Bin Laden e capo della cellula Khorasan e Abu Khayr al Masri, uno dei volti storici dell’organizzazione islamista. Lista completata il primo gennaio 2019 con la morta di un altro componente del gruppo che pianificò l’attacco alla Uss Cole: Jamal Ahmad Mohammad al Badawi.

La guerra all’Isis. Ali Awni al Harzi, Tariq al Harzi, Abu Muslim al Turkmani, Jihadi John, Junaid Hussain, Abu Muhammad al Adnani. Sono i nomi dei vertici dell’Isis colpiti dai droni americani in Iraq e Siria dal 2015 ad oggi. Nel 2015, quando lo Stato islamico si era esteso da Mosul fino a Raqqa, i velivoli Usa hanno colpito le teste dei rami locali di Daesh prima di uccidere con il blitz del 2019 il Califfo Abu Bakr al Baghdadi. La guerra all’Isis si è svolta quasi da subito con l’ausilio dei velivoli senza pilota. Per gli Stati Uniti si è trattato di un modo per evitare morti fra i propri soldati dopo il disastro delle guerre in Afghanistan e Iraq, ma è servito anche per mostrare una tecnica diversa di guerra. Per evitare di schierare truppe, mettere in pericolo propri uomini ma anche per dimostrare di poter colpire ovunque e chiunque in un territorio controllato dai propri avversari, la Difesa Usa ha preferito un approccio chirurgico, teso a creare anche una pressione costante nei confronti delle forze in campo. L’Isis, nelle sue branche mediorientali e africane, ha subito sin da subito la guerra dei droni. Ed è una strategia aumentata proprio con Trump che ha capito come il portare all’opinione pubblica la morte dei leader del terrore abbia due effetti. colpire il pubblico ma anche i propri nemici. È chiaro che queste organizzazioni abbiano una rete tale per cui la morte di un capo non indica il loro crollo. Ma decapitare una rete costringendo un cambio di strategia all’intero Stato islamico è comunque un risultato importante. Un risultato che va unito anche al senso di oppressione e minaccia cui vengono costantemente messi i capi delle maggiori cellule del terrorismo. Non è detto possa essere una strategia vincente: ma di sicuro è una tattica che porta disorganizzazione all’interno di strutture che fanno proprio della gerarchia la loro forza.

Anna Guaita per “il Messaggero” l'1 marzo 2020. La notte del 7 ottobre 2001, il presidente George Bush annunciò al mondo che l'attacco contro l'Afghanistan dei talebani era cominciato. I primi bombardamenti segnavano l'inizio di quella che sarebbe diventata la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti, una guerra che sembra finalmente avviarsi verso la conclusione. Dopo un anno di negoziati, l'Amministrazione Trump ha accettato di ridurre all'osso le richieste pur di firmare con i guerriglieri talebani un accordo di pace che entro 14 mesi dovrebbe portare al ritiro di tutte le truppe straniere dal territorio afghano. Ci sono attualmente 13 mila soldati Usa nel Paese, ai quali sono affiancati 17 mila soldati internazionali, nell'ambito della missione Nato Sostegno Risoluto. Terminare la guerra afghana era stata nel 2016 una delle promesse elettorali di Trump, che ora, decisissimo a farsi rieleggere, intende presentare come «promessa fatta, promessa mantenuta». Da Washington, Donald Trump ha ricordato «i caduti e i feriti della guerra», e ha sostenuto che il patto con i talebani «rappresenta un'opportunità storica per creare una pace duratura nell'Afghanistan». Ha anche annunciato che presto si incontrerà di persona con i leader talebani: «È stato un lungo viaggio» ha sostenuto. Meno entusiasti gli stessi repubblicani al Congresso, che gli hanno scritto per ricordargli che «i talebani spesso ottengono concessioni in cambio di false promesse». La firma dell'accordo è avvenuta nella capitale del Qatar, Doha. Erano presenti il segretario di Stato Mike Pompeo e il ministro della Difesa Mark Esper. Tutti e due hanno chiarito che l'accordo firmato «potrebbe essere immediatamente cancellato» se nei mesi a venire i talebani non mantenessero gli impegni presi con la firma. Non si tratta di molti impegni dopotutto: gli studenti del Corano si impegnano a non favorire attentati terroristici e garantiscono che non daranno più asilo a terroristi come avevano fatto con i membri di al Qaeda. Entro il 10 marzo, inoltre, i talebani dovranno sedersi a negoziare una pace interna con il governo di Kabul e il presidente Ashraf Ghani. Nel frattempo gli Stati Uniti si impegneranno a favorire la cancellazione delle sanzioni Onu imposte contro i leader talebani, e le due parti opereranno uno scambio di prigionieri. Se i talebani riusciranno a evitare attacchi militari sanguinari, i soldati stranieri che occupano il loro Paese usciranno entro la fine dell'aprile dell'anno prossimo. Il segretario della Nato Jens Stoltenberg si è recato nella capitale afghana, per celebrare la firma con il presidente Ashraf: «Sono contento di essere qui con voi in questa giornata storica e importante per Kabul, nella speranza che questo passo apra la strada a una pace permanente». L'Unione Europea ha anch'essa salutato l'accordo, ma ha sottolineato la necessità che al processo di pace partecipino «tutte le parti», e «in particolare le donne afghane». È stata dunque Bruxelles forse volontariamente - a mettere il dito sul punto debole del patto Usa-Talebani. Da quando l'inviato di Trump ha cominciato a trattare con i talebani, le donne afghane hanno chiesto di essere ascoltate e di far parte dei negoziati. Non c'era però nessuna donna presente a Doha, dove il lavoro dell'inviato Zalmay Khalilzad si è concluso. E non è chiaro cosa intendano dire i talebani quando sostengono che nei confronti della popolazione femminile saranno «meno drastici». Prima dell'invasione americana e alleata, le donne in Afghanistan non avevano diritto a studiare o a lavorare e non potevano uscire di casa senza essere accompagnate da un membro uomo della famiglia. La loro vita era un vero inferno, e presto per l'Occidente la guerra assunse anche il carattere di una battaglia per diffondere il rispetto dei diritti civili sia nei confronti delle donne che dei bambini. Sono morti oltre 3 mila soldati occidentali nel Paese islamico, e fra questi ci sono anche stati 53 caduti italiani e 650 feriti.

Africa, ucciso il capo di Al Qaeda nel Maghreb. Pubblicato sabato, 06 giugno 2020 da Giampaolo Cadalanu su La Repubblica.it arigi comunica: Abdelmalek Droukdel è stato "neutralizzato" in un'operazione nel nord del Mali. L'algerino era l'uomo a cui Bin Laden aveva affidato l'apertura del fronte africano. L’uomo che Osama bin Laden aveva incaricato di aprire il nuovo fronte di Al Qaeda in Africa è morto. Abdelmalek Droukdel, leader di Al Qaeda nel Maghreb islamico, è stato “neutralizzato” qualche giorno fa in Mali, annuncia il ministero della Difesa francese. Parigi non fornisce dettagli, limitandosi a parlare di una operazione nel nord del paese in cui il comandante jihadista è rimasto ucciso assieme ad alcuni suoi miliziani. Le truppe francesi sono impegnate nel Sahel dal 2014 nella missione antiterrorismo denominata “Barkhane”, che segue altre missioni nell’area sin dal 1986. Droukdel si chiamava in realtà Abu Musab Abdel Wadoud ed era di origini algerine. Laureato in Matematica, veterano della jihad anti-sovietica in Afghanistan, al ritorno dall’Hindu-Kush si era unito al Gruppo salafita per la preghiera e il combattimento, per diventarne più tardi il leader, sotto l’egida di Abu Musab al Zarqawi. Forse proprio l’insegnamento del giordano, teorizzatore della ferocia come strumento di lotta, servì a Droukdel come ispirazione per introdurre gli attentatori suicidi in Algeria. Dopo la morte del suo mentore giordano, Droukdel aveva pubblicato sul web un monito agli infedeli che diceva: “Siamo tutti Zarqawi”. A Droukdel proprio Bin Laden aveva affidato la responsabilità del Nord Africa, in una divisione di aree di influenza che agli Shabaab somali affidava la regione del Corno, mentre l’area dell’Africa occidentale andava a Yunis al Mauritani (poi arrestato dagli americani con l’aiuto dei servizi pachistani nelle aree tribali del Baluchistan). Droukdel si era guadagnato il favore dello sceicco saudita governando la sua organizzazione per favorirne l’adesione ad Al Qaeda nel 2006. Ma come sempre nella rete fondata da Bin Laden i legami con la leadership centrale erano poco stringenti, al punto che ogni gruppo gestiva le sue azioni. Droukdel in particolare si era rivelato più stratega che politico, tentando senza troppo successo un’espansione in Tunisia e poi incapace di impedire al suo gruppo di dividersi davanti alla distruzione degli edifici sacri nel Mali. Secondo il leader, il gesto mostrava un’applicazione della sha’ria troppo precipitosa e avrebbe attirato – come poi è successo – l’intervento nel Mali dei governi occidentali. Di opinione diversa era il rivale Mokhtar Belmokhtar, pure lui algerino e veterano dell’Afghanistan, che fu degradato e costretto da Droukdel a lasciare il gruppo, e fondò poi un’altra organizzazione jihadista, Al Morabitoun. La scomparsa del leader di Aqmi avrà senz’altro conseguenze nell’equilibrio fra gruppi jihadisti in Africa. Alla fondazione del Califfato, l’algerino aveva ribadito la sua bay’ah, la dichiarazione di fedeltà a Bin Laden, prendendo le distanze da Abubakr al Baghdadi. Ora Al Qaeda, che negli ultimi mesi sta allargando le sue aree di influenza dopo la scomparsa sul piano territoriale del Califfato, potrebbe esserne indebolita. Al contrario gli eredi di Al Baghdadi, che hanno stabilito un’area di influenza nelle zone più desertiche della Libia, potrebbero approfittare della mancanza di leadership per fare proselitismo, nella logica della “fluidità” delle promesse di fedeltà fra gruppi della jihad. 

Il problema “radicalizzazione” nella Legione Straniera. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 3 gennaio 2019. Lo scorso ottobre Parigi veniva scossa da un attentato con arma bianca compiuto da un jihadista all’interno della stazione di polizia di Île de la Cité, conclusosi con cinque morti, tra cui il terrorista, e due feriti. Contrariamente alla norma, però, il protagonista non corrispondeva all’identikit del radicalizzato medio, ossia un immigrato di seconda o terza generazione con poche o nulle prospettive di integrazione e mobilità sociale, residente nelle banlieu, avvicinato da qualche predicatore estremista durante una detenzione o nella moschea di quartiere mantenuta operativa con petrodollari. L’attentatore si chiamava Mickaël Harpon, era un tecnico informatico, con alle spalle 16 anni di carriera nell’unità di intelligence del comando di polizia e un nulla osta di sicurezza per l’accesso ad informazioni riservate inerenti la lotta al terrorismo e il monitoraggio di terroristi e radicalizzati noti o presunti. Il suo atto ha contribuito a porre sotto la luce dei riflettori l’annosa questione dell’infiltrazione jihadista nelle istituzioni francesi che, a soli due mesi di distanza, travolge un nuovo corpo: la Legione Straniera.

L’inchiesta. Il Centro d’Analisi del Terrorismo (Cat) ha annunciato la prossima pubblicazione di “Soldati e Jihad“, un rapporto incentrato sul problema della radicalizzazione all’interno delle forze armate francesi, una realtà colpevolmente ignorata e sottovalutata fino ai tempi recenti. Il Cat ha scoperto che, dal 2012 ad oggi, almeno 23 cittadini francesi che hanno servito nell’esercito, soprattutto nei reparti speciali e nella Legione straniera, si sono poi arruolati in organizzazioni terroristiche, nello Stato islamico principalmente, restando in patria o partendo per Siria e Iraq. Il Cat ha comprovato che le abilità e le competenze degli ex militari francesi sono state preziosissime per i capi-jihadisti, avendo contribuito a rendere i combattenti più disciplinati, organizzati e capaci nelle arti belliche, dall’utilizzo delle armi da fuoco alla preparazione di ordigni fai da te. Nel complesso, l’arrivo degli ex militari ha incrementato significativamente il potenziale letale degli attentati, condotti in Francia e all’estero, e molto spesso tale aiuto è stato ricambiato attraverso promozioni e mobilità in ascesa all’interno delle organizzazioni. La maggior parte degli ex soldati, infatti, ha raggiunto posizioni di vertice all’interno dei reggimenti del Daesh che hanno devastato il Medio oriente. Ad inquietare non è soltanto il numero elevato di soldati divenuti jihadisti, ma che alcuni “si sono radicalizzati dopo l’arruolamento nell’esercito francese, altri dopo aver lasciato l’esercito  […] mentre alcuni pianificavano di raggiungere gruppi jihadisti prima del reclutamento nelle forze armate francesi”. Il rapporto, praticamente, denuncia l’incapacità di Parigi di monitorare cosa succede all’interno delle forze armate oltre che di controllare la provenienza degli aspiranti soldati, essendo che alcuni hanno già manifestato atteggiamenti ambigui prima dell’arruolamento.

L’Eliseo sa. Negli anni scorsi sono stati arrestati diversi ex membri delle forze armate francesi con l’accusa di pianificare attentati nel Paese, mentre altri sono stati identificati nei teatri di guerra del Siraq dopo esser stati detenuti o uccisi in battaglia. Un rapporto parlamentare precedente all’inchiesta del Cat aveva già indagato sul fenomeno, stimando che fossero almeno 30 gli ex soldati divenuti terroristi. Preoccupa soprattutto il fatto che i reclutatori hanno la capacità di attrarre soldati di ogni categoria: paracadutisti, comando aereo, operazioni terrestri e subacquee. Una scelta, quella di volere esperti in ogni campo bellico, che è ovviamente strategica e ha reso possibile al Daesh di migliorare le proprie competenze in numerosi settori. In alcuni casi, come quello di un tale Boris V., l’entrata nell’esercito è avvenuta proprio con lo scopo di ottenere la formazione necessaria in un determinato ruolo, concludendo l’esperienza ad obiettivo raggiunto, partendo poi per il fronte. Si è anche scoperto che un ex legionario, tale Abdelilah H., era stato a capo di una brigata nella quale fecero parte anche i futuri stragisti del Bataclan. Nonostante questo, i servizi segreti francesi reputano “basso” l’allarme posto dall’infiltrazione jihadista nelle strutture militari e che nessun caso, di quelli attenzionati attualmente, costituisce un rischio immediato.

L’oscuro mondo dei contractors. Lorenzo Vita l'1 gennaio 2020 su Inside Over.  Un sistema in crescita, che può rivoluzionare, se non l’ha già fatto, il modo di fare la guerra. I contractors non sono più semplici mercenari al soldo di qualche piccolo emirato o qualche signore della guerra. Queste organizzazioni paramilitari sono diventate delle vere e proprie forze armate parallele, sempre più utilizzate dalle superpotenze per gestire i conflitti in cui non vogliono (o non possono) impiegare i propri soldati ma anche per controllare aree di interesse strategico in cui le autorità degli Stati alleati hanno difficoltà (economiche, logistiche o anche semplicemente belliche). Non c’è nulla di romantico, se mai ce ne fosse stato, nelle logiche delle società di contractors. Ma sgombrato il campo da questioni di natura etica (che ogni utilizzo di questi uomini implica) va ormai compreso che non possano più essere ritenuti secondari nella comprensione delle guerre. Il loro uso è ormai non solo assodato ma anche estremamente consistente. E l’industria che è stata creato con il loro impiego (Repubblica parla di un giro d’affari vicino ai 400 miliardi di dollari) conferma l’assoluta importanza  di un mondo che ha assunto ormai un valore politico, diplomatico ed economico che è assimilabile a quelli di vere e proprie forze parallele rispetto a quelle delle autorità nazionali.

I contractors al soldo di Mosca. La questione ha assunto particolare importanza in queste settimane perché numerose inchieste hanno portato alla luce la presenza di cittadini russi (non si possono definire soldati perché non appartenenti alle forze armate) tra le file del generale Khalifa Haftar. L’uomo forte della Cirenaica ha da sempre un rapporto privilegiato con il Cremlino confermato dalle visite a Mosca e anche dalle relazioni di interesse intessute non solo con i colossi energetici russi ma anche con vari settori dell’intelligence e della diplomazia russa (e degli alleati di Vladimir Putin). E questo rapporto è stato confermato appunto nell’assedio di Tripoli quando, con l’annuncio della cosiddetta “ora zero” da parte del maresciallo si è anche palesata la presenza di “mercenari” russi, in particolare del Gruppo Wagner. Presenza che era stata già paventata a suo tempo dai servizi segreti britannici i quali avevano segnalato la possibile presenza di uomini russi a Derna ben prima dell’avanzata su Tripoli e la contemporanea possibilità di uno scenario siriano per la Libia. Ipotesi che evidentemente all’MI6 avevano analizzato a fondi, dal momento che la realtà, a quanto pare, non è così lontana dall’allarme di Londra. La presenza di contractors russi in Libia è naturalmente solo una parte della strategia del Cremlino riguardo la Libia e tutti i conflitti in cui è direttamente o indirettamente coinvolta. Perché se è vero che la Wagner opera insieme al maresciallo Haftar nel controllo della guerra che sconvolge la Libia dalla caduta di Muhammar Gheddafi, è anche vero che la Cirenaica (e ora anche la Tripolitania) sono solo due delle molte aree in cui la Wagner opera per gli interessi di Mosca. Mercenari russi sono stati uccisi in Mozambico a novembre con un’operazione che ha destato non poche perplessità nella comunità internazionale. Non solo per la violenza con cui sono stati uccisi i russi, ma anche per la presenza (confermata purtroppo dalla loro morte) fisica di combattenti al servizio del  Cremlino in un Paese con cui la Russia ha un forte collegamento politico dai tempi dell’Unione sovietica. Soldi, armi e energia – i binari su cui corre la strategia russa in Africa – hanno coinvolto anche il Mozambico. E la presenza di miliziani russi ha certificato la necessità di Mosca di controllare che i suoi interessi fossero tutelati. Interessi che non sono molto diversi da quelli che la Russia ha nella Repubblica centrafricana, dove non a caso sono presenti altri contractors, sempre della Wagner, saliti alla ribalta delle cronache per la morte di alcuni giornalisti (Orkhan Dzhemal, Aleksandr Rastorguyev e Kirill Radchenko) che viaggiavano da Bangui a Bambari. Il governo russo parlò di una rapina. Ma gli stessi media locali e africani puntarono il dito contro la Wagner e sui presunti traffici dell’organizzazione con le autorità locali. Quell’episodio è rimasto avvolto dal mistero. Ma quello che è certo è che nessuno ha più smentito la presenza di mercenari russi nel Paese, mentre le autorità locali si sono trincerate dietro l’autorizzazione della Russia da parte dell’Onu a sostenere gli sforzi della Repubblica centrafricana nel controllo del territorio.

Siria e Ucraina. Dall’Africa al Medio Oriente, la presenza di contractors russi della Wagner (generalmente ex soldati dell’esercito ed ex membri del Gru) è invece assolutamente certa nel territorio della Siria. Anzi, i combattenti mercenari sono stati spesso sfruttati dal Cremlino proprio per evitare che le forze regolari di Mosca intervenissero in scenari difficili o comunque dove fosse lecito attendersi un rischio molto elevato per le truppe. La guerra in Siria è stata (ed è) un impegno enorme per Putin: soldati uccisi non sono mai accettati dall’opinione pubblica. Ma anche in questo caso, rischi non sono mai stati pochi. Le foto di “civili” russi in mimetica, abbronzati dal sole cocente del deserto, che sbarcavano in Russia con voli spesso anonimi provenienti dal Medio Oriente hanno più volte fatto comprendere il loro impiego in teatri operativi. E nel febbraio 2018, per quattro interminabili ore, soldati americani e forze aeree Usa hanno avuto un pesantissimo scontro con i combattenti della Wagner, probabilmente 500. I caduti tra le file dei mercenari nella piana di Deir Ezzor sono state decine: nessuna cifra ufficiale. Ma quello che è certo è che per la prima volta forze statunitensi e russe (sebbene paramilitari) si sono fronteggiate in Siria provocando decine di morti. Come non si sa con esattezza quanti siano stati i morti tra i contractors russi in Ucraina, dove invece è da anni certa la presenza di queste forze negli eserciti delle repubblica filo-russe del Donbass e di tutto il fronte orientale ucraino. In particolare, l’uso dei contractors in battaglia è stato confermato nella battaglia di Debaltseve e in quella di Starobesheve. Anche in questo caso, i caduti in conflitto non hanno mai avuto un numero ufficiale. Tutto avvolto nel mistero.

Mercenari e Pentagono. La Russia non è chiaramente l’unica forza a usare i contractors. Anzi, in realtà gli Stati Uniti da tempo hanno impostato una strategia che prevede un sempre maggiore uso delle forze delle compagnie militari private nella gestione degli scenari di guerra dove Washington non ha più interesse ad avere una presenza massiccia di truppe. Il primo e più importante scenario in cui esiste questa strana convivenza tra contractors e soldati è quello dell’Afghanistan. Nella guerra più lunga degli Stati Uniti, i combattenti delle agenzie private che vengono impiegati dal governo americano sono stati migliaia. E migliaia sono stati soprattutto i morti: segno che quando si parla di mercenari è sempre sbagliato darne una lettura di parte per cui li utilizzano solo potenze o Stati non occidentali. Un’inchiesta del Washington Post ha addirittura confermato che il numero di vittime tra i contractors al servizio degli Stati Uniti è superiore (e di molto) a quella dei militari, raggiungendo la cifra record di 3.814 caduti. Un numero enorme se si pensa alla pochissima pubblicità che viene data allo sfruttamento di queste compagnie da parte del Pentagono, ma che dimostra come quella strategia pensata da Donald Trump (e Erik Prince) riguardo alla “privatizzazione” della guerra afghana non sia qualcosa da considerare avulso dalle strategia statunitensi. Al contrario, i contractors sono da sempre una componente essenziale dei piani strategici dei militari Usa in una guerra che l’opinione pubblica da tempo considera del tutto fallimentare e priva di alcuna utilità. Ma quella guerra, se non si può vincere, sicuramente non si può abbandonare. Ed è per questo che dalla Casa Bianca è arrivato l’ordine di provare a privatizzarla. Del resto, una compagnia privata cosa meno rispetto alle forze regolari (decine di milioni di dollari di meno) e un soldato morto vale, in termini di percezione sociale, molto più di un civile che va in guerra con un’azienda. Come ricorda Repubblica, The Congressional Budget Office ha chiarito che “un battaglione di fanteria in guerra costa 110 milioni di dollari all’anno, mentre un’unità militare privata 99 milioni”. Va da sé che 20 milioni in meno, ogni volta, rappresentano un risparmio non di poco conto. Ed è un investimento su cui l’America ha puntato talmente tanto che il governo federale ha speso in cinque anni (tra il 2007 e il 2012) circa 160 miliardi di dollari in queste aziende. I cui servizi possono essere usati anche in vari contesti, dall’addestramento delle truppe regolari fino ai conflitti dove gli Stati Uniti non vogliono far capire di essere pienamente coinvolti, pur avendo interesse a sostenere l’alleato sul campo.

I contractors al servizio di Pechino. Anche al Cina non è immune dall’utilizzo dei contractors. Anzi, i dati mostrano che il business delle compagnie militari private è in netto aumento a tal punto che ormai sono aziende con un fatturato enorme che Pechino sfrutta per controllare tutte le aree in cui non vuole usare le forze regolari. Lo stesso obiettivo di Russia e Stati Uniti è così stato assunto dal Dragone che, con la Nuova Via della Seta, sa di non poter lasciare i suoi interessi e le infrastrutture che costruisce in giro per il mondo in mano al controllo di forze che, soprattutto in Paesi in via di sviluppo, non garantiscono un chiaro monitoraggio del territorio. E non garantiscono soprattutto fedeltà all’alleato cinese né i suoi interessi. Per questo motivo, non deve stupire che in questi nani vi è stata una netta presa di posizione da parte della Cina nell’utilizzo delle Pmc. Anzi, il governo cinese ha anche fatto un ulteriore passo in avanti. Mentre prima i colossi del Paese utilizzavano in larga parte aziende private estere, perché, come riportato da Eastasia, i contractors cinesi erano considerati inesperti, ora viene preferito l’impiego di compagnie private cinesi che in questo modo si addestrano sul campo e soprattutto evitano che i dollari investiti dalle autorità cinesi finiscano in un fiume generalmente collegato ad altre potenze (appunto Stati Uniti e Russia in primis). Come dimostrato anche dai contratti siglati dalla Blackwater con la Cina per operazioni che Pechino ha voluto sempre mantenere nel più stretto riserbo. Ma soprattutto questo rende anche più facile la possibilità che gli interessi cinesi siano tenuti in qualche modo più coperti e nel grande calderone della burocrazia dell’Impero. Il governo cinese ha inviato compagnie private di contractors a tutela dei lavoratori inviati in Sud Sudan come in Iraq, ma ha anche blindato gli interessi del corridoio con il Pakistan così come i porti della Nuova Via della Seta e la cosiddetta “Collana di perle” dell’Oceano Indiano. Del resto, come riportato anche da Xinhua, gli investimenti sulla sicurezza all’estero per le autorità cinesi ammontano già a decine di miliardi di dollari. E questo business non può che crescere con l’aumentare degli interessi cinesi fuori dal suo territorio. La riluttanza di Pechino a non inviare truppe fuori dal Paese rende poi tutto più chiaro.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera”  il 4 agosto 2020. Si apre il portellone posteriore del C-130, il gommone scivola verso l' esterno fino al dispiegamento del paracadute e plana in mare. A seguire il «tuffo» dei militari, pronti a riunirsi nello specchio d' acqua sottostante. Una volta in superficie si raggruppano per la mossa successiva. Diretti verso una piattaforma offshore o una nave in movimento. L' affiancheranno e saliranno usando dei rampini leggeri. A qualche miglio di distanza i subacquei si immergono dopo aver individuato una carica esplosiva, una minaccia alla navigazione. Si avvicinano, la ispezionano a distanza di sicurezza usando delle telecamere. Può nascondere un innesco trappola. La rendono inoffensiva. Ecco la lancia e lo scudo, le missioni per i Comsubin, l' unità della Marina italiana composta dagli incursori del Goi e dai palombari del Gos. La loro base è al Varignano, protetta dalla natura e dalla segretezza, diventata insieme alla preparazione la loro religione. Per tutelare tattiche, non dare vantaggi agli avversari, accrescere il senso di imprevedibilità. Entrare nella vecchia fortezza è un percorso tra presente e passato. Il grande piazzale delle adunate. Il siluro a lenta corsa della Seconda guerra mondiale: noto come «maiale», trasportava due uomini che stavano a cavalcioni ed era usato per infiltrarsi nei porti nemici. Passavano sotto le reti di sbarramento per piazzare cariche sotto la chiglia di una nave. Osavano e colpivano. Ci sono le foto in bianco e nero a ricordare i protagonisti. Come le ricordano, nella sala storica, i battelli speciali realizzati quasi in modo artigianale da industrie italiane, da sempre un passo avanti. La nostra Marina ha inventato questa specialità, ha combinato i suoi team con la creatività dei costruttori. Il filo non si è mai interrotto. I Comsubin sono addestrati ad andare all' attacco e a parare la minaccia. Li preparano con intensità, per questo servono almeno due anni per diventare incursore o palombaro. E poi sono pronti a misurarsi mentre fuori continuano ad accendersi lampi. Nel 2019 le misteriose esplosioni sulle petroliere nel Golfo Persico, poche settimane fa i barchini neutralizzati dai sauditi nel Golfo di Aden e i poi i gruppi che sviluppano tecniche sub. È «lo spazio» dove si muovono Special Forces alleate, entità concorrenti, attori ostili non sempre identificabili con chiarezza. «Anche piccoli Stati oppure organizzazioni criminali sono in grado di compiere azioni strategiche. Il costo operativo è relativo, ma il risultato può diventare pesante», spiega il Contrammiraglio Massimiliano Rossi, comandante dell' unità, un anno con il (Navy) Seal Team 8 americano per un programma di scambio, una lunga carriera in prima linea in un mondo dove non si può raccontare tutto. Ha anche il brevetto di pilota di SDV, acronimo di Submersible Delivery Vehicle, uno dei «veicoli» sub dalle caratteristiche top secret con il quale penetrano le difese. In alternativa gli incursori possono avvicinarsi a bordo di un sottomarino - dal quale partono mezzi ad hoc - oppure piombano dal cielo, in elicottero o in aereo. Sistemi plurimi per fronteggiare situazioni mai uguali. Le mine, i droni, un'imbarcazione piena di esplosivo, l' azione kamikaze rientrano nel modus operandi di chi vuole perturbare il traffico navale, è necessario considerare ogni scenario. «Spesso basta l' atto, non tanto il risultato - spiega Rossi -. Alcune fazioni usano la strategia della presenza, un gesto simbolico vicino ad un target tiene alto il gioco». A volte il rischio è duplice, specie quando si deve mettere fuori uso un ordigno. Si può conoscere il modello, ma anche trovarsi davanti a qualcosa di inedito. Un dispositivo concepito per distruggere il naviglio e uccidere chi è chiamato a disarmarlo. Nella piscina del forte i palombari simulano l' azione. C' è una ricognizione in remoto, poi l' avvicinamento, infine la neutralizzazione. «Di solito viene usato un getto ad acqua potente che danneggia i sistemi elettronici - precisa il capitano di Corvetta Marco Cassetta -. Per ogni uomo che mandiamo sotto ve ne sono cinque in supporto, compreso uno di riserva». Interventi quotidiani, in una routine rischiosa, per eliminare residuati bellici, mettere in sicurezza un porto, indagare su un relitto, come è avvenuto sulla Concordia al Giglio. È un ciclo interminabile. La bomba è analizzata, si scambiano dati con i partner perché spesso è riconoscibile la mano che l' ha confezionata. In parallelo all' azione anti-terrorismo c' è quella convenzionale. Le esercitazioni Nato hanno profili «classici» - devi ingaggiare forze analoghe - e non solo pensare al miliziano jihadista. Non pochi Paesi si stanno dotando di apparati particolari. Da qui l' interazione con gli alleati condividendo esperienze ma proteggendo le «cose» che sono solo nostre. Perché arrivano da lontano. Come l' impresa di Alessandria d' Egitto, nel dicembre 1941, con gli incursori che colpiscono il naviglio britannico usando sempre i «maiali». Pagina affascinante. Il comandante Rossi, che ha a sua disposizione 700 militari, compresi quelli sulle navi d' appoggio, chiede più uomini. La selezione è dura, è fondamentale avere un bacino di reclutamento ampio ma anche contare su ranghi più giovani per una professione dove l' individuo ha un ruolo centrale. Una volta usciti da questa «scuola» li aspetta un Mediterraneo mai così instabile, con interessi nazionali da tutelare e tensioni regionali.

Consegnata la Bandiera di Guerra al G.I.S.- Gruppo di Intervento Speciale dell’Arma dei Carabinieri. Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2020. Il G.I.S. venne fondato il 16 gennaio 1978 come unità speciale con compiti antiterrorismo inserita all’interno dell’allora 1° Battaglione CC Paracadutisti “Tuscania”. Nel 1984 è stato identificato quale Unità di Intervento Speciale a disposizione del Ministero dell’Interno. Dal 2008 il G.I.S. è stato riconosciuto reparto che può concorrere alla costituzione di task group land e maritime di Forze Speciali, con capacità di operare nell’intero spettro delle operazioni speciali per la liberazione di ostaggi e la cattura di terroristi. Questa mattina a Livorno presso la sede della 2^ Brigata Mobile Carabinieri, alla presenza del Comandante Generale Gen. C.A. Giovanni Nistri, è stata formalmente consegnata al Gruppo di Intervento Speciale (G.I.S.) dell’Arma dei Carabinieri la Bandiera di Guerra, concessa con Decreto del Presidente della Repubblica del 22 aprile 2020. La Bandiera di Guerra costituisce il simbolo dell’onore, delle tradizioni, della storia delle Forze Armate e del ricordo dei Caduti. In particolare, essa accompagna la Forza Armata, il Corpo armato o il reparto cui è stata assegnata per tutta la sua vita operativa e viene difesa fino all’estremo sacrificio. Essa ha anche un altro forte significato simbolico: il militare dinanzi ad essa presta il suo giuramento. Il G.I.S. venne fondato il 16 gennaio 1978 come unità speciale con compiti antiterrorismo inserita all’interno dell’allora 1° Battaglione CC Paracadutisti “Tuscania”. Nel 1984 è stato identificato quale Unità di Intervento Speciale a disposizione del Ministero dell’Interno. Attualmente, il reparto è sempre impiegabile per l’attuazione di azioni speciali, ad elevato rischio, contro il terrorismo, nelle quali possa risultare necessario ricorrere all’uso delle armi. Le ipotesi di utilizzo sono la liberazione di ostaggi, perseguendo al massimo la salvaguardia della loro integrità fisica, la riassunzione del controllo di obiettivi di vitale interesse nelle mani di terroristi, gli interventi risolutivi su aeromobili, treni ed autobus nei casi di dirottamento o di sequestro, e l’operabilità in ambienti NBC, caratterizzati da pericolo di radiazioni nucleari, batteriologico o chimico. Nel 1994 venne proposto, con successo, un ulteriore ampliamento dei compiti del reparto, in operazioni finalizzate alla cattura di latitanti di spicco, in importanti operazioni antidroga e in operazioni finalizzate all’esecuzione di ordini dell’Autorità Giudiziaria in presenza di caratteristiche ambientali che comportassero notevoli difficoltà d’esecuzione. A partire dal 1998 il G.I.S. è stato schierato anche nell’ambito di missioni internazionali per il mantenimento della pace. A partire dal 1º gennaio 2004, il G.I.S. è inoltre entrato a far parte del Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali dello Stato Maggiore della Difesa, con rango pari a quello delle altre unità incursori e dal 2008 è stato riconosciuto reparto che può concorrere alla costituzione di task group land e maritime di Forze Speciali, con capacità di operare nell’intero spettro delle operazioni speciali per la liberazione di ostaggi e la cattura di terroristi.

Nella tana degli incursori di Marina: ecco le missioni del Comsubin. Paolo Mauri il 2 agosto 2020 su Inside Over. Il mare davanti al porto di Alessandria è calmo: gli echi della guerra sembrerebbero lontani se non fosse per le motovedette della Royal Navy che ne pattugliano l’imboccatura. Nella città vige l’oscuramento, e quella sera di dicembre del 1941 sembrava scorrere pigramente come le precedenti: gli inglesi si sentivano al sicuro nella loro base più importante del Mediterraneo insieme al munitissimo porto di Gibilterra. Se le acque in superficie apparivano quiete, nelle profondità si muoveva qualcosa, uomini si agitavano intorno a un sommergibile che era giunto, furtivo, nelle vicinanze dell’ingresso del porto. Alle 20:47 del 18 dicembre dallo Sciré, comandato dal capitano di fregata Junio Valerio Borghese, tre “maiali” – così erano chiamati i mezzi speciali della Regia Marina – vengono messi in mare dai loro equipaggi. I loro nomi sono entrati nella storia: De La Penne, Bianchi, Marceglia, Schergat, Martellotta, Marino. I sei uomini penetrano silenziosamente nella base navale superando le ostruzioni in immersione, sollevando le reti di protezione, faticosamente, nel freddo delle profondità. Si avvicinano ai loro obiettivi: le corazzate inglesi. La coppia De La Penne/Bianchi si avvicina alla Hms Valiant, Marceglia e Schergat alla Hms Queen Elizabeth, mentre Martellotta e Marino, non trovando il loro obiettivo principale (una portaerei non meglio identificata) si avvicinano alla petroliera Sagona. I sei uomini, temprati da mesi di duro addestramento, si portano sotto le chiglie delle navi ormeggiate, e, non senza difficoltà, piazzano le cariche esplosive. Qualcosa va storto durante la fase di rientro e due vengono catturati immediatamente (De La Penne e Bianchi) e imprigionati proprio nel ventre d’acciaio del loro obiettivo: gli inglesi avendoli riconosciuti per incursori pensano così di costringerli a indicare dove fossero le cariche. Ma i due tacciono. Alle 6 del mattino una potente esplosione sconquassa la Queen Elizabeth, dopo quindici minuti un’altra apre un’enorme falla nella chiglia della Valiant, poco dopo una terza esplosione fa saltare in aria la Sagona che nella sua tremenda esplosione danneggia gravemente il cacciatorpedinere Jarvis. Le corazzate vanno a picco, e se il fondale del porto fosse stato più profondo sarebbero state perse per sempre. Sei uomini misero in ginocchio la Royal Navy nel Mediterraneo. Gli inglesi seppero camuffare questa versa e propria disfatta facendo sembrare le due imponenti navi molto meno danneggiate di quanto in realtà fossero, e la nostra Regia Marina, pertanto, non seppe sfruttare il vantaggio tattico che ne derivò, ma questa è un’altra storia. Oggi gli eredi degli “uomini gamma” autori di quell’impresa storica sono gli incursori del Comsubin, il Comando Subacquei e Incursori, una delle Forze Speciali delle nostre Forze Armate, che ha sede presso il promontorio del Varignano, a La Spezia. Il comando è costituito essenzialmente dal Goi, il Gruppo Operativo Incursori, e dal Gos, il Gruppo Operativo Subacquei, che hanno trasmesso la fiaccola di una tradizione che appartiene alla nostra Marina Militare sin dalla Prima Guerra Mondiale, quando i primissimi rudimentali mezzi d’assalto compirono incursioni nelle basi navali austriache. Entrare al Varignano significa, infatti, ripercorrere la storia non solo del reparto ma anche quella d’Italia: mezzi storici, come i “maiali”, ufficialmente denominati Siluri a Lenta Corsa (Slc) si possono vedere nella base dove si addestrano i nostri incursori insieme ad altri frutto del genio dei nostri ingegneri navali. Perché proprio il Comsubin è un reparto d’élite tra i più eccellenti al mondo, e forse il più eccellente, anche grazie all’inventiva dei progettisti che ha sfornato, nel corso degli anni, mezzi d’assalto che definire all’avanguardia è limitante. Tali mezzi sono coperti dal più stretto riserbo, ma alcuni di essi sono stati osservati dalla stampa in qualche rara occasione e se ne trova traccia nel web anche oggi. Si ricorda, ad esempio, un mezzo semi-sommergibile, con scafo a idroplano e wave-piercing, visto durante la visita del presidente Ciampi nel 2000 e accreditato di una velocità di 30 nodi anche in immersione, oppure quello che è stato definito “Nessie” (dal nomignolo dello sfuggente “mostro di Lochness”) negli anni ’70 e che si ritiene essere stato un altro tipo di mezzo sommergibile. Oggi, tra i vari mezzi a disposizione dei singoli operatori si annoverano quelli chiamati Sdv (Single Delivery Vehicle), ovvero di “microsommergibili” utilizzati per la propulsione sottomarina degli operatori che si ritiene siano di caratteristiche superiori rispetto a quelli dei Navy Seals. Tali sistemi sono in grado di operare dai sottomarini classe Sauro IV o U-212A, compresa la nuova versione Nfs, e sembra che siano capaci di elevate capacità di infiltrazione occulta. Non vanno dimenticati poi gommoni e altre imbarcazioni veloci come i nuovissimi Unpav, concepiti appositamente per essere utilizzati dal Goi. Nuovi mezzi per nuove missioni. Perché nel panorama globale, caratterizzato da diversi tipi di minaccia che vanno oltre quella convenzionale data dalle entità statuali avversarie, è necessario considerare ogni tipo di scenario possibile: dai barchini kamikaze, alle mine improvvisate sino al contrasto ai droni sottomarini (chiamati Uuv) che sempre più sono diventati protagonisti della tattica dei conflitti asimmetrici. Senza dimenticare le missioni “classiche” di intervento proprie di quasi tutte le Forze Speciali, come la liberazione di ostaggi, la ricognizione in territorio ostile, il sabotaggio dei sistemi avversari, con in più un’unica e straordinaria capacità di proiezione dal mare. L’incursore di Marina moderno, rispetto al suo “antenato” entrato in azione nei due conflitti mondiali, deve avere, infatti, una capacità di avvicinarsi e infiltrarsi furtivamente che richiede l’acquisizione di diverse tecniche che non solo sono prettamente marittime: un uomo del Goi, ad esempio, deve conseguire il brevetto di paracadutista ed essere in grado di scalare una parete rocciosa, oltre che avere dimestichezza con le tattiche di combattimento a terra. L’addestramento, forse quello più intenso e difficile al mondo, è pertanto onnicomprensivo pur sempre prediligendo la “fase acqua” che è la caratteristica peculiare del Comsubin, una caratteristica che ci invidiano le altre Forze Armate del mondo (alleate o no), tanto che i nostri incursori spesso si ritrovano negli Stati Uniti per programmi di scambio con la loro controparte della Us Navy, i Seal. Su questi uomini, e su quello che fanno, vige il più alto livello di segretezza, ma sappiamo che nella loro specialità sono tra i migliori al mondo, anzi, ci sentiamo di dire che siano i migliori al mondo senza timori di peccare di superbia.

Il durissimo addestramento degli incursori dell’aria. Inside Over il 20 settembre 2020. I volti stanchi, le facce tirate, l’espressione di chi ha faticato e molto. Si presentano così gli allievi del corso personnel recovery del 17° Stormo incursori di Furbara. Ultima forza speciale in ordine cronologico, il 17° Stormo nasce nel 2003 raccogliendo l’eredita degli Adra (Arditi distruttori regia aeronautica), protagonisti di brillanti operazioni oltre le linee nemiche in Nord Africa ed in Sicilia. Più di recente, nell’agosto scorso, due militari del 17° fuori servizio si sono distinti per il salvataggio in mare di un giovane, feritosi sulla scogliera di Polignano. Il soccorso è degno di un film di Rambo: immobilizzato con i teli da mare, cioè con gli unici “strumenti” che i due incursori avessero a disposizione in quel momento. Ed è su questo aeroporto, a 60 chilometri da Roma, che quella preparazione viene infusa negli operatori Stos (Supporto tattico operazioni speciali), preparati per le missioni Personnel recovery con un durissimo addestramento. Fra le attività di addestramento più comuni c’è quella in ambiente montano, dove gli aspiranti operatori Stos imparano a muoversi ed ad orientarsi in un ambiente nel quale il mutamento delle condi-meteo può essere più veloce e creare maggiori disagi. Ed in effetti, pur essendo nella bella stagione, sentiamo anche noi un freddo velato non appena ci si ferma, per recuperare il fiato…La stanchezza per la marcia e per la notte trascorsa in movimento fanno il resto. Ma, d’altronde, il Colonnello Gino Bartoli (Comandante dello Stormo) (Alla data odierna il Comandante è il Colonnello Andrea Esposito), era stato chiaro sin da subito. Perché, nella realtà: “Questi interventi vengono spesso effettuati in condizioni ambientali non permissive (difficili, nda), per garantire interoperabilità fra gli aeromobili e la Extraction Force.Si rendono dunque necessari addestramenti mirati”. Già perché gli operatori Stos sono decisamente “ogni tempo”, capaci di muoversi in zone innevate e con temperature bassissime come in aree desertiche dove la temperatura può arrivare attorno ai 50 gradi. E lì resistenza fisica, capacità di gestione dello stress, della fatica e nello stesso tempo concentrazione e perizia sono elementi necessari per raggiungere l’obiettivo. Certo è tutt’altro che facile riuscire ad essere lucidi, competenti e freddi specie se l’ambiente circostante è in un’area di crisi popolata da quelle forze che, in gergo tecnico, si chiamano “ostili”. O, ancora, se ci si trova a mollo magari nel bel mezzo del mare, di notte e con l’acqua fredda che blocca le gambe. Ne abbiamo un assaggio nel piccolo canale che sfocia nel tratto di mare antistante l’aeroporto militare di Furbara. Un fiumiciattolo con canneto, a prima vista insignificante fin quando non ci caliamo al suo interno: l’acqua è gelida, i movimenti resi difficili dal fondo melmoso. Ma la situazione si fa peggiore quando, dal canale, ci si sposta nelle acque marine. E lì oltre a restare a galla è necessario darsi da fare per mettere in sicurezza l’Isop (Isolated Personnel). In altre parole, il soggetto da recuperare. Ciò che finora abbiamo notato è che in ogni situazione (dalla montagna all’acqua) gli istruttori fanno riferimento all’Extraction team quale cuore pulsante dell’attività degli Stos. Una squadra composta da soli cinque elementi sulle cui spalle grava l’intero peso della missione. Nel corso della simulazione di recupero a terra abbiamo un’idea più chiara dei compiti di ciascuno. Il gruppo in azione ha due coordinatori (un capo ed un vice capo), due operatori armati che garantiscono la sicurezza del perimetro circostante, un Jtac per il coordinamento con gli assetti di volo ed un sanitario – chiamato in gergo tecnico combat medic – con il compito di valutare le condizioni di salute dell’Isop, di intervenire nel caso in cui avesse bisogno di prime cure e di predisporne l’evacuazione. Ma come si diventa operatori Stos? Va subito detto (e in effetti noi ce ne siamo accorti in prima persona!) che lo Stos non è una alternativa ad essere incursore, semmai una qualifica in più che si aggiunge al già durissimo addestramento sostenuto. Per arrivare a seguire i corsi da Operatore Supporto Tattico Operazioni Speciali bisogna, infatti, aver prima affrontato i corsi Fosam (Forze operazioni speciali aeronautica militare) e il Biam (Corso brevetto incursori aeronautica militare). Ecco spiegata la capacità di saper sopravvivere e muoversi in condizioni così difficili. .. nonché l’essere riusciti a soccorrere e a mettere in salvo un giovanotto sulla spiaggia, con strumenti tutt’altro che tecnologici!

Ecco perché la Folgore si cinge il capo d'amaranto. Da sempre simbolo della specialità delle forze aviotrasportate, il basco amaranto è entrato a far parte della storia della Folgore nell'estate del 1967. Non tutti sanno, però, che quella scelta fu ispirata dal primo "nemico" dei nostri parà. Davide Bartoccini, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. C'è qualcosa che rimane per sempre nel cuore di un paracadutista italiano, ed è l'onore di cingersi il capo con il basco color amaranto fregiato da ali e gladio sormontate dal paracadute spiegato. Luglio 1967. Al termine di una vasta esercitazione militare denominata "Aquila Rossa" - alla quale prende parte la Brigata Paracadutisti Folgore - il Generale Alberto Li Gobbi, eroe di guerra e comandate di quelli che neanche Winston Churchill ebbe remore a definire "leoni", sfila per la prima volta dalla costituzione della "grande unità" con il basco color amaranto. Un privilegio, anzi, un premio, concesso dall'allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in accordo con il Capo di Stato Maggiore Gen. Guido Vedevato, che rivolgendosi al comandante della Folgore gli aveva confessato: "I tuoi paracadutisti meritano un premio". Il premio era quello di non passare mai più inosservati, quali truppa d'élite del nostro Esercito, che ha portato a termine un durissimo addestramento per potersi fregiare della propria "specialità". Prima di allora infatti, i paracadutisti che entravano a fare parte della divisione aviotrasportata creata nel 1941 e già ricopertasi di gloria nella battaglia di El Alamein, combattuta nel '42, indossavano il basco grigio-verde. Colore che oggi è stato riportato di auge dal Nono Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin” dato il loro forte legame con quelli che furono invece "gli Arditi" Grande guerra, senza tuttavia perdere il loro forte legame con la Folgore. Strano a dirsi, ma il basco amaranto deriva dalla tradizione di quello che fu il primo grande nemico: poiché erano proprio i paracadutisti britannici, i celebri "Diavoli Rossi" della 1ª Divisione Aviotrasportata comandata dal Maggior Generale Frederick Browning, a indossare quel colore di basco per primi. Tra l'altro su espresso consiglio della moglie del loro comandate, la scrittrice di romanzi Daphne du Maurier. È così che quel copricapo di antico uso militare, che venne impiegato per la prima volta nella storia dagli Chasseurs Alpins francesi del XIX secolo, passato poi alla storia come segno distintivo delle milizie Requeté, ossia i sostenitori di Carlo di Borbone durante le Guerre Carliste - i cosiddetti boinas rojas (baschi rossi, ndr) - , divenne simbolo dei soldati che scendevano dal cielo sulle ali dei loro paracadute di seta bianca che diventavano, almeno a quei tempi, abiti da sposa. Quando i ragazzi della Folgore piovevano da cielo su Bir El Gobi, non portavano l'amaranto sulla nuca provata dal sole che infuoca il deserto libico. E non lo portavano nemmeno i ragazzi della "Nembo", quando l'anno successivo si divisero per combattere chi ancora a fianco dei tedeschi, chi a fianco degli Alleati -" ... e per rincalzo il cuore". Sempre. Lo portavano però i loro avversari - i figli d'Albione -; sia in Tunisia, che in Sicilia, che in Puglia, quando appena un giorno dopo la firma dell'armistizio, presero con un colpo di mano il porto di Taranto. Quando la Folgore venne ricostituita come brigata nel 1963, assieme alla "Nembo" e ai carabinieri paracadutisti della "Tuscania", il basco era ancora grigio-verde. Ma i paracadutisti inglesi, che si fregiavano ancora la spalla con la patch amaranto con Pegaso celeste, erano oramai alleati fidati nella guerra fredda. Fu questione di anni prima che tutti potessero indossare fieramente lo stesso berretto: dello stesso colore del fiore di una pianta che secondo la mitologia greca portava "la protezione e la benevolenza delle dee" e che secondo quella romana aveva il potere di tenere lontana "l'invidia e la sventura". Invidia bonaria forse, ma sempre accesa, per gli uomini che da quasi ottant'anni scendono "Come folgore dal cielo", e ci rendono sempre fieri, quando sfilando il 2 giugno, gridano forte e all'unisono il nome che li ha consegnati cari alla storia e celebri nel mondo.

Chi sono i Ranger del Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino”. Paolo Mauri il 30 dicembre 2019 su Insider Over. Il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” è uno dei reparti speciali delle Forze Armate italiane ed è di base a Montorio Veronese (Vr) presso la caserma “Duca” ed è comandato attualmente dal colonnello Marco Manzone. Il reggimento fa capo a sua volta al generale Ivan Caruso, comandante delle forze speciali dell’Esercito (Comfose), che è dipendente, come gli altri reparti di Forze Speciali delle Forze Armate, dal Cofs (il Comando interforze per le operazioni delle forze speciali) istituito il primo dicembre 2004 con sede presso l’aeroporto di Roma-Centocelle e comandato oggi dal generale di divisione aerea Nicola Lanza de Cristoforis. Il Quarto reggimento “Monte Cervino” provvede a fornire personale ed equipaggiamenti per le missioni speciali stabilite del Cofs che, a livello istituzionale, è la struttura di comando che regola l’impiego delle Forze Speciali delle quattro Forze Armate che sono, oltre al Quarto, il 185esimo reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore” e il Nono reggimento reggimento d’assalto “Col Moschin” per l’Esercito, gli incursori di Marina del Goi per la Marina militare, il 17esimo stormo incursori per l’Aeronautica e il Gis (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri.

La storia del Quarto reggimento. Il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” affonda le proprie radici nell’omonimo reggimento alpini formatosi nel 1882. Durante la Prima Guerra Mondiale, più precisamente nel 1915, vede la luce il battaglione di milizia mobile, formatosi dal deposto Quarto reggimento alpini. Nel corso del primo anno di vita, il battaglione è costituito esclusivamente dalla 133esima compagnia, alla quale si aggiungono, nel 1916, l’87esima e la 103esima , provenienti dal battaglione “Aosta”. Il battaglione ebbe modo di scrivere il proprio nome sulle pagine di storia della Grande Guerra, distinguendosi nelle battaglie di Passo della Borcola sul Pasubio (maggio 1916), sul Monte Vodice (maggio 1917) e nella zona del Grappa. Terminato il Primo Conflitto Mondiale il battaglione viene sciolto, per la precisione nel 1919. Il reparto fu ricomposto nell’inverno del 1940, come battaglione alpini sciatori, con due compagnie (Prima e Seconda). Prese quindi parte alle operazione di guerra sul fronte greco-albanese. Nel maggio 1941 venne nuovamente sciolto per poi riformarsi nell’ottobre dello stesso anno con due compagnie sciatori e l’80esima compagnia armi d’accompagnamento. Prese parte alla Campagna di Russia ove si distinse particolarmente in diverse operazioni. Nel 1943 rientrò in Italia e venne assegnato al XX raggruppamento alpini sciatori, ma non venne impegnato in nessuna operazione bellica. L’armistizio dell’8 settembre 1943 colse il battaglione in Francia dove venne catturato dalle truppe tedesche ad eccezione dell’80esima compagnia. Nell’immediato dopoguerra, a seguito dell’esigenza di disporre di truppe in grado di effettuare operazioni di inserimento montano tramite paracadute, viene costituito, il primo settembre 1952, presso la brigata alpina “Tridentina” di Bressanone, il primo plotone di alpini paracadutisti, cui faranno seguito plotoni similari nelle brigate “Julia”, “Taurinense”, “Cadore” e “Orobica”. Il primo aprile 1964, su decisione dello Stato Maggiore dell’Esercito, i plotoni delle brigate diedero vita, presso la caserma “Cadorna” di Bolzano, alla compagnia alpini paracadutisti del Quarto corpo d’armata alpino. Il primo gennaio del 1990, la compagnia alpini paracadutisti assunse la denominazione “Monte Cervino”, che rimase sino ai nostri giorni. Il 14 luglio del 1996, anno in cui viene concessa la Bandiera di Guerra al reparto (28 novembre), avvenne l’elevazione a battaglione della compagnia alpini paracadutisti, assumendo la denominazione di battaglione alpini paracadutisti “Monte Cervino”. L’unità, a partire dal 1999, diventa un’unità “Ranger” ed entra a far parte di diritto delle Fos (Forze per Operazioni Speciali). Il 25 Settembre 2004 il battaglione rientra a far parte del ricostituito Quarto reggimento alpini, alle dipendenze del Comando Truppe Alpine. Da sempre basato a Bolzano, l’unità cambia sede nel 2011, spostandosi in quella attuale di Montorio Veronese. A gennaio del 2018 il reparto passa ufficialmente nel novero delle Forze Speciali delle Forze Armate italiane.

I Ranger del Quarto. Il Quarto reggimento alpini paracadutisti è l’unica unità in Italia a potersi fregiare del titolo di “Ranger” e, come si legge nel sito ufficiale dell’Esercito, è un reparto di Forze Speciali composto da personale specificatamente selezionato e formato, particolarmente addestrato ed equipaggiato per condurre l’intero spettro dei compiti tipici delle operazioni speciali. Il Quarto reggimento, unico nel suo genere per aver coniugato le capacità tipiche della specialità da montagna (alpini) e delle aviotruppe (paracadutisti), è l’unica unità di Forze Speciali dell’Esercito specificatamente designata e qualificata per condurre operazioni in ambiente montano e artico.

L’addestramento. Le selezioni degli aspiranti Ranger avvengono nel corso di due settimane, durante le quali i candidati vengono sottoposti ad una prima “scrematura”. Tali prove di selezione hanno luogo unitamente a quelle per i candidati del Nono “Col Moschin” e del 185esimo Reggimento paracadutisti “Folgore”. Al termine di queste due settimane, i selezionati verranno chiamati ad un tirocinio, della durata di altre due settimane, che è finalizzato ad accertare non solo le caratteristiche psicofisiche e la resistenza fisica e mentale allo sforzo prolungato del candidato, ma anche le sue qualità morali e caratteriali, le motivazioni profonde che lo spingono ad affrontare pericoli e disagi e la sua capacità di reagire con calma e lucidità alle difficoltà, anche in presenza di forti fattori di stress. Successivamente i candidati vengono inviati al corso Obos (Operatore Basico per Operazioni Speciali) della durata di 24 settimane che si tiene presso il Rafos (Reparto Addestramento Forze Speciali) del “Col Moschin”, superato il quale sono indirizzati verso i corsi di specializzazione presso enti addestrativi sia nazionali che esteri. In particolare il corso prevede 4 settimane dedicate al conseguimento del brevetto di paracadutismo con la fune di vincolo, per chi non ne risulta titolare, presso il Capar di Pisa; 5 settimane dedicate alla formazione teorico pratica sulla topografia, alle marce topografiche, all’apprendimento delle tecniche di orientamento e di navigazione terrestre, 12 settimane sulle Procedure Tecnico Tattiche (Ptt) delle Fos (Forze per Operazioni Speciali); 3 settimane di addestramenti tecnici specifici riguardanti le trasmissioni, le procedure di Ps (Pronto Soccorso) ecc. Infine il corso Obos si conclude con una esercitazione continuativa di due settimane e con gli esami finali. Gli allievi ritenuti idonei (meno del 50% degli aspiranti iniziali) iniziano la fase di specializzazione, diversa per ogni reparto di destinazione finale. A questo punto comincia la specializzazione Ranger vera e propria con un addestramento che dura 47 settimane. Questa fase della formazione dell’operatore viene svolta internamente al Quarto reggimento, presso la Terza compagnia e consiste in: il corso Ranger della durata di 15 settimane suddiviso in 5 moduli; il corso di addestramento montano invernale (10 settimane); il corso di addestramento montano estivo (10 settimane); il corso di difesa personale (due settimane); il corso Advanced Combat Life Saver (due settimane); il corso Sere (Survival Evasion Resistance and Escape) della durata di 3 settimane; il corso anfibio e quello Nbc (Nucleare Batteriologico Chimico) entrambi della durata di due settimane. A seguito del conferimento della qualifica Ranger, il personale del plotone Recon è chiamato a svolgere i seguenti corsi: quello di paracadutismo e tecnica della caduta libera (a Pisa) dove si effettuano lanci ad apertura comandata da un’altezza massima di 3-4000 metri e senza ossigeno ed il corso Cqb (Close Quarter Battle) che dura tre settimane presso l’International Special Training Center di Pfullendorf (Germania). A questo punto il personale viene brevettato Ranger. Tutti gli operatori del Quarto reggimento possono inoltre conseguire diverse qualifiche tra cui: Patrol Medical Course (tre settimane), Combat Medical Training Course (3 settimane), istruttore militare scelto di sci e istruttore militare di alpinismo, corso tiratore scelto, corso operatori scorte e protezione ravvicinata Vip, corso Fac (Forward Air Controller), corsi Eor, Eod e Iedd sugli ordigni esplosivi e improvvisati, corso avanzato di paracadutismo con tecniche Halo e Haho, corsi di lingue.

Compiti. Il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” nasce con l’esigenza di affiancare al Nono reggimento incursori paracadutisti “Col Moschin” un reparto in grado di supportarne le operazioni. Al “Monte Cervino” è quindi richiesto di effettuare (sia a livello unitario, che di aliquote di compagnia o più semplicemente di squadra) azioni dirette in profondità, incursioni, e sabotaggi a danni di obiettivi di elevato valore. Allo stesso è anche richiesto di assolvere compiti di fanteria leggera specializzata, in situazioni ad elevato rischio, quali le operazioni di supporto alle Forze Speciali e di assicurare una prontezza operativa con preavvisi minimi ed in presenza di ogni tipologia di terreno nonché condizione meteorologica. Onde portare a termine le missioni di cui sopra, il reparto effettua l’infiltrazione in zona operazioni (e l’esfiltrazione dalla stessa) con metodi terrestri, aerei o anfibi ed è l’unico addestrato ad operare in ambiente artico.

L'organizzazione del Quarto Ranger. L’esatto numero degli operatori del Quarto reggimento “Monte Cervino” così come le loro idendità non sono note. Possiamo comunque ipotizzare, visto l’ordinamento simile a quello di altri reggimenti di Forze Speciali, che sia composto da 100 a 200 uomini. Il reparto è strutturato come segue:

Un comando, articolato nelle sezioni maggiorità e personale, Oai, logistica e amministrazione.

Una compagnia comando e servizi, che dispone anche di un plotone trasmissioni e uno ricognizione.

Due compagnie fucilieri organizzate ciascuna da un comando, un plotone comando (squadra comando + squadra trasporti), tre plotoni fucilieri, un plotone armi di supporto.

I mezzi e le armi dei Ranger. I mezzi in dotazione al Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” sono quelli generalmente in uso presso le altre Forze Speciali italiane. Tra di essi si ricordano i Vm-90, i Vtlm Lince, i Vbl Puma, i Defender 90 oltre ai mezzi in dotazione alle truppe alpine come il Bandvagn 206. Per quanto riguarda i natanti utilizzano gli onnipresenti gommoni Zodiac Commando e a scafo rigido. Per quanto riguarda le armi individuali gli operatori Ranger del Quarto utilizzano una vasta gamma di armamenti che spaziano dalle pistole Beretta 92FS alla Glock 17, le pistole mitragliatrici Mp5 e 7 nella versione silenziata (Sd), il fucile d’assalto Beretta Arx 160, lo Steyr Aug (in fase di dismissione) ed il Colt M4 SopMod e l’H&K G36. Per quanto concerne il fuoco di squadra sono ancora utilizzate le mitagliatrici Mg 42 oltre alla Minimi mentre per il fuoco di precisione viene utilizzato in ambiente montano/artico l’Accuracy International Arctic Warfare, il Sako TRG, l’H&K G3SG/1 ed il ben noto M82 Barrett. Il plotone armi di supporto ha in dotazione sistemi d’arma controcarro a media gittata Mbda Milan, lanciarazzi controcarro Dynamit Nobel Panzerfaust 3-T, TOW e mortai Hirtenberger Mod. M6C 210 da 60 millimetri.

La portaerei Cavour, l’ammiraglia della flotta italiana. Davide Bartoccini su Inside Over il 14 ottobre 2020. Nave Cavour è una portaerei configurata per “decollo corto e atterraggio verticale” di aeromobili ad ala fissa, progettata all’alba del XXI secolo ed entrata in servizio – sebbene non pienamente operativa – nel 2009. Divenuta ammiraglia della flotta nel 2011, è intitolata al patriota, politico e imprenditore italiano Camillo Benso conte di Cavour – nome in precedenza dato alla corazzata Conte Cavour -, mentre il suo identificativo ottico “550” proviene dall’incrociatore Vittorio Veneto, ex nave ammiraglia della Marina Militare. Al fianco dell’incrociatore portaerei Giuseppe Garibaldi – e presto dalla portaeromobili Trieste – rappresenta la punta di diamante della flotta italiana; e la capacità di proiezione di potenza che il nostro Paese può esercitare nel Mar Mediterraneo e nelle zone più “calde” che necessitano l’intervento, ma soprattutto la sorveglianza e la protezione, dei membri della Nato. Le caratteristiche.

Lunghezza: fuori tutto 244 metri

Larghezza: massima 39 metri

Pescaggio: 8,7 metri

Velocità massima: più di 28 nodi (51 km/h)

Autonomia: 7.000 miglia marine ad una velocità di 16 nodi

Dislocamento: 28.000 tonnellate pieno carico

Equipaggio: 1.210 divisi in 452 marinai, 203 del gruppo aereo imbarcato, 140 comando complesso e fino a 400 fanti di marina del Reggimento San Marco

Descrizione: La Cavour, quale unico vascello della sua classe, è una portaeromobili Stovl sviluppata su un ponte di volo lungo 234 metri e provvisto di “sky jump“. La nave è dotata di sei punti di decollo ed appontaggio per aerei ed elicotteri, due aree di parcheggio aeromobili e due elevatori da 30 tonnellate che collegano il ponte di volo con l’hangar sottostante. Sul ponte vi è un’unica isola di comando, sul lato di dritta del ponte di volo. Con un dislocamento di oltre 28mila tonnellate, è propulsa da un apparato motore convenzionale basato su quattro turbine a gas Avio da 22 mw ciascuna. Esso le garantisce di raggiungere una velocità massima di 28 nodi, e un’autonomia di 7mila miglia marine ad una velocità di 16/18 nodi di media. Come unità portaeromobili, la maggiore in linea con la Marina Militare prima del varo della Trieste, può imbarcare un gruppo di volo misto di oltre 20 aeromobili tra aerei ed elicotteri e può fungere come piattaforma di lancio e logistica di operazioni anfibie, avendo previsto al proprio interno gli spazi adatti ad accogliere non solo oltre 400 fucilieri di marina del Reggimento San Marco, ma anche i mezzi anfibi preposti alle operazioni di sbarco nell’apposito garage sottostante all’hangar. Stiamo parlando di almeno 50 veicoli medi anfibi Lvtp 7 e/o mezzi corazzati Vcc 80 Dardo. In altre configurazioni può trasportare fino a 24 veicoli corazzati pesanti Mbt Ariete. Il costo complessivo dell’unità, compreso il refitting del 2018 e l’implementazione del gruppo aereo imbarcato, ha superato, secondo le stime generali, 1,5 miliardi di euro.

I sistemi elettronici:

La portaerei Cavour è dotata di una serie di sistemi radar e sensori elettronici che le consentono di svolgere un’ampia gamma funzioni nell’ambito di azioni navali, operazioni di volo, per la comunicazione e per l’autodifesa da qualsiasi genere di minaccia. Essi sono, nel dettaglio:

Spy-790 Empar: radar volumetrico 3d capace di tracciare 300 tracce e 12 bersagli contemporaneamente con portata superiore ai 100 km

Sps-798 Ee: radar 3d “early warning” in grado di rilevare minacce ad elevatissima distanza dalla nave (500 tracce simultanee a 300 km di distanza)

Sps-791 Rass: radar di sorveglianza e di superficie in grado di scoprire unità navali, velivoli a bassissima quota e missili in avvicinamento

Spn-753: radar nautico di ricerca

Spn-720: per guidare gli aeromobili in fase appontaggio

Spn-41 A e Tacan Srn-15 A: in grado di far eseguire avvicinamenti di precisione e di fornire informazioni agli aerei in navigazione

Sna-2000: sonar di scoperta

IR St Sass: rilevatore infrarosso

Ewss: scanner radio in grado di analizzare lo spettro e rilevare eventuali emissioni radio (e quindi anche eventuali radar attivi)

Slat: rilevatore di siluri in arrivo (vedi armamenti)

Iff Sir R/S: identificazione certa di bersagli

I sistemi d'arma:

Oltre alla forza aerea imbarcata, principale asset offensivo di questa unità di superficie della Marina Militare italiana, la Cavour è dotata di una serie di sistemi di difesa a corto/medio raggio:

3 mitragliatrici Kba 20/80 mm, 2 poste lateralmente e 1 a prua

2 cannoni Cwis Oto Melara 76/62 mm super rapido

Sistema Saam/It 32 celle in blocchi da 4 (8 celle ciascuno) del tipo Sylver A-43 con missili Aster-15 (corto raggio, 30 kg e carica da 13 kg)

2 contromisure Sclar-H da 20 tubi per razzi da 105/118 mm posizionati lateralmente a prua

2 contromisure anti-siluro Slat

Il gruppo imbarcato: La Cavour prevede un gruppo imbarcato di aeromobili ad ala fissa e rotante di 22 unità. Ma in caso di necessità ed emergenza, può trasportare in un teatro operativo fino a 36 velivoli. Numero che prevedrebbe il completo carico degli hangar e di tutti gli spot sul ponte di volo; benché questa viene considerata un’eventualità remota, analoga alla necessità della Royal Navy di trasportare più velivoli possibili nelle terre d’oltremare durante il conflitto delle Falkland. I velivoli in forza al gruppo aeromobili imbarcati dell’Aviazione Navale comprende gli aerei d’attacco al suolo Av-8B Harrier Plus e una combinazione di elicotteri imbarcati, in funzione antisommergibile, ricerca e soccorso e utility come gli Sh-3D, gli Nh-90 e Eh-101. La Cavour è stata inoltre configurata per accogliere i nuovi caccia di 5ª generazione F-35 Lightning II nella versione “B”, ossia la configurazione “Short Take-Off and Vertical Landing” che il nostro Paese, parte integrante del programma Joint Strike Fighter, ha acquisito. Dei quindici ordinati, 3 sono già stati consegnati. Gli F-35 andranno a sostituire gradualmente i più antiquati Harrier.

La storia della Cavour, l'ammiraglia: La prima nave a fregiarsi del titolo del patriota risorgimentale fu una nave da trasporto a vela in servizio nei primi anni del Regno d’Italia. La seconda fu una corazzata varata nell’anno 1935 e affondata dai bombardieri e dagli aerosiluranti inglesi nella famigerata “notte di Taranto” del 1940. La portaerei Cavour è il secondo vettore aeronavale della storia della nostra Marina – dato che non possiamo considerare di fatto la portaerei Aquila, sviluppata a partire dal 1938, pronta al varo del 1944 ma smantellata dai tedeschi nel 1945, come la prima portaerei italiana. Dopo l’entrata in servizio della nave Garibaldi nel 1985, la Marina Militare Italiana ha vagliato la pianificazione per lo sviluppo di una portaerei che rispondesse a determinate specifiche: ponte più grande e maggiore dislocamento. Questo in un momento che vedeva l’Italia come attore politico non di secondo piano nel teatro della Guerra Fredda, quale membro attivo se non “decisivo” dell’Alleanza Atlantica. Con il progressivo disgelo tra il blocco occidentale e quello sovietico, il progetto venne abbandonato per essere ripreso – con caratteristiche differenti – all’alba nel nuovo millennio. Il 22 Novembre 2000 la Direzione Generale degli Armamenti Navali firmò infatti un contratto con Fincantieri per la costruzione di una “nuova portaerei” che avrebbe visto impegnati i cantieri di Riva Trigoso e quelli Muggiano. L’obiettivo era quello di varare, entro un lustro da allora, un vettore aeronavale che raggiunga quasi 30mila tonnellate di dislocamento per un dispiegamento “dual use”. La nuova portaerei, che ha solcato il mare per la prima volta nel 2006, ricevendo la bandiera di combattimento nel 2009. La prima missione è stata un’operazione congiunta con la Marina brasiliana per la crisi di Haiti nel 2010 e ha raggiunto la piena capacità operativa al termine esercitazione Mare Aperto nel 2011, diventando lo stesso anno ammiraglia della flotta sotto il motto di “In arduis servare mentem”. Da allora prende parte a numerose missioni di pattugliamento e addestramento nel Mediterraneo. Divenendo dal 2015 la nave comando dell’Operazione Eunavfor Med. Dopo il refitting del 2018, la Cavour rappresenta, insieme alle portaerei britanniche della classe Queen Elizabeth e alle portaerei americane classe Nimitz e Ford, l’unico vettore navale che possa vantare la capacità di operare con il caccia di ultima generazione F-35: punta di diamante delle forze aeree occidentali. La Cavour, quale vettore aeromobile pienamente al passo con i tempi, consente all’Italia non solo di essere annoverata tra le poche nazioni dotate di portaerei “operative” (Usa, Regno Unito, Francia, Russia, Cina, India, Giappone), ma di proiettare la propria potenza ben oltre i confini nazionali; per missioni di umanitarie, e per essere di supporto a qualsiasi genere operazione militare nazionale o interforze.

·        In odor di Santità.

Il sangue resta solido. San Gennaro fallisce il miracolo, non si scioglie il sangue: cosa vuol dire. Redazione su Il Riformista il 16 Dicembre 2020. Il "miracolo" della liquefazione del sangue di San Gennaro non si è rinnovato. Il prodigio del santo protettore di Napoli era atteso questa mattina, ultima delle tre date annuali nelle quali tradizionalmente si ripete, ma al termine della messa celebrata alle 9 presso il Duomo di Napoli l’abate della Cappella di San Gennaro, Vincenzo De Gregorio, ha annunciato il non verificarsi del miracolo. “Quando abbiamo preso la teca dalla cassaforte il sangue era assolutamente solido e rimane assolutamente solido”, ha spiegato l’abate. La teca sarà riportata nella Cappella alle 12, per essere ripresa nuovamente alle 16.30. Alle 18:30 quindi sarà celebrata una nuova messa con la speranza per i fedeli napoletani di poter assistere all’annuncio dell’avvenuto miracolo, in memoria dello scampato pericolo di Napoli dall’eruzione del Vesuvio del 1631. Quest’anno le celebrazioni si sono svolte sull’altare maggiore del Duomo a causa del Coronavirus, per poter garantire il distanziamento previsto dalle norme anti-Covid, impossibile da mantenere all’interno della più piccola Cappella di San Gennaro, gestita dalla Deputazione San Gennaro. Poche anche le persone presenti in cattedrale o all’esterno, proprio a causa dell’emergenza sanitaria legata al virus. Da ‘tradizione’ nelle occasioni in cui non si è sciolto il sangue sono avvenute sventure per la città di Napoli e non solo: nel settembre del 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, nel 1973 l’epidemia di colera nel capoluogo campano, mentre nel 1980 il drammatico terremoto che devastò l’Irpinia.

Marino Niola per “la Repubblica” il 17 dicembre 2020. Faccia gialla, dacci un segno. Liberaci dal virus". Ma ieri san Gennaro ha detto no. E il suo sangue è rimasto irrigidito nell' ampolla. Gettando un' ombra scura sul morale di tanti, credenti e no. Perché il miracolo più famoso del mondo è sempre stato letto come una profezia. Un pronostico sul futuro che, il "vero dio di Napoli", come lo chiamava Alexandre Dumas, scrive a lettere scarlatte. Il prodigio si ripete tre volte all' anno, il 19 settembre, giorno del martirio. Il primo sabato di maggio in ricordo della traslazione delle spoglie da Pozzuoli alle catacombe napoletane. E il 16 dicembre, anniversario della spaventosa eruzione vesuviana del 1631, quando la nube ardente che precipitava sulla città si arrestò davanti alle sante reliquie portate in processione. Questo sangue che rivive periodicamente è da sempre oggetto dell' interpretazione popolare che dai tempi e modi della liquefazione trae auspici positivi o negativi. Cosa che dava molto fastidio agli intellettuali illuministi, come Voltaire, indignati da quest' uso superstizioso della fede che finiva per trasformare il santo in uno "spione di Dio". Un display dell' ira divina. Per certi versi questo fenomeno ai confini della realtà somiglia molto a un antico oracolo, tant' è che richiede sempre una decodifica, come i responsi della Sibilla. Non a caso ieri il cardinale uscente, Crescenzio Sepe, dopo l' ultima esposizione infruttuosa della giornata ha fornito una lettura equilibrata, da buon pastore che rassicura il suo gregge spaventato. «L' importante è sentirci uniti», ha detto. Ma la vox populi non si è sentita affatto rassicurata. E si è affrettata a riepilogare i miracoli negati del passato. A cominciare dal 1940, quando il mancato scioglimento coincise con l' entrata in guerra dell' Italia. Mentre nel settembre 1973, il sangue rimase solido e meno di un mese dopo il colera presentò il conto ai partenopei. E infine il 1980 quando al silenzio del martire seguì il terremoto che il 23 novembre devastò la Campania e la Basilicata. Devozione o superstizione? La soglia fra le due è davvero sottile. Ma in ogni caso non diminuisce il valore sociale e politico del patrono. Di fatto san Gennaro è un santo civico, un totem identitario che come tale appartiene a credenti e non credenti. Lo conferma il fatto che a custodire le preziose ampolline sono il sindaco della città e una deputazione composta da 11 laici nominati dal Ministero dell' Interno. In realtà questo è un teatro del sacro, che consente a tutti di mettere in scena paure, ansie e speranze. E mai come adesso, in piena pandemia, un segno dall' alto sarebbe stato maledettamente importante. Se non altro avrebbe fatto da placebo.

Marco Ciriello per “il Messaggero” il 17 dicembre 2020. Non bastava il Covid: ora c' è anche il sangue di San Gennaro che non si scioglie. Domenico Rea diceva che il popolo napoletano era stato così dentro la storia e così maltrattato, deriso e beffato, che ha finito per uscire dal tempo, creando una città-nazione eterna, dove la legge va da San Gennaro alla cabala. San Gennaro è sempre stato il più prossimo dei potenti e quello con la soglia più vicina al mondo che contava, in poche parole uno di famiglia andato a stare bene, anche se passando per una tribolazione. L'attesa eri, al termine di una lunga giornata di preghiera, la teca con l' ampolla è stata riposta nella cassaforte della Cappella del Tesoro, tra la delusione dei fedeli. «Vogliamo fare un atto di vera e profonda devozione al nostro Santo Gennaro, siamo uniti nel suo nome. È lui che ci aiuta a vivere, a testimoniare la fede, e anche se il sangue non si scioglie non significa chissà che cosa», ha detto il cardinale Crescenzio Sepe, che a breve lascerà la Diocesi di Napoli. Attraverso il sangue di quel corpo passava e passa l' identità napoletana. Il cambio di stato del sangue, quel momento di scioglimento, è lo stesso che hanno vissuto gli antenati della città: attesa, emozione, sguardo all' ampolla, è un riconoscimento nel sangue che diventa identità: nello spazio e nel tempo, e che sancisce, nella storia, l' essere napoletani. È un rito che si ripete tre volte l' anno, e oltre a ribadire l' essere e la sua riconferma, dice anche come: se con gioia o con dolore. Lo scioglimento del sangue è un privilegio e un prodigio che avviene mediante una materia viva e che si ripete nel tempo, mentre i miracoli avvengono, generalmente, una volta sola. Invece, lo scioglimento del sangue è una finestra spazio-temporale che diventa dialogo, un sistema comunicante con quello vulcanico del Vesuvio: il sangue si scioglie, la lava resta a posto suo; il sangue non si scioglie, la lava che sia vera o sotto altre forme: colera, occupazioni, guerre devasta tutto. Oltre a Gennaro, a Napoli sciolgono o scioglievano il sangue anche Santa Patrizia, Sant' Alfonso Maria de' Liguori, San Lorenzo, Santo Stefano e San Luigi Gonzaga. E, con tanto sangue in circolo non potevano mancare i custodi-collezionisti di quel sangue, come il canonico Nicola Tozzi che aveva radunato nella sua casa di Materdei una collezione di sangui di dodici santi, come racconta Francesco Palmieri ne L' incantevole sirena che raccoglie tutte le vicissitudini del sangue napoletano: macellazioni, conservazioni e venerazioni. Gli studiosi Alfano e Mitrano dalla modalità del fenomeno ricavarono una scala: 1) ottimo; 2) buono; 3) mediocre; 4) sfavorevole; 5) pessimo; 6) nullo. È sfavorevole lo scioglimento avvenuto in tre ore. È pessimo se avviene dopo più di tre ore. Nullo se il miracolo non avviene. Con questi criteri hanno incrociato calamità e grandi lutti a Napoli dal 1661 al 1947 con: epidemie (e ci siamo), rivoluzioni (magari), invasioni (con Napoli che diventa Hong Kong?), siccità (economica), morte di arcivescovi, guerre (urbane, già fatto), piogge disastrose (quindi una crescita delle dirette di De Luca), carestie (e ci siamo), eruzioni del Vesuvio e terremoti (sarebbero un carico pesantissimo), morte di persone reali e pontefici (in questo caso in ritardo sulla marcatura di Maradona ma è normale trattandosi di Diego). Dei tre prodigi annuali quello più presagente è a settembre col 94%, seguito da questo di dicembre con l' 89%, segue maggio con solo il 36%. Percentuali preoccupati, soprattutto quest' anno, con un pandemia in corso, che nel terzo appuntamento lo scioglimento non c' è stato: creando sconcerto. Quello del sangue è un prodigio che moltiplica le discussioni, che porta alla parola e alla parodia, sia quelle degli studiosi delle religioni, sia quelle del popolo, come le parenti di San Gennaro che vantano un diritto speciale: residenti nella zona del Molo piccolo, facevano di cognome Januario e rivendicano una appartenenza che porta a delle vere e proprie esplosioni emotive, preghiere e invettive che culminano in: «Oh Guappone de la nosta Santa Fede, Fa a faccia tosta cu la SS. Trinità». Poi ci sono i dialoghi cinematografici, meno irruenti, come quello di Nino Manfredi in Operazione San Gennaro che gli promette Eusebio e un parco tematico in cambio del permesso di derubarlo. Quelli intimo-teatrali di Massimo Troisi e Lello Arena: una disputa agli occhi del Santo, usato per vincere al lotto dal secondo e deriso dal primo; e, infine, quelli musicali, su tutti l' invo-canzone Faccia gialla di Pino Daniele che gli chiede di salvare pure «'e fessi». Scartati i potenti, ai napoletani non rimane che il Santo, col quale dialogare e al quale domandare, per questo nessuno si preoccupa se il prodigio è vero o no, se le pietre di Pozzuoli hanno raccolto il sangue o meno, l' importante è l' atto, 'o sangue. Come capisce Curzio Malaparte nel finale di Kaputt. Dopo tanto sangue della Seconda guerra mondiale, torna a Napoli e viene investito dalla corsa dell' intera città che sembra andare verso il Duomo, anelando il sangue e il suo prodigio, che poi è il cambiamento.

(ANSA il 22 dicembre 2020) - Sarà beato il giudice Rosario Livatino, assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, all'età di 37 anni, dai mafiosi della 'Stidda'. Di Livatino, nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, la Santa Sede ha infatti riconosciuto il martirio "in odium fidei" (in odio alla fede). E' questo il contenuto di un decreto di cui papa Francesco ha autorizzato la promulgazione, nel corso di un'udienza col cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi. L''intestazione del decreto recita esattamente che viene riconosciuto "il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele laico; nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia), il 21 settembre 1990". La prova del martirio "in odium fidei" del giovane giudice siciliano, secondo fonti vicine alla causa, è arrivata anche grazie alle dichiarazioni rese da uno dei quattro mandanti dell'omicidio, che ha testimoniato durante la seconda fase del processo di beatificazione (portata avanti dall'arcivescovo di Catanzaro, monsignor Vincenzo Bertolone, agrigentino e Postulatore della causa) e grazie alle quali è emerso che chi ordinò quel delitto conosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Andava quindi ucciso. Non è un caso che, come emerge dalle sentenze dei processi sulla morte del giudice, importanti esponenti locali di Cosa Nostra, quando Livatino era ancora in vita, lo etichettassero come "uno scimunito", un "santocchio" (un bigotto) perché frequentava assiduamente la parrocchia di San Domenico, a pochi passi dalla casa in cui viveva con i genitori. Una testimonianza quella del mandante, resa a News Mediaset, che è risultata decisiva così come quella di uno dei quattro esecutori materiali del delitto, Gaetano Puzzangaro, che quel 21 settembre era alla guida dell'auto che speronò la vettura del "giudice ragazzino" e che già in passato aveva deciso di rilasciare alcune dichiarazioni per la fase diocesana del processo. Puzzangaro ha trovato anche il coraggio di esporsi pubblicamente e intervistato da Tgcom24 si è detto "assolutamente pentito interiormente per quel gesto compiuto in gioventù; quella mattina speravo con tutto il mio cuore che il dottore Livatino facesse un'altra strada". Dopo la sua morte, nel 1993, Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i suoi genitori, aveva definito Livatino "un martire della giustizia e indirettamente della fede". Anche Papa Francesco, che ha molto sostenuto la causa di beatificazione aperta nel 2011, ha lodato la figura del magistrato: incontrando nel novembre del 2019 i membri del "Centro Studi Rosario Livatino", lo ha definito "un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l'attualità delle sue riflessioni". La cerimonia di beatificazione di Rosario Livatino potrebbe svolgersi nella primavera del 2021 proprio ad Agrigento.

Francesco La Licata per “la Stampa” il 23 dicembre 2020. Avrà l' onore degli altari e starà fra i santi, il giudice ragazzino. Così è stato deciso dalla Chiesa, riconoscendo che il magistrato Rosario Livatino, assassinato dalla mafia il 21 settembre 1990, fu martire "in odium fidei". Cioè ucciso in odio alla fede e a causa della propria rettitudine morale che lo rendeva "inavvicinabile" e dunque non corruttibile. E per questo sarà beato, come hanno voluto ben due papi: Giovanni Paolo II e Francesco. È la conclusione di una delle vicende più toccanti della storia delle vittime di mafia. Quando venne ucciso, sulla strada fra Canicattì e Agrigento, Livatino aveva 37 anni e rappresentava uno dei pochi presidi di legalità istituzionale del suo territorio. Era giovane ma aveva dimostrato una buona perizia professionale districandosi in un ambiente ad altissima densità criminale e arrivando a collaborare con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in una delicatissima inchiesta sulla finanza mafiosa tra il Canada e l' Argentina. A uccidere il giovane magistrato fu la Stidda, una variabile impazzita di fuorusciti da Cosa nostra che utilizzarono l' omicidio anche per affermare la supremazia sul territorio. In quel momento quella regione era particolarmente pericolosa perché la Stidda agiva con grande aggressività. E la convivenza sociale non era per nulla facile. Basti pensare che nello stesso edificio dove abitava il giudice coi suoi genitori aveva casa anche il boss del paese. Livatino, per incontrarlo il meno possibile, si era fatto costruire un'entrata indipendente. Il nomignolo di giudice ragazzino, che ha ispirato un film di Alessandro Di Robilant, gli venne da un "infortunio" occorso a Francesco Cossiga che puntò il dito contro quei magistrati giovani e inesperti che pretendevano di giudicare la politica. A mettere le cose a posto ci pensò Giovanni Paolo II, colpito da un incontro con i genitori del giudice durante il quale gli furono mostrati gli scritti della giovane vittima. Il Papa lanciò il primo anatema contro i mafiosi («Un giorno verrà il giudizio di Dio. Pentitevi»). Il resto è opera di Papa Francesco e della sua chiara e inequivocabile scomunica per gli «uomini della mafia» e la concessione dello status di beato per un uomo retto che non volle abiurare alla propria fede.

Il logos e il mistero del Vangelo: il monito di Don Lorenzo Milani. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 2 Agosto 2020. “In principio era il verbo (il logos) e il verbo era vicino a Dio e il verbo era Dio”. Comincia così quello che in liturgia si chiamava l’Ultimo Vangelo, e che in realtà è il primo vangelo, è la premessa, il prologo del cristianesimo. Caro Monsignore, ammetterai che è un concetto un po’ complicato. Da ragazzino, quando ancora credevo e andavo a messa, sentivo leggere tutte le domeniche questo brano dal prete, per di più in latino, e non capivo niente. Mi sembrava una specie di poesia, un testo ritmico. Prima di tutto va sciolto il nodo tra vicinanza e identità. Cioè bisogna capire se il logos coincide con Dio o l’affianca. Quindi se esiste un Dio differente (e superiore?) al logos o no. Poi bisogna capire cos’è il logos. La razionalità? La ragione? Lo spirito? Il sentimento? Tutto questo insieme? E tutto questo è Dio, e quindi Dio è una astrazione ed è la premessa all’esistenza, ma non è una persona e dunque non ha identità. In questo caso il confine tra fede e ragione diventa sottilissimo, e anche la distinzione tra credente e non credente. Lo so che tu penserai che questa mia è una mania: cioè quella di negare la fede come elemento essenziale del cristianesimo. Forse hai ragione. Caro Direttore, l’inizio della tua domanda ha riportato anche me indietro negli anni. In effetti, la Messa, come si celebrava prima della riforma liturgica del Vaticano II, terminava con la lettura – ovviamente in latino come tutta la celebrazione – del “prologo” del vangelo di Giovanni. Era una scelta risalente a dopo il Concilio di Trento. Si voleva dare risalto all’inizio (prologo) del Vangelo di Giovanni. E ascoltarlo tutti i giorni, appunto, alla fine della Messa (di qui “ultimo Vangelo”). Era l’unica parte dei quattro Vangeli che si ripeteva quotidianamente. In effetti rappresentava una sorta di brevissima sintesi del mistero di Gesù, che ha le sue radici in Dio e la sua destinazione fra gli uomini. Si usciva di chiesa al termine della Messa con questa pagina evangelica in testa, Fu senza dubbio una scelta efficace, dato che anche a te è rimasto impresso il suo inizio solenne e misterioso come un inno. Incantava talmente la asciutta solennità di quell’inizio, anche se non capivamo le parole, che poi non facevamo mente locale al resto, che raccontava tutto il vangelo di Gesù in sintesi. Più facile da decifrare, perché la storia di Gesù la conoscono più o meno tutti. Lo scopo di quell’inizio misterioso e solenne era quello di farci assaporare lo svelamento dell’enigma di questa storia: pensate – dice in sostanza il testo – vengo a raccontarvi quello che è successo a “uno” che, sin dal principio, è intimo a Dio, anzi è una cosa sola con Dio, anzi… è il Figlio di Dio! Bene, prosegue il “prologo”, sapete che è successo? Ce lo siamo trovati davanti, uomo come noi, si è accampato in mezzo a noi (“caro factum est”) per persuaderci a riconciliarci con Dio e per infonderci il seme della sua stessa intimità, lo Spirito della sua stessa vita. Da quel giorno (il Natale) non si può più parlare di Dio senza la “carne”, senza l’uomo, senza il bambino, senza il debole. Non solo.  Sono successe cose impressionanti: quelli che avrebbero potuto riconoscerlo non ci sono arrivati. Quelli che non ne avevano mai sentito parlare sono stati invitati all’intimità di Dio e molti lo hanno potuto seguire con le loro gambe, vederlo coi loro occhi ascoltarlo con le loro orecchie, da zoppi, ciechi e sordi che erano, mentre li incoraggiava ad avere fiducia che c’era un posto bello anche per loro nel regno di Dio, anche se i loro preti facevano un po’ i difficili. Bastava che girassero la grazia (un aiuto gratuito) ricevuta a qualcun altro che stava peggio di loro e Dio non se lo sarebbe dimenticato. E questo, ribadisce Giovanni lungo tutto il quarto vangelo, non è una controfigura o un prestanome di Dio, che parla per parlare. Questo è il Figlio eterno! Questo è Dio che ama il suo prossimo – cioè noi, gli estranei, i peccatori, i cocciuti, i ribaldi – come se stesso! E muore – invece di fare sfracelli di lesa maestà – per tenere fede a questa ostinazione di Dio, che se li vuole riportare a casa: loro, prima ancora dei più intimi, dei più prossimi, dei più devoti. E così – come en passant – impariamo che la parola più profonda, più intima, più assoluta che definisce Dio è “generazione”, non “auto-realizzazione”. E chi genera vita (non chi sta seduto a pensare a sé ma che si impegna per cambiare il mondo per renderlo più giusto) e si svena per proteggerla, anche quella di coloro che non sono figli suoi, è mille volte benedetto da Dio, anche se non è uno stinco di santo. E si acchiappa un soffio di vita che non morirà mai. Lo capisci, caro Direttore, perché noi credenti ci teniamo così tanto a leggere il vangelo non solo come la storia edificante di un eroe sfortunato, seppure sublime, della generosità e della fratellanza umana? Se lo leggiamo come l’incredibile capovolgimento del Dio-Faraone al quale ci siamo abituati, è tutta un’altra storia. Il Dio del vangelo è un Dio capovolto, appunto. Non il più in alto, ma il più in basso; non noi alla sua ricerca (come fanno tutte le religioni), ma lui che scende per cercarci; non noi che prendiamo iniziativa per andare altrove, ma lui che ci parla per primo, e fin dal principio. E non è senza senso che l’evangelista abbia scelto la parola greca “logos” per descrivere questo capovolgimento di Dio in cerca dell’uomo. Logos deriva da leghein, che significa “parlare”, “discorrere”, “ragionare”, ma innanzitutto significa “legare”. Si potrebbe dire perciò “In principio è il Legame”, il “legame” di Dio con tutti gli uomini, con me, con te, con tutti. E il legame c’è nella realtà, aldilà se noi lo riconosciamo o meno. Non continuo su questo registro che ci porterebbe lontano. Ma una cosa è certa, aldilà della fede “catechistica”: chi si lega a Gesù – anche con una piccola fiducia, affidamento, e-mozione – si lega a Dio. E il problema della fede si pone non sull’esistenza o meno di Dio ma sul legame o meno con lui e con gli uomini, con i poveri. Nella Lettera di Giacomo si scrive che anche i “demoni credono che c’è un solo Dio” (cfr. Gc 2,19) ma non sono certo dei credenti esemplari o comunque dei credenti. In realtà è il “legame” con Gesù l’inizio della fede cristiana. Anche se ancora non lo si comprende nella sua profondità. Il “legame” (il logos) di cui si parla si chiama “agape”, ossia amore gratuito che non esige contraccambio. E’ questa la sostanza della fede cristiana. Su questo si potrebbe parlare ancora! Per ora mi fermo a dire che, come in qualsiasi rapporto, il legame (il rapporto di amore) tra i due è sempre un movimento sul piano e-mozionale. E si sostanzia di conoscenza reciproca, di crescita comune, di confronto anche dialettico. Quanti credenti si sono “confrontati” con Dio. Basti pensare a Giobbe! E comunque la verità dell’agape, del logos, del legame con Dio è l’amore per “i piccoli”, per i poveri. In questo amore infatti appare evidente la gratuità del dare, senza pretendere di ricevere. Ed è una dimensione che va oltre qualsiasi confine, anche religioso. Te lo dico con un esempio che mi è capitato in questi giorni. Rileggendo la vita don Milani mi sono imbattuto in questa frase rivolta ai suoi ragazzi scritta nel suo testamento: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non sia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto”. Certamente don Milani ricordava l’ammonimento della Lettera di Giacomo: “Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore?”(Gc 2,20). Ecco perché Giovanni apre il suo vangelo con il Prologo, con il “logos” che si fa carne, soprattutto nei più piccoli. Per questo l’evangelista ha incominciato il suo Vangelo con quelle affermazioni che non dimentichiamo. In principio era il “Perché” di Dio – il perché della sua tenerezza, il perché della sua passione, il perché della creazione e il perché del suo riscatto. Il Logos, appunto: la ragione di tutto, il legame di tutti, e il tratto personale che viene dal miracoloso evento della generazione (come sappiamo persino noi umani). Ogni volta che lo vedi fermarsi con la Samaritana o cambiare la vita di uno Zaccheo, ti deve venire un brivido: perché questi sono i fatti dell’unica rivelazione di Dio che noi conosciamo. L’unica che osi giurare questo è il Logos, questo è il Perché, questo è Dio. Un uomo semplicemente religioso, che vuole fare propaganda alla religione, non oserebbe inventarsi una cosa simile, se non ci avesse sbattuto contro. Non ci credevamo neppure noi, dice Giovanni: ma l’abbiamo toccata. Che possiamo dirvi di più?

Il ritratto. Don Lorenzo Milani, il prete che odiava il merito e restò solo. Eraldo Affinati su Il Riformista il 29 Dicembre 2019. Con Università e pecore, suggestiva e frizzante grafic novel sulla vita di don Lorenzo Milani (Feltrinelli Comics), disegnata e scritta dalla pronipote Alice, siamo sempre dalle parti di Pierino e Gianni, gli indimenticabili protagonisti di Lettera a una professoressa. Eccoli qui ancora fra noi: il bambino avvantaggiato, che prima di entrare in aula, è andato al cinema e a teatro, sa giocare a tennis, conosce tanti vocaboli, frequenta persone altolocate, e quello svantaggiato, che non ha mai letto un libro in vita sua, proviene da una famiglia difficile, parla in dialetto e il pomeriggio si fa le canne dietro al muretto con gli amici. Entrambi si presentano all’interrogazione e recitano la lezione prendendo la sufficienza. Questo significa, ora e sempre, “fare le parti uguali fra diseguali”. Se al primo dai sei, al secondo dovresti dare almeno otto per marcare la diversa posizione di partenza, premiando il movimento registrato dagli studenti, e poi certo anche il traguardo. Parole (sante) del priore di Barbiana costantemente tradite dai cosiddetti standard di valutazione oggettiva che vanno per la maggiore. Piccolo recente aggiornamento bibliografico sulla spinosa questione: Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli (Laterza). Sintetizzabile così: non solo i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario. Da spiegare a tutti quei genitori che, con l’intenzione di proteggere i propri pargoletti, li iscrivono in istituti speciali, col risultato di farli crescere in un acquario fiorito. Ma chi era Pierino? Don Lorenzo pensava innanzitutto a se stesso, alla sua vita privilegiata che si gettò alle spalle per indossare gli scarponi sporchi di fango e mettersi dalla parte degli ultimi, come ci raccontò in una memorabile biografia Neera Fallaci. Tuttavia ha ragione da vendere Alice Milani, nata a Pisa nel 1986, nell’indicare suo padre, Andrea, figlio di Adriano, fratello del priore, quale modello del principino. È tale impostazione, intima e personale, a rendere il fumetto, dedicato al genitore, matematico e astronomo scomparso nel 2018, autentico e persuasivo. Il titolo dell’opera richiama una celebre incompiuta lettera che don Lorenzo stava per spedire al magistrato Gian Paolo Meucci il 30 marzo 1956, sunteggiando in stile sarcastico e graffiante la secolare ingiustizia sociale che continua a vedere il contadino Adolfo condannato a pascolare le pecore per consentire al padroncino di poter studiare fino a trentacinque anni «e far l’assistente universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e nelle biblioteche là dove l’uomo somiglia davvero a colui che l’ha creato che è sola mente e solo sapere». Frasi scolpite nella roccia del Novecento: ma quante volte, nei modi più imprevedibili e raffinati, divelte e cancellate? Già dalle prime immagini l’autrice mostra di voler fare sul serio: con piglio alla Art Spiegelman, ritrae se stessa in visita alla nonna Maria Teresa. L’anziana donna, classe 1923, la stessa del priore, è un personaggio straordinario: studentessa del Liceo Berchet, comincia a frequentare Adriano proprio mentre l’amica Carla Sborgi prova a fidanzarsi con Lorenzo. Sappiamo come sarebbe andata a finire: uno diventò prete (e profeta, scrittore, educatore), l’altra si sposò (con il fratello di Maria Teresa!), ma non trovò mai davvero se stessa, se non forse quando l’antico compagno la richiamò al capezzale di morte, nella casa di Via Masaccio a Firenze, presentandola ai ragazzi che lo accudivano come “la mia fidanzata”. I disegni di Alice, espressivi quando serve e perfino esplosivi nelle due pagine aperte, scoprono, sulla scorta della testimonianza di Maria Teresa (che si separò da Adriano, non proprio fedele, solo due anni dopo il matrimonio), piccoli altarini: Andrea, ad esempio, in terza elementare, si faceva portare la cartella da un ripetente, tal Martinelli. “È stato sempre autorevole, tuo padre, fin da bambino» spiega la nonna, legittimando la scelta pauperistica del priore. Il quale però voleva bene al nipotino. Altrimenti non gli avrebbe dedicato, in modo dolce e scherzoso, Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, il volume scoperto da Alice nella biblioteca del padre, che in fondo, coi suoi grafici, gli schemi e i disegni, sembra sia stata la base ispirativa di questa storia a fumetti: «Caro Andrea, ti nomino mio rappresentante con esclusiva assoluta e provvigione dell’80% per tutta la Papuasia Mediorientale (compresa Monza). Un abbraccio affettuoso dal tuo Lorenzo».

Chi era Lorenzo Milani, il Gandhi italiano che finì alla sbarra. Redazione su Il Riformista il 29 Dicembre 2019. Lorenzo Milani nacque a Firenze nel 1923. In una famiglia borghese e benestante. I genitori si trasferirono a Milano, negli anni Trenta, e poi si sposarono con rito cattolico, sebbene fossero ebrei, per sfuggire al razzismo e alle leggi razziali che stavano per arrivare. Lorenzo si convertì al cattolicesimo nei primi anni Quaranta e iniziò la sua vita da prete (in Toscana) che diventò quasi subito vita da prete del dissenso. Entrò spesso in conflitto con il suo vescovo (si chiamava Florit il vescovo di Firenze) e anche con il Vaticano. Don Milani costruì il suo insegnamento su due o tre capisaldi: la nonviolenza, la lotta contro le diseguaglianze, il diritto allo studio e al sapere. Nel 1954 fu mandato per punizione a fare il prete in un paesino minuscolo del Mugello, a Barbiana. Lì lui fondò la famosa scuola di Barbiana, dove raccoglieva tutti i ragazzi poveri della zona, e che diventò un esempio di scuola fondata su principi opposti alla scuola di classe. Suscitò molte polemiche. Fu attaccato duramente da molti, compreso Montanelli. Scrisse un libro, insieme ai suoi giovani allievi, che aveva questo titolo: “Lettera a una professoressa”. Diventò la base teorica e ideale di almeno un pezzo della rivolta giovanile del ‘68 contro la scuola di classe. Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera ai cappellani militari che avevano polemizzato in modo sprezzante contro gli obiettori di coscienza (al servizio militare). Milani sosteneva che l’obiezione di coscienza è un valore e intitolò la lettera “L’obbedienza non è più una virtù”. Gli fu difficile trovare un giornale dove pubblicarla, alla fine accettò l’offerta di Luca Pavolini, direttore di Rinascita, che era lil settimanale del Pci. Per quella lettera finì sotto processo per vilipendio e apologia di reato. Fu assolto in primo grado, nel 1967, ma il Pm andò in appello. Milani morì di tumore il 26 maggio del ‘67. Pavolini, l’anno successivo, fu condannato a cinque mesi di prigione.

La baracca 725 e la scuola per i poveri. Chi è Don Roberto Sardelli, il prete degli ultimi che amò solo i diseredati. Eraldo Affinati su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Cinquant’anni fa poteva accadere a Roma che un ragazzino finisse ucciso mentre giocava lungo i binari della ferrovia, come oggi capita nelle periferie delle metropoli asiatiche o africane. Dentro le povere abitazioni cresciute alla maniera di piante rampicanti sui ruderi antichi dell’Acquedotto Felice non c’era energia elettrica, né impianti idraulici. Quando pioveva si gettava un’incerata sul tetto in eternit, senza sapere che fosse cancerogeno, nella speranza che tenesse. Le persone che vivevano in quelle condizioni erano migranti italiani, in maggioranza provenienti da Villavallelonga, un comune in provincia dell’Aquila, ma anche da Calabria e Sardegna. Quando Mohamed e Lucinda eravamo noi. Proprio accanto all’insediamento, che venne smantellato nel 1973, nel momento in cui gli abitanti furono “deportati” a Nuova Ostia, sorge ancora oggi la grande Chiesa di San Policarpo (all’epoca soprannominata “il panettone”, e “la centrale nucleare”). Fu dalla terrazza dell’edificio religioso che don Roberto Sardelli, giovane prete appena nominato vice parroco, vide per la prima volta lo scempio posto accanto ai fascinosi pini della Via Appia, con le reggie abusive dei nuovi palazzinari. Era un ex funzionario di banca che, dopo aver preso i voti, aveva girato un po’ in Europa, forse perché i suoi superiori credevano potesse intraprendere una carriera ecclesiastica nei ranghi vaticani e avesse quindi bisogno di imparare le lingue. In Francia gli capitò di incontrare in una colonia estiva alcuni ragazzi di Barbiana, i quali lo invitarono a conoscere il priore, loro maestro. Don Roberto si appassionò allo stile educativo di don Lorenzo Milani, superando in un battibaleno certe sue asprezze caratteriali. Al ritorno nella capitale venne assegnato in una parrocchia di Vitinia, non distante dal mare, ma presto egli comprese di non trovarsi a suo agio nelle vesti canoniche che gli proponevano: limitarsi ad amministrare battesimi e cresime non faceva per lui. E così, dopo una forte crisi interiore, somatizzata con varie conseguenze fisiche, era stato mandato a San Policarpo dove tuttavia rischiava la medesima sorte. Fu la baraccopoli a salvarlo. Perché don Sardelli non si limitò a frequentarla dall’esterno. Alla maniera di Pietro, quando vede Gesù risorto sul lago di Tiberiade (Giovanni, 21, 1-14), ci si buttò dentro a corpo morto, andando ad abitare nella baracca 725. Gliela cedette a pochi soldi Rita, una prostituta, che continuò a praticare la sua attività pochi metri più in là. Cosicché all’inizio, quando i clienti bussavano alla porta e, invece della donna, vedevano un uomo barbuto, restavano di sasso. Chi voglia sapere come andò a finire tutta la storia dovrebbe leggere Dalla parte degli ultimi (Donzelli, pp. 197, 25 euro, prefazione e significativo contributo di Alessandro Portelli), un libro che raccoglie alcune interviste che Massimiliano Fiorucci, pedagogista da sempre attento alle sperimentazioni sociali più avanzate, riuscì a fare a don Roberto prima della sua scomparsa avvenuta a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, paese natale, il 18 febbraio 2019. Qui riportiamo l’essenziale: la famosa baracca 725 diventò una scuola per i ragazzini cresciuti lì attorno, pochi metri quadri di vulcanica attività didattica e non solo. In quel piccolo ambiente vennero composte, secondo il metodo della scrittura collettiva elaborato a Barbiana, “La lettera al Sindaco” e “La lettera ai cristiani di Roma” che, pubblicate sui giornali, Paese Sera in primo luogo, provocarono una serie di conseguenze a catena, sia all’interno della Chiesa, sia nelle istituzioni pubbliche. Don Sardelli, come disse lui stesso, non era “interclassista”, il che significa che prendeva consapevolmente le parti dei più svantaggiati contro chi stava meglio, senza curare, diciamo così, gli equilibri. Non aveva peli sulla lingua. Non esitò a polemizzare coi salesiani, ai quali rimproverava una contiguità troppo stretta coi poteri forti, Giuseppe Dossetti, che gli aveva chiesto quando facesse catechismo, Tullio De Mauro, il quale avrebbe voluto che i suoi scolari continuassero ad esprimersi in dialetto, e anche coi Papi, compreso Bergoglio, a suo avviso troppo diplomatico durante la trasferta brasiliana. Perfino Madre Teresa di Calcutta, vedendolo così battagliero, se ne ritrasse quasi intimorita. Insomma una personalità tagliente, eppure amatissima dal suo popolo: «Mi volevano bene. Ma anche se mi avessero voluto male, io non faccio la scuola perché mi vogliano bene, questo lo può fare un mercante, ma non un educatore. Un educatore deve anche essere duro e procurarsi il male che gli vogliono i ragazzini». Ai quali non si era limitato a togliere il calcio spingendoli alla lettura critica dei quotidiani. Abitando insieme alle famiglie, era diventato uno di loro. La sera andava da Upim a comprarsi il pesce surgelato che consumava bollito con un filo d’olio e del prezzemolo. Tutti lo vedevano. E capivano che non poteva esserci “vacanza”, né “ricreazione”, perché la scuola era la vita. Don Milani docet. Dal 1968 al 1973 furono cinque anni terribili e meravigliosi. Quando morì Clelia, non c’erano soldi per la cerimonia funebre. Allora Rita, la vecchia prostituta, le portò il suo vestito più bello. E don Sardelli celebrò il funerale davanti a tutto il quartiere. Aveva innescato così in quei poveri diseredati la consapevolezza del bene comune. Forse intendeva questo quando disse: «Io non faccio assistenza, ma creo coscienza».

Carlo Acutis, il beato di Internet a 15 anni. "Il bambino in Brasile e il santino con il giorno della morte", miracoli e misteri. Libero Quotidiano il 10 ottobre 2020. I miracoli e il mistero di Carlo Acutis. Il 15enne milanese morto nel 2006 per una leucemia fulminante continua a sconcertare il mondo. Oggi il ragazzo verrà beatificato ad Assisi, dove il corpo è esposto perfettamente conservato a 14 anni dal decesso. Sarà "beato di Internet" per la sua attività di divulgazione ed evangelizzazione portata avanti attraverso il web, ma anche nella vita di tutti i giorni e quasi senza che la sua famiglia, non praticante, se ne accorgesse. "Viveva per gli ultimi - spiega la madre Antonia Salzano a Repubblica -, ai suoi funerali c'erano senzatetto ed extracomunitari. Scoprimmo che li aiutava, portava loro cibo e coperte tutti i giorni". La sua fede era incrollabile, dimostrata con parole e gesti di straordinaria compostezza anche nella rapida, dolorosissima agonia. "Fin dal giorno del funerale Carlo era santo per molti - rivela la madre -. Iniziarono ad arrivare testimonianze di miracoli. Un bambino in Brasile, durante una novena rivolta a Carlo, guarì da una malformazione al pancreas. L'organo si rigenerò. Capita raramente. Ma in quel caso avvenne. Fu questo il miracolo che aprì la strada della beatificazione". C'è un altro episodio che non esce dalla mente della mamma: "Dopo la morte trovai un suo video, una sorta di testamento. Diceva che era destinato a morire. A Milano, il primo dell'anno, a catechismo  si usa pescare un santino in un cestino come accompagnamento durante l'anno. Nel 2006 pescò San'Alessandro Sauli, nel '500 vescovo a Pavia. Morì l'11 ottobre, lo stesso giorno in cui fu decretata la morte cerebrale di mio figlio".

«Carlo Acutis, il mio studente beato. Era come un pezzo di cielo». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2020.

La storia di Carlo Acutis raccontata, dopo la beatificazione, dal suo insegnante: «A 13 anni scriveva che la vita è bella e impegnativa e non la si costruisce su ciò che è effimero». «Aveva una finezza, una signorilità innate… Per dire: c’era il portinaio, Mario, una figura storica del Leone XIII. Carlo, come altri ragazzi, lo salutava ogni mattina all’ingresso. Però capitava che talvolta entrasse dalla piscina, a lato. Mario mi ha raccontato che in quei giorni “il Carlo” andava a salutarlo all’intervallo, quasi scusandosi di non averlo fatto prima». Il padre gesuita Roberto Gazzaniga era assistente spirituale dei liceali in quegli anni, una figura analoga a quella della guida negli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio. E lo ricorda bene, Carlo Acutis, il ragazzo milanese di 15 anni morto nel 2006 di leucemia fulminante che ieri, nella Basilica Superiore di Assisi, è stato proclamato solennemente «beato».

Che ragazzo era Carlo?

«Un ragazzo capace di sorridere e scherzare, una presenza positiva. Una di quelle persone che, quando ci sono, tu stai meglio. Che ti aiutano a vivere, a livello umano e di fede. Lo vedevo e mi veniva da dire: questo è un pezzetto di cielo per gli altri ragazzi».

Si è ripetuto: un ragazzo normale. È così?

«Sì, ma di una normalità, una quotidianità dotata di spessore. Carlo era dotato. Molto. Sia dal punto di vista intellettuale — vidi i suoi libri di informatica: erano testi universitari — sia da quello spirituale. E sa una cosa? A quell’età c’è molta competizione. Si tende a non sopportare chi si distingue. Eppure con Carlo non era così. Aveva carisma. Era anche un bel ragazzo, le compagne lo notavano… Eppure non c’erano invidie. Non ho mai visto nessuno che litigasse con lui. Gli volevano bene. Una capacità rara di coltivare i rapporti umani. Uno dei compagni che a scuola faceva più fatica mi chiese di servire messa al funerale, Carlo lo aveva aiutato».

Già si parla del primo santo dei «millennials» e patrono di internet. Che modello è per i coetanei?

«Il modello di un testimone che evangelizza per come è, con il suo esempio. Non un credente “militante” che fa proselitismo. Parlando con il suo parroco, ho saputo che andava in chiesa ogni giorno, per l’eucaristia e la preghiera personale. Faceva volontariato, aiutava i più poveri e disagiati. Tutto questo si notava perché c’era e si vedeva, ma non era mai ostentato».

La discrezione…

«Sì, uno che vive la sua fede senza nasconderla né gettarla sul banco, che non la fa pesare e non accende nessuna luce su se stesso. Ma i santi sono questi: gente che vive la realtà quotidiana con impegno e una certa disinvoltura. Con il sorriso, con naturalezza. Per lui era come respirare. E non si tirava mai indietro».

Ad esempio?

«Ricordo che gli chiesi di preparare un Powerpoint, lui che era così impegnato nella carità e capace al computer, per illustrare le attività di volontariato del Leone XIII, il doposcuola, la mensa per i poveri, l’insegnamento dell’ italiano agli stranieri... Aveva appena iniziato la quinta ginnasio, era un compito che avrebbe spaventato tanti, da proiettare in tutte le classi. Lui ci si gettò a capofitto. Non ha potuto concluderlo. Il venerdì in classe non c’era. Una brutta febbre, il suo vecchio pediatra capì e disse di portarlo subito al San Gerardo di Monza. Ma non ci fu nulla da fare».

Morì in tre giorni…

«Lo portarono a casa. Era vestito con una tuta semplice. Ricordo che dissi alla mamma: troverà quello che ha scritto. Più tardi mi mostrò un libretto. Carlo, a tredici anni, scriveva che la vita è una cosa bella e impegnativa e non la si costruisce su ciò che è effimero. Aveva elencato una serie di virtù e disegnato una montagna dove si elevavano gradualmente. Un ragazzo di tredici anni, si rende conto?».

Carlo Acutis, un miracolo? La salma del ragazzino beato riesumata 14 anni dopo la morte. "Intatta", immagini sconcertanti. Renato Farina su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Constatare la gloria pubblica tributata ad un santo ragazzino, ma santo gigantesco, in questi momenti di grande scorno per la Chiesa è una delle ironie della storia, o un mistero di Dio, fate voi. Carlo Acutis morì all'età di 15 anni a Monza, il 12 ottobre del 2006, per una leucemia fulminante, che lo sorprese senza spegnergli una gioia sconveniente in chi sta per morire. Molti segni poco normali avevano cosparso il suo cammino in vita e poi erano coincisi con il soggiorno del suo corpo in un loculo ad Assisi, la città dove nella basilica di San Francesco sarà proclamato beato il 10 ottobre alle 16 e 30 in diretta tivù. (A proposito, non si ancora chi userà la formula di rito e scoprirà la sua immagine ufficiale di beato. Nel programma figura ancora il prefetto per le cause dei santi, ma ormai Angelo Becciu è cardinale decaduto e non è più abilitato a conferire aureole. Sarebbe un colpo fantastico se arrivasse invece direttamente il Papa, lasciandosi molti diavoli a casa sua, in Vaticano). Quali segni? Guarigioni istantanee in chi si accostò a Carlo chiedendogli una preghiera per un tumore inesorabile. Quindi, dopo il trapasso da una malformazione congenita, un caso impossibile: un pancreas risanato in un bimbo, per grazia chiesta e ottenuta da Carlo l'anniversario della sua morte, certificato da medici atei, come esigono le regole di arruolamento alle schiere celesti previste dalla Santa Sede. Altre faccende per taluni inquietanti e poco esteticamente congrue, ma di sicuro poco frequenti, sono state constatate in Messico e in Giappone in riferimenti a un suo intervento dopo il decesso.

La madre - In continuità con la mostra sui "miracoli eucaristici" da lui allestita poco prima della malattia, aveva avuto assicurazioni da Gesù che ci sarebbero stati "segni" simili. Lo ha raccontato a Stefano Lorenzetto sua madre, Antonia Salzano, donna coltissima, che il figlioletto ha strappato da un certo agnosticismo tirandola fuori per i capelli. Ostie candide, arrossate dal sangue e tessuti cardiaci palpitanti, gruppo sanguigno AB, lo stesso della Sindone. Finché un anno fa, come prescrive il protocollo canonico per i candidati alla beatificazione, la salma di Carlo fu esumata. Questo suo corpo risultò incorrotto, assolutamente intatto! Non un modo di dire. Alto m 1,82 come da carta di identità, pesante esattamente 70 kg, gli stessi verificati al momento del decesso all'ospedale San Gerardo in Brianza. Solo la pelle si era scurita come capitò ad esempio per Teresa di Lisieux (la piccola Teresa, 1883-1897) e prima a Bernadette Soubirous (la veggente di Lourdes). Da ieri questo strano spettacolo è oggetto dello sguardo di chi si reca ad Assisi. Sarà così fino al 17 ottobre. Per evitare esplorazioni da entomologi curiosi, il volto è stato coperto con un calco di cera. Ma che quel corpo lì sia intatto, è testimoniato da professori che nulla hanno che fare con l'incenso e le candele. Miracolo? La scienza saprà identificare ragioni dentro le leggi della fisica e della chimica: non è che si possa risalire, da questo fenomeno di certo piuttosto raro, alla mano divina. Ma accidenti quanta roba inspiegabile intorno a Carlo, inspiegabile e per giunta carica di promesse felici. Non è macabro venerare un corpo destinato alla resurrezione, le reliquie non sono marciume, ma muffa primaverile, scriveva Giovanni Testori. Irrazionalità e magia contro ragione e intelligenza? Mi permetto di eccepire. È il razionalismo che nega il divino asserendo sia un assurdo o impossibile. Razionalismo sta alla ragione come la polmonite ai polmoni. Buttare via il grande forse - mi permetto di sostenerlo - è, questo sì, irrazionale. La categoria suprema della ragione che cos' è se non quella della possibilità? Sappiamo così poco, e se i credenti sono attraversati da un sacco di dubbi, sarebbe onesto che lo ammettessero in senso opposto atei e agnostici. Intanto conviene spiegare chi era (ed è) Carlo. Nato a Londra nel 1991 da genitori che si trovavano da quelle parti per ragioni di lavoro, si rivelò presto un genio. Non è del tutto vero che il Cielo scelga solo pastorelli ignoranti, come amano ripetere i miscredenti alludendo alla loro facile manipolazione: predilige i puri di cuore, quello sì. A sei anni Carlo trafficava con il computer risolvendo quesiti matematici. A nove anni applicandosi a libri del Politecnico imparò a congegnare programmi informatici. Enfant prodige del web. Moderno? Arci-post-moderno. La scienza sa poco e balbetta, la fede apre le profondità del cosmo e della storia. Chi gli ha messo questo seme, dati i genitori aridi sul punto? Forse la tata polacca, Beata, devota di papa Wojtyla. Carlo a tre anni voleva entrare in ogni chiesa a salutare Gesù, nei parchi raccoglieva fiorellini per la Madonna.

Tra i senzatetto -  Chiese di anticipare la prima comunione a 7 anni. I genitori sorpresi lasciarono procedesse secondo i suoi desideri. Carlo ogni sera partiva da casa con contenitori termici per cibi e bevande, comprava coi suoi risparmi sacchi a pelo: andava a curare i barboni all'Arco della Pace a Milano. Serviva alle mense dei poveri in viale Piave dai cappuccini. Dava una mano a Baggio alle suore di Madre Teresa. Sul web comunicava la sua fede senza predicozzi, con semplicità, influencer di Dio. Nessun modernismo nelle questioni della fede: popolare, come chiedeva don Bosco. La solidità dolce della eucaristia, la gioia traboccante, l'ammirazione totale per Giovanni Paolo II e poi per Benedetto XVI. Finché arrivò la malattia. Lui ebbe consapevolezza prima che fosse diagnosticata. Amava tutto e tutti. In tutto vedeva Dio, in tutti vedeva Gesù. Era certo di star per morire. Disse ai genitori con allegria. «Offro queste sofferenze per il Papa, per la Chiesa e per andare dritto in paradiso senza passare dal purgatorio». La mamma si spaventò e chiamò un luminare, il professor Vittorio Carnelli. Esami, diagnosi infausta: leucemia mieloide acuta M3. Carlo ne fu informato dagli ematologi. Reagì con dolcezza e commentò: «Il Signore mi ha dato una bella sveglia». In questo mondo pieno di anime morte, sta suonando la sveglia in certe stanze. Parafrasando Hemingway: essa suona per me. E pure molto in alto.

Carlo Acutis, un’opportunità per i nativi digitali. Antonio Modaffari, Esperto in comunicazione, il 12 Ottobre 2020. Conosco poco Carlo Acutis, ma alcune sue parole rappresentano un faro per tutti noi. C’è una frase che dovrebbe essere affissa in ogni classe: “Tutti nascono come originali, molti muoiono come fotocopie”. Sono parole dette da un ragazzo appartenente alla generazione dei Millennials, sono parole infinitamente profonde, capaci di stimolare una riflessione sul vuoto dell’apparenza in cui molti di noi tendiamo a cadere. Carlo Acutis oggi sarà beatificato in Assisi e dovrebbe diventare “Patrono di Internet”, meravigliosa opportunità usata troppo male dai giovani. La beatificazione di Carlo Acutis diventa un’opportunità per i nativi digitali, per un uso responsabile della rete e per una scelta di vita giusta che possa portare alla realizzazione dell’originalità.

Franca Giansoldati per "Il Messaggero" il 9 ottobre 2020. Dietro la teca di cristallo colpisce il volto di adolescente ricostruito grazie a una maschera di silicone. Il capo è adagiato su un cuscino. Sembra che Carlo Acutis stia ancora dormendo. Il suo corpo è stato traslato in questi giorni ed esposto alla venerazione dei fedeli, ad Assisi, in attesa che venga beatificato domenica nella basilica superiore di San Francesco. Con ogni probabilità sarà lui il patrono di Internet. Jeans, rosario e computer. Carlo era il ragazzino della porta accanto, amava giocare a calcio, andare in montagna e aveva la passione per i computer. Di pari passo però coltivava una fede incredibile in Dio pur essendo cresciuto in una famiglia non praticante. Nella sua stanza, all'insaputa dei genitori, realizzava un nuovo modo di annunciare il Vangelo attraverso app e video. Come quando progettò la mostra sui miracoli eucaristici, che continua ancora oggi a girare nel mondo. La mamma, Antonia Salzano, ha raccontato che il figlio giocava a fare lo scienziato informatico, si divertiva a registrare i filmati con la sua telecamera, a montarli fino a specializzarsi, richiedendo riviste tecniche solitamente usate nelle facoltà di ingegneria informatica. Un piccolo genio. Carlo è nato a Londra nel 1991 ma è vissuto a Milano. E' morto nel 2006, a soli 15 anni di leucemia fulminante con il sorriso sulle labbra, rincuorando i genitori e i parenti sul fatto che era certo che avrebbe fatto un bellissimo viaggio nella luce. Ormai in casa nessuno si stupiva più. Nei suoi impegni quotidiani da tempo aveva messo al centro del suo cuore, Gesù. Lo studiava, lo pregava, ne parlava in continuazione. Per questo la Chiesa pensa che la sua vita, seppur breve, sia stata vissuta con totale santità. Papa Francesco lo ha dichiarato venerabile nell'estate del 2018, additandolo come esempio per tutti i giovani nella Christus vivit, un documento nel quale affermava che «attraverso la santità dei giovani la Chiesa può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico». Carlo ripeteva sempre il suo motto: «Per Cristo con Cristo e in Cristo». Una sorta di nativo digitale dell'Eucarestia. Ai genitori il ragazzino chiedeva di poter partecipare alla messa e quando recitava il rosario, nell'iniziale sbigottimento della mamma e del babbo, spiegava candido che era la sua autostrada per il cielo. La signora Salzano da tempo sta girando l'Italia per fare conoscere la storia a dir poco strabiliante del figlio. Lei stessa spiega che basta leggere i diari che ha lasciato suo figlio, oppure la mostra virtuale che Carlo aveva progettato sui miracoli eucaristici.Ad Assisi si sta preparando un grande evento per quel ragazzino che, con le sue felpe e i jeans, ha dato una scossa al web. Basta vedere quanti sono i siti e i blog dedicati alla sua testimonianza. Al Santuario della Spogliazione e' stata aperta la sua tomba per consentire ai fedeli la venerazione, ovviamente contingentata a causa del Covid. E quando e' emersa l'immagine di un giovane che sembrava solo dormire, con la sua tuta da ginnastica, sui social in molti hanno gridato al miracolo. Il vescovo di Assisi, monsignor Domenico Sorrentino ha dovuto precisare che il corpo di Carlo non è incorrotto (come è accaduto nella storia a qualche santo), si tratta semmai di un trattamento specifico che unito alla maschera di silicone offre allo sguardo l'immagine reale di un adolescente che dorme. Ma per la gente è un dettaglio secondario. Per tutti è già santo.

Fulvio Abbate per "huffingtonpost.it" il 9 ottobre 2020. Per raccontare la storia del ragazzo che sarà presto beato, Carlo Acutis, giungono forse perfette le parole di Simone Weil, introducendo il laico alla comprensione di una parabola esistenziale tragicamente breve e insieme esemplare, segnata dalla vocazione religiosa. “La plénitude della croix” - la pienezza della croce - scrive Simone per indurre alla comprensione dell’assoluto iconico cristiano, anzi, cristologico, in una sorta di incanto mistico. Un cammino che, nel caso di Simone, nata ebrea, poi miliziana tra gli anarchici della “Colonna Durruti” nella Spagna del 1936, vede infine la sua conversione al cristianesimo: la pienezza che restituisce il chiarore sul cosiddetto cammino spirituale, una vocazione, un’illuminazione, direbbero, altrove, Juan de la Cruz e Rimbaud. L’immagine del ragazzo Carlo Acutis, nelle prossime ore destinato agli “onori degli altari”, in cammino verso la canonizzazione, disteso nella sua teca nella chiesa di Assisi, al di là d’ogni possibile riflessione sulla grazia, custodisce qualcosa di altrettanto straordinario già nel suo dato visivo immediato. Carlo muore quindicenne di leucemia fulminante, in lui si mostra una storia tragica, ingiusta e insieme esemplare: il racconto della vocazione. Ora eccolo composto nel suo letto di santità, intatto nei sogni e nel suo tempo: la tuta sportiva blu, indumento da ragazzo, da escursionista, le “Nike” ai piedi, la quiete nel volto ricostruito con una maschera di silicone, i riccioli. Il racconto visivo della secolarizzazione, con lui, in lui, in quel “casual” giovanile, sembra irrompere d’improvviso nella rappresentazione sacra, fino a farsi segno di incarnazione del messaggio cristiano nella contemporaneità. Nella sua iconografia ulteriore, l’immagine di Carlo fa trionfare visivamente il quotidiano ordinario. Dove le “Nike” ai piedi prendono il posto dei sandali di Francesco un tempo. Carlo Acutis, leggo, sarà forse il primo beato 2.0, sorta di angelo custode della rete, a protezione delle vie telematiche, dall’immobilità della sua teca. Così come San Cristoforo si mostra dai magneti che dimorano sui cruscotti delle auto, patrono degli automobilisti, e ancora di pellegrini, autieri, barcaioli, viaggiatori, piloti, camionisti, ferrovieri, allo stesso modo Carlo resterà per molti, idealmente, a protezione delle mail, trasfigurate nella particola che San Tarcisio ha con sé quando martirizzato durante la persecuzione dei cristiani al tempo di Aureliano. Idealmente, Carlo va ancora immaginato accanto a Rita da Cascia, santa dei miracoli impossibili, a lei Yves Klein, l’artista più mistico del secolo trascorso, l’inventore del Blu, volle consegnare un proprio ex voto composto dei pigmenti puri e lingotti d’oro. Come Pier Giorgio Frassati, Carlo Acutis è un ragazzo dell’alta borghesia del Nord affluente, nelle sue parole l’eucaristia si trasfigura in “Un’autostrada per il Cielo”. Tra le sue passioni, leggo ancora, “l’informatica, per la quale mostrava un grande talento, e della quale si serviva per testimoniare la fede attraverso la realizzazione di siti web”. Carlo muore nel 2006, il 12 ottobre, adolescente. Nell’aprile del 2019, nella basilica inferiore di San Francesco, i suoi resti, dopo esser stati riesumati e preservati nel processo di imbalsamazione, sono stati traslati al Santuario della Spogliazione di Assisi, il suo monumento funebre bianco, simile a una vela, è posto nella navata di destra. Osservarlo lì disteso dà la sensazione che il sigillo del racconto cristiano della morte nella sua forma più crudele e penitenziale sia stato infine spezzato. Non l’austerità di un San Carlo da Sezze, immobile nel suo saio, nella chiesa romana di San Francesco a Ripa, a pochi passi dal sacello di Giorgio De Chirico. Neppure la compostezza cerimoniale di Papa Giovanni nei paramenti porpora, pianelle, cotta rossa bordata di bianco, guanti a nascondere le mani ormai pietrificate; Giovanni XXIII, esposto alla devozione e allo sguardo dei fedeli nella basilica di San Pietro, infine santo. Osservando le spoglie di Carlo lì nella teca giungono semmai agli occhi i mutamenti del costume che hanno interessato l’insieme della Chiesa cattolica, il ricordo delle prime “messe beat”, a Roma nell’aprile del 1966, un tempo in cui ancora sembrava che le chitarre, i capelli lunghi, gli stivaletti di Ringo, George, John e Paul fossero roba estranea, se non blasfema, rispetto all’adorazione cristiana, all’Agnus Dei, alla comunione, orpelli nemici delle vere funzioni religiose. Nella percezione di ciò che chiameremo “look” devozionale di Carlo Acutis, di ciò che rimane del corpo di ragazzo, vive la discontinuità rispetto al racconto iconografico altrove spettrale e mortuario della tradizionale deposizione cristiana.

"Vi racconto la storia di mio figlio Carlo, influencer di Dio". Parla la madre di Carlo Acutis, morto a quindici anni e da oggi beato. Paolo Rodari su La Repubblica il 09 ottobre 2020. Assisi  - "Le ultime parole che ha detto? "Muoio felice perché non ho sprecato la mia vita". Mi ha detto che avrei avuto altri figli. Così è stato. E che mi sarebbe stato vicino mandandomi segni. Ne ho avuti tanti". Antonia Salzano è la madre di Carlo Acutis, il giovane milanese morto nel 2006 per leucemia fulminante e che oggi viene beatificato ad Assisi dove il corpo è esposto dopo essere stato trattato con tecniche di conservazio...

Parla la madre di Carlo Acutis: “Mio figlio, un santo per il web”. Francesco Cammuca il 5 Settembre 2020 su meteoweek.com.  Antonia Salzano, madre di Carlo Acutis, è tornata sul decesso del ragazzo ucciso dalla leucemia. Il 20 ottobre ci sarà il processo di beatificazione per lui. “Ricordo quando guarì una donna da un tumore al pancreas”, dice”. La storia di Carlo Acutis è una di quelle che fanno riflettere. Il ragazzo fu stroncato da una leucemia che se lo portò via in meno di tre giorni, ma sono tante le vicende che lo riguardano da vicino. In particolare quelle che lo hanno visto intercedere spesso con le alte sfere della religiosità e del mondo cristiano. Tanto che Antonia Salzano, la madre, ha svelato tutte le volte in cui Carlo Acutis si è messo in contatto con l’aldilà. Una prova di grande fede e anche di doti sovrannaturali, che hanno reso il 15enne un ragazzo molto amato, non solo sul web. Tanto che il prossimo 20 ottobre si terrà il processo di beatificazione di Carlo Acutis. Ne ha parlato proprio mamma Antonia, svelando anche un particolare relativo al corpo del figlio, che avrebbe dovuto essere guastato dalla malattia. “Io stavo lì, mio marito non volle vedere – ha dichiarato – . Era ancora il nostro ragazzone, alto 1,82, solo la pelle un po’ più scura, con tutti i suoi capelli neri e ricci. E lo stesso peso, quello che si era predetto da solo“. Una vita durata appena 15 anni ma che è stata particolarmente piena, quella di Carlo. E la madre sostiene che ci sia un legame tra questa scoperta e un sogno, che ha visto protagonisti mamma e figlio: “Pochi giorni dopo il funerale, all’alba fui svegliata da una voce: “Testamento”. Frugai in camera sua, pensavo di trovarvi uno scritto. Nulla. Accesi il pc, lo strumento che preferiva. Sul desktop c’era un filmato brevissimo che si era girato da solo ad Assisi tre mesi prima: “Quando peserò 70 chili, sono destinato a morire”. E guardava spensierato il cielo“. Antonia fa sapere che la famiglia “avrebbe voluto donare i suoi organi, ma non fu possibile, ci dissero che erano compromessi dalla malattia“. Secondo lei si tratta di un paradosso, visto che “il cuore, perfetto, ora sarà esposto in un ostensorio nella basilica papale di San Francesco ad Assisi“. Ma come Carlo Acutis ha scoperto la fede? Lo svela ancora la madre: “Non certo per merito di noi genitori, lo scriva pure. In vita mia ero stata in chiesa solo tre volte: prima comunione, cresima, matrimonio. E quando conobbi il mio futuro marito, mentre studiava economia politica a Ginevra, non è che la domenica andasse a messa“. Dunque una religiosità non indotta dai genitori per Carlo. Così la madre svela chi potrebbe aver avuto un ruolo fondamentale in tal senso: “Un ruolo lo ebbe Beata, la bambinaia polacca, devota a papa Wojtyla. Ma c’era in lui una predisposizione naturale al sacro. A 3 anni e mezzo mi chiedeva di entrare nelle chiese per salutare Gesù. Nei parchi di Milano raccoglieva fiori da portare alla Madonna. Volle accostarsi all’eucaristia a 7 anni, anziché a 10. Lo lasciammo libero. Ci pareva una cosa bella, perciò chiedemmo una deroga. Carlo mi salvò. Ero un’analfabeta della fede“. Carlo Acutis era un bambino prodigio, tanto che “a 6 anni già padroneggiava il computer, girava per casa con il camice bianco e il badge “Scienziato informatico”“. Mentre a 9 anni “scriveva programmi elettronici grazie ai testi acquistati nella libreria del Politecnico“. Una predisposizione che non fu considerata negativa, tanto che, come dice mamma Antonia “i promotori della causa di beatificazione hanno analizzato in profondità la memoria del suo computer con le tecniche dell’indagine forense, senza riscontrare la minima traccia di attività sconvenienti“. Ma qual è stato il miracolo che lo ha portato al processo di beatificazione? “Accadde in Brasile nel settimo anniversario della morte, il 12 ottobre 2013, a Campo Grande. Matheus, 6 anni, era nato con il pancreas biforcuto e non riusciva a digerire alimenti solidi. Padre Marcelo Tenório invitò i parrocchiani a una novena e appoggiò un pezzo di una maglia di Carlo sul piccolo paziente, che l’indomani cominciò a mangiare“. E poi venne la leucemia: “Sembrava una banale influenza. Dopo alcuni giorni comparvero forte astenia e sangue nelle urine. Lui se ne uscì con una delle sue frasi: “Offro queste sofferenze per il Papa, per la Chiesa e per andare dritto in paradiso senza passare dal purgatorio”, ma in famiglia non vi demmo troppo peso”.

·        Islam. Quei Paesi senza diritti.

Dante Alighieri, ecco cosa scriveva di Maometto: il paradosso, al tempo del "politicamente corretto" sarebbe al bando. Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2020. Tra poche settimane entreremo nel 2021 e inizieranno le celebrazioni per il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri (1321-2021). Sull'HuffingtonPost è apparso qualche giorno fa un interessante articolo di Nicola Mirenzi su "Dante, l'antitaliano", che mette in discussione la figura tradizionale di Dante come "padre della patria". Sarà immaginiamo il primo di una lunga serie. Del resto parlare oggi di patria è come parlare dei dinosauri. La nostra patria è l'Unione europea, no anzi il mondo intero. Quale patria, in effetti, se al tempo di Dante non esisteva alcuna patria? Fino alla nascita del Sommo Poeta, il 1265, in tutta la penisola regnavano gli Hohenstaufen, la corona germanica retta da Federico II di Svevia fino alla sua morte, avvenuta nel 1250, e successivamente dal figliastro Manfredi, morto nella battaglia di Benevento nel febbraio del 1266 per mano degli Angioini. Dopo la morte di Manfredi di Svevia gran parte dell'Italia meridionale diventa per oltre due secoli Angioina (ramo cadetto dei Borbone di Francia), mentre il centro-nord si divide tra la fazione imperiale dei ghibellini e quella papale dei guelfi, a loro volta bianchi e neri, per poi tornare solo formalmente sotto la corona germanica - seppur per poco tempo - con Comuni dotati di ampia autonomia. Così, nel percorso secolare che ha visto regnare sulla nostra penisola germanici, spagnoli, francesi e austriaci - tra marcate autonomie comunali ed esosi feudatari - siamo diventati nazione solo nel 1861. Tutto storicamente corretto.

L'intuizione di Cavour. Eppure c'è un punto su cui occorre riflettere. Per avere una patria non è sufficiente disporre di un territorio, di un esercito, di un'unica corona o di una legittima autorità politica: senza lingua non può esserci patria. Se ne accorse Camillo Benso conte di Cavour, che comprese più di chiunque altro l'importanza della unificazione nazionale attraverso una lingua comune, quella - appunto - di Dante. Come sosteneva Pier Paolo Pasolini, la lingua italiana non ha un'origine burocratica ma letteraria, nasce dalle composizioni poetiche, dalle novelle, dalle epistole, dalle narrazioni. E la nostra lingua, che dopo molti secoli "farà" la patria, nasce proprio da Dante. Lui e un gruppo di amici suoi - tra cui Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dino Frescobaldi - dal 1283 e per circa quindici anni danno vita ad un nuovo genere poetico, la poesia d'amore scritta in volgare, cioè nella lingua parlata dal popolo di Firenze. Dante e i suoi amici "fanno" dunque la patria, non coi confini territoriali, con la spada o con una condivisa autorità regia e politica, ma con la lingua. Esemplare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare scritto nel 1283 e contenuto nella Vita Nova (1292-95), dove diversi endecasillabi sembrano scritti oggi. Ch' ogne lingua devèn, tremando, muta, / e li occhi no l'ardiscon di guardare, esattamente come potremmo scrivere oggi quando vogliamo dire che siamo imbarazzati nel vedere una bella ragazza e facciamo fatica a spiaccicare due parole, e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare, oggi diremmo più banalmente di una donna tanto bella che sembra una stella caduta dal cielo. Ma aggiungiamo una seconda riflessione. La lingua, nel caso di Dante, esiliato perché nemico politico della fazione vincitrice, è una lingua "politicamente scorretta". Un sodomita peccatore tra le fiamme dell'Inferno? È la sorte che Dante riserva addirittura al suo maestro Brunetto Latini, sprofondato nel terzo girone del VII Cerchio infernale (Canto XV), perché omosessuale (Siete voi qui, ser Brunetto?). Nello stesso Cerchio dei sodomiti, ma nel Canto XVII dell'Inferno, i banchieri usurai posizionati nel sabbione infuocato (ma io m' accorsi / che dal collo a ciascun pendea una tasca / ch' avea certo colore e certo segno, / e quindi par che 'l loro occhio si pasca). Dante un pericoloso omofobo e per giunta "sovranista", visto che attacca i banchieri considerandoli alla stregua degli usurai? Non basta, il poeta era anche un "pericoloso" maschilista, se consideriamo la figura di Francesca da Rimini, peccatrice trasportata dal vento infernale ed abbracciata al suo amante, Paolo Malatesta, nel V Canto dell'Inferno (se fosse amico il re dell'universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch' hai pietà del nostro mal perverso). Una donna, Francesca, che considera il suo amore extraconiugale alla stregua di una perversione, sapendo che Dio non è dalla loro parte perché traditori del rapporto coniugale.

Beatrice e Maometto. E ancora nella Vita Nova la figura angelica di Beatrice, la donna amata ch' egli non sfiorò mai nemmeno con un dito, destinata al Paradiso (Lo ciel, che non have altro difetto / che d'aver lei, al suo segnor la chiede), si contrappone nelle Rime petrose alla dura Donna Petra, immaginata come donna da sottomettere sessualmente: S' io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille: / e non sarei pietoso né cortese. E che dire, cambiando discorso, di Maometto, tornando alla Commedia, collocato all'Inferno (Canto XXVIII) tra i seminatori di discordia e squarciato nel petto, descritto con le seguenti "scorrettissime" parole: Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia. Non solo, dunque, non "padre della patria" ma addirittura omofobo, razzista e sessista? È questo il prossimo passo che dobbiamo attenderci in vista delle imminenti celebrazioni di Dante? Magari "raccomandando" con Dpcm apposito una versione per le scuole opportunamente censurata della Commedia e delle Rime petrose? Diversamente noi pensiamo che proprio le sue celebrazioni dovrebbero essere l'occasione per una discussione realistica su un autore che ha fatto con la sua lingua "politicamente scorretta" la nostra lingua, dunque la nostra patria. È la lingua di Dante che, come italiani, vogliamo ancora? Su questo bisognerebbe interrogarsi in occasione delle prossime celebrazioni, magari tenendo conto del fatto che sulla base delle nostre leggi vigenti oggi il "padre della patria" avrebbe rischiato la galera.

Dall'islam alla patria questa "Commedia" è tutta da censurare. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia. Camillo Langone, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia che, forse per distrazione, è ancora presente nei programmi scolastici. Per distrazione o totale incomprensione del canto XXVIII dove l'autore getta i «seminator di scandalo e di scisma», tra cui il fondatore della religione islamica, nel fondo della nona bolgia. In versi tra i più sconci e impietosi dell'Inferno il profeta arabo appare «rotto dal mento infin dove si trulla», ossia dove si emettono i peti. Al confronto appaiono piuttosto rispettose, le caricature che nel 2015 causarono 12 morti nella redazione del settimanale satirico francese (il processo ai complici di quel massacro compiuto in nome di Allah si tiene proprio in questi giorni a Parigi). Il cristianissimo Dante col maomettanissimo Maometto non fa satira, non usa l'ironia, non ricorre a eufemismi e mostrandolo sventrato descrive il «tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia». Molto offensivo! Poco inclusivo! Anche Papa Francesco dovrebbe trovarvi da ridire, lui che ha firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi, documento cattolicamente eretico e dunque mondanamente allineato in cui le diverse fedi vengono dichiarate equivalenti. Gesù e Maometto pari sono per l'ineffabile pontefice gesuita che, coi cadaveri di Charlie Hebdo ancora caldi, disse che non si deve ridicolizzare la fede altrui, di qualunque fede si tratti, e che il blasfemo «si aspetti un pugno».

Che cosa dovrebbe aspettarsi ora questo Dante Alighieri? L'Italia pullula di statue dedicate a un siffatto islamofobo: che farne? Imbrattarle come a Milano è stato imbrattato Montanelli, abbatterle come negli Usa è stato abbattuto Colombo? I nuovi iconoclasti non se ne sono ancora accorti, di un così riprovevole personaggio, ma appena lo faranno sarà a rischio il grande monumento di Trento, simbolo dell'italianità trentina, e quello di Firenze a cui Leopardi dedicò una poesia importante. Alle orecchie contemporanee il suo poema suona insopportabilmente monoculturale, monoetnico. «Diverse lingue, orribili favelle»? Poteva scriverlo solo un reazionario insensibile al fascino del meticciato... Poi se il poeta fosse stato un sincero democratico non avrebbe collocato in Paradiso l'antenato Cacciaguida (un ultrazzista, un suprematista fiorentino), non gli avrebbe fatto da megafono quando dice che «sempre la confusion de le persone, principio fu del mal de la cittade», non gli avrebbe consentito di discriminare perfino gli abitanti di Figline Valdarno, di definire puzzolenti i contadini di Signa. Il trisavolo per giunta fu un crociato: in una Commedia riveduta e corretta, riscritta a misura di sensibilità immigrazionista da un Erri De Luca o da un Franco Arminio, dovrebbe starsene sprofondato nel nono cerchio infernale, assieme a Matteo Salvini e Donald Trump. Aleggia un nuovo Braghettone: come Daniele da Volterra coprì le nudità divenute intollerabili della Cappella Sistina, uno scrittore moralista (i succitati oppure Gianrico Carofiglio) potrebbe coprire i versi capaci di angosciare gli studenti non bianchi. «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / / non donna di province, ma bordello!» sono endecasillabi da cui trasuda imperialismo, colonialismo ante litteram: non posso credere che un simile testo sia ancora insegnato tale e quale, senza omissioni, nelle scuole di conformismo che sono le scuole italiane... Oggi la Divina Commedia non si potrebbe più scrivere: fino a quando potremo leggerla?

33enne accecata dai Talebani perché aveva "deciso di lavorare". I talebani avrebbero compiuto la spedizione punitiva contro la ragazza dietro sollecitazioni del padre della stessa, infuriato per il fatto che la figlia stesse lavorando. Gerry Freda, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Una 33enne afghana è stata di recente accecata dai Talebani, su apparente sollecitazione del padre della stessa, poiché lei aveva osato "trovare lavoro". Il genitore avrebbe infatti chiesto alle milizie jihadiste di punire la ragazza per il fatto che quest'ultima era andata contro il volere paterno decidendo di uscire di casa e di mettersi a cercare l'indipendenza economica e una professione. Nel dettaglio, a fare infuriare l'uomo sarebbe stata l'assunzione della figlia come agente di polizia della provincia di Ghazni, nell'est del Paese asiatico. La giovane, prima della brutale aggressione, stava prestando servizio da neanche un anno nella divisione di polizia per le indagini criminali. Il nome della malcapitata è Khatera e, dopo essere stata ricoverata in ospedale a causa del proprio accecamento, sta fornendo numerosi dettagli su come sarebbe stato pianificato l'attacco ai suoi danni. In base alle testimonianze fornite dalla stessa, il padre non avrebbe mai accettato il fatto che lei avesse deciso ultimamente, supportata dal marito, di abbandonare la casa di famiglia per seguire il proprio sogno di lavorare e di intraprendere una carriera professionale. Pur di mettere fine a quella situazione per lui inaccettabile, il padre della 33enne si è alla fine rivolto ai Talebani, chiedendo loro di punire la giovane per tanta insolenza verso le tradizioni afghane. I contatti tra l'uomo e le milizie islamiste sono stati confermati dalla stessa Khatera, secondo cui, nei giorni immediatamente precedenti l'aggressione contro di lei, la stessa avrebbe visto il genitore incontrarsi, nelle vicinanze della loro località di residenza, con esponenti della formazione estremista, per invocare il loro intervento per fare smettere alla ribelle di lavorare. Lei avrebbe anche visto l'uomo consegnare ai miliziani una copia della carta di identità della 33enne, in cui figurava il fatto che la giovane era una funzionaria di polizia. Un ulteriore indzio in merito al coinvolgimento del genitore nella pianificazione dell'accecamento consisterebbe nel fatto che il padre, sempre nei giorni precedenti l'attacco, avrebbe telefonato continuamente a Khatera per chiedere precisazioni sul luogo esatto in cui lei stava allora prestandoo servizio. La 33enne, una volta uscita dall'ospedale senza avere più la vista, ha inoltre ricostruito in questi giorni gli istanti in cui ha subito l'aggressione. In base al racconto di lei, l'attacco sarebbe avvenuto subito dopo che la prima aveva terminato il proprio turno di lavoro al commissariato di polizia. In un attimo, la stessa sarebbe stata avvicinata da tre uomini in motocicletta, che le avrebbero quindi sparato contro dei colpi di arma da fuoco. Gli aggressori la avrebbero quindi accecata utilizzando un pugnale. Khatera si sarebbe alla fine risvegliata in un letto di ospedale, ancora viva ma ormai irrimediabilmente non vedente, con conseguente impossibilità di continuare il servizio in polizia. All'indomani dell'aggressione, la malcapitata, distrutta dalla consapevolezza di non potere più realizzare i propri sogni di indipendenza economica e terrorizzata dal minimo rumore di motociclette nelle vicinanze, ha subito attribuito ai Talebani e al padre la pianificazione della violenza subita. In base alle denunce della 33enne, la polizia della provincia di Ghazni ha così subito arrestato il genitore di Khatera, avviando contestualmente indagini sul presunto coinvolgimento delle milizie jihadiste. Un portavocce dei Talebani avrebbe però già diramato alle autorità locali un comunicato in cui nega qualsiasi responsabilità della formazione integralista nella "problematica familiare" costata la vista alla ragazza. Dopo l'arresto del genitore, Khatera e il marito sono stati trasferiti dalle forze dell'ordine, per motivi di sicurezza, in una località segreta nella capitale Kabul. La malcapitata non potrà avere più alcun contatto con i genitori, dato che si è attirata anche le ire della madre per avere testimoniato contro il padre e determinato l'arresto di quest'ultimo.

Storia di Asif, condannata a morte come Asia Bibi per “insulti all’Islam”. Sergio D'Elia su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Se nel mondo laico occidentale offendere Maometto, altri profeti o le sacre scritture può scatenare l’ira di fanatici armati di coltello pronti a sgozzare il “blasfemo”, in alcuni Paesi a maggioranza musulmana l’integralismo è anche legge di Stato e punisce la blasfemia con la pena di morte. In Pakistan, la legge contro la blasfemia è stata introdotta dal generale Mohammad Zia-ul-Haq nel 1985. Da allora, centinaia di persone – musulmani e non – sono state incriminate. Nessuno è stato giustiziato e molte condanne sono state poi respinte in appello. Però, ci sono ancora circa 80 persone in prigione accusate di blasfemia, metà delle quali a rischio di pena di morte o di pena fino alla morte. Laddove lo Stato non arriva o assolve, la giustizia privata e sommaria è pronta a supplire in maniera letale. Decine di persone in attesa del processo o assolte dalle accuse sono state massacrate da fanatici religiosi per strada, in prigione e addirittura nei tribunali. Gli stessi avvocati difensori sono stati vittime di attacchi e sono stati colpiti anche giudici che hanno prosciolto gli imputati. Nel settembre scorso, Asif Pervaiz, un cristiano di 37 anni, è stato condannato a morte dopo sette anni di custodia cautelare. Il suo capo in una fabbrica di abbigliamento lo aveva accusato di aver inviato messaggi sacrileghi dal suo cellulare. Da allora, la moglie Marilyn e i suoi quattro figli piccoli sono dovuti fuggire per salvarsi la vita. Accade spesso che il “reato” di blasfemia sia solo il pretesto per regolamenti di conti che nulla hanno a che fare con la religione. La legge a volte è usata per prendere di mira i rivali in affari. I cristiani e le altre minoranze religiose continuano a essere i principali bersagli di abusi in base alle leggi sulla blasfemia. Anche false accuse possono innescare processi giudiziari nelle aule dei tribunali e una caccia all’uomo nelle strade e nelle case dei miscredenti. Alcuni degli imputati non sono mai arrivati a giudizio. Alla fine di luglio, un cittadino americano, Tahir Ahmad Naseem, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in un’aula di tribunale a Peshawar. Era in prigione dal 2018 e gli hanno sparato perché apparteneva all’Ahmadiyya, una corrente di pensiero dell’Islam che predica la nonviolenza e la fratellanza universale. Il caso più noto è quello di Asia Bibi, una madre di quattro figli che ha trascorso quasi un decennio nel braccio della morte prima di essere rilasciata grazie a una grande mobilitazione internazionale. Una donna l’aveva accusata di aver insultato l’Islam per una frase buttata lì durante un battibecco con altre donne che l’avevano umiliata per aver bevuto un bicchiere dal pozzo a lei proibito, in quanto “infedele cristiana” e quindi “impura”. Durante e dopo il processo, le furie integraliste islamiche hanno chiesto la sua morte, hanno minacciato gli avvocati e ucciso il Governatore della Provincia del Punjab e il Ministro delle minoranze che avevano parlato in sua difesa e chiesto la riforma delle leggi sulla blasfemia. Nel novembre del 2018, Asia Bibi è stata assolta dalla Corte Suprema, scarcerata dalla prigione di Multan e trasferita in una località segreta per tutelarne la sicurezza. Dopo molti mesi di vita da clandestina suo malgrado, è stata autorizzata a rifugiarsi in Canada insieme alla sua famiglia. Dopo l’assoluzione, il suo avvocato, Saiful Malook, è stato costretto a rifugiarsi per un po’ di tempo in Olanda per sottrarsi alla vendetta degli estremisti islamici. Ma poi è ritornato per difendere Asif Pervaiz e altre vittime come lui di false accuse di blasfemia spesso motivate da vendette personali o odio religioso. «Gli avvocati non hanno una religione, lottano solo per la giustizia», ha detto Malook. Asif ha già passato sette anni in attesa della decisione del tribunale. Chissà quanti anni dovrà aspettare prima che tutto sia finito. Intanto, la moglie Marilyn continua a nascondersi perché si sente minacciata e cerca di mantenere i suoi tre figli e la figlia al sicuro dall’ira e dalle minacce di morte dei fanatici religiosi.

Iran, beve vino durante l’eucarestia: carcere, esilio e 80 frustate. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Lo sguardo di Nessuno tocchi Caino su quanto accade nelle carceri, come nei sistemi giudiziari del mondo ci porta oggi a raccontare una storia fuori dal tempo, ma di questo mondo dove ancora esistono regimi mortiferi come quello iraniano. Regimi per i quali la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena sono elementi fondanti e costitutivi del loro stesso potere. La storia è quella di Mohammad Reza Omidi, un uomo di 47 anni, che ha ricevuto 80 frustate per aver bevuto il vino della comunione. La flagellazione è avvenuta il 14 ottobre presso la Procura di Rasht. Dove Youhan, questo il suo nuovo appellativo che richiama il nome dell’apostolo Giovanni, si è recato a sue spese affrontando un viaggio di 1.000 chilometri per ubbidire all’ordine di esecuzione del supplizio emesso il 10 ottobre dalle autorità della città. Si trovava infatti a Borazjan per scontare la pena all’esilio di 21 mesi dopo aver lasciato l’estate scorsa il terrificante carcere di Evin a Teheran, detenuto per due anni colpevole di “atti contrari alla sicurezza nazionale” avendo “propagandato la chiesa domestica e promosso il sionismo cristiano”. Sono capi d’accusa che ci riportano ai primordi del cristianesimo, quando i primi cristiani si radunavano nelle loro case per celebrare l’Eucarestia secondo l’esortazione di San Paolo nella Lettera ai Romani o a quelle dottrine cristiane che vedono nei riferimenti biblici al ritorno degli ebrei in Terra Santa la volontà divina alla creazione del regno di Israele. Sono capi d’accusa e punizioni che ci portano alla mente persecuzioni atroci e ossessioni terribili: chi coltiva una sua libertà interiore, di credo come in questo caso o di pensiero come in quello dei dissidenti politici o degli attivisti dei diritti umani, è un nemico pubblico e deve essere punito in modo duro ed esemplare. E poi, Israele deve essere cancellato dalla carta geografica. Mohammad Reza Omidi era stato condannato alle 80 frustate nel settembre del 2016 da una corte di Rasht insieme a Yasser Mossayebzadeh e Saheb Fadaie, altri due seguaci della stessa chiesa domestica, per aver bevuto del vino durante la funzione religiosa. Erano stati tutti arrestati alcuni mesi prima insieme ad altri praticanti, tra cui il Pastore Youcef Nadarkhani, già scampato alla pena di morte anni or sono, nel corso di un’irruzione che agenti del Ministero dell’Intelligence avevano compiuto a casa di Yasser, durante la celebrazione di un rito di comunione, nel maggio del 2016. Nel giugno del 2017, questi quattro uomini erano stati condannati da una Corte della Rivoluzione Islamica di Teheran per atti contro la sicurezza nazionale a 10 anni di carcere con una pena aggiuntiva per Mohammad e Yasser di 2 anni di esilio. Lo scorso mese di giugno Mohammad aveva visto la sua pena detentiva ridursi a 2 anni e aveva terminato di scontarla ad agosto. Restavano però ancora l’esilio e la fustigazione. È la seconda volta che Mohammad subisce le 80 frustate. Era già successo nel 2013 per lo stesso motivo, aver bevuto vino durante la comunione. In Iran è permesso ai non-musulmani di bere bevande alcoliche, cosa vietata invece ai musulmani. Siccome un musulmano che si converte al cristianesimo non è considerato un non-musulmano allora per costoro il divieto di bere il vino permane e con esso la legittimità della flagellazione. In questa come in altre storie terribili di punizioni coraniche, la frusta diviene lo strumento con cui il regime dirige la musica della teocrazia. Comunque il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la Sharia che per il regime dei mullah è invece norma costituzionale, codice penale e civile. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico.

Le mosse dell'islam politico per prendersi i nostri cimiteri. La campagna dell'Ucoii per la moltiplicazione dei cimiteri islamici. Ma dietro c'è solo la volontà di piegare le leggi a proprio vantaggio per affermare un potere. Giuseppe Marino, Venerdì 04/09/2020 su Il Giornale. Una volta si ironizzava in tv sui “fascisti su Marte”, in epoca di coronavirus circolano seriose invettive sui “sovranisti ladri di morte”. Ma c’è poco da ridere: la fase più acuta dell’epidemia ha lasciato segni profondi in tutte le società colpite e dolorosi effetti collaterali. Il ricordo delle bare portate via dall’esercito è diventato un simbolo ma era anche il prodotto di un macabro problema pratico: quello delle sepolture. Per le famiglie di musulmani defunti a causa del Covid, c’è un problema in più: le procedure funebri previste dalla tradizione religiosa. In tutta Europa, la autorità religiose islamiche hanno concordato ad esempio di sospendere il lavaggio rituale della salma, contrario alle norme di profilassi. Si è invece mantenuta la regola della sepoltura con il corpo orientato verso la Mecca. Un problema, visto l’affollamento dei cimiteri. La questione è stata dibattuta in tutta Europa. Il New York Times ha raccontato ad esempio il caso francese ma anche a Londra la numerosa comunità islamica si è trovata in difficoltà, anche perché con le limitazioni alla circolazione internazionale è stata sospesa l’abitudine di spedire le salme nei Paesi d’origine. Ci sono poi famiglie e comunità di fede islamica ormai radicate in Europa, per le quali si è affievolito il legame con i Paesi di provenienza man mano che le nuove generazioni si sono radicate. In tutta Europa si è dovuto fare i conti con i limiti imposti dalle norme urbanistiche, con gli spazi a disposizione, con i dettami della fede e si sono cercate soluzioni. In Italia invece l’Ucooi, l’Unione delle comunità islamiche il cui segretario generale Yassine Baradei è convinto che cristianesimo ed ebraismo sono "un'eresia, uno storpiamento del messaggio originario", sta conducendo una campagna di rivendicazione tutta politica. Lo scopo evidente è la moltiplicazione dei cimiteri islamici. Lo scorso 30 agosto l’Espresso ha pubblicato un articolo pieno di testimonianze a sostegno della tesi dell’Ucooi: servono spazi esclusivi ma le amministrazioni di centrodestra, dunque malvagie, non vogliono concederli. Lacrimevoli le testimonianze di chi lamenta il no alla sepoltura, significativamente sobrio il titolo: “La battaglia più feroce dei sovranisti: impedire ai morti musulmani di avere una tomba”. Ma è davvero così? Al netto dei problemi di trovare posto nei cimiteri, che in molte città riguardano tutti, credenti e anche non credenti, dei limiti imposti dalle norme e delle specifiche esigenze dettate dalla tradizione musulmana, l’accusa non sta in piedi. Per il semplice motivo che l’apartheid post mortem che piace all’Ucoii (tra i dettami specificati sul sito c’è di non usare ossari in cui ci siano anche resti di ebrei e cristiani) non è l’unica soluzione. In tutta Europa si cercano semplicemente posti adatti, senza necessariamente tenerli separati a tutti i costi. Significativa la testimonianza resa al Giornale.it da Sara Kelany, responsabile enti locali per il Lazio di Fratelli d’Italia, che si è sentita toccata dall’accusa dell’Espresso (e dell’Ucooi) non solo politicamente, ma anche dal punto di vista personale da “figlia di musulmano che troppo giovane e perdutamente ancora innamorata di suo padre” è stata costretta dal destino “ad affrontare la sepoltura”. “Papà si chiamava Mamdouh -racconta Sara Kelany, che vive in provincia di Latina- era uno splendido egiziano che predicava come un mantra uno degli insegnamenti più belli che più hanno levigato lo spirito mio e delle mie sorelle: la libertà”. Il signor Kelany, un uomo che, partito da lavapiatti è riuscito ad aprire una propria impresa e a permettere alle quattro figlie di laurearsi, più volte aveva detto loro che voleva essere sepolto vicino. “Lo diceva per gioco -racconta Sara- perché a 55 anni, alto due metri e bello come un faraone non puoi pensare realmente di poter morire”. Ma quando accade, la figlia racconta di essersi rivolta all’imam locale per garantirgli una sepoltura secondo i precetti religiosi ma anche secondo i suoi desideri. “Fu difficile, per mille motivi -rievoca- non ultimo la difficoltà di interagire con il mondo quasi impenetrabile di quel duro maestro di fede islamica”. Ma alla fine tutto si svolge secondo la tradizione nel piccolo cimitero locale: il capo rivolto alla Mecca, i teli bianchi intorno al corpo, le abluzioni rituali, il saluto di familiari e amici islamici e non, “un paese intero che lo aveva accolto come un figlio”, dice Sara Kelany. Che ci tiene a ristabilire la verità: “Nulla impedisce a un musulmano di essere sepolto nei cimiteri presenti in ogni comune d’Italia e nessun sindaco può rifiutare le tumulazioni né nessun “feroce sovranista lo ha mai fatto”. Ottenere spazi dedicati non sempre è possibile per questioni di spazi e di normative. "La falsa denuncia dell’Ucooi riportata in modo tendenzioso dall’Espresso è strumentale e va letta in un altro modo - ragiona Sara Kelany -: cosa spinge ad avere una separazione anche fisica dei defunti, cosa impedisce alle fedi di coabitare? Solo la volontà di piegare le leggi a proprio vantaggio per affermare un potere”. L’Ucooi incarna infatti l’islam più politico, in ottimi rapporti con le forze di maggioranza e alla costante ricerca di spazi sociali da controllare. Una denuncia che echeggia l’accusa all’Ucooi di Abdellah Redouane, segretario generale della moschea di Roma: “Si è cavalcata la pandemia da Coronavirus per fare marketing con continui annunci a proposito del fatto che è l'Ucoii a essere intervenuta per risolvere il problema della sepoltura dei defunti musulmani”. Un modo di guadagnare spazi (i 76 cimiteri islamici esistenti sono elencati sul sito dell’Unione a fianco delle agenzie funebri di rito islamico) e peso politico, grazie anche ai buoni rapporti con la sinistra. Pochi giorni dopo l’articolo dell’Espresso, il Comune di Napoli ha annunciato la creazione di un cimitero islamico. Insieme a un aumento di 350 euro delle tariffe per la tumulazione.

 Le accuse del leader islamico: cristiani ed ebrei sono "eretici". Le parole sconcertanti pubblicate su Facebook dal segretario generale dell'Ucoii, il marocchino Yassine Baradei, che definisce Torah e Vangelo "scritture residue" e afferma che l'islam viene per correggerne le storpiature. Giovanni Giacalone, Lunedì 31/08/2020 su Il Giornale. Il segretario generale dell'Ucoii-Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, Yassine Baradei, definisce ebraismo e cristianesimo "eresia" e "storpiamento del messaggio originario" durante una conversazione su una pagina Facebook in data 29 agosto. Baradei è intervenuto nel dialogo virtuale in risposta ad un post di un correligionario che in riferimento al digiuno del giorno della Ashura, citava anche la "salvezza donata da Dio al popolo ebraico, tramite Mosè, durante la tirannia del Faraone" e in fine chiudeva l'intervento con un "Buon digiuno a tutti i fratelli musulmani, un abbraccio a tutti i fratelli ebrei". È a questo punto che il segretario dell'Ucoii interviene con una "correzione", scrivendo che in realtà si trattò del popolo israelita (cioè i figli d'Israele il profeta) e non il popolo ebraico che è di più recente nascita. Baradei poi aggiunge: "Credo che ci sia molta confusione in generale tra i musulmani su questi aspetti. I figli di Israele (sempre il profeta) non erano ebrei..." In una seguente delucidazione, il segretario generale dell'Ucoii aggiunge: "Il Corano parla di banu Israil (cioè i figli di Israele il profeta, detti anche israeliti) ma non nessuno di loro, né dei profeti a loro mandato era ebreo. L’ebraismo è una religione, come il cristianesimo che si sviluppò dopo. Nel credo dell’Islam infatti questi due credi sono un’eresia, uno storpiamento del messaggio originario di questi profeti. Iddio lo dice chiaramente nel sublime Corano quando afferma che nessuno dei profeti era ebreo o cristiano ma musulmano o tuttalpiù hanif (ortodosso) inteso come seguace del messaggio iniziale da Adamo in poi che sintetizzato è la professione di fede (non c’è alcun dio all’infuori di Iddio). Se fosse altrimenti saremmo legittimati come musulmani a seguire l’ebraismo o il cristianesimo, ma l’Islam viene per correggere gli storpiamenti apportati nelle sacre scritture residue (Torah e Vangelo). Questo è un punto del credo molto importante che molti musulmani non hanno ben chiaro. E Dio ne sà di più." In sunto, in base a quanto emerge dai post di Baradei, ebraismo e cristianesimo sarebbero "eresie" e "storpiature" del messaggio originario. I profeti non erano nè ebrei e neanche cristiani ma "musulmani" (nonostante Maometto sia vissuto ben dopo i profeti e Cristo). L'Islam sarebbe arrivato per correggere dalle storpiature Torah e Vangelo (definite "scritture residue"). Ovviamente tutto ciò sarebbe chiaramente detto da Dio nel Corano. Tali affermazioni non possono non destare perplessità considerato che vengono da una persona che ricopre un ruolo di primo piano presso un'organizzazione islamica che si è più volte detta aperta al dialogo interreligioso e che si è anche definita la principale realtà islamica organizzata in Italia, scatenando tra l'altro la reazione del Segretario Generale della Grande Moschea di Roma, Abdella Redouane, con un lungo intervento su Facebook lo scorso giugno. Certo è che se i presupposti per il dialogo interreligioso sono questi, allora è lecito ipotizzare dei notevoli problemi non risolti all'interno di certi ambienti dell'islam organizzato. Baradei, che aveva già ricoperto il ruolo di direttore presso la comunità islamica di Piacenza e aveva fatto parte del direttivo Caim, si era tra l'altro già distinto in passato per un post del 2015 nel quale aveva definito il Re del Marocco, Mohammed VI, come "sua maestà l'emiro dei ladri". In un commento poco più sotto Baradei aveva aggiunto: “Per il resto in uno stato governato dalla shariaa come quello che dovrebbe essere il Marocco (secondo Costituzione) gli si dovrebbe tagliare le mani, ma un re senza mani come si farebbe che la gente non potrebbe più baciargliele?!" In altre occasioni Baradei aveva poi pubblicato immagini di Erdogan, Mohamed Morsy (entrambi legati alla Fratellanza Musulmana) e di Sheikh Yasin, ex leader di Hamas (inserita nella black list delle organizzazioni terroristiche da Unione Europea, Usa ed Israele). A questo punto è lecito chiedere chiarimenti all'Ucoii al riguardo, visto il ruolo ricoperto da Baradei all'interno dell'organizzazione.

Cinque parole per capire (davvero) l'islam. Sono oltre 1,8 miliardi i musulmani nel mondo. Ma chi sono realmente? In cosa credono e cosa vogliono? Matteo Carnieletto, Domenica 23/08/2020 su Il Giornale. Difficile parlare di islam. Ancora più difficile, a volte, comprendere cosa sia realmente questa religione praticata da 1,8 miliardi di persone (il 23% della popolazione mondiale). In seguito agli attentati alle Torri Gemelle, la confidenza nei confronti di termini come jihad, umma, haram e hadit è andata di pari passo con la diffidenza nei confronti dei seguaci di Maometto. L'avvento dello Stato islamico e la lunga serie di attentati che hanno colpito l'Europa hanno fatto il resto. Ma chi sono davvero i musulmani? In cosa credono? E soprattutto: che cosa vogliono? Per fare un po' di chiarezza abbiamo deciso di analizzare alcune parole che ci aiutano a comprendere maggiormente questa religione. La radice slm in arabo significa, spiega il Dizionario dell'islam (Jaka Book) a cura del grande storico delle religioni Mircea Eliade, "essere in pacce, essere sano, integro". Da qui derivano sia la parola islam, ovvero "sottomettersi alla legge di Dio così da essere integro" sia muslim, ovvero colui che attua questa sottomissione.

Sono questi i musulmani. Migliaia di persone marciano compatte sotto la debole luce dell'alba. Si sono messe in viaggio per evitare il terribile sole iracheno che tutto brucia. Sono impolverate e stanche, ma faranno di tutto pur di arrivare a Karbala, il luogo in cui, il 10 ottobre del 680, Husayn Ibn 'Ali, pronipote del profetta Maometto e terzo imam dei musulmani sciiti, cadde in battaglia. È il giorno di ashura. Il giorno del lutto e del sangue. Uomini, donne e bambini si percuoto il petto in segno di sofferenza e di dolore. Alcuni si spingono oltre e, novelli flagellanti, si infliggono terribili ferite con lame e aghi finissimi. Vogliono provare lo stesso strazio dei loro avi. In realtà, come spiega il Dizionario dell'islam (Jaka Book), la storia di questa ricorrenza affonda le sue radici nella tradizione ebraica e "il suo significato generale come giorno del digiuno per i musulmani deriva dai riti dello Yom Kippur ebraico (giorno dell'espiazione). Il termine arabo ʿāshūrāʾ è costruto sulla parola ebraica 'asor con la desinenza determinativa aramaica". Le tradizioni spesso si sfiorano, talvolta si fondano e sempre evolvono. E fu così che la morte di Husayn cambiò tutto: "Quando il popolo di Kufa vide la testa dell'imam martirizzato e le pietose condizioni dei prigionieri, prese a battersi il petto, colto dal rimorso di aver tradito il nipote del profeta, il figlio ed erede di 'Ali'". Dal digiuno si passò così al dolore. Nel 962, a Baghdad, l'ashura fu dichiarato giorno di lutto. Nel 1501, invece, con l'inizio della dinastia safavide, che adottò lo sciismo come religione di Stato in Iran, l'ashura si diffuse prima nel subcontinente indiano e poi in tutte quelle regioni che avevano legami più o meno forti con i Safavidi.

Forse pochi lo sanno, ma quelle persone ferite e lacerate stanno compiendo la loro jihad. Con questo termine, infatti, si indica innanzitutto lo "sforzo verso un fine meritorio". "In contesto religioso - si legge nel Dizionario dell'islam - può significare la lotta contro le nostre cattive inclinazioni, oppure gli sforzi per elevare moralmente la società, o per la diffusione dell'islam". Se vogliamo trovare similitudini con il cristianesimo, potremmo paragonarlo al combattimento spirituale, alla lotta del bene contro il male. Il jihad è innanzitutto una questione spiriturale. Ma può anche esserlo militare, anche se non possiamo parlare di guerra santa in quanto per i musulmani non esistono guerre sante e guerre secolari: "Tutte le guerre fra musulmani e infedeli, ed anche fra gruppi diversi di musulmani, dovrebbero definirsi jihad, pur se combattute, come nella maggior parte dei casi, per ragioni prettamente secolari. L'aspetto religioso, quindi, si riduce alla certezza dei singoli combattenti che, se saranno uccisi, andranno in paradiso".

"Verbum caro factum est et habitavit in nobis". Così il Vangelo di Giovanni: "Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi". Nell'islam la prospettiva si ribalta. Dio non scende sulla terra, non si fa carne e non sopporta i peccati del mondo. Allah rimane in cielo e parla grazie a Maometto, il suo profeta, attraverso 22 anni (610-632) di rivelazioni. Non si fa carne, ma carta. Fa rivelazioni, senza però rivelarsi. Per i musulmani il Corano è tutto: "Come nessun'altra forza (...) ha plasmato i valori e la visione della vita per la comunità islamica. Continua ad essere un potente fattore vitale nel mondo contemporaneo, proprio come nel passato è stato un elemento formativo fondamentale della cultura islamica", si legge nel Dizionario dell'islam. Composto da 114 capitoli (sure), il Corano contiene tutto ciò che l'uomo deve sapere. Contrariamente a quanto si possa pensare, il testo sacro dell'islam non segue né un ordine logico né cronologico. Le varie sure, infatti, vanno dalla più lunga alla più breve, segno che "da principio furono conservate soprattutto per mezzo della recitazione orale, poiché erano destinate ad essere ascoltate, non lette". I concetti spesso si ripetono o rimangono in sospeso. L'obiettivo, infatti, era quello di creare il giusto ritmo per la recitazione: "Chiunque sia responsabile dell'ordine dato ai materiali del Corano, ossia il Profeta stesso o qualcuno dopo di lui, non l'ha certo strutturato come un libro scorrevole, che presenti idee in modo chiaro e strutturato, ma come un testo per la recitazione". Resta davvero singolare il Corano non citi nessuno dei grandi profeti scrittori dell'Antico testamento...

Hasan al Banna è un nome che ci dice poco. Eppure, il suo pensiero politico e religioso determina ancora oggi il nostro presente. Nasce nel 1906 in Egitto e fa il maestro, come suo padre. Religiosamente inquieto, si avvicina sempre di più al sufismo per costruirsi un suo islam, il più simile possibile a quello del profeta. La Fratellanza musulmana, così la definì Hasan al Banna, doveva comprendere tutto: doveva essere "un'organizzazione politica, un gruppo atletico, un'unione culturale e didattica, una compagnia economica e un'idea sociale". In Egitto c'è bisogno di qualcosa di simile. La guerra, poi, fa il resto. Hassan al Banna, intanto, comprende che la situazione può diventare esplosiva da un momento all'altro e, in segreto, inizia ad accumulare armi. Gli attacchi dei fratelli musulmani contro le autorità si fanno sempre più frequenti e così nel 1948 il movimento viene messo fuori legge. Ma durerà poco. Nella lotta per il potere in Egitto i fratelli musulmani sono un elemento importante. Verranno prima riabilitati e poi messi fuori legge da Nasser. Sadat li utilizzò per sbarazzarsi dei nasseriani, ma gli costò caro: fu proprio un membro estremista dell'organizzazione ad ucciderlo nel 1981. L'obiettivo del movimento è quello di ristabilire la sharia non solo in Egitto ma anche in tutti i Paesi islamici, per questo la Fratellanza ha preso parte alle primavere arabe del 2011 e, ancora oggi, cerca di sfruttare i vuoti di potere che si sono venuti a creare in Medio Oriente e in Nord Africa. La storia si ripete. Da Maometto ad oggi.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 25 luglio 2020. L'unico che finora sembra non essersi accorto di niente è il gatto, un randagio grigio di nome Gli che da anni abita nel complesso di Hagia Sofia. Divenne famoso perchè, nel 2009, Obama lo filmò proprio mentre visitava il museo di Santa Sofia. Gli anche oggi è stato fotografato che dormiva beato sulla moquette verde che era appena stata messa nella ex basilica bizantina, fino a oggi museo per trasformarla in moschea. Dopo la affollatissima preghiera di riconversione del museo a moschea il presidente turco Erdogan, accompagnato dalla moglie velata, si è fatto una photo opportunity proprio davanti ai mosaici bizantini che sono stati oscurati. Inizialmente avevano pensato di rendere invisibili gli enormi mosaici utilizzando una tecnica laser poi le autorità hanno optato per delle enormi vele di tessuto bianco che, attraverso un binario aereo si vanno a sovrapporre fino a nascondere agli occhi dei fedeli islamici l'iconografia cristiana. La fotoricordo di Erdogan e della moglie è stata fatta subito dopo la cerimonia seguita da decine e decine di migliaia di persone assiepate fuori da Santa Sofia. La mossa di trasformare in moschea Santa Sofia non finisce di creare scompiglio nel mondo cristiano. Un comunicato congiunto tra l'arcivescovo della chiesa ortodossa australiana e il presidente della conferenza episcopale australiana ha nuovamente messo in luce le conseguenze negative che porterà questo atto unilaterale. «La nostra paura è che questo aggraverà le tensioni tra cristiani e musulmani in un tempo dove avremmo, invece, avuto bisogno di dialogo e di gesti distensivi». Il Vaticano ha scelto di non commentare. Persino l'Osservatore Romano ha optato di ignorare l'evento tanto che sull'edizione di domani non apparirà nemmeno un piccolo richiamo. In compenso il movimento spontaneo delle proteste internazionali non si ferma. A cominciare dalla reazione indignata del Nobel Pamuk e dell'arcivescovo Elpidophoros che ha incontrato il presidente Trump e Mike Pence alla Casa Bianca per esprimergli l'angustia e la preoccupazione della intera Chiesa Greca ortodossa. Al centro del colloquio la grande questione della libertà religiosa.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2020. Chi va in vacanza in Turchia - chi ne abbia il fegato - passa da Istanbul e va a vedere le quattro o cinque cose che si vanno a vedere a Istanbul, compresa la Basilica di Santa Sofia che, a proposito, non è più cristiana dal 1453 (divenne una moschea) e dal 1931 divenne poi un museo, un posto speciale, un porto franco evocativo dove si respira (respirava) l'aura mistica di più confessioni. Normale che se ne parli, visto che la Turchia l'ha appena trasformata in moschea. Del resto chi va in vacanza in Turchia - chi non se ne vergogni - in genere non passa dal fondo dell'Anatolia soltanto per sbirciare, dalla costa, l'isoletta greca di Kastellorizo (Castelrosso in italiano) che dista tre chilometri e appunto è greca che più greca non si può, politicamente ed etnicamente e culturalmente. Chi va in vacanza in Grecia, invece, da Kastellorizo ci può tipicamente passare, anche perché è bellissima e ci hanno girato il film italiano Mediterraneo con Abatantuono e la regia di Salvatores, pellicola ambientata al crepuscolo della Seconda Guerra mondiale quando l'isoletta era italiana (sino al 1943) e non turca. Prima di essere italiana era francese, e prima ancora era britannica. Kastellorizo divenne definitivamente greca nel 1948, assieme ad altre isole del Dodecanneso. Perché a decidere queste cose in genere sono le guerre e i successivi trattati (Parigi, 1947) e non alcune ambigue mosse di annessionismo: che sono quelle che sta facendo la Turchia di Recep Erdogan proprio in questi giorni, mentre noi guardiamo solo alla ex basilica di Santa Sofia con logiche e sguardi geopolitici da Touring club. Recep Erdogan ha islamizzato anche Santa Sofia, il che è molto preoccupante, il Papa si è detto addolorato, il governo greco ha parlato di «provocazione», il patriarcato ortodosso di Mosca ne ha fatto una tragedia: ma in un certo senso si tratta della meno illecita tra le tante porcate che il neo sultanato turco, questa finta democrazia e vera dittatura, sta perpetuando da molti anni con lo spettacolare silenzio dell'Europa politica e di tutto l'Occidente. Mentre noi guardiamo a Istanbul, Ankara ha inviato una missione navale di esplorazione «energetica» al largo di Kastellorizo e sta cercando gas che rivendicherebbe come suo. E la Grecia che può fare, da sola? È in «allerta», anzi, in «allerta intensificata», ha mandato una protesta formale, e i turchi, more solito, hanno reagito con alterigia: «Le rivendicazioni della Grecia sono contrarie al diritto internazionale, è assurdo che una piccola isola che si trova a poche miglia dalle coste turche abbia una giurisdizione marittima che si estende per 200 miglia nautiche in ogni direzione. Quale paese accetterebbe una situazione del genere?». L'Italia con la Corsica, oltre a tremila altri esempi: da immaginarsi che cosa accadrebbe se il nostro Stato andasse a perforare attorno all'isola di Cavallo. Il governo turco invece rivendica tutta l'area a sud di Kastellorizo come parte della sua piattaforma continentale, e ha pure lanciato avvisi di restrizione della navigazione nella zona. Non è una questione - termine infelice - isolata: fa parte delle manovre invero sfrontate che la Turchia sta conducendo per assicurarsi zone strategiche per lo sfruttamento delle risorse naturali nel Mediterraneo: Kastellorizo - per spiegarla facile - è un passaggio chiave per realizzare il gasdotto Eastmed che ha già messo d'accordo Grecia, Cipro e Israele con l'esclusione della Turchia e della Russia: un passaggio che permetterebbe ai paesi europei di non dipendere solo da Putin per gli approvvigionamenti di gas. Come ha dimostrato anche l'accordo Turchia-Libia del novembre scorso, Ankara sta facendo di tutto per mettersi di mezzo e potersi sedere al tavolo delle spartizioni con la logica che le è congeniale ormai da molto tempo: l'esplicitato ricatto. Naturalmente l'Europa è schierata ufficialmente con Atene, ha parlato di «messaggio sbagliato» da parte di Ankara (perforazioni e sconfinamento si chiamano così: messaggio) e si è letto che Angela Merkel sarebbe intervenuta telefonicamente coi rispettivi capi di Stato, ma se ne sa pochissimo, mentre si conosce bene l'esito dei precedenti: da Cipro ai migranti, sino alle più elementari violazioni dei diritti umani - ricordiamo che il regime turco in questi anni ha perpetuato una strage silenziosa che non ha risparmiato militari, giornalisti, scrittori, avvocati e docenti - c'è da attendersi che Recep Erdodan continui a fare tutto quello che vuole. I trattati internazionali danno ragione alla Grecia? Erdogan, tecnicamente, se ne fotte come ha fatto sempre, e si muove nel Mediterraneo (il «lago turco») come faceva il pirata Barbarossa ai tempi suoi. Sultanato fu. Sultanato rimane. Per quanto riguarda il governo italiano - notoriamente ferrato in politica estera - quando la Turchia avrà terminato la sua opera di egemonia nell'Egeo, probabilmente, realizzerà che la Turchia, diversamente dall'Afghanistan, è bagnata dal mare.

Mosaici coperti e lunghe file: ecco la nuova vita di Santa Sofia. Mauro Indelicato l'1 agosto 2020 su Inside Over. Ormai sono passati diversi giorni da quando la basilica di Santa Sofia ad Istanbul è stata convertita nuovamente in moschea. La decisione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è diventata pienamente esecutiva nel breve volgere di due settimane: dopo l’annuncio ufficiale dato il 10 luglio scorso, il 24 si è celebrata la prima preghiera. Sono bastati pochi giorni per stravolgere 86 anni di storia della Turchia laica, di cui Santa Sofia trasformata in un museo ne era il più celebre esempio. Oggi è possibile entrare nel luogo diventato nuovamente di culto, ma l’impressione appare diversa. Ad essere andato via non è soltanto un simbolo ma, a detta di chi ha avuto la possibilità di tornare nel monumento cardine della storia di Istanbul, non c’è più quell’atmosfera e quella suggestione presente fino a poche settimane fa.

I teli coprono i mosaici. Così come riportato dall’Agi, i grandi mosaici attualmente non si vedono. Sono tutti ricoperti da grandi teli, che impediscono la visione per chiunque entra di ammirare alcune delle opere più significative di quella che è stata una delle culle della cristianità, prima della conquista ottomana del 1453. All’ingresso ci sono file molto lunghe, con la Polizia presente ovunque e con molte famiglie provenienti dalle periferie di Istanbul che per la prima volta vedono la moschea. Per loro, hanno rivelato negli ultimi giorni molti giornalisti locali, il prezzo del biglietto del museo era troppo oneroso per poter entrare. Sotto il profilo logistico è cambiato poco: il principale ingresso è quello che veniva usato anche dal museo, solo che adesso appena si accede alla basilica spunta in verde la grande scritta Aya Sofya-i Kebir Cami-i Serif, ossia “La grande moschea benedetta di Santa Sofia”. Si tratta della scritta fatta apporre dal presidente Erdogan nel giorno della prima preghiera il 24 luglio scorso. Uomini e donne che entrano per le funzioni religiose vengono separati all’ingresso e fatti accomodare nelle aree allestite per le preghiere, che sono parecchie e non sono celebrate soltanto il venerdì. Per tutti gli altri invece c’è un apposito cammino che porta nello spiazzo centrale dell’edificio: qui è possibile rimanere come semplici turisti. Solo che, da turisti, non sfugge il fatto che al posto dei celebri mosaici ci sono dei teli che non permettono la loro visione. Come si sa, la religione islamica vieta ogni raffigurazione, da qui l’apposizione di tele che nascondono i monimenti ma anche la storia di questo posto e dell’intera Istanbul. Tuttavia, poliziotti e custodi presenti a Santa Sofia hanno tenuto a precisare a tutti che questa soluzione è meramente provvisoria: “Le tende a scorrimento non sono arrivate – ha dichiarato un membro delle forze di Polizia ad un giornalista dell’Agi – Appena saranno montate sarà possibile vedere nuovamente i mosaici”. Un problema tecnico quindi, che non cancella però le perplessità al visitatore che quasi non riconosce più la bellezza di Santa Sofia.

Lunghe file all’ingresso. Ciò che al momento è sembrato impressionare maggiormente, sono le tante e lunghe file che in questi primi giorni sono risultate ben presenti all’esterno del monumento. Sono migliaia le persone, provenienti in gran parte da Istanbul ma non solo, che hanno voluto pregare all’interno di Santa Sofia. Un segnale di come, al netto delle critiche e dei significati negativi dati soprattutto in occidente alla riconversione a moschea del luogo, in questa prima fase la scelta del presidente Erodgan appare popolare. E del resto, in un momento di forte emorragia di consensi a livello interno, il capo dello Stato e fondatore del partito conservatore Akp non si sarebbe spinto così oltre nel prendere una decisione del genere se prima non era certo della sua presa tra l’elettorato. La Turchia ancora fedele all’impronta laica di Ataturk, che soprattutto nelle grandi città sta riacquistando terreno, è rimasta in disparte per il momento. Ma quella profonda, dei quartieri più popolari o dell’Anatolia più periferica, ha preso con entusiasmo la possibilità di tornare a pregare a Santa Sofia. Per molti l’idea di considerare questo luogo un museo e non un edificio vocato al culto ha rappresentato, nel corso dei decenni, una vera e propria ingiustizia. E se questo vale per molti turchi, la stessa cosa si può dire anche a livello panislamico. La riconversione in moschea di Santa Sofia è un qualcosa che, nel mondo musulmano, tutto sommato piace. Non a tutti e non allo stesso modo e per le stesse motivazioni, tuttavia complessivamente il fatto che l’edificio simbolo di Istanbul sia tornato ad ospitare preghiere dopo 86 anni non è un elemento negativo. E quando si potrà tornare a viaggiare senza più lo spettro del covid, da molti Paesi confinanti saranno in tanti i fedeli ad arrivare ad Istanbul. Le preghiere nel frattempo hanno continuato ad essere celebrate e Santa Sofia si è presentata sempre gremita: in migliaia, anche nell’ultimo venerdì, hanno solcato l’ingresso rendendo impossibile quel distanziamento sociale che anche in Turchia viene chiesto per evitare di far ulteriormente dilagare il coronavirus. Un’ulteriore dimostrazione di come, a una buona fetta della popolazione, la trasformazione della basilica in moschea ha rappresentato una svolta di notevole interesse.

Il significato simbolico della conversione di Santa Sofia in moschea. Ancora presto per parlare della fine della Repubblica per come concepita da Ataturk, ma di certo il fatto che all’interno del museo simbolo della laicità dello Stato adesso si svolgano le preghiere è un elemento di non poco conto per comprendere in che direzione sta andando la Turchia di Erdogan. Quest’ultimo nel corso degli anni di suo governo, prima come premier e poi come capo dello Stato, dal 2002 in poi ha impresso continue svolte in senso conservatore. Dalle questioni sociali passando per l’ordinamento dello Stato, l’Akp si è posto come formazione in grado di portare l’Islam politico al potere stravolgendo la tradizionale impronta laica dei precedenti governi. La trasformazione di Santa Sofia in moschea è soltanto l’ultimo atto, quello indubbiamente di maggior richiamo mediatico e quello forse dal sapore più marcatamente politico. Erdogan, che a causa di un’economia in affanno e di una situazione sociale non brillante, è in grande difficoltà a livello interno tanto da aver perso il controllo delle principali città nelle ultime amministrative, con questa mossa ha rinsaldato l’elettorato a lui più fedele. Il tutto senza curarsi troppo forse della portata storica di una scelta del genere. E adesso l’auspicio del nuovo “sultano” è quello di poter inseguire il neo ottomanesimo di cui è stato già dai primi anni in politica un importante fautore: la sua Turchia, nella visione di Erdogan, è quella in grado di difendere le istanze islamiche in tutto il globo facendo assumere ad Istanbul il ruolo di nuova capitale politica dell’Islam.

Miti e leggende di Santa Sofia. Di Francesco Colafemmina il 24 Luglio 2020 su culturaidentita.it. Mentre si abbattono statue e si riscrive la storia non sembra aver suscitato tutto questo scalpore la trasformazione in moschea del museo di Santa Sofia a Istanbul. Una parolina di papa Francesco, qualche articolo coraggioso, la protesta di Salvini davanti all’ambasciata turca a Roma. In fondo, si dice, era già stata moschea per quasi cinque secoli, e poi non è meglio che quel luogo sia riaperto al culto? Isolate voci hanno espresso persino un timido apprezzamento per la mossa di Erdogan che ha superato col fanatismo neo-ottomano il laicismo massonico di Ataturk. Eppure Santa Sofia sembra parlare poco ai nostri cuori, alla nostra memoria collettiva. Non così per il mondo ortodosso, segnatamente per i greci che nell’islamizzazione di Santa Sofia rivivono un antico trauma. A fasi alterne nella memoria popolare ellenica si sono sedimentati miti, immagini, racconti, che hanno il proprio centro in un luogo perduto dello spirito e dell’identità. Santa Sofia, narrano i canti dell’Álosi – la caduta di Costantinopoli il martedì nero del 1453 – fu turchizzata per “volere di Dio”, nondimeno la Madonna versò lacrime copiose assieme alle altre icone. E una colomba scesa dal cielo disse ai sacerdoti di chiamare tre navi dalla Franghià – l’occidente cattolico che pure aveva saccheggiato la basilica nel 1204 -: una per portar via la croce, l’altra il vangelo e la terza l’altare. Va da se che per un evento prodigioso la terza nave si squarciò nel mar di Marmara e l’altare finì sul fondale, generando nei secoli bonaccia e un intenso profumo per tutti coloro che si trovino a navigare in quello specchio di mare. Restavano le lacrime della Vergine, inconsolabile, sicché un Arcangelo le disse: “fa’ silenzio o Madonna, e non versare molte lacrime, di nuovo col tempo e con gli anni, di nuovo sarà tua!”. La speranza giacque da allora sepolta nelle cisterne e nei sotterranei labirintici della basilica. Di lì, infatti, un giorno riemergerà il Re di Marmo, Costantino XI Paleologo, l’ultimo imperatore preservato da un angelo, reso eterno nella pietra, dalle cui crepe riemergerà il giorno in cui Costantinopoli tornerà cristiana. Così come ricomparirà da un muro di una piccola cappella, tuttora visibile, l’arciprete che scomparve quel 29 maggio, assorbito misticamente dalla parete. Persino i turchi contemporanei sono stati percorsi da un brivido alla scoperta nel 2009 del volto di uno dei quattro Serafini alla base della cupola. Quando l’architetto svizzero Gaspare Fossati, incaricato del restauro della basilica, lo scrostò dall’intonaco nel 1847 e mostrò la scoperta al sultano Abdul Mejid, quest’ultimo ingiunse di ricoprire quei volti immediatamente. Una leggenda turca, infatti, sosteneva che la riscoperta dei Serafini sarebbe coincisa con lo sfaldamento dell’impero e il ritorno di Santa Sofia alla liturgia cristiana. “Saranno cacciati fino al Melo Rosso!”. E’ questa la profezia greca più nota, declinata in varie forme, perfino in una famosa canzone del ‘72. Il Melo Rosso,Kòkkini Milià, albero solitario dell’altopiano iranico, noto già ai bizantini sotto il nome di Monodéndrion, rappresenta l’origine e la fine del nemico. E può darsi che a questo albero simbolico, e non alle omonime fortificazioni dell’istmo di Corinto, facesse riferimento il loquace san Cosma l’Etolo, Nostradamus ellenico, quando annunciò nel XVIII secolo che un giorno i Turchi avrebbero per l’ultima volta minacciato la Grecia, giungendo fino all’Examilià. Gli fece eco il famoso “padre Pio dell’Athos”, Paisios, che nel 1992 interpretò quell’Examilià, come le sei miglia nautiche delle acque territoriali greche, minacciate dall’espansione turca. Una profezia sempre più attuale a giudicare dall’interesse alle prospezioni petrolifere della Turchia in acque territoriali greche. Pure, la più bella leggenda su Santa Sofia è quella che non riguarda la sua fine, il suo futuro, bensì la sua nascita. Ci giunge nei versi del poeta Georghios Vizinòs (Santa Sofia, in Arie Attiche, 1884) e riprende un’antica tradizione della Tracia. Giustiniano è intento a vagliare i diversi progetti che il capomastro gli propone. Nessuno lo soddisfa, non è questa la grande basilica che ha in mente. Un giorno mentre riceve l’antidoro dal Patriarca – il pane benedetto che prendono a fine liturgia coloro che non si sono comunicati – una briciola gli cade sul tappeto. L’imperatore la cerca con ansia, tasta il pavimento, quando vede un’ape portarla via dalla finestra. Giustiniano chiede così a tutti gli abitanti di Costantinopoli di aprire gli alveari della città e controllare la presenza dell’antidoro. Tutti ispezionano le arnie, estraggono miele e cera, ma del pane benedetto neanche l’ombra. Quando però è il capomastro imperiale ad aprire le sue arnie, in una di esse, la migliore, vi trova uno spettacolo indicibile: una chiesa meravigliosa, con un’alta cupola su un bosco di colonne, e al centro di essa l’altare e sull’altare la briciola di pane benedetto dell’Imperatore: “Non è cera quella,/ dolce non è miele,/ è una chiesa scolpita!”. Santa Sofia sarà così la riproduzione della pura creazione delle api, immagine efficacissima della sapienza del Creatore. 

Chiara Clausi per “il Giornale” l'11 luglio 2020. Santa Sofia, icona globale, basilica, moschea, poi museo, è stata convertita di nuovo in moschea. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la sua riapertura ufficiale come sito religioso islamico, dopo la decisione del Consiglio di stato turco che ha annullato il decreto del 24 novembre 1934 dell' allora presidente Mustafa Kemal Ataturk che l' aveva trasformata in un museo. La decisione è stata presa all' unanimità. Secondo le motivazioni avanzate, l' edificio apparterrebbe a una fondazione religiosa che l' avrebbe ereditato dal sultano ottomano Maometto II, che nel 1453 conquistò Costantinopoli e convertì Santa Sofia da chiesa in moschea. Per i giudici sarebbe quindi illegittimo destinare il complesso a un uso diverso da quello di allora, cioè di luogo di culto islamico. In un discorso trasmesso in diretta ore dopo il decreto presidenziale per la conversione di Santa Sofia il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che aprirà per il culto il 24 luglio. «Come per tutte le altre moschee, le porte di Santa Sofia saranno aperte a tutti, compresi cittadini e turisti turchi. Santa Sofia è sotto la giurisdizione turca. Qualsiasi obiezione alla decisione della nostra magistratura sarà percepita come una violazione della nostra sovranità», ha affermato il leader turco. La intricata storia di Santa Sofia, oggi sito turistico più popolare della Turchia con oltre 3,7 milioni di visitatori all' anno, è cominciata nell' anno 537 quando l' imperatore bizantino Giustiniano costruì l' enorme chiesa che si affaccia sul Corno d' oro. La costruzione fu il risultato di due geniali architetti, Isidoro di Mileto e il fisico Antemio di Tralle. Rimase bizantina per secoli a parte un breve momento nel 1204 quando i crociati fecero irruzione nella città. Nel 1453, l' ottomano Maometto II conquistò Istanbul, allora nota come Costantinopoli, e gli ottomani convertirono l' edificio in una moschea, aggiungendo quattro minareti all' esterno e coprendo le icone cristiane con pannelli di calligrafia religiosa araba. Nel 1934 Santa Sofia fu trasformata in un museo dal fondatore della Turchia moderna, e laica, Ataturk. Prima della decisione gli Stati Uniti, la Russia e la Grecia, insieme all' Unesco, avevano espresso preoccupazione in vista della sentenza. Altri ritenevano che Santa Sofia dovesse rimanere un museo come simbolo della solidarietà cristiana e musulmana. Ci sono state critiche sulla mossa in molti ambienti. Il ministro della cultura greco Lina Mendoni ha avvertito: «Il nazionalismo mostrato dal presidente Erdogan riporta indietro di sei secoli il suo Paese». La sentenza del tribunale «conferma che non esiste una giustizia indipendente» in Turchia, «è una provocazione», ha aggiunto. Ma il presidente turco ha precisato che ci sono 435 chiese e sinagoghe in Turchia dove cristiani ed ebrei possono pregare. Già durante le celebrazioni del 29 maggio, per ricordare la conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani nel 1453, Erdogan aveva promesso che presto Santa Sofia sarebbe tornata moschea. Ma alcune avvisaglie c' erano già state in altre occasioni. Nel 2015, un religioso aveva recitato il Corano all' interno dell' edificio per la prima volta in 85 anni. L' anno seguente l' autorità religiosa turca iniziò a ospitarvi e trasmettere letture religiose durante il mese sacro del Ramadan e al suo interno fu recitata la chiamata alla preghiera nell' anniversario della prima rivelazione del Corano al profeta Maometto.

 Erdogan, da sultano di Turchia a re dell’islam. Emanuel Pietrobon il 10 luglio 2020 si Inside Over. Recep Tayyip Erdogan sarà ricordato dalla posteriorità come uno dei più lungimiranti statisti che siano mai stati partoriti dal ventre del mondo islamico. In meno di un ventennio, l’ex sindaco di Istanbul è riuscito laddove non ha potuto il suo mentore ed ex primo ministro, Necmettin Erbakan, ovvero scardinare l’impostazione laica ed occidentale della Turchia repubblicana e sopravvivere, e vincere, ai tentativi di opposizione dello stato profondo kemalista. Nelle ultime settimane, a Istanbul, non è stata combattuta (e vinta) una semplice battaglia politica sul laicismo e sull’identità nazionale, né ha avuto luogo una messinscena elettorale per ottenere consensi; il mondo è stato testimone di una partita in cui la Turchia ha fronteggiato se stessa e la posta in gioco non era la semplice riappropriazione di un simbolo secolarizzato da Mustafa Kemal come segno di rottura con il passato, quanto il futuro di una precisa visione: la riunificazione dell’islam mondiale sotto la bandiera turca.

La rabbia dell’Occidente. Quando il 5 giugno lo Hurriyet Daily News ha annunciato che Erdogan aveva istruito il Consiglio Esecutivo Centrale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) affinché elaborasse un piano d’azione per la riconversione in moschea dell’ex cattedrale di Santa Sofia, che in lingua turca viene chiamata Ayasofya, la comunità occidentale ha reagito alternando amaro stupore ad incredulità. Nell’immaginario collettivo del cristianesimo ortodosso l’ex cattedrale di Santa Sofia continua ad essere vista come il simbolo della cristianità, un luogo così santo ed iconico che non potrà mai essere considerato realmente perduto e che, anzi, alla fine dei tempi si crede che verrà riscattato con l’aiuto di Costantino XI Paleologo, l’ultimo imperatore bizantino, riportato nella dimensione terrena dalla Vergine Maria per combattere un’ultima battaglia. Il “recupero di Costantinopoli” è uno dei temi centrali dell’escatologia ortodossa, ma è anche una questione che riguarda direttamente l’identità nazionale di popoli che hanno avuto una relazione altamente conflittuale con la Turchia nel corso dei secoli. Non è un caso che le esternazioni più dure all’annuncio della riconversione siano provenute proprio dai patriarcati dell’Europa orientale. Per paesi come Stati Uniti e Francia, anch’essi intervenuti nella questione, la critica verteva invece sul più vago e fluido concetto di ecumenismo, sulla preservazione di un patrimonio mondiale e sul rispetto della sensibilità dei cristiani che potrebbero interpretare il gesto come un’offesa o una minaccia.

Santa Sofia non è una mossa elettorale. Sullo sfondo dello scontro diplomatico, la grande stampa occidentale ha bollato la mossa come un semplice calcolo politico di Erdogan per recuperare consensi, alla luce delle difficoltà economiche accentuate dalla pandemia, adducendo come prova della sua presunta ipocrisia la mancanza di un reale interesse per l’argomento nella prima parte degli anni 2000. Questa linea di pensiero è completamente erronea poiché ignora la realtà complessa e ostile nella quale il presidente ha dovuto muoversi per realizzare il proprio sogno di grandezza. Infatti, il panorama istituzionale turco è uno dei più ideologizzati al mondo e la natura secolare della costituzione è stata storicamente protetta dalle forze armate. Dagli anni ’60 ad oggi, gli alti gradi dell’esercito turco hanno interrotto il corso politico, o minacciato di farlo, ben dieci volte. Lo stesso Erbakan, mentore di Erdogan e architetto della rinascita islamista nel paese, fu detronato nel 1997 per via della sua agenda domestica ed estera ritenuta incompatibile con i valori kemalisti. Un occhio attento vedrebbe che Erdogan è stato guidato da un preciso disegno ideologico sin dagli esordi e che lo ha svelato gradualmente ed intelligentemente, di pari passo con l’indebolimento del fronte kemalista nelle forze armate, colpito da epurazioni e arresti per accuse di tradimento e cospirazioni antigovernative, soprattutto a partire dal 2010. Quell’anno un totale di 365 militari, in servizio ed in pensione, di alto e medio grado, furono incarcerati con la grave accusa di aver pianificato un colpo di stato per far cadere il governo dell’Akp nel 2003. Con quell’operazione, Erdogan dava ufficialmente inizio alla sua personale guerra contro il kemalismo, e a latere contro l’Occidente, cominciando ad implementare la propria agenda e a volgere lo sguardo su Ayasofya, pur senza fare mai riferimenti diretti per ragioni di avvedutezza. La storia gli ha dato ragione: nel luglio del 2016 lo stato profondo turco ha tentato un ultimo colpo di coda, che è fallito perché avvenuto in ritardo, perché compiuto da una minoranza esigua, perché privo di appoggio popolare e perché disorganizzato. L’evento si è rivelato l’occasione ideale per lanciare un gigantesco repulisti, ancora in corso, che ha permesso a Erdogan di eliminare le ultime sacche di resistenza e di avviare finalmente la ricostruzione dell’impero.

Sulle orme di Maometto II. Ogni statista viene influenzato dai condottieri del passato le cui gesta hanno contribuito a donare grandezza e prestigio al proprio paese. Negli Stati Uniti vi è il culto dei padri fondatori, in Francia vi è il mito napoleonico, in Russia si riscontra una curiosa combinazione di nostalgia sovietica ed esaltazione dell’era zarista, mentre in Turchia si è assistito alla divinizzazione di Ataturk. Erdogan, coerentemente con la propria visione, ha sempre manifestato una certa ostilità nei confronti del padre della Turchia moderna, preferendogli Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. Come lui, che secondo la tradizione ha pianto dalla commozione una volta messo piede ad Ayasofya il 29 maggio 1453, anche Erdogan è stato vinto dalle emozioni entrando nell’edificio, il 13 marzo di due anni fa, per recitare simbolicamente alcuni versetti coranici e dedicare una preghiera “alle anime di tutti coloro che ci hanno lasciato questo lavoro come eredità, specialmente il conquistatore di Istanbul”. Alla vita di Maometto II e alla sua impresa più importante, ossia la cattura di Bisanzio, l’industria dell’intrattenimento turca ha anche dedicato una serie televisiva, “Rise of Empires: Ottoman“, lanciata quest’anno su Netflix e filmata in lingua inglese per attrarre il maggior numero possibile di spettatori. Preghiere e prodotti dell’intrattenimento a parte, a partire dal 10 luglio, Erdogan, potrà dedicare alla memoria del suo ispiratore anche il ritorno di Ayasofya a luogo di culto islamico.

Erdogan, sultano della Turchia e re dell’islam. Nello stesso modo in cui è sbagliato considerare come un calcolo elettorale il ritorno ad uso religioso di Santa Sofia, è un errore pensare che gli accadimenti che stanno scuotendo la Turchia non avranno ripercussioni nel mondo, più precisamente nello spazio islamico. Infatti, mentre l’Occidente muove guerra a se stesso nell’aspettativa di eliminare la propria identità, diversi stati e civilizzazioni hanno ritenuto che un ritorno al passato fosse l’unico modo per contrastare la distruzione omologatrice della globalizzazione. I paesi di tradizione musulmana sono stati particolarmente sconvolti dall’entrata nella modernità, come palesato dall’emblematica comparsa del terrorismo jihadista, che il politologo Benjamin Barber riteneva fosse un’espressione tribalista, eccezionalmente violenta, da inquadrare nel più ampio contesto di rigetto della globalizzazione nel Sud del mondo. Gli stati del mondo islamico (dar al-islam) hanno dovuto fare i conti con questa ondata identitaria e con le sue riverberazioni mortifere. In alcuni paesi, come l’Egitto, le forze armate hanno deciso di intervenire per impedire l’ascesa al potere delle forze islamiste, mentre in altri, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan, hanno prevalso i fautori della rivoluzione religiosa. L’Iran non ha saputo e non ha potuto sfruttare pienamente il momento khomeinista perché, pur proclamando ambizioni universali, è e continuerà ad essere il rappresentante di una realtà minoritaria all’interno dell’islam. Anche se l’ordine rivoluzionario dovesse resistere ai colpi inferti dal triangolo Washington-Riad-Tel Aviv, la sua influenza resterebbe relegata alla galassia sciita. La questione è, invece, radicalmente diversa per la Turchia, la cui peculiare forma di islam sunnita si è rivelata attraente e facilmente esportabile in tutto il mondo, specialmente tra le comunità di musulmani presenti in Europa, e ha potuto essere adattata per forgiare un’alleanza con la Fratellanza Musulmana. Se a ciò si somma che le direttrici neo-ottomane, panturchiste e pan-islamiste della politica erdoganiana hanno trasformato il presidente turco nel capo di stato di fede islamica più apprezzato dall’opinione pubblica araba, si possono intuire più facilmente le sue ragioni su Santa Sofia. È lui che ha scelto di caricarsi del fardello di ricondurre la civiltà islamica all’età dell’oro e, adesso, è il responsabile dei desideri di oltre un miliardo di persone. In definitiva, il “fenomeno Erdogan” non sarà confinato, né confinabile, entro le frontiere della Turchia, perché il dar al-islam ha storicamente sentito la necessità di avere una guida, sin dai tempi del profeta Maometto, e la “rinascita della grande potenza turca” getta le basi per la scomposizione di equilibri di potere attuali e per la riproposizione di schemi ritenuti sepolti ed anacronostici, come il turco-centrismo. Le prossime tappe di questo lungo viaggio saranno Gerusalemme e Riad, che i rivali di Erdogan si preparino: l’impero ottomano è tornato.

Marta Ottaviani per “la Stampa” il 22 agosto 2020. Un altro pezzo dell'antica Costantinopoli torna luogo di culto islamico. Da ieri, l'ex chiesa bizantina di San Salvatore in Chora a Istanbul, meglio nota ai turchi come Kariye Muzesi, è moschea, destinazione che le era stata imposta dalla seconda metà del XV secolo fino al 1945, quando, sull'esempio di Santa Sofia, anche questo capolavoro dell'Impero romano d'Oriente era stata sottratta al culto religioso perché tutti potessero goderne in libertà. A volte la Storia sa essere beffarda e, a circa un mese di distanza, San Salvatore ha seguito il destino della sua sorella maggiore. La decisione, pubblicata sulla Resmi Gazete, la Gazzetta Ufficiale turca, porta la firma del Capo di Stato, Recep Tayyip Erdogan. Ma la Danistay, il tribunale amministrativo turco, aveva già deciso nel novembre scorso. Il destino dell'edificio, insomma, era segnato. Sono tanti i punti che accomunano la nuova moschea al Tempio per la Divina Sapienza, tornata luogo di culto islamico lo scorso 24 luglio nel clamore internazionale e la preoccupazione per la corretta preservazione delle opere d'arte al suo interno. San Salvatore in Chora ha una portata simbolica minore, ma il timore per il patrimonio di affreschi e musivo al suo interno è elevato. All'interno dell'edificio, infatti, si trovano fra le pareti e le volte più belle dell'arte bizantina e fino a questo momento, la chiesetta, che si trova a Fatih, uno dei distretti più conservatori e politicizzati di Istanbul, sembrava quasi essere stata in parte risparmiata da un destino crudele che invece ha accomunato decine di luoghi di culto, trasformati in moschea nei secoli scorsi e che si sono visti sottrarre totalmente la loro componente cristiano-bizantina, a causa soprattutto della scomparsa delle decorazioni interne. Invece questa chiesetta, il cui nome significa San Salvatore in campagna e che si trova poco lontano dal punto in cui, la notte del 1453, gli Ottomani fecero il loro ingresso nella città dopo averla conquistata, aveva mantenuto in parte l'antica bellezza, con le pareti scrostate solo nel corpo centrale dell'edificio, ma con l'esonartece, il nartece e la galleria laterale ancora intatti. Qui riposano alcuni degli imperatori della dinastia Paleologa, che ebbe in sorte l'assistere al declino e alla fine dell'Impero romano d'Oriente e che, quasi per lasciare un ultimo, sofferto, dono all'umanità, fu protagonista di uno dei periodi di vigore artistico più intensi di tutta la millenaria storia dell'Impero, denominata appunto «rinascenza paleologa» e di cui San Salvatore in Chora ci è giunta come unica testimonianza. Il Cristo nella mandorla nel giorno del giudizio universale e la Theotokos sono riprodotti su tutti i libri di storia dell'arte. Adesso rischiano di venire coperti con teli, con inevitabili danni a una struttura che ha oltre mille anni per quella che, più che un'opportunità per consolidare il consenso interno, sembra sempre di più uno schiaffo all'Occidente. Del resto, non meno di due giorni fa, in occasione dell'anniversario della battaglia di Manzikert, che ricorda la prima sconfitta dell'esercito bizantino in territorio anatolico, il presidente turco, nel suo discorso ha detto di voler ripercorrere la strada tracciata dal sultano Arp Aslan. Un sultano bellicoso, che voleva espandere il dominio ottomano nella regione mediterranea e asiatica.

I nuovi centri di poteri dell’islam. Emanuel Pietrobon il 31 maggio 2020 su Inside Over. Dal 1979 due paesi-chiave all’interno della millenaria civiltà islamica, sorretti da impianti ideologici confliggenti e con mire universali, si stanno scontrando per l’egemonizzazione del dār al–Islām (il mondo musulmano): Arabia Saudita e Iran. L’entrata in scena di quest’ultimo ha rappresentato l’evento spartiacque più importante nella storia recente delle relazioni internazionali fra i paesi a maggioranza musulmana, perché la sfida al dominio culturale sulla umma (la comunità islamica mondiale) esercitato da Riad è stata lanciata da un paese che è al tempo stesso basato su un’identità sciita, la minoranza più corposa all’interno del mondo islamico, e che non è di etnia araba. L’ascesa dell’Iran khomeinista ha sancito l’inizio di un profondo mutamento identitario e di un processo di redistribuzione del potere ancora in corso, che sta gradualmente erodendo l’influenza culturale dei tradizionali paesi-guida della civiltà islamica, ossia Marocco, Egitto ed Arabia Saudita, e favorendo l’ascesa di vecchi e nuovi giocatori, come Turchia, Pakistan e Malesia.

Insieme per proteggere un predicatore. Zakir Naik è un nome poco conosciuto in Occidente, ma la sua fama nell’Asia meridionale ed orientale è elevatissima. Naik è il più popolare predicatore salafita di origine indiana, padre della Fondazione per la Ricerca sull’Islam di Mumbai, ed il suo attivismo senza sosta nelle televisioni, nelle moschee e nelle università del Sud globale gli ha fatto ottenere il titolo di “rock-star del tele-evangelismo islamico”. Naik non ha mai nascosto la propria adesione ad un certo tipo di islam, ultra-conservatore, anti-ecumenico ed anti-occidentale, che promuove ovunque viene invitato a parlare, e la influenza culturale è ritenuta così imponente e perniciosa che le autorità di Nuova Delhi lo ritengono il mandante morale degli attentati di Dhaka del 2016 e dello Sri Lanka della Pasqua 2019. Per questo ed altri motivi, sul capo di Naik è stato attivato un mandato di cattura, con richiesta di estradizione, ma alcuni paesi stanno impedendo la formalizzazione dell’arresto e della deportazione: Malesia, Pakistan e Turchia. Naik, infatti, si trova attualmente in Malesia, protetto dalle autorità, e starebbe ricevendo supporto materiale, per vivere e finanziare le proprie attività, da Pakistan e Turchia. Non è una coincidenza che i tre paesi abbiano unito gli sforzi per tutelare la libertà di Naik, questa è soltanto l’ultima di tante iniziative congiunte che sembrerebbero indicare la nascita di un nuovo blocco di potere all’interno del mondo musulmano, che non parla arabo e sta spostando il baricentro delle relazioni internazionali fra i paesi islamici ad Est. Non è dato sapere se Naik conosca il presidente turco di persona, ma il suo apprezzamento è noto, essendo stato esternato più volte in comizi pubblici. Naik è il trait d’union fra Turchia, Malesia e Pakistan, e se la sua influenza è realmente profonda come creduto dalle autorità indiane, le sue prese di posizione su Recep Tayyip Erdogan, che lui vorrebbe come “il prossimo leader del mondo musulmano”, avranno un impatto non di poco conto sull’opinione pubblica islamica.

Un’alleanza all’orizzonte? I rapporti fra Ankara, Islamabad e Kuala Lumpur sono migliorati in maniera significativa negli anni recenti su impulso di Erdogan, la cui agenda estera contempla il neo-ottomanesimo in Europa e Vicino oriente, il panturchismo nel mondo russo e in Asia centrale, ed il nazionalismo islamico nel resto del pianeta. Stabilire delle relazioni di alto livello con il Pakistan e la Malesia è strategicamente importante ai fini della costruzione di una sfera d’influenza pan-islamica turco-centrica nell’Asia meridionale, considerando l’arsenale nucleare del primo e l’influenza della seconda nel Sud-est asiatico. I tre paesi condividono ambizioni e rivali e la stessa retorica utilizzata dalle loro classi politiche ha storicamente avuto più somiglianze che differenze da molto prima dell’ascesa di Erdogan. L’avveramento della profezia huntingtoniana sulla de-occidentalizzazione di Ankara ha semplicemente accentuato una tendenza già in essere, permettendo che i tre paesi trovassero una guida carismatica e lungimirante, ossia Erdogan, capace di favorire e giustificare l’avvicinamento. La formazione dell’asse è avvenuta sullo sfondo della crescente e sempre più palese insofferenza nei confronti della causa palestinese da parte delle dirigenze dei paesi arabi, la cui eredità è stata raccolta proprio da Ankara, Islamabad e Kuala Lumpur e, ovviamente, da Teheran. Ma vi sono anche altri campi, in cui gli interessi dei musulmani sono minacciati, che vedono collaborazione e dialogo fra i tre, come la “resistenza culturale” contro l’occidentalizzazione e il Kashmir. Nel primo caso, Erdogan aveva proposto all’ex primo ministro malese, Mahathir Mohamad, di unire gli sforzi per l’istituzione di un “esercito dell’islam“, volto a difendere gli interessi dei musulmani dall’imperialismo occidentale, ma la sua recente uscita di scena, avvenuta il 1 marzo di quest’anno, ha temporaneamente congelato le discussioni sull’argomento. L’idea di un’alleanza militare islamica in stile Nato è di SADAT, il think tank più vicino ai decisori politici di Ankara, e risale al 2018. Anche con Mohamad fuori dai giochi, Erdogan non ha abbandonato il progetto e, soprattutto, non ha mollato la presa sulla Malesia. Prossimamente, infatti, potrebbe vedere luce un canale televisivo in lingua inglese, sponsorizzato dai due paesi, incentrato sulla lotta all’islamofobia in Occidente e sulla difesa dei valori islamici. Il Pakistan è un caso particolare: è stato uno storico alleato dell’Occidente sin dalla partizione dell’India del 1947, ma i rapporti si sono incrinati nel corso del tempo come naturale conseguenza della presenza pervasiva di elementi radicali nel seno della politica e dei servizi segreti, che hanno utilizzato il terrorismo ed il separatismo come un instrumentum regni in chiave anti-indiana sin dal post-indipendenza. La situazione è stata ulteriormente peggiorata dall’entrata del paese nella sfera d’influenza saudita, che ha contribuito ad esacerbare il problema della radicalizzazione religiosa, ma Erdogan ha voluto tentare ugualmente lo “strappo”, sfruttando il tallone d’Achille del solido partenariato: il Kashmir. L’Arabia Saudita ha mantenuto e mantiene un profilo basso sulla questione kashmira per non deteriorare i rapporti con l’India, che è un acquirente di lunga data del petrolio di Riad, ma la Turchia non è incatenata da questa limitazione e, perciò, ha maggiore libertà di manovra, azione e parola. L’esposizione turca nella regione contesa è aumentata con l’insediamento di Imran Khan alla presidenza del consiglio dei ministri pakistano e ha contribuito a migliorare sensibilmente i rapporti fra le due cancellerie, rafforzando l’immagine di Erdogan quale difensore della umma. Il 21 novembre dell’anno scorso, la Turchia ha promosso ed ospitato una conferenza internazionale sul Kashmir, ribadendo che non può essere considerato  un affare interno all’India poiché potenziale fonte di instabilità per l’intera Asia meridionale. L’evento ha funto da preludio ad un’importante due-giorni di Erdogan a Islamabad, il 13 e 14 febbraio, tesa ad “approfondire il partenariato in quasi ogni settore”, secondo il Daily Sabah. Per capire il reale motivo della visita, si pensi al fatto che durante un discorso al parlamento pakistano della durata di 25 minuti, il presidente turco ha menzionato il Kashmir sei volte. Anche la Malesia, su impulso turco, ha iniziato a fornire maggiore supporto al Pakistan, criticando la revoca dell’autonomia al Kashmir, avvenuta lo scorso agosto, e accusando l’India di essere una potenza occupante e di avere un’agenda anti-musulmana. L’esplosione della pandemia ha favorito indirettamente il consolidamento dell’asse, dal momento che Pakistan e Malesia hanno ricevuto carichi di aiuti umanitari e condivisione di conoscenze pratiche da parte di Ankara. Inoltre, occorre dare la dovuta importanza ad un altro evento accaduto nel corso dell’emergenza sanitaria: il primo ministro pakistano ha invitato i compatrioti a guardare le serie televisive turche, giocando un ruolo-chiave nella loro esportazione nel vicino Kashmir, diventando il primo capo di stato di un paese islamico a prendere una posizione pubblica sull’argomento che, lungi dall’essere umoristico, rappresenta uno dei capitoli della guerra fredda fra Turchia ed Arabia Saudita. Khan ha praticamente agito da promotore pubblicitario per l’industria dell’intrattenimento turca ed il suo intervento ha avuto successo: la serie “Resurrection: Ertuğrul” è rapidamente diventata un fenomeno culturale sia in Pakistan che in Kashmir. Collaborazione in campo sanitario e reciproco sostegno in politica estera e cultura, segni che dicono molto su quale potrebbe essere il futuro di questo asse nascente, la cui ufficiale formazione nel dopo-pandemia potrebbe rivoluzionare tanto le relazioni internazionali quanto il mondo musulmano, accelerandone il cammino verso la de-arabizzazione e l’asiatizzazione iniziato nel lontano 1979.

Da "ilmessaggero.it" il 27 maggio 2020. Una ragazza iraniana di 13 anni è stata decapitata nel sonno, con un'ascia, dal padre che si opponeva alla sua relazione con un uomo molto più grande. Si chiamava Romina Ashrafi ed è una delle vittime del delitto d’onore che è ancora in vigore in Iran.  È successo ad Haviq, capitale del distretto di Haviq, nella contea di Talesh, nella provincia di Gilan. Romina si era innamorata di un uomo di 35 anni,  Bahman Khavari, ed era fuggita con lui dopo che il padre le aveva ordinato di interrompere la relazionw. Dopo la fuga i familiari avevano presentato la denuncia. La ragazza era stata convocata dalla polizia locale e il giudice aveva deciso di rimandarla a casa anche se Romina aveva spiegato i rischi che correva tornando in famiglia per via del padre violento. La notte dello scorso 21 maggio 2020, racconta sul Fatto Tiziana Ciavardini, antropologa ed esperta di Iran che ha rilanciato in Italia la notizia, il padre con una falce ha tagliato la testa alla figlia. Prima ho provato a strangolarla e poi l'ha uccisa con un'ascia.  Il giorno ha confessato tutto alla polizia mostrando anche l'arma del delitto. Il caso ha suscitato l'indignazione social. Il padre di Romina non verrà incriminato per omicidio perché in Iran esiste il delitto d'onore. Per il deputato dell’organizzazione assistenziale per gli affari sociali della provincia di Gilan, Reza Jafari, l’omicidio  è «un esempio di palesi violazioni dei diritti dei bambini»,   il suo dipartimento assicura farà di tutto per garantire i diritti dei bambini. «Ai sensi dell’articolo 220 del codice penale islamico, il padre di Romina non potrà essere punito con la pena di morte, come previsto per tutti i casi di omicidio in Iran, perché questo rientra nel reato di delitto d’onore», spiega Ciavardini. «Se avviene l’omicidio di un membro di una famiglia, a causa della credenza da parte degli autori che la vittima abbia arrecato vergogna o disonore alla famiglia o abbia violato i principi della comunità, il delitto viene valutato in maniera diversa da tutti gli altri crimini della stessa entità». In Iran, dove vige la Sharia, la legge islamica, la relazione tra una ragazza di 13 anni e un uomo di 35 è consentita: per il codice civile iraniano l’età minima prevista dalla legge per il matrimonio di una ragazza è di 13 anni. Il vice presidente della Repubblica islamica, Masoumeh Ebtekar, ha emesso un “ordine speciale” per indagare sull’omicidio. 

Iran, decapitata a 13 anni dal padre. Il delitto d'onore che scuote il Paese. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Gabriella Colarusso su La Repubblica.it. Iran, decapitata a 13 anni dal padre. Il delitto d'onore che scuote il Paese. Romina Ashrafi si era innamorata di un ragazzo più grande di lei. L'uomo l'ha uccisa tagliandole la testa con un machete mentre dormiva. Il presidente Rouhani emetterà un "ordine speciale". L'omicidio brutale di Romina Ashrafi per mano di suo padre ha scosso l'Iran, riaprendo le polemiche intorno al delitto d'onore che è ancora "protetto" dal codice islamico. Romina Ashrafi aveva 13 anni. Si era innamorata di un uomo più grande di lei, un 35enne della sua stessa città, Hovigh, nella contea di Talesh, nel nord del Paese, e con lui aveva tentato la fuga dalla casa di famiglia. Fermata dalla polizia, è stata costretta a tornare dai suoi genitori nonostante avesse chiesto di essere protetta perché temeva la reazione di suo padre, contrario al matrimonio con il ragazzo. Poco dopo il rientro a casa della ragazza, approfittando dell'assenza della madre, il papà di Romina l'ha uccisa tagliandole la testa con un machete mentre dormiva. L'uomo è stato arrestato. Secondo alcuni giornali locali si sarebbe consegnato alla polizia dopo l'assassinio con in mano ancora l'arma del delitto. Il governatore del distretto di Hovigh, Kazem Razmi, ha confermato all'agenzia di stampa Irna che l'assassino è in custodia e che sul caso è stata aperta un'indagine: "Il sospettato, accusato di omicidio, è attualmente in prigione e le autorità stanno lavorando per completare il caso e affrontare le sue varie dimensioni", ha spiegato Razmi. L'omicidio ha sollevato un'ondata di indignazione e proteste in Iran, la storia è stata ripresa da molti iraniani della diaspora, spingendo anche le autorità centrali a intervenire. Secondo l'agenzia di stampa Rokna la vicepresidente della repubblica Islamica, una delle (poche) figure femminili di rilievo nel sistema di potere del Paese, Masoumeh Ebtekar, ha assicurato che il presidente Hassan Rouhani emetterà un "ordine speciale" per indagare sull'omicidio. L'avviso dei funerali di Romina ha contribuito a far salire la tensione e le proteste. Nell'immagine si vede Romina sorridente con un velo verde che le scende morbido sulla testa e accanto vengono elencati gli uomini della famiglia di appartenenza: il primo nella lista è il padre di Romina, il suo assassino. La ragazza viene identificata come "figlia di" cui segue il nome del padre, "nipote di" con il nome del nonno, "sorella di" con il nome del fratello maschio, e "nipote di" con i nomi dei due zii, materno e paterno. L'omicidio ha riaperto il dibattito sui cosiddetti "delitti d'onore" in Iran, che sono in parte tutelati dal codice penale islamico, e contemporaneamente sul fenomeno delle spose bambine. Secondo l'articolo 220 del codice penale islamico, in quanto "guardiano" della ragazza il padre di Romina non verrà punito con la pena di morte, prevista per gli omicidi, e potrebbe andare incontro a una sentenza lieve. Il codice infatti non criminalizza i crimini cosiddetti "d'onore", che possono essere perseguiti come omicidi, ma prevedono alcune forme di mitigazioni legale, per esempio un indennizzo. Il giornale online Khabar raccontando il caso di Romina ha ricordato che nel 2014 un funzionario della polizia di Teheran disse che il 20 per cento degli omicidi in Iran erano omicidi d'onore. Eppure, paradosso, per la legge islamica Romina alla sua giovane età avrebbe già potuto sposarsi: il codice fissa a 13 anni per le donne e a 15 per gli uomini l'età per poter accedere al matrimonio, un'altra norma molto criticata perché consente il fenomeno delle spose bambine. 

Quei Paesi senza diritti ripuliti grazie allo sport. Grandi eventi con dirette tv planetarie pagati profumatamente solo per truccare l'immagine. Luigi Guelpa, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Lo scorso 12 gennaio, battendo ai rigori l'Atletico Madrid, il Real Madrid di Zidane ha conquistato a Jedda, in Arabia Saudita, la Supercoppa di Spagna. Per 36 milioni di euro gli sceicchi si erano assicurati l'evento sia per vedere calcio d'altissimo livello nel salotto buono di casa, ma soprattutto per mostrare in mondovisione che gli stadi erano stati aperti anche al pubblico femminile. Due giorni dopo, nello stesso impianto sportivo, si sono affrontate Jeddah Club e Al Nojoom, in un incontro valido per il campionato saudita, ma di donne neppure l'ombra. Una volta che le troupe televisive di mezzo mondo hanno lasciato Jedda tutto è tornato come prima, se non addirittura peggio. In Arabia Saudita è andato in scena uno dei tanti episodi di «Sportwashing», il lavaggio dello sport. Ovvero la strategia di utilizzare l'organizzazione di eventi sportivi, o la sponsorizzazione di squadre, per migliorare la contestata reputazione di un Paese la cui storia è coperta di abusi. Nel caso del regime saudita, le prevaricazioni non riguardano solo la discriminazione nei confronti delle donne, ma anche la repressione delle voci dissidenti, la scriteriata guerra nello Yemen e la pena di morte. Le polemiche in Europa si sono innescate dopo le parole pronunciate dalla presidentessa della Comunità di Madrid, Isabel Diaz Ayuso, durante la consegna del trofeo a Jedda. «È un orgoglio testimoniare come l'Arabia Saudita adotti misure per l'uguaglianza», ha twittato, mostrando una foto che la ritraeva senza velo per coprire i capelli. «È stato un gesto coraggioso, una sfida veramente femminista in difesa dei diritti delle donne», ha aggiunto la rappresentante del Partito Popolare. In realtà Diaz Ayuso, che ha affermato di voler rivendicare la parità di genere, non ha contestato alcuna legge. Il velo non è obbligatorio per le donne straniere che viaggiano in Arabia Saudita: lo scorso anno è stata approvata una riforma proprio per dare un'immagine di apertura verso l'esterno. Un altro ingrediente nella trappola del riciclaggio di immagini con cui l'Arabia Saudita sta gestendo le controversie che emergono dai suoi affari internazionali. Mentre il regime saudita ha cercato per quattro giorni di esportare questa immagine di «normalità» nel mondo, usando l'organizzazione di un macro-evento sportivo come la Supercoppa spagnola, una delle più importanti attiviste femministe saudite, Loujain Al Hathloul, si trova in carcere dal maggio 2018. È una donna che sta pagando con la prigione le legittime rivendicazioni al diritto di guidare (è proibito persino in bicicletta), battendosi per la fine del sistema di tutela maschile, ancora in vigore nonostante le autorità stiano cercando di millantare determinate aperture. Da quando l'Arabia Saudita ha acquistato i diritti della competizione spagnola (che si terrà a Jedda anche nei prossimi due anni in cambio di 40 milioni di euro a stagione), la federcalcio di Madrid ha dovuto affrontare le critiche sulla scelta di un Paese che viola sistematicamente i diritti umani. Tve, la televisione di stato, si è rifiutata di trasmettere l'evento, e anche Mediaset e Atresmedia hanno deciso di non partecipare all'asta. La Supercoppa è stata solo l'ultimo evento internazionale con cui il Paese del Golfo riesce a monopolizzare, per alcuni giorni, l'attenzione mondiale. Il punto di partenza dell'interesse strategico dell'Arabia Saudita per gli eventi sportivi risale al 2016, quando il principe ereditario Mohammed bin Salman ordinò l'istituzione di un fondo di sviluppo sportivo per rafforzare le attività nel paese. Da allora ha ospitato, ad esempio, l'incontro di boxe tra il campione Anthony Joshua e Andy Ruiz, le ultime due edizioni della Supercoppa italiana e una tappa del golf European Tour. Tutto questo per allestire uno spettacolo finalizzato a divulgare una realtà di comodo. L'Arabia Saudita è soltanto una delle tante sorelle islamiche che pratica lo «Sportwashing». Gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain si sono assicurati gare di Formula Uno e del Motomondiale. Il Qatar, che a settembre è stato la sede dei mondiali di atletica leggera, si sta preparando per la Coppa del Mondo del 2022. «Invece di cercare di lavare l'immagine con un evento sportivo per nascondere il loro sfortunato record sui diritti umani, i governi dei Paesi del Golfo dovrebbero prodigarsi piuttosto per abrogare le leggi che criminalizzano la libertà di espressione e accelerare il rilascio di tutti i prigionieri», ha affermato Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e sull'Africa del Nord. In Iran si vivono condizioni ben peggiori. Lo scorso 10 settembre Sahar Khodayari ha pagato con la vita la sua battaglia per rivendicare il diritto di assistere a una partita di calcio. La ragazza 29enne si è data fuoco dopo il processo per essere entrata illegalmente in uno stadio. La notizia ha fatto il giro del mondo, e per qualche tempo, con i riflettori puntati su Teheran, l'accesso delle donne negli stadi è stato garantito, ma solo in settori appositi. Oggi la situazione è tornata a essere drammatica. Della povera Sahar nessuno si ricorda più e i profili social di donne che hanno denunciato le violazioni sono stati chiusi. Alcune di loro sono finite in carcere, in attesa di un processo-farsa. Negli stessi giorni il ministro per le Comunicazioni Mohammad Jahromi ha ordinato ai giornali di pubblicare fotografie di giovani e avvenenti iraniane, vestite all'occidentale, e senza foulard sui capelli, ritratte allo stadio, per mostrare all'opinione pubblica internazionale un presunto cambiamento epocale. Peccato che si trattasse di fotografie risalenti ai mondiali di calcio in Russia nel 2018. Quando davvero giovani iraniane tifavano sugli spalti di San Pietroburgo in totale libertà per la loro nazionale impegnata contro Marocco, Spagna e Portogallo. Donne che però hanno lasciato l'Iran da anni e che vivono tra Europa, Canada e Stati Uniti, senza più l'oppressione di un regime feroce e oscurantista.

·        Odio e Suprematismo Religioso.

Da agi.it il 10 novembre 2020. Più di 50 persone sono state decapitate e smembrate in alcuni attacchi sferrati da miliziani legati all'Isis: è l'ultimo orrore dei jihadisti islamici ed è accaduto nel nord del Mozambico, nella provincia di Cabo Delgado. A denunciarlo Bernardino Rafael, comandante della polizia del Mozambico. Gli assalitori hanno colpito alcuni centri abitati nei distretti di Miudumbe e Macomia, uccidendo civili, rapendo donne e bambini e dando fuoco alle case. Dal villaggio di Nanjaba sono state portate via numerose donne, al probabile scopo di farne schiave sessuali. Nel villaggio di Muatide oltre 50 uomini sono stati radunati nel locale campo da calcio, trasformato in un mattatoio dai terroristi, che hanno tagliato la testa alle loro vittime e poi hanno fatto scempio dei loro corpi tagliandoli a pezzi con i machete. Si sa pochissimo del gruppo responsabile delle stragi, sorto nel 2017. La formazione si fa chiamare al-Shabab come la milizia islamista somala ma alcuni analisti, riporta Al Jazeera, dubitano che ci siano legami solidi con l'Isis e con il jihadismo organizzato. C'è di sicuro un'ispirazione, dal momento che, nelle immagini diffuse dal gruppo, i miiziani sfoggiano i passamontagna e i vessilli neri dello Stato Islamico. In quattro anni di massacri nel Cabo Delgado sono finora morte oltre duemila persone, più della metà delle quali civili. L'ondata di violenza, che ha causato 300 mila sfollati interni, si è intensificata quest'anno. La settimana scorsa, ancora nel distretto di Muidumbe, i terroristi hanno interrotto una cerimonia di iniziazione uccidendo e decapitando una ventina di persone tra adolescenti e accompagnatori. I cadaveri furono ritrovati nella foresta sparsi in un'area di 500 metri.  Lo scorso aprile i miliziani uccisero e decapitarono oltre 50 giovani che si erano rifiutati di unirsi ai loro ranghi.

Il Mozambico è sconvolto dal terrorismo islamista. Andrea Walton su Inside Over il 10 novembre 2020. Il Mozambico è al centro di una violenta offensiva sferrata da militanti legati ad una branca locale dello Stato Islamico. Un gruppo di terroristi ha attaccato, nella notte di venerdì’, due villaggi situati nella provincia settentrionale di Capo Delgado e qui ha compiuto una vera e propria strage. A Nanjaba sono state decapitate due persone e rapite diverse donne mentre a Muatide 50 abitanti che tentavano di fuggire dal villaggio, dato alle fiamme dai terroristi, sono stati catturati, condotti in un campo da calcio e decapitati. La provincia di Capo Delgado, ricca di risorse naturali, subisce le violenze islamiste sin dal 2017. Queste ultime hanno provocato la morte di oltre duemila abitanti mentre più di 430mila hanno perso tutto e sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. I terroristi hanno sfruttato la povertà e l’alto tasso di disoccupazione della regione per reclutare giovani militanti ed assumere il controllo del territorio. Il governo del Mozambico ha chiesto aiuto alla comunità internazionale per cercare di porre fine all’insurrezione, affermando che le proprie forze armate, accusate di gravi abusi dei diritti umani commessi nel tentativo di sconfiggere i ribelli, hanno bisogno di addestramento specializzato.

Le origini della violenza. L’insurrezione islamista nella provincia di Capo Delgado beneficia del relativo isolamento di questo territorio dal resto del Paese e della presenza di una popolazione di religione islamica che si sente marginalizzata. Nel 2010 sono stati individuati ingenti giacimenti di gas naturale nel bacino di Rovuma e la scoperta ha portato alla realizzazione di grandi infrastrutture in loco ma anche all’espropriazione di terreni e ad abusi dei diritti umani. La popolazione locale ha iniziato a sentirsi sempre più alienata mentre alcuni fattori socio-geografici, già presenti, hanno giocato in favore dei terroristi. La regione di Capo Delgado, situata nei pressi del confine con la Tanzania, era già al centro di attività di contrabbando e le forze di sicurezza avevano una presenza piuttosto debole sul territorio. Il governo centrale non è riuscito ad amministrare questa zona nel migliore dei modi e ciò ha favorito un aumento dell’instabilità. Nel 2013 è nata un’organizzazione violenta ed estremista, denominata al-Shabab Mozambique, che intendeva lottare contro il governo centrale, ritenuto corrotto e contro le istituzioni religiose locali, ritenute inefficienti. Negli anni successivi i radi cali islamici hanno progressivamente espanso le proprie attività, accumulando un vero e proprio arsenale ed inviando i militanti in altri Paesi della regione (come il Kenya) per addestrarsi. L’insurrezione vera e propria ha avuto inizio nel 2017 e da allora il Mozambico è uno dei nuovi fronti dell’avanzata islamista in Africa.

Il parere degli esperti. Secondo Jasmine Opperman, analista di Africa presso l’Armed Conflict Location and Event Data project (Acle) e sentita da Voice of America, “gli insorti sono in grado di contrastare efficacemente la capacità di reazione del governo”  e “le forze di sicurezza sono costrette ad agire in modalità difensiva”. Per la Opperman “il conflitto non è vicino ad una conclusione” ed in futuro potrebbero esserci “scontri tra i civili ed i terroristi”. Salvador Forquilha, direttore dell’Istituto per gli Studi Economici e Sociali di Maputo e sentito da Voice of America, ritiene che il governo abbia sottostimato la minaccia sin dall’inizio e che “non si sia reso conto del pericolo e delle conseguenze sulla regione”. L’esecutivo, secondo quanto riferito da Forquilha, ha accusato una “cospirazione straniera”  di essere responsabile dell’instabilità a Capo Delgado e non ha analizzato “i fattori interni che hanno consentito all’insurrezione di espandersi”. Fatima Mimbre, un’analista basata in Mozambico (le cui parole sono riportate da Voice of America), ha dichiarato che “non c’è una vera e propria strategia per affrontare l’insurrezione” e che “il governo è ricorso all’aiuto dei mercenari russi e sudafricani ma la situazione tende a peggiorare”. L’Africa, miracolosamente sfuggita agli effetti più nefasti della pandemia, rischia ora di trasformarsi in un vero e proprio territorio di conquista per gli islamisti che, già nel Sahel ed in Somalia, hanno trovato terreno molto fertile. La formazione di un unico blocco estremista, territorialmente contiguo, può rivelarsi un vero e proprio incubo per le Cancellerie occidentali, in questo momento distratte dall’emergenza sanitaria ed incapaci di agire dove c’è più bisogno del loro aiuto.

Perché ritorna il terrorismo. Lupi solitari ma anche reti organizzate. Daesh e Al Qaeda dietro gli ultimi attentati islamici. E l'Italia teme chi si radicalizza in carcere. Lirio Abbate su La Repubblica il 06 novembre 2020. L’ondata di violenza che sta colpendo alcune città del vecchio continente dimostra come il messaggio estremista e violento è ancora cogente e che il terrorismo islamista è tutt’altro che sconfitto. Daesh si è adattato alla nuova situazione dopo il collasso territoriale, con la cattura di migliaia di jihadisti in Siria e Iraq. Tutto ciò ha costituito un passaggio fondamentale nella lotta al terrorismo, e Daesh, mantenendo postura e orizzonti da attore globale, ha avviato una ridefinizione degli assetti organizzativi e di comando, anche per recuperare capacità di proiezione esterna, e ha continuato, direttamente o attraverso i suoi mujahedin virtuali, a ispirare e istigare all’azione i suoi.

Marta Serafini per corriere.it il 22 luglio 2020. Se non fosse vera la storia di Qamar Gul, potrebbe essere tranquillamente uscita da una sceneggiatura di Quentin Tarantino. Tutto ha inizio settimana scorsa in un villaggio della provincia centrale di Ghor in Afghanistan, quando un gruppo di talebani attacca l’abitazione della giovane. «Cercavano il padre», spiegherà Habiburahman Malekzada, sottolineando come l’uomo fosse schierato con il governo. Ordinaria amministrazione in un Paese dove i negoziati di pace non hanno fermato in alcun modo i combattimenti. Quando i talebani trascinano fuori di casa l’uomo e lo trucidano insieme alla moglie, non pensano che quella ragazzina, con il corpo esile da adolescente (i media locali dicono che ha i tra i 14 e i 16 anni) sia un pericolo. Ma lei corre verso il kalashnikov che il padre tiene in casa, lo impugna anche se è pesante, e spara. Una prima mitragliata. E poi ancora e ancora. Per vendetta ma anche per proteggere il fratellino. Quando i proiettili smettono di fischiare, a terra rimangono due miliziani morti. Altri due fuggono come lepri. Subito dopo scoppia il caos, altri insorti arrivano sul posto per attaccare nuovamente la sua casa. Non è accettabile che una ragazzina ammazzi un mujaheddin. Bisogna darle una lezione esemplare. Gli abitanti del villaggio però si mettono di mezzo e riescono a respingere l’assalto. «La ragazza e il fratello minore sono stati portati via dalle forze di sicurezza afghane e ora si trovano in un luogo sicuro» racconterà un portavoce del governatore provinciale, Mohamed Aref Aber. Di villaggio in villaggio la notizia rimbalza. E l’immagine della giovane Qamar, il capo coperto da velo e lo sguardo fiero, finisce in rete mentre imbraccia il fucile. «È un simbolo di coraggio e resilienza», scrivono tutti, mentre il presidente Ashraf Ghani la invita con il fratellino a palazzo. L’uccisione, da parte dei talebani, di capi e residenti nei villaggi sospettati di essere informatori del governo e delle forze di sicurezza è una prassi molto diffusa. Si stima che almeno 100.000 afghani siano morti in conflitto dal 2001 quando gli Stati Uniti hanno espulso i talebani dal potere. Un elenco in cui sono finiti anche i genitori di Qamar Gul e di suo fratello. E una scia di sangue e vendette che non sembrano mai finire.

L’estremismo islamico in Libia ai tempi di Gheddafi. Mauro Indelicato il 22 maggio 2020 su Inside Over. L’estremismo islamico in Libia è ancora oggi un fenomeno molto presente e che incide in diverse regioni. Ma le sue radici affondano tra gli anni Ottanta e Novanta, quando i gruppi jihadisti hanno iniziato a radicarsi bene sul territorio soprattutto nell’est del Paese nordafricano. Ben presto i gruppi islamisti sono diventati i principali avversari del rais Muammar Gheddafi, il quale poi a metà degli anni Novanta ha lanciato una dura repressione.

Il fondamentalismo islamico in Cirenaica. L’ascesa del fondamentalismo islamico in Libia è possibile riscontrarla soprattutto in Cirenaica. Qui diversi gruppi sono riusciti a fare breccia, sulla scia della diffusione delle idee più radicali che a fine anni Ottanta imperversava in tutto il mondo islamico. Sono due le principali ragioni per le quali il fondamentalismo ha messo radici in Cirenaica. La prima è di natura geografica: la regione dell’est della Libia ha subito le influenze dal vicino Sudan, lì dove i gruppi jihadisti iniziavano ad operare e ad essere molto attivi. In secondo luogo, la Cirenaica ha sempre rappresentato una spina nel fianco per Gheddafi, al potere dal 1969 ed accusato dalle tribù di questo territorio di privilegiare la Tripolitania. Il sistema sociale libico è infatti molto caratterizzato dall’importanza delle tribù, al cui interno l’interesse familiare ha sempre prevalso su quello nazionale. Secondo diversi gruppi tribali della Cirenaica, Gheddafi ha distribuito le ricchezze prevalentemente in Tripolitania, tralasciando invece l’altra storica regione libica. Nell’est del Paese si viveva dunque con un forte senso di insofferenza nei confronti del potere gheddafiano. L’estremismo islamico in tal senso ha quindi rappresentato un appoggio per andare contro il rais. E le idee radicali hanno quindi iniziato a diffondersi, soprattutto negli ambienti più ostili a Gheddafi. Per avere un’idea del dilagare dal fondamentalismo islamico in Cirenaica, basti pensare che tra gli anni Novanta e il 2000 un miliziano di Al Qaeda su cinque operante in Iraq era di origine libica e, in particolare, proveniente dall’est del Paese. La città di Derna è quella che storicamente in assoluto ha sempre fornito un gran numero di foreign fighter alla causa islamica. Le scuole terroristiche in Cirenaica sono divenute tra le più importanti ed al contempo pericolose di tutto il medio oriente.

La posizione di Gheddafi contro il fondamentalismo. Gheddafi è salito al potere nel 1969 portando avanti ideali nasseriani, figli del panarabismo socialista che in quegli anni ha instaurato diverse nuove repubbliche in nord Africa ed in medio oriente. L’idea di società del rais, illustrata nel suo Libro Verde del 1977, appare laica e con diversi richiami alla “democrazia delle masse”. Ma in questa visione, c’è anche spazio per un importante ruolo dell’Islam. Gheddafi non ha mai nascosto la portata centrale della religione musulmana nel suo progetto di unificazione del mondo arabo. Tanto è vero che nel 1992 lo stesso rais ha rivelato di un’offerta da parte di alcuni gruppi fondamentalisti volta a consegnargli il titolo di “califfo”. Una richiesta da lui rifiutata, ma che fa ben intuire come alcuni tratti della sua ideologia politica, quali l’anticolonialismo ed il ruolo della religione nella società, possano a prima vista sembrare in comune con l’ideale islamista. Tuttavia, la formazione nasseriana di Gheddafi gli ha sempre fatto condannare la linea dei Fratelli Musulmani. Inoltre, in più occasioni ha definito come “folli” coloro che hanno compiuto atti terroristici in nome dell’Islam, come disse in un’intervista a metà degli anni Novanta: Per loro dovrebbero aprirsi i manicomi e non le galere. Inoltre poi, Gheddafi ha condannato l’idea di portare la jihad in Europa: “Se noi oggi rivendichiamo il diritto di invadere l’Europa – ha dichiarato ancora in un’intervista ad Angelo Del Boca – Allora dobbiamo giustificare i Paesi europei che in passato ci hanno invaso”. L’integralismo islamico dunque, viene visto da Gheddafi come una minaccia sia per il suo Paese che, più in generale, per l’interpretazione e l’immagine dell’Islam. Di conseguenza, il rais nei gruppi fondamentalisti vede un nemico da combattere.

La repressione di Gheddafi. Nell’ottica del colonnello, però, ad emergere è soprattutto il fatto che in quel frangente storico i movimenti islamisti costituiscono la vera unica opposizione al suo potere. Dunque, l’obiettivo a quel punto diventa quello di stanare quanto prima ogni recrudescenza del fenomeno. Per questo vengono inviati in Cirenaica reparti speciali e forze di sicurezza, il cui intento è quello di individuare e sgominare le varie cellule terroristiche insediate nell’est del Paese. Si è scatenata a tutti gli effetti una guerra a bassa intensità, in cui settimana dopo settimana decine di terroristi sono stati arrestati oppure uccisi dai blitz delle forze di sicurezza. Epicentro delle operazioni era ovviamente la Cirenaica: qui ad operare erano anche alte sfere del gruppo terroristico Al Qaeda, il cui fondatore Osama Bin Laden ha operato dal vicino Sudan. Molti prigionieri sono stati trasferiti all’interno delle carceri di massima sicurezza, tra cui quello tripolino di Abu Salim. Qui il 29 giugno del 1996 almeno 1.270 prigionieri sono stati uccisi, forse a causa di una rivolta sedata dalle forze di sicurezza oppure, come hanno in seguito accusato alcune associazioni internazionali, per via di un’azione di forza del governo. Molte di quelle vittime provenivano da Bengasi, tra di loro anche gente che aveva combattuto in Afghanistan tra le fila degli islamisti. La vicenda del carcere di Abu Salim è spesso stata vista come un conto in sospeso tra i gruppi radicali ed il potere gheddafiano. Le azioni di repressione a danno degli islamisti sono andate avanti soprattutto tra il 1993 ed il 1998. Agli inizi degli anni 2000 l’integralismo islamico, secondo le autorità tripoline di allora, non era più considerabile una minaccia per il Paese.

Il mandato di cattura contro Bin Laden del 1998. A conferma della forte azione repressiva contro i gruppi jihadisti, vi è anche l’episodio del 16 marzo 1998: quel giorno il governo di Tripoli ha infatti emesso un mandato di cattura internazionale per Osama Bin Laden. Nonostante il fondatore di Al Qaeda fosse già ben noto alle cronache e conosciuto quale personaggio più pericoloso del fondamentalismo islamico, il mandato di cattura emanato dalla Libia di Gheddafi è stato il primo trasmesso all’interpol. Bin Laden in Libia era ricercato già dal 1996 per l’uccisione di Silvan Becker, agente dei servizi segreti interni tedeschi, e della moglie. I due erano stati uccisi da una mano islamista nel marzo del 1994 proprio nel Paese nordafricano. Il rais è stato quindi il primo a rendere esplicita la minaccia internazionale rappresentata da Al Qaeda e da Bin Laden. Pochi mesi dopo l’emanazione del mandato di cattura, l’organizzazione terroristica si renderà protagonista dell’attentato contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salam, avvenuto il 7 agosto 1998. Ed il 20 agosto successivo, l’amministrazione Clinton avvierà un raid contro Bin Laden in Sudan ed Afghanistan. Tripoli e Washington si sono dunque clamorosamente ritrovate, dopo anni di scontri politici, sulla stessa posizione. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati proprio da Bin Laden ed Al Qaeda, la Libia ha espresso la sua solidarietà agli Usa ed ha dichiarato di avere tra i propri obiettivi la lotta al terrorismo. Circostanza quest’ultima che ha contribuito nel 2004 alla fine delle sanzioni economiche contro Tripoli, inflitte sul finire degli anni ’80.

La situazione negli anni successivi allo contro. L’estremismo islamico in Cirenaica ha perso forza dopo la repressione di Gheddafi, ma non è mai sparito del tutto. A testimoniarlo è l’episodio del gennaio del 2006, quando un gruppo di manifestanti ha assaltato il consolato italiano di Bengasi a seguito dell’esposizione, da parte dell’allora ministro Roberto Calderoli, di alcune vignette ritenute blasfeme contro l’Islam. Il fatto che l’episodio sia accaduto nel capoluogo della Cirenaica è emblematico di come le idee islamiste in questa parte del Paese erano ancora ben radicate. Non è un caso che le prime rivolte anti Gheddafi del 2011, che hanno portato poi al rovesciamento del potere del rais, siano scoppiate proprio nella parte orientale della Libia. E fazioni islamiste si sono subito inserite nei disordini, radicandosi ulteriormente in tutta la Cirenaica. A Bengasi sono sorte formazioni quali ad esempio Ansar Al Sharia, responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore Usa in Libia l’11 settembre 2012. La stessa Bengasi, così come Derna, sono state per diversi anni occupate da estremisti il cui intento era quello di instaurare degli emirati islamici. Oggi la regione è quasi interamente controllata dalle truppe del generale Haftar, ma gruppi terroristici sia legati ad Al Qaeda che all’Isis sono segnalati ancora molto attivi.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2020. Il lungo avvicinamento della giustizia italiana alla cattura del mullah Krekar si è compiuto ieri quando il «capo spirituale» della cellula jihadista Rawti Shax («Verso la montagna») è stato estradato dalla Norvegia, consegnato a Fiumicino agli uomini del Ros dei carabinieri e da questi trasportato a Rebibbia. Ritenuto in primo grado il reclutatore di estremisti islamici che progettavano di mettere radici anche a Roma, lo scorso 15 luglio è stato condannato in contumacia a 12 anni in Corte d' Assise ed è in attesa del processo di appello. Dopo l' ordinanza di arresto che nel 2015 aveva portato alla cattura di sei suoi seguaci a Merano e Bolzano su un totale di 17 indagati, la Procura di Trento nel 2016 aveva revocato la richiesta di applicazione di misura cautelare perché era venuto meno il requisito di attualità. La condanna ha rinnovato le esigenze di estradizione e gli ha aperto infine le porte del carcere. La sfida è ora far partire presto il processo nel complicato calendario processuale del coronavirus per evitare che i termini di custodia scadano. Faraj Ahmad Najmuddin, 64 anni, origini curde-irachene viveva in Norvegia da esule politico dal 1991. Il suo nome è al centro dell' indagine «Jweb» per associazione con finalità di terrorismo anche internazionale che sotto l' ombrello di Eurojust ha coinvolto le autorità britanniche, norvegesi e tedesche con il raccordo investigativo di Europol. Assieme a lui altre cinque persone sono state condannate a luglio con pene fino a nove anni: tre residenti in Norvegia, gli altri in Gran Bretagna, dove uno era già detenuto in quanto ritenuto membro effettivo dell' Isis. Il mullah Krekar, sottolinea il Ros, è stato «leader dell' organizzazione terroristica sunnita Ansar Al Islam (presente nella lista stilata dalle Nazioni Unite)» nella quale guidava la costola curda. Ne proseguiva l' opera dopo che questa era stata annientata dall' invasione americana dell' Iraq nel 2003. Dal suo rifugio norvegese aveva «costituito una propria organizzazione terroristica curdo-sunnita ramificata in Svizzera, Grecia, Finlandia e in Iraq», dove Krekar progettava di inviare foreign fighters per continuare la jihad su scala globale. Da anni sotto la lente investigativa di mezzo mondo, il 64enne è noto anche per aver teorizzato già 23 anni fa la nascita di uno Stato islamico sul modello fatto proprio dall' Isis in tempi più recenti. Già individuato anche il territorio di riferimento, il Kurdistan iracheno, dove, secondo i carabinieri, puntava a «instaurare un califfato regolato dalla sharia e alla realizzazione di atti di intimidazione nei confronti di governi occidentali, attraverso cellule dormienti in tutta Europa». Radici antiche, metodi moderni. Era lui a selezionare i maestri di sharia online che indottrinavano i potenziali martiri. Ma soprattutto erano sue le relazioni internazionali e le strategie eversive che imbastiva con chat dedicate, collegamenti su Skype e via dicendo. Il progetto di attentati emerge dalle intercettazioni. La partecipazione a operazioni all' estero è nascosta dietro riferimenti calcistici, in cui i jihadisti sono giocatori e la cellula alla quale unirsi viene chiamata «il Barcellona». «Combatteremo finché faremo il richiamo per le preghiere e pregheremo a Roma, questa è la promessa di Dio», assicurava uno dei partecipi. E l' altro: «Come facciamo a coordinare e portare la gente a Roma? Io sono pronto ad andarci anche da solo se voi non venite». Negli anni addietro Krekar era stato ascoltato lodare le stragi di Abu Musab al-Zarqawi in Iraq, inneggiare al califfato di Al Baghdadi e celebrare i killer di Charlie Hebdo. Fino all' ultimo il mullah si è opposto all' estradizione. Il procuratore capo di Trento, Sandro Raimondi, elogia «la fattiva collaborazione tra le autorità norvegesi e quelle italiane».

Coronavirus, gli islamici in festa: "Una punizione contro la Cina". Secondo i follower della pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" i morti in Cina per via del coronavirus sono "una punizione divina". Roberto Vivaldelli, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Mentre salgono a 304 morti e a 14.380 i casi di infezione da coronavirus in Cina - secondo quanto riferito dai dati della Commissione sanitaria nazionale cinese, a cui si aggiunge anche la morte di un paziente cinese nelle Filippine, il primo al di fuori dei confini, che porta il totale dei decessi per coronavirus a quota 305 - c'è chi esulta sul web . Sulla pagina Facebook Siamo fieri di essere musulmani, infatti, che conta più di 94 mila follower, la pandemia del coronavirus è stata salutata come la punizione di Allah per gli infedeli. Secondo uno dei moderatori della pagina, infatti, in Cina ci sono "1 milione di musulmani Uighuri detenuti in campi di concentramento. La Cina ha trasformato la regione autonoma Uighura dello Xinjiang in qualcosa che assomiglia a un enorme campo di internamento avvolto nella segretezza - una sorta di zona senza diritti". In allegato, una foto di Xi Jinping con il volto insanguinato. I cinesi sono accusati dai follower della pagina di "bruciare il Corano" e "demolire le moschee". Inoltre, "nei campi di detenzione i musulmani vengono torturati e costretti al lavoro forzato". Il coronavirus, dunque, è una punizione divina contro la Repubblica popolare cinese. I commenti al post sono tutto un programma: "In effetti è vero, è una punizione di Allà (sic): il virus è originario del serpente, animale associato al demonio. Perciò è collegato anche ad Allà". Un altro ancora scrive: "Ciò che si semina si raccoglie e ora e il momento che devono raccogliere dopo tutto il male che hanno fatto verso i nostri fratelli e sorelle e verso le creature di Allah". "La Cina - osserva un altro utente della pagina -sta raccogliendo ciò che ha seminato e questo è solo l'inizio". "Allah gli ha mandato un virus che sta uccidendo un sacco di persone, allahu akbar" commenta M.Y. R.S, uno dei fan più attivi della pagina, ne è sicuro: "Questi miscredenti non sanno che devono fare i conti con Dio, eccoli adesso sono loro che vivono nell'angoscia e nella paura, eccoli adesso prigionieri dentro le loro citta. Allah akbar". I commenti si riferiscono a ciò che accade nella regione autonoma dello Xinjiang – nella Cina occidentale – dove vivono 24 milioni di persone, la maggior parte delle quali appartenente alla minoranza etnica cinese degli uiguri. Questa popolazione ha una propria cultura, è turcofona e musulmana. Proprio qui nasce la tensione con il governo centrale. Alcune stime parlano di 1,5 milioni tra uiguri, kazaki, kirghizi e Hui internati in quelli che la comunità internazionale ha definito campi di concentramento ma che la Cina definisce semplici edifici in cui viene offerta agli ospiti "una trasformazione attraverso l’educazione”. Da qui a gioire per la morte di persone innocenti, però, ce ne passa. Ma a Facebook, sempre attentissimo quando si tratta di censurare i sovranisti o i conservatori in tutto il mondo, sembra non interessare.

Lo stato islamico risorge col nuovo Califfato nero. Nigeria, Mali, Burkina Faso e Camerun: l'avanzata jihadista è inarrestabile e punta al Mediterraneo. Gian Micalessin, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Se credete alla sconfitta dello Stato Islamico aprite gli occhi. È già risorto. Ed è più vicino. È il nuovo Califfato Nero, il regno dell'Islam radicale pronto a sommergere il Sahel, schiacciare le comunità cristiane e minacciarci seguendo le rotte migratorie verso l'Italia. Abu Bakr Al Baghdadi, il Califfo dell'Isis eliminato da un raid americano a fine ottobre, lo preannunciò nel video con cui, ad aprile, si congratulò con i «fratelli del Burkina Faso e del Mali per essersi aggiunti al convoglio del Califfato». Un convoglio partito da lontano e messo in moto non dal Califfo, ma da una Nato e da una Francia capofila di quell'intervento in Libia che consegnò il Sahel all'avanzata jihadista. Senza l'eliminazione di Muhammar Gheddafi le tribù tuareg, trasformate dal Colonnello in una milizia privata, non sarebbero tornate nelle terre primigenie del Mali trasformandosi, grazie alle razzie negli arsenali libici e ai fondi del Qatar, nella punta di lancia dell'insurrezione jihadista. L'intervento francese del 2012 in Mali non ha rimediato al danno. Strappate le città al controllo islamista la lotta si è arenata tra gli anfratti del Sahara trasformando il Mali in un Afghanistan francese. Da lì l'infezione jihadista ha contagiato Burkina Faso, Niger e Camerun congiungendosi con il fanatismo dei Boko Haram in Nigeria. E dalla costola dei Boko Haram è sorto l'Isgs, lo «Stato Islamico del Grande Sahara» sovrappostosi e affiancatosi alle formazioni alqaidiste come Aqim (Al Qaida in the Islamic Maghreb) già protagoniste del traffico di armi e uomini nel Sahel. In questo ginepraio Minusma, la missione dei 16mila caschi blu africani mandati al posto dei francesi in Mali, si è trasformata, con i suoi 206 caduti, in una delle operazioni più sanguinose nella storia dell'Onu. L'operazione Barkhale, continuazione ed estensione dell'intervento francese con i suoi 4.500 uomini dispiegati tra Mali, Ciad, Burkina Faso, Niger e Mauritania non dà risultati migliori. Se il Mali è il «nuovo Afghanistan», negli altri paesi i gruppi radicali controllano il contrabbando di uomini, merci e armi che da Nigeria e Camerun a sud si congiunge, attraverso Chad e Sudan, con le avanguardie degli Shebaab in Somalia. Un'espansione confermata dai 3.471 atti di violenza islamista un dato doppio rispetto al 2013 - registrati in Africa nel 2019 dal Pentagono. Un dato accompagnato da pesanti bilanci in termini di perdite umane. Se le 1.100 e passa vittime del 2018 erano il doppio del biennio antecedente, gli oltre 4mila caduti del 2019 segnalano - per l'inviato delle Nazioni Unite in Sahel Mohamed Ibn Chambas - «la devastante escalation degli attacchi terroristici contro obbiettivi civili e militari». Un'escalation confermata dai massacri in un Burkina Faso alle prese, dal 2016, con l'infiltrazione islamista dai confini settentrionali con il Mali. Un'infiltrazione resa più agevole dalla dissoluzione delle forze di sicurezza dopo la cacciata, nel 2014, del dittatore Blaise Compaore al potere dal 1987. La metastasi jihadista coincide con un crescendo delle violenze anti cristiane. Dopo l'assassinio, nel 2019, di oltre 60 fedeli il Burkina Faso è, per la prima volta, nella «World Watch List 2020», il rapporto annuale di «Open Doors», l'organizzazione americana che analizza la situazione nei 50 paesi con il più alto tasso di persecuzione religiosa. «In Burkina Faso nota il rapporto - i cristiani lottano per la sopravvivenza. Dozzine di preti cattolici sono stati uccisi. Alcuni pastori protestanti e le loro famiglie sono stati rapiti o ammazzati dai militanti islamici. Qualcuno è stato assassinato semplicemente per i simboli cristiani indossati». Ancor più preoccupante è l'espansione del Califfato Nero. I suoi militanti, oltre a finanziarsi con il traffico di uomini, ne seguono le rotte e risalgono dagli incontrollati confini meridionali della Libia fino al Mediterraneo. Sconfitto nel 2016 dalle milizie di Misurata e dall'aviazione americana dopo il tentativo d'insediarsi a Sirte, l'Isis si guarda bene, oggi, dal creare avamposti territoriali. In questo contesto preoccupa l'intenzione dell'amministrazione Trump di ritirare parte dei 5.200 militari di Africom impegnati - tra Gibuti, Somalia e Niger - nella lotta al jihadismo africano. Il ritiro rischia di compromettere la missione militare italiana in quel Niger, dove l'ostilità francese rende possibile una nostra presenza soltanto al fianco degli Usa. Il tutto mentre l'estromissione dell'Italia da una Tripolitania diventata stato «fantoccio» della Turchia di Erdogan ripropone le complicità con Ankara già sfruttate dall'Isis in Siria. E minaccia di trasformare il Mediterraneo nell'anello di congiunzione tra il Califfato Nero e le nostre coste.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2020. Da quando ha criticato l' islam, in un live su Instagram, dicendo che nel Corano «c' è solo odio», Mila, 16 anni, è vittima di minacce di morte e di stupro, vive barricata in casa protetta dalla gendarmeria e non può più andare al liceo perché il pericolo di aggressioni è troppo alto: i suoi compagni musulmani vogliono «linciarla» e «punirla» poiché si è permessa di attaccare la loro «comunità». Non siamo in Arabia Saudita, ma a Villefontaine, nel dipartimento dell' Isère, in Francia, in quel Paese che si vanta dinanzi al mondo della sua laïcité, ma abbandona una ragazza alla violenza inaudita di chi non tollera che la religione maomettana sia oggetto di critiche. «Sporca baldracca» e «sporca lesbica» hanno scritto a Mila sul suo profilo social, dove mostrava con fierezza, prima di essere obbligata a chiudere ogni account pubblico, la bandiera Lgbt. «Nel Corano c' è solo odio. Ho detto quello che penso, non me ne farete pentire», ha detto la ragazza nel live postato su Instagram lo scorso 19 gennaio. Da quel giorno, è iniziato un incubo che non è ancora finito e chissà quando finirà per questa liceale. Hanno minacciato di «sgozzarla», di venirla a cercare per «strapparle tutti gli organi e farglieli mangiare», perché si è permessa di criticare il «nostro dio Allah, l' unico e il solo». Dopo l' esplosione del caso, il liceo di Villefontaine, dove ora non potrà più tornare perché i suoi compagni musulmani vogliono fargliela pagare, è stato costretto a chiamare la polizia per "esfiltrarla" e portarla a casa, dove tutt' ora è trincerata per paura di essere aggredita. «L' obiettivo è riscolarizzarla in maniera pacifica affinché possa tornare ad avere una vita normale», ha dichiarato ieri il ministro dell' Istruzione Jean-Michel Blanquer, l' unico del governo, assieme alla collega alle Pari opportunità, Marlène Schiappa, ad aver manifestato solidarietà nei confronti di Mila. La procura locale, subito dopo il video, aveva addirittura aperto un' inchiesta contro la sedicenne per «incitamento all' odio», prima di archiviarla. Ma il peggio l' hanno dato le femministe, a partire da colei che si erge a portavoce del femminismo francese in politica: Ségolène Royal. L' ex candidata alle presidenziali del Partito socialista, appena rimossa dal ruolo di ambasciatrice per i Poli, ha attaccato Mila dicendo che è «un' adolescente irrispettosa», dandola in pasto all' odio dei propagatori dell' islam politico, che da due settimane continuano a minacciarla. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha commentato Abdallah Zekri, delegato generale del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), dicendo che in fondo se l' è cercata facendo quel video. Nessun rappresentante del culto islamico in Francia ha difeso Mina dalle minacce di morte ricevute, e accanto a questo silenzio rimbomba quello dei progressisti. Abitualmente rumorosi, quando di mezzo c' è la religione cattolica, sembrano essere spariti dalla Francia. Uno dei pochi che si è fatto sentire, ha chiesto a Mila di «rimuovere la bandiera Lgbt» dalla biografia, perché non ha «la mentalità aperta per far parte di una comunità che sostiene l' amore e l' accettazione». Cronache da un Paese che ha dimenticato Voltaire e si è sottomesso ad Allah.

Minacciata perché critica islam: il ministro sta con i musulmani. Il caso di una sedicenne di Villefontaine infiamma la Francia. Polemica sulle frasi del ministro della Giustizia: "Offendere la religione è grave". Alessandra Benignetti, Mercoledì 05/02/2020, su Il Giornale. Tutto è iniziato lo scorso gennaio con un video in diretta su Instagram. Mila, 16 anni, occhi azzurri e capelli da maschiaccio, sogna di fare la cantante. Un ragazzo inizia a scriverle. Lei è bella e affascinante, lui vorrebbe agganciarla. Ma Mila è gay. Il suo coetaneo di origine araba, però, non si rassegna. E all’ennesimo no della ragazza scattano gli insulti. "Sporca lesbica", "francese di m…", le scrive assieme ai suoi amici. Una tempesta di offese che spingono la sedicenne di Villefontaine, non lontano da Lione, a replicare pubblicamente. Inizia un altro video pubblicato sulle storie di Instagram. Un video che di lì a poco le avrebbe cambiato la vita. "Detesto la religione – si sfoga con i suoi follower – il Corano è una religione d’odio, l’Islam è una m…". "Non sono razzista, dico quello che penso e voi non me ne farete pentire", continua. Le offese sono pesanti. "Al vostro Dio metto un dito nel buco del c…, grazie e arrivederci", attacca la ragazza. Un’arringa che però non rimane senza conseguenze. Da quel momento Mila viene presa di mira da centinaia di fedeli musulmani che invocano la legge sulla blasfemia per far farle fare la fine che si merita: torture, stupro e anche la morte. Il suo video circola su tutti i social network e le reazioni sono sempre le stesse: insulti e minacce. Ben presto il suo indirizzo, i suoi dati sensibili e il nome del liceo che frequenta finiscono in rete. Da allora non può più frequentare le lezioni. La liceale sporge denuncia e vengono aperti due fascicoli. Uno, si legge su Le Figaro, per individuare gli autori delle minacce e uno contro di lei per “incitamento all’odio religioso". Nel frattempo sui social l’hashtag #jesuismila diventa virale. Ma la questione divide la Francia. E la polemica si è allargata qualche giorno fa, quando la ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, intervistata da Europe 1, ha condannato le intimidazioni dei fedeli musulmani detto che "insultare la religione" è "grave" ed "è un attentato alla libertà di coscienza". Una frase che non è piaciuta a chi nel 2015 scese in piazza per dire "Je suis Charlie". "Il governo ha abbandonato la libertà francese per sottomettersi al terrore islamista", ha attaccato Nicolas Dupont Aignan, di Debout la France. In effetti le dichiarazioni della ministra si avvicinano a quelle del delegato generale del Consiglio francese del culto musulmano, Abdallah Zekri, per il quale la ragazza se la sarebbe "cercata". "Deve assumersi le conseguenze di quello che ha detto, chi semina vento raccoglie tempesta", ha infierito ai microfoni di Sud Radio. Che la ragazza abbia usato parole offensive è fuor di dubbio. Ma la reazione è stata davvero spropositata. Tanto che la sedicenne di Villefontaine da settimane non può entrare a scuola perché non è possibile garantire la sua sicurezza e vive sotto protezione. Del caso si sta occupando direttamente il ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer. Nel frattempo, ospite della trasmissione Quotidien del canale Tf1, Mila chiarisce di non pentirsi affatto delle sue parole. "Rivendico il diritto di dire cose blasfeme, non devo nascondermi per questo motivo, non devo smettere di vivere", ha detto al conduttore del programma. "Mi scuso con le persone che posso aver ferito – ha aggiunto – con chi pratica la religione in pace, non volevo prendere di mira gli esseri umani ma solo parlare della religione". Cinque anni dopo l’attentato nella redazione di Charlie Hebdo il suo caso rimette in discussione il concetto di "laicità" nella patria dell’Illuminismo. La conclusione è disarmante: oggi chi parla male del Corano in Francia rischia la vita.

Le minacce a israele e la forza indicibiledi mia madre. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Benny Gantz. Settantacinque anni fa mia madre, Malka Gantz, mosse quelli che dovevano essere i suoi ultimi passi. Costretta, assieme a centinaia di altri prigionieri, a varcare i cancelli del campo di concentramento di Bergen-Belsen, si avviò verso una marcia della morte che non concedeva scampo a nessuno. Ma lei, miracolosamente, si salvò. Aveva appena diciassette anni, uno scheletro umano che pesava 28 kg. Suo padre – mio nonno – incapace di reggere il passo, venne freddato a bruciapelo. Il suo assassinio fu solo una delle terribili perdite che mia madre ebbe a patire durante quegli anni atroci, man mano che le persone a lei più care cadevano vittima di una malvagità demoniaca che non si era mai vista fino ad allora. In più occasioni ho avuto modo di visitare i campi di sterminio nazisti e ogni volta chiudo gli occhi e ripenso alla mia storia, alla storia del mio popolo. Spesso mi ritrovo a immaginare mia madre, intrappolata in quell’inferno, e rifletto sulla sua sopravvivenza, le indicibili umiliazioni che dovette sopportare nel corpo e nell’anima giorno dopo giorno, le torture che le venivano inflitte senza sosta. Ma ricordo anche la sua incredibile risolutezza e quella misteriosa forza d’animo che la aiutarono a sopravvivere. L’Olocausto non ha eguali nella storia dell’umanità. Resta profondamente separato, quasi “un pianeta a sé”, nelle parole di uno scrittore e superstite ebraico Yehiel De-Nor, conosciuto anche come Ka-Tsetnik (ovvero prigioniero di un campo di concentramento). De-Nor descrisse Auschwitz, durante il processo a Eichmann, in questi termini: “Gli abitanti di questo pianeta non avevano un nome. Non avevano genitori né figli. Non indossavano abiti come facciamo noi qui. Non erano nati lì, né vi partorivano figli. Non vivevano secondo le leggi di questo nostro mondo, e non morivano.” Tuttavia, con il passar degli anni, De-Nor cambiò idea: “Auschwitz,” disse, “non era un altro pianeta. Auschwitz non è stato creato dal diavolo, né da Dio. È stato creato da un uomo. Hitler non era il diavolo, ma un essere umano.” Gli orrori dell’Olocausto però non apparvero dal nulla. Furono il risultato naturale di anni e anni di propaganda velenosa, concepita proprio per soffiare sulle braci dell’odio e rivolgere le sue fiamme contro persone innocenti. La diffusione sistematica dell’ideologia fascista ebbe l’effetto di intorpidire e offuscare la sensibilità collettiva verso le manifestazioni di ingiustizia, e da ultimo trasformò la Germania, da culla della cultura e della civiltà, in esecutore dei peggiori crimini mai commessi contro l’umanità. La democrazia, nelle mani di un dittatore assetato di potere, altro non fu che uno strumento di manipolazione. Lo stato di Israele sarà perennemente grato alle potenze alleate e all’Armata rossa per il ruolo svolto nell’estirpare il male assoluto del nazismo. Quei tempi bui sono ormai alle nostre spalle, ma ciò non significa che siamo diventati immuni agli effetti dei discorsi intrisi d’odio. Malgrado le esperienze trascorse, non siamo vaccinati contro quella forte tendenza umana che ci spinge alla divisione e alle sue disastrose conseguenze. La nostra epoca è carica di sfide: la nascita dei nazionalismi, la xenofobia e le spinte globali verso l’isolazionismo, facilitate dal modo in cui i sentimenti di avversione e disprezzo si diffondono tramite le moderne tecnologie, rendono la nostra epoca particolarmente fragile nella battaglia contro l’odio, e in particolare contro le attuali manifestazioni dell’antisemitismo. I dati sono preoccupanti. Un recente sondaggio, condotto dalla Lega Antidiffamazione, rivela che un cittadino europeo su quattro nutre convinzioni antisemite. Come figlio di sopravvissuti dell’Olocausto, come ebreo e come umanista, tutto questo mi affligge profondamente. L’antisemitismo rappresenta una minaccia al tessuto umano e democratico della società europea, ragion per cui la lotta contro di esso costituisce un baluardo per l’Europa stessa, oltre che una misura per proteggere le comunità ebraiche locali. Spetta ai governanti del mondo libero avviare iniziative coraggiose per assicurare che l’umanità intera non dimentichi mai quanto possa diventare angosciante e funesto questo mondo, se spalanchiamo le porte all’odio e all’ignoranza. Spetta a tutti noi dare un vero significato alle parole “Mai più”, tramite azioni precise e dirette a estirpare l’odio. Il Giorno della Memoria, che si celebra in tutto il mondo per ricordare il 75° anniversario della liberazione di Auschwitz, non è solo un modo per ristabilire un contatto con il passato. Il ricordo dell’Olocausto ci costringe a guardare in tutta onestà al nostro presente e al futuro. E nel gettare uno sguardo consapevole sulla nostra realtà, dobbiamo ammettere che siamo di fronte non solo al dilagare dell’antisemitismo, ma anche a un crescente odio verso la collettività ebraica, attraverso innumerevoli tentativi di delegittimazione dello stato di Israele. Nella sua manifestazione più estrema, questo nuovo odio verso gli ebrei e il disegno di insidiare l’esistenza dello stato di Israele nascondono la volontà di annientare il popolo ebraico. Sin dai primi giorni di vita dello stato di Israele, i paesi confinanti hanno tentato in tutti i modi di distruggerci. La nostra potenza militare e la nostra fiducia in noi stessi hanno scongiurato il disastro e ci hanno portato alla vittoria e da allora, sicuri della nostra forza, siamo stati pronti a tendere la mano in segno di pace verso quei nostri vicini che ne riconoscono il valore. Ma non tutti i nostri detrattori hanno saputo accettare la nostra esistenza. Proprio in questi giorni, il regime iraniano lavora febbrilmente per accelerare la creazione di mezzi che mirano a distruggere lo stato di Israele. La banale negazione dell’Olocausto non basta più ai leader iraniani, che oggi sollecitano attivamente la produzione di armamenti capaci di cancellare in un istante intere città israeliane. Se dovessero raggiungere il loro obiettivo, non solo il Medio Oriente e Israele, ma nessun luogo al mondo sarà più sicuro. Purtroppo, anche i diritti del popolo iraniano vengono tragicamente calpestati: i cristiani e altre minoranze sono perseguitati, le donne lapidate, manifestanti e oppositori politici imprigionati, mentre gli omosessuali vengono messi a morte nelle pubbliche piazze. Essendo profondamente avvezzo agli orrori della guerra, sarò sempre a favore della diplomazia rispetto all’intervento militare. Occorre però ammettere che tutti gli sforzi diplomatici per risolvere la crisi iraniana sono caduti nel vuoto. Nel giro di un solo anno, l’Iran sarà in grado di arricchire l’uranio e dopo altri due o tre anni arriverà alla produzione di armi nucleari, mettendo a rischio la sicurezza globale. Con questo non intendo dire che bisogna abbandonare la diplomazia, quanto piuttosto che la diplomazia, da sola, non basta più. L’Iran non avrà mai armi nucleari. Come ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, sono al corrente dei piani operativi israeliani e posso affermare senza mezzi termini che Israele ha la volontà, la capacità e gli strumenti per impedire che questo avvenga. Anche se il prezzo da pagare sarà altissimo. Per evitare l’intervento militare, i leader mondiali dovranno formare un fronte compatto contro un regime che fomenta odio e terrore. Non possiamo chiudere un occhio su ciò che sta accadendo, né possiamo permetterci di dar segno di debolezza. I capi di stato europei dovranno riconoscere il regime iraniano per quello che è: una minaccia a Israele e all’intera regione, e un pericolo imminente per gli interessi strategici dell’Europa. L’Iran punta a distruggere Israele non solo in quanto nazione, ma anche perché simbolo del mondo libero. Proprio come la leadership mondiale venne chiamata alle armi durante gli anni più bui della nostra storia, anche oggi non è consentito sottrarci alle nostre responsabilità. Lo stato di Israele sarà perennemente grato alle forze alleate e all’Armata rossa per aver contribuito ad annientare il male assoluto del nazismo. Voglio elogiare il presidente Trump per aver agito con risolutezza nel far pressione sul regime iraniano, tramite le sanzioni e l’intervento militare. E voglio elogiare i leader europei per aver preso la decisione di avviare il meccanismo di risoluzione delle controversie riguardo l’accordo sul nucleare. Ormai è chiarissima la decisione del mondo intero di opporre resistenza ai progetti iraniani. La nostra determinazione sarà esplicita e inequivocabile. Occorrerà aumentare le pressioni. Non appena saranno rafforzati adeguatamente i deterrenti militari ed economici, si potrà tornare in tutta sicurezza ai canali diplomatici. L’antisemitismo durante i tempi funesti dell’Olocausto mirava a eliminare completamente gli ebrei europei per il semplice fatto di essere ebrei. Quel desiderio, evidentemente, alligna ancora oggi sotto forme diverse, ma non permetteremo che si trasformi in realtà. Sotto la mia guida, giuro che Israele resterà il paese più forte di questa regione, rifugio per gli ebrei di tutto il mondo e faro di libertà e democrazia. Israele resterà sempre il fedele sostenitore dei valori moderni per i quali l’Europa si è battuta così valorosamente dopo le tragedie della seconda guerra mondiale. E quando avremo assolto al nostro compito, come indubbiamente accadrà, potremo tutti godere dei frutti della pace. I benefici derivanti dagli ottimi rapporti che verranno a instaurarsi tra i paesi del Medio Oriente, l’Europa e il mondo intero sicuramente sapranno ricompensarci dei sacrifici sopportati lungo il cammino. Non siamo ancora arrivati, ma ci arriveremo insieme. Forti, determinati e con la giustizia dalla nostra parte. (Traduzione di Rita Baldassarre)

Gli islamisti dominano le periferie francesi. Giovanni Giacalone su Inside Over il 22 gennaio 2020. Interi quartieri delle periferie francesi sarebbero in mano agli islamisti. È quanto emerge da un documento riservato inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti. Il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. Non sono coinvolte soltanto le principali città come Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa, ma anche quelle più piccole dove in precedenza non venivano segnalate derive radicali, un segnale chiaro che indica un fenomeno in espansione. Del resto, già quindici anni fa, le autorità francesi erano al corrente della drammatica situazione nelle periferie, con una lista di circa 750 zone classificate come “sensibili” alla delinquenza e al degrado. Quartieri in prevalenza abitati da immigrati provenienti dal Nord Africa e da quella sub-sahariana, molti dei quali di terza o quarta generazione e dove la polizia cerca di entrare il meno possibile perché, quando lo fa, si rischia di scatenare violente rivolte come quelle del 2005 e del 2017. Zone in cui lo Stato è praticamente assente e dove la disoccupazione raggiunge livelli allarmanti, con un 40% generale e un 60% per quanto riguarda quella giovanile. Traffico e spaccio di stupefacenti, prostituzione, ricettazione, vandalismo, scontri tra bande, tutte attività che trovano terreno fertile nei giganteschi labirinti formati da palazzoni dove è facile nascondersi e “imboscare la merce”. Una situazione talmente disastrosa che la Ratp, l’azienda dei trasporti pubblici, ha dovuto assumere tra i propri dipendenti numerosi autisti legati ad ambienti islamisti e comunque provenienti dalle banlieue, anche perché erano in molti a non voler guidare i mezzi in queste zone per paura di essere presi a sassate. L’islamismo radicale ha trovato terreno fertile in queste zone, si è infiltrato a macchia d’olio e ben oltre le mura delle moschee. È sufficiente aggirarsi in certi quartieri per rendersi conto che il numero di donne con veli integrali è in aumento; per accorgersi che nei bar ci sono solo uomini (le donne non possono entrare) e che le donne vestite in maniera “non adeguata” ai canoni islamisti vengono insultate e aggredite, come lo scorso aprile, quando un autista di bus della linea 60 rifiutò di far salire sul mezzo una ragazza perché vestita con una gonna troppo corta, apostrofandola con un “pensa a vestirti come si deve!” La ragazza è poi risultata essere la figlia 29enne del poeta algerino Kamel Bencheikh. Ci sono poi i bambini laici o cattolici presi di mira dai loro compagni islamici, aggrediti e isolati in quanto “miscredenti”. Una situazione disastrosa, descritta approfonditamente nel libro “Gli Emirati della Repubblica: come gli islamisti prendono possesso delle banlieue“, scritto dall’ex sindaco socialista di Sarcelles, Francois Pupponi, nel quale denuncia il dilagare dell’islamismo nelle banlieue e l’esasperazione di molti abitanti Non è certo un caso che molti dei jihadisti partiti dalla Francia per unirsi all’Isis (più di 1900) provenissero proprio da questi quartieri. Lo Stato francese è chiaramente assente in queste zone. E il problema è tutto lì, perché la storia insegna che l’islamismo radicale si infiltra proprio in quei contesti dove le istituzioni sono assenti, con l’obiettivo di insediare un ordine alternativo fondato su spazi islamizzati “puri” e separati dalla cultura e dalla società occidentale.

Riccardo De Palo per “il Messaggero” il 3 gennaio 2020. Raccontare l'indicibile, dare voce all'orrore e, assieme, prendere le distanze dalla vita di un tempo, che non tornerà mai più: è questa la missione che si è prefisso Philippe Lançon scrivendo il suo fulminante memoir, La traversata, da mercoledì prossimo nelle librerie per e\o: in Francia, dove ha venduto 350 mila copie e ha vinto il premio Fémina, è stato un caso editoriale. L'autore è uno dei pochi sopravvissuti all'attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo, di cui il 7 gennaio ricorre il quinto anniversario. Quell'assalto di un commando di due uomini armati (i fratelli Kouachi), nella stanza in cui si stava svolgendo la settimanale riunione di redazione, sconvolse la Francia ed aprì una nuova stagione di terrore in Europa; ma mobilitò anche tutte le persone di buon senso - non soltanto francesi - in difesa della libertà d'espressione. Dodici furono i morti (quasi tutti i giornalisti), undici i feriti. In quei giorni colmi di commozione, tutti volevano testimoniare la propria solidarietà, dicendo semplicemente: Je suis Charlie. Lançon - che è anche un reporter di Libération, inviato di guerra, cronista e critico per molti versi estraneo allo spirito caustico di Charlie - ripercorre le ore immediatamente precedenti a quell'assalto mortale. Gli sembra di rivedere il dramma di Shakespeare a cui aveva assistito la sera prima, La dodicesima notte: avrebbe dovuto scriverne la recensione; non lo farà mai. Cerca gli appunti, perduti come ogni altra cosa quel giorno, sperando di trovare un segno, un presagio, una spiegazione. Ricorda il romanzo di Michel Houellebecq, uscito proprio quel 7 gennaio, Sottomissione. Un libro in cui si immagina l'ascesa al potere in Francia dei Fratelli Musulmani, che aleggia come uno spettro in tutto il racconto. «Perché ormai - scrive Lançon - la figura di Houellebecq si mischia al ricordo dell'attentato»; per quelli che sono sopravvissuti alla furia degli assassini, «è un'esperienza intima». L'autore ripercorre il suo viaggio al termine della notte, il percorso in bicicletta, con lo zainetto regalatogli dal figlio di uno scrittore ucciso dai paramilitari a Medellín, con in tasca una frase di Borges: «Siamo già l'oblio che saremo». Bernard Maris, uno dei giornalisti di Charlie che tra poco cadranno sotto i colpi dell'Isis, sollecita una recensione di Sottomissione, ma lui declina: l'ha già fatto per Libération. Wolinski disegna sorridendo, il caricaturista Cabu mugugna, Stéphane Charbonnier (detto Charb) discute, Tignous e Maris litigano su Houellebecq: «Come abbiamo potuto lasciar andare a questo punto le periferie?». Solo per un caso Lançon, che deve andarsene per scrivere la sua recensione, si attarda a chiacchierare. L'attacco avviene all'improvviso, non dura più di due minuti. La guardia del corpo del direttore prova ad estrarre la pistola ma i due uomini del commando sono più veloci e scatenano l'inferno, urlando Allah Akbar ad ogni raffica. Il collaboratore del giornale, che aveva sprecato l'occasione per andarsene, finisce a terra, tra i corpi dei colleghi agonizzanti. Sente del sangue sul volto: è anche il suo. Tignous, riverso senza vita sul tavolo, è come congelato: regge ancora tra le dita la sua matita. Lançon resta immobile, i terroristi se ne vanno perché lo credono morto, ma è orrendamente ferito. Le pallottole gli hanno colpito le braccia, le mani; e, soprattutto, gli hanno distrutto parte della faccia. Non sente dolore, non si rende ancora conto di cosa sia successo; e quando i soccorritori arrivano per condurlo in ospedale, il suo primo pensiero va ancora allo zaino, all'aereo che avrebbe dovuto prendere per andare a New York dalla fidanzata. Lançon paragona il suo viaggio, il suo calvario successivo in ospedale, alla nave di Robinson Crusoe che fa naufragio. È sfigurato, e ci vorranno quindici interventi per ricostruire la mascella inferiore; la chirurga Chloe, e il fratello che lo assiste, sono l'unico appiglio con il mondo esterno. Ripercorrere a ritroso le vie della memoria diventa, per lui, una forma di terapia; poiché in simili momenti tutto ciò che resta è «indagare sulle tracce di una vita brutalmente interrotta». Ogni aspirazione umana, ogni mania di grandezza, diventano poca cosa rispetto all'orrore che si sta vivendo. Il ritorno a casa è fonte di emozione, ma anche di stupore. Uscire è una sensazione raggelante: «Avevo la sensazione che se mi fossi allontanato troppo mi sarei perso e non sarei più tornato».

ATTENTATO A PARIGI VICINO ALLA REDAZIONE DI CHARLIE HEBDO. Parigi: media, uno dei due fermati è indo-pachistano. (ANSA il 25 settembre 2020) Uno dei due fermati in relazione all'attentato di questa mattina a Parigi vicino alla ex redazione di Charlie Hebdo è un indo-pachistano. Lo hanno riferito fonti di polizia a Bfm-Tv. I due sospettati per l'attentato di questa mattina a Parigi sono in stato di fermo. Lo hanno reso noto fonti della magistratura, precisando di aver aperto un'inchiesta per tentato omicidio a scopo terroristico.

Parigi, attentato nell'ex sede Charlie Hebdo: 4 feriti gravi, fermati due sospetti. Diretta. Francesca Pierantozzi per ilmessaggero.it il 25 settembre 2020. Allarme attentato a Parigi. Torna il terrore nella rue Nicolas Appert, dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo. Un uomo armato di un machete, con un complice, ha attaccato almeno quattro persone, due sarebbero gravi. Un aggressore, vestito con una giacca a vento senza maniche, pantaloni di tuta neri e scarpe da ginnastica rosse sarebbe in fuga nella metro. La prima vittima è una donna una donna, accoltellata davanti al disegno delle vittime dell'attacco a Charlie, sul muro accanto all'ingresso della ex redazione. C'è stata anche allerta per la possibile presenza di un ordigno esplosivo, poi rientrata. L'attacco è avvenuto alla stessa ora dell'attentato del 7 gennaio 2015, poco dopo le 11 e 30. Un sospettato è stato fermato vicino alla place de la Bastille: era sporco di sangue. Un altro presunto terrorista è stato fermato poco dopo nelle vicinanze. I due sospettati per l'attentato sono in stato di fermo. Lo hanno reso noto fonti della magistratura, precisando di aver aperto un'inchiesta per tentato omicidio a scopo terroristico. Due dei feriti nell'attentato sono dipendenti dell'agenzia Première ligne, che è rimasta nell'edificio in cui sorgeva anche la redazione di Charlie Hebdo, attaccata 5 anni fa. Secondo quanto si apprende, i due - addetti alla produzione - erano usciti in pausa per fumare una sigaretta quando sono stati attaccati, probabilmente con un machete. I giornalisti di Première ligne furono i primi a diffondere, dopo l'attentato a Charlie Hebdo, le immagini dei due killer, i fratelli Kouachi, in fuga dopo la strage. Tutti gli studenti delle elementari, medie e licei del terzo, quarto e 11esimo arrondissement sono confinati nelle scuole. Il presidente francese Emmanuel Macron sta seguendo «da vicino» l'evolversi della situazione dall'Eliseo. Nell'unità di crisi attivata al ministero dell'Interno sono invece presenti il premier Jean Castex e il ministro dell'Interno Gérald Darmanin.

Paura nel quartiere. L’intero quartiere è blindato dalla polizia, che chiede alla gente di evitare il settore. Proprio in questi giorni è in corso il processo per gli attentati di gennaio 2015 che fece 17 morti a Charlie e all’Hypercacher di Vincennes. Dieci giorni fa Charlie Hebdo la cui redazione si trova ora in un luogo segreto e sorvegliato dalla polizia - ha ripubblicato le caricature di Maometto pubblicate per la prima volta in Danimarca. Immediatamente aperta una cellula di crisi al ministero dell’interno, dove si sta recando il premier Jean Castex.

Da ansa.it il 26 settembre 2020. Il pachistano di 18 anni che ieri con una mannaia ha ferito due persone davanti la vecchia sede di Charlie Hebdo ha confessato di averlo fatto perché "non sopportava le caricature del profeta Maometto" pubblicate di nuovo di recente dal giornale satirico. Lo hanno riferito fonti vicine all'inchiesta. Il pachistano Alì H. secondo le fonti dell'inchiesta, ha "riconosciuto" e "rivendicato" il suo atto. Stando a informazioni ottenute dalla tv BFM, l'uomo - del quale è stato prolungato lo stato di fermo - riconosce "una dimensione politica della sua azione". Ali H. ha dichiarato agli inquirenti che pensava di agire contro la redazione di Charlie Hebdo, che invece si è trasferita in un luogo segreto e ultraprotetto da ormai 4 anni. Lo rivelano fonti dell'inchiesta a Le Parisien. Il pachistano avrebbe dichiarato anche di aver perlustrato a più ripresa la zona prima di passare all'azione e la presenza di una bottiglia di alcool ieri nella sua borsa sarebbe dovuta al suo iniziale progetto di incendiare l'edificio.

L.Mar. per “la Stampa” il 26 settembre 2020. Il solito lupo solitario? E, come spesso è accaduto, negli ultimi assalti di jihadisti in Francia, siamo di fronte semplicemente a uno squilibrato mentale? Ali H, l'autore dell'assalto di ieri, là dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo cinque anni fa, al momento del terribile attentato, è stato catturato subito dopo l'aggressione e ha già confessato. «Si tratta chiaramente di un atto di terrorismo islamista - ha dichiarato ieri sera, sul canale pubblico France 2, Gérald Darmanin, ministro degli Interni -. È un nuovo sanguinoso attacco contro il nostro Paese e contro dei giornalisti». Intanto, subito dopo, ieri un presunto complice è stato arrestato poco lontano. E in serata altre cinque persone fermate. No, questa volta l'organizzazione sembra più complessa e articolata. Ritorniamo all'autore, Ali H. poco più che un ragazzino. E vestito come tale: un piumone nero, una maglietta gialla, le sneakers rosse. Proprio grazie a questi elementi, raccolti da testimoni, i poliziotti sono riusciti a ritrovarlo a breve distanza da dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo e dove ha ancora sede l'agenzia di produzione tv Première Ligne, obiettivo dell'attacco. Ieri sera gli inquirenti non erano sicuri della vera identità dell'attentatore, che addosso non aveva alcun documento. Ma si conoscono alcuni elementi: ha 18 anni ed è originario del Pakistan. Arrivato in Francia minorenne e da solo, senza la propria famiglia, a 15 anni. L'ultimo suo indirizzo conosciuto si trova a Pontoise, una quarantina di chilometri a nord-ovest di Parigi. Ma non si sa se ci vivesse ancora gli ultimi tempi. Nessun sospetto Di sicuro il giovane non è mai stato sospettato di terrorismo islamico: non era classificato «s» e, quindi, soggetto ai controlli dei servizi segreti francesi. Unico incidente di percorso: in giugno era stato trovato dalla polizia, alla Gare du Nord, una delle principali stazioni ferroviarie di Parigi, con un cacciavite in tasca. Quanto all'altro uomo, che è stato fermato nei corridoi della stazione della metropolitana di Richard-Lenoir, accanto al luogo dell'assalto, sarebbe nato in Algeria trentatrè anni fa. Poco prima di questo nuovo attentato i due sono stati visti parlare, ripresi assieme dalle videocamere del metrò. Anche questo secondo uomo non avrebbe mai avuto problemi con la giustizia. Avrebbe accompagnato sul posto il ragazzino e l'avrebbe mandato allo sbaraglio? Varie perquisizioni sono state effettuate nella banlieue nord. E a Pantin è stato trovato un appartamento, che avrebbe rappresentato la base per organizzare l'attacco: lì sono state arrestate altre cinque persone. In serata poi emerge che tre degli arrestati sarebbero coinquilini del ragazzo pakistano. Tanto per contestualizzare questo nuovo attentato, bisogna ricordare che tre settimane fa è iniziato a Parigi il processo contro i complici dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly, autori degli attentati del gennaio 2015. Non solo: Charlie Hebdo ha pubblicato di nuovo le sue vignette blasfeme su Maometto in copertina los corso 2 settembre. E in vari Paesi, soprattutto in Pakistan, si sono tenute manifestazioni di protesta, con tanto di minacce al giornale e alla Francia. Infine, ieri Emmanuel Gagnier, uno dei dirigenti di Première Ligne, si chiedeva: «Perché, nel corso del processo di Charlie Hebdo, la polizia non ci ha assicurato una protezione permanente? Con dei poliziotti per strada, sempre all'entrata?». Forse quest' ultimo dramma si poteva evitare.

Identità, età, radicalizzazione: i tanti misteri dell'attentatore di Parigi. Pubblicato sabato, 26 settembre 2020 da Anais Ginori su La Repubblica.it. Non è chiara l'identità del ragazzo che si è assunto la responsabilità dell'attacco nei pressi dell'ex sede di Charlie Hebdo. A cominciare dall'età: “Non ha mai dato segni di essere radicalizzato”, dicono gli assistenti sociali che si occupavano di lui. Marine Le Pen pronta a chiedere una nuova stretta sull'immigrazione. “Sono stato io”. Dice così Ali H. ai poliziotti che lo fermano sulla scalinata dell’Opéra Bastille. Non oppone resistenza, quasi un'ora dopo aver aggredito selvaggiamente con una mannaia una donna e un uomo in rue Nicolas-Appert, la strada dove era avvenuto cinque anni fa l'attentato contro il giornale Charlie Hebdo. La prima, breve confessione del giovane pachistano autore di quello che il ministro dell'Interno ha definito “un attacco di terrorismo islamico” non è in realtà accompagnata per ora da altre spiegazioni, né da una chiara rivendicazione. Durante l'interrogatorio della Dgsi (Diréction générale de la Sécurité intérieure), i servizi interni di sicurezza, il ragazzo che parla male francese non ha voluto dare maggiori informazioni. E per adesso i vari testimoni diretti parlano tutti di un uomo solo che non ha fatto proclami religiosi durante l'aggressione. Sono ancora tanti i misteri intorno ad Ali. Cominciando dalla sua identità: gli investigatori non sono sicuri che sia questo il suo vero nome. Arrivando in Francia nell'agosto 2018, senza documenti, ha detto di essere nato a Islamabad nel 2002. Il ragazzo viene preso in carico dalle autorità francesi che si occupano dei migranti minorenni senza famiglia. Come tale, beneficia di vitto e alloggio, seguito dai servizi sociali del Val d'Oise, a nord di Parigi. I dubbi riguardano da subito la sua età. Il dipartimento del Val d'Oise contesta il fatto che Ali sia minorenne e chiede di fare accertamenti medici per verificare, di solito attraverso test sulle ossa. Un giudice minorile nega l'autorizzazione a fare le verifiche. E così Ali continua a beneficiare della protezione dei servizi sociali francesi. “Non ha mai dato segni di essere radicalizzato, né è stato segnalato per qualche problema” dicono gli assistenti che si occupavano di lui. Il ragazzo pachistano non è tra i “fiche S”, la banca dati dell'antiterrorismo. E l'unico precedente è il fermo a giugno per l'uso di un cacciavite come arma nella Gare du Nord. Ali è ancora ufficialmente minorenne, viene subito rilasciato. Poco più di un mese fa, il 10 agosto, il ragazzo compie la maggiore età. Non viene più seguito dai servizi sociali del Val d'Oise. Si trasferisce a Pantin, banlieue a nord di Parigi, dove vive in un appartamento-dormitorio con un'altra decina di pachistani, di cui cinque sono stati fermati ieri durante una perquisizione. Il presunto complice fermato ieri alla stazione del metrò Richard-Lenoir è stato invece rilasciato. Vedendo le immagini dell’arresto a Bastille, con le sue scarpe rosse e la felpa marrone, molti si sono domandati se Ali sia davvero così giovane come dichiara. Se fosse vero, avrebbe avuto solo 13 anni all'epoca degli attentati del 2015. “La giovane età è abbastanza eccezionale tra i jihadisti ma esistono precedenti”, spiega Alain Bauer, esperto di terrorismo, che ricorda il caso di Khaled Kelkal, uno dei protagonisti della stagione degli attentati terroristici in Francia negli anni Novanta. L'algerino era ventenne. L'assenza per ora di rivendicazione non stupisce neppure Bauer. “Ci sono pochi dubbi – commenta - visti l'indirizzo, la tecnica usata, e il momento scelto, in pieno processo sugli attentati”. L’11 settembre, un lungo comunicato di Al Qaeda per la penisola arabica (Aqpa) invitava a “pugnalare” i giornalisti di Charlie Hebdo facendo appello ai "musulmani di Francia, d'Europa e dell’estero, i mujaheddin di tutti i fronti e i nostri eroici leoni solitari". Bauer ricorda che è il quinto attacco all’arma bianca in Francia dall’inizio dell'anno. Tanti “micro-attentati” di cui si è poco parlato perché non avevano una carica simbolica come quello di ieri. Il profilo di Ali rischia anche di alimentare una battaglia politica sui presunti falsi nei dati anagrafici di migranti per ottenere lo statuto di minorenne protetto. Le Ong ripetono che è un fenomeno marginale. Marine Le Pen e l'estrema destra vogliono invece usare ora il caso di Ali per chiedere una nuova stretta sulle regole di immigrazione.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2020. "Sono stato io", ha detto subito Ali H. ai poliziotti che lo hanno bloccato accanto ai gradoni dell'Opéra Bastille, nel cuore della celebre piazza parigina. E durante lo stato di fermo ha ribadito di essere stato lui l'autore dell'attacco a colpi di mannaia che venerdì, a Parigi, a rue Nicolas Appert, ha provocato due feriti, un uomo e una donna, dipendenti dell'agenzia di stampa e società di produzione Premierès Lignes Télévision, situata a pochi passi dall'ex redazione di Charlie Hebdo. Ma davanti agli inquirenti, Ali H., nato a Islamabad il 10 agosto 2002 e di nazionalità pachistana, ha anche aggiunto di non aver sopportato la ripubblicazione delle caricature di Maometto da parte di Charlie: insomma di aver agito per conto di Allah. La sua confessione smentisce nettamente coloro che fino a ieri mattina sostenevano ancora che non c'entrava l'islam nell'ennesimo attentato ai danni della Francia, condannando il ministro dell'Interno Gérald Darmanin per aver subito parlato di «attacco terroristico islamico». E riporta al centro dell'attenzione una notizia che era stata sottovalutata dai media francesi: le proteste violente anti Charlie Hebdo scatenate tre settimane fa in Pakistan dagli islamisti, con bandiere francesi bruciate, insulti a Macron e minacce di morte agli infedeli («Chi insulta il profeta deve essere decapitato»). La realtà francese è questa, nonostante la sinistra benpensante continui a negare la minaccia islamista. Solo che questa volta, a differenza degli ultimi attentati, ci sono ancora molti dubbi attorno alla figura di Ali H. A partire dalla sua identità. Gli investigatori, infatti, non sono sicuri che questo sia il suo vero nome. Secondo le informazioni del Parisien, è arrivato in Francia senza documenti nell'agosto del 2018, a sedici anni, ed è stato subito preso in carico dai servizi sociali del Val d'Oise, a nord di Parigi. Grazie all'Aide Sociale à l'Enfance (Ase), beneficia di vitto e alloggio, ma presto sorgono dubbi su quale sia la sua vera età. Ali H., infatti, sembra molto più vecchio di quanto non indichi il suo atto di nascita (le foto che circolano sui social, a volto scoperto, suscitano molte perplessità sui suoi dati anagrafici). Il consiglio dipartimentale del Val d'Oise chiede allora di fare accertamenti medici per verificare l'età, attraverso test sulle ossa. Ma il 19 luglio 2019, il tribunale minorile di Cergy-Pontoise nega l'autorizzazione a fare le verifiche e così Ali H. continua a usufruire della protezione dei servizi sociali francesi. «Durante tutto il periodo in cui è stato preso in carico dall'Ase, i servizi sociali non hanno osservato nessun segno di radicalizzazione», ha commentato il consiglio dipartimentale del Val d'Oise. Il suo nome non figura in nessuna banca dati dell'intelligence interna di Parigi, non è schedato "S", come la maggior parte di coloro che hanno colpito la Francia negli ultimi anni, ma ha un precedente per porto abusivo d'armi (è stato fermato lo scorso giungo a Gare du Nord, a Parigi, per l'uso di un cacciavite come arma, ma ha ricevuto soltanto un "rappel à la loi" da parte del tribunale per i minorenni). Dallo scorso 10 agosto, Ali H. non era più seguito dai servizi sociali, essendo diventato maggiorenne. Da allora, viveva a Pantin, banlieue sensibile a nord di Parigi, in un appartamento dormitorio con un'altra decina di pachistani. l'inchiesta Secondo quanto riportato dal giornalista del settimanale Le Point, Aziz Zemouri, sono nove attualmente le persone in stato di fermo nel quadro dell'inchiesta sull'attentato di venerdì, compreso il fratello minore di Ali H., che ha 16 anni. Sempre secondo Zemouri, un video in cui Ali H. appare in abito tradizionale islamico tenendo un discorso contro Charlie Hebdo sarebbe in corso di identificazione e traduzione: se confermato, si tratterebbe dunque di un atto premeditato. Il presunto complice fermato venerdì all'altezza della stazione del metrò Richard-Lenoir, invece, è stato rilasciato. riproduzione riservata Qui a sinistra, Alì H. (non è stato diffuso il suo cognome), il pakistano che ha assaltato la vecchia sede del giornale satirico Charlie Hebdo, accoltellando due persone.

L’attentato contro l’ex sede di Charlie Hebdo, spiegato. Giovanni Giacalone su Inside Over il 26 settembre 2020. L’attacco di venerdì 25 settembre nei pressi dell’ex sede della redazione di Charlie Hebdo che ha causato il ferimento di quattro persone, di cui due in modo grave, ha ricordato alla Francia che la minaccia del terrorismo islamico è sempre in agguato e, nonostante le informazioni disponibili siano ancora molto limitate, la procura parigina ha reso noto che le autorità stanno seguendo la pista terroristica. Il luogo dell’attacco e le tempistiche forniscono del resto degli elementi piuttosto chiari: non solo è avvenuto nei pressi dell’ex sede della rivista satirica, ma una delle vittime è stata aggredita proprio davanti al murales disegnato in omaggio ai fumettisti del settimanale uccisi nell’attentato terroristico del 2015. L’attacco è avvenuto di venerdì, giorno sacro per i musulmani e anche in parallelo con il processo ai 14 imputati accusati di aver fiancheggiato i terroristi negli attentati che avevano colpito la Francia nel 2015 (ieri è toccato alle mogli dei fratelli Kouachi testimoniare). Bisogna poi tener presente che redazione di Charlie Hebdo aveva deciso, in concomitanza con l’inizio del processo a inizio settembre, di pubblicare nuovamente le caricature su Maometto che all’epoca scatenarono la rabbia dei musulmani e l’attacco alla redazione.

Chi sono gli attentatori. Allo stato attuale si sa che il principale sospettato, arrestato poco dopo l’attacco, è un 18enne pakistano arrivato tre anni fa in Francia come minore non accompagnato. L’arma utilizzata per l’attacco, una mannaia da macellaio, è stata ritrovata nei pressi della stazione della metropolitana. Il soggetto in questione era stato fermato per controlli un mese fa, trovato in possesso di un cacciavite ma subito rilasciato e non risultava inserito nella lista di soggetti sensibili al fenomeno terroristico. Un secondo individuo, un 30enne algerino, è stato fermato dalla polizia per accertamenti, ma non sono ancora state fornite ulteriori informazioni al riguardo. Nel frattempo altre cinque persone, tutte nate tra il 1983 e il 1996, sono state portate in caserma durante le perquisizioni di una casa dove viveva anche il pakistano nel quartiere periferico di Pantin.

L'”elemento” Pakistan. Un fattore da tenere in considerazione è la nazionalità pakistana del presunto attentatore in quanto le proteste più violente in risposta alla nuova pubblicazione delle caricature da parte di Charlie Hebdo erano scoppiate proprio in Pakistan. Venerdì 4 settembre infatti migliaia di manifestanti si erano riversati per le strade delle città pakistane per protestare contro le caricature, definite “un insulto al Profeta“, reato che in Pakistan prevede la pena di morte. Seguaci del partito islamista radicale Tehreek e-Labbaik Pakistan erano scesi in strada a Karachi, Lahore, Islamabad e Multan lanciando slogan contro Charlie Hebdo e bruciando bandiere francesi. Il predicatore Mohamed Zaman aveva anche chiesto la rottura dei rapporti diplomatici con Parigi e l’espulsione dell’ambasciatore Marc Barety. Intervento durissimo anche da parte di Maulana Abdul Waseh, leader di Jamaat Ulema e Islami Baluchistan, che tra le varie cose aveva definito la pubblicazione delle caricature “blasfema” e “un palese atto di terrorismo”. Proteste anche dal Ministero degli Esteri di Islamabad che ha dichiarato: Un tale atto, deliberato e con l’obiettivo di offendere i sentimenti di milioni di musulmani, non può essere giustificato con la scusa della libertà di stampa e di espressione. Il presidente della JR Global Security Consulting, Roland Jacquard, aveva avvisato che le proteste di inizio settembre contro la Francia potevano essere interpretate come un segnale d’allarme in quanto il Pakistan sarebbe presto potuto diventare un vasto e fertile terreno per il reclutamento di potenziali terroristi. Il sentimento anti-francese in risposta alla pubblicazione delle caricature era esploso anche sui social e gli stessi media pakistani avevano fornito ampio spazio al fenomeno. Non si può dunque escludere che il 18enne pakistano (se effettivamente identificato come l’attentatore) possa essere stato influenzato anche da questa pesante campagna anti francese.

Alcune riflessioni. Come già detto inizialmente, allo stato attuale non ci sono sufficienti elementi per fornire una panoramica chiara su quanto avvenuto venerdì nei pressi dell’ex sede di Charlie Hebdo ed è normale che sia così; serviranno alcuni giorni per capire meglio le dinamiche, ma ci sono alcuni elementi che sono già indicativi, come ad esempio la tempistica. Il prof. Marco Lombardi di Itstime/Università Cattolica di Milano indica come “l’attacco sia avvenuto chez Charlie (o quasi) mentre è in corso il processo ai terroristi degli attentati del 2015, con modalità e armi tipiche del terrorismo islamista, dopo una serie di minacce raccolte e divulgate dai media nei giorni precedenti; l’attentatore è un giovane pakistano, maschio, musulmani e il fatto è avvenuto dopo che Charlie Hebdo aveva pubblicato nuovamente le vignette su Maometto. Queste cose messe in fila non lasciano dubbi sul fatto che, per i suoi effetti, l’attacco è certamente riconducibile al terrorismo islamista. Un attacco che fornisce un revival non sperato al jihadismo un po’ in crisi, rinfocola la paura dell’Occidente e rilancia le narrative dei media del terrore che si erano affievolite”. Secondo l’esperto di terrorismo Wasim Nasr, l’arma utilizzata per l’attacco, un coltello da macellaio, fa ipotizzare un’iniziativa personale più che un attentato pianificato da gruppi come Al Qaeda (che aveva minacciato ritorsioni). Bisogna però tener presente che la nuova strategia del jihadismo globale targato Isis prevede proprio questo tipo di attacchi “spontanei” o  di rapidissima pianificazione, utilizzando anche strumenti del quotidiano e contro soft-target. Non si sa inoltre se il 18enne fosse veramente da solo o se in coppia (come hanno affermato alcuni testimoni); non è ancora noto se l’attentatore ha potuto usufruire di supporto logistico o di aiuti nella pianificazione. Tutti elementi che dovranno essere chiariti nel corso delle indagini.

Stefano Montefiori per corriere.it il 16 ottobre 2020. Un uomo è stato ucciso intorno alle 17 nel comune di Conflans Sainte-Honorine, nelle Yvelines, a circa un’ora da Parigi, per strada accanto a una scuola. L’assassino, di nazionalità algerina, nato nel 1972, lo ha decapitato con un coltello gridando «Allah Akhbar». La polizia è stata subito avvertita mentre l’assalitore è scappato a piedi in un comune vicino, à Eragny. Quando è stato raggiunto dagli agenti ha rifiutato di arrendersi e ha continuato a brandire il coltello. A quel punto è stato ucciso dai poliziotti che hanno sparato una decina di colpi.

Il movente. La vittima è un professore di storia, Samuel P., che nei giorni scorsi aveva mostrato in una classe di liceo le vignette di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo, in occasione del processo contro i responsabili della strage del 7 gennaio 2015. La spiegazione del professore, nel corso di una lezione sulla libertà di espressione, aveva suscitato le proteste e le minacce dei genitori di alcuni studenti.

Terrorismo. La procura anti-terrorismo si è immediatamente arrogata l’inchiesta. Venerdì 25 settembre, tre settimane fa, un altro attentato è stato compiuto da un islamista che ha ferito a colpi di mannaia due persone che fumavano per strada davanti agli ex locali della redazione di Charlie Hebdo, a Parigi.

Professore decapitato vicino a Parigi, l'assalitore sarebbe un diciottenne ceceno. Fermate cinque persone.  Gli arrestati provengono dalla cerchia familiare dell'aggressore, ucciso dalla polizia. La Repubblica il 17 ottobre 2020. Sarebbe un diciottenne nato a Mosca e di origine cecena l'uomo che ha decapitato il professore di storia vicino a un college a Conflans-Sainte- Honorine, periferia occidentale di Parigi. Nella notte la polizia francese ha fermato cinque persone, fra le quali anche un minore, provenienti dalla cerchia familiare dell'aggressore. L'agguato è partito alla fine delle lezioni, nel pomeriggio: il giovane ha decapitato il professore con un coltello gridando «Allahu Akhbar».. Le immagini dell'insegnante decapitato sono poi state postate sul profilo Twitter dell'aggressore con un messaggio di rivendicazione: “Allah, ho ucciso un cane dell'Inferno che ha osato infangare il tuo nome”. La polizia municipale, chiamata da alcuni testimoni, ha ucciso il diciottenne. La vittima è un professore di storia, Samuel P., che nei giorni scorsi aveva mostrato in una classe di liceo le vignette di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo, in occasione del processo contro i responsabili della strage del 7 gennaio 2015. La lezione  del professore aveva suscitato le proteste dei genitori di alcuni studenti.

Mostrò vignette su Maometto: uomo decapitato vicino Parigi. La vittima è un professore che nei giorni scorsi aveva mostrato i disegni di Charlie Hebdo. Ucciso il killer 18enne. Federico Garau, Venerdì 16/10/2020 su Il Giornale. È stato ucciso e decapitato per aver osato mostrare in classe le immagini di Maometto pubblicate da "Charlie Hebdo" allo scopo di proporre un dibattito sul tema tra i suoi studenti di un liceo della Île-de-France (Francia). La vittima è Samuel P., insegnante di storia e geografia presso un istituto scolastico a Conflans-Sainte-Honorine (nel dipartimento degli Yvelines, regione dell'Île-de-France) , ed è proprio all'interno dell'istituto che il corpo della vittima è stato rinvenuto dalle forze dell'ordine dopo le segnalazioni ricevute. Sulla vicenda, come riferito dalla stampa locale, avrebbe aperto le indagini direttamente l'antiterrorismo. Un caso che ha scosso l'opinione pubblica talmente tanto da aver attivato anche lo stesso presidente della Repubblica francese. Emmanuel Macron, infatti, si è recato nella cellula di crisi del ministero dell'Interno di Parigi per seguire gli sviluppi delle indagini, e lo stesso ministro Gerald Darmanin è rientrato d'urgenza in patria dalla visita programmata in Marocco. Stando a quanto riferito da Le Monde, l'omicidio del professore sarebbe avvenuto durante il pomeriggio di oggi, venerdì 16 ottobre, intorno alle ore 17:30, mentre il suo presunto aggressore, che avrebbe poi tentato la fuga, è stato ferito a morte dalla polizia nella vicina città di Eragny, dopo aver cercato di aggredire gli agenti con un coltello stretto in mano al grido di"Allah Akbar". Secondo l'emittente televisiva "BfmTv", di recente i genitori di alcuni alunni avevano protestato per la scelta del professore di accendere un dibattito sulla libertà di espressione mostrando proprio le caricature di Maometto proposte da "Charlie Hebdo". Fino a poche ore fa i media avevano diffuso la notizia del fermo del responsabile, parlando di un 48enne di nazionalità algerina, presumibilmente il padre di uno dei giovani, infastidito per l'affronto. Stando, tuttavia, agli ultimi aggiornamenti si sarebbe trattato invece di un 18enne di nazionalità cecena, parente di uno degli studenti dell'istituto in cui insegnava la vittima. L'assassino, come riferito da "Le Parisien", era in possesso di un coltello da cucina e di un fucile al momento dell'arrivo sul posto dei poliziotti. E sarebbe riuscito addirittura a pubblicare sui social un video in cui mostrava la testa decapitata dell'insegnante ucciso poco prima. Inutile l'assalto finale al grido di "Allah Akbar": il ceceno sarebbe stato ucciso dai proiettili esplosi dagli agenti, che temevano potesse avere addosso anche una cintura esplosiva. A commentare la terribile vicenda la leader del partito francese di estrema destra Rassemblement National Marine Le Pen, che ha postato un duro messaggio di condanna sulla propria pagina Twitter. "Un professore decapitato per aver mostrato le caricature di Charlie Hebdo: è il livello di barbarie insostenibile in cui si trova la Francia", ha dichiarato la politica francese. "L'islamismo ci fa la guerra: dobbiamo cacciarlo con la forza dal nostro paese". Intanto, come riportato dal quotidiano "Le Figaro", il presidente Emmanuel Macron ha raggiunto l'istituto in cui insegnava la vittima. Sempre "Le Figaro" riferisce il contenuto del messaggio lasciato su Twitter dal presunto assassino. Rivolgendosi proprio a Macron, appellato come "il dirigente degli infedeli", il responsabile ha scritto: "Ho ucciso uno dei tuoi cani dell'inferno". Del 18enne sappiamo solo che era nato a Mosca, e già da tempo si trovava nel mirino dei servizi segreti francesi. Il giovane frequentava un gruppo di soggetti fra cui si trovava anche un individuo molto pericoloso, conosciuto come un islamista radicale e schedato con la lettera "S". L'ambasciata russa a Parigi avrebbe inoltre chiesto informazioni sull'omicida. Secondo ultime indiscrezioni, Samuel P. era stato minacciato dai genitori di alcuni studenti mussulmani proprio per la vicenda delle vignette mostrate in classe. Eppure, proprio il padre di uno dei ragazzi di fede islamica ha riferito a "Le Figaro" che l'insegnante era "un uomo simpatico e gentile". "Mio figlio ha detto che è stato un atto di gentilezza, non di discriminazione", ha spiegato il genitore, riferendosi alla questione che aveva fatto nascere le polemiche. Per non urtare la sensibilità dei ragazzi musulmani, il professore, che voleva tenere una lezione sulla libertà di espressione, aveva proposto loro di lasciare temporaneamente l'aula. Anche il periodico satirico "Charlie Hebdo" ha rilasciato una dichiarazione sui propri profili social: "Charlie Hebdo esprime il suo senso di orrore e di rivolta dopo che un insegnante è stato assassinato da un fanatico religioso. Esprimiamo il nostro più profondo sostegno alla sua famiglia, ai suoi cari e a tutti gli insegnanti", si legge su Twitter. "L'intolleranza ha appena varcato una nuova soglia e non sembra fermarsi davanti a nulla per imporre il suo terrore al nostro Paese. Solo la determinazione del potere politico e la solidarietà di tutti sconfiggeranno questa ideologia fascista. Questo atto immondo è un lutto per la nostra democrazia, ma deve renderci più combattivi che mai per difendere la nostra libertà".

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 17 ottobre 2020. È stato aggredito vicino alla scuola media dove insegnava Storia, per strada. Un professore francese è stato sgozzato e decapitato da un giovane di diciotto anni. Erano le 17 di ieri, un pomeriggio all'apparenza come gli altri, a Conflans-Sainte-Honorine, una cinquantina di chilometri a Nord-Ovest da Parigi, una tranquilla area residenziale della vasta regione della capitale. Lui, l'aggressore, ha gridato «Allah Akbar» e poi ha agito: con ferocia, con determinazione. Subito dopo ha fotografato la testa insanguinata del docente per terra e ha postato quell'immagine ferocemente cruenta su Twitter. È poi fuggito, ancora armato di un coltello, per poche centinaia di metri, prima di essere individuato dalla polizia, che era già stata chiamata prima dell'assalto, perché quel giovane strano, che vagava intorno alla scuola, aveva destato dei sospetti. Gli hanno gridato di abbassare l'arma a terra. Lui non voleva farlo, si mostrava aggressivo. Alla fine i poliziotti lo hanno ucciso. Tutto è scaturito da un corso tenuto in classe una settimana fa dal professore (sono noti il suo nome, Samuel, e l'iniziale del cognome, P.), che in quell'occasione aveva parlato della libertà di espressione e mostrato delle caricature di Maometto, le stesse pubblicate da Charlie Hebdo. Dai primi elementi, il giovane sarebbe di origini cecene e di fede musulmana, ed è nato a Mosca diciotto anni fa. L'inchiesta è stata affidata alla Procura nazionale anti-terrorismo. In uno dei messaggi su Twitter avrebbe scritto: «A Macron, capo degli infedeli, ho giustiziato uno dei tuoi cani dell'inferno». L'uomo, che avrebbe anche rivendicato l'attacco a nome del gruppo Al Ansar, faceva parte di una banda di Eragny, il comune dove è stato ucciso. Uno dei componenti della banda è schedato come islamista radicale. Ieri, in una Francia sotto choc, sul posto sono arrivati Emmanuel Macron e Jean-Michel Blanquer, il ministro dell'istruzione, che su Twitter ha postato queste parole: «Questa sera è la Repubblica ad essere attaccata con il vile assassinio di uno dei suoi servitori». L'omicidio del professore arriva dopo che, tre settimane fa, un giovane di 25 anni, originario del Pakistan, era andato, in piena Parigi, davanti all'edificio, che un tempo ospitava la redazione di Charlie Hebdo. E lì aveva assalito due giovani, ferendoli gravemente. Credeva fossero giornalisti del settimanale satirico e che la sua sede si trovasse ancora lì. Proprio in questi gironi nella capitale francese è in corso il processo contro i complici degli attentatori che effettuarono le stragi nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato Hyper Cacher nel gennaio 2015. All'inizio del processo il giornale aveva deciso di pubblicare di nuovo le caricature di Maometto, all'origine dei problemi di Charlie Hebdo e dell'odio scatenato dagli estremisti islamici a livello planetario. Quella decisione aveva spinto folle di musulmani, in Iran e in Pakistan, a scendere in strada. E a promettere vendetta contro i giornalisti e tutti gli occidentali responsabili di blasfemia.

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 17 ottobre 2020. Perché? Se lo chiedevano tutti ieri sera per le strade di Conflans-Sainte-Honorine, lontano e calmo sobborgo parigino di 35mila abitanti. E in quel grappolo di villette a schiera senza storia che si allunga intorno alla scuola media «Bois d'Aulne». Uno dei docenti di Storia di quell'istituto pubblico è stato decapitato selvaggiamente per strada. Perché? Subito è emersa una strana storia, di un corso sulla libertà d'espressione, dove erano state mostrate vignette di Maometto. Era successo una settimana prima, il venerdì 9 ottobre. Ieri Rodrigo Arenas, presidente della principale associazione dei genitori degli allievi della scuola, ha ricordato che «il padre di uno studente, particolarmente arrabbiato, aveva segnalato che in classe erano state mostrate delle caricature di Maometto». Sì, proprio durante una lezione di Samuel P., 47 anni. Secondo Arenas la vittima dell'attentato aveva comunque «invitato gli allievi di fede musulmana a uscire dalla classe, prima di mostrare una vignetta del profeta accovacciato per terra e con una stella disegnata sul sedere, con sopra le parole: è nata una stella». Nordine Chaoudi, genitore di uno degli studenti di Samuel P., intervistato dall'agenzia France Presse, ha aggiunto altri elementi riguardo a quell'episodio: «Mio figlio si trovava in classe quel giorno. Mi ha raccontato che il professore ha fatto uscire i ragazzi musulmani, annunciando che avrebbe mostrato una caricatura di Maometto. Tra di loro c'è solo una ragazza che è rimasta. In seguito avrebbe raccontato che la vignetta mostrava la foto di un uomo nudo». Secondo questo genitore, comunque, «il docente non lo ha fatto per provocazione o per cattiveria. E voleva, appunto, che i ragazzi di fede islamica non fossero scioccati, che non la prendessero male». Chaoudi ha ricordato Samuel P. come «una persona super gentile, estremamente cortese». La decisione di mostrare le caricature, però, aveva scatenato polemiche nell'istituto. Samuel P. aveva ricevuto diverse minacce. E alcuni genitori di allievi musulmani lo avevano criticato in maniera pesante sui social. Secondo il sito del «Figaro», il docente avrebbe sporto denuncia in commissariato, mentre alcune famiglie di allievi avevano chiesto che il professore fosse allontanato dalla scuola. Ieri pomeriggio, dopo la fine dei corsi, è uscito, camminando verso il suo triste destino. Dopo l'eccidio, diversi ragazzi sono usciti dalla scuola e hanno visto il corpo martoriato del loro professore. Alcuni avevano il cellulare tra le mani, dove potevano vedere la foto scattata da parte dell'attentatore della sua vittima decapitata, poi postata su Twitter. «Mi sento così male. È una pazzia, è incredibile, - ha sottolineato tra i ragazzi Chaoudi, che è musulmano e padre di quattro figli -. Tutti i profeti, anche Gesù, si sono sempre fatti insultare da duemila anni a questa parte. Non c'è nulla di nuovo, non c'è di nulla di male».

Il professore condannato da una spiata sui social Charlie Hebdo in piazza. La minaccia: «Se non lo licenziate avrà un duro castigo». E il governo sembra impotente. Francesco De Remigis, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. L'onda d'urto della barbarie islamista, compiuta da un 18enne, rimette la Francia davanti ai suoi fantasmi. Nonostante le parole di Emmanuel Macron venerdì sera sul luogo dello sgozzamento rituale («Difenderemo i nostri insegnanti, l'oscurantismo non vincerà», ha detto il presidente) nel mondo della scuola si comincia a parlare di autocensura. «Si stabilirà nel segreto dell'insegnamento», teme Iannis Roder, da più di 20 anni docente al college di Seine-Saint-Denis alle porte di Parigi. «Uccidere un insegnante significa uccidere il desiderio di aprire i bambini al mondo, simbolicamente non c'è niente di peggio che attaccare un prof», dice a Le Parisien. Le testimonianze di residenti e genitori del plesso dove insegnava Samuel Paty, 47 anni, sposato e con un bimbo, si ripetono come un ritornello: «Non posso credere che al docente di mio figlio sia stata tagliata la testa». «Mio figlio mi ha già detto che non vuole più tornare in classe», ammette un altro genitore. Il clima è di una resa di categoria. Ieri i sindacati degli insegnanti sono stati ricevuti dal governo e infine hanno deciso di aderire all'appello di Charlie Hebdo: oggi alle 15 tutti a Place de la République a Parigi «per la libertà, contro il terrore». Manifestazione blindata. Ma il morale è a terra. Difficile essere liberi quando in rete gira l'indirizzo di una scuola dove si dice che un docente ha insultato i musulmani mostrando le vignette su Maometto, senza che le autorità se ne accorgano o facciano qualcosa. Anche stavolta è stato infatti un video sui social ad accendere la miccia: quello di un genitore che parlava del professore di storia che portava in classe la satira di Charlie. È diventato virale e per giorni ha mostrato l'indirizzo della scuola di Conflans-Sainte-Honorine. Macron, appena 15 giorni fa, ha citato la blasfemia come legittima, per stabilire il confine della libertà d'espressione. Lo ha ribadito: se ne parli anche a scuola. Il ministro dell'Interno ammette però che «il livello di minaccia terroristica resta alto». E c'è poco da essere ottimisti a fronte dell'ultima tragedia che forse si poteva evitare. Presentandosi come «membro del Consiglio degli Imam di Francia», nella scuola media in questione si era infatti mostrato anche un noto militante islamista, Abdelhakim Sefrioui, una delle 10 persone in custodia di polizia nell'ambito dell'indagine: fu lui ad accompagnare l'8 ottobre il padre di una studentessa dalla preside per chiedere il licenziamento del prof. L'assassino 18enne, che Macron ha bollato come «terrorista islamista» ha dato un messaggio più chiaro all'Eliseo: «Calma i suoi simili (riferendosi al prof giustiziato, ndr) altrimenti infliggeremo un duro castigo». L'esecuzione è diventata così un'operazione di marketing per zittire ogni forma di libertà d'espressione, a partire da quella di spiegare a scuola i princìpi della République. Il premier Jean Castex sintetizza: «Dopo quella di stampa e Charlie Hebdo, nel mirino c'è ora libertà di insegnare». Marlène Schiappa, ministro delegato per la cittadinanza, per martedì ha convocato i capi dei social network: il governo vuol provare almeno ad arginare propaganda e minacce on line, come quella che vide la 16enne Mila messa alla gogna per aver criticato l'islam in una diretta Instagram. Più difficile sarà superare l'esistenza (e il successo) di «classi» gestite da imam nei centri culturali islamici che sottraggono i minori all'insegnamento statale. Si stima infatti che oltre 50 mila ragazzi negli ultimi anni siano stati ritirati dalla scuola pubblica per ricevere un'istruzione coranica.

Giampiero Mughini per Dagospia il 18 ottobre 2020. Caro Dago, da quanto ho amato Parigi (dove ho vissuto due anni) e la cultura francese (sono laureato in Lingua e letteratura francese) quello che accade in Francia sempre mi tocca particolarmente da vicino. Mi brucia, eccome. Figuriamoci poi la vicenda di questo onesto e “gentile” (così lo ricorda chi lo ha conosciuto) professore quarantasettenne, Samuel Paty, il quale è stato scannato perché aveva avuto l’impudenza di spiegare “gentilmente” agli studenti del suo liceo che cosa fosse la libertà di satira e dunque la libertà di espressione. Spiegare che la satira non è fatta per offendere ma per sorridere. Che se ironizzi sulle debolezze di questo o di quello non è perché lo vuoi morto. E bensì perché vuoi accendere un confronto, un discussione. Paty voleva spiegare che le vignette pubblicate da “Charlie Hebdo” (e che già sono costate un mucchio di morti innocentissimi) non erano volte ad annientare le credenze dei musulmani, la loro fede, e bensì solo sorridere sugli aspetti di quelle credenze che suscitano dubbi in noi “laici”. Erano vignette che invitavano a sfottere i musulmani? Forse sì, ma questo avviene tutti giorni a tutte le ore e avviene ai danni di tutti. Chiunque ha il diritto di sfottere me, per gli aspetti che del me stesso televisivo non gli piacciono o lo irritano. Voi mi direte “Ma tu sei un povero signor nessuno mentre Maometto è il faro accecante di tutta una religione, e con lui non si può scherzare”. E invece no, Paty voleva spiegare ai suoi alunni che si può scherzare anche su Maometto, come su chiunque altro, e che questo è un valore fondante della società come tanti di noi la vorrebbero. E a non dire che Paty è stato talmente “gentile” da dire ai suoi alunni musulmani che se lo volevano – perché talmente forte era la loro sensibilità religiosa – potevano uscire dall’aula. In molti lo hanno fatto tranne una, una studentessa mi pare. Ora io non voglio spendere neppure una parola su quello sterco vivente che era il diciottenne accoltellatore ceceno. Su un tale pezzo di merda non c’è da spendere una sola parola, più che sufficienti le pallottole che gli hanno tolto la vita. (Di pezzi di merda ce n’è su tutte le sponde e in qualsiasi etnia, poteva essere un protestante, un cristiano, un interista, uno juventino, un biondo, un bruno.). Quello che mi colpisce di più e che merita attenzione è l’atteggiamento del padre non so se di uno studente o di una studentessa musulmana (quella che era rimasta in aula?), il quale si è precipitato – accompagnato da un iman radicale – dal direttore della scuola in cui Paty insegnava a dirgli che il professore era “un delinquente” e che andava cacciato via dalla scuola. E’ lui l’epicentro di quello che è accaduto, non l’assassino diciottenne. E’ lui quello con cui non sono ammessi compromessi di sorta, intendo con il suo modo di pensare. Con il modo di pensare secondo cui un giornale francese che esce in un Paese in cui i musulmani sono milioni non ha il diritto di pubblicare delle vignette sfottitorie nei confronti del Profeta. Ho detto “sfottitorie” dando a questo termine il contenuto semantico il più garbato possibile, un contenuto che esclude assolutamente qualsiasi irrisione. Sfottere, ironizzare, mirare al sorriso, tutto questo è il sale di una società e della sua vita. Poi magari dire che quella vignetta è più riuscita di quell’altra. Avessi qui di fronte a casa mia dei musulmani, porterei ovviamente il massimo rispetto ai loro usi e costumi e credenze religiose. Ovviamente. Non al punto però di togliermi il diritto di trovare su un giornale italiano delle vignette satiriche nei confronti dei loro usi e credenze. Vignette di cui poi tutti hanno il diritto dire bene o male, che sono riuscite o che sono un tantino volgari. Il punto è esattamente questo. Non accettare che qualcuno, tipo il padre del liceo francese dove insegnava Paty, quel diritto ce lo voglia togliere. Lui e l’iman che lo accompagnava. Togliere quel diritto ai francesi come agli italiani. E’ lui che sta al cuore dell’atroce racconto di vita francese vissuta. Non il macellaio diciottenne.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 19 ottobre 2020. Decine di migliaia di francesi sono scesi ieri in piazza per ricordare Samuel Paty, il professore decapitato per strada venerdì scorso a Conflans-Sainte-Honorine. È l' ora del dolore e degli omaggi e anche delle polemiche. La tragedia si poteva evitare? Gli occhi sono puntati su uno strano personaggio, Abdelhakim Sefrioui, franco-marocchino di 61 anni, predicatore islamista. Nei giorni precedenti all' aggressione era stato una presenza costante accanto al padre di un' allieva di Paty, che aveva polemizzato col docente per aver mostrato due caricature di Maometto, già pubblicate da «Charlie Hebdo», durante un corso sulla libertà di espressione. Nel mirino dell' intelligence da anni, Sefrioui avrebbe dovuto rappresentare un campanello d' allarme. L' 8 ottobre aveva accompagnato il padre della studentessa alla scuola. Avevano chiesto con veemenza alla preside l' allontanamento di Paty. All' uscita, il predicatore si era filmato in un video, poi postato sui social, dove, in riferimento a quel corso che il professore impartiva, diceva: «Sono 5-6 anni che dei ragazzi di 12-13 anni, dei musulmani, sono sotto choc, aggrediti, umiliati davanti ai loro compagni». Ed esigere così «la sospensione immediata di questo delinquente». Poi Sefrioui aveva accompagnato il papà dell' allieva al commissariato per sporgere denuncia per «diffusione di immagini pornografiche». Il predicatore è classificato «s» dai servizi segreti, come tutti i sospettati di jihadismo e attività terroristica. Senza contare che il padre della studentessa ha una sorellastra partita nel 2014 per la Siria a «fare la jihad», da allora ricercata. Lui aveva postato un video sui social contro il docente, comunicandone le generalità e il telefono, oltre all' indirizzo della scuola. Ne erano seguite minacce di morte da diversi conti in rete, senza che il professore fosse messo sotto scorta. Lui, Sefrioui e la moglie del predicatore sono tra le 11 persone in stato di fermo, che la polizia sta interrogando. C' era un legame tra loro e l' aggressore, Abdoullakh Anzorov, diciottenne di origini cecene? L' azione di Sefrioui ha rappresentato un' istigazione indiretta al delitto? È quello che gli inquirenti stanno cercando di capire. Nel 2004 Sefrioui aveva fondato un' organizzazione filopalestinese, con un toni antisemiti. Da allora con i suoi militanti si è fatto notare a più riprese: nel 2014 è stato perfino sospettato di aver reclutato manovalanza da inviare in Siria a combattere per l' Isis. Il presidente francese Emmanuel Macron ha usato parole dure contro gli islamisti: «Non dormiranno sonni tranquilli in Francia. La paura passerà sul fronte opposto». Macron durante un vertice all' Eliseo con i principali ministri e il procuratore antiterrorismo Jean-François Ricard, ha chiesto al ministro dell' Interno, Gérald Darmanin, un «rafforzamento della sicurezza degli istituti scolastici dal rientro dopo le vacanze» di Ognissanti. Il governo ha annunciato immediate azioni contro coloro, almeno 80, che sul web hanno inneggiato all' azione del terrorista che ha decapitato il prof.

Adriano Scianca per la Verità il 21 ottobre 2020. Per la Francia è l'ora del periodico appuntamento con il cordoglio e con lo stupore. Sul primo fronte, ieri è stato il momento di una «marcia bianca» a Conflans-Sainte-Honorine, il comune dell'Île-de-France in cui venerdì scorso Samuel Paty è stato decapitato dal diciottenne ceceno Abdoullakh Abouyedovich Anzorov. Davanti all'Assemblea nazionale, i deputati hanno inoltre intonato la Marsigliese dopo aver osservato un minuto di silenzio. In mezzo al dolore, si fa però strada la consueta sensazione di incredulità: come è stato possibile? La ricostruzione dei fatti che hanno portato all'esecuzione del professore amante della libertà d'espressione ha le sembianze del solito, brusco confronto con una realtà che si vorrebbe pacificata e che invece è attraversata da demoni. Sul fronte delle indagini, le novità di ieri sono rappresentate dalla scoperta che il padre della studentessa che aveva messo all'indice sui social Paty aveva scambiato dei messaggi su Whatsapp con Anzorov, nei giorni precedenti all'attacco. Il genitore, infatti, aveva messo il suo numero di telefono su Facebook, insieme a un video diffuso l'8 ottobre nel quale attaccava violentemente il docente. Un secondo video era stato pubblicato il 12 ottobre: in questo caso, l'uomo compariva in compagnia del francomarocchino autoproclamatosi imam Abdelhakim Sefrioui, volto noto dell'estremismo salafita transalpino. Non è ancora noto il contenuto dei messaggi intercorsi tra il genitore e il giovane terrorista. Sono al momento 16 i fermati legati a questa vicenda: cinque studenti, una persona già condannata per terrorismo, i genitori, il nonno e il fratello dell'attentatore, altre tre persone entrate in contatto con lui, Brahim Chnina, il già citato padre estremista che aveva lanciato l'appello contro il docente, il suo compare Abdelhakim Sefrioui e sua moglie. Attenzione puntata, in particolare, su uno studente, già fermato, poi rilasciato e infine ritornato in cella ieri mattina: gli investigatori credono che lui e altri coetanei abbiano indicato il professore al suo assassino dietro il pagamento di denaro. Emergono anche dei dettagli sul conferimento alla famiglia Anzorov dello status di rifugiati. Il nucleo familiare era arrivato in Francia nel giugno 2007 e aveva richiesto asilo, con il pretesto della propria vicinanza alla resistenza cecena. Avevano parlato di maltrattamenti da parte delle autorità russe e del rischio concreto di rappresaglie in caso di ritorno in patria. Il 19 novembre 2010, tuttavia, l'Office français de protection des réfugiés et apatrides aveva rifiutato il diritto d'asilo. La motivazione: «Récit stéréotypé». Il racconto delle persecuzioni subite, cioè, era apparso falso, basato su luoghi comuni, quindi non credibile. Il 25 marzo del 2011, tuttavia, la Cour nationale du droit d'asile aveva espresso il parere opposto, concedendo la protezione nazionale alla famiglia cecena. In questo modo, il giovane Abdoullakh, nato a Mosca il 12 marzo 2002, aveva potuto beneficiare dello status di rifugiato e ottenere in modo automatico un permesso di soggiorno della durata di 10 anni a partire dallo scorso marzo, allo scoccare della sua maggiore età. Gli Anzorov vivevano nel quartiere della Madeleine, a Évreux, dove a partire dal 2003 risiedono una sessantina di famiglie cecene. Se la zona è conosciuta per il suo alto tasso di violenza, Abdoullakh non sembrava farsi troppo notare: lavorava nei cantieri, aspirava a lavorare nella sicurezza, tirava di boxe. Negli ultimi giorni era apparso particolarmente scosso dalla vicenda del liceo di Conflans. Con gli esiti che sappiamo. Ora le autorità sono alle prese con la solita, tardiva rincorsa degli eventi, nel disperato e reiterato tentativo di contrastare l'estremismo islamico. Il ministro dell'Interno, Gérald Darmanin, ha chiesto al prefetto di Seine-Saint-Denis di chiudere la moschea di Pantin, da cui era stato diffuso un video che attaccava violentemente Paty e i suoi corsi sulla libertà d'espressione. Secondo il ministro, l'imam di questa moschea portava i suoi figli, dai 2 ai 6 anni, tutti abbigliati con l'hijab, in una scuola clandestina senza ricreazione, senza finestre e senza professori. Nel mirino delle autorità anche 51 associazioni salafite. Nei giorni scorsi, Darmanin aveva già disposto di espellere 231 stranieri i cui nomi sono iscritti nel Fsprt, il registro delle segnalazioni per la prevenzione della radicalizzazione a carattere terroristico. Sempre Darmanin ha poi chiesto una «vigilanza aumentata» attorno alle scuole. Lunedì sono state effettuate 34 perquisizioni nei locali di associazioni culturali segnalate per radicalizzazioni. Un vero e proprio giro di vite, con il presidente Emmanuel Macron che in serata ha annunciato la decisione di sciogliere il collettivo islamico Sceicco Yassine fondato da Abdelhakim Sefrioui, filosalafita, autoproclamatosi imam, in prima fila contro il professor Paty. Fino al prossimo attentato.

"Venduto al boia per 300 euro" L'orrore dietro la decapitazione di Paty. L'assassino di Paty non avrebbe agito come uno squilibrato o un "lupo solitario", ma avrebbe ucciso in piena lucidità, godendo dell'aiuto di complici. Gerry Freda, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. Proseguono le indagini in Francia sui mandanti e sui facilitatori dell'assassinio del docente di Storia Samuel Paty, vittima venerdì scorso di una decapitazione in un sobborgo di Parigi. In seguito all'arresto dell'esecutore materiale del crimine, ossia il rifugiato 18enne di origini cecene Abdoullakh Anzorov, la Procura nazionale antiterrorismo ha infatti provveduto, ha reso noto ieri il magistrato Jean-François Ricard, a incriminare sette individui per avere ispirato o aiutato l'assassino a uccidere il professore, finito nel mirino dei fanatici islamisti per avere mostrato durante una lezione ai suoi studenti delle vignette ironiche sul credo maomettano. Contestualmente all'incriminazione dei sette sospettati, gli inquirenti hanno provveduto a prosciogliere da ogni accusa nove persone indagate in precedenza con l'accusa di essere implicate nella pianificazione del fatto di sangue. Per la Procura, Anzorov non avrebbe affatto agito come un folle "lupo solitario", ma avrebbe agito in piena lucidità e avrebbe inoltre goduto della collaborazione di diversi complici, tutti uniti dall'odio verso il professore dedito all'insegnamento del valore della libertà di espressione. Nel dettaglio, tra i sette individui indagati ultimamente, ha spiegato alla stampa RIcard, figurerebbero innanzitutto due minorenni: un 14enne e un 15enne. Entrambi frequentavano la scuola media dove insegnava Paty e avrebbero fornito, sostiene l'accusa, supporto al boia ceceno aiutando quest'ultimo a identificare l'insegnante. In cambio del loro aiuto, i due alunni avrebbero ricevuto dall'assassino 300-350 euro. L'islamista si sarebbe guadagnato la collaborazione dei minorenni assicurando loro di non volere ammazzare il docente, ma di volerlo solo "umiliare e picchiare" e poi costringerlo a "chiedere perdono" per avere mancato di rispetto alla fede coranica. Altri tre dei sette sospettati, ha proseguito Ricard, avrebbero contribuito alla preparazione dell'attentato aiutando l'assassino a rifornirsi di armi e fornendogli un passaggio in auto. Nel dettaglio, due degli indiziati citati, il giorno prima della mattanza, sarebbero andati con il boia 18enne in una coltelleria per acquistare il pugnale di 30 cm di lama, impiegato poi per la decapitazione di Paty, e una pistola da softball. Entrambi gli utensili sono stati ritrovati alla fine sulla scena del delitto. Il secondo individuo, un diciottenne, avrebbe invece dato uno strappo in macchina al terrorista. Gli ultimi due dei sette indiziati sarebbero, ad avviso degli inquirenti, i mandanti del crimine: Brahim Chnina e di Abdelhakim Sefrioui. Il primo è il genitore di una studentessa della scuola in cui insegnava Paty e, qualche giorno prima dell'assassinio, aveva pubblicato su Internet frasi offensive e diffamatorie verso l'insegnante, accusandolo di essere un poco di buono. Quanto al secondo, si tratta di un sedicente imam con simpatie pro-Hamas, da tempo schedato dalle forze dell'ordine in quanto considerato una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale. A detta di Ricard, sarebbe stato Chnina a indurre in maniera decisiva il 18enne ceceno a compiere il folle gesto, come dimostrerebbero dei messaggi WhatsApp intercorsi nei giorni precedenti l'attentato tra il primo e il rifugiato ceceno. Il magistrato parigino ha quindi rimarcato l'influenza decisiva esercitata da tale mandante su Anzorov affermando che quest'ultimo avrebbe ucciso il docente in quanto "ispirato direttamente ai messaggi di Chnina". Mentre vanno avanti le indagini della Procura nazionale antiterrorismo sulla decapitazione di Paty, nel resto della Francia sono andati ultimamente a segno altri blitz delle forze dell'ordine sempre diretti a sventare complotti islamisti. Lunedì sono state appunto fermate e accusate di terrorismo a Brest, in Bretagna, sette persone, tra cui figurano individui già schedati dalle autorità come potenziali minacce alla sicurezza nazionale. Gli indiziati, sospettano i magistrati d'Oltralpe, stavano mettendo a punto un piano per un'azione violenta in Francia e per poi raggiungere l'Iraq o la Siria.

Estratto dell'articolo di Anais Ginori per “la Repubblica” il 25 ottobre 2020. Nuovo scontro tra Francia e Turchia. Recep Tayyip Erdogan è tornato ad attaccare il suo omologo Emmanuel Macron accusato di volere discriminare la numerosa comunità musulmana francese con le recenti misure varate contro il terrorismo islamico. «Vada a farsi dei controlli di salute mentale» ha detto il presidente turco in un discorso tv. Immediata la reazione dell' Eliseo. [...] Non è la prima volta che Erdogan insulta Macron in risposta alle critiche sul suo interventismo nelle varie crisi internazionali, dalla Libia alla Siria. Già l' anno scorso, aveva parlato di "morte cerebrale" del leader di Parigi, riprendendo un' espressione usata per evidenziare le divisioni tra alleati della Nato. [...] Durante l' estate Macron ha inviato due navi e dei caccia militari per difendere la sovranità marittima di Cipro e Grecia rispetto alle rivendicazioni del presidente turco. Erdogan è tornato all' attacco dopo l'annuncio di una legge francese contro il "separatismo" religioso che dovrebbe punire le violazioni della laicità e mettere fine al finanziamento straniero delle moschee e all' invio di imam di alcuni paesi arabi, tra cui quelli sempre più numerosi mandati dalla Turchia. Una "provocazione" secondo Erdogan. L'Eliseo ha fatto notare ieri che il leader turco non ha neppure inviato un messaggio di solidarietà alla Francia dopo che un terrorista ceceno ha decapitato il professore Samuel Paty. [...]  

Giordano Stabile per “la Stampa” il 27 ottobre 2020. È uno scontro di civiltà fatto per ora di insulti, boicottaggi, ambasciatori richiamati in patria. Il duello fra Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdogan si allarga, coinvolge gran parte del mondo musulmano, mentre l'Europa dà segnali di solidarietà anche se sembra restia a seguire il presidente francese nella lotta al «separatismo». E' stato questo l'innesco dell'incendio. Già a febbraio Parigi aveva preso di mira centri di culto e associazioni che predicano una visione militante dell'islam, in primo luogo la potente la Milli Gorus, cioè «visione nazionale», il braccio di Ankara in Europa con 500 moschee, 71 in Francia. Poi è arrivata la ripubblicazione delle vignette «blasfeme» su Maometto e, il 16 ottobre, la decapitazione di Samuel Paty. Macron ha parlato di «islam in crisi», ha promesso guerra senza quartiere ai jihadisti. Gli ha risposto Erdogan, pronto a ergersi come difensore dei musulmani. Lo ha accusato di ignoranza, lo ha invitato ad andare da uno psichiatra. I toni inusuali hanno spinto i leader europei a reagire. Il premier olandese Mark Rutte ha ribadito che «l'Olanda è dalla parte della Francia nella difesa della libertà di parola». Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha accusato il presidente turco di essere caduto «in basso». Ma ieri Erdogan ha rincarato la dose, ha definito i leader europei «nazisti» e «persecutori dei musulmani» in un clima da «anni Trenta». Parole che la comunità ebraica, con la presidente Ruth Dugherello, ha definito «inaccettabili», una «banalizzazione» della Shoah. Preoccupazione ribadita anche dalla Farnesina. E in questo clima si gioca domani la partita di Champions fra Psg e Basaksehir, squadra fondata da Erdogan all'inizio della sua carriera. Lo scontro è a tutto campo. Il leader turco ha invitato i cittadini a «non comprare più prodotti francesi». Una mossa che segue quello che da giorni sta già accadendo. Formaggi e profumi buttati giù dagli scaffali, mentre la dirigenza delle grandi catene blocca gli acquisti. In Turchia come in Qatar, o in Kuwait, dove i negozi hanno tolto i cosmetici dell'Oréal. A Gaza, nelle zone sotto il controllo dei ribelli in Siria, in Bangladesh, Indonesia, folle inferocite hanno bruciato ritratti di Macron e bandiere tricolori. Il governo libico di Tripoli ha chiesto le «scuse» dell'Eliseo. Il Pakistan ha convocato l'ambasciatore a Islamabad. Il premier Imran Khan usa le stesse argomentazioni di Erdogan, ha scritto una lettera aperta a Facebook e chiesto che combatta «l'islamofobia» come ha fatto con i negazionisti dell'Olocausto. Lo scontro è politico e culturale. Ne è convinto Macron. In un tweet in arabo ha invitato a un dibattito «ragionevole» ma anche ribadito che non retrocederà nella lotta contro una «minoranza estremista». Il mondo musulmano è diviso. Sunniti contro sciiti, ma ancor più due blocchi sunniti, uno guidato dalla Turchia, l'altro da Arabia Saudita ed Emirati. Le carte si mescolano. L'Iran sciita simpatizza con Ankara, potenza sunnita. Il ministro degli Esteri Javad Zarif si è rivolto a Macron su Twitter e lo ha accusato di «abusare della libertà di parola nella condanna di crimini odiosi» come l'assassinio di Paty, e di «alimentare l'estremismo». Invece i Paesi sunniti ostili alla Turchia- anche Bahrein, Egitto, Giordania - sono in silenzio e di fatto appoggiano la Francia. A Riad, ad Abu Dhabi monta un altro boicottaggio, quello contro i prodotti turchi. Un brutto segnale per l'economia anatolica, che rischia di perdere 5 miliardi di dollari di esportazioni. Ieri la lira è scesa sotto la quota psicologica di 8 per un dollaro. Ci potrebbero essere conseguenze anche in Europa. Le banche spagnole e tedesche sono esposte per decine di miliardi, mentre quelle italiane, a cominciare da Unicredit, hanno già ridotto i rischi.  

Vignetta di Charlie Hebdo contro Erdogan: mezzo nudo mentre scopre sedere a una donna. La vignetta anti-Erdogan di Charlie Hebdo si inserisce nel quadro di un duro scontro diplomatico tra le autorità francesi e quelle di Ankara. Gerry Freda, Mercoledì 28/10/2020 su Il Giornale. L’ultimo numero di Charlie Hebdo, settimanale satirico francese con uno spiccato gusto per la provocazione dissacrante, attacca direttamente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in persona, nel pieno di un duro scontro diplomatico tra Parigi e Ankara. Il dissidio in corso tra la Francia e il Paese anatolico è scaturito dalle recenti iniziative messe in atto dal presidente transalpino Emmanuel Macron in seguito all’uccisione del docente Samuel Paty, dirette contro l’islamismo radicale e a favore delle vignette satiriche su Maometto, ritenute dall’inquilino dell’Eliseo come un esercizio della libertà d’espressione. Il leader turco ha finora reagito alle esternazioni di Macron ergendosi a paladino della fede maomettana ed esortando i suoi connazionali a boicottare i prodotti d’Oltralpe, nonché ipotizzando addirittura che il leader di En Marche! possa avere problemi di salute mentale. L’ultima copertina ironica di Charlie Hebdo, svelata ieri alla vigilia della propria uscita in edicola, prende di fatto le difese del capo dello Stato francese, mettendo in ridicolo l’omologo asiatico. Nel numero in questione della rivista figura appunto una vignetta che prende in giro il politico anatolico, intitolata “Erdogan è molto scherzoso nella sua vita privata”. Il disegno canzonatorio vede il leader islamico mezzo nudo mentre alza la gonna a una donna velata. Nel dettaglio, il presidente turco è ritratto seduto su una poltrona e con indosso canottiera e slip mentre, con mezza pancia scoperta, con in mano una lattina e con un’espressione ammiccante, alza la gonna a una ridente donna vestita con il tradizionale velo islamico, scoprendole il sedere. Nel mostrare ai lettori il didietro della stessa donna, il finto e ammiccante Erdogan, con la lingua di fuori, esclama "Uuuuuh, il profeta!". Le autorità turche hanno immediatamente protestato contro la pubblicazione della vignetta incriminata, accusando la dissacrante rivista di “razzismo culturale”. In particolare, Fahrettin Altun, capo dell’ufficio-stampa di Erdogan, ha tuonato: “La campagna anti-islam del capo di Stato francese Macron sta producendo i suoi frutti! Charlie Hebdo ha appena pubblicato delle sedicenti vignette zeppe di immagini apertamente offensive verso il nostro presidente. Condanniamo i vomitevoli sforzi di quel periodico di propagandare il suo razzismo culturale e il suo odio”.

La Francia e l'eterna domanda sull'Islam: è compatibile con una Repubblica laica? La decapitazione di Samuel Paty ha riacceso l'angoscia per il pericolo radicale. E rialimenta il dibattito sul rapporto tra lo stato e il culto. Anna Bonalume su L'Espresso il 26 ottobre 2020. La Repubblica è sotto attacco. Il 16 ottobre la polizia ha ritrovato nella banlieue ovest di Parigi un corpo senza testa: è il cadavere di un insegnante di storia delle scuole medie di Conflans. La testa giace qualche metro più in là. Il colpevole, ucciso dalla polizia, è un 18enne di origine cecena che avrebbe rivendicato l’atto a sfondo religioso su Twitter: l’insegnante avrebbe mostrato delle caricature di Maometto in classe durante un’ora di lezione sulla libertà d’espressione. L’atto è stato immediatamente definito «attentato terrorista islamista» da Emmanuel Macron. L’emozione nazionale è intensa: si parla della guerra tra noi e «loro, i terroristi». In effetti l’omicidio del professore.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Ci chiamiamo La Verità, ma oggi la verità non ve la possiamo far vedere. La verità è la testa insanguinata di Samuel Paty, professore di storia, geografia, educazione civica e morale nella scuola di Conflans-Sainte-Honorine, tranquilla cittadina a 25 chilometri da Parigi. In questo borgo dove la Senna e l' Oise confluiscono e i monaci per centinaia di anni custodirono le reliquie della santa normanna, un rifugiato ceceno venerdì ha sgozzato un insegnante del liceo, colpevole di aver mostrato a suoi studenti le vignette di Charlie Hebdo che raffigurano Maometto, e che già il 7 gennaio di cinque anni fa sono costate la vita a 12 persone tra giornalisti e impiegati del settimanale satirico francese. Paty voleva spiegare ai suoi studenti quanto sia importante la libertà di espressione e che cosa significhi la tolleranza nei confronti di idee diverse dalle nostre. Non sappiamo se sia riuscito a convincere i ragazzi dell' importanza di rispettare chi non la pensa come noi, rappresentando i valori delle democrazie occidentali, che della libertà di stampa e di pensiero hanno fatto un baluardo. Sappiamo però che per aver osato parlare dell' argomento, e aver avuto il coraggio di mostrare le vignette messe all' indice dai fondamentalisti islamici, Paty ha pagato con la vita. Un ragazzo di 18 anni, accolto in Francia con lo status di perseguitato, ha percorso più di 100 chilometri per arrivare a Conflans-Sainte-Honorine, che probabilmente fino a qualche giorno prima mai aveva sentito nominare. Così come non conosceva la città, il giovane ceceno non conosceva neppure il professore, al punto che prima di accanirsi su di lui ha dovuto chiedere informazioni per essere certo di non sbagliare. Probabilmente, qualcuno lo aveva incaricato di punire l' uomo che aveva osato far vedere una vignetta che irrideva Allah e l' assassino ha portato a termine senza esitazioni la sua missione, decapitando l' infedele. Dopo aver ucciso il professore colpevole di aver affrontato l' argomento della libertà di stampa, del diritto di satira e del principio di tolleranza, il killer ha postato sui social la fotografia della sua testa insanguinata gettata in mezzo alla strada. Probabilmente, per l' omicida e i suoi complici questo avrebbe dovuto rappresentare un monito per tutti gli infedeli. Ma appena i social media manager che vigilano sulla Rete si sono accorti dell' immagine truculenta hanno provveduto a rimuoverla, perché dell' assassinio del professor Paty, reo di voler discutere di integralismo e fanatismo religioso, non restasse traccia. Su Facebook, su Twitter e sulle altre piattaforme di condivisione di video e notizie può circolare ogni cosa, gli insulti, le minacce e anche le volgarità. Ma la fotografia di un uomo che ha pagato con la vita la voglia di discutere no, non può essere diffusa. Mostrare una fotografia per far comprendere fin dove possa arrivare l' odio religioso e fin dove possa spingersi l' integralismo non è possibile. La legge, quella italiana in particolare, punisce chiunque pubblichi immagini impressionanti o raccapriccianti. In Rete o sui giornali possono essere diffuse fotografie pornografiche o anche semplicemente scandalose, ma lo scatto che rappresenti la morte no. Per l' immagine di Aldo Moro ucciso dalle Br e rinchiuso nel bagagliaio di una Renault ci fu un processo. E io stesso fui giudicato dall' ordine dei giornalisti per aver pubblicato sul giornale che anni fa dirigevo l' immagine di un bambino mai nato, ossia il corpo di un «feto» di nove mesi (ma si può chiamare feto un neonato non ancora partorito?) che il padre aveva ucciso insieme alla madre che lo portava in grembo. La foto del bambino mai nato non mostrava una goccia di sangue, ma solo un corpo rivestito con la cuffietta e il pigiamino azzurri, con cui i nonni lo avevano rivestito dopo l' autopsia della mamma. Tuttavia, per i guardiani della deontologia professionale, quello scatto era in grado di sconvolgere l' opinione pubblica e per questo andava censurato. Anche la testa del professor Paty, martire della libertà di espressione, potrebbe scuotere la coscienza dell' opinione pubblica e probabilmente molto più del corpo di bambino mai nato. Per questo non la si può, ma forse sarebbe meglio dire che non si deve, vedere. La morte è sempre uno scandalo, ma se poi la morte arriva per mano dei seguaci di una religione è uno scandalo doppio. Sì, noi ci chiamiamo La Verità e la verità ve la vogliamo raccontare. Oggi siamo costretti a non farvela vedere, ma anche se censurata dai pixel la verità non possiamo tacerla.

Nuove scintille tra Parigi e Ankara. Erdogan: «Difendere Maometto è una questione di onore». Il Dubbio il 28 ottobre 2020. La procura generale della capitale turca ha aperto un fascicolo nei confronti della rivista francese Charlie Hebdo dopo la pubblicazione di una vignetta satirica sul presidente Erdogan. La procura generale della capitale turca Ankara ha aperto un fascicolo di indagine nei confronti dei vertici della rivista satirica francese Charlie Hebdo, in seguito alla pubblicazione di una vignetta con cui viene preso in giro il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. La vignetta che appare sulla copertina del numero in edicola oggi è già stata condannata dai vertici politici turchi, e il capo della comunicazione della presidenza, Fahrettin Altun, subito dopo l’apertura dell’indagine ha confermato che ci saranno «ripercussioni legali e diplomatiche» della vicenda. «Le pubblicazioni di Charlie Hebdo non fanno altro che fomentare un sentimento anti turco e anti Islam purtroppo vivo in Europa e per questo tali scandalose caricature devono essere condannate con forza», si legge nel comunicato emesso da Atun. La copertina sotto accusa mostra il presidente turco Erdogan seduto in mutande con una bibita in mano e la lingua di fuori mentre alza la gonna mettendo in mostra le natiche di una donna velata, dicendo (in un fumetto): «Uuuuuh, il profeta!». Il titolo è «Erdogan, nel privato è molto simpatico». Negli ultimi giorni, il leader turco aveva già attaccato il presidente francese Emmanuel Macron per la sua politica contro il «separatismo islamico», ipotizzando addirittura che potrebbe avere problemi di salute mentale e suscitando un’ondata di indignazione in tutta Europa, oltre che il richiamo dell’ambasciatore francese ad Ankara. «Se rimanessimo in silenzio sugli attacchi contro la nostra religione e il nostro profeta saremmo dei morti», ha dichiarato in un discorso alla nazione il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. «Reagire agli attacchi contro il nostro profeta è per me una questione di onore», ha aggiunto Erdogan. «Stiamo attraversando un periodo in cui l’Islam e l’islamofobia e la mancanza di rispetto per il Profeta si sono diffusi come il cancro, soprattutto tra i governanti in Europa. Ho sentito che la rivista, che pubblica vignette brutte e immorali in Francia, mi prende di mira con un fumetto. Non ho guardato il fumetto perché lo considero crudele anche per la reputazione». «Che cosa sono, non ho bisogno di dire nulla sulle canaglie che hanno insultato il mio amato profeta. Sappiamo che l’obiettivo non siamo noi personalmente, ma i nostri valori che difendiamo. La mia rabbia è che la rivista sia fonte di mancanza di rispetto per il nostro Profeta», ha concluso il capo di Stato turco.

"Charlie" lascia Erdogan in mutande. Il leader turco querela per la copertina che lo irride. Ma la Francia non si scusa. Francesco De Remigis, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Si alzano i toni e si riempiono le piazze. Un film già visto. Così, da scelte di spirito politicamente scorretto, Charlie passa al «ciò che è giusto» fare: una prima pagina con Erdogan in maglietta e biancheria intima, che tiene una lattina in una mano mentre con l'altra solleva l'abito di una donna, velata, che porta un vassoio e due calici di vino. Per il consigliere stampa del presidente turco, Fahrettin Altun, è frutto del «programma anti-musulmano di Emmanuel Macron». «Condanniamo il loro razzismo e odio culturale», scrive su Twitter. E mentre dai market della Mezzaluna spariscono i prodotti francesi, Erdogan prepara il partito alla rappresaglia: «Vogliono rilanciare le crociate» tuona in aula. Charlie diventa ancora una volta il perno, le sue scelte editoriali un segno dei tempi, di una società già colpita dal terrorismo di matrice islamica, e di nuovo sotto minaccia, che deve scegliere come rispondere. Lo fa con pungente ironia: di fronte a natiche nude e paffute, il presidente turco, con la lingua di fuori, ride «Ouuuh! Il Profeta!». «Erdogan, nel settore privato, è molto buffo», è il titolo sul disegno firmato Alice. «Non ho visto la caricatura, sono furfanti» dice il sultano. Ma annuncia «necessarie azioni giudiziarie e diplomatiche». In Francia uniti per difendere la libertà di espressione, anche la più dissacrante. Nel mondo arabo, cori di condanna. Dal Pakistan al Marocco. Tutti o quasi contro il capo di Stato francese che sostiene Charlie e le sue caricature. Erdogan, dopo aver messo in dubbio la «salute mentale» di Macron, ha invitato i funzionari europei a porre fine alla «campagna di odio» contro i musulmani «guidata» dall'Eliseo; invito rispedito al mittente dall'Ue. Dalle polemiche, il sultano è passato quindi all'azione: la Francia non si scusa. Tanto meno il settimanale, che rilancia pubblicando ieri un disegno proprio su Erdogan. Rappresaglia giudiziaria e diplomatica, dunque, ma dal movente religioso. Dall'Iran all'Egitto. «La rabbia non è dovuta al vile attacco alla mia persona, ma agli insulti contro il Profeta» insiste Erdogan. Più virulento, il suo ministro alla Cultura. Un tweet, in francese, con bersaglio Charlie: «Siete dei bastardi, figli di cani». Due giorni fa, un fotomontaggio che raffigurava proprio un cane con la testa di Macron è stato bruciato ad Aleppo. Dalla Siria al Bangladesh, insulti ben oltre il dileggio. Che nel mondo islamico suonano come fatwa. Contro Macron, difensore delle libertà rivendicate dai vignettisti. E contro Charlie su cui, ieri, la procura di Ankara ha aperto un'inchiesta per offesa al capo dello Stato turco. In passato, prima che la Francia subisse attacchi terroristici motivati dalla pubblicazione delle vignette di Maometto, Parigi aveva cercato di smorzare i toni della suscettibilità del mondo musulmano, talvolta prendendo le distanze dallo stesso settimanale. I «Sì, però» furono tanti, nel 2006. Macron, invece, tira dritto. Dopo la decapitazione del professor Paty, ucciso per aver mostrato in classe delle caricature, cambia approccio rispetto a Jacques Chirac, che a suo tempo bollò l'ironia di Charlie come «provocazioni da evitare»: le vignette danesi portarono il settimanale in tribunale. La corte riconobbe il diritto alla blasfemia, l'Eliseo disapprovò. Oggi il settimanale che ha cambiato l'agenda politica francese continua a influenzare la Storia. Ma c'è chi ancora fa dei distinguo: Bruno Retailleau, per esempio, presidente del gruppo gollista Les Républicains al Senato, dice «sì alla caricatura» ma «con rispetto». La paura colpisce l'aula. Ma le matite ben temperate di Charlie non si spezzano. Ankara scatena politici, avvocati, diplomatici. E Macron risponde colpo su colpo.

Aggressivo, cinico e doppiogiochista. Il Sultano non può restare nella Nato. Insulta gli alleati, scatena "guerre sante", provoca i Paesi vicini occupa spazi non suoi: ora è un dittatore e come tale va trattato. Livio Caputo, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. «Fascisti!», «Nazisti!», «Persecutori di musulmani!». L'improvviso torrente di invettive lanciato dal presidente turco Ergodan in primo luogo contro Macron, ma anche contro Angela Merkel e altri leader europei riporterà inevitabilmente di attualità un tema esplosivo, che le stesse cancellerie dei Paesi della Nato hanno finora esitato ad affrontare. La domanda che scotta è se conviene mantenere la Turchia nell'Alleanza nonostante la politica imperiale e aggressiva di Erdogan, che ormai va quasi sempre contro gli interessi degli altri Stati membri. Fino adesso è prevalsa la prima tesi, ma le vicende degli ultimi giorni, inserendosi in un quadro complessivo che vede una insofferenza sempre più diffusa verso una politica turca che investe ormai Mediterraneo, Medio Oriente, Africa, Caucaso non potranno non influire sulla situazione. Fino a ieri i Paesi più direttamente coinvolti erano la Grecia e Cipro, con cui esistono antichi contenziosi, ma gli anatemi lanciati da Erdogan contro tutta l'Europa, dalla Francia «colpevole» di continuare a difendere la pubblicazione delle vignette contro Maometto alla Germania dove vivono cinque milioni di turchi hanno creato uno scenario nuovo. Cresce anche il coinvolgimento dell'Italia, che si è già fatta sottrarre dai turchi la posizione privilegiata che aveva in Tripolitania e vede ora minacciati i suoi diritti alle risorse di idrocarburi del Mediterraneo orientale. L'atteggiamento degli Stati Uniti rimane invece ondivago. Nella confusione che regna attualmente al Dipartimento di Stato c'è chi ritiene ancora Erdogan un alleato utile contro le mire espansionistiche della Russia, chi invece teme che alla fine le due potenze troveranno un accordo che si ritorcerebbe contro l'America. Al di fuori della Nato c'è poi il Vaticano, dove hanno preso assai male la trasformazione di Santa Sofia in moschea e l'aperto sostegno di Ankara all'aggressione azera al Nagorno Karabak, che puzza tanto di tentato genocidio della popolazione cristiana. I mutamenti della politica turca da quando Erdogan ha assunto i pieni poteri (praticamente a vita) sono stupefacenti, come se il Paese avesse cambiato pelle: i politologi discutono se definirla neo-ottomana o post imperiale, ma la realtà è più complessa. Decisiva, non solo sul piano interno, ma anche in proiezione esterna, è la trasformazione da Stato laico in stato di stretta (anche se talvolta strumentale) osservanza musulmana. Il sultano vuole presentarsi al mondo islamico come l'autentico difensore della fede, ma nello stesso tempo vuole ritagliarsi anche un ruolo decisivo nelle dispute regionali, senza peraltro trascurare le relazioni più a lungo raggio: per esempio, pur atteggiandosi a protettore delle popolazioni musulmane perseguitate, non ha mai proferito parola in difesa degli Uiguri per non irritare la Cina. L'attivismo della Turchia sulla scena internazionale è decisamente superiore al suo peso economico. Con una popolazione di 85 milioni di abitanti, il suo Pil è un terzo di quello italiano e la sua economia, dopo un periodo di splendore dovuto agli investimenti stranieri, fa oggi acqua da tutte le parti. Ma per gli obbiettivi di Erdogan, come la penetrazione in Africa, i mezzi si trovano sempre. Basti dire che le ambasciate turche sono passate da 14 a 41 e l'interscambio con l'Africa supera i 200 miliardi di dollari annui. Per marcare la sua presenza, che spesso assume tratti antioccidentali, Ankara ha costruito a Mogadiscio una base da 50 milioni di dollari. Cosa sarebbe accaduto se le trattative con il primo Erdogan, allora democratico e filoeuropeo, per l'ingresso della Turchia all'Ue fossero andate a buon fine? Avremmo un personaggio dominante in casa, con alle spalle il Paese più popoloso (e al 99% musulmano) della Ue. Forse Sarkozy, che mandò tutto all'aria, non aveva tutti i torti.

Niente lezioni da chi protegge i terroristi. Le vignette di Charlie Hebdo non sempre fanno ridere. Ma sanno sempre farci indignare. Gian Micalessin, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Le vignette di Charlie Hebdo non sempre fanno ridere. Ma sanno sempre farci indignare. La loro vera forza sta nella capacità di svelare gli obbiettivi e le mire più recondite dell'islamismo fondamentalista assai più impegnato ad imporci il suo credo che non a fermare la rabbia assassina dei terroristi pronti a uccidere e massacrare nel nome dello stesso credo e delle stesse regole. Il presidente Recep Tayyp Erdogan impersonifica alla perfezione questo modo di pensare e agire. Non a caso è stato, e continua ad essere, un esponente di quella Fratellanza Musulmana decisa ad imporre la legge del Corano alle nazioni musulmane e al resto del mondo. L'Erdogan indignato per la vignetta di Charlie Hebdo, e pronto a trascinare e in tribunale chi prende in giro lui e il Profeta, è lo stesso che nel 2015 si guardò bene dal consegnare ad un tribunale Hayat Boumedienne, la compagna di quel Amedy Coulibaly protagonista degli attentati messi a segno dopo la strage nella redazione del giornale satirico. In quelle ore Hayat Boumedienne fuggì in Turchia, ma gli uomini del Sultano si guardarono bene dal fermarla. E così grazie a quella complice indifferenza Hayat Boumedienne potè raggiungere la Siria e i territori controllati dallo Stato Islamico. Prima e dopo Hayat altri 5000 militanti islamisti provenienti dall'Europa hanno approfittato della disponibilità di Ankara per raggiungere le terre del Califfato. Con la stessa indifferente arroganza con cui contribuì ad ingrosssare le fila dell'Isis Erdogan continua oggi a utilizzare i reduci dello Stato Islamico e della galassia islamista siriana e irachena per allargare la propria sfera d'influenza. Grazie ai soldi garantiti da Ankara le compagnie di ventura jihadiste combattono dalla Siria alla Libia e al Nagorno Karabakh. Il comportamento di Erdogan altro non è se non la proiezione a livello geopolitico dell'arroganza di chi arrivato in Europa chiedendo asilo e ospitalità pretende poi di imporre le leggi del Corano prima alla propria comunità e poi alla nazione di cui è ospite. Per questo l'ipocrisia del Sultano, come fa capire Charlie Hebdo, può anche sembrare «simpatica» finchè resta privata, ma diventa intollerante, aggressiva e potenzialmente assassina se lasciata impunemente dilagare.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 28 ottobre 2020. La marea anti-francese cresce di giorno in giorno, dilaga nel mondo musulmano e anche Paesi alleati dell' Occidente si allineano nella condanna delle vignette su Maometto e degli «abusi della libertà di espressione» che Emmanuel Macron avrebbe avallato. E' un' ostilità incontenibile che rischia di isolare Parigi in un vasto arco che va dal Marocco al Bangladesh, e potrebbe spingere a nuovi attacchi, come quello che è costato la vita al professore di storia Samuel Paty. Parigi ha già chiesto «maggiori precauzioni» ai suoi cittadini che vivono o sono in viaggio in Paesi a maggioranza musulmana e ha rafforzato la sicurezza attorno ai siti religiosi in patria. L' insurrezione delle masse dietro il vessillo del Profeta segna un punto a favore di Recep Tayyip Erdogan, il primo a cavalcare l' onda, e adesso inseguito da altri governi e autorità nella regione, che temono di passare per «anti-islamici». La giornata di ieri è cominciata con una massiccia manifestazione a Dacca, capitale del Bangladesh, dove 40 mila persone hanno brandito caricature di Macron, dipinto come un demonio, e hanno chiesto la cacciata dell' ambasciatore francese. Sui cartelli si leggeva «Stop all' islamofobia», «Boicottiamo la Francia», «Assediamo l' ambasciata», il punto di arrivo del corteo. Il leader del gruppo integralista Andolan Bangladesh, Atiqur Rahman, ha ripreso le parole di Erdogan e ribadito che il leader transalpino ha bisogno «di cure mentali», oltre a essere «un adoratore di Satana». Proteste simili sono state inscenate dalla Mauritania al Pakistan e all' Indonesia, passando per i Paesi del Golfo come Qatar e Bahrein, o africani come la Tanzania. In Turchia è stato il sindacato legato all' Akp, il partito di Erdogan, a mobilitarsi in tutti i capoluoghi di provincia, mentre il Parlamento ha approvato una risoluzione che critica Macron e chiede un boicottaggio sistematico, nonostante Bruxelles abbia avvertito che così «si allontana l' adesione all' Ue». L' hanno votata tutti i partiti, a parte di curdi dell' Hdp. Ma quello che è più preoccupante, per la Francia, è l' allineamento di alcuni suoi alleati tradizionali. In Arabia Saudita il ministero degli Esteri ha stigmatizzato «qualsiasi tentativo di collegare islam e terrorismo» e denunciato «le vignette offensive del Profeta». Il Consiglio dei saggi musulmani, con sede a Abu Dhabi e presieduto dal grande imam dell' università egiziana di Al-Azhar, ha annunciato che querelerà Charlie Hebdo e «chiunque offenda l' islam e i suoi simboli sacri». Gli ha risposto l' associazione degli imam di Francia, secondo i quali è Erdogan «a fare danni». La campagna di boicottaggio è tracimata anche in Giordania, mentre in Qatar si è aggiunta la catena di supermercati Al-Meera, con più di 50 filiali. Persino il presidente della Cecenia Ramzan Kadyrov ha accusato Macron di «aver offeso due miliardi di musulmani». Proprio mentre il ministro degli Interni transalpino Gérald Darmanin era a Mosca per discutere con Vladimir Putin sulla minaccia dei jihadisti ceceni. Parigi teme nuovi attacchi. Il Quai d' Orsay ha alzato il «livello di allerta» in una dozzina di Paesi attraversati dalle proteste più dure.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 28 ottobre 2020. La strategia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan nei recenti attacchi forsennati al suo omologo francese Emmanuel Macron e all' Unione Europea è chiara: ergersi a leader e difensore dei musulmani nel mondo contro un Occidente sordo ai giusti valori. E, per ora, questa politica ha pagato. Ieri il «Grand' uomo», come lo chiamano ormai in patria, ha incassato il pieno appoggio del Parlamento turco. A votare il testo che condanna le azioni del leader dell' Eliseo sono stati anche due dei tre partiti di opposizione: i repubblicani secolaristi del Chp e i nazionalisti dell' Iyi Parti di Meral Aksener. «Ogni tensione in politica estera - spiega al Corriere Çan Dundar, l' ex direttore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet - lo aiuta a distogliere l' attenzione dal disastro dell' economia turca e lo fa risalire nei sondaggi. Contro Macron è riuscito persino ad avere il consenso dei socialdemocratici. Cos' altro potrebbe volere?». Quello che Erdogan non ha proprio digerito è stato l' annuncio di Macron, all' indomani della decapitazione di Samuel Paty a Parigi, di voler rafforzare i controlli sui luoghi di culto musulmani e porre fine all' arrivo di imam dall' estero (per una buona metà turchi). Nel mirino c' è il movimento religioso Millî Görü (Visione Nazionale) che è il braccio armato di Ankara in Europa con 500 moschee di cui 71 solo in Francia. Fondato nel 1969 dall' ex premier Erbakan e diffuso in molti Paesi dell' Unione Europea, tra cui l' Italia, l' organizzazione afferma che l' ordinamento della società occidentale è profondamente sbagliato e che il declino del mondo musulmano è il risultato della sua imitazione dei valori occidentali. Ankara, attraverso l' Unione degli affari culturali turco-islamici (Ditib), investe ogni anno ingenti risorse per promuovere l' islam turco all' estero, soprattutto in Francia, e ora rischia di avere le mani legate. Nei primi anni 2000 e anche oltre la Turchia poteva vantare un ruolo positivo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. L' economia cresceva a un ritmo importante e il suo governo veniva additato come un esempio di democrazia. Oggi la lira turca è ai minimi storici, l' inflazione galoppa e il debito del Paese aumenta. In politica estera si è passati dalla famosa filosofia «zero problemi con i vicini», coniata dall' allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, all' odierna «zero vicini amici». Non solo la Grecia e l' Armenia ma anche l' Iraq, l' Egitto, la Siria, gli Emirati Arabi, per citarne alcuni. Recentemente in Arabia Saudita è stata lanciata una campagna per boicottare i prodotti turchi che ha avuto successo in diversi Paesi, tra cui il Marocco, l' Egitto, il Bahrein e gli Emirati. In più c' è da mettere in conto la minaccia di sanzioni da parte degli Stati Uniti e dell' Unione Europea esasperate dalle continue provocazioni di Erdogan. Per uscire dall' angolo e riconquistare consensi «il Sultano» deve attaccare. Qualche settimana fa l' istituto di sondaggi Avrasya lo dava perdente in un' ipotetica sfida alle presidenziali del 2023 contro il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu. Oggi, però, il presidente turco ha ribaltato il tavolo e si è imposto come portatore di una «rivoluzione culturale». Dal Medio Oriente all' Asia centrale decine di migliaia di persone ma anche governi si sono uniti alla protesta contro la Francia. E la sua popolarità in patria è risalita. «Erdogan vive di conflitti, esagerazioni e manipolazioni. Mi ricorda, in piccolo, Slobodan Milosevic nei primi anni '90. Solo i russi riescono a tenergli testa perché usano i suoi stessi metodi - dice al Corriere Cengiz Aktar, docente di scienze politiche all' Università di Atene, un passato nelle Nazioni Unite e nell' Unione Europea -, gli occidentali pensano ancora di poterci dialogare, di riuscire a farlo sedere a un tavolo. Non hanno capito che più cercano di placarlo, più lui diventa aggressivo». La Libia, il Nagorno-Karabakh, la Siria, la questione curda, Kastellorizo, Cipro. Tanti fronti aperti. «Tutto ciò finirà male - continua Aktar -, l' economia potrebbe arrivare presto al collasso e per gli europei ciò significherebbe l' arrivo di migliaia di profughi, turchi non siriani». Il problema è che le crisi e le polemiche create all' estero, prima o poi, avranno una ripercussione sulla situazione economica. In poco tempo la Turchia potrebbe ritrovarsi molto esposta finanziariamente e totalmente isolata. Quando questo succederà l' opinione pubblica darà la colpa ad Erdogan. Una richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale potrebbe comportare anche una serie di vincoli in politica estera. A quel punto il «Sultano» non potrà più mostrare i muscoli e da salvatore e difensore del mondo musulmano contro il cattivo Occidente diventerà il presidente di una nazione pária. L' economia è il suo tallone d' Achille.

Francesco De Remigis per “il Giornale” il 29 ottobre 2020. Si alzano i toni e si riempiono le piazze. Un film già visto. Così, da scelte di spirito politicamente scorretto, Charlie passa al «ciò che è giusto» fare: una prima pagina con Erdogan in maglietta e biancheria intima, che tiene una lattina in una mano mentre con l' altra solleva l' abito di una donna, velata, che porta un vassoio e due calici di vino. Per il consigliere stampa del presidente turco, Fahrettin Altun, è frutto del «programma anti-musulmano di Emmanuel Macron». «Condanniamo il loro razzismo e odio culturale», scrive su Twitter. E mentre dai market della Mezzaluna spariscono i prodotti francesi, Erdogan prepara il partito alla rappresaglia: «Vogliono rilanciare le crociate» tuona in aula. Charlie diventa ancora una volta il perno, le sue scelte editoriali un segno dei tempi, di una società già colpita dal terrorismo di matrice islamica, e di nuovo sotto minaccia, che deve scegliere come rispondere. Lo fa con pungente ironia: di fronte a natiche nude e paffute, il presidente turco, con la lingua di fuori, ride «Ouuuh! Il Profeta!». «Erdogan, nel settore privato, è molto buffo», è il titolo sul disegno firmato Alice. «Non ho visto la caricatura, sono furfanti» dice il sultano. Ma annuncia «necessarie azioni giudiziarie e diplomatiche». In Francia uniti per difendere la libertà di espressione, anche la più dissacrante. Nel mondo arabo, cori di condanna. Dal Pakistan al Marocco. Tutti o quasi contro il capo di Stato francese che sostiene Charlie e le sue caricature. Erdogan, dopo aver messo in dubbio la «salute mentale» di Macron, ha invitato i funzionari europei a porre fine alla «campagna di odio» contro i musulmani «guidata» dall' Eliseo; invito rispedito al mittente dall' Ue. Dalle polemiche, il sultano è passato quindi all' azione: la Francia non si scusa. Tanto meno il settimanale, che rilancia pubblicando ieri un disegno proprio su Erdogan. Rappresaglia giudiziaria e diplomatica, dunque, ma dal movente religioso. Dall' Iran all' Egitto. «La rabbia non è dovuta al vile attacco alla mia persona, ma agli insulti contro il Profeta» insiste Erdogan. Più virulento, il suo ministro alla Cultura. Un tweet, in francese, con bersaglio Charlie: «Siete dei bastardi, figli di cani». Due giorni fa, un fotomontaggio che raffigurava proprio un cane con la testa di Macron è stato bruciato ad Aleppo. Dalla Siria al Bangladesh, insulti ben oltre il dileggio. Che nel mondo islamico suonano come fatwa. Contro Macron, difensore delle libertà rivendicate dai vignettisti. E contro Charlie su cui, ieri, la procura di Ankara ha aperto un' inchiesta per offesa al capo dello Stato turco. In passato, prima che la Francia subisse attacchi terroristici motivati dalla pubblicazione delle vignette di Maometto, Parigi aveva cercato di smorzare i toni della suscettibilità del mondo musulmano, talvolta prendendo le distanze dallo stesso settimanale. I «Sì, però» furono tanti, nel 2006. Macron, invece, tira dritto. Dopo la decapitazione del professor Paty, ucciso per aver mostrato in classe delle caricature, cambia approccio rispetto a Jacques Chirac, che a suo tempo bollò l' ironia di Charlie come «provocazioni da evitare»: le vignette danesi portarono il settimanale in tribunale. La corte riconobbe il diritto alla blasfemia, l' Eliseo disapprovò. Oggi il settimanale che ha cambiato l' agenda politica francese continua a influenzare la Storia. Ma c' è chi ancora fa dei distinguo: Bruno Retailleau, per esempio, presidente del gruppo gollista Les Républicains al Senato, dice «sì alla caricatura» ma «con rispetto». La paura colpisce l' aula. Ma le matite ben temperate di Charlie non si spezzano. Ankara scatena politici, avvocati, diplomatici. E Macron risponde colpo su colpo.

"Islamici hanno diritto di uccidere i francesi". Bufera sull'ex premier malese. Twitter ha subito rimosso le parole infuocate dell’ex premier della Malesia, ma Parigi pretende la sospensione dell'intero profilo social di Mohamad. Gerry Freda, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. All’indomani dell’attentato islamista di Nizza, costato la vita a tre persone, l’ex primo ministro della Malesia Mahathir Mohamad è finito nella bufera per alcune dichiarazioni incendiarie, con cui ha espresso la tesi per cui i musulmani avrebbero il “diritto di uccidere i francesi”. Le parole incriminate del 95enne ex capo di governo, al potere nel Paese asiatico per un lasso di tempo complessivo pari a 24 anni, giungono proprio al culmine di settimane in cui le autorità d’Oltralpe, per la loro strenua difesa del “diritto alla blasfemia”, si sono trovate nel mirino di importanti esponenti della comunità maomettana globale. Ad attirare sulle istituzioni francesi, in particolare sul presidente Emmanuel Macron, le ire del mondo islamico è stato soprattutto il loro recente e aperto sostegno nei riguardi dei vignettisti di Charlie Hebdo, autori di numerose vignette dissacranti su Maometto e su diversi capi di Stato musulmani. Ultimamente, gli autori satirici in questione hanno messo in ridicolo il presidente turco Erdogan, venendo subito accusati da Ankara di odio verso l’islam. Mentre la Francia è ancora in preda allo choc dovuto all’attentato jihadista andato in scena a Nizza, hanno immediatamente causato grande indignazione nel mondo le parole pubblicate ieri su Twitter dal malese Mahathir Mohamad, anche se non esplicitamente attinenti a quanto avvenuto nel dipartimento delle Alpi Marittime. Mediante dei tweet infuocati, prontamente rimossi dai vertici dell’azienda digitale, l’ex premier asiatico, che a febbraio ha perso la guida del governo di Kuala Lumpur, ha innanzitutto postato l’affermazione per cui i musulmani dovrebbero ormai decidersi ad applicare la regola “occhio per occhio”, ossia la legge del taglione, per vendicarsi dei crimini commessi dalla Francia nella propria storia. Il popolo francese, a detta del politico 95enne, avrebbe in passato, al contrario degli islamici, fatto abbondante uso della legge del taglione e ciò impedirebbe agli stessi transalpini di ergersi a maestri di morale. Cittadini e autorità d’Oltralpe dovrebbero piuttosto impegnarsi senza sosta a insegnare ai propri connazionali il rispetto per le altre culture. La serie di tweet infuocati di Mohamad, autore in passato di frasi offensive verso ebrei e omosessuali, è quindi proseguita con la pubblicazione su Internet delle seguenti parole, poi oscurate dall'azienda americana: “I francesi, nel corso della loro storia, hanno ucciso milioni di persone. Molte di queste erano di fede musulmana. Gli islamici hanno quindi il diritto di essere arrabbiati e di uccidere milioni di francesi per i massacri del passato”. In precedenza, l’ex primo ministro della Malesia aveva pubblicato sul social citato delle considerazioni sull’assassinio del docente transalpino Samuel Paty, decapitato da un 18enne ceceno per avere mostrato in classe ai suoi studenti delle caricature su Maometto. In merito all’uccisione del professore, Mohamad, pur condannando la decapitazione di Paty, aveva puntualizzato: “Se tu non rispetti la religione professata dalla gente, la gente infuriata alla fine ammazza”. Il politico anziano si era inoltre contestualmente scagliato allora contro l’attuale inquilino dell’Eliseo, accusando Macron, colpevole di avere ribadito l’importanza in Francia della libertà di fare satira anche sulle religioni, di essere “estremamente selvaggio” e incivile. I tweet al vetriolo dell’ex capo di governo della Malesia hanno immediatamente suscitato un forte sentimento di ribrezzo nel mondo, con il premier australiano Scott Morrison che li ha bollati come “incomprensibili e abominevoli”. La reazione delle autorità di Parigi alle parole di Mohamad non si è fatta attendere. Cedric O, ministro transalpino per le Comunicazioni digitali, ha appunto appena affermato di avere sollecitato i vertici di Twitter a sospendere al più presto il profilo social ufficiale dell’ex capo del governo della Malesia.

Due virus letali scuotono la Francia: il Covid e il terrorismo. Dopo la decapitazione nella scuola, la strage di Nizza. Mentre la pandemia sembra fuori controllo. Ora il Paese dovrà  dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze. Anna Bonalume su L'Espresso il 29 ottobre 2020. Di nuovo confinata, di nuovo sotto attacco. Due settimane dopo lo shock della decapitazione di Samuel Paty, un altro attentato è avvenuto a Nizza. All’interno della Cattedrale Notre Dame de l’Assomption una donna è stata decapitata, un uomo pugnalato, mentre la terza vittima sarebbe stata uccisa in un locale davanti alla basilica, dove si era rifugiata. Il colpevole, che avrebbe ripetutamente gridato “Allah Akbar”, è stato colpito e ferito. La Procura nazionale antiterrorismo (PNAT)  ha annunciato di aver aperto un’indagine  per "omicidio e tentato omicidio in relazione a un'impresa terroristica" e "associazione di malfattori terroristica criminale". Nel 2016 Nizza è già stata colpita da un attacco terrorista realizzato con un camion che provocò 86 vittime e 458 feriti. Il sindaco di Nizza Christian Estrosi, membro del partito di destra I Repubblicani, ha scritto su& Twitter: “#Nizza06 è ancora una volta toccata nel suo cuore dall'islamofascismo, che non smetto mai di denunciare”. Il Consiglio del culto francese musulmano  ha invitato i musulmani di Francia  “ad annullare i festeggiamenti di Mawlid (commemorazione della nascita del profeta Maometto ndr) in solidarietà con le vittime” dell'attentato. Due virus letali scuotono la Francia in questo inizio d’autunno incerto : il terrorismo e il covid. Nuovi stati d’allerta e dispositivi sono stati applicati a tutto il paese per far fronte alle emergenze: prima “allerta massima” e poi “vulnerabilità elevata” per i contagi da covid in quasi tutti i dipartimenti, mentre il piano “vigipirata”, strumento di sicurezza e difesa contro il terrorismo, è stato portato al livello “urgenza attentato”. Come l’Italia, anche i vicini d’oltralpe sono soggetti alle imprevedibili evoluzioni della pandemia, ma devono confrontarsi con la difficile sfida di attacchi islamisti perpetrati da alcuni individui su tutto il territorio. Domenica 25 ottobre la Francia ha registrato un picco di contagi: più di 52.000 in 24 ore, mentre il 28 ottobre si contano  244 decessi per covid  solo negli ospedali. Mercoledì sera il presidente Macron ha annunciato un nuovo confinamento di un mese che consentirà però a lavoratori e studenti di continuare le loro attività (università escluse), permettendo anche le visite negli ospizi. A proposito dell’epidemia ha affermato che tutti in Europa “siamo travolti da una seconda ondata che sarà senza dubbio più dura e mortale”. Il ministro della salute Olivier Veran ha già parlato di una possibile “ terza ondata ”. Mentre la gestione della crisi sanitaria e la comunicazione delle decisioni strategiche del governo vengono criticate, crescono le tensioni intorno a Macron e a Charlie Hebdo. Duri attacchi provengono dal Medio Oriente dopo che il presidente francese ha difeso la libertà di caricatura del Profeta  nel corso dell’omaggio nazionale  al professore decapitato vittima di un attacco islamista. Dall’Università Sorbona di Parigi « il nostro luogo del sapere universale », « il luogo dell’umanesimo », come lui stesso l’ha definito, Macron ha evocato la difesa della libertà e dello spirito critico, affermando che « non rinunceremo alle caricature, ai disegni, anche se altri arretrano».  Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha reagito prima mettendo in discussione la "salute mentale" di Emmanuel Macron, poi invitando i cittadini a boicottare i prodotti a marchio francese. La Turchia e la Francia sono entrambe membri dell'alleanza militare della NATO, ma sono state in disaccordo su questioni quali la Siria e la Libia, la giurisdizione marittima nel Mediterraneo orientale e il conflitto nel Nagorno Karabakh. Il 12 ottobre, dopo l’Olanda e la Germania, la Francia ha annunciato di “sospendere qualsiasi progetto di esportazione in Turchia di materiale bellico che potrebbe essere usato nell'offensiva in Siria”. Di fronte alla reazione di Erdogan, Macron  ha richiamato l’ambasciatore francese ad Ankara  e diversi leader europei hanno espresso il loro sostegno al presidente francese, come il primo ministro olandese  Mark Rutte  e il portavoce della cancelliera Angela Merkel Steffan Seibert, il quale ha definito “diffamatorie” le dichiarazioni del presidente turco. Il presidente italiano Giuseppe Conte ha affermato su Twitter “le dichiarazioni del presidente Erdogan sul presidente Macron sono inaccettabili. Le invettive personali non aiutano l'agenda positiva che l'UE vuole perseguire con la Turchia, ma al contrario allontanano le soluzioni. Piena solidarietà con il Presidente @EmmanuelMacron”. I prodotti francesi sono stati tolti dagli scaffali dei supermercati di Doha, la capitale del Qatar. Sui social network sono stati diffusi video che mostravano gli scaffali dei supermercati in Giordania svuotati dei prodotti francesi o sostituiti da quelli di altri paesi. I video sono stati accompagnati dall’hashtag #FranceBoycott o #OurProphetIsARedLine ("Il nostro profeta è una linea rossa"). Lunedì il ministro iraniano degli affari esteri, Mohammad Javad Zarif, ha accusato la Francia « di alimentare l’estremismo» e di “insultare 1,9 miliardi di musulmani e i loro elementi sacri”.  Il fuoco si è riacceso quando, martedì sera, la rivista satirica francese Charlie Hebdo ha pubblicato online la nuova copertina che raffigura Erdogan in mutande mentre solleva il velo di una donna. Su Twitter Fahrettin Altun, il portavoce di Erdogan, ha accusato il giornale di " razzismo culturale " affermando che "l'agenda anti-musulmana del presidente francese Macron sta dando i suoi frutti". Dopo aver condannato l’attentato di Nizza il portavoce ha scritto “il nostro Presidente ha sempre fatto appello alla cooperazione contro il terrorismo e l'estremismo. Rinnoviamo ancora una volta questo appello mentre rifiutiamo la retorica e le azioni dannose contro la nostra religione e la nostra cultura senza badare alla sua fonte ideologica”. La Francia dovrà dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze, stretta nella doppia morsa del terrorismo e di un’epidemia che sembra fuori controllo.

Vittorio Feltri e lo sfogo dopo Nizza: "Dementi che ci voglio ammazzare, meglio morti di Covid che di islam". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020. Erdogan, di cui oggi su Libero si occupano Filippo Facci e Renato Farina, è come Osama bin Laden, quello delle Torri Gemelle abbattute a New York, e necessita di essere imbrigliato affinché la smetta di ammazzare gente in Europa, specialmente in Francia negli ultimi giorni. Persone sgozzate o addirittura decapitate in chiesa, uomini uccisi in giro per il globo in quanto accusati di essere infedeli. Molteplici azioni criminali per ritorsione motivata dal fatto che nel Paese di Macron circolano vignette che prendono per i fondelli il dittatore turco. In un mondo civile azioni simili sono intollerabili e vanno soffocate. Se non che il terrorismo musulmano è dilagante per una chiara ragione: i tifosi di Allah hanno invaso le Nazioni della Ue e sono al servizio di Erdogan, il quale ordina di trucidarci e i suoi sudditi obbediscono manifestando una crudeltà senza pari. Come si può fare per legare le mani al despota e a coloro che ne eseguono i precetti? Non ho mai visto nessun popolo vincere una guerra col pacifismo. Finché il Vecchio Continente sarà invaso dagli ex cammellieri, non avrà pace e dovrà subire ogni sorta di soperchierie. Il problema è semplice, sebbene risolverlo sarà complicato. Bisogna piantarla di patire l'immigrazione selvaggia degli islamisti e rimpatriare coloro che sono considerati minacciosi. Non esiste alternativa. Gli scontri di tipo religioso sono i più pericolosi perché sono effettuati da personaggi esaltati, disposti a crepare o a rischiare di essere annientati pur di assecondare il proprio cieco bigottismo. La teoria dell'accoglienza è una boiata pazzesca. La Francia è piena zeppa di teste calde e ciò la rende succube di potenziali delinquenti dei quali urge liberarsi se si intende evitare che i cittadini onesti finiscano al cimitero in abbondanza. Macron pare abbia capito che così non è lecito proseguire e ci auguriamo reagisca ai delitti con la dovuta prontezza. Corre l'obbligo di adottare le maniere forti. Altrimenti sarà una strage. Quanto a Erdogan, giova rammentare che qualche fesso pure in Italia premeva affinché la Turchia musulmana entrasse nell'Unione Europea. Una follia che abbiamo evitato per un pelo. Eppure non basta. Ora dobbiamo combattere contro i dementi che ci vogliono morti. Meglio perire di Covid che di mezzaluna. 

Vittorio Feltri e Nicola Porro nel mirino del leader islamico Piccardo: ecco perché dovrebbero tacere. Libero Quotidiano l'1 novembre 2020. Accade che il premier turco, Erdogan, tuoni contro la Francia. E accade che qualche terrorista sembri aver quasi tratto ispirazione da quanto detto da Erdogan: pochi giorni dopo, la strage in cattedrale a Nizza e gli attacchi in Francia. E così, in una normale dialettica democratica, c'è chi Erdogan lo attacca, lo critica, anche con toni aspri. E c'è chi eccepisce a queste critiche parlando di "propaganda anti turca" e compilando le liste di "colpevoli". Si tratta di Davide Piccardo, leader della comunità islamica milanese, il quale parla di "turcofobia della stampa italiana". E come detto, fa i nomi di quelli che 'non vanno bene', ossia Vittorio Feltri, Fiamma Nirenstein, Nicola Porro e Giulia Belardelli, definiti "gli alfieri della propaganda anti turca di matrice isalmofoba". Persone che insomma andrebbero fermate per contrastare "questo flusso incontrollato di antipatica disinformazione". Parole, inaccettabili, che trovano diritto di cittadinanza su La Luce, quotidiano online che organizza sit-in contro le offese a Maometto delle "massime istituzioni francesi", che è un po' la teoria di Erdogan. Nel dettaglio, Feltri viene attaccato per aver paragonato il premier turco a Osama Bin Laden, chiedendo che "venga imbrigliato affinché la smetta di ammazzare gente in Europa, specialmente in Francia negli ultimi giorni". Opinione forte, come sempre, quella del direttore. Opinione che spinge Piccardo a chiedere che Feltri venga messo a tacere. Idem la Nirenstein, secondo cui Erdogan "è il migliore punto di riferimento del mondo terrorismo", pur se "non possiamo accusarlo di terrorismo in modo diretto". Infine Porro, additato per aver ospitato sul suo sito personale l'opinione di Francesco Giubilei, il quale affermava: "Impossibile non pensare a un nesso tra l'attentato di Nizza e la copertina di Charlie Hebdo", quella che attaccava Erdogan e l'Islam. Troppo, per Piccardo. Secondo il leader islamico è giusto far tacere chi dice la sua.

Fatwa degli islamici d'Italia sui giornalisti "scomodi". Piccardo (Ucoii): "Propaganda anti turca". Fausto Biloslavo, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Davanti a decapitazioni e sgozzamenti in Francia, Davide Piccardo, un mezzo faro dell'Islam milanese, pensa bene di esibirsi con un J'accuse contro «la turcofobia della stampa italiana». E addita una serie di giornalisti nella lista di proscrizione delle penne colpevoli di puntare il dito contro il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Per Piccardo, capo del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Brianza, Fiamma Nirenstein del Giornale, Vittorio Feltri di Libero e Giulia Belardelli dell'Huffington Post sono gli alfieri «della propaganda anti turca () di matrice islamofoba» e andrebbero fermati contrastando «questo flusso incontrollato di antipatica disinformazione». L'altolà è pubblicato sul quotidiano in rete La luce, che organizza e pubblicizza sit-in contro le offese a Maometto delle «massime istituzioni francesi». Nel tritacarne islamicamente corretto di Piccardo, da sempre sensibile alla sirene di Erdogan e dei Fratelli musulmani, finisce anche il vicedirettore del Giornale, Nicola Porro, reo di avere ospitato sul suo sito l'opinione di Francesco Giubilei, inserito da Forbes fra i 100 giovani under 30 più influenti d'Italia. Piccardo censura, come priva di riscontri, questa dichiarazione: «Impossibile non pensare a un nesso tra l'attentato di e la copertina di Charlie Hebdo uscita ieri» (quella che offendeva pesantemente sia il presidente turco, sia la religione islamica). Le bordate peggiori sono per Feltri e Nirenstein, che non usano il fioretto con Erdogan, ma chiedere di fatto di farli tacere, di questi tempi, può sempre venire interpretato alla lettera da chi ammira le decapitazioni degli infedeli. Feltri ha osato paragonare Erdogan a Osama bin Laden chiedendo che «venga imbrigliato affinché la smetta di ammazzare gente in Europa, specialmente in Francia negli ultimi giorni». Un'opinione forte, senza prove da portare in tribunale, come sostiene Piccardo, ma si limita ad essere un commento, giusto o sbagliato, in un Paese dove vige la libertà di stampa e di espressione. Nirenstein è colpevole di avere scritto che Erdogan è «il migliore punto di riferimento del mondo terrorista», anche se «non possiamo accusarlo di terrorismo in modo diretto». Per Piccardo, che si era presentato alle Comunali di Milano con Sel, «le nuove leve della destra non hanno potuto che accodarsi in un'unanime è tutta colpa di Erdogan!». La passione filo turca lo porta a scagliarsi pure contro Giulia Belardelli per un'intervista al filosofo francese Pascal Bruckner, che non è tenero con Erdogan. Curioso che Piccardo non citi mai l'Huffington Post, che ha pubblicato l'intervista. Forse perché tiene un blog sulla stessa testata, che gli ha permesso di scrivere a favore del neo sultano fin dal 2013. Il titolo non lascia dubbi: «Chi vuole fermare la Turchia forte e islamica di Erdogan?».

Da corriere.it il 31 ottobre 2020. Un prete ortodosso è stato ferito a colpi di arma da fuoco a Lione, in Francia. L’aggressore è in fuga, riferisce la polizia. Il sacerdote, che secondo l’agenzia France Presse sarebbe di nazionalità greca, sarebbe stato colpito mentre stava chiudendo la chiesa. Le sue condizioni sono al momento ritenute serie. L’attacco, per il quale è stato utilizzato un fucile a canne mozze, avviene dopo che giovedì, a Nizza, sempre in Francia, un uomo ha ucciso tre persone, sgozzandole, all’interno della chiesa di Notre-Dame. A Nizza la prima vittima, una donna, è stata massacrata all’interno della chiesa. L’assilatore ha tentato di decapitarla. La seconda vittima — un uomo — è stata pugnalata a morte. Era il sacrestano della cattedrale, Vincent Loqués, 54 anni. La terza vittima, anch’essa una donna, è rimasta gravemente ferita alla gola, si è poi rifugiata in un bar di fronte all’edificio, dove è morta pochi minuti dopo. Due settimane fa, a Parigi, un insegnante è stato decapitato da un 18enne ceceno, furente poiché il professore aveva mostrato in classe ai suoi studenti le vignette satiriche di Charlie Hebdo. Questi episodi di sangue arrivano al culmine di una escalation di tensioni tra la Francia e il mondo islamico, in particolare con il presidente della Turchia Erdogan. Nelle scorse ore, il presidente francese Emmanuel Macron ha ordinato il dispiegamento nelle strade di migliaia di militari per proteggere scuole e luoghi di culto.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” l'1 novembre 2020. Non si allenta la tensione in Francia. Ieri pomeriggio un arciprete ortodosso stava chiudendo la sua chiesa, a Lione. Erano le 16, quando un uomo vestito di nero si è materializzato davanti all' entrata, ha tirato fuori un fucile a canne mozze e ha sparato due colpi contro il prelato. Che hanno risuonato in quel quartiere residenziale, Jean Macé, normalmente tranquillo. Hanno risuonato come le grida di dolore di Nikolaos Kakavelakis, colpito all' addome e riverso per terra, in una pozza di sangue. Due giorni dopo l' attentato nella basilica di Nizza, ci risiamo: ancora sangue in una chiesa. Ma ieri sera tutte le piste rimanevano aperte e non solo quella terroristica. La vittima, un uomo di 52 anni, di nazionalità greca, è stato portato via, ferito gravemente: è in pericolo di vita. Intanto scattava la caccia all' uomo in tutta Lione, per scovare il killer. Un sospetto è stato scovato poco prima delle 21 in un kebab a quasi tre km dal luogo dell' aggressione, su rue Baraban, dietro alla stazione ferroviaria Part-Dieu. Intanto si è saputo che Kakavelakis era stato contestato da una parte della comunità ortodossa di Lione (composta soprattutto di greci, arrivati in zona dopo la fine del conflitto greco-turco, nel 1922, e diventati un riferimento per le ondate migratorie successive). Oggetto di minacce, l' arciprete era entrato nel mirino di un ex monaco, poi condannato per diffamazione, ed espulso dalla chiesa ortodossa. Insomma, si tratta di un' assurda resa dei conti? O siamo nel contesto degli atti di violenza jihadisti che stanno colpendo la Francia nelle ultime settimane? Intanto nel Paese non si placa la polemica intorno alle fatidiche caricature di Maometto. «Non sono Charlie, sono André Marceau!», ha detto il vescovo di Nizza a «Nice-Matin». «Queste caricature, alla fine, non sono un mio problema. La libertà d' espressione in Francia è sacra, ma ognuno si assuma le sue responsabilità. Ci sono identità che non si possono sbeffeggiare così, alla leggera». Il giorno prima, sulla radio France Bleu Occitanie, Robert Le Gall, arcivescovo di Tolosa, ci era andato giù ancora più duro, sottolineando che «la libertà d' espressione ha dei limiti. Non si possono prendere in giro le religioni, altrimenti ecco i risultati che tutto questo produce». Per Le Gall «le caricature di Charlie Hebdo mettono l' olio sul fuoco: sono contro i musulmani ma anche contro la fede cristiana». Insomma, il fronte del «Je suis Charlie» inzia a rompersi. Emmanuel Macron non è arrivato a tanto, ma ha cercato di ridimensionare le polemiche scoppiate con il mondo islamico. In un' intervista alla tv Al Jazeera, con sede nel Qatar, ha detto di capire che i musulmani possano essere scioccati dalle caricature di Maometto, ma che questo non può giustificare la violenza. Soprattutto il presidente francese ha denunciato le «manipolazioni, talvolta da parte di dirigenti politici e religiosi», delle sue affermazioni su quelle vignette. Macron ha ribadito che la Francia ha diritto alle «sue libertà e ai suoi diritti», che a pubblicare le caricature di Maometto non è stato né lui né lo Stato francese ma un giornale indipendente e che le sue parole sono state travisate». Il presidente ha voluto ristabilire la propria verità: «Le reazioni del mondo islamico sono dovute a svariate menzogne e al fatto che in tanti credono che io sia favorevole a quelle caricature. Io sono favorevole al fatto che si possa scrivere, pensare, disegnare liberamente nel mio Paese». Macron se l' è presa pure con Recep Tayyip Erdogan e con il suo «comportamento bellicoso con gli alleati della Nato». La risposta del presidente turco non si è fatta attendere: «Coloro che difendono la pubblicazione di ignonimie nei confronti di un profeta o di un capo di Stato sotto il pretesto della libertà fanno male alla democrazia».

Igor Pellicciari per formiche.net l'1 novembre 2020. Viene immediato, dopo gli attacchi dei giorni scorsi in Francia, pensare al difficile rapporto tra laicismo dello Stato e libertà religiosa. Più difficile è buttare su carta un commento analitico a freddo, esercizio che si espone al rischio di estrapolazione strumentale di singole frasi in un momento in cui a farla da padrone è la condanna “senza se-e-senza ma” della violenza. Come è giusto che sia. Eppure vi è lo spazio per fare alcune considerazioni in aggiunta (non in contrapposizione) al molto che si sta già scrivendo in questi giorni. Originario di un paese europeo (la Bosnia ed Erzegovina) a maggioranza di fede islamica, chi scrive ha passato gran parte degli ultimi due decenni tra il Regno di Giordania e la Federazione russa, due paesi dove la sua confessione cristiano-cattolica è in chiara minoranza. E dove tuttavia la questione del rapporto tra Stato e religione – pur con percorsi diversi – ha trovato un punto di equilibrio su cui conviene riflettere. Non necessariamente in forma prescrittiva. Il caso giordano, nelle sue stesse premesse, è opposto a quello secolare francese. L’islam è religione di Stato e il nome stesso del Paese si richiama alla famiglia reale hashemita, storicamente sunnita (il sovrano è in discendenza diretta con il profeta Maometto).  Tuttavia, le restanti religioni – e in particolare quella cristiana, che nel Medio Oriente affonda le sue stesse origini – sono costituzionalmente garantite e protette, di nome e di fatto. Va da sé che in questo contesto, la libertà religiosa è superiore alla libertà di pensiero alla francese, che in nome di una assoluta laicità dello Stato, non accetta alcun limite né formale né – soprattutto – consuetudinario (come invece avviene in Italia). Vivendo ad Amman, tuttavia, l’europeo scopre molto presto alcuni dei fraintendimenti più comuni sull’Islam che attentati come quello di Nizza rafforzano. Il principale è la impropria sovrapposizione tra integralismo e fondamentalismo-radicale islamico; due termini troppo spesso usati come sinonimi ma che si rifanno a realtà profondamente diverse. Anzi, spesso opposte. L’integralista vive senza eccezioni secondo i rigidi precetti dettati da una religione che egli conosce a fondo e che lo istruisce nel dettaglio ad essere sempre una persona modello sia nel privato che nel pubblico, timorata di un Dio onnipresente cui si affida con assoluta fede e fiducia. Secondo questa visione, l’infedele non è un fedele di un’altra religione, tantomeno quella cristiana (in Gesù l’Islam riconosce uno dei suoi profeti) ma colui che – letteralmente – non ha fede in nessun Dio e non abbraccia alcuna religione. Poiché la violenza non è tollerata e viene anzi deprecata dai precetti di comportamento individuale, l’integralista considera un grave affronto a Dio decidere l’uso della forza di propria iniziativa, peccato gravissimo da cui non può redimersi. Questo integralismo islamico mal si concilia con i fenomeni di auto-radicalizzazione che seguono la quasi totalità degli attentatori che hanno agito nei recenti anni in Europa – e soprattutto in Francia. In genere, si tratta di giovani quando non giovanissimi disadattati con un passato di micro-criminalità, scarsa educazione (soprattutto religiosa), pieni di un astio e di un odio di rivalsa che ne scatena una violenza cieca e gotica. Essi vengono unanimemente additati dagli stessi integralisti con l’epiteto dispregiativo di khawarij (reietti). Nell’elevarli al rango di “terroristi teologici”, il mainstream in realtà li carica di un eccessivo disegno politico e finisce spesso involontariamente per esaltarli come eroi negativi e favorire episodi di emulazione, a loro volta scollegati da una strategia organica o un disegno teologico a monte. Essere associati direttamente a questi gesti radicali violenti è per gli integralisti islamici spesso fonte di una frustrazione che si somma a quella dell’affronto di vedere offesa – per di più in nome della laicità di uno Stato straniero – la propria religione che essi antepongono a tutto. Il caso russo è invece interessante perché più comparabile con la Francia, per i numerosi legami storici e le similitudini istituzionali tra i due paesi. Al pari di Parigi, Mosca è improntata a un forte statalismo, cementificato da un modello culturale unitario diffuso su tutto il territorio nazionale e da un sistema amministrativo centralista che fa capo alla figura di un presidente carismatico. Al pari della Francia, in Russia lo Stato nella sua laicità non è soltanto separato dalle religioni ma è loro costituzionalmente superiore. Circostanza che in passato ha creato non pochi problemi al Cremlino, soprattutto – durante i conflitti in Cecenia – con l’ampia componente musulmana del Paese (più di 15 milioni di fedeli, in larga maggioranza sunniti). Eppure, non senza difficoltà (la Russia ha subito numerosi eclatanti attentati di matrice fondamentalista), il Cremlino ha cercato negli anni con pragmatismo di tenere separata la guerra al terrorismo dal tentativo di integrare la comunità musulmana nella Federazione. Pur essendo lo Statalismo russo forte come quello francese, esso si è dato il ruolo di “tutore” attivo delle diverse confessioni presenti nel paese. Applicando un paternalismo laico che arriva a difenderle e promuoverne lo sviluppo con specifiche politiche e azioni eclatanti (nel 2015 Recep Tayyip Erdogan presenziò in Russia alla inaugurazione della più grande moschea europea voluta da Vladimir Putin). Nei rapporti con l’Islam, questo approccio (Dmitrij Peskov ha dichiarato che in Russia vignette come quelle di Charlie Hebdo non verrebbero tollerate) ha portato ampi benefici al Cremlino. Sul piano interno, con la normalizzazione dei rapporti con la Cecenia (il presidente Ramzan Kadyrov – tra i più critici verso Emmanuel Macron – è oggi uno degli alleati più stretti di Putin) e con il depotenziamento delle spinte secessioniste del Tatarstan. Sul piano internazionale, con un posizionamento efficace con Turchia, Iran e Arabia Saudita – che ha contribuito al raggiungimento degli obiettivi russi nella campagna di Siria (che, per inciso, non ha portato ad un significativo incremento del terrorismo fondamentalista-radicale sul suolo russo). Il tutto, si badi, è avvenuto senza che Putin sia stato accusato di avere svenduto i principi dello statalismo laico Russo o indebolito il cristianesimo ortodosso (prima religione del paese) a vantaggio dell’islam. Alla luce di queste considerazioni quanto avvenuto politicamente nei giorni scorsi lascia perplesso l’analista per l’eccessivo protagonismo emotivo di Macron che è sembrato cercare di risollevare, sull’onda del giusto sdegno per gli (ennesimi) tragici attentati di singoli auto-radicalizzati in Francia, una popolarità personale messa a dura prova dalla seconda ondata del Covid. L’intervista concessa in un secondo momento dal presidente francese ad Al Jazeera, sembra voler essere un passo riparatore per abbassare i toni di uno scontro con l’Islam politico che egli stesso per primo ha incautamente – e forse inconsapevolmente – alzato di livello, prestando il fianco alle parole incendiarie del Presidente turco.  La cui tattica strumentale nella competizione con Parigi (dalla Libia al Libano) è oramai nota da tempo. E, quindi, avrebbe dovuto essere prevista e prevenuta.

Maria Giovanna Maglie contro Papa Francesco: "Tace su terrorismo islamico e Cina comunista". Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Dopo Sergio Mattarella è la volta di Papa Francesco. Entrambi si sono guardati bene dall'affiancare l'Islam all'attentato a Nizza. Una circostanza che non è piaciuta a Maria Giovanna Maglie. "Dice Bergoglio  che “il papa le critiche le ascolta dopodiché esercita il discernimento, capire cos'è a fin di bene e cosa no. Discernimento che è la linea guida del mio percorso, su tutto, su tutti" - tuona la giornalista su Twitter dove poco dopo si lascia andare a una critica non nuova -. Discernimento - chiede - è tacere sul terrorismo islamico e sulla Cina comunista?". Il Papa, dopo l'uccisione di tre cristiani all'interno della cattedrale di Notre-Dame, ha condannato la violenza con queste parole: "Sono vicino alla comunità cattolica di Nizza - si legge sul suo profilo Twitter -, in lutto per l’attacco che ha seminato morte in un luogo di preghiera e di consolazione. Prego per le vittime, per le loro famiglie e per l’amato popolo francese, perché possa reagire al male con il bene". Nessun riferimento al mondo islamico, dunque, un po' come è accaduto nel discorso del presidente della Repubblica. Anche lui protagonista di un'invettiva della Maglie che gli ha ricordato come la "qualsivoglia matrice" da lui citata non fosse altro che "terrorismo islamico". Dice @Pontifex che"il papa le critiche le ascolta dopodiché esercita il discernimento, capire cos'è a fin di bene e cosa no. Discernimento che è la linea guida del mio percorso, su tutto, su tutti". Discernimento è tacere su #terrorismoislamico e #Cinacomunista?

Luigi Di Maio, non disturbare Erdogan: la vergogna del grillino dopo la strage di Nizza. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Non c'è tempesta in grado di allentare il patto di ferro che lega l'Italia della maggioranza giallorossa alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Mentre l'Europa è in balìa delle sparate del presidente turco, con le relazioni tra Ankara e Parigi ai minimi termini, mentre anche Berlino definisce «inaccettabili» le sortite di Erdogan contro la Francia, l'Italia di Luigi Di Maio si affretta a dire che per il nostro Paese la strategia nei confronti della Turchia non cambia: «Cercheremo a oltranza il dialogo». Certo, il capo della Farnesina condanna le «provocazioni» turche - e ci mancherebbe - ma insomma, bisogna «abbassare la tensione». Come se ad alzarla non fosse stato il Sultano di Ankara. Le operazioni militari nel nord della Siria contro i curdi; l'intervento militare (ai danni degli interessi italiani) in Libia; la pressione su Cipro (con l'Eni di mezzo) e Grecia; la trasformazione della basilica di Santa Sofia a Istanbul in moschea; l'asse con gli azeri contro l'Armenia sul Nagorno Karabakh; le accuse, sempre più documentate, sull'uso spregiudicato delle milizie jihadiste (per il docente turco Cengiz Aktar, Scienze politiche all'Università di Atene, «tutti sanno che la Turchia è diventata un hub dell'internazionale dei terroristi. Ankara è l'hub dei movimenti islamici»). Tutto inutile: più Erdogan tira la corda con l'Occidente, più l'Italia di M5S e Pd strizza l'occhio alla Turchia. Sul piatto c'è ancora - incredibilmente - lo status della Turchia come nazione candidata (dal 2005) all'adesione all'Unione europea. Status che per Ankara significa incassare - ricorda Andrea Delmastro, capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri alla Camera- un contributo di 9,1 miliardi. «Ma la Turchia né geopoliticamente, né culturalmente, né spiritualmente, né religiosamente, è Europa. Cos' altro deve succedere perché l'Italia chieda, immediatamente, la revoca della candidatura turca? Erdogan è il mandante di quanto sta accadendo in Europa. La Fratellanza musulmana risponde a lui». Eppure Di Maio, nel corso dell'incontro avvenuto ad Ankara lo scorso 10 giugno con l'omologo turco Mevlut Cavusoglu, ha promesso alla Turchia l'impegno italiano per una ripresa dei negoziati con Bruxelles, entrati in una fase di stallo. Nel corso della conferenza stampa congiunta, Cavusoglu lodò pubblicamente Di Maio e l'Italia, indicata come «il partner numero uno nel sostegno per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea». «Ed era già successo tutto», ricorda Delmastro. Dove «tutto» sta a indicare la politica di espansione turca: «Di Maio fece passerella». Il capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri è da tempo all'offensiva sul dossier turco. «Ho presentato interrogazioni e risoluzioni, alcune neanche calendarizzate». Ma nell'ottobre 2019 un voto c'è stato. E la mozione per chiedere al governo il blocco del processo per l'adesione di Ankara all'Unione europea è stata bocciata con i voti di Pd e M5S. Già, perché anche i dem, fedeli alla linea «la Turchia non è solo Erdogan», sono schierati per la linea morbida nei confronti del Sultano. Logico che ieri, di fronte a tanta grazia mentre le cancellerie europee si interrogano sulle mosse di Erdogan, l'ambasciatore turco a Roma, Murat Salim Esenli, abbia ringraziato l'Italia, «un partner equilibrato quando si tratta di questioni regionali». Oltre a Fratelli d'Italia, anche alla Lega non sfugge la doppiezza italiana. Ieri il gruppo del Carroccio all'Europarlamento, guidato da Susanna Ceccardi, ha presentato un'interrogazione scritta a Josep Borrell, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera. Oggetto: «Le continue provocazioni della Turchia, gesti di sfida all'Unione europea». I deputati del Carroccio denunciano l'«attività di reclutamento e addestramento di miliziani jihadisti» da parte turca. Aliquote di cui poi Ankara si servirebbe come «sostegno delle proprie truppe regolari negli scenari di guerra» nei vari teatri regionali. Gli eurodeputati leghisti citano in particolare «ex miliziani di Isis, Al Nusra e Al Qaeda». Tutti entrati in orbita turca. «Le istituzioni europee non possono tacere davanti a questi atteggiamenti di sfida e di arroganza».

Chiara Clausi per “il Giornale” il 30 ottobre 2020. Gli attentati di ieri a Nizza, Avignone e Gedda sono l'apice dello scontro che si consuma da giorni tra Turchia e Francia dopo la pubblicazione da parte di Charlie Hebdo di una vignetta satirica che sbeffeggia il presidente Erdogan che ha reagito con un tweet di fuoco, in francese: «Siete dei bastardi, figli di cani». Ma secondo Ely Karmon, analista dell'Istituto internazionale per l'antiterrorismo di Herzliya in Israele non ci sono dubbi: «C'è la mano della Turchia dietro questi attacchi. Gli jihadisti hanno attaccato prima Charlie Hebdo, hanno decapitato il professore Samuel Paty, e ora sgozzato due donne in una chiesa. É un attacco con un significato simbolico. Contro la Francia e cosa rappresenta. Uno Stato molto liberale dove c'è una netta divisione tra Stato e chiesa».

Questi attentatori sono lupi solitari?

«No, sono parte di una famiglia, hanno un giro di amici, sono connessi tra loro. Al Qaeda ha una infrastruttura e un network che usa per la propaganda, utilizza anche social come Twitter. Il killer del professore dopo la decapitazione lo ha fatto. Al Qaeda vuole convincere chi legge la sua propaganda di uccidere quanti più infedeli possibile, con il machete, con una macchina, con un camion. Vuole soprattutto plasmare e arruolare le nuove generazioni di musulmani in Europa perché ha perso la guerra in Siria e Iraq e convincerli che sono martiri».

Cosa dovrebbe fare Macron?

«Deve prendere decisioni contro queste infrastrutture. Erdogan è già penetrato in Francia: 150 dei 300 più importanti imam in Francia sono di origine turca. Turchia e Qatar supportano moschee, associazioni caritatevoli in Inghilterra - è uscito di recente uno studio - ma fanno lo stesso in Francia. Il presidente francese ha già fatto dei discorsi molto forti contro l'estremismo islamico e messo in prigione centinaia di jihadisti e ha preso delle decisioni per combattere la loro propaganda. Non mi sorprenderebbe se l'ala destra francese attaccasse qualche moschea».

Come avviene la radicalizzazione?

«La radicalizzazione è un processo, a volte breve. Magari un futuro terrorista vede dei filmati dell'Isis sui media jihadisti in cui i comportamenti, comprese le decapitazioni di massa, sono inferte anche ai musulmani, e sono presentate come la santa punizione degli infedeli. È iniziato in Iraq nel 2014 con Abu Musab al-Zarqawi il fondatore di quello che in seguito divenne Isis».

Può rilanciarsi lo jihadismo?

«Con la propaganda, l'educazione, la radicalizzazione religiosa, la formazione e l'azione».

Invece qual è la strategia di lungo periodo di Erdogan?

«Erdogan punta a radicalizzare i musulmani di Francia. Ha trasformato Santa Sofia in una moschea, vuole liberare al-Aqsa, controllare il radicalismo sunnita, promuovere il suo sogno neo-ottomano e diventare il leader dei sunniti nel mondo».

Ma esiste uno scontro su altri fronti con la Francia.

«La Turchia vuole espandersi in Grecia, Cipro, appropriarsi delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale, avere influenza in Libia dove appoggia al-Sarraj, invece la Francia Haftar. Anche nel Nagorno-Karabakh Parigi appoggia gli armeni e Ankara gli azeri».

Cosa pensa del ruolo dell'Europa in questi avvenimenti?

«Penso che ci sia il pericolo che questi attacchi primitivi e a bassa tecnologia, con coltellate, possano svilupparsi in un'ondata di attacchi imitatori sull'esempio di quanto accaduto in Israele nell'autunno 2015. Le forze dell'ordine europee dovranno trovare gli strumenti operativi per sfidare questa minaccia».

Cosa pensa di Erdogan?

«Attacca anche altri musulmani, i curdi, usa gli jihadisti in Libia, Somalia, in Nagorno-Karabakh. Chiama Angela Merkel nazista. Perché noi non potremmo criticare lui e l'islam?».

Giordano Stabile per “la Stampa” il 31 ottobre 2020. Una delle prime decisioni di Recep Tayyip Erdogan, nel gennaio del 2005, è stata il varo della "lira forte". Via sei zeri dalla valuta massacrata dall' inflazione negli anni Settanta e Ottanta, che ormai circolava in banconote da svariati milioni, come il marco della Repubblica di Weimar. La "nuova lira" doveva mostrare le ambizioni di potenza della Turchia e debuttò con una quotazione quasi pari a quella del dollaro. Ieri ce ne volevano 8,38 per un biglietto verde. Il crollo del 30 per cento in meno di un anno è il termometro della crisi che il leader turco teme di più, quella economica. Molti analisti spiegano la sua aggressività all' estero, «una guerra al mese», con Grecia, Cipro, Francia, nel Caucaso, fino allo scontro totale con Emmanuel Macron sull' islam, con la necessità di far passare in secondo piano i guai interni. Eppure l' economia rimane ancora un suo punto di forza. E la profonda integrazione che è riuscito a realizzare con l' Unione europea nei 17 anni al potere spiegano anche la timidezza di Bruxelles nei suoi confronti. Le esportazioni dell' Ue verso la Turchia sono state l' anno scorso pari a 68,2 miliardi di euro, le importazioni sono salite del 4 per cento a 69,8 miliardi. I settori più importanti sono quello tessile e dell' automobile. I principali gruppi europei hanno delocalizzato impianti in Turchia, compresa la francese Renault ora finita nel mirino dei boicottaggi anti-Parigi. Ankara ha puntato anche sullo sviluppo dei fornitori per le imprese straniere, soprattutto tedesche. Le esportazioni di componenti per auto sono salite nei primi mesi di quest' anno a 5,5 miliardi di dollari, il 38% diretto in Germania. L' unione doganale entrata in vigore il 31 dicembre 1995 è stata sfruttata con pragmatismo da Erdogan, il primo a capire che la piena adesione all' Unione non sarebbe arrivata mai e bisognava cavalcare l' onda della globalizzazione. L' Ue è stata il volano per una crescita "cinese". Quando è arrivato al potere nel 2003 la Turchia era un Paese in via di sviluppo. Nel 2017 la Banca mondiale l' ha collocata fra le nazioni sviluppate, con un reddito medio di 14 mila dollari. L' intreccio economico, rafforzato da una diaspora di 2,9 milioni di turchi in Germania e 500 mila in Francia, rende complicato imporre sanzioni. Tanto più che le banche europee hanno concesso prestiti a tutto spiano. L' esposizione complessiva è salita quest' anno a 110 miliardi di dollari, con la Spagna a quota 61, la Francia a 24, la Gran Bretagna a 21. L' Italia è meno esposta, 11 miliardi, soprattutto dopo che Unicredit si è disimpegnata dalla controllata Yapi Kredi. I crediti deteriorati, o Npl, secondo il "Wolf Street", sono saliti al 5,5 per cento. Tutti segnali dello sfarinamento del "miracolo economico" turco. La crisi finanziaria del 2008, l' avventurismo in Siria e in Libia, l' acquisto di armi russe che ha innescato sanzioni Usa, infine il coronavirus hanno inferto colpi. Ma anche la deriva personalistica degli ultimi anni. Erdogan ha tessuto relazioni con vari leader mondiali, a partire da Donald Trump. Affari e politica a volte si mischiano. Il New York Times ha indagato sulle pressioni nei confronti della Casa Bianca per bloccare le indagini sulla Halkbank, accusata di aver violato le sanzioni contro l' Iran. Trump ha investimenti in Turchia, che gli hanno fruttato 2,6 milioni di utili fra il 2015 e il 2018. Ed è stato avvicinato anche dal genero di Erdogan, Berat Albayrak, ministro delle Finanze. Per il Nyt questo spiega in parte l' atteggiamento morbido della Casa Bianca, in particolare lo scorso ottobre, quando Ankara ha scatenato l' offensiva contro i curdi delle Ypg nel Nord-Est della Siria. Ora però il credito sta per finire.

La nuova moschea di Algeri e il messaggio alla Francia. Francesca Salvatore su Inside Over l'1 novembre 2020. Una superficie di 27 ettari, un’enorme sala destinata alla preghiera di 20 mila metri quadrati, in grado di ospitare fino a 120 mila persone, un minareto alto 267 metri, 43 piani, ascensori panoramici, una biblioteca con un milione di libri, un centro culturale di 8mila metri quadrati: sono questi i numeri fastosi della neonata Grande Moschea di Algeri, la terza moschea più grande del mondo dopo quella della Mecca e di Medina, inaugurata dal primo ministro Abdelaziz Djerad lo scorso 28 ottobre.

I significati dietro la Grande Moschea. Come per tutte le opere faraoniche, in particolar modo quelle legate alla fede, non si tratta semplicemente di vanità architettonica, di mero luogo di preghiera, ma di simboli ben precisi, di messaggi poco subliminali inviati al resto del mondo islamico, e al mondo con cui l’Islam si incontra e si scontra, per dirla alla Samuel Huntington. L’inaugurazione avviene il giorno del compleanno del Profeta, nel bel mezzo del dibattito in corso in Francia sull’estremismo islamico che ha fatto da prequel all’attentato di Nizza. E poi ancora c’è la rabbia popolare in Algeria e in altri paesi arabi e islamici per la posizione del presidente francese, Emmanuel Macron, sulla ripubblicazione delle caricature del Profeta Muhammad nella rivista Charlie Hebdo. Come se non bastasse, c’è un altro simbolismo, quello dei luoghi: ad esempio, il distretto in cui la moschea nasce, Muhammadiyah, è il luogo che durante l’era coloniale fu segnato dalla predicazione dell’arcivescovo d’Algeria, Charles Lavigerie. È come se si chiudesse un cerchio, quello dell’indipendenza coloniale, che segna con quest’opera faraonica la sconfitta cristiana in terra d’ Algeria e ne rimarca la sua identità islamica. L’Algeria lo fa in un momento complesso della storia africana e mondiale, ed in cui altri perseguono nuovi sogni universali per l’Islam: non è un caso che Erdogan nel giro di un anno abbia inaugurato la più grande moschea di Turchia e re-islamizzato Santa Sofia. Sono messaggi a colpi di minareti di rimarcazione dell’identità verso l’Europa e il resto del mondo.

Il messaggio alla Francia e i tumulti del Paese. Il progetto, però, ha suscitato un vespaio di polemiche. Innanzitutto, perché ci sono voluti ben otto anni per completare l’edificio e oltre 1,5 miliardi di dollari di denaro pubblico per costruirlo: la costruzione della moschea è iniziata nel 2012, durante l’era del dimissionario presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, ed è stata completata un anno e mezzo fa. A sostenere Algeri in questa ardita impresa, Pechino: la moschea, infatti ha la firma della China State Construction Engineering Corporation (Cscec) che, attirata dall’ambizioso obiettivo di realizzare la più grande moschea in Africa e la terza più grande del mondo, vinse la gara d’appalto e portò qui la squadra di settemila operai specializzati per tirar su questa celebrazione dell’Islam contemporaneo. Ossimori della globalizzazione. Di questo vespaio di polemiche il mondo politico algerino accusa Parigi e i media francesi, presunti rei di averle inventate dal nulla per sminuire una celebrazione condivisa. I rapporti, oggi, tra le due nazioni, al di là dei momenti cerimoniali obbligati sono ancora intrisi di nostalgia, da parte di Parigi, e di rivalsa e livore, da parte algerina: certe animosità non muoiono nel giro di pochi decenni. L’Algeria post-indipendenza si è forgiata, come è ovvio che fosse,  sul sentimento anti-francese, lo stesso che la politica algerina utilizza per pretendere rispetto ed ottenere benefici nei suoi rapporti con l’Europa, pur essendo ancora molto vacillante in politica estera. Rapporti così infiammati che, la scorsa estate, è bastato il dramma di George Floyd a migliaia di km di distanza per riaccendere il fuoco sotto la cenere, con il presidente Abdelmadjid Tebboune pronto a chiedere nuovamente le pubbliche scuse da parte di Macron (che già nel 2019 aveva affermato che “il colonialismo è stato un grave errore”). L’Algeria è un Paese in tumulto. È riuscita a sfuggire agli esiti tristi delle (presunte) primavere arabe, alla violenza e alla severa repressione che queste hanno innescato, ma dallo scorso anno vive una perenne agitazione di popolo e continua ad essere nelle piazze (a dispetto dell’emergenza coronavirus) sul tema del referendum. Per strada continua ad esserci Hirak, che tuttavia non è riuscito a raggiungere il suo obiettivo di una completa revisione del sistema politico sclerotico algerino. Il governo è sotto pressione e sotto lo scacco del dramma petrolifero, della gioventù disoccupata e della pandemia: lo stesso Tebboune è stato trasferito dall’ospedale di Algeri in Germania mercoledì, pochi giorni dopo essersi autoisolato in seguito alle segnalazioni di casi sospetti di Covid-19 nel suo staff. Così, come la storia insegna, quando le tensioni si moltiplicano serve un collante, un elemento che cementi e plachi la piazza: la fede è il migliore degli strumenti ed una moschea scintillante, altrettanto. Un panem et circenses per la patria, un faro per l’ Africa ed un telegramma per Macron. 

Islamici in piazza al grido di Allah Akbar: "Francesi chiedano scusa sennò son guai". Tra tesi complottiste e neanche tanto velate minacce, la comunità islamica di Roma è scesa in piazza al grido di "Allah Akbar" per difendere l'onore del Profeta dagli attacchi della satira d'Oltralpe. "L'attentato? È un complotto contro di noi" e ancora: "Se i francesi non riconoscono il loro errore si abatterà su di loro un disastro". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Ventiquattrore dopo la barbara strage nella basilica di Notre-Dame a Nizza, il grido “Allah Akbar” risuona davanti ad un’altra chiesa. Siamo a piazza Vidoni, accanto alla basilica di Sant’Andrea della Valle, nel cuore della Capitale. Decine di fedeli musulmani si sono riuniti per difendere l’onore del Profeta dagli attacchi della satira d’Oltralpe e invocare le dimissioni del presidente francese Emmanuel Macron. “Scatenare le forze di sicurezza contro le moschee e le associazioni di musulmani in Francia è un’azione radicale che fomenta la cultura del sospetto e dello scontro”, si legge nel comunicato diffuso durante la manifestazione. Una delle tante proteste anti-francesi organizzate in tutto il mondo nel giorno sacro per i musulmani: dal Pakistan, al Libano, dal Bangladesh a Gaza, fino a Roma. La condanna per l’attentato di Nizza è ferma, come è ferma quella verso gli “estremismi violenti”. “Nulla hanno a che vedere con gli insegnamenti della nostra religione e il nostro credo”, specifica l’Unione delle Comunità e Organizzazioni islamiche in Italia. Ma in piazza non tutti sono pronti a chiedere scusa alla Francia per l’ennesimo attacco di matrice jihadista. “Non senti di doverti scusare a nome della tua comunità?”, chiediamo a un manifestante di origine tunisina. “No assolutamente no, è Macron che deve scusarsi con noi”, è la risposta. “Siamo qui per chiedere che la smettano di fare quello che fanno e di dire quello che dicono”, dice un ragazzo africano con riferimento alle caricature di Maometto pubblicate dal settimanale francese Charlie Hebdo. Le stesse che sono state mostrate in classe da Samuel Paty. Un gesto che gli è costato la vita. “I francesi sono colpevoli – va avanti il giovane – perché se non fossero colpevoli queste manifestazioni non ci sarebbero e le persone non verrebbero uccise, specialmente in Francia”. “I francesi devono ammettere il loro errore sennò – mette in guardia lo straniero – ogni disastro si abbatterà su di loro, tutti i musulmani si uniranno per supportare questa causa”. E a proposito di chi ha seminato il terrore a Nizza non ha dubbi: “Non possono prendere Macron e allora uccidono i francesi”. “Macron si deve dimettere”, incalza un cittadino tunisino. L’attentato? Secondo lui è un “complotto” per fomentare l’odio contro i musulmani. “È tutto organizzato, è solo propaganda anti-islamica, le vere vittima siamo noi”. La stessa tesi che risuona anche dal palco allestito nella piazza. “Avete mai visto uno di questi terroristi, non si sa chi sono, guarda caso vengono tutti uccisi”, polemizza uno degli organizzatori. In piazza ci sono decine di cartelli contro “l’islamofobia”. “L’offesa alla figura del profeta – scrivono gli organizzatori – è un atto inqualificabile, essa destabilizza l’armonia che con fatica le comunità hanno costruito e raggiunto minandone le fondamenta”. “Alla base di una società democratica – prosegue il comunicato – c’è il rispetto del culto, per questo riteniamo che la reazione dello Stato francese sia stata offensiva e discriminatoria”. “Ci indicano come terroristi e non come fedeli, come assassini e non cittadini”, aggiungono in relazione alla stretta lanciata in Francia proprio da Macron nei confronti delle comunità islamiche considerate più radicali. “Allah è grande, significa Dio è grande, non è terrorismo”, spiega un anziano cittadino bengalese. “I musulmani sono perseguitati e uccisi in tutto il mondo”, rivendica un uomo in abiti tradizionali. “Ma in Europa no?”, ribattiamo. “In Europa ci offendono con bestemmie come le caricature del profeta”, è la replica. Insomma, tra complottismo e affermazioni dal sapore giustificazionista, la rabbia contro la Francia cresce. Ed è di poche ora fa la notizia del tentato omicidio ai danni di un prete di Lione, per ora gli inquirenti non privilegiano nè escludono nessuna pista.

I DELITTI NELLA CATTEDRALE OLTRE LO SCONTRO DI CIVILTÀ. C’è un legame fra l’attentato e le minacce di Erdogan a Macron? In ogni caso il terrore jihadista parte da molto più lontano. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. Tutto era già scritto. Come avevamo previsto la trappola di Erdogan è scattata: non si può certamente affermare che lui abbia ispirato l’attacco con i tre morti a Notre Dame a Nizza ma è chiaro che il leader turco, prendendo di mira la Francia e insultando Macron, ha incendiato il mondo musulmano con conseguenze imponderabili. Quale è il pericolo adesso? Che cominci il ben noto “scontro di civiltà”, quella contrapposizione tra l’Occidente il mondo musulmano che si presta a strumentalizzazioni di ogni genere. E’ in momenti come questi che bisogna ricordare quanto è avvenuto nelle relazioni tra l’Europa, gli Stati Uniti e le nazioni musulmane. Una storia antica, complessa, che però se ci limitiamo agli ultimi decenni è costituita da tappe piuttosto chiare. L’estremismo islamico non nasce dal nulla. Nel 1979 la rivoluzione di Khomeini in Iran fa fuori lo Shah considerato dagli americani il loro guardiano nel Golfo: la presa degli ostaggi nell’ambasciata americana segna una rottura che non si è mai più ricomposta anche perché l’accordo sul nucleare di Obama con Teheran nel 2015 è stato affossato da Trump. Quale fu la risposta occidentale 40 anni fa alla rivoluzione sciita khomeinista? Incoraggiare e armare insieme alle monarchie del Golfo l’Iraq di Saddam Hussein che mosse guerra all’Iran: otto anni di conflitto un milione di morti. Il “mostro” Saddam, che poi invase il Kuwait nel 1990, era stato tenuto in piedi da noi e delle monarchie sunnite del Golfo cui vendiamo armi a tutto spiano e con le quali Trump e Israele fanno una finta pace, quella di Abramo, che lascia intatte tutte le ingiustizie del Medio Oriente, occupazione della Palestina compresa. Poi gli Usa nel 2003 decisero, sulla scorta di false prove sulle armi di distruzione di massa irachene, di distruggere il regime laico baathista aprendo la strada ad Al Qaida e poi anche al Califfato, cioè al peggiore estremismo islamico che come prime vittime ha avuto, ancora prima degli europei, proprio le popolazioni arabe. Da lì si è aperto un vaso di Pandora che nessuno ha saputo più richiudere. Nel dicembre del 1979 l’Urss invase l’Afghanistan e il fronte occidentale costituito dagli Usa con il sostegno del Pakistan e i soldi dell’Arabia Saudita colsero l’occasione per fare la guerra a Mosca usando i mujaheddin che sulle ali della vittoria contro la superpotenza sovietica si trasformarono nei talebani e nei jihadisti contro cui si combattè la guerra all’indomani dell’attentato alle Due Torri dell’11 settembre 2001. Quei jihadisti, di cui molti originari dei Paesi arabi, avevano intanto portato guerriglia e terrorismo in Algeria, in Egitto, in Yemen, in Somalia. Oggi con quei talebani gli americani vogliono fare la pace di Doha dopo 20 anni di guerra afghana. La Siria è stato l’ultimo esempio di cooperazione tra l’Occidente e il mondo arabo-musulmano su come strumentalizzare il jihadismo e il radicalismo islamico. Gli Stati Uniti, su ispirazione del segretario di Stato Hillary Clinton, diedero a Erdogan carta bianca per abbattere il regime di Bashar Assad alleato dell’Iran e della Russia. La stessa Francia è stata complice di questo piano che ha portato 40 mila jihadisti dalla Turchia alla Siria. I francesi lasciarono arrivare in Turchia i loro jihadisti che servirono a Erdogan, come quelli di molte altre molte nazionalità, a combattere il regime siriano, poi salvato da iraniani e russi. I francesi volevano persino bombardare Damasco nel settembre del 2013. O ce lo siamo dimenticato? Insomma turchi e francesi erano d’accordo a defenestrare Assad con ogni mezzo, anche i radicali islamici, con l’approvazione Usa seguendo la politica dello “stay behind” mentre gli stessi francesi, con americani e inglesi, avevano già fatto fuori Gheddafi. Poi americani e francesi si sono tirati indietro, la Francia ha avuto in casa gli attentati jihadisti e tutto è cambiato. Ed Erdogan non deve essersi dimenticato neppure del sostegno occidentale e americano ai Fratelli Musulmani al Cairo, prima che venissero eliminati nel 2013 dal colpo di stato del generale Al Sisi. Insomma abbiamo fatto credere a Erdogan di essere un campione del rinnovamento musulmano durante le primavere arabe e ora non ci possiamo lamentare che si creda il nuovo Sultano. Tanto più che gli abbiamo lasciato massacrare i curdi, alleati contro il Califfato, e appaltato il “lavoro sporco” sui profughi sulle rotte dell’Egeo, nei Balcani e ora anche in Libia. Ma all’esca dello “scontro di civiltà”, in tempi duri come questi, siamo tutti pronti da abboccare. Questo non è uno scontro di civiltà ma di interessi divergenti. La Francia con la Grecia, Cipro e l’Egitto si oppone all’espansione di Erdogan nel Mediterrano orientale, ricco di gas offshore: lui rifiuta i trattati sui confini marittimi e ha così strumentalizzato le leggi francesi contro il radicalismo islamico per ergersi a protettore del mondo musulmano. Altri leader musulmani gli sono andati dietro e hanno lasciato sfogare le piazze dove le popolazioni, già provate dalla pandemia, sono impoverite e senza prospettive. Che poi la Francia abbia un problema, e grosso, lo sappiamo tutti. Secondo i dati ufficiali del 2018 in Francia ci sono dei 26mila individui considerati una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale, diecimila circa di questi si considera siano i radicalizzati, ovvero i più pericolosi. E per liberare il Paese da questo incubo non bastano neppure le leggi di Macron sul separatismo religioso. Ci vuole ben altro: una revisione ragionata e spassionata della storia in cui ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma chiedere alla Turchia di Erdogan, che pure ieri ha condannato l’attentato di Nizza, di prendersi le sue responsabilità è una pura illusione.

Nizza, la sentenza di Renato Farina: il killer islamico nella cattedrale è un attacco a tutto l'Occidente. Renato Farina su Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020. Tre morti, molti feriti, mentre pregavano in chiesa a Nizza, decapitati o sgozzati da un tunisino di 21 anni, accolto amorevolmente a Lampedusa dal nostro governo, il famoso viaggio della speranza sì, però quella di ammazzarci. Tampone al volo, ok, carta timbrata, in perfetta forma per scannare i cristiani. Il dolore si mescola al sarcasmo, scusate. L'orrore lascia spazio alla costernazione per la nostra imbecillità che pretende pure di sventolare il Vangelo come ragione di questa follia complice del terrorismo. Che vergogna pesa su di noi. Questo governo con decreti complici - l'ultimo è datato 21 ottobre - fa sì che qualunque terrorista, proveniente da qualsiasi Paese, trovi qui la logistica perfetta per le stragi di cristiani. Che rabbia. Su queste colonne nei mesi scorsi abbiamo dato spazio alle notizie di decine e centinaia di militanti dell'Isis e di Al Qaeda rientrati in Tunisia e imbarcati per l'Italia. A questa invocata prudenza si è risposto mettendoci fuori dal recinto dell'umanesimo dalla sinistra, e pure scomunicati perché tutti costoro sono «profughi come Gesù Cristo». Ma non si doveva essere astuti come serpenti, oltre che ingenui come colombe? Figuriamoci. Alle tre del pomeriggio tutte le campane di Francia hanno suonato a morto. Sarebbe stato bello lo si fosse fatto anche in Italia. Nizza è più vicina a Milano e Roma che non a Parigi. I vescovi francesi hanno dato questa disposizione, e dovunque alle 15 e 15 di là delle Alpi, nel Paese laico per eccellenza ci sono state messe per le vittime, e la gente arrivava, pure quella che ha dovuto ripescare nelle nebbie il ricordo del segno della croce. Emmanuel Macron ha parlato ai francesi, individuando subito il nemico nel «terrorismo islamico» e ha proclamato il «sostegno ai cattolici a nome della intera nazione». Gli ha risposto la Conferenza episcopale: «Malgrado il dolore che li stritola, i cattolici rifiutano di cedere alla paura. I cattolici si raduneranno dovunque a pregare». Altrove, dalle parti di Avignone e a Lione, altri assassini hanno cercato di compiere una medesima strage. Fermati appena in tempo. In vasti ambiti della comunità musulmana transalpina, che raccoglie 5,7 milioni di fedeli del Profeta, ormai non esiste più soluzione di continuità nella filiera islamica tra cellule armate, correnti radicali ma finora distanti dal terrorismo, e molti ex-moderati oggi seguaci fanatici del presidente turco Erdogan, che ha istigato alla ribellione «un miliardo e mezzo di credenti» dando del pazzo a Macron che aveva condannato quindici giorni fa la decapitazione del professore di storia Samuel Paty, e aveva esaltato il diritto alla libertà, base della civiltà europea, compreso quello dell'insegnante di esibire le vignette "blasfeme" di Charlie Hebdo. Erdogan ha chiamato di fatto alla rivolta contro il proposito dell'Eliseo e del Parlamento francesi di "costituzionalizzare" l'islam, decretandone l'illegittimità quando nega i principi su cui si regge la République. Inaccettabile dal punto di vista della massima espressione politico-religiosa di questa religione impazzita: Erdogan vuole esattamente il contrario, vorrebbe cioè islamizzare l'Europa, e ha costituito per questo un esercito di 700 imam da esportazione, tra cui la metà ospitati in Francia. Ha un'arma potente di ricatto: la sua armata è la più forte della Nato, la quale a sua volta preferisce essere lo struzzo che non vede, piuttosto che il leone che ruggisce, America compresa. vittime cristiane Ammetto, non riesco a non identificarmi con i morti, mi è impossibile non sedermi con l'immaginazione nella pozza di quel sangue, e segnarmi con esso. Esagero. Il cattolicesimo è troppo carnale per essere politicamente corretto. Ma non posso farci niente. Erano fratelli, parte di quel biblico e minuscolo resto d'Israele di frequentatori quotidiani delle messe. In Francia poi, una rarità assoluta. Capire chi erano le vittime forse aiuta a comprendere quale sia il nuovo bersaglio prelibato dei terroristi islamisti. Li chiamo così anche se questo linguaggio è vietato dal Consiglio e dal Parlamento d'Europa perché considerato islamofobo. E anche evitato dal Papa, per non associare gli assassini all'islam ritenuto in sé non violento e dialogante. Giusto per evitare repliche assassine, evitare di fornire pretesti. Ma è la realtà ad urlare «Allah-u-Akbar», e a milioni lo stanno ripetendo, facendo coro, e non riusciamo ad essere sordi. La prima è lei. Era andata di buon ora in chiesa a pregare, dicono i testimoni. La si vedeva spesso salire i cinque gradini del sagrato e quasi fondersi nel biancore neogotico della basilica di Notre-Dame, nell'alba marinara di Nizza. A settant' anni si ha tanto da chiedere a Dio per i nipoti. Se ne stava andando. Si era avvicinata all'acquasantiera, dimenticando che è vuota, e invece c'è il flacone con il gel disinfettante. Le si era avvicinato il sacrista a ricordarglielo e a dirle qualcosa, suppongo: «Si dice che le chiese da lunedì chiuderanno per le re-confinement, ma i vescovi stanno protestando». Magari l'avesse già chiusa... Ma no... Sarebbero entrati suonando e chiedendo la carità in un convento, bussando in un rifugio per barboni tenuto da preti e suore. Cercavano quello: gole cattoliche. È il loro mestiere essere martiri. Ma una pensionata, un sacrestano, come si fa? Che acqua tossica ha bevuto questa schiatta sanguinaria?

IL SACRESTANO. Vincent, 45 anni, sposato con due figli, da dieci anni angelo custode del piccolo gregge. Altre voci si spandono tra le navate, un sussurrio: «Je vous salue Marie». Ed ecco irrompe nella pace un urlo rauco: «Allah-u-Akbar!». Il coltello si muove con furia esperta. La nonna cade per prima, la testa resta attaccata al busto solo con un brandello di pelle candida. La figlia correrà dopo poco verso la chiesa per un presentimento. Un lago di sangue, le vetrate ne parlano: gocciola dal collo dell'agnello in un calice. Ma questo è vivo, non è il vino transustanziato, somiglia a quello sul Calvario di duemila anni fa, è uguale a quello versato in questi primi decenni da migliaia di decapitati in Libia o in Iraq che recitavano il Padre nostro in aramaico. Cristiani, ma quel sangue e la testa mozzata è la medesima del professore Paty. Vincent geme sgozzato. L'uomo - si può dire che è islamico? - impazza contro chiunque sia lì con il torto di essere cristiano, peggio ancora cattolico per di più praticante, nel momento in cui è abbandonato e perciò inerme, perfetto per la lama. Balza addosso anche a una signora di trent' anni, riesce a bucarle la gola, mentre la vita le sgorga via, riesce a uscire, a entrare in un bar, dice accasciandosi: «Dite alla mia famiglia che l'amo». La risposta a questa tremula dichiarazione in cui consiste l'essenza della razza umana e del cristianesimo - l'amore - è stato il latrato irrefrenabile dell'assassino: «Allah-u-Akbar!». Due minuti. Agenti della polizia municipale irrompono in basilica. Abbattono l'assassino. Fanno in modo di non ucciderlo. Eccolo ancora e ancora, mentre viene curato in ospedale, ripetere il nome di chi crede suo mandante e troppi come lui nel cuore della nostra Europa: «Allah-u-Akbar!». Chissà se qualuno in piazza esibirà il cartello "Je suis catholique", alle prossime manifestazioni di sacrosanta protesta e solidarietà. Basterebbe anche un più laico: «Non possiamo non dirci cristiani».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 ottobre 2020. Recep Tayyp Erdogan ha infinite facce che presenta, ogni volta, come l' unico e orgoglioso volto della Turchia, ottenendo tutto quello che vuole con ricatti diplomatici e militari e che scivolano morbidi come scimitarre nel burro. Il burro siamo noi Occidente - sta facendo eccezione una signora Francia - che trattiamo questa Turchia coi guanti come se fosse uno staterello lontano e non bussasse alle nostre porte con rancori secolari mai sopiti, e come se non si trattasse di un altezzoso neo stato «forte» che di recente ha abrogato la democrazia in venti minuti, oltre ad aver detto e fatto altre mille cose gravi: compreso l' aver palesemente fomentato le violenze in Francia - ufficialmente condannate, of course - e più che mai intenzionato a tenere alta una generica difesa dell' Islam che sembra anche funzionale all' affermazione degli interessi geopolitici di Erdogan e all' espansione della sua influenza in Asia e nel Mediterraneo. La Francia? Non è un problema di vignette: Turchia e Francia, da tempo, se le suonano sulla Libia, sul Mediterraneo Orientale, sulla regione armena del Nagorno Karabakh (attaccata dall' Azerbaigian) dove Erdogan sta perfezionando un odio per gli armeni che è perfettamente sovrapponibile a quello di Hitler per gli ebrei. Erdogan, in fin dei conti, nei giorni scorsi ha urlato e sbraitato come infinite altre volte, ma in Francia ci sono stati dei morti: e allora ce ne siamo accorti. E ci ricordiamo che pochi giorni fa, in un discorso presidenziale ad Ankara, Erdogan ha denunciato «l' islamofobia» quale «peste dei Paesi europei» che sono «i veri fascisti, eredi dei nazisti», ci ricordiamo che ha invitato a boicottare i prodotti francesi, e che a Emmanuel Macron ha dato di squilibrato mentale. Ma solo perché Macron ha reagito: Erdogan, a ben vedere, ne ha avuto per tutti. Persino per gli Stati Uniti e per la Nato, di cui la Turchia fa parte: a metà ottobre, dopo la minaccia di sanzioni americane per il primo test del sistema anti-aereo S-400 (acquistato dalla Russia), Erdogan ha risposto pubblicamente così: «Applicatele pure, noi non siamo uno Stato tribale, siamo la Turchia». Loro sono la Turchia, e alla Turchia, non fosse chiaro, importa zero se non entrerà nell' Unione europea: in compenso, da tempo, agita questa esclusione come uno spauracchio, come una prova del grande pregiudizio contro l' Islam e contro la «umma» di cui Erdogan è divenuto leader fondamentalista in giacca e cravatta. Uno che, nel 2016, disse che uomini e donne non possono ricoprire le stesse posizioni «per natura e per indole». La figlia di Erdogan, Summeyye, erede politica, in compenso dice che compito dell' uomo è «portare il pane a casa e mantenere la moglie e i figli», sicché è giusto che «alle figlie spetti una quota minore di eredità». La moglie di Erdogan, Emine, invece sostiene che la donna «è soprattutto madre» e che le turche dovrebbero trarre «ispirazione» dagli harem «che preparavano le donne alla vita» (non è chiaro quale, visto che le concubine erano praticamente incarcerate) e comunque le due, figlia e moglie, girano entrambe a capo coperto. Diceva questo, Erdogan, mentre incassava altri tre miliardi di euro nel secondo anniversario dell' accordo Ue-Turchia sui migranti, lo diceva mentre faceva il pesce il barile sull' Isis, ed esportava armi in Siria (prima di invaderla) e continuava a negare il genocidio turco degli armeni che ispirò Hitler, e di passaggio chiudeva giornali, incarcerava giornalisti e scrittori, censurava internet, e lasciava scrivere, nei suoi libri di Storia, che l' America la scoprirono i musulmani nel 1178: non Cristoforo Colombo. Che c' è di strano - domanda - se Erdogan diventa un riferimento internazionale per squilibrati con la decapitazione facile? L' abbiamo sempre trattato come una simpatica canaglia. A destra, leghisti a parte, c' era Berlusconi che lo adorava e che vedeva tutto in chiave amicale-commerciale; a sinistra mediamente se ne fregavano (comunisti a parte) e lasciavano che la linea la dettasse Romano Prodi o, da premier, quel Mario Monti che nel 2012 ancora auspicava l' ingresso turco nella Ue. Intanto il «sultano» si faceva costruire un palazzo megalomane da 800 milioni di dollari (cercatelo su internet, roba da Mille e una notte) e irrideva le lagnanze di chi faceva notare che stava reprimendo col pugno di ferro ogni protesta anti-governativa. Ora, nei suoi comizi, non c' è una volta che Erdogan non cerchi di intestarsi ogni protesta del separatismo islamista: non tanto in casa sua, dove il «sultano» regna incontrastato con un partito che si chiamava «islamico» anche se il Paese è attanagliato dalla crisi economica; non tanto nel cuore di quei «Lupi grigi» che in Turchia rappresentano il nazionalismo e la xenofobia fascista verso le minoranze: semmai nel cuore dei lupi solitari che ogni tanto si svegliano e ammazzano qualcuno, se possibile lo decàpitano. Come proclamò Erdogan nel 1998: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati». Per questa frase, ai tempi, Erdogan fu arrestato per incitamento all' odio religioso. Oggi è il sultano.

Nizza, lo sfogo di Antonio Socci: "Una donna macellata come un agnello sacrificale e Bergoglio cosa dice?" Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020. Silenzio tombale, nessuna condanna su quanto accaduto a Nizza dove un tunisino di 21 anni, Brahim Aoussaoui, ha ammazzato tre persone, di cui due decapitandole. Neppure da quelli che hanno fatto dei porti aperti (il giovane killer era arrivato proprio da Lampedusa ndr) una filosofia di vita. "Che dicono tutti i cattolici migrazionisti, vescovi e Vaticano, in primis Bergoglio, che da anni pretendono le frontiere spalancate, che dicono di questa povera donna macellata come un agnello sacrificale? Cosa dicono????????" si chiede Antonio Socci. Lo sfogo su Twitter dell'editorialista di Libero arriva prima ancora della richiesta, di chi invece ha sempre sostenuto la necessità dei porti chiusi, di dimissioni di Luciana Lamorgese. Matteo Salvini, leader della Lega, ha infatti chiesto al ministro dell'Interno di lasciare il posto. Non è infatti la prima volta che, grazie alla politica buonista dell'Italia, arrivino indisturbati in Europa terroristi che poi compiono stragi. Che dicono tuitti i cattolici migrazionisti, vescovi e Vaticano, in primis Bergoglio, che da anni pretendono le frontiere spalancate, che dicono di questa povera donna macellata come un agnello sacrificale? COSA DICONOOO???????? 

L’Islam rischia di vincere nell’Occidente nichilista che ha perso la fede in Dio.  Alfonso Piscitelli su culturaidentita.it il 28 Ottobre 2020. La strage di Nizza è una strage annunciata: vi proponiamo l’intervista che Magdi Cristiano Allam ci aveva concesso in occasione del Festival di CulturaIdentità lo scorso agosto ad Anangni. L’intervista è di Alfonso Piscitelli. (Redazione). Mussulmano convertito al cristianesimo, toccato dal Vangelo e dalla teologia di Benedetto XVI, Magdi Allam coglie nella guerra mossa contro i simboli della storia europea e occidentale una netta analogia con la “iconoclastia” islamica. Il discorso di Allam continua a svilupparsi in un forte antagonismo nei confronti della fede di origine: il suo ultimo libro si intitola sinteticamente “Stop Islam”. Ma discutendo di Black Lives Matter, di arcivescovi che vogliono cancellare le immagini tradizionali di Gesù e di Democratici, non solo americani, che coltivano l’odio di sé, l’autore ci indica la vera falla della nostra civiltà: il nichilismo. “L’Islam – ci dice – rischia di vincere nell’Occidente nichilista che ha perso la fede in Dio e la fede in sé stesso presentandosi come elemento di certezza e di ordine”.

La furia iconoclasta dei BLM come era prevedibile ha preso di mira i simboli della cristianità, con San Michele paragonato al poliziotto di Minneapolis e l’accusa alle raffigurazioni di Cristo di essere troppo europee…

«È l’Occidente che odia se stesso e vuole eliminare tutte le raffigurazioni del proprio passato. Questo approccio ideologico è una evidente malattia, perché chi rifiuta le proprie radici come può immaginare di proiettarsi nel futuro? Peraltro scagliarsi contro le statue, i simboli del passato è esattamente ciò che fece Maometto a partire dal 630».

Ricorda anche un po’ il Terrore giacobino o la Cambogia di Pol Pot.

«Con la differenza che la rivoluzione francese è finita, come pure quel regime comunista mentre l’Islam esiste ed è in mezzo a noi. Quando Maometto distrusse gli idoli della Mecca formalizzò l’iconoclastia, la distruzione delle statue all’interno dell’Islam, ma affermò anche il principio secondo cui la vera storia comincia dalla instaurazione dell’Islam e tutto il passato è condannato come “ignoranza-oscurantismo”: un approccio grave perché piaccia o meno noi siamo il frutto ciò di ciò che ci ha preceduto».

Però nel mondo islamico troviamo anche un archeologo siriano come Khaled el Assad, che appassionatamente difendeva i reperti antichi.

«Noi dobbiamo distinguere tra le persone e la religione. Io stesso sono stato per gran parte della mia vita un mussulmano laico, che cioè credeva nell’Islam come riferimento di fede e di civiltà ma che anteponeva la ragione ed il cuore al sistema di credenze e precetti. Una condizione diffusa nell’Egitto della metà del Novecento, quando la logica prevaleva e gli estremisti islamici venivano emarginati. I mussulmani come persone possono essere moderati e ritengo che ci siano molti islamici moderati con i quali noi possiamo e dobbiamo dialogare, ma il sistema religioso ha le sue caratteristiche rigide».

Anche l’arcivescovo di Canterbury ha approvato la campagna che mira ad eliminare le raffigurazioni di Gesù con tratti europei: “Le statue di Canterbury saranno riviste”, ha promesso.

«L’arcivescovo di Canterbury ha fatto anche di peggio nel corso degli anni quando ha sostenuto che è giusto che elementi della Sharia vengano incorporati nella legislazione. La Gran Bretagna è forse il paese europeo più a rischio di islamizzazione: hanno legittimato la presenza di tribunali islamici, che hanno già emesso decine di migliaia di sentenze basate sulla Sharia. In alcune amministrazioni con sindaco islamico hanno consentito che i consigli comunali siano aperti dal muezzin che recita versetti coranici… Questo è veramente preoccupante perché significa che siamo allo sbando più totale, perché non abbiamo un elemento di certezza. Ed è in questo caos e disorientamento che l’Islam potrebbe prevalere come fattore di certezza e di ordine».

L’Islam potrebbe essere il vincitore nel clima nichilistico dell’Occidente?

«Esatto, questo è il vero rischio, perché nell’Islam si preservano alcune certezze di base che in Occidente, dove per dire la famiglia naturale è diventata oggetto di criminalizzazione, si sono perse».

Però questo movimento contro i simboli del passato ha origine negli USA: per effetto delle tensioni razziali o forse anche per l’influsso della cultura protestante?

«Trump però è evangelico, mentre Nancy Pelosi e il vescovo di New York che esprimono simpatia per le rivolte sono cattolici e anti-Trump. Non traccerei un nesso tra iconoclastia del presente e mondo evangelico. Pesa forse più l’approccio ideologico del Partito Democratico, che poi era il partito dei vecchi schiavisti…»

Per effetto di un senso di colpa per il passato?

«È qualcosa di più grave del senso di colpa, quello che emerge nel rito dell’inginocchiarsi è un odio di sé in quanto bianchi. Possiamo dire che tutto questo è qualcosa di profondamente morboso, senza difendere minimamente razzismo e schiavitù. Peraltro schiavitù e razzismo sono fenomeni universali, la particolarità della civiltà europea è che la schiavitù la ha abolita… Quando si parla di schiavitù si parla soltanto degli Africani deportati nelle Americhe (otto milioni), ma non si parla di quelli che furono trasferiti nelle terre islamiche, che secondo alcuni storici ammontano a dodici milioni. E non dimentichiamo che fino al 1830 due milioni e mezzo di Europei sono stati tratti in schiavitù da Arabi e Turchi. Quella che viene condannata negli Stati Uniti è una schiavitù che non esiste più. L’ISIS ha riesumato la schiavitù, con le ragazze yazide vendute al mercato».

Ora c’è l’attacco ai simboli ma prima come dicevi c’era una dimenticanza latente di ciò che riguarda la nostra storia. Come si cura questa perdita di memoria e di identità? Come ricostruire sul Ground Zero di valori dell’Occidente?

«Serve una formazione culturale che ci faccia recuperare la certezza e l’orgoglio di ciò che siamo sul piano della nostra identità, della nostra fede. Noi abbiamo bisogno di recuperare le nostre radici per essere rigeneratori della civiltà».

Benedetto XVI di fronte a queste convulse vicende avrebbe saputo trovare parole illuminanti…

«Il concetto dell’Occidente che odia sé stesso è appunto un concetto espresso dall’allora cardinal Ratzinger in una lectio magistralis del 2004 al Senato quando ne era presidente il filosofo Marcello Pera. Quello che occorre è il recupero del sano amore per sé stessi, l’esortazione di Gesù è appunto “ama il prossimo tuo come te stesso”».

Il Terrore. Piccole Note il 30 ottobre 2020 su Il Giornale. La strage di Nizza fa tornare sugli scudi lo scontro di civiltà. Molti, anche autorevoli, hanno preso posizione per una resa dei conti con l’islam, minaccia irriducibile dell’Occidente cristiano. Val la pena, allora, ripercorrere le orme della guerra siriana, per ricordare come i media mainstream abbiano alimentato, e alimentano, la narrazione di una ribellione contro il despota Assad, per ora frenata. I liberatori erano proprio quelle milizie salafite arruolate nel magmatico mondo sunnita che Macron nel suo alto discorso (vedi nota) aveva finalmente annoverato tra i radicali estremisti. E se esistono ancora cristiani in quella nazione lo si deve ad altri islamici, quelli che combattevano per difendere la loro terra dalle orde salafite tanto care ai politici e media d’Occidente, e agli sciiti di hezbollah, il cui ingresso in guerra a fianco di Damasco ha evitato che la Siria si trasformasse in un Salafistan. Questi prima, e poi i russi, trattati come reprobi e sanzionati dallo stesso Occidente. Quando sono entrati in Siria hanno mostrato al mondo gli interminabili convogli di autocisterne che portavano il petrolio dalla Siria in Turchia, grazie a riprese aeree condotte con droni e aerei. Convogli rimasti stranamente invisibili ai droni e ai jet Usa che pure da prima scandagliavano le stesse aree. Acconto ai salafiti, al Qaeda, quella che ancora presidia la regione di Idlib, che Damasco ha tentato di liberare, fermata dall’Occidente scesa in campo per salvare i ribelli attaccati, nulla importando che essi tiravano missili sui civili d’intorno. Tutto l’Occidente, Stati Uniti in testa, ha fatto il tifo contro Assad per i salafiti – che hanno fatto strage ieri a Nizza e prima altrove, in Europa -, i cosiddetti ribelli moderati come li chiamavano per evitare l’ovvio discredito. L’America gli ha anche mandato armi, tante armi, passate di mano in mano nella canea assassina. Ha addestrato pure tanti di quei miliziani, moderati prima, estremisti poi. Poi è arrivato l’Isis, scagliato a bomba contro Assad. In un audio sfuggito alla segretezza, l’allora capo del Dipartimento di Stato John Kerry racconta di come la Russia sia entrata in campo prima che l’Isis diventasse inarrestabile. Noi, invece, gli americani intende Kerry, “Abbiamo visto che [lo Stato Islamico, ndr.] si stava rafforzando e abbiamo pensato che Assad fosse così ancor più minacciato”. Una conversazione pubblicata sul Washington Examiner, non un giornale scandalistico, in un articolo che spiega l’audio: “Obama sperava di usare lo Stato Islamico come leva contro Assad, rivela John Kerry”. Non solo, sulla Siria si possono agevolmente leggere i documenti rubati da un team anonimo di hacker all’apparato militare britannico, file che raccontano di come Londra abbia sostenuto e armato i ribelli siriani salafiti (per inciso, tante delle stragi europee sono state fatte da miliziani “di ritorno”). È grazie a queste connivenze, a queste criminali ambiguità, che il mostro del Terrore islamico ha potuto dilagare. Grazie, per esempio, alla guerra libica, che ha devastato un Paese che faceva argine all’estremismo islamico, dilagato dopo la sua “liberazione” da parte della Nato (il gridolino di “entusiasmo” di Hillary Clinton, che oggi conciona di libertà e di parità dei sessi, alla notizia del barbaro assassinio di Gheddafi, è emblematico di questa perversione). In tempi più recenti si può ricordare il giubilo con il quale tanto mondo occidentale ha reagito al proditorio assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani. Su tale omicidio, ordito dal Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton in nome e per conti degli ambiti che da sempre sostengono lo scontro di civiltà, ebbe a scrivere l’ex agente speciale dell’Fbi Ali H. Soufan sul  New York Times, ricordando del ruolo cruciale avuto dal generale iraniano nella guerra contro l’Isis. Così concludeva la nota sul suo assassinio: “il danno è fatto. Senza un importante raffreddamento delle tensioni, una rinascita jihadista potrebbe ora essere quasi inevitabile”. Inevitabile, appunto. Così veniamo alla guerra in Iraq, quando cristiani – ché tanti soldati e comandanti dell’esercito Usa erano battezzati – devastarono un Paese e con questo il mondo, come da conclusioni della Commissione d’Inchiesta britannica guidata da sir John Chilcot, che documentò come quella guerra avesse favorito il dilatarsi del Terrore, Isis compreso. Nel commentare quella guerra, Ron Paul, politico Usa di libera coscienza, ha scritto che la pubblicazione dei rapporti di Wikileaks “ci ha mostrato in modo dettagliato e sporco che l’attacco degli Stati Uniti era una guerra di aggressione, basata su bugie, in cui centinaia di migliaia di civili furono uccisi e feriti”. “Abbiamo appreso che le forze armate statunitensi hanno classificato chiunque uccidevano in Iraq come "combattente nemico". Abbiamo appreso che più di 700 civili iracheni sono stati uccisi per essersi avvicinati troppo a uno dei tanti  checkpoint militari statunitensi, comprese le donne incinte che si precipitavano in ospedale”. “Abbiamo appreso che il personale militare degli Stati Uniti consegnava regolarmente i "detenuti" alle forze di sicurezza irachene, che li avrebbero torturati e spesso uccisi”. Non solo, abbiamo “premiato i criminali. Persone che consapevolmente ci hanno mentito sulla guerra, come Dick Cheney, George W. Bush, gli ‘esperti’ neocon di Beltway e la maggior parte dei media, che non hanno dovuto affrontare né punizioni né vergogna professionale per quanto fatto. Anzi, ne sono usciti senza problemi e molti hanno persino prosperato”. Prosperano, e sono ancora i padroni della narrazione, sia delle guerre sia del Terrore, che raccontano e spiegano come affrontare. Loro, che l’hanno creato, e accompagnato in questi anni.

Ecco come è la Nizza del terrore. In un capitolo nel nuovo volume di Gigi Riva si racconta perché la Costa Azzurra è diventata una terra di jihadisti. L'Espresso il 29 ottobre 2020. C'è un ragazzo congolese immigrato che si chiama Gino il cattolico perché quella è la sua religione e si trova costretto a scappare dall' Ariane, la più disperata delle banlieue di Nizza, edificata tra il fiume Paillon e la centrale nucleare. Non c'è posto per lui nel quartiere dove sono comparsi imam fondamentalisti che fomentano l'odio e dove molti suoi coetanei hanno abbracciato il Jihad. I pochi francesi che ci abitano sono barricati in casa, spaventati dal rumore sordo di una violenza in arrivo, dalle strade dove si odora la paura. La presenza del genere femminile è rarefatta, le donne camminano tre passi indietro ai loro uomini e sono velate. I rifiuti debordano dai cassonetti, i cani randagi vagano alla ricerca di avanzi di cibo. La bella Nizza della Costa Azzurra, dei locali alla moda, dei viali ordinati e orlati dalle case liberty, della Promenade des Anglais, sta oltre il largo boulevard Pasteur che segna una cesura netta. Pochi metri e si passa da un mondo all'altro, opposto. All'Ariane, in quel clima teso e angosciante viene ucciso Salomon, senegalese d'origine, il proprietario del bar-ristorante “Dakar”. E' un immigrato di prima generazione, ha assimilato gli ideali della République, si oppone con forza agli estremisti arrivati come un cancro a imporre la legge del terrore. E' il riassunto, molto succinto, di un capitolo del mio ultimo libro “Non dire addio ai sogni” (Mondadori). Fiction. Ma fiction basata sulla realtà. Sono stato a Nizza, all'Ariane, per essere più esatto nell'ambientare questa parte della mia storia. Ho scoperto la fama sinistra di una periferia che ha il triste primato del maggior numero di foreign fighters reclutati per lo Stato islamico. A causa dell'incessante opera di Omar Diaby, meglio conosciuto come Omar Omsen (il cognome è la crasi del nome e dell'origine, Omar e Senegal). Omar era arrivato all'Ariane nel 1983 quando aveva 7 anni. La sua carriera da piccolo delinquente aveva toccato il diapason con le rapine nelle gioielleria di Montecarlo. In carcere si era radicalizzato e, scontata la pena, era tornato a domicilio diventando un pioniere della propaganda via Internet con alcuni video di incitamento alla Guerra Santa capaci di stabilire record di visualizzazioni. La sua base era un chiosco halal trasformato in un covo di aspiranti terroristi. Nel 2013 aveva trascinato in Medioriente armati di fucile decine di adepti. A fine agosto scorso è stato arrestato ad Harim (in Siria) in circostanze poco chiare, ma sembra da parte di un gruppo jihadista concorrente che spadroneggia nella regione. I semi hanno generato odio in abbondanza, all'Ariane e non solo. Non mi sono stupito nell'ascoltare confessioni per le quali anche diversi agenti dei servizi italiani monitorano l'area: il nostro confine è molto vicino. Così come non mi sono stupito, purtroppo, nell'apprendere la notizia di questa nuova carneficina nella cattedrale di Notre Dame a Nizza. Il mio libro si snoda tra il 2014 e il 2016. E' la storia di ragazzo africano, Amadou che viene portato in Europa da falsi procuratori del calcio che gli promettono un futuro da campione. Ma poi lo abbandonano per la strada. Tra Italia e Francia deve cercare di sopravvivere e resistere. Avrà un piccolo riscatto finale. Ma prima conosce il degrado della stazione Termini, è costretto a entrare in una gang di spacciatori a Marsiglia, all'Ariane perde il suo compagno di avventura, Gino appunto. Assiste all'incrudelirsi dei rapporti in banlieue. Vive seppur da lontano gli attentati di Charlie-Hebdo, Bataclan, fugge poco prima del massacro di Nizza. Il Covid 19 fagocitante ci aveva fatto dimenticare altri mali della nostra contemporaneità. Non essendo stati mai sradicati, ecco che tornano.

Terrorismo, Francia sotto attacco: attentato alla Cattedrale di Nizza, 3 morti e 2 decapitati. Avignone, ucciso un uomo. Gedda, assalto al consolato. Libero Quotidiano il 29 ottobre 2020. Dopo la barbara decapitazione del professore Samuel Paty, la Francia ripiomba nell'incubo del terrorismo islamico. Nella mattina di oggi, giovedì 29 ottobre, un altro terrificante attacco: tre morti e un ferito grave è il bilancio dell'attentato compiuto nella cattedrale di Notre-Dame, a Nizza. La polizia ha arrestato il responsabile - armato di coltello - e una squadra di artificieri si è recata immediatamente sul posto. Ma non è tutto: a stretto giro di posta si è appreso che uomo armato di un coltello è stato ucciso dalla polizia ad Avignone. E' quanto riferisce radio Europe 1, precisando che l'uomo avrebbe tentato di attaccare dei polizioti in strada, anche in questo caso al grido di "Allah akbar". Dunque un terzo episodio, fuori dal territorio francese: è stato attaccato e colpito anche il consolato di Gedda, in Arabia Saudita, dove una guardia è rimasta ferita. Insomma, la Francia rivive l'incubo di un attacco coordinato del terrorismo islamico. A Nizza, due delle vittime, sono state anche decapitate all'interno della cattedrale: un orrore puro. Il ministro dell’Interno, Gérard Darmanin ha annunciato su Twitter che sta presiedendo una riunione di crisi al ministero dell’Interno dopo aver parlato con il sindaco della città, Christian Estrosi, che si è recato sul luogo e ha definito quanto accaduto un attacco terroristico. Proprio il primo cittadino conferma che l'assalitore avrebbe urlato "Allah Akbar" durante l'azione, e non avrebbe mai smesso di urlarlo nemmeno durante e dopo l'arresto, mentre, ferito, veniva portato in ospedale. Emmanuel Macron arriverà nelle prossime ore a Nizza. Il premier Jean Castex, che nel momento dell'attacco stava parlando in parlamento a proposito del nuovo lockdown che comincia questa sera, giovedì 29 ottobre, ha chiesto ai deputati un minuto di silenzio. "Non ci sono dubbi sul fatto che fosse un militante islamo-fascista" ha detto il sindaco di Nizza, Christian Estrosi. Dopo l’accoltellamento vicino all’ex sede di Charlie Hebdo a fine settembre, la decapitazione di Paty, è il terzo attacco in poco più di un mese. Il 25 ottobre il capo della polizia aveva addirittura diramato una circolare per alzare il livello d’allerta dopo vari appelli a colpire la Francia da gruppi terroristi, l’ultimo qualche giorno dall’agenzia Thabat, vicina ad Al Qaeda.

 Nizza, quelle parole prima della morte: "Dite questo ai miei due figli..." La donna aveva appena accompagnato i figli a scuola. È riuscita a raggiungere un bar e a pronunciare le sue ultime parole prima di morire. Valentina Dardari, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. La madre agonizzante è riuscita a raggiungere un bar e a pronunciare le sue ultime parole prima di morire, colpita dalla furia omicida di Aouissaoui Bahrain, il tunisino ventunenne attentatore nella Basilica di Nostra Signora dell'Assunzione di Nizza. “Dite ai miei figli che li amo tanto” ha detto a chi ha cercato di soccorrerla nel bar sito in rue d’Italie, a pochi metri dalla cattedrale dove è iniziata la strage. Ma quelle ferite profonde alla gola non le hanno dato scampo e poco dopo la 44enne è morta.

La madre aveva accompagnato i bambini a scuola. Secondo quanto raccontato dai media francesi, la donna aveva appena accompagnato i suoi due bambini a scuola e, prima di iniziare la sua giornata, aveva deciso di entrare per pregare nella chiesa di avenue Jean Médecin, la più bella di Nizza, molto simile nella sua architettura alla ben più famosa e conosciuta Notre-Dame di Parigi. Vincent Loquès, il sacrestano, aveva poco prima aperto le porte, verso le 8.30, come faceva ogni mattina.

Chi è l'attentatore di Nizza: tunisino, 21 anni, si chiama Brahim. La 44enne, prima di essere raggiunta dalla coltellata fatale alla gola, ha visto cadere ai suoi piedi le altre due vittime, una donna di 70 anni che stava pregando ed è stata decapitata all'interno della cattedrale, e il guardiano della chiesa. La donna è stata colpita dalla furia omicida del tunisino ma è comunque riuscita a scappare e a guadagnare l’uscita, andandosi a rifugiare nel bar adiacente al luogo di culto.   La ferita inferta dall’islamico era però profonda e poco dopo aver pronunciato le sue ultime parole, rivolte ai suoi bambini, la 44enne è prima svenuta e poi morta.

Le altre due vittime. L’altra vittima invece, la 70enne, non è neanche riuscita a fare qualche metro, è stata quasi decapitata davanti all’acquasantiera. Forse l’omicida in quel momento era ancora più inferocito dal fatto che l’anziana avesse appena fatto il segno della croce. In molti hanno ricordato quella donna, una parrocchiana molto legata alla sua chiesa e spesso presente alle funzioni religiose. La terza vittima è il sacrestano, un 55enne separato e padre di due ragazzi, uno di 21 e l’altro di 25 anni. L’uomo, sempre secondo quanto ricostruito, avrebbe udito le urla e sarebbe subito accorso a vedere cosa stesse succedendo. Ma davanti a sé ha trovato il tunisino che lo ha colpito a morte. I parrocchiani hanno parlato dell’uomo come di una persona tranquilla che aveva fatto della cattedrale la sua casa dal 2013, anno in cui aveva iniziato a prestare servizio nella Basilica. Precedentemente aveva lavorato nella chiesa di Santa Giovanna D’Arco, in un altro quartiere della città francese. In molti conoscevano Loquès, anche i commercianti della zona, una delle più ricche di negozi di Nizza.

"Allah akbar". Orrore a Nizza: decapitazione nella cattedrale. Un medico ha raccontato: “Ho visto un ragazzo correre fuori dalla chiesa, sembrava invasato. Dopo pochi secondi, cinque o sei poliziotti lo stavano inseguendo in un giardino a lato della Cattedrale. Poi ho sentito quattro colpi e mi sono nascosto”. Il titolare del bar dove la madre ha cercato rifugio ha detto di aver sperato che la donna si salvasse ma, appena varcata la porta era solo riuscita a pronunciare le sue ultime parole verso i propri figli, prima di cadere a terra.

Leonardo Martinelli e Giulio Gavino  per lastampa.it il 29 ottobre 2020. Il presidente francese, Emmanuel Macron, è giunto a Nizza, dopo l'attacco che ha causato 3 morti alla basilica Notre-Dame de l'Assomption. Dopo aver incontrato il sindaco, Christian Estrosi, il presidente si sta intrattenendo attualmente con le forze di sicurezza e di soccorso mobilitate sul posto. «Grazie al capo dello Stato Emmanuel Macron per la sua visita immediata nella nostra città dopo il nuovo attentato islamista che ha colpito il cuore di Nizza», aveva twittato poco prima il sindaco della città, Christian Estrosi, pubblicando delle foto dell 'incontro con Macron. L'inquilino dell'Eliseo è giunto circa cinque ore dopo l'attacco all'arma bianca, che ha provocato almeno tre morti e diversi feriti.

Cosa è successo? In Francia nel giorno in cui i musulmani celebrano la nascita di Maometto, è tornata la paura. La mattina di terrore è iniziata nella cattedrale di Nizza. Un 21enne di origini tunisine Brahim A., incensurato, ha fatto irruzione all’interno della basilica di Notre-Dame, a breve distanza dalla stazione ferroviaria, armato di un coltello e con il volto coperto da un passamontagna. Tre sarebbero i morti, compresa una donna sulla settantina, che sarebbe stata decapitata, come viene indicato dalla televisione Bfmtv. Diversi i feriti. Poco dopo, intorno alle 11.15, un'altra persona, armata di coltello, avrebbe tentato di attaccare gli la polizia per strada ad Avignone: gli agenti hanno reagito aprendo il fuoco, lui è morto sul posto. E a Gedda, seconda città dell'Arabia Saudita, un uomo è stato arrestato dopo aver aggredito con un coltello la guardia del consolato francese. Tornando alla stage di Nizza, l’aggressore è stato bloccato dalla polizia municipale, intervenuta sul posto e chiamata dai clienti di un bar, che si trovavano ai tavolini all’esterno, davanti alla basilica. Questi hanno visto una donna uscire da Notre-Dame con una profonda ferita alla gola e che ha cercato invano di salvarsi nel bar: secondo Bfmtv sarebbe morta di lì a poco per le ferite. Pochi istanti prima, secondo alcuni testimoni, avrebbe detto «dite ai miei figli che li amo». All’interno della chiesa sono stati trovati i cadaveri di un’altra donna e dell’uomo, che era il guardiano della cattedrale. Intanto, l’aggressore è stato neutralizzato dalla polizia che ha sparato quattro colpi di pistola e ferito gravemente allo stomaco. Si trova ricoverato in rianimazione, all’ospedale della città. L'attacco è iniziato intorno alle 9 del mattino dentro la basilica di Notre Dame. La cattedrale di Nizza, si trova sul Viale Jean Medecin (dedicato allo storico sindaco nizzardo), cuore pulsante della città: un vialone dove ci sono negozi, uffici e centri commerciali, che collega la stazione ferroviaria con la piazza simbolo della città, Place Massena.  Il sindaco di Nizza, Christian Estrosi, ha detto che « tutto fa pensare a un attacco terroristico», parlando di «islamofascismo». «Ho chiesto che tutte le chiese restino chiuse, che tutti i luoghi di culto siano chiusi, che tutti i luoghi pubblici che possono essere oggetto di inquietudine siano chiusi per il momento» ha aggiunto il primo cittadino. «Abbiamo bisogno di rinforzi significativi per mettere in sicurezza la città nel suo insieme, rassicurare la popolazione della città», ha aggiunto. A Parigi il premier Jean Castex stava illustrando all’Assemblea nazionale le misure del nuovo lockdown, che scatterà questa sera. Ma ha lasciato subito il Parlamento per raggiungere il ministero degli Interni, dove sta coordinando a distanza gli interventi a Nizza con il ministro Gérald Darmanin. E così la città sulla Costa azzurra è colpita di nuovo. La città non ha mai potuto dimenticare la strage compiuta sulla promenade des Anglais, la sera del 14 luglio del 2016, quando 86 persone morirono, falciate da un camion che correva all’impazzata davanti al mare: al volante un terrorista jihadista, che fu eliminato dalle forze dell’ordine. Il nuovo attacco nella basilica di Nizza fa seguito alla terribile aggressione che si è verificata il 16 ottobre, a Conflans Saint-Honorine, a una cinquantina di km a nord di Parigi. Samuel Paty, professore alla scuola media, venne aggredito per strada e decapitato. Aveva mostrato in classe delle caricature di Maometto, pubblicate da Charlie Hebdo. Dall'inizio di settembre ha avuto inizio a Parigi il processo contro i complici degli attentatori che fecero irruzione nella redazione del settimanale satirico, il 7 gennaio 2015. Da allora diverse minacce di gruppi islamisti si sono abbattute sulla Francia. Un giovane di origini pakistane si presentò addirittura il 25 settembre davanti all'edificio che in precedenzava la redazione di Charlie Hebdo: lì ha ferito gravemente due giovani, prima di essere abbattuto. Intanto oggi le campane delle chiese di Francia suoneranno alle 15, in seguito dell'attacco di Nizza. Lo ha annunciato la Conferenza episcopale: «Dovunque sarà possibile, le campane delle chiese francesi suoneranno alle 15 oggi», si legge in una nota diffusa online.

Le reazioni. La Turchia condanna «con forza» l'attentato avvenuto a Nizza. Lo ha riferito Hurriyet, citando un comunicato del ministero degli Esteri di Ankara. «Condanniamo con forza l'attentato e porgiamo le condoglianze ai parenti di quanti hanno perso la vita nell'attacco» si legge, «nessuna ragione può giustificare l'uccisione di una persona o la violenza. un attacco brutale di questo tipo, in un luogo sacro, non condividono valori religiosi, umanitari e morali. Come Paese che combatte vari tipi di terrorismo e perde per questo i suoi cittadini, sottolineiamo la nostra solidarietà al popolo francese, soprattutto agli abitanti di Nizza, contro terrorismo e violenza». Il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha sollecitato l'unità degli europei «contro chi diffonde l'odio». Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Presidente della Repubblica Francese condanna  «quest'ulteriore, deplorevole gesto di violenza. Manteniamo ferma la determinazione nel contrasto il fanatismo di qualsivoglia matrice – ha detto – , una difesa di quei principi di tolleranza che costituiscono il tessuto connettivo delle nostre società democratiche». Il premier, Giuseppe Conte, ha parlato di «vile attacco» e sollecitato «un fronte comune a difesa dei valori di libertà e pace». Il Consiglio francese del culto musulmano ha condannato fermamente l'accaduto e invitato a cancellare i festeggiamenti per il compleanno del profeta.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 2 novembre 2020. Un ragazzo pakistano sta ordinando un pezzo di pizza al taglio in Rue Meyerbeer. È in coda davanti a altre due persone. Passa un militare bardato da guerra e gli punta il dito verso la bocca: è un gesto strano. Il ragazzo si alza la mascherina, il militare prosegue la marcia affiancato a un collega. Nizza è fatta di due città separate. La prima la conoscono tutti. Anche se adesso si stenta a riconoscerla. Sta nei viali del centro storico, è questo Casinò con le porte sbarrate, gli alberghi che hanno già mandato via i camerieri. Caffè chiusi, tavolini delle brasserie legati alla catena. Lungo la Promenade des Anglais resiste solo un negozio di souvenir che ha la fortuna di vendere tabacchi, quindi può stare aperto perché è considerato un servizio essenziale. Oggi sul lungomare si incontrano i nuovi militari dell' operazione «sentinelle» voluta dal presidente Macron: da 3000 a 7000 soldati impegnati in Francia per il controllo del territorio. Molti sono arrivati in Costa Azzurra per scongiurare nuovi attentati, due di questi sono piazzati davanti alla basilica di Notre Dame e tengono i mitra impugnati. Guardiani della Francia. I cittadini di questa parte di Nizza si ritrovano qui davanti ogni sera per cantare la Marsigliese. È venuto l' imam Abdelkader Sadouni per dire che anche lui, in questi giorni, è cristiano. Continuano a arrivare gli amici del sagrestano Vincent Loquest e delle signore Nadine Devillers e Simone Barreto-Silva, le tre vittime del terrorista armato di coltello. C'è un custode incaricato di aprire la cancellata, ogni volta che qualcuno vuole depositare un mazzo di fiori sul sagrato. La basilica è chiusa per ragioni di sicurezza. Ma domani verrà aperta, seppur blindata. «Sono stata convocata per il coro alle 18», dice la signora Linda S. «Non potrà entrare il pubblico, ma verrà celebrata comunque la messa. Ci sarà anche la televisione nazionale. Io credo che sia giusto, non dobbiamo arretrare. È un giorno importante per i cristiani, anche se non sarà facile entrare dopo quello che è successo, perché adesso abbiamo paura». Questa è la Nizza che conoscono tutti. Ma a sette minuti d' auto c' è il confine oltre il quale incomincia l' altra città. La strada per arrivarci è tutta dritta e in salita, costeggia l' argine del fiume Paglione e punta verso l' autostrada di cui, da lontano, si vedono i viadotti alti sulla montagna. È Boulevard Pasteur la frontiera. A quel punto, in sequenza: carcasse di auto bruciate, rifiuti, camper, bambini che si lavano alla fontana, desolazione. Fino a arrivare ai grandi casermoni squadrati del quartiere L' Ariane. Sta in alto. Domina la valle. Incombe sull' altra città. È da questa banlieue che è partito il 10% dei jihadisti andati a combattere in Siria. «Cosa vuoi qui?», dice un ragazzino appena ci vede arrivare davanti al «Teatro Lino Ventura». Sono almeno in quindici lì fuori, nessuno indossa la mascherina. I due bar di fronte sono aperti nonostante il lockdown. In questa città vige un' altra legge. Malgrado il commissariato di polizia e il passaggio di camion che vanno a imboccare l' autostrada, a L' Arianne nessuno è benvenuto. «Non la mettiamo la mascherina, sono tutte cazzate!», se la ride un altro ragazzino con la tuta nera. Sono di origine magrebina, immigrati di seconda e di terza generazione. Due donne stanno frugando in un bidone dell' immondizia, un uomo fa pesi in mezzo alla strada. C'è una piccola coda nel negozio di frutta e verdura. Ogni auto viene subito segnalata, tanto che al secondo giro ti vengono incontro e ti fanno segno di andare. Anche questa frattura, anche questo isolamento, anche questa miseria è la Francia. È in questa città doppia e separata che il terrorista di Notre Dame, Brahim Aouissaou, arrivato dall' Italia ha trovato nel giro di due giorni quattro contatti, tante sono le persone che la gendarmerie ha fermato con il sospetto di complicità. Il sindaco Christian Estrosi da giorni usa parole molto forti. «Dobbiamo fermare questi islamo-fascisti». «Nessun diritto per i nemici della legge». «Servono armi e leggi speciali per abbattere il nemico». Se chiudere le chiese è stata una decisione del governo centrale, è stato il sindaco di Nizza a firmare l' ordinanza che da ieri ha chiuso i parchi e i giardini pubblici. Anche i cimiteri sono presidiati, aperti con orario limitato. Per la prima volta a Nizza, la città divisa a metà, per portare un fiore sulla tomba dei propri cari bisognerà passare accanto a militari armati.

Da ansa.it il 2 novembre 2020. Al Qaida nel Maghreb ha minacciato il presidente francese Emmanuel Macron e ha esortato i suoi seguaci a uccidere chiunque insulti il  profeta Maometto. "Uccidere chiunque insulti il profeta è diritto di ogni musulmano", ha detto in un comunicato il gruppo jihadista. "Il boicottaggio è un dovere ma non è sufficiente", ha aggiunto Aqmi minacciando di vendicare i commenti di Macron, definito "giovane e inesperto, con poco cervello".

Nizza, dopo l'attentato in campo gli psicologi per curare la città e le sue paure. Massimo Calandri su La Repubblica il 31 ottobre 2020. La municipalità ha riattivato - dopo la strage del 2016 - un servizio di ascolto e aiuto per i cittadini traumatizzati. Già centinaia le richieste di sostegno. "Mitigare lo shock", è la parola d'ordine. Quattro anni dopo la strage della Promenade des Anglais, ritornano gli incubi, le paure, le ansie di Nizza e dei suoi abitanti. La municipalità ha subito riattivato uno specifico servizio di ascolto e di aiuto per i suoi cittadini più traumatizzati, che dal 2016 ad oggi ha seguito diverse migliaia di persone, compresi mille bambini delle scuole materne ed elementari. Già poche ore dopo l'assalto terrorista alla basilica di Notre Dame de l'Assomption, nelle sale interne del Café de Lyon - al 33 di Avenue Jean Medecin, a qualche decina di metri dalla chiesa - alcuni psicologi si sono occupati di diversi casi. "Ci ha precettato il Comune per aiutare le famiglie e gli individui che hanno assistito all'attentato, o che comunque hanno udito le urla, i colpi di pistola, e sono rimasti impressionati", spiega Delphine Courtonne, che coordina il servizio. Ieri erano già salite a centinaia le nuove richieste di sostegno, il numero è inevitabilmente destinato ad aumentare. "Non è facile superare un nuovo trauma del genere. C'è stupore, inquietudine, difficoltà a comprendere. Il fatto di non riuscire a dare una spiegazione logica a questa vicenda. E l'inevitabile eco di un atto così ansiogeno". Ansiogeno, una parola che la psicologa ripete più volte. Dopo il massacro del 14 luglio, l'associazione Montjoye, per cui lavora la dottoressa Courtonne, si era occupata di centinaia di abitanti di Nizza. "Che non riuscivano più a dormire la notte. Che avevano il terrore di uscire per strada. Che non avevano il "coraggio" di tornare al lavoro, di accettare consapevolmente di ricominciare con una vita "normale"". Una città sull'orlo di una crisi di nervi. In questi anni sono stati circa duecento gli psicologi che si sono messi a disposizione di almeno duemila individui vittime di "problemi emotivi". L'incubo è ricominciato. "Ci stavamo già preparando ad affrontare grandi problemi nel mese di novembre, con tutte le conseguenze psicologiche del nuovo lockdown, dopo mesi vissuti comunque con grande difficoltà. Adesso, questa nuova storia orribile. Comincia ad essere troppo, per la gente di Nizza". La squadra di madame Courtonne è preparata "agli psicotraumi, all'ascolto attivo, alle interviste". La dottoressa che in questo momento l'urgenza è "attutire il grande carico emozionale". Ammortizzare lo choc. Racconta che solo pochi minuti dopo che i media avevano rilanciato la notizia del tragico assalto nella chiesa del centro, molte persone che erano state traumatizzate 4 anni fa hanno telefonato chiedendo aiuto: "Quello che è appena accaduto ha riacceso le ansie, le paure. Continuavamo a seguire diversi pazienti che stavano più o meno rapidamente vincendo le loro ansie. A questo punto, i follow-up saranno più ravvicinati. Capiremo davvero l'onda dello choc solo nei prossimi giorni". Non sarà facile. "Provate voi, a dare una spiegazione sensata a tutto questo".

Nizza, secondo arresto per l'attentato terroristico: "Erano in contatto", un complice di Brahim? Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020. C’è un secondo fermo per l’attentato terroristico di matrice islamica che si è consumato nella giornata di giovedì 29 ottobre nella basilica di Notre-Dame di Nizza. Stando alle indiscrezioni rilanciate da radio Europe 1, che ha citato fonti giudiziarie vicine all’inchiesta dell’antiterrorismo francese, l’uomo fermato era stato in contatto con il killer tunisino che il giorno prima si era mosso da Parigi a Nizza. Senza dimenticare tutto il caso politico che è esploso perché l’attentatore era sbarcato a Lampedusa lo scorso settembre, era passato per Bari e poi era riuscito a far perdere le tracce e a viaggiare fino in Francia. Intanto un misterioso gruppo tunisino ha rivendicato l’attacco terroristico, realizzato da Brahim Issaoui, un 21enne che dopo un’infanzia molto difficile tra droga e alcol ha scoperto la fede: da due anni recitava le preghiere islamiche e si era chiuso in sé stesso, arrivando poi a mostrare la sua “fede” nel modo più violento e disumano possibile. 

Giovanni Bianconi per il ”Corriere della Sera” il 30 ottobre 2020. Chi è stato con lui a bordo della nave Rhapsody , durante i giorni della quarantena sanitaria, racconta che Brahim Aoussaoui trascorreva gran parte del tempo al telefonino, e diceva di voler andare in Francia dove aveva dei parenti. Ma è ciò che intendevano fare - e probabilmente hanno fatto - la maggior parte delle centinaia di tunisini che il 9 ottobre scorso sono scesi dall' imbarcazione della flotta Gnv affittata dal governo italiano per raccogliere i migranti dagli hotspot di Agrigento e Lampedusa e portarli sul continente. Un piccolo esercito di circa 800 persone, approdate a Bari il giorno prima, giovedì 8 ottobre, raccolte in mare o arrivate in Sicilia con piccoli natanti che sfuggono ai controlli. Sono i cosiddetti «barchini», con dieci o al massimo venti passeggeri a bordo che continuano ad arrivare a migliaia ogni anno sulle coste meridionali, «porti chiusi» o «aperti» che siano. Il 20 settembre scorso, quando Aoussaoui è giunto a Lampedusa su uno di questi mezzi, ne sono arrivati ventotto. Che hanno scaricato almeno trecento migranti, quasi tutti tunisini partiti dal loro Paese. L' attentatore di Nizza era nascosto tra loro, quasi certamente già radicalizzato all' islamismo più estremo e violento, poiché è difficile immaginare che si sia convertito al punto di entrare in azione e uccidere tre persone in poco più di un mese; o addirittura in meno di tre settimane, nell' ipotesi che la conversione all' estremismo sia avvenuta in Francia. Ma nonostante l' altissima probabilità che abbia lasciato la Tunisia con le peggiori intenzioni, per le autorità locali e i canali di intelligence quel ragazzo di appena 21 anni era uno sconosciuto. Nessuna segnalazione a suo carico, e nessun avviso all' Italia sulla sua potenziale pericolosità. Anche per questo a Lampedusa le procedure di fotosegnalamento di Brahim Aoussaoui sono filate via lisce. Nome, cognome, nazionalità, data di nascita, impronte digitali, scatti di fronte e di profilo, denuncia penale per «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (un reato per il quale quasi mai si arriva alla condanna e all' esecuzione della pena: ammenda da 5.000 a 10.000 euro), iscrizione sul registro degli indagati della Procura di Agrigento. Terminate queste operazioni, Brahim è stato accompagnato nell' hotspot dell' isola, per essere poi trasferito - il 25 settembre insieme ad altri 50 migranti - sulla Rhapsody , che aveva già preso a bordo altre 330 persone a Porto Empedocle. Sulla motonave il tunisino ha trascorso le due settimane di quarantena imposte dall' emergenza Covid. Chi l' ha conosciuto in quei giorni ed è ancora reperibile, nei centri per i rimpatri o a qualche altro indirizzo noto, ha riferito ieri agli investigatori dell' anti-terrorismo che parlava spesso al telefono, ed era intenzionato a raggiungere la Francia. Se sia vero che lì avesse dei parenti, come dice, è da verificare. Così come è da chiarire con chi parlava: persone che si trovavano già Oltralpe, probabilmente, ma forse anche conoscenti o appoggi in Italia. Alla fine del «confinamento» a bordo, l' 8 ottobre, la Rhapsody è entrata nel porto di Bari, banchina 12, per le operazioni di sbarco. Ancora fotosegnalamenti e verifica dello status, tra aspiranti profughi richiedenti asilo e immigrati irregolari da rimpatriare. Ma gli accordi per la restituzione ai Paesi d' origine, Tunisia compresa, prevedono una procedura complessa, che in tempo di coronavirus è ancor più rallentata. Così il giorno dopo dalla nave sono scesi 405 migranti per i quali s' erano concluse queste operazioni: due arrestati finiti in carcere; 104 destinati a vari centri per il rimpatrio (quelli individuati come pericolosi, con precedenti o che destavano sospetti); 177 , di cui quasi la metà minorenni, nelle case di accoglienza; 122 con in tasca il decreto di respingimento dal territorio nazionale firmato dal questore. Da eseguire entro una settimana, ma nel frattempo in stato di libertà. Brahim Aoussaoui era tra questi. Oltre all' ordine di allontanamento aveva con sé un attestato della Croce Rossa per l' assistenza e i controlli ricevuti a bordo. Poi se ne sono perse le tracce. Indistinguibile nella diaspora degli espulsi rimessi in circolazione. È ricomparso ieri nella chiesa di Notre-Dame a Nizza, con un coltello in mano, al grido «Allah è grande». Le indagini già avviate tra Francia, Italia e Tunisia cercheranno di ricostruire - a partire dal telefonino - il percorso e la rete dei contatti. Com' è avvenuto per altri terroristi omicidi sbarcati sulle coste siciliane: da Anis Amri (Berlino, 16 novembre 2016, 12 morti) ai fratelli Hanachi (Marsiglia, 1 ottobre 2017, due morti).

Dall'articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 30 ottobre 2020. (...) A Nizza Aoussaoui è un fantasma. Per quindici giorni in Francia non fa nessuna domanda di asilo, non risulta neppure schedato dalle associazioni che si occupano dei migranti. L' ingresso illecito «nel territorio nazionale» del killer di Nizza, come risulta dall' archivio della Questura di Bari, non è giustificato da una fuga o da una persecuzione. Ma a settembre dalla Tunisia sono arrivate 9.978 persone. Troppe per essere trattenute e rimpatriate tutte. Anche i centri per il rimpatrio sono al collasso. Per l' Italia il profilo Aossaoui non rientra tra quelli delle persone da allontanare con urgenza, né da trattenere. Come prevederebbe la legge. Non ha altri decreti di espulsione non rispettati, non ha precedenti penali nel nostro Paese e, ovviamente, non c' è un alert internazionale su quel nome. Sui voli bisettimanali che partono da Roma per Tunisi, 40 passeggeri ogni imbarco, quel ragazzo di 21 anni non salirà mai. Né verrà trattenuto a Bari per tre mesi. I tempi strettissimi ci dicono che non vengono chieste neppure informazioni sul suo conto a Tunisi.

Francia, altri due arresti per l'attacco a Nizza. (LaPresse l'1 novembre 2020) - Altri due arresti in Francia per l'attacco a Nizza di giovedì in cui hanno perso la vita 3 persone. Secondo quanto rilanciato da Bfmtv due persone sono state arrestate e poste in custodia della polizia nel tardo pomeriggio di sabato. I fermati sono due uomini di 25 e 63 anni, entrambi presenti a casa di un uomo precedentemente arrestato a Grasse sabato. Salgono così a 6 gli arresti sul caso. 

L’attentatore di Nizza sbarcato a Lampedusa in settembre dopo l’inutile foglio di via passò in Francia per uccidere. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. Sono migliaia i tunisini come Brhaim Assuad ,21 anni, che ieri nella Basilica di Notre Dame ha ucciso tre persone, che circolano indisturbati per tutta l’ Europa con in tasca il ridicolo “foglio di via” quel foglio rilasciato dalle questure che intimano ai migranti sbarcati di lasciare “entro 7 giorni” il posto in cui sono approdati. Ed anche Brhaim Assuad aveva quel “foglio” di via che gli era stato notificato dalla questura di Bari dov’era approdato l’8 ottobre scorso proveniente da Lampedusa. Ed è proprio nell’isola di Lampedusa che il 20 settembre scorso era sbarcato. L’assassino di Nizza era stato poi imbarcato sulla nave quarantena “Raphosdy” noleggiata dal nostro ministero dell’ interno insieme ad altri suoi conterranei che dopo alcuni giorni aveva lasciato l’ isola di Lampedusa diretta nel porto di Bari dove era attraccata l’ 8 ottobre scorso. Brhaim non l’unico terrorista che giunge in Italia senza essere nemmeno notato dalla nostra intelligence. Nigeriani, tunisini, libici. Killer spietati, confusi tra i disperati che sognano un futuro in Italia. Sbarcati a Lampedusa, accolti in hotspot al collasso, visitati, sfamati e pronti a muoversi dall’isola verso l’Europa per realizzare la propria missione da martire. A Lampedusa nel 2011 era sbarcato anche Anis Amri, il killer tunisino che cinque anni più tardi avrebbe macchiato di sangue il mercatino di Natale a Berlino. Arrivato in Italia, aveva detto di essere minorenne e fu trasferito in un centro di accoglienza di Belpasso, nel catanese, dove il 20 ottobre 2011 diede fuoco alla struttura. Arrestato per minaccia aggravata, lesioni personali e incendio doloso, dall’Ucciardone finì a Enna. Poi il viaggio in Germania, con un decreto di espulsione in tasca. E ancora Spin Ghul, nome di battaglia di Adam Harun, un 50enne nigeriano che ha combattuto in Afghanistan e in Africa ed è ritenuto responsabile della morte di decine di soldati della Coalizione, in particolare americani. Catturato in Libia nel 2005, fu rilasciato nel 2011 e imbarcato dai libici su un barcone di migranti diretto a Lampedusa. Una volta sbarcato sull’isola, il qaedista era stato smascherato dagli italiani, arrestato e processato in un primo tempo dal tribunale di Agrigento. Per Lampedusa passò anche nel 2015 un presunto jihadista con foto nel tablet di teste mozzate e Kalashnikov. Un libico ospite del centro di accoglienza dell’isola dove era sbarcato a giugno e da dove avrebbe poi fatto perdere le sue tracce. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, che sempre a Nizza, alla guida di un autocarro, il 14 luglio 2016, si lanciò a tutta velocità sulla folla nei pressi della promenade des Anglais, in Italia veniva regolarmente, invece, per portare del cibo ai migranti siriani. Almeno secondo quanto riferito agli inquirenti da uno dei suoi presunti complici.

Il killer di Nizza, le diverse schede Sim e i contatti in Sicilia: l’ipotesi di una rete esterna. Giovanni Bianconi e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2020. Brahim in Italia fino a sette giorni fa. Tunisia, Italia, Francia. L’indagine sull’attacco di Nizza si muove lungo questo asse, un sentiero sovrapposto al sentiero battuto dal tunisino Brahim Aoussaoui. E ovviamente gli inquirenti sono alla ricerca di possibili complici: una persona di 47 anni è stata fermata in città in quanto ha avuto rapporti con il killer. Gli inquirenti intanto guardano al paese d’origine del terrorista. Tunisi, con formula anodina, ha confermato l’apertura di un dossier e rivelato che nel 2016 Brahim è finito in prigione perché aveva usato un coltello durante una lite. Dunque un precedente nel profilo di un personaggio enigmatico. Che — aggiungono i media — ha partecipato in passato alle manifestazioni di «Ansar al Sharia», una fazione pericolosa e inserita dagli Usa nella lista del terrorismo. Tra i suoi dirigenti ci sono stati alcuni qaedisti finiti in indagini italiane. Su Internet è apparsa una rivendicazione di una sigla sconosciuta, «al Mahdi», un post senza riferimenti che possano confermare l’autenticità. I familiari di Aoussaoui, invece, intonano una cantilena già sentita. Nostro figlio era introverso, poco istruito, si arrangiava con piccoli lavori — aggiustava moto e trafficava in carburante —, per un certo periodo ha bevuto alcol e fatto uso di droghe. Un’esistenza sul filo abbandonata negli ultimi due anni, quando ha iniziato a pregare con regolarità. Scelta seguita dalla decisione di emigrare clandestinamente verso Lampedusa. Almeno è ciò che sostiene la madre, sorpresa quando le ha telefonato per rivelarle che era a Nizza da appena due giorni, quindi attorno al 28. «Mi ha detto che dormiva vicino alla chiesa, mi ha anche inviato una foto della basilica — ha aggiunto — Non parlando il francese cercava qualche connazionale che potesse aiutarlo». Nelle tasche di Brahim Aoussaoui, la polizia francese ha trovato gli indizi di una permanenza sul territorio italiano almeno fino alla scorsa settimana. Solo dopo ha attraversato il confine. Sceso a Bari, il 9 ottobre, dalla nave Rhapsody su cui aveva trascorso la quarantena anti-Covid, l’assassino si sarebbe spostato in Sicilia. Un particolare riferito sempre dai familiari alle autorità locali che hanno trasmesso le notizie in Italia e in Francia. Affermava di trovarsi ad Alcamo, in provincia di Trapani, dove aveva trovato un’occupazione nella raccolta delle olive, e i primi accertamenti avrebbero riscontrato questa versione. Solo dopo diversi giorni il ventunenne avrebbe risalito la penisola fino alla frontiera con la Francia. Verosimilmente con la decisione già presa di colpire, forse con l’obiettivo ancora da scegliere. Dalle prime testimonianze raccolte sembra che non avesse mai manifestato pubblicamente il suo radicalismo islamico, tantomeno intenzioni omicide. Tuttavia sarà importante l’analisi del telefonino italiano che aveva con sé, probabilmente una scheda acquistata a Bari. Forse sono le stesse persone con cui era parlava quando era sulla Rhapsody (presumibilmente con una scheda tunisina), forse altre. Gli investigatori dell’Antiterrorismo — le Digos di diverse città con il coordinamento della Polizia di prevenzione — hanno già rintracciato parte dei tunisini arrivati a Lampedusa il 28 settembre sullo stesso «barchino» di Brahim, per provare a saperne di più sul personaggio e sui suoi appoggi. A cominciare da quelli siciliani. L’inchiesta si basa in gran parte sull’individuazione dei contatti dell’assassino, per capire chi sono, se si tratta di semplici amici o di individui con responsabilità maggiori. Indiscrezioni francesi non escludono che il tagliagole possa essere stato «pilotato», ma siamo ancora a livello di ipotesi. Per questo la Procura di Bari, dove Brahim è sbarcato, ha avviato un’inchiesta ipotizzando l’esistenza di un’associazione con finalità di terrorismo internazionale. Anche la Procura di Palermo s’è mossa per indagare sui contatti siciliani. C’è poi un altro fascicolo, sempre a Bari ma senza ipotesi di reato, per verificare perché il clandestino, con un decreto di allontanamento, sia stato lasciato a piede libero (con altri 176 quel giorno) e non trasferito in un Centro per il rimpatrio. Normalmente circa un decimo degli irregolari espulsi finisce in quelle strutture, riservate a soggetti segnalati come pericolosi o sospettati per qualunque motivo. Su Brahim Aoussaoui non risultava nulla, nemmeno nelle comunicazioni tra servizi segreti. Perciò è stato messo in libertà. Accompagnato con un pullman alla stazione, da dove sarebbe subito ripartito per la Sicilia.

I misteri dell’attentatore di Nizza ad Alcamo, due settimane in Sicilia prima di andare in Francia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 31 ottobre 2020. Perquisizioni della Digos nella cittadina trapanese. Interrogato l’amico che l’ha ospitato: “Sembrava una persona tranquilla”. All’improvviso la partenza. Un commerciante: "La polizia ci ha mostrato la foto del giovane che avevo visto in Tv". I poliziotti delle Digos di Palermo e Trapani sono arrivati nel centro storico ieri pomeriggio, intorno alle 17, con alcuni mandati di perquisizione firmati dal Dipartimento antiterrorismo della procura di Palermo. Ad Alcamo è stato per due settimane l’attentatore di Nizza, Brahim Aoussaoui, a casa di un amico. Fino a sette giorni fa, prima di partire per la Franca. Quell’amico, un giovane tunisino di 30 anni, cercavano gli investigatori della polizia dopo la segnalazione dei servizi segreti, che ieri hanno scoperto il passaggio dell’attentatore nella provincia di Trapani. La prima perquisizione è scattata in un locale della centralissima via Mazzini, dove si vende Kebab, lì lavora l’amico del giovane di Nizza. «All’improvviso, ci siamo trovati davanti tanti poliziotti», racconta un commerciante: «Non capivamo cosa stesse succedendo. Poi un agente ci ha mostrato la foto dell’uomo che avevo notato ieri sera in televisione, è l’attentatore di Nizza, ma non l’ho mai visto qui». Eppure, Brahim Aoussaoui sarebbe andato qualche volta nel centro di Alcamo, così ha raccontato l’amico alla polizia: «Sembrava una persona tranquilla, non ho mai avuto sospetti». Ma restano tanti interrogativi sul soggiorno dell’attentatore in Sicilia. E' partito all'improvviso, probabilmente in treno. Forse, chiamato da qualcuno per compiere l’attentato? Intanto, anche la posizione dell’amico di Brahim è al vaglio degli inquirenti: non ha documenti, sembra che sia destinatario di un foglio di via. «Stiamo facendo tutti gli accertamenti necessari – conferma a Repubblica il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi – un’attività complessa per provare a ricostruire quale tipo di rapporti ci siano stati fra l’attentatore di Nizza e la persona ascoltata dalla polizia». Fa le ipotesi del pool antiterrorismo coordinato dal procuratore aggiunto Marzia Sabella c’è anche quella che Brahim sia stato aiutato da una delle organizzazioni che gestiscono i trasferimenti dei migranti in nord Europa. «Ma i nomi dell’attentatore e quello del suo amico sono del tutto sconosciuti ai nostri archivi», spiega ancora il procuratore Lo Voi. Sono state ore frenetiche dopo la segnalazione dei servizi segreti. Secondo una prima ricostruzione, Brahim Aoussaoui sarebbe arrivato in Sicilia il dieci ottobre, in treno, da Bari. La polizia è alla ricerca di riscontri. Controlli sono stati fatti anche nell’abitazione dell’amico portato in questura. Alcuni vicini di casa sono stati sentiti in serata, pure a loro è stata mostrata la foto dell’attentatore. In Sicilia, ci cercano pure gli altri tunisini arrivati a Lampedusa con Brahim Aoussaoui. C’erano ventidue persone su un barchino, due nuclei familiari sono stati già rintracciati. Le indagini si concentrano sull’amico di Aoussaoui, che è stato ascoltato per tutta la notte dagli investigatori della Digos, alla questura di Palermo. Ha ripetuto di non avere visto nulla di sospetto in Brahim durante il soggiorno in Sicilia: "Mi ha spiegato soltanto che era in cerca di un lavoro - ha messo a verbale - qualcosa aveva trovato, raccogliendo olive per qualche giorno". La polizia sta controllando il telefonino del giovane e un computer, per capire se sia rimasto in contatto con Brahim anche dopo la partenza da Alcamo. L’attentatore di Nizza era arrivato in Italia il 20 settembre, il 9 ottobre era stato trasferito in un centro per migranti a Bari, dopo la quarantena obbligatoria per tutti coloro che sbarcano. Il 10, l’ordine di espulsione dal territorio italiano, “con invito a rimpatrio”. Brahim aveva già un contatto in Sicilia. Intanto, era stato anche indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dalla procura di Agrigento. E oggi tornano d'attualità le parole del procuratore Luigi Patronaggio. «Il pericolo maggiore alla sicurezza pubblica più che dai barconi che partono dalla Libia proviene dagli sbarchi fantasma che arrivano dalla Tunisia - aveva detto - Gli sbarchi fantasma sono un vero pericolo perché chi arriva così vuole sottrarsi all’identificazione» rappresentando «un potenziale rischio nella lotta al terrorismo». Era il 2 luglio del 2019, Patronaggio veniva sentito davanti alla Commissione Affari costituzionali sui decreti sicurezza. Una presa di posizione decisa contro la strage di Nizza arriva dall’associazione Fatima che oggi è formata da 90 donne di religione islamica. La prima associazione al femminile di questo tipo in Sicilia. Fra gli scopi principali del gruppo c’è proprio “combattere l’estremismo”. «Siamo ancora sotto shock – dice Manel Bousselmi – Quello che è successo a Nizza e che continua a ripetersi in Francia non ci appartiene. Eppure allo stesso tempo ci riguarda. Il nostro lavoro con le nuove generazioni, con i nostri figli a Palermo, è raccontare un altro Islam. Un’altra religione, quella che ci sta a cuore». La condanna per la strage di Nizza arriva anche dall’Imam della città, Mustafà Boulaalam, e dai rappresentanti delle altre comunità islamiche siciliane.

Marco Antonellis per affaritaliani.it il 30 ottobre 2020. Dalla traversata sul barcone con altri centinaia di tunisini fino a Lampedusa, l'identificazione e il tampone, 15 giorni a bordo della Rhapsody, una delle navi affittate dal ministero dell'Interno per la quarantena dei migranti, poi il trasferimento a Bari e l'ordine di lasciare l'Italia entro 7 giorni. Passa decisamente per l'Italia la storia di Brahim Aoussaoui, il 21enne arrivato nella chiesa di Notre-Dame a Nizza per uccidere tre persone nel nome di Allah. Matteo Salvini c'è andato giù pesante appena appresa la notizia: “Lasciatemi dire che vergogna e soprattutto fatemi chiedere scusa al popolo francese, ai figli dei morti e dei decapitati, a nome di Giuseppe Conte e Luciana Lamorgese”. “Il premier e il ministro dell’Interno italiani hanno la responsabilità morale di quanto successo in Francia”, ha attaccato il segretario della Lega. Uno sfogo durissimo quello di Matteo Salvini che non si spiega come sia stato possibile che un personaggio del genere sia riuscito indisturbato ad arrivare sino in Francia. “Signor Conte, signora Lamorgese - è stato il commento finale del segretario leghista - chiedete scusa”. A quanto pare, però, anche le eventuali scuse da parte di Roma non sarebbero bastate. A quanto si apprende, infatti, da Parigi hanno fatto arrivare, riservatamente ma fermamente, tutta la loro (forte) irritazione per quanto accaduto: "Quel terrorista non sarebbe dovuto passare, l'Italia avrebbe dovuto fare da filtro". Questi i ragionamenti fatti. Insomma, nelle ultime ore non sono mancate le fibrillazioni sull'asse Parigi-Roma. Non per niente ora in Francia si chiede a gran voce a Macron di bloccare la frontiera con l'Italia: stop a qualsiasi flusso migratorio e qualsiasi procedura di asilo. In poche parole stop ai migranti dall'Italia.

Nizza, il killer tunisino era indagato ad Agrigento: "Favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". Libero Quotidiano il 29 ottobre 2020. Altro che un immigrato clandestino disperato che ha poi compiuto un attentato terroristico a Nizza, dalle indiscrezioni che emergono sembra delinearsi un profilo criminale piuttosto preciso dell’uomo che con un coltello ha tolto la vita a due donne e al custode della chiesa di Notre-Dame. Stando alle ultime indiscrezioni dell’Adnkronos, il killer tunisino era stato indagato dalla procura di Agrigento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il suo sbarco a Lampedusa risale allo scorso 20 settembre: insieme a lui c’erano altri connazionali, molti dei quali iscritti al registro degli indagati. Continua ad infittirsi quindi il caso dell’attacco terroristico in Francia, con il killer che è sbarcato a Lampedusa (dove è finito sotto indagine), è stato trasferito al centro di identificazione a Bari, fotosegnalato dalla questura e inserito nei terminali per “illecito ingresso in territorio nazionale”. Eppure è riuscito comunque ad arrivare a Nizza, dove ha compiuto un atto terroristico che a questo punto inizia a sembrare sempre più partito da lontano e studiato nei minimi particolari. 

Nizza, l'attentatore sbarcato in Italia. Ecco perché è stato lasciato libero. Brahin Aoussaoui era sulla nave quarantena Rhapsody. Ma i centri erano pieni: "A molti dato solo un foglio di via". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Si sta cercando di ricostruire il percorso di Brahin Aoussaoui, indicato come l'attentatore di Nizza che ha ucciso tre persone decapitandone una. Si sa, per ora, che il 9 ottobre era in Italia. Dopo essere sbarcato a Lampedusa, è stato portato in un centro di identificazione pugliese e fotosegnalato in questura. È un tunisino, nato il 29 marzo del 1999. Tutta la polizia e gli investigatori, fanno sapere fonti del Giornale.it, sono in allerta per capire dove e come si sia mosso prima di raggiungere la Francia. Ma è soprattutto una la domanda che viene fatta: per quale motivo un migrante, arrivato in piena pandemia in Italia, ha potuto tranquillamente raggiungere la Francia e commettere una mattanza? La risposta potrebbe essere semplice. Per quanto incredibile. L'8 ottobre, infatti, a Bari le autorità italiane hanno fatto sbarcre circa 805 migranti alla conclusione di un periodo di quarantena sulla nave Rhapsody. Come confermano diverse fonti di polizia del Giornale.it, la gestione è stata emergenziale: "Hanno fatto sbarcare i minorenni - ci raccontava in quei giorni un agente - poi quelli che dovevano andare nei centri a Gorizia, Roma e Milano e infine ad alcuni hanno solo dato l'invito a lasciare il territorio nazionale". Cosa significa? Spiega un altro investigatore: "A chi non è stato messo nei centri per l'identificazione, gli abbiamo consegnato l'allontanamento del questore con ordine di lasciare il territorio entro 7 giorni". Tradotto: all'immigrato viene notificato un "foglio di via" che in teoria lo costringerebbe a lasciare l'Italia entro una settimana, ma nessuno lo porta al confine. E se non segue le disposizioni? Scompare. Come tanti. Lo stesso potrebbe aver fatto Brahin Aoussaoui, libero così di raggiungere la Francia. Ci conferma un'altra fonte di polizia: "È sbarcato dalla nave come altri 800 stranieri. Senza precedenti in Italia per la prima volta. Gli è stato fatto il giorno 9 ottobre un respingimento del questore con relativo ordine a lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni. Motivo di questi provvedimenti è la mancanza di posti nei centri per i rimpatri d'Italia. Tutto disposto dal Ministero". E pensare che in una lettera a Luciana Lamorgese, datata 10 ottobre 2020, Andrea Cecchini, segretario generale di Italia Celere, aveva già avvertito il ministro dell'assurdità di questa procedura: alcuni migranti, scriveva, "come parte di quelli che stanno sbarcando a Bari dalla Rhapsody, sembra che verranno lasciati liberi di vagare nel Paese col solo invito a lasciare il territorio italiano entro 7 giorni... con tutto il rispetto, dovessimo trovarci di fronte a questi ragazzi, cosa dovremmo fare noi poliziotti?". La stessa denuncia era arrivata anche da Franco Maccari, presidente nazionale dell'Fsp, a metà ottobre. "A Siracusa - diceva - da ordinanza del questore 46 migranti appena sbarcati dalla nave quarantena sono stati accompagnati presso la stazione ferroviaria. Dovrebbero lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni ma sappiamo bene che diventeranno braccio armato della criminalità organizzata". Forse anche di peggio. Il fatto è che si tratta di una prassi consolidata: "È un buco amministrativo con cui dobbiamo fare i conti - conclude Maccari - perché consegnate agli immigrati di muoversi come vogliono". Anche se tra di loro si trova un killer islamista.

Brahim, il killer di Nizza venuto da Lampedusa. La nave quarantena, Bari e poi la fuga. Massimo Calandri e Alessandra Ziniti. Fonti del Viminale: "Non era mai stato segnalato dalle autorità tunisine e neanche segnalato sotto il profilo della sicurezza nei canali di intelligence". La Repubblica il 29 ottobre 2020. Ha il viso pulito di un ragazzo di 21 anni, una leggerissima barba, i capelli corti, gli occhi spalancati e vuoti della follia: Brahim Aouissaoui è ricoverato nel reparto rianimazione all'ospedale Pasteur di Nizza. Grave, ma non in pericolo di vita. Potrebbe parlare, però tutto quello che per ora ha detto è: "Allah u akbar", Allah è grande. Lo ha ripetuto mentre gli sparavano addosso, per fermarlo. I poliziotti intervenuti giurano che non aveva paura: "Sembrava quasi ci chiedesse di ucciderlo". Il jihadista venuto da Lampedusa (nello zaino un Corano, due telefoni e un coltello con la lama di 17 centimetri), rimasto in Italia solo 20 giorni in quarantena, prima di arrivare in Francia a mettere in atto il suo piano stragista, è un signor nessuno. Pulito, immacolato, assolutamente sconosciuto alle forze di polizia, all'intelligence, persino alle autorità tunisine. Un ragazzo come migliaia di altri ne sono arrivati negli ultimi dieci anni in cerca di fortuna in Europa, come Anis Amri, l'altro tunisino sbarcato minorenne a Lampedusa nel 2011 e finito 5 anni dopo alla guida di un Tir assassino al mercatino di Natale a Berlino prima di finire ucciso nella sua fuga in Italia. L'arrivo a Lampedusa il 20 settembre su un barchino partito da Sfax con una ventina di altri tunisini, la quarantena sulla nave Rhapsody inviata dal Viminale per decongestionare l'hotspot dell'isola, l'approdo a Bari l'8 ottobre, tampone negativo e solo un foglio di via - "Te ne devi andare entro 7 giorni", firmato dal questore di Bari - , perché il fotosegnalamento e le impronte raccontavano di un migrante come tanti. A Nizza era certamente almeno da quattro giorni. "L'uomo che ha assassinato tre persone a Nizza non era mai stato segnalato dalle autorità tunisine, al contrario di altri, e non era neanche segnalato sotto il profilo della sicurezza nei canali di intelligence", dicono fonti del Viminale. "Non è schedato come terrorista in Tunisia", conferma Mohsen Dali, sostituto procuratore a Tunisi, che non esclude che "organizzazioni siano all'origine dell'accaduto". La ricostruzione del suo percorso in Italia è presto fatta. Brahim Aoussaoui arriva a Lampedusa in una domenica di mare piatto come l'olio che manda in tilt il rodato sistema di accoglienza dell'isola: 26 barchini in 24 ore. Tutti con 15-20 persone a bordo, in gran parte giovani tunisini. L'hotspot non ha più posto neanche sotto gli alberi, ci sono 1300 persone e c'è il Covid. Non c'è neanche modo di fotosegnalarli tutti. Aoussaoui dà le sue generalità, lo Sdi, il sistema informatico investigativo, non rivela alcunché e come gli altri viene denunciato per ingresso illegale su territorio italiano. Il sindaco Totò Martello lancia un disperato grido d'aiuto, il Viminale manda una nave quarantena, la Rhapsody. È il 23 settembre quando, con 805 migranti a bordo, la nave - gestita dalla Croce Rossa - prende il largo. Quattordici giorni dopo, la nave riceve come porto di sbarco Bari. Brahim è tra i primi a scendere, tampone negativo, fotosegnalamento, impronte digitali. Al centro per il rimpatrio di Bari non c'è posto per tutti e, come sempre si fa in questi casi, chi ha precedenti o segnalazioni viene trattenuto e riportato indietro sotto scorta appena possibile, tutti gli altri vengono lasciati liberi. Così è anche per Aoussaoui: decreto di respingimento del prefetto di Bari, foglio di via del questore. Il 9 ottobre è libero, in tasca ancora il foglio identificativo che la Croce rossa ha distribuito a bordo della nave a tutti gli ospiti e che ancora aveva con sé ieri a Nizza. Come e quando Aoussaoui lascia Bari diretto al nord non si sa. Probabilmente in treno come tutti gli altri, a meno che non ci fosse qualcuno ad aspettarlo. Di lui si perdono le tracce. C'è un buco nero di 16 giorni da ricostruire, ma anche le due settimane sulla nave con il personale di bordo. Di sicuro era arrivato a Nizza da almeno quattro giorni, passando il confine a Ventimiglia: perché le forze dell'ordine francesi gonfiano il petto, sostenendo che ogni giorno ricacciano in Italia almeno 50 migranti che cercano di entrare illegalmente. Ma lì ci sono almeno 6 diversi valichi: Ponte San Ludovico, Ponte San Luigi, la ferrovia, l'autostrada, e più all'interno il Col di Tenda e Breil. Prima o poi vanno tutti dall'altra parte. E bastano 50 euro per farsi accompagnare fino a Montone da un passeur, che con 150 euro ti porta direttamente a Nizza. C'è persino una strada da fare a piedi, il vecchio cammino dei contrabbandieri da fare di notte, che negli anni Trenta aveva usato anche Sandro Petrini per espatriare. Chissà quale ha usato. Se le sue condizioni non peggiorano, gli investigatori sperano di interrogarlo stamani e sapere da lui chi è, se è un lupo solitario o un soldato della jihad. Subito dopo l'attentato si era sparsa la voce di un presunto complice in fuga ma è andata affievolendosi col passare delle ore, anche se è difficile credere che abbia fatto tutto da solo.

Francesco De Remigis per “il Giornale” l'1 novembre 2020. Una rete chiamata «famiglia». Il puzzle dei contatti del killer di Nizza porta l'antiterrorismo francese a formare un primo «poker»: 4 persone in custodia in Francia. Mentre a sud, in Sicilia, si scava all'ombra dei kebab per chiudere il cerchio di «amicizie» che agli inquirenti italiani proprio non tornano. E lasciano pensare che l'attacco sia stato logisticamente concepito in Italia; con l'ipotesi ancor più agghiacciante che arriva dalla procura tunisina, di un attentato «ordinato» prima di partire col barchino. Ancora una volta la mitologia del lupo solitario vacilla. Le tracce nei cellulari e il lavoro certosino di analisi della videosorveglianza di Nizza hanno mostrato che il killer ha pianificato l'azione: arrivare alla stazione alle 6,47, cambiarsi d'abito e infine colpire dentro la basilica di Notre-Dame, raggiunta senza problemi. Conosceva benissimo la geografia di Nizza. Ma il «Grande Fratello» della «città degli angeli», 3.800 telecamere, lo ha visto per la prima volta in stazione. Non ci aveva quasi certamente mai messo piede. Tre coltelli, due telefoni cellulari. Un Corano nello zaino e un'organizzazione minuziosa alle spalle, con basi in Italia. Infatti il tunisino sbarcato a Lampedusa il 20 settembre, dopo esser passato da Bari e in treno via Palermo, sembra rimasto per almeno 12 giorni ad Alcamo da un amico: un altro tunisino 30enne che lavorava da una settimana in un ristorante di kebab. L'amico che l'ha ospitato era un «neo-assunto», «tramite amici». Aveva una raccomandazione per preparare kebab. Pochi giorni dopo si è palesato Brahim, 21 anni. E da lì la sosta nel Belpaese. Poi è sparito. Il quarto uomo, fermato ieri a Grasse (Alpi marittime), 29 anni, anche lui tunisino, è invece sospettato d'aver fiancheggiato il killer nella giornata precedente all'attentato. All'antiterrorismo italiana tocca ricostruire sul campo il percorso di Brahim Issaoui. Riuscita la traversata dalla Tunisia con un barchino, a Lampedusa il sistema di accoglienza italiano lo porta a Bari. Dove dei 405 migranti scesi dalla Rhapsody l'8 ottobre, due vengono arrestati e detenuti, 104 portati in centri di rimpatrio 177 nei centri: 22 hanno in tasca un decreto di espulsione e accompagnati alla stazione, liberi. È il caso di Brahim. Si dice che abbia confidato ad alcuni compagni di viaggio il desiderio di lasciare l'Italia per la Francia dove avrebbe «famiglia». Proprio da questo termine, «famiglia», l'antiterrorismo italiana si è attivata per ricostruire la rete che gli ha dato supporto, cibo, armi e soldi. Nella «lente», anche due famiglie di immigrati residenti in Sicilia; poi l'arrivo in Francia apparentemente 24-48 ore prima di compiere il gesto. Il trentenne tunisino che gli ha dato alloggio è stato solo interrogato: non è in stato di fermo. Una chiave tra il killer e il trentenne sembra però esserci. Ha detto «il minimo indispensabile». La Dda di Palermo indaga. Dossier dal respiro internazionale: Francia, Italia, Tunisia. Per la madre del killer, lui, un riparatore di motociclette, pregava solo da due anni e mezzo. «Non usciva e non comunicava con gli altri». Almeno non di persona. In Tunisia, aveva precedenti penali per violenza e droga. E frequenti scambi di messaggi. Tasselli italiani si uniscono ai francesi. Un mauritano di 47 anni arrestato giovedì sera, perché le telecamere lo avevano immortalato col killer poco prima che agisse: vicino alla stazione ferroviaria di Nizza. Riunione preparatoria per l'attacco o incontro accidentale? Un terzo uomo fermato e posto in custodia venerdì sera: 33 anni, era a casa del mauritano. Brahim è ancora in terapia intensiva. Prognosi critica. Per ora non può essere interrogato per rispondere dell'accusa di omicidio in associazione terroristica». La quadra sulla cellula è comunque vicina.

Grazia Longo per “la Stampa” l'1 novembre 2020. Sarebbe arrivato in Francia in pullman. A conferma di questa ipotesi ci sarebbe un biglietto Roma-Nizza. Questo l' ultimo viaggio di Brahim Aoussaoui, l' attentatore tunisino di 21 anni (sospettato di essere vicino all' organizzazione terroristica Ansar al Sharia) che giovedì scorso ha seminato il terrore uccidendo tre persone nella cattedrale Notre Dame di Nizza. Ha lasciato la Sicilia lunedì scorso. Una tranche del viaggio in treno, un' altra in pullman: i dettagli sono ancora al vaglio degli investigatori. Sicura la tappa nella capitale del nostro Paese e poi dritto verso la Costa azzurra. E ora si indaga su 11 tunisini sbarcati insieme a lui a Lampedusa il 20 settembre su un barchino di 10 cavalli lungo 6 metri. L' Antiterrorismo della polizia e la Dda, in collaborazione con la procura nazionale francese, sta concentrando l' attenzione sull' eventualità di una rete di complici. Brahim è un lupo solitario o poteva contare sull' aiuto di altri connazionali? Potenziali alleati si cercano anche tra coloro che hanno avuto contatti con Brahim ad Alcamo, in provincia di Trapani, dove il giovane ha vissuto una decina di giorni dopo essere stato a Bari. Il dipendente di un kebab ha ospitato Brahim a casa sua. Si tratta di un tunisino di 30 anni, interrogato per tutto il pomeriggio di ieri dalla Digos di Palermo. Su di lui pende un ordine di espulsione, ma si sta cercando un escamotage giuridico per poterlo trattenere in Italia in modo da verificare il reale legame con Brahim Aoussaoui. Non si riscontrano invece, almeno per il momento, particolari connessioni tra Brahim e il titolare del kebab, interrogato venerdì sera. L' uomo ha raccontato di aver visto il giovane mangiare nel suo locale 4-5 volte. L' ultima volta domenica scorsa. Martedì ha poi chiesto al cameriere dove fosse finito il ventunenne e si è sentito rispondere che era partito per la Francia dove aveva trovato lavoro. L' inchiesta di Palermo è coordinata dal Procuratore Francesco Lo Voi e dall' aggiunto Marzia Sabella, ma un altro fascicolo per terrorismo e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina è stato aperto anche dalla procura di Bari guidata da Roberto Rossi. E poi c' è il coordinamento della Dda, diretta dal procuratore Federico Cafiero de Raho. Sul caso è, inoltre, impegnata anche la nostra intelligence che ribadisce l' esigenza di monitorare con maggiore incidenza gli sbarchi di migranti dalla Tunisia. Mentre quelli provenienti dalla Libia possono essere annoverati tra i migranti economici, quelli provenienti dalla Tunisia sono più a rischio terrorismo islamico. Per questa ragione si auspica un pattugliamento congiunto italo-tunisino delle coste della Tunisia, ma il governo di quest' ultima non sembra sensibile ad accogliere questa proposta.

(LaPresse il 2 novembre 2020) - Il responsabile dell'attacco di giovedì alla basilica di Nizza, in cui sono state uccise tre persone, è risultato positivo al coronavirus. Lo riferisce il giornale Le Figaro, citando informazioni proprie, aggiungendo che i pompieri che l'avevano preso in carico dopo che il giovane era stato neutralizzato dalla polizia municipale dovranno adesso isolarsi a seguito del contatto.

Giovanni Bianconi e Guido Olimpio per il "Corriere della Sera” il 2 novembre 2020. Una rete amicale-familiare ha permesso a Brahim Aouissaoui di arrivare a Nizza e colpire. Persone che potrebbero nascondere eventuali collegamenti eversivi ma che al momento non sono emersi. È quanto risulta dagli accertamenti svolti dall' Aise, il servizio segreto esterno guidato dal generale Giovanni Caravelli. Le informazioni della nostra intelligence si incrociano con i dati raccolti dagli investigatori italiani dell' Antiterrorismo e dalle polizie in Francia e in Tunisia, gli altri cardini dell' inchiesta. E allora ripartiamo proprio dal Nord Africa. L' omicida non è schedato come estremista però ha contatti in patria con alcuni personaggi interessanti: due sono sospettati di appartenere ad una cellula di Daesh, un altro - giunto da clandestino in Italia nel 2019 - è segnalato come vicino ad ambienti radicali. La prima coppia, interrogata, ha negato di aver saputo di eventuali piani d' attacco, «siamo solo suoi vicini di casa». È invece diverso il ruolo di Ahmed Ben Amor, altro tunisino. Lui e Brahim partono insieme il 19 settembre, si uniscono ad un gruppo di connazionali - su cui sono tuttora in corso verifiche da parte delle Digos e della Polizia di prevenzione - e approdano in barchino a Lampedusa. Dopo la quarantena e il rilascio a Bari l' omicida si separa dagli altri e torna in Sicilia, sono ancora le conoscenze di famiglia ad assisterlo. A Palermo è ospitato da un amico - Issam Chibi - che gli trova da dormire in un magazzino di un ristorante etnico. Poi lo ritroviamo ad Alcamo, dove si mette raccogliere le olive grazie a un altro connazionale. È solo una tappa. Il 26 ottobre il futuro killer riprende il sentiero verso Nord ed ecco che rispunta Ben Amor con il quale raggiunge Nizza nella serata del 27. La presenza dell' amico, fermato dalle teste di cuoio francesi sabato sera a Grasse insieme a due algerini, è un filone sul quale gli investigatori stanno lavorando. Brahim forse lo ha seguito perché gli poteva essere utile, magari conosceva i trucchi per poter attraversare il confine a Ventimiglia senza essere visti. Gli interrogatori di Ben Amor potranno dare risposte, così come i controlli su telefoni, telecamere e web. Brahim aveva due cellulari tunisini e due profili Facebook. Particolare: l' omicida usa un account per chattare con la sorella e lo condivide con un tunisino in Italia. È un clandestino che tra i suoi contatti ne ha uno che pubblica una foto di un' esplosione accompagnata dalla frase «Dove vai? In Paradiso». È una realtà fluida, può rappresentare qualcosa ma anche il nulla. La polizia francese ha ripassato con attenzione le immagini delle telecamere di sicurezza ed è arrivata a individuare coloro che hanno intersecato il cammino di Brahim alla vigilia dell' assalto alla basilica. Tre delle persone fermate sono state rilasciate ieri sera, le loro posizioni sono mutate dopo i controlli. Uno è stato visto consegnare qualcosa all' omicida, con un altro si è intrattenuto a parlare. Contatti sporadici per un uomo che, una volta in città, si sarebbe arrangiato dormendo almeno una notte nell' androne di un palazzo vicino al bersaglio. La cronologia dell' attacco è precisa, non sappiamo il «prima». Una cornice - per ora - precaria all' interno della quale c' è però la sostanza brutale. Brahim, come ha sottolineato il ministro degli Interni francese Darmanin, «è venuto a Nizza per uccidere» e c' è riuscito. Missione compiuta da un terrorista islamico spinto dal fanatismo religioso, come la maggior parte degli attentatori dell' ultima ondata in Francia. Efficaci quanto i soldati del Califfato, però più difficili da scoprire perché muovono lungo strade diffuse e normali, senza avere etichette evidenti di fazioni.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 novembre 2020. Estremisti, ma forse anche omosessuali, è questo l'incredibile segreto che potrebbe nascondere il tagliagole di Nizza Brahim Aoussaoui, 21 anni, e la sua cricca. Infatti l' estremista non è partito da solo il 19 settembre: era con Ahmed Ben Amor, arrestato sabato sera in Francia, a Grasse, nato a Sfax nel 1991. Di lui si sa che è un musulmano radicale. Peccato che grazie a Internet si scopra che nel 2016 era vicepresidente dell' associazione Shams Tunisie, un gruppo Lgbt che lotta per la depenalizzazione dell' omosessualità in Tunisia. Per la verità anche uno dei profili Facebook di Aoussaoui, utilizzato almeno sino al 2018, rivela un' inclinazione gay: per esempio, il 21 maggio 2018, è stata pubblicata una foto patinata di un uomo discinto e muscoloso. Nello stesso profilo anche scatti di uno spinello e di un accendino. Insomma tutte immagini che non si addicono a dei musulmani radicali, ma anzi fanno pensare al loro contrario. Uno dei profili social di Ben Amor, collegato a Aoussaoui, ha un migliaio di contatti, per la maggior parte tunisini, ma anche donne di nazionalità sudamericana. In una foto, l' uomo indossa una divisa da vigilante con il logo della bandiera tunisina. Ieri, su un account a lui riconducibile è stato pubblicato il video di un bambino dai tratti nordafricani mentre brucia una bandiera francese. Con l'aiuto dei social scopriamo un' altra clamorosa verità. I legami con l' Italia non solo di Aoussaoui, ma anche della sua presunta rete. Una notizia che conferma ancora una volta come lo stivale sia una sorta di hub per aspiranti terroristi, una rampa di lancio da cui partono per l' Europa. Brahim l'11 ottobre scorso, dopo l' identificazione e la fotosegnalazione a Bari, torna in Sicilia, dove ha un contatto, a Palermo: Issam Ben Hamida Ben Mohamed Chibi, che gli avrebbe garantito un alloggio di fortuna in un magazzino del ristorante etnico in cui lavora. Da Palermo Brahim si sarebbe quindi spostato ad Alcamo, in provincia di Trapani, da un tunisino il cui nome non è stato reso noto. Gli investigatori della Digos lo hanno identificato e il giovane è stato sentito in Procura a Palermo. Nel corso di un lunghissimo interrogatorio ha sostenuto di non aver conosciuto l' attentatore prima del suo arrivo in Italia. Poi però ha ammesso l' esistenza di un' amicizia tra le rispettive madri. Sembra che abbia dimostrato ai magistrati che per poter riconoscere Brahim si era fatto mandare dalla Tunisia una foto dalla madre. Poi, però, contrariamente alle notizie diffuse nei giorni scorsi, non lo ha ospitato, perché Brahim ha dormito in casolari di campagna. Il tunisino, infatti, pare abbia preso parte a una campagna di raccolta delle olive. Il presunto amico di famiglia tuttavia è stato arrestato per non aver ottemperato all' intimazione a lasciare il territorio nazionale a seguito della scadenza del permesso di soggiorno. Ben Amor ricompare accanto a Brahim, nella ricostruzione dell' intelligence, a Nizza, dove i due sono arrivati in treno il 27 ottobre. Il 28 l' attentatore ha comunicato a sua sorella, residente in Tunisia, il suo arrivo in territorio francese. E lo ha fatto attraverso il profilo di tale A.T.. L' utilizzatore del profilo, il 19 settembre, data della partenza di Brahim dalla Tunisia, ha pubblicato due foto nelle quali è ritratto in compagnia di un altro soggetto non identificato dapprima a bordo di un' imbarcazione munito di giubbotto di salvataggio e in un secondo momento verosimilmente all' interno di un campo d' accoglienza. C' è anche la foto del 24 settembre in quello che sembra il bagno di una nave con sotto la didascalia «quarantena». A. T. è uno dei nove tunisini con cui Aoussaoui e Ben Amor sono partiti da Gabes il 19 settembre? Probabile. Tra gli amici di Facebook di A.T. anche Brahim e un certo D. L., anche questo originario di Sfax. Sul profilo di quest' ultimo sono indicate le seguenti tappe di un viaggio che ha proceduto di pari passo con quello del terrorista: 9 ottobre Bari, 12 ottobre Ventimiglia, 16 ottobre Nizza, 21 ottobre Monaco, 28 ottobre Marsiglia. La pagina di D. L. contiene l' immagine di un' esplosione tra le parole «Dove vai? In Paradiso». Il tagliagole di Nizza, pur considerato estraneo agli ambienti dell' estremismo islamista, avrebbe comunque mantenuto contatti in Tunisia con personaggi sospettati di appartenere a una cellula terroristica affiliata all' Isis: Ali Abidili e Haroun Felhi. Ma anche con Ibrahim Ben Soltana, indicato come un estremista, noto alle forze di polizia italiane, perché giunto clandestinamente in Italia nel settembre 2019. Anche gli altri tre uomini della rete di Brahim arrestati in Francia, come abbiamo detto, hanno lasciato tracce in Italia. La sera de 29 ottobre è stato fermato Rabia Djelal, algerino, classe 1973. È stato identificato dopo aver analizzato i video registrati dalle telecamere di videosorveglianza di un quartiere di Nizza. Era in compagnia dell' attentatore alla vigilia della strage. Djelal non era noto ai servizi segreti francesi. Ed era sconosciuto anche alle forze di polizia. Ma in Italia era stato controllato nel gennaio 2019 dai carabinieri di Bordighera (Imperia). Il 30 ottobre, invece, è stato fermato Slah Aboulkacem, tunisino come Brahim, classe 1987. Nell' aprile 2011 risultava residente a Fossato di Vico (Perugia). Da dicembre dello stesso anno, invece, a Legnano (Milano), in via Liguria 40, uno stradone periferico con villette bifamiliari. Il 22 ottobre 2014 la Questura di Milano gli ha rifiutato il permesso di soggiorno. Fino ad allora, però, aveva lasciato più di una traccia: tra dicembre 2011 e ottobre 2013 è stato sottoposto a svariati controlli di polizia a Gubbio, Legnano, Gallarate (Varese), alla stazione di Genova Brignole e, nel novembre 2013, anche nel capoluogo lombardo insieme ad altri connazionali. In un paio di occasioni era in compagnia di pregiudicati italiani: F.T. (condannato per rissa) e R.S. (tossicodipendente processato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e furto aggravato). La mattina del 31 ottobre, invece, è stato fermato anche Bassem Aboulkacem, 25 anni, cugino di Slah e suo coinquilino a Nizza. Nel giugno e nel dicembre 2018, ma anche nell' agosto 2019, è stato controllato dall' Ufficio di polizia di frontiera di Genova. Grazie a uno dei due profili Facebook di Brahim è possibile trovare altri contatti sul territorio italiano: lo straniero S.C., apparentemente domiciliato a Pescara; V.B., italiana di Civitavecchia; S.L., una sudamericana trapiantata a Bologna; poi quattro tunisini: S.W., residente a Parma, W.R., un islamico convinto, che vive a Roma come, M.M. e, infine, S.L., con base a Bologna. L'Aise (l'agenzia informazioni e sicurezza esterna) diretta dal generale Giovanni Caravelli è stata determinante nel ricostruire e individuare la rete di contatti dell' attentatore, sensibilizzando le autorità tunisine a fornire tutti i dati in loro possesso e soprattutto nel geolocalizzare e far fermare sabato a Grasse Ben Amor. Secondo gli analisti dell' agenzia guidata da Caravelli allo stato attuale non vi sono evidenze di un' unica regia e gli attentati del 29 ottobre appaiono casi scollegati. Però resta elevato il rischio di attentati contro obiettivi francesi nel mondo. La nostra intelligence nelle sedi istituzionali ha evidenziato che il caso dell' attentatore di Nizza mostra che i flussi migratori dei clandestini possano essere infiltrati occasionalmente da individui radicalizzati e conferma i rischi per la sicurezza nazionale correlati al flusso migratorio dalla Tunisia sulla rotta mediterranea centrale. Valutazioni fatte non sulla scorta dell' emozione, ma sull' analisi dei dati e che per questo non potranno essere sottovalutate. A partire dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo del Ministero dell' Interno previsto per oggi. Infine la vicenda di Nizza ha scatenato lo sciacallaggio mediatico. L' attentato è stato rivendicato da Tanzim al Mahdi (Organizzazione del Messia), un gruppo tunisino sino ad oggi sconosciuto, con un video ampiamente condiviso sulle piattaforme social locali. Nelle immagini del proclama tal Walid Al-Saidi rivendica l' attacco di Nizza quale azione compiuta a nome di tutti i «sostenitori del Mahdi presenti a Tunisi e nel Maghreb arabo». In realtà successivamente si è scoperto che il gruppo non esiste e che l' interprete del comunicato era già noto come portavoce dei «giovani disoccupati tunisini». Al-Saidi è stato arrestato dalle autorità tunisine il 31 ottobre.

Quell'attentatore di Nizza tra droga, social e mondo lgbt. Il 21enne Brahim Aoussaoui, il terrorista che ha colpito a Nizza, in passato ha pubblicato foto "particolari" su Facebook. Si indaga sui movimenti in Italia. Gabriele Laganà, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Ci sarebbe un segreto nella vita di Brahim Aoussaoui, il 21enne terrorista che ha seminato morte a Nizza. Il terrorista forse era un omosessuale. Nulla di male in questo. Ma la notizia è per certi versi clamorosa in quanto porta alla luce una contraddizione: l’essere gay è fortemente condannato dagli estremisti islamici. Eppure, pare proprio che il giovane non fosse l’unico omosessuale del gruppo che lo scorso 19 settembre era partito alla volta dell’Europa. Con lui c’era anche Ahmed Ben Amor, poi arrestato sabato sera a Grasse, musulmano radicale e, incredibile a dirsi, vicepresidente nel 2016 dell'associazione Shams Tunisie, un gruppo Lgbt che lotta per la depenalizzazione dell'omosessualità in Tunisia. Come racconta La Verità, il passato di Ben Amor lo si è scoperto grazie a Facebook. Ma il social è stato utile anche per scavare nella vita del tagliagole di Nizza. Uno dei profili Facebook di Aoussaoui, utilizzato almeno sino al 2018, rivela una possibile inclinazione gay: il 21 maggio di quell’anno il ragazzo aveva pubblicato una foto patinata di un uomo discinto e muscoloso. Nello stesso profilo anche scatti di uno spinello e di un accendino. Non proprio il massimo per un estremista islamico. Ma a parte l’orientamento sessuale, mediante il social è stato appurato che il 21enne e la presunta rete a cui era collegato avevano legami con l'Italia. L'11 ottobre scorso, dopo l'identificazione e la fotosegnalazione a Bari, Brahim è tornato in Sicilia dove ha un contatto a Palermo: Issam Ben Hamida Ben Mohamed Chibi. Quest’ultimo gli avrebbe garantito un alloggio di fortuna in un magazzino del ristorante etnico in cui lavora. Dal capoluogo siciliano Brahim si sarebbe spostato ad Alcamo, nel Trapanese, da un tunisino del quale non è stato reso pubblico il nome. Un punto che fa capire come il nostro Paese possa essere divenuta una sorta di base per gli estremisti islamici. Il nordafricano in questione è stato identificato dagli investigatori della Digos e sentito in Procura a Palermo. Nell’interrogatorio è spuntata una contraddizione. Il tunisino "senza nome" ha sostenuto di aver conosciuto l'attentatore in Italia ma successivamente ha ammesso che le rispettive madri erano amiche. Dalle indagini è emerso che in realtà Brahim ha dormito in casolari di campagna. Il presunto amico di famiglia è stato arrestato per non aver ottemperato all'intimazione a lasciare il territorio nazionale a seguito della scadenza del permesso di soggiorno. Poi si apre il capitolo francese. Secondo l’intelligence, Ben Amor è con Brahim a Nizza, dove i due sono arrivati in treno il 27 ottobre. Il giorno seguente, attraverso il profilo A.T., l'attentatore ha comunicato a sua sorella, residente in Tunisia, il suo arrivo in Francia. Lo stesso A.T. il 19 settembre ha pubblicato due foto che potrebbero fornire dettagli interessanti: in una è immortalato in compagnia di un altro soggetto non identificato dapprima a bordo di un'imbarcazione munito di giubbotto di salvataggio e, in un secondo momento, mentre si trova all'interno di un centro d'accoglienza. Tra gli amici di Facebook di A.T. vi è anche D. L.. Sul profilo di quest' ultimo sono indicate le tappe di un viaggio identico a quello che avrebbe fatto il terrorista. Non solo perché la pagina contiene una immagine inquietante: un' esplosione tra le parole "Dove vai? In Paradiso". Brahim è considerato estraneo agli ambienti dell'estremismo islamista ma avrebbe mantenuto contatti in Tunisia con personaggi sospettati di appartenere a una cellula terroristica affiliata all'Isis: Ali Abidili, Haroun Felhi e Ibrahim Ben Soltana (noto alla polizia italiana perché giunto clandestinamente nel nostro Paese nel settembre 2019). Ma le cattive amicizie di Brahim continuano. Il 29 ottobre è stato fermato l’algerino Rabia Djelal. Da filmati delle telecamere di videosorveglianza di un quartiere di Nizza è emerso che il giorno prima della strage era in compagnia del tagliagole. Sconosciuto ai francesi ma non agli italiani in quanto era stato controllato nel gennaio 2019 dai carabinieri di Bordighera. Il 30 ottobre è stato fermato il tunisino Slah Aboulkacem, che nell'aprile 2011 risultava residente a Fossato di Vico, nel Perugino, poi a Legnano. Il 22 ottobre 2014 la Questura di Milano gli ha rifiutato il permesso di soggiorno. In diverse occasioni era stato fermato per un controllo. Un paio di volte è risultato essere in compagnia di pregiudicati italiani. La mattina del 31 ottobre è stato fermato anche Bassem Aboulkacem, cugino di Slah. Nel giugno e nel dicembre del 2018 e nell'agosto dell’anno seguente è stato controllato dall'Ufficio di polizia di frontiera di Genova. Secondo gli analisti dell’Aise, l'Agenzia informazioni e sicurezza esterna, ad oggi non ci sono elementi per dire che ci sia una unica regia dietro agli attentati del 29 ottobre. Ma il rischio di attentati contro obiettivi francesi nel mondo, anche in Italia, è elevato. La vicenda del terrorista di Nizza e dei suoli legami con il nostro Paese non possono lasciare tranquilli.

Da Lampedusa fino in Francia: si poteva prevedere l'attacco di Nizza? Dopo l'attentato terroristico del 29 ottobre è tempo di fare i conti con il sistema di controllo. Il procuratore di Agrigento aveva lanciato l'allarme tre anni fa: "Tra chi arriva senza controllo, potrebbero esserci anche persone legate al terrorismo internazionale". Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Ancora una volta gli occhi del mondo sono puntati sulla Francia per l'ennesimo atto terroristico. Tre le vittime di Aouissaoui Brahim che, il 29 ottobre, al grido di “Allah Akbar”, ha sgozzato due persone ammazzandone una terza nella cattedrale Notre-Dame a Nizza. Un attentato terroristico che ha indignato l’opinione pubblica facendo sollevare polemiche sul modello di integrazione francese. Ma anche sui reali controlli che vengono effettuati in Italia su chi arriva.

Chi è Aouissaoui Brahim. Aouissaoui Brahim è un tunisino di 21 anni, arrivato a Lampedusa il 20 settembre scorso assieme ad altri migranti a bordo di uno dei tanti barchini che dalla Tunisia hanno seguito la rotta del Mediterraneo centrale. Una volta giunto sull’isola maggiore delle Pelagie, ha trascorso i 15 giorni previsti per la quarantena a bordo della nave Rhapsody, l'imbarcazione della compagnia di navigazione italiana "Grandi navi veloci" messa a disposizione dal governo per ospitare i migranti appena sbarcati in Italia. Finito il periodo previsto dal protocollo contro il coronavirus, il terrorista è stato portato in Puglia, a Bari, dove è stato identificato e fotosegnalato dalla questura. Il nome dell’attentatore risultava fra quelli inseriti nei terminali per “illecito ingresso nel territorio nazionale”. Ricevuto l’ordine di espulsione dal territorio italiano, con l’invito al rimpatrio, il tunisino è invece arrivato in modo clandestino in Francia.

Quei tunisini lasciati liberi con il foglio di via in tasca. Sul caso dell'attentatore di Nizza è intervenuta anche il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese: “Non c'è responsabilità da parte nostra – ha dichiarato – l'attentatore non era stato segnalato dalla Tunisia né risultava segnalato dall’intelligence”. Tuttavia sul controllo dei tunisini sbarcati negli ultimi mesi qualcosa è andato storto. Lo si è visto ad esempio il 21 settembre scorso. Dalla nave Rhapsody, la stessa che ha portato l'attentatore da Palermo a Bari, quella notte a Porto Empedocle, sono stati fatti scendere 750 migranti. Molti erano tunisini arrivati a Lampedusa pochi giorni prima. A 500 di loro è stato consegnato il foglio di via. In pratica gli è stato detto di lasciare autonomamente il territorio italiano. “È una certezza che questi 500 cittadini extracomunitari non daranno seguito al foglio di via”, aveva spiegato al Giornale.it il 2 ottobre Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato autonomo della Polizia di Stato. E infatti dei tunisini in quell'occasione non si è saputo più nulla. Anzi, Porto Empedocle e Agrigento poco dopo lo sbarco hanno visto decine di migranti riversarsi lungo le proprie strade in cerca di mezzi per raggiungere altre località del nostro Paese. Forse è stata la fretta a pesare su questa modalità di gestione. Serviva, a Porto Empedocle così come a Bari, liberare quanto prima le navi usate per la quarantena per fare spazio ad altri migranti. In tal modo si sono create falle che se in un primo momento hanno determinato allarme sotto il profilo sanitario, successivamente alla luce degli episodi di Nizza hanno mostrato problemi anche per la sicurezza.

Quegli allarmi ignorati. Poteva essere fatto qualcosa per evitare che il tunisino sbarcato a Lampedusa colpisse in Francia? La domanda sorge spontanea, ma è molto difficile giungere a una risposta. Certo è che anche in ambienti investigativi è noto come molti di coloro che fanno perdere le tracce in Italia aspirano ad arrivare all'estero: “I migranti resteranno nel nostro Paese oppure viaggeranno per raggiungere altre destinazioni come a volte accade. Francia e Germania in particolare –ha sottolineato nell'intervista a IlGiornale.it Stefano Paoloni – È chiaro che molti di questi non hanno nessun tipo di risorsa e pertanto sono particolarmente esposti a comportamenti poco leciti”. Quasi una profezia quella del sindacalista della Polizia. Ma già in passato allarmi relativi alla possibile infiltrazione di soggetti radicalizzati tramite gli sbarchi, soprattutto quelli autonomi, erano stati lanciati. Nell'estate del 2017, nel pieno di una delle stagioni caratterizzate dal record di approdi autonomi in Sicilia, a parlarne era stato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio: “Tra chi arriva senza controllo – era il pensiero del magistrato – Potrebbero esserci anche persone legate al terrorismo internazionale. Per questo penso che siamo di fronte a un’immigrazione pericolosa”. Anche in questo caso si è dinnanzi a una tragica profezia, rimasta però per anni lettera morta.

Le polemiche sul sistema di integrazione francese. “L'attentato di Nizza, oltre alla sua drammatica e barbarica violenza da condannare a prescindere e con forza, - afferma su IlGiornale.it Marino D’amore docente dell’Università Niccolò Cusano- ancora una volta, ci rivela come si valorizzi la superficialità, la generalizzazione e il conflitto, anche verbale, nella sua interpretazione”. In poche parole, il problema non è legato solo alla sicurezza ma anche al modello di integrazione. Infatti il docente Marino D’Amore, punta il dito contro il modello francese: “Non è possibile-afferma- cercare di comprenderne l’origine dell’attentato nella sua estrema complessità, senza tener conto del sostanziale fallimento dell’integrazione assimilazionista francese, che favorisce l’esclusione, e il reclutamento terrorista, la collisione tra due mondi,uno profondamente laico (quello transalpino) e l'altro fanaticamente radicalizzato”. Ad oggi, il vero problema è legato al controllo delle periferie francesi e non soltanto a quello dei migranti che arrivano dall’Italia:“La violenza è sempre e solo barbarie, ma relegare un evento così drammatico a una visione semplicistica, che ne individua le cause solo ed esclusivamente nell’immigrazione o nella libertà di espressione, senza, ad esempio- conclude D’Amore- considerare il livore che si diffonde nelle periferie francesi tra chi non riesce a integrarsi, significa non comprendere la situazione e alimentare lo scontro.

Tunisi: "L'Italia importa la jihad dei poveri e minaccia l'Europa". Accuse al nostro Paese: caccia ai 21 tunisini sul barchino con Brahim. "Qui per uccidere". Francesco De Remigis, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Zone d'ombra, chiaroscuri e una certezza granitica: l'attentatore-killer di Nizza, il 21enne Brahim Issaoui, «è venuto chiaramente in Francia per uccidere». E non da solo. È il ministro dell'Interno Gérald Darmanin a spiegare che ha intrapreso una lunga traversata da clandestino, mescolato a profughi e migranti economici: dalla Tunisia in Italia, infine in Francia fino alla basilica di Nizza dove giovedì ha sgozzato due fedeli e il sacrestano. «Era sul territorio nazionale solo da poche ore - continua Darmanin - è venuto per uccidere. In quale altro modo spiegare perché si è armato di diversi coltelli appena è arrivato? Spetta al procuratore antiterrorismo definire quand'è stato costruito il piano omicida, ma certo non è venuto per ottenere i documenti». Non un lupo solitario e nemmeno un migrante economico come aveva detto alla Digos di Palermo l'amico tunisino che ha ospitato Brahim ad Alcamo, nel Trapanese, dove si pensa abbia pianificato la strage. Qui si concentra un primo tronco dell'indagine italiana in collaborazione con la procura transalpina. Inquietante ciò che è emerso ieri a Nizza: la polizia sta cercando di scoprire se altri jihadisti, come Brahim, siano riusciti a fingersi migranti. Per questo gli inquirenti italiani stanno cercando tutti i compagni di viaggio dell'assassino - erano 21 sulla barca arrivata a Lampedusa - per interrogarli. In particolare vengono utilizzate le telecamere di sorveglianza della stazione di Ventimiglia. Pochi dettagli a Sud, utili soprattutto a geolocalizzare Brahim in Sicilia fino a domenica-lunedì. Ma incrociando i tabulati dei due cellulari del killer, con quelli dell'amico che lavorava al «Punto kebab» di Alcamo (sarà espulso, ha un foglio di via datato 2019), e con altri migranti nel frattempo rintracciati, l'inchiesta italiana per terrorismo e favoreggiamento punta a individuare il passeur. Un uomo avrebbe quindi aiutato Brahim e gli altri nell'organizzazione della prima traversata, e in seconda battuta a farlo arrivare da Bari ad Alcamo da killer. Gli ultimi allarmi dei Servizi italiani individuano ormai nella Tunisia una terra che esporta potenziali terroristi, tanto da aver consigliato a più riprese di monitorare gli sbarchi che partono da lì, più di altre zone del Maghreb. Dopo la «rivoluzione» del 2011, le Primavere arabe hanno reso il Paese fertile per rabbia e propaganda. Passeur, vecchi leoni e giovani leve, hanno messo in piedi cellule «diffuse», spalmate tra il Sud e il Nord Italia, fino alla Francia. Non necessariamente terroriste. Di supporto. Vivono in chiaroscuro, mescolando lavori saltuari a contatti conservati in patria. Il killer di Nizza «venuto per uccidere» si sarebbe appoggiato proprio a una di queste. È un fatto, secondo fonti del ministero dell'Interno tunisino citate ieri da Le Parisien, che l'Italia importa «la jihad dei poveri». Per esportarla inconsapevolmente nel resto d'Europa. Così Brahim, dai sobborghi di Sfax, ha percorso 1.300 km in linea d'aria in un mese. Da un barchino di 21 persone è arrivato ai titoli di giornale. Proprio come Anis Amri, un altro tunisino passato dalla Sicilia nel 2011 prima di uccidere in nome dello Stato islamico al mercatino di Natale di Berlino nel 2016. Macron ha sentito il presidente tunisino Kais Saied: «Molti si nascondono dietro la religione islamica, ma vengono reclutati con il solo scopo di nuocere», si è sentito dire. L'Eliseo ha chiesto invece che «la questione dell'immigrazione clandestina», in evidente «peggioramento», sia affrontata con più efficacia da parte di Tunisi. Il motivo? Gli altri 2 arresti di ieri in Francia: 25 e 63 anni, sotto torchio; presi entrambi a casa del «fiancheggiatore» di Brahim già finito in manette. Tale Ahmed Ben Amor, tunisino. C'è quasi la certezza che ci fosse anche lui sulla stessa imbarcazione con cui il killer ha lasciato la Tunisia a settembre per Lampedusa. Rimasti insieme a singhiozzo nel Belpaese, prima di raggiungere le Alpi. La polizia italiana sta quindi cercando di rintracciare tutti i compagni di viaggio dell'assassino: i 21 sulla barca. Per interrogarli e ripercorrere il viaggio. Tutto sembra orchestrato da migranti o ex tali. Ragion per cui il ministro dell'Interno francese annuncia «centinaia di agenti di polizia in più inviati al confine con l'Italia». I primi tre fermati per aver parlato col killer sono stati invece rilasciati: al primo Brahim aveva chiesto un posto dove comprare un croissant. L'altro era stato visto in macchina mentre dava un oggetto al terrorista: era una bottiglia d'acqua.

Sbarchi fantasma di migranti: arrivare in Italia (e in Europa) sfuggendo ai controlli. Le Iene News il 3 novembre 2020. A Nizza un terrorista arrivato a Lampedusa ha compiuto un attentato uccidendo tre persone. Il nostro Cristiano Pasca ci racconta come funzionano i cosiddetti “sbarchi fantasma” nel nostro paese, che permettono ai migranti di arrivare in Europa senza essere identificati. A Nizza il 29 ottobre un terrorista ha ucciso tre persone nella cattedrale di Notre Dame. L’autore di questo attentato, Brahim Aoussaoui, era sbarcato a Lampedusa il 20 settembre e da lì a era passato Bari dopo due settimane di quarantena. Dalla Puglia è fuggito in Francia dove ha poi compiuto la strage. Il nostro Cristiano Pasca ci spiega come siano due i modi per arrivare in Italia dalle coste dell’Africa: Il primo è a bordo di grandi navi intercettate dalle ogn o dalla Guardia costiera italiana. Il secondo e più pericoloso è quello dei cosiddetti “barchini”, o sbarchi fantasma: piccole imbarcazioni che arrivano direttamente sulle spiagge e permettono ai migranti di non essere registrati dalle autorità ed entrare in clandestinità. La Iena è stato a Torre Salsa, dove ha assistito in diretta a uno di questi sbarchi, e poi si è rivolto agli abitanti del luogo per capire come funzionano. Per capire ancora meglio guardate tutto il servizio in alto.

I terroristi arrivano (anche) con i barconi? Giovanni Giacalone su Inside Over il 31 ottobre 2020. Prima o poi doveva succedere nuovamente. Era inevitabile, perché vi erano già stati precedenti per quanto riguarda i terroristi arrivati via mare dal nord Africa utilizzando barche e gommoni. È un dato di fatto e un fenomeno noto da tempo. Il mondo politico era stato più volte avvisato dagli analisti che si occupano di terrorismo ma senza alcun risultato. La storia si ripete e così emerge che Brahim Aoussaoui, l’attentatore di Nizza che il 29 ottobre ha ucciso tre persone, decapitandone una, era arrivato a Lampedusa lo scorso settembre a bordo di un’imbarcazione proveniente dalla Tunisia per poi essere trasferito a Bari e lasciato libero di andarsene, con un semplice foglio di via. Tutto ciò in piena pandemia. Come già illustrato su ilGiornale.it, l’8 ottobre a Bari le autorità italiane avevano fatto sbarcare circa 805 migranti alla conclusione di un periodo di quarantena sulla nave “Rhapsody”. La gestione è stata emergenziale e Aoussaoui potrebbe plausibilmente essere stato tra quegli 800. Se così confermato, emergerebbero responsabilità enormi da parte del Viminale, tant’è che il Copasir ha immediatamente chiesto un’audizione al ministro degli Interni Luciana Lamorgese, mentre l’opposizione ne chiede le immediate dimissioni.

Una pericolosa ostinazione. Era il maggio del 2016 quando l’ex ministro della Difesa del governo Renzi e Gentiloni, Roberta Pinotti, dichiarava che l’arrivo di jihadisti con i gommoni le sembrava quasi impossibile in quanto “sono in grado di comprarsi dei biglietti aerei”, rilanciando invece il problema dei radicalizzati cresciuti in suolo europeo, come quelli che hanno colpito Francia, Belgio e Inghilterra. Una teoria, quella dei “jihadisti che non arrivano con i barconi”, sposata da esponenti politici e delle istituzioni come Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e anche dal magistrato Armando Spataro. Renzi a suo tempo lì definì “slogan”, affermando: “Arrivano coi barconi gli immigrati a fare gli attentati…Ma i terroristi non usano le zattere, i terroristi che vogliono entrare nel Paese non arrivano attraverso le zattere”. Spataro invece affermò: “Da anni sentiamo dire delle balle sui terroristi che arrivano con i barconi” aggiungendo che non vi erano prove. Del resto anche l’intelligence italiana e l’antiterrorismo avevano indicato tale eventualità come “propaganda”, accogliendola con molto scetticismo e ciò nonostante l’allarme lanciato nel maggio del 2015 dall’allora ministro dell’Informazione libico, Omar al-Gawari: “Le infiltrazioni verso "Malta e l’Italia", avverranno "attraverso i porti dominati da Fajr Libya", la coalizione di milizie filo-islamiche al potere a Tripoli e nella parte ovest della Libia, quella più vicina alla Sicilia”, come riportato all’epoca dal quotidiano Il Messaggero che oltre a pubblicare le dichiarazioni degli 007 secondo cui “se militanti dell’Isis volessero arrivare in Italia non lo farebbero certo usando barconi sottoposti ai controlli delle autorità italiane dopo il salvataggio”, pubblicava anche quelle dell’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano, secondo cui “non vi erano prove che tra i migranti erano presenti dei terroristi”. Una posizione strana quella dell’intelligence, considerato che nel dicembre del 2014 era emersa la notizia che la procura di Palermo aveva aperto un’indagine dopo che i servizi segreti avevano segnalato la possibile presenza di terroristi tra gli immigrati sbarcati nei mesi precedenti in Sicilia. Sul caso aveva indagato anche la Procura di Milano, come riportato allora dal professor Marco Lombardi dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies/Università Cattolica di Milano. Bisogna tener presente che già nel 2013 il problema dell’arrivo di terroristi via mare dall’Africa era noto e veniva anche esposto dall’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino: “Ci sono sospetti che dalla Libia fra i vari disperati arrivino in Europa anche jihadisti o qaedisti”, la quale aggiungeva che si trattava di un metodo utilizzato spesso da costoro.

I terroristi arrivati via mare. La lista di terroristi arrivati via mare e che hanno colpito (o erano in procinto di farlo) l’Europa in questi anni inizia ad essere lunga e tra i più noti troviamo il tunisino Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino, ucciso nella notte del 23 dicembre 2016 a Sesto San Giovanni dopo uno scontro a fuoco con una pattuglia della Polizia di Stato. Amri era arrivato a Lampedusa a bordo di un barcone nel 2011 e in Sicilia, oltre ad essersi ulteriormente radicalizzato, si era anche distinto per una serie di aggressioni e atti vandalici in diversi istituti di pena dell’Isola, prima di raggiungere la Germania e colpire a Berlino. Tra aprile e giugno del 2018 venivano invece arrestati a Napoli i gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray. I due avevano partecipato a un addestramento militare in un campo mobile in Libia dove si formano i futuri soldati o kamikaze dell’Isis ed erano pronti a compiere attentati in Europa. Nel dicembre del 2016 i due jihadisti erano saliti su un barcone diretto in Italia ed erano arrivati sulle coste siciliane, a Messina. Touray era stato trasferito a Napoli e Sillah in Puglia. C’è poi il caso del somalo Mohsin Omar Ibrahim, alias “Anass Khalil“, arrestato nel dicembre del 2018 a Bari mentre progettava di far saltare in aria le chiese durante il periodo natalizio. Arrivato nel 2016 in Sicilia a bordo di un barcone, il somalo aveva poi raggiunto Forlì e, dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno umanitario, era tornato in Puglia, sistemandosi in uno stabile abusivamente occupato da extracomunitari nei pressi della stazione di Bari. Il 7 gennaio 2018 Anass Khalil aveva colpito alla testa un passante con una bottiglia di vetro dopo aver visto un video dove si spronava i musulmani a far guerra ai cristiani nei loro Paesi. Il 13 agosto 2018 le autorità tunisine fermavano un gruppo composto da 9 jihadisti che si stava imbarcando su un gommone assieme a una decina di altri immigrati, tutti diretti verso le coste siciliane. Due mesi dopo, un tunisino di 25 anni arrivato a Lampedusa a luglio e ospite di un hotspot del posto, veniva riconosciuto da un suo connazionale che lo indicava alle autorità come ex combattente dell’Isis in Siria. Il soggetto in questione veniva dunque immediatamente rimpatriato dall’aeroporto di Palermo. Del resto anche Zaheer Hassan Mahmoud, il pakistano che lo scorso 25 settembre ha ferito quattro persone fuori dell’edificio della vecchia sede di Charlie Hebdo, era passato per l’Italia prima di raggiungere la Francia come “rifugiato”.

Il fiasco preventivo e la politica migratoria suicida. Il flop che ha permesso al terrorista tunisino di raggiungere indisturbato Nizza, arrivando a Lampedusa e passando per Bari dove è stato lasciato libero di proseguire il proprio viaggio con un semplice e inutile foglio di via, è l’esempio lampante di una politica migratoria suicida e di una totale carenza di screening preventivi che dovrebbero svolgere l’importante ruolo di filtro. È chiaro che per la legge dei grandi numeri, se arrivano migliaia di immigrati irregolari, diventa difficilissimo per gli addetti alla sicurezza implementare lo screening necessario per selezionare adeguatamente chi far rimanere e chi no. In Italia vige la regola del “dentro tutti e poi si vede”; in tali condizioni è ovvio che i terroristi hanno campo libero ed entrano come vogliono. Non si può dunque prendersela con chi ha il compito di vigilare, con risorse limitate e senza venir messo nelle condizioni ottimali per poter operare adeguatamente. Il problema è a monte e riguarda un’evidente mancanza di volontà nel voler fermare il forte e incontrollato flusso di clandestini provenienti dalle coste dell’Africa settentrionale che va oramai avanti da anni. I terroristi hanno dunque avuto tutto il tempo di infiltrarsi in Europa e per alcuni che passano all’azione, è plausibilissimo che ve ne siano molti altri pronti a farlo, aspettando soltanto il giusto input. Non si capisce in base a quali elementi si possa infatti pensare che in un contesto di estrema radicalizzazione islamista come la Libia e la Tunisia e la facilità con la quale si può raggiungere le coste italiane, i terroristi dovrebbero rinunciare a tale opportunità. Oltre alla ritrosia nel fermare i flussi all’origine vi è anche una totale carenza di politica europea comune nell’affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, con i tedeschi che lasciano le loro navi delle Ong libere di scorrazzare nel Mediterraneo per raccogliere immigrati e forzare i blocchi italiani; l’Italia dal canto suo, non potendo gestire tutti, lascia che proseguano il loro viaggio verso altri Paesi europei. I francesi dal canto loro li lasciano imbarcare sulla coste della Manica e li scortano addirittura fino alle acque territoriali britanniche, come documentato dal leader del Brexit Pary, Nigel Farage. È chiaro che senza una linea comune a livello europeo per quanto riguarda l’immigrazione, non si riuscirà a fermare gli arrivi e dunque non si potrà nemmeno salvaguardare la sicurezza nazionale e quella europea dal terrorismo islamista, perché sia chiaro, il fenomeno dei flussi incontrollati è un problema che riguarda tutti, non soltanto l’Italia.

La Stampa.it il 2 novembre 2020. E' scattato l'allarme a Vienna, dopo che sono stati avvertiti diversi spari a Schwedenplatz, nei pressi di una sinagoga. La polizia, riportano i media locali, è accorsa in forze sul luogo dell'incidente. "Non appena avremo maggiori informazioni ve le riporteremo", hanno riferito le forze dell'ordine. Un attentatore sarebbe stato ucciso, un altro sarebbe in fuga. La stazione della metropolitana di Schottenring, riporta il sito del quotidiano Der Standard, è stata circondata dagli uomini delle forze speciali. Secondo il quotidiano Heute, almeno un uomo sarebbe rimasto gravemente ferito. La polizia consiglia per il momento di evitare il centro di Vienna, dopo che un vasto ingorgo si è già creato nella zona di Franz-Josefs-Kai. L'account Twitter ufficiale della polizia viennese riferisce invece di "persone ferite" e di una "vasta operazione" in corso nel primo distretto della città. Ai membri della comunità ebraica a Vienna è stata data indicazione di rimanere in casa e a tutti gli uomini è stato chiesto di rimuovere la kippah, il tipico copricapo, dopo l'attacco che ha preso di mira una sinagoga della città.

Da corriere.it il 3 novembre 2020. La polizia austriaca ha lanciato un’operazione «su vasta scala» nella zona della sinagoga a Vienna, in Seitenstettengasse, dopo che attorno alle 20 di lunedì sera sono stati sparati alcuni colpi d’arma da fuoco. Il giornale Kronen Zeitung — tra i primi a riportare la notizia — ha confermato un «grande dispiegamento di forze di polizia». Secondo il ministro degli Interni Karl Nehammer si è trattato «apparentemente di un attentato», compiuto da più persone. «Gli attentatori, partendo dalla Seitenstettengasse (nei pressi della sinagoga, ndr), hanno iniziato a sparare a caso nei vicini locali», ha aggiunto il sindaco di Vienna Michael Ludwig . Da lì si sono spostati in altre zone del centro, lasciando una scia di sangue.

La ricostruzione. Un agente sarebbe in gravi condizioni dopo essere stato colpito, mentre un attentatore sarebbe stato arrestato. Altre fonti come il Kurier parlano, invece, di sette morti (tra cui un agente) e di 15 feriti. La polizia ha consigliato di evitare il centro della capitale e di rimanere in casa: «Non appena avremo maggiori informazioni ve le riporteremo». Gli agenti hanno, poi, riferito di diversi attentatori e di «un attacco in 6 punti della città». Sarebbero tre gli assalitori, riporta il quotidiano locale Die Presse, spiegando che uno di loro sarebbe morto dopo essersi fatto saltare in aria con una cintura esplosiva. Le linee dei trasporti sono state fermate nei pressi della sinagoga e sono stati circondati dalle forze dell’ordine i grandi magazzini Gerngross, in pieno centro, nel quartiere Mariahilf.

La solidarietà internazionale. Il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso sostegno all’Austria per l’attacco terroristico in corso a Vienna. «Questa è la nostra Europa. I nostri nemici devono sapere con chi hanno a che fare. Non cederemo a nulla». «L’Europa condanna con forza questo atto codardo che viola la vita e i nostri valori umani. I miei pensieri sono con le vittime e la gente di Vienna sulla scia dell’orribile attacco di stasera. Siamo con l’Austria», ha scritto. E anche Berlino ha subito condannato l’attentato a Vienna vicino a una sinagoga : «Non dobbiamo cedere all’odio di chi cerca di dividere le nostre società», ha dichiarato in un tweet il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas. «Ferma condanna dell’attentato che questa sera ha colpito la città di #Vienna. Non c’è spazio per l’odio e la violenza nella nostra casa comune europea. Vicinanza al popolo austriaco, ai familiari delle vittime e ai feriti.». Lo scrive in un tweet il premier Giuseppe Conte.

«Non uscite di casa». Inizialmente era stato riferito che ad essere attaccata era stata anche la sinagoga, ma il presidente della comunità ebraica di Vienna, Oskar Deutsch, ha affermato che non vi sarebbero delle vittime tra i rappresentanti della sua comunità. «Al momento non si può dire se il tempio della città fosse uno degli obiettivi», ha scritto su Twitter Deutsch. «Quello che è certo, però, è che sia la sinagoga di Seitenstettengasse che l’edificio per uffici allo stesso indirizzo non erano più in funzione e chiusi al momento dei primi spari», aggiunge. «In ogni caso c’è stata una sparatoria nelle immediate vicinanze del tempio cittadino. A tutti i fedeli è stato chiesto di non uscire in strada e rimanere al sicuro fino a quando le autorità non avranno chiarito i fatti».

Vienna, attacco in sei punti: 4 le vittime. L’attentatore ucciso era simpatizzante Isis. Paolo Valentino, Redazione Online e Guido Olimpio e Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2020. Notte di sangue e di terrore a Vienna. Le vittime sono quattro, due uomini e due donne: lo ha detto nel corso di una conferenza stampa il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer. Ore drammatiche e di paura lunedì sera nel cuore di Vienna. Almeno due persone (un passante e una donna) sono morti e un’altra quindicina sono rimaste ferite (sette in modo grave) in una serie di attacchi armati, avvenuti intorno alle 20, in sei diversi punti nel centro della città. Almeno uno degli assalitori è stato ucciso, ma un altro è ancora in fuga e nella capitale austriaca è da ore in corso un’imponente caccia all’uomo. Il cancelliere Sebastian Kurz ha parlato di «ripugnante atto terroristico» preparato «in modo molto professionale». Il volto tirato, la voce strozzata, il ministro dell’Interno, Karl Nehammer, ha invitato tutti «se possibile» a rimanere a casa, oggi, e tenere a casa i bambini da scuola: «È il giorno più complicato per l’Austria da molti anni. La situazione è molto, molto difficile. Quello che succederà domani dipende da quanto accade stanotte. Se potete, rimanete a casa ed evitate il centro della città».

Caccia all’uomo. Secondo le autorità, l’uomo in fuga è pesantemente armato ed è pericoloso. Da ore la polizia insieme alle forze speciali dei reparti Vega e Cobra, agenti dell’antiterrorismo e centinaia di agenti appoggiati da elicotteri, rastrellano il centro della città a caccia del fuggitivo. Sono stati creati posti di blocco, l’operazione prevede anche il controllo dei confini austriaci e sono state attivate le forze speciali dell’esercito, il Jagdkommando, che hanno assunto la sorveglianza degli edifici pubblici per liberare gli agenti di polizia che erano dislocati nei luoghi sensibili. «Sono lieto che i nostri agenti di polizia abbiano già eliminato uno degli aggressori: non saremo mai intimiditi dal terrorismo e combatteremo queste aggressioni con tutti i mezzi», ha assicurato Kurz. Gli attacchi sono avvenuti in sei diversi punti della città vecchia, compresa la strada dove si trova la principale sinagoga della città dove nel 1981 ci fu un attentato che causò due morti. Secondo il cancelliere austriaco, «un movente antisemita per il momento non può essere escluso, anche alla luce del luogo dal quale l’attacco è partito», cioè proprio nei pressi della sinagoga di Vienna.

Un terrorista ancora in fuga. Per ore notizie si sono succedute convulse e a volte confuse. La polizia è riuscita a neutralizzare un terrorista armato pesantemente (e che secondo il sindaco di Vienna aveva indosso una cintura esplosiva), ma ce n’è un altro almeno ancora in fuga. La prima sparatoria è avvenuta proprio vicino alla sinagoga che però era chiusa già da un paio d’ore e forse non era nel mirino, ma un assalitore è stato abbattuto. Poi dopo la prima sparatoria, la corsa all’impazzata dei terroristi per i vicoli della città, tra i vicoli e i ristoranti dove la gente si godeva l’ultima serata prima dell’entrata in vigore del lockdown, in vigore da martedì. Tutto registrato dai video, circolati numerosi in rete, fino a quando la polizia non ha chiesto con insistenza di evitare di postarli. In uno scioccante video si vede un uomo che corre, imbracciando un fucile d’assalto e attraversa le strade sparando; un altro sembra mostrare il momento in cui un ignaro passante viene colpito da un terrorista.

L’appello. Il ministro dell’Interno, Karl Nehammer, si è appellato ai viennesi perché domani rimangano in casa e ha aggiunto che i ragazzi della scuola dell’obbligo saranno esentati dal recarsi negli istituti. «Come sarà la situazione domani — ha aggiunto —, dipenderà da quello che accade stanotte». Riguarda l’identità e la motivazione dei terroristi, le autorità sono state molto caute: è ancora presto per farei ipotesi e la situazione non è chiara. On line, è apparsa una foto che mostrerebbe uno degli autori dell’attacco a Vienna: la didascalia che accompagna l’immagine è una dichiarazione di fede al nuovo capo dell’Isis, al-Qurashi, il successore del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. L’autenticità dell’immagine non è stata confermata.

L’ipotesi rappresaglia. Secondo Rita Katz, direttrice del Site Institute, società che si occupa di monitorare e verificare le attività online dell’Isis, l’attentato è una rappresaglia jihadista per la partecipazione dell’Austria alla coalizione anti-Isis a guida Usa Intanto dall’Europa sono arrivate prime reazioni e dichiarazioni di sostegno.

La solidarietà internazionale. «Siamo più forti dell’odio e del terrore», ha assicurato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «L’Europa condanna con forza questo atto codardo che viola la vita e i nostri valori umani», gli ha fatto eco il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. E il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, ha incalzato: «In tutto il nostro continente siamo uniti contro la violenza e l’odio». Hanno parlato anche il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: «Non c’è spazio per l’odio e la violenza nella nostra casa comune europea», ha twittato il premier; «l’Europa deve reagire», ha aggiunto Di Maio. Berlino e Madrid sulla stessa lunghezza d’onda: «Non dobbiamo cedere all’odio», ha detto a Berlino il ministero degli Esteri; «l’odio non piegherà la nostra società», ha aggiunto il premier spagnolo, Pedro Sanchez. Ma il presidente francese, Emmanuel Macron, ha messo in guardia: «Questa è la nostra Europa. I nostri nemici devono sapere con chi hanno a che fare. Non cederemo a nulla».

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. È il fronte delle città, con le strade tramutate in campo di battaglia da estremisti e da persone che li imitano ma conducono guerre personali. Il fine è sempre lo stesso: fare molte vittime, portare il terrore, dimostrare che nessuno è al sicuro. Alcune azioni richiedono una preparazione, specie se coinvolgono luoghi multipli come a Vienna. I criminali devono procurarsi l' arsenale, condurre una ricognizione, studiare le contromisure. Il Paese ha una posizione geografica che la può rendere vulnerabile, è vicina all' Est europeo, uno dei serbatoi dai quali entrano esplosivi, Kalashnikov e armi ricondizionate. Quelle per il Bataclan le comprarono in Slovacchia. Esistono molti sentieri battuti dai trafficanti e lungo le medesime rotte possono passare elementi che vogliono infiltrarsi. In quest' occasione hanno agito terroristi differenti da quelli che impugnano un coltello oppure guidano il «tagliaerba», l' auto sulla folla. Le immagini hanno mostrato un uomo con un fucile e un paio di borse a tracolla, forse per le munizioni. Spara la prima volta su un giovane, riprende il suo percorso e quindi torna indietro per tirare ancora sulla vittima. È killer metodico. Spesso sono missioni sacrificali, chi le conduce ha un equipaggiamento per ingaggiare gli agenti, fucili e cinture da kamikaze. Dotazione per resistere, per prendere eventualmente degli ostaggi. E questo a prescindere dal colore di appartenenza: è un modus operandi adottato dai jihadisti, lo abbiamo visto spesso attuato in Europa e in Asia, ma non sono certo gli unici. A Mumbai, nel 2008, un commando di kashmiri arrivò dal mare e si trincerò all' interno di un grande albergo con un buon numero di ospiti diventati scudi umani. Loro complici presero d' assalto un centro ebraico. Un evento tragico che ha dimostrato come il teatro urbano sia diventato un fronte altamente pericoloso. Casi remoti e recenti confermano come gli obiettivi siano inesauribili. I luoghi di culto (sinagoghe, chiese), gli alberghi, i ristoranti sono target facili. Gli assassini colgono di sorpresa le loro vittime, sconvolgono consuetudini normali, trasformano chiunque un bersaglio. L' Austria non è stata risparmiata dalla violenza politica. Ricordiamo la strage all' aeroporto nel dicembre 1985, l' omicidio di tre dirigenti curdi iraniani nell' 89, l' agguato contro un esule ceceno nel luglio di quest' anno. Quindi il timore dello Stato Islamico o dei nemici interni, i neonazisti. Nel dicembre 2019 è stata arrestata una micro-cellula di ceceni filo-Isis che voleva attaccare un mercatino di Natale. Ed erano ispirati sempre da un ceceno due giovani austriaci che volevano assassinare un poliziotto. Oggi le nostre società devono guardarsi da tanti avversari, il cui scopo - con motivazioni non omogenee - è lacerare, spaccare la società, ammazzare. I militanti islamici lo fanno per la loro bandiera, gli xenofobi in nome della razza, lo stragista di Las Vegas ha sparato per diventare famoso. Sono ore angoscianti, dopo la decapitazione del professore francese e l' attentato a Nizza, con l' Europa al centro di un' offensiva.

Paul Pogba e i nazionali musulmani della Francia assenti dal video in ricordo del professore decapitato dal terrorista islamico. Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. Sabato pomeriggio, il ministro dell'Istruzione francese, Jean-Michel Blanquer, ha pubblicato sul suo account Twitter un video registrato da alcuni giocatori della nazionale di calcio per rendere omaggio all'insegnante di storia e geografia Samuel Paty, decapitato dal terrorista islamico ceceno Abdoullakh Anzorov per aver mostrato le vignette di Maometto in classe. C'è Antoine Griezmann, star del Barcellona, c'è Olivier Giroud, attaccante del Chelsea, c'è Raphaël Varane, difensore del Real Madrid, c'è Benjamin Pavard, terzino del Bayern Monaco, c'è Hugo Lloris, portiere del Tottenham, e c'è Steven N'Zonzi, ex centrocampista della Roma, tutti accomunati dalla loro fede cattolica e tutti desiderosi di lanciare un messaggio ai giovani francesi, di ricordare loro la fortuna di essere nati in Francia, di avere tutti gli stessi diritti e di potersi emancipare attraverso la scuola della République e i suoi professori. Strana assenza - Molti francesi però, hanno notato la "strana assenza" di alcuni giocatori dell'équipe de France in questo video ricordo di Samuel Paty, ossia dei musulmani della nazionale: Paul Pogba, N'Golo Kanté, Ousmane Dembélé, Benjamin Mendy e Presnel Kimpembé. Pura casualità o diserzione volontaria? «Se tutti i musulmani della nazionale francese tacciono, questo video non avrà alcun effetto», scrive un utente indignato su Twitter. «Ne mancano alcuni quelli di confessione musulmana, o sbaglio? Bisogna dirle le cose Video rivelatore?», commenta un altro. L'assenza dei giocatori francesi musulmani dalla clip pubblicata dal ministro Blanquer si aggiunge ad alcuni episodi spiacevoli verificatisi in questi giorni, e che hanno visto come protagonisti proprio alcuni calciatori di fede islamica della nazionale, ex e attuali. Su Instagram, ventiquattro ore dopo l'attentato di Nizza perpetrato dal tunisino Brahim Aouissaoui, il lottatore daghestano islamico Khabib Nurmagomedov ha pubblicato una foto di Macron "calpestato" dal segno di una scarpa e scritto queste parole: «Possa l'Onnipotente sfigurare il volto di questa creatura e di tutti i suoi seguaci che, sotto lo slogan della libertà di parola, insultano i sentimenti di più di un miliardo e mezzo di credenti musulmani. Possa l'Onnipotente umiliarli in questa vita e nella prossima. Allah è rapido nei calcoli e lo vedrete. Siamo musulmani, amiamo il nostro profeta Maometto (che Allah lo benedica) più delle nostre madri, dei nostri padri, figli, mogli e tutte le altre persone vicine al nostro cuore. Credetemi, queste provocazioni ritorneranno a loro, la fine è sempre per i timorati di Dio». Tra i tre milioni di "like" al post violento di Khabib, figurano anche quelli dei musulmani Youcef Atal, giocatore algerino dell'Ogc Nizza, Tiémoué Bakayoko, centrocampista del Napoli, Karim Benzema, attaccante del Real Madrid, e Presnel Kimpembé, difensore del Psg. Quest' ultimo, dinanzi alle critiche piovute da molti dei suoi concittadini, si è difeso dicendo che lui non fa politica, fa sport, e che è stata una «manipolazione nauseabonda». Fatto sta che l'"approvazione" del messaggio di Khabib è lì sotto gli occhi tutti. Aouissaoui ha il virus Anche Adil Rami, ex difensore della nazionale francese di confessione musulmana, ha pubblicato un video sui social dicendosi «disgustato» dal presidente Macron e dai suoi discorsi in difesa della laicità e della libertà d'espressione. «Macron così ci metti nella merda», dice Rami, aggiungendo che «i musulmani si avvicinano alla perfezione». Intanto, attraverso le informazioni del Parisien, si viene a sapere che il musulmano Aouissaoui aveva pregato nella moschea di rue de la Reine-Jeanne per quasi un'ora e mezza prima di sgozzare tre persone nella basilica di Notre-Dame de l'Assomption. Attualmente ricoverato in ospedale, il terrorista tunisino sarebbe inoltre risultato positivo al coronavirus.

Terrorismo e insulti, ora il nuovo Macron sfida l’Islam politico. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 7/11/2020. Le decapitazioni attuate da jihadisti e gli attacchi da parte di Erdogan mettono alla prova un presidente che non aveva fatto della laicità una sua bandiera. «Ora potrebbe fare più e meglio dei predecessori». Emmanuel Macron è cambiato. Ci sono voluti orrori come le decapitazioni all’uscita da scuola a Conflans e nella chiesa di Nizza, e gli insulti senza precedenti del presidente turco Erdogan, per fargli prendere una posizione chiara contro un nemico, l’Islam politico, indicato come una minaccia all’esistenza stessa della République. Le moschee radicali come quella di Pantin vengono chiuse, le associazioni islamiste come BarakaCity sciolte per decreto, gli imam finanziati dalle potenze straniere (soprattutto Turchia, poi Algeria e Marocco) destinati a essere sostituiti da religiosi formati - e controllati - in Francia, le prepotenze non solo verbali dell’aspirante califfo Erdogan affrontate senza cedimenti, la difesa della libertà di espressione e delle caricature di Charlie Hebdo ribadita senza esitazioni. Eppure fino a qualche tempo fa Macron affrontava le questioni della laicità, dell’identità nazionale, del rapporto con le religioni con una apparente svogliatezza, un laissez-faire da liberale all’anglosassone quale in fondo è: il presidente francese sembrava privilegiare il multiculturalismo, quell’idea che i cittadini possano conservare diverse lealtà verso lo Stato, certo, ma anche verso la comunità religiosa di appartenenza, e pazienza se i sistemi di valori collidono. Ancora nel 2016, pochi mesi dopo gli spaventosi attentati a Charlie Hebdo e poi al Bataclan e ai ristoranti parigini, Macron sbuffava contro l’allora premier Manuel Valls e lo accusava di usare la sua «laicità vendicativa» come un’arma «contro la religione musulmana». La pretesa rottura del giovane Macron nei confronti della vecchia politica si esprimeva anche distaccandosi dalla tradizione nazionale sulle questioni dell’identità. Non importano le tue origini o le tue credenze religiose, sarai un buon francese se adotterai i valori della République (laicità compresa): questo è quel che prevede il modello dell’assimilazione alla francese. Macron sembrava poco convinto, o comunque distratto, e nella prima parte del mandato di tutto si è occupato fuorché della minaccia dell’Islam politico. Céline Pina, 50 anni, ex consigliera regionale socialista, poi uscita dal Ps e autrice di «Silence Coupable», atto d’accusa sui compromessi «Macron è il classico tecnocrate, l’uomo meno indicato per interessarsi a questioni di fondo come l’identità di una nazione. Ma non si possono scegliere gli eventi, ed è possibile che la Storia stia trasformando un piccolo politico, un alto funzionario senza visione, in un uomo di Stato. È un processo al quale stiamo assistendo in diretta, e devo ammettere con mia grande sorpresa che alla fine Emmanuel Macron potrebbe rivelarsi, sul tema cruciale della difesa della civiltà, migliore dei suoi predecessori». A parlare è Céline Pina, 50 anni, ex consigliera regionale socialista nell’Ile de France, una figura molto nota in Francia da quando nel 2015 entrò in conflitto con la gerarchia del partito denunciando le frasi di inaccettabile violenza ascoltate al «Salone della donna musulmana» di Pontoise. «I predicatori recitavano tutto il repertorio islamista, ovvero gli strali contro le donne che vanno in giro senza velo e quindi sono svergognate che non possono poi lamentarsi se vengono stuprate, le minacce ai musulmani che osano dedicarsi alle attività da kuffar, miscredenti, come la musica o la danza, l’idea che le leggi da seguire non sono quelle della Repubblica ma del Corano», ricorda Pina. Quel che le accadde rappresenta un parte significativa della storia recente della Francia. Da sempre militante e poi eletta a sinistra, Céline Pina venne messa ai margini nel partito e accusata «di fare il gioco del Front National», l’eterna accusa utilizzata per mettere a tacere chi sottolinea i problemi. L’anno successivo, ormai uscita da un Ps in crisi di identità, ha scritto Silence coupable (Silenzio colpevole), un atto d’accusa contro la classe dirigente di destra e di sinistra che ha chiuso gli occhi. «Non lo avrei mai detto, ma Macron potrebbe fare molto meglio di Sarkozy o Hollande». Sarkozy, che pure lanciò un grande dibattito sull’identità nazionale, ma allo stesso tempo allacciò legami sempre più stretti con il Qatar finanziatore dei Fratelli musulmani. Hollande che pure subì durante il suo mandato gli spaventosi attentati del 2015, «e nel momento cruciale scelse, poco coraggiosamente, la strada più facile». Dopo quegli attentati il premier socialista Valls si fece interprete di una linea intransigente contro il terrorismo, ovviamente, ma anche con l’ideologia che lo nutre, ovvero l’islamismo politico, la pretesa dei musulmani radicali di vivere secondo regole proprie, superiori a quelle dello Stato. Valls venne accusato — soprattutto a sinistra — di attaccare così milioni di musulmani francesi. All’opposto della linea di Valls c’era quella di Jean-Louis Bianco, presidente dell’Osservatorio della laicità, organismo incaricato di sorvegliare sulle minacce ai valori della Repubblica. Bianco ha avuto un atteggiamento ambiguo, talvolta vicino ad ambienti islamici radicali. «Valls ne chiese l’allontanamento, Hollande non lo ascoltò. Ancora una volta, tra i socialisti e nel governo fu la coerenza a perdere e la linea Bianco, accomodante, a vincere». I perché di questa acquiescenza verso l’Islam radicale sono molti. C’è la convinzione che i musulmani siano i nuovi deboli, i nuovi proletari che la sinistra ha il dovere di proteggere come un tempo con gli operai, che sono scomparsi o votano Front National. «Ma c’è pure banalmente il clientelismo, la consapevolezza che per essere eletti alla periferia nord di Parigi occorre avere un buon rapporto con la comunità musulmana e quindi con i suoi rappresentanti più radicali». Oggi Macron ha indicato il nemico. Che non è più il solito «lupo solitario» con problemi psichiatrici. L’uccisione del professore ha indicato che le responsabilità andavano cercate certo nel terrorista ceceno, ma anche nella campagna di odio organizzata online dal padre di una allieva. Il contrasto Macron-Erdogan è decisivo: dove vogliamo mettere il segno di separazione tra ciò che va combattuto e ciò che può essere tollerato? Secondo Erdogan, e i suoi alleati francesi fautori dell’Islam politico, ci sono da una parte pochi terroristi e dall’altra l’insieme dei musulmani che non vanno offesi con la libertà di espressione. «Secondo Macron, finalmente, bisogna combattere i terroristi e anche gli islamisti radicali, che preferiscono la sharia alle leggi dello Stato», dice Pina. È la battaglia dei prossimi anni, molto più vasta e pericolosa, ma che Macron ha deciso di combattere.

Vienna, attacco terroristico in sei punti diversi del centro città: morti e 17 feriti. Il ministro dell'Interno: "Attentatore simpatizzante dell'Isis". Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 2 novembre 2020. L'assalto è stato compiuto in diversi punti del centro della capitale, il primo dei quali vicino alla sinagoga centrale. Il ministro dell'Interno Karl Nehammer ha invitato i cittadini a non uscire e a non diffondere video. Kurz: "Diversi attentatori armati sono ancora in fuga". L'Austria sotto attacco. Un commando terroristico in serata ha preso di mira passanti e avventori dei locali nel centro di Vienna, non lontano da una sinagoga. Gli assalitori hanno sparato sulla folla con fucili. La polizia conferma un morto tra i passanti e diversi feriti gravi, tra cui un agente. Nella notte il sindaco di Vienna ha parlato di almeno due civili assassinati, una è una donna. Un primo bilancio all'alba indica in 17 i feriti, tra cui sei gravi. Un terrorista armato con un fucile d'assalto è stato ucciso dalle forze speciali. "Aveva una cintura esplosiva", ha detto la tv austriaca Orf. Ma per la polzia era falsa. Il cancelliere Kurz lancia l'allarme: "Diversi attentatori ben armati sono ancora in fuga". E non escluse il movente antisemita.

Il ministro dell'Interno: "L'attentatore simpatizzante Isis". Il ministro dell'Interno austriaco, Karl Nehammer ha nuovamente invitato questa mattina i viennesi a rimanere a casa ed evitare il centro città e ha annunciato che oggi le scuole a Vienna resteranno chiuse. L'attentatore ucciso, ha aggiunto il ministro, era austriaco e simpatizzante dell'Isis. Era pesantemente armato, ma la cintura esplosiva che indossava era finta. Secondo il capo della polizia di Vienna, il terrorista è stato è stato "neutralizzato" alle 20,09. L'abitazione dell'uomo è stata già perquisita, anche se la sua identità non è stata ancora resa nota.

Assalto in sei diversi punti della città. I primi spari sono stati esplosi verso le 20 nella Seitenstettengasse, nei pressi della principale sinagoga della città. Poi il commando terrorista, composto da almeno quattro attentatori, avrebbe iniziato a fuggire sparando in sei punti diversi della città. La polizia di Vienna sul suo profilo Twitter scrive di "molti sospetti armati di fucile". Alcuni media hanno parlato anche di una presa di ostaggi in un ristorante giapponese, ma questa notizia non è stata confermata.

Gli attentatori e gli ostaggi. Il ministro dell'Interno, Karl Nehammer, che ha parlato in diretta alla nazione, non ha voluto esprimersi sulla presunta presa d'ostaggi ancora in corso, chiedendo comprensione data la gravità della situazione. "Restate a casa", è stato il suo appello alla popolazione. In azione ci sono le forze speciali Vega e Cobra ed è sceso in strada anche l'esercito. I soldati stanno presidiando i luoghi sensibili della città.

"Sparavano a caso nei locali". "Gli attentatori, partendo dalla Seitenstettengasse, hanno iniziato a sparare a caso nei locali vicini". Lo ha detto il sindaco di Vienna Michael Ludwig alla tv Orf. Da lì si sono spostati in altre zone del centro, lasciando una scia di sangue.

Le testimonianze. Gli assalitori hanno sparato a caso alle persone che si trovavano nel giardino di un bar. Lo ha raccontato al Kurier il rabbino Schlomo Hofmeister, che vive in un appartamento che si trova direttamente sopra la sinagoga della città. Secondo la sua testimonianza, "l'autore si è mosso in direzione di Hoher Markt e della chiesa di San Ruperto" e avrebbe sparato alle persone che erano sedute nel giardino di un pub in Judengasse e Seitenstettengasse, "non ha mirato alla sinagoga". "Il centro era affollatissimo perché è l'ultima sera prima del nuovo lockdown. Ora siamo chiusi in casa. Da almeno un'ora e mezza e sentiamo sirene ed elicotteri", ha raccontato all'Agi Cecilia Lagomarsino, residente nel centro di Vienna. "Da domani inizia il nuovo lockdown con coprifuoco dalle 20 alle 6, quindi il centro era pieno", spiega. "Anche noi eravamo fuori proprio verso le 20,30, poi siamo rientrati a casa e abbiamo iniziato a sentire le notizie. Ci siamo chiusi dentro. Pare che gli attentatori si siano spostati dal primo distretto verso il 6 e il 7, dove abitiamo noi", aggiunge.

La comunità ebraica. Anche la comunità ebraica ha invitato a non lasciare le proprie abitazioni e a non indossare la kippah. Ma non c'è alcuna certezza che la sinagoga fosse l'obiettivo dell'attacco. "Non sappiamo ancora cosa sia. Ci sono stati spari e abbiamo detto alla nostra comunità di restare in casa", ha detto Erika Jakubovits, la direttrice esecutiva della comunità ebraica di Vienna, raggiunta al telefono.

Da Macron all'Unione europea: le reazioni. Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha condannato quanto accaduto "un attacco terroristico disgustoso" aggiungendo che l'Austria non si lascerà intimidire dal terrorismo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso sostegno all'Austria per l'attacco terroristico in corso: "Questa è la nostra Europa. I nostri nemici devono sapere con chi hanno a che fare. Non cederemo a nulla. Noi francesi condividiamo lo shock e il dolore degli austriaci. Dopo la Francia, è un Paese amico che è sotto attacco". "L'Europa condanna con forza questo atto codardo che viola la vita e i nostri valori umani. I miei pensieri sono con le vittime e la gente di Vienna sulla scia dell'orribile attacco di stasera. Siamo con l'Austria", scrive su Twitter il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.  "Non dobbiamo cedere all'odio" ha detto invece Berlino. E il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, twitta: "Non c'è spazio per l'odio e la violenza nella nostra casa comune europea".

Attacco a Vienna, 4 morti e 17 i feriti: 6 in pericolo di vita. il ministro dell'Interno: "Attentatore in fuga. Tenete i vostri figli in casa". La Repubblica il 3 novembre 2020. La polizia austriaca sta effettuando "perquisizioni e arresti in questo momento", ha dichiarato il sindaco della capitale austriaca  Michael Ludwig. Uno dei killer è stato ucciso. Il cancelliere Kurtz: "Non escluso movente antisemita". Merkel: "Il terrorismo islamico è un nemico comune". Sono 17 le persone rimaste ferite nell'attentato di ieri sera a Vienna. Il direttore sanitario di Vienna, Michael Binder, ha precisato alla radio austriaca che sei di questie sono in pericolo di vita. Tutti i feriti sono stati colpiti da armi da fuoco. Rimangono stabili, ma critiche le condizioni del poliziotto ferito che è ricoverato in terapia intensiva. I feriti erano stati portati in sei ospedali della capitale austriaca e alcuni sottoposti a intervento chirurgico. Anche le misure di sicurezza negli ospedali sono state intensificate, come ha affermato il direttore dell'ospedale: "Sono ben protetti".

Quattro le vittime, compreso l'attentatore. Il ministro dell'Interno austriaco, Karl Nehammer, ha confermato a notte fonda che le vittime dell'attacco sono quattro incluso un attentatore. Due uomini e una donna di età compresa fra i 40 e i 50 anni, sono morti per le ferite riportate. Anche un aggressore, che trasportava un fucile d'assalto e un falso giubbotto esplosivo, è stato colpito e ucciso dalla polizia. Nehammer ha detto che le indagini iniziali indicano che il sospetto ucciso aveva simpatizzato con l'Isis. "L'attentatore simpatizzava con il gruppo terroristico Isis", ha detto Nehammer, rifiutando però di approfondire, citando l'indagine in corso. Ma "almeno uno è ancora in fuga" ha detto il ministro dell'Interno austriaco. La polizia austriaca sta effettuando "perquisizioni e arresti in questo momento", ha dichiarato il sindaco di Vienna Michael Ludwig. In precedenza la polizia aveva riferito di attentatori in fuga. Le scuole resteranno chiuse: "Tenete i vostri figli in casa" ha ammonito il ministro Nehammer annunciando stretti controlli ai confini del Paese. Quella in atto è una "situazione molto difficile" e "dobbiamo rimanere uniti, è il giorno più duro per l'Austria da molti anni, ci sono sicuramente molte vittime".

Le reazioni, Merkel: "Terrorismo islamico è un nemico comune". "I tedeschi sono al fianco degli amici austriaci con partecipazione e solidarietà", ha detto tramite il portaavoce Angela Merkel su Twitter. "Il terrorismo islamico è un nostro comune nemico. La lotta contro questi delitti e contro questi attentati è la nostra lotta comune", ha aggiunto. Sono in contatto con il governo federale e ringrazio a nome della Repubblica per le dichiarazioni di sostegno dei capi di Stato e di governo internazionali" la prima reazione su Twitter del presidente austriaco, Alexander van der Bellen. "Siamo tutti profondamente colpiti dal presunto attacco terroristico nel centro di Vienna. I nostri pensieri e la nostra compassione vanno alle vittime, ai feriti e alle loro famiglie". "Vorrei ringraziare tutta la polizia, i soccorritori e le forze armate che si sono impegnati a proteggere la nostra democrazia e la nostra libertà. Il nostro sostegno va ai cittadini che devono ancora resistere nell'incerta situazione del centro città", ha concluso van der Bellen.

Il cancelliere: "Non escludiamo pista antisemita". Secondo il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, "un movente antisemita per il momento non può essere escluso, anche alla luce del luogo dal quale l'attacco è partito", cioè nei pressi della sinagoga di Vienna. Il cancelliere austriaco ha convocato per questa mattina alle 9 un Consiglio dei ministri straordinario. Al termine della riunione, Kurz terrà una conferenza stampa congiunta con il vice cancelliere Werner Cogler, il ministro degli Interni Karl Nehammer e il sindaco di Vienna Ludwig. Quindi, insieme si recheranno sui luoghi dell'attentato dove verrà deposta una corona di fiori.

Terrorismo a Vienna, almeno 4 morti e 17 feriti. Il timore di attacchi negli ospedali. Un killer morto, altri in fuga? Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. Austria sotto attacco, il terrorismo islamico colpisce e miete vittime innocenti Vienna. In azione un intero commando, che ha sparato a caso sulla popolazione in pieno centro, nei pressi di una sinagoga, che era chiusa. Fuoco con fucili e armi automatiche. Le prime conferme ufficiali sul bilancio riferiscono di quattro vittime e almeno 17 feriti, sei dei quali versano in gravi condizioni. La conferma è arrivata dalle autorità a notte fonda: quattro vittime, incluso un attentatore. Tra i morti, due uomini e una donna di età compresa fra i 40 e i 50 anni. Il punto più allarmante è che cancelliere Sebastian Kurz ha lanciato l'allarme: "Diversi attentatori ben armati sono ancora in fuga". E non escluse il movente antisemita. Le autorità locali, dopo aver confermato il movente terroristico, stanno mantenendo grande riserbo sulle operazioni in corso. In totale, il commando sarebbe stato composto da quattro persone. Anche le misure di sicurezza negli ospedali sono state intensificate: "Sono ben protetti". Il timore delle autorità, si suppone, è che gli attentatori in fuga pensiono a colpire proprio nei ricoveri. Il ministro dell'Interno austriaco, Karl Nehammer ha ribadito al mattino l'invito di lunedì sera, ossia di restare a casa ed evitare il centro città. E ancora, ha aggiunto che le scuole a Vienna questo martedì resteranno chiuse. L'attentatore ucciso, ha aggiunto il ministro, era "austriaco e simpatizzante dell'Isis". Era pesantemente armato, ma la cintura esplosiva che indossava era finta. Secondo il capo della polizia di Vienna, il terrorista è stato è stato "neutralizzato" alle 20,09. Successivamente, il ministro ha spiegato che il killer ucciso era  un ventenne "pesantemente armato" di origini albanesi ma nato e cresciuto in Austria. L'assassino era noto alle autorità: in passato aveva provato ad andare a combattere in Siria. L'appartamento in cui viveva è stato perquisito dalle forze dell'ordine che hanno usato una carica esplosiva per accedere. Nella primissima mattinata di lunedì, la polizia austrica ha spiegato che sta "effettuando perquisizioni e arresti", circostanza poi confermata dal sindaco di Vienna, Michael Ludwig. Le scuole resteranno chiuse: "Tenete i vostri figli in casa" ha chiesto il ministro Nehammer annunciando stretti controlli ai confini del Paese. Quella in atto è una "situazione molto difficile" e "dobbiamo rimanere uniti, è il giorno più duro per l'Austria da molti anni, ci sono sicuramente molte vittime". I primi spari sono stati esplosi verso le 20 nella Seitenstettengasse, nei pressi della principale sinagoga della città, che come detto era chiusa. Successivamente il commando terrorista, composto da almeno quattro attentatori, avrebbe iniziato a fuggire sparando in sei punti diversi della città. La polizia di Vienna sul suo profilo Twitter scriveva di "molti sospetti armati di fucile". Alcuni media hanno parlato anche di una presa di ostaggi in un ristorante giapponese, o in un albergo, ma questa notizia non è stata confermata. Nel dettaglio il ministro  dell'Interno, Karl Nehammer, in un discorso in diretta alla nazione, non ha voluto esprimersi sulla presunta presa d'ostaggi ancora in corso, chiedendo comprensione data la gravità della situazione. "Restate a casa", è stato il suo appello alla popolazione. In azione ci sono le forze speciali Vega e Cobra ed è sceso in strada anche l'esercito. Ci sono soldati a presidiare tutte le zone sensibili della città. Terribile la testimonianza di Schlomo Hofmeister, rabbino che vive in una casa proprio sopra alla sinagoga: secondo lui, gli assalitori sparavano a caso alle persone nel giardino di un bar. Secondo il rabbino, l'attentatore "si è mosso in direzione di Hoher Markt e della chiesa di San Ruperto" e avrebbe sparato alle persone che erano sedute nel giardino di un pub in Judengasse e Seitenstettengasse, "non ha mirato alla sinagoga". Dunque le parole di Cecilia Lagomarsino, nostra connazionale che vive nel centro di Vienna, interpellata dall'Agi: "Il centro era affollatissimo perché è l'ultima sera prima del nuovo lockdown. Ora siamo chiusi in casa. Da almeno un'ora e mezza e sentiamo sirene ed elicotteri. Da domani inizia il nuovo lockdown con coprifuoco dalle 20 alle 6, quindi il centro era pieno", ha concluso.

Attacco a Vienna, un testimone: “Ora vivremo nel terrore”. Notizie.it il 3/11/2020. Un testimone racconta l'attacco a Vienna e dice di aver avuto la sensazione di essere in guerra. La notte del tragico attacco terroristico a Vienna è stata raccontato al Secolo XIX da un testimone, Giampiero Cascino, un 42enne italiano che da circa un anno ha trasferito la sua attività di catering da Milano nella capitale austriaca. “È stato terribile – racconta l’imprenditore – Ho visto la polizia che sparava a quell’uomo vestito di bianco, l’attentatore”. Al momento dell’attacco il testimone era nel locale Everybody darling Vienna, in zona Schwedenplatz, e da dentro si è reso conto che fuori stessero sparando a caso sui passanti. “La mia fortuna – dice Cascino – è stata che ero dentro il locale, mi sono rifugiato in bagno, mi sono chiuso dentro, per essere più protetto. Ho provato ad andare via, ma non mi fanno uscire, dicendo che era pericoloso. Eravamo in 50, ora siamo rimasti in trenta almeno fino alle 3 di notte. È stato terribile, come in guerra, non mi riprenderò più da quel che ho vissuto”. Sia l’imprenditore italiano che gli altri avventori del locale sono stati costretti a rimane chiusi all’interno per diverse ore e, proprio in tutto quel tempo, erano molte le voci che si susseguivano dall’esterno. “È stata veramente dura – racconta il testimone dell’attentato di Vienna – abbiamo visto quando hanno sparato ad un poliziotto. Ogni minuto sembrava un trauma, non pensavo di passarci mai invece ho vissuto anche questa. Non sai cosa succede fuori – ha concluso – hai paura a tornare a casa. Ora vivremo nel terrore e non so per quanto”.

Attacco a Vienna, 4 morti e 22 feriti: sei gravi. Ucciso l'attentatore. Kurz: "È stato terrorismo. Non ci lasceremo intimorire". Tonia Mastrobuoni,  Fabio Tonacci,  Katia Riccardi su La Repubblica il 3 novembre 2020. Il killer "era radicalizzato", era uscito di prigione da un anno e aveva vent'anni. Il cancelliere: "È stato odio per i nostri valori e per la nostra democrazia". Ministro dell'interno: "Non ci sono prove dell'azione di un commando". L'Isis rivendica l'attentato. Merkel: "Il terrorismo islamico è un nemico comune". Cinque persone sono morte, 4 civili e uno degli aggressori. I feriti nell'attentato di ieri sera a Vienna, prima che iniziasse il lockdown per il coronavirus, sono 22, sei di questi in pericolo di vita ha detto il ministro dell'Interno Karl Nehammer. I cittadini sono stati esortati a rimanere a casa. "È stato un attacco d'odio. Odio per i nostri valori fondamentali, odio per il nostro modello di vita, odio per la nostra democrazia", ha dichiarato il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, in un discorso alla nazione specificando che si è trattato di "un attacco terroristico". "Non ci lasceremo intidimidire" e "difenderemo i nostri valori fondamentali, il nostro modello di vita e la nostra democrazia con tutte le nostre forze", ha aggiunto. Il governo austriaco, dopo un consiglio dei ministri straordinario, ha proclamato tre giorni di lutto nazionale.

Attentatore ucciso: 20enne radicalizzato. Il ministro dell'Interno Nehammer ha confermato che il terrorista ucciso era un "simpatizzante dello Stato islamico radicalizzato". Ha attaccato pesantemente armato (era equipaggiato con una finta cintura esplosiva e una pistola automatica lunga, una pistola e un machete) ma la cintura esplosiva attorno al corpo si è poi rivelata finta. Fejzulai Kujtim, ventenne già noto ai servizi segreti, era stato condannato a 22 mesi di carcere il 25 aprile 2019, per aver tentato di andare in Siria ed affiliarsi all'Isis. Era stato liberato il 5 dicembre, in anticipo: in quanto giovane adulto, rientrava infatti in un regime privilegiato previsto dalla legge a tutela dei giovani. L'appartamento in cui viveva è stato comunque perquisito dalle forze dell'ordine che hanno usato una carica esplosiva per accedervi. Il ministero dell'interno della Macedonia del Nord ha ricevuto tramite Europol una richiesta di collaborazione dalla polizia austriaca. Ne danno notizia i media a Skopje. Kujtim Fejulai aveva infatti cittadinanza austriaca e macedone, nato e cresciuto a Vienna ma di etnia albanese la cui famiglia è originaria dalla Macedonia del Nord. Il 25 per cento circa della popolazione della Macedonia del Nord (intorno ai 2 milioni) è di etnia albanese, concentrata nell'ovest del Paese balcanico, il cui centro principale è la città di Tetovo. La famiglia dell'attentatore è originaria di Chelopek, località di circa 7mila abitanti a una decina di chilometri a sud-est di Tetovo, città della Macedonia del Nord non distante dal confine con il Kosovo. Lo rende noto il portale macedone a1on.mkk. Fejzulai Kujtim era nato nel 2000 a Moedling, comune a circa 14 chilometri da Vienna. Il Kronen Zeitung ha pubblicato una foto pixellata tratta dal suo profilo Ig, si tratta, scrive, di un rifugiato che aveva prestato giuramento di fedeltà al nuovo leader dell'Isis Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi. Anche secondo quanto scrive la Bild l'attentatore avrebbe annunciato su Instagram il suo gesto, postando alcune foto lunedì.

L'isis rivendica l'attentato. L'Isis ha rivendicato l'attacco di ieri sera. Lo riferisce il portale di analisi Site citando Amaq, l'agenzia di comunicazione del gruppo jihadista. Il gruppo terrorista ha diffuso un video in cui interviene un combattente a volto scoperto e in tenuta militare, mentre brandisce una pistola nella mano sinistra, e un kalashnikov e un machete in quella destra. Il nome che compare in un fotogramma del video diffuso da 'Site' è Abu Dajana Al-Lubnaniyy. Nella rivendicazione si precisa che Abu Dujana al-Albani (di nazionalità albanese) è stato il "soldato del califfato" che ha eseguito l'attacco. Amaq ha diffuso anche una foto dell'attentatore di Vienna, che - secondo Rita Katz, direttrice di Site, sito che monitora l'universo jihadista - corrisponde a quella di un uomo apparso in un'altra foto diffusa sui social subito dopo l'attacco.

L'attentatore era in contatto con una rete di jihadisti tedeschi. Kujtim Fejzulai, era in contatto con una rete di jihadisti tedeschi: lo sostiene Spiegel online. L'attentatore era stato in Turchia nel 2018 nel tentativo di entrare in Siria per arruolarsi nell'Isis e lì aveva conosciuto due jihadisti tedeschi e uno belga. Lo riporta una sentenza del tribunale del Land di Vienna di aprile. Il giovane avrebbe incontrato i tre jihadisti ad Hatay tra Turchia e Siria, in un covo Isis. Poi sarebbe stato accompagnato in un hotel in Turchia e dopo poco arrestato dalla polizia. Nell'aprile del 2019 Fejzulai è stato condannato a 22 mesi di prigione per aver tentato di entrare nelle milizie dello "Stato islamico" ma poi rilasciato dalla giustizia austriaca il 5 dicembre.

Due arresti in Svizzera. Un'unità speciale della polizia ha arrestato questo pomeriggio a Winterthur, nel cantone di Zurigo, due cittadini svizzeri di 18 e di 24 anni, sospettati di avere avuto collegamenti con l'attentatore. L'unità speciale Diamond ha arrestato i due uomini in coordinamento con le autorità austriache, riferisce la polizia cantonale di Zurigo. Ora si sta indagando sui contatti tra i due giovani e l'attentatore di Vienna. Si tratta di chiarire un eventuale coinvolgimento nel delitto. E' stato anche creato presso la polizia cantonale un apposito gruppo di lavoro denominato "Wien" che deve verificare se vi siano relazioni nel Cantone di Zurigo con quanto commesso a Vienna.

"Nessun commando, non ci sono prove di altri attentatori". A differenza di quanto era sembrato ieri sera, dopo che le sparatorie erano state segnalate in sei diversi punti del centro della città, non ci sarebbe alcun commando. Non è escluso però che il 20enne Kujtim Fazelai, di origine macedone ma nato in Austria, ritenuto il responsabile della strage, avesse un complice. Motivo per cui le indagini vanno avanti e resta la massima allerta nel Paese.

Cinque le vittime, compreso l'attentatore. Le vittime dell'attacco sono attualmente 5, incluso l'attentatore. Sono un uomo e una donna anziani, un giovane di 21 anni e una cameriera le vittime di Kujtim Fejzulai. Il 21enne era un cittadino macedone, come l'estremista islamico autore dell'attacco, originario di Veleshta, presso Struga (sudovest), si trovava in un bar con alcuni amici nel centro di Vienna quando è stato colpito. Una delle vittime è una donna tedesca. Lo riferisce il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas dal suo account Twitter. "Abbiamo adesso la triste certezza che una cittadina tedesca è tra le vittime dell'attentato di Vienna" ha scritto nel suo messaggio.

Molti feriti in pericolo di vita. Il direttore sanitario della capitale austriaca Michael Binder ha precisato che sei dei 22 feriti sono in pericolo di vita. Tutti sono stati colpiti da armi da fuoco. Rimangono stabili ma critiche le condizioni del poliziotto colpito che si trova in terapia intensiva. il poliziotto, ha spiegato Nehaammer, è stato soccorso e tratto in salvo da due persone appartenenti a famiglie immigrate. Le misure di sicurezza negli ospedali sono state intensificate, come ha affermato il direttore dell'ospedale: "Sono ben protetti". Al momento non ci sono indicazioni di italiani coinvolti nell'attacco.

Perquisizioni e 14 fermi. La polizia austriaca sta effettuando "perquisizioni e arresti in questo momento", ha dichiarato il sindaco di Vienna Michael Ludwig. Gli inquirenti austriaci ritengono che gli attentatori di Vienna potrebbero essere almeno quattro ma "attualmente non ci sono prove". Il ministro Nehammer ha riferito all'agenzia di stampa Apa che sono state effettuate 18 perquisizioni domiciliari e ci sono stati "14 fermi temporanei". Di questi un uomo sarebbe stato arrestato a Linz, e due a St. Poelten, a circa un'ora dalla capitale.

L'attacco in sei diversi punti della città vecchia. La prima sparatoria, attorno alle 20, è avvenuta nella via in cui si trova la principale sinagoga della capitale, chiusa in quel momento e teatro nel 1981 di un attentato con due vittime, vicina a una zona di locali molto frequentata. Gli attentatori hanno sparato a chi sedeva nei "dehors" dei locali del centro della città; alle 20,09 è stato ucciso dalla polizia uno degli aggressori. Gli attacchi sono avvenuti in sei diversi punti della città vecchia, tutti molto vicini, nel Primo distretto della capitale austriaca. Mentre l'attacco era ancora in corso, i testimoni hanno postato sui social circa 20 mila video; immediatamente è stato chiesto di non diffonderli e una squadra speciale di agenti li sta analizzando.

Il ministro dell'Interno: "Tenete i figli a casa". Le scuole resteranno chiuse: "Tenete i vostri figli in casa" ha ammonito il ministro Nehammer annunciando stretti controlli ai confini del Paese. Quella in atto è una "situazione molto difficile" e "dobbiamo rimanere uniti, è il giorno più duro per l'Austria da molti anni, ci sono sicuramente molte vittime".

Le reazioni, Merkel: "Terrorismo islamico è un nemico comune". Sono in contatto con il governo federale e ringrazio a nome della Repubblica per le dichiarazioni di sostegno dei capi di Stato e di governo internazionali" è stata la prima reazione su Twitter del presidente austriaco, Alexander van der Bellen. "Siamo tutti profondamente colpiti dal presunto attacco terroristico nel centro di Vienna. I nostri pensieri e la nostra compassione vanno alle vittime, ai feriti e alle loro famiglie". "Vorrei ringraziare tutta la polizia, i soccorritori e le forze armate che si sono impegnati a proteggere la nostra democrazia e la nostra libertà. Il nostro sostegno va ai cittadini che devono ancora resistere nell'incerta situazione del centro città", ha concluso van der Bellen. "I tedeschi sono al fianco degli amici austriaci con partecipazione e solidarietà", ha detto tramite il portaavoce Angela Merkel su Twitter. "Il terrorismo islamico è un nostro comune nemico. La lotta contro questi delitti e contro questi attentati è la nostra lotta comune", ha aggiunto. Il presidente russo Vladimir Putin ha espresso le condoglianze al presidente e al cancelliere austriaco: "Putin ha inviato un telegramma al presidente austriaco Alexander Van der Bellen e al Cancelliere Sebastian Kurz, porgendo le condoglianze alla luce delle tragiche conseguenze dell'attacco terroristico a Vienna", ribadendo "la disponibilità della Russia a intensificare la cooperazione con l'Austria e con altri membri della comunità mondiale nella lotta contro tutte le forme e manifestazioni di terrorismo".

Attentato a Vienna, Di Maio: "Serve un Patriot Act europeo. Avrebbero potuto colpire anche in Italia". "Si tratta di iniziare a pensare a qualcosa di più grande e che riguardi tutta l'Ue: un Patriot Act sul modello americano, ad esempio, perché oggi siamo tutti figli dello stesso popolo europeo", ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "E la sicurezza di uno Stato equivale alla sicurezza di tutti gli altri. Ne parlerò nei prossimi giorni anche con i miei omologhi". Il presidente francese Emmanuel Macron è atteso oggi all'ambasciata d'Austria a Parigi per esprimere il sostegno della Francia "al popolo austriaco", ha annunciato l'Eliseo. Il grande imam di Al Azhar, l'istituzione islamica sunnita al Cairo, ha condannato l'attentato di ieri sera a Vienna. In un comunicato, rilanciato dai media arabi, il grande imam Ahmed el-Tayyeb ha dichiarato di pregare affinchè "il mondo si liberi dal terrorismo e dai suoi mali". Nel testo, l'imam sottolinea che "l'uccisione di una sola anima è come l'uccisione di tutta l'Umanità" e fa appello alle organizzazioni e istituzioni internazionali affinché si uniscano contro il terrorismo. El-Tayyeb ha poi espresso le sue condoglianze alle autorità e al popolo austriaco.  Il ministro saudita per gli affari esteri, Adel Al-Jubeir, ha dichiarato martedì su Twitter che l'attacco di Vienna è stato un crimine odioso contrario a "tutte le religioni e ai valori umani". "Il terrorismo non ha né religione né razza".

Chiusa l'ambasciata italiana a Vienna. L'ambasciata italiana a Vienna, come le altre ambasciate, è stata chiusa dopo le indicazioni delle autorità di locali. Lo confermano  fonti della Farnesina. "Per ragioni di sicurezza dopo gli avvenimenti di ieri sera a Vienna - si legge sul sito della rappresentanza diplomatica - la Cancelleria Consolare rimarrà chiusa nella giornata odierna".

Gran Bretagna, sale il livello di allerta per minaccia terroristica da "sostanziale" a "grave". Dopo l'attentato di ieri a Vienna, l'allerta per minaccia terroristica è stato elevato in Gran Bretagna da "sostanziale" a "grave" . Questo significa che l'intelligence interna ritiene che un attacco sia altamente probabile. Come ha spiegato la ministra degli Interni Priti Patel la decisione è stata presa "come misura precauzionale e non è basata su alcuna minaccia specifica". "La gente deve continuare a essere vigilante e a denunciare qualsiasi attività sospetta alla polizia". Sono cinque i livelli di allerta stabiliti dal Joint Terrorism Analysis Centre (Jtac) dell'MI5, "basso", "moderato", "sostanziale", "grave", "critico".

 (ANSA il 3 novembre 2020) - L'attentatore austro-macedone responsabile dell'attacco terroristico a Vienna, Kujtim Fejzulai, era in contatto con una rete di jihadisti tedeschi: lo sostiene Spiegel online. L'attentatore era stato in Turchia nel 2018 nel tentativo di entrare in Siria per arruolarsi nell'Isis e lì aveva conosciuto due jihadisti tedeschi e uno belga. Lo riporta una sentenza del tribunale del Land di Vienna di aprile. Il giovane avrebbe incontrato i tre jihadisti ad Hatay tra Turchia e Siria, in un covo Isis. Poi sarebbe stato accompagnato in un hotel in Turchia e dopo poco arrestato dalla polizia. Nell'aprile del 2019 Fejzulai è stato condannato a 22 mesi di prigione per aver tentato di entrare nelle milizie dello "Stato islamico" ma poi rilasciato dalla giustizia austriaca il 5 dicembre.

(ANSA il 3 novembre 2020) Fejzulai Kujtim, l'attentatore ventenne ucciso ieri a Vienna durante gli attacchi, era stato condannato a 22 mesi di carcere il 25 aprile 2019, per aver tentato di andare in Siria ed affiliarsi all'Isis. Era stato liberato il 5 dicembre, con anticipo: in quanto giovane adulto, rientrava infatti in un regime privilegiato previsto dalla legge a tutela dei giovani. Lo ha precisato il ministro dell'Interno Karl Nehammer all'APA.

Vienna, l'Isis rivendica l'attentato: il killer albanese "soldato del Califfato". Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. L'Isis ha rivendicato l'attentato di Vienna, il cui bilancio indica quatto morti e 22 feriti. Lo riferisce Site, l'organizzazione che monitora l'attività online di gruppi jihadisti. Secondo quanto riportato dalle autorità locali, l'attacco è stato compiuto da un 20enne di nazionalità sia macedone che austriaca. Nella rivendicazione dell’Isis, si fa riferimento a un "soldato del Califfato", armato di coltelli e armi da fuoco, identificato con il nome di battaglia Abu Dujana al Albani. Intanto la polizia  è ancora alla ricerca di eventuali complici. Il ministro dell’Interno austriaco, Karl Nehammer, aveva dichiarato che l’aggressore si chiamava Kujtim Fejzulai e che nell’aprile del 2019 era stato condannato a 22 mesi di carcere per aver cercato di andare in Siria e unirsi allo Stato Islamico. Poi però era stato liberato in anticipo lo scorso dicembre.

Vienna, l'attentatore ucciso era un ventenne di origini albanesi. «Noto all'antiterrorismo, voleva andare in Siria». Da leggo.it il 3 novembre 2020. Terrore a Vienna, torna l'incubo terrorismo. Il bilancio dell'attacco in stile Bataclan di ieri sera nella capitale austriaca, per ora ancora provvisorio, è tragico: quattro civili uccisi, due uomini e due donne, una delle quali lavorava come cameriera. Morto anche uno degli attentatori, mentre i feriti sono 17, scrivono i media austriaci tra cui il Kleine Zeitung e il Wiener Zeitung. Oggi il governo austriaco si riunirà in una seduta speciale e il cancelliere Sebastian Kurz si rivolgerà alla nazione con un discorso: il ministro dell'Interno Karl Nehammer ha assicurato che gli inquirenti faranno di tutto per «chiarire il più velocemente possibile» l'accaduto. L'attentatore ucciso dalla polizia austriaca aveva 20 anni, aveva origini della Macedonia del nord ed aveva precedenti penali per associazione di stampo terroristico, ha reso noto l'Apa, l'agenzia di stampa austriaca, che cita il ministro dell'Interno Karl Nehammer. «Si chiama Kurtin S., nato nel 2000 a Vienna, dove era cresciuto. È di origini albanesi e i suoi genitori provengono dalla Macedonia del Nord e non hanno alcun legame con l'islamismo», ha scritto su Twitter Florian Klenk, responsabile della rivista austriaca Falter. Il giovane terrorista, ha aggiunto Klenk, era noto ai servizi di sicurezza antiterrorismo (Bvt) per essere stato uno dei 90 islamisti austriaci che hanno cercato di recarsi in Siria. Era armato con una cintura esplosiva e un'arma automatica, una pistola e un machete per «questo vile attacco contro cittadini innocenti», ha detto il ministro dell'interno Nehammer. Oltre alla cittadinanza austriaca aveva anche quella della Macedonia del nord. Il terrorista ucciso non era dunque un rifugiato, come aveva scritto il quotidiano austriaco Kronen Zeitung, che pubblicava una fotografia dell'uomo con il volto oscurato. Secondo le informazioni raccolte dal giornale poco prima dell'attacco il terrorista aveva prestato giuramento di fedeltà al nuovo leader dell'Isis Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi. La Bild afferma invece che lo stesso attentatore ucciso avrebbe annunciato su Instagram il suo gesto, postando alcune foto, lunedì. Il tabloid afferma che gli inquirenti ritengono «probabile» che i post di un jihadista sul social network siano proprio del giovane rimasto ucciso.

IL GOVERNO: "RESTATE A CASA". Ieri notte il ministro dell'Interno Nehammer aveva lanciato un appello in tv ai viennesi a non uscire di casa se non per motivi professionali o altre necessità urgenti, spiegando che un attentatore «pesantemente armato» era stato ucciso dalla polizia, mentre «almeno uno è ancora in fuga». Oggi le scuole resteranno chiuse. Un poliziotto è rimasto ferito in uno scontro a fuoco ed è stato sottoposto ad intervento chirurgico. Secondo il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, «un movente antisemita per il momento non può essere escluso, anche alla luce del luogo dal quale l'attacco è partito», cioè nei pressi della sinagoga di Vienna. «Si è trattato definitivamente di un attacco terroristico», ha aggiunto. «Alcuni attentatori sono ancora in fuga. Sono ben equipaggiati e hanno agito in modo professionale», ha proseguito Kurz. «Dipenderà dagli sviluppi di questa notte se domani potrà riprendere la vita pubblica. Nel frattempo i viennesi sono invitati a restare a casa», ha detto alla tv Orf.

COSA E' ACCADUTO. Un commando in azione e un attacco multiplo in una Vienna affollata di persone alla vigilia del lockdown. La città è piombata nell'incubo del terrorismo, con una dinamica che assomiglia alla tragica notte del Bataclan di Parigi, il 13 novembre di 5 anni fa, con gli attentatori che hanno sparato a caso nei locali. La matrice dell'attacco non è ancora chiara. Tutto è cominciato vicino alla Sinagoga nella Seitenstettengasse, nel centro della capitale austriaca, dove molte persone si godevano l'ultima libera uscita prima della serrata dettata dal Covid-19: verso le 20 i primi spari, un'esplosione (forse uno degli assalitori che secondo alcune fonti si sarebbe fatto esplodere), diversi sospetti in fuga, un altro ancora arrestato. Nessuno ha confermato che l'obiettivo primario dell'attacco fosse proprio il luogo di culto ebraico: la polizia ha riferito che il commando, composto da «molti sospetti armati di fucile», ha sparato in 6 luoghi diversi della città. Le forze speciali hanno dunque dato il via a una massiccia caccia all'uomo per le vie di Vienna, presto affiancate dall'esercito. La polizia viennese ha quindi invitato i residenti del centro a trovare riparo e non uscire di casa e a non diffondere foto o video dell'attacco in corso che avrebbe potuto mettere in pericolo agenti o passanti. I social si sono tuttavia riempiti di immagini, molte delle quali raccapriccianti, mentre testimoni scrivevano di aver udito «almeno 50 spari». «È un attacco terroristico disgustoso», ha reagito il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, aggiungendo che l'Austria non si lascerà intimidire dal terrorismo. Ma è l'Europa intera - già fiaccata dalla pandemia - a condannare «un atto codardo», nel nome dell'unità «contro l'odio e la violenza». «I nostri nemici devono sapere con chi hanno a che fare. Non ci arrenderemo», ha tuonato il presidente francese Emmanuel Macron di fronte all'ennesimo attacco in Europa dopo la decapitazione di Samuel Paty e gli attentati di Nizza e Lione. «Non c'è spazio per l'odio e la violenza nella nostra casa comune europea», ha twittato anche il premier Giuseppe Conte. Intanto, la Repubblica Ceca ha deciso di avviare controlli alle frontiere con l'Austria.

"Un simpatizzante dell'Isis". Ecco chi era l'attentatore di Vienna. Il terrorista islamico era radicalizzato e pesantemente armato, ma la cintura esplosiva che indossava era finta: "Ripugnante atto terroristico preparato in modo molto professionale". Luca Sablone su Il Giornale, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Anche l'Austria finisce sotto attacco: nella serata di ieri è andata in scena una serie di attacchi armati nel centro di Vienna che - stando all'ultimo bilancio - ha provocato 4 morti tra i civili. Intanto è salito a 17 il numero delle persone rimaste ferite nell'attentato e che sono attualmente ricoverate in ospedale. Il direttore sanitario Michael Binder ha precisato che 6 di loro sono in pericolo di vita, mentre le condizioni degli altri rimangono stabili; resta critico il quadro del poliziotto ferito che è ricoverato in terapia intensiva. Il totale delle vittime in realtà ammonta a 5, visto che a essere stato ucciso è stato anche l'attentatore: oltre a due uomini e una donna deceduti per le ferite riportate, il criminale è stato neutralizzato alle ore 20.09 come riportato dal capo della polizia austriaca Gerhard Puerstr. Karl Nehammer, il ministro dell'Interno austriaco, ha fatto sapere che il criminale era un simpatizzante dell'Isis, anche se al momento non è stata svelata nel dettaglio la sua identità. Era pesantemente armato, ma la cintura esplosiva che indossava era finta. Nel frattempo la sua abitazione è stata già perquisita. Il sindaco Michael Ludwig ha informato che sono in corso perquisizioni e arresti. Vienna resta "in stato di massima allerta": la polizia austrica ritiene che vi siano altri terroristi coinvolti nell'attacco nella capitale e che siano attualmente in fuga. "Non si può escludere che ci siano altri attentatori", ha sottolineato Nehammer. Ai viennesi è stato chiesto di restare a casa durante la delicata fase di ricerca degli autori; per oggi è stata disposta la chiusura delle scuole.

"Ripugnante atto terroristico". Il ministro dell'Interno sostiene che l'uomo che ha condotto l'attacco e di cui si hanno notizie era "una persona radicalizzata", un simpatizzante del gruppo di miliziani estremisti dello Stato Islamico (Isis): "Abbiamo subito un attacco da un terrorista islamico. Era armato con una cintura esplosiva, austriaco, e aveva con sé una borsa con munizioni. È stato ucciso dalla polizia". Era equipaggiato di un fucile d'assalto e di materiale esplosivo. Le unità di pronto intervento sono entrate in azione molto rapidamente e la fase caotica dopo gli attentati "è durata molto poco". La cintura esplosiva con la quale è stato trovato "era un falso". Intanto per questa mattina alle 9 è stato convocato un Consiglio dei ministri straordinario: al termine delle riunione, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz terrà una conferenza stampa congiunta con il vice cancelliere Werner Cogler, il ministro Nehammer e il primo cittadino. Successivamente tutti insieme si recheranno sui luoghi dell'attentato dove verrà deposta una corona di fiori. Kurz ha parlato di un "ripugnante atto terroristico" che è stato preparato "in modo molto professionale". Gli esponenti della comunità islamica austriaca si dicono "profondamente colpiti e scioccati". "Siamo vicini in queste ore alle persone colpite, alle loro famiglie e agli agenti di polizia", si legge nella nota pubblicata sulla loro pagina Facebook. È arrivata anche la presa di posizione della Turchia, che ha condannato "con forza" il "vile attacco" terroristico a Vienna. Ibrahim Kalin, portavoce della presidenza turca, ha assicurato che si continuerà a combattere "contro tutte le forme di terrorismo". Il ministro degli Esteri di Ankara ha ribadito la totale "solidarietà al popolo austriaco". Sulla vicenda si è espresso anche Fahrettin Altun, responsabile della comunicazione della presidenza turca: "La Turchia è al fianco dell'Austria contro il terrorismo. Condividiamo il vostro dolore".

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 5 novembre 2020. Una piccola Ong incaricata dal ministero della Giustizia di deradicalizzare gli adepti della guerra santa si è fatta prendere per il naso da Kujtim Fejzulai, il terrorista di Vienna. I rapporti dell' associazione sulla sua «redenzione» hanno permesso al giovane jihadista di uscire dal carcere e portare avanti il piano del terrore. L' Ong Derad fa parte di una rete europea, Ran, finanziata dalla Ue con 40 milioni di euro dal 2013 per combattere la radicalizzazione islamica. Non solo: l' intelligence di Bratislava aveva informato gli austriaci che Fejzulai stava cercando di acquistare munizioni in Slovacchia lo scorso luglio. L' informativa è rimasta lettera morta. Il governo austriaco istituirà una commissione d' inchiesta indipendente per far luce sul sistema colabrodo, che ha permesso al terrorista di seminare sangue e terrore a Vienna. Il «soldato» dell' Isis era stato condannato nell' aprile 2019 a 22 mesi di carcere dopo avere tentato di raggiungere la Siria per combattere con lo Stato islamico. Dietro le sbarre era sottoposto a un programma di deradicalizzazione dell' associazione Derad composta da 13 musulmani. «L' idea che una piccola Ong possa incidere sulle profonde radici politico-sociali che hanno portato questi individui e gruppi al conflitto violento con la società e le istituzioni, è a dir poco naif» sostiene Sergio Bianchi esperto di deradicalizzazione. L'Ong utilizza il software Vera 2R, che ha la pretesa d' identificare i giovani jihadisti e pianificare le strategie per deradicalizzarli. Il programma del ministero della Giustizia austriaco è basato sul lavoro della società olandese RadarEurope, che ha costituito la rete europea RAN finanziata dalla Ue per combattere la radicalizzazione. «È un paradosso indicativo che proprio Kujtim Fejzulai nel suo passaggio nelle carceri austriache avesse seguito con successo il programma di deradicalizzazione in prigione organizzato da Derad» spiega Bianchi. Il terrorista è riuscito a prendere in giro gli esperti della Ong facendo credere che aveva capito l' errore e ripudiava l' Isis. I rapporti sulla redenzione hanno convinto la magistratura a liberare Fejzulai sospendendo la pena il 5 dicembre scorso grazie a una legge sui reati giovanili. Poi avrebbe dovuto essere regolarmente monitorato, ma non è servito a nulla. Il direttore di Derad, Moussa Al-Hassan Diaw, ha respinto le accuse e il ministro della giustizia austriaco Alma Zadi, del partito dei Verdi, difende il programma. Al contrario, il ministro dell' Interno, Karl Nehammer, ha ammesso «il fallimento del sistema» spiegando che il terrorista «è riuscito a ingannare il programma di deradicalizzazione». Una delle criticità è che questi metodi non consentono di monitorare i soggetti pericolosi per un periodo più lungo rispetto allo stretto necessario ad evitare la pena. Nonostante Fejzulai sembra avere agito da solo, si appoggiava su una rete di giovani della diaspora slava e cecena in Europa. Dopo i primi 16 arresti, ieri sono finiti in manette un macedone e un ceceno. Ogni anno il terrorista tornava nel nord della Macedonia terra d' origine della famiglia. Una zona albanese confinante con il Kosovo, crocevia di traffici di armi e zeppa di moschee finanziate da turchi e sauditi, che nel 2001 tentò la secessione armata. La diaspora slava e cecena, che produce giovani estremisti, si è diffusa «in una sorta di mezzaluna che va dai Balcani a Trieste e Venezia - spiega Bianchi - fino a Vienna e Monaco, passando per la Svizzera tedesca e lambendo il Belgio».

Attacco a Vienna, il prof che rieduca i jihadisti: «Il killer? I giudici l’avevano liberato». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. «Internet batte realtà 2-0». E tra gli sconfitti, Sarah ci mette anche se stessa. Non ci sono insegne, non c’è neppure il nome sulla targhetta del citofono. L’ufficio di «Donne senza frontiere» ai confini del quartiere Favoriten è il più anonimo possibile. Non ci sono indicazioni, non ci sono manifesti alle pareti. Anche la porta blindata è poco appariscente, si capisce che è tale solo dall’interno. «Dobbiamo fare molta attenzione», quasi si giustifica la giovane volontaria dell’associazione, una delle più grandi Ong d’Austria, che da ormai otto anni ha sviluppato e gestisce un programma rivolto alle madri di giovani che sembrano aderire al radicalismo islamico. Per dissuaderli, per convincerli a non partire. «Da quando cominci, hai tre mesi di tempo. Se non riesci a convincere il ragazzo entro quel tempo, le sirene del salafismo hanno la meglio. Questo ci dice la nostra esperienza. Bisogna convincerli che il loro posto è qui. Ma non è facile». Le strade sporche e mal tenute del quartiere con il più alto tasso di criminalità della capitale non sono certo un invito a restare. Pochi mesi fa a Favoriten, che si trova nella zona sud, quasi attaccata alla vecchia città operaia, sono state chiuse due moschee gestite dai Lupi grigi, l’organizzazione turca di estrema destra, e altre due dove risuonavano appelli alla Jihad. «Ma quel ragazzo che ha fatto l’attentato non si è fatto plagiare dagli imam, ma dai messaggi sbagliati sui social. Voleva quelli, li cercava, li ha trovati. Esistono due realtà, ormai. E quando finisce la nostra lezione, noi non possiamo più controllare nulla. Per questo ci rivolgiamo alle madri». Alla fine, un capro espiatorio ci vuole sempre. Ieri, il ministro dell’Interno Karl Nehammer ha speso i primi due minuti della sua conferenza stampa per dire che i video mandati dalle telecamere di sorveglianza dei locali dimostrano in modo definitivo che Kujtim Fejzulai ha agito da solo. Altri due minuti per aggiungere che i servizi di sicurezza austriaci non hanno gestito bene la segnalazione giunta dalla Slovacchia dopo che l’aspirante terrorista aveva cercato di comprare armi in quel Paese. E il resto del tempo lo ha usato per sottolineare come il giovane austriaco di origine macedone abbia «perfettamente aggirato» il programma di reintegro dei jihadisti nella società austriaca. «Non funzionano quasi mai, quindi rischiano di creare confusione e fare danni ulteriori», ha concluso. A Vienna, città cattolica con il più alto numero europeo pro capite di Foreign fighters, esistono cinque associazioni che a vario titolo lottano contro il radicalismo islamico. Quella chiamata in causa dal ministro si chiama Derad, nome programmatico, ha sede nel municipio, e ha un compito improbo, perché si occupa solo di estremisti appena usciti dal carcere. Tra il 2015, anno di nascita, e il 2020, ha seguito 155 persone. Moussa Al-Hassan Diaw, il suo direttore, è un professore universitario figlio di immigrati, nato e cresciuto a Favoriten. «Le accuse che ci vengono rivolte sono strumentali, perché nessuno di noi aveva mai presentato Fejzulai come un soggetto pronto al reinserimento nella società. Era in libertà condizionata per i benefici di una legge statale, concessi da un tribunale. Se un sistema non funziona, è sbagliato dare la colpa agli anelli più deboli della catena, come il volontariato». Le storie a lieto fine pareggiano quelle andate male. Uno su due. «Noi lavoriamo per far accettare una società pluralista e democratica a persone che vengono indottrinate in senso contrario. Cerchiamo di neutralizzare una polarizzazione già avvenuta, per questo il rischio di una recidiva è sempre presente». Mentre parla davanti al palazzo del Comune, due poliziotti in borghese si aggirano discreti nella piazza svuotata dal lockdown in corso. L’Associazione dei musulmani austriaci (Iggo) ha denunciato negli ultimi due anni il taglio ai finanziamenti deciso dal governo per questo tipo di progetti. Sia Diaw che la giovane volontaria di «Donne senza frontiere» vivono da reclusi per le minacce che arrivano in egual misura da sostenitori della Jihad e da ambienti della destra radicale. Entrambi usano spesso la parola Damm, che significa argine. È solo che certe volte anche loro hanno la sensazione che l’argine possa crollare da un momento all’altro.

Brunella Giovara per “la Repubblica” il 4 novembre 2020. Nella sua ultima immagine, ha la faccia risoluta di chi sta accarezzando un kalashnikov, e la cosa gli piace. Da morto non sappiamo come fosse, se stupito dal colpo che lo ha abbattuto, o felice, in quanto finalmente eroe, o martire, il sogno di alcuni. Ma solo pochi mesi fa aveva indossato la maschera della pecora smarrita, «era uno buono, innocuo», lo ricorda infatti l' avvocato Rast. Al giudice il ragazzo aveva detto «sono pentito, ho fatto un grosso errore.Non era mia intenzione andare in Siria». (…) E per tornare indietro un attimo nella vita di Kujtim, bisogna sicuramente dire che la sua famiglia era invece a posto. Origini albanesi, originari di Celopek, frazione di Brvenica, Macedonia del Nord. Scappati forse dalla guerra, comunque approdati a Vienna, come tanti, e finiti nella banlieu della capitale, i quartieri che via via deperiscono a partire dal centro, e se si prende lo stradone che porta a Simmering, spariscono i viali alberati e i lampi d' oro sulle facciate dei palazzi, scorrono uffici e saloni di Mercedes usate, poi i negozietti di robe usate e i discount Tedi, appaiono ciminiere sullo sfondo, i Mc Donald' s accanto ai Mr Quebab, i familienpizza, le case sempre più scrostate. Da queste parti Fejzulai è cresciuto tifando per l' Isis e frequentando a 16 anni una moschea che non è certo la famosa in Bruckhaufen, con la grande cupola verde, ma una di quelle dove si studiano le cose proibite. Combattere, ad esempio, e infatti da qualche parte Fejzulai ha imparato come si spara, come si dà il colpo di grazia. Era «la moschea sbagliata », e lo dice lui stesso al giudice che deve decidere se scarcerarlo. Racconta anche «a scuola andavo sempre peggio, discutevo sempre con mia madre, volevo andarmene da casa». L' Isis, era una soluzione: «Il tuo appartamento, il tuo reddito», ma l' Isis non è un ente benefico, forse lui non lo ha capito. Decide di andare in Afghanistan, a Kabul, assieme a un amico. Poi si accorge che serve un visto, che non ha. Vuole aderire allo Stato islamico, deve tornare indietro. Al processo, il viaggio mancato diventa un dato importante per il circuito delle polizie internazionali, nel 2018 la Germania lo inserisce nel Sistema informativo Schengen ex articolo 36, la riservata sorveglianza. Quell'anno, ed è settembre, compra un biglietto aereo per la Turchia. È solo, usa i soldi guadagnati con un lavoretto estivo. Vuole combattere in Siria, la polizia turca lo ferma al confine, in una tana, «un posto di m.», racconta Rast, senza acqua corrente, doccia, un posto per quelli che stanno per fare il grande salto. Arrestato, si fa quattro mesi di galera, poi viene rispedito in Austria, e processato, condannato a 22 mesi. Nel frattempo, la madre aveva denunciato la sua scomparsa, raccontando forse anche della sua attività di fanatico, dei video e dei messaggi su Telegram, dell' impotenza di lei, davanti a un figlio che certamente voleva salvare. Lo Stato lo aveva preso in carico, affidato agli esperti del programma Derad, che cerca di disinnescare almeno la voglia di uccidere, in questo caso fallendo. In ultimo, voleva forse colpire la sinagoga, finendo ucciso davanti a una chiesa cattolica, lui e il suo anello nero, e la cintura esplosiva, fasulla.

Marco Imarisio per corriere.it il 4 novembre 2020. Era appena due giorni fa. Sullo stesso marciapiede dove ci troviamo adesso, un ragazzo trascinava al guinzaglio una bambola dai capelli biondi che portava una mascherina di carta con la faccia di Emmanuel Macron. E intanto urlava «muoviti sporca p...» tra le risate dei suoi amici. Prima di dimenticare il nome di Kujtim Fejzulai, così come abbiamo già dimenticato quelli di chi l’ha preceduto, bisognerebbe ascoltare i racconti compiaciuti dei suoi amici, e vivere questa sensazione di estraneità che ogni volta prende chi va in pellegrinaggio sui luoghi dell’assassino di turno. Non è neppure questione di trovare testimonianze dirimenti. Tutti concordano sul fatto che pregasse tanto. Nella palazzina popolare a dieci piani nel quartiere di Liesing che è l’ultimo domicilio della sua famiglia, c’è un garage adibito a moschea, una delle tante terre di nessuno. «Viviamo insieme» dice il giovane di origine marocchina che ha appena descritto la messinscena con il presidente francese. «Ma il fossato tra noi e voi è sempre più largo». Le schede dell’Interpol accumulano nozioni ma non aiutano a capire. Aveva vent’anni. Era originario della Macedonia del nord. Ultimo di quattro fratelli. Il padre è un operaio nel settore edile, senza nessuna inclinazione religiosa, come dichiarò all’epoca del processo che riguardava suo figlio. Lui è nato a Modling, un sobborgo di Vienna. Doppia cittadinanza. Una promessa del pugilato austriaco, fino a quando decise di lasciare l’agonismo e dedicarsi solo all’Islam e ai sogni di Jihad. Era un simpatizzante dell’Isis, e non si è fatto mancare nulla. Una denuncia per esultanza social dopo la strage di Charlie Hebdo. La partecipazione a campi di addestramento sportivo nelle campagne intorno a Liesing così sospetti che i due organizzatori furono espulsi dall’Austria nel 2017. Il 25 aprile del 2019, Fejzulai invece viene condannato a 22 mesi di reclusione per aver tentato di andare in Siria e di unirsi all’Isis. Già nel 2018 era stato segnalato come un «simpatizzante Isis di base a Vienna» che aveva pianificato di raggiungere l’Afghanistan. Ma l’allarme era stato dato dalla Germania, non dall’Austria, dove un rapporto lo indicava come «incapace di passare ad azioni concrete», insomma una specie di fanatico inoffensivo. Comunque, in carcere ci resta pochi mesi. Il successivo 5 dicembre viene rilasciato con la condizionale in applicazione dei benefici di una legge che tutela i giovani al di sotto dei 25 anni che non si sono macchiati di reati gravi. E si torna così al marciapiede davanti al complesso di dodici case popolari tutte eguali, una in fila all’altra, ai conoscenti di Fejzulai che non giustificano quello che ha fatto, ma non ne disconoscono le idee. Appare anche un signore in giacca e cravatta, che è stato in visita alla famiglia. Si chiama Nikolaus Rast, era il suo avvocato. «Sono brava gente. Lui ha avuto solo la sfortuna di incontrare amici cattivi. Se non fosse andato in certe moschee, sarebbe diventato un ottimo boxeur, e basta. Era un po’ strano, ma certo non avrei mai immaginato che potesse diventare un assassino». Facciamo sempre la storia del personaggio. Raccontiamo sempre l’assassino, come se nascondesse chissà quale segreto e non la solita trafila dell’indottrinamento in carcere, su Internet, compresa l’epifania finale con tanto di mitra e machete, apparsa sul suo account Instagram, che pare fosse pieno di altri messaggi alquanto espliciti. Anche i luoghi si somigliano ogni volta, questo sobborgo non è diverso da quello di Strasburgo dove abitava il fanatico che due anni fa uccise anche il povero Antonio Megalizzi, e da molti altri ancora. Ma forse, senza voler scomodare definizioni anche ingiuste come brodo di coltura, il clima che si respira qui aiuta meglio a capire della singola vicenda personale. I ragazzini più piccoli che guardano ammirati i grandi che con i giornalisti fanno battute sui «francesi pederasti» e amici degli ebrei, la litania delle preghiere che esce dalla finestra di un seminterrato. Li chiamano «quelli del 23», che è il numero del distretto. Ci abitano 97.000 persone, il 14 per cento è straniero, la percentuale più alta di Vienna. Così lontani dal centro da essere considerati una causa persa, come Favoriten, l’altro quartiere difficile della capitale. Giovedì scorso una cinquantina di giovani turchi aveva fatto irruzione nella chiesa di Sant’Antonio, rovesciando banchi e confessionali al solito grido di Allah Akbar. E lo stesso era avvenuto nella vicina Reumanplatz, dove un momento pubblico di preghiera da parte di un gruppo cattolico era stato interrotto da alcuni ragazzi afgani e siriani a colpi di petardi e insulti. L’Austria è il Paese europeo con il tasso più alto di volontari partiti per le province mediorientali rispetto alla sua popolazione. Negli ultimi due anni, quasi fuori tempo massimo, sono stati 313 i giovani — età media 24 anni — che si sono uniti all’Isis o hanno provato a farlo. Quasi duecento di loro venivano da Vienna, e di questi, tutti avevano residenze presenti o passate nei luoghi dove è vissuto Fejzulai. Che adesso è diventato il più famoso, senza essere mai riuscito ad andare in Siria, ma usando la scorciatoia del massacro di civili a casa propria. «Era un buon fedele» ci dice una ragazza senza nome. Intanto è sceso il buio. Ma le luminarie di Natale, che sono state installate appena ieri su una fila di tre lampioni, non si accendono. Qualcuno le ha subito prese a sassate.

Terrorismo, “Avevamo avvertito l’Austria sulle intenzioni dell’attentatore di Vienna”. Redazione mercoledì 4 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Un dettaglio inquietante emerge a proposito dell’attacco jihadista a Vienna, nel quale sono rimaste uccise 4 persone e ferite 22, alcune delle quali gravi. La polizia slovacca, infatti, ha rivelato di aver avvertito nei mesi scorsi le autorità austriache sul rischio di azioni violente da parte dell’attentatore di Vienna, Kujtin Fejzulai. In particolare, l’allerta era scattata dopo il tentativo dell’uomo di acquistare munizioni al di là del confine. “La polizia slovacca ha avuto informazioni l’estate scorsa che alcuni sospetti provenienti dall’Austria avevano tentato di acquistare munizioni in Slovacchia, senza, però, riuscire nel loro intento”, ha scritto su un social network il direttorato della Polizia slovacca. La nota precisa poi che le autorità slovacche avevano trasmesso l’informazione immediatamente alla Polizia austriaca. Nel comunicato la polizia slovacca precisa anche che le armi utilizzate dall’attentatore di Vienna, una pistola e un fucile d’assalto, non provenivano dalla Slovacchia.

Vienna dista meno di un’ora in auto dal confine con la Slovacchia e da Bratislava. Nel corso del tempo i terroristi hanno utilizzato varie volte armi registrate in Slovacchia in attacchi e per commettere altri delitti in Europa. Tuttavia, la Slovacchia ha dato una stretta alle norme nel 2015, per prevenire la vendita illegale di armi da fuoco. Il ministero dell’Interno austriaco non ha risposto alle richieste di commenti sulla dichiarazione slovacca. Fejzulai era stato condannato a 22 mesi di carcere l’anno scorso, dopo che aveva tentato di unirsi ai combattenti dello Stato Islamico in Siria. È stato rilasciato in libertà vigilata a dicembre e ha partecipato a un programma di deradicalizzazione.

Vienna, Toni Capuozzo a Quarta Repubblica: "Il ruolo del richiamo simbolico dell'assedio della capitale austriaca". Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. Vienna sotto attacco, il terrorismo islamico colpisce anche in Austria. E il tema, caldissimo, tiene ovviamente banco a Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 2 novembre. Tra gli ospiti Toni Capuozzo, esperto di islam e terrorismo, che inquadra subito quel che stava accadendo: "Siamo molto più vicini ad un'operazione simile al Bataclan", premette il giornalista. Perché proprio la capitale austriaca? "Vienna forse perché siamo davanti ad un richiamo simbolico dell'assedio di Vienna e forse perché il terrore viaggia anche lungo la rotta balcanica e non solo nel mediterraneo", sottolinea Capuozzo, mettendo in luce aspetti simbolici e "pratici" relativi alla nuova ondata di attacchi. Già, gli estremisti si infiltrano da ogni punto possibile. Capuozzo, comunque, sottolinea che "c'è una parte esiga del mondo islamico che pensa che lo scopo principale sia quello di uccidere in una chiesa o seminare il terrore", conclude.

Alessia Marani per “il Messaggero” il 3 novembre 2020. «Quelle che vediamo sembrano le scene del massacro al Bataclan di Parigi, siamo sotto choc, è terrificante». Andrea Parenti, architetto cinquantenne di Roma che abita con la famiglia e lavora da anni a Vienna, si affretta a dire «tutto ok, noi stiamo bene». Ora è chiuso in casa. Vienna è avvolta nel terrore. Un testimone oculare, austriaco, racconta alla tv Orf: «Ho sentito un' esplosione, sembrava un petardo, invece erano colpi. Ho visto una persona che correva lungo il Seitenstetten e sparava all' impazzata, a caso, con un' arma automatica. Ha svoltato al locale Roter Engel da lì in direzione di Schwedenplatz. Ha continuato a sparare selvaggiamente. Poi è arrivata la polizia e ha sparato». Altri testimoni hanno riferito di «almeno 50 colpi». Girano le prime immagini sui social. C' è chi urla parolacce a un attentatore. Una ripresa inquadra un incursore: tuta bianca come quelle anti-covid, cappuccio, arma lunga in pugno. Si sentono gli spari. Altre immagini riprendono una delle vittime, ferita, a terra, nel sangue. Poi il video più crudo: il terrorista si imbatte in un ragazzo appoggiato a un muro e gli spara a bruciapelo, poi torna indietro per finirlo. «Dovevo essere proprio lì a quell' ora e per fortuna non sono più andato. Si tratta di un punto dove i viennesi di solito si danno appuntamento per poi fare un giro in Centro e chi ha agito ha pianificato tutto per bene, colpendo alla vigilia del lockdown e sparavano a caso per fare più morti possibile», spiega Andrea mentre sente il rumore incessante degli elicotteri e delle sirene delle ambulanze e delle forze di polizia che setacciano dall' alto e per le strade la città. Gli attentatori potrebbero essere ancora liberi e pronti a uccidere di nuovo, forse nascosti in qualche edificio o già in periferia, lontani dal Centro. Le notizie si rincorrono confuse subito dopo l' attacco avvenuto nei pressi della sinagoga. «Sembra che ci siano almeno 7 morti e molti feriti - dice ancora Andrea - credo sia ancora in corso una caccia all' uomo. E proprio poco fa è arrivato preciso dalle autorità l' ordine di non diffondere notizie e siamo tutti molto confusi». Le autorità hanno chiesto a tutti i cittadini di non muoversi da casa. «Gli attentatori, partendo dalla Seitenstettengasse, hanno iniziato a sparare a caso nei vicini locali», spiegava ieri sera, a caldo, il sindaco di Vienna Michael Ludwig. Da lì si sono spostati in altre zone del centro, lasciando una scia di sangue. Il rabbino Schlomo Hofmeister, che vive in un appartamento che si trova direttamente sopra la sinagoga, è sicuro: «Miravano ai ragazzi seduti nel giardino di un bar e non alla sinagoga». «Io ero tre o quattro strade di distanza - racconta Matteo Witt, giornalista freelance - e all' improvviso si è scatenato l' inferno. Non si capiva nulla, mano a mano si sentivano gli spari, ci siamo riparati dove capitava. La polizia ci è venuta incontro dicendo di metterci al riparo». Vienna è choccata e ferita. Interroga se stessa, una città molto tranquilla senza apparenti tensioni sociali o aree degradate e povere. E con una forte immigrazione con fede islamica.

I colpi di grazia del killer: Vienna come Parigi. Gigi Riva su L'Espresso il 3 novembre 2020.Un dettaglio disumano accomuna il massacro nella capitale austriaca a quello nella redazione di Charlie Hebdo del 2015: l'omicidio a sangue freddo. Non kamikaze, ma giustizieri in bianco e nero. Oltre al resto, c'è un dettaglio che accomuna Vienna a Parigi, un ricarico di crudeltà, un gesto inumano verrebbe da dire, se non fosse che la sua reiterazione lo rende purtroppo, e terribilmente, umano. L'umanità ha anche queste aberrazioni. C'è il killer islamista totalmente vestito di bianco, in braccio un fucile d'assalto, nelle fodere diverse pistole, che avanza trotterellando in una strada semideserta del centro. Su un lato davanti a un negozio un uomo cerca come estrema e improbabile difesa di farsi piccolo, di scomparire. Viene colpito, si accascia. Il terrorista prosegue nella sua corsa leggera esce dall'occhio della telecamera che lo inquadra. Passano pochi secondo e ricompare, torna sui suoi passi, sempre con quell'andatura da jogging lento, si avvicina al viennese a terra, gli spara di nuovo, il colpo di grazia, mentre quello si rinserra nelle spalle, per proteggere come può i punti vitali. Riprende la sua corsa e scompare. Ieri notte alcune televisioni hanno trasmesso la scena. Mandavano in onda qualunque video arrivasse da Vienna. La fretta, la velocità dell'informazione, la necessità di fornire qualche particolare nel deserto di notizie certe. Poi, come per un soprassalto di pudore, di pietas per la vittima, hanno evitato. Preferendo immagini meno cruente, riprese d'insieme, più da lontano, la totale del traffico che scorreva sullo sfondo tra il rumore delle pallottole. Ma la consumazione finale dell'omicidio a sangue freddo era ormai patrimonio del ventre vorace della rete. Quasi sei anni fa, 7 gennaio 2015. Parigi. I fratelli Said e Cherif Kouachi, hanno appena compiuto il massacro nella redazione di Charlie Hebdo. Loro sono vestiti di nero da capo a piedi, passamontagna compreso. Iniziano la fuga, si imbattono in un brigadiere, Ahmed Merabet, musulmano ma non lo possono sapere. Scendono dall'auto, col fucile d'assalto, fanno fuoco. Il poliziotto cade a terra. Uno dei fratelli corricchiando si avvicina. Merabet alza il braccio, lo implora di risparmiarlo, ma l'assassino gli esplode un colpo in testa, torna verso la vettura, recupera la scarpa da ginnastica che aveva perduto, chiude la portiera. Lo sparo, la scarpa da ginnastica, in pochi secondo due estremi, l'atto violento e l'atto usuale. Non dei kamikaze, in Austria come in Francia, ma jihadisti che speravano di farla franca dopo aver seminato la morte nel centro di metropoli che sono quintessenza dell'Europa, con la sicumera di essere portatori di una giustizia divina, esecutori materiale del volere di Allah, giustizieri dal passo svelto e dall'abbigliamento inconfondibile, miliziani in bianco e nero, colori opposti e diversamente abbaglianti, senza la premura di mimetizzarsi. Come a significare che sono altro da noi. Naturalmente dalla nostra cultura. Tra le nostre radici culturali c'è la parabola dal buon samaritano, l'Altro che soccorre il ferito sul ciglio della strada. Esattamente l'opposto.

Dietro la guerra tra Erdogan e Macron...Dietro la guerra tra Erdogan e Macron per la libertà d'espressione c'è molto di più. La crociata su Islam e diritto di satira è solo uno degli aspetti dello scontro in atto tra i leader di Francia e Turchia, che hanno interessi opposti in Libia e nel Caucaso. Mentre ad Ankara precipita la crisi economica. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 2 novembre 2020.  Mercoledì scorso il giornale satirico Charlie Hebdo ha pubblicato una vignetta che ritrae il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in mutande, con una lattina in mano, nell’atto di sollevare l’abito a una donna velata, gridando: «Uh, il profeta!» La reazione di Ankara è stata immediata. La procura della capitale turca ha annunciato l’apertura di un’indagine contro i vertici di Charlie Hebdo. La presidenza turca ha condannato la caricatura definendola “abietta”. È solo l’ultima tappa di una crisi diplomatica profonda tra i due paesi. Due giorni prima della vignetta Erdogan ha invitato a boicottare i prodotti francesi, Macron a sua volta aveva richiamato l’ambasciatore in Turchia dopo che Erdogan.

 "La nostra civiltà". FdI scatenato contro "l'odio islamista". In piazza, quello che Bergoglio non ha mai detto. su Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. La protesta dei deputati di Fratelli d'Italia non finisce nell'aula di Montecitorio. Dopo aver mostrato i cartelli "basta sbarchi", gli onorevoli di Giorgia Meloni escono in piazza per un flash mob contro il terrorismo islamico e l'immigrazione fuori controllo, facilitata dalla modifica dei decreti sicurezza firmati dall'allora ministro degli Interni Matteo Salvini. All'indomani dell'attentato a Vienna (preceduto le scorse settimane da un prof decapitato e tre fedeli uccisi nella cattedrale di Nizza, sempre in Francia), i deputati di FdI hanno srotolato uno striscione con scritto "La nostra civiltà è la nostra libertà. Difendiamola dall'odio islamista". Alcuni hanno mostrato gli stessi cartelli esibiti a Montecitorio, per ricordare i vari attentati negli ultimi anni. Un messaggio di libertà e dolore che molti si sarebbero aspettati anche da Papa Francesco, che invece non ha fatto cenno alla tragedia di Vienna nel suo discorso di martedì. 

Da Parigi a Vienna, il terrorismo islamico dichiara guerra alla debole Europa. Andrea Soglio su Panorama il  3 Novembre 2020. 3 morti e diversi feriti gravi in 6 attacchi a matrice islamica a Vienna. E l'Isis festeggia mentre l'Europa mostra tutti i suoi limiti nella gestione dei migranti. Siamo in guerra e purtroppo non solo contro il Covid. Il terrorismo islamico da un mese ha rialzato la testa e dalla Francia all'Austria sta lasciando la sua drammatica scia di sangue sulle nostre strade e nelle nostre chiese. Il bilancio di quanto avvenuto a Vienna non è ancora definitivo, uno dei terroristi è infatti ancora in fuga, libero di sparare tra la folla ed uccidere ancora. Quella che ormai è chiara è la matrice. Il Ministero dell'Interno ha parlato di terrorismo islamico ed anche su alcuni siti jihadisti si comincia a mettere la rma su quanto accaduto, e si festeggia. Era purtroppo una cosa prevista; certo, non sapevamo dove e quando avrebbero colpito ma da giorni tutti gli esperti di terrorismo impegnati a spiegare le ragioni degli attacchi a Parigi, Nizza, Avignone, erano concordi nel sostenere che ci sarebbero stati altri attacchi ed altri morti. Diversi Imam infatti sul web come nelle loro moschee da settimana chiedevano ai loro ascoltatori di colpire l'Europa, con ogni mezzo. I terroristi di Vienna come si vede dai video che raccontano la nottata di sangue e come confermato dalle autorità "sono ben addestrati e pericolosi". A Nizza ha invece colpito un cane sciolto con un coltello (ed una piccola rete di amici e simpatizzanti). E se non si avesse un coltello la storia ci ha insegnato che basta anche la propria auto per fare una strage. L'Europa è sotto attacco, una guerra scoppiata dopo la ricomparsa delle ormai tristemente famose vignette di Charlie Hebdo, compresa l'ultima, quella che ha scatenato la rabbia di Erdogan contro Macron. Quella stessa Europa che fa dell'accoglienza un valore, che la difende, che per cercare di "non discriminare" gli stranieri ed i musulmani cancella parte della propria cultura e delle proprie tradizioni. Basta vedere cosa succede in Italia dove mandiamo a processo un ex Ministro dell'Interno reo di aver bloccato gli sbarchi dei migranti mentre, una volta riaperti i porti, accogliamo tra gli applausi del mondo dei #restiamoumani proprio su uno di quei barconi il giovane che ha decapitato due persone nella Chiesa di Nizza. Bisognerebbe cambiare, ma cambiare davvero. Servirebbero maggiori controlli e limiti per chi arriva in Europa; servirebbe che il mondo islamico condannasse, isolasse, indicasse chi simpatizza per i terroristi, chi oggi (magari solo nel segreto della sua casa) festeggia ad ogni strage compiuta; servirebbe non aver paura di quello che siamo, di un presepe a scuola o di un crocisso nei locali pubblici. Servirebbe un po' di coraggio, in Italia e nell'Europa tutta. Perché, come confermano tutti gli esperti di terrorismo islamico, colpiscono da noi perché hanno capito la nostra debolezza.

Abbiamo scelto di non lottare. E così gli islamisti ci sottomettono. Da 20 anni le sigle del terrore attaccano indisturbate l'Occidente. Perché non reagiamo? Forse perché non ci sentiamo in guerra? Ma il numero dei nostri morti è quello di un vero e proprio conflitto. Andrea Indini, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale.

Guerra. I termini usati sin dall'inizio della pandemia sono quelli di un conflitto. Sebbene ci siamo trovati a dover combattere un nemico invisibile a occhio nudo, ma comunque letale per le fasce più deboli, siamo finiti ingabbiati dalla paura come in guerra. Le città in lockdown con le strade vuote, le serrande dei negozi abbassate e le lunghe code davanti ai supermercati non si proteggono più dai bombardamenti aerei. Le persone che girano con le mascherine non fuggono dall'invasione nemica, ma sembrano piuttosto proteggersi da un indeterminato attacco chimico. E davanti ai nosocomi spuntano le tende degli ospedali da campo con i militari e gli alpini che danno una mano a medici e infermieri non a curare i feriti ma i malati che cercano invano un repsiratore. Ce l'hanno dipinta così la guerra. La guerra contro il nuovo coronavirus. E, mentre siamo ancora impegnati su quel fronte, continua a infiammare un'altra guerra, quella del fondamentalismo islamico contro la nostra società. Ma sembra che non ce ne siamo accorti.

L'orrore nelle nostre città. Abbiamo chiuso gli occhi. Come sempre. E, mentre veniamo fiaccati da un'emergenza sanitaria che, oltre a ingolfare gli ospedali sta facendo a pezzi le fondamenta della nostra economia, continuiamo ad essere colpiti. Nizza, prima. Con il tunisino Brahim Aouissaoui, un clandestino sbarcato a fine settembre a Lampedusa, che entrato nella cattedrale brandendo un coltellaccio ha decapitato una donna, ne ha sgozzata un'altra e ne ha ammazzata una terza. Una carneficina. Ieri sera è toccato a Vienna. Una mattanza a pochi passi dalla sinagoga. Quattro morti. Un commando in azione. Ripiombiamo al 2015: lo stesso modus operandi di quando a Parigi sono stati attaccati, in due operazioni differenti, la redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio e il Teatro Bataclan il 13 novembre. Negli ultimi cinque anni il terrorismo islamico ci ha colto impreparati in continuazione. Il 2016 è stato sicuramente l'anno più devastante: il 22 marzo gli attacchi coordinati all'aeroporto "Zaventem" e alla stazione della metropolitana di Maelbeek a Bruxelles; il 14 luglio gli 87 innocenti falciati via dal tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel lungo la Promenade des Anglais a Nizza; il 26 luglio padre Jacques Hamel sgozzato sull'altare della chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray da Adel Kermiche e Abdel Malik Petitjean; il 19 dicembre le dodici persone schiacciate dal furgoncino di Anis Amri tra le bancarelle del mercatino di Natale di Berlino. E anche per tutto il 2017 le sigle del terrore islamista hanno continuato a colpirci: a Londra colpita in due occasione, il 22 marzo e il 3 giugno, in due attacchi che hanno visto morire 17 innocenti; a Manchester il 22 maggio quando Salman Ramadan Abedi si è fatto saltare in aria al termine del concerto di Ariana Grande; a Barcellona il 17 agosto quando Younes Abouyaaqoub fiondò un camioncino contro i passanti che camminavano lungo la Rambla.

Una scia di sangue lunga 20 anni. Una scia di sangue infinita che porta fino a oggi, ma che non ha avuto inizio nel 2016. Nell'immaginario comune la guerra con l'islam radicale si apre l'11 settembre 2001. L'attacco alle Torri Gemelle, l'attacco alla superpotenza statunitense. 2.977 morti. Il più violento di tutti, sebbene poi ce ne siano stati altri altrettanto drammatici. Le esplosioni del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra. 192 morti nel primo attacco, 56 nel secondo. Una lista infinita di caduti. L'Occidente in lutto costante. Anche quando non è in Occidente che i jihadisti colpiscono, le vittime sono comunque gli occidentali. Come i turisti massacrati il primo luglio del 2016 nel ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca. Allora i terroristi liberarono chi conosceva le sure del Corano e seviziarono e ammazzarono tutti gli altri. E un anno prima quando Seifeddine Rezgui Yacoubi, travestito da turista, entrò nell'albergo RIU Imperial Marhaba di Susa (Tunisia) e fece fuoco con un kalashnikov ai bagnanti rilassati sotto l'ombrellone. Altri 39 morti. Cambiano le sigle del terrore, ma il nemico resta sempre lo stesso: l'islam radicale.

La resa dell'Occidente. A metterli tutti in fila, gli attentati subiti negli ultimi vent'anni fanno davvero paura. Eppure l'Occidente si è sempre dimostrato debole nei confronti del proprio nemico. Forse non si è mai sentito davvero in guerra. Oppure, non riuscendo a identificarlo con precisione, non ha avuto il coraggio di adottare misure che avrebbero in qualche modo colpito anche chi con il jihad non ha nulla a che fare. Perché, per esempio, non è mai stato posto un freno ai barconi su cui i terroristi si infiltrano accanto ai disperati che partono alla volta del Vecchio Continente? Perché non sono stati aumentati i controlli nelle moschee e sugli imam e non sono stati chiusi luoghi di culto abusivi o centri culturali dove si insegna a odiare l'Occidente? Perché non sono stati smantellati i quartieri "ghetto" dove i musulmani proteggono e nascondono le cellule del terrore? Continuiamo a esporci e a dimostrarci deboli in una guerra che stiamo perdendo. Giorno dopo giorno.

I tre eroi dell’attentato a Vienna sono due turchi e un palestinese. Notizie.it il 04/11/2020. I tre eroi di Vienna, due turchi e un palestinese: "Abbiamo aiutato, perché dovevamo farlo". Sono tre gli eroi che hanno messo in salvo un poliziotto nel corso dell’attacco terroristico che ha colpito Vienna la sera del 2 novembre: due lottatori della Turchia e un uomo della Palestina. I tre eroi di Vienna sono due turchi, Mikail Özen e Recep Tayyip Gültekin, giovani lottatori di Mma turchi, e un palestinese, Osama Joda, di 23 anni, impegato al McDonalds di Schwedenplatz. I tre si sono trovati nel cuore dell’attacco terroristico e senza esitazione si sono prodigati per mettere in salvo un’anziana signora ed un poliziotto che era gravemente ferito. I tre sono stati protagonisti di approfondimenti e di articoli usciti sui giornali austriaci e definiti come “eroi”. I due turchi Mikail Özen e Recep Tayyip Gültekin si trovavano fuori per fare l’ultimo drink prima dell’annunciato lockdown. I tre eroi hanno dichiarato: “Abbiamo aiutato, perché dovevamo farlo”. Özen in un video sui social ha voluto specificare: “Noi musulmani di origine turca aborriamo ogni tipo di terrore. Siamo per l’Austria, siamo per Vienna. Rispettiamo l’Austria“. I tre hanno soccorso l’agente ferito e lo hanno portato fino all’ambulanza, uno di loro ne è uscito ferito a una gamba ma non ha voluto essere trasportato all’ospedale per non essere di peso considerando che dopo l’attentato il pronto soccorso fosse indaffarato. Osama Joda, a cui lo scorso anno era stata negata la casa in quanto musulmano, ha messo in salvo il poliziotto fornendogli il primo soccorso, il giovane ha raccontato: “L’ho tirato dietro la panchina di cemento e ho cercato di fermare l’emorragia. L’assassino ha sparato da circa 20-30 metri di distanza. C’era sangue dappertutto”. 

Preso il «falsario» dei documenti usati dal terrorista di Vienna. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 13/11/2020. Turko Arsimekov è stato fermato dagli agenti dell’Antiterrorismo nella sua casa di Varese, dove gestiva una centrale di smistamento di passaporti e carte d’identità in tutta Europa. I legami con i «jihadisti balcanici». Sulla pagina del social russo «Vk» ha una fotografia in completo nero e telefonino in mano come un brooker di Wall Street. Accanto il suo motto: «Per imparare a volare, devi lasciare andare tutto ciò che ti abbatte». Turko Arsimekov, 35 anni, nato a Groznyj, nessun precedente, in Italia come «richiedente asilo» (la domanda però era stata bocciata), da due giorni è chiuso in carcere per produzione di documenti falsi. Con questa accusa è stato arrestato dagli agenti dell’Antiterrorismo nella sua casa di Varese dove gestiva una centrale di smistamento di passaporti e carte d’identità in tutta Europa. Ma soprattutto è sospettato di essere parte della cellula di terroristi ceceni e balcanici attiva in Austria e alla quale avrebbe fatto riferimento anche il 20enne austriaco-macedone Kujtim Fejzulai, autore della strage di Vienna del 2 novembre quando ha freddato 4 persone e ne ha ferite 23 prima di essere ucciso dalla polizia. Non solo, perché la cellula di ex combattenti dello Stato islamico rientrati in Europa come foreign fighter potrebbe aver avuto legami anche con altri attentati. A cominciare dall’uccisione del professore Samuel Paty decapitato a Parigi dal 18enne Abdoullakh Abuyezidvich Anzorov, nato in Russia da famiglia di origini cecene e in Francia con lo status di rifugiato. E forse anche con l’attacco nella basilica di Notre Dame a Nizza dove sono state uccise tre persone dal 21enne Brahim Aoussaoui, tunisino sbarcato a Lampedusa. Anche se in questo caso non sono emersi legami. I pm Enrico Pavone e Alberto Nobili, del pool antiterrorismo di Milano, stavano indagando su Arsimekov da sei mesi. Da quando una segnalazione dei servizi segreti austriaci a quelli italiani aveva indicato nel 35enne uno dei referenti della cellula islamista cecena. Un gruppo già emerso nel 2019 quando la polizia austriaca aveva scoperto che erano in fase di preparazione attacchi a Vienna per le festività natalizie. Gli agenti dell’Antiterrorismo milanese, diretti da Claudio Ciccimarra (ora promosso questore) e Carmine Mele, hanno scoperto che Arsimekov non solo forniva stabilmente documenti alla cellula in Austria, ma un continuo flusso di denaro dal 35enne al capo del gruppo terroristico. Piccole somme, 300-400 euro, versate con grande frequenza e che lasciano ipotizzare un possibile traffico di armi. Per questo il 35enne è ora indagato per associazione con finalità di terrorismo a Milano. Resta da capire se Arsimekov sia un semplice «falsario» o abbia invece un ruolo molto più strutturato nella cellula. La polizia lo ha arrestato in un appartamento in una zona semicentrale di Varese. Qui conduceva una vita quasi monastica: uscite solo per andare in posta, nei centri di spedizione dei corrieri o in alcuni money transfer. Si era spostato a Varese da alcuni mesi, prima aveva vissuto in Piemonte nella zona di Verbania. Non ha precedenti e negli archivi dell’Antiterrorismo non ci sono segnalazioni. Ora le autorità italiane hanno chiesto ai servizi segreti russi se il suo nome risulti tra i combattenti della seconda guerra Cecena (1999-2009). In casa aveva una trentina di documenti falsi di vari Paesi dell’Est Europa. Pronti per essere spediti. Sequestrati anche 4 pc e 14 cellulari. Arsimekov vendeva anche ad altre organizzazioni. Su Instagram pubblicizzava (in lingua cecena) i suoi lavori: «Forniamo documenti anche elettronici. Soddisfatti o rimborsati».

L'Austria vara la linea dura: "L'islam politico sarà un reato". Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz è pronto a varare il pacchetto di misure entro il prossimo dicembre. Federico Garau, Mercoledì 11/11/2020  su Il Giornale. Istituire il reato di islam politico nel tentativo di proteggere il suo Stato da eventuali pericoli derivanti dal radicalismo religioso e dal terrorismo internazionale di matrice jihadista, questo l'obiettivo dichiarato dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz. Il pacchetto di riforme annunciato dal leader del Partito popolare arriva ad una settimana circa dall'attacco terroristico che ha colpito il cuore della capitale Vienna, con un bilancio complessivo di 5 morti e 23 feriti. Lo scopo delle misure previste, che dovrebbero essere adottate a partire dal prossimo mese di dicembre, è quello di contrastare ogni genere di estremismo, a partire da quello islamico. "Questa non è una lotta tra cristiani e musulmani o tra austriaci e migranti. Questa è una lotta tra le tante persone che credono nella pace e quelle poche che vogliono la guerra", ha twittato il cancelliere austriaco, introducendo alcuni punti cardine delle riforme.

In Austria, quindi, si verrà a delineare"il reato di 'Islam politico' per poter procedere contro coloro che non sono terroristi, ma che creano loro il terreno fertile", ha spiegato Sebastian Kurz. Sarà compresa in tali misure inoltre "un'estensione delle possibilità di chiudere luoghi di culto", laddove siano riscontrabili delle minacce o rischi di infiltrazioni, e l'introduzione di un vero e proprio registro degli imam diffusi nel paese, oltre che un forte inasprimento sulle leggi riguardanti le associazioni ed i simboli. Come annunciato ancora su Twitter, un aspetto fondamentale della lotta contro l'estremismo islamico sarà quello di adottare dei provvedimenti in grado di "prosciugare i flussi finanziari a sostegno del terrorismo". Come rilanciato anche dai principali media nazionali, si parla poi della possibilità di introdurre una detenzione a vita, di revocare la cittadinanza austriaca ai condannati e di utilizzare lo strumento della sorveglianza elettronica dopo un eventuale rilascio. Con l'introduzione del reato di Islam politico, inoltre, sarà istituita una Procura anti terrorismo creata ad hoc. "Finché non saranno de-radicalizzati e anche se avranno scontato la loro pena, creeremo la possibilità di rinchiudere queste persone per proteggere la popolazione", ha spiegato ai giornalisti lo stesso Sebastian Kurz. "Per coloro che sono appena stati rilasciati, ci sarà la sorveglianza elettronica. Questa è una forte interferenza, ma a mio parere è un passo necessario per ridurre al minimo la minaccia per la nostra popolazione", ha concluso il cancelliere.

«Il numero due di Al Qaeda, Abu Muhammad al-Masri, ucciso dal Mossad in Iran». Il Corriere della Sera il 14 novembre 2020.Lo scrive il New York Times senza ancora conferme ufficiali: colpito e ucciso a Teheran da due agenti israeliani a bordo di una motocicletta. Il numero due di Al Qaeda, incriminato negli Stati Uniti per gli attentati del 1998 contro le ambasciate americane in Tanzania e Kenya, è stato ucciso in Iran ad agosto, in una missione segreta dell’intelligence israeliana. Lo scrive il New York Times senza ancora conferme ufficiali. Abdullah Ahmed Abdullah, che era sulla lista dell’Fbi dei terroristi più ricercati, è stato colpito e ucciso a Teheran da due agenti israeliani a bordo di una motocicletta per volere degli Stati Uniti, hanno confermato al quotidiano di New York alcuni funzionari dell’intelligence. L’attacco, avvenuto il 7 agosto in occasione dell’anniversario degli attentati in Africa, non è stato pubblicamente riconosciuto da nessuno tra Stati Uniti, Iran, Israele e Al Qaeda. L’anziano leader di Qaeda, che si faceva chiamare Abu Muhammad al-Masri, è stato ucciso insieme a sua figlia, Miriam, la vedova del figlio di Osama bin Laden, Hamza bin Laden, sempre secondo il Nyt. Le autorità federali statunitensi avevano offerto una ricompensa di 10 milioni di dollari per qualsiasi informazione che avesse portato alla sua cattura. Secondo il New York Times, Abdullah era il «pianificatore operativo più esperto e capace non sotto custodia degli Stati Uniti o degli alleati», secondo un documento altamente classificato fornito dal Centro nazionale antiterrorismo degli Stati Uniti nel 2008. Gli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998 provocarono la morte di 224 persone e il ferimento di oltre 5 mila. Abdullah era stato incriminato da un gran giurì federale degli Stati Uniti nello stesso anno per il suo ruolo nell’attacco.

Guido Olimpio per corriere.it il 14 novembre 2020. Quando la sera del 7 agosto due killer uccidono un cittadino libanese e la figlia a Teheran le autorità affermano: la vittima era un professore di storia. No, — ipotizzano i media — era uomo di collegamento dell’Hezbollah. Ma la verità sarebbe ancora un’altra. Se le fonti del New York Times sono giuste, a cadere sotto il fuoco è stato uno dei più alti dirigenti di al Qaeda, Abdullah Ahmed Abdullah. A farlo fuori il Mossad israeliano per conto degli Usa. Tesi subito respinta dall’Iran: è «una bugia, un’invenzione» della propaganda. Torniamo a quella notte. Sono circa le 21: la coppia si sposta in auto nella capitale iraniana ed è affiancata da una moto, con a bordo due uomini. Uno di loro estrae una pistola con il silenziatore, spara 5 volte e quattro proiettili raggiungono i bersagli. I sicari fuggono, la polizia attiva un sistema di sicurezza mentre le autorità provano a coprire identificando i bersagli come Habib Daoud, esperto di storia, e la figlia Myriam. Dal Libano girano informazioni sulla sua appartenenza al partito di Dio, anche se in realtà nessuno conosce quel professore. L’attenzione sfuma in un periodo tumultuoso, con una serie di esplosioni, incidenti e sabotaggi a siti strategici. E in effetti la ricostruzione del quotidiano spinge l’agguato al presunto libanese nella lista di attacchi. Abdullah, noto come Abu Mohammed al Masri, 58 anni, egiziano, è stato ai vertici del qaedismo. Anzi – secondo le accuse – ha organizzato uno dei primi grandi attentati, quello dell’estate del 1998 in Africa, con due azioni simultanee in Kenya e Tanzania contro le ambasciate statunitensi. Occhio alla data: era il 7 agosto. La sua eliminazione è avvenuta nell’anniversario del massacro, proprio il 7. Un favore dei servizi israeliani all’alleato. Una finestra operativa resa possibile dalla presenza di un network nelle città iraniane. In passato sempre gli israeliani hanno colpito scienziati e tecnici nucleari, spesso usando agenti in moto. E si è anche ipotizzato che si siano serviti di elementi locali, forse membri dell’opposizione. In questo caso avrebbero offerto il lungo braccio contro un obiettivo di alto valore, con risvolti personali: la figlia di Abdullah, Myriam, è la vedova di Hamza bin Laden, liquidato da un drone. Qualcuno potrebbe sorprendersi per la presenza di un qaedista nella terra degli ayatollah. Non sono forse nemici? L’ostilità in alcuni casi è messa da parte per ragioni di pragmatismo. Dopo l’intervento americano in Afghanistan una folta colonia di seguaci di Osama, compresi familiari stretti del capo, si è trasferita in Iran. I pasdaran li hanno messi in residenze sorvegliate con un doppio fine: avere delle pedine in mano (ci sono stati degli scambi), tenere sotto pressione la fazione. Abdullah avrebbe seguito quella traiettoria ottenendo in seguito di potersi muovere. Una situazione goduta da un altro luogotenente, Seif al Adel, sospettato di aver diretto in remoto alcune stragi. Tra il 2011 e il 2015 i terroristi sono persone libere o quasi, a patto che non creino problemi all’interno. Altri vengono lasciati partire per la Siria dove vanno a ingrossare la componente più radicale della ribellione. È il caso di Abu al Khayr al Masri. Egiziano, sposa un’altra figlia di Abdullah, e incontra la morte nel 2017. È di nuovo un drone americano a chiudere il cerchio. Stesso epilogo per Khalid al Aruri. Origine palestinese, dopo un periodo in Iran riappare sul fronte siriano e fa parte del gruppuscolo Hurras al Din: è dilaniato da un missile a lame rotanti nella regione di Idlib, nel giugno di quest’anno. Non è un momento facile per il movimento fondato da bin Laden. Venerdì l’esperto Hassan Hassan ha rilanciato la notizia del possibile decesso per malattia di Ayman al Zawahiri, l’attuale numero uno. Decesso avvenuto nel suo rifugio, sconosciuto. Un’informazione difficile da verificare arrivata da ambienti jihadisti siriani, quelli di Hurras al Din. Il medico egiziano, 69 anni, alla guida della fazione, è stato segnalato in città pachistane, nell’area tribale e in Afghanistan, sotto la protezione dei talebani. Su di lui una taglia di 25 milioni di dollari. Meno appariscente rispetto al predecessore, ha cercato di portare avanti la linea stretto tra la sfida concorrente dello Stato Islamico e la caccia degli Stati Uniti. Numerosi collaboratori, come Abdullah, sono stati spazzati via da omicidi mirati che hanno lasciato vuoti sensibili ma non hanno fermato l’idea.

Marco Ventura per “Il Messaggero” il 15 novembre 2020. Il castigo arriva da lontano, in una calda serata di agosto nel quartiere dei pasdaran a Teheran, sotto gli occhi dei guardiani della Rivoluzione. È il 7 del mese, anniversario dei brutali attentati del 1998 perpetrati da Al-Qaeda contro le ambasciate degli Stati Uniti in Kenya e in Tanzania, 224 i morti e centinaia i feriti (il biglietto da visita dell'organizzazione di Osama Bin Laden, espatriato dall'Arabia Saudita in Africa e artefice, tre anni dopo, dell'11 settembre). Lo scorso 7 agosto, una Renaul L90 bianca Mégane Sedan procede nella capitale iraniana con a bordo Habib Daoud, 58 anni, professore di storia libanese, e sua figlia Maryam, 27, quando lo accosta una motocicletta con due sicari. Cinque i colpi di pistola col silenziatore. Quattro proiettili finiscono nell'abitacolo e uccidono padre e figlia. Uno s' incunea in un'altra automobile. La rete libanese MTV fa sapere che il professor Daoud era affiliato a Hezbollah, la milizia sciita foraggiata dai pasdaran iraniani. Ma la reale identità della vittima, rivela adesso il New York Times in un articolo-scoop, è Abdullah Ahmed Abdullah, numero 2 di Al Qaeda meglio noto col nome di guerra Muhammad al-Masri, dieci milioni di dollari sulla sua testa promessi dall'FBI, uno dei terroristi più ricercati al mondo. Daoud sarebbe soltanto il nome di copertura affibbiato dai pasdaran ad al-Masri, secondo soltanto nella nomenklatura qaedista al medico egiziano Ayman al-Zawahiri. La figlia Maryam era la vedova di Hamza bin Laden, un figlio di Osama, ucciso l'anno scorso da un drone americano nel Waziristan, tra Pakistan e Afghanistan. I giustizieri di al-Masri sarebbero agenti del Mossad, i servizi israeliani, e avrebbero operato in collaborazione o per conto della Cia, attiva da anni nel tracciamento degli alqaedisti scappati in Iran dopo il 9/11.

EX CALCIATORE. Un'altra figlia di al-Masri era sposata a un componente del direttorio dell'organizzazione, Abu al-Khayr al-Masri, rifugiatosi in Iran e autorizzato a partire nel 2015, per morire anche lui sotto un drone targato Usa in Siria, nel 2017. Il nostro al-Masri era nato nel 1963 nel distretto di Al Gharbiya, Nord dell'Egitto. Calciatore professionista nella serie A egiziana, dopo l'invasione russa in Afghanistan si unisce al movimento jihadista e al gruppo di Bin Laden, è il n.7 dei suoi 170 membri fondatori. All'inizio degli anni '90 raggiunge Bin Laden a Khartoum, Sudan, diventa capo dell'addestramento e contribuisce a creare le unità militari di Al Qaeda. Si sposta in Somalia. I suoi uomini insegnano alle milizie del signore della guerra Mohamed Farrah Aidid l'uso dei lancia-razzi e nel 1993, nella battaglia di Mogadiscio, quella del film Black Hawk Down, abbattono gli elicotteri americani. Poi arrivano gli attacchi stragisti alle ambasciate Usa a Nairobi e Dar es Salaam del 7 agosto 1998. Dopo l'11 Settembre, Al Masri si rifugia a Teheran e viene catturato dai pasdaran. Gli sciiti sono acerrimi nemici dei jihadisti sunniti, ma ne tollerano la presenza a Teheran come assicurazione contro possibili attentati e in nome della comune guerra a Israele e agli Usa. Stando a un rapporto del 2008 dell'Antiterrorismo Usa, al-Masri era «il più esperto e capace pianificatore di operazioni». Ed era il mentore di Hamza, figlio di Bin Laden, oltre che stretto collaboratore di un altro leader di Al Qaeda, Saif al-Adl.

LA VENDETTA. Gli israeliani avevano un conto aperto con lui: nel 2002 una sua unità aveva condotto l'assalto contro un resort in Kenya pieno di turisti israeliani, uccidendone tre (e 13 kenyoti), mentre un'altra squadra cercava di colpire all'aeroporto di Nairobi, con uno Stinger, un volo per Israele. Prevedibilmente, l'uccisione del numero 2 di Al Qaeda viene smentita da tutti. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano invita i media Usa a «non cadere nella trappola di scenari hollywoodiani alimentati da agenti americani e sionisti», mentre dagli uffici del premier israeliano Netanyahu e del presidente Trump solo secchi «no comment». Va detto che il Mossad non ha mai rivendicato gli omicidi mirati dei fisici iraniani impegnati nel programma di armamento nucleare di Teheran.

IL MASSACRO DI SABRA E SHATILA. Testo: Robert Fisk su Inside Over il 4 novembre 2020.  Lo scorso 30 ottobre è morto Robert Fisk. Qualsiasi articolo su di lui sarebbe stato solamente un bigino della sua vita, un’ombra della sua penna, un simulacro del suo pensiero. Abbiamo così deciso di pubblicare, per gentile concessione dell’editore, un estratto di Libano, il martirio di una nazione (il Saggiatore). Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera. All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto. Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per “spazzare via i terroristi” – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento. Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. “Sharon!” gridò. “Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin”. Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola “episodio” in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra. Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria. In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato. Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto. Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta. Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore. Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. “Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte”. Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. “Sono ancora qui” disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo. Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena. Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo. Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava “Dio santo”, tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro. Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo. Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. “Andiamocene via di qui” disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato. Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa. Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa. Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato. Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi. I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada. Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita. Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile. Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: “Stanno tornando”. Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo. Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte. C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati. Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente. Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie. Sulla strada principale c’erano altri corpi. “Quello era il mio vicino, il signor Nuri” mi gridò una donna. “Aveva novant’anni”. E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due. Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi. Testo: Robert Fisk.  

Da assassino ad eroe, la regina grazia l'uomo che bloccò l'attentatore del ponte di Londra. Enrico Franceschini su La Repubblica il 19 ottobre 2020. Steven Gallant era stato condannato nel 2005 per aver ucciso un pompiere quando era ubriaco. Nel 2019 bloccò un terrorista islamico che stava tentando una strage colpendolo con un dente di tricheco: "Ha contribuito a salvare vite umane rischiando la vita". Per grazia ricevuta dalla regina, se così si può dire, un assassino che si è redento con un gesto da eroe potrà uscire di prigione prima del previsto. Steven Gallant, condannato nel 2005 a 17 anni di carcere per l'omicidio di un pompiere, stava seguendo un corso di riabilitazione in semi libertà quando nel novembre 2019 un terrorista islamico ha cominciato ad accoltellare la gente su un ponte di Londra. È lui il coraggioso civile che, imbracciando una zanna di tricheco trovata appesa a una parete, affronta il pericoloso estremista, prima che sopraggiunga la polizia e lo uccida a rivoltellate, in una scena che ha fatto il giro del mondo, filmata con il telefonino da un passante. Usufruendo di un "perdono" elargito da Elisabetta II per meriti nazionali, come prevede la legge, Gallant ha ottenuto ieri dal ministero della Giustizia una riduzione della pena di dieci mesi in riconoscimento "dell'eccezionale coraggio" dimostrato a Fishmonger Hall, il palazzo affacciato al London Bridge che fu teatro dell'attentato. "Ha contribuito a salvare vite umane nonostante il tremendo rischio a cui si è personalmente esposto", afferma un comunicato della Procura Generale. La riduzione della condanna significa che a giugno prossimo sarà già considerato per il rilascio anticipato a cui un detenuto - anche per reati gravi - può avere diritto, una volta scontata almeno metà della sentenza e in presenza di buona condotta. Gallant ha espresso più volte pentimento per la sua azione omicida, avvenuta in stato di ubriachezza e nell'errata convinzione che la vittima, Barrie Jackson, un vigile del fuoco di 33 anni, avesse molestato la sua ragazza. "In prigione è cambiato e penso che con il suo gesto sul ponte di Londra abbia meritato la riduzione della pena", dice suo figlio. Anche il figlio di Jackson è d'accordo: "Ha comunque scontato gran parte della pena e se qualcuno dimostra di essersi guadagnato la riabilitazione è giusto aiutarlo". Nell'attacco sul London Bridge, cinque persone furono colpite a coltellate, due delle quali hanno perso la vita. L'assalitore, Usman Khan, nato in Gran Bretagna da genitori immigrati dal Pakistan, era uscito di prigione l'anno precedente dopo una condanna per terrorismo. Vari civili lo fronteggiarono mentre fuggiva da Fishmonger Hall, tra cui Steven Gallant, facilitando il compito della polizia e impedendogli di accoltellare altre persone.

Da rainews.it il 19 ottobre 2020. Steven Gallant scontava una pena per aver ucciso un vigile del fuoco davanti a un pub di Londra. Dodici anni dopo il delitto, il caso ha voluto che diventasse un eroe: il 29 novembre del 2019 è stato lui a fermare il fondamentalista islamico e a impedirgli di compiere una strage vicino al London Bridge di Londra. Le immagini di Gallant che si lanciava all'inseguimento del terrorista e riusciva a fermarlo, hanno fatto il giro del mondo e colpito - tra gli altri - anche la regina Elisabetta che ha deciso che quell'uomo andava premiato. Sua Maestà ha deciso di concedergli la grazia in virtù delle "azioni eccezionalmente coraggiose che hanno contribuito a salvare la vita di tante persone nonostante l'enorme rischio per la sua".  Gallant, che ha 42 anni, aveva già scontato 12 dei 17 anni della sua condanna per omicidio e vedrà la sua pena ridotta di 10 mesi, significa che potrebbe uscire il prossimo giugno. La stessa famiglia del pompiere ucciso da Gallant, Barrie Jackson, ha appoggiato la decisione di liberarlo in anticipo.  "Ho emozioni contrastanti, ma quello che è successo al London Bridge dimostra che le persone possono cambiare", ha detto il figlio di Jackson, Jack, uno studente di 21 anni.  La storia Il 29 novembre dell'anno scorso, Gallant era al suo primo giorno fuori dal carcere, un permesso per partecipare alla conferenza "Learning Together" organizzata proprio per aiutare i detenuti nel difficile percorso di reinserimento nella società. Tra gli organizzatori dell'evento c'era Jack Merritt, da poco laureato a Cambridge, coordinatore del programma di reinserimento legato all'istituto di criminologia dell'Università. All'evento, alla Fishmongers Hall vicino al London Bridge, era presente anche Usman Khan, un 28enne cittadino britannico, in libertà vigilata, nonostante nel 2012 fosse stato arrestato per aver pianificato di mettere una bomba alla Borsa di Londra. Aveva in mente di fare una strage, non calcolando forse che in quel momento nella Fishmongers' Hall (un posto iconico nella cultura imprenditoriale londinese, perché dal 1300 vi si ritrovava la comunità di pescatori) non c'erano solo studiosi, ma anche (e soprattutto) gente con un passato criminale.  Si presentò con due coltelli da cucina assicurati con il nastro adesivo alle mani e cominciò a colpire a caso; ma invece di affrontare cittadini inermi, si ritrovò circondato da gente che non esitò a reagire. Tra questi, Gallant. Khan fuggì lungo il ponte di Londra, dove in tre lo raggiunsero con un estintore e una zanna di narvalo lunga due metri, uno dei cimeli marinareschi esposti nella sala, bloccandolo. Quando arrivarono i poliziotti, scesi da un'auto civetta, Khan era già a terra, sopraffatto, ma gli agenti, vedendo un giubbotto esplosivo, rivelatosi poi finto, aprirono comunque il fuoco. Fu ucciso, ma aveva già seminato la morte, uccidendo due persone e ferendone altre tre. A chiudere il cerchio delle straordinarie circostanze di questa storia di delitto, perdizione e lieto fine il fatto che Gallant conoscesse bene Jack Merritt, una delle due vittime nell'attentato. Proprio Merritt aveva guidato Gallant nel suo percorso di riabilitazione. "Steve sente un debito di gratitudine verso tutti coloro che lo hanno aiutato a ottenere la grazia. Non vede l'ora di usare le sue conoscenze ed esperienze per aiutare gli altri a evitare il crimine", ha detto il suo avvocato alla stampa britannica.

Cinque anni dopo Charlie siamo ancora inermi di fronte all’Islam. Marco Gervasoni, 7 gennaio 2020 su Nicola Porro.it. Sono passati cinque anni e non è cambiato nulla, titola l’editoriale di oggi del “Figaro” il principale giornale di area conservatrice francese. Un lustro dall’attentato islamista a “Charlie Hebdo” ma anche, per quanto meno ricordato, ad un supermercato ebraico della capitale, l’Hypercacher. Anche se il numero di vittime fu inferiore rispetto ai colpi che, nell’autunno di quell’anno e nell’estate di quello successivo, a Parigi e a Nizza, avrebbero infierito sulla Francia, oggi Charlie Hebdo è ricordato come l’inizio della seconda fase dell’attacco islamista all’Occidente: la prima essendo cominciata con l’11 settembre e che insanguinò Londra e soprattutto Madrid. Eppure già ai tempi di Charlie Hebdo si cominciava a capire che qualcosa non funzionava, perché l’Occidente, e l’Europa in particolare, non avevano nessuna intenzione di difendersi. Sì certo, la grande marcia dei capi di stato tutti abbracciati; ma non c’era il presidente americano Obama, non a caso, e soprattutto nessuno nei discorsi ufficiali volle persino nominare la parola I: islam. Non c’è da stupirsi se oggi la situazione sia la stessa. Se non riesci a comprendere le radici politico-culturali del nemico, non potrai mai a batterlo con la semplice repressione. Repressione che, tra l’altro, diversamente dagli americani dopo l’11 settembre, i governi europei sono stati assai blandi nel praticare, timorosi di violare i «diritti dell’uomo» degli sgozzatori e delle bombe umane, non sia mai. Le radici sono quelle di un islam religione politica il cui progetto è la conquista dell’Occidente attraverso l’immigrazione, e la trasformazione degli immigrati e dei loro figli, spesso persino di terza generazione, in soldati di Allah. Chi sono le avanguardie di questo progetto? Ovviamente gli imam, sostenuti però e foraggiati dalle diverse monarchie del Golfo. Accanto a ciò, c’è poi il vero e proprio terrorismo di Stato della teocrazia islamica di Teheran. In cinque anni non si è fatto nulla, se non pannicelli caldi. Non si è fatto nulla sul piano interno per rompere quelle comunità chiuse, in Francia, nei paesi Bassi, in Belgio, in Gran Bretagna, in Germania ma ora persino in Svezia e in Finlandia, le Moleenbek in cui cresce sia un odio spontaneo verso l’occidente sia un odio costruito e pianificato. E se è vero che gli attentati più pesanti si sono placati dopo la fine dell’Isis, è anche vero che, come scrivono gli esperti, siamo entrati nella fase del terrorismo diffuso – che solo tre giorni fa ha mietuto vittime a Parigi. La situazione è per certi versi anzi persino peggiorata. Finite le mitragliate nei bar e i camion lanciati sulla folla, molti pensano che il terrorismo islamista sia stato sconfitto. E la consapevolezza culturale della sfida, già debole all’epoca, si è fatta ancora più flebile. Pochi giorni fa a Parigi i giudici hanno derubricato a gesto di ubriachezza le torture e il brutale omicidio, da parte di un islamico, di una sua vicina, Sarah Halimi, macellata in quanto ebrea, e tutto ciò in una zona centrale di Parigi. E la comunità ebraica, che si sta svuotando perché sono numerosi gli ebrei francesi in fuga verso Israele, è sempre più allarmata di un antisemitismo quotidiano. Neonazisti? Si, qualche demente c’è. Ma soprattutto islamisti. Alleati ormai con l’estrema sinistra. Qualche settimana fa abbiamo potuto vedere, a Parigi, una manifestazione contro la «islamofobia», organizzata dal partito di Mélenchon, arrivato quarto alle presidenziali, piena di uomini barbute e donne velate, e di Allah Akbar a go go. E vi hanno preso parte, sia pure a titolo personale, persino alcuni deputati del Partito socialista, quello che stava al governo ai tempi di Charlie Hebdo, del Bataclan, e di Nizza. Perché stupirsi se non è si fatto molto? Ma anche con Macron le cose non vanno meglio: se il presidente ha indurito le sue posizioni sull’immigrazione, resta una figura molto vicina alle diverse comunità islamiche. E il ministro dell’interno, l’ex socialista (ecco) Castaner, si è impegnato assai di più a far pestare i gilet jaunes che a reprimere le reti islamiste, fino alla grottesca scoperta, qualche settimana fa, che un «radicalizzato» operava nei reparti di polizia specializzati a combattere la… radicalizzazione. E si è scoperto solo perché questo ha ammazzato i suoi colleghi. Con l’islam abbiamo un problema, Houston. E lo si vede dai giornali italiani, ma anche da quelli francesi, persino le «Figaro», tutti a piangere sempre oggi per il martire Souleimani. Che, informo, era il braccio operativo del terrorismo della Repubblica islamica, un’entità che dacché esiste, nel 1979 ha organizzato centinaia di attentati in tutto il mondo. È islam sciita, certo, e non sunnita come quello di Bin Laden e di Isis. E se e Teheran non intende forse conquistare l’Occidente, certo vuole distruggerlo. E qui pare si abbia tutta l’intenzione di lasciar fare.

Attentato a Charlie Hebdo, oggi parte il processo. Macron: «Difendiamo la libertà di stampa». Il Dubbio il 2 settembre 2020. A cinque anni dall’attacco terroristico che colpì la rivista satirica, la redazione decide di ripubblicare le vignette su Maometto in un numero speciale: «Non chineremo mai la testa». Emmanuel Macron ha nuovamente difeso «la libertà di blasfemia» in Francia dopo la nuova pubblicazione da parte della rivista satirica Charlie Hebdo delle vignette su Maometto. La decisione della rivista arriva alla vigilia dell’apertura del processo per l’attentato che aveva colpito la redazione il 7 gennaio 2015. Parlando ad una conferenza stampa a Beirut, il presidente francese rivolge «un pensiero per le donne e gli uomini abbattuti in modo vigliacco». L’attacco terroristico di matrice islamica nella redazione a Parigi della testata, causò la morte di 12 persone, tra cui alcuni dei più celebri fumettisti francesi. «Non chineremo mai la testa, non rinunceremo mai», spiega il direttore di Charlie Hebdo, Laurent «Riss» Sourisseau, in un editoriale che accompagna la ripubblicazione delle caricature nell’ultimo numero del settimanale. Gli autori della strage, i fratelli Said e Cherif Kouachi, furono uccisi dopo l’attacco: quello che si apre oggi a Parigi è il processo a carico di 14 presunti complici. Il processo sarà filmato integralmente per creare archivi storici, per la prima volta in materia di terrorismo. Fra gli imputati, quelli che affrontano le accuse più pesanti sono Ali Riza Polat e Mohamed Belhoucine, considerati complici dei reati terroristici: rischiano l’ergastolo. Polat, franco-turco 35enne in carcere dal marzo 2015, sarà l’unico a sedere nell’aula del processo: secondo i magistrati, ha partecipato a tutte le fasi della preparazione degli attentati e avrebbe aiutato Coulibaly a procurarsi le armi per gli attacchi all’Hyper Cacher e a Montrouge, ma anche per l’attacco dei fratelli Kouachi a Charlie Hebdo. «A cinque anni dall’attentato che ha decimato la redazione di Charlie Hebdo, qual è la percezione dei francesi rispetto all’accaduto e più in generale sull’attacco alla libertà di stampa?»: è la domanda che la rivista satirica ha posto in un sondaggio condotto in agosto dall’Istituto Ifop, in particolare tra i cittadini di religione musulmana. Ed ecco la risposta: «se si vuole difendere la libertà d’espressione, bisogna smettere di essere giovani». Secondo i dati diffusi dal settimanale parigino, infatti, nell’età compresa tra i 15 e i 24 anni il tema non sembra avere alcuna rilevanza. «Ma in ogni caso, la libertà di espressione deve rispettare i dogmi religiosi, compresi quelli criminali», conclude la redazione. Quella di Charlie Hebdo è stata «una provocazione per far parlare di sé e vendere qualche copia in più. Sappiamo che è in crisi», commenta Izzedin Elzir, imam di Firenze ed ex presidente dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), in un’intervista ad Aki-Adnkronos International. «Purtroppo per l’ennesima volta si confonde la libertà di espressione con l’offesa dell’altro. Charlie Hebdo ha offeso miliardi di musulmani, questa non è satira, di cui invece c’è bisogno nella società», sottolinea Elzir.  «Se un mio confratello mi dice “questo mi offende” devo rispettarlo, ma se non gli presto ascolto allora significa che qualcosa nella comunicazione non ha funzionato», prosegue l’imam di Firenze, che a proposito dell’attentato contro Charlie Hebdo esprime «condanna senza se e senza ma». «Se una persona davanti a te sbaglia, non devi sbagliare anche tu. Charlie Hebdo andava denunciato, contro il magazine si sarebbero dovute prendere strade pacifiche e legali. È necessaria una risposta culturale perché la violenza non aiuta, anche quella verbale, e solo con il dialogo si può trovare un accordo», conclude.

Stefano Montefiori per corriere.it il 2 settembre 2020. Alla vigilia dell’apertura del processo per gli attentati del gennaio 2015 a Parigi il settimanale satirico Charlie Hebdo ripubblica le vignette su Maometto che ne hanno fatto il bersaglio dei terroristi islamici. Il 7 gennaio 2015 i fratelli Chérif e Said Kouachi, francesi di origine algerina nati a Parigi, fecero irruzione nella redazione del giornale, al numero 10 di rue Nicolas-Appert, uccidendo 11 persone e poi un agente nel corso della fuga gridando «abbiamo vendicato il profeta Maometto». Negli anni successivi il giornale è stato oggetto di nuove minacce e la redazione diretta da Riss, rimasto ferito nell’attentato e succeduto a Charb che perse la vita, ha continuato a riunirsi protetta da eccezionali misure di sicurezza.

La prima pagina. «Tout ça pour ça» è il titolo della nuova copertina di Charlie Hebdo, traducibile più o meno con «tutto questo per niente». Ovvero, un massacro con 12 vittime non è servito a metterci a tacere, riecco le vignette. Sono gli 11 disegni pubblicati per la prima volta dal quotidiano danese Jyllands-Posten nel 2005, che Charlie Hebdo decise di riprodurre in Francia l’anno seguente, e che mostrano il profeta Maometto con una bomba al posto del turbante o armato di un coltello accanto a due donne velate. L’islam vieta qualsiasi immagine di Maometto, tanto più satirica. Charlie Hebdo ha sempre difeso la sua libertà di espressione e anche il diritto alla blasfemia, che ha coinvolto negli anni anche la religione cristiana, ebraica e altre. Il 10 e l’11 gennaio, pochi giorni dopo l’attentato, una folla enorme (in totale quattro milioni di persone) è scesa in piazza in tutte le città di Francia per proclamare «Je suis Charlie» manifestando solidarietà alle famiglie delle vittime, ai superstiti e difendendo la libertà di espressione. Cinque anni dopo quello spirito è andato in parte perduto, come lamenta il direttore Riss nell’editoriale che accompagna le vignette.

L’editoriale. «Non ci piegheremo mai. Non rinunceremo mai», scrive Riss. «L’odio che ci ha colpito è ancora qui e, dal 2015 a oggi, ha avuto il tempo di trasformarsi, cambiare aspetto per passare inosservato e proseguire senza fare rumore la sua crociata senza pietà». «Dopo l’attentato di gennaio 2015 ci hanno chiesto spesso di pubblicare altre caricature di Maometto. Abbiamo sempre rifiutato, non perché sia proibito, la legge ce lo consente, ma perché serviva una buona ragione per farlo, un motivo che avesse un senso e che aggiungesse qualcosa al dibattito. In questa settimana di apertura del processo per gli attentati del 2015 (oltre a Charlie Hebdo, quello contro la poliziotta Clarissa Jean-Philippe e contro il supermercato ebraico di Vincennes, ndr), riprodurre quelle caricature ci è sembrato indispensabile».

L’ultima vignetta. Prima di oggi, l’ultima apparizione di Maometto nelle pagine di Charlie Hebdo risale al «numero dei superstiti», quello successivo alla strage: in copertina c’era il profeta dell’Islam che portava un cartello con la scritta «Je suis Charlie», sotto al titolo «Tutto è perdonato».

La reazione del Consiglio islamico. Il Consiglio francese del culto musulmano (CFCM) è l’istituzione creata nel 2003 su impulso dell’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy per dare rappresentanza ai musulmani francesi e offrire un loro interlocutore allo Stato. Il presidente del CFCM Mohammed Moussaoui è intervenuto subito dopo la pubblicazione del nuovo numero di Charlie Hebdo per invitare alla calma e a «ignorare» le caricature di Maometto: «La libertà di fare caricature è garantita a tutti, così come quella di apprezzarle o no. Niente può giustificare la violenza». Moussaoui chiede poi ai musulmani francesi di concentrarsi sul processo che comincia mercoledì e sulle vittime di un terrorismo «che colpendo in nome della nostra religione è nostro nemico».

 Il suprematismo bianco fa più morti del terrorismo islamista. Esistono molte similitudini con gli jihadisti. A partire dall'uso della violenza. E dovremmo trattarli allo stesso modo. Parla l'ex agente speciale Ali Soufan. Francesca Mannocchi il 10 dicembre 2019 su L'Espresso. L'ex agente speciale antiterrorismo dell'Fbi Alli SoufanLo scorso 10 settembre, un giorno prima dell’anniversario dell’attentato contro le torri gemelle Ali Soufan, ex agente speciale che ha investigato casi di terrorismo internazionale altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti e l’attacco alla Uss Cole, oltre agli eventi legati proprio all’11 settembre, ha parlato alla House Committee on Homeland Security (Comitato della Camera sulla Sicurezza Interna). Il tema del suo intervento sulle minacce legate al terrorismo globale non era focalizzato solo sullo stato dei gruppi jihadisti, ma sull’evoluzione del suprematismo bianco. Dice Soufan nel suo intervento: «Non è solo il terrorismo jihadista a minacciare gli Stati Uniti. […] I suprematisti bianchi sono stati responsabili di tre volte più morti negli Stati Uniti rispetto agli islamisti. […] Da Pittsburgh a Poway, da El Paso a Charlottesville, l’estremismo suprematista affligge regolarmente gli Stati Uniti, e questa minaccia non ha una natura solo locale ma sta manifestando le sue caratteristiche transnazionali». Proprio in settembre, la sua organizzazione, il Soufan Center, che si occupa di fornire risorse, ricerche e analisi legate a problemi di sicurezza globale e minacce emergenti ha pubblicato un report dal titolo: “L’ascesa transnazionale del violento movimento suprematista bianco”. Secondo lo studio, più di 17 mila persone provenienti da 50 Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno viaggiato in Ucraina negli ultimi anni per combattere sia per le forze pro-ucraine che per quelle russe.

Nel vostro rapporto affermate che esistono similitudini tra il suprematismo bianco e gli jihadisti?

«Se osserviamo come si sta sviluppando il suprematismo bianco notiamo parallelismi con l’evoluzione dei gruppi jihadisti nella seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta: come gli jihadisti, i suprematisti bianchi giustificano l’uso della violenza come autodifesa intrinsecamente necessaria a combattere la violenza degli avversari. Entrambi i gruppi utilizzano spesso metafore nei loro scritti propagandistici che riflettono la convinzione che le società cui appartengono siano sotto assedio e che solo la violenza possa fermare gli “invasori”. Gli jihadisti, identificano i nemici nell’Occidente che cerca di distruggere l’Islam mentre gli estremisti suprematisti bianchi temono il multiculturalismo, l’immigrazione che porterebbe a quella che definiscono l«islamizzazione» della società. La violenza diventa così mezzo della “guerra ideale” che conducono ma anche modello per reclutare altri sostenitori. E finisce per generare identità. La minaccia alla propria identità che questi gruppi percepiscono li rende uno lo specchio dell’altro».

I combattenti di cui parlate sono estremisti di destra, suprematisti bianchi che viaggiano in Ucraina seguendo un percorso che ha delle analogie con il movimento dei combattenti jihadisti in Siria.

«L’Ucraina è per i suprematisti proprio quello che la Siria è stata negli anni recenti per gli jihadisti. E svolge la funzione che prima ha assolto l’Afghanistan. L’Ucraina ha un effetto galvanizzante, è un luogo di reclutamento, addestramento, combattimento e finanziamento e i suprematisti vi si recano per combattere sia su lato russo che su quello ucraino. La maggior parte dei foreign fighters in Ucraina proviene dalle regioni più prossime, Bielorussia, Germania, Georgia. Non è diverso da quello che abbiamo vissuto con l’Isis. Uno dei gruppi di destinazione è il Battaglione Azov, una forza filo ucraina che ha reclutato attivamente combattenti stranieri, motivati da una ideologia neonazista. A dimostrazione del carattere transnazionale della minaccia, proprio il Battaglione Azov ha relazioni con i membri della divisione Atomwaffen, e non i sostenitori statunitensi di The Rise Above Movement (Ram), gruppo descritto dall’Fbi come “organizzazione estremista suprematista bianca” basata nel Sud della California».

Anche le parole usate dai gruppi suprematisti raccontano una prossimità con i gruppi jihadisti...

«Sì, i gruppi suprematisti stanno anche mutuando una narrazione del mondo dai movimenti jihadisti. Un’organizzazione basata negli Stati Uniti ha adottato, come nome per una piattaforma social che collega vari elementi di estrema destra, il nome The Base, la base. La base era il nome selezionato da Osama bin Laden per il suo gruppo: tradotto in arabo è, appunto, Al Qaeda. La propaganda serve a esporre la propria ideologia e ad avvicinare nuovi sostenitori. Per gli jihadisti sono i video di martirio e decapitazione, per i suprematisti bianchi è lo streaming degli attacchi, come nel caso di Christchurch, l’attacco in Nuova Zelanda. Prima della carneficina l’attentatore pubblicò un lungo manifesto di 74 pagine in cui aveva razionalizzato il suo massacro come una protesta contro la “sostituzione etnica”, cioè l’idea che i musulmani stessero cercando di cancellare la cultura bianca europea. Difendeva l’idea di combattere la sua “guerra santa” per purificare la società, esattamente come gli jihadisti. Questi manifesti, le dirette, l’esaltazione della violenza, l’uso in generale delle piattaforme internet come strumento di diffusione del messaggio, servono ad avvicinare le parti più vulnerabili della società».

Nel rapporto sostenete che «giocare sulle paure per monetizzare l’odio e la discordia è un grande affare». Quali sono i principali modi di finanziamento del suprematismo bianco?

«Non essendo considerati gruppi terroristici i suprematisti bianchi hanno modi trasparenti e legali di finanziamento. Sia il crowdfunding che le criptovalute sono un metodo diffuso di finanziamento per i gruppi suprematisti. Molti hanno sfruttato le piattaforme social per creare contenuti e cercare finanziamenti attraverso sistemi di pagamento che facilitano le transazioni peer-to-peer (P2p). Non è possibile quantificare con precisione la portata del potere finanziario dei gruppi suprematisti ma possiamo ritenere che sia molto significativa e che essi abbiano potuto avvalersi di donatori che condividono la loro ideologia».

Come ricordava, il suprematismo bianco è responsabile di più morti in America che gli attacchi terroristici di matrice jihadista dopo l’11 Settembre. Per anni, l’Fbi ha generalmente descritto gli estremisti violenti di destra o come “razzisti” o come “terrorismo domestico”, e gli estremisti violenti ispirati da gruppi militanti islamici come al Qaeda e lo Stato islamico come “terrorismo internazionale”. «Sfortunatamente l’America non ha trattato per lungo tempo il suprematismo bianco come ha trattato la minaccia dei gruppi jihadisti. Ha molto a che fare con la politica e molto con la nostra percezione del pericolo che questi gruppi rappresentano. Ma dobbiamo cominciare a relazionarci diversamente con questa minaccia. Lo scorso 30 ottobre il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha detto al Congresso che i neonazisti americani pesano sempre di più a livello internazionale e ha affermato che gli estremisti siano motivati da ragioni razziali e confermato i reclutamenti on line e i viaggi di addestramento. Recentemente l’Fbi ha arrestato, in Kansas, un soldato con l’accusa di condividere le istruzioni di fabbricazione di bombe su Facebook. Ha dichiarato in Tribunale di essere stato guidato da un ex soldato dell’esercito che era andato a combattere a fianco di un gruppo estremista in Ucraina, Craig Lang, un ex soldato dell’esercito statunitense che nel 2016 si sarebbe unito a Right Sector, un gruppo paramilitare nazionalista ucraino di estrema destra, impegnato nella lotta contro i separatisti russi. È solo una delle conferme della minaccia terroristica interna». In un recente articolo che ha scritto per il New York Times sostiene che dal 2001 un lungo elenco di persone sia stato incriminato con l’accusa di sostenere materialmente gruppi terroristici vicini ad Al Qaeda, ma che per il terrorismo interno le accuse di sostegno economico, materiale sono impossibili perché - lei scrive - «non esiste un meccanismo per designare gruppi terroristici domestici in quanto tali e le accuse di terrorismo interno sono più difficili da dimostrare e comportano sanzioni inadeguate alla gravità del reato». «Sì, anche l’attentatore di Oklahoma City, Timothy McVeigh, il caso più grave di terrorismo domestico nella storia della nazione, non è stato accusato di alcun reato di terrorismo. Quello che auspichiamo è che l’Fbi segua il modello inglese, sulla scia dell’ MI5, rispettando le libertà costituzionali ma aggiornando la legislazione post 11 settembre per equiparare i gruppi terroristici locali e quelli stranieri. Solo così le forze dell’ordine potranno monitorare adeguatamente i gruppi e fornire prove ai pubblici ministeri».

In questi mesi abbiamo assistito alla presunta morte di Hamza Bin Laden e alla morte di Abu Bakr al Baghdadi. Cosa rappresenta la morte di Baghdadi per Isis e in cosa è diversa dalla morte di Osama Bin Laden per le sorti di Al Qaeda?

«Dal punto di vista dell’ideologia, questi gruppi non si esauriscono con la morte del leader, non dobbiamo confondere la morte del capo con la fine del messaggio. In passato la morte di Bin Laden ha dimostrato di avere rafforzato Al Qaeda anziché indebolirla. E non perché Zawhahiri sia un leader migliore di lui, ma perché gli eventi in Siria e in Iraq hanno dato al gruppo un’opportunità di rafforzare il proprio messaggio, il reclutamento e l’azione. E soprattutto di raccogliere il vantaggio che i disordini e i vuoti politici hanno dato ai fondamentalismi. Pensare di aver sconfitto - attraverso la morte del leader - i fattori che contribuiscono allo sviluppo e alla diffusione di una ideologia è pura illusione. Negli ultimi vent’anni le politiche antiterrorismo si sono rivelate un boomerang. Se non facciamo attenzione ai complessivi aspetti geopolitici del gruppo rischiamo di non riuscire a prevedere cosa accadrà. Penso che al momento della morte di Bin Laden Al Qaeda fosse pronta alla transizione, il tentativo era esattamente attraverso Hamza bin Laden, il figlio prediletto di Osama. Per l’Isis è tutto diverso, molti numeri due dell’organizzazione sono stati uccisi, e molti sostenitori non sanno nemmeno chi sia il nuovo Califfo, non sanno il vero nome, non conoscono il suo volto. Isis tornerà a operare con modalità insurrezionali, forse i gruppi, Isis e al Qaeda, si avvicineranno o si coordineranno, come stanno facendo nel Sahel».

Molto è cambiato nel nord est della Siria negli ultimi mesi, l’offensiva turca in Rojava, e la decisione di Istanbul di cominciare a deportare i foreign fighters e le loro famiglie. Cosa si aspetta?

«Stiamo chiedendo a gran voce ai governi occidentali di definire una linea, abbiamo visto cosa è accaduto dopo l’Afghanistan, molti Paesi non volevano accettare indietro i propri cittadini che avevano combattuto. Non dobbiamo e non possiamo ripetere i medesimi errori. Allora il mondo si accorse in ritardo di avere un problema con il reclutamento del fondamentalismo islamico, se ne accorse l’11 settembre. È un fenomeno già visto, ed è esattamente ciò cui stiamo assistendo con i foreign fighter e le loro famiglie nel nord est della Siria e in Iraq. Se non capiamo come fare, chi debba essere processato, chi vada aiutato con progetti di deradicalizzazione vedremo un film già visto. Tenere i bambini in questi campi profughi significa alimentare inesorabilmente la possibilità che siano terreno fertile di un reclutamento futuro. Io credo che il sistema giudiziario dei Paesi europei sia solido abbastanza per poter far fronte al problema, se ci voltiamo dall’altra parte, senza potenziare il sistema giuridico o i percorsi di deradicalizzazione, passerà del tempo, i detenuti usciranno di prigione - qualcuno di loro è già fuggito - e immaginate cosa significherà quando saranno sparsi per il mondo, cercando un altro luogo che unifichi il loro messaggio, e cercheranno di colpire i loro governi, i Paesi da cui provengono e che li hanno rifiutati, le loro comunità di origine. Abbiamo l’opportunità di trovare una soluzione ora e i governi europei non possono abdicare questa responsabilità verso i propri cittadini. Soprattutto sulla riabilitazione dei bambini. Non farlo significa alimentare i problemi del futuro».

Abusati, violentati e uccisi: i bambini vittime del conflitto siriano. Futura D'Aprile su Inside Over il 25 gennaio 2020. “In otto anni di guerra, i bambini siriani sono stati vittime di una costante violazione dei loro diritti: sono stati uccisi, mutilati, feriti, resi orfani a causa delle violenze perpetrate dalle parti belligeranti”. Recita così l’ultimo report pubblicato a gennaio dalla Commissione d’inchiesta della Nazioni Unite che si concentra sugli effetti del conflitto siriano sui bambini. I segni che la guerra ha lasciato sui loro corpi sono sicuramente i più evidenti, ma non gli unici. Il report infatti evidenzia come molti bambini abbiano gravi problemi psicologici a causa degli eventi traumatici vissuti e delle condizioni di vita in cui tuttora versano, senza che vi sia nell’immediato futuro alcuna prospettiva di miglioramento. In questi otto anni di guerra, i bambini sono stati costretti ad assistere alla morte di persone care, sono stati vittime di violenze psicologiche, torture, detenzioni ingiustificate, hanno dovuto lasciare la propria casa in cerca di salvezza, ritrovandosi a vivere per la maggior parte dei casi per strada o in campi profughi. Alla base del report ci sono 5mila interviste raccolte dalla Commissione e che hanno permesso di scoprire che molti bambini “soffrono di gravi problemi legati al sonno, si sentono costantemente in pericolo, abbandonati, provano rabbia e frustrazione, oltre ad aver maturato un sentimento di vendetta”. Un altro punto su cui il lavoro della Commissione si sofferma riguarda i figli dei combattenti stranieri dell’Isis che si trovano ancora nei campi profughi in attesa di essere rimpatriati. Secondo l’Onu, circa 28mila bambini, di cui 20 mila provenienti dall’Iraq, vivono in queste strutture in condizioni particolarmente precarie e non adatte alla loro giovane età, correndo il rischio di finire vittime di abusi e violenze.

Morti e sfollati. Ma c’è un altro dato altrettanto allarmante che riguarda i bambini siriani: secondo quanto dichiarato dalla direttrice dell’emergenza in Siria di Save the Children, da dicembre ad oggi ogni giorno un bambino ha perso la vita nella zona di Idlib a causa dei continui scontri tra le forze governative e le milizie che controllano l’enclave. Basta considerare che dal 10 al 20 gennaio ben 13 minori sono morti nella regione nonostante il cessate il fuoco raggiunto tra le parti il 12 gennaio. A causare questo elevato numero di morti tra i bambini e più in generale tra i civili che risiedono in questa area sono stati gli attacchi portati avanti contro scuole, ospedali e altre strutture non militari che secondo le leggi internazionali dovrebbero essere risparmiate. Ma che invece finiscono fin troppo spesso nel mirino delle forze belligeranti, incuranti dell’identità o dell’età delle persone che colpiscono. Il numero di minori morti durante la guerra purtroppo continuerà ad aumentare anche a causa delle condizioni precarie in cui gli sfollati sono costretti a vivere nei campi profughi. Come sottolinea sempre Save the Children, le temperature rigide dell’inverno e le piogge abbondanti stanno mettendo a dura prova le famiglie sfollate e di recente 12 campi sono stati inondati, rendendo ancora più critica una situazione già difficilmente gestibile. Intanto il numero di persone che abbandonano le loro case per cercare riparo dai combattimenti continua a salire dopo aver toccato il picco dei 300 mila a dicembre del 2019.

·        L’India e la Religione.

Varanasi, la città demolita da Modi per fare spazio al dio Shiva. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Varanasi si sta reincarnando. Intorno al Tempio d’Oro, il dedalo di vicoli fiancheggiati da piccole botteghe e antiche dimore dei maharaja è stato spazzato via in nome del dio Shiva. Un’enorme distesa di macerie porta ora dal Gange al santuario cuore della devozione induista. Soldati tutt’intorno a vigilare su questo enorme cantiere destinato a cambiare lo skyline della città più antica del mondo. Per secoli rimasto nascosto dietro un groviglio di case e piccoli laboratori, il dorato Kashi Vishwanath diventerà visibile dalle acque del Gange. E sarà direttamente accessibile dalle sue sponde. Un corridoio unirà i due luoghi sacri: la «dea Ganga» e il più importante tra i 12 templi in cui Shiva è adorato sotto forma di fallo. Soltanto gli induisti possono accedervi, e a breve dovranno indossare gli abiti tradizionali per poterlo toccare: il sari le donne, il kurta gli uomini. Il nuovo passaggio partirà da 3 dei suoi 84 ghat, le famose scalinate che degradano sul fiume come tetti spioventi da cui ogni giorno migliaia di devoti scendono per purificarsi nelle acque, per quanto tra le più inquinate al mondo. Il nuovo piano di riqualificazione urbana punta ad «agevolare» il transito dei pellegrini verso il tempio, hanno spiegato le autorità. I lavori sono partiti in sordina quasi due anni fa, prima con il piccone e poi con le ruspe. Soltanto lo scorso marzo, quando il premier Narendra Modi ha posato la prima pietra, è stato svelato il progetto: sulle ceneri del brulicante labirinto di case e mini bazar nascerà un ampio passaggio largo 75 metri e lungo 400 metri, con ai lati punti di rifornimento per acqua e ristoro, toilette, giardini, negozi, infermeria, guesthouse. Un’area moderna e attrezzata di 40 mila metri quadrati. «Il corridoio darà a Kashi una nuova identità in tutto il mondo, è l’inizio di un sogno che si avvera» ha scandito Modi, leader del Bjp, il partito nazionalista indù al governo, ricordando che anche il Mahatma Gandhi «soffrì nel vedere questo luogo sacro in così povere condizioni». Varanasi così spiritualmente intensa ma decrepita, decadente, sporca, maleodorante. Ma non è una semplice spinta alla modernizzazione in stile Dubai quella che sta interessando la città sacra. Modi ha presentato il progetto come un «atto di liberazione» del dio Shiva, ricordando che nel 2014 «era stato chiamato da Ma Ganga per liberare il tempio Vishwanath da una soffocante invasione», così che il dio Shiva potesse respirare. Parole che hanno allarmato i musulmani di Varanasi. Perché questo tempio confina con la moschea Gyanvapi. Il timore è che il loro luogo di culto possa andare incontro allo stesso destino di Babri Masjid, la moschea di Ayodhya distrutta dagli ultranazionalisti indù nel 1922. In questo bastione del Bjp scelto da Modi come collegio per candidarsi sia nel 2014 che lo scorso aprile, il progetto ha però suscitato perplessità anche tra molti induisti. Le viuzze strette che portavano al tempio con le case stipate una sull’altra erano un tratto distintivo del cuore di Varanasi. «Per fare spazio al corridoio hanno schiacciato l’anima di Kashi. Non è stato fatto nessuno studio archeologico prima dell’ingresso delle ruspe: con le case sono stati rasi al suolo centinaia di templi incastonati dentro — lamenta Debahuti Chowdhury, 22 anni, studentessa — . In migliaia sono stati costretti a lasciare le proprie case, chi ha tentato di opporsi in tribunale si è visto negare qualsiasi indennizzo». Da Los Angeles ci risponde Geoff Dyer, l’autore di Amore a Venezia. Morte a Varanasi: «Non so se si tratti di un progetto di sviluppo o di un manifesto politico, di sicuro il corridoio non era una priorità per Varanasi, lo sarebbe piuttosto pulire il Gange che è un gabinetto a cielo aperto». Sul lato destro del tempio, tra vicoli scampati (per ora) alle ruspe, l’apprensione è palpabile. «Spero che non si spingeranno fin qui, finora nessuno è venuto a chiedermi nulla — dice Suresh Sharma, 46 anni, titolare di un bottega di sciarpe e stole —. Soltanto i proprietari hanno preso tanti soldi come risarcimento. Spesso però hanno poi dovuto spartirseli tra più fratelli e non sono bastati per acquistare un’altra casa o negozio qui. Così se ne sono andati». Manu fa strada all’interno della casa del fratello Gobel: «Il governo ha chiesto di poterla rilevare, per ora abbiamo detto di no, ma so che prima o poi dovremo cedere». Kailash Kapoor, 62 anni, titolare di una fabbrica di tessuti si considera un sopravvissuto: «Delle mie otto dimore mi è rimasta solo questa. Ci vivo insieme a 85 inquilini, le famiglie dei miei operai». Tra loro Vakil Seth: «La gente accetta tutto questo perché crede che sia volere di Shiva».

Francesco Iannuzzi per “la Stampa” il 17 dicembre 2019. La tensione in India tra la comunità musulmana e il governo Modi continua a salire. Dopo gli scontri e le violenze per l' abolizione dell' autonomia in Kashmir a infiammare le proteste è stata la legge sulla cittadinanza che di fatto penalizza le persone di fede musulmana. Il bilancio degli scontri è di almeno 6 morti, centinaia di feriti e di arresti, soprattutto nello Stato dell' Assam. Il focolaio del malcontento che nel weekend ha visto gli studenti contrapporsi con la polizia nel campus Jamia Millia Islamia di Delhi, si sono estesi a tutto il Paese. Con l' opposizione a fare da sponda ai manifestanti. La leader del Bengala occidentale, Mamata Banerjee è scesa in strada a Calcutta alla testa di un massiccio corteo mentre Priyanka e Sonia Gandhi, si sono sedute sotto l' India Gate in un sit-in pacifico. Il portavoce delle opposizioni in Parlamento, Ghulam Nabi Azad, ha detto che non solo il suo partito, il Congresso, ma tutte le opposizioni sono unite nella condanna alle azioni della polizia. L'intrusione violenta nel campus della Jamia Millia Islamia ha visto gli agenti lanciare lacrimogeni, picchiare coi manganelli studenti e studentesse, insultare le ragazze barricate nei bagni, dove era stata fatta saltare la luce, e devastare una biblioteca e una sala adibita a moschea. Almeno un centinaio di feriti sono stati ricoverati negli ospedali, qualcuno anche colpito da pallottole. Fondata nel 1931 la Jamia è una delle università più prestigiose del Paese. L' irruzione di ieri pomeriggio documentata da video rilanciati immediatamente sui social, è stata uno choc per il campus, con il vice rettore che ha denunciato la polizia, e per l' India intera. L'intento degli agenti era chiaro: reprimere la protesta a tutti i costi. La domenica nera della Jamia ha acceso un fuoco che si è allargato alle università di tutto il Paese con decine di migliaia di altri studenti che sono scesi in strada dall' Iis di Bengaluru, ai due principali istituti di Mumbai, il Tiss e la Bombay University, ai college di Chennai, Madurai, Pondicherry, in Tamil Nadu, a Hyderabad, all' Università gemella della Jamia, in Uttar Pradesh. Il premier Modi ha cercato di placare gli animi con un tweet in cui dice che nessun indiano sarà toccato dalla nuova legge «che riguarda solo i rifugiati perseguitati per motivi religiosi». Ma gli studenti che contestano la cittadinanza basata sull' appartenenza religiosa con l' esclusione dei musulmani, non la pensano come lui. «Il governo di Modi ha dichiarato guerra alla nostra gente», ha detto Sonia Gandhi sotto l' arco di trionfo di Delhi, circondata da migliaia di persone che hanno letto con lei il preambolo della Costituzione: «Da giorni gli studenti protestano contro l' aumento delle rette e l' attacco alla Costituzione, ma il premier e il ministro degli interni Shah - ha denunciato - li attaccano come terroristi, secessionisti, rinnegati. Il loro è un attacco alla nostra anima».

La più grande democrazia del mondo si sta spostando verso il fascismo? Ecco gli indizi che preoccupano. Vittorio Da Rold su it.businessinsider.com il 26/12/2019. Un oppositore durante una manifestazione a Nuova Delhi contro le politiche di Narendra Modi. AP Photo/Manish Swarup. Un controverso emendamento a una legge sulla cittadinanza, recentemente approvato in India, sta scatenando proteste che hanno causato alcune morti e centinaia di feriti in tutto il paese e hanno condotto alcuni analisti a mettere in discussione i valori democratici del paese e a parlare di svolta verso il fascismo. Possibile che ciò avvenga nella terra del tollerante e non violento Mahatma Gandhi? Ma andiamo con ordine per capire un paese complesso ed articolato come l’India, resosi indipendente dalla dominazione britannica dopo la Seconda Guerra mondiale a cui è seguita la separazione proprio per fattori religiosi del Pakistan e del Bangladesh, aree a maggioranza musulmana. L’11 dicembre, il Parlamento indiano ha approvato un emendamento al suo Citizenship Act del 1955, che stabilisce le linee guida per diventare un cittadino nel paese. La revisione del 2019 ha aggiunto un elemento religioso, fornendo un percorso verso la cittadinanza per le minoranze religiose indù, sikh, buddhiste, giainiste, Parsi e cristiane fuggite dai paesi vicini a maggioranza musulmana come Pakistan, Bangladesh e Afghanistan. La norma modificata è stato criticata da numerose personalità come un provvedimento anti-Islam, in quanto emarginerebbe ulteriormente la considerevole minoranza musulmana dell’India. In risposta alla nuova norma sono scoppiate violente proteste, causando la morte di sei persone. Decine di altri sono stati arrestati o feriti negli scontri con la polizia. Il confronto tra le due parti si sta trasformando in guerriglia urbana, la più imponente in 6 anni di potere del premier nazionalista Narendra Modi, riconfermato lo scorso maggio e il cui partito indù Bjp gode di una solida maggioranza alla Camera Bassa.

I Rohingya. La legge ignora ciò che l’ONU ha considerato la minoranza più perseguitata del mondo, i musulmani Rohingya, che hanno subito la pulizia etnica e religiosa per mano dell’esercito birmano in Myanmar. Le autorità si sono impegnate a deportare i circa 40.000 rifugiati Rohingya residenti in India, anche se si pensa che potrebbero affrontare gravi pericoli nel loro stato d’origine. “La legge non riguarda realmente la protezione delle minoranze religiose della regione“, hanno scritto Ravi Agrawal e Kathryn Salam della rivista Foreign Policy. “Invece, sfida il secolarismo dell’India rendendo la religione parte della base per la cittadinanza”. Un passo falso. Nel mese di agosto, l’India ha anche revocato parte della sua costituzione che ha dato alla regione contestata di Jammu e Kashmir uno statuto speciale e una quasi-indipendenza. Negli ultimi quattro mesi, il Kashmir, che ospita una significativa popolazione musulmana, è stato tenuto in isolamento ed è ora direttamente sotto il controllo del governo federale indiano a Nuova Delhi.

La Corte dell'Aia: “Fermare le violenze sui Rohingya in Myanmar”. Le Iene News il 24 gennaio 2020. La Corte dell’Aia emette una prima pronuncia nel procedimento aperto contro il governo del Myanmar per l’accusa di genocidio contro la minoranza musulmana dei Rohingya, chiedendo un intervento immediato perché i Rohingya sono ancora a rischio di violenze. Di questa terribile crisi umanitaria vi abbiamo parlato nel reportage di Gaston Zama. La Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha infatti imposto misure provvisorie per impedire la commissione, ai danni dei Rohingya, di tutti gli atti condannati dalla convenzione sul genocidio del 1948. Il massacro della minoranza musulmana è stato definito da più parti come “un genocidio”. L’inchiesta è stata avviata dopo un rapporto presentato dal Gambia, uno stato dell’Africa occidentale che ha accusato la Birmania di aver violato la convenzione sul genocidio, emanata dopo l’Olocausto. Il Gambia ha chiesto l’adozione di tali misure provvisorie poiché la definizione completa del procedimento potrebbe richiedere anche alcuni anni, mentre, come emerge dal medesimo provvedimento, i Rohingya sono ancora a rischio di ulteriori violenze e c’è bisogno di intervenire in modo immediato. Nella vicenda si segnala il ruolo svolto da Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace nel 1991 per la sua lotta al regime del Myanmar che ora, dopo aver assunto un ruolo di primo piano nel governo, ha difeso anche davanti alla Corte le operazioni dell'esercito. Secondo Aung San Suu Kyi le forze di sicurezza stavano prendendo ogni misura necessarie per non colpire i “civili innocenti” ed evitare “danni collaterali”. Questa sua dichiarazione aveva portato l’Onu a scagliarsi proprio contro il Premio Nobel, per non aver usato in alcun modo la sua posizione “di capo del governo de facto, né la sua autorità morale, per contrastare o impedire gli eventi nello stato di Rakhine”. Sono 600mila i Rohingya che vivono in Birmania in condizioni igienico-sanitarie disastrose e circa 740mila quelli che sono riusciti a fuggire nel vicino Bangladesh dove Onu e ong cercano di salvaguardarli. Dietro queste cifre incredibili, c’è la disperazione di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini perseguitati da esercito birmano ed estremisti buddisti. Noi Le Iene vi hanno raccontato l’emergenza dei Rohingya nel reportage di Gaston Zama che potete vedere qui sopra. Siamo andati assieme a Suor Cristina (vincitrice nel 2014 del talent tv The Voice) nei campi profughi in Bangladesh, dove i Rohingya vivono in condizioni al limite della sopravvivenza per sfuggire alle persecuzioni. “Ci stavano bruciando le case e siamo scappati qui”, ha raccontato un bambino nei campi profughi. “Sparavano, bruciavano tutto e ci picchiavano”, ricordano altri piccoli. “Siamo venuti via per le atrocità dei buddisti, ci uccidevano, e non eravamo liberi”, ha raccontato un altro Rohingya.

La difesa di Modi. In difesa della controversa legge che sta mettendo l’India a ferro e fuoco il premier nazionalista indù Modi ha risposto a colpi di tweet. Sul social ha sottolineato che il provvedimento è stato approvato da “una schiacciante maggioranza” delle due camere del Parlamento. Per il premier nazionalista la legge in questione “illustra la cultura centenaria dell’accettazione, dell’armonia, della compassione e della fratellanza che vige in India“. Rivolgendosi alla popolazione, Modi ha dichiarato che “la nuova legge non colpirà alcun cittadino dell’India di qualunque religione sia”. Il leader dell’opposizione Rahul Gandhi – sconfitto da Modi alle ultime elezioni e la cui madre Sonia è di origini italiane – ha invece definito la legge e il controverso registro dei cittadini “armi di polarizzazione di massa scatenati da fascisti”. Il Citizenship Amendment Act (Caa) intende regolarizzare gli immigrati provenienti dal vicino Afghanistan, Pakistan e Bangladesh che sono arrivati in India prima del 31 dicembre 2014 e che appartengono alle religioni indù, sikh e buddiste, Jain, parsi e cristiana, escludendo però quelli musulmani. Il governo indiano, in un Paese che non ha un regolamento specifico per i rifugiati, ha giustificato la legge con la necessità di concedere asilo alle minoranze perseguitate nelle loro nazioni di origine. Tuttavia il testo è stato molto criticato perché va contro lo spirito secolare dell’India, facendo della religione un fattore per ottenere la cittadinanza, ed è contro lo spirito laico della Costituzione. Per i suoi detrattori rappresenta un ulteriore provvedimento discriminatorio destinato a marginalizzare la minoranza musulmana, 200 milioni di persone. Malumori anche negli Stati indiani confinanti con Afghanistan, Bangladesh e Pakistan che temono un’invasione di rifugiati.

Le critiche degli intellettuali. “Il piano del primo ministro Narendra Modi è chiaro: smantellare la nostra costituzione secolare e fare dell’India un Paese solo per gli induisti. Dopo un lungo periodo di silenzio però, tantissime persone stanno alzando la voce per protestare contro questo suo progetto. In un certo senso, è un momento storico”, ha riferito all’agenzia Dire Karem Abdul Azad, ricercatore indipendente, attivista e musulmano nativo dell’Assam, lo stato di confine con il Bangladesh.  L’attivista è convinto che “all’origine di questa riforma voluta dal governo c’è l’ideologia del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss)” un movimento suprematista induista di estrema destra. Lo storico Ramachandra Guha ha scritto in un articolo sul Washington Post in agosto che era giunto il momento di declassare lo status dell’India come democrazia di livello mondiale. “Data la mancanza di una sorta di opposizione credibile al Partito Bharatiya Janata, l’atmosfera di paura tra le minoranze religiose e gli attacchi alla stampa libera, ora siamo una democrazia 40-60“, ha scritto lo storico dell’India di oggi. Ma c’è di più. Secondo il Times, il consenso tra gli attivisti indiani e gli analisti politici liberali è che il paese, sotto Modi, è diventato “più tossico diviso tra indù e musulmani”. “In parole povere, sono quelli che oggi chiamiamo fascisti comunalisti“, ha detto lo storico Aditya Mukherjee, al Times. Parole davvero poco rassicuranti per la più popolosa democrazia del mondo.

Arundhati Roy: «La cittadinanza indiana? Il popolo è contro Modi». Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessandra Muglia. La scrittrice sostiene le proteste contro la nuova legge e ora rischia l’arresto; «Accanto ai musulmani in strada ci sono sikh, cristiani, contadini, accademici, scrittori». La sua ultima, ironica, provocazione. «Quando verranno a casa nostra per aggiornare il registro nazionale dei cittadini dovremmo rispondere tutti di chiamarci Kung fu Dog e dare l’indirizzo del nostro premier». Un invito al boicottaggio lanciato con tono scherzoso a Natale in una delle università indiane in rivolta, e accolto dalle risate dei presenti, ha innescato una risposta seria: una denuncia nei confronti di Arundhati Roy e la richiesta di arresto da parte di parlamentari del partito nazionalista indù al potere. La scrittrice indiana acclamata in tutto il mondo perIl dio delle piccole cosee temprata da due decenni di attivismo però non si scompone: «Credo sia soltanto teatro» dice al Corriere. Subito dopo l’approvazione della legge sulla cittadinanza aveva invitato il suo Paese a ribellarsi e da allora le piazze sono piene. «Non c’è un legame diretto tra le mie parole e le proteste nelle strade, non voglio prendermi meriti che non mi spettano per questa rivolta enorme, varia e spontanea».

Queste proteste sono il primo grande sbarramento all’agenda nazionalista indù del premier Narendra Modi. Cos’è scattato?

«Sì, sono la prima grande sfida a Modi, ai paramilitari delle Rss e al loro partito politico, il Bjp, da quando sono andati al potere nel 2014. Per me la cosa più importante di queste proteste è il rifiuto della strategia divisiva della destra nazionalista indù, un rifiuto che ha accomunato persone di diverse classi, caste e religioni. Stanno disperatamente cercando di presentarle come “rivolte islamiche” ma non è così. Accanto ai musulmani in strada ci sono sikh, cristiani, contadini, accademici, scrittori, operai, avvocati… Non è soltanto un movimento contro una legge: la gente ha capito che questo è un governo fascista. È stato tolto il tappo a uno scontento che prima non osava manifestarsi per paura».

L’aria nelle piazze sa di lacrimogeni e speranza. Come andrà a finire secondo lei?

«Il governo è nel panico. In un grande comizio Modi ha mentito in modo spudorato dicendo che non c’è mai stato un piano del governo per fare il Registro nazionale dei cittadini. Invece era nel loro programma elettorale, il ministro dell’Interno Amit Shah lo ha presentato in Parlamento un mese fa. I filmati dei suoi discorsi in Aula, i suoi tweet lo provano. Modi ha sostenuto che non è in costruzione nessun centro di detenzione (per chi, con la nuova legge, non è più riconosciuto cittadino indiano, ndr), ma abbiamo visto le foto, i progetti e i budget. In queste bugie trasuda la disperazione di chi le dice. Sono preoccupata, il confronto rischia di trasformarsi in guerra civile».

Lei però ha anche detto che queste proteste sono l’inizio della fine per il governo Modi.

«Potrebbero essere l’inizio della fine per questo governo, o l’inizio della fine per l’India come la conosciamo oggi. Il mio ottimismo oscilla».

Quale è stata l’esperienza più emozionante di questi suoi giorni in strada a fianco dei manifestanti?

«Mi ha entusiasmato vedere i giovani musulmani, le ragazze soprattutto, determinati a far sentire la propria voce. Ho partecipato a proteste in cui io e gli studenti ci siamo abbracciati formando una mischia come le squadre di rugby. La notte che la polizia ha attaccato la Jamia Milia University, ero in Kerala perché mia madre stava male. Ero terrorizzata per la sorte degli studenti. Poi ho visto l’appello a protestare lanciato dagli studenti della Nehru University e della Delhi University, con slogan tipo “lunga vita alla rivoluzione". Infine ho visto spuntare cartelli di Ambedkar (il padre della Costituzione, un dalit, ndr). A quel punto mi sono sentita più tranquilla e sono andata a letto. Credo che la solidarietà tra dalit, musulmani e sinistra sia l’unica speranza».

Ha scritto che «l’India non è per nulla il posto peggiore o più pericoloso al mondo, ma forse la divergenza tra quello che poteva essere e quello che è diventata rende la situazione più tragica». Che poteva diventare l’India?

«Poteva essere un posto di una bellezza immensa, che si sforzava di affrontare tutte le sue complessità e antiche crudeltà, trasformando la sua grande diversità, le sue 780 lingue, la sua saggezza e conoscenza, la sua musica e poesia, il suo paesaggio di culture e religioni, in un esempio per il resto del mondo».

Lei lega l’agenda dell’«hindu first» anche alla crisi climatica.

«L’annessione del Kashmir da parte di New Delhi il 5 agosto scorso ha per esempio molto a che fare con la volontà del governo di assicurarsi l’accesso ai cinque fiumi che scorrono nella regione. E il Registro nazionale dei cittadini, che creerà un sistema a più livelli dove alcuni hanno più diritti di altri, è anche preparatorio a quando le risorse scarseggeranno. La cittadinanza, come sosteneva Hannah Arendt, è il diritto di avere diritti. Lo smantellamento dell’idea di libertà, fraternità e uguaglianza sarà — e di fatto è già — la prima vittima della crisi climatica».

·        Il Canada e la Religione.

a legge sulla laicità infiamma il Canada. Nel Paese che ha inventato il multiculturalismo, il Québec ha adottato una legge che limita l'ostentazione di simboli religiosi. E il resto del Paese insorge. Panorama 18 dicembre 2019. Il premier del Manitoba Brian Pallister l'ha accusata di danneggiare la reputazione internazionale del Canada. Le città di Vancouver, Toronto, Calgary e Montréal l'hanno condannata in quanto «discriminatoria». E due organizzazioni che tutelano i diritti civili stanno per portarla davanti alla Corte Suprema. La legge sulla laicità sta infiammando il Canada. Il provvedimento che limita l'ostentazione di simboli religiosi nei luoghi pubblici è stato adottato dal governo di centro-destra di François Legault il 16 giugno 2019 dal Québec, cattolicissimo fino alla Rivoluzione tranquilla del 1960. Ispirata alla legge sulla «separazione delle Chiese e dello Stato» adottata dalla Francia nel 1905, la norma è la prima a disporre che «lo Stato del Québec è laico». In quest'ottica, la legge 21 nella provincia a maggioranza francofona, questo il suo nome, vieta ai funzionari pubblici in «posizione coercitiva» di esibire simboli religiosi quando si trovano in servizio. Quindi niente crocifissi cristiani, veli islamici, kippah ebraiche o turbanti sikh per i dipendenti pubblici come gli insegnanti, i giudici e gli ufficiali di polizia. Non a caso, uno dei primi effetti del controverso provvedimento è stata la rimozione, lo scorso 9 luglio, di uno storico crocifisso nella Sala blu dell’Assemblea nazionale del Québec che era stato affisso nel 1936. Apriti cielo. Il provvedimento ha fatto scatenare l'ira di cristiani, ebrei e musulmani. Particolarmente colpiti dalla norma secolare, migliaia di giovani osservanti musulmani o sikh, che hanno visto andare in fumo le loro carriere governative perché impossibilitati a indossare sul lavoro il velo islamico o il turbante. Questi giovani devoti che desideravano una carriera pubblica contavano molto sulla sentenza della Corte d'appello quebecchese, chiamata a decidere sulla richiesta di sospensione della legge 21. Ma il 12 dicembre la Corte d'appello della provincia francofona ha risposto picche. «La grande maggioranza delle principali religioni praticate in Québec» ha scritto il giudice Robert Mainville, «non paiono, per lo meno a prima vista, fare dell'ostentazione di segni religiosi al lavoro un'esigenza assoluta di fede». Eppure la legge 21 si scontra con il principio del multiculturalismo, introdotto per la prima volta al mondo proprio in Canada dal primo ministro Pierre Trudeau: nel 1971 il padre dell'attuale premier Justin adottò la Multiculturalism Policy of Canada, che prefigurava una società in cui le diverse culture convivono, pur mantenendo la propria identità. Per paradossale che possa sembrare, il problema è di carattere culturale. Lo spiega in un breve saggio intitolato Legge sulla laicità dello Stato: il Canada contro il Québec, Rodrigue Tremblay, professore emerito all'Université de Montréal. «Il Québec ha un sistema giuridico diverso dal resto del Canada», sottolinea Tremblay, mettendo in rilievo che «le province anglofone sono sotto il regime giuridico britannico della Common Law, mentre il Québec è sotto il regime del Codice civile francese». Ma mentre nella tradizione francese la separazione fra Stato e Chiesa è un principio democratico fondamentale, nella Common law la separazione della politica dalla religione è meno forte. Non a caso, conclude il professor Tremblay, «nel Regno Unito il sovrano è anche il capo della Chiesa anglicana». E la regina Elisabetta, vale la pena di ricordarlo, è anche il Capo dello Stato canadese. Eppure la questione è più complessa. Pierre Trudeau, il padre del multiculturalismo canadese, era guarda caso quebecchese. Ma era anche uno dei più accaniti oppositori del partito indipendentista francofono del Québec, il Parti québecois.  

·        La Francia e la Religione.

La protesta dei cattolici in Francia. Francesco Boezi su Inside Over il 16 novembre 2020. I francesi non possono presenziare alla Messa per via di una decisione del Consiglio di Stato. Una decisione, presa in base alle direttive del governo, che ha scatenato l’ira dei larga parte del mondo cattolico, a tal punto che la protesta inizia a infiammare tutto il Paese. Migliaia di persone sono scese in piazza durante lo scorso fine settimana per rivendicare il diritto alla partecipazione religiosa. La questione è molto complicata, perché attiene alla sfera delle “urgenze”. Vale per la Francia, ma è valso e potrebbe valere in futuro anche per l’Italia. C’è una sfera, quella delle “urgenze spirituali”, per cui la Messa è l’essenziale. Difficile, a logica, distribuire giudizi sulle reciproche richieste. Di sicuro, Oltralpe rischiano di nemicarsi buona parte dei cattolici. I cattolici francesi domandano di poter pregare in chiesa. E farlo da casa non ha lo stesso significato. Non serve essere degli esperti di dottrina per saperlo, dal momento che il rito e la comunità rappresentano pilastri fondamentali del mondo cattolico e non. Da una parte quindi risiedono queste richieste e queste sensibilità, dall’altra c’è la statistica sulle positività da Sars-Cov2: la Francia guida la classifica in Europa da qualche settimana, e la situazione non sembra migliorare in maniera sensibile. Emmanuel Macron ha di recente alzato il tiro sul da farsi. Ma i numeri non assecondano le velleità presidenziali. Ad oggi siamo attorno ai 25mila casi al giorno. Sullo sfondo di tutta questa storia c’è la battaglia che i cattolici francesi stanno combattendo per evitare che la tradizione transalpina scompaia dal contesto politico-culturale. La Francia è una nazione dove il tradizionalismo è sempre stato forte, ma tra la riforma bioetica promossa da Macron e dai suoi e la secolarizzazione cavalcante, con tanto di continui episodi relativi a violenze compiute contro luoghi o simboli della cattolicità, il quadro sembra mutare in direzione progressista ogni giorno che passa. Il clima di base, insomma, non è dei migliori. E questo blocco delle celebrazioni rischia di contribuire alla polarizzazione complessiva. Per comprendere meglio cosa stia accadendo Oltralpe, abbiamo voluto ascoltare l’opinione di padre Abbe Guy Pagès, che è esperto d’islam e non solo. Il consacrato sembra convinto della mancanza di logica delle scelte delle autorità francesi: “Il 7 novembre – esordisce il sacerdote francese – il Consiglio di Stato ha convalidato il divieto di assistere alla Messa. Tuttavia, questo divieto di culto non ha basi razionali: non solo costituzionalmente è una libertà fondamentale, ma ufficialmente ne rimangono altre. Libertà, come prendere la metropolitana, affollata e inquinata, o affrettarsi ai supermercati (mentre i nostri piccoli commercianti devono fare harakiri)”. Siamo dalle parti delle polemiche che abbiamo osservato anche in Italia: perché la Messa no ed altre eventuali sedi di aggregazione sì? Poi la questione posta dal sacerdote assume tratti di storicismo: “Ciò che si sta verificando è già successo quando Mosè ha chiesto al Faraone di consentire che il popolo ebraico lasciasse l’Egitto per andare nel deserto ad adorare Dio. Lo Stato moderno – afferma padre Abbe – , come il faraone, non conosce Dio e, per la prima volta dalla Rivoluzione francese, sfida il diritto fondamentale a adorare Dio”. Ecco che arriva il paragone: “Ora, proprio come i cristiani di Abitene durante la persecuzione di Diocleziano preferivano essere condannati a morte partecipando alla Messa proibita, così siamo costretti a scegliere tra adorare Dio e sottomettersi allo Stato. la libertà di culto – chiosa il consacrato – non è negoziabile: la salvezza vale più della salute”. Come interpretare la situazione, però, alla luce del diritto alla vita, che la cristianità difende sin dal suo concepimento e che la pandemia può minare alla base? Padre Abbe non ha dubbi neppure in questa circostanza: “Il ministro incaricato ad occuparsi dei culti ha cercato di giustificare il divieto di Messa sulla base del fatto che “la vita è più importante di ogni cosa”, ma il primo provvedimento preso durante la reclusione è stato di allungare l’aborto fino alla fine del gravidanza…”. L’esecutivo francese, insomma, sarebbe contraddittorio. E i cattolici, in specie quelli tradizionalisti, non hanno intenzione di rinunciare alle loro “urgenze”. 

Il separatismo islamista dilaga in Francia. Giovanni Giacalone su Inside Over il 28 febbraio 2020. La Francia si risveglia improvvisamente e prende consapevolezza del pericolo islamista interno al Paese, o almeno così sembra dalle recenti dichiarazioni del presidente Macron che ha addirittura utilizzato il termine “separatismo islamista” per riferirsi ad alcune zone della Francia dove gli islamici punterebbero all’autonomia, mettendo di fatto in discussione leggi e regole della “laïcité“. Macron è stato più che eloquente durante un intervento in Alsazia: “Il nostro nemico è il separatismo. Il separatismo islamista è incompatibile con la libertà e l’ uguaglianza, è incompatibile con l’ indivisibilità della Repubblica e la necessaria unità della nazione”. Il Presidente francese ha poi puntato il dito contro insegnanti di lingue straniere e imam, invitati dall’estero, senza alcun controllo da parte dello Stato e possibili fautori di messaggi contrari alla convivenza civile, religiosa e ai principi sui quali si fonda la Francia, ribadendo poi che nel Paese “non c’è spazio per l’islam politico”. Un messaggio chiaro per quelle branche islamiste che utilizzano la politica per cercare di infiltrare il sistema e promuovere usi e costumi estranei e incompatibili con il contesto socio-culturale francese.

L’allarme nelle periferie. Lo scorso gennaio Le Journal du Dimanche aveva reso noto un documento riservato proveniente dall’Intelligence, e inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti per un allarme “islamista” nelle periferie. Il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. Non sono coinvolte soltanto le principali città come Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa, ma anche quelle più piccole dove in precedenza non venivano segnalate derive radicali, un segnale chiaro che indica un fenomeno in espansione. La situazione risulta talmente problematica che la Ratp, l’azienda dei trasporti pubblici, ha dovuto assumere tra i propri dipendenti numerosi autisti provenienti dalle banlieue, alcuni dei quali palesemente islamisti, in quanto sono molti i dipendenti che si rifiutano di guidare i mezzi in queste zone per paura di essere aggrediti, come già avvenuto in più occasioni, non solo a dipendenti ma anche ai passeggeri. Nel maggio del 2019 ad esempio, una donna di origine magrebina non era stata fatta salire su un bus da un autista islamista con tanto di barbone che l’aveva rimproverata perché portava una gonna troppo corta. Molte di queste periferie sono diventate oramai zone dove lo Stato è pressoché assente, abitate in prevalenza da immigrati provenienti dal Nord-Africa e dall’Africa sud-sahariana, molti dei quali cittadini francesi da diverse generazioni, ma soltanto sulla carta. Sono aree dove la disoccupazione raggiunge livelli allarmanti, con un 40% generale e un 60% per quanto riguarda quella giovanile. Traffico e spaccio di stupefacenti, prostituzione, ricettazione, vandalismo, scontri tra bande, tutte attività che trovano terreno fertile nei giganteschi labirinti formati da palazzoni dove è facile nascondersi e “imboscare la merce”. Le forze dell’ordine cercano di entrare il meno possibile e, quando lo fanno, c’è sempre il rischio che scoppino rivolte come quelle del 2005 e del 2017. In molti di questi posti le attività commerciali prevalenti sono macellerie halal, negozi di articoli islamici, bar dove si fuma il narghilè, dove non si vendono alcolici e dove le uniche musiche che si sentono sono le litanie coraniche . Zone dove le donne escono poco e, se lo fanno, devono coprirsi. Vietati contatti tra uomini e donne, al punto che le coppie non possono più tenersi per mano. Sono le banlieue dove si è oramai infiltrato l’islamismo radicale e dove i punti di riferimento sono oramai le moschee, sempre più numerose, non soltanto nelle grandi città, ma anche in quelle medio piccole.

Le moschee aumentano e l’islamismo si infiltra su più livelli. Facendo una ricerca sulle moschee presenti sul territorio di grandi, medie e piccole città francesi, emergono dati più che eloquenti, come ad esempio nel quartiere Reynerie di Tolosa, dove in un’area di circa 2 km quadrati sono presenti ben quattro luoghi di culto islamici. Nel quartiere parigino di Saint-Denis, ben noto per l’elevato tasso di radicalizzazione, sono segnalate almeno sette moschee ufficiali. Ne vengono poi indicate diciannove a Marsiglia, venti a Lione, dodici a Nizza. Impressionante poi la densità di luoghi di culto islamici emersi nell’area che comprende le città limitrofe di Lilla, Roubaix e Tourcoing, ben trenta. Una di queste, presso Rue d’Anzin,nella periferia di Turcoing, porta il nome di “Ibn Taymiyya”, teologo vissuto a cavallo tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo D.C. e divenuto figura di riferimento degli estremisti islamici per il suo fanatismo e il suo richiamo al jihad. Edificio di un piano, in mattoncini rossi, con un semplice cartello all’esterno che si nota appena, passa pressochè inosservato in una zona non particolarmente vivace. Ci sono poi le otto moschee di Trappes, periferia a sud-ovest di Parigi con 32 mila abitanti e le sette di Avignone, “città dei Papi” sempre meno cristiana. Il problema dell’espansione islamista tocca però anche le campagne, con villaggi abitati da soli musulmani e “guidati”, per modo di dire, da figure religiose, come nel caso di Mohammed Zakarya Chifa a Chateauneuf sur-Cher. Il fenomeno è di per sè abbastanza semplice: musulmani stufi di vivere nelle dense zone periferiche delle grandi città, si spostano in provincia e danno vita ad agglomerati abitativi che rischiano però di diventare delle vere e proprie enclaves salafite simili a quelle già presenti in Bosnia, con tutte le relative potenziali conseguenze. Intanto l’islamismo radicale si muove su due fronti: quello sociale, attraverso l’assistenza a chi è economicamente in difficoltà, tramite la distribuzione di beni di prima necessità e quello politico, con ambienti legati alla Fratellanza Musulmana che moltiplicano i gruppi di pressione e liste elettorali con l’obiettivo di infiltrare il sistema politico tramite i suoi meccanismi democratici per poi imporre regole di stampo islamista. Nulla di nuovo, visto che la strategia dei Fratelli Musulmani è notoriamente quella dell’infiltrazione sociale, politica e mediatica. Vi sono poi le scuole islamiche che operano illegalmente in territorio francese, come quella “primaria” del quartiere Mirail a Tolosa, con bambine che già a 9 anni venivano obbligate a portare il velo e con l’educazione civica che veniva messa da parte per far spazio all’insegnamento dell’Islam. Un tribunale francese ne ordinava l’immediata chiusura (dopo 3 anni di attività) e con il direttore e imam, Abdelfatah Rahhaoui, che veniva arrestato per apertura illegale di una scuola, insegnamento non conforme e maltrattamento su minori. Sorge però spontaneo chiedersi quante altre “scuole” del genere sono presenti oggi in territorio francese. Intanto l’islamismo d’oltralpe avanza, quello della separazione tra “halal” e “haram”, tra lecito e illecito, tra credenti e miscredenti. Quell’islamismo che vuol creare spazi “islamicamente puri” in paesi non islamici e che sfrutta il vuoto lasciato dallo Stato e quei meccanismi democratici che gli permette di infiltrarlo per poi corroderlo dall’interno. Un problema serio che è divenuto argomento del professor Bernard Rougier, docente presso la Sorbonna, con il libro “Les territoires conquis de l’islamisme”, nel quale vengono presi in esame alcuni aspetti tra cui la capacità degli islamisti di infiltrare i quartieri delle classi operaie delle città francesi e belghe e le modalità comunicative per la divulgazione ideologica. Del resto è bene ricordare che dalla Francia sono partiti quasi 2 mila volontari per unirsi ai jihadisti dell’Isis e di al-Qaeda in Siria e Iraq.

·        La Cina e la Religione.

Il Vaticano ringrazia la Cina e spacca la Curia. Marco Gombacci su Inside Over il 4 maggio 2020. Il riavvicinamento storico tra Vaticano e Cina non smette di creare polemiche. Ora il terreno di scontro è la “diplomazia degli aiuti” della Cina verso i Paesi europei per soccorrere le nazioni più colpite dall’epidemia Covid-19. Tra fine marzo ed inizio aprile, Pechino ha inviato alla Santa Sede importanti aiuti sanitari per le popolazioni colpite dal corona virus. Le mascherine, guanti chirurgici, tute ed occhiali da protezione sono stati distribuiti in Vaticano, al policlinico Gemelli a Roma, nell’arcidiocesi di Milano e in Lombardia, epicentro della pandemia in Italia. Per ringraziare questo gesto, il direttore della Sala Stampa vaticana Matteo Bruni ha dichiarato: “la Santa Sede apprezza il generoso gesto ed esprime riconoscenza ai Vescovi, ai fedeli cattolici, alle istituzioni e a tutti gli altri cittadini cinesi per questa iniziativa umanitaria, assicurandoli della stima e delle preghiere del Santo Padre”.

Le critiche del Cardinale Burke. Ma queste parole non sono state ben accolte dal Cardinale americano Raymond Leo Burke che ha fatto immediatamente notare come il Vaticano si sia affrettato a ringraziare la Cina ma abbia invece taciuto sull’aiuto ricevuto da Taiwan, l’arci-nemica cinese, considerata da Pechino parte del proprio territorio e non uno stato indipendente. Il governo di Taipei aveva donato 280mila mascherine al Vaticano in segno di solidarietà per la loro storica vicinanza poiché la Santa Sede è l’unico Paese in Europa a riconoscere ufficialmente Taiwan, dimostrazione della fedeltà di Taipei alla Chiesa cattolica e alla Santa Sede, sin dai tempi di Mao. “La Santa Sede ha ragione a ringraziare la Cina per gli aiuti ricevuti ma mi spiace notare che non abbia ringraziato pubblicamente anche Taiwan per l’importante sostegno dato,” ha detto il Cardinale Burke al The Australian. “C’è qualcosa di enormemente sbagliato in questo comportamento. Sembra che la Cina occupi una posizione privilegiata all’interno del Vaticano,” ha continuato il Cardinale.

L’accordo tra Vaticano e Cina. Nel settembre 2018, la Santa Sede e il governo cinese hanno siglato un “accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi” in una mossa diplomatica volta a riaprire un dialogo tra la superpotenza asiatica e il Vaticano interrotto nel 1951 dopo la presa del potere di Mao. Con l’accordo di fatto si regola la nomina dei vescovi in Cina lasciando l’ultima parola alla Santa Sede. I detrattori di questo accordo hanno evidenziato come si desse il potere effettivo di nomina dei vescovi alla Chiesa “ufficiale”, controllata dall’”Associazione patriottica cattolica cinese” che mantiene un rapporto di collaborazione con il regime comunista e che ha il compito di controllo sulle attività dei cattolici cinesi, lasciando la Chiesa “clandestina” abbandonata al proprio destino. Questa intesa, non ancora disponibile al pubblico, ha suscitato non pochi malumori all’interno delle mura vaticane. “L’accordo del 2018 è di fatto un disconoscimento delle sofferenze di innumerevoli fedeli cristiani cinesi che sono state vittime della crudele persecuzione del governo comunista,” ha commentato il Cardinale Burke in merito all’accordo. Anche il Cardinale emerito di Hong Kong Joseph Zen ha definito questo accordo un “tradimento” e “una resa al regime comunista”. “Il Papa ha una certa simpatia per i comunisti perché in America del Sud essi sono visti come bravi ragazzi che lottano per la giustizia sociale. Ma non in Cina dove i comunisti sono degli oppressori e qualsiasi accordo con loro è senza speranza. Non possiamo pensare che i comunisti si fermeranno nelle loro persecuzioni religiose. Prima potevamo sperare nell’aiuto del Vaticano ma ora nemmeno più in questo,” ha dichiarato sull’accordo il Cardinale Zen. Il Vaticano e soprattutto il Segretario di Stato Pietro Parolin hanno voluto fortemente concludere l’accordo auspicato da Papa Francesco per “creare quelle condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale con l’auspicio che tale intesa possa favorire un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale e contribuisca positivamente alla vita della Chiesa cattolica in Cina”, come si poteva leggere in una nota vaticana.

I cristiani perseguitati in Cina. L’intenzione vaticana di dialogare con la Cina ha provocato reazioni molto negative. “In Cina la vita dei cristiani è divenuta più difficile dopo l’entrata in vigore, il 1° febbraio 2018, del nuovo Regolamento sugli Affari religiosi che ha ulteriormente limitato la libertà di fede. Il Partito Comunista ha vietato gli insegnamenti religiosi ‘non autorizzati’, mentre gli sforzi per ‘sinicizzare’ le credenze religiose proseguono a ritmo sostenuto,” ha dichiarato Alessandro Monteduro, presidente della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre a La Stampa. In seguito alle polemiche suscitate dal mancato ringraziamento a Taiwan, in occasione di una seconda donazione di generi alimentari per i più bisognosi proprio del governo di Taipei, l’Elemosiniere di Sua Santità Konrad Krajewski ha voluto ringraziare “profusamente Taiwan e il suo ambasciatore presso la Santa Sede Metthew Lee per la generosità dimostrata,” come riportato dall’Avvenire.  Mettendo così fine alla polemica.

Da Pechino la «revisione» dei testi sacri: ora  il Vangelo è secondo Xi. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Durante la Rivoluzione culturale di Mao il governo cinese pensò di sradicare anche la religione, ora l’obiettivo è diverso e più sottile: «Bisogna creare una teologia con caratteristiche cinesi», ha detto Wang Yang, membro del Comitato permanente del Politburo e responsabile per la supervisione sulle fedi riconosciute dal Partito-Stato. Come? «Dopo una valutazione completa dei classici religiosi, si dovranno individuare i contenuti non conformi e procedere alle necessarie modifiche e aggiustamenti nella traduzione cinese», ha detto il compagno Wang in una riunione di leader confessionali e politici riassunta dall’agenzia ufficiale Xinhua. Si tratta in pratica di correggere le parti «non conformi» di Bibbia, Vangeli, Corano, testi buddisti e taoisti. Il Partito, che impone l’ateismo ai suoi membri, riconosce infatti cinque culti religiosi: Buddismo, Taoismo, Cristianesimo protestante e cattolico e Islam. Ma vuole essere sicuro che i valori portati dalle fedi non illudano le masse: «La Cina è sotto il controllo del Partito comunista, che è più grande di Dio», predicano i funzionari nelle province dell’impero. Riscrivere le sacre scritture si inquadra nella campagna di «sinizzazione» dei movimenti religiosi lanciata nel 2015 da Xi Jinping: il piano prevede di allineare le fedi alla cultura cinese e all’autorità assoluta del Partito. Xi ha messo in guardia dai «valori e dall’ideologia occidentale» (cristianesimo) e dall’«estremismo» (Islam) e ha ordinato a tutti i fedeli di ogni confessione ammessa di essere anzitutto «patriottici». Nel simposio diretto dal membro del Politburo a novembre è stato convenuto di «reinterpretare i testi che non sono adeguati alle esigenze della nuova epoca, correggere, cambiare le traduzioni», ha riassunto la Xinhua. La nuova epoca è quella di Xi Jinping, che nel 2018 ha fatto inscrivere nella Costituzione il suo «Pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era». E il presidente, nonché segretario generale del Partito ora spinge gli esperti a emendare Bibbia e Corano, di fatto ispirando la scrittura di un Vangelo secondo Xi. «Il Partito comunista è una setta e vede buddismo tibetano, cristianesimo e islamismo come ideologie rivali, la stretta nel controllo tradisce la paura che la società gli sfugga di mano», ha detto al Figaro lo storico indipendente Zhang Lifan. La Xinhua non spiega come sarà messa in pratica la correzione delle scritture, ma in alcune chiese sono già stati affissi manifesti che ricordano ai fedeli i valori socialisti, dall’eguaglianza alla prosperità, all’armonia e al patriottismo. E sotto la parola Patriottismo è stato inserito un brano di San Pietro intitolato «Sottomissione all’autorità», dice Ying Fuk-tsang, specialista di religione alla Chinese University of Hong Kong. Il Vangelo secondo Xi prende forma proprio mentre Vaticano e Pechino debbono prorogare l’accordo sulla nomina dei vescovi firmato nel 2018. Un’intesa che una parte della Chiesa cattolica in Cina ha vissuto come un cedimento della Santa Sede e un tradimento nei confronti del clero che per decenni ha compiuto la sua missione clandestinamente, resistendo alla repressione statale. Ha detto al Corriere Joseph Zen, cardinale emerito di Hong Kong: «A fine giugno è arrivato il colpo di grazia: con l’intestazione Santa Sede, senza indicare il dipartimento, senza firma, è stata emanata una guida pastorale che chiede al nostro clero in Cina di sottomettersi alla Chiesa Patriottica controllata dal governo. Sottoscrivere, magari protestando, consigliava quel testo. Ma non sta in piedi, secondo la morale cattolica, è un documento subdolo». Zen, 87 anni, vecchio combattente anticomunista, sostiene che il Papa è manipolato, non informato correttamente da chi gli sta intorno.

Carlo Pizzati per “la Stampa” il 23 dicembre 2019. È finita con spruzzate di spray al peperoncino, cariche violente e arresti, la protesta dei manifestanti di Hong Kong in difesa dei diritti della popolazione Uigura, due realtà ai margini geografici del colosso cinese, ma al centro dell' attenzione mondiale. Sono due grandi tematiche che si riuniscono e che finiscono sotto i manganelli dei poliziotti di Hong Kong i quali, al termine di una marcia pacifica di mille persone che ieri pomeriggio hanno sfilato con calma in una piazza affacciata sul porto di Hong Kong, sono passati ai metodi violenti. Dozzine di agenti hanno invaso la piazza per rimandare a casa i manifestanti, che a quel punto hanno abbandonato i metodi pacifici lanciando bottigliette di vetro e sassi. Così la polizia ha caricato, buttando a terra i manifestanti, pigiandoli sotto il peso del proprio corpo, lanciando spray urticante e facendo scattare le manette, in una serie di scene cruente cui ormai il mondo si è lentamente abituato in questi 7 mesi di proteste che dilaniano la metropoli asiatica, causando seri danni all' economia, compresa un' imminente ondata di chiusure di esercizi commerciali. La protesta di domenica presenta una novità rilevante. Hong Kong chiama lo Xinjiang. Una realtà che resiste all' assimilazione da parte di Pechino sfila in solidarietà di un' altra che, nell' estremo Nordovest del paese, viene schiacciata sotto il tallone dell' oppressione. Lo ha ricordato ieri la folla di manifestanti, per la gran parte anziani vestiti di nero e con il viso mascherato per eludere il riconoscimento delle telecamere. I loro cartelli dicevano: «Liberate gli Uiguri, liberate Hong Kong» e poi «In Cina la falsa autonomia porta al genocidio». A far riemergere l' importante tematica degli Uiguri, oltre alle inchieste dei media occidentali sui cosiddetti campi di rieducazione dove i musulmani Uiguri vengono costretti ad abbandonare le proprie tradizioni, la propria lingua e la propria cultura in nome di una nazionalizzazione centralista imposta con metodi molto duri da Pechino, è stato anche il centrocampista dell' Arsenal Mesut Ozil, giocatore tedesco con radici turche che ha di recente criticato non solo la politica cinese verso la propria minoranza musulmana, ma anche il relativo silenzio della comunità musulmana mondiale. Gli Uiguri, ha detto Ozil «sono guerrieri che resistono alla persecuzione». Secondo i dati Onu, dal 2017 sono almeno un milione gli Uiguri e le altre minoranze musulmane dello Xinjiang rinchiusi in campi di concentramento in una campagna di rieducazione repressiva che è stata criticata sia dagli Stati Uniti che dall' Europa. Ma la campagna rieducativa di Pechino non sembra rallentare. Ora i manifestanti di Hong Kong approfittano dell' attenzione mondiale per la loro battaglia per conservare un po' di autonomia da Pechino, come previsto dall' accordo firmato nel 1997 quando la Gran Bretagna abbandonò l' ex colonia, e puntano il dito verso una repressione ancora più dura, lassù al nord, nello Xinjiang degli Uiguri. Così ora il governo cinese si trova ad affrontare il problema di una recessione economica in cui è stata spinta Hong Kong dal protrarsi degli scontri, e dal caso degli Uiguri che non accenna a essere dimenticato, ma anzi si risveglia sotto i riflettori di Hong Kong e degli stadi più famosi d' Europa, grazie anche all' impegno di un calciatore-star.

·        I Buddisti.

Raimondo Bultrini per “la Repubblica” il 13 agosto 2020. Narra la leggenda che quando tra il 563 e il 620 avanti Cristo la regina Maya Devi diede alla luce il pargolo divenuto celebre come Buddha, lei stava andando alla casa dei genitori a Devadaha, attuale municipalità nell' omonimo distretto del regno del Nepal. Le doglie erano però troppo forti per completare i 7 chilometri del tragitto dalle foreste di Lumbini e la partoriente afferrò i rami di un albero sotto al quale venne alla luce un pargolo che invece di emettere un vagito le annunciò: «Questa è la mia rinascita finale» e fece subito sette passi «sotto ognuno dei quali - dice la tradizione - sbocciò un fiore di loto». Centinaia di studiosi hanno cercato di trovare le prove storiche, affidate soprattutto a un pilastro eretto a Lumbini due o tre secoli dopo dal re buddhista indiano Ashok, del vero luogo di nascita. E la polemica scolastica si è trasferita più volte sul piano politico. L'ultimo confronto a livello diplomatico è di pochi giorni fa, quando il ministro indiano degli Esteri, Jaishankar, ha detto che Gautama Buddha e Mahatma Gandhi sono ricordati come «i due più grandi indiani di sempre». Memore dell'"offesa" contenuta in una mappa storica dei cartografi di Delhi dove Lumbini veniva fatta ricadere dentro i vecchi confini indiani nell' area di Sarayupar, il corrispettivo ministro del Nepal ha fatto dire al suo portavoce che «è un fatto consolidato e innegabile» che Buddha fosse nato su terra nepalese. Lumbini «è la sorgente del buddhismo e uno dei siti del patrimonio mondiale dell' Unesco», ha spiegato indignato, ricordando che lo stesso premier indiano Narendra Modi nel 2014 disse testualmente: «Il Nepal è il Paese in cui è nato l' apostolo della pace nel mondo, Buddha». Ne è seguita una veloce retromarcia del governo di Delhi: «Le osservazioni del ministro si riferivano alla nostra eredità buddista condivisa. Non c' è dubbio che Gautama Buddha sia nato a Lumbini, che è in Nepal». La battuta del ministro indiano, pure stemperata dalle precisazioni successive, è parte di un conflitto diplomatico che ha delicati risvolti geopolitici. Per questo la polemica sul luogo di nascita del Buddha «è un falso problema», secondo il professor Claudio Cicuzza, ex direttore dell' Istituto internazionale di ricerca di Lumbini. I confini antichi - spiega - erano spostati continuamente, «perfino di giorno in giorno e nessuno può dire veramente se Lumbini fosse un villaggio nepalese o indiano. Personalmente tendo a considerare Lumbini una località del Nepal, ma nessuno per molti secoli si era mai posto problemi del genere, considerando che il principe Gautama della dinastia Sakya divenne tale in India, "illuminandosi" sotto il celebre albero di Bodhgaya. Con la fine del regno buddhista di Ashoka e il ritorno al potere del brahmanesimo induista, il grande continente non fece molto per reclamare l' indianità del Buddha ». Per i devoti buddhisti questo ritorno di fiamma è comunque valutato come un fatto positivo e «la contesa sulle origini del grande saggio - dice un dirigente dell' Unione buddhista italiana - rende onore a una delle figure storiche e spirituali più importanti dell' umanità».

Pisa, nasce in Toscana il monastero buddista più grande d’Europa. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Gasperetti. Ci sono voluti undici anni per trasformare in realtà il sogno dei buddisti italiani. O meglio la burocrazia ha impiegato più di due lustri per dare il via libera al primo monastero buddista tibetano del Terzo Millennio, il più grande d’Italia e probabilmente d’Europa. Sorgerà a Pomaia, località sulle colline pisane (Comune di Santa Luce) e sarà l’esempio solenne di «karma positivo» (per i buddisti un’azione buona che apre altri sviluppi benefici), non solo per i «tibetani», ma anche per le altre comunità e per i piccoli gruppi zen che da anni seguono i principi del principe Siddharta. A Pomaia da anni sorge un istituto buddista (Lama Tzong Khapa). Seduti davanti a un tavolo, sindaco di Santa Luce, presidente della provincia e assessore regionale, hanno firmato la conclusione dell’iter che ha determinato anche una variante del piano regolatore e dunque autorizzato la costruzione del tempio in una ex cava, un luogo che nel 2014 il Dalai Lama aveva visitato (con lui anche l’attore Richard Gere) e aveva benedetto. «Finalmente dopo tanto attendere, l’iter burocratico e urbanistico si è concluso», commenta Manuela Ferro, responsabile della comunicazione dell’Istituto Lama Tzong Khapa. «Ora inizierà la fase della realizzazione del monastero di cui si occupa l’associazione di monaci e monache Sangha Onlus». I costi saranno interamente finanziati dalla comunità buddista e dunque non ci sarà alcun contributo pubblico. Il terreno è già stato acquistato dai monaci che, per far diventare realtà il sogno, hanno fondato un’associazione monastica, la Sangha Onlus appunto, separata dall’Istituto Lama Tzong Khapa, fondato nel 1977 e visitato dal Dalai Lama, ma composta dagli stessi religiosi. Il progetto, firmato da Gino Zavanella, uno dei più grandi architetti italiani e autore dello Juventus Stadium, e dall’architetto toscano Mauro Ciampa, è già pronto, con tanto di piano di fattibilità. Sono state compiute alcune modifiche per armonizzare l’edificio nel panorama delle colline pisane. Zavanella, simpatizzante dei buddisti, ha accettato l’incarico anche per una questione di novità. Una volta inaugurato, infatti, la struttura sarebbe la prima in assolto: in Italia ci sono da tempo centri di meditazioni ma non un monastero. In realtà i monasteri saranno due, anche se si può parlare di ali di uno stesso edificio. Quella dei monaci e quella delle monache e le cucine. Poi sarà realizzato il tempio, la biblioteca e la residenza dell’abate, il monaco responsabile. Tutto sarà realizzato a piccoli lotti, in modo graduale, correggendo eventualmente alcune soluzioni per rendere il monastero ancora più integrato nel paesaggio se ci sarà bisogno. Anche l’istituto Lama Tzong Kapa, il centro attualmente in funzione, potrebbe essere interessato da un progetto di ampliamento con una grande sala dedicata alla meditazione. In passato un incendio devastante distrusse infatti la sala della meditazione.

·        La Chiesa sposa l'ecologismo.

Da open.online il 12 settembre 2020. Tre colloqui con Jorge Bergoglio: è questo il contenuto del libro TerraFutura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale dello scrittore e fondatore di “Slow Food” Carlo Petrini. Un viaggio nell’ecologia e nell’ambientalismo. Ma non solo. Nel testo, Papa Francesco parla dei piaceri della vita. E tra questi, oltre al buon cibo, ci sono anche i rapporti sessuali: «Il piacere di mangiare è lì per mantenerti in salute , proprio come il piacere sessuale c’è per rendere più bello l’amore e garantire la perpetuazione della specie», dice il papa, definendoli piacere "divini". «Il piacere arriva direttamente da Dio, non è né cattolico, né cristiano, né altro, è semplicemente divino», racconta Francesco a Petrini. «Non c’è posto per una moralità troppo zelante che neghi il piacere», aggiunge il pontefice, ammettendo che in passato la Chiesa ha insistito su questa «interpretazione sbagliata del messaggio cristiano». Punti di vista opposti «hanno causato un danno enorme, che in alcuni casi può ancora essere sentito fortemente oggi», dice Bergoglio. «Il piacere di mangiare e il piacere sessuale vengono da Dio». Non è la prima volta che il Papa esprime queste posizioni sul tema.

Il Papa sdogana i piaceri "della carne": "Arrivano direttamente da Dio". Papa Francesco, in una delle sue ultime riflessioni, ha scagliato un attacco contro la "morale zelante" che demonizza il piacere. Francesco Boezi, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Questa volta neppure i tradizionalisti hanno sollevato polemiche. Per la Chiesa, e grazie a papa Francesco, è l'ora di fare i conti con i "rigidismi" di una morale sessuale accusata di aver demonizzato il piacere. Quello che Jorge Mario Bergoglio ha scritto nell'ultimo libro di Carlo Petrini era già stato annunciato dallo stesso pontefice un paio d'anni fa: "Niente tabù. È un dono di Dio, un dono che il Signore ci dà", aveva intimato il pontefice. Il ragionamento è sempre lo stesso, mentre il soggetto, oggi come allora, è la "sessualità". Anzi, nell'ultimo caso di specie, più precisamente il "piacere". Non c'è neppure bisogno di spiegare troppi perché. Certo, c'è "il contesto di vero amore" di catechetica memoria e permangono anche tutte le indicazioni successive di quel testo, compresa la castità pre-matrimoniale, ma il piacere non è la vittima di un divieto. E la fobia della sessualità, sempre nel caso sia mai appartenuta all'Ecclesia, è solo un ricordo lontano. E allora chi leggerà TerraFutura, dialoghi con papa Francesco sull'ecologia integrale, che è edito da Giunti, troverà scritto che: "Su questo non sono d’accordo: la Chiesa ha condannato il piacere inumano, rozzo, volgare, ma al contrario il piacere umano, sobrio, morale lo ha sempre accettato. Il piacere arriva direttamente da Dio, non è cattolico nè cristiano nè altro, semplicemente è divino". Non è uno sdoganamento né un'ammissione di colpe legata ad un'antica morale che non esiste più, ma sono il linguaggio e la capacità comunicativa dell'ex arcivescovo di Buenos Aires a stupire in questo caso. E allora qual è la funzione di questo "piacere", che tanto sarebbe stato stigmatizzato da interpretazione oscurantiste della dottrina? "Il piacere di mangiare è lì per mantenerti in salute , proprio come il piacere sessuale c’è per rendere più bello l’amore e garantire la perpetuazione della specie", ha riflettuto il pontefice argentino, così come riportato pure su Open. La ricezione dei più non può che essere positiva, ma il passaggio focale è un altro. Ad un certo punto, l'ex arcivescovo di Buenos Aires delimita il campo delle responsabilità: "Non c’è posto per una moralità troppo zelante che neghi il piacere". Il fatto è che quella "morale zelante", nella disamina papale, ha un luogo di residenza piuttosto specifico: un'"interpretazione sbagliata del messaggio cristiano". L'accusa è passata in secondo piano, ma sembra che Bergoglio abbia rintracciato nella rigidità di certe esplicazioni dottrinali la radice di qualche distorsione concettuale (e dunque esistenziale). Quella che avrebbe portato, appunto, alla diffusione della sessuofobia. Tutto questo avviene mentre in alcuni ambienti episcopali viene alimentata la dialettica sul da farsi sul celibato sacerdotale. Non è un mistero: i progressisti pensano che la ristrettezza delle regole abbia degli effetti negativi sulla vita interna della Chiesa cattolica. Francesco, per ora, non ha assecondato quelle velleità, ma è chiaro che questo è anche il papa della battaglia contro i "rigidismi". Non ci si dimentichi poi del cibo. Anche qui non bisogna relativizzare: non è la fame edonica quella che Bergoglio tutela, bensì il "piacere di mangiare", che è tutta un'altra storia. La sfera che Francesco sta rivisitando, forse, è quella del "peccato". Sesso e peccato, in disamine teologiche che hanno evidentemente avuto qualche successo, sono stati equiparati o comunque accostati con una certa continuità. Bergoglio non sta sconvolgendo la morale sessuale cristiano-cattolica, ma sta allontanando gli spettri di un'omologazione (quella tra sessualità e peccato) che, anche in punto di dottrina, non ha senso d'esistere. Attenzione però: Bergoglio non ha "sposato" la morale sessuale della società contemporanea. Nel 2018, in un discorso tenuto presso la Sala dei papi, il vescovo di Roma ha chiarito che la dimensione reale dell'amore è sempre quella che conduce ad "Una caro", una sola carne: "E si deve vivere la sessualità così, in questa dimensione: dell’amore tra uomo e donna per tutta la vita. È vero che le nostre debolezze, le nostre cadute spirituali, ci portano a usare la sessualità al di fuori di questa strada tanto bella, dell’amore tra l’uomo e la donna. Ma sono cadute, come tutti i peccati. La bugia, l’ira, la gola… Sono peccati: peccati capitali. Ma questa non è la sessualità dell’amore: è la sessualità “cosificata”, staccata dall’amore e usata per divertimento...".

Il trito ritornello della “sessuofobia cristiana”: salvezza socio-sanitaria per miliardi di persone. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 12 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Per favore: basta con questa atroce banalità della “chiesa sessuofobica che per secoli ha caricato la gente di sensi di colpa”. Questo stucchevole ritornello da massoneria romanesca primi ‘900 è stato appena ritirato fuori dalla stampa di sinistra per l’intervento di Bergoglio nell’ultimo libro di Carlo Petrini, guru dello slow food in fricassea progressista. Petrini è uno di quei – laicissimi - sacerdoti della gastronomia che venerano l’Aglio di Sulmona, si fanno benedire col Balsamico di Modena e vorrebbero essere sepolti nella fossa del Pecorino di fossa. Eppure Francesco, che non disdegna di familiarizzare con esponenti di mondi antitetici al Cattolicesimo, ben volentieri si è prestato a scrivere anche nel libro di costui alcuni concetti che, a interpretarli correttamente, non sono affatto una novità, come qualcuno vorrebbe presentarli. Quella che viene sbandierata come l’ennesima “apertura rivoluzionaria” operata da Bergoglio, in realtà èun concetto ben noto per i cattolici: il godimento dei sensi è un dono di Dio anche se l’uomo è tenuto a beneficiarne in modo non distruttivo o peccaminoso. “Il piacere di mangiare è lì per mantenerti in salute – scrive Francesco - proprio come il piacere sessuale c’è per rendere più bello l’amore e garantire la perpetuazione della specie”. Frasi che proferite oggi in una cultura come la nostra - non proprio assimilabile a quella dell’Inghilterra vittoriana - forse non cascano propriamente a fagiolo: magari potrebbero essere interpretate dai media come un "liberi tutti" (così, infatti, sta avvenendo). Non sappiamo se e come, nel volume di Petrini, Francesco specifichi come il piacere del sesso sia da considerarsi “all’interno del vincolo coniugale e senza artifici anticoncezionali”, come prescrive la dottrina. Del resto, anche il piacere del cibo, ad essere pignoli, sarebbe da intendersi in una “dieta salutare”. E questo possono condividerlo anche i non credenti. Come infatti recita il vecchio adagio, purtroppo, le cose più buone o sono proibite, o sono immorali o fanno ingrassare. Ma il tema di questo articolo è che la cosiddetta sessuofobia cristiana, che è stata cento volte più oppressiva nelle puritane chiese protestanti, aveva senz’altro una sua validissima ragione di essere NON DAL PUNTO DI VISTA RELIGIOSO, (che i laici giustamente possono non condividere) ma da quello SANITARIO E SOCIALE. Eh già. Ci si dimentica sempre che efficaci metodi anticoncezionali, precauzioni sanitarie contro le malattie veneree, assistenza sociale, educazione sessuale sono conquiste recentissime, di pochi decenni fa. Negli ultimi duemila anni di storia occidentale, masse analfabete di miliardi di persone in Occidente hanno vissuto in povertà, in promiscuità, senza cognizioni precise sulla riproduzione, con una medicina che curava le malattie con la carne di vipera (la famosa Theriaca) o con la polvere di mummia ancora fino ai primi del ‘900. All’ospedale Santo Spirito di Roma, il più antico del mondo, ancor oggi si conserva la “ruota degli esposti”, uno sportello rotante che dal Medioevo, consentiva alle ragazze madri di affidare alle suore il piccolo, senza macchiarsi di infanticidio e senza procurarsi aborti. Nella Città eterna, ovunque, sorgevano ospizi e conservatori per orfanelli, giovani ingravidate senza essere sposate ed ex prostitute, anche se paradossalmente Roma era la capitale europea col più alto numero di meretrici. Per non parlare delle malattie veneree. Basti citare solo il flagello della sifilide che, subito dopo la scoperta dell’America, divampò in tutta Europa producendo inenarrabili sofferenze a milioni di uomini e donne. A fine ‘400, Alessandro Benedetti, un medico veneziano descriveva i malati che avevano perso gli occhi, le mani, il naso, i piedi: «Tutto il corpo acquista un aspetto così ripugnante, e le sofferenze sono così atroci, soprattutto la notte, che questa malattia sorpassa in orrore la lebbra, generalmente incurabile, o l’elefantiasi, e la vita è in pericolo». Peraltro, spessissimo, venivano contagiate dai mariti libertini mogli innocenti e spose fedeli, che potevano essere ripudiate finendo in mezzo a una strada. Insomma, tragedie, su tragedie, su tragedie. Questo giusto per dare un rapido affresco. Ecco, allora immaginiamo se, come vorrebbero alcuni, in un contesto sociale del genere, la gente si fosse messa anche a inseguire l’amore libero come a Woodstock. “Sessuofobia? Ce ne è stata troppo poca”. Questo direbbero - se potessero comunicare con noi – i fantasmi di coloro che furono malati, figli orfani, neonati abortiti o abbandonati, mogli ripudiate, persino fedifraghi assassinati, tutte vittime di una “libera” espressione del SESSO SENZA REGOLE in un passato privo dei mezzi e delle conoscenze attuali. Quindi la sessuofobia, la paura del peccato sessuale e dell’inferno era senz’altro uno dei più efficaci SISTEMI DI CONTENIMENTO per le catastrofi di cui sopra. In sostanza, la stessa preoccupazione che oggi molti nutrono per la propria bellezza e salute fisica - che assume a volte dei tratti fobici - all’epoca era declinata sulla salute dell’anima. Ma ne guadagnava anche quella del corpo. E’ vero: ci sono state persone che hanno vissuto isterie, nevrosi o altri problemi psicologici per questo tipo di restrizioni culturali. Ma vogliamo paragonare i drammi interiori dei pazienti di Freud con i numeri delle catastrofi citate? Pertanto, quegli stessi intellettuali laici che fanno mostra di avere tanto a cuore la storia sociale dei più deboli, delle donne, delle classi meno abbienti, dovrebbero piuttosto accusare la Chiesa DI NON ESSERE STATA ABBASTANZA SESSUOFOBICA.

La Chiesa sposa l'ecologismo: ecco l'ultima mossa del Papa. Papa Francesco sta disegnando il mondo che verrà: il 2021 della Chiesa sarà dedicato all'ambientalismo. La Chiesa sposa il politicamente corretto. Francesco Boezi, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. La pandemia da Sars-Cov2 impone un ragionamento sul domani: bisogna occuparsi non solo del mondo per com'è ma anche del mondo per come dovrà essere. Papa Francesco ha le idee piuttosto chiare. Non siamo - come umanità - ancora fuori dal guado pandemico, ma il pontefice argentino ha già immaginato il futuro del globo terrestre: un avvenire di tutela per le periferie economico-esistenziali, una prospettiva di garanzie per i migranti ed un sistema economico in grado di assottigliare le differenze, redistribuendo la ricchezza e modificando magari in parte il concetto di "lavoro" anche mediante l'introduzione di una forma di reddito universale. Tutto questo, però, per la Chiesa cattolica andrebbe predisposto sulla scia di Laudato Sì, la prima eniclica ambientalista della storia ed il vero paradigma di riferimento per i tempi cui andiamo incontro in qualità di creature. La notizia è di oggi: Papa Francesco, in occasione della quinta ricorrenza della pubblicazione di quella enciclica, ha indetto quello che Vatican News definisce "un intero anno speciale di riflessione sulla cura del creato". Jorge Mario Bergoglio, dopo il Sinodo panamazzonico, ha optato ancora per l'"ecologia integrale", la tutela del globo terrestre, l'ambientalismo e le sue sfaccettature dottrinali. Nell'ottobre del 2019, abbiamo assistito a numerose critiche. Dalla questione della Pachamama ai presunti rischi comportati dall'introduzione del culto della madre Terra (il Vaticano ha sempre smentito il fatto che la dottrina sia stata contaminata dagli idoli, dalla prassi e dalle usanze dei popoli primitivi) nella civiltà cristiano-cattolica: i tradizionalisti all'epoca si sono scatenati. Ma l'ecologia è ormai entrata di diritto nel lessico clericale. Tanto che nel corso della mattinata di oggi è stata presentata pure una preghiera ad hoc. Una supplica che i fedeli potranno recitare partendo da oggi ed arrivando sino al 24 maggio del 2021: "Ora più che mai, che possiamo sentire di essere tutti interconnessi e interdipendenti - si legge in uno dei passaggi - , fai in modo che riusciamo ad ascoltare e rispondere al grido della terra e al grido dei poveri". La diffusione del nuovo coronavirus ci ha di sicuro rammentato di far parte di un sistema molto complesso. Le "cattive notizie avvolte in proteina" - per usare un'espressione del premio Nobel Peter Medawar - hanno riportato in auge il tema della convivenza tra esseri viventi e microrganismi, viventi o no che siano questi ultimi, che peraltro ci precedono dal punto di vista storico-temporale. La lettura dell'interconnessione tra organismi, che è propria della scienza e che è stata integrata dall'ideologia ecologista - basta leggere le ultime dichiarazioni di Greta Thunberg per accorgersene - è stata sposata anche dalla Chiesa cattolica. E questa, rispetto ai precedenti storici, rappresenta già una novità. La Chiesa che, per la prima volta nella storia delle pandemie, ha rinunciato alla presenza fisica tra i fedeli (non sono state organizzate le cosiddette "processioni purificatrici" a parte qualche isolato caso. Processioni che hanno fatto parte delle cronache legate alle epidemie ed alle pestilenze di un passato meno consapevole delle origini dei virus ) e che, adagiandosi sulle norme delle autorità istituzionali laiche, ha deciso di sospendere le Messe con la partecipazione del popolo, con tutte le polemiche e le rivendicazioni che ne sono conseguite, ha scelto il politicamente corretto degli ecologismi per fuoriuscire dal lockdown dell'emergenza spirituale. La Laudato Sì, ora, deve passare dal piano della potenza a quello dell'atto. Questo è l'obiettivo del vescovo di Roma. Un orizzonte, un'opzione "pop" che - ne siamo certi - sarà condiviso anche dalla stessa Greta e dai principali attori della scena progressista. Perché "salvare la Terra" - secondo la visione pontificia - equivale ad "salvare vite", comprese quelle dei "poveri", su cui il Papa ha posto il secondo accento valido per l'anno che verrà.

·        Il Veganesimo è una Religione.

Gb, sentenza storica: il veganesimo è come una religione, non è discriminabile. L'impiegato Jordi Casamitjana ha fatto causa alla sua società per essere stato discriminato perché vegano. Ha vinto e la sentenza recita che il veganesimo etico è in tutto e per tutto paragonabile a una religione o a un credo filosofico, e i suoi seguaci non possono essere sottoposti a discriminazione. Enrico Franceschini il 3 gennaio 2020 su La Repubblica. Il veganesimo equivale a una filosofia e come tale è protetto dalla legge. Un tribunale del lavoro inglese ha emesso oggi questa storica sentenza sul ricorso di un vegano che si è sentito discriminato dalla propria azienda e infine licenziato a causa delle sue convinzioni. Il giudice Robin Postle ha stabilito che il “veganesimo etico” ha diritto di avere una protezione legale simile a quella di “un credo filosofico o una religione”, rientrando dunque nell’ambito dei diritti garantiti dall’Equality Act, una legge del 2010 sull’eguaglianza di trattamento. Le altre categorie sono età, sesso, orientamento sessuale, razza, religione, maternità, disabilità e matrimonio. Il caso è stato portato davanti alla corte di Norwich da Jordi Casamitjana, 55 anni, un dipendente della League Against Cruel Sports, associazione per la difesa dei diritti degli animali. L’uomo ha scoperto che la sua azienda investe parte del fondo pensione in una società che fa esperimenti sugli animali. Ha fatto presente che questo era in contraddizione con lo spirito della ditta stessa, ma non gli hanno dato ascolto. Allora ha cominciato a informare i suoi colleghi e a questo punto è stato licenziato. “Sono molto felice per questo verdetto”, commenta Casamitjana, “spero che abbia conseguenze positive per tutti i vegani”. La League Against Cruel Sports non si è opposta alla sentenza, a cui ne dovrà seguire un’altra sulla legalità del licenziamento. L’azienda afferma che il dipendente ha perso il posto per “comportamento inappropriato” e non per la sua scelta vegana. Casamitjana si definisce un “vegano etico”, che cioè non si limita a nutrirsi con una dieta esclusivamente ricavata dalle piante ma osserva principi vegani in ogni manifestazione dell’esistenza. Non indossa capi di abbigliamento di lana, pelle o altri materiali ricavati da animali. E si sposta a piedi per non prendere l’autobus, poiché un autoveicolo rischia di schiacciare insetti, volatili o altri animali sotto le ruote. Pur non avendo valore di precedente legale perché emessa da un tribunale del lavoro, la sentenza potrebbe avere ampie conseguenze. “Ci sarebbe da sorprendersi”, commenta la Bbc, “se qualcuno non citasse in giudizio la propria azienda sostenendo di venire discriminato a causa delle proprie convinzioni in materia di cambiamento climatico, per esempio perché rifiuta di viaggiare per lavoro in auto preferendo usare un’alternativa meno inquinante come il treno”.

Camillo Langone per "il Giornale" il 3 gennaio 2020. S ì, certo, il veganesimo è una religione. Se il caso del vegano inglese licenziato per avere svelato investimenti aziendali nel campo della sperimentazione animale fosse presentato a me, anziché al giudice di Norwich (città da cui proviene il Norwich terrier, simpatico cagnetto selezionato per la caccia ai conigli selvatici), non avrei dubbi: il dipendente non ha fatto che seguire gli inflessibili comandamenti della propria religione e purtroppo (il purtroppo è solo mio, il giudice non potrebbe permetterselo) va reintegrato ai sensi della legge anti-discriminazione. Perché ne sono così convinto? Perché il veganesimo è alla stregua del cristianesimo, dell' islam e dell' induismo «un complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro» (fonte Treccani). I vegani ritengono sacri - ossia intoccabili - gli animali, sempre o quasi sempre anteposti agli uomini. La sperimentazione animale non è un capriccio di ricercatori sadici, è una necessità scientifica che spesso non ha alternative ma vallo a spiegare ai fanatici del tofu che i nuovi farmaci per curare malattie terribili o si provano sulle bestiole o si provano sui detenuti (sembra che lo facciano in Cina e la losca pratica non turba i sonni di nessuno). Il profetico Orwell scrisse che «ci sono persone, come i vegetariani o i comunisti, con cui è impossibile discutere». Il veganesimo è una religione per il suo dogmatismo, per il suo proselitismo, per il suo fanatismo: il dipendente licenziato, forse un caso un po' limite, ne convengo, andava a lavorare a piedi e non in autobus per non schiacciare insetti e uccellini lungo il tragitto. Con le formiche come faceva? Meglio non chiederglielo, altrimenti potrebbe giurare che nutrirsi di sola lattuga garantisce 12 decimi alla visita oculistica. Il veganesimo è una religione anzi di più, una setta religiosa, vista la sua tendenziale pericolosità: numerosi studi avvertono che una dieta vegana stretta, senza integrazione di vitamina B12, è nociva per gli adulti e letale per i bambini. Probabilmente danneggia pure i piccoli ma carnivorissimi norwich terrier (ci sono vegani che vogliono convertire perfino i loro poveri cani: se non è proselitismo questo...). Fossi nel giudice di Norwich farei reintegrare il vegano licenziato e darei un consiglio alla ditta: la prossima volta assumete un cristiano ossia un onnivoro perfetto, se seguace coerente di colui che mangiava molto pesce e a Pasqua anche l' agnello.

Erica Orsini per “il Giornale” il 3 gennaio 2020. Jordi Casamitjana è uno zoologo di 55 anni, di cui più di 20 vissuti nel Regno Unito a battersi e a lavorare per la protezione degli animali. La gente lo conosce come «l' uomo delle vespe» perché esperto di vespe sociali. Ma Jordi è anche un «vegano etico» e da oggi potrebbe entrare a buon diritto nella storia del veganesimo. Un anno fa ha deciso di portare in tribunale la League Against Cruel Sports, un ente di beneficenza dove lavorava come capo della politica e della ricerca che lo aveva licenziato nel 2018. Aveva scoperto che l'ente investiva in fondi pensione collegati a società che facevano test sugli animali e aveva diffuso quest' informazione. L'ente l' aveva licenziato per malacondotta, ma lui ritiene che la ragione reale sia il suo essere vegano quindi vuole denunciare i suoi ex datori di lavoro per discriminazione. Prima però ha dovuto presentare un' istanza chiedendo che il veganesimo venga assimilato a un credo filosofico o religioso e come tale difeso dalla legge sull' uguaglianza, il 2010 Equality Act. Oggi, a Norwich, per la prima volta un tribunale civile sentirà le sue ragioni e deciderà se concordare con lui. Se questo zoologo di 55 anni dallo sguardo innocuo, che presenzia a tutte le marce anìmaliste possibili portandosi dietro enormi volpi di peluche e frequenta solo donne o uomini vegani come lui, dovesse vincere la causa, lascerebbe un segno nella storia di quella che è già considerata da molti non una semplice opzione dietetica ma una scelta di vita vera e propria che ti definisce come essere umano. Decidendo a suo favore il giudice stabilirebbe che il signor Casamitjana non può venir discriminato per quello che è allo stesso modo come non possono esserlo un cristiano o un musulmano. «Credo o religione» è una delle categorie che definiscono una persona difese dalla legge. Le altre sono età, sesso, disabilità, cambio di genere, unioni civili e religiose, gravidanza e maternità, razza e orientamento sessuale. Per «meritare» di entrare nel novero il veganesimo deve dimostrare di avere alcune caratteristiche tra cui quella di non esser in conflitto con i diritti fondamentali degli altri. Il legale di Casamitjana, Peter Daly, è ottimista e si augura che questa sentenza possa veramente segnare un punto di svolta per tutti I vegani. «Se vinceremo ha dichiarato alla Bbc potremo basarci su questa decisione per combattere le discriminazioni contro i vegani nel mondo del lavoro, nel commercio di beni e servizi, nell' istruzione». I rischi di una simile decisione non sono tuttavia inesistenti laddove I principi vegani potrebbero andare a scontrarsi con quelli di altre persone, per esempio con le convinzioni di alcuni medici convinti che una dieta così ristretta possa portare i figli delle coppie vegane alla malnutrizione e alla morte. Oggi nel Regno Unito vivono 600 mila vegani e il numero continua ad aumentare. La carne rossa ha perso il 4 per cento nei primi sei mesi del 2019 a fronte di un aumento del 18 per cento delle vendite di alimenti sostitutivi. Per il «regno del bacon» è già una sconfitta morale.

·        Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani.

Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani, adoratori del dio Spaghetto che prendono in giro gli integralismi. In testa si mettono uno scolapasta: che cos’ha di meno rispetto a un chador, un turbante o una kippah? E se ha dignità scolastica il creazionismo, allora si può insegnare anche che tutto origina da una tagliatella. Ecco chi sono i i fedeli: diffusi in tutto il mondo, presto riuniti in Concilio a Roma. Cinzia Sciuto il 09 gennaio 2020 su L'Espresso. Se ne sono stati per secoli, forse per millenni, tranquilli in disparte, praticando la propria fede in privato e passando del tutto inosservati, al punto che nessuno sapeva neanche che esistessero. Poi è accaduta una cosa che li ha scossi dal loro torpore e li ha indotti a venire allo scoperto. Nel 2005 il Consiglio per l’Istruzione del Kansas, negli Stati Uniti, propose di inserire l’insegnamento del Disegno Intelligente accanto alla teoria dell’evoluzione di Darwin nei corsi di scienze nelle scuole. Una proposta che indusse Bobby Henderson, con riluttanza, a uscire allo scoperto rivelando al mondo di essere il profeta del pastafarianesimo. Armato di carta e penna, Henderson scrisse al Consiglio una lettera pretendendo che, accanto alle due sopra menzionate, venisse insegnata anche la teoria pastafariana sull’origine dell’universo, e minacciando in nome del principio di non discriminazione azioni legali nel caso la sua richiesta non fosse stata accolta. Nella lettera Henderson, accludendo anche un disegno esplicativo, spiegava che i pastafariani credono che il mondo sia stato creato dal loro Dio, il Prodigioso Spaghetto Volante, e che tutte le schiaccianti prove scientifiche che convergono a sostegno della teoria dell’evoluzione di Darwin non siano che intenzionali interventi del Prodigioso, che si diverte a farci credere che le cose stiano in questo modo (il perché è un mistero della fede). Da allora i pastafariani hanno deciso di non voler più tollerare trattamenti discriminatori. Sebbene i fedeli del Prodigioso, come ci spiega Scialatiella Piccante I, Pastefice massima (chiamata anche Pappa) della Chiesa Pastafariana Italiana (Cpi), siano dell’idea che la religione debba essere una questione privata e che lo Stato debba essere pienamente laico, fino a quando le altre religioni godranno di una condizione privilegiata, i pastafariani pretenderanno almeno pari trattamento. A questo scopo un gruppo di fedeli italiani nel 2014 si è riunito in una formale Associazione religiosa: «È il primo passo», spiega la Pappa italiana, «per poi assumere la personalità giuridica e fare tutto ciò che occorre per chiedere l’Intesa allo Stato: vogliamo l’8 per mille, il liscafisso accanto al crocifisso nelle scuole, i cappellani pastafariani nelle carceri e negli ospedali». Diversi sono i casi di discriminazione di cui i pastafariani sono vittime. Nella maggior parte degli Stati al mondo, per esempio, non è consentito indossare copricapi nelle foto dei documenti ma molto spesso la legge prevede delle deroghe per motivi religiosi a questo divieto. Così ebrei, sikh, musulmane possono indossare la kippah, il turbante o l’hijab su passaporti, carte d’identità e patenti. E perché i pastafariani non possono invece indossare il loro copricapo sacro, lo scolapasta rovesciato? D’altro canto in uno Stato laico è difficile individuare dei criteri oggettivi per stabilire chi ha diritto di accedere a simili deroghe e chi no. E proprio giocando sulle ambiguità di uno Stato che davvero laico non è, alcuni pastafariani sono riusciti a ottenere il permesso di apparire sul documento d’identità con uno scolapasta in testa, come qualche anno fa Lindsay Miller in Massachusetts, mentre analoga richiesta di un pastafariano olandese è stata recentemente respinta perché l’Alta Corte dell’Aia non ha riconosciuto il pastafarianesimo come religione. Eppure, oltre ai già menzionati simboli sacri, come tutte le religioni che si rispettino il pastafarianesimo ha le proprie credenze, i propri riti, i propri ministri di culto, il proprio codice morale. Per essere pastafariani non è necessaria nessuna conversione, né tantomeno essere iscritti all’Associazione, «ma chi vuole risvegliare il proprio pirata interiore», spiega Scialatiella Piccante I, «lo fa tramite il pastezzo , un rito di iniziazione celebrato da un ministro di culto, durante il quale il fedele sceglie un nome pastafariano e con il quale viene accolto nella comunità» (la quale comunque, è bene precisare, accoglie tutti, pastezzati e non). C’è poi anche il pastrimonio (anche questo del tutto facoltativo) con il quale si riceve la pennedizione sulla propria famiglia, rigorosamente tradizionale. È com’è la famiglia tradizionale pastafariana? «È quella nella quale», spiega la Pappa, «due o più persone, di sesso uguale o diverso, purché maggiorenni e consenzienti, decidono di stringere un legame basato sull’amore, la parità, il rispetto reciproco». E a difesa della famiglia tradizionale pastafariana, minacciata da sessismo e omofobia, da qualche anno la Cpi invita i suoi fedeli a delle teglie di preghiera nelle piazze delle città: le cosiddette Tagliatelle in piedi. Questo atteggiamento di grande apertura è la cifra del pastafarianesimo: persino gli “Otto Condimenti” rivelati dal Prodigioso al suo profeta Henderson e contenuti nel “Libro del Prodigioso Spaghetto Volante”, il testo sacro del pastafarianesimo, sono più degli inviti a vivere meglio lo spirito del pastafarianesimo che degli ordini. «Perché il Prodigioso Spaghetto Volante», è ancora Scialatiella Piccante I a parlare, «non impone, non giudica, non comanda, ma consegna ai suoi fedeli dei suggerimenti per comportarsi da buon pastafariano». Il modello a cui i fedeli si ispirano (anche nell’abbigliamento) è il pirata, non quello che ruba e depreda, ma quello che va alla scoperta del mondo con curiosità e apertura, quello che non ha la verità in tasca, che non ha un rigido elenco di regole a cui attenersi, ma che insieme alla sua ciurma negozia continuamente le norme della convivenza, quello che è sempre in cerca del tesoro, quello che si gode la vita, perché la vita merita di essere goduta fino all’ultimo istante. Sebbene il proselitismo non faccia parte del dna di questa religione, la Chiesa pastafariana intende comunque dare il suo contributo al progresso della società con alcune iniziative. La più recente è la campagna “Dioscotto”, con la quale la Cpi ha aderito alla campagna internazionale “#endblasphemylaws” per l’abolizione delle leggi sulla blasfemia in tutto il mondo. In Italia la blasfemia non è più un reato penale ma viene comunque punita con un’ammenda. «E questo», spiega Scialatiella Piccante I, «rappresenta una forte limitazione della libertà di espressione, specialmente per gli artisti». Ma vi offenderete anche voi se qualcuno bestemmia il vostro Dio, no? «Ma figuriamoci, noi non ci offendiamo per nulla! Semmai ci facciamo una risata, che non fa mai male. E neanche il Prodigioso si offende: francamente, se ne infischia. D’altro canto, se volesse difendersi da una qualche accusa o insulto, ha tutti i poteri per farlo, non c’è nessun bisogno che ce ne occupiamo noi. Per questo nella nostra campagna abbiamo usato quella che sarebbe la peggiore bestemmia per il Dio dello Spaghetto Volante: Dioscotto! Il nostro Dio ci invita a non prenderci (e a non prenderlo) troppo sul serio, per questo usiamo spesso l’ironia. Ed è questa la buona novella che noi annunciamo al mondo».  Il pastafarianesimo potrebbe essere definito un monoteismo “debole”: ha un solo Dio, sì, ma è un Dio fallibile, disinteressato, giocherellone, sempre un po’ brillo e un po’ gianburrasca, mai geloso e meno che mai vendicativo, indifferente alla fede degli umani, i quali sono dunque chiamati a rispondere esclusivamente alla propria coscienza. Sono in parecchi però a pensare che non sia una “vera” religione ma solo una boutade, una provocazione. E in effetti tutto il vocabolario pastafariano, che sembra fare il verso a quello della tradizione cristiana, indurrebbe a pensarlo. «Sono solo illazioni», risponde la Pappa, «È naturale che provenendo dallo stesso ambiente linguistico abbiamo dei termini simili, e poi la nostra religione è una delle più antiche del mondo per cui non ci sorprende che altri ci abbiano imitato. Il motivo per cui in molti pensano che sia il contrario è legato al fatto che noi per molto tempo abbiamo vissuto la nostra fede in privato. Ma noi, come il nostro Dio, non siamo né invidiosi né suscettibili: se gli amici di altre religioni si ispirano ai nostri sacramenti e al nostro vocabolario, non possiamo che esserne felici, Ramen». Adesso che il pastafarianesimo si sta diffondendo e strutturando iniziano anche a sorgere problemi di interpretazione della parola di Dio. Per questo la Pappa italiana ha deciso di convocare il Primo Concilio della Chiesa Pastafariana mondiale, che si terrà a Roma in primavera. «A partire da un problema di traduzione di uno degli otto condimenti», spiega, «ci interrogheremo su quanto la traduzione incida sulla tradizione ». Questione annosa, che assilla un po’ tutte le religioni. Il Concilio sarà anche l’occasione per un confronto tra le Chiese Pastafariane diffuse nel mondo, per esplorare i diversi modi di vivere e applicare il pastafarianesimo. D’altro canto, paese che vai, religione che trovi.

·        Una “Setta per scopare”.

Michele Focarete per “Libero Quotidiano” il 7 ottobre 2020. Lui nega ogni addebito e minaccia querele a raffica. Mentre gli agenti della squadra Mobile di Novara, coordinati dalla dirigente Valeria Dulbecco, continuano ad indagare e a raccogliere prove per incastrare Gianni Maria Guidi, il pensionato di 77 anni che - secondo l'accusa - avrebbe abusato per almeno trent' anni di molte donne, anche minorenni. In questi giorni si analizza il materiale sequestrato, soprattutto informatico: oltre 30 cellulari e altrettanti computer e iPad. E si continuano ad ascoltare testimoni, più di una decina, e tutti puntano il dito contro l'orco. Dalla questura piemontese non trapela neppure una virgola: il riserbo è totale. Ma una ex adepta che chiameremo Luciana, 28 anni, impiegata, uscita dalla setta qualche anno fa, racconta. Non lo fa volentieri, perché ha voluto rimuovere quelle giornate pesanti, fatte anche di pratiche sessuali estreme e dolorose. Un'esistenza devastata, da schiava che accettava insopportabili violenze e soprusi di ogni genere. «Ma il mondo migliore che in cambio ci prometteva non arrivava mai. Quel mondo che lui descriveva come luminoso». Ci sono voluti diversi anni, prima che la donna si accorgesse di come era stata plagiata, sottomessa. Spesso legata e sodomizzata. Ma poi ha capito che «le perle di saggezza» che il guru andava predicando, erano solo frottole. E ha raccolto tutto il suo coraggio e l'orgoglio che ancora aveva in corpo, denunciando. Nero su bianco. «Il mio ego era stato annullato, perché bisognava creare un'alternativa a questa esistenza. E chi non stava al passo, veniva abbandonato». Una storia tremenda che però insegna qualcosa: tra tante vittime c'è sempre quella che trova la forza mentale di dire basta e di andare alla polizia a denunciare il mostro. Guidi, che non si faceva mai chiamare per nome dalle donne che definiva discepole, adepte, schiave, è titolare di una erboristeria a Milano, in via Osoppo. La stessa via che negli anni '50 fu teatro di una cruenta rapina milionaria i cui racconti tennero col fiato sospeso i lettori per diverse settimane. Forse, anche questa drammatica vicenda dai contorni ancora oscuri potrebbe suscitare un'intensa emozione tra l'opinione pubblica. «C'era solo sesso», ricorda Luciana, «e non le perle di saggezza che andava predicando. Molte delle quali, venivano fatte scrivere su quaderni e singoli fogli, con particolare attenzione al tipo di carta, sempre ricercato e antichizzato, quasi arcaico». E ne mostra uno: "Quelli che cadranno dovranno essere inesorabilmente lasciati indietro, dato che non è concepibile che si precluda uno sviluppo verso l'alto per rimanere vicino all'amico ed al camerata che non è in grado di camminare nella nostra stessa direzione. Tale atteggiamento per i più coerenti, dovrà essere applicato allo stesso livello oggettivo, familiare e sociale perlomeno su un piano interiore. Perché da un certo punto in poi i nostri amici potranno essere solamente coloro che percorrono la nostra stessa via". «Per questi suoi dogmi», ricorda Luciana, «mi allontanai dalla mia famiglia, dagli amici veri, credendo così di arrivare ad una evoluzione di una parvenza di vita normale. Tanto da farti credere che bisognava vivere in quel modo, nella promiscuità, nudi, come in un altro modo. Un percorso corale, basato sul segreto». E ancora: «Solo i migliori possono tentare la via e solo pochi tra i migliori conseguiranno, forse, dei risultati. E io, stupidamente, volevo essere la migliore, concedendomi ogni volta che lui lo desiderava, giorno e notte». Infatti, nella casa isolata tra boschi di Cerano, Guidi, capo indiscusso della psicosetta, ribadiva anche con scritte, «che non erano adatti coloro che sono caratterizzati da tare fisiche o psichiche più o meno evidenti, anche in considerazione del fatto che certe menomazioni erano considerate, in tempi di tradizione vivente, delle signature di non qualificazione impresse nell'individuo». Gianni Maria Guidi, dal canto suo continua a ribadire la sua innocenza ed è convinto che questa storia gli abbia rovinato la reputazione, costruita con tanta fatica

«Setta del sesso», a Milano 12 covi in case in centro e uffici di notai. Milano, l’indagine sulla setta del sesso che sarebbe stata guidata da Gianni Maria Guidi. Perquisiti palazzi in centro. Andrea Galli il 7 ottobre 2020 su Il Corriere della Sera.  L’indirizzo fin qui più notorio, diffuso dalle cronache, è quello di un condominio sul lato dei numeri dispari all’inizio di via Osoppo. Al primo piano, agli estremi del ballatoio, ci sono l’appartamento di un uomo che fra un mese compie 77 anni, e gli uffici della sua unica attività commerciale, un’erboristeria di vecchie origini, una società sana e che nell’ultimo bilancio depositato il 31 dicembre risulta avere un totale attivo di 273mila euro, a conferma appunto d’una gestione equilibrata, regolare. Si chiamano l’uomo Gianni Maria Guidi e l’erboristeria «Quintessenza srl». Secondo l’impianto accusatorio della Dda di Torino, che ha coordinato le indagini della squadra Mobile di Novara guidata da Valeria Dulbecco, indagini sfociate quest’estate in 26 persone indagate, Guidi, altresì conosciuto nel suo «feudo» come il «Dottore» oppure «Lui», sarebbe stato il capo di una setta.

Le «schiave del sesso». Un gruppo clandestino che dal 1990 avrebbe circuito decine di bambine, ragazze e donne, provocando prigionie mentali che hanno causato gravi problemi psichici oltre che, a livello generale, una privazione delle libertà individuali. Delle schiave, insomma, costrette ad atti sessuali, e «sollecitate» affinché versassero in continuazione denaro e intestassero immobili. A distanza di quattro mesi, in contemporanea con la chiusura delle perquisizioni, che in misura prevalente hanno riguardato Milano, il Corriere è tornato sulle coordinate di base di questa storia, ancora in pieno svolgimento. Intanto, è tornato da Guidi, laureato in Farmacia. Nonostante l’evidenza che in casa vi siano dei presenti, non vuole rispondere. Il suo avvocato Silvia Alvares, con studio a Torino, appoggia totalmente la linea del silenzio, anzi pare averla suggerita  lei a maggior ragione dopo l’uscita su alcuni giornali di frasi attribuite all’assistito e da lui «mai pronunciate». Alvares resta in attesa degli sviluppi investigativi; fin dall’inizio — lo si desume nel corso della conversazione che non approda a dichiarazioni ufficiali — è convinta della profonda debolezza su cui poggia finora l’accusa, che ha sortito il dannosissimo, irreparabile errore d’aver rovinato la reputazione di uno stimato anziano e professionista. E per la verità, indugiando nel palazzo e chiedendo agli altri residenti, pur al netto di giudizi solitamente limitati a una conoscenza sommaria, ecco, quasi nessuno pensa alla seconda vita di Guidi, nel condominio denominato non il «Dottore» e men che meno «Lui», ma semplicemente conosciuto come l’«erborista». Dei vicini di casa, qualcuno s’azzarda a ipotizzare una colossale trappola, ordita da chi e per quale motivo non sa.

La «rete di complici» e i covi in centro. Sempre stando all’accusa, la cui elaborazione, in fase di avvio e sviluppo ha avuto l’appoggio dello Sco, nella figura di Francesco Messina, direttore centrale Anticrimine della polizia, Guidi sarebbe stato ai vertici di una piramide con una strutturata rete di complici, «necessaria» per la ricerca e l’«arruolamento» di schiave. Si menzionavano prima le perquisizioni. Dodici avrebbero riguardato in città appartamenti del centro, uffici di professionisti (notai e commercialisti), una bottega di artigianato, altri centri di erboristeria, una scuola di danza. In considerazione della presunta longevità della setta, dando per vere le origini trent’anni fa, appare una conseguenza «fisiologica» l’eventuale robustezza della rete. Sia nei numeri — quei 26 indagati sarebbero soltanto un dato parziale —, sia nella capacità operativa della stessa setta.

La scuola di danza dove avveniva il reclutamento. Il reclutamento avveniva nelle sedi più disparate, in special modo la scuola di danza; le complici e i complici individuavano le personalità più fragili, accompagnate, come da loro confidato, da enormi guai esistenziali di svariata natura, e avviavano il lavorìo psicologico. La Mobile di Novara ha sotto esame una voluminosa documentazione frutto delle perquisizioni: pc e materiale cartaceo. Dieci, al momento, le ragazze e le donne che avrebbero denunciato una situazione simile a quella raccontata per la prima volta alla polizia da una giovane, nel 2018. L’analisi del quadro esistenziale di Guidi non avrebbe rilevato criticità quali debiti e dipendenze e «frequentazioni»; dal punto di vista personale, l’unica nota concerne la sua mobilità che necessita di stampelle. Il profilo configura quello di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che però ora ha mediaticamente assunto connotati da mostro.

Il «Percorso» e i rituali nella villa nel parco del Ticino. Un’aggiunta su Guidi ci porta nel parco del Ticino, in una sua villa, il luogo dove secondo gli atti si completava il «percorso». Dopo esser state agganciate e «convinte», le vittime venivano convogliate nella villa, e messe al centro di rituali e danze tribali che prevedevano svestizioni dinanzi a Guidi e ai complici, i quali poi avrebbero approfittato delle «schiave» per ore.

«Setta del sesso? Niente guru e schiave, solo meditazione»: il racconto dei clienti del farmacista. Nel gruppo guidato dal 76enne Gianni Maria Guidi, gestore dell'erboristeria in via Osoppo, c'erano persone di ceto molto alto, manager e imprenditori. Le difese legali dei 26 indagati: «Mai nessuna violenza». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 9/10/2020. Un diabolico e sadico guru, figura apicale di una banda criminale che per tre decenni ha ridotto in prigionia psicologica ragazze e donne, per approfittarsi di loro (violenze sessuali, sostanziosi pagamenti, intestazione di immobili). No, proprio per niente, tutto falso: quel signore, un innocente 76enne adesso devastato dalla campagna stampa, con abitazione ed erboristeria in via Osoppo, è stato semplicemente l’organizzatore di incontri dedicati ad esercizi di respirazione e alla meditazione, finalizzati al benessere di manager e imprenditori. In questa nuova puntata sull’inchiesta contro la presunta «setta del sesso», spazio alle indagini difensive degli avvocati che seguono i 26 indagati (attività coordinata dalla Dda di Torino e condotta dalla squadra Mobile di Novara). Dopo aver ascoltato una ventina di persone che dal 1990 hanno frequentato i corsi del farmacista, che si chiama Gianni Maria Guidi, i legali — a cominciare dai due avvocati milanesi Massimo Del Confetto e Alessandro Mezzanotte — hanno avuto in ritorno un prospetto di testimonianze «omogenee e lineari». Soprattutto, antitetiche rispetto alle basi dell’accusa, divenuta mediatica lo scorso giugno, con il lancio di notizie e dettagli che, sempre nei legali, hanno da subito generato profonda perplessità, «per usare un eufemismo», in relazione alla tempistica e all’oggetto delle informazioni rese. La pubblicità alle indagini, va da sé, ha però innescato, come sostenuto da fonti investigative, la presa di coraggio da parte di dieci presunte vittime, che si sono riconosciute nel resoconto della prima denunciante, una ragazza che aveva deciso di raccontarsi nel 2018, e che a loro volta si sono fatte avanti chiedendo un incontro agli agenti. Tornando alle indagini difensive, le persone sentite (nessuna delle quali implicata nell’inchiesta) hanno fornito il seguente scenario. In luoghi diversi, riconducibili spesso alle case degli stessi frequentatori, sono stati organizzati incontri con l’obiettivo di rigenerare anima, cervello e corpo. Accompagnate dalla musica di arpe celtiche, per ore, anche tre consecutive, quelle persone, sempre di ceto molto alto, si chiudevano nel silenzio e si ripulivano, inseguendo la pace interiore, dalle scorie della quotidianità e dalle energie nefaste messe in circolo da conoscenti e colleghi; in altre circostanze, si sono tenuti degli stage sull’alimentazione. Esisteva un tariffario mai esoso, con prezzi in linea con l’iscrizione a una palestra. Parere comune dei frequentatori è stata l’assenza di costrizioni, di tentativi di soggiogare, di manovre per svuotare i conti bancari. Dopodiché, se vi sono state delle relazioni, sfociate in rapporti sessuali, nate nel corso degli incontri, ecco, questo rientra nelle dinamiche tra adulti che nulla hanno a che fare con le «lezioni» del gruppo. Se ci si vedeva finito tutto al ristorante o in un hotel, sono insomma effetti collaterali privi di reato.

Dodici le perquisizioni, stando a quanto ricostruito, che hanno riguardato Milano. La Mobile ha in corso l’analisi dei computer e del materiale cartaceo sequestrato. Si parla di volumi considerevoli, che dunque necessitano ancora di settimane. Cercato dal Corriere, Guidi ha scelto la via del silenzio. Il medesimo impianto accusatorio ipotizza il coinvolgimento di minorenni e la ripetizione, specie nella seconda casa del farmacista che avrebbe una villa fra i boschi del parco del Ticino, di balli con le vittime progressivamente denudate e abusate dai partecipanti ai rituali. Di nuovo i legali osservano che, a fronte di addebiti così pesanti, non sono scattati gli arresti: il quadro, per appunto, contempla i 26 indagati, peraltro in relazione a «un’inchiesta del 2018» e sarebbero curiosi di sapere, i legali, cos’è successo nella Dda di Torino, rispetto alle indagini, per «motivare» questa «evidente dilazione» dei provvedimenti.

·        Tra Sacro e Profano: Miracoli, fatture, malocchi, riti occulti e stregonerie.

DAGONEWS il 15 ottobre 2020. Vi ricordate del prete sorpreso a trombare sull’altare con due attrici hard? Adesso una delle due donne vuole denunciare come la sua vita sia stata distrutta dopo che la notizia di quanto successo ha fatto il giro del mondo. Melissa Cheng è stata arrestata e poi rilasciata insieme alla collega Mindy Dixon, 41 anni, e al sacerdote della Louisiana Travis Clark, 37 anni, dopo aver presumibilmente girato un film hard nella chiesa cattolica romana dei Santi Pietro e Paolo a Pearl River. La star, 23 anni, ha raccontato che il fatto ha avuto un impatto mentale e fisico talmente devastante da essersi rinchiusa in casa. Rispondendo ai sostenitori sul suo account OnlyFans, Melissa ha detto: «La mia privacy è stata violata. Forse le persone non dovrebbero ficcare il naso e poi lamentarsi di quello che hanno visto, soprattutto di notte. Ridicolo. Sono così scossa, continuo ad avere incubi e attacchi di panico e letteralmente non posso lavorare. Mi sento sopraffatta dall'ansia per questo calvario. Il fatto che io sia denigrata in questo modo è francamente, spaventoso. Capisco che le persone possano essere turbate da questa situazione, ma ciò non rende in alcun modo illegale o criminale questa condotta. Imploro chiunque voglia esprimere un giudizio di dirigere la propria energia altrove. Per poterne uscire, devo prendere una pausa dal lavoro e dai social media. Sono una dominatrice e una sostenitrice delle pratiche BDSM sicure, sane, consensuali e private. La cauzione [che è già stata pagata], il tempo lontano dal lavoro, il tempo trascorso in prigione, il contenuto perso e il sequestro dei miei effetti personali [attrezzatura per film, illuminazione, trucco], le parcelle degli avvocati e lo stress fisico non sono di poco conto». Cheng, conosciuta nella comunità BDSM come Empress Ming, guadagna 350 dollari per un'ora,  700 per due ore e 1.050 per tre ore. «Tutte le parti coinvolte erano adulti consenzienti e la sessione non era illegale in quanto si è svolta a porte chiuse su una proprietà privata». L'arcivescovo Gregory Aymond ha denunciato il comportamento di Clark additandolo come "demoniaco": «Il suo comportamento osceno è stato deplorevole. La profanazione dell'altare in chiesa è demoniaca. Sono infuriato dalle sue azioni. Abbiamo fatto rimuovere l'altare e lo abbiamo bruciato».

Che cos’è il voodoo e come funziona. Giovanni Giacalone il 14 settembre 2020 si Inside Over. Quando si sente la parola “voodoo” si pensa subito a qualcosa di sinistro e tetro, in particolare la famosa bambola con gli spilli che nei decenni, anche in seguito alla cinematografia, è diventata il simbolo per eccellenza del culto; il feticcio col quale viene “colpita” a distanza una persona. In poche parole “magia nera” o “stregoneria”. In Italia se ne sente parlare spesso in relazione al fenomeno della prostituzione nigeriana, quando le ragazze vengono minacciate col cosiddetto “juju“, in caso tentino di sottrarsi al loro triste destino. Il meccanismo è più o meno sempre il medesimo: lo stregone di turno preleva capelli, unghie e/o qualcos’altro di appartenente alla vittima quando ancora si trova in Africa e fa un rituale, una specie di patto con qualche entità venerata a livello locale. Nel caso in cui la ragazza dovesse provare a fuggire dagli sfruttatori, allora l’ira di quest’entità dovrebbe scatenarsi contro di lei. È chiaro che questo tipo di pratiche fanno gioco sulla psiche della persona, puntano su suggestione ed autosuggestione e, come diceva l’esperto di religioni Gabriele Mandel, “la magia funziona su chi ci crede”. È molto facile ricorrere a tali metodi in società dove queste credenze sono profondamente radicate. Bisogna poi aggiungere che, nel caso della prostituzione nigeriana, le fatture vengono quasi sempre accompagnate da vere e proprie minacce fisiche alla ragazza e ai parenti nel Paese d’origine. Attenzione però, perché in realtà il termine “voodoo” per definire tali pratiche è generico, riduttivo ed anche non propriamente corretto. Il termine, anche noto come “vodun” o “vudu”, è originario dell’antico Dahomey, attuale Benin ed è una religione a tutti gli effetti con tanto di pantheon di divinità, dottrine e cosmologia. La cosiddetta “magia nera” è in realtà un aspetto molto limitato del culto e tra l’altro non viene praticata da tutti. Del resto anche nel Medioevo europeo esistevano le fattucchiere. In Benin il voodoo è riconosciuto come religione ufficiale con tanto di organizzazione clericale alla quale aderisce l’80% circa della popolazione. In Nigeria culti simili legati alla tradizione Dahomey e Yoruba sono ancora oggi ampiamente diffusi, al punto che nel marzo del 2018 la massima autorità religiosa dell’Edo, Obà Eware II, convocò sacerdoti e stregoni per sciogliere tutti i riti effettuati nei confronti delle ragazze avviate alla prostituzione e vietando di effettuarne ulteriori.

Il Voodoo sbarca in America. In Africa si sono sviluppati nel tempo differenti sistemi di culto in diverse zone geografiche come il già citato Vodun in Dahomey, il culto Yoruba, quello Ibo-Odinani e quello della grande area del Congo. Con il fenomeno della schiavitù, questi culti hanno raggiunto le Americhe, dando vita a un fenomeno di sincretismo con il cattolicesimo ma anche con tradizioni locali. È così che sono nate religioni come la Santeria e il Palo Mayombe a Cuba, il Vodou haitiano e quello dominicano delle 21 Divisioni, il Sansè a Porto Rico, l’Obeah in Giamaica, il Candomblè, l’Umbanda e la Kimbanda in Brasile ma con diramazioni anche in Argentina, Uruguay e Paraguay. Il fenomeno ha poi raggiunto anche il Nord America al punto che la città di New Orleans ha dato a sua volta origine a un ulteriore tipo di “Voodoo”, forse tra i più noti, che mescola spesso tradizione religiosa con il Hoodoo, fattucchieria popolare che include elementi africani, europei e nativi americani. Per rendere l’idea di quanto queste pratiche siano radicate e popolari in certi Paesi, l’articolo 246 del codice penale di Haiti fa riferimento alla zombificazione, intesa come somministrazione, da parte di uno stregone, di sostanze che riducono la vittima in uno stato di letargica passività che ne annulla la forza di volontà, rendendolo così pienamente controllabile, come illustrato dal Prof. Yives Saint Gerard, autore del testo The Zombie Phenomenon e riportato anche in un articolo dell’Università di Chicago. Tra i vari praticanti di tali culti vi erano anche leader di Paesi latinoamericani come Hugo Chavez e Fidel Castro. In generale, la caratteristica che accomuna le varie tradizioni sincretiche nel Nuovo Continente sono la presenza di un Dio assoluto che si manifesta all’uomo tramite un pantheon di semi-divinità dai tratti umani (definiti Orishà in ambito Yoruba e Lwa secondo il Vodou Haitiano e di New Orleans), salvo poi includere anche altre entità di status più basso, a seconda del culto di riferimento. Fondamentale per questi culti è la figura del sacerdote, il quale si occupa della ritualistica, dell’organizzazione cerimoniale e in certi casi incorpora anche gli spiriti. Come illustrato da Andrea Bocchi Modrone, antropologo esperto in religioni sincretiche afro-americane e autore di Le Livre du Vaudou – Misteri e Segreti di una Religione: “Non esiste un solo Voodoo, ogni tempio coltiva la tradizione in maniera differente, perciò sarebbe più corretto parlare di sette…”. Nelle tradizioni come la Santeria e l’Umbanda, gli Orisha vengono spesso identificati con i santi cattolici; non è infatti raro in America Latina entrare in un luogo di culto e trovare statue di San Giacomo o San Giorgio (equivalenti ad Ogun/Ogum), Santa Barbara (Iansà), Shango (San Girolamo) o il Cristo Redentore (Obataà/Oxalà). Una sincretizzazione che non è pero regola generale, visto che alcuni culti hanno invece mantenuto le figure originarie africane e che non è invece presente in Africa dove i culti di stampo tribale vedono il cristianesimo come religione “nemica” ed “importata dai colonizzatori”.

Le sciamane. Testo di Valeria Gradizzi, Morena Luciani Russo il 30 agosto 2020 su Inside Over. Gli ultimi raggi di sole sfiorano le foglie del bosco. Scintille di fuoco, leggere, si alzano verso il cielo. La brace si gonfia, passando dal grigio al rosso. Sono gli ultimi respiri del legno. Gli elementi del mondo si incontrano e si consumano. L’alto scende verso il basso. Il basso sale verso l’alto. La natura si muove in un ciclo continuo. Non esiste un inizio, non esiste una fine. C’è solo la natura. Dal bosco appaiono alcune donne, i cui volti sono incorniciati da veli leggeri. Portano tamburi e maschere. Si inginocchiano. È il segno che il rito può iniziare. Una nenia, prima leggera e poi sempre più forte, rompe il silenzio. Il ritmo diventa sempre più concitato. La voce si mischia alle percussioni in un unico suono. I corpi iniziano a danzare con movimenti sfrenati. È il climax. È l’estasi più pura. Le donne si uniscono alla natura, la Grande Madre. È lei a sussurrare magiche parole a queste donne, in un dialogo continuo. Si torna ad ascoltare la realtà che le circonda: “Una voce – ci spiegano – riunisce donne e uomini intorno al sistema di conoscenza e guarigione più antico al mondo”. I tamburi suonano. I corpi danzano. L’estasi tocca tutti. Le mani sfiorano tutto ciò che le circonda: gli alberi, l’erba, l’acqua. Tutti ricordi di un mondo ancestrale in cui gli uomini e le donne veneravano la Grande Madre, che era tutto: era la terra che calpestavano, le stelle che fissavano per interrogarsi sul mistero, l’acqua che li dissetava, il fuoco che li riscaldava. Era possibile toccarla, la Grande Madre. Toccandola le si sfiorava anche l’anima. Nasce così lo sciamanesimo. Si può dare forma a ciò che è allo stesso tempo l’essenza del materiale e dell’immateriale? Il suo corpo, così ricco, comincia ad essere inciso sulla roccia. Vasi vengono realizzati e templi innalzati. Mentre si diffonde, la natura diventa il centro di tutto. Era questo il mondo che era possibile vivere e osservare due millenni fa. I riti della Grande Madre sono poco alla volta scomparsi. Il mondo era cambiato per sempre. Pochi fedeli hanno continuato a praticarli e a trasmetterli fino ai giorni nostri. Semplici danze e parole arcaiche che nascondono significati segreti e che hanno il potere di collegare, ancora una volta, gli essere umani alla natura. Per le donne che intraprendono la via sciamanica, l’umanità deve riscoprire la vera dimensione del sacro per rivolgersi a quella Madre cancellata, a loro dire, dal “genocidio delle culture antico-europee e mediterranee” che avrebbe condotto alla sottomissione della donna. Qui il grande nodo: riscoprire la Terra, e riscoprire la saggezza femminile, che si nutre di pratiche di spiritualità orientate alla Terra e ai suoi cicli naturali. Pratiche rituali collettive che sradicano la realtà dei nostri tempi, rovesciando i valori su cui si fonda la nostra società. A partire dalla donna e dalla natura, teatro mistico di questi riti arcaici e dove da secoli l’uomo fugge. Ma nella via sciamanica il percorso è verso l’origine: non si fugge più da quel bosco di cui ci hanno insegnato ad avere paura, ma si percorrono i suoi sentieri, i suoi cicli, si incontrano i suoi animali “portatori di Vita e di Morte”, si riscopre un mondo nascosto, sotterraneo, e si cerca un’altra via. E un’altra vita.

Emanuela Minucci per “la Stampa” il 14 agosto 2020. È suggestivo almeno quanto il mondo dell' Appeso e del Bagatto l' obiettivo che si pone il volume Tarot, scritto da Jessica Hundley e edito da Taschen (520 pp. in Italia dal 23 settembre) a indagare il significato simbolico di oltre 600 carte abbinandole ad altrettante opere d'arte originali finora mai pubblicate al di fuori del mazzo per il quale nacquero. Gli arcani. è noto, sono stati la musa di artisti come Salvador Dalì o Niki de Saint Phalle (il suo Giardino dei tarocchi è davvero uno scenario da fiaba) ma vederle tutte insieme, queste versioni creative delle carte divinatorie, fa un grande effetto. Si tratta del primo compendio visivo del genere, spazia dal Medioevo ai tempi moderni, ed è scandito dalla sequenza delle 78 carte che compongono gli arcani maggiori e minori. «Indagare sui tarocchi equivale a indagare su noi stessi - spiega Hundley nell' introduzione - e questa tradizione vecchia di sei secoli racconta anche il viaggio dell' espressione artistica e i modi per rappresentare la condizione umana». Concetti ben noti a personaggi come Alejandro Jodorowsky, il regista iconoclasta che ideò un nuovo modo di leggere i tarocchi, libera da ogni condizionamento e ogni tradizione metafisica. Sono circa 100 gli artisti contemporanei che hanno saputo riconoscere la capacità degli arcani di stimolare lo sviluppo dell' identità culturale. Sfogliando Tarot ci si emoziona con l' eremita (The ermit) di Osvaldo Menegazzi, che fa parte delle Conchiglie divinatorie (1974) vecchio di quasi mezzo secolo e con la fresca interpretazione della Giustizia (Justice, 2018) da parte di Mieke Marple che la raffigura con il ritratto in bianco e nero dell' attivista afroamericana Angela Davis. Per restare sul tema diritti umani, straordinario è il mazzo dedicato al Black Power da Michael Eaton & A.A.Khan nel 2017. Il libro, poi, sceglie l' undicesima carta degli arcani maggiori per raccontare La Forza, una donna di colore con riccioli biondi a cavalcioni di un leone che si fa mettere docilmente le mani in bocca. Sembra un angelo della morte, invece, L'imperatrice (1975) mutuata dagli occhi visionari di Bea Nettles: una sacerdotessa alata che armeggia con chissà quale pozione letale. «L' idea di occuparsi di tarocchi - scrive Jessica Hundley - venne a Bea Nettles in sogno, quindi decise di tradurli in ritratti di familiari e amici in costume rappresentativi di ciascuno degli archetipi degli arcani classici». Anche l' interpretazione della Ruota della fortuna The Wheel of Fortune eseguita nel 2017 da Cathy McClelland racconta una versione affascinante dei tarocchi, quella stellare e astronomica. «Perché gli arcani sono la natura e la sua sublimazione, il racconto e il simbolo, fisica e metafisica» spiega il saggio. E una lettura che racchiude tutti questi piani viene offerta da opere come The Hierophant- Carnival at the End of the World Tarot (2018) di Nicholas Kahn e Richard Selesnick: qui il Papa (lo Ierofante), è raffigurato da un uomo-vegetale racchiuso in una gigantesca mano verde da cui germogliano uccelli preistorici e pigne selvatiche. Dal Papa al Diavolo il passo - almeno nei tarocchi - è breve, e immaginare la carta di Satana spetta all' artista contemporanea Suzanne Treister, esperta del rapporto fra arte e nuove tecnologie. Ed ecco che il Diavolo secondo Treister ha il volto dei mali della modernità: inquinamento, guerre e manipolazione delle coscienze. Completano il libro brani di pensatori come il «mago» Éliphas Lévi, Carl Jung e Joseph Campbell; un' introduzione dell' artista Penny Slinger; una guida alla lettura delle carte di Johannes Fiebig e un saggio sui mazzi oracolari di Marcella Kroll. La costruzione del saggio è avvolgente e sembra prendere spunto dalla definizione che diede Italo Calvino di questo mondo. Lo scrittore, osservando gli arcani, notò che nel loro accostarsi in modo casuale, un po' come nella vita, generavano le storie più belle (Il castello dei destini incrociati). Mentre Carl Gustav Jung definì queste carte, le immagini psicologiche per definizione, archetipi dell' inconscio collettivo che non finiranno mai di stupire.

Da "marcotosatti.com" il 10 aprile 2020. Marco Tosatti: Cari amici e nemici di Stilum Curiae, abbiamo ricevuto questa lettera dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, che vi offriamo – a voi, soprattutto ai consacrati di ogni grado – in questo Giovedì Santo così drammatico e particolare per la Chiesa e per noi. 

La lettera di Monsignor Carlo Maria Viganò. In una lettera l’arcivescovo Carlo Maria Viganò invita tutti i vescovi e i sacerdoti ad unirsi in questa preghiera. Ecco le sue parole: “Il 13 Ottobre 1884 Leone XIII ebbe una terribile visione dell’assalto delle potenze infernali contro la Santa Chiesa, e ordinò per questo di recitare la preghiera a San Michele Arcangelo alla fine della Messa. Compose inoltre un esorcismo che fece inserire nel Rituale Romano, nel quale faceva espressa menzione di quanto aveva visto: «La Chiesa, Sposa dell’Agnello Immacolato, è saturata di amarezze e inebriata di veleno da nemici scaltrissimi, che posano le loro sacrileghe mani su tutte le cose più desiderabili. Laddove c’è la Sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della Verità costituita per illuminare i popoli, lì essi hanno stabilito il trono dell’abominio e della loro empietà, affinché colpito il pastore, fosse disperso anche il gregge». In questi giorni di grave tribolazione, in cui la pandemia priva i Cattolici della Santa Messa e dei Sacramenti, il demonio si scatena moltiplicando i suoi assalti per indurre le anime al peccato. I giorni benedetti della Settimana Santa, un tempo dedicati alla Confessione in preparazione alla Comunione Pasquale, ci vedono tutti costretti ad un confinamento forzato, ma non ci impediscono di pregare il Signore. Essendo un giorno di silenzio, che attende l’annuncio della Resurrezione, questo Sabato Santo può essere una preziosa occasione per tutti i Sacri Ministri. Non occorre uscire, non occorre infrangere alcun divieto dell’Autorità civile. Chiedo di pregare, nella forma che Leone XIII stabilì per tutta la Chiesa, recitando tutti insieme l’Esorcismo contro Satana e gli angeli ribelli (Exorcismus in Satanam et angelos apostaticos, Rituale Romanum, Tit. XII, Caput III), alle 3 pomeridiane (15:00 ora di Roma – CEST) di Sabato 11 Aprile 2020, unendoci in una spirituale battaglia contro il comune Nemico del genere umano. Il Sabato Santo è il giorno in cui si celebra la discesa agli Inferi di Nostro Signore Gesù Cristo, per liberare le anime dei Padri dalle catene di Satana. Nel gran silenzio dopo la Passione e Morte del Signore, la Vergine Santissima ha vegliato e creduto, aspettando fiduciosa la Resurrezione del Suo amatissimo Figlio. Un momento in cui il mondo sembra aver vinto, ma in cui si prepara la gloria della Pasqua. Chiedo a tutti i miei Confratelli nell’Episcopato e ai Sacerdoti di unirsi nella preghiera dell’Esorcismo, consapevoli che questo potente Sacramentale – soprattutto se recitato in comunione con tutti gli altri Pastori – aiuterà la Chiesa e il mondo nella lotta contro Satana. Raccomando di utilizzare inoltre la stola, segno della potestà sacerdotale, e l’acqua benedetta. La Vergine Santissima, terribile come esercito schierato in battaglia, e San Michele Arcangelo, Patrono della Santa Chiesa e Principe delle Milizie celesti, proteggano tutti noi.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 6 ottobre 2020. Se le storie sono vere, monsignor Satana abita in Vaticano dal 13 ottobre 1884. Quel giorno papa Leone XIII, mentre assisteva ad una messa, vide sul capo del celebrante qualcosa di terrificante. Tornato nei suoi appartamenti, consegnò al segretario di Stato una preghiera con l' ordine di farla avere ai vescovi del mondo in modo che potesse essere recitata da tutti i sacerdoti dopo ogni messa. Si tratta della famosa preghiera a San Michele che papa Francesco, il 29 settembre 2018, giorno della festa liturgica del "principe delle milizie celesti", chiese, finora inascoltato, di riprendere a recitare a fine rosario. Il 29 giugno del 1972 Paolo VI si diceva convinto che «da qualche fessura fosse entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». E ancora oggi, in Vaticano, Satanasso non solo sembra abitarci, ma pare anche starci comodo. Il mio nome è Satana è il titolo di un saggio di Fabio Marchese Ragona, edito dalla San Paolo. Non è un libro per acchiappa-diavoli, quanto una lunga inchiesta su fatti e fatterelli durante i quali i Principi degli Apostoli hanno incrociato i guantoni con il Principe di questo mondo. In realtà, Pio XII e Benedetto XVI il "nemico" lo hanno riconosciuto in fenomeni culturali e sociali: il primo nel comunismo (che, a detta del nipote, tentò di esorcizzare con apposito rito), il secondo in quella secolarizzazione che durante alcune sue messe spinse qualche invasato a schiumare con la bocca e a urlare orribili bestemmie. Giovanni Paolo II e Francesco, invece, il diavolo lo hanno incontrato in persone portate in Vaticano per essere esorcizzate dai Pontefici. In realtà, le loro preghiere sono risultate vane, i diavoli sono rimasti indisturbati e i posseduti sono tornati a casa così com' erano arrivati. Come se, nel regno dei chierici, Satana non si fosse sentito profugo in terra straniera.

L'esorcismo, ecco il vademecum per riconoscere il diavolo. È disponibile in libreria un vademecum con le linee guida per gli esorcisti su come riconoscere le persone davvero possedute, quali sono le pratiche da adottare per evitare gli esorcismi fai-da-te con regole ben precise indicate dalla Chiesa. Alessandro Ferro, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale. Un vademecum molto particolare è ora disponibile per tutti: si tratta di un manuale di esorcismo con le linee guida per riconoscere se una persona è realmente posseduta e quali sono i sintomi o se si è di fronte a qualcuno con problemi psichiatrici.

Come funziona. Il manuale intitolato "Linee guida per il ministero dell'esorcismo - alla luce del rituale vigente", è stato redatto ed è a cura dall'Aie, Associazione Internazionale Esorcisti (edizioni Messaggero di Padova), disponibile in qualsiasi libreria. Oltre agli addetti ai lavori (i sacerdoti esorcisti), quindi, è fruibile da tutti quelli che desiderano saperne di più sull'argomento. Nel manuale si orientano gli esorcisti per differenziare una possessione, una ossessione o una vessazione diabolica, spiegandone i segni e come si deve procedere nel caso si verifichi una di queste ipotesi, quali sono le preghiere di liberazione e quelle di guarigione e le differenze tra maleficio e superstizione.

"L'esorcista compie una missione ufficiale". La prefazione del vademecum è a cura del cardinale Angelo de Donatis, vicario generale di Papa Francesco per la diocesi di Roma, il quale spiega quale deve essere il ruolo degli esorcisti che non sono un "distributore di benedizioni", come si legge sul Messaggero. "L'esorcista, infatti, non può procedere a proprio arbitrio, dal momento che opera nel quadro di una missione ufficiale che lo rende in qualche modo rappresentante di Cristo e della Chiesa", spiega il cardinale. Il suo compito, insomma, deve essere quello di conoscere, intendere ed attensersi rigorosamente alle norme stabilite per la corretta celebrazione dell'esorcismo.

"L'esorcismo non è una magia". De Donatis sottolinea come l'esorcismo cattolica non faccia parte di una realtà "scabrosa, violenta, oscura quasi quanto la pratica della magia, alla quale lo si vuole contrapporre, ma, in ultima istanza, finendo per metterlo sullo stesso piano delle pratiche occulte". Sul libro viene sottolineato come l'esorcismo non sia il frutto di un sapere esoterico ma "corrisponde pienamente al dettato dell'autentica tradizione". Quali sono i segni distintivi di una persona posseduta? Alcuni di questi sono riconducibili alla dilatazione di una pupilla che rimane aperta anche se si punta contro una luce, la voce che cambia improvvisamente diventando quasi rauca e profonda, il volto che si allunga, l'uso di lingue sconosciute e la conoscenza di argomenti dell'occulto in persone che, fino a quel momento, non ne avevano neanche la minima conoscenza. Insomma, il film cult "L'esorcista" può averci dato un'idea piuttosto realistica di quello che accade davvero quando una persona è posseduta dal demonio. Soltanto in Italia, i sacerdoti esorcisti sono 240 e 500mila le persone che si rivolgono a loro, ogni anno, per chiedere aiuto.

Da lastampa.it il 16 luglio 2020. Negli ultimi anni, l’azione diabolica è oggetto di notevole interesse nel mondo occidentale, in particolare riguardo al fenomeno della possessione e al ruolo che svolgono gli esorcisti nel ministero di liberazione. Come ha rilevato il cardinale Bassetti, presidente della CEI, «esistono nel mondo delle periferie esistenziali dove è sempre inverno, dove l'aria è impregnata di paura. Il boss di queste periferie è il maligno che, come ricorda papa Francesco, non è "un mito, una rappresentazione, ma un essere personale che ci tormenta" e riguardo al quale Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno di essere liberati "perché il suo potere non ci domini"». Tuttavia, molto spesso la percezione dell’azione del maligno è distorta e l’esorcismo cattolico è visto come «una realtà scabrosa, violenta, oscura quasi quanto la pratica della magia, […] sullo stesso piano delle pratiche occulte». Il libro “Linee guida per il ministero dell’esorcismo”, pubblicato inizialmente in forma riservata per i membri dell’Associazione Internazionale Esorcisti, è ora disponibile in un volume pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova (EMP). Il testo, curato dall’Associazione Internazionale Esorcisti, fornisce anzitutto ai sacerdoti esorcisti gli elementi fondamentali per esercitare il loro servizio. Si tratta di uno strumento prezioso, frutto dello studio e dell’esperienza di molti esorcisti, il quale, pur non essendo un documento magisteriale, è stato esaminato e corretto dai Dicasteri competenti della Santa Sede. La decisione di rendere il testo fruibile a tutti offre l’occasione di mettere ordine sulla questione dell’azione diabolica e della liberazione da essa, per evitare di cadere in pericolosi inganni e illusioni; questa trattazione è di particolare interesse e andrebbe raccomandata a tutti i sacerdoti che esercitano il servizio pastorale nelle comunità. Il punto fondamentale dal quale parte l’attività esorcistica è la Divina Provvidenza: Dio si prende cura in modo concreto e immediato di tutte le sue creature. Tuttavia, il male è presente nel mondo, favorito e stimolato dall’azione diabolica che avviene in modo ordinario (attraverso la tentazione) e in modo straordinario (attraverso fenomeni come la possessione, l’ossessione, la vessazione e l’infestazione, di cui viene fatta un’adeguata trattazione). Questo non deve spaventare, perché Dio è il più forte; anche le azioni straordinarie del maligno sono da Dio permesse per manifestare la Sua misericordia, la quale, come ricorda san Giovanni Paolo II, «non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo» (cfr. Dives in misericordia, n. 6). Il testo si sofferma, con spiegazioni ed esempi, su alcuni comportamenti che possono diventare causa occasionale per l’azione straordinaria del maligno, in particolare la superstizione e i malefìci. Non sempre tale azione si verifica: spesso, però, di fronte ai guai della vita, alcuni concludono che “tutto va storto” perché “qualcuno ci sta facendo qualcosa”... ma questo può essere un alibi che distoglie dall'insegnamento più importante. Infatti, come sosteneva il famoso esorcista padre Gabriele Amorth, «il primo e autentico male per l'uomo è il peccato; salvaguardare e accrescere la propria comunione con Dio, per mezzo di una vita di fede, di preghiera, di sacramenti e di carità operosa, è la vittoria contro l'azione ordinaria del demonio ed è insieme la migliore prevenzione contro la sua azione straordinaria». La parte centrale è dedicata al discernimento dei segni dell’azione straordinaria del maligno; questo richiede una formazione specifica, in particolare per l’accertamento della presenza del maligno (azione preternaturale) e l’accompagnamento del paziente, soprattutto nel coltivare un’autentica vita spirituale. Infatti, come ha affermato Papa Francesco, il pericolo maggiore per il cristiano è la corruzione spirituale: «Coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (cfr. Gaudete et exultate, nn. 164-165). Infine, nel libro viene anche spiegato il rito dell’esorcismo, di esclusiva competenza del sacerdote esorcista: evitando ogni genere di sensazionalismi, si mette in luce il fatto che l’agente principale è Cristo Dio, mentre l’esorcista è uno strumento che agisce secondo il rito stabilito dalla Chiesa. Non è la ricerca della formula esorcistica più potente, né particolari “poteri” del sacerdote che ne determinano l’efficacia, sulla quale vengono fornite rilevanti argomentazioni teologiche. “Linee guida per il ministero dell'esorcismo. Alla luce del rituale vigente”, Associazione Internazionale Esorcisti (a cura), 1a edizione 2020, pagine 306, in Libreria da Maggio 2020.

DAGONEWS il 9 aprile 2020.  Fino alla sua morte nel 2016 padre Gabriele Amorth fece 60mila esorcismi. In molti casi le persone avevano disturbi psichici, ma quando nel 1997 si trovò di fronte a quel ragazzo ebbe la chiara impressione di essere davanti a Lucifero. Il giovane italiano venne portato in una piccola stanza dal suo sacerdote e da un traduttore perché il ragazzo, che parlava solo italiano, si esprimeva in inglese. Amorth iniziò l'esorcismo in latino e nel momento in cui menzionò il nome di Gesù, il giovane lo fissò e cominciò a urlare maledizioni e minacce in inglese, sputando e tentando di attaccarlo. Quando l'esorcista arrivò alla preghiera Praecipio tibi ("Ti comando"), il demone si zittì. Quando il padre chiese al demone di rivelare il suo nome, fu scioccato di sentirgli dire che era Lucifero. L'uomo posseduto gridava, arcuava la schiena, ruotava gli occhi. La stanza divenne gelida e si formarono cristalli di ghiaccio sulle finestre e sulle pareti. Qualche istante dopo l'esorcista ordinò a Lucifero di abbandonare l’uomo, il corpo del giovane si irrigidì e cominciò a levitare, librandosi per tre minuti in aria prima di crollare su una sedia. Alla fine, Satana ammise la sconfitta, annunciando il giorno e l'ora esatti in cui avrebbe lasciato il corpo dell'uomo. Sembra roba da film horror. Ma padre Marcello Stanzione insiste sul fatto che sia tutto vero. Ha scritto tutto nel suo libro “Il diavolo ha paura di me” che ripercorre la vita di padre Amorth  rivelando che il film “L’esorcista” era il suo film preferito perché spiegava bene il suo lavoro e che il posseduto “non era una persona cattiva, ma solo in sofferenza”. Fu nel 1986 che Amorth divenne un apprendista esorcista e nel 1990 fondò l'Associazione internazionale degli esorcisti. Inizialmente condusse esorcismi nella famosa chiesa delle scale sante di Roma, ma le urla spaventavano i fedeli. E quando si trasferì nel quartier generale del suo ordine, i padri paulisti, convertì una piccola stanza  nella sala degli esorcismi. Una mezza dozzina di sedie fiancheggiavano le pareti per i suoi assistenti e i loro cari, e una logora poltrona di velluto marrone serviva per il posseduto. Le anime particolarmente problematiche venivano legate con cinghie su un lettino. Il paziente era quasi sempre violento, quindi gli esorcismi si facevano mai da soli. Sulle pareti c’erano otto crocifissi, quadri di Maria e uno dell'Arcangelo Michele, capo dell'esercito di Dio. C’era anche una foto di Papa Giovanni Paolo II che rendeva i diavoli "particolarmente irritabili". Il sacerdote conservava gli strumenti del suo mestiere in una vecchia valigetta: due crocifissi in legno, un aspersorio per l’acqua santa e una fiala di olio consacrato. Usava anche una stola viola e un libro di preghiere contenente la formule ufficiali per l’esorcismo. «Sai perché il diavolo fugge quando mi vede? – scherzava Amorth - Perché sono più brutto di lui». Sebbene la Chiesa cattolica riconosca ufficialmente l'esorcismo, per molti si tratta solo di una pratica medievale. Lo stesso Amorth ammetteva che molti di quelli che andavano da lui avevano problemi mentali e ha stimato che in 30 anni si è trovato solo davanti a 100 casi di persone possedute dal male. Per un esorcismo poteva bastare una preghiera o erano necessari mesi o anni. All'inizio della sua carriera, Amorth aiutò un esorcista di nome Don Negrini vicino a Brescia che tentava di liberare una ragazza di 14 anni. Quando Amorth chiese al demonio perché si era impossessata di questa giovane, il demonio rispose: «Perché è la migliore della parrocchia». Negrini impiegò altri 12 anni per liberare la ragazza, secondo quanto ricorda Stanzione. I sintomi per chi era posseduto potevano andare da violenti mal di testa a crampi allo stomaco e Amorth aveva la certezza di trovarsi davanti al demonio solo durante l’esorcismo. Raccontava che il diavolo odiava sentir parlare in latino e di solito si esprimeva attraverso l’inglese. Le persone possedute erano solito sputare e vomitare e la forza sovrannaturale era di solito una delle caratteristiche di questi soggetti. Padre Amorth raccontava di un bimbo di 11 anni in grado di lanciare a terra tre poliziotti e di un bambino di 10 anni capace di caricarsi un grande tavolo. Ma come si entrava in contatto con il demonio? Nel 90% dei casi, padre Amorth incolpava i satanisti o "qualcuno che aveva agito con perfidia satanica". Nei restanti casi incolpava le persone che avevano partecipato a messe nere o sedute sataniche. A chi gli diceva che si trattava solo di invenzioni padre Amorth rispondeva: «Il diavolo si nasconde sempre e la cosa che vuole è che non crediamo che esista».

Trcgiornale.it il 21 febbraio 2020. Dichiarazioni clamorose, che possono far riscrivere completamente una storia iniziata proprio 25 anni fa, il 2 febbraio 1995. Le ha pronunciate ieri sera nel corso della popolare trasmissione di RaiUno “Porta a porta” condotta da Bruno Vespa, il signor Ivano Alfano. Intervistato nel suo salotto dalla giornalista Vittoriana Abate, l’uomo ha raccontato cosa accadde quel giovedì di un quarto di secolo fa. “Mi trovavo a fare una gita in moto con la mia compagna (che si trovava al suo fianco durante l’intervista e ha confermato la versione, ndr) quando il filo del gas ha cominciato a dare problemi. Mi sono fermato per aggiustarlo e mi sono ferito alla mano. Eravamo proprio nei pressi della località Pantano e ho visto che c’era una nicchia con all’interno una Madonnina di gesso. Ho il vizio, ogni volta che vedo una statuina del genere di accarezzarle il volto e poi di baciarmi la punta delle dita”. “Così facendo – ha proseguito Alfano – mi sono reso conto di aver combinato un pasticcio, perché una parte del volto della statuina era completamente imbrattato del mio sangue. Ho cercato di porre rimedio, ma ho ulteriormente peggiorato la situazione, visto che anche l’altro lato del volto della Madonnina portava i segni del mio sangue”. Alla domanda della giornalista sul perché avesse atteso ben 25 anni prima di raccontare la cosa, l’uomo ha sostenuto che in tutto questo tempo ha avuto paura di “creare un casino” e di essersi convinto solo recentemente, anche su suggerimento di una sua amica, perché nel frattempo la sua vita è stata costellata da una serie di eventi non favorevoli. Al termine, Ivano Alfano, le cui dichiarazioni erano state contestate e messe in dubbio da altri ospiti presenti nella trasmissione, ha dichiarato di essere disposto in qualsiasi momento a sottoporsi alla prova del Dna, per dimostrare che quel sangue era effettivamente il suo. D’altronde, campioni del sangue dovrebbero essere ancora disponibili, sia nei reperti conservati dalla Procura della Repubblica di Civitavecchia, che aprì un’inchiesta seguita dall’allora sostituto procuratore, Antonino La Rosa, sia in Vaticano, dove sulla vicenda non è stata ancora scritta la parola “fine”, nel senso che la Santa Sede non si è ufficialmente pronunciata o meno sulla possibile soprannaturalità dell’evento. L’inchiesta giudiziaria, così come sottolineato ieri sera in trasmissione dalla giornalista Vittoriana Abate, si concluse con l’archiviazione per il reato contestato di abuso della credulità popolare, ma con dei punti fermi fissati dalle perizie. Il primo era che il sangue non risultava sceso dall’occhio ma dallo zigomo della statuina, mentre il secondo evidenziava come non ci fosse stato gocciolamento e quindi fosse da escludere una lacrimazione vera e propria.

Giulia Amato per ilmessaggero.it il 21 febbraio 2020. Dopo le dichiarazioni di Ivano Alfano, che al programma Rai "Porta a Porta" ha detto che il sangue sulla statuina della Madonna di Pantano è il suo, arriva la risposta della famiglia Gregori. «Questa volta denunceremo tutti - ha dichiarato Fabio Gregori - chi c'è dietro questa trovata? Perchè ha parlato solo ora?». Tanti i quesiti che fa sorgere il racconto del romano, tutto da verificare, e che getterebbe un'ombra non solo sulla famiglia Gregori ma anche sull'operato della magistratura che, dopo sette anni di indagini, archiviò il caso prosciogliendo gli indagati. «Stiamo valutando - ha detto l'avvocato della famglia Bruno Forestieri - quali azioni intraprendere, ma non possiamo non interessare la Procura. Si tratta di un atto dovuto per tutelare l'immagine della famiglia e della magistratura stessa».

Vittoriana Abate: “La verità sulla Madonnina di Civitavecchia”. Sacha Lunatici il 09/03/2020 su Il Giornale Off. Vittoriana Abate, da diversi anni inviata del programma di punta di Rai1 Porta a Porta, sbarca in tutte le librerie e store online. La giornalista di origini salernitane, infatti, ha realizzato, insieme al vice direttore di Rai1 Maria Teresa Fiore, l’instant book Il segreto delle lacrime per Graus Edizioni. Nel libro importanti rivelazioni e dettagli sul caso della Madonnina di Civitavecchia.

Vittoriana, come nasce il libro Il segreto delle lacrime?

«Ci sono storie che un cronista racconta con il cuore leggero, pur sempre nel rispetto delle regole deontologiche e con l’unico obiettivo che è la ricerca e la narrazione della verità . Poi ci sono dei racconti che per il loro sconvolgente contenuto richiedono tempi lunghi di maturazione per considerare veritiero quel fattore imprescindibile che è la credibilità. Quando la verità sembra così incredibile da non sembrare tale allora il senso critico prima dell’intuito deve entrare in gioco. Come in una sorta di “sliding doors” la storia di Ivano ha intercettato il mio percorso di cronista, non ho cercato la sua testimonianza pur avendo sin dall’inizio seguito la vicenda della Madonnina di Civitavecchia: è stata davvero un’incredibile casualità. Con la collega Maria Teresa Fiore condividiamo la passione per il sociale, per la cronaca e per il giornalismo investigativo. Chi ci conosce sa che non ci siamo mai risparmiate nella ricerca della notizia, dell’approfondimento sui tempi più caldi dall’eutanasia, la droga e la maternità surrogata . Ma questa storia non l’abbiamo cercata: il protagonista è arrivato da noi attraverso una semplice confidenza fatta ad un’amica. Di sicuro Ivano non è alla ricerca di notorietà perché, quando ha raccontato questa storia, ha giurato di non averlo mai fatto prima con nessuno perché ha vissuto nell’ansia e nel tormento per 25 anni. E soprattutto ha confessato di avere coscienza delle conseguenze che aveva prodotto il suo gesto, ma il desiderio di liberarsi da quella angoscia e di chiedere perdono a tutti sono stati più forti del timore e della vergogna. Il pomeriggio del 2 febbraio del 1995 Ivano era in compagnia della sua fidanzata Leandra a Pantano di Civitavecchia: un giro in moto ed una cena da amici era il programma di quella giornata. Un banale contrattempo, però, cambierà il destino di molte vite. Ivano tocca con le mani sporche di sangue il volto della statuina della Madonna posta in una nicchia all’interno del giardino di casa Gregori: si era ferito con il filo del gas della moto ma, secondo il suo racconto, se ne sarebbe accorto solo dopo aver sfiorato la statuina bianca. Jessica, una bimba di 5 anni, vede la statuina con il volto sporco di sangue e chiama il suo papà. Da quel momento inizia una vicenda intricata che ha diviso per anni l’opinione pubblica, la diocesi e il Vaticano: dopo 25 anni resta ancora aperta ma il segreto di Ivano forse potrebbe aprire uno squarcio sulla vicenda».

Com’è stato scriverlo a quattro mani con Maria Teresa Fiore?

«I grandi casi di cronaca irrisolti o quelli su cui restano dubbi sono sono sempre stati motivo di confronto e di approfondimento con Maria Teresa con cui condivido una passione profonda per il nostro mestiere. Scrivere questo libro insieme è stata un’esperienza bellissima perché le nostre sensibilità si sono ritrovate all’unisono in questo racconto, senza perdere mai di vista l’obiettività e la volontà di rimettere al giudizio di esperti la verifica sulla veridicità attraverso il test del DNA».

Qual è stata la pagina più complicata da scrivere?

«La testimonianza di Ivano è stata raccontata in un’intervista televisiva andata in onda in una puntata di Porta a Porta. Quando ha ricordato quel preciso istante in cui ha toccato con le dita sporche di sangue il volto della statuina della Madonna non è stato un momento facile. In un attimo si era aperto un baratro in cui finivano 25 anni di convinzioni, di battaglie giudiziarie, di inchieste diocesane, di speranze e di preghiere. È stato complicato raccontare quel racconto e trasferire sulla carta l’angoscia di Ivano, il suo tormento, la sua paura e la sua richiesta di perdono».

Chi vorresti leggesse, in particolare, questo libro?

«Mi piacerebbe che questo libro aiutasse a chiarire i tanti punti oscuri di questa vicenda. Le ombre sul caso della Madonnina di Civitavecchia hanno diviso anche la Chiesa, che non si è mai espressa ufficialmente lasciando sempre un velo di scetticismo sulla storia delle lacrime. Se il caso fosse riaperto, con la richiesta da parte della magistratura ad Ivano di sottoporsi al test del DNA, circostanza che lui auspica, avrei la certezza di aver contribuito con il nostro lavoro di croniste alla ricerca della verità su questa vicenda».

Nel frattempo, continua il tuo impegno a Porta a Porta: secondo te quali sono gli ingredienti di questo successo?

«Porta a Portasi conferma il programma di approfondimento giornalistico leader negli ascolti e nel gradimento della seconda serata della Tv Italiana da quasi 25 anni. Il successo di questa trasmissione è nella sinergia tra una mente geniale, un talento indiscusso ed una professionalità ineccepibile che è quella del conduttore e ideatore Bruno Vespa con una squadra che lavora con energia e passione, senza mai dare per scontato il successo. Quello va ricercato nel talento, nella determinazione e nella professionalità di chi pensa, scrive, ricerca, organizza, dirige e conduce. Insomma, il successo di Porta a Porta a mio parere è il prodotto non solo del lavoro ma della dedizione di una squadra coesa che resta fedele ad un progetto: quello di fare un’informazione corretta e coerente alla funzione di servizio pubblico della nostra rete. Con uno sguardo sempre attento all’equilibrio e alla puntualità nel trattare ogni tipo di argomento».

Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2020. Medjugorie: milioni di pellegrini ogni anno, conversioni, vocazioni, opere di carità, saggi e studi di ogni genere, polemiche, una commissione che ha prodotto migliaia di pagine con fatti, testimonianze, indagini in incognito. E alla fine ecco i risultati: nessuna origine diabolica, nessuna manipolazione. Tra le prime apparizioni della Madonna, sette sono autentiche. Piuttosto sono "banali" i messaggi quotidiani, e i cosiddetti segreti non hanno alcuna approvazione ecclesiastica. Perplessità anche sui presunti veggenti, in primis a causa di un rapporto ambiguo con il denaro, soprattutto in un caso particolare. Serve un più costante e approfondito accompagnamento spirituale dei pellegrini e un nuovo santuario. Sono questi, in sintesi, i punti salienti della relazione ancora top segret della Commissione pontificia, istituita da Benedetto XVI e guidata dal cardinale Camillo Ruini, che aveva lo scopo di fare chiarezza sul fenomeno delle apparizioni mariane. Risultati destinati a suscitare molte reazioni, e anche molti malumori. Queste conclusioni, a grandi linee, erano già state rese note, nel 2017, da papa Francesco, in attesa che fosse pubblicata la relazione finale della Commissione, documento che poi il Pontefice avocò a sè. Ora i particolari di queste trenta pagine sono stati diffusi da Davide Murgia - giornalista, saggista, e autore di diversi programmi televisivi per Tv2000, la televisione della Cei - nel suo blog personale (ilsegnodiGiona.com). capolavoro Murgia sottolinea come la relazione sia «un vero capolavoro», che per metodologia e ricerca «dovrebbe essere studiata e proposta come modello nelle università», elogiato pubblicamente dallo stesso Francesco. Pagine molto chiare ed efficaci, spiega ancora il giornalista, che potranno aiutare tutti coloro che «cercano la verità, sia quelli che non credono a Medjugorie sia quelli che ci credono come il sottoscritto». La Commissione ha redatto questo documento a partire dal 2010, ha lavorato per quasi quattro anni, attraverso 17 riunioni plenarie. Ne hanno fatto parte 13 membri, a cui si sono aggiunti 4 esperti. «La Commissione internazionale ritiene di poter affermare con ragionevole certezza che le prime sette apparizioni risultano intrinsecamente credibili», si legge nel documento, e ci si riferisce a quelle avvenute dal 24 giugno al 3 luglio 1981, «perché capaci di suscitare in chi le ha vissute un risveglio della fede, una conversione del modo di vivere e un rinnovato senso di appartenenza alla Chiesa».

Il dio denaro. Ma il punto che maggiormente provocherà reazioni - «mal di pancia», li definisce Murgia - è quello in cui la Commissione stessa si esprime rispetto ai comportamenti dei presunti veggenti - un gruppo di sei ragazzini, a cui poi se ne sono aggiunti altri due, ma dal quale successivamente ne sono usciti due - soprattutto per il rapporto, definito ambiguo, con il denaro. Esiste un dossier su questo tema scottante, rimasto segreto per decenni, di cui Murgia annuncia che scriverà «nei prossimi giorni». In sostanza, secondo gli esperti vaticani, i veggenti si sono fatti coinvolgere dalla «ricerca di un benessere personale», senza poter contare su un maturo «accompagnamento spirituale». Ma la Commissione pontificia si è espressa con chiarezza specialmente sui cosiddetti messaggi, la presunta "vita di Maria", "il grande segno" e i famosi "dieci segreti". Contraddistinti, secondo la relazione, da una «banalità ripetitiva», senza la presenza di quegli elementi «tipici» della comunicazione «soprannaturale», ossia la «indeducibilità e l' eccedenza». Anche se tutti questi messaggi sono in linea con la "fides Ecclesiae", la fede della Chiesa.

Brunella Bolloli per “Libero Quotidiano” il 24 gennaio 2020. Il collega stronzo, la rivale in amore, il cugino che vuole prendersi la casa di famiglia, la suocera così invadente da meritare di essere messa fuori gioco: quante volte vorremmo avere una bacchetta magica per fare scomparire con un tocco chi pensiamo ostacoli il nostro successo? Tante, ma c' è chi non si ferma alla fase del desiderio e passa direttamente all' azione, mettendo in atto il suo piano diabolico di annientamento del nemico come si faceva una volta, tramite fatture, malocchi, riti occulti e stregonerie. «Pronto, mi chiamo Gianna. Voglio farla pagare a una che mi odia». «Va bene, mandami una foto della persona in questione». In Rete le possibilità non mancano e anche noi abbiamo provato a mandare mail e comporre i numeri di esoteristi e moderne fattucchiere che promettono se non miracoli, qualcosa di simile alle nostre strampalate richieste. Vi racconteremo. Ma esiste davvero chi può fare arrivare del male a destinazione? Gli esperti assicurano di sì e distinguono tra malocchio, maledizione e fattura: il primo di minore entità serve solo a dare un avvertimento alla persona che si vuole colpire e in genere i suoi effetti finiscono prima, così come la maledizione che si manda alla vittima designata con effetto immediato, quindi molto più rapida rispetto alle altre pratiche. Malocchio, maledizione e fattura sono malefici operati da occultisti, ossia da cultori della magia nera, la più temibile perché concerne il maligno, il soprannaturale, ed è spesso associata al satanismo. Costoro, a leggere alcuni siti, fanno quasi paura. Assicurano macumbe, riti voodoo, rituali di vendetta, legamenti d' amore o slegamenti d' amore, incantesimi per i soldi o per il sesso, cerimonie potentissime come la santeria cubana e altre simili diavolerie di provenienza estera. In realtà per la Chiesa il malocchio in sé non esiste, è piuttosto uno stretto parente della superstizione e chi ci casca lo fa perché ha perso la fede e cerca dei surrogati. Invece il maligno è presente, riguarda il diavolo che agisce per conto del primo attore, il richiedente, cioè colui che ordina l' azione malvagia e vende la propria anima a Satana affinché compia il maleficio. Ma anche chi lo riceve è parte attiva. Quarto attore, ovviamente, è Dio il quale può impedire che contro un suo fedele, vivo nella fede, nella speranza e nella carità si scateni l' atto malefico. Nella Bibbia è citato un oracolo fattucchiere, tale Balaam, il quale benedice e maledice in nome di Dio ma è complice del demonio perché mosso dal denaro e dall' odio di Balak, re di Moab. Balaam viene spesso indicato come l' uomo stregato e per salvare chi è posseduto dal male ci sono i sacerdoti esorcisti. La letteratura, poi, è zeppa di storie e aneddoti riguardanti personaggi in grado di praticare sortilegi, incantesimi, riti propiziatori o sofferenze agli avversari. Le fattucchiere di Frattamaggiore, nel Napoletano, sono ancora oggi una tradizione di tutto rispetto che si tramanda di generazione in generazione partendo dal fatto che nell' antichità in paese c' era una strega capace non solo di leggere le carte, interpretare i sogni e predire il futuro, ma perfino di catalizzare su di sé l' attenzione degli altri come un oracolo. Si andava dalle "streghe" per conoscere l' avvenire, per ottenere il via libera per una determinata unione, per l' inizio di un' attività, per questioni di salute. Per amore, soprattutto. E in tal caso si parla di "fattura buona" (si fa per dire), come sono le "effatturazioni" dove la fattucchiera cerca di convogliare su un uomo l' interesse di una donna attraverso potenti filtri amorosi. Anche qui servono precisi elementi affinché il "magheggio" funzioni: una ciocca di capelli di lui, un brandello di abito usato dall' amato, un oggetto con cui è spesso in contatto, oltre al sangue mestruale della richiedente che viene mischiato con altri strani liquidi e fatto bere all' ignaro signore nella speranza che cada innamorato ai piedi della cliente. Il malocchio, nell' antica arte napoletana, è la "fattura cattiva" che poteva sfociare perfino nella morte della vittima contro cui veniva rivolta e aveva come elemento principale il limone: una volta preparato e nascosto nelle vicinanze del soggetto da eliminare, si caricava di energia negativa e man mano che si essiccava, allo stesso modo, prosciugava la vita dell' uomo. Ancora oggi, si dice, nella località campana vive una signora molto vecchia nota come "la fattucchiera di Fratta" perché conosce tutti gli intrugli, i riti e le scaramanzie legati al mix di magia bianca e magia nera che un tempo erano all' ordine del giorno in certi territori. Campania, Umbria, Lazio, Torino fulcro dell' esoterismo, sono le zone considerate cruciali per chi ha la passione del mistero. In ogni caso, trovare un occultista che ammetta pubblicamente di praticare il malocchio è pressoché impossibile sebbene tanti sponsorizzino le proprie gesta con siti internet piuttosto documentati. I più riservati non mettono il nome vero né il numero di telefono ma solo un contatto mail, non amano il clamore e puntano a stabilire un legame duraturo con il cliente, in modo da guadagnare su più accessi possibili al sito. Abbiamo vagliato parecchi maestri dell' esoterismo, chiamando "studi magici" che millantano una percentuale del 95% di successo, «esperienza pluriennale nella magia bianca, nera e rossa», risultati sicuri e in tempi rapidi (in media due settimane). Quasi tutti hanno garantito che noi - in gergo "l' assistito" - saremmo stati aiutati a distanza: unica condizione inviare un' immagine nostra e della persona alla quale era destinata "la fattura" corredata dai dati anagrafici del committente. «Vale anche una foto presa da Facebook?». «Sì, ma meglio se a figura intera così il maleficio viene rivolto su tutto il corpo». Il pagamento? «Prezzi onesti e trasparenti», ha assicurato LadyLuna, maga per hobby. Anche gli "incantesimi" hanno le loro tariffe, come i taxi: in genere da 30 euro a prestazione. La seconda esoterista a cui ci siamo rivolti è Rita, «discendente da una famiglia di cartomanti di chiara fama». A lei abbiamo spiegato con voce tremula che il nostro lui, «dopo 8 anni di convivenza, se n' è andato e noi non viviamo più». Siamo fortunati perché il piatto forte di Rita è "il rituale del ritorno". «Sono disposta a tutto pur di riaverlo». «Cara, per prima cosa diamoci del tu». Ok. «Poi ho bisogno una fotografia di questo ragazzo e la sua data di nascita. Puoi mandarmi tutto su WhattsAppi». Il prezzo? «Per cominciare mi fai una ricarica del telefonino da 30 euro. Poi vediamo». A un altro numero abbiamo raccontato di avere un capo talmente antipatico, sadico e oppressivo che si merita una lezione. Niente di definitivo, ma almeno che si levi di torno per un po'. Il santone dall' altra parte della cornetta, tale Joshua, ha esordito dicendo che lui non pratica nulla che possa cagionare la morte di qualcuno, casomai solo un fastidio costante, un logoramento lento che sfianca il nemico attraverso una macumba brasiliana che non è né gratis né fai da te. Ha aggiunto che per agire è necessario gli venga recapitato un lembo di camicia del malcapitato, una foto a figura intera, un' unghia o altro su cui puntare gli spilloni. «Venga nel mio studio, fuori città», ha insistito. Ma qui il prezzo oscilla sui 200 euro a incontro. «E non è detto sia sufficiente una sola seduta per raggiungere l' obiettivo».