Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

FEMMINE E LGBTI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI.

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Uomini e donne: diversi per anatomia e fisiologia.

Donne al Volante…

Quelli che non vogliono le Miss.

Donne che odiano le donne.

Il Metoo.

Harvey Weinstein: il MeToo dell’Irriconoscenza.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

C’era una volta il maschio.

Revenge Porn. Dagli al Maschio.

Il Maschicidio, il Femminicidio ed ogni abuso di genere.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

Comandano loro.

Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.

Le madri del sud.

Mai dire Mamma.

Mai dire Papà.

Aborto. Il Figlicidio.

Il Divorzio.

Nelle more di un divorzio.

L’odio per il diverso.

Donne: Razzismo e Politicamente corretto.

Donne che odiano i Transgender.

I Transgenger.

La Sinistra e le Donne.

Il Femminismo.

Le mestruazioni femministe.

L’estinzione dei simboli femminili.

Gli Etero.

Gli Omosessuali e le Lesbiche.

Mai dire Puttana.

Mai dire Porno.

Mai dire Razzismo.

L’eccitazione.

L’Infedeltà.

Lo Scambismo.

Sadomaso e Trasgressioni.

Lo famo strano…

Il Fetish.

Cuckqueaning e Cuckquean.

Gli strumenti del sesso.

Autoerotismo: la Masturbazione.

L’Astinenza dal Sesso.

Il blue-stalling: situazione di stallo amoroso.

Il Dogfishing.

Il Fascino.

La seduzione.

Il Dirty Talk.

L’iniziativa sessuale.

Durante il Sesso.

Il Cunnilingus.

Il "Rusty Trombone".

La Spermata.

L'eiaculazione precoce.

Morire di Sesso.

Il Kamafitness.

Il Cuckolding.

Il Wetlooking.

I sogni erotici.

Ninfomania. La dipendenza dal sesso.

Sesso, malattia e dolore.

Sesso vecchio.

Sesso e segno zodiacale.

Organo sessuale? C’è differenza.

Infibulazione e circoncisione. Le mutilazioni dei genitali.

Lo Sbiancamento.

Viva il Pelo.

Le Malattie Sessuali.

Il sesso combatte le malattie.

Fuori di…Seno.

La Lattofilia.

La Piedofilia.

La Sitofilia.

La Venustrafobia.

La mia bruttezza.

La Mia Grassezza.

Femmine e Sport.

 

 

 

FEMMINE E LGBTI

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato) 

·        Comandano loro.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2020. Resterà qualche ruolo anche per gli attori maschi? Dubitiamo fortemente, di questo passo. Da una parte, addirittura, si vuole abolire la distinzione di «migliore attore», «migliore attrice» dai premi del cinema e della tv in nome della fluidità sessuale e dell' inclusione; dall' altra, ormai, tanti ruoli storici baluardo degli uomini sono oggetto di saccheggiamento femminile, il tutto ovviamente dopo l' ondata del MeToo. Il più clamoroso è sicuramente il caso di 007 che nel prossimo capitolo al cinema sarà una agente donna e di colore. James Bond resta tale, ma la nuova eroina sarà Lishana Lynch, che si prepara al venticinquesimo film della saga No Time To Die. Donna e di colore è pure Zoe Kravitz, la bellissima attrice figlia di Lenny, che nella nuova serie ispirata al romanzo del 1995 di Nick Horby, Alta Fedeltà, ricopre la parte che al cinema fu di John Cusack, un uomo.  Peraltro con scarso successo, visto che l' emittente streaming Hulu ha deciso di non confermare la seconda stagione. In High Fidelity - Alta fedeltà la protagonista è Rob, diminutivo di Robyn: lavora in un negozio di vinili e non siamo più a Londra, ma a New York. Se il protagonista del romanzo era etero, gli ex di Rob-Zoe non sono necessariamente tutti uomini. Di fatto tutte queste licenze poetiche non hanno avuto una accoglienza travolgente, visto che la seconda stagione non è cancellata, con tanto di polemica della protagonista (che abbiamo visto in Big Little Lies, quello sì un capolavoro). Ricordate, invece, il macho spagnolo Antonio Banderas nei panni dell' eroe spadaccino Zorro? Dimenticatelo. Adesso il personaggio mascherato cambia connotati ad opera di NBC che sta sviluppando una nuova serie tv che nel nuovo adattamento avrà un volto femminile. Ci stanno lavorando Sofia Vergara e Rebecca Rodriguez. La nuova saga sarà incentrata su Sola Dominguez, una versione femminile e contemporanea di Zorro, che è un' artista underground che combatte per la giustizia mentre la sua vita è in pericolo visto che ha denunciato diverse organizzazioni criminali. Il personaggio di Zorro, al secolo Don Diego de la Vega, è apparso per la prima volta in un romanzo breve del 1919. Al cinema ha avuto il volto di Alain Delon, Anthony Hopkins e Antonio Banderas; adesso prepariamoci a una nuova rivisitazione. Non è più un Paese per uomini, dunque, anzi un mondo per uomini. Oggi l' ondata femminista è talmente potente che produttori, autori e registi s' affannano a mettere in scena le donne in ogni salsa. Persino un tipo virile come Thor, protagonista della saga di fantasia, sarà messo in ombra. Nel nuovo film, quando i Giganti del Gelo invadono la Terra una nuova mano afferra il martello, e una donna misteriosa indossa il mantello del potente Thor.

Rory Cappelli per repubblica.it il 13 novembre 2020. Cambia il rettore all’università La Sapienza, tra le più antiche e prestigiose d’Europa. Cambia dopo 6 anni a guida Eugenio Gaudio, medico e amante della cultura classica e della musica, che, in virtù delle regole entrate in vigore proprio nell’ultima tornata elettorale, non si è più potuto ricandidare. Ad essere eletta Antonella Polimeni, preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria, docente di Malattie Odontostomatologiche: per la prima volta una donna diventa rettrice della più grande università d’Europa, fondata nel 1303, che ne fa una delle più antiche del mondo, con 11 facoltà, 120 mila studenti ogni anno di cui ottomila stranieri, e oltre 4.700 tra professori e ricercatori (al netto degli amministrativi). Non è stato un percorso semplice quello di Antonella Polimeni, aveva una fronda ben nutrita, anche a medicina, contraria alla sua elezione. Che però non ce l’ha fatta ad avere la meglio. E' anche la prima volta che Sapienza vota online, causa pandemia, un altro dei grandi problemi che la nuova rettrice dovrà affrontare: le conseguenze del coronavirus, in cui il Policlinico universitario Umberto I è in prima linea. Dopo due Rettori medici, Luigi Frati ed Eugenio Gaudio, ci si aspettava un candidato di ingegneria, la Facoltà più numerosa dopo Medicina e quindi con maggiori possibilità di vincere: e infatti in un primo momento si era presentato anche Teodoro Valente, Prorettore alla Ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, Professore Ordinario in Scienza e Tecnologie dei Materiali e Direttore del Dipartimento di Ingegneria Chimica Materiali e Ambiente, che però si è ritirato (e ancora nessuno ha capito perché). Antonella Polimeni è preside di una delle facoltà mediche, ed ha una vastissima esperienza sul campo, conosce come le sue tasche la "macchina Sapienza", fin nei più piccoli ingranaggi: da studentessa è stata rappresentante e poi ha ricoperto il ruolo di componente del nucleo di valutazione e consigliere di amministrazione. È la prima donna preside eletta nella facoltà di Medicina e Odontoiatria e ha presentato un corposo programma elettorale di 34 pagine, dove ha spiegato come Sapienza, con i suoi 700 anni di storia “viva”, “crescerà ulteriormente se saprà percepire la ricchezza del suo pluralismo e, se posso dire, della sua biodiversità, grazie alla forza della sua unità nel rispetto delle specificità e delle autonomie”. Sulla squadra che la coadiuverà Polimeni non ha ancora detto una parola, ma quello che intenderà fare è tutto in queste poche righe. “Mi presento alle Elettrici e agli Elettori con una esperienza venticinquennale maturata nella nostra Istituzione e negli Organi di Ateneo” ha anche scritto ai colleghi e alle colleghi, “animata dall'entusiasmo e dalla forte determinazione a imprimere alla nostra grande Università un ulteriore salto qualitativo a tutti i livelli. Una riforma strutturale a medio termine - così la definirei - che si dimostri all'altezza della nostra indiscussa eccellenza”. Polimeni ha anche “l'intento dichiarato di ricomporre la frattura tra scienza e società, vincendo le attuali, gravi diffidenze verso la ricerca. A ciò, infine, si aggiunga l’urgentissima promozione dell'internazionalizzazione del binomio ricerca e didattica, senza dimenticare le istanze della ricerca di base da sostenere e da accompagnare mediante aree dedicate dell’Amministrazione, nonché il rilancio dell’Area della Salute”. Per continuare: “La mia intenzione è di approntare una squadra di Governo competente, compatta ed affiatata rappresentativa dell’Ateneo. Il fattore tempo in qualsiasi processo riformatore è cruciale e deve essere conforme con le aspettative di chi vota, specie in un momento come quello presente dove speranze e investimenti sul futuro prossimo sono fattori indispensabili per vincere le difficoltà e accompagnare i sacrifici che tutti noi stiamo facendo”. Antonella Polimeni arriva infatti in un momento che è decisivo per invertire la rotta del mondo, come spiega il World Economic Forum, l’organismo che in 144 Paesi ogni anno misura il divario di genere: se ci fosse maggiore eguaglianza, se il gap tra uomo e donna venisse colmato, aumenterebbe il Pil di quasi 6 miliardi di dollari. E una cosa è certa: questa battaglia passa anche per il rettorato della Sapienza.

Marco Presta,  Umorista e conduttore radiofonico, per “il Messaggero” l'1 novembre 2020. Che cos' è un girone infernale? Quello in cui ti capitano Manchester United e Barcellona, verrebbe da rispondere istintivamente. Dante, però, non s' interessava di calcio e nel suo capolavoro ci descrive nove bolge, nove gironi infernali appunto, nei quali sono reclusi e atrocemente torturati peccatori di tutti i generi, dai lussuriosi agli ignavi. Ebbene, alla luce dei tempi che viviamo, possiamo dire che oggi è possibile individuare un decimo girone: quello dei mariti costretti ad accompagnare le mogli a fare shopping. Alcuni anni fa, nel 2012 per la precisione, è stata creata una pagina Instagram nella quale gli utenti di tutto il mondo possono pubblicare le foto di uomini in attesa. Ma in attesa di cosa? Dell' Illuminazione, del grande amore, di comprendere il senso della vita? No. In attesa che la consorte esca dal camerino di un negozio d' abbigliamento o finisca di fare le compere che ha programmato. La pagina conta ormai circa 350.000 follower e si chiama Miserable men, uomini miserabili. In effetti, le fotografie che la compongono sono degne del romanzo di Victor Hugo: individui ormai privi di ogni dignità che, stravaccati su divanetti e poltroncine di ogni foggia e colore, fissano il vuoto disperati oppure dormono, sprofondati in un sonno senza sogni, occhi chiusi e bocche aperte, riporti spettinati sulla testa e pance che debordano dai pantaloni. Immagini di vero dolore e profonda rassegnazione, verrebbe voglia di chiedere all' Onu di creare un' agenzia apposita che si occupi di questi disgraziati. Nessuno si salva da questa triste costumanza, tra i mariti immortalati su Miserable men, infatti, non mancano dei vip: anche Zinedine Zidane e Bruce Springsteen appaiono tragicamente a rimorchio delle loro compagne, i fantastici gol e le grandi canzoni che hanno realizzato non li mettono al riparo dalla via crucis dello shopping.

LA RICHIESTA. Ci sono due cose che i maschi della specie umana temono sopra tutte le altre, indipendentemente dal Paese in cui sono nati e dal loro status economico e culturale: la frase «caro, dobbiamo parlare» rivoltagli dalla compagna e la sua richiesta di essere accompagnata al centro commerciale. Se una di queste due condizioni si verifica, il famoso aforisma di Schopenhauer La vita è dolore diventa drammaticamente reale. La stessa fiera creatura capace di dominare la Natura e conquistare lo spazio, accetta supinamente di farsi trascinare come un sacco di patate all' interno di un complesso edilizio che brulica di attività commerciali e rimanere lì, accovacciato, aspettando che la partner scelga una camicetta. Centinaia di foto pubblicate su Miserable men lo dimostrano, in una si vede addirittura un Babbo Natale sopraffatto dal torpore che si abbiocca su uno strapuntino, nonostante sia lì per lavoro e non per assecondare i desideri della consorte. Ma l'abbrutimento del maschio nel centro commerciale non si limita all' apatia estrema, tutt' altro. Se la donna volesse chiedergli un giudizio sul capo d' abbigliamento che sta provando, l' uomo, pur di andar via al più presto, sarebbe capace di avallare qualunque obbrobrio e spingere la madre dei suoi figli a vestirsi come un clown del circo Orfei. Mi permetto di suggerire alle signore che dovessero leggere questo articolo di non fidarsi, MAI, dei pareri che il loro compagno può elargire all' interno di un outlet o di un grande magazzino. Il suo desiderio di fuga potrebbe portarlo ad approvare dei look umilianti. Forse però è possibile trovare un aspetto positivo, in quella che sembra essere una disgrazia collettiva. Tutti gli uomini, in ogni parte del mondo, sono affratellati dalla feroce insofferenza verso i centri commerciali. Questa potrebbe essere la base su cui iniziare a costruire una grande, concreta, duratura pace tra i popoli. Sì, è vero, le diversità politiche e religiose possono essere immense, apparentemente insormontabili, ma esiste una paura che accomuna tutti gli uomini, quella che la dolce metà dica loro: «Amore, mi accompagni all' Ikea?». Pensiamoci, in attesa che presto qualcuno realizzi una nuova pagina Instagram, con le foto delle nostre signore mentre guardiamo la Coppa Italia in tv.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 31 ottobre 2020. «Ero bella, cosa credete? Bellissima. Se avessi vissuto la mia vita di donna, con i miei capelli lunghi, sarei diventata miss Mondo». Ma Djiana Rakipi non è diventata miss Mondo, è diventata Lali, che in albanese significa fratello maggiore. A 17 anni ha giurato di essere uomo. Lo ha giurato a suo padre, alla famiglia, alla società, non è diventata madre, non ha mai dovuto chinare il capo uscendo da una stanza, come le avrebbe imposto il kanun, la legge della tradizione, ha potuto fumare, bere, fare il soldato, ha potuto lavorare per far vivere la famiglia, di sole sorelle. «Ho potuto essere libero». Lali è una delle ultime burrneshe, le vergini giurate. È lei che incontrano i rari cronisti che in questi anni si sono avventurati nelle regioni montagnose del nord dell'Albania, dove vivono. Ormai sono rimaste in poche. Erano tredici due anni fa. Lali è l'unica a vivere in città. Ha lasciato le montagne e abita a Durres, porto sul mare a ovest di Tirana. È stato lo stesso kanun, il canone della vendetta e del patriarcato a indicarle la via d'uscita: scegliere di essere un uomo. Lei - ma Lali parla di sé al maschile - non se n'è mai pentita. «Ho vinto» dice a 66 anni, il viso rugoso, il sorriso dolce, lo sguardo azzurro scanzonato, il basco militare, la cravatta, la voce grave, i capelli grigi, corti. Un uomo che dimostra un po' più dei suoi anni, ma vispo e agile: «Scegliendo di essere uomo, a 17 anni, ho vinto, ho sconfitto il fanatismo, ho vissuto la vita che volevo, libero», dice. Qualsiasi burrnesh lo ripete: «È stata una scelta, non può essere un'imposizione». Una scelta, e anche una fuga: da un mondo che non riconosceva, e in parte fatica ancora a riconoscere, la stessa vita agli uomini e alle donne. Una scelta obbligata per le famiglie senza uomini, in un mondo in cui solo l'uomo poteva portare il pane a casa. «Ho potuto fare la carriera militare - racconta Lali - ho comandato fino a 800 uomini, sono stato agente della dogana, fotografo, pittore». Sorride alle domande che le ripetono, sul genere, sui suoi sentimenti, sulla scelta della castità. «Per voi qual è la differenza tra uomo e donna. L'apparenza? E allora guardatemi, la mia voce è grave, i miei vestiti sono da uomo, guardate il mio carattere, i miei gesti, la mia uniforme. Forse è difficile da capire: ma la donna, quando ho dovuto scegliere, non era niente. La libertà non era per le donne. Io sono sfuggito a questo destino. Io non sono mai uscito da una stanza chinando il capo, non ho mai abbassato lo sguardo davanti a un uomo. Io ho potuto tenere sempre la testa alta, sono sempre stata libero». E il voto di castità? Perché il giuramento questo implica: rinunciare alla femminilità, al corpo femminile, non avere figli. Chi ha figli non imbraccia il fucile. «Ho ottenuto quello che volevo grazie alla mia determinazione - dice Lali senza nessuna rivendicazione nella voce, solo un tono di semplice constatazione - Non tutti possono essere burrnesh, perché significa rinunciare: la rinuncia è il prezzo della libertà. Io sono fiero della mia vita giusta, fiero di aver sempre mantenuto la parola. Non ho mai imbrogliato, ho imparato che la cosa più importante sono il cervello e la volontà. Più delle armi. Ho fatto quello che dovevo fare». Il mondo del kanun cui non voleva sottomettersi, sembra dettare ancora i suoi pensieri. «Non parlatemi di chirurgia, non parlatemi di genere. Io non ho cambiato niente, non si gioca con quello che siamo, è immorale. Dio ci ha dato due generi, maschio e femmina, ha creato Adamo e Eva, il maschile e il femminile, è la natura». Che si può sovvertire con una scelta e un giuramento da mantenere? «Non è stata una scelta facile, ma ho preferito la libertà. È sempre difficile scegliere la libertà, no? Non mi sono mai sentito solo; e se qualcuno mi chiedesse oggi cos' è che rende più forti, risponderei senza esitare: la volontà». Grazie alla sua scelta, ha fatto crescere le sue cinque sorelle, sostenuto la madre. Il padre è morto quando era ancora molto giovane: «Lui aveva capito. Un giorno, avrò avuto sì e no dieci anni, mi disse: vieni a fumare con me».

Benvenuti a Luoshui: il “Regno delle donne” Mosuo. Federico Giuliani il 4 agosto 2020 su Inside Over. La temperatura annuale media oscilla intorno ai 15 gradi. La vegetazione è fitta. Le montagne dominano il paesaggio incontaminato. A quasi 3mila chilometri di distanza da Pechino, cuore della superpotenza cinese, sorge la provincia dello Yunnan. Siamo nell’estremo sud-ovest della Cina, in un’area che collega la Repubblica Popolare a Birmania, Laos e Vietnam. In una superficie che si estende per circa 394mila chilometri quadrati, ovvero un’area maggiore dell’Italia, vivono 50 milioni di abitanti e ben 25 minoranze etniche, molte delle quali suddivise in comunità tribali. Dimenticatevi i palazzoni scintillanti di Shanghai, le Mercedes che sfrecciano attorno agli anelli che circondano la Città Proibita e le esclusive boutique di Calvin Klein e Dior.

La patria dei Mosuo. Lo Yunnan è considerato uno degli ultimi baluardi della Cina rurale, la “vera Cina“, il volto del Paese ancorato alle vecchie tradizioni millenarie, e che vive a contatto con la natura. Da un punto di vista turistico la zona è ricca di attrazioni. Dai campi di riso terrazzati costruiti 1300 anni fa dalla minoranza etnica degli Hani, nella contea Yuanyiang, alla particolare architettura di Lijiang, una città-prefettura abitata dai Naxi, altra minoranza etnica locale. E ancora: le pagode di Dali, la foresta di pietra Shilin, il Monte del Drago di Giada, il capoluogo della provincia Kumming e tanti altri villaggi remoti. Eppure, sperduta tra queste valli, vive ancora oggi un’etnia unica nel suo genere. A Luoshui, proprio di fronte al Lugu Lake, un lago di montagna tra i più grandi di tutta l’Asia, vivono i Mosuo, una minoranza formata da circa 40mila persone. La loro storia è avvolta nel mistero, tra leggende e racconti tramandati di generazione in generazione in forma orale. Gli antropologi hanno il loro bel da fare. Secondo il governo cinese i Mosuo sono una ramificazione dell’etnia tibetana Naxi, anche se lingua (un dialetto locale), credenze (per lo più buddismo) e cultura (struttura familiare sui generis) mettono in discussione quanto sostenuto da Pechino.

Il matrimonio ambulante. In ogni caso la più grande particolarità sociale dei Mosuo è quella di basarsi su strutture matriarcali che non prevedono il matrimonio o analoghe forme di unione. Molti viaggiatori hanno raccontato nei loro scritti di essersi ritrovati davanti a una comunità semi tribale che parla al femminile. Dove la responsabilità della stabilità familiare spetta alle donne, l’eredità si trasferisce di madre in figlia e gli uomini hanno ben poca voce in capitolo, anche in ambito economico. Non solo: il matrimonio tradizionale, cioè il rapporto di convivenza tra uomini e donne, è sostituito dal cosiddetto walking marriage, traducibile in italiano con il termine di matrimonio ambulante (in cinese zouhun). Alcuni parlano di libero amore, altri di relazioni senza impegno, rigorosamente portate avanti dal gentil sesso. In realtà tale pratica sociale è molto più complessa di quanto non si possa pensare. Uomini e donne si incontrano di notte, senza diventare “mariti” o “mogli”. I figli, di fatto, crescono senza padre. Quindi, così come il concetto di matrimonio è inconcepibile, anche la figura paterna è sostanzialmente inutile. Choo Waihong, autrice del libro The Kingdom of Women, ha sottolineato un aspetto fondamentale della cultura Mosuo. “Per loro – ha dichiarato – il matrimonio è un concetto inconcepibile e un bambino è senza padre semplicemente perché la società non presta attenzione alla paternità. La famiglia nucleare per come la comprendiamo esiste, solo in una forma diversa”.

Il ruolo della donna. Il motivo è semplice: la società dei Mosuo non presta attenzione al padre. Il Guardian ha usato queste parole per illustrare uno scenario inedito al mondo: “I Mosuo non hanno adottato né il matrimonio né la monogamia. Le donne sono libere di scegliere gli amanti, e i bambini che ne risultano sono allevati nelle case di famiglia guidate dalla donna più anziana. Inclusi nella famiglia troviamo i suoi fratelli, le sue figlie e i loro figli. Non ci sono i padri dei bambini, che vivono con le proprie madri”. E ancora: “Le donne sono trattate in modo uguale, se non superiore, agli uomini. Entrambi hanno il maggior numero di partner sessuali che desiderano, liberi da qualsiasi giudizio. Le famiglie allargate allevano i bambini e si prendono cura degli anziani”. Tutto il peso familiare, come detto, è spostato sulla donna, alla quale spettano i compiti più importanti. Le coppie, se così possono essere definite, non vivono mai insieme. Si riuniscono soltanto per il piacere di una reciproca compagnia. Scendendo nel dettaglio, in un matrimonio ambulante entrambi i partner vivono sotto il tetto della loro famiglia allargata durante il giorno; di notte, invece, l’uomo visita e soggiorna fino all’alba presso la casa delle donne. Certo, questo può avvenire soltanto nel caso in cui riceva il permesso di farlo. L’antropologo Chuan Kang Shih ha spiegato che quando una donna Mosuo (o un uomo) esprime interesse per un potenziale partner, “è la donna che può dare l’uomo il permesso di farle visita”. Qualora dovesse nascere un bambino, il padre non ha alcun obbligo morale, culturale o giuridico di prendersene cura. Il pargolo sarà invece allevato dalla famiglia allargata della donna.

L’ultimo matriarcato? Come può essere definita una società del genere? Difficile dirlo con certezza. Il tema è tutt’ora dibattuto. A differenza di un matriarcato, ovvero un’organizzazione in cui l’autorità è detenuta da una matriarca, nella comunità Mosuo il potere politico è in effetti nelle mani degli uomini. I maschi, pur ricoprendo un ruolo di contorno, si occupano inoltre di pesca, allevamento del bestiame e costruiscono case. È per questo che certi studiosi preferiscono definire quella dei Mosuo una “cultura matrilineare”. Di tutt’altro spessore, invece, la carica ricoperta dalle donne, che gestiscono l’economia familiare. Non sappiamo quale sia l’origine di un simile stile di vita, anche se viene narrato che nella notte dei tempi, migliaia e migliaia di anni fa, una aristocrazia patriarcale scelse di imporre alla popolazione locale il matriarcato con l’obiettivo di mantenere la propria discendenza pura da ogni possibile contaminazione esterna. Questa pratica ha resistito a secoli di cambiamenti. Benvenuti, dunque, nella comunità cui regna il gentil sesso, il matrimonio è solo un lontano retaggio occidentale e tutto ruota attorno alla linea di sangue materna. Benvenuti nel Regno delle donne.

Chi è la più bella del reame? Quella che rompe lo specchio. Un’ex fotografa di moda svela i retroscena di una società che fabbrica insicurezze e impone modelli irraggiungibili. Elvira Fratto il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tra la malvagia Grimilde e la dolce Biancaneve, chi sarebbe oggi l’influencer perfetta? Un cantilenante “specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?” sguscia via dalle fiabe Disney, dal mondo della finzione, dove credevamo che l’ossessione per la bellezza fosse relegata perché non poteva ragionevolmente aver posto nel mondo reale; entra nei nostri social e, non da ultimo, nei nostri pensieri, fino a diventarne parte indissolubilmente. Un mondo insidioso, quello dell’industria della bellezza, che in pochi riescono a riconoscere, anche una volta smascherato. Pochi giorni fa Sara Melotti, ex fotografa di moda, ha postato sul suo profilo Instagram un lungo reportage di fotografie e dichiarazioni inequivocabili su come la libertà di essere venga quotidianamente manipolata e plasmata dall’ideale standard di bellezza imposto da pubblicità, giornali e sponsorizzazioni; messaggi, subliminali e non, che diventano un pericoloso veicolo di cattive abitudini e scarsa considerazione di sé. Sara Melotti è una fotografa e fino al 2015 lavorava per la moda. Scattava foto a modelle dai corpi statuari subendo, indirettamente, l’influenza tossica di quei parametri di bellezza irraggiungibili e contribuendo alla loro diffusone. Un giorno si ritrova a fotografare una modella di quattordici anni. Davanti all’obiettivo la ragazzina è perfettamente a suo agio, tanto che – senza che Sara glielo avesse chiesto – inizia ad assumere pose provocanti, sul filo del soft porn. È un attimo: a Sara esplode qualcosa nella testa, una scintilla che finalmente sa di sano, di lucidità. “Ma che cosa sto facendo?” Niente del lavoro che faceva aveva più senso, racconta ancora su Instagram, su quella stessa piattaforma che ospita migliaia di modelli sbagliati di bellezza e femminilità, e si ritrova dall’altra parte della sponda ad osservare quello che era stato il suo lavoro fino a poco tempo prima con gli occhi di chi, quel lavoro, lo subiva. Sara inizia così un vero e proprio excursus storico che pianta le proprie radici persino ai tempi della Prima Guerra Mondiale quando, nel momento in cui gli uomini delle famiglie erano impegnati al fronte, le donne, in casa e fuori casa, dovevano iniziare a ricoprire ruoli mai investiti prima. Iniziavano, quindi, a guadagnare un po’ di indipendenza, anche dal punto di vista economico. Questa presa di consapevolezza poco piaceva agli uomini, detentori assoluti dell’autonomia di genere, al punto che trovarono il modo per far spendere alle loro donne quei soldi guadagnati: investendoli nella cura del proprio corpo, facendo credere loro che avessero bisogno di “darsi una sistemata” e che il loro aspetto avesse un problema. Ci siamo mai chiesti perché l’ideale di bellezza tipico della donna sia passato dal corpo generoso della Venere di Botticelli a quello delle modelle sottopeso con cui il marketing ci bombarda quotidianamente? Il motivo è proprio il fatto che il corpo della donna fosse considerato come un potenziale “problema ideale” su cui lavorare costantemente: nascono così le creme per la cellulite, condizione tutt’altro che problematica quanto piuttosto fisiologica, strategicamente trasformata in una patologia demoniaca da debellare, pena l’esclusione dall’apprezzamento della società. Sara prosegue con un’analisi del lavoro sulle fotografie. Spiega che tentare di raggiungere la corporatura, la pelle liscia e i tratti divini delle modelle è pressoché impossibile, dal momento che tutto ciò che si vede nella fotografia altro non è che un lunghissimo lavoro di editing che mira a “tirare” la pelle tutta su un tono. Altra chicca tossica: nel paragone tra gli uomini e le donne, solo i primi possono permettersi di invecchiare e mostrarsi alle fotocamere esattamente per come appaiono: pieni di rughe e di segni del tempo, perché si sa, gli uomini non invecchiano: diventano affascinanti. Le donne, invece? Anche a una certa età la loro pelle sui giornali va costantemente lavorata e resa del tutto anacronistica e del tutto irreale. Così come nella storia della “Vecchia Imbellettata” di Pirandello, le povere “comuni mortali” si gonfiano di ritocchi, trucchi, filtri e abbigliamenti improponibili pur di risultare più giovani. Nel reportage di Sara si toccano tutte le corde del sistema tossico che gestisce la bellezza odierna: lo sbiancamento delle modelle di colore, in un climax di bellezza che porta alla modella “bianca” accompagnata dalla didascalia “white is purity”; la mercificazione del corpo della donna, ritratta in tantissime pubblicità come un mero oggetto del desiderio del “branco di maschi alfa oliati”, come li chiama Sara; l’auto-oggettivizzazione della donna nel pubblicare foto di se stessa eccessivamente provocanti o senza veli, che, afferma Sara, non è femminismo, ma solo un’interiorizzazione di tutto quello che finora è stato messo sotto i riflettori: il web è un posto troppo limitato perché la foto di un sedere a pieno schermo possa significare qualcosa di più di ciò che è. In questo modo, spiega Sara, finiremo con l’alimentare il concetto che identifica una donna da una foto che ne ritrae soltanto una parte. Sara, però, sa che i bombardamenti non investono solo le donne: gli addominali scolpiti e i corpi perfetti degli uomini da copertina possono rappresentare un altro problema per il pubblico maschile, così come, anche per loro, la pubblicizzazione di prodotti “ferma-tempo” che nessun effetto, di fatto, sortiscono alla loro giovinezza. Specchio, servo delle mie brame: chi è la più bella del reame? La risposta di Sara è univoca: la più bella del reame è quella che non ha bisogno di chiedere chi lo sia; è quella che non vive di paragoni, ma di equità, che non confida nell’estetica, ma nel talento, proprio e degli altri. La più bella del reame è quella che lo specchio lo sa rompere.

Quando gli eroi sono eroine. Valerio Panettieri il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. NEI videogiochi regnano gli uomini. Non è solo una questione di pubblico, è anche e soprattutto un problema di storie. Difficile incontrare su uno schermo un racconto di formazione alla William Stoner, una vita piatta e ripetitiva con qualche sbuffo di libertà. Il videogioco ha bisogno di immedesimazione totale: è per questo che la stragrande maggioranza dei protagonisti ha compiti assoluti da svolgere. C’è sempre qualche mondo da salvare, spazi sconosciuti da esplorare, fughe da malvagità inaudite con vittime schiacciate e distrutte dal peso dell’avidità o dal metafisico più inquietante. Tutti ruoli che il nostro immaginario occidentale consegna da sempre, nella letteratura come nel cinema, a uomini. E anche nei videogiochi è così dagli albori del narrato. Basta pensare alla piccola e indifesa principessa Peach da salvare dopo aver attraversato mezzo regno nei panni del baffuto Mario. Quel Mario Bros. dove ogni volta che si arrivava alla fine di un livello, dopo aver gettato nella lava l’ennesimo mostro corazzato, spuntava quel testa di fungo di Toad per dirci “Thank you Mario, but your princess is in another castle”. La tua principessa, con il vestito bianco e rosso, poi diventato rosa nelle edizioni successive giusto per fugare l’ultimo dubbio, la coroncina e gli svolazzi. Quell’immaginario da poema epico cavalleresco e un po’ disneyano. Il vecchio mito dell’eroe con radici nei millenni trasferito in una avventura senza tempo. Era il 1987. Un anno dopo, o poco più, i giocatori di mezzo mondo attratti dal potere infinito dell’allora colossale Nintendo, si sono ritrovati tra le mani un lavoro destinato a diventare un classico: Metroid. Lo schermo scorre in orizzontale mentre comandiamo questo “corpo” in una tuta meccanica che affronta solitario pirati spaziali e alieni. Mentre i titoli di coda camminano sullo schermo, la tuta scompare e “spoglia” il personaggio che abbiamo guidato per ore e ore: una donna. Samus Aran. Capelli rossi e fluenti (diventeranno poi biondi con il passare degli anni), sessualizzata al massimo nonostante il limite dei pixel, neanche fosse un soggetto di Flashdance. Si rivolge al giocatore con un gesto di vittoria. Stupore e sospensione, è un punto di rottura fondamentale per il giocatore. Perché per la prima volta in assoluto ci si accorge del potere di un racconto sullo schermo, l’uscita dal nostro corpo fisico, dal genere e dal tempo. Fare a pezzi e ridurre a zero la distanza in un battito di ciglia. Ma questo non ci ha salvato dalla falsificazione. Lì dove non c’erano limiti imposti dal reale, dove il corpo poteva essere modellato dal nulla si sono manifestate le qualità peggiori. Così come l’industria della moda e della pubblicità hanno creato standard irrealizzabili e tossici, l’artificialità del corpo femminile nel ludico ha profondamente influenzato gusti e immaginari, anche quando l’effetto richiesto era palesemente contrario. Come il caso di Lara Croft in Tomb Raider. L’ereditiera orfana di una casata di archeologi inglesi, instancabile, maestra delle armi e senza paura alcuna fisicamente è un azzardo. La prima volta che uscì sugli schermi aveva un seno assolutamente innaturale su un corpo asciuttissimo. Fu un “errore” di programmazione. Negli anni è diventata una vera e propria icona della “liberazione” femminile. Lara Croft vuol dire determinazione, capacità di sopravvivenza in contesti estremi. Ha un carisma raffinato e pungente e una cultura quasi enciclopedica. Supera l’umano nonostante le sue imperfezioni e un passato complesso e ombroso. È una che si avventura da sola nei meandri della giungla, sfida grossi interessi monetari a caccia dei tesori più leggendari, supera anche inaspettate fatiche personali pur di raggiungere il suo scopo. Tutto può, a meno che non ci si trovi isolati in una stazione spaziale in orbita intorno ad un gigante gassoso. Uno di quei mostri tecnologici claustrofobici. Una stazione in rovina, Sevastopol, abitata da un killer silenzioso e letale. Questo Amanda Ripley all’inizio non lo sa, lo scoprirà in maniera devastante nel corso della sua fuga nel gigantesco avamposto spaziale. Un Alieno, lo Xenomorfo di Giger portato su schermo da Ridley Scott e a sua volta trasferito su un ansiosissimo gioco in prima persona. Il nostro personaggio è la figlia del tenente Ellen Ripley della serie cinematografica. È un ingegnere. A Sevastopol non c’è praticamente nulla da combattere ad armi pari: l’alieno è uno stalker implacabile, impossibile da uccidere. Ellen Ripley si troverà catapultata in questa situazione dove o si scappa o si muore. E darà fondo a tutto il suo ingegno, alla sua conoscenza tecnologica e alla capacità di sapersi adattare quando è il momento. Alien Isolation è giustamente considerato un capolavoro straccianervi grazie anche alla donna ingegnosa e mai stanca che, guidata dal terrore e dall’istinto assoluto di sopravvivenza, cerca di abbandonare questo incubo. C’è tutta l’atmosfera del primo film. Amanda è alla disperata ricerca di notizie su sua madre, misteriosamente scomparsa anni prima. Arriverà a Sevastopol sapendo che in quella stazione c’è la scatola nera del Nostromo, ci troverà la stessa creatura che ha reso sua madre una donna dispersa nello spazio profondo. E i motivi sono gli stessi: gli interessi predatori di una corporazione che vede nell’Alieno una possibile fonte economica, una sorta di macchina da addestrare alla guerra. Un oggetto di così alto valore che vale la pena sacrificare tutto e tutti. E chissà cosa ne penserebbe Aloy. Lei viene da una tribù che l’ha emarginata da bambina perché “senza madre”. Un giorno per puro caso scopre un piccolo oggetto che la collega al mondo passato. Quello dove il potere infinito del capitalismo ha automatizzato il nostro pianeta, così tanto da portarlo alla desertificazione. Mille anni dopo il nostro presente, intorno al 3040, piccole tribù di uomini resilienti si ritrovano a convivere in un mondo dominato da strane macchine dalle forme animalesche. Aloy è l’unica in questo mondo ad aver scoperto qualche segno del passato tra natura e pezzi in rovina del mondo industrializzato. Metterà in discussione le tradizioni della sua comunità, la sua condizione di diseredata, i divieti imposti dalle “grandi madri”. Supererà i confini proibiti per esplorare questo mondo completamente “nuovo”. E sarà l’unica alla fine capace di chiarire e mettere un punto a quello che sta accadendo ed è accaduto in questo pezzo d’America oltre gli anni Tremila. Cacciatrice intelligente ma soprattutto curiosa, senza alcun tipo di pregiudizi e di sospetti in un mondo diviso dall’odio tribale. Aloy è il nostro protagonista in Horizon Zero Dawn, dentro la sua immagine c’è tutto: l’incoscienza della gioventù, la voglia di scoperta, il bisogno di trovare risposte oltre i dogmi imposti. Il problema però sta all’inizio: nel videogioco c’è poco spazio per il “male” in senso letterale. Per quanto complessi, tutti questi personaggi hanno certamente qualcosa da lasciare a chi si trova dall’altra parte dello schermo. E poi c’è Ellie, che mai tanto dolore ci ha dato in questi anni. La giovane ragazzina cresciuta in un mondo infettato da un fungo che trasforma gli uomini in bestie rabbiose. La parte II di The Last Of Us, uscita poche settimane fa, ci mostra una Ellie cresciuta, apertamente omosessuale, che cerca di trovare un ruolo e uno spazio in questo mondo ostile e dolorante. La sua ricerca spasmodica di vendetta che cancellerà qualsiasi briciolo di umanità nonostante in lei brilli ancora la fragilità di una giovane adolescente incapace di trovare se stessa. Fragilità alimentata da una rabbia cieca, che le farà compiere gesti al limite dell’assoluto, versare litri di sangue spezzando storie, amicizie e futuri. Ellie arriverà alla fine del suo viaggio distrutta, ferita nel profondo, completamente drenata. È forse il personaggio più complesso, l’antieroe per eccellenza in un mondo molto simile a quello immaginato da Cormac McCarthy ne “La Strada”. Abbiamo imparato a volerle bene, poi a temerla come incredibile macchina di morte, infine non sappiamo più cosa desideriamo. Forse soltanto un po’ di meritata pace.

E se “Il Cantico dei Cantici” lo avesse scritto una donna? Giulietta Stirati il 19 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È sorprendente cosa si sprigiona dall’incontro tra il rigore della storica e il potere fantastico del romanziere. Se poi essi sono figlia e padre, la prospettiva degli sguardi si moltiplica fino a illuminare pieghe nascoste della storia e dare nuovo senso a letture tradizionali e un po’ arrugginite. Questo è quello che hanno fatto Amos Oz e la figlia Fania Oz-Salzberger nel libro“Gli ebrei e le parole”, edito da Feltrinelli. In particolare mi ha colpito il capitolo intitolato “Donne vocali”. L’occasione per uno sguardo inusuale la fornisce l’interrogativo sull’identità della voce che canta Il Cantico dei Cantici. E se a cantare, si chiedono, fosse una donna, Abisag la Sunamite? Il testo contiene, come è noto, alcuni tra i più belli e intensi versi d’amore, gli unici contenuti nella Bibbia. “Mi baci con i baci della sua bocca, certo il tuo amore è migliore del vino” (Cantico 1, 1-2): davvero è credibile che siano detti da Salomone? Supponendo che provengano da una donna, il testo avrebbe più senso. Linguisticamente, la struttura del titolo lo consente. Recenti studi hanno dimostrato che, a sostegno di questa ipotesi, poggiano non solo le fantasie del romanziere, ma anche dati accettabili pure dalla storica. Seguendo questa proposta interpretativa rivoluzionaria, il testo si muove a partire da un assunto metodologico che non pretende di ristabilire la verità storica, anche perché non si sa con certezza quale sia l’identità del poeta. Che sia esistita – che abbia lasciato una traccia tanto importante – una voce poetica femminile getta un nuova luce sulle altre voci femminili e sul loro persistere, nonostante una tradizione patriarcale e misogina abbia fatto di tutto per soffocarle. Queste voci meritano di essere ascoltate cantare. L’intento è di usare l’ambiguità linguistica della voce poetica come lampada per illuminare una storia lasciata nel silenzio, trafficando coi significati dei versetti, mutuando la prassi rabbinica cioè, ma con l’intento di “leggere in cerchi sempre più ampi intorno alla citazione, [senza] estrapolarla dal contesto”, che è esattamente il contrario di quanto fanno frange ultraortodosse per “escludere o zittire”. Da questa prospettiva emergono, splendide e maestose, le donne della tradizione ebraica: donne portentose e dotate di voce. Esse non solo compaiono, distinte grammaticalmente, in occasioni in cui l’intero popolo è chiamato a partecipare, come per esempio il passaggio del Mar Rosso, in cui maschi e femmine cantano insieme. Ma non è tutto qui: “si intravedono una grammatica e una trama alternative che fanno capolino” anche fuori della dimensione del canto. È vero: le donne, nella tradizione biblica e talmudica, sono discriminate, e questo è. Ma non è stato possibile metterle a tacere tutte. E su questi barlumi offuscati si posa il nostro occhio, affinché ricevano luce e vita dallo sguardo. Eccole, allora, le donne. Chiamate per nome, protagoniste di libri come Rut ed Ester. Seguiamo la storia di queste donne, che sono poche è vero, ma sono storie fondative. Yemimah, la più grande delle figlie che Giobbe ha dopo la sua rinascita, riceve un dono che le attiva un nuovo cuore: “e le parole che pronunciò-il vento le scrisse sul suo vestito”. La donne bibliche, proprio mentre svolgono il compito di assicurare la continuità della tradizione, diventano agenti potentissimi di innovazione. Esse esprimono la capacità di “resistenza culturale”: facendosi, come Tamar, custodi della continuità anche in situazioni terribili, esse diventano madri di memoria. Madre di tutte loro è non Eva ma Lilit, incarnazione della passione e del fuoco che la tradizione hanno cercato di marchiare come demoniaci o di trasformare in aeree metafore. Sara, Rebecca, Iocheved, Miriam, Debora, Tamar. Madri e mogli di fondatori che a loro devono la vita. Madri, non mamme. Custodi della tradizione, promotrici dell’identità, salvatrici. Tutte donne che parlano, dicono, sfidano, cantano. E generano per ricordare. Certo, su questa strada incontriamo la tremenda yiddishe mame che rinuncia al figlio, offerto a Dio con il quale si sente in diritto di discutere da pari a pari. Che poi il figlio viva schiacciato da un senso di colpa perenne, è un’altra storia. Queste madri così dedite ai figli sono donne che, per portare in alto i loro figli, diventano sapienti: studiano, leggono, discutono, infrangono i divieti, coltivano la speranza attraverso la memoria della continuità. E questo all’interno di un mondo misogino che non ha privato le donne della parola. “Le parole diventavano testo. E una volta pubblicato, si tramandava in perpetuo”. Emergono così, appassionate, le parole di donne che – se non hanno materialmente scritto – sono state l’anima di una tradizione che ha trasmesso, insieme alla vita del corpo, la vita dell’anima e dello spirito.

"NATE LIBERE" – 27 RITRATTI DI DONNA NEL NUOVO LIBRO DI GIANCARLO DOTTO. Dagospia il 12 maggio 2020. (Ultimo libro di Giancarlo Dotto, “Nate libere” ed. Rizzoli).

Uomini dissoluti. Don Giovanni le conta dopo averle amate, io le conto dopo averle intervistate. La sostanza non cambia. In entrambi i casi si tratta di denudarle. In entrambi i casi il fallimento è garantito. La pretesa di averle si risolve nella certezza di mancarle. Liberi noi uomini di vaneggiare finché vogliamo e cantiamo: “Donna tu sei mia e quando dico mia dico che non vai più via”. Non resta che contarle.

Il catalogo è questo: ventisette madamine. Ritratti di donna. Che parlano del più e soprattutto del meno. Che invecchiano senza decenza o con infinita decenza. Diverse che più diverse non si può, ma tenute insieme dallo stesso destino: sono sempre là dove è indispensabile essere. Ai piedi di una croce, ai lembi di un capezzale, in un letto sfatto, in una vita da svezzare. Che ti portano dove tu, maschio, non andresti mai con le tue miserabili gambe di bipede spaventato dalla nascita. Senza di loro, “l’osso in sovrannumero di Adamo”, saremmo cuccioli balbuzienti sbranati dal primo colpo di vento.

Le ho incontrate e ascoltate. Donne lunatiche, esuberanti, un po’ svitate. Allegre, malinconiche, a volte perdute. Donne offese, spesso innamorate, qualche volta affrante, a volte sole, arrese mai. Di come si possa sopravvivere a tutto (Dacia Maraini,) a uomini dispotici con la vocazione al plagio (Ornella Vanoni, Sandra Milo), a vecchi satrapi del set (Catherine Spaak), a lutti insopportabili. La perdita dell’uomo amato (Ombretta Colli), delle figlie predilette (Isabella Biagini, Ljuba Rizzoli), della sorella adorata (Loredana Bertè). I timori e i tremori di sfide troppo grandi (Matilde Bernabei). I furori.

Donne sopravvissute a se stesse (Rosalinda Celentano), alla propria bellezza celebrata (Monica Bellucci, Ornella Muti), a quella sfregiata (Marisa Berenson). Sopravvissute anche quando hanno smesso di vivere (Virna Lisi e Isabella Biagini), alla propria scandalosa intelligenza (Rosa Fumetto e Piera degli Esposti), alla propria timidezza (Margherita Buy), alla propria erranza (Patty Pravo), alla propria esuberanza (Iva Zanicchi, Mara Venier) e al proprio passato (Nada, Francesca Dellera). Identità indecifrabili (Amanda Lear, Eva Robins), il cliché che ti condanna (Orietta Berti), il tempo che passa e chi se ne frega (Lina Wertmuller), il tempo che ti ammazza e più che mai chi se ne frega (Marina Ripa di Meana). “La donna, solo il diavolo sa cos’è. Io non ci ho capito niente”  (Fiodor Dostoevskji)

Hanno detto (estratti dal libro):

“Ho sempre vissuto come una donna ricca. Questo mi ha esentato dall’esserlo…Federico? Quando andavo da lui, nel suo appartamento in via Sistina, non riuscivo a prendere l’ascensore. Non ce la facevo ad aspettare. Dovevo salire di corsa. Arrivavo e la porta già era aperta e lui lì, emozionato come me, le gambe che ci tremavano. Questo per anni”. (Sandra Milo)

“Questo oltre che un fico spaziale, era un gran scopatore. Divertente, quante risate… Ondina, amore, andiamocene a letto. Madonna, come sono stanca. Ne faccio peggio di Bertoldo. Ma perché faccio così tante cose?”. (Ornella Vanoni)

“Quando gli altri vicino a me fumavano gli spinelli, io bevevo succo d’arancia. Mi hanno salvato la mia spiritualità congenita, i miei viaggi in India. A sette anni ero già una che s’interrogava sulla vita, sulla morte, su Dio”. (Marisa Berenson)

(a proposito di Robert Mitchum) “A Robert sono stata fedele tutta la vita. Bisogna esser fedeli al proprio sogno. Lo amo da quando avevo 14 anni… Lui mi guardava sempre le gambe. Era fatto così…Ora ti mostro la foto in cui ci baciamo con la lingua… Gli chiesi: cosa fai Robert la sera a casa e lui: “Spengo tutte le luci e piango…”. (Piera degli Esposti)

(a proposito di Nanni Moretti) “Il suo cinema mi fa cagare. Del resto, un personaggio di un suo film dava di stomaco mentre citava i miei film. Una volta, sul red carpet a Venezia, gli ho teso la mano provocatoriamente e lui ha fatto finta di non vederla. L’ho mandato a fanculo…”. (Lina Wertmuller)

“Si mangiava qualsiasi cosa. Topi, rane, serpenti. Purtroppo, perfino i topi mancavano, ne avremmo mangiati con grande piacere. Bisogna provare la fame per capire. Mangiavamo la terra. Qualsiasi cosa”. (Dacia Maraini)

“Stavo al ristorante sotto casa. Mi sono trovata questo topo enorme attaccato alla gamba. Mi hanno portata subito all’ospedale. Giovanni era più sconvolto di me”. (Matilde Bernabei)

“Se quella volta avessi detto di sì a Dino De Laurentiis che voleva dormire con me, sarei diventata la Loren milanese. Non ho voluto. Anche perché poi avrei dovuto accontentare chissà quanti altri…Gianni Agnelli? Grande charme. Amava corteggiare. Andava e veniva da mia casa. Una storia con lui? En passant…Più che altro un coup du canapé”. (Ljuba Rizzoli)

 “Sono stata quasi astemia fino ai trent’anni, poi mi hanno costretta a sbevucchiare. Adesso a tavola il bicchierotto in più ci scappa. Due sorsi di Lambrusco in corpo e vado come una locomotiva. Ho una tenuta che posso ammazzare un cavallo. Posso bere un fiasco di vino e resto sobria”. (Iva Zanicchi)

(a proposito di Sean Penn) “L’ho incontrato una volta in una festa a Roma. Un tuffo al cuore. L’ho anche invitato a ballare, ma lui mi ha respinto. Lo capisco. Diciamo che ci ho provato…Avrei fatto comunque una brutta figura. Io ero completamente ubriaca, lui peggio di me. Era in uno stato...”. (Margherita Buy)

(a proposito di Adriano Celentano) “Io so che un giorno lui è stato a Milano e ha detto pubblicamente che ha avuto una storia con me. Sono rimasta un po’ stupita. L’ha fatto pure Montezemolo. Strani questi uomini che non parlano per una vita, poi s’alzano una mattina e dicono tutto. (Ornella Muti)

“In lizza eravamo io e Nadia Cassini, ma sentirono prima me e fu una fortuna perché il culo della Cassini era più bello del mio. Un’iniezione mi aveva rovinato la natica destra a dodici anni. Il talento non è mai nel culo, ma nella testa anche di chi lo guarda…Il più grande strip della storia? Quello di Rita Hayworth in Gilda quando si sfila un guanto”. (Rosa Fumetto)

“Resto una ragazza di campagna… Sono un’italiana vera, dalla religione alla passione per  la pastasciutta. Amo mangiare, dormire. Sono una brava bestiolina, molto pigra. Non mi piace cucinare. Ma apprezzo chi sa farlo. Ho vissuto per decenni come una zingara nei ristoranti”. (Monica Bellucci)

“Vorrei morire non tanto in là, se mi comporto bene, ma sembra che gli dei non mi vogliono. Vorrei andare a vivere con gli amichetti, tutti gli animali del mondo, in un posto di mare, aprire un chiosco e morire alcolizzata, ridendo. E povera, dopo aver regalato tutto ai bambini”. (Rosalinda Celentano)

(a proposito di Gina Lollobrigida) “L’ho molto sofferta la sua ostilità. Ero giovanissima e ingenua. Ho trovato accanto a me una persona molto competitiva, per niente umana, né generosa… C’era una scena in cui lei, da madre, doveva menarmi. Mi diede schiaffi veri, mi fece molto male. In un’altra scena doveva tirarmi delle forbici addosso. Patroni Griffi la fermò. Aveva capito tutto. “Gettale contro il muro, se no l’ammazzi”. (Francesca Dellera)

“All’epoca stavo con Franco Angeli, il pittore. C’era anche Carmelo Bene con il suo harem. Ricordo la sua donna, Lydia Mancinelli, che veniva a piangere da me, ne faceva una tragedia, questo fatto che lui si accoppiava con tutte. “Mi verrà il cancro dalla disperazione”, si lamentava…Non sono una nostalgica. Il mio presente? Lo sopporto sapendo che qualità non ce n’è. Una volta i salotti erano sfide a colpi di genio, oggi solo potere, convenienza e cazzeggio”. (Marina Ripa di Meana)

“Gli addetti ai lavori, quelli con la puzza sotto il naso, mi hanno sempre snobbata. Ero una cantante fantasma. Dopo la morte di Tenco, mi hanno fatto la guerra, non recensivano più nemmeno i miei dischi”. (Orietta Berti)

“Avevano sistemato all’ingresso una macchina del caffè a canne tipo organo e io avevo imparato a usarla. Andy Warhol veniva tutti i pomeriggi a prendere il cappuccino e mi aveva scambiato per la barista. Quando scoprì che cantavo mi volle tutti i giorni alla sua factory, dove andavo a cucinare la pasta per lui e passavo le ore seduta sui suoi bidoni a vedere chi passava. Lui adorava mangiare italiano. Mi chiamava “Pasta Queen”. (Loredana Bertè)

“La stabilità? A una certa età la devi trovare, altrimenti sono cazzi... Non sono più pischella, ma resto sempre la figlia dei fiori di un tempo”. (Mara Venier)

“Questo buttarmi via non mi basta mai” (Isabella Biagini)

(a proposito di Giorgio Gaber) “Tornare a casa e vederlo seduto sul divano che strimpellava una sua nuova canzone, alzava la testa, mi sorrideva e mi diceva: “Oggi non ho fatto una mazza”. Questo mi manca di lui”.  (Ombretta Colli)

“Piero Ciampi, il poeta cantante livornese, è lui il mio corto circuito. Dopo averlo incontrato, non potevo cantare più niente di nessun altro al mondo. Ho cominciato a scrivere le mie canzoni, a tirar fuori quello che avevo dentro. Ho smontato tutto, a cominciare dalla bambina prodigio”.  (Nada)

“Non ho bisogno di toccarmi per toccare il paradiso. Gli estrogeni che prendo mi danno un’euforia sessuale. Posso raggiungere un orgasmo anche soltanto abbracciando un uomo che mi piace”. (Eva Robin’s)

“David Bowie si truccava più di me. Più di una macchina rubata. Il problema era che non si struccava e mi sporcava tutte le lenzuola… Sono golosa di cioccolato nero. E poi l’aglio. Puzzo di aglio, lo metto dappertutto…Non ho bisogno d’altro. Cocaina, orge o diamanti. Ho capito che sono le cose più semplici a darti la felicità. Pochi minuti al giorno. La felicità a tempo pieno, come l’infelicità, sarebbe un inferno. Fosse per me farei l’eutanasia di Stato a settant’anni” (Amanda Lear)

“L’ho detto e lo confermo: gli attori sono insopportabili. Hanno un narcisismo terribile”. (Catherine Spaak)

“Carino Frank. Un po’ sparone. Sempre scortato sul set da una decina di guardie del corpo, tutti vestiti di scuro, camicia bianca e cravatta a rombo con un telefono disegnato sopra. E poi c’era sempre quella Mia Farrow appiccicata. Gelosa persa. Una che poi è finita com’è finita. Sparita nel nulla… Gli attori sono tutti un po’ vanesi. Sembrano chissà cosa ma poi, quando li vedi senza trucco, senza il parrucchino in testa, assonnati, il mito crolla”. (Virna Lisi)

“Non sopporto i cantanti che legano la musica alla politica. Io ho cantato per Berlusconi, che è un mio fan, per Emergency e per la Festa dell’Unità. Modugno è il più grande di tutti. Una sera tornammo tardi in albergo e scoppiò un casotto nella camera accanto la mia, dove Modugno e Shirley Bassey scopavano e urlavano con quei due vocioni. Dovetti bussare alla loro porta per farli zittire”. (Patty Pravo)

Fulvia Caprara per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Percorsi appassionanti, segnati da scelte cruciali che fanno sempre la differenza perché accentuano, ogni volta, il peso del fattore umano. Destinate ad essere altro, determinate fin dai banchi di scuola, puntualmente osteggiate da una parte dell' opinione pubblica, tre delle signore che hanno dominato la scena internazionale degli ultimi anni guadagnano l' onore di film e documentari. Da domani, su Netflix, è disponibile Becoming - La mia storia, protagonista l' ex-First Lady Michelle Obama, a febbraio, durante l' ultima Berlinale, Hillary Clinton è stata accolta come una star in occasione dell' anteprima del film in quattro parti che racconta la sua vita, mentre sul canale tedesco Ard è appena andata in onda l'opera Merkel, che Stephan Wagner ha dedicato alla cancelliera tedesca, interpretata dall' attrice Imogen Kogge. Finalmente, dopo aver raccontato dive, scrittrici, stiliste, cantanti, lo schermo si riempie di immagini di donne nelle stanze dei bottoni, donne che hanno contribuito a modificare gli equilibri politici del mondo. Per Michelle Obama, dopo gli otto anni alla Casa Bianca, il tour per la presentazione del libro autobiografico Becoming, che costituisce l'ossatura del film, è un modo per elaborare l' esperienza al fianco del marito ex-Presidente, ma anche per ribadire, a se stessa e alle altre donne, che c'è sempre tempo per ricominciare: «Sto iniziando a riappropriarmi di me stessa - dice in una delle sequenze finali -, adesso c'è un altro capitolo che mi aspetta, lì fuori». In prima linea Per Hillary Clinton il documentario diretto da Nanette Burstein è un'occasione per guardarsi allo specchio, ritrovando radici e tappe fondamentali di un' evoluzione personale che coincide con la storia dell' emancipazione femminile in America: «Ciò che Nanette fa davvero bene - ha spiegato Clinton incontrando gli spettatori della Berlinale - è inserire la mia vicenda nell'arco più ampio della vita delle donne, dei loro progressi e del movimento cui hanno dato vita». Per Angela Merkel il cuore di tutto, esaltato nel lavoro di Wagner, sta nella decisione presa il 4 settembre del 2015, quando ordinò di aprire le frontiere tedesche a migliaia di rifugiati, principalmente siriani, che dall' Austria e dall' Ungheria, stavano raggiungendo a piedi la Germania: «Il mio - ha spiegato il regista - è un ritratto di Merkel, focalizzato sul punto nodale della sua carriera politica». Sopravvivere alla gestione del potere, in maniera indiretta, quando si è first lady, e poi diretta, quando ci si batte in prima linea, come nel caso di Clinton e Merkel, è sempre molto difficile, un processo che lascia inevitabili tracce: «Barack era diverso da me - svela Michelle Obama - era uno tsunami che stava per abbattersi sulla mia vita». Per mantenersi in equilibrio è stato fondamentale il concetto di «reciprocità», anche quando la consorte del futuro presidente degli Stati Uniti, divenuta madre di due bambine, ha deciso di abbandonare il lavoro di avvocato: «Era troppo difficile conciliare le cose, ho rinunciato e ho capito che dovevo rivedere tutto». La terapia è stata d' aiuto per comprendere, spiega ancora Obama, che «la mia felicità non dipendeva dalla capacità di Barack di rendermi felice. Avevamo due figlie, vedevo che lui riusciva ad andare in palestra, e io no. Ho capito quanto fosse importante che anche io riuscissi ad andarci». Diretto da Nadia Hallgren, il documentario ripercorre il cammino della protagonista, il passato di ragazza «discendente da una famiglia di schiavi», di figlia legatissima alla madre e al padre, inghiottito anzitempo da una sclerosi multipla combattuta con tenacia: «Sono così perché ho avuto un papà come lui, che ci spingeva ad essere sempre miglior». E poi di giovane donna che riesce a coronare il sogno di frequentare Princeton, ma anche ad avvertire con chiarezza il disprezzo di chi, nella Chicago degli Anni 70, «considerava la mia famiglia fuori posto». "L'empatia una forza vitale" Costruito sul valore della connessione interpersonale e dello scambio emotivo tra individui delle più varie provenienze, Becoming arriva al pubblico in una fase particolare: «Come molti di voi sanno - fa sapere Michelle Obama - sono una persona che ama abbracciare. In tutta la mia vita, l' ho considerato il gesto più naturale che un essere umano possa fare verso un altro, il modo più semplice per dire: "Sono qui per te". E questa è una delle parti più difficili della nostra nuova realtà: le cose che una volta sembravano semplici, andare a trovare un amico, sedersi con qualcuno che sta soffrendo, abbracciare uno sconosciuto, ora non lo sono più». Eppure, prosegue Obama, «anche se non possiamo più raccogliere o nutrire in sicurezza l'energia dei gruppi, anche se molti di noi vivono con il dolore, la solitudine e la paura, dobbiamo rimanere aperti e in grado di metterci nei panni degli altri. L'empatia è la nostra linfa vitale». Un messaggio che arriva diritto al cuore, cogliendo l' essenza delle più recenti sofferenze. Una specialità tutta femminile. Che ogni donna realizza a modo suo. Non è un caso se, tra i mille video circolati sul Coronavirus, quello di Merkel che spiega la matematica dei contagi e la necessità di proteggersi dal virus, sia stato promosso come il più chiaro e incisivo.

Barbara Costa per Dagospia il 13 aprile 2020. “Meglio un presidente che fotte le donne di uno che fotte il Paese”, l’ha detto l’attrice Shirley MacLaine e si riferiva a John F. Kennedy e a tutti i gossip sulla vivace vita sessuale del presidente assassinato a Dallas.

Biografie pettegole parlano di un John Kennedy sex-addicted, un uomo fissato col sesso, che soffriva di violente emicranie se non lo faceva ogni due giorni con una donna diversa e che litigava con Jackie perché lei non amava fargli pompini né sperimentare altre posizioni oltre il classico missionario. Kennedy scopava con la stessa amante poche volte perché si stufava subito. Gli piaceva cambiare. Le donne troppo giovani non lo eccitavano perché a letto le voleva esperte e spregiudicate. Nel 1962 incaricò suo fratello Robert di dire addio a Marilyn Monroe al posto suo: Robert lo fece e la consolò portandosela a letto per tre mesi. J

ohn Kennedy non è stato l’unico presidente americano ad amare il sesso fuori dal matrimonio: si racconta di un George Washington sessualmente impotente, ma un altro Padre Fondatore, Alexander Hamilton, era pieno di amanti.

Thomas Jefferson si portava a letto Sally Hemings, la sua schiava mulatta nonché semi-cognata, ed è provato che fu il padre di uno dei sei figli di lei.

Abraham Lincoln forse era bisessuale e c’è chi ipotizza che il suo omicida, John Wilkes Booth, fosse in realtà un suo innamorato respinto.

L’amante di Andrew Jackson si chiamava Peggy Eaton ed era una donna bella quanto ambiziosa: una volta metà dei ministri di Jackson si dimisero perché non ne potevano più delle ingerenze di Peggy negli affari di governo.

Grover Cleveland ebbe un figlio illegittimo prima di diventare presidente.

Warren Harding scriveva infuocate lettere d’amore a Carrie Phillips, moglie di un suo caro amico.

Woodrow Wilson sposò la sua amante appena la moglie morì, James Buchanan fu l’unico presidente scapolo e forse l’unico presidente asessuale. 

Franklin Delano Roosevelt ebbe molte amanti prima e dopo essere colpito dalla poliomielite. La sua storia con Lucy Mercer durò più di vent’anni: facevano l’amore sullo yacht di lei o alla Casa Bianca, potendo contare sulla complicità di Anna, la figlia di Roosevelt, che taceva i loro roventi incontri alla madre Eleanor. C’era Lucy e non Eleanor quando Roosevelt ebbe l’emorragia cerebrale, come c’era Lucy e non Eleanor accanto a lui quando morì. Eleanor badava poco alle infedeltà del marito: lei era lesbica e faceva l’amore con Lorena Hickok, una giornalista dell’Associated Press. Le due trascorrevano momenti bollenti negli hotel o in campeggio nei posti più sperduti d’America: l’FBI le spiava e registrava i loro orgasmi clandestini. A proposito di FBI: J. Edgar Hoover l’ha guidata per quasi 40 anni, ricattando tutti gli uomini di potere possibili.

Hoover era gay ed ebbe un solo uomo per tutta la vita, Clyde Tolson, suo vice all’FBI. La sera, a casa, Hoover si vestiva da donna indossando gli abiti di sua madre, oppure si metteva un tutù e faceva piroette in salotto. Robert Kennedy lo sapeva: la volta che Hoover tentò di ricattarlo con le registrazioni delle scopate di suo fratello John, Robert gli servì un contro-ricatto coi fiocchi.

Richard Nixon aprì alla Cina e si trovò un’amante cinese, anche se alcuni biografi dicono che era omosessuale e innamorato di Charles “Bebe” Rebozo, un banchiere amico di mafiosi. Nelle sue memorie, Nixon ricorda Bebe come “il mio compagno di partite a golf”, tutte partite giocate sempre da soli, nella villa di Bebe a Miami. Hoover naturalmente sapeva tutto, ma morì nel 1972 e Nixon in privato ne gioì. Henry Kissinger, suo consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato, considerava le donne un amabile passatempo: finché fu al potere ebbe storie con attrici, modelle, aristocratiche. Il potere può far diventare sexy anche un uomo brutto, tarchiato e noioso come lui che, intervistato da Oriana Fallaci, si vantò con lei della sua fama di frivolo playboy. Una giornalista francese, Danielle Hunebelle, s’innamorò di lui, ma non fu ricambiata: scrisse della sua folle passione per Kissinger in un libro, “Dear Henry”, dove il caro Henry è irresistibile preda di morbose attenzioni.

Gerald Ford fu un presidente troppo tranquillo e ingenuo per avere un’amante, ma il suo vice, Nelson Rockefeller, morì d’infarto mentre era a letto con una procace ventenne.

Ronald Reagan ha avuto più di 50 amanti, tra cui Marilyn Monroe, Liz Taylor, Doris Day e Lana Turner: le amò tutte quando faceva l’attore a Hollywood, e non era ancora entrato in politica. Quando suo marito era lontano dalla Casa Bianca, Nancy Reagan invitava a colazione Frank Sinatra, suo grande amico e (ex?) amante. George Bush Sr. è andato a letto per 10 anni con Jennifer Fitzgerald, la sua segretaria, e si dice che il suo vice Dan Quayle abbia avuto una relazione con Paula Parkinson, una lobbista che, oltre a Quayle, si portava a letto molti altri politici.

Bill Clinton nel 1995 aveva la malattia di Peyronie, cioè il suo pene aveva un’erezione ricurva e un pochino fastidiosa. Ce lo dice Monica Lewinsky, la stagista con cui Clinton fece sesso orale per 9 volte alla Casa Bianca, in un ufficio adiacente allo Studio Ovale, dove Monica si faceva spogliare e toccare da tutte le parti, raggiungevano entrambi orgasmi pazzeschi solo sfregandosi, e lui si eccitava introducendo un sigaro nella vagina di lei. Una volta Monica gli ha fatto un pompino mentre lui era al telefono con un senatore, altre volte hanno fatto sesso telefonico (“Fammi venire lì”, lo stuzzicava lei, “mi tolgo i vestiti e comincio a fare quello che sai”). Chissà se Monica Lewinsky conserva ancora l’abito blu che il presidente le macchiò di sperma e che fu la prova regina della loro relazione illecita. Alla fine solo sei voti salvarono Bill Clinton dall’impeachment per spergiuro.

Il suo successore, George Bush Jr., non ha mai combinato molto tra le lenzuola: sua moglie Laura si lamentò pubblicamente di tutte le sere passate a letto, a guardare la televisione, con lui che le dormiva accanto. Le loro due figlie, Jenna e Barbara, hanno trascorso allegre serate ad alto tasso alcolico alla Casa Bianca. Si è sempre favoleggiato di un sex tape girato da Barbara al college, ma nessuno l’ha mai visto.

Dicono che Michelle Obama sia stufa delle continue “distrazioni” di Barack, che il loro matrimonio sia solo di facciata e che, appena lui non sarà più in carica, lei chiederà il divorzio. In questi otto anni le voci sulle infedeltà di Obama sono state tante, ma mai provate. Molti falchi repubblicani però ripetono all’infinito che Obama, oltre ad essere un musulmano mai nato in America, è di sicuro gay.

Donald Trump si dichiara un vincente anche perché ha avuto le donne tra più belle al mondo, tra cui Carla Bruni quando era ancora sposato con Ivana. E Hillary Clinton? Ha mai tradito Bill? C’è chi giura di sì, ma solo una volta, tanti anni fa, con Webster Hubbell, un suo collega avvocato. Bill diceva a Monica che sua moglie a letto era un pesce freddo, ma forse a Hillary gli uomini non interessano più: in questi mesi si è speculato molto sul suo rapporto con Huma Abedin, sua assistente personale. Quando si è scoperto che il marito di Huma, Anthony Weiner, faceva il porco via chat con le ragazzine, lei lo ha lasciato. Per dedicarsi completamente a Hillary?

Da Marilyn a Michelle Obama. Le donne del secolo sulle copertine di Time. Pubblicato domenica, 08 marzo 2020 su Corriere.it da Roberta Scorranese. «It’s complicated». C’è un titolo migliore per descrivere che cosa vuol dire essere donna oggi? Forse no, se il settimanale americano «Time» lo ha scelto per condensare il nuovo progetto: cento copertine che ripercorrono gli ultimi cento anni dando il giusto sguardo al peso delle donne nel mondo, quindi scienziate, artiste, attiviste, imprenditrici. Tutte personalità influenti, anche se molto diverse tra loro. Da Marilyn Monroe a Madonna, dalla quasi sconosciuta Chien-Shiung Wu (scienziata e personaggio chiave nel piano di sviluppo militare Manhattan Project) alla pedagogista Maria Montessori, l’unica italiana. Se vi state chiedendo quante donne sono apparse nelle copertine che celebrano la Persona dell’Anno dal 1927 ad oggi, la risposta è semplice: undici. Ma dietro questo progetto c’è qualcosa di più complesso, appunto, it’s complicated: è giusto, si sono chiesti nella redazione di «Time», incoronare Persona dell’Anno (la cover più famosa che celebra personalità di tutto il mondo) solo quelle donne che raggiungono risultati tipicamente maschili, pescando soprattutto nei settori della politica e dell’economia? Un esempio: nel 1986 l’omaggio andò a Corazón Aquino, primo presidente donna del continente asiatico. Forse no, e quel «complicated» è tutto qui: c’è una sostanza diversa nell’essere donna, un valore assoluto che molte classifiche fingono di non vedere, applicando i criteri di scelta che si usano nel determinare un successo maschile. D’altra parte, come ricorda un fondo pubblicato dal giornale, quell’omaggio cartaceo ha mantenuto la definizione di Man of the Year fino al 1999, e solo dopo è diventato un più egualitario Person of the Year. Nel progetto «100 Women Of The Year», la scelta è stata più libera, leggera, persino provocatoria e divertente. Intanto perché le undici copertine originali sono rimaste identiche, ma le nuove 89 sono state affidate ad artiste con storie interessanti alle spalle e dal tratto illustrativo fuori dagli schemi, come per esempio Lauren Crazybull, autrice di quella dedicata a Wilma Mankiller, la prima donna a capo della Cherokee Nation, orgoglio nativo. O la canadese Anita Kunz, che ha illustrato la sceneggiatrice Irna Phillips, pioniera della soap opera americana. Già, perché non ci sono soltanto donne-alfa come Michelle Obama o la regina Elisabetta d’Inghilterra (per altro una delle poche donne premiate realmente, nel 1952), ma ci sono tante figure che hanno influenzato il nostro modo di pensare, di vestirci, di divertirci. Figurano Coco Chanel e J. K. Rowling: che cosa saremmo senza quel profumo e quel maghetto? È meno conosciuta, vero, ma c’è anche la polacca Anna Walentynowicz, esponente di spicco del movimento Solidarnosh (tutti ricordano solo Lech Walesa). Provocatorio inserire Madonna? Be’, c’è anche Beyonce Knowles. E se nel 2019 la Persona dell’anno è stata realmente una donna, anzi, una ragazza, la allora sedicenne Greta Thunberg, colpisce notare che personalità come la scrittrice scomparsa da poco Toni Morrison o Jacqueline Kennedy abbiano dovuto aspettare questo progetto, diciamo, «postumo» per vedere riconosciuto il proprio peso. Ma d’altra parte, come ha dichiarato la stessa Nancy Gribbs, ex direttrice della rivista (e prima donna a guidare il Time Magazine), questo vuol essere soprattutto un esercizio intellettuale per capire come certe donne, spesso anche in tempi e situazioni di forte disuguaglianza, hanno comunque saputo esercitare un potere forte, un condizionamento più potente di ogni stereotipo. It’s complicated, certo, ma non è impossibile.

La battaglia di Lidia Poët, la prima avvocata italiana. Giulia Merlo de Il Dubbio l'8 marzo 2020. La sua richiesta di iscrizione all’ordine di Torino fu accolta, ma venne cancellata nel 1883 con una sentenza della Corte d’Appello che scriveva: «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». E anzi, sarebbe stato «disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste». Con queste parole scritte dai giudici – tutti uomini – della Corte d’Appello di Torino, nel novembre 1883 l’avvocata piemontese Lidia Poët venne cancellata dall’albo degli avvocati di Torino. Due anni prima, l’iscrizione di una donna, la prima nel Regno d’Italia, all’Ordine degli Avvocati aveva suscitato un silenzioso scandalo nelle aule dei tribunali sabaudi. Eppure lei, con ferrea logica di giurista, per accedere aveva utilizzato la più ovvia delle procedure: quella prevista dalla legge. Il 17 giugno 1881 si era laureata a pieni voti alla facoltà di giurisprudenza di Torino, con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne. Poi si era iscritta alla pratica forense, superando brillantemente al primo tentativo l’esame di procuratore legale. A quel punto, come tutti i suoi colleghi uomini, inoltrò la richiesta di iscrizione all’Ordine. Nessuna giustificazione allegata, solo il rispetto scrupoloso di ogni norma di legge, che per l’iscrizione prevedeva la laurea, lo svolgimento della pratica e il superamento di un esame, ma soprattutto non poneva alcun esplicito divieto all’iscrizione di una donna. L’insolita richiesta, la prima sottoscritta da una donna esaminata da un Consiglio dell’ordine degli Avvocati, suscitò un accesissimo dibattito e non poche polemiche nel mondo giuridico torinese. Le donne nel Regno d’Italia non avevano il diritto di voto, era ancora in vigore l’umiliante istituto dell’autorizzazione maritale e mai nessuna prima di allora aveva osato accostarsi alla professione forense.  Il dibattito all’interno del Consiglio si concluse in favore dell’iscrizione, con 8 voti favorevoli e 4 contrari. La motivazione: nessuna norma vietava alle donne l’accesso all’Ordine. Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, recitava un provvidenziale brocardo latino. Ad indignarsi maggiormente perché una donna calcava i lunghi corridoi dei palazzi di giustizia non però fu un avvocato, ma un magistrato. L’allora Procuratore Generale del Re non gradiva vedere quella signora in toga che patrocinava le udienze, firmava gli atti e si confrontava con lui da avversaria, per questo prese l’iniziativa di denunciare l’anomalia di tale presenza alla Corte d’Appello. L’avvocata Poët si difese, replicando e portando esempi di donne che, in altre nazioni europee, svolgevano legittimamente la professione forense. A nulla valsero però le obiezioni: la Corte d’Appello di Torino accolse le ragioni del procuratore e ritenne che quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico e, in quanto tale, la legge vietava espressamente che una donna potesse ricoprirlo. Che la presenza di un’avversaria di sesso femminile nelle aule di giustizia infastidisse più i magistrati che i colleghi avvocati, tuttavia, risultò chiara dalle motivazioni redatte dai giudici: la presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso «la serietà dei giudizi e gettato discredito sulla magistratura stessa» perché, se l’avvocata avesse vinto la causa, le malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta «alla leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura». Con la perseveranza che gli stessi uomini riconoscevano al «gentil sesso», Lidia Poët non si arrese e presentò un articolato ricorso alla Corte di Cassazione. Con altrettanta coerenza, la Suprema Corte confermò la decisione dei giudici della Corte d’Appello. A Lidia Poët venne dunque tolta la toga dalle spalle e non poté più esercitare a pieno la professione. Dimostrò, tuttavia, che non era il titolo formale a renderla avvocato: il divieto di patrocinare non le impedì infatti di rimanere a lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso l’amore per il diritto e l’aveva convinta ad iscriversi a giurisprudenza. Nello stesso anno del suo allontanamento dall’Ordine, tuttavia, la sua conoscenza giuridica le permise di partecipare al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del Congresso. Fece parte del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale, rappresentando l’Italia come vicepresidente della sezione di diritto. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, poi, lasciò lo studio e divenne infermiera volontaria della Croce Rossa, venendo insignita della medaglia d’argento al valor civile. Per i 37 anni successivi alla sua imposta cancellazione dall’albo, Lidia Poët non interruppe mai l’esercizio concreto della professione, specializzandosi nella tutela diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Alla fine, proprio la perseveranza che la aveva spinta a combattere per rimanere iscritta all’albo forense, anche a costo di dare scandalo nel suo stesso foro, ottenne ragione giuridica. Nel luglio 1919, infatti, il Parlamento approvò la legge Sacchi, che autorizzava ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici, ad esclusione della magistratura, della politica e dei ruoli militari. Così, nel 1920, Lidia Poët poté finalmente ripresentare – con immediato accoglimento – la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati. All’età di 65 anni tornò ad indossare la toga che le era stata tolta e ad utilizzare il titolo di avvocato. Ad una battaglia vinta, però, ne seguì subito un’altra: due anni dopo divenne presidente del Comitato italiano pro voto delle donne. Anche quella per la conquista del voto femminile fu una battaglia ultra decennale, ma Lidia Poët pervicacemente riuscì a vedere il frutto anche di questi suoi sforzi: si spense a 94 anni il 25 febbraio 1949, ma non prima di aver votato alle prime elezioni a suffragio universale in Italia, nel 1946. La definitiva vittoria di quel principio di uguaglianza – almeno in diritto – per il quale si era battuta tutta la vita, da avvocato ma soprattutto da donna.

Il senso per la giustizia di Lina Furlan, prima penalista italiana. Giulia Merlo de Il Dubbio l'8 marzo 2020. Divenne famosa in un ambiente tutto al maschile grazie alle arringhe intense e teatrali: «Prima di me nessun tribunale aveva visto una donna, se non come imputata». «Questa donna esercita una professione di uomo. E’ un’avvocatessa. L’avvocatessa di cui parlo ha strappato non alla giustizia, ma all’ingiustizia, delle prede, per mezzo delle squisite risorse della sua mentalità femminile. Si chiama Lina Furlan ed è italiana per la sua nascita, per le sue tradizioni, per la sua sensibilità». Con queste parole lo scrittore Dino Segre, in arte Pitigrilli, descrive la moglie Lina Furlan. Laureata a Torino nel 1926 con Luigi Einaudi, si iscrisse all’Ordine degli avvocati nel 1930 (undici anni dopo l’approvazione in Parlamento della legge che garantisce esplicitamente l’accesso all’albo alle donne) ed è ricordata come la prima penalista italiana. Una materia tipicamente maschile, quella penale, e forse quella più permeata dal pesante velo di scetticismo ancora radicato nei colleghi uomini, poco abituati a confrontarsi con donne in toga. «Prima di me nessun tribunale aveva visto una donna, se non come imputata. Stavo lì, penosamente avvolta nella mia toga, e mangiavo la paura». Proprio quel primo processo, tuttavia la proiettò nel foro torinese: «Sapevo che intorno a me c’erano solo diffidenza, stupore, incredulità. Dovevo difendere una infanticida per la quale erano stati chiesti 25 anni. Fu assolta», ricordò lei in un’intervista. In prima fila, ad assistere con occhi attenti all’udienza davanti alla Corte d’Assise, c’era l’avvocata ottantenne Lidia Poët, la prima donna italiana a chiedere l’iscrizione all’albo nel 1881 e cancellata da una sentenza di Cassazione nel 1883. Alla lettura della sentenza di assoluzione, l’aula del tribunale fu teatro di un abbraccio liberatorio tra la prima penalista e la prima avvocata. Un inizio di carriera brillante, che divenne la cifra della sua carriera forense, durata oltre cinquant’anni. Dopo quel primo caso, infatti, ha raccontato “Liù” in un’intervista, «patrocinai le cause di tante altre donne sul banco degli imputati. Le difendevo con passione, rabbia, intelligenza da donna, ma sui giornali si parlava soltanto delle fasciste, delle amanti degli uomini importanti, ma per chi lavorava usando il cervello non vi era spazio». Se la sua ascesa professionale, infatti, arrivava grazie sulle conquiste di colleghe come Lidia Poët che si erano battute per ottenere il diritto all’iscrizione all’albo, la generazione di Lina Furlan non potè godere in pieno dei frutti di quelle lotte. Il fascismo, infatti, aveva prepotentemente riproposto l’archetipo di «donna domestica» dedita alla casa e alla famiglia, e nell’infiammarsi della propaganda di regime sempre meno erano tollerate le ingerenze nei settori tipicamente maschili. Non solo: come lei stessa scrisse in L’Almanacco nel 1939, «Difendendo e accusando, ho sempre dovuto, con parole aperte o con diplomatici sottintesi, nel corso della discussione o nel preludio istruttorio, difendere prima di tutto, prima di tutti, la donna che vive sotto la toga dell’avvocato Lina Furlan». Una necessità di difesa implicita nei gesti, nelle parole, nel tono della voce, che tuttavia non era né richiesta né necessaria ai suoi colleghi uomini, ai quali imputava la testardaggine di «non aver ancora accettato la nostra concorrenza». Proprio lo stile di difesa intenso e quasi teatrale che caratterizzava le sue arringhe era diventato, infatti, famigerato nel foro torinese: «difendeva i suoi clienti con foga inaudita: la voce altissima, l’esaltazione e la gesticolazione», scrisse di lei il giornalista della Stampa Bruno Segre. Il credito sempre più vasto di cui, nonostante tutto, godeva professionalmente – Lina Furlan era diventata un vero e proprio caso mediatico ante litteram – e l’affacciarsi nell’ordinamento delle leggi razziali la portarono all’incontro che fu determinante nella sua vita. «Ho conosciuto il mio Piti come cliente, quando si era recato da me per trovare il modo di proteggere alle leggi razziali il figlio avuto dalla prima moglie», raccontò in un’intervista. “Piti” era Pitigrilli, tra i più noti scrittori italiani tra le due guerre: Lina Furlan lo sposò con rito religioso per procura nel 1940 – il matrimonio venne celebrato dall’allora vescovo Montini, poi diventato papa Paolo VI – e con Segre ( figlio di un ebreo e una cristiana) fuggì prima in Svizzera e poi in esilio volontario a Buenos Aires. Nel 1943 nacque il loro unico figlio e poi, rientrati a Torino nel 1950, Pitigrilli dovette far fronte alle accuse di essere stato una spia dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Nonostante le difficoltà familiari, Lina Furlan riprese la propria attività professionale al quinto piano di via Principe Amedeo, tornando a difendere soprattutto le donne, «povere ed emarginate dalla società e abbandonate a se stesse». Una scelta, questa, che rivendicò come missione della sua attività forense, anche se – ricorderà lei in una pubblicazione dal titolo Le donne avvocato – spesso le penaliste donne venivano criticate: «La donna avvocato non casca nel ridicolo con l’assumere atteggiamenti da Crocerossina verso i delinquenti che deve difendere. La mia comprensione delle manchevolezze di coscienza e di tutte le debolezze dell’istinto non si trasforma affatto in solidarietà». Lina Furlan visse intensamente, mai oscurata dal marito di cui ha sempre sostenuto l’innocenza e padrona della sua attività forense, che svolse fino agli ultimi anni. Si è spenta nel 2000 nella sua città, a 97 anni, e per Torino rimarrà sempre la nobile signora descritta in un ritratto pubblicato da La donna italiana: «Chi la vede passare rapida e sicura al volante della sua auto, con quel visetto arguto e mobilissimo, non pensa certo che si tratti della più nota giurista italiana».

La passione di Elisa Comani: «Noi avvocate vinceremo solo se unite». Giulia Merlo de Il Dubbio l'8 marzo 2020. Fu la prima donna iscritta all’albo degli avvocati di Ancona e i giornali la descrissero come una “sirena in decollété”. Fu suffragetta e socialista, patrocinò il processo contro i militari in rivolta alla caserma di Villarey. Aveva tutti gli occhi addosso: mille sguardi inclementi che la facevano «vacillare sotto il peso della grave responsabilità» di un pubblico quasi morboso e prevalentemente femminile, corso a «giudicare se la donna abbia meritato o meno d’essere ammessa nell’arringo forense». Così descrisse il suo debutto in toga alla rivista La donna, l’avvocata Elisa Comani. Era il 1920 e quella causa difficile quanto di successo – difese un soldato accusato di codardia nel famoso processo Villarey, davanti al tribunale militare di Ancona – misurava agli occhi della società non solo la sua perizia professionale, ma quella dell’intero genere femminile. Lei arringò per più di un’ora davanti alla corte e «i sorrisi tra l’incredulo e lo scettico che avevo notato all’inizio della discussione su molti visi erano andati scomparendo: gli ascoltatori evidentemente andavano modificando il loro giudizio su una donna in toga», concluse la Comani. Purtroppo per lei, tuttavia, i cronisti dell’epoca non lesinarono attacchi taglienti a quella «signora» che pretendeva di svolgere una professione tipicamente maschile. «Sirena in décolleté», la definì il cronista de La toga di Napoli che raccontava il processo. Segno di come il diritto – la legge Sacchi, che consentiva espressamente alle donne di iscriversi agli ordini forensi, era stata approvata nel 1919 – stentasse a consolidarsi nella prassi e a scalfire il pregiudizio. Prima di lei era toccato alla torinese Lidia Poët, che aveva combattuto e perso la battaglia per l’iscrizione già alla fine dell’Ottocento, potendo infine iscriversi a 65 anni e dopo una vita passata a lavorare nello studio del fratello, senza utilizzare il titolo. Elisa Comani, invece, faceva parte di quella seconda generazione di donne che sperimentava per prima il godimento di un diritto stabilito sulla carta ma guardato con diffidenza nelle aule di tribunale. «Non posso immaginare che gusto particolare provi la signorina anconetana ad esercitare questa professione legale fra le meno attraenti e simpatiche del mondo e non posso nemmeno credere che abbia tutte le doti naturali per fare una grande carriera», scriveva Carlo Beniamino sulla rivista satirica torinese Pasquino, quando la notizia dell’iscrizione della Comani all’albo dei procuratori aveva fatto il giro del Paese. Del resto, per lui era scontato che «Se è bella non le mancheranno bensì i clienti che le vorranno affidare le loro cause, non tanto per la tutela degli interessi quanto per farle la corte» e dunque «non è avventato pronosticare per la signorina uno scarsissimo successo professionale, ed una breve durata della carriera».E forse, infatti, ad adontare più di tutto gli osservatori maschili dell’epoca che guardavano con sospetto le toghe femminili non era tanto il diritto teorico all’accesso, quanto il pratico successo professionale. Ma a smentire il cupo pronostico, un anno dopo, furono i fatti. Elisa Comani, che si era avvicinata in giovane età ai circoli socialisti anconetani, assunse la difesa di otto militari e tre civili nel “processo Villarey”, che prendeva il nome della caserma dove era scoppiato l’ammutinamento di alcuni soldati contro la decisione del governo di Giovanni Giolitti di mandare le truppe a reprimere una rivolta scoppiata nel presidio italiano di Valona, in Albania. Il processo vide presenti a difesa degli imputati alcune tra le maggiori personalità del foro anconetano e la giovane Comani, appena ventottenne, sostenne la difesa davanti alla corte militare, argomentando di «non potersi colpire pochi individui per un fatto collettivo al quale hanno partecipato tutti i militari che nella notte dal 25 al 26 giugno 1920 erano nella caserma Villarey». E nel tumultuoso dopoguerra, Elisa Comani è forse la prima donna a riconoscere e ad enfatizzare il ruolo sociale dell’avvocato, accettando la difesa di donne che avevano iniziato a lavorare in assenza degli uomini andati in guerra e che, una volta tornati, volevano ricacciarle nella «sfera domestica familiare», rispedendole dietro al focolare «come un limone spremuto». Del resto, anche in prima persona affronta i tumulti emancipazionisti dell’inizio del Novecento, tanto da sacrificare la sua stessa professione: lei e il marito decisero di separarsi, utilizzando il cosiddetto “divorzio fiumano” (secondo la convenzione dell’Aja del 1902, l’Italia riconosceva le sentenze di divorzio pronunciate nella città-stato indipendente di Fiume). Così, però, la Comani perse la cittadinanza italiana e dunque un requisito essenziale per l’iscrizione all’albo forense, dal quale venne cancellata nel 1923. Dopo il secondo matrimonio col collega Enrico Malintoppi (che fu senatore e sottosegretario alla Difesa-Aeronautica nel quarto governo De Gasperi) riprese la cittadinanza e si reiscrisse all’Ordine ed anche l’attività politica con i socialisti, battendosi soprattutto nelle campagne per il suffragio femminile. Una vita, la sua, passata a combattere per veder riconosciuta la propria professionalità, ma con la consapevolezza dell’onere pesante sulla sua generazione, la prima ad emanciparsi dalle incrostazioni ottocentesche dell’inferiorità femminile: restituire il senso collettivo delle conquiste della donna, per rendere vivi nella società quei diritti sanciti dalle norme. «La conquista completa della pubblica opinione non sarà né lieve né facile e potrà essere solo abbreviata se entreranno coraggiosamente in lizza colleghe, e non ne mancano di grande valore e intelletto» diceva nel 1920, in un’intervista dal titolo emblematico di Impressioni di una neo-avvocatessa.  Eppure ne era certa: «Vinceremo, ma perché questo avvenga presto bisogna che noi poche pioniere abbiamo fede e forza soprattutto che siamo unite nella dura lotta intrapresa». E della sua lunga vita – Elisa Comani si spense a 92 anni, nel 1975 – fatta di lotte appassionate come avvocata, come segretaria generale del Consiglio nazionale delle donne italiane e membro dell’Unione giuriste italiane, risuona forte quel «vinceremo» pronunciato da giovane professionista e onorato in ogni sfida.

E Marie Curie disse: «Com'è essere sposati a un genio? Non so, chiedetelo a mio marito». Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 da Corriere.it. In occasione della giornata mondiale delle Donne nella Scienza, l’account del premio Nobel ha postato un tweet in onore di Marie Curie, la prima donna a essere insignita del premio e a tutt’oggi ancora l’unica ad averlo vinto per ben due volte. Nata a Varsavia nel 1867, Maria Sklodowska si laureò in fisica e matematica alla Sorbona nel 1894. L’anno dopo sposò il suo collega Pierre Curie con il quale nel 1903 condivise il premio Nobel per la fisica (insieme ad Antoine Henri Becquerel) per i loro studi sulla radioattività. Si racconta che a un giornalista che le chiese come ci si sentisse ad aver sposato un genio, la Curie rispose: «Non so, chiedetelo a mio marito». Pierre Curie morì prematuramente nel 1906 dopo essere stato investito da una carrozza mentre attraversava sotto la pioggia Rue Dauphine, all’altezza del Pont Neuf. Cinque anni dopo, nel 1911 Marie Curie vinse un altro Nobel, questa volta per la chimica, grazie alla sua scoperta del radio e del polonio. In quell'occasione però l'accademia svedese le consigliò di non presentarsi a ritirare il premio perché in quello stesso periodo era esploso lo scandalo della sua relazione con il collega Paul Langevin, già collaboratore del marito Pierre. La Curie ignorò il consiglio. Morì nel 1935 in seguito alle radiazioni a cui era stata a lungo sottoposta. Le spoglie dei due coniugi Curie sono state tumulate nel Panthéon di Parigi nel 1995 . Per timore di contaminazioni radioattive, la sua bara è stata avvolta in una camicia di piombo.

Da “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Perché le donne dovrebbero pagare quando hanno il ciclo? «Non è equo e non è giusto che siano penalizzate per una funzione corporea naturale». A pensarla così, dando un importante segno di civiltà e aggiungendo un tassello verso una ancor lontana parità tra i generi, è il parlamento scozzese, che martedì ha approvato una legge per rendere gratuiti e disponibili i prodotti sanitari per tutte le donne. È la prima nazione al mondo a compiere questo passo. La Germania, finora, ha solo detassato il prodotto, con un provvedimento in vigore dal primo gennaio: l' Iva è passata dal 19% (quella prevista per le merci di lusso, come sigarette e vino) al 7% (la quota applicata sui prodotti di necessità giornaliera). In Scozia, gli assorbenti saranno disponibili nei luoghi pubblici, come ad esempio i centri comunitari, i club giovanili, e anche nelle farmacie. Il costo stimato per lo Stato sarà di 24,1 milioni di sterline (28,6 milioni di euro). La legge si chiama Period Products Scotland Bill, è stata votata con 112 sì, nessun contrario e un astenuto, e attende la sua approvazione definitiva. I membri del parlamento scozzese ora possono proporre emendamenti.

«Un segnale verso la parità». Durante il dibattito, la presentatrice del disegno di legge Monica Lennon ha dichiarato che approvare questa legislazione sarebbe un «momento fondamentale per la normalizzazione del periodo femminile in Scozia e sarebbe un vero segnale tangibile su quanto seriamente consideriamo le questioni di genere e la parità». Il collega Alison Johnstone ha lanciato una domanda provocatoria: «Perché nel 2020 la carta igienica è considerata un bene di prima necessità, ma i prodotti necessari alle donne per il periodo del ciclo no? Essere penalizzati economicamente per via di una funzione corporea naturale non è equo o giusto». Nel 2018, la Scozia è diventata la prima nazione al mondo a fornire prodotti sanitari gratuiti in scuole, college e università. I prodotti sanitari nel Regno Unito sono attualmente tassati al 5%. Già il primo ministro David Cameron aveva dichiarato di voler porre fine alla cosiddetta «tassa sui tamponi», ma a frenarlo è stata l' Unione europea, che impone una tassazione uniforme per categorie di prodotti. E l' Italia? Assorbenti e pannolini per i bimbi restano beni di lusso, con l' Iva al 22%, al pari di articoli di abbigliamento, sigarette, vino e altri prodotti non di prima necessità. La Tampon tax è stata introdotta nel 1973, dal 12% l' aliquota è passata al 22%. L' unica cosa che è stata abbassata, finora, è l' Iva per gli assorbenti compostabili e biodegradabili e sulle coppette, prodotti spesso cari e utilizzati da una minoranza di donne.

DAGONEWS il 18 febbraio 2020. Siamo entrati in un nuovo decennio, ma le donne, pur lavorando sempre più fuori casa, continuano a caricarsi del peso dei lavori domestici. Secondo l'Ufficio Statistico del Lavoro degli Stati Uniti,  a oggi ci sono 109.000 donne in più a lavoro rispetto agli uomini. Tuttavia, secondo un sondaggio Gallup, le donne hanno maggiore probabilità di essere le persone indicate per fare il bucato, pulire la casa, fare la spesa, preparare i pasti, lavare i piatti e prendere decisioni su mobili e decorazioni, nonostante i millennial siano per una parità di genere. Secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, le attuali tendenze indicano che gli Stati Uniti impiegheranno almeno 208 anni per raggiungere la vera uguaglianza di genere. Perché ci vuole così tanto tempo?

Retaggi infantili. Harry Reis, professore di psicologia all'Università di Rochester, ha affermato che i ruoli di genere cambiano molto lentamente perché sono molto probabilmente il prodotto dell'educazione di un individuo da bambino. «È più conveniente e comodo per le persone seguire i ruoli di genere con cui sono cresciuti - ha affermato – Dagli studi emerge che alle ragazze viene chiesto di dare una mano in casa di più rispetto ai ragazzi». Reis ha aggiunto che gli individui vengono cresciuti per svolgere ruoli in un modo specifico in base al genere. Anche se oggigiorno i genitori cercano di insegnare ai loro figli ruoli più neutri dal punto di vista del genere, ci sono ancora delle resistenze. I dati mostrano che anche i genitori più istruiti non hanno maggiori probabilità di garantire che i loro figli abbiano le competenze per prendersi cura della propria casa, secondo un'analisi dell'American Time Use Survey dell'U.S. Bureau of Labor Statistics.

La seconda metà della rivoluzione di genere. Christin Munsch, assistente professore di sociologia presso l'Università del Connecticut, afferma che la maggior parte dei millennial uomini afferma di essere per l'uguaglianza di genere, ma che ci vuole molto di più per colmare il divario. «Credono di essere bravi uomini facendo i femministi, condividendo le faccende domestiche e le responsabilità - ha detto – Ma c’è ancora molto da fare nel quotidiano». Sempre più uomini sono a favore del fatto che le donne occupino posizioni fino a oggi appannaggio esclusivo degli uomini, ma sono riluttanti a prendere il posto occupato fino a ieri solo dalle donne. Uno dei motivi è che alla nostra società piace ancora il concetto di mascolinità, ipotizza Munsch. Senza contare che gli uomini vengono ancora pagati di più. Ma tornando alle faccende domestiche. Munsch ipotizza che un altro motivo per cui gli uomini non contribuiscono equamente è perché non sono motivati come le donne. Uno studio condotto dall'Università della California e pubblicato su Sage Journals evidenzia come le donne vengano ancora giudicate duramente se la loro casa non è in ordine a differenza degli uomini.

Relazioni di successo. La condivisione delle faccende domestiche non è solo un altro passo per sradicare la disuguaglianza di genere, è anche un modo per avere una relazione sana. Secondo Munsch, le relazioni in cui ci sono molte disuguaglianze tra uomini e donne dentro e fuori casa sono meno stabili. Le persone si sentono frustrate quando sentono che i loro partner non stanno contribuendo abbastanza alla relazione. D'altro canto, i loro partner si sentono altrettanto frustrati quando si sentono non necessari.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 20 febbraio 2020. Se siete tra coloro che sostengono che sposarsi comporti uscite talmente elevate da essere proibitive e che dunque oggigiorno il matrimonio venga posticipato o evitato a malincuore dai giovani per mancanza di risorse finanziarie, allora non avete mai provato l' esistenza da single. È questa, infatti, il vero lusso. Soltanto chi è benestante può permettersi di campare da solo, pagare affitto o mutuo, bollette, spesa, annessi e connessi, tutto di tasca sua. Per i singoli il costo della vita è in media più alto del 78 per cento rispetto a quello pro-capite di un nucleo familiare composto da tre persone. Dunque sembra che per risparmiare e non ridurci al verde ci tocchi correre all' altare in quanto essere muniti di partner conviene. Almeno al portafoglio. A certificarlo è uno studio della Coldiretti, eseguito sulla base degli ultimi dati Istat sulla popolazione. Dall' analisi emerge che la spesa media per alimentari e bevande di un single è di 285 euro al mese, del 55 per cento superiore rispetto a quella media di ogni componente di una famiglia tipo (tre componenti) che è di 184 euro.

POCHE MONOPORZIONI. Ma per quale ragione i singoli spendono tanto? Mica perché il single trascorre le serate sul divano a divorare vaschette di gelato, patatine, cibi pronti, nonché a tracannare litri e litri di alcolici e superalcolici in stile Bridget Jones, la zitella inglese un po' sfigata protagonista di un celebre film. Il motivo della maggiore incidenza della spesa a tavola è da ricercare semmai nell' esigenza per gli individui non accasati di acquistare spesso maggiori quantità di alimenti per la mancanza di formati monoporzione, che, pure quando disponibili, risultano molto più cari di quelli tradizionali. Inoltre, coloro che non hanno un compagno con cui condividere il tetto sborsano il 140 per cento in più per l' abitazione sempre rispetto alla media per persona di un nucleo fatto di tre soggetti. I mono ed i bilocali, unità abitative predilette da parte degli allergici al "due cuori e una capanna", hanno prezzi più elevati al metro quadro rispetto agli appartamenti di più ampie metrature, sia in caso di affitto che in caso di acquisto. Ad incidere sul carovita sono altresì le uscite per l' automobile ed il riscaldamento, dal momento che utilizzare l' auto da soli e riscaldare una casa abitata da un soggetto unico implicano costi più salati. Tuttavia, sebbene stare in solitudine sia antieconomico e nonostante ci troviamo immersi tuttora nelle sabbie mobili di una crisi che da lustri fa dell' Italia un Paese a crescita zero, negli ultimi cinque anni i single sono lievitati quasi del 9 per cento, superando quota 8,5 milioni. Del resto, la frotta di persone non accoppiate cresce in particolare nelle metropoli più prospere, laddove la gente più agevolmente gode delle risorse finanziarie adeguate per vivere da sola e sceglie di farlo, anche se lo stare in due sarebbe più abbordabile.

CONIUGATI E DEPRESSI. Basti pensare che a Milano su 674.016 famiglie i nuclei monofamiliari sono 302.947, pari al 45 per cento (dati aprile 2018, Casa del Comune). Dunque, quasi un cittadino su due è solo in casa e la determinazione di abitare senza compagnia sta diventando prevalente: è onerosa sì, ma non essere costretti a dividere letto, bagno, armadio, cucina, dentifricio non ha prezzo! Si butta via qualche quattrino ma ci si guadagna in salute. Lo confermano numerose ricerche scientifiche dalle quali risulta che i single sono più felici e campano più a lungo rispetto ai maritati. Insomma, se l' esistenza da singoli è una sciccheria che produce sprechi, quella da coniugati è spesso un bidone. Tuttavia, esistono pure signore e signori che non hanno deliberato di ritrovarsi solinghi i quali subiscono tale condizione loro malgrado. Si tratta di vedovi ed anziani che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e sono attanagliati da un senso di desolazione. Secondo l' Istat sono oltre un milione gli italiani sopra i 65 anni i quali, vivendo in totale solitudine, sono a rischio di povertà e di esclusione sociale.

La donna nell'arte: da Tiziano a Boldini protagonista a Brescia. Valentina Tosoni su La Repubblica il 9 gennaio 2020. La rappresentazione della donna nell'arte dal Rinascimento, passando per il Barocco e fino alla Belle Epoque. E' questo che mette in evidenza la mostra “Donne nell’arte. Da Tiziano a Boldini” dal 18 gennaio al 7 giugno 2020 che resterà aperta al pubblico a Palazzo Martinengo di Brescia. Madre, moglie, lavoratrice, amante e anche musa ispiratrice, la donna e l'universo femminile hanno da sempre giocato un ruolo determinante nella storia dell’arte italiana. Forme, stili, colori, pose e atteggiamenti che rivelano concezioni differenti, lievi evoluzioni e aperture a piccoli angoli di libertà e d'intimità in 90 capolavori di artisti quali Tiziano, Guercino, Pitocchetto, Appiani, Hayez, De Nittis, Zandomeneghi e Boldini. Nelle opere è poi possibile cogliere altri aspetti che connotano la moda, le acconciature e agli accessori tipici di ogni epoca e contesto geografico. Il percorso espositivo è suddiviso in otto sezioni tematiche – Sante ed eroine bibliche; Mitologia in rosa; Ritratti di donne; Natura morta al femminile; Maternità; Lavoro; Vita quotidiana; Nudo e sensualità – e documenta il rapporto tra l’arte e il mondo femminile per evidenziare quanto la donna sia da sempre il centro dell’universo artistico. Tra i capolavori della mostra spicca la Maddalena penitente, un olio su tela di Tiziano, firmato per esteso, proveniente da una collezione privata tedesca. 

Da leggo.it il 26 gennaio 2020. Miuccia Prada è la più pagata tra le donne-manager delle società italiane quotate in Borsa. La stilista milanese nel 2018 ha percepito uno stipendio fisso di 12,4 milioni di euro, al lordo delle tasse, come amministratore delegato di Prada, l'azienda di moda di cui è azionista di controllo. La seconda più pagata è Alessandra Gritti, vicepresidente e a.d. di Tip (Tamburi investment partners), quasi 4,66 milioni (di cui 4,3 milioni di bonus). La terza è Monica Mondardini, manager che ha la fiducia sia di Carlo De Benedetti sia dei figli, è a.d. e direttore generale di Cir, presidente di Sogefi ed ex a.d. di Gedi (Editoriale L'Espresso), ha totalizzato 1,95 milioni, includendo anche i gettoni per le cariche nei cda di due società esterne, Atlantia e Trevi Finanziaria. I dati, tutti al lordo delle imposte, sono stati elaborati dal Sole 24 Ore in base ai documenti societari pubblicati dalle società quotate (riferiti all'anno 2018) e utilizzati per il 'pay watch' dei manager. Il confronto delle buste paga, rileva il quotidiano economico, mostra un amplissimo divario tra i compensi delle donne-manager e i turbo stipendi degli uomini che guidano le aziende quotate. Miuccia Prada, che nella sua azienda (quotata a Hong Kong) ha lo stesso stipendio del marito, Patrizio Bertelli, nella classifica complessiva degli stipendi dei manager di società quotate è quinta, dietro quattro uomini. Le altre donne invece sono molto più indietro. Gritti è trentunesima. Mondardini è settantunesima. La causa della differenza è che poche donne hanno posizioni di comando o di guida operativa delle aziende. Tra i primi 100 manager più pagati le donne sono solo quattro. La quarta, al 93mo posto, è Alberta Ferretti, 1,56 milioni di compenso come vicepresidente di Aeffe, la sua azienda di moda. Batte di un soffio Massimo Moratti, a.d. di Saras (1,545 mln). La quinta è Gina Nieri, direttore affari istituzionali e consigliere di amministrazione di Mediaset, con 1,29 milioni, 122ma nella classifica assoluta. Supera di 4.522 euro l'ex direttore sportivo dell'As Roma, Ramon Rodriguez Verdejo, detto «Monchi». Gli uomini più pagati hanno stipendi multipli di quelli delle donne. Finché ha potuto guidare Fiat-Chrysler, Ferrari, Cnh Industrial Sergio Marchionne (deceduto il 25 luglio 2018) ha percepito 28,27 milioni di euro lordi nel 2018, secondo quanto riportato dal bilancio di Exor, la holding degli eredi Agnelli-Nasi, di cui era vicepresidente. Il compenso di Marchionne è addirittura superiore alla somma delle buste paga delle prime dieci donne-manager, che totalizzano 27,5 mln lordi. La donna più pagata, Miuccia Prada, ha superato, tra gli altri, nomi (e buste paga) pesanti come John Elkann (8,95 mln), Marco Tronchetti Provera (7,85 mln), l'ex a.d. di Atlantia Giovanni Castellucci (6,2 mln), l'a.d. dell' Eni Claudio Descalzi (5,94 mln) e quello dell'Enel Francesco Starace (5,03 mln), l'ad di Intesa Sanpaolo Carlo Messina (5,74 mln), il presidente di Cementir Holding Francesco Caltagirone (4,745 mln). Sesta tra le donne è Luisa Deplazes De Andrade Delgado, nata in Svizzera nei Grigioni, ad di Safilo fino al 28 febbraio 2018. Grazie alla buonuscita di 1,09 milioni ha totalizzato 1,27 milioni, è 125ma nella classifica assoluta, davanti ad Andrea Della Valle. Poco dopo c'è Tatiana Rizzante, a.d. della società di informatica Reply, con 1,2 milioni. Valentina Volta è l'ottava donna, a.d. della bolognese Datalogic, 1,13 milioni, compreso il gettone di 20.000 euro dal cda dell'Ima. La numero nove è l'aretina Diva Moriani, vicepresidente esecutivo di Intek, holding del gruppo del rame guidato da Vincenzo Manes, con uno stipendio di 544mila euro.

Katerina: magistrata, divorziata, competente. In Grecia la prima presidente donna. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Nicastro. La Grecia è in fondo alla classifica dei Paesi europei per la parità di genere e, a livello mondiale, è nella parte ingiusta del tabellone. Secondo il «Global Gender Gap Index», chi nasce femmina ha più probabilità di avere opportunità e salari uguali agli uomini in Etiopia, Tanzania, Bangladesh, Bolivia e Giamaica piuttosto che nella «culla della civiltà occidentale». La crisi economica ha colpito durissimo anche le istanze femministe. Pur se ormai fuori dalle procedure di controllo finanziario, anche nel 2019 la Grecia continua a scivolare indietro. Dal 2008, Atene è stata superata nelle questioni di «gender» da 15 Paesi. Eppure il 13 marzo, proprio la Grecia entrerà nel ristretto club dei Paesi con un presidente donna. Era dai tempi di Pericle, che la Grecia avrebbe potuto essere oltre che democratica anche con un capo di Stato donna. Ci sono voluti 2.480 anni per riuscirci. Il miracolo ha il nome di Katerina Sakellaropoulou, una donna capace di essere meglio di chiunque altro nella sua posizione, maschio o femmina. Meglio, ma non diversa. Se c’è da festeggiare per il punto conquistato nella classifica delle parità di genere, non c’è da illudersi che ciò comporti una specificità femminile capace di cambiare il mondo. Sakellaropoulou, 63 anni, divorziata con un figlio, non è una nuova Cassandra che dica, inascoltata, verità che nessuno vuole sentire. Per arrivare in cima ha usato quel che sarebbe servito anche a un maschio, niente di più, niente di meno: una famiglia importante per costruire relazioni e contatti, studi eccellenti, competenza e senso del vento per mettersi dalla parte giusta, senza creare attriti con chi avrebbe potuto un giorno aiutarne la carriera. La nuova presidente greca è una tecnica indiscutibile, ma è stato il fiuto politico a renderla il candidato ideale per destra e sinistra. Sakellaropoulou è stata proposta alla presidenza dal premier conservatore Kyriakos Mitsotakis (Nuova Democrazia) e subito accolta anche dal centrosinistra di Syriza, il maggior partito d’opposizione guidato dall’ex premier Alexis Tsipras. Pochi anni fa era stato proprio Tsipras a scegliere la giudice per guidare il Consiglio di Stato. Anche allora era stata la prima volta per una donna. Così, mercoledì, il voto parlamentare è andato sul velluto. Eletta al primo scrutinio con maggioranza schiacciante: 261 deputati a favore su 300. Sakellaropoulou ha già cominciato a entrare nella sua nuova parte. Ha chiuso l’account Facebook su cui postava immagini di gatti e vacanze e ha detto tutte le cose giuste da dire in un momento così. Ha mostrato realismo parlando di «sfide come la crisi economica, i cambiamenti climatici, le migrazioni di massa con il loro corollario di crisi umanitarie, declino dello Stato di diritto e l’aumento delle disuguaglianze». Tutti «problemi che vanno oltre i confini degli Stati e richiedono una cooperazione internazionale» (confermando così la collocazione «europeista» sua e della Grecia). «Abbiamo bisogno di crescita economica, di difendere i più deboli e invertire la fuga dei giovani all’estero. Dobbiamo migliorare l’istruzione e il sistema sanitario, proteggere l’ambiente naturale e la cultura» (e chi non sarebbe d’accordo?). La Grecia «è un moderno Stato di diritto — ha assicurato —, ma è necessario salvaguardare la sua integrità territoriale e i suoi diritti sovrani», un modo come un altro per assicurare i partiti greci che la troveranno al loro fianco contro le ambizioni turche sulle risorse energetiche del Mediterraneo orientale. Figlia del vicepresidente della Corte Suprema che assolse dallo scandalo corruzione il socialista Andreas Papandreu, Katerina Sakellaropoulou ha partecipato da protagonista ad altri processi «storici». Nel 2012 ha invalidato i ricorsi degli ambientalisti contro l’apertura delle miniere d’oro e rame nella Calcidica a causa «dei particolari vantaggi per l’economia nazionale». Nel 2015 ha contribuito a limitare la condanna del ministro delle Finanze Giorgos Papakonstantinou che aveva cancellato i nomi dei parenti dalla lista dei presunti evasori fiscali fatta filtrare da Hervé Falciani. Si è anche occupata di discariche e dei tagli imposti dalla crisi economica alle tredicesime e alle pensioni, mettendo sempre al primo posto nelle sentenze la conferma delle decisioni governative. Pragmatica, realistica, fedele alle istituzioni. Premiata. Spesso si dice che per far carriera, una donna debba essere molto più brava di un uomo. Katerina Sakellaropoulou probabilmente lo è. Sarebbe un’altra discriminazione pretendere che, solo perché femmina, oltre che più brava fosse anche migliore.

Alessandro Rico per la Verità il 24 gennaio 2020. Prosegue l' operazione «simpatia» della nuova presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia. Dopo la bocciatura del referendum elettorale promosso dalla Lega, che ha tolto una grana alla maggioranza giallorossa (di cui lei potrebbe essere la candidata al Colle nel 2022), la giurista torna al core business femministeggiante, già lanciato nel suo discorso d' insediamento, quando aveva citato la premier finlandese e lamentato il gap di genere in Italia. Ieri sera, infatti, la Cartabia ha inaugurato una serie di sei puntate su Rai storia, dedicate al ruolo della Consulta nell' emancipazione della donna. Il programma ha un titolo eloquente: Senza distinzione di genere. Un viaggio nelle storiche sentenze sull' illegittimità dei trattamenti giuridici ineguali dinanzi all' adulterio, sull' apertura alle signore della carriera prefettizia, il tutto condito con qualcuno degli elementi pop che caratterizzano il tipico tecnopopulismo della Cartabia. La quale, non appena eletta, ci ha tenuto a far sapere di essere fan del trekking e della musica classica, ma che «quando corre ascolta Beatles e Metallica». Il volto umano dei competenti. L' essenza della «rivoluzione gentile», celebrata ieri in un articolo del Corriere della Sera, che tesseva le lodi sperticate dell' ultima operazione mediatica della numero uno della Corte. Proprio ai Beatles, infatti, la Cartabia ha fatto ricorso nella prima puntata, citando il singolo A hard day' s night, che descrive l' uomo distrutto al ritorno dal lavoro, ma lieto di trovare la casa messa in ordine dalla moglie. Per le puntate successive, sarebbe divertente se gli autori attingessero all' altro gruppo amato dalla presidente della Consulta, i Metallica: il celebre singolo Master of puppets, che secondo diversi interpreti parla del consumo di droghe, potrebbe accompagnare degnamente un confronto sui pro e i contro della liberalizzazione della cannabis, da intrattenere con un celebre personaggio femminile, come la leader radicale, Emma Bonino. Ironia a parte, balza all' occhio la mediaticità che la Cartabia ci tiene a guadagnarsi. Di presidenti della Corte costituzionale tanto presenzialisti non se ne ricordano molti altri: probabilmente, l' esempio più eclatante è quello di Gustavo Zagrebelsky. Con il quale la Cartabia potrebbe condividere un destino comune: il giurista, prima dell' elezione di Sergio Mattarella, era entrato nella rosa di nomi che il Movimento 5 stelle immaginava per il Quirinale. La chiave che ha trovato la Cartabia - un connubio tra l' appiattimento sulle posizioni dell' élite europeista e le battaglie d' avanguardia, tanto di moda nei circoli buoni dell' establishment - potrebbe però assicurarle qualche carta in più: sarebbe una figura di garanzia per i dem, dotata nondimeno di un' immagine pop, digeribile dai pentastellati. È curioso anche fare una piccola carrellata delle altre catechesi televisive cui, negli anni, sono stati sottoposti i telespettatori Rai. La più simile a quella della Cartabia è il programma dell' attuale giudice costituzionale Giuliano Amato, Lezioni dalla crisi: 12 puntate trasmesse da Rai 3, a partire dal 18 marzo 2012, preludio all' ingresso alla Consulta del dottor Sottile, già premier tecnico ed eterna riserva della Repubblica. Diversi anni prima era toccato a Romano Prodi: correva il 1992, il programma era Il tempo delle scelte, stesso titolo di un suo libro. Andava in onda su Rai 1 alle 23. E, naturalmente, tra i temi trattati c' era la magnificazione del progetto d' integrazione europea, la trappola in cui l' Italia, in quel periodo, si stava infilando con la convinzione di potersi assicurare un futuro prospero e radioso. Di lì a quattro anni, il Professore sarebbe diventato leader del centrosinistra e presidente del Consiglio. Per la Cartabia, sono precedenti benauguranti.

Chi è Francesca Di Giovanni, primo sottosegretario donna in Vaticano. Laura Pellegrini il 15/01/2020 su Notizie.it. Francesca Di Giovanni è il nuovo sottosegretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati: si tratta della prima donna a rivestire questo ruolo. Papa Francesco ha nominato Francesca Di Giovanni, già sottosegretario di Stato, sottosegretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati. Si tratta della prima donna a rivestire un ruolo dirigenziale di tale rilievo in Vaticano. Dal canto suo, il Pontefice ha da sempre rimarcato la difesa del ruolo della donna e nel Sinodo dello scorso ottobre ribadiva: “Bisogna riflettere su cosa significa il ruolo della donna nella Chiesa”. Nominando Francesca sottosegretario in Vaticano ha voluto compiere un passo senza precedenti. Lo stesso cardinale Parolin, qualche anno fa, spiegava che “in teoria una donna potrebbe anche ricoprire l’ufficio di Segretario di Stato”. Questo ruolo, infatti, “non è legato ai sacramenti e al sacerdozio”.

Chi è Francesca Di Giovanni. “Anche una donna può essere a capo di un Dicastero”: Francesca Di Giovanni, infatti, è stata nominata dal Papa sottosegretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati. Sarà la prima donna a rivestire un ruolo di dirigenza alla Santa Sede e nel dettaglio nella Terza Loggia Vaticana. Francesca è nata nel 1953 in Sicilia, a Palermo, e ha conseguito una laurea in Giurisprudenza: dal 15 settembre 1993 è l’Officiale della Segreteria di Stato. A tale riguardo, inoltre, la Santa Sede ha spiegato che Francesca “ha svolto il suo servizio sempre nel settore multilaterale“. Quest’ultimo, secondo la nuova nominata è “un settore delicato e impegnativo che necessita di un’attenzione particolare, perché ha modalità proprie, in parte diverse da quelle dell’ambito bilaterale”. Nonostante ciò, però, Francesca non si aspettava che il Pontefice le affidasse un ruolo di tale rilievo e mostra tutta la sua sorpresa nella scoperta dell’incarico. “Effettivamente, è la prima volta che una donna ha un compito dirigenziale in Segreteria di Stato – ha proseguito -. Il Santo Padre ha preso una decisione innovativa, certamente, che, al di là della mia persona, rappresenta un segno di attenzione nei confronti delle donne. Ma la responsabilità è legata al compito, più che al fatto di essere donna”.

Cos’è il settore multilaterale. Francesca ha spiegato brevemente quali saranno i suoi compiti da oggi, chiarendo anche che cosa sia il “settore multilaterale”. “Si può dire che tratta dei rapporti che riguardano le organizzazioni intergovernative a livello internazionale”. Tale settore “comprende la rete dei trattati multilaterali, che sanciscono la volontà politica degli Stati riguardo ai vari temi concernenti il bene comune internazionale”. Tra gli altri ambiti citati vi sono lo “sviluppo, l’ambiente, la protezione delle vittime dei conflitti, la condizione della donna e così via”. “Continuerò ad occuparmi di ciò che ho seguito fino ad ora – ha proseguito -, anche se adesso avrò il compito di coordinare il lavoro di questo settore“.

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2020. Con i tempi della Chiesa, ma le cose si muovono: Papa Francesco ha nominato Francesca Di Giovanni, esperta in diritto internazionale, da 27 anni in Segreteria di Stato, come sottosegretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati. È la prima volta che una donna, per di più laica, occupa una posizione dirigenziale così elevata nella Santa Sede, ai vertici della Terza Loggia. Francesco aveva già nominato tre donne come sottosegretari di «ministeri vaticani»: suor Carmen Ros Nortes alla Congregazione dei religiosi, Gabriella Gambino e Linda Ghisoni al dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Ma la Segreteria di Stato è il dicastero più vicino al Papa nel governo della Chiesa: guidata dal Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» del Papa, la Segreteria è divisa in tre sezioni, una delle quali è diretta dal Segretario per il rapporti con gli Stati, l' arcivescovo Paul Richard Gallagher, una sorta di ministro degli Esteri della Santa Sede del quale Francesca Di Giovanni, già «officiale» della stessa sezione, diventa ora uno dei due «vice». Dall' inizio del pontificato, Francesco parla della necessità di riconoscere più spazio alle donne, «bisogna riflettere su cosa significa il ruolo della donna nella Chiesa», aveva ripetuto a conclusione del Sinodo di ottobre, salvo aggiungere che non era solo una questione di incarichi. Del resto il Papa spiegò che «anche una donna può essere a capo di un Dicastero». E lo stesso cardinale Parolin, tre anni fa, ha ricordato che «in teoria una donna potrebbe anche ricoprire l' ufficio di Segretario di Stato, che non è legato a sacramenti e sacerdozio». La nomina di Francesca Di Giovanni, nell' attesa, è un passo in avanti notevole. «Che il Santo Padre affidasse a me questo ruolo, sinceramente non l' avrei mai pensato», ha spiegato ai media vaticani. «In effetti, è la prima volta che una donna ha un compito dirigenziale in Segreteria di Stato. Il Santo Padre ha preso una decisione innovativa che, al di là della mia persona, rappresenta un segno di attenzione nei confronti delle donne. Ma la responsabilità è legata al compito, più che al fatto di essere donna». Nata a Palermo nel 1953 e laureata in Giurisprudenza, Francesca Di Giovanni fa parte dei Focolari e nel movimento cattolico fondato da un' altra donna, Chiara Lubich, ha iniziato lavorando nel settore giuridico-amministrativo del centro internazionale dell' Opera di Maria. Officiale della Segreteria di Stato dal 15 settembre 1993, «ha svolto il suo servizio sempre nel settore multilaterale, soprattutto per quanto riguarda temi concernenti i migranti e i rifugiati, il diritto internazionale umanitario, le comunicazioni, il diritto internazionale privato, la condizione della donna, la proprietà intellettuale e il turismo», informa la Santa Sede. Come sottosegretario, si occuperà del «settore multilaterale», spiega: «In parole povere si può dire che tratta dei rapporti che riguardano le organizzazioni intergovernative a livello internazionale e comprende la rete dei trattati multilaterali, che sono importanti perché sanciscono la volontà politica degli Stati riguardo al bene comune internazionale: pensiamo allo sviluppo, all' ambiente, alla protezione delle vittime dei conflitti, alla condizione della donna e così via. Continuerò ad occuparmi di ciò che ho seguito fino ad ora all' interno della sezione per i Rapporti con gli Stati, anche se adesso, in questo nuovo ruolo, avrò il compito di coordinare il lavoro di questo settore». Certo la strada per le donne è ancora lunga. Nell' ultimo numero del mensile «Donne Chiesa Mondo» dell' Osservatore Romano , il quotidiano della Santa Sede, un articolo delle fondatrici dell'«Associazione donne in Vaticano» è intitolato «Rompere il muro della diseguaglianza». Circa 950 donne lavorano per la Santa Sede, si legge: «Quante sono, fra noi, le donne con ruoli di responsabilità che riescono ad arrivare ai livelli dirigenziali? Finora ben poche».

Francesca Di Giovanni è il primo sottosegretario donna nella Segreteria di Stato. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Papa Francesco ha nominato la dottoressa Francesca Di Giovanni, officiale della Segreteria di Stato, nuova sotto-segretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati, incaricandola di seguire il settore multilaterale. Andrà ad affiancare monsignor Mirosław Wachowski, che si occuperà principalmente del settore della diplomazia bilaterale. Di Giovanni, da quasi 27 anni in Segreteria di Stato, è nata a Palermo nel 1953, è laureata in Giurisprudenza. Ha completato la pratica notarile e ha lavorato nell’ambito del settore giuridico-amministrativo presso il Centro internazionale dell’Opera di Maria (Movimento dei Focolari). Dal 15 settembre 1993 lavora come officiale nella Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Ha svolto il suo servizio sempre nel settore multilaterale, soprattutto per quanto riguarda temi concernenti i migranti e i rifugiati, il diritto internazionale umanitario, le comunicazioni, il diritto internazionale privato, la condizione della donna, la proprietà intellettuale e il turismo.

Caterina Maniaci per ''Libero Quotidiano'' il 20 gennaio 2020. L'ultimo gradino della scala verso il più alto dei cieli vaticani lo ha raggiunto Francesca Di Giovanni, arrivando fin nel cuore della Segreteria di Stato, il potente ministero che si occupa della politica estera, visto che è stata nominata sottosegretaria del Settore multilaterale per i Rapporti con gli Stati. Un ruolo che fino al 2009 era stato mantenuto dall' attuale segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. È una donna molto determinata, la Di Giovanni, 66 anni, con una lunga serie di titoli di studio importanti conseguiti e una esperienza di lavoro -nata come consulente legale in un organismo nell' ambito del Movimento dei Focolari - e in particolare nella diplomazia vaticana, che ormai conta quasi trent' anni, tale da farla diventare punto di riferimento anche per un dicastero così cruciale per la vita dello stato del Papa. Si tratta del ruolo dirigenziale più importante mai raggiunto prima da una donna sotto il Cupolone, un' ascesa impensabile fino a non molti anni fa. Francesca Di Giovanni fa parte dell' esercito al femminile che ormai conta quasi mille "unità", 950 per l' esattezza, e che manda avanti la quotidianità complessa del Vaticano, rappresentando oltre il venti per cento della sua forza-lavoro. Tra queste fila spicca una rosa ristretta di donne che occupano posti di grande rilevanza e che per questo sono balzate agli onori delle cronache. Come Barbara Jatta, 58 anni, diventata direttrice dei Musei Vaticani nel 2017, tra i più importanti e visitati al mondo. Una laica, come Francesca, sposata e madre di tre figli, che per molto tempo si è occupata del prestigioso Gabinetto delle stampe e dei disegni. O suor Mary Melone, 51 anni, nominata rettore della Pontificia Università Antonianum, anche lei detentrice del "titolo" di prima donna a cui è toccato una simile ruolo dirigenziale. È noto che papa Francesco ha incrementato la presenza femminile anche in ruoli strategici, continuando su una strada tracciata a suo tempo da Giovanni Paolo II, ulteriormente ampliata da Benedetto XVI, che è stato, prima dell' attuale pontificato, colui che ha aperto maggiormente le porte alla presenza femminile. E ora sarebbero 950 le lavoratrici all'interno dello Stato, così come specificato anche innanzitutto articolo apparso sull' Osservatore Romano alla fine del dicembre scorso, e firmato da due delle fondatrici dell' Associazione Donne in Vaticano, Romilda Ferrauto, Adriana Masotti, Gudrum Sailer, nel quale, fra l' altro, assicurano che, a parità di livello, «il loro stipendio è uguale a quello dei colleghi uomini». Tutto questo però non impedisce, veniva rilevato nell' articolo citato, il fatto che «anche in Vaticano le donne sono viste volte viste da uomini, ma anche da altre donne, come persone di minor valore intellettuale e professionale, sempre disponibili al servizio, sempre docili ai comandi superiori». A proposito di questo gruppo, la cui sigla è D.Va., va ricordato che è nata nel 2016, ed è stata la prima associazione femminile mai creata dentro le Mura Leonine. Sono state in dodici a dar vita a questo evento che non è esagerato definire storico, donne di varie nazionalità e appartenenti a diversi uffici. L' Associazione organizza varie attività in ambito sociale, culturale e spirituale, con molte iniziative di beneficenza. La loro guida spirituale è padre Federico Lombardi, ex direttore della sala stampa vaticana e oggi presidente della Fondazione Raztinger. E per ritornare alla "mappa rosa" in Vaticano, che mira ad ingrandirsi sempre più e ad entrare finalmente nelle stanze "che contano", bisogna ancora ricordare che oggi una donna ricopre il ruolo di vicedirettore della sala stampa vaticana, Palma Garcia Ovejero, una alla guida dell' ospedale pediatrico Bambino Gesù, Mariella Enoc. Ci sono una decina di suore centraliniste, poi le addette alla reception di casa Santa Marta, dove risiede il Papa, quelle che si occupano della, pulizia e delle cappelle. Il maggior numero di lavoratrici si trova dislocato fra la Biblioteca Apostolica, la Radio Vaticana, senza contare le giornaliste che lavorano per L' Osservatore Romano. Quasi una trentina Fidare, poi, lavorano a Propaganda Fidae, l'organismo a cui fanno capo le missioni nel mondo.

La donna s’è destra. Domenico Ferrara il 2 gennaio 2020 su Il Giornale. La donna s’è destra. Giorgia Meloni nel podio del quotidiano britannico, tra i venti personaggi che potrebbero cambiare il mondo nel 2020. Unica italiana in classifica. Lei, leader di un partito considerato dai detrattori machista e maschilista oltre che razzista e fascista, è l’immagine del merito. Alla faccia delle quote rose e dei progressisti di sinistra. Perché il tormentone dance sarà pure diventato virale e avrà pure aiutato ad allargare la fama della Meloni, ma le note di Fratelli d’Italia riecheggiano da tempo e fanno proseliti. Non per nulla in un solo anno Fratelli d’Italia è passato dal 4,4% delle elezioni del 2018 alla doppia cifra del 10%, stando agli ultimi sondaggi. Una crescita esponenziale dettata dalla meritocrazia? Può darsi. Ma non ci sono donne in politica e per lo più leader di partito e per lo più di destra che hanno ottenuto questo “riconoscimento”. Non c’è solo il nero a destra, allora, almeno per i britannici. E la destra non è brutta, sporca e cattiva. Può essere anche competente, determinata, costante. Gutta cavat lapidem. Dopo la lunga traversata nel deserto, lei ha iniziato a costruire consenso, con pazienza e anche quando i riflettori puntavano su altri politici. La goccia perfora la pietra. E piano piano la Meloni è riuscita a ottenere dignità, politica, consensuale e personale. Non ci saranno le Boldrini e le femministe di sinistra oggi a esultare, eppure dovrebbero. Anche perché seppur donna, cristiana e italiana è pur sempre una donna, cristiana, italiana. E si chiama Giorgia.

Meloni tra i 20 personaggi che influenzeranno il mondo: il riconoscimento di "The Times". Il quotidiano inglese 'The Times' ha inserito la leader di Fratelli d’Italia tra le 20 persone, ognuno nel proprio campo d'azione e nell'ambito della loro professione, che orienteranno il mondo nel 2020. Gabriele Laganà, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Dal quotidiano inglese "The Times" è arrivato un inaspettato quanto gratificante riconoscimento a Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia, infatti, è tra i venti personaggi che, ognuno nel proprio campo d'azione e nell'ambito della loro professione, potrebbero orientare il mondo nel 2020. Per il quotidiano d’Oltremanica, che si colloca nell’area moderata, i “magnifici 20” potrebbero "plasmare il mondo", come sostiene il titolo del servizio, nell'anno appena iniziato. 'The Times' è rimasto particolarmente colpito dal successo ottenuto dal discorso fatto durante il comizio in piazza San Giovanni a Roma dello scorso ottobre, poi ripreso e diventato un vero tormentone rap sul web, nel quale la leader di Fdi gridava a piena voce "sono Giorgia, sono una donna, sono una madre sono cristiana". Come sottolinea ancora il quotidiano, Giorgia Meloni pur essendo molto giovane è una veterana della politica essendo deputata da diverse legislature e alla guida del ministero della Gioventù nel governo Berlusconi IV nel 2008. La stessa deputata, inoltre, ha permesso di far crescere il partito da lei guidato dal 4,4% ottenuto alle elezioni politiche del 2018 al 10% odierno stimato da diversi istituti di sondaggi. Il tutto pur avendo la “concorrenza” di Matteo Salvini e della Lega che raccolgono voti nello stesso bacino elettorale. Grande soddisfazione per il riconoscimento attribuito a Giorgia Meloni è stato espresso dal capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. "Il Times inserisce Giorgia Meloni tra i 20 personaggi che possono imprimere al nuovo anno un segno di svolta politica significativa. L'ennesima dimostrazione- ha dichiarato il deputato- della solidità del suo progetto, volto alla ricostruzione di una area conservatrice e sovranista realmente autorevole e credibile, capace di rappresentare l'unica vera alternativa alle sinistre e ai populismi italiani”. Secondo Lollobrigida, in Italia “già da tempo Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia stanno catalizzando sempre più consenso, finalmente anche sul piano internazionale si sta comprendendo la serietà e la coerenza del nostro percorso". Oltre alla Meloni, ecco secondo The Times i personaggi più o meno emergenti nel panorama globale, destinati a compiere grandi cose nell'anno appena cominciato: Valérie Pécresse, presidente della regione Île-de-France David Hogg, attivista americano per il controllo dell'uso delle armi; Yegor Zhukov, attivista russo; il David Adedeji Adeleke, meglio conosciuto come Davido cantautore e produttore di origine nigeriana; Gideoon Saar, politico israeliano che ha sfidato Netanyauh; Yury Dud, vlogger russo con un futuro in politica; Shinjirō Koizumi, il più giovane membro di gabinetto giapponese; Amit Shah, l'attuale ministro degli affari interni indiano; il turco Ali Babacan; l'economista tedesca Isabel Schnabel; Mikuláš Minář, attivista ceco; Markus Söder, presidente della Baviera e leader della Unione Cristiano-Sociale; l'attrice Florence Pugh e il generale iraniano Qasem Soleimani.

La destra è più femmina della sinistra: tutte le donne al potere, senza neanche bisogno delle quote rosa. Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. L'unica leader di partito. La prima presidente del Senato. Due candidate alle prossime regionali, una governatrice che ha espugnato l'Umbria con un'impresa che ha un sapore epico considerati i cinquant'anni di incontrastato dominio rosso. Infine, due donne a capo dei gruppi parlamentari. Eccola, la destra accusata di sessismo e machismo, rappresentata come una forza demoniaca che riduce la donna a una statuina bella e muta. Senza ricorrere all'ipocrita stratagemma delle quote rosa che garantiscono una percentuale minima di signore nelle liste come fossero dei Panda in via di estinzione da tutelare, l'attuale centrodestra ha molte più donne al potere rispetto ai tempi della Boldrini, pure così attenta alle declinazioni femminili dei termini politici (lei era presidenta, non presidente). Donne che hanno espresso il proprio talento e si sono imposte senza il bilancino delle pari opportunità. Prendete Giorgia Meloni. La tostissima leader di Fratelli d'Italia che a quindici anni, il giorno dell'uccisione di Paolo Borsellino, entra per la prima volta in una sezione missina e non ne esce più. Nata alla Garbatella, periferia popolare di Roma Sud, Giorgia non può perdere tempo con lo studio: suo padre Francesco ha abbandonato la famiglia e lei deve portare i soldi a casa. Si diploma, lavora come barista e fa da baby sitter al primo figlio di Fiorello.

L' ASCESA. Dalle assemblee studentesche del partito organizzate chiamando i partecipanti uno ad uno a casa, arriva in Parlamento. Diventa ministro della Gioventù del quarto governo Berlusconi e rinuncia alla comodità di un'auto blu. Nel 2012 fonda Fratelli d'Italia insieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa. La attaccano. Le danno della matta scriteriata, ma adesso è il presidente del partito che è una macchina schiaccia-sassi e accumula-consensi. In un anno Giorgia ha più che raddoppiato i suoi voti passando dal 4,4% al 10,3%. E nell'ultimo sondaggio di Pagnoncelli ha superato Salvini nella classifica dei leader più graditi. Giorgia non parla per metafore: lei dice. E così, correndo su e giù per l'Italia, con pochi obiettivi ma chiari, ha trasformato Fratelli d'Italia nel partito di riferimento della destra conservatrice e patriottica. La forzista Maria Elisabetta Casellati è stata la prima a salire sullo scranno della seconda carica dello Stato. È avvocata e questa legislatura è la sua sesta da senatrice. Nel 1994 è entrata in Parlamento e da allora è stata più volte al governo e poi nel Csm. La partita più importante che il centrodestra si gioca a fine gennaio è nelle mani della leghista Lucia Borgonzoni che sfiderà Stefano Bonaccini. Un inseguimento cominciato in salita ma che si è trasformato in un testa a testa. Gli ultimi sondaggi danno la Borgonzoni solo pochi punti indietro e il traguardo non è più un miraggio. Contro di lei sempre la stessa accusa, quella di crescere all'ombra di Salvini: ieri Giuliano Cazzola, messo dalla Bonino nella lista a favore di Bonaccini, l'ha addirittura paragonata «al cavallo di Caligola». Ma lei sa difendersi. In pubblico e pure a casa. Nipote del partigiano-pittore Aldo, Lucia ha lottato per affermare le proprie idee e quando suo padre Giambattista ripete che non la voterà, non si sposta di un centimetro. Ieri il centrodestra ha formalizzato la candidatura della forzista Jole Santelli alle Regionali in Calabria dopo la decisione di Mario Occhiuto di ritirarsi dalla corsa "solitaria" (su di lui c'era il veto di Salvini). Classe 1968, da quasi vent'anni siede tra i banchi di Montecitorio. È stata tra l'altro anche sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia e al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il 14 novembre del 2018 è stata eletta vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. In questi giorni si è dimessa da vicesindaco di Cosenza.

SACRIFICI E TALENTO. L'attuale presidente dell'Umbria Donatella Tesei (quella dell'impresa epica) nel 2009 conquista Monfalcone e diventa sindaco. Poi, dopo dieci anni e cinquantatré giorni di campagna elettorale in oltre cento borghi, espugna l'Umbria. A capo dei gruppi parlamentari di Forza Italia alla Camera e al Senato ci sono Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini. Mentre vicepresidente della Camera è Mara Carfagna. Volti e nomi noti alla politica, tre donne approdate in Forza Italia ai tempi d'oro e ancora in prima fila. Fino al 5 settembre scorso la leghista Giulia Bongiorno era ministro della Pubblica amministrazione. Avvocato penalista famosissima grazie al processo Andreotti, non aveva alcun bisogno di scendere in politica se non quello di impegnarsi per il Paese. Ha introdotto prima la legge sullo stalking e poi il "codice rosso" che accelera l'iter dei procedimenti che riguardano i casi di violenza, velocizza le indagini e porta da 6 a 12 mesi il termine per presentare denuncia. Ha fatto per le donne molto più di quanto non abbiano fatto certe femministe di sinistra. Eccole, le signore di destra. È possibile che tra qualche mese questo articolo debba essere aggiornato: le candidate in Emilia e in Calabria potrebbero essere governatrici. E chissà quando (impossibile prevedere i tempi della politica) la Meloni potrebbe diventare premier. La prima donna. Di destra. Lucia Esposito

Andrea Tarquini per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. L'Estonia causa una crisi diplomatica di pessimo gusto maschilista con la vicina Finlandia. Il ministro dell' Interno e leader dell' ultradestra estone (Ekre), Matt Helme, ha insultato la giovane premier socialdemocratica finlandese Sanna Marin, 34 anni, plurilaureata, popolarissima in tutto il mondo da quando guida un centrosinistra di larghe intese assieme alle giovani donne leader dei 5 partiti e titolari dei ministeri-chiave. «È una commessa ignorante, una volgare piccola cassiera e governa insieme ad attiviste di strada in odore di comunismo», ha detto Matt Helme di Sanna Marin. La Finlandia ignora le oscene parole sul piano diplomatico, ma il caso è aperto. La presidente estone, Kersti Kaljulaid, si è vista costretta a scusarsi con Sanna Marin. E ha obbligato Helme stesso a chiedere scusa. Ma il Parlamento estone ha bocciato la mozione di sfiducia contro il ministro, che è stato quindi confermato nell' incarico. Ha risposto Sanna Marin: «Sono fiera della Finlandia, dove una persona proveniente da una famiglia povera può studiare, e una commessa o cassiera può persino diventare primo ministro».

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 19 dicembre 2019. Torino diventa l' unica tra le prime dieci città italiane ad avere una donna alla guida della Procura della Repubblica. Anche, ma non solo per questo, il voto del Consiglio superiore della magistratura per Annamaria Loreto rappresenta una svolta. Riservata ma pugnace pm prediletta da Marcello Maddalena, una vita in Procura culminata nella direzione antimafia, un anno fa la Loreto pareva destinata al ruolo di outsider, quando si era aperta la successione di Armando Spataro. Tutto è cambiato dopo lo scandalo delle nomine che ha travolto sei membri del Csm, con conseguente ribaltone tra le correnti. Il voto di ieri segna la vittoria di Piercamillo Davigo, grande elettore della Loreto. Introduce un' interpretazione più discrezionale dei curricula, per cui i titoli si pesano e non si contano. E conferma l' egemonia della sua corrente, Autonomia e Indipendenza, e della progressista Area, uscite illibate dalle intercettazioni del caso Ferri-Lotti-Palamara. Ora le due correnti (cinque seggi ciascuna) con un paio membri laici hanno una maggioranza blindata. Prossima tappa la nomina del procuratore di Roma. La più importante, controversa e spinosa. A maggio - un altro mondo - Davigo aveva sostenuto Marcello Viola in nome della massima discontinuità con il procuratore uscente Giuseppe Pignatone. Scoprendo poi dalle intercettazioni di trovarsi in imbarazzante compagnia (dentro e fuori il Csm). Ora sostiene apertamente Michele Prestipino, il candidato (allora nemmeno preso in considerazione) di massima continuità con Pignatone, essendone stato braccio destro per dieci anni. Sulla stessa linea anche i progressisti di Area, almeno un paio di membri laici e (in modo latente) Marco Mancinetti di Unicost. Dunque Prestipino in pole position, ma con due incognite. Il ruolo del pm antimafia Nino Di Matteo (antiche ruggini palermitane), in grado di spaccare la corrente di Davigo. E il peso degli altri due candidati, Franco Lo Voi e Giuseppe Creazzo, procuratori di Palermo e Firenze, più titolati. Oggi si riunisce la commissione, che potrebbe votare. Il fronte che sostiene Prestipino ha finora preso tempo per cercare di convogliare voti verso l' unanimità. Ma il tempo passa, l' unanimità si allontana e il rischio di logorare il candidato cresce.

Anna Maria Loreto prima procuratrice capo a Torino. Presentata da Davigo, la magistrata, prima donna al vertice di una grande procura, ha vinto al Csm contro il candidato esterno Salvatore Vitello: 12 voti contro 7. Ottavia Giustetti su La Repubblica il 18 Dicembre 2019. Anna Maria Loreto è la nuova procuratrice capo di Torino. Candidata interna, 66 anni, in magistratura da oltre trenta ha vinto al Csm contro il candidato esterno Salvatore Vitello, attuale procuratore di Siena: 12 voti contro 7. Loreto succede ad Armando Spataro, a un anno esatto dal suo pensionamento. Portano la firma della magistrata, come coordinatrice della Dda piemontese, inchieste importanti che hanno messo in luce le sue "spiccate capacità investigative" e hanno portato all'emersione degli attuali fenomeni criminali sul territorio. Dall'operazione Alto Piemonte, che nel 2016 ha rivelato gli intrecci tra la 'ndrangheta e gli ultras della Juventus con l'arresto di 18 persone per associazione mafiosa, all'operazione Barbarossa sulle cosche dell'astigiano, all'eclatante operazione che ha portato all'arresto del super latitante della 'ndrangheta, Nicola Assisi. All'inchiesta sugli intrecci tra criminalità e politica in Valle d'Aosta per la quale pochi giorni fa si è dimesso il governatore, Antonio Fosson. "La sua nomina vede per la prima volta una donna a capo di una procura di grandi dimensioni, un bel segnale e un premio al suo merito". Lo ha sottolineato il togato di Autonomia&Indipendenza, Piercamillo Davigo, relatore della proposta di nomina votata questa mattina dal plenum del Csm. Si tratta, ha aggiunto, "di un magistrato di straordinaria competenza in materia antimafia, con un'esperienza di lungo corso sul territorio". Anche un altro togato di A&I, Giuseppe Marra, ha espresso apprezzamento per la nomina di Loreto che "rappresenta un'importante scelta di politica giudiziaria, quella di confermare e premiare la forza della direzione antimafia di Torino, che da anni contrasta efficacemente le infiltrazioni mafiose nel territorio piemontese". Anche la radiografia della nuova mafia nigeriana è frutto di un lavoro del pool di Anna Maria Loreto. Che ha svelato la tratta, l'immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione e i reati predatori. "La dottoressa Loreto si è occupata nel suo percorso di ogni forma di criminalità, ordinaria e organizzata; di tipo comune e di tipo qualificato. Vanta una conoscenza completa dei fenomeni criminali". Presentata così, dal consigliere Piercamillo Davigo, la sola candidata torinese rimasta per la corsa alla successione di Armando Spataro, aveva in commissione due voti: quello di Davigo (AI), appunto, e quello di Mario Suriano (Area). Dalle "eccellenti capacità relazionali", sempre attenta a "valorizzare" le attitudini dei magistrati", abile nell'assicurare equilibrio "nel rapporto con i responsabili della polizia giudiziaria" e le altre istituzioni, secondo i suoi sostenitori doveva prevalere su Salvatore Vitello, "innanzi tutto, per le sue esperienze nel lavoro giudiziario e sui risultati conseguiti come procuratore aggiunto". È stata due volte in consiglio giudiziario e 12 anni nel gruppo Dda, sottolineano, molto di meno il suo "avversario". "Vitello ricopre un incarico direttivo in una procura di medie dimensioni che ha in organico 7 sostituti e prima ha svolto le funzioni di procuratore alla procura di Lamezia Terme che ha in organico solo 4 sostituti" era scritto nella relazione di Davigo. "Loreto, invece, pur avendo svolto un incarico semidirettivo, si è trovata a trovata a gestire un numero superiore di sostituti, da 8 a 10 a seconda dei periodi e dei gruppi che ha coordinato". "Il nostro territorio avrà bisogno di tutta la sua esperienza e competenza". La sindaca di Torino, Chiara Appendino esprime così, via Twitter, i "più sinceri auguri di buon lavoro" al nuovo procuratore.

·        Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.

Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali. Uno studio ha analizzato la durata media della vita di un centinaio di mammiferi. Scoprendo che, come per la nostra specie, in media le femmine vivono più a lungo dei maschi. Anna Lisa Bonfranceschi La Repubblica il 27 marzo 2020. Le femmine vivono di più, ma sostanzialmente invecchiano alla stessa velocità dei maschi. Il vantaggio in termini di vita vissuta che si osserva nei mammiferi sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età. Così racconta uno studio pubblicato su Pnas, che ha cercato di capire se anche tra altri mammiferi in natura, così come si osserva per la nostra specie, le femmine vivessero più a lungo dei maschi. Infatti, ricordano in apertura del loro studio i ricercatori guidati da Jean-François Lemaître del Cnrs - Université Lyon 1, è ben noto come nella popolazione umana le donne vivano più a lungo degli uomini. È donna anche la stragrande maggioranza dei supercentenari. Ma cosa succede per gli altri mammiferi? Sebbene fosse infatti diffusa l'idea che lo stesso si osservasse in altri mammiferi, studi che indagassero a fondo la questione non sono mai stati fatti, spiegano gli scienziati. Che hanno così deciso di colmare questo gap analizzando la durata della vita di maschi e femmine di 134 popolazioni di 101 differenti specie di mammiferi, come canguri, elefanti, orche, leoni, gorilla, pipistrelli, alce e stambecchi per esempio. È così emerso come effettivamente, anche in natura in generale le femmine di mammifero vivono più a lungo dei maschi: hanno in media una vita più lunga del 18,6%, contro quasi l'8% che si osserva tra donne e uomini. Le femmine battevano su questo campo i maschi in circa il 60% delle popolazioni analizzate. Ma perché? Secondo i ricercatori quanto osservato non sarebbe un effetto imputabile a un invecchiamento che viaggia a due diverse velocità nei due sessi – che avrebbe dovuto, secondo questa ipotesi, essere dunque più lento nelle donne. Il guadagno femminile in termini di vita vissuta sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età, scrivono i ricercatori. Senza concentrarsi particolarmente su aspetti strettamente genetici, alla base di quanto osservato ci sarebbero: “interazioni complesse tra condizioni locali ambientali e costi riproduttivi sesso-specifici”, come scrivono i ricercatori. Nei leoni per esempio, spiega Tamás Székely della University of Bath, tra gli autori del paper, il vantaggio in durata della vita delle leonesse (che in natura vivono circa il 50% in più dei maschi, spiega) non sarebbe dovuto ai maggior rischi corsi dai maschi, che per esempio combattono con altri maschi per la conquista delle femmine, e dunque a una sorta di selezione sessuale. "Le leonesse vivono in branco, dove sorelle, madri e figlie cacciano insieme e si prendono cura una dell'altra, mentre i maschi spesso vivono soli con i propri fratelli e non godono della stessa rete di supporto – ha spiegato Székely – un'altra possibile spiegazione per le differenze osservate è che la sopravvivenza delle femmine aumenta quando i maschi forniscono parte o tutte le cure parentali. Funziona così anche negli uccelli. Mettere al mondo la prole e prendersi cura dei piccoli diventa un costo in termini di salute notevole per le femmine, che si riduce se entrambi i genitori contribuiscono alla loro crescita".

Giampaolo Visetti per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020.

«Sì, ormai possiamo dirlo: questo virus contagia più i maschi delle femmine. Più i casi sono gravi e più si sale con l'età, più la differenza cresce. Le terapie intensive ormai scoppiano di uomini: il problema, con l' epidemia in una fase iniziale, è che non riusciamo a capire perché». Guido Bertolini, 55 anni, responsabile del laboratorio di epidemiologia dell' Istituto Mario Negri di Bergamo, dall' unità di crisi della Lombardia coordina medicine d' urgenza e pronto soccorso. Con 2.600 medici e infermieri dei più importanti ospedali italiani ha appena finito un confronto sulla preferenza del coronavirus per i maschi.

«Non abbiamo dati della qualità che vorremmo - dice a Repubblica - ma le statistiche dopo tre settimane cominciano a essere chiare. Su dieci contagiati in modo grave, 7 sono maschi e 3 sono femmine. Negli anziani arriviamo al rapporto di 8 a 2. Da oggi studiamo un fenomeno che nasconde il segreto per aggredire il virus: la direzione è il suo rapporto con l' assetto ormonale dei due sessi».

Come avete scoperto la maggiore vulnerabilità maschile?

«Fino ad oggi, per riorganizzare gli ospedali, ci si è concentrati sulla resistenza dei bambini e sulla fragilità degli anziani. Adesso, grazie allo scambio dei dati con la Cina, emerge che anche in Italia i maschi sono molto più a rischio: capire perché permette di arrivare alla natura del virus».

Quale spiegazione dà?

«Oggi possiamo formulare solo ipotesi. La differenza più evidente tra maschi e femmine è l' assetto ormonale. I primi producono androgeni, le seconde estrogeni. Questi costruiscono resistenze naturali contro molte patologie, a partire da quelle cardiovascolari. La sfida è capire cosa succede con il Covid-19».

Perché rimangono aspetti non chiari?

«Il primo problema è che dopo la menopausa nelle donne la produzione di estrogeni cala. Anche loro, con l' avanzare dell' età, dovrebbero dunque diventare più attaccabili. Invece non succede. Anzi: più i contagiati sono anziani e più cresce la percentuale di maschi, in particolare nei casi gravi».

Come lo spiega?

«Lo stiamo studiando. Negli anziani possono contribuire altri fattori, come l' abuso pregresso di fumo e di alcol, con i disturbi correlati. Nei maschi è più alta anche l' incidenza di diabete e ipertensione, di problemi cardiovascolari e respiratori».

Quali sono i dati italiani?

«Prendiamo il totale dei decessi: 70% maschi e 30% femmine. Solo l' 1,7% delle donne muore, rispetto al 2,8 degli uomini. Tra i casi confermati siamo a 4,7% tra i maschi e a 2,8% tra le femmine. Se aggiungiamo che il rapporto è di 7 a 3 anche nei ricoveri in terapia intensiva è chiaro che la scienza deve approfondire in fretta».

Dopo quale età la forbice si allarga sempre di più?

«Il confine sono i 50 anni. Prima la differenza è significativa, dopo diventa impressionante. Incidono fattori di rischio e relazione con gli assetti ormonali».

Si può dire che i maschi devono stare più attenti delle femmine?

«No. Tutti devono osservare le misure adottate dal governo e restare in casa. I maschi però devono sapere che, se infettati, spesso vanno incontro a polmoniti più gravi. C' è però un aspetto ancora più preoccupante».

Quale?

«Dobbiamo investire di più sul trattamento ancora più precoce dei contagiati. La partita contro il Covid-19 si gioca nei pronto soccorso: se arriva in terapia intensiva sempre più spesso è già persa».

Come si può fare?

«Accelerando le diagnosi con il "test del cammino" e dotandosi di un numero maggiore di caschi per la ventilazione non invasiva».

Elena Dusi per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020. Un sistema immunitario più allenato grazie alle vaccinazioni dell' infanzia. Potrebbe essere il punto di forza per cui i bambini affrontano il coronavirus con sintomi blandi. L' ipotesi di Mihai Netea, 51 anni, uno dei più importanti immunologi al mondo, professore all' università di Radboud in Olanda, sarà testata in uno studio clinico.

Perché i bambini si ammalano in modo leggero?

«La forma grave si presenta con due caratteristiche: immunoparalisi e iperinfiammazione. Immunoparalisi vuol dire che le difese dell' organismo vengono sopraffatte dal virus. Iperinfiammazione vuol dire che l' infiammazione, un processo utile nella zona presa di mira dal virus (i polmoni), diventa troppo estesa e crea grossi problemi all' organismo. Per effetto della battaglia tra il microrganismo e il sistema immunitario i polmoni si riempiono di liquido e rendono difficile la respirazione».

Nei bambini invece?

«Abbiamo tre ipotesi. La prima è che il sistema immunitario è immaturo e non riesce a scatenare un' iperinfiammazione. Ma il ragionamento può valere solo nei primi due anni di vita. La seconda è che i bambini si affidano molto di più al sistema immunitario innato che non a quello adattativo. Il primo è quello con cui veniamo al mondo. Il secondo apprende e si modella in base ai microbi con cui entriamo in contatto, e nei bambini è meno formato. Può darsi che contro il coronavirus il sistema innato sia più importante».

Il ruolo dei vaccini?

«È la terza ipotesi. Può darsi che i vaccini rendano il sistema immunitario più reattivo non solo contro la malattia bersaglio del vaccino, ma anche contro le altre infezioni. In parte, dunque, anche contro il coronavirus».

Che argomenti ci sono?

«I bambini che hanno fatto il vaccino contro la tubercolosi detto "Bcg" soffrono il 30-50% in meno di malattie respiratorie stagionali, raffreddore incluso. Non sappiamo se lo stesso beneficio valga per gli adulti. Stiamo per avviare un test somministrando il Bcg al personale sanitario in prima linea contro il coronavirus. Vedremo se verrà in parte protetto».

Altri test in programma?

«Calcoleremo se gli operatori del sistema sanitario olandese vaccinati contro l' influenza saranno colpiti meno dal coronavirus. In questo caso consiglieremo a tutti di immunizzarsi il prossimo autunno. Se anche il coronavirus fosse stagionale, scomparirebbe con il caldo ma tornerebbe con il freddo».

Ci sarebbero vaccini più efficaci di altri, in questo effetto "di sponda" contro il coronavirus?

«Non lo sappiamo».

Come si spiega che i casi gravi siano più numerosi fra gli anziani?

«L' intero sistema immunitario, sia innato che adattativo, si indebolisce con il tempo».

Alcuni farmaci riducono l' iperinfiammazione. È una strada promettente?

«Il razionale è giusto. I risultati li vedremo. Nei casi gravi non abbiamo altra scelta che tentare».

Aspettare che si crei un' immunità di gregge è sensato?

«Ha ragione chi sostiene che il virus non è contenibile e chi non verrà colpito oggi lo sarà in autunno. Ma rallentare il contagio è importante. Da qui all' autunno possiamo imparare tanto sul virus e come fronteggiarlo. Potremmo dimezzare la mortalità, portandola allo 0,5 o 0,3%. I miei colleghi delle università di Utrecht e Rotterdam hanno appena annunciato di aver messo a punto un anticorpo monoclonale capace di neutralizzare il coronavirus. Ci vorranno mesi per le sperimentazioni, come per un vaccino. Ma è proprio per questo che il tempo rubato al virus è prezioso».

·        Le madri del sud.

Le madri del sud. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 7 Novembre 2019. A Settentrione si sta avanti, fra bagliori e rombi Milano apre la pancia e Torino allarga le mani a pensiline fin sulla porta degli autobus, Bologna dilatata i suoi archi e sparpaglia la segatura sotto i portici: il Po ha servito al cielo l’acqua delle Alpi, che ora porta il conto. A Meridione Igliu addormenta Fengari, Apollo mette in fuga Ecate, le ombre guadagnano i rifugi sui monti e il giorno debutta con un’estate perenne che si spalanca su un mondo muto. Il Nord è un formicaio che si prepara da giugno all’inverno. Il Sud è un concerto d’insonni: non ha senso ammassare ristori, c’è un vuoto d’uomini a godere del mare tiepido, del profumo immortale del gelsomino. Da Bari a Enna la vita presunta si addensa al capolinea di corriere antiche, i ragazzi sono andati da tempo e ora è il tempo delle madri: Madonne saltano dalle nicchie dell’Addolorata, si stringono la testa con fazzoletti colorati, mosci sul vuoto di capelli, guardano camicette flosce su un lato scolmato del petto: vanno per ospedali Nordici a ritrovare speranza e vogliono crederci nella salute per Legge, pensano ai figli sparsi e si dicono che davvero questo Paese sia fondato sul lavoro, con l’inganno che esso starà sempre troppo lontano dalle loro case. Se cercate una pietà persa, montate su quei pullman lugubri che portano a Siano, a Carinola, a Tolmezzo, a Novara, nel freddo eterno de L’Aquila, sedetevi vicino alle madri in viaggio per carceri, accanto ai sacchi del cambio d’abito stagionale, preparati con cura per figli che stanno al buio, e sono uno sputo in faccia alla luce Costituzionale. Ha qualcosa di eroico e di comico il Meridione estivo nell’autunno che dovrebbe essere inoltrato: si oppone al freddo ma non ha a chi offrirlo il suo caldo in più. Il Sud è un luogo che fa tenerezza se rapportato al suo passato, che commuove messo in faccia al presente. Un paese che fa rabbia per la sua pazienza che somiglia alla viltà. Che resiste solo per una Costituzione scritta nel ventre infaticabile delle proprie madri. Quelle donne che hanno tenuto casa: con i mariti lontani, i figli scappati e i figli perduti, che dopo ogni nero hanno riacceso i colori, che memori di guerre antiche mantengono nelle imprecazioni, “Turchi ah cani”. Loro tengono il punto di una coperta che tutti provano a sfilacciare, e resistono a una deriva morale che altrimenti sarebbe definitiva.

Le madri del Sud e i figli sbagliati. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Le donne erano d’arancia, d’uva, d’oliva, dorate di grano, alterne alle messi e alle stagioni, mutavano fatica e odore secondo il frutto che strappavano alla terra. Erano figlie, madri, nonne. Soprattutto e solo donne, piene di ogni loro sentimento.  Erano il profumo del pane che scorticava mani, da portare a casa. Fra tutte le donne del Sud, di un tempo che sta giusto dietro la porta, che ha toccato gli anni ottanta, le più profumate erano le madri di maggio, le mamme di gelsomino: «le voci nostre in volo vanno / per cacciare il timido principe dal sonno / l’amore nostro che ci regala il doloroso inganno…». Mettevano i figli a letto e uscivano nel cuore della notte, cantando, lunghe processioni ornate del lino bianco dei sacchi che tenevano legati al grembo. Raggiungevano i giardini degli gnuri e strappavano ottomila gemme bianche, raccolte delicatamente per non sciuparle, e le deponevano con cautela. Da mezzanotte a giorno fatto, i gelsomini erano timidi vampiri che si richiudevano nelle loro bare profumate per sfuggire a un sole, per loro, mortale.  Ottomila fiori ci volevano per fare un chilo, le più svelte ne contavano fino a quarantamila per notte, un milione e duecentomila per mese, per riportarsi a casa quelle poche lire buone a riempire le pance dei propri figli, riempiendo di milioni le tasche dei signori. Chi non le ha odorate quelle albe dense di ritorni profumati, non lo sa quanto eroismo ci sia stato nelle mamme di gelsomino. Chi non ha assistito alle magie di quelle donne, buone a trasformare qualche cucchiaio di triste concentrato di pomodoro in sontuose e invitanti pastasciutte, non lo ha mai assaggiato il coraggio magico delle madri del Sud. E chi non c’è mai stato nella pancia del popolo, non può saperlo che ci ha provato e riprovato, per migliorare la propria sorte. E nessuno lo sa che nelle lotte più belle ci sono sempre state le donne di maggio in prima fila. E anche se si è perso, senza di loro la deriva sarebbe stata totale. Che, se ancora una speranza c’è, lo si deve alla forza morale di quelle madri, donne, che anche durante le tempeste più buie hanno fatto di tutto per indirizzare alla luce. Portavano a letto i figli con ninna nanne e favole, figlie di cunti meravigliosi, contavano quarantamila fiori, e al mattino tornavano a cuntare favole con quel po’ d’orzo o di latte che con la loro fatica riempiva le tazze. Nascondevano il sudore sotto il profumo del gelsomino e dopo dodici ore di lavoro, sorridenti, si mettevano a pulire e cucinare. Ecco, state attenti a parlare di cattivi del Sud, se non conoscete la storia delle loro madri.  E non date colpe alle mamme, a volte i figli vengono sbagliati, nonostante il profumo del gelsomino. 

Quel Sud che sembra l’Oriente d’Italia.  Gioacchino Criaco su Il Riformista il 1 Dicembre 2019. C’è più sentimento nelle cartacce arrotolate dal vento in una polverosa strada deserta che nel freddo sudore di una piazza Duomo travolta da una folla elettrizzata dagli sconti dei negozi. Il black friday scuote il portafoglio senza lambire il cuore, lontano dal centro nascono storie che narrano di montagne lontane, si forma l’eco di resistenze eroiche in posti sperduti. Più si costringe la gente ad abbandonare i paesi, le contrade e quelle vivono più intensamente nei pochi. Ché certo sopravvive più vita nello spirito di un eremita che dentro il Rolex di un Pariolino. Sta accadendo come per le ideologie: qualcuno, troppo fesso, o troppo furbo, ha detto che erano morte e tutti sono scappati a nascondere le proprie bandiere, di qualunque colore fossero. E adesso, in affanno, in tanti cercano nei nascondigli più reconditi con l’unica speranza di ritrovarle. Si è detto per tanto tempo che il centro era bello, era tutto, e la gente si è fatta fregare, ha mollato i luoghi dell’anima per infilarsi in formicai enormemente deserti. E adesso, col cuore amaro, si capisce che la vita sta da un’altra parte, che l’anima ha più fame della pancia. Che il primo alimento dell’uomo è l’umanità. E l’umanità sta più nelle capanne che nel Liberty, più nelle solitudini dense che negli strusci depressi. La tensione sta a Sud, in qualunque Sud: nei luoghi spazzati dal vento e arroventati dal sole e dall’oppressione, nei posti capaci di riprodurre l’irruenza vitale che Dio, gli Dei o il Fato hanno messo nelle gonadi umane. È stato innaturale dichiarare Mecca le City. L’anima dell’uomo sta alle pendici del Vesuvio, nel giro beffardo delle madri di Plaza de Mayo, nei traffici di Culiacàn, nei mercati profumati di Tangeri. E non c’è Sud che non sia nello stesso tempo Oriente, figlio di un’Atene così immortale che non esiste fame che l’ammazzi. E tutte le periferie d’Italia sono Oriente, e Sud, l’anima indispensabile per l’Occidente. Oriente nella segale che discende le montagne per fare scuro il pane. Nella curcuma che apre l’anima dei ceci e sventra la pancia ai fagioli. Nell’origano sui pomodori, il cumino e la cannella dei sughi, la menta sopra le patate. Oriente nel fiato che si riscalda sul mare e solleva terra sugli asfalti, mischia il respiro del pino laricio e dell’abete bianco alla saliva salmastra dello Jonio, agli sputi addolciti dell’Adriatico. Il Sud è l’Oriente dell’Italia negli enigmi dei volti delle sue donne, imperi inconquistabili di fascino. Oriente nei sorrisi aperti dei suoi uomini, nella loro luce e nel loro buio, nell’eroismo e nel tradimento compagni di un viaggio millenario. Oriente in un futuro che è già stato, in un passato che ritornerà, tutti a far compagnia a un presente scolpito nel cielo madonna del Mediterraneo, l’Oriente della luce complementare che tridimensiona tutto. Oriente di tartarughe nate su sabbie intinte nell’olio e nel vino, fritte e bollite. Questo sono e questo saranno i figli del Sud, e non ci sarà diaspora buona a trasformarli in creature del tramonto. 

Quel familismo che ingoia il Meridione. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Novembre 2019. Tutti imbrigliati in una miriade di legacci, nodi che si riproducono per partenogenesi. Il Sud è una palude in cui ogni sentiero muore dentro un tranello di sabbia mobile. Rapporti parentali, familiari, amicali, di società e di clan: chi è fuori dal reticolo di interessi è come le foglie di Ungaretti. Nemmeno Banfield ha capito fi no in fondo i rivoli del familismo amorale che lui stesso ha teorizzato. L’interesse è la fossa che s’ingoia il Meridione, e gli interessi ci stanno dappertutto nel mondo, immanenti nell’uomo. Solo che in altri luoghi gli interessi si allargano più facilmente, escono dal cerchio familiare, del clan, vanno con più facilità a coincidere col vantaggio per una comunità più vasta. Fra i Sudici l’interesse non esce di casa, nutre e si nutre di mura domestiche: ogni cosa ha un padrone ridotto, un numero definito di persone, l’interesse pubblico è inesistente come concetto e le volte che nel bisogno ha coinvolto nuclei estesi è stato subito strangolato da potentati minimi. Il problema meridionale continua a essere l’osso, chi lo afferra lo tiene per sé, lo considera proprio di diritto, rispetto a esso tutti sono nemici, ostacoli da distruggere. Oggi il pantano è dominato da due tipi di familismo, uno criminale e l’altro immorale. Nel familismo immorale si perseguono interessi di progresso economico, sociale, culturale, perfettamente legittimi ma relativi al bisogno del clan e ogni volta che un singolo è tentato all’agire per fini collettivi, il gruppo interviene per dissuaderlo, quindi c’è la coscienza del giusto e dell’ingiusto. Nel familismo criminale ci si appropria di ciò che appartiene a tutti e lo si detiene a qualunque costo, nemmeno si è coscienti del furto. Il familismo criminale più pericoloso è quello politico, veri e propri clan si sono insediati dentro i partiti che rappresentano l’alibi e il mezzo per gli espropri. Per questo il Sud non può uscire dal pantano, i clan sono a cavallo di ogni onda, da qualunque parte provenga, cavalcano vittorie e sconfitte che sono anch’esse vittorie in un gioco di sponda: un flipper in cui la biglia non può andare in buca. Il voto non cambia le cose al Sud, non le può cambiare se i protagonisti sono sempre gli stessi. Le foglie cadono e alberi, rami e ramoscelli restano.

·        Mai dire Mamma.

Fabio Albanese per "lastampa.it" il 5 novembre 2020. Un neonato è stato trovato, ancora in vita, in un sacchetto dei rifiuti abbandonato in via Saragat, a Ragusa. E’ stato un passante che, avendo notato il sacchetto sul marciapiedi, fuori dagli spazi consentiti per la raccolta dei rifiuti, ieri sera intorno alle 20,30 lo ha preso per gettarlo in un mastello di quelli utilizzati per la raccolta porta a porta. E’ stato a quel punto che ha sentito un vagito e ha subito compreso che dentro quel sacchetto c’era un bimbo e ha subito dato l’allarme. Soccorso, il neonato è stato ricoverato all’ospedale Giovanni Paolo II. Le sue condizioni di salute sono buone. Il ritrovamento è avvenuto nella zona residenziale Pianetti di Ragusa, parte nord ovest della città, non lontano dalla chiesa del Preziosissimo Sangue, dove la parrocchia è molto attiva nell’aiuto ai più deboli. Il bambino era avvolto in una coperta e chiuso dentro un sacchetto di plastica, adagiato sopra altri rifiuti; vista l’ora, per strada ormai non c’era più nessuno e il coprifuoco anti Covid sarebbe scattato di lì a poco, è quasi un miracolo che il neonato sia stato salvato e che l’arrivo del passante sia avvenuto appena in tempo per strapparlo da una sicura morte per soffocamento. Il piccolo risulta nato da poco e aveva ancora il cordone ombelicale attaccato, segno che qualcuno dopo il parto ha tentato di disfarsene, proprio come fosse un rifiuto. E’ stato avvertito il 118 e un’ambulanza ha trasportato il piccolo in ospedale dove è stato visitato e ricoverato in terapia intensiva per precauzione. Nel frattempo, sono partite le indagini della Squadra mobile della questura e della polizia scientifica per rintracciare la madre e anche chi ha abbandonato il bambino, il quale per il momento è stato preso in cura dai sanitari dell’ospedale. Avvertita la procura della Repubblica di Ragusa e anche il tribunale per i minorenni di Catania che dovrà decidere un eventuale affidamento. Non è escluso che il parto si avvenuto in un luogo diverso da quello del ritrovamento e che il bimbo sia stato portato lì dai responsabili per evitare di essere rintracciati.

Rino Giacalone per ''la Stampa'' il 7 novembre 2020. È una storia drammatica quella di questa ragazza di 17 anni di Trapani. Una ragazza che racconta di aver nascosto fino all'ultimo, per paura, la gravidanza ai genitori, papà agente di polizia e mamma casalinga. Di aver partorito in casa e di aver poi gettato il suo bambino dalla finestra. E di aver fatto tutto da sola. Ieri in casa con lei c'erano la madre e la donna di servizio, che dicono di non essersi accorte di nulla. La giovane racconta di aver avuto il bambino, frutto della relazione con un coetaneo, in bagno da sola, senza chiedere aiuto. Quel bambino che subito dopo ha lanciato dalla finestra della sua stanza al quinto piano. Un salto nel vuoto senza scampo per il neonato. Lo ha trovato nel cortile interno un inquilino della palazzina, che fa parte di un quartiere di case costruite in cooperativa alla periferia di Trapani e abitate da famiglie della piccola borghesia. Chiamata dall'uomo, la polizia ha impiegato poco tempo per arrivare al quinto piano. La ragazza era sotto choc. Piangendo ha detto poche cose ai poliziotti, del segreto tenuto per nove mesi, e di aver commesso l'infanticidio. Ad indurla a questo drammatico gesto sarebbe stata la paura di una punizione. Ricostruendo le ore precedenti, la studentessa ha raccontato di aver iniziato ad avere le doglie, di essersi poi chiusa in bagno, partorendo il figlio, e di essere infine andata nella sua stanza, da dove lo ha gettato dalla finestra. Una vicenda che gli investigatori della Squadra mobile di Trapani non ritengono completamente chiarita. La giovane, dopo un lungo interrogatorio spesso interrotto da crisi di pianto, è stata arrestata per omicidio volontario. La minorenne si trova ricoverata nel reparto di ginecologia dell'ospedale di Trapani. Tanto orrore in questa storia ma anche molti dubbi. Tra questi, il segreto della gravidanza, che la giovane, di corporatura robusta, dice che sarebbe riuscita a tenere nei confronti dei genitori per nove mesi. Ma non solo. La ragazza infatti sarebbe stata a lungo chiusa in bagno ma in casa non si trovava da sola, bensì con la madre e la donna di servizio, e per andare nella sua stanza ha dovuto attraversare tutta la casa. Nessuno l'ha vista? Nessuno si è insospettito per quella lunga permanenza nel bagno? Nessun rumore è stato sentito? La donna delle pulizie racconta inoltre di aver pulito il bagno sporco di sangue ma di non essersi domandata il motivo. E infine il neonato, che aveva ancora il cordone ombelicale, ma che era stato completamente pulito. Sul corpo del piccolo sarà eseguita l'autopsia.

Maria Corbi per ''la Stampa'' il 7 novembre 2020. Partorire e lanciare dalla finestra quel pezzo di te che dovresti proteggere. Indignarsi o provare paura davanti alla consapevolezza che ci possano essere persone capaci di gesti tanto atroci quanto insensati, è il modo che abbiamo per esorcizzare il male. Spiegarlo è un'altra cosa. Molto più complessa, forse impossibile. Questa volta è stata una diciassettenne di Trapani a trasformare la disperazione e la paura, così ha spiegato alle forze dell'ordine, in un omicidio. «Temevo la reazione dei miei genitori», dice. E in questa frase tutta la debolezza, il fallimento della famiglia e prima ancora di una società che non coltiva le nuove generazioni con il fertilizzante della cultura, dell'appartenenza, della solidarietà e soprattutto della responsabilità. Non si può capire pienamente questo dramma senza conoscerne la sceneggiatura e i protagonisti. Ma il «male» prospera dove banalità, ignoranza, mancanza di prospettive prendono in ostaggio l'umanità. Testimoni ci raccontano la disperazione della giovane mamma ma è difficile fare emergere la pietas in questa vicenda e in altre che mostrano un epilogo così tragico e feroce. Pochi giorni fa, a Ragusa, un neonato è stato abbandonato nel bidone della spazzatura dentro a un sacchetto. E le pagine del web sono piene di storie simili. Medea è tra noi come lo è il suo gesto vendicativo che vuole incidere sulla collettività. Perché la sua vicenda come quella delle sue epigoni non coinvolge solo vittima e carnefice ma il contesto nel quale sono maturate le condizioni di questo gesto. Forse non ha senso chiedere a una di queste «madri» i motivi del loro gesto, cosa le abbia spinte a uccidere un figlio invece di affidarlo a qualcuno. Perché vogliamo tutti credere che in quel momento la dissociazione dalla propria azione giustifichi in qualche modo l'abominio. Ma c'è chi ha risposto a questa domanda. «Per me non era un bambino. Ero sola, nel panico, nel dolore. Per me non era come se lo avessi portato 9 mesi dentro di me», ha spiegato Laetitia Fabaron, 32 anni, condannata a 5 anni dalla Corte d'assise dell'Isère in Francia nel 2017. Era meglio il silenzio in cui avremmo potuto cercare una spiegazione balsamica al male. Ma non esiste una ragione, e neanche la disperazione può esserlo. E chiamare in causa la follia può essere una strada troppo comoda.

Arcobaleno e uteri in affitto, un attacco alla famiglia senza precedenti.  Fernando Massimo Adonia su culturaidentita.it il 25 Ottobre 2020. Fino a qualche anno fa (neanche troppi, a dire il vero), era un’idea tutt’altro che opinabile che la famiglia fosse il mattone sulla quale era costruita non soltanto quella italiana, ma qualsiasi società ordinata del pianeta Terra. E lo era al di là delle differenti credenze religiose e delle diverse prospettive politico-culturali. Un tempo anche il Partito Comunista Italiano affiggeva manifesti «Per la difesa della famiglia». Lo sfondo era sì rosso, ma in primo piano c’erano mamma, papà e il prodotto del loro amore. In secondo piano, soltanto dietro, una fabbrica. Una formula iconica assai semplice per affermare che non c’è progresso vero senza la stabilità degli affetti personali. Di acqua ne è passata. Non soltanto la sinistra è cambiata, ma anche gli altri attorno hanno mutato veste. Persino la Chiesa cattolica sta vivendo uno psicodramma epocale su un tema tanto essenziale. Tra l’iconoclastia politicamente corretta e i mantra di un liberal-capitalismo che ha convertito persino gli epigoni di Mao, «l’attacco alla famiglia» è un fatto che rischia di essere raccontato già da oggi con il senno del poi: con un melanconico nodo alla gola. Attacco alla famiglia. È appunto questo il titolo dell’ultimo intervento editoriale firmato da Alessandro Meluzzi e inserito nel catalogo di Altaforte edizioni (pag. 160, 15 €) con la prefazione di Diego Fusaro. Due intellettuali, non a caso, che conoscono a menadito quali siano i fattori che hanno prodotto le mutazioni genetiche della sinistra che fu. «Il capitale già da tempo ha dichiarato guerra alla famiglia: per polverizzarla e atomizzare la società, riducendola a mercato senza confini per monadi di consumo». La lezione di Fusaro è chiara ed è coerente con quanto va scrivendo e dicendo da tempo: «Se la famiglia comporta, per sua natura, la stabilità affettiva e sentimentale, biologica e lavorativa, essendo hegelianamente fondamento dell’eticità, la sua distruzione risulta pienamente coerente con il processo di precarizzazione delle esistenze condotto spietatamente dall’ordine neoliberistico». E ancora: «È solo in questo orizzonte che si comprende nella sua reale portata, emancipativa solo per il nesso di forza capitalistico, l’aggressione alla famiglia come luogo della stabilità etica borghese: si tratta di un processo di disgregazione – scrive Fusaro – dei presupposti simbolici della famiglia non meno che delle sue valenze educative, del significato sociale e della funzione di solidarietà e di naturale welfare state, della struttura di luogo di responsabilità e di accoglienza». Alessandro Meluzzi va oltre e prende la questione di petto. Su famiglie arcobaleno e uteri in affitto non si trattiene affatto: «Questo abominio rientra nella dittatura del politicamente corretto, che ha imposto una visione narcisistica, onnipotente e fuorviata dell’affettività. Ogni capriccio e ogni desiderio diventano così un diritto. Non interessa neanche più capire quale altro diritto in questo modo verrà calpestato, se quello della madre violata o quello del bambino che non avrà la possibilità di avere un padre e una madre». «Come uscirne?» La domanda è lo stesso Alessandro Meluzzi a farsela per instradare la risposta su un crinale che corre verso l’abbondanza del totalmente-altro: «Bisogna passare dalla famiglia naturale alla famiglia sovrannaturale. Se la famiglia non riscopre la sua intrinseca vocazione, che non è soltanto umana, non è affatto scontato che un uomo e una donna riescano a passare insieme una vita per ragioni umane. Serve un’apertura al Mistero». Una ricetta passatista? Meluzzi ha evidentemente ben altre preoccupazioni. «Per quanto obsoleto o desueto possa apparire – scrive – un tempo sposarsi aveva un significato mistico. Un tempo la tenuta della famiglia era garantita da una metafisicità di stampo religioso che oggi è andata perduta con la crisi parallela della spiritualità».

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 26 ottobre 2020. Allo zoo Dierenpark di Amersfort, Olanda, continua la lotta di due pinguini gay. Questa volta, sempre nel tentativo di diventare papà, i pinguini maschi gay hanno rubato l’intero nido alle pinguine lesbiche. Sono gli stessi pinguini Africani che l’anno scorso avevano sottratto un uovo a un’altra coppia ma non si era schiuso e non avevano un piccolo pinguino da accudire. Sander Drost, guardiano dello zoo, sostiene sia improbabile che le nuove uova si schiudano. Sono di due pinguine e non sono state fecondate. I pinguini gay, coppia dominante nel recinto costruito 17 anni fa,  attualmente fanno a turno per covare le uova ma è difficile che si schiudano. A RTV Utrecht, Drost ha detto:”Nel recinto ogni coppia ha la sua tana ma loro ne hanno due”. I pinguini si riproducono due volte l’anno e presto la coppia di pinguine lesbiche costruirà un nuovo nido. Mark Belt, un custode dello zoo, ha spiegato che l’omosessualità e abbastanza comune dei pinguini ma “ciò che rende questa coppia straordinaria è che ha rubato un uovo”. Non è la prima volta che i pinguini gay cercano di covarne uno. L’anno scorso a Valencia una coppia è riuscita a farne schiudere uno con successo. Le due pinguine lesbiche, Electra e Viola, all’Acquario Oceanografico di Valencia, in Spagna, hanno covato l’uovo di un’altra coppia.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. L'inverno demografico è freddo. Freddissimo. Temperature quasi polari. In Italia si muore più di quanto si nasce: per ogni cento persone che se ne vanno, ne vengono alla luce appena 67. Negli anni Settanta nascevano 900mila bambini all' anno: ora la quota supera di poco i 400mila. Meno della metà. È dagli anni della Prima guerra mondiale che non c' è un ricambio generazionale così ridotto ai minimi termini. E la crisi economica, sulla scia di quella sanitaria causata dal Covid, può ampliare ancora di più le distanze: chi si mette a far figli senza lavoro o in cassa integrazione? Per fortuna ci sono sindaci e governatori che da nord a sud si fanno in quattro per incentivare le nascite. Se ne inventano di tutti i colori per ripopolare i borghi più sperduti e incoraggiare le coppie a diventare famiglie, stanziando aiuti veri. Perché solo la vita può dare speranza per il futuro.

E quindi, dove conviene partorire? Partiamo da nord. Dalla provincia autonoma di Trento, dove il presidente Maurizio Fugatti, nella sua prima finanziaria, ha inserito una sorta di mutuo per la natalità: 30mila euro per aiutare le giovani coppie a metter su famiglia, da restituire a tassi agevolati. Ma se si fanno due figli nell' arco di cinque anni si ridà appena la metà della cifra incassata, mentre se si mettono al mondo tre bimbi in dieci anni non si deve proprio mettere mano al portafoglio. Per ripopolare le montagne trentine ci sono 100 euro per chi fa un figlio, 120 per chi ne fa due, 200 per chi ne fa tre in cinque anni. E case popolari da assegnare gratis alle giovani coppie. Il vicino Alto Adige, amministrato dal presidente Arno Kompatscher, non è un caso che venga chiamato "la culla d' Italia". Storie di un' ottantina di associazioni che si occupano di welfare famigliare, oltre ai (tanti) quattrini messi dalla provincia per foraggiare il bonus da 200 euro al mese destinato alle famiglie con un figlio tra gli zero e i tre anni. In Lombardia, la giunta Fontana è in prima linea per sostenere i pargoli. Giusto per fare un esempio, per il 2019 sono stati stanziati cinque milioni e mezzo di euro per sostenere le famiglie in attesa di un figlio, o di adottarne uno, e in difficoltà economiche certificate. Un contributo a fondo perso di 1.500 euro, moltiplicato in caso di gemelli.

Andando verso est, nel veneto del "Doge" Luca Zaia a maggio è stata messa a punto la prima legge quadro per la famiglia. Risorse concrete per supportare la genitorialità, quasi dieci milioni di euro per il primo anno. Il fulcro? Gli assegni di natalità per le future mamme già a partire dai primi mesi di gravidanza. Senza dimenticare i nidi gratis per i genitori meno abbienti. Ancora più a est, in Friuli Venezia Giulia, la giunta Fedriga ha deciso di corrispondere 1.200 euro per tutti i nati e adottati durante il 2020. Una misura valida per un anno.

Dal nord-est al nord-ovest. Eccoci a Locana Piemonte, 1.400 anime nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Da queste parti, ogni anno, la scuola rischia di chiudere perché i bambini sono sempre meno. Ed ecco l' idea del sindaco, Giovanni Bruno Mattiet, per evitare la disfatta: fino a 9mila euro per tre anni a tutte le famiglie che si trasferiscono a Locana e hanno un figlio da iscrivere a scuola. Case e assegni. Spostandoci poco più a nord, sul confine con la Svizzera, arriviamo a Borgomezzavalle. Qui abitano circa trecento persone e ripopolare il paesino è la sfida del sindaco Alberto Preioni. Sul piatto c' è un assegno da mille euro per ogni neonato. E per la casa non è un problema: basta una moneta da un euro per comprare un cottage abbandonato, un fienile, una stalla, da ristrutturare entro due anni. Tornando nel Triveneto, a Castelnuovo sul Garda (Verona), il "Fattore famiglia" ha fatto bingo. Si ragiona in termini di agevolazioni: in media sulle rette della scuola dell' infanzia le famiglie risparmiano 250 euro all' anno, per l' asilo nido 1.600 euro, mentre per il trasporto scolastico 150 euro. Nel 2018, il Comune di Castelnuovo ha erogato aiuti per 130mila euro. Che non sono bruscolini, anzi, soprattutto se si considera il numero ristretto degli abitanti (13mila). Sempre dalle parti di Verona, a Brentino Belluno, da quest' anno grazie al progetto NasciAMO per ogni bebè appena nato (o adottato) si ricevono 500 euro. L' importante è essere residenti da almeno sei mesi e in regola col pagamento dei tributi e di tutti i servizi comunali. Il sindaco, Alberto Mazzurana, è il primo a dare il buon esempio, visto che di figli ne ha tre. Chissà se i suoi concittadini lo seguiranno.

Iniziamo a scendere verso sud. È della settimana scorsa la proposta di legge presentata dal governatore dell' Abruzzo, Marco Marsilio, per arginare lo spopolamento dei paesi di montagna. Ed ecco un contributo fino a 2.500 euro annui per chi mette al mondo un figlio, fino al suo terzo anno d' età. Oltre all' Isee non superiore ai 25mila euro, l' altro requisito che viene richiesto è di vivere in un Comune montano, oppure trasferirsi lì per almeno tre anni. Misure necessarie se si pensa che l' Abruzzo negli ultimi cinque anni ha perso 25mila abitanti. in moneta locale In Sicilia, qualche settimana fa, la giunta regionale ha aggiunto un milione di euro al "bonus bebè" per ampliare la platea delle famiglie beneficiarie. Per tutti i bimbi nati o adottati nel 2020 c' è pronto un assegno da mille euro: l' obiettivo, oltre a favorire la natalità, è anche quello di sostenere economicamente la crescita demografica. A poter richiedere il contributo potranno essere solo le famiglie residenti nell' isola da almeno dieci anni: prima i siciliani. E se pensavamo di averle viste tutte è perché non avevamo fatto i conti con l' estroso sindaco di Castellino del Biferno (Molise), Enrico Fratangelo, che sulla scia del Covid si è inventato una moneta propria, il "comunale ducato", per aiutare le famiglie più in difficoltà. Monete da cinquanta centesimi, uno e due ducati, banconote da venti e cinquanta: "soldi" da spendere nei negozi convenzionati per rilanciare il commercio locale di questo borgo da cinquecento abitanti che sorge su un cucuzzolo di tufo. Ma la vera chicca è il salvadanaio creato per i bimbi fino a cinque anni: due ducati al giorno per la fascia 0-2 e un ducato al giorno per la fascia 2-5. Una mossa per incentivare la natalità in salsa neo-borbonica.

Dalla Cagnotto alla Vezzali, le super-mamme che rinunciano allo sport per la famiglia. Pubblicato lunedì, 10 agosto 2020 da Antonio Farinola su La Repubblica.it La tuffatrice azzurra non è l'unica ad aver rinunciato al sogno olimpico per dedicarsi al proprio bambino. Ma ci sono storie di mamme eroiche capaci di gareggiare e vincere nonostante la dolce attesa. Ne sanno qualcosa Josefa Idem e Martina Valcepina o la ginnasta russa Larisa Latynina che nel 1958 vinse 5 ori mondiali incinta di 5 mesi. "Il destino ha voluto regalarmi una nuova vita dentro di me", così Tania Cagnotto dopo la bella scoperta ha ufficializzato ieri la decisione di ritirarsi definitivamente dallo sport agonistico rinunciando così al sogno olimpico coltivato nell'ultimo anno. Ma non è l'unica ad essere arrivata a questa scelta. Prima di lei un'altra campionessa dello sport azzurro aveva dovuto dire addio alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2006 per dedicarsi alla famiglia. Si tratta di Valentina Vezzali, icona della scherma italiana e internazionale che nel novembre del 2015, all'età di 41 anni, annunciò al mondo la scelta di saltare quelli che sarebbero stati gli ultimi Giochi di una carriera costellata da ori olimpici e mondiali. Serena e la depressione post-partum.

E come dimenticare Serena Williams? La regina del tennis mondiale che nel 2017 vinse gli Australian Open incinta di 1 mese e che annunciò mesi dopo il suo trionfo più bello con un selfie su Snapchat e la didascalia: "20 settimane". Una storia felice fino a un certo punto quello della super campionessa statunitense che dopo il parto decise di restare per lungo tempo lontano dai campi da tennis per poi ammettere dopo un anno, prima sui social, poi in un'intervista, di aver sofferto di depressione post-partum tanto da condizionarne pesantemente i risultati al suo rientro. Spostandoci a uno sport-show come il Wrestling lo scorso maggio Becky Lynch, detentrice del titolo di Raw rinunciò alla cintura perché in attesa.

Ma la storia dello sport italiano e internazionale è piena anche di storie incredibili, di mamme eroiche che non si fermano davanti a nulla. Per restare in terra nostrana basti ricordare la pluricampionessa della conoa Josepa Idem, capace di conquistare un bronzo mondiale incinta di 10 settimane o Elisa Di Francisca che dopo le Olimpiadi di Rio rimase incita e allattò il proprio figlio durante allenamenti e gare del 2017. La sua foto a bordo pedana con la divisa dell'Italia e il piccolo Ettore attaccato al seno fece il giro del mondo. La pattinatrice Martina Valcepina conquistò il bronzo olimpico a Sochi 2014 nella staffetta dello short track incinta di due gemelline.

Ancora più clamoroso lo scatto di Sophie Power che, durante l'Ultra-Trail du Mont Blanc, ultramaratona di 170 chilometri, decise di allattare al seno suo figlio di 3 mesi a bordo strada scatenando mille polemiche. Arrivò al traguardo in 43 ore e 33 minuti. La malese Nur Mohamed Suryani Taibi nel 2012 partecipò alle Olimpiadi di Londra in attesa di 8 mesi stabilendo un primato unico: fu la prima atleta a gareggiare a pochi giorni dal parto. Andando indietro nel tempo, la ginnasta russa Larisa Latynina nel 2015 rivelò di aver vinto 5 ori ai Mondiali del 1958 incinta di cinque mesi. Nel 2017 la nuotatrice americana Dana Vollmer, cinque ori olimpici, scese in vasca all'Arena Pro Series di Mesa, in Arizona, per i 50 stile libero con un pancione di 6 mesi. Indimenticabile Anja Fichtel, schermitrice degli anni '80-'90 che vinse un campionato nazionale al quinto mese e tornò in pista 43 giorni dopo il parto. Storie di sport, storie di super-mamme capaci di riscrivere il concetto di "sport e famiglia".

Fabrizio Maria Barbuto per "Libero Quotidiano" il 23 giugno 2020. Di tutti i pensieri che possono animare la mente di una bimba di appena cinque anni, la gravidanza è senz' altro il più improbabile, ma non è stato così per Lina Medina Vásquez, passata ai posteri come "madre più giovane della storia". Nata a Tricapo (Perù) il 27 settembre 1933, aveva solo 5 anni, 7 mesi e tre settimane quando diede alla luce un bimbo. Il suo piccolo ventre era apparso espandersi in maniera anomala, ma quelle rotondità erano state ricondotte all'ingrasso cui, i pargoletti dal forte appetito, sono soggetti. Quando il disagio si fece evidente, i genitori di Lina portarono la figlia in ospedale temendo che quell'addome sproporzionato ospitasse un tumore. Fu proprio al nosocomio San Juan de Dios di Pisco che i medici constatarono lo stato interessante della giovanissima paziente, la quale partorì un mese e mezzo più tardi, il 14 maggio del 1939. L'evento, per via dell'esile conformazione fisica e dei fianchi stretti della puerpera, si svolse con parto cesareo sotto la stretta supervisione di tre medici: Gerardo Lozada Murillo, Alejandro Busalleu e Rolando Colareta. Questi solerti professionisti ebbero un ruolo così determinante nella sopravvivenza di Lina e del suo piccolo che, al nascituro, furono dati i loro nomi: Gerardo Alejandro venne al mondo di 2,7 kg e il suo sostentamento fu garantito dal governo del Perù. A tutt' oggi, le circostanze relative al concepimento del pargoletto risultano sconosciute: Medina non ha mai rivelato l'identità dell'uomo che abusò di lei, ma la paternità di Gerardo fu perfino attribuita al padre della gestante che, all'epoca dei fatti, fu arrestato per abuso di minore e rilasciato per insufficienza di prove. Il bimbo crebbe nella convinzione che la madre biologica fosse sua sorella maggiore, e i dagherrotipi sbiaditi di questi due fanciulli dall'inconsistente stacco generazionale, effettivamente, basterebbero a illudere che si tratti di due fratellini: il web brulica di tenerissime immagini di madre e figlio, l'uno accanto all'altra, intenti a scambiarsi tenerezze. A dieci anni, Gerardo fu messo al corrente della verità. Il curioso accadimento - che all'epoca destò l'interesse mondiale - fu argomentato dal dottor Edmundo Escomel su La Presse Médicale: a monte dell'inusitata gravidanza vi sarebbe la comparsa, in Medina, di uno sviluppo puberale prematuro. Il luminare integrò la dissertazione con una controversa chiosa: a detta di Escomel, Medina mantenne il riserbo circa l'identità del suo abusatore perché non ricordava le circostanze della violenza. La giovanissima età giustificherebbe una tale amnesia. Nel 1972, all'età di 39 anni, la Vásquez ebbe un secondo figlio dal marito Raúl Jurado. Gerardo morì sette anni più tardi di mielofibrosi, ad appena 40 anni. Oggi 86enne, Lina continua a ridare alle luce, nella nostalgia del ricordo, quel figlio di cui non ha mai scelto consapevolmente di essere madre, ma di amare sì. Quest' eterno "parto", ad opera di una mente ingrigita dal tempo, non si accompagna più al primato di una precoce genitorialità, bensì a quello di un amore incommensurabile.

Così ora pure le femministe gay contestano maternità surrogata. Ecco tutti i dettagli sulla Dichiarazione dei "Diritti delle Donne Basati sul Sesso" che ha destato scandalo tra le femministe lesbiche italiane. Francesco Curridori, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. Le femministe lesbiche sono sul piede di guerra. “Alle donne si è sempre imposto di assentire alla sottomissione e di farsi da parte per il bene di altri” e oggi “ci viene anche chiesto di accogliere chiunque semplicemente si dichiari donna negli spazi che ci siamo conquistati negli ultimi decenni”. Inizia così il post con cui l’Arcilesbica ha presentato il webinar sulla Declaration on Women's Sex Based Rights (leggi il documento), a cui ha partecipato la coautrice e attivista lesbica Sheila Jeffreys. Con questo documento - composto di 9 articoli e di cui siamo entrati in possesso - si chiede la riaffermazione dei diritti delle donne basati sul sesso e non più sull’“identità di genere”. Un’impostazione che esclude gli uomini e quindi i transessuali dall’avanzare gli stessi diritti per i quali le femministe lottano da decenni. Le femministe lesbiche, per supportare la validità della loro tesi, si rifanno alla Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), approvata nel 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne (UNDEVW) del 1993. E, d'altronde, il Glossario della Parità di Genere dell'ONU Donne definisce il sesso dalle "caratteristiche fisiche e biologiche che distinguono i maschi dalle femmine". Il problema, si legge nell'introduzione di questa Dichiarazione, è che "i riferimenti alla categoria del sesso, che è biologico, nei documenti, nelle strategie e nelle azioni delle Nazioni Unite, sono stati sostituiti dal linguaggio del “genere”, che si riferisce ai ruoli sessuali stereotipati" e ciò ha portato ad "una confusione che, in ultima analisi, rischia di indebolire la protezione dei diritti umani delle donne". Tale confusione tra sesso e genere ha reso accettabile l'idea che le 'identitità di genere fossero innate e ha permesso che tali identità avessero pieno diritto ad esser difese. Ciò ha portato "in ultima analisi all’erosione delle conquiste ottenute dalle donne nel corso di decenni" ed è per questo che l'Arcilesbica ha voluto promuovere e sostenere la diffusione Declaration on Women's Sex Based Rights. Ora vediamo nel dettaglio, punto per punto, di cosa si tratta. Nel primo articolo di questo manifesto, che ha destato scandalo nel mondo Lgbt italiano, si chiede agli Stati di “preservare la centralità della categoria del sesso, e non quella di 'identità di genere' in relazione al diritto di donne e bambine a non essere soggette a discriminazione”. Ma non solo. Si ribadisce che “il significato della parola “donna” non può essere modificato per includere gli uomini” e si invita a mantenere intatta tale distinzione anche nei documenti ufficiali. Nel secondo articolo si riafferma la “natura della maternità come una condizione esclusivamente femminile”, mentre il terzo articolo pone l’accento sui “diritti di donne, ragazze e bambine all’integrità fisica e riproduttiva”. In ragione di ciò si condanna la ‘maternità surrogata’ e le gravidanze forzate, siano esse a scopo commerciale o gratuito. “Gli Stati dovrebbero riconoscere che la ricerca medica finalizzata a consentire agli uomini la gestazione e il parto costituisca una violazione dell’integrità fisica e riproduttiva di ragazze e donne, e vada abolita in quanto forma di discriminazione basata sul sesso”, si legge esplicitamente nel testo. Gli altri punti riguardano la riaffermazione dei diritti delle donne alla libertà d’espressione e a riunirsi pacificamente “senza l’inclusione di uomini che dichiarano di avere un’identità di genere femminile”. Anche la partecipazione politica viene difesa “sulla base del sesso” e ciò significa, in buona sostanza, che le femministe non intendono farsi ‘rubare’ dai transessuali i posti di potere a loro designati con le quote rosa. Allo stesso modo, nell’articolo 7, si riafferma il diritto “ad avere le medesime opportunità degli uomini di partecipare attivamente agli sport e all’educazione fisica”. All’articolo 8 trova spazio la necessità di eliminare la violenza contro le donne. Su questo punto la Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica, sentita dall’HuffPost, ha spiegato: “Se, ad esempio, nelle ricerche istituzionali sulla violenza domestica, i livelli retributivi, le carriere o l’accesso alle professioni delle donne, si considerano anche le persone trans nel campione, si ottengono dati fuorvianti”. Molto importante è anche la tutela dei diritti di bambini e bambine che si traduce nell’abolizione di interventi medici che cambino la loro sessualità così da “riassegnare” loro il genere. Insomma, una vera e propria rivoluzione per il mondo Lgbt perché come spiega a ilGiornale.it il leghista Umberto La Morgia tale dichiarazione non arriva da “esponenti del Family Day o cattolici ultraconservatori, ma da attiviste lesbiche femministe. E, aggiunge La Morgia, “se anche loro condannano la pratica della maternità surrogata come mercificazione del corpo della donna e sostengono che sia fondamentale il sesso biologico al di là delle auto-percezioni soggettive, allora vuol dire che il dilagare dell’ideologia del genere pone davvero dei problemi”.

Lgbt, ora arriva il manuale per le famiglie con due mamme. Un manuale per le famiglie formate da due madri: il libro sta per essere pubblicato anche in Italia. Le "istanze Lgbt" avanzano. Giuseppe Aloisi, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. La modernità non conosce freno. È già arrivato il momento di un manuale in grado di spiegare alle coppie lesbiche, quelle composte da due madri Lgbt, quali siano i punti di forza di una loro eventuale maternità. Un ragionamento che, com'è noto, costituisce argomento di discussione bioetica. Ci sarebbe tutta la dialettica culturale sui desideri e sui diritti da tenere in considerazione, ma chi deciderà di leggere" Mamás²: Guía para familias de dos mamás", con ogni probabilità, approfondirà soprattutto, se non soltanto, il punto di vista di chi ritiene che ormai la cosiddetta famiglia tradizionale rappresenti un concetto superato. Del resto, l'Italia stessa - quella che San Giovanni Paolo II aveva definito una "eccezione", in chiave positiva secondo la sua opinione - ha iniziato ad omologarsi in materia di riconoscimento dei nuclei formati da due madri. Sullo sfondo, ma neppure troppo, risiede la pratica dell'utero in affitto, che l'universo femminista in realtà contesterebbe da tempi non sospetti, ma che rimane un caposaldo del progressismo politico-ideologico. È uno dei cortocircuiti idealistici di questa fase storica. Il manuale, comunque sia, è firmato da Ivi, un istituto valenciano fondato all'inizio degli anni 90' che si occupa di procreazione assistita. Oggi Ivi opera anche nel Belpaese, con una sede milanese ed una romana. Il libro - come ripercorso dall'edizione odierna de La Verità - è in procinto di essere pubblicato anche in lingua italiana. La narrativa presentata dal testo è quella immaginabile: si va dalla presunta sopravvalutazione della "biologia" e della "genetica", alle richieste di ausilio poste da chi fa parte di un emisfero femminile che viene considerato tanto "coraggioso", quanto "libero" e "determinato". E poi vengono esposti dei veri e propri racconti. Esiste anche una casistica di base: solamente il 10% delle donne lesbiche può definirsi madre. Quindi la ratio sembra essere quella di divulgare la sussistenza di una possibilità, quella delle famiglie Lgbt, appunto. Il ruolo del padre? Il noto diritto del bambino ad avere un padre ed una madre? La fonte sopracitata ripercorre alcuni virgolettati, che fanno parte del manuale. Questo è uno di quelli in grado di far comprendere quale sia la linea: "Non esiste un papà ma un donatore anonimo. Nostro figlio l' ha sempre saputo". Le istanze Lgbt, insomma, stanno per acquisire ulteriore spazio nelle librerie, quindi maggiori probabilità di diffusione. Anche perché "Il desiderio di essere padre o madre è trasversale, indipendentemente dall' orientamento sessuale". Poi esiste il piano legislativo, che può assecondare o no un disegno esistenziale di questa tipologia. Ma questo è un altro discorso.

Antonio Riello per Dagospia il 5 marzo 2020. Siamo a Bloomsbury, vicini al British Museum, nella Londra che all'inizio del XX Secolo ospitava gli intelletti più fini e sofisticati dell'Impero Britannico, gente come Virginia Woolf e a E. M. Forster. In questa zona, nel lontano 1739, aprì i battenti il Foundling Hospital, fortemente voluto da Thomas Coram (1668-1751) un interessante figura che mischiava virtuosamente business, filantropia e creatività (era infatti anche un artista). Al ritorno da un suo viaggio d'affari nelle Americhe era rimasto estremamente colpito dal grande numero di bambini abbandonati nelle strade di Londra (soprannominati con disprezzo "the Blackguard Children). Ragazzini e ragazzine le cui povere famiglie semplicemente non avevano la possibilità di sfamare ed accudire. Con la tipica testardaggine di chi sa di esser sulla buona strada, Mr Coram tanto fece da riuscire (ci vollero comunque quasi 17 anni)  a raccogliere un bel po' di donazioni e il permesso regale di Re Giorgio II per aprire un istituto che si occupasse di questi derelitti, non solo in termini di vitto e alloggio, ma anche e soprattutto di educazione. Le creature più fragili e dimenticate della spietata Londra settecentesca avevano finalmente un degno rifugio. A questa istituzione collaborarono attivamente e con generosità (tra molti altri eminenti personaggi) anche il compositore George Friederic Handel e l'artista William Hogarth. L'Istituzione nel frattempo ha cambiato nome (e città) diventando nel 1954 la Thomas Coram Foundation for Children. L'edificio londinese che ospitava il Foundling Hospital contiene oggi il "Foundling Museum", la cui attuale sistemazione risale al 2004. Ci sono tre collezioni permanenti, la Foundling Hospital Collection (una vastissima raccolta di strumenti medici e correttivi, non mancano le curiosità...) la Gerald Coke Handel Collection (con rare testimonianze del lungo soggiorno londinese del musicista) e la Picture Gallery (raccoglie i ritratti dei direttori della prestigiosa istituzione, a partire naturalmente da Mr Coram dipinto proprio da Hogart). Ma nei suoi locali non sono mancate negli anni installazioni di artisti contemporanei assolutamente di primordine (Grayson Perry, Cornelia Parker, Tracy Emin, Paula Rego) e vi si tengono regolarmente workshop e attività didattiche legate all' Art Terapy. Malgrado tutto ciò questo, in realtà, è un indirizzo ancora poco noto agli stessi londinesi. Seguendo la virtuosa tendenza condivisa di recuperare e celebrare il ruolo del "gentil sesso" nelle Arti si può esplorare, in questi spazi, un aspetto fondamentale dell'esperienza femminile. Infatti, da Gennaio, è in corso la mostra (curata da Karen Hearn) "Portraying Pregnancy: From Holbein to Social Media". La gravidanza vista come oggetto di creazione artistica e di riflessione socio-estetica. Un viaggio sviluppato su un percorso di circa cinquecento anni, dalla dinastia Tudor fino a Beyoncé....non solo attraverso molte opere d'arte ma anche con il concorso di una miriade di oggetti, strumenti ed abiti legati al tema. Nell'iconografia cristiana la situazione narrativa classica, più frequentemente associata alla gravidanza, è la cosiddetta "visitazione", ovvero la visita che la Vergine, già è in attesa di Gesù, fa alla la cugina Elisabetta a sua volta presto madre del Giovanni Battista. In mostra le testimonianze in questa direzione sono assai poche (certo meno di quanto ci si potrebbe aspettare). D'altra parte per l'aristocrazia e le case regnanti celebrare visivamente l'arrivo di un erede (maschio) non era solo un fatto di orgoglio ma, in un certo senso, anche una questione di necessità. Si inizia la visita infatti con un magnifico ritratto della figlia di Thomas More, Cicely Heron, fatto da Hans Holbein (per gentile prestito dalle Collezioni Reali). Anche gli Stuart, dopo i Tudor, non lesinano di ribadire esplicitamente, attraverso i ritratti di corte, che la loro stirpe continua, come ben ci fa vedere un grande quadro in mostra di Marcus Gheeraerts. Successivamente William Hogart dipinge, da par suo, una indomita donna in cinta che marcia tra diversi uomini. Il quadro si intitola "The March of the Guards to Finchley" ed è del 1750. Ma in genere, soprattutto nel XIX e nel XX Secolo, la gravidanza inizia ad essere considerata dalla società borghese una faccenda estremamente private che non va nè vista nè raccontata. Uno stato da tenere, con pudore, accuratamente celato. Una sorta di temporanea inabilità di cui non far comunque nemmeno menzione o accenno. Il ritratto che nel 1901 fa un pittore post-impressionista britannico, Augustus John, della moglie Ida in dolce attesa ha, rispetto agli standard della società vittoriana, un aria quasi trasgressiva e provocatoria. Siamo di fronte ad un opera, se non esattamente "proibita", almeno sicuramente controversa e parzialmente "ghettizzata". Lucien Freud con il lavoro "Girl with Roses" (1947-8) ritrae un momento molto intimo e delicato della via della moglie Kitty. Potrebbe essere stato forse un problema, ma Freud era universalmente conosciuto e rispettato per la carnale fisicità dei suoi dipinti che facilmente gli poteva essere concessa questa libertà. Nel 1991, la fotografa americana Annie Leibovitz riuscì a rompere questa specie di taboo facendo uno scabroso ritratto dell'attrice Demi Moore nuda e al settimo mese. Fu un mezzo scandalo ma alla fine l'immagine finì gloriosamente sulla copertina di Vanity Fair. Marc Quinn ha invece realizzato una scultura raffigurante una ragazza disabile incinta, Alison Lapper, che era parte della sua celebre installazione in Trafalgar Square nel 2005. Jenny Saville, artista britannica che vive e lavora felicemente a Palermo, mostra qui al pubblico per la prima volta un suo bellissimo autoritratto, "Elettra", terminato alla fine del 2019. L'ultima immagine in mostra è stata realizzata dall'artista Awol Erizku nel 2017 su commissione della cantante Beyoncé. Ce la mostra prima dell'arrivo dei due gemelli inginocchiata davanti ad una colorata parete di fiori. Postata su Instagram è stata per molti mesi l'immagine con il maggiore numero di like. La mostra, assolutamente da vedere, ha in realtà un solo vero difetto: è troppo legata ai limiti del mondo anglosassone. Latitano visioni, sensibilità e respiri continentali. Sul tema ovviamente manca soprattutto la più importante icona di tutta la Storia dell'Arte: la straordinaria "Madonna del Parto" di Monterchi, inarrivabile capolavoro di Piero della Francesca realizzato intorno al 1560. Sarebbe probabilmente bastata anche solo una riproduzione di buona qualità, senza disturbare l'originale. Ma chissà, forse (speriamo proprio di no....) siamo già di fronte ad una nuova generazione di mostre "Post-Brexit" che vogliono privilegiare un'impronta più "nazionale".

Italia senza figli: il record in Europa «Ultimo treno o il Paese sparirà». Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Riva. L’Italia è ultima in Europa per tasso di natalità: siamo il paese dell’Unione che fa meno figli in rapporto alla popolazione. I dati parlano chiaro: siamo in declino demografico. A fine 2018 i residenti in Italia erano 60.359.546, 124mila in meno rispetto all’anno precedente e oltre 400mila in meno di quattro anni prima. «La popolazione italiana - spiega l’Istat - ha da tempo perso la sua capacità di crescita per effetto della dinamica naturale». Nel 2018 le nascite sono state 439.747 e le morti 633.133, per un saldo negativo di oltre 193mila unità. Non è un problema solo italiano. Se si prendono in considerazione tutti gli Stati dell’Unione europea nel loro complesso il numero dei morti ha superato nel 2018 quello delle nascite per la seconda volta consecutiva. In Europa l’età media è arrivata a 43 anni, dodici in più del resto del mondo. Per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen «il cambiamento demografico è una delle sfide più profonde tra quelle che l’Unione deve affrontare». Secondo i calcoli del think-tank Bertelsmann Stiftung «nel 2050 il cambiamento demografico avrà ridotto il reddito medio pro capite in Francia, Spagna, Italia e Germania di una cifra che va dai 4.759 ai 6.548 euro». Il cambiamento demografico, quindi, incide sulla crescita economica. Ma non solo. Per Antonio Golini, demografo all’Università La Sapienza di Roma per oltre cinquant’anni e autore del libro Italiani poca gente, «se un Paese arriva ad avere una percentuale di ultrasessantenni pari o superiore al 30 per cento della popolazione totale raggiunge un punto di non ritorno: i bisogni sanitari e previdenziali diventano insostenibili». L’Italia nel 2018 era al 27 per cento. Se il trend dovesse continuare in futuro non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per sostenere, attraverso i contributi, le cure e le pensioni dei più anziani. «La strada su cui siamo avviati è questa - prosegue Golini - ma la tendenza può essere invertita». In Europa gli esempi a cui guardare non mancano. Perché la questione demografica riguarda l’intero continente ma, al suo interno, le situazioni dei singoli Stati sono molto differenti. Paesi come la Francia non sono mai scesi troppo sotto la soglia dei due figli per donna grazie a continue misure per la natalità. Altri, come l’Italia e la Spagna, hanno da tempo una bassa fecondità, senza segnali di ripresa. Altri ancora, come la Germania, si sono ritrovati in una situazione simile ma hanno investito in politiche famigliari con effetti positivi. «Il caso tedesco - spiega il demografo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Alessandro Rosina - dimostra che una ripresa delle nascite è possibile: servono obiettivi chiari, risorse adeguate e ben mirate». A insegnarlo è anche l’esperienza di Bolzano, l’unica parte d’Italia a registrare più nati che morti. «L’Alto Adige - prosegue il professore - è in controtendenza perché ha potenziato in modo solido le politiche familiari proprio durante il periodo di crisi». Per Rosina, che sul tema ha scritto Il futuro non invecchia, l’unico modo per far tornare a crescere l’Italia è «far diventare le politiche familiari parte integrante delle politiche di sviluppo del Paese». E il docente aggiunge: «Più che singole misure serve un nuovo approccio, per avviare un processo che anno dopo anno rafforzi gli strumenti su cui le famiglie possono contare e li adatti via via alle nuove esigenze». Golini concorda. A suo parere «servono azioni culturali ed economiche. Un bambino è un bene per la collettività e non solo per i suoi genitori. Di conseguenza trovo giusto che la collettività sostenga economicamente i genitori». Il punto è come, con quanti e quali fondi. In gennaio Rosina è entrato nel Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia voluto dalla ministra per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti. Farà ricerca e consulenza per il Governo: «È una forte responsabilità. Alcune condizioni positive per un buon lavoro ci sono - dice - ma andranno messe alla prova: servono risorse adeguate e una fattiva collaborazione tra Ministeri». Ora da una parte la legge di Bilancio 2020 ha istituito il «Fondo assegno universale e servizi alla famiglia» con una dotazione di 1.044 milioni di euro per il 2021 e 1.244 milioni annui a partire dal 2022. E dall’altra il Governo sta lavorando a un riordino delle misure a favore della famiglia, il cosiddetto Family act: dovrebbe essere presentato nei prossimi mesi.

L'ultima sparata di Sala: "Ci serve l'immigrazione contro calo delle nascite". Il sindaco di Milano, ospite di Piazzapulita, dichiara che all’Italia servono gli immigrati per combattere la denatalità. Pina Francone, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. "A Milano, diciamo anche questa semplice verità, noi abbiamo il 20% di immigrati. Ma apriamo gli occhi: noi con questa decrescita e denatalità che abbiamo, abbiamo bisogno di immigrazione. Non è buonismo, è intelligenza…". Ecco la ricetta di Beppe Sala, sindaco del capoluogo lombardo, per ovviare al fatto che gli italiani ormai - da anni - non facciano più figli. La sparata del primo cittadino meneghino è arrivata nello studio di Piazzapulita, il programma di approfondimento politico condotto da Corrado Formigli ogni giovedì sera su La7. In soldoni, visto che il Belpaese è in decrescita demografica – le nascite, infatti, sono ai minimi storici dall’Unità d’Italia a questa parte – secondo l’esponente del Partito Democratico l'immigrazione è un bene e una risrsa erché aiuta lo Stivale a non morire, sostenendo anche l'economia nostrana. "L’ultimo follia di Sala! C’è il calo delle nascite? Abbiamo bisogno di immigrazione! Ecco come ragiona il sindaco di Milano", Così su Twitter Alessandro Morelli, capogruppo Lega a Palazzo Marino, pubblicando la dichiarazione di Giuseppe Sala nel corso della puntata di Piazzapulita di ieri, 20 febbraio, commenta l'uscita del dem. Che come si sa è sindaco molto attento alle tematiche dell'immigrazione, prevedendo in città anche uno sportello dedicato agli extracomunitari, anche se questi ultimi non ne fanno granché uso.

Emergenza denatalità. Nei giorni scorsi anche ilGiornale.it aveva scrito dell'allarme demografico, visto che per un lustro è diminuita in modo continuo la popolazione italiana, calata rispetto all'anno scorso di 116mila unità secondo le rilevazioni dell'Istat. La riduzione della popolazione - ha spiegato l'Istituto Nazionale di Statistica - è provocata dal bilancio negativo della dinamica naturale (nascite-decessi) risultata nel 2019 pari a -212mila unità, solo parzialmente attenuata da un saldo migratorio con l'estero ampiamente positivo (+143mila). Per ogni cento residenti che muoiono ne nascono appena sessantasette; dieci anni fa, invece intenderci erano 96, ventinove in più. Insomma, avanti di questo passo, poco a poco, il Paese è destinato a morire.

Alix Amer per "ilmessaggero.it" il 17 febbraio 2020. Un uomo transgender e sua moglie hanno accolto insieme il loro primo figlio dopo che il loro ex fidanzato, che era stato con entrambi, ha donato il suo sperma. Jayden Chapman, 33 anni, di Cedar Rapids, Iowa, viveva ancora come donna quando incontrò per la prima volta la sua attuale moglie, Keeley, 28 anni, attraverso Jeremiah con il quale entrambi erano usciti per mesi. Jayden, che sapeva di essere stato intrappolato nel corpo sbagliato sin dalla tenera età, era amico di Keeley prima di chiedergli di mettersi insieme. Con il suo pieno supporto, ha iniziato il trattamento ormonale per passare da donna a uomo. Nel loro cuore oltre all’amore c’era l’idea di costruire una famiglia con dei bambini. Nel frattempo, Jeremiah, che era rimasto loro amico tanto da fare il testimone alle loro nozze nel 2018, ha scelto di aiutarli donando il suo sperma. Incredibilmente Keeley è rimasta incinta al loro primo tentativo, ed è nato Keeden - una miscela dei nomi dei suoi genitori - il 6 ottobre 2019, un bimbo felice e sano. Insomma una storia a lieto fine. Jayden ha raccontato: «Sapevo cosa provavo per Keeley sin dal primo giorno, quindi è un sogno diventato realtà quando mi ha detto che provava la stessa cosa. Aveva sempre desiderato figli, quindi fin dall’inizio nella nostra relazione, mi ha detto che voleva una famiglia. Quando Keeden è nato, è stato così travolgente, tutto è diventato reale. È un bambino felice, sano, paffuto, ora, che incontra tutti i suoi traguardi». E poi ha aggiunto: «Jeremiah è una persona importante per noi. È divertente pensare che entrambi siamo usciti con lui, io quando vivevo da donna. Entrambi abbiamo pensato che saremmo stati migliori come amici. Lui per noi significa il mondo. Ci ha regalato la gioia più grande della nostra vita».

Bimbo abbandonato  nel passeggino alla stazione termini: arrestata 25enne  a Bologna. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Ridaldo Frignani. È stata rintracciata e arrestata dalla Polfer alla stazione di Bologna la donna che nel pomeriggio di giovedì haabbandonato un bambino di appena un anno nel suo passeggino in via Principe Amedeo, in zona Termini. Non è ancora chiaro il motivo del gesto e il rapporto che c’è fra la donna, una 25enne croata, e il piccolo ora ricoverato in ottime condizioni all’ospedale Bambino Gesù. Con l’arrestata c’era anche l’altra bambina di tre anni che teneva per mano quando è fuggita da Roma. Decisiva per l’identificazione e il rintraccio della donna è stata l’analisi di alcuni filmati della videosorveglianza di negozi che si trovano all’Esquilino e alla stazione Termini. La ragazza si è allontanata da un centro d’accoglienza vicino Roma. È stata arrestata per abbandono di minore. L’altra bambina è stata affidata a una struttura di assistenza a a Bologna in attesa delle decisioni del tribunale dei minorenni. Sembra che alla base del gesto ci sia una storia di disperazione. Oltre alle telecamere, a fornire la certezza che si trattasse della stessa giovane sono state la segnalazione dei responsabili della casa d’accoglienza, ma anche l’analisi delle impronte digitali trovate sul manubrio del passeggino che erano proprio quelle della giovane. Il treno sul quale la salita era diretto a Monaco di Baviera a ma non si esclude che la ragazza volesse fermarsi prima sempre in territorio italiano.

Bimbo abbandonato a Termini, la madre era diretta a Monaco: arrestata. Fermata la donna che ha lasciato un piccolo di un anno in carrozzina alla stazione Termini di Roma. Era su un treno diretto in Germania, a Monaco di Baviera. Michele Di Lollo, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Un’azione terribile che ha suscitato lo sdegno di una città intera. E non solo. Un bimbo di appena un anno è stato abbandonato nel suo passeggino nei pressi della stazione Termini di Roma, precisamente all’incrocio tra via Principe Amedeo e via Carlo Cattaneo. La ragazza, stando alle riprese effettuate dalle telecamere di sicurezza installate in zona, era vestita con un giubbotto nero con un cappuccio alzato sulla testa e le scarpe bianche. Si sarebbe diretta verso la stazione e aveva una bimba di circa tre anni in braccio. La carrozzina sarebbe stata lasciata poco lontano dal terminal, vicino ai capolinea di alcuni bus. Il piccolo era sistemato in un passeggino e aveva una copertina. Il fatto è avvenuto nel tardo pomeriggio di ieri, 27 febbraio, praticamente nell’ora di punta, quando in strada c’erano centinaia di persone. A trovare il neonato è stata una passante che, incuriosita, si è avvicinata e ha dato immediatamente l’allarme alle forze dell’ordine. Sul posto gli uomini del commissariato Esquilino, che hanno provveduto a prendersi cura del bimbo. Il piccolo, che dormiva quando è stato notato dalla passante, sarebbe in buone condizioni di salute. Ma è stato accompagnato per sicurezza all’ospedale Bambino Gesù di Roma. Stando a quanto si apprende, sarebbe ben nutrito e risponde a tutti gli stimoli. Già attivati i servizi sociali che si prenderanno cura di lui. Sul posto anche gli agenti della polizia ferroviaria e gli agenti della polizia scientifica. Subito dopo sono partite le indagini per rintracciare la donna che ha abbandonato il piccolo. Rintracciata dopo qualche ora, era su un treno diretto a Monaco di Baviera: arrestata, dovrà adesso chiarire i motivi per cui ha abbandonato il bambino che, fortunatamente, sta bene. Sono ancora sconosciuti, infatti, i motivi che hanno portato la donna ad abbandonare il piccolo. Lasciato in strada nella carrozzina al momento senza alcuna giustificazione.

Solo poco tempo fa una notizia simile, accaduta però in Piemonte. A Carmagnola, un comune in provincia di Torino. Qui un bimbo di soli 8 anni è stato trovato mentre vagava in mezzo alla provinciale 128. Stando a quanto è stato riferito dagli inquirenti, che si sono occupati del delicato caso, sono stati diversi automobilisti a segnalare alle autorità la presenza del piccolo che camminava senza meta e al freddo in via del Porto, nella zona di Motta. Gli agenti del posto si sono immediatamente mobilitati e in breve tempo hanno raggiunto il minorenne, poi risultato essere di nazionalità bosniaca. Il bambino, che non indossava neppure un indumento pesante che potesse ripararlo dalle rigide temperature, era intorpidito dal freddo e tremava. Sono stati i poliziotti a portarlo via dalla strada e a prendersi cura di lui.

Bimbo di sette mesi abbandonato a Roma, la madre rintracciata a Bologna e arrestata. E' una ragazza di 25 anni, era su un treno diretto in Germania con l'altra figlia che è stata portata in ospedale per un ematoma sul viso: la donna, che era ospitata in una casa famiglia, è stata arrestata per abbandono di minore. La Repubblica il 28 febbraio 2020. Le immagini delle telecamere in strada mostrano la donna con la carrozzina e un altro bimbo per mano. E' stata rintracciata a Bologna dalla Polfer la donna che ieri pomeriggio ha abbandonato un bimbo in carrozzina per strada a Roma. Era su un treno che aveva preso alla stazione Termini di Roma e che era diretto a Monaco di Baviera. La donna è stata arrestata. Il piccolo, di appena sette mesi, era stato trovato intorno alle 17,20 di ieri in via Principe Amedeo, nel quartiere Esquilino della Capitale. Le indagini, scattate su segnalazione di un uomo che ha chiamato il numero unico di soccorso, sono partite dalle immagini registrate dalle telecamere in strada, nelle quali la carrozzina era spinta da una donna con cappotto e pantaloni scuri, e con le scarpe bianche. Dopo aver abbandonato la carrozzina la donna si era allontanata in direzione della vicina stazione Termini con un altro bambino di pochi anni. Indizi che hanno poi portato all'identificazione della donna, e, grazie alle celle telefoniche, alla sua cattura sul treno per la Germania. E' un'italiana di 25 anni, è quando è stata fermata era insieme all'altra figlia che è stata portata all'ospedale Maggiore Carlo Alberto Pizzardi di Bologna per un ematoma sul viso. La giovane mamma era ospitata in una casa famiglia, dove gli investigatori che la cercavano hanno recuperato il numero di telefono. Contattata al cellulare aveva espresso la volontà di tornare ma gli agenti, non fidandosi, sono intervenuti sul treno all'altezza di Bologna e l'hanno arrestata - su richiesta della magistratura - per abbandono di minore.

FOLLIA O DISPERAZIONE? Da "leggo.it" il 28 febbraio 2020. È stata arrestata la madre del bimbo abbandonato giovedì davanti alla stazione Termini, a Roma. La donna è stata rintracciata a Bologna dalla Polfer. Era su un treno partito da Roma e diretto a Monaco. Si tratta di una 25enne di Varese. Infatti, nella tarda serata di giovedì si era diffusa la notizia di un bambino che era stato abbandonato in un passeggino a Roma, precisamente in via Principe Amedeo, in zona stazione Termini. Avvolto in una copertina e messo in una carrozzina. Poi abbandonato in una strada trafficata di Roma durante un'ora dove il via vai si fa più intenso, ovvero il tardo pomeriggio. Sembra essere il gesto di una madre disperata quello che ha portata una donna ad abbandonare un piccolo in una carrozzina a Roma nella zona della stazione Termini. La carrozzina è stata lasciata su un marciapiede in via Principe Amedeo poco lontano dai terminal della stazione e i capolinea di alcuni bus nell'ora di punta: probabilmente la donna voleva essere certa che il bimbo poteva essere soccorso e accolto. A notarlo infatti è stata una passante: ha visto la carrozzina incustodita, si è sporta per guardare dentro e ha visto il piccolo che dormiva beatamente. Ha così dato l'allarme. Le forze dell'ordine, oltre ad occuparsi del bimbo affidato alle cure dei medici, hanno subito vagliato le telecamere della zona. Dalle immagini è emerso che ad abbandonare la carrozzina sarebbe stata una donna vestita di scuro con un cappuccio in testa e una bambina di circa tre anni in braccio. Si stanno cercando anche dei testimoni per capire se conoscevano la donna, se magari frequentava la zona o si era rivolta ad alcune associazioni di assistenza e carità. Gli elementi farebbero pensare infatti ad una storia di indigenza. Il bimbo è stato trovato infatti in buone condizioni dai medici che lo hanno sottoposto ad analisi e accertamenti: è ben nutrito e curato e risponde a tutti gli stimoli. L'ospedale invece ha già attivato i servizi sociali che si prenderanno cura del bimbo che verrà affidato, almeno per il momento, agli assistenti sociali.

FOLLIA O DISPERAZIONE? Da "leggo.it" l'1 marzo 2020. Un bimbo di circa un anno è stato trovato da solo, all'interno di un passeggino, nei pressi della villa comunale di Ponticelli, nella zona orientale di Napoli. A far scattare l'allarme è stata una persona che ha notato il piccolo ed ha chiamato la polizia. Il fatto è avvenuto in serata. La volante giunta sul posto ha allertato il «118». Il personale sanitario ha quindi portato il piccolo all'ospedale pediatrico «Santobono» di Napoli. Il bimbo, che appare ben curato, è in buone condizioni di salute. La polizia sta lavorando per ricostruire quanto accaduto. La vicenda, dunque, è tutta da chiarire.

Bimbi divisi tra papà gay e mamma lesbica: è il "coparenting" la famiglia del futuro. Un fenomeno diffusissimo in Europa che sta prendendo piede anche in Italia tra single incalliti e coppie gay: con il coparenting si può "condividere" un figlio senza essere una coppia. Cristina Verdi, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale.  Si può essere genitori senza essere una coppia? Si chiama coparenting ed è la nuova frontiera della genitorialità. Il fenomeno ha iniziato a diffondersi in Germania e da qualche anno è sbarcato anche nel nostro Paese. Il principio alla base è quello di mettere al mondo un figlio senza essere sentimentalmente legati al proprio partner. Dividere le spese, crescere ed educare i figli senza la “complicazione” di un legame fisso con un’altra persona. È un’opzione presa in considerazione da un numero sempre maggiore di persone, come dimostrano i siti che proliferano sul web. Piattaforme a metà tra social network e bacheche per incontri, in cui proporsi come cogenitore. Gli utenti, spiegano sul portale co-genitori.it, sono "single o coppie omosessuali, amici che si conoscono da anni o persone che si sono incontrate online". Il sistema va per la maggiore tra le coppie gay e lesbiche, che scelgono il coparenting per mettere al mondo uno o più figli che finiscono per avere due mamme e due papà. Il fatto che mamma e papà non si amino, secondo il parere degli esperti, non costituirebbe un problema. Men che meno il fatto che i piccoli finiscano per essere sballottati da una famiglia arcobaleno all’altra. Il bimbo deve "sentirsi desiderato", afferma una specialista, Sabine Walper, citata dal quotidiano La Verità. "Un bambino può essere cresciuto dai suoi genitori sia che siano una coppia o meno, single, sposati o divorziati, o dello stesso sesso", si legge sul sito che si propone di mettere i contatto gli aspiranti co-genitori. Basta registrarsi per entrare in contatto con Luca di Varese, "alto un metro e 80, occhi azzurri, fisico sportivo, pulito serio, riservato e disponibile a ogni analisi" o con Veloce, "padre separato che vorrebbe trovare una donna possibilmente benestante" per mettere al mondo un figlio. Poi Jloria, 36 anni, dell’Albuccione, con un "gran desiderio di diventare mamma". Si programma la gravidanza e si cresce la prole sulla base di un contratto scritto. Si condividono le decisioni e si dividono le spese. "Oggi, l’età media della prima gravidanza – spiegano sullo stesso sito - è molto più alta rispetto a qualche decennio fa" e "uno dei motivi per rimandare la gravidanza è che molte donne non hanno un partner e/o non si sentono finanziariamente abbastanza sicure per avere un bambino da sole". E così il co-parenting viene proposto come soluzione per chi sente "il ticchettio del proprio orologio biologico e non vuole rinunciare al sogno di dare inizio a una famiglia". "Nella maggior parte dei casi – spiegano sul portale - l’idea è di concepire un bambino attraverso trattamenti di procreazione assistita e poi crescere il bambino con un co-genitore, alcuni co-genitori decidono di vivere in due abitazioni separate e condividendo la custodia dei loro figli, di solito optando per rimanere il più vicino possibile l’uno all’altro, altri preferiscono vivere sotto lo stesso tetto per crescere insieme il proprio bambino". "Le coppie omosessuali – continua la spiegazione - possono anche prendere la decisione di collaborare con un/a singolo/a uomo/donna, o con un’altra coppia che è disposta ad avere un figlio con un co-genitore". Per i sostenitori della cogenitorialità la nascita di un figlio sarebbe spesso un fattore "destabilizzante" per la coppia e a lungo andare è possibile che lo "stress" conduca anche al divorzio. Per questo i fondatori del portale consigliano di giocare d’anticipo: "Restare amici piuttosto che essere innamorati permette di evitare molte delle questioni relative alla separazione". Così "è più semplice garantire il benessere del bambino". È la nuova famiglia "liquida". Senza legami. E senza amore.

Da milano.fanpage.it il 7 febbraio 2020. Per combattere i cambiamenti climatici bisogna mettere al mondo meno figli. A una prima lettura, sembra questo il messaggio di un opuscolo distribuito dallo Spazio Comune di Cremona e realizzato dall'associazione Filiera Corta Solidale. Il caso è scoppiato quando alcuni esponenti locali di Fratelli d'Italia hanno notato la dicitura "meno figli" sotto alla frase "le quattro azioni individuali più efficaci per mitigare i cambiamenti climatici". A esprimersi su quello che sarebbe stato un misunderstanding sono stati sia il primo cittadino di Cremona, Gianluca Galimberti, che la redattrice dell'opuscolo, Laura Rossi. Il sindaco Galimberti ha scritto su Facebook un proprio pensiero, rivelando di non aver "visto il libretto prima che diventasse un caso. Quello che c'è scritto è profondamente sbagliato e stupido". Poi, il tentativo di dare una spiegazione all'accaduto: "Gli assessori hanno spiegato che è un contenuto estrapolato malissimo da un contesto più generale di uno studio". Infine, la promessa: "Verrà ritirato". E così è in effetti stato. Anche l'assessore alla Mobilità sostenibile e Ambiente Simona Pasquali ha preso le distanze da quanto successo: "Mi dispiace e mi dissocio: non appartiene al mio modo di vedere le cose". Ci ha poi pensato Laura Rossi a spiegare l'intento dello studio i cui dati sono poi stati pubblicati, forse con un'eccessiva sintesi. La Rossi si è detta dispiaciuta di aver urtato la sensibilità di qualcuno, motivo per cui una volta ritirato, l'opuscolo sarà riscritto in maniera più chiara. In sostanza, come da quanto emerso negli studi vari, un sovrappopolamento del pianeta crea inevitabilmente problemi climatici maggiori ma la Rossi ha voluto sottolineare di non avere l'arroganza per dire cosa fare alle persone. Il caso, così come è deflagrato in pochi secondi, è altrettanto velocemente rientrato.

Cesare Peccarisi per corriere.it il 5 febbraio 2020.

Timore infondato del parto. Secondo l’Istat nel 2018 abbiamo toccato il minimo storico delle nascite dall’unità d’Italia. Fra i motivi della denatalità non ci sono soltanto quelli economici, come le spese da affrontare per asili, istruzione, ma anche i cambiamenti sociali o ritmi di vita sempre più frenetici che inducono ansia e depressione. Tuttavia la scelta di non avere figli può avere anche un’altra ragione psicologica , poco considerata, chiamata tocofobia, una sindrome che indica un timore eccessivo e infondato del parto (la parola viene dal greco tokos, parto e fobia, paura).

Una sindrome molto studiata. Descritta nel 2000 sul British Journal of Psychiatry dalle psichiatre inglesi Kristina Hofberg e Ian Brockington dell’Università di Birmingham, ne hanno parlato di recente sull’Indian Journal of Psycholgical Medicine anche i ricercatori del Dipartimento di psichiatria di Karnataka e Bengaluru e poco prima di loro i colleghi delle Università di Lubiana e Gerusalemme sul Journal of Perinatal Medicine. Ormai di questa sindrome, detta anche maieusio-fobia (dal greco maieusis, cioè parto di donna in travaglio) si occupano studiosi di tutto il mondo.

Figli sempre più tardi. In alcuni casi questa sindrome potrebbe spiegare anche la crescente tendenza a rimandare la maternità: sempre più donne fanno figli a 40 anni ricorrendo alla fecondazione assistita. La tendenza a ritardare la gravidanza è stata ribadita di recente dal Ministero della Salute nel 17° CeDAP (il rapporto annuale sull’evento nascita in Italia) secondo il quale l’età media delle madri italiane si è spostata a 32,8 anni. Ma non solo denatalità e ritardo delle gestazioni: la tocofobia potrebbe essere implicata anche in un altro fenomeno rilevato dall’indagine CeDAP e cioè l’aumento dei parti cesarei, una tendenza che non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo.

Cesarei in aumento. Regolamentare questi comportamenti è difficile e può essere d’esempio il caso dell’Inghilterra dove, nonostante che le Linee Guida 2004 del Nice (The National Institute for Health and Care Excellence) avessero indicato ai medici di declinare le richieste di cesarei privi di indicazioni cliniche, fra il 1989 e il 2010 questi sono comunque passati dal 10 per cento al 25 per cento. Le direttive Nice sono state poi riviste nel 2011 concedendo il cesareo alle madri che lo richiedevano, previa una o più sedute di counseling psichiatrico. Adesso lo studio di The Lancet rivela però che già quattro anni dopo i cesarei d’oltremanica erano saliti al 26,7 per cento.

Aumenta il rischio di depressione. Non vanno però dimenticati i rischi anestesiologici, emorragici e laparoscopici del cesareo, né il fatto che, come osservato dai ricercatori della National Yang-Ming University di Taiwan, fa aumentare del 48 per cento il rischio di depressione, anche se programmato e non praticato d’urgenza. Né va infine scordato il fenomeno dei cesarei inutili, non solo in Italia. È stato pubblicato su BMC Pregnancy & Childbirth uno studio secondo cui in Armenia (dove i cesarei sono saliti dal 7,2 per cento del 2000 al 31 per cento del 2017) il rimborso ai medici per i cesarei era 11 volte maggiore rispetto al parto vaginale: un buon motivo economico per praticare cesarei anche senza necessità cliniche. E qui la tocofobia c’entra proprio poco.

L’ansia allunga il travaglio. «Molte donne temono il parto, ma in alcune la paura può diventare una vera fobia - dice Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli-Sacco di Milano -. Come hanno scoperto all’Università di Oslo, se non curate queste paure prolungano il travaglio di un’ora e 32 minuti, col rischio di parto col forcipe o di un cesareo d’urgenza». Queste donne temono soprattutto il dolore, la perdita di controllo e danni della vagina che potrebbero poi allontanare il partner. La sindrome inizia in giovane età, spesso dopo un evento traumatico a cui hanno assistito. «Sono donne in genere ansiose e la tocofobia può svelare una depressione prenatale - prosegue Mencacci -. Ma, soprattutto nelle primipare, un adeguato counseling psicologico può far molto, magari con gruppi di auto-aiuto dove giovani mamme raccontano la loro esperienza».

Costanza Tosi per "il giornale.it" l'8 febbraio 2020. Avere figli da due madri? É possibile. Bastano cinquemila euro e una breve ricerca online per consentire a coppie di donne omosessuali di creare bambini con dna condiviso grazie a un travaso di ovuli.

É legale? No. Non Italia. Ma aggirare la legge per le coppie lgbt è diventato un gioco da ragazzi. In Spagna infatti, il cosiddetto “metodo ROPA”, che consente attraverso la fecondazione in vitro di creare il feto geneticamente appartenente alle due donne, è una pratica che sta prendendo sempre più piede. E così, per le coppie, basta rivolgersi ad una clinica italiana con sede in Spagna per ottenere il figlio con lo stesso processo. Trovare centri attrezzati per il processo di maternità è semplicissimo. Su internet le offerte per le donne italiane si moltiplicano a vista d’occhio. I siti delle cliniche private mettono a disposizione le informazioni necessarie per comprendere la tecnica innovativa e le pagine social di arcigay contribuiscono a sponsorizzarla.

Cosa consente la legge? In Italia per quanto riguarda la procreazione medicalmente assistita ci si attiene alla legge n. 40 del 19 febbraio 2004 (legge nota anche come legge 40 o legge 40/2004). Secondo la norma, alle tecniche di procreazione assistita possono accedere “coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. Dunque, è possibile avere un figlio attraverso un percorso medico assistito per la fecondazione purché si tratti di una coppia di persone eterosessuali. Un uomo e una donna. Un limite, questo, che non è previsto dalla legislazione spagnola che è stata appositamente modificata per consentire l’accesso alla fecondazione assistita anche alle coppie omosessuali. “Qualora una coppia di donne intenda realizzare il proprio desiderio di genitorialità potrà far ricorso al metodo ROPA (Recepción de Ovocitos de la Pareja) chiamato anche Maternità condivisa, perché entrambe le donne saranno parte attiva, con ruoli diversi, nel processo che porterà ad una futura gravidanza", si legge sul sito di ivitalia.it. Si tratta di una clinica privata - con centri a Roma, Milano e Valencia - dove la legge in vigore permette che “qualsiasi donna di età superiore ai 18 anni, e con totale capacità di intendere e di volere, potrà essere ricevente o utente delle tecniche disciplinate dalla Legge 14/2006 sulle Tecniche di Procreazione Umana Assistita”.

Cos’è il “metodo ROPA”? Se la natura ammette che un bimbo nasca con il dna di un uomo e una donna, la tecnica utilizzata in Spagna mette in atto una sorta di travaso di ovuli da un ventre all’altro delle due donne desiderose di essere entrambe madri. Funziona esattamente così: una donna contribuirà a questo processo come donatrice offrendo i suoi ovuli, l’altra accoglierà nel proprio utero l’embrione ottenuto in seguito alla fecondazione in vitro. Il processo è lungo e potrebbe durare molti mesi affinché le cure ormonali creino le condizioni adatte alla gravidanza. I passaggi infatti, sono molto delicati. Una delle due donne viene sottoposta a stimolazione ovarica al fine di fornire gli ovociti, poi, l’altra, accoglie nel proprio utero gli embrioni derivanti dalla fecondazione degli ovociti con un campione di sperma di un donatore. Facendo una semplice telefonata alla clinica tutto viene spiegato in pochi minuti. Una signorina madrelingua italiana alla segreteria ci dà subito le prime informazioni. “Le percentuali di riuscita sono molto alte”. Poi, verifica i requisiti “Siete sposate?”, chiede. Se la risposta è sì non ci sono altri vincoli. “Può prendere un appuntamento e recarsi qui nella nostra sede a Velencia, dove verrà effettuata la prima visita ginecologica a colei che porterà il bambino” spiega ancora la segretaria. E siamo anche fortunati, perché da Ivi è tempo di saldi: “La prima visita le verrà a costare 90 euro invece che 150 - ci dice - è l’offerta di febbraio”. Sulle controindicazioni la ragazza non si esprime, non è un medico, ma ovviamente, commenta “ci sono sempre delle cure ormonali da sostenere”. Per le quali sono necessarie terapie medicinali, i cui farmaci non sono compresi nel prezzo. Dopo averci spiegato brevemente il processo, dalla clinica ci confermano che una madre sarà la donatrice di ovociti e l’altra terrà in grembo il feto. “La prima donna sarà la madre genetica del futuro bambino, mentre la seconda sarà la madre gestazionale. Entrambe saranno riconosciute come madri biologiche”. La madre genetica dovrà seguire un percorso di stimolazione ovarica che coincide con quello previsto per la fecondazione in vitro convenzionale. Gli ovuli ottenuti, in una seconda fase, vengono fecondati con lo sperma di un donatore. “Una volta avvenuta la fecondazione, gli embrioni saranno costantemente monitorati in laboratorio prima di eseguire il transfer”. Dicono sul sito di Ivi. Proprio così. Il trasferimento degli embrioni nell’utero dell’altra donna. Un travaso al fine di consentire alle due donne di dire “anche io sono madre a tutti gli effetti”. Certo, c’è anche un terzo incancellabile individuo, che è il donatore anonimo. Ma tranquilli, la clinica dispone di una lunga lista di individui da scegliere “anche in base ai tratti del viso della madre”. Insomma, una vetrina di spermatozoi a disposizione del cliente. Un po’ come la frutta al mercato della domenica. Qualche viaggio in Spagna, più di cinquemila euro in pochi mesi, farmaci su farmaci ed ecco esaudito il desiderio delle coppie di donne omosessuali. Ma a quel punto come fa un tribunale italiano a negare il riconoscimento all'anagrafe se il figlio nasce con il dna di tutte e due le madri? Dalla clinica nessuna risposta: “Non siamo sotto la legislazione spagnola signora…non ci occupiamo di questo e non ne sappiamo niente.”

EllaOne, la pillola dei 5 giorni dopo alle minorenni senza ricetta. Redazione su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Non sarà più necessario l’obbligo della prescrizione medica per dispensare anche alle minorenni l’ulipistral acetato (EllaOne), il farmaco utilizzato per la contraccezione di emergenza fino a cinque giorni dopo il rapporto sessuale. Lo ha stabilito l’Agenzia italiana del farmaco con una Determina dello scorso 8 ottobre. “Si tratta di uno strumento altamente efficace per la contraccezione d’emergenza per le giovani che abbiano avuto un rapporto non protetto, entro i cinque giorni dal rapporto – afferma il direttore generale di Aifa, Nicola Magrini – ed è anche, a mio avviso, uno strumento etico in quanto consente di evitare i momenti critici che di solito sono a carico solo delle ragazze. Voglio sottolineare che si tratta di contraccezione di emergenza e che non è un farmaco da utilizzare regolarmente”. Al momento dell’acquisto in farmacia, spiega Magrini, il farmaco sarà accompagnato da un foglio informativo che ha lo scopo di promuovere una contraccezione consapevole ed efficace ed evitare un uso inappropriato della contraccezione di emergenza. In questa ottica, Aifa svilupperà presto un sito ad hoc, con informazioni e indicazioni approfondite sulla contraccezione, di cui la pillola rappresenta una possibile opzione, consentendo a tutte le donne di programmare una gravidanza. “Ricordo infine – sottolinea il direttore generale di Aifa – che il farmaco è dal 2017 nella lista dei farmaci essenziali dell’Organizzazione mondiale della sanità per questa indicazione, come parte dei programmi di accesso ai farmaci contraccettivi, e che le gravidanze nelle teenager sono un importante indicatore di sviluppo di una società, che va tenuto ai minimi livelli”. La maggior parte delle gravidanze adolescenziali, infatti, non sono pianificate e molte terminano con un aborto. Il parto nelle adolescenti, per contro, si accompagna spesso a difficoltà della giovane madre di accedere ai servizi materno-infantili e a problematiche sul piano interpersonale e psicologico: hanno meno probabilità di portare a termine gli studi e di conseguenza una minore possibilità di occupazione, maggiori probabilità di crescere i propri figli da sole e in povertà. La gravidanza adolescenziale, inoltre, è associata a un più elevato rischio di morbosità/mortalità perinatale, sottolinea l’Aifa, che parla della propria decisione di abolire la ricetta per la cosiddetta pillola dei 5 giorni dopo come di “una svolta per la tutela della salute fisica e psicologica delle adolescenti”. Secondo la relazione al Parlamento fatta a giugno dal ministro della Salute, Roberto Speranza, su dati del 2018, “l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza – levonorgestrel (Norlevo), la "pillola del giorno dopo", e ulipistral acetato (EllaOne), la "pillola dei 5 giorni dopo" – ha inciso positivamente sulla riduzione delle interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg), che è in continua e progressiva diminuzione dal 1983”. Eliminare l’obbligo di ricetta per la contraccezione di emergenza per le minorenni intende favorire, dunque, secondo l’Aifa, “il raggiungimento dell’ambiziosa meta della riduzione del tasso di concepimento sotto i 18 anni”. Una decisione destinata a sollevare polemiche, come le recenti linee guida sull’aborto del ministero che ha abolito il ricovero obbligatorio, contestate non solo dai movimenti Pro vita, ma anche da alcune Regioni, come il Piemonte, che ha stabilito il divieto di aborto farmacologico nei consultori e che il ricovero vada valutato dal medico e dalla direzione sanitaria.

Pillola del giorno dopo, boom di vendite: ecco come funziona e quali rischi comporta. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Deve restare contraccezione d’emergenza perché non protegge dalle malattie sessuali. Il 22% ha rapporti non protetti. L’8 maggio 2015 l’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) decide che le donne maggiorenni possono acquistare EllaOne senza ricetta. L’impennata di vendite è immediata: in un anno si passa da 123.800 confezioni a 229.900, che arrivano a 253 nel 2018. Sono gli ultimi dati disponibili elaborati da Federfarma per Dataroom. Il principio attivo è l’Ulipristal acetato, utilizzato anche per curare i fibromi uterini. Una pillola di EllaOne ne contiene 30 mg.La questione è ancora dibattuta: la EllaOne impedisce solo la fecondazione oppure ha anche un effetto anti-annidatorio che può interrompere la gravidanza? Cosa fin qui è stato dimostrato ce lo spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, alla luce degli studi scientifici internazionali. L’Ulipristal acetato agisce sul progesterone, l’ormone che permette la creazione delle condizioni nell’utero per la fecondazione, e può avere due effetti:

1) l’inibizione dell’ovulazione. Vuol dire che l’ovulo trova la porta chiusa e quindi è più complicato, se non impossibile, uscire dal follicolo e incontrare lo spermatozoo.

2) Una possibile azione sull’endometrio e, dunque, sull’annidamento dell’embrione e al mantenimento della gravidanza. Molti studi concludono che le basse dosi di Ulipristal acetato utilizzate per la contraccezione d’emergenza non hanno effetti significativi sullo spessore dell’endometrio e sull’impianto dell’embrione. Tuttavia questi risultati sono ancora considerati non definitivi.Uno studio recente confronta l’efficacia della EllaOne come contraccettivo d’emergenza in base al momento in cui avviene la sua somministrazione. A fare la differenza è il momento dell’ovulazione, e il periodo fertile inizia normalmente 5 giorni prima e si conclude 1 giorno dopo. Se la pillola viene assunta prima dell’ovulazione la gravidanza viene evitata nel 77,6% dei casi, se dopo nel 36,4%. In sostanza: la percentuale di gravidanze è inferiore in modo significativo a quella prevista in seguito a rapporti sessuali non protetti assumendo il farmaco prima dell’ovulazione. Siccome per una donna è complicato sapere con esattezza quando ovula, e il farmaco lo prende «al bisogno», verrebbe da suggerire di prenderlo subito dopo il fatto. Ed è forse anche questa la ragione per la quale non è prevista la ricetta medica. Sono stati valutati su 4718 donne durante il programma di sviluppo clinico. Cefalea, nausea e vomito sono gli effetti collaterali più comuni (nel 25% dei casi). Poi stanchezza, dolorabilità dei seni, dolore addominale e alla schiena, capogiri e, meno frequentemente, diarrea, che si protraggono per 1-2 giorni dall’assunzione. Il principio attivo Ulipristal acetato è condiviso sia da EllaOne sia da Esmya, un medicinale utilizzato in modo continuativo per il trattamento dei fibromi dell’utero in donne adulte non ancora in menopausa. Sull’uso di Esmya c’è allerta per le possibili conseguenze sul fegato, dopo 4 casi di insufficienza epatica riscontrati in donne che ne hanno fatto uso: nella documentazione disponibile all’Ema non sono, però, attribuibili con certezza all’impiego di Esmya ed è verosimile che si trattasse di pazienti che avevano già insufficienza epatica. In ogni caso le indicazioni all’impiego dei due farmaci sono diverse: Esmya è da somministrare una volta al giorno per un massimo di 3 mesi in compresse da 5 mg, mentre EllaOne contiene 30 mg, ed è da assumere una sola volta e solo in occasione di rapporti a rischio. Visti i dati di mercato alle giovani ragazze sembra sfuggire il fatto che EllaOne è un farmaco destinato esclusivamente a un uso estremo, e che non protegge da infezione trasmissibili sessualmente e soprattutto non può sostituire l’uso corretto di un metodo anticoncezionale come invece rischia di essere. Infatti negli ultimi 6 anni la vendita dei profilattici nelle farmacie è diminuita del 26% . Va detto che non è dato sapere se parallelamente sono aumentati gli acquisti al supermercato o online. Resta il fatto che dagli ultimi dati del ministero della Salute su 13.973 universitari il 22% dichiara di aver avuto rapporti occasionali non protetti.

Ha un figlio ma lo scopre solo dopo diversi anni: condannato al risarcimento. Per la giurisprudenza, infatti, basta aver consumato rapporti sessuali all'epoca del concepimento per essere comunque colpevoli: non conta quanto tempo sia passato e l'essere a conoscenza della paternità. Alessandro Simeone, Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre,  l'08 Febbraio 2020 su La Repubblica. Un giovane all’età di 14 anni scopre di essere nato da una relazione tra sua madre e un uomo all’epoca sposato con un'altra donna. Passati oltre 23 anni senza aver fatto nulla, il ragazzo, ormai diventato un uomo adulto, agisce contro il padre non solo per il riconoscimento ma anche per il risarcimento del danno. Il padre si è difeso ammettendo di aver avuto rapporti, 38 anni prima, con l’amante ma replicando che per lungo tempo nessuno si era fatto sentire e che, dunque, lui non aveva fatto il genitore per non essere stato messo nella condizione di esserlo. Nulla da fare per lui, perché il Tribunale di Bergamo non solo ha accertato la paternità (dopo perizia genetica) ma lo ha anche condannato a versare al figlio 70 mila euro. Una sentenza, quella orobica, che potrebbe anche stupire, se non fosse che si pone in linea con l’atteggiamento rigorosissimo (e per certi aspetti punitivo) dei nostri Tribunali e della Corte di Cassazione, per i quali non conta il tempo trascorso, non conta il fatto di non aver la certezza della paternità e non conta neppure il fatto che un figlio, pur raggiunta la maggiore età, non abbia mai mosso alcuna obiezione al presunto padre e abbia  preferito aspettare così tanto tempo prima di “presentare il conto”, incolpando il genitore dei suoi fallimenti professionali e personali. Per la giurisprudenza, infatti, per essere condannati basta l’aver consumato rapporti sessuali all’epoca del concepimento e non conta quanto tempo sia passato. In questi casi, infatti, la prescrizione del risarcimento del danno (solitamente quinquennale) comincia a decorrere solo dopo la sentenza che abbia accolto la domanda di riconoscimento da parte del figlio; domanda che, a sua volta, non è soggetta ad alcun termine e può essere presentata anche dopo la morte del padre. Un meccanismo che equipara chi rimane in silenzio per anni e aspetta il momento giusto per agire a tutti quei figli che, seppure riconosciuti legalmente, hanno patito il dolore delle assenze e delle angherie di un genitore (padre o madre non fa differenza) che, consapevolmente, non ha adempiuto ai propri doveri. Potrebbe non essere un desiderio malsano quello di vedere, prima o poi, qualche giudice invertire la tendenza e condannare solo chi, colpevolmente, non ha voluto fare il genitore. 

Al cinema "Figli", divertente istantanea della genitorialità moderna. Ansie e nevrosi di due genitori bis, raccontate attraverso una serie di siparietti apparentemente svagati ma dalla freschezza rigenerante e illuminante. Serena Nannelli, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. "Figli" è il film che Mattia Torre (già regista di "Boris" e "Ogni maledetto Natale") ha scritto ma non ha potuto girare a causa della malattia che se lo è portato via lo scorso Luglio. Tratto dal monologo dello stesso autore “I figli ti invecchiano” che diventò virale interpretato da Valerio Mastandrea in un programma televisivo, "Figli" racconta, con ilare irriverenza e mantenendosi in bilico tra reale e immaginario, le difficoltà cui va incontro chi decida di procreare in un Paese come il nostro. Sara e Nicola (Paola Cortellesi e Valerio Mastrandea) sono sposati, innamorati e hanno una figlia di 6 anni. L'arrivo del secondogenito, però, li coglie impreparati: il carico di lavoro aggiuntivo sconvolge l’organizzazione del nucleo familiare. Il nuovo pargolo (i cui pianti nel film, per convenzione, sono sostituiti dalla Sonata per pianoforte n. 8 di Beethoven, nota con il titolo di Patetica), rompe gli equilibri e scatena la gelosia della sorellina. Chiedere aiuto ai nonni si rivela fallimentare, parlare con una pediatra "guru", invece, un salasso economico in cambio di soluzioni utopistiche. Alla lunga la stanchezza, poco ridimensionata da un'improbabile tata ciociara, minerà la tenuta di coppia. Il progetto del film era stato affidato da Torre a un suo collaboratore di lungo corso, Giuseppe Bonito, in grado di tradurne in immagini la verve e sensibilità. Diviso in capitoli, "Figli"è un susseguirsi di scene comuni in cui lo spettatore (che sia genitore o no) avrà modo di ritrovarsi, una sorta di manuale di sopravvivenza alle difficoltà quotidiane insite nelle responsabilità familiari. Tra cartelle esattoriali, litigi, passi falsi e senso di adeguatezza, ai due quarantenni al centro della scena viene spesso in mente, come unica soluzione percorribile, quella di buttarsi dalla finestra, ma poi ripiegano sfogando il proprio istinto di fuga nel correre via, appena possibile, da una casa che somiglia all'inferno. Intanto altre tipologie di genitori legate alla contemporaneità sfilano in un non-luogo dallo sfondo bianco, tracciando un piccolo bestiario reso efficace da bravi attori comprimari. Il film critica la mancanza di politiche sociali di un'Italia in ostaggio della precarietà e dipinge sia il rancore generazionale nei confronti di genitori anziani che, egoisti e menefreghisti, rifiutano di fare i nonni (un piccolo cult il monologo della madre della protagonista), sia il conflitto di genere laddove si dia per scontato che la donna si occupi della prole e, nei rarissimi casi in cui sia l'uomo a farlo, quest'ultimo si senta un autentico supereroe. Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea recitano insieme con un affiatamento e una chimica evidenti: alla credibilità dell'interpretazione ha forse giovato che i due siano stati una coppia nella vita reale, anche se oltre dieci anni fa. "Figli" non è un'opera particolarmente originale, ha diversi rallentamenti di ritmo, situazioni comiche ripetute in maniera ridondante e una seconda parte, dedicata alla lotta per far sopravvivere quel che resta dell'amore, meno riuscita. Eppure è indubbio che, pur presentando una struttura diversa dalle usuali commedie nostrane, questo film tenga insieme il proprio collage di gag attraverso una narrazione cui non difettano alcuni momenti di grazia. La visione regala sorrisi "terapeutici": in sala ci sarà chi troverà divertente riassaporare in chiave tragicomica certi momenti del proprio vissuto e chi se la spasserà per il motivo opposto, incasellando ciò che scorre sul grande schermo nella categoria "scampato pericolo". 

Annalena Benini per il Foglio il 25 gennaio 2020. Stamattina ho fatto la lavastoviglie, l' ho mandata, m'hanno visto tutti", urla il marito alla moglie che gli urla, dentro l' esplosione di un secondo figlio appena nato: non fai mai niente. Ho fatto la lavastoviglie è una frase meravigliosa, perché è la frase di tutti, è minuscola e dentro questa piccolezza Mattia Torre costruisce l' immensità della debolezza degli esseri umani alle prese con le piccole e insormontabili cose di ogni giorno. Ho fatto la lavastoviglie è anche la frase che solo un uomo può pronunciare, o al massimo un figlio di sedici anni. Ho fatto la lavastoviglie, m' hanno visto tutti (tutti chi?), dice Valerio Mastandrea a Paola Cortellesi in "Figli", appena uscito al cinema, con la regia di Giuseppe Bonito, al quale, morendo, Mattia Torre ha affidato il film che aveva scritto e che non ha fatto in tempo a girare. Un film che nasce da un monologo letto da Valerio Mastandrea, "I figli ti invecchiano", e il monologo nasce da un racconto di Mattia Torre pubblicato qui sul Foglio. Da un' idea sua. Ti va di scrivere qualcosa sui figli? Sì. E poi basta, io ho aspettato e lui dopo pochi giorni ha scritto: "I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine, con violenza inaudita, a quella stagione di aperitivi feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri e di ciò che avresti ancora potuto esprimere, ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno". Dopo aver mandato il pezzo, Mattia voleva sapere se non mi sembrasse un po' triste. Avevo riso con le lacrime, leggendo, e ho risposto no, è solo magnifico. E' magnifico, infatti, ed è anche triste. Ovunque la scrittura riesca a entrare nel senso dell' esistenza, di quel che finisce e non può ritornare, non c' è mai soltanto brillantezza e allegria. C' è la disperazione, e il tentativo di consolarla, ma con uno sguardo feroce su chi siamo, sui nostri difetti, sulle nostre ossessioni. "Che a noi il cibo non ce lo devono toccare, che al telegiornale quando fa molto caldo l' esperto dice: cercate di evitare cibi pesanti, mangiate molta frutta e verdura e noi pensiamo: ma va a mori' ammazzato" (da "Gola"). Mattia Torre non è stato soltanto il più brillante: geniale creatore di insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, il drammaturgo più innovativo ("4 5 6" e "Qui e ora" sono spettacoli indimenticabili, in cui il delirio ci avvicina alla conoscenza, ci sconvolge coinvolgendoci), lo scrittore che riesce a tenere insieme crudeltà e compassione, comicità e tormento, e anche questo nostro continuo rimuginare. "Figli" è purtroppo il suo ultimo film, in cui anche le didascalie della sceneggiatura, ha raccontato Paola Cortellesi, sono curate nella scrittura, nel linguaggio, e spiegano esattamente qual è il sentimento, la temperatura di una scena (ci sono molti modi di buttarsi dalla finestra, ad esempio, ci sono molti significati nell' idea surreale e realistica di buttarsi dalla finestra, e Paola Cortellesi in questo film si butta spesso dalla finestra, ogni volta con uno spirito diverso: con esasperazione, con tormento, con Boris rabbia, perfino con speranza), e dentro lo sguardo di Mattia Torre sul mondo dei genitori e dei figli, e dei genitori dei genitori (i vecchi che dicono ai giovani: possiamo distruggervi tutti, siamo di più, abbiamo più tempo libero, abbiamo l' Inps), c' è questa idea di continua vertigine. E' la vertigine di vivere. La vertigine di cadere, da un momento all' altro. Perfino il desiderio di cadere. Qualcuno direbbe che è l' orlo del baratro: Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea si trovano, nel film, per due ore sull' orlo del baratro, nella comicità e nella disperazione, e molti di noi si sentono sempre, anche con un po' di epico compiacimento, sull' orlo del baratro. Milan Kundera parla invece di "ebbrezza della debolezza". Ci si rende conto della propria debolezza, e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, dentro le piccole cose di ogni giorno e dentro il secondo figlio che ha rivoluzionato tutto e ci toglie il sonno e il desiderio e la razionalità e quel che restava della giovinezza. L' ubriacatura, allora, è anche il catastrofico consegnarci alle mostruose feste di compleanno dei bambini nel girone infernale del festificio, quello con i camorristi all' ingresso, dentro qualcosa che può essere un sogno, un dormiveglia o una qualunque realtà del sabato pomeriggio, e consegnarci sentendoci eroi, martiri, caduti in nome della vertigine di fare figli. Con il piacere un po' sadico, quindi, di stare all' inferno, sottoposti a pene infernali: c' è un amico del protagonista, l' attore Stefano Fresi, che va in giro con due bambini che lo percuotono continuamente con clave di plastica. Lui parla, spiega la fatica di vivere, e intanto i figli lo percuotono, lui dà consigli sulla paternità e intanto i figli lo percuotono, cammina e i figli lo percuotono, impazzisce e i figli lo percuotono. Nessuno se ne accorge quasi più, che i figli lo percuotono. E' la sua condizione di padre e di essere umano. E noi ridiamo, e intanto pensiamo alle nostre continue percosse, alle nostre pene, alla nostra ebbrezza di precipitati, al nostro eroismo da feste di compleanno e cene di Carnevale, in maschera. Quando Valerio Mastandrea, con il respiro sempre affannato, dice al suo collega di lavoro che sua moglie è incinta per la seconda volta, lui ha la soluzione: "Molla la famiglia subito. Di' che sei pazzo. Ti fai questi due mesi in psichiatria al San Camillo e poi sei libero". E' una vertigine, è comico, surreale, disperato, delirante e possibile insieme. Mi faccio questi due mesi in psichiatria e poi sono libero. Dico che sono pazzo e sono libero. Scappo e sono libero. Mattia Torre riesce a raccontare le ebbrezze inconfessabili, e anche quelle confessabili: "Io sono una merda". "Sì". Ci diverte, ci respinge, ci consola di quello che siamo: vogliamo mangiare, vogliamo bere, vogliamo essere liberi di fare come ci pare, vogliamo lavorare, sentirci forti, vogliamo uscire a ubriacarci, vogliamo flirtare, tradirci. Ma appena otteniamo una qualunque di queste cose, o stiamo per ottenerla, ecco la pena a cui siamo condannati in eterno, come nell' Inferno di Dante, la pena ricorrente: vogliamo solo tornare a casa. Vogliamo solo non smettere di sentirci amati, eroici e al sicuro. Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, che sono scappati di casa correndo, per l' esaltazione della sera libera, passano il tempo al ristorante a dormire sul tavolo e a guardare le foto dei figli sul cellulare, e a controllare che ore sono, per capire quando è accettabile tornare a casa. E a casa il pianto del figlio neonato, quello che la sorellina vorrebbe riportare in ospedale, non è il pianto qualunque di un neonato, ma è, ogni volta, cento volte a notte, mille volte al giorno, la Patetica di Beethoven. La Patetica di Beethoven è il senso della nostra grandezza, e del nostro essere sopraffatti dalla debolezza. "Ma più di tutto, conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l' ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l' odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell' astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l' illusione dell' eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l' ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D' altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande", ha scritto Mattia Torre. Il cuore ci salva dalla partita Iva, da Equitalia, dall' odio per il vicino di casa in pensione, dalle mestruazioni, dalla fissazione per la seconda casa al mare o in montagna, dai "mandarini di giù" e "la polenta di su" che bisogna mangiare per forza anche se non abbiamo più fame, anche se abbiamo la nausea, anche se ci sentiamo male, sennò ci inseguono giù per le scale tirandoci le arance e urlandocene la provenienza: "Sono le arance di giù pezzo di merda", il cuore ci salva forse dai vecchi che neanche muoiono più, dagli infermieri che in ospedale se ti cade il telefono "Muratoincasaeresociecodauna congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri. Ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno" Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea si trovano per due ore sull' orlo del baratro, nella comicità e nella disperazione Vogliamo mangiare, uscire a ubriacarci, essere liberi. Ma appena otteniamo una di queste cose, vogliamo solo tornare a casa Come ne "La Linea Verticale", anche adesso, in "Figli", si ride e si piange. D' altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande di notte non te lo raccolgono, dall' attesa per la Tac senza bere perché qualcuno ci ha detto di non bere e invece potevamo benissimo bere, dal fatto che è sempre colpa di un altro, di quello che veniva prima, del dentista di prima, dell' idraulico di prima, del meccanico di prima, del governo di prima, e il cuore, che con questo slancio di speranza non è mai stato così grande, ci salverà anche dal cervello di un padre, convinto di essere illuminato e moderno, che dice: ma ho fatto la lavastoviglie, l' ho mandata, mi hanno visto tutti. Mentre l' amico preso a mazzate dai figli dice che la moglie deve fare una risonanza, sicuramente ha un problema neurologico grave, qualcosa di brutto, "perché non mi vede proprio". C' è la possibilità del riscatto, ancora e ancora, c' è la possibilità continua di perdonarci le nostre debolezze, le nostre vertigini, l' egoismo, l' invidia perfino per il televisore del vicino di letto, in ospedale. "Un ospedale ha le sue regole. In un ospedale, ci sono regole scritte e regole non scritte. Tra quelle non scritte, alcune sono più singolari di altre. In una stanza d' ospedale, il televisore del vicino di letto è sempre più bello". I vicini di letto stanno guardando entrambi un documentario sui macachi, sullo stesso canale, ma ognuno lo guarda sul televisore dell' altro, con un sorriso di conquista. Mattia Torre ha raccontato anche la malattia, la vita di un malato di cancro dentro un ospedale pubblico, e quello che doveva essere un monologo teatrale è diventato una serie tivù, "La linea verticale". Era la sua malattia, la sua storia, la grande vittoria del viaggio fino al bar dell' ospedale, a ordinare cinque caffè per gli infermieri e tornare indietro, faticosamente ma con le proprie forze, con il vassoietto in mano. Ci ha fatto ridere e piangere, e provare il desiderio di abbracciare l' intera umanità, nevrotica, fissata, litigiosa, avida, generosa e affamata di carbonara e assetata di Chablis. Anche adesso, in "Figli", si ride e si piange. D' altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande.

Sette mila euro la spesa per il primo figlio tra gravidanza e primi 12 mesi di vita. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Emily Capozucca. Da un’indagine realizzata da mUp perFacile.it sono 210 mila le famiglie che negli ultimi 3 anni ha chiesto un prestito in banca per poter far fronte ai costi dell’arrivo del primo figlio (soprattutto nelle regioni del Sud), a partire dalla gravidanza, 125.000 già durante i 9 mesi di gravidanza mentre il 43,5% dei neo genitori si è affidato all’aiuto economico dei nonni. Le richieste di finanziamento aumentano se si considerano anche quelle non ordinarie come l’acquisto di un’auto più spaziosa (22,3%), la ristrutturazione della casa (12,4%), l’acquisto (9,3%) o l’affitto (7,4%) di una più grande. Considerando un campione di famiglie italiane con figli da zero a 3 anni, ciò che emerge dalla ricerca è che per le sole spese ordinarie durante i 9 mesi di gravidanza, tra farmaci, visite, abbigliamento e tutto il necessario per l’arrivo di un bebè , si spendono, in media, per il promo figlio 3.411 euro. Il secondo “gode di rendita” e costa 2.754 euro, il 24% in meno.I costi aumentano dopo la nascita del bebè, e tra pannolini, pappe, vestitini e altro, il conto arriva in media a 3.577 euro per il primo figlio e meno di 2.811 euro per il secondo. Anche qui il 40% del campione preso in considerazione ha dichiarato di aver chiesto aiuto a nonni e parenti stretti metre sono circa 155 mila le famiglie che hanno chieste un prestito, soprattutto nel Centro Italia e al Sud. A pesare nelle tasche dei genitori sono gli asili nido, che non ha posti sufficienti per coprire tutte le necessità. I dati Istat hanno evidenziato che dal 2016 al 2017 i posti disponibili degli asili potevano soddisfare solo il 25% del potenziale bacino d’utenza. dalla rielaborazione dei dati che Facile.it ha raccolto, si deduce che solo 1 famiglia su 3 ha avuto accesso alla struttura pubblica. Con quali conseguenze? Costi aggiuntivi per le famiglie. Il 40% ha dovuto ricorrere a una soluzione a pagamento: il 31,7% ha dovuto pagare una retta a nidi privati per una spesa media di 531 euro al mese e il 12,5% a una babysitter per la quale si spendono circa 464 euro mensili.

Da leggo.it il 23 gennaio 2020. Una coppia di sposi va in luna di miele e porta con sé la mamma della sposa. Fin qui, nulla di strano, se non fosse che lo sposo, proprio durante il viaggio di nozze, ha tradito la moglie con la suocera e, alcuni mesi dopo, i due hanno avuto anche un figlio. Una vicenda surreale, quella che è emersa negli ultimi giorni ma che risale ormai a 16 anni fa. Il Daily Mail riporta infatti il racconto di Lauren Walls, oggi 34enne, che nel 2004 aveva coronato il suo sogno d'amore col matrimonio con Paul White, di un anno più grande. Dopo le nozze, la coppia aveva fatto un viaggio di nozze girando la contea di Devon, ma lo aveva fatto invitando anche Julie, la mamma della sposa, che aveva contribuito economicamente alla cerimonia e alla luna di miele. Fin qui, niente di strano, se non fosse che, proprio durante la luna di miele, Paul aveva iniziato a mostrarsi a disagio e piuttosto riservato. Lauren aveva notato quell'improvviso cambiamento, ma non poteva certo immaginare cosa stesse accadendo. La sorella di Lauren, dopo aver sbirciato sul cellulare della madre, aveva scoperto alcune conversazioni tra la donna e il suo genero. Meno di due mesi dopo, alla fine, Paul decise di lasciare la moglie e uscire allo scoperto: l'uomo aveva una relazione con sua suocera. Nove mesi dopo l'addio alla moglie, Paul e Julie avevano avuto anche un figlio. «Non potevo crederci, mi era caduto il mondo addosso: due delle persone che amavo di più, e di cui mi fidavo ciecamente, mi avevano tradito così. Questa è una delle cose peggiori che una madre possa fare alla figlia. Paul andava sempre molto d'accordo con mia madre e non avevo mai sospettato nulla: in fin dei conti, lei era sua suocera e lui semplicemente era sempre stato gentile con lei» - racconta oggi Lauren - «C'è voluto molto tempo per superare tutto, ma alla fine, cinque anni dopo, sono andata anche al loro matrimonio. L'ho fatto solo per il bene della famiglia, ma ho avuto la forza di andare avanti e ho un nuovo compagno, da cui ho avuto quattro figli. Ma la fiducia, di fronte a ciò che ho vissuto, non la riacquisterò mai del tutto ed è questo il lato peggiore di tutta la storia».

Cesare Peccarisi per “Salute - Corriere della Sera” il 17 gennaio 2020. Secondo l' Istat nel 2018 abbiamo toccato il minimo storico delle nascite dall' unità d' Italia. Fra i motivi della denatalità non ci sono soltanto quelli economici, come le spese da affrontare per asili, istruzione, ma anche i cambiamenti sociali o ritmi di vita sempre più frenetici che inducono ansia e depressione. Tuttavia la scelta di non avere figli può avere anche un' altra ragione psicologica , poco considerata, chiamata tocofobia, una sindrome che indica un timore eccessivo e infondato del parto (la parola viene dal greco tocos, parto, e phobos, paura, ndr ). Descritta nel 2000 sul British Journal of Psychiatry dalle psichiatre inglesi Kristina Hofberg e Ian Brockington dell' Università di Birmingham, ne hanno parlato di recente sull' Indian Journal of Psycholgical Medicine anche i ricercatori del Dipartimento di psichiatria di Karnataka e Bengaluru e poco prima di loro i colleghi delle Università di Lubiana e Gerusalemme sul Journal of Perinatal Medicine . Ormai di questa sindrome, detta anche maieusio-fobia (dal greco maieusis , cioè parto di donna in travaglio) si occupano studiosi di tutto il mondo. In alcuni casi questa sindrome potrebbe spiegare anche la crescente tendenza a rimandare la maternità: sempre più donne fanno figli a 40 anni ricorrendo alla fecondazione assistita. La tendenza a ritardare la gravidanza è stata ribadita di recente dal Ministero della Salute nel 17° CeDAP (il rapporto annuale sull' evento nascita in Italia) secondo il quale l' età media delle madri italiane si è spostata a 32,8 anni. Ma non solo denatalità e ritardo delle gestazioni: la tocofobia potrebbe essere implicata anche in un altro fenomeno rilevato dall' indagine CeDAP e cioè l' aumento dei parti cesarei, una tendenza che non riguarda solo l' Italia, ma tutto il mondo. Uno studio dell' Università canadese di Manitoba, che è stato pubblicato su The Lancet , indica che i cesarei sono saliti dai 16 milioni del 2000 a quasi 30 nel 2015: in America Latina e nei Caraibi risultano decuplicati (oggi il 44,3 per cento dei parti delle Antille), mentre negli Stati Uniti sono aumentati di quasi un quarto (23 per cento). Per stabilire un nesso certo fra cesarei e tocofobia mancano ancora dati sulla reale frequenza della sindrome: colpirebbe in forma seria il 20 per cento delle primipare, nel 6 per cento dei casi in forma gravissima, spingendole talora addirittura all' aborto. Regolamentare questi comportamenti è difficile e può essere d' esempio il caso dell' Inghilterra dove, nonostante che le Linee Guida 2004 del Nice (The National Institute for Health and Care Excellence) avessero indicato ai medici di declinare le richieste di cesarei privi di indicazioni cliniche, fra il 1989 e il 2010 questi sono comunque passati dal 10 per cento al 25 per cento. Le direttive Nice sono state poi riviste nel 2011 concedendo il cesareo alle madri che lo richiedevano, previa una o più sedute di counseling psichiatrico. Adesso lo studio di The Lancet rivela però che già quattro anni dopo i cesarei d' oltremanica erano saliti al 26,7 per cento. Che la revisione abbia lasciato libero sfogo alle paure tocofobiche che in qualche misura aleggiano nel fondo dell' animo di ogni futura mamma? Secondo il CeDAP da noi i cesarei si praticano sia in strutture private (50,9 per cento) sia pubbliche (31,7 per cento). A richiederli sono in oltre la metà dei casi (54,2 per cento) donne primipare. Le pluripare lo fanno soprattutto se il bambino ha una presentazione cefalica, condizione che, col parto naturale, può esporre a qualche rischio. Non vanno però dimenticati i rischi anestesiologici, emorragici e laparoscopici del cesareo, né il fatto che, come osservato dai ricercatori della National Yang-Ming University di Taiwan, fa aumentare del 48 per cento il rischio di depressione, anche se programmato e non praticato d' urgenza. Né va infine scordato il fenomeno dei cesarei inutili, non solo in Italia. È stato pubblicato su BMC Pregnancy & Childbirth uno studio secondo cui in Armenia (dove i cesarei sono saliti dal 7,2 per cento del 2000 al 31 per cento del 2017) il rimborso ai medici per i cesarei era 11 volte maggiore rispetto al parto vaginale: un buon motivo economico per praticare cesarei anche senza necessità cliniche. E qui la tocofobia c' entra proprio poco.

Giuliano Guzzo per "La Verità" l'8 gennaio 2020. Si può arrivare a ritirare un premio prestigioso osannando il diritto di aborto? In teoria, è un controsenso dato che la perdita, ancorché volontaria, di un figlio rappresenta comunque un dramma, come per decenni perfino il fronte femminista ha riconosciuto; in pratica, però, è quanto accaduto nelle scorse ore ai Golden Globes, la serata dei riconoscimenti statunitensi assegnati annualmente ai migliori film e programmi televisivi della stagione. Nonostante l'ammonimento introduttivo del presentatore Ricky Gervais («Se stasera vincerete un premio, non fate discorsi politici. Non siete in grado di insegnare al pubblico nulla»), quasi nessuno degli attori premiati si è difatti risparmiato un piccolo comizio, da Joaquin Phoenix, premiato per Joker, il quale ha chiesto più impegno per combattere «questo clima impazzito», a Kate McKinnon, star di Saturday Night Live, che ha elogiato il coming out dell' attrice lesbica Ellen DeGeneres. L' apice dell'inopportuno è però per l'appunto stato quello di Michelle Williams la quale, salita sul palco - peraltro in dolce attesa - per il premio di migliore attrice in una miniserie o film televisivo, non ha trovato di meglio che mettersi a esaltare, quasi fosse un vanto, il proprio precedente aborto. «Sono grata per il riconoscimento avuto grazie alle scelte che ho fatto», ha dichiarato l' attrice diventata famosa negli anni Novanta per aver interpretato Jen Lindley in Dawson' s Creek, «e sono anche grata di vivere in un momento per la nostra società, in cui esiste la possibilità di scelta». A seguire, una sorta di apologia del diritto in vivere in modo disordinato ma autentico, come se la seconda cosa implicasse necessariamente la prima. «Se mi guardo indietro», ha infatti sottolineato la Williams, «posso vedere il segno della mia calligrafia dappertutto nella mia vita, disordinata e scarabocchiata, e in altri momenti attenta e precisa. Ma è tutto scritto di mio pugno. Non sarei stata in grado di farlo senza la consapevolezza del mio diritto di donna, di scegliere quando e con chi avere un figlio». Come c' era da aspettarsi, le dichiarazioni della bionda attrice non sono passate inosservate, scatenando incredule e roventi reazioni in Rete. Ma non solo. Nonostante la scontata ovazione di molti colleghi e gran parte del pubblico dei Golden Globes, c' è stato anche chi proprio non ce l' ha fatta a trattenere il proprio disappunto. Come l' autore ed umorista Tim Young, che non ha gradito l' accostamento tra successo e soppressione prenatale, quasi vi fosse un nesso obbligato. «Mi lascia perplesso», ha spiegato Young, «il fatto che Michelle Williams abbia affermato che non avrebbe avuto una grande carriera se non avesse abortito». Difficile dargli torto. L' aspetto più inquietante è che quello della Williams non è un caso isolato. Vantarsi pubblicamente di aver eliminato il figlio che si portava in grembo pare infatti stia diventando, tra le star, una sorta di moda. Basti pensare all' attrice britannica Jameela Jamil, la quale su Twitter nel dicembre scorso, poche settimane fa, ha scritto che abortire le ha donato una «vita meravigliosa». Con toni ancora più espliciti, prima di lei, era stata invece l' attrice Alyssa Milano a descrivere i suoi due aborti come una «grande gioia». La sensazione è insomma che il mondo del cinema stia spingendo a più non posso in questa direzione. Che non sia solo una impressione lo prova il lavoro della sociologa Gretchen Sisson, curatrice Abortion Onscreen, un database dove vengono tracciati gli spettacoli in streaming, le pellicole e le serie tv statunitensi in cui si parla di aborto procurato. Ebbene, per il 2019 la Sisson - la quale, per la cronaca, non è pro life - ha catalogato 31 situazioni in cui si è parlato dell' aborto procurato, rilevando come in ben 26 di esse la perdita di un figlio sia stata presentata totalmente priva di conseguenze. Una passeggiata, insomma, se non perfino qualcosa di cui menar vanto. Michelle Williams docet.

Ecco quali sono i Paesi migliori per crescere un figlio (e l’Italia non è messa male). Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonello De Gregorio. Meik Wiking, che guida l’Happiness Research Institute di Copenaghen - centro di ricerca che si occupa di analizzare la qualità della vita e il grado di benessere delle popolazioni - lo riassume così: «I danesi pagano felicemente tasse tra le più alte del mondo perché lo considerano un investimento in qualità della vita». Il welfare, nel piccolo regno democratico funziona alla grande e quello danese è uno dei popoli più felici del Pianeta: per l’Ocse, i danesi non conoscono rivali quanto a «soddisfazione personale» ed «equilibrio tra vita e lavoro»; e ottengono buoni risultati pure in voci importanti come «comunità». Oggi una nuova conferma: la Danimarca è anche il miglior Paese al mondo dove crescere un bambino. L’Italia, si colloca solo al sedicesimo posto. Lo rivela il report annuale Best Country realizzato dall’US News & World Report e dalla Wharton School of l’Università della Pennsylvania , che ha valutato 73 nazioni in 65 diverse categorie. I risultati si basano sulle interviste di oltre 20mila persone nelle Americhe, in Asia, Europa, Medio Oriente e Africa. Lo studio classifica le nazioni in base ai punteggi ottenuti in otto diverse aree: attenzione ai diritti umani, sostegno alla famiglia, uguaglianza di genere, livello di felicità, uguaglianza di reddito, sicurezza, istruzione pubblica e sistema sanitario. Secondi e terzi, in classifica, Svezia e Norvegia, seguiti poi da Canada, Paesi Bassi, Finlandia, Svizzera, Nuova Zelanda, Australia e Austria. L’Italia figura solo al sedicesimo posto. Tra i criteri che «pesano» di più, il congedo parentale, che è visto come centrale nella crescita del bambino e varia molto da Paese a Paese. In Italia oggi sono previsti cinque mesi obbligatori per la madre e da qualche anno é stato introdotto il congedo obbligatorio per il padre (sette giorni, dal 2020), più un giorno facoltativo. Ma il governo sta pensando si portare il congedo a sei mesi, con l’80% del tempo riservato alla madre e il restante 20% al padre. Anche grazie a questa voce, il risultato è, appunto, che il luogo migliore in cui diventare genitori è la Danimarca. Paese che ha un sistema di congedo parentale che prevede, per entrambi i genitori, 52 settimane di permesso retribuito e le madri hanno diritto a altre quattro settimane di maternità prima del parto. Per tutti i lavoratori, poi, ci sono cinque settimane di ferie, che consentono alle famiglie di trascorrere del tempo insieme. Il sistema scolastico e universitario è eccellente e gratuito; e, in aggiunta, ogni studente danese riceve un sussidio dallo Stato: un po’ più di 800 euro al mese: «Questo significa che non dovrò preoccuparmi di come finanziare l’educazione di mio figlio. Saranno i loro talenti e sogni a modellare il percorso della loro carriera, non le dimensioni del mio portafoglio - scrive Wiking in un commento allo studio. «Il modello danese offre l’opportunità di perseguire la propria felicità da posizioni di partenza avanzate senza tener conto del contesto economico, sociale, di genere o culturale», racconta Wiking. E opportunità che altrove non esistono: assistenza sanitaria di qualità gratuita per tutti; un mercato del lavoro basato sulla flessibilità per i datori di lavoro, sulla sicurezza dei lavoratori e su una politica attiva del mercato del lavoro. È il «triangolo d’oro della “flessicurezza” - chiosa Wiking - che va a vantaggio di tutte le parti coinvolte». I danesi, insomma, hanno meno di cui preoccuparsi nella vita quotidiana, rispetto alla maggior parte delle persone. E questo costituisce una solida base per alti livelli di felicità. A dominare la classifica, dietro alla Danimarca, ci sono comunque gli altri Paesi scandinavi: Svezia e Norvegia occupano il secondo e il terzo posto tra i luoghi dove mettere su famiglia, grazie anche a solidi programmi di assistenza sociale, ridotte disuguaglianze, bassi tassi di criminalità. Per quanto riguarda i congedi parentali, in Svezia la situazione è piuttosto buona con 480 giorni di congedo retribuito, 90 dei quali riservati a ciascun genitore e non trasferibili all’altro. In Norvegia, invece, le settimane di congedo sono a scelta o 46 o 56 se pagate all’80% dello stipendio. Nazioni che hanno registrato un’enorme crescita economica negli ultimi anni, come Stati Uniti o Corea del Sud (al diciottesimo e al ventiseiesimo posto), non riescono a convertire la ricchezza in benessere per la popolazione. Nella classifica, quarto e al quinto posto, seguiti da Svizzera, Nuova Zelanda, Australia e Austria. Tra i peggiori paesi al mondo dove crescere un bambino, il Kazakistan, seguito dal Libano, il Guatemala, il Myanmar e Oman.

Le donne che "fanno un passo indietro" sul lavoro finiscono ai limiti della povertà. La scelta del part-time è spesso obbligata. Ma le conseguenze economiche per la pensione sono pesantissime. Ecco l’Italia 2020, fra salari bassi e gender pay gap. Cristina Da Rold il 17 gennaio 2020 su L'Espresso. Un’operaia del tessile che andrà in pensione nel 2021, con 57 anni di età e 42 anni di contributi, avendo scelto per ragioni familiari un sistema part time per circa 10 anni della sua vita, andrà in pensione con poco più di 800 euro al mese, a fronte di una paga mensile attuale di 1300 euro. Scelta? Sì. Consapevole delle conseguenze a lungo termine di un’abitudine? Spesso no. Basta poco: uno, due figli, un marito o compagno con un salario medio, intorno ai 1600 euro mensili, un mutuo o un affitto, l’impossibilità di avere aiuto dai nonni, o perché lavorano anch’essi, perché non ci sono più, o perché non ci sono mai stati. Servizi di doposcuola inesistenti o molto costosi, con orari che creerebbero più problemi che soluzioni, in caso di turni sul lavoro. E l’abitudine di accettare questa scelta come un passaggio quasi obbligato.

Gender pay gap e salari bassi. C’è la povertà, e c’è la povertà delle donne, che assume caratteristiche aggiuntive: il part time e la retribuzione oraria inferiore rispetto all’uomo. Due fattori che si intersecano con un terzo grosso problema, che travalica il genere: quello dei salari bassi. In Italia il 28,9% dei lavoratori dipendenti guadagna meno di 9 euro lordi l'ora, si apprende dall’ultimo rapporto annuale di INPS del luglio scorso. Non basta parlare genericamente di “donne che lavorano” se l’unica crescita che riguarda il lavoro femminile è il part-time. Fra gli uomini dal 2016 al 2017 il reddito lordo annuale è aumentato, fra le donne è diminuito. Lo mostrano i dati Istat sui Differenziali retributivi nel settore privato, diffusi a dicembre 2018  Nel 2016 l’11,5% delle donne e l’8,9% degli uomini ha percepito una retribuzione oraria inferiore agli 8 euro. Il 59% delle lavoratrici percepisce una retribuzione oraria inferiore alla mediana nazionale, quota che scende al 44% per gli uomini. Ma soprattutto, Istat rileva retribuzioni orarie più basse per i nuovi rapporti di lavoro stipulati da donne. E poi c’è il differenziale di salario orario. Il tempo delle donne vale meno. Eurostat evidenzia un gender pay gap in Italia pari al 4,1% nel pubblico e addirittura al 20% nel privato. I dati INPS confermano: il reddito medio degli uomini è quasi il doppio di quello delle donne, sia fra le dipendenti che fra le libere professioniste.

Chi lavora in famiglia, e come. Una nota Istat diffusa nel 2019 racconta che nel 2018 la metà delle donne con due o più figli fra i 25 e i 64 anni non lavora. Nel 51% delle famiglie meridionali con figli lavora solo l’uomo, e lo stesso avviene nel 40% delle famiglie senza figli. Al centro e al nord siamo intorno al 30%. Sono tre le tipologie più diffuse nelle famiglie con figli italiane: nel 32% delle coppie solo il padre è occupato a tempo pieno, nel 27,5% dei casi entrambi i genitori lavorano full time mentre nel 16% dei casi il padre lavora full-time e madre occupata part-time.

Il tempo delle donne. Il problema dei servizi per l’infanzia è enorme, ne parlavamo qui .  Ma il tema di fondo è un altro: il “bastava chiedere”, il “ti aiuta”. Al centro del lavoro femminile in Italia c’è – come è noto – il problema dell’accudimento, strutturalmente ancora pesantemente sulle spalle delle donne. Accudimento dei figli, dei familiari anziani, di parenti disabili. Dinamiche ben raccontate in un libro a fumetti le cui vignette ancor prima di uscire stanno già circolando in rete: Bastava chiedere! Dieci storie di femminismo quotidiano, della blogger francese Emma, che uscirà per Laterza il 20 febbraio prossimo con la prefazione di Michela Murgia. Torniamo ai dati Istat su Conciliazione tra lavoro e famiglia . Alla domanda “fai fatica a conciliare lavoro e famiglia?” la percentuale di uomini e di donne che hanno risposto di sì è la stessa, intorno al 35%, ma alla prova dei fatti sono soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli. Ma di nuovo, l’operaia spesso non può scegliere: il 25% di loro ha potuto modificare aspetti del proprio lavoro per ragioni familiari, contro il 43% delle donne che svolgono una professione qualificata o impiegatizia. E si arriva agli 800 euro al mese di pensione. Aver scelto il part time, anche solo per qualche anno della propria carriera lavorativa, unitamente a un gap salariale strutturale penalizzano incredibilmente le donne che potevano contare su un salario medio basso, nel momento della pensione. A luglio 2019 INPS ha diffuso il suo Rapporto Annuale, che ha contato le richieste di pensionamento con “Opzione donna”, che manderà in pensione molte donne con un importo medio inferiore ai 1000 euro mensili. Poche sono invece le donne che hanno richiesto di accedere a Quota 100. Intanto, hai solo sessant’anni, una vita di lavoro e fatica alle spalle, una possibile vita in salute dopo la pensione, ma hai guadagnato poco e versato meno contributi di quanti avresti dovuto (il part time, ricordiamo, è una concessione del datore di lavoro), e quindi non la stessa indipendenza economica che ha un tuo collega uomo, per poter compiere delle scelte in piena autonomia. Certo, il nocciolo non sono le scelte individuali, specie per donne non più giovanissime, che hanno già fatto scelte importanti in termini di studio e percorso professionale. C’è bisogno di un cambiamento strutturale nel sistema del lavoro, unitamente alla consapevolezza da parte delle donne, specie giovani, delle conseguenze di scelte apparentemente più agevoli.

Non fare figli non è una colpa, essere sottopagate sì. La situazione fotografata da un rapporto sul gender pay gap sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance è desolante. Nel 2016 una donna ha guadagnato quasi la metà rispetto a un uomo. Ma ancora ci si stupisce che non tutte vogliano diventare madri. Cristina Da Rold su L'Espresso il 18 gennaio 2018. In molti si sono indignati nei giorni scorsi all'uscita di alcuni dati Istat che hanno sottolineato un nuovo record per l'anno appena trascorso: quasi la metà delle donne fra i 18 e i 49 anni, cioè in età potenzialmente fertile, non ha dei figli. Non serve dirlo, il tono con il quale la notizia è stata diffusa sui media è stato ancora una volta di sgomento giudicante: troppe donne oggi preferiscono posticipare la maternità per poter consolidare la propria posizione lavorativa dopo anni di studio, di specializzazione. Un posticipare che “spesso si traduce in una rinuncia”, ha scritto qualche esperto. Senza considerare che i figli non li fanno solo le donne ma le coppie, nella maggior parte dei casi. Ancora una volta il messaggio fra le righe è che queste donne sono colpevoli di non aver fatto tutto ciò che avrebbero potuto fare, invece di cogliere l'occasione per parlare di lavoro e del fatto che oggi una donna con meno di 30 anni che inizia un percorso professionale da professionista guadagna il 10% in meno di un suo collega uomo. Gap che fra i 30 e i 40 anni – che per la donna non sono solo gli anni cruciali per la maternità ma anche per l'avviamento di una professione – diventa del 27%. Oggi in Italia una professionista di 35 anni guadagna un terzo in meno rispetto al suo collega di scrivania. Fra i 40 e i 50 anni il gap è ancora del 23%. Inoltre, anche tralasciando le differenze di genere e facendo un discorso più generale, dal momento che come si diceva i figli non li fanno le donne ma le coppie, oggi un giovane professionista (uomo o donna) fra i 30 e i 40 anni guadagna il 36% rispetto a un uomo fra i 50 e i 60 anni (la generazione dei cosiddetti Baby boomers, i nati negli anni Sessanta). Per gli under 30 la situazione è ancora più desolante, con stipendi pari a un quinto di quelli dei loro genitori. La situazione la fotografa l'ultimo rapporto di AdEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati) che ogni anno raccoglie i dati sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance, non solo di giovani medici, giovani avvocati, giovani giornalisti, ma di qualsiasi professione sia regolamentata oggi da un albo professionale e quindi abbia una cassa di previdenza di categoria. Va detto dunque che questi dati non comprendono i professionisti più sfortunati, quelli talmente atipici da non rientrare in alcuna professione riconosciuta, e che versano i loro contributi all'INPS Gestione Separata. Tornando al gender gap, il primo dato che salta all'occhio è appunto la differenza di reddito medio complessivo del 2016: 40 mila euro per gli uomini e 23,5 mila euro per le donne. Stiamo parlando di quasi la metà del guadagno rispetto a un uomo, e di un reddito pari a circa 2000 euro lordi al mese, che oggi in Italia significano tutt'altro che serena indipendenza. Non si può non pensare che una delle ragioni preponderanti di questo gap, in particolare fra le libere professioniste, possa essere la mancanza di strutture di sostegno alla maternità che fa sì che le donne semplicemente possano dedicare meno tempo alla loro libera professione. Una distinzione d'obbligo poi è quella fra professionisti dipendenti e liberi professionisti: i primi sono riusciti in qualche modo a tenere le redini negli anni della crisi, mentre i secondi sono andati impoverendosi. Fra le due categorie oggi c'è un abisso: un professionista assunto (un avvocato in uno studio, un giornalista in una redazione) guadagna in media il doppio rispetto ai colleghi liberi professionisti. Guardando le serie storiche degli ultimi anni notiamo che il reddito reale (cioè il potere d'acquisto considerato un dato paniere di beni e servizi) dei professionisti dipendenti nel 2016 è cresciuto dell'8% rispetto al 2005, mentre quello di un libero professionista è calato del 18%. Senza una svolta nelle politiche sul sostegno alla maternità che facilitino la prospettiva di vita di una donna fra i 30 e i 40 anni, non possiamo stupirci che molte donne scelgano di non diventare mamme. Ci rallegriamo per i dati che ci raconta ogni anno Almalaurea, che vedono sempre più donne laureate e specializzate, future professioniste, ma alle strette di mano troppe volte non seguono sostegni concreti. Così come – d'altro canto – dovremmo forse iniziare a considerare la possibilità che non tutte le donne desiderino diventare madri, al di là del gender pay gap. Che molte preferiscano vivere una vita diversa, e smettere di sottointendere che in qualche modo la scelta di essere fertile e non madre sia una rinuncia.

Part-time e asilo nido: spesso alle donne non conviene lavorare. Dati alla mano il rapporto reddito/retta dell'asilo è a dir poco sconfortante. Considerando che a parità di mansioni guadagnano il 12 per cento in meno rispetto ai colleghi maschi. Ma soluzione non è il full time perché in molte aree d’Italia, specie al sud, i posti sono insufficienti per coprire il fabbisogno. Cristina Da Rold su L'Espresso il 17 settembre 2018. Secondo quanto era emerso da un rapporto dell'Ispettorato nazionale del lavoro del 2017, delle 30 mila donne che si sono licenziate nel 2016 il 5 per cento (1500 donne) l’aveva fatto per i costi troppo elevati nella gestione dei figli, a cui si aggiunge un altro 20 per cento (6000 donne) che si è licenziato perché non aveva modo di portare il bambino all’asilo nido per mancanza di posti. Oggi solo il 55 per cento delle madri italiane lavora, il 7 per cento è in cerca di lavoro e mentre il 36 per cento è inattiva. Fra coloro che lavorano, il 40 per cento ha un contratto part-time e per quasi la metà dei casi non si è trattato di una scelta volontaria (Dati Istat). Nel primo trimestre 2018 (dati Istat) in Italia lavorano 6 donne su 10 fra i 35 e i 44 anni, ma le differenze geografiche sono fortissime: lavora il 74 per cento delle donne al nord, il 66 per cento nelle regioni del centro e solo il 40 per cento nel meridione. Toccare il tema complesso del lavoro femminile è scoperchiare un vaso di Pandora, ma forse si può cominciare chiedendosi se in Italia oggi a una giovane madre che lavora “nell’esecutivo” convenga davvero lavorare part-time rispetto a non lavorare proprio, quando di mezzo c’è una retta del nido. Anche alla luce del fatto che in media una donna guadagna il 12 per cento in meno di un collega uomo a parità di mansione, e senza dimenticare che quando finisce il nido inizia il salasso dei centri estivi. Passando al rapporto reddito/retta del nido, secondo una recente rilevazione di Cittadinanza Attiva  un nucleo familiare composto da 3 persone con un bambino con meno di 3 anni di età e con un ISEE di 19.900 mila euro (corrispondente in questa ricerca a un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro), spende per un nido comunale 301 euro mensili. Al nord le cifre sono molto più alte: in Trentino 472 euro al mese, in Lombardia 379 euro. Le città più care sono Lecco (515 euro mensili in media), Bolzano (506 euro) e Belluno (477 euro), mentre quelle meno care sono Catanzaro (100 euro), Agrigento (100 euro) e Vibo Valentia (129 euro). Un ISEE da 19 mila euro non è certo elevato. Per fare un paragone, si tratta di uno scaglione che dà diritto a una borsa di studio universitaria. Non a caso 44 mila euro lordi per nucleo sono paragonabili, considerate le tredicesime a due stipendi da 1200-1300 euro. Per una donna che guadagna 1300 euro netti al mese passare a un part time a 20 ore settimanali significa guadagnare 650 euro al mese, e sicuramente uno stipendio di partenza di 1300 euro non è fra i più bassi sul mercato. Per avere un riferimento concreto, il Contratto Collettivo Nazionale dei commessi ordinari fissa uno stipendio che va dai 1000 ai 1200 euro al mese per un full time, ma basta fare un giro sui siti web per notare moltissime offerte di lavoro per meno di 1000 euro al mese. La retribuzione netta di un’impiegata “ordinaria” cioè non con mansioni e senza anzianità come sono spesso le neo mamme, parte da meno di 1300 euro al mese per un tempo pieno, poco di più di quella di un’operaia. Insomma: si tratta di condizioni molto comuni. In ogni caso anche se basso si tratta di uno stipendio che concorre ad alzare l’ISEE familiare, e che obbliga comunque a pagare mezza giornata di asilo nido. O una baby sitter quando l’asilo nido non c’è o i nonni non possono dare una mano. La soluzione è sempre lavorare full time quindi? No, non per tutte, perché in molte aree d’Italia, specie al sud, di asili nido non ce ne sono e quando ci sono i posti sono insufficienti per coprire il fabbisogno. Il più recente rapporto di Istat  pubblicato a dicembre 2017 mostra che in Calabria frequenta l’asilo nido solo l’1,2 per cento dei bambini con meno di 2 anni, in Campania il 2,6 per cento. In media in Italia ci sono 20 posti per 100 bambini con meno di 2 anni (357.786 posti), il 10 per cento in asili pubblici e un altro 10 per cento in quelli privati, il che significa che c’è posto solo per 1 utente su 5, e al sud 1 su 10. Nel complesso in Italia nell’anno educativo 2014/15 sono state censite 13.262 unità che offrono servizi socio-educativi per la prima infanzia, il 36 per cento è pubblico e il 64 per cento privato. Ma c’è di più: le cose a quanto pare non sono affatto migliorate negli ultimi 10 anni. È andata infatti crescendo la quota che le famiglie hanno dovuto sborsare per il nido, mentre è diminuita la spesa dei comuni: attualmente le famiglie si sobbarcano il 20 per cento della spesa mensile. Nel frattempo per i servizi socio-educativi rivolti alla prima infanzia i comuni hanno impegnato nel 2014 un miliardo 482 milioni di euro, il 5 per cento in meno rispetto all’anno precedente e il meridione è immensamente indietro. Nell’anno scolastico 2014-15 al nord i comuni hanno speso oltre 300 milioni di euro per asili nido pubblici e privati, nelle regioni del centro quasi 400 milioni e al sud 71 milioni. Inoltre, i costi sono maggiori negli asili comunali a gestione diretta, dove cioè il personale è assunto dal comune, rispetto agli asili sempre comunali ma dati in gestione a terzi. Nel complesso i dati di Cittadinanza Attiva mostrano che dal 2005-2006 le rette sono aumentate in quasi tutte le regioni, soprattutto laddove latitano i servizi. I casi della Calabria e della Campania sono eclatanti: in Campania in dieci anni le tariffe sono aumentate del 32 per cento, ma i posti negli asili nido sono solo 5,7 su 100, il tasso più basso d’Italia. In Calabria c’è posto solo per 8 bambini su 100 ma la spesa media in 10 anni è cresciuta del 37,7 per cento. Per il sistema costituito dunque, il lavoro più conveniente per molte donne è ancora non lavorare. E non si può non pensare al monito di Vivian Gornick: “Essere una casalinga è una professione illegittima. La scelta di servire, essere protetta e di pianificare una vita familiare è una scelta che non dovrebbe esistere.”

Hai figli? Stai per averne? Non sei una lavoratrice gradita. Il rapporto shock. Questo uno dei leit-motiv delle oltre seicento donne che si sono rivolte nel corso del tempo all'ufficio dell'ex consigliera di Parità della Regione Puglia, per denunciare le discriminazioni subite sul posto di lavoro. Dalle molestie alle mosse illegali. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 15 settembre 2017. “Al tempo del mio insediamento, l’ufficio non era molto conosciuto sul territorio. E le risorse quasi azzerate per un maschilismo strisciante. Ho lavorato quasi da volontaria, consapevole che spesso le Consigliere sono l’ultimo baluardo di ascolto e difesa delle donne. E dire che la normativa europea (una direttiva del 2006 recepita con un decreto legislativo del 2010) ci ha reso ancor più protagoniste nella battaglia contro le discriminazioni di genere”. Per nove anni, fino al 2016, Serenella Molendini è stata la Consigliera di parità della Regione Puglia e ha deciso di cristallizzare la sua esperienza in un volume intitolato “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”. Radiografia di una regione, e di una nazione, sensibilmente in ritardo in tema di eguaglianza tra i sessi sul posto di lavoro. E tutto questo nel quarantennale della legge Anselmi sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. La parità di partenza e di accesso resta un concetto astratto, così come la qualità delle condizioni e delle opportunità lungo il percorso. Anche il gap salariale di gender non accenna a diminuire, specialmente nel settore privato. Le donne italiane si laureano più degli uomini, compresi master e specializzazioni post-universitarie, ma guadagnano di meno e il numero di quelle che arrivano a posizioni di vertice non tocca il 20 per cento del totale. È quasi impossibile superare il cosiddetto “soffitto di cristallo”. L’ascensore è bloccato, il 40 per cento è assorbito da mansioni di segretariato, dilagano i contratti precari tra le ragazze dai trenta ai quarant’anni. Il fardello che inibisce la libertà di carriera e la tranquillità in ufficio o in fabbrica delle donne è sempre lo stesso: la maternità. La maggior parte delle seicento donne che hanno bussato alla porta della Molendini lamenta che sia stata proprio questa la causa della discriminazione o del licenziamento subito. Le aziende tendono a mettere subito le cose in chiaro: se hai dei figli, e soprattutto se stai per averne qualcuno, non sei una lavoratrice gradita. E' sempre un gruppo di maschi magnanimi che decide se dare una qualsiasi carica a una donna. E non perché sia brava. Ma solo per necessità burocratica: tra venti capi uomini ce ne vuole almeno una per fare parità. Così il colloquio non andrà a buon fine, o inizieranno rappresaglie programmatiche se già assunte. Molte neo-mamme non ce la fanno a sopportare un clima di terrorismo psicologico, e gettano la spugna: licenziamenti mascherati da “scelte autonome”. Nel 2008 le donne pugliesi che si dimettevano dal lavoro dopo la maternità erano 666. Adesso sono 1587. L’aut-aut tra lavoro e maternità è ancora un’usanza invalsa nel mezzogiorno, ma a soffrire di questa “superstizione” antimoderna è un po’ tutta la penisola. E si cerca perfino di ignorare il divieto di licenziamento, previsto per legge, durante la gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Senza contare gli episodi di molestie sessuali, mobbing, trasferimenti forzati, maltrattamenti verbali, minacce e negazioni di orari flessibili, demansionamenti e riduzioni arbitrarie dello stipendio. “Attraverso il lavoro di questi anni si è avuta la piena consapevolezza che le denunce pervenute rappresentino solo la punta dell’iceberg di un sommerso impalpabile” scrive Serenella Molendini nel suo report. Istituite nel 1991, il ruolo delle Consigliere regionali di parità è decollato solo negli ultimi dieci-quindici anni: oggi sono delle pubbliche ufficiali a tutti gli effetti, e dopo una denuncia possono farsi mediatrici in sede di conciliazione, o adire le vie giudiziarie oltreché adoperarsi per un profondo mutamento culturale della propria comunità. “Si tollera che le donne si vedano precludere alcune tipologie di lavori e mansioni, o che al momento dell’assunzione si sentano richiedere se si è sposate o fidanzate, o se pensino di avere un figlio. Non desta nessuna meraviglia che una donna laureata, con master e specializzazioni, faccia carriera meno frequentemente e guadagni meno, o lavori in un call center – aggiunge l’ex Consigliera di parità -. Le lavoratrici conoscono bene le pressioni, più o meno sottili, di datori di lavoro e familiari per indurle a lasciare l’impiego, magari perché ritengono non ce la facciano a tenere il ritmo del doppio “carico”. Dunque atteggiamenti culturali, stereotipi duri a morire: non c’è da stupirsi che crolli il tasso di natalità, con un’Italia fanalino di coda in Europa”. La strada è ancora lunga, necessita di sentinelle in trincea, giorno dopo giorno, contro le discriminazioni di genere e il rapporto “Pari opportunità e diritto antidiscriminatorio”, costellato di casi concreti (e vertenze vinte), indica la via.

Ti licenzio perché sei in età fertile. Una donna già vittima di mobbing, rientrando al lavoro dopo un periodo di assenza, è stata invitata ossessivamente a rassegnare le dimissioni “vista anche la sua età, rischiosa per l’azienda, perché avrebbe potuto sposarsi e avere dei figli”.

Una gravidanza non può fermare la macchina giudiziaria. Un’avvocata incinta aveva chiesto il rinvio di un’udienza per complicanze della gravidanza. Ma la sua domanda è stata rigettata perché “pervenuta tardivamente in cancelleria”. La legale è stata finanche accusata di negligenza professionale. “Una colica non si fa preannunciare” ha polemizzato la Molendini.

Stalking occupazionale. Al rifiuto delle lavoratrici di sopportare apprezzamenti del genere “hai un culo da sballo” e “ti faccio diventare donna”, strusciamenti e pacche sui glutei, fanno spesso seguito atti di ripicca, sopraffazione e vendetta. Uno stillicidio di persecuzioni in stile stalking che osserva sempre il medesimo copione e pare non presentare alternative all’auto-licenziamento, passando per la discesa negli inferi della depressione.

Non ci stai? E allora ti pago lo stipendio quando pare a me (e ti calunnio). Nel 2010 una donna, assistente in uno studio medico, si è rivolta a Serena Molendini raccontandole di essere stata molestata ripetutamente dal suo datore di lavoro. Angherie a sfondo sessuale cominciate due anni prima, quando si stava separando dal marito. La donna respinge al mittente gli approcci e il medico passa al contrattacco. Sa bene che la sua dipendente non naviga in buone acque e prende quindi a retribuirla non più il primo giorno del mese, ma con assegni fuori piazza, accreditati anche quindici giorni dopo. La donna trova però il coraggio di denunciare l’accaduto, e il dottore si vendica contestandole delle presunte inadempienze lavorative. Inoltre l’aggredisce, per futili motivi, di fronte ai pazienti dell’ambulatorio. La segretaria finisce nel gorgo delle strutture pubbliche di igiene mentale che le diagnosticano “uno stato ansioso depressivo reattivo in relazione a problematiche lavorative”, curabili con ansiolitici e psicoterapia. Ma l’azione della Consigliera di parità le garantisce una conciliazione stragiudiziale della querelle, e le restituisce la dignità perduta.

Non ci stai? E io ti perseguito fino a costringerti al licenziamento. Un risarcimento per le molestie subite sul luogo di lavoro, per l’avvilimento psichico, lo stato di disoccupazione subentrato e la conseguente perdita di chance. di possibilità di conseguire vantaggi economici e morali dalla progressione di carriera. È riuscita a ottenerlo un’altra lavoratrice pugliese tormentata a lungo dal suo datore di lavoro, a colpi di mail e sms espliciti. Night and day. Blandizie e ricatti, profferte sessuali e ritorsioni. La donna, rischiando di impazzire, si era licenziata. L’ex Consigliera l’ha salvata.

Sara, dieci figli e cinque parti cesarei: «Mai avuto  il dubbio di non farcela». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Peppe Aquaro. Parità di genere? Superata alla grande: in questa famiglia, le figlie sono sette, mentre i maschietti, in minoranza, sono “soltanto” tre. A far pendere ancora di più la bilancia sulle quote rosa, ci ha pensato Miriam, la decima nata della famiglia di papà Nazzareno Concetti, 42 anni, architetto, e di mamma Sara Alesi, 40 anni, insegnante elementare, entrambi marchigiani di Ascoli Piceno. Non saranno la famiglia più numerosa d’Italia - record degli Anania, con 16 figli, sul palco di Sanremo di cinque edizioni fa - ma, oltre ad essere fuori quota rispetto al trend delle nascite in Italia (secondo i dati Istat, siamo a 1,32 figli per donna), conservano un altro piccolo, grande record: per far nascere la piccola Miriam, la signora Sara ha subito il quinto cesareo. Possibili i rischi per la mamma e la figlia: «Le posso assicurare che non si è trattato di una passeggiata: Sara sapeva sin dall’inizio che quella gravidanza avrebbe potuto portare delle complicazioni, ma non si è mai voluta tirare indietro. Naturalmente in modo coscienzioso», ricorda Maurizio Arduini, il ginecologo perugino che ha seguito, passo dopo passo, la gravidanza di Sara. «Ma l’aspetto più rischioso, non era tanto l’eventuale quinto parto cesareo, quanto il fatto che la signora presentasse una placenta previa: posizionata, quindi, nella parte bassa dell’utero, e che avrebbe potuto essere fatale, in casi di emorragia sia per la mamma che per la figlia», aggiunge il dottore, il quale conosce benissimo la famiglia Concetti, avendo fatto già nascere la penultima di casa, sempre mediante parto cesareo. Finalmente a casa Miriam è nata il 30 dicembre scorso, una data decisa dall’équipe medica che ha seguito il ricovero di Sara, avvenuto un paio di giorni prima, all’interno dell’ospedale San Giovanni Battista di Foligno. La bambina sta benissimo, così come la mamma, tornate a casa soltanto domenica 5 gennaio. «Si è reso necessario seguire attentamente le fasi del post parto della signora, data l’eccezionalità dell’evento», fanno sapere dal team medico - ben sette persone presenti - che ha seguito in questi giorni la Sara, la quale non ha mai immaginato di non riuscire a portare a termine la gravidanza: «Mi hanno sempre rassicurato che tutto stava procedendo per il meglio». Del resto, la fiducia nel prossimo e una discreta dose di ottimismo, accompagnano da sempre Nazzareno e Sara, entrambi impegnati, fino a poco tempo fa, nella Scuola italiana a Tirana, in Albania: una scuola primaria, partner della società Dante Alighieri, che promuove la lingua e la cultura italiane nel mondo, caratterizzata da un ambiente multilinguistico e multiculturale. Una scuola impegnata attivamente, peraltro, nelle fasi di soccorso, a seguito del terribile terremoto che ha colpito l’Albania lo scorso novembre. Tutti, qui, a Tirana, conservano un bellissimo ricordo di Sara e dei suoi figli. Chiaramente, non conoscono l’ultima arrivata, Miriam: ma chissà che un giorno, la «squadra» di Ascoli Piceno non decida di tornare a Tirana. Dove ha lasciato sicuramente un pezzetto del cuore. Un motivo in più per far viaggiare molto presto la numero dieci della famiglia marchigiana. 

Mamma over 50? Non è una buona idea. Sempre più donne partoriscono alle soglie della menopausa. la scienza lo consente ma i rischi, dicono i medici, sono seri per mamme e neonati. Daniela Mattalia il 30 dicembre 2019 su Panorama. L’argomento è di quelli che, se lo lanci in una qualsiasi conversazione, crea scompiglio. Basta annunciare che una amica/collega/vicina di casa ha partorito a 52 anni per suscitare reazioni assortite. Chi ammira i progressi della scienza «che oggi fa miracoli», chi esprime pareri tranchant «una scelta da fanatiche, è un’età da nonne», chi sospende il giudizio, indeciso se congratularsi per l’evento o esprimere una velata perplessità. E noi, perché affrontiamo il tema? Lo spunto ci viene da uno studio pubblicato sul Journal of Women’s Health, scritto da un gruppo di medici di varie università americane, dal titolo Do magazines exaggerate fertility at advanced age? («Le riviste esagerano la fertilità a un’età avanzata?»). La risposta è sì, decisamente. Gli esperti hanno analizzato 416 numeri di newsmagazine femminili (dal 2000) in cui venivano descritte gravidanze e neo maternità di 240 celebrities, un terzo delle quali dai 40 ai 50 anni. Racconti con abbondanza di fotografie e interviste, «ma solo in due casi vengono citati rischi di complicazioni associati alla maternità in un’età avanzata» scrivono gli autori «solo in tre si dichiara di aver fatto ricorso alla fecondazione in vitro, e non viene mai menzionata la donazione di gameti», ossia di ovociti e seme maschile. Molti dei titoli citati hanno toni di spensierato entusiasmo: «My baby dream come true!»; di categorica asserzione: «Age is just a number!»; o di gioioso elenco di trionfali maternità: «25 stars who gave birth after 40». Gli autori dello studio, ovviamente, non vivono sulla luna. Sanno perfettamente che oggi una serie di ragioni sociali ed economiche spingono sempre più donne a ritardare la maternità dopo i 40 anni. Fenomeno talmente diffuso che pochi ormai se ne stupiscono. «La spiegazione per questo trend nel procastinare i figli è multifattoriale, può essere attribuito a un investimento nei traguardi professionali, nei matrimoni tardivi, nel raggiungimento di una stabilità finanziaria prima di concepire» scrivono. Primipare attempate, si diceva una volta per indicare le donne incinte dopo i 25 anni, soglia e definizione che oggi fanno francamente sorridere. Ora si preferisce dire mamme «grandi», eufemismo gentile per le madri in zona menopausa. Peccato che questa rivoluzione sociale proceda di pari passo con un declino nella fecondità e un aumento dei rischi legati alle gravidanze «agée». La cultura si modifica, ma la biologia tiene il punto. La fertilità, nella donna, raggiunge il culmine tra i 15 e i 30 anni, poi cala. La riserva ovarica, ossia la sua «dote» di follicoli e uova, è stabilita alla nascita e diminuisce con l’età. La perdita di follicoli si fa veloce già a 32 anni e accelera dopo i 37. Persino in una coppia senza problemi di fertilità, una 40enne ha una probabilità mensile di restare incinta inferiore al 10 per cento (a 25 anni è del 25 per cento). Ma i media, afferma lo studio americano, troppo spesso sottovalutano l’impatto degli anni sulla fecondità, sorvolano sulle difficoltà di portare a termine la gravidanza e sul rischio di complicanze. Tutto è bello, semplice, naturale, a lieto fine. Esigenze giornalistiche (siamo i primi a capirle). Il problema è che, così facendo, si diffonde l’idea che avere un figlio quando si avvicinano, e talvolta si superano, i 50 anni, è solo una questione di scelta personale. Lo vuoi? Si fa. Che ci vuole. Pericoli? Mannò, mica stiamo a gufare... Così però si fa disinformazione, conclude il Journal of Women’s Health. A dettare la linea per i bebé concepiti dopo il mezzo secolo sono soprattutto le donne famose. Giusto per fare qualche esempio: a 54 anni Brigitte Nielsen è diventata mamma per la quarta volta; Heather Parisi ha partorito a 50 anni, Gianna Nannini a 56, Carmen Russo a 53. Donne in forma, con tempo e possibilità economiche.  «I mezzi di comunicazione presentano testimonianze di star senza soffermarsi sui dettagli del percorso clinico e gli eventuali problemi medici insorti nel corso della gestazione o prima del concepimento» riflette Chiara Benedetto, direttore della Struttura Complessa universitaria di Ginecologia e ostetricia 1 dell’Ospedale Sant’Anna di Torino. «Il Journal of Women’s Health evidenzia come raramente si faccia riferimento al fatto che le gravidanze in età avanzata vengono quasi sempre ottenute con tecniche di medicina della riproduzione, talvolta con ovociti e spermatozoi provenienti da donatori, e si associno all’aumento del rischio di complicanze. Ho dedicato la mia vita professionale alla salute delle donne e mi preoccupa molto che passi un messaggio esclusivamente puntato sugli aspetti “rosei” della maternità in età avanzata» continua Benedetto. «L’informazione corretta è che non si dovrebbe aspettare le soglie della menopausa, soprattutto se si tratta del primo figlio. Nei reparti di ostetricia vediamo sempre più spesso complicanze e patologie dovute a questo fenomeno». Lo studio citato all’inizio non è l’unico, solo il più recente. Negli ultimi anni, nelle riviste mediche si sono moltiplicati gli editoriali che affrontano il problema. Nel 2015, Fertility and Sterility rifletteva come «il ritratto spesso dipinto dai mezzi di comunicazione, di una donna giovanile ma non più giovane, che programma abilmente carriera e esigenze riproduttive, ha alimentato il mito del “puoi avere tutto”,  senza fare cenno alle difficoltà di una maternità troppo rimandata». Ma i 40 anni, concludeva l’articolo, non sono i nuovi 20. Allo stesso modo i 50 non sono «i nuovi 30», benché sia bello dirlo (e crederci un po’). E non è vero, altro falso mito, che l’età in fondo è solo un numero. Certo, è possibile fare un figlio anche se si compie mezzo secolo, e persino a 60 o 70 anni, come è successo talvolta. Ma non è un caso che siano gli stessi esperti a scoraggiare sfide spericolate con l’età. «Qualsiasi gravidanza» precisa Benedetto, che negli ultimi 10 anni nel suo ospedale ha osservato un aumento esponenziale di mamme oltre i 40 «è uno stress test per l’organismo, anche quello giovane e sano, che va incontro a una serie di adattamenti che coinvolgono il sistema cardiocircolatorio, il sistema respiratorio, le ghiandole endocrine e il sistema metabolico. Non è raro che patologie latenti, che tali sarebbero rimaste in condizioni di non stress, emergano in quei nove mesi. Più si va avanti col tempo, più questi sistemi di adattamento possono incepparsi». Del resto, a livello nazionale, le neomamme over 40  secondo l’Istat sono ormai l’8 per cento circa del totale, e sono destinate ad aumentare. Assistite dal Servizio sanitario nazionale se hanno meno di 46 anni, altrimenti dalle strutture private, il cui limite per la fecondazione artificiale arriva fino ai 50. Dopo, si va all’estero, in genere Spagna o Stati Uniti, dove anche l’utero in affitto è un’opzione percorribile. Le mamme «grandi», dicono gli esperti che le seguono, sono molto motivate, bravissime a seguire tutti i consigli medici e pronte a sottoporsi a controlli ravvicinati e approfonditi. Ma sottostimano il contesto. La mortalità materna, dopo i 45 anni, è dieci volte superiore a quella con meno di 35 anni. E aumentano gli «eventi avversi» in gravidanza: necessità di trasfusioni, rischio di obesità, diabete gestazionale, ipertensione, trombosi venosa, parti prematuri, aborti, anomalie genetiche dell’embrione, complicanze post parto. Infine, poche sanno che la maternità dopo i 35 anni aumenta l’eventualità di tumore al seno. «Dopo quell’età cambiano le caratteristiche della ghiandola mammaria» spiega Benedetto. «E la sua stimolazione in gravidanza causa un rimodellamento che spesso non è accompagnato dalla sostituzione delle cellule che con il tempo hanno accumulato danni al Dna. Questo può far salire, negli anni successivi, il rischio di cancro, un rischio superiore rispetto a chi di figli non ne ha mai avuti». Carlo Bulletti, docente di ginecologia, ostetricia e scienza della riproduzione, a Cattolica (Rimini) dirige il centro Entra Omnes, specializzato in medicina della riproduzione. «Una donna ha il diritto di chiedere una gravidanza fino a quando le viene concesso» premette «purché venga informata in modo veritiero. Invece assistiamo alla scienza dei trionfi, tutti si mettono in coda per farsi dire ciò che vogliono sentire». Un altro messaggio che passa poco è che se si vuole un figlio in modo naturale bisogna iniziare a pensarci prima dei 31 anni; se i bambini sognati sono due l’età deve scendere a 28 anni, e fino a 23 se poi di figli se ne progetteranno tre. «È una premessa doverosa e indispensabile, ma sovente taciuta» continua Bulletti. Molti centri privati di riproduzione assistita sbandierano percentuali di successo assai ottimistiche: intorno al 50 per cento nel caso di un’aspirante madre vicina ai 40 anni (alla terza inseminazione con seme di donatore) e del 24 per cento superati gli «anta». Ma uno studio del British medical Journal ridimensiona queste cifre: la possibilità di avere un bambino sano per ogni ciclo di fecondazione assistita è del 10 per cento a 40 anni, scende al 5 a 42 anni, fino a crollare all’1-2 per cento dopo i 45 anni. «In Italia e in tutta Europa, tranne che in Inghilterra, si danno numeri e si fanno promesse poco coerenti con la realtà, speculando sul desiderio delle coppie che, volendo un bambino, vanno da chi promette percentuali gonfiate» denuncia Bulletti. La Gran Bretagna fa eccezione, aggiunge il ginecologo, perché lì esistono Registri che, attraverso la loro autorità di controllo, possono verificare i risultati esibiti dai vari centri, e sanzionare se gli esiti finali non sono conformi a quanto dichiarato. E, guarda caso, le percentuali di successo inglesi, nella riproduzione assistita, sono quattro volte inferiori a quelli europei (e italiani). «Per questo, entro l’estate chiederemo al Comitato nazionale di bioetica di valutare se le modalità di promozione dei centri non dichiarino risultati non corroborati dai fatti, lucrando sulla fragilità emotive delle coppie» annuncia Bulletti. «Nella mia struttura, un terzo dei trattamenti viene richiesto da donne tra i 40 e i 50 anni. Ma a quell’età anche la migliore macchina mostra l’usura del tempo, e già dieci anni prima della menopausa si inizia a perdere la possibilità di procreare». Insomma, conviene sbrigarsi prima dei 40 anni. Ma, come si diceva, occorre avere pure una stabilità economica, essere nella situazione di non dover scegliere fra carriera e culla. E, soprattutto, avere un compagno con cui progettare una famiglia, cosa per niente scontata. Tutti motivi che spingono verso un’ulteriore scelta: congelare i propri ovociti. Così la mamma sarà anche agée, ma i suoi ovociti saranno rimasti belli, sani e vitali. Una decisione, questa, che tempo fa riguardava soprattutto giovani malate di tumore o con endometriosi. Ma che ora viene presa anche da donne perfettamente sane che decidono di mettere in freezer, per così dire, le proprie uova. Al Fertility center dell’Istituto Humanitas di Rozzano (Milano) congelano gli ovociti per future maternità. Funziona così: con ormoni di sintesi si stimola la crescita follicolare per ottenere, ogni mese, una produzione multipla di ovociti. Il giorno del prelievo, che avviene in sala operatoria sotto guida ecografica, si aspirano i follicoli e si estraggono le cellule uovo subito congelate. Pronte a essere reimpiantate nell’utero, magari dopo anni. «Si tratta in genere di donne vicino ai 40 anni, senza un compagno, nelle quali scatta un meccanismo di preservazione della propria fertilità» racconta Alessandro Bulfoni, responsabile di Ginecologia e ostetricia all’Humanitas San Pio X di Milano. «Nella mia esperienza, a livello ambulatoriale, la richiesta di congelamento di ovociti è triplicata o quadruplicata rispetto a 10 anni fa». Il tasso di successo di questa tecnica è inferiore al 20 per cento, spiega Bulfoni, leggermente meno rispetto agli ovociti freschi. «Anche perché se un ovocita di 35 anni viene impiantato in un utero di 45, molto dipende dalle condizioni di quell’utero, che con il crescere dell’età può subire un peggioramento o sviluppare patologie che compromettono il successo». Probabilmente nulla fermerà le donne che, passato il mezzo secolo, sentiranno un’improvvisa voglia di bebé. Termini  come «impossibile» e «innaturale», del resto, appaiono oggi sempre più svuotati di significato. Una mamma di 60 anni ne avrà 80 quando il figlio sarà uscito dall’adolescenza? Non importa, la medicina dell’avvenire troverà il modo di garantirle forma fisica, energie di riserva e apparenza giovanilistica. Ciò che sta facendo la cosiddetta scienza anti-aging, a essere onesti, è prolungare non la giovinezza bensì l’ultima parte dell’esistenza, con tutti  i problemi cronici e gli acciacchi della vecchiaia. Ma questo è un messaggio fastidioso, che nessuno vuole sentire.  

Emanuela Grimalda: "Essere mamme è dura ma l'età non c'entra". Nel dibattito sulle mamme over 50 interviene l'attrice che ha avuto il primo figlio a 51 anni. Terry Marocco il 31 dicembre 2019 su Panorama. Quando è rimasta incinta stava portando a teatro Le Difettose, un testo dedicato alle donne che non riescono ad avere figli e si rivolgono alla fecondazione artificiale. L’attrice Emanuela Grimalda ha 55 anni e suo figlio Giaime quattro.

«Mentre leggevo il libro di Eleonora Mazzini, da cui è tratta la pièce, mi chiedevo perché avessi aspettato tanto a fare un figlio. Molto c’entrava il mio essere artista. Mi domandavo perché abbiamo spostato così in avanti le nostre vite. Alla fine si è allungata la vecchiaia, mentre i tempi biologici sono rimasti gli stessi».

E poi cosa è successo?

«Mio marito e io desideravamo un bambino. Non era mai stata un’ossessione. Se dovrà essere, sarà, ci dicevamo. Senza accanimento. Rimasi incinta a 50 anni. È stato naturale, anche se questa parola fa un po’ ridere, perché so di avere fatto un figlio in un periodo della vita piuttosto innaturale».

Si è mai chiesta se non fosse troppo «grande»?

«Te lo chiedi mille volte, ma quando decidi, smetti di domandartelo. Ero pronta, avevo tanta energia. È la fase migliore della mia vita. Sono più matura, pacificata, risolta. Non lo ero a trent’anni».

Ha mai immaginato come sarebbe stato averlo fatto prima?

«Spesso penso se avessi avuto Giaime a vent’anni lo avrei accompagnato per più tempo. Quando mi chiedono del mio futuro, rispondo: «Spero di esserci. Il più a lungo possibile»».

La fatica si fa sentire?

«Sì, quella fisica, ma si affronta. Stanotte non ho dormito, aveva la febbre, ma eccomi qui. Non è una notte persa che mi preoccupa. È il frullatore dentro cui sono buttate le madri oggi, anche le giovani. Esauste e stressate. Roma è una città dove stanno meglio i cani che i bambini. In centro sono una rarità i bar che hanno un fasciatoio. Girare con il passeggino è un’impresa. Medaglia d’oro alle turiste con i bebè, sono delle eroine».

Qual è stato il momento più difficile?

«I primi 15 giorni sono stati molto duri. Avevo deciso di allattarlo. Il dolore, le ragadi, un male cane, le notti insonni. Ero stremata. Altro che iconografia delle mamme sorridenti».

La maternità non è come la raccontano?

«Viene romanzata, ma non è la marmellata che ci propinano. È un’esperienza diversa. Più profonda e meno poetica. Nessuno lo ammette, ma noi madri ci sentiamo molto sole».

Come le sembrano le Millennial?

«Schizzate, ansiose. Io mi sento più rilassata di prima, meno competitiva. Ora ho tempo per la mia famiglia. Le trentenni rincorrono carriere faticose per finire stravolte a stare con i figli solo la sera. Il difficile non è farli, ma crescerli».

Cosa direbbe a una donna che vuole seguire il suo esempio?

«Risponderei con le parole di Rosanna Della Corte, la mamma più vecchia d’Italia: «Sentivo che ce la potevo fare». Se il desiderio è profondo, allora vai. Magari ti invito per un’esperienza sul campo. Una settimana a casa mia e poi decidi».

·        Mai dire Papà.

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 17 marzo 2020. Ma davvero c' è un' età giusta per diventare padri? Giacomo Botteri, classe 1956, un lavoro nelle commissioni tributarie, ha avuto la sua Ludovica tre anni e mezzo fa. Non è la sua unica figlia, la piccola ha una sorella: 27 anni di differenza, praticamente una vita. «Sono state due paternità molto diverse», spiega Giacomo. Voce calma, sorriso sincero. A lui piace prendersi cura di Ludovica. «Prima facevo il direttore di banca, adesso ho questo lavoro nelle commissioni tributarie che è come un part-time. Sette o otto udienze al mese, per il resto posso sbrigare le faccende da casa». Viva il processo telematico. Già, viva. Giacomo si sta separando dalla sua compagna, mentre parla con gli occhi controlla la bimba che sta giocando. Deformazione professionale. «Amore, perché stai dando la focaccia al cane?», le chiede. Con gentilezza, non alza mai la voce. «L' ho cresciuta io - confessa, orgoglioso come solo un padre sa essere, - e quando le maestre dell' asilo mi dicono che è la più gentile della sua classe mi faccio i complimenti da solo». Non se li sente proprio cucite addosso, Giacomo, le sue 64 primavere. E come potrebbe? Occupato com' è a stirare i grembiulini e a mettere in ordine le bambole di Ludovica. Un po' come Vittorio, altro "padre senior", coetaneo di Giacomo. Ex manager in pensione, una moglie più giovane e due bellissimi frugoletti. Vittoria e Leone, il maschietto nato da poco. «La sua prima parola è stata papà - racconta Benedetta, la compagna di Vittorio -. Io stavo rientrando al lavoro dopo la maternità, mi stavo preparando per uscire, quando dalla culla sento che il bimbo lo sta chiamando. Non faccio in tempo a girarmi che Vittorio ha già preso il cellulare, lo ha registrato e lo ha mandato a tutti i contatti che aveva nella rubrica di WhatsApp». Scene di ordinaria amministrazione famigliare. E' che Giacomo e Vittorio sono in buona compagnia. Il presentatore televisivo Carlo Conti ha avuto il suo Matteo a 53 anni, l' imprenditore Luca Cordero di Montezemolo è diventato papà a 63, gli attori Michele Placido e Luca Barbareschi rispettivamente a 60 (quarto figlio) e 56. Senza contare i divi del grande schermo hollywoodiano: Robert De Niro si è scoperto genitore a 68 anni, Clint Eastwood a 66, Michael Douglas a 59. Richard Gere, dicono i giornali di gossip, aspetterebbe il terzo frugoletto questa primavera, e le candele sulla sua torta di compleanno sono 70 tonde tonde. Ma quali nonni, questi papà "over" sono più concentrati. Avranno pure meno capelli in testa, ma compensano con l' esperienza. Colpa (anzi, merito) dell' aspettativa di vita che si allunga, delle condizioni di salute che migliorano e della fertilità che quando arranca basta dargli un aiutino: padri tardivi, padri senior, chiamateli come volete ma tenete a mente una cosa sola. Guai a dar loro del "nonno". S' arrabbiano come pochi. Pure l' attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è diventato padre a 59 anni. C' è chi vive una seconda paternità con una compagna più giovane (per le donne è diverso, fisicamente diverso) e chi, ma sono ancora pochini, decide di adottare una volta arrivata la pensione. Tutti, però, davvero tutti, hanno un solo chiodo fisso. Fare il meglio per il proprio figlio. Ovvio, la ricetta magica per diventare genitori non esiste. Nemmeno a sessant' anni. «E' stressante. Rispetto a quando ero più giovane mi faccio mille pensieri, ho mille preoccupazioni. Ma quando mi siedo e ci penso, realizzo che è la cosa più bella che mi poteva capitare», Giacomo. «Spesso va molto più in paranoia di me, sente di più la responsabilità ed è molto apprensivo. Però è un aiuto validissimo a casa. Diciamo pure che da noi il "cambiatore ufficiale di pannolini" è lui. Io sono molto meno brava», Benedetta che parla di Vittorio. E' che in fondo sta tutto lì, in quel bilanciamento di saggezza e maturità che fa sul serio bene alla famiglia. Chiedere ai diretti interessati (cioè ai bambini) per credere. «Sullo sviluppo del bambino e da un punto di vista cognitivo non ci sono assolutamente impedimenti dovuti al fatto di avere un padre "anziani" - puntualizza la pedagogista Tiziana Cristofari -. Se c' è un problema, questo parte sempre dagli adulti. Possono crearsi, è vero, delle situazioni difficili se, per esempio, il bambino ascolta delle battute sul genitore e se la famiglia non interviene subito. Parlandone e chiarendogli qualsiasi dubbio, perché non c' è niente di male né niente di sbagliato in un padre più grande». Come a dire, spesso i problemi ce li facciamo noi. I bimbi non fanno di queste differenze. E se poi l' obiezione è che sì-ma-a-quell' età-come-fa-ad-andare-a-giocare-a-pallone-al-campetto-col-figlio?, sappiate che nemmeno quella regge. «Ci sono tantissimi padri trentenni che sono pigri e a giocare all' aperto con i loro bambini non ci vanno comunque - continua l' esperta, - gli over 60, invece, sono generalmente più presenti e protettivi e, alla fine, è quello che conta». Anche la differenza di età tra madre e padre interessa poco ai bimbi: «Sono tutte questioni che ci poniamo noi, amore e affettività non hanno età», chiosa Cristofari, che elenca anche le regole d' oro per quei maschietti che "decidono" di fare un figlio passato il mezzo secolo. Ossia: uno, creare e alimentare il rapporto con il bambino. Due, vivere questa relazione serenamente (perché il bambino lo sente, se c' è qualche problema). Tre, parlarne sempre in caso contrario, rispondere alle domande, far capire ai bimbi che ai fini pratici l' età del padre non cambia proprio di una virgola. E quattro, fare tutto il resto con tranquillità. Insomma, non farsi mancare niente. Gite al mare e partite allo stadio. Il resto sono solo chiacchiere.

·        Aborto. Il Figlicidio.

Aborto. Sempre dalla parte del più forte.

Nati senza volerlo e morti senza volerlo. Il proprio destino in mano altrui. Quei piccoli senza nome, condannati all'oblio dall'egoismo dei grandi. Lo scandalo dei figlicidi materni sepolti dall'anonimato, per nascondere la vergogna.

Tutti dalla parte della madre che non vuol essere nominata.

Non si conoscono forma e sostanza dell'aborto in cronaca. Ma è una vergogna parteggiare per l'oblio di un figlio innominato, a cui non è stato dato nemmeno un nome, oltre che la dignità, ma certamente non ignoto, trattato come un rifiuto organico.

Discarica o cimitero dei caduti ignoti? E' la brutta sorte dei bambini non voluti e quindi uccisi.

Una Vita è Vita e va rispettata, anche quella degli altri.

Paolo Rodari per repubblica.it il 30 novembre 2020. Stupisce ancora una volta Francesco, il Papa troppo superficialmente definito progressista. In una lettera autografa datata 22 novembre, Bergoglio ribadisce l’importanza della tutela della vita contro i tentativi di legalizzare, in Argentina, la pratica dell’aborto. Definito da alcuni osservatori distante dalle tematiche etiche riguardanti la difesa della vita a motivo del suo non parlarne in occasioni che possano essere strumentalizzate in chiave politica, Jorge Mario Bergoglio scrive questa volta direttamente alla deputata Victoria Morales Gorleri, rispondendo a una missiva inviatagli dalle “mujeres de las villas”, una rete di donne che, dal 2018, si batte per la tutela dei nascituri nelle "villas miserias" di Buenos Aires. Le firmatarie chiedevano il sostegno di Francesco nel loro impegno contro la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, un tema che proprio in queste settimane sta dividendo l’opinione pubblica del Paese. Francesco risponde ringraziando “di cuore” le “mujeres de las villas” e insieme dice di essere ammirato dal loro “operato” e dalla loro “testimonianza”. Quindi le incoraggia senza mezzi termini ad “andare avanti”. La lettera di Francesco, di cui ha dato conto due giorni fa il quotidiano argentino La Nacion e ripresa anche da Vatican News, è lunga in tutto una decina di righe, ma sono parole significative. Il Papa che già da cardinale di Buenos Aires si era speso contro la legalizzazione dell’aborto, dice alle "mujeres" che “sono davvero donne che sanno che cos’è la vita”. “La patria – spiega – è orgogliosa di avere donne così”. E quanto al problema dell’aborto dice che “bisogna tenere presente che non si tratta di una questione primariamente religiosa ma di etica umana, anteriore a qualsiasi confessione religiosa”. Per questo, è corretto porsi due domande: “È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema?”. E chiude ringraziando “per tutto quello che fate”. La missiva delle donne al Papa aveva toni drammatici: “Siamo sopraffatte dal freddo terrore – avevano scritto le mujeres – se pensiamo che questa proposta di legge mira a coltivare l’idea che l’aborto è una possibilità in più nella gamma dei metodi contraccettivi e che i suoi principali destinatari sono le ragazze povere”. E ancora: “La nostra voce, come quella dei bambini non nati, non si sente mai. I legislatori e la stampa non vogliono ascoltarci e se nelle ‘villas’ non avessimo sacerdoti che alzano la voce per noi, saremmo ancora più sole”. “Le nostre figlie adolescenti – avevano concluso – stanno crescendo con l’idea che non hanno il diritto di avere figli perché sono povere”. La lettera del Papa ha un significato politico non indifferente. Sabato prossimo, 28 novembre, in Argentina sono attese manifestazioni di protesta contro il progetto di legge sull’aborto. Fra queste c’è la cosiddetta “Marcia delle scarpette” nella quale i partecipanti si ritroveranno davanti alla sede del Congresso nazionale di Buenos Aires per recitare il Rosario e mettere la vita dei nascituri sotto la protezione della Vergine Maria. I vescovi sono pubblicamente dalla parte dei manifestanti. E, da due giorni, anche il Papa.

Aborto peggiore della pedofilia? Parliamo con don Andrea. Le Iene News il 10 novembre 2020. Nina Palmieri ha parlato con don Andrea, il parroco di Macerata che qualche giorno fa dal pulpito ha detto che “l’aborto è il peggiore degli scempi”, con anche un paragone incredibile con la pedofilia. “L’aborto è il peggiore degli scempi… mi verrebbe da dire una cosa ma poi scandalizzo mezzo mondo… è più grave l’aborto o un atto di pedofilia?”. Parola di don Andrea, un sacerdote di Macerata che pochi giorni fa ha pronunciato queste frasi dall’altare durante una celebrazione. Frasi che hanno ovviamente fatto il giro dei media e hanno indignato l’opinione pubblica. Nina Palmieri cerca di mettersi in contatto con il parroco della chiesa dell’Immacolata, per provare a ragionare con lui su quanto detto a proposito della notizia di una legge introdotta in Polonia, in base alla quale anche un feto malato non si può abortire. Durante quell’omelia così discussa don Andrea aveva detto: “Non vogliamo dire che la pedofilia non sia niente... è una cosa gravissima...lasciamo perdere…che cosa è più grave? Noi abbiamo perso il senso del peccato…”. Frasi a cui molte persone hanno reagito arrivando ad appendere striscioni contro di lui. Ma il parroco non si è limitato all’ aborto, ha parlato anche del rapporto uomo-donna dopo aver letto un passaggio di San Paolo. “Le mogli siano sottomesse ai mariti... Avete capito signore? Perché il marito è il capo della moglie, come Gesù è il capo della Chiesa… I mariti amino le mogli come Cristo ha amato la Chiesa... Io lo dico sempre se avessi dovuto scegliere avrei fatto la moglie almeno devo essere sottomessa e basta…”. Quando andiamo a cercarlo, non lo troviamo e allora attraverso una nostra complice riusciamo a raggiungerlo. La complice fa finta di confidarsi con lui, per raccontargli di suo marito, che si comporterebbe in modo autoritario. E don Andrea, dopo aver detto quelle frasi dal pulpito, spiega: “Quella parola lì, sottomissione, in realtà il contesto, è siate sottomessi gli uni agli altri… Quello che ho cercato di spiegare è che se alle donne si chiede di essere sottomesse, ai mariti si chiede di dare la vita per la moglie… Lì poi si entra nelle fede, se io sono sottomessa a mio marito, non sono sottomessa a lui, ma è perché voglio essere sottomessa a nostro Signore…”. Poi chiede alla nostra complice: “Ma a voi i figli non vengono?”. Lei risponde: “Lui vorrebbe ma io no…”. “Forse è su questo che non vi trovate…”, replica Don Andrea. Nina Palmieri lo raggiunge telefonicamente e il contestatissimo parroco risponde solo dicendo, a proposito della pedofilia: “Sì, senza dubbio è un atto criminale…”. Poco dopo quelle frasi, don Andrea si è scusato pubblicamente sui media, dicendo di non aver mai voluto intendere che la pedofilia fosse meno grave dell’aborto.

 Così la destra fa la guerra all'aborto nelle città e nelle regioni che amministra. Le associazioni "pro-life" si allargano sul territorio nazionale, dove governano Lega e Fratelli d'Italia. E grazie alla loro vicinanza con la politica ottengono fondi pubblici ed entrano nei consultori rendendo ancora più difficile applicare la 194. Rita Rapisarda su L'Espresso il 20 ottobre 2020. Manifestazione pro 194 a Perugia lo scorso giugnoNegano ci sia un problema con il numero di medici obiettori, definiscono “clandestino” e “fai da te” l'aborto farmacologico (intendendo anche la pillola del giorno dopo, quando di aborto non si tratta, ma di contraccezione di emergenza) e additano alle donne di usare l'interruzione di gravidanza per il controllo delle nascite. Auspicano, come la definiscono, “una rivoluzione copernicana dei consultori”, che si traduce in una proposta di riforma legislativa che metta al centro “la preferenza alla nascita”. Sono le associazioni cosiddette pro-life, che oggi hanno libero accesso ai consultori, detengono dei veri e propri “sportelli religiosi” all'interno degli ospedali e ottengono finanziamenti pubblici da Regioni e comuni che battono una sola bandiera: quella della destra italiana, Lega e Fratelli d'Italia. Il loro unico scopo è la riduzione del numero degli aborti. «I diritti delle donne non sono diritti mai acquisiti», diceva Miriam Mafai, e aveva ragione. 

Le mozioni per la vita. Come un ragno che tesse la sua ragnatela il movimento antiabortista, che mai si è fermato, sta trovando nuova linfa dall'appoggio politico. Verona può essere considerata la città da cui tutto è partito, e che ha dato i natali all'ex ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. Qui per la prima volta, con una giunta a maggioranza leghista due anni fa, in Italia si è firmata una mozione (proposta da Alberto Zelger, consigliere con una lunga storia in gruppi ultracattolici), che ha definito la “città a favore della vita”: «Per la prevenzione dell’aborto e il sostegno della maternità», proprio nel quarantesimo anniversario della legge 194 . Un documento che a sostegno delle sue tesi porta solo dati e fonti dei movimenti prolife ed evidenze scientifiche false: che l'aborto causa cancro al seno, sterilità permanente, e la RU486 è ad alto rischio...Da qui numerosi comuni hanno copiato e incollato il testo, per lo più respinto, partendo da grandi città come Milano e Roma, arrivando a macchia d'olio in medi e piccoli comuni, come Alessandria, Imperia, Ferrara, Trento, Treviso, Rivoli, Iseo . La Liguria tutta. Per ora soprattutto in nord Italia, dove le amministrazioni si organizzano in gruppi. Ma questi scritti sono il lasciapassare per entrare negli ospedali. Le mozioni partono sempre da alcuni capisaldi: il problema demografico e i passaggi della 194 dove si dice che i consultori familiari devono contribuire a superare gli ostacoli che potrebbero indurre l'interruzione di gravidanza, offrendo soluzioni alternative. «Non c’è nulla di casuale sul fatto che tutto sia partito da Verona, dove nel 2019 c’è anche stato il Congresso Mondiale delle Famiglie. Non appena si insedia una giunta di destra poi, sembra che questi temi siano in cima all’agenda», racconta Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, che in prima persona ha visto la violenza di questi movimenti, quando proprio nella città veneta, insieme ad alcune attiviste di Non una di meno, si è scontrata durante un incontro a cui presenziava il senatore Simone Pillon, colui che affermò di voler impedire con tutti i mezzi alle donne di abortire.

Agire dentro ai consultori. Il meccanismo delle associazioni è di inserirsi al momento dei colloqui per l'ivg, quelli dopo i quali è rilasciato il foglio medico per recarsi in ospedale. “Il colloquio non seguito dal rilascio del titolo costituisce il successo della prevenzione”, sentenzia il Movimento per la Vita (Mpv) in un suo rapporto. Il caso peggiore è invece quello in cui si arriva in consultorio già con il foglio del medico di base: lì non si può più far nulla per intralciare le decisioni della donna. Il Mpv descrive come drammatiche le situazioni di regioni in cui meglio funziona l’attuazione della 194, come Toscana e Liguria. Il Mpv è la maggiore di queste associazioni cattoliche, partner della rete ultraconservatrice del Congresso Mondiale delle Famiglie. Inizia la sua attività nel 1975, con l'istituzione del primo Centro per la Vita (Cav) a Firenze, al posto di una clinica che operava aborti abusivamente. Ha instaurato negli anni una rete capillare sul territorio: vanta 19 federazioni regionali e circa 400 Cav: più degli ospedali dove è possibile praticare un'interruzione di gravidanza. Dopo la batosta del 1978 l’operato non si è fermato, ma ha acquisito nuove terminologie, di vicinanza e sostegno alla vita: «Usano parole positive che servono soltanto a nascondere il vero scopo: la repressione dei diritti. Le donne sono le vittime preferite, ma non dimentichiamo le persone Lgbt, i migranti. Come modello si ispirano a quello russo, che vuole limitare in ultimo la libertà», continua Brignone, che aggiunge di come questo parallelismo riguardi anche i numerosi fondi che queste associazioni vantano, come ha raccontato l'Espresso. Lo statuto del Mvp è chiaro: «La Federazione si oppone alla legge 194, così come ad ogni provvedimento che voglia introdurre o legittimare pratiche abortive, eutanasiche e di manipolazione intrinsecamente soppressive della vita umana». Com'è possibile allora avvalorare negli ospedali chi si dichiara apertamente contro una legge dello Stato?

Contro le nuove linee guida per la RU468. L'ultima battaglia in ordine di tempo è il tentativo di limitare le nuove linee guida sulla RU468 volute dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Prevedono la somministrazione della pillola abortiva fino a nove settimane, anche in regime di day hospital. Un'intenzione che si è tradotta in un appello , sottoscritto da 50 associazioni cattoliche, a tutto il mondo politico. E per primo sta andando in scena l'esperimento in Piemonte grazie al neo assessore Maurizio Marrone di Fratelli d’Italia . Un precedente pericoloso che potrebbe essere imitato da altre regioni di centrodestra, oggi 14 su 20. Nella regione, ora in mano ad Alberto Cirio di Forza Italia, ci aveva provato già Roberto Cota nel 2011. Allora la Casa delle donne di Torino, insieme ad altre associazioni, presentò con successo ricorso al Tar. “La vita fin dal concepimento”, su questo concetto il tribunale bocciò la richiesta. «Solo una provincia non funziona, quella da cui arriva la maladìa (morbo in piemontese, ndr), ed è Novara», racconta Carla Quaglino della Casa delle donne di Torino, ricordando la sede di Difendere la fede con Maria, l’associazione che da vent'anni si occupa del seppellimento dei feti abortiti . «Noi siamo pronte, in Piemonte abbiamo una lunga tradizione di difesa dell'autodeterminazione della donna, li fermeremo di nuovo». E ricorda anche la scrittura della 194 a cui ha partecipato: «Il movimento delle donne di allora voleva un aiuto morale nei consultori, ma era un modo per rivendicare la nostra presenza di donne in quello spazio, non per imporre l’integralismo, come oggi». «L’ultimo che ha tentato di ficcare le associazioni religiose negli ospedali è stato Francesco Storace (Fratelli d'Italia, ndr), senza riuscirci», racconta Elisabetta Canitano, ginecologa, docente e presidente di Vita di Donna, memoria storica di quanto avviene nel Lazio. La stessa regione dove non è stata presa bene dagli antiabortisti la decisione nel 2017 del presidente Nicola Zingaretti di istituire appositi concorsi per i non obiettori. «Una volta è arrivato un volontario con dei volantini: lo abbiamo spintonato via. In un'altra occasione abbiamo avuto una riunione con delle volontarie: volevano insegnarci la “contraccezione naturale”». Si tratta del metodo Billigs, basato sul muco cervicale, insegnato dai volontari nei Cav. Queste violenze e disinformazioni avvengono molto più di quanto si pensa: non bastano le affissioni pubbliche o i manifesti mobili su camion, le associazioni pagano il suolo pubblico di fronte agli ingressi dove si praticano le ivg. Distribuiscono volantini, portachiavi a forma di feto e appendono bambolotti embrione per suggestionare le donne.

Adotta un feto: il Progetto Gemma. Il Mpv ha conquistato terreno anche grazie a un’altra iniziativa, il Progetto Gemma, ormai onnipresente in queste mozioni. “Un servizio per l'adozione prenatale a distanza per madri in difficoltà, tentate di non accogliere il proprio bambino”, lo presentano. «Noi interveniamo solo se la decisione è data da puro disagio economico. Le donne, o meglio mamme, che si rivolgono a noi sono indecise se praticare l’aborto oppure no. Molto spesso sono i consultori che le inviano a un nostro centro. Altre arrivano tramite il passaparola. Altre ancora scoprono sul web, da sole, che esistono alternative all'aborto», racconta Antonella Mugnolo, responsabile Ufficio Progetto Gemma. Il Progetto si sviluppa in 18 mesi, sei di vita del bambino nel grembo materno, a partire dal terzo mese di gravidanza, e 12 dopo la nascita fino al compimento del primo anno: alla donna si garantisce un sostegno pari a 160 euro mensili, per un totale di 2.880 euro, il tutto dicono finanziato tramite donazioni private. «Centosessanta euro al mese è una “carezza economica”, ma posso assicurare che accompagnata da un'assistenza premurosa, dalla condivisione delle difficoltà e dal sostegno di cui c'è bisogno, è un’attenzione decisiva per fa sbocciare nel cuore della mamma il sì alla nascita del proprio bambino», continua Mugnolo. «Qui si suggeriscono aiuti e sostegni che poi non sono veri. Queste persone hanno una sola chiave di lettura: la donna cattiva che vuole uccidere un bambino. Si ignorano le donne, come se non fossero in grado di scegliere», a parlare è Rosetta Papa, ginecologa che ha diretto l'Unità Operativa Complessa Salute Donna della ASL Napoli1 Centro, una carriera lunga 40 anni, finita un mese fa. «Nel 2018 passò una delibera che consentiva a queste persone di accedere ai consultori. Noi anziane, ho partecipato alle battaglie per aprire questi spazi, ci siamo dovute attivare per rivendicare un diritto laico e siamo riuscite a difenderlo. Incredibile come la 194 sia una delle poche leggi sempre sotto attacco». “Un volontariato grandioso che permette di salvare ogni anno decine di migliaia di vite”, scrive il Mpv nel suo ultimo rapporto. I “salvati” sono i bambini strappati all’aborto. Chiunque può diventare “adottante”, in cambio avrà informazioni sull'evolversi della gravidanza, nascita e crescita. Saprà il nome del bambino e la data di nascita e come specificato sul sito del progetto, “se la mamma lo consente, viene inviata una fotografia”. Le somme erogate sono versate per intero alla donna, o tramite servizi, come pannolini e generi alimentari. «Non si tratta di “invogliare” le donne a mettere al mondo figli, ma di accompagnarle in un percorso di accoglienza dei loro figli. Dal 1994 ad oggi abbiamo sostenuto e aiutato quasi 24mila mamme ed altrettanti bambini», aggiunge Mugnolo. «Certo ci vuole sostegno, anche in una scelta che ricordiamo che può essere vissuta serenamente, ma deve essere laico. Dov'è lo Stato in questi casi? Amministrazioni compiacenti non possono delegare questi compiti», aggiunge la segretaria Brignone. Interventi sul welfare, congedi di paternità, congedi parentali, asili nido, assegni familiari, aiuti alle donne lavoratrici o single: le soluzioni ci sarebbero, ma sono da potenziare. «È proprio lo Stato ad essere assente e deve intervenire in difesa delle libertà riconosciute: le donne non hanno bisogno dei prolife per fare le proprie scelte. C'è un problema di stato di diritto e noi dobbiamo essere sentinelle vigili», spiega Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, «I gruppi di fanatici clericali non rappresentano certo la maggioranza di questo paese. E poi ci sono coloro che credono nella laicità, ma non accettano di affrontare in Parlamento argomenti come aborto ed eutanasia: nell'affermare delle libertà non c'è mai da vergognarsi».

Il caso delle sepolture nel cimitero romano di Prima Porta con i nomi delle madri scritti nelle targhette. Francesca, che subì un aborto terapeutico: «Su tomba c’era il mio nome». Arnaldo Frignani l'1/10/2020 su Il Corriere della Sera. Le madri contro il cimitero dei feti. Ipotesi class action, si muove il pm. L’ufficio legale di Differenza Donna ha deciso di procedere a una class action. Ma nel frattempo anche la Procura valuta l’apertura di un fascicolo per accertare se ci siano state violazioni della privacy, che possano sfociare anche nella violenza privata. Il caso delle sepolture dei feti nel cimitero romano di Prima Porta con i nomi delle madri scritti sulle targhette, si arricchisce ogni giorno di particolari e testimonianze. Sempre su Facebook.

I casi. Ieri è stata la volta di Francesca: anche lei ha scoperto che nel camposanto sulla via Flaminia (il secondo della Capitale, dopo il Verano) «c’era una tomba a mio nome, senza il mio consenso e senza che io ne fossi a conoscenza». Anche lei, come Marta tre giorni fa, ha subìto un aborto terapeutico in un ospedale romano ma non avrebbe dato l’assenso alla sepoltura del feto, chiedendo mesi dopo l’intervento che fine avesse fatto. «Mi hanno risposto “non ne sappiamo niente” — continua Francesca —. Ora vedere il mio nome su quella brutta croce gelida di ferro in quell’immenso prato brullo è stata una pugnalata».

Centinaia di croci. Il terreno in questione si trova fra i settori 89bis, 91 e 92bis di Prima Porta: centinaia di croci, in legno e metallo, con targhe spesso illeggibili. Un quadrante che a vederlo toglie il fiato, dove il degrado è padrone: alcune croci sono ammucchiate nel fango e fra i cespugli, altre vicine ai cassonetti. I pochi giochi lasciati da chi invece ha riconosciuto la sepoltura di un figlio mai nato sono rotti, arrugginiti, sparsi ovunque nell’erba. Una visione che lascia interdetti, a pensare che si tratta di un terreno dove i feti vengono sepolti per beneficienza, a spese della collettività. Sulle targhette, scritte a mano con vernice bianca, insieme con i riferimenti del quadrante, quasi esclusivamente nomi di donna. Italiani, romeni, rom, slavi, polacchi, sudamericani. Sono quelli delle madri che hanno interrotto la gravidanza per motivi terapeutici fra la 20ª e la 28ª settimana di gestazione. Ma, come le due donne che hanno denunciato sui social, e forse molte altre, non tutte avevano dato l’assenso a comparire, e c’è il sospetto nemmeno alla sepoltura e alla croce stessa, il metodo che l’Ama ha spiegato di aver scelto perché «è quello tradizionalmente in uso in mancanza di una diversa volontà». Adesso un’eventuale indagine, dopo l’istruttoria del Garante della privacy, dovrà stabilire se ci sia mai stata la volontà sottoscritta di quelle donne.

Il rimpallo Ama-ospedali. Su questo punto continua il rimpallo di responsabilità fra Ama e ospedali, come il San Camillo: la municipalizzata sostiene di aver applicato il regolamento di polizia mortuaria e aver riportato i dati personali comunicati dalle Asl, il nosocomio invece di non avere alcuna responsabilità sulle seppellimento, e che «i feti sono identificati con il nome della madre solo ai fini della redazione dei permessi di trasporto e sepoltura». Un atteggiamento dei due enti «inquietante e irresponsabile», secondo il Coordinamento donne dell’Anpi Roma, mentre la vicenda è approdata anche in Parlamento e in Regione. «Dobbiamo spingere il governo a rivedere il regolamento del 1990 — spiega la capogruppo della Lista Zingaretti nel Lazio — per eliminare la discrezionalità che ha portato al caso del cimitero Flaminio». E il deputato radicale Riccardo Magi chiama in causa il Campidoglio: «Approvi subito una modifica del regolamento comunale per l’eliminazione immediata di tutti nomi dalle croci»

Roma, feti sepolti col nome di chi ha abortito. Emergono altri casi, le donne si ribellano. Pubblicato giovedì, 01 ottobre 2020 da marina De Ghantuz Cubbe su La Repubblica.it.  Il cimitero degli aborti al Flaminio, con sopra scritto nome e cognome della donna che ha interrotto la gravidanza. Al cimitero Flaminio di Roma centinaia di croci bianche sopra piccole sepolture e le generalità della donne che hanno interrotto la gravidanza. Monta una polemica di forte impatto emotivo che coinvolge associazioni delle donne, Garante della Privacy, ospedali e servizi cimiteriali ed è stata annunciata un'interrogazione parlamentare. Una croce dopo l'altra, una per ogni feto. Con sopra, un nome e un cognome. Quello di una donna. Al cimitero Flaminio a Roma vengono seppelliti i corpicini e i dati personali di chi ha abortito sono visibili a tutti. Centinaia le croci, divise in più lotti e si riconoscono perchè sono bianche, sbilenche, col nome di famiglia, di colei che ha dovuto o voluto interrompere la gravidanza. Per prima se ne accorta una donna, M.F. che un paio di giorni fa si è sfogata con un lungo post su Fb. "Non ne sapevo niente, mi sono trovata il mio nome su una tomba". Poi un'altra, sempre nello stesso cimitero, che dice: "È come se avessero seppellito me, hanno deciso che io sono già morta " e altre donne lo vengono a sapere dai giornali e si stanno facendo avanti in queste ore. A Roma è scoppiata una polemica di forte impatto emotivo che coinvolge associazioni delle donne, garante della privacy, ospedali e servizi cimiteriali ed è stata annunciata un'interrogazione parlamentare. La sepoltura è una possibilità regolata da una vecchia legge che risale all'epoca del fascismo e prevede che chi si sottopone a un aborto terapeutico può chiedere all'ospedale di avviare questa procedura. Ma ciò che non spiega come sia possibile che il feto venga sepolto e il nome della madre sia affisso su di una croce, tanto che l'Autorità garante della privacy ha aperto un'istruttoria. E anche il simbolo religioso è posto sotto discussione, nessuna delle donne che poi si è ritrovata le generalità pubbliche aveva specificato orientamento religioso, volontà di porre il simbolo cattolico su una qualsivoglia sepoltura. A denunciare pubblicamente quanto avviene al cimitero Flaminio è stata per prima M. L. che con un post sui social aveva raccontato  la sua drammatica scoperta:  "Nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero se volevo procedere con esequie e sepoltura. Risposi di no", racconta la donna. Niente firma, niente autorizzazione dunque. E continua: "Rimasi colpita da quella richiesta e ho iniziato a cercare informazioni". Dopo 7 mesi contatta la camera mortuaria dell'ospedale San Camillo dove ha abortito e questa sarebbe stata la risposta ricevuta: "Signora, il fetino sta qui da noi, stia tranquilla anche se non ha dato il consenso, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza. Non si preoccupi avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome". Così scopre che in diversi lotti del cimitero Flaminio si trovano sepolti i non nati con i nomi delle madri. La sepoltura avviene in base a un regolamento di polizia mortuaria del 1990 che si rifà a un decreto regio del 1939. Deve esserci il consenso della donna e M. L. denuncia di non averlo dato. Scoppia il caso e quella triste spoon river romana che offende anni e anni di battaglie femminili al cimitero Flaminio di Prima Porta diventa anche un caso politico e di coscienza laica e civile. E ora c'è il rimpallo delle responsabilità. L'ospedale San Camillo, dove è stata effettuata l'interruzione di gravidanza, ha dato la colpa di un'eventuale violazione della privacy all'Ama, la municipalizzata che a Roma si occupa dei cimiteri. L'Ama rifiuta ogni addebito e spiega che tutto avviene su input degli ospedali e delle Asl, mentre sul nome affisso sulla croce sostiene che " l’epigrafe in assenza di un nome assegnato, deve riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura da parte di chi la cerca". Una motivazione che, insieme a tutta la vicenda, non ha convinto affatto un gruppo di parlamentari che ha presentato un'interrogazione al governo per vederci chiaro. Intanto, dopo che la donna ha sollevato il caso raccontando la sua esperienza sono in tante adesso a voler capire se è la storia di M. L. è anche la loro. Ieri anche F. T. è andata al cimitero Flaminio, si è rivolta agli uffici dell'Ama che le hanno dato un foglio con il suo nome e cognome sopra: corrisponde alla salma del feto e si trova affisso su una croce. 

«Così noi donne abbiamo bloccato il cimitero per feti: basta colpevolizzare chi abortisce». A Civitavecchia un'associazione in difesa della 194 si è battuta contro la consegna dei resti abortivi da parte della Asl agli ultra cattolici di Difendere la vita con Maria. Con successo. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso il 02 ottobre 2020. Anche a Civitavecchia, città di porto provincia di Roma, ci sarebbe dovuto essere uno dei cimiteri per feti  di cui si sta parlando in questi giorni. Si usa il condizionale, però, perché poi si sono messe di mezzo le Donne in difesa della 194, un'associazione locale che dallo scorso dicembre si è battuta contro la consegna dei resti abortivi da parte della Asl (la Roma 4, nel loro caso) a Difendere la vita con Maria. Con successo, perché l'azienda sanitaria ha revocato l'accordo con gli ultra-cattolici e lo spazio per le croci non è mai stato aperto. «Se volete sapere come ci siamo riuscite, abbiamo tanta documentazione», ha scritto ieri su Twitter Anna Luisa Contu, in prima linea insieme alle compagne dell'associazione in questa lotta. La loro, infatti, è una vittoria ancora isolata, ma non deve restare un'eccezione. Anzi: «Il modo in cui abbiamo agito è replicabile in tutta Italia, bisogna lottare», aggiunge lei all'Espresso.

E allora: com'è andata a Civitavecchia?

«Nel 2017 Difendere la vita con Maria aveva chiesto alla Asl che gli concedesse i resti abortivi e i feti per seppellirli, e al Comune un'area per disporre le tombe. All'epoca la città era governata dal Movimento 5 Stelle, quindi la richiesta era andata a vuoto. È stata accolta, invece, lo scorso 19 dicembre sotto la nuova giunta Leghista, dopo che l'azienda sanitaria – il giorno prima, il 18 – aveva approvato il protocollo d'intesa con gli attivisti. Di fronte alla notizia, ci siamo subito attivate».

Come vi siete mosse a livello pratico?

«Abbiamo protestato sotto la Asl, chiesto incontri, fatto manifestazioni per sensibilizzare; ci siamo unite e – soprattutto – documentate. E a febbraio, prima che il cimitero potesse aprire, abbiamo ottenuto la revoca della cessione di feti e resti abortivi da parte della Azienda sanitaria a Difendere la vita con Maria».

Su quali leggi avete fatto leva?

«Ci siamo rifatte – in primis – alla legge 285 del 1990, il “Regolamento nazionale di polizia mortuaria”. Il testo, infatti, prevede che – nel caso in cui una donna non desideri farlo personalmente – il Comune si debba occupare della sepoltura del feto, in forma rigorosamente anonima. Al contrario, se si tratta ancora di resti abortivi, quindi sotto le 20 settimane di vita, è la stessa Azienda sanitaria a provvedere all'incenerimento. Parentesi: l'anonimato è fondamentale; l'articolo 21 della legge 194 prevede che chiunque riveli il nome della donna che abortisce è passibile di denuncia ai sensi dell'articolo 622 del codice penale. Ora: il problema è l'articolo 7 della 285, in cui c'è scritto che la donna o “chi per essa” può seppellire il feto entro 24 ore dalla sua estrazione. Molte associazioni cattoliche, infatti, si pongono proprio “al posto della donna”, spesso fornendo dei pareri legali. Ciò è gravissimo, perché è chiaro che la legge non si riferisce a loro, ma ai parenti o a chi ne fa le veci. In ogni caso, il punto è che cimiteri del genere proprio non devono esistere. E, questo, secondo la legge 285. In particolare per l'articolo 92 comma 4, in cui c'è scritto che non si possono concedere aree a terzi per sepolture private che “mirino a fare lucro e speculazione”, compresa la speculazione sociale o religiosa; e per l'articolo 100, per cui sono previste aree speciali nei cimiteri per coloro che professano un culto, sì, ma solo se diverso da quello cattolico».

Quindi, con queste basi, l'accordo è stato revocato.

«Sì, ed è stata fondamentale l'Asl: ci ha ascoltate da subito, vertici compresi, e non ha potuto che constatare che abbiamo ragione. Nella revoca, ha scritto che perfezionerà il documento, ma ci ha detto che di fatto non concederanno mai i feti o i resti abortivi a Difendere la vita con Maria o altre associazioni».

Resta in ballo il Comune, però.

«Che è un pericolo, perché non ci ha neanche mai risposto. E, qualora ratificasse la concessione dell'area a Difendere la vita con Maria, i suoi attivisti potrebbero mettere croci “simboliche”. Noi abbiamo diffidato la giunta affinché ciò non avvenga, ma chissà. Certo, gli ultra-cattolici non avranno comunque a disposizione i feti di Civitavecchia, perché l'accordo con la Roma 4 manca e mancherà. È un primo passo, insomma».

Cosa suggerisce di fare alle donne di tutta Italia?

«Di informarsi, studiare, unirsi. E di far leva sulle leggi a cui ci siamo affidate noi. Del resto, i cimiteri per feti aprono per le pressioni delle associazioni cattoliche nelle Asl, per la distrazione dei partiti progressisti, per mancanze interne, dei sindacati di categoria. Chi gli fa propaganda dentro gli ospedali? I medici, gli infermieri, il personale in prima persona; non solo gli attivisti di Difendere la vita con Maria. Ma noi, in ogni caso, siamo nel giusto, e siamo sicure di ciò che diciamo. Se una persona cattolica ritiene che i resti vadano seppelliti, nulla in contrario, ci mancherebbe: può farlo nella tomba di famiglia. Ma la legge non prevede cimiteri collettivi. Che, a livello simbolico, servono solo a colpevolizzare chi abortisce. E sono il tribunale dell'inquisizione perenne per le donne».

Roma, scandalo feti. La ginecologa: "Nel Lazio aborto terapeutico impossibile per colpa delle Università cattoliche".

Parla la dottoressa Silvana Agatone: "I primariati provengono sempre di più da quegli atenei e ciò significa che la maggior parte dei dipendenti decide di diventare obiettore per sopravvivere in un ambiente di lavoro difficile". In tutta la regione non si fa a Rieti, Frosinone, Latina, Viterbo, ma solo a Roma. Marina De Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 3 ottobre 2020. Trovare un ospedale in cui abortire è un'odissea e il ricovero, per una donna che vive un evento traumatico come l'interruzione terapeutica di gravidanza, può trasformarsi in un incubo. Proprio come ha raccontato a Repubblica una donna romana di 36 anni. Silvana Agatone è una ginecologa, 40 anni di esperienza in corsia da medico non obiettore e è presidente dell'associazione Laiga 194 che riunisce operatori sanitari, medici, infermieri che si battono per la libertà della donne di poter abortire.

Dottoressa, come si spiega che una donna che deve abortire incontri molteplici difficoltà per trovare un ospedale disponibile?

"Per l'aborto volontario l'ospedale può assumere un medico esterno che viene spostato da un ospedale all'altro per effettuare l'aborto, ma per quello terapeutico no. È necessario il ricovero, significa che ci vuole un medico non obiettore strutturato che possa stare 12 ore in ospedale. In tutto il Lazio, l'aborto terapeutico non si fa a Rieti, Frosinone, Latina, Viterbo, ma solo a Roma. Nella Capitale sono solo 5 gli ospedali, ovviamente laici, che lo praticano e nella maggior parte di questi c'è solo un medico disponibile. Gli ospedali religiosi invece fanno la diagnosi prenatale e questo secondo me è un problema serio".

Per quale motivo?

"Perché nei centri in cui si fanno le ecografie necessarie per capire se il feto è malformato ci sono solo obiettori e quindi anche se il feto è malformato e l'aborto necessario, dicono alla donna che il feto guarirà. Così la confondono, la fanno sentire in colpa, le fanno perdere tempo e oltre a vivere lo shock di sapere che il proprio figlio è malato entrano in mondo che non conosce, quello degli obiettori".

La Regione Lazio ha bandito per prima, nel 2017, un concorso solo per ginecologi non obiettori. Però, a quanto pare, non è bastato.

"Fu una cosa intelligente, ma sono ancora troppo pochi e in più vengono ostacolati. I primariati provengono sempre di più dalle università cattoliche e questo significa che la maggior parte dei dipendenti decide di diventare obiettore per sopravvivere in un ambiente di lavoro difficile. Solo una piccola minoranza trova la forza di dare battaglia per garantire i diritti delle donne, ma si ritrova a lavorare con un'equipe di infermieri, anestesisti e operatori sanitari che rendono la vita impossibile".

In che modo?

"Rifiutandosi di fare l'anestesia o addirittura di mettere una flebo a una donna ricoverata per l'aborto. Viene da sé che il medico deve fare tutto da solo ritrovandosi a dover fare anche 80 aborti al mese, ma soprattutto ricoperto di denunce di colleghi che ti accusano di aver fatto abortire una donna. Inoltre, gli aborti terapeutici sono a rischio estinzione: sono pochissimi quelli che lo praticano e stanno andando in pensione".

Questa situazione può portare anche ad aborti clandestini?

"Ci sono. Gli ospedali privati non possono eseguire aborti. Ma mi domando come mai le donne che passano per il pubblico appartengano solo a una fascia sociale ed economica medio bassa".

Il cimitero dei feti, storia di una vergogna che dura da più di vent'anni. Rita Rapisarda l'1 ottobre 2020 su L'Espresso. Donne che hanno abortito e si ritrovano il loro nome e cognome sbattuto su una croce. Senza aver dato il consenso. Per colpa di buchi normativi. In cui si inseriscono le associazioni pro-life. Ecco da dove parte l'ennesima violenza balzata in questi giorni all'attenzione della cronache. Può capitare nell’Italia del 2020 che una donna abortisca e, a sua insaputa, il feto sia prelevato dall’ospedale, trasportato in cimitero e seppellito con rito religioso, con “nome e cognome della madre” scritto su una croce, insieme alla data dell’aborto. Così Marta ha scoperto per caso una tomba a suo nome, o meglio, a nome di suo figlio. In un post su Facebook, con oltre 10mila condivisioni, Marta accende le luci su una prassi che può interessare qualsiasi donna abbia abbia affrontato un aborto. E che non ha risparmiato neanche Francesca, la cui difficile storia di aborto farmacologico ha dato il via sulle pagine dell’Espresso alla campagna #innomeditutte , sugli aborti negati. Prima in forma anonima, Francesca ci ha raccontato il suo calvario e ora, dopo aver subito una seconda violenza, non si è tirata indietro, spiegando quanto le è accaduto. 

Dietro tutto le associazioni religiose. Ma questa non è una storia dei giorni nostri, è lunga almeno vent’anni. Nasce nel 1999 insieme a Difendere la vita con Maria (Advm), un’associazione di volontariato di Novara, che tra le prime inizia a stringere accordi con aziende ospedaliere e Comuni su quelli che la legge definisce “prodotti abortivi”, ciò che resta in seguito a un aborto, che sia terapeutico, spontaneo o, come la maggior parte dei casi, un’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Prima in Italia, l’Advm istituisce proprio nella provincia piemontese il cimitero dei “bambini mai nati”. L’attività dell’associazione approfitta, pur nella legalità, di un paio di norme non troppo stringenti nel campo della sepoltura e dello smaltimento dei rifiuti ospedalieri. D’altro canto è sostenuta - o per lo meno, trova partner ideali - da aziende ospedaliere italiane, Asl e decine di comuni in giro per l’Italia, con la quale stipula protocolli per accedere negli ospedali e successivamente seppellire i feti in appositi spazi all’interno dei cimiteri, detti “Giardini degli angeli”. Della volontà della donna poco importa. Ad oggi solo l’Advm ha compiuto oltre 200mila sepolture: quante di queste sono state richieste dalle donne?

Cosa prevede la legislazione. L’art. 7 del Regolamento di polizia mortuaria del 1990 fa distinzione tra tre casi possibili in caso di aborto: bimbi nati morti (oltre le 28 settimane), in questo caso la sepoltura avviene sempre; “prodotti abortivi”, quelli di presunta età di gestazione tra le 20 e le 28 settimane e dei feti che abbiano 28 settimane di età intrauterina, cui spetta l’interramento in campo comune con permessi rilasciati dall’unità sanitaria locale, e i “prodotti del concepimento”, presunta età inferiore alle 20 settimane, considerati rifiuti speciali ospedalieri (perché non riconoscibili), quindi non destinati alla sepoltura, ma alla termodistruzione (non cremazione).  Anche se su quest’ultimo caso in alcune regioni, come Lombardia, Campania e Marche è stato fatto un passo ulteriore, sfruttando il criterio più o meno avanzato di riconoscibilità , che permetterebbe, anche nel caso in cui il feto abbia meno di 20 settimane, che non sia smaltito come rifiuto sanitario, ma che ci sia obbligo di sepoltura. In generale la prassi è che per i prodotti abortivi e quelli del concepimento “parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto domanda di seppellimento”. 

Come agiscono le associazioni religiose. Superate le 24 ore, se non avviene nessuna richiesta, decade ogni diritto. In quel momento entrano in gioco le associazioni religiose che grazie ad accordi con gli ospedali dispongono del “prodotto abortivo” o “del concepimento”, con la libertà di seppellirlo secondo cerimonia religiosa. Persone legate all’associazione si recano nei presidi, avvengono poi i funerali : processioni con il carro funebre, in cui vengono letti passaggi delle Sacre Scritture, accompagnati da benedizioni e preghiere di cui nessuno è a conoscenza e a cui partecipano liberamente, oltre al prete, volontari e credenti. Questo è possibile in quanto l’associazione di volontariato, fa prima richiesta per essere riconosciuta all’interno del Servizio Sanitario Nazionale , e poi si impersona con il “chi per essi” previsto dalla legge. L’Advm è in più di un centinaio di comuni, conta oltre tremila associati e ha 60 sedi locali. Promuove “la cultura della vita, i diritti del concepito e l’atto di pietà del seppellimento dei bambini non nati, in collaborazione con le istituzioni sanitarie e la Pastorale della vita”. Si finanzia attraverso le donazioni: “Con soli 20 euro puoi sostenere il costo del seppellimento di un bambino non nato”, si legge nel sito. Ma non è la sola. Esiste la Comunità Papa Giovanni XXIII , fondata nel ‘68 da don Oreste Benzi, e l’ Armata Bianca , un “movimento ecclesiale che ha come scopo primario la cura spirituale dei bambini”, che nel suo sito, facendo distinzione tra l’Ivg e aborto spontaneo, spiega: “in considerazione del fatto che la maggioranza delle persone ignora che si possano e debbano seppellire bambini, si è pensato di riportare la prassi da seguire: su richiesta dei genitori: per il seppellimento individuale dei bimbi abortiti naturalmente; su richiesta del Movimento: per il seppellimento di bambini frutto di interruzioni volontarie di gravidanze”. E apre a chiunque “volesse impegnarsi in quest’opera di misericordia e in questa testimonianza di fede, perché la vita è sacra sin dal concepimento”.  

L’appoggio di ospedali e comuni. Tutto è legale e previsto dalle normative. Lo schema prevede patti sia con gli ospedali, che poi con i Comuni. Protocolli d’intesa predefiniti in cui le associazioni si impegnano, con una scadenza presa in accordo, a passare negli ospedali e raccogliere i feti in contenitori speciali biodegradabili. Così l’azienda ospedaliera si libera di alcuni costi: autorizzazioni al trasporto e al seppellimento, contenitori e cassette per le inumazioni, inumazione, manutenzione e decoro dell’area (come ad esempio cura di fiori, giardino e pulizia). Il Comune dalla sua mette a disposizione gratuitamente l’area dedicata, eventuali scavi e lavori, e gli operatori cimiteriali che si occupano del seppellimento. Quanti sono i cimiteri dei feti in Italia non si sa di preciso. Jennifer Guerra, giornalista di The Vision, ha provato a mapparli , arrivando a contarne una trentina. 

Disinformazione a danno delle donne. “Lascia perdere sono cose che non ti interessano”. Si è sentita rispondere così Francesca quando ha chiesto: “Ma adesso che fine fa?”, in sala parto, dopo un aborto farmacologico al sesto mese per gravi malformazioni al feto, tra atroci dolori, senza epidurale e totale abbandono da parte dei sanitari. Anche volendo nessuno le avrebbe spiegato che era suo diritto chiedere una sepoltura, oppure rifiutarla. Sicuro non le è stato detto che tutto può finire con una croce nel cimitero della tua città, con nome e cognome scritti sopra. In assenza di ogni norma sulla privacy e diritto costituzionale. A Francesca è successo al cimitero Flaminio di Roma, a Marta a quello Laurentino , istituito nel 2012. Nome e cognome sono all’interno del sistema dei Cimiteri Capitolini, basta digitarlo per scoprire un riquadro, una fila e una fossa, con tanto di cartina sul come arrivarci. Ma quante donne sono informate di ciò che accade? Non si sa quante siano le sepolture totali, e soprattutto quante di esse siano state richieste. Perché anche se non tutte finiscono con un nome sulla croce, quante donne vogliono una funzione religiosa che non hanno chiesto? Nei moduli sul consenso informato in caso di Ivg, quasi mai si parla del dopo, del seppellimento. Le informazioni sono presumibilmente date a voce, qualora lo si faccia, in altri casi tutto rimane oscuro. Nessun protocollo, o obbligo informativo, tutto dipende dalla fortuna o meno di chi si incontra sulla propria strada.

Le mozioni pro-life. “Città per la vita”, “comune a sostegno della vita e della famiglia”, “l’aborto non come mezzo per il controllo delle nascite”. Con queste formule sono approvate nei Consigli comunali decine di mozioni pro-vita. Promosse nella totalità da partiti di destra, in particolare Lega e Fratelli d’Italia, negli ultimi anni hanno trovato terreno fertile: documenti intrinsechi di ideologie antiabortiste, che allo stesso tempo approvano finanziamenti alle associazioni pro-life o permettono ai consultori pro-famiglia di accedere in quelli pubblici. Imperia, Torino, Genova, Cremona, Caserta, Trento, Treviso, Venezia, Busto Arsizio, Biella, ultima Marsala, in Sicilia, questo agosto. Sono solo alcune: partite dal nord vent’anni fa, negli ultimi anni le associazioni puntano al sud. 

Il Garante avvia un'istruttoria. Radicali e associazioni protestano. Ora dopo il caso di Marta, forse qualcosa si muove. il Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di aprire un’istruttoria. I Radicali che già in passato hanno presentato interrogazioni parlamentari a riguardo, promettono battaglia. E Differenza Donna , un’associazione di Roma da sempre in prima linea, promette un'azione legale collettiva. Negli ospedali si consuma ogni giorno una sorta di patto fra parti, le associazioni religiose da un lato e la sanità pubblica, che sulla carta dovrebbe essere laica, dell’altro. A pagare sono sempre le donne. Queste associazioni pro-vita e antiabortiste, con la falsa finalità di voler supplire a un’esigenza pubblica e rendere un servizio, trovano ancora una volta il modo per aver voce sulle scelte delle donne e sui loro corpi. Ora basta. 

Il nome della madre sulla tomba del feto abortito, senza consenso: cosa sappiamo. Bufale.net il 29 Settembre 2020. Sta facendo molto rumore il post-denuncia di una donna che racconta la sua triste esperienza con il feto abortito, che a seguito della sua interruzione terapeutica di gravidanza, nonostante fosse negato il consenso, sarebbe stato sepolto presso il Giardino degli Angeli di Roma. Sulla croce, inoltre, è stato scritto il nome della madre in quanto il bambino non ha mai avuto un nome. La donna, nel suo post-denuncia, sottolinea la violazione della privacy: negato il consenso alla sepoltura, è comunque comparso il suo nome sulla croce.

Vi riportiamo il testo che accompagna l’immagine: Le immagini si sa, sono più potenti del testo , “arrivano prima”. Ecco…inizio scrivendo che questa non è la mia tomba, ma è quella di mio figlio. Mesi fa, condividevo con sdegno un post sullo scandalo delle proposte, in giro per l’Italia, in merito a cimiteri di feti e prodotti del concepimento senza il consenso delle donne. L’ho fatto perché ero all’oscuro di cosa accade nella realtà nel comune di Roma. Ecco, siccome non si deve mai generalizzare racconto cosa è successo a me. Nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero: “Vuole procedere lei con esequie e sepoltura? Se sì, questi sono i moduli da compilare”. Risposi che non volevo procedere, per motivi miei, personali che non ero e non sono tenuta a precisare a nessuno. Avevo la mente confusa, non ho avuto la lucidità sufficiente per chiedere cosa succedesse al feto. Dopo circa 7 mesi ritirai il referto istologico, e pensando ai vari articoli sulle assurdità su sepolture di prodotti del concepimento, ebbi un dubbio. Decisi di chiamare la struttura nella quale avevo abortito, e dopo aver ricevuto risposte vaghe, decido di contattare la camera mortuaria.

“Signora quale è il suo nome?”

“L. M.”

“Signora il fetino sta qui da noi.”

“Ma come da voi?”

“Signora noi li teniamo perché a volte i genitori ci ripensano. Stia tranquilla anche se lei non ha firmato per sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza. Non si preoccupi avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome”.

“Scusi ma quale nome? Non l’ho registrato. È nato morto.”

“Il suo signora. Stia tranquilla la chiameremo noi quando sarà spostato al cimitero”

“Ok grazie mille.”

……..

Bene, scopro che sul sito di Ama cimiteri capitolini esiste una sezione dedicata a descrivere lo scenario nel quale si inseriva quel progetto di “giardino degli angeli” del 2012. “In assenza di un Regolamento regionale, questo tipo di sepoltura è disciplinata dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 7 del D.P.R. 285/90 (Regolamento Nazionale di Polizia Mortuaria) che, in sintesi prevede che: …………i “prodotti del concepimento” dalla 20^ alla 28^ settimana oppure i “feti” oltre la 28^ settimana, vengono sepolti su richiesta dei familiari o, comunque, su disposizione della ASL.………Sempre presso il Flaminio, esiste un altro campo a cui sono destinati i “prodotti del concepimento” o i “feti” che non hanno avuto onoranze funebri perché sepolti su semplice richiesta dell’ASL. Gli stessi giacciono in fosse singole, contraddistinte da un segno funerario apposto da AMA-Cimiteri Capitolini, costituito da CROCE DI LEGNO ed una targa su cui é riportato comunemente il NOME DELLA MADRE…..”.

A questo punto mi sembrano ovvie le riflessioni su quanto sia tutto scandalosamente assurdo, su quanto la mia privacy sia stata violata, su quanto affermare che “ci pensa il comune per beneficenza” abbia in qualche modo voluto comunicare “l’hai abbandonato e ci pensiamo noi”…. Ecco … Potrei dilungarmi sulla rabbia e l’angoscia che mi ha provocato vedere che senza il mio consenso, altri abbiano seppellito mio figlio con una croce, simbolo cristiano, che non mi appartiene e con scritto il mio nome. No. Non lo faccio perché il disagio emotivo che mi ha travolto riguarda me e solo me.

Il campo in questione del cimitero Flaminio è pieno di croci con nomi e cognomi femminili.

Questo é accaduto a Roma.

Questo é accaduto a me.

Ci tengo a dire che, nonostante tutto, non dimenticherò mai l’umanità e la gentilezza del personale della camera mortuaria che ha seguito la mia vicenda per mesi.

La protagonista della vicenda si presenta con tanto di nome e cognome e pubblica la sua storia sul suo profilo Facebook, sollevando una questione di cui alcune parti politiche si erano già occupate negli anni precedenti. La sepoltura dei feti abortiti anche senza il consenso della madre è un fatto reale. L’esposizione del nome della madre sulle croci dei feti senza nome è, anch’esso, un fatto reale. Come indicato dalla donna sul sito ufficiale dei musei capitolini troviamo, a questo indirizzo, un documento che descrive il progetto “Giardino degli Angeli”. Il punto che interessa maggiormente la nostra analisi si trova a pagina 2:

Presso il cimitero Flaminio, dal 1990 è disponibile un campo apposito per la sepoltura a terra dei bambini fino a 10 anni, al quale AMA-Cimiteri Capitolini destina anche i “feti” che hanno avuto un funerale. Sempre presso il Flaminio, esiste un altro campo a cui sono destinati i “prodotti del concepimento” o i “feti” che non hanno avuto onoranze funebri perché sepolti su semplice richiesta dell’ASL. Gli stessi giacciono in fosse singole, contraddistinte da un segno funerario apposto da AMA-Cimiteri Capitolini, costituito da croce in legno ed una targa su cui è riportato comunemente il nome della madre o il numero di registrazione dell’arrivo al cimitero, se richiesto espressamente dai familiari. Cosa è andato storto? Il documento dice che il nome della madre o il numero di registrazione del feto abortito possono comparire se richiesto dai familiari. La donna non ha mai dato tale consenso, eppure il suo nome è comparso ugualmente sulla croce che indica la sepoltura di suo figlio. Today ci ricorda che l’anno scorso i consiglieri comunali di Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni prima firmataria, avevano proposto la sepoltura obbligatoria dei feti abortiti anche senza il consenso della famiglia. Era stata dura, a tal proposito, l’opposizione dei Radicali che consideravano la proposta una “violenza psicologica contro la donna”.

La storia che oggi prendiamo in analisi ha ricevuto un commento di Monica Cirinnà sulla sua pagina Facebook:

Ogni donna ha il diritto di scegliere se e come portare avanti una gravidanza. E ogni donna che abortisce, a prescindere dalla ragione per cui lo fa, deve avere il diritto di decidere il destino del feto.

C’è chi sceglie, liberamente, di seppellirlo. Ed è una decisione che va rispettata. Ma non può essere una procedura automatica e imposta a tutte, senza comunicazione, senza richiesta, senza consenso.

Perché questa diventa violenza. E vedere il proprio nome stampato sulla croce di un feto è una evidente violazione della privacy. Come a dire a tutti: “La signora ha abortito”. Questo non è accettabile. Gli attacchi alla libertà delle donne riguardo alla scelta di diventare o non diventare madri arrivano ormai da ogni parte, continuamente. La 194 minata da piccole, silenziose, ma insidiose procedure come questa. L’accesso alla RU486 messo in discussione con un uso strumentale della “salute della donna”. A oltre 40 anni dall’affermazione della libertà di scelta delle donne, si sta tentando di rimettere tutto in discussione. Non lo permetteremo. Come riportavano i quotidiani locali fino al novembre 2019, la proposta di Fratelli d’Italia non è mai stata calendarizzata dunque non è mai passata. In questo modo si deduce che contro la donna che ha raccontato la triste storia del suo nome sulla sepoltura sia stata commessa una violazione, non essendo presente alcun riferimento giuridico che obblighi la sepoltura del bambino mai nato pur senza il consenso della famiglia. Del resto sul documento del Giardino degli Angeli leggiamo chiaramente: “In assenza di un Regolamento regionale, questo tipo di sepoltura è disciplinata dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 7 del D.P.R. 285/90″.

«Dopo l’aborto spontaneo hanno dato il nome “Celeste” al mio feto e lo hanno sepolto con il mio cognome»: da Brescia una testimonianza diretta.  Elisa Messina il 10/10/2020 su Il Corriere della Sera.  «Quello che hanno fatto non è stato rispettoso né decoroso» L’avvocata Cathy La Torre con una testimone “nel giardino dei bambini mai nati”. Una donna è andata nel cimitero Vantiniano assieme all’avvocata Cathy La Torre, le ha mostrato la tomba con il suo cognome e le ha raccontato la sua storia: «Quello che hanno fatto a me e alle altre non è rispettoso e non è decoroso». «Dopo l’aborto spontaneo non avevo acconsentito a nessuna sepoltura. E invece qui c’è la tomba del feto con un cognome, il mio». Dopo la scoperta delle croci al cimitero Flaminio di Roma ecco un altro caso, stavolta a Brescia, raccontato in prima persona dalla donna che lo ha vissuto. Siamo al Cimitero Vantiniano e in uno spazio grande quasi come un campo da calcio si notano molte tombe diverse dalle altre: piccole, tutte uguali, disposte in file ordinate una accanto all’altra. In verità, guardandole da vicino si scopre che sono vaschette di plastica appoggiate al terreno. Ma la visione è comunque impressionante. Lo chiamano “Il cimitero dei bambini mai nati”. O dei nati morti, quelli che per legge (loro sì) hanno un nome e un cognome e, quasi sempre, due genitori che, consapevolmente e con dolore, si sono occupati della loro sepoltura perché sono nati dopo la 28esima settimana. Ma in questo luogo i “nati morti” sono una minoranza. Qui le tombe-vaschetta hanno, nella maggior parte dei casi, lo stesso nome, “Celeste” ma cognomi tutti diversi. Soprattutto stranieri. Si tratta di feti o “prodotti abortivi” o “prodotti del concepimento” (così li chiama la legge) di aborti spontanei o volontari (Ivg) prima della 20esima settimana di gestazione. E sepolti, quasi sempre, senza che le donne ne sappiano nulla. Come nel caso di Anna.

«Alla domanda “vuoi un funerale?” Risposi no». Anna (il nome è di fantasia) è la donna che ha deciso di raccontare la sua vicenda, davanti alla tomba del suo feto. «Ho letto sui giornali della giovane romana che ha trovato al cimitero Flaminio la croce con il proprio nome. E ho pensato alla mia di storia: nel 2015 ho avuto un aborto spontaneo alla 12esima settimana. Mi ricordo che mi chiesero se volevo dare un nome al feto per la sepoltura. Io dissi di no. Allora l’operatore scrisse “Celeste”. Mi fu chiesto poi se volevo organizzare un funerale. Dissi ancora di no. E poi non ho più pensato a questa vicenda. Fino al giorno in cui ho letto il caso della donna di Roma». A questo punto Anna decide di andare sui registri online del cimitero:«Così ho scoperto che esiste una piccola lapide con il nome di Celeste e il mio cognome che risale al 2015. Sono venuta subito a vedere. Quello che hanno fatto non è decoroso e non è rispettoso».

Le donne non sanno che fine fanno “i resti”. La lapide esiste. È li, insieme alle altre “Celesti” dai cognomi italiani, arabi, latini… nel grande spazio del Vantiniano. Anna decide di scrivere all’avvocata Cathy La Torre che, dopo il caso romano ha aperto una mail per offrire probono informazioni e consigli alle donne che ne avessero fatto richiesta. Ricordiamo che dopo il caso romano il Garante della Privacy ha aperto un’istruttoria «per fare luce su quanto accaduto e sulla conformità dei comportamenti adottati dai soggetti pubblici coinvolti, con la disciplina in materia di privacy». Le mail ricevute da La Torre sono decine e decine ma quando legge quella di Anna sceglie di accompagnarla al cimitero: «sono le prime testimonianze di qualcosa che avviene da anni nel silenzio generale», dice la Torre. «Qui ho visto moltissime tombe con cognomi reali, ma nessuna delle dirette interessate lo sa e lo saprà mai».

Un funerale collettivo una volta al mese. La pratica di seppellire in modo cristiano prodotti abortivi anche se la donna non ne ha fatto richiesta è diffusa in Italia e affidata ad associazioni di volontariato antiabortiste. Nel caso di Brescia, come ha raccontato un recente articolo sul quotidiano Il Giornale di Brescia, è l’associazione cattolica del Movimento per la Vita a farsi carico di tutto, dal recupero dei feti negli ospedali pubblici e privati al funerale e alla sepoltura: una piccola cerimonia cattolica per una sepoltura collettiva una volta al mese. Infatti le piccole lapidi riportano, a gruppi, la stessa data che è quella del “funerale”, non della “morte”. Ed è immaginabile che sia stata data sepoltura cattolica anche a feti di donne (o di coppie) di altre fedi. O di nessuna fede.

Che cosa dice la legge. In quali margini legali si inquadra questa pratica? Per legge (articolo 7 del Regolamento di Polizia Mortuaria), i “prodotti abortivi” o feti (quelli che vanno dalla 20esima alla 28esima settimana) vanno seppelliti. Parliamo di aborti terapeutici o di aborti spontanei. In questo caso viene chiesto alla donna o ai genitori se vogliono la sepoltura. In caso contrario provvede l’Asl che a sua volta demanda la cosa al Comune e ai servizi cimiteriali. Ma prima della 20esima settimana, ovvero per tutte le interruzioni volontarie di gravidanza ma anche per tutti gli aborti spontanei come quello di Anna, non esiste nessun obbligo di sepoltura (anche se dal 2007 al 2019 in Lombardia era in vigore una legge, voluta dalla giunta Formigoni che imponeva la sepoltura anche per questi casi).Quindi l’Asl procede allo smaltimento come fa per tutti i “prodotti organici”. A meno che la donna non ne faccia richiesta nei tempi e nei modi in cui chiede la legge: “i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto”.

Quasi nessuna lo fa. E qui si inserisce l’attività “di pietas” di molte associazioni. Salvo poi commettere veri abusi, come nel caso delle tombe con i nomi e i cognomi delle donne. Ma a questo punto vale la pena chiedersi quanto, aldilà della violazione della privacy, sia legittima la sepoltura in sè, visto che le donne non ne sanno niente. «Quelle che ci hanno scritto e hanno condiviso con noi le loro storie di aborti, volontari e non, hanno lamentato tutte la stessa cosa: non essere state messe a conoscenza della sorte di quei “resti”» racconta La Torre. «E realizzare che qualcuno può aver deciso al posto tuo è ingiusto e doloroso».

Il caso. Feti sepolti senza consenso, interviene il garante della privacy: aperta istruttoria. Chiara Viti su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. «Questa non è la mia tomba». Eppure lì su quella croce nel campo 108 del cimitero Flaminio (a Roma) una donna trova il suo nome, accanto a centinaia di altri. Lei, come molte altre donne, hanno affrontato un’interruzione di gravidanza, ma pur non avendo richiesto la sepoltura del feto scopre, a distanza di tempo che senza nessun consenso e in barba a ogni regola sulla privacy, qualcuno lo ha fatto per lei. «È un’azione punitiva, è come dire: lo seppellisco io per te. Trovare il mio nome su quella croce sembra voler dire: ecco tu hai abortito, ora tutti lo sanno» racconta la ragazza. Si allunga la lista delle donne che, leggendo quel primo post coraggioso di una donna su Facebook, hanno deciso di verificare di persona se in quel campo ci fosse anche il proprio nome. L’eco della vicenda ha messo in moto anche le istituzioni, ieri sono state presentate due interrogazioni: una alla Regione Lazio e l’altra al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, su iniziativa della deputata di Liberi e Eguali Rossella Muroni e della consigliera regionale Marta Bonafoni. Entrambi gli atti hanno trovato l’approvazione di molti parlamentari fra cui l’ex presidente della Camera Laura Boldrini. Il Garante per la protezione dei dati personali ha inoltre deciso di aprire un’istruttoria, definendo la vicenda «dolorosissima». In questo caso è doverosa una riflessione anche sulla scelta del simbolo religioso, nessuna delle donne che poi si è ritrovata le generalità pubbliche aveva specificato orientamento religioso. Altra violazione. Immediatamente è iniziato il ping-pong delle responsabilità. Dapprima l’Ama, municipalizzata che gestisce i lavori cimiteriali, che ha respinto ogni responsabilità: «La sepoltura del feto è stata effettuata su specifico input dell’ospedale» e poi la risposta della struttura dove sono stati praticati gli aborti, il San Camillo di Roma: «La gestione e seppellimento sono di completa ed esclusiva competenza di Ama dunque la violazione della privacy è avvenuta all’interno del cimitero». Il Regolamento di polizia mortuaria del 1990, che fa addirittura capo al regio decreto del 9 luglio 1939, distingue tra tre casi possibili in caso di aborto: i bimbi nati morti (superate le 28 settimane) vengono sempre sepolti; i feti con una presunta età di gestazione tra le 20 e le 28 settimane cui spetta l’interramento in campo comune con permessi rilasciati dall’unità sanitaria locale, e i “prodotti del concepimento”, cioè di una presunta età inferiore alle 20 settimane, considerati rifiuti speciali ospedalieri, quindi non destinati alla sepoltura, ma alla termodistruzione. Sulla vicenda è intervenuto anche Massimo Gandolfini, leader del Family Day, che ha commentato: «La legge prevede che ogni Regione possa stabilire se concedere alla donna che abortisce libertà di scelta sulla sepoltura del feto. Io credo che sia sbagliato. Il feto va sepolto sempre – precisando però che – scrivere invece il nome e cognome della madre sulla tomba è una procedura sbagliata e sciocca». Dopo la forte attenzione mediatica riservata alla vicenda, adesso qualcosa sembra muoversi. I Radicali promettono battaglia e l’Associazione Differenza Donna, da sempre dalla parte delle donne e contro la violenza, promette una class action. «Il prossimo passo sarà un’azione collettiva, tutte le donne che hanno subito questa grave violazione istituzionale devono esserne al corrente. Ci stiamo muovendo, non ci fermeremo» dice la Presidente dell’associazione Elisa Ercoli. Dopo lo sdegno, la ricerca della verità e la volontà di individuare le responsabilità per far luce su quello che sembra un “meccanismo” collaudato dove a pagare le conseguenze però sono sempre e solo le donne, stigmatizzate, ancora una volta, per le loro scelte.

Aborto, quelle donne di nuovo in croce. Dopo la denuncia dell’Espresso di un'interruzione di gravidanza diventata tortura, la scoperta del cimitero dei feti: uno spazio che è il trionfo dello stigma. E l'eterno memento del senso di colpa. Michela Murgia il 12 ottobre 2020 su L'Espresso. L'inchiesta dell’Espresso  (e la denuncia di una donna che si è trovata il suo nome su una tomba in un cimitero di cui ignorava l’esistenza) hanno portato all’attenzione pubblica lo scandalo legale di una trentina di luoghi di tumulazione dei feti abortiti. Posti simili non sono spazi di pietà per i prodotti abortivi, ma nascono per punire le donne, messe in croce una per una sulla tomba delle maternità che non hanno voluto o potuto assumersi. È il trionfo dello stigma sociale, la lettera scarlatta, la gogna e soprattutto l’eterno memento del senso di colpa: ricordati che hai fatto morire e se provi a dimenticartelo te lo ricordiamo noi. Che si sappia chi sono le degenerate che hanno scelto di non dare la vita. Che si conosca il nome di chi ha rigettato la sua vocazione naturale. Così accade che i nomi delle donne, che in tutti gli altri contesti spariscono con estrema facilità, in questo genere di cimitero vengano invece crocifissi sulle tombe, contro la volontà delle persone coinvolte o addirittura a loro insaputa. La violenza simbolica è praticata con la complicità della burocrazia, spietata con le vite delle donne vive e vegete in nome della presunta pietà per i resti delle interruzioni di gravidanza. In luoghi come questo viene infatti inscenato il paradosso che spesso appartiene ai cosiddetti movimenti religiosi anti-scelta: la vita presunta è più rispettata della vita effettiva. La matrice di questo paradosso è l’odio alle donne e alla libertà di scelta garantita da quella legge 194 che i nuovi e vecchi movimenti no-choice vorrebbero abolire. Fermo restando che la libera scelta di non diventare madre è motivazione più che sufficiente per l’aborto, sarebbe stato molto più interessante se sulle croci fossero stati scritti non i nomi delle donne, ma le motivazioni esterne che le hanno condotte a scegliere di non diventare madri. Immaginate quanto sarebbe più veritiera e lucida una simile distesa di cartigli, croce per croce. “Posti insufficienti negli asili e nidi pubblici”, “Inesistenti politiche per la conciliazione familiare”, “Dislivelli di congedo parentale per i padri”, “Differenza di stipendio tra i generi”, “Timore della condanna sociale”, “Stupro”, “Paura di non essere all’altezza dell’idea sociale di maternità”, “Rischio di perdita del lavoro”, “Sfiducia nel futuro”, “Malasanità”, “Affitti impossibili da sostenere”, “Precarietà contrattuale”, “Nessun ammortizzatore sociale”, “Assegni familiari ridicoli”, “Nonni lontani”, “Scuole fatiscenti”. Questo cimitero all’idea di futuro esiste: è sotto gli occhi di tutti ogni volta che leggiamo le statistiche che indicano il tasso di natalità italiano in 1,3 figli per donna. Se fosse un luogo fisico, quello che agli occhi di chi lo ha visitato è apparso come un immenso atto di accusa contro le donne apparirebbe finalmente per quello che realmente è: la rappresentazione plastica delle responsabilità politiche e sociali che ogni giorno portano molte di loro a pensare di non avere altra scelta che l’aborto.  

L'Inquisizione c’è ancora. E boicotta la legge 194. Non si può permettere che vengano calpestati i principi fondanti della nostra democrazia e delle nostre libertà. Filomena Gallo, avvocato e Segretario Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, l'8 ottobre 2020 su L'Espresso. A 42 anni dall’entrata in vigore della legge 194, che riconobbe il diritto di decidere se interrompere o portare avanti una gravidanza senza commettere un reato, il corpo delle donne continua ad essere sotto attacco. Ancora peggio, è diventato un vero e proprio terreno di scontro, su cui alcuni pensano di poter esercitare potere e avanzare pretese. La libertà di scelta, il diritto all’autodeterminazione - conquiste fondamentali che credevamo fossero tutelate da una legge di Stato basata su diritti costituzionalmente rilevanti, leggi del nostro ordinamento che non vengono rispettate - sono costantemente in pericolo. A 42 anni dall’entrata in vigore della legge 194, un diritto, quello di abortire, si trasforma ancora troppo spesso in una tortura, in un percorso ad ostacoli, fatto di attese infinite, leggi violate, traumi e umiliazioni. E la classe politica non può continuare ad ignorare che in Italia esiste un problema di mancata (e corretta) applicazione di questa norma, che ha il merito di aver cancellato la piaga degli aborti clandestini, tutelando la salute fisica e psicologica della donna. Una classe politica spesso convinta di avere il potere di “normare” le nostre esistenze, riportando il Paese indietro nel tempo di 50 anni e facendo pagare un caro prezzo alle donne e al loro corpo. Una legge c’è e - anche se dovrebbe essere aggiornata in molti punti, per riconoscere maggiormente il diritto all’autodeterminazione - deve essere rispettata. Nel 2020 sembra ancora esserci un perenne tribunale dell’inquisizione pronto a giudicare le donne per le loro scelte. Come è successo a Sara (nome di fantasia) che in questi giorni è ripiombata nel suo doloroso passato, dopo le notizie degli ultimi giorni sui cosiddetti cimiteri dei feti. La storia di Sara e quella di suo marito iniziano con un grande desiderio, quello di diventare genitori. Ad ogni esame pre-natale del feto, però, il referto era sempre lo stesso: malformazioni incompatibili con la vita. E ogni volta, la gravidanza veniva interrotta con interruzione volontaria. Sara e Gabriele non hanno mai rinunciato al loro sogno e hanno portato avanti la loro battaglia - poi vinta - contro quei divieti italiani che impedivano ad una coppia fertile di accedere alla procreazione medicalmente assistita per poter eseguire indagini diagnostiche sull’embrione prima del trasferimento in utero. Grazie all’abbattimento di quei divieti in tribunale, oggi, Sara e Gabriele hanno una bellissima bimba di 4 anni. Le recenti notizie delle sepolture dei feti, avvenute a insaputa di diverse donne, hanno però riportato Sara indietro nel tempo, a quei giorni durissimi di ricovero, quando persone sconosciute, che non erano né medici e neppure personale dell’ospedale, entravano nella sua stanza, chiamandola assassina. Un dolore indelebile a cui oggi si è aggiunta l’angoscia di poter trovare anche il proprio nome su una di quelle croci, la possibilità che qualcuno abbia deciso, al posto suo e senza il suo consenso, cosa fare del feto. In base alle norme italiane, questa pratica è di fatto giuridicamente permessa da tre piccole paroline: nel regolamento di polizia mortuaria è infatti previsto che entro 24 ore dall’aborto, i parenti o “chi per essi” possono procedere alla richiesta. Ovviamente chi vuole è libero di procedere con la sepoltura, ma chi, rassicurato dal fatto che è l’ospedale ad occuparsi del dopo aborto e non vuole procedere con battesimo e sepoltura, ha il diritto di non subire decisioni altrui, a propria insaputa, vedendo peraltro la propria privacy gravemente violata. Con l’Associazione Luca Coscioni potremo ritornare nei tribunali anche in questo caso, ma anche su questo il governo dovrebbe intervenire immediatamente, stabilendo che vi sia una procedura che non veda l’immissione di terzi non autorizzati dalla donna a ritirare quel feto, soggetti che si sostituiscono all’unica persona che in quel caso può decidere del dopo aborto: la donna. Non si può permettere che vengano calpestati i principi fondanti della nostra democrazia e delle nostre libertà, alla base dei quali deve esserci, sempre e ad ogni costo, il rispetto della volontà della persona, perché nessun altro possa decidere al suo posto.

La storia dell’aborto nel nostro Paese è indecorosa e i cimiteri dei feti ne sono solo l’apice. Notizie.it il 02/10/2020. È folle, inspiegabile e paradossale che di questi cimiteri dei feti, di cui per decenni non abbiamo saputo niente, ne esistano oltre 50 in tutta Italia. La prima volta che ho portato una mia amica ad abortire avevo 21 anni, e lei pochi mesi meno di me. Studiavamo all’Università, lei non aveva la minima intenzione di avere un bambino e di confidare ciò che aveva intenzione di fare. “Si tratta di qualcosa di troppo personale perché gli altri possano saperlo”, mi aveva spiegato. Ricordo ancora il corridoio dell’Ospedale, la giovane dottoressa che ci accoglieva per fare l’ecografia di routine con gli spessi occhiali da vista in tartaruga, il lettino malandato su cui la fecero distendere e la sonda che le indagava il ventre: “Eccolo!”, aveva esclamato la specializzanda indicando un punto indistinto sullo schermo. “È alla ottava settimana. Ci pensi bene, ha ancora un po’ di tempo…”, aveva proseguito poi. Lei era inamovibile – non voleva un figlio allora e non lo desidera nemmeno adesso -, eppure era rimasta profondamente turbata da quella frase, dall’espressione guidicante della dottoressa, dal monitor scuro e da ciò che sembrava stare pulsando: il futuro cuore del futuro feto. Rimasi scossa per giorni da quella visita. Fu molto più doloroso della trafila che affrontammo insieme dieci giorni dopo quando, alle sette in punto di un giovedì di primavera, dopo aver aspettato davanti al portone d’ingresso per fare il raschiamento, eravamo circondate da altre donne che spaesate si guardavano intorno. Erano tutte addolorate. L’aborto – oltre le narrazioni provocatorie più contemporanee – è un inevitabile scossone morale, perfino quando è una scelta ponderata di autodeterminazione. E lo è ancora di più, immagino, quando diventa una scelta obbligatoria, e quel bambino è frutto del desiderio di diventare madre, di creare una propria famiglia, di mettere al mondo un essere umano. Anche per questo è osceno immaginare che cosa debba significare per una donna che ha perso suo figlio – a seguito di un aborto terapeutico, o perché nato morto – sapere che il feto sia stato seppellito senza il suo benestare alle porte di Roma, in un campo fatto di croci che maldestramente riportano scritte le sue generalità di madre fallita. Leggendo la storia che M.L. ha postato su Facebook – e guardando la croce che la lega per sempre a quel doloroso passato, senza il suo consenso – ho pensato di chiamare una mia amica, R., che adesso ha due figli, ma che non scorderà mai il 7 agosto 2016. “Ero al quinto mese, e quel pomeriggio la ginecologa mi disse che qualcosa non andava. Seguirono giorni di esami e di disperazione, fino alla decisione che l’unica soluzione sarebbe stata l’aborto terapeutico. Ci ho messo quattro anni a provare a dimenticare, eppure il mio pensiero andava sempre lì e alla domanda: se lo avessi tenuto e fosse andato tutto bene? Ricordo perfettamente che mi dissero che il feto sarebbe stato smaltito dall’ospedale. Ma pensare che potrebbe stare in un campo, con una croce con sopra il mio nome, mi fa impazzire. Non c’è più rispetto”, ha sbuffato. “A patto – ha concluso – che il rispetto ci sia mai stato”. La storia del nostro Paese rispetto all’aborto è indecorosa. Non è scandita unicamente dai frequenti attacchi espliciti alla legge 194, che ancora oggi in numerose regioni è totalmente boicottata (non dimentichiamoci che circa il 70% dei ginecologi sono obiettori di coscienza). Non è caratterizzata solo dalla gogna cui quotidianamente chi ha abortito – nel 2018, secondo i dati ISTAT più aggiornati, sono state oltre 76mila le interruzioni volontarie di gravidanza, circa 6 IVG ogni 1000 donne fra i 15 e i 49 anni – viene sottoposto. Oggi, questa battaglia feroce e silenziosa sul corpo di noi donne, è un violento scempio emotivo che si basa su una legge di 81 anni fa. Una violenza sul corpo e sulla privacy delle donne, costrette adesso anche a fare i conti con uno degli episodi più dolorosi della vita con la consapevolezza che in un posto, deciso da altri, il loro nome è per sempre legato a quello di un feto abortito. È assurdo che tutto prenda forza dal 1990, e da un articolo (il 7 del decreto del presidente della Repubblica numero 285 sul regolamento di polizia mortuaria) secondo cui per i nati morti e i prodotti abortivi/feti persista l’obbligo di sepoltura. Per i primi, secondo un regio decreto del 1939 (del 1939!) è addirittura necessario seguire gli stessi procedimenti che autorizzano la sepoltura di una persona defunta. È folle, inspiegabile, paradossale e completamente assurdo che di questi cimiteri di cui per decenni non abbiamo saputo niente ne esistano oltre 50 in tutta Italia. E che in quella terra siano sepolti, senza il consenso e la consapevolezza di molte donne, i loro feti. Con sopra una croce con i loro nomi.

Mi chiamo… Anzi non mi chiamo. Storia di un bambino mai nato. Pubblicato il 11/09/2016 da Staff di Medicina OnLine.

PREMESSA IMPORTANTE: La seguente storia ci è stata inviata da un nostro lettore (Gaia Pace su WattPade. Com) , che ci ha ripetutamente chiesto fosse pubblicata. NON è opera del nostro Staff, che non la condivide nei contenuti e che rimane favorevole all’aborto. Pur non condividendone il contenuto, abbiamo comunque ritenuto fosse giusto permettere al nostro lettore di esprimere la sua opinione.

“Ciao. Mi chiamo… Anzi non mi chiamo. Sono troppo piccolo per avere un nome. Ho appena qualche settimana di vita. La mamma non si è ancora accorta di me. Semplicemente, percepisce in lei qualcosa di diverso, ma non immagina cosa possa essere: improvvisi sbalzi d’umore, capogiri, eccessiva stanchezza. Non sa che io sono dentro di lei. Poi realizza il fatto di avere un ritardo, e si spaventa. La mamma è giovane. Va ancora a scuola. Percepisco la sua angoscia, e mi ferisce la sua speranza della mia inesistenza. Continua a ignorare la cosa, a voler credere che io non esista. Oggi però ha finalmente trovato il coraggio di scoprire la verità adesso sta entrando in farmacia per acquistare un test. Si rivolge al farmacista timidamente, parlandogli a bassa voce. Temo che si vergogni di me. Torna a casa. Chiudendosi in bagno, affronta la realtà: prende il test fra le sue mani, e dopo qualche istante comprende che c’ero, che esistevo. Mi ha profondamente colpito la sua disperazione: avvertivo il suo dolore, unito al mio che cresceva man mano per la sua infelicità. Perché non mi vuoi, mamma? Non piangere, tranquilla. Ci sono qui io che ti voglio bene. Adesso prende il cellulare. Sta facendo uno squillo a papà. Non so cosa gli stia dicendo, ma la mamma si arrabbia molto con lui, grida, gli urla che io non sono un dente cariato da estirpare: sono un essere umano! Dice che non può tirarsi indietro, fingere che la cosa non esista, perché, che lo voglia o no, lui è mio padre. La mamma e così piccola ancora, fragile, ha bisogno del sostengo morale di papà, soprattutto per dare la notizia ai nonni. Invece si trova costretta ad affrontare ogni cosa da sola, perché papà non vuole saperne di me. Papà, quando la mamma ha saputo di me è scoppiata in lacrime, tu addirittura vuoi buttarmi via: perché non mi volete? Cosa vi ho fatto di male? Sono solo un bimbo innocente. Ora la mamma lo sta dicendo alla nonna. Nonna, cosa fai? Perché hai dato uno schiaffo? Cosa c’è di tanto cattivo in me, che non deve nascere? Mamma tranquilla, andrà tutto bene. Non intristirti perché hai litigato con la nonna. Vedrai, le passerà. Andrà tutto bene. Sono passati tre giorni. Ora ho tre giorni di vita in più. Che bello, non vedo proprio l’ora di nascere, di imparare a camminare, a parlare, a correre. Voglio che mi insegni tutto quello che sai, mamma. E non importa se papà non mi vuole, magari con il tempo cambierà idea. Per adesso mi basti tu. È cosi bello addormentarsi con te, mammina, svegliarsi con te, accompagnarti in ogni cosa che fai. Ora stiamo entrando in uno studio medico. Non piangere, mamma. Ci sono qui io che ti voglio bene. Vedo il dottore, molte macchine e tanti infermieri. Sei già curiosa di sapere se sarò un maschietto o una femminuccia? Eppure tu continui imperterrita a singhiozzare. Cos’è? L’emozione di sapere il mio sesso? Continui a ripetere, accarezzandoti il ventre «perdonami, bambino mio». Perdonarti di cosa?!? Perché dovresti avere bisogno del mio perdono? Cosa stai facendo, per chiedermi scusa? Sento un dolore, una specie di ago che invade il mio piccolo mondo perfetto. Ho capito tutto. Le mie cellule strappate dalla tua carne. Ora capisco che tu non mi insegnerai mai a camminare, a parlare. Perché io non nascerò mai. Non piangere mamma, io ti perdono. Chissà se esiste un paradiso per i bimbi mai nati. Addio mamma. Saremmo stati felici insieme, ti avrei voluto tanto bene. Addio.” Il tuo bambino senza nome.

Elena Stancanelli per “la Stampa” l'1 ottobre 2020. Preferirei di no… Ma quando una donna dice no, mica è detto che voglia dire davvero no. E poi potrebbe ripensarci, magari ha solo bisogno di essere incoraggiata. Ma io preferirei di no, davvero. A noi, comunque, non interessa, perché abbiamo deciso altrimenti. Chi abbia deciso altrimenti non è chiaro. Ieri la direzione generale dell’ospedale San Camillo ha messo un post su Facebook. Con il quale ha spiegato di non avere nessuna responsabilità nella vicenda. Una volta effettuato l’intervento, “le successive attività relative al trasporto, alla gestione e seppellimento del feto sono di completa ed esclusiva competenza di Ama. Azienda ospedaliera e asl di competenza in alcun modo concorrono ad alcuna scelta in merito alle attività di seppellimento”. Quindi saranno stati loro a decidere che, nonostante le donne avessero detto di no quando era stato loro chiesto se volevano dare sepoltura al loro aborto terapeutico, era il caso di procedere comunque. Quelle donne, insospettite dalla vaghezza di alcune risposte, hanno deciso di andare a visitare il cimitero Flaminio e hanno trovato tombe sovrastate da croci col loro nome impresso. Un incubo, un film dell’orrore. Qualcuno, a loro insaputa, aveva deciso di seppellirle per sempre. Di seppellire la loro colpa, che porterà per sempre il loro nome così che chiunque voglia farlo potrà additarle, fotografarle, diffondere come crede l’immagine. Dovremmo trasecolare, noi che temiamo che la nostra privacy venga violata se, per esempio, installiamo sul telefono una app che dovrebbe tracciare l’andamento del Covid. Dovremmo batterci perché quel campo sia ripulito dalla vergogna di quelle tombe, traboccare di indignazione. Ma quando si tratta di aborto tutte le regole del vivere civile sembrano saltare, la razionalità scompare. Si comincia con i se e con i ma, si prendono le distanze, si tratta l’argomento con imbarazzo. C’è una legge, spesso disattesa ma comunque in vigore da più di quarant’anni, ma non basta. E’ forse l’unica legge italiana contro la quale ci si accanisce, è tutto un florilegio di bambolotti coperti di sangue, sensi di colpa scagliati come maledizioni, portachiavi a forma di feto da regalare a chi è stata appena dimessa. Gli anti-abortisti, o i pro life come amano farsi chiamare (come se avessero il diritto di ritenere i loro avversari persone contro la vita) non sono capaci di trovare neanche un attenuante a una donna che abortisce, neanche una circostanza all’interno della quale il suo gesto potrebbe essere compreso. Molto meno di quando sono disposti a concedere a un assassino, qualcuno che tolga la vita a una persona, qualcuno che ama, è amato, qualcuno la cui esistenza ha lasciato dei segni. L’episodio scoperto ieri, e che si sta allargando a molti altri casi, rivela qualcosa che le donne, e i pochi medici che ancora si scapicollano perché la 194 non venga completamente disattesa, sabotata dagli obiettori di coscienza, già sanno: ci sono persone per le quali l’aborto non è solo un crimine, ma una maledizione, un presagio funesto, una bestemmia. Con buona pace di quelle donne, arroganti e presuntuose, che credono di vivere nel XXI secolo e di poter decidere del proprio corpo, va seppellito, come le interiora di un capretto, per salvare la comunità dal maleficio.

Così ci fanno dimenticare che l'aborto è un diritto. Da settimane riceviamo storie di donne maltrattate, isolate, insultate. Lasciate in una stanza d'ospedale a rimuginare sulle proprie scelte. A soffrire le pene dell'inferno, senza anestesia, perché sentano il dolore fino in fondo. Con la campagna #innomeditutte abbiamo raccolto centinaia di esperienze. Chiara Manetti l'8 ottobre 2020 su L'Espresso. Nessuno pensava che potessero essere così tante. Ostacolate e discriminate, le donne lasciate sole e senza assistenza ad affrontare un aborto sono centinaia. E si tratta solo di quelle che ci hanno contattato, ma chissà quante altre ne esistono che rimangono in silenzio, per vergogna o per paura. Grazie alla campagna lanciata sul sito dell’Espresso #innomeditutte, nata dopo il racconto di un’interruzione volontaria di gravidanza trasformata in tortura, abbiamo accumulato esperienze provenienti da tutta Italia. Ne riportiamo alcune. Per tutte coloro che hanno scelto di interrompere una gravidanza perché una legge di Stato lo permette. Per le madri che scelgono di non volere un altro figlio. Per i mariti che vengono tagliati fuori da un percorso che si dovrebbe affrontare in due. Per chi viene trattato come se l’aborto non fosse un diritto. Capita quando hai 18 anni e una dottoressa cerca di convincerti a non farlo: «I tuoi genitori non potrebbero prendersi cura di lui?». Capita quando senti lo sguardo degli infermieri posarsi sulle più insignificanti zone scoperte della tua pelle, sotto quel camice verde annodato malamente. «Prima vanno a divertirsi e poi...». Speri di aver capito male. Capita anche quando, fino ai minuti prima del raschiamento, continuano a suggerirti di “ripensarci”. Senza preoccuparsi delle tue motivazioni, perché non possono esistere ragioni valide per abortire. Non per il 69 per cento dei ginecologi e neanche per il 30 per cento degli anestesisti o il 42 per cento del personale non medico in Italia. Questi dati risalgono al 2018 e sono i più recenti che abbiamo a disposizione. Alcune delle storie raccolte sono attuali, altre risalgono a decine di anni fa. Ad esempio T. da Perugia parla del suo aborto nel 1987: «Ma vedo che nulla è cambiato in chi dovrebbe mettere un po’ di umanità e solidarietà nel proprio lavoro, soprattutto tra donne». Ricorda una stanza gelida, insieme ad altre venti come lei. Ricorda un farmaco, forse un tranquillante, ma nessuna spiegazione a riguardo. Sul lettino, prima che si addormentasse, «sentivo medici e infermiere parlare della festa a cui avevano partecipato il giorno prima. Nessuno che mi abbia tranquillizzata, neanche un misero gesto di comprensione. Ma da quanto ho letto, il 2020 è ancora peggio». «Siamo tornati indietro di anni», lamenta un medico psichiatra che negli anni ‘80, subito dopo la 194, prescriveva molti certificati per le Ivg. Una storia, quella di M., risale a quel periodo: è il 1989 quando l’ecografia alla 22esima settimana mostra un’ernia diaframmatica. «Trafila identica a quella raccontata nella storia pubblicata sul vostro giornale - e sono passati trent’anni. Primo step, istituto di Igiene mentale dove un assistente sociale suggerisce addirittura il ricovero di almeno un giorno». M. aspetta quasi una settimana prima di recarsi in ospedale: «Mi sentivo un pacco esplosivo che cercavano di passarsi di mano pur di non essere coinvolti». Una mattina la ricoverano in una camera con partorienti e neonati e lì inizia la terapia abortiva. I dolori sono lancinanti, ma le negano un calmante. Quando le contrazioni durano ormai da 23 ore, i medici si rifiutano di intervenire perché bisogna lasciare che tutto accada. «Tra le mie gambe sento il sangue e un piccolo esserino che lentamente si muove. Mio marito ha la prontezza di prendermi in braccio ed inizia a correre verso la sala parto». Di colpo medici, ostetriche e infermieri risorgono. Dopo aver preteso di essere sedata durante l’aborto, M. finalmente si addormenta. «Appena ho potuto ho preso la mia dignità e ho lasciato quell’ospedale che ormai per me era un incubo». Come racconta anche D., «ci sono posti in cui ti fanno sentire colpevole. Non c’è giorno che non pensi a ciò che ho fatto, anche se sono passati 15 anni». Scrive da Roma, città in cui oggi i medici non obiettori sono solo cinque e cinque è anche il numero di ospedali in cui viene effettuato l’aborto terapeutico. I dati  più recenti sulle Ivg effettuate nella capitale risalgono al 2018, il Comune li ha pubblicati a maggio: sono più di seimila, mentre in tutta Italia superano quota 76mila. Si tratta del 67,5 per cento in meno rispetto al 1982, quando si registrò il più alto numero di Ivg nel Paese. La storia di L. inizia proprio nel 2018, a Roma. È alla 24esima settimana quando scopre una rara patologia. «Devi abortire immediatamente, perché tuo figlio sarà un vegetale», le dice il suo ginecologo, ma aggiunge che non può aiutarla. Dovrà rivolgersi altrove, «forse all’estero». Presa dal panico, scopre in autonomia che c’è un reparto per la 194 all’ospedale San Camillo. Lì abortisce, al sesto mese. Sentendo il pianto disperato di suo marito, rigorosamente fuori ad aspettare che tutto finisca. La storia di L. ha un risvolto ancora più drammatico: dall’autopsia risulta un errore nella diagnosi del ginecologo: il bambino poteva nascere sano. La diagnosi chiara e definitiva lei e suo marito la aspettano da due anni. Colpa anche del Covid-19, che ha rallentato ulteriormente le cose. L’attesa sembra essere una costante in tutte queste storie. Uno dei tanti fili rossi che le collegano tra loro. Quella di C. è avvenuta in una sala parto, ancora una volta a Roma. La lasciano da sola con un pulsante da premere «quando è successo». Sì, ma cosa? «Lo scoprirai», le rispondono le infermiere. Poi “succede” e C. spinge il bottone. «Non sai che il giorno dopo ti sentirai stranamente felice, ma saranno solo gli ormoni che rispondono ad un finto parto. Io con l’arrivo del latte sono caduta nel baratro. Un anno di analisi e l’amore di mio marito non mi hanno fatto affondare, ma è stata solo fortuna». Una di queste storie ci viene raccontata proprio da un marito. Da Piacenza. È il 2006 quando lui e la sua compagna optano per un aborto farmacologico: «Non ti dicono che ti ritrovi su una tazza del water a fare uscire un piccolo feto. E tiri l’acqua, poi. Io ero lì accanto per tutto il tempo a tenerle la mano. E quando sai che la legge 194 prevede l’assistenza psicologica capisci che i diritti e l’aiuto previsti sono rimasti sulla carta. Zero informazione, nessun supporto. Nessuna umanità si incontra in questi drammi di donne, di uomini e di relazione». Da Firenze invece arrivano le scuse di un’ostetrica «per non aver fatto abbastanza come professionista. Starò sempre a fianco delle donne e continuerò a lottare perché tutte abbiano un trattamento dignitoso e rispettoso». Ma una non sembra abbastanza per ricucire i danni di tutti i medici obiettori. Un’altra ostetrica ci racconta dei turni estenuanti e dei weekend che non esistono più: solo lei e altri quattro nella sua struttura sono non-obiettori. «Abbiamo una cardiologa che non referta gli ECG e anestesisti che si appigliano al fatto che l’epidurale non sia garantita». Ma molte cose funzionano: la somministrazione della RU486 e la spiegazione dettagliata di ciò che potrebbe avvenire dopo, a casa. Come il parto sul water, che con le adeguate istruzioni si potrebbe evitare. Se solo a Piacenza le avessero date. «Capita che le donne ringrazino prima di essere dimesse» spiega l’ostetrica. Si sentono fortunate ad aver trovato un posto dove sono seguite passo passo. Si tratta di un loro diritto, ma glielo fanno dimenticare. «Gli obiettori sono un’anomalia che dovrebbe sparire», aggiunge. Un’anomalia troppo diffusa.

Assassina, egoista, meriti una bara bianca: gli insulti feroci alle donne che scelgono l'aborto. Le storie di interruzioni volontarie di gravidanza arrivate in risposta alla nostra campagna #InNomeDiTutte non si fermano. Abbiamo scelto di pubblicarne ancora, cercando un filo conduttore. La prima tematica è la più comune: il trattamento indegno che numerosi medici, psicologi e infermieri obiettori riservano alle pazienti. Chiara Manetti  su L'Espresso il 22 ottobre 2020. Da settimane riceviamo e pubblichiamo storie di aborti. Leggerle non è facile, viverle è inimmaginabile. Provengono da tutta Italia, queste testimonianze di donne maltrattate, considerate assassine, costrette a vergognarsi di voler esercitare un diritto. Abbiamo deciso di raccontarle ancora, ma in maniera diversa: le abbiamo divise per tematiche comuni. Iniziamo con il trattamento indegno che numerosi medici, psicologi e infermieri riservano alle pazienti che decidono di eseguire una Ivg. Spesso lo stesso accade anche alle donne che subiscono un aborto spontaneo.

M. da Modena scopre di essere incinta a 21 anni, è già di 6 settimane. «Policlinico, ottavo piano, reparto 194. Una ragazza accanto a me piange disperata. La signora che spinge la mia sedia a rotelle, assegnata al piano maternità, si lamenta ad alta voce di doverci portare a compiere un omicidio. Sì, lo chiama così. Inizia a chiedermi se so come funziona, se so che quando lo "raschiano" lui soffre. Tu puoi ancora decidere, mi dice, l'altra ragazza è un caso perso perché l’ha già ucciso».

Un’anonima, dalla Toscana, racconta del suo ex compagno, «nonché medico luminare di rianimazione, che mi schernisce dicendo che avrei buttato nel cestino dell’organico una vita e che avrei meritato una bara bianca come soprammobile in camera da letto». 

G. da Padova si considera fortunata. A 23 anni decide di abortire, è il 2009. La sua famiglia la sostiene, il personale ospedaliero è gentile. Ma durante il colloquio con la psicologa dell'ospedale, «la dottoressa cerca in tutti i modi di farmi cambiare idea sull'intervento, arrivando ad affermare che sono un'egoista, la solita atea arrogante. Conclude l'appuntamento sbattendo un libro di anatomia sul tavolo, con l’immagine di un feto alla decima settimana: "Ecco che cosa sta per uccidere", mi dice».

V. da Milano si fa seguire da uno da uno stimato primario, «che per essere tale è ovviamente un obiettore di coscienza». Durante l’ecografia qualcosa non va, il feto ha una malformazione e V. decide di bloccare la gravidanza. «Mi dice che ormai è troppo tardi, ma non era vero e non lo sapevo. Sono rimasta in cura lì per altri 10 giorni. Poi, scoperto che avevo ancora 8 giorni per farlo, ho cambiato ospedale». 

Da Sassari il racconto di G., i suoi ricordi risalgono al 2010: ha 19 anni quando sceglie di abortire. «Arrivo in ospedale e le infermiere mi trattano in malo modo, tremo. Mi danno un camice aperto dietro, ingenuamente tengo i calzini. Mi caricano su una barella, poi in sala operatoria. Mi guardano sconvolti: "Perché indossi ancora i calzini? Non devi assolutamente averli!" e me li sfilano in malo modo. Finita l’operazione mi dicono che dovrò stare ancora lì, complicazioni post operatorie. Io piango, mi lamento. "Poteva pensarci prima" dice un’infermiera».

V. da Palermo racconta la sua esperienza, vissuta a Roma, quando «in sala operatoria, con le gambe aperte, mi sono sentita dire: “Ah, queste vengono qui come se fosse un supermercato, a fare quello che vogliono». 

S. da Ferrara, alle visite pre-operatorie, incontra un ginecologo che, vedendo il suo piercing all’ombelico, le chiede se fa la ballerina di lap dance. «Il giorno dell’operazione sono stata trattata come una bestia al macello. Dopo l'anestesia totale mi hanno svegliata con una sberla. Ricordo che all'uscita un'infermiera si rivolse a me e alle altre ragazze dicendo: “Speriamo che siate in grado di non tornare più qui”. Mi sono sentita una puttana». 

Un’anonima racconta di una complicanza dopo l'intervento, che le provoca un'emorragia. Il medico che la porta d'urgenza in sala operatoria le dice chiaramente: “Ci dovevi pensare prima”.

Un’anonima racconta della sua esperienza a 20 anni all’ospedale Sant’Anna di Torino. «Due cose me le porterò sempre dentro: un ginecologo che, mentre sono nella classica posizione da visita, mi ride in faccia per la “depilazione accurata” e un'infermiera che, quando le faccio presente di avere dolori alla pancia, mi risponde “Prima ti sei divertita e ora ti lamenti?”».

​A D., che dopo ore di travaglio, in un ospedale siciliano, chiede di spostare dal suo letto il feto appena espulso, l’infermiera risponde “Se le dà fastidio si alzi e si metta da un’altra parte”. 

E. da Palermo parla del suo aborto, a 19 anni, all’ospedale Villa Sofia. «Ricordo che entravano in sala operatoria e chiacchieravano come se nulla fosse, con me che avevo le gambe aperte e legate al lettino. Mi sono risvegliata in un corridoio, ero nuda e addosso avevo solo una maglietta. Ho discusso con un infermiere che diceva di non potermi aiutare. Devo ringraziare solo le ragazze di una stanza vicina, che mi hanno prestato i loro cappotti. C’era chi vomitava, chi aveva la sagoma di cinque dita sulla faccia, chi urlava per i dolori: nessuna veniva soccorsa». 

L. da Torino racconta del giorno in cui la sua dottoressa le disse "Se abortisci non avrai più figli". «A 26 anni puoi accettare quella notizia in milioni di modi, ma lei non ritenne di doversene preoccupare. Durante l’operazione, senza anestesia totale, ricordo che il medico gridava all'assistente "Tienila ferma questa, si muove troppo". Ero in un buon ospedale romano e sì, in effetti mi muovevo. Faceva un male cane, la ruspa». 

Da Palermo ci scrive A., che scoprendo una trisomia 18 decide di abortire. «Incontriamo una dottoressa per avere il certificato di interruzione di gravidanza: brutta persona, glaciale, volgare. Nessun dettaglio risparmiato, neppure per rispetto del pudore. "Guardi che se nasce vivo lo dobbiamo rianimare". Il giorno dell'operazione chiedo informazioni su mio figlio, ma ricevo uno sguardo pietoso e nessuna risposta. Un medico mi dice di sentire “pezzi del bambino in vagina”. In sala operatoria mi chiedono il nome, per battezzarlo. Io perdo conoscenza. Al mio risveglio chiedo uno psicologo ma non ce ne sono in ospedale. Me ne vado».

S. da Perugia racconta che «Durante il primo colloquio al consultorio, la dottoressa tira fuori dei faldoni dove io leggo i nomi delle donne che avevano abortito in precedenza: rispetto per la privacy zero. Durante l'ecografia mi fa sentire enormemente in colpa facendomi vedere e sentire il cuoricino del feto, rivolgendosi a me con cattiveria durante tutta la visita. Mi saluta con "Adesso però usiamola la pillola eh!"».

A cura di Chiara Manetti

«Lasciata sola e nuda a vomitarmi addosso: ecco il mio aborto». Troppo spesso abortire diventa una tortura. L’Espresso ha messo a disposizione uno spazio in cui condividere anonimamente la propria esperienza. Per rompere il silenzio e raccontarla #innomeditutte. Questa è una delle testimonianze che abbiamo raccolto. L'espresso il 09 ottobre 2020. Dopo aver scritto la terribile testimonianza di un'interruzione volontaria di gravidanza fatta di sofferenze e silenzi, abbiamo deciso di pubblicare un po' alla volta quelle arrivate in redazione in questi giorni. Lo spazio anonimo riservato alle vostre esperienze ne ha raccolte a centinaia. Da tutta Italia. Da giovani ragazze alla prima gravidanza, da donne già madri di due figli, da mariti che cercano di esprimere a parole il dolore di una perdita da cui spesso vengono esclusi.

Questa è la testimonianza di A. da Rieti. «A maggio del 2019 scopro di essere incinta. Ho 44 anni, due figli già grandi che vanno al liceo e mio marito che ne ha compiuti 50. Decidiamo che non ce la sentiamo di affrontare un'altra gravidanza. Riusciamo, facendo miracoli, a dare ai nostri due ragazzi il sostegno economico che meritano, ma un terzo non ce lo possiamo permettere. Per età, per condizioni economiche, perché dopo la maternità e a quest'età non riuscirei neppure a reintrodurmi bene nel lavoro. Andiamo alla Asl. Dal momento che formalizzo la mia richiesta di aborto mi danno una settimana, "Il tempo che le serve per approfondire bene la sua scelta e magari ripensarci". Torno per ottenere il certificato medico del dottore della Asl, senza il quale non si può fare nulla. Siamo in tutto due signore in sala di attesa. Il dottore che doveva essere d'ufficio già alle 9, arriva alle 12,30. Firma. Mi mettono l'appuntamento a distanza di 15 giorni. Scopro che nella mia città l'interruzione di gravidanza viene praticata con anestesia totale. Praticamente il medioevo degli aborti. Dalle 24 del giorno prima non devo più mangiare né bere. Alle 8 accettazione nel reparto maternità, dove sentiamo travagli, gioie, via vai di parenti festanti che passano davanti a noi 4, che siamo sedute compite su una panca. Tutti sanno perché siamo lì. Alle 10 veniamo trasferite in un reparto di day hospital. Ci fanno spogliare e mettere il camicino da ricoverate, aperto dietro, sotto siamo nude. Ci danno una pillola di antibiotico da sciogliere in bocca senz'acqua. È amara come il fiele, c'è chi vomita sul letto, chi cerca di arrivare nel bagno del corridoio, ma il reparto è misto. Siamo donne e uomini e noi siamo nude con un pigiamino aperto dietro. Desistiamo e ci facciamo dare delle traversine per vomitarci addosso senza sporcarci. Alle 12:30, sempre senza bere dalla sera prima, arrivo in chirurgia. Ci vorrà un'altra ora prima che, sdraiata sul letto con le gambe legate a dei supporti che le tengono aperte e verticali, mi facciano l'anestesia totale. Riapro gli occhi dopo poco, vomito ancora per l'effetto del narcotico. Mi rimettono nella stanza di prima. Nessuno mi offre assistenza. Dopo un'ora chiamo mio marito, mi aspetta di sotto con la macchina. Firmo le dimissioni e, finalmente, me ne vado a casa. Distrutta».

«Il mio aborto? Chiedo aiuto ma l'ostetrica non vuole toccarmi. Per tutti sono solo articolo 7». Troppo spesso abortire diventa una tortura. L’Espresso ha messo a disposizione uno spazio in cui condividere anonimamente la propria esperienza. Per rompere il silenzio e raccontarla #innomeditutte. Questa è una delle testimonianze che abbiamo raccolto. L'Espresso il 12 ottobre 2020. Dopo aver scritto la terribile  testimonianza  di un'interruzione volontaria di gravidanza fatta di sofferenze e silenzi, abbiamo deciso di pubblicare un po' alla volta quelle arrivate in redazione in questi giorni. Lo  spazio anonimo  riservato alle vostre esperienze ne ha raccolte a centinaia. Da tutta Italia. Da giovani ragazze alla prima gravidanza, da donne già madri di due figli, da mariti che cercano di esprimere a parole il dolore di una perdita da cui spesso vengono esclusi.

Questa è la testimonianza di E. da Napoli. «Il giorno in cui sono diventata un articolo della legge 194. Il 19 marzo 2018, incinta del mio primo figlio, mi reco presso lo studio del mio ginecologo per la morfologica. Con me ci sono mio marito e mio padre. Il dottore inizia la sua visita illustrandoci le varie parti del corpo. Ridiamo quando ci dice che è bello grande, ma arrivato alla testa si fa piuttosto silenzioso. Vedo e sento che gira e rigira la sonda sul mio ventre, a tratti sento dolore. Dopo qualche minuto di silenzio, con aria preoccupata, mi dice di rivestirmi e di raggiungerlo nel suo studio. Il nostro bambino presenta una ventricolomegalia grave con agenesia del corpo calloso. Chiama un suo collega e ci manda immediatamente da lui per una ecografia di secondo livello. Nel frattempo ci illustra tutte le possibili opzioni, tra cui si figura quella dell’aborto terapeutico. La seconda eco non solo conferma quanto emerso dalla prima, ma evidenzia anche altre malformazioni. Il quadro è grave e decidiamo, alla 22esima settimana, di procedere con l’aborto. Alle 20:30 sono seduta nella sala d’attesa dello studio medico. Piango e aspetto che mi dicano quale ospedale potrà accogliermi. Alle 21 ancora nessuna risposta. Vado via. Ce lo comunicano il giorno dopo. Lì mi spiegano il procedimento e mi danno appuntamento per la settimana successiva. Lunedì 26 marzo 2018 vengo condotta nel reparto Ivg. Ci sono molte donne in attesa. Fatte le prime visite mi dicono di recarmi in maternità e di presentarmi come articolo 7. Da quel momento in poi il mio nome non verrà mai pronunciato e anche io mi presento al personale medico come articolo 7. Nel reparto maternità sento donne in travaglio e piccoli fagottini che strillano affamati di latte e contatto materno. Mi somministrano la famosa Ru486, inizio ad avere paura. Tiro su le cuffiette, mi metto a letto ancora con i miei abiti. Dopo qualche ora arriva il ginecologo. Inserita la prima candeletta non sento niente, aspetto. Non mi è consentito mangiare né bere. In serata iniziano i primi dolori, che si fanno più intensi durante la notte. Nel frattempo sono sola nella stanza, in un letto scomodo, nessuno passa a controllare. Il mattino seguente si procede con la seconda candeletta, le contrazioni incalzano, il dolore è insopportabile. Chiedo aiuto ma sono tutti troppo impegnati altrove, inizio a fare su e giù per il corridoio. Incrocio lo sguardo di donne in travaglio, mi richiudo in camera, non voglio che mi vedano perché io lì sono il mostro. Finalmente dopo 2 giorni qualcuno mi controlla: un'ostetrica mi dice che non ci siamo ancora. Chiedo qualcosa per il dolore, ma il travaglio è necessario e un antidolorifico lo rallenterebbe, mi dicono. Se ne va raccomandandomi di espellere il feto nel letto e di non alzare assolutamente il lenzuolo. È notte fonda, sono sul letto, con me c’è mia zia. Sento il bisogno di spingere, mi posiziono carponi sul letto e sento un grande botto. Chiamo l’ostetrica, mi dice che ho solo rotto le acque. La supplico di non andare via, di aiutarmi, ma lei va via. Io sento che sta uscendo, inizio a spingere. Sento che il suo corpicino è metà dentro e metà fuori. Richiamo l'ostetrica supplicandola di aiutarmi a tirarlo fuori, lei mi dice freddamente e un po’ scocciata che non può toccarmi. Va via dicendomi di chiamarla solo una volta terminato. Dopo qualche minuto sento il mio bambino scivolare via da me, sono quasi le 4 di notte. Mi portano in sala parto, mi ripuliscono e mi danno una bibita. Lo stesso giorno alle 12 mi dimettono». A cura di Chiara Manetti

Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte. Il feto malformato, l’urgenza di un’interruzione terapeutica di gravidanza. L’inizio di un calvario  fatto di umiliazioni, silenzi, disprezzo. A Roma: dove ci sono 5 medici non obiettori per 3 milioni di abitanti. Beatrice Dondi ed Elena Testi su L'Espresso il 28 settembre 2020. È il 22 febbraio 2020. In televisione passano le notizie di una possibile zona rossa nel Lodigiano provocata dal primo caso italiano di Coronavirus. Codogno è in sottofondo. Al tavolo siamo in tre. Tre generazioni diverse. Tre storie. Una di noi ha una figlia ormai avviata alla vita adulta, l’altra di figli non ne ha e forse non ne vuole avere. E poi c’è lei che, pochi mesi fa, si è sottoposta a un aborto terapeutico. Tiriamo fuori uno smartphone per registrare. Ogni parola deve rimanere, lo decidiamo mentre il Covid-19 entra da una tv accesa. Lei ha un parka verde, i capelli stretti in una coda arruffata. «Me lo posso togliere?», dice mentre è già con solo il maglione indosso e il vassoio di pasticcini appoggiati sul tavolo. Calma, lucida, affilata: «Vi dico già che non voglio un nome di fantasia, anzi non voglio proprio un nome perché quello che è accaduto a me può accadere a tutte». Ci indica con il dito e poi si mette seduta, fa cenno di procedere con la registrazione. Che diventa in un attimo una chiacchierata tra amiche, tra donne che ne conoscono altre nella stessa situazione, che hanno già sentito questa storia. La stessa ripetuta tra generazioni diverse ma che ha sempre la medesima procedura. L’unica cosa che cambia è la sensazione che ti lascia. La cicatrice, la chiamano. Lei comincia a parlare, parte la registrazione: «Quella mattina, il 5 settembre, accompagno mia figlia a scuola con mio marito. Ha cinque anni, è sveglissima, forse anche tro ppo. Fuori le madri mi vedono con la pancia. Ero quasi al sesto mese». Non fa mai una pausa, mai una lacrima, mai qualcosa che ci spinga a farle prendere un secondo di attesa dal ricordo. «Dopo averla lasciata andiamo a fare la “morfologica”. Sono eccezionali queste nuove tecnologie, vedi tutto, riesci persino a capire a chi assomiglierà». L’ecografia morfologica serve per accertare l’esistenza di eventuali malformazioni, ma quasi sempre di fronte allo schermo che proietta l’immagine del feto ti concentri nei tratti somatici. È una caccia ai lineamenti. «A un certo punto il ginecologo smette di parlare, poi ci dice che qualcosa non va. Il feto è malformato, ha un ventricolo solo e l’aorta schiacciata. Il giorno dopo ci manda da un’altra specialista. Conferma la diagnosi, ci dice che potremmo farla nascere comunque con un’operazione fatta da un luminare. Avrei dovuto metterla al mondo e farla intubare; al sesto mese sottoporla a una nuova operazione per un’aspettativa di vita massimo di tre anni. Mi sono rifiutata. La specialista era una neocatecumenale». Per arrivare a questo breve inizio è servita un’ora, intervallata da frasi, domande. Un buco di dubbi di fronte a un feto che cresce ma è “inadeguato alla vita”, questa la formula lessicale usata dai medici. «Quando ho deciso che non avrei messo al mondo una bambina così malata, pensavo che sarei riuscita a fare tutto presto, subito. Pensavo che trovare un ospedale in grado di farmi abortire non fosse un’odissea, pensavo di aver bisogno di un chirurgo, pensavo di non dover sentire dolore. Pensavo che una legge sarebbe bastata. Invece sono entrata in un inferno infinito, in cui le informazioni e l’aiuto ricevuto sono stati pari a zero, in cui ogni giorno venivo rimandata al successivo. Dal giovedì al venerdì, dal venerdì al sabato, poi c’è il week end, forse lunedì, forse no. E per tutti quei giorni sono rimasta in piedi, in piedi come un cavallo, per non sentirla muovere, sperando solo che finisse presto, imbottita di vino e di Xanax». Questa donna, che non vuole un nome e vuole essere il nome di tutte, ha la stessa storia di molte altre: l’aborto, che sia terapeutico o no, ha dei tempi di attesa che assomigliano a una pena da scontare. Un silenzio di giorni durante i quali devi trovare un ginecologo che non sia obiettore di coscienza, che abbia un turno libero e che sia disponibile a prendere in carico il tuo caso. A Roma i medici disposti a praticare un aborto terapeutico sono cinque in tutta la città. Cinque medici per quasi tre milioni di abitanti. Poi c’è la visita psichiatrica. Secondo la legge 194 chi si sottopone ad aborto terapeutico può procedere solo nel caso in cui la propria salute fisica o psichica sia in pericolo. L’incompatibilità del feto con la vita non viene presa in considerazione. E quindi uno psichiatra deve accertare che la salute mentale della donna sia a rischio, nonostante la motivazione sia un’altra. In ospedale entri in mezzo alla vita che scorre, mentre quella che porti in grembo sai che non nascerà. Felicità che si mischia al dramma. Al tavolo la registrazione non viene mai bloccata. Le parole continuano, poche domande che si intrecciano al racconto: «Ho atteso un’ora e quaranta prima che qualcuno si accorgesse di me, ho dovuto urlare per farmi notare. Poi c’è stato l’incontro con lo psichiatra. Un incontro freddo, una pratica da sbrigare senza empatia». È l’inizio della tortura di un diritto riconosciuto per legge. Partoriscono, in alcuni casi, senza che nessuno spieghi loro come avverrà. Non esiste uno sportello informativo. Sentono frasi crudeli e inutili, come «Io ne conosco di persone nate con un ventricolo solo, e stanno benissimo». Vedono il figlio desiderato uscire dal loro corpo. Sole, spesso dentro un bagno, abbandonate. Ritrovate sopra una tazza del cesso mentre spingono il feto, perché un’ostetrica ha deciso che in sala parto non ci devono stare. C’è chi si rifiuta di praticare loro la terapia del dolore perché gli anestesisti obiettori di coscienza, per esempio nel Lazio, sono quasi la totalità. C’è chi invece inietta morfina quando ormai è troppo tardi. Sono costrette a risentire il battito prima del parto. A rimanere ricoverate per giorni perché l’unico medico non obiettore ha ormai terminato il turno e bisogna attendere che torni. E allora le culle intorno a loro si riempiono e sentono la gioia della nascita della compagna di stanza. Il travaglio dell’altra. Con le ostetriche, anch’esse obiettrici, che ti guardano con disprezzo. «Ricordo che c’era solo gente che partoriva, palloncini, fiocchetti e gridolini», lo dice con rabbia, ma con un sorriso, tra le labbra strette: «Mi hanno fatta stare in quell’ospedale a forza, per quattro lunghissimi giorni, nel silenzio. Non sapevo quando sarebbe successo, non sapevo che sarei rimasta ricoverata tutto quel tempo. Non sapevo che nessuno mi avrebbe praticato l’epidurale. Non sapevo i medicinali che mi avrebbero somministrato». Chiede se è giusto, chiede se è normale. Chiede. E noi ascoltiamo con un registratore acceso, consapevoli che quelle domande sono state già fatte tante volte, troppe volte, da altre donne. Da altre coppie. «Quando è arrivato il giorno, mi hanno dato alcune pasticche, senza spiegarmi niente. Neppure dopo ho potuto capire cosa fossero, visto che la cartella clinica che mi è stata consegnata subito dopo le dimissioni, conteneva solo la data di accettazione e quella di uscita». Il Covid-19 continua in un fruscìo lontano, lo commentiamo mentre l’inviato di una tv all-news tenta una diretta. Nessuna di noi sa che il Sistema sanitario nazionale verrà completamente messo in discussione da lì a pochi mesi, mentre noi lo stiamo già facendo. «È stato un attimo: appena prese quelle pillole è iniziato un dolore che non si può descrivere. Il parto è cominciato, un vero parto, non un’operazione. E nessuno mi aveva preparata a questo. Urlavo come una pazza e alla fine mio marito ha creduto che sarei morta. È uscito per chiedere aiuto e chi è entrato nella mia stanza mi ha sbeffeggiata: “Ma che è tutta questa scena, sei al secondo figlio, che non sai come si fa?”». Passano le ore, senza aiuti, senza epidurale. Il feto è scivolato via, non si ricorda se lo abbia visto. Semplicemente non ricorda o non vuole farlo. Di questa registrazione, datata 22 febbraio, abbiamo tolto tanto, il sangue, la vista, la crudeltà eccessiva. Lo abbiamo fatto per rispetto di chi ha voluto denunciare e rileggerà la sua esperienza. Per rispetto di tutte quelle donne che hanno vissuto lo stesso atroce diritto violato e garantito dalla legge italiana. Lo abbiamo fatto perché quello che è stato trascritto è sufficiente per comprendere. La donna, che un nome non vuole avere e che vedete nelle foto, è stata costretta a sottoporsi alla Emdr, tecnica di psicoterapia praticata ai reduci di guerra per superare i traumi subiti e lo ha potuto fare perché «benestante, colta e con un marito e una famiglia capace di aiutarla», come lei stessa ha detto. Ma non sempre è così. Ci sono donne che non possono permettersi un percorso terapeutico dopo un trauma. Famiglie distrutte e aborti negati. Donne costrette come ladre a emigrare in Paesi stranieri perché non riescono a trovare un medico che prenda in carico la loro cartella clinica, mentre in Italia si discute se la Ru-486, conosciuta come aborto farmacologico, possa essere applicato in day hospital, senza necessità di un ricovero di tre giorni. Quando quei tre giorni significano dover subire violenze psicologiche e fisiche.

Il silenzio di Bergoglio sulla RU486. Tony Brandi, Sabato 10/10/2020 su Il Giornale.  Il ministro Speranza ha emanato nuove direttive per l'assunzione della pillola abortiva RU486: si può ora abortire a casa e fino alla nona settimana. All'indomani della presentazione della Samaritanus bonus, della Congregazione per la dottrina della fede, che ribadisce la condanna dell'aborto e la necessità di sostegno alla famiglia, Papa Francesco torna sul tema della tutela della vita nell'occasione della presentazione della campana La Voce dei Non Nati. «Essa accompagnerà gli eventi volti a ricordare il valore della vita umana dal concepimento alla morte naturale», ha affermato il Papa. Non è la prima volta che Francesco si esprime fermamente contro l'aborto. Tuttavia basta la ragione naturale per capire che il diritto alla Vita è il primo dei diritti umani, poiché senza vita non ci possono essere diritti; così come non può esistere nessuno che abbia il diritto di decidere sulla vita di un altro essere umano. D'altronde la Dichiarazione dei diritti del fanciullo riconosce necessaria una adeguata tutela giuridica del bambino sia prima che dopo la nascita. Ma, a prescindere dal diritto alla Vita, qualcuno si è mai preoccupato degli effetti della RU486 sulla salute psichica e fisica delle donne? I rischi di complicanze con la RU486 sono decuplicati rispetto all'aborto chirurgico. Solo in America sono morte 24 donne per la RU486. E sempre negli Usa sono state registrate più di 4.600 complicanze (dolore forte e prolungato, gravi emorragie, gravidanze extra uterine, infezioni e altro). Per non menzionare le sofferenze emotive, l'ansia, la depressione, il disturbo post traumatico da stress, l'abuso di sostanze, i comportamenti autolesionistici, fino al suicidio e altri problemi di salute mentale connessi all'aborto. Va notato che per accertare che la morte sia stata causata dalla pillola abortiva occorre un'autopsia: queste negli Usa sono a pagamento e vengono eseguite solo in caso di denuncia penale. Perciò è ragionevole ritenere che queste cifre rappresentano solo la punta di un iceberg. Per di più prendere la RU486 a casa apre all'aborto «fai da te». Non è una maggiore libertà per le donne: è abbandono, è solitudine, nell'attesa dell'espulsione del bambino, che, come riportato dal British Medical Journal, nel 56% dei casi viene individuato dalle madri, nel water o sull'assorbente igienico. È veramente grave che di tutto questo non vengano informate le madri che chiedono di usare la RU486 per abortire. Si prospetta loro solo la «scelta» dell'aborto facile: la società si toglie ogni responsabilità, la donna si ritroverà madre di un bambino morto, con gli stessi problemi economici e sociali che l'avevano spinta al tragico gesto. Possibile che le femministe accettino compiacenti tutto questo?

Aborto casalingo e aborto truffa. Gioia Locati il 27 agosto 2020 su Il Giornale. Il 4 agosto il Ministero della Salute ha diramato una circolare dedicata all’aborto farmacologico provocato dalla pillola RU486. Qui il testo che cambia le regole adottate fino al 3 agosto. D’ora in poi non sarà più necessario il ricovero in ospedale fino ad aborto avvenuto. Si potrà assumere il farmaco in consultori, day hospital o ambulatori, e, poi, dopo diverse ore o giorni, si abortirà a casa propria. È stato anche esteso il limite di assunzione della “pillola”, non più entro le prime sette settimane di gestazione ma entro le nove. Il provvedimento ha riacceso la polemica tra abortisti e non abortisti. Ma non è su questo aspetto che vorremmo porre l’attenzione.

La legge, la tutela della salute e l’inganno. Una prima riflessione riguarda la pretesa – diventata ormai abitudine di questo governo – di forzare la legge con un provvedimento amministrativo. L’aborto è regolamentato dalla 194. La legge tutela la madre e tutela anche il feto. La madre, perché è previsto che l’intervento avvenga in ospedale, nel rispetto dei tempi fisiologici e con l’adeguata assistenza clinica. Il feto, perché si arriva al passo decisivo – che non è quasi mai indolore – dopo un counseling accurato. Già, per la famosa legge sull’aborto votata con un referendum nel 1978, prima di “procedere all’operazione”, occorre capire se non si può fare altrimenti. E se la donna cambiasse idea? Quante volte è successo… E se la volontà di non proseguire la gravidanza fosse dettata unicamente da problemi economici (quante volte succede), perché arrivare a condannare una vita? La legge in vigore concede il ripensamento, offre un interlocutore. Permette uno “spazio cuscinetto”, fino a sette giorni, indispensabile nei momenti di spaesamento e dolore. E si occupa anche della salute della donna. Che si tratti di un intervento o di un farmaco, la procedura inizia e si conclude in ospedale. Non solo. I consultori, secondo la legge 405 che li regolamenta, non hanno il compito di occuparsi clinicamente di aborti. Tra le finalità vi è la “procreazione responsabile” e la tutela del “prodotto del concepimento”. Punto. L’aborto, infatti, è il fallimento della procreazione responsabile.

Perché, dunque, una circolare che “sveltisca la pratica” al di fuori degli ospedali?

“Se la legge stabilisce che un aborto debba avvenire in ospedale, la circolare è una truffa. La donna esce dal day hospital o dal consultorio con un figlio in grembo ancora vivo – fa riflettere Bruno Mozzanega, ginecologo e docente dell’Università di Padova – poiché l’aborto avverrà in seguito, anche dopo diversi giorni, a casa o altrove”.

Quali rischi corre la donna?

“Può accadere che l’aborto non sia completo e si debba intervenire chirurgicamente in un secondo momento. Inoltre, il protrarre l’assunzione della RU486 fino alla nona settimana può aumentare l’eventualità di emorragie. Ma quel che è grave è lasciare sola la donna in una situazione così delicata: non vi sono più margini di ripensamento. La madre è consapevole che suo figlio sta morendo e, anche se cambiasse idea, non può più fare nulla e assiste alla sua morte. Una doppia agonia...”

Come funziona la RU486?

“È un antiprogestinico, assumendolo si priva il feto del nutrimento”.

Cosa succederà.

La procedura di aborto introdotta da questa circolare è messa all’indice dal mondo cattolico e da alcuni esponenti politici. Ed è fortemente sostenuta da altri come l’associazione Luca Coscioni.

Toccherà però alle Regioni decidere se applicarla o meno (in base all’art. 117 della Costituzione): vedremo come si pronunceranno i prossimi candidati alle regionali. 

La truffa.

“La polemica sulla circolare ministeriale è significativa in relazione al modo di bypassare le leggi e il parlamento ma nei fatti è inutile, perché l’aborto si pratica già a domicilio” ricorda Mozzanega. Ne abbiamo parlato qui. La pillola dei 5 giorni dopo, ellaOne, venduta liberamente in farmacia alle maggiorenni, è spacciata come contraccettivo d’emergenza che impedisce l’ovulazione e il concepimento ma è di fatto un mezzo abortivo (la donna ovula e concepisce, poi il feto muore). Il principio attivo è molto simile a quello della RU486. E i rischi per la salute sono taciuti (compaiono invece in un terzo farmaco, con lo stesso principio di queste pillole, prescritto per trattare i fibromi uterini). Già un anno dopo la libera vendita in farmacia, nel 2016, in Italia, si vendeva una compressa di ellaOne ogni 2 minuti: 600 acquisti ogni 24 ore.

Negli ultimi 5 anni le interruzioni di gravidanza sono scese del 35%: vuoi vedere che, usando ellaOne, le donne abortiscono e non lo sanno?

“Le prese di posizione su quest’ impiego della RU486 sono irrilevanti e sterili se non si ha il coraggio di denunciare con forza l’inganno terribile che viene fatto alla donna con l’informazione non veritiera sui contraccettivi di emergenza – denuncia Bruno Mozzanega – Dal gennaio 2015 la Pontificia Accademia per la vita è al corrente del funzionamento di ellaOne ma non prende posizione pur avendone il dovere etico e scientifico”.

L’azienda produttrice, HRA pharma, si era impegnata nel 2009 a dimostrare che ellaOne non può essere usata per interrompere la gravidanza e non lo ha ancora fatto. Nei macachi che pesano un quintale la pillola è abortiva allo stesso dosaggio indicato per le donne. Cliccate qui, sulle slides da 78 a 84.

La tutela, dunque, è il silenzio… shhhhhhhhh.

Ci dicono che “il diritto all’aborto non si deve toccare”. L’ignoranza pure.

Ora nasce il registro dei "bimbi mai nati". Ecco che cosa cambia. Il consiglio comunale di Marsala ha approvato la delibera. Un atto che prevede anche la modifica del regolamento cimiteriale. Maurizio Zoppi, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. A Marsala, nel piccolo comune in provincia di Trapani, nasce il "Registro dei bimbi mai nati" che darà un nome "anche di fantasia" ai feti abortiti e permetterà di seppellirli in un'area speciale del cimitero con tanto di lapide e mini funerale. Un espediente che vuole condannare le donne che esercitano il diritto all'interruzione volontaria di gravidanza e un tentativo di pilotare l'etica della cittadina strizzando l'occhietto ai movimenti per la vita che da sempre provano a condannare le donne che abortiscono. Il consiglio comunale ha approvato a maggioranza (23 consiglieri hanno votato a favore e 3 contrari) l'atto che disciplina l’attuale regolamento cimiteriale, evidenziano: “l'importanza che la politica ha nel promuovere la cultura della vita”. La delibera di fatto modifica nel testo la dicitura “prodotti abortivi”, utilizzata per i feti partoriti prima della 28esima settimana di concepimento, con quella: “bambini mai nati”. Inoltre come già scritto, istituisce un registro nel quale verrà annotato un nome di fantasia per il feto. Infine individua uno spazio cimiteriale destinato alla sepoltura ed il corrispondente numero assegnato nel registro. Non sono mancante le polemiche in Sicilia in merito alle diverse interpretazioni di questa legge. Un dibattito acceso anche sui social con opposte interpretazioni nel quale qualcuno accusa questo atto, come una sorta di vera e propria intromissione nelle scelte individuali e nella piena libertà di abortire legalmente. L’istituzione del registro, oltre a suscitare reazioni prevedibili, per alcuni sarebbe finanche illecita. A sollevare la questione è stato il magistrato siciliano Nico Gozzo che, intervenendo sul profilo Facebook della collega Annamaria Picozzi - pure lei sbalordita per l'iniziativa - ha scritto: "Credo che questo registro sia illecito e penso andrebbe informato il garante della privacy". La norma è stata proposta dal consigliere comunale di Marsala di centro-destra Giusy Piccione che ha sottolineato che l'atto “rappresenta l'importanza che la politica ha nel promuovere la cultura della vita”. Diversa l'idea del consigliere marsalese del Pd, Luana Alagna: "In sostanza si gettano le basi per la stigmatizzazione pubblica della donna che decide, per motivi di coscienza insondabili, su cui nessuno ha il diritto di entrare, di interrompere volontariamente la gravidanza. Una scelta così delicatamente privata, dai risvolti che impegnano anche la sofferenza della persona, diventano oggetto di imposizione attraverso atti amministrativi, rischiando di esporre fatalmente la donna al “giudizio morale” dell’opinione pubblica". Proprio qualche giorno fa l’annuncio in un tweet del ministro della Salute Roberto Speranza ha fatto drizzare i capelli a chi è contro l'aborto. "Pillola Ru486 si potrà assumere fino alla nona settimana e non serve ricovero” affermava sui social il ministro. Speranza ha aggiornato in questo modo, dopo dieci anni, le nuove linee guida sulla pillola abortiva Ru486. Sono “basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese”. Ha scritto sui social il ministro. Non si è lasciato attendere il commento della presidente nazionale del Movimento per la Vita, Marina Casini: "scelta legata a motivazioni ideologiche e a risparmi economici, le donne saranno sole in un momento difficile per la loro salute, mentre l’eliminazione di una vita umana viene banalizzata". Recentemente la Regione Umbria aveva eliminato la possibilità per le donne di ricorrere all’aborto farmacologico in day hospital. “Il fatto stesso che si possa abortire con uno o due sorsi d’acqua – gesto comune, di un attimo, quotidianamente ripetuto e, dunque, insignificante -, come quando si ha sete o si prende una pasticca per il mal di testa, fa sì che si perda consapevolezza di cosa quel gesto significa quando con l’acqua va giù la Ru486 che va a togliere la vita a una creatura innocente e indifesa. La banalità del gesto serve proprio a impedire lo sguardo sul concepito e quindi a banalizzare l’aborto”, sottolinea la Casini, secondo la quale “la privatizzazione viene di conseguenza: che bisogno c’è di avere sorveglianza medica se basta bere un po’d’acqua? La logica individualista, che trionfa nel falso mito abortista dell’autodeterminazione della donna, si estende a tutte le relazioni umane fino a recidere le più elementari forme di solidarietà – di cui l’accoglienza del figlio nel grembo della mamma è primordiale modello – e finisce per ritorcersi contro la donna stessa vittima anche lei quanto suo figlio…”.

Dall'articolo di Caterina Pasolini per ''la Repubblica'' l'8 agosto 2020. «L'aborto farmacologico è sicuro. Va fatto in day hospital, nelle strutture pubbliche e private convenzionate, e le donne possono tornare a casa mezz' ora dopo aver assunto il medicinale». La novità è nelle nuove linee d' indirizzo per l' interruzione volontaria di gravidanza che verranno emanate dal ministero della Salute. Pagine elaborate dopo che il ministro Roberto Speranza ha ricevuto il parere del Consiglio superiore di sanità, cui si era rivolto all' indomani dal blitz leghista in Umbria che vietava l' uso della Ru486 senza ricovero. (…) Il parere alla base delle nuove linee guida del ministero contiene un' altra novità: vi si sottolinea come l'aborto farmacologico possa essere praticato fino a 63 giorni di gestazione, perché «non esistono evidenze scientifiche che sconsiglino la somministrazione alla nona settimana». Viene quindi superata la limitazione a 7 settimane che vigeva finora. Il mifepristone, recita il parere, può essere somministrato sia in consultorio che in ambulatorio. Dopo mezz' ora la donna può essere mandata a casa, verificando che non sia sola nell' abitazione o in ansia. Tra i vari punti, esaminati la salute, la funzionalità, il benessere fisico e psicologico della paziente, si sottolinea anche il risparmio economico rispetto all' aborto chirurgico che richiede ricoveri, anestesie, sale operatorie. (…) forse vanno escluse da questa pratica le pazienti molto ansiose, con bassa soglia del dolore e che vivono in condizioni igieniche precarie vista la differenza con l' aborto chirurgico, che viene fatto con la sedazione e in ospedale. Dopo 2 settimane è prevista la visita di controllo, durante la quale verrà «offerta una consulenza per contraccezione ». Perché il trauma dell' aborto, che è sempre una scelta dolorosa, non si ripeta.

La protagonista di Roe vs Wade: «Fui pagata per diventare antiabortista». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Massimo Gaggi. «La mia trasformazione da eroina degli abortisti a testimonial del fronte opposto? Fu tutta una recita. Gli antiabortisti mi pagarono. Mezzo milione di dollari. E io, da allora, interpretai il ruolo della convertita: sono una buona attrice. E sono stata una mercenaria, non un’idealista». La confessione sul letto di morte di Norma McCorvey è destinata ad alzare ulteriormente la temperatura dello scontro tra i due schieramenti nella più dura delle battaglie etiche e culturali che dividono da anni la società americana. Un caso che si riapre proprio nel momento in cui la Corte Suprema, per la prima volta composta in maggioranza da giudici antiabortisti, si accinge a emettere una sentenza che potrebbe capovolgere quella che nel 1973 legalizzò la libertà di scelta della donna in tema d’interruzione della gravidanza. «Roe vs Wade», quella storica sentenza, si basò sulla causa intentata tre anni prima da una donna — la McCorvey inizialmente preferì usare lo pseudonimo Jane Roe — rimasta incinta per la terza volta, che non riusciva ad abortire in Texas e non aveva i mezzi economici per trasferirsi in un altro Stato nel quale era più facile interrompere la gravidanza. Norma divenne istantaneamente un simbolo suo malgrado: quando gli avvocati, euforici, le comunicarono la notizia della vittoria lei rispose di non capire il motivo di tanta eccitazione. Erano passati tre anni, il suo terzo figlio era ormai nato e l’aveva dato in adozione come aveva fatto anche col secondo. Solo dopo capì di essere diventata il simbolo di un movimento ed entrò nella parte. Una vita movimentata, piena di contraddizioni e paradossi, quella di Norma McCorvey, ora raccontata in un un documentario, AKA Jane Roe, che verrà trasmesso per la prima volta domani da una rete televisiva Usa. Il regista Nick Sweeney, che si è tenuto il filmato della confessione nel cassetto per tre anni, aveva cominciato a girare il suo film nel 2016, affascinato dall’avventura umana di un personaggio dai molti volti, che ha manipolato e si è fatto manipolare. Prima simbolo degli abortisti che, però l’avevano sempre guardata con una certa diffidenza per la sua disinvoltura: inizialmente, ad esempio, aveva dichiarato che la sua gravidanza era frutto di uno stupro salvo, poi, ammettere di aver mentito. Comunque per vent’anni Norma partecipò alle campagne abortiste, divenendo, nel frattempo, omosessuale. Ma nel 1995 passò improvvisamente al fronte opposto: spinta da un avvocato, Gloria Allred e da un pastore evangelico, Rob Schenck, leader di Operation Rescue, un’organizzazione antiabortista, la McCorvey lasciò la compagna Connie Gonzalez, si convertì entrando nella chiesa evangelica e si dichiarò «al cento per cento pro-life» rifiutando l’idea dell’aborto anche in situazioni estreme. Quando le chiedevano che fare in caso di stupro rispondeva che quello era comunque un bambino che la madre non poteva sopprimere, sostituendosi a Dio. Una donna che per più di vent’anni ha recitato la parte dell’abortista e per altrettanti quella dell’antiabortista, partecipando a manifestazioni nelle quali ha bruciato il Corano e la bandiera dei gay? Ogni dubbio sulle sue reali intenzioni è lecito, ma è questo quanto emerge dal documentario con la confessione filmata nel 2017 quando la McCorvey, 69enne malata di cuore, stava ormai per morire. Schenck, che nel frattempo ha abbandonato il movimento antiabortista, conferma di averla pagata: «Temevamo che ci abbandonasse, tornando sul fronte opposto. Spesso mi sono chiesto se si stesse prendendo gioco di noi. Quello che non ho avuto mai il coraggio di ammettere è che anche noi la stavamo manipolando, sfruttando le sue vulnerabilità». Norma è stata al gioco trasformando le sue debolezze e le sue contraddizioni in uno spettacolo con lei al centro di controversie brutali che hanno cambiato un pezzo di storia americana. Adesso il gioco è finito.

Usa, "pagata per diventare anti-abortista": la verità della donna simbolo. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Anna Lombardi su La Repubblica.it Norma McCovery è morta nel 2017 a 69 anni: nascosta dietro al nome convenzionale di Jane Roe, fu la protagonista della battaglia per l'interruzione di gravidanza negli Stati Uniti salvo poi cambiare idea. In un documentario la sua vera storia. Attivista per caso: pentita per denaro. La sua battaglia (perduta) nel 1973 portò alla legge che introdusse il diritto all’aborto in America. Ma i 50 milioni di aborti legalizzati in suo nome ne fecero poi una cristiana rinata e un’attivista pro life. Ma Norma McCovery, morta nel 2017 a 69 anni – conosciuta sui libri di legge con un nome convenzionale, Jane Roe – avrebbe mentito sulla sua conversione: lo svela lei stessa in un documentario intitolato, appunto, AKA Jane Roe, in onda questo venerdì sul canale americano FX. Una confessione fatta sul “letto di morte” come dice lei stessa, in una scena dove appare visibilmente malata, e dove ammette di essere stata pagata per mentire da un gruppo di fanatici evangelici: «Ero un pesce grosso e fu uno scambio di favori comune. Io presi i loro soldi, molti soldi. Loro mi misero davanti alle telecamere a dire quel che gli serviva. Recitaii bene. Sono una brava attrice quando voglio. Ma no, in questo momento no, non sto recitando: se una giovane donna vuole abortire, deve avere il diritto di farlo». La causa da lei intentata nel 1970, nota come Roe versus Wade, dal nome del procuratore generale che all’epoca le impedì di abortire, è una delle più celebri d’America. Quel caso clamoroso fece giurisprudenza, certo. E oggi quella sentenza continuamente citata è tornata al centro del dibattito politico: attaccata dall’ala della destra più oltranzista e religiosa, con molti Stati che stanno restringendo sempre più il diritto all’aborto, tanto più ora, in tempi di Covid. Esteri L'Alabama per legge vieta l'aborto: i medici rischiano 99 anni di carcere La storia di Norma è stata già raccontata in due autobiografie scritte con l’aiuto di due diversi giornalisti, I am Roe,1994 e Won by love, 1997. Ma in realtà solo un’inchiesta condotta da Vanity Fair nel 2013, in occasione dei 40 anni della legge, raccontò la sua vera storia della ragazza che non voleva diventare madre e invece fu costretta dalle leggi di allora a far nascere il suo terzo figlio, dato subito in adozione come i due precedenti. Norma Lea Nelson, nata nel 1947 da una madre violenta e un padre assente, cresciuta fra un collegio cattolico e un riformatorio, si era sposata a soli 16 anni con un operaio di 5 anni più grande, Elwood McCovery. I due avevano avuto una figlia, Melissa, subito adottata dalla mamma di Norma, Mary. All’epoca Norma era molto depressa, aveva cominciato a bere e a drogarsi, avviando relazioni con uomini e donne. Nel 1965, a 19 anni, aveva dato anche un secondo figlio in adozione. E quando a 21 anni, aveva scoperto di essere nuovamente incinta, aveva tentato di abortire. In Texas, però, l’aborto era permesso solo in caso di stupro: e lei raccontò dunque alle sue avvocatesse di essere stata violentata, per poi cambiare versione non avendo le prove. Quando il procedimento fu avviato, la gravidanza era ormai al quinto mese. La causa fu quindi presentata in tribunale come una class action: in nome, cioè, di tutte le donne potenzialmente in quelle condizioni. Norma McCovery, trasformata in Jane Roe, disse poi di essersi sentita tradita. E dopo aver fatto nascere il terzo figlio disse di essersi disinteressata dell’intera faccenda legale. Anche perché nel frattempo aveva incontrato l’amore: una donna di 15 anni più grande chiamata Connie Gonzalez, con cui avrebbe trascorso i 35 anni successivi. La presunta conversione era avvenuta nel 1995, grazie a un gruppo di attivisti antiabortisti che avevano affittato un appartamento proprio accanto al suo. Dopo il battesimo da cristiana rinata, l’attivismo pro life. Nel 2017 la morte per complicazioni legate a un infarto. Col paradosso di essere diventata, in vita, il simbolo della lotta a favore (e poi contro) l’aborto: senza mai averne avuto uno.

Alessia Strinati per "leggo.it" il 2 marzo 2020. Un Tiktok sul suo aborto. Il video girato da una ragazza con la nota e diffusa app Tiktok ha fatto il giro del mondo e ha indignato molte persone sulla leggerezza con cui la giovane ha voluto pubblicare un momento tanto intimo e anche molto doloroso solitamente per una donna. Il video, che è stato poi rimosso, si intitola "Aborto time, parte seconda"  mostra la giovane californiana, a suon di musica raccontare l'interruzione di gravidanza. Prima la ragazza mostra la sua pancia mentre l'amica fa vedere il test di gravidanza positivo  in sottofondo suona un remix di "It Will Rain" di Bruno Mars. Sembra che si stia asciugando qualcosa dai suoi occhi, suggerendo che potrebbe aver pianto dopo aver appreso la notizia della sua gravidanza. Poi il video si sposta al Planned Parenthood a Pasadena, in California dove la ragazza, chiamata Ashley nel video, viene sottoposta a un'ecografia. Non si sa se alla fine abbia interrotto la gravidanza, ma il modo in cui ha descritto e affrontato un tema tanto delicato non è piaciuto, come riporta anche il Daily Mail. Decine di persone sui social hanno discusso sul tema, chi sostenendo il diritto della madre gestire come meglio crede la scelta dell'aborto e chi accusandola di spettacolarizzare un momento così intimo e delicato.

La risposta di Selvaggia Lucarelli a Salvini: «Ho abortito, giudica me». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Elena Tebano. «Ho abortito. Volontariamente. Più di una volta. Due o cinquanta, sono fatti miei, e in realtà anche quello che nella vita ho deciso di fare del mio corpo erano fatti miei, finché ho sentito che non lo erano più». Inizia così l’articolo di Selvaggia Lucarelli su Tpi, in risposta alle parole del leader della Lega Matteo Salvini sulle interruzioni volontarie di gravidanza («Il pronto soccorso non è la soluzione a stili di vita incivili» aveva detto tra le altre cose). È un intervento molto polemico, che con forza critica rivendica il diritto delle donne di scegliere per la propria vita e il proprio corpo quando si trovano di fronte a una gravidanza che non hanno deciso loro. Che siano italiane oppure — quelle a cui ha detto di riferirsi Salvini — straniere. «Abbiamo esercitato un nostro diritto, un diritto che non si misura nella quantità e che non si misura nei giudizi regalati a un microfono. Io e così le altre donne. Tutte» scrive Lucarelli. E ancora: « Potrei raccontarti di aver fatto file in un giorno di inverno in un padiglione squallido, di cosa sia la pillola abortiva e di cosa succeda se non funziona come dovrebbe. Potrei raccontarti di una ragazza che piangeva in un letto d’ospedale e di una che ha preso veloce la sua borsa ed è scappata via sollevata. Di me che ho sofferto o che sono stata fredda, senza mai dimenticare, qualunque fosse il mio stato emotivo, che stavo decidendo per me, che stavo decidendo io, che nessuno poteva e doveva farlo al posto mio». Sono state le femministe le prime a dire pubblicamente di aver abortito (come ha ricordato di recente Lea Melandri), consapevoli che un atto privatissimo acquista un valore politico di fronte a coloro che vogliono limitare l’autodeterminazione delle donne. Sono passati decenni ma è ancora difficile dire pubblicamente di aver abortito. Soprattutto, non ha smesso di essere necessario. 

Da leggo.it il 20 febbraio 2020. Da Selvaggia Lucarelli, sul sito TPI, arriva una confessione choc sull'aborto, replicando a Matteo Salvini che pochi giorni fa, domenica al Palazzo Congressi dell'Eur a Roma, era intervenuto sui temi della sanità. La giornalista e volto tv, responsabile della cronaca e degli spettacoli della testata online, ha detto di aver abortito in passato, anche più di una volta: «Ho abortito. Volontariamente. Più di una volta. Due o cinquanta, sono fatti miei», scrive la Lucarelli. «In realtà anche quello che nella vita ho deciso di fare del mio corpo erano fatti miei, finché ho sentito che non lo erano più. Cioè quando Salvini, come sua abitudine, ha parlato di ciò che non sa, con l'unico e consueto scopo di usare qualcuno per colpire qualcun altro. In questo caso le donne, e già che c'era le donne straniere, perché lui nel colpire i soggetti più deboli ha una mira intrepida, che sa quasi di eroico».  «Abbiamo avuto segnalazione - aveva detto Salvini - che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l'interruzione di gravidanza. Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile», aveva aggiunto l'ex ministro dell'Interno. Erano fatti miei, e infatti non lo sapeva nessuno, neanche chi pensava di sapere tutto di me. Ma ci sono temi che sono di tutti e sui quali non va permesso a Salvini di fiatare. Uno di questi è l’aborto e il mio, il nostro diritto inattaccabile di Selvaggia Lucarelli continua: «Ha detto, l'eroe che ci sono immigrati che hanno scambiato il pronto soccorso per un bancomat, che alcune infermiere gli hanno riferito che donne non italiane hanno abortito anche sei volte, che non si può arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile per il 2020. Potrei controbattere che i pronto soccorso sono intasati da italiani, circa 30 milioni l'anno, e che nel 75 per cento dei casi sono italiani che potevano curarsi a casa. Le sale d'aspetto degli ospedali sono affollate di persone con un raffreddore indesiderato, più che con una gravidanza indesiderata». «Magari - continua La Lucarelli - la maggior parte dei malati immaginari sono pure uomini, quegli uomini che per un prurito sospetto sulla caviglia rivedono l'asse ereditario. Potrei controbattere che solo un fesso può pensare che per abortire ci si metta in fila al pronto soccorso come per le gastroenteriti o le bruciature da ferro da stiro. Potrei controbattere che ci sono straniere che vanno educate alla contraccezione, è vero, ma di solito, a meno che le straniere non siano meduse e si riproducano in remoto, ci sono uomini stranieri che fanno la loro parte». «Potrei controbattere - sottolinea la Lucarelli - che delle infermiere che spifferano nell'orecchio al politico di turno quante volte le loro pazienti hanno abortito, specificandone la nazionalità, non andrebbero citate ai microfoni, andrebbero rimosse dal loro posto e mandate a fare un mestiere che non abbia a che fare con l'umanità e la cura degli altri, che non è solo applicare una flebo o misurare la febbre. Potrei andare avanti all'infinito, nel dire quanto di cretino e irriflessivo ci sia in queste considerazioni di Salvini, ma mi pare più importante altro. Ed è invitarlo a usare me. Usa me, Salvini», afferma la giornalista che prosegue: «Sono donna. Sono italiana. Dillo a me che ho uno stile di vita incivile. Vieni a farmi la morale o a insegnarmi cosa debba fare della mia vita e del mio corpo. Spiegami, magari, anche come mi debba sentire, come e se mi possa auto-assolvere, spiegami i miei peccati». «Spiegameli - scrive Lucarelli - mentre stringi il rosario della Beata Vergine Maria, mentre accarezzi i bambini dal palco di Bibbiano, mentre ti fai portavoce della Madonna di Medjugorje. Mentre ti trasfiguri e noi peccatori ci soffiamo il naso nelle tue vesti candide. Non ti aspettare però che piagnucoli, che ti parli di quanto sia doloroso abortire. Di cosa significhi emotivamente, del perché sia successo e del perché sia successo più di una volta. Questi, perdona il lirismo, restano cazzi miei». «Non è con loro - afferma la Lucarelli - che ti devi confrontare tu troppo facile. Toppo facile fare la morale a una donna che si fa già la morale da sola. Quello - l'esercizio del senso di colpa, la malinconia di ciò che poteva essere - lo facciamo benissimo da noi, stai tranquillo. Quello con cui non sai confrontarti e che nel profondo non ti va giù è che ho abortito, che hanno abortito, perché abbiamo esercitato un nostro diritto, un diritto che non si misura nella quantità e che non si misura nei giudizi regalati ad un microfono. Io e così le altre donne. Tutte. Quelle di cui ti hanno spifferato all'orecchio, quelle che te lo stanno dicendo oggi, quelle che sono state tue amiche, compagne, cugine e di cui neppure sai, con ogni probabilità. Potrei raccontarti di aver fatto file in un giorno di inverno in un padiglione squallido, di cosa sia la pillola abortiva e di cosa succeda se non funziona come dovrebbe», scrive ancora Lucarelli. «Potrei raccontarti - evidenzia la Lucarelli - di una ragazza che piangeva in un letto d'ospedale e di una che ha preso veloce la sua borsa ed è scappata via sollevata. Di me che ho sofferto o che sono stata fredda, senza mai dimenticare, qualunque fosse il mio stato emotivo, che stavo decidendo per me, che stavo decidendo io, che nessuno poteva e doveva farlo al posto mio». «Che io sola sarei stata il giudice legittimo delle mie azioni. Che quello che stavo facendo - sostiene la Lucarelli - era la conquista di donne coraggiose che hanno lottato per me, che indietro non torno e non si torna». «Usa me, Salvini, se proprio vuoi giudicare. Me che non sono una straniera magari buttata sulla strada da qualcuno, me che ho potuto studiare, che non vengo dalla cultura dei dieci figli come benedizione e che ho avuto una vita facile». «Usa me per la tua propaganda - conclude la giornalista - se hai coraggio. Giudica il mio stile di vita. Io non giudicherò il tuo. Giudico il tuo stile nel fare politica. Che è quello- sempre- di chi ogni giorno prova a rosicchiare qualcosa dei diritti fondamentali di tutti noi. E tutto questo, purtroppo, è tanto tragico, quanto chirurgico. Come un aborto».

Affidi, Caucino: «Non accetto critiche da donne che non hanno figli». Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Lorenza Castagneri. È bufera su Chiara Caucino, assessore regionale ai Bambini e alle politiche sociali e già al centro delle polemiche per il disegno di legge «Allontanamento zero», che punta ad abbattere gli allontanamenti dei minori dalle famiglie d’origine. Tutto ha inizio durante un convegno sul tema organizzato da Comitato Cittadini per i diritti umani a Torino. È lì che Caucino dice: «C’è chi parla e non è nemmeno madre. Non accetto critiche da chi non ha vissuto il sacro vincolo della maternità». Parole che hanno fatto andare su tutte le furie le opposizioni. Opposizioni che, per altro, contestano il progetto di legge dell’assessore. Sulla vicenda si è espressa anche la sindaca di Torino Chiara Appendino definendo «inqualificabili le affermazioni dell’assessora sul ruolo della donna e sulla sacralità del vincolo genitoriale come mero fenomeno biologico». «Inaccettabile poi il giudizio sui manifestanti di sabato scorso, definiti sciocchi o ignoranti. Se questi sono i presupposti da cui nascono le sue proposte di legge - ha aggiunto Appendino - si spiega la totale inconsistenza e dannosità del ddl “Affidamenti zero». E ancora: «Il Presidente Cirio chieda - a tutela dell’onorabilità dell’istituzione che rappresenta - le scuse dell’assessora Caucino, e torni sui suoi passi sul disegno di legge in questione». Il Partito democratico non le manda a dire. «A chi si riferisce Caucino? Forse alla consigliera Monica Canalis, l’unica donna e peraltro senza figli, e quindi non legittimata ad occuparsi di “Allontanamento zero”? Se così è allora lo dica chiaramente e non si nasconda dietro allusioni e commenti offensivi sulla donna». E Paolo Furia, segretario del Pd Piemonte, chiede le dimissioni di Caucino. Per Francesca Frediani, del Movimento 5 Stelle, si tratta di «dichiarazioni indegne per un’esponente di una giunta che dovrebbe ben sapere che per legiferare sono necessarie competenza e conoscenza adeguata del tema, magari supportata da numeri, statistiche e puntualità nelle osservazioni. E tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’essere o meno madre». Marco Grimaldi, di Luv, auspica un passo indietro: «Dal presidente Cirio mi aspetto che chieda all’assessora Caucino pubbliche scuse nei confronti delle donne che ha offeso». Ma l’esponente della giunta puntualizza la sua posizione. «Solo quando ho avuto in grembo il mio bambino ho capito certe cose. Le madri sono collegate ai figli da un cordone, lo nutrono, c’è un legame fisico. Il mio non è sessismo o una posizione da cattolica: io difendo le mamma e i papà». E poi su alcune dichiarazioni della minoranza: «Un conto è lo scontro politico, un altro sono menzogne che minano la mia reputazione. Mi sono sentita dire che odio i bambini. Ma scherziamo? A brevissimo querelerò chi ha pronunciato queste parole».

Salvini e l'aborto: «Il pronto soccorso  non è la soluzione a stili di vita incivili». Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it. Il leader della Lega Matteo Salvini, parlando domenica sera al Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, dove si trovava per la manifestazione della Lega «Roma torna capitale», è intervenuto anche sul tema della sanità. Nell’ambito di un discorso sull’affollamento dei pronto soccorso, ha parlato anche dell’aborto. «Abbiamo avuto segnalazione che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l’interruzione di gravidanza», ha detto. Poi, citando le testimonianze che gli sarebbero state fatte da operatori sanitari di Milano, ha detto che «ci sono donne che si sono presentate sei volte per una interruzione di gravidanza. Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile». «Qualcuno ha preso il pronto soccorso come il bancomat sanitario per farsi gli affari suoi senza pagare una lira», ha aggiunto, prima di concludere: «La terza volta che ti presenti, paghi». La legge che regola, in Italia, il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza è la 194 del 22 maggio 1978. Non è possibile, in Italia, interrompere volontariamente la gravidanza in Pronto soccorso.

Aborto, Viale su Salvini: «Crassa ignoranza  e misoginia». Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulia Ricci. «Crassa ignoranza e misoginia». Così il ginecologo radicale Silvio Viale etichetta le parole del leader della Lega Matteo Salvini, che è intervenuto sull’aborto (qui il video) attaccando gli immigrati che vivono in Italia: «Il pronto soccorso non è la soluzione a stili di vita incivili, ci sono donne che lo fanno sei volte». Così, il medico noto per le sue battaglie pro-aborto snocciola dati: «Solo il 2,3% delle donne fa 3 o più interruzioni volontarie di gravidanza e di solito sono anche quelle che hanno fatto più figli, mentre i 3/4 sono alla loro prima. Ridicola la polemica contro le donne straniere. Se è vero che fanno il 30% delle interruzioni, di cui il 40% dei Paesi dell’est, è altrettanto vero che il 22% dei nati ha almeno un genitore straniero. Condannare e punire le donne ed essere indulgenti con i maschi è tipico della misoginia. Quella misoginia ignorante che dieci anni fa faceva dire a Cota, che “la RU486 (la pillola abortiva, ndr) sarebbe marcita negli armadi”, e che oggi spinge Salvini a prendersela con il 2% delle donne, come male assolute». «Oggi al Sant’Anna di Torino – continua Viale - il principale ospedale italiano per la 194, la RU486 è utilizzata in oltre 2.000 casi, con le interruzioni mediche che hanno superato quelle chirurgiche. Ignorante era Cota e ignorante è Salvini, che non sa neppure che il segreto di legge e professionale tutela le donne. Se vi fosse una sanzione, nessuna lo dichiarerebbe e devo dire crudamente a Salvini, che non rimangono delle tacche sull’utero a ricordo». Ma la polemica arriva anche in Consiglio regionale, dove ad attaccare il leader della Lega è la grillina Sarah Disabato:«La vera inciviltà è la sua affermazione. L’interruzione volontaria di gravidanza è un tema che va affrontato con serietà, non certo a beceri colpi di slogan e frasi ad effetto. Se la Lega intende mettere mano alla legge 194 lo dica chiaro e tondo, senza nascondersi dietro le provocazioni del suo leader». Poi, il dito si sposta sulla giunta Cirio: «In tal senso – continua Disabato - è preoccupante il silenzio degli esponenti leghisti del Piemonte, ed in particolare dell’assessore alla Sanità Luigi Icardi. Cosa ne pensa il titolare della Sanità piemontese delle parole di Salvini? Vuole mettere in discussione questo diritto delle donne piemontesi, sancito da uno dei referendum più partecipati della nostra storia repubblicana? La giunta non può restare in silenzio per sempre: ha il dovere di prendere una posizione per rispetto nei confronti di tutte le donne della nostra Regione. Il M5S è pronto a difendere la legge in ogni sede istituzionale».

·        Il Divorzio.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” l'1 dicembre 2020. «Gira e riggira, er mezzo più mijore / è forse quello de spaccaje er core». Gela il sangue rileggere oggi, a cinquant' anni esatti dall' approvazione alla Camera dopo una seduta fiume della legge Fortuna-Baslini che apriva finalmente al divorzio, la poesia di Trilussa intitolata «Un punto d' onore». Dove Carlo Alberto Salustri coglieva con amarissimo sarcasmo, agli esordi del Novecento, l'ipocrisia tra l'ostilità assoluta verso il divorzio (proposto la prima volta nel 1878 dal deputato Salvatore Morelli, incenerito subito da una vignetta che lo vedeva circondato da donne in giacca, cravatta, sigaro e cilindro) e la comprensione (meglio: complicità) verso gli assassini «per onore». «È provato, defatti, che la gente» , proseguiva il poeta, «nun vô er divorzio e dice ch'è immorale: / ma appena legge un dramma coniugale / s' associa cór marito delinquente, / che in fonno fa er divorzio a l'improviso / perché manna la moje in Paradiso ...». Certo, i fatti dimostrano anche in questi giorni di ripetuti femminicidi che il passaggio epocale del divorzio non ha magicamente risolto tutti i problemi. Magari! Occorre però ricordarsi come andava «prima» per capire perché l'approvazione della legge presentata nell' ottobre del '65 fu così tormentata, così a lungo avversata («Dichiariamo che il divorzio è un attentato contro Dio e contro il Paese!», tuonava nei cinematografi padre Tondi) e infine così benedetta dopo il voto finale da cori entusiastici e da un cartello dei Radicali: «Argentina Marchei ha vinto, Paolo VI ha perso». Aveva ottant'anni, allora, la popolana romana amatissima da Marco Pannella che non perdeva una manifestazione rivendicando il suo diritto, mezzo secolo dopo essere stata piantata dal marito mai più rivisto, di sposare il compagno d' una vita col quale era diventata madre e nonna. Ne aveva 73, dall' altra parte, Giovan Battista Montini, di cui L'Osservatore pubblicherà nel 2010 un appunto autografo che la dice lunga sulla sua sofferenza in quei mesi: «Far sapere all' Ambasciatore d' Italia che la promulgazione della legge sul divorzio produrrà vivissimo dispiacere al Papa: per l' offesa alla norma morale, per l' infrazione alla legge civile italiana, per la mancata fedeltà al Concordato e il turbamento dei rapporti fra l' Italia e la Santa Sede, per il danno morale e sociale...». Spaccò davvero il Paese, quella legge. Ne valeva la pena? Il referendum quattro anni dopo dirà: sì. È difficile rimuovere la foto che di quel Paese scattò Miriam Mafai: «È una Italia ipocrita e codina, ricca di figli illegittimi di matrimoni infelici condannati all' indissolubilità e di situazioni irregolari, che tuttavia alcuni, i più ricchi, riescono a regolarizzare ottenendo il divorzio all' estero e facendolo poi trascrivere da un nostro tribunale oppure chiedendo e ottenendo l' annullamento della Sacra Rota». Ce l' aveva solo con la destra beghina? Difficile...Dentro l'«altra» chiesa, quella rossa, nessuno poteva dimenticare certe didascalie come «Palmiro Togliatti con la segretaria Nilde Iotti» o l' addolorata e furente lettera al Corriere di Teresa Noce, la moglie di Luigi Longo, che proprio dal nostro giornale aveva appreso, per dirla con Filippo Ceccarelli, «di aver chiesto e ottenuto l' annullamento del matrimonio a San Marino. Un divorzio di fatto, di quelli che potevano permettersi i ricchi dell' epoca e per giunta estortole in modo truffaldino». Così andava, «prima». Basti ricordare le denunce e i processi contro Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. Travolti dall' amore, già sposato lui, già sposata lei, fecero tre figli (Renato detto Robertino e le gemelle Isabella e Ingrid) e li iscrissero all' anagrafe di Roma come figli di lui e di «donna che non consente d'esser nominata, ma non è parente né affine a lui». Un guaio. Lei risultava ancora (al di là delle nozze farlocche per procura in Messico) moglie di Peter Lindstrom e l' articolo 231 del codice civile era spietato: «La presunzione legale di paternità a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio, può essere vinta soltanto con l' azione di disconoscimento di cui all' art. 235 c.c. e, quindi, da parte dei soggetti, nei termini e nelle condizioni all' uopo previste, ancorché vi sia stata declaratoria di nullità del matrimonio tra i coniugi». A dispetto del buon senso i figli del regista e dell' attrice andavano iscritti all' anagrafe non col cognome Rossellini ma Lindstrom. Un assurdo. Che rovinò la vita non solo a quella ma a innumerevoli famiglie più o meno conosciute. Tra cui quella di Fausto Coppi e della Dama Bianca Giulia Occhini. Anche loro avevano un matrimonio (con figli) alle spalle, anche loro non si erano sposati, anche loro dopo un matrimonio messicano avevano deciso di fare un figlio «di contrabbando», partorito a Buenos Aires. A lei, però, andò perfino peggio che a Ingrid. Lo ricordano un titolo della Stampa («La signora Locatelli arrestata dai carabinieri e trasferita nel carcere di Alessandria / II mandato di cattura è stato spiccato per "violazione degli obblighi di assistenza familiare, adulterio e condotta contraria al buon ordine della famiglia"»), le pressioni perché il grande campione assumesse la donna come segretaria con tanto di libretto di lavoro, tessera Inps, bollini e un processo dove il giudice tempestò la domestica: «Dormono insieme o in camere separate?». Un supplizio, amplificato da Enrico Locatelli, il marito, che si vendicò così: «Non chiederò il disconoscimento di questo figlio e neppure di altri, se ne dovessero venire». Aggiungendo: «Prima si sono divertiti loro, adesso mi voglio divertire un po' io». Quella era la legge. Al punto che un pretore si spinse ad attribuire la paternità del figlioletto nero d' un marine Usa alla madre e al suo marito da anni disperso in Russia. E un altro magistrato condannò a quasi tre anni di galera (tre anni!) un siciliano, Alfredo Marsala, che aveva riconosciuto i sette figli fatti con la sua compagna (rea d' esser da anni separata dal marito) facendo dunque «dichiarazioni false». Orrori. Chiusi solo col superamento dell' articolo 231 grazie al nuovo diritto di famiglia del 1975. Una svolta attesa da una moltitudine di vittime di norme insensate. Basti sfogliare l'«Enciclopedia di polizia» di Luigi Salerno del 1952 a uso dei funzionari pubblici. «La moglie non può donare, alienare beni, immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali... Senza autorizzazione del marito». «È indiscutibile come il danno che dall' adulterio della donna ricade sul marito sia infinitamente più grave del danno che dall' adulterio del marito ricade sulla moglie: una moglie tradita, dice il Moggione, può essere compianta, un uomo ingannato è ridicolo se ignora, disonorato se sopporta, vituperevole se accetta cinicamente il suo stato». «Omicidi a causa d' onore. Non è richiesta assolutamente la sorpresa in flagranza, perché vi possono essere anche altri casi nei quali...». «Non è ammessa l' azione di separazione per l' adulterio del marito, se non quando egli mantenga la concubina in casa o notoriamente in altro luogo...». La separazione «non conferisce alla donna la facoltà di assumere cittadinanza diversa da quella del marito». Quello era il contesto. E la sola rilettura di qualche manciata di parole oggi impronunciabili fa capire perché quel giorno è ricordato da milioni di italiani, soprattutto, ma non solo donne, come una festosa liberazione.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 5 dicembre 2020. A un certo punto, nelle sentenze della Sacra Rota, non mancò neppure la «mascolinità sicula». Accadde nel 2003, quando il «Tribunal Rotae Romanae» si trovò a valutare la richiesta di annullamento del matrimonio di una moglie siciliana decisa a far notare come il marito l' avesse fin dal principio sposata pensando che, non fosse andata bene, lui l' avrebbe piantata senza tenere conto della sacralità delle nozze. E poiché «è ormai pacifico che il fermo proposito di ricorrere al divorzio, nella sua molteplice e varia motivazione, comporti nullità del consenso», scrisse il giudice rotale, «si riconosce che la radicata mentalità dell' uomo e la esagerata supremazia della mascolinità sicula non potevano non comportare l' esclusione dell' indissolubilità». Sono stati tanti, nella storia, i ricorsi al tribunale della Chiesa per sciogliere l' insolubile. Basti ricordare tra i casi più noti quelli di Guglielmo Marconi, Carolina di Monaco, Francesco Cossiga, Vittorio Gassman. E certe sentenze furono scritte con un linguaggio così contorto e barocco, come dimostrò Mauro Mellini nel libro Le Sante Nullità , da essere spassose. E da lasciare spesso il dubbio su certe scappatoie. Dubbio che toccò perfino Papa Wojtyla che nel 2005 parlò di «interessi individuali e collettivi che possono indurre le parti a ricorrere a vari tipi di falsità e persino di corruzione allo scopo di raggiungere una sentenza favorevole». Sarebbe un peccato, però, in occasione del Cinquantenario della legge sul divorzio contrapposta anche in questi giorni all' andazzo della Sacra Rota, non ricordare un capolavoro comparso tanti anni fa. Era arrivata la notizia che i magistrati rotali, che già su questo tema si erano esibiti più volte, avevano concesso l' annullamento a una coppia con la motivazione che lui era impotente e non poteva assolvere a una parte fondamentale dei suoi doveri. Il pezzo finì nella pagina curata da Dino Buzzati. Narra la leggenda che lo straordinario cronista e scrittore bellunese girò e rigirò tra le mani il dattiloscritto: come poteva raccontare tutto senza turbare certi lettori un po' bigotti, senza usare parole esplicite, senza un minimo di spazio dovendo fare il titolo con meno di ventisette caratteri? In quel momento scese dal cielo un raggio di sole e lo illuminò. Ne uscì un prodigio basato sullo stacco d' una virgola: «Non coniugava, l' imperfetto».

·        Nelle more di un divorzio.

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 19 ottobre 2020. Beatrice lo racconta su uno di quei blog dove anonimi utenti si scambiano consigli sui propri affari privati. «Dopo sette anni dal divorzio, mi sono risposata con mio marito», la butta lì. «Mi sono guardata attorno», precisa poi, «sono uscita con diversi uomini e alla fine mi sono resa conto che mio marito non era poi così male». Beatrice, non dev' essere una gran romanticona. O almeno ce la immaginiamo così dietro la tastiera: una donna pratica che a cinquant' anni (età che il sito in questione non occulta), sceglie di riscaldare la vecchia minestra, che già una volta le era andata di traverso. Ma oggi chissà. Non è la sola. Risposarsi con la stessa persona è un fenomeno, non così frequente, ma che accade. Qualche anno fa, l' ordine degli avvocati aveva pure dato i numeri: circa seimila coppie l' anno, dopo il divorzio, si rimettono insieme. Convogliano in seconde nozze, dimentichi dei litigi, dei difetti dell' altro, della noia del quotidiano. Sul tema, è persino appena uscito un libro: «Risposami! Crisi & rinascita della coppia», scritto dalla neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta milanese Mariolina Ceriotti Migliarese.

UNA FOLLIA. I commenti degli utenti del web al racconto di Beatrice sono tutt' altro che positivi. Non gliele mandano a dire. Chi le dà della "folle" per essere caduta due volte nello stesso errore, chi con più delicatezza ironizza. Un tale Gianmarco, raccogliendo molti consensi, le scrive: «In bocca al lupo. Sposarsi una volta è già una mezza follia. Due volte è coraggio vero». Tornare sui propri passi, sgomberiamo subito il campo, è una scelta, spesso e volentieri, tutt' altro che indirizzata dalla passione. «Quando dopo un divorzio, si sceglie di tornare con lo stesso partner dopo anni, il rischio è che si tratti di un ripiego perché non si è trovato nessun altro con cui dividere la propria vita», spiega Miolì Chiung, psicoterapeuta e responsabile dello studio Salem. «Ci sono certamente diverse situazioni e diverse motivazioni alla base di una scelta di questo tipo», prosegue l' esperta, «ad esempio c' è chi si era sposato da molto giovane. Coppie i cui obiettivi sono man mano cambiati nel corso del tempo fino a divergere completamente. Si arriva in questo modo a un divorzio. Ma può accadere, sebbene non sia così frequente, che dopo diverso tempo, le strade riescano a ricongiungersi dopo la separazione».

E poi ci sono le coppie con figli. Chi dopo il divorzio, prova a tornare insieme per il bene della prole. «Questa è la situazione più delicata», spiega Chiung, «perché quando ci sono di mezzo terze persone, come appunto i figli, che hanno già vissuto il dolore del divorzio, scegliere di tornare insieme non è per forza un bene. Sottoporre i figli a una sorta di "Yo-yo" emotivo, può essere controproducente. In questo caso, le coppie dovrebbero valutare con molta attenzione i propri passi». Sono solitamente gli ex di mezz' età a scegliere di riappacificarsi e tornare sull' altare. Sprovvisti di possibilità con altri partner, si guardano al passato. «Forse si è cresciuti e i difetti del partner non sono più considerati così insopportabili. O forse è la paura di rimanere soli, dato che il numero di possibilità di incontrare qualcun altro secondo diversi pazienti si riduce man mano che si avanza con l' età. E quindi in questo caso ci si fa andare bene qualcosa che prima, per un motivo o per l' altro, non era andato bene», prosegue la psicoterapeuta. Prima, però, di incorrere nello stesso errore, da cui si era riusciti a scampare, bisognerebbe ponderare bene la decisione. «Ci si dovrebbe interrogare sulle motivazioni della precedente rottura. Ora le cose sono cambiate davvero?», precisa Chiung. Ma i doppi matrimoni tra medesimi coniugi non sempre conseguono a un divorzio. C' è chi si risposa non essendosi mai lasciato. Ci sono persino coppie "famose" che hanno percorso questa strada, come gli inseparabili Victoria e David Beckam. Solo una piccola parte di "coniugi-bis" rinnova le promesse per sfoggiare di nuovo l' abito matrimoniale, agghindarsi e ricercare una location possibilmente più bella ancora della prima.

PROMESSA. La maggioranza sono coppie mosse dal desiderio di ripromettersi amore eterno. Esserselo giurato solo una volta, tanti anni addietro, a questi sposi pare troppo poco. «Capita, per esempio, a chi vuole rinsaldare il legame quando si arriva a un' età più matura, magari facendo partecipare alla cerimonia i figli che al tempo del primo matrimonio ancora non erano nati», racconta Miolì Chiung. E dunque spose e sposi, non più giovani e ingenui, si scambiano le fedi di nuovo. Consapevoli dei bisticci, delle rogne, dei torti subiti vicendevolmente, sui quali però ha trionfato l' amore. Quando il matrimonio funziona e non capitombola in un divorzio, oggigiorno, in effetti, conviene festeggiare.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2020. Questa è la storia della compagna Laura e di Andrea, il suo fascio-fidanzato. Un amore finito male, perché lei, di sani principi democratici, quando ha scoperto con quale "orrendo" estremista di destra si stava per congiungere, ha mandato all' aria il matrimonio. Niente "compromesso storico". Manco sotto le lenzuola. Ed è un fatto inedito. Perché oggi le coppie scoppiano per corna, noia, scazzi o "modestie" sessuali. La pregiudiziale ideologica (ammesso che sia vera) è una cosa nuova. Però non è per questo che la coppia è finita sulla stampa locale. È successo perché Andrea, ferito nei sentimenti e nel portafoglio, ha chiamato in giudizio Laura per farsi restituire i soldi della mancata cerimonia e degli arredi di casa. E il tribunale gli ha dato ragione, condannando lei a un risarcimento di 30mila euro. Con ordine. I due - come riporta il Giornale di Vicenza - si conoscono sul traghetto per la Sardegna. È il 2014. Si piacciono, si fidanzano. Laura lavora nel commercio elettronico di prodotti di bellezza ed è un' attivista per la tutela dei diritti umani. Andrea è di Bologna e fa l' operaio. Città rossa e lavoro politicamente corretto: agli occhi di lei, vicentina, deve sembrare l' uomo perfetto. Così dopo tre anni di fidanzamento decidono di sposarsi. Sei mesi prima della cerimonia, però, succede un fatto. Mentre guardano vecchie foto di lui, viene fuori il suo passato da camerata. Andrea le spiega che con la politica ha chiuso. Erano pulsioni giovanili. Laura sul momento si placa. Ma poi inizia a indagare sui trascorsi del suo futuro marito. E boom: la cooperante scopre che il suo bello apparteneva a un' organizzazione di estrema destra. E, peggio ancora, a suo carico c' è anche una vecchia denuncia per omofobia. Una aggressione a due ragazzi gay. Chiamato a riferire davanti al "tribunale del popolo", Andrea spiega la sua versione. «A quei due ragazzi non ho fatto niente, l' inchiesta a mio carico è stata archiviata». E infatti le cose stanno così. Quanto alla sua affiliazione, il ragazzo giura di aver tagliato ogni legame con i neo-fasci bolognesi: «È roba di vent' anni fa, non li ho mai più visti». Niente da fare, Laura non transige. Un neo-nazi è per sempre, come i diamanti. Ma - ed è questo il motivo per cui è stata condannata - invece di mollarlo, lo lascia a bagnomaria. È fredda e sfuggente sì, ma non fa parola della sua decisione, mentre lui va avanti con i preparativi del matrimonio. La nostra Carola Rackete si decide ad annunciare il due di picche solo a una settimana dal giorno del fatidico "sì", lasciando il Balilla come un fesso. Gli scrive anche una lettera. Spiegando che, tra chi saluta col pugno chiuso e chi con il braccio teso, non ci può essere futuro. La decisione di emarginare il fascio risaliva a mesi prima. Ma lei non aveva avuto il coraggio di affrontare l'argomento, mentre il "nero" andava avanti come un wedding planner, acquistando confetti e la cucina da Ikea. Scema, lei. Perché Andrea porta in tribunale quel pezzo di carta olografo. Il dolore ora è diventato rabbia. Vuole essere risarcito. Ci sono le spese per il banchetto nunziale, gli addobbi della chiesa, le bomboniere, il vestito, l' appartamento dove avrebbero dovuto vivere una volta sposati. E poi che dire della figura di merda con i parenti? Fascista (ex) sì, fesso no: l' uomo vuole essere pagato sia per il danno materiale che per quello morale. E il Tribunale di Vicenza gli dà ragione. Laura dovrà versare ad Andrea 30mila euro. Non solo per rifondere le spese del matrimonio mancato. I giudici hanno riconosciuto all'uomo bolognese anche il danno per la perdita di chance. Se egli avesse saputo prima delle intenzioni della donna di mollarlo, nel frattempo si sarebbe potuto mettere su piazza, trovando un' altra fidanzata. Magari una di Casa Pound.

G.D.S. per “il Corriere della Sera - Edizione Roma” il 26 maggio 2020. Dal 2014 ha interrotto «arbitrariamente» di versare l' assegno di mantenimento dei figli minori. «Condotta discutibile», tale persino da aver «esasperato» l' ex moglie, scrive il giudice nelle motivazioni della sentenza con cui, però, assolve l' imputato dal reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. «Il fatto non sussiste», si legge nel provvedimento, perché «nonostante gli omessi adempimenti l' uomo non ha deprivato i figli minori dei mezzi di sussistenza primari, facendo fronte direttamente egli stesso alle esigenze morali ed economiche dei suoi ragazzi». Per esempio, ricorda il giudice, «consegnando brevi manu il denaro agli stessi per le spese mediche e di abbigliamento». La tesi tuttavia non è stata condivisa dal pm, che invece aveva avanzato una richiesta di condanna a quattro mesi di reclusione. Certo il giudice stigmatizza il comportamento dell' uomo: «La condotta dell' imputato è discutibile perché ha arbitrariamente deciso di non versare più gli ordinari mezzi di pagamento al coniuge». Però l' addebito da elevare a carico dell' imputato va ridimensionato in quanto ha comunque provveduto alle esigenze del nucleo famigliare relative alla crescita, all' educazione e al mantenimento dei figli. La vicenda ha inizio nel 2014 quando l' imputato, imprenditore a Ostia, smette di versare l' assegno di mantenimento di 650 euro al mese per i figli, pur essendovi obbligato come stabilito dal Tribunale civile all' esito del giudizio di separazione. A quel punto l' ex moglie lo denuncia perché si trova ad avere «delle difficoltà a provvedere alle incombenze a suo diretto carico inerenti il mantenimento dei figli». L' uomo finisce sotto processo. In aula il resoconto della moglie - come nota il giudice - appare esasperato proprio dalle complicazioni nate dalle scelte dell' ex compagno. La signora però ammette anche che l' ex marito le ha dato 58 mila euro per l' acquisto della casa. Interrogato, l' imprenditore- difeso dell' avvocato Pablo De Luca - confessa le sue mancanze: «È vero, materialmente non ho più consegnato i soldi per i miei figli alla mia ex moglie, ma non perché non li avevo: forse ho sbagliato ad agire così di testa mia, ma io penso ai miei figli tutti i giorni della mia vita». Anzi l' imputato prova a rovesciare in aula la situazione: «Mai mi sarei aspettato di trovarmi qui, perché la mia ex moglie sa benissimo che io ho fatto da padre e da madre. Penso a tutto per i miei figli». Fa anche un esempio: «In vacanza, mio figlio lo porto cinque volte all' anno. Gli devo pagare anche la vacanza con la mamma?». Nell' interrogatorio è senza freni: «Il completo per il calcio glielo laviamo al 50 percento io e al 50 percento mia madre. Quando la mia ex mi diceva di avere difficoltà a fine mese, ho dato 100 o 200 euro ai miei figli perché glieli portassero». E infine l' imprenditore conclude: «Ho la coscienza pulita al cento percento». E il giudice, assolvendolo, gli ha creduto, ritenendo la sua testimonianza documentata.

Da "ilmessaggero.it" il 21 aprile 2020. Nozze annullate se la moglie è gay. L'omosessualità della moglie, anche nel caso di un matrimonio durato più di dieci anni e arricchito dalla nascita di tre figli, è stato riconosciuto dalla Cassazione come motivo valido per la delibazione di una sentenza ecclesiastica di annullamento delle nozze, in questo caso di una coppia pugliese, insieme all'esclusione della indissolubilità del vincolo da parte del marito. Invano il Pg si è opposto parlando di decisione «discriminatoria» della libertà sessuale e affettiva della donna considerata affetta da «malattia psichica».

Da “la Stampa” il 2 marzo 2020. Basta poco per far scattare la separazione con l' addebito, tornato di moda nei tribunali dopo un periodo di soffitta, per punire il presunto colpevole dell' affossamento del matrimonio. Sono sufficienti delle foto che mostrano uno dei coniugi in un «atteggiamento di intimità» non meglio specificato, ma che «secondo la comune esperienza induce a presumere l' esistenza di una relazione extraconiugale». Il via libera a questo tipo di prove senza appello - non corredate da sms, ricevute sospette, testimoni della scappatella - arriva dalla Cassazione.

La presunzione. I supremi giudici - verdetto 4899 - hanno confermato la "colpa" di un marito romano, Roberto R., accusato di tradimento dalla moglie Isabella per alcune foto che lo mostrano vicino ad una donna. Immagini, quelle in questione, che non danno conferma immediata e palmare di una relazione adulterina ma la fanno «presumere» non si sa da quali indizi, se non il riferimento al dato di «comune esperienza», criterio assurto ad ago della bilancia per accollare la colpa morale di aver infranto l' obbligo di fedeltà. Sulla base della labile traccia di una «produzione fotografica» che lo ritraeva nei pressi di una donna «in un atteggiamento di intimità che secondo la comune esperienza induce a presumere l' esistenza tra i due di una relazione extraconiugale», la Cassazione non ha creduto a Roberto che sosteneva che si trattava solo di un «atteggiamento puramente amicale». Magari camminava a braccetto con una compagna del liceo incontrata per caso, o toglieva un capello dalla giacca di una collega in pausa pranzo. Gesti di «intimità» che, sembrano far capire i giudici, non finiscono lì, c' è dell' altro, è «comune esperienza». La coppia, scoppiata per delle foto che sembrano solo un grande punto interrogativo, non ha in ballo nessun interesse patrimoniale, ognuno è autosufficiente e non ha chiesto nulla all' altro. Roberto e Isabella hanno un' unica figlia maggiorenne e quasi del tutto autosufficiente alla quale il padre deve dare 200 euro al mese per aiutarla. I due non hanno litigato per la casa, l' affido dei figli, l' entità dell' assegno, i periodi di villeggiatura e il gatto. Hanno pagato avvocati e scomodato giudici per delle foto che sono solo un sospetto. Magari una bufala come Bradley Cooper e Lady Gaga a cantare "Shallow" la notte degli Oscar.

Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 13 febbraio 2020. La notorietà del marito non è una buona ragione per mantenere il suo cognome dopo il divorzio. Neppure se con il nome dell’ex la signora è nota nei salotti buoni. La Corte di cassazione (3454) respinge il ricorso della donna che, dopo il divorzio, non si poteva rassegnare a riprendere il suo nome da “signorina”, mandato in soffitta, ancora prima del fatidico sì, per barattarlo con quello del suo più famoso consorte, che rifiutava però di lasciarglielo come trattamento di fine rapporto.

La luce riflessa. Inutilmente la ricorrente cerca di convincere i giudici dell’importanza di continuare a chiamarsi con il nome acquisito dopo le nozze. Un diritto che considerava anche nell’interesse della figlia, per il disagio che avrebbe provato nell’ambiente scolastico se la madre fosse stata costretta a presentarsi come la signora tal dei tali. Ma, pregiudizi per la figlia a parte, gli argomenti usati dalla ricorrente sono essenzialmente ”mondani”. Utilizzando il suo nome avrebbe perso certamente la luce “riflessa” che le derivava dalla notorietà del marito, nelle frequentazioni sociali. In più ai giudici la ricorrente chiedeva di tenere conto, sapendo di non poter contare su un matrimonio lunghissimo, anche del periodo di fidanzamento durante il quale si presentava già come la signora X.

Solo la vedova può. La Cassazione non è sensibile al tema. I giudici della prima sezione civile, ricordano che per conservare, di regola, il cognome del marito è necessario essere vedove, salvo poi perderlo se si convola a nuove nozze. Negli altri casi servono delle ragioni eccezionali che sta al giudice valutare. E nel caso esaminato i giudici non trovano proprio nulla di eccezionale. La figlia si troverà in una situazione analoga a quella vissuta da tutti i figli di divorziati. E la signora, che si era sposata a 38 anni, potrà tornare al nome che utilizzava prima di incontrare il brillante marito e con il quale, vista l’età delle nozze, avrà acquisito, anche se lei per prima sembra non crederci, una sua identità. Dunque nessun diritto di ”usucapione” del nome.

Il pregiudizio per l’ex marito. Mentre l’uso, anche dopo lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, malgrado l’opposizione dell’uomo, si può tradurre in un pregiudizio per l’ex marito che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale, un nuovo nucleo familiare rendendolo riconoscibile come attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente. Quanto alle frequentazioni mondane, certamente sapranno già tutto sulle vicende della coppia.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano”l'11 febbraio 2020. Storia singolare, quella che vi raccontiamo. Storia di liti e tribunali, e con un verdetto che - come spesso accade - non chiarisce a noi "spettatori" da che parte sia davvero la ragione. Con il "colpevole" accusato di aver messo la madre malata davanti alla moglie nella gerarchia della priorità. E la consorte furiosa che lo cita in giudizio. Succede che a Messina ci sia una famigliola composta da papà, mamma e figlioletta. La madre di lui, però, è gravemente malata e ha assoluto bisogno di cure. Dall' altra parte c' è una moglie, definita dall' uomo gelosa e possessiva. Proprio lui decide che non può mica fregarsene di chi l' ha messo al mondo, e dunque lascia casa sua per trasferirsi da lei ad assisterla. Allora scoppia il finimondo, con la moglie che si presenta in Tribunale per fargliela pagare: pretende la separazione, e che sia da addebitare solo la marito, ragion per cui è lui che dovrebbe pagare le spese di mantenimento a lei e alla bambina. Succede poi che il Tribunale, la Corte d' Appello e pure la Cassazione diano ragione alla donna. La colpa è solo dell' uomo, perché ha violato il dovere di coabitazione coniugale. Poco importa che non se ne sia andato di casa per scappare con l' amante, ma per l' appunto per curare la mamma malata. Il colpevole della rottura del matrimonio è solo lui. E deve pure pagare gli alimenti, nonostante la (ex) moglie abbia una borsa di studio da 800 euro al mese. Di fatto, secondo i giudici il marito avrebbe potuto prendersi cura dell' anziana anche senza venir meno ai doveri coniugali. Perché tra i principi del matrimonio, oltre alla fedeltà nella cattiva e nella buona sorte, c' è pure il dovere di vivere sotto lo stesso tetto. In effetti, lasciare la casa coniugale è un reato previsto dal codice penale, che prevede anche la reclusione fino a un anno di galera o una multa compresa tra i 132 e 1.032 euro. Tutto comprensibile, ma - come detto - qui non si tratta di un fedifrago che abbandona moglie e figlia per scappare con la ventenne di turno. Possibile che, al netto di screzi forse precedenti di cui non siamo a conoscenza, non possa decidere di assistere la mamma malata? Per andarsene da casa senza rischiare nulla, secondo la legge, il partner deve provare che ci siano stati "infedeltà, violenza fisica, verbale e psicologica, il venir meno dei rapporti sessuali, le inconciliabili incompatibilità caratteriali". Per tutto il resto non esistono giustificazioni. Ma in tema di violazioni degli obblighi famigliari, i casi curiosi e a dir poco discutibili non mancano. A inizio anno, per esempio, una donna di Sassari è stata condannata dalla Cassazione perché se n' era andata di casa per due giorni. Dopo vent' anni di matrimonio ha deciso di prendersi una pausa di riflessione e allontanarsi dal marito e dai due figli. Mai una scappatella, mai una sbandata, mai un tradimento. Il tempo di capire che voleva proseguire la sua vita insieme alla sua famiglia e si è ripresentata a casa. Peccato che la serratura era già stata cambiata e il suo compagno di una vita si è rifiutato di darle una seconda possibilità. La magra consolazione è stato l' affidamento congiunto del figlio più piccolo, che ora vive con lei. Ma intanto la donna ha perso l' assegno di mantenimento e la casa coniugale, oltre a vedersi confermato l' addebito. I giudici non hanno fatto sconti: alla donna sono bastate 48 ore per rovinarsi.

Divorziare? Fino a sette anni di attesa per la sentenza di primo grado. In Italia i tempi per le separazioni e i divorzi sono particolarmente lunghi. Il problema è strutturale e una riforma di questo tipo di processi si può e si deve fare per dare alle persone risposte rapide e certe sulla propria vita. Alessandro Simeone Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre, il 19 Novembre 2019 su La Repubblica. Una delle prime domande che chi vuole separarsi rivolge all’Avvocato è: “ma quanto tempo ci vuole?”. Le reazioni alla risposta sono più o meno standard: occhi sbigottiti e imprecazioni. Perché separarsi (e divorziare) è un percorso lunghissimo, oltreché - molto spesso - assai doloroso e costoso. Se si trova un accordo - e questo accade grazie al lavoro di mediazione di quegli avvocati poco desiderosi di rimanere invischiati in procedimenti eterni - i tempi sono accettabili: dai tre ai nove mesi per separarsi e altrettanti per divorziare. Usando poi la negoziazione assistita, procedimento con cui si salta il passaggio in Tribunale, ci si può separare in un mese e divorziare in sette. I problemi cominciano quando l’accordo è impossibile. Secondo le statistiche del Ministero di Giustizia, un processo di primo grado dura in media tre anni, quello in Appello due anni e tre mesi, quello in Cassazione (dati del 2017) altri tre anni e quattro mesi. Totale 3.130 giorni. Per le separazioni e i divorzi la situazione può anche essere peggiore. La legge, infatti, prevede che ai tre anni di media del processo civile ordinario, siano aggiunti quelli della prima fase “speciale”, prevista solo per chi vuole lasciarsi; una fase che dura dai quattro mesi (nei Tribunali virtuosi e per le situazioni urgenti) ai dodici di quelli più in affanno; il che porta a una durata complessiva che non difficilmente è inferiore a tre anni e mezzo/quattro, periodo che è destinato ad aumentare nelle situazioni particolarmente complesse. I tempi raddoppiano se si vuole anche divorziare. Facendo due rapidi calcoli, per arrivare a una sistemazione (più o meno) definitiva non è difficile impiegarci sette anni solo per il primo grado. Quali sono i motivi di questa lunghezza? Sarebbe falso dare la colpa agli avvocati che, nel procedimento civile, non hanno alcun potere di dettare i tempi. Sarebbe facile – e superficiale - dare la colpa ai magistrati che certamente non si divertono a dilatare a dismisura i tempi. Il problema, almeno per il diritto di famiglia, è proprio strutturale: alla naturale litigiosità dei coniugi – molti dei quali vedono nel conflitto giudiziario il modo per prolungare la loro relazione - il legislatore dovrebbe rispondere con l’accorciamento dei tempi per il processo, sforbiciando drasticamente molti passaggi perfettamente inutili (come quello dell’ultima udienza in cui gli avvocati non fanno altro che ribadire le loro richieste), privilegiando (come accade nel penale) la discussione orale, a scapito di quella scritta. Di tutto questo, però, non v’è traccia nei numerosi processi di riforma del processo civile di tutti gli ultimi governi. Forse perché si ritiene che separazioni e divorzi non incidano sulla competitività del sistema; un’opinione che ha come presupposto la mancata comprensione di quanto, invece, sia importante per le persone avere risposte rapide e certe sulla loro vita. Sapere, in tempi accettabili, chi vivrà nella casa, se si deve pagare (o ricevere) un assegno di mantenimento, quando si possono vedere i figli, contribuisce a una maggiore stabilità, con le conseguenti ricadute positive, non solo sulle persone in sé ma sulla loro capacità di essere buoni cittadini ed efficienti produttori di ricchezza personale e collettiva.

Tradimento, se la prova arriva dai social può non bastare nel processo per divorzio. Due sentenze del Tribunale di Catania e della Corte d'appello di Palermo hanno portato alla ribalta i social media come "prova" a carico in un processo per divorzio. Ma non sempre gli screenshoot incriminati sono sufficienti in tribunale per dimostrare l'infedeltà del coniuge o il tenore di vita. Alessandro Simeone Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre, l'08 Ottobre 2019 su La Repubblica. Nelle cause familiari uno dei punti più controversi è sempre stato quello leagato alla prova del tradimento. L'avvento dei social network, ma soprattutto l'uso spesso incauto che i coniugi che si lasciano ne fanno, hanno cambiato lo scenario. Un tempo gli amanti clandestini si rifugiavano nei motel o si appartavano di notte. Oggi, invece, non sono infrequenti i casi di persone che, prese dall'ebrezza dell'apparire, postano fotografie che li ritraggono in ristoranti di lusso - magari seguite da una recensione su Tripadvisor - o impegnati in vacanze da sogno, con immancabile foto al tramonto su Istagram con una bottiglia di champagne sullo sfondo; così come capita che qualche status o tag sbagliato possano far sorgere più di un sospetto su eventuali relazioni extraconiugali. La Rete non perdona ma soprattutto non dimentica. Se è praticamente impossibile risalire al momento in cui una fotografia è stata scattata, i social sono impietosi nel testimoniare che in quella data, a quell'ora si era in un determinato posto con una certa persona. Ed è così che gli screenshot sono diventati un ottimo strumento per provare l'addebito in una separazione o per aiutare a ricostruire il tenore di vita familiare (valido oggi solo per la separazione ma non per il divorzio). Ma non sempre i post su Facebook o Instagram sono sufficienti. Proprio di recente due sentenze lo hanno ribadito a chiaramente: nel primo caso, affrontato dal Tribunale di Catania, erano state depositate nel fascicolo della causa le fotografie pubblicate ritraenti il marito abbracciato teneramente a un'altra donna; nel secondo caso, discusso dalla Corte d'appello di Palermo invece, la moglie accusata di tradimento, si era limitata ad accettare il cybercorteggiamento di un altro uomo. Entrambe le decisioni hanno precisato che le fotografie, gli status e i messaggi pubblici sui social network possono servire a livello indiziario, ma non bastano a ritenere comprovata una relazione adulterina. Sia il marito catanese che la moglie palermitana l'hanno scampata. Rimane però necessario ribadire che un maggior rispetto della propria privacy e la consapevolezza che usare i social equivale a "mettere in piazza" la propria intimità e quella del proprio partner dovrebbero indurre a una maggior prudenza nella condivisione con gli estranei della propria vita. Il prezzo della vanità 2.0 può anche essere molto caro.

DAGONEWS il 23 gennaio 2020. Alcuni ex non spariranno mai dalla vita del tuo partner. O entrano dalla porta di casa o fanno irruzione nei discorsi. Ma cosa fare quando la presenza di questa persona diventa troppo ingombrante? Tracey Cox ha ritracciato cinque possibili scenari e come ogni singola situazione va affrontata per non uscirne feriti e delusi.

Uno dei due non si aspettava la separazione. La maggior parte di noi presume che il problema più importante sia il tempo che il partner e l’ex hanno passato insieme. È vero che è fondamentale, ma molto più rilevante è scoprire se erano emotivamente preparati per la separazione. Il problema si pone quando uno è ancora follemente innamorato e l'altro ha intenzione di separarsi. Se è il tuo partner a essere stato lasciato improvvisamente non avrà più fiducia in se stesso e soffrirà pensando a come non ha potuto accorgersene prima. Indovina chi affronta le ricadute? Proprio il nuovo compagno che sarà costretto a fare i conti con la versione più diffidente, cinica e timida del proprio partner.

Rimanere o scappare? Se il tuo partner è stato lasciato improvvisamente da poco, è molto probabile che la tua relazione non sopravviva. Dagli una possibilità facendogli sapere che ti rendi conto che stanno ancora soffrendo e si stanno riprendendo, quindi dai loro spazio per respirare. Dì che ti piace davvero, ma non vuoi costringerlo a impegnarsi fino a quando non avrà superato il passato. A quel punto rimani in disparte per un po’ di tempo e valuta i progressi (se ci sono).

Stanno ancora vivendo insieme. Una rottura rapida e inaspettata può anche significare che vivono ancora sotto lo stesso tetto. L'aumento del costo della vita fa sì che è difficile trovare una nuova casa in breve tempo.

Rimanere o scappare? Scopri esattamente qual è l’intenzione del tuo partner: per quanto tempo continueranno a vivere insieme, cosa stanno aspettando per prendere strade separate? Chiarisci con te stesso quali sono i tuoi limiti.  Il fatto è che, sebbene sia finanziariamente più difficile vivere da soli, è ancora possibile condividere con un amico o affittare una stanza. Se vi siete appena incontrati e loro si sono separati da poco, concorda un periodo ragionevole di transizione. Se vi siete appena incontrati e loro continuano a vivere insieme da più di tre mesi senza alcun segno di cambiamento all’orizzonte, fuggi. O hanno problemi con la separazione, o sperano segretamente di conciliarsi o sono troppo pigri per trovare una soluzione. In ogni caso se la situazione dura da molto, scappa.

È come se non fossero mai andati via. Vivono separatamente ma puoi vedere il passaggio dell’ex ovunque? Ti senti un intruso perché lo sei: un ex non è fuori dalla sua vita fino a quando non ha rimosso i segni della loro vita insieme. Foto, vestiti, articoli da bagno sono ancora sparsi in giro. Non vogliono cancellarli o, nella migliore delle ipotesi, non ci fanno caso perché sono disinteressati.

Rimanere o scappare? Se hanno una reazione scomposta e non hanno alcuna intenzione di non farti sentire la presenza del terzo incomodo, fuggi.

Ne parlano costantemente. Parlare costantemente dell’ex è di gran lunga il peggior segno che la spina non è stata staccata. Peggio ancora se sono ossessionati da ciò che fanno e li seguono sui social.

Rimanere o scappare? Massima attenzione: questa persona è emotivamente bloccata. Significa che questa persona è intrappolata nel passato. Fai presente al tuo partner che la situazione non ti fa piacere. Se non cambia nulla, fuggi.

Sono ancora buoni amici. In apparenza, tutto sembra incredibilmente adulto e maturo. Finché non noti che il tuo partner chiama l’ex per discutere di un problema, abbassa la voce quando chiama e si allontana. Siamo onesti: è facile rimanere amici con un ex se la relazione non era seria. Ma non ci sono troppe persone che hanno avuto relazioni intense che possono dire di essere buoni amici. Molte persone tengono i loro ex su una lama: non li vogliono, ma non vogliono neanche che si rifacciano una vita. Se sono amici, si vedono molto e si sono separati solo da un mese, fai attenzione. La colpa è un altro fattore: se è il tuo partner ad aver lasciato, è più facile che vengano manipolati. Giocare al soccorritore nella veste di "amico" li fa sentire meglio. Un'amicizia dopo un periodo di separazione salutare e dove ci sono amici in comune non deve farci paura. Vedersi un paio di volte a settimana senza motivo se non hanno figli è un’altra storia.

Rimanere o scappare? Quanto sono vicini e quanto includono anche te? Molto o per nulla? Rispondi a queste domande e, in caso, fuggi.

Viviana Persiani per “Libero quotidiano” l'8 gennaio 2020. «L' Epifania molti matrimoni si porta via». Sarà anche vero, infatti, che quello di Natale è, tradizionalmente, il periodo consacrato alla famiglia, ma, dati alla mano, è anche il momento nel quale le coppie in crisi rischiano definitivamente di scoppiare. Il perché è presto detto. Il lungo periodo di vacanza obbliga, tanti, a dover convivere, 24 ore al giorno, sotto lo stesso tetto, facendo acuire i dissapori e le tensioni, fino al fatidico «facciamola finita». Non a caso, a Milano, tra il 7 e il 30 gennaio, si registra un incremento del 35,1% delle richieste di separazione. Come spiega il sessuologo e psichiatra Marco Rossi: «Passare più tempo insieme, rispetto al solito, fa emergere tutte le incompatibilità. Anche perché molti si sentono sotto pressione: pensano di dover trascorrere un Natale perfetto, proprio come quelli dei film delle feste. E così, anche quando si rendono conto che il rapporto è irrimediabilmente compromesso, si sentono obbligati a rimanere con il partner fino alla fine delle vacanze. Questo periodo dell' anno evoca una risposta così emotiva che a volte le persone vogliono dissimulare le negatività della loro vita e concentrarsi sulle cose felici. Ma solo fino a quando le vacanze finiscono». Insomma, a leggere le statistiche e queste dichiarazioni, si farebbe bene a mettere in chiaro le cose prima del 24 dicembre, per evitare di dover affrontare quindici giorni da "arresti domiciliari". Da questo punto di vista, è interessante il libro La matematica del cuore (Piemme), scritto da Alessandro Nicolò Pellizzari e da Eliselle, testo che si occupa anche di questo problema nel capitolo "Diario di sopravvivenza per le feste". Come spiega la sua autrice: «Le coppie in crisi fanno in genere due errori capitali, cercando di sistemare i loro guai sentimentali, ma ottenendo il risultato contrario: cercare un figlio e programmare una vacanza insieme. In particolare, la vacanza si dimostra letale perché la coppia in crisi spesso sopravvive grazie alla scarsa condivisione del tempo, vuoi per il lavoro vuoi per le incombenze familiari. Le distanze tengono sopiti i problemi che continuano a covare sotto la cenere, ma non appena si ricomincia a stare più insieme, bastano un paio di settimane scarse per innescare i meccanismi classici provocati dalla frustrazione e dal disamore, con l' unica conclusione possibile: fuoco, lapilli e distruzione». Pellizzari aggiunge che «il fondo lo toccano soprattutto coloro che prima delle feste hanno iniziato una storia clandestina. Avere l' amante avrà trasformato i momenti col coniuge in una sorta di tortura. Soprattutto per le donne, da sempre più convinte e coinvolte quando scelgono un altro uomo. Gli uomini invece avranno tirato fuori la cattiveria alimentata dal rancore per il coniuge, visto ormai come principale impedimento per coronare il nuovo sogno d' amore. Tutto ciò si traduce in litigi quotidiani che proseguono anche dopo la Befana». Insomma, appare evidente come la soluzione più logica, sia quella di non trascinarsi i problemi di coppia durante le vacanze natalizie. Che poi, non serve essere in crisi per farsi mandare di traverso il panettone. Avere a casa il marito per 14 giorni, mentre siete alle prese con il cenone della vigilia, con quello di Natale, con quello di San Silvestro, con il pranzo di Capodanno, ovvero quando gli chiedete di andarvi a comprare il sale che sta finendo e lui torna dopo un' ora e mezza come se avesse fatto la Parigi-Dakar, metterebbe a dura prova la resistenza di ogni moglie. Per non parlare della suocera che durante il cenone ti liquida con un «buoni i ravioli di carne, li hai comprati vero?» o un «almeno il brodo è caldo, anche se insipido», cercando di sminuirti agli occhi del figlio. Ecco, diciamo che, a volte, una moglie vorrebbe divorziare da tutta la sua famiglia, indipendentemente dal periodo dell' anno. Altro che Epifania.

Da ilmessaggero.it  il 21 gennaio 2020. Moglie e marito litigano e lei decide di andarsene di casa dopo 20 anni di matrimonio e due figli. Poi, dopo 48 ore, ha deciso di tornare a casa ma non ha potuto rientrare perché il marito, nel frattempo, ha cambiato la serratura della porta d'ingresso dell'abitazione. Il marito, dopo quell'episodio, ha deciso di chiedere il divorzio e i giudici hanno deciso di addebitare la separazione alla donna. La vicenda che ha visto coinvolta una casalinga di Sassari è descritta oggi dall'Unione Sarda: la Cassazione ha confermato le sentenze del Tribunale di Sassari e della Corte d'Appello di Cagliari, addebitando alla donna, "colpevole" di una breve latitanza, la separazione. La donna non sarebbe fuggita con l'amante, ma questo non ha cambiato la decisione dei giudici. Allontanarsi di casa per due giorni, a fronte di due decenni vissuti sotto lo stesso tetto, è una colpa non scusabile quando, come in questo caso, non ci sono state "pressioni, violenze o minacce del marito", scrive l'Unione Sarda. Così, la donna è andata a vivere da sua madre, ha perso ogni diritto alla casa e all'assegno familiare.

Figli troppo tempo coi nonni? Affido a rischio per i separati. Per i giudici i papà non possono delegare ai parenti la funzione genitoriale, neanche per impegni di lavoro. Redazione de Il Giornale Mercoledì 22/01/2020. Attenzione a lasciare troppo tempo i figli ai nonni se si è un padre separato che chiede l'affidamento dei pargoli, soprattutto se c'è una ex moglie non proprio ben disposta. Per i giudici della Corte di Cassazione, infatti, non è una buona prassi delegare la funzione di genitore a mamma e papà. Non importa se ormai i nonni sono un aiuto prezioso per tutte le famiglie con bambini piccoli. Nei periodi in cui i minori devono stare con il papà, non è possibile che siano i nonni a provvedere a loro tutto il giorno e che il genitore si limiti a vederli soltanto la sera al momento di tornare a casa. Per la Suprema Corte è un punto a sfavore del papà separato che chiede l'affidamento dei figli l'accertamento, da parte dei giudici e degli operatori sociali, del fatto che, invece di passare assieme i momenti stabiliti, il genitore lasci i bambini in accudimento ai nonni. Che un tale comportamento remi contro il tentativo di ottenere più tempo da trascorrere con i figli, risulta da una sentenza depositata ieri in Cassazione relativa ad una causa di separazione tra due coniugi. Un'unione dalla quale sono nate due figlie, che ora - come spesso accade - sono oggetto del contendere tra i due ex. La Corte d'Appello aveva stabilito che le minori fossero affidate alla madre. Nel modificare il regime di visita tra le bambine e il padre, gli operatori del Comune erano stati incaricati di monitorare la situazione con la possibilità di intervenire «a limitazione o ampliamento» degli incontri tra le bimbe, il papà e i nonni paterni. I giudici della Suprema Corte hanno deciso di confermare la sentenza di secondo grado e nella decisione hanno stigmatizzato la «scarsa presenza del padre in casa nei periodi in cui avrebbe dovuto tenere con sé le figlie» e la «delega delle sue funzioni genitoriali operata alla propria madre». Secondo le toghe del Palazzaccio il papà «trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutto il giorno e tornando solo la sera». «Una sentenza non in linea con tempi», secondo l'avvocato Massimiliano Gabrielli, coordinatore nazionale dell'Associazione Padri Separati. «Va sicuramente interpretata - sostiene il legale - ma come al solito non viene riproposta al contrario, verso la madre. Si contesta il fatto che i bambini stiano con i nonni, che il padre cioè deleghi le funzioni di cura e studio a loro, ma non avviene mai il contrario nel caso in cui a farlo sia la madre. È una sentenza che non tiene conto del tempo presente». «Molto spesso - aggiunge il legale - le disposizioni stabilite dai tribunali non tengono conto delle disponibilità di tempo dei genitori e delle difficoltà economiche dei padri per tenere i figli: il padre che esce dalla casa coniugale a volte non ha abitazione adeguata ad accogliere la prole e se è fortunato può appoggiarsi alla casa dei genitori».

Eugenio Pendolini per nuovavenezia.gelocal.it il 21 gennaio 2020. E' entrata in tribunale con addosso un cartellone, su cui era vergato il numero di una sentenza e la foto della figlia. Accanto il nome del marito, trevigiano. D'un tratto è uscita, andandosene. Dopo pochi minuti è tornata: in un attimo si è cosparsa di benzina, dandosi fuoco. Una giovane mamma si è data fuoco davanti alla sede del Tribunale dei minori di Mestre. Il gesto, secondo le prime informazioni, è da mettere in relazione ad un procedimento della giustizia civile che la vede coinvolta. La tragedia si è consumata oggi, lunedì 20 gennaio, sul piazzale di fronte al tribunale dei minori. Immediati i soccorsi da parte dei dipendenti del tribunale che sono accorsi dalla donna con gli estintori e hanno spento le fiamme. La mamma è stata soccorsa e portata all'ospedale. Le sue condizioni sono gravi. Su quanto accaduto indaga la Polizia. È stata ricoverata all'ospedale all'Angelo di Mestre in gravi condizioni. Fonti del nosocomio fanno sapere che la paziente è stata immediatamente presa in cura dai sanitari e intubata. Il cartello che aveva con sé la donna che stamani si è data fuoco davanti al Tribunale dei minori di Mestre fa esplicito riferimento al marito, «un tipo di padre che ha violentato l'infanzia della sua bambina». La giovane ustionata è di origini marocchine. «Ha fatto il massimo - si legge sempre nel cartello - per allontanare la piccola e mandarla in comunità: che vergogna».

"VORREI SOLO UN REGALO DAL 2020: VEDERE I MIEI FIGLI, UNA SOLA VOLTA, TUTTI INSIEME”. Dagospia il 4 gennaio 2020. Da “I Lunatici - Radio2”. Telefonata da brividi nella notte di Rai Radio2. Con i Lunatici Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio in diretta, poco dopo l'una e trenta una signora di nome Veronica ha composto lo 063131 per raccontare la sua storia. "Vi chiamo per ringraziarvi per tutta la compagnia che mi fate ogni notte. Sono da sola. Spero che la vostra trasmissione possa aiutarmi. Ho tre figli, il più grande di 34 anni. Mi furono tolti dai servizi sociali tanti anni fa. Una storia lunga e brutta. Il loro papà mi picchiava, sono successe delle cose che non è il caso di raccontare qui e ora. Vorrei solo un regalo dal 2020 e dalla Befana che sta per arrivare: vederli una volta, una sola volta, tutti insieme. Loro sanno di essere fratelli. Mi ricordo ancora il momento in cui me li tolsero dalle mani. Dalle braccia. E' una cosa orribile per una mamma. Una cosa che non auguro a nessuno. Vi chiamo da Riva del Garda. I miei figli si chiamano Alessandro, Matteo e Luca".  La telefonata si è poi chiusa con la signora Veronica in lacrime.

Telefono Rosa al ministro Bonafede: «Il nome è sbagliato e un bimbo con la leucemia non ottiene l’invalidità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Rosa Gabriella Carnieri Moscatelli. Illustre ministro, ogni anno le volontarie si riuniscono per fare un escursus dell’anno appena trascorso. Durante l’incontro è inevitabile che si affronti il grande problema della difesa legale delle donne che si rivolgono alla nostra associazione. Il senso di impotenza che pervade tutte noi quando leggiamo alcuni provvedimenti. Ci siamo poste molte domande che giriamo a Lei signor ministro. Perché ad oggi non c’è un progetto di rivisitazione e riorganizzazione dei Tribunali? Le criticità che hanno presentato quest’ultimo anno i tribunali dei minori, le difficoltà oggettive dei giudici di pace non le suggeriscono una accurata analisi? Per essere più chiare le parliamo di episodi avvenuti nei tribunali minorili, impegnati con la parte più fragile della nostra società: i bambini e gli adolescenti. Pochi mesi fa una nostra avvocata ci ha comunicato che su un provvedimento di affido dei minori alla madre hanno sbagliato il nome dei figli. Sappiamo già che un semplice errore per essere corretto ha una procedura lunga e contorta. L’ultimo ha colpito un nucleo di mamma con tre figli, il più piccolo ammalato di leucemia. Il provvedimento con nome sbagliato risale al giugno 2018, a causa di ciò l’Inps ha rigettato la richiesta di pensione di invalidità. Appena arrivata la notifica Inps, nel settembre 2019, si è fatta richiesta di correggere il nome sul decreto. Il 19 dicembre 2019 è stata presentata una nuova richiesta perché dopo tre mesi la correzione non è stata eseguita. Un atto che richiede pochi secondi, atto che deve porre rimedio ad un errore del tribunale, purtroppo dopo tre mesi giace ancora inevaso. Il bambino non può prendere la pensione di invalidità, ogni pratica che la mamma deve aprire non procede perché il provvedimento è sbagliato. Ma questo è uno stato che rispetta il cittadino o lo tratta da “suddito”? E ancora ministro, posso farla partecipe delle dolorose vicende che hanno dovuto affrontare alcune delle donne ospiti delle case rifugio e che ci hanno confermato che viene ignorata completamente la convenzione di Istanbul oggi legge dello Stato italiano. Abbiamo letto l’appello al presidente Mattarella della signora Merighi che denuncia il trattamento che il tribunale dei Minori di Roma le ha riservato. Possiamo affermare, senza temere di essere smentite, che lo stesso trattamento è stato riservato, recentemente, ad una madre ospite di una nostra casa che ha denunciato il marito violento e con un ordine di protezione è entrata in una delle nostre case. Il marito ha ottenuto dal Tribunale dei minori un decreto provvisorio che ignora la decisione del Tribunale Penale di Roma. Solleva la giovane mamma dalla responsabilità genitoriale e colloca la bimba di 14 mesi, presso una casa famiglia. La mamma può seguire se vuole la bambina! Abbiamo scritto a tutte le istituzioni interessate al provvedimento. Nessuna ha risposto. Non basta, il genitore ha chiesto al Tribunale Penale la revoca del provvedimento di “protezione”. Il Tribunale Penale di Roma, con grande professionalità, ha immediatamente avviato il procedimento. A gennaio è stata fissata l’udienza. A lei ministro, chiediamo di far luce su episodi che troppo spesso vedono bimbi strappati alle loro madri che hanno una sola colpa: quella di aver denunciato un marito violento. 

Chiede l’affido del figlio di sei anni, ma l’ok arriva  quando è maggiorenne. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. Il punto chiave di questa odissea burocratica e giudiziaria sta in un aggettivo, quello che identifica il provvedimento: «Decreto definitivo». È quel definitivo che bisogna fissare, se si considera la domanda: un uomo che nel 2006, dopo la separazione dalla moglie, si rivolgeva al Tribunale per chiedere d’urgenza l’affidamento condiviso del figlio e una regolamentazione del proprio «diritto di visita» del bambino. Il piccolo, all’epoca, aveva 6 anni: ma la decisione del Tribunale per i minorenni (il «decreto definitivo») è arrivata soltanto nel 2017, quando il bambino era diventato ormai un ragazzo. Ma non è tutto, perché a quel punto, col ricorso del padre in Corte d’appello, i tempi sono andati ancor oltre. E dunque la sentenza che avrebbe dovuto regolare il diritto di visita di un padre a un bambino di 6 anni è stata confermata quando il giovane, ormai maggiorenne, poteva decidere in autonomia della sua vita e dei suoi rapporti con i genitori. È una vicenda della quale il Corriere non rivela altri dettagli per non rendere identificabili le persone coinvolte, ma che, con immediata evidenza, sollecita una domanda: come è stato possibile? Prima di provare a rispondere, bisogna dar conto dell’ultimo passaggio, che risale al 13 dicembre 2019. Porta infatti quella data la lettera con la quale il legale del padre, Gianpaolo Caponi, con il suo collega Francesco Langè, chiede al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia un maxi risarcimento. Un milione di euro: perché «per colpa di un vuoto decisionale», si legge nella lettera, nel quale non sono state emesse «neppure in via temporanea ed urgente delle regole seppur minime che potessero assicurare una frequentazione periodica», all’uomo «è stato precluso, forse per sempre, il diritto di vivere con il proprio figlio». «Siamo di fronte alla violazione di un diritto primario inviolabile, con un danno irreversibile e non quantificabile», riflette l’avvocato Caponi. La vicenda ha inizio nel 2006 e si genera all’interno di un rapporto di conflitto continuo e profondissimo tra madre e padre, da poco separati. Solo nel 2008 i giudici (onorari) incaricano i servizi sociali di fare un’istruttoria, organizzare incontri padre/figlio «in modalità protetta» e valutare le personalità dei genitori. L’esito di quel percorso è una relazione (depositata nel 2009) nella quale gli assistenti sociali spiegano «di non aver rilevato inadeguatezze genitoriali», anzi «evidenziano quanto i genitori siano importanti punti di riferimento per il minore, in grado di offrire allo stesso risorse differenti, ma comunque preziose». Anche il padre «appare affettuoso con il figlio, capace di condividere con lui momenti sereni e divertenti». Il vero problema resta la «conflittualità tra i genitori». Un’altra relazione è datata 2010, ma non arriva ancora la decisione, e una pronuncia non si ottiene neppure nel 2012 e nel 2014, quando la causa viene trattenuta in decisione, ma poi rimessa sul ruolo, con le audizioni che riprendono nel 2016: fino a quella del 2017 in cui il ragazzo si rifiuta di andare in Tribunale. Il passare degli anni è stato scandito da lettere con richiesta di far vedere il bambino al padre, e nei primi periodi alcuni incontri si riuscivano comunque ad organizzare, anche al di fuori di quelli (della durata di un’ora) con gli assistenti sociali presenti. Padre e figlio riuscivano così a tenere un filo di contatto e una volta passarono anche qualche giorno di vacanza insieme, ma tutto questo è sempre avvenuto senza un quadro di regole definito dalla giustizia. Fino a che, come spiegato dal ragazzo in audizione nel 2014, «i rapporti si sono sempre più diradati, fino a interrompersi». Col decreto del 2017 i giudici affidano il ragazzo (ormai 17enne) in via esclusiva alla madre, spiegando di fatto che è sempre stata una «brava madre», pur non essendo stata in grado di assicurare il diritto alla «bi-genitorialità».

In caso di divorzio la casa familiare rimane ai figli. Marzia Coppola, Studio legale Bernardini de Pace, su Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. Può succedere che una storia d’amore giunga al capolinea. In quel momento le questioni da affrontare sono moltissime. Tra queste, una delle più spinose e problematiche, è quella di determinare chi possa continuare a vivere nella casa dove la vita familiare si è svolta. Nessun problema se non ci sono figli: la casa rimarrà a chi ne è proprietario e, in caso di cointestazione dell’immobile, i comproprietari decideranno – insieme – le sorti (vendita a terzi, vendita della quota di uno all’altro, donazione e così via). La situazione diventa complicata se ci sono figli. La regola principale è che la casa venga assegnata al genitore presso il quale i figli vivranno prevalentemente (il c.d. genitore collocatario), nella maggior parte dei casi la mamma. Indipendentemente dal fatto che l’immobile sia di proprietà di uno solo dei genitori, dal fatto che uno dei due sia stato generoso cointestando, in “tempi non sospetti”, l’immobile anche all’altro o, addirittura, dal fatto che l’immobile coniugale sia di proprietà dei genitori di uno dei partner (quindi i nonni dei bambini) e sia stato previsto un diritto di comodato a favore della giovane famiglia (salvo rare eccezioni). Con la casa vengono assegnati anche gli arredi, le suppellettili e le altre pertinenze: dagli armadi alle poltrone, dagli elettrodomestici alle posate, dai quadri ai tappeti. Dunque, chi dovrà trasferirsi altrove potrà portare con sé solo gli effetti personali (indumenti, gioielli, strumenti di lavoro e così via). Il diritto di proprietà sull’immobile non viene scalfito, ma – nei fatti – temporaneamente limitato. Ed è proprio questa limitazione a creare malcontenti e a nutrire il senso di ingiustizia e di imparzialità. Bisogna, tuttavia, riflettere sul fatto che questa previsione normativa trova la sua ragion d’essere in un bene superiore: l’interesse dei figli a continuare a vivere nel loro habitat familiare ossia nel luogo dove sono cresciuti per evitare, in questo modo, che subiscano un nuovo e ulteriore smarrimento. I minori, d’altra parte, dovranno certamente cambiare la loro quotidianità (zainetto alle spalle ogni fine settimana, giocattoli e abbigliamento sparsi dall’uno e dall’altro genitore, tempi prestabiliti per vedere mamma e papà e così via). È importante, quindi, garantire ai più piccoli certezze, costanza e punti fermi tra i quali, certamente, spicca quello di assicurar loro di poter continuare a vivere dove sino a quel momento sono cresciuti. In termini simbolici, infatti, la casa rappresenta il nostro centro, le nostre radici e la nostra identità psicologica. Mamma e papà, in caso di accordo, possono sempre determinarsi per l’assegnazione dell’immobile coniugale al genitore presso il quale i bambini vivranno prevalentemente cioè optare per la soluzione che viene scelta dai giudici nella maggior parte delle cause giudiziali. I genitori, tuttavia, potranno anche decidere di far cambiare abitazione ai figli, ma è importante che lo facciano accompagnando questa decisione da delicatezza e sensibilità. Rendendo la nuova casa una prospettiva gioiosa (per esempio invitando i bambini a scegliere il loro nuovo lettino o il colore delle pareti della nuova cameretta), anziché occasione di dolore per l’abbandono di quella precedente dove i più piccoli avevano riposto rassicuranti certezze, sane consuetudini e confortevole quotidianità. Una diversa soluzione, ancora, è quella di organizzarsi affinché siano i genitori ad alternarsi presso l’abitazione familiare e, al contrario, decidere che i figli vi rimangano in pianta stabile. Mamma e papà, in altre parole, potrebbero vivere nella casa familiare a settimane alterne e trascorrere il resto del tempo altrove (dai genitori, in un monolocale in locazione, dal nuovo fidanzato/a e così via). Quest’ultima scelta è probabilmente poco frequente, ma certamente molto responsabile da parte dei genitori che dovranno – questa volta loro e non i minori – preparare la valigia, dormire a settimane alterne in un letto diverso e perdere quella quotidianità e comodità che avevano instaurato nell’abitazione familiare. D’altra parte, la scelta di separarsi è loro, non dei minori. In ogni caso, l’assegnazione della casa familiare dipende strettamente dalla convivenza con i figli ed è, dunque, sempre e comunque un diritto temporaneo. Chi si è visto privato dell’abitazione di sua proprietà/comproprietà per alcuni anni, quando i figli si saranno trasferiti altrove (per esempio per studiare o lavorare all’estero), potrà far valere le tutele previste dalla nostra legge e ristabilire, in questo modo, quel diritto che negli anni è stato “intralciato” in forza dell’assegnazione al genitore collocatario. Marzia Coppola

Divorzio e animali domestici, tutto quello che c'è da sapere. Marzia Coppola, studio legale Bernardini de Pace su Libero Quotidiano il 3 Gennaio 2020. Nella nostra società e nelle nostre famiglie gli animali domestici assumono, giorno dopo giorno, un ruolo più importante. C’è chi sceglie generosamente di tenere un cane o un gatto per salvarlo dalla triste sorte dell’abbandono. Chi ha paura di sentirsi solo e vuole garantirsi amore e attenzioni incondizionati. Chi vuole insegnare responsabilità e solidarietà ai bambini e sceglie di farlo con un animale del quale il minore deve prendersi cura. Chi vuole aggiungere amore alla propria vita o alla propria coppia. Chi ripone nell’animale domestico la strategia per fare nuove conoscenze. Qualunque sia la ragione, il risultato è lo stesso: un animale domestico implica tanto amore, calore e tenerezza, ma altrettanta responsabilità, sacrificio e scelte. Anche in caso di divorzio. Come fare, infatti, se l’amore – quello tra gli uomini – finisce, ma quello per l’animale domestico rimane talmente vivo che entrambi non possono pensare di vivere senza il proprio border collie o il proprio certosino? La risposta non è così immediata e, in caso di contestazione, non ci si può limitare a verificare chi sia l’intestatario del microchip. La soluzione più intelligente sarebbe quella di farsi guidare da buon senso e ragionevolezza e decidere - di comune accordo - con quale padrone il cane o il gatto dovrà vivere, prevedendo la possibilità per l’altro di portarlo al parco di tanto in tanto, di trascorrere pomeriggi insieme e di spartire le spese per l’acquisto del cibo e per le cure mediche. Traguardo che può essere raggiunto con l’aiuto di avvocati che indichino al proprio Assistito fino a che punto insistere per evitare pretese infondate e richieste ingiustificate. Ma se non si riesce a trovare un accordo e si rende indispensabile rimettere al giudice la decisione su chi debba tenere con sé il cane o il gatto? Il punto è che, in materia, la nostra legge non fornisce alcuna indicazione che possa guidare le decisioni dei giudici e lo spirito pratico delle parti. Ogni causa, quindi, è a sé e sarà valutata distintamente non solo tenuto conto dei vari orientamenti giurisprudenziali sino a oggi elaborati ma, altresì, in base alla sensibilità di ciascun giudice nei confronti degli amici a quattro zampe. Alcune pronunce, per esempio quella del tribunale di Milano del 2011 o quella del tribunale di Como del 2016, hanno affermato che il “giudice non si debba occupare dell’assegnazione degli animali domestici”. Secondo queste pronunce, la questione potrebbe trovare ingresso nelle aule giudiziarie solo in caso di accordo tra i padroni. Tuttavia, altre sentenze - per esempio una pronuncia del tribunale di Milano nel 2013 e di Roma nel 2016 - hanno “smussato gli angoli” dell’orientamento sopra descritto affermando che l’animale da compagnia è un “essere senziente” al quale deve essere riconosciuto un vero e proprio “diritto soggettivo”. Senza che questo implichi l’equiparazione ai figli. Non è possibile, in altre parole, estendere al cane e al gatto le previsioni del codice civile in materia di filiazione. In un crescendo di decisioni garantiste, nel 2019, il tribunale di Como ha addirittura posto l’accento sul “benessere dell’animale” e sul proprio “miglior sviluppo possibile” come valori che il giudice deve considerare nel determinarsi in un senso o nell’altro. Dal punto di vista legislativo, infine, esiste una proposta di legge che, se approvata, determinerebbe l’aggiunta del seguente articolo nel codice civile: “in caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, indipendentemente dal regime di separazione o di comunione dei beni e secondo quello che risulta dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti i coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantirne il maggior benessere. Il tribunale è competente a decidere in merito all’affido anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. È innegabile, quindi, come negli anni vi sia stata sempre una crescente sensibilizzazione nei confronti degli amici a quattro zampe, ormai considerati preziosi e insostituibili compagni di vita ai quali deve essere riconosciuto – anche giuridicamente – il ruolo fondamentale che ricoprono nella quotidianità di milioni di famiglie italiane. Marzia Coppola, studio legale Bernardini de Pace.

Il dramma di Mariana:  «La mia bambina rapita un’altra volta. Il padre la vuole riportare in Siria». Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Andrea Galli. Tre anni fa la bambina era stata portata via dal padre siriano. Il 28 novembre è stata liberata e affidata alla madre. Il 20 dicembre il padre si è presentato a scuola e l’ha sottratta di nuovo. Lo stesso orario e sempre un giorno di dicembre. Come avvenne nel 2016. Allora, alle 13 del 31 dicembre, il siriano Maher Balle rapì la figlia e sparì. Per tre anni. Fino alla conclusione di una complicata operazione internazionale di polizia, alla liberazione dell’11enne (nascosta in Siria) lo scorso 28 novembre, al suo ritorno a Milano e all’affidamento alla mamma, l’ecuadoriana Mariana Veintimilla, 53 anni, che da quell’uomo, violento e fanatico, si era già separata in passato. Alle 13 di ieri, Balle è andato nella scuola media in zona Porta Romana dove la figlia frequenta il primo anno, il personale dell’istituto — uno dei più famosi in città — non ha posto obiezioni, lui ha preso in consegna la figlia, è uscito e l’ha sequestrata una seconda volta. Una testimone riferisce di averlo visto con due valigie. Una per sé, l’altra per la ragazzina. Il cellulare è spento. E così quello della figlia. Mariana, accompagnata dall’avvocato Angelo Musicco, che le sta dando il massimo dell’appoggio, è corsa in tribunale, dal pm Cristian Barilli, titolare del fascicolo. La caccia a Balle, 42 anni, è subito (ri)partita. Una caccia, se possibile, ancora più difficile della precedente. E nessuno sa dire quali possano essere, questa volta, le intenzioni del siriano. Gli accertamenti stabiliranno le responsabilità: è evidente che Balle non potesse prelevare la ragazzina, ma bisogna vedere se il divieto fosse stato già stabilito dai giudici e comunicato alla scuola, oppure se quest’ultima già sapesse e avesse ricevuto i documenti, e dunque abbia compiuto un errore dalle imprevedibili conseguenze. Al momento la priorità è trovare l’uomo in fuga. Il prima possibile. Immediate le azioni degli investigatori, comunque partiti in ritardo, non per colpa loro: secondo quanto raccontato da Mariana al Corriere, mancava ancora un’ora all’uscita «regolare» della figlia, e infatti la donna, di professione sarta, nel negozio che ha aperto proprio con l’ex, è arrivata in istituto alle 14. Un’ora, dunque: tantissimo. La polizia ha acquisito i filmati delle telecamere posizionate nelle vicinanze della scuola, con l’obiettivo di accertare il percorso di allontanamento di Balle, se a bordo di una macchina, e se sì quale (a noleggio, prestata da un amico, rubata), oppure sui mezzi pubblici. Gli agenti di stazioni e aeroporti sono stati allertati, però non è escluso che, in un piano premeditato, il siriano possa aver organizzato un viaggio a tappe che prevede soste e attese. Magari di un secondo trasferimento in Siria con documenti falsi. All’epoca, s’è detto, l’inseguimento, cui avevano lavorato anche gli investigatori dello Scip, il Servizio di cooperazione internazionale, si era sviluppato lungo un percorso tortuoso. Mariana aveva impegnato i risparmi propri e dei famigliari per raggiungere Beirut, procurarsi un visto ed entrare in Siria: «Avanzavo tra palazzi devastati dalla guerra, i cadaveri per le strade. Avevo trovato dove stava, in un villaggio sul mare, ma quando lo raggiunsi, lui era scomparso. E con lui, mia figlia». Nei giorni scorsi, dopo aver iniziato l’anno in ritardo, ai primi di dicembre, l’11enne aveva completato l’acquisto dei libri di testo. «Non ho mai visto una ragazzina così felice» dice l’avvocato Musicco.

Alice Scaglioni per corriere.it il 20 dicembre 2019. Divorzio e conti correnti, cosa fare? Le formule per il deposito del denaro dei due partner in una coppia può avvenire in diverse forme: una di queste è il conto corrente cointestato. Che sia stato scelto per questione di comodità o per voluta condivisione anche dei soldi, cosa succede in caso di separazione? La legge prevede che le somme siano divise equamente tra i due, ma non sempre questo accade. Secondo l’indagine realizzata per Facile.it da mUp Research e Norstat, il 17% dei divorziati e separati (ossia quasi 280 mila individui) ha dichiarato che l’ex partner si è tenuto tutti i soldi depositati o, ancora peggio, ha prosciugato il conto prima della separazione (9,2% dei casi, pari a oltre 151 mila individui).

I numeri del fenomeno. La gestione del conto cointestato in caso di divorzio è un problema ricorrente: basti pensare che dei circa 2,5 milioni di italiani separati e divorziati, più di 1,6 milioni (65%) ha dovuto gestire questo aspetto. E non si parla sempre di cifre milionarie: mediamente la somma su cui i due ex partner si trovano a discutere è poco meno di 8 mila euro. Ma come ci si deve comportare se il partner non agisce in modo limpido, e cosa conviene fare del conto corrente una volta suddivise le somme?

Cosa fare se il partner si tiene i soldi. Il 7,8% delle persone intervistate ha dichiarato che il partner si è tenuto tutta la liquidità presente sul conto cointestato. E sono le donne a lamentare questa situazione spiacevole: il 9,2% accusa l’ex marito di tale comportamento contro il 6,3% del campione maschile.

Cosa fare se l'ex partner prosciuga il conto di nascosto. Accade inoltre che uno dei due partner prosciughi il conto cointestato prima della separazione (9,2% dei casi). Ancora una volta, sono le donne in proporzione a segnalare maggiormente questa situazione (l’11,8% contro il 6,6% degli uomini 6,6%). E il fenomeno riguarda più le coppie in comunione dei beni (10,9%) che in quelle in regime di separazione (7,2%). «Qualora uno dei due coniugi, senza averne il diritto, prosciugasse il conto prima della separazione o tenesse per sé tutte le somme depositate, sarà tenuto a restituire all’altro intestatario l’importo eccedente la propria quota», spiega Giovanni Zanetti, responsabile dell'ufficio legale di Facile.it. «Per evitare questo genere di problematica, è bene sapere che è possibile chiedere al giudice il sequestro del conto fino all’emissione della sentenza di separazione». Il conto corrente cointestato non è sempre motivo di scontro in fase di separazione. Nel 32% dei casi i rispondenti hanno dichiarato di aver diviso equamente e di comune accordo la liquidità disponibile sul conto, mentre il 17% dei separati o divorziati ha scelto di tenere a disposizione per eventuali spese legate ai figli o alla casa le somme depositate nel conto comune.

Attenzione al conto corrente aperto anche dopo la separazione. Che cosa succede a chi ha il conto cointestato, una volta conclusa la divisione delle somme depositate? Nel 59% dei casi è stato chiuso, mentre nel 16,5% è rimasto aperto, ma intestato a uno solo dei due ex coniugi. Sono poi quasi 370 mila i divorziati e separati che hanno deciso di tenere il conto cointestato per pagare le spese legate a figli e casa. «Attenzione perché in caso di conto cointestato la banca considera i due intestatari responsabili in solido anche se non più uniti in matrimonio», continua Zanetti. «In caso di saldo passivo, quindi, i due titolari saranno responsabili nei confronti dell’istituto di credito che, indipendentemente da chi ha causato il rosso, potrà agire contro entrambi gli intestatari per recuperare le somme mancanti». Comunque, in quasi 1 caso su 4 i due partner non hanno trovato un accordo su come suddividere le somme del conto cointestato, e pertanto hanno chiesto a un avvocato nel 16,1% dei casi o ad un giudice (9.4%).

·        L’odio per il diverso.

C’era una volta l’omofobia. La Disney, con i suoi cartoni animati, fa propaganda a favore della comunità LGBT? Tra abbonamenti disdetti e commenti al vetriolo, la polemica prosegue. Elvira Fratto il 24 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non tutto, nel mondo della Disney, va incontro a una trama fatta di amicizia, lieto fine e lealtà: in una favola dell’universo di cartoni animati più famoso del mondo, questo sarebbe il momento in cui l’antagonista appare per la prima volta nella storia. Da qualche mese, ormai, l’applicazione “Disney+” tiene compagnia a numerose famiglie prigioniere del lockdown. La piattaforma offre una visione dei cartoni animati Disney non-stop, dai classici alle opere più recenti. Una sorta di scatolone dei ricordi per i più nostalgici, ma anche di straordinaria tecnologia digitale. Non tutti gli utenti di Disney+, però, rivivono la propria infanzia o quella dei propri figli con la stessa distensione: negli ultimi giorni, infatti, è stato presentato più di un reclamo alla piattaforma e vari abbonamenti sono stati disdetti come segno di protesta contro una (presunta) campagna pro LGBT (Lesbiche Gay Bisessuali Trans) promossa dalla Disney. Promotrice dell’iniziativa è la giornalista cattolica Costanza Miriano che ha pubblicato lo screenshot della disdetta del suo abbonamento sulla propria pagina Facebook, motivandola con la didascalia “non apprezzo che la Disney faccia propaganda LGBT”. Il messaggio ha scatenato una serie di reazioni contrarie (alcune delle quali anche piuttosto scomposte), oltre che la mobilitazione delle associazioni gay. A quali cartoni si riferiva la Miriano? Sono migliaia le persone cresciute con i film Disney che non hanno mai riscontrato il disagio formativo ed esistenziale di cui lei invece si lamenta. È fuor di dubbio che chiunque possa far ciò che preferisce dei propri abbonamenti e possa scegliere in cosa investire il proprio denaro, ma è cosa ben diversa dalla gogna pubblica destinata alla comunità gay che si è tentato di mettere in piedi sui social network. Ai commenti che la accusano di induzione al suicidio (“è per colpa di quelli come te che le persone omosessuali si uccidono”) la Miriano replica serafica: “di certo chi si priva della propria vita non lo fa a causa del mio abbonamento, ma per via di una sofferenza più profonda”. La Miriano probabilmente non sa che la sofferenza di chi viene discriminato è un muro fatto di tanti piccoli, possenti mattoni, impilati uno sopra l’altro, per anni, senza che nessuno intervenga o interrompa quella costruzione silenziosa. Uno tra questi mattoni è proprio l’espresso disprezzo nei confronti della comunità LGBT, manifestato a pie’ pari su una piattaforma social. Quand’anche la Disney avesse scelto di uniformare – o aggiungere – il colore dell’omosessualità alla propria tavolozza di successi cinematografici, qualunque protesta in merito sarebbe altamente fuori luogo, perché sarebbe solo il simbolo di un coerente adeguamento ai tempi: per anni abbiamo visto principesse che realizzano la propria esistenza soltanto sposando un principe, per anni ci siamo affezionati a protagoniste identificate col matrimonio e senza alcuna qualità di spicco, fatta eccezione per la propria bellezza esteriore, ma fino a quel momento, pare, non si è posto alcun problema. Oggi che le principesse della Disney sono risolute, che da qualche anno a questa parte salvano intere nazioni, combattono, mostrano di essere determinanti per il lieto fine delle storie, potrebbe diventare un problema il loro orientamento sessuale. Fingere che gli omosessuali non esistano, o peggio, ostracizzarli, non porrà fine alla loro esistenza, anzi. E mentre perdiamo tempo a cercare di spiegare ai nostalgici del ’300 che la caccia alle streghe è finita da un pezzo, dovremmo o occuparci di un problema ben più serio: di recente, su Twitter, spopolano profili che nel proprio nickname riportano la dicitura “MEP”, che pare stia a significare “Minor Attracted People”, vale a dire “Persona attratta da un minorenne”. Questi utenti si proclamano fieramente attratti dai bambini. “Ogni notte faccio fantasie sul fratellino della mia fidanzata, è davvero adorabile”, si legge in uno dei tweet diffusi su internet per segnalare la presenza di questi profili ambigui. In entrambi i casi ci si affida al buonsenso degli utenti chiamati a scegliere da che parte stare, proprio come nei film. Firmare una petizione per eliminare le presunte tracce degli omosessuali dai lungometraggi animati della Disney o preoccuparsi invece di segnalare profili pedofili. Forse è davvero arrivato il momento di iniziare a scrivere favole diverse. 

Anna Zafesova per “la Stampa” il 15 giugno 2020. Chissà se i padri fondatori del marxismo si stanno rivoltando nelle tombe, dopo aver sentito il presidente polacco dire che «l'ideologia LGBT è ancora più distruttiva di quella del comunismo». Andrzej Duda ha fatto esplodere la campagna elettorale che dovrebbe culminare nel voto del 28 giugno, rammaricandosi che i suoi genitori hanno combattuto il totalitarismo comunista non per farsi imporre una nuova ideologia «neobolscevica, ancora più devastante per l'essere umano». La denuncia dei milioni di morti nei gulag, la rivolta di Solidarnosc, la sfida per abbattere il Muro: il totalitarismo comunista, la più grande tragedia del Novecento insieme al totalitarismo nazista, viene declassata dal presidente di un Paese dell'Unione Europea a un «male minore» rispetto all'affermazione dei diritti degli omosessuali. Che Duda, alleato del partito nazionalista di governo Legge e Giustizia (PiS), vorrebbe fermare, con una «Carta della famiglia» che tutela i minori dalla «propaganda LGBT», giustificando l'ultimo posto della Polonia nella classifica europea dei Paesi tolleranti verso i gay. I sondaggi danno in rimonta Rafal Trzaskowski di Piattaforma Civica, il sindaco di Varsavia, un liberale di centrodestra. Un conflitto ormai classico in molti Paesi: il leader nazionalista-sovranista-conservatore che raccoglie voti nel ventre profondo della nazione, sfidando l'élite liberal-liberista-libertaria delle capitali globalizzate. La spaccatura tra le province rurali che si sono dichiarate «LGBT free», dove i valori del conservatorismo cattolico sono ancora molto radicati, e i grandi centri con valori europei resta profonda, e altri esponenti del PiS l'hanno già enfatizzata nei giorni scorsi, con il vicepresidente del partito Joachim Brudzinski che ha twittato «Senza gli LGBT la Polonia è più bella». Ma non si tratta soltanto di una tattica elettorale, divisiva e discriminatoria. Si tratta di un fake storico. Il comunismo è stato uno dei regimi più omofobi della Storia. In Unione Sovietica gli omosessuali maschi finivano in prigione. A Cuba, venivano confinati in campi di «rieducazione», e Fidel Castro sospettava che i «maricones» fossero «agenti dell'imperialismo» perché un vero rivoluzionario non poteva non essere un vero maschio. In Polonia, i rapporti tra persone dello stesso sesso non erano illegali, ma la polizia segreta comunista lanciò negli Anni 80 l'«Operazione Giacinto», arrestando e schedando più di 11 mila omosessuali, costretti a denunciare i compagni e firmare atti di autoaccusa. Documenti che qualche anno fa l'Istituto di memoria nazionale polacco si è rifiutato di distruggere, come chiesto dalle vittime, con delle giustificazioni suonate offensive ai gruppi LGBT. Un altro paradosso è la straordinaria somiglianza della retorica di Duda con quella di Vladimir Putin, che il 25 giugno, tre giorni prima delle elezioni presidenziali polacche lancerà il voto sugli emendamenti alla Costituzione che gli permetterebbe di governare fino al 2036. Per convincere gli elettori a votarli, ha revocato il lockdown in piena epidemia di Covid-19 e li bombarda di spot esplicitamente omofobi. Coincidenza curiosa, perché il risentimento nei confronti di Mosca è uno dei motivi fondanti della propaganda dei conservatori nazionalisti polacchi, molti ex militanti anticomunisti di Solidarnosc, e a Varsavia molti sospettano che dietro alla sciagura aerea nella quale morì nel 2010 il presidente Lech Kaczynski, fratello dell'attuale leader del PiS Jaroslaw, ci sia Putin. Gli estremi si toccano: gli anticomunisti e gli ex membri mai pentiti del Pcus, le vittime del massacro di Katyn e quelli che continuano a negare di averlo compiuto, quelli che si sentono calpestati dal colonialismo di Mosca e quelli che continuano a difendere la spartizione dell'Europa dell'Est tra Hitler e Stalin (in questi giorni cade l'anniversario delle deportazioni ordinate 80 anni fa dai sovietici nei territori annessi alla Polonia). A unire questi opposti, in una strana giravolta della Storia, è il rifiuto della modernità, della libertà e dei diritti, un'impronta lasciata dal totalitarismo sia a chi rimpiange il comunismo, sia a chi lo ha odiato. Il ritorno in Europa per molti cittadini dell'Est è stato una delusione, e la convinzione di alcuni segmenti dell'opinione pubblica polacca, che il comunismo fosse un male importato, viene estesa anche ai valori di libertà e tolleranza, di cui le persone LGBT diventano il simbolo più visibile e meno tollerato. Per i russi, che non hanno nemmeno l'attenuante di poter dare la colpa a degli invasori, la sindrome postraumatica del crollo del Muro assume connotati ancora più isolazionisti, e Putin proclama che la Russia è «una civiltà separata». Il male viene dunque dal mondo esterno, ma la fuga nello spazio, impraticabile, viene sostituita con una fuga nel tempo: il passato diventa il rifugio idealizzato anche dai sovranisti e populisti dell'Europa Occidentale, spesso di origini anticomuniste, ma su una lunghezza d'onda simile a quella degli ex nemici. Andando alla ricerca del tempo perduto, il Cremlino ha anestetizzato il trauma della fine dell'impero, ma oggi i sondaggi del Levada-Zentr registrano appena un 25% di russi che si fidano ancora del presidente, rispetto al 35% di gennaio. Ma soprattutto, il sostegno al presidente è crollato nel suo elettorato tradizionale: dipendenti pubblici, abitanti della provincia, i meno istruiti e i più poveri, diventati ora i più arrabbiati, e non certo per le tematiche LGBT. Le uniche due categorie a rimanere fedeli sono i dirigenti, e i pensionati. «La visione del futuro è sparita appena Putin è diventato ostaggio del passato», scrive l'esperta di Carnegie Moscow Tatiana Stanovaya, descrivendo una trappola che i politici che si guardano indietro dovrebbero tenere presente.

Si è uccisa Sarah, l’attivista Lgbt che fu arrestata e violentata nelle carceri egiziane. Il dubbio il 15 giugno 2020. Osò sventolare una bandiera arcobaleno durante un concerto: ”Ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi”. Si è uccisa in Canada Sarah Hijazi, giovane attivista lgbt egiziana che nel 2017 era stata arrestata per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto nella capitale Il Cairo. Liberata e ottenuto l’asilo in Canada dopo una pressante campagna internazionale, aveva raccontato delle violenze e delle torture subite in carcere e aveva continuato a lottare per i diritti, anche da lontano. “Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici, l’esperienza e’ dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”, ha lasciato scritto nella sua ultima lettera. Era finita in carcere con l’accusa di promuovere “l’omosessualità e la deviazione sessuale” per aver sventolato la bandiera Lgbt in un certo dei Mashrou Leila. E’ stata liberata un anno dopo, nel 2018, ma si era portata dentro i segni delle atroci sofferenze subite. In uno dei suoi ultimi post aveva scritto “il cielo è più dolce della terra! Voglio il cielo non la terra”.

Chi è Sarah Hijazi, l’attivista Lgbt egiziana morta suicida. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. “Ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi”. Con queste parole la giovane attivista egiziana Lgbt Sarah Hijazi ha dato l’ultimo saluto prima di togliersi la vita. A testimoniare la morte della ragazza con una foto del biglietto è stato il suo avvocato, che ha confermato il suo suicidio sui social.

LA STORIA – Sarah Hijazi, 30 anni, è stata arrestata nell’ottobre del 2017 durante un concerto dei Machrou Laila al Cairo per aver sventolato una bandiera arcobaleno con l’accusa di voler “diffondere l’omosessualità” in Egitto. L’immagine finisce sui media nazionali e in breve tempo i leader religiosi chiedono punizioni severe per lei e il suo amico, Ahmed Alaa anche lui colpevole di istigare all’omosessualità sventolando la bandiera colorata. Sarah fu identificata come persona Trans e messa in carcere maschile. Stuprata e torturata, dopo varie pressioni internazionali è stata rilasciata un anno fa e da allora viveva in esilio in Canada. Lì ha continuato a lottare per liberare altri attivisti Lgbt in Egitto ma l’esperienza subita l’aveva segnata profondamente a tal punto da spingerla ad un gesto estremo, come quello di togliersi la vita. La notizia ha fatto subito il giro del web, soprattutto per le vicende che hanno visto l’Italia coinvolta in prima persona con la storia di Giulio Regeni e Patrick George Zacki. Infatti con un tweet l’account ufficiale di sostegno alla campagna per la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni si è unito ai migliaia di messaggi che hanno voluto ricordare l’attivista.

Incredibile ma vero: in Parlamento si parla di legge contro l’omotransfobia. Il nostro Paese attende una normativa da 23 anni. Ora la legge Zan (Pd) è stata incardinata in commissione alla Camera. Zingaretti: «Prepariamoci a combattere». Simona Alliva il 19 dicembre 2019 su L'Espresso. È toccato al solitamente pacifico Nicola Zingaretti sbattere i pugni sul tavolo e usare un linguaggio guerresco: «Prepariamoci a combattere» ha detto ai suoi e alle associazioni Lgbt. «Siamo in un tempo storico di capovolgimento dei valori da cui è nata la nostra Repubblica». Ci prova il segretario a compattare il PD intorno a un testo che nessuno pensava sarebbe stato preso in considerazione in questa legislatura: quello contro l’omotransfobia. Per capirlo basta attraversare i corridoi del Transatlantico nel giorno in cui il primo firmatario, Alessandro Zan, accoglie le associazioni arcobaleno in compagnia del capogruppo dem Graziano Delrio, della senatrice Monica Cirinnà e dello stesso Zingaretti. Moltissimi deputati che durante il governo giallo-verde avevano depositato proposte di legge avanzate su omotransfobia, matrimonio egualitario, famiglie arcobaleno faticano a crederci. «Le avevamo presentate come simbolo» confessa un deputato «una presa di posizione contro il governo dei Pillon e dei Fontana. Adesso lo scenario politico è cambiato e non so dire se i nostri disegni siano all’altezza». La sorpresa arriva il 24 ottobre 2019. La legge “in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” approda in commissione Giustizia grazie all'intuizione di Zan, padovano, 46 anni alla seconda legislatura con il Partito Democratico. Sul finale della stagione giallo-verde, in qualità di membro della commissione il deputato dem riesce a ottenere dal partito la possibilità di dare inizio alla discussione. La richiesta viene fatta in una congiunzione astrale perfetta: alla Camera i Cinquestelle non hanno ancora depositato una proposta simile, la presidente della commissione Francesca Businarolo risulta assente per maternità ed è il vice Franco Vazio (quota PD) a tenere le redini della presidenza. Si può procedere. Con il silenzio assenso della Lega: «Vediamo cosa faranno» dice un deputato del Carroccio. La frase rivela una strategia assai più complessa. Si chiama guerriglia a bassa intensità. Serve per tenere la maggioranza sempre sulla graticola, per attaccarla quando sarà il momento. E per adesso con una legge che muove i primi passi non serve.

COSA DICE LA LEGGE. L’ordinamento italiano è totalmente silente rispetto al tema del contrasto alla violenza di natura omofotransfobica, sia essa fisica o verbale. Inoltre, quanto a prevenzione e repressione di reati e discorsi d’odio, l’Italia figura come fanalino di coda tra i Paesi europei. Di una legge contro l’omofobia nel nostro paese si parla esattamente da 23 anni. Si tratterebbe di inserire l’orientamento sessuale e l’identità di genere all’interno dell’attuale impianto giuridico in materia di reati e discorsi d’odio, allo scopo di estendere la normativa già esistente alla protezione della popolazione Lgbt. Tale impianto risiede nella Legge n.654 del 13 ottobre 1975 (la cosiddetta “Legge Reale), modificata con il Decreto legge n. 122 del 26 aprile 1993 (meglio noto come “Legge Mancino”) che attualmente si limitano entrambe a punire i reati e i discorsi d’odio fondati su caratteristiche personali quali la nazionalità, l’origine etnica e la confessione religiosa. Inserire l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra queste caratteristiche significherebbe dunque riconoscere gay, lesbiche e transessuali come “vittime vulnerabili nell’Italia di oggi”. Come spiega Angelo Schillaci docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università Sapienza di Roma. «Un intervento penale andrebbe a conferire alle persone Lgbt una speciale protezione considerata la vulnerabilità speciale a cui sono soggette» dichiara. «Questo porterebbe senza dubbio a una maggior sicurezza personale, ma vorrebbe anche dire che l’ordinamento giuridico riconosce orientamento sessuale e identità di genere come aspetti della personalità degni di particolare considerazione e protezione. Ciò segna un passo avanti verso la piena cittadinanza delle persone Lgbt». Si tratta dunque di estendere una legge del codice penale per dire basta alle troppe aggressioni contro persone omosessuali. La legge dunque interviene su due punti del codice aggiungendo una semplice clausola “fondati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere”. Per cui: “il reato di istigazione alla violenza e alla discriminazione”, sarebbe punito con la reclusione da sei mesi e quattro anni a chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici nazionali o religiosi o fondati sull’orientamento sessuale e identità di genere”. In altri termini, la fattispecie già esistente verrebbe ampliata, fino a includere anche l’istigazione e il compimento di atti di discriminazione e violenza motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. Analoga estensione riguarderebbe la circostanza aggravante, già prevista dall’art. 604 ter per le condotte di reato determinate da motivi razziali, etnici e religiosi. Non è ancora chiaro se i pugni di Zingaretti riusciranno a blindare il testo. Le opposizioni osservano. I cattodem mormorano. Il Movimento Cinquestelle non ha ancora presentato alla Camera una legge ad abbinare a quella del relatore Pd. Zan è certo: «Partiremo dall’estensione della legge Mancino ai reati di omofobia e transfobia. Quella che il movimento Lgbt chiede da vent’anni. Naturalmente cercheremo di ampliarla con politiche sociali e di sostegno alle vittime perché sono troppi i casi di omofobia in cui si denuncia e per questo le vittime vengono abbandonate, anche dalla stessa famiglia. Quella di inserire le politiche positive sulle vittime è un tema che realizzeremo con l’Unar e il ministero per le Pari Opportunità». La strada sembra segnata, non per questo sarà facile: «Il mio obiettivo è di costruire questo percorso da subito con Camera e Senato». A parole anche Fratelli d’Italia potrebbe essere d’accordo a una legge contro l’omofobia. Se dovesse passare alla Camera al Senato il percorso si potrebbe complicare. Se il cambio di maggioranza è avvenuto al governo, non si può dire lo stesso all’interno delle commissioni che danno il via o meno alle proposte parlamentari. Per regolamento, infatti, al Senato fino a novembre 2020 la commissione Giustizia sarà guidata dalla Lega. Ma per il deputato dem anche la destra all’opposizione potrebbe dare una mano: «Questo non può essere un tema divisivo nel 2020. Il tempo è scaduto». Ed è proprio il tempo trascorso a trasformare in un’odissea il percorso di una legge che in Italia non si riesce ad approvare a differenza di paesi come Inghilterra, Germania, Francia. La prima proposta fu presentata da Nichi Vendola deputato di Rifondazione Comunista, il 24 ottobre del 1996. Lo stesso giorno, lo stesso mese dell’incardinamento di quella attuale a firma Zan. Dal 1996 è una giostra di tentativi falliti: il ddl Salvato del 1997, poi quelli del leader storico del movimento Lgbt, Franco Grillini, già deputato tra le file dei Ds nella XIV° (30 maggio 2001 - 27 aprile 2006) e XV° legislatura (28 aprile 2006 - 28 aprile 2008). In un tempo ancora più recente ci provò Anna Paola Concia, due volte: nel 2009 e nel 2011. Infine, il tentativo del 2013 portato avanti dal renziano Ivan Scalfarotto: il ddl che riesce a essere approvato alla Camera col contestatissimo Gitti-Verini (Pd) che lasciava mani libere a partiti e associazioni di natura omotransfobica. La legge naufragò silenziosamente nelle stanze del Senato.

Quella legge che uccide le libertà. Il progetto di legge sull'omotransfobia è un'aberrazione dal punto di vista di almeno tre culture politiche diverse. Marco Gervasoni, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Il progetto di legge sull'omotransfobia è un'aberrazione dal punto di vista di almeno tre culture politiche diverse. Quella cattolica democratica, perché implicitamente mette in discussione molti punti della dottrina, come hanno giustamente lamentato i vescovi. Quella conservatrice, perché esso tende ad imporre un modello di società individualistica e disgregata, dove la tradizione è cancellata e persino combattuta. Per quanto noi si sia più vicini a quest'ultima cultura, crediamo però che anche quella liberale dovrebbe inorridire se questo progetto diventasse legge. Come ha del resto spiegato Silvio Berlusconi, specificando che una forza liberale deve opporvisi, proprio in nome della libertà. Dobbiamo infatti ricordare che la legge recante il nome del deputato Pd Zan poco o nulla riguarda la tutela degli omosessuali e dei trans. Essi, in quanto cittadini italiani uguali agli altri (e ci mancherebbe) sono già garantiti dal codice civile e da quello penale. Peraltro, sul piano dell'aggressione ai gay, il nostro paese registra cifre assai più basse che altri, in cui le comunità islamiche sono ben diffuse: a Ixelles in Belgio, ieri, sei ragazzi sono stati lapidati, fortunatamente non a morte, perché uno di loro «sembrava» gay, e lasciamo intuire chi fossero i lapidatori. Questo lo tengano a mente le associazioni Lgbt, sempre in prima linea per l'accoglienza. Quindi il progetto di legge Zan è del tutto inutile per difendere gli omosessuali. Ma allora perché premono tanto? Perché è la classica legge ideologica tanto cara ai progressisti; serve a legittimare e ad affermare un tipo di società nuova, in cui la famiglia non sarà più fondata sul rapporto tra un uomo e una donna, oltre ad investire la questione delle adozioni dei bambini e dell'utero in affitto. Se questa legge passasse, le associazioni Lgbt avrebbero pieno diritto a rivendicare questa forma di società, ma ne avrebbe molto meno chi invece la ritenesse una barbarie, perché rischierebbe l'accusa di omofobia. Si capisce quindi che la finalità della legge è perseguire le opinioni: non è emendabile, volendole togliere la parte «liberticida» non ne resterebbe più nulla perché il suo obiettivo è esattamente quello. Un liberale la deve combattere, proprio perché essa censura le opinioni. In linea con altre leggi che la sinistra nella precedente legislatura ha cercato di introdurre. Per affermare il modello progressista fondato sulla tirannia delle minoranze, bisogna infatti condizionare le maggioranze attraverso i media ma anche zittire coloro che si oppongono alla narrazione progressista. Il progetto si muove nel solco di analoghe leggi approvate in altri Paesi europei: anche quelli che impartiscono pompose lezioni di Stato di diritto a Ungheria e Polonia. Ma allora perché qualcuno, che pretende dirsi liberale, sostiene la legge? Perché, a partire dagli anni Sessanta, il liberalismo classico si è trasformato in qualcosa di diverso, e persino opposto: in libertarismo, cioè nell'idea che ognuno possa fare quello che gli garba senza rispettare i costumi sociali, le tradizioni, le eredità culturali, persino i dati biologici. Per anni su queste colonne il filosofo Nicola Matteucci, uno dei maestri del liberalismo italiano, ha insistito che esso sarebbe morto se fosse diventata una dottrina dei diritti a discapito dei doveri. A coloro che ancora si dicono liberali spetta cercare di salvarlo, anche impedendo a una legge censoria ed autoritaria di nascere.

I fanatici dei diritti gay contro la Costituzione. Lgbt all'attacco dopo l'ok all'emendamento di Fi. Per loro l'articolo 21 può istigare all'omofobia. Lodovica Bulian, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Evidentemente «se ora si consente la libera opinione, vuol dire che l'impianto della legge la negava», attacca Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia tornando sull'emendamento di Forza Italia al ddl Zan contro l'omofobia, approvato in commissione alla Camera. Era stato presentato nei giorni scorsi dagli azzurri, poi riformulato d'intesa con lo stesso deputato dem per scongiurare il rischio di «processo alle idee»: «L'istigazione all'odio e alla violenza non potrà essere considerata libertà di opinione, principio cardine democratico. E questo è sempre stato l'obiettivo di questo ddl, ovvero inchiodare gli omofobi, con condotte violente o incitanti alla violenza, alle proprie responsabilità» precisa l'attivista lgtb titolare della legge. Che amplia i reati previsti dall'articolo 604 del codice penale, allargando l'istigazione all'odio e la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi anche agli atti di discriminazione basati «sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale». Non la pensa così invece una parte della galassia lgtb. Sotto al post su Facebook con cui Laura Boldrini ha annunciato «emendamento che sgombra il campo da ogni dubbio: nessuna limitazione alla libertà di opinione, nessun bavaglio»), sono comparsi molti commenti critici rispetto a una modifica che invece «potrebbe legittimare violenze verbali e atti discriminatori», si legge. E ancora «intacca lo spirito della legge», «la libertà di opinione finisce quando consiste in discriminazione», «un emendamento che rende la legge inutile», anzi addirittura «legittima a discriminare, altro che bavaglio», dicono altri commenti. Insomma una insoddisfazione crescente tra il popolo che esultava per la nuova norma. Non piace l'emendamento azzurro condiviso dalla stessa maggioranza con l'intenzione di sgombrare il campo da storture, escludendo dal reato «la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all'odio e alla violenza». Le opposizioni avevano attaccato il provvedimento ravvisando il rischio di una «persecuzione» ideologica, e avevano parlato di «legge bavaglio». Da qui il chiarimento, spiega il renziano Marco Di Maio: «Accanto alla sacrosanta battaglia contro gli istigatori di odio e discriminazione sulla base degli orientamenti sessuali, si garantisce il diritto alla libera espressione delle proprie idee come sancito dalla nostra Costituzione. Una precisazione doverosa e non scontata, che recepisce le segnalazioni ricevute da molte associazioni in queste settimane». Zan ricorda che la libertà di opinione, garantita dall'articolo 21 della Costituzione, però «può diventare reato solo se istiga all'odio e alla violenza», aggiunge. Resterà comunque a discrezione e valutazione del giudice la definizione di espressioni «riconducibili al pluralismo delle idee» o capaci di «istigare all'odio e alla violenza».

Parroco prega contro la legge anti omotransfobia. Sindaca con i cittadini, intervengono i carabinieri. Le Iene News il 15 luglio 2020. È successo a Lizzano, in provincia di Taranto, dove i carabinieri stavano identificando i cittadini che con le bandiere arcobaleno protestavano contro l’iniziativa del parroco. La sindaca li riprende: “Siamo un paese democratico”. Non capita tutti i giorni di vedere un sindaco che riprende animatamente dei carabinieri. È quello che è successo a Lizzano (provincia di Taranto), dove la sindaca Antonietta D’Oria è intervenuta in piazza per rimbrottare i carabinieri che stavano identificando alcuni cittadini. Tutto inizia con la decisione del parroco, come si apprende dalla stessa pagina Facebook della sindaca, di organizzare “un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l'omotransfobia”. La notizia arriva alla scrittrice e attivista Francesca Cavallo, che racconta la vicenda sui social. “In risposta al post”, scrive Francesca Cavallo su Facebook, “alcuni ragazzi hanno deciso di radunarsi davanti alla Chiesa con alcune bandiere arcobaleno. Saremo stati una quindicina di persone. Il parroco ha chiamato i carabinieri che hanno iniziato a chiedere i documenti a tutti”. “Ho telefonato alla sindaca Antonietta D’Oria”, continua Francesca, “per informarla della situazione”. Così la sindaca, arrivata sul posto, risponde all’azione dei carabinieri con le parole che potete sentire nel video qui sopra. “Cosa significa che state prendendo i nomi?”, dice visibilmente arrabbiata. “Signor sindaco per pubblica sicurezza noi siamo tenuti a identificare le persone”, risponde un carabiniere. “Allora identificate prima quelli che stanno dentro!”, replica la sindaca. “Perché è una vergogna per Lizzano. Lizzano è un paese democratico!”. Insomma, la sindaca li ha strigliati ben bene, tra gli applausi delle persone che si trovavano in piazza. Dopo l’accaduto, sulla sua pagina Facebook la sindaca pubblica una foto della bandiera arcobaleno, in cui prende le distanze dall’iniziativa del parroco, aggiungendo che “non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli”. E continua: “A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia. Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi? Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Omofobia, in chiesa fedeli pregano contro i ddl Zan: fuori esplode la protesta. In piazza a Lizzano i manifestanti contro la preghiera in chiesa. Le proteste dei carabinieri e l'intervento del primo cittadino. Il prete: "A nessuno può essere impedito di pregare". Emanuela Carucci, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. A Lizzano, un piccolo Comune in provincia di Taranto, il parroco della chiesa San Nicola, don Giuseppe Zito, ha organizzato un "rosario per la famiglia". L'iniziativa, come enuncia il manifesto che ha radunato diversi fedeli, è stato pensato per " difendere la famiglia dalle insidie che la minacciano tra cui il disegno di legge contro l'omotransfobia".

Lo scontro in piazza. La funzione religiosa è stata organizzata, appunto, contro il Ddl Zan-Scalfarotto, la legge per contrastare l'omofobia e la transfobia. In particolare sul foglio della preghiera era specificato che il rosario sarebbe servito per "implorare il fallimento del ddl". Affisse, poi, sul colonnato della chiesa frasi come "Dio ti insegna a odiare le lesbiche", "Dio ti insegna a non amare il diverso", "Dio ti insegna a discriminare", "Dio ti insegna a limitare le libertà", "Dio ti insegna a odiare i gay" e "Dio ti insegna a odiare i transgender". Su ogni foglio (stando alle parole del prete sono state messe dai manifestanti) una frase e al centro un grande punto interrogativo. In occasione del rito, nella piazza di Lizzano, era stata organizzata una manifestazione dei cittadini in difesa dei diritti degli omosessuali. Durante il flash mob è arrivata una pattuglia dei carabinieri per prendere i nominativi dei partecipanti. Il sindaco Antonietta D'Oria è, però, intervenuta in difesa dei manifestanti. Il primo cittadino ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione in base al quale "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". In piazza era presente anche la scrittrice pugliese Francesca Cavallo che sui social ha scritto di essere "orgogliosa di Lizzano" e che questa è una "bella storia di cittadinanza attiva e di sana partecipazione democratica".

Le proteste politiche. Il Comune di Lizzano ha preso le distanze dall'iniziativa del parroco della chiesa di San Nicola. "Noi prendiamo, fermamente, le distanze", hanno scritto in un post pubblicato su Facebook. "Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare - si legge - ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale amministrazione comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli. Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale." Per l'amministrazione comunale di Lizzano, sono altre le minacce "che incombono sulla famiglia e per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia". "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?", chiedono gli amministratori comunali. "Tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo - conclude il post - non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende.". Il video ha fatto il giro del web ed è stato condiviso anche sulla pagina Facebook di Anna Rita Leonardi, dirigente provinciale di "Italia Viva" di Salerno. "Il sindaco è intervenuto per capire con quale criterio venissero identificate le persone in piazza. Non stavano dando fastidio a nessuno. Ha fatto bene il primo cittadino perché non c'era nessun motivo per cui quei cittadini non potessero partecipare ad un flash mob, era una manifestazione simile a quella della preghiera: dentro erano contro la legge e fuori a favore. Perché chiedere i documenti agli uni e non agli altri?" ha dichiarato a ilGiornale.it Anna Rita Leonardi.

Il parroco si difende. Il prete della parrocchia di San Nicola sul caso del "rosario" si è difeso. In una nota stampa don Giuseppe Costantino Zito ha, infatti, dichiarato di non aver fatto parte alla funzione liturgica in quanto impegnato "in un'istruttoria matrimoniale", ma ha solo concesso a un gruppo di fedeli, che ne avevano fatto richiesta, "l'aula liturgica della chiesa per un semplice momento di preghiera a favore della famiglia naturale", specificando che il rosario non era stato organizzato dalla parrocchia. In merito al Ddl Zan don Giuseppe Zito ha poi fatto riferimento a quanto già dichiarato dalla conferenza episcopale a giugno scorso e cioè che la chiesa guarda "con preoccupazione alle proposte di legge contro i reati di omotransfobia" in quanto "non si riscontrano lacune che giustifichino l'urgenza di nuove disposizioni. Anzi, un'eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide".

Ci mancava la sindaca contro la messa per la famiglia.  Marco Gervasoni il 15 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Immaginate se un sindaco, non gradendo la preghiera di un parroco, appoggiasse un gruppo di manifestanti intenti a interromperla e, una volta arrivati i carabinieri, li invitasse a schedare non i disturbatori ma i fedeli in chiesa a pregare. Cose da Urss e, oggi, da Corea del Nord e Cina (a Cuba e in Venezuela non si permetterebbero una cosa del genere, il che è tutto dire). E invece siamo nella cittadina di Lizzano in provincia di Taranto, in quella terra di Puglia tanto aspra quanto legata a una fede ricca di santi e martiri. Fede che evidentemente infastidisce i militanti Lgbt, venuti a contestare una preghiera del parroco, don Giuseppe Zito, reo di discutere niente meno che la legge Scalfarotto-Zan. La quale, tra l’altro, se fosse già approvata, porterebbe a sanzionare il povero Zito. Ma, cari Lgbt, la legge bavaglio ancora non è passata, e speriamo, visto anche il vostro codice di comportamento, non venga approvata mai. I fedeli avevano diritto di pregare e gli Lgbt di manifestare. La parte peggiore della pochade l’ha recitata infatti il sindaco, Antonietta D’Oria, guarda caso pediatra esperta di famiglie. La quale, non paga della piazzata, sulla sua pagina Facebook, dopo una citazione di rito di Alex Zanotelli, rimprovera il parroco di non pregare per “le anime dei disperati che giacciono in fondo  al Mediterraneo” e per le “vittime innocenti di abusi”, con un riferimento a quelli compiuti da religiosi, ovviamente: il tutto accompagnato da un bel bandierone arcobaleno. La contesa parroco-sindaco comunista (cosi mi viene da classificare la D’Oria) era un classico di Guareschi. Ma attenzione, per quanto Peppone fosse uno stalinista, l’idea di obbligare don Camillo alla propaganda di partito in chiesa o di indicare al sacerdote su cosa pregare, non gli era venuta mai. Si, è vero, Peppone una volta organizza una gazzarra fuori dalla chiesa, come a Lizzano, ma ci rimedia una figura barbina e pure gli scappellotti della moglie. La sindaca di Lizzano però va ben oltre il suo antico erede staliniano: vorrebbe che in Chiesa si pregasse solo per le leggi governative, per San Giuseppi e Santa Luciana (Lamorgese). E se qualcuno andasse in chiesa a sentire i sermoni non graditi al podestà… ehm al sindaco, che sia schedato dai carabinieri! Potrebbe sembrare un caso da baraccone, prodotto dalla calura estiva. Ma in realtà dovrebbe mettere in guardia i credenti riguardo la cultura politica della sinistra, intrisa come sempre di fanatismo ideologico. Non a caso, qualche settimana fa, quando la Cei aveva criticato la legge Scalfarotto-Zan, un esponente del Pd milanese si era spinto a chiedere non si sa bene a chi di “prendere provvedimenti” contro i vescovi; che al 99% lodano i provvedimenti del governo di sinistra e tuonano contro i suoi avversari. L’unica volta che sgarrano, però, non viene loro perdonato. Anche perché dentro il Pd e la sinistra i gruppi di pressione e le organizzazioni Lgbt contano, eccome, e spingono, e fanno pendere minacce su capo dei dubbiosi (ricordiamo che uno dei partiti di cui è composto il Pd sarebbe la ex Dc). Non sei a favore della Zan-Scalfarotto? Sei sospetto di omofobia. Un sospetto che equivale alla condanna, e al rogo. Per cui, cari amici cattolici, magari non vi staranno simpatici Salvini o Meloni. Ma nessuno dei sovranisti pensa di schedarvi quando andate in chiesa né tanto meno di imporre al vostro parroco cosa pregare. Lo vedete un sindaco leghista organizzare una simile pagliacciata come a Lizzano, quando un sacerdote raccoglie le preghiere ai migranti? Non mi risulta sia mai accaduto ma nel caso lo facesse sarebbe da ricovero. Ricordate, fedeli, nell’urna Dio vi vede, Scalfarotto no.

A Lizzano prove tecniche di regime in vista del ddl Scalfarotto. La sindaca vuole mandare i Carabinieri a identificare persone che dicono il rosario. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 luglio 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. In gergo calcistico si dice: “sono saltate le marcature”, ma l’espressione ben si presta al caso di Lizzano (Taranto) dove, in un sol giorno, sono saltati i principi della legalità, della democrazia, del Cattolicesimo, del rapporto Stato-Chiesa e di quello Istituzioni-Forze dell’Ordine. Non male. L’ultimo numero di attrazione del “Circo Italia” è un sindaco che interviene per bloccare dei Carabinieri mentre proteggono della gente che prega dentro una chiesa e anzi, indirizza i militari a schedare i partecipanti al rosario. In sostanza: una esponente delle Istituzioni che oppone forme di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 33 C.P.) contestando i motivi per cui dei privati cittadini all’interno di una chiesa si sono liberamente riuniti in preghiera. Cose così. La questione è nata perché, l’altro ieri, il parroco di Lizzano, don Giuseppe Zito, ha ospitato un rosario nella propria chiesa per pregare affinché non passi alla Camera il disegno di legge Zan-Scalfarotto-Boldrini contro l’omotransfobia, che prevede pene severissime per chiunque osi pronunciare opinioni contrarie alla propaganda omosessualista, o se addirittura esprima concetti eversivi tipo: “I bambini hanno bisogno di un papà e di una mamma”. Gli è che, da un paio di millenni, per il Cattolicesimo, il sesso gay è un grave peccato e per questo don Giuseppe ha accolto un gruppo di fedeli laici che volevano prender parte a una veglia di preghiera a favore della famiglia naturale. Per toglierci un dubbio siamo andati a verificare sul Catechismo e, ai seguenti articoli, abbiamo trovato:

2333 Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale.  

2357 Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni,  la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ».  Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.

Altro che “Chi sono io per giudicare” di bergogliana memoria; col ddl Scalfarotto, che consente ampie interpretazioni, si potrà andare in galera solo per aver citato pubblicamente questi articoli della dottrina cattolica. Lecito quindi che dei credenti abbiano deciso di riunirsi per pregare Maria affinché eviti l’amaro calice di questa legge considerata lesiva della loro libertà di culto. Non è un caso che, dello stesso avviso, siano anche alcuni musulmani, scesi in piazza con cattolici, atei e omosessuali “non allineati”. L’iniziativa del rosario era circolata sui social e così, fuori della chiesa, si è subito raccolta una folla di attivisti gay con striscioni e grida varie. Rischioso e non poco: come scriveva Avvenire nel 2014, prima del proprio, inspiegabile outing a favore del ddl Scalfarotto: “A Bologna come a Torino, ad Aosta e a Napoli – scriveva l’articolista di Avvenire - difendere pacificamente la famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna, e la stessa libertà di espressione, in Italia può costituire un rischio per la propria incolumità. Al punto da scatenare, contro i gruppi delle “Sentinelle in piedi”  episodi di intolleranza e, in molti casi, di vera e propria aggressione fisica”. Quelli che hanno partecipato a questo tipo di iniziative riferiscono spesso di pomeriggi ad alto tasso adrenalinico: restare in piedi, in silenzio, tentando di leggere un libro mentre una folla inferocita, intorno, urla e insulta, non deve essere molto piacevole. Per questo, i Carabinieri di Lizzano sono intervenuti identificando i manifestanti fuori della chiesa: una misura cautelativa che non comporta, di per sé, alcuna sanzione. L’operazione è stata però interrotta dalla sindaca, Antonietta D’Oria, eletta con una lista civica, che si è schierata a difesa degli attivisti lgbt. Alzando la voce, ha cercato di convincere i Carabinieri a non identificare i manifestanti o, quantomeno, a cominciare dalle persone in chiesa. I militari hanno fatto rispettosamente notare alla D’Oria che la misura era nell’ottica di evitare disordini o risse e hanno proceduto secondo gli ordini ricevuti. Per la sindaca, pure garante della legalità e delle istituzioni, potrebbe forse configurarsi  il reato di Resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 C.P.) dato che esso contempla anche atti volti semplicemente a ostacolare l’esplicazione di una funzione pubblica pur senza aggressioni fisiche. La sua carica pubblica, inoltre, dovrebbe costituire un'aggravante. “Per quanto ci riguarda – spiega il senatore Simone Pillon, capofila della resistenza al ddl Scalfarotto – ci basta che la sindaca, tentando persino di piegare l’attività delle FdO, abbia fornito un saggio di quello che sarebbe la nostra società se questo decreto liberticida dovesse passare: diverrà ordinario chiudere la bocca a chiunque non la pensi come le lobby lgbt. Peraltro, la sindaca dovrebbe capire che delle persone intente nel rosario, in chiesa, non stanno turbando l’ordine pubblico e che pregare affinché una legge non passi, non corrisponde ad essere “contro” le persone o “per l’odio””. Facile immaginare che  i partecipanti all’iniziativa #restiamoliberi avranno un’ulteriore freccia al loro arco grazie al recente autgol del fronte lgbt. Per #restiamoliberi sono scese fino ad oggi in piazza oltre 10.000 persone in 83 città italiane, che arriveranno a 100 nell’arco di 10 giorni. La richiesta all’opposizione è di un “no” compatto al momento del voto "poiché questa è l’arma concreta che un politico ha in mano per difendere la libertà"; alla maggioranza chiedono di fermarsi, in nome della democrazia e della libertà di espressione. Al Presidente della Repubblica Mattarella chiedono che non permetta l’approvazione di una legge incostituzionale. Richieste con le quali si può essere più, o meno d’accordo, ma espresse in buon italiano e senza accenti violenti. Eppure, nessuno dei media ha dato spazio a queste mobilitazioni, tranne i quotidiani locali: il segnale è veramente inquietante. Inoltre, questo controllo, o auto-controllo dei media offre il fianco a tutti coloro che parlano di “prove tecniche di dittatura”. E la sindaca di Lizzano ci ha messo del suo.

Se il vescovo di Taranto si schiera contro chi prega per la famiglia. Dopo il sindaco di Lizzano, anche il monsignore di Taranto ha dato ragione ai manifestati contro la preghiera in favore delle famiglie tradizionali e contro il ddl Zan. Francesca Galici, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale.  La libertà di pensiero e di religione, oltre a essere garantita dall'articolo 21 della Costituzione italiana, è sancita anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Si direbbe in una botte di ferro, inviolabile e in alcun modo contestabile. Ma ciò che raccontano le attuali cronache dal nostro Paese sembrano dire il contrario. L'ultimo caso riguarda una movimentata manifestazione pro LGBT che si è tenuta al di fuori di una chiesa di Lizzano, in provincia di Taranto, dove un gruppo di fedeli si è riunito pin preghiera a favore della famiglia tradizionale e contro il ddl Zan. A meno che non sia vietato o sconveniente creare un gruppo di preghiera come quello che si è ritrovato all'interno della Chiesa di San Nicola di Lizzano, i fedeli sarebbero dovuti essere liberi di farlo. Non la pensano così tutti quelli che, venuti a conoscenza dell'iniziativa, si sono precipitati all'esterno dell'edificio religioso per protestare contro la libertà di pensiero e di religione. Un gruppetto di esponenti arcobaleno non hanno gradito la preghiera, il cui diritto non può essere limitato nel suo esercizio perché sovrasta qualunque legge. Gli esponenti protestano per i contenuti delle preghiere, non per l'atto, in sé ma il significato è lo stesso, perché interferire significa attentare alla Costituzione italiana. Si crea un po' di confusione e quindi le forze dell'ordine sono costrette a intervenire e, come da prassi, cercano di effettuare il riconoscimento dei presenti. Il caos al di fuori della Chiesa di San Nicola di Lizzano cresce e viene informato il sindaco, che si reca sul posto. Antonietta D'Oria si schiera dalla parte delle bandiere arcobaleno, perché quella "preghiera è una vergogna per un paese democratico come Lizzano". Il primo cittadino si appella alla democrazia, quindi, che non vale per l'espressione di un diritto sancito costituzionalmente. "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?", si chiede il sindaco in un post su Facebook, suggerendo quindi ai fedeli il contenuto delle loro preghiere. Nella nuova idea di democrazia, quindi, il diritto alla preghiera è difeso solo se orientato verso ciò che viene suggerito dall'istituzione. A dar man forte è arrivato anche l'arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, che invece di difendere i suoi fedeli ha optato per il più conveniente politicamente corretto. "Un momento di preghiera, che per natura è, e dovrebbe essere, un momento aggregativo, che riunisce la Comunità Cristiana, è diventato purtroppo un motivo di divisione e di contrapposizione", ha dichiarato il religioso. Il suo discorso sembra suggerire di aderire alla corrente predominante nel nostro Paese in questo momento per evitare le "divisioni e contrapposizioni", calpestando il diritto al pensiero libero, in una sorta di appello al quieto vivere che, però, di democratico conserva ben poco.

Da ilsicilia.it il 23 luglio 2020. Finisce sui social l’omelia all’aperto di don Calogero D’Ugo, parroco di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, contro la legge sull’omofobia. Dal sagrato allestito davanti all’ingresso della chiesa, il sacerdote, come riporta l’edizione on line di Repubblica, ha lanciato un anatema contro il provvedimento. “In Senato c’è una legge bavaglio che vogliono approvare – ha detto il parroco nella sua omelia – E’ una legge che parla del reato di omofobia. Cioè che se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galere. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato. Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo“. Il parroco ha poi proseguito la sua dura rampogna sostenendo che “adesso in Italia abbiamo le "categorie protette". Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo“. Il sacerdote ha infine concluso la sua omelia affermando: “Se passa questa legge io con questa predica rischio la denuncia. Non ho problemi”.

"Zan-Scalfarotto", il don tuona: "Se parli di omosessuali vai in galera". Don Calogero D'Ugo, parroco siciliano, si scaglia contro la "Zan-Scalfarotto". Per il consacrato ormai in Italia esistono delle "categorie protette". Giuseppe Aloisi, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. "Se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galera. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato". A parlare è don Calogero D'Ugo, un parroco del palermitano, che ha deciso di contrastare in maniera pubblica, ossia mediante una vera e propria omelia, l'avanzata in commissione parlamentare della cosiddetta "Zan-Scalfarotto", la legge portata avanti dalla maggioranza giallorossa, che intende introdurre il reato di omofobia. Nel corso di queste settimane, la mobilitazione del mondo cattolico è stata incisiva. Dalla presa di posizione della Conferenza episcopale italiana alla campagna "restiamo liberi" dei movimenti pro life: la "base" è scesa nell'agone per manifestare ferma contrarietà. I vertici, questa volta, hanno assicurato il loro sostegno. Per quanto persista più di una lamentela su una mancata discesa in campo istituzionale della Chiesa cattolica. La maggioranza giallorossa, a parte qualche ragionamento su qualche possibile modifica, non sembra essere intenzionata a tornare indietro sul provvedimento. Don Calogero non è l'unico parroco ad aver esposto le sue preoccupazioni. Don Antonello Iapicca, per esempio, ha scritto su Facebook che: "Il Coronavirus ha solo evidenziato l'epidemia del peccato e della paura della morte che infetta il cuore di ogni uomo. Il virus prima o poi passerà, e sarà tutto come prima, solo qualche angoscia in più, alle quali corrisponderanno più alienazioni. Mentre con il Ddl Zan convertito in legge davvero nulla sarebbe più come prima. Più grave addirittura dell'aborto. E non solo perché si tratterebbe di una legge liberticida". Una legge "liberticida", insomma, che avrebbe persino effetti peggiori del "cigno nero". Il clero, in misura maggiore rispetto ad altre circostanze, sembra preoccupato per l'avvenire. E don Calogero non ne ha fatto mistero quando ha parlato di "legge bavaglio": "Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo", ha aggiunto il parroco siciliano. La parte più significativa del discorso è stata forse quella in cui il don ha parlato di "categorie protette": "Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua - ha aggiunto il parroco, come ripercorso su Dagospia - non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo". Si ventila l'ipotesi che anche i preti possano incorrere in sanzioni nel momento in cui decidessero di citare alcuni passaggi biblici. Anche gli insegnanti, però, potrebbero essere coinvolti: si pensi, a titolo esemplificativo, ad alcuni versi della Divina Commedia. I contrari segnalano pure come il governo, nonostante le urgenze economico-sociali, abbia deciso di concentrarsi sull'approvazione di questo provvedimento. Qualcosa di simile sta succedendo in Francia, dove i vescovi si stanno ribellando alla riforma bioetica di Emmanuel Macron. Un altro progetto che rischia di passare in un momento davvero particolare per l'Occidente.

Papa Francesco, Antonio Socci: Bergoglio costretto a benedire i gay per non finire sotto inchiesta. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. C'è chi - anche in Vaticano - si pone con inquietudine una domanda: perfino il Papa, domani, potrebbe essere "inquisito" - in via di principio - in base alla legge, appena presentata in Parlamento, sull'omotransfobia? O potrebbero esserlo vescovi, preti e fedeli che ne riportano il magistero? I promotori della legge sostengono che la libertà di parola non viene toccata (bontà loro), tuttavia gli oppositori sostengono che non è così. Secondo il senatore Quagliariello «quel Ddl prevede un reato di opinione chi esprime un'opinione senza usare violenza e offendere può essere incriminato». E il cardinale Ruini concorda con lui: «Questo è un tipico esempio di dittatura del relativismo». In effetti la fattispecie dei reati, in questo Ddl, è così generica che la critica - per esempio - al matrimonio omosessuale o alla teoria del genere o ad altre richieste Lgbt, potrebbe domani essere impugnata e giudicata come «discriminazione» o «istigazione all'odio». Il relatore Alessandro Zan (Pd) non dissolve affatto i dubbi. Ha dichiarato: «Le polemiche di una parte della destra sulla libertà di espressione sono pretestuose, perché quando questa diventa istigazione all'odio non può essere più un principio assoluto». Ma proprio qui sta il problema: quando è che la libertà di critica diventa istigazione all'odio? Qualcuno lo deciderà a sua discrezione. Quando è che un giudizio negativo diventa odio o discriminazione? Non sono questioni secondarie essendoci addirittura un rischio penale. Per la Chiesa cattolica ne va della sua stessa libertà. Come la mettiamo con i testi biblici che non sono teneri con l'omosessualità: si censura la Bibbia? E il Catechismo della Chiesa Cattolica?

Quando disse... - Papa Bergoglio, di certo, ha sempre manifestato comprensione e rispetto verso le persone omosessuali, condannando discriminazioni e violenze ai loro danni. Tuttavia sulle questioni relative all'omosessualità e al gender, si è espresso con parole che potrebbero urtare la suscettibilità del mondo Lgbt. Ad esempio, il 25 maggio 2018, il sito Vatican Insider della Stampa titolava: «Il Papa: "Se c'è il dubbio di omosessualità, meglio non far entrare in seminario"». Il pontefice - si legge nell'articolo - «ha esplicitamente menzionato i casi di persone omosessuali che desiderano, per vari motivi, entrare in seminario. Quindi ha invitato i vescovi ad un "attento discernimento", aggiungendo: "Se avete anche il minimo dubbio, è meglio non farli entrare"». Tutto questo potrà domani essere considerato discriminatorio? Sarà sottratto alla Chiesa il diritto di scegliere chi ammettere in seminario? Ci sono molti altri pronunciamenti del Papa. Nell'esortazione post-sinodale Amoris laetitia (2016), tanto osannata dal mondo progressista, il Papa ha esaltato «la dignità e la missione della famiglia», sottolineando che «i Padri sinodali hanno osservato che "circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia"; ed è inaccettabile "che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all'introduzione di leggi che istituiscano il "matrimonio fra persone dello stesso sesso"». Il 1° ottobre 2016, durante il viaggio in Georgia e Azerbaijan, incontrando i sacerdoti, il Papa ha messo in guardia da «un grande nemico del matrimonio, oggi: la teoria del gender. Oggi c'è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche». In quel viaggio tornò su questi argomenti: «Quando si parla del matrimonio come unione dell'uomo e della donna, come li ha fatti Dio, è uomo e donna Questa è la verità (). Uomo e donna che sono una sola carne quando si uniscono in matrimonio. Quando si distrugge questo, si "sporca" o si sfigura l'immagine di Dio». Poi racconta: «Io ho accompagnato nella mia vita di sacerdote persone con tendenza e con pratiche omosessuali. Le ho accompagnate, le ho avvicinate al Signore... Questo è ciò che va fatto. Le persone si devono accompagnare come le accompagna Gesù. Quando una persona che ha questa condizione arriva davanti a Gesù, Gesù non gli dirà sicuramente: "Vattene via perché sei omosessuale!", no. Quello che io ho detto riguarda quella cattiveria che oggi si fa con l'indottrinamento della teoria del gender. Mi raccontava un papà francese che a tavola parlavano con i figli - cattolico lui, cattolica la moglie, i figli cattolici, all'acqua di rose, ma cattolici - e ha domandato al ragazzo di dieci anni: "E tu che cosa voi fare quando diventi grande?" - "La ragazza". E il papà si è accorto che nei libri di scuola si insegnava la teoria del gender. E questo è contro le cose naturali».

Uomo e donna li creò - Nella stessa Amoris laetitia il Papa scrive: «Un'altra sfida emerge da varie forme di un'ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un'identità personale e un'intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L'identità umana viene consegnata ad un'opzione individualistica, anche mutevole nel tempo. È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l'educazione dei bambini. Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare».

Scuola e ideologia - Il 19 gennaio 2015, durante il viaggio nelle Filippine è tornato a tuonare contro «la colonizzazione ideologica», facendo un esempio «che ho visto io». Riguardava un ministro dell'Istruzione Pubblica che aveva ottenuto dei fondi per le scuole di poveri, ma «a condizione che nelle scuole ci fosse un libro per i bambini di un certo livello. Era un libro di scuola, un libro preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender . Questa è la colonizzazione ideologica: entrano in un popolo con un'idea che niente ha da fare col popolo e colonizzano il popolo con un'idea che cambia o vuol cambiare una mentalità o una struttura. Durante il Sinodo i vescovi africani si lamentavano di questo, che è lo stesso che per certi prestiti (si impongano) certe condizioni . Ma non è una novità questa. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso. Sono entrate con la loro dottrina. Pensate ai Balilla, pensate alla Gioventù Hitleriana. Hanno colonizzato il popolo, volevano farlo. Ma quanta sofferenza. I popoli non devono perdere la libertà». Si potranno dire ancora queste cose?

I cattolici si uniscono: "Legge contro omofobia è liberticida". Cattolici compatti e convinti contro il ddl Zan-Scalfarotto promosso dalla maggioranza giallorossa. Le sanzioni previste scandalizzano. Francesco Boezi, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. Precedenza alla riforma bioetica, persino in tempi pandemici. La convinzione dei Pro life e Pro family, quindi dei cattolici, è che la cosiddetta legge Zan-Scalfarotto, quella in discussione alla Camera dei deputati, possa minare la libertà d'opinione. Il dibattito passa sottotraccia. Le necessità del Paese sarebbero soprattutto economiche. E di economia si discute tra i corridoi dei palazzi del potere. La trafila della Zan-Scalfarotto però sembra breve: l'esultanza dei progressisti è già orecchiabile. Se ne sente l'eco. La maggioranza giallorossa - nonostante le "priorità" sbandierate, gli Stati generali del premier Giuseppe Conte, il dibattito sulle contromisure europee e tutto quello che ha il carattere politico di necessità impellente - prosegue nella strada dell'approvazione dei "nuovi diritti". Così li chiama il papa emerito Benedetto XVI. Per il fronte cattolico-conservatore, in maniera più semplice, ci troviamo nel bel mezzo di una "battaglia antropologica". Sul campo, oggi, risiede la discussione attorno al ddl che intende contrastare la omofobia. Della Zan-Scalfarotto ci siamo occupati quando abbiamo presentato il parere dell'Unione giuristi cattolici di Perugia: "Il ddl finisce in realtà per costruire ulteriori muri, recinti e riserve, in cui alcuni diventano più uguali degli altri", aveva tuonato l'avvocato Simone Budelli. Ma qual è la sostanza di questo provvedimento. Nel corso del pomeriggio di ieri, il fronte Pro life ha iniziato a sbracciarsi: "6 anni di galera, risarcimenti astronomici, lavori gratuiti per le associazioni LGBT". A scrivere su Facebook è Jacopo Coghe, uno dei vertici del mondo Pro Family italiano. Un testo è apparso sul quotidiano L'Espresso. Le proteste della base cattolica non si sono fatte attendere. Anche la Cei ha dichiarato ferma contrarietà. Persino il gesuita padre Bartolomeo Sorge, uno di quei consacrati che hanno spostato l'asse verso il progressismo ecclesiastico in questi anni, è stato cristallino. Su questa storia del ddl Zan-Scalfarotto la Chiesa cattolica ha ritrovato l'unità perduta. Coghe insiste nella disamina, prendendo per buono quanto emerso: "A chi verrà condannato per omotransfobia sarà tolta la patente, sarà revocato il passaporto e ogni altro documento valido per l'espatrio, sarà tolta la licenza di caccia e dopo la galera dovranno osservare il coprifuoco rientrando a casa al tramonto". Se il quadro venisse confermato, insomma, sarebbe pronosticabile sin da ora un dibattito serrato, In termini politici sì, ma anche se non sopratutto in quelli giuridici. La maggioranza è compatta. Il Partito Democratico è per la "piattaforma Cirinnà". Il MoVimento 5 Stelle ha spesso strizzato l'occhio ai "nuovi diritti". Italia Viva non ha mai fatto mistero di essere per un cattolicesimo democratico aperturista. Il sentiero è spianato. Jacopo Coghe è uno dei due coordinatori di Pro Vita e Famiglia. Non è che ci sia molto da indagare rispetto al pensiero di questo esponente: "La legge sull'omotransfobia nasconde una vera e propria fobia questo e vero: quella delle lobby lgbt nei confronti di chi crede e riconosce la famiglia naturale come unica famiglia, come d'altronde fa la stessa Costituzione italiana! Non vogliono che si dica più che il bambino ha bisogno di mamma e papà. Ci vogliono mandare tutti in galera o farcela pagare (con sanzioni) come si suol dire...", afferma a IlGiornale.it. E ancora: "Poi passeranno a 'rieducare' i nostri figli con questa nuova ideologia che non riconosce maschio e femmina come sessi distinti. Questo invece sarà considerato moderno e corretto, snaturare l'ordine delle cose e intervenire nell'intimità di bambini innocenti parlando di argomento cje con la cultura e l'istruzione scolastica non c'entrano nulla". Questa sarebbe la prima mossa di una serie. E molte delle prossime mosse sarebbero indirizzate nei confronti della destrutturazione di quelli che i cattolici ritengono ancora essere valori tradizionali. Il governo fa fatica a trovare la quadra sull'economia. Il ragionamento sulla svolta bioetica appare più semplice: comporta meno problemi di amalgama parlamentare. Dunque si procede. Con buona pace dei cattolici. Questa volta, con buone probabilità, molti se non tutti schierati sul fronte dell'opposizione a Conte ed alla maggioranza che regge l'esecutivo.

Barbara Acquaviti per “il Messaggero” l'11 giugno 2020. Per ora, ci sono cinque proposte. Non esiste ancora, invece, un testo base, ovvero quello che facendo la sintesi delle diverse opzioni sul campo - funge da canovaccio di lavoro in Parlamento. Potrebbe arrivare la settimana prossima. Ma la Conferenza episcopale italiana, evidentemente, non ha bisogno di aspettare.

LA POLEMICA. Le norme contro l'omotransfobia, all'esame della commissione Giustizia della Camera, per i vescovi semplicemente non servono, perché l'ordinamento giuridico dicono - già tutela dalle discriminazioni, anche quelle di genere. Di più: per la Cei il rischio è quello di una deriva «liberticida». Insomma, è l'obiezione degli alti prelati, con una legge di questo tipo potrebbe diventare un «reato di opinione» anche dire che «la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma». Il timore è che la legge si trasformi in un'arma del cosiddetto pensiero unico contro esternazioni che sono proprie del sentire cattolico. Va detto che era stato lo stesso papa Francesco, in Amoris laetitia, a sottolineare che «nessuna persona deve essere discriminata sulla base del proprio orientamento sessuale». Per la Cei, tuttavia, il rischio è che le cinque proposte finiscano per generare un nuovo problema nel tentativo di risolverne un altro.

I TESTI. Ma cosa c'è nei testi depositati alla Camera che genera in loro questo timore? In tutto, si tratta di cinque disegni di legge a prima firma Boldrini (Pd), Scalfarotto (Iv), Perantoni (M5s), Bartolozzi (Fi) e Zan (Pd), che è anche il relatore. Il lavoro parlamentare parte dal presupposto che ci sia un vuoto normativo da colmare. Si propone, dunque, di intervenire sugli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale con l'idea di inserire l'orientamento sessuale e l'identità di genere all'interno dell'attuale impianto giuridico in materia di reati e discorsi d'odio. In pratica, un allargamento della cosiddetta legge Mancino. La politica, come sempre in questo tipo di materie, si divide. Plaude, per lo più, l'opposizione. Il relatore, Alessandro Zan, si dice sorpreso dall'intervento della Cei e assicura che «non c'è nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio». La presidente della commissione Giustizia, la grillina Francesca Businarolo, sottolinea come «affermare che esistono già adeguati presidi per contrastare questo fenomeno significa non voler prendere atto di una dura realtà di discriminazione nei confronti della quale noi sentiamo la responsabilità politica ed etica di intervenire». Anche la dem Laura Boldrini sottolinea come la legge in discussione «ha per obiettivo non le opinioni e la libertà di espressione, come afferma erroneamente la nota della Cei, ma gli atti discriminatori o violenti e l'istigazione a commettere questi reati come condotte motivate dal genere».

LA DIVISIONE. Nel Pd, tuttavia, si confrontano due anime, una delle quali, di ispirazione cattolica, è molto sensibile ai richiami dei vescovi e non vuole rinunciare ad essere punto di riferimento delle istanze della Chiesa all'interno dell'arco parlamentare. «La Cei – spiega il capogruppo dem in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli – pone dei paletti e io penso che siano ragionevoli. Si tratta di una preoccupazione legittima a cui rispondo che ne siamo perfettamente consapevoli e non abbiamo alcuna intenzione di muoverci in quella direzione».

Ecco la legge contro l'omofobia che spaventa i vescovi. Il rischio di "deriva liberticida" non c'è. La Cei si è scagliata contro il ddl Zan perché limiterebbe la libertà critica ai gruppi anti-Lgbt. Eppure il testo, che L'Espresso ha letto in anteprima e che pubblica, esclude il reato di propaganda di idee. In sintesi le persone Lgbt diventano soggetti vulnerabili. Ma si potrà persino dire liberamente che sono malate. Simone Alliva l'11 giugno 2020 su L'Espresso. La legge contro l'omotransfobia c'è. La norma bollata come "deriva liberticida" dalla Cei e dai gruppi anti-lgbt no. Il testo di di legge unificato che sarà depositato in Commissione Giustizia martedì prossimo e votato dai deputati il giorno successivo, l'Espresso lo ha letto in anteprima. Un testo snello che riunifica cinque ddl (Boldrini, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi) e che inizierà il suo percorso alla Camera.  Ieri vescovi italiani sono scesi in campo contro il ddl: «Non serve una nuova legge. Anzi, l’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide». La legge, al contrario, mette sullo stesso piano la discriminazione per orientamento sessuale a quello razziale, interviene su due punti del codice penale e attraverso un'aggiunta alla legge Mancino, mira a sanzionare gesti e azioni violenti di stampo omotransfobico. Di una legge contro l’omofobia nel nostro paese si parla esattamente da 24 anni. Il cuore della legge Zan punta a inserire l'orientamento sessuale e l'identità di genere all’interno dell’attuale impianto giuridico in materia di reati e discorsi d’odio, allo scopo di estendere la normativa già esistente alla protezione della popolazione Lgbt. Tale impianto risiede nella Legge n.654 del 13 ottobre 1975 (la cosiddetta “Legge Reale), modificata con il Decreto legge n. 122 del 26 aprile 1993 (meglio noto come “Legge Mancino”) che attualmente si limitano entrambe a punire i reati e i discorsi d’odio fondati su caratteristiche personali quali la nazionalità, l'origine etnica e la confessione religiosa. Proprio la Mancino è stata per anni una legge discussa, bistrattata, le pene sono state notevolmente attenuate dalla legge n. 85/2006. E poi, recentemente, minacciata di abrogazione dall'ex ministro alla Famiglia Lorenzo Fontana. 

L'anima di questa rivoluzione legislativa che spaventa vescovi e anti-lgbt della proposta Zan è visibile nei primi tre articoli. Tre modifiche che, molto semplicemente, inseriscono “il genere, l'orientamento sessuale e l'identità di genere" nel calderone delle discriminazioni per odio etnico, razziale o religioso. Il colpo d'occhio farebbe pensare a una legge che difende, come per tutte le categorie già citate dalla legge Mancino, anche le persone lgbt dal reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, come dichiarato ieri dalla Conferenza Episcopale Italiana  ("finirebbe col colpire l'espressione di una legittima opinione, più che sanzionare la discriminazione"). Ma non è così. Il ddl grazie a un espediente giuridico esclude tale reato nei confronti delle persone Lgbt. Si legge nella legge Zan: del primo comma sono aggiunte, in fine, «oppure fondati sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Il termine comma, nel diritto italiano, indica una parte dell'articolo di una legge. Insomma una frase. Inserire "in fine", vuol dire sostanzialmente saltarlo. Quindi resta per la legge Mancino la questione razziale ed etnica che viene sì tutelata dal reato di propaganda. Cioè restano le pene per coloro che diffondono idee fondate sulla superiorità o l'odio razziale o etnico. Ma si esclude da questa tutela la comunità Lgbt che viene difesa solo in caso di "istigazione a commettere " o in caso commissione di atti di discriminazione. Per esempio: viene punita un'associazione che pubblicando la foto di un attivista gay invita i suoi seguaci a linciarlo. Non viene punita una persona che potrà ancora liberamente dire: l'utero in affitto è un abominio, il matrimonio omosessuale è sbagliato. Giuridicamente si rispetta quel confine sottile tra determinatezza e indeterminatezza, quello che caratterizza il reato di diffamazione per intenderci, e riserva dunque ai gruppi anti-lgbt quella libertà di pensiero che oggi sentono minacciata. Determinare un soggetto, metterlo all'indice e invitare alla discriminazione è un reato già ampiamente condannato dal già citato reato di diffamazione che con la legge Zan, potrebbe diventare "aggravato" in caso di soggetti vulnerabili come le persone Lgbt. 

Le persone lgbt diventano soggetti vulnerabili. Proprio la "vulnerabilità" delle persone lgbt viene certificata giuridicamente. Lo status di vittima vulnerabile non viene accertato di volta in volta ma desunto da elementi oggettivi: le caratteristiche personali della vittima e la natura e le circostanze del reato. La legge intervenendo sull'Articolo 90 quater del Codice di procedura penale, inserisce la frase "o fondato sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere". e riconosce così gay, lesbiche e transessuali come vittime vulnerabili nell'Italia di oggi. L'articolo 4 concede un patrocinio gratuito alle vittime di omotransfobia. Per la legge italiana, al fine di essere rappresentata in giudizio, la persona non abbiente può richiedere la nomina di un avvocato e la sua assistenza a spese dello Stato. Dal 2013 è stato disposto che per le vittime vulnerabili fosse previsto la concessione di un gratuito patrocinio anche sopra il limite di legge. Le spese processuali di una persona Lgbt vittima di omotransfobia andranno dunque a carico dello Stato, come avviene per i reati con violenza di genere. Si interviene anche sulla "recupero" degli omofobi che aggrediscono le persone lgbt. Dopo un processo, il condannato che non si oppone può, eventualmente chiedere la sospensione della pena e fare attività non retribuita. Ad esempio potrebbe farla presso un'associazione Lgbt come come Arcigay. Il cosiddetto lavoro socialmente utile da parte di chi dopo aver offeso la collettività cerca di restituirne una parte, magari formandosi anche su quel pezzo di mondo che ha tentato di distruggere.  

L'educazione e le case rifugio. Infine, gli ultimi articolo del disegno di legge, prevedono un percorso culturale che vuole portare politiche positive per il Paese. C'è l'istituzione della giornata nazionale contro l'omotransfobia il 17 maggio, che prevede incontri e cerimonie anche da parte delle amministrazioni pubbliche. Una strategia nazionale di contrasto all'omotransnegatività con misure relative all'educazione e all'istruzione, al lavoro, alla situazione carceraria, alla comunicazione dando espressa copertura legislativa alle strategie già realizzate dall’Unar, attraverso una estensione delle competenze dell’ufficio. E poi l'istituzione di un fondo dedicato alle cosiddette "centri antidiscriminazione e case rifugio" che in questi anni, quasi sempre in solitudine e grazie a crowdfunding e iniziative indipendenti, hanno offerto assistenza sanitaria, sociale alle vittime: ai ragazzi e alle ragazze cacciate di casa per il loro orientamento sessuale, alle persone che per l'odio omotransfobico si sono ritrovate senza un tetto sopra la testa o prospettive per il futuro. A margine si aggiunge un monitoraggio attraverso l'istituto di statistica sull'andamento dell'omotransfobia in Italia.

Omotransfobia, le femministe contro la legge. Francesca Izzo: "No all'identità di genere, il sesso non si cancella". Pubblicato mercoledì, 01 luglio 2020 da Monica Rubino su La Repubblica.it. In una lettera aperta ai firmatari delle pdl confluite nel testo base depositato ieri alla Camera, le attiviste dell'associazione "Se non ora quando" invitano i legislatori a riflettere sulla terminologia adoperata. Francesca Izzo, storica del pensiero moderno e contemporaneo, tra le fondatrici del movimento femminista "Se non ora quando".

Perché criticate il ddl Zan contro la omotransfobia, depositato ieri alla Camera?

"Abbiamo scritto una lettera ai firmatari delle varie proposte di legge, ora riunite in un testo unico, chiedendo loro una riflessione sulla terminologia utilizzata, che suscita ambiguità".

Qual è il termine sotto accusa?

"È il gender, ovvero l'espressione 'identità di genere' che è una questione molto controversa. Le donne in tutto il loro processo di liberazione e di uscita da una condizione di oppressione sociale hanno messo in discussione il genere che veniva loro assegnato e che le poneva in condizione di subalternità. Con questa espressione si sostituisce l'identità basata sul sesso con un'identità basata sul genere dichiarato. Come scriviamo nella lettera, attraverso 'l'identità di genere' la realtà dei corpi -in particolare quella dei corpi femminili- viene dissolta. Il sesso non si cancella".

E al posto di "identità di genere" cosa bisognerebbe scrivere nella legge?

"Chiamiamo le cose con il loro nome: orientamento sessuale va bene, ma è meglio nominare esplicitamente la 'transessualità' piuttosto che 'l'identità di genere'. Se si parte dall'assunto che definire le differenze discrimina chi non rientra in quella categorie, le conseguenze possono essere anche grottesche. Le differenze vanno riconosciute e nessuno deve essere discriminato, ma non vogliamo cancellare il fatto che ci siano donne e uomini".

È la linea di J.K. Rowling l'autrice di Hanry Potter, accusata di transfobia per aver difeso Maya Forstater, la ricercatrice licenziata dopo il tweet in cui sosteneva che "la differenza sessuale è biologica"?

"Sì, e infatti abbiamo citato J.K. Rowling esplicitamente nella nostra lettera. In Francia lo scorso autunno è scoppiato il caso della filosofa Sylviane Agacinski estromessa dalla comunità accademica perché contraria alla maternità surrogata. In Italia è di poco più di un mese fa la richiesta avanzata da alcuni circoli Arci alla presidenza di espellere l'Arcilesbica perché sostiene che le donne trans non sarebbero da considerarsi per la loro identità di genere, ma per il sesso biologico. Mi sembra assurdo che usare il termine 'donna' sia diventato discriminatorio".

Le legge prevede un capitolo anche contro la misoginia. Che ne pensa?

"Ecco anche questo mi è parso molto strano. Il mio parere strettamente personale è che mi è sembrato curioso che tutto quello che riguarda le donne, dallo stalking al femminicidio, abbia trovato posto in una legge che difende le persone omosessuali e transessuali. Le donne non sono una categoria, ma la metà del genere umano".

·        Donne: Razzismo e Politicamente corretto.

Dagospia il 9 ottobre 2020. Estratto dal libro “Politicamente corretto- la dittatura democratica” di Giovanni Sallusti, edizioni Giubilei Regnani. È uno sport primitivo, la caccia all’uomo in carne, ossa e caratteri genitali (il massimo della “discriminazione di genere”, tra l’altro, se volessimo restituire alle parole il loro senso originario) riverniciata a passatempo perbene della classe dirigente occidentale, che ha smarrito ogni direzione esterna al cerchio perverso del Politicamente Corretto. Ai nostri lidi l’ha teorizzato espressamente nel suo ultimo libro Lilli Gruber, che dell’ideologia ipercorrettista incarna la versione fustigatrice, quasi un’Erinni del Politicamente Corretto. Il titolo è, letteralmente, un programma: politico, biopolitico, morale, teleologico: “Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone”. È caccia aperta alla persona di sesso maschile, siamo anche oltre la criminalizzazione teorica che ne fa la Murgia (una dilettante nell’utilizzo del manganello tardofemminista rispetto alla furiosa Lilli), siamo all’invito dichiarato a farla finita con questa bestia in sembianze umanoidi, il maschio, a ricavare le conseguenze pratiche dal suo status di essere abietto, meramente pulsionale, sostanzialmente inferiore. È un grande pogrom (si spera solo) culturale contro chiunque sia dotato di pene, non se ne vergogni e non chieda per questo scusa al mondo, quello che pare auspicare la giornalista ultraprogressista, peraltro avvezza nella sua trasmissione “Otto e mezzo” a valorizzare quasi esclusivamente ospiti maschili, da Paolo Mieli a Marco Travaglio ad Andrea Scanzi, e a litigare ogni volta che interloquisce con l’unica leader politica donna esistente oggi in Italia, che si chiama Giorgia Meloni e con gran rosicamento di Lilli sta a destra. Il problema principale con l’animale-maschio, secondo l’equilibrata diagnosi della Gruber, sta anzitutto nella sua “cultura delle tre V”. Sintetizzata con le parole dell’intervista a “Io Donna”, supplemento del Corriere attraverso cui Lilli ha lanciato l’uscita del libro (come capita a tutte le eroine in lotta dura contro l’establishment, off course): “Le tre V maschili, volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza. Gli uomini devono essere rieducati”. Nel loro contenuto espressamente grottesco, sono frasi densissime, dietro ogni parola pulsa un totem dell’ideologia politicamente corretta. Proviamo a scomporle, a risalire agli elementi ideologici di base. Solo gli uomini sono volgari (e qui basta la superficiale esperienza di vita di ciascuno di noi per passare oltre). Solo gli uomini sono violenti, assioma che la cronaca si è già da sempre incaricata da smentire (il campionario va da partner maschili sfregiati con l’acido a evirazioni riuscite o tentate a vessazioni psicologiche non di rado con utilizzo strumentale dei figli) e che è stato definitivamente stracciato da un report del Viminale del 2017. In esso si evidenziava come quell’anno in Italia fossero state uccise 236 persone all’interno delle Relazioni Interpersonali Significative: famigliarità o prossimità affettiva consolidata. Ebbene, le donne erano 120, gli uomini 116, cui ne andavano aggiunti 4 ammazzati all'estero dalle loro partner che non avevano accettato la fine della relazione, o per soldi. Centoventi a centoventi, parità perfetta nella contabilità demente dell’orrore, cui però ci obbliga il sacro dogma del Politicamente Corretto, così ben illustrato da Lilli, sul monopolio testosteronico della violenza. No, i carnefici come le vittime non sono identificati dal genere, sono persone connotate dai loro comportamenti criminali. La violenza non è radicata nel cromosoma maschile, ma molto più originariamente dentro quel legno storto dell’umanità sezionato da Immanuel Kant (sì, un maschio, ma fidati Lilli, non totalmente un cretino), che non reputò di aggiungere specifiche sessuali alla sua ricognizione realista sulla condizione dell’essere umano. Per quei 120 casi è ridicolo parlare di “maschicidio”? Sì, ma non più di quanto sia ridicolo parlare di “femminicidio”: la soppressione fisica dell’altro, che è persona prima che maschio o femmina (almeno così funziona nell’Occidente cristiano, ma come vedremo il Politicamente Corretto mette nel mirino anche questa certezza residua), è atto immane legalmente e moralmente in quanto tale, a prescindere dall’apparato genitale della vittima. L’omicidio incarna già le colonne d’Ercole dell’umano, e una delle tante vittorie recenti del Politicamente Corretto è stata far passare come normale, e anzi doverosa, l’insultante formula “femminicidio”. Insultante per la donna, perennemente ridotta al suo genere (una sorta di quota rosa dell’omicidio), e insultante soprattutto per l’uomo. Ogni volta che la narrazione perbene sente il bisogno di tuonare contro il “femminicidio”, implicitamente sta certificando una gerarchia delle vittime, e quindi delle esistenze. Il maschio è ontologicamente una vittima di serie B (interessante sarebbe da indagare quanto di maschilismo irriflesso ci sia in questa visione per cui un uomo virile non può essere sopraffatto da una donna, per rivoltare i canoni delle Gruber contro loro stesse), un’esistenza di serie B, è materiale di scarto, vuoto a perdere, e strutturalmente sempre carnefice. Piuttosto oscuro il passaggio dell’autrice sulla “visibilità” maschile, a maggior ragione visto che trattasi di una signora che appare ininterrottamente da lustri su canali televisivi nazionali in prima serata. Interessante e rivelatore invece l’appunto successivo sulla “virilità impotente e aggressiva” dell’animale/maschio. Un giudizio radicalmente e fin esplicitamente sessista, l’irrisione denigratoria sulla mancata potenza sessuale, qualcosa che se praticato a parti invertite comporterebbe minimo la scomunica sociale del maschio bavoso che riduce la sua valutazione sulla donna a quella su un oggetto sessuale, e ipersessualizzato. Ma il doppiopesismo, del resto, è condizione necessaria e intrinseca del femminismo persecutore, e a volte sbeffeggiatore, politicamente corretto. Al termine di un’ospitata nel salotto gruberiano, Matteo Salvini si sentì rivolgere la seguente domanda, fondamentale da un punto di vista politologico e che sicuramente tormentava il sonno di tutti gli spettatori: “È contento che non deve più girare da ministro dell’Interno in mutande per le spiagge italiane come ha fatto quest’estate?”. Mentre l’interlocutore provava a focalizzare la situazione che stava vivendo, dover rispondere dell’enormità di essersi recato al mare in costume da bagno, la giornalista (competente, rigorosa ed istituzionale) vibrò il colpo di grazia: “E magari senza la pancia... Questo lo dico per l’occhio delle ragazze”. Risate, titoli di coda. Più che commentare, tentiamo un esperimento mentale, perché l’ideologia la puoi smascherare solo così, riconducendo la sua pretenziosità all’evidenza dell’empiria, alla pernacchia della realtà. Rovesciamo i poli attoriali della scena, mantenendone intatta la sostanza. Un conduttore maschio di successo si rivolge con tono canzonatorio a una politica donna: “E poi, se proprio deve tornare in spiaggia in mutande, veda di tornarci senza la cellulite. Sa, lo dico per gli occhi dei maschietti”. Chiaro cosa sarebbe accaduto, no?

 “Decolonialità e privilegio”, come i sistemi di potere possono trasformarsi in strumento di lotta. Lea Melandri su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Razzismo, sessismo, colonialismo, capitalismo, specismo, le diverse forme che ha preso il dominio patriarcale nel corso della storia, arrivano oggi alla coscienza, insieme ai legami che vi sono sottesi. Si possono analizzare criticamente, riconoscere nei monumenti con cui ogni epoca ha inteso celebrarle, e persino additarle con gesti iconoclasti al pubblico disprezzo. Ma per una pratica politica che voglia produrre un cambiamento, il “partire da sé”, dalla interiorizzazione di quegli stessi sistemi di potere, è imprescindibile. Del colonialismo, tornato recentemente al centro del discorso politico a seguito delle grandi manifestazioni antirazziste dopo l’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti, molto è stato scritto, anche se ignorato dai programmi scolastici. Poco o quasi nulla invece si sa di quello che potremmo chiamare il suo risvolto invisibile, il suo radicamento nei pensieri e negli affetti. Rachele Borghi, insegnante di Geografia all’Università Sorbona di Parigi in un libro coraggioso e originale appena uscito da Meltemi –Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo-, scrive: «Il problema oggi è la colonialità, non solo il colonialismo. I territori, quelli della mente, quelli dell’essere, quelli del potere, vanno decolonizzati, liberati cioè dalla colonialità». Le logiche del dominio sono inscritte nelle istituzioni, così come nella oscurità dei corpi e nelle relazioni più intime. I privilegi di cui godiamo, le violenze che esercitiamo sugli altri, possono restare invisibili dietro il paravento della ‘normalità’ e di comportamenti dati come ‘naturali’. Ma, una volta che li riconosciamo come tali –dice Rachele-, possiamo «trasformarli in strumenti di lotta». Quale luogo si può considerare allora più essenziale dell’Università per favorire lo sviluppo di un sapere critico e di una azione diretta a sovvertire i paradigmi di una “scientificità” costruita sulla separazione tra pensiero e corpo, ragione e sentimenti? Bell Hooks, più volte citata nel libro, indica con chiarezza che cosa significhi partire da un “sé” che riguardi non solo la collocazione geografica, l’appartenenza a un sesso, a una razza, a una classe, ma anche la contaminazione, più o meno consapevole, con le molteplici voci presenti in noi. «Spesso, parlando con radicalità del dominio, parliamo proprio a chi domina. La loro presenza cambia la natura e la direzione delle nostre parole. Questa lingua che mi ha consentito di frequentare l’Università, di scrivere una tesi di laurea, di sostenere colloqui di lavoro, ha l’odore dell’oppressore. La lingua è anche un luogo di lotta. È un bisogno di resistere che ci rende liberi, che decolonizza le nostre menti e tutto il nostro essere». Nei luoghi del sapere la colonialità passa innanzitutto attraverso l’idea di “rigore”, di “veridicità” di un testo inversamente proporzionale, dice Rachele, alla capacità di «non far trapelare la propria presenza dietro le parole». Esplicitare le proprie emozioni e suscitarle in chi legge, «non è solo un modo alternativo di scrivere il sapere scientifico: è un atto di resistenza al regime cartesiano, alla ingiunzione alla razionalità e alla distanza, che il sapere occidentale, eurocentrico, fa passare come unico modo possibile per scrivere la conoscenza». Diventare “disertori” rispetto all’accademia non vuol dire abbandonarla, ma scegliere di dismettere i panni di divulgatori di una violenza sistemica, creare alleanze, trovare modi di agire per trasformare il mondo, sovvertire le frontiere che hanno diviso saperi legittimi della cultura europea e saperi subalterni. Mi chiedo se un ragionamento analogo si può fare per il sesso femminile, considerato “vita inferiore”, materia, natura senza un Io intellegibile, più vicina agli animali e alle piante, e quindi messo fin dall’origine nella impossibilità di avere un sapere e una lingua propria. Non dovrebbe meravigliare che tra tanti passaggi della storia che hanno visto le donne schierarsi a fianco degli oppressori, ci sia stata anche l’impresa coloniale italiana in Libia, quella che la stessa Aleramo chiamò “l’ora virile”. Nel suo interessante studio sul rapporto tra il movimento femminile italiano e la cultura coloniale dell’Italia postunitaria – Sotto altri cieli (Viella 2009)- Katia Papa scrive: «La retorica del consenso, del risveglio della coscienza nazionale generato dalla prova bellica, imbrigliò il movimento emancipazionista. Il cedimento sul terreno dei diritti rese la simbologia del materno definitivamente subalterna all’ordine della nazione in guerra. Il valore nazionale della maternità risucchiò ogni altro motivo della riflessione femminile, a cominciare dal principio della autodeterminazione delle donne quale fondamento della appartenenza alla comunità nazionale». Mettere le “competenze” materne o le “virtù del cuore” al servizio della “nazione stirpe”, sostenere gli «splendidi frutti della magnifica razza italiana» (Matilde Serao), educare le donne mussulmane «bestiole mansuete, abituate a obbedire ciecamente» (Maddalena Cisotti Ferrara), è stato per alcune femministe del primo ‘900 il tentativo di uscire dalla lunga estraneità alla sfera pubblica, raggiungere una cittadinanza piena. Risalire secoli di colonialità o incorporazione forzata dell’unica visione del mondo, patriarcale prima ancora che eurocentrica, bianca, capitalista, ha significato e significa tuttora per le donne un doppio scarto, per quanto riguarda la presa di coscienza: uscire dalla identificazione col corpo, la sessualità, la maternità, e interrogare il sapere che ha dato loro una collocazione, un ruolo, un destino. Razzializzazione e naturalizzazione hanno riguardato fin dagli inizi della storia umana quel primo “diverso” che l’uomo ha conosciuto nascendo, in condizioni di estrema dipendenza e inermità, e successivamente in posizione di dominatore, e cioè il corpo femminile che l’ha generato. Questo spiega anche perché la “violenza invisibile”, lo sguardo maschile su di sé e sul mondo, sia stata al centro delle pratiche del primo femminismo, perché siano stati i cento ordini del discorso, forzatamente fatti propri, a essere interrogati affinché la parola, parlata e scritta, potesse aprire la strada a una autenticità e autonomia sconosciute. Nel libro di Rachele Borghi ho trovato sorprendenti analogie con l’esperienza del gruppo “sessualità e simbolico” creato a Milano nel 1977, il cui proposito ambizioso era di «sconvolgere nella scrittura delle donne i modi di pensare e di esprimersi acquisiti senza che si avesse la libertà di scegliere, rintracciare l’origine e il farsi della parola scritta dentro la storia del corpo». A dare forma alla lenta modificazione di sé si pensava già allora che dovesse essere una “nuova lingua”, capace di ragionare con la memoria di sé e insieme con i linguaggi di fuori, i linguaggi sociali.

SE SEI BIANCA, TI TIRANO LE PIETRE. (ANSA il 19 giugno 2020. ) - La senatrice democratica Amy Klobuchar ha ritirato a sorpresa la sua candidatura alla possibile carica di vicepresidente in un ticket con Joe Biden, affermando che secondo lei la scelta migliore è quella di una donna afroamericana. "E' un momento storico e questo è il momento di una donna di colore", ha affermato. Salgono quindi le quotazioni della senatrice Kamala Harris, della ex candidata a governatrice della Georgia Stacey Abrams, della sindaca di Washington Muriel Bowser e di quella di Atlanta Keisha Lance Bottoms.

Barbara Costa per Dagospia il 27 giugno 2020. Hashtag, tweet, retweet, gli emoticon neri? Ficcateveli nel culo!!! Che ipocriti, ma senti che cazzo di comunicato: “Siamo pronti a riconsiderare alcuni termini emersi come sensibili o controversi”. Ma riconsidera tua sorella!!! Nel porno, gli attori e le attrici neri stanno scatenando l’inferno: bombardano di insulti i profili social dei produttori più importanti, e per primi quelli per cui lavorano. L’omicidio di George Floyd ha acceso una miccia che non si spegne, anzi, divampa, e mette il porno al muro. Viene fuori tutto, viene giù tutto, e tutto è iniziato sui social, con un tweet di "Brazzers", brand porno di culto che, appena l’immagine di Floyd morto soffocato ha invaso i media, ha postato la sua solidarietà. Da lì, il diluvio. Gli attori neri, capitanati da Ricky Johnson, hanno riempito Brazzers di post incazzati, svelandone l’ipocrisia, mettendolo di fronte alle sue responsabilità razziste. Un modo di fare inalterato da 30 anni, quello di pagare gli attori e le attrici neri in base al colore della loro pelle, non dandogli opportunità di emergere pari a quelle dei bianchi. Subito, i soldi: se una attrice per una scena prende, poniamo, 500 dollari, a differenza delle nere una bianca può alzare la posta e di 10 volte se quella scena comporta la penetrazione di un pene nero. Di più: a quanto pare esistono liste (segrete) di nomi di attori - neri - non graditi alle bianche! Alla faccia delle regole che firmi sui contratti (dove decidi cosa pornare e cosa no, cosa fare e farti fare e cosa no) le bianche possono rifiutarsi di girare coi neri solo perché neri: se accettano, per prassi razzista "si concedono" ma pagate quanto vogliono loro, stipulando illeciti e razzisti "contratti IR" (IR sta per interracial) con relativo "compenso IR", più lauto se è "primo IR". Il porno della loro prima volta con un nero è razzisticamente venduto "first IR", come se pornare con un nero fosse uno sforzo, un sacrificio, qualcosa di eccezionale in negativo. Ed eccezionale per cosa, se non per il colore della pelle? Al primo “non è vero!” dei boss porno, i neri li hanno sommersi di prove: foto e post, su Facebook, Twitter, Instagram, di produttori e attrici bianche, che vantano, in nivea lingerie, l’uscita “della mia prima scena IR”. Al muro c’è "Vixen", padrone di "Blacked", brand di porno tra neri e bianchi. Blacked non deve più esistere, Blacked è razzista in nome e in essenza, e gli attori neri non ci vogliono lavorare più. Vixen non sa a che santo votarsi: se chiude Blacked per mancanza di peni e vagine neri (e bianchi) ci perde mucchi di soldi, se continua (con chi?) è sul banco dei colpevoli. Al momento Vixen dichiara che su Blacked saranno cancellate le sigle IR e BBC (Big Black Cock). I neri gli hanno risposto a parolacce. È lo smascheramento di ciò che di sbagliato e di anacronistico nel porno USA si faceva e si fa, e ora non si accetta più. Per nessun motivo. Le nere dicono: si giri porno, di ogni tipo e colore, ma basta etichettarlo "black", o IR, e basta classificarci "ebony", o "BG" (black girl). Etichettate le bianche "white"? Con loro non lo fate. Non dovete più farlo con noi. Oppure fatelo. Ma pagateci di più. Più delle bianche. 10 volte di più. Come avete sempre fatto con loro. I neri vogliono la rinegoziazione dei contratti, alle loro condizioni. Perché una vagina bianca fottuta da un pene nero dev’essere pagata di più? Perché non il contrario? Ci sono attrici come Demi Sutra che ammettono la loro complicità col sistema e non usano giri di parole: “Quando ho iniziato, mi hanno detto che da nera non avrei lavorato con i bianchi più quotati, mi hanno proposto scene piene di cliché razzisti, e m’hanno detto di stirare i miei capelli afro. Sono andata via. Ma dopo sono tornata, e ho accettato ogni loro condizione. La mia carriera è decollata”. I 12 agenti porno che hanno confessato di pagare (da sempre!) le nere di meno delle bianche? Al diavolo le loro scuse, dicano che sono loro che istruiscono le loro clienti bianche a "non darla" ai neri sul set, a darla ma dopo, a darla ma a tappe, cioè dopo che hanno girato porno più "rispettabili" di quelli coi neri, che vanno girati per ultimi e fatti pagare oro, e più se gli dai il tuo bianco sederino! Dai tassi IR palesemente illegali gli agenti vi prendono le loro belle percentuali! Viene giù tutto, e gli agenti guardano ai guai di Derek Hay, loro collega e boss di "Direct Models", agenzia tra le più potenti: 5 attrici l’hanno portato in tribunale vincendo il primo round: è emerso che se un’attrice di Direct Models come suo diritto si rifiutava di girare una scena, Hay le rifilava una arbitraria multa di 1000 dollari, con impossibilità di ottenere altri ruoli (ma Hay fa ricorso, ed è pronto ad arrivare alla Corte Suprema). È lo sputtanamento del porno, una resa dei conti resa possibile da soldi e libertà trovati su social come OnlyFans: i neri dicono di non aver fiatato finora perché denunciare portava allo stop degli ingaggi, la messa all’angolo, la fine del lavoro. Con il lockdown essi, costretti a pornare in remoto, hanno scoperto un altro canale di guadagno: hanno preso forza prima dal fare soldi autonomamente, poi dalle manifestazioni di piazza. Ci vanno di mezzo i porno "Black Facials Matter", "Black Wives Matter", e "Black Cocks Matter", porno-satire del movimento "Black Lives Matter". Ci va di mezzo tutto, ogni azione decisa e seguita per volere dei bianchi: le parole di alcuni boss bianchi, che spiegano l’etichetta "IR" quale usanza dai tempi delle videocassette porno (vi ponevano tale scritta per evitare ai clienti la vergogna di dire in negozio quale tipo di porno volevano!) risultano patetiche. Poi c’è la storia delle banane: ci sono 4 attrici nere – tra cui Ana Foxxx e Demi Sutra – che lo scorso febbraio hanno girato un servizio fotografico per la "Deeper.com" di Kayden Kross (bianca, bionda, occhi blu, tipica bambola californiana, ex attrice numero uno, oggi regista al top). Tema del servizio, San Valentino, sono previste pose con banane, fragole e cioccolata. Queste attrici nere hanno preteso e ottenuto la distruzione di tali immagini perché rispecchianti temi razzisti, su tutti l’odiosa affinità nero-banana. Inutile la difesa di Kayden, secondo cui la banana sta a simbolo di nulla, se non di un pene (bianco!!!). Questo suo lavoro non va commercializzato, e io ti dico: Kayden, lei si è scusata e lo ha sì distrutto, ma Kayden è un carro armato, Kayden è soldi e potere, e Kayden sta incazzata nera…

Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. Per amore sono disposte a dormire su pelli di mucca, tra sterco di vacca e capanne in fango sperdute in mezzo alla savana. Rinunciano a ogni confort di casa propria, si adeguano a parlare la lingua nilotica, alcune si sottomettono in parte al maschio come vuole la loro tradizione. Spesso vendono proprietà e beni pur di inseguire il loro sogno d'amore africano con il masai di turno. Sono le donne italiane di ogni età o ceto sociale, rapite dal fascino selvaggio dei masai. Aspiranti spose colpite prima dal mal d'Africa e in seguito dal mal d'amore. Relazioni diverse - dicono -, rispetto al classico e diffuso turismo sessuale d'oltre oceano, che vede spesso questi giovani masai accoppiarsi con le turiste straniere in cambio di pochi soldi chiesti a fine vacanza. Le loro storie sono nate quasi tutte durante una vacanza in Kenya o nel nord della Tanzania, a Zanzibar come a Tanga, tra un safari e un soggiorno turistico a casa degli ospitali pastori o cacciatori masai. E finiscono per sposarsi tra il verde e la polvere della foresta, in abiti lunghi e colorati, seduti su due sgabelli di legno adagiati sopra a una pelle di mucca, circondati da decine di masai e di altre tribù. E con l'uccisione finale di una grande capra cucinata con riso e polenta bianca prima di dare il via a canti, balli e salti che terminano all'alba del giorno dopo. Se ne contano a centinaia di storie come quella di due toscane, Ilaria e Cristina, raccontate da Vanity Fair che si sono unite ad un masai e che per amore sono andate a vivere in Africa. Ilaria, 27 anni, di Pistoia, ha conosciuto il suo attuale compagno anni fa. Ha iniziato a fare la cuoca lì, guadagnando poco. Viveva in Africa con il suo masai col quale divideva tutto, anche i soldi per la spesa. Ora lavorano entrambi in Italia. «Lui fa l'aiuto cuoco in Italia», racconta.  

«È un tipo molto simpatico, si è fatto molti amici e sa che la vita a Zanzibar è dura». Ilaria non vuole vivere in Africa, è troppo difficile con una figlia. Ma entrambi tornano lì, ogni anno, a trovare i parenti di lui. Praticamente vivono nove mesi in Italia e tre in Africa. «Quando vado là», chiosa, «vado a controllare le mucche al pascolo, lavoro l'orto e vado a prendere l'acqua nei pozzi come tutte le donne dei masai». Cristina, 33 anni, di Massa, invece ha venduto tutto e ora fa la spola tra Italia e Africa. Vivono in un villaggio masai, senza acqua e luce corrente. Si cucina a lume di una torcia e si mangia tutti insieme, disposti a cerchio. Il bagno è la foresta, per arrivare al villaggio prende un minibus strapieno, tra galline e capre, e poi fa altri 40 minuti in moto per raggiungere la sperduta savana. «Il mio sogno è quello di andare a vivere definitivamente a Zanzibar», spiega. «La mia storia è iniziata con una settimana di vacanza - continua -, mi sono innamorata, sono tornata altre due volte e poi nove mesi dopo il mio primo viaggio ho venduto la mia casa, ho lasciato il mio lavoro a tempo indeterminato in una sartoria e sono partita con un biglietto di sola andata». Cristina è rimasta poi incinta e racconta fiera di aver portato sua figlia nella savana. Il paragone viene spontaneo: qual è il segreto del fascino selvaggio dei masai, al di là dei loro muscoli tonici color cioccolata e quasi scolpiti? «Sono più caldi rispetto agli uomini italiani», precisa a Libero senza indugi Cristina Valcanover, 50 anni, di Trento, impiegata pubblica in provincia, da 5 anni sposata con Willy Ole Soipei, un masai di dieci anni più giovane col quale ha aperto una agenzia e organizza viaggi e soggiorni per italiani in Tanzania. «Ci siamo conosciuti dieci anni fa», ricorda Cristina, «durante la mia prima vacanza in Africa. Ero con i miei genitori e siamo stati ospiti dei masai. Lì ho conosciuto Willy ma non è stato un colpo di fulmine. Mi sono innamorata piano piano. All'inizio avevo dubbi, per la distanza geografica, per l'età. Ma per loro l'età non ha importanza. E infatti non festeggiano i compleanni, ma solo le nascite. Sono tornata più volte da lui, prima di fidanzarmi.  Ci siamo sposati con due riti diversi, prima in Comune e poi sulla costa di Dar es Salaam, nella casa della savana, con rito masai e con una cerimonia delle loro, indimenticabile. Come regalo di nozze ho avuto braccialetti e una collana di pietre». Cristina e Willy da qualche mese vivono a Trento, dove sono stati bloccati per via del Coronavirus. «Speriamo di poter ripartire presto», sospira Cristina.  «Avevamo tante prenotazioni di italiani e stranieri (inglesi e tedeschi, ndr) fino a febbraio 2021, dovevano venire a casa nostra vicino a Tanga - aggiunge - e abbiamo dovuto far slittare tutto. Li ospitiamo noi, in quella che una volta era una stanzetta con bagno e che oggi io e mio marito abbiamo trasformato in più locali per turisti. All'inizio anch' io ho dormito in una capanna. Willy mi aiuta in questo lavoro, anche se lui in realtà sta studiando per diventare psicologo per aiutare le donne vittime di infibulazione». Quando è in Africa, Cristina, che dopo la scomparsa dei genitori a Trento oggi ha una sorella e una nipote, si sente libera e vive all'occidentale. «Se ho voglia di mettere la minigonna la indosso, se ho voglia di vestire i loro lunghi e colorati abiti lo faccio. Ovvio che i primi tempi cercavo di non truccarmi troppo, per rispettare le loro usanze. Ma la cosa non mi pesava». «Certo che posso uscire con le amiche e bere». Risponde decisa per ribadire la sua inviolata libertà. E dopo averci confidato che altri masai forse sono diversi, e che la donna che cucina e cura l'uomo che lavora non si sente sottomessa ma anzi, «è felice e serena», conclude: «Mio marito non è geloso, si fida. È sensibile, dolce, ora che conosce l'italiano ogni giorno mi scrive biglietti e non manca mai di farmi sentire quanto sono importante per lui. Tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto, nonostante le battute ironiche di gente cinica che pensa male. Ora ho solo un sogno: trasferirmi in modo definitivo in Africa, a casa nostra». 

Da "105.net" il 27 febbraio 2020. Lo spettacolo che Shakira e Jennifer Lopez hanno offerto al pubblico durante l'halftime del Super Bowl di quest'anno ha ricevuto tantissimi elogi e continua a raccogliere visualizzazioni su Youtube. Ma, a quanto pare, non è stato apprezzato proprio da tutti. La Federal Communications Commission (FCC), agenzia governativa degli Stati Uniti che regola la televisione, ha infatti ricevuto diversi reclami da parte di spettatori "turbati", che hanno definito lo spettacolo di TMZ Sports inappropriato, disgustoso e offensivo perché decisamente troppo spinto. In una delle denunce si legge: "Lo spettacolo dell'halftime della scorsa notte è stato oltremodo inappropriato. Shakira sdraiata su un fianco che simula un atto sessuale, la Lopez su un'asta da spogliarellista, che si china mostrando il suo sedere. [...] È stato incredibilmente offensivo. I miei figli stavano guardando". C'è chi parla di "orge simulate", spogliarello e pornografia borderline, cose che non dovrebbero mai essere mandate in onda in prima serata e durante un evento per famiglie. Un altro dice che voleva soltanto guardare una partita e non un film porno. Insomma, lo spettacolo non sarà piaciuto proprio a tutti, ma intanto il numero di visualizzazioni del video continua a crescere...

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 27 febbraio 2020. Sono mesi che veniamo incessantemente martellati dall'emergenza razzismo in Italia, salvo scoprire in questi giorni che mezzo mondo non vedeva l'ora di rispolverare gli antichi pregiudizi (e gli ancora più antichi forconi) nei nostri confronti. La scorsa estate abbiamo sentito la mamma di due bambini di colore riportare «esperienze viste e raccontate nei film americani degli anni Cinquanta e Sessanta sulla condizione dei neri». Editorialisti e politici, fino a ieri, hanno descritto il nostro Paese come una sorta di succursale dell'Alabama segregazionista. A niente è servito smontare le bufale, snocciolare dati, srotolare ragionamenti complessi: la psicosi razzismo è andata ingigantendosi senza sosta. Ma ecco che, finalmente, abbiamo trovato l' argomentazione vincente, la prova regina dell' inesistenza di un razzismo diffuso in Italia. A fornircela è - nientemeno - il New York Times, tempio del giornalismo progressista, in un lungo reportage firmato da Tariro Mzezewa e uscito anche in edizione italiana su Internazionale. Il titolo è commovente: «Le donne afroamericane trovano l'amore in Italia». E sentite il sommario: «Nonostante i casi di razzismo, in Italia le donne nere si sentono più apprezzate che negli Stati Uniti. Due agenzie si occupano di favorire queste unioni sentimentali». Come dicevamo, ecco la dimostrazione scientifica. Nell'Alabama degli anni Cinquanta, il sogno d' amore di una nera e un bianco sarebbe probabilmente stato coronato alla maniera tradizionale: con un linciaggio. O comunque sarebbe finito a frustate (e non in stile Cinquanta sfumature). Oggi, invece, le afroamericane vengono qui volentieri e spesso finiscono per sposarsi. Latrese Williams, una donna di 44 anni, racconta al New York Times che a Chicago, la sua città, si sente quasi invisibile. «In Italia, invece, continuo a incontrare uomini». Scopriamo che esistono addirittura agenzie viaggi specializzate, «operatori, blog, account Instagram e gruppi Facebook che invitano le afroamericane ad andare in Italia per trovare l' amore». Tra queste c' è Black girl travel, che nel giro di un decennio ha portato oltre mille afroamericane dalle nostre parti, affinché potessero conoscere meglio l' arte, la cultura, la cucina e... tutto il resto. La giornalista del New York Times, che probabilmente ha conosciuto il nostro Paese solo attraverso gli articoli di Repubblica sull' emergenza xenofobia, appare stupefatta. «Negli ultimi anni», spiega, «si è parlato molto dell' Italia per via di alcuni episodi di razzismo contro immigrati africani o persone con la pelle scura e contro i giocatori di calcio neri. Quindi può sembrare strano scoprire che ci sono delle afroamericane che vanno regolarmente in Italia in cerca dell' amore». Incredula, la collega statunitense è entrata pure in un forum online per turiste nere e ha scoperto che, alla domanda «l' Italia è sicura per le donne nere?», «la maggior parte delle donne risponde di sì». Ora, evidentemente questa faccenda dei viaggi amorosi è una nota di costume. Ma basta un po' di razionalità per rendersi conto che, in fondo, si tratta di un dato piuttosto emblematico. Se odio e disprezzo nei confronti dei neri fossero così capillari come sostiene la gran parte dei nostri media, di certo agli operatori turistici non verrebbe in mente di spedire qui afroamericane single, a meno che ad organizzare i viaggi non fosse l' agenzia del Ku Klux Klan. Semmai a veicolare qualche stereotipo di troppo è una di queste organizzatrici di tour, ovvero Diann Valentine, che dice: «Negli Usa dicono che noi afroamericane siamo troppo aggressive, autoritarie e chiassose. Ma in Italia siamo perfette, perché chi altro è aggressivo, autoritario e chiassoso? Le madri italiane». In un colpo solo la signora ha insultato le nostre mamme e ci ha dato dei bamboccioni: aspettiamo con ansia editoriali indignati dei più fini intellettuali di sinistra. Pur non scomponendosi per la battutaccia sugli italiani, il New York Times non riesce comunque ad andare oltre il proprio patrimonio genetico liberal. Forse non rassegnandosi all' idea che qui le donne nere stiano benissimo e anzi siano molto desiderate, si mette all' affannosa ricerca di tracce nascoste di xenofobia. A questo fine s' ostina a interpellare alcune blogger e attiviste, cioè esponenti della classe sedicente intellettuale che se non trova una minoranza oppressa non va a letto contenta. Una di loro sostiene che sia sbagliato incoraggiare le afroamericane ad «andare in un posto dove gli uomini le amano per il colore della loro pelle». Ma se uno è attratto dalla pelle scura saranno fatti suoi, no? Altrimenti che facciamo, accusiamo di discriminazione le donne che non amano i mori e preferiscono i biondi? Tra l' altro, tornando seri, suggerire l' idea che gli italiani gradiscano le nere perché «esotiche» è di per sé piuttosto offensivo. «Quando dici che gli italiani sono attratti dalle donne nere per un unico motivo, il colore della loro pelle, le sminuisci», dichiara Gichele Adams, imprenditrice nera sposata con un italiano. Davvero: queste follie buoniste stanno rendendo la nostra vita un inferno. Se critichi una nera, sei razzista. Se l' apprezzi, sei comunque razzista. A questo punto, l' unico modo per risultare politicamente corretti è utilizzare, nella scelta della compagna, l' antico criterio dettato dalla disperazione: basta che respiri. E speriamo sinceramente che non sia considerata discriminazione pure questa.

"Stai zitta. Sono domande cretine": scontro acceso tra Morelli e la Murgia. Non si placa la polemica tra Michela Murgia e Raffaele Morelli per le affermazioni dello psichiatra sulla femminilità. Francesca Galici, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. Da diversi giorni tiene banco la polemica sulle parole di Raffaele Morelli a Radio RTL 102.5, quando lo psichiatra è intervenuto per spiegare l'aforisma del giorno condiviso il giorno prima sui social dall'emittente, che ha scatenato vibranti accuse di sessismo. "Un vestito non ha senso a me che ispiri gli uomini a volerlo togliere di dosso", si legge sui profili di RTL. È un aforisma di Francois Segan ma queste parole sono state oggetto di una forte critica, tanto che il giorno dopo è intervenuto in radio Raffaele Morelli, sul quale si sono riversate ancor di più le ire del web. La polemica ha assunto un livello molto elevato, ed è intervenuta anche Michela Murgia, protagonista di uno scontro in diretta con lo psichiatra. "Se una donna esce di casa, e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi. Puoi fare l'avvocato o il magistrato e ottenere tutto il successo che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui avviene il processo", ha affermato Raffaele Morelli in diretta radio su RTL 102.5 nel commentare l'aforisma. "Se le donne non si sentono a proprio agio con il proprio vestito, tornano a casa a cambiarselo. La donna è la regina della forma. La donna suscita il desiderio, guai se non fosse così", ha concluso lo psichiatra. Queste sue parole sono state oggetto di una polemica molto forte sui social, dove l'uomo è stato accusato da più parti di essere sessista, maschilista e misogino. Raffaele Morelli è uno degli psichiatri più noti del nostro Paese, i suoi interventi televisivi numerosi e le sue parole hanno un ampio seguito. In questa polemica si è inserita anche Michela Murgia, che in diretta su Radio Capital ha voluto fortemente l'intervento di Raffaele Morelli per discutere delle sue affermazioni. Più che una discussione, però, quello tra la scrittrice e lo psichiatra è stato un vero e proprio scontro. "Il femminile è la radice in una donna, un dato ontologico. Le bambine giocano con le bambole, i bambini no", ha spiegato Morelli alla Murgia, che si è immediatamente opposta a queste parole, ribadendo che probabilmente i bambini non ci giocano perché non gli vengono date. Questo ha innescato la forte reazione di Raffaele Morelli, che prima ha accusato la scrittrice di fare domande "cretine", poi ha sbottato: "Zitta, zitta: zitta e ascolta". In preda alla rabbia, Michela Murgia ha fatto notare allo psichiatra che non era sua intenzione lasciargli fare un comizio ma che l'intenzione era quella di fare domande. Percepita la profonda visione femminile tra lui e la scrittrice e non volendo essere parte di una ulteriore polemica, Raffaele Morelli ha messo giù il telefono. Le posizioni sinistre ed estremamente femministe di Michela Murgia sono ben note e se le ricorda anche Amadeus, da lei accusato di aver condotto il Sanremo più sessista di sempre.

Morelli esalta la femminilità. Murgia sbaglia. Karen Rubin, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. Michela Murgia ha esposto alla berlina Raffaele Morelli per aver detto che la donna, regina della forma, suscita desiderio, e guai, ha aggiunto, se non fosse così. È diventato politicamente scorretto associare alla donna la femminilità, come se non fossero due lati di una stessa medaglia che attrae il genere opposto. Ancora più scandaloso per le femministe il fatto che lo psichiatra abbia osato sostenere che non c'è lavoro che soddisfi una donna se non è appagata anche la sua femminilità. E come se non bastasse a indispettire le fautrici del gender fluid il medico ha ricordato che alle donne piace un abito che dona. È misogino e sessista, dice la Murgia, mentre in trasmissione veste una maglietta che lascia ben poco all'immaginazione. Guardando le foto che la ritraggono appare spesso con una profondissima scollatura da cui emergono seni molto prosperosi. Non è facile né comodo indossare abiti siffatti ma sono conturbanti, capaci di riaccendere i sensi di chi guarda, perché è inevitabile che accada davanti a un seno esposto. Lo sanno i pittori e gli scultori, lo sa anche la Murgia, che il seno nudo trasforma la donna in un soggetto erotico e non c'è nulla di peccaminoso o di sbagliato. Morelli ha detto che le donne sono sensuali, che suscitano desiderio, che desiderano d'essere desiderate, esattamente come la Murgia quando si esibisce in pubblico con il vedo, moltissimo, e il non vedo. Nulla di criticabile nell'atteggiamento della conduttrice ma neanche in quello dello psichiatra. È stato provocato affinché ribadisse concetti che oggi sono messi in discussione da chi vorrebbe eliminare le differenze tra uomini e donne vivendole come discriminatorie di un presunto individuo senza genere. Per avere pari opportunità la donna dovrebbe rinunciare ai simboli della femminilità, essere un uomo in tutto e per tutto. Non si auspicano le pari opportunità per la donna in quanto donna ma per una donna che si privi della sua identità. È mal tollerato il simbolo della madre o della compagna di un uomo con cui ci sia una relazione fondata sul rispetto delle rispettive prerogative. Non si dica che le bambine amano giocare con le bambole e i bambini con le macchinine perché si rischia la condanna per sessismo e misoginia, il pubblico ludibrio come è capitato a Morelli. Le donne dovrebbero essere fiere della loro capacità di organizzare il mondo in modo più flessibile degli uomini. Sono capaci di essere contemporaneamente donne e madri incarnando Afrodite, la dea sensuale della generatività e creatività che ammansisce la rabbia, e lavoratrici assertive quando sono Atena la dea della saggezza, delle arti e della determinazione strategica. Morelli che ha perso la calma e attaccato il telefono alla Murgia aveva le sue sacrosante ragioni.

Giuseppe Cruciani per “Libero quotidiano” il 26 giugno 2020. E dunque tocca difendere a spada tratta Raffaele Morelli, accusato dal tribunale del politicamente corretto femminista de sinistra di essere misogino, sessista, maschilista, odiatore delle donne e avanti così fino al rogo in piazza. Ricapitoliamo per i lettori che non fossero a conoscenza della questione. Lo psichiatra noto volto tv ha fatto alcune affermazioni che hanno suscitato sdegno e riprovazione in un certo mondo, quasi avesse squartato una femmina in mille pezzi. La prima (dai microfoni di Rtl) è questa: «Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi perché vuol dire che il suo femminile non è presente in primo piano. Tu puoi fare l'avvocato, il magistrato, il conduttore, puoi ottenere tutti i successi che vuoi e guadagnare tutti i soldi che vuoi, ma il femminile in una donna è la base.

Prima di tutto sei il femminile, il luogo che suscita desiderio e le donne lo sanno bene perché quando escono di casa e indossano un vestito con cui non si sentono a loro agio tornano indietro a cambiarsi, noi uomini non lo facciamo perché non diamo importanza alla forma, mentre la donna è la regina della forma. La donna quando indossa un vestito suscita, chiama un desiderio. Guai se non fosse così».

La seconda, nel corso di un litigio radio con la scrittrice Murgia, suona più o meno in questo modo: maschi e femmine sono cose diverse, le bambine giocano con le bambole, i bambini no. E dunque «il femminile in una donna è la radice, può realizzarsi come vuole nella vita ma deve portare sempre con sé la femminilità». Apriti cielo.

Su Morelli si è riversata l'ira funesta del boldrinismo italico, pronto a negare persino l'evidenza. Perché Morelli, a modo suo, ha più o meno detto che per una donna essere desiderata da un uomo, essere guardata, rimirata, è cosa fondamentale, e se non accade la stessa se ne preoccupa, cerca di rimediare, va dall'estetista, si trucca, cerca un vestito più degno, ne parla ripetutamente con le amiche, magari si reca pure dal chirurgo o da un analista. Insomma, fa legittimamente di tutto per piacersi e piacere di più. Dov' è lo scandalo? Dov' è la novità? Il punto è che spesso la verità sbalordisce perbenisti e ipocriti, quelli che non guardano in faccia la realtà delle cose: per molte donne (e anche per un certo numero di maschietti, per carità) non essere corteggiate, inseguite, non risultare sexy, è un vero e proprio dramma. Nella mia modesta esperienza conosco manager di grandi aziende che se durante la giornata non ripeti continuamente "che figa che sei" ti rompono i coglioni di brutto, giornaliste di grido impazzire per un culo magari eccessivamente rotondo, professioniste dal conto in banca milionario andare in depressione per mancanza di attenzioni sessuali maschili, o anche giovani ragazze che indossano monili, cavigliere, scarpe, con l'unico, esplicito obiettivo di sedurre. È tutto normale, ovvio, scontato, umano. Senza voler far torto a Morelli, a me sembra che lo psichiatra in questione abbia persino affermato delle banalità che solo l'orgia di moralismo in cui siamo invischiati può etichettare come un attentato alla dignità della donna. È del tutto evidente, infatti, che un essere umano non si riassume in un tacco, in una minigonna o in uno slip. E d'altra parte lo stesso Morelli non l'ha detto e molto probabilmente non lo pensa. Parimenti è innegabile che la femmina, almeno quelle che non hanno puntato alla castità o alla repressione degli istinti sessuali, faccia di tutto quotidianamente per attirare lo sguardo altrui. Qualche anno fa ne parlò mirabilmente Vittorio Sgarbi, più o meno con le stesse parole dello psichiatra sotto accusa. «Le donne mostrano caviglie, tette, parti del corpo nude, orecchie con orecchini, labbra dipinte, occhi con il trucco - osservò - non perché sono puttane, ma perché vogliono essere viste. L'uomo può essere seducente, bello, affascinante, ma non mostra le caviglie. La componente del vedere è importante come quella del sentire. Perché una si mette il rossetto? Perché tu la debba guardare. Fino a quando porta un tacco e mostra una caviglia non mi devono rompere il cazzo, io guardo quel tacco e quella caviglia. E lei lo sa». Purtroppo oggi viviamo un'epoca strana. Se parli con una e le fai notare che ha dei bei piedi o le sussurri che ha delle chiappe da favola, rischi la denuncia e se lo fai sul posto di lavoro magari ti licenziano pure. Se all'inizio della serata ti metti a parlare di capezzoli e tralasci Palamara come minimo passi per un vecchio porcone che vede la donna solo come un pezzo di carne. Lunga vita a Morelli dunque, sempre che la nuova Inquisizione non lo costringa alla ritirata e alle solite scuse. Confidiamo che ciò non avvenga.  

Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 26 giugno 2020. Raffaele Morelli fa lo psichiatra in tv. Serve altro? Va bene, allora abbondiamo: su Wikipedia c'è scritto che è «psichiatra, psicoterapeuta, filosofo e saggista italiano». Una carriera che è una strada spianata verso un qualche ministero. Mercoledì, collegato a una trasmissione radio di Rtl, ha detto che quando le donne escono di casa e nessuno le nota, devono preoccuparsi; che le donne sono regine delle forme e che se non suscitano il desiderio sono guai. Siccome la fortuna aiuta gli audaci e non gli psichiatri, il caso ha voluto che proprio mercoledì fossero venuti fuori i dati sulle donne che, dopo la maternità, in questo Paese e solo nel 2019 hanno dovuto abbandonare il lavoro: 37.000. Il clima, quindi, era già incandescente senza che arrivasse uno a dirci che quando usciamo di casa anziché badare a non finire investite mentre facciamo una riunione su Zoom o a perdere l'uso degli arti superiori per trasportare la spesa, dobbiamo monitorare quanti maschi nei nostri pressi ci guardano il culo e sapere che se nessuno di loro lo fa, siamo nei pasticci. Il fatto che Raffaele Morelli faccia lo psichiatra in tv ha scatenato le ire di tutte, e naturalmente anche di Michela Murgia, che non si è lasciata sfuggire l'occasione di parlarci, sventare il suo sessismo, incalzarlo come si fa con un ministro che si rifiuti di spiegarci dove sono finiti i quattro quarti delle nostre tasse, prendendosi a un certo punto uno «Stai zitta!», che ha fatto schizzare le quotazioni di Morelli sotto il livello del mare, verso il centro delle terra, laddove non c'è speranza di non finire inceneriti all'istante. C'è bisogno di scomodarsi per Morelli? Come mai a queste grottesche, ridicole uscite che neanche in una grotta materana nel 1960 avrebbero raccolto consenso - laggiù le signore dovevano far trottare muli, galline, figli, panettieri, e tutti nello stesso fazzoletto di casa -, come mai, ecco, non s' applicano mai quegli interessanti criteri di ostracismo che le bolle degli intelligenti si spronano a usare quando a dire scemenze è Salvini? Michela Murgia ama la polemica facile, affonda il dito nella piaga, non resiste all'idea di poter mettere la sua firma su un già sicuro marchio d'infamia. Fa la stessa cosa che faceva quando su Rai 3 stroncava i libri di Fabio Volo, uno di quelli che tutti gli italiani leggono e nessuno ammette di farlo, come con i voti a Berlusconi fino a dieci anni fa.

·        Donne che odiano i Transgender.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 29 marzo 2020. Tutto è iniziato a causa di Selina Todd, segaligna professoressa di Storia della Oxford University. Alla fine di febbraio, era stata invitata a tenere un breve discorso all' Exeter College per celebrare i 50 anni della National Women' s Liberation Conference, importante evento del femminismo britannico. Appena 24 ore prima che prendesse la parola, la professoressa Todd è stata informata dagli organizzatori che il suo intervento era cancellato. Motivo? La Todd ha partecipato a un incontro dell'associazione femminista Woman' s Place Uk, che è sgradita agli attivisti Lgbt. In particolare, non piace ai movimenti transgender, poiché sostiene che non basta «sentirsi» donna per diventarlo. Dunque la studiosa sospetta di essere «trans escludente» ha perso il diritto di parola in un college prestigioso. E questo è solo l' antefatto, per altro si tratta soltanto dell' ultimo di una lunga serie di analoghi casi di censura andati in scena in Gran Bretagna negli ultimi anni. All' inizio di marzo, sul Guardian (quotidiano notoriamente progressista), in difesa della Todd è intervenuta una celebre giornalista inglese, Suzanne Moore. Anche lei è una femminista storica, è molto di sinistra, e per molti versi si potrebbe definirla una fricchettona. Il suo articolo era estremamente rispettoso della popolazione Lgbt, ma conteneva alcune affermazioni piuttosto chiare: «Il sesso non è un sentimento», ha scritto la Moore. «Femmina è una classificazione biologica che si applica a tutte le specie viventi. Se produci grandi gameti immobili, sei una femmina. Anche se sei una rana. Non è complicato, né esiste uno spettro, anche se ci sono un piccolo numero di persone intersessuali che dovrebbero assolutamente essere supportate». Poi la columnist ha aggiunto: «O proteggi i diritti delle donne in base al sesso o non li proteggi affatto». Molto semplice, e pure estremamente logico da un punto di vista femminista. Ovviamente, le associazioni trans non hanno affatto gradito. Ma questo è il meno. A rivoltarsi contro la Moore chiedendo la sua cacciata dal Guardian sono stati 338 suoi colleghi: redattori, editorialisti, collaboratori e impiegati del giornale. In una lettera al direttore hanno di fatto chiesto la testa di Suzanne Moore e, soprattutto, la messa al bando di opinioni simili alla sua. «La pubblicazione di contenuti transfobici», hanno scritto, «ha interferito con il nostro lavoro e ha rafforzato la nostra reputazione di pubblicazione ostile ai diritti e ai dipendenti trans. Sosteniamo fortemente l' uguaglianza trans e vogliamo vedere il Guardian all' altezza dei suoi valori e fare lo stesso». Se ci pensate bene, la faccenda è piuttosto inquietante. Una studiosa universitaria viene censurata, una giornalista interviene per difenderla e i suoi colleghi chiedono che sia messa a tacere. In buona sostanza, ci sono due donne vittime di insulti e sottoposte alla mordacchia, ma le «vittime» sarebbero i transgender. Mica male come sovversione della realtà. C' è un particolare non secondario da aggiungere. Non è la prima volta che Suzanne Moore osa opporsi alla retorica Lgbt. «Conosco per esperienza personale le conseguenze di essere considerata transfobica da un comitato invisibile sui social media», ha raccontato. «Ha significato minacce di morte e stupro per me e i miei figli e il coinvolgimento della polizia». Di solito, almeno in Occidente, quando un giornalista viene minacciato e dev' essere protetto dalla polizia, i colleghi corrono a esprimergli solidarietà. Nel caso della Moore, invece, hanno fatto l' esatto contrario. Il celebre intellettuale conservatore Douglas Murray, sullo Spectator, ha scritto che i dipendenti del Guardian si sono comportati come la Stasi, e non ha tutti i torti. Qui, però, non si tratta soltanto di una questione di libertà d' espressione. Il diritto a rendere pubblico il proprio pensiero, dalle nostre parti, esiste anche quando quel pensiero è sbagliato, perfino quando è inaccettabile per i più. La differenza tra maschio e femmina che gli attivisti trans vogliono negare, tuttavia, non è semplicemente un pensiero. È una realtà. Come ha scritto alcuni anni fa l' accademico Steven E. Rhoads (in Uguali mai, Lindau), nel dibattito sui rapporti tra i sessi sono coinvolti due gruppi di attivisti (femministe comprese): «Uno è quello di chi fa ricerca scientifica e con riluttanza è arrivato a credere che le differenze tra i sessi siano significative e basate in misura notevole sulla biologia. L' altro per lo più critica queste ricerche ed è poco o per nulla interessato a veder condurre tali tipi di studi. La visione del mondo di quest' ultimo gruppo crollerebbe se le ricerche in questione venissero universalmente accettate». Ecco, per far crollare la «visione del mondo» dei militanti trans basta dare uno sguardo al denso tomo firmato da Kevin J. Mitchell intitolato Buon sangue non mente. Perché le caratteristiche della nostra personalità sono più innate di quanto pensiamo, appena pubblicato in Italia da Aboca. Mitchell è professore associato di Genetica e Neuroscienze al prestigioso Trinity College di Dublino, e di certo non è un tifoso della discriminazione. Egli dimostra, semplicemente riepilogando tutto ciò che gli scienziati attualmente sanno sulla materia, «l' esistenza di differenze innate e fondate biologicamente tra i sessi, differenze riguardanti la struttura e il funzionamento del cervello, dal livello macrostrutturale rilevabile tramite Mri fino al livello biochimico dell' espressione genica. Gli esseri umani sono dunque come tutti gli altri mammiferi: i cervelli maschili e femminili sono - letteralmente - fatti in modo diverso». Gli studiosi che ne parlano non hanno vita facile: «Negli ultimi anni, i sostenitori dell' esistenza di differenze biologiche tra maschi e femmine a livello cerebrale e comportamentale sono stati tacciati di "neurosessismo"», dice Mitchell. Il ricercatore certo non nega che la cultura giochi un ruolo. Ma chiarisce: «È vero che l' uso delle differenze biologiche per giustificare il sessismo è sbagliato e pericoloso, ma anche ignorare o negare l' esistenza di tali differenze può essere dannoso. Questo è particolarmente evidente nel caso delle differenze tra maschi e femmine nella frequenza dei disturbi neuropsichiatrici. [...] Comprendere le basi generali delle differenze cerebrali e comportamentali tra i sessi può essere decisivo per spiegarlo». Sapete qual è il paradosso? Che oggi, quando si parla di differenze tra i sessi, il «medievale» è chi cita evidenze scientifiche, non chi le nega per ideologia.

Luigi Ippolito per "corriere.it" l'11 giugno 2020. «Sono stata vittima di un assalto sessuale e di un marito violento»: è la rivelazione choc fatta da JK Rowling, la scrittrice che ha creato Harry Potter, per difendere le sue posizioni nella polemica che l’ha vista accusata di essere transfobica». L’autrice, qualche giorno fa, aveva postato su Twitter un commento ironico all’espressione «persone che mestruano»: «Ci deve essere una parola per queste persone – aveva scritto -: dinne? dunne? danne?». Un modo per dire che il sesso biologico esiste, che le donne sono donne, contrariamente a quanti sostengono che il genere è una mera questione di auto-identificazione: in Gran Bretagna è infatti in discussione una legge per consentire alle persone di identificarsi come uomini o donne (e di godere di tutti i diritti conseguenti) indipendentemente dal dato fisiologico. Invece JK Rowling, semplicemente per aver ricordato che le donne esistono in natura, si è vista bollata con l’epiteto ormai abusato di Terf (Trans Exclusionary Radical Feminist, ossia femminista radicale che esclude i trans): infatti la polemica su sesso e genere vede su fronti opposti i sostenitori dei diritti dei transessuali e le femministe che rivendicano l’inviolabilità degli spazi femminili. E la scrittrice ha spiegato ieri in un breve saggio pubblicato sul suo sito web che sono proprio le traumatiche esperienze patite in gioventù che l’hanno convinta della necessità di mantenere spazi per sole donne: la sua opinione è che il problema maggiore con la difesa a oltranza dei diritti dei transessuali è che gli uomini potrebbero aver accesso agli spazi femminili semplicemente dichiarando di sentirsi donne.«Quando apri le porte di bagni e spogliatoi – ha scritto – a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è la semplice verità». E in Inghilterra si sono già verificati casi paradossali in nome del diritto all’auto-identificazione: come lo stupratore incallito che ha detto di sentirsi donna e ha ottenuto di andare in un carcere femminile – dove, come c’era da aspettarsi, ha stuprato le compagne di cella. JK Rowling ha scritto che le sue opinioni sulla necessità di spazi femminili sicuri sono dovute a un «grave assalto sessuale» subito da ventenne: e che le memorie di quella violenza le giravano nella testa quando ha postato il suo tweet sulle «persone che mestruano». «Non riuscivo a tenere fuori quei ricordi – ha spiegato nel saggio – e trovo difficile contenere la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che il mio governo sta giocando con la sicurezza delle donne e delle ragazze». La scrittrice ha anche raccontato della sua difficoltà a sfuggire al suo primo, «violento» matrimonio: «Le ferite lasciate dalla violenza e dall’assalto sessuale non scompaiono, non importa quanto sei amata e quanti soldi guadagni. Il mio essere sempre all’erta è una barzelletta di famiglia, ma prego che le mie figlie non abbiano mai le mie stesse ragioni per odiare i rumori improvvisi o l’accorgermi di persone dietro di me che non ho sentito arrivare». In conclusione, ha affermato la Rowling, «io rifiuto di piegarmi a un movimento che sta facendo un danno dimostrabile cercando di erodere la donna come classe politica e biologica e che sta offrendo un paravento ai predatori».

Polemica femministe -transgender, il tweet di  J. K. Rowling che si schiera. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ippolito. La creatrice di Harry Potter, la scrittrice J. K. Rowling, è scesa in campo nella polemica che da tempo oppone in Gran Bretagna le femministe ai sostenitori dei transessuali: e si è beccata un torrente di insulti sui social media, dove è stata accusata di essere «transfobica» e bollata con l’ormai famigerato epiteto di Terf (che sta per Femminista Radicale che Esclude i Trans). È successo che la celebre autrice si è schierata in difesa di una ricercatrice che ha perso il posto di lavoro in un think tank per aver sostenuto che il sesso biologico è un dato oggettivo e che le donne transessuali non sono vere donne. Maya Forstater, una femminista convinta, si era rivolta al tribunale contro il suo licenziamento, ma se lo è visto confermare con la motivazione che le sue vedute erano «incompatibili con la dignità umana e con i diritti fondamentali degli altri». A questo punto è intervenuta la Rowling, che ha scritto su Twitter, dove ha 14 milioni di seguaci: «Vestitevi come vi pare, fatevi chiamare come vi pare, andate a letto con qualsiasi adulto consenziente: ma cacciare le donne dal loro posto di lavoro per aver affermato che il sesso è una cosa reale?». La querelle si inserisce nella spinosa polemica attorno alla proposta del governo britannico di autorizzare le persone a identificarsi come uomini o donne in base alla loro preferenza personale e indipendentemente dal sesso biologico o da qualsiasi certificazione medica: basterà dire di sentirsi donna (o uomo) per aver diritto a essere considerati tali in qualsiasi ambito. La proposta è sostenuta dai transessuali e dai loro difensori, i quali argomentano che il genere (maschile o femminile o non-binario) non dipende da alcun dato biologico: non è questione di pene o di vagina ma di cervello. Tuttavia la cosa ha scatenato la reazione delle femministe, che temono che gli spazi delle donne vengano invasi da uomini che si proclamano femmine: in pratica, potrebbe succedere che un uomo si presenti in una piscina o una palestra dichiarando di sentirsi donna e avere così accesso a spogliatoi e docce femminili. Per non parlare delle prigioni e dei dormitori. E infatti la Forstater ha affermato che la sentenza che l’ha condannata «abolisce i diritti delle donne» oltre che la libertà di opinione e di parola. Ma sia lei che la Rowling sono state crocefisse in nome dei diritti dei transessuali: perfino Amnesty International è intervenuta per dire che «i diritti trans sono diritti umani». La polemica continua.

Alessandro Zoppo per ilgiornale.it il 20 dicembre 2019. In tempi di social network basta un tweet “politicamente scorretto” per scatenare una vera tempesta. È quello che è capitato a J.K. Rowling, scrittrice da 500 milioni di copie grazie alla celebre saga di Harry Potter. La mamma del maghetto di Hogwarts ha preso una posizione scomoda su Twitter e l’ha difesa con le unghie e con i denti. Rowling ha postato un cinguettio in favore di Maya Forstater, una ricercatrice britannica licenziata dal Centre for Global Development di Londra (una nonprofit che si occupa di sviluppo sostenibile) per aver sostenuto, sempre via social, che un uomo non può cambiare il proprio sesso biologico e diventare donna. “Ciò che mi sorprende – è il tweet incriminato della ricercatrice, considerato discriminatorio – è che persone intelligenti che ammiro, che sono assolutamente a favore della scienza in altri settori e che si battono per i diritti umani e per i diritti delle donne, si fanno in quattro per evitare di dire la verità: gli uomini non possono trasformarsi in donne (perché questo potrebbe ferire i sentimenti degli uomini)”. La scienziata, come reso noto dal Guardian, ha fatto ricorso in Tribunale ed è uscita sconfitta: il giudice James Tayle ha stabilito che il licenziamento è valido poiché le convinzioni di Forstater riguardo al sesso biologico sono “assolutistiche” e non sono “degne di rispetto in una società democratica”. La vicenda di Maya Forstater sta facendo molto discutere nel Regno Unito e nel leggere questa notizia, J.K. Rowling ha deciso di schierarsi dalla parte della ricercatrice. “Vestitevi come volete – la replica della scrittrice su Twitter –. Chiamatevi come volete. Andate a letto con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro alle donne per aver dichiarato che il sesso è una cosa reale?”. Il tweet si conclude con gli hashtag #IStandWithMaya (“Io sto con Maya”) e #ThisIsNotADrill (“Questa non è un’esercitazione”). Il post ha scatenato inevitabili polemiche, sollevate soprattutto dalla comunità LGBTQ. Contro la scrittrice si sono schierate la Human Rights Campaign e la collega Casey McQuiston. L’autrice del romanzo queer per giovanissimi Red, White and Royal Blue, inserito nella lista dei Bestseller del New York Times, non ha citato esplicitamente Rowling ma, mandando a quel paese quello che dicono “i tuoi eroi d’infanzia”, si è riferita a chi ha un’idea di femminismo “bigotta”, ribadendo che “le persone trans esistono e meritano di essere protette, riconosciute, sostenute e amate”.hi. breaking my hiatus real quick just to say: fuck what your childhood heroes say. trans people are real. trans people deserve to be protected, recognized, supported, and loved. if that infringes on your idea of feminism, you’re not actually a feminist at all. you’re a bigot.

·        I Transgenger.

Lasciamo ai bambini la certezza primaria: X e Y. Anna K. Valerio il 4 Novembre 2020 su culturaidentita.it. Quello che è accaduto a livello nazionale sul dl Zan (dalla Camera primo via libera al ddl sull’omofobia con proteste da parte dei deputati dell’opposizione), la stessa si sta replicando nel “piccolo” del torinese: ieri è stata approvata dalla maggioranza nel consiglio comunale di Torino la proposta d’introdurre “una pedagogia di genere come formazione strutturale e continua per chi opera con bambine e bambini nel nuovo sistema integrato 0-6”, cioè all’interno degli istituti scolastici riservati ai più piccoli (Redazione) “Rosse, maestra, rosse.” “Ma no, amore. Concentrati. Non vedi che le fragole hanno tanti colori? Arancione… Giallo… Blu…” “Verde pisello?” “Ahahahahah”. Ahahahahah. Ah. E questa è l’ipotesi più ottimistica su cosa potrà succedere dopo che le maestre di nidi e materne di Torino avranno fatto il corso sul gender appena approvato da Chiara Appendino, prim* cittadin*. Sui quaderni dei bambini under 6 cosa troveranno d’ora in poi i genitori? Lumache che si sentono draghi, draghi che si sentono aironi, principi che si sentono ciabattini, maghi che si sentono Piergiorgio Odifreddi? E guai a chi la butta in ridere, perché la truffa esige di essere presa molto sul serio. È serio – dicono – anche il dolore di chi è discriminato. Oh, certo: serissimo. Ma la soluzione non può essere la contraffazione totale, la sagra dei fischi per fiaschi. I bambini. Già ne nascono pochetti. Già devono trangugiare separazioni plurime dei genitori e tutta una serie di stranezze in cui tutti prima o dopo si incappa, in questo mondo confuso. Anche la storia del gender no. Lasciamogli almeno la certezza primaria, primigenia, ingenua, semplice: la certezza delle mutande. X. Y. Non c’è mica bisogno di dire prima X o prima Y. A ciascuno il suo. E se Y si sente X, o viceversa, insegniamo alle altre X e agli altri Y il rispetto. Il pudore. La discrezione. Il farsi i fatti propri, senza invadere il privato altrui. Questo mai, invece, che venga suggerito. Anzi. È tutto un voler/dover condividere, stropicciarsi i sentimenti l’uno addosso all’altro. E così smuoiono appena nati, i sentimenti. E da adolescenti gli ex bambini sono già vuoti. Grandi passioni? Ma neanche mezza. Selfie. Scarpe. Ricette di dolci per la colazione. Ah, no: quelle, dopo i venti. I bambini hanno pochi e semplici bisogni. Di essere amatissimi da piccoli. Amatissimi proprio: se non altro per la disgrazia che gli è toccata di essere nati in un mondo così bruttino. Amatissimi dai familiari, se possibile. Almeno dalla mamma, che sarebbe bene mettesse in conto che il congedo dal lavoro deve prolungarsi un po’ più dei dieci giorni dalla nascita del bimbo. Sennò, meglio desistere. E poi non riesco a non dirlo, perché ne ho viste tante: i bambini non dovrebbero essere messi in gabbia troppo presto – intendo al nido. Certo, il vincolo del lavoro, stipendio, soldi, tutte queste oscenità che ci plasmano e sconvolgono, aveva ragione Marx, pienamente ragione. Ma tentare l’azzardo dei nonni, no? Inventare qualche soluzione meno irriguardosa della fragilità strutturale dei piccoli, no? Hanno pochi e semplici bisogni, i bambini. Correre nell’aria tra amici. D’inverno, d’estate, anche con un po’ di pioggia, anche con la nebbia. Osservati dalla mamma, che è quella là, quella che solo lei ti ha messo al mondo, che solo da lì potevi uscire, che solo a lei le ghiandole mammarie facevano inventare il latte che ti ha fatto crescere più sano dell’intruglio del biberon. Quella. Ma sì, dillo, tanto qua si può, dilla la parolaccia che tra un po’ non ti faranno più dire. “Lei?” Lei.

La Ue è preoccupata dalle conseguenze del Covid: “Rom e Lgbt sono stati molto penalizzati”. Penelope Corrado martedì 27 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Le categorie particolarmente penalizzate dal Covid-19? “Rom e Lgbt”. È quanto stabilito oggi, a Strasburgo, al parlamento europeo dalla commissione per le Libertà civili. La notizia è stata data dal eurodeputato di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini. L’esponente sovranista aveva tentato invano di dare priorità a piccoli imprenditori, liberi professionisti e artigiani.

La denuncia di Nicola Procaccini. «La Commissione Libe – scrive Procaccini in una nota – ha approvato oggi una risoluzione sull’Impatto delle misure restrittive Covid-19. In essa si propone di tutelare rom ed LGBT. Identificate quali categorie particolarmente colpite dagli effetti della pandemia, non si capisce perché. Mentre ha respinto il mio emendamento alla risoluzione con il quale si impegnavano gli Stati a compensare velocemente ed adeguatamente le perdite subite dalle attività economiche più colpite dalle misure restrittive”. È quanto afferma l’europarlamentare del gruppo ECR – Fratelli d’Italia, Nicola Procaccini, componente della Commissione LIBE (Libertà civili, giustizia e affari interni).

Rom, lgbt prima di partite Iva e artigiani. «È evidente che il Parlamento europeo continua ad affrontare l’emergenza con i paraocchi della ideologia. Non tiene conto, infatti, del reale impatto dell’epidemia su cittadini e imprese. La risoluzione, inoltre, ignorando ogni misura di sicurezza, esprime rammarico per la chiusura dei porti del Mediterraneo agli sbarchi di immigrati, ma non considera invece che anche la difesa delle aziende e del sistema economico, e la capacità dei cittadini e degli Stati di autodeterminarsi, sono diritti fondamentali. Né la Ue né tantomeno il governo italiano sembrano tenere in alcuna considerazione questi aspetti, continuando ad affrontare l’emergenza in maniera ideologica, come se il Covid-19 fosse un avversario politico».

Esultano per legge sui trans mentre blindano l'Italia. Passa la legge Zan, l'omofobia sarà reato penale. L'opposizione: "Così si indottrinano i bambini". Felice Manti, Giovedì 05/11/2020 su Il Giornale. Mentre il Paese muore di lockdown la sinistra esulta per l'ok della Camera al ddl Zan, il testo che introduce il reato penale di «omotransfobia». Tra i 265 favorevoli alla Camera (193 contrari e una astensione) anche diversi esponenti del centrodestra. Una legge pericolosa, dicono Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia, soprattutto perché spalanca le porte alle teorie gender nelle scuole (come già succede a Torino grazie ai grillini). Secondo le opposizioni - che prima del via libera hanno protestato in aula con fazzoletti a mo' di bavagli e grida libertà, libertà, poi richiamati dal presidente Roberto Fico - il provvedimento rischia di portare anche a una pericolosa deriva liberticida rispetto a temi etici come identità sessuale, utero in affitto e identità sessuale. Chi li critica rischia l'istigazione finalizzata alla discriminazione. Il testo prevede anche la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, fissata per il 17 maggio per «promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione, nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere». «L'Italia vive una grande emergenza ma le forze di maggioranza se ne fregano», è il commento del senatore Maurizio Gasparri, «e pensano soltanto a stravolgere la realtà. È una legge liberticida che vuole negare la famiglia naturale, fondata sull'incontro tra uomo e donna e vuole imporre letture ideologiche e fuorvianti della realtà fin dalle scuole elementari». «Mentre la scuola è nel caos, mancano i professori e i docenti di sostegno, gli spazi sono insufficienti, la didattica a distanza è un disastro, cosa fa la maggioranza nel Palazzo? Parla di temi surreali e oggi con il ddl Zan istituisce addirittura la Giornata dell'indottrinamento gender, anche alle elementari. La furia ideologica del Pd e del M5S non ha limiti», twitta furibonda la leader Fdi Giorgia Meloni. Esulta il segretario Pd Nicola Zingaretti («Quando c'è da fermare violenza e odio il Pd combatte, sempre») e tutti i parlamentari vicini al mondo omosessuale, dalla dem Monica Cirinnà («Primo passo per un Paese più inclusivo») allo stesso relatore Alessandro Zan («Colmato un ritardo che si protrae da decenni»). A festeggiare ci sono tutte le associazioni Lgbt e personaggi del mondo dello spettacolo come Alessandro Cecchi Paone («Grande prova di civiltà») e l'ex parlamentare di Rifondazione Vladimir Luxuria: «C'è chi ha tentato di strumentalizzare la pandemia sostenendo che questa legge fosse liberticida e che non era il tempo giusto per l'approvazione. Ma è una legge che in realtà aspettiamo da trent'anni». Anche l'esecutivo plaude all'approvazione: «La politica non è gestione dell'esistente ma costante opera di miglioramento delle condizioni di vita e garanzia dei diritti fondamentali. La legge Zan che tutela la dignità contro l'odio è un passo verso questo traguardo», scrive su Twitter il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano. Di tutt'altro avviso il presidente di Pro Vita e Famiglia onlus, Antonio Brandi, che parla di «mostruosità giuridica, etica e psicologica» e di «una follia incostituzionale», puntando il dito sul rischio di indottrinamento dei bambini: «Mentre la crisi morde e i lavoratori muoiono di fame in prima elementare ci saranno lezioni di omosessualità, bisessualità e transgenderismo». Lezioni che saranno tenute dalle associazioni Lgbt «che riceveranno 4 milioni di euro per indottrinare i nostri figli. È vergognoso», ha aggiunto il numero due di Pro Vita e famiglia Jacopo Coghe.

Paese a picco? Si fa la legge sui trans. Il decreto sull'omofobia va avanti alla Camera: sì ai primi 5 articoli. Pier Francesco Borgia, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Nel pieno dell'emergenza Covid il Parlamento riesce persino a inserire nel nostro ordinamento giudiziario sanzioni per gli atti violenti e discriminatori fondati sull'orientamento sessuale. Insomma il cosiddetto disegno di legge Zan (dal deputato piddino Alessandro Zan relatore del testo di legge) oggi dovrebbe vedere il traguardo dell'approvazione definitiva almeno a Montecitorio. Ieri sono stati approvati i primi cinque articoli, a partire dal primo che costituisce il cuore del provvedimento. In favore 249 deputati della maggioranza, contrari 181 del centrodestra. Con un emendamento della maggioranza anche i disabili vengono tutelati dagli atti di discriminazione e violenza. L'articolo interviene sulla legge Mancino che punisce con il carcere i reati di violenza e istigazione alla violenza per motivi razziali. Il testo aggiunge tra i reati punibili con la detenzione gli atti di violenza o incitamento alla violenza e alla discriminazione «fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità». L'articolo 2 del provvedimento modifica invece l'articolo 604 ter del Codice penale, relativo alle circostanze aggravanti, aggiungendo anche l'identità di genere e la disabilità tra i reati la cui pena è aumentata fino alla metà. L'aula di Montecitorio si è preoccupata anche di votare il terzo articolo emendato grazie a una correzione proposta sempre dalla maggioranza che cerca di distinguere l'aggressione verbale omofoba dalla libertà di pensiero ed espressione. Con l'ok di un'assemblea parlamentare falcidiata dal Covid ora il nuovo testo dell'articolo 3 recita: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». L'articolo 4 dispone che la sospensione condizionale della pena può essere subordinata alla prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività. Oggi verrà concluso l'iter. Estremamente negativo il giudizio della Lega sul provvedimento. Non per il merito del ddl ma per il momento in cui il Parlamento decide di esaminarlo. «Vergognoso che pur di far passare il Ddl Zan, la maggioranza si presti a discuterne in una Camera decimata tra deputati positivi al Covid o in autoisolamento - tuona la eurodeputata Simona Baldassarre - Questo ddl non è altro che una mossa della sinistra per incatenare gli italiani al pensiero unico, introdurre il gender nelle scuole». La replica arriva via Twitter dall'ex presidente della Camera Laura Boldrini. «Ora alimentare lo scontro fra persone e fra diritti è insopportabile. Vero Salvini e Meloni?»

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 29 ottobre 2020. A modo suo, la Camera dei deputati ha fatto qualcosa di storico. La maggioranza giallorossa ha stabilito ufficialmente, per la prima volta, cosa sono il sesso e i suoi derivati. Attenzione alle definizioni, perché chi sgarra discrimina e chi discrimina può essere intercettato dalle procure e finire in carcere: sino a tre anni, se si limita a diffondere certe idee; sino a quattro, se il comportamento è ritenuto un incitamento alla violenza; sino a sei, qualora il colpevole sia giudicato promotore di un gruppo dedito alla discriminazione del prossimo. La prima definizione è facile: «Per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico». E dunque non si può discriminare un individuo in base al sesso cui appartiene. Un tempo la questione si sarebbe chiusa qui, invece è solo l' inizio. Perché il sesso è diverso dal «genere». E il genere è questa roba qua: «Qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso». Non ci avete capito nulla? Vi chiedete cosa c' entri una definizione giuridica, che dovrebbe essere chiara e oggettiva, con un concetto tanto fumoso? Aspettate, c' è di peggio. Perché il sesso e il genere sessuale, hanno appena stabilito i nostri legislatori, sono diversi dalla «identità di genere», che sta a indicare «l' identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall' aver concluso un percorso di transizione». Da dove parta questa transizione, e verso dove vada, non ce lo dicono: pare di capire da un sesso all' altro, oppure da un genere a uno diverso. Forse non è nemmeno importante, giacché l' unica cosa che conta, alla fine, è l' idea che uno ha di sé: anche chi ha organi maschili, e dunque non ha concluso la propria «transizione», o magari non l' ha nemmeno iniziata, ha diritto a essere trattato come una donna, se si «identifica» come tale. Ecco: è su queste sabbie mobili che poggia la legge Zan-Boldrini-Scalfarotto per «prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all' orientamento sessuale e all' identità di genere». Le definizioni le ha scritte Lucia Annibali, capogruppo dei renziani a Montecitorio, e inserite in un emendamento che è stato approvato dalla maggioranza, alla quale si è aggiunta la deputata forzista Giusi Bartolozzi. L' intervento è stato necessario perché la commissione Affari Costituzionali e il Comitato per la legislazione avevano chiesto di specificare il significato di tutti quei termini, «al fine di evitare incertezze in sede applicativa». Col risultato che si è visto. Per il giudice di Cassazione Alfredo Mantovano e gli altri giuristi del centro studi Livatino siamo dinanzi a un obbrobrio legislativo: «Meritano di entrare nella storia del diritto i deputati che hanno proposto e votato una norma nella quale l' applicazione di sanzioni penali fino a sei anni di reclusione, con la possibile attivazione durante le indagini di intercettazioni e misure cautelari, dipende dall' interpretazione che pm e giudici daranno a espressioni come "aspettative sociali connesse al sesso" o "identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere"». Norme scritte così aprono infatti il terreno alla incertezza del diritto e all' arbitrio dei magistrati. Può essere indagato e condannato chi tratta come un uomo, ad esempio vietandogli lo spogliatoio o il bagno delle ragazze, un individuo di sesso maschile che sostiene di avere una «identità di genere» femminile? Basta dichiarare di percepire se stesso come una donna per avere il diritto di essere trattato come tale, ad esempio sfruttando le quote rosa o partecipando alle gare sportive femminili? Per come è fatta la legge, pare di sì. Oppure sarà il caos a comandare, con pronunciamenti diversi tra un tribunale e l' altro, alla faccia della legge uguale per tutti. Lo capiremo appena il provvedimento di Zan e compagni sarà stato approvato. Ieri alla Camera sono stati votati i primi cinque articoli su un totale di dieci, oggi si prosegue e poi toccherà al Senato. Il parlamento sarà pure decimato dal Covid, ma per le leggi care alla maggioranza si bruciano le tappe.

Il Bianco e il Nero, Adinolfi: "I giallorossi pensano solo alla lobby gay". Ceccanti: "È tempo di un dl sull'omofobia". Mentre il governo è alle prese con la dura lotta contro la seconda ondata di coronavirus, il Parlamento sta discutendo il ddl Zan sull'omotransfobia. Qui l'opinione del senatore del Pd, Stefano Ceccanti e di Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Mentre il governo è alle prese con la dura lotta contro la seconda ondata di coronavirus, il Parlamento sta discutendo il ddl Zan sull'omotransfobia. Sul tema, per la rubrica il Bianco e il Nero abbiamo chiesto l'opinione del senatore del Pd, Stefano Ceccanti e di Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia.

Le sembra questo il momento più opportuno per discutere un Ddl sull'omofobia?

Adinolfi: “Con una pandemia in atto e mezzo Paese in ginocchio, con le rivolte per le strade e i contagi moltiplicati, con le strutture sanitarie in affanno e le famiglie sempre più in crisi a me pare davvero un oltraggio che la Camera passi la settimana a discutere di un ddl scritto per porre rimedio a un’emergenza che non c’è. Oltre che inopportuno e ingiusto, questo modo di costruire scale di priorità spiega anche i tic antidemocratici tipici di questa maggioranza, che tende a immaginare come necessario per il Paese solo ciò che è necessario per sé e per le proprie lobby di riferimento”.

Ceccanti: “Capisco che per chi è contrario a un testo non c'è mai un momento per discuterlo. Per chi è favorevole, invece, è ovvio che sia sempre il tempo, anche perché il Parlamento fa molte cose contemporaneamente. Se comunque i gruppi di opposizione pensano che il tempo sia troppo basta che riducano i loro 700 emendamenti, visto che la maggioranza ne ha solo 7”.

Lo reputa un provvedimento giusto o sbagliato? E perché?

Adinolfi: “Si tratta di un provvedimento sbagliatissimo. Per la prima volta dal 1925 viene introdotta una legge ricalcata sul modello delle leggi fascistissime che sotto il regime mussoliniano tesero a reprimere le opinioni sgradite alla cosca dominante, incarcerando i dissenzienti. Lo stesso proponente parla di carcerabilità per i latori di “opinioni istigatrici all’odio omotransfobico”. Rivolgo a Alessandro Zan una semplice domanda: dopo l’approvazione della sua legge chi deciderà se una mia opinione è o meno “istigatrice all’odio”? Se io affermo che una coppia gay ha compiuto un abominio criminale acquistando un bambino tramite la pratica dell’utero in affitto, sto esercitando il mio diritto alla libera espressione delle opinioni garantito dalla Costituzione o sto istigando all’odio contro quella coppia gay? Come è chiaro lo strumento liberticida sarà posto nelle mani dei magistrati. E sappiamo bene l’uso che settori della magistratura fanno di leggi chiarissime, figuriamoci l’uso che faranno di norme come quelle del ddl Zan, coniate per manganellare gli avversari politici della lobby Lgbt cui il proponente appartiene”.

Ceccanti: “Il provvedimento è giusto perché soprattutto i social media negli ultimi anni legittimano con una grave forza d'urto comportamenti discriminatori e violenti, c'è un'emergenza nuova che va affrontata sia sul lato preventivo-educativo sia su quello repressivo”.

Pensa che le ultime correzioni apportate proteggano davvero la libertà di pensiero?

Adinolfi: “Gli ultimi emendamenti inseriti chiariscono in tutta evidenza l’intenzione liberticida dell’impianto del ddl. Se si arriva a ribadire l’ovvietà della libera espressione delle opinioni, vuol dire che sanno bene che l’utilizzo del ddl immaginato ab origine è la repressione dell’opinione dissenziente. Excusatio non petita, accusatio manifesta”.

Ceccanti: “Sì, perché come richiesto soprattutto dalla Commissione Affari Costituzionali si è introdotta la nozione di "concreto pericolo" di atti discriminatori e violenti che mette chiaramente al riparo qualsiasi opinione che non ricada in tale grave fattispecie. Il giudice Oliver Wendell Holmes, nella sentenza Schenck versus Stati Uniti nel lontano 1919 aveva giustamente scritto che la protezione più rigorosa della libertà di parola non proteggerebbe un uomo che gridasse falsamente al fuoco in un teatro causando un panico. È stato un importante contributo maturato anche nel dialogo con alcuni parlamentari di Forza Italia”.

Nel Dl Zan si è aggiunta anche la difesa dei disabili. Perché?

Adinolfi: “Il Popolo della Famiglia ha molti dirigenti disabili tra le proprie fila, si sono immediatamente sentiti usati. L’ennesimo tentativo di copertura delle reali intenzioni di una legge nata per gli interessi di una precisa lobby, che ora prova a mascherarli anche con le strumentalizzazioni più indegne, perché abbiamo scoperto il loro gioco”.

Ceccanti: “Perché nella normativa vigente anche le discriminazioni verso i portatori di handicap non erano sin qui coperte da una specifica normativa”.

Da cattolico cosa pensa delle recenti parole del Papa sulle leggi sulle unioni civili?

Adinolfi: “Il Papa è stato vittima di una orrenda manipolazione figlia di segmenti della citata lobby esterni ma anche interni al Vaticano. Mi faccia però chiedere ai cattolici tanto attenti alle parole del Papa di essere anche esigenti con i comportamenti dei loro rappresentanti in Parlamento. Sulle pregiudiziali di costituzionalità del ddl Zan 72 deputati di centrodestra tra cui Giorgia Meloni e Lorenzo Fontana non erano presenti al voto. L’incostituzionalità della legge non è passata per appena 53 voti. Fossero stati tutti presenti il ddl Zan sarebbe morto in aula a Montecitorio prima di nascere. Questa è una battaglia. Il Popolo della Famiglia chiede a tutti di stare ai posti di combattimento”.

Ceccanti: “Penso che siano parole importanti soprattutto nei Paesi del cosiddetto terzo mondo e nell'Est europeo dove esistono ancora resistenze grave a difendere i diritti di persone omosessuali che passano attraverso un riconoscimento dei loro legami. Nei contesti occidentali, Italia compresa, il riconoscimento delle unioni è ormai un dato condiviso e irreversibile, sia tra le principali forze democratiche di destra e di sinistra, sia tra i cattolici. Non mi risulta in Italia nessuna iniziativa né parlamentare nè referendaria per rimettere in discussione la legge del 2016”.

Scelta storica in Belgio: Petra De Sutter è la prima transgender ministro in Europa. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. In Belgio si fa la storia. L’eurodeputata dei Verdi Petra De Sutter, diventata oggi vice prima ministra del nuovo governo belga e ministra della Pubblica amministrazione, è la prima persona transgender a diventare ministro in Europa. La De Sutter già nel 2014 era stata la prima persona transgender a candidarsi ad un’elezione, venendo eletta nel Parlamento belga, mentre nel 2019 la 57enne è stata eletta a Bruxelles dove è stata anche presidente della commissione per il mercato interno e la tutela dei consumatori. Petra de Sutter da sempre è un’attivista per i diritti delle persone transgender e per la riproduzione medicalmente assistita, mentre nella vita ‘di tutti i giorni’ è una ginecologa. Il Belgio è storicamente un Paese dai governi traballanti: l’ultimo, presieduto dal liberale Alexander De Croo, ha giurato ieri davanti al re Filippo a 500 giorni dalle elezioni del maggio 2019. La maggioranza è stata definita “Vivaldi” dai media locali, come il celebre compositore noto per l’opera “Le quattro stagioni”: il motivo è riconducibile ai colori dei quattro partiti della coalizione composta da liberali, socialisti, ambientalisti e democristiani: rosso, arancio, verde e blu. Prima dell’esecutivo di liberale Alexander De Croo il paese era guidato da un governo provvisorio con a capo Sophie Wilmes, liberale francofona sostenuta da una coalizione di minoranza appoggiata però dall’opposizione durante l’epidemia di Coronavirus.

Da "leggo.it" il 19 settembre 2020. "Cambia" sesso a soli 8 anni, perché non si sentiva un bambino, ma una bambina prigioniera nel corpo di un maschietto: accade in Francia, dove il piccolo Baptiste, che vive con la famiglia ad Aubignan, nel sud del Paese, da tempo non stava bene ed era depresso. Finché lo scorso febbraio non ha detto che quel malessere era dovuto alla sua condizione che non lo faceva stare bene. Come racconta oggi il quotidiano La Stampa, la famiglia sta aiutando Baptiste, che ora vuole cambiare il nome in Lilie, a combattere la sua battaglia: ma se a scuola hanno accettato almeno la sua richiesta di cambiare nome (dopo che uno psicologo ha seguito la bambina per alcuni giorni), non è lo stesso all’anagrafe, dove la richiesta è stata per ora respinta. «All’inizio a scuola non erano convinti, si chiedevano se Lilie non fosse stata convinta da noi o suggestionata», ha detto il padre a La Stampa. «Anche noi ci siamo fatti delle domande. Abbiamo consultato associazioni Lgbt che ci hanno spiegato che a quell’età la coscienza esiste eccome». Ora Lilie, che si sta facendo crescere dei boccoli biondi, sta bene e non è più depressa.

Caterina Belloni per “la Verità” il 13 Ottobre 2020. A 16 anni pensava di essere un maschio nel corpo di una ragazzina e soffriva, così si è rivolta ai medici, che le hanno prescritto dei farmaci che bloccavano la pubertà. A 17 anni ha cominciato ad assumere il testosterone, a 20 ha subito una doppia mastectomia per rimuovere i seni e dopo poco si è resa conto che si sentiva una donna. Adesso che ha 23 anni, Keira Bell, esperta informatica di Manchester pentita delle sue scelte, ha deciso di portare in tribunale la clinica che l'ha seguita nel percorso di transizione. La ragione? Sostiene di non essere stata aiutata come doveva e soprattutto vuole che venga messo in evidenza come un adolescente non può essere ritenuto consapevole di ciò che accadrà se assume terapie per cambiare sesso. A livello giudiziario la questione è fondamentale: un minorenne è in grado di esprimere un consenso informato su una tematica così complessa? Analizzando la sua esperienza, miss Bell sostiene che non è possibile, anche perché spesso i ragazzini diagnosticati con una disforia di genere, stanno vivendo condizioni di ansia e depressione che riducono al lumicino la loro capacità di discernimento. E poi - sostiene ancora la giovane donna - cosa ne sa un giovane della sessualità e degli istinti, specie quando ha 13 o 14 anni e ancora non ha capito nulla di sé stesso? Da due giorni l'Alta corte di Londra sta affrontando questo caso giudiziario, che potrebbe avere ripercussioni significative su larga scala. Miss Bell ha infatti chiesto di rendere obbligatori maggiori accertamenti clinici e magari anche una valutazione di tipo legale, prima di fare assumere a un bambino ormoni e farmaci che bloccano la pubertà. Pratiche utilizzate dal Gids (Gender identity development service), il servizio di sviluppo dell'identità di genere della fondazione Tavistock&Portman, l'unica clinica britannica specializzata nel cambio del sesso per i minorenni. Un servizio tutt' altro che di nicchia, che negli ultimi anni ha visto aumentare il suo lavoro in modo esponenziale. Secondo i dati diffusi dal Times, infatti, tra il 2009 e il 2010 i ragazzini seguiti erano 72, mentre tra 2018 e 2019 sono diventati 2.590, di cui 1.740 ragazze e 624 ragazzi. E tra loro 1.814 avevano meno di 16 anni e 171 addirittura meno di 10 anni. Proprio queste statistiche hanno spinto Keira Bell a portare la clinica di Londra di fronte all'Alta corte: il suo obiettivo è evitare che altri si trovino a vivere il disagio che ancora la tormenta. Alla sua iniziativa poi si è associata anche la madre di una ragazzina sedicenne affetta da autismo, che il servizio vorrebbe avviare a un cambio di sesso, nonostante la madre sia convinta che non si tratti della scelta giusta. E in fondo, come dimostra la storia di miss Bell, che si è pentita della sua decisione, un'adolescente difficilmente può rendersi conto di cosa comporta l'assunzione di certi farmaci. Per la giovane informatica di Manchester adesso la vita è complicata, perché la sua voce è bassa, deve combattere contro la peluria sul volto, difficilmente riuscirà a concepire dei figli. In televisione ieri mattina ha raccontato che quando ha iniziato la trafila per il cambio di genere stava attraversando un periodo difficile e pensava di essersi avviata sul percorso migliore. Così ha seguito il protocollo ufficiale, accettando tutte le proposte e i trattamenti, senza farsi troppe domande ma - a suo dire - anche senza ricevere un supporto psicologico adeguato, che le consentisse di capire se si trattasse di un bisogno autentico o di uno stato di confusione. Sulla leggerezza con cui si agisce di fronte ai casi di disforia di genere, peraltro, sono stati sollevati dubbi di recente anche dal ministro per le Pari opportunità Lizz Truss, che ha persino diffuso linee guida di comportamento per gli insegnanti. Pretende che gli allievi siano liberi di esprimere la propria sessualità attraverso abiti e giochi, senza che professori e presidi si prendano la briga di intervenire. E magari suggerirgli che potrebbero essere nati nel corpo sbagliato.

Genitori chiedono al tribunale di cambiare sesso al figlio 13enne. L’operazione potrà avvenire solo con la maggiore età. I genitori hanno chiesto anche di dare un nome femminile al ragazzino: Greta. Valentina Dardari, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Ecco la storia di due genitori che hanno capito la vera natura di loro figlio e stanno cercando in tutti i modi di aiutarlo e assecondarlo. Tanto da decidere di rivolgersi al tribunale per chiedere un intervento chirurgico per cambiare sesso al 13enne. La legge però vieta operazioni del genere su minori: il ragazzino dovrà aspettare quindi la maggiore età. Intanto però mamma e papà hanno chiesto anche di poter dare un nome femminile a loro figlio. Una pm sarebbe d’accordo con loro. Alla prima udienza, erano presenti i genitori, insieme al loro avvocato e a uno psicologo, oltre al pubblico ministero Cristina D’Aniello. Andiamo per ordine. Il ragazzino in questione già alle elementari aveva capito che la sua anima non era in accordo con il corpo maschile che aveva all’esterno. Così a 12 anni aveva pensato di presentarsi in classe con un nome femminile. Il fatto si svolge a Ravenna e lo scorso novembre se ne erano occupate anche Le Iene. La storia si è evoluta nel tempo e i genitori del giovane hanno deciso di seguire i desideri del figlio e chiedere al Tribunale di Ravenna l’intervento per cambiare sesso e poter dare un nome femminile al ragazzo. L’operazione chirurgica potrà avvenire però solo una volta compiuti i 18 anni. Ma su questo la madre è d'accordo, deve essere una decisione che spetterà solo al figlio quando sarà maggiorenne. Si attende il verdetto, intanto però il pm Cristina D’Aniello sarebbe favorevole alla richiesta del giudice Antonella Allegra della Procura di Ravenna. Alle telecamere della trasmissione Le Iene, il 13enne aveva spiegato la sua storia con grande maturità: “Mi prendevano in giro, mi chiamavano frocio, ma credo che siano i bulli ad avere un problema. Noi sappiamo cosa siamo e cosa vogliamo”. Fin da bambino si chiedeva per quale motivo le sue compagne avessero il ciclo mestruale e lui invece no. Oltre a un disagio marcato nel rapportarsi con i coetanei, che spesso lo ignoravano. “Il mio corpo non è sbagliato, è un corpo che riuscirò ad adattare a ciò che sento” aveva concluso il ragazzo. Secondo le dichiarazioni della mamma Cinzia, il figlio, che lei chiama Greta, aveva già manifestato comportamenti femminili a soli 3-4 anni di età. I genitori però non avevano dato importanza a quanto stava avvenendo. Poteva benissimo essere scambiato per un comportamento infantile. Invece con l’arrivo dell’adolescenza si è fatta strada anche la consapevolezza di voler essere donna. All’età di 13 anni Greta ha preso coraggio e ha prima parlato con il papà e dopo con la mamma. “Ed è stata una liberazione per noi. Finalmente abbiamo capito. E abbiamo capito che la questione è ben definita. Siamo al suo fianco e la proteggiamo anche dall’indifferenza e a volte dalla cattiveria degli altri. Ora Greta sa che ci sono tante altre adolescenti con la sua stessa consapevolezza. Parlarne con noi e quindi essere compresa è stata la sua salvezza. Ci ha confidato che se non fosse riuscita a farsi capire da noi le cose si sarebbero messe molto male per lei”. Adesso spetta al giudice aiutare Greta a perseguire il suo obiettivo di vita.

Simone Tagliaferri per movieplayer.it  il 7 giugno 2020. J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, è stata accusata di transfobia per la pubblicazione di alcuni tweet in cui ha irriso una definizione di donna forse un po' troppo politicamente corretta. Il tutto è partito dall'articolo di Marni Sommer intitolato "Opinion: Creating a more equal post-COVID-19 world for people who menstruate" (trad. Opinione: creare un mondo post-COVID-19 più equo per la persone che hanno le mestruazioni) che la Rowling ha commentato con un certo sarcasmo "Persone con le mestruazioni. Sono certa che c'era una parola per definire questa gente. Qualcuno mi aiuti. Donnole? Dandole? Dinnole?" La battuta non è piaciuta alla comunità LGBTQ+ che l'ha considerata offensiva per i trans, provando a spiegare il perché alla scrittrice. In realtà la Rowling ha da tempo sposato l'ala del femminismo che trova assurda la negazione del sesso biologico operata dalla comunità LGBTQ+. Già in passato si era schierata a favore della ricercatrice Maya Forstater, licenziata proprio per aver affermato che non è possibile cambiare il proprio sesso biologico. Comunque sia, questa volta la Rowling ha spiegato più in dettaglio la sua posizione, affermando di trovare assurdo che donne come lei, da sempre empatiche verso i trans e i loro problemi, siano considerate transfobiche perché ritengono che la sessualità sia una cosa reale. La Rowling ha quindi ribadito di rispettare i trans e di riconoscerne tutti i diritti, affermando che arriverebbe anche a marciare con loro se fossero discriminati per ciò che sono. "Allo stesso tempo la mia vita è stata determinata dal mio esser e donna. Non credo che dirlo significhi odiare."

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 21 maggio 2020. «Io sono Greta e ho tredici anni, anzi ne ho molti meno perché fino all' anno scorso ero Marco». Greta, di Ravenna, è nata Marco, è minorenne e ha iniziato il percorso per cambiare sesso. Che non abbia paura di farlo sapere al mondo è poco ma sicuro. È poco più di una bambina, ma negli ultimi tempi ha partecipato a vari programmi tv, ha rilasciato interviste, assieme ad altri ragazzi transgender è stata protagonista di un lungo servizio su Vanity Fair. I suoi genitori hanno fatto di tutto perché Greta diventasse un simbolo, una sorta di portavoce dei minorenni intenzionati a cambiare sesso. Cinzia Messina, la madre, fa parte dell' Agedo (Associazione genitori, amici, parenti di persone Lgbt+) e gestisce la pagina Facebook «Iosonogreta13», i cui contenuti riflettono perfettamente il pensiero delle associazioni arcobaleno. Qualche mese fa i «genitori di Greta» (così si sono firmati) hanno persino lanciato una petizione online per chiedere una nuova legge sulle persone transgender, che prevedesse anche «nelle scuole di ogni ordine e grado percorsi di formazione di contrasto al bullismo omo-trans-fobico obbligatori per la comunità educante». Insomma, la signora Messina è un' attivista. E ha trovato il tempo di dare alle stampe un libro, appena uscito, intitolato Io sono io (Il Ponte Vecchio editrice), che viene presentato come un racconto d' avventura: «L' eroina si chiama Greta ed è una giovanissima ragazza transgender la cui storia è raccontata da Cinzia, sua madre, in minute ricostruzioni di giorni e sentimenti, emozioni e progetti». In effetti, il volume racconta la storia di Marco diventato Greta, e contiene anche una robusta testimonianza autobiografica firmata dalla giovanissima trans. Anche se, ovviamente, a prendersi la scena è quasi sempre la madre. Il rischio, infatti, è che le intemerate politiche sovrastino il racconto in prima persona della tredicenne, che invece merita di essere letto con attenzione, perché fornisce informazioni importanti su un fenomeno che comincia a diventare piuttosto rilevante. Il racconto di Greta contiene passaggi che colpiscono allo stomaco. Ad esempio quando illustra il suo rapporto con gli organi genitali maschili. «Pensavo che tutti fossero cattivi con me, soprattutto la mamma che mi comprava vestiti da maschio», scrive. «La mia nonna, che amo molto e che ora con tanto amore mi chiama Greta (sbagliando nove volte su dieci!!), mi diceva: "Se sei femmina, fammi vedere la passerotta!". Io non capivo, ma aveva ragione. Io però non potevo farle vedere ciò che non avevo ed era terribile, perché dentro mi sentivo femmina a dire il vero, non sapevo nemmeno cosa fosse la passerotta!! Cominciai così a odiare la mia codina: avevo capito che non andava bene per me». La sofferenza che trasuda da questi passaggi non può passare inosservata. Greta dice tanto di sé, del rapporto con il fratello gemello, del legame con i genitori. «Avevo solo tre anni quando si sono separati per cui non ho ricordi di loro due assieme. In effetti ogni volta che guardo i video in cui erano ancora sposati, mi chiedo perché si siano lasciati in fondo li vedevo bene! Loro dicono che si sono lasciati perché litigavano sempre Allora mi chiedo perché mai si siano messi assieme!», scrive. «La mia mamma Cinzia mi fa sempre notare ogni imperfezione e mi dice: "Greta, hai i punti neri, ti è colato il trucco, hai i capelli sporchi e gli occhiali appannati!". Il mio babbo Luigi invece mi dice: "Greta, sei bellissima. Ora che ti vedo come una ragazza devo ammettere che sei proprio molto bella!"». A quanto sembra, la famiglia ha supportato la transizione di Greta. «A casa del suo papà teneva addirittura abiti femminili bellissimi, da principessa delle favole. Quella casa era diventata il suo rifugio», spiega la madre. «Ci aveva portato anche un paio di scarpe col tacco e qualche trucco che gli avevo regalato io, benché con me, forse leggendo nei miei occhi un senso quasi di disagio, faticasse a esprimersi liberamente. Ogni volta che lo andavo a prendere dal babbo e lo trovavo vestito e truccato, mi saliva dentro un' angoscia che sono sicura intuisse, visto che il sorriso gli moriva sulle labbra. La neuropsichiatra ci aveva consigliato di assecondare le sue tendenze almeno all' interno delle pareti domestiche, ma, oltre all' ansia e alla tristezza, io provavo un profondo senso di colpa per averlo partorito con un corpo biologicamente diverso rispetto a come si sentiva». È in seconda media che Greta decide di mostrarsi al mondo come transgender: «Non potevo ancora immaginare che quel pugno di sillabe nascondesse un vissuto sofferto e un sentire profondo, come non ero a conoscenza del fatto che queste percezioni di genere potessero esistere già nell' infanzia e non solo in età adulta. Quanta ignoranza», commenta la madre. Il risultato è che, ora, la trans tredicenne assume farmaci per fermare la pubertà: «Finalmente ho cominciato i bloccanti e ora sono più serena per il fatto che la mia voce non cambierà e che non mi svilupperò nella direzione maschile», dice. Da fuori, giudicare è fin troppo facile e per questo, forse, anche ingiusto. Alcune affermazioni della madre di Greta sull' identità sessuale lasciano molto perplessi. Così come l' approccio affermativo (cioè confermativo dell' identità femminile) adottato nei confronti di un minorenne a cui, a un certo punto, viene anche diagnosticato un «ritardo emotivo». Soprattutto, suscita qualche dubbio l' attivismo politico e «per i diritti» dei genitori di Greta che, in fin dei conti, ha appena 13 anni. Nel testo autobiografico si esprime come una bambina, ma sembra che venga trattata già come una donna: trucco, scarpe col tacco. Viene da pensare che, su argomenti delicati come questo, sia necessario sgombrare il campo dall' ideologia e concentrarsi sulla singola persona. Ma è diventato impossibile farlo. Una vicenda privata - come testimoniano il libro di Greta e tutte le attività connesse - diventa immediatamente politica. E se dovesse mai passare la legge bavaglio contro l'omotransfobia di cui a luglio ricomincerà a discutere il Parlamento, ogni approccio critico verrà di fatto bandito. Chi osasse avanzare dubbi sarebbe immediatamente identificato come «odiatore» dei trans. Diventerebbe impossibile porsi una domanda fondamentale: davvero un bambino di 10, 11 o 13 anni è in grado di fare una scelta che determinerà la sua intera esistenza? Una cosa è certa: una volta iniziata la terapia farmacologica, non si torna indietro.

Tonia Mastrobuoni per repubblica.it il 9 maggio 2020. Niente più esorcismi, indottrinamenti o "terapie della luce". Niente stregonerie, né elettroshock. La Germania ha approvato una legge che vieta ogni forma di conversione di persone lgbtqi, insomma qualsiasi forma di imposizione coatta di un orientamento sessuale. La sanzione per questo tipo di 'cure' barbariche, può raggiungere i 30 mila euro e un anno di carcere. Purtroppo, come attesta la Fondazione Magnus Hirschfeld, in Germania si registrano ancora circa 1000-2000 casi di cure anti-omosex all'anno, e spesso le vittime ne ricavano danni psicologici e sviluppano tendenze suicide. Peraltro non c'è alcuna evidenza scientifica sull'efficacia delle terapie di conversione, al di là di ogni considerazione sulla palese violazione della libertà sessuale sancita dalla Costituzione. L'impulso a vietare queste pratiche primitive che avvengono per lo più in comunità fortemente religiose è venuto dal ministro della Sanità, Jens Spahn (Cdu), gay dichiarato. "L'omosessualità non è una malattia, e il termine terapia è fuorviante", ha scandito ieri davanti al Bundestag, durante la discussione sulla legge. Che ha registrato comunque l'astensione dei Verdi, della Linke e della Fdp che avrebbero voluto un testo più coraggioso. La legge limita il divieto di conversione alle persone sotto i 18 anni: secondo i tre partiti si tratta di una soglia troppo bassa.

105.net 14 Febbraio 2020. L'ex stella Nba Wade sostiene il figlio 12enne che ha scelto di diventare donna. Wade ha raccontato la sua storia durante lo show di Ellen DeGeneres. Il campione di basket Dwyane Tyrone Wade, che dal 2003 al 2019 ha militato nella NBA (giocando per i Miami Heat, i Cleveland Cavaliers e i Chicago Bulls), ha recentemente parlato della delicata scelta di suo figlio Zion. L'ex stella Nba ha scelto il salotto dello show televisivo di Ellen DeGeneres (da anni impegnata nella causa LGBTQ+) per svelare che suo figlio 12enne ha deciso di essere donna. Wade ha raccontato che un giorno Zion è tornato a casa e ha detto ai genitori: "Sono pronto, ho scelto di essere una donna. Da questo momento in poi chiamatemi Zaya". L'ex stella dei Miami Heat ha aggiunto che di fatto Zion era transgender, anche se era stato definito maschio alla nascita. Ma che ora si sente pronto a fare una scelta. Il campione e sua moglie Gabrielle Union sanno benissimo quanto la questione sia importante e quindi, ha raccontato Wade, credono sia fondamentale "essere aperti e disponibili di fronte a qualsiasi problema sollevato dal loro figlio (o meglio figlia), ascoltarlo e supportarlo in qualsiasi caso, se riguarda la sua felicità". Wade, a conclusione della sua intervista, ha raccontato che secondo lui "non c’è nessun motivo di esistere se cerchi di essere un qualcuno che non sei veramente. Bisogna essere veri, bisogna seguire i propri sentimenti più intensi disinteressandosi di tutti gli stereotipi che circondando il mondo di oggi". Convinti di questo, lui e sua moglie hanno fin da subito rassicurato Zaya dicendole: «L’importante è che accetti te stessa, mamma e papà ti ameranno sempre e comunque».

Il figlio 12enne di Wade sceglie di essere donna e il papà aderisce alla causa LGBTQ+ per sostenerlo. «Sono pronto, ho scelto di essere una donna. Da questo momento in poi chiamatemi Zaya» questa la frase che ha scosso l’ex stella dei Miami Heat. Lorenzo Nicolao il 12 febbraio 2020 su Corriere della sera. Un giorno Zion è tornato a casa e ha detto ai genitori che voleva parlare con loro di una questione importante. «Sono pronto, ho scelto di essere una donna. Da questo momento in poi chiamatemi Zaya». Il papà del coraggioso 12enne, è Dwyane Wade, 38enne ex campione di Nba appena ritiratosi dal basket agonistico. La stella dei Miami Heat, solo una piccola parentesi ai Chicago Bulls nel 2016 e ai Cleveland Cavaliers nel 2017, oltre che vincitore di un oro olimpico nel 2008 a Pechino.

La rivelazione in diretta. Wade ha rivelato tutto in diretta tv durante lo show di Ellen DeGeneres, conduttrice già da anni impegnata nella causa LGBTQ+, la sigla che comprende dai gay ai transessuali. «Zion era di fatto transgender, anche se era stato definito maschio alla nascita. Ora si sente pronto e ha fatto la sua scelta. Come padre, siccome prendo sul serio il mio ruolo di genitore, non posso che sostenerlo, in ogni sua decisione presente e futura, perché deve essere libero sul chi voler essere da grande», ha spiegato il campione. Questo è il nuovo obiettivo di chi sul campo di sfide ne ha vinte tante, ma che ora si troverà in casa una sfida del tutto nuova. «Fino a qualche tempo fa ero del tutto ignorante in materia», ha detto l’ex cestista,«ma, sostenuto anche da mia moglie Gabrielle Union, ho capito subito quanto la questione fosse importante. Come genitori abbiamo sempre creduto di dover essere aperti e disponibili di fronte a qualsiasi problema sollevato da nostro figlio, o meglio figlia, ascoltarlo e supportarlo in qualsiasi caso, se riguarda la sua felicità».

Difesa. Già in passato Wade aveva difeso apertamente Zion, ora Zaya, quando si era messa lo smalto sulle unghie lunghe ed era stata per questo presa di mira dagli hater sul web. Ora il campione Nba è pronto a sposare la causa a tutto campo, difendendo la libertà di tutti nell’esprimere la propria identità di genere e l’orientamento sessuale. La moglie ha perfino pubblicato un video su Twitter dove i genitori presentano Zaya al mondo con un caloroso messaggio. «L’importante è che accetti te stessa, mamma e papà ti ameranno sempre e comunque». L’ex stella di Miami ha dato subito seguito alle parole con i fatti. Nella scorsa primavera aveva già preso parte a un beach pride, solo per immergersi in questa nuova realtà e conoscerla meglio. Modo ineccepibile per essere vicino alla figlia nelle prossime tappe della sua vita perché, anche dopo il ritiro, un campione dello sport deve essere pronto a superare nuove sfide.

DAGONEWS il 25 febbraio 2020. Una ballerina transgender brasiliana ha infranto ogni tabù sfilando come madrina della batteria della sua scuola di samba a San Paolo. Camila Prins, 40 anni, ha realizzato questo sogno dopo 30 anni quando si rese conto di voler essere una donna: le fu permesso di travestirsi con abiti femminili per carnevale e da quel momento capì che la sua identità sessuale era un’altra. Da allora Camila ha intrapreso un percorso che l’ha portata a essere la prima “madrina” trans della batteria Colorado do Brás, un ruolo che viene conteso ogni anno da modelle e celebrità. Il suo compito è stato quello di ballare su un ritmo travolgente per 65 minuti di fronte ai batteristi, usando le gambe per guidare il ritmo. «Donne meravigliose volevano essere qui. Sono molto emozionata perché questo dimostra che possiamo essere ovunque. Possiamo essere madrine di batteria, possiamo essere proprietari di una scuola di samba - ha detto Prins prima della sfilata - Presto vedremo molte altre ragazze transgender». I transgender rimangono una sorta di tabù tra i brasiliani, anche a San Paolo, la città più cosmopolita del paese che ospita il più grande gay pride del mondo. In Brasile ancora oggi ci sono molti più omicidi di trans rispetto ad altri Paesi: nel 2019, 124 trans sono stati uccisi, 21 dei quali nello stato di San Paolo.

Annamaria Sbisà per “la Repubblica - Album Moda” il 19 febbraio 2020. Un'attivista della bellezza, al di là dei generi. Una guerriera dell'identità che ha lottato per trovare la sua di donna transgender e che ora ne difende i diritti, contro transfobia e stereotipi. La storia è quella di Lea T, prima transgender nel sistema moda, lanciata nel 2010 sulle passerelle internazionali da Riccardo Tisci, come volto della campagna Givenchy. La sua "T" è dedicata allo stilista che l'ha aiutata nel passaggio, permettendole di affrontare l'operazione per diventare donna e quindi modella transgender, personaggio televisivo, ambientalista e appunto attivista: «Con il mio lavoro cerco di regalare cinque minuti di sogno a chi si identifica con me». Unica transessuale ad aver sfilato in una cerimonia olimpica, portabandiera ai Giochi di Rio 2016, la top brasiliana è il volto di Milano Moda Donna e una delle testimonial della nuova campagna Pantene #HairHasNoGender. Insomma, sembra che tutto sia andato per il meglio. Invece è tutto difficile, ogni giorno: «Il quotidiano di un trans è massacrante. Incontri la transfobia al bar, sul tram, in tv, a scuola quando ritiri i nipotini, quando ti negano il bagno o la casa in affitto». Lei però lavora: «Le mie amiche modelle hanno comprato appartamenti, io non ho nemmeno la macchina. Diciamo che per alcuni marchi la mia personalità può risultare una scelta scomoda». Un'indefinita solitudine, con una precisa consapevolezza: «Il mondo non concede a tutti la stessa libertà». Il #metoo ha fatto la differenza: «Sono in molte a non denunciare, perché l'oppressore è ancora in casa». L'oppressore è l'uomo bianco di un mondo colonialista diviso tra predatori e prede: «Un ordine prestabilito a binari, ma il binario serve solo per i treni». Ci sono treni che deviano verso la libertà. Jennifer Lopez, Shakira, Rihanna e Beyoncé sono latine assurte a starplanetarie: «Sono icone che abbracciano chi è fuori dal gruppo privilegiato. Un pubblico immenso sensibile al pregiudizio». C'è l'uomo della recente moda maschile, che sfila capi senza genere: «Bene, ci si allontana dall'ordine colonialista». Come riuscire a farlo anche sulle passerelle donna? «Le modelle dovrebbero scegliere l'abito, il trucco e la pettinatura, l'atmosfera con cui presentarlo». Un discorso di autonomia e gender diversity che va oltre l'ondata di modelle omologate su pallore e magrezza: «Più facile stringere un abito che rifarlo e anche truccare un volto non troppo deciso». Gli affari sono affari. Ma moda, pubblicità e passerelle premiano il fascino trans di Lea T e di Andreja Pejic, quello intersessuale di Hanne Gaby Odiele, il volto con vitiligine di Winnie Harlow, la curvilinea femminilità di Ashley Graham. Icone di bellezza e di liberazione a cui accostiamo le finte brutte e ambigue e moderne, lanciate nel 2015 da Gucci: «Le sue modelle hanno profili Instagram interessanti, Alessandro Michele sceglie la personalità». E il futuro? «Non importa essere bellissima, ma potersi sentire "fabulous"». Come si sente Lea T, se attaccata o in difficoltà, quando la soccorre una voce interiore: «Mi ricorda che sono forte. Difficile oltrepassare la realtà, quando per molti sei uno sbaglio della natura». Che lavoro avrebbe voluto fare? «La biologa, per studiare il com-portamento degli animali più temuti, come i rettili». Il suo senso della bellezza: «Negli anni di scuola frequentavo gente alternativa attratta dalla loro libertà, poi con gli studi artistici ho imparato a disegnare fino a perdermi dentro le rughe degli anziani, a valorizzare ombre e luci». C'è una Lea in ombra? «Quella che si è messa in gioco. Per tutti arriva prima la transessuale brasiliana, modella e figlia del famoso Toninho Cerezo». Intanto la nuova Barbie con labbra carnose, zigomi alti e capelli scuri, in fuga dall'unico cliché bionda occhi azzurri, corre verso un futuro di bellezza plurale. Un mondo in cui l'uguaglianza si chiama diversità. La più favolosa possibile, per tutti.

Da repubblica.it il 18 febbraio 2020. Alessandro ha cambiato sesso, e il nuovo nome potrà sceglierlo lei. Lo ha deciso la Cassazione assicurando un diritto che non era affatto garantito, fino a ieri: era consentito solo declinare il proprio nome, maschile o femminile che fosse, nella sua versione opposta. Alessandro, per esempio, dopo aver cambiato sesso in Sardegna si sarebbe dovuto chiamare Alessandra, ma voleva un nome diverso e aveva scelto quello di Alexandra. La Corte di Appello di Torino aveva sancito che non ne avesse il diritto. Per la Cassazione, che ha dato ragione ad Alexandra, chi cambia sesso ha diritto a scegliersi un nuovo nome senza accontentarsi del cambio di desinenza - dal maschile al femminile o viceversa, a secondo della transizione sessuale - di quelle avuto alla nascita. Per la Cassazione il nome è "uno dei diritti inviolabili della persona", un "diritto insopprimibile", e deve "essere assicurato anche un diritto all'oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità". Per i giudici piemontesi non esistevano i presupposti per "un voluttuario desiderio di mutamento del nome", e occorreva accontentarsi di "quello derivante dalla mera femminilizzazione del precedente". Ma gli ermellini hanno ribaltato la sentenza, dando il beneplacito non solo ad Alexandra ma anche a tutti coloro che transitando da un genere all'altro desiderino un nome anche radicalmente diverso. Senza considerare il sollievo di chi, cambiando sesso, debba lasciarsi alle spalle un nome la cui declinazione di sesso opposto non esista, come nel caso di Marco o Graziella.

La prima indagine sulla popolazione transgender in Italia. L'obiettivo è fotografare persone spesso emarginate dalla società e dal sistema sanitario. Davide Michielin su La Repubblica il 12 gennaio 2020. Che differenza c’è tra la parola transgender e la parola transessuale? Con quale genere rivolgersi a una persona che non si riconosce nel proprio corpo? Lo smarrimento linguistico di buona parte degli italiani riflette l’imbarazzo del nostro Paese nei confronti delle persone la cui identità di genere non è allineata al sesso assegnato alla nascita. Questo imbarazzo è perfino statistico: ad oggi, non abbiamo idea di quante siano le persone transgender in Italia. Per colmare questa lacuna, Azienda ospedaliera universitaria Careggi, Università di Firenze, Istituto superiore di sanità, fondazione The Bridge con il supporto dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere hanno avviato uno studio di popolazione chiamato SPoT. Un gioco di parole che intreccia la missione dell’indagine, cioè la Stima della Popolazione Transgender adulta in Italia, e il verbo inglese ‘spot’ cioè individuare. Tramite un brevissimo questionario del tutto anonimo da compilare online  e rivolto alla popolazione generale, i ricercatori sperano di quantificare per la prima volta la numerosità di questa popolazione vulnerabile e spesso invisibile. Quando non apertamente discriminata. “I dati della letteratura scientifica internazionale suggeriscono che la percentuale di popolazione transgender dovrebbe essere compresa tra lo 0,5 e l’1,2% del totale. Se confermata anche nel nostro Paese, consterebbe in circa 400 mila italiani” spiega Marina Pierdominici, ricercatrice del Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità. Nel nostro Paese, i dati disponibili più recenti risalgono ad uno studio, pubblicato nel 2011, che considerava la popolazione transgender adulta sottoposta a intervento chirurgico di affermazione di genere tra il 1992 e il 2008. Lo studio riporta un numero pari a 424 donne transessuali e 125 uomini transessuali. “Tuttavia si tratta di una stima minima, limitata a un sottogruppo di una popolazione più vasta ed eterogenea: non tutte le persone sentono la necessità di sottoporsi a trattamento chirurgico o ormonale” prosegue la ricercatrice, sottolineando come la carenza informativa si traduca nella mancanza di una programmazione sanitaria efficace, “ostacolata anche dall’assenza di informazioni sulla salute generale della popolazione transgender”. Quella transgender è una fascia di popolazione marginalizzata rispetto alle politiche sanitarie con ostacoli nell’utilizzo dei servizi sanitari sia generali che specialistici. Per esempio, le possibili interazioni farmacologiche tra i trattamenti ormonali e altre terapie sono spesso ignorate mentre le persone transgender che hanno ottenuto il cambio anagrafico possono avere difficoltà ad accedere ad alcuni programmi di screening previsti per la popolazione generale. “La situazione in Italia è a macchia di leopardo: i centri specializzati nella medicina di genere sono pochi e concentrati soprattutto al nord; alcune regioni si fanno carico dei trattamenti ormonali mentre altre no” ricorda Pierdominici. Le radici dell’inadeguatezza del personale sanitario nel trattare le persone transgender affondano nell’assenza di corsi dedicati all’interno delle facoltà universitarie. Non solo a livello clinico ma anche di informazione e sensibilizzazione degli operatori. Le cartelle cliniche non riportano l’identità di genere e così può capitare che donne transessuali siano ricoverate in reparti maschili e viceversa. Inoltre, lo stigma sociale spesso spinge queste persone a rivolgersi al mercato nero dei farmaci piuttosto che consultare il proprio medico. “La conoscenza del numero reale delle persone transgender rappresenta il primo passo verso l’effettiva presa in carico di questa fascia di popolazione da parte del sistema sanitario. Ciò consentirebbe un miglioramento della qualità di vita e della salute, nonché un’ottimizzazione della spesa sanitaria nazionale” sostiene Pierdominici. Parallelamente, andranno moltiplicati gli sforzi di sensibilizzazione sia degli operatori sanitari sia della popolazione generale, a partire dall’uso della terminologia corretta. Ecco perché, al termine del questionario, l’utente riceverà un manualetto contenente le definizioni più adatte. Che differenza c’è tra la parola transgender e la parola transessuale? Per scoprirlo non vi resta che compilare il questionario.

Università di Pisa aperta all’identità di genere: sì al cambio di nome anche senza certificato medico. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Sarà sufficiente la sottoscrizione di un semplice accordo di riservatezza con l’Università di Pisa per attivare la carriera alias, il dispositivo che tutela le persone che hanno la necessità di utilizzare, all’interno dell’Ateneo, un nome diverso rispetto a quello anagrafico. È stato infatti approvato dal Senato accademico un nuovo regolamento semplificato che tutela l’identità di genere di tutta la popolazione universitaria: tra le novità, c’è la possibilità di attivare questa procedura non solo per gli studenti, ma anche per docenti, personale, dirigenti, componenti esterni ed esterne degli organi collegiali e tutte e tutti coloro che a vario titolo operano, anche occasionalmente e temporaneamente, nelle strutture dell’Ateneo. E per farlo non ci sarà più bisogno di presentare alcuna certificazione medica. A chi farà richiesta sarà assegnata un’identità provvisoria al fine del rilascio di nuovi documenti di riconoscimento, come il libretto universitario o il badge, di un nuovo account di posta elettronica o di targhette identificative. Inoltre, per garantire il pieno accesso al dispositivo della carriera alias, l’Università di Pisa, attraverso il Comitato unico di garanzia (Cug), si impegna a fornire adeguata formazione in merito ai temi che riguardano l’identità di genere a tutto il personale coinvolto nelle procedure relative alla carriera alias e al personale in contatto diretto con i richiedenti. «La decisione assunta all’unanimità dal Senato accademico – sottolinea il neodelegato alle politiche di genere Arturo Marzano – rappresenta un grande passo avanti in termini di inclusione di studenti fino ad oggi non pienamente tutelati. La carriera alias conferma l’impegno del rettore Paolo Mancarella e di tutto l’Ateneo a realizzare politiche capaci di garantire concretamente pari opportunità». Il regolamento arriva a distanza di un anno dal primo input: «Questo regolamento è il frutto di un lavoro che è partito nel gennaio 2019, quando a Pisa abbiamo ospitato il convegno della Conferenza nazionale degli organismi di parità delle Università italiane, organizzandolo come Cug, sul tema delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere- spiega la presidente del Comitato Unico di Garanzia, Elettra Stradella - Al termine del convegno abbiamo approvato una mozione, trasmessa alla Crui, nella quale prima di tutto proponevamo, agli Atenei virtuosi come il nostro, che già da tempo aveva adottato la carriera alias, di semplificare le procedure sostituendo a istanze e certificazioni, che rappresentano dolorosi aggravi procedurali, la sottoscrizione di un semplice accordo di riservatezza tra studente richiedente l’identità alias e Ateneo. L’obiettivo a Pisa è stato raggiunto». Junio Aglioti Colombini, presidente di Glauco, associazione lgbtqi+ dell’Università di Pisa, sottolinea: «Siamo felici che il dispositivo alias sia stato interpretato come un’azione culturale e politica e non burocratica»: finalmente, spiega, si afferma «un percorso autodeterminato e svincolato dalla visione patologizzante dell’esperienza trans».

Maria Lombardi per ilmessaggero.it il 3 gennaio 2020. «A 4, 5 anni mi diceva: mamma, quando divento bambina? Quando mi cadrà il pisellino? Poco più grande a Babbo Natale chiedeva un solo regalo: voglio svegliarmi bambina. Che sia Lorenzo oppure Olimpia che differenza c'é? Per una mamma non cambia niente. Alle famiglie che vivono un percorso così difficile e doloroso, voglio dire: state vicino a questi ragazzi, per convenzione uso il plurale maschile, hanno tanto bisogno di amore». Mariella Fanfarillo ha lottato con la figlia, l'ha accompagnata passo dopo passo, da Lorenzo ad Olimpia. Il bambino che rifiuta il suo corpo, il dolore dell'adolescenza, i compagni che escludono e deridono, la scelta di cambiare, la sentenza per arrivare a un nome nuovo. E Mariella questo viaggio nella nuova identità della figlia l'ha ripercorso in un libro, «l'ho scritto con il sangue», c'è la pena di tutte e due e anche la vittoria. “Senza rosa né celeste. Diario di una madre sulla transessualità della figlia”, pubblicato con la casa editrice Villaggio Maori.  «Non è il manuale del bravo genitore, ma un messaggio di positività per tutti coloro che si sentono spaventati e spaesati di fronte a una realtà della quale si parla poco e, spesso, in maniera scorretta. Metto la mia esperienza a disposizione dei ragazzi trans e dei loro genitori». Mariella insegna, vive ad Alatri, in provincia di Frosinone. Capisce presto che il suo bambino prova disagio, «a soli tre anni si sentiva in difficoltà all'asilo con i vestitini e in bagno, avvertiva l'incongruenza tra il suo corpo e la sua psiche». Le prime domande: quando divento bambina. La scoperta che non accadrà. Gli anni della crescita con il rifiuto che si fa sempre più grande. «É stato un incubo, in quel periodo si era suicidato il ragazzo con i pantaloni rosa. Temevo che anche mia figlia potesse fare lo stesso gesto di disperazione. Aveva subito anche un'aggressione fisica e per due anni non è uscita. Io mi allontanavo da casa il meno possibile e mi sbrigavo a tornare, non volevo lasciarla sola per paura che si facesse del male. Poi finalmente ha ricominciato a uscire. Il primo coming-out sulla presunta omosessualità. Il secondo coming-out, a sedici anni: mamma, sono una donna. Aspettavo queste parole, ma lo stesso sono state un pugno allo stomaco. Così abbiamo intrapreso la transizione fino ad arrivare alla meravigliosa sentenza». Il tribunale di Frosinone,  il 25 luglio 2017, concede a Lorenzo, anche se minore, di cambiare i dati anagrafici e diventare Olimpia, senza l'intervento chirurgico. Il secondo caso in Italia. «Nel momento in cui ho capito che mio figlio è mia figlia e mia figlia è mio figlio, mi sono resa conto che dovevo dire addio soltanto a un nome che avevo scelto e pronunciato per sedici anni con amore. Dentro di me c’è spazio per entrambi, senza sensi di colpa». Questa è la storia di Mariella, la mamma che al concerto di Cristina D'Avena a Capodanno s'indigna e protesta per la battuta infelice del cantante, «Luxuria è invidiosa di Lady Oscar perché ha la spada più lunga della sua», pretende le scuse. «Non permetto a nessuno di mortificare mia figlia e nessun altro ragazzo o ragazza trans», la sua battaglia senza fine. «Ai genitori che si trovano ad affrontare il mio stesso percorso voglio dire: amate i vostri figli indipendentemente dalla sessualità, state vicini a loro. Quando fanno coming out si stanno fidando di voi: è un regalo enorme. Prendeteli per mano, sono forti e fragili, chiedono solo di essere riconosciuti per quello che sono. Adesso Olimpia studia psicologia è bellissima, intelligente e simpatica. E io sono orgogliosa di lei».    

Alix Amer per ilmessaggero.it il 30 dicembre 2019. Una transgender ha dato alla luce un bambino, grazie all’aiuto di un’altra transgender. Reuben Sharpe, 39 anni, ha iniziato la trasformazione per diventare uomo, ma sei anni dopo ha smesso di prendere iniezioni di testosterone per aumentare le possibilità di rimanere incinta. Lei e la sua partner Jay, che non si identifica né come uomo né come donna, hanno dato il benvenuto al loro bambino Jamie tre mesi fa. «Ci sono voluti sei anni per arrivare così lontano, ma ora abbiamo un figlio in braccio e quello era l’obiettivo finale. Finalmente mi sento completo. Volevo un bambino e avevo la possibilità di farlo, e ci siamo riusciti. Entrambe le nostre famiglie adorano i bambini. Siamo davvero al settimo cielo tutti, anche i miei nipoti». Il bambino, Jamie, era in ritardo di tre settimane «alla fine si è intervenuti con un cesareo». Prima del processo di trasformazione, a Ruben fu detto che sarebbe stato ancora in grado di rimanere incinta poiché il suo grembo e le ovaie erano ancora in funzione perfettamente. Ruben che è di Brighton ha incontrato Jay, 28 anni, in un pub. Subito è scoccata la scintilla. E così quando pensò di rimanere incinta, si avvicinò a Jay e gli chiese come si sarebbe sentita a crescere un bambino. Entrambe volevano sentirsi una famiglia. E così è stato. Un dottore inserì lo sperma direttamente nell’utero di Ruben permettendogli di rimanere incinta. Ha poi spiegato di aver ricevuto «la donazione vitale» da una donna trans che è stata in grado di fornire lo sperma dopo essersi avvicinata alla loro storia su Facebook. «Il trattamento privato costa £ 6.000 per tre possibilità - ha spiegato la coppia - Il primo tentativo è fallito. Fortunatamente, il secondo è stato un successo». Tuttavia, Ruben ha detto che alcune persone hanno posto domande molto inopportune su come avrebbe partorito. E ha spiegato di essere stato curato da un team specializzato di ostetriche presso il Royal Sussex County Hospital di Brighton. Ora Jay sta pensando di fare lo stesso percorso. 

Paolo Dimalio per “il Fatto quotidiano” il 23 dicembre 2019. Non è detto che a Natale siano tutti più buoni, e non sempre si sta in famiglia. Qualcuno, per dire, preferisce il caldo abbraccio al silicone di una bambola sessuale o l' affetto ambiguo di un'escort transessuale come Efe Bal. Lei non ha dubbi: durante le feste natalizie si lavora di più, come a ferragosto del resto, perché il bravo papà e marito fedele non esiste più. "Quando vanno a lavoro, gli uomini approfittano della pausa pranzo per concedersi sesso a pagamento con una prostituta, poi tornano dietro la scrivania e si vedono un film porno sullo smartphone - racconta la escort -. Invece durante le festività sono obbligati a stare a casa con la famiglia, senza via di fuga". Peggio del carcere al 41 bis, per i fedifraghi. Così, prima della galera e appena possono, si concedono l' ultimo desiderio e sfogano ogni impulso. Infatti sono più focosi, gli uomini con un debole per i trans: "Vogliono farlo non una ma due volte, durante le feste, per togliersi ogni sfizio e bilanciare la noia casalinga". Nei giorni delle celebrazioni sono pure più generosi: "Un cliente affezionato mi ha pagato 500 euro invece di 200: “Il resto usalo per farti un regalo”, mi ha detto". L' agenda è fitta, sotto Natale: "Il 27, il 28 e il 29 si lavora sempre di più - dice Efe -, poi il calo a cavallo di Capodanno, ma a gennaio (prima dell' Epifania) la richiesta sale ancora". Su escort-advisor.com, il picco di utenti è stato il 27 dicembre, l' anno scorso. Efe Bal è convinta che "lo smartphone serve a scopare, più che a telefonare". Il vero concorrente delle escort sono le chat o le app di dating (appuntamenti romantici) come Tinder e Badoo, dice lei: "Un cliente di un' amica, dopo l'amplesso, le ha mostrato sul telefono tutte le donne disponibili nello stesso palazzo dove avevano consumato". Donne stimate e di sana reputazione, nel condominio. Del bazaar sessuale online, del resto, si può apprezzare la varietà: alcuni preferiscono le escort, altri gli appuntamenti con sconosciuti, taluni invece il noleggio a domicilio di bambole sessuali. È il servizio offerto da Love Game Italia, franchising con base a Roma: "Tu scegli il modello nel catalogo del sito, noi lo spediamo a casa e quando hai finito lo ritiriamo - dice Walter Marini -. Poi igienizziamo la bambola, pronta per un nuovo cliente". Manco a dirlo, durante le feste per la nascita di Gesù, il business cresce: "Spopoliamo - ammette Marini -. Di solito, contiamo 40 o 50 richieste al mese, ma nei giorni del Natale arriviamo anche a 20 al giorno". Alcuni restano a bocca asciutta: "Vorremmo espanderci, perché non riusciamo a stare al passo con l' impennata del numero dei clienti". I più affezionati arrivano da Roma e Milano, poi Torino. Sotto Natale, non chiedono cose diverse, perché la bambola vestita di rosso, col cappellino da Santa Claus, la vogliono tutto l' anno. A cambiare è solo l' euforia: "Sono più felici perché è il loro regalo per se stessi", dice Walter Marini. Non è un mistero che i single siano in aumento e la famiglia in declino. Eppure, nel 2018 sono stati celebrati 4 mila 500 matrimoni in più rispetto all' anno prima. Di sicuro, durante le feste i nuovi mariti staranno in famiglia.

Dagospia il 18 dicembre 2019. Comunicato stampa. Oggi Daniela, ieri Daniele, in arte Gennifer: uno, nessuno, centomila è l’ ex transessuale siciliana trapiantata a Torino da 15 anni, ex Miss Trans Piemonte, che ha cambiato definitivamente sesso circa un anno fa dopo un delicato intervento di vagino-plastica. Gennifer confessa a ruota libera i suoi peccati, le sue paure e la sua attuale situazione disastrosa: “Sono esasperata, ho subito tante, troppe aggressioni in questi anni in cui mi prostituivo in strada, l’ultima pochi mesi fa da un ragazzo sud-americano che urlandomi frocio e finocchio mi ha spinta per terra, ho sbattuto la testa sul marciapiede e ho perso i sensi e la memoria”. La trentacinquenne sicula racconta: “Dopo questi shock non sono più riuscita a scendere in strada e a fare il mio lavoro, mi imbottisco di psicofarmaci, fino a due settimane fa per alleviare il dolore mi facevo di crack, ora sto smettendo perché il dottore mi ha detto che sono a rischio ictus; non lavorando ovviamente non ho soldi quindi sono costretta a chiedere l’elemosina a Torino per mangiare ed andare a dormire o ospite dei pochi amici che mi sono rimasti oppure nei dormitori comuni, vedo tutto nero, non vedo una soluzione...dovrò ricominciare a prostituirmi appena mi riprendo, io un lavoro normale non riuscirei mai a farlo, al massimo qualche spettacolo hard in locali per adulti, ballerina e animazione in discoteca oppure qualche film porno (ne ho girati 3 in passato) ma il classico lavoro normale no!”. L’ex prostituta conclude così la sua dichiarazione senza censure: “Quando mi appartavo con i clienti (quasi tutti passivi) mi facevano le richieste più estreme. Non sono pentita dell’operazione di vagino-plastica, ma non la rifarei più, è stata dolorosissima e non godo a pieno come speravo, godo molto di più con il sesso anale, ma purtroppo non si torna indietro...”

·        La Sinistra e le Donne.

Simona Bertuzzi per “Libero Quotidiano” il 30 luglio 2020. Il premier Conte deve avere un problema con le domande, soprattutto quelle delle donne. Ride della Meloni che lo interroga sugli italiani prostrati dai divieti e gli immigrati liberi di varcare i nostri confini e violare tutti i controlli. E viene in mente quando ad aprile, pungolato sulla mancata zona rossa ad Alzano, investì la giornalista di Tpi, Francesca Nava, dicendole «se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà tutti i decreti ed assumerà tutte quante le decisioni». La modalità è la stessa. Ridurre l' interlocutrice a poca cosa. Farla sentire inopportuna, insipiente e incapace. Peccato che nell' intervento della Meloni, come nella domanda lecita della giornalista, ci fosse nulla di divertente. Ad aprile si contavano i morti di covid e le bare lasciavano Bergamo portandosi appresso un corteo di dolore e lacrime. Ieri invece si faceva il punto sulla proroga dello stato di emergenza. Chiedeva la leader di Fratelli d' Italia con quale faccia si possano multare i commercianti che scendono in piazza e invocano aiuto e chiudere le attività di chi non rispetta il distanziamento, e però permettere a centinaia di clandestini di entrare nel territorio italiano e poi violare la quarantena imposta dalle misure di sicurezza. E il premier rideva. Quale sia il lato comico di questa domanda sinceramente ci sfugge. E chissà come l' avranno presa gli italiani citati dalla Meloni. Che poi vedete. La leader di Fratelli d' Italia non ha bisogno di difese d' ufficio, è talmente avvezza a farsi largo in politica che ha subito stigmatizzato la risata e rincarato la dose: «Non c' è niente da ridere, la nostra responsabilità ci impedisce di essere conniventi». Però la cosa non è sfuggita ai media che puntualmente hanno titolato "Meloni parla e Conte ride". Visto da donna, cittadina, giornalista, la risata del premier è stata uno sgarbo politico e umano. Le domande non sono tutte comode, anzi. E sicuramente governare è faccenda onerosa. Questa maggioranza viene da mesi di emergenza e decreti infilati all' ora della cena. Riunioni sfinenti, decisioni vitali. Ma la politica è faccenda complicata e quasi sempre, a chi governa, tocca l' ingrato onere di rendere conto del proprio operato davanti al Paese, all' opposizione e persino ai giornalisti. Uomini e donne. Avesse ricevuto una donna di sinistra il medesimo trattamento riservato alla Meloni, avremmo assistito a una levata di scudi e le femministe tutte quante si sarebbero alzate dai loro ombrelloni ben distanziati per chiedere conto al governo e magari una parola di scuse. Poiché si tratta di una leader di destra, la questione si può facilmente relegare alla voce "risata di stagione". Qualcuno d' altra parte è certo che non si tratti di deriva machista, quella in voga in questi tempi bui. Ma di una attitudine caratteriale del premier Conte, il quale pungolato su temi fastidiosi, non risponde nel merito ma attacca. D' altronde, ricordate tutti. Era maggio e la fase due era appena cominciata. Un giornalista gli chiese lumi sull' operato del commissario Domenico Arcuri e Conte rispose: «È stato un impegno faticoso il suo, se poi lei ritiene di far meglio, ne terrò conto per il futuro». Appunto. Eludere la domanda e sminuire l' interlocutore. Peccato che il paese si aspetti risposte e non battute piccate o risate sprezzanti.

Pietro Senaldi attacca il Pd: "Paladini delle donne solo a parole, Nilde Jotti l'ultima che ha fatto carriera". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 31 luglio 2020. Scoppia l'ennesimo psicodramma nel Partito Democratico. Il consiglio regionale pugliese, a maggioranza di centrosinistra, non ha approvato la legge sulla doppia preferenza di genere che imponeva alle prossime elezioni di settembre di votare sia un uomo sia una donna. La ministra autoctona Teresa Bellanova, tanto per cambiare, piange. Si lamenta che i maschi hanno umiliato le femmine. Niente di nuovo sotto il sole. Sul territorio il Pd non ha mai premiato le donne, tant' è vero che i suoi governatori sono tutti uomini, e così pure i sindaci delle principali città. E questo anche dove la sinistra governa indisturbata da decenni, e quindi forse una candidatura femminile si sarebbe potuta tentare. A parole i democratici sono tutti paladini del gentil sesso, a favore delle quote rosa e pronti a cedere il passo non solo quando si entra al ristorante ma anche quando ci si deve accomodare sull'unica poltrona disponibile. Nei fatti sono di gran lunga più maschilisti di leghisti, forzisti e perfino grillini. Non è un caso se l'unica leader donna sia Giorgia Meloni, a capo del partito più a destra dell'emiciclo, e se la donna che ricopre la più alta carica istituzionale sia espressione del centrodestra, la forzista Elisabetta Alberti Casellati. Neppure è un caso che entrambe le signore siano largamente sgradite a parlamentari e stampa di sinistra. Come lo era Mara Carfagna, l'unica ministra della storia per cui essere donna era una colpa, visto che era bella e piaceva a Berlusconi. Se una signorina vuol far carriera puntando solo sulle proprie forze, le conviene guardare a destra e non a sinistra perché da quelle parti, dopo tanti anni, quella che è andata più avanti di tutte resta ancora Nilde Iotti; e parliamo del secolo scorso. Brava e irreprensibile, ma anche la donna del capo. Per di più, se ricoprì ripetutamente la carica di presidente della Camera, la compagna Leonilde lo deve più alla galanteria e alla benevolenza dei democristiani che a quella degli eredi di Togliatti. fedelissima boschi Se vogliamo venire ai giorni nostri, per trovare una donna davvero di potere sul fronte progressista non possiamo che citare la renziana Maria Elena Boschi, altra fedelissima del capo. Doveva passare alla storia per le sue riforme, ma non se ne fece nulla e oggi compare sui giornali più che altro per le sue forme, peraltro più apprezzabili dei suoi progetti di modifica costituzionale. Altre figure femminili davvero di spicco provenienti dai partiti di sinistra, non se ne vedono né ricordano. Forse la Boldrini, ma fu eletta presidente per caso, e proprio in quanto donna, e si costruì il suo personaggio mediatico dopo. Gloria effimera perché, con la fine del mandato, la signora si è progressivamente spenta, persa dietro alle sue battaglie che hanno sempre meno eco. In sintesi, non c'è bisogno di essere maschilisti per non strapparsi i capelli davanti alla scelta del consiglio regionale di consentire agli elettori di votare chi vogliono a prescindere dal fatto che sia uomo o donna. Anche perché, viste alla prova dei fatti, le signore della sinistra non incantano. La Bellanova, che si lamenta, ha varato una sanatoria per gli immigrati fallimentare. Lo scopo era eliminare il caporalato nei campi ma si sono regolarizzati in pochi, e non nell'agricoltura. Intanto, frutta e verdura continuano a marcire nei campi e i produttori per riuscire a piazzare i loro prodotti spesso sono costretti a vendere sotto il prezzo di costo. L'altra renziana al governo è la Bonetti, la ministra tabula rasa alla Famiglia, alla quale l'esecutivo ha tagliato i fondi, approfittando della sua inconsistenza. tristezza democratica. Quanto al Pd, su sette ministri schiera solo una donna, la De Micheli. Ha la delega alle Infrastrutture ma più che dei cantieri, che stanno paralizzando intere regioni, si occupa del bonus biciclette. In compenso Conte voleva licenziarla accusandola di sabotaggio perché ha avuto posizioni ritenute morbide con i Benetton su Autostrade. le altre signore Le altre signore dell'esecutivo sono la Azzolina, e qui ormai basta la parola, la Lamorgese, che ha appena dichiarato che gli immigrati portano il Covid ma ciononostante si sta attivando per trasformare l'Italia in un ostello per profughi, la Dadone e la Pisano - chi le ha viste? - , e la Catalfo, alla quale dobbiamo il fallimento del reddito di cittadinanza. Più che testimonial femminili, si tratta di prove viventi che la competenza non è questione di genere. Anzi, valutandole viene da chiedersi se le quote rosa non siano in realtà un boomerang per le donne: aiutano le meno capaci a discapito delle più brave. Ma il nostro Paese procede per mode. Due mesi fa l'opinione pubblica si scandalizzò improvvisamente perché la commissione Colao aveva più maschi che femmine. In tutta fretta vennero arruolate due o tre signore, delle quali nessuno oggi ricorda il nome ma che possono condividere con gli uomini il disastroso esito dell'operazione, coronato dall'inabissamento della famosa app Immuni, elaborata da questo trust di cevellone/i. A proposito, che fine ha fatto? 

·        Il Femminismo.

Adriano Scianca per “la Verità” il 20 ottobre 2020. Avviso alla commissione straordinaria del Senato per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, meglio nota come commissione Segre: stanno circolando per l'Europa due testi che istigano pesantemente all'odio. In Italia non sono ancora sbarcati, ma è bene iniziare a vigilare, come retorica insegna, giusto? I due testi sono Le génie lesbien, di Alice Coffin e Moi les hommes, je les déteste, di Pauline Harmange. Quest' ultimo ha già sollevato un dibattito enorme, di cui pure in Italia è giunta qualche eco, anche in virtù di un titolo decisamente esplicito: Io gli uomini li odio (è vero che l'autrice usa il più tenue détester, anziché haïr, cioè odiare, appunto, ma basti vedere i titoli delle traduzioni inglesi e tedesche - I Hate Men, Ich hasse Männer -per capire che è di quello che si parla, di odio). Cominciamo però dalla Coffin, perché il suo testo è meno conosciuto ma, se possibile, persino più violento. Il suo libro è una vera dichiarazione di guerra ai maschi. Tutti. Lo scenario dipinto è apocalittico: «Tutti i giorni ci sono delle minacce di morte perfettamente pubbliche contro di noi. [] Tutti i giorni contiamo i nostri morti. Sono colpita da ogni nuovo annuncio. Non passa mai. Non so se morirò senza aver ferito un uomo». Per quanto blesser, come in italiano, possa significare anche ferire nell'animo, il contesto non lascia spazio a dubbi: l'autrice sta ipotizzando di attaccare fisicamente i maschi. Subito dopo, del resto, fuga ogni dubbio citando una frase di Christiane Rochefort: «C'è un momento in cui occorre tirar fuori i coltelli. È solo un dato di fatto, puramente tecnico. È fuori questione che l'oppressore possa comprendere da sé che egli opprime, dato che questo non lo fa soffrire». Parlando delle offese ricevute online, la Coffin dice: «Lo so che loro vogliono che io crepi. Non so come finirà. Se loro avranno la pelle dell'umanità prima che noi abbiamo la loro, se tireremo fuori i coltelli. Oppure, non riuscendo a prendere le armi, organizzeremo un blocco femminista. Non andare a letto con loro, non vivere con loro ne è una forma. Non leggere i loro libri, non vedere i loro film, è un'altra. A ciascuna i suoi metodi. Noi abbiamo il potere, senza eliminarli fisicamente, di privare gli uomini del loro ossigeno: gli occhi e le orecchie del resto del mondo. [] Non ho soluzioni, ma non ho alcuna esitazione. La posta in gioco è troppo importante. Chi, fra l'uomo e l'umanità, soccomberà per primo?». La scelta di non eliminare fisicamente gli uomini, lo si capisce bene, è presa quasi a malincuore, per mancanza di mezzi, più che di volontà. Per il resto, il gergo è quello della lotta senza quartiere. Ma sono proprio tutti gli uomini, presi in blocco, a rappresentare questa minaccia stragista? L'autrice, bontà sua, è disposta in linea del tutto teorica ad ammettere che non sia così, ma rivendica il diritto di generalizzare: «Non so quale massa di uomini supplementari bisognerebbe mettere sulla bilancia per smettere di denunciare "gli uomini", di scrivere "certi uomini", "degli uomini", "qualche uomo", ma so che si conta in teragrammi, non in grammi». Pauline Harmange, dal canto suo, rivendica le virtù della misandria, definita «necessaria, persino salutare»: «Odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso anche in quanto individui, mi apporta un sacco di gioia - e non solamente perché sono una vecchia strega che ama i gatti. Se fossimo tutte misandriche, si potrebbe metter su una bella e grande sarabanda». Si dirà che dietro il termine misandria l'autrice voglia indicare qualcosa con più sfumature. È la stessa Harmange a sostenere il contrario, quando, all'inizio del suo pamphlet, precisa: «Parlerò di misandria come di un sentimento negativo riguardo alle persone maschili nel loro insieme». Spropositi talmente pesanti da allertare persino il ministero francese delle Pari opportunità. O quanto meno un suo funzionario, Ralph Zurmély, che ha scritto alla casa editrice: «Mi permetto di ricordarvi che l'incitamento all'odio sulla base del sesso è un reato! Per questo vi chiedo di rimuovere immediatamente questo libro dal vostro catalogo a meno che non vogliate incorrere in conseguenze penali». Il ministero, coraggiosamente, ha però chiarito che l'email di Zurmély è «un'iniziativa personale e del tutto indipendente dal ministero». In questo delirio, la cosa davvero divertente è che, se la Coffin è lesbica, la Harmange, benché bisessuale, è... sposata con un uomo. Un uomo che ama, persino. Ma si sente in dovere di specificare in nota: «Questa scelta va per lo meno posta nel suo contesto. In quanto donna bisessuale, chi può dire cosa sarebbe la mia vita oggi se non fossi stata confrontata molto presto con l'omofobia della società e del mio ambiente?». Insomma, ama suo marito, sì, ma è stato un incidente, è la società che l'ha costretta a farlo. «Oggi», spiega, «pur amando il mio partner e senza pensare un secondo di separarmene, continuo a pensare e a rivendicare la mia ostilità verso gli uomini. E a metterlo nel paniere». Quando il pover' uomo scriverà il suo, di pamphlet, allora sì che scopriremo cosa vuol dire odiare.

"'Così non ci violenteranno mai". L'ultima follia delle femministe. In Francia Le génie lesbien, di Alice Coffin e Moi les hommes, je les déteste, di Pauline Harmange sono diventati due casi letterati. Al centro dei due saggi, l'odio verso gli uomini. Roberto Vivaldelli, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. C'è un odio ampiamente tollerato dal politicamente corretto e dai benpensanti della sinistra chic: è quello che (alcune) ultra-femministe esprimono nei confronti degli uomini. Un tipo di intolleranza che non indigna i buonisti e politicamente corretti. In Francia, per esempio, come spiega La Verità, sono stati pubblicati due testi Le génie lesbien, di Alice Coffin e Moi les hommes, je les déteste, di Pauline Harmange. Quest'ultimo è un vero e proprio caso letterario in Francia - in italiano, Odio gli uomini - e rappresenta a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra al mondo maschile.

"Non mi fido degli uomini". "Tutto questo successo è stata un'enorme sorpresa", ha spiegato Pauline Harmange al Guardian Harmange: bisessuale, vegetariana, femminista, come riporta Yahoo, è una grande fan di per Harry Potter, abita nel nord della Francia, per la precisione a Lile, insieme al marito 29enne Mathieu. "È la prima volta che esce un mio libro, mi è stato chiesto di farlo dopo che qualcuno si era incuriosito per il mio blog. In precedenza avevo scritto un romanzo, ma non è mai stato pubblicato. Sono sposata con un uomo, che è fantastico e sostiene la mia passione per la scrittura dal primo minuto. Ma in generale non mi fido degli uomini che non conosco". Harmange sottolinea che questo non è un attacco al genere, ma una deplorazione del ruolo degli uomini nella società. Eppure se un uomo avesse pubblicato un libro con un titolo del genere, staremo qui a parlare di altro. Per il politicamente corretto è tutto ok: è una critica alla "società patriarcale". Dunque, si può fare.

"Non avere un marito mi permette di non essere violentata". Per quanto riguarda invece Le génie lesbien, libro della giornalista e femminista lesbica francese Alice Coffin, già l'incipit dice tutto: "La prima ripercussione legata allo scarso numero di persone apertamente lesbiche, gay o bisessuali in Francia è l’assenza di rappresentazione. La giovane attrice Amandla Sternberg lo ha spiegato molto bene all’inizio del 2019: Se avessi avuto, crescendo, davanti a me degli esempi di donne lesbiche nere, avrei avuto consapevolezza della mia sessualità molto prima". Nel suo saggio, come racconta LeFigaro, l'attivista femminista afferma di aver boicottato artisti maschi. Spiega che non legge più libri scritti da uomini, che non guarda più film fatti da uomini, che non ascolta più musica composta da uomini. La misandria, che indica un sentimento di avversione e pregiudizio nei confronti del sesso maschile, è da diversi anni al centro del pensiero sviluppato da Alice Coffin. Una delle sue apparizioni televisive sul canale russo Rt nel 2018 ha suscitato profonda indignazione. "Non avere un marito mi permette di non essere violentata, non essere uccisa, a non essere picchiata", ha dichiarato. "E questo impedisce anche ai miei figli di esserlo". Non tutte le femministe francesi, però, sono d'accordo con questo atteggiamento. Secondo la femminista lesbica Caroline Fourest, che per un periodo ha condotto una campagna al fianco di Alice Coffin, "questo approccio essenzialista, binario e vendicativo fa il gioco dei cliché antifemministi". Ma il solito fatto che si prendano seriamente deliri di questo tipo, la dice lunga.

DAGONEWS il 18 ottobre 2020. E basta con il femminismo dell’ascella pelosa e della mortificazione del corpo. Ne sono convinte cinque giornaliste e scrittrici che non pensano che curare il proprio aspetto sia un tradimento ai valori femministi. «Il femminismo, per me, riguarda l'uguaglianza dei sessi – dice Lorraine Candy, 52 anni – Non si tratta di umiliare le persone per le loro scelte e dire loro che stanno "barando" per migliorare il loro aspetto. Non giudico le scelte di nessuna donna, perché non è affare di nessun altro il modo in cui le altre donne vogliono vedersi allo specchio. O se vogliono parlare o lo vogliono mantenere segreto. Helena Frith Powell, 53 anni, punta il dito conto chi pensa che essere femminista non voglia dire occuparsi del suo corpo: «Per me essere femminista significa essere esattamente la donna che vuoi essere. E se questo significa prendersi cura del proprio aspetto e possibilmente rallentare il processo di invecchiamento, allora così sia. Non vedo niente di antifemminista nell'aspetto femminile. Sicuramente il femminismo consiste nel trarre il meglio dalla donna che sei, realizzare il tuo potenziale. Perché dovrebbe applicarsi solo all'intelletto? L'autostima è essenziale. Perché dovrei deludere la femminilità facendo qualcosa che mi faccia sentire meglio con me stessa?». «Sono femminista da quando ho imparato la parola per la prima volta a sette anni -  ha detto Hannah Betts, 49 anni - Non ho mai capito perché l'idea di curarsi neghi le proprie affiliazioni ideologiche. Sono femminista qualunque cosa faccia, comunque sembri, e immaginare il contrario è un ridicolo anacronismo; una riduzione di un movimento politico globale a uno stereotipo antiquato e puritano. Uscire con i tacchi alti non mi impedisce di prendere a calci il sistema patriarcale». Lisa Hilton, 45 anni, rivela di essere stata insultata perché cura il suo corpo, ma dice di essere una femminista: «In quanto femminista convinta, mi trovo perfettamente a mio agio nello spendere soldi per un abbonamento a una palestra. Amo i vestiti, i tacchi e le borse. Spendo per le creme e non mi vergognerei se ricorressi al botox. Ma il femminismo non significa dare alle donne la scelta di fare - e vestirsi - come vogliono? Perché dovrebbe darmi fastidio se una donna sceglie di uscire a in jeans e scarpe da ginnastica o in un vestito e tacchi?» «Se il femminismo significa qualcosa, è il diritto per una donna di fare ciò che vuole con il proprio corpo – ha detto Julia Hartley-Brewer, 52 anni – Ma che c’entra iniettarsi del botox con il femminismo?».

Mauro Zanon per “il Giornale” il 7 ottobre 2020. Le femministe? «Delle amabili idiote, inoffensive in linea di principio, rese purtroppo pericolose dalla loro disarmante assenza di lucidità». Donald Trump? «Uno dei migliori presidenti che l'America abbia conosciuto». Éric Zemmour? «La figura più interessante della contemporaneità tra i cattolici non cristiani». Bastano queste tre osservazioni per far venire l'orticaria ai benpensanti francesi, che da anni considerano Michel Houellebecq uno scrittore infrequentabile, uno che non merita di essere invitato in certi salotti di Saint-Germain-des-Prés perché ha scritto che «l'islam è la religione più stupida del mondo», che «l'Europa è solo un'idea sciocca che si è gradualmente trasformata in un brutto sogno, dal quale dobbiamo prima o poi svegliarci», che l'eutanasia è un fallimento etico dell'Occidente e l'affaire Vincent Lambert «non si sarebbe dovuto verificare». Ma c'è molto di più in Interventions 2020 (Flammarion), da oggi nelle librerie francesi, terza raccolta di articoli, saggi e riflessioni dopo Interventions, pubblicato nel 1998, e Interventions 2, uscito nel 2009. Jean-Paul Sartre ha pubblicato dieci tomi delle sue Situations, Houellebecq, invece, ha detto che «non ci sarà una quarta edizione», che saranno le sue ultime Interventions, a meno che non ci siano casi di «grave emergenza morale». «Non giuro certamente di smettere di pensare, ma quantomeno di smettere di comunicare i miei pensieri e le mie opinioni in pubblico, salvo casi di grave emergenza morale per esempio una legalizzazione dell'eutanasia (non penso che se ne presenteranno altri nel tempo che mi resta da vivere)», scrive sulla quarta di copertina il romanziere francese. Il quarantacinque per cento dei testi presenti in Interventions 2020, erano già usciti nelle due edizioni precedenti, il cinquantacinque per cento restante, invece, racchiude gli interventi di Houellebecq apparsi negli ultimi anni, come la prefazione al libro di Emmanuel Hirsch Vincent Lambert: une mort exemplaire? Chroniques 2014-2019 (Éditions du Cerf), dove l'autore di Soumission esprime la sua profonda ostilità all'eutanasia, o l'intervista scorrettissima rilasciata nel maggio 2019 al magazine sovranista parigino Valeurs Actuelles, che scatenò la canea dei progressisti. Gli interventi di Houellebecq acquistano oggi nuova linfa, in particolare il suo lungo articolo pubblicato sulla rivista americana Harper' s Magazine nel gennaio 2019, in cui esternò tutto il bene che pensava dell'attuale inquilino della Casa Bianca. «Trump è stato eletto per salvaguardare gli interessi dei lavoratori americani, e sta salvaguardando gli interessi dei lavoratori americani. Durante gli ultimi cinquant' anni, in Francia, ci sarebbe servito qualcuno con questo pensiero», commentò Houellebecq. E ancora: «Trump è a favore della Brexit. Abbastanza logicamente, lo sono anche io (). Il presidente Trump non considera Vladimir Putin un partner con il quale è impossibile negoziare; nemmeno io (). Sembra che Trump abbia recentemente dichiarato: Sapete che cosa sono? Io sono un nazionalista!. Anche io lo sono. I nazionalisti possono parlarsi tra loro; con gli internazionalisti, stranamente, il dialogo non finisce quasi mai bene». A New York, sponda liberal, venne il voltastomaco leggendo quelle parole, a Parigi i giornali della sinistra gridarono alla «deriva destrista» di Michel Houellebecq. Ma lui, si sa, se ne è sempre fregato di quel mondo intellettual-mondano ossessionato dal correttismo. Lui, il guastafeste della gauche.

Il Tempo del secolo, un diario sull’amore per la politica tra femminismo e rivoluzione. Angela Ammirati su Il Riformista il 29 Luglio 2020. «Il passato non è mai uno statico reperto archeologico da vagheggiare nostalgicamente o da seppellire in un angolo buio della storia». La volontà di sfuggire all’archiviazione nelle teche degli storiografi e di restituire una storia dotata di anima, una storia viva, vibrante di speranza, ma anche di amarezze e sconfitte è l’intento del mémoire – Il Tempo del secolo. Trame di una militanza femminista – di Elettra Deiana (ed. Bordeaux, prefazione di Letizia Paolozzi). I ricordi, le fotografie, gli articoli, le riflessioni sono le coloratissime tessere che la narrazione va lentamente ricomponendo per restituirci l’immagine vivente di un’epoca, vista attraverso l’esperienza soggettiva dell’io narrante, colta in quelle “trame” inconfondibili che l’hanno contraddistinta. È questo l’incantamento che ci trascina a rivivere un intero periodo storico, espandendosi, finché la pagina è aperta, sullo sfondo del presente. La prospettiva che Deiana offre è fuori dal comune come il suo vissuto; nella sua vita personale e politico sono fuse, costituiscono un’unica, inscindibile dimensione. Il racconto della sua formazione personale è un tutt’uno con la formazione della sua coscienza politica; ne seguiamo l’evoluzione a partire dagli eventi di Reggio Emilia nel ‘60, che segnano un tragico richiamo all’azione politica, passando per l’irruzione della nuova soggettività critica fiorita nel ‘68, fino al femminismo storico che Deiana ha vissuto fin dalla prima ora, e alle battaglie parlamentari tra i banchi di Rifondazione comunista. È il Novecento a rivivere in pagine dense e coinvolgenti. Un secolo, reso breve dalla celebre definizione di Hobsbawm, che scorre, invece, lunghissimo, nella narrazione e denso di eventi drammatici e processi di transizione non ancora conclusi. Il tempo infinito di questo Novecento è scandito dall’irrazionalità della violenza e dagli orrori che hanno inciso la propria impronta nella memoria dell’autrice. I bombardamenti e la violenza fascista, l’attesa infinita della fine della seconda guerra mondiale, della fine di ogni guerra. Ma l’infinita scia di sangue si prolunga nel nuovo millennio nei conflitti innescati dalla crisi dei velenosi equilibri novecenteschi, dalle rinnovate pulsioni imperialiste e coloniali e dalla regressione autoritaria degli Stati democratici. E ancora il Novecento vive nelle ombre che si agitano dentro il presente, alimentando quel “grumo nero” di “essenza inumana” che resta nascosto nel nostro inconscio collettivo e, in maniera imprevista, può «riemergere nelle forme mutevoli che il tempo impone». La ricomparsa dei cupi fantasmi dell’etnos, del sangue e dell’identità, riportati in auge da forze sovraniste e nazionalpopuliste, alimenta politiche e pratiche di odio contro l’altro, impigliandoci in un lungo novecento che sembra non voler finire. La memoria del secolo è anche testimonianza per cui la forza dell’azione e la fiducia nell’agire collettivo può rivoluzionare il mondo. È il racconto di quel tempo in cui tutto è cambiato, ma dove molto di quel cambiamento è andato smarrito: è l’imprevisto del ‘68. «Rivoluzione dell’esistenza prima che progetto politico», momento in cui si fa strada una nuova soggettività critica, che darà vita ad un’intensa stagione di diritti civili e sociali ma anche a una straordinaria pluralità di soggettività e di pratiche politiche. Il racconto lucido e appassionato di quegli anni restituisce la forza dirompente che fu del ‘68 e dei suoi sbocchi impensati. Tra questi il femminismo come pratica politica separatista incentrata sulla radicalizzazione del conflitto antiautoritario. Percorsi assimilabili, e allo stesso tempo inconciliabili, che nella loro dinamica di familiarità ed estraneità hanno definito il suo essere «radicalmente di sinistra». Un posizionamento che ben si coglie nel rapporto con il Prc, nel suo ostinato tentativo di emanciparlo dall’ombra di un passato ingombrante e da logiche di corporativismo maschili sorde al riconoscimento della soggettività e dell’autonomia politica femminile, come elemento costituente e imprescindibile della politica. Sulle note conclusive Deiana ritorna al presente, segnato dall’eclissi della soggettività politica ad opera del neoliberismo e dalla deflagrazione della sovranità democratica, processo che la sinistra, sempre più sradicata dalla materialità delle vite, non ha superato, né arrestato. Il cambio di passo potrà esserci se la traccia avviata con il femminismo, che ha fatto della vulnerabilità e del corpo il punto ineludibile della politica, riscriverà un nuovo corso del mondo.

Chi era Sibilla Aleramo, la scrittrice che anticipò i temi del femminismo. Lea Melandri su Il Riformista il 29 Dicembre 2019. Buona profetessa della riscoperta che il femminismo farà del suo singolare percorso di vita e di scrittura, Sibilla Aleramo così annota nelle ultime pagine del suo Diario: «Tutto getto di me, chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente quando il libro uscì. Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?». «Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?». Avendola letta a più riprese, trascrivendo ogni volta passaggi che arrivano come schegge di folgorante consapevolezza, non ho potuto fare a meno di fantasticare che avesse previsto anche me e l’appassionato interesse che le avevo dedicato per anni. Certa di rappresentare “qualcosa di raro nella storia del sentimento umano”, è Sibilla stessa a dare alle migliaia di pagine che aveva scritto per “narrarsi e spiegarsi”, il significato che più le premeva consegnare al futuro: «Niente letteratura, e niente anche, o pochissima arte. Ma un flusso irrefrenabile di vita». Ciò che è arrivato effettivamente fino a noi, mezzo secolo fa, e che torna a riattualizzarsi per nuove generazioni di donne, è il lascito di una straordinaria coscienza femminile anticipatrice, il «pudore selvaggio» e la «selvaggia nudità» con cui ha «calato nella mischia» la più intima e insieme la più universale delle passioni umane: il sogno d’amore, «il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso». Attraverso una scrittura, che corre parallela alla vita, e che al medesimo tempo la costruisce e la interroga, Sibilla arriva a intuire un nodo essenziale della storia degli umani: il prolungarsi dell’infanzia, del legame originario con la madre, nella relazione amorosa adulta, quel «lungo sonno» da cui è difficile svegliarsi, perché vivere vuol dire accettare la singolarità di ogni individuo, la malinconia di una libertà che si desidera, ma che è faticosa da sopportare. Nel romanzo Una donna Sibilla, che ha avuto il coraggio di sottrarsi all’immolazione materna, ha ancora bisogno di celebrare la propria rinascita come «moderna asceta», «l’Umanità stessa, schiava e ribelle alle proprie leggi», forza rigeneratrice della sterile civiltà dell’uomo. Ma, a margine del suo slancio quasi mistico , ci sono già «migliaia di foglietti», di note prese, come lei dice, soltanto per necessità di riconoscersi, “al di là” dello stesso libro che scriveva. È in questi scritti apparentemente marginali che si fa strada la consapevolezza della centralità dell’uomo e della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna al corpo che lo nutre e lo riscalda.

«Come era così passato dalla sua cupa negazione umana a tanta ferma fede? Non per la bellezza dell’anima mia, ch’egli non la sentiva, come sentiva invece ogni sera ed ogni mattina il mio corpo, ché gli era, questo sì davvero, simile al pezzo di terra che ci sostenta». «Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria». A un certo punto, tuttavia, i due percorsi finiscono per convergere. È nei Diari che, abbandonata l’autobiografia come costruzione di una immagine ideale di sé, il “narrarsi” diventa una sorta di autoanalisi, uno svelamento continuo: «Veli tutti da sollevare». La ricerca di autonomia dell’essere femminile urta, nella lucida intuizione di Sibilla, contro una «rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi». L’attenzione ai modelli imposti dalla cultura maschile e incorporati dalle donne stesse, sarà al centro delle teorie e delle pratiche del femminismo degli anni Settanta, ma mentre i gruppi di autocoscienza si occuperanno della sessualità, Sibilla si sofferma quasi esclusivamente sul sogno d’amore. Portata alla luce – attraverso la “ridda” dei suoi amori – l’illusione amorosa si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su piani diversi. Non impronta solo la relazione d’amore, ma anche l’idea di interezza del proprio essere – sensi e ragione -, e la rappresentazione del fare creativo. Appare chiaro, soprattutto, che il sogno d’amore, se poggia per un verso sull’esperienza dell’infanzia, è comunque dalla storia dell’uomo che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile dei dualismi che essa stessa ha prodotto. Ciò spiega perché Sibilla arrivi a dire di sé di essere come Adamo che aspetta «che gli sorga a fianco Eva», perché il suo «incessante sforzo auto creativo» diventi ogni volta travaso di energie per far crescere l’individualità dell’altro. Un’affermazione sorprendente, a cui farà seguito una verità che ancora oggi le donne stentano a riconoscere: «Era necessario ch’io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi a costruire su sabbia mobili: cercavo unicamente me stessa… Il mio potere era questo: far trovare buona la vita… La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi». Lo “svelamento” avviene nella vita, nella coscienza di sé, ma è la scrittura che lo prepara nell’andirivieni incessante tra “estasi” e “gelo”, rapimento e lucidità di analisi, smarrimento nell’altro e «fastidioso obbligo di vivere per sé». Mentre sta scrivendo i Diari, Sibilla si rende conto che sta perdendo la sua ispirazione poetica e che c’è in lei una «sotterranea seconda vita, corrente tacita di pensieri e sentimenti», che non può tradurre in poesia «se non violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi». Occorreva, per questo, un’altra scrittura, quella stessa che già stava facendo con le sue annotazioni quotidiane, e che le veniva rimproverata come «chiacchiere sulla carta». Anticipatrice, rispetto alle intuizioni radicali e agli sviluppi del movimento delle donne degli anni Settanta, Sibilla lo è stata anche nel giudizio che dà delle battaglie di emancipazione di inizio Novecento. Il femminismo, osserva Sibilla, nasce dalla coscienza di un «malessere diffuso e oscuro», ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade.

«La donna da un secolo in qua ha vagamente sentito che poteva muoversi ormai con più agio, ma non ha sentito che poteva anche sostare prima alquanto, e interrogarsi. Così, invece di accordare alla vita e all’arte la sua autentica anima, è entrata nell’azione come un misero inutile duplicato dell’uomo». È interessante allora capire che cos’è il “malessere oscuro” che resiste anche ai cambiamenti della civiltà industriale e democratica in fatto di diritti civili e politici delle donne. Si può pensare che sia collegato a quello che Sibilla chiama “l’atavismo muliebre”, la difficoltà a rinunciare alle “prerogative antiche”, che hanno visto le donne al centro della casa, ad affrontare un’autonomia vissuta come abbandono di «tutto ciò che hanno amato e in cui hanno creduto»: «tragicamente autonome». Ma l’ostacolo maggiore sembra ancora oggi quella visione del mondo che, interiorizzata, ha fatto sì che fossero le donne stesse, loro malgrado, a trasmettere la legge dell’uomo. La consapevolezza di Sibilla è, da questo punto di vista, l’eredità più preziosa e controversa che consegna alle generazioni venute dopo di lei. «… io ho dovuto adattare la mia intelligenza alla vostra, con sforzo di decenni: capire l’uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa. In realtà io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù di analisi… questo cozzo fra il mio ritmo interno e il ritmo delle forme da voi trovate! Come liberarmi? Bisognerebbe che mi ascoltaste come se io sognassi».

Daniele Mastrogiacomo per "repubblica.it" il 10 marzo 2020. La vera sfida femminile è per oggi, il giorno dopo la tradizionale festa delle donne, l’M8 come l’hanno chiamata in tutta l’America Latina. Sarà lanciata in Messico: 24 ore senza presenza femminile sui posti di lavoro, negli uffici pubblici, nelle scuole e università, nei negozi e per le strade. Milioni di donne, il 57 per cento della popolazione, per un giorno si concentreranno sulle loro cose, i loro problemi; rivendicheranno il diritto alla parità con gli uomini, nei salari, nei posti di guida e di potere, nel poter semplicemente passeggiare senza essere molestate, inseguite da commenti grevi, allusioni sessiste, sguardi pesanti. Senza considerare le violenze in casa, le torture fisiche e psicologiche, fino agli omicidi che in Messico sono un’emergenza, 10 al giorno di media. “L’America Latina sarà tutta femminista”, hanno gridato in coro 125mila in Cile, 50mila in Argentina, 30mila in Colombia, 10mila in Perú, 20mila in Ecuador, 10mila in Venezuela, altre 10mila in Brasile. Fiumi di donne avvolte da fazzoletti e magliette verdi, simbolo del diritto all’aborto, e viola, colore tradizionale delle lotte femministe, tra forti tensioni con le forze dell’ordine mobilitate a difesa dei palazzi pubblici, spesso simboli di un potere incapace di rispondere alla richiesta di sicurezza e giustizia. Ma anche sotto una pioggia battente, in mezzo ai gas lacrimogeni, le fiamme delle molotov scagliate in brevi e fugaci scontri. Mai come quest’anno l’intero continente ha visto una mobilitazione così imponente: l’ennesima dimostrazione della forza di un movimento che ha attraversato e scosso tutti i Paesi dell’America latina obbligando governi di destra e di sinistra a portare il tema delle diversità di genere al centro del dibattito politico.

MESSICO. Assieme a Cile e Argentina guida le mobilitazioni. Il grande Paese del Nord America paga un prezzo altissimo nei femminicidi. Nelle ultime tre settimane ci sono state quattro aggressioni mortali ad altrettante donne da parte di ex compagni o conviventi. L’ultimo, il quinto episodio, ha riguardato una bambina di sette anni rapita da una coppia di balordi che l’hanno presa all’uscita di scuola, tenuta per una settimana da qualche parte, torturata, uccisa e chiusa in un sacco dell’immondizia ritrovato in un vicolo alla periferia di Città del Messico. Il tema si è imposto con cortei e proteste carichi di rabbia e frustrazione. Per l’inerzia della polizia che agisce male e in ritardo e contro lo stesso presidente Obrador che ha cercato di minimizzare la serie impressionante di aggressioni e femminicidi dicendo che si trattava di “eccessi”, nei numeri e nelle reazioni. Oggi si replica. Ma con uno sciopero, se vogliamo chiamarlo così, tutto al femminile. Un Messico senza donne.

CILE. La protesta è stata contro il governo di Sebastián Piñera. L’ennesima di una sommossa che ha sconvolto il Paese tenuto in scacco da cinque mesi.  Il cuore del grande corteo è stata la messa in scena della rappresentazione collettiva “Un violador en tu camino”, canto che denuncia la violenza sessuale creato dal collettivo Las Tesis. Solo a Santiago sono sfilate in 125 milasecondo i dati ufficiali dei Carabinieri. Anche qui tanti fazzoletti verdi e molte magliette e bandiere viola. Con una caratteristica delle femministe cilene: le maschere rosse a coprire il volto, nuovo simbolo della lotta per la parità di genere. Ci sono stati degli scontri ma sporadici e senza gravi conseguenze.

ARGENTINA. Scenderà in piazza anche oggi sul tema: autonomia del nostro corpo e contro i fondamentalismi religiosi. La battaglia ruota tutta attorno alla legalizzazione dell’aborto che milioni di donne inseguono da sempre. Il presidente Alberto Fernández ha annunciato la presentazione di un disegno di legge che superi quella attuale sull’interruzione di gravidanza, oggi consentita solo se è a rischio la vita della madre, se il feto ha malformazioni, se c’è stato stupro. Ma il Paese è diviso. La Chiesa e la parte più conservatrice fanno blocco e impediscono il varo di un provvedimento che depenalizzi l’aborto. Il governo ci proverà anche se rischia l’ennesima bocciatura al Senato.

COLOMBIA. Scendono in piazza soprattutto le giovani e le giovanissime. Con gli stessi colori verde e viola, i corpi dipinti, spesso a seno scoperto. Per un Paese conservatore come la Colombia è stato un vero shock. L’obiettivo dei cortei è l’aborto libero, sostenuto dalla sindaca di Bogotá, prima donna alla guida della capitale e ufficialmente gay. La Corte Costituzionale era stata investita sul tema. Si chiedeva di vietarlo in modo assoluto. Ma ha preferito lasciare i divieti previsti dall’attuale legge, in vigore da 14 anni, tranne in tre casi: rischio per la madre, malformazione del feto, presenza di violenza sessuale.

PERÚ. Anche qui scendono in piazza le più giovani. Sono quelle più colpite da una violenza di genere che ha scosso il Paese soprattutto negli ultimi mesi. Il tema proposto nella manifestazione era eloquente: lavoratrici sì, sfruttate e violentate no. In testa al corteo, le giornaliste che si battono contro la violenza, i familiari di donne vittime di femminicidi o scomparse.

ECUADOR. Con meno partecipazione ma sempre con cortei combattivi migliaia di donne sono scese in piazza a Quito e a Guayaquil. Il Paese registra forti ritardi nella parità di genere e negli squilibri dei salari tra donne e uomini. L’universo femminile, secondo l’Istituto di Statistica, rappresenta una forza lavoro che contribuisce con il 14,5 per cento al Pil. Un peso che non viene riconosciuto nella distribuzione dei redditi.

VENEZUELA. Le donne qui hanno scelto di vestirsi di nero e hanno marciato con lapidi di cartone. Sopra indicati i nomi delle tante ragazze uccise e scomparse: 44 in questo inizio del 2020. Invece degli slogan ha dominato il silenzio: un corteo funebre inseguito dalle battute ironiche e pesanti della polizia che lo considerava politico e quindi da arginare lungo un percorso ben preciso. In Venezuela la crisi è generale, così la violenza contro le donne è sottostimata. Viene sommersa dalla tragedia che colpisce tutti, soprattutto i più poveri.

BRASILE. Il Paese paga il grande sconvolgimento ambientale. Mai come questa estate è caduta tanta pioggia. Il corteo delle femministe è sfilato così sotto una cascata di acqua ma è riuscito a proporre i grandi temi diventati ancora più stridenti con il governo Bolsonaro: il razzismo, la diversità di genere, i gay, gli omicidi degli attivisti sociali. Spiccava in testa nella manifestazione di San Paolo una grande foto di Marielle Franco, uccisa tre anni fa in un agguato che sfiora, per complicità, la famiglia del presidente.

IL FEMMINISMO DEI MEDIA? E' INDOTTO (QUINDI E' FINTO). Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 2 marzo 2020. Il rapporto tra il genere femminile e la comunicazione è assai meno chiaro e definito di quel che si dice. In realtà, la questione è trattata con non poca ipocrisia. Che cosa si dice, infatti? Che c' è una nuova ondata del movimento femminista, nata col fenomeno del #MeToo che intende detronizzare quei maschi potenti che, nel mondo dello spettacolo, esigevano da attrici, cantanti eccetera di sottostare ai loro desideri sessuali, altrimenti ne avrebbero avuta stroncata la carriera. Questa nuova ondata ha fatto cadere molte teste (di recente, quella del tenore Placido Domingo, che ha dovuto rinunciare alla "Traviata" in programma al Teatro Real di Madrid, benché si professi, come altri, innocente da violenze o molestie). La piccola rivoluzione innescata dal #MeToo ha determinato, non solo nel mondo dello spettacolo, una nuova valutazione della donna: e così, com' è giusto, abbiamo visto negli ultimi anni un moltiplicarsi di premi, di riconoscimenti, di attenzioni a scienziate, scrittrici, registe, attrici, come non accadeva prima. Campi ritenuti una volta appannaggio del solo maschio, sono sempre più popolati da donne di talento, che finalmente vedono riconosciuto il loro lavoro indipendentemente dalla gradevolezza estetica secondo i canoni del maschio. I media, i grandi giornali, per ovvie ragioni commerciali, hanno in gran parte subito sposato la causa del #MeToo (che del resto è esplosa sulle colonne del New Yorker, con gli articoli di Ronan Farrow). Non si è andato troppo per il sottile nel giudicare con tutte le garanzie di un processo le persone accusate: la parola delle donne, in alcuni casi, è stata presa automaticamente per buona e c' è stato chi ha sostenuto, in buona fede, che se una donna accusa qualcuno di violenza, non c' è una sola ragione logica per dubitare della sua sincerità. Sappiamo che queste denunce, specie nel mondo dello spettacolo, muovono somme non indifferenti in risarcimenti, patteggiamenti, transazioni, e che ci sono avvocati agguerriti che di questo tipo di scandali fanno un business per sé e per i loro clienti. Ma chiudiamo questo lungo preambolo sul quel che già tutti sanno, e cioè che, a parole, quasi tutti si dichiarano femministi, consapevoli del valore delle donne in ogni settore lavorativo e culturale, e che mai si sognerebbero di trattare una donna soltanto come un oggetto di stuzzicamento erotico, come un mero corpo, e peggio ancora di lucrare su questa immagine ormai superata della femmina. Eppure, se non ci facciamo incantare, e scorriamo siti di informazione di ogni genere, anche quelli più schierati a favore del #MeToo, non di rado troviamo strane rubriche acchiappa-clic. Tra le più ossessive c' è quella del genere: "Guarda questa donna, ti ricordi chi era?". E, mettiamo, c' è una foto dell' attrice americana Bo Derek, oggi, a 63 anni. E poi, cliccando sulla foto, parte la "gallery" con le foto di Bo Derek giovane, quando era una star internazionale, anche se per pellicole invero mediocri, per via della sua folgorante bellezza. Il sottotesto di queste rubriche non è quello asserito, "ti ricordi chi era?", ma quest' altro: "guarda come si è ridotta quella che tanti anni fa faceva impazzire gli uomini". Malizia malcelata e, si badi, questo sottotesto non è malizioso soltanto per i maschi, che possono dire: "poveraccia, che fine", ma anche per le donne, che possono dire pure loro: "ti sei sfasciata pure tu, non sei la dea che volevi far credere". E così, con titoli come "Tory Spelling, guarda com' è diventata la Donna Martin di Beverly Hills", o "Lindsay Lohan prima e dopo, ecco com' è cambiata nel tempo" e commenti come "se avete ancora in mente la ragazza dai capelli rossi di Herbie, dimenticatela perché l' attrice è completamente cambiata. Botox, labbra, capelli e chi ne ha più ne metta: sembra che Lindsay abbia deciso di cambiare proprio look" si invita il lettore a deridere la star colpevole di non aver saputo opporsi all' invecchiamento. Simili a queste rubriche, ci sono quelle che invece fanno la cosa opposta, cioè attirano il clic del lettore con una foto in cui la donna ritratta è colta nei suoi anni migliori ed è una sventola, e il testo invita: "guarda com' è oggi", e si vede, ad esempio, Britney Spears ingrassata, il viso di Madonna segnato di rughe, o Donatella Versace accanto a una foto di quando era una bellissima ventenne, e ancora un altro personaggio irriconoscibile mentre fa la spesa al supermercato con una felpa extralarge, con il corpo sformato e il viso distrutto dall' accanimento ossessivo della chirurgia estetica, o addirittura con i segni della pesante terapia per un grave male, come Shannen Doherty, che in "Beverly Hills" interpretava il Brenda. Allora noi ci domandiamo, queste rubriche, che per una manciata di visualizzazioni trattano le donne come fenomeni da baraccone, e che pure compaiono in siti di giornali progressisti e meritatamente schierati a favore della parità di genere, non sono un po' disgustose? Se ne potrebbe fare a meno? Così come anche di tutte le varianti che, in generale, mirano a scoprire i fallimenti, i disastri, i "che fine ha fatto" di personaggi un tempo celebri. Ma chi se ne importa di che fine hanno fatto, sono fatti loro, lasciateli perdere. Ma d' accordo, in certi casi l' argomento potrebbe avere un certo interesse giornalistico, sapere dove vive una vecchia gloria del rock, e in che inferno è scivolato quell' attore maledetto un tempo tanto famoso, ma il confronto "oggi è così", e "trent' anni fa era così" che giornalismo è? Con trent' anni sulle spalle, tutti, maschi e femmine, siamo più brutti, perlomeno da un punto di vista superficiale, epidermico. Si guadagnano magari altre profondità, altre ragioni di fascino, che in foto non emergono bene come dal vivo. Confronto impietoso. E quasi mai, come pure nella vita reale accade, il confronto, in queste rubriche, è tale che il personaggio da vecchio è non meno affascinante di com' era da giovane. No, dev' essere sempre un mezzo rottame, una terribile delusione. Un' attrice, con gli anni, non può aver guadagnato profondità di sguardo, atteggiamenti più dolci e sereni, perché, messa a confronto con l' esplosiva gagliardia di una foto giovanile in cui figura seminuda, sembrerà sempre l' ombra di se stessa. E invece, lo ripetiamo, molte volte non è così, e l' età in certuni produce persino miglioramenti. Concludendo, sarebbe bello se queste rubriche sparissero. Se si avesse un rapporto meno punitivo e terrificante con l' invecchiamento, e se si smettesse, perché questo è in fondo il messaggio di tali operazioni, di considerare una donna viva solo finché non compie i trent' anni, mentre dopo, sarebbe solo un articolo passato di moda, sconfitto dalla sua stessa gioventù.

«Amiche e compagne, l’8 marzo non è una festa ma ancora una lotta». Giulia Merlo il 21 febbraio 2020 su Il Dubbio. Sei novantenni alla Casa internazionale delle donne per parlare di emancipazione, politica e femminicido: Luciana Castellina, Cecilia Mangini, Elena Marinucci, Gianna Radiconcini, Marisa Rodano e Luciana Romoli. Marisa Rodano, novantanove anni da poco compiuti e lungo cappotto rosso, entra nella Casa internazionale delle donne appoggiata al braccio Livia Turco e si ferma a salutare chi ha già preso posto in sala. Poi è il turno di Luciana Castellina, con la piega appena fatta e il cellulare che vibra di continuo, appena un po’ di lentezza nelle gambe a tradire i novant’anni. Le due ex compagne del partito comunista fino al 1970, quando Castellina viene radiata coi colleghi del manifesto per i suoi articoli sulla Primavera di Praga, si siedono ai lati opposti della fila di sedie. A riempire i posti vuoti tra loro arrivano Cecilia Mangini, piccola e un po’ ricurva nei suoi novantatré anni ma ancora vispa come quando girava i primi documentari nelle periferie romane, e la socialista e avvocata Elena Marinucci, novantadue anni e tre legislature a cavallo degli anni Ottanta spese a lottare per i diritti civili e la parità tra uomo e donna. Si sono fatte le sei del pomeriggio e le sedie sono tutte piene sotto i quadri con le fotografie in bianco e nero delle manifestazioni femministe. Per spezzare l’attesa si chiacchiera di partito, soprattutto dei circoli Pd di Roma e del fatto che «ci sono tanti militanti preparati, che non si meritano la classe dirigente attuale», vecchie amiche si incontrano e si aggiornano sui rispettivi figli ma soprattutto nipoti, Livia Turco in prima fila racconta dei preparativi per il centenario di Nilde Iotti. Le voci si uniscono in un unico brusio fino a quando non arriva anche Gianna Radiconcini, novantatré anni in cui è stata staffetta partigiana, poi membro del Partito d’Azione e infine prima donna ad essere corrispondente estero Rai a Bruxelles e Strasburgo. Si accomoda, distinta, in una nuvola di capelli bianchi e la sala si zittisce, la serata può iniziare. Per un giorno, la Casa internazionale delle donne è tutta per loro: sei ultranovantenni che hanno fatto la storia del Paese e parlano ancora con voce di ragazze. Flavia Amabile, la giornalista della Stampa che le ha intervistate e riunite tutte in una stanza, spiega che le loro sono «parole che restano, per non dimenticare chi siamo state in vista di chi saremo». Nel luogo più caro al femminismo romano, instancabilmente, si parla di donne alle donne, ognuna con le proprie parole. Quella di Castellina, nemmeno a dirlo, è rivoluzione. «Nessuna rivoluzione è stata fatta senza spargimento di sangue, perchè per le donne dovrebbe essere diverso? Il femminicidio è la dimostrazione della nostra lotta, veniamo ammazzate quando ci ribelliamo», ragiona. Poi si guarda intorno: «Sono stati fatti passi avanti: oggi le donne che denunciano vengono finalmente credute. Abbiamo conquistato autorevolezza, ma non ancora il potere» e scandisce lo slogan del femminismo americano: «Patriarcato e capitale, alleanza criminale». Magnini, invece, elenca le sue fortune. La prima, «di aver avuto una pessima madre a cui era facile opporsi», la seconda, «quella di aver potuto frequentare le scuole». Marinucci alza la voce contro le giovani, che «non devono, proprio loro, rinunciare a pensare di poter fare per prime la cosa più importante». Poi ricorda di quando, con Castellina, andarono in delegazione in America a raccontare alle sorelle d’oltreoceano la battaglia vinta per avere l’aborto. «Ci portammo dietro anche un prete che era favorevole, lui però si presentò in abiti civili e noi lo costringemmo a cambiarsi. Dimostrammo all’America che nel 1978 le donne siciliane erano più evolute di quelle di New York». Anche Rodano striglia le donne di oggi che «ancora non fanno squadra ma tendono all’affermazione individuale, omologandosi a un modello maschile. Per questo, in politica, continuano ad essere scelte dagli uomini». Applausi ma anche brusio in sala, c’è chi non è d’accordo e lo dice alla vicina di posto. Del resto è stata la stessa Rodano a commuoversi quando è entrata, perchè quella sala che adesso è gremita lei la ricorda «come luogo di incontro con tante amiche e compagne, ma anche di scontri per decidere come portare avanti la nostra battaglia di emancipazione». Radiconcini racconta la storia che fa tornare il silenzio. Lei, precaria in Rai e con un marito che conviveva con un’altra donna da cui era separata da cinque anni, era rimasta incinta. L’ex la minacciava di farla finire in galera come adultera, ma lei quel bambino lo voleva. A sessant’anni di distanza alza le spalle: «Come si nasconde una gravidanza? Non mangiando e con lunghe sciarpe. Poi sono andata a partorire a Milano ma prima sono andata a parlare coi magistrati. Gli ho raccontato la mia storia e ho seguito il loro consiglio». Quello di partorire senza riconoscere il figlio ma chiedendo contestualmente in adozione un bambino: «Quei magistrati mi hanno dato prima in affido e poi in adozione il mio stesso figlio, che poi finalmente ho potuto riconoscere con la riforma del diritto di famiglia». A guardarla, oggi, sembra una distinta signora in foulard di seta. «Ogni tanto la mia è stata una vita contro. Come quando portavo le bombe a casa durante la resistenza, ma non erano innescate, come spiegai a mia madre quando le trovò». Improvvisamente, nella sala irrompe col suo fazzoletto tricolore la partigiana romana Luciana Romoli, appena novantenne e in ritardo perchè partecipava alla festa per i novantanove anni della collega dell’Anpi Iole Mancini. Afferra il microfono e si alza in piedi: «Io dico una cosa sola: ma che ve credete, che l’otto marzo sia una festa? E’ una lotta, l’8 marzo. E il motto deve essere sempre lo stesso: uguale salario, uguale lavoro». Il dibattito continua e seguono le domande, ma se l’età non ha toccato la testa l’udito non è più lo stesso e le risposte somigliano a un telefono senza fili di parole ricorrenti: uguaglianza; emancipazione; scelta; lotta. Risuonano tra i muri della Casa internazionale delle donne da cinquant’anni e sono ancora le stesse, ma è la Casa a rischiare di non esserci più a causa dello sfratto voluto dal Comune di Roma con alla guida la prima sindaca donna della Capitale. Si alza allora l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, e assicura che «non ci siamo riusciti con un emendamento al Milleproroghe, ma troveremo il modo di salvare la Casa». Ad ascoltarle, vien da credere a queste sei ultranovantenni: per portare avanti la battaglia per i diritti delle donne non servono nuove parole, solo rinnovata energia.

Daniele Castellani Perelli per “il Venerdì di Repubblica” il 20 febbraio 2020. Ah, rieccole, le pazze con le tette di fuori. In molti l' avranno pensato (o detto) davanti all' ennesima azione delle Femen, le bellicose femministe che manifestano con slogan dipinti sui corpi nudi. Lo stesso concetto l' ha espresso un po' meglio una femminista canadese: «Il problema dell' attirare l' attenzione in questo modo è che nessuno va oltre le tette, nessuno ricorda per cosa protestano». Già, cosa vogliono le Femen? E che fine hanno fatto, nell' era del #MeToo? Ne abbiamo parlato con la loro leader, la 29enne ucraina Inna Shevchenko, di cui il 20 febbraio esce in Italia, per Giulio Perrone Editore, Eroiche. È un libro in cui racconta la sua storia: l' ingresso nelle Femen poco dopo la fondazione, avvenuta in Ucraina nel 2008; l' arresto in Bielorussia, quando viene condotta in una foresta, spogliata e cosparsa di benzina; le minacce a Kiev dopo una provocazione blasfema e la successiva fuga a Parigi, dove ottiene l' asilo politico e diventa la leader del movimento dandogli una dimensione internazionale. Ed è un libro in cui, soprattutto, parla delle sue eroine: la soldatessa Maria Botchkareva, la matematica Ada Lovelace, le combattenti curde, la madre (commerciante al mercato nero) e pure la Uma Thurman di Kill Bill e la bella guerriera Sailor Moon, che Inna seguiva in tv quando in Ucraina ancora andava di moda Gena, un coccodrillo sovietico con cappotto e armonica.

Come sono cambiate le Femen negli ultimi dieci anni?

«All' inizio eravamo solo un gruppetto di amiche che si batteva per i diritti delle donne in Ucraina. Oggi siamo un movimento internazionale. Contiamo 114 attiviste in Francia e oltre 20 in Spagna, e siamo rappresentate in altre sei nazioni da donne di ogni età e background. Giornaliste, informatiche, insegnanti, gente del cinema. Tutte volontarie, nessuna di noi è retribuita. Un altro cambiamento consiste nel fatto che è diminuito il numero di azioni in topless, mentre sempre più spesso ci invitano nelle scuole, scriviamo libri e articoli. Soprattutto, l' idea delle Femen è diventata più grande del movimento stesso: dal Cile al Brasile tante usano le nostre tattiche senza essere nostre attiviste. La cosa ci riempie di orgoglio e dimostra che il topless è ancora efficace».

E allora perché fate meno azioni?

«Perché gli addetti alla sicurezza ormai ci attendono al varco, e dopo dieci anni sentivamo il bisogno di sorprenderci. E infine è cambiato il contesto: di femminismo si parla ovunque».

Siamo infatti nell' era del #MeToo. Ha oscurato le vostre proteste?

«Molti pensano ci sia una competizione, una lotta, tra i movimenti femministi. Non è così. Il #MeToo per noi è la cosa che potesse capitare».

Siete anche molto discusse. Ad esempio per l' esibizione del seno (alla cui apparizione a 13 anni associa peraltro la sua prima crisi esistenziale). Sul tema si scomodò persino Zygmunt Bauman, secondo cui giocavate con l'«ossessione voyeuristica della cultura consumistica». E la femminista Germaine Greer fa notare che nessuna di voi è grassa, che avete tutte corpi "commerciali". Infine c' è chi vi critica sostenendo che le vostre proteste sono inefficaci, anzi controproducenti.

«È triste che giudizi così superficiali vengano proprio da delle donne. Inizialmente eravamo solo delle ventenni ucraine, e quello era il nostro fisico, ma basta fare un giro sui social per vedere come negli anni le nostre azioni siano state condotte da donne con ogni tipo di corpo. Siete voi giornalisti a scegliere sempre fisici da modella da mettere in pagina. E poi: se le nostre proteste fossero innocue saremmo costrette all' esilio? Verremmo arrestate o minacciate da fanatici islamisti e di estrema destra?».

Non teme però che alle persone comuni sfugga il vostro messaggio?

«Tutti i movimenti progressisti, all' inizio, non vengono capiti. Ma ormai le nostre idee sono comprensibili a un pubblico sempre più vasto. Altrimenti non ci inviterebbero nelle scuole».

Hanno fatto discutere anche le vostre prese di posizione sulla religione. Lui è stata accusata di arroganza colonialista e di islamofobia per aver detto che le musulmane che vi contestano «hanno scritto negli occhi "aiutateci"». Oggi tiene una rubrica su Charlie Hebdo, il cui laicismo è radicale come il vostro. Le chiedo: una persona religiosa può essere femminista?

«Solo se è un credente secolare, se pensa che la religione non deve mescolarsi con la politica. Gli Stati in cui la religione è al potere sono i peggiori al mondo per le donne: India, Arabia Saudita, Iran, Indonesia. Però nessun Paese è un paradiso. In Occidente dobbiamo ancora combattere su tre fronti: le violenze domestiche, su cui in Francia siamo riuscite a coinvolgere la ministra Marlène Schiappa, la parità salariale, e infine il diritto all' aborto, su cui non possiamo affatto rilassarci. Sa che perfino in Germania i medici non possono consigliare l' aborto?».

Come vede l' Italia?

«In passato nostre attiviste italiane hanno organizzato belle azioni, ma purtroppo non abbiamo una filiale, perché è problematico crearla in un Paese così cattolico. Dell' Italia mi preoccupa molto il tasso di mascolinità nel discorso politico, rappresentato dai populisti del M5S e dalla Lega di Matteo Salvini».

Si è mai pentita di una sua performance?

«No».

Neanche di quella volta che irruppe nuda a Notre-Dame dopo le dimissioni di Benedetto XVI?

«No. Ovviamente alcune provocazioni non avrebbero senso oggi, ma non abbiamo mai oltrepassato il limite o fatto ricorso alla violenza. Il problema sta in chi non capisce il nostro humour o non tollera le nostre provocazioni».

Il libro è dedicato alle sue eroine. Non ci sono eroi nel suo pantheon?

«Sì, certo, e ci vorrebbe un altro libro per raccontarli tutti. Penso al ginecologo congolese Denis Mukwege, Nobel per la pace nel 2018, che ha salvato la vita di tantissime donne. E poi a mio padre, un militare che mi ha insegnato a pensare con la mia testa».

Veniamo alla politica. Una volta vi intrufolavate all' Eliseo, ora ci collaborate. L'anno scorso il presidente francese Macron l' ha inserita in un Consiglio per l' uguaglianza di genere legato al G7 di Biarritz. Un primo passo verso la discesa in campo?

«No, tutti i partiti mi sembrano antiquati e non abbastanza progressisti».

Il successo di Marine Le Pen, una donna ma di destra, è un bene?

«È una tragedia. Le Pen mette a rischio le conquiste femministe e ripropone il vecchio ordine patriarcale fatto di frontiere chiuse e privilegi».

Come evolveranno le Femen?

«Spero che le nostre idee e le nostre tattiche continuino ad espandersi al di là del movimento, e che un giorno non ci sarà più bisogno di noi. Quanto a me, ho dato tutto quello che potevo».

Sul suo profilo WhatsApp c' è una bella foto in cui appare - oltre che vestita - malinconica.

«Direi pensierosa. Non è facile scegliere l' esilio, allontanarsi dalla propria famiglia e dalla propria patria».

Si è creata un' immagine di amazzone. Cosa fa quando non combatte?

«Corro, faccio ginnastica, studio. E tra le serie tv adoro due commedie femministe come Fleabag e Mrs. Maisel».

Scrive che era una "brava bambina", educata per diventare una provetta donna di casa. Sa cucinare?

«Benissimo (ride). La mia specialità sono i pel' meni, i ravioli della nostra tradizione ucraina».

A cattive ragazze ESTERI «le nostre azioni rischiavano di non sorprendere più come dieci anni fa» Libri. inviti nelle scuole e consulenze al g7. con il #metoo, il movimento femminista noto per le proteste a seno nudo cambia pelle. intervista alla loro leader, Inna Shevchenko.

Morgana è la nuova icona femminista. Strega, maliarda e assetata di potere. Vittoria Belmonte venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Morgana è il titolo del nuovo libro di Michela Murgia (nella foto mentre partecipa al Sardegna Pride). Un libro scritto insieme con Chiara Tagliaferri (Mondadori). Morgana sarebbe l’idealtipo della donna indipendente, nemica dei maschi, aspirante leader, trasgressiva, indifferente al bene e al male, trasgressiva rispetto a ogni regola. Non lo diciamo noi. Sono proprio le autrici a dirlo, specificando che anche un uomo può essere Morgana. “Morgana la maggior parte delle volte significa anche strano, difficile, non convenzionale, rivoluzionario, misterioso, persino stronzo”. Appunto. Val la pena ricordare chi era allora Morgana, la sorellastra di re Artù che appare nella Vita Merlini di Goffredo di Monmouth (XII secolo). Divisa tra fata e strega, Morgana era l’apprendista di mago Merlino, una donna colta che s’intendeva di pratiche di divinazione, astronomia e medicina. Magnetica, intrigante, seducente, si unì al fratellastro, dando alla luce Mordred: il figlio dell’incesto. Innamorata di Lancillotto usa tutto il suo sapere, la sua magia e le sue pozioni per ottenere l’amore del cavaliere, ma sempre senza successo poichè il cuore del prode guerriero è rivolto solo a Ginevra. “Morgana è il caos, la sua mente è una devastazione”, così la definisce re Artù. Deriva il suo nome dalla dea celtica Morrigan, divinità della guerra e della morte. Un simbolo ambiguo, sicuramente poco luminoso, scelto dalle autrici del neofemminismo cattivista perché tra tutte le streghe possibili è quella meno utilizzata. Forse la più antipatica. Sicuramente la meno innocua. Il libro racchiude dieci ritratti di altrettante Morgane, con accostamenti arditi: santa Caterina da Siena accostata alla pornostar Moana Pozzi. Moira Orfei e le sorelle Bronte. Grace Jones e Marina Abramovic. Tonya Harding e Zaha Hadid. E ancora la stilista Vivienne Westwood e l’attrice Shirley Temple. In pratica se una non si riconosce nel simbolo del caos, nell’eversiva Morgana, non può essere femminista, cioè non può lottare per i diritti delle donne. Bisogna essere scandalose, insofferenti alle regole, far prevalere l’elemento anarchico: solo così si entra nel regno illusorio delle “principesse” da imitare. Siamo ancora una volta, dunque, nel solco del femminismo elitario e non inclusivo. Quello che parla a pochissime e che tiene fuori le altre, le normali, annullate nel ruolo di mediocri, assoggettate, che hanno solo bisogno di essere liberate dalla Morgana di turno. Una finzione letteraria, neanche tanto originale. Che non convinceva prima e non convince adesso. Anche perché alle astruserie di Michela Murgia si continua a preferire una  come Margaret Atwood, l’autrice de Il racconto dell’ancella, che al termine femminismo preferisce quello di “umanesimo”. E che rimette al centro le persone, e non l’aggressività, spacciandola come unica via per l’autodeterminazione.

·        Le mestruazioni femministe.

L'ultima follia femminista: ecco il colore "rosso mestruazioni". Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, spiega che l'obiettivo della società era quello di "ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Rosso come le mestruazioni. L'ultima conquista del politicamente corretto liberal è la nuova tonalità di rosso ideata da Pantone, ispirata a "un flusso mestruale e costante" e pensata nell'ambito di una una campagna più ampia di sensibilizzazione in favore dei diritti delle donne. La nuova tonalità si chiama “Period”, ossia mestruazione. Una scelta, spiega l'Huffpost, contro lo "stigma" del ciclo femminile. Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, spiega che l'obiettivo della società era quello di "ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l’eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale". Il prodotto dell'azienda americana è anche gender free, e pensato per "esortare tutti, indipendentemente dal sesso, a sentirsi a proprio agio a parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale". Soprattutto, Period è il frutto di una collaborazione con il marchio svedese di prodotti femminili Intimina, che commenta così il lancio del prodotto: "Cosa si ottiene unendo un marchio di prodotti sanitari intimi e un’azienda di vernici? Color sangue. Non stiamo solo dipingendo muri, stiamo abbattendo quelli che contribuiscono alla stigmatizzazione che riguardano le mestruazioni". Intimina ha fatto una donazione ad ActionAid, ente di beneficenza che lavora con donne e ragazze che vivono in povertà. "Oggi nel mondo, milioni di donne e di ragazze soffrono a causa del pregiudizio associato al ciclo mestruale", ha dichiarato Jillian Popkins, direttrice delle politiche di Action Aid Uk al Guardian, "molte ragazze perdono giorni vitali di scuola, o addirittura la abbandonano del tutto, e questo è uno dei motivi per cui tante donne vivono in povertà per tutta la vita. Questa campagna contribuirà a cambiare la situazione". Come ricorda Il Messaggero, l'intera industria globale del design si affida al sistema dei colori Pantone, una griglia nata nel 1963 per risolvere il problema dell'identificazione dei colori nell'industria della stampa. Dal 1999 in dicembre Pantone individua il Colore dell'Anno - nel 2020 il Classic Blue - come barometro dell'umore del momento e bussola per l'industria della moda. L'azienda non è assolutamente nuova a iniziative di questo tipo, sempre in odore di politicamente corretto: in maggio ha pubblicato l'Arancione Pippi Calzelunghe in collaborazione con la campagna di Save the Children "Girls on the Move". Ha poi creato in joint venture con la Ocean Agency e Adobe tre nuove sfumature di azzurro, giallo e viola - Glowing Blue, Glowing Yellow and Glowing Purple - basate sui colori fluorescenti prodotti dal corallo minacciato dal riscaldamento degli oceani.

Un colore per il sociale. Pantone lancia “Period”, il nuovo colore rosso mestruazioni: campagna contro lo stigma del ciclo. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Casa Pantone ha coniato un nuovo rosso, quello del ciclo mestruale. Si chiama “Period” e richiama esattamente quello del ciclo di una donna. Una provocazione? No, una strategia di sensibilizzazione contro lo stigma delle mestruazioni. La famosa azienda statunitense leader nel settore dei colori, in collaborazione con un marchio svedese di prodotti femminili Intimina ha messo su la campagna che già sta riscuotendo un grande successo. “Non stiamo solo dipingendo muri, stiamo abbattendo quelli che contribuiscono alla stigmatizzazione che riguardano le mestruazioni”, si legge sul sito dell’azienda che nel suo campionario vanta circa 2.625 colori diventati punto di riferimento a livello mondiale. Il nuovo rosso fa parte della campagna Seen+Heard, creata per responsabilizzare e incoraggiare tutti, indipendentemente dal sesso, ad avere conversazioni più accurate e oneste sulle mestruazioni. “Volevamo ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa”, ha dichiarato Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, “che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l’eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale”. Volevamo fosse “originale e in grado di rappresentare un flusso costante”, ha aggiunto Danela Žagar, presidentessa del brand Intimina. “Nonostante miliardi di persone abbiano le mestruazioni, se guardiamo alla cultura popolare le rappresentazioni del ciclo sono sempre imprecise e oggetto di derisioni, umiliazioni. Basta è abbastanza, è il 2020. La tonalità rossa ‘Period’ di Pantone è esattamente ciò di cui parla la nostra campagna Seen + Heard: rendere visibile il ciclo, incoraggiare conversazioni positive e normalizzare le mestruazioni nella nostra cultura, nella nostra società e nella nostra vita quotidiana”. Le mestruazioni restano un tabù in molte parti del mondo: in India alle donne è proibito cucinare o toccare chiunque perché considerate impure nei giorni del flusso. In alcune regioni del Nepal le donne vengono fatte dormire nelle “capanne delle mestruazioni”. Uno stigma vivo anche in occidente. Basti pensare che negli Stati Uniti una ragazza su cinque è vittima di “povertà mestruale”: i prodotti di igiene femminile non hanno prezzi accettabili. Tutta l’industria del design si affida ai colori Pantone. Una griglia nata nel 1963 per risolvere il problema dell’identificazione dei colori nell’industria della stampa. Dal 1999 in dicembre Pantone individua il Colore dell’Anno – nel 2020 il Classic Blue – come barometro dell’umore del momento e bussola per l’industria della moda. L’azienda non è d’altra parte nuova a iniziative di sensibilizzazione su temi sociali: in maggio ha pubblicato l’Arancione Pippi Calzelunghe in collaborazione con la campagna di Save the Children “Girls on the Move“. Ha poi creato in joint venture con la Ocean Agency e Adobe tre nuove sfumature di azzurro, giallo e viola – Glowing Blue, Glowing Yellow and Glowing Purple – basate sui colori fluorescenti prodotti dal corallo minacciato dal riscaldamento degli oceani.

Caterina Belloni per “la Verità” l'1 ottobre 2020. Da qualche giorno le aziende e i creativi di tutto il mondo possono contare su una nuova sfumatura di rosso. In inglese si chiama «period», che in italiano si tradurrebbe «ciclo». Un appellativo decisamente insolito per un colore, se non fosse che serve a spiegare il concetto da cui è stato ispirato. La nuova nuance lanciata dalla multinazionale americana Pantone, infatti, rappresenta le mestruazioni. Se fosse solo una trovata pubblicitaria sarebbe già discutibile, ma il problema è che questa tonalità innovativa ha anche una finalità a sfondo sociale: abbattere i pregiudizi su «quei particolari giorni del mese». Dietro il progetto del rosso rivoluzionario c' è una collaborazione tra l' azienda statunitense, che si occupa di tecnologie per la grafica e di catalogazione dei colori (ne ha identificati già 2.625) e un marchio svedese di prodotti femminili: Intimina. Insieme hanno pensato di proporre un prodotto che punta a un obiettivo anche politico: portare in piena luce un fenomeno naturale, che in genere resta nell' ombra e a proposito del quale c' è una forma di riservatezza estrema, quasi una negazione. Di ciclo mestruale in effetti non si parla nelle conversazioni tra amici, perché non è un argomento interessante e talvolta genera imbarazzo e disagio. Una cosa che del resto accade anche per altre espressioni corporee, funzionali e quotidiane, che si preferisce non pubblicizzare a cena o quando si beve un caffè. Le mamme raccomandano ai loro bambini «discrezione» su questi temi sin da quando sono alla scuola materna, ma la loro attitudine non ha influito sulle due aziende. Anzi. Nella presentazione del nuovo prodotto la vicepresidente del Pantone Color Institute, Laurie Pressman, ha precisato: «Volevamo ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l' eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale». Peccato che più che portare alla luce un fenomeno che tutti conoscono - fosse anche solo per gli spot tv sugli assorbenti - si sia finito per mettere sotto i riflettori qualcosa di assolutamente privato. Se infatti è sacrosanto che nel 2020 sia noto anche agli uomini il fatto che le donne ogni mese hanno il ciclo, pare eccessivo che su questa vicenda si debba costruire una scelta estetica, magari decidendo di dipingere di rosso Period le pareti di casa o di acquistare un mobile che abbia inserti nella stessa tonalità. Forse nella continua battaglia per la valorizzazione del genere femminile, questa volta si è presa una cantonata. L' intenzione dei creativi di Pantone forse era buona, ma il risultato finale potrebbe diventare destabilizzante. E poi, se davvero si deve lavorare perché il periodo del ciclo mestruale non sia un problema e a causa sua le donne non finiscano vittima di pregiudizi, bisognerebbe assumere altre decisioni. Ad esempio - come è accaduto in Gran Bretagna - si potrebbe ridurre la tassazione su assorbenti e prodotti igienici femminili. O ancora si dovrebbe ragionare con i datori di lavoro perché vengano riconosciute ore di permesso alle signore che soffrono troppo durante il ciclo mestruale. Solo ipotesi di azioni che aiuterebbero ad affrontare circostanze delicate, senza cercare di «normalizzarle» in modo maldestro. Quanto all' orgogliosa annotazione che il ciclo ha un ruolo chiave nella creazione della vita umana, va segnalato che anche le tonalità traslucide di ovuli e spermatozoi meriterebbero la stessa attenzione. Che sia un' idea per nuovi colori da mettere in catalogo?

Laura Avalle per "Libero Quotidiano" il 25 agosto 2020. Per la legge di Murphy il ciclo arriva (quasi) sempre il primo giorno delle vacanze al mare, oppure a ridosso di un evento dove vorresti essere al top e invece ti senti uno schifo proprio a causa "delle rosse". Eppure noi donne, costrette a convivere con la nostra natura, siamo abituate a fare buon viso a cattivo gioco e, salvo qualche caso, anche in quei giorni non ci priviamo di nulla. Neppure del sesso. «L'universo femminile si sta riappropriando di un periodo che, spesso, veniva indicato come scusa per non fare l'amore», conferma Roberta Rossi, psicoterapeuta e sessuologa presso l'Istituto di Sessuologia Clinica di Roma. «Ovviamente immagino che siano donne che non vivono in modo troppo sofferto la mestruazione e anche che i rapporti, probabilmente, si situano nei giorni meno abbondanti».

Ma il ciclo non è visto come un deterrente al desiderio sessuale di lei?

«Può essere vero, come può essere vero il contrario. È difficile collegare la libido alla funzione di un unico ormone. Le mestruazioni dipendono da un calo di progesterone e questo potrebbe in parte spiegare l'incremento del desiderio sessuale, che solo secondariamente potrebbe incidere sull'eccitazione riportata da molte donne soprattutto nel primo giorno di ciclo. Sulla maggiore eccitazione è possibile che agisca anche un fattore psicologico che fa sentire la donna più libera dal pericolo gravidanza, che però non è da escludere sia per la possibilità di una doppia ovulazione, sia perché una volta finito il rapporto sessuale gli spermatozoi possono sopravvivere per 3-4 giorni. Altro aspetto è la sensazione di bagnato prodotta dal ciclo, che potrebbe contribuire alla sensazione di eccitazione, simulando la "lubrificazione"».

Nessuna reticenza da parte dell'uomo?

«Un'eventuale resistenza è imputabile sia alla donna, sia al partner che può dichiarare imbarazzo ad approcciare la propria compagna. Questione di scelte. Se entrambi nella coppia sono d'accordo nel farlo, non c'è nulla che lo possa impedire. Un aiuto, semmai, può venire dalla coppetta mestruale riutilizzabile progettata per il sesso (non è un anticoncezionale). La sua forma è simile a un diaframma e si trova proprio sotto la cervice, permettendo così la penetrazione standard senza interruzioni», spiega la sessuologa, che non ha dubbi: «Le coppette mestruali potranno contribuire a implementare la salute sessuale della coppia che da sempre vede con un certo distacco la possibilità di avere rapporti sessuali».

E sì che soddisfare quel desiderio non può che fare bene. L'orgasmo provoca spasmi muscolari che permettono al sangue di fluire velocemente (i dolori diminuiscono) e che stimolano la produzione di ormoni legati al benessere. Ma i pro non finiscono qui: è possibile sfruttare la situazione "non convenzionale" per usare la fantasia e sorprendere il partner. Un esempio? Una sessione hot sotto la doccia con qualche candela e le luci soffuse: l'acqua ripulirà l'eventuale sangue e stimolerà i sensi.

Francesco Borgonovo per “la Verità” l'1 aprile 2020. Da un paio d' anni a questa parte una nuova, potente questione politica scalda il dibattito nell' Occidente democratico: le mestruazioni. Da quando la scrittrice francese Elise Thiébaut ha pubblicato il pamphlet Questo è il mio sangue, edito in Italia da Einaudi, il post femminismo si è impegnato in una battaglia per distruggere «il tabù del ciclo». Sul tema sono usciti libri e reportage giornalistici, film e documentari. Pure sui nostri schermi è passato lo spot della Nuvenia, casa produttrice di assorbenti, con lo slogan #bloodnormal, la prima pubblicità in cui - al posto del tradizionale liquido blu - viene mostrato del sangue di un bel rosso vivo. Ci sono addirittura, soprattutto negli Stati Uniti, violente dispute sulla sostenibilità degli assorbenti: nuovi marchi di tamponi in cotone biologico, con applicatori rispettosi dell' ecologia, utilizzano l' arma dell' etica per contrastare l' egemonia globale del colosso Tampax (lo ha raccontato Sophie Elmhirst sul Guardian, e il suo articolo è stato tradotto da Internazionale). Come noto, poi, ci sono le campagne sulla «Tampon tax». In Italia, dopo le battaglie di Laura Boldrini e altri al grido «Il ciclo non è un lusso», con un emendamento dei 5 stelle si è voluta portata l' Iva al 5% sugli assorbenti «green». Nel Regno Unito i tamponi sono distribuiti gratuitamente nelle scuole, mentre la Scozia si avvia a diventare il primo Stato al mondo ad assorbente gratuito per tutti. Ma mentre la lotta delle mestruazioni infuria, un altro fronte si è già aperto: quello della menopausa. Il nuovo tabù da infrangere è proprio quello riguardante la fine dell' attività riproduttiva. Un paio di settimane fa, sulla prestigiosa Harvard Business Review, Jeneva Patterson del Center for Creative Leadership di Bruxelles ha pubblicato un lungo articolo per spiegare che «è tempo di iniziare a parlare di menopausa al lavoro». La studiosa ha raccontato quanti benefici le abbia portato sul piano professionale la condivisione con i colleghi delle sue sensazioni intime. Pare che, nel bel mezzo di una riunione, abbia detto: «Scusatemi, devo assentarmi per qualche minuto. Ho una vampata di calore e devo fare una pausa». Sembra che gli astanti abbiano reagito bene, segno che forse lo «stigma sociale» sulla menopausa non è poi così granitico (fortunatamente). Eppure la nuova tendenza del «femminismo neoliberista» continua a battere sullo stesso tasto. Qualche tempo fa il Financial Times ha dedicato un ampio servizio a Alison Martin-Campbell, di Ernst & Young, che ha creato un gruppo chiamato 40+ dedicato alle dipendenti in menopausa. Anche il suo mantra è: parliamone al lavoro. Come per tutte le ottime cause, non poteva mancare l' impegno degli intellettuali. La storica Susan P. Mattern di Princeton ha dedicato un corposo volume alla storia della menopausa. Si intitola The slow moon climb e propone una tesi forte: sono state le donne senza ciclo a far progredire la razza umana. Queste femmine «postriproduttive» hanno evitato di mettere al mondo altre bocche da sfamare mentre si preoccupavano di aiutare i membri più giovani della società. Un altro volume molto celebrato Oltreoceano è quello della scrittrice Darcey Steinke, un intenso memoir che mette in piazza tutti i disagi che la fine del ciclo ha causato all' autrice. Poi ci sono i manuali di auto aiuto, i libri motivazionali, i corsi di ogni tipo...Ecco svelato il segreto della nuova battaglia femminista: la menopausa rende. «Dal punto di vista commerciale», ha detto al Guardian Affi Parvizi-Wayne di Freda (altra marca di assorbenti). «Ogni singolo sintomo è un mercato da esplorare». Già: dal calo della libido all' insonnia, dal mal di testa alle famigerate vampate, per ogni problema c' è un prodotto apposito. Da qualche settimana la Perrigo ha lanciato una nuova campagna pubblicitaria dedicata a Ymea, linea di integratori appositamente creata per dare sollievo durante la menopausa. La testimonial è Maria Grazia Cucinotta, e il messaggio è che questo periodo della vita può essere una «opportunità». Di sicuro lo è per le aziende. Le donne in menopausa hanno, in media, maggiori disponibilità economiche, spesso sono manager o comunque professioniste all' apice della carriera. È a costoro che si rivolge Gwyneth Paltrow quando reclamizza i suoi lubrificanti e si propone come modello di donna in menopausa ma ancora attivissima. E il punto, dietro tutte le belle parole, è sempre lo stesso: spingere le signore a essere sempre efficienti e performanti a qualsiasi età, magari passando per una terapia ormonale sostitutiva o una pillolina miracolosa. Benestante, senza problemi di figli in arrivo, sempre più spesso single, ancora in forma: in pratica, la donna in menopausa è la consumatrice perfetta. Ecco perché ora sono tutti così attenti ai suoi «diritti».

·        L’estinzione dei simboli femminili.

Rossetto: la seduzione resta a bocca aperta. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Sotto la mascherina? Né sorriso né rossetto. Il cosmetico più usato e probabilmente più amato dalle donne che ha retto alle crisi economiche e ai tempi bui della guerra, cede oggi alla morsa del virus che sta mettendo sotto scacco il mondo. Il nostro mondo, per come siamo stati abituati a viverlo, vederlo e immaginarlo fosse anche solamente davanti ad uno specchio. La mascherina cancella il rosso sulle bocche, o se c’è lo nasconde. Il resto lo fanno lo smart working che impigrisce e le occasioni per uscire di casa – con un trucco a regola d’arte – praticamente ridotte ad una visita ai congiunti, se si può e per come si può! Così il piccolo alleato viene riposto nel cassetto in attesa di tempi migliori. E dire che il rossetto è stato anche una sorta di simbolo nelle battaglie per la parità di genere. Una sorta di “protesta del rossetto”, quella che vide in prima fila l’imprenditrice canadese Elizabeth Arden, fondatrice dell’omonima azienda di  cosmetici. Fu lei che – negli anni Dieci del secolo scorso – affiancò  le  suffragette nel corteo di rivendicazione della propria indipendenza e femminilità,  marciando  lungo la  Fifth Avenue  e  donando alle compagne di lotta rossetti, naturalmente rosso fuoco. A riprova del fatto che “Niente è più necessario del superfluo” per dirla con Oscar Wilde. Un aforisma che racchiude in sé una verità: la nostra quotidianità è costellata da gesti, rituali, modi e maniere: infilare le chiavi di casa nella borsa o nella tasca prima di uscire di casa; dare un’ultima occhiata allo specchio, controllare che sul post-it della giornata siamo riusciti a scrivere tutto quello che ci siamo ripromessi di fare. Tra i rituali di bellezza, quello di mettere il rossetto è una sorta di mantra della femminilità, un gesto rassicurante quando non consolatorio. Un dettaglio che fa la differenza. Del resto, che questo piccolo accessorio sia anche una misura dei mutamenti di Costume lo dimostra l’esistenza di un indice che registra le oscillazioni delle vendite del cosmetico sul mercato. Si chiama Lipstick index. Sembrerebbe che – in particolare all’estero – gli economisti tengano spesso in conto questo indice di statistica coniato da Leonard Lauder, presidente di Estée Lauder, per descrivere la crisi del 2001 causata dallo scoppio della “bolla Internet”, durante la quale le vendite dei rossetti aumentarono dell’11%. Ma alle donne consolarsi col rossetto – concedendosi l’acquisto di un piccolo bene di lusso che però in base al costo è alla portata di portafogli diversi – è accaduto più volte e le vendite del cosmetico sono aumentate di netto. È accaduto, per dire, durante la Seconda guerra mondiale quando persino Sir Winston Leonard Spencer Churchill ordinò di razionare i cosmetici ad eccezione del rossetto: “Mette buon umore a chi lo indossa e a chi lo vede”, disse il celebre Primo ministro del Regno Unito. L’impennata di vendite si registrò persino durante la Grande Depressione americana – nota quanto quel martedì 29 ottobre 1929 quando a New York crollò la borsa di Wall Street – o dopo il crollo delle Torri Gemelle a New York nel 2001. Insomma gli esempi non mancano così come non mancano ora i dati che indicano l’inversione di tendenza e aprono una falla nel principio del Lipstick index secondo cui in tempi di crisi si comprano più rossetti. Le vendite di rossetto sono crollate “addirittura del 75% durante il lockdown e da allora proseguono la discesa di un ulteriore 26,4%. All’estremo opposto, hanno ripreso vigore le vendite di trucco per gli occhi”, si leggeva già a settembre in un lancio di agenzia. Per rendere la misura basta tenere d’occhio i dati più recenti in merito forniti da Nielsen o il report di McKinsey&Company. Di cifra in cifra, di percentuale in percentuale quel che emerge è un netto calo degli acquisti di quello che è sempre stato un alleato di bellezza e femminilità. E allora, in attesa di sfoggiare nuovamente sorrisi e labbra laccate, ci viene in soccorso la biografia del rossetto. Una storia che ci ricorda come il cosmetico in questione si usava già 5000 anni fa nell’antica civiltà della Mesopotamia. E se Cleopatra utilizzava un rossetto ricavato dai pigmenti dei coleotteri  e delle  formiche, durante il regno di Elisabetta I d’Inghilterra veniva ricavato dalla cera d’api. Tra i rossetti regali, però, non può mancare quello che Elisabetta II in occasione della sua incoronazione – il 2 giugno 1953 – commissionò di un colore personalizzato così da spiccare sull’abito avorio e da richiamare il rosso della corona. Saltellando nella Storia del Costume, veniamo al Cinema. Al binomio dive e labbra truccate si deve l’utilizzo su larga scala del cosmetico. Le dive-influencer – si direbbe oggi – vengono ammirate sul Grande Schermo e sulle riviste patinate ma anche emulate. “Trova qualcuno che ti rovini il rossetto, non il mascara” era il motto di Marilyn Monroe; mentre Audry Hepburn in “Colazione da Tiffany” singhiozzante su un taxi affermava: “Non sono capace di leggere un messaggio triste senza prima mettermi il rossetto”. E poi c’è Liz Taylor, “La Venere in visone”. Epica la scena di quel film in cui Liz scrive col rossetto sullo specchio “No sale” (non in vendita). Si racconta persino che Liz durante le riprese non consentisse ad altre donne all’infuori di lei di portare sul set un rossetto naturalmente rosso lacca. Tutte d’accordo? Non proprio. C’è chi come Patti Smith ha affermato: “Fin da bambina, sapevo quello che non volevo. Non volevo indossare il rossetto rosso”. Tono perentorio quello della sacerdotessa del rock che però non offusca (anzi) la potenza simbolica del rossetto.

Francesca Paci per "La Stampa" il 7 luglio 2020. C'è stato un tempo in cui il reggipetto era la quintessenza della gabbia sociale destinata al gentil sesso. Un feticcio. Il peggiore. Tanto che quando nel 1968 il gruppo femminista New York Radical Women picchettò il concorso di Miss America minacciando di dare fuoco a scopettoni, fondotinta, corsetti e altri «strumenti di tortura» nacque la leggenda, tuttora inossidabile, del rogo dei «balconcini» di pizzo, la vendetta delle streghe, il falò della vanità. Le cose andarono diversamente e al netto dei proclami non ci fu in realtà alcuna biancheria incenerita. Ma l'immagine è forte, resistente: un ribaltamento semantico in cui convivono la forza iconoclasta della rivoluzione femminile e il suo opposto, la caricatura della militante frigida e sciatta che da allora accompagna l'emancipazione. Poi è arrivato il coronavirus. E sono arrivati il distanziamento, lo smart-working, la sindrome della capanna, la moltiplicazione come pani e pesci delle incombenze professionali e familiari, il disagio di misurarsi con una dimensione nuova e la scoperta di poterlo fare, prigionieri del tempo ma totalmente padroni dello specchio. «I reggipetti si sono estinti» sentenzia il "New Yorker" in una lunga rassegna dei danni collaterali della pandemia, dalla febbre del sabato sera al piacere masochistico ma circoscritto di lavare i piatti una tantum. Constatata l'efficienza della routine scamiciata, l'innocenza è perduta. La femminilità è performance in sé o necessita una platea? C'è vita oltre il wonderbra e se c'è, sarà il covid a dare il colpo di grazia all'antico feticcio sessantottino? Tra le scrittrici femministe americane la questione è diventata semi-seria, politica. «Cara Elizabeth, tutto bene? E' da tempo che non ci vediamo, siamo sempre qui pronti a sostenerti ma cominciamo a temere di ammuffire impolverati in fondo al cassetto» scrive ironica sul «New York Times» la bioetica di Fordham University Elizabeth Yuko, immedesimandosi con i propri reggipetti dimenticati, a buon diritto, in un armadio. Chloe Tejada sull'«Huffington Post» invita a rinchiudere «quelle prigioni» nei comò bui a cui appartengono mentre Kerry Pieri, responsabile del settore moda di «Harper' s Bazaar' s», la mette giù come un cambio di stagione: e se, liberato il seno da bretelle e gancetti, non lo ringuainassimo più? La letteratura aiuta le audaci. I testi di riferimento non mancano, ma citatissima è l'accademica australiana Germaine Greer, autrice di vangeli femministi come «L'eunuco femmina» e nota per ripetere: «Se una donna non si lascia mai andare come potrà sapere quanto lontano può arrivare? Se non si toglie mai le scarpe con i tacchi come potrà sapere quanto veloce può correre?». I tacchi, appunto. Il cedimento estetico all'innaturale, l'imbrigliamento in una taglia ridotta, il reggipetto. Poi certo, la questione non è così tranchant come, guardandosi alle spalle, appare oggi l'eredità del lockdown. Susanna Cordner, direttrice degli archivi del London College of Fashion, spiega all'inserto del «Washington Post», «The Lily» che «liquidare il reggiseno come un semplice simbolo patriarcale o una costruzione sociale inutile significa ignorare l'esperienza di corpi diversi dal nostro, laddove per alcune non è un indumento necessario ma per altre allevia dolore e disagio». Lui resta lì, comodo, scomodo, mortificante, sexy da morire. Un feticcio che rinasce dalle sue ceneri.

·        Gli Etero.

Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 2 gennaio 2020. Nell' ultimo giorno dell' anno, alle dieci e mezzo del mattino, Rebecca Steinfeld e Charles Keidan si sono presentati all' ufficio dell' anagrafe di Chelsea, nel cuore di Londra, per ufficializzare la loro relazione di fronte alle figlie e agli amici, non con un matrimonio ma con una partnership civile. «Oggi, mentre un decennio finisce e un altro sta per cominciare, diventiamo partner civili di fronte alla legge», ha detto la donna. «Per noi è un momento unico, speciale e molto personale». Ma è stata anche una giornata a suo modo storica: per la prima volta anche le coppie eterosessuali in Inghilterra hanno potuto usufruire dell' istituto dell' unione civile, finora consentito solo alle coppie omosessuali. Rebecca e Charles, 38 e 43 anni rispettivamente, sono stati tra i primi a presentarsi in comune, con le figlie Eden, quattro anni, ed Ariel, due. Sono emersi poco dopo, tenendo le piccole in braccio, si sono dati un bacio sui gradini dell' edificio e hanno mostrato felici il loro certificato di «civil partnership». Hanno di che essere soddisfatti: sono loro che hanno combattuto una battaglia legale che, dopo anni, ha portato alla modifica della legge. «Volevamo formalizzare la nostra relazione in modo moderno, basato su parità e rispetto reciproco», ha detto Rebecca. Le unioni civili sono state create nel 2005 come una forma di tutela per le coppie Lgbt; Rebecca e Charles hanno cercato di usufruirne dal 2014: privare le coppie etero di una tale opportunità, hanno sostenuto, equivale a una forma di discriminazione. Nel 2018, la Corte Suprema ha accolto il ricorso della coppia, e nello stesso anno il governo dell' allora premier Theresa May ha apportato le modifiche di legge.

Boom di richieste. Martedì era il primo giorno utile per registrarsi dopo l' entrata in vigore della legge. I partner civili avranno diritti praticamente identici a quelli delle coppie sposate, in termini di eredità, esenzioni fiscali, e riconoscimento e diritti dei figli. La nuova legge rispecchia i cambiamenti in atto nella società britannica, dove sempre più coppie eterosessuali optano per la convivenza invece del matrimonio (tra loro anche Boris Johnson, che convive a Downing Street con la fidanzata Carrie Symonds). Sono più di tre milioni le coppie etero che convivono, e il governo stima che nel 2020 circa 84 mila coppie utilizzeranno le unioni civili. Per alcuni, si tratta di dare protezione legale alla loro unione ma senza vincoli religiosi; altri ritengono il matrimonio un istituto antiquato che non rispetta la parità tra i sessi. «La nostra relazione non cambierà di una virgola», ha detto Julie Thorpe, che si è unita civilmente al suo compagno, Keith Lomax, dopo 37 anni di vita insieme e tre figli. «Un pezzo di carta non ci cambierà la vita. Ma ci dà delle protezioni legali all' interno della relazione». Mary Ann Lund e Gareth Wood hanno posto l' accento sull' uguaglianza nella loro relazione. «C'è una sorta di retaggio patriarcale nel matrimonio che non ci appartiene», ha detto la donna alla Bbc. La nuova legge è entrata in vigore in Inghilterra e Galles, dopo che la Scozia aveva già provveduto e il Nord Irlanda lo farà il mese prossimo. Le coppie omosessuali continuano a godere della tutela offerta dalle civil partnership anche dopo aver ottenuto nel 2013 l' accesso al matrimonio egualitario introdotto da David Cameron. Ma secondo Rebecca e altri attivisti, nuove battaglie sono all' orizzonte per tutelare i vincoli di amicizia o di co-genitorialità. «Avendo posto fine alla posizione privilegiata del matrimonio - ha detto - possiamo discutere del riconoscimento legale di altri tipi di relazioni».

·        Gli Omosessuali e le Lesbiche.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2020. Fingersi vittime di aggressioni omofobe sembra essere diventato un collaudato artificio per conquistare in un baleno la popolarità suscitando la compassione generale. Non è la prima volta che succede in questi mesi ma ci auguriamo sia l' ultima. Marlon Landolfo, 21 anni, e Mattias Fascina, 26, che lo scorso 19 settembre avevano pubblicato su Facebook un video in cui si dicevano bersagli di violenze verbali e fisiche «da parte di omofobi e fascisti» per essersi scambiati un bacio innocente e quindi per essere omosessuali, in verità non sono stati presi di mira poiché gay, bensì avrebbero partecipato attivamente ad una rissa scoppiata nel centro di Padova la notte precedente e dovuta probabilmente al consumo eccessivo di alcol. Nel video in questione i giovani, che hanno ricevuto la solidarietà di politici e utenti della rete, si ripromettevano di scendere in piazza contro «la mascolinità tossica», cosa che in effetti hanno compiuto pochi giorni dopo, coinvolgendo oltre 500 persone, profondamente toccate dall' ingiustizia che i ragazzi sostenevano di avere patito. Tuttavia di tossico in questa faccenda, a quanto pare, c' erano soltanto le frottole raccontate dai due persino in televisione. «Siamo stanchi di questo clima di intolleranza, discriminazione e odio, colpa delle politiche di estrema destra. Vogliamo una rivoluzione culturale, per questo manifesteremo», aveva dichiarato Landolfo su Raiuno, definendosi «vittima di questa società patriarcale». Diversamente la pensano gli inquirenti che, dopo avere ascoltato i testimoni e studiato con attenzione le registrazioni delle telecamere di sorveglianza, hanno escluso categoricamente il movente dell' omofobia riguardo i fatti di quella notte. I sette partecipanti alla zuffa, incluse le sedicenti vittime, sono stati tutti condannati con decreto penale per rissa. Dunque non si trattò di agguato omofobo, macché, piuttosto di un pestaggio reciproco non innescato da motivi di carattere sessuale. Inoltre, il fascismo qui non c' entra un bel niente. Questo spiegò al Corriere del Veneto in quei giorni uno dei cinque accusati di omofobia: «Stavamo festeggiando il compleanno di un' amica, avevamo bevuto, camminando abbiamo incontrato questi ragazzi che non sapevamo essere omosessuali e uno di loro ha fatto una battuta per una felpa. Da lì sono iniziate alcune schermaglie verbali, però nessuno ha fatto allusioni sui gay. Anzi, dal nulla uno di loro ci ha urlato "omofobi". Peraltro noi non abbiamo visto i due baciarsi, quindi come potevamo sapere che fossero omosessuali?». Va da sé che giornali e tv sposarono subito l' appetitosa versione di Landolfo e Fascina, proposti quali gay martiri, eroi, ragazzi-modello, esempi da seguire per il coraggio di denunciare le angherie sofferte. E come sempre il dito fu puntato contro l' opposizione, in particolare contro Matteo Salvini, capro espiatorio di tutto ciò che di spiacevole accade in Italia. Lo scorso maggio, a Milano, si era verificato un episodio analogo a quello avvenuto a Padova. Un cosiddetto influencer, tale Marco Ferrero, in arte Iconize, per essere invitato nello studio televisivo di Barbara D' Urso si era procurato un occhio nero dandosi un pugno con un surgelato e poi, ammaccato, aveva postato sui social la sua testimonianza, rivelatasi in seguito falsa da cima a fondo. Il giovane narrava di essere stato malmenato in quanto gay da un gruppo di sconosciuti che lo avrebbero fermato una sera per chiedergli una sigaretta nel cuore di Milano, mentre egli passeggiava da solo il suo cane. Un piano studiato nel dettaglio per conquistare nuovi seguaci su Instagram e avere il proprio momento di gloria ricorrendo a quello che si sta trasformando in uno sport ufficiale nazionale: il vittimismo, ossia la lagna, meglio se condita con indignazione e presa di posizione politica. Nel piccolo schermo pare proprio che funzioni. «È vero: ho inventato tutto. Mi prenderò una pausa pure dal web poiché per me è diventato una gabbia. Forse andrò in una clinica o mi rivolgerò ad uno psicologo. Domando scusa ancora una volta a tutti quelli che ho preso in giro», aveva fatto sapere Ferrero, che su Instagram continua a mantenere 610 mila follower, i quali lo hanno perdonato, a quanto sembra.

L'omosessualità secondo Baget Bozzo. Don Gianni affrontava il tema dal punto di vista teologico (il gender non c'entra). Corrado Ocone, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Il tema dell'omosessualità è stato uno degli interessi costanti di Gianni Baget Bozzo: ha attraversato la sua riflessione, riapparendo in momenti particolari dettati dalla cronaca ecclesiastica e politica. Non è stato un tema dominante in essa, né è mai stato elaborato concettualmente, eppure don Gianni richiama sempre alla necessità di porlo, per la Chiesa e i cristiani, su un piano teologico, metafisico, e non moralistico. Ed è già questa una delle differenze palpabili rispetto all'impostazione dell'attuale pontefice, rispetto al quale non senza qualche ragione Luigi Accattoli, che ha curato la raccolta Per una teologia dell'omosessualità (Luni, pagg. 144, euro 18), fa di Baget Bozzo quasi un anticipatore. Rilevante è poi, per un sacerdote considerato volubile culturalmente non meno che politicamente, la sostanziale continuità e stabilità del giudizio attraverso gli anni. La distinzione da tener ferma per lui è quella fra omosessualità e sodomia: «La tradizione biblica ed ecclesiale ha condannato la seconda, ma non ha affrontato il delicato problema sollevato dalla prima». È all'omosessualità «di natura», di chi cioè non ha scelto la propria condizione, e a cui perciò non può essere applicato il principio di responsabilità, che Baget Bozzo rivolge la sua attenzione. Facendone discendere come conseguenza la posizione del discorso su ulteriori due piani, oltre quello ecclesiastico: il piano speculativo, di una riflessione, che manca in seno alla Chiesa su questo tema, di antropologia filosofica, cioè relativo alla «natura umana»; il piano pratico, che impone allo Stato di tutelare giuridicamente le unioni fra gay. Le quali possono essere solo civili, non potendosi estendere a loro quelle in seno alla Chiesa né l'ammissione al sacramento del matrimonio né all'adozione di figli attraverso la cosiddetta «maternità surrogata» (e alla loro educazione). È indubbio che qui le somiglianze con Francesco ci siano, ma forse sono solo di facciata. Pur essendo di pochi decenni fa, queste pagine, si pensi a quelle sul Gay pride romano del 2000 stigmatizzato dal Pontefice di allora e difeso dal vulcanico sacerdote ligure, sembrano appartenere ad un'altra epoca. Oggi, infatti, il movimento dei diritti si è radicalizzato, estendendosi ad altre diversità e diventando Lgbt, e soprattutto è diventato un'ideologia che include ed esclude non meno dei vecchi bigottismi a Baget Bozzo invisi. Più che l'emancipazione dei gay, quello che sembra essere messo in gioco è il concetto stesso di «natura umana». Piuttosto che all'individualità e allo specificità del singolo «figlio di Dio» a cui guardava don Gianni, l'interesse è a promuovere e imporre una teoria del gender che, annullando ogni differenza specifica, tende a ridurre l'uomo a «materiale umano». E quindi a farne «oggetto», facilmente preda di ogni tipo di Potere, casomai senza accorgersene e credendo anzi di essere libero ed emancipato: politico, economico, etico, culturale.

Caterina Belloni per “la Verità” il 21 ottobre 2020. Nome, età, indirizzo, titolo di studio, caratteristiche della casa in cui si abita, mezzi usati per recarsi al lavoro. In un censimento nazionale rientrano tutti questi elementi, ma alla raccolta dati del Regno Unito presto sarà aggiunto un quesito in più: le preferenze sessuali. Ai sudditi di Sua Maestà Elisabetta verrà chiesto infatti di precisare quale opzione descrive meglio il loro orientamento sessuale, indicando tra alcune possibilità: eterosessuale, gay o lesbica, bisessuale, transessuale o con un diverso orientamento sessuale, che però va precisato per iscritto. Una domanda decisamente intima, che sarà rivolta a tutti i cittadini che hanno compiuto 16 anni, all'interno del Censimento previsto in primavera. Chi non se la sente potrà evitare di dare la risposta, ma probabilmente non verrà visto di buon occhio, visto che la raccolta dei dati personali da questa parte della Manica è una faccenda più che seria. Viene realizzata dall'Istituto nazionale di statistica ogni dieci anni sin dal 1801, è obbligatoria per legge e quindi prevede per chi non restituisce il questionario compilato una multa che arriva anche a mille sterline. Ragion per cui l'adesione è sempre molto alta, come dimostra il fatto che dieci anni fa il 94 per cento dei cittadini ha completato il modulo e l'ha restituito nei tempi previsti. A spingere l'Istituto di statistica ad inserire una domanda tanto «delicata» è stato il desiderio di raccogliere maggiori informazioni sulle inclinazioni dei britannici, in modo che Governo, istituzioni pubbliche e associazioni abbiano un quadro il più possibile preciso del territorio e dei suoi bisogni e possano programmare interventi mirati. Come ha spiegato chiaramente Iain Bell, responsabile del progetto: «Senza dati precisi sulle dimensioni della comunità Lgbt a livello nazionale e locale, chi prende le decisioni deve agire alla cieca, privo di informazioni sulla natura dei problemi che queste persone vivono in termini di salute, di educazione, di impiego». Per il momento la Gran Bretagna ha delle stime sull'orientamento sessuale a livello nazionale e regionale, ma secondo Bell un censimento dettagliato consentirebbe di fornire alle autorità locali e centrali un quadro migliore. La sua spiegazione ha convinto anche Nancy Kelley, direttore esecutivo dell'associazione di volontariato Stonewall, che si batte per i diritti della comunità Lgbt. «Da sempre gay, lesbiche, bisessuali e transessuali stanno in incognito e proprio questa mancanza di visibilità ha limitato la possibilità di offrire loro supporto e garanzie» ha dichiarato parlando alla stampa. Con britannico aplomb, insomma, nessuno fa polemica all'idea che la gente venga costretta a confessare quali siano le sue inclinazioni sessuali nel censimento del 2021, che costerà allo Stato qualcosa come 906 milioni di sterline (poco meno di un miliardo di euro) e coinvolgerà 30.000 operatori almeno. Se venisse fatta in Italia probabilmente la stessa richiesta susciterebbe reazioni indignate e anche il sospetto che si tratti di uno stratagemma per mappare alcune categorie. Pratica del resto diffusa pure in Gran Bretagna, come dimostra un episodio del 2016. All'epoca sui moduli di iscrizione delle scuole di Londra alle famiglie italiane era stato chiesto di precisare se i loro figli fossero «italiani», «italiani-siciliani» o «italiani-napoletani». Una domanda assurda, accolta come una forma di discriminazione. E contro la quale si era mobilitato anche Pasquale Terracciano, allora ambasciatore italiano in Uk.

Elena Stancanelli per ''La Stampa'' il 14 ottobre 2020. Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni». Il reato di plagio, articolo 603 del codice penale, fu abolito nell' aprile del 1981. Pochi anni prima Aldo Braibanti, filosofo, poeta e mirmecologo (studioso delle formiche) - un dilettante, come lui si definiva, come Leonardo da Vinci - sulla base di quell'articolo fu arrestato e condannato a 9 anni di carcere. Accusato dai genitori del suo compagno, Giovanni Sanfratello. Braibanti era un intellettuale, maestro di Carmelo Bene, per lui si mobilitarono in tanti, Umberto Eco, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Dario Bellezza. Marco Pannella organizzò una campagna di opinione contro un processo che sembrava quello contro Oscar Wilde, ma si sarebbe rivelato invece un processo politico. La storia, che divise l' Italia degli Anni 60, la racconta il documentario Il caso Braibanti di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, che ha aperto ieri la XVIII edizione del Florence Queer Festival, diretto da Bruno Casini e Roberta Vannucci. Figlio del medico di Firenzuola, Braibanti, nato nel 1922, durante la guerra divenne partigiano, si unì alle brigate di Giustizia e Libertà. Fu arrestato, due volte. La seconda finì nelle stanze di Villa Triste, a Firenze, dove fu torturato dalla banda Carità. Ferruccio Braibanti, il nipote, figlio del fratello Lorenzo, ricorda come lo zio non avesse mai voluto parlare di quello che gli fecero, tranne alla fine, a pochi giorni dalla morte, nel 2014. Solo, sfrattato dalla casa romana al Ghetto, era tornato al suo paese, sostenuto dalle legge Bacchelli, l' unico premio che avesse mai ricevuto, come dice sorniona Maria Monti, sua grande amica. Ma un destino peggiore sarebbe toccato a Giovanni, il compagno, figlio del segretario comunale, fascista, e fratello di Agostino, che come spiega Piergiorgio Bellocchio sarebbe diventato una specie di nazista. Portato via con la forza dalla casa di Roma che divideva con Braibanti, era stato fatto ricoverare in un ospedale psichiatrico di Verona dai familiari. Subì quaranta elettrochoc ed ebbe 19 coma insulinici, ma nonostante tutto non testimoniò mai contro il suo compagno. Scrisse il Tempo: «Dopo un' energica cura psichiatrica, Giovanni Sanfratello ancora non è convinto dell' opportunità di attaccare Aldo Braibanti. Evidentemente non è ancora guarito». A differenza di quanto fece Pier Carlo Toscani, che dichiarò di essere stato sedotto, forzato, plagiato da lui e fu visto, pochi mesi dopo, scorrazzare con un auto molto costosa per la città. Giovanni e Aldo non si videro mai più, dopo il processo. Fabio Bussotti, che lo interpreta in uno spettacolo le cui scene intervallano il documentario, dice: «Ci sono sempre stati e sempre ci saranno maestri e discepoli, profeti e seguaci, pastori e capre! Oppure dovremmo invocare il plagio anche contro i padri autoritari, mariti prepotenti, mogli oppressive e contro i preti?» «Dunque secondo lei sarebbe un plagio anche l' educazione, la politica, la religione?» controbatte l' accusa. «L' amore - conclude Braibanti - è un plagio».

DAGONEWS l'1 ottobre 2020. Gay, lesbiche e bisessuali hanno più probabilità di soffrire di emicrania rispetto agli eterosessuali. È quanto emerge da uno studio che punta il dito sullo stress che queste persone sono costrette a subire. I ricercatori hanno intervistato più di 9.800 adulti di età compresa tra 31 e 42 anni nell'ambito del National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health. Dai risultati è emerso che gay, lesbiche e bisessuali avevano il 58% di probabilità in più di soffire di emicrania rispetto agli etero. L'emicrania spesso produce un intenso dolore pulsante su un lato della testa, sebbene entrambi i lati possano essere interessati. Può durare ore o addirittura giorni ed essere accompagnata da nausea, vomito e sensibilità alla luce, al suono o ad altri input sensoriali. L'emicrania è la quinta ragione principale per le visite al pronto soccorso, secondo la Migraine Research Foundation, e colpisce le donne più degli uomini. «Sappiamo che lo stress in generale può scatenare emicranie e poiché le minoranze sessuali subiscono discriminazioni e stress aggiuntivo, sembra logico che possa scatenare emicranie -  ha detto il dottor Jason Nagata, professore di pediatria presso l'Università della California, San Francisco, e autore dello studio - Ricerche precedenti hanno dimostrato che le emicranie sono più diffuse tra le minoranze, tra cui neri, latini, donne e persone con uno status socioeconomico inferiore. Ma nessuno aveva esaminato le minoranze sessuali». I risultati dello studio sono stati pubblicati nella versione online di JAMA Neurology.

Paola Zanuttini per “il Venerdì - la Repubblica” il 28 settembre 2020 Qui si rischia la sdolcinatezza. Mai vista un' autorappresentazione gay così romantica, struggente, naïve: l' immagine, in oltre trecento immagini, di uomini innamorati. Uomini, arresi e stupefatti dal sentimento, che si sono messi davanti all' obiettivo senza malizie, cinismo, snobismo, ambiguità, ironia, disincanto, sfrontatezza, ovvero quelle armi del carattere e dell' intelligenza che nel corso del tempo gli omosessuali si sono dati per difendersi e ridimensionare o dimenticare almeno un po' la pesantezza e i pericoli del conformismo e dell' intolleranza eterosessuale. Si chiama inevitabilmente Loving (5 Continents Editions, pp. 336, euro 49, uscita internazionale il 14 ottobre) il volume che raccoglie solo un decimo delle fotografie scovate in vent' anni da Hugh Nini e Neal Treadwell nelle loro scorribande tra robivecchi, mercatini delle pulci e aste online. Anche nelle prefazioni di Paolo Maria Noseda e Francesca Alfano Miglietti si rasenta l' idillio perché queste foto scattate fra il 1850 e il 1950 sono una sorta di rivelazione commovente: smontano, più di una seria azione politica, pregiudizi e stereotipi, anche quelli positivi, infarciti di benevola condiscendenza, e suscitano una tenerezza accompagnata da una vaga nostalgia per quei tempi lontani che sembrano più semplici e innocenti del presente. Sembrano, ma non sono. Perché in quegli scatti eseguiti autonomamente nelle cabine fotografiche o realizzati da amici, sodali, professionisti comprensivi oppure avidi, si intuisce la clandestinità, il rischio (presente ancora oggi in quella settantina di Paesi dove l' omosessualità è un reato e, a volte, non solo là) che una posa appena equivoca finita nelle mani sbagliate potesse rovinare due esistenze. Eppure, nonostante i pericoli, quegli uomini, che erano dandy e contadini, ragazzi e adulti, operai e militari, intellettuali e braccianti, borghesi e proletari, si abbandonavano a quel minimo rito laico che suggellava un amore e immortalava una felicità destinata a durare chissà quanto. Tra danza e rodei Naturalmente Nini e Treadwell sono una coppia. Sposata. E cinguettano sul loro trentennale amore più di quanto sarebbe consentito a due coniugi etero fra i cinquanta e sessanta inoltrati. Però raccontano anche un bel po' di fatti. Texani poi trasferiti a New York, coreografo il primo e manager nei settori moda e bellezza il secondo (con brevi trascorsi nei rodei di tori: inevitabile la citazione di I segreti di Brokeback Mountain), hanno trovato la prima foto della loro collezione da un antiquario di Dallas: due ragazzi abbracciati che si guardavano con l' aria innamorata. «Non appena la vedemmo, ci sembrò che quella foto ci guardasse a sua volta. E in quel momento particolare, rispecchiava la nostra condizione. Questi due giovanotti, ritratti davanti a una casa intorno al 1920, si abbracciavano e si scambiavano lo sguardo tipico di due persone che si amano. Circa un anno dopo ci imbattemmo in un' altra foto dello stesso genere durante un' asta online. Era un ritratto in miniatura di due soldati degli anni Quaranta che posavano guancia contro guancia. La foto era contenuta in una cornicetta di vetro Art déco con l' incisione "Per sempre tuo". Quei due ragazzi avevano la stessa inequivocabile espressione dei soggetti della prima foto che, parecchi mesi prima, aveva dato il via a quella che sarebbe diventata una vera e propria collezione. «Pensavamo di aver trovato la seconda - nonché l' ultima - foto d' epoca di due uomini che, come noi, erano innamorati. Invece fu così che ebbe inizio un' avventura ventennale che nessuno di noi due aveva previsto, né tanto meno pianificato». Quindi, nel mare di foto provenienti da tutto il mondo, soprattutto dagli Stati Uniti, ma anche e curiosamente non poco dalla Bulgaria, l' elemento determinante adottato per scegliere è stato lo sguardo. Due ragazzoni cameratescamente abbracciati potevano essere dei semplici amici, ma quello sguardo, cioè gli occhi stellati di chi si ama, rivelava come stavano effettivamente le cose. Il metodo, più romantico che scientifico, ha dimostrato di funzionare su un lotto di fotografie di due soldati americani della Seconda guerra mondiale ritratti in Austria. Nelle prime immagini, i due potevano apparire dei semplici compagnoni ma, in uno scatto che Nini e Treadwell hanno recuperato qualche tempo dopo, i due apparivano teneramente abbracciati nella neve. Questa coppia è l' unica di cui i collezionisti abbiano ottenuto notizie dirette, da un nipote: aveva melanconicamente trionfato la normalità, la storia era finita, ma l' amore era rimasto. Vedi, appunto I segreti di Brokeback Mountain. Per ispirarsi nella pose da adottare, due braccianti con la tuta jeans del 1850 non avevano a disposizione nessuna iconografia dell' amore gay, eppure nei ritratti che risalgono alla metà dell' Ottocento come in quelli degli anni Cinquanta, dall' America all' Europa, il linguaggio del corpo non cambia molto: a parte una mano ribaldamente vicina a una patta, prevale in genere una decorosa compostezza, quella stessa ingenua, goffa compostezza dei nostri nonni e bisnonni nello studio del fotografo. Solo le gambe si intrecciano, a volte. Come in un tango. E forse più delle mani che in certi casi ostentano un anello. Anche i letti, pochi a dir la verità, non hanno nulla di peccaminoso, ma piuttosto il biancore dei cuscini e delle lenzuola fanciullesche. Poi ci sono le gite, le paper moon su cui sedersi per farsi fare il ritratto, e gli altri contesti tipici in cui tutti, etero e omosessuali, hanno scattato l' immancabile foto ricordo fino all' avvento degli smartphone, che scattano indiscriminatamente, ovunque e comunque. Ma ci sono anche gli ombrelli: un sacco di coppie in posa sotto un ombrello. Quello, hanno desunto Nini e Treadwell, era un inequivocabile codice gay.

Barbara Costa per Dagospia il 3 ottobre 2020. Si chiamano Sara Luvv e Bree Mills. Sono due femmine. Hanno le fighe. Una si veste da uomo, l’altra da donna. Una si trucca, l’altra no. Sono sposate. Hanno due figli. Il loro lavoro è il porno. C’è qualcosa in quanto elenco che non ti sta bene, che ti dà fastidio? Se la risposta è sì, ti devi vergognare. Tu, mica loro. Se ti rode, in qualsiasi posto, per qualsiasi fottuto motivo, amico, fattela passare, sei tu che hai e ti fai problemi, e tanti, e gravi, sei tu che ti illudi migliore e retto e superiore nella tua consona e consonante eterosessualità che credi minacciata, "infettata" da altre identità che guarda, amico, non ti fanno nulla, non sfiorano la tua pelle, il tuo sesso "giusto": di te se ne fregano altamente, se non fosse per i tuoi marci (pre)giudizi fastidiosi che rompono l’anima a chi vuole niente altro che costruirsi e viversi una vita accanto alla tua. È un suo diritto, come lo è non essere scocciato nelle sue sacrosante scelte, personali e lavorative, e poi senti, retrogrado, non mi tediare, non mi fare incazzare, attento che lo dico, lo svelo, il tuo abbonamento a "Adult Time", il Netflix del porno. Niente scuse, ci sei pure tu, tra quelli che si spassano il pene coi porno lesbo, e non dirmi che lo ignori, che a capo di tali porno-lesbici-incrociamenti, c’è lei, il boss, colei che se vedi altre a lei affini nel modo di vestire, essere, amare, fai lo schifiltoso, e ti sa di scandalo: Bree Mills, quella femmina lesbica lì, sai chi è, è quella che ti fa dimenticare che il porno che stai guardando è finzione. Bree è producer, regista ma più importante è creatore (creatrice?) di siti porno di successo che implicano visiva fedeltà. Inutile che fai lo gnorri: vuoi che non si sappia? Quelli by Bree Mills sono porno cercati principalmente da un pubblico di maschi eterosessuali. Porno riflettenti ginecei, dove l’apporto penico non è superfluo bensì minimo. Fuori dal set, Bree e Sara Luvv sono moglie e moglie, sono moglie e marito, al diavolo, davvero conta definirle? Bree e Sara sono una coppia con tutte le gioie e cazzi e scazzi e noie e soddisfazioni di chi forma una famiglia. Con una quotidianità forse meno noiosa visto il lavoro che fanno (sebbene Sara, coi bambini piccoli, a pornare sia ferma) e la passione che ci mettono, nel porno, lesbo, in serie, a puntate, figa contro figa, figa su figa, e figa perché no in chiave horror, sesso misto a suspense, a cinematografica morte, omicida, cruenta, porno coreografata: la base è una sceneggiatura precisa, raffinata, elaborata da… l’uomo? donna? senza dubbio persona Bree Mills. Ma stai zitto, non mi dire che quanto sono e fanno gli altri non ti importa, basta che lo facciano a casa loro, nel loro letto e non nel tuo! È questa una tesi tra le più bastarde, non si può sentire, e poi a Bree Mills sai che gliene interessa, lei che i suoi pensieri, incubi, fantasie, posizioni politiche te li mette lì, nei porno che gira, porno nati in opposizione a quanto da lei letto in letteratura sottobanco, libri porno-pulp anni '50, libri vere catastrofi sociali, propagatori dei più nefasti tòpoi lesbici (le lesbiche insidiano le ragazze più fragili! fanno loro il lavaggio del cervello! le lesbiche sono pericolose, da curare, da rinchiudere!). E sia ringraziato Dio che Bree sia nata da un padre che ha fatto coming out quando lei aveva 8 anni: proprio grazie ai coglioni di un tale padre gay, Bree è cresciuta in un ambiente leale, fortuna che troppi pochi in Italia hanno, anche se confido nelle nuove generazioni (Bree ha fatto coming out l’ultimo anno di scuola superiore, come filma in "Teenage Lesbian"). No, aspetta, come dici? Ho sentito bene? Secondo te Bree è lesbica per virus, per contaminazione paterna? Sul serio credi a tali boiate, o lo fai apposta, tanto per spararla grossa? Ma in quale cazzo di epoca somara sei incagliato? Cadiamo tutti da qualche parte lungo la scala Kinsey. Credimi, amico, è ora che esci dalle ragnatele di un sussiegoso moralismo da due soldi. In una parola: svegliati!!! Entra nella realtà, nel presente, prova a volerti più bene, ed elimina ogni livore verso chi ritieni "diverso", quando è tale solo nelle tue sinapsi bacate. Scegliti un porno di Bree Mills: magari una sana auto-chiavata ti sana il cervello, e ti si alleggeriscono, oltre a pene (o ovaie), mente e cuore.

ANNA PURICELLA per repubblica.it il 15 settembre 2020. "Il caso raccontato è completamente falso". Il resort Canne Bianche di Fasano rispedisce al mittente l'accusa di omofobia, dopo la recensione negativa di una coppia di sposi veneti. Ed è appunto un caso, quello che si è creato attorno alla vicenda raccontata da Denis e Marco, che avevano denunciato di "venire derisi dai camerieri", e dallo chef "che con la salsa scrive volgarità nei piatti, ridendo con i colleghi, e le vuole far portare in tavola". "Non sono mai stato vittima di omofobia o bullismo e ad oggi che mi si disegni con la salsa la forma di un uccello nel piatto lo trovo assolutamente disdicevole", scriveva Denis il 10 settembre al resort. Nel giro di due giorni si è scatenata la bufera. A raccontare l'accaduto era stato per primo il Mattino di Padova, l'11 settembre, la stessa testata che aveva fatto il resoconto l'unione civile fra Denis e Marco, avvenuta pochi giorni prima e celebrata da Alessandro Zan, deputato e relatore alla Camera del disegno di legge contro l'omofobia. Il 12 settembre cambia tutto. È lo stesso Denis a editare il post originale - la recensione negativa a Canne Bianche - alle 12,28, precisando che "ieri il proprietario del resort insieme al figlio ci hanno chiesto scusa, spiegandoci che avevano sospeso momentaneamente lo chef per far sì che tutto ciò non potesse più capitare". Inoltre, dice l'uomo: "Non abbiamo scroccato nessuna vacanza per il semplice motivo che extra a parte che si pagano al check-out avevamo già pagato". Nel giro di poche ore arriva la replica di Canne Bianche sulla propria pagina Facebook: "Siamo esterrefatti dopo aver svolto le dovute indagini e aver accertato presso tutto il personale, che potrà confermarlo, che il caso raccontato è completamente falso. Ci addolora fortemente non solo che le gravi false affermazioni arrechino un grave danno a una struttura alberghiera che sfidando lo stato di grave crisi ha deciso ugualmente di riaprire, per mantenere alta e di qualità la ricettività della nostra regione, ormai nota in tutto il mondo, ma che il falso motivo di immagine omofoba affermata si fondi proprio su quanto è totalmente opposto e contrario alla nostra mentalità e alla nostra cultura". Per sbrogliare la matassa il tutto verte allora su una cosa: la prova dell'accaduto. La chiede il resort, la chiedono tanti fra gli utenti che commentano il post: "Benché richiesta - scrivono da Canne Bianche - nonostante oggi si fotografi e si immortali qualunque momento ed evento, nessuna foto di quanto affermato è stata fornita dai nostri due ospiti in questione, a conferma della totale falsità del fatto, mentre i due ospiti in questione hanno impiegato pochi minuti per farci giungere una richiesta di soggiorno gratuito, a conferma della strumentalità del tutto". Sarebbe quindi questo il motivo per cui Denis e Marco avrebbero denunciato di essere stati vittime di omofobia: "Dopo la nostra risposta, che ovviamente declinava la loro richiesta di risarcimento mediante rimborso di quanto pagato per il soggiorno, in quanto priva di fondamento, gli ospiti in questione hanno puntato all'attenzione mediatica". Il resort ne ha ancora, per la coppia: "Non risponde al vero che lo chef in questione sia stato licenziato o sospeso, né richiamato, essendo solo stato ascoltato dalla direzione, unitamente al restante personale, nell'ambito di indagini doverosamente svolte dalla direzione, che hanno portato ad accertare la totale falsità delle affermazioni in questione, non avendo mai lo chef realizzato alcuna immagine omofoba su alcuno dei nostri piatti". Non è accaduto, quindi, né ci sono state scuse da parte del proprietario: "Mai formulate". Eppure la faccenda non può dirsi chiusa. Da un lato Titti De Simone, consigliera politica del presidente della Regione Michele Emiliano, entra nel merito dicendo che "il presidente, contattato dagli sposi, ha stigmatizzato quanto accaduto, parlando con loro al telefono e poi contattando anche la struttura". Dall'altro lato è lo stesso Denis a intervenire: "Tranquilli ragazzi, abbiamo le prove di tutto - è la sua replica al post di Canne Bianche - e il tempo è galantuomo, non finirà qui". Al Tgr Veneto, domenica 13 settembre, ha inoltre detto che con Marco si è rivolto a uno studio legale: "Abbiamo le prove, ma stiamo scherzando? Questa cosa non può e non deve andare avanti, soprattutto perché si tratta del nostro viaggio di nozze".

Mario Adinolfi su Facebook il 10 settembre 2020. Su Chi, il settimanale patinato più venduto in Italia, Alberto Matano torna sulla questione “Gay1”. Prova a fare la vittima. Rispiego: il tema non è il suo orientamento sessuale. La questione è l’occupazione di tutti gli spazi utilizzando la filiera della lobby Lgbt che da Palazzo Chigi domina Raiuno. Matano questo lo sa bene. Mi scrive un ex hater il 31 agosto: “Guarda le ultime stories di Instagram della Venier. Cena a quattro: Venier con il marito, Matano con il ministro Spadafora. E ride imbarazzatissimo, preoccupato di essere ripreso. Ti ho insultato ma forse avevi ragione tu”. Già. Se cacciate Lorella Cuccarini e occupate tutti gli spazi da Unomattina a La Vita in Diretta fino a Ballando con le stelle, per un disegno preciso di spartizione decisa sul piano politico, beh questo è stato denunciato da molti ieri quando i cacciati erano Santoro o Luttazzi e sarà denunciato da noi oggi anche se sembra ci sia il terrore a farlo. Il Popolo della Famiglia vi dice: attenti, il servizio pubblico radiotelevisivo non è Cosa Vostra, il canone lo pagano le famiglie italiane e il PdF chiede per loro rispetto.

Estratto dall'articolo di Alessio Poeta per ''Chi'' il 10 settembre 2020. (…)

D. Quest’estate sulle pagine de Il Messaggero sono state chieste, a Fabio Canino, informazioni sulla sua sessualità.

R. «Quando ho letto quell’intervista, da giornalista, ho provato vergogna e, come me, la maggior parte di chi l’ha letta. Non amo categorie, etichette e diffido da chi mette timbri sugli altri. Un individuo va valutato in base all’operato, non al privato».

D. Per Mario Adinolfi, leader de Il Popolo della Famiglia, Raiuno e diventata Gay 1.

R. «E incredibile come per colpire qualcuno si utilizzi, ancora oggi, l’orientamento sessuale. E trovo ancor piu grave utilizzare questi argomenti per occupare, in qualche modo, spazi mediatici». (…)

D. Intanto, pochi giorni fa, ha condiviso un messaggio di Andrea Delogu con su scritto: “Ti amo bonazzo”. C’e qualcosa che dobbiamo sapere?

R. (ride, ndr) «Andrea e un’amica, oltre che una donna sposatissima. Insieme ci divertiamo davvero molto».

D. Certe manifestazioni la imbarazzano?

R. «All’inizio si, mentre oggi ci rido su. Il meglio, poi, arriva su Instagram. Fortunatamente c’e una sorta di divisione di messaggi, altrimenti non saprei dove mettermi le mani».

D. Ha appena compiuto 48 anni.

R. «Questo compleanno mi ha fatto un po’ impressione. Se finora si parlava di consapevolezza, adesso e arrivata l’età della maturità».

D. Sogni?

R. «Quello di tornare a viaggiare. Del resto ho ancora molto da vedere...».

D. E io che pensavo mi rispondesse: “una famiglia tutta mia”.

R. «Chissà, forse un giorno vivrò il dispiacere di non averne messa su una, ma ho dei nipoti fantastici e tutte quelle energie che avrei dedicato ai miei figli, oggi, le riverso su di loro».

D. E che cos’e per lei la famiglia?

R. «Il vero dono della vita. Nella mia c’è unita, amore e condivisione, nonostante la distanza: io a Roma, mia sorella Luisa a Milano, mio fratello Vincenzo a Bruxelles, mentre i miei a Catanzaro. Quest’estate, tra l’altro, abbiamo festeggiato i 50 anni di matrimonio dei miei genitori e l’emozione, visto che non ci vedevamo tutti da tanto tempo per via del lockdown, e stata doppia».

Guido Santevecchi per "corriere.it"  il 4 agosto 2020. Seicento anni di storia familiare, seicento anni di potere ed enorme ricchezza. Poi, nel 2006, il principe Manvendra Singh Gohil, erede del maharaja di Rajpipla nello Stato indiano del Gujarat dichiarò pubblicamente di essere gay. Fu diseredato. La madre acquistò una pagina di giornale per ripudiarlo. Seguirono il disprezzo degli ex sudditi e anche minacce di morte, perché l’omosessualità era tabù nell’India che ha ereditato dall’Impero britannico la democrazia e la lingua inglese, ma anche la legge vittoriana che punisce «carnal intercourse against the order of nature with any man, woman or animal». Tradotto senza parafrasi, in una sola parola: la sodomia, anche se consensuale e tra persone adulte. Solo nel 2018 la Corte Suprema di New Delhi ha cancellato quella norma, dopo una lunghissima battaglia legale. Il principe Manvendra in quei giorni storici era al Gay Pride di Amsterdam, su un carro allegorico. Ma il pregiudizio non è stato abolito per legge in India. «Da noi le persone che si dichiarano gay o lesbiche o bisessuali o transgender subiscono pressioni insostenibili, anche dalle famiglie, sono costrette a finti matrimoni o vengono cacciate di casa», disse nel 2018. Ora in una nuova intervista, al New York Times, racconta di quando si era sposato con una principessa della famiglia reale di Jhabua, nel 1991. «Furono nozze volontarie, non avevo mai avuto modo di passare del tempo da solo con una ragazza e il sesso fuori dal matrimonio era impensabile allora». Siccome il sesso extraconiugale era fuori questione, il giovane principe non aveva neanche mai pensato di essere gay. «Ma dopo esserci sposati, mi è diventato subito chiaro che non ero interessato alle donne sessualmente, andavamo d’accordo, ma da amici, non provavo la minima attrazione fisica per lei». Decisero per il divorzio, ci fu uno scandalo e cominciò il tunnel dell’incertezza, della confusione interiore, dell’impossibilità di identificarsi. Manvendra cadde anche in depressione. Lo psicanalista gli disse che il primo passo per la guarigione doveva essere dichiarare la sua situazione alla famiglia. «Ma i miei genitori pensavano di dovermi far cambiare, credevano che la scienza avesse sicuramente una cura per l’omosessualità». Non funzionò, non poteva funzionare. Poi fecero ricorso alla religione, aggiungendo solo altra pena. Anni tristissimi. «Alla fine decisi che non potevo più sopportare e diedi un’intervista a un giornale indiano facendo coming out». Fu diseredato. La madre da quel giorno non gli parla più. Nel 2013 ha conosciuto un giovane americano, lo ha sposato. Si sono impegnati insieme nella campagna a favore della comunità omosessuale dell’India. Il principe presiede la fondazione Lakshyia. Il padre, che ha ancora il titolo di maharajah, dice che la famiglia finalmente ha accettato. La nonna ha dato la sua benedizione sul letto di morte. Il vecchio maharajiah ha lasciato al figlio una residenza dove vivere con il marito. A 55 anni, Manvendra sta per aprire la sua casa nello Stato di Gujarat a chi non ha un posto dove andare dopo aver fatto coming out. Nelle stanze della residenza si terranno corsi di insegnamento professionale per la comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender). Ci saranno anche consultori sui rischi dell’Aids e assistenza psicologica. Il principe e il marito deAndre Richardson hanno trascorso questi mesi di lockdown negli ultimi preparativi: «Io non avrò figli e possiedo una grande casa, per questo ho deciso di metterla a disposizione».

Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero" il 9 agosto 2020. Quando il principe Manvendra Singh Gohil, futuro maharaja di Rajpipla, ultimo della stirpe guerriera dei Rajiput, da dieci secoli signori del Rajasthan, fece il suo coming out nel 2006, fu stupito lui per primo. Fino a qualche tempo prima non sapeva nemmeno che fosse possibile amare una persona dello stesso sesso. Dell'omosessualità sapeva solo che era un reato, ancora oggi mal tollerato in India. In realtà, Manvendra non era nemmeno sicuro che esistesse sul serio, l'amore. Chiamava mamma la balia, perché sua madre figlia del maharajah di Jaisalmer, si faceva vedere molto di rado. Con Chandrika Kumari, principessa anche lei, sposata con matrimonio combinato nel 91, la storia era finita dopo quindici mesi senza che si fossero mai sfiorati. Da allora Manvendra ha compiuto un lungo cammino, che lo ha portato a essere una star della lotta per i diritti degli omosessuali, amico di Carla Bruni e Nicolas Sarkozy, ospite per ben tre volte del planetario salotto di Oprah Winfrey, osannato in Al passo con i Kardashian, creatore di un fondo, il Lakshya Trust, per sostenere l'uguaglianza di genere e soprattutto proteggere gli omosessuali in India.

OSTRACISMO. In questi anni è stato anche bandito, diseredato dai suoi (sua madre comprò addirittura una pagina su un giornale per dire quando disapprovasse il tutto), ripudiato dai sudditi, la sua immagine bruciata. Era già una vergogna che fosse mancino, figuriamoci gay. Poi è cominciata la redenzione, e anche la felicità. Nel 2012 ha incontrato il futuro marito, l'americano deAndre Duke Richardson, stilista. E questa primavera, con il mondo confinato per il Covid, Manvendra e il suo duca hanno aperto le porte del loro palazzo, una costruzione tra le piantagioni di banane e cotone nello stato del Gujarat, 400 chilometri a sud dell'antica Bombay. Per lui, primo essere di sangue reale ad aver dichiarato apertamente la propria omosessualità così almeno assicurano le cronache l'obiettivo è far crollare il muro di pregiudizi e discriminazioni che ancora imprigionano i gay in India. Il suo palazzo nel Gujarat dovrà servire a dare riparo agli omosessuali ancora banditi dalla società: «Nessuno meglio di me sa quanto sia importante trovare un posto sicuro dove vivere dopo aver dichiarato la propria omosessualità».

IL RISULTATO. Pochi giorni fa è stato lui, accanto a Duke, l'ospite d'onore del Global Pride che si è svolto interamente via internet. I due hanno raccontato la loro storia, un segno di apertura in un mondo che si chiude per proteggersi. «Alla fine mio padre, il maharaja, ha incontrato deAndre ha raccontato Manvendra perfino i miei sono riusciti, almeno in parte, ad accettarmi». Nonostante la fama internazionale, gli amici altolocati e il sangue blu, trovare soldi per sostenere la parità di genere e aiutare la causa omosessuale continua a essere difficile in India, anche per un maharajah. «I fondi sono pochi, ma gli omosessuali in India sono tanti!» dice col tono sempre misurato, Manvendra. Secondo le organizzazioni internazionali, sono almeno due milioni e mezzo i ragazzi (per le ragazze non esistono cifre) a subire gravi discriminazioni in India. «Fare coming out è difficilissimo, solo una minoranza osa dice Manvendra i genitori continuano a forzare i figli gay a sposarsi con persone del sesso opposto, minacciando di suicidarsi. O li cacciano di casa» Nel palazzo di pietra di Gujarat, da sempre della stirpe dei Rajpipla, i fasti sono stati cancellati dal tempo. Manvendra spera di riaprire anche questa reggia ai gay e alla tolleranza. All'ingresso, c'è una foto della sua famiglia, con lui adolescente: «Mio padre indossa l'abito della caccia alla tigre, mia madre una tenuta di gala, quello sono io, con la mia tunica rosa. Per questo tutti mi chiamavano the pink prince, il principe rosa», dice, finalmente ridendo.

Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 21 luglio 2020. Perché esiste l’omosessualità, e soprattutto perché è diffusa anche in oltre 1.500 specie animali? Non è un paradosso, visto che in teoria l’adattamento premia chi si riproduce di più e dunque si accoppia con l’altro sesso? Secondo ricercatori della Yale School of Forestry & Environmental Studies  questo tipo di comportamento non è una variazione rispetto a una normalità. Potrebbe invece essere parte di qualcosa ancestrale che, se è stato mantenuto nel corso dell’evoluzione, evidentemente ha portato benefici. Non è niente di nuovo, ma qualcosa che risale alle origini della vita e che si è sviluppato contemporaneamente all’altro tipo di sessualità. Nella loro ricerca sostengono che nessuno finora ne aveva capito le cause perché si è sempre pensato che l’eterosessualità fosse la regola, e l’omosessualità una deviazione. Molti biologi hanno creduto che avesse un alto prezzo evolutivo e, di conseguenza, fosse una aberrazione. Charles Darwin aveva sostenuto che la selezione sessuale era il motore dei cambiamenti, e la produzione di figli sembrava essere fondamentale. Se si cambia invece prospettiva emergono altri aspetti: l’accoppiamento ha costi evidenti, sia in termini di energia spesa per la conquista, sia in termini di tempo. Inoltre spesso non porta a un risultato: competizione, età, qualità di sperma e ovuli, stato di benessere sono fattori determinanti. Infatti negli animali andare con l’altro sesso non è una norma incontrovertibile: è più vero invece che non esiste una netta divisione ma spesso si rivolgono a tutti i sessi. Probabilmente, è la conclusione degli studiosi, una attrazione senza discriminazioni sessuali è la condizione originale e dunque deve essere necessariamente stata positiva. La bisessualità è venuta prima. L’eterosessualità esclusiva potrebbe essere una derivazione che si è presentata solo quando alcune specie hanno effettivamente conquistato caratteristiche distinte tra maschio e femmina.  Se l’omosessualità non fosse stata utile, sarebbe scomparsa. Così non è stato. D’altronde gli animali esibiscono sessualità molto varie che non necessariamente generano una prole, e che vengono rivolte, oltre allo stesso sesso, anche nei confronti di specie diverse, oggetti inanimati, cadaveri e anche a se stessi. La strada dell’omosessualità non quindi è un problema che richiede una soluzione, ma qualcosa di molto radicato. Gli evoluzionisti della Yale sostengono che la domanda che la scienza si è sempre posta, ovvero perché esiste, andrebbe sostituita da un altra: perché non dovrebbe esistere? Fanno sesso con lo stesso genere animali di tutti i tipi, vertebrati e invertebrati: l’oca delle nevi, il pinguino, che forma coppie stabili e alleva piccoli, il rospo comune, il bisonte americano, il cane, il delfino, il leone, il macaco e perfino il moscerino della frutta. E’ dunque un comportamento naturale e consolidato che andrebbe considerato come neutrale, ovvero non porta necessariamente effetti negativi. Gli individui sono più inclini ad accoppiarsi con più partner e in molte specie, per esempio negli insetti, l’accoppiamento con lo stesso sesso potrebbe essere dovuto al caso, e alla effettiva incapacità di distinguere il genere. Nei primi animali che hanno fatto sesso non c’erano grandi distinzioni, e la fatica di riconoscere l’altro avrebbe rallentato il processo. Nel necroforo, un coleottero, il riconoscimento c’è e viene però fatta una scelta: i maschi si accoppiano con altri maschi quando la concorrenza per avere una femmina diventa alta, i tempi di corteggiamento si allungano e il rischio di avere un rifiuto è alto. Lo fanno per poter esercitare i loro rituali anche quando non portano al successo riproduttivo. Un modo per tenersi in esercizio aspettando momenti migliori. Ci sono lati positivi anche per l’uomo. Una ricerca dell’Università di Padova e Trento ha dimostrato che le madri e le zie di uomini gay tendono ad avere più figli. E mentre uno studio pubblicato di Science ha rivelato che non esiste nessun gene che impone l’omosessualità, potrebbe essere invece l’espressione di una combinazione di diverse varianti genetiche che agiscono anche sulla riproduzione. Se l’omosessualità si è mantenuta è perché porta benefici evolutivi riconoscibili. Nei delfini e nei bonobo, che hanno società complesse, ha appunto un valore sociale. E sono proprie queste specie dove è più diffusa. Uomo compreso. Nei mammiferi marini infatti avviene soprattutto tra i giovani maschi e serve a rinforzare i rapporti nel gruppo. Nei bonobo, dove è diffuso nelle femmine, aiuta a stabilire gerarchie. Il team della Yale non ha dubbi: è ragionevole pensare che siamo spontaneamente sia eterosessuali che omosessuali. L’espressione della sessualità può variare nel corso della vita e all’interno delle popolazioni, ed è una dimostrazione del fatto che, naturalmente, non c’è discriminazione. E’ il risultato di una serie di processi adattativi che comprendono una continua variazione tra le due possibilità.

Eurispes: il 59,5% degli italiani dice "Sì" ai matrimoni gay. Ma solo il 42% è a favore delle adozioni. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da La Repubblica.it. La possibilità di contrarre matrimonio fra persone dello stesso sesso è accettata dal 59,5% dei cittadini italiani, una percentuale decisamente superiore a quella (40,8%) registrata nel 2015. E' uno dei risultati della ricerca "I temi etici: l'opinione degli italiani" curata dall'Eurispes. La possibilità di adozione anche per le coppie omossessuali trova invece contrari il 58% dei rispondenti, mentre i 'si' raggiungono il 42% (erano il 31% l'anno scorso e il 27,8% cinque anni fa).

L'indagine. Da diversi anni l'Eurispes conduce un'indagine per far emergere nel tempo i cambiamenti intervenuti a modificare gli atteggiamenti e le opinioni degli italiani sui temi cosiddetti "etici", cogliendo in questo modo i mutamenti culturali avvenuti o in atto. La rilevazione effettuata a più riprese e presso un campione di cittadini rappresentativo della compagine italiana dai diciotto anni in su, permette di mettere a confronto risultati anche cronologicamente distanti. Cronaca Coppie gay:mamme cancellate e figli contesi dopo la separazione.

I matrimoni gay. E' il 63,1% delle donne intervistate a dirsi favorevole alla possibilità di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso; la percentuale maschile è notevolmente inferiore con il 55,8%, pur registrando un aumento, rispetto allo scorso anno, di quasi 10 punti percentuali (45,9%). Contrari alla possibilità di adottare bambini anche per le coppie omossessuali sono il 55,1% delle donne e il 61% degli uomini. A dire sì ai matrimoni gay sono il 77,1% dei 18-24enni (+17% rispetto ad un anno prima), il 70,1% dei 25-34enni, il 66,2% dei 35-44enni, il 55,7% dei 45-64enni e il 45,3% degli over 64.

Simona Marchetti per corriere.it il 13 luglio 2020. Essere gay, ma non poterlo dire a nessuno, perché sei un calciatore della Premier League e hai troppa paura delle possibili ripercussioni che potrebbe avere la tua confessione. Un tormento quotidiano che, giorno dopo giorno, diventa un vero e proprio incubo, perché ti senti intrappolato in una vita che non è la tua e che ti sta rovinando anche la salute mentale, con il cuore che ti suggerisce di fare coming-out e la testa che ti dice invece di non fare sciocchezze. Questo il senso della lettera aperta – ma rigorosamente anonima – scritta da un noto giocatore della Premier League ai vertici del calcio inglese e ai tifosi, per rivelare la propria omosessualità e resa pubblica dal Sun, in accordo con la Justin Fashanu Foundation (la fondazione gestita da Amal Fashanu, nipote di Justin, primo calciatore inglese a rivelare il proprio orientamento sessuale e poi morto suicida a soli 37 anni) che ha raccolto lo sfogo e sta aiutando anche psicologicamente la star del pallone. «Da bambino ho sempre voluto fare il calciatore – si legge all’inizio della lettera – e alla fine ci sono riuscito, ma c’è qualcosa che mi rende diverso dalla maggior parte degli altri calciatori della Premier League. Io sono gay. E anche solo scriverlo in questa lettera è un grande passo per me. Ma solo i membri della mia famiglia e un ristretto gruppo di amici sono a conoscenza della mia sessualità, non mi sento ancora pronto a condividere questa cosa con i miei compagni di squadra o con il mio allenatore. Qualcosa dentro di me mi rende impossibile essere onesto con loro, spero un giorno di poterlo fare». L’anonimo campione rivela di aver capito il proprio orientamento sessuale all’età di 19 anni ed è da allora che è iniziato il suo calvario. «Come ci si sente a vivere così? Giorno dopo giorno, può diventare un autentico incubo – continua la missiva – e sta influenzando sempre di più la mia salute mentale. Mi sento intrappolato e ho il terrore che dire la verità su quello che sono renda solo le cose peggiori, così anche se il cuore spesso mi dice di farlo, la mia testa mi dice sempre la stessa cosa “perché rischiare?”. La verità è che non credo che il calcio sia ancora pronto per il coming-out di un giocatore, ci sono troppi pregiudizi e i calciatori hanno ancora troppa paura di compiere questo passo mentre sono in attività». E mentre la Football Association ha offerto il suo pieno appoggio all’anonimo giocatore, quest’ultimo ha poi ringraziato la Justin Fashanu Foundation per il supporto psicologico che sta ricevendo. «Senza di loro, non so dove sarei ora – conclude la lettera - . So che potrei arrivare a un punto in cui sarà impossibile continuare a vivere questa bugia, se succederà, il mio progetto è di ritirarmi e fare coming-out. Potrebbe voler dire buttare via anni di carriera redditizia, ma non c’è un prezzo alla tua pace mentale e di certo non voglio vivere così per sempre».

Barbara Costa per Dagospia il 18 settembre 2020. Al gossip interessa se Cara Delevingne sia lesbica o bisex, e se prima o poi torni etero, non presto visto che sta uscendo con Paris Jackson e allora il gossip si domanda se quella di Paris sia una fase lesbo, se si sia scoperta bisex e quanto, o sia una etero alla ricerca di nuovi brividi. Tutte cazzate, esagerazioni, nel senso che quello che fanno Cara e Paris lo fanno molte di noi, può averlo fatto o lo fa tua moglie, tua figlia, tua sorella, la tua collega di lavoro. Andiamo a letto con chi ci pare, e quello proiettato dal gossip, è solo la sua impronta glamour. Non è che noi Millennials o generazione Y o Z o come cavolo la chiamano ora, siamo tutte impazzite o diventate "gaie" per moda. È sempre stato così, dalla notte dei tempi. Solo che oggi, anche grazie a Cara Delevingne e alle sue fidanzate, ci sentiamo più forti e libere di parlarne e di esibirlo, davanti agli altri, alla luce del sole. Siamo pansex, fluid, etero curiose, siamo dentro e fuori da ogni etichetta, siamo quello che vogliamo e ci sentiamo libere di essere. Quasi ogni uomo impazzisce al pensiero di due donne che giocano a letto, ma il fatto è che queste donne non giocano, scopano, è diverso. Come è diverso il rapporto sessuale tra un uomo e una donna da quello tra una donna e una donna. Non sto parlando di sentimenti, né di storie d’amore: sto parlando di sana e pura attrazione sessuale. E alla cruciale domanda che molti maschi si fanno, ovvero che differenza c’è per una donna dal portarsi a letto un uomo o appunto, una donna, rispondo di abbandonare l’idea che scegliamo una donna perché ci dà più piacere di voi, perché sia migliore di voi, o peggio, un vostro ripiego. Non è così. Per una donna, fare sesso saffico è un’esperienza a sé, che non ha niente a che vedere con andare a letto con un uomo. Se non è lesbica, può farlo per curiosità, sperimentazione, se è bisex lo fa perché ha desideri insopprimibili che un uomo non può soddisfare, ma il rapporto in sé, non ha niente a che fare con quello etero. Una vagina, uno o più dita, una lingua, uno strap-on o un vibratore non sostituiscono un pene, chiunque dica il contrario, vi sta intortando. È innegabile, però, che andiamo a letto con donne perché abbiamo bisogno di quelle sensazioni lì, di esaudire, vivere quelle fantasie lì, di "venire" così. Un rapporto sessuale donna-donna è diverso da quello donna-uomo non solo nelle posizioni, nella stimolazione e nella penetrazione in sé, ma proprio nella…durata ed esecuzione. Basti pensare che due donne che fanno sesso non hanno l’assillo di rimanere incinte e, differenza basilare, tra le due non c’è ansia da prestazione. Non esiste l’orgasmo reciproco, simultaneo, come si dice in giro, e come è un mito anche nel rapporto donna-uomo, un mito da film d’amore, ma è certo che tra donna e donna c’è una devozione, una passione diversa, se non maggiore comunque massima, nel dedicarsi al piacere dell’una e dell’altra. Non c’è fretta, non ci sono "problemi" di eiaculazione precoce, non devi necessariamente fermarti dopo aver raggiunto un orgasmo e, se c’è intesa, arrivi a orgasmi non dico multipli, ma certo non è finita dopo il primo. Poi ovviamente, la riuscita o meno dipende sempre dal coinvolgimento, dall’alchimia tra le due protagoniste. C’è una differenza abissale di tempi, ma pure di sapore, una differenza di pelle e di bocche, che si danno e ricevono sensazioni "femmine". Tutti gli incastri sessuali che vedete tra Adèle e Emma in "La vita di Adèle", in linea di massima, diciamo così, sono quelli, cioè sono simili, ci può essere la stessa fame, certo non si ha l’identica perfezione ritmica e di "immagine". Il sesso reale è tutt’altra cosa, è impossibile le prime volte riuscire a fare tutto in tutte quelle posizioni e con tutti quegli orgasmi lì, è difficile anche tra donne le prime volte capire quello che davvero vuoi e ti piace, che non sempre e non necessariamente è quello che fanno vedere Emma e Adèle, né è necessariamente violento, né senza pause, né così…sfiancante. Si vede che il film è diretto da un uomo ignaro della faccenda, che ha puntato sul voyerismo e sui corpi magnifici delle due ragazze: Abdellatif Kechiche, il regista, esagera, quello è sesso che "devia" da se stesso, dalla verità che attraverso la finzione si vorrebbe rendere e dare. "La Vita di Adèle" è sesso lesbico visto con gli occhi di un uomo. È sesso tra donne nella spinta fantasia di un uomo. Tra donna e donna reali c’è la stessa "goffaggine", imprecisione di corpi e posizioni che vi è nel sesso etero. Molto meglio, d’intensità, in ambito cinematografico il lesbo di "Bound – Torbido inganno": più vero, profondamente più torrido, seducente. Dicevo prima, la maggior parte degli uomini si eccita come mai al pensiero di due donne a letto, e farlo a tre è tra le richieste che vanno per la maggiore da parte maschile. Ciò è a mio parere spiegabile perché il piacere, l’orgasmo femminile è uno scrigno chiuso, inaccessibile al maschio. Lo è con la sua donna, di cui – si presume – debba conoscere abbastanza del suo corpo, delle sue zone erogene, della sua eccitazione, e la fantasia, il turbamento maschile raddoppia se vede che a provare piacere le vagine sono due, i corpi che dondolano sono due, che si perdono nell’orgasmo sono due. Un uomo può entrare nell’incastro di due corpi femminili a prenderne e a darne piacere, può aumentarlo se ci sa fare, ma l’orgasmo femminile sarà, e nel rapporto etero a due, e nel rapporto a tre donna-uomo-donna, anche da lui provocato, anche grazie a lui raggiunto, ma a lui fondamentalmente estraneo. L’orgasmo femminile è per lui un mistero, e il "bello" del sesso è anche questo. Il piacere, l’orgasmo maschile è alla donna evidente, la sua riuscita provata, quello femminile solo dallo squirting che, non prendiamoci in giro, per la maggioranza delle vagine è un miraggio. Noi possiamo venir riempite, inondate dal suo sperma, lo possiamo ingoiare, lui può bagnarsi labbra e dita dei nostri umori, ma una vagina umida, bagnata, è segno di vagina eccitata, non di vagina in orgasmo. Gli uomini più attenti possono capire di essere riusciti a farci venire dalle contrazioni del nostro ventre, sono più frequenti all’arrivo del piacere massimo e terminano a piacere avvenuto, ma la maggior parte degli uomini non ha tempo, in quei frangenti sono giustamente impegnati, concentrati al raggiungimento del loro, di orgasmo, non hanno "modo" di assicurarsi del nostro. Non tutti gli uomini sono così, certo, ma una donna che ne sta possedendo un’altra sì, perché la differenza vera da un uomo la trovi proprio nella dedizione. Il sesso donna-donna non è migliore di quello donna-uomo. Ma è diverso, e da provare, pure se sei etero. Fidati.

Maria Elena Barnabi per "cosmopolitan.com" il 14 luglio 2020. Tutto è nato qualche settimana fa, quando a Cosmo abbiamo deciso di creare un video per promuovere l’amore arcobaleno in occasione del Pride: un mescolotto di persone dello showbiz e gente della strada che dichiaravano chi amavano, as simple as that. “Sono Francesco, io amo Pippo”, “Sono Laura, io amo Mauro” e “Sono Martino, io amo chi voglio”. Per renderlo totalmente inclusivo, ci doveva essere qualsiasi sfumatura di genere e orientamento. Ci siamo messe lì e abbiamo cominciato a elencare nomi di artisti vicini al mondo LGBTQ+ da invitare, ma mentre i nomi di maschi famosi più o meno gay, più o meno no gender venivano facili (provaci anche tu: ne metti insieme dieci in dieci secondi), quando siamo arrivate alle donne ci siamo inceppate. C’è Gianna Nannini, ma la Gianna è grande, ha più di 60 anni (66 per la precisione) e poi ha praticamente dichiarato solo l’altro ieri di “amare donne e uomini, io sono pansessuale” (per inciso da anni sta con Carla, le due si sono sposate in Gran Bretagna e Gianna ha pure avuto una bambina) e poi figurati se la Gianna ci fa un video, noi chiediamo poi chissà (non l’ha fatto).

Chi sono le lesbiche famose in Italia? Poi, dopo la Nannini, chi abbiamo di lesbiche famose nello showbiz italiano? Certo ci sono Imma Battaglia e Eva Grimaldi: sposate, sono la coppia d’oro del movimento LBGTQ+, sempre in prima linea a parlare del loro amore anche sui giornali per famiglie, Imma politica e attivista, Eva con una carriera da attrice e sex symbol quindi bellissimo esempio. Sì, ma dico: oltre a loro, chi c’è di star lesbica?

"Nello showbiz il femminile è mediato dagli uomini e forse questo rende più difficile il coming out".  C’è a onor del vero qualche ventenne uscita dai talent e dai reality che ha fatto coming out (come Giordana Angi e Martina Beltrami), qualche sportiva come la pallavolista Paola Egonu, 22 anni (ormai anche gli sportivi sono star) e qualche cantante indie (la brava Lim), ma di famoso famoso: chi c’è? Dunque, aspetta un attimo: la cantautrice, quella che suona la chitarra, non è dichiarata. Quell’altra a cui è stato chiesto mille volte, no. Poi? Niente. Il vuoto. Zero. Nessuna lesbica famosa nel nello spettacolo italiano.

Le donne che hanno fatto coming out. Tutto il contrario invece se guardi il mondo anglosassone: Miley Cyrus, Sia, Janelle Monae sono donne più o meno lesbiche, più o meno bisessuali e tutte lo dichiarano senza problemi. Uscendo dalla musica, dove son le nostre Kristen Stewart, Ellen Page, Stella Maxwell, Cara Delevingne, Ruby Rose, Alba Flores? Dov’è il nostro telefilm con un cast intero e bellissimo di ragazze gay come The L Word? Dov’è la nostra Ellen DeGeneres? Nel 1997, protagonista di un serie tv di successo che portava il suo nome, l’attrice comica fece coming out sia con il suo personaggio che nella vita vera ed ebbe un effetto dirompente nello mondo della spettacolo americano. Il suo coming out ha contribuito a normalizzare l’omosessualità femminile nella rappresentazione della società americana. Da anni ormai Ellen è uno dei volti più importanti della tv popolare statunitense con talk show tutto suo: sarebbe come se Mara Venier, Barbara D’Urso e Maria De Filippi fossero lesbiche e sposate con una donna (nel caso di Ellen, la moglie è l’attrice Portia de Rossi, che pare la Barbie). Invece le signore della tivù italiana, due stanno con un uomo più anziano di loro, mentre la terza sta prevalentemente con gli uomini molto più giovani.

Perché non ci sono lesbiche nello spettacolo italiano? Impossibile pensare che non esistano: stando stretti, l’omosessualità riguarda il 10 per cento della popolazione, dicono gli studi. «Sulla mia scrivania arrivano un sacco di progetti al femminile, ma dati alla mano le donne vendono meno degli uomini», dice Sara Potente, una delle poche discografiche italiane, appena nominata ambasciatrice di Keychange, l'organizzazione internazionale che si occupa del "balance gender" nell'industria musicale: oggi Potente lavora in Sony Music Italia e segue artisti importanti come Giusy Ferreri, Baby K e Fedez, in passato è stata l’artefice del successo di Mahmood e ha scoperto Nina Zilli. «Nei ruoli strategici della musica ci sono gli uomini: sono loro che decidono cosa va in radio, chi canta a Sanremo, chi mettere nelle playlist. Nello showbiz il femminile è mediato dagli uomini e probabilmente questo rende più difficile anche un eventuale coming out». E se poi dichiararti lesbica mettesse in forse la tua fama, i tuoi soldi, il tuo successo? O la tua vita? In fondo ognuno ha il diritto di non dichiarare il proprio orientamento sessuale. «Siamo tutti e tutte corresponsabili: fare coming out in Italia non è facile, non se ne parla quasi mai. Nel nostro Paese dal 2005 al 2019 nei tg in prime time sulle tv generaliste le tematiche Lgbt+ sono state solo lo 0,3% del totale delle notizie», dice Francesca Vecchioni, una vita spesa a parlare di diversità, creatrice di Diversity, l’organizzazione no profit che promuovere l’inclusione sociale. «Le donne poi scontano una discriminazione di genere fortissima, e se a questa aggiungi quella legata all’omosessualità, è chiaro che le lesbiche sono molto esposte alla violenza dell’omofobia. Per molte, è ancora rischioso dichiararsi. In Italia inoltre due donne che vivono assieme o si tengono per la mano, non sono niente di speciale. Quindi perché una dovrebbe prendersi la briga di fare coming out?».

Perché è importante dare l'esempio. Già appunto, perché? Basta guardare la cronaca per capire perché. L’avvocata Cathy La Torre, attivista genderfluid e lesbica, si è appena candidata a sindaco di Bologna, e subito è stata attaccata politicamente. La legge contro l’omobitransfobia, un testo semplice che la equipara al razzismo viene osteggiata…La strada è lunga, e più persone pubbliche si dichiarano lesbiche, più tutti e tutte avremo vita facile. Soprattutto avranno vita più facile le bambine che crescendo scoprono di amare le ragazze (qui leggi 7 storie così) e si sentono un po’ sole: a loro non basta vedere lesbiche di fantasia nelle serie tv di Netflix e Amazon Prime Video. Vogliono anche vedere lesbiche vere, vogliono specchiarsi nel loro viso e in quello delle loro compagne. «Io ho fatto coming out pubblicamente non per la mia famiglia, che da sempre conosceva il mio orientamento sessuale, ma per creare un mondo migliore per le mie due figlie», racconta Francesca Vecchioni. «Quando vado nelle scuole e negli incontri pubblici e le ragazze mi dicono che conoscendo la mia storia hanno preso coraggio nel dichiararsi, allora sono felice. È difficile, lo so. Ma quando decidi di essere autentica, poi ti rendi conto di quanto ne valeva la pena». Lesbiche dello showbiz italiano, unite e take over: Miley ci aspetta.

Soldi pubblici per libro sugli immigrati Lgbt: con attacco a Salvini...Un libro che indaga sulla tutela dei "migranti Lgbt", finanziato con fondi pubblici, presenta pure critiche: una è dedicata a Matteo Salvini. Giuseppe Aloisi, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. L'inclusione come mantra in grado di racchiudere tanto le istanze Lgbt quanto la gestione aperturista in favore dei migranti: la ratio di un libro, "Migranti LGBT: Pratiche, politiche e contesti di accoglienza", un testo curato da Noemi Martorano e Massimo Prearo, potrebbe essere interpretata così. Nella descrizione del libro, che si trova per esempio sul sito di uno dei due curatori, si legge tra le varie indicazioni che: "Questo libro tratta della richiesta di protezione internazionale da parte di soggetti perseguitati nei loro paesi d’origine per la loro identità di genere o il loro orientamento sessuale, e propone un’analisi socio-politica delle logiche istituzionali e delle dinamiche comunitarie che le persone migranti LGBT si trovano ad affrontare in Italia". Esiste dunque un tema poco indagato, tanto dal punto di vista giornalistico quanto da quello scientifico. Quello che per gli autori merita di essere analizzato. In effetti, non è così comune leggere della questione dei migranti, tenendo in considerazione pure la sfera dell'orientamento sessuale. E le storie personali di coloro che cercano rifugio sulle nostre coste possono interessare anche quella sfera. Per quanto quest'opera stia balzando agli onori delle cronache per motivi anche differenti. Intanto questo libro è stato finanziato attraverso quelli che sembrerebbero soldi pubblici. L'edizione odierna de La Verità cita due voci: 20 mila euro provenienti dall'Università di Verona; 50 mila euro del ministero dell'Università. Che in totale farebbero 70 mila euro. Dicesi "fondi Prin", ossia fondi destinati a progetti che presentano la caratteristica di essere "rilevanti" per il territorio nazionale. Poi l'accento, una volta sottolineati questi aspetti, può essere spostato sui messaggi contenuti nell'opera. Sempre secondo quanto ripercorso dalla fonte sopracitata, il libro presenta pure qualche critica alla "destra" o alla "estrema destra". Viene citato almeno un episodio. E fin qui, nulla di nuovo. Ma è possibile che "Migranti LGBT: Pratiche, politiche e contesti d'accoglienza" prenda posizione nei confronti delle scelte di questa o quella parte politica? All'interno dell'opera riportato un virgolettato, mediante cui si palesa una critica diretta nei confronti della cosiddetta "linea dura" sull'immigrazione del leader del Carroccio (ed ex ministro dell'Interno nel governo gialloverde): "Il decreto Salvini è una tappa di un lungo percorso di inferiorizzazione, repressione, stigmatizzazione,vulnerabilizzazione degli immigrati". Questo sembrerebbe a tutti gli effetti un giudizio politico. Matteo Salvini, insomma, rappresenterebbe un ostacolo all'inclusione. Una considerazione che viene presentata in un testo che, stando alle informazioni che abbiamo appreso, è stato finanziato dal Miur. Questo elemento, con buone probabilità, è quello che può destare maggiore stupore, con tutte le domande del caso. Esistono migranti che scappano dal loro paese d'origine perché perseguitati a causa del loro orientamento sessuale: un dramma che l'Occidente non può sottovalutare. Ma era proprio necessario gettare Salvini nella mischia? In un libro che ha avuto la possibilità di ricevere finanziamenti? Sono domande che riteniamo legittimo porre.

Usa, un arcobaleno lungo mezzo secolo: 50 anni di Gay Pride. Pubblicato domenica, 28 giugno 2020 da La Repubblica.it. «Eravamo pochi militanti disorganizzati: eppure riuscimmo a organizzare un corteo con migliaia di persone. Quella manifestazione ci permise di uscire dall’ombra dove fino ad allora ci nascondevamo: e iniziare la nostra lotta alla luce del sole». Mark Segal, 69, fra i più giovani fondatori del Fronte di Liberazione Gay, ricorda così la prima marcia dell’orgoglio omosessuale di cui oggi ricorre il 50esimo anniversario. Sì, il primo di quei Gay Pride, da allora organizzati ogni anno, che da New York hanno conquistato l’America e buona parte del mondo. Per celebrare la comunità Lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer) ma anche rivendicare diritti e leggi più inclusive sotto le insegne della bandiera arcobaleno.

Esteri Bosnia, città blindata per primo Gay pride a Sarajevo: in corteo oltre duemila persone di ROSARIO DI RAIMONDO E pensare che quel corteo organizzato il 28 giugno del 1970, si chiamava “Christopher Street Liberation Day”, cioè “il giorno della liberazione di Christoper Street”: dal nome della strada su cui ancora si affaccia lo Stonewall Inn, il bar gay, all’epoca gestito dalla mafia italiana, dove un anno prima, nella notte fra il 27 e 28 giugno 1969, i clienti si erano ribellati ai soprusi della polizia. Rifiutando di sottoporsi alle usuali perquisizioni degli agenti per appurare, secondo la legge, che gli avventori indossassero almeno tre capi conformi al loro sesso. Dopo aver attaccato i poliziotti con bicchieri e bidoni dell’immondizia, costringendoli a barricarsi nel locale per ore – e spedendone più d’uno in ospedale, come ricorda pure la targa posta dalla città di New York, a fianco dello storico bar -  continuarono a ribellarsi per tre giorni consecutivi. Una vera rivoluzione nell’America che ancora applicava le cosiddette “sodomy laws”: le leggi contro la sodomia, abrogate a partire dal 1973, scomparse definitivamente solo nel 2003 quando la Corte Suprema le cancellò negli ultimi 14 Stati dove ancora si applicavano. «Quella manifestazione fu rivoluzionaria e caotica come tutto ciò che accadde nel primo anno dopo i disordini di Stonewall» racconta dunque Segal al New York Times. «Non avevamo i permessi della polizia per sfilare e nessuno sapeva cosa sarebbe davvero successo, né quale trattamento gli agenti ci avrebbero riservato. Tanto da esserci preparati a quel giorno con lezioni di autodifesa personale», ricorda. Non ce ne fu bisogno. Quella manifestazione del 1970, in contemporanea con le marce tenute pure a Chicago, Los Angeles, San Francisco, fu pacifica. Fortunatissima. E da allora ripetuta ogni anno.

Un arcobaleno lungo mezzo secolo, dunque (sì, pure se la bandiera diventata simbolo del pride sventolò per la prima volta solo nel 1978, creata da Gilbert). E pazienza se nell’annus horribilis della pandemia la festa dell’inclusione – che solo un anno fa, nel 50esimo anniversario dei moti dello Stonewell, ha visto sfilare per le vie di Manhattan cinque milioni di persone - è stata costretta a fermarsi. Trasformata in una maratona virtuale di 26 ore che ieri, dall’Australia al Giappone, passando per l’Italia, ha comunque mobilitato e unito il mondo intero con una serie di eventi trasmessi in streaming. A New York e in altre città d’America, marce in forma minore si terranno ugualmente: quest’anno rendendo eccezionalmente onore agli operatori sanitari impegnati nella lotta al Covid 19, ma pure al movimento Black Lives Matter, tornato a protestare nelle strade dopo l’assassinio, un mese dopo a Minneapolis, dell’afroamericano George Floyd. E ci si mobilita pure per salvare lo Stonewall. Sì, l’iconico bar, sopravvissuto agli scontri con la polizia di fine anni Sessanta e all’Aids che negli anni 80 colpì con particolare durezza la comunità gay newyorchese, come molti altri locali della Grande Mela è stato messo in ginocchio dall’emergenza Covid. Fra i più frequentati della città fino a prima del coronavirus, finora non ha mai avuto difficoltà a pagare i 40 mila dollari d’affitto mensile. Ma potrebbe non farcela più. Per questo è stata lanciata una raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe. Finora grazie alla generosità di 2600 donatori, si sono già raccolti 133 mila dollari. La bandiera arcobaleno per ora continuerà a sventolare su Christopher Street. Ma per quanto tempo ancora?

Giuliano Guzzo per “la Verità” il 6 giugno 2020. Arcilesbica fuori dall' Arci. È l' appello, assai netto, che alcuni attivisti Lgbt hanno rivolto in questi giorni a Francesca Chiavacci, presidenti di Arci, chiedendo appunto l' allontanamento della storica sigla lesbica dalla federazione. Tale richiesta, promossa da Daniela Tomasino, Christian Leonardo Cristalli, Alberto Nicolini, e Mattia Galdiolo - quasi tutti militanti di Arcigay -, ha raccolto l' adesione di un centinaio tra circoli e collettivi, oltre che di 3.000 singoli, e poggia su una considerazione dal sapore paradossale: la presunta transfobia di Arcilesbica. «Da alcuni anni», recita infatti la petizione, «Arcilesbica usa i propri canali di comunicazione per esprimere posizioni transfobiche e trans-escludenti, sempre più in aperto contrasto con i valori e con lo statuto della federazione Arci di cui fa parte». Per questo il documento chiede apertis verbis «alla federazione di valutare l' espulsione di Arcilesbica». A scatenare gli animi in casa arcobaleno è stato un evento on line, tenutosi domenica 31 maggio, sostenuto dall' associazione lesbica e volto a lanciare in Italia la Declaration on women' s sex-based rights, documento che in pratica denuncia la discriminazione ai danni delle donne nel momento in cui il dualismo maschile e femminile viene soppiantato, sotto il profilo nozionistico, da un linguaggio centrato sull' identità di genere. Questo il richiamo alla prospettiva valoriale del femminismo della differenza costato ad Arcilesbica l' accusa di transfobia. Ma l' appello rivolto alla Chiavacci e ad Arci, a ben vedere, non rappresenta che l' ultima di una serie di tensioni interne all' associazionismo arcobaleno in corso da anni. Arcigay non ha infatti mai digerito la contrarietà della controparte femminile alla pratica dell' utero in affitto, una contrarietà che Arcilesbica motiva - si leggeva su una sua nota ripresa dal Manifesto del 5 novembre 2015 - sostenendo che «il primato femminile rispetto al generare è un dato che appartiene all' ordine delle cose ed è l' unica differenza che non può non essere riconosciuta». Una posizione forte ma che, va chiarito, non riguarda solo l' associazionismo lesbico italiano, come testimonia l' attività del Clf, acronimo che sta per Coordinamento lesbiche francese il quale, sotto la guida di Jocelyne Fildard e Catherine Morin Le Sech, nel febbraio 2016, a Parigi, tenne un convegno per chiedere l' abolizione universale dell' utero in affitto; dunque Arcilesbica altro non fa che seguire un filone femminista di respiro internazionale. Ciò nonostante, la contrarietà alla maternità surrogata è qualcosa che la componente maggioritaria del fronte Lgbt non ha mai perdonato alla sua costola femminile. Tanto è vero che, da anni, la presenza di Arcilesbica ai pride rappresenta più l' eccezione che la regola e nel 2018, per l' associazione, è arrivato addirittura lo sfratto dal Cassero di Bologna, sua storica sede. La richiesta di espulsione di Arci non è insomma un fulmine al ciel sereno, costituendo come si ricordava solo l' epilogo di una lotta intestina al mondo arcobaleno tutto fuorché nuova, anche se ultimamente sta toccando apici di inaudita violenza. Come ha notato anche Monica Ricci Sargentini del Corriere della Sera, adesso si è difatti arrivati alle minacce ai danni delle militanti della sigla lesbica. Basti qui ricordare una giovane socia dell' associazione, in questi giorni, ha ricevuto sul suo profilo Instagram perfino una minaccia di stupro, che non abbisogna di commenti tanto suona bestiale: «Attenta quando torni a casa la sera, che se ti becchiamo finisci con una mazza in ogni buco». Ora, parole simili, in un Paese normale, oltre che notizia avrebbero fatto scandalo. E invece, se non fosse per osservatori attenti come la Sargentini, sarebbero state liquidate come scaramucce. Il che è a dir poco inaccettabile e, a ben vedere, pure paradossale. Sì, perché all' esame del nostro Parlamento, come noto, c' è in queste settimane un disegno di legge contro omofobia e transfobia che, se diventasse legge, potrebbe comportare non pochi guai proprio al quel mondo arcobaleno che in teoria dovrebbe tutelare. Come infatti escludere, se la norma passasse, che Arcigay possa denunciare Arcilesbica per transfobia a causa del suo rifiuto ad abbandonare il riferimento al dualità maschile e femminile? E allo stesso modo, come dare torto alle militanti dell' associazione che, minacciate di stupro, domani sollevassero contro gli attivisti della controparte maschile l' accusa di omofobia? Apparentemente provocatori, simili dubbi pongono in realtà un tema concreto, dato che un conto è l' approvazione di una norma a tutela delle minoranze e un altro, ben diverso, è la sua applicazione. Soprattutto in considerazione del fatto che, diversamente dalla narrazione mediatica, la galassia arcobaleno è lontana anni luce dal «love is love» di obamiana memoria. E appare dominata, come i fatti ricordati provano, da scontri, rivalità e lotte che, con lo sbandierato primato dell' amore, non hanno nulla a che spartire.

Dagospia il 18 febbraio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2.  Willy, cantante ai matrimoni, ha telefonato questa notte ai Lunatici di Rai Radio2, il programma in diretta condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, dal lunedì al venerdì notte parlano con gli ascoltatori che chiamano lo 06 3131. Willy ha raccontato cosa gli è capitato nel di un matrimonio in cui ha suonato: "Faccio il cantante, spesso mi esibisco ai matrimoni. Voglio dirvi cosa è accaduto in un matrimonio in cui ho suonato. Ero in Abruzzo. Hanno beccato lo sposo a festeggiare in modo un po' strano. Non si trovava più, dovevano far uscire la torta, ma lui era sparito. Pensavano si fosse sentito poco bene, oppure che fosse andato a fumare. E invece un parente della sposa lo ha trovato in bagno che stava festeggiando...Facendo l'amore con un suo amico! Per carità, non c'è niente di male a far l'amore tra uomini, ma se ti sei appena sposato con una donna e ti fai beccare in bagno con un tuo amico...C'è qualcosa che non va. Per fortuna mi hanno pagato lo stesso, la festa non è finita a mazzate, nessuno si è picchiato, ma la sposa si è messa a piangere e anche lui non stava messo tanto bene. I parenti di lui sono venuti da me a dirmi che avrei anche potuto smettere di suonare perché non c'era più niente da festeggiare. In 29 anni che faccio questo mestiere non mi era mai capitata una cosa del genere". 

Maria Elena Barnabi per cosmopolitan.com il 27 giugno 2020. «Ho sempre pensato che le ragazze fossero più belle dei maschi: mi sembrava una realtà inconfutabile, ma fino ai 20 anni ho avuto storie solo con ragazzi. Poi ho conosciuto Giulia: mi consolava per uno che mi aveva scaricato, e siamo diventate amiche. Io sapevo che a lei piacevano le ragazze, ma il dubbio, su di me, non mi ha mai sfiorato. Senza rendermene conto, ho cominciato a vestirmi carina se sapevo che in compagnia c’era lei, e ad abbracciarla spesso, io che sono sempre stata una fredda. Poi una sera, eravamo sui Navigli a Milano con i nostri amici, ci siamo baciate, davanti a tutti. E ho capito che mi piaceva lei. La cosa da ridere è che io probabilmente sono stata l’ultima a capirlo, le persone attorno a me avevano già visto tutto! Per un anno abbiamo fatto tira e molla, quando ci lasciavamo io uscivo con ragazzi e mi rendo conto ora che in quei mesi faticavo ad accettarmi. Poi abbiamo fatto pace, io soprattutto, e ora è tre anni che viviamo assieme. Per nessuno della mia famiglia è stato un problema, neppure per mia nonna che ha 75 anni: non mi sono mai sentita discriminata, in nessuna occasione. La vita è la nostra, chi ci ama ci vuole bene e basta. Come l’ho detto a mia mamma? È stato lei a tirarmelo fuori, con naturalezza. Un giorno ero a casa dei miei, lei stirava nel soggiorno, e io lì con lei. A un certo punto mi chiede a bruciapelo: “Sei lesbica?”. E io: “No, però sto uscendo con Giulia”, ed è stata fatta. Ed è così che mi sento: ho sempre evitato di definirmi, gay o etero. Io sono Alice e basta».

LILIANA, 22 ANNI. «L’ho sempre saputo in realtà, ma non mi era chiaro. Da piccola mi sono innamorata dell’amichetta, della maestra e di chissà quante attrici della televisione. I miei sentimenti però erano qualcosa di non decifrabile, qualcosa che poteva confondersi con l’immedesimazione, e tutto è rimasto dentro di me senza spiegazione fino ai 17 anni. Poi ho conosciuto una ragazza e ho perso la testa per lei, non ci dormivo la notte. Così ho lasciato il mio fidanzato e le ho scritto una canzone nella speranza che quel sentimento fosse ricambiato… ma ho preso il mio primo due di picche. Dopo un po’ di tempo ho conosciuto una ragazza più grande di me, ci siamo innamorate e ne ho parlato con mia mamma, che ha reagito benissimo. Penso che la sua tranquillità e la sua capacità di accogliermi siano state la chiave per accettare me stessa. Sono stata molto fortunata».

FEDERICA, 27 ANNI. «Quando avevo 6 anni uno zio che non vedevo da tempo venne a trovarci e mi regalò il camper della Barbie… Era così soddisfatto di esser riuscito a comprarmelo che finsi stupore. In realtà mi sentivo delusa e intontita, perché dentro a quel pacco mi aspettavo delle scarpette nuove da calcio, un completo del Milan o qualsiasi cosa che non fosse rosa. A 10 anni ero capitano della squadra di calcio maschile del mio piccolo paese. Le mie giornate si consumavano nelle campagne, sempre alla ricerca di qualcosa di misterioso. Le mie compagne di classe si ritrovavano per raccontarsi gli inciuci e imparare a truccarsi, mentre io improvvisavo partite in ogni dove con i miei amichetti. In qualunque modo passassi le giornate, tornavo a casa sempre con le ginocchia sbucciate. A 13 anni persi mio padre in un incidente e all’improvviso, iniziai a provare una certa rabbia verso i maschi e decisi di passare più tempo con le femmine. Dopo qualche anno venni selezionata per andare a giocare in una squadra di Milano, una categoria di calcio molto ambiziosa in cui le ragazze erano molto più grandi di me, e iniziai a scoprire il mondo dell’omosessualità. Nello spogliatoio si scopre sempre tutto: alcune ragazze erano fidanzate tra di loro e raccontavano le loro storie. Quell’anno iniziai a frequentare locali gay di Milano e mi domandavo perché ritrovassi sempre le stesse persone e soprattutto perché non si poteva passare il tempo in locali frequentati dalla “gente normale”. Un giorno tornai a casa dopo aver passato l’ennesima giornata con una ragazza molto più grande di me. Mia madre mi domandò: “Federica, ma quella ragazza: non è che forse la ami?”. Credo di essere scappata per qualche ora, ma poi tornai e le risposi: “Forse hai ragione”. Iniziai ad avere le mie prime esperienze, le mie prime fidanzate, ma in quegli anni al liceo non molti sapevano della mia omosessualità. In questa situazione ci sono due cose da affrontare: non accettarsi e non accettare che gli altri non ti accettino. Io ero tranquilla con me stessa, ma temevo che gli altri si sarebbero allontanati da me. Mia madre (e la terapia dopo, eheheh) mi diede coraggio: fu lei il simbolo dell’accettazione, fu lei ad aprirmi le porte della conoscenza di me stessa. Un Natale consegnai una lettera alla mia migliore amica: stavo facendo coming out. La lesse, mi chiamò e mi disse: “ Ma sei scema a non avermelo detto prima?”».

CATERINA, 23 ANNI. «14 anni, primo giorno di liceo, incontro Giulia, profondità in cui perdersi, idee seducenti, modo strano di vestirsi. Fin da subito abbiamo cucito un legame enigmatico, lei quasi ossessiva, io che tendevo a nascondermi dagli altri e forse da me stessa. Abbiamo passato notti di luce e ombra assieme, annodandoci sempre di più, ma i risvegli sono sempre stati feroci per me, non riuscivo a fermare la mia immagine nello specchio e ad accettare il suo amore. Mi odiavo per questo. Mia madre se n’è accorta da sola e non ha fatto altro che abbracciarmi e vivere la normalità di sempre, in casa e fuori dalle nostre mura. Mio padre ha fatto lo stesso. Poi il tempo ha fatto il suo dovere, e io mi sono lasciata andare all’amore».

MADDALENA, 30 ANNI. «Da piccola giocavo tanto sia con le Barbie sia con le tartarughe ninja. Da adolescente ho avuto molte esperienze di innamoramento sia con i ragazzi sia con le ragazze, ma dentro mi sentivo sempre un maschio. Volevo essere un maschio. Peccato però che il destino mi abbia dotato di un corpo decisamente femminile, capelli biondi, occhi azzurri, un sedere “importante” e una famiglia conservatrice, oltre a una assoluta incapacità di fare qualsivoglia sport (cosa che mi avrebbe sicuramente dato accesso a un mondo di ragazze più simili a me). Si può facilmente comprendere come io ci abbia impiegato anni per ammettere con me stessa e con la mia famiglia la mia omosessualità. Un giorno ho incontrato una ragazza, che oggi è la mia fidanzata e ho capito che mentre io ero convinta di essere la persona meno discriminante al mondo, in realtà mi ero discriminata per anni, impedendomi di vedermi come ero. La paura di non soddisfare le aspettative degli altri può giocarti lo scherzo di credere di poter vivere una vita che non è la tua. Mia mamma mi vorrà sempre sposata con un avvocato o un dottore ma da quando io mi accetto, lei mi accetta».

SOFIA, 27 ANNI. «Eugenio Montale scriveva: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non ricordo il giorno in cui ho ricevuto, ironicamente parlando, “la chiamata”, ma la mia verità un giorno a 20 anni me la sono detta al contrario, come suggerisce Montale. Un giorno mi sono resa conto, prima dolorosamente, ma poi con grande liberazione, di ciò che non ero: attratta dal genere maschile. Non mi sono mai riconosciuta nel classico stereotipo omosessuale: sono sempre stata felice della mia femminilità, l’ho sempre esaltata e usata, non ho mai praticato un solo sport in vita mia, avevo solo amiche femmine. Mi chiedevo cosa mi stesse sfuggendo. Lo scoprii poco tempo dopo attraverso l’amore di una ragazza che con delicatezza si innamorò di me e io di lei. “Cosa sono? Cosa voglio?”. La risposta era la stessa a entrambe le domande: sono una donna, voglio una donna. Avvicinarsi all’idea più fedele della nostra persona è difficile ma è un dovere, per noi stesse e per tutte».

GIULIA, 23 ANNI. «Capire che ami una persona e chiederti perché è già una faccenda molto difficile. Ma se è dello stesso sesso può essere difficilissimo. Ho impiegato tanti anni ad accettare chi poteva stare al mio fianco, ostinandomi a frequentare uomini solo per essere l’immagine di quella che avrei voluto essere e per rispettare il cliché della società. Sono cresciuta in una famiglia aperta, frequentando sempre locali gay e avendo amiche lesbiche, e l’omosessualità non è mai stata un tabù per me. Ma accettare me stessa è stato il cammino più lungo: buffo vero? Ho superato tutto con il passare del tempo e incontrando la persona che ha messo leggerezza e tranquillità sulla questione. Quando ho annunciato che frequentavo una donna, tutti i miei amici mi hanno risposto la stessa cosa: “lo sapevo”. Era ovvio, e dopo tutto quel tempo lo è stato anche per me».

Anna Puricella per repubblica.it il 19 febbraio 2020. Si erano conosciute nel 1989, quando il Muro di Berlino crollava e quando c'erano ancora amori che non osavano dire il proprio nome, alla maniera di Oscar Wilde. Lilli Quitadamo incontra Maria Teresa Totaro: è amore totalizzante, tanto che dopo poco le due vanno a vivere insieme, a Manfredonia. Non c'erano le unioni civili, le coppie omosessuali per lo Stato semplicemente non esistevano. E Lilli se ne è accorta qualche anno dopo, quando nel 2011 Maria Teresa muore improvvisamente, durante una risonanza magnetica all'ospedale Casa sollievo della sofferenza. "Avevamo deciso di sposarci, in Spagna o in Germania - ricorda Lilli - Teresa sarebbe andata in pensione due anni dopo" . All'epoca della sua morte ci fu pure un'interrogazione parlamentare, ma nulla poté placare il dolore di Lilli Quitadamo. Vedova per tutti, tranne che per la legge: "Volevo farla finita, non avevo più niente e niente più valeva", racconta oggi. Ora, a distanza di 30 anni dall'inizio del loro amore, ci pensa il tribunale di Foggia a ribaltare le carte in tavola. A Lilli è stata riconosciuta la reversibilità come partner superstite di una coppia lesbica. Anche se il loro amore non era stato certificato da un'unione civile. Ha fatto testo, però, il testamento che le due donne avevano firmato davanti a un notaio, nel quale si nominavano vicendevolmente eredi, e chiedevano di essere registrate in un unico stato di famiglia. Erano state previdenti, Lilli e Maria Teresa, ma la burocrazia - alla morte della seconda - è stata comunque un ostacolo difficile da sormontare. A far pesare quell'amore lungo più di vent'anni hanno pensato due avvocati, Bruno Colavita e Giacomo Alessandro Celentano. Il primo ha suggerito a Lilli di presentare domanda amministrativa all'Inps: "Domanda che andava presentata obbligatoriamente online - ha detto l'avvocato a Gaynews - e i moduli prevedevano esclusivamente le categorie moglie/ marito " . Si è preferito procedere con la tradizionale lettera per posta, e a un primo rigetto si è spostato tutto in ambito giudiziario. Senza alcuna tutela delle coppie omosessuali da parte dello Stato, prima del 2016, l'unico appiglio potevano essere alcune sentenze emesse dalla Corte di giustizia europea, alla quale nel 2018 si era nel frattempo aggiunta una pronuncia della Corte d'appello di Milano, per una vicenda simile. Mai, però, era stato chiamato in causa l'Inps. E a riconoscere le ragioni di Lilli ha pensato una sentenza del tribunale di Foggia, nell'ottobre 2019: ha diritto alla reversibilità, a partire dalla data del decesso della compagna. Una pronuncia considerata storica, perché ha per la prima volta chiamato in causa l'Inps e perché riconosce un diritto a legami anteriori al 2016, anno della legge Cirinnà. Lo conferma il sottosegretario Ivan Scalfarotto ( Italia viva) su Twitter: " Rappresenta una pietra miliare per i diritti civili. La pensione di reversibilità spetta anche al superstite della coppia di una persona morta prima dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili " . L'Inps non si è appellato, e la sentenza è ormai definitiva: per chiunque, prima dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili, si trovava nelle condizioni in cui si è trovata Lilli, potrebbe agire per il riconoscimento della reversibilità.

Da today.it il 9 febbraio 2020. Nel Regno Unito il popolare presentatore televisivo Phillip Schofield ha fatto coming out con un post su Instagram e poi ne ha parlato a lungo subito dopo durante il programma del mattino This Morning su Itv cogliendo tutti di sorpresa. Schofield, 57 anni, sposato da quasi trenta e padre di due figlie, ha rivelato di aver sofferto per anni "un conflitto interiore" e che ora si sente pronto a sentirsi orgoglioso della sua sessualità. "Con la forza e il supporto di mia moglie e delle mie figlie, ho accettato il fatto di essere gay", ha scritto il conduttore, ricordando che "oggi nel mondo sono cambiate così tante cose" e essere gay "è un motivo per celebrare ed essere orgogliosi". "Ognuno arriva a questo con i propri tempi, quando è il momento giusto – ha detto Schofield, intervistato dalla collega Holly Willoughby, che conduce con lui This Morning – Tutto quello che puoi fare è essere onesto con te stesso e io ero arrivato al punto che sapevo di non essere onesto con me stesso. Ero arrivato a non piacermi più perché non ero più onesto. Ho preso questa decisione, assolutamente. È qualcosa che sapevo di dover fare. Non so ora cosa succederà, non so come sarà accolto o cosa penseranno le persone". Vinto dall'emozione, Schofield è finito a piangere sulla spalla della collega, in una scena che è diventata in poco tempo virale. Nel suo post pubblicato su Instagram poco prima di apparire in tv, Schofield ha ribadito i suoi fortissimi sentimenti per la moglie Stephanie e le due figlie, le quali lo hanno tutte aiutato e supportato, e ha chiesto al pubblico rispetto e attenzione, per sé ma soprattutto per la sua famiglia, in questo momento. Diversi messaggi di incoraggiamento e sostegno sono arrivati a Schofield subito dopo. "Serve un gran coraggio per far questo, soprattutto quando sei una figura pubblica e sai che sarà analizzato in maniera pubblica", ha detto PIeres Morgan, conduttore di Good Morning Britain. Il coming out di Schofield, che conduce tra l'altro la versione britannica di Ballando con le stelle, ha ricevuto il plauso anche di numerose associazione Lgbt+

Dagospia il 5 febbraio 2020. Da video.repubblica.it. L'omofobia nello sport, "una partita da vincere": il Parlamento europeo a Bruxelles ha ospitato un evento organizzato da Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo, Tomasz Frankowski, europarlamentare del Ppe e Marc Tarabella, del gruppo S&D. "Auspichiamo che anche il mondo dello sport possa recitare un ruolo da protagonista nella battaglia contro l'omofobia", ha spiegato Beghin. All'incontro ha partecipato, inviando un video, il calciatore della Sampdoria e della nazionale svedese Armin Ekdal: "Tutti dovrebbero sentirsi liberi di fare coming out, nella vita e nel calcio. Sfortunatamente nel nostro sport non è così: solo otto giocatori hanno dichiarato di essere omosessuali. Molti altri vorrebbero farlo ma evitano, per paura delle reazioni negative". Una presa di posizione importante per un atleta di Serie A. Anche Chiara Marchitelli, calciatrice dell'Inter, ha dichiarato: "Nello sport non conta quali sono le preferenze sessuali degli atleti ma quello che gli atleti fanno in campo". L'attore e scrittore Fabio Canino ha presentato il suo libro "Le parole che mancano al cuore", un romanzo che è anche un "viaggio nelle ipocrisie del mondo del calcio". "Di esempi concreti di omofobia ne potrei fare centomila - ha precisato l'artista -. Purtroppo dagli spalti delle partite di calcio quando si vuole offendere qualcuno lo si offende o per il colore della pelle o per gli orientamenti sessuali, e ciò è diventato quasi un classico". Yves Lostecque, capo dell'unità sport della Commissione europea, ha chiesto di "non chiudere gli occhi di fronte agli aspetti spiacevoli dello sport come l'omofobia".

Omofobia, Ekdal: «I calciatori hanno paura: solo 8 gay si sono dichiarati, altri non si sentono liberi». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it. Albin Ekdal, centrocampista della Sampdoria e della Nazionale svedese, ha partecipato a un incontro al Parlamento europeo sul tema «Sport vs Omofobia, una partita da vincere» con un video raccolto da Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle, e diffuso sui social. Il 30enne svedese si è mostrato molto sensibile sul tema: «Ritengo essenziale contribuire a sensibilizzare il pubblico europeo su questo argomento. In un mondo ideale nessuno dovrebbe sentirsi a disagio nel dichiararsi omosessuale, che sia nella vita o nel calcio. Ma la realtà è molto diversa. Nel nostro sport solo otto giocatori si sono ufficialmente dichiarati omosessuali, molti altri vorrebbero farlo ma non se ne sentono liberi, per paura delle reazioni negative». Ekdal ha sottolineato: «Quello del calcio è un ambiente dove l’omofobia è ancora diffusa. Questi giocatori sono preoccupati di diventare un bersaglio per gli insulti e lo scherno, sia dentro che fuori dal campo. Come risultato si sentono obbligati a nascondersi, fuggire e vivere nella paura. Ecco perché dobbiamo reagire, utilizzando l’istruzione come una forza per un cambiamento positivo» ha detto Ekdal. «Che società siamo se un ragazzino non può seguire il suo sogno di diventare un calciatore per via del suo orientamento sessuale? Ogni volta che un ragazzino appende le scarpe al chiodo e smette di giocare perché non è accettato nello spogliatoio della sua squadra o di chi lo circonda, è una sconfitta per il mondo del calcio».

WAG Emanuela Longo per ilsussidiario.net l'1 febbraio 2020. Erjona Sulejmani è ospite a Rivelo. Nel salotto di Lorella Boccia si parla della sua vita da mamma, modella e agente immobiliare. A questo non manca il suo lavoro in tv. Lei si è unita nel 2015 con il calciatore del bologna Blerim Dzemaili. Per prima cosa si parla delle sofferenze vissute quando era molto piccola ed è stata costretta a scappare dal Kosovo. Tra le chiacchiere con Lorella Boccia, è uscito anche il tema della chirurgia estetica, una pratica che è molto popolare tra le mogli dei calciatori. “Chi dice che non ha provato dice balle. Io ho fatto qualcosa che non sto a dire”. Al che Lorella cerca di tirarle fuori qualche dettaglio in più ma Erjona si limita a dire: “L’età passa altrimenti si casca a pezzi. Ma senza esagerare. Se tu fai una cosa perché non ti vedi bene, ben venga. ma quando diventi uguale alle altre, non va bene. Non esagerare”. Poi fa un esempio riferito al mondo in cui ha vissuto fino a poco tempo fa: “Nel mondo del calcio ci sono tante bellissime donne che si mantengono, certe esagerano anche. C’era una signora, una wags, che si faceva il botox da sola mentre eravamo a cena. Era talmente abituata e brava. È un caso da ricovero”. (agg. Chiara Greco)

Questa sera, nella puntata di Rivelo ci sarà un’ospite molto speciale: Erjona Sulejmani, la modella albanese famosa per essere una delle wag più popolari. La sua popolarità è anche dovuta alla relazione con Blerim Dzemaili, centrocampista del Bologna. Oltre a parlare tanto della loro relazione, ha espresso alcune considerazioni molto forti sul mondo del calcio, rivelando che quel mondo molto maschile è pieno di omosessuali: “Non vedo perchè questo tabù dell’omosessualità oggi sia un argomento così duro. Mi riferisco al calcio e in generale. Se ne sentono di tutti i colori…”, ha continuato la Sulejmani criticando fortemente coloro che non concepiscono questa realtà in questo sport. “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?!”. La sua posizione è quindi molto a favore delle relazioni omosessuali nel calcio. Lei che c’è stata però può assicurare che sotto diverse coperture, diversi calciatori nascondono la loro omosessualità: “Nel calcio ci sono tanti casi…”. (agg. Chiara Greco)

Sarà la bellissima Erjona Sulejmani, modella di origini albanesi, imprenditrice ed ex “wag”, l’ospite di Lorella Boccia nella nuova puntata di Rivelo, la trasmissione di Real Time in onda come di consueto nella prima serata del giovedì. La Sulejmani, ex di Blerim Dzemaili, si è raccontata a 360 gradi, dall’infanzia non semplice al suo arrivo in Italia, senza naturalmente trascurare l’amore e il suo attuale stato sentimentale. “All’età di nove anni una bambina che vive la guerra sicuramente si trascina dei traumi. Non è facile… bisogna viverla sulla propria pelle”, ha rivelato alla Boccia, indicando così il contesto in cui è cresciuta, ovvero durante la guerra per l’indipendenza del Kosovo, suo paese d’origine. Una situazione complessa che ha costretto la sua famiglia a scappare in Italia, come molti suoi compaesani nello stesso periodo. Un momento non facile della sua vita ma che al tempo stesso, pur segnandola, le ha anche insegnato tanto “perchè sono le esperienze forti che ti fanno crescere, ti formano, ti fanno diventare una guerriera e scoprire parti di te che non pensavi di avere”. L’accoglienza in Italia, ha raccontato, è stata molto positiva. Da 21 anni lei e la sua famiglia vive sul lago di Garda da dove non si sono mai mossi: “Mi sento a casa”, rivela. Nel corso delle sue rivelazioni c’è spazio anche per altri aspetti delicati della sua vita. Erjona Sulejmani ha per esempio ammesso di aver subito atti discriminatori, “anche se in percentuale minore rispetto ad altri, perchè i miei genitori lavoravano anche 16 ore al giorno per poterci dare, a me e mio fratello, una vita dove non ci sentivamo diversi dagli altri o emarginati…”, dice. Ora che è mamma comprende perfettamente tutti i sacrifici della sua famiglia. Spazio quindi alla sua storia con Blerim Dzemaili, conosciuto dopo aver vinto la fascia di Miss Eleganza in Albania: “Quando mi ha confessato di essere un calciatore gli ho detto ‘per carità, alla larga, non voglio avere a che fare con te’”, ha rivelato. Oggi il loro matrimonio è finito e Erjona si sente “una donna libera e felicemente single”, ma al tempo stesso ammette di rendersi conto di quanto possa essere dura la vita da “wag”: “Lasci da parte la tua vita per seguire la vita di un altro… cambi continuamente città, paese… non puoi avere un lavoro fisso in un luogo”. Oggi ammette di volere ancora bene al suo ex nonché padre di suo figlio: “lo rispetterò sempre per il ruolo che copre. Gli auguro di realizzarsi in quello che desidera. Però non lo amo più”, rivela. Infine dice la sua sull’omosessualità e su quanto ancora oggi continui ad essere un tabù nel mondo del calcio ma non solo: “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?’. Nel calcio ci sono tanti casi…”, ha chiosato la modella.

Da "corriere.it" il 7 febbraio 2020. Un tabù per lo sport. Le ricerche più recenti sulla demografia dell’orientamento sessuale (dati Ocse) stimano che circa il 2,7% della popolazione mondiale è strettamente omosessuale. Una stima probabilmente approssimata per difetto. Un conto infatti è essere omosessuale un altro è dichiararsi tale. Un problema che coinvolge anche il mondo dello sport dove il dichiararsi omosessuali (il cosidetto coming out) è un fatto ancora abbastanza raro. Vediamo qui di seguito alcune celebri eccezioni.

Ian Thorpe. «Ci ho pensato molto a lungo. Non sono etero. Da solo due settimane ho deciso di parlarne con i miei. Ora dico al mondo che io sono gay ... e spero che questo renda più facile per gli altri esprimere una cosa che hanno tenuto dentro per anni». Con queste parole, in una lunga intervista alla tv australiana Channel 10, l’ex campione olimpico e mondiale di nuoto Ian Thorpe fece coming out.

Tom Daley. Tom Daley, tuffatore inglese, campione olimpico e mondiale. In un video pubblicato su YouTube, a dicembre 2013 il fuoriclasse dalla piattaforma di 10 metri ha rivelato ai suoi fan di avere una relazione con un uomo.

Martina Navratilova. La campionessa cecoslovacca (naturalizzata statunitense) di tennis Martina Navratilova, fece coming out addirittura nel 1981.

Greg Louganis. Greg Louganis, tuffatore statunitense, campione olimpico e mondiale, ha dichiarato di essere gay nel 1988 quando scoprì di essere sieropositivo.

Gareth Thomas. Gareth Thomas, rugbista gallese, ha detto di essere gay nel 2009: era il capitano della nazionale. 

Amelie Mauresmo. La tennista francese Amelie Mauresmo, dichiarò di essere lesbica nel 1999.

Justin Fashanu. Justin Fashanu, calciatore inglese. È stato il primo giocatore ad ammettere pubblicamente la propria omosessualità. Era il 1990, ma la sua non è stata una vicenda a lieto fine: rinnegato dal mondo del calcio (persino dal fratello John, anche lui calciatore professionista) e dalla comunità nera, si tolse la vita nel 1998 dopo le accuse di stupro da parte di un teenager.

Ilaria De Prete per leggo.it il 24 gennaio 2020. Un bacio in riva al mare per celebrare l’amore e le vacanze. Quando Erika e Martina hanno condiviso la foto sui loro social non immaginavano che sarebbero state inondate da una valanga d’odio e insulti irripetibili. Ma è così che è nata la loro battaglia contro l’omofobia.

Perché avete creato il profilo Le Perle degli Omofobi?

«La nostra foto è stata ricondivisa da una pagina Facebook e sono cominciate le critiche. Abbiamo provato a rispondere, pensando che saremmo riuscite a far ragionare le persone e far cambiare loro idea».

Poi cosa è successo?

«Un mese dopo, è ricapitata la stessa cosa con commenti più pesanti. Mi sono arrabbiata (parla Martina, n.d.r.) e ho pubblicato gli screenshot ai commenti censurati sul mio profilo Instagram. L’idea di creare una pagina per smontare i commenti omofobi poi è venuta a Erika». 

Quali insulti vi rivolgono?

«Tutti i giorni ci dicono che facciamo schifo. Siamo contro natura, depravate, malate. Dovremmo nasconderci, i bambini si potrebbero ammalare vedendoci». 

Quello che vi ha fatto più male?

«Quando ci hanno detto che dovremmo essere stuprate per diventare eterosessuali. Per capire come si sente una vera donna».

Perché lo fanno? 

«Non riescono ad accettare qualcosa di diverso. Sono persone che riversano le frustrazioni personali su qualsiasi argomento gli capiti a tiro. Sono certa che non insultino solo i gay».

Succede anche dal vivo?

«Assolutamente no, solo rari episodi. Il 95% di loro non avrebbe il coraggio di dire le stesse cose di persona. I social ti forniscono una maschera, anche se porta il tuo nome e cognome».

Chi sono i vostri haters?

«Molti insulti provengono da profili creati solo a questo scopo. Abbiamo scoperto che si organizzano anche tramite gruppi su Telegram per prenderci di mira. Tra questi abbiamo scoperto anche due ragazzi di 13 anni che si sono pentiti e hanno ammesso di essersi fatti trascinare. Ci piacerebbe sapere chi c’è dietro questo odio».

In poco più di tre mesi la pagina ha riscosso grande successo. Per voi cosa è cambiato?

«I commenti negativi sono raddoppiati. Ma d’altra parte ce ne sono tanti positivi, di persone che ci sostengono. Una parte che prima ci mancava e che compensa l’odio». 

I vostri obiettivi sono sempre gli stessi?

«Inizialmente volevamo dimostrare che l’omofobia esiste. Ora vogliamo dare voce a chi non ha abbastanza forza per gridare». 

«Aggredita perché lesbica»: la denuncia di una donna di Potenza. Charlie e le 5 aggressioni omofobe. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. «Ciò che avete fatto a me non deve mai più essere fatto ad essere umano»: è questo il motivo che ha spinto Giulia Ventura, una donna di Potenza, a denunciare su Facebook l’aggressione subita mercoledì sera a Potenza. Un’altra orribile aggressione omofoba, come quella denunciata da Charlie Graham. Giulia stava camminando «in questa meravigliosa città», con le cuffie nelle orecchie, quando sente qualcuno «blaterare verso di me»: «Non capendo cosa stesse accadendo, mi tolgo le cuffiette e vedo due ragazzini che, attraversando la strada e si mettono di fronte a me, intralciandomi il passaggio». Giulia non ha neanche il tempo di reagire: «Chiedo loro che problemi avessero e dopo due spintoni che mi hanno atterrata, ancora cosciente sento una frase: “Le persone come te devono morire, vuoi fare il maschio? E mo ti faccio vede come abbuscano i maschi”. Non ho il tempo di rispondere che il primo pugno mi rompe il labbro, il secondo il naso, il terzo l’occhio. Mi alzo e cerco di difendermi con una testata che credo abbia rotto il naso al mio ammiratore, ma poi cado. Sento due calci, uno sulla costola e uno sulla spalla. Svengo». Quando Giulia finalmente si riprende, gli aggressori sono scappati e lei è in una «pozza di sangue». Mette la sciarpa davanti alla bocca per tamponare e corre a casa, per non spaventare la madre si sciacqua il visto in garage, sviene di nuovo alla vista del sangue, ma riesce a infilarsi nel letto. Ma non sta bene: ha «forti dolori ovunque» e il sangue continua a colarle dal naso, per cui il giorno dopo si decide ad andare in ospedale: «La denuncia parte d’ufficio». Ma resta l'amarezza: «Dopo tutto questo, ditemi, il mio orientamento sessuale è affare di politica? Sono forse una sovversiva che merita di essere ridotta così da due piccoli teppisti di probabile inclinazione fascista? Credevo di aver superato quella fase, quando già nel 2009 venivo aggredita in villa, ma mi sbagliavo. Passa il tempo, ma non passano le schifezze dovute ad un’ignorante ineducazione. Sarà colpa dei ragazzini, si, ma anche i genitori dovrebbero pensare ad andare a cogliere broccoli e non a fare figli, se questi sono i risultati».

Da ilfattoquotidiano.it il 19 gennaio 2020. “Sono stata aggredita perché lesbica”. A denunciare l’accaduto è Giulia Ventura, 31 anni di Potenza, che sulla sua pagina Facebook lo scorso 15 gennaio ha raccontato di aver subito un’aggressione durante la quale si è fratturata il setto nasale. Nel dettaglio la donna ha raccontato di esser stata avvicinata, mentre camminava in una via del capoluogo lucano, da due ragazzi che le avrebbero detto: “Le persone come te devono morire, vuoi fare il maschio? E mo ti faccio vedere come ‘abbuscano’ (vengono picchiati) i maschi”. E poi è stata aggredita. La donna è andata in ospedale il giorno dopo: dal referto, che lei stessa ha pubblicato su Facebook insieme a due foto, emerge che ha riportato la frattura del setto nasale: “Ero indecisa – ha aggiunto ancora la 31enne – sul rendere pubblico o meno ciò che mi è accaduto, ma ho deciso di farlo perché non si ripeta mai più una cosa simile”. Sul fatto sta indagando la Squadra mobile della Questura di Potenza, insieme alla Procura. Tanti i messaggi di solidarietà. Primo tra tutti quello del presidente dell’Arcigay Basilicata, Morena Rapolla. “Viviamo un preoccupante tribalismo dei rapporti: la sopraffazione ed il disprezzo verso l’altro, portatore di una diversità sono ormai all’ordine del giorno. Questo episodio testimonia la difficile situazione presente anche sul nostro territorio”. E poi ha precisato: “La 31enne è stata aggredita e picchiata con ferocia, è svenuta in una pozza di sangue e ha riportato importanti conseguenze che la stessa ha mostrato sul suo profilo social, denunciando l’accaduto e dimostrando quel coraggio necessario al contrasto dell’odio omolesbotransfobico. Mi sento di dirle grazie anche a nome di tutti i cittadini e le cittadine per bene che in queste ore si sono strette intorno a lei, con messaggi di solidarietà”. Secondo Roberta Vannucci, vicepresidente di ArciLesbica “si tratta soprattutto di un problema culturale, su cui è necessario lavorare in modo serio. Al di là dell’omofobia – in questo caso lesbofobia – per le donne esiste anche l’aggravante generata da una cultura patriarcale per cui vale lo stereotipo che lega il genere femminile a un ruolo di sottomissione rispetto agli uomini”. In difesa della donna anche il sindaco di Potenza Mario Guarente che ha detto di provare “tanta rabbia per questo vile gesto. Che questi imbecilli vengano subito arrestati e fatti marcire nel ghetto della loro ignoranza”. Infine, interviene anche il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi: “L’episodio, oggetto di indagine da parte degli inquirenti, è gravissimo e risulta estraneo alla cultura della comunità lucana, improntata da sempre al rispetto della persona”. Giulia Ventura ha infine ringraziato, con un altro post, i tanti messaggi di solidarietà: “Ringrazio tutti per il sostegno. Ognuno di voi mi ha dato una carezza al cuore. Ora voglio andare avanti e non pensarci troppo”.

Picchiata per la quinta volta perché lesbica: le foto pubblicate su Facebook. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Charlie Graham, dopo 5 attacchi omofobi, ha deciso di ribellarsi mettendo le immagini su Facebook: «Aiutatemi a trovare gli aggressori». È la quinta volta che la 20enne Charlie Graham è vittima di attacchi omofobi. L'ultima aggressione è avvenuta sabato 11 gennaio a Sunderland, città nell'Inghilterra nord-orientale, quando due teppisti l'hanno attaccata alle spalle, procurandole ferite al volto e alle ginocchia. In quest'occasione, però, la ragazza ha deciso di ribellarsi e ha pubblicato su Facebook le foto del suo volto insanguinato nel tentativo di rintracciare gli aggressori. Sanguinante e spaventata. Intervistata dal «Daily Star» Charlie ha raccontato di essere stata colpita alla nuca e di essere caduta a terra: «Sono stata colpita da dietro con un pugno. Ho provato a rialzarmi, ma mi hanno spinto di nuovo e sono caduta a terra. Poi i due ragazzi sono scappati. Mi hanno lasciato sanguinante e spaventata». Da quando ha subito le prime violenze omofobe, la vita di Charlie è diventata un inferno: «Ho attacchi di panico e di ansia al solo pensiero che tornando a casa possano scoprire dove vivo e decidano di entrare. È molto importante per me che le foto siano condivise. Le persone devono sapere che c'è gente là fuori pronta ad attaccarti per qualunque motivo, che si tratti della tua sessualità, del colore della tua pelle, del come cammini o di come ti vesti».

Il precedente. Michelle Storey, madre della ragazza aggredita, ha ripubblicato le immagini sul web e ha confermato che sua figlia è spesso vittima di abusi. A lei - spiega ai media locali - non importa quale siano le preferenze sessuali di Charlie «fintanto che sua figlia è felice e amata». La polizia ha dichiarato che un’indagine è stata aperta e l'incidente è trattato come un crimine d'odio. Tuttavia gli agenti non credono che i 5 attacchi subiti da Charlie siano collegati tra loro. Non è la prima volta che una ragazza britannica, vittima di attacchi omofobi, pubblica le foto di un'aggressione sul web. Era già capitato a Melania Geymonat che nella notte tra il 29 e il 30 maggio era stata picchiata selvaggiamente su un bus a Londra insieme alla compagna Chris . Pochi giorni dopo i presunti aggressori (quattro giovani tra i 15 e i 18 anni) sono stati arrestati da Scotland Yard.  Michelle Storey, madre della ragazza aggredita, ha ripubblicato le immagini sul web e ha confermato che sua figlia è spesso vittima di abusi. A lei - spiega ai media locali - non importa quale siano le preferenze sessuali di Charlie «fintanto che sua figlia è felice e amata». La polizia ha dichiarato che un’indagine è stata aperta e l'incidente è trattato come un crimine d'odio. Tuttavia gli agenti non credono che i 5 attacchi subiti da Charlie siano collegati tra loro. 

·        Mai dire Puttana.

“Puttane”, il libro di Maria Giovanna Maglie è un viaggio-inchiesta che affronta il sesso a pagamento al tempo del Covid -19. Carlo Franza l'11 novembre 2020 su Il Giornale. “Puttane”, il libro di Maria Giovanna Maglie è il libro dell’anno, tra storia e sociologia, che fa la radiografia  del sesso a pagamento, e della prostituzione al tempo del Covid.  Vendite da capogiro in libreria per questo libro che fa il punto sull’Italia e gli italiani. E si traccia la storia della prostituzione dai bordelli sumeri, a Santa Teodora; da internet, fino al Covid-19. Splendido, storico e chiaro “Puttane il mestiere più antico del mondo ai tempi di internet e del Covid” di Maria Giovanna,  Edizioni Piemme, pp. 224,  Euro 17,50, in uscita 27 ottobre 2020. Ecco come lo presenta la Casa Editrice Piemme  che l’ha pubblicato: “In Italia mediamente 16 milioni di uomini ogni anno pagano per il sesso e il 70% ha famiglia ed è sposato. Sempre in Italia circa 120 mila prostitute lavorano solo online. Questi numeri hanno ispirato la giornalista Maria Giovanna Maglie nella stesura del libro oggi in libreria, ma anche online in formato cartaceo da ricevere direttamente a casa o in versione Kindle: Puttane. Il mestiere più antico del mondo ai tempi di internet e del Covid (Piemme)”. E non basta che  il Governo, imponga alle Regioni,  con  un colore come rosso, arancione, giallo, verde, il divieto di uscire da comune a comune, da regione a regione, o addirittura di muoversi nel proprio comune, pur con il Covid-19 galoppante,  il sesso a pagamento non si è fermato, anzi è ripartito sotto nuove forme, continuando così  ad esistere. Il contatto umano fa paura eppure il settore resiste e si adatta. La collega Maria Giovanna Maglie ci spiega il perché e il come è cambiato nella storia fino ad oggi. Perché c’è la necessità di mettere in luce le zone d’ombra di uno dei settori dai numeri più alti nel mondo per partecipazione e giro d’affari, soprattutto in Italia. L’autrice ci spiega il risvolto politico ed economico, perché in Italia la prostituzione è legale ma non regolamentata e per l’ipocrisia generale va bene così. Intanto però le professioniste del sesso rimangono in bilico senza tutele. La giornalista lo racconta attraverso le voci vive delle escort intervistate. Frasi e parole chiare e precise, concetti chiari, idee chiare. “Puttane” è viaggio-inchiesta nella prostituzione 2.0 che pone una domanda oggi attuale: come si evolve il settore del sesso a pagamento con il distanziamento sociale? Stando ai dati del sito “Escort Advisor”, il primo sito di recensioni di escort in Europa, riportati dall’autrice, i clienti delle escort fanno meno attenzione al prezzo e sempre più alla sicurezza e alla professionalità. Ciò attraverso le recensioni, che la collega Maria Giovanna Maglie scopre come ultima innovazione del settore, più di 180 mila attualmente online sul portale analizzato. Ecco perché subito dopo il lockdown dal 4 maggio 2020  le visite giornaliere al sito Escort Advisor hanno subito un rialzo del 27%” con picco di accessi record persino il 12 ottobre 2020, vale a dire un mese fa. Il mancato riconoscimento delle lavoratrici del sesso, “imprenditrici” che liberamente hanno scelto di fare del loro corpo una professione, è uno degli argomenti specifici, come la messa in luce dell’esercito delle invisibili vittime di tratta. Un’inchiesta di straordinaria attualità e schiettezza che scardina le ipocrisie e non dimentica le donne che hanno fatto la storia (anche) vendendo il proprio corpo: cortigiane, spie, fini diplomatiche, imperatrici, imprenditrici, perfino una santa, proprio così, una santa. Tutte puttane, in attesa, oggi più che mai, di un riconoscimento straordinario, e dunque  non solo veder riconosciuto il loro status, ma anche  poter pagare le tasse. MARIA GIOVANNA MAGLIE nata a Venezia nel 1952, ha studiato a Roma e ha cominciato a fare la giornalista nel 1979. Ha lavorato in America Latina, in Medio Oriente, negli Stati Uniti. A New York ha vissuto 15 anni: la considera ancora la sua vera casa. Oggi si diverte a scrivere per Dagospia, a partecipare a talk in tv, a tessere la rete dei social con una striscia quotidiana che si chiama #magliestrette. È anche editorialista del quotidiano La Verità e autrice con Piemme dell’ebook Il mostro cinese (2020). Carlo Franza

Da escortadvisor.it il 27 ottobre 2020. PUTTANE. IL MESTIERE PIÙ ANTICO DEL MONDO AI TEMPI DI INTERNET E DEL COVID di Maria Giovanna Maglie. Puttane: da oggi in libreria per conoscere il sesso a pagamento senza ipocrisie - Dai bordelli sumeri a Santa Teodora, da internet fino al Covid-19. In Italia mediamente 16 milioni di uomini ogni anno pagano per il sesso e il 70% ha famiglia ed è sposato. Sempre in Italia circa 120 mila prostitute lavorano solo online. Questi numeri hanno ispirato la giornalista Maria Giovanna Maglie nella stesura del libro oggi in libreria: Puttane. Il mestiere più antico del mondo ai tempi di internet e del Covid (Piemme).

Perché questo libro proprio oggi? Perché con il Covid-19 il sesso a pagamento si è fermato per poi ripartire sotto nuove forme e così continuare ad esistere: il contatto umano fa paura eppure il settore resiste e si adatta. Maria Giovanna Maglie ci spiega il perché e il come è cambiato nella storia fino ad oggi. Perché c’è la necessità di mettere in luce le zone d’ombra di uno dei settori dai numeri più alti nel mondo per partecipazione e giro d’affari, soprattutto in Italia. L’autrice ci spiega il risvolto politico ed economico. Perché in Italia la prostituzione è legale ma non regolamentata e per l’ipocrisia generale va bene così. Intanto però le professioniste del sesso rimangono in bilico senza tutele. La giornalista lo racconta attraverso le voci vive delle escort intervistate. Puttane è viaggio-inchiesta nella prostituzione 2.0 che pone una domanda oggi attuale: come si evolve il settore del sesso a pagamento con il distanziamento sociale? Stando ai dati del sito Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa, riportati dall’autrice, i clienti delle escort fanno meno attenzione al prezzo e sempre più alla sicurezza e alla professionalità. Ciò attraverso le recensioni, che Maria Giovanna Maglie scopre come ultima innovazione del settore: più di 180 mila attualmente online sul portale analizzato. Ecco perché subito dopo il lockdown “dal 4 maggio le visite giornaliere al sito Escort Advisor hanno subito un rialzo del 27%”, con picco di accessi record persino il 12 ottobre scorso. Il mancato riconoscimento delle lavoratrici del sesso, “imprenditrici” che liberamente hanno scelto di fare del loro corpo una professione, è uno degli argomenti specifici, come la messa in luce dell’esercito delle invisibili vittime di tratta. Un’inchiesta di straordinaria attualità e schiettezza che scardina le ipocrisie e non dimentica le donne che hanno fatto la storia (anche) vendendo il proprio corpo: cortigiane, spie, fini diplomatiche, imperatrici, imprenditrici, perfino una santa. Tutte puttane, in attesa, oggi più che mai, di un riconoscimento straordinario: poter pagare le tasse.

MARIA GIOVANNA MAGLIE nata a Venezia, ha studiato a Roma e ha cominciato a fare la giornalista nel 1979. Ha lavorato in America Latina, in Medio Oriente, negli Stati Uniti. A New York ha vissuto 15 anni: la considera ancora la sua vera casa. Oggi si diverte a scrivere per Dagospia, a partecipare a talk in tv, a tessere la rete dei social con una striscia quotidiana che si chiama #magliestrette. È anche editorialista del quotidiano La Verità e autrice con Piemme dell’ebook Il mostro cinese (2020).

Dagospia il 10 ottobre 2020. TOM LEONARD PER IL DAILY MAIL. I suoi clienti erano gli uomini più ricchi e potenti del mondo, le sue ragazze il tipo di giovani donne super sexy e ultra classiche che giustificavano l'inclinazione di Madame Claude a chiamarle i suoi "cigni". E il suo lavoro era, diceva, "rendere carino il vizio". Tra il 1955 e il 1977, il bordello più celebre del XX secolo ha servito i peccatucci sessuali - alcuni di routine, alcuni esotici, altri depravati - di re, presidenti, star del cinema, capitani d'industria e dittatori. Il suo locale elegante e molto discreto al 18 di Rue de Marignan, al largo degli Champs-Elysees a Parigi, era il quartier generale di un'attività di prostituzione che eclissava l'immaginazione dello sceneggiatore di Hollywood più eccitato. Tra il 1955 e il 1977, la "signora" - il suo vero nome era Fernande Grudet - ha reclutato e formato circa 500 "Claudettes" per fornire costose distrazioni a una clientela per la quale nessuna viaggio a Parigi era completo senza una rispettosa telefonata a Madame Claude. La sua lista di clienti estremamente famosi includeva John F. Kennedy, Marlon Brando, Groucho Marx, Rex Harrison, Frank Sinatra, Pablo Picasso e il colonnello libico Gheddafi. Secondo un biografo, i suoi clienti includevano l'ex vicepresidente degli Stati Uniti Nelson Rockefeller, tre generazioni della famiglia Getty, Charles de Gaulle, Sammy Davis Jr e il generale israeliano Moshe Dayan. Il famoso presidente Kennedy chiese a Madame Claude una ragazza che assomigliasse a sua moglie Jackie "ma sexy". Claude rivelò che re Hussein di Giordania una volta disse a una delle sue ragazze: 'Tu ed io siamo nella stessa attività. Dobbiamo sorridere anche quando non ne abbiamo voglia’'. Il re della Fiat Gianni Agnelli assunse un numero sufficiente di Claudette per un'orgia e poi le fece sfilare alla Messa. Ogni settimana lo scià dell'Iran riceveva un nuovo carico di giovani donne a Teheran. Si diceva che l'ex presidente Charles de Gaulle, che guidò la resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, fosse un cliente di Madame Claude. Durante un viaggio nel jet privato del banchiere Elie de Rothschild con il suo amico Lord Mountbatten si sollazzarono con le ragazze di madame Claude mentre sorvolavano Parigi. Si diceva che Joan Collins se ne fosse andata ``ridacchiando e urlando come una studentessa'' quando Madame Claude ha cercato di reclutarla durante un pranzo (“'Penso che potresti fare molto bene.”) Claude di solito rispondeva lei stessa al telefono. "Allo, oui?", Diceva sempre prima di passare rapidamente agli affari e ai prezzi di listino. Si diceva che persino la CIA usasse i suoi servizi, assumendo le sue ragazze per intrattenere negoziatori troppo stressati durante i colloqui di pace in Vietnam a Parigi nel 1973. Madame Claude, una donna d'affari freddamente efficiente, odiava la parola "prostituzione", definendola "rivoltante e denigrante". Severissima con i suoi ‘’cigni’’, li istruiva personalmente in etichetta e decoro, cultura e attualità, per quei momenti in cui i clienti volevano parlare piuttosto che giocare. mentre insisteva che imparassero un po' di inglese. Un tirocinio che poteva durare fino a un anno.  Tutte dovevano indossare solo lingerie bianca. Madame Claude era la maniaca del controllo finale, ma c'era un attributo che non poteva valutare da sola. Per assicurarsi che le ragazze fossero, come diceva lei, "tres bien au lit" (brave a letto), aveva una squadra di "saggiatori", o campionatori, che pagavano il privilegio di fornire rapporti accuratamente valutati su come le ragazze si comportavano. in mezzo alle lenzuola. Anche i “cigni” maschi erano messi alla prova-letto per valutare e perfezionare le loro abilità. Accreditata per aver trasformato la prostituzione togliendola dagli angoli delle strade e dagli hotel sporchi, la politica di Claude di consentire ai clienti di prenotare le ragazze al telefono - un oggetto di lusso quando ha iniziato a lavorare - è accreditata con la generazione della frase "ragazza squillo" (e così suono molto più bello di altri nomi per la professione più antica del mondo). Un tempo, si diceva che metà del gabinetto francese stesse "patrocinando" il bordello di Claude, un fatto che non solo la proteggeva dall'accusa di prostituzione, ma gratificava una donna motivata solo dal denaro e dal potere sui potenti. "Era così eccitante sentire un milionario o un capo di stato chiedere, con la voce di un ragazzino, l'unica cosa che solo tu potevi fornire", rivelò. Mentre insisteva di essere discreta, in seguito è emerso che Claude stava fornendo all'intelligence francese informazioni sulle propensioni sessuali dei suoi clienti. Da allora, ovviamente, abbiamo avuto la caduta di Harvey Weinstein e l'ascesa del movimento #MeToo, inaugurando un clima di tolleranza zero nei confronti dello sfruttamento sessuale di giovani donne - ben ricompensate o meno - da parte di uomini predatori e potenti. E ora un nuovo film su Madame Claude promette di affrontare il suo lato oscuro. "Le cose erano tutt'altro che meravigliose nel suo universo", dice Sylvie Verheyde, regista di Madame Claude. "Credere che una prostituta, anche in questo ambiente, si compiaccia del suo lavoro è lo stesso tipo di ipocrisia che immaginare una donna delle pulizie innamorata delle pulizie." Il film drammatico di Verheyde riconosce, tuttavia, che Madame Claude - che proveniva dalla povertà - era una donna dura che si è ritagliata un impero. Il regista dice che la grande idea di Claude era quella di creare un mondo fantastico che permettesse ai suoi clienti di dimenticare che stavano pagando per il sesso - che questa non era prostituzione. Eppure, Verheyde include nel nuovo film - non è chiaro se questo sia basato su fatti o supposizioni - una scena degradante in cui tre uomini sulla quarantina pagano profumatamente per riempire di pugni una giovane "Claudette" in una sontuosa villa nel sud della Francia, lasciandola scioccata e coperta di lividi. È improbabile che molti francesi, in particolare i parigini, prendano di buon grado il nuovo film e il suo schiacciante riesame di un'icona nazionale del sangue freddo sessuale. Il movimento #MeToo ha già incontrato resistenza in Francia. Lo stilista francese Richard Rene lo scorso dicembre ha vestito le sue modelle da passerella come ragazze squillo degli anni '60 in omaggio a Madame Claude e sfida a #MeToo. Catherine Deneuve, l'attrice più venerata di Francia e protagonista del classico film del 1967 Belle Du Jour, in cui interpretava una prostituta di alta classe, si è unita a 99 altre importanti donne francesi in una reazione al #MeToo, difendendo il diritto degli uomini di provare a sedurle. Madame Claude - che avrebbe applaudito una simile presa di posizione - ha insistito nelle sue memorie che non vendeva sesso ma "fantasie", anche se non ha mai ammesso che molte delle fantasie riguardassero lei stessa. Affermava di essere una ragazza di convento di origine aristocratica che fu imprigionata dai nazisti per essere stata nella Resistenza francese e che, dopo la guerra, divenne una puttana porta a porta. La realtà meno affascinante, secondo coloro che hanno studiato la sua vita, era che era la figlia di una venditrice di snack alla stazione ferroviaria che fu mandata ad Auschwitz perché ebrea e dopo la guerra lavorò brevemente come prostituta di strada. Una volta osservò: "Solo due cose nella vita si vendono - cibo e sesso - e non dovevo essere una cuoca". Piccola, fisicamente modesta, non era una bellezza e aveva subito un intervento di chirurgia estetica per sistemare i suoi denti storti e il naso grosso. Aveva un debole per il cashmere e il guardaroba classico anche al culmine della sua fama, è stata scambiata per un manager di banca. A detta di tutti, Madame Claude non sorrideva molto, non ha mai amato il sesso ed era persuasa che le persone sopra i 40 anni non dovrebbero indulgere a trombare. Ha costruito la sua attività di prostituzione in gran parte prendendo di mira abilmente modelle e attrici fallite, donne con un aspetto conturbante ma pochi soldi e ambizioni insoddisfatte. Molte furono attratte dalle sue affermazioni secondo cui, come Pigmalione, i suoi "cigni" finivano spesso per sposare un cliente. Madame Claude non ha mai identificato le sue Claudettes, ma alcune si sono davvero "sposate bene", secondo gli addetti ai lavori o hanno avuto carriere di successo nel cinema, nella moda e negli affari. Madame Claude ha sempre cercato di soddisfare tutte le richieste. Ha fornito al regista Roger Vadim una rossa per un rapporto a tre con sua moglie Jane Fonda, ma anche lei è stata presa alla sprovvista dalle "richieste depravate" (mai rivelate) di Aristotele Onassis quando una volta si è presentato con la sua fidanzata cantante d'opera Maria Callas . Madame Claude era altamente selettiva su chi reclutare per la sua attività, scegliendo solo uno su 20 candidati - inclusi alcuni giovani uomini - dopo averli fatti spogliare nudi di fronte a lei. Le donne dovevano essere alte: gli uomini ricchi preferivano le loro donne come le loro case e i loro yacht, diceva, e avevano un debole per le scandinave “ghiacciate” e dalle gambe lunghe. Dovevano anche essere eleganti: le piaceva svuotare le borsette dei candidati per cercare tracce di sporco o disordine. Per Claudettes che ne avevano bisogno, insisteva su "correzioni" sotto forma di chirurgia plastica, di solito limitata al viso e ai denti poiché non pensava molto all'aumento del seno. I critici dicono che era un modo per la signora di lasciare la sua impronta sulle sue ragazze. Alcune aspiranti Claudettes hanno preso male il rifiuto: una ragazza tedesca si è presentata nell'ufficio di Claude con una pistola, il proiettile bucò la mano paralizzandole due dita. Ha anche disegnato i suoi cigni, vestendoli con Yves Saint Laurent e fornendo loro valigie Louis Vuitton e orologi Cartier, che sono stati tutti pagati con i loro guadagni futuri. Le sue ragazze non erano eccessivamente costose nei primi anni, ma i prezzi salirono alle stelle negli anni Settanta dopo che gli arabi degli stati ricchi di petrolio arrivarono a Parigi con un potere di spesa illimitato. Gli affari hanno avuto un tale successo che Claude è stata in grado di acquistare un piccolo e discreto hotel che ha trasformato in un bordello di 12 stanze. Alcuni che la conoscevano dicevano che era arrogante e pretenziosa, un pesce freddo che odiava gli uomini e non mostrava affetto verso le donne, comprese le sue ragazze. "Disprezzava orribilmente gli uomini e le donne ancora di più", ha detto l'attrice Francoise Fabian, che ha trascorso del tempo con la "terrificante" Claude prima di interpretarla nel primo film sulla sua vita. Il suo ex avvocato, Francis Szpiner, ha detto che Claude "ha trovato un modo per essere indipendente e avere potere nel mondo di un uomo, ma non era neanche lontanamente femminista". È stata accusata di trattare le sue ragazze come schiave e ha ammesso di considerare altamente poco professionale se "sprecavano energie provando piacere" durante il sesso. Il regno di Madame Claude si è concluso dopo che il conservatore Valery Giscard d'Estaing è diventato presidente francese nel 1974. Era sicuro che lei avesse cercato di incastrarlo "spronandogli" contro una delle sue ragazze. Due anni dopo, è stata multata di 11 milioni di franchi (circa 10 milioni di sterline oggi) per evasione fiscale ed ha evitato ulteriori addebiti fuggendo a Los Angeles. Lì aprì una pasticceria che fallì e sposò un barman gay in modo da poter ottenere un permesso per lavorare negli Stati Uniti (un precedente matrimonio del 1972 con uno svizzero era fallito). Ha cercato di riavviare la sua vecchia attività, prendendo di mira Hollywood. Claude è tornato in Francia a metà degli anni '80 ed è stato incarcerato per quattro mesi per accuse di evasione fiscale in sospeso. Tuttavia, non poteva stare lontana dal bordello e, nel 1991, dopo che una ragazza che aveva rifiutato per essere sovrappeso aveva informato la polizia di lei per vendetta, la sua casa fu perquisita. Gli ufficiali hanno fatto irruzione nel suo appartamento proprio mentre stava valutando una giovane donna seminuda e dicendole che le sue cosce erano troppo grasse. A 69 anni, Claude è stato condannato per "sfruttamento aggravato" e ha scontato sei mesi di prigione. Il gioco era finalmente finito. "Porterà con sé molti segreti di stato", ha detto un ex capo della polizia di Parigi quando è morta - così come quella richiesta oltraggiosa di Aristotele Onassis che ha fatto arrossire questa famigerata delle madame. Trascorse i suoi ultimi decenni vivendo oscuramente e con pochi soldi a Nizza. Morì all'età di 92 anni nel 2015, attirando solo sei persone in lutto al suo funerale.

La seconda vita delle "Puttane". Alessio Paduano su Inside Over il 6 ottobre 2020. Il Piemonte è una delle regioni italiane con la più alta presenza di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi in strada. Ogni ragazza rappresenta per le organizzazioni criminali che la gestisce una fonte di guadagno che oscilla tra i 35mila e i 50mila euro. Un giro d’affari gigantesco e con carattere internazionale, come ha dimostrato un’operazione della polizia italiana che, lo scorso anno, ha portato all’arresto di 32 persone che operavano per Supreme Eiye Confraternity e Supreme Vikings Confraternity, i principali clan della mafia nigeriana in Italia. Vivian, 23 anni, all’interno della cucina del Bar Carducci dove svolge il suo stage ad Asti, Nord Italia. Vivian è in Italia da tre anni e si è stabilita ad Asti da due. Come Vivian, altre ragazze salvate dalla strada hanno ottenuto lo status di richiedente asilo e hanno aderito al progetto Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Ad Asti, comune italiano situato nella regione Piemonte che conta poco più di 75mila abitanti, esiste una onlus che si occupa di salvare le ragazze straniere costrette a prostituirsi. Si tratta del Piam (Progetto integrazione accoglienza migranti), un’associazione nata nel 1999 in seguito all’incontro tra Princess Inyang Okokon, ex vittima di tratta e Alberto Mossino, un uomo italiano che poi diventerà suo marito. Princess entrò in Italia illegalmente nel 1998 e grazie all’aiuto di un prete e di Alberto riuscì a pagare il debito di 45mila euro con la madame, denunciare i suoi sfruttatori e chiudere con quella vita. Dal 1999 ad oggi il Piam è riuscito a salvare circa 200 ragazze giunte in Italia con l’illusione di trovare un lavoro e poi finite in strada a vendere il proprio corpo. Da vent’anni Princess e i suoi collaboratori scendono per le strade di Asti cercando di fornire una seconda chance alle ragazze che sono cadute nella trappola della prostituzione. Il primo approccio è fondamentale. Bisogna avere tatto e cercare di guadagnarsi pian piano la fiducia di ragazze diffidenti e spesso spaventate. “In un primo momento andiamo a distribuire preservativi e materiale informativo” afferma Princess, “poi quando le ragazze capiscono che non hanno nulla da temere cerchiamo di spiegare loro che un futuro diverso è sempre possibile e che possono contare su di noi. Non è un lavoro semplice, ma se ci sono ragazze decise a cambiar vita le accogliamo presso le nostre strutture, le aiutiamo ad ottenere un permesso di soggiorno, forniamo un supporto psicologico e le aiutiamo ad inserirsi nella società italiana”.  Princess è entrata illegalmente in Italia nel 1998 come vittima della tratta di esseri umani. Quando ha incontrato il suo futuro marito, Alberto Mossino, è riuscita a saldare il suo debito di 45mila euro con la “madame” e interrompere quel tipo di vita. Nel 1999, insieme ad Alberto, decide di fondare la Onlus Piam (Progetto di integrazione dell’accoglienza dei migranti) per aiutare le ragazze straniere vittime di tratta di esseri umani. Uno degli ostacoli principali per Princess e il suo staff è rappresentato dai rituali voodoo ai quali le ragazze sono sottoposte prima di lasciare la Nigeria, o a volte anche in Italia. Alle ragazze viene fatto credere che se non pagheranno il debito contratto con le loro madame moriranno, o sarà fatto del male alle loro famiglie. Secondo Alberto Mossino, presidente del Piam, la battaglia si gioca tutta sul piano psicologico: “A differenza delle prostitute che arrivano dai paesi dell’Est, sorvegliate a vista dai loro sfruttatori quando sono in strada, quelle che arrivano dalla Nigeria non subiscono nessun controllo, poiché la paura e l’ansia legate ai rituali juju sono talmente forti, che difficilmente decideranno di scappare”. Le eccezioni però ci sono sempre e basta visitare una delle strutture di accoglienza del Piam per rendersene conto. Gli sguardi di Joy, Marin, Tina, Ireti, Blessing e altre decine di ragazze, un tempo spenti e terrorizzati, oggi trasmettono gioia e fiducia per il futuro grazie a persone come Princess ed Alberto che hanno deciso di dedicare le proprie vite all’aiuto del prossimo.

Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 25 settembre 2020. La vicenda delle baby squillo dei Parioli, nel 2013, sconvolse l'Italia intera. Le protagoniste erano due 15enni, note ai giornali con i nomi di fantasia di Azzurra e Aurora, cadute nel giro di prostituzione minorile della Roma bene. Tra i loro clienti figuravano parecchi uomini d'affari ed esponenti politici. Le indagini sconvolsero in breve tempo tutto il Paese: una delle due mamme è stata condannata a sei anni e quattro mesi perché a conoscenza del fatto che la figlia si prostituisse e la sfruttava per ottenere una percentuale dei guadagni. A gestire gli incontri era Mirko Ieni, condannato a nove anni e quattro mesi di carcere. Gli appuntamenti avvenivano nella famosa casa dei Parioli messa a disposizione da Nunzio Pizzacalla, caporal maggiore dell'esercito. La prima delle due aveva iniziato nel maggio del 2013, mentre la seconda a luglio. All'inizio si trattava di incontri sporadici che avvenivano in auto, poi il giro aveva iniziato ad allargarsi. Almeno 500 i clienti individuati poi dalle indagini. Tra loro anche il marito dell'allora senatrice Mussolini: Floriani, ex capitano della Guardia di finanza, aveva inizialmente negato il suo coinvolgimento per poi affermare di non sapere che le ragazze fossero minorenni. Ha patteggiato una pena di un anno di reclusione e una multa di 1.800 euro. Tra gli indagati illustri anche Nicola Bruno, figlio del parlamentare di Forza Italia Donato Bruno, avvocato e fedelissimo di Silvio Berlusconi. L'approdo su Netflix dell'ultima stagione di Baby, serie italiana ispirata alla storia delle teenagers Azzurra e Aurora, attualmente nella terza classifica delle più viste al mondo, ha riportato alla memoria dell'opinione pubblica la vicenda dei quartieri alti romani. Le due, come tante altre giovani implicate in fatti di cronaca simili, sono state affidate a una casa famiglia fino alla maggiore età. Anche Cinzia e Gloria (nomi di fantasia) hanno vissuto in due case-famiglia per anni. Non sono le protagoniste dello scandalo che sconvolse la capitale, ma entrambe vengono da una storia di prostituzione minorile che ha cambiato per sempre le loro vite. Quando parlano sembrano molto più mature della loro età: tanto viene dai traumi della loro esperienza.  "Non sono ancora riuscita a ragionare su quello che mi è successo – racconta Cinzia -. L'esperienza della casa-famiglia, lo capisco solo ora, è stata vitale per me. Se non fossi arrivata lì, non so cosa ne sarebbe di me oggi. Parlo di quello che mi è successo perché vorrei che si sapesse che non è un gioco. Nel mio caso specifico, è stata la promessa di ingenti somme di denaro a portarmi in quella rete. Ho pensato che potevo gestirlo da sola, che avrei postato solo qualche foto online ma non sai qual è il fondo che dovrai toccare. Non sai che qualcuno ti sfrutterà, che non sei in controllo e che non potrai tirarti indietro così facilmente". La prostituzione minorile, ci racconta Cinzia, non è di sicuro una scelta. "In qualche modo avevamo tutte bisogno di soldi. Non ero l'unica della mia età, ma chi mi circondava stava molto attento a non farmi incontrare le altre. Era come se non esistessero le nostre coetanee in quel mondo. Tu sai che ci sono, ma di fatto non ne hai mai vista una". Prima della casa famiglia, la ragazza aveva quasi accantonato i sogni per il futuro. "Da piccola volevo fare la parrucchiera – dice ridendo – avevo la fantasia di un salone tutto mio. Quando ho iniziato a prostituirmi ho smesso di pensarci. Non ho ancora chiaro cosa pensassi, probabilmente ero convinta di non poterlo più fare o che non ne valesse la pena. Poi ho smesso e ho ripreso in mano quest'idea, no? Credo mi servisse uno scopo per vivere in casa famiglia, per sapere che non era finita. Non ho ancora quel salone, ma spero di averlo presto". Gloria, invece, non ha più notizie di sua madre e suo padre. "Non lo so, non ci sentiamo da allora – racconta – . Sono stati loro ad aiutarmi nel mio percorso, ma poi abbiamo perso i contatti. Io ho avuto paura di confrontarmi e loro forse non sapevano come parlarmi. Siamo tutti ancora molto scossi da quello che è successo, ma forse lentamente recupereremo il tempo perduto. Ora ho trovato un lavoro e mi sono trasferita". Al contrario di Cinzia, Gloria non ha mai voluto raccontare la sua storia. Ammette che non la conosce neppure il suo fidanzato o le sue coinquiline. "Si tratta di una parte della mia vita che per ora voglio tenere per me", sostiene.

Il percorso in casa-famiglia. Della prostituzione minorile in Italia, però, si sa ancora troppo poco: si tratta di un fenomeno sommerso molto diffuso che ogni tanto diventa argomento di dibattito grazie alle prime pagine dei quotidiani. Di queste storie si conosce tutto l'iter giudiziario che conduce alla casa-famiglia, ma poco si sa della vita di queste ragazzine dopo la bufera. "Quello che non si racconta è che queste bambine devono scontare per tutta la vita un trauma dalle conseguenze devastanti. – racconta l'Avvocatessa Teresa Manente, da anni impegnata nella tutela delle minorenni sfruttate dal giro della prostituzione – Spesso la narrazione pubblica punta l'attenzione soltanto su di loro, quasi le colpevolizza, mentre si parla dei clienti soltanto in sede legale. Un minore non può scegliere di fare questa vita perché non ha la maturità o gli strumenti giuridici per farlo. Si tratta di ragazzine che non sanno cosa comporta la prostituzione. Tante mi contattano di loro spontanea volontà per uscire autonomamente da questo sistema terribile". Le case famiglia offrono loro accoglienza, tutela legale e colloqui di sostegno per inquadrare quello che hanno subito nella giusta dimensione. "Le aiutano a combattere i sensi di colpa che incredibilmente ci sono – spiega l'Avvocatessa -. Loro sono vittime, non autrici di quanto hanno vissuto. Se i genitori le sostengono in questo percorso, le cose sono un po' più facili. Nel caso di ragazze le cui famiglie hanno finto di non sapere cosa stesse accadendo o che sono state spinte dagli stessi genitori nel prosieguo dell'attività, bisogna offrire loro un intero sistema educativo che tramite l'affetto e le varie iniziative interne a una casa famiglia le aiuti a riprendere in mano il proprio futuro e andare avanti".

Lo scandalo dei Parioli sette anni dopo. Dello scandalo dei Parioli abbiamo parlato con la giudice Paola Di Nicola, autrice della sentenza che ha condannato il cliente non solo a risarcire il danno, ma a farlo comprando alle due minorenni libri e dvd sulla storia del pensiero femminile. "Allora le ragazzine avevano rispettivamente 14 e 15 anni – spiega -. I clienti erano tantissimi e le indagini si sono svolte nell'arco di pochi mesi, ma in questo lasso di tempo così breve è emersa una rete di uomini di diverse classi sociali, partendo dai dirigenti d'azienda fino ai disoccupati. Si tratta di vittime, di certo non di donne che hanno scelto deliberatamente uno stile di vita. La pedofilia è un reato severamente punito in Italia e in queste storie i media dovrebbero individuare il colpevole nel cliente. Invece la narrazione ha puntato i riflettori sulle ragazzine, colpevolizzandole. Chi ha abusato di queste bambine ha ritenuto di poter calpestare la dignità femminile e la mia sentenza voleva restituire loro la dignità lesa". Si tratta di una pronuncia molto commentata all'estero, con dibattiti nati principalmente negli USA e in Canada. In Italia, però, è rimasta isolata sebbene i profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione minorile superino quelli del traffico di droga e di armi. "Queste esperienze causano nelle maggiorenni un trauma da stress che secondo alcuni studi è paragonabile alla sindrome post traumatica dei veterani del Vietnam – spiega la giudice -. Possiamo solo immaginare cosa succeda nella testa di una ragazzina così piccola. I media devono restituire un'immagine della prostituzione minorile che corrisponde alla realtà in cui questi affari sono gestiti e sfruttati dalla criminalità organizzata. Non è un fenomeno che può essere edulcorato: va raccontato così com'è. Non se ne parla nel modo giusto e infatti basta andare su un qualunque shop online su internet per trovare annunci dietro i quali non è difficile immaginare la presenza di una minorenne che si sta prostituendo. Questo è un fenomeno sommerso dalle dimensioni terrificanti".

DAGONEWS il 9 aprile 2020.  Migliaia di adolescenti britanniche vendono online le loro foto e video nude per fare soldi. Il documentario della BBC “Nudes4Sale” racconta la storia di alcune ragazze che rivelo di aver fatto fino a 37mila sterline al mese vendendo materiale esplicito su siti come OnlyFans.com. Social come Twitter e Snapchat vengono utilizzato per promuovere i profili hot nel tentativo di guadagnare più denaro. Un utente di nome Lauren, 23enne del Northamptonshire, ha parlato con la BBC rivelando di avere oltre 2000 "fan" che pagano $ 15 al mese per sbloccare e visualizzare le sue foto e i suoi video in cui si mostra nuda. L’elemento più preoccupante è che questa strada per arricchirsi facilmente si sta facendo strada tra coloro che hanno meno di 18 anni e che utilizzano la piattaforma per vendere illegalmente le proprie immagini. La giornalista Ellie Flynn, che è stata incaricata di esplorare i dettagli del sito web, ha scoperto che la piattaforma utilizza una tecnologia di riconoscimento facciale per scoprire quanto siano giovani alcuni utenti del sito Web. Ma, secondo la giornalista, ci sono foto di ragazzine di 14 anni, dimostrando quanto sia facile aggirare il sistema. Un'altra ragazza che ha avuto successo sul sito Web ha anche rivelato come ha avuto successo sul sito Web quando aveva meno di 18 anni. Flynn ha rintracciato la 17enne scozzese che si fa chiamare Hannah: «A 16 anni guadagnavo dalle 15.000 alle 20.000 al mese». OnlyFans, Snapchat e Twitter insistono sul fatto che hanno tolleranza zero nei confronti dell'abuso sessuale su minori.

Da ansa.it il 19 febbraio 2020. "La prostituzione minorile è uno dei fenomeni più inquietanti che ha come vittime i minori, sia bambine che bambini. E che purtroppo vede sempre più protagonisti anche bimbi con meno di 14 anni, quindi anche di 13, di 12 o di 10 anni. Nell'ultimo anno giudiziario sono stati 31 i nuovi procedimenti", nel circondario del tribunale e della Procura di Roma. Lo ha detto il pm Maria Monteleone, sostituto procuratore a Roma e coordinatrice del pool che si occupa dei diritti dei minori, nel corso dell'audizione alla commissione parlamentare di inchiesta per l'infanzia e l'adolescenza. Dopo aver segnalato gli sviluppi del fenomeno nell'ultimo anno, il pm Maria Monteleone ha anche ricordato che "negli anni precedenti abbiamo avuto un'impennata di procedimenti nuovi in questa materia, connessa alla nota vicenda delle baby squillo". Quest'ultimo riferimento riguarda l'inchiesta che nel 2013 portò alla luce la vicenda di due ragazzine fatte prostituire nel quartiere romano dei Parioli.

Da roma.fanpage.it il 30/01/2020. Nelle vie intorno alla stazione Termini, al centro di Roma, quando cala la sera le strade si riempiono. Non solo di giovani e turisti che vogliono fare una passeggiata per le strade della capitale, godendo della bellezza dei monumenti illuminati in maniera suggestiva. Ma anche di ragazzi di vent'anni che si prostituiscono per venti, trenta euro. Sono di tutte le nazionalità, e ognuno di loro ha una cosa in comune: non trova un lavoro che gli permette di guadagnare abbastanza da vivere dignitosamente. E così scelgono la via della prostituzione. Si tratta di giovanissimi che la sera si appostano nelle vie adiacenti la stazione Termini e aspettano che qualche cliente si avvicini per contrattare la prestazione. Un dramma umano, fatto di rassegnazione e sogni che si infrangono sui sampietrini di piazza dei Cinquecento. A raccontare alcune di queste storie è Salvo Sottile nella trasmissione ‘Prima dell'alba'. Ed è qui che conosciamo anche Marco, un ragazzo di Avellino di 23 anni che ogni sabato sera prende il treno per Roma per prostituirsi alla stazione Termini. Al padre dice che va a trovare la fidanzata. Incontra circa tredici clienti a notte, poi all'alba riprende il treno per Avellino e torna a casa. "Non vorrei fare questo lavoro, ma devo coprire la spese – racconta – la mattina dopo mi sento sempre un uomo di merda". "Molti sono uomini anziani. Mi faccio praticare solo sesso orale, io a loro non faccio mai nulla. Non sono mai andato a letto con nessuno. Sono attivo, non passivo". Il padre di Marco non sa nulla di quello che fa il figlio il sabato sera. "Ho cercato un lavoro, ma non si trova niente. Se lo trovo smetto. Ho fatto il corriere espresso tra i 16 e i 17 anni, poi basta. Sono arrivato al quarto anno di scuola alberghiera ma poi non ho mai lavorato".

Dagospia il 23 gennaio 2020. Comunicato Stampa. Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa, ha annunciato le migliori professioniste del sesso del 2019 “proiettandole” ieri sera, mercoledì 22 gennaio, sulle facciate di tre palazzi di Milano. Maia di Verona e Silvia di Novara sono rispettivamente la escort e la escort trans migliori d’Italia per l’anno 2019. Le classifiche però riservano sorprese e nelle top 10 risultano esserci rappresentanti da tutta Italia dalle storie particolari. La classifica è stilata attraverso il confronto tra il numero delle recensioni e il loro punteggio, oltre al grado di affidabilità degli autori delle recensioni. Insomma, le professioniste del sesso vengono premiate direttamente dagli utenti proprio attraverso il racconto delle loro esperienze.  Gli utenti tramite le recensioni hanno la possibilità di scegliere la loro sex worker ideale evitando il rischio delle truffe. Inoltre, vedendo le classifiche si può notare come i gusti degli italiani siano molto variabili e lontano da stereotipi. D’altro canto, per le escort le recensioni diventano un modo per costruire una web reputation solida e pubblicizzarsi, potendo anche rispondere agli utenti, nella maniera più corretta per loro stesse. Escort Advisor ieri sera ha proiettato le fotografie e le informazioni sulle prime in classifica, attraverso il video mapping, sulle facciate di tre palazzi a Milano: un edificio in costruzione in zona Porta Garibaldi in via Tocqueville, quello di Eataly in via Gaspare Rosales e il Palazzo della Regione Lombardia in via Melchiorre Gioia. Il tutto preceduto il 21 gennaio da un red carpet con annessi bodyguard che hanno distribuito inviti per l’evento principale. Non si sono fatte attendere proteste e interventi delle forze dell’ordine, oltre che molta ilarità da parte dei passanti incuriositi dalla particolare iniziativa, che ha fatto scatenare anche i social network. “Chi è la migliore d’Italia?” è il motto dell’iniziativa che è stato abbinato ad immagini che ricordano la lotta a suon di professionalità e reputation delle escort del sito. Le classifiche di Escort Advisor, dunque, rappresentano tutte quelle professioniste che non si improvvisano nel sesso a pagamento e che soprattutto non sono ragazze di strada e sfruttate. Sono donne che scelgono questo lavoro e che si impegnano per essere le migliori. Questo si vede da quante recensioni hanno sui loro profili, alcune addirittura, ne hanno quasi 200. Il richiamo alla lotta è dunque simbolico e rimanda al loro orgoglio di donne indipendenti che vogliono usare il proprio corpo per lavorare. L’obiettivo rientra in un percorso integrato di comunicazione che Escort Advisor avviato da tempo: sdoganare un argomento da sempre considerato “scandaloso” ma anche sensibilizzare sul tema della sicurezza e trasparenza che le recensioni garantiscono a tutti, utenti e sex worker.

Maia, la migliore escort d'Italia 2019.

Silvia, la migliore escort trans d'Italia 2019.

Nota bene: le città indicate sono quelle dichiarate al momento dalle ragazze sul sito. Le escort spesso sono “in tour” in varie zone d’Italia.

La prima escort in classifica del 2019 è Maia di Verona, che spesso è in tour in Lombardia. Originaria della Repubblica Ceca, ha 25 anni: “Lavoro molto bene con le recensioni, ho capito che attraverso di queste i clienti sono invogliati a venire perchè vanno sul sicuro: trovano esattamente quello che viene descritto dagli altri e quindi mi scelgono perchè vado incontro ai loro gusti. Grazie le recensioni posso avere tariffe che vanno dagli 80 euro ai 300. Mi sono comprata la casa. I clienti? I veneti sono più freddini, mentre i lombardi più aperti. Perchè faccio questo lavoro? Per passione!”

La migliore escort trans del 2019 è Silvia di Novara, che però gira tutta l’Italia per lavoro. Venezuelana di 47 anni, è felicemente sposata con il suo compagno, con cui sta da più di 18 anni: “La mia famiglia sa che faccio questo lavoro, esercito da circa 20 anni. Sono molto contenta che tante persone abbiano scritto delle belle recensioni su di me e di essere una tra le professioniste più cliccate di Escort Advisor”.

“Escort Advisor ha presentato le migliori professioniste del sesso in Italia del 2019 e lo ha fatto con il suo consueto tono di voce. Attraverso il meccanismo delle recensioni gli utenti hanno la possibilità di condividere le loro esperienze, garantendo sicurezza nella fruizione del settore, mentre le escort guadagnano di web reputation, con anche la possibilità di rispondere alle recensioni degli utenti. Il tutto garantendo la privacy per entrambi. Le classifiche indicano proprio il virtuosismo di questo meccanismo, ormai consolidato in questi 5 anni di attività: la possibilità di scegliere, sia per gli utenti come passare il loro tempo in maniera sicura e piacevole, sia per le escort, libere di lavorare mostrando i loro punti di forza facendo quello che le appassiona” – commenta Mike Morra, fondatore di Escort Advisor.

Un anno molto positivo per il settore ed Escort Advisor che conta più di 2 milioni di utenti unici al mese e risulta essere tra i primi 40 siti più visitati in Italia (fonte: Alexa.com - Amazon). Un incremento è stato riscontrato anche dal punto di vista delle sex workers attive: +12% nel 2019 rispetto al 2018. Notevoli anche le variazioni di prezzo delle professioniste per provincia. La più cara è Olbia-Tempio (140 euro in media a prestazione), mentre la più economica Enna (77 euro in media a prestazione). Per dettagli sulle statistiche divise per comuni e province del 2019 e per i confronti con il 2018 non esitare a contattarci. Escort Advisor è il primo sito di recensioni di escort in Europa, in Italia ha oltre 2 milioni di utenti al mese ed è tra i primi 50 siti più visitati in assoluto (fonte: Alexa.com - Amazon). E’ attivo inoltre in Spagna, Germania e UK.

Dagospia il 23 aprile 2020. Intervista a Silvia Duval. Silvia Duval è la migliore escort trans del 2019 per gli utenti del sito Escort Advisor, che l’hanno incoronata attraverso le recensioni, calcolate per qualità, quantità e “reputation” del recensore. Ha 47 anni e abita a Novara, anche se ogni settimana si sposta in tour per l’Italia per lavoro. Di origini venezuelane, vive in Italia da più di 20 anni, periodo in cui ha iniziato con la carriera del sesso a pagamento. E’ sposata con il suo compagno, con cui vive da ormai 18 anni.

Cosa vuol dire per te essere la escort trans migliore d’Italia?

«Sono rimasta molto colpita e contenta di essere stata scelta come la migliore escort trans d’Italia. Devo ringraziare i miei clienti che sono venuti a trovarmi e sono rimasti contenti delle mie prestazioni, ma dovrei ancora sforzarmi di più per dare il meglio di me».

Come e perché sei arrivata a fare questo mestiere?

«Ho iniziato a fare questo lavoro un po’ per necessità, perchè quando sono arrivata in Italia, ho sì cercato un lavoro più normale, ma non ci sono riuscita: per le trans è veramente più dura. Le persone non accettano tutto. Da sola, in un Paese straniero senza soldi e lavoro, il sesso a pagamento è stato l’unico modo per mantenermi… così però ho scoperto che mi piace questa professione!»

La tua famiglia lo sa? E come ha reagito?

«Sì, la mia famiglia lo sa...I miei famigliari sanno della mia scelta e all’inizio hanno reagito un po’ male. Ora l’hanno accettato, anche se per la verità, evito di parlare del mio lavoro con loro».

Quanto guadagni al mese?

«Il guadagno è relativo e dipende molto sia dalla città in cui sono, sia dal periodo dell’anno. A volte si può guadagnare molto molto bene, altre volte non abbastanza da vivere. Attualmente, si è in un periodo un po’ duro, quindi ci si deve accontentare di quello che viene...»

Qual è la richiesta più bizzarra che hai ricevuto da un cliente?

«Nonostante sia una Maitresse, la richiesta più bizzarra mi è capitata una volta a Lecco. Un cliente ha voluto che lo truccassi e lo vestissi da donna e che lo portassi a fare un giro con me in centro. Voleva sentirsi anche lui donna».

Hai mai avuto clienti vip?

«Ho avuto clienti Vip, anche molto famosi e insospettabili... ma ho fatto finta di non sapere chi fossero. Volevano togliersi qualche sfizio, ma essendo trattati da persone comuni...»

Qual è l’identikit del tuo cliente medio? Uomo, sposato, mezza età?

«Da me viene un po’ di tutto. Tutte le età, uomini soprattutto, anche se sono molte le coppie che hanno in mente giochi sessuali particolari. Quasi tutti sono sposati e vengono a trovarmi per curiosità o per provare qualcosa di nuovo, non solo da attivi...spesso da passivi».

Secondo te, perché un cliente cerca le tue prestazioni?

«I clienti vengono da me perchè possono lasciarsi andare e fare quello che si sentono di fare. Possono realizzare le loro fantasie sessuali».

Cos’è la trasgressione oggi?

«La trasgressione oggi è uscire fuori dalla routine delle solite cose. Tutti abbiamo dentro di noi la nostra trasgressione personale...»

Sei a favore della legalizzazione della prostituzione?

«Sono favorevole alla legalizzazione della prostituzione perchè sarebbe più controllata: un gran vantaggio per il nostro lavoro insomma».

Come vive in società una “sex worker”? Averti diffidenza? Discriminazioni?

«La società ancora discrimina il nostro lavoro, perchè si pensa che sia una cosa degradante. In realtà è un lavoro come tutti gli altri se lo fai con rispetto e professionalità».

Parlando della tua esperienza da escort, c’è qualcosa che non rifaresti?

«Nella mia esperienza, piano piano ho imparato a conoscere coloro che vengono da me, quello che cercano, quello che vogliono. Cerco di dargli il meglio di me, ma l’ho imparato con il tempo. Fare la escort mi piace e mi rende felice. Ho provato anche a lavorare sulla strada all’inizio della mia carriera: ecco, questo non lo rifarei mai».

Svelaci un tuo rimpianto e un tuo rimorso.

«Un rimpianto è che in questi anni non ho potuto godere della mia famiglia. Sono più di 20 anni che vivo lontana dai miei familiari, soprattutto mia madre. Appena posso infatti vado in Venezuela a trovarli. La solitudine però la patisco di meno: ora ho anche qui in Italia, che è il mio secondo Paese, la mia famiglia».

Da escort-advisor.com il 23 aprile 2020. Sono arrivato titubante, perché ormai spesso capita che di presenza ci si trova davanti a qualcosa di diverso rispetto alle foto, invece questa volta con enorme soddisfare mi sono trovato difronte la persona che avevo visto in foto. Mi ha messo subito a mio agio con il suo dolce e solare sorriso. Ci siamo scambiati qualche parola, poi è partito il suo abbraccio, facendo sentire sul mio petto il suo splendido seno. La cosa che subito mi ha eccitato il suo profumo e la sua pelle, liscia come difficilmente capita di sentire anche a una cosiddetta donna biologica. Le mie mani sono scese giù in basso sul suo fondoschiena, rotondo e sodo. A questo punto ero già eccitatissimo ed ho sentito anche lei già eccitata che premeva con il suo sul mio. Da lì siamo andati nella sua camera, pulita profumata e climatizzata, si è messa sul letto togliendosi il body di pizzo che indossava quando mi ha aperto la porta. Mi ha subito offerto il suo meraviglioso fondoschiena che io ho iniziato subito a baciare e leccare. Bhe potrei continuare con tutte le cose che abbiamo fatto, ma in sostanza quello che voglio dire è che mi sono trovato benissimo, una favola, una persona fuori dal comune che sa fare il suo mestiere, che conosce alla perfezione come fare provare piacere al suo uomo in quei momenti. Quindi io sicuramente continuerò ad andare da lei, perché sono stati soldi ottimamente spesi ed un servizio da oltre 5 stelle.

Luca Burini per lettera43.it il 27 marzo 2020. Quando la chiamo, la trovo indaffarata a riordinare la casa. Dopo due settimane di quarantena, la trans di origine turca Efe Bal, che, ci tiene a ribadirlo, si prostituisce «per scelta», è pronta a tornare al lavoro. «Giusto un cliente al giorno, tanto per aver qualcosa da fare durante la giornata a parte portar fuori i cani e cucinare», mi spiega annoiata. Sono perplesso. Forse ingenuo. Milano e il resto d’Italia sono paralizzate a causa del coronavirus e, nonostante tutto, c’è ancora qualcuno che riesce ad andare a fare sesso a pagamento? Rischiando di essere contagiato e soprattutto commettendo un reato. Perché gli spostamenti devono essere motivati da «comprovate esigenze lavorative», «situazioni di necessità» oppure «motivi di salute». Vallo a spiegare a un giudice che, per qualcuno, andare da una prostituta è una necessità. Comunque la conferma pratica arriva durante la nostra chiacchierata. L’altro numero di Efe squilla almeno tre volte, lei risponde e sono potenziali clienti. D’altronde le richieste sono arrivate anche nei giorni precedenti. Lei però ha preferito rifiutare. Cosa è cambiato nel frattempo? Siamo ancora in piena emergenza. Le sanzioni sono state inasprite. Ma Efe, come del resto chi la contatta, non mi pare particolarmente spaventata: «Aspettavo che la situazione negli ospedali migliorasse. I numeri iniziano a essere più incoraggianti. E poi anche se prendo il coronavirus non è come prendere l’Aids. Non è una malattia sessuale. Posso essere contagiata anche al supermercato». Provo a spiegarle che il ragionamento non fila. E che è una scelta da irresponsabili. Ma lei rimane della sua idea. «Se mi ammalassi farei come Nicola Zingaretti e Nicola Porro, lo direi a tutti in modo che i miei clienti lo sappiano che sono a rischio», insiste lei. «E poi il governo non ha la minima intenzione di occuparsi di noi 80 mila prostitute. Non ci saranno aiuti economici per noi», aggiunge. D’altronde la prostituzione in Italia è lecita. Tollerata. Ma non è considerata un vero lavoro. Quindi non è regolamentata. E in questa situazione di emergenza è forse l’ultimo dei problemi nell’agenda di governo. Ammesso che ci sia mai stata. «È un errore. Perché noi saremmo pronte a pagare le tasse in cambio di diritti e un po’ di dignità. Sa quanti soldi arriverebbero alle casse dello Stato?», mi dice Efe Bal alzando il tono.

DOMANDA. Non mi dica che si aspetta che il governo pensi a voi in questo momento.

RISPOSTA. Ma certo che no. È anche per quello che bisogna continuare a lavorare. Alcuni politici pensano ai migranti, ma non a noi. Molte di noi sono anche italiane. Di questi che arrivano sui barconi non sappiamo nemmeno il loro nome.

Se è per questo nemmeno delle sue colleghe conosciamo i nomi. Non mi pare un buon motivo per schifarli. Non crede?

«A me di loro non frega niente».

Anche lei è stata un’immigrata o sbaglio?

«Ho la doppia cittadinanza. E poi io sono un’immigrata ricca. Non ho mai pesato sulle spalle degli italiani. E non voglio che altri lo facciano perché non sono bambini. Sono maggiorenni, maleducati, tamarri che vogliono venire qui e trovare una casa, da lavorare e da scopare».

Sta generalizzando. Forse è perché non conosce i loro nomi e loro storie.

«Io questa gente non la voglio. Voglio l’Italia di 20 anni fa. Non siamo più al sicuro».

È tutta colpa degli immigrati?

«Guardi, parliamo di questi giorni, loro non stanno rispettando nemmeno il decreto. Li vedo in giro in gruppo e nessuno gli dice nulla».

Nemmeno lei rispetterebbe le regole tornando a lavorare. Molte sue colleghe si sono spostate sui social e fanno videochat. Che è più sicuro. Gliel’hanno chiesto anche poco fa al telefono. Perché lei non fa lo stesso?

«Non amo particolarmente questo genere di cose. Non avrei nemmeno la ricaricabile. Poi quanto chiedi? Cinque euro? Non ho tutta questa esigenza. E poi una che fa la prostituta dovrebbe scopare con i clienti. A me piace anche. Credo che sia il lavoro migliore del mondo. Oggi siamo tutti prostitute. Anche lei è un prostituto».

Prego?

«In qualche modo vende la tua capacità di intervistare e scrivere per raccogliere due soldi. Vende il tuo cervello. Io vendo il cervello e il mio corpo. La cosa importante è non vendere l’anima».

Io non mi considero tale. Ma non è questo il punto. Lei e i suoi clienti davvero non avete paura di ammalarvi?

«Dio mi vuole bene, non mi sono mai ammalata nonostante il lavoro che faccio. Agli uomini, invece, non interessa niente. Vogliono solo scopare. Bisogna accettarli per come sono. Ancora oggi ci sono tanti che ci chiedono di fare sesso senza preservativo».

Lei accetta?

«Io no. Ma tante lo fanno per soldi. Eppure, dopo 30 anni, la piaga dell’Aids non è ancora scomparsa. E nel mondo sono morte milioni e milioni di persone. Questi uomini che non si spaventano delle malattie sessuali, vuole che abbiano paura del coronavirus? Se lo prendono non devono nemmeno dire alle mogli che sono andati a troie! Chissà, magari tra i morti c’è anche qualche mio cliente».

Descrive gli uomini come dei poveri disperati. Anche sfigati. Ce ne sono sicuramente. Ma per fortuna sono una minoranza. O sbaglio?

«Ne ho visti talmente tanti! Sa io non credo ci siano uomini che sono fedeli per sempre. A tutti viene la voglia di andare dopo due o tre anni con una prostituta».

Buon per voi. Ma continuo ad avere molti dubbi. O per lo meno a sperare che non sia così.

«Si fidi. Poi adesso con i social network… Basta controllare chi si è taggato nel ristorante dove eri a cena per trovare quello seduto al tavolo a fianco. Ci parli un po’ e poi ci scopi. Non lo sapeva?»

Questo sì, lo so bene. E non ci vedo nulla di male se sei single.

«Oggi il matrimonio è fantascienza. E le prostitute non siamo solo noi che lo facciamo di mestiere. Ma anche chi fa altri lavori e va a letto con uomini o donne (spesso sposati) in cambio di benefit o regali. Non c’è grande differenza».

Su questo siamo d’accordo.

«Infatti secondo me ci sono almeno altre 120 mila persone in Italia che si prostituiscono. Anche se non lo ammettono come facciamo noi. Io non mi vergogno. Sono altri che dovrebbero vergognarsi.

Chi?

«Tipo gli anziani che stanno con ragazzine che hanno 50 anni di meno».

Lei non ha clienti molto più grandi di lei?

«Io ho superato i 40 anni. E comunque io mica mi ci fidanzo».

Ha una visione decisamente cinica dei rapporti a due. Lei si è mai innamorata?

«Sì certo. Anche di qualche ragazza e di qualche cliente. Un grande errore nel secondo caso».

Convincerla a rimanere ferma ancora per un po’ mi pare impossibile. Manterrà gli stessi prezzi di quando ancora il coronavirus non era un’emergenza sanitaria?

«Sì. Potrei chiedere molto di più di quello che chiedo visto che sono famosa. Però molti della mezz’ora che pagano sfruttano solo cinque minuti, finiscono e se ne vanno. Difficilmente si fermano a parlare».

Ha detto che la pandemia è un segnale di Dio. Non pensa sia eccessivo?

«Io sono molto credente. Anche se non si direbbe visto il lavoro che faccio. Sono musulmana. E secondo me Dio ci sta dicendo che il nostro modo di vivere fino a oggi è sbagliato. Che dobbiamo essere più puliti, più rispettosi. Credo molto nel karma».

Come sarà l’Italia quando quest’emergenza finirà?

«Noi prostitute continueremo a esserci. Sopravviviamo sempre. Siamo molto forti. Facciamo una vita di merda e siamo abituate a tutto. E, come le ho spiegato, saremo sempre richieste. Non credo si possa dire lo stesso per altri settori».

Tipo?

«Ristoranti e negozi che probabilmente ci metteranno un po’ più di tempo prima di tornare a regime. Visto che le persone potrebbero cambiare le loro abitudini e soprattutto portarsi addosso la paura. E vedrà quanti divorzi ci saranno».

Colpa della convivenza forzata?

«Le coppie scopriranno che non si sopportano. Fino alla quarantena si riempivano di corna e tutto andava bene. Adesso viene fuori tutto».

Che fine ha fatto il suo sogno di far politica con la Lega?

«Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, che sono i potenziali alleati, non mi vorrebbero. Matteo Salvini poi ha tanti di quei cazzi a cui pensare che credo non candiderebbe mai una trans. Chiaramente se avessi molto più seguito sui social sarei un nome più appetibile. Se non mi avessero bannato per otto volte su Instagram probabilmente avrei più follower. Veri e non comprati».

I social non la vogliono?

«Qualche giorno fa mi hanno bloccata su Facebook semplicemente perché mi chiedevo come mai tra tutti i morti per coronavirus in Italia non ci siano cinesi».

Non lo possiamo sapere. Sono dati sensibili e soprattutto poco rilevanti in una situazione di emergenza come questa.

«Non sono poco rilevanti perché il virus è nato in Cina e in Italia ci sono tantissimi cinesi. La mia domanda è lecita e qualche giornalista con le palle dovrebbe approfondire. Perché i rappresentanti della comunità cinese non dicono nulla?»

Non mi pare che il bollettino dei morti e dei malati sia suddiviso per etnie. Tra i morti potrebbero esserci cinesi, africani, mediorientali. Mi sembra un po’ complottista il suo ragionamento francamente.

«Io non ho nulla contro i cinesi. Io li adoro. Mi sento molto vicina alla loro filosofia di vita. E al loro rapporto con il lavoro. Non sono come gli italiani che non vogliono lavorare la domenica.

Se fosse così la domenica non potrebbe andare a fare la spesa, a fare shopping o a mangiare al ristorante. Di italiani che lavorano la domenica ce ne sono tanti.

«Ma chi può non lo fa. Perché i cinesi sono diventati così ricchi in Italia? Perché lavorano sempre».

Ed è scandaloso non lavorare la domenica? Certi lavori in tutto il mondo si fermano la domenica.

«Io lavorerei lo stesso».

Buon per lei.

«Che poi gli italiani amino la bella vita è sotto agli occhi di tutti. Appena possono prendono e partono per il weekend».

Sono scelte. Come per lei fare la prostituta. A proposito, sa che per molte femministe vendere il proprio corpo non è mai una libera scelta?

«Se è per questo molte femministe accettano di stare con uomini che le tradiscono dalla mattina alla sera».

Non vedo il nesso. Ma mi pare di capire che lei non si sente per niente femminista. Sbaglio?

«Le donne si odiano. Non credo nella loro solidarietà. Guardi come si querelano tra di loro quelle dello spettacolo. Alba Parietti e Selvaggia Lucarelli, Romina Power e Loredana Lecciso».

Forse è meglio se questo lo tema lo affrontiamo separatamente.

«Quando vuole».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 4 febbraio 2020. La sera in cui Mike Morra alzò il suo naso da commercialista dal faldone di una tristissima procedura concorsuale per trasformare il sesso a pagamento nel business di recensioni di escort più seguito in Europa, alla tv stava passando Luciana Littizzetto. «Ascoltavo la Littizzetto che parlava del business della prostituzione su Google. Il dato era impressionante: era il 30% del Pil (in Italia addirittura il 70%). Se considera che solo noi facciamo 25 milioni di utenti, pensi la portata del fenomeno. Decisi in un lampo di gettarmi nel settore "adult". Il problema è che tutti i segmenti di mercato era già occupati, dai siti porno in su, così, dato che io sono da sempre un appassionato delle custumer experience, quella di Trip Advisor, mi sono inventato una cosa che non esisteva al mondo: un sito dove, invece degli alberghi o dei ristoranti, i clienti recensiscono le sex workers». Di Mike Morra, 51enne, imprenditore, gessato azzurro, scravattato, faccia da boxeur montata su un occhiale in stile Franco Califano si sa poco. Viaggia sotto falso nome, tiene famiglia, e non si fa fotografare per eludere le minacce di morte dei magnaccia. Si sa che ha messo le mani su una "nicchia" di mercato di 5 miliardi di giro d' affari, esentasse; e che è tra coloro che hanno spostato le 50mila prostitute italiane dalla strada rendendole "imprenditrici di sé stesse", facendo saltare il business mafioso dello sfruttamento. La sua vita sembra un libro di John Cheever: buona coscienza, business e cattiva morale che danzano sotto la luna. Morra, di lei si sa poco. Qualche nota di costume (milanese, laureato in Scienze politiche, pilota di aerei da turismo), la partita doppia e il lavoro di vent' anni in una web agency. Poi la nascita di questo suo sito, Escort Advisor, unico al mondo. Gliela metto piatta: è vero che guadagna palate di quattrini?

«Ricordo che, appena andati on line, l' 8 febbraio 2014 avevamo solo una stringa con nomi che scorrevano. Una volta inserito il sistema di pagamento in un minuto è arrivata la prima iscrizione da 10 euro. Mi sconvolse l' esplosione del traffico del sito, alimentata soltanto da inserzioni sui siti per adulti, dato che la pubblicità tradizionale ci era preclusa. Il primo mese avevamo già 700mila utenti, roba che un' azienda media non li fa in una vita. Ma, più che sui soldi, punterei sulla mission. Ho pensato che la gente aveva fame di informazione. Con le nostre certificazioni ora le professioniste e i clienti sono meno a rischio di truffe, o di trovarsi un malintenzionato sconosciuto in casa. Praticamente ho regolamentato il settore».

Detta così, lei praticamente sarebbe un benemerito.

«Be', adesso, da quando le escort lavorano col web, la criminalità organizzata ha lasciato la prostituzione. Restano le nigeriane che a Milano vengono portate coi pulmini alle Varesine (zona di Milano, ndr) di notte, ma quelle sono un' altra cosa».

La prostituzione, secondo la legge Merlin, in Italia non è reato. Lo sono lo sfruttamento e il favoreggiamento. Lei ha creato un portale che è a metà fra il Catalogo di Don Giovanni e la Guida Michelin del sesso. Non teme problemi con la legge?

«Semmai è il contrario. Finché si tratta di un paio di tette, ok, le vedi dappertutto, ma noi non pubblichiamo foto hard, con organi sessuali o scene di sesso: perché siamo consapevoli che possono accedere i minori e perché saremmo intermediari, quindi già in galera. Qui funziona come Trip Advisor: diamo spazi a signorine che li riempiono con i report dei loro segretari.  Alcune si scelgono perfino i clienti. Altro dato: il mio pseudonimo mi preserva dalla malavita».

"Mike Morra" ricorda il protagonista del film Limitless: ingoiava una pillola e portava il cervello alle massime capacità. Lei non si sente di essere andato oltre?

«Limitless, è il paradigma della mia società: il cervello umano non ha limiti. E io considerando la situazione economica dell' Italia, la tassazione, la mancanza di crescita, il tax rate assurdo, per evitare di diventare un fallito come quelli di cui mi occupavo quando facevo il commercialista, ho considerato che c' è sempre una via d' uscita. "Arrangiatevi!", come diceva Totò, e io l' ho fatto».

S' è arrangiato benino. Il sito supera perfino i siti porno. Lei ha più di 60 dipendenti (il cui stipendio minimo è di 3500 euro mensili), una sede in Spagna, prossime aperture in Inghilterra e Germania. Le ripeto la domanda, che lei ha eluso buttandola sul sociale: quando guadagna?

«Mi spiace, i nostri bilanci sono dati sensibili. Ma le do solo un' idea del business. Solo nel primo mese nella sede spagnola abbiamo 600mila utenti al giorno. E se si applicasse la flat tax di Salvini al 15% tutte le escort pagherebbero i loro "servizi alla persona", e risolveremmo i problemi di bilancio dello Stato. Anche se le signore avrebbero qualche problema sulla soglia minima del reddito a 80mila euro l' anno. Una top 80mila euro arriva a guadagnarli in un mese. Di solito la media dell' introito è di 10mila euro al mese. Un giorno una di loro mi disse: "Se non prendi almeno 1500 euro al giorno non sei una escort, sei una prostituta che batte in strada"».

Stipendi assurdi.

«Sì. Ma il vero problema per loro è come investire i soldi: se comprano una casa si trovano la polizia, se li mettono in banca gli sequestrano il conto. Spesso riciclano, ma anche lì, ora, i controlli sono implacabili. Non sembra, ma questo è un settore difficilissimo».

Non ne dubito. In compenso non c' è volatilità, diciamo.

«Lei scherza. Ma il mio marketing dice che questo è un mercato "contro-intuitivo". Tu pensi che le escort lavorino la notte, in realtà staccano alle 5 del pomeriggio; credi che i picchi del lavoro siano nel week end e di notte, invece sono in pausa pranzo e il lunedì alle 17.30, prima del ritorno a casa».

Come diceva Flaiano, il traffico rende difficoltoso l' adulterio nell' ora di punta.

«Esatto. All' inizio poi eravamo completamente digiuni della materia. Per fare valutazioni predittive ci siamo affidati ad uno studio degli studenti dell' Università di Trento nel 2012, la nostra Bibbia. E ci siamo resi conto che le loro stime erano la metà rispetto al dato reale».

E qui torno a bomba. L' azienda fiorente dai bilanci discreti. Perché la vostra sede è a Lugano? Questione di tasse?

«Ho sede a Lugano e a Chiasso non per le tasse, ma perché i nostri investitori, - vengono dal più grande venture capital italiano- hanno messo come condizione l' attività fuori Italia, dove le imprese sono strangolate da tasse e burocrazia. La Svizzera è a un passo da Milano, ma poteva essere la Francia. Ma lì ho trasferito la mia famiglia, moglie (il mio ex capo) e due figli piccoli, sennò sarebbe stata esterovestizione e mi sarei trovato la Finanza alla porta».

Sul tema prostituzione, dopo il caso di Tarantini, delle escort e Berlusconi, la Corte Costituzionale nel 2019 ha decretato definitivamente, a sostegno della Legge Merlin che "la prostituzione non è mai un atto libero". Cosa ne pensa?

«Per un verso la Consulta ha accertato che esiste il fenomeno delle escort, diverse dalle prostitute da strada, e quindi riconosce loro uno status legale giù riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell' uomo; dall' altro, non protegge la professione perché affida una regolamentazione al legislatore e alla politica. Ci sono buchi legislativi».

E quindi?

«E quindi, appena parli di riaprire le case chiuse, prima ti sbranano i cattolici, poi la sinistra che ti fa l' esempio della Germania dove i bordelli non danno il gettito previsto. Ma la verità è che i tedeschi evadono più di noi. Sicché, dato che il settore è delicato, e che ogni volta rischi di perdere voti, non si farà mai un cazzo».

Domanda tecnica: lei è mai andato a mignotte?

«Certo, come tutti. Ma ero uno di quelli con vena romantica, a volte le ho utilizzate come accompagnatrici alle cene, spacciandole per fidanzate, di alcune sono amico. Il rapporto sessuale brutale è abbastanza svilente: ma se uno vuole la scena di un porno, poi non deve lamentarsi che la escort, accusata di poca partecipazione risponda: "tesoro, non sono mica la tua fidanzata". Tra l' altro, sono molto orgoglioso di questa interazione online coi clienti. E del fatto che le prostitute, con noi, sono passate dall' essere carne da macello a persone».

Tra le escort ha trovato insospettabili?

«Studentesse, madri di famiglia, docenti universitarie. Ma più insospettabile è la clientela. Pensi che alcune iscrizioni le abbiamo dal sito ufficiale del governo italiano o dalla Regione Lombardia. Ma, dico, la fatica di farsi almeno un account proprio, no, eh?...».

Nicola Munaro per ilgazzettino.it il 20 gennaio 2020. Alcuni clienti verranno ascoltati nei prossimi giorni per mettere la ceralacca sul giro di escort scoperto dalla squadra Mobile di Venezia, coordinata dal dirigente Giorgio Di Munno, nei club di San Donà e Quarto d’Altino, l’Arabesque e il Game Over. Altri, sempre clienti affezionati, sono già stati ascoltati prima del blitz che venerdì mattina ha portato in carcere gli organizzatori e gestori delle due case a luci rosse: più che preoccupati per il risvolto giuridico (nessuno di loro ha commesso reato, ndr) si sono mostrati tesi per la propria vita privata, quasi tutti hanno mogli o compagne stabili e all’oscuro di ogni cosa. In tutto sono circa duecento gli uomini che hanno bussato alle porte dei locali di San Donà e Quarto D’Altino da marzo a oggi, da quando cioè l’Arabesque e il Game Over sono finiti nel mirino della procura e dell’inchiesta coordinata dal sostituto Federica Baccaglini aperta per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Perché quelli che dovevano essere dei club con (al massimo) lap dance e spogliarelli, in realtà erano luoghi nei quali il sesso era a pagamento. A carissimo prezzo e per una clientela che andava dal ragazzino alle prime armi, disposto a pagare fino a 150 euro per una prestazione all’interno dei locali, fino ai 1.500 pagati da imprenditori e professionisti del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. Per quel prezzo le ragazze venivano ospitate a casa del cliente e passavano da lui l’intera notte. Chi sceglieva una via di mezzo - ma era il target minore - si assicurava una notte di passione in hotel, versando dai 350 ai 500 euro ai gestori dei due club. Pagare con la carta era l’ultima frontiera dell’innovazione trovata da parte dei gestori dei locali ed era riservata soltanto ai clienti più facoltosi, quelli che chiamavano anche giorni prima e si prenotavano - al sicuro nelle proprie mura di casa - una notte di sesso. A portare le ragazze a casa dei clienti era un autista dei locali ed era sempre lui a riscuotere con il Pos portatile la somma di 1.500 euro che veniva accreditata sul conto dei locali e da qui stornata: alle ragazze rimanevano quote dal 50 al 60% a prestazione, permettendosi così anche uno stipendio con punte da 7/8 mila euro al mese. Poi, era compito del cliente riaccompagnarla a casa la mattina successiva, con la propria auto. Un sistema che riguardava i clienti più facoltosi e quindi anche quelli più affezionati, dei quali i gestori dei due club non avevano agende, ma numeri registrati nella rubrica dei propri cellulari, intercettati dalla Mobile quando serviva soltanto la prova regina. E loro, i due fratelli di Jesolo, Matteo e Federico Vendramello, 40 e 44 anni, entrambi in carcere; Michaela Hobila, romena di 35 anni, addetta alla logistica per le giovani prostitute; Lorenzo Borga, 70 anni di San Donà e Ugo Bozza, 66 anni di Portogruaro (tutti e tre ai domiciliari) ai cellulari parlavano senza paura di essere ascoltati. Dicevano chiaramente alle ragazze - una cinquantina regolarmente assunte ma, sulla carta, con altre mansioni - chi le aveva contattate e con chi avrebbero dovuto passare la notte, ricevendo anche dei rifiuti se quel cliente non andava. I cinque verranno interrogati lunedì. Il fatturato dei due locali era aumentato negli ultimi mesi grazie alla chiusura di alcuni locali in Slovenia: la cosa aveva portato quel tipo di clientela, soprattutto del Veneto Orientale e del Friuli Venezia Giulia, a spostarsi su San Donà e Quarto. Almeno fino al blitz di venerdì.

Gianluca Amadori per leggo.it il 25 gennaio 2020. Squillo di lusso per i clienti delle aziende, ragazze sempre pronte, gestite in modo manageriale, pagamenti con il Pos. Quello che è emerso dalle indagini sui night club della provincia di Venezia Arabesque e Game Over fa rabbrividire. E oggi emergono anche due dettagli importanti: il fatto che i gestori potessero contare su "amici poliziotti" e i contenuti delle intercettazioni. Potevano contare su contatti privilegiati nelle forze di polizia i gestori di Arabesque e Game Over, i due locali a luci rosse di San Donà e Quarto d’Altino, finiti sotto inchiesta per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Lo scrive il gip di Venezia, David Calabria, nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita venerdì dalla Squadra Mobile di Venezia, sostenendo che il tentativo di accedere ad informazioni riservate è la dimostrazione della «ferma determinazione criminosa» degli indagati. Da alcuni colloqui telefonici intercettati dagli inquirenti è emerso che, dopo un’ispezione avvenuta all’Arabesque, nel febbraio del 2019, tra Matteo Vendramello e Ugo Bozza parlavano dei tentativi di conoscere i nomi degli agenti che si erano recati nel locale, fatti per tramite di un amico di Fossalta di Piave, loro cliente affezionato. Il giudice parla di «modalità imprenditoriali di esercizio dell’attività delittuosa», dedicando 69 pagine ai numerosi episodi ricostruiti dagli investigatori, coordinati dal pm Federica Baccaglini. Il ruolo di “regista”, viene addebitato proprio a Matteo Vendramello, coadiuvato dal fratello Federico, entrambi finiti in carcere. Centrale anche il contributo di Mihaela Melania Hojla, presidente delle associazioni che gestivano i due locali, ai quali sono stati concessi i domiciliari, stessa misura applicata anche a Lorenzo Borga e Ugo Bozza, che in qualità di gestori di fatto, si occupavano principalmente della riscossione dei soldi. Ieri mattina di fronte al giudice si sono svolti gli interrogatori di garanzia: Hojla (avvocato Giorgio Pietramala) si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Borga (avvocato Igor Zornetta) ha ammesso gli addebiti, riservandosi di parlare più ampiamente con il pm. Brevi dichiarazioni anche per Matteo e Federico Vendramello (avvocati Rodolfo Marigonda e Pietro Speranzoni). Le indagini, proseguite per molti mesi, sono state effettuate con appostamenti e pedinamenti, ma anche attraverso intercettazioni telefoniche, grazie alle quali gli uomini della Mobile hanno registrato come avvenivano i contatti e gli accordi per le prestazioni sessuali consumate nei privé dei due locali, ma anche in albergo e a domicilio dei clienti: 150 euro ogni mezz’ora, di cui 100 per le ragazze e 50 per i gestori di Arabesque e Game Over. I locali funzionano anche da nave scuola: un neo diciottenne viene accompagnato dallo zio e affidato alle cure giuste. I clienti affezionati sono abituati a chiedere lo sconto, e un’ulteriore riduzione è accordata a chi paga in contanti (era possibile saldare il conto anche con bancomat); alcuni sono pronti a spendere 500 euro e più: «Ma la ragazza non deve guardare il cronometro». Al telefono gli indagati parlano di tutto: gestiscono i turni di riposo e la sistemazione delle ragazze; descrivono le prestazioni offerte dalle prostitute, irridono il cliente ubriaco che ha preso sonno dopo essersi appartato o fanno commenti sulle lamentele per i servizi “scadenti” di alcune ragazze. Dalle intercettazioni emergono i contatti intrattenuti dai gestori dei locali con Austria e Paesi dell’Est Europa per far arrivare prostitute nuove e di qualità: «Riprova della professionalità, del livello imprenditoriale dell’attività», sottolinea il gip. Un cliente insiste per aver “un’infermiera”: «Siamo in otto qui e c’è un ferito da curare...», scherza al telefono. Mentre per un «vecchietto di 60-70 anni» viene proposto invio di una ragazza soprannominata “la badante”. Tra i frequentatori del giro di squillo risultano anche un celebre imprenditore del settore alimentare e un noto albergatore: Federico Vendramello è preoccupato, non può correre il rischio di scontentare clienti illustri, ma Borga lo rassicura: «Abbiamo le ragazze giuste».

Da ilgazzettino.it il 21 gennaio 2020. Che sia un bordello, non c'è dubbio. Le ragazze a disposizione dei clienti, infatti, ci sono, e sono anche bellissime. Ma il Bordel Doll House di Sesana, in Slovenia, a un trar di sasso dal confine con l'Italia, come dice il nome - Bordello Casa di Bambole - non offre ragazze in carne ed ossa, ma bambole. Bambole d'alto bordo, splendide e capaci perfino di parlare, con la suadente voce di un buon navigatore da ammiraglia, e di dirvi tutto quello che desiderate sentire. Bambole perfette. Morbide e sode, perché fatte di silicone. E calde, nel senso che dentro c'è un accumulatore che garantisce che la pelle della bambola sia alla temperatura del corpo umano, circa 37 gradi, così che ai clienti non gli si ghiacci l'entusiasmo. Il Bordello delle bambole al silicone - fatte rigorosamente in Cina - ha aperto pochi giorni fa, ed è gestito da due donne slovene. I prezzi sono piuttosto modici, ma non poi così tanto: mezz'oretta a tu per tu con una ragazza di silicone, potendo scegliere tra la bionda e la mora, abbigliate come si conviene alle ragazze di un bordello, costa sessanta euro tutto compreso. Un'ora, ottanta euro. Due, 120. Nel prezzo, ovviamente, è compresa la completa igienizzazione della bambola dopo l'uso.

DAGONEWS il 18 gennaio 2020. Una 19enne ha venduto la sua verginità per 1,2 milioni di euro dopo averla messa in vendita su un sito di escort online: Ekaterina, che si fa chiamare Katya su Cinderella Escorts, è originaria della città di Kharkiv, nell'Ucraina nord-orientale, ma attualmente risiede negli Stati Uniti. A dicembre l'agenzia aveva rivelato che la ragazza aveva intenzione di vendere la sua verginità, verificata da un medico, per non meno di 98mila euro. Ma a meno di un mese di distanza la cifra è lievitata a tal punto da superare il milione: a portarsi a letto la 19enne sarà un uomo d’affari, un 58enne di Monaco, che possiede diverse palestre in Europa. L’uomo ha battuto un avvocato di New York che aveva offerto un milione di euro e un cantante di Tokyo che era disposto a spendere 800mila euro. Secondo il sito, l'acquirente è "aperto all’idea di sposare Katya e supportarla finanziariamente con un budget mensile di 10.000 Euro". Katya, che parla inglese e russo, in precedenza ha spiegato che aveva pianificato di spendere i soldi per "viaggi, oggetti di lusso e bella vita”. «Ho pensato più volte a non vendere la mia verginità. È sicuramente una decisione difficile, per la semplice ragione che è una scelta irreversibile. Ma è una situazione vantaggiosa per tutti. La scelta tra perdere la verginità con qualcuno che amo e perdere per sempre la possibilità di vincere un milione è difficile. Tuttavia, ho pensato che la probabilità di pentirmi di non aver accettato i soldi sarà più alta, perché un fidanzato può sempre lasciarmi».

Eleonora Biral per il ''Corriere del Veneto'' il 19 gennaio 2020. Chi non aveva la possibilità di spendere molto si doveva accontentare di mezz' ora nel privè al «modico» prezzo di 150 euro. Per chi poteva spendere di più, invece, i servizi erano ben diversi. Con 500 euro la ragazza raggiungeva il cliente in albergo per un paio d' ore, per 1.500 trascorreva la notte insieme a lui a casa. Cifre da capogiro, che potevano essere pagate sia in contanti che con la carta di credito, visto che le donne portavano con sé il Pos per ogni prestazione al di fuori dei locali. Cifre che, a giudicare dal giro d' affari ricostruito dalla polizia, in molti erano disposti a spendere. La squadra mobile di Venezia ha scoperto un giro d' affari legato alla prostituzione e arrestato le cinque persone che lo gestivano eseguendo altrettante ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip David Calabria. In carcere sono finiti Matteo e Federico Vendramello, fratelli di 40 e 44 anni, entrambi di Jesolo, titolari dei due night club dai quali è partita l' inchiesta e nei quali le prostitute lavoravano. Si tratta dell' Arabesque di San Donà e del Game Over di Quarto d' Altino, che sono stati temporaneamente chiusi dopo il blitz di ieri mattina. Altre tre persone sono finite, invece, agli arresti domiciliari: Michaela Hobila, 35enne di origine romena, di Jesolo, Lorenzo Borga, 70enne di San Donà e Ugo Bozza, 66 anni di Portogruaro, che davano una mano nell' organizzazione. Alcuni di loro, come Matteo Vendramello e Borga, dieci anni fa erano già finiti al centro di un' altra inchiesta sulla prostituzione che portò a diversi arresti. «L' indagine è partita in seguito a un esposto anonimo pochi mesi fa - spiega Giorgio Di Munno, dirigente della squadra mobile - Abbiamo fatto dei servizi di osservazione nei locali e verifiche tecniche, anche attraverso intercettazioni e abbiamo capito che il vero "core business" dei due night club era la prostituzione». Una cinquantina le ragazze, tutte dell' Europa dell' Est, che si alternavano tra un night e l' altro e che cambiavano ogni due o tre mesi. Stando all' inchiesta, coordinata dal pm Federica Baccaglini, i clienti, una volta entrati nel club si rivolgevano ai gestori, concordavano la prestazione e sceglievano la ragazza. Bionda, mora, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, a seconda di ciò che desideravano. A volte, nel caso in cui preferissero ricevere la donna a casa per una notte insieme, concordavano l' appuntamento al telefono. E in questo caso, considerando che il prezzo era molto alto e arrivava fino a 1.500 euro, la prostituta portava con sé il Pos per consentire al cliente di pagare (ovviamente in anticipo) con bancomat o carta di credito. Le ragazze, poi, restituivano tra il 50 e il 70 per cento del guadagno a prestazione ai gestori dei locali, che per questo sono accusati oltre che di favoreggiamento anche di sfruttamento della prostituzione. Le donne - come hanno accertato gli agenti della squadra mobile - erano assunte con regolari contratti come collaboratrici nei night. Ad esempio, come ballerine o bariste. Attività che a volte svolgevano, altre no. Questo serviva ai gestori per mascherare il vero business dei club, che probabilmente non sarebbero sopravvissuti senza il giro di prostituzione. Anche i pagamenti attraverso i Pos figuravano come vendita di alcolici, bottiglie costose e altri servizi. Il flusso di clienti, provenienti anche dal vicino Friuli, era notevole. I club erano aperti tutte le sere e dalle intercettazioni è emerso che gli affari andavano bene, grazie anche al fatto che di recente erano già stati chiusi altri night al confine con la Slovenia. Per le ragazze non ci sarà alcuna conseguenza dal punto di vista penale. Ieri mattina durante le perquisizioni all' interno dei locali sono stati trovati anche moltissimi profilattici e altro materiale usato per le prestazioni.

Inghilterra, le escort partono dall'Italia per la festa del City. Ecco come si sono fatte beccare. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Domenica sera (12 gennaio) i giocatori del Manchester City non si sono formalizzati e per festeggiare la vittoria (6-1) sull' Aston Villa, si sono regalati una festa con 15 influencer italiane sfruttando il giorno libero concesso loro dal mister Guardiola, con quindici modelle italiane fatte arrivare da Milano. Il viaggio, scrive il Giorno, è stato pianificato da due noti pr, S.I. e A.C. Le ragazze avrebbero raggiunto Manchester nel primo pomeriggio, alloggiando al “Mere Golf Resort & Spa”, hotel situato a mezz'ora dalla città inglese. Dopo la partita, modelle e calciatori del Manchester City avrebbero partecipato a un party privatissimo tenutosi in un luogo segreto. A confermare il tutto anche il sito Dagospia, che scrive che ci sarebbero alcune foto scattate all'interno dell'hotel e negli aeroporti di Malpensa e Manchester, pubblicate sui profili Instagram delle modelle (nelle immagini, comunque, non compare nessun giocatore dei Citizens).

Carmine Gazzanni per donnamoderna.com il 13 gennaio 2020. Sono le protagoniste del boom dei siti che recensiscono le prostitute: ragazze giovani, spesso italiane, che come nella serie tv Baby fanno le escort per  mantenersi o pagarsi gli sfizi. Ne abbiamo contattate 2. Ecco la loro testimonianza. Tariffari, giudizi, descrizioni minuziose. Ecco il nuovo mondo del sesso a pagamento. Un universo sottotraccia ma in ascesa, che si muove grazie ad app, forum, chat. E a siti come Escort Advisor, il primo portale di recensioni hot in Europa. Come funziona? In modo molto affine al più famoso Tripadvisor: invece del ristorante, si sceglie la ragazza (o il ragazzo) in base a zona e “specialità” e, dopo aver valutato foto e recensioni, si accede al numero telefonico. Che il fenomeno sia in espansione è testimoniato dai numeri: Escort Advisor è il 51° sito più visitato in Italia, con 114.000 utenti al giorno (dati Alexa). Ma in questo caso la novità di mercato, se così vogliamo chiamarla, ne racchiude un’altra: il boom della voce “studentessa”. Sono centinaia le giovanissime, spesso italiane, che si prostituiscono mentre conducono una vita parallela fatta di libri ed esami. O almeno così dicono ai loro clienti, eccitati dal grande classico della “ragazza della porta accanto”. Proprio come accade nella serie tv Baby (su Netflix è da poco uscita la seconda stagione), ispirata al caso delle minorenni dei Parioli di qualche anno fa. Ma qual è il confine tra realtà e finzione? Come vivono, quanto guadagnano, cosa vogliono le ragazze che hanno fatto questa scelta? Lo abbiamo chiesto a 2 di loro.

«Sono sempre io che decido». Claudia ha 25 anni. È nata a Firenze ma, dopo essersi laureata in Economia, si è trasferita a Milano. «Adesso» racconta affabile «frequento una scuola di trucco artistico». Insomma, è davvero una studentessa e, come da cliché, dice di aver cominciato a prostituirsi quasi per gioco: «Ero in discoteca e mi sono detta: perché non farsi pagare visto che poi gli uomini, dopo la prima notte, scompaiono?». Dopo quel cliente ce n’è stato un secondo, poi un terzo. Internet, dove le sue foto trasmettono una bellezza acqua e sapone, quasi ingenua e più giovane della sua età, ha fatto il resto. Da quella sera sono passati 3 anni e Claudia non ha nessuna intenzione di smettere: «Guadagno tra i 4.000 e i 5.000 euro alla settimana» ammette. «Qualcuno, è vero, si eccita per il fatto di avere tra le mani una ragazza. Molti, invece, hanno bisogno d’altro». Per esempio? «Dolore. C’è chi mi chiede di spegnergli addosso le sigarette, ma mi è capitato anche un tizio che mi ha pregata di colpirlo nelle parti intime con una mazza da baseball». Come si sopravvive in mezzo a tanta perversione? La regola, secondo Claudia, è comportarsi in modo opposto a quanto fanno le protagoniste di Baby: «Va marcato un confine tra clientela e amicizie. Quando la mia età spinge un uomo a pensare di potermi comprare con messaggi carini, regali o inviti a cena, rifiuto e specifico che questo per me è un lavoro». E se le facciamo notare che la definizione di “lavoro” scandalizzerebbe molti, compresa un’ampia fetta di mondo femminista, sorride: «Tutto è in vendita. Se ho uno scopo, combatto per raggiungerlo, e la bellezza è uno dei mezzi a mia disposizione. Sono io che scelgo, questa possibilità per me è già parità di diritti».

«Non vedo l’ora di smettere». La storia di Monica, che incontriamo a Roma dopo un lungo tira e molla, è molto diversa. I suoi annunci recitano “studentessa italiana”, ma è vera solo la nazionalità: un altro tocco di marketing in un mercato affollato di escort straniere. «Ho 29 anni e i libri li ho mollati da un pezzo» ammette «però agli uomini piace l’idea di andare con un’universitaria o, peggio, con una liceale. Per questo tante di noi fingono di esserlo». Monica, che come Claudia riceve in appartamento o in hotel, è entrata nel mondo del sesso a pagamento 2 anni fa: «Uscivo da una pesantissima delusione amorosa e odiavo gli uomini. In più, mia madre si era ammalata gravemente e tutta l’economia della famiglia poggiava su di me». Su consiglio di un’amica che già faceva la escort, accetta di incontrare per la prima volta un uomo. «Torno a casa, mi guardo allo specchio e mi chiedo: “Come sto?”. Bene, come prima, e con in più i soldi che mi servono. Da lì ho cominciato». Oggi guadagna circa 1.000 euro a settimana: «Potrebbero essere parecchi di più, ma faccio molta scrematura. Soprattutto, non ammetto che mi si manchi di rispetto». Forse è anche per questo che i suoi clienti, assicura, sono lontani da una certa immagine stereotipata: «Non ci sono solo anziani con la pancia, anzi ricevo spesso studenti e uomini distinti. Moltissimi avvocati». Le è addirittura capitato di chiedersi se qualcuno di loro potesse trasformarsi in altro, ma anche per Monica il confine tra prostituzione e intimità deve essere ben chiaro: «Mi pongo dei paletti. Nel momento in cui una persona mi contatta, per me è un cliente e nulla più. Ci può essere una coccola in più, ma resta una cosa meccanica». Monica non ha intenzione di continuare all’infinito: «Sogno di aprire un locale tutto mio e sto seguendo dei corsi professionali. Appena avrò tutti i soldi necessari, chiuderò il mio profilo. E, onestamente, non vedo l’ora».

I numeri del fenomeno. 4 miliardi di euro la spesa complessiva per la prostituzione in Italia, secondo le stime più attendibili ottenute incrociando i dati di Istat e Caritas. È poco meno di un terzo del mercato totale della droga. 70.000-90.000 il numero di donne coinvolte: 1 su 5 è italiana, quasi 1 su 2 non si prostituisce in strada ma in hotel o a casa. 4.118 le escort a Roma, la città più interessata dal fenomeno degli annunci online insieme a Milano (3.281), Torino (2.132) e Napoli (1.637), secondo Escort Advisor.

"Donne sexy e in mini bikini": scoppia il caso della brochure turistica. Le spiagge agrigentine descritte come luoghi libertini in cui le donne sono disposte a tutto. Interviene la Lega che ha chiesto il ritiro del materiale turistico. Giorgio Vaiana, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. Minigonne, top e canottiere. Quelle donne in abiti succinti e sexy su una rivista di promozione del territorio agrigentino sta facendo discutere. E tanto. "Sono schifata e indignata nel leggere come la donna possa divenire impunemente oggetto di propaganda sessuale in un opuscolo turistico riportante, tra gli altri, anche il logo del comune di Agrigento - dice Nuccia Palermo, capogruppo della Lega ad Agrigento che è intervenuta dopo il caso sollevato dal giornale online sicilialive24.it - Sono inferocita nello scoprire che ciò avviene utilizzando e offendendo l'immagine e la reputazione delle nostre giovani concittadine. Agrigentine, figlie di una terra ricca di storia, di cultura e soprattutto di dignità. Prendo le distanze dalla pessima descrizione fatta, con l'aggravante che tale descrizione sembrerebbe avallata dall'amministrazione comunale a guida Firetto". E nell'opuscolo si legge testualmente: "Sulle spiagge, tra ragazze con costumi succinti e molto, ma molto sexy, è facile trovare compagnie, tutto è ammesso, anche i più timidi mettono da parte un po' delle loro inibizioni, facendo affiorare il meglio della loro loquacità". E ancora: "Le barwoman sono solite anche scatenarsi in danze, non appena la temperatura comincia a salire". E infine: "In discoteca, mentre i ragazzi si presentano anche in bermuda e maglietta, le ragazze, sfoggiano abitini molto trasparenti, d'altronde il vedo-non vedo è quello che gli uomini apprezzano di più, ma non è difficile trovare anche minigonne mozzafiato e toppini che mettono in risalto il seno". "Assurda la scelta del sindaco Firetto di autorizzare l'apposizione del logo del comune in questa inqualificabile brochure - dice ancora Nuccia Palermo - Ricordo al primo cittadino che ha il dovere di difendere l'immagine e l'onorabilità della città che amministra e rappresenta. Dunque ritiri immediatamente il logo, salvo che la scelta di attirare il turismo dei maniaci di mezzo mondo non sia una deliberata scelta politica. La storia di Agrigento narra ben altro e non permetteremo a nessuno di offendere la nostra gente, le nostre donne e le nostre figlie. Se questa è l'Agrigento 2020 di Lillo Firetto di sicuro non è e non sarà mai la nostra". La rivista era stata pensata e ideata con l'obiettivo della promozione turistica del comprensorio agrigentino. Oltre al logo del comune di Agrigento, sono presenti anche quelli di Palma di Montechiaro, Ribera e Menfi e la pro loco di Porto Empedocle. A finire sotto l'occhio del ciclone, la parte dedicata a "Le vie del mare", in cui si narra di una Agrigento in cui impazza e imperversa un mondo libertino, senza regole e dove l’attrazione sono abiti succinti e sexy, pochissima stoffa e donne e uomini senza freni inibitori e in cui alcol e richiami sessuali sono il dna della vita tra spiagge, discoteche e chioschi sul mare. Eppure proprio la provincia di Agrigento possiede eccellenze artistiche di primissimo livello che da sole bastano per attirare migliaia e migliaia di turisti. La mossa di promuovere il turismo attraverso un'immagine libertina delle donne del posto è una brutta caduta di stile.

Da "ea-insights.com" il 31 dicembre 2019. La nostra società cambia e vede la figura della donna sempre più emancipata e indipendente. Un nuovo segnale di questo fenomeno viene dall’approccio delle donne alla trasgressione ed alla sessualità, in particolare dalla crescita di donne che cercano il sesso a pagamento. Lo evidenzia l’ultima ricerca di Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa: non solo uomini navigano sul sito (il 53° più visitato in Italia), ma anche una percentuale in crescita di donne, nel 2019 pari all’11% del totale. Se da inizio anno sono stati 16.246.423 gli utenti unici del sito, ben 1.787.106 di questi sono donne. Ancora più evidente il dato se paragonato al 2018, quando la percentuale di utenti donne era stata solo del 6%, una crescita quindi dell’83% in pochi mesi. Le donne inoltre passano anche più tempo sul sito rispetto agli uomini: impiegano circa un minuto e mezzo in più nella consultazione dei profili. Ma questa crescita si riscontra anche dal lato delle sex workers: circa il 2,6% delle presentazioni di escort e degli annunci indicizzati dal 2014 ad oggi cita esplicitamente “disponibile per incontri con donne”. I motivi di un tale interesse da parte del mondo femminile? Di certo la curiosità, anche dettata dalla popolarità del sito negli ultimi mesi provocata dai media, che hanno catapultato il sito tra i 60 siti più visitati in Italia in assoluto ed al primo posto del settore con una crescita dal 2018 del 44% di utenti e accessi da tutta Italia. Sempre più spesso le donne frequentano infatti il sito alla ricerca di esperienze con escort donne. Non solo gigolò, ora anche le escort sono richieste dall’universo femminile. Particolare anche che chi contatta le escort siano spesso donne sposate, etero e in carriera. In crescita, dunque, il numero di donne disposte a pagare per il sesso. Lo raccontano le recensioni, ma soprattutto le sex workers. Come ad esempio Pamela, escort di Lucca, che pratica la professione a tempo pieno da circa 3 anni: Nella maggior parte dei casi ricevo coppie e spesso è la donna che mi contatta per prendere appuntamento, ma vengono da me anche le donne singole. Nel caso delle coppie, soprattutto le prime volte, la componente femminile cerca il piacere del compagno, mentre quando tornano, le fantasie spaziano, perchè si instaura un’affinità. Le donne singole che ricevo sicuramente sono alla ricerca del piacere, ma non solo. Si potrebbe pensare che siano lesbiche, ma non è così. Nella maggior parte dei casi sono donne che hanno un compagno o un marito, una vita “normale”. Si ritrovano però ad avere certe esigenze che non riescono ad esternare ai loro uomini. Molte sono inquadrate dalla società e si sentono a disagio avendo un determinato tipo di voglie. La donna richiede un atto fisico fatto con le attrezzature giuste, ma in molti casi vogliono proprio esternazioni di affetto, attenzioni particolari. Ad esempio, hanno molto piacere dopo il servizio di essere cercate al telefono magari con un messaggino. Molte lamentano di avere dalla parte maschile freddezza e le attenzioni che ricevono, alla fine sono tutte rivolto all’atto sessuale. Non possono chiedere solo le coccole perchè al marito scatta subito l’ormone. La donna non ha bisogno solo di questo, ma di tante altre cose. L’uomo è molto più fisico, mentre la donna per arrivare al piacere ha bisogno del contorno. La donna può diventare l’amante perfetta se stimolata in maniera corretta. Fino a 10 anni fa non avrei mai pensato di andare con una donna, poi mi sono dovuta ricredere. In Italia viviamo in una società in cui si è molto limitati, se si va all’estero già cambia. Le donne delle coppie vanno dai 25 ai 45 anni, le singole invece vanno tutte sopra ai 40 fino ai 50 anni. Sono tutte etero con famiglia o comunque un compagno, ma che si concedono un momento di relax solo per loro. Una collega mi ha raccontato che dove lavora lei, in una grande città, riceve donne dello spettacolo o di rilievo che si concedono una parentesi del genere. Giulia escort di Bologna, che da 5 anni esercita la professione, da circa un anno e mezzo, si propone principalmente alle coppie, anche se non le dispiacerebbe ricevere solo il gentil sesso: Sessualmente le donne sono sorprendenti. Sono predisposte a “fare da uomo”, oppure vengono con il marito per provare situazioni a tre. Alcune sono aperte, come se ci si conoscesse già, altre invece sono più timide e bisogna quindi scioglierle. Hanno veramente diversi comportamenti. Si va dalla donna disinibita che ti bacia alla francese appena ti vede, a quella più “casta”. Nelle coppie, spesso l’uomo si esclude subito, sta a guardare e la donna si fa coinvolgere interamente. Capita che le mogli, le amanti o le fidanzate mi chiamino per prendere appuntamento e proporre un gioco, come ad esempio vedere il proprio uomo con un’altra donna. La cosa curiosa è che quando è la donna a chiamare, lei vuole stare a guardare come l’uomo si rapporta con la escort. Quando invece è l’uomo a prendere appuntamento, i ruoli si invertono. Non nasco come bisessuale, ma mi intriga e diverte il gioco a tre che coinvolge anche altre donne, anche se ho i miei gusti: se il tipo di “femmina” che ho davanti non mi piace, non c’è verso. E’ successo nei miei anni di esperienza che ragazze molto giovani, anche di 20, 25 anni, mi chiamassero. L’incontro con una donna non può durare solo 5 o 20 minuti, ma ci vuole un lasso di tempo molto più lungo. La cosa che le donne richiedono di più è il bacio saffico, già solo quello ti prende e ti appassiona quando trovi quella che sa baciare: con il singolo bacio alla francese si può creare un trasporto sensuale molto intenso. Elena escort di Agrigento, esercita la professione da 7 anni e spiega che di solito vengono da lei più le coppie, ma si diverte più la donna che l’uomo: Molto spesso è la donna che chiama per la coppia, sono mogli che vogliono fare un regalo al marito, uomini e donne amici oppure anche amanti. Le donne sono animate dalla passione, vogliono essere comandate da un’altra donna utilizzando anche i sex toys. Propendono per un gioco erotico diverso rispetto a quello tra moglie e marito che fanno a casa. Le donne che vengono da me sono etero che vogliono provare un gioco sessuale differente. Ho deciso di ricevere anche le donne perchè trovo un’ipocrisia che si divertano solo gli uomini. In questi anni di attività ho notato che sono le donne a prendere l’iniziativa sempre di più. Escort Advisor raccoglie dal 2014 recensioni su qualsiasi tipologia di sex worker, inclusi i gigolò; quelli recensiti su Escort Advisor rappresentano solo l’1% totale delle recensioni ricevute. Considerata una stima di sex workers attivi annualmente in circa 100.000, questo significa che i gigolò professionisti in Italia sono probabilmente intorno ai 1.000. Una delle istituzioni del settore in Italia è Roy Gigolò, che ha iniziato 20 anni fa questa carriera per gioco, ma ha poi rivoluzionato il modo di concepire questa professione puntando sull’eleganza e lo stile: I gigolò sono variegati, le donne hanno molte fantasie e ti chiamano per qualsiasi motivazione: dal semplice accompagnamento, al divorzio, al funerale, al matrimonio, al fare sesso, a fare ingelosire qualcuno. In linea di massima l’incontro classico è quello con cena e dopo cena, che potrebbe essere finalizzato al sesso. Ci sono però i servizi anche per le coppie, per la verginità, per la disabilità. Molto probabilmente per un gigolò il settore è molto più variegato come lavoro rispetto ad una escort; non è chiamato solo per il sesso, che è circa il 60% del servizio. La donna è molto cerebrale, quindi il cervello per lei è importantissimo e ogni rapporto che costruisci con una cliente è sempre molto relazionale, mai fine a se stesso o semplicemente sessuale. Poi l’essere umano crede nel suo profondo nell’amore, quindi ci deve essere un minimo di trasporto che fa sì che la donna si possa lasciare andare completamente. Però, l’universo femminile è cambiato molto, soprattutto anche grazie ai media, alla pubblicità e all’esposizione di questo mestiere. E’ aumentata la richiesta e di conseguenza anche l’offerta, che è quasi triplicata. Le donne fanno sempre più riferimento a questo tipo di servizio perchè stanno iniziando a diventare sempre più simili agli uomini. L’acquisizione di ruoli, di potere, il fatto di lavorare e di avere più soldi a disposizione, libertà, le porta anche a consumare un sesso più veloce, senza controindicazioni. Ad esempio, oggi farsi un amante è pericoloso per molte donne, soprattutto se sono influenti, famose o sposate con uomini importanti, quindi per una donna così è più conveniente chiamare un gigolò, che poi pagherà e andrà via. Questo ha fatto sviluppare la figura del gigolò, che è un uomo a servizio della donna a 360°. Le donne si collegano a Escort Advisor da tutta Italia, anche se la maggioranza lo fa dalle principali città. Nel 2019 questa la classifica: Milano 22%, Roma 18%, Torino 5%, Bologna 4%, Catania 3%, Palermo 3%, Parma 2%, Firenze 2%, Napoli 2%, Modena 2%, Treviso 3%, Verona 2%, Udine 2%, Lecce 2%, Vicenza 2%, Bari 1%, Brescia 1%, Venezia 1%, Genova 1% , Bergamo 1%, Rimini 0,76%, Padova 0,71%, Como 0,63%, Salerno 0,59%, Perugia 0,53%, Bolzano 0,49%, Sassari 0,40%, Cagliari 0,36%, Ancona 0,24%, Pescara 0,15%. Le utenti donne che hanno un’età compresa tra i 18-24 sono il 19%, tra i 25-34 il 40%, tra i 35-44 il 21%, tra i 45-54 il 18%, tra i 55-64 il 7%, oltre i 65 anni il 5%. Donne che partecipano anche sempre più volentieri alla community, in cui Escort Advisor conta in Italia 172.672 utenti registrati. Circa 2.100 sono le donne che hanno scritto circa 2.480 recensioni, un fenomeno esploso di recente (il 77% è arrivato nell’ultimo anno). Numeri parziali, perchè alla registrazione, il sito permette di dichiarare il sesso, ma non in modo obbligatorio, per ricevere delle informazioni personalizzate tramite email e sul sito, ma gran parte degli utenti non lo fa, per motivi di privacy.

Dagospia il 18 dicembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Simona, escort italiana di 40 anni, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Simona ha raccontato come sarà il suo Natale da escort: "Si lavora, è ovvio. Gli italiani hanno preso i soldi, quindi bisogna farsi trovare pronti. Il 24 lavorerò fino al pomeriggio e poi andrò a cena per festeggiare la Vigilia e mi preparerò per il cenone. Il 25 mi vorrei riposare, ma il telefono lo lascio acceso, se qualcuno mi cerca mi faccio trovare. Per i poveri che non hanno famiglia, non hanno nessuno e magari cercano compagnia. La vigilia di Natale, prima dell'ora di cena, si lavora moltissimo. Le donne stanno tutte a cucinare e gli uomini fanno i loro affarucci con noi escort. Nel periodo natalizio non ci sono richieste particolari, le cose restano quelle consuete, magari gli uomini si sfogano di più parlando dei problemi che hanno in famiglia o di quanto si annoino a stare con i parenti, le suocere, i cognati. Cose così. Sconti di Natale? Non ne faccio. La qualità si paga e non mi piacciono gli uomini che mercanteggiano. Spesso gli uomini che vengono a Natale mi portano dei regali. Cioccolatini, panettone o altre cose ancora più sostanziose. Nel periodo natalizio vengono anche tanti ragazzi giovani. Magari prendono i soldi da nonna e poi vengono a spendersi con la escort. Altra cosa: nei giorni natalizi aumenta la percentuale di quelli che fanno cilecca, perché magari hanno mangiato o bevuto troppo". Dopo aver parlato del Natale, la escort italiana Simona ha parlato del capodanno: "Il 31 si lavora tantissimo, ma bisogna stare attenti. E' una giornata particolare, sono tutti mezzi ubriachi, non mi fido molto".

Argentina, quelle 20mila schiave del sesso sparite nel nulla. Giovanna Pavesi il 29 dicembre 2019 su Inside Over. Vengono adescate con l’inganno, rapite, vendute e cedute. O, più semplicemente, scompaiono nel nulla. Come se si trattasse di merce e non di esseri umani. Accade in Argentina, dove la sparizione di migliaia di donne costrette a prostituirsi è diventata una vera e propria emergenza sociale, spesso oscurata e dimenticata dal governo, ma denunciata in diverse circostanze da associazioni a difesa dei diritti umani e da attivisti.

Un luogo di sparizioni. L’Argentina, luogo dove migliaia di desaparecidos sparirono letteralmente nel nulla nel periodo della dittatura militare, continua a essere uno dei posti del mondo dove risulta più semplice far scomparire o sequestrare le persone. Soprattutto quando si tratta di donne. Svanite nel nulla, per le donne transitate nel Paese non esiste un’apposita statistica ufficiale che indichi la loro collocazione o una stima del traffico.

Nessuno conta le scomparse. Finiscono nell’insieme degli scomparsi, che nel 2018, secondo i dati della Sicurezza nazionale, erano poco più di 10mila individui. Da circa 15 anni, le donne costrette a prostituirsi in spazi privati o in case di tolleranza non riescono più nemmeno a contarsi con precisione, nonostante un’apposita legge del 2008 riconosca la tratta come reato, con un testo però pieno di limiti denunciati dalle stesse organizzazioni femministe. In base a quella norma, infatti, le vittime maggiorenni devono dimostrare di essere state effettivamente sequestrate e di prostituirsi contro la propria volontà.

La modifica della norma. Quattro anni dopo la sua approvazione, nel 2012, il testo è stato modificato nella Ley 26.842, che ha introdotto norme più severe e il divieto di stampa e pubblicità per l’offerta di prestazioni sessuali. Ma di prove che la tratta nel Paese esista e serva a costringere le donne a prostituirsi ce ne sono tantissime, in particolare nella capitale. Buenos Aires è piena di biglietti da visita e volantini dove sono indicati nomi, numeri di telefono e luoghi dove le ragazze sono sottoposte a sfruttamento sessuale.

Chi sono le (nuove) schiave. A finire nella rete della tratta sono, in maggioranza, donne originarie delle zone più remote e indigenti del Paese. Ma non solo. Nelle maglie di questo sistema, infatti, ci finiscono anche ragazze straniere, vendute da parenti, fidanzati, mariti oppure adescate con la scusa di falsi annunci di lavoro o prese in ostaggio negli ambienti gestiti e controllati dal narcotraffico.

Chi le difende. Chi, negli ultimi anni, non ha mai smesso di cercare le amiche e le parenti improvvisamente finite nel nulla è stata l’associazione “Madres vìctimas de trata” che, nel terzo venerdì di ogni mese, da ormai quasi quattro anni, riempie la celebre Plaza de Mayo, dove negli anni Settanta ogni giovedì le madri dei desaparecidos si riunivano per commemorare i figli scomparsi. Queste “nuove madri”, tutte vestite di rosso e accompagnate dal collettivo “Las Mariposas”, marciano attorno alla Piramide, proprio di fronte al palazzo presidenziale di Casa Rosada per esigere nuove risposte dallo stato e una ricerca attiva delle loro scomparse.

Gli appelli delle “madri”. Ogni “madre”, attorno al collo, ha deciso di indossare un cartello con la foto di una giovane introvabile, con su scritto il suo nome e il suo cognome e l’appello: “Desaparecida por las redas de trata”, che in italiano significa “Scomparsa nelle reti della tratta”. Alla testata argentina online Nueva Ciudad, la 69enne Margarita Meira, che dieci anni fa ha fondato “Madres victimas de trata” con sede a Constitucion, ha dichiarato: “Le nostre figlie sono scomparse come avveniva durante la dittatura e vogliamo ritrovarle vive. Questa è la nostra unica forma di visibilità. A gran voce chiediamo la chiusura dei “postribulos” e il riscatto delle nostre figlie”. Oltre a fare continue campagne di sensibilizzazione sulla tratta e a manifestare per avere giustizia, la 69enne e le altri esponenti del gruppo ricercano e, in qualche caso, riescono a riscattare le ragazze. Riportandole a casa o semplicemente dando un nome alla loro storia.

Da lastampa.it il 2 gennaio 2020. È una vera piaga sociale, oscurata dal governo, ma che, secondo dati diffusi da attivisti, coinvolgerebbe circa 20 mila donne: rapite o misteriosamente scomparse, sono costrette a prostituirsi in bordelli, i postriboli, o in case private. L'Argentina, che ancora piange i desaparecidos della dittatura militare, continua ad essere luogo di arrivo e di transito per migliaia di persone sequestrate, per la stragrande maggioranza donne. Svanite nel nulla, per loro non esiste un'apposita statistica ufficiale, così finiscono nel “calderone” degli scomparsi, stimati dalla Sicurezza nazionale nel 2018 in poco più di 10 mila individui.  Una ferita aperta trasformatasi da 15 anni a questa parte in una voragine, nonostante un'apposita legge del 2008 riconosca la tratta come reato, con un testo non privo di limiti denunciati dalle stesse organizzazioni femministe. Le vittime maggiorenni devono dimostrare di essere state effettivamente sequestrate e di trovarsi nei bordelli contro la propria volontà. Nel 2012 è stato modificato in Ley 26.842, che ha introdotto pene più severe e il divieto la stampa di pubblicità per l'offerta di prestazioni sessuali. Eppure di prove della tratta destinata allo sfruttamento sessuale il Paese ne è disseminato, persino a Buenos Aires, uno dei fulcri del terribile fenomeno: piccoli fogli di ogni colore, delle specie di biglietti da visita di centinaia di postriboli in cui ragazze e donne sono costrette a prostituirsi. Per lo più originarie dalle zone più remote e indigenti del Paese, ma anche straniere, sono state vendute da parenti, da pseudo fidanzati, adescate con falsi annunci di lavoro oppure prese in ostaggio negli ambienti del narcotraffico. A lottare senza sosta per ritrovare tutte le figlie, sorelle, zie, cugine o amiche scomparse è l'associazione Madres vi'ctimas de trata, che il terzo venerdì di ogni mese da ormai quasi 4 anni manifestano nell'emblematica Plaza de Mayo, dove da decenni ogni giovedì fanno sentire la loro voce le madri dei desaparecidos della dittatura militare argentina (1976-1981), in tutto circa 30 mila. Queste madri vestite di rosso, accompagnate da Las Mariposas, un collettivo di espressione corporea contro il sistema patriarcale, marciano attorno alla Piramide, di fronte al palazzo presidenziale di Casa Rosada per esigere risposte dallo Stato e una ricerca attiva delle loro `desaparecidas´. Intorno al collo ognuno di loro indossa un cartello con la foto di una giovane o un'adulta introvabile, con il suo nome e cognome, e l'appello «Scomparsa nelle reti della tratta» («Desaparecida por las redes de trata»). «Le nostre figlie sono scomparse come avveniva durante la dittatura e vogliamo ritrovarle vive. Questa è la nostra unica forma di visibilità. A gran voce chiediamo la chiusura dei “prostibulos” e il riscatto delle nostre figlie» ha detto alla testata online Nueva Ciudad la 69enne Margarita Meira. Dieci anni fa ha fondato Madres vi'ctimas de trata, con sede a Constitucio'n - famigerata zona di Buenos Aires - alla quale in tutto hanno aderito altre 18 madri che, come lei, cercano disperatamente la propria figlia e non si arrendano. Oltre a sensibilizzare la società civile sulla tratta e a manifestare per avere giustizia, Meira e le altre esponenti dell'associazione ricercano e riscattano le ragazze, con, in alcuni rari casi, storie a lieto fine. Nel 1991 Graciela Susana Bekter, detta Susi, la figlia 17enne di Meira, è stata venduta a un postribolo dal fidanzato, ladro e narcotrafficante, ma all'epoca non sapeva cosa fosse la tratta. Con la sua battaglia in tribunale ha fatto un buco nell'acqua ma poi, quattro anni dopo, per caso, ha ritrovato la figlia morta, il cui corpo senza vita era stato portato in commissariato. Ufficialmente è stata dichiarata vittima di un incidente domestico, una finta perdita di gas, ma poi Margarita è riuscita a far riconoscere che la sua Susi era stata assassinata, mentre era incinta. «Tutto ciò avviene con la connivenza del potere, dell'apparato di Stato e fa capo a una rete molto ampia, motivo per il quale è difficile estirpare questi meccanismi. Le nostre ragazze e tutte le donne vittime vengono rinchiuse nei postriboli e in case private, che sono i campi di sterminio del XXI secolo» ha ancora denunciato Margarita alla stessa fonte di stampa. «Le fanno scomparire, le minacciano, le violentano, le drogano, le torturano. Poi riappaiono e in alcuni casi se le riprendono una seconda volta come forma di dimostrazione del proprio potere. Manipolando non solo le vittime ma anche chi le cerca» non si stanca di ripetere la “mamma coraggio” alla stampa argentina ed internazionale. In base alle informazioni raccolte durante anni di ricerche, la sua associazione ha appurato che una volta sequestrate le ragazze vengono portate in enormi capannoni gestiti da narcotrafficanti e proprietari dei bordelli, prima violentate sono poi vendute. Nei postriboli più piccoli operano almeno 10 ragazze costrette a ricevere fino a 20 clienti al giorno, con un guadagno totale di circa 6 mila euro ogni 24 ore. La tratta ai fini della prostituzione è il terzo commercio più lucroso al mondo dietro quello delle armi e della droga. Ai bordelli i clienti arrivano grazie a quei famigerati bigliettini sparsi per le strade della capitale - sede secondo stime delle attiviste di un migliaio di postriboli - chiamando il numero segnato sui foglietti colorati oppure ricercandoli sui social, con alcune pagine Facebook dedicate. Ora Margarita e le altre Madres vi'ctimas de trata fanno sentire la loro voce al neo presidente Alberto Ferna'ndez, in carica dal 10 dicembre, per ottenere la chiusura dei postriboli e la fine della tratta. Oltre a questa sfida il capo dello Stato argentino deve far fronte al crescente numero di femminicidi e all'annosa questione dell'aborto, che in tante con i “fazzoletti verdi” vorrebbero vedere finalmente legalizzato per evitare altre stragi di ragazze e donne.

·        Mai dire Porno.

Andrea Sparaciari per it.businessinsider.com 21 dicembre 2020. “Non è un attacco a Pornhub, ma al mondo del porno in sé e per sé. Che finisce per non tutelare le vittime degli abusi, ma colpisce l’intera categoria dei sex workers, che nel mondo sono centinaia di migliaia di persone”.  È arrabbiata (molto), ma lucida (come sempre), Danika Mori, che col compagno Steve, forma una delle coppie di performer hard più seguite della prima piattaforma di contenuti per adulti del web. Per capirci solo loro due vantano (o meglio, vantavano, come vedremo) un patrimonio di oltre 850 milioni di views su Pornhub/Youporn (“ma se consideriamo tutte le piattaforme attive, arriviamo a 1,5 miliardi, più altre 60 milioni di visualizzazioni alle nostre 1500 gif”, ci aveva spiegato Danika alcuni mesi fa). Dove views, significa introiti. Soldi che arrivano sia dalle visualizzazioni dei filmati, sia da contenuti in abbonamento (la gran parte). Tutti denari virtuali, che circolano – o circolavano – grazie ai circuiti delle carte di credito. Un impero economico che si è ritrovato pesantemente depauperato dal giorno alla notte, da quando, cioè, Visa e Mastercard (preceduti da Paypal) hanno bloccato ogni pagamento sulla piattaforma, a seguito dell’inchiesta del New York Times su PornHub. Secondo il quotidiano, sui 6,8 milioni di video caricati ogni anno sul sito, “la grande maggioranza probabilmente coinvolge adulti consenzienti, ma molti riprendono abusi sui minori e rapporti non consensuali”. Accanto a questo, ha aggiunto il Nyt, PornHub permette di scaricare i video, che così possono essere condivisi e ripubblicati rendendo difficile fermarne la circolazione anche se si accerta che sono illegali. Alle accuse, la società madre di Pornhub, MindGeek, ha risposto rimuovendo nella notte tra il 14 e 15 dicembre qualcosa come 7 milioni di video. Cioè tutti quelli postati da utenti non certificati. Ma nella rete della cancellazione, sono finiti anche molti video dei “Model”, cioè di quelle coppie (sono almeno 150 mila sparse per il pianeta), che hanno fatto delle loro performance sessuali un lavoro fisso, come Danika e Steve. Professionisti, quindi, non certo vittime di abusi. “Dei 7 milioni di video bloccati, la maggioranza è di gente che non è stata verificata, ed è stato giusto”, spiega Danika, raggiunta da Business Insider Italia, nella sua casa di Marbella, “tuttavia hanno preso anche i video potenzialmente considerati violenza o abusi su minori. Quindi ci siamo andati di mezzo anche noi che invece abbiamo tutti i contenuti verificati”. E Danika snocciola anche i numeri di questo terremoto: “Rispetto alla settimana prima che bloccassero Visa e Mastercard, ci siamo ritrovati con 235 milioni di visite in meno”, dice, “Pornhub mi ha bloccato oltre 30 video. Sono in revisione a causa degli hashtag o dei titoli. Basta aver scritto “teen ager”. Anche se sono stati girati quando avevo 20 anni! Io non sono mai stata una teenager abusata, però stanno comunque revisionando tutto e questo mi danneggia enormemente. Un video in meno, significa una rendita in meno… E sono i video tra i più visti, che erano in classifica, facili da trovare dagli utenti (e quindi più facilmente cliccabili, ndr), e adesso chissà dove vanno a finire”. Un danno che Danika ha già quantificato: “Ci siamo ritrovati da 850 milioni di visite a 620 milioni da un minuto all’altro… Posso dire che sto perdendo – solo col ModelHub – circa 200 mila dollari l’anno. Solo io! Figuratevi se sommassimo tutti i mancati guadagni dei miei colleghi nel mondo!”. Ma, al di là del danno monetario, a far arrabbiare la performer è l’inutilità del boicottaggio: “Il blocco delle carte di credito non va certo a tutelare le vittime degli abusi. Facebook ha ricevuto 84 milioni di segnalazioni dalla Internet Watch Foundation per abusi sui minori; Instagram, 4,4 milioni; Twitter, 1,4 milioni; Pornhub, 118! Ma nessuno ha mai pensato di togliere le carte di credito a Facebook. Si stanno accanendo su Pornhub perché si tratta di porno. Ma così non si proteggono le vittime! Noi sex workers siamo i primi a lottare per veicolare un messaggio di positività del sesso, nessuno di noi vuole un abuso, nessuno vuole che i bambini ci vadano di mezzo. Siamo persone normali che vivono la loro sessualità in maniera diversa e, per questo, non troviamo strano farne un lavoro. Obiettivamente questo è un atto di discriminazione, perché col porno ci paghiamo le bollette”. Tuttavia Danika riconosce che la sua piattaforma di riferimento avrebbe potuto fare di più: “Probabilmente sì, qualcosina in più avrebbero potuta farla, anziché aspettare fino a questo punto e poi dover correre ai ripari. Però è altrettanto vero che essendo così pochi i casi segnalati ed essendo così vasto il sito, è impossibile che qualcosa non sfugga ai controlli”. E sul futuro prossimo, l’attrice è molto pessimista: “Probabilmente gli utenti ricorreranno a mezzi di pagamento secondari, ma di sicuro calerà la clientela, perché non tutti saranno disposti a farsi una nuova carta di credito per andare su PornHub… Molti poi non si fideranno, mentre di Visa e Mastercard si fidano tutti. Io stessa le uso: cioè, i soldi che vengono da Pornhub, io li uso per pagarci il pane e i cornetti la mattina. E mi fa rabbia, perché mi dico: dannazione sto usando i loro circuiti!”. Inoltre, “ciò che ci preoccupa di più, è il precedente: se Visa e Mastercard reagiscono così contro Pornhub, figurati cosa potrebbero fare contro siti più piccoli. Io e Steve stavamo pensando di ampliare un po’ il mio sito personale, ma ora mi dico: ok, ma quanto posso investirci, quanto mi conviene?”. Comunque bisogna vedere se poi le due carte di credito decideranno veramente di tagliare fuori dal loro circuito economico il porno, che rappresenta una buona fetta delle transazioni online… Intanto, va sottolineato come Visa e Mastercard non abbiano boicottato i siti concorrenti di Pornhub, sebbene anche questi registrino dati di traffico impressionanti e milioni di contenuti caricati dagli utenti. Nella classifica 2020 dei 100 siti più visitati al mondo, dove Pornhub è al 7° posto, compaiono anche Xvideos.com (13°, con 727 milioni di visite) e Xnxx.com (18°, con  485 milioni). “Loro però non sono stati toccati dal boicottaggio”, sottolinea Danika. “Vedremo – continua – per ora ci stanno dicendo: dei vostri soldi non ce ne frega niente!”, ma anche loro avranno perdite. Oggi hanno deciso la serrata per motivazioni legate al business, si sono dovuti accodare a Paypal (la prima a bloccare i flussi di denaro: Pornhub infatti usava Paypal per pagare gli artisti e le revenue sharing, cioè le percentuali sulle visualizzazioni, ndr) per una questione di immagine. Vediamo quanto durerà”. Intanto Danika promette battaglia: “Ho condiviso una petizione di una ragazza australiana e mi piacerebbe dire la mia, anche se combattere contro Visa e Mastercard è come andare contro i mulini a vento. La cosa che mi amareggia di più è che negli ultimi anni era sembrato che si iniziasse a parlare del sex work con più apertura, dal punto di vista pratico e del business. Invece, ci siamo resi conto che dal punto di vista politico ci sono solo chiusure. Vorrei discutere della Porn Tax, che, a prescindere dei costi che ho, mi impone di versare il 25% del guadagno allo Stato, solo perché faccio del porno. È una discriminazione verso il nostro mondo che danneggia migliaia e migliaia di persone”. Infine ricorda Danika che: “Durante il primo lockdown, migliaia di coppie ci scrissero, chiedendoci una mano per diventare Model e guadagnare qualcosa con Pornhub, per far quadrare i conti. Sono loro le prime vittime del blocco, un’altra ingiustizia”.

Non solo porno, Steve e Danika Mori: “I giovani imparano cos'è il sesso da noi”. Le Iene News il 30 ottobre 2020. Nella vita sono Stefano e Federica, una coppia di 30enni che insieme condividono il lavoro e il piacere del sesso. In arte si chiamano Steve e Danika Mori, due attori amatoriali i cui video hanno superato il milione e mezzo di visualizzazioni. Con Nina Palmieri parlano anche di educazione sessuale che è ancora la grande assente nelle scuole italiane. "Non lasciate al porno il compito dell'educazione sessuale dei giovani". A dirlo sono Stefano e Federica, compagni e innamorati nella vita e anche nel lavoro. I loro nomi d'arte sono Steve Mori e Danika Mori: fanno video hard amatoriali da centinaia di migliaia di clic su internet. Tanto che hanno superato il miliardo e mezzo di visualizzazioni totali. La ricetta del loro successo? "Un porno di coppia in cui non rifacciamo mai le scene. È una via di mezzo tra esibizionismo e attività lavorativa”, dicono. “Nei nostri video si osservano atti giornalieri. Sembra quasi di spiare un momento intimo”. Con Nina Palmieri parlano anche di come il sesso sia ancora un tabù e come viene concepito il porno. “Deve essere preso come prodotto di intrattenimento che vuole eccitare e dare sfogo alle fantasie a un pubblico che ha già la sua esperienza. La scuola non deve ignorare questo aspetto”, spiegano. Così i più giovani rischiano di prendere il porno come standard di coppia: “Non si parla di preservativi e di contraccettivi. L’idea comune è che più grande ce l’hai e più sei bravo. Si rischia di far crescere dei ragazzi deviati nella concezione del fare l’amore”. 

Andrea Cionci per “Libero Quotidiano” il 12 settembre 2020. "Ella sgonnella e scopre la caviglia con un fare promettente e lusinghier". Le parole della Bohème pucciniana ci tramandano il polso di ciò che costituiva uno scandalo sociale a metà '800. Già all' epoca, tuttavia, circolavano, più o meno furtivamente, fotografie pornografiche: morbidi nudi di donna, dalle forme canoviane e dalle pose modeste che oggi non ecciterebbero nemmeno un ergastolano. Facendo un confronto con la pornografia (legale) attuale, a portata di clic, si deve ammettere che se ne sono fatti di progressi. Oggi abbiamo materiale infinitamente più estremo e più accessibile, con decine di categorie per tutti i "gusti", con tutte le combinazioni possibili e immaginabili e le più fantasiose attrezzature. Qui non si ha a che fare con l' evoluzione della cultura, dato che la fisiologia dell' eccitazione sessuale non è molto diversa tra quella di un individuo di un secolo fa e un contemporaneo. Attraverso questo confronto storico, tutti possono verificare l'"assuefazione erotica", fenomeno distruttivo di massa del quale nessuna autorità sanitaria italiana si sta occupando pur trattandosi di salute pubblica, legalità, educazione. Non c' entra la morale o la religione. Di ricerche ce ne sono a bizzeffe: lo studio dello psicoterapeuta americano Peter Kleponis "Uscire dal tunnel" (D' Ettoris Editori) mostra che gli adolescenti tra i 12 e i 17 anni sono i maggiori fruitori di pornografia online che, tra l' altro, gioca un ruolo nel 56% dei divorzi. La maggior parte dei molestatori sessuali ha iniziato con la pornodipendenza che sta crescendo tra le femmine. Soprattutto, essa produce effetti sulla chimica del cervello, proprio come alcol, gioco, sigarette e droga, ma non è proibita, né tassata e nemmeno si consapevolizzano i fruitori con scritte del tipo "attenti, può creare dipendenza". In un Paese a crescita sottozero come il nostro, è interessante come, stando dalle ricerche, la pornografia online porti gli uomini a dare minor valore alla fedeltà sessuale e maggiore al sesso occasionale con conseguente decadimento della prospettiva matrimoniale-familiare. La distorta dimensione della sessualità crea danni all' interno della coppia, anzi produce cambiamenti nel cervello che lo rendono meno sensibile al piacere con una donna reale.È di questi giorni una ricerca dell' Associazione europea di urologia secondo cui più video porno si guardano, più si rischia di fare flop nella vita reale con problemi di erezione e calo del desiderio. Del resto, non ci vuole una laurea per intuire che se uno è abituato a visionare le prodezze di pornoattrici 25enni, magari avrà qualche difficoltà con la consorte attempatella, dopo 20 anni di matrimonio. E mentre questa realtà corruttiva avanza senza controllo nelle case di tutti e negli smartphone dei nostri ragazzi, i "vaghi dami in seta ed in merletti" del salottino radical scatenano mille "battaglie" sull' apprezzamento "sessista" di un allenatore, sulla barzelletta osé di Berlusconi, sull' asterisco alla fine delle parole, e su mille altre sciocchezze. Evidentemente sono così casti e puri da non aver mai cliccato su un sito porno, senza vedere la degradazione di quei corpi femminili. Se è vero che le "attrici" si prestano volontariamente, chissà se i nostri benpensanti si sono chiesti che idea della sessualità si possa produrre nella mente di un ragazzo. In Nuova Zelanda se ne sono accorti e il governo ha lanciato una campagna, "Keep it real", per proteggere i bambini da questi contenuti web. Per quanto i grandi network della pornografia si mantengano entro i limiti della legge, come si fa a prevedere dove porterà, nei loro utenti, il meccanismo comprovato dell' assuefazione? Quando le combinazioni legali sono esaurite? Quante sono statisticamente le persone le cui parafilie nascoste potrebbero essere slatentizzate da questa macrodiffusione di pornografia gratis e superaccessibile? Restiamo ai fatti: mentre case automobilistiche, di moda e festival cinematografici mostrano nelle loro réclame bambini seminudi in pose provocanti, il rapporto 2019 dell' associazione "Meter" denuncia il raddoppio in un anno del materiale pedopornografico segnalato (da 3 a 7 milioni di foto). L' aumento pauroso di questa parafilia (non è un "orientamento sessuale" come alcuni vogliono farci credere) è forse in parte collegata anche alla sparizione di minori, decuplicata in Italia negli ultimi 10 anni. Di metà luglio l' arresto di alcuni minorenni che trafficavano con video di neonati (!) torturati, stuprati e uccisi a pagamento sul deep web. Eppure, i media non approfondiscono le ragioni di questi inimmaginabili orrori e la politica se ne infischia. Forse è vero, allora, che il porno fa diventare ciechi.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” l'11 agosto 2020. Circa 30 miliardi di dollari. È la valutazione (autoassegnata) della cassaforte di MindGeek, «la più importante internet company che non avete mai sentito nominare». Ovvero il colosso del porno online al quale fanno capo Pornhub, Youporn, RedTube e dozzine di altri siti, società di produzione video, agenzie, licenze per la commercializzazione di gadget. Tutti nel settore dell'«adult entertainment», intrattenimento per adulti. Praticamente l'equivalente porno delle «big tech» Amazon, Google o Facebook. È la prima volta che emerga una valutazione ufficiale. Il gruppo, non quotato, ha una politica di grande trasparenza ma finora le valutazioni circolate erano basate su stime di analisti ed esperti del settore. Per capire, vale quanto la seconda banca europea, Intesa Sanpaolo. e qualcosa in più dei fondi Sure che arriveranno in Italia dall'Europa per fronteggiare l'emergenza Coronavirus. Come i fratelli non vietati ai minori, anche Mindgeek fa ampio ricorso a holding e controllate in paesi dalle fiscalità agevolata. Gli uffici e la maggior parte dei dipendenti sono a Montreal, in Canada. La holding che consolida il gruppo è invece in Lussemburgo, la fatturazione in Irlanda e così via. Più che un unicorno tech questa è una renna fiscale, scherza Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente della Bocconi ed esperto di economia digitale. Nel lungo elenco di partecipate - 59 a fine 2018, 11 a Cipro, 11 in Irlanda, 19 in Lussemburgo. Più Curacao, Olanda, Isole Vergini britanniche e, ovviamente, Canada e Stati Uniti - c'è anche la Licensing Ip International. È la cassaforte dove viene custodito l'asset più prezioso: i marchi. Pornhub, innanzitutto, che da solo vale circa 100 milioni di utenti giornalieri. Per dare un termine di paragone, Youtube ne fa 30 milioni. Poi Youporn, RedTube, Brazzers e una lunga fila di altri, alcuni dei quali estremamente espliciti e dunque non riportabili (i lettori più curiosi possono verificare queste informazioni su trademarks.justia.com). Lo scorso anno, in una delle innumerevoli riorganizzazioni del gruppo, la Licensing Ip emette una nuova azione per assorbire una società irlandese del gruppo. Valore nominale: 25 dollari. Sovrapprezzo: 7,8 milioni di dollari. Moltiplicando questa cifra per il numero di azioni, si ottiene 31,2 miliardi di dollari, che rappresenta appunto il valore della Società. Nei documenti visionati, non ci sono perizie che supportano questa valutazione. Ma Carnevale Maffè e altri due professionisti che hanno visionati i documenti, un analista indipendente e un revisore contabile, la giudicano «coerente» con i multipli espressi da società comparabili. Abbiamo posto una serie di domande al gruppo, ma al momento di andare in stampa non abbiamo ottenuto risposta. A fronte di un fatturato consolidato della Mindgeek di 460 milioni di dollari, il margine operativo lordo è del 41,5%. L'utile netto è di 26 milioni, dopo aver pagato 16 milioni di tasse che corrisponde a un carico fiscale del 3,5% nel 2018. Va detto anche che 147,1 milioni se ne vanno in spese operative per il mantenimento dei siti, ovvero in gran parte per la formidabile piattaforma tecnologica che consente - a quanto si racconta - la piena funzionalità di quello che uno dei primi cinque «consumatori di banda» di tutta la rete. Una parte dei soldi se ne va però in partite finanziarie. Si tratta di prestiti a elevato tasso d'interesse, spesso concessi da parti correlate. Una strategia classica di «riduzione» del carico fiscale, alla quale la Ue, nella sua rincorsa ai colossi tech, sta cercando di porre un riparo.

Barbara Costa per Dagospia il 10 luglio 2020. Leo è lei, Lulu è lui, insieme fanno i LeoLulu e sono la coppia amatorial più vista su Pornhub. Più dei nostri Steve e Danika Mori! Durante la quarantena i LeoLulu hanno sbaragliato la concorrenza, specie con quei video dove scopano duro per noia da lockdown, video che hanno toccato le 4 milioni di visualizzazioni. Il successo dei Leolulu segna la fine del porno come lo abbiamo visto finora? Fine no, ma ne sono il presente e l’immediato futuro il più redditizio: le coppie amatorial che fanno da soli, scopano, si filmano, mettono in rete, intascano, e riscopano, e ripostano, e ri- guadagnano, sono viste da orde di spettatori. Il caso dei Leolulu è indicativo: sono due ragazzi francesi, 23 anni lei, 25 lui, stanno insieme da 7 anni, e sono amatorialmente attivi da 3: dal maggio 2017, da quando quel loro primo video è apparso su Pornhub. Dopo appena tre mesi, già contavano un milione di views, e la diretta "promozione" di Pornhub in home-page. Leo e Lulu sono (erano) due ragazzi comunissimi, Leo e Lulu non sono i loro veri nomi, e se non sai la particolarità che li distingue dai loro colleghi amatoriali te la dico io: non vedi mai i loro visi. Visi che non sono celati ma tagliati, nascosti, pixellati, visi che non ti fanno vedere per vanità, e non certo per privacy. I loro due corpi sono riconoscibilissimi, primo perché sono atletici e curati, poi perché ospitano lei piercing, e lui vistosi tatuaggi. I LeoLulu concedono interviste anch’esse in forma velata: è puro, assoluto marketing, e infatti sono i primi a dirti che non mostrare la tua faccia mentre ti dimeni a pornostar vale nulla se sei ai primi posti della classifica di Pornhub! Ti riconoscono amici, parenti, vicini di casa, ovvero tutta l’umanità che guarda e si smanaccia sui siti porno. Leo e Lulu sono gasatissimi della fama ottenuta, hanno mollato i loro lavori precedenti per dedicarsi solo al porno, i loro video hanno toccato le 600 milioni di visite, ma ecco quello che dai pornostar di professione li distanzia davvero: Leo e Lulu parlano sempre, ossessivamente, di soldi. Di come pornamente farli. Oltre il sesso da fare, filmare e esibire, la loro giornata-tipo è: palestra, e estenuante controllo di views, e di accrediti, e dei commenti positivi/negativi dei fan, per un’attenzione maniacale ai social. Leo e Lulu lo dicono forte: i social sono business, e per loro è un danno che Instagram li abbia bannati. Perché i LeoLulu sono così amati? Cosa piace delle loro pornate? Loro ti rispondono la solita tiritera da educazione social, cioè che sono reali, non fingono, che sono come te che li guardi (“Vogliamo che la gente ci ami per quello che siamo, non perché mostriamo i nostri culi”). Ma non prendiamoci in giro: molto del loro trionfo sta appunto nel c*lo strepitoso di mademoiselle Leo, culo che domina in primi piani morbosi, c*lo che analmente si gloria e si prende la scena. Non è che Lulu stia messo male fisicamente, e pure a sostanza penica sta messo più che bene, ma la star è Leo, poche storie. Il corpo di lei, la fame sessuale di lei. I due ti dicono che sono nati esibizionisti, e che hanno iniziato a riprendersi le prime volte con lo smartphone. Siamo alla (nuova?) frontiera del porno: prendi il tuo smartphone, scopa, e diventi pornostar! Non ci sono più regole, né abilità che contino? Miei cari, parliamoci chiaro: l’intimità è denaro. Vale soldi. Leo e Lulu sono persone digitali, cresciuti coi social. Hanno un concetto "altro" di pudore. Monetizzare l’intimità, la propria vita sessuale, c’è nemmeno da pensarci, c’è da farlo e trasformarlo in business. E appunto soldi, business, introiti, sono le parole che riempiono fino all’orlo il loro vocabolario. Pornhub l’ha capito prima di tutti: l’amatorial è tra i generi più visti, soprattutto in costanza. Il sito ospita più di 12 mila profili amatorial, e sono i dati fermi al 2019. Chi delle proprie scopate riesce a conquistare più views, sul sito ottiene uno status pari a quello delle pornostar più celebri. Quel corpo è scelto dai boss del sito per le loro campagne più importanti (Danika Mori è stata tra i simboli della campagna di Pornhub pro-igiene anti-Covid). I LeoLulu sono stati i protagonisti di "The Dirtiest Porn Ever", porno girato su una spiaggia inquinata, e video per cui a ogni clic Pornhub ha girato soldi a un’associazione no profit che si occupa di pulire e recuperare la plastica lasciata sui lidi (lo sai? Questo video ha fatto girare le palle ai giornalisti "impegnati", costretti a parlarne rodendosi che un "amorale" quale Pornhub sia riuscito a fare qualcosa di utile e di concreto, mentre loro blaterano a ditino alzato, e mai alzando il loro culo piatto per fare alcunché!). Dicono i LeoLulu: i pornostar ci copiano, utilizzano i nostri stessi scenari (sesso tra le mura domestiche) e i nostri stessi mezzi (OnlyFans e social). Sicuro, ragazzi, per ora: il problema irrisolto dell’amatorial, specie di quello fatto in casa, è la ripetitività. Per quanto puoi farti casalingamente sbattere, in ogni posizione… dove puoi andare? I LeoLulu aprono alle scopate coi loro colleghi di amatorial su Pornhub, in orge e/o in scambi di coppia (non male il threesome con Mini Diva). Sì, ma…e poi? Da bravi social manager, hanno fidelizzato un enorme pubblico di followers: sì, ma…se ti lasci che fai? Il giorno in cui il sesso che fai in video non combacerà più con quello che vuoi e ti arrapa in privato… che fai? Il porno sui set, ultra-professionale, costretto a fermarsi, è pronto a ripartire più agguerrito di prima. E con quel corpo, per la bionda Leo le lusinghe più allettanti, da parte delle grandi case di produzione porno, non mancheranno… 

Barbara Costa per Dagospia il 27 giugno 2020. Hashtag, tweet, retweet, gli emoticon neri? Ficcateveli nel culo!!! Che ipocriti, ma senti che cazzo di comunicato: “Siamo pronti a riconsiderare alcuni termini emersi come sensibili o controversi”. Ma riconsidera tua sorella!!! Nel porno, gli attori e le attrici neri stanno scatenando l’inferno: bombardano di insulti i profili social dei produttori più importanti, e per primi quelli per cui lavorano. L’omicidio di George Floyd ha acceso una miccia che non si spegne, anzi, divampa, e mette il porno al muro. Viene fuori tutto, viene giù tutto, e tutto è iniziato sui social, con un tweet di "Brazzers", brand porno di culto che, appena l’immagine di Floyd morto soffocato ha invaso i media, ha postato la sua solidarietà. Da lì, il diluvio. Gli attori neri, capitanati da Ricky Johnson, hanno riempito Brazzers di post incazzati, svelandone l’ipocrisia, mettendolo di fronte alle sue responsabilità razziste. Un modo di fare inalterato da 30 anni, quello di pagare gli attori e le attrici neri in base al colore della loro pelle, non dandogli opportunità di emergere pari a quelle dei bianchi. Subito, i soldi: se una attrice per una scena prende, poniamo, 500 dollari, a differenza delle nere una bianca può alzare la posta e di 10 volte se quella scena comporta la penetrazione di un pene nero. Di più: a quanto pare esistono liste (segrete) di nomi di attori - neri - non graditi alle bianche! Alla faccia delle regole che firmi sui contratti (dove decidi cosa pornare e cosa no, cosa fare e farti fare e cosa no) le bianche possono rifiutarsi di girare coi neri solo perché neri: se accettano, per prassi razzista "si concedono" ma pagate quanto vogliono loro, stipulando illeciti e razzisti "contratti IR" (IR sta per interracial) con relativo "compenso IR", più lauto se è "primo IR". Il porno della loro prima volta con un nero è razzisticamente venduto "first IR", come se pornare con un nero fosse uno sforzo, un sacrificio, qualcosa di eccezionale in negativo. Ed eccezionale per cosa, se non per il colore della pelle? Al primo “non è vero!” dei boss porno, i neri li hanno sommersi di prove: foto e post, su Facebook, Twitter, Instagram, di produttori e attrici bianche, che vantano, in nivea lingerie, l’uscita “della mia prima scena IR”. Al muro c’è "Vixen", padrone di "Blacked", brand di porno tra neri e bianchi. Blacked non deve più esistere, Blacked è razzista in nome e in essenza, e gli attori neri non ci vogliono lavorare più. Vixen non sa a che santo votarsi: se chiude Blacked per mancanza di peni e vagine neri (e bianchi) ci perde mucchi di soldi, se continua (con chi?) è sul banco dei colpevoli. Al momento Vixen dichiara che su Blacked saranno cancellate le sigle IR e BBC (Big Black Cock). I neri gli hanno risposto a parolacce. È lo smascheramento di ciò che di sbagliato e di anacronistico nel porno USA si faceva e si fa, e ora non si accetta più. Per nessun motivo. Le nere dicono: si giri porno, di ogni tipo e colore, ma basta etichettarlo "black", o IR, e basta classificarci "ebony", o "BG" (black girl). Etichettate le bianche "white"? Con loro non lo fate. Non dovete più farlo con noi. Oppure fatelo. Ma pagateci di più. Più delle bianche. 10 volte di più. Come avete sempre fatto con loro. I neri vogliono la rinegoziazione dei contratti, alle loro condizioni. Perché una vagina bianca fottuta da un pene nero dev’essere pagata di più? Perché non il contrario? Ci sono attrici come Demi Sutra che ammettono la loro complicità col sistema e non usano giri di parole: “Quando ho iniziato, mi hanno detto che da nera non avrei lavorato con i bianchi più quotati, mi hanno proposto scene piene di cliché razzisti, e m’hanno detto di stirare i miei capelli afro. Sono andata via. Ma dopo sono tornata, e ho accettato ogni loro condizione. La mia carriera è decollata”. I 12 agenti porno che hanno confessato di pagare (da sempre!) le nere di meno delle bianche? Al diavolo le loro scuse, dicano che sono loro che istruiscono le loro clienti bianche a "non darla" ai neri sul set, a darla ma dopo, a darla ma a tappe, cioè dopo che hanno girato porno più "rispettabili" di quelli coi neri, che vanno girati per ultimi e fatti pagare oro, e più se gli dai il tuo bianco sederino! Dai tassi IR palesemente illegali gli agenti vi prendono le loro belle percentuali! Viene giù tutto, e gli agenti guardano ai guai di Derek Hay, loro collega e boss di "Direct Models", agenzia tra le più potenti: 5 attrici l’hanno portato in tribunale vincendo il primo round: è emerso che se un’attrice di Direct Models come suo diritto si rifiutava di girare una scena, Hay le rifilava una arbitraria multa di 1000 dollari, con impossibilità di ottenere altri ruoli (ma Hay fa ricorso, ed è pronto ad arrivare alla Corte Suprema). È lo sputtanamento del porno, una resa dei conti resa possibile da soldi e libertà trovati su social come OnlyFans: i neri dicono di non aver fiatato finora perché denunciare portava allo stop degli ingaggi, la messa all’angolo, la fine del lavoro. Con il lockdown essi, costretti a pornare in remoto, hanno scoperto un altro canale di guadagno: hanno preso forza prima dal fare soldi autonomamente, poi dalle manifestazioni di piazza. Ci vanno di mezzo i porno "Black Facials Matter", "Black Wives Matter", e "Black Cocks Matter", porno-satire del movimento "Black Lives Matter". Ci va di mezzo tutto, ogni azione decisa e seguita per volere dei bianchi: le parole di alcuni boss bianchi, che spiegano l’etichetta "IR" quale usanza dai tempi delle videocassette porno (vi ponevano tale scritta per evitare ai clienti la vergogna di dire in negozio quale tipo di porno volevano!) risultano patetiche. Poi c’è la storia delle banane: ci sono 4 attrici nere – tra cui Ana Foxxx e Demi Sutra – che lo scorso febbraio hanno girato un servizio fotografico per la "Deeper.com" di Kayden Kross (bianca, bionda, occhi blu, tipica bambola californiana, ex attrice numero uno, oggi regista al top). Tema del servizio, San Valentino, sono previste pose con banane, fragole e cioccolata. Queste attrici nere hanno preteso e ottenuto la distruzione di tali immagini perché rispecchianti temi razzisti, su tutti l’odiosa affinità nero-banana. Inutile la difesa di Kayden, secondo cui la banana sta a simbolo di nulla, se non di un pene (bianco!!!). Questo suo lavoro non va commercializzato, e io ti dico: Kayden, lei si è scusata e lo ha sì distrutto, ma Kayden è un carro armato, Kayden è soldi e potere, e Kayden sta incazzata nera…

Barbara Costa per Dagospia il 14 giugno 2020. Sposarsi: dire "sì, lo voglio" a una persona, e per tutta la vita! Una scelta, per me, la massima perversione, che oggi si può fare ma senza fasto, festa, ricevimento, e senza questi… come si fa a scatenarsi ubriachi nelle orge nuziali con amici e parenti? Eh, lo so che non si fa, nella realtà non si fa, ovvio, è incestuoso, orrido, raccapricciante, e però nei video porno no, nossignore, e men che mai nella mente febbrile di chi questi porno li cerca, li clicca e ci gode fino a svuotarsi. Li vede, eccome (Pornhub nella conta delle visualizzazioni non mente mai!), se li cerca vuol dire che li sogna, e va bene, benissimo, perché le strade che percorre la mia, la tua mente, più sono assurde, illecite, luride, più non sono a livello di fantasia vietate. E allora tu, onanistico spettatore di orge di bianco vestite (almeno all’inizio) quale genere di porno-trastullo nuziale preferisci? Stai attento, stai allegro, la scelta è ampia! Innanzitutto: dove ti porno-sposi, al comune o in chiesa? Tutti e due? Bisogna organizzarsi, bisogna pensarci, ricorda che se lo fai religioso, al divertimento post-cerimonia parteciperà anche il prete, spesso un maschione di colore che non scomunica le orge, anzi, e che sotto la tonaca nasconde un "bastone" notevole, verga che prima che "batta" la sposa, passa per il parentado femminile tutto, peccaminoso assai: alla sposa spetta l’ultimo "sacramento" e tali "benedizioni" pretesche prevendono devote inchinate orali. Se chi officia le nozze è una donna, stai pur sicuro che l’orgia del wedding porn sarà a tema lesbico: il neosposo a un certo punto è messo da parte, insieme agli altri maschi, e la scena si riempie di invasati corpi femminili, affamati, che hanno già sessualmente festeggiato la sposa nel suo addio al nubilato, con un uomo che è passato a giocattolo tra le loro gambe e le loro bocche. Neosposo che però torna in scena, al centro dell’azione per essere inondato, sommerso di squirting, se tu clicchi sulle orge porno nuziali di vendetta: lo sposo qui è spogliato e al centro di donne arrapate, infoiate, femminilmente incazzate, che lo quasi affogano dei loro liquidi, o lo costringono a soddisfarle una a una, e se il suo pene non ci riesce, per l’emozione dell’evento, o il terrore, che usi la lingua, e non vi si arrangi, e continui, non si fermi! La wedding orgy di vendetta può pure tramutarsi in fetish: ci vuole poco, alla sposa, a estrarre dalla giarrettiera il sex-toy più punitivo, quello che, sposo, ti farà godere di quel piacere a cui arrivi col dolore, e quelle sul tuo viso saranno lacrime nuziali mica di commozione! Tra le wedding orgy porn più sporche ci sono quelle giapponesi, e qui entriamo in un mondo altro, in una sensibilità sessuale e pornografica diversa, che accende la parte di noi occidentali già a livello pornografico adeguatamente nipponicizzata. In Giappone si girano porno wedding che prevedono sì la scopata della sposa tra i parenti, che se la passano in gang-bang, ma soprattutto che la onorano in chiave bukkake, e queste sono le porno-nozze consacrate a sperma, con la sposa messa al centro tra gli invitati maschi, sposa spogliata o ancora vestita del suo niveo abito, che riceve addosso tutto lo sperma a disposizione. Sperma che va e cola prima sul velo, poi sul viso, schizzato a turno, da tutti, e da tutti più volte. Il porno non conosce barriere, di nessun genere, e il genere wedding porn, con orgia o meno, lo trovi declinato un po’ in tutte le culture, e allora si aizzano a suon di orgasmi i più proibiti anche in cerimonie indiane, musulmane, ebraiche. Le prime due sono più "tradizionaliste", cioè giocano sul cliché della sposa vergine, pudica e nata ieri, che però a metà cerimonia, o alla fine di questa, dimostra un talento da letto innato, e alcune si rivelano non vergini affatto, e non dimenticare mai che se ci sono questi video è per un solo motivo: si stimola ma di più si stuzzica ciò che lo spettatore mediamente è, andando a titillare i suoi tabù più evidenti. Si mette il dito su ciò che di più sacro la tua cultura ti insegna, stimolandotene le fantasie all’eccesso. La categoria asian gioca e abusa col concetto codificato della donna sposina sottomessa, che oppressa nel porno è ma per finta: qui si rivela pornograficamente più esperta di una donna la più troia che ci sia. Pornostar asiatiche che si atteggiano a bamboline ma che sono snodatissime e abilissime e licenziosissime. Sedute su un letto in bianca innocente lingerie, "aperte" a tutto e a tutti, parenti, amici, invitati a scrocco; il loro marito non ha alcuna legittimità, esclusività, in questi porno te lo perdi, si mischia agli altri, il suo è un piacere tra gli altri o piacere maggiore agli altri, in quanto a volte è un guardone se non un vero cuckold, cornuto e contento fin dalla prima notte di nozze a vedere la sua consorte sporcata, montata, goduta e fatta godere da altri stalloni a sua scelta. Spose allegre, spose che twerkano, e pure spose sottoposte a bondage, legate, ammanettate a letto, a sedie, financo appese, ingabbiate, finto martoriate in una passività che eccita chi sa abbeverarsi del genere. Tra i wedding porn, una golosità sono quelli con le spose che si fanno passare l’ansia del grande passo dalla damigella che le aiuta a (s)vestirsi, e meglio se questa damigella se la sono scelta trans. Damigella trans che diventa speciale regalo di nozze al maritino, o loro trastullo threesome nei bagni del ristorante, bagni dove entrano tutti, entra di tutto, e più volte e spesso insieme nello stesso buco, anale e/o orale che sia.

Barbara Costa per Dagospia il 6 giugno 2020. Non esiste oggi porno-social migliore, e chi vuol vedere, paga. Pagare per vedere che? Femmine (e maschi) nude, e femmine famose, femmine non famose, femmine prostitute, pure femmine pornostar. Tu sei mai entrato in OnlyFans? No? Ma forse sì, il fatto è che non lo dici, ti vergogni e fai male, tanto chi lo saprà mai, che paghi per vedere il sesso di chi ti piace. Il lockdown ha visto il trionfo di questo social in cui chiunque può immettere a pagamento immagini e video espliciti, quello che su altri social è proibitissimo. Con l’impossibilità di lavorare col sesso, in questi mesi a frotte si sono riversati su OnlyFans, lo hanno fatto tutti/e, pornostar celebri e meno celebri, ma anche influencer, youtuber, e Nip che con la pornografia non c’entrano nulla. Lo hanno fatto perché i ricavi su OnlyFans sono buoni (per alcuni ottimi) facili e immediati, e le spese nulle. Però l’affollamento da quarantena (+75 per cento delle iscrizioni, 170 mila nuovi utenti al giorno) ha creato problemi di traffico e intoppi di gestione, tanto è vero che leggo su "RollingStone.com" che i "vecchi" profili di OnlyFans sono imbufaliti coi nuovi, e per questi motivi: molti sex-worker reclamano di esser bannati e strane sottrazioni di soldi, e tutti subiscono la concorrenza dei nuovi (con sprezzo chiamati “civili”), li considerano degli abusivi, e peggio. Si teme che, con l’ingresso di gente non-sex, OnlyFans diventi un sito "vanilla", cioè hard all’acqua di rose: che sessualmente si dequalifichi, perda il suo fascino del proibito, e di conseguenza perda clienti, e soldi. Il lockdown ha fatto riversare su OnlyFans spogliarelliste, attrici porno, escort, dominatrici e feticisti vari: questi ultimi soffrono che su OnlyFans non sia lecito mostrare fisting, lividi, sangue, urina, feci, e sesso in scat (ogni azione sessuale fatta con pipì e escrementi). I quali non sono i servizi più richiesti, però fanno schizzare i guadagni. Guadagni che non posso stimarti perché il costo di ogni abbonamento su OnlyFans è deciso da chi si apre il canale. Pagare per vedere contenuti che trovi e vedi gratis su un sito porno? Sì, mio tirchio adorato, è così, pagano, e parecchio, e oggi se sei un sex-worker e non hai il tuo canale su OnlyFans, sei un démodé sfigato. L’afflusso porno su OnlyFans non si fermerà almeno da parte dei performer americani, i quali continuano a stare fermi: i boss del porno (ti dico, gente come i proprietari di Adult Time, MindGeek, Vixen, Kink) hanno sancito un patto: non si torna a pornare fino a che non si avranno segnali concreti da parte dei governi statali e federale di inversione di rotta; fino a che non si avranno test e screening di contrasto al coronavirus affidabili; linee guida serie che ogni studios porno si impegna a rispettare. Linee che non combaciano con quelle della riapertura delle attività economiche. La situazione è così confusa e disperata che nei bordelli del Nevada si arriva a promettere “ampie modifiche ai servizi”, purché li facciano riaprire, e riattivare ristoranti e bar al loro interno: bordelli con termo-scanner, in cui le ragazze staranno distanziate un metro e mezzo, con guanti e mascherine, e guanti e mascherine anche per i clienti che però entreranno uno alla volta, si scelgono la ragazza, se la portano nel privé, e ragazza con cui potranno parlare, bere, mangiare… e basta! Niente sesso, niente contatto, men che mai baci e altre effusioni! In Svizzera e nei paesi del Nord Europa dove la prostituzione è legale i bordelli riaprono (in Olanda forse aspettano settembre), anche se a ingresso e a orario limitati, e ti rifanno sc*pare come prima, tranne le orge (l’idea di ridurre le prestazioni al doggy-style e al cow-girl al contrario è stata bocciata). In Nevada invece parlano di “interazioni senza contatto”! Pazzesco ma tutto vero, con tanto di lettera al governatore del Nevada da parte di Lance Gilman, proprietario del "Mustang Ranch", grosso bordello di Reno, e lettera pubblicata sul "Reno Gazette Journal". Poi dici che uno non si abbona a OnlyFans…! Ah, dimenticavo: non è ufficiale, ma gira voce che in conformità alle norme antiCovid, in Europa per i clienti da bordello è previsto il tracciamento: devi lasciare i tuoi dati (veri), e data e orario, ogni volta che vai, entri e paghi per farti una scopata…

Alice Politi per vanityfair.it il 26 maggio 2020. Vuole saperne di più sulla sessualità umana. Per questa ragione Sven Lewandowski trascorre le sue giornate a guardare filmati porno amatoriali. Viene pagato per questo ma del resto lui, sociologo e ricercatore, lo sta facendo in nome della scienza. Nell’ultimo anno, il ricercatore cinquantenne ha fatto ricerche sulla sessualità umana guardando video porno amatoriali, con un piccolo team di lavoro all’università tedesca di Bielefeld. Lewandowski analizza i video e poi intervista i soggetti (persone di tutti gli orientamenti sessuali che si trovano in relazioni sia occasionali sia stabili) sul loro comportamento tra le lenzuola. Obiettivo: esaminare e capire come si formano le abitudini sessuali degli esseri umani. Per trovare il materiale da analizzare, il sociologo lancia appelli all’università, pubblica post su siti di incontri, lascia volantini nei sexy shop. Lavorerà alla sua teoria della sessualità per i prossimi due anni, per cui, se qualcuno desiderasse dargli una mano con la ricerca, c’è ancora tutto il tempo per fargli pervenire i propri video. Ma perché Sven Lewandowski è così interessato ai video porno amatoriali? «È davvero difficile esprimere a parole ciò che il corpo fa durante il sesso», spiega Lewandowski a Vice.com. «La ricerca sul campo, in realtà, non sa nulla sull’interazione sessuale. I video erotici amatoriali sono del buon materiale per farsi un’idea, perché descrivono la realtà e mostrano la sessualità in un ambiente privato. Non ha senso mettere le persone nel proprio laboratorio e dire loro: “Adesso fate sesso”». La domanda pertanto è come funziona la sessualità e come funziona la pornografia amatoriale? «Credo che la nostra sessualità sia inconscia come qualsiasi altra pratica fisica. Quando si gioca a calcio, ognuno ha un certo stile nel maneggiare la palla. Penso che nel sesso sia simile: anche quando una coppia vuol fare un gioco di ruolo, i video mostrano alla fine la loro normale sessualità», aggiunge il sociologo. Il prerequisito è che tutte le persone rappresentate nei film siano adulte e consenzienti. «In genere vengono esclusi i video sulla masturbazione perché lo studio riguarda l’interazione sessuale, vale a dire il rapporto fra almeno due persone. Non importa che tipo di rapporto vi sia all’interno della coppia: può trattarsi di colleghi di lavoro, amici o di una relazione a lungo termine». A fare porno amatoriale è gente comune e lo fa per ragioni molto diverse. Lewandowski spiega che alcuni girano porno per gli stessi motivi per cui girano video per le vacanze: per autogratificazione. Altri trovano eccitante riprendere se stessi e poi guardare il video, o sapere che altre persone lo guarderanno. Altri ancora si filmano per usare le clip su piattaforme di sesso e incontri. Alla domanda se il porno amatoriale sia effettivamente rappresentativo della sessualità della persona media, il sociologo risponde che lo è. Perché le persone dimenticano la fotocamera in modo relativamente rapido, soprattutto quando sono a casa. «Certo, non si possono escludere le persone che cercano di essere un po’ più spettacolari di quanto lo siano nella vita di tutti i giorni, specialmente quando il video è destinato a diventare pubblico. Ma è abbastanza facile distinguere quando le persone recitano e quando non lo fanno». Si può capire quanto bene le persone si conoscano,  quando per esempio si verificano intoppi durante l’atto. «Le coppie che hanno avuto rapporti sessuali tra di loro per un lungo periodo di tempo riescono a risolvere certe situazioni in mezzo secondo, senza bisogno di comunicazione verbale. Casi simili aiutano a capire in che modo persone e coppie sviluppano un loro stile sessuale». A chi si sta chiedendo se sia eccitante guardare i video, il ricercatore risponde che tutti pensano sempre che guardare il porno in ufficio sia una cosa fantastica, ma non è vero. Occorre acquisire una prospettiva professionale, ovvero la capacità di guardare la sessualità senza eccitazione. «Guardiamo i video molto da vicino, con avanzamento rapido e riavvolgimento. Se vogliamo descrivere una ripresa di un minuto e 30 secondi in modo ragionevolmente attento, abbiamo bisogno di una decina di pagine. Questo, nella pratica, significa passare anche due settimane intere di lavoro sullo stesso video». Ma qual è stata la scoperta più eccitante fatta dal team fino a questo momento? «La diversità della sessualità» risponde Lewandowski. «Desideri differenti, pratiche differenti, approcci differenti. La cosa più interessante sono le microinterazioni. Il flusso di cose che normalmente non si noterebbero, ma che sono cruciali affinché l’interazione sessuale funzioni».

Barbara Costa per Dagospia il 16 maggio 2020. Vogliono mettere in galera Pornhub! Ben Sasse, senatore del Nebraska, repubblicano, ultraconservatore, ha chiesto a William Barr, ministro della Giustizia del presidente Trump, di mettere sotto indagine Pornhub per favoreggiamento di tratta di minori! Le cose stanno così: mesi fa, su Pornhub, è finito un video in cui si vede una ragazza vittima di sevizie. Sevizie non fake, sevizie vere, e per giunta ai danni di una minorenne. È stato Pornhub a rimuovere e a denunciare il video, a chiamare la polizia, e a far così scoprire che la 15enne era stata rapita da un maniaco, che aveva lui stesso girato e messo il video in rete, video poi finito pure su Pornhub. Maniaco che è stato identificato, arrestato, e la ragazza liberata. Del caso si sono occupati siti e giornali di carta americani, tutti dando rilievo e merito alla denuncia di Pornhub. Ma secondo il sen. Sasse no, Pornhub ha la sua colpa, almeno oggettiva, e mettere un video simile lo prova. Pornhub tramite i suoi avvocati si difende, dicendo che nel suo canale trovi video porno di sevizie sadomaso estreme ma finte, recitate, girate da professionisti ma pure da attori amatoriali, video che eccitano a seconda della sensibilità e del pudore di chi decide di cliccarci su. Pornhub garantisce controlli rigorosi su autenticità e consenso di ciò che vedi nei video ma, dato il volume gigantesco del materiale caricato – come attesta Corey Price, vicepresidente di Pornhub: il sito ospita 11 petabyte di contenuti, vale a dire 3.666.666.666 minuti di materiale girato, e questa è la stima ferma a ottobre 2019 – tale controllo non può essere esente da crepe, è rapido ma nei limiti i più logici. Pornhub rimuove video di revenge porn, sesso non consensuale, sesso in cui sono coinvolti minori, appena di questi video viene informato, o se ne accorge esso stesso. Per il momento, il ministro Barr ha rispedito la richiesta di Sasse al mittente, come aveva già fatto con una lettera simile inviatagli da altri 4 repubblicani. Dando a tutti questa motivazione: che gli forniscano prove contro Pornhub ben più valide, e non avvalorate solo da denunce a firma di attivisti anti-porno che basano le loro crociate su studi finanziati da leghe anti-porno. E nemmeno da ciò che sostengono alti prelati cattolici americani che il 30 aprile hanno "pregato" Barr di perseguire “i crimini” di Pornhub e soci, dacché “dobbiamo amarci tutti come fratelli e sorelle” e il porno in rete è l’antitesi di questo amore (come no: invece "l’amore" che alcuni uomini di Chiesa, anche negli USA, hanno mostrato verso minori, violentandoli, quello non è un crimine, vero?). E Pornhub da parte sua mica sta fermo, rilancia, e si scaglia contro il sen. Sasse, accusandolo di servirsi del brand Pornhub a fini elettorali, per farsi pubblicità, finire sui media, e assicurarsi la rielezione! Come se non bastasse, nello Utah, da una parte depenalizzano la poligamia (se ti scoprono che c’hai più mogli non ti fai più 5 anni di galera: paghi una multa di 750 dollari), dall’altra approvano una legge che obbliga i siti pornografici ad apporre "un advisory che spieghi la nocività" di quello che una persona adulta ha liberamente deciso di vedere. Nocività a chi, a cosa non è chiaro, ma si intuisce che nello Utah sono sul serio convinti che il porno sia il Male, uno strumento di Satana, e faccia danni a chi lo guarda, e che tale "peccatore" debba esserne protetto. I boss del porno schierano i loro avvocati contro ciò che ritengono un limite alla libertà di espressione e sono prontissimi ad affrontare cause legali che son sicuri di vincere in nome del Primo Emendamento. In difesa del porno scende in campo anche Alan Dershowitz, avvocatone famoso, dal curriculum che mette paura. Secondo Dershowitz, politici e attivisti anti-porno “sono degli zeloti che sprecano tempo e fiato”: si diano pace, nessuno può vietare al porno di pornare, né proibire a chi lo guarda di onanisticamente sballarsene. Se il porno porna secondo la legge, fare porno (e guardarlo) senza advisory e altre seccature, rientra nelle libertà intoccabili, negli Stati Uniti (ancora) considerate sacre. Guai con la legge anche per il governatore di New York Andrew Cuomo: Sean McCarthy, proprietario di Blush Gentleman’s, strip club di New York City, gli fa causa. Seguendo le disposizioni di Cuomo, McCarthy ha chiuso il suo locale a metà marzo, e il governatore gli ha detto che lui sarà tra gli ultimi a riaprire. McCarthy non ci sta, protesta (alla CBS) che “tale chiusura mi ha causato danni insanabili e debiti. Cuomo è un discriminatore, un monarca che si pone al di sopra della Costituzione”, perché tratta i cittadini-lavoratori in modo iniquo. McCarthy vuole riaprire, subito, e in tutta sicurezza: degli aiuti governativi non sa che farci, e esige da Cuomo 150 mila dollari di danni, più il pagamento delle spese legali. Se McCarthy vince, per lo Stato di New York (e per tutti gli altri) si apriranno voragini di ricorsi da affrontare. Sempre per la serie porno&legge, te lo ricordi Michael Avenatti? L’avvocato, quello che difendeva la pornostar Stormy Daniels, la bionda che, dopo 14 anni, si è ricordata che Trump, quando non era ancora presidente ma era "solo" un magnate tra i più ricchi al mondo, è stato il suo amante: prima Stormy non ce lo poteva dire, no, aveva firmato un accordo di riservatezza per non dirlo a nessuno, tantomeno ai media, accordo che negli USA ha valore legale e penale se non lo rispetti, e lei però 2 anni fa, con Trump alla Casa Bianca… che hanno fatto tanto sesso, e quando Trump era già sposato con Melania, che aveva appena partorito Barron, e che Trump manco è dotato, e che a letto è un rude, Stormy è andata a dirlo in tv, in profumate ospitate da talk-show, e ci ha scritto un libro, "Full Disclosure", libro di cui Avenatti è accusato di aver rubato il ghiotto anticipo. Ma la notizia di oggi è che Avenatti "beneficia" dell’emergenza coronavirus: infatti lui è da febbraio scorso che è in carcere, non per i guai con la Daniels, ma per aver tentato di estorcere alla Nike 20 milioni di dollari. Avenatti in galera stava in una cella umida e fredda, ma così fredda che era costretto a dormire sotto 3 coperte. Coperte che non l’hanno risparmiato dalla polmonite, e i suoi avvocati sono riusciti a fargli avere gli arresti domiciliari sostenendo che un detenuto coi postumi da polmonite è ad alto rischio se dovesse beccarsi il virus. Così Avenatti è ora col braccialetto elettronico a casa di un amico suo sulle spiagge di Venice, e si lamenta pure: i giudici gli hanno proibito internet! Il lockdown ha spostato a data da destinarsi gli altri due processi che l’attendono, quello in cui Stormy Daniels gli rinfaccia i 300 mila dollari sottratti, e un secondo in cui un altro suo ex cliente lo accusa di avergli fregato 840 mila dollari. Lo Stato della California ha sospeso a Avenatti la licenza da avvocato e si ricordi: i domiciliari concessigli durano 3 mesi. Dopo i quali se ne torna dietro le sbarre, non certo a far ospitate in tv, ospitate che, dicono, gli hanno fruttato vagonate di dollari, più il grado di nuovo idolo dei democratici anti-Trump: si faceva il nome di Avenatti come candidato alle primarie. Questo però fino a che Avenatti non finì per la prima volta in galera, nel 2018, quando venne arrestato con l’accusa di violenza domestica. Uscì dopo poche ore, pagando una cauzione di 50 mila dollari. Dopo la condanna del febbraio scorso, i democratici che tanto lo tifavano, non l’hanno cercato né nominato più, chissà perché…

Barbara Costa per Dagospia il 7 marzo 2020. Adesso ti spoilero scena per scena "Angela White: Dark Side", porno pluripremiato agli ultimi Oscar, e porno duro, ultra hard. Ce la fai a affrontare il porno ma quando è esagerato, e lercio, disgustoso, nauseante, e perciò quanto di più attirante ai nostri sensi? Non dirmi che non te la senti, che non vuoi Angela, vedere cosa fa, cosa le fanno. È lei a chiedertelo, dal video, prima di dare avvio a ogni suo sfreno. Angela è pronta ad esplorare, con te, davanti a te, la sua parte più oscura. Allora, che fai, ci stai? Se sei ancora qui, lo prendo per un sì. Ed ecco Angela, decisa a sbranare ogni uomo che vede e del suo sesso farne brandelli. Il suo "Dark Side" è diviso in 6 scene, la prima è quella girata in un parco acquatico, e Angela è lì, che guarda fisso in camera e ti trapassa, è lì nei suoi stivali di lattice nero, abbigliata di lingerie oro-nera.

È lì, presto intrappolata in un vecchio magazzino, dove 2 uomini l’aspettano, e per afferrarle la sua lunga coda di capelli corvini, tirarla e sbatterla su una poltrona di cuoio, e penetrarla a forza. Angela è riempita e inondata davanti, dietro, in cow-girl al contrario, ma se pensi che non le piaccia ti sbagli alla grande: è lei che comanda i carichi, è lei che ordina ai due di fare il loro dovere di stalloni. È lei che si fa esplodere i loro liquidi in bocca, è lei che ha fame, e sete di tutto quello sperma di cui si ingozza.

Siamo alla scena 2, è quella dove nella bocca di Angela passano a risucchio 13 peni: qui Angela è vestita di rosso e ha caldo, e placa la sua arsura con un ghiacciolo che passa dalla bocca a gocciolare sulle sue tettone. Conta ed esamina ogni ragazzo che entra in quella casa, tutti e 13 lì, in piedi, su una scala, ognuno impettito sul suo gradino. Una sequenza strepitosa, Angela sale scalino su scalino, e ogni scalino è un pompino, anzi no, di più, non è ancora a metà che di peni in bocca se ne infila due, in fondo, alla scala e nella sua gola, sempre più veloce. Non finisce mica qui, i ragazzi la prendono, la spogliano, le fanno il "termometro", la riempiono in ogni suo buco. E quando sembra che Angela sia sfinita, persa, stordita, ecco che si siede, prende un bicchiere, e ordina a ogni ragazzo di servirla. È lo "sperma-cocktail", “una delizia!”, esulta Angela, che se lo versa in bocca, e lo beve, tutto, in un sorso, pulisce il fondo del bicchiere con un dito, lo lecca, e ti guarda e ti dice: “Ora ho bisogno del tuo”.

Sei ancora vivo? Lo spero, perché siamo alla scena 3, quella con Dredd, quella di “prendimi! prendimi! prendimi!”, e a invocarlo è Angela che alla vista di quel ben di Dio di 30 cm, non resiste e, dopo aver fatto il suo valido dovere di donna, cioè aver passato per bene la sua lingua tra le natiche di lui, lo ottiene, tutto, e a martello, davanti, dietro.

Non mi fermo, vado avanti e passo alla scena 4, quella del serpente, ma l’animale è solo antipasto, serve Mick Blue a sfamare Angela, e si scopa in acqua, tra fumi e luci e atmosfera calda, soft.

Scena 5, e le tettone si doppiano, accanto a quelle di Angela arrivano i grossi seni di Autumn Falls, e questo è porno bagnato, oleoso, cattivo: “Andiamo a prenderci il nostro cazzo!”, dicono le ragazze dopo aver giocato tra loro per arraparsi il giusto, cazzo che è quello di Markus Dupree, che quasi soffoca tra tanta grazia di natiche e seni. Le due se lo scambiano e si divertono, ma l’ultima goccia di sperma è di Angela.

Scena 6, è l’ultima, e non ti intristire, è la migliore, quella che se non vale tutto il film, quasi! Angela White è una porno-golosa, e qui si concede uno stravizio, una gang-bang con 11 uomini, suo porno record personale. L’azione si apre con Angela alla guida di una Rolls Royce, ne scende ed entra in una sala dove 11 uomini seduti a tavola aspettano solo lei. Angela striscia al centro del lungo tavolo, lo champagne riempie 12 calici, lei alza il bicchiere e brinda al suo lato oscuro rivolta alla telecamera. Angela apre le gambe. Inizia una gang-bang che è orgia, è lussuria, è il porno nella sua animalità. È il porno che la tua ragazza con te non accetta di vedere, è il porno che se becca te che lo guardi ti mette il muso e non te la dà per una settimana, è il porno che magari lei si gusta da sola, di nascosto, sul suo smartphone. È il porno dove Angela è riempita al limite della sua sopportazione. Angela è annientata dal piacere di quei 11 corpi che si alternano sopra e sotto e dentro lei, divorandosela. La cena è servita, su quel tavolo e su quel divano rosso dove la spostano: è la degustazione del corpo e del sesso di Angela White, che riceve doppie anali, e vaginali. Il lato oscuro di Angela vede la luce quando lei ha dentro 5 membri insieme, 2 in bocca, uno davanti e 2 dietro. Tutto questo e molto di più è "Angela White: Dark Side". Corri a vederlo. Soprattutto perché l’ultima scena nasconde un segreto, macabro, dentro il portabagagli. Un finale non proprio porno, e che quindi non ti dico…

DAGONEWS il 24 febbraio 2020. Pochi giorni fa Mikaela, la figlia adottiva 23enne di Steven Spielberg, ha rivelato di voler diventare un’attrice porno e di avere il completo sostegno del padre e della madre. Ma pare che in realtà i genitori non sono poi così tranquilli. Lo dice un amico della coppia intervistato dal Sun: «Esternamente, Steven e Kate - che sono i genitori più aperti del mondo e amano i loro figli - hanno sempre supportato Mikaela e hanno cercato di capirla. Ovviamente, però, sono imbarazzati dalla sua improvvisa rivelazione pubblica di voler entrare nel mondo del porno». Mikaela, che è stata adottata da bambina da Spielberg, 73 anni, e da sua moglie Kate Capshaw, 66 anni, ha raccontato che solo recentemente ha rivelato ai genitori attraverso una chiamata su FaceTime di voler entrare nel porno, ricevendo il loro sostegno alla nuova carriera: «La mia sicurezza è sempre stata la loro priorità numero uno. Lo faccio non per l'impulso di ferire qualcuno o di fare un dispetto, lo sto facendo perché voglio onorare il mio corpo e farlo fruttare». Mikaela ha anche aggiunto di essere ansiosa di trovare un modo per "capitalizzare il suo corpo" e di essere frustata per il fatto di fare un lavoro che “non soddisfaceva” la sua anima. La ragazza, che ha anche il sostegno del fidanzato, il campione di freccette 47enne Chuck Pankow, 47 anni, ha comunque detto di voler fare video hard senza il coinvolgimento di un partner per rispetto del compagno.

Mikaela figlia adottiva di Steven Spielberg diventa pornostar: "I miei genitori mi appoggiano". Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Mikaela Spielberg, figlia adottiva del regista Steven Spielberg e di sua moglie Kate Capshaw, ha annunciato in un'intervista al britannico Sun che è pronta a lanciarsi nel mondo del porno. La 23enne ha dichiarato di aver già auto-prodotto con lo pseudonimo di «Sugar Star» un filmato hard in cui appare da sola e spera presto di trovare anche un lavoro da spogliarellista. Ai genitori che l'hanno adottata nel 1996 quando aveva due anni ha annunciato la notizia lo scorso fine settimana, tramite l'app FaceTime, e ha detto che entrambi si sono dimostrati «incuriositi» e per nulla «turbati»: «La mia sicurezza è sempre stata la loro priorità – ha raccontato -. Penso che una volta che vedranno quanto sono arrivata lontano dal fondo in cui mi trovavo un anno e mezzo fa, guarderanno questo e diranno: 'Wow, la ragazzina è cresciuta davvero sicura di se stessa».  Poi ha aggiunto: «Sono stufa di non riuscire a sfruttare il mio corpo - ha dichiarato Mikaela -. E sono stanca di lavorare ogni giorno in un modo che non soddisfa la mia anima. Ho voglia di fare questo tipo di lavoro, sono in grado di soddisfare altre persone, ma mi sento bene perché non è in un modo che mi fa sentire violata». Lo scopo di Mikaela che vive a Nashville nel Tennessee e che ha già presentato la domanda per ottenere dallo stato americano la licenza di «sex worker» è quello di arrivare al più presto all'indipendenza economica e definisce la sua scelta positiva e che la rafforza: "Mi sono reso conto che non c'è da avere vergogna nell'apprezzare questo settore e nel voler fare qualcosa che sia sicuro, sano, consensuale - continua -. Non posso rimanere dipendente dai miei genitori o dallo stato. Non mi sento a mio agio». L'unico rammarico è il contraccolpo che la scelta possa avere sulla carriera di suo padre. Nell'intervista Mikaela ha anche raccontato di avere alle spalle un passato difficile e di aver lottato contro anoressia, disturbo borderline di personalità e alcolismo.

Da "ilmessaggero.it" il 20 febbraio 2020. Mikaela Spielberg, la figlia del leggendario regista hollywoodiano Steven, ha annunciato di essere pronta a cominciare una carriera nel mondo del porno. La 23enne, adottata da Steven Spielberg e sua moglie Kate Capshow, si è raccontata in un'intervista al tabloid The Sun, in cui ha toccato diversi temi: dal rapporto con i genitori alle sue ambizioni professionali, dagli abusi subiti da piccola fino alla malattia mentale. Mikaela Spielberg ha spiegato da dove nasce questa decisione: «Ero stanca di fare un lavoro che non soddisfaceva la mia anima. Ho voglia di fare questo tipo di lavoro, sono in grado di "soddisfare" altre persone, ma mi sento bene perché non mi fa sentire violata». La 23enne ha raccontato di aver intrapreso questa carriera anche per trovare un'indipendenza economica dalla famiglia, ma assicura che i suoi genitori sono «incuriositi» e «non arrabbiati». Mikaela si è definita una «creatura sessuale». Sul suo profilo Instagram sono presenti i primi scatti hard, mentre i suoi video porno sono stati momentaneamente rimossi dalla rete in attesa della licenza da "sexual worker" nello stato del Tennessee. A supportarla c'è il fidanzato Chuck Pankow, 47 anni, che non esclude di apparire in futuro in un video hot con lei. Ma il passato di Mikaela Spielberg è stato tutt'altro che sereno: dopo aver subito abusi da piccola, la ragazza ha sofferto di disturbi della personalità, depressione e attacchi di panico. Ma, grazie all'affetto dei genitori e del suo fidanzato, Mikaela afferma di esserne venuta fuori e di aver capito come «capitalizzare» al meglio il suo corpo: «Mi piacerebbe anche lavorare come ballerina di strip club».

La figlia di Steven Spielberg arrestata per violenza domestica. La figlia adottiva del regista, 23 anni, è finita in manette e poi è stata rilasciata su cauzione per aver aggredito il fidanzato, il 50enne Chuck Pankow. Alessandro Zoppo, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Mikaela Spielberg, la 23enne figlia adottiva del regista Steven Spielberg, è stata arrestata dalla polizia di Nashville, nel Tennessee. La ragazza è finita in manette con l'accusa di violenza domestica. Lo rivela Fox News: Mikaela ha passato sabato 29 febbraio in carcere in seguito ad un "incidente domestico" che l'ha vista coinvolta con il fidanzato, il 50enne Chuck Pankow. La Spielberg è rimasta dietro le sbarre per 12 ore: portata nel centro di detenzione di Nashville, è stata rilasciata dopo il pagamento di una cauzione di mille dollari. Pankow, sentito da Fox News, ha minimizzato l'accaduto. "È vero, Mikaela è stata arrestata – ha dichiarato l'uomo – ma è stata un'incomprensione. Non si è fatto male nessuno". Secondo WZTV, i fatti sarebbero andati diversamente da come raccontato in seguito dalla coppia. La discussione tra i due sarebbe nata in un bar di Nashville: Pankow avrebbe fatto un "commento scortese" sulla Spielberg e lei avrebbe reagito iniziando ad insultarlo e a lanciargli addosso degli oggetti. La lite è poi degenerata fino all'intervento delle forze dell'ordine.

Steven Spielberg, la figlia arrestata dopo l'intervista al Sun. L'arresto della ragazza è avvenuto a una settimana dall'intervista al Sun in cui la figlia di Steven Spielberg ha rivelato di voler iniziare una carriera nel mondo del cinema a luci rosse. All'annuncio della sua nuova vita, papà Steven e mamma Kate Capshaw sono rimasti "curiosi" ma non "arrabbiati". "I miei genitori – ha detto Mikaela – sono orgogliosi di come sia riuscita a liberarmi dalla dipendenza dall'alcol che prima dei 21 anni mi ha portata un paio di volte a un passo dalla morte, roba da coma etilico… ma ora sto meglio e penso che un giorno, guardando i miei traguardi in questo settore, mi guarderanno e mi diranno: 'Wow, abbiamo cresciuto una ragazza davvero sicura di sé'".

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 7 febbraio 2020. Aveva 25 anni e «finalmente per me si apriva una possibilità lavorativa nell' editoria». A Caroline Laurent, editor alle prime esperienze, venne affidato un autore già pluripremiato. L' appuntamento era nel bar di un hotel, rive gauche parigina. Lui doveva parlarle del suo nuovo progetto. «Ha bevuto molto, finché mi ha costretto a baciarlo. L' ho respinto e lui ha ricominciato. Ha messo le mani sui miei seni». Il giorno dopo le inviò una mail: «Ho fatto sogni erotici e c'eri anche tu». Caroline, che oggi ha 31 anni ed è la direttrice letteraria di Stock, prestigiosa casa editrice, ha avuto il coraggio di rompere l' omertà e testimoniare sulle molestie sessuali subite nel suo mondo in un' inchiesta di Franceinfo, radio pubblica francese, «ma di storie del genere tutte o quasi le mie colleghe ne hanno da raccontare». Ha ricordato di quando, in occasione di un salone del libro in provincia, si organizzò una serata danzante e lei si sentì «un corpo maschile che si strusciava», quello di un autore. Un' altra volta si ritrovò al bar del Ritz, per discutere del nuovo libro di un (famoso) scrittore di 72 anni. Lei ne aveva 27. Lui stava leggendo il manoscritto, ma poi le propose di continuare in una camera, precisando: «E se succedesse qualcosa d' intimo tra di noi?». Ecco l' ostica quotidianità delle editor (è una professione dove sono più numerose le donne, mentre gli uomini prevalgono tra gli autori più conosciuti). Già a fine dicembre era scoppiato uno scandalo intorno al libro di Vanessa Springora (anche lei oggi editor di Julliard), che nel suo libro («Le consentement») ha ricordato di essere stata adescata a 14 anni da Gabriel Matzneff, che ne aveva 50 ed era un tipico esemplare di intellettuale libertino (anche Gallimard pubblicò i suoi libri, pieni di riferimenti a pratiche pedofile). La letteratura, si diceva, veniva prima della morale. Ora l' inchiesta di Franceinfo entra pesantemente nella piaga. Anne-Charlotte Sangam, che ha 37 anni, e che ha già lavorato per diverse grandi case editrici, ha ricordato palpeggiamenti di superiori e di quando uno scrittore «altamente mediatizzato», mentre si scattava la foto per il risvolto di copertina del suo nuovo libro, le mise la lingua in un orecchio. «Non potei parlarne ai dirigenti dell' editrice, era lui che portava il grosso dei soldi, era intoccabile». Ieri 44 personalità del settore (anche due scrittori maschi, Olivier Adam e David Foenkinos) hanno sottoscritto un appello contro le violenze sessuali nell' editoria. E si sono chiesti: «Tra la giovane addetta stampa, la editor o l' assistente molestata da un autore di successo, un giornalista che fa il bello e il cattivo tempo o un superiore, chi avrà il cattivo gusto di lamentarsi?».

Barbara Costa per Dagospia il 2 febbraio 2020. Chi porno-piace alle donne? Lui. Cosa porno-guardano le donne? Lui. Con quali porno le donne si eccitano si bagnano e si toccano e vengono? Coi suoi. Mio caro Dago-lettore, questa volta lasciami stare, clicca altrove, leggiti un altro pezzo, che questo è affare di femmine e tu ne sei escluso, non c’entri, non capisci: vai a fare un giro, vai a giocare con la Play, segati con un bel porno lesbian a scissoring, basta che smammi, divertiti, ciao. Sei ancora qui? Ancora mi leggi? Non hai capito che abbiamo da fare, abbiamo lui, non abbiamo bisogno di te. Ma se insisti e mi chiedi che giri facciamo sui siti porno, dove porno andiamo e con chi, allora sappi che nostra porno-sosta obbligatoria è lui, i suoi video, il suo corpo, il suo sesso. Lui che non sei tu, lui che è maschio, è latino, è il francese porno-padrone delle nostre voglie. Lui è Manuel Ferrara, e per noi donne non c’è bisogno di altro, già a metà del suo nome abbiamo il clitoride in erezione, gonfio e pronto, siamo scosse, e calde, e tu… te ne devi andare!!! Tu che i nostri sogni i più sozzi e luridi non li puoi occupare come può lui. Mie lettrici arrapate, lo sapete, come lo so io, quel che gli uomini ignorano, non possono immaginare: io lo dico sempre, i video di Manuel Ferrara andrebbero vietati agli uomini, per non creargli false fisse di emulazione o, peggio, farli cadere in tristi manie di competizione. E quindi tu, porno-utente e maschio nella media, non ti avvilire, vai bene come sei, sicuro, ci piaci, se ti ci metti e fai quel che la tua donna dice non preoccuparti, a farla godere ci arrivi, ma non pensare neppure per scherzo di imitare il sesso come lo fa Manuel, non ti riuscirà, farai una figura barbina, in caso di sfiga acuta potresti pure finire all’ospedale. Tu ci servi e sei OK come sei, come però ci serve Manuel, e per divertimenti diversi, lerci, mai abbastanza ripugnanti per la nostra mente, mai troppo indecenti per la nostra libido. Il caz*one di Manuel c’entra, può entrarci, in parte, il giusto. È più vero che si tratta di fame. Fregola. Sono pensieri, passioni coltivate in segreto. Per alcune, perfino loro malgrado. Col porno non sgarri, col porno non si scherza, tra le sue verità c’è che non esiste porno al femminile se per femminile lo intendi pensato e girato da femministe in grave astinenza da pene: se c’è un sacro porno per donne è Manuel e mettersi le dita dentro, o solo a sfiorarsela, senza manco arrivarci, al clitoride, sognando di farsi sbattere da lui nell’identico modo, e foga, con cui si sbatte quelle in video, una dopo l’altra, davanti, dietro, a forza, senza tregua, e assolutamente sì, arrivare all’orgasmo pensandosi la sua “brava puttana”, come dice sempre lui, ché ogni trivialità la più sminuente qui acquista la sua licenza, giustezza. Valore. È la speciale libertà del porno, è la libertà che l’onanismo ti dà, e non è (quasi) mai quella che nella realtà, nel sesso reale le donne vogliono, ammettono, chiedono, men che mai con te che ancora stai qui a sbirciare queste mie righe. Sentirsi, giocare ad essere la troia del proprio uomo è tutt’altra cosa. Difficile. Eccezionale. È tutt’altro gioco, tutt’altro orgasmo. Nelle fantasie sì, mentre ti tocchi il limite lo varchi, più volte, anzi, siamo sincere, il limite non c’è, nella realtà nessuna (nessuna?) arriverebbe a degradarsi come fa Kristina Rose in quel porno con Manuel, nella scena in cui Manuel le fotte a tal punto il cervello da farsi pregare di infilarle la testa nel water e sciacquargliela. Attento: lo vuole lei. Glielo comanda lei. Il suo corpo acceso al guinzaglio di Manuel, e di più il gesto della mano di Manuel, che le ordina di seguirlo a letto come fosse la sua cagnolina, una sua proprietà, è gioco di dominazione dove la corda la tiene e la tira il dominato. Sempre. Nel porno, scene di tale alchimia, sono rare. Se usi il porno per ampliare i tuoi orizzonti, qui Manuel ti spalanca campi vergini.  E se pensi che Manuel sia il classico fusto tutto minchia e zero cervello, sappi che ha messo in riga nientemeno che il presidente Macron, quando il toy-boy di Brigitte l’ha fatta fuori dal vasino, sostenendo che il porno umilia le donne, e Manuel l’ha sfidato a dirglielo in faccia e a provarglielo. Per Manuel il porno è vita e specie privata, avendo sposato 2 pornoattrici e avendoci fatto 4 figli, dei quali non avrebbe problemi se, da adulti, scegliessero il porno. Manuel, che le donne sul set le onora, è un tipo fin troppo normale, non fuma, non beve, non si droga, va a letto presto, fa sport e poca dieta: a inizio carriera pornava più volte al giorno, oggi (purtroppo!) massimo una scena al dì. Oltre francese (ovvio), e inglese, Manuel parla spagnolo, un po’ l’italiano, il tedesco non se lo ricorda più. È così sincero da rivelarti che per lui la prima volta, nella vita vera, è stata un disastro (è "venuto" non solo prima di lei, ma prima di entrare in lei); da ragazzo a diventare un numero uno del porno non ci pensava, lui pornava part-time mentre si metteva in tasca una laurea in scienze motorie, e riconosce che è stato Rocco Siffredi ad aprirgli le porte del porno che conta. Infine, il vero scandalo: anche una star del porno va in bianco! Una volta Manuel è uscito con una ragazza non porno, ignara che lui fosse nel porno. L’ha portata a cena, e si era quasi al dopocena quando a Manuel si è avvicinato un fan a fargli i complimenti per le sue crude performance anali. La ragazza si è alzata dal tavolo ed è scappata via! 

Giulia Turco per fanpage.it il 2 febbraio 2020. Oltre 1000 star dell'industria cinematografica a luci rosse si sono riuscite all'Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas per la 37esima edizione dei AVN Awards & Expo, ribattezzati come Oscar del porno. Si tratta del maggior riconoscimento nell'ambito della cinematografia hard, assegnato ogni anno dal 1984, che prevede la consegna, come nel cinema tradizionale, di un'ambita statuetta per i vincitori. Un evento durato cinque giorni, dal 20 al 25 gennaio, che ha permesso ai fan di incontrare le attrici e gli attori più seguiti del porno e che ha attratto nella città della perdizione migliaia di turisti e visitatori. Tra le star vincitrici, Angela White (Female Performer of the Year), Small Hands (Male Performer of the Year), Gianna Dior (Best New Starlet), Emily Bloom (Favorite Cam Girl) e Kayden Kross (Director of the Year). Agli Xbis Awards invece, la cerimonia di Los Angeles che ha preceduto di pochi giorni gli Oscar del Porno, Rocco Siffredi è stato premiato quest'anno come Miglior regista straniero.

Chi è Angela White. Nata a Sydney nel 1985, l'attrice australiana ha conquistato per il terzo anno consecutivo il titolo di ‘Miglior attrice protagonista' ai AVN Award. Nel 2010 si è laureata all’Università di Melbourne in studi di genere, presentando una tesi sulle esperienze delle donne nell’industria pornografica australiana e nel 2003, poco dopo aver raggiunto la maggiore età, ha iniziato la sua carriera di attrice in film per adulti per la casa The Score Group. Nel 2018 ha vinto l’AVN Award for Best Tease Performance, oltre all’AVN Award for Female Performer of the Year nel 2018 e nel 2019.  Angela è anche molto richiesta anche come donna copertina: è stata scelta come volto copertina per i 45 anni di Hustler Magazine, famoso e popolare magazine hot. Seguitissima sui social, Angela White è considerata da molti come la Kim Kardashian del cinema adult internazionale.

Maurizio Stefanini per lettera43.it il 23 gennaio 2020. Video e foto porno con donne indigene venduti e diffusi senza alcuna autorizzazione delle protagoniste. La tendenza relativamente recente, denunciata dalla stampa messicana e dalle associazioni femministe locali, è stata ribattezzata Etnoporno. Epicentro è il Chiapas, lo Stato divenuto famoso per la rivolta zapatista, in cui un terzo degli abitanti è rappresentato da popolazione indigena. Dodici le etnie presenti, riconducibili a tre famiglie linguistiche principali: non solo i maya cari alla retorica del Subcomandante Marcos, ma a anche i mixes-zoques e i chiapa. Al di là degli zapatour che portano i nostalgici della rivoluzione a visitare i comuni autogestiti dagli zapatisti nella Selva Lacandona, il folklore di origine pre-colombiana attira nella regione anche molti turisti non politicizzati. Purtroppo, il narco-cartello Los Zetas sembra aver costruito attorno a questo immaginario una variante di sfruttamento sessuale particolarmente grave. La cosa è particolarmente evidente nei mercatini di San Cristóbal de Las Casas, terza città dello Stato e la più importante dell’altopiano dove è maggiore la concentrazione di indigeni. Tra le bancarelle, infatti, accanto a biancheria intima, street food o galline vive si trovano in quantità dvd amatoriali con titoli scritti a pennarello tipo Indias calientes (indie calde), Indias en el monte (indie nella jungla) o, ancora, Chamula XXX. San Juan Chamula è un villaggio a 10 km a nord di San Cristóbal de Las Casas famoso per una chiesa in cui i riti cattolici si mescolano a pratiche maya. Un altro titolo ricorrente è Porno Chamulas: Chamula Power è un gruppo criminale a sua volta specializzato in questo tipo di mercanzia, in concorrenza con gli stessi Zetas. Tra i turisti stranieri, in effetti, pare che i dvd vadano a ruba. Si tratta però di video realizzati e messi in vendita da uno dei cartelli di narcos più feroci del Messico e con protagoniste indigene che sono obbligate con la forza o l’inganno ad avere rapporti sessuali davanti a una telecamera. Donne di tutte le età, ma con una presenza forte e preoccupante di minorenni. In alcuni dvd si trova perfino l’avvertenza: «In questo materiale possono apparire persone che forse conosci. Si raccomanda discrezione». A denunciare il fenomeno è stata l’attivista femminista Martha Figueroa, promotrice del programma pubblico di emergenza Alerta de Género en Chiapas. «Guardando i titoli e i vestiti delle donne coinvolte», ha detto, «è ovvio che si tratta di indigene dei municipi più poveri del Chiapas: Chamula, Zinacantán, Chiapa de Corzo». E il fatto che i dvd si vendano a San Cristóbal, dove si trovano molti stranieri benestanti, fa pensare che si tratti di un «mercato sessuale dove i più vulnerabili sono carne da macello per i più ricchi». Secondo Patricia Chandomí, docente alla Universidad Autónoma de Chiapas e specialista in violenza di genere, «in molti casi coloro che comprano questo tipo di pornografia lo fanno perché hanno nei confronti delle persone indigene un’attrazione di tipo morboso». Ma non ci sono solo i dvd. La Bbc racconta la storia di una ragazzina 13enne indigena a cui il maestro aveva regalato un cellulare per farsi inviare foto di nudo. L’adolescente fu poi contattata sui social da una donna di un altro Stato che, sotto ricatto, la costrinse a inviarle altre immagini e altri video sempre più hard. Infine le chiese di convincere un’altra bambina di 10 anni a fare lo stesso. A quel punto la 13enne spaventata raccontò tutto alla madre. L’intero villaggio venne a conoscenza del ricatto e il maestro evitò il linciaggio per un soffio. Proprio Martha Figueroa è l’avvocatessa che si offrì di seguire il caso. Ci vollero diversi mesi per mandare in carcere il maestro, secondo cui la 13enne aveva fatto tutto volontariamente. «Era un caso nuovo e non sapevamo come gestirlo», ha spiegato Figueroa alla Bbc.  Secondo il Frente Nacional para la Sororidad, organizzazione femminista che lotta contro la violenza sessuale sul web, tra dicembre del 2018 e febbraio 2019 sono stati trovati nel Chiapas almeno 800 video porno di bambine e donne e almeno 122 piattaforme online che vendevano materiale pornografico.

Gail Dines, Professoressa di Sociologia al Wheelock College, per “The Conversation”, tradotto e pubblicato da “Business Insider Italia” il 22 gennaio 2020. Oggi, gli adolescenti guardano molta più pornografia di quanto i loro genitori si rendano conto. E questa pornografia è molto più “hardcore” di quanto mamme e papà possano immaginare. Queste sono le conclusioni principali di “What Teenagers are Learning From Online Porn”, un articolo di Maggie Jones sul New York Times diventato in poco tempo uno dei più letti e condivisi negli ultimi tempi. Mentre la cosa potrebbe sorprendere molti genitori che magari immaginano il porno come un semplice nudo su un paginone centrale, non ha sorpreso ricercatori come me che sono immersi nel mondo del porno mainstream. Sappiamo quanto sia diventata violenta, degradante e misogina la pornografia, e conosciamo anche le implicazioni per la salute emotiva, fisica e mentale dei giovani. Nello sforzo di comprendere meglio il problema, l’attivista femminista Samantha Wechsler ed io abbiamo indagato sul problema parlando direttamente con i genitori. La domanda che ci veniva fatta più spesso era: “Cosa possiamo fare in proposito?”.

Il porno hardcore è ovunque. I sondaggi e la nostra esperienza diretta dimostrano che i genitori sono estremamente preoccupati per il facile accesso al porno tramite i vari dispositivi elettronici. La statistica dipinge un quadro a tinte fosche. Un recente studio britannico ha scoperto che il 65% dei ragazzi tra i 15 e i 16 anni fa un uso quotidiano della pornografia, con la grande maggioranza che diceva di aver iniziato ad usufruirne dai 14 anni. Dato allarmante, dato che le scoperte di un altro studio stabiliscono una correlazione tra esposizione prematura alla pornografia e desiderio espresso di esercitare potere sulle donne. Ma nonostante tutte queste preoccupazioni, i genitori non hanno assolutamente idea di come si presenti il porno, di quanto vi accedano i loro figli e del modo in cui influisce su di loro. L’articolo del Nyt citava un sondaggio del 2006 dal quale traspariva che molti genitori sono del tutto ignari delle esperienze dei propri figli con il porno. Jones definiva questa situazione “scarto d’ingenuità genitoriale”. Situazione che dà ragione ai nostri studi. Nelle presentazioni che facciamo nei licei, chiediamo ai genitori cosa viene loro in mente quando sentono la parola “porno”. Di solito descrivono una ragazza nuda con un sorriso malizioso, il genere di immagine che ricorda i paginoni centrali di Playboy. Rimangono scioccati quando vengono a sapere che le immagini dei siti porno attualmente più trafficati, come Pornhub, ritraggono atti quali donne con un pene eretto fino in gola (gagging) o molti uomini che penetrano ogni orifizio di una donna per poi eiacularle in faccia. Quando riferiamo queste cose ai genitori, il cambio di atmosfera nella stanza diventa palpabile. Spesso c’è un sussulto collettivo. Vale la pena ripetere che si tratta dei siti porno più visitati, quelli che ogni mese registrano più visitatori di Netflix, Amazon e Twitter messi assieme. Solo Pornhub è stato visitato 21,2 miliardi di volte nel 2015. Ana Bridges, una psicologa della University of Arkansas, ha scoperto insieme al suo team che l’88% delle scene dei 50 film porno più noleggiati contengono aggressioni fisiche contro le protagoniste femminili, mentre il 48% comprende abusi verbali.

Le ripercussioni sulla salute. Oltre 40 anni di ricerche da parte di varie discipline hanno dimostrato che la visione di pornografia, indipendentemente dall’età, è associato a effetti nocivi. E ci sono studi che dimostrano che più bassa è l’età di esposizione, maggiore è l’impatto in termini di definizione dei modelli, dei comportamenti e degli atteggiamenti. Uno studio del 2011 sugli universitari americani ha scoperto che l’83% riferiva di aver guardato pornografia maintream nei dodici mesi precedenti e che quelli che lo facevano avevano maggiori probabilità di affermare che avrebbero commesso uno stupro o un abuso sessuale (se fossero sicuri di non venire scoperti) rispetto agli uomini che dicevano di non aver visto porno. Un altro studio su adolescenti ha scoperto che un’esposizione prematura al porno era correlata al commettere molestie sessuali nei due anni successivi. Condotta sulla base 22 sondaggi, una delle analisi più citate concludeva che il consumo di pornografia è associato ad una maggiore probabilità di commettere atti di aggressione sessuale verbale o fisica. E uno studio su studentesse universitarie ha scoperto che le giovani donne i cui compagni facevano uso di pornografia provavano minore autostima, una qualità minore della relazione e minore soddisfazione sessuale.

Inizia tutto con i genitori. Temendo per il benessere dei propri figli, i genitori che hanno partecipato alle nostre presentazioni, a Los Angeles, Oslo o Varsavia, hanno avuto l’impulso di correre a casa per discutere con i propri figli. Ma in realtà non hanno la minima idea di cosa dire, come dirlo o come comportarsi con un ragazzo che preferirebbe trovarsi in qualsiasi altro posto al mondo piuttosto che essere seduto di fronte ai propri genitori a parlare di pornografia. Al tempo stesso, però, le ricerche sulla sanità pubblica dimostrano che i genitori sono la prima linea di prevenzione nell’affrontare i principali problemi sociali che colpiscono i figli.

Allora, cosa si può fare? La maggior parte degli attuali sforzi si concentra sugli adolescenti stessi e sulla loro educazione al sesso e ai pericoli del porno. Anche se è fondamentale avere dei programmi di qualità per gli adolescenti che sono già stati esposti, si tratta pur sempre di cercare di recuperare il danno piuttosto che prevenirlo. Per cui, un team di docenti universitari, esperti di sanità pubblica, educatori, pediatri e psicologi dell’età evolutiva – noi compresi – ha passato due anni mettendo insieme le ricerche allo scopo di creare un programma che aiuti i genitori a diventare quella vitale prima linea di difesa. Ecco perché è stata istituita Culture Reframed un’organizzazione no-profit inizialmente concentrata sui genitori di adolescenti orientata a una domanda fondamentale: Come prevenire l’esposizione dei ragazzi a immagini di abusi e degradazione sessuali nella fase di formazione dell’identità sessuale? Ne è scaturito un programma in 12 moduli che introduce in successione i genitori a cambiamenti nello sviluppo – emotivo, cognitivo e fisico – cui gli adolescenti vanno incontro e alla cultura ipersessualizzata che modella tali cambiamenti ed è lo sfondo delle vite degli adolescenti. Ad esempio i ragazzi imparano dai video musicali, dai videogame violenti, dai media mainstream e dal porno che gli “uomini veri” sono aggressivi e non hanno empatia, che il sesso corrisponde a conquista e che per evitare di subire il bullismo devono indossare la maschera della mascolinità. D’altro canto, le ragazze imparano che devono apparire “sexy” per essere viste ed essere passive come le principesse dei cartoni animati, arrivando a considerarsi degli oggetti fin dalla giovane età.

Navigare nel terreno minato del porno. Aiutare i genitori a cogliere il livello a cui le immagini ipersessualizzate modellano i propri figli li incoraggia a capire, piuttosto che a giudicare, perché loro figlia vuole assomigliare a una delle Kardashian o perché loro figlio, annebbiato dall’ipermascolinità, rischia di perdere le proprie capacità empatiche e relazionali. La cosa aiuta i genitori ad accostarsi ai figli con compassione piuttosto che con frustrazione e rabbia, rischiando di minare il rapporto genitore-figlio. È davvero complicato attraversare tutti i campi minati della tossicità della cultura pornografica attuale – dal sesso telefonico e la scarsa autostima alla pressione sociale. Ai genitori serve tutto l’aiuto possibile. Ma, in definitiva, il progetto Culture Reframed si occupa di molte altre cose oltre a fornire ai genitori una fiducia e della capacità ritrovate. Si occupa di riprendere il potere dall’industria del porno, che cerca di sequestrare la sessualità e l’umanità dei ragazzi in nome del profitto e ridarlo ai genitori.

Da leggo.it il 18 gennaio 2020. Pornhub finisce in tribunale. Un utente disabile, Yaroslav Suris, ha fatto causa alla piattaforma perché i video non sono adatti a essere usufruiti da tutti. Tutto a causa della mancanza di sottotitoli. Secondo quanto riporta il sito TMZ, l'utente sostiene che la piattaforma di video discrimini le persone non udenti. Nell'azione legale, Suris fa riferimento esplicito ad una serie di video identificati con titoli che lasciano pochi dubbi sulla trama e sul contenuto. A quanto pare, l'utente non è riuscito a cogliere totalmente i dialoghi tra i protagonisti delle clip e sostiene che questo gli abbia impedito di fruire pienamente del prodotto. L'assenza di sottotitoli esaustivi, inoltre, costituirebbe una violazione di quanto previsto dal Disabilities Act. Suris, secondo TMZ, cita Pornhub per danni imprecisati e pretende l'implementazione di sottotitoli nei filmati. «A quanto pare, Yaroslav Suris fa causa a Pornhub sostenendo che avremmo ostacolato l'accesso delle persone non udenti ai nostri video. In genere non rilasciamo commenti su cause in corso, ma vorremmo cogliere l'occasione per evidenziare che abbiamo una categoria con sottotitoli», ha detto il vicepresidente di Pornhub, Corey Price, a TMZ.

“IL SESSO ASCELLARE? LO CHIAMIAMO “IL TERMOMETRO”. Dagospia il 13 gennaio 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. Il regista del film porno Faccetta Nera, con Roberta Gemma, è uno dei miti del cinema hard, Mario Salieri. A La Zanzara su Radio 24 dice: “La storia racconta uno scontro generazionale tra due fascisti, da una parte un gerarca e dall’altra un giovane militante del fascio. Il film è ambientato nel 1935 a Napoli e praticamente è il preludio della guerra d’Etiopia. Per questo porta il titolo di una canzone ispirata dalla propaganda fascista. Appunto Faccetta Nera”. Ma è vero che nel film questo gerarca alla fine diventa cornuto?: “Sì, certo, ma con un colpo di scena”. “Prendo le distanze – dice Salieri - da qualsiasi coloritura politica. Sono uno studioso di storia. Mi piace, è sempre stata una mia passione. Il fascismo è un fenomeno complesso e bisognerebbe studiarlo bene. C’è un fascismo che racchiude in sè, e lo raccontava bene anche Indro Montanelli, tutta una serie di valori positivi, degenerati poi successivamente”. Per cui Mussolini ha fatto delle cose buone?: “Secondo il mio punto di vista, inizialmente sicuramente sì. Poi si è trasformato in una dittatura. Ci sono molti fascismi, non ce n’è uno solo”. E’ vero che c’è anche del sesso ascellare oltre alle solite scene che siamo abituati a vedere in un film porno classico?: “Sì, certamente, noi lo chiamiamo il termometro. Come quando si misura la febbre, solo che si mette il pene sotto l’ascella”. “Faccio film dal 1983 – dice ancora Salieri - e questo tipo di pratica l’ho proposta in molte mie pellicole del passato, e non solo in quelle recenti. Non sono Tarantino ma probabilmente Tarantino, messo alla prova del cinema porno, sarebbe una pippa. E’ una questione di genere, ed ognuno ha la sua specializzazione”. Il porno è cambiato moltissimo. Una volta tu guadagnavi un sacco di soldi, giusto?: “Il problema non è che è andato a distruggersi il settore dell’home video, le vecchie Vhs e poi di DVd che per noi rappresentava un fatturato molto importante. Il problema è che con internet c’è stato un dilagare della pirateria incontenibile. I guadagni si sono dimezzati rispetto al 2008 ma rimangono comunque soddisfacenti”. “Ho girato questo film in Campania, a Nola – rivela Salieri – in Italia la regola è che se non si offende la pubblica morale e cioè si girano questi film in ambienti riservati esclusivamente agli addetti ai lavori, si possono girare”. Quanto costa fare un film del genere?: “Intorno ai 35 mila euro”. Mi faresti un podio delle attrici con cui hai lavorato?: “Non è facile perché ce ne sono tante. Sicuramente sul podio metterei Selen, che è stata una mia scoperta di fatto lavorando in esclusiva con me per sette anni; poi aggiungerei Deborah Wells altra attrice-feticcio dell’inizio degli anni ‘90 ed attualmente c’è Roberta Gemma che si è dimostrata molto brava anche in questa ultima pellicola”. E attori maschi?: “Beh sicuramente il numero uno è Rocco Siffredi, che ha iniziato con me la sua carriera e con cui abbiamo fatto moltissime cose; Steve Holmes che secondo me è molto molto bravo, e poi senz’altro Roberto Malone”. Tu vivi stabilmente in Ungheria: “Perché lì c’è una flat tax al 15% che in effetti aiuta l’impresa, qualsiasi tipo di impresa”. Tornando al sesso ascellare, chi lo pratica nel tuo film?: “Lo pratica Roberta Gemma, e un’altra attrice molto bella che si chiama Viky Brown. Il sesso ascellare lo fa il protagonista del film: il ragazzino alle prime armi con il fascismo che mette le corna al gerarca fascista”. E’ complicato girare una scena di sesso ascellare?: “Le difficoltà sono enormi. Perché riuscire a restituire delle emozioni erotiche in una scena pornografica, che di per sè è noiosissima, perché racchiude una serie di posizioni ginniche assolutamente noiose non è semplice come apparirebbe ad una prima distratta osservazione. E’ una cosa molto complicata. Non a caso ho un pubblico di nicchia che mi segue appunto perché riesco nei miei film a ridare allo spettatore delle emozioni erotiche e non solo a riprodurre la meccanica del porno classico. A me interessa l’aspetto erotico. Quindi uno sguardo, un vedo e non vedo, i preliminari, la masturbazione”.

Barbara Costa per Dagospia il 12 gennaio 2020. Qual è l’unico posto dove trovi le migliori e più gnocche e porche pornostar tutte insieme su di giri ma rigorosamente vestite? Agli Oscar del Porno, e dove sennò, la serata in cui il porno omaggia e gloria e premia se stesso, nel cafonal-show che si svolgerà come di regola l’ultimo sabato di gennaio – segna: il 25 – all’Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas. E per l’edizione 2020, sul palco, a far gli onori di casa ci sono due signore fighe: la porno-veterana Nikki Benz e la porn-babe Emily Bloom. Ok, andiamo al sodo, di dovere porno-patriottici perché, fiato alle trombe, anche quest’anno sua Porno Altezza Reale Rocco Siffredi impera, in 13 – dico 13 – categorie, e buon per gli americani che di norma inseriscono in nomination esclusivamente porno girato negli USA, confinando il nostro eroe soprattutto alle nominees straniere, altrimenti Rocco avrebbe dato filo da torcere ovunque e a chiunque, come da ragazzo, che pornava in terra americana e si portava a casa gli Oscar come migliore attore in assoluto. Che anche quest’anno vinca il premio Best Performer Straniero come nel 2019? Magari, e tu, portagli fortuna, toccati dove sai, e tocca pure ferro e corni e ogni amuleto che hai. Forza Rocco! Pure la giovane Rebecca Volpetti, che ti ho presentato in un mio recente pezzo, ha la sua nomination, come Best Performer Straniera. Che botta se lo prende al primo colpo! E il suo "Rebecca, An Indecent Story", porno girato da protagonista per Dorcel.com, è in lizza in altre due categorie, tra cui la prestigiosa Best Regia Estera. La nostra Valentina Nappi centra nomination da anni, questa volta nello specifico è in lizza come Best Sesso di Gruppo Estero e Best Fellatio con più peni. Daje, Valentì! Anche Malena e le gemelle Dellai partecipano al Best Sesso di Gruppo Estero, con "Rocco Siffredi Hard Academy 5… Goes Live". Ma dove lo trovi uno show che premia tette e c*li i più scoperti, aperti e insalivati? E i capezzoli i più turgidi e ghiotti e leccati? Gli Oscar del Porno hanno categorie che a Hollywood se le sognano, lì fanno tanto i progressisti ma non hanno premi riservati alle star trans, il porno invece sì, e tanti, e distribuiti in più sezioni. E se non trovi nessuna nomination per il porno-gay, è perché gli Oscar del Porno Gay sono uno show – e un’occasione di lustro – a sé. E ancora: dove lo trovi uno show che ti premia il miglior ano e la miglior vagina esibitisi in penetrazioni multiple? Le categorie dei Porno Awards son molto selettive e hanno ferme regole da rispettare: il Best BlowBang, ad esempio, si riferisce a fellatio con una bocca impegnata a soddisfare dai 3 peni in su; e il Best GangBang prevede una donna penetrata a turno da un minimo di 3 uomini a salire; l’Oscar Best Sesso di Gruppo valuta un’orgia dai 4 partecipanti in su, ma con la presenza minima di 2 donne. Il Best Ingénue riguarda unicamente attrici comprese tra i 18 e i 21 anni, e non mancano premi destinati a categorie "speciali": il Best Porno di Nicchia premia i porno che trattano feticismi eccezionali, ad esempio l’irsutismo, o i porno girati con pornostar finto-incinte, o i finto-porno-incesti; c’è la categoria che premia il Porno Cuckold; e c’è pure il Best No Sex Performance, cioè l’Oscar per la miglior scena recitata senza scopamenti. La sezione Miglior Regista 2020 vede 2 nomination particolari, lo scontro in famiglia tra Kayden Kross vs. Manuel Ferrara, moglie e marito. L’italianissimo Axel Braun, puoi giurarci, farà al solito incetta di premi Best Porn Parody: il suo "Captain Marvel XXX" sbaraglia la concorrenza, è inappuntabile. Superarlo? La vedo dura! Anche la splendida Angela White, tettona tra le tettone, difficile che resti a mani vuote: le sue prove porno e da attrice e da produttrice sono impareggiabili, specie la sua gangbang in "Angela White: Dark Side", e non credo solo secondo me! Lui è l’uomo che dopo Rocco porno-amo e tifo, lui è l’uomo che mai tradirò, lui è il mio partner onanistico prediletto: lui è James Deen, il mio porno-amore, che quest’anno ha pornato come un matto, conquistandosi 7 nomination, e il mio tifo da stadio va alla sua "Sono venuta in faccia a James Deen!", serie porno arrivata alla numero 10: qui si premia il piacere femminile, le secrezioni, lo squirting! Infatti in questi porno James Deen ci mette faccia e lingua insinuandosi nelle vagine e spiegando a te che lo guardi come si fa a far straziare di orgasmi una donna. È lavoro, di pubblica utilità, informazione pura, altro che fake news! Chi può sostenere il contrario? Best Lesbian duo/di gruppo/orgia/orale: in tutte queste categorie, dimmi un po’, come si fa a scegliere? Con che cuore, che animo, premiare uno schianto a discapito dell’altro? Come preferire le curve di Alina Lopez a quelle di Riley Reid, la lingua di Adriana Chechik tra le natiche di Tina Kay, a quella di Aidra Fox che si lavora e divora il sesso di Kristen Scott? E son meglio i gemiti di Jenna Sativa o le urla di Riley Reyes in Best Female Massage? E quale attrice premiare come Best Solo/Tease, ovvero la migliore scena di seduzione/masturbazione? Eh?!? Mamma mia, ma c’è pure Nina Hartley! In lizza come Miglior Attrice non protagonista! Ha quasi 61 anni, 40 passati nel porno, senza tregua. Questa donna ci porno-sotterrerà tutti! Importantissimo!!! Anche tu puoi votare, sul sito Avn.com: clicca sulla tua pornostar preferita, e su altre determinate categorie, massimo 5 volte per ognuna, fino alle 12 (americane) del 25 gennaio. Buon Oscar del Porno a tutti!

CHI PORNEGGIA A CAPODANNO, LO FA TUTTO L’ANNO? Barbara Costa per Dagospia l'1 gennaio 2020. Si mettono le stelle scintillanti nel culo. E sui seni, ritte sui capezzoli. Stappano lo spumante puntando i tappi dritti sulle natiche. E della spuma ne fanno creampie, imbevendone tutti i "buchi" possibili, facendo colare quel nettare sulla pelle, e sulla lingua e nella bocca di chi vuole. Happy New Year, miei cari porcelli, e nel porno amatorial e no ci danno sotto, e con una sola, basica differenza: in molti amatorial, quando non sono ubriachi, sono fuori di testa, sicuro! Sui siti porno ogni fine anno si porna col botto, e quale augurio migliore di quello stampato sui sederi delle pornostar, o scritto tra il pube e l’interno cosce, in rosso, in primo piano, a gambe aperte? Vi prego non lo fate, sono innocue ma non mi fido, la stella a scintilla dritta nel culo no, è tra i video porno più amati e certo fa la sua figura, ma insomma, vuoi mettere il conto alla rovescia a ritmo spanking, cioè scandito a schiaffi su sederi nudi, sberle che lasciano segni, e ti fanno orgasmare al momento giusto, proprio a fine countdown...? O all’inizio, decidi tu, di questo 2020 che nel porno promette trionfi, gioie, e guarda un po’ quelli che, al posto delle candele, nel culo ci incastrano il bicchiere, e ora mi rivolgo alle Dago-lettrici che vogliono bagnarsi: a voi questi manzi nudi, in posa Happy New Year, con quelle maxi bottiglie di spumante posate proprio lì, ad occultare il membro in happy erezione. Per un inizio dell’anno di sfrenato onanismo, come antipasto, questi modelli vanno più che bene, ma non andate, non sbirciate sui siti per cui lavorano, ché la maggior parte fa porno-gay, anche se non tutti sono davvero gay, non sempre, e però, ragazze, il porno-gay è il settore dei peni più grossi, dei cazzi coi controfiocchi! Non so come ti sei organizzato, però le orge di Capodanno sui siti porno meritano una sosta, se non per prendere spunti almeno per sognarci: quale preferisci, le lesbo, le etero, o le ammucchiate a ingresso libero? Sul podio delle più cliccate vanno di diritto le orge happy new year girate in VR, in virtual real porn, e forte va la festa di Capodanno in maschera by Brazzers con sua maestà porno Manuel Ferrara: Manuel e Keiran Lee t’invitano in piscina a brindare, e poi a pornosamente folleggiare con loro due bionde, tettoniche amiche, Alexis e Nikki, in un foursome da scoppiati. Se la mezzanotte è ancora lontana, inganna l’attesa con Luna Star che squirta anche l’ultimo dell’anno, oppure dai un’occhiata a come Angela White festeggia "lavorandosi" l’amico del marito addormentato sbronzo sul divano. "Amico si scopa mia moglie a Capodanno" è un porno amatorial da milioni di visualizzazioni, e assicura quel che leggi nel titolo: una scatenata brunetta lecca e succhia a più non posso e a favore di telecamera manco fosse una pornostar conclamata, ma per me è ubriaca fradicia, perché, va bene che è l’amico di tuo marito, e però quale motivo valido per aver scelto un partner sessuale così poco… in forma? Oh, ragazzi, lo so, è un amatorial, c’è nulla da far gli schizzinosi, e però, io sono porno-snob, e lasciamo stare la performance "penesca", quella fa il suo dovere, ma qui ci sono tre note stonate, stonatissime: i calzini di lei, che non toglie, e poi, la pancia oversize e il culo moscio di lui! Quando le sale sopra e se la scopa a missionario, chi inquadra, cioè il marito cornuto e contento, è impietoso, e va sparato sul culone dell’amico, cadente, pieno di cellulite: te lo dico subito, sono minuti porno per stomaci forti, ma a quanto vedo a "reggere" siete in tantissimi! Nei porno amatorial, Capodanno è notte magico-tragica: ci sono donne (io mi gioco quello che vuoi ma sono convinta che sono tutte sposate, e da tempo!) che si sbronzano e perdono la testa, e tu spettatore rischi di porno-intontirti a passare da video a video dove imperversano in plurime, smodate fellatio-abilità! Ti lascio con una carrellata di porno calendari 2020, che trovi e compri su vari siti di e-commerce: saranno pure fuori moda, saranno quello che ti pare, però a me, mese dopo mese, posizione dopo posizione, mettono di buonumore, mi danno porno-giudizio, quasi quasi compilo la lista dei bravi porno-propositi 2020 da rispettare…

Da it.notizie.yahoo.com il 31 dicembre 2019. Il portale a luci rosse, Pornhub, ha deciso di fare un vero e proprio bilancio, con tanto di classifiche, di quello che è successo nel corso dell’anno che sta giungendo al termine. A partire dalle statistiche demografiche sugli utenti del sito, divisi per Paese, passando per i generi preferiti, vi sono anche informazioni sulle dieci pornostar più ricercate. Il sito di intrattenimento hard ha stilato una vera e propria classifica con le dieci pornostar più ricercate nel corso del 2019. Al decimo posto vi è Adriana Chechik, che dopo il diciottesimo posto nel 2018 è riuscita ad entrare nella top ten. Al nono posto vi è Nicole Aniston, che invece, rispetto all’anno precedente, è scesa di due posizioni, rimanendo comunque una delle pornostar più ricercate su Pornhub. All’ottavo posto si piazza la nota influencer Kim Kardashian, che è risalita di sei posizioni rispetto all’anno scorso; mentre al settimo vi è la ventisettenne Mia Malkova che è tra le poche a perdere posizioni in classifica, rimanendo comunque nella top ten. Al sosto posto si colloca l’unica pornostar di sesso maschile, ovvero il venticinquenne spagnolo Jordi El Nino Polla. Al quinto posto c’è la veterana Brandi Love, che opera nel settore dell’hard dal 2004, riuscendo ancora oggi ad attirare l’attenzione dei propri fan. Al quarto posto, invece, si piazza un’altra pornostar in forte ascesa, ovvero la ventiquattrenne statunitense Abella Danger che ha ottenuto 308 milioni di visualizzazioni su Pornhub. Passiamo quindi al podio di questa classifica. Ebbene, al terzo posto vi è la ventottenne Riley Reid, mentre al secondo Mia Khalifa. L’attrice libanese naturalizzata statunitense si conferma al secondo posto nonostante non lavori ormai da tempo per il settore pornografico. Per finire, al primo posto della classifica sulle pornostar più ricercate su Pornhub vi è la ventitreenne Lana Rhoades, che rispetto all’anno precedente è salita di tre posizioni, raggiungendo il gradino più alto del podio.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 31 dicembre 2019. La BBC manderà in onda sulla sua quarta rete una trasmissione di due ore alla quale tutti pronosticano un sicuro successo. L' autorevole emittente britannica mostrerà in ogni dettaglio i corpi nudi di alcuni modelli e modelle, consentendo così ai telespettatori di ritrarli «dal vivo», come se si trovassero in un atelier di pittura. Prima che la trasmissione finisca, ognuno potrà inviare alla BBC il ritratto che ha realizzato. I migliori saranno mostrati in video, probabilmente confrontandoli con l'originale. L'idea, che non ha precedenti nella storia della televisione è venuta al direttore di BBC Four, Cassian Harrison, un dirigente molto stimato che è riuscito a risollevare gli ascolti con programmi culturali. Harrison ha di fatto inventato la «slow television», applicando alla televisione quello che Carlin Petrini ha applicato tempo fa al cibo. «La tv - ha detto al Times - è diventata sempre più rumorosa e veloce e ci mostra un vita molto più frenetica di quanto dovrebbe essere. Bisogna ritrovare il tempo di contemplare con calma, e di bere magari qualcosa mentre lo facciamo». Applicare la slow tv alle riprese di modelle e modelli nudi sembra davvero il modo migliore di spingere la gente alla contemplazione. Non è detto che tutti avranno un pennello o una matita in mano, ma Harrison se lo augura: «Sarà la celebrazione di una lunga e orgogliosa tradizione artistica. La pittura dal vivo è uno degli elementi chiave di tutta l' arte e il corpo umano è meraviglioso e straordinario». Il programma, chiamato Life Drawing Live, sarà condotto da due artisti pluripremiati, Daphne Todd e Lachlan Goudie e si annuncia pomposamente come «una lezione d' arte per tutto il paese». Fino a pochi anni fa realizzare una simile trasmissione sarebbe stato impossibile e chi lo avesse proposto sarebbe stato licenziato. Ma ora Internet, il cinema e le serie tv sono così piene di nudi che un po' di modelle e modelli in onda per un paio d' ore non faranno poi una grande differenza. Harrison è un uomo di lettere, e ha ragione quando parla di una lunga tradizione artistica. Il nudo è stato un tema centrale della cultura occidentale prima nella scultura, poi nella pittura, infine nel cinema e nella fotografia. La tolleranza con la quale è stata accolta, incoraggiata e celebrata la nudità nell' arte non è mai stata però applicata nella vita reale. Anche nel mondo classico greco-romano il nudo era considerato la rappresentazione della bellezza ideale, ma guai alle donne che mostrassero le gambe in pubblico. Persino le modelle, così ammirate quando erano scolpite nel marmo o dipinte su una tela, erano considerate alla stregua di prostitute quando uscivano dallo studio dell' artista. La prima a ribellarsi, nell' Atene del 350 a.C., fu Frine, la modella di Prassitele per l' Afrodite cuidia, che si denudò davanti ai giudici che la processavano, primo esempio forense dell' appello alla clemenza fondato sulla vista e non sulle parole. Le modelle dei pittori, dal Rinascimento a oggi, hanno pagata cara sul piano sociale la loro disponibilità a farsi ritrarre nude. Simonetta Vespucci posò per la Nascita di Venere e per la Primavera del Botticelli, guadagnando la fama di bellissima ragazza facile, corteggiata dallo stesso Lorenzo il Magnifico. Margherita Luti, la Fornarina di Raffaello, si ritirò in convento alla morte del maestro, forse perché l' aveva spostato in segreto, forse per sparire dalla circolazione. Caravaggio sceglieva le sue modelle direttamente tra le prostitute di Roma, anche quando doveva dipingere Madonne e sante. Amedeo Modigliani aveva forse gli stessi pregiudizi: dipinse spesso Jeanne Hébuterne, la donna che amava, ma mai senza qualcosa addosso. I modelli e le modelle che la BBC mostrerà ai nuovi aspiranti pittori non corrono questi rischi. Essere pagati per fare qualcosa restando nudi è ormai una professione come un' altra, anzi: rende famosi più in fretta che non facendo un lavoro restando vestiti. E poi anche l' arte è cambiata. Non insegue più solo la bellezza dai tempi di Egon Schiele e Lucian Freud, che hanno rispettivamente celebrato le magrezze scheletriche e le carnagioni ridondanti. Per questo, ha annunciato la BBC, i modelli del programma saranno «di ogni forma e di ogni età». Nudi ma politicamente corretti, in modo che nessuno si senta escluso anche da questa novità.

·        Mai dire Razzismo.

Barbara Costa per Dagospia il 12 giugno 2020. Tony Rios sta incazzato a bestia. Lui è l’amministratore delegato di AVN Media Network, la voce ufficiale del porno, è il megafono autorizzato, megafono dal quale si è levata forte la condanna per l’omicidio di George Floyd. Urla Tony Rios: con che faccia da culo noi piangiamo Floyd, quando nel porno siamo i primi ad essere razzisti? Tony Rios non solo ha scomunicato quanto di solidale espresso dalla sua AVN, ma dice pure che i comunicati e le belle parole servono a un cazzo, perché se vuoi cambiare la situazione devi agire, e lui agirà: che la categoria "interracial" e la sigla IR siano tolte dal porno, mai più devono apparire accanto a un video e, poiché l’AVN presiede e organizza gli Oscar del Porno, anche la statuetta quale miglior scena interracial non esisterà più. Sembra poco, sembra niente, e invece no, se si muove l’AVN c’è da stare attenti, perché l’AVN è un potere. La presa di posizione di un boss come Rios conta, e il suo sputtanamento di quello che nel porno accade ma che non si può dire, non si deve dire, è senza precedenti. È la prima volta che il porno si auto-denuncia. Il razzismo nel porno è il vero tabù del settore, nessuno ne vuole parlare, se ne chiedi ti rispondono che non è vero, che è vero ma insomma, comunque è meglio starsi zitti. E invece io li voglio far parlare, i pornostar neri, vediamo che dicono sulla loro pelle nel porno. Facciamo parlare chi è nero ed è potente, come Lexington Steele, leggenda porno vivente, più di 1000 film, oggi a capo di una delle case di produzione che più macinano soldi. Steele è nel porno dal 1998 e l’ha sempre detto: il razzismo nel porno esiste, perché il porno è specchio della società e ne riflette le distorsioni. La società americana è razzista, il porno è razzista, un razzismo che per Steele equivale a menti bigotte che ancora campano sullo stereotipo “grande mandingo nero che corrompe la principessina bianca”, nonché sugli stereotipi della potenza sessuale del nero che ingolosisce le bianche, e fa invidia e rabbia ai bianchi. Miti superati, scaduti, però ancora riprodotti nei video porno, con la compiacenza di bianchi e neri. Lo stesso Steele è diventato una star milionaria per le sue serie porno "ebony", volte a coprire il mercato del "black porn": “Ho girato tantissimi interracial, anche perché mi pagavano di più. Non posso negarlo: un porno tra me e una bianca ha più mercato di uno con una nera”. Steele dice però che solo grazie al web si è sconfitto il razzismo che vigeva nella distribuzione, quando i porno con attori neri non erano venduti negli stati dell’America retrograda, e quando persino mettere in copertina un attore nero in primo piano era vietato, mentre era d’obbligo la foto della donna bianca in posa da vittima “sporcata, deflorata da un nero”. Steele è spietato: “Nel porno l’unico colore che conta è il verde, quello dei dollari”, ma è proprio quello dei soldi il tasto da non pigiare mai. Te lo dicono in coro, “attori e attrici neri sono pagati di meno rispetto ai bianchi a parità di numero e genere di scene”, e però mai ti fanno i nomi dei boss che adottano questa politica! Ma tale disparità retributiva deve esserci, se l’assassinio di George Floyd ha svegliato pure l’APAC, il sindacato dei pornoattori (guidato da bianchi), il quale ripete che non si può più stare in silenzio, bisogna far riforme radicali, quali non si sa. Lexington Steele dice che lui è diventato famoso “non per quello che ho tra le gambe (28 cm) ma per quello che ho tra le orecchie”, però l’archetipo dell’uomo nero dal pene enorme che scopa la donna bianca, è tra le scene più girate – e cliccate – nel porno. Angela White svela che lei prima di girare un anal con Dredd (30 cm) usa un dilatatore anale speciale, che la "apre" e la prepara apposta per lui: l’avrebbe detto lo stesso se il pene di Dredd fosse stato enorme ma bianco? E gliel’avrebbero chiesto? È razzista chiedere – come chiedono – a Lexington Steele qual è la sua pornostar bianca preferita, e la sua asiatica? Perché anche le pornostar asian hanno da dire la loro, capeggiate da Asa Akira che, prima di diventare la regina di Pornhub, ha passato anni a girare porno fissi sulla sua "razza", e su tutti i massage, basati sulla pretesa passività asiatica. E quando Rocco Siffredi aveva 20 anni e iniziava nel porno, girava in Francia e lo chiamavano “l’italianò”, lo facevano non certo per fargli un complimento…Mandingo si è ritirato dal porno un anno fa, dopo 20 anni di porno intensi e brillanti. La sua posizione politica è nel nome d’arte che si è scelto: quella è la sua origine, e lui ne va fiero, e afferma: “Il razzismo nel porno c’è, ma non siamo ai livelli di 40 anni fa! Il muro l’hanno buttato giù pornostar neri come Sean Michaels”. Lexington Steele ha votato Barack Obama e oggi via social posta video di Obama contro Trump, ma Obama è stato votato pure da un repubblicano come Mandingo, secondo cui Trump non è cattivo come lo descrivono, tantomeno è un razzista (Trump è abbastanza apprezzato nel mondo del porno perché ha abbassato le tasse). Le nuove generazioni sono diverse, si fanno domande diverse, certo non la mettono in chiave razziale: Sarah Banks ha 23 anni, è nel porno da 4, ha stuoli di fan devoti sui social che non guardano al colore della sua pelle ma “a quel tuo c*lo che è speciale”. Sarah vuole sconfiggere altri stereotipi, come la falsa idea della degradazione della donna nel porno: lei per scelta sul set si fa spermare molto (nel sesso, in faccia, sul corpo), e gira porno anale violento, e meglio se ad alternarsi dentro e fuori di lei sono peni bianchi e neri. Ha già lavorato con i più bravi, tra cui il suo mito, James Deen, che è bianco. Conta? Dice Sarah Banks: “Sono nera, e a 16 anni ero già diplomata: i neri possono essere intelligenti o cretini come ogni altra persona. Il porno non è un ghetto, e non sono trattata male in quanto donna, né in quanto nera”. Scegliere di vedere una scena con Sarah Banks scopata da bianchi, sarà mica gesto razzista da parte di noi spettatori? C’è chi si spinge a dare la colpa a noi utenti per i porno che scegliamo di vedere, perché dovremmo essere noi, il pubblico, ad educarci e ad educare, non cliccando più sui video interrazziali. Ma il porno è scelta la più personale e libera possibile, e noi possiamo scegliere di vedere una gang-bang con una bianca e più neri, come il suo contrario, come pure possiamo vedere un bianco annegato da squirting di vagine nere. Vedere porno e quale tipo, solletica la parte di noi la più oscura, e se c’è qualche spettatore che davvero è convinto che quella donna nera in video "soffra" nell’essere scopata da bianchi (o il suo opposto) è scemo lui, non chi quel porno lo fa! Perché il porno è recitato, e sono recitate le sevizie, le donne straziate, gli uomini malmenati. Di ogni colore siano. Il porno ha girato "12 pollici" (=30 cm), la sua parodia del film "12 anni schiavo". È peccato guardarla? No, è porno-satira, e la satira è tale quando non si ferma davanti a niente. Non sono d’accordo con me Jet Setting Jasmine e il suo partner di vita e di set King Noire: loro fanno sesso BDSM, e ne insegnano metodi e segreti. Per loro fare porno è una missione, entrambi ce l’hanno con la società americana “che deforma i neri, inscatolandoli in ruoli che non li rappresentano”. Per loro il sesso nero esibito a porno è una forma d’arte, è educazione, è riscatto di una specifica identità razziale. King Noire si ispira a Malcolm X, accusa alcuni studios porno di essere razzisti, e ha rifiutato di girarci scene ad alimento del cliché donnina bianca/maschione nero. Ma al tempo stesso, il porno (e il rap) gli ha permesso di dire no a un futuro da teppista a cui il suo ambiente, e il suo censo, lo spingevano. Mi scrive un fan del porno: “Sono un nero, guardo solo porno nero, non sopporto le pornostar bianche, mi ammosciano”. Lui, e quello che dice e fa, è sbagliato? È razzista? Cos’è?

·        L’eccitazione.

Dagospia il 25 dicembre 2020. Da dailymail.co.uk. Anche se molte donne sono convinte di sapere cosa le eccita, alcuni ricercatori hanno scoperto che il cervello e i loro genitali spesso non vanno così d'accordo. Gli scienziati del Kinsey Institute dell'Indiana University, impegnati nella ricerca “Sex, Gender and Reproduction”, hanno usato un “photoplethysmograph”, un piccolo strumento di vetro, a forma di tampone, per misurare l'eccitazione sessuale dal flusso sanguigno. Viene così dimostrata una disconnessione mente-corpo. La scrittrice Melanie Berliet di New York si è sottoposta al test, scoprendo alcune differenze sorprendenti. Con la sonda su per la vagina, le sono stati mostrati alcuni filmati porno e non. Intanto il dottor Erick Janssen, e il biologo evoluzionista Justin R. Garcia che porta avanti lo studio, controllavano i risultati in una stanza a parte. Come spiega il dottor Janssen, “l'eccitazione è costituita da un equilibrio tra due sistemi cerebrali. L'eccitazione sessuale e l'inibizione”. La signorina Berliet è stata esposta a un'ampia gamma di stimoli visivi; da teneri gattini a porno hard-core. Per ogni video, le fu chiesto di valutare le risposte emotive (eccitazione, paura, tristezza, senso di colpa e vergogna) su una scala da uno a cinque. I risultati mostrano che al contrario di quanto pensava la scrittrice, il sesso a tre non la eccita affatto e, contrariamente alle aspettative, si è attizzata davanti al sesso lesbo, al fetish per i piedi, a scene horror del film “Il silenzio degli innocenti” e a un esemplare maschio di scimmia...

·        L’Infedeltà.

Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 25 dicembre 2020. Conquistare l'amante non è mai stato un problema, lo è semmai quando bisogna lasciarlo, ma il momento più difficile in assoluto di un rapporto a tre è quando si avvicinano le festività di fine anno, perché gestire un amore segreto in quelle settimane vuol dire affrontare solo discussioni, subire recriminazioni, ed ascoltare ogni giorno lamentele più o meno legittime. Durante le vacanze di Natale infatti gli amanti non hanno mai vita facile, e quei giorni di festa diventano il periodo più critico e stressante di queste storie d' amore parallele, perché tutte le complicazioni vengono a galla e perché solo pochi eletti sono in grado di mantenere la lucidità necessaria o di fare un' analisi fredda e circostanziata delle varie situazioni, mentre tutti gli altri si lasciano sopraffare dalla gelosia, dall' emotività, dai ricatti e dall' irrazionalità, perdendo di vista i veri motivi sentimentali che li hanno trascinati e coinvolti in una storia del genere. Ci sono donne e uomini abituati a navigare in mari tempestosi, che mantengono i nervi saldi e che in queste occasioni sfoggiano tutte le loro capacità di organizzazione logistica, tempistica e soprattutto emotiva, ma ce ne sono altrettanti che sbroccano completamente e che rendono il Natale il periodo peggiore dell' anno, una data da cancellare dal calendario, al punto di arrivare a detestarla e di desiderare di essere già a dopo l' epifania, che tutte le feste porta via. Le problematiche di come gestire un amante ogni fine anno variano a seconda degli schemi in cui ci si trova, che sono classicamente tre, ovvero essere l' amante single di un uomo sposato, l' amante sposata di un uomo sposato, oppure l' amante sposata di un uomo single, ma in qualunque di questi casi le feste diventano un incubo per entrambi i protagonisti, perché in tutti e tre i casi quelle maledette festività non si passeranno mai insieme. Il primo caso è il peggiore dal punto di vista emozionale, perché l' amante donna è consumata dalla gelosia e dal risentimento, si sente trascurata e messa da parte e vorrebbe solo passare la notte di fine anno con lui, mentre invece non potrà dargli nemmeno il bacio di mezzanotte sotto il vischio, perché lui è blindato in famiglia, bacerà la moglie con l' albero di Natale e il camino acceso, con il rito noioso del brindisi con amici e parenti, e i regali da scartare. Quando tutti e due gli amanti sono sposati la situazione è più semplice se non addirittura tranquilla, perché entrambi hanno gli stessi impegni obbligati durante le feste, ed essi si limitano a telefonarsi dai rispettivi bagni, o a messaggiarsi più volte al giorno, anche mentre si è a tavola per il cenone, nascondendo il cellulare sotto la tovaglia, nonostante sia il momento più pericoloso per farsi beccare. La gestione pratica si complica moltissimo nel terzo caso, quando lui è single e potrebbe venire a cercarti con una scusa mentre sei a casa con la famiglia, o ti chiama più volte e ti chiede del tempo da dedicargli proprio in quel giorno, di ritagliare qualche ora come prova d' amore in mezzo agli impegni festivi, per non sentirsi messo da parte come una ruota di scorta, e per rendere più tollerabile la serata e il brindisi di mezzanotte da affrontare con il cuore in solitudine.

TEMPO ELEMOSINATO. In tutti i casi comunque ci si trova ad elemosinare il tempo dell' altro, a pretendere attenzione, a provocare in lui o in lei i sensi di colpa, senza risparmiare accuse di egoismo, di indifferenza o di menefreghismo, dimenticando ogni dignità e orgoglio, con l' autostima sotto le scarpe, nonostante la consapevolezza di aver imboccato quella strada volontariamente, conoscendone in anticipo tutte le sue curve pericolose. Il fatto è che durante queste feste si rammentano all' altro tutti i fine settimana dell' anno passati separatamente, durante i quali si sono create delle aspettative di gratificazione almeno per i giorni più importanti da celebrare insieme, senza riflettere sui loro aspetti negativi e senza capire che forse non è proprio una cosa meravigliosa per chi ha un amore segreto passare le feste in famiglia, perché in genere queste vengono vissute come una vera e propria condanna.

PRIGIONIERI. Coloro che hanno l' amante lontano, infatti, in quei giorni si sentono prigionieri, costretti a trascorrere le giornate chiusi in casa, con figli, nipoti, parenti e amici che si vorrebbero evitare, ed inevitabilmente scaricano la tensione sull' ignaro e incolpevole coniuge, si alterano per un nonnulla e discutono anche sul menù o sugli ospiti invitati al desco, criticando la scelta, protestando per non essere stati consultati, e lamentandosi della presunta tranquillità casalinga violata, manifestando malumore e comunicando con veemenza il vivo desiderio di tornare al lavoro, sempre meglio che subire tutte quelle rotture di scatole. In realtà passare le vacanze in famiglia è di fatto rompere la routine consolidata lontano da casa, è vedersi negata la libertà quotidiana alla quale si era abituati, e spesso in questi casi la figura dell' amante, a volte ingombrante e oppressiva, viene molto rivalutata, perché percepita come l' unica oasi di felicità e di dolcezza, per cui si addossa al marito o alla moglie la causa dei propri turbamenti e della annessa malinconia, e si vorrebbe correre tra le braccia dell' oggetto del desiderio per assaporare solo l' estasi del suo amore, piuttosto che il cappone farcito appena sfornato e servito a tavola, che appare addirittura nauseante. Per comprendere, al di là di ogni giudizio morale e moralista le contraddizioni elencate, le difficoltà e le angosce che si trovano mischiate in queste storie di sentimento o di richiamo sessuale, forse bisogna trovarcisi, perché dividere la vita in una o più relazioni nelle quali ci si invischia inizialmente con entusiasmo, è maledettamente complicato oltre che molto impegnativo e stressante, e soprattutto bisogna avere grande attitudine e familiarità con la menzogna. Gli uomini molto occupati nel lavoro non hanno in genere difficoltà ad inventarsi con le mogli un impegno urgente e irrevocabile che permetta loro di assentarsi almeno per un giorno e una notte durante le insopportabili feste, per dedicarlo alle amanti che raggiungono anche a chilometri di distanza, per mantenere vivo il rapporto con loro, per giustificarsi e dimostrare con i fatti il loro sentimento travagliato ma appassionato, mentre è più difficile per le mogli raggiungere l' amato ed abbandonare tutta la famiglia nello stesso breve periodo. Senza contare che nella frenesia della fuga ci si dimentica quasi sempre di togliere la localizzazione dal cellulare, e quindi spesso quando si telefona al coniuge per rassicurarlo e dire uffa che noia questa riunione in questo posto che non ho potuto evitare, quel suo telefono indica chiaramente il luogo effettivo dove egli si trova, che non è chiaramente quello della bugia dichiarata. Paul Gauguin sosteneva che nel matrimonio il più grande tradito dei due è l' amante, una teoria che la storia ha sempre confermato, ma durante le feste spesso è la persona sposata e obbligata a trascorrerle in casa a sentirsi tradito e più tormentato, non per i sensi di colpa, ma perché immagina l' altra libera di fare quello che vuole, di divertirsi chissà con chi altro, e nel caso frequente che in quelle ore non risponda al telefono egli sente già spuntare le corna. È anche vero che non ci sono più le amanti di una volta, quelle che restano a casa sole, tristi e con i fazzoletti a portata di mano, perché la maggioranza di loro approfitta per partire e raggiungere gli amici nei posti di vacanza, per vedere altre persone, per staccare e non sentire affatto la nostalgia della lontananza. Anzi, accade spesso in queste situazioni che le amanti navigate apprezzino molto il distacco, che lo vivano come un momento di libertà assoluta da tutto e da tutti, che lo rivendichino come un atto dovuto, come un compenso delle privazioni o una occasione per guardarsi attorno, riuscendo ad annullare quella sottile gelosia che beffardamente si trasferisce a lui, obbligato a vivere il suo quotidiano che tutto sembra appesantire, omologare, stancare ed allontanare.

RELAZIONI IMPOSSIBILI. Fino a non molto tempo fa infatti, essere amanti era sinonimo di relazioni impossibili, di rinunce insopportabili e di continue delusioni, destinate ad infrangersi contro il muro della lontananza, ma per gli amori a distanza il vento è cambiato e sempre più uomini scelgono di imbarcarsi in questo tipo di rapporti anche con più donne contemporaneamente, grazie alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie, che permettono di condividere momenti ed emozioni a qualunque ora del giorno e della notte con chiunque, e di essere sempre presenti anche se non lo si è fisicamente. Insomma, gestire un amante durante le feste di fine anno è sicuramente faticoso, turbolento e motivo di stress, ed è sempre un interrogativo il recupero affettivo dopo le vacanze, perché c' è sempre il rischio di ritrovarsi a gennaio in un rapporto non più a tre ma a quattro, cioè che l' amante fedifrago diventi nel nuovo anno solo una seconda scelta, che perda cioè il primato faticosamente conquistato, e che pensava ingenuamente di avere consolidato.

Da “Libero Quotidiano” il 5 settembre 2020. Pubblichiamo un articolo sull'infedeltà scritto dal direttore Vittorio Feltri negli anni '80. Noia, ripicca, curiosità le principali ragioni del tradimento. Ieri come oggi. L'adulterio. È un tema ricorrente, ad andamento ciclico, inesauribile. Scalda gli animi, eccita la fantasia e mobilita i "tuttologi" di ogni Chiesa. D'altronde, chi non ha esperienza di corna passive o attive? Stavolta, a dare la stura alle opinioni sulla delicata materia è stato un film: Attrazione fatale, importato dagli Stati Uniti, che racconta una storia a tragico fine, in cui tra gioie e dolori, sospiri e passioni ci scappa il morto. Pare che gli americani si siano specchiati in questa vicenda che non ha nulla di nobile, e ne discutano forsennatamente. Non sorprende: il tradimento coniugale e manovre relative sono esercizi fra i più praticati nel Nuovo continente. Ma non si scherza neanche nel Vecchio. Dove la pellicola, appena è arrivata, ha scatenato reazioni di segno diverso e nessuna tiepida. In Francia, L'express, tramite la penna del critico cinematografico, ha avvertito che l'opera è «un'idiozia con qualche lampo di imbecillità»; mentre per Le point si tratta di capolavoro. E in Italia? Idem: applausi entusiastici o fischi sonori. Ma nei nostri intenti non c'è la stima estetica del romanzone di celluloide, bensì l'osservazione del problema che esso pone, anzi, ripropone. L'adulterio, da queste parti, che proporzioni ha assunto? Come viene vissuto dai protagonisti? E se tra la moglie e il marito si mette qualcosa di più del comune dito quali sono le complicazioni? Nel 1979, la vigilia di Natale, il Corriere della sera pubblicò in prima pagina la lettera di una lettrice che si lagnava per due motivi: perché l'amante sposato avrebbe trascorso le imminenti festività con la legittima consorte, e perché i giornali dedicavano poco spazio alle frustrazioni della gente e moltissimo, troppo, alla politica. Era tempo in cui imperversava il terrorismo, e la stampa, in effetti, non aveva attenzioni che per questo, supponendo di soddisfare così le aspettative generali. Ma quel messaggio collocato a sorpresa nella vetrina del quotidiano rivelò clamorosamente che era sbagliato attribuire alle grandi questioni del Paese il primato nell'interesse del popolo. Che fu scosso dallo sfogo della donna più di quanto non lo fosse stato per le imprese dei brigadisti. Difatti la redazione venne seppellita dalla corrispondenza: migliaia di missive provenienti da ogni regione, nelle quali si solidarizzava con l'infelice signora, le si consigliava di «lasciar perdere quel farabutto» oppure le si faceva notare che la giusta punizione per colei che stuzzichi un uomo ammogliato è, appunto, la solitudine. Infuriò il dibattito, cui seguì un'inchiesta sull'infedeltà con l'intervento delle firme più autorevoli di Via Solferino. Ci fu una svolta nel costume giornalistico: perché da quel momento, pur non trascurando ammazzamenti e analoghe prodezze del partito armato, le cronache registrarono sistematicamente anche le faccende di cuore, ovvero "del privato". E venne alla luce un dettaglio importante su cui Leonardo Vergani pose l'accento: nonostante che l'adulterio non fosse reato da qualche lustro, gli adulteri continuavano a comportarsi come se lo fosse, evitando con cura di spezzare il legame ufficiale in favore di quello clandestino. Questo per molte ragioni. Ma principalmente perché il tradimento era considerato (e lo è ancora) un diversivo e non la fase iniziale di un rapporto destinato a diventare esclusivo. In altre parole, una fuga part-time dalla realtà familiare e non la promessa di un secondo (terzo o quarto) matrimonio. Oggi, con le dovute eccezioni, che però c'erano anche allora, la situazione è immutata. In nove anni tutto si è evoluto tranne il settore corna dove le abitudini resistono. Non è una nostra intuizione spacciata per informazione, ma risulta dalle statistiche. In un saggio di Giovanni Caletti (Il comportamento sessuale degli italiani) si legge che nel 1976 il 25 per cento dei maschi e il 10 per cento delle femmine (totale 35 per cento) dichiaravano di non essere insensibili ai piaceri dell'avventura. L'indagine dello studioso era stata svolta su vari campioni in varie città, e aveva tenuto conto di molteplici elementi: l'età degli intervistati, la loro professione, l'anzianità matrimoniale. Ebbene, dall'elaborazione dei dati era emerso che tradivano i freschi come i maturi sposi, al Nord e al Sud, a ovest e a est, indifferentemente. Inoltre era stato accertato che non esisteva una causa prevalente dell'infedeltà alla quale di norma si arrivava per noia, ripicca, curiosità. La gamma delle giustificazioni fornite dai fedifraghi era parecchio assortita, ma bisogna pensare che la loro sincerità era dubbia, perché è noto che il ladro, sia pure d'amore, è anche bugiardo. Nel 1978, la Makno sostenne che in settanta coppie su cento c'era adulterio, provocato dall'uomo almeno nell'80 per cento dei casi. Il che suonava male, perché in genere se il maschio fa una scappatella si presume che si rivolga a una femmina, quindi non ci dovrebbe essere mai disparità fra adulteri in pantaloni e in gonnella, a meno che lui sia quasi sempre sposato e lei quasi sempre nubile. Tuttavia è improbabile. Ora, nel 1988, non disponiamo di statistiche aggiornate. Però recenti sondaggi, per quanto nei limiti di servizi giornalistici, ribadiscono i numeri riportati da Caletti nel 1976, non escludendo, nelle zone industriali del Settentrione, picchi più elevati. Comunque, volendo essere prudenti e prendendo per buona la percentuale del 35 per cento, non si può dire che l'infedeltà sia un ramo marginale. E poiché nell'ultimo decennio la quantità dei divorzi e delle separazioni non ha subito sostanziali variazioni, significa che permane - inossidabile - l'usanza di ritenere l'amante una specie di seconda casa, da frequentarsi il più possibile e con comodo, ma di rincalzo alla prima. Perché? A parere dell'avvocato Cesare Rimini, principe degli specialisti e nel cui studio di Milano si sono celebrate migliaia di rotture, riconciliazioni e nuove unioni, chi pure sia stufo del legame giuridico è restio a troncarlo, e preferisce avere il piede in due scarpe, poiché conviene: una moglie e un'amica costano meno di due mogli. Pochi hanno i mezzi per fare e disfare famiglie. Un impiegato che abbia lo stipendio di un milione e mezzo al mese di solito è sposato con un'impiegata che percepisce altrettanto. E con tre milioni si campa discretamente. Se invece se ne va con un'altra, deve detrarre gli alimenti per i figli e rimane in bolletta. Chi glielo fa fare? Meglio barcamenarsi tra il letto istituzionale e quello di fortuna che, oltretutto, qualora si usuri si può rimpiazzare. Poiché i poveri e i non abbienti, per essere gentili, sono milioni e i ricchi appena qualche migliaio, ecco spiegato come mai il panorama abbonda di persone che non rinunciano all'amante gratis né alla moglie, che è più oneroso scaricare che conservare. Errata poi la convinzione che la comparsa di un terzo soggetto sia alla base della crisi della coppia. Semmai è il deterioramento dell'unione legale che accende nei coniugi il desiderio di evadere. Il colpo di fulmine è una favola, e folgora soltanto chi ha una voglia matta di ardere. Intendiamoci, non manca il tipo predisposto all'incenerimento. O quello, per esempio l'egocentrico, che ha bisogno di molte fidanzate quale sostitutivo di una platea plaudente da cui trarre la conferma che piace e, quindi, la sicurezza di valere. Ma i don Giovanni costituiscono una categoria che meriterebbe non un articolo, bensì una biblioteca: e davanti a loro ci arrendiamo per inadeguatezza. Essi sono prodigiosi: fingono di infiammarsi e provocano ustioni serie negli altri, senza nemmeno scottarsi. Sono collezionisti stabili. E non vanno confusi con coloro che cambiano donna ogni anno, ma le sono fedelissimi fino al termine del breve idillio, che coincide con l'inizio di un ulteriore innamoramento. Sia i primi sia i secondi tuttavia formano una minoranza. L'adultero per eccellenza è un ottimista che invecchiando diventa pessimista; che si illude di aver trovato nell'amante l'ideale compagna con la quale dividere emozioni inalienabili; poi, nella consumazione dei giorni gli uni simili agli altri, si accorge che anche lei è come la moglie e come tale va compatita, una persona che si è appannata nella routine, non dà più alcun brivido, spesso scoccia, è un fardello che si aggiunge a un altro fardello. Ma alla quale ormai egli vuol bene. E non si sente di dirle addio: per pigrizia, per evitare scenate, per non soffrire, perché è più facile amministrare un garbuglio piuttosto che affrontare un chiarimento, perché è meno faticoso sopportare che decidere. E l'adultero cammina ad occhi chiusi su un sentiero in salita e lastricato di bugie. Bugie tranquillanti alla moglie e consolatorie all'amante in un intreccio che lo chiude in un sacco soffocante dal quale è ogni dì più arduo liberarsi. Finché scoppia il bubbone. Se scoppia. Nel qual caso che cosa succede? Lo vedremo nel prossimo articolo.

·        Lo Scambismo.

DAGONEWS il 21 dicembre 2019. La genesi fu un rapporto a tre con la propria fidanzata. Poi, con il passare del tempo, la voglia di fare sesso con altre persone diventò incontrollabile. Uno scambista, che per ragioni di privacy ha preferito non rivelare il nome, racconta i segreti della propria vita sessuale e i vantaggi di vivere con una persona che condivide la passione per notti orgiastiche all’interno della coppia. «Si tratta di avere a che fare con persone che non hanno problemi con il sesso - dice - Io non sono adatto al matrimonio e, quando sento i miei amici che parlano di figli o relazioni monogamiche, la mia mente va subito alla mia piccola perversione. Fare scambi di coppia è ormai una parte fondamentale della mia vita». Tutto iniziò poco dopo i 20 anni, quando decise di avere un rapporto a tre con la sua fidanzata dell’epoca. Dopo quella notte la concezione della sua vita sessuale cambiò per sempre: cominciò a partecipare a feste a luci rosse dove altre coppie erano disposte a scambi. «Da quel momento ho iniziato a frequentare club per scambisti dove 50 coppie volevano passare una notte orgiastica - racconta - Un Capodanno mi ritrovai in una villa su tre piani dove le persone nude facevano sesso a ogni angolo». Il desiderio di incontrare nuove coppie, racconta, nasce dall’idea che sesso e amore siano due cose separate: «Posso fare sesso con qualcuno, ma amare un’altra persona. È da pazzi pensare che il proprio partner non guardi o non abbia fantasie erotiche su altre persone - conclude - Essere scambisti vuol dire essere promiscui senza dover chiedere alcun permesso. Vuol dire avere un rapporto forte, vuol dire essere felici di vedere il proprio partner mentre gode del sesso con un'altra persona».

·        Sadomaso e Trasgressioni.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2020. Lo chiamano il bondage giapponese, anche se questa pratica non ha nulla a che vedere con l' umiliazione, la dominazione, la sottomissione, la violenza o la perversione. Stiamo parlando dello Shibari, espressione artistica che utilizza le corde per legare il corpo femminile o maschile, in maniera scultorea ed erotica. Ma quali sono i motivi che spingono sempre più coppie a provarlo? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Rosamaria Spina, sessuologa e psicologa di Roma: «In questo gioco l' eccitazione è data dalla tensione mentale che si crea, dal sapere di dipendere da un' altra persona (o sapere che qualcuno dipende da te) e, infine, dalla stimolazione fisica causata dalla pressione esercitata dai nodi e dalle corde tese sul corpo. Alcune coppie fanno ricorso a questa pratica anche nell' ottica di ravvivare la routine del proprio rapporto, ma quando lo si fa con questo fine, bisogna fare molta attenzione e distinguere il piano della relazione da quello sessuale: coppie in difficoltà, che non hanno più piena fiducia nel loro rapporto o particolarmente conflittuali, rischiano di non avere il giusto grado di sintonizzazione emotiva e mentale per calarsi a pieno in ciò che lo Shibari richiede e rischiano di fare danni anche seri, ma se la relazione funziona bene e le difficolta sono solo nella sfera sessuale, allora potrebbero trarre beneficio». Un gioco erotico sia attivo sia passivo non esente da rischi anche seri «Purtroppo è vero!», risponde la dottoressa Spina. «La cronaca più volte ci ha rimandato notizie di uomini e donne morti soffocati mentre praticavano tale gioco erotico, o che sono rimasti feriti. Questo ci dice che non è pratica erotica per tutti. Il rischio, inoltre, è legato anche a chi pensa che si tratti di una forma di "punizione" per tenere il partner sotto il proprio controllo, senza la sua volontà. Queste dinamiche non solo indicano il non aver capito nulla sul vero significato dello Shibari, ma possono nascondere anche personalità antisociali, violente». È possibile raggiungere l' orgasmo con questa pratica? «Non è scontato che si arrivi all' orgasmo, né che l' orgasmo sia l' obiettivo finale per due motivi:

1. la cultura "orgasmocentrica" è più occidentale che orientale. Nello Shibari ciò che spesso è centrale è quell' aspetto di mentalismo che si crea con il partner, dove tutto si gioca sulla dinamica di potere e cessione di potere. La combinazione dello Shibari con altre tecniche mirate al raggiungimento dell' orgasmo appartiene a un' evoluzione successiva ed è quella che più frequentemente lo fa inserire nel BDSM propriamente detto. Ecco allora che si possono avere giochi con la cera o con l' acqua o l' uso di frustini, mollette e morsetti.

2. Se l' attivazione mentale è una componente fondamentale per il raggiungimento del piacere, soprattutto femminile, resta vero che senza un' adeguata stimolazione fisica le possibilità si assottigliano ancor di più. Si può quindi dire che raggiungere l' orgasmo con una forte attivazione mentale è opzione possibile ma non scontata. Se questa è l' aspettativa, si rischia di rimanere delusi».

Barbara Costa per Dagospia il 12 maggio 2020.

Ayzad, tu in Italia sei tra i massimi esperti di BDSM, ovvero di pratiche Bondage, Dominazione, Sottomissione e Sadomaso. Sessualità insolite che spieghi tramite libri, seminari e docenze specialistiche. Il tuo sito Ayzad.com, appena rinnovato, è tra i 5 migliori sex blog al mondo. Gli amanti del BDSM, come se la sono (s)passata in quarantena?

«Non posso certo rispondere a nome di tutti, ma ho l’impressione che chi già viveva anche il lato diciamo “sociale” del BDSM, abbia beneficiato di una bella rete di amicizie, che gli ha fornito supporto anche online. I londinesi del club “Killing Kittens” hanno trasferito le loro orge su Zoom, trasformandole in digital sex party».

Con i giochi BDSM si può fare lo stesso e godere altrettanto?

«Come in ogni forma di erotismo, c’è nel BDSM una parte più cerebrale che si presta a essere giocata anche a distanza… ma pensare a sex party virtuali… mi mette il magone!»

Anche a me…

«Anche perché i ritrovi online “di gruppo” sono quasi tutti normali video-aperitivi – o anzi: “munch”, come si chiamano in gergo. E sono semplicemente incontri fra appassionati in cui si chiacchiera e socializza senza far nulla di più trasgressivo di un comune happy hour, proprio per consentire a chiunque di avvicinarsi all’ambiente senza preoccupazioni».

A Milano c’è un locale, il “Sadistique”, dove tu ogni prima domenica del mese organizzi party e incontri a tema BDSM aperti a tutti…

«Sì, e tutto è fermo dal 24 febbraio, secondo le disposizioni governative».

Ma riprenderanno…

«Sicuro! Quel che non si sa è esattamente quando. Riprenderà anche “Freedomina”, evento dedicato alle dominatrici, che al momento si è trasformato in una serie di dirette su Facebook. L’ultimo tema è stato: revenge porn e la vita delle mistress».

Saranno party in guanti e mascherine chirurgiche?

«No, un party erotico con i DPI sarebbe una buffonata improponibile, dai!»

Non so se hai sentito, ma in Italia alcune attrici porno e spogliarelliste hanno lamentato a Conte che pure loro sono lavoratori a partita IVA, sicché hanno diritto ai 600 euro.

«Non sapevo ci fossero state discriminazioni: ora sono curioso di vedere come siano state giustificate!»

Chi si esibisce in campo BDSM, anche se come secondo lavoro, come sta messo?

«In Italia le persone che fanno del BDSM un lavoro si contano sulle dita di una mano: anche per me è solo un’attività secondaria rispetto alla scrittura e al coaching, cioè aiutare le persone a risolvere i loro problemi con le sessualità alternative. In generale, chiunque operi più o meno direttamente nel settore del sesso sta accusando perdite gravissime dovute al lockdown, anche perché spesso sono lavoratori totalmente autonomi per cui non è prevista alcuna forma di sussidio. L’eccezione sono le camgirl, che invece hanno visto esplodere il parco clienti».

Da maestro BDSM, spiegaci: è vero che con ogni tipo di feticismo ci nasci, e esso cresce e inizia a farsi sentire con la pubertà, e matura con la persona insieme ad ogni altro aspetto della sua personalità?

«Le preferenze sessuali si definiscono per tutti con gli stimoli associati alle preferenze piacevoli, soprattutto le prime. Se, per dire, mentre maturavi giocavi spesso al dottore è facile che il tuo immaginario erotico abbia anche quel tipo di ambientazione».

È giusto quando dico che un feticismo non è mai una patologia ma diventa un problema e un problema anche serio se un adulto il suo lo reprime, e non se lo vive?

«Per la medicina le parafilie – cioè eccitarsi per stimoli “anomali” – sono un problema solo quando diventano disturbi parafilici, cioè quando creano disagio alla persona o a chi le sta vicino. Senza dubbio cercare di reprimere le proprie passioni non può che aumentare quel tipo di disagio, quindi consiglierei di esplorare serenamente la propria sessualità mantenendosi sempre nell’ambito della sicurezza e del consenso».

Una persona BDSM può amare una persona non BDSM? E come fa a stabilirci una relazione per entrambi appagante?

«Il gusto per dominazione e sottomissione erotiche è una preferenza come tante. Allora è un po’ come chiedere se una persona a cui piace il sesso orale possa amarne una che lo odia…»

…la ama, ma gli mette le corna “orali”!

«Più seriamente, dipende da quanto è importante per te questa preferenza, e da quanto puoi essere sereno accettando dei compromessi. Io suggerisco di non accontentarsi e usare i tanti strumenti disponibili per trovare un partner davvero ideale, ma naturalmente ogni relazione fa storia a sé».

È vero che i BDSM sono 4 milioni in Italia? Se questa è la stima ufficiale, come l'hai censita? Calcolando il sommerso dei vergognosi, la stima può arrivare a…

«Il calcolo funziona così: prendi gli studi quantitativi sul tema, fa’ una media delle diffusioni rilevate e scoprirai che una persona su sei ha fantasie BDSM e una su dieci le mette in pratica. Poi prendi i dati ISTAT sugli italiani sessualmente attivi, applichi quell’uno su dieci al numero che hai trovato e scopri… che a oggi nel nostro paese ci sono oltre 4,5 milioni di praticanti. E ora ti sfido a dire che si tratti di un fenomeno di nicchia».

E chi lo dice! Però non immaginavo foste così tanti. Ayzad, mi aiuti a far passare il feticismo padrone-schiava per quello che è, una scelta libera e consensuale, dove a stabilire i limiti è il dominato tramite safeword, e che tale sessualità è una sessualità normale tra le altre?

«Posso fare di più, e confermarti che qualsiasi forma di sessualità è accettabilissima, purché come dicevamo prima rientri nell’ambito del “sano, sicuro e consensuale”. Anzi, un criterio diagnostico per definire una sessualità sana è proprio il fatto che sia aperta a variare e sperimentare, senza incancrenirsi su situazioni sempre uguali. Usare le safeword, cioè una parola o un gesto prima concordato per fermare il gioco in qualsiasi momento, è un’idea nata proprio nel BDSM che ormai si suggerisce di usare anche in ogni tipo di relazione».

Dimmi una verità sul BDSM che nell'informazione proprio non passa.

«Dopo tanti anni di pratica e studio, a me piace dire che «l’essenza del BDSM è l’arte di rendersi vulnerabili»: più di ogni abbigliamento, attrezzo o pratica strana, consiste nell’imparare ad accettarsi, mettersi in discussione e scoprire cosa c’è dietro quelli che si ritenevano essere i propri limiti. È qualcosa che vale per entrambi i ruoli e che dà tanti benefici anche fuori dalla camera da letto, credimi».

E qual è l'ipocrisia sul BDSM che più ti fa arrabbiare?

«L’ostinazione a considerarla una stranezza da liquidare con riprovazione o sarcasmo. La realtà, come abbiamo visto, è che viene praticato da un sacco di persone che evidentemente non possono essere tutte così ridicole o immorali. Ma del resto fino al secolo scorso c’era lo stesso atteggiamento nei confronti del sesso in generale, quindi ho buone speranze per il futuro».

Tu hai detto che le varie Sfumature libresche e passate al cinema sono delle banalità stile Harmony. Me lo spieghi meglio?

«Non lo dico io, ma la loro autrice quando l’ho intervistata. Lei è la prima a essersi stupita di tanto successo per quello che aveva concepito come un romanzetto rosa “solo un po’ più piccante”. 50 Sfumature è una classica fantasia di fuga in cui una protagonista un po’ sfigata viene scelta dal Principe Azzurro per diventare principessa. A me non è piaciuta ma non c’è niente di male. Il problema arriva solo quando il pubblico non si capacita che sia pura fiction – esattamente come è un problema se chi guarda porno pensa che si tratti di tutorial».

È però vero che il successo di questa letteratura e cinematografia ha portato molte persone ad avvicinarsi al BDSM e questo ha riempito i pronto soccorso di emergenze?

«Appunto. Il BDSM non è un babau, ma se si chiama “sesso estremo” un motivo ci sarà pure! Come tutte le attività estreme va affrontato consapevolmente, sapendo cosa fare e come. I miei libri li scrivo apposta per spiegare come non far danni. Pensa che, ogni volta che in tv passa un film con Mr. Grey, per una settimana le accettazioni per incidenti sessuali nei pronto soccorso aumentano del 20 per cento!»

Così tanto?!? Quali le più assurde?

«Capita di tutto: da problemi causati da bondage improvvisato al cretino che sloga a pugni la mandibola della fidanzata «perché mi aveva chiesto di essere cattivo»».

Adesso diventi il mio coach personale, perché io c’ho i miei dubbi, e mi serve chiarezza. Se io, che non sono BDSM, e però a letto faccio giochi quali le mollette sui capezzoli, i cubetti di ghiaccio sulla pelle, mi faccio legare i polsi, sto facendo comunque BDSM? Pure se mi faccio schiaffeggiare il culo?

«Questi giochi non sono una questione di intensità. Volendo si possono fare cose davvero estreme, ma il punto è trovare cos’è che emoziona voi due e vi fa sentire una cessione del controllo: magari vi basta far sesso bendati, e non c’è nulla di male. L’unico elemento fisso è che uno dei partner si renda ricettivo agli stimoli decisi dall’altro, e che questo costruisca un percorso di sensazioni ed emozioni strutturato».

Altro dubbio personale: se c'ho voglie pissing prima mai avute, significa che finora ero fetish a mia insaputa, o che c'ho il feticismo ritardatario?

«Ah ah ah! No, vuole solo dire che sei viva e curiosa di nuove esperienze. Qualcuna ti piacerà ed entrerà a far parte del tuo repertorio erotico, qualcun’altra no e altre ancora magari vorrai approfondirle in altri modi. È tutto perfettamente ok».

Meno male!

«Però guarda che “fetish” e “feticismo” non vogliono dire quel che pensi tu».

No? E cosa vogliono dire allora?

«Il fetish è l’estetica della seduzione portata agli estremi. Per esempio: tacchi alti che diventano altissimi, vestiti aderenti che diventano una seconda pelle, eccetera. I feticismi invece sono ossessioni erotiche per qualcosa – ma ossessioni vere, di quelle che non ti lasciano vivere serenamente. Ormai abbiamo tutti l’abitudine di chiamare così comuni preferenze sessuali… ma si tratta appunto (e fortunatamente) solo di preferenze, niente più».

Ayzad, ma tu guardi il porno?

«Il porno lo guardo esattamente come chiunque altro. Quando io lo chiedo tanti mi rispondono di no…E allora come fanno certi siti ad avere milioni di visite al giorno?»

Qual è il genere BDSM fatto meglio? E quello fatto peggio?

«Per il mestiere che faccio, più che trovare eccitante il porno, mi incuriosisce per tutto ciò che ci gira attorno. Facile per esempio che mi entusiasmi per i risvolti sociologici di certi video giapponesi davvero inesplicabili, mentre non sopporto tante cose raffazzonate o inutilmente violente. L’industria della pornografia come la si intendeva è morta da un pezzo, e in un certo senso è un bene. Tolto l’incentivo economico, resta solo il piacere di esibirsi e di guardare per il gusto di farlo – che mi sembra un approccio molto più sano».

C'è qualche star del passato che era BDSM e non lo sa nessuno? E qualche politico?

«Parecchi, direi. Tempo fa ho scritto anche un romanzo noir intitolato “Peccati Originali” la cui trama è piena di indizi per riconoscerne un tot».

Ma quanti sono? Una stima…

«Uno su 10, cara… uno su 10!»

Fuori i nomi! Almeno solo le iniziali!

«…»

DAGONEWS il 20 febbraio 2020. Una donna racconta di poter vivere la sua vita da “adult baby” grazie a un folto numero di follower che paga per vederla con il pannolino addosso e mentre succhia un cuccio. Paigey una 25enne americana offre un servizio di abbonamento online che si rivolge ai membri della comunità degli adult baby (ABDL): ha 426 abbonati paganti che la aiutano a finanziare le spese costose del suo folle stile di vita, inclusi i 300 dollari in pannolini. Paigey inizia la sua giornata svegliandosi in una culla e, dopo il cambio del pannolino mattutino, trascorre il suo tempo giocando con i giocattoli e creando contenuti online per i suoi follower: «Quando sono diventata maggiorenne ho iniziato a cercare online se ci fosse altra gente come me attratta da questo stile di vita e ho scoperto che c’è una comunità di adult baby. Da maggio 2018 il mio obiettivo è sempre stato quello di normalizzare questo stile di vita. Ho creato un servizio in abbonamento per sostenere le spese e incoraggiare chi vorrebbe essere una adult baby a non vergognarsi». Nonostante le critiche non sembra intenzionata a voler fare un passo indietro: «Alcune persone mi chiedono se sono normale, se recito o è veramente la vita che voglio. Altri mettono in discussione la mia intelligenza. Ma io non rispondo ai commenti negativi. Certo se vado in pubblico magari mi vesto da bambina, ma non mi metto a succhiare un ciuccio». Paigey ha anche insistito sul fatto che la sua vita da “adult baby” non le ha creato problemi nelle sue relazioni: «Sono fidanzata da cinque anni. Il mio compagno non ha il mio stesso stile di vita, ma mi sostiene».

Alessio Capradossi per ilmessaggero.it il 20 gennaio 2020. Le donne preferiscono dormire con il cane invece che con il partner. A dirlo è lo studio condotto dal Canisius College di Buffalo, pubblicato sulla rivista specializzata nel rapporto tra persone e animali Anthrozoös, secondo cui la maggior parte delle americane si sente più tranquilla nel dividere il letto con il proprio cucciolo. Al di là di gusti e abitudini, è indubbio che l'attenzione verso felini e canidi sia incrementata molto nel corso degli ultimi anni, grazie anche a una serie di strumenti che puntano sulla tecnologia. L'ultima trovata sono le playlist personalizzate per gli animali che ha lanciato nei giorni scorsi Spotify; il servizio per l'ascolto di musica in streaming on demand ha ideato Spotify Pets, che confeziona un elenco di trenta brani collegati alla personalità di cane, gatto, uccello, pesciolino o iguana. Pianificato dopo aver scoperto che più di due inglesi su tre suonano o fanno ascoltare musica al proprio animale, la novità mira ad alleviare lo stress e donare attimi di felicità quando i padroni sono fuori casa. Per creare la playlist del proprio animaletto è sufficiente selezionare il tipo, inserire notizie riguardo il carattere (per esempio se è energico o sedentario, amichevole o timido), aggiungere la sua foto e scorrere la lista delle canzoni e delle storie recitate da attori, selezionate dall'algoritmo del servizio, influenzato a sua volta dalle conoscenze tecniche di David Teie, specialista della musica per animali (già autore di due album dedicati ai gatti). L'obiettivo primario della playlist è offrire un elemento di compagnia agli animali che restano soli in casa, con l'ottica di stimolarne il movimento e sfuggire alla minaccia obesità. Le statistiche dell'Association for Pet Obesity Prevention, associazione per la prevenzione dell'obesità degli animali domestici, indicano che il 60% dei gatti e il 56% dei cani in Usa sono sovrappeso. Un buona pratica è mantenerli in movimento, giocandoci insieme oppure sfruttando i dispositivi hi-tech, come il Pet Fitness Robot. Realizzato in policarbonato e silicone, pesante 300 grammi e capace di capire quando sul gatto è nelle vicinanze grazie ai sensori a infrarossi per la distanza, appena scatta il riconoscimento, il robot inizia a muoversi in varie direzioni catturando l'attenzione dell'animale, premiato poi con una mini porzione di cibo, precariato dal proprietario. In grado di evitare gli ostacoli e resistere agli urti, ha un'autonomia di dieci ore, si può controllare via app e online si trova a 99 dollari. Utile si rivela pure Gomiball, pallina impermeabile il cui movimento si può programmare; funziona su ogni tipo di superficie e si adatta al movimento dell'animale, apprendendo nel tempo le sue abitudini. Per rimediare alla distanza obbligata, una videocamera è la soluzione per sbirciare come se la passino le bestiole. La più nota del lotto è Furbo, che all'occhio elettronico unisce il rilascio dei croccantini (caricati in precedenza), che può essere automatico e periodico, oppure attivato con la voce del padrone via app (sul web 165 euro). Per spendere meno, difficile trovare di meglio della Victure 1080P, telecamera di sorveglianza che non offre croccantini ma è ideale per tenere d'occhio casa e animali. Oltre e più del controllo, degli amici a quattro zampe ci sta a cuore la loro salute, e con i giusti dispositivi si possono ottenere dati per un primo intervento. La startup calabrese Kaliot ha ideato Smartosso, un osso giocattolo che integra GPS e sensori per misurare il pH della saliva per verificare le condizione del cane, mentre per i felini c'è LuluPet, lettiera smart che monitora lo stato di salute analizzando colore, forma e consistenza delle deiezioni dei gatti (149 dollari). Circoscritto alla Cina, per ora, è invece il test genetico lanciato da Xiaomi che, mediante l'analisi di un campione di saliva, permette di scoprire le allergie e la causa delle malattie degli animali.

Barbara Costa per Dagospia il 26 dicembre 2019. E se Babbo Natale fosse senza barba, ma bionda e con occhi blu? E se fosse trans? Tatuata, piercing all’ombelico, tette deliziose, e "regalo" tra le gambe! C’hai mai pensato? Cambierebbe niente, cambierebbe tutto, scommetto che la noia, l’assillo, ogni rottura natalizia hanno già preso tutt’altro colore, sapore, prospettiva: non lo sai che su Pornhub c’è Babbo Natale Trans che se la sta spassando con due figone? Natale non ti starà più sulle palle appena avrai scoperto questo video, ti premerà nel sesso ma per svuotartelo, e se non hai mai cliccato sulla sezione "transbian", è arrivata l’occasione per farlo. Ce lo insegnano da piccoli, le Feste vanno onorate, e che ognuno sia libero di santificarle come gli pare: se hai fatto il tuo dovere di cuoco, baciato i parenti, ascoltato le poesie, ti meriti un regalo tutto per te, piccantissimo, "Squirting & Slippery for Christmas", dove il sesso si fa in tre, due donne e una trans, perché qui il porno è allo stesso tempo lesbo e trans. Transbian Santa Claus!, in threesome su un divano, ma guarda, c’è pure l’albero, le lucine, i doni, lo sfondo perfetto per fatali ammucchiate anali. Il sesso trans è esclusivo piacere maschile? Chi lo dice ti dice una bugia, è di poco tempo fa la succosa notizia che un gran numero di donne ufficialmente etero cercano e pagano prostitute trans per farsele e farsi fare. A due, a tre, tutto quel che immagini e soprattutto non, te lo dimostrano Adriana Chechik, Leigh Raven e la diva tra le dive, Aubrey Kate, pornostar trans. Mamma mia che tedio il Natale, come fare a superarlo anche quest’anno, si può se ti infili uno strap-on e ci sodomizzi Aubrey, te la fai con foga, te la fai come se la farebbe un uomo, due uomini: è Natale, almeno per le Feste, la vogliamo finire con la lagna del porno sessista, maschilista? È una gran menzogna, e questo video te lo prova: qui ci sono due donne, due innegabili femmine, non meno maschie di un maschio vero nel far godere una trans, e guarda come ci danno sotto coi seni, le cosce iper femminili di Aubrey. Allora, dimmi: chi è più maschia, meno donna, o più donna, tra le tre? Chi più arrapante? Non la straziano al modo di due uomini, di una donna tra due uomini, in quei threesome che più sono rudi più sono cercati, quelli che, per carità, mai confideresti di vedere, sotto le sante Feste in famiglia, poi! E però, a un certo punto, che si fa, ci si apparta, con lo smartphone in una mano, e quell’altra, dove la metti…? Pure a Natale, specie a Natale, c’è tanto bisogno di rilassarsi, sfogare i porno-viziati che siamo! Sì o no? Quanto sono vicina alla verità, alla tua realtà? Io dico che queste due si scopano Aubrey Kate come e più di un maschione. O trovi che vi sia meno durezza, meno vigore? Io dico che sono due donne, che fanno le donne, ma anche gli uomini, e con una trans che più donna non potrebbe essere. Il sesso è sfumatura. A letto, va rispettato il partner, te stesso, è indubbio, ma gli altri confini? Tu non sgarri mai? Non ti incuriosisce, non lo fai? Mah! Non so se dopo questo video rimarrai ben saldo sulle tue convinzioni. Sai, questo è un porno stuzzicante da guardare in due. Un regalo di Natale tentatore. Per masturbarsi, insieme, sperimentarsi, magari aprirsi a diverse, eccitanti scopate future. Aubrey Kate, la sua bellezza conturbante, non passa inosservata a chi è amante del "ts-porn", ovvero del porno trans. Aubrey, 29 anni, californiana, ne è tra le regine, e ti accenderà ancora di più sapere che la ragazza è lesbo-trans soltanto in video: leccornie simili le riserva solo a te che la guardi, in privato Aubrey cerca esclusivamente uomini eterosex, attivi e passivi. Ad Aubrey non piacciono le donne perché del sesso adora lo sperma, e giocarci, sentirlo, gustarlo. Quanto c’hai ragione, ragazza! Sono prelibati piaceri femminili che sottoscrivo. Sotto le Feste il web scoppia di porno-natalizi, e però, per chi ha appetito transbian, ed è goloso di Aubrey Kate, consiglio "Ts Pussy Hunters", la scena sadomaso da lei girata con Lily Lane: è sempre Natale, si è sempre su un divano, e si è in due, una trans e una ragazza. Come finirà? Io non ti porno-spoilero niente…

Gareth May per The Debrief il 25 dicembre 2019. Una ricerca del 2018 condotta dal sito di appuntamenti “BeNaughty.com”, rivelò che oltre il 20% delle utenti trovava molto sexy Babbo Natale: la barba, il vestito rosso, la natura amichevole del personaggio, formavano un cocktail irresistibile. Allora ho sondato fra amiche particolarmente porche per capire se esistesse una sorta di “Santafilia” nella lista del fetish, e ho scoperto che se anche non si usa questo preciso termine, la fantasia c’è, soprattutto quella di trombare Babbo Natale dopo essersi sedute sulle sue ginocchia in un centro commerciale. Dalla ricerca su “Fetlife”, il social della comunità sadomaso, si apprende che sono molti gli “eventi” dedicati a Babbo Natale, circa 300 nel mondo. Il gruppo fetish più popolare è quello riceve “lo spanking” da Santa Claus. Proprio qualche giorno fa - si legge sulla pagina - si è tenuta una festa a tema: il proprietario di casa era vestito da Babbo Natale, gli ospiti si sedevano a turno sulle sue ginocchia, sceglievano un regalo dal sacco e potevano pescare degli attrezzi punitivi, il che significava che erano stati cattivi e andavano corretti. Molti adorano essere puniti da una persona più anziana. Su “Craigslist” sono in tanti, uomini e donne, a cercare un sosia di Babbo Natale da incontrare sotto le lenzuola, ovviamente meno vecchio e con meno pancia di quello “vero”. Il web è zeppo di confessioni anonime e descrizioni dettagliate di fantasie su di lui. Esiste anche una letteratura erotica dedicata e illustrazioni pornografiche, un fetish soprattutto stagionale con tanto di “pornamenti”, ornamenti porno da mettere sull’albero. Alcuni esperti di sesso spiegano così questa fantasia: Babbo Natale domina, è colui che decide punizione e ricompensa. Sin da piccoli ci sentiamo osservati da lui, sa se siamo stati bravi o meno, e, anche quando siamo stati bravi, temiamo di essere finiti nella lista dei cattivi. Questa figura è la fusione perfetta di autorità maschile e comprensione, che alla fine conforta anche chi ha sbagliato. E’ più comune di quanto si pensi, sessualizzare i sentimenti provati per questa figura che rappresenta la gioia, l’eccitazione infantile davanti al mistero.

·        Lo famo strano…

DAGONEWS il 20 maggio 2020. Se c'è una cosa che è universalmente condivisa sulla sessualità umana è questa: le cose che sono un tabù ci eccitano di più. Questo spiega in qualche modo perché alcuni rapporti sessuali, in passato considerati "anormali", si siano fatti strada nella cultura sessuale tradizionale. Ad analizzare quattro tendenze sempre più popolari è la sexperta Tracey Cox che rivela quali sono i desideri segreti di donne e uomini in camera da letto.

Le donne guardano il porno gay. Secondo Pornhub, uno dei più grandi siti porno del mondo, il porno gay maschile è la seconda categoria più vista dalle donne che visitano il sito. E la riposta al perché è ovvia: gli uomini nel porno gay sono di solito molto più attraenti degli uomini nel porno eterosessuale, dove l'attenzione è rivolta alla donna, che è l’oggetto del desiderio. La seconda ragione è che gli uomini non sembrano recitare: a differenza del porno etero, sembra davvero che le persone coinvolte stiano godendo veramente.

Uomini che vogliono vedere la propria moglie fare sesso con qualcun altro. È una fantasia sempre più comune quella che si fa strada tra gli uomini eterosessuali, che si eccitano nel vedere la propria partner fare sesso con qualcun altro. Le ragioni sono diverse: c’è un elemento voyeuristico, l'infedeltà e il "proibito" che risulta così attraente a livello primordiale. Secondo altre teorie il piacere di pensare che il proprio partner sia irresistibile aumenta il proprio ego; in alternativa, c’è anche chi, seriamente preoccupato che la moglie lo stia tradendo,  prova ad affrontare la gelosia.

Avere una relazione romantica o sessuale con un oggetto al posto di una persona. Potrebbe essere il risultato di una società in cui il contatto umano è in netto calo a causa della tecnologia, mentre la sessualità diventa sempre più permeante. Ecco perché diverse persone sviluppano attaccamenti emotivi, sessuali o romantici nei confronti di oggetti inanimati. C’è chi si innamora o è attratto sessualmente da bambole, auto, alberi, recinzioni, giostre dei parchi di divertimento e così via. Non è un caso che stiano spopolando le bambole del sesso e vengano aperte delle case dove poter affittare questi oggetti del piacere che hanno sempre più sembianze umane. Questo tipo di sessualità tende ad attrarre persone timide e sole che hanno difficoltà a stabilire relazioni normali o che preferiscono relazioni unilaterali perché non tollerano critiche.

Feticisti dei piedi. Il feticismo dei piedi è ancora una delle forme più comuni di feticismo sessuale. Scarpe, calze, accessori per i piedi, l'odore dei piedi o il loro aspetto: un'adorazione che può assumere molte forme. E si organizzano anche delle feste in cui i feticisti possono succhiare le dita dei piedi, essere calpestati o essere "usati come tappeti".

DAGONEWS il 31 maggio 2020. L'industria tech del sesso vale 30 miliardi di dollari e cresce rapidamente. L'intelligenza artificiale e la tecnologia stanno cambiando il modo in cui gli uomini fanno sesso, ma ci sono nuove strade da esplorare, alcune delle quali veramente terrificanti. Un viaggio in quello che sarà il sesso del futuro con la sexeperta Tracey Cox tra trombate con avatar, orgasmi con sexrobot e porno 3D.

Sesso virtuale con una celebrità o con il tuo ex. Sei ossessionato da una celebrità o da personaggio pubblico irraggiungibile e vuoi fare sesso con loro? Ora puoi, senza mai incontrarli. Un gruppo di appassionati di grafica 3D sta creando e vendendo avatar di persone reali, famose e non famose, in modo che la gente possa realizzare le proprie fantasie sessuali. I risultati potrebbero non essere ancora realistici, ma presto lo saranno. Usando fotografie si può generare attraverso un algoritmo il volto di una persona, i grafici aggiungono corpi, genitali, lingue e qualsiasi altra cosa tu voglia per creare una somiglianza alla persona o al personaggio famoso che si desidera. Basterà poi trasportarlo nella realtà virtuale e il gioco è fatto. Ma quanto può essere spaventosa una cosa del genere? Ci saranno ex ossessionati che faranno sesso con il tuo avatar a vita usando solo una foto. E quell’immagine può essere manipolata e usata come si vuole.  La tecnologia sta avanzando così rapidamente che non passerà molto tempo prima che qualsiasi persona esperta di computer sarà in grado di farsi il proprio avatar da solo con conseguenze che possono essere disastrose.

Porno 3D personalizzato. I programmi che generano facce 3D non sono nuovi: vengono utilizzati nei giochi e nei film. Anche il porno 3D è già ampiamente utilizzato e relativamente facile da personalizzare. In futuro, gli utenti potranno modificare parti del corpo del modello e creare vagine dall'aspetto realistico. Si stima che entro il 2025, il porno sarà il terzo più grande settore di realtà virtuale dopo i videogiochi e la NFL.

Orgasmi con un sexbot. Dopo la confusione con gli avatar sessuali, i robot sessuali,  che prima ci spaventavano a morte, sembrano relativamente innocui. Per molti probabilmente si tratterà dei compagni di trombate del futuro. Quasi la metà di tutti gli americani crede che fare sesso con un robot sarà una pratica comune entro 50 anni. In effetti, si ipotizza che entro il 2050, il sesso umano-robot sarà più comune del sesso umano-umano. Buone notizie per le persone sole che hanno difficoltà ad avere relazioni sessuali e buone notizie per coppie annoiate che vogliono un tocco di brio senza le ricadute di invitare un altro essere umano nel proprio letto. Il proprio compagno non può scappare con una bambola che non può rimanere incinta e non trasmette malattie sessuali. E chissà da qui a 50 anni quanto saranno realistiche. Al momento sono soprattutto indirizzate al mercato maschile. Una visione miope visto che sono soprattutto le donne che si divertono con i sex toys e sono più aperte a sperimentare in questo campo.

Eros e tecnologia. Il sesso con gli androidi è un sogno maschilista. I robot sono un’ossessione erotica maschile. E i paradisi cibernetici la strada di un neoanimismo digitale. Il filosofo tedesco Julian Nida-Rümelin riflette sui falsi miti e sulle vere frontiere dell’intelligenza artificiale. Stefano Vastano il 30 gennaio 2020 su L'espresso. IA, intelligenza artificiale. Se chiediamo ai registi di Hollywood è chiaro cosa significhino quelle due lettere. Significano il sogno di robot - molto spesso dal volto e dal corpo femminile - dotati di un’intelligenza sconfinata e di un’empatia sempre più (simile) a quella umana. «Per molti teorici del digitale, in effetti», inizia a spiegare il filosofo Julian Nida-Rümelin, «il futuro sarà segnato da una fusione totale di macchine e uomo, da un’era transumana in cui i robot saranno l’amico più affidabile dell’umanità». Un sogno, un’utopia o un assurdo delirio? « Più che altro un enorme fraintendimento delle potenzialità della nuova rivoluzione digitale», precisa il noto pensatore tedesco. Che nel suo nuovo libro “Umanesimo digitale”, pubblicato in Italia da FrancoAngeli, invita a fare i conti, dal punto di vista filosofico, con la realtà dell’intelligenza artificiale. E con la necessità di un «nuovo umanesimo per la sfida più importante del 21° secolo», consiglia Nida-Rümelin, docente di filosofia all’università di Monaco.

Partiamo proprio dal titolo del libro: “Umanesimo digitale”. Non è un ossimoro?

«Sarebbe un ossimoro se lo intendessimo nel senso che il digitale sia di per sé un nuovo umanesimo. Ma non si può arrivare ad esagerare tanto il ruolo delle nuove tecnologie elettroniche, come invece alcuni filosofi della scienza e della tecnologia fanno. Ciò a cui dovremmo pensare è un nuovo umanesimo che si serva delle potenzialità digitali per rendere più vivibile il nostro mondo».

Non metterà in dubbio che ci troviamo in mezzo a una rivoluzione digitale?

«Non ci sono dubbi, le nuove tecnologie digitali sono una sfida antropologica e ci chiedono chi siamo, noi uomini. Quel che non sappiamo è dove ci conduca questo sviluppo globale. Le utopie proposte da vari guru del digitale, i sogni di una società trasparente, di un paradiso cibernetico in cui parliamo alla pari con i nostri amici robot, che al contempo sono i nostri fedeli lavoratori, non si è ancora avverata. E dubito fortemente che si avveri».

Il primo filosofo a pensare il robot come persona infida e freddamente crudele fu Cartesio, immaginando una intelligenza esterna che incarna il Dubbio radicale. La filosofia e l’era moderna cominciano da lì…

«A partire dalle “Meditazioni” cartesiane la filosofia moderna prova a darsi un nuovo fondamento razionale cercando di astrarre completamente da ogni intuizione, percezione o tradizione. Oggi sappiamo che questo fondamento iper-razionale costruito da Cartesio col dubbio e l’astrazione radicale è condannato a fallire. Ed è lo stesso identico errore che compiono oggi i nuovi esperti del digitale che provano a sostituire il linguaggio, la storia e l’intera conditio humana con una serie di algoritmi e un’etica di tipo esclusivamente utilitaristico. Questa è la grande deriva o fallacia iper-razionalistica del digitale».

Ammetterà che l’utopia sognata da alcuni informatici - ad esempio da Hans Moravec - di arrivare tramite l’intelligenza artificiale all’elisir di lunga vita, all’eternità del nostro corpo e cervello, ha il suo fascino…

«Con questa presunta scalata all’eternità grazie alle nuove biotecnologie i guru del digitale non fanno che riscaldare, sotto nuove vesti e parole, i vecchi miti delle religioni. Già Henry Ford, il padre dell’industria automobilistica, una volta lanciò la seguente profezia: «Con l’automobile giungerà la pace in Terra perché ognuno sarà più vicino all’altro». Cambiano gli strumenti e le tecniche, ma i modelli pseudo-profetici e i sogni degli utopisti restano eguali».

Se dai sogni veniamo alla realtà quotidiana non vediamo altro che gente in simbiosi col telefonino, che comunica solo via social e che riesce persino a fare sesso con immagini virtuali. Perché ci innamoriamo di strumenti e figure digitali?

«Non vorrei deluderla, ma credo che tutto questo eros per il digitale, insieme all’idea di un totale controllo della realtà tramite strumenti e modelli tecnologici, non sia tanto un bisogno umano, quanto una tipica ossessione prettamente maschile. Immaginarsi che prima o poi arriveremo a creare in laboratorio veri “attori digitali”, robot cioè dotati di intelligenza ed emotività che obbediscono ai nostri comandi, è forse il sogno più maschile che si possa immaginare».

Non a caso nel film “Metropolis”, anno 1927, di Fritz Lang, si chiama Maria l’androide costruito dal folle scienziato di turno.

«In tutti i blockbuster sfornati a Hollywood negli ultimi tempi, ad esempio “Ex Machina” di Alex Garland, l’intelligenza artificiale è per lo più incarnata da una fatale Eva, dotata di sex appeal, forte emozionalità e intelligenza illimitata. Un androide femminile che il suo padre-padrone crede di poter tenere a bada, per poi finire sistematicamente nella tragedia finale. Una variazione, al cinema, della fallacia razionalistica partita con Cartesio nel Seicento».

Con le tesi del saggio di Freud “Totem e Tabù” si potrebbe dire che le varie Eva e i paradisi digitali altro non sono che regressioni infantili o deliri di onnipotenza. Ma dal punto di vista religioso, non è che nell’era di Internet stiamo tornando a forme di animismo?

«Certo, con il digitale ci stiamo avvitando a nuove forme di animismo tecnologico. Parliamo con macchine e computer. Sogniamo robot integrali, dotati di anima e corpo: stiamo insomma animando i software. Come i romantici credevano in una Natura fatta di sogni e armonie universali, noi oggi sogniamo robot come “anime digitali” che ci servano e capiscano, o che almeno simulino di essere nostri amici».

La filosofia si chiama così perché, da Socrate in poi, scopre l’amicizia per il sapere. Ma un robot può mai essere un amico?

«L’umanesimo digitale che propongo è l’invito a non mistificare le cose. Per quanto sia intelligente, un robot non sarà mai un soggetto in grado di scegliere e addurre ragioni per un suo comportamento autonomo. Anche se oggi la mistificazione più grave è un’altra».

Quale?

«Dopo aver immaginato un’intelligenza artificiale dotata di autonomia ed empatia, arriviamo alla conclusione che anche noi umani non siamo che macchine che rispondono, secondo certi schemi, a dati impulsi. A una visione neoromantica dell’animismo digitale si associa quindi una abnorme riduzione meccanicistica dell’individuo. Una filosofia che fa certamente comodo ai grandi gruppi industriali che producono i nuovi strumenti digitali».

In effetti a Silicon Valley e dintorni si sta sviluppando non solo l’industria del digitale, ma anche un’ideologia del super-scienziato e della sua comunità di eletti tecnocrati.

«Gli ingegneri informatici non si sentono né si definiscono come umanisti, ma “trans-umanisti”. Per loro non esiste la differenza fra qualcosa come il genere umano e le macchine. Il loro sapere ci porterà a saltare oltre questa arcaica dicotomia e l’antiquato genere antropologico, per sbarcare in una sintesi di uomo-macchina che, nelle utopie neurofisiologiche già menzionate, superi persino i limiti della vecchiaia e sfoci nell’eternità».

In questa versione digitale del sapere e del futuro rientrano anche elementi tipici del puritanesimo americano?

«Certo, visto che la differenza essenziale fra il protestantesimo in versione luterana e quello americano, sta nel fatto che per un puritano il Paradiso e la liberazione della schiavitù umana non sono momenti dell’aldilà, ma forme raggiungibili in questa vita terrena. Il successo nel lavoro e dell’attività umana sono per il puritano segni del fatto che il Paradiso è qui in Terra, e che un gruppo di puri eletti può trasformare questa valle di lacrime in un paradiso globale. Il fascino di Steve Jobs stava nel farci toccare con mano come il digitale sia in realtà una specie di nuova religione».

Così nuova questa ideologia della tecnica non è. Anche Leibniz, inventore delle prime calcolatrici, era convinto che, di fronte a ogni disputa o conflitto, sarebbe bastato dire: “Sediamoci e calcoliamo!”. Qual è la differenza fra quella di Leibniz e la metafisica digitale di un Reid Hoffman, il cofondatore di Linkedin?

«L’utopia del digitale è la prosecuzione estrema, con altri mezzi tecnologici, delle posizioni matematico-razionalistiche di Cartesio e Leibniz. L’idea che i nostri argomenti e i motivi delle nostre azioni siano pianificabili, controllabili e soprattutto calcolabili attraverso una macchina un metodo e algoritmi è l’esatto opposto dell’umanesimo che conosciamo da Dante, Petrarca, Boccaccio e Leonardo da Vinci. Ma la nostra lingua non funziona secondo criteri matematici, ma rimanda a una reciproca comprensione fra parlanti e ad empatia per le intenzioni dell’altro. All’origine del nostro linguaggio ci sono quindi premesse pragmatiche e mimetiche e una dimensione etica, e non modelli algoritmici».

Una figura molto bella al riguardo è il super robot Hal in “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick. Un’intelligenza sempre in bilico fra deliri di onnipotenza e stupidità infantile…

«Una metafora perfetta, Hal, e un film meraviglioso questo di Kubrick per descrivere il momento in cui la razionalissima utopia della Macchina si rovescia in delirio infantile o in uno dei peggiori incubi dell’umanità: la nostra sottomissione a robot impazziti».

È la distopia più tetra che vediamo al meglio nel Deus ex Machina di “Matrix”, dove l’intelligenza artificiale è diventata l’unico Dio dell’universo.

«Più che distopia il mondo di “Matrix” è, dal punto di vista filosofico, mera assurdità. In un mondo totalmente digitale avremmo problemi enormi già con la percezione di noi stessi. Se l’Assoluto è un Deus ex Machina sarebbe impossibile concepire la volontà e responsabilità del singolo individuo. Ma il paradosso dei paradossi di un universo digitalizzato è quello segnalato da Karl Popper».

A quale paradosso rimandava il filosofo della Logica della scoperta scientifica?

«Se il mondo fosse tutto così chiaro e trasparente come i neorazionalisti pretendono, allora saremmo già oggi in grado di dedurre tutto lo scibile. Col risultato che in un mondo iperdeterminato non vi sarebbe alcun futuro della conoscenza né progresso del sapere. Il nuovo umanesimo digitale di cui parlo deve disvelare queste aporie di un illuminismo digitale che immagina il mondo come un unico, gigantesco algoritmo».

L’intelligenza artificiale la diamo per scontata. Ma potrà mai esistere una “e-Person”, una persona elettronica?

«Non escludo in modo categorico che sia possibile un giorno per un computer sviluppare salti mentali. Più probabile è immaginare androidi programmati in modo tale da simulare dei processi mentali. Ma anche in tal caso, come ha evidenziato John Searle, resterebbe il fatto che il computer non è una macchina semantica: reagire come fa un software a un programma non equivale a intendere il significato di una lingua né le intenzioni di un essere umano».

Intanto in Arabia Saudita, il 25 ottobre 2017, è nata una nuova cittadina: l’androide Sophia, un robot a cui gli sceicchi hanno concesso cittadinanza, con tanto di diritti e doveri. È un controsenso politico concedere diritti, cioè dignità a una macchina elettronica?

«Anche la cancelleria Merkel ha già incontrato Sophia in Arabia Saudita e ci ha parlato. Ma credo sia uno dei nostri fatali inganni proiettare in una androide come Sophie stati che corrispondano a una psiche. Ripeto, nell’era del digitale stiamo ricadendo in una primitiva sfera magica e animistica».

Quel che manca ad ogni robot, per quanto superdotato o simulante, sarà sempre il sentimento dell’autostima, come spiega Avishai Margalit?

«Il fulcro di ogni umanesimo resta il nucleo della dignità o libertà intrinseca ad ogni individuo su cui Kant ha costruito la sua filosofia morale. Il primo articolo della Costituzione tedesca recita: “La dignità dell’uomo è inviolabile”. È questa finalità ultima della persona che Margalit traduce nel senso dell’autostima e che per forza di cose è al di là di ogni calcolo e macchina».

Posizioni sessuali, le 8 più piacevoli per gli uomini. Redacción GQ il 28 ottobre 2019. Vuoi impazzire di piacere? Allora prova queste opzioni che ti faranno sfuggire alla routine e alla noia. Siamo realistici, il sesso è il meglio, ma a volte diventa noioso quando ricadiamo sempre nella stessa posizione. Meglio provare alcune delle posizioni sessuali che sono più piacevoli per gli uomini (se non tutte). Esistono altre opzioni oltre al tu sopra di lei o lei sopra di te? La risposta alla domanda è sì e noi uomini preferiamo posizioni sessuali che diano maggiore senso di piacere attraverso la vista e la possanza. In Reddit qualcuno ha posto la stessa domanda e gli utenti hanno risposto con opzioni che, oltre alla stimolazione fisica, causano piacere attraverso l'osservazione del corpo, i gesti, gli atteggiamenti che la tua partner ha durante l'atto sessuale. Molti altri hanno proposto posizioni che implicano il sentire di avere il controllo e una maggiore profondità di penetrazione. Queste sono le otto posizioni più popolari proposte dagli utenti:

1. Cowgirl reverse. Devi sdraiarti sulla schiena e lei si siederà sul tuo organo genitale eretto, dandoti le spalle.
La partner può stabilire il ritmo di penetrazione a suo piacimento e, allo stesso tempo, tu puoi accompagnarla tenendola per i fianchi.

2. Il trapezio. Qui è lei a essere sdraiata sulla schiena, mentre tu percorri il suo corpo dalle ginocchia alla bocca e poi cominci la penetrazione. Puoi impostare il ritmo. L'ideale è aumentare l'intensità e la forza dei movimenti.

3. Il drago. Lei deve sdraiarsi a pancia in giù su un cuscino ad altezza del pube. Deve sollevare i glutei e inarcare il corpo in modo da godere di una penetrazione più profonda. Tu dovresti metterti sulla sua schiena, aggrappandoti alle sue mani (che potrebbero essere sopra la testa).

4. L'amazzone. Devi sdraiarti sulla schiena e circondarla con le gambe intorno ai glutei. Lei si mette in posizione accovacciata su di te, seduta sul tuo membro in erezione. Quindi entrambi vi prendere le mani e spingete (tu in avanti, lei all'indietro). Il flusso di forza più il ritmo di penetrazione renderanno questa esperienza indimenticabile.

5. Gambe in spalla. Un grande classico. Lei deve sdraiarsi sulla schiena e mettere le gambe sopra le tue spalle. Durante la penetrazione, inclinati per entrare in contatto con le sue cosce, raggiungendo la profondità che entrambi desiderate. Occhio: se sei molto ben dotato, ti consigliamo di non praticarlo, perché potresti darle fastidio o farle male.

6. Il loto. Questa posizione è piuttosto estrema (e eccitante). Devi sederti a gambe incrociate mentre lei si siede su di te, mentre con le gambe abbraccia il tuo petto. Il trucco per lei qui è muovere i fianchi e tenere il passo. Lo adorerai.

7. La scala. Devi stare in piedi su una scala, simulando il movimento di salire un gradino (una gamba su e una giù), cercando di essere sul bordo dei gradini in modo che lei possa avvicinarsi, stare di fronte al tuo sesso e iniziare la penetrazione.

8. Allineamento coitale. Lei deve avere le gambe unite, tu separate. Quindi devi spingerti verso la tua vagina con la forza degli arti. Se esegui correttamente il movimento, sarai in grado di stimolare il suo "monte di Venere", cioè il tessuto adiposo che copre le ossa pelviche e che si trova sotto la pelle. La penetrazione sarà di soli 2,5 centimetri, ma con ciò è sufficiente vivere un piacere estremo.

Adesso, tutti a provare ciascuna delle posizioni sessuali più piacevoli. È un dato di fatto che conoscere prima queste posizioni non solo ti aiuterà a migliorare il sesso, ma migliorerà la tua erezione e sarai in grado di controllare il momento dell'eiaculazione (qualcosa che è difficile per molti di noi).

·        Il Fetish.

DAGOREPORT il 20 luglio 2020. – CONFESSIONI DI UNA FETISH-GIRL "...la prima volta è diversa da tutte le altre, la prima volta non sai come vestirti, non sai come comportarti. La prima volta tutto ti sembra oltre misura, i colli di piuma lunghissimi, i corsetti dai quali tette troppo grosse sgusciano fuori, le tute di lattice così lucide da specchiartici dentro quando ti passano accanto, donne dal fisico perfetto ricoperte di tatuaggi che ti perdi a guardare, fisici palestrati e panze grasse che si dimenano sul dance floor cosi come nei “doungeon” (stanze del piacere, ndr). La prima volta hai la sensazione di essere in una realtà parallela, la prima volta non osi, la prima volta, se non ne resti scandalizzato, analizzi, "impari". La prima volta a cui sono andata era al "The Mass" a Brixton, una chiesa sconsacrata, la migliore location da sempre, che purtroppo ha chiuso. Vari livelli, spazi enormi, l’odore della pietra dei muri che si mischia al resto. La prima volta temi, temi perchè senti che sei "nuovo", non intendo che ci si senta giudicati, anzi, il contrario, ma lo senti che sei un "estraneo". La prima volta ne sono rimasta affascinata pur restando un po’ in disparte. La prima volta non entri nella “couples room” per sentire quell'odore acre che ti entra nelle narici, la prima volta non ti azzardi ad alzare la gonna e farlo nel mezzo della pista, la prima volta non parli con chiunque incontri, la prima volta non conosci nessuno e ti chiedi solo chi sia quel signore distinto con l’uniforme nazi o quella donna avvolta nel latex al guinzaglio...Poi scopri che sono persone normali, inizi a conoscerle, le frequenti anche al di fuori della "TG family" (transgender family, ndr) e scopri che quell’aspetto di perversione è solo una piccola parte di quel mondo. E' un ambiente molto ludico, libertino certo, ma al tempo stesso molto rispettoso. Non ti ritrovi piselli di sconosciuti in faccia (a meno che tu non lo voglia), non ti si attaccano ai piedi per leccarteli se rispondi educatamente in maniera negativa al loro invito. E' un ambiente divertente, rilassato, piacevole, affascinante...L'eccitamento [per lo meno nella mia esperienza] è un aspetto della cosa. L'eccitamento non è tanto (non solo) legato alla sfera sessuale. C’è da dire anche che sono andata molto più spesso con amici che con un partner, non tendo stranamente a concludere con qualcuno in quelle situazioni, chissà perchè poi, suona assurdo e contraddittorio, ma del resto io stessa lo sono, contraddittoria. Quando vado con un partner tendo ad essere molto "possessiva", non l'ho mai "condiviso" con altre/i (anche se comunque credo che alla prossima occasione non mi limiterò), mi piace sapere di essere di qualcuno in quel preciso momento e sentire gli occhi addosso di altri che ti desiderano. Fa bene all'ego! Camminare tra le stanze, come una vera e propria "gatta morta", che te la fa annusare e non te la da! ahahah... sedurre... e poi abbandonare, è un gioco che mi diverte molto. E' un eccitamento visivo primaditutto, l'outift, la parte creativa dell’abbigliamento è fondamentale, io alterno latex a corsetti o piume, alcuni costumi ricercati, costruiti nel dettaglio, alcune bellezze [e purtroppo duole dirlo, per lo più femminili - difficile trovare un bell'uomo! forse, adesso che ci penso, questo spiega perchè raramente sono poi finita tra le braccia di uno dopo una serata] sono talmente cariche di sensualità che basta guardarle per esserne eccitati...Poi si alterna l’aspetto puramente ludico a quello della socializzazione... ti ritrovi a parlare della tua vita con uno mai visto prima e che ha il pisello al vento, oppure a fare due chiacchere mentre uno prende a frustate una tipa che magari ha fermato pochi minuti prima. Ecco cosa è il segreto di questi posti, il puro esibizionismo accompagnato alla totale disinvoltura, tutto diventa talmente naturale che ti metti a parlare mentre due di fronte a te stanno trombando e il minuto dopo sei tu stessa a fare un pompino al tipo con cui sei arrivata. Questa l’atmosfera che si trovi in locali come Tg, Subversion, Decadence... Diverso ad esempio il Killing Kitten, se vuoi più “eyes wide shut”, più scambio di coppia, puramente legato all’atto.

Barbara Costa per Dagospia il 9 febbraio 2020. Chi ti ha detto che nel fetish bisogna per forza berla? Che poi quelli che la bevono sono pochi, la maggior parte millanta, e una buona parte lo sogna ma non lo fa. Invece c’è chi la pipì se la fa addosso, di nascosto ma non sempre, e lo fa mica per pigrizia, o per incontinenza. No: lo fa perché a farsela sotto ci gode. Fare la pipì è sollievo e piacere, pure sessuale, il pissing è pieno di varianti, accontenta tutti i desideri e tu, se nel bagno d’un tuo amico o amante o chi ti pare, da quell’impiccione che sei vi frughi e vi scopri mucchi di pannoloni e assorbenti, è probabile che tu abbia a che fare con un wetting, ovvero un feticista della pisciata sotto, che gode a sentirsi bagnato, umido, puzzolente di quell’ inconfondibile odore. Il wetting è un feticismo molto vario, e io qui ti ciarlo dei wetting con cui ho scambiato 4 chiacchiere via chat, il miglior modo per parlare di queste delizie senza paure. Ma lo sai che ci sono persone accanto a noi, normalissime, che se la fanno sotto in casa, ma alcuni pure per strada, in fila alla posta, i più temerari su un bus stipato? A uno sguardo puerile possono apparire sporcaccioni, o deviati gravi, invece son persone che si vivono l’onanismo così. E è raro sgamarli: in maggioranza, chi si piscia addosso nei luoghi pubblici non vuole essere visto, il suo è un piacere privato, tale perché segreto, e fatto con ogni precauzione, ovvero con l’ausilio di assorbenti per mestruazioni modello notte, slip igienici, o pannoloni per anziani. L’assorbente bagnato, grondante pipì, è un godimento a sé: è orgasmico il suo diventare bollente, cocente di urina, e non riuscire a contenerla tutta, godendo del liquido che fuoriesce, e a rivoli scorre tra le gambe. Da soli in casa è diverso, il piacere che ti dà il bagnato è sublime se mantenuto e a lungo, e le wetting donne amano farlo indossando i collant, o i leggings, che si conservano umidi in modo geniale. E vuoi mettere la smorfia di soddisfazione sul viso mentre la fai? In chat, Sara mi dice che seduta sul water si cala i pantaloni ma non le mutandine: del loro inzuppo si bea. Ci sono poi i wetting di coppia, ovvero gli innamorati che godono nel vedersi, sentirsi bagnati e nel bagnarsi a vicenda con i vestiti addosso e, tra questi, quelli che raggiungono l’acme sessuale con l’odore di urina sulla pelle, sui vestiti, sul letto. Si coprono di pipì a vicenda, l’un l’altro abbracciati, l’un l’altro masturbandosi tra gli zampilli. Sono questi i wetting che di preferenza si gustano i porno amatorial di persone che si filmano, si selfano "zuppi". Sei mai capitato (per sbaglio, eh!) nella sezione "porn pissing pants"? Non l’hai mai viste quelle fanciulle col sedere, le cosce, le gambe larghe a mostrare le macchie, il "fattaccio" che hanno combinato? Alcuni wetting si scoprono tali mediante la pazzesca eccitazione che questi video porno gli scatena. Ci sono pure i wetting che si masturbano con cam-girl ad hoc, le quali si spogliano, mugolano a pisciarsi addosso per chi sta dall’altra parte del video a godere (e a pagare) sul serio. Esistono wetting esibizionisti che in cam si urinano e si fanno guardare da pipì-voyeurs, e c’è una categoria più speciale ancora, quelli che la pipì la trattengono apposta, ché a soffrire si gode di più, e da tale gruppo estraggo quelli e quelle che con l’orgasmo la fanno, in quanto è proprio l’orgasmo a disinibirli. C’ha pure ragione un certo Mauro, che mi scrive che se le lecchi e per bene, ci sono donne che con/dopo l’orgasmo sono stimolate ad urinarti sul viso, poche gocce ma giuste, ed è di quel nettare che Mauro (e altri come lui) va matto. Ma con Mauro siamo fuori dal feticismo wetting, siamo in quello della pioggia dorata, anch’esso zeppo di sfumature, tra cui quella delle persone che smaniano nel vedere e sentire una donna che sul wc urina e dopo si asciuga con la carta igienica. Sono persone che cercano questa condivisione sessuale, visiva e sensoria, con chi con loro divide un atto intimo, e socialmente tabù. Persone a cui però può succedere come a Nino, che mi dice che ha confidato alla sua compagna questa sua pisciosa passione, ricevendone disgusto e divieto. Lui ha deciso di soddisfare il suo feticismo trovandosi un’amante. Se anche tu una donna che ti porta con lei a farla in bagno non ce l’hai, con le app di incontri ci metti niente a scovare vagine fetish, piscianti e disponibili: attento però a non riportare a casa, a tua moglie, i panni sporchi da lavare.

·        Cuckqueaning e Cuckquean.

Barbara Costa per Dagospia il 31 maggio 2020. Ci sono donne che le corna le vogliono, le amano, le chiedono, le pretendono. Non trovano pace se non le hanno, non ti danno tregua se non ti scopi un’altra, e meglio se a sceglierla, questa altra, è la cornuta in persona. Meglio ancora se tu l’adulterio lo consumi davanti alla tua dolce metà ingorda di corna, e perché non nella vostra camera da letto, fin dentro le vostre lenzuola? Aggiungici che colei che fai cornuta, davanti all’amplesso ti fissa, vi fissa: il suo sguardo passa dall’altra che te lo prende, in bocca, a te che la monti, e che godi come un riccio. La cornuta sta lì, accanto a voi, ma mai tra voi: lei non partecipa, lei non vuole partecipare, lei alla fine rifà il letto anche se, in realtà, sua massima aspirazione è toglierti il preservativo usato, con la sua lingua pulirlo del tuo sperma, completamente, per poi passare a leccar via il tuo odore dal sesso di lei, della "vostra" amante. Lettore, non sono impazzita, ti sto parlando di una cosa vera, un feticismo che si chiama "cuckqueaning", e va tradotto col piacere, tutto femminile, che alcune donne feticiste (sposate, e se non sposate conviventi, da tempo, nonché spesso madri di famiglia) provano, fino all’orgasmo, vedendo il loro uomo "dentro" un’altra. Marito che si dà da fare, in tutte le posizioni e tempi e modi che lui vuole mentre lei, la cornuta, si eccita, fino ad allagarsi le mutande, a stare lì, muta, passiva spettatrice. Il cuckqueaning altro non è che il corrispondente femminile del feticismo cuckold, cioè quegli uomini (anche qui, sposati e/o seriamente impegnati) che godono a vedere la propria donna scopata da un altro. Come il cuckold, la cuckquean assiste alla copula cornante tutta felice ma ferma, anche se ad alcune piace filmare la scena: la maggiore azione sessuale che una cuckquean fa (non sempre e non tutte ma molte sì) è masturbarsi davanti all’amplesso proibito. Proibito si fa per dire, perché sia la coppia cuckold che la coppia cuckquean, si reggono su un patto di ferro, siglato tra due sposi che si amano, sul serio, e sinceramente, due persone tra cui la passione e il sesso sono tutt’altro che spenti. Al contempo in questa coppia uno dei due è preda di tale feticismo, per cui l’esperienza concreta del partner che cornifica è qualcosa che deve vivere, vedere, un impulso non sopprimibile. E qui sta il cuore del patto: il marito o la moglie che fa sesso con un’altra persona di fronte al partner legittimo, prova attrazione fisica, ma non se ne deve innamorare. Mai. I sentimenti, la tenerezza, la complicità, tutti gli elementi che compongono l’alchimia di una coppia stabile e affiatata, non devono mutare di una virgola ma, al contrario, rafforzarsi a corna reiterate. Tali corna non devono far scadere la fiducia reciproca: le basi che reggono la coppia non devono subire il minimo scossone. Le vere cuckquean dicono che dopo aver visto il marito a letto con un’altra, lo desiderano più di prima, ci fanno sesso meglio, sono grate delle corna e a colei che, scopandosi il partner, lo ha reso agli occhi della cuckquean più attraente. Le cuckquean non sono esenti da gelosia e possesso: considerano tradimento quello fatto dal marito a loro insaputa e mancata visione, e sleale un rapporto sì pattuito ma svolto senza il rispetto dei "confini", cioè regole e divieti che marito e moglie stabiliscono prima di dare avvio ai giochi (una cuckquean, ad esempio, può vietare al marito di fare cunnilingus all’altra, o di baciarla sulla bocca). Dei feticismi cuck poco si parla per riprovazione sociale, sono dei tabù, è però certo che riguardino coppie di ogni età, ceto, sesso, orientamento sessuale. Alcuni medici li spiegano ipotizzando una "erotizzazione dell’ansia di tradimento", roba per cui i cuck sarebbero persone a tal punto terrorizzate dal tradimento che, per esorcizzarlo, lo sublimano in spinta sessuale (il mercato non si pone domande, e i siti offrono il corredo di abiti, lingerie, oggettistica cuckold/quean). Però, come per ogni feticismo, è giusto dire che le "corna combinate" sono uno scrigno chiuso, intricato, in cui ognuno fa, ed è, un mondo a sé. Un feticismo diventa una patologia se chi ce l’ha lo sopprime e non lo sfoga. Sfogo che per alcuni cuck può fermarsi allo stadio masturbatorio: ci sono uomini e donne cuck che se lo vivono in sola forma onanistica sui siti hard, coi porno cuckold/cuckquean. Un marito spesso scopre di avere accanto una moglie cuckquean proprio a letto, e proprio mentre fanno sesso: è lei, la feticista, che inizia a svelarsi parlandone dapprima sotto forma di ardita fantasia. È quando il discorso esce dal letto e viene affrontato lucidamente che il cuckqueaning si palesa. Sancito il patto, entra in scena il web prima come fonte informativa e dopo come "caccia all’altra" tramite siti/app di dating appositi. "Cuckmare" (oppure "cuckcake") è il nome in codice della donna scelta come amante: su di lei mette per prima gli occhi la futura portatrice allegra di corna, e a volte la cuckmare può essere una amica della moglie. Il cuckqueaning sposa l’ambito BDSM quando il tradimento si alimenta di richieste e bisogni di sottomissione/umiliazione: ci sono cuckquean che sono feticiste delle corna subite coi giochi BDSM, svolti con il consenso sia della cuckmare che domina che della cuckquean da cornificare e soggiogare. Sono queste le mogli che oltre alla soddisfazione delle corna in sé, vi abbinano azioni di voluta degradazione e sofferenza quali ad esempio insulti che marito e amante le rivolgono, volgari, pesanti, sminuenti la sua femminilità. Ci sono cuckquean che si eccitano se il marito gli ordina di preparare l’amante lavandola e ornandola di lingerie e gioielli donati dal marito alla cuckquean per i loro anniversari; cuckquean a cui è comandato di scaldare il pene cornificante con le sue mani, bocca e saliva, e l’altra con preliminari lesbici, baci e carezze; cuckquean a cui è imposto di tenere la cuckmare mentre il marito la penetra, e di allargarle le gambe a agio degli orgasmi di lui (e di lei). E ancora, esistono cuckquean che come strumento estremo di umiliazione eleggono il non essere spettatrici del coito, uscendo dalla stanza, per loro volere o perché gli è intimato in chiave BDSM: fuori la porta, a origliare gemiti, urla, orgasmi, è in tale strazio, nell’impossibilità di guardare, che la cuckquean raggiunge l’apice di un particolarissimo piacere feticista che in queste mie righe spero di averti presentato, invogliato, spinto a scrutare con altri occhi, desideri, paure, richiami. 

·        Gli strumenti del sesso.

Viola Rita per repubblica.it il 12 febbraio 2020. Il viagra, la pillola blu, di blu non ha soltanto il colore. Fra gli effetti indesiderati della pillola per la disfunzione erettile in rari casi ci sarebbero anche disturbi visivi persistenti, fra cui una visione blu intensa insieme all'incapacità di cogliere il rosso e il verde. Effetti che in certi casi potrebbero durare anche per qualche settimana, secondo l'autore di una ricerca, Cuneyt Karaarslan, che lavora all'ospedale oftalmico Dünyagöz Adana in Turchia. Per ora lo studio ha preso in considerazione un numero piuttosto ristretto di pazienti che si sono rivolti all'ospedale turco con vari disturbi visivi dopo aver assunto il Viagra nel massimo dosaggio. Per questo, anche se il farmaco può essere importante per il benessere psico-fisico, è bene assumerlo sempre sotto controllo medico e stare attenti a dosaggi alti, soprattutto alla prima assunzione. I risultati sono pubblicati su Frontiers in Neurology.

Il Viagra, breve storia. Ventidue anni fa il Viagra (il nome del principio è sildenafil, mentre Viagra è il nome commerciale più noto) sbarcava nelle farmacie italiane e, secondo gli ultimi dati disponibili della Società Italiana di Urologia, il nostro paese è il secondo in Europa per acquisto di questo farmaco. Inizialmente studiato per curare l'angina pectoris, la molecola mostrò alcuni effetti collaterali, fra cui uno molto comune era l'erezione del pene. Per questo nel 1998 fu approvato dalla Fda, l'ente statunitense che controlla farmaci e alimenti, per la disfunzione erettile. Il farmaco è efficace e i suoi effetti durano dalle 3 alle 5 ore mentre gli effetti collaterali sono per lo più mal di testa, visione offuscata e alterazione della percezione dei colori (riportata nel bugiardino) lieve e transitoria, di solito massimo a due ore di distanza secondo quanto riferito dall'Ema, l'Agenzia europea per i medicinali.

La ricerca. I ricercatori hanno osservato però dei fenomeni insoliti in 17 pazienti che si erano recati presso l'ospedale oftalmico in Turchia, e sulla base dei dati hanno svolto un'indagine e pubblicato lo studio. Tutti e 17 avevano disturbi visivi, fra cui pupille dilatate, vista offuscata, sensibilità alla luce e visione blu intensa insieme all'incapacità di cogliere il rosso e il verde. Tutti i pazienti erano alla loro prima assunzione e avevano preso il sildenafil al dosaggio massimo di 100 mg. E non avevano una prescrizione medica, ma si trattava di un'auto-medicazione, mentre si raccomanda sempre l'uso sotto controllo medico (in Italia, inoltre, ma non in tutti i paesi, c'è l'obbligo di ricetta). In questo caso in tutti e 17 i pazienti i disturbi sono spariti entro i 21 giorni dal primo sintomo, un periodo comunque più lungo rispetto agli effetti indesiderati comuni. E senza dubbio, spiega l'autore, nonostante i problemi siano poi passati, si è trattato di un'esperienza difficile per chi l'ha vissuta. La buona notizia, prosegue Karaarslan, è che reazioni così persistenti dovrebbero essere molto rare. In ogni caso è sempre bene consultare sempre il medico e potrebbe essere meglio non iniziare dal dosaggio più alto. E soprattutto chi ha un'aumentata sensibilità dovrebbe considerare di fare la prima assunzione sotto la supervisione medica. Sempre ricordando che questi farmaci, usati seguendo le regole, “forniscono un supporto sessuale e fisico molto importante”, sottolinea l'autore.

Attenzione agli occhi. Ma non è la prima volta che uno studio solleva problemi della vista persistenti associati al Viagra. Nel 2014, infatti, uno studio su topi aveva mostrato che l'assunzione di sidenafil potrebbe non far bene agli animali con un carattere legato alla malattia rara ed ereditaria chiamata retinite pigmentosa (un “portatore” della malattia genetica ma senza sintomi). Questi animali mostrarono problemi alla vista per due settimane, nonché la perdita di alcune cellule della retina – un possibile inizio di un processo degenerativo. Tuttavia, nei topi senza questo carattere genetico, i sintomi duravano per due giorni. Per questo lo studio suggeriva che uomini con questa particolare condizione genetica dovrebbero evitare il Viagra.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 27 gennaio 2020. Il mercato mondiale della biancheria intima conta un giro d' affari di 110 miliardi di euro. Europa e Stati Uniti la fanno da padrone con marchi come l' americana L Brands, che possiede tra gli altri Victoria' s Secret, una linea di lingerie pregiata da cinque miliardi di fatturato l' anno. Sempre in America c'è Hanes, che controlla Playtex e Wonderbra, mentre in Europa hanno sede l' azienda tedesca Triumph International e il gruppo italiano Calzedonia, che produce e distribuisce i marchi Intimissimi, Tezenis, Falconeri e Calzedonia. E a proposito dell' Italia, nel 2018 sono state esportate merci per un valore di oltre 2 miliardi e 667 milioni di euro. Il mercato inglese, invece, è dominato da Marks&Spencer, multinazionale con sede a Londra. Anche i brand del lusso hanno un ruolo importante nel business dell' intimo. Tra i più forti: Agent Provocateur, Stella McCartney e Heidi Klum Intimates. E poi ci sono le grandi catene low cost come H&M, Topshop e Forever 21, che stanno incrementando la propria produzione. Il mercato dell' intimo insomma non conosce crisi e, parallelamente, cresce l' interesse da parte degli uomini verso la biancheria intima e la vendita di intimo on-line: più 18,2 per cento circa negli ultimi 5 anni, grazie anche alla nascita di diverse start up come i siti Me Undies e Manpacks. Ma in che modo la lingerie accende gli appetiti sessuali? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Concetta Miele, ginecologa, psicoterapeuta e sessuologa di Napoli: «La scelta di particolari capi intimi da indossare durante gli incontri amorosi, rientra nei giochi di seduzione che da sempre vengono agiti nelle relazioni sentimentali. Scegliere (non farsi scegliere dal marchio) per sentirsi più seducenti e sapere di esserlo di più anche per l' altro amplifica il desiderio di entrambi. La lingerie sia essa romantica, pudica o trasgressiva può corrispondere alle aspettative dell' altro o può sorprendere, ma lo scopo unico è vivere un' eroticità e una sessualità appaganti ben sapendo che se il desiderio ha bisogno di mistero, la seduzione si avvale di sottili manipolazioni». Segno più anche per i costumi erotici dei colossi dell' universo sex shop. Parliamo di Ann Summers, che detiene il monopolio del mercato di massa in abiti rubber, latex, pelle e che sfoggia vestiti da hostess, suore e casalinghe mozzafiato, e Hustler, che risponde a suon di conigliette, cappuccette rosse e seducenti marines. Se è vero però che il travestimento libera le fantasie più recondite, è altrettanto corretto affermare che ci svincola dalla consapevolezza di star facendo l' amore con quella determinata persona, regalandoci l' illusione di farlo con chissà chi? «L' immaginario erotico è la facoltà dell' essere umano di costruire immagini fantasmatiche erotizzanti: il travestimento è concretizzarle», risponde la dottoressa Miele. «Indossare "una maschera" è un modo per agire la sessualità come una persona diversa, è un tentativo di superare inibizioni e di ravvivare l' eros. È un gioco tra adulti che funziona se i ruoli sono frutto di negoziazione reciproca nel rispetto del partner e dei limiti del gioco e laddove il materiale che l' altro indossa (latex, pelle eccetera) o il tipo di maschera non si trasformino in feticcio e di conseguenza in una gabbia». Da una poesia di David Herbert Lawrence: "La sessualità è uno stato di grazia. In una gabbia non può aver luogo. Rompete la gabbia allora, e cominciate a cimentarvi".

Da repubblica.it l'1 gennaio 2020. Un sex toy che può essere controllato tramite un'app che si scarica nel cellulare è finalista del premio Last Gadget Standing al Ces 2020, la fiera dell'elettronica di Las Vegas. Il Las Vegas Review-Journal riporta che il dispositivo creato dalla startup californiana Lioness è stato selezionato dopo aver vinto una controversia con un gadget simile. E’ la prima volta che i prodotti di tecnologia del sesso possono partecipare al premio nella categoria salute e benessere durante la fiera che si tiene dal 7 al 10 gennaio nel Nevada. Ed è subito scoppiata una polemica, anche perché, quasi un anno fa, gli organizzatori avevano già selezionato un massaggiatore personale per donne. Era stato scelto il vibratore Osé di Lora DiCarlo per il Ces 2019 Innovation Honoree Award nella categoria robotica e droni. Ma la Consumer Technology Association l’aveva successivamente escluso in quanto ritenuto un dispositivo "immorale, osceno, indecente, profano o non conforme all'immagine del Cta".

DAGONEWS il 15 Gennaio 2020. Un uomo thailandese si è presentato in ospedale dopo che il suo pene è rimasto incastrato per cinque giorni in un tubo di metallo. Il ragazzo aveva messo una calza sul membro e lo aveva infilato nel cilindro per masturbarsi. Ma dopo aver raggiunto i climax il pene si è ingrossato e non è più riuscito a liberarsi. Ha vagato per casa per cinque giorni tentando di liberarsi con diversi lubrificanti. Solo quando il dolore è diventato insopportabile si è presentato in ospedale a Bangkok, spiegando la situazione ai medici. Ha detto loro che era la terza volta che usava un tubo per masturbarsi, ma per la prima volta aveva utilizzato un calzino. Il paramedico Akachai Buapathum ha detto di aver impiegato tre ore per riuscire a tagliare il cilindro: «Il pene era gonfio e l’aggiunta del calzino ha fatto sì che si incastrasse». Il dottor Sitra Likisakul ha detto che l'uomo avrebbe potuto perdere il pene poiché la pelle all’interno del tubo stava iniziando a marcire: «È molto pericoloso avere il pene incastrato in quella situazione per tre ore, figuriamoci per cinque giorni. Sono ancora scioccato dal fatto che sia sopravvissuto».

·        Autoerotismo: la Masturbazione.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2020. Per le nostre nonne, fino a qualche decennio fa, la masturbazione portava con sé solo disgrazie come cecità e altre sciagure. Oggi i tempi sono cambiati e l'autoerotismo è diventato una sorta di medicina per lui e per lei, senza controindicazioni. O quasi. Ce ne parla il professor Alessandro G. Littara, sessuologo e andrologo di Milano: «L'autoerotismo fa bene a tutti, uomini e donne. Per gli uomini, oltre ai benefici generali (miglioramento dell'umore, diminuzione della tensione, miglioramento del sonno, aumento delle difese immunitarie, ecc.), la masturbazione ha delle ripercussioni specifiche di cui beneficiano l'intero apparato riproduttivo e la vita di coppia: il frequente ricambio di liquido prostatico e di liquido seminale limita la possibilità di infiammazioni e infezioni. Inoltre è un ottimo allenamento per contrastare la disfunzione erettile e l'eiaculazione precoce. Masturbarsi non solo aumenta il desiderio (aumentando il livello di testosterone), ma permette di ridurre l'ansia da prestazione e aumentare i tempi del rapporto, con beneficio proprio e del partner. Al femminile, numerosi studi provano che le donne che si dedicano a questa pratica hanno una vita sessuale generalmente più attiva e soddisfacente. Masturbarsi è inoltre il modo migliore per conoscere i propri punti sensibili e scoprire il proprio corpo: clitoride, punto G e altre zone erogene. Esercitarsi è utile per scoprire come raggiungere l'orgasmo e questo permetterà anche di guidare il partner a ottenere la maggior soddisfazione per entrambi. Di contro, la masturbazione fa male quando diventa un pensiero fisso, un impulso incontrollabile. Quando la pratica autoerotica si sostituisce a un sano rapporto con gli altri, diventando un comportamento compulsivo, incontrollato, che ha il bisogno di essere effettuato in una maniera meccanica e rituale e che finisce con l'interferire nella vita quotidiana, creando problemi di relazione». Colpa del dilagare della pornografia online? Risponde Littara: «Il problema esisteva anche prima, quindi al massimo si può parlare di una concausa. Le cause più frequenti di dipendenza sono da ricercarsi nelle caratteristiche dell'ambiente che circonda la persona, in particolar modo nelle prime fasi della crescita. L'abuso o l'esposizione precoce a contenuti di tipo sessuale, per esempio, può contribuire allo sviluppo di alcuni dei tratti responsabili del comportamento compulsivo. A volte la sensazione di essere respinti o rifiutati dal proprio gruppo sociale di appartenenza può portare a ricercare altre modalità, meno sane, di gratificazione sessuale. In altri casi entrano in gioco alterazioni della chimica del cervello, con eccesso di produzione/carenza di determinati neuromodulatori». Come fare a capire quando una masturbazione è normale o compulsiva? «La vera differenza sta nell'incontrollabilità dell'impulso masturbatorio. In determinati casi la masturbazione cessa di essere un approccio ludico alla sessualità e diventa una strategia utilizzata per alleviare le emozioni negative e generarne di positive. Alcune persone descrivono la propria dipendenza come una sorta di anestetico: un modo per attenuare gli eventi difficili».

·        L’Astinenza dal Sesso.

Canela Lopez per "it.businessinsider.com" il 5 luglio 2020. Per le persone che non vivono con un partner, in teoria il lockdown ha significato tre mesi di astinenza. Restare così a lungo senza sesso o contatto intimo può essere più che frustrante. Tre terapisti sessuali e psicologi hanno spiegato a Insider esattamente quale tipo di conseguenze vedono nelle persone che non hanno contatti sessuali per un lungo periodo di tempo, dall’ansia acuta all’insonnia. Gli orgasmi possono avere una serie di benefici per la salute tra cui il sollievo dall’ansia, aumentare l’immunità e aiutarvi a dormire meglio. Secondo la dott.ssa Rachel Needle, psicologa e codirettrice dei Modern Sex Therapy Institutes, fare sesso può essere positivo per la salute fisica e mentale delle persone.

Ti aiuta a dormire meglio, diminuendo il dolore, abbassando lo stress, diminuendo l’ansia e la depressione e altro ancora. I sintomi sorgono in momenti diversi in base alle esigenze delle persone e possono manifestarsi in ogni momento, dopo poche settimane o dopo qualche mese. Needle ha affermato che questi benefici sono così importanti che le persone che non possono avere rapporti sessuali in coppia dovrebbero comunque masturbarsi e avere orgasmi. “L’orgasmo rilascia endorfine che possono aiutare a ridurre lo stress, almeno temporaneamente, e portare a sentimenti positivi che ci rendono più felici”, ha detto Needle. “Quindi, anche se non stai facendo sesso in coppia, se vuoi continuare ad avere questi benefici, trova il modo di continuare ad avere orgasmi.”

Non avere intimità fisica può portare alla “brama di contatto”. Poiché fare sesso ha così tanti benefici per la salute, non poterlo fare quando vuoi può avere molte conseguenze sulla salute. Le persone che hanno passato mesi senza essere in grado di avere intimità fisica in modo sicuro possono sviluppare fame di vicinanza e brama di contatto   – che può indebolire il sistema immunitario e portare a elevati tassi di depressione e ansia. “Quando coloro che vorrebbero avere rapporti sessuali e sono abituati ad averli regolarmente, sperimentano una mancanza di intimità sessuale, può verificarsi il contrario sotto forma di effetti dannosi per la salute mentale, emotiva e fisica con conseguente varietà di sintomi; e sentimenti di isolamento, insicurezza e bassa autostima ”, ha detto a Insider la dott.ssa Dulcinea Pitagora, psicoterapeuta e terapista sessuale di New York.

Il sesso va oltre il desiderio – può essere un modo in cui le persone trovano una comunità, specialmente tra persone queer e poliamorose. A parte l’intimità fisica, Susannah Hyland, una terapista con sede a New York, ha detto a Insider che fare sesso può essere incredibilmente importante per persone che cercano di costruirsi una comunità attorno come le persone queer e poliamorose o quelle della comunità kink. “Penso che specificamente per le comunità queer, è una cosa davvero difficile non essere in grado di uscire e stare con le loro comunità”, ha detto Hyland. “Soprattutto le comunità trans, perché ci sono così tanti tipi di cameratismo e legami, e il rispecchiarsi, l’attaccamento e cose così positive che possiamo scambiarci l’uno con l’altro. In amicizia, sesso e amore “. Mentre per le persone monogame, cisgender e eterosessuali è più probabile vivere vivere già con il proprio partner, Hyland ha affermato che per le persone che frequentano più persone potrebbe essere meno probabile vivere con uno dei loro partner. “Tutte le cose che stavano accadendo in periodi di non quarantena ora sono state in qualche modo esacerbate”, ha detto Hyland. “Se sei una persona che esce con molte persone diverse e ha modalità diverse, relazioni diversi e livelli diversi di interazione con persone diverse. Potresti semplicemente vivere da solo, potresti non avere un partner nello stesso modo in cui lo hanno altri.”

Riscoprire il sesso in coppia dopo la quarantena potrebbe essere difficile per le persone. Secondo Pitagora, alcune persone che non sono a proprio agio coi cambiamenti potrebbero avere difficoltà a riscoprire il sesso dopo un lungo periodo in cui non si fa sesso, sia questo indotto dalla quarantena o meno. “Qui sto usando la parola “riscoperta”  invece di “tornare a” perché potrebbe non esserci un ritorno alla loro vita sessuale pre-quarantena”, ha detto Pitagora. “Invece, possono sperimentare la crescita e la scoperta di sé e, attraverso l’introspezione, trovare un nuovo modo di pensare alla propria sessualità e con chi vogliono fare sesso e come.” Sebbene possa essere scoraggiante considerare come potrebbe essere una vita sessuale post-quarantena, Pitagora ha anche detto che potrebbe essere un’opportunità per le persone per pensare criticamente ai loro desideri e voglie sessuali. “Direi anche che le persone potrebbero sperimentare una sorta di euforia quando i vincoli vengono eliminati e avranno l’opportunità di esplorare la propria sessualità in modi che potrebbero aver tenuto a freno prima”, ha detto Pitagora.

Dagospia il 13 febbraio 2020. Da “Radio Cusano Campus”. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il sesso il giorno di San Valentino. "Per le coppie la notte di San Valentino è quella con più aspettative, con aspettative troppo alte vorrei dire. Spesso si aspetta San Valentino per dedicarsi un momento speciale perché durante l'anno non c'è il tempo per farlo. Questo però rischia in realtà di portare a tante aspettative e a non pochi problemi, l'ansia da prestazione è uno di quelli che per l'uomo diventa difficile da gestire. Ci si aspetta di arrivare a meta ma poi la meta viene fallita. Si cerca di creare anche una certa atmosfera magari con lingerie e candele però poi molto spesso abbiamo disfunzione erettile ed eiaculazione precoce che la fanno da padrone, così come il calo del desiderio". "Il calo del desiderio è enormemente aumentato fra gli uomini, fra i miei pazienti per esempio ho un rapporto di 5 a 2. Ossia 5 uomini che hanno un basso desiderio sessuale contro solo 2 donne. E' un cambiamento importante visto che un tempo era più presente nella popolazione femminile. Questo ci riporta anche al tema dell'ansia da prestazione." "Se ci si concentra solo su San Valentino diventa una sorta di ' o la va o la spacca'. Spesso le coppie in crisi puntano tantissimo su San Valentino per tornare a fare sesso e far 'scomparire' i loro problemi, il rischio molto alto è che invece tutti i problemi si vadano ad accentuare ancora di più. San Valentino diventa così la notte dove c'è maggior rischio debacle”. "Il sesso può essere una strategia di risoluzione di alcune problematiche purché però non siano troppo profonde o radicate, oltre un certo limite infatti neanche il sesso può fare miracoli e bisogna attuare altre strategie." "L'approccio migliore è quello di non cercare il sesso a tutti i costi il giorno di San Valentino, dedicarsi tempo e non avere troppe aspettative dal punto di vista sessuale. Se entrambi i partner si sentono pronti assecondare il momento, se ciò non avviene meglio lasciare le cose così come sono."

Se il Papa è in città gli italiani fanno meno sesso (lo dice la statistica). Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Federica Seneghini. Gli italiani hanno meno rapporti sessuali del solito durante i viaggi apostolici del Papa per paura di una gravidanza indesiderata. «Un aborto li farebbe sentire troppo in colpa, meglio quindi non rischiare». Non è una battuta di spirito, ma la conclusione a cui è arrivato uno studio britannico basato su circa 129 viaggi fatti da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in varie città italiane dal 1979 al 2012 e i dati sugli aborti in Italia curati dall’Istat. Come riporta il Telegraph, studiando le cartelle cliniche nelle aree visitate dai due pontefici, i ricercatori hanno scoperto un calo del 10-12 per cento degli aborti tra il terzo mese dopo la visita papale fino al 14esimo. In un viaggio apostolico su quattro i Papi hanno esaltato la visione cattolica della santità della vita nel grembo materno. E dunque: «Le visite del Papa hanno il potere di ridurre le gravidanze non desiderate per un periodo che dura circa un anno». Ma alla diminuzione delle interruzioni di gravidanza non corrisponde, a differenza di quanto si potrebbe pensare, un aumento del numero delle nascite. Questo può dipendere da due motivi: o gli italiani usano di più i contraccettivi quando il Papa è in città o iniziano a fare meno sesso. «Alcune coppie pensano che la contraccezione sia il male minore e lo preferiscono alla eventualità di dover poi affrontare un aborto», ha spiegato il ricercatore della Queen University Egidio Farina, che, insieme al collega Vikram Pathania della Università del Sussex, ha pubblicato lo studio sul Journal of Population Economics. «Ma visto che la Chiesa cattolica è da sempre contraria all’uso dei contraccettivi, un’astinenza forzata è sicuramente la spiegazione più plausibile». Statistiche a parte quel che è certo è che «il numero di gravidanze non desiderate è più piccolo quando il Papa ha parlato dei mali dell’aborto durante i suoi discorsi». Secondo i ricercatori, i viaggi apostolici coincidono anche con l’aumento del numero di donne che frequentano una Chiesa nei tre mesi successivi alla visita. 

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 18 gennaio 2020. Perché aspettare che arrivi il vero amore ed intanto, nel corso della sua strenua attesa, praticare l'astinenza? A domandarselo sono soprattutto i cosiddetti "amici di letto", noti anche con l' appellativo di "scopamici". Si tratta di individui che non fanno troppa fatica a scindere i sentimenti dalla mera carnalità. Essi, in questo spirito, intrattengono rapporti basati unicamente sul sesso. Ma i soggetti coinvolti in una relazione simile, non di rado, il vero amore non lo aspettano neppure: intimiditi dai legami a lungo termine - dei quali si portano dietro strascichi tali da determinare il disincanto - decidono di condividere la compagnia di un "partner" solo al momento in cui l' ormone divampa, in modo da tutelare valori esistenziali quali libertà e indipendenza. Il sesso viene così epurato dal tipico ingombro di un attaccamento a lungo termine: gelosia, subordinazione, dissapori e morbosità. Lucia è una donna piacente che mi scrive per raccontarmi la sua esperienza: «Ti contatto perché, nello status che hai pubblicato, ho letto che sei alla ricerca di testimonianze sugli "amici di letto". Io vivo un' esperienza simile: da sei anni, circa una volta alla settimana, mi incontro con un uomo. Entrambi sappiamo di non poter pretendere nulla dall' altro oltre al sesso, anche se io ammetto di aver cominciato a nutrire aspettative su qualcosa di più, ma non oso dirglielo. Pensavo di riuscire a separare il sesso dall' affettività, ma ultimamente sto facendo fatica. Lui è sposato, io lo sono stata. Forse, anche qualora si rivelasse disposto a darmi di più, mi renderei conto di non volere altro all' infuori di questo scambio puramente fisico: ho alle spalle un matrimonio fallito, e sento di avere già dato in amore. Non voglio legami troppo stretti. Ho bisogno di respirare, quindi mi sa che continuerò a nascondergli i miei sentimenti». Lucia sembra trasgredire gli insegnamenti della sessuologa canadese Carlen Costa, la quale si è largamente espressa sull' argomento "amici di letto", dispensando consigli su come impedire alla passione di sfociare nel sentimento: in primo luogo bisogna definire un calendario approssimativo degli incontri mensili, così da concedere al raziocinio di sottrarre spazio alla poesia dell' imprevisto. È bene altresì determinare con l' altro il fine esclusivo degli appuntamenti: essi sono volti a sfogare i propri istinti tra le lenzuola ma, una volta abbandonato il giaciglio, ognuno torna alle proprie esistenze. Sono assolutamente banditi i regali di compleanno: contribuirebbero al germogliare di un feeling che non ha ragion d' essere. Lo scambio di messaggini è consentito solo se a sfondo erotico, di contro sono interdette le svenevolezze di altra natura. Le telefonate vanno bene solo se utili a fissare data e ora dell' incontro. Buona norma sarebbe anche evitare di appisolarsi assieme dopo il coito: prima che il sonno colga uno dei due amici di letto, egli dovrebbe fare fagotto e ritirarsi a casa propria. V' è un altro imprescindibile diktat da onorare, ossia quello che impone di rendersi funzionali al godimento reciproco: il legame, essendo finalizzato al piacere carnale, non può far leva su gratificazioni di altra natura per perpetuarsi; va da sé che l' amplesso debba soddisfare entrambi. In caso contrario, cambiate pure "amico di letto".

Natasha Turner, dottoressa in naturopatia, è convinta che stare nudi elimini lo stress. I migliori risultati si ottengono condividendo la nudità con un’altra persona. I bambini appena nati non sono gli unici a godere del contatto pelle a pelle, ne godiamo tutti perché riduce il cortisolo, l’ormone dello stress, aiuta la circolazione e ad eliminare le tossine...Natasha Pearl Hansen per “Men’s Health” il 25 dicembre 2019. Quanto fa male lo stress da vacanza? Così tanto che, come abbiamo già scritto, in molti durante Natale smettono di fare sesso. E se invece riuscissimo a ridurre le preoccupazioni per lasciare intatta la nostra vita intima? Be’, è più facile di quando si pensi, basta mettersi nudi. Mia nonna diceva che i vestiti implicano prendere decisioni, e le decisioni sono fonte di stress, quindi liberarsi dei vestiti significa liberarsi dallo stress. Le nonne hanno sempre ragione. Più ci liberiamo di elementi della routine, più ci liberiamo emotivamente. Natasha Turner, dottoressa in naturopatia, è convinta che stare nudi elimini lo stress. I migliori risultati si ottengono condividendo la nudità con un’altra persona. I bambini appena nati non sono gli unici a godere del contatto pelle a pelle, ne godiamo tutti perché riduce il cortisolo, l’ormone dello stress. Inoltre stare nudi aiuta la circolazione e ad eliminare le tossine, previene infezione fungine, riduce i rischi di irritazione. Come affrontare un Natale “nature”? Con il vostro partner decorate l’albero, uno dei due dovrà mettere quell’angelo in cima e finirete come già sapete, rotolati a terra, ma pieni di brillantini e con qualche ornamento distrutto. Invece di andare in giro a fare i cori natalizi, restate in casa, nudi, versatevi un buon bicchiere di whiskey e ballate in intimità. Cucinate nudi, sarà un incontro particolarmente piccante. Niente è meglio che sdraiarsi nudi sul divano e godersi un po’ di televisione, il lieto fine è assicurato.

DAGONEWS il 27 dicembre 2019. Le abbuffate delle feste vi fanno sentire meno attraenti? Ecco cinque mosse che, secondo la sexperta Tracey Cox, possono rivitalizzare la vostra vita sessuale.

Donne, indossate tacchi bassi. Le donne indossano tacchi alti per sembrare sexy: i tacchi allungano le gambe e aumentano la sporgenza del fondoschiena di circa il 25%. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: secondo la ricerca di un ginecologo di New York, Eden Fromberg, indossare i tacchi tutto il giorno può influire sull'orgasmo di una donna. Come? Quando le donne raggiungono l'orgasmo, il bacino si inarca in un certo modo. I tacchi alti fanno piegare il bacino in modo innaturale, creando una contrazione del pavimento pelvico. Se avete sempre i tacchi, il vostro bacino è bloccato in una posizione arcuata, il che significa che si inarca meno durante l'orgasmo, diminuendone l'intensità.

Bevete più acqua. Le nostre cellule hanno bisogno di acqua per funzionare. Più acqua bevete, più le cellule saranno in grado di trasportare ossigeno nel nostro corpo e al nostro cervello. Questo aiuta il metabolismo, ci assicura di avere abbastanza energia per il sesso e aumenta il flusso di sangue che è necessario per  sentire l’eccitazione. Un corpo idratato è anche un corpo lubrificato. Inoltre la disidratazione influisce anche sulla disfunzione erettile. I livelli di idratazione possono ridurre il volume del sangue, quindi bere più acqua può aiutare a mantenere erezioni più intense. Un altro motivo abbastanza convincente per mandare giù più di un litro d’acqua al giorno: renderete il vostro sudore meno puzzolente.

Dormite di più. C'è una connessione tra il sonno e il sesso: essere troppo stanchi spinge le persone a pensare di non avere abbastanza tempo per il sesso. Inoltre la privazione del sonno provoca ansia e depressione e inibisce la produzione di ormoni sessuali. Più dormite, più è probabile che vogliate fare sesso. Più sesso fate, più è probabile che stiate dormendo bene.

Siate rigorosi. Potrebbe non sembrarvi sexy, ma essere organizzati aiuta anche la vita sessuale. Diversi studi hanno dimostrato che persone diligenti e meticolose, lungi dall'essere noiose, sono grandi partner sessuali e hanno meno probabilità di avere problemi a letto. Come è possibile? Nonostante la percezione della società secondo cui il buon sesso è il sesso spontaneo, le persone che pianificano la loro attività sessuale fanno sesso più spesso per una ragione molto ovvia: si assicurano che ciò accada.

Andate a cena fuori più spesso. C'è una ragione per cui le cene al ristorante ci inducono a essere più romantici. Uno studio ha rilevato che le donne che si sentono più felici dopo aver mangiato un pasto sono più propense al senso di gratificazione. In breve: se abbiamo fame, è difficile concentrarsi su qualcosa che non sia il cibo. A casa, il frigo chiama più del letto.

C'È IL SESSO, POI C'È IL BUON SESSO E INFINE ESISTE IL SESSO STREPITOSO. DAGONEWS il 27 dicembre 2019.

Rideteci sopra. Il sesso è maleodorante, rumoroso, sudaticcio e impacciato. Se non avete mai fatto nulla a letto che abbia causato un minimo di imbarazzo, siete gli amanti più noiosi del mondo. I migliori invece hanno come buoni precedenti del liquido seminale finito negli occhi e peli pubici nel naso, flatulenze nel peggior momento possibile, momenti in cui ci si  è guardati il corpo dall’alto e si è pensato a quell'abbonamento in palestra, inciampate per via delle mutande abbassate e momenti meravigliosamente goffi quando si prova qualcosa di nuovo che va dannatamente storto. Avete la giusta attitudine se, in ognuno di questi casi, vi siete detti “chissenefrega”. State facendo sesso non vi state esibendo dal vivo di fronte a un pubblico (si spera).

Usate la testa. Se pensiamo alle cose con sano realismo, realizzeremo in fretta che gli altri non sono più fortunati di noi: gli orgasmi simultanei sono più rari dei denti di gallina, il sesso nei film e nel porno non si avvicina neanche lontanamente alla realtà e (fattore decisivo) i veri uomini hanno problemi d’erezione e le donne hanno difficoltà a raggiungere l’orgasmo. Moltissime donne infatti vorrebbero che i loro organi sessuali fossero accompagnati da un manuale d’istruzioni (e una garanzia a vita). Sarebbe molto più semplice rimandare indietro il pacco segnalandolo come modello difettoso, accompagnato dalla nota: "le parti sono montate al contrario.” Perché il clitoride non si trova dentro alla vagina? Basterebbe una semplice riallocazione e uno dei problemi sessuali più frustranti esistenti – l’80% delle donne ha difficoltà a raggiungere l’orgasmo durante i rapporti – si risolverebbe all'istante.

Trovate il tempo. I problemi sessuali spesso non hanno a che fare col sesso, ms col tempo che gli dedichiamo. Se dovete rivolgervi a dei consulenti per gestire i vostri orari, fatelo: mettete ordine nella vostra vita in modo da poterlo fare due volte alla settimana, anche se dovesse durare 10 minuti. Connettersi sessualmente col partner (almeno due volte a settimana), è fondamentale, sempre che non abbiate un’ottima ragione per non farlo (tipo avere appena fatto dei bambini). Idealmente, bisognerebbe farlo tre volte. In ogni caso si tratterebbe di impegnare appena un'ora (sic) a settimana. Prima che vi inorgogliate troppo, ecco qualche statistica: Un quarto delle coppie fa sesso una volta a settimana, un terzo due volte e solo il 15% degli innamorati lo fa tre volte a settimana. Il 61% sostiene che una sessione lunga duri circa 45 minuti mentre il 5% dei partner guardano la tv o stanno al tablet mentre lo stanno facendo. Questo dovrebbe bastare a non porsi obiettivi troppo ambiziosi. Calcolate il tempo: molte persone non lo fanno tanto quanto credono. Esistono svariati motivi per cui bisognerebbe fare sesso regolarmente e uno su tutti è questo: più orgasmi, meno sforzi. Più fate sesso infatti e più si stabiliscono rapidamente le connessioni tra cellule cerebrali, perché gli impulsi viaggiano attraverso un percorso già ben battuto.

Comprate un vibratore. I vibratori sono più diffusi dei gatti. Esistono ottimi motivi per cui ogni donna e ogni coppia dovrebbero possederne uno. Primo fra tutti: il vibratore è uno dei modi più efficienti per stimolare il clitoride e la maggior parte delle donne raggiungono l’orgasmo in quel modo. E molte donne lo raggiungono unicamente grazie al loro vibratore. Secondo: le coppie che usano un vibratore quando fanno sesso accrescono enormemente la frequenza dei loro orgasmi. Due ottime ragioni per averne uno sempre a portata di mano nel comodino.

Separare il sesso dall’amore. Pensate al miglior sesso che abbiate mai fatto. Era con la persona che più avete amato o con quella che più avete desiderato? C’è da scommettere un appartamento che si tratta dell’ultima tra le due. Il buon sesso e il vero amore non vanno insieme come la volpe con l’uva. Le persone intelligenti questo lo capiscono presto: solo perché ci si incastra bene vicendevolmente, non significa che anche i due cuori coincidano; solo perché il sesso è fantastico, non significa che sia l’amore della vostra vita. Praticate il sesso sicuro in tutti i sensi: mai mostrare i propri sentimenti al punto da essere irrimediabilmente vulnerabili.

Restare Fedeli. Nessuno può negare che la nostra libido viene ridestata quando abbiamo degli altri “compagni di gioco” e questa si alza ancora di più se ci andiamo a letto insieme. All’inizio il sesso sembra fantastico perché la novità e il tabù dell’infedeltà ci offrono un senso di euforia. Ma una volta che ci si abitua al nuovo corpo, svanisce. Impegnarsi a migliorare il sesso con la stessa persona è un’idea di gran lunga migliore. Avere degli amanti per rendere la propria vita sessuale più vivace funziona di rado. Oltretutto, è estenuante.

Dire no senza sentirsi in colpa. È ok non voler fare sesso tutto il tempo. Ogni forma di desiderio ha i suoi alti e bassi, che possono essere influenzati dagli ormoni e dai livelli di stress, dalla carriera, i bambini e la salute. Se l’unica cosa che volete fare una volta a letto è dormire, va bene. Molti partner preferirebbero dirvi di no piuttosto che dover offrire prestazioni su richiesta e il rifiuto inaspettato, inoltre, può aggiungere il fattore imprevedibilità: nel momento stesso in cui il sesso diventa un atto automatico, svaniscono dalla relazione l’eccitazione e il senso di conquista. Come farlo senza offendere nessuno? Basta dire: “Aspettiamo fino al weekend senza affrettarci così potremo davvero godercelo.” 

Aprite gli occhi. Chiudete gli occhi quando raggiungete l’orgasmo e avrete un’esperienza privata piacevolmente intensa. Apriteli, fissatevi, e diventa un’esperienza condivisa. Non si tratta poi di questo in fondo? 

DAGONEWS il 23 dicembre 2019. Se non ricordi l’ultima volta che hai fatto sesso, allora questi suggerimenti di Tracey Cox fanno per te. Ecco otto facili passaggi che salveranno anche la vita sessuale più amara.

Fase uno: affrontare il problema. Sforzati di parlare di quello che sta succedendo. Anche se ti senti imbarazzata, ferita e tesa devi farlo, anche se non è divertente. Se non ci riesci rivolgiti a un terapista e pensa sempre che non esiste chi è dalla parte della ragione e chi è dalla parte del torto. La persona che più vuole fare sesso non è "più sexy" o "migliore". La persona che vuole meno sesso non è "frigida" o quella con "il problema". Se c'è una mancata corrispondenza tra desideri, uno di voi si sente rifiutato, l'altro si sente sotto pressione e stressato. Alla fine non si sta bene in  entrambe le posizioni.

Fase due: fissare insieme obiettivi realistici. Prenditi cura dei tuoi bisogni da sola. Il tuo partner non è un robot che puoi programmare quando hai voglia di farlo. Aiutati da sola e usa un vibratore fino a quando le cose non si saranno sistemate. Non limitarti a parlare di quanto spesso ti piacerebbe fare sesso, parla di ciò che ti piacerebbe e di cosa no, esprimi i tuoi desideri, tutti e due focalizzatevi su quella notte bollente che ancora  ricordate. Non aspettarti che venga risolto tutto durante la notte: dopo la conversazione ti sentirai liberata, ma non è tutto.

Fase tre: rimettiti in forma per il sesso. L'esercizio fisico aumenta i livelli di libido e ti fa sentire migliore. Scendi dal divano e vai a fare una passeggiata insieme al tuo partner piuttosto che guardare una serie tv. Rivolgiti al medico per risolvere eventuali condizioni croniche che interferiscono con il sesso: emicrania, mal di schiena, un ginocchio dolorante, difficoltà di erezione, secchezza vaginale e sesso doloroso. Prendi tutte le medicine necessarie e chiedi al medico se potrebbero influire con il tuo desiderio sessuale. Gli antidepressivi, le pillole per la pressione del sangue, la pillola contraccettiva possono influire. Chiedi delle alternative.

Fase quattro: esci. Esci insieme al partner e agli amici. Il desiderio si nutre di novità e vedere il tuo partner in compagnia degli altri te lo farà vedere attraverso occhi nuovi. Non uscire sempre con la stessa compagnia e non impazzire se il tuo partner sembra "diverso". Questa è una buona cosa. Tendiamo sempre a trasformare i nostri partner in qualcuno che non ci sorprenderà, perché le sorprese ci fanno sentire insicuri. Ma c’è il rovescio della medaglia: siamo al sicuro, ma annoiati.

Fase cinque: fai cose eccitanti. Qualsiasi tipo di attività adrenalinica aumenta il livello di dopamina nel cervello, facendoti sentire più appassionata e più innamorata. Fai qualcosa che ti spaventa un po' e applica la stessa regola al sesso.

Passo 6: agisci e lanciati nelle situazioni. Non limitarti a riflettere sul fatto che vorresti saltare sopra al tuo partner: fallo e basta! Gli studi dimostrano che più tempo passa tra un'idea e la realizzazione, più è probabile che tu perda la motivazione. Non sto dicendo che dovresti irrompere sul posto di lavoro del tuo partner e trascinarlo fuori, ma non lasciare che le cose si appiattiscano. Pensa alla tua vita sessuale come a un conto bancario: è necessario effettuare depositi regolari per mantenere l'equilibrio.

Punto sette: sii la prima a fare la prima mossa. Chiunque abbia meno desiderio deve fare la prima mossa nella coppia. La persona con basso desiderio imposta la frequenza perché è solo quando c’è l’approvazione che si fa sesso. Se sei tu, lanciati e trascina il partner sotto le coperte. Essere quella che richiede il sesso, ti fa sentire immediatamente più sexy e più potente. Ovviamente bisogna aiutarsi a vicenda a creare la giusta situazione. Fai ciò che ti ha fatto sentire sexy l'ultima volta. Questo consentirà di inviare un segnale al tuo cervello - "Fai di nuovo sesso" - innescando le giuste risposte fisiche.

Punto otto: cambia il tuo modo di fare sesso. Più a lungo stai insieme a una persona, più conoscerai a menadito cosa piace e cosa non piace all’altro. La ripetizione, però, smorza il desiderio: prova cose nuove, esplora e cerca di capire cosa piacerebbe al tuo partner. Riscopri zone erogene dimenticate e non avere fretta di arrivare fino in fondo.

·        Il blue-stalling: situazione di stallo amoroso.

DAGONEWS l'1 maggio 2020. Il tuo cuore continua a palpitare quando senti la chiave del tuo partner che girano nella toppa della porta. Eppure non sei convinto che per lui valga lo stesso. Questo è uno dei “problemi” che possono sorgere in una relazione: esprimere i propri sentimenti in modo diametralmente opposto e non comprendere che magari il tuo partner ti ama, anche se non nel modo che vorresti. A farci capire che le vie dell’amore sono infinite è la sexperta Tracey Cox che spiega come non sempre riusciamo a comprendere il modo in cui il partner ci ama, confondendo la sua divertsità per mancanza di interesse. C'è un detto nella terapia di coppia che dice: non cercare qualcuno da amare, cerca qualcuno che ti amerà nel modo in cui vuoi essere amato. Sembra una frase da manuale eppure non c’è nulla di più vero. Poche persone analizzano esattamente come il loro partner  ama, ma quasi tutti sanno, inspiegabilmente, se il partner li ama tanto quanto loro amano.

Rendersi conto che non è così, può farci stare male, ma questo vuol dire essere condannati a essere quelli che amano di più?

Non necessariamente. Ecco due buoni motivi per andare avanti. L'amore muta in qualsiasi relazione. L'amore non è una cosa costante: a volte adoriamo il nostro partner, a volte proviamo puro odio, altre volte indifferenza. Le relazioni attraversano periodi positivi e periodi negativi. Ci sono periodi in cui ci si tuffa nel lavoro. Si trascura il partner, ma non per questo lo si ama di meno.

C’è poi un’altra chiave di lettura: le persone esprimono l'amore in modo diverso. Tutti noi abbiamo il nostro "linguaggio dell'amore", il nostro modo individuale di esprimere l'amore. Ci sono cinque modi in cui la maggior parte delle persone lo fanno.

La prima sono le “parole”: alcune persone sono verbose, esprimono a parole le loro emozioni e spesso dicono al proprio partner di amarle. Altri sentono il sentimento, ma non avvertono l’esigenza di doverlo dire.

Gli uomini, in particolare, spesso esprimono amore con "atti di servizio": lavare la macchina, cucinare, fare la spesa. Sono modi di esprimere il proprio amore e per alcuni hanno molto più importanza che chiamare un fioraio per far consegnare alla propria amata un mazzo di fiori.

Il terzo modo è trascorre del “tempo di qualità” con il partner. Non guardare i telefonini, fare una passeggiata insieme, dedicarsi al partner senza distrazioni.

La quarta strada è la fisicità: tenere la mano, baciare, toccare, fare sesso. Infine, c'è il modo più tradizionale di esprimere l'amore: fare regali.

Tutti noi abbiamo un linguaggio d'amore primario: un modo preferito dei cinque che ci sembra naturale. I problemi iniziano se le due lingue sono drammaticamente diverse e non sei convinto che il modo di esprimere amore del tuo partner conti tanto quanto il tuo. Comprendere che non esiste un modo "giusto" o "sbagliato" di esprimere l'amore è uno dei segreti di una relazione felice. Correggere lo squilibrio potrebbe voler dire semplicemente al tuo partner di mostrare amore nel modo che preferisci.

Simona Sirianni per "gqitalia.it" l'11 marzo 2020. Molte persone non si sentono a proprio agio nel condividere i propri desideri, bisogni e fantasie sessuali con il partner. Non se la sentono di confidare le loro preferenze. Spesso succede perché molti provano vergogna, imbarazzo e ansia quando sia a parlare di sesso in generale sia di desiderio sessuale nello specifico. A complicare questo problema, il fatto che la maggior parte dei programmi di educazione sessuale non fornisce le competenze necessarie per affrontare in scioltezza questo tipo di conversazioni. Perciò che si fa? Come si possono facilitare le conversazioni sul sesso all’interno delle nostre relazioni? La tecnologia viene in aiuto, come sempre. Own Your Sex, è una nuova app creata appositamente per allontanare lo stress quando e se si decida di parlare di ciò che si desidera davvero in camera da letto. Ecco come funziona: entrambi i partner scaricano l'app e connettono i loro account. Ognuno dovrà rispondere separatamente ad un questionario con una vasta gamma di attività sessuali. Le domande, per esempio, possono includere: parleresti sporco con il tuo partner? Invieresti foto/video al tuo partner? Ti lasceresti bendare o legare dal tuo partner? Lasceresti che il tuo partner ti svegliasse con il sesso orale? E via così. Per ogni domanda, si hanno tre opzioni di risposta: "no", "se il mio partner vuole" e "ci sto". Una volta che le risposte sono state date da entrambi, è quindi possibile visualizzare le risposte. Ma non tutte: per quegli interessi sessuali su cui non c’è condivisione (in altre parole, i casi in cui uno esprime interesse e l'altro no), le risposte non vengono rivelate. In questo modo, l'app consente di approfondire in modo specifico gli interessi reciproci, senza esporre al rischio di condividere un interesse a cui l'altro partner non è interessato. Molto spesso, infatti, la causa principale che trattiene molte persone dal parlare dei loro desideri è proprio la paura del giudizio dell’altro. L'obiettivo di questa app è proprio di eliminare quella preoccupazione e rendere meno imbarazzante parlare di quello specifico argomento. Dopo aver esaminato le risposte, si può  selezionare quelle che si desiderano provare nella vita reale, trasformandole in un gioco erotico. In particolare, una volta creata la lista delle attività che entrambi vogliono provare, l'app ne selezionerà casualmente una e la presenterà sotto forma di "comando”, ad esempio: “Marco, parla sporco con Silvia”. Own Your Sex è stato progettato per “includere” persone di genere e sessualità diverse.  Analizzando l'app, si ha l'impressione che sia realizzata per tutti, indipendentemente dalla identità sessuale o di genere. Ad esempio, la prima domanda non chiede alle persone di identificarsi come maschio o femmina, ma se "sei nato con o hai un pene" o "sei nato con o hai una vagina". Viene quindi posta una domanda parallela al tuo partner. L'app non è fatta solo per le coppie. Può anche essere usata in una relazione sessualmente aperta o poliamorosa, dato che si ha la possibilità di aggiungere più partner. Esiste una versione gratuita e una versione “premium” che sblocca quattro categorie di domande aggiuntive che diventano ancora più avventurose.

Se la storia non decolla potresti essere vittima di blue-stalling. Vi frequentate da un po', ma il partner manda messaggi controversi relativamente al suo impegno. Analizzate i segnali, assieme alla life coach, per capire se la vostra sia o meno una relazione da salvare. Chiara Monateri il 28 Febbraio 2020 su La Repubblica.

Coppia psicologia. Avete iniziato a frequentarvi da un po’ di tempo e sembrava non mancasse niente: il romanticismo, il desiderio ed il tempo insieme erano al massimo. Poi avete realizzato che la persona con cui vi state vedendo vi ha messo in una situazione di blue-stalling: ovvero anche se esce stabilmente con voi, ancora è riluttante nell’affrontare discorsi sulla serietà della relazione e sull’impegno che ne deriva, non vuole darvi una definizione, e magari non è ancora esplicita sul fatto di frequentare anche altre persone. La Life coach Silvia Boarino ci racconta tutti i punti da prendere in considerazione e come comportarvi di conseguenza per uscire da questa situazione di stallo, e anche le personalità da riconoscere ed evitare per prevenire situazioni di blue-stalling.

Dite la verità a voi stesse. “Se desiderate una storia stabile, dopo le prime uscite dovreste essere in grado di capire l’orientamento dell’altro. Sembra prematuro dirlo, ma in realtà già durante le prime interazioni potete capire se siete solo un passatempo. Se volete una storia seria, dovete poi anche avere la forza di non legarvi a qualcuno di sfuggente solo per averla vinta e per “ottenere” il suo cuore. La cosa migliore è non raccontarsi bugie e non cadere in situazioni-cliché: così potrete affinare i filtri nel conoscere voi stessi e capire chi volete accanto. Al di là delle meccaniche di tira-e-molla, dovreste cercare qualcuno che vi dà valore e avere la pazienza di conoscervi in due, senza co-dipendenza e filtri auto-ingannatori. Quindi mettetevi davanti allo specchio e chiedetevi: volete uscire da questa situazione incerta, o vi fa comodo e vi accontentate anche delle briciole?”

Datevi una scadenza. “Una cosa è certa: trascinare il blue-stalling per mesi non fa bene. Se avete fatto delle azioni risolutive e l’altro è completamente a conoscenza dei vostri sentimenti, datevi una scadenza per capire la situazione. Lasciar passare un mese, per esempio, può aver senso per capire l’evoluzione delle cose. Diverse teorie di mindfulness e benessere personale sul cambio di varie abitudini dicono infatti che 21 giorni sono il tempo necessario in cui si inizia attivamente ad inserire il cambiamento: quindi se questa persona vi vuole venire incontro, in un mese si dovrebbe vedere almeno una “tensione” al miglioramento. Parlare con l’altro del blue-stalling è parlare di voi: quindi se questa persona dopo un mese non fa neanche un passo, significa che probabilmente non è interessata ad un futuro insieme”.

Soppesate il suo passato. “Se l’altro non ha metabolizzato una separazione o un divorzio, è un caso abbastanza particolare, perché probabilmente non crea il blue-stalling di proposito, ma ha solo bisogno di tempo. È probabile infatti che questa persona non sia in grado di legarsi al di fuori di quello che inconsciamente ancora riconosce come il proprio nucleo familiare. Se vuole andare oltre ed è intenzionato a stare con voi però ve lo direbbe, chiedendovi della pazienza. Evitate il pressing, perché certe situazioni emotive possono essere molto delicate, e così soffochereste questa persona. Da una parte con la vostra presenza potreste ridarle speranza, dall’altra però questa potrebbe volere solo una pausa di “distrazione” prima di tornare indietro, nel tentativo di rimettere assieme la coppia scoppiata”.

Imparate ad ascoltare. Nel caso il partner vi avesse detto che non vuole una relazione, questo è lo stato dei fatti: la persona che avete davanti non sta facendo blue-stalling, ma vi ha consegnato un chiaro messaggio. Date ascolto a quello che vi viene detto, non insistete a restare sordi. È invece un evidente segno di blue-stalling se questa persona non vuole pubblicare contenuti sui social che possono minimamente alludere solo alla vostra presenza: se non avesse segreti non dovrebbe avere problemi a pubblicare una foto in compagnia di una presenza femminile qualsiasi. La realtà è che potrebbe volervi nascondere. Cercate di notare anche gli stati emotivi dell’altro davanti al vostro uso dei social media nella condivisione di esperienze che potrebbero includerlo: se addirittura sembra irritato o spaventato, di nuovo potrebbe avere qualcosa da nascondere. Un altro segno di blue-stalling è il non volervi presentare agli amici, anche in maniera breve e casual, e di conseguenza nemmeno ai genitori. Se vi ritrovate di fronte a un muro di scuse infinite, che magari non si reggono in piedi, e se questa forte resistenza non cambia nemmeno a seguito di una vostra richiesta, è chiaro che non vuole permettere alla vostra relazione di decollare”.

Datevi una direzione. “Pensate che questa situazione stia accadendo ai vostri migliori amici: direste loro di comportarsi come state facendo voi? Se vi sentite confusi, provate a guardarvi dall’esterno e “datevi un consiglio” su come agire. Questo esercizio vi aiuterà a valutare più concretamente i fatti impedendovi anche di prendervela (magari senza giusti pretesti) con voi stessi o con l’altro. Se vedete che questa persona non risponde alle vostre aspettive, fate un passo indietro: magari non le ha mai alimentate, quindi erano solo nella vostra testa. Non lasciate quindi che la rabbia prenda il sopravvento se vi rendete conto che avete “spinto” una relazione senza futuro. Non è colpa vostra, e l’altra persona probabilmente non è quella giusta per voi: è giusto in questo caso realizzare che non vale la pena di portare avanti la storia, e che non vi trovate nel posto giusto.

Non investitevi del ruolo di crocerossina. Non pensate che stando vicino a chi sta facendo blue-stalling possiate risolvere i suoi “problemi” (che spesso sono scuse, utilizzate per giustificarsi e per perpetuare una situazione squilibrata). Il blue-stalling è infatti tipico di persone inquiete e non risolte, che non danno motivazioni palesi all’essere ritrosi. Senza comunicare, non vi aiutano a comprendere qual è il punto per iniziare a capirli, o per affrontare qualsiasi tipo di problematica. In questo caso allontanarsi è forse il passo migliore, anche perché spesso le persone di questo tipo hanno sempre vissuto di blue-stalling e non hanno mai imparato a sviluppare vere e proprie relazioni adulte. Ricordate che in una “missione da crocerossina” togliete il tempo e lo spazio alla ricerca delle cose positive impegnandovi solo in quelle negative, in un match che non è quello giusto per voi.

Non remate contro corrente. Capita che vi sentiate inadeguati, che modifichiate i vostri atteggiamenti ed il vostro aspetto fisico e che vi snaturiate per “convincere” questa persona a stare con voi. O tentate di includerlo a fondo nella vostra vita come reazione al fatto che lui vi esclude. Se avete preso quella strada, fermatevi: chi è transitorio di solito dà molto e poi fa un passo indietro, e passo dopo passo potrebbe sparire del tutto.

Quelli che vogliono tenersi più opzioni aperte. Sono i tipici soggetti che pensano che possono trovare qualcosa di meglio. Vi sentirete dire come giustificazione “Sono sempre stato così” o “Non ho mai avuto relazioni serie”. Da un adulto però ci si deve aspettare altro: spesso chi vuole “scegliere” come in un negozio, non ha mai scelto davvero e non sa coltivare una relazione, non ha un vocabolario dei sentimenti e probabilmente quando ha “sentito” ha solo avuto esperienze fallimentari. Questa persona, anche se finge il contrario, non ha gli strumenti per scegliere.

Quelli che hanno paura di impegnarsi. Questi soggetti temono il confronto, le responsabilità, il compromesso e non vogliono mettersi in gioco, privilegiando unicamente il puro dating, che invece è solo divertimento: mentre escono con voi, potrebbero avere un profilo attivo sulle piattaforme di online dating. In questo caso assicuratevi di essere stati chiari riguardo alle premesse, comunicate in modo trasparente i vostri desideri riguardo alla vostra coppia. Non lasciate spazio per i malintesi: magari avete voluto sembrare “disimpegnati”, e così questa persona, abituata solo a “prendere”, ha trovato la preda giusta. Non è piacevole frequentare soggetti di questo tipo, anche perché vi riserverebbero sorprese spiacevoli e scaricherebbero su di voi la responsabilità del non funzionamento della relazione.

Quelli che finiranno per fare ghosting. Queste persone non hanno problemi ad incontrare altra gente e spesso escono con diverse persone senza essere sinceri a riguardo. Nel momento in cui si avvicinano agli altri però, hanno paura di essere giudicati, e quando arriva questo momento spesso spariscono senza spiegazioni, facendo ghosting e tirandosi fuori dal gioco. Questo tipo di persone mantengono tutto al livello superficiale, e si fanno prendere dalla sindrome dell’impostore perché pensano di non essere in grado di gestire la relazione: è uno schema che spesso si ripete per certe persone, che tendono di conseguenza ad avere atteggiamenti tossici e destabilizzanti verso gli altri. Se avete dei sentori che il vostro partner sia di questo tipo, meglio abbandonare il campo subito, evitandovi un’impellente delusione da ghosting.

·        Il Dogfishing.

Marinella Meroni per "Libero Quotidiano" il 17 giugno 2020. È la tendenza del momento, si chiama "dogfishing". Non si tratta di andare a pesca coi cani, bensì una nuova moda usata da uomini e ragazzi per rimorchiare: pubblicare sui siti di incontri la proprio foto con un cane. E c'è perfino chi, non avendo il quattro zampe ,se lo fa prestare da amici o parenti, pur di fare lo scatto con lui. I maschi hanno capito che il gentil sesso si intenerisce all'immagine di un cagnolino ed è più propensa ed attratta a chattare con chi si mostra con il quattrozampe - studi hanno chiarito che per le donne il cane è sinonimo di uomo affidabile. E così i maschi approfittando di questo debole, giocano facile puntando alla conquista. Una ricerca di Anthrozoös, che studia le relazioni tra persone e animali, ha svelato che il 58% delle donne è più attratto da una persona che ha un animale domestico, specie se è un cane, perché risulterebbe più positivo, maturo, responsabile e affettuoso. Aggiunge Erika Ettin, studiosa di incontri: «Una donna pensa inconsciamente che se un uomo tratta bene il suo cane, tratterà bene anche la propria partner. È dimostrato che ci sono persone che usano graziosi cagnolini, anche presi in prestito da amici o parenti, per pubblicare uno scatto utile a conquistare la propria preda». Dalla ricerca è emerso che oltre il 25% degli uomini single scelgono di pubblicare sui siti di incontri la loro foto profilo con un cane che non gli appartiene, usandolo come "esca", al fine di ottenere appuntamenti galanti. Nell'era digitale è sempre più diffuso che incontri o flirt avvengano online, quindi è necessario che le immagini pubblicate siano accattivanti, seducenti, e chi le guarda sia immediatamente colpita e convinta a cliccare un si, iniziando subito una conversazione che il più delle volte riguarda Fido. Le foto diffuse sono generalmente rassicuranti, dolci e raffigurano spesso teneri cuccioli adorabili o le razze più in voga, le ragazze alla vista del cucciolo si inteneriscono, poi dalle chiacchiere all'incontro in passo è breve. E così il "pesce" ha abboccato.

MOSTRARSI PIÙ AFFIDABILE. Il "dogfishing" dicono gli esperti è una tecnica altamente ingannevole, progettata solo per attirare ad un primo incontro, perché è dimostrato che chi ha un cane dà l'impressione di essere più affidabile, più amichevole e disponibile, e le persone tendono ad essere più attente e più di aiuto verso chi ce l'ha. Sempre restando in tema c'è un altro studio che ha scoperto che gli uomini a spasso col cane abbordano 3 volte più del normale. È noto che i cani facilitano le relazioni sociali, confermato da studi dell'università di Bristol e della Cleveland University, che dimostrano che ci rendono più socievoli, che le persone in loro compagnia appaiono più rilassate, sicure e felici. È quindi facilmente comprensibile come sia più facile iniziare a chiacchierare con una persona a spasso con proprio animale rispetto a chi è solo. Perciò alcuni studiosi hanno focalizzato l'attenzione agli approcci di coppia, scoprendo che gli uomini con un cane hanno un tasso di successo tre volte più alto del solito. I motivi sono che le donne tendono a ritenere più attraente un uomo che ha un cane perchè inconsciamente la presenza di Fido fa credere sia più serio e più propenso ad impegnarsi sentimentalmente a lungo termine. Poi che è più facile l'approccio con dialoghi sul cane anziché argomenti a caso. E infine, spiegano i ricercatori, interagire con gli animali alza i livelli di ossitocina del sangue, producendo benessere e sensazioni positive, come fiducia e sicurezza, che si trasmettono facilmente ad altri. Ma, avvisano gli studiosi, la presenza del cane non è sempre sinonimo di fiducia e stabilità, e la capacità di giudizio può essere offuscata dalla presenza dell'animale inducendo la persona a trovare l'altro gentile, educato, disponibile e attento, ma non è detto che sia effettivamente così!

·        Il Fascino.

Shana Lebowitz per "it.businessinsider.com" il 5 luglio 2020. Ci sono molti modi per aumentare facilmente il vostro sex appeal. Portare a spasso un cane; suonare della buona musica, raccontare. Purtroppo, ce ne sono almeno altrettanti per sabotarlo, per esempio mettere una foto in cui stravaccati o con le braccia incrociate nel sito per appuntamenti online. Di seguito, abbiamo riunito comportamenti e caratteristiche fin troppo diffusi che possono rendere difficile riuscire ad avere un appuntamento; e solo alcuni hanno a che fare con il vostro aspetto fisico.

Carenza di sonno. Dopo aver dormito poco possiamo sembrare molto meno attraenti. Nel 2010, ricercatori svedesi e olandesi hanno scattato foto di persone che avevano dormito almeno otto ore la notte precedente e di persone che non avevano dormito per 31 ore. Quelle che non avevano dormito venivano giudicate meno sane e meno attraenti. Tre anni dopo, i ricercatori hanno approfondito l’argomento, e altri partecipanti hanno giudicato la persone ritratte nelle foto con criteri diversi. In generale, dicevano che le persone che non avevano dormito avevano “palpebre cadenti, occhi rossi, occhiaie e pelle pallida”. Sembravano addirittura più tristi rispetto alla loro controparte più riposata.

Essere cattivi. I bravi ragazzi arrivano davvero ultimi? In uno studio cinese del 2014, i ricercatori hanno fatto osservare a uomini e donne foto di altre persone che avevano tutte un’espressione neutra. Alcune delle foto erano accompagnate dalla parole “dignitoso” e “onesto”; altre da “cattivo” e “malvagio”; altre ancora erano prive di informazioni. I partecipanti finirono col giudicare meno attraenti le persone che venivano descritte come cattive e malvagie.

Linguaggio del corpo chiuso. La “power pose” è un tema controverso all’interno della comunità scientifica. Uno studio del 2010 ha scoperto che allargare il proprio corpo può far sentire più potenti e fiduciosi in se stessi, ma uno degli autori ha detto recentemente che gli effetti non sono reali. Però uno studio del 2016 condotto da ricercatori della University of California a Berkeley, della Stanford University, della University of Texas di Austin e della Northwestern University suggerisce che assumere una posizione simile alla “power pose” possa rendervi più attraenti; mentre un linguaggio del corpo contratto avrà l’effetto opposto. In un esperimento di questo studio, i ricercatori avevano creato dei profili per uomini e donne su una app di appuntamenti che si basava sul GPS. In un set di profili, gli uomini e le donne erano ritratte in posizioni contratte, ad esempio con le braccia incrociate o le spalle ricurve. In un altro set di profili, gli stessi uomini e le stesse donne erano ritratti in posizioni più espansive, come sollevare le braccia a “V” o allungandosi per prendere qualcosa. I risultati mostravano che per un appuntamento i partecipanti sceglievano più probabilmente le persone in postura espansiva piuttosto che contratta. Ed è risultato che gli uomini in posizione contratta fossero particolarmente svantaggiati.

Stress. Rilassatevi — potreste avere un aspetto migliore. Uno studio del 2010 svolto da ricercatori in Finlandia, Sudafrica, Gran Bretagna, Lettonia ed Estonia ha scoperto che le donne lettoni con livelli elevati di cortisolo, l’ormone dello stress, erano percepite dagli uomini eterosessuali lettoni come meno attraenti. Anche se gli uomini non conoscevano il livello di cortisolo delle donne (solo i ricercatori li conoscevano), esso sembrava influenzarne il fascino percepito. Secondo i ricercatori è possibile che un basso livello di cortisolo (e di stress) indichi salute e fertilità.

Apparire troppo felici e troppo orgogliosi. Mentre la felicità è generalmente considerata attraente nelle donne, di solito le ragazze non cercano ragazzi esageratamente sorridenti. Al contrario, mentre l’orgoglio è tradizionalmente considerato attraente negli uomini, pare che i ragazzi non preferiscano le ragazze che appaiono orgogliose. Nel 2011, i ricercatori della University of British Columbia hanno svolto degli esperimenti su oltre 1.000 adulti in nord America, facendogli vedere delle fotografie di membri del sesso opposto e chiedendogli quanto erano attraenti le persone nelle foto. I risultati mostravano che gli uomini giudicavano più attraenti le donne quando avevano un aspetto felice e meno attraenti quando dimostravano orgoglio. Le donne, invece, giudicavano più attraenti gli uomini che dimostravano orgoglio e meno attraenti quelli che sembravano felici. Non è chiaro, però, se queste scoperte sul fascino siano applicabili a culture diverse. In una dichiarazione, i ricercatori hanno detto che probabilmente i risultati riflettono i tradizionali valori occidentali e le regole di genere; ad esempio, l’idea che un uomo debba apparite “forte e silenzioso” mentre una donna “sottomessa e vulnerabile”.

Non avere senso dell’umorismo. Un tizio entra in un bar … farfuglia una barzelletta e se ne va da solo. Uno studio del 2009 dei ricercatori della University of California di San Diego ha scoperto che non essere spiritosi — e addirittura avere un senso dell’umorismo nella media — è considerato meno attraente rispetto ad avere un gran senso dell’umorismo. Lo studio ha anche scoperto che non era questione di genere — poco "sense of humor" è considerato allo stesso modo scarsamente attraente in uomini e donne.

Pigrizia. Il risultato di una serie di esperimenti, pubblicato dai ricercatori della University of Wisconsin-Madison e dalla State University of New York di Binghamton nel 2004, dimostrava che il fascino percepito era collegabile a tratti quali la disponibilità. In un esperimento, i ricercatori chiesero agli studenti di un corso di archeologia di sei settimane di valutarsi reciprocamente secondo varie caratteristiche della personalità, e anche secondo il fascino, all’inizio e alla fine del corso. Quando i ricercatori analizzarono i risultati, scoprirono che anche gli studenti valutati come attraenti nella media all’inizio del corso, alla fine erano stati valutati sotto la media quando i loro compagni li percepivano come pigri (ad esempio non collaborativi e scansafatiche).

Se il vostro odore è troppo simile o troppo diverso da quello di un potenziale partner. La scienza suggerisce che noi esseri umani cerchiamo compagni che non siano geneticamente né troppo simili né troppo diversi da noi; e a volte compiamo queste valutazioni basandoci sull’odore corporeo. In uno studio del 2006, condotto dai ricercatori della University of New Mexico di Albuquerque, ad esempio, sono state ingaggiate coppie eterosessuali per rispondere a domande su quanto si sentivano attratti dal loro partner e su quante erano le altre persone con cui avevano fatto sesso nel corso della relazione. Contemporaneamente, i ricercatori esaminarono il DNA dei partecipanti. In particolare, volevano paragonare il loro complesso maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHP), che sono geni del sistema immunitario. I ricercatori hanno scoperto che più gli MHP di una coppia erano simili, meno i partecipanti erano attratti dai loro partner e più probabilmente avevano avuto rapporti sessuali al di fuori della relazione. Allo stesso tempo, lo studio ha anche scoperto che evitiamo persone con un odore troppo diverso dal nostro.

Disonestà. Se siete tentati di mentire per apparire più fighi, non fatelo. Una ricerca suggerisce che la disonestà rappresenta uno dei principali motivi di separazione sia per uomini che per donne. Per uno studio del 2006 condotto nella University of Western Ontario, i partecipanti dovevano leggere commenti a proposito di uomini e donne che venivano descritti come intelligenti o stupidi, dipendenti o indipendenti, e onesti e disonesti. I partecipanti poi giudicavano le persone descritte basandosi su una serie di criteri, tra cui, quanto gli piacevano e quanto erano affascinanti. Si scoprì che l’onestà era l’unica caratteristica delle tre che influiva sostanzialmente sui giudizi di fascino e gradimento.

Fumare e bere troppo. In uno studio del 2016, i ricercatori hanno reclutato più di 200 donne eterosessuali in Belgio per far loro osservare fotografie e biografie di giovani uomini. Gli uomini le cui biografie indicavano che fumavano frequentemente venivano considerati meno affascinanti rispetto ai non fumatori e ai fumatori occasionali — soprattutto se veniva presa in considerazione una relazione di lungo periodo. Per quanto riguarda il bere, i bevitori occasionali erano giudicati più attraenti rispetto ai non bevitori e ai bevitori frequenti, in considerazione di relazioni sia di breve sia di lunga durata.

Non essere umili. L’immodestia può uccidere il romanticismo — almeno secondo uno studio del 2014 eseguito dai ricercatori del Hope College e della University of North Texas. Durante due esperimenti, i ricercatori hanno fatto leggere a circa 200 studenti, per lo più eterosessuali, descrizioni e valutazioni della personalità di un ipotetico compagno di studi. Le descrizioni erano varie — in alcune c’era scritto, “sono uno studente abbastanza bravo, ma non un secchione. Gli altri dicono che sono intelligente, ma a me non piace attirare l’attenzione”. In altre, “Sono uno studente davvero bravo e molto intelligente, ma sicuramente non un nerd o un secchione: credo che mi venga naturale”. Quando gli studenti apparivano molto umili, era più probabile che i loro compagni volessero iniziare una relazione con loro.

Preferenze politiche discordanti. Quando il personale diventa politico.

Uno studio del 2016 pubblicato da ricercatori della University of California di Merced e della California State University di Stanislaus suggerisce che le nostre opinioni politiche influenzano i nostri criteri di valutazione del fascino. Per lo studio, condotto durante la campagna elettorale del 2012, circa 850 adulti statunitensi hanno indicato se si identificavano maggiormente con i democratici o con i repubblicani. Poi, i partecipanti osservavano una foto e una breve biografia di una persona del genere opposto. In alcuni casi, la biografia indicava se la persona sosteneva Barack Obama o Mitt Romney. Si scoprì che le donne democratiche trovavano molto più attraente l’uomo ritratto se era un sostenitore di Obama e molto meno attraente se sosteneva Romney. Anche gli uomini ritenevano molto meno attraente la donna quando lei sosteneva il partito opposto. Ma non la ritenevano molto più attraente nel caso sostenesse lo stesso partito. Ovviamente non si tratta di cambiare le vostre idee politiche per apparire più attraente agli occhi degli altri. E solo la prova della miriade di fattori che definiscono le nostre preferenze sentimentali.

·        La seduzione.

Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 7 giugno 2020.  Che cos' è la seduzione? Una tattica, una persuasione, un gioco, una recita, un piacere? Niente di tutto questo, è un'arte della guerra. A dirlo è la storica Marie-Francine Mansour, nel libro Ruses et plaisirs de la séduction (Astuzie e piaceri della seduzione), appena uscito in Francia da Albin Michel. L'autrice dà una risposta secca a una domanda antica quanto il mondo, chiamando a testimoniare in favore della sua tesi i più noti seduttori di sempre. Da Don Giovanni a Salomè e Sherazade, da Carmen a Casanova. Insomma sedurre significherebbe mettere sotto l'altro. E, quel che più conta, questa sottomissione sarebbe scritta nella natura umana. Sono gli ormoni e il Dna a fare della vita una competizione generalizzata da cui i seduttori escono fatalmente vincitori. In amore come in politica, in economia come in guerra. Una spiegazione che ha una sinistra somiglianza con teorie molto in voga tra gli economisti da un lato e certi etologi dall' altro. I primi infatti sostengono che l'uomo sia naturalmente assetato di potere e di guadagno. Gli altri pretendono di spiegare la cultura come un dispositivo innato, che spinge ogni essere a seguire il proprio "gene egoista". Dimenticando un piccolo particolare. Che la vera natura umana, come dice l'antropologo americano Marshall Sahlins, è la cultura. Che non è mai la stessa, perché cambia con i tempi e le civiltà, con la storia e la geografia. Pretendere che l'uomo sia istintivamente predatore, che la donna sia istintivamente madre e che la vita sia una concorrenza spietata di tutti contro tutti, non è che la filosofia del neocapitalismo globale. Che eleva le sue pulsioni animali a norma universale.

·        Il Dirty Talk.

Penda N'diaye per "vice.com" il 19 settembre 2020. Magari sei lontano dal tuo partner, o stai tastando il territorio con una persona conosciuta da poco, o vuoi semplicemente rendere la tua vita sessuale più eccitante perché hai poco altro da fare — a prescindere: questo è il momento perfetto per imparare a dire cose spinte (pratica anche nota come dirty talk) a distanza. Parlare di sesso in modo eccitante per tutte le parti coinvolte può limitarsi semplicemente al dire “voglio fare X al/alla tuo/a Y tantissimo.” Ma può anche essere molto più di questo. E la chiave è lasciare da parte i dialoghi presi dai porno e sfruttare la propria immaginazione. Per fare bene dirty talk, serve costruire una forma di narrazione che aiuti la conversazione a progredire e dia spazio a errori, tentativi e compromessi che definiscano cosa fa eccitare te e l’altra persona (o tutte le persone coinvolte). Non deve essere perfetto, anzi. Quindi, che stiate facendo sexting o parlando al telefono o in video call: da dove si inizia? Come funziona il consenso? Come ti liberi della timidezza? Siamo qui per sussurrarti all’orecchio i migliori consigli.

Prima di tutto, chiarisci cosa piace a te nel sesso. Prima di farlo con un’altra persona, prenditi il tempo per fare due conti su cosa ti piace. Per te, quand’è che il sesso è fantastico? Come lo descriveresti? In una conversazione arrapante c’è spazio per la goffaggine? Per le allusioni? Il romanticismo? Pensaci. Più informazioni hai su di te, spiega la terapeuta esperta di sesso e relazioni Shadeen Francis, più saprai condividerle con un’altra persona. Iniziare avendo chiaro cosa vuoi tu aiuta i tuoi partner a “capire come vuoi essere trattato/a.” Una volta identificati temi e spunti, condividili con l’altra persona quando siete entrambi pronti a farlo. Puoi dire cose tipo:

"Mi piace quando una persona mi parla di cosa trova eccitante.”

"Se ti va, mi piacerebbe che mi dicessi cosa fare con decisione, sentiti libero/a di darmi istruzioni mentre lo facciamo.”

"Mi piace quando si crea una certa tensione prima che la situazione diventi del tutto esplicita."

Se hai paura di agitarti (che non è sempre una cosa negativa!), prendi qualche appunto.

Mettiamo le cose in chiaro: non è sempre facile essere del tutto espliciti a parole. Ti preoccupa cosa dire sul momento? Niente ansia. Farsi dei “bigliettini” — anche solo mentalmente — non significa rinunciare a spontaneità e/o autenticità. Stando alla sex educator Erica Smith, “scrivere una bozza preliminare di come ti immagini una sessione di dirty talk è come essere autori di un proprio romanzo erotico.” Buttare giù qualche riga può aiutarti a essere più fedele al tuo modo di parlare di tutti i giorni—o avvicinarti a una fantasia che vuoi esplorare. Puoi proprio provare scrivendo una storia e i dialoghi per i personaggi coinvolti. Chi sono? Qual è il tuo ruolo? Queste righe saranno il tuo piano di emergenza — o il punto di partenza — se c’è troppa timidezza.

Il consenso è necessario, anche se state solo parlando, quindi assicurati che sia il primo passo di qualsiasi conversazione spinta.

Il consenso non è qualcosa di assoluto e deve essere discusso in qualsiasi fase di un rapporto — fare dirty talk consensualmente non è la stessa cosa che mandare un messaggio sconcio senza preavviso.

E se vuoi fare dirty talk con qualcuno che non è fisicamente con te, è particolarmente importante che le cose siano chiare, perché in quel momento “dipendi dal linguaggio in modo diverso,” chiarisce Casey Tanner, che è specializzata in intimità tra persone queer. Tanner suggerisce di fare il punto prima di spingersi oltre: “Ok, mi piace la direzione che sta prendendo la conversazione,” aggiungendo poi, per esempio, “Che ne dici di fare sexting?” sono buoni punti di partenza. Fare domande di questo genere via via che la cosa procede ha il beneficio aggiunto di far sentire tutte le parti coinvolte meno incerte o timide.

Parte del consenso sta nell’assicurarsi che il momento sia quello giusto, per cui chiedi sempre conferma prima di iniziare. Fare dirty talk non è solo una questione di volere (o non volere) in assoluto ascoltare i desideri di qualcun altro o raccontargli i propri, ma anche di avere lo spazio mentale e quello fisico per farlo. Nonostante la pandemia abbia costretto tantissime persone a casa senza gli stessi impegni di prima, molte hanno provato un calo di energia sociale. E questo vale anche per fare sesso virtuale — a prescindere da quando eccitante lo trovassero prima. Ricevere un messaggio esplicito mentre sei a cena con i tuoi genitori non è proprio l’ideale (per la maggior parte delle persone, almeno). Per evitare momenti di gelido imbarazzo — e assicurarti che il consenso sia presente — prova a sondare il terreno.

Dichiara i tuoi limiti e chiedi all’altra persona i suoi. “I confini personali non si manifestano spontaneamente da soli,” spiega Francis—devi tirarli fuori tu per sapere quali sono quelli di tutti e far sì che siano rispettati. “Puoi togliere un po’ di pressione [da te stesso/a e dal partner] spiegando le tue intenzioni,” con l’aiuto di domande come: "C’è qualcosa che vuoi dirmi prima di iniziare a usare parole forti e insulti?”

Usa la formula “sì, no, forse?” per vedere dove le cose che eccitano te coincidono con le cose che eccitano l’altra persona. Inizia con una lista di qualche domanda per sondare il suo interesse rispetto a certe tue fantasie. La chiave sta in tre parole: “Sì,” “no” e “forse.” La conversazione potrebbe essere tipo: “Ti piacerebbe se ti mandassi un vibratore simile al mio, così possiamo masturbarci insieme? Sì, no, forse?” suggerisce Tanner. “Ti piacerebbe se ti mandassi un vocale mentre ho un orgasmo?” Stabilire dei parametri rende meno complicato parlare di sesso, perché è come dare degli indizi all’altra persona su come semplificare la conversazione e renderla più concreta. E se la risposta a una domanda è negativa, ricordati di non prenderla sul personale.

Se all’altra persona va, mostra e racconta quello che ti piace. Dopo aver dato il via alla conversazione descrivendo ciò che ti piace—e ascoltando cosa piace all’altra persona—capisci se è ok mandare video porno o GIF che mostrano cosa ti piacerebbe esplorare insieme—oppure, ovviamente, descrivi tutto a parole senza tralasciare i dettagli spinti. E ricordati di sottolineare che il partner coinvolto è sempre benvenuto a fare la stessa cosa. Dì quello che vuoi dire con sicurezza—se appari a tuo agio, aiuterai l’altra persona a rilassarsi. Iniziare una conversazione sconcia con un po’ di insicurezza è normale. Ma “è buona cosa fare pratica sull’essere padroni dei propri desideri e chiedere all’altro come li fa sentire,” ha detto Tanner. È una cosa particolarmente utile se non sei fisicamente insieme all’altro. Quando facciamo dirty talk al telefono o per messaggio non possiamo fare affidamento sulle espressioni facciali o il linguaggio corporeo, quindi. anziché fare troppe domande a caso, stabilisci con chiarezza quello che ti piacerebbe succedesse di persona e invita l’altro a fare lo stesso. Quando dimostri a un’altra persona che accetti e ti godi liberamente i tuoi desideri, è come dirle che può sentirsi libera di fare altrettanto — e permette di avere una conversazione molto… interessante.

·        L’iniziativa sessuale.

DAGONEWS il 10 ottobre 2020. Avete problemi in camera da letto? Poche persone riescono a superarli da sole e un numero ancora inferiore si rivolge a un terapista. La soluzione è che spesso i matrimoni finiscono per andare avanti senza avere più idea di cosa sia il piacere e la sessualità. Ma come si fa a sapere quali problemi si possono risolvere da soli e quali hanno bisogno dell’aiuto di un professionista? La sexperta Tracey Cox ci spiega quali sono i quattro problemi più comuni e come superarli.

Non riuscire a raggiungere un orgasmo durante un rapporto. È sempre la stessa questione. L’orgasmo per una donna è difficile da raggiungere perché passa dalla stimolazione del clitoride e non dalla penetrazione. È il clitoride e non la vagina ad avere quelle terminazioni nervose che fanno raggiungere alla donna il climax. Non c'è assolutamente nulla di sbagliato se non riesci a raggiungere l'orgasmo durante il rapporto sessuale: fai parte della maggioranza e non della minoranza. In realtà non c'è un "problema" da risolvere. Ma puoi aumentare le tue possibilità di avere un orgasmo attraverso la penetrazione provando alcune tecniche collaudate.

Soluzione: correggilo tu stessa. Solo il 15-20% delle donne è in grado di raggiungere l'orgasmo durante il rapporto senza una stimolazione del clitoride. La maggior parte delle donne che hanno questo orgasmo, lo fanno attraverso la stimolazione della parete frontale. Per stimolare quest'area altamente sensibile (nota anche come punto G), bisogna provare la posizione del missionario con i fianchi sollevati. Un’altra idea è di utilizzare un vibratore.

Essere troppo arrabbiati per fare sesso con il partner. I problemi in una relazione spesso hanno un effetto negativo sulla vita sessuale. Se la persona con cui abiti non è più tuo amico, è il nemico. Perché dovresti aprire il tuo cuore - o le tue gambe - a lui? Sentirsi attaccati non è sexy e l’autostima precipita. Questo è ciò che viene chiamato inferno coniugale.

Soluzione: rivolgiti a un terapista. Se ti senti arrabbiato con il tuo partner da mesi o da anni rivolgiti alla terapia di coppia. Quando i problemi non vengono risolti rapidamente, si trasformano in piaghe che divorano la relazione.

Non si fa più sesso. A volte il sesso si interrompe in una relazione a causa degli eventi della vita: bambini piccoli, stress a lavoro o problemi di altra natura. All’inizio pensi che ricomincerai a fare sesso, ma poi ti accorgi che non succede. Se hai smesso di fare sesso, è molto improbabile che ti rivolgerai al tuo partner per affrontare i problemi. Ad alcune coppie non importa quando il sesso scompare, ma si rinuncia a una parte importante del rapporto.

Soluzione: dipende da quanto tempo è passato. Non importa quale sia stata la ragione per cui non lo fate. Una volta che hai smesso di fare sesso per più di un anno, la situazione non cambia. Se non hai già parlato, fallo ora. Inizia con qualcosa di semplice. Dì: “Senti, volevo parlarti di qualcosa. Ti amo e amo la nostra relazione e mi manca fare sesso. Hai notato che non lo facciamo più? Come ti senti?”. Non farti prendere dal panico se non ricevi una buona risposta. A volte basta affrontare il problema, risolverlo. Altre volte, diventa ovvio che il tuo partner non ha interesse a fare sesso di nuovo regolarmente o per niente. Se la situazione è questa chiedi il motivo. A volte ci può essere un problema di disfunzione erettile che crea un grosso problema per l’uomo e lo porta a non volerlo più fare. Se si rifiuta di parlarne la terapia è necessaria.

Il partner si rifiuta di parlare di sesso. Molte persone si rifiutano di parlare di sesso. bisogna cercare di superare il disagio iniziale, ma una volta fatto per molte coppie è un gioco da ragazzi e si prova una sensazione liberatoria. Tuttavia alcune persone, cresciute pensando al sesso come qualcosa di sporco o che hanno avuto dei traumi, non ne parleranno mai. Non c’è una soluzione rapida e ci vuole tempo e pazienza.

Soluzione: rivolgersi a un terapista. Se hai provato di tutto per far aprire il tuo partner e nulla ha funzionato, vedere un terapista è l'unica strada da percorrere. Resisteranno: se non vogliono parlare di sesso con te, non vogliono nemmeno parlare con un terapista. Se non vogliono farlo, vai da solo. Il terapista ti aiuterà a trovare il modo per affrontare la situazione.

DAGONEWS il 26 giugno 2020. Evviva le vacanze, il periodo in cui si accendono i bollori e le coppie sperimentano il miglior sesso di tutta la stagione. Parola di Tracey Cox che assicura come la mancanza di impegni, il crollo dello stress e la possibilità di staccarsi per qualche ora dai figli può accendere quel fuoco che rimane sopito dal logorio della vita quotidiana. Ecco, dunque, come sfruttare al meglio il periodo di relax. Più tempo: invece di una sveltina veloce finalmente avete il tempo per rilassarti e godervi qualche ora di sano sesso. Rendete infuocata l’intera giornata: non limitatevi a fare sesso solo una volta, ma fatelo spesso e frequentemente per mantenere alta l’eccitazione lungo tutto l’arco della giornata. Non dimenticate il sesso orale: bastano anche due minuti per mandare il partner fuori giri. Non spogliatevi: basta tirargli giù i pantaloni (o alzarle la gonna) e abbassare le mutandine. Provate un nuovo massaggio: esplorate quello erotico e genitale. Tutto quello di cui si ha bisogno è un lubrificante o un olio per massaggi adatto alle zone intime. Stendete il partner in una posizione in cui si può accedere facilmente ai genitali e prendetevi tempo per regalargli piacere. Se sei una donna prendi in mano il pene del tuo partner e scivola verso l’alto, usando un movimento circolare e rotatorio con la mano. Funziona solo se il movimento è verso l’alto: quando arrivi alla cappella, usa il palmo della mano per accarezzare l'intera superficie. Se sei un uomo, stimola il clitoride con movimenti circolari provando a farti spiegare in quale punto la tua partner prova più piacere. Fai attenzione: non tutte le donne amano la stimolazione diretta del clitoride, quindi prova a capire (o a chiedere) quale punto per lei è più sensibile. Prendi il clitoride tra due dita e prova a tirarlo delicatamente e poi torna a formare cerchi concentrici intorno all’area di piacere.

I consigli per le vacanze.

Niente figli: se siete in vacanza con loro, assicuratevi di aver scelto un resort che abbia un mini club che si prenda cura dei bimbi. Una volta soli, sperimentate e accertatevi di aver portato sex toys, abiti per giochi di ruolo, fruste e tutto ciò che può accendere l’eccitazione.

Provate a cambiare ruolo: sebbene l'89% delle donne scelga di essere sottomessa e in una situazione di “schiavitù”, coloro che osano avventurarsi in una posizione dominante scoprono un potere afrodisiaco diverso.

Sperimentate cose nuove: avere un legame con il partner significa anche provare cose nuove a letto e allontanarsi dal percorso prevedibile. È questa imprevedibilità che forse cfrea la più grande eccitazione per le coppie di lunga data.

Usate le manette, una sciarpa, vecchie calze o un kit di bondage per legare i polsi o le caviglie. Improvvisate uno spettacolino erotico, avventuratevi in situazione “sporche”. Sussurrate in modo seducente tutte le cose che avete intenzione di fare e poi fatelo!

Pizzichi, schiaffi e solletico: il numero di coppie che hanno introdotto la sculacciata nelle loro sessioni sessuali è aumentato da quando è esploso il fenomeno “Fifty Shades”. Molti altri lo hanno introdotto nella loro "lista dei desideri". Se siete già devoti a queste pratiche, usate una frusta morbida sul sedere del partner con colpi dal basso verso l’alto.

Nessuna inibizione: le vacanze sono fatte anche per bere. Il vostro fegato non vi ringrazierà, ma probabilmente la vostra vita sessuale lo farà. L'alcol è un afrodisiaco per la maggior parte delle persone ed essere leggermente ubriachi contribuisce a lasciarsi andare sotto le coperte.

Drink o non drink, siamo più rilassati durante le vacanze, il che le rende il momento ideale per provare qualcosa per cui di solito siete troppo timidi.

Giochi di ruolo: alcune coppie adorano i giochi di ruolo, tra i quali i più praticati sono la deflorazione di una "vergine", giocare alla schiava del sesso o avere un rapporto. In quest’ultimo caso entra in gioco il kit di sex toys che avete portato in vacanza.

Come in ogni gioco, seguendo alcune linee guida di base, tutto si svolgerà senza intoppi. Scegliete le fantasie che piacciono a entrambi, stabilite la location e scegliete i ruoli.

Guardate film porno: guardarli, da soli o in coppia, può introdurre la varietà tanto necessaria nella vita sessuale di molte coppie di lunga data.

Alcune persone hanno problemi “morali” con il porno, quindi si può optare per qualcosa di soft o per qualche film erotico. Se entrambi amate il porno, fatelo senza paura di essere interrotti dai bambini, dai vicini, da vostra madre o dai vostri coinquilini.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 21 aprile 2020. Se anche voi, per accendere la passione nel partner, comprate lingerie succinta e cibi afrodisiaci, siete superati. Gli accessori capaci di rafforzare l' intesa sessuale sono scopa, paletta e piumino per la polvere. Non vi stiamo invitando ad usarli quali giochini erotici, bensì a servirvene per faccende domestiche che, a detta della scienza, andrebbero espletate di comune accordo col partner. La Cornell University di New York è infatti riuscita a dare prova di come, provvedere alla manutenzione del nido amoroso assieme al proprio compagno/a, contribuisca a restituire di quest' ultimo un' immagine carica di erotismo e sex appeal. Il bisogno di condividere l' intimità diventerebbe allora imperioso, determinando un sensibile aumento degli amplessi mensili; l' indagine ha infatti sancito che, attraverso questa strategia dai benefici insospettati, si farebbe sesso circa sette volte al mese, contro una tradizionale media di cinque. La professoressa Sharon Sassler ha così argomentato i risultati della ricerca: «Le coppie contemporanee che si dividono i lavoro domestici in modo egualitario, sono le uniche che hanno visto aumentare la frequenza dei rapporti sessuali, mentre tutte le altre hanno vissuto un calo di questa frequenza. Questi risultati sono particolarmente interessanti, perché la frequenza dei rapporti sessuali è generalmente diminuita rispetto al passato». È altresì interessante il punto di vista della storica americana Stephanie Coontz - docente presso l' Evergreen State College di Washington - la quale, nel commentare la ricerca in oggetto, ha formulato una lucida disamina sulle coppie moderne: «Oggi l' amore è basato sull' avere in comune interessi, attività ed emozioni. Laddove una volta la differenza era alla base del desiderio, oggi l' uguaglianza sta diventando sempre più erotica». Insomma, se l' immagine di un uomo alle prese con ferro da stiro, lavatrice e lavori di rammendo, un tempo, appariva repellente, oggi risulterebbe perfino libidinosa. Ma attenzione: le fanciulle consegnino pure spugna e strofinaccio al compagno ma, nel farlo, evitino di suggerirgli come usarli, imporre un dispotico protocollo di pulizia, anziché consolidare la complicità di coppia, finisce solo per generare nell' altro ansie da prestazione e senso di inadeguatezza. Come a dire che, anziché riscoprirvi focosi amanti, potreste inaspettatamente ritrovarvi a rivestire i ruoli di matrigna e Cenerentola, il tutto a detrimento dell' intesa amorosa. La strategia della "lode", invece, promette risultati di gran lunga migliori, e prevede che l' altro, per ogni piccolo sforzo al servizio delle pulizie di casa, venga blandito e lusingato, cosicché si senta motivato a dare sempre il meglio di sé (anche tra le lenzuola). Qualora foste single, avete ugualmente buoni motivi per imbracciare la scopa: stando ad uno studio ad opera della McMaster University del Canada, pulire casa assiduamente, ridurrebbe del 28% il rischio di mortalità e del 20% quello di soffrire di malattie cardiache. Non solo: aiuterebbe anche a mentenersi in forma alla stregua di una tradizionale attività fisica svolta in palestra e predisporrebbe il corpo alla produzione di endorfine, note anche come "ormoni della felicità".

DAGONEWS il 25 aprile 2020. Dimenticate ogni tabù. Quelli che fino a qualche anno fa erano dei confini invalicabili oggi sono diventati terreno di esplorazione per molte coppie che amano sperimentare mettendo un po’ di pepe alla loro relazione. Per chi ancora non lo ha fatto la sexperta Annabelle Knight ha fatto luce su come bondage, letture erotiche, sex toys, il sesso anale e lo scambio di ruoli possano avere un posto prezioso in una relazione sana.

1. Bondage. Il BDSM un tempo era roba da club o amanti del fetish ed era considerato fuori dall’ambito tradizionale. Oggi in molti lo hanno sperimentato integrandolo nella loro sessualità e riuscendo ad ampliare il loro orizzonte di piacere. Qualunque sia il livello di esperienza, c'è sempre un modo per dilettarsi nel BDSM. Usare una cravatta o una sciarpa per bendare la vista del partner può fare miracoli, in quanto sviluppa gli altri sensi e rende più sensibili al tocco. Ciò si traduce in un'esperienza sessuale più intensa e più spesso soddisfacente.

2. Letture erotiche. In passato la letteratura erotica incontrava degli ostacoli. Ma ora, grazie ad autori come Jilly Cooper, Sylvia Day e E.L James, la narrativa erotica è diventata così mainstream che si trova in tutte le librerie. La narrativa erotica consente alle persone di vivere le proprie fantasie attraverso la finzione, oltre a raccogliere nuove idee per la camera da letto. In coppia, leggere insieme può essere un'enorme svolta e, in un certo senso, può fungere da preliminare.

3. Sex toys per coppie. Secondo il sondaggio sulla felicità sessuale di Lovehoney, oltre i due terzi di noi credono che il sesso abbia un ruolo importante nella nostra felicità generale, motivo per cui sempre più persone stanno espandendo il loro orizzonte con i sex toys. Per molti, i sex toys sono confinati alla masturbazione, ma molte coppie hanno trovato il modo di integrarli nella loro vita sessuale. Gli anelli  vibranti sono i sex toys per coppie più raccomandati in quanto migliorano l'erezione e stimolano il clitoride esterno.

4. Sesso anale. In alcuni ambienti il sesso anale è ancora un tabù, tuttavia sta diventando una pratica sessuale più ampiamente accettata. Negli anni Novanta circa il 25% delle persone aveva provato l'anale, ma quella cifra è salita a circa il 40% nel 2009. I benefici del sesso anale sono enormi, non solo puoi raggiungere un tipo di orgasmo completamente diverso, ma il sesso anale è privo di rischi di gravidanza e, per coloro che soffrono di vaginismo, consente una penetrazione, senza disagio o dolore.

5. Scambio di ruoli. Oggi accettiamo molto di più di allontanarci dai ruoli tradizionali in camera da letto. Il pegging, la penetrazione dell’uomo tramite una cintura usata dalla compagna, sta ottenendo sempre più popolarità. Un paio d'anni fa quasi la metà delle coppie non aveva idea di cosa fosse il pegging, da allora le vendite di strap on e set sono aumentate di quasi il 200%.

TROMBATE POCO E MALE? DAGONEWS l'1 marzo 2020. Il sesso non è tutto in una relazione. Ma fare male l’amore con una persona può anche indicare che il tuo partner non è giusto nemmeno per la tua relazione. L’esperta di relazioni Tracey Cox ci indica quando è utile rimanere con quella persona o quando è meglio staccare la spina alla relazione.

Non c’è chimica. È un brutto segno se non vi state strappando i vestiti a vicenda all'inizio di una relazione? In una parola: sì! Se non c’è passione all’inizio figuriamoci dopo 20 anni. L'amore senza lussuria (all’inizio) è di solito amicizia. La chimica può svilupparsi nel tempo? Se sei emotivamente sano e non hai problemi, la risposta sincera è no.

Ma ci sono eccezioni. Se uno di voi ha avuto brutte esperienze sessuali e ha paura o è rimasto ferito, potrebbe volerci del tempo all’inizio per fidarsi. In quelle situazioni vale la pena capire se si tratta solo di un’amicizia. Solo a quel punto vale la pena prendere una decisione. Verdetto: lasciarsi

Sono inesperti. La tecnica può essere insegnata. Se sei disposto a educare pazientemente un nuovo amante in quello che ti piace, il problema è abbastanza facile da risolvere. Ricorda però: l'inesperienza sessuale non riguarda il numero di amanti che la persona ha avuto. Molte persone che hanno avuto un sacco di relazioni a breve termine non hanno idea di come far godere il proprio partner veramente. Il trucco per risolvere il problema è quello di prendere l'iniziativa e guidarli. Una delle cose migliori da fare è masturbarsi di fronte al partner per far capire cosa piace. Un altro trucco è sperimentare qualcosa di nuovo per entrambi. Resistete anche a lanciarvi in critiche dopo il sesso. È straordinariamente facile insegnare a un amante inesperto nuove abilità. A una condizione: devono essere disposti a lasciarsi guidare. Verdetto: Porta avanti la relazione.

Sono monotoni. Questo spesso cammina di pari passo con l'inesperienza. In tal caso, basta prendere per mano il partner per fargli scoprire nuovi mondi. C'è da meravigliarsi se hanno paura di uscire dalla loro zona di comfort? Assolutamente no. Se non sono disposti a capire cosa ti piace passa direttamente alla voce amanti egoisti. Altrimenti…

Verdetto: Porta avanti la relazione.

Il loro atteggiamento verso sul sesso è molto diverso dal tuo. Questo accade spesso se provenite entrambi da contesti culturali o religiosi diversi in cui il sesso è visto da uno come un'attività ludica e ricreativa e da un altro come finalizzato alla procreazione. Ciò può (ovviamente) causare enormi problemi, ma se le tue capacità comunicative sono buone, il problema non è irrisolvibile. Scoprire se il partner ha una storia di abusi sessuali è un'altra ragione per cui i suoi atteggiamenti nei confronti del sesso potrebbero essere diversi. Ancora una volta, se il tuo partner è aperto ad andare in terapia o a parlare con te, non c’è motivo per non avere una vita sessuale soddisfacente. La pazienza e la comunicazione sono fondamentali. Verdetto: Porta avanti la relazione se entrambi siete disposti a lavorarci.

Avete appetiti sessuali diversi. Avere libido differenti può essere un grosso problema per le coppie. Mille fattori determinano se abbiamo una libido alta o bassa: pressione e stress, farmaci, genetica, storia passata, capacità di fare l'amore del nostro partner, salute generale, eventuali traumi sessuali. Il problema è che la nostra vera libido "a riposo" è gonfiata artificialmente all'inizio di una relazione. Solo dopo diventa un problema. Ci sono cose che puoi fare per pareggiare le cose: concordare un certo numero di volte in cui fare sesso è una via. Verdetto: Se sei già follemente innamorato e siete entrambi disposti a scendere a compromessi, porta avanti la storia. Ma se non è così, trova qualcuno che abbia le tue stesse esigenze.

Sono egoisti a letto. Si prendono sempre cura di loro stessi. Non controllano mai se ti è piaciuto il sesso o hai avuto un orgasmo. Il sesso è alle loro condizioni e solo alle loro condizioni. Non ricambiano mai il sesso orale. Sei tu quello che dà tutto, ma non riceve. Questo è sesso egoistico, e non è accettabile. Verdetto: lascialo immediatamente.

DAGONEWS l'11 febbraio 2020. Per molte persone la notte si traduce nel dormire con il proprio compagno. Ma c’è una tendenza che scardina questa abitudine: sempre più coppie decidono di dormire in letti separati. Non un male per gli esperti che lo reputano il modo migliore per superare i problemi coniugali. Secondo un sondaggio del 2017 della National Sleep Foundation, quasi una coppia sposata su quattro negli Usa dorme in letti separati. Jill Lankler, psicologa di New York e life coach, dice che anche se il numero sembra alto molte coppie sono restie a provarlo. «Le persone stanno perdendo il sonno. Si svegliano a vicenda e c'è un risentimento che mina la relazione. Se non si affronta, ovviamente la relazione soffrirà, il lavoro soffrirà. È tutto a cascata».

Perché le coppie hanno paura di dormire in letti separati. Da un punto di vista pratico, dormire in letti separati può aiutare il sonno. I coniugi possono lavorare in orari diversi. Si può russare e il sonno non viene disturbato. Tuttavia, anche se il passaggio a due letti può essere la soluzione migliore, molte coppie temono ancora la divisione notturna, ha aggiunto Lankler. Se dormire insieme disturba il sonno, per molti dormire in letti separati potrebbe uccide l’intimità. Eppure parlarne liberamente può migliore la relazione. Dalla regina Elisabetta II e il  principe Filippo a Donald Trump e Melania Trump sono diverse le coppie che dormono separatamente, senza che questo significhi necessariamente essere in crisi.

Una soluzione che non va bene per tutti. «Tuttavia, se dormire separatamente può aiutare il riposo e la comunicazione, non è da tutti» ha affermato Sophie Jacobi-Parisi, avvocato di New York. «È molto facile trasformarsi in persone che non si incontrano mai se si lavora e si cresce dei figli. Se non si ha alcun punto di contatto con il coniuge è molto facile avere la sensazione di essere semplicemente una squadra al lavoro». Per le coppie che hanno intrapreso questa strada senza mai averne parlato può essere il primo passo verso il divorzio. Ma dormire insieme quando qualcosa non funziona è ugualmente un danno per la coppia.  

Che dire dell'intimità?

«La vita sessuale di una coppia non sarà rovinata dormendo separatamente più di quanto non fa una TV in una camera da letto» ha detto Lankler.

In effetti, dormire in letti separati può creare l'opportunità di creare uan vita sessuale sana. Non più una scelta casuale, ma una scelta consapevole di voler passare la notte con il partner. Inoltre può alleviare parte della pressione che si percepisce dormendo insieme. «Si ha voglia di ritagliarsi del tempo -  ha detto Lankler - E decidi tu quando vuoi farlo».

Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" l'11 agosto 2020. Dormire con il partner concilia il sonno, permette un riposo meno disturbato, più profondo ed efficiente, ed assicura nove minuti in più di riposo a notte. Addirittura sarebbe l'odore del nostro lui o della nostra lei a rilassare inconsciamente i sensi, a farci precipitare tranquilli tra le braccia di Morfeo sincronizzando le fasi del sonno ed a consentire una fase Rem, quella in cui si sogna, molto importante per i vari aspetti del funzionamento cerebrale, più regolare e duratura. Lo rivelano due studi recenti, uno della University of British Columbia in Canada, pubblicato sulla rivista Psychological Science e l'altro della Crhistian Albrechts Universität di Kiel in Germania, che hanno coinvolto ciascuno 115 coppie di lungo corso nel loro esperimento del sonno, analizzando il contatto intimo con la persona con cui si dorme accanto, evidenziandone gli effetti positivi sulla salute fisica e cerebrale, ed i risultati sono stati univoci, con evidente benessere diurno e riduzione dello stress e dei suoi effetti negativi. Le persone studiate hanno indossato durante la notte un "actimetro", uno strumento da polso che registra ogni istante del sonno misurandone i parametri essenziali come la profondità, la regolarità, l'alternanza delle diverse fasi ecc, ed è emerso che solo quando ciascun volontario dormiva con il partner riposava meglio, non aveva un sonno disturbato o alternato, non incorreva in sogni negativi né accusava incubi, e dormiva in media nove minuti in più a notte, registrando un sonno decisamente gratificante. L'effetto osservato nei due studi scientifici è risultato chimicamente simile per ampiezza a quello sortito dagli integratori di un ormone del sonno, la melatonina per intenderci, un ausilio molto usato per dormire, ma i risultati hanno evidenziato che è l'odore del partner ad influenzare in modo notevole la salute notturna, al punto che coloro che dormono insieme percependo gli afrori del corpo accanto hanno una fase Rem più lunga e meno frammentata, tutte le fasi del loro sonno entrano in sincronia, e tendono a passare contemporaneamente dal sonno leggero a quello vero e proprio, il sonno profondo pieno di sogni, che compaiono ciclicamente nel corso della notte per scomparire subìto dopo l'alba. Inoltre dormire poco coperti o nudi aumenta le percezioni olfattive insieme alle emozioni positive, poiché il contatto cutaneo è da sempre rassicurante, attrattivo, induce sensazioni di fiducia e stabilità rafforzando la confidenza e i rapporti interpersonali.

LO STUDIO. Un'altra ricerca della Pittsburgh University ha dimostrato che dormire insieme a chi si ama o con chi si ha una relazione, abbassa il livello di cortisolo, l'ormone dello stress, causa di depressione ed ansia, ed aumenta il rilascio di ossitocina, l'ormone del benessere in grado di ridurre agitazione e pressione sanguigna, e l'attivazione di questi specifici processi chimici regalerebbero al mattino soddisfazione, poiché la qualità di un risveglio sereno porterebbe benefici all'umore durante la giornata, garantirebbe alla coppia un riposo più rilassato rispetto alle persone single, inducendo benessere ad entrambi i partner, ed il sonno di qualità con la condivisione del materasso garantirebbe longevità al rapporto. Inoltre il linguaggio del corpo durante le ore del sonno sarebbe rivelatore per etichettare la relazione di coppia, e le diverse posizioni con cui i partner dividono il letto nelle ore dedicate al riposo categorizzerebbe i diversi rapporti. Posizione del cucchiaio, schiena contro schiena, faccia a faccia, rannicchiati o abbracciati, tutto dipende dal legame esistente, dalla passionalità o abitudine della convivenza, ma qualunque sia la posizione prediletta, dividere il letto rafforza l'intimità e le relazioni sentimentali, garantisce una veglia più rilassata libera da ansie negative, con tutti i benefici del caso.

MENO LITIGI. Questi sono i dati scientifici comprovati e certificati, ma è inutile negare che condividere il proprio letto non è sempre facile, perché è un dato di fatto che dormire con una persona è ancora più intimo che farci l'amore. Inoltre abitudini diverse devono riuscire a conciliarsi per consentire a entrambi una notte rilassata, soprattutto quando uno dei due soffre di disturbi legati al sonno o all'apparato respiratorio, come coloro che russano mentre dormono profondamente, perché l'irritabilità causata da un riposo irregolare e irrequieto può avere drastiche ripercussioni sul rapporto, con un atteggiamento scontroso nei confronti del partner che non permette una notte tranquilla, e portare uno dei due al risultato opposto, ovvero quello di optare per letti o camere separate, per evitare litigi e tensioni all'interno della coppia. Ma se nulla è più intimo e bello che dormire insieme, aspettare il sonno vicini, nudi e indifesi, scambiarsi parole, sorrisi e baci di buonanotte, prima di addormentarsi con la mano sul fianco, è altrettanto vero che il sonno ci sottrae a noi stessi, è un mantello che avvolge e cancella tutti i pensieri, abbattendo ogni difesa, rivelando fragilità celate da maschere sociali, per cui si dorme accanto regolarmente ad una persona solo quando la si conosce bene, quando si ha fiducia in lei e ci si può abbandonare totalmente senza paura di essere traditi, derisi o criticati. E se è vero che il segreto per fare durare l'amore è quello di dormire insieme e abbracciati, è anche vero che la complicità di coppia è assolutamente indispensabile per coricarsi in due, per respirare la stessa aria al ritmo dei due cuori, ricordando che dopo aver provato la gioia di addormentarsi e svegliarsi insieme, nulla nella vita sarà più triste di dormire in un letto vuoto.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Correva l' anno 1970 quando Adriano Celentano cantava: Chi non lavora non fa l' amore e la scienza oggi gli dà ragione. Da una ricerca condotta su maschi adulti di Italia, Spagna, Francia, Inghilterra e Germania, è emerso infatti che chi sta a casa dal lavoro, o lavora senza impegno, a letto soffre anche di impotenza sessuale. Lo studio evidenzia che gli impotenti hanno un tasso di assenteismo del 29%, mentre l' assenteismo di chi è sessualmente attivo non supera il 18%. «È vero», conferma Emmanuele A. Jannini, andrologo e professore ordinario di sessuologia medica all' Università di Roma Tor Vergata: «gli uomini che soffrono di disfunzione erettile mostrano a livello lavorativo una minore produttività rispetto agli uomini senza questo problema. Per questo studio è stato utilizzato il Work Productivity and Activity Impairment Questionnaire (WPAI), uno strumento validato grazie al quale adesso abbiamo uno spaccato sociale di questa condizione così diffusa». Più sei forte in amore dunque, più lavori. Ma qual è la spiegazione? «L' insufficienza sessuale provoca un' eco nell' attività quotidiana. È una forma di stress che agisce scavando nel paziente, distruggendo o rallentando le sue capacità di relazionarsi a tutti i livelli», risponde il professore. «C' è poi un altro aspetto importante, ovvero la frustrazione», aggiunge, «che si riflette sull' attività lavorativa generando una caduta di stima. Cioè: «Io non sono bravo a letto, quindi non sono bravo come uomo, quindi non sono bravo nemmeno nel mio lavoro». Dal punto di vista medico succede proprio questo. Quando usiamo dei farmaci efficaci, infatti, sto pensando ad esempio al ticket love che è un po' l' ultima moda dei medicinali per la disfunzione erettile, vediamo un miglioramento di tutta la sfera generale, ma nello specifico sulla capacità lavorativa, perché il soggetto recupera l' autostima. E tutti sappiamo che l' autostima è fondamentale per la produttività». E poi c' è il fattore crisi, dal momento che le difficoltà economiche e lavorative producono ansia, depressione e disagio sessuale, come spiega il noto andrologo. «Nel frattempo in mezzo c' è la perdita della dignità lavorativa». Il consiglio, ovviamente, è quello di non prendere sotto gamba la cosa, ma di consultare al più presto il proprio medico andrologo per ricevere la corretta diagnosi e il giusto aiuto, anche farmacologico. Con una particolare attenzione anche ai costi della terapia. «Per ulteriori informazioni», conclude Jannini, «vi invito a visitare il sito web della Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità (Siams), che è siams.info, dove è possibile consultare l' elenco dei centri pubblici che hanno ricevuto il certificato di eccellenza, sparsi in tutta Italia, insieme all' elenco degli andrologi e dei medici della sessualità della propria regione».

Sophia Benoit per gqitalia.it il 2 febbraio 2020. Sesso e rifiuti. È un'esperienza familiare a tutti noi: il tuo viaggio di rientro a casa è durato più di un'ora, invece dei soliti 35 minuti, cosa che non ti ha per niente aiutato a calmarti, dopo che il tuo capo ti ha urlato per un casino che non era colpa tua e hai saltato il pranzo per risolverlo. Inoltre, ieri ti sei allenato molto e potresti avere il raffreddore, ma non puoi ancora dirlo. Ad ogni modo, alla fine della giornata torni a casa sentendoti un po' una mela grattugiata: vuoi solo guardare The Bachelor e lamentarti di Hannah Ann, ma la tua partner ha un'altra idea. Ti sta facendo gli occhi dolci, passando le mani su tutto il tuo corpo e sussurrandoti all'orecchio quanto è stata eccitata tutto il giorno al lavoro a pensare al tuo corpo e sai cosa succede: vuole fare sesso. Sì, proprio adesso. Questo tipo di urgenza del «ho bisogno di te» normalmente, come letteralmente in qualsiasi altro momento, sarebbe più che benvenuta. Ma in questo momento sembra... come se ti richiedesse un grande sforzo. Sei stanco e affamato e davvero irritabile da morire, così fai uno scatto e dici: «Posso avere cinque minuti per rilassarmi  quando torno a casa?». Immediatamente, vedi l'eccitazione svanire dagli occhi della tua partner, prima che si girino, completamente avviliti. Fanculo. Ora hai ferito i sentimenti della tua partner e stai trascorrendo del tempo che avresti potuto usare per mangiare una Lean Cuisine (cena surgelata, ndt) chiedendole scusa. Ovviamente, sebbene comprensibile, è spiacevole e talvolta doloroso essere rifiutati quando si tenta di iniziare un rapporto sessuale con il proprio partner. D'altra parte, non è nemmeno bello essere quello che rifiuta - non vuoi deludere la tua partner o farla sentire indesiderata. Nel tentativo di evitare questi sentimenti negativi, fare sesso spesso è un modo per alleggerire la situazione. Molte persone temono che se rifiutano il sesso troppo spesso, il loro partner smetterà di provarci del tutto, quindi forse acconsentono al sesso per cui non sono dell'umore per evitare di deludere il loro compagno. Ma, alla fine, i ricercatori hanno scoperto che fare sesso per evitare problemi di relazione faceva più male di quanto aiutasse, specialmente nelle relazioni con sesso meno frequente. La soluzione? Scopri come rifiutare il tuo partner in un modo che non lascerà  sentimenti negativi nei confronti dell'altro per il resto della notte. Certo, c'è un oceano di differenza tra l'essere dell'idea di fare sesso, ma non essere ancora completamente eccitati, e il non voler affatto fare sesso. Il sesso in cui uno o entrambi i partner non sono dell'umore giusto per iniziare (ma sono ancora in procinto di scherzare e vedere come va) è stato soprannominato «sesso di mantenimento». Alcune coppie programmano il sesso di mantenimento, e altri si imbattono in esso quando una persona preferirebbe finire di leggere Long Bright River di Liz Moore piuttosto che sentirsi a disagio alle 22 un mercoledì. Molte donne, in particolare, sono state spinte dalla società a credere che gli uomini eterosessuali vogliano i loro corpi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, il che è ovviamente uno stereotipo ingiusto, e può rendere l'essere rifiutata dagli uomini molto più emotivamente carico. Ma anche nelle più sane e reciprocamente focose relazioni, le pulsioni sessuali non sempre coincideranno, motivo per cui è fondamentale che le coppie capiscano come comunicare «Mmmmm, non stasera tesoro» nel modo giusto. La chiave per dire di no senza mandare la persona amata in una spirale di insicurezza ha tutto a che fare con il modo in cui avviene il rifiuto. La gentilezza è equivalente a; vuoi far uscire lentamente l'aria dal pallone sessuale del tuo partner piuttosto che pungerlo con un ago. Ecco come farlo nel modo giusto.

Dillo in modo cristallino al 100% che non vuoi fare sesso. Prima di tutto, non hai mai bisogno di un motivo per rifiutare il sesso, allo stesso modo in cui non hai bisogno di un motivo per non voler mangiare cereali a colazione. Se hai voglia di trovare una ragione, fantastico, ma non sei e non dovresti sentirti obbligato. Inoltre, non devi confondere: lei è la sola persona con cui hai una relazione sessuale! Sii onesto e sii chiaro. Non lasciare spazio all'altra persona di pensare che desideri solo un po' di aiuto per entrare nell'umore se, in realtà, non sei affatto dell'umore. Puoi semplicemente iniziare con alcune variazioni su «Hey, non ho voglia di fare sesso stasera».

Riconosci e incoraggia l'intimità del momento. Vogliamo tutti essere desiderati, e in particolare vogliamo essere desiderati sessualmente. Parte di ciò che fa schifo rispetto al rifiuto sessuale è che non sei solo rifiutato per la connessione fisica, ma anche per quella emotiva. Uno studio ha dimostrato che gli effetti negativi dell'essere respinti da un partner durano più a lungo degli effetti di benessere quando il partner dice sì al sesso. Nel frattempo, i partner che accettano o rifiutano si sentono ancora abbastanza bene, probabilmente un sottoprodotto del sentirsi desiderato dall'altra persona. Quindi fai sapere alla tua partner che la ami e la desideri ancora, anche se non vuoi fare sesso in questo momento. Ovviamente, lei partner razionalmente lo sa, ma vuoi farla sentire desiderata poiché ha appena espresso il desiderio per te. Se  ti va, un altro tocco fisico che non sia sessuale di solito funziona bene: cose come sfregamenti alla schiena, abbracci o una mini pomiciata. In caso contrario, puoi raggiungere lo stesso obiettivo verbalmente. Siediti con una bottiglia di vino e parla della tua giornata! Non è complicato: lei vuole connettersi con te, cerca di non chiudere quella parte.

Suggerisci qualcos'altro che ti va. Se sei davvero in un brutto momento e non vuoi assolutamente avere nulla a che fare con la tua partner, dovrai fare qualcosa per addolcirti. Forse suggerisci qualcosa che al tuo partner piace fare, ma suggeriscilo per un'altra volta. «Mi dispiace, sono sicuro che questo è deludente, ma ho davvero solo bisogno di stare da solo in questo momento. Ti amo moltissimo e spero che questo fine settimana possiamo».  Riempi lo spazio vuoto con qualcosa che a voi due piace, sessuale o no. «Coccole sul divano e finiamo Ramy», per esempio. Tuttavia, puoi anche suggerire qualcosa di sessuale se vuoi! Solo perché non vuoi avere un rapporto completo proprio qui e ora non preclude necessariamente altre attività adiacenti al sesso. Forse sei troppo stanco per fare un buono sforzo, o forse sai che non sarai in grado di diventare duro perché ti sei appena masturbato dieci minuti fa. Qualunque sia il motivo, puoi dire esattamente per cosa stai giocando. «Non ho voglia di fare sesso adesso, ma mi piacerebbe farmi una doccia bollente con te», funziona perfettamente. Qualunque cosa tu faccia, per favore non essere il tipo di uomo che guarda il suo telefono borbottando: «Non stasera piccola. Forse un'altra volta», mentre la tua partner fa uno spogliarello sexy. Quel tizio è il peggiore.

DAGONEWS il 7 febbraio 2020. Prendere l’iniziativa per fare sesso è uno dei punti che divide il mondo maschile da quello femminile. Per gli uomini pare sia quasi un istinto, mentre le donne fanno più fatica. Secondo le ricerche sul mondo delle relazioni sessuali, il partner è ben felice se la propria compagna prende l’iniziativa ed uno degli aspetti sul quale si soffermano negativamente se non accade. Essere sedotti invia un messaggio forte e salutare al partner: ti voglio, ti desidero. Sei attraente per me. Allora perché le donne prendono il comando? Uno dei motivi è che non sanno come fare. La sexperta Tracey Cox rivela le strategie più facili per l’approccio al sesso. Comunica al tuo partner cosa stai facendo. Bisogna iniziare comunicando al partner l’intenzione di iniziare un percorso di questo tipo. Solo dicendo di voler fare sesso si avrà una relazione straordinaria e convinceremo il partner che amiamo farlo con loro.

Fate un patto: chiedete al partner di interrompere questi approcci per due settimane o un mese dandoti la possibilità di prendere l’iniziativa.

Non aspettarti una situazione perfetta. Non pensateci troppo. Non rimandate il momento in cui dovete saltare addosso al vostro partner.

È infantile aspettarsi che sentirai il desiderio sessuale nello stesso momento del tuo partner. Molti studi, tra l’altro, dimostrano che le donne devono superare il primo ostacolo: l’eccitazione spesso scatta solo quando si iniziano i preliminari. Il potere, inoltre, è un'enorme fonte di eccitazione e se sei tu quella che improvvisamente è pronto per farlo e fa tutte le mosse, sarai sorpresa da come ti sentirai eccitata.

Fai la tua mossa e rendi ovvie le tue intenzioni. Accertati del fatto che stai mandando dei messaggi chiari. Pensa a cosa faresti se fossi in un film e dovessi sedurre un uomo. Se non vedi risposta rendi i tuoi segnali ancora più ovvi. Se non è abituato al fatto che tu prenda l'iniziativa certe cose posso essere male interpretate. Se si è entrambi abbastanza timidi avere un codice per far capire al partner di voler fare sesso è la via più facile.

Il trucco del magnete sul frigorifero. Per ovviare al difficile approccio potete optare per la tecnica dei due magneti. Teteli sul frigo e ogni giorno spostateli in alto in base al vostro desiderio sessuale. Sarà un gioco divertente, ma ricordatevi di coinvolgere il vostro compagno che è tenuto a spostare il suo magnete.

Non prendere male i rifiuti. È normale sentirsi imbarazzati se non si è abituati a prendere l’iniziativa: ci vuole coraggio per uscire dalle vecchie abitudini. Ricorda, il tuo partner è umano. Per quanto possano essere estasiati dal fatto che stai facendo una mossa, se sono stressati, sfiniti o preoccupati, potrebbero tirarsi indietro. Non prendetela male e non fermatevi al primo ostacolo. Sarà capitato tante volte di rifiutare il partner senza dare molte spiegazioni. Quindi se lo hai fatto tu, perché non può farlo pure lui? Essere respinti fa parte del sesso. Non ti farà affatto male sapere come si è sentito il tuo lui.

Lisa Taddeo: «Il sesso, i corpi, sé stesse. Vi racconto i desideri che le donne non dicono». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Teresa Ciabatti. Lisa Taddeo, 40 anni, è una scrittrice americana. «Quando mia madre era giovane, ogni mattina un uomo la seguiva mentre andava al lavoro e si masturbava alle sue spalle» scrive Lisa Taddeo nel prologo di Tre donne (Mondadori - traduzione di Ada Arduini e Monica Pareschi), successo internazionale di cui tanto si è detto in America («un capolavoro di non-fiction letteraria allo stesso livello di A sangue freddo», lo ha definito Elizabeth Gilbert). L’autrice parte dalla madre, dalle molestie subite e mai denunciate per mancanza di coraggio, per poi raccontare altre donne: Maggie, Lina e Sloane.

Forse cercando in loro le risposte a certi dubbi sulla figura materna: perché ha taciuto? E anche: cosa desiderava?

«Nel corso di otto anni» precisa Lisa Taddeo «ho trascorso migliaia di ore con le donne che appaiono in questo libro». In due casi si è trasferita nelle loro città per capire meglio le dinamiche quotidiane, l’idea che la società aveva di loro. Ha intervistato amici, parenti, conoscenti. E dunque Tre donne è presa diretta, testimonianza fedele al vero persino nei toni inaspettatamente neutri sui drammi, e quindi maggiormente dolorosi. Storie reali raccontate con lo spirito del reportage, scevre da manipolazione narrativa. Cruda ricognizione del presente, di quanto si possano permettere oggi le donne in fatto di desiderio.

Lei inizia da sua madre.

«Era una donna degli Anni Sessanta, ragazzina in quegli anni. Aveva un bel rapporto con mio padre, si è occupata della casa, di noi figli. Ma non c’è stato mai un momento in cui abbia parlato di ciò che voleva, tranne dopo la morte di mio padre, allora ho sentito che avrebbe voluto parlare, ha provato, a quel punto però ero io che non volevo sentire».

Questo libro è un modo per ritrovarla e ascoltarla?

«Ho pensato che là fuori ci fossero donne attraverso cui comprendere il suo segreto».

E?

«Così non è stato».

Ovvero?

«Le storie raccolte non mi hanno aiutato a far luce su di lei, piuttosto mi hanno suscitato un’empatia che mi ha portato a comprenderla di più. Ascoltando tante donne ho trovato l’eco di mia madre».

Lei racconta di aver cominciato a scrivere di uomini.

«Avevo scritto a lungo di uomini. Ero convinta di capire meglio le donne in quanto donna, poi ho scoperto il contrario».

Come ha scelto le tre donne?

«Ho incontrato oltre cento donne. Molte hanno cambiato idea in un secondo momento, si sono tirate indietro per paura di esporsi. Ho scelto quelle che sentivo capaci a essere oneste con sé stesse, anche nel riconoscere il proprio ruolo ambiguo, non solo di vittima».

Conclusione?

«Credo che queste storie dicano verità cruciali sulle donne e il desiderio nel nostro tempo».

Cosa ha scoperto?

«C’è ancora tanta difficoltà a dire, a parlare per paura dei giudizi che molto spesso vengono dalle donne».

Le tre storie — se pur diversissime tra loro — sono accomunate da alcuni elementi. Per esempio la verginità non come valore, piuttosto come peso di cui liberarsi.

«Lina, la donna dell’Indiana, la perde in uno stupro, e il racconto che ne fa è privo di enfasi, come di un evento non traumatico. Naturalmente il suo corpo dopo, come lo muove, come lo usa, discende dal modo in cui è stato trattato in quella circostanza. Io mi limito a riportare le sue parole senza tirare conclusioni. A proposito dello stupro, lei mi ha detto: “me ne stavo lì buona. Credo di aver pensato che non volevo dire di no a nessuno, che volevo piacere a quei tipi. Insomma non volevo fare niente per non piacergli”».

Maggie invece?

«Lei perde la verginità a sedici anni con un uomo di trentuno conosciuto da poco. Anche per lei non è l’evento in sé, anzi: voleva liberarsene, tanto da non avvisare di essere vergine. La perdita della verginità diventa importante nella misura in cui ne fa oggetto di confidenza al suo insegnante».

La vicenda di Maggie è forse la più inquietante: 17 anni, la ragazza ha un relazione col suo insegnante. Successivamente, quando la moglie di lui scopre i messaggi, quando lei denuncia, sarà sbugiardata, accusata di mentire.

«La vera violenza avviene allora, nella fase del disconoscimento».

In che modo ha trovato la storia?

«Sui giornali. Mi ha colpito che scrivessero “non c’è stata penetrazione”. Ho pensato: se la ragazza doveva mentire, perché non farlo fino in fondo? Perché non dire di un rapporto completo che l’avrebbe esposta a meno dubbi?».

Risposta?

«Era sincera».

A proposito invece di ipocrisia e ambiguità: i dettagli.

«Maggie racconta — anche al processo — che Aaron, il professore, praticava sesso orale su di lei, sebbene non le permettesse nemmeno di abbassagli la cerniera dei jeans».

Cosa dimostra?«Non è la penetrazione a fare lo stupro».

Ma?

«Ci sono i sentimenti della ragazza, c’è il professore che l’autorizza, che le dà un’attenzione da cui lei ricava merito. Quindi la negazione: io non ti vedo, tu non esisti».

Difatti dopo Maggie smette di esistere. Lei scrive: “alle feste beve troppo, finisce distesa sui pavimenti di bagni sconosciuti e piange per lui. Va a letto con un paio di ragazzi. Permette loro di umiliarla in tutti i modi. Durante il sesso ha dei flashback e deve interrompersi”.

«Un modo graduale di scomparire, di annullarsi».

Altra ricorrenza del libro è il controllo delle donne sul proprio corpo.

«Sloane prende pasticche per dimagrire a dieci anni, diventa bulimica da bambina, continua a esserlo da adulta. Lina decide di dimagrire per essere protagonista della sua vita, lasciare il marito, amare qualcun altro».

Perché questa strada?

«La capacità di controllare il peso deriva dal fatto che spesso le donne non possono controllare altro. Costruire o distruggere il corpo serve a esercitare un controllo su qualcosa».

Delle tre Sloane è quella consapevole.

«Sa usare meglio il corpo per condizionare gli altri».

Che significa per una donna usare il proprio corpo?

«Se io devo andare in un ufficio per rinnovare la patente, so come fare per ottenere ciò che voglio, ho due possibilità: mostrarmi sicura, quasi aggressiva. Oppure buttarla sul patetico, piagnucolare».

Quindi?

«Per la donna ci sono modi diversi di muoversi nel mondo. Sloane usa il corpo come molti uomini la macchina sportiva».

Eppure, al pari di Maggie e Lina, non vince.

«Il motivo è che non risponde a una sua voglia, bensì a quella di altri, che sia il marito o chi per lui».

Nel libro non esistono vittime facilmente classificabili, così come carnefici. Tutto è sfumato, nel desiderio, tante possibilità di desiderio.

«Maggie dimostra che lei per prima desidera. Desidera il professore, quanto lui desidera lei».

Il personaggio peggiore di Tre donne?

«Sarebbe facile dire Aaron, il professore. Gli altri uomini non sono dei malvagi, o non totalmente. Il marito di Lina è un uomo distaccato, che non tocca la moglie da oltre undici anni. Aidan non dice a Lina di insistere, è lei che lo fa».

Esiste un altro maschio, un maschio piccolo che sembra presagio di tutti i maschi che verranno poi.

«Quando Sloane ha sette anni, il fratello di otto s’infila nel suo letto e le propone di giocare a farlo. Questo evento, che lei rimuove, e ricorderà solo da adulta, plasma il suo modo di muoversi nel mondo. Lei ha confidenza verso il sesso in quanto suo fratello è stato molto sessuale, le ha dato l’imprinting».

Come ha rielaborato l’episodio?

«Lei e il fratello hanno ancora un rapporto distaccato».

Quanto conta la bellezza?

«Per tutte le donne che ho incontrato la bellezza è qualcosa di enorme».

Per Lisa Taddeo?

«Fin da bambina, come tutti, ho visto film con al centro belle donne di cui gli uomini si innamoravano».

E?

«È un tipo di educazione».

Del resto durante il processo di Maggie l’avvocato del professore dubita che un uomo come Aaron, piacente, di successo, possa essersi interessato a una come Maggie. Lei scrive: “Hoy le chiede perché pensa che Knodel si sia interessato a lei. Maggie sa di essere ingrassata. Non è più la liceale che è stata”.

«Maggie si allinea a quel pensiero. Non si sente fisicamente all’altezza di Aaron».

Rispetto al passato, ritiene cambiato il rapporto delle donne con la bellezza ?

«Trent’anni fa ti lasciava il fidanzato, e tu non sapevi chi fosse l’altra, e se lo sapevi non avevi la possibilità di vederla, o comunque di studiarla come oggi. Oggi su Instagram ti confronti, concludi che l’altra è più bella, più giovane, e non importa se lo sia realmente».

Sul finale lei torna a sua madre.

«In ospedale, poco prima della morte. Aveva perso la lucidità. Certe volte tornava in sé, e io approfittavo di quei momenti. Volevo sapere cosa desiderasse, la imploravo. A un certo punto lei mi dice: alette di pollo piccanti».

E lei?

«Sono andata a comprarle».

Immaginiamo di essere sulla strada dove sua madre dodicenne veniva seguita dal molestatore. Come reagirebbe Lisa?

«Mi volterei a mollargli un cazzotto».

Cosa direbbe a quell’uomo, se potesse?

«Deve essere morto da tempo. Come mia madre».

L’edizione italiana del libro di Lisa Taddeo. Potete leggere gli estratti dal libro «Tre donne» di Lisa Taddeo.

Estratto. MAGGIE E IL PROFESSORE DENUNCIATO. «Quella mattina ti prepari come se andassi in battaglia. Invece delle pitture di guerra, il makeup. Ombretto neutro, sfumato. Mascara abbondante, fard rosa scuro e rossetto. Capelli lievemente arricciati, pieni di volume. Hai imparato a truccarti e a farti la piega da sola, di fronte agli specchi, con i Linkin Park e i Led Zeppelin in sottofondo. Sei una di quelle ragazze che hanno un senso innato del contouring e degli accessori da usare, di quelle che conoscono l’uso provvidenziale di una forcina nascosta tra i capelli. Indossi stivaletti con la zeppa, leggings, e una blusa tagliata a kimono, sottilissima. Vuoi fargli capire che non ha più a che fare con una bambina. Hai ventitré anni. Naturalmente vuoi anche che ti desideri ancora, che rimpianga di averti perduta. Vuoi che più tardi, seduto a cena a casa sua, gli torni in mente la curva provocante delle tue anche. Sei anni fa eri più piccola, e lui adorava le tue mani minuscole. A quei tempi le sue si infilavano spesso tra le tue cosce. Sono cambiate tante cose...»

Estratto. LINA E L’ETERNO RAGAZZO IDEALE. «Ci sono due tipi di quindicenni, Lina lo sa, e lei fa parte del tipo che passa più tempo a collezionare sticker che a limonare. In camera sua chiude gli occhi e immagina di innamorarsi. Lo desidera più di qualunque altra cosa al mondo. Secondo lei quelle che dicono che per loro è più importante fare carriera e avere successo di quanto lo sia innamorarsi mentono. Al piano di sotto sua madre sta cucinando il polpettone di carne. Lina lo detesta. Detesta in modo particolare l’odore che rimane. In questo momento c’è puzza di polpettone in tutta la casa, e persino la polvere sui corrimano delle scale rimarrà impregnata per giorni di quel tanfo di carne rosolata. Ha un brufolo sulla fronte, che al centro è del colore di un’arancia sanguinella. È venerdì, ma questo non significa niente perché i suoi venerdì sono all’incirca come i martedì, e anzi casomai i martedì sono meglio dei venerdì perché almeno il martedì hai la certezza che anche gli altri non stanno facendo niente di speciale, proprio come te. Certo, c’è gente che non fa niente di speciale dentro case prefabbricate o roulotte. Almeno lei abita in una casa decente. C’è sempre di peggio, anche se naturalmente c’è anche sempre di meglio. Questo venerdì però sarà diverso. Lei ancora non lo sa, ma questo venerdì cambierà la sua vita per sempre. Qualche settimana fa la sua amica Jennifer, che si fa un sacco di storie, ha cominciato a uscire con un certo Rod. Rod è il miglior amico di Aidan e Lina ha per Aidan il tipo di cotta che tutte le ragazze sfigate hanno per tutti i ragazzi più fighi. Lui è davvero un grande, oltre che sexy, ed è anche incredibilmente silenzioso...»

Estratto. SLOANE E IL MARITO SCAMBISTA. Sloane Ford ha lunghi e bellissimi capelli del colore delle castagne. È una stranissima tonalità di marrone caldo, ma lei non se li tinge. È magra, ha passato da poco la quarantina ma ha un viso da studentessa delle confraternite, e l’espressione di chi ha appena baciato. Più che andare fuori a pranzo con le altre madri, va in palestra. Ha l’aria di una donna di cui la gente spettegola, ma anche il contrario. Sembra autentica e scaltra insieme, e dice frasi come: Mi affascinano le strategie del settore servizi. Si riferisce alla maniera in cui l’esperienza di una cena diventa un microcosmo in cui si articolano le dinamiche tra persone vicine e sconosciute, in condizioni in cui ogni parte di quell’incontro è in qualche modo vincolata all’altro, quanto meno per alcune ore. Sloane dà l’impressione di non sapere di essere guardata. Sotto una certa luce appare così sicura di sé da fare quasi paura, meglio stare bene attenti a non provocarla. Altre volte è molto arrendevole, al punto da sembrare quasi piccola, e da spingere i suoi amici a non turbarla. Questa doppia natura è eclatante e il risultato è che ci si sente attratti da lei. Sloane è sposata con un uomo di nome Richard, che non è bello quanto lei... Quando Sloane non c’è, la gente parla di lei. In una piccola città sarebbe già sufficiente il fatto che vada in palestra invece di fermarsi a chiacchierare vicino ai sacchetti di lattuga. Ma non è di questo che la gente parla. La parte saliente, il pettegolezzo, è che Sloane va a letto con altri uomini davanti a suo marito...».

La vita — Lisa Taddeo è una scrittrice americana di origini italiane. Il padre, Peter, era un medico, la madre, Pia, nata in Italia, faceva la cassiera in un negozio di frutta e verdura. Lisa Taddeo è sposata dal 2014 con Jackson Waite e ha una figlia

Gli studi — Ha frequentato la Millburn High School e poi si è iscritta alla New York University. Ha poi completato gli studi alla Rutgers University e infine alla Boston University.

La carriera — Scrittrice e giornalista, ha vinto due volte il premio Pushcart per i suoi racconti, pubblicati nel New England Review. Il libro «Three Women», pubblicato in America nel 2019, è diventato il best seller numero 1 del New York Times.

·        Durante il Sesso.

Fabrizio Barbuto per “Libero Quotidiano” il 30 luglio 2020. Il sesso: la medicina più antica del mondo. Rappresenta la cura migliore a patologie sulle quali neppure la scienza è ancora riuscita a intervenire senza troppe controindicazioni. Ma siamo sicuri che, tanto gli uomini quanto le donne, traggano vantaggio da un' attività sessuale frequente? A soddisfare l' interrogativo è una ricerca dell' Università di Cambridge che dà prova di come, i benefici del coito, siano più appannaggio del sesso forte. Anche le donzelle otterrebbero giovamento dal contatto con l' altro, ma solo quando la contiguità è circoscritta all' erotismo: baci, carezze, abbracci ed empatia emotiva, per loro sarebbero la vera panacea. Lo studio è partito da un campione di 5mila persone tra i 50 e gli 89 anni ed ha indagato le ripercussioni che, un' attività sessuale assidua, ha avuto sul benessere fisico ed emotivo degli esaminati; pare che i risultati non abbiano lasciato margine di dubbio, rivelando le stagliate differenze tra i due sessi. Sensazionalismo o verità? Emmanuele Jannini - Professore di endocrinologia e sessuologia presso l' Università degli studi di Roma Tor Vergata - afferma: «Vi sono solide evidenze per ritenere che il coito giovi allo stesso modo a uomini e donne. Sia dal punto di vista vascolare che da quello ormonale e dell' umore, l' effetto è assolutamente evidente in entrambi i sessi. L' attività sessuale, peraltro, aumenta i livelli di testosterone anche nella femmina, con benefìci che si ripercuotono sul suo tono dell' umore e non solo: il testosterone è un miglioratore della performance cardiaca e generale, tonifica la massa muscolare e riduce il rischio di osteoporosi». A dispetto di quanto sostenuto dall' ateneo inglese, non solo le fanciulle avrebbero tante ragioni quante gli uomini per giacere frequentemente, ma dalla carnalità tratterrebbero un utile maggiore: «Essendo le donne più esposte al rischio di depressione e stati d' ansia - spiega Jannini - è del tutto evidente che l' attività sessuale impatti più su di loro che non sugli uomini». Inoltre: «L' amplesso mette in moto funzioni ormonali, cardiovascolari, immunologiche e psicologiche. Tutt' al più potrebbe risultare verosimile che le femmine attribuiscano più importanza al petting di quanto non facciano i maschi, ma questo non ha a che fare con i benefìci del coito che, a fronte di un atto sessuale completo, restano i medesimi per entrambi i sessi». E se l' incedere del tempo vi ha convinto ad appendere le scarpette al chiodo e dire addio ai piaceri carnali, sappiate che la scienza vi smentisce: il sesso non ha età, anzi, superati i 60 andrebbe incrementato per vivere più a lungo: «Lo stato di salute generale, anche nella terza età, è direttamente proporzionale alla frequenza dell' attività sessuale. Chi fa sesso dopo i 65 anni campa di più» conclude Jannini. Vale altresì la pena di volgere lo sguardo alle virtù dimagranti del coito, il quale avrebbe il potere di rimettere in forma meglio della dieta: come evidenza una ricerca canadese, durante l' atto sessuale vengono rilasciate notevoli quantità del cosiddetto ormone dell' amore (l' ossitocina), che agisce alla stregua di soppressore della fame.

Da donnaglamour.it il 29 settembre 2020. Ogni uomo ha le sue zone erogene, ma tutti hanno un punto particolarmente sensibile: i testicoli. Molto spesso durante il sesso (anche orale) e la masturbazione, ci concentriamo esclusivamente sul suo pene, dimenticando quello che c’è più sotto. Nulla di più sbagliato! Lo scroto è però molto delicato, quindi bisogna sapere come toccarlo. Vediamo come stimolare i testicoli durante il sesso. Innanzitutto, osserva come sono fatti i testicoli. Ovviamente, non devi analizzarli come se fossi un medico, ma mentre gli fai sesso orale dirigi lo sguardo nella loro direzione e studiali senza farti notare. Vedrai che c’è una linea che li separa e che arriva fino al pene. Quello è il punto più sensibile, perché contiene numerose terminazioni nervose. Stimolalo con la lingua, oppure delicatamente con il dito, senza premere. Sempre durante il sesso orale, accarezza delicatamente i testicoli, poi prendili nella mano a coppa e stringili molto delicatamente. Con la bocca, lecca un testicolo con movimenti circolari su tutta la superficie, poi passa all’altro. Alla fine del rapporto, stimolare i testicoli può aiutare a dargli un orgasmo intensissimo. Poco prima dell’orgasmo, noterai che i suoi muscoli tendono a contrarsi e i testicoli si alzano leggermente. Tu prendili in mano e tirali verso il basso con molta delicatezza. Queste tecniche sono le più efficaci, ma ricorda che gli uomini non sono tutti uguali. Alcuni potrebbero essere più sensibili di altri e non è detto che tutti gradiscano le stesse stimolazioni. Inizia, quindi, a giocare con i suoi testicoli gradualmente, senza coglierlo di sorpresa, e cerca di notare quali sono i movimenti che più apprezza, su cui devi soffermarti, e quali quelli da evitare.

Sesso, ecco perché è così difficile raggiungere l'orgasmo.

Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Marta Musso su La Repubblica.it Farmaci, infezioni vaginali, eiaculazione precoce. Sono tanti i disturbi che non permettono, né alle donne né agli uomini, di vivere questo momento. Punto per punto, gli ostacoli al massimo piacere sessuale, in occasione della giornata mondiale. E' il giorno in cui se ne parla di più. Il 31 luglio di ogni anno, infatti, il culmine del piacere sessuale torna ad essere il protagonista della giornata mondiale dedicata, appunto, all'orgasmo. C'è chi non ne può fare a meno, vantandosi di averne anche di multipli, e chi si rifugia nell'ormai iconica scusa del mal di testa, per sfuggire dalle grinfie del partner ed evitare così la frustrazione di chi non ne ha mai provato uno. Ma quali sono i disturbi più comuni che non permettono di raggiungere l'orgasmo? Medicina e Ricerca Problemi con la sessualità?

I fattori che impediscono a una donna di raggiungere l'orgasmo (anorgasmia, ossia mancanza di orgasmo) sono molteplici e di diversa natura. "Ci sono donne che, pur avendo un piacere sessuale molto intenso, non riescono a raggiunge l'esperienza orgasmica - spiega Salvatore Caruso, docente di ginecologia e ostetricia all'Università di Catania e presidente della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica (Fiss) - .Alcune donne, per esempio, hanno paura di lasciarsi andare. “Il loro timore è quello di allontanarsi dal contesto in cui l'esperienza avviene”. Anche l'uso dei farmaci, come quelli psicotropi, ansiolitici e antidepressivi, può ostacolare il raggiungimento dell'orgasmo. Così come alcuni anticoncezionali, per esempio la pillola estroprogestinica, che in alcune donne possono creare difficoltà nell'avere un orgasmo. “Si tratta di contraccettivi che hanno una attività anti-androgenica elevata”, spiega Caruso.

Il dolore. Poi, ricorda l'esperto, c'è tutto il capitolo della sessualità dolorosa, che non permette di raggiungere l'orgasmo. “Pensiamo, per esempio, a tutti quei disagi legati alle infezioni vaginali, tipo da candida o da trichomonas, che producono una sofferenza tissutale per cui il coito diventa doloroso”. C'è, inoltre, la dispareunia, termine che indica il dolore durante i rapporti. “Può essere un dolore iniziale, ossia quando avviene la penetrazione, e più superficiale dovuto a diversi fattori, come uno spasmo, la paura di farsi male, o l'esperienza da parto traumatico”, spiega Caruso. “Oppure un dolore più profondo, che avviene durante il rapporto e quindi a penetrazione avvenuta, che solitamente è dovuto a stadi infiammatori importanti o all'endometriosi”. Infine, c'è un altro aspetto da evidenziare: l'anorgasmia dovuta alla paura di perdere le urine. “Ci sono donne che hanno un'incontinenza improvvisa durante l'orgasmo”, commenta l'esperto. “Diventano, quindi, anorgasmiche pur avendo rapporti sessuali e si abituano, perciò, a non avere l'orgasmo per evitare la perdita delle urine”. Oltre all'utilizzo di specifici farmaci che possono ostacolare il raggiungimento dell'orgasmo, gli stessi citati per le donne, ci sono degli ostacoli anche per il sesso maschile. Infatti, anche se un uomo raggiunge l'eiaculazione (soprattutto quella precoce) non significa affatto che raggiunga il piacere sessuale. “Questi casi si definiscono come un mancato controllo del vivere il piacere”, spiega Caruso. “Spesso seguiti da una mortificazione dell'uomo, perché in verità è solo una emissione di liquido seminale fine a sé stessa, senza però avere l'esperienza gratificante”.

I dopanti. Altri fattori che impediscono di raggiunge l'orgasmo sono rappresentati dall'abuso di dopanti ad azione adrogenica, sostanze che aumentano la massa muscolare. “Queste sostanze possono avere effetti collaterali”, commenta l'esperto. “Oltre a danneggiare il sistema vascolare, a livello di performance sessuale non hanno un risvolto positivo”. Inoltre, esistono dei farmaci, per il trattamento delle patologie vascolari, ma anche dei disturbi della depressione e dell'ansia, che influiscono negativamente sull'esperienza orgasmica. “Alcuni ipotensivi, ossia i farmaci che si utilizzano per trattare la pressione alta, oltre a diminuire il desiderio possono danneggiare l'esperienza orgasmica”.

Un'esperienza soggettiva. Buttate via i cronometri. Perché che l'orgasmo duri 2, 8 o 10 secondi non ha alcuna importanza. “Non dobbiamo dare delle regole”, commenta Caruso. “Una persona potrebbe inserirsi in un quadro disfuzionale quando non lo è, anche solo leggendo delle note tempistiche che in realtà non esistono”. L'orgasmo è l'esperienza piacevole di ciascuno, ed è perciò molto personale. “Le statistiche, quindi, lasciano il tempo che trovano”, sottolinea l'esperto. “Alcune persone possono esprimere l'esperienza orgasmica attraverso un piacere molto inteso, invece che con l'orgasmo vero e proprio”. La sessualità, quindi, è l'aspetto ludico del quotidiano che genera una quantità di endorfine, le sostanze che trasmettono il piacere, che ci fa stare bene. “Un discorso che è valido anche per una sessualità non necessariamente basata sull'orgasmo, ma più semplicemente su un'elevata e intensa esperienza piacevole”, conclude Caruso. “La sessualità non può essere categorizzata. È un'esperienza soggettiva e personale”.

DAGONEWS  il 25 giugno 2020. Rideteci sopra. Il sesso è maleodorante, rumoroso, sudaticcio e impacciato. Se non avete mai fatto nulla a letto che abbia causato un minimo di imbarazzo, siete gli amanti più noiosi del mondo. I migliori invece hanno come buoni precedenti del liquido seminale finito negli occhi e peli pubici nel naso, flatulenze nel peggior momento possibile, momenti in cui ci si  è guardati il corpo dall’alto e si è pensato a quell'abbonamento in palestra, inciampate per via delle mutande abbassate e momenti meravigliosamente goffi quando si prova qualcosa di nuovo che va dannatamente storto. Avete la giusta attitudine se, in ognuno di questi casi, vi siete detti “chissenefrega”. State facendo sesso non vi state esibendo dal vivo di fronte a un pubblico (si spera).

Usate la testa. Se pensiamo alle cose con sano realismo, realizzeremo in fretta che gli altri non sono più fortunati di noi: gli orgasmi simultanei sono più rari dei denti di gallina, il sesso nei film e nel porno non si avvicina neanche lontanamente alla realtà e (fattore decisivo) i veri uomini hanno problemi d’erezione e le donne hanno difficoltà a raggiungere l’orgasmo. Moltissime donne infatti vorrebbero che i loro organi sessuali fossero accompagnati da un manuale d’istruzioni (e una garanzia a vita). Sarebbe molto più semplice rimandare indietro il pacco segnalandolo come modello difettoso, accompagnato dalla nota: "le parti sono montate al contrario.” Perché il clitoride non si trova dentro alla vagina? Basterebbe una semplice riallocazione e uno dei problemi sessuali più frustranti esistenti – l’80% delle donne ha difficoltà a raggiungere l’orgasmo durante i rapporti – si risolverebbe all'istante.

Trovate il tempo. I problemi sessuali spesso non hanno a che fare col sesso, ms col tempo che gli dedichiamo. Se dovete rivolgervi a dei consulenti per gestire i vostri orari, fatelo: mettete ordine nella vostra vita in modo da poterlo fare due volte alla settimana, anche se dovesse durare 10 minuti. Connettersi sessualmente col partner (almeno due volte a settimana), è fondamentale, sempre che non abbiate un’ottima ragione per non farlo (tipo avere appena fatto dei bambini). Idealmente, bisognerebbe farlo tre volte. In ogni caso si tratterebbe di impegnare appena un'ora (sic) a settimana. Prima che vi inorgogliate troppo, ecco qualche statistica: Un quarto delle coppie fa sesso una volta a settimana, un terzo due volte e solo il 15% degli innamorati lo fa tre volte a settimana. Il 61% sostiene che una sessione lunga duri circa 45 minuti mentre il 5% dei partner guardano la tv o stanno al tablet mentre lo stanno facendo. Questo dovrebbe bastare a non porsi obiettivi troppo ambiziosi. Calcolate il tempo: molte persone non lo fanno tanto quanto credono. Esistono svariati motivi per cui bisognerebbe fare sesso regolarmente e uno su tutti è questo: più orgasmi, meno sforzi. Più fate sesso infatti e più si stabiliscono rapidamente le connessioni tra cellule cerebrali, perché gli impulsi viaggiano attraverso un percorso già ben battuto.

Comprate un vibratore. I vibratori sono più diffusi dei gatti. Esistono ottimi motivi per cui ogni donna e ogni coppia dovrebbero possederne uno. Primo fra tutti: il vibratore è uno dei modi più efficienti per stimolare il clitoride e la maggior parte delle donne raggiungono l’orgasmo in quel modo. E molte donne lo raggiungono unicamente grazie al loro vibratore. Secondo: le coppie che usano un vibratore quando fanno sesso accrescono enormemente la frequenza dei loro orgasmi. Due ottime ragioni per averne uno sempre a portata di mano nel comodino.

Separare il sesso dall’amore. Pensate al miglior sesso che abbiate mai fatto. Era con la persona che più avete amato o con quella che più avete desiderato? C’è da scommettere un appartamento che si tratta dell’ultima tra le due. Il buon sesso e il vero amore non vanno insieme come la volpe con l’uva. Le persone intelligenti questo lo capiscono presto: solo perché ci si incastra bene vicendevolmente, non significa che anche i due cuori coincidano; solo perché il sesso è fantastico, non significa che sia l’amore della vostra vita. Praticate il sesso sicuro in tutti i sensi: mai mostrare i propri sentimenti al punto da essere irrimediabilmente vulnerabili.

Restare Fedeli. Nessuno può negare che la nostra libido viene ridestata quando abbiamo degli altri 'compagni di gioco' e questa si alza ancora di più se ci andiamo a letto insieme. All’inizio il sesso sembra fantastico perché la novità e il tabù dell’infedeltà ci offrono un senso di euforia. Ma una volta che ci si abitua al nuovo corpo, svanisce. Impegnarsi a migliorare il sesso con la stessa persona è un’idea di gran lunga migliore. Avere degli amanti per rendere la propria vita sessuale più vivace funziona di rado. Oltretutto, è estenuante.

Dire no senza sentirsi in colpa. È ok non voler fare sesso tutto il tempo. Ogni forma di desiderio ha i suoi alti e bassi, che possono essere influenzati dagli ormoni e dai livelli di stress, dalla carriera, i bambini e la salute. Se l’unica cosa che volete fare una volta a letto è dormire, va bene. Molti partner preferirebbero dirvi di no piuttosto che dover offrire prestazioni su richiesta e il rifiuto inaspettato, inoltre, può aggiungere il fattore imprevedibilità: nel momento stesso in cui il sesso diventa un atto automatico, svaniscono dalla relazione l’eccitazione e il senso di conquista. Come farlo senza offendere nessuno? Basta dire: “Aspettiamo fino al weekend senza affrettarci così potremo davvero godercelo.” 

Aprite gli occhi. Chiudete gli occhi quando raggiungete l’orgasmo e avrete un’esperienza privata piacevolmente intensa. Apriteli, fissatevi, e diventa un’esperienza condivisa. Non si tratta poi di questo in fondo? 

DAGONEWS il 15 maggio 2020. Riuscite a immaginare di dormire con qualcuno che avete appena incontrato e che ti colpisce in faccia durante il sesso? O che ti schiaffeggia così forte da non potersi sedere l’indomani? E che ne dici di essere soffocata durante il sesso? Se non appartenete al genere di donne alle quali queste pratiche è bene lanciare un messaggio chiaro al partner e agli uomini in generale. Come spiega la sexperta Tracey Cox ci sono delle partiche che sono comuni nel porno, ma non fanno parte dell’educazione sessuale o di come normalmente le cose funzionano in un coppia. Oggi i ragazzini guardano tanto porno e per loro, quello che accade in quei film, diventa l’unico modo di agire e di comportarsi durante un rapporto sessuale. Ovviamente le cose non funzionano così: le attrici che vedete godere sono pagate per fingere. Quello che piace (per finta) a loro non è detto che faccia piacere a una partner. Il dolore non piace a tutti. Se ti piacciono le pratiche sadomaso non c’è nulla di male. Basta parlarne con il partner. In qualunque coppia che lo pratica si stabiliscono le regole, ma non si può pretendere che qualcuno che non ama farsi frustare accetti con benevolenza i lividi sul sedere. Ecco le otto pratiche comuni che le donne nella vita reale odiano.

Sculacciate dolorose. Il BDSM è uscito dalla sua dimensione di nicchia quando “Cinquanta sfumature di grigio” è diventato popolare. Gli strumenti per il bondage hanno visto impennare le loro vendite. Ma attenzione. Se uno schiaffo leggero può eccitare non si può dire lo stesso per un schiaffo che provoca una ferita.

Soffocamento. Tenere una donna per il collo non è una pratica gradita a meno che lei non acconsenta. Tra i ragazzini è molto diffusa perché lo vedono fare nel porno, ma bisognerebbe indirizzare i giovani su un altro tipo di educazione sessuale.

Nessun preliminare. Nel porno, la donna è pronta solo guardando il pene del partner. In realtà, le donne hanno bisogno di tempo per eccitarsi, per consentire alla vagina di “bagnarsi” e rendere più confortevole la penetrazione. Saltare il "riscaldamento" e andare dritto alla penetrazione - con le dita o con un pene - sposta il sesso da piacevole a doloroso. I preliminari non sono un lusso. È raro che una donna li salti e un bacio non la rende pronta.

Schiaffeggiare il clitoride. Un’altra pratica favorita nei porno: schiaffeggiare il clitoride con una mano, un pene, le dita o un oggetto. Il clitoride è pieno di terminazioni nervose ed è estremamente sensibile. Dato che molte donne trovano troppo intensa la stimolazione diretta del clitoride, immagina come si sente se viene colpito.

Schiaffi in viso. Gli uomini credono che essere schiaffeggiate in viso ecciti le donne. Ma nessuna in media giudicherà uno schiaffo come qualcosa di eccitante. Idem se si infilano vigorosamente le dita nella bocca di qualcuno.

Pene in gola. Il “deep-throating”, ovvero prendere in bocca il pene fino in fondo, è un luogo comune nel porno.

In realtà, la maggior parte delle donne si concentra sul prepuzio che è dove si trova la maggior parte delle terminazioni nervose. Prendere un pene fino in gola è un’abilità. Se lo fa una persona non esperta si innesca il riflesso del vomito.

Fare sesso anale senza prepararsi. Per farlo bisogna allenare il retto e nessuna coppia dovrebbe simulare quello che accade nei porno. Una cosa pericolosa è passare dall’anno alla vagina consentendo un pericoloso passaggio di batteri. Stessa cosa vale per la bocca.

Eiaculare in faccia. Nel porno si chiama "The Money Shot": quando un uomo eiacula sul viso del partner. Le pornostar fingono di adorarlo. Se una donna non lo vuole è assolutamente irrispettoso. Chi diavolo vuole sperma nei loro occhi o nei loro capelli?

Ogni atto sessuale che si allontana anche leggermente dalla norma deve essere accettato dal partner. Dunque bisogna semplicemente parlarne.

Da gqitalia.it l'8 marzo 2020. Sei troppo sesso e vaniglia (ispirandosi al mondo dei caffè insaporiti)? Questo si dice di qualcuno che a letto fa sempre le stesse cose e che non usa più nemmeno un poco di creatività per rendere più interessante il tempo con la partner. Anche se parecchi uomini sono sensibili al tema, molti sono amanti noiosi senza saperlo, con le loro compagne che finiscono per essere insoddisfatte e annoiate. Di seguito sono riportati alcuni segnali che indicano che hai perso creatività durante il sesso, e devi rendere tutto un po' più interessante. Inizi sempre con lo stesso rituale, passi al missionario, alterni tra due posizioni e finisci. Questa non è esattamente una sessione di sesso creativo. È quello che succede quando lo fai in automatico e ti abitui sempre alle stesse cose. Sei avvisato: così il sesso risulta noioso e diventerà obsoleto molto rapidamente. Devi provare cose nuove, sorprenderla provando una nuova posizione o prendendoti il tuo tempo per sperimentare. Se non hai il coraggio di parlare con la tua  partner per dirle quello che vuoi, o chiederle se ha qualche fantasia, non potrete mai provare cose nuove insieme e tutto rimarrà poco interessante. Affinché entrambi possano godere della  sessualità, ci devono essere comunicazione e apertura. Insomma, ti muovi a malapena e aspetti che lei si metta sopra di te e faccia tutto il lavoro. Ci sono molti individui così, ma è necessario partecipare, essere propositivi e coinvolti.  Altrimenti sostituirti con un giocattolo sessuale è questione di un attimo. Se quando finisci lei insiste che ne vuole ancora e tu non vuoi o senti che è troppo faticoso, sei sicuramente una barba. Se vuole di più (C'è la possibilità che lei chieda di rifarlo perché le è davvero piaciuto molto. Ma siamo certi che sai capire se è questo il caso o meno) magari è perché quello che hai fatto non era abbastanza in quel momento. Riprovaci. Mettici un po' più energia e forse non chiederà il bis perché insoddisfatta. Perché perdere tempo se non ci metti energia? Forse speravi che durasse di più, ma è possibile che abbia scelto di farlo in fretta e togliersi il pensiero. Peggio ancora, potrebbe significare che non le sei sembrato molto interessato durante l'atto. Passa più tempo a stimolarla in modi diversi, ne vale la pena ogni minuto.

Da repubblica.it il 28 Gennaio 2020. E' vero che per i molti uomini con diagnosi di carenza di testosterone, perdere peso può aiutare ad aumentare i livelli di testosterone. Ma alcune diete, in particolare una dieta povera di grassi, possono essere associate a una piccola ma significativa riduzione del testosterone. A sostenerlo uno studio pubblicato sul "The Journal of Urology", Gazzetta ufficiale dell'American Urological Association (AUA). Journal che è pubblicato nel portfolio Lippincott da Wolters Kluwer. La carenza di testosterone è una questione da non sottovalutare: può infatti portare a problemi, tra cui una riduzione dell'energia e della libido, insieme ad alterazioni fisiologiche, tra cui un aumento del grasso corporeo e una ridotta densità minerale ossea. E' emerso che negli ultimi anni un basso livello di testosterone è molto diffuso tra gli uomini: ad esempio negli Stati Uniti a circa 500.000 uomini viene diagnosticata una carenza di testosterone ogni anno. Oltre ai farmaci, il trattamento per il basso livello di testosterone include spesso modifiche dello stile di vita, come esercizio fisico e perdita di peso. Ma gli effetti della dieta sui livelli di testosterone non sono stati chiari. Poichè il testosterone è un ormone steroideo derivato dal colesterolo, i cambiamenti nell'assunzione di grassi ne potrebbero alterare i livelli. Questa nuova analisi di come la dieta influisca sul testosterone sierico fornisce la prova che una dieta povera di grassi è associata a livelli più bassi di testosterone, rispetto a una dieta senza restrizioni. Sono stati anlizzati i dati su oltre 3.100 uomini da uno studio sanitario nazionale (il National Health and Nutrition Examination Survey o NHANES), dove tutti i partecipanti avevano dati disponibili sulla dieta e sul livello sierico di testosterone. Sulla base della storia della dieta di due giorni, il 14,6 per cento degli uomini ha soddisfatto i criteri per una dieta a basso contenuto di grassi, come definito dall'American Heart Association (AHA). Un altro 24,4% degli uomini ha seguito una dieta mediterranea ricca di frutta, verdura e cereali integrali ma povera di proteine animali e latticini. Solo pochi uomini hanno soddisfatto i criteri per la dieta AHA a basso contenuto di carboidrati, quindi questo gruppo è stato escluso dall'analisi.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 10 agosto 2020. Si tratta di un'impresa molto impegnativa, di un azzardo incerto, di una fatica forse eccessiva, tipo sollevamento pesi o incontro di wrestling: almeno così lo descrivono tuttora i sapienti del ramo che, a causa proprio della loro sapienza, forse si sono fatti sfuggire la grande Anna Marchesini che sull'argomento ci ha dato dritte molto confortanti facendoci pure ridere; e continuano a sentenziarne, dottamente e lugubremente, come fosse un tentato suicidio tipo scalare l'Himalaya senza ossigeno. I meno informati sull'essenziale argomento hanno scoperto solo adesso l'esistenza più che ventennale di una Giornata Mondiale dell'Orgasmo che si è celebrata in questi giorni non si sa con quali e quanti omaggi al medesimo, e subito sono spuntati questi esperti che affrontano da secoli l'ennesimo mistero delle donne e della loro origine stregonesca. Cavandone peraltro ben poca conoscenza, anche perché ad accanirsi sul fenomeno e a favoleggiarne, nel passato erano gli addetti al sapere, cioè i maschi, e a nessuno veniva in mente di chiedere il parere alle signore stesse, che mantenevano ben contente il loro segreto, ammesso che lo avessero scoperto da loro stesse o con crudeli assalti di stregoni, fattucchiere, e ancor meglio diavoli e persino monaci di messe nere, i soli a conoscerne gli accessi. Ed eccessi. Perché raccontandola rozzamente nei secoli passati si era deciso che le vere signore stavano lì ferme per le di lui gioie e per il gaudio della maternità: per il resto emicranie su emicranie e la principessa Sissi che procurava dame disponibili all'imperatore. La moglie non era una moglie se solo emetteva un mormorio che poteva far pensare a un risveglio dallo stato comatoso del sublime sacrificio, ma poi per fortuna per lei c'era sempre qualche musico o precettore di buon carattere, e per lui, questo nell'Ottocento, le famose Grandes Horizontales che per mestiere dovevano lanciare grida di giubilo al primo tocco e in cambio ottenevano palazzi e carrozze a sei cavalli: innocenza del maschio. Semplificando, l'apocalisse arrivò negli anni '70 del secolo scorso, quando qualcuno dei tanti gruppi femministi appena spuntati nelle università, decise che la cosa più importante oltre al difficile compito di trovare un compagno disposto a liberarle dalla verginità (scappavano quasi tutti temendo trappole) era quello di sapere come si era fatte là, il luogo più nascosto del corpo che costituiva l'eterno tesoro e l'incancellabile vergogna, e che solo poche sconsiderate immaginavano dai disegni delle enciclopedie mediche a puntate, essendo ancora precluso ai viventi anche più appassionati d'arte L'origine du monde di Courbet; e di cui si conoscevano soprattutto i fastidi mentre solo le più fortunate pioniere ne avevano scoperto i diabolici piaceri che mai si sarebbero potuti rivelare in confessionale e neppure alla mamma. Una decina alla volta, tutte femmine, sedute per terra in cerchio, su le gonne giù le mutande, uno specchio tra le gambe, a guardare l'inguardabile, prendendo certi comprensibili spaventi. E contemporaneamente i maschi pentiti, riuniti in autocoscienza, senza confrontare i loro tesori, si scambiavano dritte di sesso democratico e paritario. Lungo i decenni intanto Freud se l'era inventata che il clitorideo era infantile e se non diventava vaginale non si era normali, mentre poi la coppia Masters e Johnson (vedi l'illuminante fiction Masters of Sex) rincuorò le signore sul fatto che clitorideo poteva bastare, sino a quando uno scellerato si impuntò sul punto G, e fu un tempo disastroso e mistificante. Alla ricerca di questo mito ci si impegnò inutilmente sino allo sfinimento e alla clausura per poi decidere che anche il gioco fosse mai esistito, non valeva la candela. Ora uno pensa, da quel momento finalmente, tutti uomini e donne, presa visione e coscienza dello stravagante strumento, avrebbero festeggiato dandosi tutti quanti, fruitori e fruite, a un suo uso meno utilitaristico e più simpatico, spensierato e condiviso. Proprio in questi giorni di festeggiamenti mondiali, liberi tutti, dagli antri dei dottor Frankenstein dell'orgasmo tuttora chini sulle pudenda di cadaveri di femmina e, se coraggiosi, di femmine viventi, partono consigli come se fossimo ancora all'oscuro di noi stesse, arrivano suggerimenti noiosissimi per conquistare finalmente il nostro momento di "piccola morte" come in modo benaugurante quando si tratta di cose femminili, viene chiamato quel secondo o nanosecondo che ripaga di tanto tempo perso in coreografie tipo Cinquanta sfumature o persino Histoire d'O che almeno fa letteratura. Ecco gli ultimi suggerimenti sempre faticosi, per una cosa che volendo basta niente. E per esempio c'è un portale che fornisce «situazioni elaborate da suoi esperti a partire dall'allenamento muscolare»: se si ha costanza, cioè almeno dieci minuti al giorno di working pubococcigeo, «si hanno i primi risultati dopo 6 - 8 settimane ». In più «entra in gioco il cervello che deve essere completamente spento, e il tutto richiede tempo dedizione». Ma se il tempo non ce l'hai e in quanto a dedizione preferisci usarla per lo studio della quantistica? Lasciar perdere? No, ricordarsi che senza tante ricette faticose, quasi sempre basta un niente. Siamo nel terzo millennio, non c'è porcheria o peccato o meraviglia che non sia disponibile a chiunque ne sia interessato: tutte le femmine a partire dall'adolescenza oggi ne sanno più del diavolo, ne parlano sui loro giornaletti, lo seguono sotto ogni forma nelle fiction tipo l'intelligente Sex Education, lo pretendono dai loro compagni, ci si impegnano come per un diploma. Ma non è detto che l'obbligo di performance poi dia simpatici risultati. Tutti ne parlano, il marketing rende orgasmico anche il gelato da gustare ad occhi chiusi e mugolando, mentre ancora nelle scene di sesso dei film la signora o mugola o spalanca la bocca, non tutti e due insieme, per non fare porno. Dalla prima puntata in Italia del meraviglioso e altamente istruttivo Sex and the City, pare impossibile, sono passati vent' anni e ormai quel costante accumulo di orgasmi di ogni specie ha fatto il suo tempo, forse il Covid l'ha un po' neutralizzato, sostituito dalla ricoperta del ricamo e del pane fatto in casa. È come se l'orgasmo delle signore sia tornato ad essere un po' politicamente scorretto ma anche pericoloso per i rigori familisti del momento: insomma una cosa da donne, non così importante neppure per le signore impegnate in femminismi più estetici che erotici, e infatti gli esperti orgasmici si rivolgono ancora solo alle donne, che non ne hanno affatto bisogno, e mai a quei maschi che non hanno grande dimestichezza con quella stravaganza, temendo che forse anche la mamma, a suo tempo non fu casta e muta come era suo dovere.

Brunella Bolloli per "Libero Quotidiano" il 20 giugno 2020. Novanta minuti di seminario sull'orgasmo femminile. Alle tre e mezza di pomeriggio di un sabato caldo. Su Zoom. Costa solo 10 euro e le adesioni sono tante: tutte donne, dai 20 ai 70 anni, l'argomento tira, dopo la clausura da lockdown ancora di più, con il blocco totale dei mesi scorsi e il rimpallo delle regioni, apri e chiudi, chiudi e apri, tocca riabituarsi perfino a certi rapporti. La relatrice, poi, è una scienziata della materia: si chiama Francesca D'Onofrio, professione sex counselor, consulente del sesso, psicoterapeuta, una tipa serissima, che non ha mai smesso durante il Covid di seguire coppie in crisi e singoli in cerca di aiuto e per venire incontro alle esigenze dei pazienti ha organizzato questo webinar, il seminario via Zoom, piattaforma alla quale possono accedere tutti direttamente da casa propria. E dunque, eccoci in collegamento da Roma, Milano, Piacenza, Padova, Bologna, Alessandria fino a Berlino. L'invito su Facebook, del resto, era accattivante e diceva così: «L'orgasmo è piacere, gioia, emozione, salute, un meraviglioso dono a portata di mano, ma molte donne non sanno cosa sia. Scoprilo con ORGASMICA. Cultura, tecniche, anatomia, pregiudizi, storia, esperienze, ti propongo un pellegrinaggio di scoperta e condivisione. Destinazione, il tuo piacere». E al pellegrinaggio non si può dire di no, sarebbe un peccato. La dottoressa consulente del sesso è un'esperta di sex toys, gli aggeggini come i mini-vibratori che usano uomini e donne e, ovviamente, li consiglia: «Fanno bene sia alla libido che alla salute», spiega, «perché aiutano i tessuti a rivascolarizzarsi, aumentano la produzione di dopamina, che è l'ormone della felicità, e risolvono tante situazioni». Ma i giochi stavolta non c'entrano. Le iscritte vogliono risposte sul piacere, su come si arriva alla soddisfazione partendo dalla mente «perché è un fatto culturale se l'orgasmo femminile oggi è ancora un tabù e in buona parte», insiste D'Onofrio, «non c'è un problema anatomico, fisiologico e genitale, ma di rappresentazione della sessualità femminile» e della «cultura in cui viviamo». In sintesi: c'è tanta disinformazione, troppe donne sono represse e si sentono in colpa anche solo a parlare di quella roba lì.

Evitare la ragnatela. Dopo una certa età, inoltre, sono convinte di dovere entrare in modalità ragnatela, ovvero quando là sotto non passa mai nessuno, invece la scienziata del piacere su questo dà grandi speranze: «L'orgasmo femminile è come un buon vino. Più invecchia e più è piacevole. Chi gode arriva fino a 100 anni», assicura. Per cui nonne scatenatevi, avrete un sacco di benefici. Infatti «con l'orgasmo la pelle è luminosa, i capelli più forti, preveniamo una serie di malattie e stiamo meglio». L'importante è lasciarsi andare e abbandonarsi alle fantasie. Spesso durante i suoi incontri, la psicoterapeuta utilizza un approccio pratico che va «dal disegnare gli orgasmi all'esplorazione delle zone erogene in piccoli gruppi, a seconda dei contesti in cui viene realizzato», ma con il filtro dello schermo di un Pc e la distanza causa Covid tale metodo è irrealizzabile. Dunque, tocca a lei cominciare con la spiegazione, su come lo si può fare con leggerezza ma consapevolmente, poi si aprono i microfoni e partono le domande da casa. Piatto forte lo squirting, termine che non c'entra con lo squittire animalesco ma deriva dall'inglese squirt, cioè schizzo, spruzzo. Per semplificare: l'eiaculazione femminile, qualcosa che fuoriesce copioso come avviene per gli uomini, sebbene c'entri nulla con lo sperma ma riguardi un appagamento della donna così intenso da essere senza equivoci, senza finzioni. Visibile. Non tutte le signore squirtano (soltanto tra il 10 e il 40 per cento) e in quanto all'origine di questo fluido che alcune hanno e altre no, il dibattito è aperto e un webinar non basta. Sul tema si apre una prateria, un mondo, anzi Vulva Mundi dal nome di un noto festival sulla materia, con le partecipanti al corso on line interessate a capire come si fa «a fare la fontana» e disposte ad accettare il rischio di raccontarsi in pubblico.

Lo show della patata. La sessuologa spiega tutto per bene usando i termini giusti ma, neanche a farlo apposta, tra le iscritte a Orgasmica c'è Betta Cianchini, attrice, sceneggiatrice, conduttrice radiofonica e componente delle Funambole, associazione socio-culturale nata dall'idea di 21 donne creative e intraprendenti con cui la D'Onofrio collabora. Grazie al suo lavoro Betta punta sull'ironia, come si evince già dal titolo di un suo fortunato spettacolo Il Chakra della patata, che è un'irriverente rilettura della sessualità femminile «divisa tra ciò che dice la testa di una donna e quello che invece sente la topa». Impossibile, quindi, ignorare l'argomento squirting da qualunque posizione lo si veda, trattato in modo giocoso, ma con l'apporto della dottoressa, perciò mai con volgarità. Alcune battute dello show sgorgano spontanee: «Buonasera e grazie di essere venuti... intendevo tra ieri notte e oggi, lo spero per voi». Allora, cos' è lo squirting? Sonia si fa avanti: «Purtroppo succede molto raramente. A me mai!». Giorgia condivide: «Praticamente stiamo parlando di un miracolo». Stefania: «Un mistero lubrificante». Claudia non ha capito: «Ma con la D o con la T? Squirt che? Ah, è il verso del topo?». Barbara la corregge: «Casomai della topa!». Fabiola laconica: «È come quando sbrini il frigo, stesso volume di acqua e stessa cadenza: una volta all'anno». Un'anonima: «Con mio marito non mi capita mai». Insomma, è evidente che serve un ripassino, non a caso la sex counselor ha già programmato il prossimo seminario su Internet: il 30 giugno. Ma adesso che è finita la clausura e si è tornati a fare zum zum senza dover ricorrere a Zoom, una cosa è chiara: che si pronunci squirting o in altro modo, che si realizzi pienamente o no, le donne non vogliono più nascondersi e anzi pretendono la parità d'orgasmo: più schizzi per tutte.

Gli orgasmi femminili sono lunghi circa 20 secondi, quattro volte più degli uomini. Se il suo orgasmo dura poco (o troppo), dovreste porvi qualche dubbio sulla sua autenticità. Così come se la sua schiena non si inarca, se i suoi piedi non si contraggono, se i suoi muscoli non si muovono e soprattutto se i suoi occhi restano aperti tutto il tempo...da Men’s Fitness il 7 giugno 2020. Come si fa a capire se una donna finge l’orgasmo? Secondo il sessuologo Tammy Nelson, il 70–80% delle donne finge clamorosamente e quindi c’è da preoccuparsi. Lo fanno per paura di deludere o per risparmiare una umiliazione al partner. La maggior parte di loro ha bisogno di stimolazione clitoridea, che può durare dai 7 ai 45 minuti. Se la donna non dà segni, tipo gemiti e contrazioni, l’uomo non capisce nemmeno se ci è vicino. Una soluzione? Be’, se la donna è eccitata, la sua vagina è molto lubrificata e, quando viene, la vulva pulsa. La personalità è altrettanto importante (sempre che conosciate la vostra partner): se è una persona troppo accomodante, c’è il sospetto di finzione. Se, al contrario, avete a che fare con un tipo generalmente schietto, allora c’è meno da temere. Esistono comunque dei campanelli di allarme, come riporta “the1stclasslifestyle”, ad esempio se la donna urla troppo presto. Il sesso a voce alta esiste, ma generalmente il climax arriva dopo parecchio e i gemiti vanno in crescendo. Il fatto è che gli  uomini eiaculano prima e per molte donne è imbarazzante non avere ancora finito, quindi fingono godimento, recitando come pornostar. Volete essere sicuri che godano? Pensate prima a loro. Gli orgasmi femminili sono lunghissimi, durano circa 20 secondi, quattro volte più degli uomini. Se il suo orgasmo dura poco (o troppo), dovreste porvi qualche dubbio sulla sua autenticità. Così come se la sua schiena non si inarca, se i suoi piedi non si contraggono, se i suoi muscoli non si muovono e soprattutto se i suoi occhi restano aperti tutto il tempo.  Le donne hanno bisogno di concentrarsi sul piacere, perciò gli occhi devono chiudersi. Altri sintomi del finto-orgasmo sono: esitazione quando le chiedete se è venuta, il mezzo sorriso dopo il rapporto, il silenzio strano e la distanza improvvisa. Se la donna chiede, dopo il sesso, di stare un po’ da sola, oppure si chiude in bagno, può significare che sta  compensando con l’autoerotismo.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 24 gennaio 2020. Da che mondo è mondo, la simulazione dell'orgasmo è considerata un' esclusiva femminile, ma siamo del tutto sicuri che espressioni serafiche e gemiti studiati a tavolino siano appannaggio eccettuativo della donna? Stando a una ricerca condotta presso l' Università del Québec e pubblicata sulla rivista Sexual and Relationship Therapy, anche gli uomini fingono l' orgasmo. Più precisamente, ad aver ammesso il ricorso a strategie simulative tra le lenzuola, è stato il 28,68% degli intervistati. Lo studio si è anche occupato di indagare i motivi che spingono il maschio ad estrinsecare la "beffa", ed essi avrebbero a che fare la riabilitazione di una compagna che, dinanzi al mancato godimento del partner, potrebbe mettere in discussione le sue medesime ars amatorie e complessarsi: esalare qualche gemito di partecipazione e mostrare un po' di compiacimento, in altre parole, si rivelerebbe una tattica funzionale all' autostima della fanciulla. Ma non vi è altresì da escludere che, fingendo l' estasi, l' uomo ambisca più semplicemente a congedarsi da un amplesso insoddisfacente. Abbiamo chiesto approfondimenti al dott. Giorgio Del Noce - andrologo, urologo e sessuologo - il quale afferma: «Vi sono maschi che guardano al proprio ritardo orgasmico con imbarazzo ed altri che ne fanno una ragione di vanto. Benché la seconda alternativa sia la più frequente, non mi stupisce che alcuni uomini superino l' impasse fingendo, tuttavia è molto infrequente. L' orgasmo, nel maschio, si accompagna alla eiaculazione, e qualsivoglia raggiro risulterebbe inattendibile. È altresì vero che, in caso di infiammazioni alle vescicole seminali o alla prostata o di neuropatia, l' emissione di sperma può rendersi impercettibile, ma escludo che un individuo, essendone al corrente, se ne serva quale scusa per giustificare un orgasmo esente da eiaculazione. Lascio da parte anche l' ipotesi che la finzione sia funzionale all' autostima della partner: l' uomo è meno empatico della donna, e da un certo punto di vista vive la sessualità con una punta di egoismo. Se l' altra raggiunge l' orgasmo se ne compiace, ma in caso contrario non ne fa un dramma. Un atteggiamento di simulazione lo potrei ricondurre a un individuo alessitimico, ovvero ad un analfabeta emotivo che, a causa di un disturbo della regolazione affettiva, fa difficoltà a raggiungere il piacere sessuale. Come loro anche i depressi, i quali stentano a trovare piacere nelle cose che normalmente dovrebbero darne. Pure gli uomini dall' indole violenta potrebbero sentirsi tentati a fingere a letto, poiché si costringono a imbrigliare le emozioni per non esserne sopraffatti: per avere un orgasmo ci si deve abbandonare, ma chi del proprio istinto ha imparato a diffidare, è verosimile che opponga qualche resistenza a lasciarsi andare. E si figuri che la femmina, per natura più orientata del maschio alla ricerca prole, non si rivela granché comprensiva con un compagno anorgasmico: in anni ed anni di attività ho perfino avuto modo di riscontrare che l' uomo, in caso di infertilità femminile, non mette quasi mai in crisi la relazione, viceversa la donna lo fa». La chiusa di Del Noce desta un plausibile sospetto: chissà che non sia un atavico istinto di conservazione della stabilità di coppia ad indurre l' uomo al famigerato "inganno".

DAGONEWS il 14 gennaio 2020. Un uomo messicano è stato ricoverato in ospedale dopo aver assunto uno stimolante sessuale "usato per i tori" che gli ha causato un'erezione di "tre giorni". L’uomo è stato operato in un ospedale di Reynosa, al confine tra Stati Uniti e Messico, dopo aver assunto il farmaco in previsione di una notte di sesso con una 30enne. Secondo quanto riferito dal quotidiano “La Repubblica” era andato fino a Veracruz per mettere le mani sullo stimolante usato dagli allevatori per i tori in vista dell’accoppiamento.

Da stile.it l'1 gennaio 2020. Grida durante il sesso. Una sequenza di rumori, esclamazioni, parole che variano da persona a persona. Spesso il rumore non è nemmeno rumore. Solo un tratto sopra il silenzio più totale. Ma cosa raccontano questi suoni emessi in un momento piuttosto particolare della persona che li fa, appunto, suonare? A occuparsi del tema è il magazine Live Strong. Il giornale spiega come a ogni urlatore diverso corrisponda una caratteristica differente di personalità. Ecco quali sono. Grida durante il sesso: gli urlatori sono tutti diversi. Secondo l’educatrice sessuale O.school Kenna Cook. “Questo è il tipo di persona che vuole asserire che la sua capacità di dominare. Il suo suono serve a manifestarsi come più potente, grande e più rumoroso”. C’è per esempio chi decide di non parlare e di non urlare ma intensifica il proprio respiro. Secondo l’esperta questo è un segnale di grande partecipazione all’atto in quanto il respiro intenso non è un qualcosa che si può facilmente intensificare. Quindi, sincero. Esistono amanti dallo spirito descrittivo. Sono quelle persone che amano parlare durante il sesso e farlo in terza persona. Per l’esperta si tratta di un modo per attivare il cervello. Uno stratagemma considerato come positivo visto che il cervello è un grande organo sessuale. Esistono amanti che a letto adottano registri di linguaggio infantile. Sia nel tono di voce sia nelle parole che scelgono. Secondo l’esperta si tratta di persone che amano avere il controllo sulla persona che hanno davanti. Quello che ama parolacce ed espressioni volgari tra le lenzuola. Secondo l’esperto queste persone sono quelle che poi nella vita reale sono assolutamente gentili. Per loro dire parolacce è solo un modo per trasgredire in maniera controllata e circoscritta.

·        Il Cunnilingus.

Da liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Il cunnilingus perfetto esiste, ma non sembra facilissimo da praticare. A fornire una serie di delucidazioni in materia ci hanno pensato le pornostar del sito Woodrocket. In un video postato sul web queste donne raccontano le loro esperienze dando agli interessati alcuni consigli utili in materia. Prima di partire però ci tengono a precisare che quella del cunnilingus è una pratica molto complessa, ammettendo che fare sesso orale ad un uomo sia molto più facile. Innanzitutto mai fare un cunnilingus con la lingua di lato o orizzontalmente. Posizione rigorosamente frontale e labbra della bocca da schiacciare contro quelle vaginali. L'intrigo e l'attesa però sono fondamentali: è necessario cominciare lentamente, preferibilmente dall'interno coscia. E importante spingere il basso ventre con la mano per far emergere di più il clitoride e poi l'effettivo movimento della lingua: deve disegnare un otto sulla vagina. Si può lubrificare usando anche le dita facendo però particolare attenzione alle unghie: non devono essere troppo lunghe e non devono arrivare a toccare il punto G. Le difficoltà sono evidenti, ma non bisogna demordere e soprattutto non farsi scoraggiare: "La vagina è un grande mistero e ognuna ha una sensibilità diversa. La soluzione è chiedere cosa vuole la donna e cosa le piace. E’ un’esperienza da personalizzare".

Ali Drucker per "cosmopolitan.com" il 5 agosto 2020. A posteriori, è facile dire di sapere tutto sul cunnilingus, analogamente a quando accade per la fellatio e praticamente tutto ciò che riguarda il sesso. A seguire, le osservazioni di otto donne che condividono quella saggezza duramente conquistata che avrebbero voluto avere prima di praticare sesso orale su un'altra donna per la prima volta.

1. «Una cosa che avrei voluto senz'altro sapere prima di praticare il cunnilingus su una donna per la prima volta era che è meglio chiederle cosa le piace. Sono bisessuale e, prima di questa, ho avute molte esperienze sessuali con uomini che non sapevano davvero cosa facevano. Così, quando è capitato a me di avventurarmi là sotto, non ero totalmente sicura di cosa fare. Ho provato a replicare quello che era stato fatto a me in passato, ma non sembrava proprio che lei se la stesse godendo, per cui ho rinunciato. Ogni donna è diversa. Alcune non amano la penetrazione vaginale, altre non amano la penetrazione anale, e la lista potrebbe andare avanti. Quello che ti piace di più potrebbe essere ciò che la tua partner detesta maggiormente. Il mio consiglio è, quindi, sempre chiedere e non limitarsi a presumere cosa lei gradisce». —Madi, 18 anni

2. «Penso che la cosa più importante sia concentrarsi davvero sulla partner e non su te stessa. Avevo l'abitudine (e ce l'ho ancora, qualche volta) di agitarmi perché mi preoccupavo di non riuscire a farla godere, ma si tratta solo di concentrarsi totalmente su di lei. Come il suo corpo reagisce, come il suo respiro diventa intenso e veloce, come inarca la schiena e, specialmente, come il suo corpo si contrae in un modo particolare quando trovi un punto sensibile. Avrei voluto sapere questo prima di fare sesso orale per la prima volta con una donna. Inoltre, è terrificante non riuscire a vedere bene dove si trova il clitoride quando, scusa l'onestà, hai la lingua infilata a fondo dentro a una donna e non vedi, letteralmente, un tubo. A quel punto puoi solo chiudere gli occhi e sentire. La situazione può diventare molto intensa, specialmente quando la tua partner si avvicina all'apice. Non è sempre facile, ma è gratificante vederla e sentirla venire». —Bekah, 21 anni

3. «Una cosa che avrei voluto sapere la prima volta che ho praticato il cunnilingus su una donna era di non presumere che lei volesse essere penetrata con la lingua. C'è tanto di più che puoi fare per dare piacere, senza fiondarti direttamente sulla vagina. Mi piace stuzzicare e alternare tra il mordicchiare l'interno delle cosce o titillare il clitoride mutando ritmo. Del buon sesso orale è il regalo migliore che si possa fare». —Ali, 23 anni

4. «Una cosa che avrei voluto sapere è quanto diversa sia la sensazione quando si ha un reale contatto fisico con una vagina. E sì, c'è un 'sapore', e ogni donna ne ha uno unico. A ognuna piace qualcosa di differente, e alcune raggiungono l'orgasmo più facilmente di altre. Anche le emozioni giocano un ruolo durante il sesso… ma la cosa più importante è il consenso. Non presumere che la tua partner voglia che tu le infili le dita dentro, o gradisca il cunnilingus. Chiedi sempre: "Ehi, posso usare le dita?", oppure: "Posso usare questo sex toy…?". Un'altra domanda importante è: "Hai fatto i test di recente?" Questi sono i miei consigli migliori. Presta attenzione al tuo livello di comfort nei confronti della situazione e di quella persona. Affidati all'istinto!». —Maria, 22 anni

5. «Sii sicura di te stessa. E anche se non lo sei, fingi e continua a farlo finché non lo diventi. Si trasformerà in sicurezza di te autentica. Una cosa che avrei voluto sapere la prima volta che ho praticato sesso orale su una donna è che esiste una tecnica precisa e non si usa solamente la lingua. Un tocco leggero e stuzzicare sono fondamentali tanto quanto i movimenti della lingua. Fai crescere gradualmente il desiderio. L'esperienza, di solito, si rivela grandiosa; non c'è niente di meglio che donare piacere a qualcuno in modo così intimo». —Shira, 18 anni

6. «La prima volta non avevo idea di cosa stessi facendo e la mia partner ha sicuramente finto, invece di guidarmi. Potrei addirittura aver pronunciato un "che schifo!" a un certo punto. Lo so, terribile! Ma mi ama abbastanza da rimanere con me. Il mio consiglio migliore è trovare il clitoride e poi fare dei cerchi intorno, iniziando molto lentamente e andando gradualmente più veloce; in questo modo non si può sbagliare! Sebbene la mia esperienza, probabilmente, non è stata molto divertente né per me né per lei, poi ho imparato, e ora è piacevole avere una partner che si contorce di piacere. Se non sei brava con il cunnilingus, trova qualcosa in cui lo sei e praticala insistentemente». —Dani, 23 anni

7. «Una cosa che avrei voluto sapere prima di praticare il cunnilingus su una donna è che i nostri punti sensibili possono cambiare in base alla fase del ciclo in cui ci troviamo. Di conseguenza, l'esperienza va modificata un po'. Prenditi il tuo tempo. Inizia lentamente, in modo da scoprire i suoi punti sensibili e stabilire la velocità e la pressione. Delinea l'area con le dita e la lingua. Stuzzicare portare sempre a risultati. Una volta che hai preso il ritmo, non avere paura di infilare tutta la lingua dentro di lei. Probabilmente la stupirà e potrebbe anche mandarla in estasi. Le donne sono davvero dee. Amala come se foste una cosa sola e quando entrambe siete venute, entrambe lo ricorderete». —Jaime, 23 anni

8. «Mi sarebbe piaciuto sapere prima alcune cose. Innanzitutto, avrei voluto sapere che anche se sono lesbica, non ero costretta a praticare il cunnilingus se non mi andava, mentre a volte ho sentito pressioni in questo senso. La mia prima volta con il sesso orale è stato all'età di 16 anni e stavo con la mia prima ragazza. Mi ricordo di essermi sentita molto a disagio pensando all'odore che potevo avere e a come avevo depilato il pube. Avrei voluto sapere che alle donne, di solito, non interessa. La maggior parte di quelle con cui sono stata, sono state carine». —Sarah*, 21 anni.

·        Il "Rusty Trombone".

RUSTY TROMBONE. Maria Elena Barnabi per cosmopolitan.it il 5 agosto 2018.  Esistono due tipi di persone al mondo: quelle che sanno cos'è un "Rusty Trombone" e quelle che non lo sanno. Se appartieni al secondo gruppo, congratulazioni, stai per unirti al primo! Un Rusty Trombone è l'atto di praticare un anilingus (la parte "rusty") e contemporaneamente eseguire un lavoro di mano (la parte "trombone"): insomma si tratta di leccare l'ano del tuo parnter mentre lo masturbi. Certo, si tratta di una pratica sessuale abbastanza spregiudicata, perché alcuni uomini etero temono che tutto ciò che concerne le pratiche anali sia "appannaggio dei gay", sebbene godere della stimolazione della prostata non abbia letteralmente niente a che fare con l'orientamento sessuale. Superate le diffidenze iniziali, può però davvero essere soddisfacente per il tuo partner: l'ano è ricco di terminazioni nervose e la contemporanea stimolazione di ano e pene gli farà raggiungere un orgasmo molto potente. Ecco quindi, passo dopo passo, i consigli per farla. Disclaimer: questa pratica, a causa dell'interazione tra ano e bocca, ti espone alle malattie sessualmente trasmissibili. Falla solo con persone che si sottopongono regolarmente ai test per le mst.

1. PARLA CON IL TUO PARTNER. Le pratiche a sorpresa che coinvolgono l'ano non sono mai una buona idea. Ma proprio mai, per cui non buttarle lì durante il sesso per vedere come il tuo partner reagisce, discutine prima. Vedi prima se lui sarebbe disposto a provare e se la risposta è sì, discuti di tutto, dalla pulizia a fino a dove è disposto ad arrivare: solo anilingus? Quello e lingua all'interno? Quello e un dito? Niente anilingus, ma va bene un dito ben lubrificato che compia movimenti circolari all'esterno? Vai il più possibile nello specifico, poi mantieni la rotta quando entri in azione, a meno che non optiate per decidere man mano.

2. FAI SÌ CHE IL TUO PARTNER SI LAVI BENE......ma senza ricorrere alle docce anali. Queste ultime infatti sono molto aggressive nei confronti della mucosa naturale del corpo.Tieni conto comunque che non è realistico aspettarsi che un ano sia al 100% privo di odori o sapori (donna avvisata ecc ecc).

3. SUONA UN'OVERTURE PRIMA DI PASSARE ALLA SINFONIA DEL TROMBONE. Insomma, dedicati tantissimo ai preliminari prima di dirigerti verso l'ano. L'intera parte del fondoschiena è piena di terminazioni nervose: prima di passare al pezzo forte, stimola quella curva sexy tra le cosce e il sedere del tuo partner, massaggiando i glutei con le mani, ed esplorando la piega tra questi e il perineo con le dita. Questo lo aiuterà a rilassarsi ed essere più ricettivo al tocco di lingua e labbra.

4. USA IL LUBRIFICANTE. Mentre l'anilingus sarà lubrificato almeno dalla saliva, la combinazione mano-pene non sarà così fortunata. Spremi un po' di lubrificante nella mano, e se ti va, applicane un po' sull'ano del partner prima di iniziare.

5. SCEGLI LA POSIZIONE GIUSTA. Il modo più comune per praticare questa posizione è con il partner in piedi a gambe leggermente divaricate, mentre tu sei in ginocchio dietro di lui e affondi la faccia nel suo sedere afferrando il pene. Non è l'unica opzione, comunque. Puoi anche far stendere il partner con il sedere sporgente dal bordo del letto, poi impilare alcuni cuscini sul pavimento sotto di lui finché puoi appoggiarci la testa e con la lingua accedere all'ano. In seguito puoi allargare i gomiti verso i lati ed afferrare il pene che si troverà oltre la tua testa.

6. MUOVI LA LINGUA COSÌ. Anche se ognuno ha le sue preferenze quando si tratta di stimolazione, usare la parte piatta e larga della lingua ti permette di arrivare fino al perineo, e quindi puoi anche stimolare indirettamente la prostata. Dopo questi movimenti più ampi, prova a concentrarti sull'ano, facendo lavorare la lingua intorno con movimenti circolari. E, naturalmente, ottieni sempre il consenso entusiasta del partner prima di passare allo stadio successivo: non presumere che solo perché il tuo uomo desiderava l'anilingus allora ci puoi anche infilare la lingua.

7. MIGLIORA LA TUA PERFORMANCE. Onestamente, complimenti a te se mentre pratichi il Rusty Trombone riesci a fare qualsiasi altro gesto oltre al semplice movimento su e giù delle mani sull'asta. Se vuoi una maggiore coordinazione, prova a ruotare la mano avanti e indietro mentre impugni l'asta. Inoltre, hai presente quel lembo sotto la punta del pene? Quello è il frenulo: è estremamente sensibile, prova a stimolarlo con il pollice.

8. CHIEDI AL TUO PARTNER DI RESTITUIRE IL FAVORE. Ce l'hai fatta? Hai eseguito il Rusty Trombone! Il tuo partner potrà quindi fornirti l'equivalente femminile, combinando anilingus e fingering. Se presumi che esista un termine più carino per definirlo, hai assolutamente ragione: si chiama "Rusty Trumpet".

Maria Elena Barnabi per www.cosmopolitan.it il 26 settembre 2020. Quando qui a Cosmpolitan Italia abbiamo deciso di pubblicare il nostro articolo su cosa è e come si fa il Rusty Trombone (ovvero masturbazione maschile + anilingus realizzati in contemporanea dalla donna sull'uomo) sapevamo che la cosa avrebbe destato curiosità e scandalo. E che sarebbe diventato virale. Non così tanto però. Insomma, dopo tutto stiamo parlando di tecniche sessuali abbastanza conosciute. La pratica di masturbare un uomo non è niente di speciale. Verosimilmente è il primo contatto che le donne, ancora ragazze, hanno con l'organo sessuale maschile. Per quanto riguarda l'anilingus, ammetto che sia più di nicchia. È pur vero però che quando si pratica del sesso orale al proprio/a partner, non è che si vada proprio per il sottile, eh. Insomma è un attimo scivolare con la lingua due o tre centimetri più indietro, dai. A chi non è mai capitata una roba così? Magari per sbaglio, magari per un secondo, magari per mezzo minuto…

QUINDI PERCHÉ IL RUSTY TROMBONE È DIVENTATO UN FENOMENO DEL WEB? Abbiamo provato a individuare sei punti

1) L'ESPRESSIONE RUSTY TROMBONE È SIMPATICA, FA RIDERE. Fa pensare al trombone e alla tromba, due strumenti musicali gioiosi, con un suono squillante. Fa pensare al trombare, che è un modo scanzonato e divertente per definire il fare all'amore. E poi fa pensare (mamma perdonami) al "trombare di culo". E si sa che non c'è niente che induca le persone alla risata sgangherata più dell'accenno (seppur minimo) all'atto di emettere peti. Basterebbe solo questo punto legato al peto per spiegare la viralizzazione di questo contenuto. Ma facciamo le persone serie. Andiamo avanti.

2) PERCHÉ RUSTY TROMBONE È UN NEOLOGISMO RELATIVAMENTE GIOVANE. E perché si presta a numerosi meme e giochi di parole con Rusty il selvaggio, Rusty il padrone di Rin Tin Tin, il cocktail rusty nail, l'album Swordfishtrombones di Tom Waits.

3) IL RUSTY TROMBONE È OBIETTIVAMENTE DIFFICILE DA REALIZZARE. Da qui le condivisioni sui gruppi di WhatsApp e le riletture collettive per capire esattamente come bisogna incastrare mano e lingua. Ma non disperare. Tra qualche giorno sforneremo un altro pezzo esaustivo e molto tecnico.

4) C'È DI MEZZO L'ANO MASCHILE. E l'ano maschile è l'ultimo dei tabù del sesso, come già avevamo notato quando abbiamo pubblicato il nostro articolo sul pegging. «Gli uomini sono molto disinformati e non sanno che questa zona è molto molto sensibile», sostiene Roberta Rossi, psicologa e psicoterapeuta, presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica. «E continuano a confondere l'anatomia con l'orientamento sessuale: ancora oggi, appena si parla di stimolazione anale maschile si pensa all'omosessualità. Ma sono due cose completamente distinte». Insomma ragazzi, mettetevela via: è verità scientifica che l'ano maschile sia sensibile. Non volete né crederci né provarci? Una roba in meno che avrete sperimentato. Sta di fatto che non esiste niente di più bello che parlare di un tabù.

5) PERCHÉ IL RUSTY TROMBONE FA PENSARE A UNA ROBA UN PO' SPORCA. Quando si parla di Rusty Trombone e di stimolazione orale dell'ano, la mente va diretta diretta al contatto oro-fecale, che per una persona adulta è probabilmente una delle attività più proibite, disgustose e scandalose che si possano pensare. C'è un motivo per cui il contatto oro-fecale sia in (quasi) tutte le culture del mondo bandito ed è perché espone il corpo umano alla diffusione di tantissime malattie. Ma nello scandalo e nel disgusto, spesso è nascosta una grande attrazione: anzi tanto più una cosa è proibita, tanto più il trasgredire il divieto diventa eccitante. Anche solo il parlarne. E infatti la coprofagia (che specifichiamolo: con l'anilingus non c'entra niente) era considerata la più sublime e elevata delle pratiche dal Marchese de Sade, cioè l'uomo che a fine Ottocento ha scritto il compendio più completo e illuminato sulle perversioni e le parafilie sessuali prima ancora che la psicanalisi fosse inventata (Le 120 giornate di Sodoma).

NB: il giocare con le feci è una pratica molto diffusa nei bambini, un passo naturale della loro crescita. NBB: la zona dell'ano può avere un odore particolarmente intenso ma per taluni è considerato piacevole. Perché? Perché questo odore va a stimolare il sistema limbico, ovvero la parte più antica del cervello, collegata direttamente, tra le altre cose, anche all'emotività e al sesso.

6) PERCHÉ FORSE QUALCOSA STA CAMBIANDO. Sono certa che fino a dieci anni fa un pezzo sul Rusty Trombone non avrebbe avuto tutta questa eco. Farsi leccare l'ano da una donna durante una masturbazione non era una cosa di cui parlare, neppure per scherzo. Magari uno lo faceva, nel piccolo della sua stanza da letto, ma mica ci rideva sopra. Perché? Molto semplice: per scoprire che l'ano è sensibile, bisogna stimolarlo, stuzzicarlo e (DIO NON VOGLIA) penetrarlo. Magari con mezza falange, magari con un mignolo, magari con la punta della lingua. Però sempre di penetrazione si tratta. Ed è questa che ai maschi alfa ha sempre causato raccapriccio, perché l'essere penetrati è delle donne. È una roba da donne. Non da uomini. E che cosa c'è di più brutto per un uomo vero, un maschio alfa, del fare un'azione da donne? Ebbene, sembra che le cose stiano cambiando. Almeno in questi ultimi giorni, gli uomini hanno accettato il fatto che di questa cosa se ne possa parlare, ridere, scherzare. E sono convinta che le migliaia di condivisioni in gruppi WhatsApp di soli maschi (le squadre di basket, gli amici del lavoro, i compagni del liceo), celino un atteggiamento interlocutorio sulla faccenda. Del tipo: io non lo farei mai, ma mio cugino mi ha detto che l'ha fatto e che a lui è piaciuto. Sta a vedere che il Rusty Trombone diventa per gli uomini uno strumento (finalmente) di liberazione sessuale?

·        La Spermata.

Dagospia il 29 ottobre 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “La spermidina fa molto bene. E’ presente oltre che nello sperma anche nei formaggi stagionati come grana e pecorino, salmone, funghi, patate , pere, piselli, broccoli e cavolfiori. E’ considerata il Santo Graal della longevità, rafforza la memoria. Elimina le cellule danneggiate nel cervello e le sostituisce con cellule nuove. Ci fa tornare giovane la memoria”. A La Zanzara su Radio 24 la nutrizionista Samantha Biale spiega le virtù della spermidina, che adesso alcuni scienziati hanno individuato come un integratore che può aiutare il sistema immunitario contro il Covid (Unibo: un integratore alimentare per aiutare il sistema immunitario nella lotta contro coronavirus). “La spermidina - dice la Biale – è presente in grande quantità nello sperma dell’uomo”. Si può dire dunque che ingoiare lo sperma porta vantaggi al cervello?: “Non promuovo la fellatio, faccio un altro mestiere. Però in grande quantità è contenuta lì, nello sperma”. Ingoiare fa bene dunque?: “Lasciamo perdere la questione delle malattie. Però è così, soprattutto con un partner fisso”.

Da bolognatoday.it il 29 ottobre 2020. Grazie al progetto europeo SPIN (SPermidin and eugenol INtegrator for contrasting incidence of coronavirus in EU population), promosso da EIT Food, è in corso lo sviluppo di un integratore alimentare che possa aiutare l'azione del sistema immunitario nella lotta all'infezione da SARS-CoV-2 per la popolazione ad alto rischio. L'integratore sarà ricco di Spermidina, una poliammina ricavata dal germe di grano che ha un ruolo cruciale nel favorire l'autofagia, e di Eugenolo, un olio essenziale antivirale ad ampio spettro che agisce diminuendo la capacità di replicazione dei virus. Parte della EIT´s Crisis Response Initiative, questa attività contribuisce in modo diretto alla risposta dell'Unione Europea alla pandemia di COVID-19. Coordinato dall'Università di Bologna, il progetto SPIN coinvolge inoltre: IMDEA Food, Institute of Animal Reproduction and Food Research of the Polish Academy of Sciences, Molino Naldoni, Targeting Gut Disease e Xeda.

Pensato come aiuto contro il coronavirus, in attesa del vaccino. Questo nuovo supplemento nutrizionale è pensato come aiuto contro il coronavirus fino a quando un vaccino non sarà disponibile per tutti, e anche in seguito, per mitigare la gravità dei sintomi e dei contagi attraverso un approccio antivirale naturale. Non è pensato per sostituire o potenziare i vaccini attualmente in fase di sviluppo.

Studiosi a caccia din Eugenolo e Spermidina. Il consorzio di studiosi è già al lavoro per individuare le fonti di materie prime ad alto contenuto di Spermidina (germe di grano) e di Eugenolo (olio essenziale di chiodi di garofano). Le migliori fonti di principi attivi verranno elaborate per ottenere l'integratore, che sarà poi testato in diversi modelli cellulari in vitro per ottenere ulteriori prove scientifiche delle sue capacità protettive. È stato dimostrato - spiegano dall'università  - "che l'Eugenolo ha capacità antivirali ad ampio spettro: è in grado di inattivare diversi virus, incluso il coronavirus, e di bloccare la replicazione dei virus all'interno delle cellule. L'assunzione di Spermidina, invece, è stata associata in modo significativo a un ridotto rischio rispetto a tutte le principali cause di mortalità". Agisce attraverso diversi meccanismi, tra i quali ha un ruolo cruciale l'azione dell'autofagia, che è strettamente controllata dal metabolismo cellulare. "È stato recentemente dimostrato - spiega una nota Unibo - che l'infezione da SARS-CoV-2 limita l'autofagia interferendo con diverse vie metaboliche e che, in vitro, la presenza esogena di Spermidina riduce la propagazione del coronavirus. In teoria, questa azione potrebbe quindi ostacolare o inibire la progressione della malattia verso forme polmonari più gravi, limitando così il rischio di mortalità per coloro che contraggono il coronavirus SARS-CoV-2 e sviluppano la COVID-19." "Questo integratore - si legge ancora sulla nota dell'Università -  rappresenta una strategia innovativa nella lotta contro il virus, attraverso l'utilizzo di ingredienti antivirali naturali. Per questo motivo, in Polonia, in Spagna e in Italia verranno organizzati anche programmi di formazione per dietisti e nutrizionisti con l'obiettivo di evidenziare l'importanza degli integratori alimentari a scopo preventivo. "In attesa di un vaccino efficace - concludono dall'Unibo- è importante potenziare il sistema immunitario della popolazione, riducendo così il numero di infezioni e diminuendo in questo modo la gravità dei sintomi. Inoltre, questo nuovo integratore potrebbe dimostrare di avere un'attività protettiva anche contro altri virus, come quello dell'influenza, che possono rappresentare una minaccia per la popolazione dell'Unione europea".

Barbara Costa per Dagospia il 26 settembre 2020. Il latte e lo yogurt sono nel frigo, uova, farina e zucchero nella dispensa non mancano, l’amido di mais sì, ma basta un clic, ed eccolo qui. Ora: con questi ingredienti, se vuoi, facci un dolce, ma non ti azzardare ad aggiungerci sapone, shampoo, lozioni per il corpo, una cosa che si chiama gomma di xantano, o il latte per gatti, per… trasformarli in sperma finto! No, mio caro, conosco le tue intenzioni ma ti dico, anzi, ti ordino di non farlo. Lascia stare: troppo pericoloso, vuoi finire al pronto soccorso? Per quale motivo devi rischiare seri bruciori, infezioni in bocca, agli occhi e nelle parti intime, e grossi dolori di pancia, per non parlare della diarrea che ti aspetta sicura, se puoi divertirti, spalmare e farti spalmare, bere e far bere, fino all’ultima goccia, del nettare finto che fuoriesce quanto ne vuoi, se non dal tuo pisello, da un dildo? Il settore dello sperma finto è poco conosciuto, vi girano troppe frottole, io provo a far chiarezza, e ti dico: se sei un feticista dello sperma, se sei tra coloro a cui piace inghiottirlo, e ricoprirci il/la partner, fare collane di perle, bukkake, docce, e vuoi inserirlo nei dildo eiaculanti, o ancora, sei un seguace del "felching", cioè sei tra i feticisti del succhiare sperma dall’ano dopo averci eiaculato, insomma, se sei uno di questi sperma-giocatori qui, o di altra affine categoria che sto dimenticando, dammi retta: scordati le ricette dello sperma fatto in casa che trovi online!! Sono fasulle, dannose, per la salute tua e di chi divide con te tali vizi seminali, nonché del vostro palato, dato che gli sperma fai-da-te hanno un sapore pessimo, schifoso, che non migliori con lo zucchero. Per i tuoi appetiti spermatici, metti mano al portafoglio e lo sperma te lo compri – finto – sui siti e-commerce più noti, e molti sono gel intimi lubrificanti somigliantissimi a autentico sperma, inodori, e commestibili. Se la marca è venduta quale sperma che si usa sui set porno, per farci quei video che ti piacciono tanto, amico, puoi crederci: non ti stanno prendendo in giro! Non è inganno né frode, è la verità, non tutto lo sperma che vedi nei porno è vero, macché, in parte è artificiale: è sempre finto lo sperma usato nelle foto, in buona parte è finto lo sperma che spruzza e cola nei porno bukkake, cumplay, creampie, e porno sadomaso eiaculanti i più viscosi. È sperma se non tutto finto ben "aiutato" quello che vedi nei porno-schizzi più lunghi e mirati, è sperma finto quello che ovvio è nei porno lesbici, è misto al latte lo sperma succhiato dall’ano nei porno felching poi passato di bocca in bocca, è finto nei porno dove lo sperma effettivo degli attori a disposizione non basta, il regista ne vuole di più, ne serve di più, spesso perché vuole girare più finali con gli stessi peni. Il tempo è denaro, pure nel porno, e l’uso di sperma finto consente meno riprese quindi meno tempo (e soldi) spesi. Dallo schermo è impossibile capire quanto sperma finto "giri" sui set, perché lo sperma in azione è davvero simile a quello vero, e ci sono aziende produttrici che lo giurano identico a quello reale persino nel sapore. E però nella realtà ci sono sperma mica tanto… gustosi! E infatti per questo che ci sono in commercio sperma finti al gusto che ti pare, in ogni modo non contengono sostanze chimiche, li puoi ingerire senza penose diarreiche conseguenze, e se ti avanza lo conservi in frigo. Le Martani non si allarmino: c’è lo sperma finto vegano. Gli sperma finti più cari valgono la spesa: non appiccicano! (Senti, rimanga tra noi: se sei uno con la fissa e il piacere dello sperma da fare sul corpo colare, massaggiare, leccare, succhiare, come preliminari di una torrida scopata… beh… se dopo non devi guidare… vai di piña colada! Divertimento garantito).

·        L'eiaculazione precoce.

Paloma Gonzales per "gqitalia.it" l'8 agosto 2020. Vuoi durare più a lungo nel sesso? Gli esperti in materia hanno una guida infallibile che presumibilmente ti aiuta ad aumentare la tua resistenza. Il sesso (cioè, la penetrazione in senso stretto) di solito dura dai tre ai sette minuti, secondo un sondaggio del 2005 della Society for Sex Therapy and Research. Il sondaggio afferma che il sesso della durata di un minuto o due è «troppo breve» e il sesso della durata di 10-30 minuti è considerato «troppo lungo», mentre i terapisti del sesso affermano che la cosa più «desiderabile» è durare dai 7 a 13 minuti. Il problema è che ci sono molte cose che possono interferire con questo e non farti raggiungere l'obiettivo (o meglio, finisci prima e la tua partner non è molto soddisfatta, e non va bene per nessuno). Il libro del 2014 The New Naked: The Ultimate Sex Education for Grown-Ups ha riferito che quasi la metà degli uomini finisce in due minuti, afferma New Republic, e parte del problema è che la frustrazione e le decisioni sbagliate per cercare di risolverlo possono aggravare il problema. Fare sesso migliore non è così complicato, devi solo ascoltare i consigli giusti e gli esperti. Durare poco nel sesso è un problema comune tra gli uomini, ma ciò non lo rende meno imbarazzante, inaspettato e frustrante quando succede (e può succedere a tutti gli uomini ad un certo punto della loro vita, anche se sono in buona forma). Ciò è generalmente dovuto all'eiaculazione precoce, che, secondo Thomas J. Walsh, MD, un urologo dell'Università di Washington, si verifica principalmente tra i venti e i trenta anni. Sapere che non sei l'unico può farti sentire meglio, ma meglio di questo è sapere che ci sono alcune cose che puoi fare per cambiarlo, e non ha nulla a che fare con il pensare alle tue fantasie sessuali preferite mentre sei in azione. Ci sono 4 cose di base da fare a letto. Cosa puoi fare per durare più a lungo nel sesso?

Fare esercizio fisico (specifico). No, non si tratta di andare in palestra e fare migliaia di ripetizioni di braccia, gambe e schiena, gli esperti dicono che dovresti esercitare i muscoli del pavimento pelvico, fare esercizi di contrazione mantenendo la tensione per circa 10 secondi, dice la dott.ssa Sandra. Hilton, PT, DPT, PhD in Entropy Physiotherapy. Il dottor Hilton afferma che per sentire quei muscoli, dovresti provare a «interrompere il flusso di urina quando sei in bagno», sono gli stessi muscoli con cui devi lavorare.

Limitare il movimento. Ciò non significa che dovresti rimanere come se fossi seduto a tavola, ma che dovresti avere movimenti più controllati e lenti, questo ritarderà il momento in cui arrivi all'orgasmo e ti aiuterà a durare più a lungo.

Cambia posizione. Come nell'esercizio fisico, il tuo corpo può essere abituato agli stessi movimenti di sempre, quindi dovresti cercare di alternare alcune posizioni diverse per durare più a lungo durante il sesso, afferma la psicoterapeuta sessuale autorizzata Vanessa Marin a Bustle. Cambiare posizione consente al tuo corpo di fare una piccola pausa e questo ti aiuta a durare più a lungo. Un'altra raccomandazione è quella di provare posizioni più acrobatiche poiché, concentrandosi sul mantenimento dell'equilibrio, il cervello impiega un po' più di tempo a provare piacere e ciò ti impedisce di finire troppo in fretta.

Edging. Ritardare l'orgasmo è uno dei modi più efficaci per durare più a lungo. Il dott. Walsh afferma che l'edging è una delle tecniche più comuni per prevenire l'eiaculazione precoce. Fondamentalmente, ti spingi sull'orlo dell'orgasmo prima di interrompere qualsiasi attività sessuale o masturbatoria fino a quando non hai le tue emozioni sotto controllo, insegnando al cervello ad avere una risposta più controllata.

Preliminari. La maggior parte delle donne ha bisogno di essere stimolata prima del sesso tradizionale (cioè la penetrazione), i preliminari possono aiutarti a raggiungere questo obiettivo senza raggiungere tu stesso l'orgasmo, quindi entrambi sarete pronti allo stesso tempo ed eviterai il problema di finire troppo presto o prima di lei.

Alimentazione corretta. Proprio come l'alcol o il cibo molto pesante possono impedire che le tue prestazioni siano le migliori, ci sono alimenti che sono ottimi alleati nel durare più a lungo. Anguria, peperoncino, mela, zenzero, salmone, banana e noci contengono sostanze nutritive che aumentano il desiderio sessuale, le prestazioni e persino la resistenza.

·        Morire di Sesso.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. Esiste un solo modo di nascere ma esistono infiniti modi di morire, alcuni dei quali possono essere alquanto bizzarri. Di decessi grotteschi, strambi, misteriosi, o addirittura imbarazzanti, sono stati protagonisti pure donne e uomini famosi. Come il presidente della Repubblica francese Fèlix Faure (1841-1899). Fèlix, esponente dei Repubblicani moderati, intraprese la sua carriera politica come oppositore di Napoleone III nel 1865, ma fu nel 1895 che divenne presidente, almeno fino al 1899 quando perì nel primo pomeriggio del 16 febbraio, nella sala blu dell'Eliseo, mentre la sua amante, Marguerite Steinheil, gli praticava una fellatio. La curiosa dipartita di Faure destò scandalo ed i suoi avversari si divertirono nel partorire motteggi. Eccone uno: «Volle impersonare Cesare ed è morto Pompeo». Quanto a Marguerite, si dice che tale evento fatale la rese famosa nonché corteggiatissima da benestanti signori. Anche a Luigi III di Francia (863-882) i giochi amorosi costarono la pellaccia. Secondo lo storico Christian Settipani, il sovrano, mentre inseguiva a cavallo una donzella, andò a sbattere contro un architrave e si fracassò letteralmente la scatola cranica. Insomma, è il caso di dirlo: l'amore fa perdere la testa. veleni, risate e cibo Uwe Barschel, ex ministro degli Interni Federale della Germania (1944-1987), fu trovato completamente vestito in una vasca da bagno piena d'acqua di un lussuoso albergo di Ginevra. Sul pavimento nessuna traccia di acqua. Il viso dell'uomo era poggiato sul suo braccio, avvolto in un asciugamano. Una scomparsa oscura, ancora oggi non si sa con certezza se si trattò di omicidio o suicidio. Di sicuro si tolse la vita Mitridate (123 a.C.-63 a.C.), uno dei più formidabili avversari della Repubblica romana. Il sovrano, che temeva di essere consegnato ai romani, prima ingerì del veleno, a cui risultò immune, dopo si fece aiutare da un generale a trafiggersi con la spada. Estinzione più lieta fu quella di Martino I di Aragona (1356- 1410), il quale morì dal ridere, proprio come il poeta Pietro Aretino nel 1556, il pittore greco Zeusi nel V secolo a.C., il filosofo stoico del II secolo a.C. Crisippo di Soli, che prese a sghignazzare in maniera incontenibile vedendo un asino che masticava dei fichi. Rise a crepapelle, fino all'ultimo respiro, allorché gli comunicarono che Carlo II d'Inghilterra era salito al trono, nel 1660, pure Thomas Urquhart, aristocratico scozzese. E una leggenda vuole che il commediografo nonché attore teatrale francese Molière si sbellicò a morte nel tentativo di recitare le sue battute. Federico di Svezia (1710- 1771), invece, tirò le cuoia dopo avere divorato in un unico pasto chili e chili di aragoste, caviale, crauti, aringhe affumicate, innaffiando il tutto con litri di champagne e concludendo il banchetto con giusto 14 porzioni del suo dolce preferito, la semla. Ecco perché gli svedesi lo ricordano come il re che mangiò fino alla tomba. E di golosità forse perì pure il poeta Giacomo Leopardi. Secondo uno studio condotto dal professore Gennaro Cesaro, Leopardi, il quale era ghiotto di dolciumi, la sera prima di spirare avrebbe spazzolato addirittura un chilogrammo di confetti cannellini di Sulmona. Per la ragione opposta, ossia per denutrizione, schiattò il matematico e filosofo austriaco Kurt Gödel (1906-1978). Kurt, ossessionato dal terrore che le pietanze potessero essere avvelenate, ingurgitava soltanto ciò che cucinava sua moglie. Allorché ella fu ricoverata per sei mesi in ospedale, l'uomo restò a stecchetto fino a restare stecchito. Pesava solo 29 kg. Pipì Per non avere fatto la pipì si spense l'astronomo Tycho Brahe (1546-1601), undici giorni dopo lo scoppio della vescica avvenuto durante un convivio. Tycho riteneva che abbandonare la tavola prima del dessert per recarsi in bagno non sarebbe stato educato, quindi si trattenne, provocandosi danni irreparabili. I vizi - è noto - possono uccidere. Incluso quello del fumo. L'arciduchessa Matilde d'Asburgo, fanciulla ribelle e spregiudicata, la sera del 22 maggio del 1867, già pronta per trascorrere una serata a teatro, accese l'ultima sigaretta prima di uscire. E fu proprio l'ultima, poiché all'improvviso nella sua camera entrò qualcuno e la ragazza, al fine di evitare una strigliata, nascose la paglia tra le pieghe del gigantesco abito di tulle che prese fuoco in tempi record rendendola una torcia umana. Altrettanto tragica fu la dipartita della ballerina statunitense Angela Isadora Duncan (1877- 1927), reputata la madre della danza moderna. Il 14 settembre del 1927, a Nizza, l'estremità della lunga sciarpa che la signora portava al collo si impigliò nei raggi della ruota posteriore della Bugatti cabrio sulla quale era appena salita salutando gli amici con una frase che dà i brividi: «Addio, cari, vado verso la gloria!». C'è chi sostiene che le ultime parole di Isadora furono: «Sono innamorata», o «Vado verso l'amore». Ella si riferiva al conducente della vettura con il quale stava raggiungendo l'albergo in cui alloggiava. Quando la scrittrice statunitense Gertrude Stein, la quale conosceva Duncan, apprese della scomparsa di questa, commentò: «Certi vezzi possono risultare pericolosi». Chissà se Gertrude si riferiva alla sciarpa, alla Bugatti scoperchiata o al fidanzato!

·        Il Kamafitness.

Da "donnamoderna.com" l'11 giugno 2020. Non hai mai sentito parlare del Kamafitness? Dove sei stata finora? Si tratta di un rivoluzionario metodo di allenamento che, attraverso il piacere dei sensi, permette di perdere peso e di tonificare il fisico. Naturalmente, come dice la parola stessa, prende ispirazione dalle posizioni sessuali del Kamasutra che, insieme a specifici esercizi fisici, riescono a modellare il corpo e scolpire i muscoli. Ma il "fitness da camera" mantiene in forma e giovani anche la mente ed il desiderio: si inizia e finisce con una 'seduta' di stretching e si continua con gli addominali, i bicipiti, i glutei, i pettorali, le spalle e i tricipiti. Si tratta di un "allenamento" efficace e casalingo se sei stanca delle solite corse in palestra tra attrezzi e docce veloci e hai voglia di quiete e intimità. Ma attenzione, perché allenarsi con il Kamafitness richiede particolare complicità nella coppia: il sesso acrobatico non è da tutti. Volete sapere un ultimo segreto? Anche se il Kamafitness nasce per essere praticato in coppia, può essere "ravvivato" anche da sole: ti basta un dildo con ventosa da appoggiare al muro, al tavolo o al pavimento, così da simulare la penetrazione. Avrai risultati insperati sul fisico e sulla tua vita sessuale. Perché non inizi subito a divertirti? Iniziamo con un po' di stretching (da ripetere anche alla fine del circuito!). Il tuo partner inginocchiato di fronte a te che stai sdraiata supina ti solleva le gambe fino a formare un angolo di 90 gradi. Quando senti la tensione arrivare alla parte posteriore delle cosce, mantieni la posizione per 30 secondi. Per tonificare glutei, addome e gambe (Gag) durante il sesso, si può praticare questa posizione. Tu devi incominciare con una serie di squat, avvicinandoti di volta in volta al pene del tuo partner, che rimane supino a terra mentre fa gli addominali. Questa posizione è perfetta per le amanti del cunnilingus: ci si sdraia sulla fitball per fare i classici crunch addominali e il tuo partner si china in ginocchio e pratica sesso orale. Niente di meglio per unire il piacere al dovere. Il tuo partner deve restare sdraiato sul materassino mentre tu ti prepari ai push-up: mantieni la schiena e le gambe dritte e fletti le braccia più che puoi abbassandoti lentamente senza però appoggiarti a lui. Gli sfioramenti accenderanno il desiderio e daranno certamente i loro frutti. Il tuo partner è sdraiato sul materassino con le gambe leggermente divaricate mentre tu ti posizioni in piedi davanti a lui, di spalle. Le tue gambe devono essere alla stessa apertura del bacino, la schiena dritta e l'addome contratto. Inspira piegando le ginocchia e portando le cosce parallele al suolo e sfiorando il suo pene. La posizione bridge evolution è perfetta per rassodare cosce e glutei: stesa supina con le ginocchia flesse, spingendoti sui talloni devi sollevare verso il più in alto possibile i lombari. Il tuo partner intanto può dedicarsi al cunnilingus nel frattempo. Questa posizione è solo per i più esperti "acrobati". Mentre tu sei in ginocchio appoggiata sulla gamba destra e sostenuta dai gomiti devi sollevare la gamba sinistra più in alto possibile, portandola verso il pavimento (il tutto mentre il tuo uomo ti penetra e alterni le gambe). 

·        Il Cuckolding.

Richard Greenhill per vice.com il 28 giugno 2020. Un tempo, il termine "cuckold" stava a indicare l'uomo sposato con una donna che non sapeva adultera—una cosa per nulla desiderabile, sotto ogni punto di vista. Ma gli appetiti sessuali cambiano. Una rapida ricerca su un sito porno rivelerà un sacco di video ispirati al cuckold, dagli incontri amatoriali in albergo a contenuti professionali. Con milioni di visualizzazioni e l’aumentare di anno in anno di hit su Google, la fantasia del cuckold è viva e vegeta. Oggi, la pratica del cuckolding coinvolge generalmente un uomo (il “cuckold”) che guarda la sua compagna (la “hotwife”) fare sesso con un altro (il “bull”), spesso mentre il cuckold viene umiliato (ad esempio, gli viene detto che il suo pene non riesce a soddisfarla). Questo può avvenire per davvero o rimanere una pura fantasia per la masturbazione. David Ley, sessuologo e autore din un testo etnografico sul cuckold Insatiable Wives, ha varie ipotesi sul perché alcuni uomini incitino le compagne a spingersi nelle camere da letto di sconosciuti. Tra queste, il desiderio che la compagna sia sessualmente soddisfatta, la soddisfazione di far sentire le donne più forti, il brivido del tabù e una cultura del voyeurismo influenzata dal porno. Per gli uomini con preferenze masochistiche, anche il desiderio di venire rifiutati e umiliati può portare al cuckolding. Come ha detto alla CNN di recente Ley: “Le nostre fantasie erotiche hanno la capacità di trasformare i frutti della vergogna in deliziosi cocktail di libidine.” Il cuckolding sembra una fantasia soprattutto maschile, anche se le teorie sul perché sia così sono un po’ scarse. Secondo Ley gli uomini potrebbero sentire di accrescere il proprio status sociale se la compagna è giudicata sessualmente desiderabile da altri uomini. Ha fatto riferimento anche alla teoria della "gara dello sperma"—l'idea per cui se un uomo guarda un altro uomo fare sesso con la donna che ama, il suo corpo è biologicamente stimolato a produrre più quantità di sperma. Perché? In modo da vincere la gara’a inseminare l’amata. Indipendentemente dalla motivazione, l'opinione degli esperti suggerisce che si tratta di un'esperienza generalmente positiva per le coppie che lo praticano. Il dottor Justin Lehmiller, ricercatore del Kinsey Institute e autore del libro Tell Me What You Want, spiega che “la maggior parte delle persone che si eccitano con il cuckolding tendono a godersi le proprie fantasie e, di quelli che hanno condiviso e/o agito secondo i loro desideri di cuckolding, la stragrande maggioranza ha riportato risultati positivi.” A questo fa eco anche la sessuologa Holly Richmond, che ci tiene a sottolineare che la fantasia del cuckold non è problematica di per sé. “Non c'è nulla di strano, anormale o sbagliato nel concedersi questa fantasia a livello cognitivo ed emotivo, o persino a portare la fantasia nella vita reale.” Detto questo, ci sono alcuni casi in cui il suddetto cocktail di libidine può risultare decisamente amaro. È abbastanza facile trovare thread su Reddit in cui si racconta di donne che hanno lasciato i compagni dopo essere state incoraggiate a praticare il cuckolding. Questo inizia con la storia di un uomo che ha chiesto alla fidanzata, inizialmente piuttosto riluttante, di iscriversi a un sito di scambismo. Nel giro di poco sono seguiti degli incontri di cuckolding, prima che lei sparisse completamente senza dargli spiegazioni. Un altro uomo ha risposto raccontando che era stato lasciato due volte dalla moglie dopo che le erano cominciati a piacere due dei loro tori. Apparentemente, stanno ancora insieme soltanto perché hanno dei figli e non lui non riesce a smettere con il cuckolding. Entrambi i racconti riguardano due partner favorevoli, all’inizio. Ma, come mi dice Richmond, le relazioni possono vacillare anche se la fantasia funziona soltanto per una persona. “I problemi sorgono, naturalmente, quando questa non fa parte del modello sessuale del partner, ovvero quando non c'è nulla di eccitante per loro in questa fantasia.” Quest'uomo non è l’unico ad aver avuto esperienze negative col cuckolding. Mac* è un 39enne che ha combattuto con la fantasia del cuckold per sette anni. Ha una bassa autostima e crede che questo, insieme all’affievolirsi della passione all’interno della sua lunga relazione, abbia contribuito alle sue fantasia sul tradimento della partner. “La mia compagna non è mai stata con nessun altro, quindi c'è qualcosa di proibito e eccitante nel fatto che perda il controllo e ceda ai suoi istinti sessuali più primordiali,” dice. Mentre Mac si fissava sempre di più sull'idea di vedere la sua consorte andare a letto con altri uomini, aveva cominciato a pensare in maniera ossessiva ai diversi modi per renderla realtà. “Ho iniziato a pensarci al lavoro, a pianificare cosa avrei detto o fatto una volta tornato a casa per far convincere la mia compagna.” La ragazza di Mac a volte gli aveva dato corda, ma aveva anche espresso disgusto all'idea. Richmond dice che è comune per le compagne vedere la fantasia attraverso una lente emotiva, che può portare a sentimenti negativi. “Le donne in questa posizione spesso dicono di sentire che i partner dovrebbero essere gelosi, e volerle tenere lontane da altri uomini e per sé, come in una tradizionale relazione monogama,” spiega. “Questo si traduce nel sentirsi non amate o non desiderate.” Richmond suggerisce che le coppie in questa situazione dovrebbero cercare di capire le origini della fantasia sotto la guida di un terapeuta. Ovviamente, questo non è economicamente possibile per tutti. Ad ogni modo, Richmond mi dice che è utile mettere in atto regole e limiti che facciano sentire ogni persona ascoltata, sicura e sostenuta all’interno della relazione. Per alcune coppie, questo porta a perseguire la fantasia del cuckold nella vita reale; per altre, porta a occasionali giochi erotici. Dopo una chiacchierata con la compagna, Mac si è reso conto di essere diventato ossessionato dai suoi stessi sentimenti sessuali, senza più concentrarsi sul piacere dell’altra. Mac ha dato priorità al loro legame romantico e ha accettato di non portare più la sua fantasia in camera da letto. La storia di cui sopra suona familiare a Amber, 28 anni, il cui ex fidanzato le aveva parlato della sua ossessione per una hotwife all'inizio della relazione. “Mi ha fatto sentire a disagio, ma allo stesso tempo non volevo essere negativa riguardo alle sue fantasie,” dice. Amber si considera una persona piuttosto fuori dal comune, aperta e con un atteggiamento positivo verso il sesso, ma ha scoperto che il suo fidanzato era concentrato esclusivamente sui propri bisogni sessuali. “Ha iniziato a sussurrarmi che sarebbe stato veramente eccitante se avessi fatto sesso con altri ragazzi o usato un glory hole,” ricorda. “Aveva anche una fissazione per le tipe un po’ bambolone che sembra spesso accompagnare la questione della hotwife, per cui mi diceva che dovevo tingermi i capelli o mettermi delle protesi, per sembrare più scopabile.” All’inizio Amber gli reggeva il gioco, anche se non le piaceva molto. “Più cercavo di soddisfare le sue fantasie, meno sembrava interessargli fare del vero sesso con me,” dice. Su richiesta del suo ragazzo, Amber aveva provato una soluzione che avrebbe dovuto soddisfare entrambi. Aveva iniziato ad avere più partner sessuali—tutti consapevoli della sua relazione—e a dire al suo fidanzato delle sue scappatelle. Qui è quando le si è accesa una lampadina rispetto a quella che stava diventando una relazione sempre più tossica. “Mi ha fatto capire che i miei bisogni non venivano soddisfatti dal mio vero fidanzato, nonostante mi fossi spinta oltre a quello con cui mi sentivo a mio agio per il suo bene, e che il sesso con gli altri uomini era migliore.” Mentre Mac ha riconosciuto il disappunto della compagna per la fantasia del cuckold e alla fine ne ha discusso con lei, i tentativi di Amber di parlare con il fidanzato sono stati evitati più volte. La comunicazione e il piacere reciproco sono le fondamenta di ogni relazione e Richmond sottolinea che questo è particolarmente importante quando si tratta di fetish e fantasie: “Quello che ci eccita, ci eccita. Fine della storia—purché sia consensuale e piacevole.” Ascoltando la compagna e riconoscendo le sue preoccupazioni, Mac ha iniziato a superare le sue difficoltà. Si è preso una pausa dal sesso e dal porno per circa un mese e ha fatto programmi per degli appuntamenti che non fossero legati al sesso. Contemporaneamente, ha iniziato a mangiare sano e ad andare in palestra. “Ho lavorato per migliorare me stesso e il mio rapporto con la mia compagna,” spiega. “Non sono ancora completamente guarito, ma ci sto lavorando.” Sfortunatamente per Amber, il suo ragazzo non è mai stato pronto ad ascoltare. Si è resa conto che non era disposto a cambiare, almeno non per lei, e ha chiuso la relazione. Amber crede che il cuckolding sia diverso da altre fantasie perché erotizza direttamente la relazione stessa, piuttosto che parti del corpo o oggetti disponibili all'interno o all'esterno della sfera di coppia. “Penso che sia per questo che molti di questi uomini alla fine cercano di portarlo in camera da letto,” suggerisce. "A vari livelli, il rapporto reale tra loro e la partner ha il potenziali di essere trasformato in un flusso di gratificazione sessuale.” In definitiva, Amber ha avuto un'esperienza negativa con l’ossessione da hotwife che le ha causato un notevole danno emotivo. È molto chiara sui consigli agli uomini interessati alla fantasia del cuckold: “Li incoraggerei a essere consapevoli di come interagiscono sessualmente con la loro partner, in modo da garantire che il piacere sia reciproco e che lei non sia bombardata o soffocata da questa fantasia,” dice. “Stare attenti a trattare la compagna prima di tutto come una persona, piuttosto che come un oggetto che può fornire gratificazione sessuale.”

·        Il Wetlooking.

Barbara Costa per Dagospia il 25 luglio 2020.

“Spugna”, tu sei un wetlooker: che significa?

«Sono una persona che ha il feticismo di lavarsi vestito, e prova piacere sessuale nel bagnarsi i vestiti, e nel bagnarli a un’altra persona. Mi eccito nel vedere persone coi vestiti bagnati, e faccio sesso coi vestiti bagnati».

Spugna è un tuo nickname: il tuo vero nome non lo dico…

«Meglio non farsi riconoscere: il mio è un modo di viversi la sessualità un po’… particolare!»

Il tuo è un feticismo davvero poco conosciuto: sul web si trova la pagina Facebook “Wetlook Italia”, e poco altro…

«Del wetlook non parla nessuno, ne sa niente quasi nessuno…»

Come si capisce di essere wetlooker?

«Molti di noi scoprono di essere wetlooker da bambini. Una scoperta che avviene per caso».

Ho letto che alcuni si scoprono wetlooker perché si sentono attratti dal bucato steso ad asciugare. È una boutade?

«Ognuno ha la sua storia, per alcuni sarà sicuramente così, per me no».

Tu quando e come l’hai scoperto?

«Ero molto piccolo, ma è come se avessi sempre sentito una forte attrazione verso le persone coi vestiti bagnati. Ho iniziato a masturbarmi sognando di persone coi vestiti bagnati. A 11 anni, ho scoperto di provare piacere se ero io a bagnarmi coi vestiti addosso. Lo facevo di nascosto da tutti, e soprattutto dai miei genitori: mi passavo sui vestiti una spugna bagnata. La mia prima "doccia vestita" è stata fantastica, me la ricordo ancora, l’ho fatta un pomeriggio che i miei erano fuori, e avevo la casa libera. Un piacere indescrivibile. Oggi, fosse per me, mi laverei sempre vestito, tranne il bidet, ovvio!»

Ma come funziona questo wetlook? Tu come ti ecciti?

«Io godo nel vedere una ragazza coi vestiti fradici addosso, appiccicati e gocciolanti sul corpo, e più pesanti sono meglio è. Invece, su di me, godo nel bagnarmi e nel sentire bagnati tute e felpe, t-shirt, jeans aderenti e calzini in spugna. I wetlooker non sono tutti uguali, e non tutti si eccitano e godono come me. Ci sono wetlooker che godono nel vedere una ragazza coi vestiti bagnati addosso, ma che ne fa uno strip-tease e rimane nuda. Invece io questa cosa qui la considero volgarissima, non mi eccita, tutto il contrario».

Quindi i wetlooker sono divisi in categorie a seconda del godimento bagnato che provano?

«Sì, i wetlooker possono essere "staywet", e sono quelli che godono nel correre coi vestiti bagnati addosso (e meglio se lo fanno sotto la pioggia), e ci sono anche staywet che vanno a letto coi vestiti bagnati. Poi ci sono i wetlooker "getwet", che si cambiano i vestiti più volte per bagnarseli, e godere a ripetizione; i wetlook "jumper", che provano piacere nel lottare interiormente col divieto di bagnarsi vestiti: sono queste persone che han tanto interiorizzato dentro di sé il principio sociale che bagnarsi vestiti sia una cosa sporca, sbagliata, da non fare: i jumper godono nella sensazione di bagnarsi… loro malgrado. Poi ci sono i wetlook "walker", che si bagnano mooolto lentamente: godono di una suspense che può durare anche un’ora».

Sarete pure in pochi, ma parecchio variegati! Quelli che godono nel vedere persone con i capelli bagnati, sono dei vostri?

«Stai parlando dei "wet-hair-lover", e certo, anche loro sono wetlooker, e però aspetta, che all’elenco mancano i wetlooker feticisti delle scarpe, cioè quelli che godono nel bagnarsi solo le scarpe, e poi una categoria ancora più particolare, ovvero i wetlooker che godono nel bagnarsi i vestiti ma quelli indossati da tante ore, magari dal mattino».

Un wetlooker può innamorarsi e avere una storia con una non wetlooker, o sono corna sicure?

«Tutto può succedere, io personalmente a chi mi piace sul serio lo dico, ed è già tanto essere accettati. Non puoi avere storie solo tra wetlooker, siamo troppo pochi, bisognerebbe innamorarsi di una sola persona per tutta la vita, e come si fa? E fare le corna con chi? Trovare una amante wetlooker è come trovare un ago in un pagliaio!»

Il mondo del porno, specchio ma anche profeta della società, da tempo ha il wetlook tra le sue categorie.

«A molti wetlooker che conosco il porno non piace, me compreso».

E perché? Cosa sbagliano a fare nei video porno?

«Sbagliano nello spogliarello e nel nudo finale! Sembrano non saper niente del wetlook, è proprio il togliere i vestiti bagnati che ci ammoscia tutto!»

Il wetlook è un argomento tabù, se ne può parlare solo tra adepti, sui social?

«Sì, sui social o sui forum. Ma sempre tra di noi, è rarissimo trovare un non wetlooker dalla mentalità così aperta che non ti prenda in giro».

Qual è la frase, la presa in giro che ti dà più fastidio?

«Detesto sentirmi dire che sono malato, che non ci sto con la testa e che devo farmi curare».

Certo, anche perché un feticismo, qualsiasi feticismo, non è mai una malattia, né un disagio. Ma lo può diventare se è represso, se non è vissuto. Se sei feticista, non lo puoi sopprimere.

«A noi wetlooker servirebbe un personaggio famoso, una star che svelasse di essere dei nostri, facesse un coming out pubblico, e ne parlasse senza vergogna. Sarebbe il primo passo per essere guardati senza riprovazione. Magari a farlo dovrebbe essere una star della tv per famiglie!»

L’immagine seducente di un corpo coi vestiti bagnati è trattata dalla cultura mainstream ma non con intenti wetlook…

«Sì, ad esempio ci sono videoclip, come quello vecchio di Madonna, quello della canzone "Cherish", girato da Herb Ritts: per tutto il video lei è al mare e ha addosso un vestito bagnato. Roba simile per noi wetlook è un cult, anche se non è stato girato a alimento del nostro desiderio».

Il wetlook è “parente” del feticismo “wet & messy”, ovvero di chi si eccita sporcandosi o guardando persone che sporcano il loro corpo di cibo liquido, come gelato squagliato, sugo, il cioccolato?

«Sì, abbiamo punti in comune, ma anche qui dipende dal singolo feticista: a me ad esempio il cibo liquido non eccita, a me eccita lo shampoo e la schiuma da barba, sia su di me, sia sul corpo di una donna. Il wet & messy risulta più praticato all’estero, e specie col cibo spazzatura. Qui in Italia abbiamo la cultura del cibo e del mangiare, utilizzare in questo modo degli alimenti significa sprecarli: questo è ciò in cui siamo cresciuti e educati, ed è giusto sia così».

Ti devo fare una domanda-shock: è vero che ci sono wetlooker che godono della sensazione di bagnato che danno… le feci liquide?

«Ci sono, a me non piace, fa schifo, ma ci sono persone che lo praticano e ne godono».

E con la pipì?

«Sì, io ho provato il wetting – il feticismo di chi gode nel bagnarsi di urina – e ti confesso che prima di provarlo ero titubante, ne ero sì attratto ma anche un po’ schifato. L’ho provato prima di farmi la doccia vestito, mi è piaciuto ma non lo considero determinante. Pensa che per un periodo ho indossato gli assorbenti da donna, quelli grandi, che si mettono di notte quando si hanno le mestruazioni: la sensazione dell’assorbente inzuppato di pipì non è male».

Un wetlooker è più attivo o passivo? Bagna o fa bagnare?

«Entrambi, e ci sono anche i wetlooker-guardoni…!»

Dicono che i wetlooker siano quasi tutti maschi, ma io non ci credo, credo che le donne si vergognino e non si svelino.

«Le donne ci sono, ma fanno fatica a venire fuori, a palesarsi perfino sui social, e questo per colpa di tanti maschi pervertiti che rompono le scatole e le importunano».

È vero che ci sono donne wetlooker che provano ancora più eccitazione a bagnarsi con vestiti costosissimi, e ancor di più le scarpe firmate?

«Verissimo, e non solo donne, anche uomini».

Essere wetlooker è un orientamento sessuale, e si può essere wetlooker etero, gay, bisex, pansex, transex…

«Sì, anche se a me sembra che i wetlooker etero siano una minoranza. Io da etero a volte uso vestiti femminili per bagnarmi, tipo leggings e magliette, ma solo perché sono più attillati e mi fanno godere meglio».

Se io, che non sono wetlooker, voglio venire a letto con te, cosa dovrei fare per sedurti?

«Prima cosa, non lo facciamo a letto, perché con me a letto si va solo per dormire! Questo il nostro appuntamento tipo, e questo è quello che mi eccita e mi seduce: ti vesti con una tuta invernale, andiamo a fare jogging e se è estate è meglio perché sudi tanto e mi piace, poi tu mi dici di andare a fare una doccia insieme, mi prendi per mano, insieme entriamo in doccia vestiti, ci bagniamo completamente, poi tu lavi me e io lavo te. Ci facciamo uno shampoo, ché a me piace vedere la schiuma che scivola e inzuppa i vestiti, e ci passiamo una spugna su TUTTE le parti del corpo. Io ti faccio venire toccandoti fuori ma anche dentro gli slip, e ti penetro con le dita, se vuoi. Poi tu mi passi la spugna zuppa di acqua e bagnoschiuma sulla zona inguinale, me la passi avanti e indietro, senza togliermi i pantaloni. A me viene un’erezione pazzesca, e godo nelle mutande. Infine finiamo di lavarci, ci ricomponiamo e rimaniamo a coccolarci un po’, ma sempre bagnati! Questo è per me il sesso ideale».

·        I sogni erotici.

Paola Cardinale per “Libero quotidiano” il 12 maggio 2020. Ciò che non si può nella vita lo si può nei sogni. Infiniti sono quelli che si fanno ad occhi aperti e confessati da donne e uomini in analisi, agli amici più intimi (è il caso di dire). C' è lei che immagina di farlo con il capo, con il collega o la collega, per esempio, mentre il marito a fatica va su e giù sul suo corpo per poi posarsi sopra con affanno. C' è sempre lei che per far rivivere un' attrazione che non c' è più immagina quel ragazzo incontrato mesi fa sul tram e che, lui sì, le ispira pensieri inconfessabili perfino a se stessa. C' è lui che l' odore della compagna, ora madre dei suoi figli non lo sopporta più, ma guai a ritirarsi o a far finta di avere mal di testa (sì, succede anche agli uomini). Lei penserebbe subito che ha un' altra. E allora dell' altra lui ricorda il profumo che rimanda ad un prato fiorito a primavera, ad un abitino fresco altrettanto fiorito, alla spensieratezza. E allora sì che qualcosa si muove. Sogni ad occhi aperti, alla portata di tutti. Ma è quando ci si addormenta davvero che arriva il bello: di sogni erotici - almeno di quelli che restano impressi nella memoria - uomini e donne si cibano poco. Anzi, pochissimo.

Lo studio. Uno studio dell' università di Montreal - pubblicato sul mensile Focus - rivela infatti che soltanto l' 8 per cento dei sogni è dedicato al sesso. Deluso chi si aspettava un via vai di Rocco Siffredi con le sue donne, di Ciccioline con i pitoni al seguito e di Moana Pozzi versione vicina di casa ad abbracciare le notti delle persone comuni. Il fatto è che quando si va al "sodo" le cose cambiano e che forse il sesso non è poi così incisivo al punto da essere sognato così insistentemente. Che è un po' come quegli uomini che si vantano delle proprie prestazioni ma che poi, giunti al punto, fanno pentire le donne che gli hanno dato credito. La ricerca, si legge sul prestigioso mensile, è stata fatta catalogando un mese di sogni di uomini e donne di ogni orientamento sessuale, di età compresa tra i 20 e gli 89 anni. E avere la certezza che un "misero" 8 per cento è dedicato al sesso è stato un po' inatteso. Una sorpresa, invece, è stato scoprire che tra donne e uomini le differenze si sono assottigliate: in entrambi i sessi, infatti, i sogni erotici avvengono in percentuali che non si discostano molto: 93 per cento per gli uomini, 86 per cento per le donne. Dunque, di notte, gli uomini sono attivi quanto le donne. Segno che la società è davvero cambiata o sta cambiando velocemente.

Memoria corta. Dice l' esperto, il sessuologo Giorgio Quaranta: «Questo dato non mi sorprende. Oramai la sessualità delle donne è sdoganata. Lo dimostra l' aumento delle vendite di vibratori, sexy toys... tutto va in questa direzione». Sulla quantità di sogni erotici, invece, Quaranta invita a capire da quale punto di vista si analizza il dato. «Se partiamo dal fatto che il sogno è la dinamica della giornata, la percentuale può essere considerata anche bassa», osserva. Del resto, i rimandi al sesso pare occupino buona fetta dei pensieri quotidiani, soprattutto quelli degli uomini. Una ricerca della Ohio State University di Mansfield, ad esempio, ha rivelato che ai maschietti succede di immaginarsi irresistibili "macho" almeno diciotto volte al giorno, mentre alle donne "appena" dieci. In ogni caso, sottolinea Quaranta, non va sottovalutato il fatto che «la maggior parte dei sogni noi non ce li ricordiamo». E quindi, chissà, quante sceneggiature di Tinto Brass si consumano di notte nel nostro cervello, arricchiti da sfondi che vanno dal banale all' esotico in cui si recitano improbabili trame. Ciak che, una volta girati, svaniscono all' aprirsi degli occhi.

L'età conta È la psiche che comanda, a seconda dell' età. In età più matura, quando si ha più consapevolezza del proprio corpo, è il desiderio nascosto nelle donne di vivere una sessualità più libera, oltre le pareti dell' educazione benpensante, mentre negli uomini potrebbe rappresentare la voglia di vivere un erotismo meno scontato che lo libera dalla paura di confessarsi. Negli adolescenti, lasciarsi cullare nella notte da immagini erotiche può essere legato al bisogno di un desiderio ancora, o poco, non svelato. Sognare di fare l' amore con un ex fidanzato, ad esempio, può anche significare la nostalgia di un periodo vissuto in maniera serena e quindi la voglia di ritrovare la stessa intesa con una nuova persona, che il corpo chiede ma che la mente "lucida" non osa ammettere. In ogni caso, il dato imprescindibile di tali immaginazioni è che si è sessualmente attivi. Al punto che gli uomini possono eiaculare durante il "film" (fenomeno noto come polluzione notturna) e le donne avere quella che si chiama "crisi secretiva". E se al risveglio ci si sente insoddisfatti nel fare i conti con la realtà, perché non c' è quel lui o quella lei con la quale si vorrebbe per davvero camminare sulla strada della vita, non resta che tentare la fortuna con la Smorfia napoletana, la "bibbia" dei numeri che quantomeno strappa un sorriso.

·        Ninfomania. La dipendenza dal sesso.

Da dailymail.co.uk il 17 luglio 2020. In una confessione anonima pubblicata dall’australiano “Gold Coast Bulletin” una donna rivela la sua dipendenza dal sesso: «A volte mi convinco che non ho un problema, perché conosco persone che fanno di peggio. Ad esempio quelle che gemono in bagno durante la pausa pranzo, perché non ce la fanno a stare un giorno senza orgasmo. Suppongo che se lavorassi in un luogo industriale, dove macchine rumorose mascherano il suono che proviene dai bagni, lo farei anch’io. In caso di emergenza puoi sempre portarti dietro uno di quei vibratori tascabili. Gli uomini in questo sono più fortunati, per loro è più facile andare in bagno e soddisfarsi. Il personaggio di Matthew McConaughey in “The Wolf of Wall Street” diceva che gli intermediari finanziari si fanno almeno una sega al giorno. Io lavoro in un ambito che non lo permette. Mi sento in colpa per la mia confessione proprio perché ho sempre l’impressione che gli uomini siano ossessionati dal sesso più delle donne. Non siamo noi quelle che devono lamentare un mal di testa al momento giusto? Quelle che hanno troppo cose per la testa? Non è questo il mio caso. Ho una forma di dipendenza dal sesso. Una volta ho fatto sesso con due uomini in una sera, prima di andare all’appuntamento con il terzo. Incontro gli uomini solo per scopare, non c’è nemmeno bisogno che prima mi portino a cena. Dopotutto, non è bene essere sazi prima di andare a letto insieme. A un certo punto ho frequentato tre uomini con lo stesso nome, nella stessa settimana. E’ stato un casino, dovevo stare molto attenta a scrivere gli sms, dato che ognuno pensava frequentassi solo lui. Lo so, sembra una cosa da puttana, ma quando frequenti qualcuno per la prima volta, non è detto che voglia fare costantemente sesso. Se sei fortunata, capita un paio di volte in un appuntamento, ma se chiedi continuamente di andare a letto, ti trattano come una ninfomane folle. Quindi, ti prendi chi è disponibile. A volte non vale la pena, ma per fortuna ci sono ovunque opportunità di riprovare». La dipendenza dal sesso è l’attività sessuale fuori controllo. Alcuni medici però non la considerano una condizione clinica, piuttosto si tratta di pazienti che mettono scuse per non prendersi la responsabilità dell’auto-controllo. Non sono poche le celebrità che soffrono di questa condizione: Russell Brand, Michael Douglas e Tiger Woods si sono sottoposti a trattamenti specifici per guarire.

·        Sesso, malattia e dolore.

Valeria Randone per "lastampa.it" il 7 maggio 2020. Un danno si impossessa del corpo. Lentamente ma in maniera pervasiva colonizza anche la mente. Prosegue e non si arresta: da acuto diventa cronico. Invade le abitudini e i rituali quotidiani. Diventa la sgradevole presenza al risveglio, il compagno di banco di tutte le giornate, senza mai assentarsi, nemmeno durante i giorni rossi, rimbocca le coperte con la sua sintomatologia prima di andare a letto. Stiamo parlando delle malattie croniche. Quelle malattie che non guariscono, che si attenuano ma poi ritornano e che obbligano chi le ospita a imparare a convivere con loro e con le loro cure. La qualità di vita di chi ha una malattia cronica viene disturbata sino ad essere del tutto compromessa, in funzione del grado di gravità e stadio della malattia e dell’impatto dei farmaci. Senza mai tralasciare l’organo compromesso, con il suo simbolismo e funzionalità. 

Il dolore danneggia anche la sessualità: ambito estremamente delicato, facilmente esposto all’erosione da dolore cronico. Malessere fisico e sesso sono l’uno il contraltare dell’altro. Quando c’è il primo è complesso che ci sia il secondo, e viceversa. Quando una coppia si attarda tra le lenzuola sarebbe opportuno che nessuno dei due stesse male.

Piacere e dolore. Il rapporto tra piacere e dolore è complesso e controverso. C’è chi sostiene che la sessualità aiutata a stare bene, e chi invece ritiene che stando male non si può fare l’amore. Il rilascio di endorfine in fase post-orgasmica dovrebbe rappresentare un balsamo per le ferite del corpo e del cuore, e funzionare come un antidolorifico a lento rilascio: stemperare il dolore e migliorare l’umore. Esiste però un “prima” di cui siamo obbligati ad occuparci. Per giungere alla fase conclusiva del rapporto sessuale bisogna partire da lontano, da molto lontano. Il partner ammalato, colui che convive con un dolore cronico e con possibili limitazioni dei movimenti, come nel caso dell’artrosi o artrite reumatoide, non ha uno spazio mentale consono alla dimensione del piacere.

Il partner ammalato stenta a prendere l’iniziativa, a pensarsi sessuato e seduttivo, in realtà, avrebbe soltanto voglia di non stare male. Di non assumere quella bustina, di non dover fare quella puntura o doversi recare in ospedale per gli abituali controlli, di non dover assumere quella posizione antalgica e quella pozione magica per non sentire tropo dolore. Nella scala di priorità la sessualità fatta di scambio e di gioco, e non di obbligo domestico, sembra essersi trasferita alla fine della lista.

“In salute e in malattia”, siamo davvero certi che sia così? Avrò cura di te. Cosa fare? Quando una malattia cronica si impossessa di un membro della coppia, lo trascina in un vortice di sofferenza e disagio, soprattutto senza fine. Scompagina ogni equilibrio di quella coppia e ha una ricaduta sulla sfera della sessualità. Un partner ammalato, talvolta, per paura di smarrire il coniuge e per paura di poter essere tradito, si concede. Lo fa per dovere, non per piacere. Lo fa con il calendario alla mano: valuta quanti giorni sono trascorsi e si concede.

Il rapporto sessuale si svuota di significato, della sua indispensabile dimensione ludica e di scambio, di reciprocità e di desiderio.

La paura del protrarsi della malattia prende il sopravvento su tutto, e il desiderio sessuale si estingue, con ovvie ricadute a cascata sulla funzionalità della risposta sessuale. Se uno dei due protagonisti della coppia sta male, ha un dolore cronico da malattia cronica che impenna come un cavallo imbizzarrito durante le stagioni difficili della vita, quando cambia il tempo, quando lo stress prende il sopravvento sul quotidiano e sulle emozioni residue, l’altro dovrebbe cercare di supportarlo, non soltanto di sopportarlo.

La sessualità, soprattutto in questi casi, parte da lontano, dalla dolcezza e dalla cura. Dalle attenzioni e dallo spazio per l’altro. Il dialogo, in situazioni difficili e dolorose, diventa la strada maestra da poter imboccare per evitare un clima di litigiosità e un possibile processo separativo.

Un corpo ammalato, immagine corporea e sessualità. L’immagine corporea di un partner ammalato cambia e fluttua in funzione della malattia e dell’organo (o organi) compromessi: sono presenti segni visibili e invalidanti, altri invisibili e profondi, altri ancora che dal corpo si spostano alla psiche o viceversa (come nel caso di depressione cronica). Le reazioni emotive e le risorse psichiche cambiano da persona a persona, dalla capacità o incapacità adattiva nei confronti della malattia, dalle strategie di coping - per coping si intende l’insieme dei meccanismi di adattamento messi in atto dal paziente per far fronte alle nuove emergenze da malattia -, dalla sua accettazione o meno dei sintomi. Dalla qualità del rapporto di coppia, dalla rete di supporto familiare o sociale, dal supporto psicologico. Il legame con il partner cambia per contenuti e significati. Prende il sopravvento il bisogno di attenzione e di tenerezza, il bisogno di conferme rispetto alla nuova immagine corporea, tra mutilazioni e riparazioni, il bisogno di sensualità piuttosto che di sessualità. Il nuovo corpo ferito dalla convivenza con la malattia viene risarcito da uno sguardo empatico, amorevole e contenitivo del compagno di vita. Le cicatrici, visibili o invisibili, del corpo e dell’anima, che hanno contribuito a creare un’immagine corporea frammentata, possono essere rese meno drammatiche grazie a un legame empatico e profondo con il partner;  nei casi più severi da aiuti psicologici mirati.

Come riaccendere il desiderio. Le malattie croniche, qualunque esse siano, per evitare che diventino un terremoto per la stabilità di coppia, hanno bisogno dell’aiuto di entrambi i partner: quello ammalato e quello sano. È utile che il partner sano provi ad avere con il partner ammalato un approccio meno esigente e più affettuoso, in modo da consentire un recupero graduale del desiderio sessuale profanato dalla presenza del dolore. E che il partner ammalato glielo consenta.

Un altro elemento di fondamentale importanza è il dialogo. La negazione della malattia e delle angosce ad essa associate, unitamente alla rimozione di quanto accaduto, sono due potenti meccanismi di difesa della psiche, che in questi casi andrebbero analizzati e raggirati. Un dialogo autentico, affettuoso e rassicurante aiuta il partner ammalato a sentirsi a suo agio tra le braccia, anche mentali, del coniuge; a spostare lo sguardo dai segni della malattia alla possibilità di emozionarsi, di desiderare e di essere ancora desiderato.

Anche il partner sano, però, è a rischio di burn out e di conseguente usura emotiva. Quando il ruolo di  caregiver - di chi si prende cura - si protrae nel tempo, anche il partner accudente può andare in contro al rischio di usura emozionale e psico-fisica. Dovrà, quindi, compatibilmente con tutto, ritagliarsi uno spazio per sé: senza sensi di colpa o un eccessivo senso del dovere. Un iper accudimento all’interno della coppia porta con sé il rischio di un depauperamento del desiderio sessuale e dell’erotismo. Quindi, la cura fisica e psichica di chi sta cronicamente male dovrebbe essere suddivisa, ove possibile, tra il partner e le altre figure di riferimento. Alcune patologie psichiche o psichiatriche croniche, silenti e invalidanti, oltre a quelle meramente organiche, diventano un tarlo usurante per il paziente e la sua la coppia. Averne cura e rispetto equivale a non imboccare i vicoli bui della sofferenza, della solitudine e della crisi di coppia. Anche chi vive intrappolato dentro la gabbia di una malattia cronica può guardare fuori ed evitare di vivere in una condizione cronica di anestesia emozionale e sensoriale.

·        Sesso vecchio.

Barbara Alberti per "Vanity Fair" il 12 novembre 2020. Sesso, sesso, sesso, è un assalto, un obbligo sociale, un’ingiunzione. Prima lo si usava per vendere i prodotti, ora si vende direttamente quello, e se a 80 anni non scopi tre volte al giorno sei uno sfigato, un nemico del presente. Questa retorica che va di moda oggi, l’esaltazione del sesso fra vecchi. Ci vogliono arrapati fino a cent’anni. È un’impostura. La natura è più clemente della pubblicità, esistono le stagioni. L’immagine di due vecchi corpi congiunti non evoca l’erotismo, evoca la morte. E quei novantenni che vanno in tv a vantarsi dei loro amplessi, buon per voi, ma perché gridarlo? Il pudore è bello a ogni età. E intanto, un grave lutto è stato ignorato. Povero Eros! È morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi, da cui spuntava un’ala spelacchiata. È caduto a terra, un passante si è chinato su di lui, e ha esclamato: «Lei, il dio degli dèi! Come ha fatto a ridursi così?». «Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. Tutto gridato, tutto spiattellato, mi aggrediscono carrettate di membri di chiappe di peli, in tv sui giornali sui social… soffoco! Non sono io, quello! La gente fa sesso per postarlo, l’industria erotica è contro di me, invece di suscitare il desiderio lo mortifica…  c’è una congiura mondiale per abbattermi. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito, profanato il segreto. Il sesso è un atto sacro, anche se consumato con uno sconosciuto contro un muro». «Ma no, è divertimento!». «Perché, il divertimento non è sacro?». «Non mi dica che rimpiange i tempi della repressione». «Oh sì. Perdutamente. Quei bei tabù, quella deliziosa vergogna, e la divina parola, lussuria… Allora non c’era il calo del desiderio! Adesso, in quest’orgia permanente, andate tutti dal sessuologo. Il mio nemico, che rende tutto laico, e ti ricatta dicendo che faccio bene alla salute… io, il dio dell’audacia, degradato a medicina. E i sessuologi in tv? Ogni volta che parlano, migliaia di desideri si spengono. Farebbero passare la voglia anche a Priapo.  Avevo un alleato, la Chiesa, che condannava il sesso rendendolo eroico. Ma adesso, anche lì... senza proibizioni, io che ci sto a fare?». «Che reazionario! Io ho ricevuto una pessima cattolicissima Di educazione sessuale, grondante colpa e vergogna». «Eppure, più rispettosa del mistero, che non il sabba sguaiato di oggi. Il sesso non è uno sport. Mi manca l’attesa, mi manca il batticuore». «Che discorsi preistorici… Già negli anni Settanta facemmo la rivoluzione sessuale». «Oh sì. Ma quella volta, io c’ero. Ricordo la grazia della scoperta, l’eccesso felice, lo slancio... allora osavate. Era un sesso pieno di speranza. Ma adesso è tutto precotto e virtuale. Allora non c’era Tinder. Mick Jagger cantava “masturbation can be funny”… ma oggi non si fa altro. Onanismo superstar. Il sesso senza volto, senza il fastidio della presenza. In passato legioni di madri furiose e di preti hanno perseguito con l’aspersorio e il matterello l’adolescente colpevole di obbedire al richiamo più elementare della natura, per farne un cittadino sottomesso. Bagni gelati, legacci, busse… Allora l’autoerotismo era una forma di libertà contro la repressione degli adulti. Oggi, un modo per cancellare l’altro.  Se tornassero quei piccoli martiri, e vedessero che l’onanismo è diventato una speculazione con un enorme fatturato. Si sono profusi patrimoni, pur di eliminare il partner. Finiti i tempi scomodi della fornicazione reale, quando bisognava vestirsi e lavarsi tutto. Ora c’è questa comodità, che siamo ombre. Impuri spiriti, minacciati da un’impotenza stregata e collettiva». «Anch’io ho dei problemini in quel senso… prima di spirare, avrebbe un consiglio?». «Tornate al peccato, che è meglio. Alla voluttà del proibito, quando il sesso bisognava conquistarselo con la paura della punizione, così eccitante. Torniamo al grande detonatore erotico, il pudore. Che il sesso sia un rischio, un’affermazione del desiderio, non una fila al supermarket».

Sesso, donne adulte e incontinenza: sì, questo è un tabù. E noi ne parliamo. Benedetta Perilli su La Repubblica l'11 Novembre 2020. Una campagna pubblicitaria firmata da Tena affronta il tema dell'incontinenza femminile e viene accolta con molte critiche. Ne abbiamo parlato con la sessuologa Roberta Rossi: "Sono aspetti che a volte accompagnano i cambiamenti fisiologici nell'età della menopausa. Il silenzio non fa altro che ingigantire questi tabù". Dire quello che fino a oggi non si poteva dire chiamando uno dei registi più apprezzati e trasmettendo sui canali nazionali uno spot che parla di donne, di sesso e di incontinenza. Lo ha fatto con coraggio Tena commissionando al regista Yorgos Lanthimos, quello del film premio Oscar "La favorita", il video della campagna #SenzaEtà. Nelle immagini si vedono donne adulte che si mostrano senza veli e raccontano il loro rapporto con il corpo e con il sesso. "Il sesso continua a piacermi", dicono; "Sì, sono anche incontinente ma non mi faccio condizionare. Le chiamo le gocce della risata", afferma un'altra. Che effetto fa sentire parlare di questo tema? Lo abbiamo chiesto ai responsabili della comunicazione Tena che sul feedback alla campagna trasmettono una stima basata sull'attivià sui social network: "Dopo una settimana, un commento al video su tre è negativo e un commento su dieci è negativo rispetto in generale ai temi trattati. Le donne si dividono tra chi si riconosce e apprezza la realtà mostrata e chi invece nega di riconoscersi perché trova imbarazzante la tematica e non vuole che venga mostrata né che se ne parli".

Che cos'è l'incontinenza femminile. Un tabù. Lo conferma anche Roberta Rossi, sessuologa e psicoterapeuta dell'Istituto di Psicologia clinica alla quale abbiamo chiesto di aiutarci a fare luce sulla situazione. Di cosa parliamo, quando parliamo di incontinenza nelle donne adulte? "Il discorso dell'incontinenza è associato al periodo della menopausa, quindi a donne che hanno in media dai 55 anni in sù. Ovviamente questo non significa che tutte le donne abbiano questo sintomo, ma che i cambiamenti ormonali in quel momento vanno a incidere anche su questo aspetto. C'è la possibilità che in questo periodo della vita le donne siano più soggette alla classica "perdita da starnuto", o da tosse, durante il rapporto sessuale. Durante gli sforzi si possono verifare perdite urinarie che vanno da qualche goccia a perdite più consistenti. È un problema che esiste, i ginecologi lo conoscono e le donne che lo sperimentano sanno cos'è. Non mi stupisce che le giovani  siano invece all'oscuro, perché è un tema del quale si parla molto poco poiché legato a qualcosa di imbarazzante: perdere la pipì è legato a un'idea di poca pulizia, quindi è un tabù. Le stesse donne tendono a parlarne poco tra di loro e poche chiedono consiglio a uno specialista".

Prevenzione e stile di vita. "Le perdite urinarie femminili non colpiscono tutte le donne che affrontano la menopausa, perché a incidere è anche lo stile di vita precedentemente adottato:se si è praticato sport, per esempio, o seguito una dieta non a base di alcol, thè, caffeina", spiega Roberta Rossi. "Non esiste una vera e propria prevenzione ma ci sono stili di vita che possono aiutare a essere meno soggette a questa sintomatologia. Come le famose vampate, i sintomi della menopausa sono diversi e non colpiscono tutte le donne. Per prevenire l'insorgenza delle perdite è utile iniziare già dal periodo perimenopausale o dopo il parto a lavorare per tenere attivo il pavimento pelvico, ovvero l'impalcatura dei nostri organi interni".

Perdite e sessualità. "Sapere di avere questo sintomo crea in molte donne imbarazzo, e quindi le porta ad avvicinarsi al sesso in maniera tesa e preoccupata. Sentimenti che hanno un forte impatto sui rapporti sessuali perché ovviamente l'attenzione a controllare il momento evita di sperimentare la partecipazione. Può verificarsi quindi una diminuzione dell'eccitazione, che a sua volta incide sulla possibilità o meno di raggiungere l'orgasmo e alla lunga si può creare una sorta di spirale che porta alla diminuzione del desiderio sessuale. Si rinuncia a fare sesso per paura. Non è l'incontinenza di per sé a creare problemi alla sessualità, ma le preoccupazioni legate al sintomo". Come risolvere l'empasse? La ginecologa consiglia di svuotare la vescica prima del rapporto sessuale, e se le perdite sono minime, solo poche gocce, bisognerebbe normalizzare la cosa, minimizzarla. Se la situazione è più importante invece si può far ricorso a un trattamento farmacologico che va condiviso con gli specialisti, ginecologo e urologo. "Può aiutare molto anche la riabilitazione del piano pelvico, non solo nel momento della sessualità ma nella vita di tutti i giorni", continua la dottoressa Rossi. "La regola generale però è: parlare del problema. Sono assolutamente d'accordo con campagne come questa che aiutano ad abbattere i tabù, come quello sulle mestruazioni. Sono tutti aspetti fisiologici del nostro essere donne. Il silenzio non fa altro che ingigantirli". 

La ricerca. Per approfondire l'argomento, l'azienda internazionale che si occupa di prodotti per l'incontinenza e le perdite urinarie ha commissionato una ricerca sulla disparità di percezione dell’invecchiamento, dell’intimità e dell’incontinenza tra le donne giovani rispetto alle reali storie delle donne over 50 che convivono con le perdite urinarie. (Il campione è di 4,165 donne tra i 18-49 anni, di cui 1076 italiane e 4,161 donne tra i 50-80+ di cui 1037 italiane). Il risultato restituisce un quadro in cui la vita sessuale delle donne con incontinenza urinaria viene percepita con negatività e falsi preconcetti da parte delle donne più giovani, mentre le donne che vivono quella situazione parlano di una vita, e in particolare di una vita sessuale, senza ripercussioni negative. Questa discrepanza tra situazione reale e situazione percepita racconta di un grande tabù. Il 52% delle giovani donne crede che le perdite urinarie avranno effetti negativi sulla vita sessuale, eppure solo il 14% delle donne over 50 con incontinenza afferma che quest’ultima ha realmente inciso sulla loro vita sessuale. Mentre le giovani donne non si preoccupano più del tempo che passa con il 70% che anzi guarda all’età matura come un periodo di maggiore sicurezza in sé - l’incontinenza e i possibili problemi di salute rimangono una paura. Il 57% delle donne under 34 sono preoccupate di avere perdite urinarie come effetto collaterale dell’invecchiamento. È una paura quasi quanto sentirsi meno sexy (61%), essere meno in forma fisicamente (65%) e affrontare problemi di salute mentale (61%). Credono che l’incontinenza sia imbarazzante (64%) e che influenzerebbe negativamente le loro vite (61%), con il 52% che è più preoccupato dell’impatto sulla vita sessuale. Tuttavia parlando con le donne che realmente hanno perdite urinarie e portando alla luce la loro esperienza, TENA ha scoperto che solo il 14% delle donne con incontinenza urinaria ha riscontrato che la propria vita sessuale è stata negativamente intaccata dall’incontinenza. Le donne mature si sentono più ricche di esperienza (67%), più a loro agio nell’esprimere le proprie idee (63%) e più sagge (61%) di quanto fossero da giovani. Il 37% delle donne over 50 dichiara di sentirsi meglio ora nel proprio corpo di quanto si sia mai sentita prima. Un terzo delle donne si sente più felice (30%), ben il 41% si sente avventurosa e il 12% si sente addirittura più sexy di quanto lo fosse da giovane. Più della metà (54%) delle donne con perdite urinarie pensa che sia essenziale cambiare la rappresentazione dell’incontinenza attraverso i media e che si debba contrastare la percezione che l’incontinenza sia qualcosa di cui vergognarsi. “Siamo sempre stati un brand per tutte le donne di tutte le età. Attraverso la nostra campagna #SenzaEtà vogliamo sfidare la percezione di cosa voglia dire essere una donna che convive con le perdite urinarie. Celebriamo il concetto #SenzaEtà per rafforzare nelle donne la consapevolezza di essere sempre e solo la persona che vogliono essere” ha affermato Michela Marabini, Marketing Manager TENA.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 6 novembre 2020. Cari lettori che avete qualche decina di "anta" sulle spalle, quando ho letto con gran divertimento il romanzo di Paolo Guzzanti L' ultimo amore non si scorda mai (Giunti, 240 pagine, 13 euro), ho pensato a voi con tenerezza e anche con un certo senso di rivalsa: era ora che qualcuno cominciasse a dire la verità sull' amore di uomini e donne maturi, per "maturi" intendo oltre i 65 anni. La vulgata li ritiene lontani non solo dall' età della riproduzione, ma anche dal salto della cavallina, per cui li parcheggia in un angolo con il cardigan e la tisana: si dà per scontato che, avendo vissuto figli e carriera e mogli e mariti e amanti, gli over siano entrati in una specie di palla trasparente, immuni alle pene dei sentimenti ed esclusi dal travaglio dei desideri. Ovviamente oggi tutti sappiamo che non è così, ma il sesso con i capelli bianchi è l' unico, in questi tempi di revisione creativa degli accoppiamenti, a non essere stato sdoganato in maniera acconcia alla realtà. Eppure, a vedere quanti arcobaleni troviamo dipinti ovunque, dovremmo essere ormai liberi anche dai pregiudizi dell' anagrafe: ho letto non molto tempo fa che le identità sessuali accertate sono al momento 56, e permeabili a nuove entrate, non sono forte in algebra e quindi posso solo ipotizzare la ricchezza di combinazioni possibili. Invece non vale per tutti. Pur così articolatamente liberi, rimaniamo ingabbiati nell' estetica della gioventù, ragion per cui la vitalità di due persone canute suscita ancora sorrisi non simpaticissimi. Questo libro è un piccolo riscatto. Non lasciatevi trarre in inganno: Guzzanti, che ha ottant' anni e certamente conosce bene la materia e le sue insidie, non si fa intrappolare nella malinconia dei ricordi, né si profonde in pipponi identitari, insomma non cerca di fare il filosofo della porta accanto. Le relazioni, per non dire l' erotismo, soprattutto raggiunta la maturità, si comportano come la cattiva digestione: ti torna su il sentore di cose gustose che credevi avessero seguito il loro corso naturale, mentre nei casi peggiori torna su proprio tutto, fisicamente. Questa è la situazione in cui si trova il protagonista del romanzo, Carlo Martello Marchioni, e Guzzanti entra a gamba tesa nella questione con una storia astuta e contemporanea (fa una comparsata anche il covid). Carlo Martello è un conferenziere di successo e scrittore tuttologo, cioè la truffa-fuffa più diffusa e redditizia: i suoi libri hanno titoli come «Asimmetria dell' orgasmo e delle geometrie non euclidee», «Coppie analogiche e digitali», di nuovo «Revisioni delle teorie sull' orgasmo». Tutto precipita durante la sua conferenza di congedo dall' attività pubblica, perché una impertinente donna presente tra il pubblico gli manda in vacca il trionfo. Quella donna è un' artista, Danielle, ma soprattutto è la (ex) ragazza che cinquant' anni prima, negli anni della rivoluzione sessuale, lo aveva convinto a toglierle la verginità, facendogli anche fare un po' la figura del fessacchiotto. Questa Epifania è il motorino d' avviamento di un ritorno di fiamma che, grazie alla scrittura di Guzzanti, non avrà nulla di scontato né di facile, ma muoverà un nuovo turbillon di bisticci, imbarazzi e tenerezze, inducendo nei due la scoperta di una terza via, oltre la negazione e l' ossessione, per vivere gli sgoccioli della passione: ignorare il tempo passato. A lei riesce bene, a lui di meno, come in fondo è naturale, e in questa frizione si accendono i momenti di maggior divertimento. Mi ha incuriosito che il protagonista si chiami Carlo Martello come unico nome proprio, e ho immaginato sia una sottigliezza dell' Autore al limite del rebus. Il vero Carlo Martello, come ricorderete dal libro di storia della seconda liceo, fu un personaggio chiave del Medioevo: nonno di Carlo Magno, nel settimo secolo dopo Cristo mise fine con un espediente alla dinastia merovingia dei re Franchi e aprì la porta a quella carolingia. In pratica esercitò il potere (cavandosela molto bene) abusivamente: responsabile del palazzo reale, approfittando dell' incapacità dei cosiddetti "re fannulloni" merovingi, occupò lui stesso il posto rimasto vacante alla morte di Teodorico IV e lo mantenne fino alla morte. Mi è venuto il dubbio allora che questo romanzo sia un elogio della nobiltà dell' abusivato intelligente, redento dai risultati: il Carlo Martello di Guzzanti, infatti, è stato "abusivo" nella fugacità dell' incontro giovanile con Danielle, ha esercitato abusivamente la professione di esperto di tutto (almeno fino a che Danielle non si è palesata e l' ha smascherato), vive con lei un ritorno "abusivo" dell' amore, ed entrambi sono trattati da abusivi dalle rispettive figlie. Quella di Danielle, per di più, è frutto di quell' unico incontro di mezzo secolo prima, di cui Carlo Martello è stato tenuto all' oscuro per tutto quel tempo. L' intreccio di incontri fra le due famiglie risulta così essere un doppio Indovina chi viene a cena rovesciato: sono i due genitori a essere giudicati dai figli, che all' inizio storcono il naso. Poi tutto finirà a cena, con una carbonara fatta con il formaggio sbagliato ma che, come la loro storia, risulterà buonissima lo stesso.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” l'1 novembre 2020. Nessuno si scandalizza nel vedere una bella donna di settant' anni sfornare torte, accudire gatti e giocare con i nipoti. Diverso sarebbe vedere quella stessa donna in una scena intima e sensuale: la nonna sexy, con le sue rughe, i capelli bianchi e la pelle molliccia, non solo non ce la immaginiamo, ma è tabù. Come se il diritto al piacere e a una sessualità libera e appagante appartenesse solo ai giovani di oggi, e non a quelli di ieri. Per fortuna ci ha pensato Tena a rompere preconcetti e stereotipi, con il suo nuovo spot televisivo #SenzaEtà, sostenendo le donne nell' essere sé stesse. Confesso che quando l' ho visto per la prima volta ho provato sorpresa perché, oltre a questi temi, si parla anche di incontinenza urinaria, senza mezzi termini e con una naturalezza disarmante. E così, le gocce di pipì diventano "le gocce della risata" che, con una nuova presa di coscienza, non sono più motivo di disagio e vergogna. Come a sottolineare che l' amore è più forte di tutto e resiste alle sfide del tempo. «È più la percezione del problema stesso che la realtà del problema», spiega il professor Marco Rossi, sessuologo e psichiatra. «Due o tre gocce di urina, cosa cambiano quando c' è uno scambio di fluidi corporei come quello che avviene durante un rapporto sessuale? A partire dal bacio, con il quale ci scambiamo molto più fluido rispetto a quello che può essere la perdita data dall' incontinenza. Eppure le donne, così come anche gli uomini, hanno preoccupazione e sono imbarazzate da questa cosa». Vuole dare qualche consiglio a tal proposito? «Fare la pipì subito prima di un rapporto sessuale», risponde l' esperto. «Da giovani, soprattutto a noi maschi, ci dicevano di fare pipì subito dopo aver fatto l' amore, soprattutto per facilitare l' espulsione degli ultimi spermatozoi, ma perché non farla anche prima? Una vescica svuotata, inoltre, è una vescica meno a rischio di possibilità di contrarre infezioni, perché c' è meno rischio di passaggio di germi e batteri. Va precisato, poi, che l' incontinenza non è appannaggio solo della terza età». Quando rivolgersi a un esperto? «Le cure ci sono sempre. Sono tutte situazioni che si possono affrontare. Poi bisogna affrontarle e focalizzarle a seconda di quello che è il problema specifico. Faccio un esempio: ci può essere la persona che è incontinente solo quando ha la tosse, o quando starnutisce, oppure ancora durante un rapporto sessuale. Bisogna capire bene e valutare le possibili strategie terapeutiche. È chiaro che una buona ginnastica e una buona tenuta del pavimento pelvico serve in generale per ridurre e contrastare questi problemi. Poi, ovviamente, ci si rivolge a uno specialista per gestire le cose in maniera più specifica». E a proposito dell' incontinenza durante un rapporto sessuale, il professor Rossi non ha dubbi: «Un uomo in quel contesto non sa nemmeno da che parte è voltato. Figuriamoci se si accorge di poche gocce di urina». Come a ribadire che l' amore non ha limiti, se non quelli che gli diamo.

Da brand-news.it il 21 ottobre 2020. Sarà in pianificazione dal 18 ottobre su tutti i principali canali televisivi il nuovo spot Tena che conta sulla regia di Yorgos Lanthimos, premio Oscar per "La Favorita". La campagna, ideata da Amv Bbdo e pianificata da Zenith Media, persegue la missione del brand di legittimare e aumentare il benessere delle donne, destigmatizzando gli stereotipi sull’incontinenza e dando spazio a un tema pochissimo trattato sui media: la sessualità delle donne over 50. Tena parte infatti dal concetto che le donne dopo i 50 anni sono nel momento più ricco e pieno della loro vita, consapevoli di chi sono e cosa vogliono. La campagna prende le mosse da una ricerca condotta dal brand sulla disparità di percezione dell’invecchiamento, dell’intimità e dell’incontinenza tra le donne giovani (18-34) rispetto alle reali storie delle donne over 50 che convivono con le perdite urinarie, che dimostra come i problemi siano più temuti che reali. Mentre le giovani donne non si preoccupano più del tempo che passa – con il 70% che anzi guarda all’età matura come un periodo di maggiore sicurezza in sè – l’incontinenza e i possibili problemi di salute rimangono una paura. Il 57% delle donne under 34 sono preoccupate di avere perdite urinarie come effetto collaterale dell’invecchiamento. È una paura quasi quanto sentirsi meno sexy (61%), essere meno in forma fisicamente (65%) e affrontare problemi di salute mentale (61%). Credono che l’incontinenza sia imbarazzante (64%) e che influenzerebbe negativamente le loro vite (61%) con il 52 % principalmente preoccupato dell’impatto sulla vita sessuale. Tuttavia parlando con le donne che realmente hanno perdite urinarie e portando alla luce la loro esperienza, Tena ha scoperto che solo il 14% delle donne con incontinenza urinaria ha riscontrato che la propria vita sessuale è stata negativamente intaccata dall’incontinenza. Le donne mature si sentono più ricche di esperienza (67%), più a loro agio nell’esprimere le proprie idee (63%) e più sagge (61%) di quanto fossero da giovani. Il 37% delle donne over 50 dichiara di sentirsi meglio ora nella propria pelle di quanto si sia mai sentita. Un terzo delle donne si sente più felice (30%), ben il 41% avventurosa e il 12% addirittura più sexy di quanto lo fosse da giovane. “Siamo sempre stati un brand per tutte le donne di tutte le età. Attraverso la nostra nuova campagna #SenzaEtà vogliamo sfidare la percezione di cosa voglia dire essere una donna che convive con le perdite urinarie. Celebriamo il concetto di #SenzaEtà per rafforzare nelle donne la consapevolezza di essere sempre e solo la persona che vogliono essere. Siamo molto contenti di aver lavorato con Yorgos Lanthimos per il suo modo di costruire e narrare in modo autentico la forza delle donne” commenta Michela Marabini, Marketing Manager Tena.

DAGONEWS il 4 ottobre 2020. Le donne perdono interesse a fare sesso con l’avanzare dell’età? Solo un mito. È quanto emerge da uno studio su 3.200 donne presentato alla “North American Menopause Society”: un risultato in contraddizione con diverse ricerche precedenti che avevano parlato di perdita di libido con l’avanzare dell’età. «Il problema è il tipo di approccio adottato  -dicono i ricercatori – In questo caso non abbiamo confrontato i risultati in base all’età, ma abbiamo valutato come si sviluppa il desiderio nel tempo». In realtà, per sintetizzare, le donne analizzate si possono dividere in tre gruppi. Circa un quarto delle donne (28%) ha iniziato a pensare meno al sesso con l’avanzare dell’età. Ma c’è un 27% che ammette che il sesso rimane molto importante. In comune queste donne CHE non hanno rinunciato alla loro vita sessuale, hanno il fatto di essere più istruite, di essere meno depresse e di essere state soddisfatte sessualmente prima di entrare nella mezza età. Ma la maggior parte delle donne si colloca al centro: hanno una vita sessuale sana fino a quando non sono entrate in menopausa, ma hanno gradualmente perso interesse durante i 50 e i 60 anni. Ci sono una serie di fattori emotivi, fisici e psicologici che influenzano il modo in cui una donna vede il sesso. La maggior parte di questi fattori può essere suddivisa in quattro categorie:

problemi medici dovuti anche alla menopausa e al calo degli estrogeni.

Il fattore psicologico: l'abuso di sostanze, l’ansia o lo stress influiscono sul desiderio più di quanto possiamo immaginare.

C’è poi la società che influenza il rapporto della donna con il sesso.

E infine il partner: le donne di mezza età possono vivere degli stravolgimenti in campo sentimentale che vanno a pregiudicare la loro vita sessuale.

·        Sesso e segno zodiacale.

Alessandra Orlacchio per "chedonna.it" il 21 febbraio 2020. Fare l’amore ci collega efficacemente a un altro essere umano, ma ci collega anche a noi stessi e persino a tutta la nostra umanità. Scopri le posizioni del Kamasutra che ti esaltano in base al tuo segno zodiacale. La nostra sessualità fa parte di ciò che siamo. In effetti, il piacere della carne va ben oltre il semplice bisogno istintivo di procreare, è un piacere sensuale, un godimento torrenziale, un’eccitazione trascendente. Fare l’amore è uno dei mezzi di comunicazione più puri e tangibili. Il nostro corpo quindi esprime i suoi bisogni, desideri ed emozioni senza fronzoli o pretese. Un modo per mettersi a nudo, in tutti i sensi della parola. Quale posizione ti stimola di più a letto in base al tuo segno zodiacale:

1) Ariete. Appassionato e pieno di energia, ti piace prendere il controllo e stabilire il tuo ritmo. Hai bisogno del tuo partner per soddisfare e ascoltare tutti i tuoi desideri. Segno di fuoco, sei alla costante ricerca di eccitazione, avventura e stimolazione. Quindi, per il massimo piacere per due, non c’è niente come la posizione da cowgirl per te.

2) Toro. I piaceri della carne sono un vero momento di estasi per te. Quindi, quando fai l’amore, hai bisogno di risvegliare tutti i tuoi sensi. Toccando, accarezzando, guardando o sussurrando nell’orecchio, tutte queste sensazioni ti intossicano per un momento di estremo piacere. Per un migliore contatto con il tuo partner, opta per la semplicità preferendo la posizione del missionario.

3) Gemelli. Curioso e ardente di desiderio, odi la monotonia e ami provare nuove sensazioni. Devi esplorare le profondità delle tue fantasie. Inoltre, per te, la cosa più importante è prendere tempo per i preliminari. Per ampliare il tuo spettro di posizioni sessuali, ti consigliamo di provare la posizione dell' ”aratro”.

4) Cancro. Sensibile ed emotivo, quando sei eccitato, ti trasformi in un vero dio o dea del piacere. Ti piace vedere il tuo partner divertirsi e sei felice solo quando sei sicuro che è soddisfatto. Per una connessione intensa e un migliore contatto visivo, raccomandiamo la posizione della mucca.

5) Leone. Devi mostrare la tua abilità e cercare di prendere il controllo durante il rapporto. Bestiale, ti piacciono i brividi e non ti piace soffermarti sui gesti della tenerezza. La tua posizione preferita? Alla pecorina!

6) Vergine. Anche se l’etimologia del tuo segno suggerisce che sei modesto e riservato, sei un vero mostro a letto. Sculacciate e commenti sporchi, devi sentire il tuo partner esprimere il suo desiderio di ravvivare il momento. Fai emergere il tuo istinto selvaggio adottando la posizione della tigre che si avvicina.

7) Bilancia. In segno di equilibrio, devi dare tanto piacere quanto quello che ricevi. Per te, più dura, meglio è! Ti piace prenderti tutto il tempo e goderti ogni momento in compagnia del tuo partner. Pertanto, il 69 è la posizione ideale per una combinazione vincente.

8) Scorpione. Intenso e appassionato, ti piace cambiare ruoli, posizione e atmosfera secondo i desideri del tuo partner. Occhi bendati, manette, giochi di ruolo … Pensi che sia importante variare i piaceri. Dominante, sottomesso, il tuo rapporto sessuale è come un ottovolante di emozioni. Prova la posizione del polpo per realizzare le tue fantasie più selvagge!

9) Sagittario. Libero e avventuroso, hai una libido sfrenata e devi fare l’amore il più spesso possibile. Selvaggio e passionale, sai come combinare intensità e sensualità per un momento di estasi assoluta! Per te, il rapporto è il modo per raggiungere il paradiso orgasmico. Quindi, per farti vivere uno dei momenti più caldi, ti consigliamo la posizione in piedi contro il muro.

10) Capricorno. Il tuo desiderio sessuale è senza dubbio il più importante di tutti i segni dello zodiaco. Tuttavia, ti piace il comfort e ti piace goderti la morbidezza. Inoltre, il rapporto sessuale è per te un momento di condivisione e quindi sei eccitato dalla prospettiva di un orgasmo simultaneo. Per un’osmosi totale per due, prova la posizione eretta a quattro zampe.

11) Acquario. Ti piace divertirti e non hai inibizioni. Devi cambiare il tuo partner sessuale il più possibile e non sopporti la routine e la noia. Alla costante ricerca di sfide, ti consigliamo la carriola, una posizione del Kama Sutra che richiede una certa flessibilità e un certo equilibrio.

12) Pesci. Combinando passione ed emozioni, ti piace comunicare i tuoi sentimenti quando fai l’amore. Sottile e romantico, sei convinto che non c’è niente come una connessione emotiva per rendere il sesso ancora migliore. Niente come la posizione del cucchiaio.

·        Organo sessuale? C’è differenza.

Maria Elena Barnabi per cosmopolitan.com/it il 23 giugno 2020. Quando mesi fa mi hanno detto che il nudissimo dating show inglese Naked Attraction (tu dirai cos'è?) sarebbe arrivato anche in Italia senza censure (dal 16 giugno è su Dplay Plus), ho gioito. Te la faccio breve: tizio decide di uscire con caio scegliendo tra sei “full-frontal”, cioè sei corpi completamente nudi senza parti pixelate. Niente interazione, niente scene porno, niente sesso esplicito. Alcuni diranno, e hanno detto, che è una trasmissione superficiale, che è una scemenza, che è una roba da guardoni, il punto più alto della decadenza dei costumi, è il trionfo della pornografia. Invece, Naked Attraction (che in UK è alla sesta stagione sul canale pubblico Channel 4, sempre il più audace, e ha fatto il 10% di share) è la trasmissione che fa bene a tutti, e che tutti tutti dovremmo guardare. Dietro il cazzeggio e la semplicità del plot, e il fatto che ok magari è davvero una trasmissione da guardoni e che certamente segue la scia del porno amatoriale con persone vere, ecco dicevo dietro tutto questo è comunque uno show educativo e inclusivo. Magari guardalo da sola, con le amiche o con il moroso, ma non con mamma e papà perché potreste essere turbati, tu e loro, dallo scoprire le preferenze sessuali dell’altro.

Come funziona Naked Attraction. Si svolge più o meno così: il concorrente (femmina, maschio, transessuale, gender fluid, bisessuale, gay, etero, insomma la qualunque) sceglie con chi avere un appuntamento romantico tra 6 pretendenti (femmina, maschio, transessuale, gender fluid, bisessuale, gay, etero, insomma la qualunque, ma scelti tenendo conto delle indicazioni del concorrente). Questi 6 pretendenti sono muti, completamente nudi, inseriti in cubicoli colorati. Appena il gioco inizia, la tenda che copre i genitali si alza, petto e faccia rimangono coperti: “Ti sei mai trovata di fronte a sei peni?”, è la domanda tipica della conduttrice bisessuale Anna Richardson. Il concorrente si avvicina ai cubicoli per “vedere meglio” e commenta con la Richardson peni e vagine e fa la sua scelta eliminando gradualmente i concorrenti, che poi svelano l’intero corpo e il viso. Il tutto viene inframmezzato da grafiche educative su questo o quell’altro fatto sul sesso (i peli, gli ormoni, eccetera). Si arriva con i due ultimi pretendenti, nudi, ormai fuori dal cubicolo, di fronte al concorrente, questa volta anche lui nudo, che fa la scelta finale. Baci e abbracci, i due si vedranno vestiti a un primo appuntamento e dopo qualche settimana racconteranno com’è andata, se si sono trovati bene, se il corpo ha avuto ragione oppure no. Fine. Che Naked Attraction sia una trasmissione inclusiva lo si capisce subito: i concorrenti sono grassi, magri, bassi, alti, belli brutti, tatuati, vecchi, giovani, con arti artificiali, reduci da malattie. In più tra pretendenti e concorrenti, viene rappresentato qualunque tipo di orientamento e preferenza sessuale e qualunque identità di genere (o non genere). Per esempio, una concorrente transessuale ha voluto pretendenti trans ed etero, mentre una ragazza bisessuale ha scelto tra uomini e donne, un altro ancora si è dichiarato feticista dei piedi. Insomma, chiunque guardando dentro i cubicoli di Naked Attraction, può vedere se stesso, ed educare sé e gli altri all’accettazione. Ok, forse i pretendenti saranno esibizionisti (non ricevono compenso per apparire nudi), ma in fondo che male fanno? L’educazione più grande, però, è quella alla voce del corpo: se davvero potessimo scegliere il nostro partner come facevamo quando eravamo poco più che bonobi, osservando e annusandoci i genitali, forse davvero faremmo scelte migliori. E del resto anche il tantra ci insegna che esistono tre tipologie di peni e di vagine, e che solo gli incastri magici tra quel pene e quella vagina, producono il sesso migliore. Ora non dico di riempire tinder di foto di peni e vagine (come se non succedesse già!), ma una via di mezzo ci sarà, forse. In fondo, come dice una concorrente: “Siamo tutti nudi e nessuno è perfetto. Tanto vale accettare godersi la vita”.

Da "donnaglamour.it" il 10 agosto 2020. Madre Natura con il tuo lui si è data da fare: essendo superdotato, potrebbe essere ancora più eccitante fare l’amore con il tuo partner. Peccato, però, che potrebbe anche fare un po’ male...La vagina è sì elastica, ma ha anche una profondità che, ovviamente, prima o poi giunge al termine. Se lui ha il pene grande potrebbe provocare dolore il contatto con la cervice; senza nulla togliere al sesso orale, che potrebbe provocare anche dei disagi… Ecco come fare l’amore se lui ha il pene grande! Lui ha il pene grande, le posizioni per fare l’amore Innanzitutto, è importante sapere che in primis lui deve concentrarsi molto sui preliminari: in questo modo rende la vagina più lubrificata e… pronta a difendersi. Ovviamente, per avere maggiore sicurezza, tu e il tuo partner potete ricorrere al lubrificante. Non solo per te, ma anche il suo gioiello ha bisogno di diventare più pratico e il lubrificante potrebbe aiutare molto. Non sarà Rocco Siffredi (mai dire mai), ma per non trasformare il sesso in un film hot, potete ricorrere a delle posizioni ottime per sentire meno dolore e aumentare l’eccitazione! Quella più gettonata è che tu stia sopra e lui sotto: con questa posizione puoi gestire bene la penetrazione e tenere tutto sotto controllo. Un’altra posizione perfetta per fare l’amore è “il loto”: lui seduto sul letto e tu seduta sopra di lui con le gambe incrociate dietro la sua schiena. Una posizione non proprio romantica, ma molto passionale: in piedi, appoggiata su un muro, con una gamba alzata e lui che ti penetra con semplicità ma senza esagerare. Il dolore, così, viene percepito molto di meno e il piacere prende il sopravvento. Tre posizioni dove il romanticismo e la passione non mancano di certo; l’importante è non concentrarsi solo sul dolore, ma focalizzarsi sulla passione!

Tracy Clark-Flory per “Cosmopolitan” il 20 settembre 2020. A volte il sesso è noioso e ci sono ostacoli all’orgasmo che sembrano insuperabili. Emily, 35 anni, stava per avere un rapporto con un nuovo ragazzo che ha sfoggiato un preservativo Magnum. Lei ha riso per la spavalderia ma poi lui ha sciolto il drago ed effettivamente era il più grosso che avesse mai visto. Il rapporto è stato doloroso per lei, disagevole per lui.

Cosa fare in questi casi? Se il pene è troppo grosso, meglio che la donna stia sopra e che si usi lubrificante. Se è troppo lungo, fategli mettere la mano alla base prima di infilarlo, in modo che non entri tutto. Evitate la posizione a pecorina, che porta ad una penetrazione profonda. Esiste anche il caso contrario, cioè che l’uomo ha il pene troppo piccolo. Sara, 28 anni, si è trovata davanti il più piccolo che avesse mai visto, ma la misura conta poco se si sa come usare le risorse. Ad esempio può aiutare chiedergli di fare un moto circolare con i fianchi, così si sente di più che facendo dentro e fuori.

Il suo pene è un martello pneumatico? Karen, 23 anni, si è trovata in una simile condizione. Il suo partner spingeva troppo forte e troppo velocemente, trattava la sua vagina come se dovesse rompere il pavimento in un cantiere. La soluzione è rallentare, mettendo la donna sopra. Se lei fa lentamente un moto circolare con i fianchi, gli mostra come procedere. Se il martellamento inizia solo verso fine rapporto, significa che lui ha bisogno di stimolazione extra. A volte per raggiungere l’orgasmo, l’uomo ha bisogno di una combinazione di frizione e pressione sul pene, perciò provate a dare colpi veloci o a succhiare il Black and Decker per il suo gran finale.

Il problema di Kelsie, 28 anni, è che il suo partner eiacula troppo presto. Il consiglio è dedicarsi molto ai preliminari per allontanare qualsiasi pressione sulla prestazione di lui e per preparare meglio la strada all’orgasmo di lei. Ancora meglio sarebbe se lui praticasse prima il cunnilingus, lo calmerebbe sul resto.

Kylie, 27 anni, ritiene noioso il sesso con il fidanzato. La routine e la solita posizione del missionario possono spegnere la scintilla. Il consiglio è rompere gli schemi: se in genere fate sesso la sera, provate di giorno. Date al vostro partner appuntamento altrove, fuori casa, e godetevi una sveltina. Concedetevi un po’ di "dirty talk": far sapere al vostro uomo quanto siete eccitate, renderà le cose più eccitanti.

Infine, aldilà delle misure del partner, alcune donne soffrono durante il rapporto sessuale. Può dipendere da squilibri ormonali, ansia, infezioni, mancanza di lubrificazione, o dagli effetti collaterali di certi farmaci (tipo antidepressivi e pillole). Se sanguinate può dipendere da polipi o comunque altre infezioni, perciò è consigliabile andare da un ginecologo.

DAGONEWS il 23 aprile 2020. Le dimensioni contano? È la domanda che tiene svegli gli uomini convinti che la lunghezza del proprio arnesone sia l’elemento fondante della virilità. Ma se c'è qualcuno ancora convinto che avere un pene più lungo della media sia l’unico modo per dare piacere a una donna, leggete cosa dicono queste bombastiche star del porno sull’importanza delle dimensioni.

Lana Rhoades. L’esplosiva pornostar americana dice che la lunghezza del pene non è necessariamente importante. Quello che conta per lei è la chimica e l’intimità che ha con uomo: «Non credo che le dimensioni contino davvero. La maggior parte sono tutti ben piazzati, ma ci sono alcune forme che non mi piacciono.  Per me ciò che conta è l’intimità, il contatto visivo, la sensazione di voler stare con me. Questo è ciò che mi piace del sesso».

Riley Reid. Ripondendo a questa domanda su Reddit, Riley ha sottolineato che non è la dimensione l’elemento di cui preoccuparsi e che lunghezza e circonferenza preferita variano da donna a donna: «Dipende dalla ragazza e dalla sua vagina. A volte un pene è troppo grande, a volte è troppo piccolo. Bisogna pensare che c’è un pene adatto per ogni vagina».

Mia Khalifa. La bella libanese ha confessato di cercare altro in un partner: «Non credo che le dimensioni contino affatto. La migliore notte di sesso che abbia mai avuto non è stata sicuramente con l'uomo più dotato che abbia mai visto. Il piacere riguarda il modo in cui tratti una ragazza e il modo in cui lei si sente. Per me, il climax è qualcosa di mentale e riguarda ciò che quella persona sta facendo, non le dimensioni».

Asa Akira. Asa ha rivelato che nel porno sono preferibili peni più grandi, ma nella vita di tutti i giorni non va a caccia di uomini con arnesoni di grosse dimensioni: «Per me direi che molti ragazzi che lavorano nel porno hanno peni troppo grandi che sono solo divertenti per le scene sul set». Rassicurando gli uomini della sua vita ha aggiunto: «Devo ancora trovare un uomo che reputo con il pene piccolo».

Lena The Plug. La vlogger, che ha 1,58 milioni di follower, ha confessato di amare gli uomini con un arnesone di dimensioni medie o grandi, ma l’importante è “sapere cosa farne”: «Preferiscono uomini con un pene di almeno 15 centimetri, ma non sono una che fa storie sulle dimensioni. L’importante è che sai come usarlo».

Barbara Costa per Dagospia l'1 marzo 2020. "Come ce l’ho, ce l’ho giusto o no, andrà bene oppure no, ce l’ho piccolo, ce l’ho storto, me lo rifaccio, lo aiuto, lo pompo, lo trucco". Basta, non ne posso più, a tutti quelli che mi chiedono se il loro pisello può sfondare nel porno, se è bello, bravo, talentuoso, rispondo la verità: non lo so, perché una regola fissa non c’è. Non sono un agente, non faccio casting, e però ti dico che, in un provino porno, lo devi cacciar fuori, te lo guardano, e un boss del porno non amatorial tra i peni a disposizione sceglierà quasi sempre quelli più grossi. E tra questi non solo i più lunghi ma i più larghi. Nel porno professionale, dove girano i soldi, funziona così, serve così, e la "colpa" è la tua, la mia, di tutti noi spettatori porno: è chi guarda il porno che in fatto di gusti comanda, è chi guarda il porno che vuole membri enormi, è chi guarda il porno che compra i video e che, se li vede gratis, produce traffico quindi altrui profitto.

È indubbio: un pene grande attira più spettatori, ma un caz*o grosso nel porno serve per ragioni più concrete: in un anale, ma anche in un missionario, c’avrai fatto caso, il pene non entra subito tutto nella vagina, né nell’ano. Questo perché il pene deve essere visto, esibirsi, fare la sua parte in commedia e, calcolando che in buona parte dell’amplesso ne "entra" il 30%, un regista per ottenere un ottimo risultato visivo ha bisogno di un pene lungo mediamente 18 centimetri.

E infatti: gli attori porno più famosi non scendono sotto tali misure, molti sono sopra i 20, ma pure di circonferenza non scherzano. Guarda Siffredi: della sua "bestia", non sono solo i suoi 26 centimetri a impressionare, bensì la circonferenza di 16. Attori afroamericani come Dredd o l’epico Mandingo, hanno "bestie" maggiori (ci credi che arrivano ai 30?) simili a quelle che circolano nei porno gay. Un regista porno ha bisogno di peni capaci di fare il loro dovere in luoghi, temperature e posizioni scomode, qualora acrobatiche: gli attori, in qualsiasi scena, non sc*pano in modo normale, ma lo fanno "aperti", cioè i due (o più) corpi sono al contempo congiunti e separati, per consentire alle telecamere di inquadrare, anche in primo piano, ciò che il pene e la vagina/ano stanno combinando. È difficile, soprattutto per l’uomo, ed è per questo che i registi si affidano a peni collaudati, dando poche chance ai novellini. Se però tu non vuoi fare porno professionale, e un pisello lungo e largo come lì lo vogliono non ce l’hai, puoi buttarti sull’amatorial, dove non pagano una ceppa e però accettano e fanno divertire peni di ogni dimensione. Ma se hai qualità fetish, puoi bussare al settore del porno feticista, le cui infinite varianti ricercano anche peni non ingombranti. Che non ti venga in mente di ingrossare o allungare il tuo pene – perfetto com’è – per fregare quelli del porno, o per tua insicurezza personale: oli, massaggi, pasticche, pompe, erbe e medicine di ogni genere, compresi i prodotti che vendono usando il nome di un pornostar, dicendoti che sono gli stessi che usa lui: sono tutti flop, prese in giro, non ti migliorano un caz*o, credimi. Nessun pornoattore allunga il suo pene prima di entrare in scena con intrugli strani, o riti magici: un attore porno nasce superdotato, è grazie alla sua genetica che sta lì, ma più per la sua testa, lucida, intelligente a strafo*tere, e specie la sua resistenza, capacità erettiva, potenza, abilità di venire a comando, su un set, davanti a una troupe, con una o più partner sconosciute, o stronze, che lo attizzano zero. Mi dirai, gli attori si fanno di viagra e punturine ma, bello mio, ti stoppo subito e ti dico che se sui set americani e europei che contano sono vietati, ti dico pure che un attore porno, per quanto giovane e in salute, se ci tiene al suo pisello e alla sua carriera, è bene che si serva di tali prodotti con parsimonia e sotto controllo medico, altrimenti rischia di finire come Rico Strong, pornostar col pene operato, salvato in extremis, e di nuovo funzionante. Un pene siringato rischia il priapismo, uno shock, una paralisi erettiva che lo può rendere impotente: e addio sogni di gloria nel porno e di scopate memorabili in privato! Danny Wylde ha ammesso di essere stato dipendente dai farmaci contro la disfunzione erettile: è finito tre volte in ospedale per priapismo, gli hanno salvato il pene, ma si è ritirato dal porno perché non ce la faceva a pornare senza "aiuti". Ora, stammi a sentire: il porno ha i suoi trucchi per far apparire un pene già grosso ancora più grosso. Il più ovvio è la depilazione totale del pene, che già grosso sembra più grosso se deforestato: è dagli anni '90 che nel porno c’è questa tendenza, depilato ce l’hanno tutti, anche attori che non si radono il resto del corpo. Poi: un pene grosso apparirà ancora più grosso se afferrato da attrici con mani piccole, e che a fargli una fellatio adottano con la bocca posizioni innaturali; apparirà più grosso se impegnato in scene anali con attrici tiny, con c*li piccoli (prima di accettare tali calibri, le ragazze usano dilatatori anali speciali, inseriti ore prima di girare). Il pene di Danny D. misura 24 cm, e sembra più grosso data la magrezza di lui. E però, in video, un pene grosso è ancora più grosso grazie al regista, alle luci, alle angolazioni, prospettiva e profondità di campo, cioè ai trucchi cinematografici i più vari. Il porno è cinema, mio caro, pertanto anche finzione, e se qui non ci si accoppia per finta, si adultera dove possibile!

Melania Rizzoli per "Libero" il 9 giugno 2020. E niente. In molti casi non c'entrano età, obesità, diabete, iperplasia prostatica, disturbi delle vie urinarie, colesterolo, neuropatie o malattie cardiovascolari per favorire la comparsa della disfunzione erettile, perché per molti uomini l'impotenza è determinata dalla nascita, in quanto è scritta nei geni. In un'area genomica del cromosoma 6 é stata individuata una sequenza associata all'aumento del rischio di questa patologia maschile, ossia dell'incapacità di ottenere o mantenere un'erezione sufficiente per l'attività sessuale, un problema che affligge milioni di individui nel mondo. Una ricerca condotta dagli esperti del Kaiser Permanente, coadiuvati da diverse università americane, pubblicata sulla rivista "Proceeding of the National Academy of Science" ha identificato con precisione una variante genetica legata a questo tipo di disturbo, strettamente legata al gene Sim1, quello che interferisce con uno specifico circuito ormonale (leptina-melanocortina) deputato sia alla regolazione dell'indice di massa corporea, sia alla regolazione dell'attività sessuale. La ricerca, condotta su ben 36mila uomini affetti da disfunzione erettile assolutamente refrattaria ai comuni farmaci, aveva l'obiettivo di individuare la variante del genoma collegata con la presenza di tale disfunzione, ed ha anche appurato che il gene Sim1 non ha niente a che fare con la regolazione del peso, ma agisce con un meccanismo diverso, correlato ai neuroni del desiderio sessuale. In testa Benché parta tutto dalla mente, e da specifiche aree cerebrali, da diversi decenni sappiamo che questa patologia maschile è legata a molte cause, tra le principali delle quali, escludendo quelle di natura psicologica, imperano i fattori neurologici, ormonali e vascolari, i più frequenti, gli stessi sui quali si basano tutti i farmaci oggi esistenti per la disfunzione erettile che dimostrano grande efficacia terapeutica nella maggior parte degli uomini che ne fanno uso. Ma proprio dall'osservazione di quel terzo di pazienti disfunzionali che non traevano giovamenti da nessuno dei medicinali in uso è partito il sospetto che fosse proprio la genetica ad influire o a far fallire le cure, con l'individuazione di una associazione tra impotenza coeundi ed una specifica posizione genomica, chiamata "locus genetico", che è risultato significativamente associato all'alto rischio di disfunzione erettile, in quanto posizionato vicino al gene Sim1, quello responsabile del 26% del rischio di mancata erezione, che svolge un ruolo centrale nella regolazione del peso corporeo e della funzione sessuale. Terapie Al contrario di quanto si pensi, la prova che esiste una componente genetica della malattia non è affatto una cattiva notizia, perché tale scoperta apre la strada a indagini su nuove terapie che possano influire sul delicato assetto cromosomico, poiché una volta scoperto il difetto genetico, è trovata la via per indagare nuovi farmaci più mirati, che vadano ad interferire con il meccanismo leptina-melanocortina, quelli appunto che possono indurre erezione e che potrebbero mandare in soffitta il sidenafil, il tadalafil, e vardenafil (principi attivi che noi conosciamo col nome di Viagra, Cialis, Levitra) almeno in coloro che hanno nel Dna la componente geneticamente determinata accusata di produrre impotenza.  Questo lavoro, che è praticamente il primo che si attua in questo campo, indica quindi la strada verso nuove terapie per la disfunzionale erettile, le quali potrebbero essere utilizzate per trattare gran parte degli uomini che non rispondono ai trattamenti attualmente disponibili, dopo aver verificato, con un semplice esame del sangue, la base genetica, un nuovo elemento, molto utile, di ulteriore conoscenza della complicata, scientificamente parlando, sessualità umana maschile.

Dagospia il 15 febbraio 2020. L’andrologo e sessuologo fiorentino Nicola Mondaini a La Zanzara su Radio 24. “Esistono due possibilità. Esiste quello che si chiama il pene curvo congenito, cioè, che si ha dalla nascita. Lo ha 1 maschio su 100. Deve essere la mamma a rendersene conto quando fa il bagnetto al bambino. A quel punto la soluzione è una soluzione chirurgica quando uno è piccolo. La realtà è che molte volte non c’è diagnosi, i bambini non vengono più visti dalle mamme, quindi si arriva ai 18-20 anni, si evita la sessualità, si arriva ai 30 anni…”.

E perché uno evita la sessualità?: “Perché possono esserci delle curvature anche superiori ai 90 gradi. Il pene curvo congenito è caratterizzato da una curvatura verso il basso. In questo caso c’è una soluzione chirurgica. Noi ora ridiamo e stiamo allo scherzo, ma per chi ce l’ha potete immaginare…Il problema si può risolvere con un intervento della durata di trenta minuti in day hospital. La sera si va a casa ed il problema è risolto. Poi bisogna evitare rapporti sessuali per tre mesi”.

E se uno volesse trombare col pene curvo di 90 gradi, come fa?: “Non è impossibile, chiaramente ci possono essere determinate posizioni di traverso per entrare. Alcuni pazienti riferiscono che pur di non farsi operare prendono queste posizioni trasversali”. “Poi – dice ancora Mondaini – c’è il pene curvo acquisito, che è quello che capita all’improvviso nella vita ed è una tragedia, perché uno si sveglia la mattina e si ritrova il pene storto. Avviene all’improvviso. Questo avviene intorno ai cinquant’anni. Ti svegli la mattina e ti ritrovi questo pene storto, curvo. Ci possono essere dei sintomi, dei campanelli d’allarme. Ti viene all’improvviso un dolore sul pene che non ci si spiega, senti come una piccola pallina dentro il pene, un sassolino, perché la malattia è caratterizzata dalla comparsa di una piccola placca, di mezzo centimetro o un centimetro. Appare all’improvviso e determina che all’improvviso una mattina ti svegli col pene storto. L’altro dramma è che la malattia non finisce qui, perché comincia a determinare anche una retrazione. Quindi negli anni il pene si accorcia. In questo caso c’è sempre la soluzione chirurgica come nel caso del pene curvo congenito, poi esiste da tre anni finalmente un nuovo farmaco. Questo enzima si può inserire in questa placca, la scioglie. Per guarire ci vogliono due, tre mesi. Questo pene acquisito ha un nome che è Induratio penis plastica, o malattia di La Peyronie, dal medico che l’ha descritta. La malattia colpisce, incredibile, il 10% degli italiani. E nessuno ne parla”.

Quante persone in Italia hanno il micropene invece?: “Devi calcolare che la normalità del pene flaccido in Europa è 9 cm. Io vedo 5000 piselli all’anno. Per capirsi, le misure normali sono da flaccido 9 cm. Poi in erezione la media è 14 cm. Un micro pene da flaccido è circa 1 cm e mezzo ed in erezione arriva a 3 cm. Onestamente sono delle tragedie. Come si calcolano questi tre cm? Si calcolano dal pube fino al meato esterno”.

Quante persone hanno il micro pene?: “Su 5000 persone che vedo all’anno due o tre. In Italia qual è la percentuale? Bassissima, qui siamo a 1 su 10.000, una cosa molto rara. E chiaramente richiede una soluzione chirurgica ,si può fare una ricostruzione del pene. Poi invece esiste il pene nascosto che è un pene normale, che all’apparenza sembra un micro pene, in realtà spesso si tratta di pazienti che chiaramente hanno un sovrappeso importante, un uomo può pesare 150 kg, per cui il pene tende a nascondersi nell’adipe. In realtà basta spingere sull’addome, il pene viene fuori. In quel caso bisogna invitare il paziente a dimagrire”.

Scusi, ma è vero che i cinesi hanno il cazzo piccolo?: “Da un punto di vista scientifico il pene dei cinesi è più piccolo rispetto al pene degli europei. Ma è un dato morfologico, come l’altezza è in media più bassa. Non è un luogo comune, è un dato scientifico. Siccome il pene entra nella morfologia, si adegua alla morfologia dei cinesi”

Valeria Pagnonico per donna.fanpage.it il 17 febbraio 2020. Credevate che le vagine fossero tutte uguali? Probabilmente vi siete sempre sbagliati. Anche se, secondo la credenza popolare, le parti intime femminili presentano tutte precise caratteristiche, la verità è che ognuna di loro a una forma unica che rivela l'identità di una persona. Certo, è impossibile creare una lista con le diverse tipologie di genitali femminili ma si può creare una lista di 5 differenti vagine: scopriamo quali sono.

Le diverse forme della vagina. Barbie – La vagina dalla forma Barbie è quella più rara, anche se secondo il luogo comune è così che dovrebbero essere i genitali femminili perfetti. Ha le piccole labbra completamente contenute nelle grandi labbra, garantendo così una totale "piattezza" alle parti intime, proprio come succede nella nota bambola, che sembra non avere affatto una vagina. Questa conformazione anatomica, però, è la meno frequente perché difficilmente le labbra "riposano" contro l'osso pelvico, il più delle volte sono sporgenti.

Sbuffo – La vagina a sbuffo è quella in cui le piccole labbra sono contenute nelle grandi labbra ma queste ultime sono piene e gonfie, soprattutto sulla parte inferiore. Anche se si pensa che una forma simile è praticamente la norma nelle donne di età avanza, in realtà si tratta solo di una credenza popolare: ogni donna ha una precisa conformazione anatomica a prescindere dal tempo che passa.

Tenda – La vagina a tenda è quella in cui le piccole labbra si estendono al di fuori delle grandi labbra, dando l'idea di "penzolare" proprio come succede con le tende di casa. Possono sporgere in maniera evidente oppure appena accennata, l'unica cosa certa è che questa è la tipologia di genitali femminili più diffusa.

Ferro di cavallo – Anche la vagina a forma di ferro di cavallo è molto diffusa, è quella in cui la parte superiore risulta essere più aperta, esponendo alla vista le piccole labbra, mentre in basso appare chiusa. Il riferimento al ferro di cavallo, dunque, non è casuale e, anche se sembra una cosa rara, non è insolito trovare degli organi genitali femminili fatti proprio in questo modo.

Tulipano – Una vagina a forma di tulipano si presenta come un fiore sul punto di fioritura, il nome dunque non è stato scelto a caso. Questo significa che le piccole labbra sporgono leggermente attraverso tutta la lunghezza delle grandi labbra, apparendo leggermente esposte. Le grandi le coprono solo in parte ma allo stesso tempo le lasciano "contenute" al  loro interno.

La forma della vagina influenza il piacere sessuale. Secondo uno studio condotto presso l'Indiana University e pubblicato sulla rivista Clinical Anatomy, la forma della vagina riuscirebbe a influenzare il piacere sessuale. Così come succede agli uomini, la cui anatomia avrebbe un ruolo fondamentale sulla possibilità di raggiungere un orgasmo più o meno soddisfacente, anche per le donne varrebbe la stessa regola. Il motivo per cui avviene una cosa simile sarebbe molto semplice: quando la distanza tra clitoride e apertura vaginale non è superiore ai 2 centimetri e mezzo, si creerebbe un attrito eccitante che favorisce l'arrivo al culmine del piacere in poco tempo durante il rapporto intimo. Se, al contrario, questa distanza supera i 3 centimetri sarebbe difficile godere con la sola penetrazione. Al di là delle possibile ricerche scientifiche sulle diverse forme della vagina, per provare piacere durante il sesso è fondamentale per una donna conoscere a fondo il proprio corpo. Ognuna ha infatti le sue preferenze tra le lenzuola, c'è chi raggiunge l'orgasmo durante il sesso, chi preferisce il rapporto orale, chi i preliminari, l'importante è capire il proprio "punto debole": solo in questo modo si potrà rendere migliore la propria esperienza intima.

Vulvodinia: "Ti toglie sessualità e femminilità". le Iene News il 3 marzo 2020.  Nina Palmieri, nel servizio in onda stasera a Le Iene su Italia 1 dalle 21.20, ci porta alla scoperta della vulvodinia, una patologia che colpisce l’organo genitale femminile, e che comporta, oltre ad atroci dolori, privazioni quotidiane inimmaginabili. Come ci raccontano le giovani vittime. “Ti toglie la tua femminilità, ti toglie la tua libertà, perdi la tua sessualità, il tuo sentirti donna, ti toglie tutto e nessuno lo capisce e nessuno lo conosce. E nei casi peggiori ti dicono che tu stai bene, che sei tu che sei pazza!”. Valentina, Sara, Valeria e Rossella, sono ragazze giovani con una vita apparentemente normale. Ma la loro esistenza invece è stata stravolta dalla vulvodinia, una malattia neuropatica dovuta alla crescita di piccole terminazioni nervose, in maniera del tutto disordinata, a livello dell’organo genitale femminile. E, come ci raccontano, “è un problema anche solo fare la doccia o la pipì” . Un dramma di cui Nina Palmieri, attraverso le testimonianze delle ragazze affette da questa patologia, ci racconta nel servizio in onda stasera a Le Iene sui Italia 1, dalle 21.20. Un disturbo molto diffuso, ma di cui si sa pochissimo e che pochi specialisti sono in grado di diagnosticare e di affrontare. Un disturbo che porta con sé tantissime privazioni quotidiane, dal cibo al farsi una doccia, dal sesso al semplice dormire. 

DAGONEWS il 19 giugno 2020. Quali sono le dieci domande più frequenti a un ginecologo? Lo dice al Daily Mail la dottoressa Shree Datta che ha svelato dubbi e incertezze del mondo femminile.

Come faccio a sapere se le mie perdite vaginali sono normali? «Le perdite sono in realtà un ottimo segno della salute vaginale. Una perdita chiara o lattiginosa è del tutto normale. È necessario assicurarsi che la vagina sia sana, pulita e mantenga sotto controllo l'equilibrio batterico. Per questo motivo non è raccomandato il lavaggio interno della vagina che potrebbe alterare l'equilibrio batterico naturale. L'uso di sapone e acqua per la pulizia esterna va bene. Le secrezioni possono dipendere dal periodo di ovulazione. Tuttavia, se si verifica un cambiamento persistente di colore, consistenza o odore, vale la pena farsi controllare dal proprio ginecologo».

Le mie mestruazioni sono super abbondanti: quali sono le cause e come posso risolverlo? «La frequenza e l’abbondanza del ciclo variano da persona a persona, quindi vale la pena monitorare ciò che è "normale". Se si hanno lunghi periodi abbondanti con coaguli o forti emorragie è una buona idea farsi controllare dal proprio ginecologo. Tra le cause ci possono essere la presenza di fibromi e polipi o l’assunzione di farmaci che possono alterare il flusso delle mestruazioni o uno squilibrio ormonale della tiroide».

Perché provo dolore quando faccio sesso? «Non è raro che possa accadere. È normale se si tratta della prima volta o se ci sente stressati o se si prova una nuova posizione. Oppure in determinati periodi del ciclo. Problemi come infezioni, fibromi o endometriosi possono causare dolori, quindi è importante consultare il medico i dolori continuano».

Perché devo fare pipì così spesso? «In primo luogo darei un'occhiata a quanto alcool e caffeina stai assumendo, nonché a quanta acqua stai bevendo. Ricorda, se non bevi abbastanza acqua, l'urina è più concentrata e questo può irritare la vescica, portandoti ad andare in bagno più spesso. Si potrebbe trattare, invece, di un'infezione del tratto urinario o di una vescica iperattiva, ma può essere influenzata da alcuni medicinali o problemi come la costipazione. Tutto ciò che mette sotto pressione la vescica, ad esempio un fibroma nell'utero o in gravidanza, può portare a minzione frequente».

Continuo a sanguinare tra il periodo mestruale e l'altro e dopo il sesso. Cosa sta succedendo? «Tenete traccia dell'emorragia, di quanto è abbondante e di quanto dura in relazione alle mestruazioni. Ricorda, non è insolito sanguinare se hai cambiato il tuo metodo contraccettivo e un leggero sanguinamento tra un ciclo e l’altro può essere normale. Ma alcune infezioni a trasmissione sessuale, stress o gravidanza possono causare sanguinamenti non correlati al ciclo. È necessario vedere un ginecologo se il problema periste per scongiurare la presenza di fibromi o polipi nell'utero.

Perché devo fare il pap-test se ho fatto il vaccino contro il papilloma virus? «Il papilloma virus è un'infezione a trasmissione sessuale, con 100 tipi differenti, che può provocare il cancro alla cervice. La vaccinazione non protegge da tutti i tipi ed è necessario fare il test dai 25 anni in poi almeno una volta ogni tre anni fino ai 50 anni. Dopodiché ogni cinque anni».

Non ho un ciclo da tre mesi, ma il mio test di gravidanza è negativo. E adesso? «Ci sono molte ragioni per cui il ciclo può bloccarsi tra cui un cambiamento nel metodo contraccettivo, un periodo di forte stress. Anche la perdita di peso può influire come il troppo esercizio fisico o il sovrappeso. Poi ci sono problemi legati al diabete o alla tiroide. Entrare in menopausa precoce è raro: solo l'uno per cento delle donne va in menopausa prima dei 40 anni».

Continuo ad avere dolori nella parte inferiore della pancia che peggiorano prima delle mestruazioni. Che cosa sta succedendo? «Mentre il dolore mestruale non è raro, il dolore pelvico nella seconda metà del ciclo mestruale e un ciclo doloroso può essere sintomo dell’endometriosi. È sempre meglio consultare un ginecologo».

Ho le ovaie policistiche. Questo significa che non sarò in grado di avere figli? «Può influire sulla fertilità, ma non è sempre così. Visto che in molti casi potresti non avere sintomi è bene tenere d'occhio il ciclo irregolare, la comparsa di acne o aumento dei peli del viso o sul corpo».

Devo radermi se vedo un ginecologo? «Non è necessario radersi se vai da un ginecologo perché i peli non sono di alcun ostacolo. L'unica volta in cui potremmo prendere in considerazione la rimozione dei peli è se stiamo eseguendo un'operazione intorno alla vagina. E anche in questo caso, rimuoveremo i peli solo nella zona in cui si opera».

·        Infibulazione e circoncisione. Le mutilazioni dei genitali.

Gli stranieri giustificano l'orrore: "Mutilate così non fanno sesso". Nonostante il nostro ordinamento vieti l’infibulazione con pene severe, alcuni migranti continuano a considerarla come necessaria: "È giusto, sennò iniziano con il sesso già a dieci anni". Elena Barlozzari ed Alessandra Benignetti, Lunedì 05/10/2020 su Il Giornale. "Non è che se vieni in Italia la cultura cambia, la cultura è cultura". Sono emblematiche e preoccupanti le parole che ci affida una migrante camerunense sulla cinquantina. Lavora in un salone di bellezza a due passi dalla stazione Termini, in una di quelle strade dove ormai si vedono solo insegne straniere. Sta armeggiando con la capigliatura di una cliente quando ci racconta con estrema naturalezza che quella dell’infibulazione è una pratica tutt’altro che scomparsa nelle comunità di stranieri trapiantate nelle nostre città. "Ma per farlo ritornano nel loro Paese d’origine perché qui è vietato", ci tiene a specificare. Secondo un’indagine condotta dall’università Milano Bicocca, in Italia sarebbero più di 85mila le straniere portartici di mutilazioni genitali femminili (Mgf). Di queste, da 5 a 7mila sono minori. È una pratica diffusa in Africa, nel sud della penisola araba e sud est asiatico che è arrivata anche in Occidente attraverso i flussi migratori. Nel nostro ordinamento "la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche" sono espressamente vietate e vengono punite con la reclusione fino a dodici anni. Non sono abbastanza per scoraggiare alcuni migranti che ancora le considerano come un irrinunciabile rito di passaggio. Una mentalità tipica delle società a stampo patriarcale dei Paesi a prevalenza islamica ma anche di alcune popolazioni africane cristiane e animiste. Dietro a questa pratica c’è il convincimento che l’annientamento del piacere sessuale femminile serva ad assicurare la fedeltà coniugale. E non solo. In molti casi mutilazioni e lesioni dei genitali sono necessarie per contrarre il matrimonio. In Somalia, dove il 98 per cento della popolazione femminile è stato sottoposto a questa barbara usanza, ad esempio, il matrimonio tradizionale è una vera e propria transazione. L’affare si conclude dopo che la madre o la sorella del pretendente hanno ispezionato la futura sposa verificando proprio che l’infibulazione sia intatta. È il prezzo che devono pagare le donne per ottenere un posto nella società. Un prezzo troppo alto per Fatima, nome di fantasia di una donna somala di nascita e pescarese di adozione. È una sopravvissuta: "Mi tenevano braccia e gambe, non ricordo in quante fossero, mi hanno tagliata contro la mia volontà, dicevano che era per il mio bene". Oggi giura e spergiura che una cosa del genere sulle sue figlie non la farebbe mai. "Le mutilazioni dei genitali sono una pratica orrenda che lascia cicatrici non solo sulla pelle ma anche nell’anima", ci racconta. Da quasi cinquant’anni tutto quello che ha a che fare con la sua sessualità è diventato una pena insostenibile. Come insostenibile è stato il dolore provato per mettere al mondo le sue due figlie, un dolore che le ha tanto ricordato quello provato quando ad appena otto anni le hanno asportato il clitoride, le piccole labbra e parte delle grandi per poi ricucirla in maniera rudimentale. Non tutti però la pensano come lei. C’è chi rimane attaccato alla propria cultura di appartenenza nonostante viva qui da ormai diversi lustri. "Personalmente sono contrario, ma in molti pensano che sia una cosa necessaria – sentenzia un vecchio somalo che incrociamo all’Esquilino – per evitare che le donne se ne vadano in giro in cerca di sesso appena iniziano ad avere gli ormoni e diventare signorine". Parole inconcepibili, che il nostro interlocutore pronuncia quasi divertito. "Quante ragazze già a quindici anni rimangono incinte qui in Italia? Queste cose – prosegue – in Somalia non le accettano". Si dichiara favorevole senza dubbi un ventenne della Nigeria. "Per me è giusto fare questo alle ragazze, ne conosco tante – ci spiega – che non l’hanno fatto e che iniziano con il sesso già a dieci, undici e dodici anni, anche qui in Italia". Dell’equivalente maschile però non vuol sentir parlare: "Non sono d’accordo, penso che Allah abbia creato noi uomini perfetti, non serve essere circoncisi".

·        Lo Sbiancamento.

Da velvetgossip.it il 12 febbraio 2020. Un cliente di una clinica di Bangkok, in Thailandia, si è lamentato di alcune parti scure presenti sulla sua zona inguinale. La “leggenda” narra che è proprio così che è cominciata l’avventura e il business del Lelux Hospital, una clinica diventata famosa proprio per lo sbiancamento del pene. La tecnica è piuttosto recente visto che l’aneddoto risale alla metà del 2017. La padronanza delle tecniche e la consapevolezza in ciò che si fa ha permesso alla clinica di diventare un vero punto di riferimento: in un solo mese arrivano 100 uomini che vogliono sbiancare il proprio organo genitale. Bunthita Wattanasiri, responsabile del reparto di dermatologia proprio al Lelux Hospital, ha spiegato che il trattamento ricorre al laser per ottenere il risultato sperato dai pazienti. “In questi giorni c’è un sacco di gente che ce lo chiede. Abbiamo avuto 100 clienti circa in un mese, 3 o 4 al giorno”, ha dichiarato soddisfatto. Oltre alla buona riuscita dello sbiancamento, i riflettori si sono accesi su di loro in seguito alla diffusione della foto di un uomo che si sottopone al trattamento: televisioni e social media sono letteralmente impazziti e hanno fatto rimbalzare la notizia da una parte all’altra del globo.

Una clinica che fa cose strane. La clinica non è nuova a queste stranezze visto che aveva già lanciato la cosiddetta Vagina 3D, ovvero un intervento nel quale si utilizza il grasso corporeo della cliente per rimpolpare i genitali. In quel caso le polemiche erano piovute copiose e lo stesso è accaduto allo sbiancamento del pene: non sono mancate infatti accuse di razzismo e manifestazioni cariche di sdegno. La maggior parte dei clienti – che non si lasciano scoraggiare così facilmente – ha un’età compresa tra i 22 e i 55 anni e spesso appartengono alla comunità LGBTQ. Il costo del trattamento si aggira intorno ai 650 dollari per un totale di 5 sessioni.

·        Viva il Pelo.

Dagospia l'8 maggio 2020. “La depilazione è diventata un aspetto fondamentale per le donne del 21esimo secolo”. Tra queste, però, vi sono però differenze demografiche sorprendenti. Le donne che si depilano di più hanno meno di 50 anni, sono per lo più bianche e hanno frequentato l’università”, spiega il dottor Tami Rowen di San Francisco...

Da dailymail.co.uk l'8 maggio 2020. Ragazze, basta con quest’ossessione del pelo pubico. Passate più tempo a farvi toccare dall’estetista che dal vostro ragazzo. E non è vero che la vagina liscia liscia, come quella di una bambina, sia più igienica. D’altronde se i peli là sotto esistono ci sarà un motivo? Primo tra tutti, quello di proteggere la fessura più esposta e delicata del corpo di una donna. Sempre più ragazze optano per rasarsi in parte o del tutto i peli pubici, riportando la vagina al suo aspetto più infantile. Lo fanno prima del sesso, prima di una festa, dell’estate o di una visita dal medico, per sentirsi più fresche e pulite. Ma gli esperti mettono in guardia: la depilazione intima elimina lo strato protettivo della peluria e aumenta il rischio di contrarre infezioni e malattie sessualmente trasmissibili. A capo dello studio il dottor Benjamin Breyer, professore associato presso il dipartimento di urologia di San Francisco: “Crediamo che la ceretta all’inguine sia associata alla trasmissione di malattie e virus”. Più di 3.316 donne tra i 18 e i 65 anni hanno partecipato allo studio e l’84 per cento di queste era rasata. “La cosa più evidente dai risultati è che le donne si fanno la ceretta intima sulla base di numerose pressioni esterne che sono probabilmente aumentate negli ultimi dieci anni.” Il dottor Tami Rowen, dal reparto di ostetricia, ginecologia e scienze della riproduzione di San Francisco, commenta: “La depilazione è diventata un aspetto fondamentale per le donne del 21esimo secolo”. Tra queste, però vi sono però differenze demografiche sorprendenti. Le donne che si depilano di più hanno meno di 50 anni sono per lo più bianche e hanno frequentato l’università”.

Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 20 febbraio 2020. Altolà alla ceretta. Le millennial lanciano una fatwa contro la depilazione obbligatoria, che considerano uno degli ultimi segni della sottomissione femminile a un' ideale di bellezza anacronistico oltre che irraggiungibile. Lo scopo è di liberarsi da quell' ansia da perfezione che è tipica delle giovani donne di oggi. Condizionate dalle convenzioni sociali e istigate dalla moda che plasma i loro corpi a sua immagine e somiglianza, costringendo un po' tutte a una lotta senza fine contro sopracciglia indisciplinate, ascelle rinfoltite, inguini arruffati, gambe villose. La prima è stata Julia Roberts, che nel 1999 si è presentata alla prima di Notting Hill a Londra con un vestito di paillettes rosse a manichette corte e le ascelle nature, lasciando di stucco jet-set e paparazzi. La sua freschezza disarmante da eterna fanciulla, ha spinto molte filles en fleur a fare lo stesso. E oggi Miley Cyrus, Amandla Stenberg, Lola Kirke, hanno adottato il suo stile zero depil. Passando volentieri il rasoio all' altra metà del cielo, che invece ha una voglia matta di toraci e avambracci glabri. Alcuni brand globali stanno orientandosi appositamente su modelle pilifere per le loro campagne pubblicitarie. Ma a sostenere la causa è soprattutto il movimento che fa capo al profilo Instagram Januhairy, fondato da Ruby Jones e Laura Jackson, dove ragazze di ogni parte del mondo mostrano fiere la loro peluria. Il messaggio è chiaro: se insegnassimo alle donne a non aver paura del loro corpo così com' è e a non competere ossessivamente con le altre, la vita sarebbe decisamente più bella. È la solidarietà femminile nell' era della società liquida. Dove non serve incontrarsi di persona per dare una spallata collettiva agli stereotipi di genere. Oggi basta la rete per vincere una battaglia. Anche per un pelo.

·        Le Malattie Sessuali.

Fausto Carioti per "Libero Quotidiano" il 5 agosto 2020. Si può dire che i maschi omosessuali hanno un comportamento sessuale più irresponsabile del resto della popolazione italiana o è già reato di «omotransfobia»? Perché proprio questo si apprende leggendo l'ultimo numero del molto autorevole "Notiziario dell'Istituto superiore di sanità", dedicato a Sifilide, Gonorrea e simili e scovato dai benemeriti della testata online Bussola quotidiana. I numeri, come spesso capita, se ne fregano delle ipocrisie e raccontano verità tutte loro. E il succo delle quaranta pagine scritte dai ricercatori dell'Iss è che le infezioni sessualmente trasmesse avanzano in generale, ma galoppano tra gli omosessuali, i quali sono così le prime vittime della loro stessa condotta. Inutile, ovviamente, cercare le parole «omosessuali» o «gay» all'interno di quel documento: non appaiono. In compenso - non è la prima volta, nelle pubblicazioni dell'istituto vigilato dal ministero della Salute - abbonda la sigla «Msm», che grazie alla noticina in fondo alla pagina apprendiamo significare «Maschi che fanno sesso con maschi». Eppure gli «Uomini eterosessuali» sono etichettati proprio così, non come «Maschi che fanno sesso con femmine» o «Msf». Il motivo della circonlocuzione riservata agli omosessuali si può intuire: girare intorno ai nomi aiuta a evitare ogni sospetto di voler di stigmatizzare la comunità gay, e quindi l'accusa di «omofobia», oggi più che mai facile da sparare. Va da sé che la ciccia del discorso non cambia, perché i fatti sono quelli. Ben documentati, peraltro. In Italia esistono due sistemi di sorveglianza, uno che dal 1991 segnala le persone con diagnosi di infezione sessualmente trasmessa (Ist) e l'altro che dal 2009 segue le persone che si sottopongono a test per Clamidia, Tricomoniasi vaginale e Gonorrea. Ambedue fanno capo al Centro operativo Aids dell'Istituto superiore di sanità. Una macchina ben rodata, insomma, che da tempo sforna dati attendibili. Sappiamo così che tra il 2000 e il 2018 i casi di infezione da Clamidia «negli uomini eterosessuali sono raddoppiati» e «nelle donne hanno mostrato un aumento di circa cinque volte», ma «negli Msm sono aumentati di circa 17 volte». E che dei quasi novemila nuovi casi di Gonorrea rilevati tra il 1991 e il 2018, «il 51,0% è stato segnalato in uomini eterosessuali, il 43,2% in Msm e il 4,8% in donne» (la quota di omosessuali sulla popolazione maschile, a seconda di chi la stima, varia tra l'1 e il 10%). Il 26% dei colpiti da quest' infezione, peraltro, è risultato essere «di nazionalità straniera, la maggior parte proveniente da altri Paesi europei e dall'Africa». Numeri ancora più impressionanti quelli della Sifilide primaria e secondaria. Tra il 2000 e il 2018 i contagi sono raddoppiati negli uomini eterosessuali e nelle donne, ma «negli Msm si è assistito a un incremento di circa dieci volte dei casi segnalati», tanto che nel 2018 costoro «costituivano il 70% delle segnalazioni». Non fa più notizia, purtroppo, il fatto che nello stesso periodo «la prevalenza di Hiv negli Msm è stata sempre più alta rispetto agli altri gruppi». Scarsa educazione A conti fatti, nei primi diciotto anni di questo millennio l'aumento di casi di malattie trasmesse per via sessuale «in Msm è triplicato». La strategia suggerita dall'Istituto superiore di sanità è tanto ovvia quanto sinora inascoltata: «Educare alla salute sessuale (ad esempio attraverso le regole del sesso sicuro, quali l'uso corretto e costante del condom, la riduzione del numero dei partner, il consumo consapevole dell'alcool evitando l'uso di sostanze stupefacenti)» sia la popolazione generale sia le «popolazioni target», ovvero «giovani, donne, stranieri, Msm».

*** Post scriptum. Se l'acronimo «Msm» vi fa sorridere o vi inorridisce (ambedue le reazioni sono comprensibili), sappiate che la Società americana per la lotta al Cancro ha appena aggiornato le proprie «guidelines for people with a cervix», ovvero le «linee guida per le persone con cervice uterina». Subito ripresa dalla Cnn, che parla di «individui con cervice». Potevano scrivere, semplicemente, «donne», ma si sarebbe scatenato il putiferio degli indignati: come noto, nel fantamondo dei nuovi diritti civili essere femmina o maschio non è questione di cromosomi o di apparato genitale, ma di come uno si sente. E allora non restano che le perifrasi. Sarà così anche da noi, molto presto, grazie all'onorevole Zan e ai suoi illuminati colleghi uomini e donne, sebbene non necessariamente provvisti di testicoli e cervice uterina. riproduzione riservata.

Da "105.net" il 19 febbraio 2020. Con la stagione fredda arrivano anche i malanni. Tosse, raffreddore, febbre: sono moltissimi gli italiani che cadono nella morsa dell'influenza. Prima di ricorrere alla chimica per alleviare i sintomi, ci sono tanti rimedi naturali che possono aiutarci a superare questi momenti di malattia. Una bella spremuta di arance può essere utile per avere un maggiore apporto di vitamina C e guarire più in fretta. Ma non solo, la scienza ci indica un altro rimedio molto piacevole... ma molto, molto piacevole. Secondo uno studio di Manfred Schedlowski, condotto in Svizzera, fare l'amore sarebbe il metodo naturale perfetto per superare l'influenza. Esatto: una bella giornata passata sotto le lenzuola con il proprio partner e addio raffreddore.  Il ricercatore ha eseguito dei test su alcune coppie malate e ha visto che il sesso li aiuterebbe a guarire in una percentuale pari al 60%. Fare se facciamo l'amore durante gli stati febbrili, aumenta la produzione di linfociti T, utili per "aggredire e curare" le cellule affette dai virus.  Insomma, l'amore è la risposta a tutto... anche all'influenza!

Irma D'Aria per "repubblica.it" il 17 febbraio 2020. Proprio a San Valentino arriva una ricerca che sembra fatta apposta per invitare ad essere fedeli. Lo studio, pubblicato online sulla rivista BMJ Sexual & Reproductive Health, ci dice che avere tanti partner non fa bene alla salute e anzi potrebbe addirittura far aumentare il rischio di cancro. Pochi studi fino ad ora avevano esaminato il potenziale impatto del numero di partner sessuali sulle condizioni di salute. Per cercare di colmare questa lacuna, i ricercatori hanno attinto alle informazioni raccolte per il Longitudinal Study of Aging (ELSA), uno studio di monitoraggio rappresentativo a livello nazionale degli over 50 che vivono in Inghilterra. In tutto sono state coinvolte 5722 persone (2537 uomini e 3185 donne) a cui - tra il 2012 e il 2013 - è stato chiesto quanti partner sessuali avessero avuto potendo scegliere da nessuno a dieci o anche più. Inoltre, gli è stato chiesto di valutare anche la propria salute e di segnalare qualsiasi condizione o malessere anche di vecchia data che incidesse in qualche modo sulle loro attività di routine. Naturalmente sono state prese in considerazione anche altre informazioni come l’età, l’etnia, lo stato civile, il reddito familiare, lo stile di vita (fumo, consumo di alcol, attività fisica) e l’eventuale presenza di sintomi depressivi. L'età media dei partecipanti era di 64 anni e quasi tre su quattro erano sposati.

Uomini più libertini. Cosa ne emerso? Circa il 28,5% degli uomini e il 40% delle donne ha dichiarato di aver avuto nessuno o solo un partner sessuale fino ad oggi; il 29% degli uomini e il 35,5% delle donne afferma di averne avuto tra i 2 e i 4. Man mano che aumenta il numero dei partner diminuisce la percentuale di risposte positive: solo un uomo su cinque (20%) e il 16% delle donne ha riportato di essere stato con 5-9 persone mentre rispettivamente il 22% degli uomini e poco meno dell’8% delle donne ha risposto di aver avuto 10 o più storie.

Cattive abitudini e attività fisica intensa. Per entrambi i sessi, ad avere un numero più elevato di partner sessuali erano soprattutto i più giovani, i single e chi era economicamente più agiato o al contrario in difficoltà.  Non solo: tra le abitudini dei più "farfalloni" c’è anche il fumo e il consumo di alcol con maggior frequenza e lo svolgimento di attività fisica intensa su base settimanale.

Più partner hai, più aumenta il rischio di cancro. Quando tutti i dati sono stati analizzati, è emersa un'associazione statisticamente significativa tra il numero di partner sessuali avuti nel corso della vita e il rischio di una diagnosi di cancro. Rispetto alle donne che non avevano avuto nessuna storia o soltanto una, quelle con 10 o più partner, avevano il 91% in più di probabilità di avere una diagnosi di cancro. Negli uomini, chi aveva avuto dai 2 ai 4 partner sessuali aveva una probabilità più alta del 57% mentre tra quelli con 10 o più fidanzate la percentuale saliva al 69%. Non solo: le donne con una vita sessuale più attiva avevano anche il 64% in più di probabilità di soffrire di una condizione cronica limitante rispetto a quelle che affermavano di avere avuto una sola storia.

Il rischio legato alle malattie sessualmente trasmesse. In questo tipo di ricerche, che si limitano a osservare i dati, non è possibile stabilire con certezza un nesso di causa-effetto. Ma questi risultati confermano quelli di studi precedenti che hanno dimostrato come le infezioni a trasmissione sessuale siano strettamente implicate nello sviluppo di diversi tipi di cancro ed epatite. “Anche se non sappiamo con precisione quali tipi di tumore sono stati diagnosticati - spiegano gli autori dello studio – possiamo ipotizzare che il rischio elevato di cancro è dovuto alla maggiore probabilità di contrarre infezioni a trasmissione sessuale". Un altro studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, pubblicato su Annals of Oncology, aveva indagato sul rischio degli uomini di contrarre il virus nel cavo orale, scoprendo che dipende dal numero di partner con cui si hanno rapporti orali e dall'essere o meno fumatori. Se nelle donne la probabilità varia tra 0,7 e 1,5% (a seconda del numero di partner), se si è maschi fumatori e si hanno rapporti orali con più di 5 persone si arriva quasi al 15%. I numeri della ricerca sono americani, certo, ma il trend è lo stesso anche in Italia.

Spunti per campagne di prevenzione. Se altre ricerche confermeranno l’esistenza di un nesso causale tra il numero di partner sessuali e le condizioni di salute, si potrebbero realizzare delle campagne di prevenzione e programmi di screening che prendano in considerazione anche la vita di coppia. Resta da capire meglio anche le differenze legate al genere e soprattutto che solo nelle donne una vita sessuale più ‘dinamica’ si associa a malattie croniche: “Ci sfugge la ragione – dichiarano i ricercatori – visto che gli uomini tendono ad avere più partner sessuali e che d’altro canto le donne hanno maggiori probabilità di vedere un medico quando si sentono male, cosa che dovrebbe potenzialmente limitare le conseguenze negative per la salute”.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2020. Ogni anno, durante la settimana di San Valentino, si assiste al picco di contagi di una patologia virale molto diffusa, la Mononucleosi, causata dal virus di Epstein-Barr (EBV), conosciuta come la "malattia del bacio", poiché viene trasmessa direttamente tramite lo scambio di saliva durante l' atto del baciare. La sindrome colpisce prevalentemente l' età adolescenziale e giovanile, quella compresa tra i 15 e i 25 anni, ed in questa settimana oltre il 75% dei ragazzi che approfittano della festa degli innamorati per eccedere in effusioni affettive, vengono contagiati dai vari partner infetti o da inconsapevoli portatori sani dell' agente patogeno. Ad oggi il 90% della popolazione adulta risulta essere sieropositivo per questo virus, avendo sviluppato tale malattia in epoca puberale senza esserne a conoscenza, periodo nel quale il decorso è in genere clinicamente indistinguibile da quello di una faringite acuta o di una tonsillite dolorosa, con febbre, linfonodi del collo ingrossati, malessere generale e debolezza, con sintomi simili a quelli di una comune influenza ma con un decorso lungo almeno tre settimane, mentre, quando contratta in età più avanzata, esso può perdurare per oltre un mese e tende sovente a complicarsi, coinvolgendo l' intero sistema linfatico e il suo organo principale, la milza, che appare aumentata di volume, fragile e dolente. È importante sapere che tale virus rimane nell' ospite anche dopo la guarigione, e la sua eliminazione con la saliva continua per oltre un anno, anche se in molti soggetti viene eliminato in maniera saltuaria per tutta la vita. Ma le malattie trasmesse con il bacio sono molte e varie, hanno origine batterica e virale, e l' allarme è oggi focalizzato su quelle a trasmissione sessuale (MTS) inerenti la pratica del sesso orale, il quale comporta l' uso della bocca, delle labbra e della lingua, bagnate dalla saliva, per stimolare l' eccitazione reciproca con un partner.

TRA I 18 E I 55 ANNI. Il sesso orale è praticato da oltre l' 85% dei soggetti sessualmente attivi, in un' età compresa tra i 18 e i 55 anni, e tale tipologia di rapporto intimo avviene comunemente tra persone sia eterosessuali che omosessuali, e se il partner ha un' infezione alla bocca o alla gola è possibile che questa venga diffusa a livello del pene, della vagina, dell' ano e del retto, mentre se lo stesso ha un' infezione genitale od ano-rettale, il sesso orale non protetto può favorire la trasmissione degli agenti infettivi nel cavo orale o in quello laringo-faringeo. Occorre considerare che le malattie sessualmente trasmissibili con l' arte del baciare possono essere trasmesse ad un soggetto durante un rapporto anche se la persona infetta non manifesta particolari segni o sintomi, poiché molte di queste sindromi all' inizio sono assolutamente asintomatiche. Tra le principali infezioni batteriche che si possono contrarre o trasmettere con i baci durante il sesso orale, ad oggi le più diffuse sono la Clamidia, la Gonorrea, la Tricomoniasi e la Sifilide, tutte in aumento, ed il rischio di contagio tra una persona sana ed una infetta si nasconde ogni qualvolta vi sia uno scambio di fluidi sessuali e di saliva includenti microbi, poiché nei casi di rapporti oro-genitali, gli agenti patogeni possono fare ingresso nella gola, ed ivi depositarsi esercitando la loro azione, come anche, se il partner infetto ha il batterio in faringe o in laringe, esso può essere depositato, trasferito ed assorbito a livello della vagina o del tratto urinario ed ano-rettale. Tra le infezioni di origine virale più note spicca quella da Herpes Virus, che nella sua forma Simplex limita la propria azione nella zona della bocca, delle labbra e del naso, mentre durante i rapporti sessuali di natura orale questo virus può diffondersi per contatto diretto tra la mucosa labiale infetta e i genitali, dove provoca lesioni identiche a quelle cutanee, vescicolose e pustolose a rischio di super contaminazione batterica. Ma è l' infezione da Papilloma Virus ( HPV) quella più comune, più diffusa e più pericolosa, in quanto questo agente virale, presente in circa il 70% delle donne e degli uomini non vaccinati, vanta oltre 100 sierotipi, alcuni responsabili di lesioni benigne della pelle, come le verruche, i condilomi e i papillomi, mentre altri ceppi virali hanno un potenziale oncogeno considerato medio-alto, cioè in grado di sviluppare lesioni che evolvono in senso neoplastico, riconosciuti come il fattore di rischio più comune e temibile del 100% del tumore femminile della cervice uterina e del 20% dei cancro del laringe in entrambi i generi. Tale tipo di virosi si trasmette nei due sessi tramite il sesso orale o con i rapporti vaginali ed anali, e tra le modalità di contagio si deve includere anche lo scambio di giocattoli sessuali contaminati con i fluidi o la saliva dalle persone infette. L' assenza di sintomi iniziali di tale patologia virale, sia negli uomini che nelle donne, ne favorisce la diffusione ad ogni partner con cui si viene a contatto, anche per una sola volta e senza distinzione di sesso, in ogni rapporto non protetto. È importante sottolineare che entro una settimana dal contagio, sia esso virale o batterico, l' infezione può dare manifestazione nel punto d' ingresso orale o genitale dell' agente patogeno, con comparsa di sintomi fastidiosi come bruciore, prurito, arrossamenti, piccole lesioni mucose o cutanee, ma è anche frequente che il virus od il batterio non provochi alcun disturbo evidente o visibile che richiami attenzione, come accade per esempio nei casi di trasmissione inconsapevole della malattia da parte di una persona portatrice sana, la quale non accusa nessun sintomo riconducibile alla patologia, anche se il contatto tra le sue mucose orali o genitali con i fluidi salivari, vaginali o spermatici sono stati sicuramente veicolo e impianto di infezione. Ma nel giorno di San Valentino criminalizzare scientificamente il bacio può sembrare un proposito scellerato, poiché questo irresistibile contatto labiale ed irrinunciabile atto d' amore dalla psichiatria è considerato invece terapeutico, in quanto coinvolge positivamente la sfera emotiva, psicologica, fisica, cerebrale, erotica, emozionale, sessuale e sociale, stimolando l' encefalo al rilascio di ormoni benefici quali il testosterone, l' ossitocina, le endorfine e i ferormoni, sostanze chimiche che aumentano il desiderio, inducono l' eccitazione, sedano l' ansia, migliorano l' umore, provocano piacere, eliminano le tensioni, rilasciano la muscolatura e favoriscono la procreazione, oltre ad essere indice assoluto di salute generale. Anche perché è dimostrato che baciarsi è importante, addirittura fondamentale per la vita affettiva e salutare per quella emotiva, per l' equilibrio mentale e la stabilità cerebrale che ne deriva, e il numero di baci scambiati o ricevuti è direttamente proporzionale al livello di benessere fisico e psicologico, poiché è un dato scientifico certo che chi si astiene da questa pratica amatoria, soddisfacente e gratificante, chi rinuncia a questo atto d' amore volontariamente e per qualunque motivo, forse non si infetterà con virus e batteri a trasmissione orale e sessuale, ma tendenzialmente sarà più infelice e malinconico, coverà insoddisfazione repressa, svilupperà un indebolimento del sistema immunitario, e sarà più esposto a contrarre malattie anche più gravi e incurabili, come quelle inguaribili dell' anima.

Valeria Arnaldi per leggo.it il 6 febbraio 2020. Aldo Morrone direttore scientifico dell'istituto San Gallicano di Roma, perché questo sensibile aumento di malattie sessuali? «Abbiamo registrato un netto aumento di sifilide e condilomi acuminati nella popolazione molto giovane e spesso dai malati ci è stato fatto esplicito riferimento a pratiche di chemsex. Sostanzialmente, i giovani approcciano l'attività sessuale, tramite diversi tipi di app, incontrano persone sconosciute con le quali hanno rapporti che possono essere di una sera o ripetuti nel tempo. Per non avere reazioni non gradite e aumentare le proprie capacità sessuali, i ragazzi fanno ricorso a farmaci».

Quando dice giovani a che età si riferisce?

«Parlo anche di minorenni. Abbiamo avuto il caso di un tredicenne e si arriva fino ai 17 anni. Moltissimi adolescenti hanno paura dell'impotenza. Non sanno neppure riconoscere le malattie sessualmente trasmissibili, non hanno conoscenza della complessità del rapporto sessuale, né dei suoi rischi. Manca una adeguata educazione sessuale».

Quali rischi comporta l'uso di questi aiuti farmacologici?

«I rischi non sono solo quelli legati alle infezioni sessuali, ma anche di carattere cardiologico. Uno degli effetti della sifilide peraltro è la maggiore facilità di contrarre l'Hiv. Chi è sano ha una maggiore capacità di contrasto in caso di contagio. Di chemsex si parla poco, è una realtà scarsamente conosciuta, ma è diffusa».

Che cosa si può fare per affrontare il boom di malattie sessualmente trasmissibili?

«Bisogna fare formazione. Assolutamente. Si deve parlare degli aspetti positivi di un rapporto sessuale, ma anche dei suoi rischi. Si possono fare test per Hiv e sifilide in pochissimo tempo, perfino davanti alle discoteche. Per la diagnosi è sufficiente la saliva. Poi servirebbero incontri nei consultori familiari. Dovremmo aiutare anche i giovanissimi ad avere le conoscenze necessarie a un corretto sviluppo sessuale».

Boom di infezioni veneree «Troppe app di incontri». Descritta per la prima volta nel XVI secolo, tanto affievolita da considerarsi ormai vinta tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la sifilide, detta anche male francese, torna a fare paura. Numeri alla mano, infatti, si registra un sensibile aumento di casi a livello internazionale. E pure in Italia. La crescita di episodi non riguarda solo la sifilide ma, in generale, le malattie sessualmente trasmissibili. Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della Sanità, si verificano tre milioni di casi di infezioni sessuali al giorno nel mondo. Nel 2018 sono stati registrati oltre 357 milioni di casi di origine batterica e 745 milioni di casi virali. In particolare, si tratta di tricomoniasi con 143 milioni, clamidia con 131, gonorrea con 78, sifilide con 6,5. A ciò vanno aggiunte le stime relative al numero di persone che avrebbero contratto un'infezione genitale da virus dell'herpes simplex, oltre 410 milioni, e le donne con un'infezione da papillomavirus umano, più di 290 milioni. Il fenomeno cresce anche in Italia. A dare l'allarme è l'istituto San Gallicano di Roma. Per comprendere la misura di ciò che sta accadendo basta guardare al trend degli ultimi dieci anni. I dati, presentati a margine del convegno medico di alta formazione Le malattie sessualmente trasmissibili nel nuovo millennio: percorsi avanzati di prevenzione, diagnosi e terapie tenutosi a Roma, sono chiari. Le segnalazioni di infezioni sessualmente trasmissibili erano 4000 all'anno nel decennio precedente, oggi sono arrivate fino a 5300. A crescere, in particolare, è stata la sifilide, passata da 80 casi annui prima del 2000 a 420 casi annui dopo il 2000. I condilomi acuminati sono saliti dai 1500 casi annui registrati nel periodo fino al 2007 ai 3000 riscontrati tra 2008 e 2016. Le ragioni di questa nuova proliferazione di malattie che si credevano se non completamente superate, comunque ormai lontane dalla grande diffusione, secondo gli esperti dell'Istituto sarebbero da ricercare anche nella tecnologia, con le molte app che sono dedicate a favorire incontri tra sconosciuti, pure a fini sessuali. Velocità degli incontri, scarsa o mancata conoscenza tra gli individui, carenza o assenza di precauzioni creano un mix decisamente pericoloso. Il resto lo fa la chimica, con il chemsex, ossia il sesso sotto droghe, prese proprio per migliorare le prestazioni. Un gioco pericoloso, che vede al primo posto, tra le vittime, i giovani e i giovanissimi, che usano le app per incontri sessuali, anche di gruppo e, per assicurarsi prestazioni record fanno ricorso spesso ad aiuti farmacologici. Le stime Oms del 2019 evidenziano circa 661mila casi di sifilide congenita nel 2016, che hanno causato oltre 200mila morti neonatali.

·        Il sesso combatte le malattie.

Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. Laura Pellegrini 25/02/2020 su Notizie.it. Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. La scienza non ha alcun dubbio. secondo un recente studio, infatti, per combattere l’influenza stagionale il rimedio migliore è fare l’amore. Uno studio svizzero condotto dal professore Manfred Schedlowski, rivela appunto che un momento trascorso sotto le coperte con il proprio partner allevia fino al 60% i sintomi influenzali. Un rimedio naturale e del tutto piacevole che può aiutare milioni di italiani che ogni anno devono fare i conti con l’influenza. Fare l’amore aiuta a combattere l’influenza: secondo uno studio condotto in Svizzera, infatti, passare del tempo in intimità con il partner è il rimedio naturale più efficace contro i malanni di stagione. Manfred Schedlowsky, il ricercatore che si è occupato di effettuare la ricerca ha scoperto che fare l’amore permette di ridurre fino al 60% il malessere influenzale. Inoltre, è qualcosa a cui tutti gli esseri umani non possono rinunciare e che porta grande piacere. Fare l’amore, insomma, fa bene sempre, anche quando la temperatura corporea denota uno stato febbrile. L’atto in sé aumenterebbe – secondo gli studi scientifici – la produzione di cellule T (o linfociti T), in grado di combattere le cellule affette dal virus. In questo modo aiuterebbe il fisico a superare i momenti di malattia e il malessere influenzale. Sotto le lenzuola, dunque, le alte temperature corporee e la febbre posso essere combattute con dei momenti di intimità da trascorrere con il partner. Nulla di meglio per combattere l’influenza.

·        Fuori di…Seno.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 12 maggio 2020. Diciamolo subito: così come l' influenza spagnola non venne dalla Spagna, anche questa pratica sessuale non ha nulla a che vedere con le nostre procaci "cugine". Si tratta per lo più di una voce gergale, che non sempre trova riscontro in altre lingue, che si riferisce a un tipo particolare di masturbazione che avviene avvolgendo il pene con i propri seni. Per alcuni uomini rappresenta qualcosa di molto eccitante, in particolare per quelli che amano un décolleté prosperoso, ma se avete una prima scarsa non disperate: l'azione riesce sempre, complici un po' più di impegno e la voglia di stare al gioco. Ma perché tutta questa attenzione verso il seno della donna che piace tanto, da una parte simbolo dell' erotismo femminile, dall' altra richiamo casto alla maternità e all' allattamento? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Marinella Cozzolino - psicoterapeuta e sessuologa di Napoli che risponde così: «Una prima spiegazione può essere data dal fatto che gli uomini, tra i cinque sensi, prediligono la vista ed è proprio attraverso "il vedere" che si eccitano, a differenza delle donne che sono più uditive e olfattive. In cima alla lista dei desideri degli uomini c'è sicuramente l' attrazione per il seno. Non tutti amano però quelli prosperosi che per alcuni versi considerano inibenti, preferendo quelli più piccoli e "maneggiabili". Gli uomini che prediligono il lato B al seno, sono quelli che legano il seno alla maternità e all' allattamento, non a uno strumento di piacere». E qui si apre un altro scenario interessante: mentre nessuno si scandalizza più di fronte a un seno pubblicizzato ed esibito, alcuni trovano sconveniente allattare in pubblico. Non è un controsenso dottoressa Cozzolino? «È vero, ma una spiegazione c' è e si chiama pudore soggettivo. È interessante sottolineare che questo fastidio per l' allattamento in pubblico parte principalmente dalle donne e, spesso, proprio da quelle che hanno allattato da poco o dovrebbero allattare a breve. Sono queste persone a non riuscire a scindere in due il seno. C' è il seno che allatta e il seno strumento di piacere. Per loro, tirare fuori un seno al parco per allattare equivale a tirare fuori un seno. Il problema "neonato che ha fame" passa in ultimo piano. Vedono solo una tetta in bella mostra al parco, al supermercato, al bar, in chiesa ed è, per loro, una cosa sconveniente, oltre che una provocazione». Eppure non succede ovunque nel mondo che il seno abbia una valenza erotica: nell' Africa sub equatoriale, per esempio, serve solo ad allattare i bambini, mentre in alcune zone meridionali dell' India andare in giro a seno scoperto è normale e non attira alcun interesse sessuale. Possiamo quindi affermare che la sua valenza erotica è frutto della cultura, dal momento che il seno non è indicato direttamente nella riproduzione? «Certo, nella nostra cultura il seno rappresenta proprio la differenziazione tra riproduzione e piacere sessuale. Sicuramente il seno femminile occupa nell' immaginario erotico maschile un posto di primo piano anche rispetto alla vulva. Se ci pensiamo pochi uomini apprezzano l' organo genitale femminile quanto apprezzano il seno. La cosa interessante, a tale proposito, è che il seno delle donne non viene ammirato solo dagli uomini, ma anche dalle altre donne che lo guardano per "misurarsi" tra loro, esattamente come accade tra uomini per la lunghezza del pene». A dimostrazione del richiamo al piacere di questa parte del corpo femminile, un numero in costante crescita di interventi estetici al seno voluti dalle stesse donne. Per la gioia di chirurghi e mariti.

·        La Lattofilia.

"MOLTE DONNE IN GRAVIDANZA CERCANO SESSO AL DI FUORI DELLA COPPIA”. Dagospia il 10 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il tema del feticismo della gravidanza e della lattofilia. "La sessualità è così vasta che include anche una parafilia per le donne in dolce attesa. Nello specifico -spiega la Dott.ssa Spina- si chiama 'Feticismo da gravidanza' che consiste in una forte ossessione sessuale per le donne incinte. C'è questa forma di eccitazione che può partire anche solo nel vedere donne con il pancione fino a desiderare di avere un rapporto sessuale con donne gravide." "L'interesse è legato all'immagine di donna fertile e feconda con un corpo accogliente che acquisisce forme diverse che risultano eccitanti in alcuni uomini. E' una forma di feticismo e di parafilia estremamente antica, forse addirittura al Neolitico, dove venivano rappresentate donne in gravidanza che hanno rapporti sessuali con più uomini. Questo perché la donna gravida risultava eccitante in quanto generatrice di vita. Ad oggi non è praticamente così semplice pensare di concretizzare un desiderio del genere e in più se ne parla poco perché sembra quasi violare la 'sacralità della maternità' nonostante poi sia molto frequente negli uomini e più comune di tante alte parafilie." "Questa parafilia a differenza di altre risulta eccitante anche nella donna che ricordiamo quando in gravidanza, in alcune fasi della stessa, ha un desiderio sessuale molto elevato per gli ormoni in circolo, quindi è anche più propensa ad una attività sessuale esplicita, manifesta. La donna stessa cerca sesso in queste fasi della gravidanza. In queste fasi, anche se la propria partner non è incinta, si ha la possibilità di soddisfare questa parafilia perché c'è disponibilità da parte di altre donne gravide che effettivamente ricercano sesso." "La donna in gravidanza potrebbe in alcuni casi tradire il proprio partner perché alcuni uomini che hanno la propria compagna in dolce attesa si ritirano dall'attività sessuale per vari motivi dettati dalla paura di danneggiare il feto o perché in quella fase non ritengono la propria compagna sessualmente eccitante. Quindi la donna può arrivare a ricercare sesso al di fuori della coppia." "Una delle categorie più ricercate in ambito porno è proprio quella delle donne incinte anche perché è una delle poche categorie dove quello che si vede è vero, le attrici sono veramente in stato di gravidanza e questo aumenta ancora di più l'eccitazione." "C'è poi il capitolo della Lattazione parafilica o Lattofilia un'altra forma di feticismo legata al guardare una donna che allatta oppure di desiderare di essere allattati da una donna che può farlo. Il contatto con il seno femminile prosperoso e il nutrirsi dal corpo femminile porta grande eccitazione con uomini capaci di raggiungere forti orgasmi ed eiaculazioni intense. E' una parafilia molto comune anche in ambito porno, in Giappone ci sono addirittura dei bar pubblici dove si possono chiedere bibite a base di latte materno o caffè macchiati con latte materno oppure chiedere di essere allattati da una donna al momento."

·        La Piedofilia.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 27 aprile 2020. Una ricerca condotta su 5mila persone da Emmanuele A. Jannini, andrologo e professore ordinario di sessuologia medica all' Università di Roma Tor Vergata, ha messo in evidenza che i piedi sono il feticcio più frequente nei maschi etero. «Da un punto di vista biologico, l' odore animalesco dei piedi riporta a uno stato di natura selvatico e quindi ipersessuale», spiega l' esperto. «E poi non bisogna dimenticare che questa parte del corpo è sporca, e quindi eccitante, perché nella nostra testa spesso c' è l' associazione di questi due concetti.  Ma c' è anche un altro fattore molto importante: i piedi (e le mani) sono tra le parti meno suscettibili di trucco, parrucco e bisturi ringiovanente. Spesso basta guardare i piedi di un' attrice per capire la sua età biologica. E se è vero come è vero che il maschio è programmato prima di tutto per cercare segnali veri o presunti di giovinezza, ecco spiegato perché i piedi piacciono tanto. Insomma, sono degli indicatori oggettivi e difficilmente falsificabili dell' età di una donna». Attenzione però: «Guardando le risposte e i racconti degli intervistati, emerge che il feticcio non è un' ossessione maniacale e quasi patologica, ma una passione divertente e stimolante», precisa Jannini. «Basta osservare l' identikit dei cosiddetti feticisti: nel 90 per cento dei casi si tratta di uomini sposati e soddisfatti della loro vita di coppia e sessuale. Ma, magari, sono stanchi della routine e della quotidianità e cercano nuove strade per risvegliare l' intesa con la propria partner. In fondo siamo più o meno tutti affascinati dai feticci sessuali perché sono semplicemente oggetti o parti del corpo che suscitano emozioni intense, voglie e fantasie. Insomma, c' è feticismo e feticismo». L' importante è che non diventino protagonisti perché, altrimenti, entreremmo nel campo della patologia. Quando, invece, restano un surplus del rapporto sessuale, l' attrazione per i piedi è un aspetto assolutamente normale della sessualità maschile, che si aggiunge al desiderio. Va detto che molte donne stentano a comprendere fino in fondo questa passione da parte dei loro partner, spesso anche maggiore di un florido décolleté o di un sensuale lato b, più direttamente legati all' eros. Merito della moda che esalta forme e angolosità delle estremità femminili o si tratta di un modo di reagire degli uomini a un bombardamento di messaggi erotici diretti, tali da indurli a concentrarsi su una parte del corpo che non comunica esplicitamente sesso? Sono valide entrambe le ipotesi e forse non è un caso che i social di dating dedichino a questa parte del corpo molta attenzione, con forum specifici, senza contare i centinaia di siti dedicati al tema. Non basta. Sempre secondo lo studio i "piedofili", come li chiama il professor Jannini, sono piacevolmente attratti anche dalla loro enigmaticità, dalle attenzioni estetiche che vengono loro sempre più dedicate e dalla loro duttilità. E mentre per molti uomini il piede ben curato è sinonimo di eleganza, per qualche masochista è un simbolo del dominio femminile. Come feticcio, infine, possono diventare il mezzo divertente e insolito per scoprire nuove zone erogene e desideri nascosti partendo da massaggi, coccole e carezze audaci propri lì, soffermandosi a lungo su questa parte durante i preliminari. Nessun limite alla fantasia, insomma, lasciando le coppie libere di sperimentare e di giocare con questo nuovo confine dell' estetica femminile. Senza dimenticarci di scegliere scarpe giuste, preferibilmente con tacchi altissimi e calze sexy adatte all' outfit. Trucchi che noi donne conosciamo molto bene.

·        La Sitofilia.

Estratto dell’articolo di Laura Avalle per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2020. Cibo e sesso sono uno dei binomi preferiti della seduzione. Lo sanno bene i giapponesi che hanno inventato il Nyotaimori, la pratica di mangiare sashimi o sushi sul corpo di una donna, tipicamente nuda. Un fenomeno esportato in ristoranti di lusso correlato alla sitofilia, una sorta di feticismo legato al cibo in cui viene raggiunta l' eccitazione sessuale mangiando sul corpo di un' altra persona, oppure usando il cibo come stimolo sessuale. Vi ricorda qualcosa? I cibi afrodisiaci, esattamente: qualcuno li guarda con scetticismo, qualcun altro li considera ingredienti irrinunciabili per una cena speciale. […] Ma perché cibo e sesso sono tanto intimi? Lo abbiamo chiesto a Roberta Cacioppo, psicoterapeuta e sessuologa di Milano: «Si tratta di funzioni biologicamente e chimicamente determinanti per la sopravvivenza dell' individuo e per quella della specie che, attraverso il tempo e nelle varie culture, hanno assunto altre caratteristiche più legate alla dimensione sociale, relazionale, psicologica della vita umana. A livello psichico e di legame con l' altro, entrambi hanno a che fare con l' intimità e sono regolati da norme e tabù che li caratterizzano nel tempo e nello spazio; inoltre coinvolgono e vengono influenzati dalle nostre emozioni. L'aspetto sensuale che li caratterizza li rende in grado di procurare piacere, soprattutto in un' epoca come la nostra in cui - per chi è più fortunato - mangiare non è più solo questione di sopravvivenza; ci si può quindi dedicare alla ricerca del gusto e al piacere di fare l'amore, slegato dall' aspetto procreativo, grazie ad anticoncezionali e a sistemi per proteggersi dalle malattie. Da non trascurare il tema della condivisione: sia cibo, sia sesso, possono diventare più appaganti quando vengono vissuti insieme a qualcun altro». […]

·        La Venustrafobia.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2020. Era lo scorso ottobre quando, alla presentazione del film Long Shot, Charlize Theron spiazzò il mondo intero con una dichiarazione che mai ci si sarebbe aspettati di sentir pronunciare da una donna della sua avvenenza: «Sono single da 10 anni, non è un azzardo corteggiarmi. Sto solo aspettando che qualcuno prenda un po' di coraggio, si faccia avanti e mi chieda di uscire. Sono estremamente disponibile e lo sto dicendo in maniera chiara». L' esplicito invito al corteggiamento rimbalzò su tutti i tabloid, ma i lettori, anziché soffermarsi sul fenomeno di cui quelle parole rendevano testimonianza, indugiarono su colei che le aveva pronunciate: com' è possibile che una delle più belle donne al mondo implori la presenza di un uomo al suo fianco, esortando gli ipotetici candidati a non lasciarsi intimorire da lei? È un trend: parecchi uomini sono spaventati dalle belle donne, ed il loro timore, nei casi più estremi, si volge in una vera e propria patologia: "venustrafobia". A soffrirne sono soprattutto i maschi di giovane età, ovvero coloro che non abbiano ancora acquisito piena consapevolezza e fiducia nelle proprie risorse, ma non è escluso che il disturbo lambisca anche gli uomini più maturi, soprattutto quando essi si lasciano alle spalle esperienze di rifiuti reiterati da parte dell' altro sesso. La venustrafobia induce l' indisposto a sentirsi ridicolizzato accanto ad una bella donna, quasi come se non fosse all' altezza di starle accanto senza suscitare l' ilarità di quanti, vedendoli assieme, opererebbero un severo confronto a suo svantaggio. Ma ancor prima del giudizio sociale, il fobico teme soprattutto quello della fanciulla stessa, la quale potrebbe farsi beffe di lui nel vederlo animato dall' aspettativa di conquistarla e dall'"assurda" pretesa di corrispondere ai suoi standard. Questa patologia non passa affatto in sordina, anzi si presenta attraverso sensazioni tipiche del disturbo fobico che, a tradimento, rivelano il disagio del malato: ansia, tachicardia, sudorazione, balbuzie, attacchi di panico, difficoltà respiratorie, pensieri di morte. Insomma, ce n' è abbastanza da scegliere di ricorrere alla strategia dell' evitamento: non sono pochi coloro che, distinti da venustrafobia, si precludono la possibilità di relazionarsi con l' altro sesso, cosicché esso non costituisca una "minaccia". Un' alternativa altrettanto gettonata è quella di circondarsi di donne ritenute poco attraenti, di modo che la loro compagnia si renda utile a veicolare sensazioni di confortante tranquillità. Tiziana Corteccioni - medico psichiatra e psicoterapeuta - afferma: «La venustrafobia è la paura ingiustificata delle donne attraenti. A caderne preda sono soprattutto i giovani dalla bassa autostima, i quali, onde evitare un rifiuto che amplifichi il loro senso di inadeguatezza, scelgono di evitare il contatto e le relazioni con l' altro sesso, soprattutto quando a rappresentarlo è una donna di bell' aspetto. Il corpo dell' indisposto, alla vista della fanciulla, mette in moto dei meccanismi che si rendono espressione di un evidente disagio: palpitazioni, dolore al petto, sudorazione, debolezza, tremori, vampate di calore, attacchi di panico. Il trattamento che suggerisco è quello cognitivo comportamentale congiuntamente alla farmacoterapia. Anche la terapia di gruppo, in questi casi, può rivelarsi risolutiva, intervenendo sulla difficoltà dell' indisposto a relazionarsi socialmente».

·        La mia bruttezza.

DAGONEWS il 6 settembre 2020. Si è separata dal marito Matthew Robertson nel 2017 dopo 17 anni insieme e ora esce con il suo amico di lunga data Michael Douglas (omonimo dell’attore). Ma a 52 anni la conduttrice Davina McCall non ha intenzione di fermarsi: si sente sexy, le piacciono gli orgasmi e ha rifatto il piercing al capezzolo. Discutendo della vita dopo i 50 anni, Davina ha detto a "Women's Health": «Non sto bene nuda come quando avevo vent'anni, ma mi sento meglio. Questa è la differenza. Le donne sopra i 50 anni si sentono sexy, si vestono in modo sexy e indossano biancheria intima provocante e si godono ancora gli orgasmi.  La gente pensa che non la menopausa sia finita, ma la verità è che molte donne della mia età si divertono come non mai». Parlando della sua menopausa a 44 anni, Davina ha raccontato: «Avevo vampate in continuazione. Mi ha aiutato la terapia ormonale sostitutiva. Ora sto meglio e sono piena di vita.  Mi sono rifatta il piercing al capezzolo e ho perso molto peso. Ma in questo non c’è nulla di volontario. È solo la dieta del divorzio: corri, vai avanti senza fermarti con l’adrenalina che ti scorre in corpo per non pensare a nulla. È stato un periodo difficile. Molti sono stati cattivi con me perché non sanno cosa c’è dietro un divorzio».

Caterina Soffici per “la Stampa” il 6 settembre 2020. L'importante per loro è andare oltre. Oltre il bello e il brutto. Oltre il grasso e il magro. Oltre il troppo o il poco. Superare il concetto di corpo come luogo dell'accettazione o del rifiuto: non è necessario odiarlo o amarlo. Basta apprezzarlo per quello che è in grado di fare. Queste gambe? Mi servono per andare da un posto all'altro, quindi devono essere forti e sane. Non mi interessa se sono grasse, magre, corte o lunghe, belle o brutte. Funzionalità più che apparenza. Queste braccia? Mi servono per dare abbracci, perché sono un essere umano. Mi servono per tenere al collo un bambino. Per spostare un oggetto dal tavolo allo scaffale. In inglese si chiama "Body Neutrality" e il movimento che lo divulga invita a considerare il corpo in maniera neutrale. Uso la parola straniera - solo questa volta, prometto -, ma è impossibile evitarlo, visto che il movimento è nato nei paesi anglosassoni e con questo termine è conosciuto e si è sviluppato su Instagram e Tik Tok, dove gli ultimi video della sua paladina, Erynn Chambers, hanno totalizzato più di sei milioni di visualizzazioni. Andare oltre significa superare il lato estetico del proprio corpo. Rifiutare l'idea del corpo come una costrizione ad uso e consumo di altri, come accade con la fiumana di insulti sui social rivolti a corpi e volti "non convenzionalmente belli". Ma rifiutare anche la reazione uguale e contraria, ovvero la dichiarata intenzione di guardare al proprio corpo sempre in modo positivo, anche quando non ce n'è una oggettiva motivazione e quindi la costrizione ad accettarsi comunque. Questione complicata, in un mondo dove a dominare il dibattito pubblico sono le polemiche sulla bellezza o la bruttezza e dove molta parte della vita sociale avviene in un luogo virtuale, dove comanda l'immagine, fatta di selfie e di una realtà posticcia, fatta di sorrisi, felicità, tramonti e perfezione. Mai nessuno che posti una cosa neutrale. Se è online deve essere bella. O volutamente brutta. O provocatoriamente poco estetica, come la cellulite o le pance diversamente piatte ostentate durante l'estate dalle influencer (mi si nota di più con cellulite o senza?) come reazione alla dittatura dei corpi perfetti, modellati da ritocchi chirurgici fisici o solo virtuali, grazie ai programmi dei telefonini o di Photoshop. Le donne (sì, sono soprattutto donne e il perché è facilmente intuibile) del Movimento della Neutralità del Corpo si ispirano agli anni Sessanta e al movimento di liberazione femminile. Il loro credo è una versione rivisitata in chiave moderna di slogan come il corpo è mio e lo gestisco io. I messaggi sono di questo tenore. «Se ti guardi allo specchio forse non puoi dire sono bellissima, perché oggettivamente non lo sei e anche tu non ci credi. Però puoi dire: sono un bellissimo essere umano. E questa è una verità indiscutibile». Il nuovo concetto della neutralità è che non c'è bisogno di provare dei sentimenti verso il proprio corpo. Quindi andare oltre alla positività verso il proprio corpo, vista come un'altra gabbia da rompere. Anche essere positivi a prescindere è una forma di schiavitù o una finzione. Per esempio, se hai una malattia o una disabilità, specie se progressiva, avere un atteggiamento positivo verso un corpo che ti sta tradendo è una farsa e anche un'offesa. Meglio una accettazione neutrale. Questo atteggiamento di neutralità corporale è anche consigliato da alcuni terapisti ai pazienti con problemi di immagine corporea. Siamo oltre l'Essere o avere di Erich Fromm, altro classico degli anni Sessanta, siamo all'Essere o apparire. Ovvero, non importa come appaio, ma cosa faccio, chi sono, cosa motiva le mie azioni. C'è poco da fare, obietterà qualcuno. La natura umana è fatta così: da sempre è attratta dall'orrido o dal bello. Per cui la donna barbuta era esposta nei tendoni dei circhi e oggetto di scherno. E la donna angelicata era dipinta e venerata. Ma con un piede ormai ben dentro il Terzo Millennio e in una società sempre più liquida e tecnologica, il tentativo di andare oltre gli stereotipi estetici classici è un esperimento interessante. O forse semplicemente abbiamo scoperto l'acqua calda, ovvero che siamo quel che siamo.

Vittorio Feltri e le ragazze brutte, la confessione: "Il mio debole per le donne racchie". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l'8 settembre 2020. Non faccio per vantarmi, ma di brutte me ne intendo. Credo che tutti gli uomini si siano macchiati la fedina amorosa almeno con una Fosca, più o meno segretamente; ebbene, io ne ho avute tre o quattro, e pubblicamente, poi ho smesso di contarle. Se c'è in giro una racchia, posso stare tranquillo: sarà mia. Senza sforzo. Né mio, né suo. Personalmente mi rassegno come davanti a una calamità naturale cui non vale la pena d'opporsi. Di solito mi siedo e aspetto la consumazione degli eventi, ma talvolta, come un condannato desideroso d'espiare in fretta la pena, prendo io l'iniziativa e m' avvio al patibolo. Il boia va agevolato per reciproco interesse. A parte gli scherzi, il mondo è pieno di gente normalmente brutta, basta guardarsi attorno. Le donne belle, belle sul serio, quelle che proprio ti fanno trasalire eccetera, non sono a nostra portata di mano: o sono di un altro, o sono su Playboy o sullo schermo del cinema, oppure non so dove, mai comunque nei dintorni. Comprendo perfettamente che, questi, non sono pensieri carini, e me ne scuso con le fidanzate passate e future, ma è inutile fingere ancora. E salutiamo con soddisfazione questo film liberatorio, Passione d'amore, che al di là delle forzature sempre consentite nelle sintesi artistiche, rende la realtà così com' è e come la viviamo: brutta, bruttina, raramente sufficiente a seconda delle alterne vicende della fortuna. Un film, di per sé, sarebbe ben poca cosa, senonché, nella fattispecie, è un segno che (sia pure oltre cento anni dopo il romanzo di Tarchetti, cui la pellicola s' ispira) il senso comune è cambiato o sta cambiando. La bruttezza, poiché esiste ed è sicuramente più diffusa del suo contrario, viene finalmente celebrata per ciò che vale: un elemento con il quale l'umanità ha rapporti familiari. Anche le persone più gradevoli sono spesso orrende, almeno una volta al giorno. E allora perché insistere con la presentazione agiografica dei personaggi, femminili specialmente, implicati nelle vicende cinematografiche? Non è forse più giusto dire racchia alla racchia e racchio al racchio? D'accordo che l'arte può essere sublimazione, ma c'è modo e modo di sublimare; dovendo rappresentare una "signora così così" ci sono tre alternative: crearla a sua immagine e somiglianza, esagerare in positivo o in negativo. Quest' ultima soluzione è indubbiamente la migliore perché, se è vero che l'orrido mal si concilia con le aspettative del pubblico, che ama identificarsi con splendidi eroi, è altrettanto vero che un confronto fra brutti è fortemente consolatorio per le parti in causa. L'esaltazione del brutto fa bene alla salute, giova all'igiene mentale, mette al riparo dalle recrudescenze nevrotiche, è incoraggiante: mal comune mezzo gaudio, si dice, e noi sappiamo quanta saggezza vi sia in queste quattro parole lise. Adesso siamo agli inizi, ma quando il concetto di "bruttezza uguale a tutti noi" avrà preso piede, allora - scusate il bisticcio - ne vedremo delle belle: pensate che sollievo, e mi riferisco specialmente alle donne, non dover più, la mattina, litigare con lo specchio delle nostre brame; basta con le righe nere sugli occhi, basta col rossetto, basta con gli estenuanti e patetici sforzi di assomigliare a Ornella Muti. La quale, poi, con rispetto parlando, dal vero non sarà così "inumana" come al cinema; magari ha la gastrite o il raffreddore da fieno o chissà quali affezioni dello stesso tipo che rendono repellenti, a tratti, le nostre fidanzate. D'altra parte il processo d'accettazione del brutto, ovvero di noi medesimi, è in atto da parecchio con alti e bassi: il cinema del dopoguerra accanto a Silvana Pampanini e Gina Lollobrigida offriva Anna Magnani che delle tre è la più rimpianta, e non certo per questioni connesse all'eros. E la Masina è stata forse una vamp? Eppure, quando recentemente la Tv ha replicato La Strada, l'indice di gradimento è "impazzito". Perché la qualità non sposa necessariamente seni turgidi e prorompenti, vita sottile e glutei marmorei. Al cinema come nel quotidiano. Il guaio però è la moda, creatrice di miti effimeri e durevoli ad un tempo: miti edificati sullo stato di grazia delle cellule esterne. Un anno vanno le prosperose, un altro le secche, e poi le cavallone e poi le oche mimetizzate da cigni. Quindi, esaurito il ciclo, si ricomincia da capo, come se l'umanità per piacersi potesse modellarsi secondo i capricci del momento. E non ci rendiamo conto che il nostro senso estetico quando viene mandato all'ammasso, ne esce frustrato, avvilito. Il gusto invece, se educato in proprio, rivela una sorprendente adattabilità alle situazioni: sa trovare l'ago più bello anche nel pagliaio più brutto. Per esempio una volta avevo una collega con una piccola ma inconfondibile gobba; faceva impressione. Ma a forza di starle accanto mi persuasi che quella gobbetta, su quella schiena e sotto quella testa, in fondo era un quid irresistibile. La corteggiai, ammetto. Ma non vi dico come è andata a finire.

·        La Mia Grassezza.

Barbara Costa per Dagospia il 19 settembre 2020. Tu sei più bella di lei? Chi te lo dice, lo specchio, chi hai accanto? Che taglia porti? E a tette come stai? Sei bella soda, sì? Dimmi: che faresti se il tuo uomo ti tradisse con una "così"? Se la ingroppasse per bene, glielo mettesse tra quelle due chiappone, e poi se la leccasse tutta, in ogni parte, cellulite compresa, magari mentre tu sei in palestra, alle prese con l’ennesima dieta. Caro grissino, che sberleffo se il tuo lui sborrasse sui seni e in bocca a un tale… “cetaceo”, eh? Godesse con lei come con te non riesce, o meglio, sei tu, il tuo corpo, che non arriva ad infiammarlo tanto. Ok, stai calma, una “culona simile” a letto non se la porta (non ancora): più probabile che con lei si seghi. Perché Karla Lane è una culona tutt’altro che inchiavabile, lei è una pornostar, è molto famosa, è una icona, una potenza in chili, personalità, e soldi. Quanti? Tutti quelli che a ripetute cliccate masturbatorie ingrassano il suo conto corrente. Karla Lane ha 37 anni ed è nel porno da 15, cioè da quando le pornoattrici plus-size erano una rarità. Oggi sono un reggimento, agguerrito, richiesto da sempre più ammiratori. I porno di Karla fanno views da capogiro, specie i lesbici girati con partner di egual stazza. Dati i numeri, non si può barare: i suoi estimatori sono sì amanti della carne, ma pure persone che reclamano corporea verità: lo gridano in chat e nei commenti ai video che “farmi scopare da un donnone di 100 kg mi intrigherebbe non poco”, “tu c’hai quel culo… e come lo scuoti!”, “a pecorina arrapi più di una modella”, “nonostante la mole cavalchi che è una meraviglia, sfrutta tutto quel ben di Dio che hai!”. A Karla Lane va il merito di aver fatto uscire “'ste belle topolone” dai siti porno di nicchia, portandole allo stesso livello delle altre più smilze colleghe: sebbene nel porno le attrici pingui ci siano sempre state – e la capostipite del porno moderno è Samantha Anderson, meglio conosciuta come Samantha 38G, 51 anni, nel porno dal 2001 – è con Karla che la ciccia erotizzante ha fatto il gran salto. I suoi chili hanno toccato l’apice con "The Weight of Infidelity", porno messo online gratis, apposta, per ingrifare chi lo guarda ponendolo però davanti a questo quesito: che fare se il tuo uomo ti colpevolizza di essere ingrassata, e poi ti cornifica con una che pesa il doppio di te? Un porno a trama banale e che però ha fatto il boom perché, giù la maschera: tutte noi siamo ossessionate dal nostro aspetto fisico e da quello che gli altri ne dicono, in primis chi ci portiamo a letto. Tutte andiamo in crisi estetica, inutile negarlo. Non facciamo le superiori, se non ci andiamo da sole ci andiamo a causa di "determinati" commenti che facciamo finta di ignorare e che invece ci feriscono. Karla Lane ha "rotto" i piani. Lei, il suo corpo, la sua grossezza. La "sua" bellezza. Esibita, vicino a chi è giudicata bella perché rispecchia le regole (o il bisturi). Karla non ha chiesto permesso per le sue curve "diverse". Si è posta di fianco alle altre, pornando con e come loro, in posa hot come loro, anche stereotipata, a uso e consumo penico. Di cosa si dovrebbe giustificare? Perché si dovrebbe coprire? Le sue natiche non le dovrebbe aprire? Il suo ano in primo piano fa gola come gli altri, se non di più. Karla si mostra com’è, senza scuse, filtri, barriere, mezzi che nel porno neanche le altre hanno. Nel porno il tuo corpo è nudo, non solo perché svestito, intimamente spalancato all’obiettivo: le luci, il trucco, le angolazioni, contano, ma sei tu che sei scelta e piaci da chi ti vede sudata, arrossata, sconvolta da sperma e liquidi. Nel porno la bellezza femminile viene fuori da quella sporcizia lì, da quel sessuale disordine. Il corpo pornografico di Karla lo guardi, e ti mette alla prova. Tentenni. Comunque. Con lei il porno non è curvy, è chubby (cicciotto), BBW (grasso), ma pure SSBBW, sigla che segna attrici davvero obese: è questa categoria ricercatissima – tra le pornostar dai uno sguardo a Lexxxi Luxe (145 kg), poi mi racconti – in cui domina l’amatorial con donne "strabordanti". E però donne a cui piace il sesso e farlo, etero e bisex, donne come le altre libere ed esibizioniste nel mostrarsi preda di desideri che hanno voglia di esaudire per i tuoi occhi. Tra le sezioni porno le trovi anche nella categoria grandi tette, il loro pezzo forte: ghiandole mammarie spropositate che stimolano i "mazofili", i feticisti dei seni, ma nemmeno, qui siamo nel campo del feticismo "breast-expansion", l’attrazione verso seni dalle misure innaturali, i cui porno prevedono la "scomparsa" della testa dell’uomo tra le tettone, e l’ingoio mammario del pene. Karla Lane non ce l’ha rasata, ma il fatto sul serio sconcertante non è la sua fama, i suoi 92 chili, i soldi a carrettate che ricava dai suoi film, siti, ospitate in radio e tv. Sta nel fatto che Karla non si ingozza di cibo, né mangia schifezze: mangia soltanto cibo biologico, da lei coltivato e allevato. È una fissata, si coltiva il suo orto, alleva conigli, polli, galline (alle quali ha dato il nome di alcune sue colleghe…!). Karla è sposata da anni con Brian, e ha altri 2 fidanzati ufficiali: è poliamorosa convinta. Curiosità: Brian glielo ha presentato James Deen, suo collega e superstar porno, ma da lei conosciuto quando erano ragazzi, andavano a scuola insieme e di pomeriggio al parco, dove Karla, già vicina al quintale, si è fatta dallo smilzo Deen analmente sverginare.

Ilaria Del Prete per leggo.it l'8 febbraio 2020. Digiti Laura Brioschi nella barra di ricerca di Instagram e ti ritrovi davanti a una ragazza sorridente, solare e che coccola la sua cellulite. Sì, proprio quella tanto odiata da ogni donna. Laura è una modella curvy, un'imprenditrice che ha creato una linea di costumi da bagno e cosmetici ma soprattutto una donna che ha imparato ad amare il suo corpo e ora vuole insegnarlo agli altri.

Partiamo dalle basi. Che senso dà alla parola curvy?

«Per me è armonia, stare bene con me stessa nella mia forma. Anche se ci ho messo un po' a capire. Una volta le persone più che normopeso venivano indicate come plus size o taglie forti. Etichette che la parola curvy ha spazzato via».

Facciamo subito chiarezza. Non significa incentivare l'obesità.

«No, solo non discriminarla».

Lavora come modella da oltre dieci anni. Qualcosa è cambiato nell'ambiente?

«Sono stati fatti passi da gigante. Prima anche una taglia 46 era conformata, gli abiti nascondevano anziché valorizzare. Non faceva bene al cuore. Oggi è diventato più facile per una ragazza formosa vestirsi, anche grazie agli store online».

Perché ha scelto di raccontarsi sui social?

«Ho sentito la necessità di mostrare le cose che mi facevano stare meglio e provare ad alleviare il dolore delle altre persone. Anche con cose semplici, come mostrare un look che faccia sentire più carine».

Ha sempre accettato il suo corpo?

«Al contrario. Ho patito tanto. Anche quando ho cominciato la carriera di modella: essere una curvy non era questa botta di autostima. È stato proprio allora che mi sono ammalata di bulimia».

Quanto ha influito Instagram nel suo cambio di prospettiva?

«Totalmente. Prima di Instagram le parole curvy e bodypositive neanche esistevano. Vedere foto di ragazze formose vestite in modo appariscente mi ha fatto pensare: se lo fanno loro, perché non posso farlo io?. Mi ha dato autostima. Il mio modo di vedere i corpi è cambiato: più ne vedo di differenti, più mi convinco che siano tutti uguali».

Come ha mostrato con la Bodypositive Catwalk, la sfilata contro i pregiudizi.

«Trenta persone hanno sfilato in intimo in pieno inverno senza inibizioni. Da quell'iniziativa è nata anche un'associazione contro ogni discriminazione di sorta».

Un consiglio a chi vuol imparare a volersi bene?

«Essere fieri di se stessi nelle piccole cose. Non è la magrezza che determina la felicità di una persona o il suo valore. Un esercizio che consiglio ai miei followers è l'Ho'oponopono, una preghiera hawaiana di riconciliazione. In una stanza, da soli, si toccano le parti più odiate del proprio corpo, le si accarezzano e le si chiede scusa. Se sei in pace con te stesso non hai bisogno di insultare gli altri».

Perché, la insultano?

«Mi ferisce quando, ad esempio, pubblicano le mie foto su pagine trash con l'intento di offendere. Ma ad oggi le critiche sul mio fisico non mi fanno più male, la cellulite non è più un problema. Oggi sono felice di essere viva».

·        Femmine e Sport.

Gaia Piccardi per 27esimaora.corriere.it il 17 febbraio 2020. C’è un argomento di cui le atlete professioniste di alto livello parlano, per esperienza personale dopo circa trent’anni di frequentazioni sportive, volentieri. Il ciclo mestruale. Le tenniste per raccontarti come lo pilotano con la pillola (la mitica Steffi Graf, in questo, era una maestra: lo notavi dal gonfiore del seno in certe finali Slam), le maratonete per spiegarti come lo gestiscono lungo 42.195 metri di asfalto e fantasmi, le nuotatrici per dettagliarti la circumnavigazione di un evento naturale mensile che in acqua non sempre è il benvenuto. Fu proprio la più grande di tutte, Federica Pellegrini, a rivelare al Corriere della Sera il motivo per cui perse il podio (quarta) nella sua gara, i 200 stile libero, all’Olimpiade di Rio 2016: «Mi sono ascoltata dentro a lungo e alla fine ho capito che il motivo della medaglia di legno è stato la vicinanza al ciclo: l’ho calcolato malissimo e mi sono ritrovata a gareggiare nel momento per me peggiore fisicamente. In vasca mi sentivo come su un’altalena, con cali e stanchezze repentine». Parlarne volentieri, però, è un conto. Un altro è farne argomento portante di pezzi sui quotidiani nazionali, con i lettori maschi che magari storcono il naso (l’argomento non riguarda tutti e quindi non interessa a tutti) e certi improbabili titoli a nove colonne che non usciranno mai, tipo: “Io, Serena Williams, vi racconto tutto del mio ciclo”. Nel 2020, pioniere nel calcio e chissà in quanti altri sport, il Chelsea Women però rompe il tabù, affidando al Telegraph una primizia in materia, che ci sembra giusto sottolineare perché magari scopriremo che l’iniziativa è destinata a fare scuola. Gli allenamenti delle calciatrici, cioè, cuciti su misura sulle mestruazioni delle atlete per massimizzare la performance e ridurre il rischio di infortuni. Bisogna sapere, innanzitutto, che il tecnico del Chelsea, la squadra inglese che ha appena ingaggiato la giocatrice più forte e costosa del mondo (Sam Kerr, australiana), non a caso è una donna: Emma Hayes. Che dallo scorso agosto, debutto di una stagione in cui il Chelsea è secondo nel campionato femminile inglese a un punto di distacco dal Manchester City, ha cominciato insieme al suo staff a disegnare allenamenti individuali specifici in base al ciclo delle calciatrici, un metodo innovativo che potrebbe rivoluzionare il modo di allenare le donne. In questo modo, intervenendo anche sull’alimentazione nei giorni sotto esame, Hayes spera di annientare le fluttuazioni del peso e di ridurre la suscettibilità alla lesione dei tessuti e dei legamenti, ad esempio il crociato anteriore, la cui rottura si sospetta legata al periodo mestruale. «Assurdo allenare le donne come fossero piccole riproduzioni di uomini: semplicemente, non lo sono - ha spiegato la manager -. Basta pensarlo! Tutto, nello sport femminile, dall’alimentazione al recupero, dal training alla palestra, deve essere riprogrammato sulle esigenze, sulla fisionomia, sull’emotività e sulle caratteristiche a tutto tondo delle ragazze. Ogni mese sperimentiamo qualcosa che gli uomini non conoscono. Ebbene, sfruttiamo le mestruazioni per capire qualcosa in più di noi stesse e migliorare i nostri allenamenti. Ne beneficeranno gioco e risultati, ne sono certa». L’idea è venuta a Hayes guardando la sua squadra perdere la finale di FA Cup 2016 con l’Arsenal. «Avevamo un sacco di giocatrici con il ciclo o vicine al ciclo. Ricordo di aver pensato che erano tutte reattive con un secondo di troppo di ritardo». Hayes ha coinvolto il fisiologo ed ex atleta Georgie Bruinvels, che ha creato una app sulla quale le atlete (previo consenso informato) inseriscono informazioni sulle date e i sintomi del ciclo, di modo che tutto possa essere monitorato, studiato ed elaborato. Mestruazioni, pre-ovulazione, ovulazione e sindrome pre-mestruale. Vietato naturalmente ricorrere al cibo spazzatura per compensare le fasi tre e quattro, quelle durante le quali il peso tende maggiormente a oscillare. Nelle fasi uno e due, invece, le giocatrici sono più suscettibili agli infortuni. Il metodo-Chelsea servirà e sarà copiato anche nella nostra Serie A femminile e dalle calciatrici italiane, impegnate ad inseguire lo status (sacrosanto) di professioniste? A giudicare dalla stagione del Chelsea fin qui, male non fa. Il vero bilancio si farà alla fine del campionato e delle coppe. E pazienza se l’articolo del Telegraph è stato bombardato da commenti (maschili) per sottolineare il fatto che le donne non sanno giocare a calcio a prescindere dal ciclo. Certi tabù, per certi uomini, sono semplicemente più duri a morire. Ma noi ragazze sappiamo avere pazienza.

Giampaolo Pioli per Il Giorno il 22 febbraio 2020. Rimangono guerriere in campo e in aula. Con ori mondiali e olimpici nessuno è in grado di fermare le ragazze dell’US National Soccer Team. Nelle aule di tribunale a Los Angeles invece, dopo la clamorosa denuncia del 2019, le super star del pallone che riempiono gli stadi, si troveranno con una partita tutta da giocare. Nel marzo del 2019 hanno fatto causa alla 'US Soccer Federation' per oltre 66 milioni di dollari. Sostengono di essere discriminate come genere, nei premi e nei salari rispetto ai compensi maschili, anche se loro sono le campionesse del mondo, attirano decine di migliaia di persone ad ogni gara e non perdono praticamente mai. Il processo inizierà il 5 maggio a Los Angeles. Oltre a decine di avvocati ci saranno anche le ragazze star del mondiale guidate dalla capitana Megan Rapinoe a dare man forte alla causa di risarcimento. Il processo diventerà un caso guida anche per molte altre nazionali femminili in giro per il mondo e alle prese col dilemma dei compensi femminili simili a quelli maschili e del passaggio al professionismo, come ad esempio chiedono le calciatrici italiane. «E' vero - ha dichiarato Carlos Cordeiro presidente della "US soccer federation" in una deposizione a gennaio - le donne non sono trattate equamente e credo abbiano anche minori opportunità rispetto ai maschi. E' anche vero che il campionato mondiale femminile genera un ritorno economico che è solo una frazione di quello prodotto dalla coppa del mondo maschile». Solo per qualificarsi ai mondiali i calciatori Usa hanno ricevuto un premio di 179.000 dollari, le donne che poi lo hanno vinto solo 52.000 dollari. Dati alla mano, a parte i contratti pubblicitari, la Nazionale americana di calcio femminile paga le 22 atlete titolari con un salario annuale di 100.000 dollari, mentre le giocatrici dei club di serie A che appartengono al circuito nazionale ricevono uno stipendio minimo dai 72.000 ai 75.000 dollari l' anno. Hanno anche una serie di benefit che includono fino ad un anno di stipendio pagato quando sono in gravidanza e 50 dollari al giorno per babysitter durante gli allenamenti. In realtà l' unica parità coi maschi fino ad oggi è la diaria giornaliera durante le trasferte della nazionale che non supera i 75 dollari al giorno all' estero e 62.50 dollari all' interno degli Stati Uniti. Certo con questi stipendi nessuna delle ragazze del pallone riuscirebbe a pagarsi l' affitto per un mini appartamento a Manhattan. A sorpresa in favore della tenace capitana Rapinoe che ha snobbato la visita alla Casa Bianca da Trump dopo la vittoria al mondiale in Francia, si è schierato all' unanimità il sindacato unitario dei calciatori che ha dichiarato «le ragazze del pallone devono guadagnare molto di più».

Sara Gama e la «partita» con la Figc: «Anche noi professioniste». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gaia Piccardi. Risuona l’inno di Mameli sulla finale del Mondiale di calcio femminile 2031. La capitana dell’Italia, alzando la coppa sotto una pioggia di coriandoli, ha le lacrime agli occhi: «Dedico questo storico successo - dice - a Sara Gama e alle pioniere che ci hanno preceduto. È grazie a loro se oggi ci siamo laureate campionesse del mondo da giocatrici professioniste». Fantacalcio, naturalmente. Ma senza esagerare perché è nella stagione appena conclusa che Sara e la compagnia delle celestine hanno gettato le basi per un futuro migliore. Il 2019 è stato l’anno di un Mondiale che ricorderemo a lungo: dopo quattro lustri di assenza l’Italia di Milena Bertolini, capitanata da una guerriera di mamma triestina e papà congolese con il numero 3 al centro del petto, era partita per la Francia con un solo gol in valigia: fare bella figura. È andata oltre ogni più rosea aspettativa vincendo il girone con Australia e Brasile e sbucando nei quarti di finale, dove solo l’Olanda finalista è riuscita ad arrestarne la corsa. Sull’onda del successo e dell’inedita attenzione mediatica, le azzurre sono poi partite alla conquista dello status che in Italia alle atlete manca: il professionismo. «La battaglia sarà ancora lunga - riflette Sara Gama, che ha le spalle abbastanza larghe per giocare questa partita in tre ruoli: capitana della Nazionale, della Juve e consigliera della Federcalcio - ma l’inserimento nella Legge di Stabilità dell’emendamento che prevede per tre anni lo sgravio dei contributi per le società è un piccolo decisivo passo avanti». Il salto di qualità è previsto nel 2020: ciascuna Federazione del Coni, ora, è chiamata a deliberare in consiglio lo status professionistico per le tesserate, con tutte le tutele (contributive, previdenziali, assicurative) che esso comporta. «L’unico modo per sanare l’anacronistica discriminazione di genere tra sportivi maschi e femmine in Italia» fa notare Sara, che nel 2013 per due stagioni è emigrata in Francia tra le fila del Paris Saint Germain: «Gli unici due anni di contributi in quasi vent’anni di pallone!». Sarà la nuova generazione di calciatrici, la carica di bambine che sta crescendo con i riferimenti femminili che a Gama sono mancati, a beneficiare del suo lavoro sul campo e nelle stanze dei palazzi dello sport. «Ottenere il professionismo per loro sarebbe un orgoglio speciale, come raggiungere i quarti al Mondiale o alzare un trofeo importante». Alle bambine che sognano di diventare Barbara Bonansea, Cristiana Girelli o Alia Guagni è obbligatorio offrire un futuro migliore, garantendo loro la possibilità di vivere di calcio esattamente come ai colleghi maschi. «Quando nel 2015 è partita la riforma del calcio femminile in Italia - ricorda Sara - la finale della Coppa Italia si giocava su un campo con l’erba alta e senza righe e certi dirigenti si lasciavano sfuggire frasi infelici sul nostro movimento. Molto è cambiato, in quattro anni. Adesso abbiamo le tv che trasmettono le nostre partite, nuovi sponsor dedicati al mondo femminile, un interesse inedito. Il Mondiale è servito a farci conoscere dal grande pubblico e ad informarlo: il 99% dei tifosi non sapeva che siamo ancora dilettanti. In Italia non lo è neanche chi porta la bandiera tricolore all’Olimpiade, se donna. Un controsenso che non ha più ragione di esistere». Sara Gama è stata la prima calciatrice italiana a ispirare una Barbie e a comparire sulla copertina dell’Almanacco del calcio. La Panini, in vista del Mondiale delle ragazze, ha messo in produzione un album che per la prima volta nella storia delle figurine ha previsto anche l’Italia. In una stagione così ricca di primizie, le future campionesse del mondo 2031 hanno finalmente trovato dei modelli da imitare. Come sottolinea Sara: «Entrare nell’immaginario delle bambine è importante. Bambole e figurine fanno parte dell’immaginazione dei piccoli. Anch’io facevo l’album: cartoni animati, animali, cose così… Avere punti di riferimento in una società basata sull’immagine come la nostra è fondamentale. E il nostro movimento, oggi, a parte me, ne ha moltissimi positivi da offrire. Se le bambine ci guardano in tv, possono pensare di imitarci. Per loro siamo pioniere». La calma tranquilla di Laura Giuliani tra i pali, il senso del gol di Valentina Giacinti, l’arcipelago di tatuaggi di Elena Linari, baluardo della difesa insieme ai ricci selvaggi di saragama. Una parola unica: per le giovani, è già copyright.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 2 gennaio 2020. Nuovo decennio ed è quello in cui vanno abbattuti i pregiudizi, anche nel calcio. Nel 2019, la scossa del movimento femminile, ora Rita Guarino, allenatrice della Juventus, racconta come si è arrivati qui e cosa non può mancare per andare avanti.

Tre anni fa la Juventus Women è nata da «un foglio bianco».

Parole vostre. Come si inventa una squadra che cambia il panorama?

«Non dal niente, la Juve ha iniziato con motivazioni forti. Non è mai stato un esperimento o un tentativo ma un' idea chiara. La forza di un brand sta anche nel riempire un foglio bianco e non è solo di disponibilità economica, ma progettualità e lungimiranza».

Da dove siete partiti?

«Da pedine con talento tecnico e qualità umane»

Doti necessarie?

«Sì, sempre e ancor di più quando miri in alto».

Quanto il calcio femminile di oggi è parente di quello che giocava lei nei Novanta?

«Parente stretto. Dobbiamo molto a chi si è tenuto a galla e ha combattuto battaglie importanti investendo in proprio. L' Italia è sempre stata un bacino di talento».

Nonostante gli anni bui?

«Ho partecipato a due Mondiali prima del vuoto».

Non hanno generato interesse perché non eravamo socialmente pronti?

«L'attenzione mediatica c' era, le partite andavano in diretta Rai, ma poi nessuno ci ha costruito sopra».

Quindi si poteva evitare di perdere tutti questi anni?

«Certo. La differenza l'hanno fatta i club, allora c'era la volontà, ma serve chi la elevi a mestiere e in Italia la Juve è stata il motore propulsore. Ha trainato visibilità ed emulazione».

Che cosa l'ha più stupita?

«Vedere l' Allianz pieno contro la Fiorentina l'anno scorso. Sarei stata felice di avere 15.000 spettatori. È stato il presidente a decidere di aprire tutti i settori ed era sicuro di sé».

Le tante bianconere ai Mondiali sono tornate diverse?

«Ovvio, quell' esperienza ha galvanizzato l'ambiente. È stata un' estate epocale dal punto di vista socioculturale, una partita che però non è vinta. Bisogna giocarsela».

Tanti tirano ancora il freno.

«Lo scetticismo è sempre lì, però il calcio femminile può trovare terreno dove il lato maschile fatica. Non vedo tante famiglie a seguire gli uomini, da noi ci sono, mentre il calciofilo italiano fatica a trovarci interessanti».

Non lo si vuole conquistare?

«Con calma. Hanno un occhio abituato alla presenza fisica, cercano l' occupazione degli spazi e si approcciano con preconcetti».

Lei guarda il calcio maschile?

«Sì, cerco partite dove c' è strategia, allenatori che provano strade nuove».

Ultima sfida strategica?

«Mi piace il lavoro che sta facendo Gasperini all'Atalanta, è un metodo che mette in luce i giovani, propone qualcosa di fresco. Il calcio, tutto, ne ha bisogno».

Chi la intriga dal punto di vista tecnico?

«A livello didattico uno che ho sempre seguito è Sarri e gliel'ho pure detto. A me oggi però piace studiare il femminile. Le donne sono favorite nel gioco corto ed esaltano la tecnica, non il lato fisico».

Sara Gama è diventata un punto di riferimento per il movimento, si confronta con lei?

«Spesso. Non è stata scelta a caso come leader. Sapevo quali valori portava e quanto potesse renderli produttivi».

Come gestite il suo ruolo?

«Proviamo a toglierle qualche peso dalle spalle, è impegnata su più fronti ed è giusto così. Anche se ci sono volte in cui, lei per prima, ha bisogno di far valere il campo».

La britannica Aluko ha lasciato la squadra e ha detto che a Torino non si è sempre sentita a proprio agio.

«Purtroppo non avevo idea del suo stato d' animo e non so se si tratta di percezioni o di fatti, non c' è stato modo di confrontarsi. Se avessimo saputo l' avremmo sostenuta».

Percezioni o fatti, lei qui non stava bene.

«Non è lo stesso. Se io vado in Inghilterra, di certo mi sento giudicata per il mio accento, magari invece non è così. Comunque la discriminazione su vari fronti è una battaglia da sostenere, siamo lontano dall' accettare davvero la diversità. Il problema non è Torino e forse nemmeno l' Italia. Torino è la città dove sono nata, la conosco bene, ha gli stessi problemi di ogni posto d' Europa eppure negli anni si è aperta ed cambiata. Io ne sono fiera».

Ha parlato di diversità. Una giocatrice della nazionale, Linari, ha detto di essere gay e trova che in Italia sia ancora un tabù.

«Non sono stupita, ma non ho mai ritenuto che la vita privata potesse essere la bandiera di qualsivoglia diritto, è una scelta personale. Si può essere veri anche senza raccontare l' intimità, non è da lì che si passa per la rivoluzione culturale».

I modelli però aiutano.

«Stanno nel quotidiano, persone che incontriamo, non per forza nomi noti».

La sciagurata frase sulle «quattro lesbiche» quanto male ha fatto?

«È stata una fortuna. Il presidente della lega dilettanti che se ne esce così... Era talmente abnorme da imporre una reazione. È stata una manna, la domanda vera è quanto ci avremmo messo ad arrivare dove siamo senza la frase?».

La legge di bilancio propone un emendamento che può aiutare il professionismo delle donne nello sport.

«È un passo, non la soluzione. Mancano troppe tappe intermedie per poterlo considerare l' inizio del professionismo».

È la prima offerta concreta. Prendere o lasciare.

«Se prendo e poi si fanno le fondamenta e lasciamo l' opera con uno spuntone di ferro piantato lì? È un rischio. La sostenibilità economica la crei con un movimento maturo che cresce costantemente».